Sei sulla pagina 1di 48

DIRITTO DEL LAVORO AVANZATO

27/02/2023

La legislazione in materia di lavoro è spesso intervenuta sul tema del licenziamento, soprattutto nella
stagione 2012-2015, con lo scopo in particolare di avvicinarsi agli ordinamenti più affini al nostro.
Fino al c.c. del ’42 il tema viene affrontato dai codici ottocenteschi cercando di temperare quella che era
un’impostazione secolare nell’ambito della relazione lavorativa e ciò ancor prima che questa fosse
regolamentata da un contratto: tali relazioni lavorative erano caratterizzate dall’indissolubilità per volontà
unilaterale delle parti, ciò determinava una certa intensità del rapporto lavoratore-datore che in alcuni casi
era talmente forte da avere le caratteristiche dello schiavismo. Un primo momento di regolamentazione si
ha con la codificazione napoleonica che introduce la possibilità di risoluzione del contratto di lavoro. La
rivoluzione industriale introduce poi ulteriori elementi di novità, tra questi la fiduciarietà del rapporto. Nel
nostro ordinamento viene introdotta nel 1924 la possibilità di risoluzione unilaterale del contratto (novità
rispetto al c.c. francese).

PREAVVISO
Le norme del c.c. sul rapporto di lavoro hanno un impianto fortemente liberistico; infatti, esse non parlano
di dimissioni o di licenziamento, ma di recesso.
La prima norma di riferimento è l’art. 2118 c.c. (c.d. recesso ordinario, secondo la distinzione operata dal
prof. Mancini) rubricata “recesso dal contratto a tempo indeterminato”, essa è molto chiara nel non
distinguere la posizione del lavoratore e quella del datore di lavoro (lett. “ciascuno dei contraenti”) e
conseguentemente nel dar loro gli stessi poteri per recedere dal contratto, unico vincolo è quello del
preavviso. Il c.c. prevede poi una seconda ipotesi di recesso all’art. 2119 (c.d. recesso straordinario), cioè
quella di recesso per giusta causa: ciascuno dei contraenti qualora ricorra una causa che non consenta la
prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto può recedere senza preavviso o prima della scadenza del
termine se il contratto è a tempo determinato.
Questa disciplina verrà poi modificata, per quanto riguarda il licenziamento, dalla l. 604/1966; quella sulle
dimissioni rimarrà sostanzialmente la stessa disciplinata dal c.c., salvo qualche piccola modifica operata dal
jobs act col d. lgs. 151/2015 sulle c.d. “dimissioni in bianco”.

Distinzione importante:
 Licenziamento per giusta causa: no preavviso
 Licenziamento per giustificato motivo soggettivo: c’è preavviso

La disciplina del preavviso è rimessa ai contratti collettivi (“norme corporative” ex art. 2118 c.c.). La
funzione del preavviso è quella di proteggere in qualche modo la parte che subisce il licenziamento o le
dimissioni (la parte receduta): al lavoratore serve per trovare un nuovo impiego e non perdere nel
frattempo un sostegno economico, al datore per trovare un nuovo lavoratore che prenda il posto del
lavoratore recedente.
Il preavviso (o l’indennità sostitutiva) spettano in ogni ipotesi di licenziamento o di dimissioni, salva l’ipotesi
della giusta causa. Non spetta in caso di risoluzione consensuale del rapporto, in caso di rapporti di lavoro a
termine (quest’ultimo è conosciuto da ambo le parti sin dall’inizio e poi anche qui è possibile il
licenziamento per giusta causa) e in caso di rapporti con clausola di durata minima garantita. Il preavviso
c’è invece in caso di procedure concorsuali, cessazione di attività aziendale e in caso di morte del
lavoratore.
La durata del preavviso è fissata dai CCNL e decorre dal momento in cui il licenziamento o le dimissioni
vengono portate a conoscenza della parte receduta, salva diversa previsione dei contratti collettivi.

I CCNL stabiliscono il preavviso in base a due gruppi di parametri:


1. Anzianità di servizio: la durata del preavviso è direttamente proporzionale ad essa;
2. Inquadramento (qualifica, categoria, categorie legali ex c.c.): maggiore sarà il livello di
inquadramento del lavoratore all’interno della struttura data dal CCNL maggiore sarà il preavviso
 E.g. art. 51 CCNL Metalmeccanici Industria

Come anticipato, in mancanza di preavviso la parte recedente è tenuta ad un’indennità sostitutiva che
equivale all’importo della retribuzione che sarebbe spettata per il periodo di preavviso (c.d. indennità
sostitutiva del preavviso). Se la parte recedente è il lavoratore, in caso di dimissioni che non rispettino il
periodo di preavviso l’indennità sarà trattenuta dalle spettanze di fine rapporto. Il computo dell’indennità di
mancato preavviso dev’essere calcolata, secondo l’art. 2121 c.c., tenendo conto di provvigioni, premi di
produzione, partecipazioni agli utili o ai prodotti e ogni altro compenso di carattere contributivo, salvo ciò
che è dovuto a titolo di rimborso spese. Se il preavviso viene lavorato in misura inferiore a quanto previsto
dal CCNL, al recedente spetta pagare la parte residua dell’indennità sostitutiva (e.g. v. tabella ex art. 51
CCNL Metalmeccanici). L’indennità sostituiva del preavviso non rientra nella base del calcolo del TFR in
quanto si riferisce ad un periodo non lavorato ed erogato una volta avvenuta la cessazione del rapporto di
lavoro.
Per quanto riguarda il licenziamento per giusta causa il preavviso e l’indennità sostitutiva non spettano; ma
se il giudice accerta che la giusta causa non sussiste, nell’area della tutela reintegratoria il preavviso
dev’essere restituito, nell’area della tutela solo indennitaria invece non dev’essere restituito, perché il
rapporto si è comunque risolto.

Una vecchia questione oramai risolta riguardava il caso in cui il lavoratore venisse esonerato dal rendere la
prestazione lavorativa durante il periodo di preavviso. Il datore di lavoro è qui tenuto a corrispondere
l’indennità sostitutiva del preavviso, ma si contrapponevano due tesi (v. ppt):
a. Efficacia reale del preavviso: il rapporto di lavoro era da considerarsi cessato solo nel momento in
cui fosse terminato il periodo di preavviso, conseguenza importante è che rilevano ogni istituto e
modifica del trattamento nel frattempo intervenuti (e.g. maturazione di ferie, malattia)
b. Efficacia obbligatoria del preavviso (tesi allora minoritaria): il rapporto cessa quando la parte
receduta riceve la lettera di dimissioni/licenziamento. Questa tesi è oggi quella vincente (lo è a
partire dal 2000). Nella Sent. Cass. sez. lav. 3543/2021 la Suprema Corte riconosce tale efficacia e
sottolinea come l'unico obbligo della parte recedente sia quello di corrispondere l'indennità
sostitutiva essendo irrilevante ogni vicenda successiva verificatasi nel periodo di preavviso.

DIMISSIONI DEL LAVORATORE


Quando parliamo di dimissioni ci riferiamo al recesso del lavoratore dal contratto di lavoro. Esse
costituiscono un atto unilaterale recettizio, ciò rende applicabili ai contratti di lavoro le norme relative ai
contratti in generale (art. 1324 c.c.), ad esempio sono applicabili le norme relative alla nullità e
all’annullabilità.
Il recesso del lavoratore è libero e, salvo il caso della giusta causa, non deve essere giustificato. Assume
efficacia al momento in cui il lavoratore lo porta alla conoscenza del datore, il punto di riferimento è qui
chiaramente l’art. 2118 c.c. Se le dimissioni sono per giusta causa, però, devono essere giustificate (art.
2119 c.c.) e se il contratto è a tempo indeterminato, al lavoratore che recede per giusta causa compete
l’indennità sostitutiva. Anche per quanto riguarda le dimissioni troviamo delle previsioni all’interno dei
CCNL.
L’efficacia delle dimissioni è compatibile con una risoluzione sospensiva, ma non con una risolutiva.

Le dimissioni sono poi affrontate dal d. lgs. 151/2015, in particolare all’art. 26 che disciplina il caso di
dimissioni in bianco, questo è il caso in cui il lavoratore appena assunto venga obbligato dal datore di
lavoro a sottoscrivere un foglio bianco sul quale il datore scrive poi una lettera di dimissioni. È un atto
chiaramente fraudolento del datore in quanto il foglio sottoscritto non è fonte di una volontà autentica. La
disposizione statuisce che le dimissioni e la risoluzione consensuale devono essere, a pena di inefficacia,
rese esclusivamente per via telematica su moduli del Ministero del lavoro trasmessi all’Ispettorato del
lavoro e al datore (circolare n.12/2016) (d.m. 12 dicembre 2015), ratio di tale disposizione è quella di
limitare i vizi del consenso. Viene poi stabilito che il lavoratore può revocare le dimissioni telematiche entro
7 gg. Resta però ferma la disciplina di convalida di dimissioni in taluni casi, e.g. quello della lavoratrice
madre che richiede convalida della volontà di rendere le dimissioni dinnanzi all’ ITL.
La procedura non si applica a tutto l’ambito del lavoro subordinato, sono infatti escluse le dimissioni nel
lavoro domestico, nel lavoro marittimo, nel lavoro alle dipendenze delle p.a., quelle rese nelle sedi ex art.
2113 c.c. o di fronte alle commissioni di certificazione (e altre più specifiche).

Dimissioni per giusta causa: come già anticipato, in tal caso al lavoratore spetta l’indennità sostitutiva del
preavviso (ma non altre indennità o tutele previste per il licenziamento, salvo la prova di danni risarcibili).
Normalmente l’accertamento della giusta causa di dimissioni avviene in sede giudiziaria in quanto accade
raramente che il datore di lavoro ammetta di aver posto in essere una condotta che giustifichi tale forma di
dimissioni. Va sottolineato che il d.lgs. 22/2015 riconosce il diritto del lavoratore all’erogazione della NASPI
se si è dimesso per giusta causa, stante l’involontarietà dello stato di disoccupazione. Caratteristiche delle
dimissioni per giusta causa: devono essere immediate anche se la valutazione è più elastica rispetto al
licenziamento, è possibile modificare il titolo delle dimissioni anche successivamente alla loro
formalizzazione (fermo il carattere dell’immediatezza) e la loro prova è rimessa al lavoratore.
Le casistiche maggiori di dimissioni per GC sono: mancato pagamento della retribuzione, aver subito
molestie sessuali, modificazioni in peius delle mansioni, mobbing (anche se, secondo la Cassazione, va
provato in maniera molto rigorosa), comportamento ingiurioso del superiore gerarchico e altri (v.
giurisprudenza sulle slides). Il lavoratore recedente per GC ha comunque diritto a ferie e stipendi con
goduti, tredicesima e quattordicesima e TFR.
Secondo la giurisprudenza della Cassazione, il giudizio sull’idoneità della condotta del datore a costituire
giusta causa delle dimissioni del lavoratore si risolve in un accertamento di fatto operato dal giudice di
merito, come tale insindacabile in sede di legittimità se sorretto da congrua motivazione.

Annullabilità e nullità: Essendo le dimissioni un atto di espressione di volontà, esse sono innanzitutto
annullabili nelle ipotesi in cui sia riscontrabile un vizio del consenso in capo al lavoratore, quali la violenza
morale (e.g. minaccia di procedere a licenziamento o a denuncia penale, ma il vantaggio deve essere
ingiusto), l’errore di diritto e l’incapacità naturale. È poi estensibile la disciplina della nullità che troviamo
negli artt. 1418.2 e 1325 c.c. (è nullo il contratto in un cui manchi un requisito ex art. 1325: accordo delle
parti, forma, causa od oggetto).
Sono nulle le dimissioni che costituiscono mezzo per eludere l’applicazione di norme imperative di legge.
Vi sono poi specifiche ipotesi di dimissioni dettate da leggi speciali, come quelle della lavoratrice madre o
del lavoratore padre, quelle del giornalista e del dirigente; in tutti e tre i casi si ha diritto al preavviso (in più,
per il primo caso, vi è la procedura di convalida davanti all’ITL).

Per quanto riguarda la risoluzione consensuale le parti possono procedervi in qualunque momento del
rapporto di lavoro. Qui si applica la stessa procedura di comunicazione di via informatica all’INPS e
all’Ispettorato prevista per le dimissioni con la possibilità di revoca entro 7 gg. La risoluzione determina la
cessazione dell’efficacia ex nunc del rapporto di lavoro senza alcun ulteriore effetto (salve le spettanze di
fine rapporto). Non dà diritto a NASPI, salvo il caso in cui sia collegata a trasferimento di cui il lavoratore
rifiuti gli effetti in sede sindacale o alla procedura ex art. 7 l.604 per gli assunti prima del 7 marzo 2015.

28/02/2023

LICENZIAMENTO
Come già anticipato, dal 1966 inizia una evoluzione normativa in materia di licenziamenti a differenza di
quanto accade con le dimissioni le quali, salvo qualche “leggera” modifica, trovano tutt’ora la loro disciplina
quasi interamente nel c.c. Ciò avviene perché il c.c. non tiene conto della strutturale differenza tra le parti
del rapporto di lavoro e poi perché nel periodo che intercorre tra gli anni 50 e 60 avvengono trasformazioni
economiche e sociali, tra queste va segnalato il rafforzamento della rappresentanza sindacale; queste
trasformazioni determinano una serie di abusi da parte delle imprese che, fino ad allora, non avevano
conosciuto grossi limiti nel loro potere di licenziamento. Inizia a sentirsi soprattutto l’esigenza di un
controllo giudiziale sulla legittimità del licenziamento che tenga anche conto degli interessi in gioco.
Va poi segnalato l’avvento della Carta costituzionale del 1948 che dà al lavoro un’enorme importanza in
diverse norme (importanza addirittura fondativa nell’art. 1 Cost.). Tra queste norme vi è soprattutto l’art. 4
Cost. che riconosce un diritto al lavoro e che apre la strada ad innumerevoli interpretazioni (può significare
divieto di licenziamento, diritto ad accedere al mercato del lavoro, etc., v. infra), da ciò scaturisce la
necessità di tutelare maggiormente il lavoratore dal licenziamento, tutela che dapprima arriva con accordi
interconfederali, i quali limitano sia i licenziamenti individuali che quelli collettivi, ma essi non sono
(neanche tuttora) vincolanti erga omnes. Ma va sottolineato che l’accordo introduce una novità: il
licenziamento dev’essere giustificato.

Nel frattempo, si era posto il problema di una lettura costituzionalmente orientata di talune norme,
problema che viene sottolineato da diversi giudici. Tra questi ultimi vi è ad esempio il Pretore di Scalea che
nel 1964 rimette una questione di legittimità costituzionale dell’art. 2118 c.c. alla Consulta e, nel farlo, fa
leva sull’art. 4 Cost.: secondo il giudice a quo la nuova norma costituzionale consentirebbe di configurare
un diritto di conservazione del posto di lavoro e, di conseguenza, l’ammissibilità di un sindacato
giurisdizionale sull’esercizio del potere di recesso del datore di lavoro. La Consulta si pronuncia nel 1965
(Corte cost. 45/1965), in sintesi essa statuisce che dall’art. 4 non è possibile ricavare un’interpretazione del
diritto al lavoro come divieto di licenziamento, ma allo stesso tempo rileva come dalla disposizione si possa
ricavare un importante riferimento valoriale (da un lato, il divieto di creare o lasciare nell’ordinamento norme che
impongano limiti discriminatori al diritto al lavoro e, dall’altro lato, l’obbligo di creare quelle condizioni economiche, sociali e
giuridiche che consentano l’impiego di tutti i cittadini idonei al lavoro), però sulla disciplina limitativa dei licenziamenti
deve intervenire il legislatore. E infatti nel luglio del 1966 viene emanata la l.604, la prima legge sui
licenziamenti individuali scritta dal prof. Mario Grandi.
Nell’art.1 della legge 604 troviamo un’importante statuizione: se la stabilità del rapporto di lavoro non è
assicurata da norme di legge, di regolamento o di contratto collettivo o individuale, il licenziamento del
lavoratore non può avvenire che per giusta causa o per giustificato motivo. Viene quindi introdotto il
principio per cui il licenziamento deve essere sempre assistito, appunto, da una giusta causa o da un
giustificato motivo, in altre parole è legittimo solo se è giustificato. Già la Corte costituzionale ci diceva che
questo principio era consolidato a livello internazionale e comunitario (Raccomandazione OIL n. 119/1963,
Carta sociale europea all’art. 24 e la Carta di Nizza del 2000).

GIUSTA CAUSA E GIUSTIFICATO MOTIVO SOGGETTIVO


La giusta causa è quella disciplinata dall’art. 2119 c.c.: una causa che non consenta una prosecuzione
neanche provvisoria del rapporto di lavoro.
Il giustificato motivo è definito dall’art. 3 della l.604/1966 che parla di giustificato motivo con preavviso,
esso si divide in giustificato motivo soggettivo e oggettivo. Il primo riguarda un notevole inadempimento
degli obblighi contrattuali del lavoratore, il secondo riguarda ragioni inerenti all’attività produttiva,
all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa.
Sia nel caso di giusta causa che di giustificato motivo il sindacato del giudice considera le ragioni
dell’impresa, soffermandosi sul nesso di causalità tra manifestazione di volontà (appunto, l’atto di
licenziamento) e i suoi scopi e verificando se i motivi di licenziamento sono motivi leciti, quindi previsti dalla
legge o dai contratti collettivi.
Giustificato motivo soggettivo: Prima caratteristica essenziale è che necessita del preavviso, è poi
caratterizzato da un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali del prestatore di lavoro. Va qui
ricordato che il datore di lavoro è dotato del potere disciplinare (uno dei tre poteri, gli altri due sono quelli
direttivo e di controllo) che, al manifestarsi di un inadempimento contrattuale, può essere esercitato. Nel
caso del licenziamento disciplinare (e quindi per GMS) l’inadempimento deve essere notevole secondo il
fondamentale principio di proporzionalità e di importanza dell’adempimento ex artt. 2106, 1455 e 1564 c.c.
Gli obblighi contrattuali cui il lavoratore è tenuto sono indicati riassuntivamente negli artt. 2104 e 2105
c.c.: obbligo di diligenza, di obbedienza, di fedeltà, di riservatezza. Questi obblighi, oltre che nei contratti,
sono contenuti in regolamenti aziendali, codici disciplinari, ordini di servizio, codici etici, prescrizioni
tecniche. Gli obblighi contrattuali rappresentano quindi l’area di debito del lavoratore e, se
l’inadempimento è notevole, seguirà un licenziamento “ontologicamente” disciplinare (secondo quanto
detto dalla Cass. con sentenza del 1987). La Cassazione statuisce che a fondare il giudizio di proporzionalità
nel senso del notevole inadempimento non è sufficiente l’irregolarità oggettiva della condotta, ma è
determinante l’elemento soggettivo, cioè il grado d’intensità del dolo e della colpa. In particolare, l’onere
della prova del datore deve riguardare la sussistenza di una grave negazione degli elementi essenziali del
rapporto con riferimento agli aspetti concreti che si riferiscono alla natura e alla qualità del rapporto, alla
posizione delle parti, al grado di affidamento richiesto delle mansioni e alla portata soggettiva del fatto, cioè
alle circostanze del suo verificarsi, ai motivi e all’intensità della condotta.

La legge (art. 30.3 l.183/2010) stabilisce nel valutare le motivazioni poste a fondamento del licenziamento,
il giudice tiene conto delle tipizzazioni di giusta causa e di giustificato motivo contenute nei contratti
collettivi di lavoro stipulati dalle oo. ss. comparativamente più rappresentative o in quelli individuali ove
stipulati alla presenza delle commissioni di certificazione. Si discute se il giudice sia vincolato da tali
previsioni, la Cassazione in più sentenze statuisce che esse non sono vincolanti per giudice, ma la scala
valoriale formulata dalle parti sociali costituisce uno dei parametri a cui bisogna far riferimento per
riempire di contenuto la clausola generale ex art. 2119 c.c. Inoltre, anche quando si riscontri l’astratta
corrispondenza del comportamento del lavoratore alla fattispecie tipizzata contrattualmente, il giudice
deve comunque compiere un accertamento in concreto sulla reale entità e gravità del comportamento
addebitato al lavoratore nonché del rapporto di proporzionalità tra sanzione e infrazione.

6/03/2023

Sulla nozione di giusta causa abbiamo due letture.


1. La prima fa leva sull’art. 2119 c.c. il quale non dà una nozione di giusta causa, ma dice soltanto che
quella causa non è in grado di consentire una prosecuzione, anche temporanea, del rapporto. Da
ciò deriva la prima caratteristica essenziale della giusta causa: la mancanza di preavviso. Se è vero
che sia GC che GMS hanno il potere di sciogliere il vincolo contrattuale, è anche vero che la giusta
causa è più grave del GMS e quindi giustifica la mancanza di preavviso: la differenza, quindi, è di
tipo quantitativo. Di conseguenza la GC è la più grave delle sanzioni disciplinari e i contratti collettivi
sono consapevoli di questa differenza nelle loro esemplificazioni.
2. La seconda lettura attribuisce al 2119 c.c. un contenuto più ampio che fa riferimento ai criteri di
proporzionalità ex art. 2106 c.c.: il datore deve verificare se la sanzione che intende irrogare al
lavoratore (licenziamento compreso) sia proporzionata all’infrazione commessa, inoltre deve tener
conto della posizione del soggetto che compie l’infrazione (e.g. è più grave se l’infrazione è
compiuta dal dirigente piuttosto che dal quadro) e l’eventuale recidiva rispetto alla quale l’art. 7
co.8 St. Lav. stabilisce che non può tenersi conto ad alcun effetto delle sanzioni disciplinari decorsi
due anni dalla loro applicazione. La Cassazione però statuisce, nonostante la regola statutaria dei
due anni, che è possibile tener conto di sanzioni temporalmente “più lontane” se bisogna tracciare
un profilo disciplinare di un lavoratore che si sia reso responsabile di più illeciti. Essendo la regola
della proporzionalità stabilita da una norma imperativa di legge, il non rispetto di essa implica la
radicale nullità della sanzione disciplinare.
I criteri generali di proporzionalità previsti dai contratti collettivi riguardano, tra gli altri,
l’intenzionalità, il grado di disservizio o pericolo provocato, le aggravanti e le attenuanti, il concorso
di lavoratori nell’infrazione e il comportamento verso clienti e fornitori

Criteri di conversione della sanzione: Ci si chiede se il giudice del lavoro possa sostituirsi al datore per
convertire la sanzione sproporzionata in una sanzione proporzionata, una buona parte della giurisprudenza
nega questo potere attribuendolo esclusivamente al datore di lavoro, altra parte lo ritiene invece possibile
a due condizioni: a. che il giudice non obliteri completamente la volontà del datore (rimanendo quindi
nell’ambito della sanzione da esso scelta), b. che il datore di lavoro abbia superato il massimo edittale e che
la riduzione consista in una riconduzione a tale limite. Per quanto riguarda la conversione, invece, essa è
possibile solo quando sia il datore di lavoro, convenuto in un giudizio il cui oggetto verte sull’annullamento
della sanzione, a chiedere nell’atto costitutivo la riduzione della sanzione inflitta al lavoratore per l’ipotesi in
cui il giudice, in caso di accoglimento della domanda del lavoratore, ritenga eccessiva la sanzione inflitta.
Conversione da GC a GMS: il giudice deve verificare d’ufficio la possibilità che un licenziamento intimato
per GC possa essere qualificato come recesso per GMS, altrimenti incorre in vizio di omessa pronuncia.
Considerando, infatti, il carattere meramente qualificatorio di GC e GMS, se il datore impugna globalmente
la sentenza di primo grado che dichiara l’illegittimità del licenziamento, nella richiesta di legittimità di
risoluzione del rapporto per GC deve essere ricompresa anche la minor domanda di dichiarare la risoluzione
del rapporto di lavoro per la sussistenza del GMS (Cass. 21/2016). Questa massima applica i principi di
conversione del contratto nullo ex art. 1424 c.c.: il contratto nullo può produrre gli effetti di un altro
contratto, del quale rispetti i requisiti di sostanza e di forma, qualora debba ritenersi che, tenuto conto
dello scopo perseguito dalle parti, esse lo avrebbero voluto se ne avessero conosciuto la nullità.

A mente della seconda lettura della nozione di giusta causa, quest’ultima è più grande del GMS perché vi
rientrerebbero anche cause relative alla vita privata e, in generale, condotte extralavorative. Vi sono
diverse sentenze della Cassazione che si collocano su questa linea, vi è ad esempio la 428/2019 che
giustifica la presenza di giusta causa di licenziamento in presenza di condotte extralavorative che possano
essere tali da ledere irrimediabilmente il vincolo fiduciario tra le parti qualora abbiano un riflesso (sia pure
soltanto potenziale, ma oggettivo) sulla funzionalità del rapporto e compromettano le aspettative di un
futuro puntuale adempimento della prestazione lavorativa. Di conseguenza, il GMS includerebbe soltanto la
violazione di obblighi contrattuali.

Vi è poi il tema delle clausole generali che è preso in considerazione anche dal legislatore del c.d. collegato
lavoro (l.183/2010) all’art. 30.1. Esso mette dei paletti (e ciò accadrà anche con la legge Fornero e con il
jobs Act, quest’ultimo nell’ambito del contratto a tutele crescenti) con la consapevolezza dei limiti
costituzionali che limitano interventi di questo tipo. La norma statuisce che qualora disposizioni di legge in
materia di lavoro pubblico e privato contengano clausole generali il controllo giudiziale è limitato
esclusivamente all’accertamento del presupposto di legittimità e non può essere esteso al sindacato di
merito sulle valutazioni tecniche, organizzative e produttive che competono al datore o al committente.
L’inosservanza di ciò costituisce motivo d’impugnazione per violazione di norme di diritto.

GIUSTIFICATO MOTIVO OGGETTIVO E RECESSO LIBERO


Giustificato motivo oggettivo: Qui il motivo di licenziamento è legato all’impresa e in particolare alla sua
organizzazione. Vi è una tensione tra interessi che necessita di un bilanciamento da parte del legislatore: Da
un lato quello dell’imprenditore a ridimensionare l’impresa in modo corretto ed economicamente
vantaggioso e sostenibile e, dall’altro, quello del lavoratore a conservare il rapporto in assenza di condotte
manchevoli e inadempienti. Il motivo oggettivo di licenziamento è contenuto nell’art. 3 della legge 604 il
quale, dopo aver statuito che il licenziamento con preavviso è determinato da un notevole inadempimento
degli obblighi contrattuali del lavoratore (GMS), aggiunge che può essere determinato anche da “ragioni
inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa”. In questo
gruppo di ragioni che giustificano il licenziamento per GMO possiamo trovare due grandi sottogruppi:
1. Esigenze aziendali di carattere organizzativo, tecnico e produttivo (e.g. chiusura di un reparto,
attività, introduzione di nuove tecnologie, riduzione di costi, etc.);
2. Vicende del lavoratore non di carattere disciplinare che incidano sull’organizzazione del lavoro e/o
sul funzionamento dell’attività (e.g. inidoneità fisica o psichica sopravvenuta, perdita di abilitazioni,
carcerazione, etc.).

In questo ambito va tenuto conto dell’art. 41 Cost. che stabilisce la libertà di iniziativa economica privata,
questa permette che l’ordinamento verifichi che il presupposto di licenziamento per GMO sussista, ma
limita il giudizio sul contenuto. Come stabilisce l’art. 30 del collegato lavoro (l.183/2010) rispetto alle c.d.
clausole generali (v. supra) Il datore non è tenuto a spiegare il motivo della scelta organizzativa, tecnica o
produttiva e il controllo giudiziale non può estendersi sul merito delle valutazioni compiute dal datore o dal
committente.

7/03/2023

Quindi, cosa può verificare il giudice? Egli fa essenzialmente due tipologie di indagini:
1. Sussistenza del fatto: Il primo ambito di indagine e sindacato del giudice non è il perché della
scelta effettuata dal datore di lavoro, ma consiste nel verificare se quella scelta è stata effettuata e
se quel presupposto è effettivamente sussistente, con onere della prova a carico del datore di
lavoro. Il giudice può verificare la coerenza interna delle allegazioni dell’impresa, secondo
parametri di trasparenza, prevedibilità, buona fede nel rispetto delle esigenze del dipendente. Ma
il presupposto, per essere sussistente, non deve fermarsi al licenziamento del lavoratore, deve
piuttosto essere accompagnato da una riorganizzazione dell’assetto aziendale.
Un tema particolare riguarda il GMO e le nuove assunzioni: la Cassazione dice che, ai fini di
raggiungere la prova dell’inutilizzabilità aliunde del lavoratore licenziato, il datore debba indicare le
relative assunzioni, le qualifiche e le mansioni affidate ai nuovi assunti e dimostri che queste
mansioni non siano da ritenersi equivalenti a quelle svolte dal lavoratore licenziato. Se siamo di
fronte ad una grande impresa, poi, è probabile che si sia in presenza di più lavoratori che svolgano
la stessa attività del lavoratore astrattamente licenziabile, qui si pone il problema della scelta che, è
bene ribadirlo, non riguarda profili soggettivi dei predetti lavoratori; i giudici della Cassazione
precisano che si tratta di una situazione differente rispetto a quella dei licenziamenti collettivi in
quanto per quest’ultima c’è una disposizione di legge (l’art. 5 l. 223/1991) che stabilisce dei criteri
di scelta; pertanto il datore può sì utilizzare i criteri previsti dall’art. 5 l.223 in quanto offrono uno
standard idoneo, ma non può escludersi l’utilizzabilità di altri parametri, purché non arbitrari, ma
improntati a razionalità e graduazione delle posizioni dei lavoratori interessati (e.g. Cass. 25192/2016:
la Corte ritenne legittimo il licenziamento di un lavoratore in quanto comportava maggiori costi dal punto di vista
retributivo in virtù della sua anzianità di servizio, risultava il meno produttivo ed era titolare anche di altri redditi).
2. Nesso di causalità: La seconda indagine che può fare il giudice è quella relativa al nesso di causalità
tra la ragione organizzativa allegata e la scelta di un determinato dipendente da licenziare, il
giudice deve verificarne la sua sussistenza dopo aver verificato quella del motivo. Prima ci si
chiedeva se poi il datore dovesse fare un ulteriore passaggio, una sentenza della Cassazione dello
scorso anno lo ritiene come indispensabile (pena nullità del licenziamento e successiva
reintegrazione del lavoratore): il datore deve verificare se è possibile il ripescaggio e ciò anche alla
luce dei criteri stabiliti dall’art. 2103 c.c., la disposizione che disciplina lo ius variandi del datore di
lavoro; quindi il datore deve provare il tentativo di ricollocazione del lavoratore da licenziare su
mansioni dello stesso livello contrattuale, ma anche di livello inferiore. L’art. 2103 c.c. è stato
modificato di recente dal Jobs Act dicendo per la prima volta che il lavoratore può essere spostato
per ragioni organizzative anche su mansioni che appartengono ad un livello immediatamente
inferiore a quello cui si appartiene rispettando la medesima categoria legale, questo il datore può
farlo sempre se ricorre una modifica degli assetti organizzativi (la modifica dà allo ius variandi del
datore di lavoro una grande flessibilità). Lo stesso “nuovo” art. 2103 al co.6 stabilisce che nelle sedi
protette (Ispettorato del Lavoro, sindacati, sedi di certificazione dei contratti) si possono fare
accordi individuali che sacrificano le mansioni del lavoratore (nel senso della dequalificazione)
anche dal punto di vista della categoria legale, ciò in particolare per conservare il posto di lavoro.
In materia di ripescaggio non sussiste alcun onere della prova in capo al lavoratore, esso grava
completamente sul datore di lavoro. La prova dell’impossibilità del ripescaggio implica una serie di
verifiche, tra queste vanno segnalate quella che afferma che i posti su mansioni equivalenti o
inferiori siano stabilmente occupati da altri dipendenti e quella per cui dopo il licenziamento, per
un certo lasso di tempo, non siano state fatte nuove assunzioni nella medesima qualifica o ambito
di mansioni del lavoratore licenziato.
Come già anticipato, in caso di mancato ripescaggio la sanzione è la reintegrazione nel posto di
lavoro.

GMO e persona del lavoratore: Il GMO può riguardare la persona del lavoratore rispetto alle sue condizioni
personali (e.g. mancato possesso di titoli abilitanti, scadenza del permesso di soggiorno, sospensione o
revoca della patente di guida se indispensabile allo svolgimento della professione, carcerazione, infermità
permanente, inabilità sopravvenuta, impossibilità temporanea di rendere la prestazione lavorativa, etc.).
Rispetto all’incapacità totale o parziale sopravvenuta di svolgere le proprie mansioni per un tempo
indeterminato o indeterminabile, l’art. 42 del d. lgs. 81/2008 stabilisce che ove possibile il datore deve
adibire il lavoratore a mansioni compatibili con il suo stato o mansioni inferiori con conservazione della
retribuzione.
Altre norme derivano da una condanna che l’Italia ebbe nel 2013 da parte della Corte di Giustizia UE in
tema di “accomodamenti ragionevoli” che sono provvedimenti appropriati, in funzione di esigenze
concrete, per consentire ai disabili di accedere ad un lavoro, svolgerlo o avere una promozione o perché
possano ricevere una formazione con il limite dell’”onere sproporzionato”. Da ciò sono derivate almeno
due norme (art. 3.3 d. lgs. 216/2003 e art. 1 e 4 l.68/1999) che introducono limiti di legge rispetto al
ripescaggio: innanzitutto vi è l’obbligo di legge per i datori di lavoro di introdurre accomodamenti
ragionevoli per i lavoratori con disabilità e poi vi è quello di garantire la conservazione del posto di lavoro
per coloro che abbiano acquisito la disabilità per malattia professionale e infortunio sul lavoro, con obbligo
di ripescaggio.
Rispetto all’idoneità psicofisica sopravvenuta ci si chiede se sia un’ipotesi di licenziamento per GC o se
debba essere garantito il preavviso, ci sono due letture possibili: a. non essendovi la possibilità di svolgere il
preavviso lavorato, si ricade nell’ipotesi ex art. 2119 c.c.; b. il preavviso serve al lavoratore per cercare una
nuova occupazione e ha quindi diritto all’indennità sostitutiva del preavviso.
Rispetto alla carcerazione come GMO di licenziamento (può anche essere per GC), va menzionata la norma
di cui all’art. 102 disp. att. c.p.p. che statuisce come, se pronunciata sentenza di assoluzione, non luogo a
procedere o proscioglimento, il lavoratore licenziato abbia diritto ad essere reintegrato.
Il licenziamento per superamento del periodo di comporto è invece rimesso dal c.c. alla disciplina dei
contratti collettivi, il periodo in questione è un periodo durante il quale è inibito al datore di lavoro di
licenziare il lavoratore in caso di infortunio o malattia professionale (di solito 120-180 gg). Ma, quando il
periodo di comporto termina, l’art. 2110 c.c. stabilisce che il datore di lavoro è libero di licenziare il
lavoratore (è un licenziamento per GMO), in questo tipo di licenziamento non c’è la stessa tempestività
riguardante quello per giusta causa. Il datore deve conteggiare le singole assenze e preavvertire il
lavoratore dell’imminente superamento del comporto, inoltre deve provare le singole assenze (a questo
fine servono i certificati). Nel conteggio delle giornate utili ai fini dell’esaurimento del periodo di comporto,
non sono conteggiabili le assenze causate da patologie conseguenti da infortuni o malattie professionali
conseguenti all’inadempimento degli obblighi datoriali ex art. 2087 c.c.

RECESSO (LICENZIAMENTO) LIBERO


Ormai le ipotesi sono molto circoscritte dopo l’intervento di varie leggi. Esso è il licenziamento c.d. ad
nutum che non prevede la giustificazione come requisito di legittimità dell’atto (va rispettato il solo vincolo
del preavviso), il fondamento è nell’art. 2118 c.c. che, come abbiam visto, dopo la l.604, ha un ambito di
operatività ridotta (ed è ancor più ridotta se si considerano le leggi di tutela in caso di licenziamento
illegittimo). La previsione di queste residuali ipotesi è costituzionale e lo possiamo dedurre da alcune
sentenze della Corte costituzionale, in una di queste traccia una relazione tra gli artt. 35 e 4 Cost. (Corte
cost. 189/1980): essa stabilisce che tale relazione non impone un’applicazione indiscriminata del principio
della GC e del GM nei licenziamenti, ma lascia al legislatore ampia discrezionalità in materia.

13/03/2023

Licenziamento del lavoratore durante il periodo di prova: Secondo l’art. 2096 c.c., il lavoratore durante
tale periodo può essere licenziato (e può recedere) senza obbligo di dar motivazione, ciò si giustifica alla
luce del significato e della finalità del patto di prova, esso infatti serve per fare un esperimento e per
verificare le capacità di tipo professionale del lavoratore e anche per misurare il gradimento dell’altra parte
del rapporto. Il periodo di prova ha una durata limitata di sei mesi prevista dall’art. 10 l.604/1966 durante
la quale, appunto, vi è libera recedibilità di entrambe le parti, trascorsi i quali subentrano vincoli ex lege, tra
cui l’obbligo di motivazione per quanto riguarda il licenziamento; spetta ai CCNL, in relazione alla
particolare qualifica del lavoratore, fissare la durata del periodo di prova (normalmente inferiore ai sei
mesi). Proprio sul periodo di prova si è misurata la Corte costituzionale per individuare le situazioni che
consentono al prestatore di contestare il licenziamento laddove il datore non eserciti il recesso in modo
legittimo, e ciò a prescindere dalla motivazione data. In questo senso va segnalata Corte cost. 189/1980 che
individua tre motivi di contestazione:
1) Insufficiente durata: il lavoratore potrà lamentare una presunzione di illegittimità del patto di
prova perché troppo breve se tale da non consentire ad esso di esplicare le proprie qualità
professionali e ad entrambe le parti di verificare la reciproca convenienza.
2) Lavoratore adibito a mansioni diverse da quelle oggetto del patto di prova: Anche qui siamo
nell’ambito della logica assoluta, in quanto non consente al lavoratore di dimostrare la propria
abilità nelle mansioni per cui il patto è predisposto.
La Cassazione però stabilisce che, ove il licenziamento intimato nel corso del periodo di prova sia
illegittimo, ma il patto sia valido, non operano né la tutela debole ex art. 8 l.604, né quella forte ex
art. 18 St. Lav., né quella prevista per il contratto a tutele crescenti ex d. lgs. 23/2015. Il lavoratore
qui ha diritto all’esecuzione del patto, ove possibile, e quindi avrà diritto di essere sottoposto alla
disciplina del patto espletando le mansioni per cui esso è formulato, o al risarcimento del danno,
salvo caso di nullità del recesso (in particolare per il suo carattere discriminatorio o ritorsivo). Non
è comunque garantito il superamento del periodo di prova, ma resta salvo il risarcimento del
danno.
3) Motivo illecito: esso conduce alla nullità del licenziamento ed è un motivo estraneo alla causa a cui
è preordinato il patto di prova.
La Cassazione stabilisce che il lavoratore che voglia far valere l’illegittimità del licenziamento deve
dedurre, il motivo illecito del recesso che è, appunto, al tempo stesso estraneo all’esperimento
lavorativo, offrendo vuoi la prova diretta della sua esistenza, vuoi quella indiretta del superamento
positivo dell’esperimento.
Rimedi: qualora il recesso durante il periodo di prova sia dichiarato illegittimo e il patto sia valido, il
lavoratore ha diritto alla prosecuzione della prova per il periodo mancante, ove possibile, oppure il
risarcimento del danno.

Licenziamento del dirigente: ipotesi di recesso libero molto importante, essa riguarda quella categoria
legale di lavoratori menzionata dall’art. 2095 c.c. I dirigenti non godono delle tutele in materia di
licenziamento individuale e collettivo che invece spettano ad altri lavoratori, questa è una scelta
chiaramente espressa dall’art. 10 l.604, mentre l’art.2 della medesima legge stabilisce che ad esso si applica
l’obbligo di forma scritta del licenziamento e il diritto all’indennità di anzianità. La scelta di escludere i
dirigenti da una serie di tutele viene immediatamente verificata dal punto di vista costituzionale. Un’
importante sentenza della Corte costituzionale (Corte cost. 121/1972) ragiona sulla figura del dirigente: a
caratterizzare tale figura sono il fatto che essa ha una propria rappresentanza sindacale, una collaborazione
immediata con l’imprenditore o con un ramo importante dell’azienda, il carattere fiduciario, l’ampio potere
e la supremazia gerarchica (anche se priva di poteri disciplinari). Il dirigente è una sorta di alter ego del
datore, è come se fosse il datore di lavoro che si spoglia di alcuni poteri, a tal fine è essenziale che si instauri
e si mantenga un rapporto di fiducia per determinazione unilaterale. Una volta che questo particolarissimo
vincolo fiduciario viene meno, esso legittima la risoluzione del rapporto di lavoro senza bisogno di
motivazione.
Individuazione del dirigente ai fini dell’applicazione delle regole sul licenziamento: non è così facile, se si
segue il ragionamento della Corte costituzionale di sicuro possiamo dire che la foto corrisponde a quella di
dirigente di vertice, cioè di figura apicale che governa l’impresa. Qualche dubbio può sorgere quando si
comincia a scendere verso lavoratori che hanno grandissime responsabilità di area di settore, geografiche,
di ramo produttivo, ma non si possono considerare come dirigenti perché devono rispondere al top
manager. Si crea quindi una gerarchia nel corpo della dirigenza di impresa, a volte la qualifica dirigenziale
viene data a lavoratori che hanno particolari abilità e che il datore vuole premiare attribuendo loro tale
qualifica con tutti i benefici che ne conseguano, ciò ricambia ampiamente il dirigente circa la questione
della stabilità del rapporto, però questi soggetti non sono talvolta idonei a fare le veci dei datori.
Importantissima in tal senso la Sent. Cass. 25145/2010 perché va oltre il confine dalla dirigenza, essa
statuisce che la disciplina limitativa del potere di licenziamento ex. l.604 e St. Lav. non è applicabile, ai sensi
dell'art 10 l.604, ai dirigenti convenzionali, quelli cioè da ritenere tali alla stregua delle declaratorie del
contratto collettivo applicabile, sia che si tratti di dirigenti apicali, che di dirigenti medi o minori, ad
eccezione degli pseudo-dirigenti vale a dire di coloro i cui compiti non sono in alcun modo riconducibili alla
declaratoria contrattuale del dirigente (non dirigono e hanno la qualifica solo per un particolare
riconoscimento normativo ma soprattutto economico), non vi è un rapporto dirigenziale e non può
giustificare l’esclusione delle tutele e quindi un licenziamento ad nutum.
Il dirigente secondo il CCNL: Il contratto collettivo sta a definire quello che è il dirigente (e.g. v. CCNL
dirigenti di aziende produttrici di beni e servizi). Se è vero che i dirigenti non hanno tutele di legge in caso di
licenziamento, le hanno però di derivazione contrattuale. Se è vero che la legge esclude una serie di tutele,
il CCNL talvolta le reintroduce, tra queste va menzionato l’obbligo di giustificatezza del licenziamento (non
si tratta di GC, GMS o GMO, la giustificatezza dei CCNL è un concetto più ampio ed elastico, un po’ più
leggero e meno penetrante). Prendendo ad esempio il CCNL Dirigenti di aziende produttrici di beni e servizi,
vediamo innanzitutto che si parla di risoluzione del rapporto e non di licenziamento, nel caso di risoluzione
la parte recedente è tenuta a specificare contestualmente la motivazione; Il dirigente, ove non ritenga
giustificata la motivazione, potrà ricorrere al collegio arbitrale. Il CCNL ci parla di giustificatezza e necessaria
motivazione senza declinare se oggettiva o soggettiva, la Cassazione però statuisce che è rilevante qualsiasi
motivo che la regga e che è sufficiente una valutazione globale che escluda l’arbitrarietà del recesso.
In un importante sentenza del 2016, poi, la Cassazione stabilisce che il dirigente non è sottoposto alla
regola dell’obbligo di ripescaggio: il principio di correttezza e buona fede, che costituisce il parametro su cui
misurare la legittimità del licenziamento, dev’essere coordinato con la libertà d’iniziativa economica privata
ex art. 41 Cost.
Rimedi:
 In caso di inefficacia (mancanza di forma scritta) o nullità (per motivo illecito, ritorsivo o
discriminatorio) del licenziamento è prevista la reintegrazione nel posto di lavoro ex art. 18 St. Lav.
 In caso di licenziamento ingiustificato, il rapporto è risolto e i CCNL prevedono tutele di tipo
economico costituite da indennità di preavviso (caratteristica comune alla disciplina applicata alle
altre categorie legali di lavoratori), sempre che non si tratti di licenziamento per GC, e da un’
indennità supplementare il cui valore è compreso tra un minimo e un massimo previsto dai CCNL in
base all’anzianità del dirigente.
Altri casi di licenziamento libero:
 Ultrasessantenni in possesso dei requisiti pensionistici che non abbiano optato per la prosecuzione
del rapporto di lavoro ex art. 6 l.54/1982 (fino al raggiungimento della massima anzianità
contributiva), da quel momento tale lavoratore può essere licenziato con solo diritto all’indennità di
preavviso;
 Atleti professionisti con rapporto di lavoro subordinato;
 I contratti a tempo determinato (alla scadenza del termine);
 Domestici, per ragioni simili al rapporto fra dirigente e capo dell’impresa (ragioni di sintonia con la
comunità familiare in cui i domestici sono inseriti)

IL LICENZIAMENTO NULLO. PERIODI DI IRRECEDIBILITÀ.


Fino ad adesso abbiamo analizzato situazioni di licenziamento in cui c’è un motivo lecito; in specie ci siamo
occupati di GC, GMS, GMO. Dobbiamo ora occuparci delle situazioni in cui il motivo forse c’è ma è ritenuto
dall’ordinamento inadeguato e trattato da esso con la sanzione “forte” della nullità, sia dal punto di vista
del diritto dei contratti, sia dal punto di vista dei rimedi. Pur essendoci normalmente una ragione
apparente, cioè quella che finisce nella lettera di licenziamento, esiste un motivo che ha invece realmente
condotto il datore di lavoro a esercitare il potere di recesso: in altre parole, il datore cerca un motivo
apparente valido per ottenere uno scopo che è invece assolutamente vietato. Ci si è occupati del contrasto
alle discriminazioni con una legislazione da sempre all’avanguardia (soprattutto in relazione a Paesi
culturalmente affini al nostro), a partire proprio dalla l. 604/66 e poi dallo Statuto dei lavoratori, con tutele
particolarmente dense e articolate in caso di licenziamento discriminatorio.
Vi sono due norme in particolare che tutelano il lavoratore subordinato dal licenziamento discriminatorio:
 Art. 4 l. 604/66: “Il licenziamento determinato da ragioni di credo politico o fede religiosa,
dall'appartenenza ad un sindacato e dalla partecipazione ad attività sindacali è nullo,
indipendentemente dalla motivazione adottata.”
 Art. 15 St. Lav.: “È nullo qualsiasi patto od atto diretto a:
a) subordinare l'occupazione di un lavoratore alla condizione che aderisca o non aderisca ad
una associazione sindacale ovvero cessi di farne parte;
b) licenziare un lavoratore, discriminarlo nella assegnazione di qualifiche o mansioni, nei
trasferimenti, nei provvedimenti disciplinari, o recargli altrimenti pregiudizio a causa della
sua affiliazione o attività sindacale ovvero della sua partecipazione ad uno sciopero.
Le disposizioni di cui al comma precedente si applicano altresì ai patti o atti diretti a fini di
discriminazione politica, religiosa, razziale, di lingua o di sesso, di handicap, di età, di nazionalità o
basata sull'orientamento sessuale o sulle convinzioni personali”.
Sicuramente una delle norme più importanti perché continente il principio di non discriminazione e
suscettibile di essere “utilizzata” come clausola generale per sancire la nullità del licenziamento.
In entrambe le norme vediamo come sia applicata la sanzione civilistica forte, cioè quella della nullità. I
licenziamenti sono nulli e lo sono non solo per i momenti di discriminazione che si potrebbero sviluppare
nello svolgimento del rapporto di lavoro, ma anche e in particolare con riferimento al momento della scelta
di licenziare il lavoratore. Il legislatore non esita quindi alla tipizzazione dei motivi di discriminazione che
rendono il licenziamento nullo, tipizzazione che nel frattempo ha anche arricchito.
Rispetto al licenziamento discriminatorio per motivi sindacali, abbiamo almeno due importanti precedenti
della Cassazione:
1. Il primo è costituito dalla Sent. 4899/2017 dove la corte ribadisce dapprima che gli atti nulli sono
insuscettibili di produrre effetti giuridici e di conseguenza come in capo al datore sussista ancora
l’obbligo contributivo;
2. il secondo precedente è costituito dalla Sent. 9743/2002 dove la corte si occupa di un caso di
licenziamento per giusta causa del lavoratore sindacalista che abbia utilizzato espressioni
“sconvenienti” in un contesto di conflittualità aziendale. La corte stabilisce che il giudice di merito,
nel valutare la liceità del licenziamento del lavoratore sindacalista, deve valutare se l’esercizio delle
espressioni “sconvenienti” oltrepassi i limiti di un corretto esercizio delle libertà sindacali e quindi
sia lesivo del rapporto di fiducia con il datore di lavoro. Il giudice deve quindi accertare se le stesse
espressioni non costituiscano la forma di comunicazione ritenuta più efficace e adeguata dal
sindacalista in relazione alla propria posizione in quel contesto.

Esiste una particolare tutela contenuta nell’ art. 18 co. 11 St. Lav. nell’ambito del giudizio atto a verificare la
legittimità del licenziamento: Se il giudice rileva un fumus di illegittimità (cioè “quando ritenga irrilevanti o
insufficienti gli elementi di prova forniti dal datore”) provvede con ordinanza alla reintegrazione
provvisoria, fermo poi l’esito finale del giudizio.

14/03/2022

Il motivo illecito di licenziamento è nullo secondo quanto disciplinato dall’art. 4 della l.604. La tutela da
porre alla base di questa tipologia di licenziamento è quella reintegratoria accompagnata da un
risarcimento, essa è confermata anche dalla legge Fornero.
La carta di Nizza riconosce il divieto di discriminazione che derivi da ragioni di sesso, razza, età, handicap,
etc. Una norma molto importante in tema di tutela della riservatezza è l’art. 8 St. Lav. che sancisce il divieto
d’indagine sulle opinioni dei lavoratori. I motivi di discriminazione possono essere tanti altri: quella di
genere nella dimensione sociale e collettiva, per l’età del lavoratore (anche se con ragionevolezza e
proporzionalità può fungere da elemento di differenziazione), ribadiamo quello dell’orientamento sessuale
che spesso viene preso in considerazione nella policy aziendale. Di enorme importanza è il tema della
disabilità preso in considerazione, tra gli altri, dall’art. 2 co. 4 del d. lgs. 23/2015: un eventuale
licenziamento dettato da motivi che attengono alla disabilità si trasforma in licenziamento discriminatorio e
i lavoratori divenuti inabili possono essere licenziati dopo aver osservato gli accomodamenti ragionevoli.
Importante anche il tema dell’infezione da HIV, La Corte costituzionale ha in proposito dichiarato la
discriminatorietà del licenziamento dettato dalla infezione, ma afferma allo stesso tempo che possono
esservi delle eccezioni in quelle attività che presentano il serio rischio che terzi siano contagiati data la forte
preminenza in esse del diritto alla salute. L’art. 5 co.5 della l. 135/1990, poi, statuisce che l’accertata
infezione da HIV non può costituire motivo di discriminazione per quanto riguarda l’accesso a scuola, allo
sport e al lavoro. Queste sono vicende che inducono il legislatore e l’interprete a soppesare valori
costituzionali di straordinaria importanza, vedasi anche la delicata questione rispetto all’obbligo vaccinale
per il covid-19.

In una sentenza del 2013 i giudici della Cassazione dopo la legge Fornero si sono dovuti interrogare sulla
differenza tra licenziamento meramente ingiustificato, non sufficientemente descritto e il licenziamento per
motivo discriminatorio, prova del motivo odioso, espressione di volontà del datore di risolvere il rapporto. È
indubbiamente difficile indagare sul cuore della (mancata) giustificazione, ma la Corte in linea di massima
stabilisce che Il licenziamento ingiustificato è un mero arbitrio, il licenziamento discriminatorio è invece
quello fondato su un motivo odioso; prima di tutto dovrà quindi essere accertata la discriminazione e il
motivo discriminatorio che ha curvato la volontà del datore di lavoro.
Differenza tra discriminazione diretta e indiretta: la prima si ha quando il soggetto subisce per effetto dei
fattori di discriminazione un trattamento meno favorevole di quello goduto da un altro soggetto che, in
situazione analoga, non subisca la discriminazione; la seconda si ha quando una prassi, ordine, criterio, atto
che possono sembrare neutri, possono dare luogo ad una situazione più svantaggiosa per un dato soggetto
identificato attraverso uno dei fattori di discriminazione.
Rispetto al profilo dell’onere della prova, il d. lgs. 150/2011, laddove si concentra sul contenzioso in
materia di discriminazione, riconosce la possibilità di dare corso a presunzioni anche di carattere statistico,
l’onere della prova dell’insussistenza della discriminazione spetta al convenuto; questo è uno strumento
che tempera la grande difficoltà dell’art. 15 dello St. Lav. in quanto fornisce gli strumenti tecnici per
invalidare il licenziamento ma poi bisogna provare l’esistenza di un motivo discriminatorio e fornirne una
intera prova. Queste norme sono sostenute dalla giurisprudenza, a tal proposito va richiamata una
sentenza della Cassazione del 2016 (n.15435) dove i giudici dicono che la prova statistica è un ausilio, la loro
assenza o il loro mancato rilievo non è di ostacolo al riconoscimento della fondatezza del denunciato atto
discriminatorio.

I momenti di discriminazione che rendono nullo il licenziamento danno conto di alcuni periodi che
prendono nome di periodi di irrecedibilità durante i quali è fatto divieto dalla legge di procedere al
licenziamento: si tratta quindi di un’inibizione temporanea al licenziamento. La differenza con il comporto è
che questo periodo è predeterminato dal legislatore e determina prevalentemente ipotesi di nullità del
licenziamento.
Una tipologia di licenziamento discriminatorio datata storicamente è quella per causa di matrimonio, la
disciplina attuale è contenuta nel codice delle pari opportunità (d. lgs. 198/2006) che stabilisce la nullità
delle clausole che subordinino il licenziamento a tale evento e i licenziamenti che hanno tale motivazione.
La tutela parte dal presupposto per cui la lavoratrice diventa meno utile se contrae matrimonio e interviene
con una norma che impedisce di dare corso al licenziamento in un periodo di tempo che va dal giorno in cui
la lavoratrice contrae matrimonio all’anno successivo: i licenziamenti comminati in quel periodo si
presumono comminati per causa di matrimonio, le uniche eccezioni sono rappresentate dalla giusta causa,
dalla cessazione di attività e dal contratto a termine. Questa presunzione è assoluta e non ammette prova
contraria, opera indipendentemente dalle comunicazioni della lavoratrice rispetto all’evento e dalla
conoscenza del datore di lavoro del fatto.
Vi sono poi una serie di tutele per il licenziamento discriminatorio relative a paternità e maternità: sono
nulli quei licenziamenti
 Comminati nel periodo che intercorre dall’inizio del periodo di gravidanza fino al termine dei
periodi di interdizione dal lavoro e fino ad un anno di età del bambino;
 Causati dalla domanda o dalla fruizione di un congedo parentale o per la malattia del bambino,
 Nei confronti del padre lavoratore che abbia fruito del congedo di paternità per la durata del
congedo stesso e fino ad un anno di età del bambino
 In caso di adozione o affidamento.
Vi sono però delle eccezioni tali per cui, anche se ci si trova in un periodo di irrecedibilità, il licenziamento è
comunque legittimato e lo è se ricorre il requisito della GC, in caso di cessazione di attività e in caso di
avvenuta conclusione della lavorazione o quando scade il termine. Le casistiche in tema di licenziamento
per giusta causa durante un periodo di irrecedibilità sono varie: lavoratore in malattia che svolge una
seconda attività, quello che dovendo impegnarsi a recuperare le energie psicofisiche svolge attività sportive
che ritardano il recupero, etc. In qualche modo la legge Fornero ha cercato di disincentivare queste
condotte, essa prende in considerazione l’ipotesi in cui un lavoratore stia per subire un procedimento
disciplinare e decida di andare in malattia per non farsi licenziare, per rimediare a tale situazione la l.
Fornero ha disposto la retroattività dell’efficacia del licenziamento al momento in cui viene fatta la
contestazione disciplinare e il periodo che va dalla contestazione al licenziamento viene considerato
periodo di preavviso.

Il tema si fa più complesso quando, oltre al motivo illecito, sussiste anche un motivo valido di
licenziamento: potrebbe verificarsi la situazione in cui il lavoratore riesce a provare la discriminazione o
l’illiceità del licenziamento e il datore riesce a sua volta a provare che esiste una GC o un GM, in questo
caso prevale la sussistenza del motivo valido di licenziamento. L’onere probatorio viene integralmente
posto a carico del lavoratore che deve anche provare che il motivo discriminatorio di cui all’ art.1345 c.c.
(quindi, quando non sia tipizzato dalla legge) è unico e determinante nel curvare la volontà datoriale verso
il recesso. Se ci sono una pluralità di motivi, quel motivo discriminatorio non è unico e determinante e il
licenziamento risulterà comunque valido. Succede questo in particolare quando c’è un licenziamento per
ritorsione (quello che il datore adotta per vendetta), ovviamente il licenziamento è illecito, ma diventa qui
particolarmente complicato stabilire il carattere unico e determinante del motivo illecito che ha portato il
datore ad assumere l’atto di recesso.
Secondo l’art. 1345 c.c., la nullità richiede che il motivo addotto al licenziamento dal datore di lavoro sia
solo formale e apparente e, inoltre, che sia determinante della volontà del datore di lavoro di recedere dal
contratto. Il Tribunale di Nola nel maggio 2017 sottolinea come sia importante mantenere ferma la
distinzione tra discriminazione e ritorsività: si distinguono per gli elementi costitutivi e per il regime
probatorio applicabile a ciascuno di essi. I licenziamenti discriminatori sono quelli adottati in presenza dei
fattori di rischio tipicamente individuati dalla legge, rispetto ai quali è del tutto irrilevante l'intento
soggettivo dell'agente e il motivo formalmente addotto, bastando la prova del trattamento differenziato. I
licenziamenti ritorsivi sono quelli comminati dal datore di lavoro al solo scopo di rappresaglia o vendetta
nei confronti del lavoratore per circostanze che esulano da fattori di rischio tipizzati. Sempre in tema di
licenziamento ritorsivo, il Tribunale di Rieti nel 2021 stabilisce che, per accordare la tutela prevista per il
licenziamento nullo, occorre che il provvedimento espulsivo sia stato determinato esclusivamente da esso,
per cui la nullità viene esclusa se con lo stesso concorra un motivo lecito.

IL LICENZIAMENTO DISCIPLINARE
Quando la Cassazione cerca di scrutinare il contenuto del GMS sostiene che esso è un licenziamento
ontologicamente disciplinare. È un licenziamento per inadempimento agli obblighi contrattuali, ciò ci porta
a ritenere che il licenziamento può essere una sanzione disciplinare; quindi, se è vero che i licenziamenti
per GMS e GC sono sanzioni disciplinari allora bisogna rispettare le regole del diritto disciplinare. Queste
regole sono di sostanza ma soprattutto di procedura, quindi il licenziamento sarà valido non solo se c’è un
motivo, ma soprattutto se verrà rispettata la procedura prevista dall’ordinamento che legittima il datore ad
esercitare il suo potere disciplinare.

Bisogna partire dal potere disciplinare del datore, uno dei tre poteri caratterizzanti la figura (art. 2086 c.c.),
insieme a quello direttivo e di controllo. Proprio sul fondamento del potere qualche dubbio circa il fatto che
il licenziamento sia una sanzione disciplinare potrebbe essere posto. Quando nasce nei rapporti privati
(prima ancora che nella legge) si capisce subito che la funzione del potere disciplinare non è quella di far
cessare il rapporto, ma anzi di mantenere in vita il contratto quando si verifica un inadempimento
contrattuale da parte del lavoratore; l’unica parte dotata di questo potere è, appunto, il datore. La sanzione
ha due finalità:
a. afflittiva: crea una situazione in svantaggio in capo al lavoratore inadempiente degli obblighi
contrattuali;
b. esemplare: nella comunità aziendale l’applicazione di sanzioni disciplinari dimostra a tutti che in
quel contesto l’inadempimento non è tollerato.
L’utilizzo del potere disciplinare è fisiologico in qualunque organizzazione, un grande studioso di esso è
stato Lenin, il quale scrive ne “le pene nelle fabbriche” che il potere disciplinare deve esistere in qualsiasi
organizzazione, e specie in quelle complesse dove c’è una maggiore stratificazione esso deve servire a
ristabilire l’ordine. Il potere disciplinare non ha funzione risarcitoria, l’azione disciplinare può solo
concorrere con quella del risarcimento del danno. Il valore economico delle sanzioni è basso e lo Statuto
prevede che esso non finisca nelle tasche dell’impresa, ma nel fondo adeguamento pensioni costituito in
azienda: il datore non ci guadagna dall’affliggere.

Si discute sul fondamento contrattuale del potere e per una serie di motivi: Innanzitutto, il potere è
concesso solo ad una parte del contratto, poi sono previste sanzioni anche conservative e il lavoratore può
essere punito anche per inadempimento di scarsa importanza. Ma è chiaro che il fondamento sia
contrattuale e lo si scopre nella prima norma di licenziamento, l’art. 2106 c.c.: esso consegna al datore il
potere di sanzionare prescrivendogli di rispettare la proporzionalità tra infrazione e sanzione e la disciplina
data dai contratti collettivi. La norma fa riferimento, quando parla della possibilità di applicare sanzioni
disciplinari, alla violazione degli obblighi di cui agli artt. 2104 e 2105 c.c., rispettivamente quello di diligenza
nella prestazione e di obbedienza e quello di fedeltà (riservatezza/non concorrenza); quelle date dal c.c.
sono rappresentazioni macro, ma riportano il potere in una dimensione contrattuale. Quindi, i poteri, gli
atti e i procedimenti nella materia disciplinare hanno fondamento contrattuale: Il potere disciplinare
incontra solo limiti “esterni” di legge e di contratto collettivo per tutelare i diritti del lavoratore e non limiti
“interni” funzionalizzati ad interessi generali o diversi da quello datoriale all’adempimento, questi possono
tradursi in obiettivi di perseguimento per l’attività datoriale e divenire temi di altre forme di responsabilità.
Vi è qualche eccezione importante al fondamento contrattuale del potere disciplinare, l’ordinamento
infatti ci dimostra che in alcuni casi viene usato per tutelare non solo interessi del datore, ma anche di
carattere generale, di terzi o della collettività:
 Primo esempio chiaro è quello riguardante la legge sugli scioperi nei servizi pubblici essenziali (l.
146/1990): qui sono previste sanzioni per i sindacati che svolgono lo sciopero in ambiti al di fuori
delle regole e dei beni della persona tutelati elencati nell’art. 1, ma anche sanzioni per il datore se
non dà comunicazione dello sciopero, per il lavoratore che sciopera illegittimamente. Mentre per i
sindacati e datori le sanzioni sono amministrativo-economiche, per i lavoratori sono di tipo
disciplinare e non vengono decise dal datore, ma disposte dalla commissione di garanzia seppur sia
il datore l’unico titolare del potere di applicare le sanzioni.
 Ancora più importante è la violazione delle prescrizioni che riguardano la tutela della salute e
sicurezza nei luoghi di lavoro per i quali il 2087 c.c. determina un obbligo di sicurezza in capo al
datore di lavoro, quest’obbligo è uno dei due principali in capo ad esso (il secondo è quello
retributivo) che è stato poi tradotto ed esplicato dall’ art. 30 del d.lgs. 81/2008 in chiave preventiva.
Tra i numerosi obblighi il TU in materia di sicurezza e salute nei luoghi di lavoro impone anche
l’adozione di un modello organizzativo di gestione volto alla prevenzione, se leggiamo i modelli
organizzativi elaborati sulla base dell’art. 30 scopriamo che la previsione di sanzioni disciplinari in
caso di violazione delle norme di sicurezza è elemento indispensabile del modello organizzativo in
quanto tutela anche altri interessi.
 Lo stesso modello organizzativo previsto dal TU sulla sicurezza nei luoghi di lavoro si ha nell’ambito
della disciplina del d. lgs. 231/2001. Le imprese devono adottare modelli di prevenzione da reato
rispetto ad una serie di illeciti e non sono esenti sanzioni disciplinari, così ci cerca di garantire pro-
futuro il maggior rispetto possibile con delle regole, ciò comporta l’adozione frequente di codici
etici.

Fonti della materia disciplinare:


 Art. 2106 c.c. (principio di proporzionalità);
 Art. 7 St. Lav.: verte sulla procedura del licenziamento;
 Norme disciplinari dei contratti collettivi nazionali di categoria, innanzitutto individuando nello
specifico le condotte illecite e vietate. A queste norme è vincolato il datore nell’esercizio del potere;
 Regolamenti aziendali che traducono le norme di cui ai CCNL e che diventano così fonte importante
di determinazione degli illeciti disciplinari,
 Codici etici e di comportamento per il tema sicurezza e per quello di prevenzione da reati;

Alla fine del percorso si può dire, come hanno detto i giudici della Cassazione e della Consulta, che il
licenziamento è la più grave delle sanzioni disciplinari così dando una lettura diversa della funzione del
potere disciplinare, potere che serve per estinguere il rapporto quando l’inadempimento assume quel
carattere notevole da determinare il venir meno dell’interesse datoriale alla prosecuzione del rapporto di
lavoro.

Manca, nel nostro ordinamento positivo, una nozione di licenziamento disciplinare, ma se n’è ricavata una
autonoma dalla elaborazione pluridecennale della Cassazione e della Consulta: è un recesso datoriale
espressione del potere disciplinare del datore stesso, il recesso datoriale ha natura disciplinare
ogniqualvolta sia motivato da un comportamento colposo, o comunque inadempiente, del lavoratore. Il
licenziamento disciplinare copre interamente l’area del licenziamento per GMS (la Cassazione dice che si
tratta di un licenziamento “ontologicamente” disciplinare) e, in parte, quella del licenziamento per GC,
dunque con l’esclusione del solo licenziamento per GMO. Vediamo alcuni passaggi fondamentali
nell’elaborazione di questa nozione in sentenze della Cassazione e della Consulta:
 Cass. Sez. Lav. 5855/2003. Si tratta di una sentenza vecchia nell’ultima parte perché non conosce la
legge Fornero. I giudici della Suprema Corte statuiscono che il licenziamento è al vertice delle
sanzioni disciplinari, al vertice quindi di quella piramide punitiva che il datore può utilizzare.
 Corte cost. 204/1982. L’elaborazione è successiva allo Statuto, la corte qui dichiara
costituzionalmente legittimo il licenziamento disciplinare, ma solo se il datore osserva alcuni
passaggi dell’art. 7 St. Lav., con questa pronuncia si attua definitivamente il collegamento tra
sostanza del licenziamento e procedura. I passaggi fondamentali sono 3
a) Pubblicizzare gli illeciti (e quindi il codice disciplinare): si tratta di una garanzia per
orientare il proprio comportamento al fine di non incorrere in un grave inadempimento
contrattuale,
b) Contestazione dell’addebito: risponde ad un modello costituzionale di sollecitazione del
diritto di difesa e del giusto processo tale per cui chi ha un potere punitivo può esercitarlo a
patto che vi sia un momento di garanzia della difesa dell’ incolpato che non può che
precedere l’applicazione della sanzione. Dal punto di vista formale-procedurale la
contestazione dà l’opportunità di esercitare il diritto di difesa
c) Possibilità data al lavoratore di difendersi in quella sede disciplinare ma con l’assistenza di
un rappresentante sindacale, la norma si preoccupa di recuperare quello squilibrio di forza
contrattuale connaturato alla subordinazione attraverso il mandato ad un rappresentante
sindacale.
Buona parte della giurisprudenza, ma non la Corte costituzionale, ritiene che sia necessario un tempo
intercorrente tra contestazione e risposta pari a 5 giorni come stabilito dall’art. 7 St. Lav. Fino al 2012
funzionava il concetto del parallelismo delle tutele: non fare contestazione e non sentire il lavoratore
equivale alla mancanza di GC o il GM, ciò porta la magistratura a valorizzare al massimo la
procedimentalizzazione.
La Corte costituzionale e quella di Cassazione si soffermano sull’ importanza di estendere la
procedimentalizzazione anche nelle aree nelle quali non sarebbe neanche richiesta la motivazione del
licenziamento (recesso ad nutum e licenziamento dei dirigenti e, nell’area della tutela obbligatoria, il
licenziamento affetto da vizi di procedura in quanto sarebbe carente dei presupposti giustificativi).
Occorrerà anche qui fare contestazione per iscritto e consentire l’esercizio del diritto di difesa, per i giudici
questi passaggi sono espressione di un principio di civiltà giuridica e di rilevanza costituzionale.

20/03/2022

Come abbiamo già anticipato, l’avvento dell’art. 7 St. Lav. rappresenta una novità: l’introduzione di un
procedimento disciplinare.

Principio di proporzionalità: l’art. 2106 c.c. stabilisce che la sanzione deve essere proporzionata alla gravità
dell’infrazione. Il principio viene coltivato dai contratti collettivi, essi infatti molto spesso elencano una serie
di criteri in base ai quali stabilire la proporzionalità (e.g. intenzionalità, grado di disservizio o pericolo
provocato, aggravanti/attenuanti, responsabilità della posizione di lavoro, concorso di lavoratori
nell’infrazione, comportamento complessivo del lavoratore con riguardo ai precedenti, comportamenti
verso clienti e fornitori). È interessante verificare quali poteri ha il giudice laddove verifichi che il datore non
ha applicato/ha applicato male il principio di proporzionalità: se manca la proporzionalità la sanzione è
nulla. Uno dei parametri cui far riferimento per riempire di contenuto la clausola generale ex art. 2119 c.c.
è costituito dalle tipizzazioni dei contratti collettivi, il c.d. collegato lavoro del 2010 stabilisce espressamente
che il giudice deve tenerne conto.
Quanto alla conversione, la Cassazione dice espressamente che fare sanzioni disciplinari è compito del
datore, ne segue che il giudice non può sostituirsi ad esso, se non quando il datore abbia superato il
massimo edittale e la riduzione consista in una riconduzione a tale limite; oppure quando il datore
convenuto in giudizio chieda egli stesso nell’atto con cui si costituisce in giudizio la riduzione della sanzione
per l’ipotesi in cui il giudice ritenga la sanzione eccessiva (Cass. Sez. Lav. 27911/2020).

Incide sul principio di proporzionalità la c.d. recidiva biennale ex art. 7 co.8 St. Lav.: “Non può tenersi conto
ad alcun effetto delle sanzioni disciplinari decorsi due anni dalla loro applicazione.”
Contestazione della recidiva: punto di partenza è che il lavoratore deve essere posto in condizione di
potersi difendere anche dalla recidiva. La Cassazione dice che la preventiva contestazione dell’addebito al
lavoratore incolpato deve riguardare anche la recidiva o i procedimenti disciplinari che la integrano, solo
nell’ipotesi in cui questa rappresenti elemento costitutivo della mancanza addebitata e non già quando
costituisca mero criterio di determinazione della sanzione proporzionata a tale mancanza. Se parliamo di
licenziamento anche i fatti più risalenti (quindi, ad oltre due anni prima del licenziamento) possono
rafforzare il convincimento del datore di lavoro circa la rilevanza degli inadempimenti e aiutano a tracciare
una sorta di profilo psicologico del lavoratore rispetto alla tendenza a violare le norme disciplinari. Le due
norme fondamentali che stabiliscono in termini generali la rilevanza in termini di inadempimento sono gli
artt. 2104 e 2105 c.c., ma una maggiore importanza in tal senso è attribuita ai contratti collettivi.

È importante menzionare l’art. 7.1 St. Lav. che statuisce che le norme disciplinari relative a sanzioni,
infrazioni e procedure di contestazione delle stesse devono essere portate a conoscenza dei lavoratori
mediante affissione in luogo accessibile a tutti. Esse devono applicare quanto in materia è stabilito da
accordi e contratti di lavoro ove esistano.

Vi sono alcuni interrogativi posti dalla giurisprudenza, tra questi ci si chiede se il datore possa adottare
regole unilaterali poste da esso e non negoziate, la risposta è sostanzialmente sì. Poi ci si chiede se è
richiesta la stessa tassatività richiesta dal diritto penale all’interno del codice disciplinare, qua la risposta è
no: basta che il lavoratore comprenda, anche in termini generali, quali condotte non attuare. L’obbligo di
affissione ex art. 7.1 St. Lav. non è derogabile con altre forme di pubblicità, ma la Cassazione statuisce che
l’affissione non è necessaria quando la violazione riguarda doveri fondamentali dei lavoratori ovvero
quando vi siano condotte contrarie al minimum etico universalmente condiviso; la motivazione di questo
principio enunciato dalla Cassazione sta nel fatto che esistono già delle norme di carattere generale (in
specie gli artt. 2119 c.c. e. 3 l.604/66) che esimono il datore dall’obbligo di portare a conoscenza
determinate condotte cui segue la sanzione del licenziamento.

IL PROCEDIMENTO DISCIPINARE
Le norme ad esso relative vengono introdotte nel nostro ordinamento con l’art. 7 St. Lav., non prevedono
l’intervento di soggetti terzi (in particolare non prevedono l’intervento del giudice). Come dice il Montuschi
il datore di lavoro è al tempo stesso parte lesa, giudice istruttore e colui che applica la pena.
La sequenza la troviamo in particolare nei co. 2 e 3 dell’art. 7 St. Lav.: il datore non può innanzitutto
adottare il provvedimento disciplinare senza aver previamente contestato l’addebito al lavoratore e senza
averlo sentito a sua difesa; il lavoratore potrà farsi assistere da un rappresentante dell’associazione
sindacale cui aderisce o conferisce mandato. La funzione del procedimento e della contestazione è quella di
realizzare il contraddittorio e di sollecitare la puntuale difesa del lavoratore rispetto ad un giudizio di parte.
Vi sono tre regole che informano una buona contestazione disciplinare:
1. Tempestività/immediatezza: nel momento in cui il datore viene a conoscenza dei fatti deve
contestarli al lavoratore. È importante perché solo nell’immediatezza dei fatti il lavoratore può
ricordare la sua condotta e di conseguenza meglio preparare la sua difesa, inoltre, dato che il
potere è esercitato in una relazione contrattuale, il silenzio del datore ha un valore. La Cassazione
ha avuto modo di esprimersi rispetto a questa regola, in una pronuncia ha messo in evidenza come
sicuramente la tempestività è influenzata dalle dimensioni dell’azienda (nelle imprese grandi le
informazioni viaggiano più lentamente): la tempestività è quindi relativa;
2. Specificità: il lavoratore si difende meglio se i fatti sono precisati dal datore
 La Cassazione dice che non è necessaria l’osservanza di schemi prestabiliti e rigidi, ciò che conta è che al
lavoratore siano fornite le indicazioni necessarie ed essenziali per individuare i fatti addebitati nella loro
materialità.
3. Immutabilità: Necessaria corrispondenza tra addebito contestato e quello posto a fondamento
della sanzione disciplinare. La valutazione dei fatti da parte del datore non dev’essere modificata
nella sostanza; per cui se vi sono circostanze nuove che, in violazione del diritto di difesa, implicano
una diversa valutazione dei fatti addebitati, il principio di immutabilità è violato.

Istruttoria disciplinare: il lavoratore ha il diritto di essere sentito col fine di potersi difendere, ma il datore
non è obbligato a fissare una sorta di udienza per ascoltare le difese del lavoratore; non vi sono regole sullo
svolgimento dell’attività di difesa da parte del lavoratore. Va detto poi che a volte i contratti collettivi
introducono termini difensivi più ampi o comunque diversi da quelli previsti ex lege; l’assistenza sindacale
prima menzionata viene conferita tramite mandato. Lo Statuto introduce un importante termine di cinque
giorni con il co. 5 dell’art. 7: “In ogni caso, i provvedimenti disciplinari più gravi del rimprovero verbale, non
possono essere applicati prima che siano trascorsi cinque giorni dalla contestazione per iscritto del fatto
che vi ha dato causa”. Su quest’ultima norma si fronteggiano due tesi:
1. Il termine di 5 gg è perentorio e l’applicazione della sanzione prima del suo decorso è invalida, la
funzione di questi 5 gg è impedire il datore dal prevendere un provvedimento “a caldo”;
2. Il termine è a difesa, i 5 gg servono quindi al lavoratore a preparare la propria difesa. Naturalmente,
la soluzione preferita e consigliata è quella di aspettare comunque i 5 giorni.
L’applicazione della sanzione significa comunicazione del provvedimento.

21/03/2022

Oggi, dopo la l. Fornero, la comunicazione del licenziamento è contestuale alla comunicazione dei motivi,
ciò implica che prima di tale comunicazione vi sia stata contestazione dell’addebito; quindi, il datore nel
dare i motivi del licenziamento può anche richiamare la precedente contestazione.

Un caso problematico viene affrontato dalla Cassazione nel 2011: la mancata consegna di lettera
raccomandata contenente il licenziamento nelle mani del lavoratore in quanto il lavoratore è assente o lo
sono le altre persone abilitate a riceverle presso il domicilio dichiarato al datore. Qua la comunicazione si
presume conosciuta alla data in cui viene rilasciato l’avviso di giacenza presso l’ufficio postale.

LICENZIAMENTO DISCIPLINARE NEL SETTORE PUBBLICO


Sono due i motivi per cui ce ne interessiamo: innanzitutto per la privatizzazione del lavoro alle pubbliche
dipendenze 30 anni fa, ciò ha implicato e implica anche oggi l’utilizzo della contrattazione collettiva anche
nel settore pubblico; in secondo luogo, perché, per una serie di circostanze storiche, lo strumento
disciplinare in tale settore è sempre stato poco utilizzato (specie se si fa un confronto col settore privato).
Le regole disciplinari se prima erano pubbliche poi sono diventate di diritto privato, prima della riforma del
92/93 uno degli obiettivi era quello di riequilibrare le differenze tra lavoro pubblico e privato, ma nella
sostanza i due tipi di datori e i due tipi di interessi sono diversi, ne segue che anche dopo la riforma lo
strumento disciplinare è sottoutilizzato. La Riforma Brunetta nel 2009 si è posta l’obiettivo generico di
rivedere il diritto disciplinare sia nel settore pubblico che in quello privato, ma anche l’obiettivo specifico di
perseguire alcune condotte inadempienti dei pubblici dipendenti che si presentano importanti dal punto di
vista contrattuale, ma anche dell’immagine della p.a. italiana (e.g. assenteisti, c.d. “nullafacenti”, etc.).
Effettivamente dopo la Riforma Brunetta si fanno molti più procedimenti disciplinari e il tasso di
sanzionabilità dei pubblici dipendenti è aumentato (secondo l’Ispettorato del Lavoro che è stato istituito nel
2012).
Dopo la riforma il fondamento del potere disciplinare è diventato contrattuale, l’art. 5.2 del d. lgs.
165/2001 (TU del pubblico impiego), statuisce che “le determinazioni per l’organizzazione degli uffici e le
misure inerenti alla gestione dei rapporti di lavoro […] sono assunte in via esclusiva dagli organi preposti
alla gestione con la capacità e i poteri del privato datore di lavoro”.
Una differenza però col diritto del lavoro privato c’è nel rapporto tra le fonti, infatti l’art. 40.1 del TU
statuisce che nelle materie relative a sanzioni disciplinari la contrattazione collettiva è consentita nei limiti
previsti dalla legge, l’art. 55 poi stabilisce che la violazione dolosa o colposa di talune disposizioni indicate
presenti nel TU costituisce illecito disciplinare in capo ai dipendenti preposti alla loro applicazione.
Gli obiettivi espressi dalla riforma Brunetta in materia di lavoro pubblico sono due: 1. Potenziare l’efficienza
degli uffici (anche se il mezzo rappresentato dallo strumento disciplinare non ha propriamente questo fine);
2. Contrastare fenomeni di scarsa produttività e assenteismo (a quest’ultimo termine dovrebbe però essere
attribuito l’aggettivo “ingiustificato”).

Ciò che resta del diritto del lavoro privato è l’art. 2106 c.c. e, dato l’espresso richiamo di quest’ultimo
articolo, anche degli artt. 2104 e 2105 c.c. Ma quest’ultimo articolo, contenente l’attribuzione di capo al
lavoratore dell’obbligo di fedeltà, ha una connotazione particolare nelle p.a.: divieto per i dipendenti
pubblici di svolgere attività extra-istituzionale, sia presso un datore privato che presso un'altra
amministrazione. Vi è però almeno un’eccezione: Il dipendente pubblico part-time con tempo di lavoro
inferiore al 50% può svolgere un’altra attività, salvo che non vi siano situazioni di conflitto di interessi.
Anche nel settore pubblico si applica il criterio del notevole inadempimento per valutare la fondatezza del
licenziamento per GMS. Identico è anche l’impatto del principio di proporzionalità e quello dei fatti esterni
alla prestazione lavorativa che giustificano il licenziamento per GC (lo giustificano se ledono irrimediabilmente il
vincolo fiduciario tra le parti qualora abbiano un riflesso oggettivo sulla funzionalità del rapporto e compromettano le aspettative di
un futuro puntuale adempimento dell’obbligazione lavorativa).
Recentemente è stata introdotta una novità, assente nel diritto del lavoro privato: viene introdotto un
nuovo art. 63. c.2 bis nel TU che stabilisce il vizio di proporzionalità; questo ammette l’annullamento della
sanzione disciplinare per difetto di proporzionalità e la rideterminazione della stessa per opera del giudice.
Il giudice nel fare ciò tiene conto della gravità del comportamento e dello specifico interesse pubblico; la
novità è che non è necessaria la domanda (perché c’è la norma), quindi il giudice può operare d’ufficio, ma
fino ad adesso non ancora è stato visto fare molte volte.

Sempre rispetto alle condotte violate, l’art. 55.2 del TU stabilisce che esse e le rispettive sanzioni applicabili
sono disciplinate dai contratti collettivi.
Altra differenza interessante, che potrebbe essere estesa anche al settore privato, è l’equiparazione
dell’affissione in luogo visibile a tutti all’affissione telematica.
Vanno poi citati i codici di comportamento, che sono una serie di regole, che si affiancano a quelle
contenute nel codice disciplinare, che sono state introdotte nel nostro ordinamento col fine di limitare la
corruzione, quest’ultima non intesa solo in senso strettamente penalistico, ma anche come generale
malfunzionamento della p.a. e come commistione di interessi pubblici e privati. Oltre alle previsioni dei
codici di comportamento che, secondo il d.p.r. introduttivo, portano al licenziamento, è la riforma Brunetta
che individua una serie di condotte e illeciti che rappresentano motivi di licenziamento, appunto, ex lege:
importante differenza rispetto al settore privato dove, invece, le clausole “speciali” sono contenute nei
contratti collettivi. Nel pubblico, invece, vi è una esigenza politica di scrivere nelle norme di legge quali
siano le condotte che comunque (a prescindere dalla volontà della p.a.) portano al licenziamento, le
troviamo nell’art. 55 quater TU
 Falsa attestazione di presenza in servizio o giustificazione di assenza mediante certificazione medica
falsa (GC),
 Assenze ingiustificate in un arco temporale previsto dalla legge,
 Ingiustificato rifiuto di trasferimento per esigenze di servizio,
 Falsità ai fini dell’assunzione o delle progressioni (GC),
 Reiterate condotte aggressive, ingiuriose, minacciose o moleste (GC),
 Condanna definitiva per gravi reati (GC),
 Violazioni gravi o reiterate del codice di comportamento.
Ciò però è in contrasto col nostro sistema costituzionale che non ammette automatismi punitivi (se
esistessero sarebbe inutile riconoscere meccanismi di difesa in capo al lavoratore e gli stessi procedimenti
disciplinari). Infatti, la Cassazione dopo alcuni anni (in due sentenze del 2016) ammette che non sono
ammessi automatismi verso il licenziamento disciplinare nelle ipotesi ex art. 55 quater TU perché la
valutazione dell’amministrazione rispetto alla sanzione da irrogare deve muoversi dal caso concreto. Anche
la Corte costituzionale nel 2020 (Corte. Cost. 123/2020) si esprime su questi argomenti.
L’art. 55 quater limiterebbe però il licenziamento dei c.d. “fannulloni”, infatti è stata inserita una lett. f
quinquies alla stessa norma che, ai fini del licenziamento, menziona l’insufficiente rendimento dovuto alla
reiterata violazione degli obblighi concernenti la prestazione lavorativa che viene rilevato dalla costante
valutazione negativa della performance del dipendente per ciascun anno del precedente triennio.
Un’altra norma è stata inserita del 2016, prima della riforma Madia, ed è la c.d. “norma anti-furbetti del
cartellino” (molto sentita in politica, soprattutto per i fatti dei dipendenti pubblici di Sanremo), la norma
stabilisce che, a prescindere dalla modalità in cui avviene la condotta, qualunque modalità fraudolenta
volta a trarre in inganno l’amministrazione presso cui si lavora giustifica il licenziamento per giusta causa.
Se questa condotta si realizza poi in flagranza o mediante videosorveglianza dell’illecito, sono previste altre
sanzioni: sospensione entro 48h da parte del dirigente, procedimento disciplinare speciale (che dura 30 gg
invece dei canonici 120), responsabilità erariale per danno all’immagine. Sono suscettibili di punibilità
anche i dirigenti che, venuti a conoscenza dell’illecito disciplinare, non abbiano preso provvedimenti.

PROCEDIMENTO DISCIPLINARE
Titolarità del potere: La facoltà di muovere un rimprovero verbale è attribuita dai contratti collettivi al
dirigente (che è anche il titolare del potere disciplinare, secondo gli tessi contratti collettivi), per quanto
riguarda il licenziamento, invece, entra in gioco un particolare soggetto, l’U.P.D. (Ufficio Procedimenti
Disciplinari), l’importante è che sia individuato con un atto dalla p.a., esso dà l’idea di una terzietà (non
giuridica, ma) di fatto.
Da quando c’è l’art. 55 sexies co. 3 TU i procedimenti sono aumentati perché si è giunti ad una
consapevolezza che il mancato utilizzo dell’azione disciplinare comporta, a sua volta, una potenziale
punibilità per chi deve esercitare il potere. Questa norma ha portato la Cassazione a ritenere
l’obbligatorietà in capo all’U.P.D. ad avviare il procedimento disciplinare.

27/03/2023

Sulla base del forte input allo svolgimento dei procedimenti disciplinari dato dall’art. 55 del TU ne consegue
una forte articolazione dello stesso procedimento:
1. Dal momento in cui viene a conoscenza del fatto illecito il dirigente deve segnalarlo all’U.P.D.
entro 10 gg. salvo che si tratti di fatti particolarmente lievi;
2. L’Ufficio provvede alla contestazione che deve essere fatta entro 30 gg. dalla segnalazione o dalla
(diversa e piena) conoscenza del fatto; la contestazione dev’essere chiara e precisa (come nel
settore privato), la Cassazione interpreta in maniera molto formale il requisito della tempestività.
3. Step successivo è poi quello dell’audizione obbligatoria del dipendente, nelle p.a. l’audizione a
difesa non può essere svolta prima che siano decorsi 20 gg. dalla contestazione, contro i soli 5 del
settore privato, altra differenza con quest’ultimo è l’assistenza di un sindacalista o di un avvocato;
4. Segue l’istruttoria, a cui a sua volta può seguire l’archiviazione o l’applicazione della sanzione
disciplinare, quest’ultima va eventualmente applicata entro 120 gg. dalla contestazione di addebiti.
È stata introdotta una norma, l’art. 55 bis co. 9-ter che consente all’amministrazione di sanare vizi
procedurali (ciò non avviene nel settore privato), tutti i termini sono sanabili ad eccezione del termine per
la contestazione dell’addebito e di quello di chiusura del procedimento, un loro eventuale superamento
porta alla decadenza: si tratta quindi di termini perentori.

Nel settore pubblico viene poi affrontata una questione che si pone anche all’interno delle imprese: quella
di punire le fattispecie di reato e, quindi, quella del coordinamento tra procedimento disciplinare e
procedimento penale. Esso è affrontato dal c.p.p. pensando ad una autonomia dato che ci sono due
tipologie di interessi contrapposti: quella del buon andamento della p.a. e quella dello Stato ad esercitare
l’azione penale. La norma di riferimento è l’art. 653 c.p.p. che nella formulazione del 1988 aveva un solo
comma che statuisce che se il dipendente viene assolto sul versante penale per insussistenza dei fatti o
perché il fatto non costituisce reato o perché il dipendente non aveva commesso quei fatti, la stessa
sentenza penale irrevocabile di assoluzione ha efficacia di giudicato anche nel procedimento disciplinare.
Ma tutto cambia con Tangentopoli dove molti dipendenti pubblici furono assoggettati a procedimenti
penali per fenomeni di corruzione: la l. 97/2001 aggiunge un co. 1 bis che statuisce che laddove il dirigente
o il dipendente pubblico venga condannato in via definitiva per reati per cui vi siano anche procedimenti
disciplinari, la sentenza penale di condanna prevale e ha efficacia di giudicato nel giudizio per responsabilità
disciplinare. Il difetto di questa ricostruzione logica è costituito dai tempi lunghi della giustizia italiana;
infatti, la riforma Brunetta decide di correggere questo difetto e statuisce che il procedimento disciplinare
deve essere concluso anche prima dell’esito definitivo del procedimento penale e può essere sospeso solo
nei casi più complessi o carenti di prove e per le sanzioni maggiori (la responsabilità della scelta è
dell’U.P.D.), è possibile la riattivazione in caso di emersione di nuovi elementi.

Impugnazione: prima della riforma Brunetta vi era la possibilità di impugnare le sanzioni disciplinari, oltre
che di fronte al giudice, anche di fronte a collegi di conciliazione e arbitrato previsti dai contratti collettivi,
addirittura nel CCNQ del gennaio 2001 viene istituito un arbitro unico col fine di deflazionare il contenzioso,
ma la terzietà di questi arbitri era molto dubbia quindi sono stati destituiti. Vi sono due limiti alle procedure
di conciliazione: non possono riguardare licenziamenti (per essi si deve andare di fronte al giudice del
lavoro) e le sanzioni non possono essere derubricate.

Tutele: Come abbiamo anticipato, l’art. 18 St. Lav. è stato modificato di recente dalla riforma Fornero e dal
Jobs Act, ciò aveva portato ad un disordine interpretativo sulla fattispecie applicabile al lavoro pubblico per
ciò che riguarda la tutela applicabile in caso di licenziamento illegittimo. La Riforma Madia del 2017, quindi,
introduce una norma procedurale apposita per il lavoro pubblico: i dipendenti pubblici, a prescindere dal
vizio del licenziamento, hanno sempre diritto alla reintegrazione oltre che ad un risarcimento. Questa
novità della riforma Madia comporta una forte discrepanza tra lavoro pubblico e privato, la giustificazione
rispetto a questa disparità di trattamento viene data sia dalla ministra Madia che dalla Corte costituzionale
sotto forma di obiter dictum: i dipendenti pubblici sono differenti dai lavoratori privati perché accedono alla
propria occupazione con un concorso. Cassese poi, che ha scritto la suddetta sentenza, sottolinea come se
ci fosse solo la tutela risarcitoria ci sarebbe un doppio costo: quello risarcitorio e quello di assunzione di
nuovi dipendenti. Il difetto di questa tesi però emerge quando si verifica solo un vizio di procedura: a fronte
di gravissimi inadempimenti o addirittura di reati, la p.a. è costretta a riassumere il reo di fronte ad un vizio
di procedura, anche piccolo.

FORMA DI LICENZIAMENTO
Natura dell’atto: il licenziamento è un atto unilaterale recettizio che ha la funzione di produrre l’estinzione
del rapporto di lavoro allorquando pervenga a conoscenza del lavoratore. Agli atti unilaterali recettizi viene
applicata la disciplina dei contratti in generale, con una eccezione rappresentata dall’art. 1335 c.c.:
l’efficacia è, appunto, subordinata alla conoscenza dell’atto da parte del lavoratore, mentre nella disciplina
generale l’efficacia è subordinata alla sottoscrizione del contratto.

L’art. 2 l.604 prevede una forma tipica: quella scritta. Ci sono quattro ragioni: La responsabilizzazione
dell’impresa, la certezza di esistenza dell’atto, la collocazione temporale dell’atto (ciò è funzionale
all’impugnazione) e la cristallizzazione dei motivi (ai fini del controllo giudiziale). La regola della forma
scritta vale per il datore di lavoro, indipendentemente dal fatto che sia pubblico o privato; se non è
rispettata tale forma il licenziamento è inefficace. La forma scritta non vale per i casi residuali di
licenziamenti ad nutum, salvo il caso di licenziamento dei dipendenti.

Comunicazione del licenziamento: due modalità


1. Raccomandata con a. r.: la prova della data, anche in sede giudiziale, viene data dalla firma che
attesta il ricevimento della lettera; ma anche per la giacenza postale se la raccomandata non arriva
all’indirizzo di residenza. Ciò comporta un onere: quello del lavoratore di comunicare il cambio di
residenza o domicilio
2. Raccomandata a mani: meno diffusa. La firma del lavoratore equivale ad avvenuta trasmissione,
non ad accettazione dell’atto.

Caso emblematico è quello del licenziamento digitale, in particolare quello via SMS o WhatsApp, esso è
legittimo se vengono rispettate due condizioni: se è possibile risalire alla provenienza del messaggio e, se il
lavoratore impugna il licenziamento, si può dire che la forma ha raggiunto il suo scopo. Dice il Tribunale di
Catania nel 2017 che è legittima tale forma di licenziamento, allorquando dal testo si evinca la chiara
volontà del mittente di recedere dal rapporto e il messaggio sia con certezza riconducibile al datore.
Naturalmente, ciò non sostituisce il procedimento disciplinare.

Sottoscrizione e ratifica: Il licenziamento è sottoscritto dal datore, salvo che dalle deleghe aziendali risulti
che esso l’abbia delegato ad un altro soggetto munito di procura. Laddove non ci fosse una corretta
imputazione dell’atto di recesso in capo a chi non ne ha i poteri, tale vizio è sanabile con la ratifica del
datore di lavoro che ha effetto retroattivo ex art. 1399 c.c.

Occorre dare prova che il licenziamento esista, soprattutto ai fini della distinzione tra licenziamento e
dimissione. L’onere della prova incombe sul lavoratore e riguarda la prova dell’esistenza del licenziamento
quale fatto costitutivo dei diritti fatti valere.

Laddove il licenziamento sia privo della forma scritta, secondo il “nuovo” art. 18.1 St. Lav. il licenziamento
è dichiarato inefficace e, cosa più importante, dà luogo alla c.d. tutela forte: la reintegrazione nel posto di
lavoro. Oltre alla reintegrazione viene applicato anche il risarcimento del danno.

Il secondo requisito di carattere formale è quello del “nuovo” n. 2 dell’art. 2 l.604: la specificazione dei
motivi che hanno determinato il licenziamento. Prima della l. Fornero il licenziamento doveva essere
motivato, ma la motivazione non doveva necessariamente essere contestuale al licenziamento, anzi era il
lavoratore ad avere l’onere di richiedere i motivi se non venivano comunicati entro 10 gg. dalla
comunicazione del licenziamento. La legge Fornero modifica quindi questa anomalia e statuisce,
modificando l’art.2 l.604, che “la comunicazione del licenziamento deve contenere la specificazione dei
motivi che lo hanno determinato”. L’art. 1 co.41 l.92/2012 stabilisce che il licenziamento produce i suoi
effetti retroattivamente con decorrenza dalla comunicazione dell’avvio delle procedure e, alla lett. b, che se
nel frattempo il lavoratore ha lavorato, i giorni si considerano come di preavviso lavorato e retribuito.

Per ciò che riguarda il contenuto della comunicazione dei motivi, esso ricalca essenzialmente quanto
contenuto nella contestazione disciplinare: bisogna specificare quali siano i pretesi comportamenti illeciti,
anche facendo rinvio alla contestazione disciplinare; rispetto dell’immutabilità degli elementi che stanno
alla base della contestazione, ma quest’ultimo requisito non riguarda la qualificazione giuridica degli
elementi di fatto (che spetta al giudice); il procedimento disciplinare non deve concludersi con una
giustificazione espressa; le difese del lavoratore non impongono una replica; e, nel caso di licenziamento
per superamento del comporto, la Cassazione richiede che vengano anche segnalate le singole assenze
considerate.
Secondo l’art. 7 l.604, il licenziamento per GMO deve essere preceduto da un tentativo di conciliazione da
svolgersi dinnanzi l’Ispettorato del Lavoro: bisogna innanzitutto che il datore comunichi all’ITL e al
lavoratore l’intenzione di procedere al licenziamento per GMO, allegando i motivi e le eventuali misure di
assistenza alla ricollocazione. Entro 7 gg. l’Ispettorato convoca il datore e il lavoratore davanti la
commissione di conciliazione, se la conciliazione ha esito positivo il rapporto si risolve consensualmente e il
lavoratore ha diritto alla NASPI, se la conciliazione fallisce il datore può licenziare. La procedura non trova
però applicazione per i lavoratori assunti dopo il 7 marzo 2015.

28/03/2023

IMPUGNAZIONE DEL LICENZIAMENTO


Primo termine di decadenza: Prima del 2010 c’era un solo termine di decadenza di 60 gg entro il quale il
lavoratore doveva impugnare il licenziamento, ciò costituiva e costituisce una garanzia soprattutto per il
datore di lavoro, perché con tale impugnazione tempestiva egli ha modo di prepararsi ad un eventuale
contenzioso; una volta impugnato tempestivamente il licenziamento il lavoratore aveva poi 5 anni (termine
di prescrizione) per adire l’autorità giudiziaria.
Con il collegato lavoro del 2010 verrà introdotto un secondo termine di decadenza che si sostituisce al
termine di prescrizione quinquennale, obiettivo di questo nuovo termine è garantire migliore certezza
rispetto ai costi del licenziamento, questo è uno dei grandi temi che porteranno poi, come vedremo, alla
modifica dell’art. 18 St. Lav. con la legge Fornero. Il primo termine di decadenza viene confermato: l’art. 6
co.1 l.604 prevede tutt’ora che il lavoratore debba impugnare il licenziamento con qualsiasi atto, anche
stragiudiziale, idoneo a dimostrare la sua volontà di impugnare e, quindi, di opporsi al procedimento. I
requisiti dell’atto sono i seguenti:
 Non occorrono espressioni particolari, basta la volontà di impugnare;
 L’atto è recettizio, quindi dev’essere scritto e sottoscritto dal lavoratore o dall’avvocato tramite
procura scritta dallo stesso lavoratore;
 Se l’impugnazione proviene da una oo. ss. non è necessario il conferimento della procura dal
momento in cui il lavoratore ha già conferito mandato.
Questi passaggi ora descritti erano sufficienti prima della riforma

Secondo termine di decadenza: Come anticipato, oggi vi è un altro termine, introdotto prima col collegato
lavoro poi definito con la l. Fornero nell’art. 6 co.2 l. 604/1966. Il termine è di 180 gg. e decorre dal
momento in cui è stata fatta la prima impugnazione, entro questo termine il lavoratore deve depositare
ricorso nella cancelleria del tribunale territorialmente competente. Il termine in questione ha la funzione di
meglio ponderare anche i costi e i benefici, soprattutto per ciò che riguarda i costi legali dato che da molto
tempo si tende ad applicare il principio della soccombenza in maniera rigorosa, anche se a perdere è il
lavoratore (che, per forza di cose, ha una capienza minore rispetto al datore di lavoro, in modo particolare
se quest’ultimo è titolare di un’impresa di certe dimensioni). Questa ponderazione naturalmente sarà fatta
insieme all’avvocato del lavoratore, il termine è sufficientemente lungo per fare tali valutazioni, ma
sufficientemente breve per il datore di lavoro per sapere se vi sarà contenzioso su un dato licenziamento. Il
disegno complessivo è quello di un’accelerazione sulla certezza, disegno che poi sarà completato in qualche
modo dalla l. Fornero che introdurrà un nuovo procedimento destinato alle impugnazioni dei licenziamenti.
La decadenza opera per qualunque tipo di licenziamento, anche per quello nullo perché discriminatorio, ma
non per quello orale. Essa deve essere eccepita dal datore nella memoria di costituzione e non è rilevabile
d’ufficio. I termini non sono suscettibili di sospensione (e.g. per malattia, incapacità o errore). Secondo la
Cassazione, se l’impugnazione vien fatta con dichiarazione spedita con missiva raccomandata, essa è da intendersi
tempestivamente effettuata se la spedizione avviene entro 60 giorni dalla comunicazione del licenziamento o i relativi motivi (oggi
però la comunicazione dei motivi è contestuale a quella del licenziamento), anche se venga ricevuta oltre il termine menzionato.

Revoca del licenziamento: In tale ipotesi, che dev’essere effettuata entro 15 gg. dalla comunicazione del
licenziamento, l’art. 18 co.10 St. Lav. stabilisce che il rapporto si intende ripristinato senza soluzione di
continuità con diritto del lavoratore alla retribuzione maturata nel periodo precedente alla revoca e non
vengono applicati i regimi sanzionatori previsti dallo stesso art. 18, se il lavoratore non riprende servizio si
ha inadempimento contrattuale. La revoca è quindi diritto potestativo che non necessita di accettazione del
lavoratore.

Rinnovazione del licenziamento: In caso di reiterazione per gli stessi fatti, la giurisprudenza ammette che si
possa licenziare per gli stessi motivi contenuti in un primo atto di recesso anche se dichiarato nullo. Non
solo, il lavoratore può essere licenziato anche una seconda volta, dopo che la prima ipotesi di licenziamento
è stata revocata, e i motivi possono quindi essere rinnovati.
Inoltre, è possibile anche l’intimazione di un secondo licenziamento per fatti diversi da quelli allegati nel
primo licenziamento, la Cassazione qui stabilisce che entrambi sono idonei astrattamente a raggiungere lo
scopo della risoluzione del rapporto, dovendosi ritenere il secondo licenziamento produttivo di effetti solo
quando il primo sia riconosciuto invalido o inefficace.
Ma dopo le modifiche introdotte con la legge Fornero e il Jobs Act è previsto che il licenziamento adottato
senza esplicitazione dei motivi o con vizio procedurale produce comunque l’effetto di estinguere il rapporto
di lavoro (con condanna alla corresponsione di un’indennità risarcitoria): ne segue che il datore avrà
interesse alla rinnovazione solo nel caso del licenziamento orale.

LICENZIAMENTO ILLEGITTIMO: TUTELE E SANZIONI (I)


TUTELA OBBLIGATORIA  La prima tutela introdotta nel nostro ordinamento con la l.604, per imitazione
degli accordi interconfederali degli anni 50, è la tutela obbligatoria e, salvo alcuni piccoli ritocchi, la tutela
trova ancora collocazione nell’ art. 8 l.604. In questa disposizione vediamo un’obbligazione (ecco perché si
parla di tutela obbligatoria) alternativa da parte del datore di lavoro: riassunzione o indennità risarcitoria. I
parametri per valutare quest’ultima sono contenuti nella stessa norma: qualora il datore scelga di
corrispondere l’indennità risarcitoria, l’importo è compreso tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 6
mensilità dall’ultima retribuzione globale di fatto “avuto riguardo al numero dei dipendenti occupati, alle
dimensioni dell'impresa, all'anzianità di servizio del prestatore di lavoro, al comportamento e alle
condizioni delle parti. La misura massima della predetta indennità può essere maggiorata fino a 10
mensilità per il prestatore di lavoro con anzianità superiore ai dieci anni e fino a 14 mensilità per il
prestatore di lavoro con anzianità superiore ai venti anni, se dipendenti da datore di lavoro che occupa più
di quindici prestatori di lavoro”).
La scelta dell’obbligazione è rimessa al datore di lavoro, salvo diversa determinazione delle parti, ma in caso
di riassunzione è necessario il consenso del lavoratore.
Il termine perentorio per la riassunzione è di 3 gg., è un termine decisamente molto breve. La riassunzione
corrisponde, appunto, a nuova assunzione; il licenziamento è quindi idoneo ad estinguere il rapporto di
lavoro, seppur ingiustificato o privo di requisiti formali. È però ragionevole che debbano essere conservate
mansioni e la precedente posizione di lavoro, nonché il trattamento retributivo e l’anzianità.
L’indennità risarcitoria comprende di base tutti i danni (senza necessità che siano particolarmente provati)
derivanti dal licenziamento, salvo danni che abbiano titolo autonomo, essa è rimessa alla valutazione del
giudice del lavoro attraverso l’applicazione di criteri contenuti, come già detto, nell’art. 8 l. 604 e che sono
stati poi aggiornati col collegato lavoro all’art. 30 c.3: l’aggiornamento in questione è di tipo economico e
tiene essenzialmente in considerazione le condizioni di mercato in cui opera l’impresa.

TUTELA REALE  Ma la l. 300/1970 (appunto, lo Statuto dei diritti dei Lavoratori) introdurrà, con l’art. 18,
una nuova tutela di tipo reintegratorio denominata tutela reale che viene “riservata” a quelle imprese che
hanno una certa capacità occupazionale (più di 15 dipendenti in ogni sede, reparto, filiale, etc., 5 in caso di
datore di lavoro agricolo) e che si applica a prescindere da quale sia il vizio del licenziamento. Qui il datore
di lavoro non ha più un’obbligazione alternativa, ma due obbligazioni: quella reintegratoria e quella
risarcitoria, quest’ultima è commisurata alla retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento fino a
quello dell’effettiva reintegrazione e al versamento dei contributi assistenziali e previdenziali maturati nello
stesso periodo, in ogni caso la misura del risarcimento non può essere inferiore alle 5 mensilità. Quindi, in
un certo senso, l’indennità è commisurata al comportamento del datore di lavoro ed è volta a far
reintegrare subito il lavoratore quando il giudice del lavoro dichiara l’illegittimità del licenziamento (e
ordina contestualmente la reintegrazione).
La Corte costituzionale renderà ancora più robusta tale tutela reale al momento in cui andrà a scrivere la
teoria del c.d. “parallelismo delle tutele”: la corte riconosce che, anche nei luoghi dove il datore di lavoro
non è tenuto a dare il motivo di licenziamento, ma è comunque prevista una procedura, viene applicata la
tutela reintegratoria; in altre parole, il discrimine tra applicazione della tutela reale e quella obbligatoria è
la soglia occupazionale (se si hanno meno di 15 dipendenti in ogni sede, reparto, etc. segue la tutela
obbligatoria, più di 15 quella reale).

Quindi, nel 1970 ci troviamo ad avere due tipologie di tutele in caso di licenziamento illegittimo, le più forti
in Europa in materia di licenziamento, l’effetto dell’introduzione della tutela reale ha quindi il pregio di
rafforzare in maniera significativa la posizione del lavoratore e di renderla indubbiamente più stabile.
Ma la legge Fornero modificherà questo assetto, la ragione sta in esigenze di tipo economico e giudiziale,
per quest’ultimo motivo si è criticato l’utilizzo improprio del giudice del lavoro dell’art. 18 St. Lav., nel senso
di creare troppi oneri in capo al datore di lavoro, complice anche la lunghezza dei processi. Obiettivi della
riforma sono anche quelli di una maggiore flessibilità in entrata e soprattutto in uscita che poi saranno
ripresi in maniera più diffusa dal Jobs Act. Va detto che sull’art. 18 la dottrina aveva già avuto modo di ridire
qualcosa, ma non sono mancati elogi: da una parte veniva definito come il male del mercato del lavoro,
dall’altra come la madre delle tutele.

5/04/2023

Certamente la tutela reintegratoria almeno tre difetti li presenta:


1. L’art. 18 è una norma processuale, per tale motivo soffre dei malanni del processo civile e in
particolare dell’eccessiva durata dello stesso. Dato che il risarcimento del danno va dal momento
del licenziamento a quello dell’effettiva reintegrazione, laddove tra questi due momenti si collochi
un processo che segua tutti e tre i gradi del giudizio e che veda il datore soccombere in Cassazione
dopo aver vinto nei due precedenti gradi di giudizio, la conseguenza inevitabile è che il risarcimento
diventa estremamente oneroso;
2. Il risarcimento del danno soffre delle condizioni del mercato del lavoro e può avere
rappresentazioni diverse se il legislatore non pone tetti minimi o massimi alla sua entità, ciò
impedisce al datore di prevedere quale possa essere il costo finale del licenziamento sbagliato.
3. La reintegrazione, che consiste in un obbligo di fare, non è coercibile (a differenza delle obbligazioni
di dare, in particolare quella di corrispondere la retribuzione). Conseguenza è che, sebbene vi sia un
ordine del giudice, una reintegrazione effettiva potrà anche non esserci; certo il datore dovrà
continuare a pagare il lavoratore non effettivamente reintegrato, ma lo strumento viene
depotenziato quale massima espressione di tutela.
Date queste premesse, nel momento in cui l’ordinamento comunitario ci chiede dei sacrifici per mantenere
alcuni parametri di carattere macroeconomico imposti ai paesi UE, è proprio l’art. 18 St. Lav. che risulta più
interessato dagli interventi legislativi.

LEGGE FORNERO
Interviene quindi nel 2012 la legge Fornero su diversi fronti, tra i quali la materia pensionistica e i
meccanismi d’ingresso nel mercato del lavoro; in realtà inizialmente lo spirito della legge era quello di
intervenire sui licenziamenti economici che riguardassero motivi d’impresa dato che era un periodo in cui le
imprese erano in forte difficoltà a causa della crisi; l’obiettivo era quindi quello di incentivare una migliore
occupazione attraverso una politica meno rigorosa in materia di licenziamento. Entra in gioco anche il tema
della certezza dei rapporti e delle soluzioni giudiziali, la l. Fornero decide di confermare il doppio termine di
decadenza (il primo di 60 gg con atto anche stragiudiziale per portare a conoscenza del datore l’intenzione
di impugnare, il secondo di 180 gg per depositare il ricorso d’impugnazione del licenziamento nella
cancelleria del tribunale del lavoro territorialmente competente ovvero per promuovere il tentativo di
conciliazione o di arbitrato, v. supra).

L’intervento legislativo si concentra quindi sull’art. 18, principi di tale intervento sono 4:
1. in primo luogo, viene cambiata la rubrica della disposizione: si passa da “reintegrazione nel posto
di lavoro” a “tutela del lavoratore in caso di licenziamento illegittimo”; chiaro intento è quello di
ridimensionare la reintegrazione quale tutela in caso di licenziamento illegittimo e, per contro, ad
esaltare il ruolo del risarcimento.
2. Mantenere le ragioni di illegittimità del licenziamento (vizi formali, procedurali, mancanza di
giustificazione, altri casi previsti dalla legge),
3. Fermi i vizi, le tutele vengono scomposte a seconda della qualità e della gravità del vizio (scopo è
sempre quello di restringere la tutela reintegratoria), rispetto alla idea iniziale quindi la legge
Fornero non si occupa solo del licenziamento economico e delle relative tutele.
4. Viene svalutato, quindi prevalentemente risarcito, il vizio procedurale, in particolare quando si
tratta di licenziamenti per ragioni economiche.

AMBITO DI APPLICAZIONE
Non cambia l’ambito di applicazione disciplinato dal co.8: l’art. 18 continua ad applicarsi al datore di lavoro
imprenditore o non imprenditore che in ogni sede, stabilimento, ufficio, filiale, reparto autonomo dove ha
avuto luogo il licenziamento occupi più di 15 dipendenti, 5 nel caso di imprenditore agricolo; nonché al
datore che nell’ambito dello stesso comune superi le stesse soglie occupazionali (anche se una o alcune
delle unità produttive non arrivino a 5 o 15 dipendenti); infine, e in ogni caso, al datore che occupi più di 60
dipendenti.

È giustificata la scelta di dare tutele forti al superamento delle predette soglie e tutele meno forti quando
esse non vengano superate? La Consulta si è già pronunciata al riguardo negli anni ’80 (Corte. Cost.
2/1986), in quella occasione statuì come la questione di legittimità costituzionale fosse infondata in quanto
le ragioni che hanno portato il legislatore a tale differenziazione fossero ragionevoli. Le ragioni in questione
sono le seguenti: a. rapporto datore-lavoratore e l’elemento fiduciario che lo permea, b. costi meno
sostenibili per le piccole imprese e c. tutela dei lavoratori che svolgono attività sindacale.

Ma bisogna porsi due quesiti: 1. Nell’era del lavoro digitale il criterio occupazionale è ancora un effettivo
indicatore della capacità economica dell’impresa? 2. Il concetto di unità produttiva è ancora attuale nella
moderna organizzazione dell’impresa?
La giurisprudenza si è espressa al riguardo, innanzitutto si esprime sull’aggettivo “autonomo” e sul concetto
di unità produttiva: In una sentenza del 1997 la Cassazione dice che un’unità produttiva “può ritenersi
dotata di autonomia se caratterizzata da sostanziali condizioni imprenditoriali di indipendenza tecnica ed
amministrativa, tali che in essa si esaurisca per intero il ciclo produttivo o una frazione o un momento di
esso” (Cass. sez. lav. 11092/1997). Il problema può porsi in caso di imprese che collaborano attraverso
collegamenti societari, in tale situazione si hanno imprese capogruppo e costellazioni di imprese
formalmente autonome ma che poi rispondono alle capogruppo, nel diritto del lavoro è ancora
particolarmente forte il confine formale dato dall’autonomia giuridica delle società anche se esse sono
collegate tra gruppi d’impresa; la sentenza n. 2831/1990 della Cassazione statuisce al riguardo che la
disciplina legislativa su società tra loro collegate, contenuta nel c.c. e nella legislazione speciale, non
permette di riconoscere nell’attività di gruppo un valore giuridicamente rilevante per talune finalità, in
primis per ciò che riguarda la costituzione, la gestione e la risoluzione dei rapporti di lavoro, la rilevanza dei
rapporti di gruppo è limitata alle sole specifiche ipotesi alle quali si riferisce esplicitamente, di volta in volta,
il legislatore. Chiaro che se poi nei fatti vi sia l'utilizzazione contemporanea delle prestazioni lavorative da
parte delle varie società titolari delle distinte imprese, che è desunta da elementi probatori come
l'inserimento del lavoratore ricorrente nelle poste economiche passive delle due società, la congiunta
gestione delle sorti del rapporto di lavoro del medesimo, oltre che sulla scorta della considerazione delle
due società come un unico datore, allora vi è un collegamento giuridicamente rilevante e ciò incide anche ai
fini del raggiungimento delle soglie in materia di licenziamento (Cass. sez. lav. 5496/2006).

ECCEZIONI ALL’APPLICAZIONE DELL’ ART. 18 CO.8:


 Tutela obbligatoria ex art.8 l. 604 che, come abbiamo visto, prevede un’obbligazione alternativa:
riassunzione o corresponsione di un’indennità risarcitoria. Si applica nei seguenti casi
o Datori che abbiano meno di 15 dipendenti nelle u. p. autonome (5 per quelli agricoli)
o Datori sotto i 60 dipendenti che non abbiano nel comune, anche su più u. p., più di 15
dipendenti
o Organizzazioni di tendenza: quelle che, come statuisce l’art. 4 l.108/1990, «svolgono senza
fini di lucro attività di natura politica, sindacale, culturale, di istruzione ovvero di religione o
di culto», quindi sono compresi, tra gli altri, i partiti politici, i quotidiani/periodici, i media
politicamente orientati, istituti religiosi e quelli rieducativi se hanno una determinata
connotazione. La tutela obbligatoria qui si applica sempre.
La Cassazione stabilisce quali siano i criteri per valutare se si sia effettivamente di fronte ad
un’organizzazione di tendenza e, quindi, se si debba disapplicare l’art. 18 St. Lav.:
 In una sentenza del 2004 (Cass. sez. lav. 1367/2004) fa riferimento ai criteri del tipo
di organizzazione e di attività svolta e all’economicità della gestione;
 Mansioni svolte dal lavoratore: in una sentenza del ’94 (Cass. sez. lav. 5832/1994)
la S.C. stabilisce che, in tema di organizzazioni di tendenza, il licenziamento
ideologico è lecito negli stretti limiti in cui sia funzionale a consentire l’esercizio di
altri diritti costituzionalmente garantiti e nelle sole ipotesi in cui l’adesione
ideologica costituisca requisito della prestazione. In particolare, con riferimento a
scuole gestite da enti ecclesiastici, l’esigenza di tutela della tendenza confessionale
dell’istituto si pone solo in relazione a quegli insegnamenti caratterizzanti tale
tendenza.
 È salva però l’applicabilità dell’art. 3 l.108/1990 nell’ipotesi da esso
regolata: si estende la tutela reale ai licenziamenti nulli in quanto
discriminatori o determinati da motivo di ritorsione o rappresaglia e ciò a
prescindere del numero dei lavoratori occupati e dalla categoria del
dipendente (Cass. sez. lav. 19695/2016). Ne segue che al licenziamento
discriminatorio segue sempre la tutela reintegratoria.
 Casi di licenziamento ad nutum previsti dalla legge (già son stati elencati, v. supra o slide n. 31),
salvo il caso in cui si riesca a provare che il licenziamento è nullo perché discriminatorio, in tal caso
si applica la tutela reintegratoria ex art. 18 co.1

CONTENUTI DELLE TUTELE:


REINTEGRAZIONE  diversa dalla riassunzione, quest’ultima significa che l’atto di recesso, pur essendo
invalido, ha avuto la forza giuridica di risolvere il rapporto di lavoro; mentre nel caso della reintegrazione il
rapporto non si è mai interrotto; quindi, il lavoratore riprende la propria attività e il rapporto viene
riattivato dal momento in cui il dipendente è stato licenziato. Il datore riceve, con sentenza, un ordine
giudiziale di reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro; il datore deve formalmente invitare il
lavoratore a riprendere servizio attraverso, appunto, l’invito che è un atto unilaterale recettizio e che quindi
assume efficacia nel momento in cui il lavoratore lo riceve; deve farlo entro 30 gg e se il lavoratore non
adempie a tale invito il rapporto deve intendersi come integralmente risolto. La reintegrazione avviene nel
medesimo posto occupato dal lavoratore al momento del licenziamento, salva la facoltà del datore di
esercitare lo ius variandi nei limiti stabiliti dall’art. 2103 c.c. Il problema però è quello dell’incoercibilità
dell’obbligo di fare che incombe sul datore, cioè quello della reintegrazione; qualche giudice ha cercato di
utilizzare strumenti coercitivi come quelli ex artt. 388 e 650 c.p. per il mancato rispetto di ordini dati da
organi giudiziari, altri hanno ritenuto legittimo ricondurre il lavoratore in azienda da parte della polizia
giudiziaria obbligando il datore a reinserire il lavoratore nel libro unico del personale, ma nessun giudice si
è mai spinto ad affermare che la PG possa attribuire le mansioni ad un lavoratore. Funziona, ma fino ad un
certo punto, la teoria dell’astreinte: Se il datore non fa riprendere servizio al dipendente deve continuare a
corrispondergli la retribuzione. Da tutte queste premesse segue la tesi per cui la reintegrazione, a volte,
non è sanzione così forte.

RISARCIMENTO DEL DANNO  Nel vecchio art. 18 non poteva essere inferiore a 5 mensilità, mentre nel
“nuovo” ha bisogno di un parametro di determinazione che è costituito dalla retribuzione e vi sono minimi
e massimi edittali diversi a seconda di quale sia il vizio del licenziamento. Parametro stabilito con maggiori
incertezze nella vecchia norma, perché si parlava di “retribuzione globale di fatto”, e con maggior
precisione nella nuova che parla di “ultima retribuzione globale di fatto”. Questa nozione è
tendenzialmente omnicomprensiva in quanto con essa si intende tutto ciò che percepisce il lavoratore in
ragione del rapporto di lavoro, con esclusione sostanzialmente dei rimborsi spese. Ancora più precisa, come
vedremo, è l’indicazione-parametro fornita dal d. lgs. 23/2015 nell’ambito del contratto a tutele crescenti:
essa parla di retribuzione utile al TFR e l’art. 2120 c.c. stabilisce esattamente quali siano le componenti della
retribuzione sul quale calcolare il TFR.
Le novità della legge Fornero rispetto ai criteri della commisurazione dell’indennità risarcitoria rispetto alla
vecchia formulazione dell’art. 18 sono:
1. Previsione di limiti minimi e massimi a seconda del vizio che viene accertato dal giudice con
riguardo al licenziamento, vi è quindi in questa fase un limite alla discrezionalità del giudice;
2. È possibile accertare la risarcibilità di ulteriori danni collegati (patrimoniali ed extrapatrimoniali) al
licenziamento illegittimo, se il lavoratore riesce a provarli. Tutto ciò vien fatto nello stesso giudizio
in cui viene accertato il vizio del licenziamento e in questa fase il giudice gode di maggiore
discrezionalità.
3. Inoltre, se il lavoratore, nelle more del giudizio, ha percepito altro reddito dallo svolgimento di altre
attività lavorative, il risarcimento verrà riconosciuto ma deducendo l’aliunde perceptum, ciò
perché esso ridimensiona il danno percepito dal lavoratore, anche se la prova è abbastanza difficile;
4. Viene dedotto anche l’aliunde percepiendum (e questa è la vera novità della legge Fornero) cioè le
utilità che il lavoratore avrebbe percepito se si fosse con diligenza messo alla ricerca di una nuova
occupazione, anche se qui la prova è sostanzialmente impossibile, però si è soliti calcolarlo sulla
base delle offerte di lavoro congrue rifiutate dal lavoratore licenziato.
5. Nel caso in cui il lavoratore venga reintegrato e, quindi nel caso in cui il licenziamento sia nullo,
oltre alla corresponsione dello stipendio, egli ha diritto al versamento dei contributi per tutto il
periodo in cui non ha svolto la prestazione lavorativa.

17/04/2023

Licenziamento nullo  Nei casi di licenziamento nullo perché discriminatorio, illecito o inefficace perché
privo di forma scritta, secondo l’art. 18 c.1-3 St. Lav. si applica la tutela reale piena: il giudice ordina al
datore di lavoro la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, indipendentemente dal numero di
dipendenti occupati dal datore, dal motivo formalmente addotto e se si è di fronte a lavoratori per cui non
è prevista alcuna tutela di legge. Il giudice condanna altresì il datore alla corresponsione di un’indennità
risarcitoria commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto ed equivalente al periodo di illegittima
estromissione, non inferiore alle 5 mensilità e dedotto l’aliunde perceptum, e al versamento dei contributi
previdenziali e assistenziali e alle sanzioni per omesso o ritardato versamento contributivo. Secondo l’art.
18 co.3, al lavoratore è data la facoltà di scegliere, in alternativa alla reintegrazione (e quindi in aggiunta al
risarcimento del danno), un’indennità di 15 mensilità che non è soggetta a contribuzione. La richiesta va
fatta entro 30 gg dalla comunicazione del deposito della sentenza o, se anteriore alla predetta
comunicazione, dall’invito del lavoratore a riprendere servizio.
Sin dal primo momento si è sviluppato un dibattito sulla dimostrazione della discriminatorietà perché essa
assume un ruolo fondamentale nel sistema e nella prospettiva del lavoratore. Ciò porta ad un affinamento
del concetto di discriminazione con un allargamento dell’area coperta dai licenziamenti ritorsivi o per
motivo illecito. il Tribunale di Milano nel 2013 (sentenza già vista, v. paragrafo sul licenziamento nullo)
statuisce che per ritenere un licenziamento discriminatorio c’è bisogno di un quid pluris, cioè la prova che in
assenza di un’obiettiva ragione di licenziamento, la scelta del lavoratore sia stata dettata da un’ingiustificata
differenza di trattamento che trova la sua ragion d’essere in una delle fattispecie discriminatorie tipizzate.
Aggiunge che il licenziamento discriminatorio è quello fondato su un motivo odioso.

Licenziamento ingiustificato  Secondo il co.4 dell’art. 18, nel caso in cui il giudice accerti che non
sussistano gli estremi del GMS o GC addotti dal datore, per insussistenza del fatto o perché esso costituisce
condotta punibile con sanzione conservativa secondo contratti collettivi o codici disciplinari d’azienda,
ordina la reintegrazione nel posto di lavoro, l’alternativa possibile alla reintegrazione è la corresponsione di
un’indennità sostitutiva di 15 mensilità. Viene poi corrisposta un’indennità risarcitoria pari al periodo di
illegittima estromissione ma non superiore a 12 mensilità dedotti aliunde perceptum e percepiendum e i
contributi maturati nel periodo di estromissione, nella misura del differenziale tra contributi spettanti e
quelli già accreditati per altre attività nel medesimo periodo.
Ciò che ha causato maggiori dubbi interpretativi è la questione dell’insussistenza del fatto perché
problematica, di seguito alcuni dubbi:
 I fatti non sono sempre facilmente isolabili e scomponibili in diversi elementi, alcuni essenziali e
altri no;
 A volte i fatti son più di uno e non è chiaro se il venir meno di quello principale faccia considerare
insussistenti anche gli altri;
 Non sempre i fatti sono catalogabili in sussistenti e insussistenti;
 A volte il fatto è prevalentemente ancorato ad un profilo valutativo (e.g. lo scarso rendimento)
Come risolverlo? Vi sono due tesi:
1) Insussistenza del fatto materiale: Il fatto è scisso in fatto materiale e giuridico (oggetto di due
distinte valutazioni del giudice), basterebbe la verifica dell’insussistenza del fatto materiale per
poter accordare la tutela reintegratoria. In tutti gli altri casi si accerta o la legittimità del
licenziamento o l’assenza di GC o GM applicando la sola tutela risarcitoria;
2) Fatto interpretato in chiave unitaria: il fatto dev’essere interpretato in chiave unitaria e, quindi,
come fatto giuridico sostanzialmente riconducibile all’inadempimento o comunque tra le condotte
punibili previsti dai codici disciplinari con valutazione della proporzionalità.
La seconda tesi è stata fatta propria dai giudici per lo meno all’inizio, tra questi il tribunale di Bologna
nell’ottobre 2012 (la riforma Fornero era stata emanata a luglio) e quello di Ravenna nel 2013. La
Cassazione nel 2014 però, in un obiter dictum, sposa la prima tesi e stabilisce che la verifica si risolve
nell’individuazione della sussistenza o meno del fatto materiale, esulando ogni valutazione sulla
proporzionalità tra sanzione rispetto alla gravità del fatto addebitato. In realtà questa pronuncia è isolata
perché nel 2020 si esprime seguendo la seconda e lo stesso farà nel 2021.
Un’altra questione si pone rispetto alla non corrispondenza del fatto accertato e della relativa sanzione
alle previsioni dei codici disciplinari dei contratti collettivi. Le posizioni della giurisprudenza sono rigorose:
nel 2019 la Cassazione dice che solo nel caso in cui il fatto contestato sia espressamente previsto da un
contratto collettivo come punibile con una sanzione conservativa allora il licenziamento illegittimo sarà
meritevole della tutela reintegratoria. In realtà queste posizioni rigide sono mutate negli ultimi mesi, in
particolare nello scorso febbraio la Cassazione stabilisce che la condotta possa essere sussunta nella
previsione contrattuale che, con clausola generale ed elastica, punisca l’illecito con sanzione conservativa
ma restando nei limiti dell’attuazione del principio di proporzionalità (come eseguito dalle parti sociali
attraverso la previsione nel contratto collettivo) e sempre che la condotta sanzionata sia riconducibile alla
nozione legale di GC.
“Altre ipotesi”  Nelle “altre ipotesi” interviene il co.5 dell’art. 18 contenente la tutela economica forte: il
giudice in altre ipotesi in cui accerta che non ricorrono gli estremi del GMS o della GC addotti dal datore,
dichiara risolto il rapporto di lavoro con effetto dalla data del licenziamento e condanna il datore al
pagamento di un’indennità risarcitoria omnicomprensiva che può andare da 12 a 24 mensilità dell’ultima
retribuzione globale di fatto. Secondo la Cassazione, il difetto di proporzionalità non porta più alla
reintegrazione, a meno che sia il contratto collettivo a disciplinare quel fatto contestato come punibile con
sanzione conservativa.

Violazioni procedurali  Tutela economica debole (art. 18.6): il rapporto è dichiarato risolto e viene
corrisposta un’indennità risarcitoria commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto in una cornice
compresa tra 6 e 12 mensilità in relazione alla gravità della violazione (qui la disposizione rimanda al co.5, ma
stabilisce un tetto massimo diverso). Si applica in caso di violazione delle procedure ex artt. 7 St. Lav. e 7 l. 604. Se
però vi è anche un difetto di giustificazione del licenziamento, si applica la tutela ripristinatoria attenuata ex
co.4: ciò si ha, secondo la giurisprudenza della Cassazione, quando vi è un radicale difetto della
contestazione dell’infrazione (che determina l’inesistenza dell’intero procedimento disciplinare), ovvero
quando la descrizione sulla condotta tenuta dal lavoratore sia generica, imprecisa e insufficiente.

Si dibatte sul quale sia la tutela applicabile in caso di mancanza di tempestività della contestazione
disciplinare. Nel 2014 la Sez. Lav. della Cassazione stabilisce che va applicata la sola tutela risarcitoria, nel
2017 invece stabilisce che un fatto non tempestivamente contestato dev’essere considerato come
insussistente ai sensi dell’art. 18 e, quindi, va applicata la tutela reintegratoria ex co.4; nel 2022 invece le
Sezioni Unite dicono che va applicata la tutela indennitaria forte ex co.5. Ma la “disobbedienza” da parte
dei giudici di merito continua: il Tribunale di Ravenna nel 2022 non ritiene che vada applicata la tutela
indennitaria forte come stabilito dalla Cassazione, va invece applicata la tutela reintegratoria in quanto il
fatto tardivamente contestato è un fatto insussistente.

Mancanza del GMO  Come stabilito dal co.7 dell’art. 18, nel caso in cui il motivo oggettivo sia
manifestamente insussistente o quando manchi la giustificazione rispetto all’inidoneità fisica o psichica
del lavoratore, trova applicazione la sanzione della reintegrazione ex co.4; invece, nelle altre ipotesi in cui
manchi il motivo oggettivo si applica la tutela risarcitoria prevista dal co.5 (12-24 mensilità).
Il vero problema qui sta quando il legislatore parla di “manifesta insussistenza del fatto” che determina il
motivo oggettivo del licenziamento, l’aggettivo manifesta rappresenta il discrimine tra tutela reintegratoria
e quella solo risarcitoria.

18/04/2023

Le SU della Cassazione nel 2018 statuiscono che se il licenziamento è viziato per mancato superamento del
periodo del comporto esso è nullo perché viola una norma imperativa di legge, quella ex art. 2110 c.2 c.c.
(non mi è chiaro però se vada applicata la tutela reintegratoria piena ex art. 18 c.1-3 in quanto il licenziamento è nullo o quella
attenuata ex co. 4 perché l’art. 18 co.7 dice che per violazione dell’art. 2110 co.2 c.c. va applicata la tutela ex co.4).
Rispetto alla problematica questione della manifesta insussistenza del fatto ex art. 18 co.7, si può
richiamare una sentenza del Tribunale di Latina del 2013: in essa emerge che il fatto posto alla base del
GMO di licenziamento fu ritenuto manifestamente insussistente perché nel caso di specie la società
operava su solide basi economiche e patrimoniali e il motivo indicato nella lettera risolutiva del rapporto
era estremamente generico; pertanto a ciò seguì la reintegrazione del lavoratore sul posto di lavoro e il
pagamento di un’indennità. Così anche la Cassazione nel 2017: ai fini dell’applicabilità dell’art. 18.7, il
giudice deve verificare se sia esistente o meno il fatto posto alla base del licenziamento, se inesistente
applica la reintegra, se esiste ma non configura GMO di licenziamento applica la sola tutela indennitaria
(Grazia, Graziella, …).
Poi la Cassazione nel 2016 analizza il caso di licenziamento per GMO accertato come illegittimo per
violazione di correttezza e buona fede nella scelta del lavoratore da licenziare nell’ambito di posizioni
lavorative omogenee e fungibili: qui le ragioni inerenti all’attività produttiva, al regolare funzionamento di
essa e all’organizzazione del lavoro ex art. 3 l.604 non possono dirsi manifestamente insussistenti, va quindi
applicata la sola tutela indennitaria forte ex art. 18 co.5.
Ad ogni modo, la Corte costituzionale nel 2022 (Corte cost. 125/2022), dichiara costituzionalmente
illegittima la norma di cui all’art. 18 co. 7 come modificata dalla l. Fornero relativamente alla parola
“manifesta”, questo perché comporta incertezze applicative e può condurre a soluzioni difformi, in altre
parole ne deriverebbero ingiustificate disparità di trattamento e ciò cozza con l’art. 3 Cost. Il requisito della
manifesta insussistenza, proseguendo col ragionamento operato dalla Corte, comporta una valutazione
giudiziale sfornita di ogni criterio direttivo e per di più priva di un plausibile fondamento empirico. Quindi, si
tratta di sapere se il motivo oggettivo c’è o non c’è, le conseguenze della pronuncia della Corte sono
queste: dove il giudice accerti l’insussistenza (semplice e non più manifesta) del fatto, segue la tutela
reintegratoria ex art. 18 co.4.

Per ciò che concerne il tema del ripescaggio, ci si chiede se la mancata prova di esso comporti
l’applicazione della tutela indennitaria o di quella reintegratoria.
Il tribunale di Milano nel 2012 applicò la sola tutela indennitaria perché ritenne insussistente il GMO (ma
non manifestamente) dato che il datore, prima di recedere dal contratto, non fornì la prova della verifica
rispetto alla possibilità di ricollocazione del dipendente all’interno dell’azienda. Anche la Cassazione si
pronuncia nel 2019 e stabilì l’applicazione della tutela risarcitoria perché l’insufficienza probatoria rispetto
all’obbligo di ripescaggio non era sintomo di una manifesta insussistenza del fatto.
Ma in altre due pronunce del 2022 la Cassazione si mostra a favore della tutela reintegratoria: stabilisce
che la reintegrazione che segua all’insussistenza del fatto posto alla base del licenziamento per GMO
dev’essere disposta anche ove manchi la prova del solo ripescaggio; ciò è sicuramente dovuto alla
pronuncia dalla Corte costituzionale dello stesso anno (appunto, quella che dichiarò incostituzionale il termine
“manifesta” contenuto nell’art. 18 co.7)

LICENZIAMENTO ILLEGITTIMO: TUTELE E SANZIONI (II)


CONTRATTO A TUTELE CRESCENTI
Il legislatore del Jobs Act introduce il contratto a tutele crescenti (d’ora in avanti CTC) con il d. lgs. 23/2015.
Gran parte della disciplina del Jobs Act verte sui licenziamenti e sulle tutele che seguono al licenziamento
illegittimo. La differenza principale tra i due macro-interventi legislativi sta nel fatto che La legge Fornero si
è occupata principalmente di questioni previdenziali e della modifica dell’art. 18, il contratto a tutele
crescenti si inserisce in un progetto di riforma più ampio che occupa più aspetti.
Obiettivi principali del Jobs Act:
1. Correggere la legge Fornero, si ritiene che essa non abbia adempiuto alle promesse fatte,
soprattutto per quanto riguarda la certezza dell’applicazione delle tutele che seguono il
licenziamento illegittimo;
2. Introdurre ulteriori dosi di flessibilità in uscita nel mercato del lavoro (in soldoni: rendere più facile
il licenziamento);
3. Necessità di maggiore certezza sui costi del licenziamento e dell’applicazione giudiziale delle tutele;
4. Minore flessibilità in entrata, ciò si pone in contrasto a quella maggiore introdotta con la Riforma
Biagi (che aveva aumentato la precarietà), obiettivo è tendere al contratto di lavoro subordinato a
tempo indeterminato come forma normale di assunzione. Quest’ultimo obiettivo è reso esplicito
dalla legge delega del Jobs Act (l.183/2014) che si propone di rendere il contratto a tempo
indeterminato più conveniente rispetto ad altre forme di contratto in termini di oneri diretti e
indiretti.

Altro obiettivo fondamentale che si propone il Jobs Act è la determinazione delle nuove assunzioni col
contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti in relazione all’anzianità di servizio; ciò escludendo per i
licenziamenti economici la tutela della reintegrazione, prevedendo un indennizzo economico certo e
crescente con l’anzianità di servizio, limitando la tutela della reintegrazione ai casi di licenziamenti nulli e
discriminatori e a specifiche fattispecie di licenziamento disciplinare ingiustificato e prevedendo tempi certi
d’impugnazione del licenziamento. Con il Jobs Act viene quindi stabilita la tutela normalmente applicabile
in caso di licenziamento viziato: quella indennitaria. Ne segue che quella reintegratoria diventa l’eccezione.
Va sottolineato che il CTC non è un nuovo tipo contrattuale, è “semplicemente” la forma standard di
assunzione a partire dal 7 marzo 2015 che ha una regolazione specifica del solo regime in caso di tutela in
caso di licenziamento.

Applicazione soggettiva del CTC:


 Lavoratori del settore privato, ad eccezione dei dirigenti, assunti dopo l’entrata in vigore del
decreto (7/03/2015)
 In caso di conversione del contratto a termine o di apprendistato in contratto a tempo
indeterminato dopo il 7/03/2015
 Nel caso in cui le imprese, dopo il 7/03/2015, superino le soglie occupazionali ex art. 18 c.8 e 9: qui
il CTC si applica a tutti i lavoratori, anche se assunti prima del 7/03/2015.

Licenziamento nullo o inefficace  Riguarda il licenziamento discriminatorio, privo di forma scritta, privo di
giustificazione per motivo che risiede nella disabilità del lavoratore e in altri casi di nullità stabiliti dalla
legge. Si applica la tutela reintegratoria forte: reintegrazione (o indennità sostitutiva di 15 mensilità),
indennità pari al periodo di illegittima estromissione (non inferiore a 5 mensilità) dedotto l’aliunde
perceptum, i contributi previdenziali e le sanzioni per omesso o ritardato versamento contributivo.

Licenziamento ingiustificato  Riguarda le ipotesi di licenziamento per GMS o GC in cui sia direttamente
mostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore, rispetto al quale resta
estranea ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento. Si applica la tutela reintegratoria
attenuata: reintegrazione (o indennità sostitutiva di 15 mensilità), indennità risarcitoria pari al periodo di
legittima estromissione (non superiore a 12 mensilità) dedotti aliunde perceptum e percepiendum e i
contributi previdenziali e assistenziali.
Viene quindi superata la questione tra fatto materiale e fatto giuridico (v. supra). Secondo una sentenza
della Cassazione del 2015 l’insussistenza del fatto ex art. 18 comprende anche l’ipotesi in cui il fatto sussista
ma sia privo di illiceità, dato che la completa irrilevanza giuridica equivale alla sua insussistenza materiale.
L’onere della prova sull’insussistenza del fatto materiale graverebbe sul lavoratore; rispetto all’espressa
irrilevanza della valutazione circa la sproporzione del licenziamento non è chiaro se abbiano valore le
tipizzazioni dei codici disciplinari dei CCNL.

Licenziamento privo di GMO, GMS o GC  Viene corrisposta una tutela risarcitoria (non soggetta a
contributi) di 2 mensilità dell’ultima retribuzione per il calcolo del TFR per ogni anno di servizio compresa
tra 6 e 36 mensilità.
Il decreto dignità nel 2018 (d. l. 87/2018) ha ritoccato i minimi e i massimi edittali che erano stati stabiliti
dal Jobs Act: si è passati da 4 e 24 mensilità a, appunto, 6 e 36.
Ma la Corte costituzionale, con Sent. 194/2019, ritiene illegittimo l’automatismo con cui viene calcolato il
risarcimento: l’anzianità di servizio è senz’altro un criterio importante di riferimento e il principale di cui
tener conto, ma bisogna anche valutare altri criteri, vale a dire il numero di dipendenti occupati, dimensioni
dell’attività economica, comportamento e condizioni delle parti. Nella sentenza si legge poi che
quest’automatismo introdotto dal Jobs Act non tiene conto della diversità delle situazioni e le omologa in
maniera indebita. I criteri cui fare riferimento sono essenzialmente quelli del collegato lavoro del 2010 all’
art. 30 c. 3 che, come già visto, hanno in qualche modo aggiornato quelli contenuti nell’art. 8 l. 604.: oltre
quelli già menzionati, vanno aggiunti quelli relativi alla situazione del mercato del lavoro locale.
Va sottolineato nella disciplina del CTC per quanto riguarda i licenziamenti economici non è mai prevista la
reintegrazione come forma di tutela, salvo la prova rigorosa di una discriminazione. La tutela prevista è,
appunto, quella indennitaria con un range che va dalle 6 alle 36 mensilità.

19/04/2023

Violazioni formali e procedurali  come si è già visto, la l. Fornero ha introdotto la novità per cui il vizio
formale-procedurale è meno grave rispetto al vizio sostanziale, mentre prima vi era la c.d. tesi del
parallelismo delle tutele. La tutela è di tipo indennitario e, dopo la modifica operata dal decreto dignità, è
di è pari ad una mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR per ogni anno di
servizio, entro una cornice edittale di 2-12 mensilità.
Anche qua, però, la Corte si pronuncia sull’illegittimità costituzionale dell’automatismo (Corte. Cost.
150/2020) statuendo che esso non fa che accentuare la marginalità dei vizi formali e procedurali e ne
svaluta la funzione di garanzia di fondamentali valori di civiltà giuridica, orientati alla tutela della dignità
della persona del lavoratore. I criteri di cui il giudice deve tener conto per la quantificazione dell’indennizzo
sono gli stessi di cui al licenziamento privo di GMO, GMS o GC.

Va richiamata una sentenza della Corte costituzionale del 2021 (Corte cost. 59/2021) che si è pronunciata
sull’art. 18 St. Lav. come modificato dalla legge Fornero: dichiara l’illegittimità nella parte in cui la norma
non prevede che il giudice debba applicare, nel caso in cui rilevi la manifesta insussistenza del fatto posto
a base del licenziamento per GMO, la tutela reintegratoria; ma, anzi, lascia solo una facoltà in capo al
giudice. La Corte dice che ciò si pone in contrasto con il principio di eguaglianza perché il vizio che viene in
evidenza è ben più grave rispetto alla pura e semplice insussistenza del fatto.

Tutela nelle piccole imprese (art. 9 d. lgs. 23/2015)  è l’ambito in cui opererebbe la tutela obbligatoria ex
art. 8 l.604 (imprese sotto la soglia dei 15 dipendenti per u. p./comune/territorio nazionale + organizzazioni di tendenza). Anche
qua l’idea è quella di ridimensionare le tutele, per tale motivo non è più prevista, per i lavoratori assunti
dopo il 7 marzo 2015, la tutela obbligatoria (che fornisce al datore l’alternativa tra riassunzione e
corresponsione della tutela indennitaria per quelli assunti prima di tale data, v. supra). Si ha quindi solo una
tutela risarcitoria corrispondente ad una mensilità per ogni anno di servizio fino ad un massimo di 6
mensilità, se il vizio è procedurale corrisponde invece a 0.5 mensilità per anno di servizio, sempre fino ad un
massimo di 6.

Inoltre, per gli assunti dopo il 7 marzo 2015, non si applica il Rito Fornero. Viene data alle parti una’
opportunità che mira ad evitare il ricorso al giudice del lavoro: quella dell’offerta di conciliazione. Essa va
giocata entro il primo termine di impugnazione del licenziamento (60 gg) decorso il quale si decade dalla
possibilità di farne richiesta. il datore propone una indennità pari ad un mese per anno di servizio (tra 2 e
18 mensilità) al lavoratore esente da imposte e contributi, con l’accettazione il rapporto si estingue.
L’offerta viene effettuata nelle sedi protette (ITL, commissione di certificazione, sede sindacale) e il fatto
che l’importo è netto è un grande vantaggio. L’offerta conciliativa è quindi vantaggiosa per due motivi: evita
il ricorso all’autorità giudiziaria ed è esente da imposte e contributi.

Il legislatore è intervenuto, su forte richiesta politica e sindacale, nel periodo pandemico con una serie
d’interventi legislativi prorogati: dapprima col c.d. Decreto Cura Italia (d. l. 18/2020). Obiettivo di questi
interventi è il blocco dei licenziamenti per motivi oggettivi accompagnato da ammortizzatori sociali. Si è
discusso sulla legittimità costituzionale di questi interventi, che peraltro erano a tempo indeterminato, dato
il possibile contrasto con l’art. 41 Cost.: L’equilibrio sta nella temporaneità dell’intervento. Ci sono stati poi
degli strascichi, come quelli contenuti nella legge di bilancio del 2022 la quale dispone che sulle imprese
con più di 250 dipendenti quando devono licenziare un numero di lavoratori non inferiore a 50 dipendenti
devono procedere a comunicazioni preventive.
Altra questione riguarda il licenziamento per rifiuto della vaccinazione: in alcuni settori è stato introdotto
tale obbligo, in essi la Corte costituzionale ha stabilito che tale imposizione risponde ad un fondamentale
principio di solidarietà, naturalmente si tratta di una soluzione temporanea in vista dell’introduzione di
altre misure e implicante la sospensione (non il licenziamento) del lavoratore che sceglie di non vaccinarsi
senza corresponsione della retribuzione. Si innesta qui il tema del mancato adempimento dell’obbligo
vaccinale, una parte autorevole della dottrina ha sostenuto anche la possibilità di procedere a
licenziamento ove il lavoratore non possa essere impiegato in altre mansioni e ciò ove si ponga come fonte
di pericolo per gli altri lavoratori: vengono richiamati l’obbligo datoriale ex art. 2087 c.c., gli obblighi ex artt.
41 ss. d. lgs. 81/2008 di vigilanza sanitaria e l’inadempimento del prestatore di lavoro ai propri obblighi di
sicurezza. Su questo abbiamo avuto un forte intervento della contrattazione collettiva prima riguardo
l’obbligo di distanziamento e poi anche a quello vaccinale.

TUTELE NELL’AMBITO DEL LAVORO ALLE DIPENDENZE DELLE P.A.


Dal 1992/1993, come già ampiamente visto, i rapporti di lavoro pubblico trovano regolamentazione nel
diritto del lavoro privato e nelle disposizioni dei contratti collettivi e ciò secondo l’art. 2 d. lgs. 165/2001.
Quest’ultima norma si associa poi a quella che consegna al dirigente i poteri del privato datore di lavoro.
Tra le altre norme del TUPI ci interessa innanzitutto il co. 2 dell’art. 2 che specifica come a tali rapporti di
lavoro si applichino le norme del c.c. e quelle contenute nelle leggi sui rapporti di lavoro subordinato
nell'impresa (salva diversa disposizione contenuta nel medesimo TU) e l’art. 51 che stabilisce l’applicazione
dello Statuto dei Lavoratori a prescindere dal numero dei dipendenti e con tutte le sue successive
modificazioni ed integrazioni (c.d. rinvio mobile).

In realtà queste premesse vengono contraddette da tutta una serie di norme di legge, tra queste l’art. 1 della
legge Biagi che esclude l’applicabilità della medesima legge ai rapporti di lavoro alle dipendenze delle p.a.
La legge Fornero è, invece, molto ambigua: essa stabilisce espressamente che si applica anche ai rapporti di
lavoro pubblico nei suoi principi e nei suoi criteri ma, subito dopo, dice che l’applicazione è subordinata ad
un intervento normativo di armonizzazione. La domanda quindi che a questo punto molti si son posti è la
seguente: l’art. 18 St. Lav. come modificato dalla l. Fornero è applicabile anche al settore pubblico? Pur
essendo inaccettabile che esistano due versioni della medesima norma e pur essendoci una norma nel TUPI
che stabilisca che lo Statuto si applichi ai rapporti di lavoro pubblico anche con successive modifiche, il
dubbio permane. Il Jobs Act non risponde in alcun modo a questo dubbio, arriva quindi la Corte di
Cassazione che prova a dare una risposta in più occasioni: la prima pronuncia in materia è del 2015 e
stabilisce che il “nuovo” art. 18 si applica al rapporto di pubblico impiego contrattualizzato in virtù dell’art.
51 TUPI; la seconda e la terza pronuncia sono del 2016 e del 2017 e stabiliscono invece l’inapplicabilità di
esso posta l’armonizzazione stabilita dalla legge Fornero e quindi come non funzioni il rinvio mobile e come
andrebbe applicato il vecchio art. 18 al lavoro pubblico. Viene qui sottolineato dalla Corte come questo
discrimine tra pubblico e privato si giustifichi alla luce della tutela di taluni interessi, tra questi vi sono
senz’altro quelli del dipendente, ma in primo luogo rilevano quelli collettivi.

L’argomento utilizzato dalla Cassazione verrà usato poi dalla ministra Madia per rassicurare i dipendenti
pubblici e il versante sindacale nel periodo che precede la riforma rispetto al fatto che per i dipendenti
pubblici nulla sarebbe cambiato. Questo argomento è contenuto in una sentenza del 2008 della Consulta
già vista (Corte cost. 351/2008), quindi in tempi per così dire “non sospetti”, dove il redattore Sabino
Cassese (noto per essere grande coltivatore di interessi pubblici e amministrativi) statuisce che il
meccanismo d’accesso mediante concorso alla p.a. crea una differenza rispetto al settore privato che si rifà
ai principi di buon andamento e imparzialità della p.a. ex art. 97 Cost.; sempre per lo stesso motivo, Cassese
dice che se ci fosse solo la tutela indennitaria per fronteggiare il licenziamento illegittimo la comunità
dovrebbe sostenere un doppio costo: il risarcimento del lavoratore ingiustamente licenziato e quello
relativo alla ricerca di nuovo lavoratore da impiegare nel posto rimasto vacante e ciò ovviamente con
nuovo concorso.
La ministra Madia, quindi, mantiene tali promesse: il d. lgs. 75/2017 modifica il TUPI e in particolare il co.2
dell’art. 63. Questo stabilisce che la reintegrazione è l’unico rimedio applicabile al vizio del licenziamento,
qualunque esso sia, e oltre ad essa viene stabilita la corresponsione di un’indennità risarcitoria
commisurata all'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR corrispondente al periodo che va
dal giorno del licenziamento fino a quello dell'effettiva reintegrazione (anche se nella prassi la riassunzione
nel pubblico impiego avviene nel giorno successivo rispetto alla pronuncia del giudice che la ordina)
comunque non superiore alle 24 mensilità da cui va dedotto l’aliunde perceptum, in più va corrisposto il
versamento dei contributi assistenziali e previdenziali. Altra novità rispetto al settore privato è che tale
tutela si applica anche ai dirigenti.
Va detto che questo discrimine tra lavoro pubblico e privato in materia di tutele che seguono al
licenziamento illegittimo non è facilmente giustificabile e non lo è neanche sulla base del motivo addotto
dalla Corte costituzionale nel 2008. Il problema (già analizzato) si pone quando vi è un motivo alla base del
licenziamento addotto (e magari è anche molto grave) ma esso viene dichiarato nullo da vizi formali-
procedurali; di questo si è resa conto anche la Cassazione, la quale ha sottolineato come in questi casi la
reintegrazione sia contraria ai principi di buon andamento e imparzialità della p.a.

2/05/2023

LICENZIAMENTI COLLETTIVI
Il licenziamento collettivo è una “variante” del licenziamento per GMO, ma con alcune peculiarità. Lo studio
dei licenziamenti collettivi implica anche quello degli ammortizzatori sociali ad essi connessi.

LA CASSA INTEGRAZIONE
Essa è una forma di intervento pubblico (in particolare erogato dall’INPS) nel mercato del lavoro atta a
garantire la sopravvivenza dell’impresa e la salvaguardia dell’occupazione e del reddito dei lavoratori
durante un periodo di contrazione dell’attività aziendale. Si verifica in particolare durante un periodo di
sospensione dei rapporti di lavoro per fatti inerenti all’impresa con diritto all’integrazione salariale; il fine è
quindi quello di distrarre i costi che l’impresa affronta per il lavoro e destinarli alla sopravvivenza della
stessa.

La l. 223/1991 rappresenta una svolta per la disciplina della CIG e, in generale, per i licenziamenti collettivi.
Essa si propone di razionalizzare il sistema della CIG, in particolare si propone
a) di rendere più omogeneo l’intervento della CIGO rispetto alla CIGS (con estensione di esso ad
impiegati e quadri e con l’estensione del massimale);
b) di ricondurre la CIGS alle sue finalità originarie, cioè quelle di sostegno temporaneo dell’impresa.
Dal momento che l’erogazione della CIG investe fondi pubblici, c’è necessità di un forte controllo (per
evitare di mantenere in vita rapporti fittizi o le imprese “decotte”) e di una sua applicazione circostanziata.
Se poi nemmeno i fondi pubblici sono in grado di superare questa situazione di stallo, allora la legge
prevede l’attivazione delle procedure dei licenziamenti collettivi; va detto che ciò non comporta
l’eliminazione dell’intervento pubblico, ma quest’ultimo si attuerà a valle: Si preoccuperà cioè del
reinserimento del lavoratore licenziato nel mercato del lavoro, ad esempio con l’erogazione della NASPI.

CIGO: strumento “micro” di supporto ad un calo produttivo, riconducibile ad un avvenimento temporaneo,


congiunturale, senza impatto durevole. Cause integrabili:
a) situazioni aziendali dovute ad eventi transitori e non imputabili all’impresa o ai dipendenti,
incluse intemperie stagionali;
b) situazioni temporanee di mercato.

CIGS: strumento “macro” per ammortizzare un ridimensionamento produttivo, ricollegabile ad un processo


lungo, strutturale e con effetto duraturo, ma non definitivo. Cause integrabili:
a) riorganizzazione aziendale;
b) crisi aziendale (esclusi i casi di cessazione dell’attività produttiva), essa è la causa più tipica;
c) contratto di solidarietà: si tratta di contratti collettivi aziendali di più tipologie;
a. Contratto di solidarietà offensivo, con esso i firmatari rinunciano a parte del salario per
favorire nuove assunzioni, questa forma è poco utilizzata;
b. Contratto di solidarietà difensivo, molto più utilizzata, dove vi è un controllo sindacale
aziendale forte che si preoccupa di far comprendere il sacrificio e la perdita a cui tutti i
lavoratori devono essere sottoposti per evitare i licenziamenti collettivi, qui la finalità è
quella di salvaguardare l’occupazione, va detto che la Corte costituzionale riconosce
addirittura l’efficacia erga omnes di questi contratti.

Campo di applicazione: La CIGO riguarda esclusivamente imprese industriali incluse quelle edili, La CIGS
riguarda tutte le imprese con più di 15 dipendenti. La CIGS era originariamente riservata alla sola industria,
poi è stata estesa ad altre tipologie d’impresa: quelle esercenti attività commerciali con più di 50
dipendenti, agenzie di viaggio e turismo con più di 50 dipendenti, imprese di vigilanza, quelle del settore
aeroportuale, partiti e movimenti politici.

Lavoratori aventi diritto: lavoratori subordinati, compresi gli apprendisti, i lavoratori a domicilio (esclusi i
dirigenti) che abbiano un’anzianità di effettivo lavoro di almeno 30 giorni.

Misura dell’integrazione: 80% della retribuzione globale altrimenti spettante per le ore non lavorate
comprese fra le zero ore e il limite dell’orario contrattuale. Il massimale viene rivalutato annualmente.
Durata:
1. CIGO: 13 settimane continuative, con eventuali proroghe trimestrali, fino ad un massimo di 52
settimane
2. CIGS: tempo diverso a seconda delle cause integrabili:
a. 24 mesi per riorganizzazione aziendale
b. 12 mesi per crisi aziendale
c. 24 mesi per contratto di solidarietà

 Vi è una durata massima di fruizione del trattamento ordinario e straordinario per ciascuna
unità produttiva fissato in 24 mesi in un quinquennio

Procedure:
CIGO  a) eventi non oggettivamente evitabili che rendano non differibile la sospensione o riduzione
dell’attività produttiva: comunicazione successiva ai soggetti sindacali, cioè alle RSA (o RSU ove vi siano) e
alle articolazioni territoriali delle oo. ss. comparativamente più rappresentative sul piano nazionale.
Possibilità di esame congiunto.
b) altri casi: comunicazione preventiva ai soggetti sindacali alle RSA (o RSU) e alle articolazioni territoriali
delle oo. ss. comparativamente più rappresentative sul piano nazionale con l’indicazione della causa per cui
si richiede l’intervento, l’entità e la durata prevedibile e il numero di lavoratori interessati. Possibilità di
esame congiunto.
CIGS  per l’intervento straordinario dovuto a riorganizzazione o crisi aziendale vi è obbligo di
comunicazione preventiva ai soggetti sindacali, entro tre giorni il datore o i sindacati possono chiedere
l’esame congiunto dinanzi l’ufficio regionale o al Ministero con oggetto il programma che l’impresa intende
attuare, i criteri di scelta dei lavoratori da sospendere, le modalità di rotazione tra i lavoratori e gli eventuali
motivi per cui non sia attuabile la rotazione. Finita la consultazione sindacale vi è richiesta di ammissione al
trattamento in via telematica; i criteri di scelta dei lavoratori da porre in cassa devono essere oggetto di
consultazione con le oo. ss. e devono essere obiettivi, razionali, rispettare buona fede e correttezza, equità
ed evitare discriminazioni.

Cassa integrazione in deroga (art. 18 d. l. 18/2020): per i soggetti non coperti da integrazione salariale le
Regioni e Province Autonome possono autorizzare l’erogazione di trattamenti in deroga per periodi non
superiori a 9 settimane, serve accordo preventivo (anche in via telematica) con le oo. ss. comparativamente
più rappresentative sul piano nazionale.
Meccanismi di condizionalità: per i soggetti beneficiari di trattamenti CIGS vi è obbligo di partecipare ad
iniziative formative o di riqualificazione in vista della conclusione della sospensione o della riduzione
dell’attività lavorativa.

ORIGINI
Prima della l. 223/1991 il legislatore non disciplina il licenziamento collettivo. La prima regolamentazione
per il settore industriale si ha con Accordo Interconfederale (rispettivamente nel 1950 e 1965) prevedente:
a) l’obbligo di instaurare una procedura conciliativa intersindacale a seguito della comunicazione
dell’intenzione di procedere a riduzione di personale;
b) l’obbligo di licenziamento nel rispetto dei criteri di scelta di matrice sindacale: anzianità, carichi di
famiglia, esigenze tecnico-produttive dell’impresa.
L’art. 11 della l.604 prevede l’espressa esclusione della disciplina dei licenziamenti collettivi (si occupa solo
di quelli individuali).
La disciplina comunitaria consiste nell’emanazione di una serie di direttive in materia di licenziamenti
collettivi, confluite nella direttiva n. 1998/59 che:
a) Dà una nozione di licenziamento collettivo: licenziamento per ragioni non inerenti alla persona del
lavoratore, in un dato arco di tempo e relativo ad un certo numero di lavoratori
b) Prevede l’obbligo di consultazione sindacale. A causa della mancanza di quest’ultima, l’Italia era
stata condannata per mancato adeguamento alla direttiva. La Corte di Giustizia, infatti, pur
essendoci degli AI e pur riconoscendo loro una certa “forza”, non si tratta di accordi con efficacia
erga omnes.

Le differenze rispetto al GMO riguardano le dimensioni dell’impresa, il numero di licenziamenti (>5), l’arco
temporale dei licenziamenti (120 gg), la collocazione territoriale (ambito diverso da quello dell’art. 18, cioè
quello della medesima provincia) e il controllo e procedura sindacale. Queste differenze vengono messe in
evidenza da una sentenza della Cassazione del 2011 (Cass. sez. lav. 24556/2011) che statuisce anche il fatto
che sia irrilevante che il numero di licenziamenti attuati a conclusione del procedimento sia eventualmente
inferiore, così com’è ammissibile la conversione da licenziamento collettivo in licenziamento individuale.

INDIVIDUAZIONE DELLE FATTISPECIE


Vengono introdotte due fattispecie di licenziamento collettivo con la l. 223.
1. Art. 24 l.223/1991  per riduzione di personale. È l’ipotesi storica di licenziamento collettivo, è
l’ipotesi “macro” e di carattere generale che include anche i c.d. licenziamenti tecnologici.
Caratteristiche:
a. Il datore deve occupare più di 15 dipendenti,
b. Il datore intende licenziare almeno 5 lavoratori, in un arco temporale di 120 giorni
nell’ambito della medesima provincia. Secondo la Cassazione è irrilevante che il numero di
recessi irrogati sia inferiore a quello dei recessi programmati, ciò che conta è l’intenzione
iniziale. Un’altra sentenza sottolinea il fatto che si deve trattare di licenziamento in senso
tecnico (quindi non di dimissioni o risoluzioni consensuali).
c. Causa della dismissione: riduzione o trasformazione di attività o di lavoro. Vien qui meno
la differenza ontologica tra licenziamento collettivo e individuale per GMO. Ad ogni modo,
la causa dev’essere riferita a tutti i licenziamenti che siano comunque riconducibili alla
medesima trasformazione o riduzione: a tal proposito la Cassazione dice che a causa della
dismissione costituisce una presunzione semplice, naturalmente superabile.
2. Per cessazione di attività (ricompresa nell’art. 24)
3. Art. 4.1 l.223/1991  per messa in mobilità. Ipotesi “micro” di licenziamento collettivo, è la grande
novità della l. 223 che mette in contatto la nuova disciplina della CIGS con quella dei licenziamenti
collettivi. Va sottolineato un aspetto: se alla fine del periodo di erogazione della CIG ha luogo anche
un solo licenziamento, quel licenziamento è un licenziamento collettivo per messa in mobilità
(anche se ci se ne preoccupa poco perché di base la cassa è erogata a tutti). Si ha quando durante il
godimento o alla fine di un periodo di CIGS il datore ritiene di non essere in grado di reimpiegare
tutti i lavoratori sospesi; non sono previsti requisiti temporali, numerici e territoriali, basta non
essere in grado di impiegare anche un solo lavoratore all’esito o durante un periodo di CIGS.

La giurisprudenza dice che le due tipologie potrebbero sovrapporsi, ma ciò non toglie che rimangano pur
sempre diverse e autonome (Cass. Sez. Lav. 639/2005).

Campo di applicazione della legge: inizialmente si applicava solo alle imprese con più di 15 dipendenti, con
esclusione dei datori non imprenditori. Nel 2004 (con d. lgs. 110/2004) si estende il campo ai datori privati
non imprenditori (non alle p.a. quindi). È stata estesa anche ai soci lavoratori di cooperativa e ai dirigenti.
Non si applica ai contratti di lavoro a termine, alle ipotesi di cessazione di lavori nelle costruzioni edili e alle
attività stagionali/saltuarie.

8/05/2023

REGOLE PROCEDURALI
Esse sono le stesse per entrambe le fattispecie (messa in mobilità e riduzione di personale), unico anche il
destino finale. Esiste una procedura perché, insieme alla disciplina del trasferimento di azienda o di ramo
d’azienda, vi è una procedimentalizzazione dei poteri datoriali, la procedura è fatta quindi per consentire
momenti di controllo ma anche di partecipazione sindacale. Il potere datoriale, quindi, trova espressione e
può essere esercitato, ma questo atto subisce un processo di verifica con diretto coinvolgimento del
soggetto sindacale; conseguenza di ciò è anche la trasparenza del processo decisionale verso i lavoratori
ed eventualmente del soggetto pubblico. Quindi la procedura ha un “valore” e ciò viene confermato in
qualche modo anche dalla Cassazione (Cass. Sez. Lav. 800/2013) che afferma che il vero luogo di verifica
giudiziale è costituito dal controllo sindacale.

PROCEDURA DI MOBILITÀ (ARTT. 4 E 5)


Primo step è la comunicazione: il datore deve comunicare la sua intenzione alle RSA (o RSU) o alle
associazioni di categoria aderenti alle confederazioni maggiormente rappresentative sul piano nazionale.
L’obbligo di comunicazione deve essere adempiuto anche se le decisioni relative all’apertura della
procedura sono adottate da un’impresa controllante, la comunicazione implica poi un costo dell’impresa: il
datore deve versare un contributo per finanziare la NASPI (somma pari al trattamento massimo mensile di
integrazione salariale moltiplicato per il numero di lavoratori ritenuti eccedenti). Queste regole fanno sì che
la comunicazione sia “una cosa seria” e che il datore ponderi bene le sue scelte e che non ”spari” il numero
di lavoratori da licenziare. Contenuto della comunicazione:
1. Motivi che determinano la situazione di eccedenza
2. Motivi tecnici, organizzativi o produttivi per i quali non è possibile adottare soluzioni alternative al
licenziamento
3. Numero, collocazione aziendale e profilo professionale dei lavoratori in esubero e di quelli
normalmente impiegati
4. Tempi di attuazione del programma di riduzione di personale
5. Misure per fronteggiare le conseguenze del licenziamento sul piano sociale
L’importanza della comunicazione è anche ribadita dai giudici, La Cassazione sottolinea infatti come la
mancanza dei requisiti menzionati determini l’invalidità della procedura e l’inefficacia dei licenziamenti, tale
vizio non è poi ex se sanato con l’avvio e la stipulazione della procedura di controllo sindacale, il giudice
dell’impugnazione dovrà infatti verificare l’adeguatezza della originaria comunicazione di avvio della
procedura. Al giudice è sottratto il controllo sul motivo effettivo del licenziamento collettivo, ma non quello
sul numero dei lavoratori indicati.

Fase sindacale: entro 7 giorni dal ricevimento della comunicazione il sindacato può chiedere l’apertura di
un esame congiunto, tale fase deve concludersi entro 45 giorni e consiste in un libero confronto fra le
parti, finalizzato a ricercare un accordo aziendale che risolva il problema dell’eccedenza. Mentre nel
trasferimento d’azienda è del tutto eventuale un accordo che limiti il numero di lavoratori da licenziare, qui
se pur eventuale è auspicabile che si ottenga. Gli esiti possibili sono due: accordo o mancato accordo.

Eventuale fase amministrativa: In caso di mancato accordo viene avviata da un soggetto terzo: il direttore
dell’ITL. Esso convoca le parti per un ulteriore esame congiunto e formula proposte alle parti per favorire
un accordo. Quest’ultima fase deve concludersi entro 30 giorni, se il numero di lavoratori da licenziare è
inferiore a 10, i termini (45+30) possono essere dimezzati.

Vi sono degli incentivi all’accordo sindacale:


 Si riduce il contributo che deve versare per la NASPI
 Si può derogare all’art. 2103 c.c.: possibilità di assegnazione a mansioni diverse anche fuori dai
limiti della norma
 Possibilità di sanare eventuali vizi della comunicazione iniziale: vi è qui la necessità di precisare i
vizi che si intendono sanare e che il soggetto sindacale abbia acquisito piena consapevolezza degli
elementi carenti nella comunicazione. Questa possibilità di sanatoria è stata introdotta dalla l.
Fornero e, rispetto ad essa, i giudici stabiliscono che l’indicazione dei vizi debba essere precisa.

Scelta dei lavoratori da licenziare: Conclusa la procedura, se rimane l’esigenza di licenziare taluni
lavoratori è necessario individuare quali lavoratori debbano essere licenziati. Tale individuazione deve
avvenire in relazione alle esigenze del complesso aziendale. La legge preferirebbe che in questa fase fosse
coinvolto il sindacato, in linea di massima, in caso di accordo, il contratto collettivo aziendale può
individuare criteri di scelta dei lavoratori da licenziare. Tali accordi hanno dato modo alla Corte
costituzionale (Corte cost. 268/1994) di distinguerli, dal punto di vista dell’efficacia, rispetto ai contratti
collettivi normativi contemplati dall’art. 39 Cost., questi ultimi hanno efficacia erga omnes.
In assenza di accordo, i criteri sono i seguenti:
a. Anzianità di servizio
b. Carichi di famiglia I criteri operano in concorso fra di loro
c. Esigenze tecnico-produttive
La ratio di questi criteri è far cadere il peso del licenziamento su chi può sopportarlo meglio. La Cassazione
ribadisce ciò e aggiunge che possono essere introdotti altri criteri purché rispondenti a requisiti di
obiettività e razionalità (Cass. Sez. Lav. 6112/2014).
Sempre la Cassazione poi sottolinea l’onere del datore di aver provato il ripescaggio: la riduzione del
personale, in quanto si riferisce anche ad esigenze tecnico-produttive, deve investire l’intero ambito
aziendale; la dimostrazione che vi siano specifiche professionalità o comunque situazioni oggettive che
rendano impraticabile qualunque comparazione devono essere provate dal datore.
Le esigenze tecnico produttive, oltre ad essere indicate in modo specifico, devono essere dimostrabili.
La giurisprudenza poi si pronuncia anche sul criterio dell’anzianità, sottolineando che si intende quella di
servizio, anche se non mancano pronunce che cercano di contemperare il criterio dell’anzianità di servizio
con quello dell’anzianità anagrafica (posto che può esservi maggiore difficoltà di ricollocare il lavoratore
anagraficamente più anziano). Vien poi menzionata dalla Cassazione l’adozione del criterio della prossimità
alla pensione, vi sono in linea di massima due orientamenti:
1. Il primo lo ritiene del tutto illegittimo in quanto discriminatorio,
2. Il secondo lo ritiene legittimo perché permette di essere applicato e controllato senza margine di
discrezionalità, ma ove sia l’unico criterio applicabile e si riveli nel caso concreto insufficiente a
individuare i dipendenti da licenziare, diventa automaticamente illegittimo se non combinato con
un altro criterio di selezione.
Carichi di famiglia: il criterio impone di tener conto delle situazioni di maggior bisogno di stabilità
economica. Lo strumento generalmente utilizzato dal datore a tal fine è quello della percezione degli
assegni familiari.
Concorso tra criteri legali: secondo quanto stabilito dalla Cassazione essi sono applicabili in concorso fra
loro, salvo diverso ordine stabilito dai contratti collettivi.

Licenziamento: è l’ultima fase, il datore deve comunicare per iscritto il licenziamento ai lavorati indicati
all’esito della procedura, deve rispettare il periodo di preavviso, non vi è necessaria indicazione dei motivi. I
lavoratori che ne abbiano diritto possono ottenere la NASPI.

Comunicazioni successive: entro 7 giorni dalla comunicazione dei recessi (non più immediatamente) il
datore deve comunicare per iscritto alla Direzione regionale del lavoro, alla Commissione regionale per
l’impiego e alle associazioni di categoria di cui al co.2 art. 4:
 l’elenco dei lavoratori licenziati, indicando il nominativo, luogo di residenza, qualifica,
inquadramento, età e carico di famiglia
 la puntuale indicazione delle modalità in cui sono stati applicati i motivi di scelta.

Il legislatore del 2021 (l. 234/2021) ha arricchito gli oneri per le imprese grandi (>250 dipendenti) e che
vogliano licenziare almeno 50 dipendenti:
1. Comunicazione almeno 90 giorni prima dell’avvio della procedura ex art. 4 l. 223. Questo perché gli
interlocutori sono tanti: RSU, RSA, oo. ss. più rappresentative, ANPAL, Ministero del lavoro,
Ministero dello sviluppo economico (o come cazz si chiama adesso).
2. Dev’essere presentato un piano datoriale per limitare le ricadute occupazionali ed economiche,
deve contenere 5 elementi: 1) Azioni programmate per la salvaguardia dei livelli occupazionali, 2) Azioni per
favorire rioccupazione o autoimpiego, 3) Prospettive di cessione di azienda o ramo di azienda; 4) Eventuali progetti di
riconversione del sito produttivo; 5) Temi e modalità delle azioni previste.
3. Esame sindacale ed eventuale accordo
 La procedura ex art. 4 l. 223 può essere avviata solo dopo l’esame del piano e la
sottoscrizione di un eventuale accordo, pena nullità dei licenziamenti collettivi (o per GMO)

9/05/2023

IL LICENZIAMENTO COLLETTIVO ILLEGITTIMO E LE TUTELE


Nel licenziamento collettivo il giudice verifica solo la correttezza procedurale del licenziamento, si limita
quindi un controllo ex post sulla sussistenza della causale, perché sostituito dal controllo ex ante svolto dal
soggetto sindacale (che, come già visto, è dotato di incisivi poteri di informazione e consultazione). In
ragione di ciò, la Cassazione (Cass. 30550/2018) puntualizza come la l. 223 ha introdotto un significativo
elemento di novità costituito, appunto, nel passaggio dal controllo giurisdizionale ad un controllo ex ante
dell’iniziativa imprenditoriale svolto dalle oo. ss.; sicché il controllo del giudice è residuo e riguarda solo la
correttezza procedurale. Ciò vale ancor di più nel caso di scelta dell’imprenditore di far cessare l’attività: il
controllo sindacale vale solo sull’effettività della scelta medesima, ma non può proporre rimedi che siano
prosecuzione del rischio d’impresa divenuto insostenibile per l’imprenditore perché ciò è contrario all’art.
41 Cost.

L’impugnazione del licenziamento va fatta nei termini classici di decadenza previsti dall’art. 6 l. 604 (a cui
l’art. 5 l.223 fa rinvio): 60 gg (impugnazione stragiudiziale) + 180 gg (impugnazione giudiziale). Anche qua va
operata la distinzione, già vista per i licenziamenti individuali, tra lavoratori assunti prima e dopo il 7 marzo
2015:
1. Prima del 7 marzo 2015:
a. In caso di mancanza di forma scritta si applica l’art. 18 co. 1 St. Lav. (come modificato dalla legge
Fornero), quindi la tutela reintegratoria forte
i. Reintegrazione (o in alternativa l’indennità sostitutiva di 15 mensilità)
ii. Indennità risarcitoria pari al periodo di illegittima estromissione non inferiore a 5
mensilità ma dedotto l’aliunde perceptum
iii. Contributi previdenziali e assistenziali
iv. Sanzioni per omesso o ritardato versamento contributivo
b. In caso di violazione delle procedure: si applica l’art. 18 co.5 (tutela indennitaria forte)
i. Il rapporto viene dichiarato risolto
ii. Indennità risarcitoria omnicomprensiva compresa tra un minimo di 12 e un
massimo di 24 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto
c. In caso di non corretta applicazione dei criteri di scelta: si applica l’art. 18 co. 4 (tutela
reintegratoria debole):
i. Licenziamento annullato
ii. Reintegrazione o indennità sostitutiva di 15 mensilità
iii. Indennità risarcitoria pari al periodo di legittima estromissione, non superiore alle
12 mensilità e dedotti aliunde perceptum e percepiendum
iv. Contributi per il periodo di estromissione, nella misura del differenziale tra
contributi spettanti e già accreditati per altre attività nel periodo
2. Dopo il 7 marzo 2015:
a. Mancata osservanza della forma scritta (tutela reintegratoria piena): nulla cambia
b. Violazione delle procedure o dei criteri di scelta: si applica l’art. 3.1 d. lgs. 23/2015 (tutela
indennitaria piena da 6 a 36 mensilità, v. Corte cost. 194/2018):
i. Il rapporto viene dichiarato risolto
ii. Indennità risarcitoria di 2 mensilità per ogni anno di servizio compresa tra 6 e 36
mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per calcolo del TFR

Si noti che nel regime previsto dalla legge Fornero le motivazioni riguardanti violazione delle procedure e
dei criteri di scelta vengono differenziate e che nel licenziamento illegittimo per violazione dei criteri di
scelta per i lavoratori assunti dopo il 7 marzo è prevista una mera indennità risarcitoria e non la
reintegrazione.
In quest’ambito si colloca un’ordinanza della Corte d‘Appello di Napoli del 22.3.23 che solleva la questione
di illegittimità costituzionale della disciplina prevista per le tutele in caso di licenziamento illegittimo
Vi son già stati dei precedenti in merito:
1. Pronuncia della CIG UE del giugno 2020: nel caso di specie fu sollevata questione di incompatibilità
con la direttiva 98/53, ma la CIG rigetta il ricorso ritenendolo manifestamente irricevibile per
estraneità del quesito ai contenuti della direttiva citata.
2. Corte cost. 254/2020: la questione venne ritenuta inammissibile perché l’ordinanza di rimessione
non aveva adeguatamente illustrato il tipo di vizio invalidante. Davanti la Corte era stata impugnata
una sentenza di primo grado il cui oggetto della controversia riguardava un licenziamento
illegittimo per criteri di scelta, la disciplina applicabile al caso di specie è quella del Jobs Act (in
quanto la lavoratrice ricorrente era stata assunta dopo il 7 marzo 2015)
Nella nuova ordinanza di rimessione (che la Cd’A ha avuto cura di redigere in modo più conforme alle
esigenze della Corte) si leggono i motivi per cui si solleva la questione di legittimità costituzionale:
1. Esclusione della reintegrazione per il licenziamento economico: quest’ultimo, per com’è stato
utilizzato in questi anni dal legislatore, è essenzialmente un licenziamento di tipo individuale
2. Eccesso di delega della l. 183/2014: non vengono rispettati i principi stabiliti in merito dal diritto
comunitario e dalle convenzioni internazionali. Nel primo si dice che la sanzione dev’essere di tipo
dissuasivo e deterrente, nel caso di specie non lo è
3. Violazione art. 3 Cost. (la motivazione più convincente): Questo naturalmente vale per la disparità
di trattamento tra lavoratori assunti prima e dopo una certa data in quanto, di fronte a medesime
violazioni, ricevono tutele diverse.
Probabilmente la decisione della Corte costituzionale sarà di tipo interpretativo e non demolitorio.

Dirigenti e licenziamento collettivo: A differenza di quanto accade nel licenziamento individuale, qui
trovano tutele:
1. Licenziamento orale: reintegrazione
2. Violazione procedure e/o criteri di scelta: 12/24 mensilità dell’ultima mensilità globale

LICENZIAMENTO E PROCESSO DEL LAVORO


Prima che la legge Fornero introducesse un rito speciale per impugnativa dei licenziamenti, ci si è
interrogati sul perché cambiare il regime processuale in tale materia. Posto che il processo del lavoro è
molto più rapido del processo civile ordinario rimane comunque un’eccessiva ed imprevedibile durata del
processo, anche nella fase che precede il contenzioso, che incide sull’entità del risarcimento e sui costi del
licenziamento; inoltre, la situazione occupazionale locale incide sul risarcimento del danno dal punto di
vista dell’aliunde perceptum e percepiendum.
Termini di decadenza: 60 giorni per l’impugnazione stragiudiziale e 180 per l’impugnazione giudiziale. Su
questi profili si è agito, come già visto, con il collegato lavoro del 2010 (che ha modificato l’art. 6 l. 604).
La legge Fornero agisce su un altro punto di vista: l’introduzione di uno speciale rito che giudica
sull’impugnazione dei licenziamenti, il rito Fornero. Prima di esso vi erano il processo del lavoro ordinario e
il procedimento cautelare ex art. 700 c.p.c., il problema di quest’ultimo però è che dev’esserci il periculum
in mora e, quindi, il pericolo grave ed imminente che incombe su diritti (in questo caso dei lavoratori)

IL RITO FORNERO (2012-2023, R.I.P.)


La Riforma Cartabia ha stabilito che dal 1° marzo 2023 il rito Fornero non trova più applicazione, Per
impugnare i licenziamenti ora si seguiranno le nuove regole stabilite dalla riforma stessa.

Il rito Fornero era stato pensato come un rito speciale, aveva le seguenti caratteristiche:
 Impugnativa dei licenziamenti nelle ipotesi contemplate dal nuovo art. 18 St. Lav.
 Un procedimento celere e abbreviato con una fase sommaria nell’ambito del primo grado di
giudizio
 Applicabile anche quando la controversia riguardi questioni relative alla qualificazione del rapporto
di lavoro (pregiudiziali rispetto all’illegittimità del licenziamento)
 Applicabile alle domande strettamente connesse a quella relativa all’illegittimità del licenziamento
(e.g. domande subordinate di condanna al pagamento di somme al titolo di TFR e dell’indennità
sostituiva di preavviso perché fondate su stessi fatti costitutivi, Cass. Sez. Lav. 17091/2016)

15/05/2023

Esclusioni dal rito: casi in cui non trova applicazione l’art. 18, i casi di licenziamento di lavoratori assunti
dopo il 7.3.2015 e domande che non abbiano come fatto costitutivo il licenziamento (e.g. dequalificazione,
somme dovute, risarcimenti a diverso titolo).
Nel caso di proposizione della domanda di impugnazione di licenziamento a cui si applica l’art. 18 nelle
forme previste per altri riti, il giudice ne dispone la separazione perché sia trattata con il rito speciale.

Problemi dell’ambito di applicazione:


 Licenziamenti collettivi: per la loro impugnazione la legge Fornero prevede l’applicazione dell’art.
18
 Problema dell’applicabilità ai dipendenti pubblici: prima che intervenisse la riforma Madia la
giurisprudenza ha ritenuto opportuno applicare il rito Fornero
 Problema dell’applicabilità ai dirigenti pubblici
 Problema dell’applicabilità ai dirigenti privati: dato che si ha reintegrazione solo in caso di
licenziamento nullo (ex art. 18 co. 1 St. Lav.), la giurisprudenza ha escluso l’applicabilità del rito
Fornero
 Non si applica ai licenziamenti nell’ambito delle imprese di tendenza: si applica il rito ordinario, ma
per i dipendenti che invece non eseguono mansioni legate alla caratteristica dell’impresa si applica
il rito speciale (stretta interpretazione della Cassazione)
In caso di domanda subordinata di applicazione dell’art. 8 l.604, e quindi della tutela obbligatoria, il
giudice innanzitutto affronta l’accertamento di uno degli elementi qualificanti la richiesta di tutela ex art.
18, quindi la consistenza numerica dei dipendenti o la discriminatorietà. In caso di esito negativo, quindi
qualora manchi uno dei due elementi qualificanti, mantiene il rito speciale e, sulla base delle regole che lo
governano, rigetta la domanda di tutela forte con possibile condanna alle spese, poi con separata ordinanza
muta il rito da speciale in ordinario e decide sulla tutela ex art. 8 l.604. In caso di continuazione dei processi
il coordinamento avviene in base alle regole stabilite dal c.p.c.: se viene modificata la decisione sulla tutela
ex art.18, questa travolge quella sulla tutela ex art. 8 l.604.

Mutamento di rito: posto che la competenza si stabilisce in base alla domanda, in caso di incompetenza del
giudice adito, quest’ultimo può:
1. Dichiarare inammissibile il ricorso, oppure
2. Emettere ordinanza con cui dispone la conversione in rito (quello ordinario di lavoro) con fissazione
dell’udienza e, se necessario, del termine perentorio per l’integrazione degli atti introduttivi
È possibile anche la separazione di cause, al riguardo il tribunale di Taranto nel 2012 stabilì una separazione
di cause in quanto la domanda avente ad oggetto pagamento di somme e differenze retributive era basata
su fatti costitutivi diversi rispetto a quella sull’impugnativa del licenziamento (assegnando quindi alle parti i
termini perentori per l’eventuale integrazione degli atti)

La Cassazione nel 2018 (Cass. Sez. Lav. 30433/2018) stabilisce che anche alle controversie introdotte dal
datore di lavoro sull’accertamento della legittimità del licenziamento si applica il rito Fornero in ragione,
tra i vari motivi, dei principi di economia processuale e di unitarietà della giurisdizione; ma anche in ragione
di quello costituzionale di parità delle armi processuali.

Secondo la giurisprudenza di merito, le domande riconvenzionali nella fase sommaria sono inammissibili
anche se basate su identici fatti costitutivi della domanda principale, ma possono essere riproposte nella
fase eventuale di opposizione.

Struttura del procedimento


1. Fase necessaria a carattere sommario: serve a fornire una tutela immediata in caso di
licenziamento
o Le maggiori similitudini con tale fase le troviamo nella repressione della condotta sindacale
ex art. 28 St. Lav. il quale stabilisce l’emissione di un decreto a cui poi ci si può opporre, e
quello della tutela cautelare ex art. 700 c.p.c., quest’ultimo provvedimento è emesso sulla
base della sussistenza dei requisiti del fumus boni iuris e del periculum in mora
o Questa fase si chiude con un’ordinanza e può essere opposta dalla parte soccombente
o Ricorso
 Competenza funzionale e territoriale: tribunale del lavoro
 Requisiti dell’atto ex art. 125 c.p.c. (ufficio, parti, oggetto, ragioni della domanda e
conclusioni)
 Non occorre la prova del periculum (si tratta di procedimento sommario, non
cautelare)
 Compatibilità con la procedura ex art. 700 c.p.c.: ammissibile ma dev’esserci
specifica prova del motivo di urgenza che giustifica il ricorso ex art. 700 a fronte dei
tempi già rapidi del procedimento speciale
 Non tutti i giudici di merito però son d’accordo con la loro compatibilità, chi
non lo è (e.g. il tribunale di Bologna nel 2012) propende per la fissazione d’ufficio
dell’udienza prevista per il rito Fornero quando sia presentata domanda di reintegra nel
posto di lavoro nelle forme ex art. 700 c.p.c.
o Scansioni processuali:
 Presentazione del ricorso
 Decreto di fissazione dell’udienza non oltre 40 giorni, il termine per la notifica non
è inferiore a 25 giorni dall’udienza.
 Costituzione del convenuto entro i 5 giorni che precedono l’udienza (se tardiva è
inammissibile), nella fase sommaria non maturano preclusioni.
 L’ordinanza viene emessa sentite previamente le parti, procedendo ad atti istruttori
indispensabili e omettendo formalità non essenziali al contraddittorio, essa
provvede sulle spese ed è succintamente motivata.
 Immediatamente esecutiva fino ad eventuale sentenza di opposizione
2. Eventuale fase di opposizione: rimessa alla scelta della parte soccombente, eventualmente di
entrambe le parti in caso di soccombenza reciproca o accoglimento parziale della domanda nella
fase sommaria, se non opposta l’ordinanza assume efficacia di giudicato.
o Si può svolgere davanti lo stesso giudice (persona fisica) perché l’opposizione non è una
revisio prioris instantiae, ma anzi è una fase a cognizione piena.
 La Corte costituzionale, per questi motivi, nel 2015 dichiarò l’inammissibilità costituzionale di una
questione sollevata rispetto alla compatibilità di talune norme della legge Fornero con gli artt. 3,24 e
111 Cost. La questione censurava la mancata previsione di tali norme dell’obbligo di astensione del
giudice che fosse investito dell’opposizione all’ordinanza da egli stesso pronunciata all’esito della fase
sommaria del rito Fornero.
o È ammesso l’ampliamento del tema e quello dell’ambito soggettivo: possono essere
proposte domande diverse da quelle proposte nella prima fase, salvo che siano fondate su
identici fatti costitutivi o nei soggetti rispetto ai quali la causa è comune o dai quali si
intende essere garantiti
o Scansioni processuali:
 Ricorso ex art. 414 c.p.c. entro 30 giorni della comunicazione o notificazione
dell’ordinanza della fase sommaria
 Decreto che fissa l’udienza di comparizione entro 60 giorni, esso va notificato entro
i 30 giorni anteriori all’udienza
 Costituzione del convenuto entro i 10 giorni anteriori all’udienza (se tardiva
maturano preclusioni)
 Possono essere proposte eventuali domande riconvenzionali su fatti costitutivi identici, può
essere disposta la separazione, possono essere chiamati in causa terzi e vanno chiamati
litisconsorti necessari
 Istruttoria: atti ammissibili e rilevanti
 Discussione con eventuali note difensive
 Sentenza con concisa motivazione depositata entro 10 giorni in cancelleria
o Reclamo alla Corte d’Appello: esso è un vero e proprio appello e, per tutti i profili non
regolati vale la disciplina dell’appello nel rito del lavoro
 Ricorso entro 30 giorni dalla comunicazione o notificazione della sentenza; in
mancanza si applica il termine lungo di 6 mesi
 Decreto che fissa l’udienza nei 60 giorni successivi al deposito del ricorso
 Possibile ottenere la sospensione dell’efficacia esecutiva della sentenza di primo
grado per gravi motivi
 Nova: non ammessi nuovi mezzi di prova o documenti salvo la mancata produzione
in primo grado per causa non imputabile alla parte o quando il collegio li ritenga
indispensabili ai fini della decisione
o Il giudizio di Cassazione: contro la sentenza che definisce il reclamo è possibile il ricorso per
Cassazione ai sensi dell’art. 360 ss. c.p.c.
 Bisogna tener conto della modifica introdotta dalla l. Fornero al collegato lavoro del
2010: possono essere impugnate per violazione di norme di diritto le inosservanze
delle clausole generali quando il giudice ne abbia violato i limiti rispetto al
sindacato di merito su valutazioni tecniche, organizzative e produttive del datore
 Scansioni processuali:
 Il ricorso si deve proporre entro 60 giorni dalla comunicazione della
sentenza di reclamo o dalla notificazione se anteriore. In mancanza si
applica il termine lungo di 6 mesi
 La sospensione della sentenza di reclamo si chiede alla stessa Corte
d’Appello che ha emesso il provvedimento
 La Cassazione fissa l’udienza di discussione non oltre 6 mesi dal deposito
del ricorso

Ma il rito Fornero conosce da subito un rapido tramonto. Già con l’introduzione della disciplina del CTC
esso non trova applicazione: per i lavoratori assunti dopo il 7 marzo 2015 è prevista l’applicazione con
ricorso ex art. 414 c.p.c.

RIFORMA CARTABIA (D. LGS. 149/2022) E PROCESSO PER IMPUGNATIVA DEL


LICENZIAMENTO
Novità introdotte dalla riforma:
 Introduzione della possibilità di ricorrere alla negoziazione assistita per la regolamentazione delle
controversie di lavoro anche in materia di licenziamento.
o Obiettivo: ridurre il contenzioso lavoristico. Secondo il nuovo art. 2-ter del d. l. 132/2014 vi
è la facoltà per le parti di ricorre a tale istituto senza che ciò costituisca condizione per la
procedibilità della domanda giudiziale, ciascuna parte è assistita da un avvocato o da un
consulente del lavoro e all’accordo raggiunto si applica l’art. 2113 co. 4 c.c.: esso è
trasmesso all’organismo di certificazione previsto dalla Riforma Biagi.
 Definitiva abrogazione del rito Fornero e il contestuale inserimento nel c.p.c. di disposizioni
finalizzate a riservare corsie preferenziali alle controversie in materia di licenziamento e a garantire
trattazione in tempi contingentati ove vi sia domanda di reintegrazione
o Si ha quindi l’assoggettamento di tutte le controversie in materia di lavoro ad un unico
modello processuale, ma viene introdotto un nuovo capo I bis che regola alcuni aspetti
delle controversie che seguono all’impugnativa del licenziamento
 Art. 441-bis: Innanzitutto si stabilisce la priorità di tali controversie quando vi è
richiesta di reintegrazione, ciò anche quando hanno ad oggetto la qualificazione
del rapporto di lavoro. In relazione alle circostanze esposte in ricorso il giudice può
ridurre i termini del procedimento fino alla metà, garantendo comunque al datore
convenuto un termine non minore di 20 giorni tra notificazione del ricorso e
udienza per la costituzione in giudizio. Può inoltre disporre la trattazione congiunta
di domande connesse o riconvenzionali o disporre la separazione dei giudizi,
assicurando in ogni caso la concentrazione della fase istruttoria e riservando dei
giorni.
 Art. 441-ter: stabilito l’assoggettamento al rito del lavoro delle controversie aventi
ad oggetto l’impugnazione del licenziamento del socio di cooperativa anche se vi
sia stata cessazione del rapporto associativo
 Il giudice decide anche sulle questioni relative al rapporto associativo se
proposte
 Art. 441-quater: possibilità di introdurre le azioni di nullità dei licenziamenti
discriminatori con dei riti speciali se non proposte ex art. 414 c.p.c.  ciò
comporta una serie di vantaggi, tra gli altri, per gli oneri probatori
 Innanzitutto, quello ex art. 38 d. lgs. 198/2006. In questo particolare rito è
possibile richiedere, oltre la cessazione del comportamento illecito e
discriminatorio, anche la rimozione degli effetti.
 Art. 28 d. lgs. 150/2011: tratta controversie in materia di discriminazione
(tutte, non “solo” quelle di cui al codice delle pari opportunità). Qui viene
prevista la possibilità di ricorrere alla prova statistica della discriminazione
e spetta al datore l’onere di provare l’insussistenza della discriminazione.

16/05/2023

LICENZIAMENTO E SALUTE DEL LAVORATORE


Lezione di approfondimento (molto molto confusionaria: consiglio di dare un’occhiata ai ppt per maggiore chiarezza).

Partiamo dall’analisi dell’ art. 2110 c.c., disposizione ricca di intenso dibattito giurisprudenziale. Essa
disciplina le principali cause di sospensione dell’attività lavorativa, in specie quelle relative ad infortunio,
malattia e gravidanza; tali cause di sospensione dell’attività lavorativa generano un obbligo in capo al
datore di lavoro: quello di erogare la retribuzione. Tra le fonti principali abbiamo gli artt. 2110 e 2111 c.c.
Quando si parla di malattia del lavoratore si tende a parlare di cause di inesigibilità: cause che esonerano il
lavoratore-debitore dall’attuare la propria attività lavorativa anche se non è sempre impossibile adempiere,
ma il compimento della prestazione lavorativa comporterebbe un aggravio delle condizioni del lavoratore.
In certi casi siamo di fronte ad una vera propria impossibilità, sia tecnica che giuridica, in altri casi siamo di
fronte ad un’inesigibilità in quanto non vi è una impossibilità in senso stretto.
Il c.c., già prima della l. 604/1966 e ancor prima delle contrattazioni collettive degli anni ‘50, aveva stabilito
una regola apposita della malattia all’art. 2110 c.c. Al co.2 possiamo notare un tentativo di attuare un
equilibrio tra interessi del datore e del lavoratore: durante un periodo di assenza, detto periodo di
comporto, quantitativamente stabilito dalla legge o dai contratti collettivi, il lavoratore non può essere
licenziato; alla fine di questo periodo però l’imprenditore ha diritto di recedere.

Nozione di malattia: a fini lavoristici non si intende qualsiasi patologia in senso medico, ma si intende
un’infermità comportante incapacità lavorativa generica a qualunque tipo di lavoro oppure una capacità
temporanea e specifica alle proprie mansioni. Il medico certifica la patologia o l’incapacità di lavoro
generica a qualunque lavoro o temporanea specifica alle proprie mansioni.
Rispetto a cosa si possa fare durante il periodo di malattia c’è una grandissima casistica giurisprudenziale;
e.g. per quanto riguarda le attività ludiche, esse si possono svolgere se non comportano un aggravio delle
condizioni psico-fisiche del lavoratore. Invece, per ciò che concerne le attività lavorative, per esse non vi è
un divieto generalizzato di legge di svolgerle durante un periodo di malattia, anche se spesso i contratti
collettivi lo prevedono, ma in generale i giudici tendono a censurare tutti quei comportamenti che violano i
doveri di correttezza e buona fede del lavoratore.

Capacità lavorativa residua: il lavoratore non può svolgere le mansioni per cui è assunto dal suo datore a
causa della malattia; ma può fare altro. Qui la giurisprudenza di legittimità ammette un’inversione
dell’onere della prova: è il lavoratore a dover provare di non essere stato in grado di svolgere quella
mansione. Non vi è obbligo di offrire la propria capacità lavorativa residua, a meno che l’altro lavoro sia
identico, ma l’altro lavoro può fungere da presunzione.
Rispetto al potere d’indagine del datore di lavoro vi è possibilità di fare investigazioni private, ma vi è diritto
alla riservatezza della diagnosi fino all’eventuale contenzioso.

Giurisprudenza sull’onere della prova (v. ppt, ma non li ha analizzati): esso incombe sul lavoratore assente.

Preavviso di licenziamento e sospensioni  art. 1 co. 41 l. 92/2012: esso statuisce che il licenziamento
intimato all’esito del procedimento disciplinare ex art. 7 St. Lav., oppure all’esito del procedimento ex art. 7
l. 604, produce effetto dal giorno della comunicazione con cui il procedimento stesso è stato avviato, salvo
l’eventuale diritto del lavoratore al preavviso o alla relativa indennità sostitutiva; in ogni caso è fatto salvo
l’effetto sospensivo disposto dalle norme dal TU relativo alla tutela della paternità e maternità. Gli eventi
rimangono sospesi in caso di impedimento derivante da infortunio occorso sul lavoro. il periodo di
eventuale lavoro svolto in costanza della procedura si considera come preavviso lavorato. Lo scopo di
questa norma è, come evidente, risolvere il problema della malattia che sorge durante il procedimento
disciplinare.

Cass. sez. lav. 1458/1997: il principio di immutabilità della motivazione è applicabile anche al superamento
del comporto. Un licenziamento intimato esclusivamente per superamento del periodo di comporto non
può essere giudizialmente dichiarato legittimo in relazione ad una ipotizzabile idoneità psico-fisica del
lavoratore a svolgere le mansioni affidategli  il recesso del datore non può fondarsi su fatti diversi da
quelli addotti a motivazione del licenziamento stesso. Ma è legittima la doppia motivazione.

Comporto superato e affidamento: è buona prassi che il lavoratore avvisi quando sta per superarlo (non c’è
nessuna norma di legge al riguardo, ma i giudici lo fanno rientrare degli obblighi di buona fede). Nella
sentenza 24899/2011 della suprema Corte leggiamo che, ferma restando la facoltà del datore di intimare il
licenziamento non appena il lavoratore abbia esaurito il periodo di comporto per malattia, il datore ha
anche la facoltà di attendere il rientro del lavoratore per sperimentare se sussistano o meno dei margini di
riutilizzo del lavoratore.

Tema della disabilità: lo troviamo affrontato in diverse fonti soprannazionali (Convenzione ONU del 2006 e
la Carta dei diritti fondamentali dell’UE). Nella carta dell’UE vediamo questa tutela agli artt. 21 e 26, il primo
tratta il principio di non discriminazione e il secondo quello dell’inserimento dei disabili.
La Cassazione recentemente (Cass. sez. lav. 9095/2023) ha stabilito applicare lo stesso comporto previsto
per i non disabili ai disabili è discriminazione. Nella massima (non ufficiale, è un principio di diritto) si legge
che rappresenta una discriminazione indiretta, dal momento che il disabile è esposto al rischio di ulteriori
assenze per malattia collegata alla disabilità. Il lavoratore parte di questa controversia aveva una
percentuale di handicap molto alta (75% ex l. 104/1992), aveva superato il periodo di comporto. Come
risolvere? Sicuramente bisogna allungare il periodo di comporto, vi è poi un orientamento che considera di
non computare i giorni di assenza, ma è molto difficile stabilire quando un’assenza è dovuta per malattia o
per altro.

Lavoro nelle p.a.: v. art. 55 septies d. lgs. 165/2011

Art. 5 St. Lav.: accertamenti sanitari. In una sentenza della Cassazione leggiamo che il lavoratore adibito a
mansioni che ritenga non compatibili con il proprio stato di salute può chiedere di essere destinato a
compiti più adeguati ma non può sottrarsi a legittimi controlli medici da parte del datore; qualora si rifiuti il
datore può sospendere la corresponsione della retribuzione ex art. 1460 c.c.

LICENZIAMENTO COLLEGATO AL PENSIONAMENTO DEL


LAVORATORE
Tra i vari licenziamenti disciplinati dal nostro ordinamento, vi è quello per vecchiaia. Esistono due tipi di
pensionamento per età: per vecchiaia in senso stretto e per vecchiaia anticipata (prima denominato per
anzianità); il primo prevede 67 anni + almeno 20 anni di contributi, il secondo prevede un’età anagrafica più
bassa (62/63) ma più anni di contributi (tipo 40).

Secondo la Cassazione nel lavoro privato non è ammessa la risoluzione automatica del rapporto lavorativo
al compimento di determinate età o al raggiungimento di requisiti pensionistici; prima vi era un caso di
licenziamento ad nutum all’art. 11 co.1 l.604, ma è stato abrogato. La legge del 66 è stata riscritta nel ’90
con la l.108 che all’art. 4, stabilisce che l’art. 18 St. Lav. non si applica a chi è in possesso dei requisiti
pensionistici.

Il licenziamento intimato per la sola ragione del raggiungimento dell’età per il pensionamento di vecchiaia
non è discriminatorio (v. sent. Tribunale di Genova 2013) poiché al legislatore (secondo la direttiva UE
2000/78) non è vietato dettare una disciplina normativa che assuma l’età quale elemento idoneo a fondare
una disparità di trattamento tra i lavoratori

La riforma Fornero si è molto occupata di pensionamenti. L’art. 24.4 d.l. 201/2011 prevede regole
differenziate per chi va in pensione ancor più tardi dei 67 anni (70, oggi 71). In realtà secondo la Cassazione
a sezioni unite l’ultima frase della disposizione non attribuisce al lavoratore un diritto potestativo di
proseguire la sua attività lavorativa fino ai 70 anni perché non crea alcun automatismo, ma soltanto degli
incentivi per proseguire il rapporto.

Pubblico impiego: nel privato il datore che voglia tenersi il suo dipendente semplicemente non lo licenzia,
nelle p.a. il lavoratore è collocato a riposo. Oggi vi è un preavviso di collocamento a riposo (che è una sorta
d’invito al lavoratore a fare domanda di riposo). Nel pubblico impiego vi è un tetto massimo più basso: 65
anni; salvo qualche categoria per cui è previsto un tetto più alto (magistrati, docenti universitari, e in
generale quelle professioni intellettuali per cui si ritiene che l’esperienza conti molto).
In una sentenza della Corte costituzionale del 1991, la Corte analizza il caso di un lavoratore che ha
raggiunto il limite massimo d’età per il collocamento a riposo ma allo stesso tempo non ha compiuto il
numero di anni richiesti per il conseguimento del minimo della pensione. Qui la Corte dichiara l’illegittimità
costituzionale del combinato disposto di alcune norme, per la violazione dell’art. 38 c.2 Cost. nella parte in
cui non consente di rimanere, su richiesta, in servizio fino al conseguimento di tale anzianità minima e,
comunque, non oltre il settantesimo anno di età.

Potrebbero piacerti anche