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Luigi Pirandello

Un preteso poeta umorista del secolo XIII[1]

Edizione di riferimento:
Luigi Pirandello, Saggi e interventi, a cura e con un saggio introduttivo di
Ferdinando Taviani e una testimonianza di Andrea Pirandello, I Meridiani, Arnoldo
Mondadori Editore, Milano 2006

Un preteso poeta umorista del secolo XIII


I
Il professor D'Ancona, in un lungo e pregevolissimo studio, ha definito Cecco
Angiolieri da Siena «poeta umorista», e come tale in seguito l'han classificato, insieme
con Folgore da San Gemignano e con Cene da la Chitarra, il Finzi e il Valmaggi nelle
loro Tavole storico-bibliografiche della Letteratura italiana [2]. Ora, sia pe 'l concetto
che della poesia di questi tre poeti del secolo XIII mi ero formato prima di leggere tutto
quanto intorno a loro s'è venuto scrivendo, sia per diverso modo d'intender l'umorismo,
confesso che non son riuscito a scoprire dove e perché questi tre poeti siano o si
possano, anzi si debbano dire umoristi.
Poeti di genere a volte giocoso e burlesco o amoroso senza maniera, pieni anzi di
naturalezza nell'arte loro non ancor sicura; poeti nel cui petto per prima si ridesta o di
dolce voglia o per casi reali, per sentimenti veri, un'anima di canto umano, tra le insulse
e sconsolanti scimierie dei poeti per distrazione o per sollazzo o per moda o per
galanteria, tra i bisticci pur che sieno della scuola provenzaleggiante; poeti infine, ne'
cui versi, per dirla col Bartoli, c'è l'annunzio del carattere realistico che assumeranno le
nostre lettere - specialmente l'Angiolieri e il Gemignanese avevo sempre stimato. Ma
ora umoristi perché? E allora, una volta adottata la falsa denominazione, perché non
farla subire anche a Rustico di Filippo detto il Barbuto, che è il piú antico e non il meno
interessante, relegato dai due compilatori delle Tavole tra i poeti di transizione? Ma non
s'è fatto male a voler definire con una parola che, se non è nuova, è pur passata nel
nostro modo di sentire a un significato che non risponde piú precisamente all'antico, un
genere di poesia comune ad alcuni poeti dell'antica nostra letteratura e, si può dire,
ancor vivo oggidí, come in ogni tempo, tra il popolo? Il D'Ancona ha creduto bene di
farlo, vedendo nell'Angiolieri non solo un burlesco, bensí anche, e piú propriamente, un
umorista. E allora noi dobbiamo domandarci, che cosa debba intendersi per umorismo.
«Se io dovessi dare» mette avanti il D'Ancona «una definizione dell'umorismo, sarei
davvero molto impacciato, né so se il lettore mi sarebbe grato dell'affannarmi a
spiegargli cosa ch'ei sente certamente meglio di me». Ha ragione:
Piuttosto no ’l comprendo che te 'l dica.
Il guajo è, che il piú delle volte il lettore non sente affatto meglio, e il Nencioni
lo sa: «Per il gran numero, scrittore umoristico è lo scrittore che fa ridere; il comico, il
burlesco, il satirico, il grottesco, il triviale; la caricatura, l'epigramma, il calembour si
battezzano per umorismo». «L'umorismo» dice il Nencioni «è una naturale disposizione
del cuore e della mente a osservare con simpatica indulgenza le contradizioni e le
assurdità della vita». Il dubbio da me espresso in principio, nella seconda
interrogazione, trova conforto in questa definizione del Nencioni; e ove noi la volessimo
senz'altro accettare, evidentemente non ci sarebbe piú luogo a discutere. Difatti, non è
certo chi non veda, che, preso in questo senso affatto moderno l'umorismo, né
l'Angiolieri, né Folgore, né Cene potrebbero piú pretendere alla designazione che loro si
vuol dare. Se non che, la definizione del Nencioni a me sembra veramente un po' vaga.
e nella sua vaghezza, alquanto restrittiva. Che l'Amleto dello Shakespeare, per esempio

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(in quanto si palesa umorista), il Rabelais, il Byron, lo Heine osservino per natural
disposizione e non, mettiamo, a cagione d'avversi avvenimenti, con simpatica
indulgenza le contradizioni e le assurdità della vita, non mi pare si possa dire con piena
ragione. La verità è che il dare una definizione dell'umorismo, la quale sia a un tempo
comprensiva e comprensibile, è in sommo grado difficile, e ciò per l'essenza stessa
dell'umorismo, diversa nell'intimo senso della parola.
Il Bonghi ha tentato questa: L'umorismo è «un'acre disposizione a scoprire ed
esprimere il ridicolo del serio e il serio del ridicolo umano», che senza dubbio nella sua
ampiezza è pur molto acuta. A ogni modo, basta porre in chiaro questo, che l'umorismo
può avere bensí effetto comico o patetico o tragico o burlesco o satirico o grottesco o
epigrammatico, rimanendo pur sempre umorismo, cioè una cosa affatto diversa della
trovata comica e burlesca, della satira e dell'epigramma. Poiché non è mai questione di
forma, è questione sempre di sostanza. L'umorista vero non cerca la parola o la frase,
che promuovano il riso; l'umorista non vuol far ridere.
Si badi per esempio: il Berni, quando dice il tempo della peste il piú bel tempo
che sia tutto l'anno «perché ti porta via tutti i furfanti» (flagello, ma scopa! - direbbe
don Abbondio), perché «in chiesa non è piú chi t'urti o pesti in sul piè al levar del
sagramento», perché non si tien piú conto di chi accatti o presti, eccetera eccetera; non è
umorista, è satirico e burlesco. Che importa all'umorista delle ragioni per cui la peste sia
da lodare? Egli vuol piuttosto vedere se, chi la loda apertamente, per ostentazione, ne ha
poi in fondo paura, e ai primi casi sospetti mette le spranghe, e ogni notte pallido e
tremante tappa buchi e fessure, che non gli abbia per tal via a entrare in casa. La satira
nasce, è vero; ma spontanea, dalla descrizione stessa, da ogni particolare, quasi senza
sospetto, e nessuna parola, nessuna frase te lo farà capire, come nasce insomma dal Don
Chisciotte, che, poveretto, fa e dice sempre sul serio, ed è perciò ridicolo. Pure il Berni
sia detto di passaggio - talvolta riesce ad essere anche umorista, come per esempio nella
dipintura di quel tal prete di Povigliano, che venne a far riverenza a Monsignore, dentro
non so, ma fuor tutto ridente; e mostra di saper cogliere umoristicamente certe
contradizioni della natura, che, a suo dire, ha forte del buffone [3]. Non diremo certo
però col Roscoe che « non è improbabile, che queste facili composizioni abbiano aperto
la strada a una simile licenza di stile in altri paesi » e che « in verità può concepirsi
l'idea piú caratteristica degli scritti del Berni e dei compagni e seguaci di lui, col
considerare esser quelli in versi facili e vivi la stessa cosa che sono le opere in prosa del
Rabelais, del Cervantes e dello Sterne ». Lo Sterne qui non ci ha che vedere; in quanto
al Rabelais, Alcofribas Nasier, condamné en Sorbonne non solamente pour les
extravagances et les facéties de haute graisse, qui caractérisent son livre, mais aussi
pour des propositions mal sonnantes aux oreilles orthodoxes, d'istituir col Berni
qualche relazione potrebbe tentarsi, e del Berni col Cervantes, solo a patto che si voglia
considerare il Berni come uno dei precursori del poema eroicomico.
Ma torniamo al nostro argomento. Per me l'umorismo, sotto qualunque aspetto si
voglia considerare, è sempre una forma di sentimentalismo, anzi - mi si passi
l'immagine - è lo stesso sentimentalismo, che ride per una faccia, la faccia opposta
piangendo; ride delle sue stesse lacrime, dei suoi sogni andati a vuoto o vani, dei suoi
desiderii sproporzionati alla possibilità del volere; ed è bene spesso un eccesso, che
risponde a un altro eccesso. Noto questo, perché in verità, checché se ne voglia dire,
l'umorismo non è mai una forma d'arte sana e piana; la vita, com'è nel suo grande
insieme, resta nel mezzo tra l'un eccesso e l'altro, e assai difficilmente il poeta umorista
può levarsi dal suo punto di vista a coglierla intiera. Ahimè, quante volte questo poeta
che scopre ed esprime il ridicolo del serio umano, non è lui stesso il serio del ridicolo
che rappresenta! Quante volte, per esempio, leggendo alcune poesie del Heine non ci

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vien fatto d'esclamare: Ma qui ridono tutti i suoi dolori! E perciò solo può interessare ed
essere tollerato l'umorista, come può interessare un medico ammalato che in una sala
anatomica, studiando in un cadavere il muscolo che anche egli ha guasto, rompa in un
riso amaro su la miseria e fragilità umana.
Bisogna, poi, per bene intendere un poeta umorista, considerar quanto gli sta
d'attorno; e allora, guardando alla storia, apprendiamo ch'esso suol chiudere quasi
sempre un periodo di transizione nella letteratura o nella vita, e fiorire però in tempi di
molta passione, in tempi di spostamento d'un ideale umano, d'un archetipo morale.
« L'umorismo ha infinite varietà » nota giustamente il D'Ancona « secondo le
nazioni, i tempi, gl'ingegni, e quello di Rabelais e di Merlin Coccajo non è una cosa
coll'umorismo dello Sterne, dello Swift o di Gian Paolo, e la vena umoristica dell'Heine
o del Musset non è di egual sapore. Non vi ha poi forse alcun altro genere nel quale sia,
o dovrebbe essere, piú sottil differenza dalla forma prosaica alla poetica, per quanto ciò
non venga sempre avvertito dai lettori, e neanche dagli scrittori. Ma di ciò, e delle
cagioni di queste differenze e della varietà fra l'umore e la satira e l'epigramma e la
facezia e la parodia e il comico d'ogni foggia e qualità, e se, come vuole il Richter,
alcuniumoristi sieno semplicemente lunatici, non è qui il luogo di discutere ».
Perché no? L'avesse pur fatto il D'Ancona, prima d'aggiungere: « Certo è questo,
che un fondo comune vi è in tutti coloro che la voce pubblica raccoglie sotto la stessa
denominazione di umoristi, sicché anche il nostro (l'Angiolieri) può andar con loro a
schiera, per certe qualità fondamentali della sua maniera poetica ».
La voce pubblica dà la patente d'umorista finanche a chi fa le caricature su i
giornali a un soldo. Sic vulgus. Che poi questa voce pubblica raccolga anche l'Angiolieri
sotto la denominazione di umorista, io lo apprendo ora per la prima volta; ma
quand'anche, nessuna meraviglia! il male è, che lo faccia il D'Ancona. Ma noi vogliamo
esaminare queste qualità fondamentali della maniera poetica dell'Angiolieri, per le quali
l'illustre critico crede che il poeta Senese possa andare con gli altri umoristi a schiera.
II
Mi sia permesso, Per maggior comodità, di citar distesamente le parole, che non
sono poi molte, del professor D'Ancona:
« Prima di tutto - egli dice - ritrovo nel nostro Cecco quel che d'individuo, anzi
di subbiettivo, che in massimo grado è proprio alla poesia umoristica. In ciò l'umorista
non diverge molto, è vero, dal poeta lirico in generale e in special modo dall'erotico; ma
l'umorista ha un'abbondanza di particolari, una cura delle minuzie, qualche volta una, a
giudicarla astrattamente e a prima vista, trivialità e volgarità, a cui non discendono gli
altri suoi maggiori confratelli. Non vi ha certamente nessun altro fra i poeti, che soglia,
come l'umorista, parlar tanto in persona propria, e come lui dire tutto quello che gli
passa per la mente o gli si agita nel cuore. Ciò che avviene al di fuori, lo anima meno e
meno lo eccita, che non facciano i minimi accidenti, le piú fugaci vicissitudini e i
fattarelli della sua vita. Che se il lettore, anziché sentirne fastidio o nausea prova invece
un sentimento di simpatia verso siffatte bizzarre nature di poeti, egli è che nell'apparente
tenuità del soggetto trova la profondità del sentimento e la gagliarda novità della forma,
ben a fondo impressa di nota individuale, e nei casi speciali del cantore riconosce i fatti
suoi proprii e di tutti gli uomini, la verità cioè e la realtà della vita comune. Cosí è del
nostro Cecco: leggendo le sue rime capricciosamente malinconiche, la impressione che
ne abbia mo di colpo non ci lascia riflettere se quel dolore poteva evitarsi colla prudenza
e colla vita piú regolata: se egli fu, come avrebbe dovuto, seguendo religione e morale,
buon figlio e uomo castigato e dabbene, o il contrario precisamente; ma quand'anche si
riconosca che l'amor suo fu fremito dei sensi e le sue consuetudini piú da treccone che
da gentiluomo, non possiamo però distruggere la prima benevola impressione, e il senso

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di pietà che involontario in noi si è manifestato. È inutile che tentiamo scacciarlo: eppur
concedendo quanto si deve alle leggi supreme della vita e del vero, gli accenti della
musa di Cecco ci ripiomban sul cuore. È uno sventurato che piange, e se anch'egli stesso
è principale autore dei suoi guaj, noi ci sentiamo uomini, e come uomini commossi alle
sue sventure. Né queste sono poche e lievi; perché ognuno capisce che non consistono
soltanto nel non aver danari da scialacquare e nel non tener la Becchina a sua posta; ma
anche nel sentirsi nobile e trovarsi nel fango, nell'esser nato ai piú dolci affetti e invano
cercarli nelle mura domestiche, e procacciarseli fuori di casa, soppiatti e malsicuri; nel
confondere insieme, come in un ghigno ed una smorfia, il riso ed il pianto. Ed è appunto
in quest'ultima mischianza degli elementi piú opposti fra loro, che rinveniamo nella
poesia del nostro una delle qualità speciali dell'umorista: che se per gli altri il dolore si
manifesta col pianto, e col riso l'allegrezza, per l'umorista il cuor lieto ha spesso per
segno esterno una lacrima lenta ed amara, e la profonda mestizia del cuore si scioglie
per lui come dice il Giusti, in riso, e sia pure di quello che non passa alla
midolla. Questa difformità, questo contrasto genera appunto la vaghezza della poesia
umoristica: lieta, leggiera, spensierata al di fuori; ma in se stessa grave, trista, profonda
e che, come pur dice il toscano poeta, par sorriso ed è dolore. L'impressione che
veramente reca in altri la poesia umoristica, è la tristezza, o a dir meglio la malinconia:
quando invece, osserva il Richter, la poesia greca e la classica in generale, induce
nell'animo la serenità. E nella sua giocondità, nel suo lepore o nel suo riso, malinconico
è veramente il nostro Angiolieri: anzi si può dire che egli sia il primo fra gli antichi
poeti volgari che abbia fatto uso di questa parola malinconia tanto moderna, tanto
modificata a morale significazione, dal senso materiale che ha nel latino di Cicerone e
di Plinio. E chi non penetra l'intimo valore di essa, quando nel fondo delle sventure, ei
sorge a gridare:
Malinconia perciò non mi daraggio
Anzi m'allegrerò del mio tormento?
o quando riconosce vano ogni sforzo a sottrarsene:
Caro mi costa la malinconia
Che, per fuggirla, son renduto a fare
L'arte sgraziata dell'usurare,
La qual consuma la persona mia?
Altrove si propone di non piú lasciarsene possedere, deliberando:
Di lasciar la natura lavorare
E di guidarmi, s'io 'l potrò fare,
Che non m'accolga piú malinconia.
Eppure egli ne è per modo sotto l'impero, che farebbe pietà ai nemici:
La mia malinconia è tanta e tale,
Ch'io non discredo che s'egli il sapesse
Un che mi fosse nemico mortale,
Che di me di pietate non piangesse.
Ma ogni sforzo è inutile: ed egli deve concludere con questo verso
singhiozzante:
Con gran malinconia io sempre sto - ».
Evidentemente il D'Ancona s'è troppo innamorato del nostro Cecco. Leggendo
queste parole, dopo aver riletto i sonetti dell'Angiolieri, mi parve, la prima volta, di
trovarmi in una corte dì giustizia nell'ideal repubblica delle lettere, e d'assistere alla
calorosa, eloquente, drammatica difesa d'un bravo e vecchio avvocato il quale, caso
affatto nuovo, avesse lui stesso accusato il suo difeso, e ora, nel punto culminante della
mozione degli affetti, se lo tirasse sú, dal fondo dell'ignominia in cui l'avea gittato, con

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frasi d'effetto, come queste: « Gli accenti della musa di Cecco ci ripiomban sul cuore...
E uno sventurato che piange... Noi ci sentiamo uomini, e come uomini commossi alle
sue sventure... ». - Quali, di grazia? Che egli non abbia soldi da giocare a dadi o da bere
in taverna o da far regali alla Becchina, lui, ammogliato e con sei figliuoli: Meo, Deo,
Angelieri, Simone, Arbolina, e Tessa? Caro questo sventurato che piange! E non ci parli
il D'Ancona di dolci affetti e di nobiltà e di malinconia; quali sieno i piú dolci affetti del
poeta e i sentimenti, ce lo dice egli stesso:
Tre cose solamente sonmi in grado,
Le quali posso non ben ben fornire:
Cioè la donna, la taverna e 'l dado:
Queste mi fanno il cuor lieto sentire;
e la parola malinconia sarebbe stato meglio che fosse rimasta nel senso materiale
che ha nel latino di Cicerone e di Plinio, anziché venir modificata alla morale
significazione che le dà Cecco: malinconia nei suoi versi significa non aver da
scialacquar a sua posta, aspettare invano che il padre « vecchissimo e ricco » si muoja,
Ed e' morrà quando il mar sarà sicco,
Si l'ha Dio fatto, per mio strazio, sano.
Mi sento uomo, ma in me non si manifesta alcun senso di pietà, sia pure
involontario, e neanche nel prof. D'Ancona parmi se ne sia manifestato alcuno
nell'analizzare i sonetti relativi alla famiglia, terreno, questo, che scotta, e dal quale
non gli par vero di togliere i piedi piú presto che per lui si possa. Anch'egli non si
ricorda di aver mai trovato altre poesie nella letteratura antica e moderna, dove un
figlio si mostri cosí ingiurioso e spietato verso i suoi genitori; e riconosce che Cecco
può scherzare a suo modo quando canta:
Chi dice del suo padre altro che onore
La lingua gli dovrebbe esser tagliata;
sonetto, al quale risponde nella mia memoria un canto, di tra il folle tripudio
dell'antico carneval fiorentino, il canto di Messer Battista dell'Ottonajo, araldo della
Signoria, il « Canto dei giovani che portavano bruno pel padre » e che comincia cosí:
Chi brama aver di libertà il mantello
Come facemmo noi,
Porga l'udire e 'ntenda qual sien poi
Gli error, gli affanni e servitú di quello,
dove la parola « libertà » ha tutto il senso e il valore che poteva avere allora. E
séguita:
Noi pregammo l'inferno e 'l cielo ognora
Che 'l padre ci togliesse
Perché piú si potesse
Godere ed ire a nostra posta fuora...
Quando il D'Ancona parla del poeta umorista in genere, dice parole d'oro. Che la
poesia umorista sia in massimo grado subbiettiva e individuale, è un fatto che nessuno
può mettere in dubbio; ma, come ben nota il D'Ancona, questa è una subbiettività che
lascia a punto nel caso speciale, nel fatto proprio riconoscere la verità e la realtà della
vita comune, è la particolarità insomma che abbraccia la generalità, un piccolo specchio
che riflette grandi cose.
Ora, dimando io, si può dir questo della nota subbiettiva, individuale
dell'Angiolieri? Essa nel caso speciale, nel fatto proprio non riflette nessuna generalità;
la sua malinconia è determinata da cause particolari e ristrette, con cui gli altri uomini,
per fortuna, non han da vedere. Qui la tenuità del soggetto non è solo apparente, come
nei veri umoristi, ma reale; tanto vero, che Dante, il quale forse nell'Angiolieri aveva, e

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con ragione, intraveduto un buono e vero poeta, aveva anche cercato di trarlo su la dritta
via, consigliandolo a lasciare quel « trovar di Becchina ». Io non dico che a fare il matto
gli mancasse il di che; ma dico ad essere umorista gli mancava tutto, e il D'Ancona ha
un bel tirare come pelle di tamburo quella poesia per assettarla alle sue definizioni.
L'Angiolieri, per la sua originalità e l'arte sua, merita veramente di essere studiato, e
posso intendere fino a un certo segno che il D'Ancona vorrebbe conciliare a lui la
benevolenza dello studioso; ma non è poi lecito di scusare un tristo, e sia pur poeta
quanto l'Alighieri, col dire: « Compatitelo, è un umorista! », un tristo che, per esempio,
annunzia cosí a un suo degno compare la morte del padre:
Non si disperin quelli dell'Inferno
Po' che n'è uscito un che v'era chiavato,
Il quale è Cecco, ch'è cosí chiamato,
Che ci credea stare in sempiterno.
Ma in tal guisa è rivolto il quaderno
Che sempre viverò glorificato,
Po' che Messer Angiolieri è scojato,
Che m'affriggiea di state e di verno.
Muovi, nuovo sonetto, e vanne a Cecco,
A quel che giú dimora a la Badia:
Digli che frate Arrigo [4] è mezzo secco:
Che non si dia nulla malinconia,
Ma di tal cibo imbecchi lo suo becco,
Che viverà piú ch'Enoch e Elia;
dove il piú snaturato dei sentimenti umani è mostruosamente sposato a una
smorfia burlesca che mette raccapriccio. E questo si vuol battezzare per umorismo!
Altro chepeculiar bonarietà, altro che simpatica indulgenza, prof. Nencioni! Messer
Angiolieri è scojato, e il figlio sogna il per totum cantabimur orbem! No, ben mio, no;
quantunque il prof. D'Ancona abbia per te in tal guisa rivolto il quaderno!
E veniamo all'altra qualità fondamentale del nostro Cecco, cioè a quella che par
sorriso ed è dolore. Povero verso, nato di squisita, delicata e profonda sentimentalità, se
il tuo autore sapesse l'ingiuria di questa citazione, e quali mai dolori tradisca a volte il
riso di Cecco!
Qui il D'Ancona, dopo aver parlato, come egli sa, del poeta umorista in genere,
per l'Angiolieri non dice altro che il suo riso è malinconico. Col dovuto rispetto al
professor D'Ancona debbo dire che questo benedetto contrasto nelle rime di Cecco io
non l'ho saputo trovar mai, non ostante quei due versi:
Malinconia perciò non mi daraggio [5],
Anzi m'allegrerò del mio tormento;
ai quali però segue questa terzina:
Ma che m'ajuta sol un argomento,
Ch'i' aggio udito dire a om(o) saggio
Che ven'un dí, che val per piú di cento [6].
Ed è solamente per questa speranza che ei non prenderà malinconia, questa bella
e triste parola, sul cui valore, cosí adoperata da Cecco, non so farmi, come il D'Ancona,
alcuna illusione. Cecco per altro del suo tormento non s'allegra mai, e le sue rime son lí
a provarlo; sí lo riveste d'una forma vivace che per me spesso piú che per intenzione
burlesca o satirica, proviene dalla sua arguta natura paesana, ed è tutta popolare senese.
L'umorismo non ci ha che vedere. Via, esso è ben altra cosa, piú alta cosa: il vero poeta
umorista non piange e non ride per siffatte volgarità e trivialità e miserie, perché non ha
soldi da giocare o perché il padre non vuol morire; i suoi intendimenti, il suo ideale

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sono piú alti e piú umani, la sua malinconia è determinata da ben altre cause. Né io avrei
speso certamente su tale argomento tante parole, ove non avessi dovuto levarmi contro
all'autorità e alla competenza d'Alessandro D'Ancona.
III
Con altri intendimenti, lontano dalla nostra mente il proposito di voler trovare ad
ogni costo dell'humour dove tutt'al piú non ci può essere che lo scherzo, la burla e
talvolta la satira tutta popolare e il popolare epigramma, e ammetto pur non grossolani,
perché fatti dal popolo che meritamente si vanta il piú arguto d'Italia, si dovrebbe
studiar l'Angiolieri, e non solo l'Angiolieri, ma in apposito libro e distesamente tutto il
gruppo dugentista dei primi veri poeti italiani, dei poeti voglio dire che sian davvero
meritevoli del nome, e che furon del popolo, e attesero coi loro versi, mentre Giano de
la Bella preparava alla Repubblica di Firenze gli Ordinamenti di Giustizia, alla totale
distruzione del feudalismo, e col popolo del Comune d'allora sentirono e vissero la vita
varia.
(Io, dal canto mio, attendo da qualche tempo a preparare un'edizione critica dei
sonetti dell'Angiolieri. E facile, in verità, riesce ora tal lavoro dopo la benemerita
pubblicazione dell'Indice delle Carte di Pietro Bilancioni fatta da Carlo e Ludovico
Frati. I sonetti, secondo quest'Indice, sono 177, e si trovano nei seguenti cdd. ed
edizioni:
Il cd. Chig. L. VIII, 305 ne contiene 160, dei quali 158 anonimi e solo due,
quello a c. 96 a e quello a c. 112 b, segnati Cecco di frate Angiolieri da Siena;
il cd. Barber. XLV, 47 ne riporta 25, dei quali 4, segnati Cecho de frate Anzilieri
da Siena; 4, Cecho Anzilieri; 6 Çecho Ançelieri; 6, Cecho Ançelieri; 10, Cecho
Ançilieri;
il Senese C, IV, 16 ne riporta 41, e nel nome è sempre lo stesso ondeggiamento
di forma tra Angiolieri e Angelieri (cfr. sul proposito il D'Ancona, op. cit.);
il Riccard. 1103 ne contiene 7, dei quali 5 anonimi, 1 segnato Messer
Angiolieri e 1 Cieco;
il Parmense 1081 ne riporta 3 anonimi;
l'Ambros. O, 63 supra, ne contiene 8, dei quali 2 anonimi, 3 (I' ho tutte le cose
ch'io non voglio, Quando veggo Becchina corrucciata e Se io avessi un moggio di
fiorini) attribuiti a Dante Alighieri, e a Dante attribuisce il primo anche il
Muratori Della perf. poes. ital.; ma si cfr. il Witte, Dante-Forschungen; 3 infine (Io son
sí magro che quasi traluco, La povertà m'ha sí disonorato e Qualunqu'uom vuol purgar
le sue peccata) segnati Petrus de Senis;
il Senese H, X, 2 ne riporta 2 (vedi sopra, quanto è detto pel cd. Senese C. IV,
16);
il Casanatense d. V. 5 ne riporta 2 (v. s.);
il cd. Galvani ne riporta 3 (v. s.);
il Bologn. Univ. 1289 ne riporta 2 (v. s.);
il Laurenz. S. S. Annunz. 127 ne riporta 3 anonimi;
il Magliab. VII, 8, 1145 ne riporta 2 entrambi (Di tutte cose mi sento
fornito e I' ho sí poco di quel che vorrei) attribuiti ad Ant. Pucci;
la Bibl. Capitol. di Verona, cd. CCCCXLV, ne riporta 4, dei quali
3 segnati Ciecho; 1, Cieco;
l'Ambros. C, 35 uno soltanto, anonimo;
la Moück. 9, nella Bibl. Governat. di Lucca, ne riporta 2, uno (Io son sí magro,
ecc.) attribuito al Burchiello, e l'altro (Pelle chiabelle di Dí, non ci arvai) attr. a Lapo
Gianni;
il Riccard. 2729 ne riporta 1 soltanto;

7
il cd. ital. 557 della Bibl. Naz. di Parigi, 1, anonimo;
il Laur. pl. XL, 49, 1 (Pelle chiabelle di Dí, ecc.) attribuito a Lapo Gianni;
il Riccard. 1094, 1, anonimo;
l'Ediz. Franc. da Barberino, Docum. d'Amore, Roma, 1640, ne contiene 17;
ediz. Allacci, Poeti Antichi, 24, dei quali 14, segnati Cecco di m. Angelieri;
8, Cecco degli Angelieri; 1, Cecco di m. Angelieri degli Angiolieri, e 1, Cecco a m.
Angiolieri suo padre;
la Racc. di Rime ant. tosc., Palermo, 1817, ne riporta 1;
il Lami, Cat. mss. Riccard., 3;
il Trucchi, vol I, 4;
P. Vitali, Lettera a M. Colombo, Parma 1820, 1)
Caratteristica principale di questo gruppo di poeti è la subbiettività, la
naturalezza e la semplicità, in contrapposizione alle vuote astrazioni prive affatto di
ogni carattere personale, alla falsità, all'accozzo spesso ridicolo di parole senza senso
comune della scimiatica scuola dei provenzaleggianti. L'intonazione è sempre presa dal
popolo, e da un popolo che, come nota bene il Navone, « dimentica in mezzo alle feste
le gravi cure cittadine, e spesso si lascia cogliere nelle cantine dai rintocchi della
campana che lo chiamano alle armi in difesa della minacciata libertà della patria ». E ciò
che il D'Ancona scrive, in fondo al suo studio, su Siena ai tempi dell'Angiolieri, e su
l'indole di quel popolo, non conforta a meraviglia ciò che io ebbi a dir sopra, che cioè la
forma vivace di questi versi del Nostro spesso piú che per intenzione burlesca proviene
dalla natura paesana?
Quel popolo argutamente immaginoso, anche oggidí, volendo narrare le sue
sventure e le sue afflizioni, gli odii suoi e i suoi amori e manifestar lo sdegno o il
rimprovero o un suo desiderio, non parla diversamente da questi nostri primi poeti, che
dal popolo appunto presero l'intonazione. Colorir comicamente la frase è virtú nel
popolo spontanea e nativa. Ma tutto si riduce alla frase, alla forma; è insomma un modo
come un altro di vestire il pensiero; un altro popolo si esprimerà diversamente.
L'umorismo, ripeto ancora una volta, non ha che vederci: perché qui il pensiero, la
sostanza stanno, per cosí dire, in seconda linea; qui è tutta quistione di forma. Parlino
per me anche i moderni poeti dialettali. Il Belli, per esempio, non vuol tradurre in
romanesco per Luigi Luciano Bonaparte il vangelo di San Matteo, perché la lingua della
plebe è buffona e « appena riuscirebbe ad altro che ad una irriverenza verso i sacri
volumi » [7]. Cosicché, parmi, anche il Bartoli, che a una sua domanda: « Ma perché
questa intonazione è sempre burlesca? » ha saputo rispondere: « perché la burla e il riso
sono il linguaggio favorito del popolo », anche il Bartoli, dico, parmi abbia esagerato
nell'osservare la natura di questo riso, che in verità è tutto apparente e non manifesta
alcun contrasto: quando l'animo piange veramente, non è vero che la bocca rida: se cosí
fosse, questi poeti cesserebbero di esser naturali e spontanei, e sarebbero veramente
umoristi, perché ciò rivelerebbe in loro un concetto e un'intenzione; concetto e
intenzione che non hanno. Che poi le risate di Folgore « sian troppo sgangherate, troppo
grossolane e troppo plebee » io non so vederlo, non so vedere cioè queste gran risate:
l'arte non è certamente, né poteva essere, raffinata e perfetta. Esaminiamo per esempio
i Sonetti dei mesi e quelli de la semana.
Sono un directorium di vita gaja proposto a un'allegra brigata, e gajamente
esposto, come si conveniva al soggetto:
Pregovi figlioli...
Traetevi buon tempo,
dice nel sonetto de ottobre, e a « trar bon tempo e bona vita » vuol solamente
insegnare

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E beffe far dei tristi cattivelli
Dei miseri dolenti sciagurati
e ciò, senza pretenzione, senza dettar massime, proponendo, o come egli
dice dando, dei divertimenti, o tutt'al piú, a quando a quando, dei consigli, come questo,
per esempio:
E bevete del mosto e v'enibriate
Che non ci ha miglior vita en veritate,
E questo è ver come 'l fiorino è giallo;
oppure
Chesia non v'abbia mai né monastero,
Lasciate predicare i preti pazzi
C'hanno troppa bugia e poco vero.
E chiude le due corone di sonetti, dei Mesi e de la Semana, con quest'augurio:
E ogni dí de ben en meglio vada.
Cene da la Chitarra aretino, ha voluto dare, dice il Navone, una « risposta per
contrari » a Folgore, parodiando in tredici sonetti la corona dei mesi, con intendimento
satirico, ma assai grossolanamente. S'è voluto credere che questi sonetti fossero diretti
alla famosa brigata « che si chiamò la brigata ispendereccia da Siena » della quale
Folgore sarebbe stato il poeta. Se ciò fosse vero, questi due poeti, quantunque nessuno
dei due, secondo me, possa dirsi per se stesso umorista, messi insieme lo diverrebbero, e
potrebbero anzi domandare la priorità a Don Chisciotte e a Sancio Panza, poiché
Folgore in tal caso starebbe all'ingegnoso cavalier della Mancia, come Cene al rozzo e
buon scudiero. E allora io intenderei perché il Finzi e il Valmaggi li abbiano messi
insieme sotto la designazione di poeti umoristi. Ma il Navone ha messo avanti molte e
validissime ragioni a dimostrare che né i sonetti dell'uno, né quelli dell'altro si
riferiscono alla famosa brigata senese; e io per altro, in quelli di Cene, non vedo un
intento satirico, ma invece un'imitazione triviale del concetto che ha ispirato a Folgore
la corona dei mesi, la quale si chiude con questo verso:
Avari, non vogliate usar con elli.
Cene dunque risponde direttamente a Folgore, è con lui d'accordo, come lui la
pensa, e siccome questi ha dato
A la brigata nobile e cortese
En tutte quelle parte dove sono
ogni bene, che pensare e desiderar si possa,
Ad onta degli scarsi e degli avari,
cosí Cene
A la brigata avara senza arnesi
In tutte quelle parti dove sono
dà ogni male, o meglio tutto il contrario di quello che Folgore aveva dato alla
nobile e cortese. E tutto ciò mi par chiarissimo.
Note
_____________________________
[1] Questo saggio fu pubblicato su La vita italiana il 15 febbraio 1896, e mai più
ristampato.
[2] Pei sonetti dell'Angiolieri do in seguito un indice dei cod., nei quali si
trovano ancora sparsi, secondo le Carte di P. Bilancioni ed. da C. e L. Frati. Pei sonetti
di Folgore e di Cene v. la bella ediz. crit. che ne fece il Navone, Bologna, Romagnoli,
1880, ediz. di Soli 202. esempl. Lo studio del D'Ancona sull'Angiolieri è nel libro Studi
di Crit. e St. Letter., Bologna, Zanichelli, 1880.

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[3] Rifac. d. Orl. In. Lib. I. c. XVIII. Tolgo dall'introd. alle Op. del Berni del
Camerini questo giudizio dato dal Panizzi sullo stile del Berni, nel quale giudizio son
quasi le medesime parole adoperate dal Nencioni nella definizione dell'umorismo: «I
precipui elementi dello stile del Berni sono: l'ingegno che non trova somiglianza tra
oggetti distanti, e la rapidità onde subitamente connette le idee piú remote; il modo
solenne onde allude ad avvenimenti ridicoli e profferisce un'assurdità; l'aria d'innocenza
e d'ingenuità con che fa osservazioni piene di accorgimento e conoscenza del mondo,
la peculiar bonarietà con che sembra riguardare con indulgenza... gli errori e le
malvagità umane; la sottile ironia che egli adopera con tanta apparenza di semplicità e
d'avversione all'acerbezza; la singolare schiettezza con che pare desideroso di scusare
uomini e opere nello stesso momento che è tutto inteso a farne strazio ».
[4] Frate Arrigo o Fortarrigo? Il sonetto è diretto a Cecco di Messer Fortarrigo,
di cui e del Nostro è da vedere una novella del Boccaccio.
[5] Il Chigiano L. VIII. 305 porta: «Però malinconia non prenderaggio ».
[5] E altrove dice:
Sed i' credessi viver un di solo
Piú di colui che mi fa viver tristo
Assa' di volte ringraziere' Cristo...
[7] V. Morandi, Prefaz. ai sonetti romaneschi del Belli, Città di Castello, Lapi,
vol. 1, 1889.
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Biblioteca dei Classici italiani di Giuseppe Bonghi
Ultimo aggiornamento: 31 gennaio 2011

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