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Servizio

BERNARD SESBOÜÉ

Anno C
CHIESA E LIBERTÀ
della
Teologia e responsabilità storica
a confronto Parola 539
Giornale di teologia 443
4 settembre
16 ottobre

SETTEMBRE/OTTOBRE 2022 • 539 • [4.9 - 16.10]


ISBN: 978-88-399-3443-7
Pagine: 272 2022
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CHRISTOPH BÖTTIGHEIMER

(IN)SENSATEZZA
DELLA PREGHIERA
Alla ricerca di una ragionevole

Editrice Queriniana - via Ferri 75 - 25123 Brescia (Italia/UE)


responsabilità
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Giornale di teologia 440 (conv. in L. 27/2/2004, n. 46), art. 1, c. 1 – LO/BS

ISBN: 978-88-399-3440-6
Pagine: 256
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Poste Italiane S.p.A. - Spedizione in a.p. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/2/2004, n. 46), art. 1, comma 1 - LO/BS
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HRISTOPH BÖTTIGHEIMER

(IN)SENSATEZZA
DELLA PREGHIERA
Alla ricerca di una ragionevole

ale di teologia 440

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256
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SETTEMBRE/OTTOBRE 2022 • 539 • [4.9 - 16.10]

Servizio
della
Parola
4 settembre
16 ottobre
2022
539
Servizio della Parola
strumento di lavoro
per la comunicazione di fede nelle assemblee
Queriniana
novità
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consiglio di direzione: + Gianni Ambrosio, Davide Arcangeli, Paola Bignardi,


Giacomo Canobbio, Alberto Carrara, Cecilia Cremonesi,

SINODALITÀ
Flavio Dalla Vecchia, Roberto Laurita
direttore responsabile: Vittorino Gatti
redattore: Stefano Fenaroli

N. 539 - Settembre/Ottobre 2022


A questo numero hanno collaborato: Maurizio Aliotta, Andrea Andretto, Paola Bignardi, Alber-
to Carrara, Lucia Felici, Domenico Fidanza, Antonio Landi, Giorgio Lanzi, Daniele Menca-
E RIFORMA
relli, Antonio Montanari, Michele Roselli, Patrizio Rota Scalabrini, Claudio Stercal, Mario
Torcivia, Gabriele Tornambé. Una sfida ecclesiale
Le immagini (di Monique Bruant) sono pubblicate per gentile concessione della rivista Signes
d’Aujourd’hui.
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Questo numero: formato cartaceo € 10,00 - formato digitale € 7,00. Pagine: 432
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SOMMARIO
n. 539 SETTEMBRE/OTTOBRE 2022
anno LIV

Sguardi in pastorale
RUBRICA
7. Del buon uso del Messale/3
La liturgia eucaristica (A. Carrara)3

I nostri modi di dire


DOSSIER
37. Purificare l’anima 11

1. «Purificare l’anima» (A. Carrara) 12


2. Con occhio limpido. Uno sguardo
libero, scevro da bramosia (P. Rota Scalabrini) 16
3. Lasciare che l’anima venga purificata (M. Torcivia) 21

Incontro per i membri dei Consigli parrocchiali


per gli affari economici
SUSSIDIO
(R. Laurita)25

Dalla 23ª alla 29ª domenica


del Tempo ordinario
PREPARARE LA MESSA
4 settembre /16 ottobre 37

23ª domenica ordinaria (A. Landi, P. Bignardi, M. Roselli)39


24ª domenica ordinaria (A. Landi, A. Montanari, M. Roselli) 60
25ª domenica ordinaria (A. Landi, M. Aliotta, M. Roselli)  84
26ª domenica ordinaria (A. Landi, G. Lanzi, G. Tornambé)  105
27ª domenica ordinaria (A. Landi, L. Felici, G. Tornambé) 127
28ª domenica ordinaria (A. Landi, D. Mencarelli, A. Andretto)  147
29ª domenica ordinaria (A. Landi, C. Stercal, D. Fidanza)  167

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RUBRICA
Sguardi in pastorale

7.
Del buon uso del Messale/3
La liturgia eucaristica
di Alberto Carrara

Dopo aver ascoltato la Parola, dopo aver proclamato la fede


e pregato per la chiesa e per il mondo, inizia la liturgia eucari-
stica. Da notare, fin da subito, una sottigliezza espressiva che
va precisata. La liturgia eucaristica è il “contenitore” nel qua-
le rientra la preghiera eucaristica, che comincia con il Prefazio.
Dunque, la preghiera eucaristica è un momento – seppure im-
portante – della liturgia eucaristica. L’oscillazione delle parole
ribadisce, nel suo piccolo, la natura complessa della liturgia eu-
caristica che, quindi, non può essere ridotta a semplice parola e
neppure a semplice preghiera. Questa, anzi, riceve tutto il suo
senso più alto proprio dalla sua collocazione nell’insieme del-
la liturgia della messa e, in particolare, della liturgia eucaristica.

1. La «preparazione dei doni»

Terminata la Liturgia della Parola, i ministri preparano sull’al-


tare il corporale, il purificatoio, il calice, la palla e il Messale,
mentre si può eseguire il Canto di offertorio. È bene che i fedeli
esprimano la loro partecipazione all’offerta, portando sia il pane

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4Rubrica

e il vino per la celebrazione dell’Eucaristia, sia altri doni per le


necessità della Chiesa e dei poveri (MR, 325).

Questa la sobria indicazione del Messale. Dalla quale, però,


è comunque possibile trarre qualche suggerimento di concreta
pratica liturgica. Anzitutto, si dice che sono i ministri che devo-
no preparare, non il celebrante. A riprova che i ruoli della mes-
sa sono vari e articolati. Inoltre, si dice che i ministri preparano
«sull’altare». Non sarebbe strano se il prete, a questo punto, fi-
nita la preghiera dei fedeli, per un istante, si sedesse alla sede,
mentre avviene la preparazione e mentre si raccolgono le of-
ferte nell’assemblea. Dovrebbe trattarsi, cioè – se l’espressione
va presa sul serio – di vera preparazione e come tale dovrebbe
anche apparire.
Da qui, alcune semplici indicazioni. Se è a questo punto che
«i ministri preparano» ciò che serve per la cena, appare logico
che ciò che deve essere preparato adesso non deve già essere
preparato prima. Si ripropone, anche in questo passaggio, la
funzione simbolica centrale dell’altare, che non funge indistin-
tamente da ambone, sede, tavolo di servizio, “spazio di rifugio”
per tutto quello che serve… In particolare, gli oggetti che de-
vono essere preparati a questo punto della liturgia dovrebbero
trovarsi, possibilmente, su un tavolo laterale diverso dall’altare,
per essere poi spostati sull’altare. Il che permetterebbe di ve-
dere la «preparazione dei doni» come vera preparazione, vera
messa in tavola del cibo e della bevanda che servono. In effetti
non è – e non può apparire – vera preparazione lo spostare, per
pochi centimetri, il calice e il resto da un lato al centro dell’alta-
re. Quando è così, la preparazione è striminzita, poco visibile: si
fatica a vederla, appunto, come vera preparazione. La liturgia, il
“fare” tipico della liturgia, giova ripeterlo anche a questo punto,
o lo si vede e lo si percepisce, o non è.
Tutto questo vale anche nel caso di una celebrazione “solita-
ria” del prete senza ministri. Il prete dovrebbe, lui, spostare le
cose dal tavolo laterale all’altare, disporre, preparare. In quel
caso il prete è il ministrante di se stesso. Non è il massimo, ma è
la verità di quella particolare liturgia e della sua relativa pover-
tà. Non si salva la nobiltà della liturgia semplicemente facendo

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Sguardi in pastorale5

apparire una nobiltà che non c’è o nascondendo una povertà


che, invece, c’è.
La rubrica del Messale parla poi di «altri doni per le necessi-
tà della Chiesa e dei poveri». Si potrebbe aprire qui il capitolo
degli offertori solenni che hanno segnato molte delle liturgie
postconciliari. Con una deriva che, a qualche anno di distanza,
appare sempre più evidente. Abbiamo visto portare all’altare
quaderni e libri di scuola, scarpe e sandali, palloni da calcio…
Con l’intento apprezzabile di alludere simbolicamente a tutta
la nostra vita, che è tutta da offrire come materia da “eucari-
stizzare”… È avvenuto, però che l’offertorio, invece di essere
l’offerta di doni che vengono incontro alla necessità della chiesa
e dei poveri, è diventato l’offerta di un concentrato di simbo-
li della nostra vita. Anche questo ha contribuito a svuotare la
realtà concreta del dono. Ovvio che nell’offertorio non si offre
tutto e quindi quello che lì si offre diventa inevitabilmente sim-
bolo del molto altro che non si trova lì e che fa il tessuto della
nostra vita quotidiana. Ma quello che lì è offerto viene offerto
davvero. Quindi cessa di appartenerci. È controindicato che ciò
che entra nella messa subisca un gonfiamento simbolico tale da
esautorare la propria consistenza reale. In fondo, anche il pane
consacrato, quello che, appunto, si prepara nella «preparazione
dei doni», se non è vero pane, non può diventare neppure il cor-
po del Signore.
La preparazione dei doni termina con l’invito alla preghiera:
«Pregate, fratelli e sorelle…». Gli inviti ufficialmente scritti nel
Messale sono quattro e offrono contenuti diversi. Ancora una
volta, il primo, che è il più semplice, gode di una evidente prefe-
renza, e ancora una volta non per particolari motivi, ma sempli-
cemente perché è il primo, il più corto e il più semplice. Funzio-
na sempre, insomma, la legge non scritta della routine.
La preghiera che segue è formalmente definita «orazione
sulle offerte». Il senso del nome e della collocazione sono tra-
sparenti. Si sono “messi in tavola” pane e vino. L’orazione sulle
offerte è il testo che conclude quello che è stato fatto. L’«amen»
dell’assemblea è la parola finale della preparazione delle offer-
te. Questa è finita. Inizia la preghiera eucaristica.

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6Rubrica

2. «Il Signore sia con voi», «In alto i nostri cuori»,


«Rendiamo grazie»

Il fatto che una fase importante della liturgia eucaristica sia


finita e che un’altra cominci dovrebbe risultare dalla concreta
esecuzione del rito. In altre parole, fra l’«amen» della preghiera
sulle offerte e l’invito «Il Signore sia con voi» che dà avvio alla
preghiera eucaristica, dovrebbe inserirsi uno stacco, uno spazio
anche breve di silenzio. Questo servirebbe a far passare il mes-
saggio che qualcosa è finito e qualcosa d’altro comincia. Il Mes-
sale non ne parla. Non è disposizione imposta dai testi, infatti,
ma si tratta di cosa che si chiede alla sensibilità di chi celebra.
I testi, semmai, confermano la necessità dello stacco. La con-
fermano soltanto indirettamente con le differenti indicazioni
che riguardano la conclusione della preparazione delle offer-
te, da una parte, e l’inizio della preghiera eucaristica, dall’altro.
L’orazione sulle offerte viene introdotta così: «Il sacerdote, con
le braccia allargate, dice l’Orazione sulle offerte» (MR, 326). La
preghiera eucaristica, invece, inizia con questa rubrica: «Il sacer-
dote può cantare tutta, o in parte, la Preghiera Eucaristica» (MR,
327). Il Messale, in altre parole, dà come scontata la lettura per
l’orazione sulle offerte e dà invece come possibile il canto per
la preghiera eucaristica. Dunque, la conclusione sommessa del-
la preparazione delle offerte e l’inizio solenne della preghiera
eucaristica dicono che si tratta di due momenti liturgici diversi.
Lo stacco, tuttavia, di solito non c’è e la percezione della no-
vità fatica a farsi sentire. «Il Signore sia con voi» si attacca im-
mediatamente all’«amen» della orazione sulle offerte. Manca
una qualche forma di soluzione di continuità. Dal punto di vista
di un’immediata percezione simbolica, il cuore della messa – la
preghiera eucaristica con la consacrazione – si riduce a essere
la continuazione della premessa. È facile immaginare la reazio-
ne che si può avere in risposta a questa osservazione: non tutto
dipende da un piccolo stacco di silenzio. Certo, non tutto, ma
qualcosa. È un semplice dettaglio, ma va ricordata una semplice,
banale verità: un evento delicato come la liturgia eucaristica è
un vasto complesso di dettagli.

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Sguardi in pastorale7

Da sempre, il «dialogo invitatoriale» con il quale inizia, ap-


punto, la preghiera eucaristica, è descritto come cruciale per le
implicazioni simboliche che si porta appresso. L’augurio «Il Si-
gnore sia con voi» con la risposta dell’assemblea, anticipa la sin-
golare compagnia che l’eucaristia sta per realizzare con la con-
sacrazione e la comunione. «In alto i nostri cuori» e «Sono rivol-
ti al Signore» dicono in maniera sintetica il dislocamento verso
l’alto, la “salita” verso il cielo da parte dell’assemblea, quasi a
voler anticipare quella che tutta la preghiera di consacrazione
farà (il termine tecnico per designare la preghiera di consacra-
zione è «anafora» che significa etimologicamente «portare su»,
«offrire»). «Rendiamo grazie al Signore nostro Dio» propone il
termine che designa tutto il rito della messa: «eucaristia» signifi-
ca, infatti, come noto, «rendimento di grazie».
Forse è per il peso simbolico del dialogo invitatoriale che i
gesti del celebrante indicati dal Messale sono singolarmente
vistosi. «Allargando le braccia, dice», è l’indicazione per «Il Si-
gnore sia con voi»; «alzando le mani», per il successivo «in alto i
nostri cuori». Nuovamente «con le braccia allargate», per «Ren-
diamo grazie…». Infine «con le braccia allargate», per l’esecu-
zione del successivo prefazio.
Se si sfoglia il comune del Messale che precede il prefazio, si
trovano molte indicazioni che regolamentano le parole. Ma non
si trova un passaggio in cui si descrivono dei gesti, così significa-
tivamente concentrati come qui. Sono gesti chiaramente sinto-
nici rispetto alle parole, incaricati di suggerire o una gestualità
“orizzontale” che ingloba simbolicamente l’assemblea o una ge-
stualità verticale che la indirizza verso l’alto.

3. «È veramente cosa buona e giusta,


nostro dovere e fonte di salvezza, rendere grazie…»

«Prefazio», un «dire prima», un messaggio che precede e


introduce. Si nota immediatamente che il primo dei prefazi
per i diversi periodi liturgici viene proposto con la musica. È
evidente la preoccupazione del Messale. Inizia la parte più so-

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8Rubrica

lenne di tutto il rito eucaristico. La solennità andrebbe procla-


mata con la modulazione musicale del testo.
L’esecuzione musicale è però difficilmente realizzabile e ra-
ramente realizzata. Per motivi vari e variamente comprensibi-
li. L’esecuzione musicale solistica è una performance uscita di
fatto dalle abitudini delle nostre liturgie. E forse è uscita anche
dai gusti dei fedeli e dalle attese delle nostre assemblee litur-
giche. Insomma, la solenne bellezza della liturgia non sembra
possa essere recuperata con la reintroduzione del canto solista
del celebrante. E, in ogni caso, anche quando si canta il prefazio,
raramente, molto raramente si canta il seguito della preghiera
eucaristica.
Di conseguenza, il compito di attribuire la giusta dignità, la
solennità richiesta a un passaggio così importante, resta conse-
gnata alla lettura. Parleremo, a suo tempo, dei problemi di una
buona lettura per il seguito della preghiera eucaristica. Intanto
vanno indicate le esigenze specifiche dei prefazi. È bene ricor-
dare ciò che appare dalla semplice organizzazione grafica del
testo. È la divisione del prefazio in tre parti. La prima è chiama-
ta, tecnicamente, il Protocollo: parte iniziale, relativamente va-
riabile, che afferma solennemente la necessità di rendere grazie
al Padre «per Gesù Cristo nostro Signore». La seconda parte è
l’Embolismo: variabile, che intende spiegare il motivo per cui a
Dio si deve la gloria e il ringraziamento di tutta la chiesa. Infine,
si ha quello che tecnicamente si chiama Escatocollo (o esocol-
lo): parte standardizzata, che introduce il Santo.
Una sola, banale indicazione. Le tre parti dovrebbero esse-
re percepite come tre, e quindi in qualche modo, diverse l’una
dall’altra. Ancora una volta: la preoccupazione non dovrebbe
essere quella di dire alla svelta, ma di dire bene, di far passare
ciò che il testo è e che vuole comunicare.
Un’ultima parola sulla scelta dei prefazi. Nella liturgia pre-
conciliare i prefazi erano in tutto una quindicina. Oggi quelli
ufficialmente proposti nel Messale – quello romano, nel nostro
caso – sono, se non abbiamo contato male, circa 75, più quelli
propri, quelli del messale specifico della Vergine e altri ancora.
È evidente che una scelta ristretta di fronte a una così vasta of-

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Sguardi in pastorale9

ferta denuncerebbe, ancora una volta, una certa indolenza. In-


tanto va notato che i molti prefazi sono raggruppati in diversi
sottogruppi. Questi spesso hanno un solo prefazio (ad esempio:
Epifania, “dopo Ascensione”, i sacramenti – eccezion fatta per
l’eucaristia che ne ha tre –, diversi prefazi dei santi…). Altri,
ne hanno diversi. Le tipologie più affollate sono quelle delle
domeniche dell’anno e del comune che contengono, ciascuna,
una decina di testi. Il che significa che il celebrante deve fare
lo sforzo di scegliere la tipologia generale di prefazio e, all’in-
terno, il prefazio che si ritiene più adeguato alla liturgia che si
deve celebrare.
Il che conferma un dato e una istanza. Il dato è che la messa,
così come è uscita dalla riforma liturgica, è un rito che conser-
va comunque una parte standardizzata. Ma è anche, in qualche
modo, un evento che “sente” la forza della storia degli uomini
e ne avverte i contraccolpi. Da qui l’istanza. Il celebrante non
è solo l’esecutore formale del rito, ma deve essere l’uomo della
comunità che dà voce e carne al rito, che porta dentro la strut-
tura del rito la forza, inevitabile, della sua storia personale ma
poi, soprattutto, quella dell’intera comunità della quale è al ser-
vizio.

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DOSSIER
i nostri modi di dire

37.
Purificare l’anima

Un modo di dire, quello presentato nel presente dossier, che gene-


ralmente è riconosciuto come lontano dalla sensibilità odierna, che
rischia forse di non dire molto all’umano di oggi, ormai disabituato a
interrogarsi e a pensarsi come un intimo rapporto di anima e corpo.
Il «purificare l’anima», tuttavia, riguarda ancora oggi il credente
e lo chiama a interrogarsi sulla sua relazione di fede e d’amore con il
Signore. Come ci insegna il racconto biblico, infatti, essere purificati
significa avere in sé lo Spirito del Signore, guardare alla propria vita e
a quella degli altri con gli occhi amorevoli e limpidi di Dio, come ci
è stato rivelato nella storia di Gesù.
Vi è comunque il rischio, d’altra parte, che questo tema venga
banalizzato o lasciato in secondo piano nella spiritualità cristiana
odierna, per certi versi in ricerca di maggiore concretezza storica. Es-
so, tuttavia, può suggerire ancora degli spunti interessanti su come
pensare il rapporto con se stessi, con gli altri e con Dio. È questo il
suggerimento, ad esempio, che ci viene rivolto dalla grande lettera-
tura e dai grandi maestri spirituali del passato.
Un quadro variopinto e ricco di suggestioni quello che ci viene
offerto dai contributi di questo fascicolo, come sempre impegnati in
un dialogo aperto e fruttuoso con la società, la cultura e il vivere
quotidiano, cercando allo stesso tempo di illuminare questa realtà

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12Dossier

con la luce della rivelazione biblica, riscoprendo così anche per l’oggi
il senso e la credibilità dell’autentico messaggio cristiano.
1. «Purificare l’anima», di Alberto Carrara. Un’espressione
che oggi sembra tornare di moda, richiamando nuove pratiche e
sensibilità. Un’espressione che nasconde dietro di sé un’infinità di di-
battiti e ne apre degli altri, intercettando insieme la sensibilità esteti-
ca della grande letteratura.
2. Con occhio limpido. Uno sguardo libero, scevro da bramo-
sia, di Patrizio Rota Scalabrini. Un prezioso e puntuale percorso
evangelico alla scoperta della purezza dello sguardo proclamata da
Gesù con l’immagine dell’«occhio»: colui che guarda se stesso, la real­-
tà e gli altri a partire dallo sguardo luminoso di Dio.
3. Lasciare che l’anima venga purificata, di Mario Torcivia.
Un’autentica comprensione del nostro modo di dire è coglierne il ca-
rattere passivo per il credente: questi si lascia purificare da Dio, assu-
me il suo stesso sguardo e accoglie con fede l’azione di Dio in lui, in
un percorso che dura per tutta la vita, in un continuo confronto tra
grazia e peccato.


1. «PURIFICARE L’ANIMA»
di Alberto Carrara

«Purificare»: il verbo, messo lì senza contesti, potrebbe


essere un infinito o un imperativo. Se è un infinito la fra-
se è una anodina affermazione da collocare in un contesto
perché possa acquisire un senso possibile. Dalla più austera
ascesi tradizionale, alle attenzioni preventive a che cosa en-
tra nell’anima… Per arrivare a metodologie molto più inno-
vative. Ad esempio, l’immersione liberante nell’acqua come
strumento, appunto, per «purificare l’anima».
Ma può darsi, molto probabilmente, che «purificare» sia
un «imperativo infinito».

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I nostri modi di dire 13

L’infinito […] può essere usato anche in alcune proposizioni


principali, con diversi valori: – dubitativo: Che fare?; – esclamati-
vo: E dire che una volta eri simpatico! – iussivo (che esprime un
ordine): Cuocere per cinque minuti1.

Potrebbe trattarsi, dunque, di un infinito iussivo, nel sen-


so di «si deve», «è necessario» purificare l’anima. Non si sa
chi e non si sa come, si sa che si deve. Un comando, dunque,
che nasconderebbe l’identità dei destinatari ampliandone a
dismisura il numero: tutti potrebbero essere chiamati a puri-
ficare l’anima.

1. Tra anima e corpo

Ma perché «purificare l’anima»? In realtà l’anima, di suo,


non nasce sporca, potrebbe obiettare un qualsiasi innamo-
rato dell’anima e della sua inalterabile nobiltà. È il corpo
che la insozza. L’anima si sporca perché il corpo si abbuffa,
rovescia addosso al prossimo parole improprie, si ingolfa
in un sesso sregolato… Ma non sarebbe difficile trovare un
qualsiasi interlocutore, soltanto un po’ meno platonico, che
potrebbe obiettare che se il corpo si abbuffa, se insulta, lo fa
perché l’anima si è lasciata abbagliare e ha fatto da istigatri-
ce del povero corpo che si è assunto il ruolo dimesso dell’e-
secutore.
Questo ipotetico dibattito rimescolato così alla buona mi
ha fatto recuperare la stima di antichi sbandamenti di cui la
storia del cristianesimo è piena e anche la stima per gli spes-
so sgangherati dibattiti che li hanno accompagnati. Se l’ani-
ma è davvero la parte alta e nobile dell’uomo, è lei che l’uo-
mo deve curare. Il corpo può andare per conto suo. Non arri-

1
Riferimento reperibile in: https://www.treccani.it/enciclopedia/
infinito_%28La-grammatica-italiana%29.

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14Dossier

verà mai a insozzare davvero l’anima. La purezza dell’anima


può andare insieme con le sporcizie del corpo. Oppure, vice-
versa, l’anima è talmente vitale da esercitare il più rigoroso
possesso del corpo fino ad inverarlo spiritualmente. La puri-
ficazione dell’anima, dunque, avviene o in forza di un ecces-
so di vicinanza o in forza di un eccesso di lontananza rispetto
al corpo, o prendendone totalmente possesso o abbandonan-
dolo totalmente alla deriva.
L’eterno dibattito. Leggo un commento alla Prima lettera
ai Corinzi, introduzione al capitolo 15, lo straordinario ca-
pitolo del “credo antiocheno” che annuncia la risurrezione
di Gesù e la risurrezione dei credenti e dei modi con i quali
questa si realizzerà. E il commento mi dice che il credo e le
sue “applicazioni” sono suggerite a Paolo, probabilmente, da
una spaccatura – una delle tante che esistevano nella inquie-
ta comunità cristiana di Corinto – fra «encratiti» e «lassisti».
Gli encratiti sostenevano una continenza assoluta, i lassisti
una dissolutezza altrettanto assoluta. Entrambe le posizioni
giocavano con il tema nevralgico del rapporto anima-corpo.
E questo tema aveva una pesante ricaduta sul modo di con-
cepire la risurrezione di Gesù. Tutto faceva sistema. Tutto fa
sistema anche oggi, anche nei risvolti dimessi dei nostri modi
di dire.

2. Tra anima e morte

Per purificare l’anima, però, basta correggere le sue stra-


vaganze o chiederle di arginare quelle del corpo? L’impresa,
comunque la si veda, non finisce mai, dura tutta la vita. Ma
la vita finisce. Che senso ha allora lo sforzo di purificazione
dell’anima su se stessa o sul suo inseparabile compagno di
viaggio, se si devono fare i conti con la morte?
Diventano, a quel punto, affascinanti quelle narrazioni che
svelano gli sforzi dell’anima di andare oltre se stessa, quan-

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I nostri modi di dire 15

do tradisce il suo struggente desiderio di scavalcare perfino


la morte.
Marcel Proust – ricorre quest’anno il primo centenario
della morte – nel monumentale ciclo narrativo della Re-
cherche racconta la tormentata vicenda amorosa fra Swann
e Odette de Crécy. Siamo nel primo dei sette romanzi che
compongono la Recherche, «Dalla parte di Swann». Durante
il ricevimento nel palazzo della marchesa di Saint-Euverte,
Swann sente la «piccola frase» musicale della sonata di Vin-
teuil (opera musicale immaginaria, che permette a Proust di
enucleare alcune delle sue più straordinarie intuizioni este-
tiche). Swann si sente, prima, lacerato dai ricordi della felici-
tà perduta e, poi, preso «dall’accarezzante sublime certezza,
dalla promessa di immortalità della piccola frase»2.
In tal modo, la frase di Vinteuil […] si era coniugata alla nostra
condizione mortale, aveva preso qualcosa di umano, e questo era
abbastanza commovente. La sua sorte era legata al futuro, alla
realtà della nostra anima, di cui costituiva uno degli ornamenti
più peculiari, meglio differenziati. Forse l’unica verità è il nulla,
e tutto il nostro sogno è inesistente, ma se è così noi sentiamo
che anche queste frasi musicali, queste nozioni che esistono in
quanto esso esiste, dovranno non esser più nulla. Periremo, ma
teniamo in ostaggio queste divine prigioniere che seguiranno la
nostra stessa sorte. E congiunta a loro la morte ha qualcosa di
meno amaro, di meno inglorioso, forse di meno probabile3.

Come la maddalenina intinta nella tazza di tè4 aveva per-


messo di ricuperare il passato attraverso la «memoria invo-
lontaria», così la piccola frase di Vinteuil sembra incaricata di
addomesticare il futuro e l’ombra incombente della morte. Di

2
G. Raboni, Argomento del primo volume, in M. Proust, Alla ricerca
del tempo perduto, vol. 1, Mondadori, Milano 1987, 1360.
3
Ibid., 423-424.
4
Ibid., 59.

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16Dossier

fronte al limite invalicabile sta il fascino indescrivibile della


musica. Ma non della musica in genere, ma di una musica par-
ticolare, specialissima, la «piccola frase» della sonata di Vin-
teuil. La quale, proprio perché così individuata, «aveva preso
qualcosa di umano», come se la vita fosse diventata musica
e viceversa. L’assunzione della tonalità umana da parte della
piccola frase significa proiettarsi verso il futuro, verso la realtà
dell’anima di cui costituisce uno degli «ornamenti più pecu-
liari». Il futuro è dominato dalla morte, il sogno è inesistente,
le frasi che sono legate strettamente a quel sogno finiranno
anch’esse come il sogno. Ma le frasi musicali sono quelle che,
nel presente, tengono vivo il sogno, come «divine prigioniere».
La musica, dunque, non cancella la morte, ma tiene vivo il so-
gno che rende meno amara la morte, forse meno probabile.
Se vogliamo tornare al nostro tema, l’anima anela a esse-
re purificata non solo dalle sue scorie morali, ma dalla scoria
che tutte le riassume, la morte. Il grande scrittore si affaccia
su questo orizzonte chiuso e sogna di liberare, di purificare
la sua vita da quella inabrogabile scadenza. Non dispone di
mezzi risolutori, ma dà fondo ai mezzi di cui dispone. Così
la musica finisce per essere l’annuncio più struggente di una
liberazione che può essere soltanto immaginata nel sogno.
Ma è un sogno che viene incontro ai più profondi desideri
dell’uomo, al punto che arriva a rendere perfino «meno pro-
babile» la morte stessa.

CON OCCHIO LIMPIDO. UNO SGUARDO



2. LIBERO, SCEVRO DA BRAMOSIA
di Patrizio Rota Scalabrini

Di che cosa veramente si vive? Delle cose che possediamo


e che accumuliamo accaparrandole per noi, o di quelle che
usiamo saggiamente, per il nostro vero bene e per l’altrui be-

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I nostri modi di dire 17

ne? A queste domande Gesù risponde a più riprese nel con-


testo del Discorso della montagna. In tale cornice si inserisce
il lóghion di Mt 6,22-23:
La lampada del corpo è l’occhio; perciò, se il tuo occhio è sem-
plice, tutto il tuo corpo sarà luminoso; ma se il tuo occhio è cat-
tivo, tutto il tuo corpo sarà tenebroso. Se dunque la luce che è in
te è tenebra, quanto grande sarà la tenebra!

L’asserzione iniziale, secondo molti commentatori, riflet-


te una concezione diffusa nelle culture dell’Antico Vicino
Oriente e dell’area mediterranea, per la quale si riteneva
che l’occhio contenesse una sorta di fuoco interno, una lu-
ce propria che si proietta al di fuori, permettendo di vedere.
Usando un’analogia: sarebbe come una lucerna che, posta
nella nicchia di un muro, illumina e fa vedere tutta la casa. La
mancanza di una corretta cognizione della fisiologia dell’oc-
chio non deve comunque stupire, ma soprattutto non deve
far dimenticare che qui il tema della lucerna dell’occhio è
impiegato a modo di metafora. E l’attenzione va posta sul si-
gnificato della metafora.
Essa afferma, dunque, che l’occhio è come una lucerna.
Ma quale luce esce dall’occhio? Oppure quale tenebra esce
da esso? Ebbene esce quello che si ha nel cuore. Il cuore pu-
ro, che cerca sinceramente Dio e il senso della vita, si rap-
porta ad un occhio luminoso; d’altra parte non solo l’occhio,
ma tutto il corpo, cioè l’intera esistenza, risulta illuminata. In
effetti, dal volto di una persona ci si accorge subito quale sia
la sua luminosità, perché l’occhio con lo sguardo esprime il
cuore, l’animo, e diventa finestra che accoglie la realtà, ma
contemporaneamente la illumina, la colora con la propria lu-
ce interiore.
Se l’occhio è chiaro, limpido (in greco, aplús), lo sguardo
è privo di doppi fini, di sotterfugi; allora tutto il corpo (l’e-
sistenza intera) è nella luce e tutto quello che la circonda è
trasparenza, è senso positivo delle cose. Si vede ovunque il

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18Dossier

bene, la traccia della grazia di Dio, si promuove e trasmet-


te il bene, senza confidare negli idoli dell’avere, del potere,
dell’apparire.
Forse il discorso è ancor più comprensibile nella prospet-
tiva rovesciata: «se l’occhio è cattivo (ponērós)». Nel greco
biblico si dice così anche dell’occhio malato, e quindi è l’im-
magine perfetta per significare l’intento dell’uomo malvagio
e avido, che ha lo sguardo di ricerca di possesso sulla realtà,
di accaparramento senza remore.
Non è difficile capire che l’occhio cattivo vede le cose cat-
tive: se si portano occhiali a lenti scure, si vede tutto scuro!
E se uno fa il male o lascia che il male alberghi dentro di sé,
vedrà il male; se uno cova il male dentro di sé, sarà molto dif-
ficile che abbia uno sguardo di misericordia e di perdono, ma
sarà piuttosto uno che evidenzia il male negli altri, cieco nei
riguardi del bene che l’altro fa. Registra e ricorda soltanto il
male, dipinge la realtà con colori scuri, tenebrosi.
Nello specifico, questo insegnamento di Gesù è rivolto al
modo in cui si vede la realtà. Nel contesto del nostro lóghion
è anzitutto in questione il rapporto del discepolo con la ric-
chezza, con le cose. Ebbene questo rapporto è profondamente
segnato dalla propria “luce interiore” e dipende dal fatto che
interiormente palpiti o meno il cuore dello schiavo, oppure
quello del “figlio”, a cui poco prima Gesù ha insegnato la pre-
ghiera da rivolgere a Dio, come il Padre che ha cura di lui, e gli
dona il pane, il perdono e la protezione dal male (Mt 6,9-13).
Se si vive da figli di Dio la relazione con le cose, si impara
a riconoscerle come dono ricevuto, quale segno del suo amo-
re. Proprio per questo, poi, non è una fatica condividerle con
i fratelli, ed essere liberi dall’insidia dell’avidità, della cupi-
digia. È anche un essere liberi dalla lussuria, che è un volere
possedere l’altro come oggetto, senza rispettarlo e redendolo
funzionale alla mera soddisfazione del proprio bisogno: «Ma
io vi dico: chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già
commesso adulterio con lei nel proprio cuore» (Mt 5,28).

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I nostri modi di dire 19

1. Uno sguardo non giudicante, ma accogliente

Sempre nel Discorso della montagna Gesù fa un ulteriore


ricorso alla metafora dell’occhio e dello sguardo per delinea­
re l’insostenibilità tra l’essere membri del Regno, discepoli
dell’evangelo, e il pretendere di giudicare gli altri con ineso-
rabile severità, mentre si è subito pronti a scusare le proprie
mancanze, a minimizzare le proprie colpe:
Perché guardi la pagliuzza che è nell’occhio del tuo fratello, e
non ti accorgi della trave che è nel tuo occhio? O come dirai
al tuo fratello: «Lascia che tolga la pagliuzza dal tuo occhio»,
mentre nel tuo occhio c’è la trave? Ipocrita! Togli prima la tra-
ve dal tuo occhio e allora ci vedrai bene per togliere la pagliuzza
dall’occhio del tuo fratello (Mt 7,3-5).

Il discepolo non può attribuire a se stesso il ruolo di giu-


dice, che è riservato a Dio, il quale in realtà è sempre miseri-
cordioso con chi usa misericordia. Anche la prassi della cor-
rezione fraterna sarà efficace, sarà di vero aiuto, solo quando
si fonda sulla consapevolezza del proprio limite e resta umi-
le, rinuncia a giudizi universali, che ricacciano l’altro nei suoi
sbagli, senza vedere ciò che Dio sta operando in lui.
Di questo sguardo non giudicante, ma misericordioso e ac-
cogliente, è Gesù stesso il modello e il maestro. È uno sguar-
do che rivela lo sguardo di Dio su un’umanità bisognosa di
trovare un cammino di liberazione, di guarigione: «Vedendo
le folle, Gesù salì sul monte» (Mt 5,1). È lo sguardo che si po-
sa sulle folle in situazioni di precarietà: «Vedendo le folle, ne
sentì compassione, perché erano stanche e sfinite come peco-
re che non hanno pastore» (Mt 9,36).
Paradigmatico dello sguardo che non giudica, ma apre ad
un futuro nuovo e dona speranza, è quanto avviene nell’in-
contro di Gesù con Zaccheo: «Gesù alzò lo sguardo e gli dis-
se: “Zaccheo, scendi subito, perché oggi devo fermarmi a ca-
sa tua”» (Lc 19,5). Zaccheo, capo dei pubblicani, non si sente

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20Dossier

giudicato, bensì accolto! È onorato e pieno di gioia nell’ospi-


tare Gesù. La sua vita cambia radicalmente e diventa lumi-
nosa esperienza di salvezza!

2. Uno sguardo fraterno, libero dall’invidia

Sempre a proposito dell’occhio, cioè dello sguardo che


impronta la relazione con gli altri e le proprie opzioni fon-
damentali, vi è uno sferzante insegnamento di Gesù posto a
conclusione della parabola degli operai mandati a lavorare
nella vigna in varie ore (Mt 20,1-16).
Nel contesto dello scontro tra il proprietario della vigna e
gli operai che vi hanno lavorato fin dal mattino, il padrone ad-
duce a giustificazione della sua contestata liberalità verso gli
operai dell’ultima ora, il fatto che non ha negato il pattui­to a
nessuno e che è libero di disporre dei propri beni a suo piaci-
mento. Ma la sua replica alle loro rimostranze va oltre e sposta
l’argomentazione dal piano delle ragioni che spiegano il suo
comportamento a quello delle motivazioni nascoste che muo-
vono la critica degli operai della prima ora: «Oppure tu sei in-
vidioso, perché io sono buono?» (Mt 20,15b). Il testo, letteral-
mente parla di un loro avere un «occhio cattivo» (ophtalmós
ponērós), in contrasto con il suo essere «buono» (agathós).
Ebbene, il padrone non sta giudicando i suoi contestatori,
ma chiede loro di analizzarsi e interrogarsi sul loro modo di
valutare i rapporti con gli altri, sulla loro visione della vita,
che si rivela incompatibile con lo stile «buono» che plasma il
suo agire e che lo porta ad essere “scandalosamente genero-
so” ai loro occhi invidiosi.
A ben guardare, i primi operai non hanno rimproverato
il padrone perché hanno ricevuto meno di quanto spettasse
loro, ma hanno espresso la loro insoddisfazione di fronte al
fatto di essere stati trattati come tutti gli altri, senza differen-
ze. È questo annullamento delle distanze, dei gradi di merito,

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I nostri modi di dire 21

che provoca in loro un fastidio insopportabile. Con quest’ot-


tica essi non si sentono solidali con gli altri operai, non capi-
scono il bisogno di quelli che hanno atteso per ore, anzi qua-
si per un’intera giornata lavorativa, di avere un’opportunità
per portare a casa qualcosa, del denaro per poter sfamare
la famiglia. Di fronte a tale necessità essi sono ciechi, pro-
prio perché concentrati soltanto sui propri meriti e sul tratto
competitivo del loro comportamento che si traduce in occhio
«cattivo», cioè invidioso e non solidale.
Il lettore/ascoltatore della parabola perciò è rimandato a
interrogarsi se non sia anch’egli mosso da una logica compe-
titiva. In questa logica per cui si misurano i rapporti in fun-
zione di una gerarchia di potere e di meriti, si corre il rischio,
oltre tutto, di smarrire una certezza, e cioè che, nella vita di
fede, la ricompensa è sempre gratuita, mai meritata. Non è
questo, però l’unico pericolo di una visione meritocratica
della vita e della stessa fede, perché contemporaneamente
l’altro effetto inevitabile è quello di uno sguardo in cui si
smarrisce il senso della solidarietà e si offusca la fraternità.

LASCIARE CHE L’ANIMA



3. VENGA PURIFICATA
di Mario Torcivia

Il tema affidato al mio contributo di riflessione è un con-


cetto classico della tradizione spirituale cattolica – penso, ad
esempio, a Ugo de Balma (XIII-XIV secolo) – che ritrovia-
mo anche nei manuali di ascetica e mistica preconciliari, il
più famoso dei quali è forse il Compendio di teologia ascetica
e mistica del Tanquerey, il cui titolo del Libro I della Parte se-
conda recita: «Purificazione dell’anima o via purgativa».
La purificazione dell’anima è quindi la prima delle tre vie,
ovvero dei tre principali gradi della vita spirituale, che l’ani-

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22Dossier

ma del credente, sapientemente guidata dal direttore spiri-


tuale, deve percorrere per giungere alle vette della perfezio-
ne cristiana e cioè all’intima unione con Dio, che si realizza
per mezzo della carità. Due poi sono i mezzi necessari per
conquistare la meta: la preghiera e la mortificazione, deno-
minata penitenza, mortificazione propriamente detta, lot-
ta contro i vizi capitali e lotta contro le tentazioni. Il primo
mezzo, la preghiera, ci ottiene la grazia; il secondo, la mortifi-
cazione, è la risposta del credente al dono della grazia.
Pur rispettando la formulazione del titolo dato dalla reda-
zione al mio contributo, nelle righe che seguono, abbandono
il termine «anima», perché involontariamente foriero di un
non più comprensibile, per l’uomo contemporaneo, dualismo
antropologico, preferendo «credente».
Il primo dato da sottolineare, fondamentale e previo ad
ogni altra considerazione, è che la purificazione è opera di
Dio. È lui infatti che fa provare al credente tutta una serie di
prove – tentazioni, angustie, assenza di consolazioni spiritua-
li ecc. – il cui scopo è proprio l’abbassamento/annichilimento
dell’uomo dinanzi a Dio e, al contempo, la perseveranza nel
compiere la sua volontà e la continua e fervorosa preghiera a
Cristo patiens, vero modello di ogni prova.
Come insegna Caterina da Siena, è Dio che purifica il cre-
dente, sottraendosi, per sentimento, alla sua presenza, perché
il credente si umili, conosca sempre più il suo essere pecca-
tore e non smetta di cercarlo nella luce della fede, fintanto-
ché arrivi lo Spirito. E questa attesa di Dio Spirito non è mai
oziosa, perché nutrita di continua preghiera (cf. Dialogo del-
la Divina Provvidenza, LXIII).
Alla priorità dell’azione divina, segue pertanto l’azione
del credente – mai però volontaristica – chiamato a sintoniz-
zarsi pienamente alla volontà superna. Giovanni della Croce,
con la chiarezza e l’acutezza teologico-spirituale che lo con-
traddistinguono, trattando dei due aspetti della purificazione
dell’anima, ribadisce la necessaria sottomissione del creden-

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I nostri modi di dire 23

te alla volontà di Dio, basata sull’esercizio delle virtù teolo-


gali (purificazione attiva), perché la volontà umana attinga
direttamente, e solo, dalla volontà di Dio, ogni suo input (pu-
rificazione passiva).
Un secondo tratto sulla purificazione del credente è dato
da un particolare luogo da abitare: l’intimità, nello Spirito,
con il Cristo. Vivere in lui morto e risorto, permettergli di
prendere forma in noi, lasciarsi conformare a lui, è certa-
mente un modo certo e sicuro per acquisire quel cuore pu-
ro, capace di vedere Dio già su questa terra, acquisendo lo
sguardo «dioratico». Sguardo che permette di guardare in
profondità se stessi e tutto il creato. È infatti lo sguardo di
Cristo presente in noi che purifica il nostro spirito, i nostri
sensi, l’interezza del nostro essere, donandoci uno sguardo
contemplativo. Uno sguardo cioè capace di vedere tutto e
tutti con gli occhi stessi di Dio.
Accanto alla purificazione che avvertiamo nel nostro spi-
rito, ve n’è una che giunge dalla storia di ogni giorno, dai fatti
che avvengono, dalle relazioni, serene o infelici, che colti-
viamo con le persone. A volte, è proprio quell’avvenimento
concreto che fa cambiare direzione alla nostra vita, è proprio
quella parola udita che fracassa la corazza del nostro cuore,
è proprio quell’incontro, forse non desiderato, cercato e vo-
luto, che ridisegna la nostra lettura della realtà. Avvertito un
iniziale trambusto, cogliamo poi che tutto ciò è opera della
grazia, che smussa le nostre asperità, purificandoci dalle sco-
rie e zavorre che spesso albergano nel nostro cuore.
La purificazione non è un fatto puntuale, che avviene una
volta per sempre. È invece un elemento della vita spirituale
che ci accompagnerà fintantoché siamo su questa terra. Fa
parte del dinamismo della vita secondo lo Spirito ed è nutri-
ta dal diuturno ascolto della Parola e dalla costante parteci-
pazione alle celebrazioni sacramentali. Sono infatti Parola e
Sacramento i mezzi ordinari attraverso i quali il Signore mo-
della giorno dopo giorno, domenica dopo domenica, la vita

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24Dossier

dei credenti, e che rivelano, in modo spiritualmente tangibile


e intellegibile, come la purificazione sia un dono gratuito, che
viene dall’alto. Dono superno che, certamente, cerca la coo-
perazione dell’uomo, che mai deve stancarsi di combattere,
come scrive Francesco di Sales:
L’esercizio della purificazione dell’anima può e deve finire sol-
tanto con la vita: perciò non agitiamoci per le nostre imperfezio-
ni; quello che si chiede a noi è di combatterle; se non le vedessi-
mo, non potremmo combatterle e non potremmo vincerle se non
ci imbattessimo in esse. La nostra vittoria non consiste nel non
sentirle, ma nel non acconsentirvi; e non è acconsentire esserne
turbati. Anzi, ogni tanto, ci fa bene una ferita in questa battaglia
spirituale, per fortificare la nostra umiltà; non saremo mai vinti
finché non avremo perso la vita o il coraggio (Filotea, parte I, ca-
pitolo V).

Parlare di purificazione, infine, significa evidenziare la di-


mensione recettiva del credente, chiamato a dissetarsi alla
sorgente di acqua scaturita dal cuore di Cristo, come scrive
Lanspergio, monaco certosino morto nel 1539:
Considera ancora, mio discepolo, che dal mio Cuore pieno d’a-
more sono scaturite due sorgenti salutari: una di acqua e l’altra
di sangue. La sorgente di sangue ti arreca le ricchezze del mio
ardente amore; la fontana d’acqua ti purifica, rinfresca la tua
anima, spegne in te l’incendio delle passioni perverse.

Compito del discepolo del Signore Gesù che accoglie la


purificazione divina è allora maturare nella consapevole
umiltà della propria condizione di peccatore-redento dal Si-
gnore, vivere in continuo stato di preghiera – partecipando
alle celebrazioni liturgiche e recitando frequenti preghiere
nel segreto della propria stanza – e far sgorgare dal cuore le
sempre feconde lacrime della penitenza.

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SUSSIDIO
di Roberto Laurita

Incontro per i membri


dei Consigli parrocchiali
per gli affari economici

Il Consiglio Parrocchiale per gli Affari Economici ha un ruolo im-


portante, ma le sue riunioni rischiano di essere totalmente consa-
crate ad affrontare e risolvere problemi concreti (di bilancio, di pro-
gettazione ed esecuzione di lavori, di interventi di ristrutturazione
o di manutenzione…). Con questa proposta, vorremmo offrire uno
spunto per esprimere la gratitudine della parrocchia verso il servizio
che questo consiglio le rende; riflettere sul suo ruolo, per riconoscere
l’importanza delle sue scelte e del suo stile; metterci in ascolto della
Parola che ci indica una strada.
La proposta che abbiamo preparato è stata confezionata “a fisar-
monica”. Infatti può essere presa in blocco oppure smembrata in di-
versi momenti. Può costituire una mezza giornata di riflessione e di
preghiera oppure può anche servire per aprire le singole riunioni con
un breve suggerimento di meditazione.
La struttura del presente sussidio prevede:
1. Un momento iniziale per ringraziare il Signore delle tante per-
sone che, con il loro contributo aiutano la parrocchia.
2. Quattro tappe per la riflessione attorno a quattro temi: a) il
“consigliare” nella chiesa; b) i Consigli e la comunità, la funzione con-
sultiva e il loro buon funzionamento; c) i Consigli e la gestione dei
beni della chiesa; d) lo stile dell’uomo interiore. Ad ogni tappa sono

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26Sussidio

collegate delle domande che potrebbero avviare una riflessione per-


sonale o di gruppo.
3. Alcune considerazioni a mo’ di conclusione e una preghiera a
due cori.

Breve saluto da parte di chi presiede

P. Carissime/i,
la vostra presenza oggi ci rallegra. Sappiamo di poter contare
su di voi, sulla vostra competenza, ma anche sull’amore che
nutrite verso la parrocchia a cui appartenete. Ecco perché
abbiamo pensato a questo momento fraterno di riflessione e
di preghiera: per riconoscere l’importanza della nostra mis-
sione e per ritrovare slancio e gioia di servire il Signore, ono-
rando il compito che ci è stato affidato.

Una carovana di grazie (a due cori)


Grazie, mio Dio, per tutti gli uomini e le donne
che vorrebbero essere generosi come Te.
Grazie per quelli che donano con abbondanza
senza troppo misurare.

Grazie per tutti quelli che hanno scelto di essere onesti,


ma senza fare chiasso, senza proporsi come modelli,
Grazie per quelli che hanno deciso di essere onesti,
ben sapendo che c’è un prezzo da pagare.

Grazie per gli uomini e le donne che amano la correttezza,


quella che viene innanzitutto da un cuore limpido e retto,
e che raggiunge l’intelligenza, lo sguardo e la volontà.
Grazie per quelli che sono capaci di vedere la realtà
e di affrontarla con determinazione.

Grazie per quelli che onorano le competenze,


senza lasciarsi intimorire dai potenti di turno.

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Per i membri dei Consigli degli affari economici 27

Grazie per le persone che dicono quello che pensano


e dichiarano la loro posizione anche se sono in minoranza.

Preghiamo
P. Signore Dio, tu lo sai quanto la competenza sia benefica
in ogni settore della vita umana perché permette di deci-
frare la realtà, di trovare la soluzione migliore, di far fron-
te ai problemi senza paure e senza timori. Liberaci da tutto
quello che tarpa le ali, che blocca la fantasia, che impedisce
di costruire quel «nuovo» di cui tutti avvertiamo il bisogno.
Donaci il tuo Spirito, perché possiamo fornire il nostro con-
tributo con semplicità e coraggio per la comunità cristiana in
cui viviamo. Tu sei il nostro Padre per i secoli dei secoli.

PRIMA TAPPA
Il «consigliare» nella chiesa

L. A che servono i “consigli” nella chiesa? È un modo con


cui si provvede a far riecheggiare l’annuncio, a dare consigli
e a recepirli, a correggere e a sostenere, a preoccuparsi vicen-
devolmente per l’edificazione della stessa comunità. La chie-
sa è una comunione che nasce dalla comunione trinitaria,
crea comunione al suo interno e attrae ed espande la comu-
nione all’intera umanità.
Nella chiesa si realizza una forma di fraternità reciproca
e di cura dell’altro. Ne deriva, dunque, un vicendevole farsi
carico l’uno dell’altro. I consigli sono così una specifica con-
figurazione storica di questo impegnativo cammino comuni-
tario. In questo caso, il farsi carico è il «consigliare».
Non si tratta, innanzitutto, di una materia giuridica: esso ci
richiama a una tradizione spirituale che va fatta risalire allo
Spirito Santo, quale Spirito di consiglio.

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28Sussidio

Di che cosa si tratta? Di qualcosa che va oltre il piano


umano della prudenza e della ponderatezza, per giungere a
un piano ulteriore teso a ricercare e a rinvenire la volontà di
Dio qui e ora. Consigliare è dunque quella forma di discer-
nimento con cui la comunità cristiana cerca di comprendere
ciò che Dio esige da lei.

Quattro conseguenze per il consigliare

L. Nella chiesa il consigliere deve avere la comprensione amo-


revole delle complessità della vita in genere e della vita eccle-
siastica in specie. Il consigliare non è un atto puramente intel-
lettuale; è un atto misericordioso che tenta di guardare con
amore l’estrema complessità delle situazioni umane concrete.
Il consiglio, come dono, va richiesto nella preghiera e non
si può presumere di averlo. Il consiglio non è un’arma di cui
posso servirmi per mettere al muro altri; è un dono a servizio
della comunità, è la misericordia dell’agire di Dio in me.
La creatività e il gusto dell’indagine per l’istruzione della
causa sono caratteristiche del consigliare. C’è il rischio che
nei nostri consigli si proponga un tema, si chieda il parere dei
singoli membri, e ciascuno dica la prima idea che gli viene in
mente, per vedere poi, alla fine, dov’è la maggioranza. Istrui­
re la causa significa domandarsi: qual è il problema? Come
lo comprendiamo? Come è stato risolto altrove?
Infine, vale la pena sottolineare l’importanza della con-
templazione del volto di Gesù e del volto della chiesa a cui si
tende. Se il decidere nella chiesa ha lo scopo di configurare
sempre meglio il volto del suo Signore, dobbiamo contem-
plare il volto di Gesù e poi regolarci di conseguenza. Sarebbe
bello, a questo proposito, richiamare le pagine che hanno fat-
to storia sul volto fraterno di parrocchia.
(liberamente tratto da C.M. Martini, Consigliare nella Chiesa. Organismi
di partecipazione della Diocesi di Milano, Ambrosiano, Milano 2002, 13-25).

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Per i membri dei Consigli degli affari economici 29

Per la riflessione personale o di gruppo:


– Quale aspetto del «consigliare» ci sembra più attuale e più
necessario?
– Nel nostro modo di procedere, quale “aggiustamento” sa-
rebbe opportuno?

SECONDA TAPPA
I consigli e la comunità

L. La comunità parrocchiale in quanto tale deve essere ama-


ta e sostenuta da coloro che la compongono. Un aiuto pre-
ziosissimo lo offrono coloro che accettano di far parte del
Consiglio pastorale parrocchiale e del Consiglio per gli affa-
ri economici. È un compito importante e delicato, che esige
dedizione e fedeltà, acquisizione di esperienza e anche tanta
pazienza. Ma i consigli parrocchiali hanno bisogno dell’ap-
porto di tutte le persone in grado di dare suggerimenti, di fa-
re delle osservazioni, di offrire collaborazione. Come il grup-
po dei catechisti non esenta la famiglia dall’impegno nella
trasmissione della fede, l’esistenza di un coro non vuol se-
questrare il canto dell’intera assemblea liturgica, così i consi-
gli parrocchiali vogliono animare la corresponsabilità di tutti
e non renderla inutile.

La funzione consultiva
e il buon funzionamento del consiglio

L. Nel suo settore e con la sua specificità, il Consiglio par-


rocchiale per gli affari economici è un ambito della collabo-
razione tra presbiteri, diaconi, consacrati e laici e uno stru-
mento tipicamente ecclesiale, la cui natura è qualificata dal

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30Sussidio

diritto-dovere di tutti i battezzati alla partecipazione corre-


sponsabile e dalla realtà di una Chiesa che è comunione.
Così lo possiamo definire organo consultivo solo in termi-
ni analogici e se la consultività è interpretata in giusto senso
ecclesiale.
I fedeli, in quanto incorporati nella Chiesa, sono abilitati
a partecipare realmente, a costruire la comunità giorno dopo
giorno; il loro apporto è prezioso, oltre che necessario. Per
questo il parroco, che presiede il Consiglio e ne è parte, deve
promuovere una sintesi armonica tra le differenti posizioni,
esercitando la sua funzione e responsabilità ministeriale. Il
parroco potrà non accettare un parere espresso a larga mag-
gioranza dai membri del Consiglio solo in casi eccezionali e
su questioni di rilievo pastorale che coinvolgono la sua co-
scienza e dovrà però spiegarli al Consiglio.
Qualora poi ci fossero forti divergenze di pareri su que-
stioni non urgenti, sarà opportuno rinviare la decisione a un
momento di più ampia convergenza, invitando tutti a una
riflessione più pacata e più matura; ma nel caso di urgenza,
bisognerà appellarsi all’autorità superiore perché aiuti a in-
dividuare la soluzione migliore.
Vale la pena ricordare che un buon funzionamento del
Consiglio non può dipendere esclusivamente dai meccani-
smi istituzionali, ma esige da parte dei suoi membri una co-
scienza ecclesiale, uno stile di comunicazione fraterna e la
comune convergenza sul progetto pastorale. Se una buona
presidenza richiede nel Parroco la disponibilità all’ascolto, la
finezza nel discernimento, la pazienza nella relazione, la cura
per il bene comune della Chiesa richiede in tutti l’attitudi-
ne al dialogo, l’argomentazione delle proposte, la familiarità
con il Vangelo e con la dottrina e la disciplina ecclesiastica.
(da C.M. Martini, Consigliare nella Chiesa. Organismi di partecipazione della
Diocesi di Milano, Centro Ambrosiano, Milano 2002, 27-31).

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Per i membri dei Consigli degli affari economici 31

Per la riflessione personale o di gruppo:


– Attraverso quali forme è possibile far conoscere i nostri
lavori all’intera comunità parrocchiale?
– In quale modo sollecitare i fedeli ad esprimere le loro
aspettative e i loro bisogni?
– Quali strumenti mettere in atto per raccogliere le opinioni
e le necessità della parrocchia?

TERZA TAPPA
Quale significato hanno i beni ecclesiastici?

L. Essi sono soltanto strumenti per il raggiungimento dei fini


spirituali della Chiesa: la realizzazione del culto divino, l’e-
sercitare le opere dell’apostolato e della carità specialmente
a servizio dei poveri e dei bisognosi, il provvedere a un one-
sto sostentamento del clero, e quant’altro si riferisce alla mis-
sione spirituale che Gesù Cristo le ha affidato.
Dunque, la costituzione stessa della Chiesa, nel contem-
po comunione spirituale e comunità visibile, istituzionale e
giuridicamente organizzata, giustifica l’esistere di beni eccle-
siali, ne identifica e precisa la natura, ne delimita con rigore
i confini: essi sono un mezzo, e soltanto un mezzo, relativo al
fine, il fine della Chiesa di compiere la propria missione spi-
rituale.
Non è certamente conforme alla natura della Chiesa una
ricerca del denaro e dei mezzi materiali fine a se stessa, una
ricerca tesa all’accumulo o all’uso indiscriminato. Ciò vale
pure per le singole comunità parrocchiali. Non si tratta di
accrescere senza misura le possibilità concrete di una par-
rocchia, sia rispetto ai mezzi finanziari che alle strutture. Se
una comunità ha mezzi in abbondanza deve pensare – dopo
aver provveduto ragionevolmente alle proprie necessità e

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32Sussidio

ai propri poveri – a un’equa condivisione di risorse con par-


rocchie meno avvantaggiate vicine o lontane (per esempio,
nei paesi di missione). […] Va ricordato in ogni caso che è
parte della povertà della Chiesa il saper fare un uso buono,
corretto, trasparente e solidale delle risorse che le vengono
affidate.
(da C.M. Martini, Consigliare nella Chiesa. Organismi di partecipazione della
Diocesi di Milano, Centro Ambrosiano, Milano 2002, 32-33).

Per la riflessione personale o di gruppo:


– Quali rapporti esistono tra il Consiglio pastorale parroc-
chiale e il Consiglio parrocchiale per gli affari economici?
In che modo si facilita l’intesa, pur nella distinzione dei
compiti?
– Quando sono emerse delle difficoltà o dei pareri contra-
stanti, quali scelte hanno consentito di superarli?

QUARTA TAPPA
Lo stile dell’uomo interiore

L. L’uomo del cuore è l’uomo interiore, ossia l’uomo che è


capace di silenzio, che sa abitare la propria anima, che ha cu-
ra della propria interiorità.
È l’uomo che ha occhi in grado di guardare oltre le
apparenze e oltre la materialità e, nel contempo, è l’uomo
che sa guardare la storia e sa stare dentro la storia. È l’uo-
mo spirituale, sì, ma non uno spiritualista che vive astratta-
mente, che non si fa carico dell’altro, che non sa assumersi
una responsabilità fattiva nei confronti dei suoi simili. Anzi!
L’uomo interiore è un attento osservatore, cerca l’altro, vuo-
le capirlo fino ad amarlo senza riserve, ed è per questo che si
impegna nel mondo e per il mondo, non perché ama i riflet-

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Per i membri dei Consigli degli affari economici 33

tori, il potere, la ricchezza, ma perché ama il suo simile, il suo


prossimo, e con l’altro e per l’altro compie il cammino della
vita.
L’uomo del cuore ha come segno distintivo una grande li-
bertà interiore: è l’uomo libero e ricco allo stesso tempo. Li-
bero dall’ansia di possedere cose, libero dalle relazioni sba-
gliate e dai mille legami del mondo. Proprio per questo è im-
mensamente ricco, ma di ben altra ricchezza rispetto a quella
economica e a quella dell’apparire […].
L’uomo del cuore è l’uomo sapiente che non cede all’indi-
vidualismo, non rifiuta il rapporto con gli altri, anzi lo assu-
me in profondità e, oserei dire, con raccoglimento interiore;
lo vive intensamente e con una dedizione umana radicale.
(da D. Tettamanzi, La Città in cui credo. Milano, la speranza possibile,
Rizzoli, Milano 2011, 146-147).

Per la riflessione personale o di gruppo:


– Ci impegniamo personalmente ad essere uomini e donne
«del cuore»?
– Siamo sensibili ai suggerimenti dello Spirito che è dentro
di noi per leggere la realtà con gli occhi di Gesù?
– Siamo attenti a sfuggire alla logica del “così fan tutti”?

A MO’ DI CONCLUSIONE

L. La gestione dei beni della chiesa non può sfuggire alla du-
plice logica di un’attività che ha una faccia rivolta verso la
società in cui viviamo, e l’altra faccia rivolta verso la costitu-
zione di una comunità la cui presenza nel mondo annuncia
già un altro mondo. Suppone dunque, da parte degli ammini-
stratori, la prudenza, ma anche lo spirito di iniziativa: gesti-
scono “da buoni padri di famiglia”, ma nella fiducia verso il

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34Sussidio

Padre che sta nei cieli. Sanno di gestire in permanenza nella


precarietà, ma non devono preoccuparsi in modo patologico
del futuro. Utilizzano le tecniche moderne della gestione, dei
bilanci, delle analisi e dei consigli, ma non ignorano che la
generosità di tutti è la fonte principale di tutta l’attività ec-
clesiale. Agiscono con grande attenzione e rendono conto di
una gestione scrupolosa nei confronti delle leggi fiscali e dei
regolamenti civili: ma sanno soprattutto che la loro gestione
fa parte della testimonianza evangelica.
La legge dell’Incarnazione si impone costantemente alle
nostre coscienze cristiane e ci invita ad un grande realismo
nel modo di condurre sia la vita personale che quella eccle-
siale.
(da L. Ulrich, Pour une gestion évangélique des biens d’Eglise, 2004).

Preghiera conclusiva (a cori alterni)


Ridesta, Signore, la nostra chiesa.
Apri i nostri occhi,
accendi il nostro cuore,
rendi operose le nostre mani.
Allora potremo rendere ragione
della speranza che ci hai affidato.
Allora saranno rincuorati
tutti quelli che ti cercano,
tutti quelli che amano
la giustizia e la pace.

Tu ti riveli, Signore,
solo a chi viene a te
nella semplicità e nell’umiltà.
Libera la nostra chiesa
da ogni orgoglio e presunzione.
Sostieni la sua ricerca
e il suo amore per te.

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Per i membri dei Consigli degli affari economici 35

Allora potrai colmarla


della tua saggezza.

Signore Gesù,
spezza per noi
il pane buono della tua Parola
e potremo affrontare
il cammino che ci attende
con un entusiasmo nuovo.
Solo tu, Signore, sei la pietra solida
a cui ancorare la nostra esistenza.
Chi si sforza di mettere in pratica
la tua parola di vita
affronta con serenità
i tempi difficili.

Apri i nostri occhi, Signore Gesù,


perché possiamo cogliere
la presenza e l’azione del tuo Spirito
in mezzo a noi.
Apri i nostri occhi, Signore Gesù,
perché ti possiamo riconoscere
nei fratelli che ci visitano,
nelle loro attese e nelle loro richieste.
Solo tu puoi trasformare
questa nostra esistenza
e portarci verso una felicità
che dura per sempre.
Donaci, allora, la gioia di accoglierti
e di trasmettere a tutti
il tuo Vangelo.

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36Sussidio

Padre nostro…

Preghiamo
P. O Padre, donaci lo Spirito dell’intelligenza
perché possiamo guardare in profondità.
Donaci di intuire la strada giusta
per venire a capo dei problemi.
Libera i nostri animi
dalla grettezza e dalla gelosia
e insegnaci ad apprezzare e a stimare
ogni cosa buona che viene da te.
Tu sei la nostra gioia
per i secoli dei secoli.

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PREPARARE
la messa
Dalla 23ª alla 29ª domenica
del Tempo ordinario

 L’incontro con la Parola di queste prime domeniche del mese di


settembre ci mette di fronte al carattere impegnativo della fede
in tutte le sue sfaccettature.
 La fede si determina, innanzitutto, in una sequela decisa e con-
sapevole della strada che Gesù stesso ha percorso, la strada della
croce. Una fede che non nasce dal nulla, da un moto irrazionale del-
lo spirito, ma da un’esperienza autentica della cura di Dio nei
nostri confronti, che sempre si pone alla ricerca del peccatore, lo ab-
braccia e lo custodisce.
 La vita di fede si determina quindi in un’ampia costellazione
di pratiche, visioni del mondo e atteggiamenti. Dalla gestione della
ricchezza, all’apertura verso il prossimo; da una preghiera costante
di affidamento, al rendimento di grazie più umile e sincero.
 Una ricca tavolozza quella offertaci dalla Parola domenicale,
che tra esperienze profetiche e sapienziali, narrazioni in parabole e
insegnamenti pratici, in sottofondo ci presenta la preziosa cura pa-
storale paolina per il discepolo Timoteo, incentrata sul richiamo
a custodire la sana dottrina, la testimonianza di Gesù e la bellezza
della preghiera.

▹ 23a domenica ordinaria: La sapienza della sequela. Alla chiama-


ta di Dio ciascuno deve rispondere personalmente e liberamente.
Per questo è necessario sapere le “condizioni” di questa vocazione,

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38 Preparare la messa

aprirsi al dono della sapienza che viene da Dio e trovare in Gesù la


forza per prendere la propria croce e partecipare così alla realizza-
zione dell’unico disegno di salvezza.
▹ 24a domenica ordinaria: Destinatari della cura amorevole di
Dio. Il peccato, purtroppo, segna costantemente la relazione di fe-
de di ciascuno con Dio. Per questo la fede cristiana si radica sulla
certezza della misericordia di Dio, che ci viene rivelata dalla pa-
zienza divina nell’Antico Testamento e dal messaggio d’amore del-
le parabole di Gesù nel Nuovo.
▹ 25a domenica ordinaria: Vivere nel mondo la «scaltrezza» della
fede. La preghiera dà forma alla vita credente; in essa si esprimono
coloro che confidano nel Signore, come Amos, chi invoca la sal-
vezza per ciascuno, come Timoteo, e chi impara a vivere nel mon-
do con astuzia, dimostrandosi così fedele in ciò che davvero conta
per il Regno.
▹ 26a domenica ordinaria: Vivere la fede è aprirsi agli altri. La pro-
fessione della propria fede è sterile se non si volge all’atto pratico,
se non diventa una vita aperta e ospitale verso il prossimo. La fede
vissuta apre gli occhi alle esigenze e le necessità di chi ci sta attor-
no e ci chiama ad agire a immagine di Gesù.
▹ 27a domenica ordinaria: La fede, vera certezza del credente. La
fede come affidamento a Dio, a colui che fa vivere il giusto e tiene
conto del male commesso, si accresce nel vivere questa relazione,
nell’essere discepoli, non ricercando un’ulteriore ricompensa al di
fuori della gioia stessa di essere al servizio per il Regno.
▹ 28a domenica ordinaria: Riconoscere la grazia, per rendere gra-
zie. Il fondamento e l’origine della fede è il riconoscere l’agire sor-
prendente di Dio che sempre ci anticipa, ci salva e ci fa grazia. È
questa l’esperienza di Naaman il Siro e dei dieci lebbrosi del vange-
lo lucano; da questo scoprirsi “anticipati” nasce la fede in colui che
sempre «rimane fedele» e si prende cura di noi.
▹ 29a domenica ordinaria: La preghiera, frutto di una fede auten-
tica. Avere fede non significa solo “conoscere” una dottrina, bensì
instaurare una relazione di fiducia con il Signore, certi ch’egli sem-
pre ascolta ed esaudisce le nostre suppliche. È questo il senso della
preghiera costante, forma pratica di una vita all’insegna della fede.

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23ª domenica ordinaria
4 settembre 2022

La sapienza della sequela.


L’uomo di ogni epoca è affascinato dalla sapienza;
la sua indole è attratta dall’ignoto per poterlo comprendere.
Il progresso della scienza induce l’uomo a ritenere
che tutto possa essere realizzato, compreso e gestito.
Si è persa di vista, però, la vera sapienza,
che dà senso e sapore all’esistenza; essa è di origine divina,
ma è partecipata all’uomo, nella misura in cui egli si pone
in ascolto del Vangelo e nella sequela di Gesù.
Seguire Cristo e divenire suoi discepoli è impegnativo:
richiede amore, fedeltà e disponibilità a scegliere la croce.
Ciò non dipende solo dallo sforzo dell’uomo: è una grazia
concessa dal Signore a coloro che lo amano (vangelo).
L’inconoscibilità della volontà divina palesa non solo
il limite della conoscenza umana, ma pone in luce la necessità
di abbandonare ogni forma di supponenza intellettuale.
Senza la sapienza, che è un dono divino, l’uomo rischia
di procedere su sentieri di morte privi di salvezza (prima lettura).
Paolo perora la causa dello schiavo Onesimo, figlio nella fede,
affinché sia riaccolto da Filemone come fratello nel Signore.
L’apostolo non chiede l’affrancamento dalla condizione servile,
ma una relazione vissuta alla luce della fede (seconda lettura).

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interpretare i testi
di Antonio Landi

«Chiunque di voi non rinuncia a tutti i suoi averi,


non può essere mio discepolo»
Luca 14,33

Prima lettura Sapienza 9,13-18


«13Quale uomo può conoscere il volere di Dio? Chi può immaginare che
cosa vuole il Signore?
14
I ragionamenti dei mortali sono timidi e incerte le nostre riflessioni,
15
perché un corpo corruttibile appesantisce l’anima e la tenda d’argilla
opprime una mente piena di preoccupazioni.

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23ª domenica ordinaria41

16
A stento immaginiamo le cose della terra, scopriamo con fatica quelle a
portata di mano; ma chi ha investigato le cose del cielo?
17
Chi avrebbe conosciuto il tuo volere, se tu non gli avessi dato la sapien-
za e dall’alto non gli avessi inviato il tuo santo spirito?
18
Così vennero raddrizzati i sentieri di chi è sulla terra; gli uomini furono
istruiti in ciò che ti è gradito e furono salvati per mezzo della sapienza».

Concepito in un contesto culturale segnato dalla diffusio-


ne delle idee filosofiche e religiose di matrice greco-ellenisti-
ca, il libro della Sapienza, la cui redazione si attesta verso la
seconda metà del I secolo a.C., si propone di dimostrare che
la sapienza autentica è di origine divina ed è il segno più elo-
quente della presenza di Dio. L’intento dell’autore, un giu-
deo che vive con molta probabilità ad Alessandria d’Egitto,
non è solo di interloquire con i suoi correligionari, persua-
dendoli a tenersi ancorati alle tradizioni degli antichi Padri,
ma anche di attirare l’attenzione di quanti non appartengo-
no al popolo d’Israele, affrontando tematiche attuali per i
lettori del tempo.
La pericope liturgica è inserita nella seconda parte del li-
bro (Sap 6,22–9,18), incentrata sull’elogio della sapienza, sti-
mata come il bene più prezioso da ottenere non tanto con lo
sforzo dell’intelletto, quanto come un dono da Dio. Dev’es-
sere richiesta nella preghiera, così come ha fatto Salomone,
all’inizio del suo ministero regale (cf. 1 Re 3,6-9; 2 Cr 1,8-10).
Il capitolo 9 contiene l’orazione innalzata a Dio dal discen-
dente davidico, e si compone di tre strofe: 1) consapevole
della propria debolezza, il neo-regnante chiede il dono della
sapienza (vv. 1-6); 2) solo la saggezza può consentire a Salo-
mone di governare (vv. 7-12); 3) l’uomo è fragile e, privo del-
la sapienza divina, non sarebbe in grado di conoscere la vo-
lontà di Dio (vv. 13-18).

 L’inconoscibilità del volere divino. Alla mente umana il


progetto (bulḗ) di Dio resta insondabile (cf. Rm 11,34); an-

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42 Preparare la messa

che l’intelletto più acuto si rivela fallace se presume di sa-


pere cosa voglia il Signore. La riflessione sapienziale si basa
su due evidenze di valore assiomatico: la prima è di ordine
teologico, la seconda è dedotta dall’esperienza umana. Le
vie di Dio non corrispondono alle vie degli uomini, e come
il cielo dista dalla terra, così i pensieri divini sovrastano le
congetture umane (cf. Is 55,9); la trascendenza di Dio rende
inaccessibile all’uomo la possibilità di scrutare con certezza
il disegno divino, a meno che non sia il Signore a palesarlo.
Inoltre, l’animo umano, gravato di un corpo corruttibile (ph-
thartón), non può elevarsi alla sublimità della volontà di Dio.
Il linguaggio adottato dall’autore risente d’influssi platonici,
ma l’idea del corpo umano come di una «tenda», evoca la
concezione biblica della precarietà dell’esistenza (Gb 4,21;
Is 33,20; 38,12), così come l’«argilla» è simbolo dell’uomo
plasmato da Dio (Gen 2,7). L’obiettivo è smontare la presun-
zione delle correnti sapienziali di origine pagana di garantire
una perfetta conoscenza, paragonabile a quella divina.

 La sapienza come dono dall’alto. La preghiera prose-


gue evidenziando lo scarto tra la possibilità della conoscenza
umana relativa alle realtà terrene e quella relativa alle realtà
celesti. L’immaginazione, così come la ricerca e l’investiga-
zione, sono dimensioni costitutive dell’essere umano; tut-
tavia, l’esperienza attesta la fatica profusa nel conoscere e
comprendere ciò che appartiene alla terra. La sfera celeste,
pertanto, non è nella disponibilità dell’intelligenza umana.
Penetrare il volere di Dio è possibile solo in virtù della sa-
pienza (sophía) che viene elargita come dono dall’alto sotto
forma di santo spirito (hághion pneúma). La sapienza, infatti,
è dotata di uno «spirito intelligente, santo» che «penetra at-
traverso tutti gli spiriti puri» (cf. Sap 7,22-23); è il segno di un
rinnovamento interiore che consente all’uomo di prendere
consapevolezza di essere abitato nel suo intimo dal Signore.
Pertanto, non è l’uomo che s’innalza a Dio (cf. Gen 11,1-9),

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23ª domenica ordinaria43

ma è Dio che si china sull’uomo, colmandolo della sua pre-


senza sapiente.

 La salvezza per mezzo della sapienza. Il dono della sa-


pienza non è fine a se stesso, ma ha evidenti risvolti in ambi-
to etico e salvifico. In effetti, il sapiente è colui che cammina
lungo i sentieri che Dio ha tracciato in vista della sua felici-
tà terrena e della sua salvezza nella vita ultraterrena. La sa-
pienza, come la Tôrâ, esercita una funzione pedagogica nei
confronti dell’uomo, perché lo istruisce in ciò che è gradito
a Dio, rivelandogli il suo destino d’immortalità: egli non è
votato alla morte perenne, perché «il rispetto delle leggi è
garanzia d’incorruttibilità e l’incorruttibilità rende vicini a
Dio» (Sap 6,19).

Salmo responsoriale Sal 89


Il salmo si presenta come una lamentazione popolare, in
cui sono presenti i motivi dell’invocazione a Dio, del lamen-
to, della preghiera e della speranza relativa al futuro. L’esi-
stenza dell’uomo è ben poca cosa, poiché dalla polvere della
terra è stato tratto (cf. Gen 3,19) e al suolo è destinato a ri-
tornare. Tuttavia, nell’appello rivolto ai figli dell’uomo non
è contenuto solo un infausto presagio, ma un’esortazione al
pentimento: essi sono invitati a tornare (šûb) al Signore, per
acquisire la sapienza necessaria che consenta loro di impara-
re a contare i giorni non in senso quantitativo, ma qualitati-
vo. Difatti, al cospetto di Dio, mille anni sono con un giorno
solo e la vita dell’uomo somiglia all’erba del campo, che al
mattino fiorisce e a sera è destinata a perire. Un cuore sag-
gio, invece, è in grado di cogliere i segni della benevolenza
divina. L’orante chiede con insistenza che Dio possa torna-
re a beneficare i suoi servi, perché possano essere saziati dal
suo amore e dalla sua dolcezza, e renda saldo il lavoro delle
mani.

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44 Preparare la messa

Seconda lettura Filèmone 9b-10.12-17


Carissimo, ti esorto, 9io, Paolo, così come sono, vecchio, e ora anche pri-
gioniero di Cristo Gesù. 10Ti prego per Onèsimo, figlio mio, che ho gene-
rato nelle catene. 12Te lo rimando, lui che mi sta tanto a cuore.
13
Avrei voluto tenerlo con me perché mi assistesse al posto tuo, ora che
sono in catene per il Vangelo. 14Ma non ho voluto fare nulla senza il tuo
parere, perché il bene che fai non sia forzato, ma volontario.
15
Per questo forse è stato separato da te per un momento: perché tu lo ri-
avessi per sempre; 16non più però come schiavo, ma molto più che schia-
vo, come fratello carissimo, in primo luogo per me, ma ancora più per te,
sia come uomo sia come fratello nel Signore.
17
Se dunque tu mi consideri amico, accoglilo come me stesso.

La Lettera a Filemone è ritenuta dagli studiosi un capola-


voro della retorica paolina: l’apostolo Paolo ricorre all’arte
della persuasione con lo scopo di convincere il suo destinata-
rio, un uomo facoltoso presso la cui dimora si raduna una co-
munità cristiana (Fm 2), a riaccogliere in casa sua lo schiavo
Onesimo, allontanatosi probabilmente in seguito a una forte
lite o a un acceso diverbio con il suo padrone. Si tratta di una
ricostruzione dei fatti non condivisa da tutti gli interpreti, ma
abbastanza verosimile sulla base degli scarni dati offerti dal
testo e, soprattutto, del contesto socio-culturale del tempo.
Paolo si trova in catene e presso di lui si è recato Onesimo;
non è da escludere che la sua scelta sia dipesa dalla volontà
di chiedere all’apostolo d’intercedere presso il suo padrone,
Filemone, in qualità di suo amico personale, per poter esse-
re reintegrato nelle sue funzioni servili, senza subire conse-
guenze per il suo allontanamento (Fm 11.15.18).
È il più breve documentato redatto da Paolo e inserito
nel canone neotestamentario; il brano liturgico si sofferma
sull’accorato appello rivolto a Filemone per Onesimo (vv.
9b-10); l’apostolo rende partecipe il suo destinatario del-
la sua intenzione di trattenere con sé colui che sente come
un suo figlio nella fede, ma non intende commettere un tor-

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23ª domenica ordinaria45

to nei suoi confronti, e decide così di rimandarlo da lui, con


l’auspicio che sia accolto non più come schiavo, ma come fra-
tello (vv. 12-17).

 Il figlio generato in catene. Il testo della lettera non è


chiaro sulle motivazioni che abbiano indotto Onesimo a re-
carsi presso Paolo; sembra escluso che si sia trattato di una
fuga con lo scopo di sottrarsi definitivamente al suo padrone,
come del resto appare poco plausibile l’ipotesi sostenuta da
alcuni studiosi, secondo i quali sia stato Filemone a inviare
Onesimo presso l’apostolo, per recargli aiuto durante il tem-
po della prigionia. L’apostolo opportunamente glissa sull’ar-
gomento, e si rivolge in tono supplice (parakalṓ, «ti suppli-
co») a Filemone perorando la causa di Onesimo, definendolo
il «figlio, che ho generato in catene» (v. 10). Forse Onesimo
ha già conosciuto il Vangelo in casa del suo padrone; tuttavia,
la permanenza presso l’apostolo gli ha offerto l’opportunità
di completare il suo percorso d’iniziazione alla fede, grazie
a Paolo, che ne diviene il padre nella fede (cf. 1 Ts 2,11-12;
1 Cor 4,15).

 La scelta di Paolo. Tra Paolo e Onesimo si è creata


un’ottima intesa; seppur a malincuore, l’apostolo decide però
di rinviarlo al suo legittimo padrone (v. 12). In base alle leg-
gi in vigore nel I secolo, non era possibile trattenere con sé
lo schiavo di un altro uomo; l’apostolo non vuole anteporre
la paternità spirituale nei confronti di Onesimo ai diritti che
Filemone vanta riguardo al suo schiavo. Avverte, però, il bi-
sogno di rendergli noto il legame che si è instaurato con lui, e
i benefici che egli ha tratto dalla sua assistenza (v. 13). Paolo
ha scelto di rimandarlo al suo legittimo padrone, evitando di
assumere la decisione di tenerlo per sé, e costringendo File-
mone ad accettare, obtorto collo, quello che a tutti gli effetti
poteva essere ritenuto un sopruso da parte sua (v. 14). Per
Paolo, Onesimo non è più soltanto uno schiavo: è «il mio

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46 Preparare la messa

cuore» (v. 12). Il termine splánchna corrisponde alle «viscere


materne», ed esprime il profondo affetto paterno e materno
che l’apostolo nutre per lui.

 Non più come schiavo. Paolo offre al suo interlocutore


epistolare una chiave di lettura per comprendere il gesto del-
lo schiavo di allontanarsi temporaneamente dalla sua casa e
dal suo servizio: in virtù dell’accoglienza del Vangelo, Onesi-
mo è stato generato dall’apostolo alla vita nuova della fede,
dove ciò che conta non è più la condizione di schiavo o di li-
bero, perché tutti sono una cosa solo in Cristo Gesù (cf. Gal
3,28). Ne consegue che Filemone dovrà riaccogliere Onesi-
mo non più come una proprietà di cui poter disporre in base
alle sue esigenze, ma come un «fratello nel Signore» (Fm 16).
Paolo non chiede l’affrancamento dello schiavo, ma sollecita
Filemone a relazionarsi a lui in maniera differente; con la sua
conversione, difatti, Onesimo è divenuto un fratello in Cristo
da amare.
Se «nel Signore» Onesimo è divenuto credente, «nella car-
ne» egli resta uno schiavo: è racchiuso tutto qui il paradosso
della comunità cristiana, che esige l’amore non solo verso i
propri simili in base all’estrazione sociale ed etnica, ma in-
clude tutti coloro che, avendo accolto il messaggio del Van-
gelo, vivono e si relazionano fraternamente tra di loro.

Vangelo Luca 14,25-33

In quel tempo, 25una folla numerosa andava con Gesù. Egli si voltò e dis-
se loro: 26«Se uno viene a me e non mi ama più di quanto ami suo padre,
la madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non
può essere mio discepolo.
27
Colui che non porta la propria croce e non viene dietro a me, non può
essere mio discepolo.
28
Chi di voi, volendo costruire una torre, non siede prima a calcolare la
spesa e a vedere se ha i mezzi per portarla a termine? 29Per evitare che, se

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23ª domenica ordinaria47

getta le fondamenta e non è in grado di finire il lavoro, tutti coloro che


vedono comincino a deriderlo, dicendo: 30“Costui ha iniziato a costruire,
ma non è stato capace di finire il lavoro”.
31
Oppure quale re, partendo in guerra contro un altro re, non siede prima
a esaminare se può affrontare con diecimila uomini chi gli viene incon-
tro con ventimila? 32Se no, mentre l’altro è ancora lontano, gli manda dei
messaggeri per chiedere pace.
33
Così chiunque di voi non rinuncia a tutti i suoi averi, non può essere
mio discepolo».

Luca si mostra particolarmente sensibile al tema del-


la sequela; è l’unico degli evangelisti, difatti, a descrivere il
progressivo allargamento del gruppo discepolare: dai Do-
dici apostoli, scelti personalmente da Gesù (Lc 6,12-16), ai
Settanta(due), incaricati di precedere il Maestro in ogni città
e villaggio dove egli stava per recarsi, con lo scopo di pro-
clamare l’approssimarsi del regno di Dio (10,1-11). È anche
il solo a menzionare il gruppo di discepole che si accompa-
gna a Gesù e agli apostoli durante il suo ministero in Galilea
(8,2-3).
Tuttavia, la sequela non è destinata a un gruppo elitario,
ma è proposta a tutti coloro che accolgono la proclamazio-
ne del Vangelo, e intendono corrispondere con radicalità alla
richiesta di abbandonare ogni cosa per seguire Cristo. Non
tutti però sono disposti ad abbandonare gli affetti più cari
(9,59-62) o a rinunciare alle ambizioni mondane (9,58) e alle
ricchezze (18,18-23).
In questo senso, le parole che Gesù rivolge alle folle non
intendono delineare il profilo del discepolo perfetto, ma
illustrano i requisiti indispensabili per la sequela: l’amore
incondizionato a Cristo (14,25-26), la disponibilità a far-
si carico della croce (14,27) e la rinuncia a tutti gli averi
(14,33). Le due esemplificazioni relative ai preparativi che
precedono la costruzione di una torre (14,28-30) o la batta-
glia da affrontare (14,31-32) invitano ciascuno a esaminare
la propria disponibilità a sostenere il peso di una scelta così
esigente.

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48 Preparare la messa

 Seguire è amare. A nessuno è negata la possibilità del-


la sequela; difatti, sono numerose le folle che condividono
con lui il cammino (symporeúomai). Prima di enunciare le
condizioni necessarie per il discepolato, Gesù volge lo sguar-
do verso i presenti: vuole guardarli negli occhi, raggiungerli
nell’intimo del loro cuore, cercando di realizzare con ciascu-
no di loro una relazione empatica. I suoi occhi intendono
scrutare le loro reali intenzioni, più che reclutare nuovi colla-
boratori. Lo sguardo precede le parole, perché egli sa che le
sue richieste non sono facili da accogliere; cerca di attrarre le
folle, ancor prima che con le sue parole, con i suoi occhi.
La sequela è una decisione che il singolo matura libera-
mente; tuttavia, essa è vincolata all’accettazione delle condi-
zioni che la regolano: in primo luogo, occorre essere disposti
a rinunciare alle relazioni familiari e sociali che sostanziano
la vita di ciascuno. L’uso del verbo miséō (odiare) urta, e non
poco, la suscettibilità dei lettori; tuttavia, è tipico dello stile
colloquiale semitico esprimersi per iperboli e per contrappo-
sizioni radicali (come si evince anche in Lc 16,13). Il disce-
polato non è una rinuncia ad amare, ma impegno ad amare
di più; è affetto incondizionato a Cristo e, attraverso di lui, a
quanti s’incontrano sul cammino della vita.

 Sequela è lasciarsi crocifiggere. La croce indica la di-


sponibilità a imitare il Cristo nella via della donazione di sé
e della fedeltà alla volontà del Padre; è giusto sottolineare
che si tratta della croce che ciascuno è chiamato a prendere/
portare (bastázō) nella sua esistenza quotidiana. Il discepolo
accetta di rinunciare all’onore e alla gloria del mondo, sce-
gliendo di abbassarsi con Cristo nel mistero della croce, at-
tendendo da Dio il premio alla risurrezione dei giusti.
La sequela presuppone un distacco concreto dagli affetti
personali e dalle attività giornaliere, per porsi al seguito di
Gesù; i passi del Maestro fungono da apripista per il disce-
polo, chiamato a ripercorrerli senza volgersi indietro (9,62),

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23ª domenica ordinaria49

nella consapevolezza che ciò a cui si è rinunciato è meno


prezioso del vero tesoro che è nei cieli (12,33). Rispetto a Lc
9,23, in 14,25-27 l’espressione «non può essere mio discepo-
lo» ottiene un effetto di ridondanza: se non si è pronti a ri-
nunciare agli affetti familiari, a farsi carico della croce nella
fedeltà al Vangelo a prezzo della propria dignità, e a porsi in
cammino dietro Gesù, non è possibile essere suoi discepoli.

 La rinuncia ai beni terreni. Le metafore dell’uomo che


intende costruire una torre (vv. 28-30) e del re che si appre-
sta alla guerra (vv. 31-32) intendono persuadere l’uditorio
che, prima di accingersi ad affrontare un progetto così impe-
gnativo, come può essere l’edificazione di un edificio o una
battaglia, è necessario verificare se si dispone dei giusti mez-
zi. In entrambi i casi, è richiesta saggezza e capacità di discer-
nimento: sarebbe un grave errore ritenere di poter costruire
una torre se non si dispone dei mezzi necessari per comple-
tarla, così come è bene per un re valutare preventivamente le
risorse umane e belliche a sua disposizione prima di muove-
re guerra contro il suo avversario.
In un certo senso, il discepolato è un’impresa non meno
ardua; tuttavia, ciò che conta non è avere risorse, ma sceglie-
re consapevolmente di ricusare tutti i propri beni. Il verbo
apotássomai è stato già utilizzato in 9,61: congedarsi dai pa-
renti equivale ad abbandonare tutto ciò che si possiede, ri-
nunciando alle sicurezze che derivano dall’appartenenza ad
un contesto familiare. La povertà che Cristo richiede ai suoi
discepoli è da intendersi anzitutto come distacco dai beni
materiali: le preoccupazioni mondane non devono distoglie-
re dalla ricerca del regno di Dio (12,31). In effetti, l’affezione
alle ricchezze, l’ambizione del successo personale, l’ansia di
gratificazione distolgono il discepolo dal suo impegno pri-
mario, che riguarda la proclamazione della regalità divina.
La sobrietà, invece, custodisce l’essenza e la bellezza dell’im-
pegno apostolico.

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attualizzare il messaggio
di Paola Bignardi

Quando la rinuncia è un guadagno


La parola di Dio di questa domenica ci propone una sin-
golare riflessione sulla sapienza. Chi è il sapiente secondo il
comune buon senso? Ponessimo questa domanda a un grup-
po di persone, avremmo una molteplicità di risposte; tra di
esse, cercheremmo inutilmente quella che dice che il sapien-
te è chi non ama i propri familiari, e ancor meno chi rinuncia
a tutti i suoi averi.
C’è però un altro punto di vista, diverso da quello comune
al pensiero di tutti: è quello di Dio. La prima lettura ci intro-
duce in una prospettiva che ci lascia nell’incertezza, in una
sorta di sospensione: «Quale uomo può conoscere il pensie-
ro di Dio?». Il pensiero e la volontà di Dio aprono la vita ad
una prospettiva impensata, quella gradita a Dio; ma non si
dice quale.
Il vangelo ci presenta questa prospettiva: Gesù ce la pro-
pone con parole perentorie, che capovolgono i nostri abituali
criteri di giudizio e di comportamento: amare lui più del pa-
dre e della madre, della moglie e dei figli e dei parenti più
stretti, prendere la propria croce, rinunciare a tutti i propri
averi. Questa è la sapienza del discepolo del Signore!
Ma questa è vera sapienza?
Bisogna allora dedicare molta attenzione alle parole di
Gesù per capirne il senso vero e profondo, senza liquidarle
sbrigativamente come un facile elogio della rinuncia e del
sacrificio. Quella visione che ha fatto della mortificazione
lo stile della vita cristiana ha fatto tanti danni, ha formato
cristiani infelici, ha allontanato dalla fede tante persone che
nel cristianesimo cercavano la buona notizia, che nella fede

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23ª domenica ordinaria51

cercavano prospettive per un di più di vita, e non la mortifi-


cazione di affetti, di desiderio di umanità, di realizzazione di
sé. Il cristianesimo non è la religione della rinuncia e del sa-
crificio, ma di un rapporto con il Signore capace di realizzare
il desiderio di felicità che c’è nel cuore di ognuno di noi. Bi-
sogna capire per quale strada.
Gesù ci offre la possibilità di essere suoi discepoli; e questa
è un’esperienza così intensa, totalizzante, che non può stare
insieme, sullo stesso piano, con tutto il resto. C’è una scala di
priorità, in cima alla quale sta il Signore, il nostro rapporto con
lui, il modo con cui lui ci invita a guardare la vita e a compiere
le nostre scelte. E se lui sta al primo posto, tutto prende ordi-
ne in modo diverso; non cambia di valore, ma solo di ordine.
Il rapporto con lui è così importante che tutti gli altri vengono
regolati sullo stesso stile, sul suo stile. Non c’è più posto allora
per affetti possessivi: l’egoismo a due di certe coppie; l’incapa-
cità di certi genitori a lasciar andare i figli, ad accompagnarli
sulla strada dell’autonomia e della responsabilità; l’individua-
lismo di certi figli che non sanno restituire ai genitori ormai
anziani e fragili l’amore che hanno ricevuto da bambini…
Non c’è posto nemmeno per una gestione dei propri beni
che spesso diventano i nostri padroni. Sì, perché se si possie-
dono tante ricchezze da difendere, si ha bisogno di consulta-
re l’andamento della borsa tutti i giorni, di controllare spesso
il conto in banca… Il pensiero dei soldi si installa nella men-
te, e lascia poco spazio ad altro, soprattutto per vedere altro:
il povero che sta all’ingresso del supermercato a chiedere l’e-
lemosina o quello, più vergognoso e umiliato, che cammina
con le scarpe rotte anche se piove, perché non ha i soldi per
comprarsele nuove. Chi ha troppi beni, non si accorge più
delle disuguaglianze che umiliano la nostra società.
Ma dov’è il guadagno dell’essere discepoli? La rinuncia ha
una controparte?
Occorre la sapienza che viene da Dio per vederlo. Se ab-
biamo cercato di acquisire il modo con cui Dio guarda alla

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52 Preparare la messa

vita, il guadagno possiamo vederlo e sperimentarlo dentro


di noi: sta nella qualità della nostra umanità, più intensa ed
essenziale; nella libertà delle nostre relazioni; nella purezza
di uno sguardo che ci permette di riconoscere la presenza di
Dio attorno a noi e in noi.
Essere discepoli del Signore dà alla vita una tale libertà
che è possibile ripensare tutto di sé secondo nuovi criteri,
uno soprattutto: amare fino a dare la vita, fare dono di sé co-
me gioiosa espressione di un amore libero e gratuito.
Il discepolo del Signore ha capito di aver trovato un te-
soro: un rapporto personale con il Signore che ha cura della
sua vita e una libertà che gli permette di vivere secondo il
vero valore che le esperienze umane hanno effettivamente.
Ma bisogna andare fino in fondo, non si può accogliere la
chiamata con poca convinzione: sarebbe una mezza scelta,
che aggiungerebbe l’essere discepoli a tante altre cose: in de-
finitiva, un peso in più, che ci farebbe sperimentare la rinun-
cia solo come una privazione, e non come la condizione per
guadagnare il tesoro.
La parola rinuncia ci fa paura; spesso la vita ce la impo-
ne e, quando questo accade, ad essa non possiamo sottrarci;
a maggior ragione ci spaventa e non ci attrae la prospettiva
di una rinuncia volontaria, scelta senza che ci venga impo-
sta dalla vita. Perché mai dovremmo sceglierla? Accettarla?
Cercarla?
È naturale e responsabile riflettere bene sulle risorse che
siamo in grado di mettere in campo, per sostenere nel tempo
questa scelta. È quello che deve fare un re che vuole muove-
re guerra a un altro re; è quello che deve fare chi inizia a co-
struire una torre, deve chiedersi se ha le risorse per arrivare
fino in fondo. Con questi esempi Gesù vuole dire che essere
discepoli – essere cristiani – è una scelta seria, non da fare in
modo superficiale, per onorare una tradizione o perché lo
fanno le persone del nostro giro. Dopo l’entusiasmo del pri-
mo giorno, viene la fatica delle giornate normali, vengono le

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23ª domenica ordinaria53

contrarietà, viene il rimpianto di ciò cui si è rinunciato… Bi-


sogna essere cristiani seri, dice Gesù; dopo aver scelto, occor-
re andare fino in fondo, fino all’ultimo giorno. Allora si può
vedere il guadagno che la scelta ci dà; diversamente, ci reste-
rebbe solo il peso della rinuncia. Ma allora dove sarebbe la
buona notizia del Vangelo?

programmare la celebrazione
di Michele Roselli

Discernere il messaggio
Quasi un dialogo a domande e risposte è quello che si in-
tesse tra la prima lettura e il vangelo di questa domenica. Al
centro è la sapienza: segreto della vita in pienezza e via della
salvezza.
Da una parte le domande del credente (prima lettura) –
quale uomo potrà conoscere, con le sue sole forze, il volere
di Dio? – ridicono il limite della sapienza umana ed evocano
la condiscendenza di Dio, il suo farsi incontro proprio den-
tro quei limiti. Dall’altra parte il vangelo esplicita una rispo-
sta e rivela qual è la sapienza gradita a Dio. Gesù la incarna
nell’eloquenza dei gesti e delle parole di tutta la sua vita e la
annuncia ai molti che lo seguono come stile che caratterizza
il discepolo.
È molto esigente quello che Gesù domanda e lontano dal-
la comfort zone dei nostri pensieri. Questa radicalità, tutta-
via, non mortifica la vita. La libera, anzi! Le dà ordine e prio-
rità nuovi (vangelo e seconda lettura) e permette di ritrovare
il cielo a portata di mano, nel cammino di ogni giorno.

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54 Preparare la messa

Per l’omelia
▶ Chi non odia… non può essere mio discepolo. Come può
Gesù domandare di odiare? Ci scandalizza questo verbo. E
proprio in bocca a lui! Odiare «non è un sentimento ma un
atto che dice radicalità della scelta quando si tratta di seguire
Gesù» (D. Attinger): o il Cristo o gli altri, o il Cristo o se stes-
si, o il Cristo o i propri averi. La sequela, allora, è cammino
mortificante? No. Messo al primo posto, l’amore per Cristo
diventa centro di gravità – gli altri amori non sono esclusi ma
ritrovati come dono in lui – e sorgente della vita del discepo-
lo. Questa pagina, infatti, è anzitutto ritratto del Maestro: ri-
vela ciò che lui fa per per noi.

▶ La vita come Via crucis dietro di lui. Portare la croce e


andare dietro di lui. È questa la scandalosa sapienza del Van-
gelo. Occorre uscire dall’interpretazione mortificante che,
nell’immaginario, la croce evoca. In genere, nei nostri modi
di dire comuni, la croce è la sofferenza di cui inevitabilmen-
te dobbiamo farci carico quando le abbiamo provate tutte e
restiamo senza soluzioni. Ma la croce di Cristo è anzitutto
il manifesto del suo amore fino alla fine. Siamo salvati dal
suo amore non dalla sua sofferenza. Gesù vive la sofferenza
nell’amore. Soffre per amore, non ama per soffrire. Non va
dimenticato poi che la croce è passaggio verso la vita. Allora
portare la croce significa apprenderne la logica, affrontare la
vita con la nostra capacità di amare, di offrire tutto noi stessi.
Certo, senza poter escludere la sofferenza. Il “dietro di me”,
ci ricorda che in nessun passo siamo soli, che lui è sempre da-
vanti a noi. Custodisce, anticipa e accompagna il nostro cam-
mino con la sua presenza.

▶ Parabole della nostra vita. Le due brevi parabole – del


costruttore della torre e di colui che parte per andare in
guerra – richiamano dinamiche fondamentali della nostra

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23ª domenica ordinaria55

vita: costruire e lottare. Questi due verbi dicono molto del


nostro quotidiano, evocano la pazienza del dare forma a chi
siamo e la fatica delle lotte quotidiane. Rivelano così che la
sequela si radica dentro la vita e che credere è un modo di
vivere, continuamente da imparare. Ci dicono anche che di-
ventare cristiani è una costruzione in divenire: si diventa cri-
stiani giorno per giorno. Non come esercizio muscolare della
nostra volontà, ma come resa all’amore che ci chiama e ci at-
tira dietro di lui verso la vita piena.

Determinazione
di Roberto Laurita

Se Gesù cercasse una popolarità a buon mercato, non fareb-


be mai un discorso del genere. Gesù non ha mai inteso sedurre i
discepoli, e proprio per questo non esita a metterli di fronte alle
esigenze che comporta l’andargli dietro. Anzi, se si sta alla lettera
di quello che scrive Luca, sembra che lo faccia apposta dopo aver
constatato che c’è «molta gente» che va con lui. Il suo linguaggio
è franco e schietto, e ci appare addirittura un po’ brutale, adopera-
to in modo evidente con l’intento di scoraggiare.
Perché? Perché al discepolo egli chiede la disponibilità a distac-
carsi anche dagli affetti più cari, a considerare meno importanti
anche i legami più sacrosanti, quelli di sangue.
Non solo. Domanda la prontezza a rinunziare, a perdere tutti i
propri averi, tutti quei beni materiali che danno sicurezza, che of-
frono un appoggio consistente nei frangenti difficili.
È ovvio che, senza il supporto della propria famiglia, senza il
conforto proveniente dal denaro o dalle proprietà, ci si viene a tro-
vare singolarmente disarmati ed esposti, senza protezione, in balìa
di qualsiasi sopruso e violenza.
Come se non bastasse, Gesù evoca anche la croce: un simbolo
che da solo incuteva paura perché evocava una morte pubblica e
particolarmente straziante. Ebbene il discepolo deve essere pron-
to a prendere ogni giorno la sua croce, se vuole seguire il Maestro.

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56 Preparare la messa

A questo punto nessuno potrà dire di non aver capito bene,


nessuno potrà appellarsi all’equivoco. Le “regole d’ingaggio” sono
più che chiare ed è davanti ad esse che bisogna prendere posizione.
Questo, in effetti, sembra essere l’intento scoperto di Gesù. Il
regno di Dio, il progetto che egli annuncia, non è una proposta da
collocare tra le tante. L’impresa è difficile, ardua: su di essa si deve
puntare il tutto per tutto.
L’avventura è rischiosa: la sorte subita dal Maestro prima di
giungere alla risurrezione non lascia dubbi al proposito. L’offerta
però è unica: una pienezza di vita per l’eternità. Chi ci sta sappia
che deve essere disposto a tutto.

Per la regia liturgica


• Per la regia liturgica suggeriamo di dare particolare risalto
al Crocifisso, per esempio mettendolo al centro, laddove
fosse possibile, oppure valorizzandolo con una composi-
zione floreale adeguata o con la luce di un cero e anche
con l’incenso.
• Nella stessa logica di dare risalto alla croce e al cammino
dei discepoli come via dietro al Crocifisso e laddove non
la si faccia abitualmente, si potrebbe iniziare la celebra-
zione eucaristica con la processione di ingresso dietro la
croce. Oltre ai ministri e ai ministranti, ai lettori, potrebbe
simbolicamente prendervi parte qualche altro componen-
te dell’assemblea eucaristica.
• Si potrebbe suggerire anche la scelta del Prefazio della
Passione del Signore I – la potenza della Croce; oppure
quello dell’Esaltazione della Santa Croce.
• Non ci parrebbe inutile, con gli animatori liturgici in fase
di programmazione, trovare il tempo di rileggere il breve
capitolo sul segno della croce di Romano Guardini.

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23ª domenica ordinaria57

laPreghiera
di Roberto Laurita

Tu metti il dito nella piaga, Gesù,


e poni subito in evidenza
la fragilità estrema della nostra fede.
In effetti, che cosa siamo disposti
a fare per te e fino a che punto
siamo pronti a seguire i tuoi comandi?

Nello zaino della nostra vita


abbiamo messo anche il tuo Vangelo,
ma sta lì, schiacciato tra mille altre cose.
Riuscirà la tua Parola a convincerci
quando ci troveremo su sentieri poco battuti,
in cui si avanza solo a forza di volontà?

Ti vogliamo bene, ma le tue richieste


ci sembrano spesso esagerate:
non ti pare di pretendere troppo,
di esigere una fedeltà
e una determinazione eccessive?

Perché non ti accontenti


della simpatia che proviamo per te,
dell’entusiasmo che sperimentiamo
in certi momenti particolari?
No, Gesù, tu vuoi ben altro da noi:
i tuoi discepoli non possono fare gli spettatori,
ma devono giocarsi la vita per te.

vasile soptea - vasilesoptea@gmail.com - 12/09/2022


P 23ª domenica ordinaria
4 settembre 2022

Accoglienza:
È una parola esigente quella di questa domenica. Il Maestro vuole farci suoi di-
scepoli, ce ne indica le condizioni e fa da apripista. Ci rivela che la via della cro-
ce non è solo sconfitta e rinuncia, ma via della salvezza, un dono per vivere già
qui e ora. Liberiamo dunque spazio nel cuore per accogliere la sapienza che vie-
ne dall’alto, che ci insegna a riconoscere Dio in tutte le cose e ci invita a seguirlo.
Invito all’atto penitenziale:
Ci disponiamo a lasciarci raggiungere dalla misericordia di Dio. Riconosciamo la
miseria dei nostri peccati e invochiamo il perdono.
Conclusione dell’atto penitenziale:
Il Padre Onnipotente nell’amore, mandi su di noi la dolcezza del suo amore pie-
toso, raddrizzi i nostri sentieri e rafforzi l’opera delle nostre mani.
Introduzione alla preghiera dei fedeli:
Fratelli e sorelle, a Dio Padre che nella croce di Cristo suo Figlio rivela la grandez-
za del suo amore per noi, rivolgiamo la nostra preghiera. Diciamo insieme: Ascol-
taci, o Padre!
Conclusione della preghiera dei fedeli:
O Padre, donaci di camminare con fiducia dietro il Figlio tuo, per giungere alla
salvezza eterna.
Al Padre nostro:
Lo Spirito Santo riversato nei nostri cuori è il nostro maestro interiore. È lui che
ci rende figli e ci permette di dire: Padre nostro…
Al dono della pace:
Liberati dalle nostre schiavitù, ci ritroviamo come fratelli e sorelle nel Signore.
Scambiamoci un segno di pace.
Al congedo:
Glorificate il Signore con la vostra vita e andate in pace.

vasile soptea - vasilesoptea@gmail.com - 12/09/2022


23ª domenica ordinaria
4 settembre 2022 C
Invocazioni penitenziali:
– Signore Gesù, tu sei Sapienza del Padre che ci porta alla pienezza di vita, ma
noi non ti ascoltiamo: abbi pietà di noi. Kýrie, eléison!
– Signore Gesù, tu ci insegni che la croce è via della salvezza, ma noi ne siamo
scandalizzati e non ti seguiamo: abbi pietà di noi. Christe, eléison!
– Signore Gesù, tu ci inviti ad amare te più di ogni cosa, ma noi viviamo distrat-
ti dai nostri idoli: abbi pietà di noi. Kýrie, eleison!
Prima lettura: Il libro della Sapienza ci rivela un tratto del volto di Dio e della vi-
ta credente. Credere non è scalare il cielo verso Dio, ma riconoscere e invocare il
suo dono. È lui che viene incontro a noi.
Salmo responsoriale: Il salmo è una meditazione sulla vita. L’orante ne ricono-
sce il limite e la fugacità, nel dialogo con Dio. Lo scopo non è spaventare, ma in-
vitare alla fiducia nel Signore che è forza nella nostra debolezza.
Seconda lettura: La fede trasforma la vita. Il legame con Cristo caratterizza pro-
fondamente l’identità di ciascuno e della comunità. Così Onesimo, converti-
to alla fede, diventa per Filemone molto più che schiavo: un fratello nel Signore.
Vangelo: La sequela del Signore è esigente. Prendere la croce non significa rinun-
ciare ad amare ma impegnarsi ad amare di più, facendo del rapporto con Dio il
fondamento e il principio di ogni relazione.
Intenzioni per la preghiera dei fedeli:
– Gesù è il Cristo che ci ha amato fino alla fine e ha dato la sua vita per noi: fa’
che lo seguiamo sulla via del dono di noi stessi. Ti preghiamo.
– Gesù è il Figlio dell’uomo che ci precede sulla via della croce: fa’ che ciascu-
no riconosca la tua vicinanza in ogni passo della vita e non si senta mai so-
lo. Ti preghiamo.
– Gesù è il Servo che da ricco che era, si è fatto povero per noi: fa’ che anche
noi sappiamo rinunciare ai nostri averi, riconoscendo in te il tesoro della no-
stra vita. Ti preghiamo.
– Gesù è il Signore che porta a compimento la missione che gli hai affidato: fa’
che anche noi, con il dono della tua Sapienza, non arretriamo di fronte alle
esigenze della sequela. Ti preghiamo.

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24ª domenica ordinaria
11 settembre 2022

Destinatari della cura amorevole di Dio.


Ira e compassione: due aspetti del volto di Dio.
L’infedeltà del popolo suscita la collera del Signore,
ma la sua sollecitudine e il suo affetto placano lo sdegno
e offrono al peccatore la possibilità di riscatto e redenzione.
Le tre parabole dette della “misericordia” insistono
sul binomio perdersi-ritrovarsi: la pecora smarrita e ritrovata;
la donna rientra in possesso della moneta perduta; il figlio
che aveva abbandonato la casa paterna vi fa ritorno.
Il ritrovamento suscita gioia: Gesù propone ai suoi detrattori
di passare dalla logica dell’esclusione a quella dell’inclusione;
Dio attende la conversione dei peccatori e ne gioisce (vangelo).
La colpa del popolo consiste nell’aver attribuito a un idolo
i prodigi che Dio ha compiuto nel liberarlo dalla schiavitù;
si è allontanato dal Signore adorando il vitello d’oro.
Quando l’ira divina sta per scagliarsi contro il popolo infedele,
Mosè intercede convincendo Dio a desistere dal male,
in ricordo dell’alleanza stabilita con i Padri (prima lettura).
Paolo ha sperimentato in prima persona la misericordia divina
e il suo potere trasformante: egli era un accanito persecutore;
l’incontro con Cristo rovescia le sue convinzioni.
È scelto come banditore del Vangelo e testimone della grazia
che fa nuove tutte le cose (seconda lettura).

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interpretare i testi
di Antonio Landi

«Vi sarà gioia nel cielo


per un solo peccatore
che si converte»
Luca 15,7

Prima lettura Esodo 32,7-11.13-14


In quei giorni, 7il Signore disse a Mosè: «Va’, scendi, perché il tuo popolo,
che hai fatto uscire dalla terra d’Egitto, si è pervertito. 8Non hanno tarda-
to ad allontanarsi dalla via che io avevo loro indicato! Si sono fatti un vi-
tello di metallo fuso, poi gli si sono prostrati dinanzi, gli hanno offerto sa-

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62 Preparare la messa

crifici e hanno detto: “Ecco il tuo Dio, Israele, colui che ti ha fatto uscire
dalla terra d’Egitto”».
9
Il Signore disse inoltre a Mosè: «Ho osservato questo popolo: ecco, è un
popolo dalla dura cervìce. 10Ora lascia che la mia ira si accenda contro di
loro e li divori. Di te invece farò una grande nazione».
11
Mosè allora supplicò il Signore, suo Dio, e disse: «Perché, Signore, si ac-
cenderà la tua ira contro il tuo popolo, che hai fatto uscire dalla terra
d’Egitto con grande forza e con mano potente? 13Ricòrdati di Abramo,
di Isacco, di Israele, tuoi servi, ai quali hai giurato per te stesso e hai det-
to: “Renderò la vostra posterità numerosa come le stelle del cielo, e tut-
ta questa terra, di cui ho parlato, la darò ai tuoi discendenti e la possede-
ranno per sempre”».
14
Il Signore si pentì del male che aveva minacciato di fare al suo popolo.

Per il popolo d’Israele liberato dalla schiavitù d’Egitto, il


deserto non rappresenta solo un luogo impervio e inospitale
da attraversare per giungere alla terra che Dio ha promesso,
ma è soprattutto un tempo di prova: gli Israeliti hanno dimo-
rato a lungo presso gli egiziani che prestavano culto a molte-
plici divinità, così come politeiste sono le genti che dimorano
nei territori che Dio ha assegnato loro. Il popolo eletto ha
gridato a Dio, e il Signore ha ascoltato la sua voce, compien-
do opere prodigiose per affrancarlo dal giogo egiziano. Pri-
ma di entrare nella terra promessa, Dio stipula un patto di
alleanza col suo popolo, convocando Mosè sul monte Sinai
(Es 19,3): dona le dieci parole (20,1-17), perché il popolo le
osservi e possa godere della benedizione divina.
Mosè dimora a lungo sul monte, ricevendo il codice dell’al-
leanza (20,22–24,11) e le prescrizioni per la realizzazione del
santuario e il servizio di culto (25,1–31,18); il popolo non ha
più sue notizie e ritiene opportuno rivolgersi ad Aronne per
costruire un dio, che faccia da apripista al cammino degli
Israeliti verso la terra promessa. È il peccato d’idolatria: rea-
lizzano un vitello di metallo fuso a cui attribuiscono il merito
di essere stati liberati dall’Egitto. Hanno ripudiato il Signore
e hanno disconosciuto Mosè.

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24ª domenica ordinaria63

La pericope proposta per la liturgia domenicale riprende


il dialogo tra il Signore (32,7-10) e Mosè (32,11.13-14): Dio
informa il suo servo di tutto ciò che gli Israeliti hanno com-
piuto in sua assenza (vv. 7-8) e matura la decisione di elimi-
nare un popolo di dura cervice, assicurando a Mosè di diven-
tare una grande nazione (vv. 9-10). Segue la preghiera d’in-
tercessione con la quale Mosè placa l’ira del Signore e storna
la punizione dal popolo (vv. 11.13-14).

 La perversione del popolo. Dio prende l’iniziativa e ri-


vela a Mosè ciò che è accaduto a valle in sua assenza: il po-
polo si è pervertito e si è costruito un vitello di metallo fuso,
attribuendogli il culto che spetta solo a Dio. Le parole che il
Signore pronuncia sono intrise d’ironia e sarcasmo: chiede a
Mosè di scendere (yrd) perché il popolo (‘ammekā: «tuo po-
polo», riferito a Mosè), che egli ha fatto salire (‘lh) dall’Egit-
to, ha peccato. Il Signore prende le distanze da un popolo che
non riconosce più come suo, perché si è allontanato dalla via
che egli aveva tracciato, e si sono fabbricati un vitello davan-
ti al quale si sono prostrati, acclamandolo come il dio che li
ha liberati dalla schiavitù d’Egitto. Il vitello può richiamare il
toro Apis, venerato in Egitto; oppure, rimandare al culto sin-
cretista praticato nella terra di Canaan: nell’uno e nell’altro
caso, è palese che gli Israeliti sono stretti nella morsa dell’i-
dolatria, ma essi non devono cedere, perché è Yhwh che è
intervenuto a salvarli, e nessun altro.

 L’ira di Dio. Il Signore prende atto della volontà del po-


polo di allontanarsi da lui ed è intenzionato ad estinguerlo
nel furore della sua collera. Si è rivelato un popolo dalla dura
cervice, perché ha presto dimenticato i benefici che ha ricevu-
to da Dio e, in assenza di Mosè, ha pensato bene di sostituirlo
con una statuetta da essi realizzata. È il radicale sovvertimen-
to della creazione originaria: l’uomo, creato a immagine e so-
miglianza di Dio (Gen 1,26), decide di plasmare una divinità

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64 Preparare la messa

a suo piacimento. L’ira divina è espressa attraverso un antro-


pomorfismo: per esprimere l’idea della disapprovazione divi-
na di fronte all’agire degli uomini si ricorre all’immagine del
«naso rosso». Alla volontà di distruggere il popolo ribelle, cor-
risponde l’intenzione divina di dar vita a una nuova nazione a
partire da Mosè: «farò di te una grande nazione» (v. 10).

 L’intercessione di Mosè. La proposta divina non è ac-


colta da Mosè; egli intercede (ḥlh) a beneficio degli Israeli-
ti, mostrandosi guida autentica e disinteressata di un popo-
lo che aveva ritenuto di poter fare a meno di lui. Per Mosè
non è opportuno che Dio intervenga contro la gente che egli
(Yhwh) ha fatto salire dall’Egitto con «grande forza e mano
potente» (v. 11); fa leva sul ricordo (zkr) dell’alleanza stabi-
lita con gli antichi Padri, Abramo, Isacco e Giacobbe, ai quali
aveva promesso di rendere la loro posterità numerosa come
le stelle del cielo e di donare una terra in possesso per sem-
pre. Anche se il popolo si è allontanato, Dio non può venire
meno al patto con gli antichi Padri; rompere la precedente
alleanza e stabilirne una nuova con Mosè avrebbe annullato
tutte le precedenti promesse. Così, il Signore si pente (nḥm)
del male che aveva minacciato di fare al suo popolo (v. 14; cf.
Gen 6,5-6) e desiste dalla sua collera: la preghiera accorata
del suo servo ha ottenuto misericordia per il popolo ribelle.

Salmo responsoriale Sal 50


La vicenda del peccato di Davide, che ha concupito Betsa-
bea e fatto eliminare suo marito Uria, fa da sfondo alla ri-
chiesta di perdono individuale che l’orante eleva a Dio, con-
fidando nella sua bontà misericordiosa (ḥesed). Il peccato ha
corroso la sua coscienza in profondità; urge l’intervento di-
vino, affinché possa essere rimossa l’iniquità di cui si è mac-
chiato, lavato dalla sua colpa e purificato dal peccato che lo
ha allontanato dal Signore. È necessario un radicale rinnova-

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24ª domenica ordinaria65

mento, e solo Dio può garantirlo, donando un cuore nuovo,


che non si lasci irretire dalle maglie del peccato, e uno spiri-
to nuovo, che perseveri con saldezza nell’alleanza, senza al-
lontanarsi da Dio, fonte della vita. Rinnovato interiormente,
l’orante potrà dischiudere le labbra, purificate dalla grazia, e
proclamare con la sua bocca la lode al Signore, che si è mos-
so a compassione nei suoi confronti. Non è gradito un sacri-
ficio di animali, ma un cuore pentito, disposto a riconoscere
con umiltà le proprie responsabilità: è questa l’offerta che
Dio gradisce.

Seconda lettura 1 Timoteo 1,12-17


12
Figlio mio, rendo grazie a colui che mi ha reso forte, Cristo Gesù Signo-
re nostro, perché mi ha giudicato degno di fiducia mettendo al suo ser-
vizio me, 13che prima ero un bestemmiatore, un persecutore e un violen-
to. Ma mi è stata usata misericordia, perché agivo per ignoranza, lontano
dalla fede, 14e così la grazia del Signore nostro ha sovrabbondato insieme
alla fede e alla carità che è in Cristo Gesù.
15
Questa parola è degna di fede e di essere accolta da tutti: Cristo Ge-
sù è venuto nel mondo per salvare i peccatori, il primo dei quali sono io.
16
Ma appunto per questo ho ottenuto misericordia, perché Cristo Ge-
sù ha voluto in me, per primo, dimostrare tutta quanta la sua magnani-
mità, e io fossi di esempio a quelli che avrebbero creduto in lui per ave-
re la vita eterna.
17
Al Re dei secoli, incorruttibile, invisibile e unico Dio, onore e gloria nei
secoli dei secoli. Amen.

La maggioranza degli studiosi dubita che la paternità let-


teraria delle epistole indirizzate a Timoteo (1-2 Tm) e a Tito
(Tt) sia paolina; le differenze di ordine lessicale, l’originalità
sul piano contenutistico e, soprattutto, il mutato scenario in-
terno alle comunità di destinazione degli scritti lasciano sup-
porre che siano databili in un’epoca successiva alla morte
di Paolo (65/67 d.C.), composti presumibilmente da uno (o
più?) dei suoi discepoli.

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66 Preparare la messa

Il fenomeno letterario della pseudoepigrafia era molto dif-


fuso nell’Antichità, e consisteva nell’attribuzione di un testo
ad un autore/maestro celebre, per conferire maggiore auto-
revolezza al contenuto dello scritto; nel caso dell’epistolario
paolino, le lettere destinate a Timoteo e a Tito, note anche
come pastorali, hanno il merito di attualizzare il messaggio
paolino per un contesto ecclesiale ben differente rispetto
al tempo in cui era in vita Paolo. Occorre arginare le derive
dottrinali della predicazione dei falsi maestri, e riproporre la
sana dottrina (1Tm 1,3.10), ancorandosi al deposito della fe-
de (6,20).
La figura di Paolo assurge a garante dell’ortodossia, in
quanto apostolo scelto dal Signore, araldo del Vangelo fino
al dono della vita. La biografia paolina, condensata nel bra-
no proposto nella liturgia domenicale, è proposta come un
paradigma per ogni credente (v. 16). Non solo: essa stessa di-
viene veicolo di annuncio del kerygma di salvezza (v. 15). La
pericope è strutturata in quattro momenti: ringraziamento (v.
12); memoria (vv. 13-14); confessione di fede ed esemplarità
(vv. 15-16); dossologia finale (v. 17).

 L’affidabilità e il servizio. Paolo non ha fatto parte del


gruppo apostolico; anzi, si è violentemente contrapposto
ai discepoli del Signore, perseguitando e arrestando quanti
professavano la fede in lui. La sua ostinazione era giustifi-
cata dalla necessità di contrastare l’assurda pretesa di rico-
noscere in Gesù il Messia atteso dal popolo d’Israele, e nel
Crocifisso il Figlio di Dio risorto dai morti. L’apparizione del
Signore risorto sulla via di Damasco segna radicalmente la
sua vita: da persecutore accanito diverrà strenuo banditore
del Vangelo. Tuttavia, inizialmente i discepoli non si fidano
di lui (cf. At 9,26); temono che la sua adesione a Cristo sia
un pretesto per infierire su di loro. È Barnaba a farsi garante
per lui e, soprattutto, il Signore a renderlo attendibile al co-
spetto degli apostoli. Ancor prima che la comunità possa fi-

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24ª domenica ordinaria67

darsi di lui, è il Signore che si fida di lui e lo rende attendibile


(pistós) in vista del servizio (diakonía) che intende affidargli:
l’annuncio del Vangelo.

 L’abbondanza della grazia. Paolo è ben conscio che il


passato non si cancella con un colpo di spugna; è descritto
come un bestemmiatore, perché non ha inizialmente ricono-
sciuto in Gesù il Cristo e il Figlio dell’Altissimo; un perse-
cutore che non ha esitato a infierire contro la chiesa, ricor-
rendo anche a mezzi violenti pur di arrestare la diffusione
del Vangelo. È l’incredulità (apistía) che l’ha mosso ad agire
in tal modo, e di lui ha avuto compassione il Signore, che ha
usato misericordia (eleéō) nei suoi confronti. La grazia divina
ha agito in misura eccedente: «dove ha abbondato il peccato,
ha sovrabbondato la grazia» (Rm 5,20). L’incredulità iniziale
di Paolo è sanata dalla cháris (grazia) del Signore, che ha re-
so salda la sua fede e generosa la sua carità in virtù della sua
adesione a Cristo Gesù.

 Un esempio per i credenti. L’Apostolo si propone co-


me paradigma per i credenti non sotto il profilo etico; la sua
condizione di peccatore, infatti, non afferisce esclusivamente
l’ambito della morale, ma riguarda la sua condizione di lon-
tananza da Dio. Dichiarandosi come il «primo dei peccatori»
(vv. 15-16), Paolo non intende enfatizzare l’eccellenza dei
suoi peccati, ma porre in evidenza la straordinarietà dell’a-
gire longanime di Dio, che sovverte le logiche mondane e
si fida di un uomo che non poteva vantare alcun titolo di
credibilità per portare avanti il suo progetto di diffondere
il Vangelo fino ai confini della terra. Nessuno, pertanto, può
sentirsi escluso dall’appello ad accogliere il messaggio del-
la salvezza in vista della conversione e della salvezza: il Dio
incorruttibile, invisibile, l’unico a cui è doveroso attribuire
onore e gloria, non fa discriminazioni e offre a tutti la possi-
bilità di redimersi.

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68 Preparare la messa

Vangelo Luca 15,1-32

In quel tempo, 1si avvicinavano a Gesù tutti i pubblicani e i peccatori per


ascoltarlo. 2I farisei e gli scribi mormoravano dicendo: «Costui accoglie i
peccatori e mangia con loro».
3
Ed egli disse loro questa parabola: 4«Chi di voi, se ha cento pecore e ne
perde una, non lascia le novantanove nel deserto e va in cerca di quel-
la perduta, finché non la trova? 5Quando l’ha trovata, pieno di gioia se la
carica sulle spalle, 6va a casa, chiama gli amici e i vicini e dice loro: “Ralle-
gratevi con me, perché ho trovato la mia pecora, quella che si era perdu-
ta”. 7Io vi dico: così vi sarà gioia nel cielo per un solo peccatore che si con-
verte, più che per novantanove giusti i quali non hanno bisogno di con-
versione.
8
Oppure, quale donna, se ha dieci monete e ne perde una, non accende
la lampada e spazza la casa e cerca accuratamente finché non la trova? 9E
dopo averla trovata, chiama le amiche e le vicine, e dice: “Rallegratevi con
me, perché ho trovato la moneta che avevo perduto”. 10Così, io vi dico, vi
è gioia davanti agli angeli di Dio per un solo peccatore che si converte».
11
Disse ancora: «Un uomo aveva due figli. 12Il più giovane dei due disse al
padre: “Padre, dammi la parte di patrimonio che mi spetta”. Ed egli divise
tra loro le sue sostanze. 13Pochi giorni dopo, il figlio più giovane, raccolte
tutte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò il suo patrimo-
nio vivendo in modo dissoluto. 14Quando ebbe speso tutto, sopraggiunse
in quel paese una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno.
15
Allora andò a mettersi al servizio di uno degli abitanti di quella regione,
che lo mandò nei suoi campi a pascolare i porci. 16Avrebbe voluto saziarsi
con le carrube di cui si nutrivano i porci; ma nessuno gli dava nulla. 17Al-
lora ritornò in sé e disse: “Quanti salariati di mio padre hanno pane in ab-
bondanza e io qui muoio di fame! 18Mi alzerò, andrò da mio padre e gli
dirò: Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; 19non sono più degno
di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi salariati”. 20Si al-
zò e tornò da suo padre.
Quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione, gli
corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò. 21Il figlio gli disse: “Padre, ho
peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chia-
mato tuo figlio”. 22Ma il padre disse ai servi: “Presto, portate qui il vestito
più bello e fateglielo indossare, mettetegli l’anello al dito e i sandali ai pie-
di. 23Prendete il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa,

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24ª domenica ordinaria69

24
perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed
è stato ritrovato”. E cominciarono a far festa.
25
Il figlio maggiore si trovava nei campi. Al ritorno, quando fu vicino a ca-
sa, udì la musica e le danze; 26chiamò uno dei servi e gli domandò che co-
sa fosse tutto questo. 27Quello gli rispose: “Tuo fratello è qui e tuo padre ha
fatto ammazzare il vitello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo”. 28Egli si
indignò, e non voleva entrare. Suo padre allora uscì a supplicarlo. 29Ma egli
rispose a suo padre: “Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai disobbe-
dito a un tuo comando, e tu non mi hai mai dato un capretto per far festa
con i miei amici. 30Ma ora che è tornato questo tuo figlio, il quale ha divo-
rato le tue sostanze con le prostitute, per lui hai ammazzato il vitello gras-
so”. 31Gli rispose il padre: “Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio
è tuo; 32ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era
morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”».

Le parabole rappresentano un tratto originale della pre-


dicazione di Gesù; i racconti che egli propone ai discepoli e
alle folle attingono a scene di vita quotidiana o a circostanze
che si verificano nell’ambito del mondo agricolo o pastorale,
alla vita familiare, lavorativa o relazionale. Ciò che li carat-
terizza è l’effetto spiazzante che provocano nell’uditorio: in
effetti, Gesù tende a sovvertire schemi congetturali consoli-
dati oppure opinione assurte a rango di dogmi. L’ascoltatore
della parabola non è schiacciato sotto il peso di una teoria
che s’impone; è la sua intelligenza ad esser sollecitata, perché
nella libertà possa aprirsi allo svelamento di una verità nuo-
va, che mette in discussione le convinzioni precedenti per ac-
cogliere la novità del Vangelo.
Agli scribi e ai farisei, persuasi che l’osservanza della Leg-
ge imponga di vivere separati rispetto ai peccatori (15,1-2),
Gesù rivolge tre parabole, in risposta alle accuse che essi gli
muovevano per aver accolto peccatori e aver condiviso la
mensa con loro, infrangendo la regola della purità. Il tono
con il quale Gesù espone i tre racconti non è piccato né ri-
sentito; il suo scopo è d’invitare anche i suoi detrattori alla
mensa della riconciliazione dei peccatori con Dio.

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70 Preparare la messa

Le tre storie, della pecora smarrita (vv. 3-7), della moneta


perduta (vv. 8-10) e del figlio prodigo (vv. 11-32), sono note
come le “parabole della misericordia”, perché nel pastore
che si dà premura per ritrovare la pecora perduta, nella don-
na che mette a soqquadro la sua casa pur di recuperare la
moneta, e nel padre che accoglie il figlio allontanatosi da ca-
sa è possibile cogliere l’atteggiamento benevolo di Dio, che
non vuole che i suoi figli si smarriscano. A ben vedere, però,
c’è un tratto ancor più esplicito che accomuna le tre parabo-
le, ed è la gioia.

 C’è più gioia in cielo. Nei primi due racconti i protago-


nisti sono, rispettivamente, un uomo e una donna; la figura
del pastore, ampiamente utilizzata nella teologia dell’Anti-
co Testamento per raffigurare la sollecitudine divina per il
gregge d’Israele, è facile da identificare con Dio; tuttavia, un
aspetto interessante è cogliere nella descrizione della donna
l’immagine di un Dio che non si dà pace sino a quando non
ha ritrovato ciò che gli sta a cuore. In realtà, entrambi i pro-
tagonisti simboleggiano la prassi adottata da Gesù nei con-
fronti di coloro che sono ritenuti i “perduti”, gli “smarriti”:
come il pastore, si è posto alla ricerca della pecora perduta
per ritrovarla, porsela in spalla e ricondurla all’ovile; come la
donna, non ha smesso di cercare fino a quando non ha recu-
perato coloro che vivevano lontani da Dio. Per questa ragio-
ne occorre fare festa, celebrare la gioia del ritrovamento con
un banchetto al quale sono invitati gli amici e i vicini: fuor di
metafora, è possibile immaginare che essi siano quegli scribi
e quei farisei che contestano lo stile inclusivo del maestro ga-
lileo. Gesù li invita a mettere in discussione non la loro inte-
grità di vita, ma la loro immagine di Dio: il Signore non vuo-
le la morte del peccatore, ma che si converta e viva (cf. Ez
18,23; 33,11). La gioia, pertanto, è la reazione che Dio prova
quando un peccatore si converte; è una letizia che egli non
trattiene per sé, ma che intende condividere.

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24ª domenica ordinaria71

 La gioia del padre. La parabola più nota è sicuramen-


te la terza, che mette in scena un triangolo drammatico, che
vede protagonisti un padre e i suoi due figli. Si nota l’assen-
za della madre, ma ciò non è determinante per lo sviluppo
dell’intreccio narrativo. La prima parte (vv. 11-24) è incen-
trata sulla figura del figlio minore, che decide di affrancarsi
dalla potestà paterna; chiede di poter usufruire in anticipo
dei beni che gli spettano in quanto erede del padre, e così
decide di partire. Nulla è detto circa la ragione che ha indot-
to il più giovane dei figli ad abbandonare la casa paterna; il
seguito del racconto lascerebbe supporre che si tratti di un
ragazzo libertino, desideroso di sottrarsi agli oneri derivanti
dalla permanenza nella casa del padre. In realtà, l’enfasi del
racconto non cade sulle motivazioni dell’allontanamento,
ma sulle conseguenze: il denaro a sua disposizione termina
presto a causa dello sperpero che egli ne fa, e il ragazzo deve
correre ai ripari, anche perché una carestia si abbatte sul luo-
go dove egli si trova e deve affrontare la fame e l’indigenza.
Non è stato saggio: non ha messo a frutto i beni ricevuti, ma
li ha consumati. La miseria lo spinge a mettersi a servizio di
un uomo straniero che lo manda a pascolare i porci.
Non manca un pizzico d’ironia nel descrivere la sua attua-
le condizione: a casa del padre poteva anche avere la perce-
zione di essere schiavo degli obblighi paterni, ora lo è a tutti
gli effetti! Non può neanche rivendicare il cibo, perché nep-
pure le carrube gli vengono offerte, perché destinate a sfa-
mare i porci. Quando ha toccato il punto più basso della sua
dignità, il ragazzo si ravvede e decide di tornare a casa, non
prima però di aver preso coscienza dei suoi errori. Mentre
è ancora sulla strada del ritorno, il padre – che non ha mai
smesso di attendere il suo ritorno – gli corre incontro e lo ab-
braccia; ascolta la sua ammissione di colpa e decide di bandi-
re una festa. È tornato il figlio perduto; non ha mai smesso di
essere suo figlio, e i calzari ai piedi, la veste nuova e, soprat-
tutto, l’anello sono simboli della ritrovata dignità filiale.

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72 Preparare la messa

 La tristezza del figlio maggiore. Il figlio maggiore è sta-


to menzionato solo all’inizio del racconto: senza volerlo, ha
beneficiato della richiesta del fratello minore, e ha ottenuto
la parte di eredità che gli spettava. Tuttavia, continua a la-
vorare; non cede alle tentazioni dei bagordi come invece ha
fatto il più giovane. Quando rientra dai campi, s’informa di
ciò che sta accadendo all’interno della casa e decide di non
voler entrare: è indispettito per il ritorno del fratello? È adi-
rato col padre perché non ha severamente punito il figlio
ribelle? L’interesse del racconto, però, verte sul dialogo tra
il figlio maggiore e il padre: il primo si mostra risentito nei
confronti del padre non per l’accoglienza riservata al mino-
re, ma per tutto ciò che egli ritiene di non aver ricevuto da
lui nonostante il suo fedele servizio. Si relaziona con il padre
come fa uno schiavo con il suo padrone; vive una relazione
servile, anziché filiale. Non accetta che il minore venga ac-
colto in maniera così festosa dopo aver dilapidato tutto il
patrimonio a sua disposizione; non lo riconosce come fratel-
lo, perché non si sente figlio di un padre che non punisce ma
gioisce per il ritorno del prodigo. Tuttavia, nella parabola, il
padre dialoga solo con lui; solo a lui rivolge parole cariche di
affetto, ricordandogli che il loro legame è basato sull’essere
(«tu sei sempre con me») e non sul fare; ciò che appartiene al
padre, è anche sua proprietà. Tuttavia, non si può rinunciare
a gioire per il ritorno del figlio perduto; la famiglia deve ri-
trovarsi nella gioia. Sarà disposto il figlio maggiore a varcare
la soglia d’ingresso mettendosi alle spalle il suo pregiudizio e
il suo risentimento?

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attualizzare il messaggio
di Antonio Montanari

«Lascia che Dio ti sorprenda».


Quando e come sentirci cercati da Dio
«Il vento soffia dove vuole»,
lascia che Dio ti sorprenda
(Carlo Maria Martini)1.

1. «Ci ha cercato affinché lo cercassimo»

A lungo la tradizione cristiana si è soffermata sul tema del-


la ricerca di Dio (Quaerere Deum), al quale anche Benedet-
to XVI ha dedicato alcuni interventi, per ricordare che, nella
confusione di tempi in cui niente sembrava resistere, gli anti-
chi monaci «volevano fare la cosa essenziale: impegnarsi per
trovare ciò che vale e permane sempre, trovare la Vita stessa.
[…] Dietro le cose provvisorie cercavano il definitivo»2. Più
recentemente papa Francesco, quasi avvertendo l’impratica-
bilità di un tale impegno, divenuto ormai troppo arduo ai no-
stri giorni, ha sottolineato che il cristianesimo «non è tanto
la nostra ricerca nei confronti di Dio […], ma piuttosto la ri-
cerca di Dio nei nostri confronti»3. L’accostamento di queste
due prospettive non intende contrapporre l’insegnamento
dei due pontefici, ma semplicemente sottolineare la legitti-

1
C.M. Martini, Conversazioni notturne a Gerusalemme. Sul rischio del-
la fede, Mondadori, Milano 2008, 29.
2
Benedetto XVI, Incontro con il mondo della cultura al Collège des
Bernardins, Parigi, 12 settembre 2008.
3
Francesco, Udienza generale, mercoledì 19 aprile 2017.

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74 Preparare la messa

mità di entrambe le posizioni, che costituiscono le due facce


di un’unica medaglia. Effettivamente, la Scrittura attesta non
solo la ricerca di Dio da parte dell’uomo, ma anche la ricerca
dell’uomo da parte di Dio, come aveva giustamente percepi-
to Abraham Joshua Heschel, il quale aveva racchiuso questa
intuizione in una formula paradossale ben nota alla tradizio-
ne rabbinica: «Dio è alla ricerca dell’uomo»4.
Di fatto, quel Dio che fin dall’inizio è andato in cerca di
Adamo (Gen 3,9) non si smentisce nelle pagine del vangelo,
dove ancora ci anticipa e prende l’iniziativa di un incontro. È
questa la grande scoperta di Agostino, che ha cambiato la sua
vita: «Per mezzo del tuo figlio, il Signore nostro Gesù Cristo,
ci hai cercato mentre non ti cercavamo: ci hai cercato affin-
ché ti cercassimo»5. È dunque Dio stesso che, anticipando i
passi dell’uomo, rende accessibile e praticabile la sua ricerca.

2. Il Vangelo si insinua negli spazi più intimi


del vissuto quotidiano

Di fronte a questo dato che la tradizione ci ha consegna-


to, subito nasce l’interrogativo: come riproporre oggi questo
tema? A tale riguardo mi sembra interessante almeno accen-
nare a una prospettiva promettente per la teologia, che con-
siste nel valorizzare il quotidiano. La fede ci insegna infatti
che, nel mistero dell’incarnazione, il Figlio di Dio ha voluto
assumere la forma quotidiana dell’umano. Pertanto,
se si deve cercare Dio da qualche parte, non è in un paradiso,
in una nebulosa o al di fuori della storia che lo si deve fare, ma
piuttosto nella quotidianità delle relazioni umane, nel lavoro

4
A.J. Heschel, Dio alla ricerca dell’uomo, Dio alla ricerca dell’uomo,
Borla, Roma 1983, 156.
5
Agostino d’Ippona, Confessioni XI, 2,4; cf. Id., Commento al Vangelo
di Giovanni, 63,1.

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24ª domenica ordinaria75

tecnico, nel caso o dove si ha a che fare con il desiderio e il dolo-


re. È là che si instaura un rapporto con Dio6.

L’intuizione di Michel de Certeau, che ho riportato in que-


ste righe, risale alla metà degli anni Settanta del secolo scor-
so, ma la sua pratica è antica quanto il Vangelo. Gesù stesso,
infatti, per rivelare la verità di Dio si è servito del linguaggio
corrente, quello che si impara abitando gli spazi e nelle rela-
zioni umane più immediate. Ed è proprio dentro lo stupore
di un quotidiano trasfigurato che si può cogliere l’esperienza
di molti dei personaggi che popolano le pagine del vangelo:
la samaritana e la cananea, il cieco nato e il pubblicano, la
donna dell’unzione e la peccatrice perdonata, Matteo e Zac-
cheo, ma anche la folla anonima che siamo sempre tentati di
dimenticare. In questo modo il Vangelo, insinuandosi negli
spazi più intimi del nostro vissuto di ogni giorno, ci insegna
che la fede non può mai essere ridotta a un concetto astratto,
perché essa accade dentro l’esperienza di un incontro grazio-
so con il Signore, che tocca la globalità del nostro essere, tra-
sforma la nostra esistenza, l’arricchisce di senso e orienta lo
stile delle nostre relazioni.

3. Lascia che Dio ti sorprenda

Le parabole, in particolare, ci insegnano come riconoscere,


dentro i rapporti di ogni giorno, la presenza di Dio che ci an-
ticipa e ci invita a dilatare i nostri orizzonti di riconoscimen-
to e di adorazione. Mi limito ad una sola, che può aiutarci a
comprendere la verità di quanto ho cercato di esporre finora.
Si tratta del breve racconto della pecora smarrita, che tocca

6
Cf. M. de Certeau, Entretien avec Jean-Michel Benoist, France culture,
19 dicembre 1975, citato in F. Dosse, Michel de Certeau. Le Marcheur bles-
sé, La Découverte, Paris 2002, 462.

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76 Preparare la messa

ciascuno di noi nella nostra esistenza di credenti (Lc 15,3-7;


Mt 18,12-14). Senza esitazione, tutti riconosciamo che è Gesù
il buon pastore, perché in diverse occasioni egli stesso si pa-
ragona a un pastore che prova compassione per le folle sfi-
nite (Mt 9,36; cf. Gv 10,11). E altrettanto facilmente ci iden-
tifichiamo con la pecora smarrita, che il Figlio dell’uomo è
venuto a «cercare e salvare»7. Ma quando ci rendiamo conto
che quella pecora non gli è estranea, ma che già appartiene
al suo gregge, allora percepiamo anche, con stupore, il suo
sguardo benevolo che ci cerca, perché per lui non ci sono pe-
core definitivamente perdute, ma solo pecore da ritrovare.
Ed è l’amore che muove i suoi passi alla ricerca di ogni es-
sere umano: di chi è semplicemente curioso, come Zaccheo:
«Gesù alzò lo sguardo e gli disse: “Scendi subito, perché og-
gi devo fermarmi a casa tua”» (Lc 19,5); e di chi ha gli occhi
ancora velati di lacrime, come la vedova di Nain: «Vedendola,
il Signore fu preso da grande compassione per lei e le disse:
“Non piangere!”» (Lc 7,7-13). Ed è così per tanti altri prota-
gonisti del vangelo, sorpresi dall’iniziativa di Gesù, che per
primo li ha cercati.
Da questi pochi accenni è facile intuire che la percezione
stupita che cambia la vita non è tanto di constatare che Dio
può essere oggetto della ricerca dell’uomo, bensì che Dio ha
un interesse per l’uomo e muove amorevolmente i suoi passi
nella sua direzione. Egli, infatti, che è sempre al di là di ogni
nostro appuntamento e di ogni nostra ricerca, nei gesti umi-
li della vita di ogni giorno ancora ci anticipa e ci incanta con
la «brezza leggera» della sua presenza. «Il vento soffia dove
vuole», lascia che Dio ti sorprenda.

7
«Il Signore è venuto a cercare la pecorella smarrita, ed era l’uomo che
s’era perduto» (Ireneo di Lione, Dimostrazione della predicazione apo-
stolica, 33).

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programmare la celebrazione
di Michele Roselli

Discernere il messaggio
Essere ricercati e sentirsi ritrovati. È questo il modo con-
creto in cui si manifesta, nella vita del credente, la misericor-
dia di Dio. Non una teoria ma l’esperienza di essere raggiun-
ti e trasformati dal suo amore, perfino dentro gli smarrimenti
e le erranze del cammino.
Questo passivo umano – «essere ricercati da» – è all’origi-
ne della fede e rivela che la misericordia è radicalmente do-
no, iniziativa premurosa e tenace di Dio. Lui, fedele alla sua
promessa, desiste dal male minacciato (prima lettura) e cerca
chi si allontana (vangelo e seconda lettura). La bontà di Dio
rispetta però la libertà: non la forza con la minaccia o con
lavate di capo. La sollecita con la sovrabbondanza dei suoi
doni e con l’eccedenza della sua gioia. Questo rivela ancora
un tratto della misericordia di Dio: essa è creativa. Perdona-
re, per Dio, non è la resa dei conti ma un atto generativo che
rinnova il cuore e la vita (seconda lettura e salmo). Solo la
presunzione di essere giusti può vanificare la sua azione.

Per l’omelia
▶ Tu dove stai? Le parabole non sono solo un racconto che
sta davanti a noi, ma un racconto che avviene dentro di noi.
Infatti, non mirano solo a informare, a dire qualcosa di Dio
e dell’uomo, ma vogliono trasformare il cuore di chi ascolta.
Come una cartina di tornasole rivelano i nostri pensieri: qua-
le immagine di Dio custodiamo? Che cosa pensiamo della
nostra relazione con lui? Tra le righe del vangelo risuona un

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78 Preparare la messa

appello che vale per gli ascoltatori di tutti i tempi: tu dove


sei? Sei la pecora smarrita o una delle altre novantanove?
Sei la moneta perduta oppure una delle altre nove? Sei il
figlio minore, che si è allontanato ed è ritornato dopo aver
dilapidato tutto, oppure il maggiore, che si trova a un milli-
metro dalla festa ma che non sembra disposto a prendervi
parte?

▶ (S)oggetti smarriti… e ritrovati. Più che sugli smarri-


menti e sui loro motivi, queste parabole si concentrano sulla
tenacia e l’accuratezza della ricerca e sulla gioia del ritrova-
mento. Il ritrovamento, il ritorno alla vita, sono motivo di fe-
sta per Dio. Gesù le racconta proprio di fronte a chi è scan-
dalizzato del fatto che egli accolga i peccatori e mangi con i
pubblicani. I discepoli non sono degli irreprensibili, dei primi
della classe con presunzione di perfezionismo, ma dei ritro-
vati e dei salvati.

▶ Ricercati! In una escalation anche matematica il vange-


lo rivela il volto di Dio cercatore degli erranti: 1 su 100, 1 su
10 e poi 2 su 2: il padre esce incontro a ciascuno dei due figli,
dona a ciascuno tutto ciò che ha e invita entrambi alla festa.
La sua premura è sempre per tutti. Dio vuole che tutti siano
ritrovati: le cento pecore, le dieci monete, i due figli. Questa
è la logica di Dio. Non fa lavate di capo ma organizza feste.
Però… Solo chi si riconosce bisognoso di perdono entra
alla festa. L’amore misericordioso di Dio si ferma di fron-
te alla libertà degli uomini. E noi oggi da che parte stiamo?
Dalla parte di chi ascolta, come i pubblicani e i peccatori (i
non perfetti), o dalla parte di chi mormora indignato, presu-
mendo di essere giusto, come i farisei, gli scribi e il fratello
maggiore?

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24ª domenica ordinaria79

Perché Dio è così


di Roberto Laurita

Le ragioni dei farisei e degli scribi non mancano: oggi come


duemila anni fa. In fondo Gesù, con il suo comportamento, non
rischia di generare degli equivoci? Se proprio intende frequen-
tare gente come i pubblicani e i peccatori, non dovrebbe pri-
ma accertarsi della loro effettiva conversione? Non sarebbe più
prudente porre alcune condizioni prima di entrare in casa loro?
E poi, in ogni caso, non si pecca di “buonismo”, non si offre una
misericordia a buon prezzo, un perdono che arriva troppo pre-
sto? Perché Gesù insiste, perché non rinuncia a frequentare quel-
la gente, a mangiare alla loro tavola?
Il motivo è semplice: Dio, il Padre suo, si comporta così. Dio si
rallegra – viene ripetuto due volte – per un solo peccatore che
si converte. Perché Dio è misericordioso: ha un cuore tenero, ha
compassione delle nostre infermità, vuole restituirci alla digni-
tà di figli suoi. Per lui ognuno è prezioso, ognuno ha un valore
inestimabile. E il fatto che manchi alla sua tavola costituisce un
cruccio, una sofferenza. Ecco perché parte alla ricerca «finché
non lo trova».
Le parabole hanno il merito di strapparci ai nostri ragiona-
menti, ai nostri calcoli e di metterci davanti al volto di Dio, al suo
comportamento, che Gesù vuole solo tradurre nelle sue parole e
nei suoi gesti. Se mormoriamo, se gridiamo anche noi allo scan-
dalo, è perché non siamo come gli amici e i vicini del pastore,
come le vicine e le amiche della donna che ha ritrovato la sua
dracma. Se ci sentiamo traditi, trattati ingiustamente, è perché
non abbiamo il cuore di Dio, non siamo capaci di vibrare del suo
stesso amore.
Se così fosse non potremmo che rallegrarci. Rallegrarci perché
nessun peccato è più forte della misericordia di Dio, perché nes-
suno va così lontano da non poter essere raggiunto. Rallegrarci
perché non veniamo abbandonati al nostro destino anche se ab-
biamo risposto alla fedeltà di Dio con le nostre infedeltà. Ralle-

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80 Preparare la messa

grarci perché è bello sapere di essere cercati proprio perché ama-


ti e ritenuti unici e preziosi.
I cristiani non sono, dunque, persone perfette, sanno di essere
peccatori. Ma peccatori perdonati, che possono contare sempre
su un perdono smisurato, al di là delle loro attese, tanto da sem-
brare scandaloso.

Regia liturgica
• In questa domenica che rimette al centro la misericordia
di Dio e il suo agire a nostro vantaggio perfino nei cammi-
ni di distanza da lui, nel girovagare errante dei nostri pas-
saggi di vita, si potrebbe valorizzare in modo particolare il
momento della richiesta di perdono.
• Perciò, in luogo di quanto suggerito sopra per l’atto pe-
nitenziale, si potrebbe usare il Rito per la benedizione e
l’aspersione dell’acqua benedetta (cf. Messale romano,
989-994).
• Inoltre, suggeriamo di utilizzare la Preghiera Eucaristica
della Riconciliazione I oppure la Preghiera Eucaristia del-
la Riconciliazione II.

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24ª domenica ordinaria81

laPreghiera
di Roberto Laurita

Quando si ama, Gesù,


non sono le percentuali a confortarci:
il novanta per cento delle monete d’argento
e il novantanove per cento delle pecore
non riescono a farci dimenticare
il dieci per cento che abbiamo perduto
e l’uno per cento che si è smarrito.

Dio, il Padre tuo ci ama


di un amore folle, smisurato.
Ecco perché non può consolarsi
con il figlio che gli rimane in casa.
Ecco perché va in cerca,
non sta con le mani in mano
e in ogni caso continua ad attendere.
Ecco perché invita chi gli è vicino
a far festa, a rallegrarsi con lui.

È bello, Gesù, sentirsi oggetto


di questo amore tenace,
più forte di ogni peccato, di ogni offesa,
di ogni irrisione, di ogni insulto.

Grazie, Gesù, perché in ogni momento,


anche il più buio e desolato
della nostra esistenza,
so di poter contare sicuramente
su questo amore illimitato.

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P 24ª domenica ordinaria
11 settembre 2022

Accoglienza: Il nostro cammino di fede non è esente da smarrimenti e infedeltà.


Anche noi siamo come i protagonisti della parola di Dio, siamo come il popolo
che dimentica i tuoi benefici. Eppure questa celebrazione ci rimette nel cuore la
certezza che siamo sempre figli del Padre misericordioso, che instancabilmente
ci viene a cercare. Nella fede, tutti siamo salvati e perdonati. Ad una condizione:
che ci riconosciamo bisognosi del perdono e ci lasciamo ritrovare.
Invito all’atto penitenziale: La tua misericordia, o Dio, crei in noi un cuore pu-
ro. Abbiamo peccato, ci siamo allontanati da te. Donaci di riconoscere che ab-
biamo bisogno di essere rinnovati dalla forza del tuo perdono.
Conclusione dell’atto penitenziale: Ti rendiamo grazie, Dio misericordioso, per
la pazienza e la tenacia con cui ci vieni a cercare dentro i sentieri distorti del no-
stro peccato. Donaci ancora il tuo perdono e rinnova la nostra vita.
Introduzione alla preghiera dei fedeli: Fratelli e sorelle, a Dio misericordioso e
pietoso, lento all’ira e grande all’amore, rivolgiamo con fiducia le nostre invoca-
zioni: Ascolta la nostra preghiera.
Conclusione della preghiera dei fedeli: O Padre, donaci di fare festa con te e
fa’ che gioiamo anche noi per ogni fratello e sorella che è ritrovato dal tuo amo-
re che perdona.
Al Padre nostro: La fedeltà del tuo amore ci rende figli per sempre, cercati e per-
donati anche lungo i sentieri dei nostri smarrimenti. Donaci di vivere come fra-
telli e sorelle gli uni degli altri. Te lo chiediamo con la preghiera che il Figlio tuo ci
ha insegnato: Padre nostro…
Al dono della pace: Perdonati e invitati alla festa della vita, ci scambiamo un se-
gno di pace.
Al congedo: La gioia del Signore sia la nostra forza, andate in pace!

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24ª domenica ordinaria
11 settembre 2022 C
Invocazioni penitenziali:
– Signore Gesù, come il popolo nel deserto ci siamo allontanati da te, ma senza
te siamo perduti: abbi pietà di noi. Kýrie, eléison!
– Cristo Signore, come il figlio prodigo siamo partiti lontano da te, ma senza di
te siamo schiavi: abbi pietà di noi. Christe, eléison!
– Signore Gesù, come il fratello maggiore fatichiamo a gioire della tua miseri-
cordia, ma senza di te siamo tristi: abbi pietà di noi. Kýrie, eléison!
Prima lettura: Nel dialogo con Dio, Mosè intercede per il popolo. Dio si pente
del male che aveva minacciato di fare. Fedele al ricordo delle sue promesse per-
dona la dimenticanza dell’uomo.
Salmo responsoriale: Perdonare, per Dio, è un atto creativo. Non si tratta solo
di cancellare le colpe, ma di creare uno spirito puro. Riconoscersi bisognosi della
sua misericordia è l’offerta gradita a Dio.
Seconda lettura: Paolo ha sperimentato in se stesso la grandezza della miseri-
cordia di Dio. È questo che lo ha trasformato radicalmente. Prima violento per-
secutore, ora testimone, con la sua stessa vita, della salvezza dei peccatori.
Vangelo: È Dio che per primo ci viene incontro negli smarrimenti del nostro
peccato. Nelle figure mostrateci dal vangelo intravediamo il tratto misericordio-
so del volto di Dio, che ci cerca finché non ci trova per fare festa.
Intenzioni per la preghiera dei fedeli:
– Per la chiesa: sia segno del tuo perdono e della tua misericordia. Riconosca
che il perdono è sempre e continuamente un dono anche per lei da invocare
e amministrare senza spadroneggiare. Ti preghiamo.
– Per gli uomini e le donne che si sentono soli e smarriti, possano gustare la tua
misericordia che conta perfino i passi del nostro vagare. Ti preghiamo.
– Per tutti noi, che talvolta, come fratelli maggiori della parabola, ci ritrovia-
mo a mormorare contro di te e contro gli altri. Dilata il nostro cuore al per-
dono. Ti preghiamo.
– Per la nostra comunità, a cui è affidata da te la parola di riconciliazione: inter-
rompa la mormorazione che ferisce e giudica. Ti preghiamo.

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25ª domenica ordinaria
18 settembre 2022

Vivere nel mondo la «scaltrezza» della fede.


La ricchezza per l’uomo è una tentazione molto forte,
perché può creare non solo dipendenza ma anche asservimento:
si vive in funzione del guadagno, dando un prezzo a ogni cosa.
La parabola dell’amministratore disonesto,
lodato per la sua scaltrezza, offre a Gesù l’opportunità
per riflettere con i discepoli sulla ricchezza e l’affidabilità:
la vita terrena rappresenta un banco di prova per verificare
la fedeltà a ciò che il Signore ha loro affidato.
Non devono cedere alle lusinghe del denaro, ma decidere
su chi o cosa basare la loro esistenza (vangelo).
La voce profetica di Amos resta inascoltata da chi calpesta
i diritti del povero e opprime la causa degli umili; l’avidità
rende insensibili anche nei confronti di Dio:
i giorni a lui consacrati sono vissuti con la mente rivolta altrove,
e non con il desiderio di lodare il Signore (prima lettura).
L’uomo di Dio, Timoteo, non può limitarsi a curare i suoi fedeli,
ma deve dilatare il suo cuore in prospettiva universale.
Egli deve pregare, offrire suppliche e ringraziamenti per tutti,
anche per i governanti, perché garantiscano serenità e prosperità.
A tutti, infatti, è offerta la salvezza per mezzo di Cristo,
unico mediatore tra Dio e gli uomini (seconda lettura).

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interpretare i testi
di Antonio Landi

«Non potete servire Dio e la ricchezza»


Luca 16,13

Prima lettura Amos 8,4-7


Il Signore mi disse: 4«Ascoltate questo, voi che calpestate il povero e ster-
minate gli umili del paese, 5voi che dite: “Quando sarà passato il novilu-
nio e si potrà vendere il grano? E il sabato, perché si possa smerciare il
frumento, diminuendo l’efa e aumentando il siclo e usando bilance false,
6
per comprare con denaro gli indigenti e il povero per un paio di sandali?
Venderemo anche lo scarto del grano”».
7
Il Signore lo giura per il vanto di Giacobbe: «Certo, non dimenticherò
mai tutte le loro opere».

La missione del profeta non è di prevedere il corso futu-


ro degli eventi e mettere in guardia il popolo dalle sciagure
imminenti; egli è scelto da Dio, dal quale riceve l’incarico di
trasmettere la sua Parola. Pertanto, la prima prerogativa del

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86 Preparare la messa

profeta è di essere araldo del messaggio divino. La Parola


che riceve dal Signore è destinata a lui perché la proclami
al popolo: può trattarsi di un rimprovero, di una minaccia di
castigo o di sventura per i peccati commessi; può essere mes-
saggio di consolazione e d’incoraggiamento, perché i destina-
tari si mantengano fedeli a Dio e al patto di alleanza. In ogni
caso, è una Parola efficace, che realizza ciò che annuncia (in
ebraico, dābār).
Il messaggio profetico spesso si scontra con l’arroganza e
la superbia dei ricchi e dei potenti che, forti della loro posi-
zione economica e sociale, sfruttano i più poveri e i deboli e
non hanno alcun rispetto neanche nei riguardi di Dio. È il ca-
so di Amos, profeta attivo nel regno di Samaria durante il re-
gno di Geroboamo II (783-743 a.C.): denuncia apertamente
la speculazione e lo sfruttamento da parte dei proprietari di
latifondi e dei facoltosi commercianti che non hanno pudore
di speculare su tutto, anche sulle vite umane.
La pericope liturgica è un severo atto di denuncia contro
coloro che calpestano il povero e sterminano gli umili del
paese (8,4-6), e termina con un solenne giuramento da parte
del Signore: non saranno dimenticate le loro opere malvagie
(v. 7).

 Dio parla. Il brano odierno è preceduto dalla visione di


un canestro di frutta matura, al quale è paragonato il popolo
d’Israele (8,1-3): «è maturata la fine del mio popolo, Israe-
le: non gli perdonerò più» (v. 2). Tutto è destinato a tacere,
anche i canti che scandiscono la liturgia all’interno del Tem-
pio. Nel silenzio irrompe la voce divina, che invita a prestare
ascolto (šm‘): l’appello è destinato a coloro che calpestano
(š’p) il povero e sterminano (šbt) gli umili del Paese. Non è in
atto una guerra né un conflitto etnico: è l’avidità di guadagno
dei ricchi che provoca l’umiliazione e la morte dei poveri.

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25ª domenica ordinaria87

 La smania di guadagno. Al v. 5 sono riportate, in forma


diretta, le attese degli affaristi: essi mal sopportano di dover
interrompere i loro cospicui guadagni a motivo del novilunio
e del sabato (šabbāt): in base alla disposizione di Lv 23,24-
25, in concomitanza del primo giorno del mese (lunare) era
sospesa ogni attività ed era indetto riposo assoluto, così co-
me previsto anche per il sabato (Es 20,8-10), giorno dedicato
interamente al Signore. Trascorsi questi giorni, essi potranno
smerciare grano e frumento; tuttavia, la brama smodata di
denaro spinge i commercianti a barare sul peso e a speculare
sul prezzo, favorendo guadagni ancora più lauti a danno del-
la povera gente. Anzi, la loro venalità li porta ad essere irri-
spettosi della dignità dei più poveri, la cui vita vale poco me-
no di un paio di sandali (cf. Am 2,6). Nella loro arroganza si
sentono al sicuro e, pur di guadagnare, sono disposti a tutto,
anche a vendere lo scarto del grano.

 Il giuramento del Signore. L’atteggiamento borioso e la


brama di possesso hanno indotto i ricchi speculatori non so-
lo ad approfittarsi dei più deboli, derogando al principio di
solidarietà nei confronti dei più poveri (cf. Dt 24,14-21), ma
anche ad essere irrispettosi nei confronti di Dio: nel giorno
del novilunio o del sabato, anziché dedicarsi al culto e alla
lode, trascorrono il tempo da consacrare a Dio a escogitare
nuove soluzioni per incrementare i loro già ricchi patrimoni.
Hanno elevato il denaro a un idolo sul cui altare sacrificare
la loro fedeltà a Dio. Tuttavia, il Signore non dimentica (v.
7): giura (šb‘) su se stesso (così potrebbe essere compreso il
senso della formula «per il vanto di Giacobbe»: cf. Am 6,8)
che non dimenticherà le loro opere e chiederà loro conto del
loro agire perverso. È un duro monito nei confronti dei po-
tenti, affinché si ravvedano dalla loro condotta e si pentano
delle loro malefatte.

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88 Preparare la messa

Salmo responsoriale Sal 112

Il salmista invita i servi del Signore, tutti coloro che rico-


noscono la signoria divina, a lodare e benedire il suo nome,
da ora e per sempre. Nella tradizione biblica il nome (šēm)
esprime l’essenza stessa della persona, la sua forza, la sua at-
tività; Dio è acclamato come Signore (Yhwh), perché è colui
che da sempre esiste e fa esistere. La sua sovranità si estende
a tutte le nazioni; la sua gloria non si può misurare, ma solo
celebrare. La distanza abissale che separa il cielo dalla terra
è adottata come criterio per esprimere l’incomparabilità del
Signore: nessun’altra divinità, men che meno l’uomo, può pa-
ragonarsi a colui che siede nell’alto e si china a guardare al di
sopra dei cieli e della terra. La sua trascendenza non è indi-
ce di disinteresse e distacco dalle vicende umane; egli, infatti,
ha a cuore la sorte del debole, del povero: non tollera che la
sua dignità, calpestata dagli uomini, sia relegata in mezzo alla
polvere e all’immondizia. L’intervento divino capovolge le lo-
giche umane e così il povero, reietto da tutti, è elevato da Dio
sullo scranno più elevato, quello dei principi del suo popolo.

Seconda lettura 1 Timoteo 2,1-8

Figlio mio, 1raccomando, prima di tutto, che si facciano domande, sup-


pliche, preghiere e ringraziamenti per tutti gli uomini, 2per i re e per tut-
ti quelli che stanno al potere, perché possiamo condurre una vita calma e
tranquilla, dignitosa e dedicata a Dio. 3Questa è cosa bella e gradita al co-
spetto di Dio, nostro salvatore, 4il quale vuole che tutti gli uomini siano
salvati e giungano alla conoscenza della verità.
5
Uno solo, infatti, è Dio e uno solo anche il mediatore fra Dio e gli uomi-
ni, l’uomo Cristo Gesù, 6che ha dato se stesso in riscatto per tutti. Questa
testimonianza egli l’ha data nei tempi stabiliti, 7e di essa io sono stato fat-
to messaggero e apostolo – dico la verità, non mentisco –, maestro dei
pagani nella fede e nella verità.
8
Voglio dunque che in ogni luogo gli uomini preghino, alzando al cielo
mani pure, senza collera e senza polemiche.

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25ª domenica ordinaria89

La preghiera è una dimensione peculiare della comunità


cristiana; lo ricorda l’autore della Prima lettera a Timoteo,
presumibilmente un discepolo di Paolo, affinché si levi inces-
sante l’orazione a Dio da parte di tutta l’assemblea. La pre-
ghiera conferisce alla chiesa un respiro universale; difatti, si
raccomanda di pregare per le autorità civili e politiche, così
come per tutti gli uomini. La comunità non può vivere in ma-
niera autoreferenziale, ripiegata su se stessa e desiderosa di
soddisfare le sue ambizioni; unita a Cristo, unico mediatore
tra Dio e gli uomini, deve intercedere per la salvezza di tutti.
L’esortazione e l’incoraggiamento a perseverare nella pre-
ghiera si basano sull’autorevolezza di Paolo, scelto dal Si-
gnore come araldo e apostolo; egli è testimone della volontà
salvifica di Dio estesa a tutte le genti. Pertanto, la comunità è
chiamata non solo a proclamare, ma anche a pregare perché
tutti gli uomini raggiungano la salvezza.
Il brano odierno è inserito nella sezione inerente all’iden-
tità liturgica della comunità ecclesiale, i capitoli 2–3; in parti-
colare, la pericope di 2,1-8 si concentra sull’appello alla pre-
ghiera comunitaria (vv. 1-2.8), affinché tutti possano trarne
beneficio; l’orazione è sostenuta dalla certezza che Dio vuole
che tutti gli uomini siano salvi (vv. 3-7).

 Pregare in vista della pace. La preghiera non è un’at-


tività accessoria della comunità, ma una priorità che si col-
loca «prima di ogni cosa» (v. 1). Esistono molteplici forme
di orazione, e l’autore della lettura accenna alla preghiera
con la quale l’orante esprime la sua condizione di bisogno o
d’indigenza (déēsis), il suo desiderio (proseuchḗ), la supplica
(enteúxis) o la gratitudine (eucharistía). Tuttavia, chi prega
non lo fa per motivi solipsistici; la preghiera ha un respiro
più ampio, tale da estendersi a tutti gli uomini. In tal senso,
la preghiera è la prima forma di solidarietà nei confronti del
prossimo, soprattutto di coloro che sono preposti al governo
o hanno ruoli di responsabilità nella res publica; intercedere

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90 Preparare la messa

per loro presso Dio significa invocare su di loro l’assistenza


divina perché tutti possano godere del buon governo, e ga-
rantirsi la pace e la tranquillità necessarie per vivere in ar-
monia con tutti, senza disattendere la relazione con Dio «in
piena pietà e dignità».

 La preghiera gradita a Dio. La dimensione universale


dell’orazione comunitaria è particolarmente apprezzata dal
Signore: «è bello e gradito» che l’assemblea liturgica si rivol-
ga a Dio, acclamandolo come Salvatore, perché tutti possano
ottenere la salvezza e giungere alla conoscenza della verità.
La conoscenza (epígnōsis), così come la salvezza, è un dono
che il Signore concede dall’alto; la mèta è la verità, intesa co-
me il contenuto del Vangelo. La parenesi della preghiera si
fonda sul disegno salvifico universale del Dio uno e unico,
così come creduto dal popolo d’Israele (cf. Dt 6,4-5). A fun-
gere da mediatore tra Dio e gli uomini è «l’uomo Cristo Ge-
sù» (v. 5). Il linguaggio adottato nella Prima lettera a Timoteo
presenta interessanti analogie con il profilo cristologico di
Ebrei: l’umanità è la condizione attraverso la quale il Cristo
esprime la sua piena solidarietà all’uomo peccatore, biso-
gnoso di riscatto e di redenzione (Eb 2,17-18). Con l’offerta
della sua vita, egli diviene mediatore (mesítēs) dell’alleanza
nuova (Eb 9,12), perché fa dono di sé in riscatto per tutti. Il
termine greco antílytron esprime il «prezzo» che Cristo paga
per il riscatto dell’umanità schiava del peccato. Il sacrificio
di Cristo è testimone dell’amore del Padre per l’umanità, e
dell’amore del Figlio, che fa dono di se stesso.

 Il ministero di Paolo. L’apostolo è stato scelto dal Risor-


to per divenire «araldo», «apostolo» e «maestro» (v. 7) del
Vangelo, perché possa attirare alla fede e alla verità tutte le
genti. Egli non si limita a riferire notizie o informazioni rice-
vute da altri; la sua condizione di apostolo eletto per volon-
tà divina non lo pone in una posizione subalterna rispetto ai

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25ª domenica ordinaria91

primi seguaci del Gesù terreno, ma ne evidenzia la relazione


di continuità nell’unico piano salvifico, che ad essi lo acco-
muna, senza sminuirne l’originalità. A Paolo, in particolare,
compete l’onere di promulgare il Vangelo tra le genti, affin-
ché anch’esse giungano a professare la fede nell’unico Dio
e aderire alla verità della salvezza concessa a tutti gli uomi-
ni per mezzo di Gesù Cristo. L’ultima raccomandazione è
espressa sotto forma di desiderio: il mittente auspica che tut-
ti gli uomini siano esortati a pregare con «mani sante», cioè
rese pure dalla grazia di Dio, scevre di risentimento o ranco-
re. Se la preghiera è la prima forma di carità nei riguardi del
prossimo, non è possibile intercedere per ottenere il bene al-
trui se nel cuore si coltivano sentimenti contrari. È una que-
stione di coerenza e di testimonianza.

Vangelo Luca 16,1-13

In quel tempo, 1Gesù diceva ai discepoli: «Un uomo ricco aveva un am-
ministratore, e questi fu accusato dinanzi a lui di sperperare i suoi averi.
2
Lo chiamò e gli disse: “Che cosa sento dire di te? Rendi conto della tua
amministrazione, perché non potrai più amministrare”.
3
L’amministratore disse tra sé: “Che cosa farò, ora che il mio padrone mi
toglie l’amministrazione? Zappare, non ne ho la forza; mendicare, mi
vergogno. 4So io che cosa farò perché, quando sarò stato allontanato
dall’amministrazione, ci sia qualcuno che mi accolga in casa sua”.
5
Chiamò uno per uno i debitori del suo padrone e disse al primo: 6“Tu
quanto devi al mio padrone?”. Quello rispose: “Cento barili d’olio”. Gli dis-
se: “Prendi la tua ricevuta, siediti subito e scrivi cinquanta”. 7Poi disse a un
altro: “Tu quanto devi?”. Rispose: “Cento misure di grano”. Gli disse: “Pren-
di la tua ricevuta e scrivi ottanta”.
8
Il padrone lodò quell’amministratore disonesto, perché aveva agito con
scaltrezza. I figli di questo mondo, infatti, verso i loro pari sono più scal-
tri dei figli della luce.
9
Ebbene, io vi dico: fatevi degli amici con la ricchezza disonesta, perché,
quando questa verrà a mancare, essi vi accolgano nelle dimore eterne.
10
Chi è fedele in cose di poco conto, è fedele anche in cose importanti; e

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92 Preparare la messa

chi è disonesto in cose di poco conto, è disonesto anche in cose impor-


tanti. 11Se dunque non siete stati fedeli nella ricchezza disonesta, chi vi af-
fiderà quella vera? 12E se non siete stati fedeli nella ricchezza altrui, chi vi
darà la vostra?
13
Nessun servitore può servire due padroni, perché o odierà l’uno e ame-
rà l’altro, oppure si affezionerà all’uno e disprezzerà l’altro. Non potete
servire Dio e la ricchezza».

Luca è molto sensibile al tema della ricchezza: se nel van-


gelo la sequela di Cristo impone la rinuncia radicale ad ogni
forma di possesso, nel libro degli Atti degli Apostoli la prassi
della condivisione dei beni all’interno della comunità è uno
degli aspetti caratterizzanti della vita ecclesiale (At 2,42-47;
4,32-35). La tentazione di fare della ricchezza un idolo è ben
presente nel contesto socio-economico che fa sfondo alla cri-
stianità lucana; pertanto, il terzo evangelista insiste sull’in-
conciliabilità tra la logica del possesso e lo stile del dono e
della condivisione; tra il servizio di Dio e l’asservimento al
denaro. Anche l’accesso alla salvezza può essere ostruito
dall’eccessiva affezione ai beni materiali.
Il brano scelto per la proclamazione odierna del vangelo
include il racconto dell’amministratore disonesto (vv. 1-8) e
una riflessione sul tema della ricchezza (vv. 9-13). Le due pe-
ricopi sono accomunate dai temi della ricchezza, dell’iniqui-
tà, della fedeltà/infedeltà, del rapporto padrone/servo. Il let-
tore resta sorpreso dall’elogio riservato all’amministratore
infedele, lodato per la sua scaltrezza, e dalla radicale incon-
ciliabilità tra il servizio di Dio e l’asservimento alle ricchezze
mondane.

 Saper cosa fare. La parabola è destinata ai discepoli (v.


1): coloro che hanno seguito Gesù durante il suo ministero
pubblico hanno rinunciato a tutto (cf. 5,11.28); tuttavia, il ra-
dicale distacco dai beni materiali vale per chiunque voglia
intraprendere il cammino della sequela (cf. 9,58.62; 14,33;

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25ª domenica ordinaria93

18,22). I protagonisti della parabola sono due: un uomo ricco


e il suo economo; questi è accusato di aver dilapidato gli ave-
ri del suo padrone, ed è chiamato a rendere conto della sua
amministrazione. Non gli viene concessa una prova di appel-
lo: è evidente che le accuse contro di lui sono fondate, né egli
sostiene il contrario. È sollevato dal suo incarico e rischia di
restare senza lavoro. Decide, allora, di convocare i debitori
del suo padrone; prova a ingraziarsi il loro favore, sfruttando
le residue disponibilità che ha a sua disposizione per deter-
minare il corso degli eventi. Fa modificare l’ammontare del
debito che ciascuno di loro ha con il suo padrone, così da po-
ter attirare la loro gratitudine e ottenere accoglienza da par-
te loro quando sarà allontanato definitivamente dalla casa
padronale. È evidente che l’amministratore ha commesso un
ulteriore illecito che danneggia il suo padrone, confermando
le accuse a suo carico.

 Elogio della disonestà? L’amministratore disonesto si è


rivelato abile e furbo, anche se la parabola non accenna al
buon esito della sua iniziativa; tuttavia, è il suo padrone a
compiacersi con lui perché ha agito con scaltrezza. Nel testo
greco ricorre l’avverbio phronímōs, utilizzato solo qui nei
testi del Nuovo Testamento, che indica la capacità da parte
dell’economo di aver saputo trarre giovamento personale da
una situazione che volgeva a suo sfavore. Non si è rassegna-
to, né ha accettato lavori faticosi o condizioni umilianti; ha
brillato per ingegno e voglia di non affondare. In tal senso, è
indicato come paradigma per i figli della luce, vale a dire per
tutti i credenti, affinché siano altrettanto scaltri. Gesù esorta
i suoi discepoli a procurarsi amici con la mamōnás d’iniquità
(v. 9). Il termine greco mamōnás deriva dall’ebraico māmôn
o dall’aramaico māmônāʼ, ed esprime il possesso, la ricchez-
za che ha durata effimera e inganna il cuore dell’uomo. I
discepoli non devono sottomettersi alla dittatura dei beni
mondani, ma sono chiamati a condividerli con i più poveri,

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94 Preparare la messa

perché essi, ai quali appartiene il regno di Dio (6,20), possa-


no accoglierli nelle dimore eterne. È questo il discernimento
che i discepoli sono chiamati a esercitare: non sono le ric-
chezze terrene a garantire la felicità permanente.

 Amare Dio o il denaro? L’economo gestiva i beni del suo


padrone; a giudicare dalla quantità di crediti che egli van-
tava nei confronti dei suoi debitori, la quantità di ricchezze
che egli amministrava era considerevole. Tuttavia, la fedeltà
che egli dovrebbe al suo padrone non dipende dalla quantità
che gli è stata affidata: chi sa ripagare la fiducia posta in lui
è affidabile (pístos), perché sceglie di comportarsi con one-
stà osservando le mansioni a lui richieste. L’empio (ádikos),
invece, agisce solo nel suo interesse, tradendo la fiducia del
suo padrone, ricercando esclusivamente il suo personale tor-
naconto. Ne consegue che, a chi non si è rivelato all’altezza
di gestire i beni mondani, non potrà ricevere la ricchezza
vera, vale a dire la salvezza. Il detto relativo ai due padroni
è attestato anche in Mt 6,24 in maniera pressoché identica.
L’enfasi è posta sulla necessità di scegliere se servire Dio o
mammona. La contrapposizione è espressa in maniera radi-
cale: non è possibile amare due realtà che si contrappongono
intrinsecamente. Non v’è possibilità di connivenza tra Dio e
il denaro; così, all’odio per l’uno corrisponderà l’amore per
l’altro; all’adesione all’uno, fa da contrappunto il disprezzo
per l’altro. La prima contrapposizione, odiare-amare, è già
nota ai discepoli: chi sceglie di seguire il Cristo, deve odiare
la propria famiglia, nel senso che è posto di fronte alla neces-
sità di scegliere di stare con Gesù, evitando che le relazioni
familiari possano rappresentare un ostacolo insormontabile
per la sequela. Non è pertanto possibile assoggettarsi, con-
temporaneamente, a Dio e a mammona; occorre scegliere se
fondare la propria esistenza e il proprio stile di vita su Dio o
sui beni materiali.

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attualizzare il messaggio
di Maurizio Aliotta

Scegliere le relazioni
come discepoli di Gesù
Con le stesse parole di Gesù, i suoi discepoli potrebbero
essere chiamati «figli della luce». Se consideriamo l’espres-
sione un semitismo – la ritroviamo infatti anche altrove nel-
la letteratura giudaica – allora il suo primo significato rinvia
alla natura della luce, la trasparenza, applicata alla persona.
Designa perciò, metaforicamente, le persone trasparenti, ret-
te; in altri termini i «giusti». Come intendere, allora, l’invito
di Gesù a farsi degli amici con la ricchezza iniqua? Ignorava
il monito del salmista: «Beato l’uomo che non entra nel con-
siglio dei malvagi, non resta nella via dei peccatori e non sie-
de in compagnia degli arroganti» (Sal 1,1)?
In realtà le parole di Gesù rinviano a un dato antropolo-
gico che ritroviamo nella Bibbia e fuori di essa: l’importanza
di saper scegliere le relazioni. Un discepolo, un «giusto» deve
saper scegliere le relazioni «giuste», che possono essere inte-
se in più modi. Una relazione potrebbe essere giusta in sen-
so funzionale; attraverso di essa posso conseguire uno scopo
che mi sono prefissato, per esempio trarre vantaggio per un
mio interesse personale, per avere un favore. In questo senso
però il discepolo di Gesù tradirebbe il suo discepolato che si
caratterizza per la dimensione agapica della vita («amatevi
come io vi ho amato»). In senso evangelicamente positivo,
una relazione è giusta quando esprime una prossimità fisica
o morale e spirituale senza scopi che strumentalizzino le per-
sone coinvolte nella relazione e con la caratteristica della re-
ciprocità, entriamo così nella sfera dell’amicizia.

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96 Preparare la messa

La saggezza popolare ha tessuto le lodi di questo tipo di


amicizia; già la sapienza di Israele lo testimonia molte volte,
mettendo in guardia dai rischi di una amicizia inautentica. Ri-
chiamo qui solo pochi esempi sufficienti a rivelare il realismo
della Bibbia: «Un amico fedele è rifugio sicuro: chi lo trova,
trova un tesoro. Per un amico fedele non c’è prezzo, non c’è
misura per il suo valore. Un amico fedele è medicina che dà
vita: lo troveranno quelli che temono il Signore» (Sir 6,14-
16). Non manca la consapevolezza di una amicizia inautentica
quando si celano gli interessi con la maschera dell’amicizia.
La preziosità della vera amicizia e il rischio di camuffare con
il suo volto l’esatto contrario di essa sono altresì messi in evi-
denza e invitano perciò alla prudenza: «Se vuoi farti un amico
(phílos), mettilo alla prova e non fidarti subito di lui. C’è infat-
ti chi è amico quando gli fa comodo, ma non resiste nel giorno
della tua sventura» (Sir 6,7-8). Il libro dei Proverbi si muove in
direzione simile: «Un amico (harea‘) vuol bene sempre, è nato
per essere un fratello nella sventura» (Pr 17,17); «Meglio un
amico (werea‘) vicino che un fratello lontano» (Pr 27,10).
L’importanza dell’amicizia e i suoi limiti sono espressi an-
che nella filosofia ellenistica, in particolare nello stoicismo
che trova un interprete a Roma in Seneca. La scelta delle
proprie relazioni deve esser vagliata con cura per evitare si-
tuazioni spiacevoli:
Bisogna nella scelta delle persone considerare se meritano che
noi spendiamo per loro parte del nostro tempo, o se un po’ di
perdita del nostro tempo loro giovi: perché alcuni mettono a
nostro debito i servigi che spontaneamente loro facciamo […].
Nulla, tuttavia, delizierà tanto l’animo quanto un’amicizia fedele
e sincera. […] Ai nostri giorni, data la scarsità degli onesti, non
esigiamo troppo nella scelta. Tuttavia, evitiamo in modo speciale
i bisbetici e gli scontenti che per un nonnulla si lamentano sem-
pre. Un compagno che sempre ha paura e di tutto si lamenta,
sebbene buono e fedele, tuttavia offusca la nostra serenità (Se-
neca, De tranquillitate animi).

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25ª domenica ordinaria97

La “scaltrezza” che esige il Vangelo si innesta in quella


umana superandola. L’agire funzionale, implicato in ogni
scelta, è una struttura formale dell’azione umana. La scelta,
però, se è tale consegue da una riflessione e un discernimen-
to. La scelta, non l’agire funzionale, ha una dimensione etica,
che subentra dal momento in cui orienta l’azione al bene o al
male. Dal punto di vista antropologico, il nostro agire conser-
va sempre un certo grado di ambiguità. Non esiste un’azione
che sia o totalmente funzionale o totalmente gratuita. Il do-
nare, per esempio, implica una gratificazione.
Questa ambivalenza è presente in modo peculiare nelle
relazioni personali, in particolare nell’amicizia. In essa, ricor-
dava Romano Guardini, «intervengono sempre anche delle
funzioni vitali: scambio reciproco della simpatia immediata,
dell’aiuto, dell’arricchimento e così via»1. Quando l’amicizia
è veramente tale la relazione personale si eleva e va oltre la
semplice funzione. Qui sta la dimensione etica della scelta:
orientare la funzione vitale, il proprio bisogno, alla costruzio-
ne di relazioni che non siano solo finalizzate a realizzare un
obiettivo individuale, ma un reciproco arricchimento (mate-
riale e spirituale). L’agire del discepolo si dovrebbe caratte-
rizzare dalla duplice dimensione della gratuità e della reci-
procità: «Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli
uni gli altri» (Gv 13,34), diversamente:
Chi non vive la gratuità fraterna fa della propria esistenza un
commercio affannoso, sempre misurando quello che dà e quel-
lo che riceve in cambio. Dio, invece, dà gratis, fino al punto che
aiuta persino quelli che non sono fedeli, e «fa sorgere il suo sole
sui cattivi e sui buoni» (Mt 5,45). Per questo Gesù raccomanda:
«Mentre tu fai l’elemosina, non sappia la tua sinistra ciò che fa
la tua destra, perché la tua elemosina resti nel segreto» (Mt 6,3-
4). Abbiamo ricevuto la vita gratis, non abbiamo pagato per es-

1
R. Guardini, Etica, Marcelliana, Brescia 20032, 165.

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98 Preparare la messa

sa. Dunque tutti possiamo dare senza aspettare qualcosa, fare il


bene senza pretendere altrettanto dalla persona che aiutiamo. È
quello che Gesù diceva ai suoi discepoli: «Gratuitamente avete
ricevuto, gratuitamente date» (Mt 10,8)2.

programmare la celebrazione
di Michele Roselli

Discernere il messaggio
«Farsi amici con la ricchezza disonesta» (vangelo). Queste
parole indicano bene il messaggio delle Scritture di questa
domenica. I diversi contributi offrono dettagli utili alla lo-
ro interpretazione, ma qui mettiamo l’accento su ciò che ci
sembra il centro: le relazioni – con l’Altro e con gli altri – val-
gono più del possesso. Le letture ci pongono di fronte a una
scelta: in chi o in che cosa mettiamo la nostra fiducia? In Dio
o nelle ricchezze? «Mammona», il termine che nelle vecchie
traduzioni indicava queste ultime, deriva da una radice che
significa proprio fiducia. L’alternativa è chiara: ci affidiamo
più volentieri ai nostri tornaconti, al nostro utile (prima let-
tura), oppure al Dio affidabile che vuole che tutti gli uomini
siano salvati (seconda lettura)? Dove sta il tesoro del nostro
cuore? Da questo deriva l’invito: trasformare le ricchezze
(ciò che abbiamo), in strumenti di fraternità e dono (ciò che
diamo). Proprio come fa l’amministratore disonesto. Perché
la fede è dono, non possesso: si dà fiducia, non si ha fiducia.

2
Francesco, Fratelli tutti. Enciclica sulla fratellanza e l’amicizia sociale,
Assisi, 3 ottobre 2020, § 140.

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25ª domenica ordinaria99

Per l’omelia
▶ Uno sconcerto rivelativo. La parabola dell’amministra-
tore disonesto lodato dal padrone e additato come esempio
genera sempre un certo sconcerto. Proprio su questo disagio
istintivo conviene sostare. Non solo per comprendere meglio,
ma anche per sentire ciò che la parola di Dio vuole dire a noi
e svelare di noi. Le parabole sparigliano le nostre sicurezze
religiose, ci invitano a rivedere le rappresentazioni di Dio e
di noi. E proprio il punto in cui ci irritano di più, spesso, è
quello in cui è rivelato l’automatismo in cui abbiamo ingab-
biato Dio e la nostra vita di credenti.

▶ Più veloce (dei figli) della luce. Un uomo ricco chiede


all’amministratore dei suoi beni di rendere conto del proprio
agire. L’amministratore chiama i debitori, abbassa il loro debi-
to e il padrone loda quel fattore. E noi ci domandiamo: com’è
possibile che sia lodata una truffa? Certo non si può escludere
che il fattore abbia rinunciato alla sua provvigione agendo in
modo giusto. Ma allora perché è chiamato disonesto (v. 8)? Il
nostro ragionamento si inceppa quando cerca di tenere insie-
me la lode e la disonestà. Ma a ben guardare l’amministratore
è lodato per la sua scaltrezza, cioè per la prontezza ad agire in
una condizione che minacciava la sua vita e individuando nel-
le relazioni una via di uscita dal fallimento e dalla morte.

▶ Un’altra prospettiva possibile? E se la chiave per entrare


in questa pagina fosse il perdono (R. Meynet)? Al di là dei
dettagli della truffa non si può non notare che l’amministra-
tore rimette ai debitori una parte dei loro debiti: spende la
ricchezza per farsi amici («perché mi accolgano nelle loro di-
more»), mette le persone prima delle cose. Insomma, l’ammi-
nistratore disonesto si comporta come il padre dei due figli
(il contesto narrativo è ancora il medesimo di Lc 15) e come
Gesù stesso: avvicina persone e offre misericordia. E se fos-

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100 Preparare la messa

se questo il motivo della lode? In questa luce, anche l’invito


seguente assume un significato nuovo. Fate così anche voi:
rimettete debiti, fatevi un dono grande, regalate (i)per-dono.
Se ascoltando la parabola ci immedesimiamo in uno dei
debitori l’effetto non è di sconcerto ma di gratitudine. Che il
disappunto nasca in noi perché ci sentiamo i signori defrau-
dati anziché i debitori bisognosi di perdono?

Apologia di reato?
di Roberto Laurita

Se le parabole della misericordia ci avevano aperto, domenica


scorsa, ad una consolante certezza, quella di oggi non manca di
farci sprofondare nella melma che le cronache quotidiane conti-
nuano a rovesciare su di noi. Di certo fa uno strano effetto sen-
tire un padrone che loda un amministratore disonesto… quasi
uno sportivo riconoscimento a chi ha qualcosa da insegnare in
materia ad uno che ben se ne intende!
Per di più, almeno di primo acchito, sembra quasi che Ge-
sù faccia l’apologia di un reato, cioè del modo di agire astuto
dell’amministratore in questione… In un Paese, come il nostro,
che stenta a trovare la strada della legalità e che è poco incline al
rispetto delle regole, decisamente non avevamo bisogno di rice-
vere come esempio un comportamento del genere.
E tuttavia ancora una volta, se sappiamo superare le prime
impressioni, quello che Gesù ci dice si rivela un messaggio be-
nefico e saggio. L’obiettivo, infatti, non è quello di avallare una
prassi decisamente disinvolta, ma piuttosto quello di metterci di
fronte alla “ricchezza disonesta” fornendoci le “istruzioni per l’u-
so” e gli avvisi indispensabili sulle sue “controindicazioni”.
La ricchezza di questo mondo non è un bene eterno. Quindi
prima o poi verrà a mancare. Quindi è saggio, cioè veramente
scaltro, chi la usa per assicurarsi beni che non sono soggetti alla
fluttuazione delle Borse. Tanto più che questi ultimi hanno una

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25ª domenica ordinaria101

triste e pericolosa controindicazione: chi li cerca, chi li accumula,


chi li difende a tutti i costi, chi se li procura con qualsiasi mezzo
finisce coll’attaccarvi il cuore. Ed essi non diventano più sola-
mente soldi, campi, case, azioni ed obbligazioni, ma fonte della
propria sicurezza, ragione della propria speranza. Insomma: un
vero e proprio idolo. Un idolo incompatibile con la fede nel Si-
gnore Gesù.
Un messaggio – quello che Gesù ci lancia – del tutto attua-
le, che costituisce anche un invito a reagire evangelicamente al-
le storie dei “furbi” che sembrano aver sempre la meglio. Il loro
successo è solo di un breve momento e preclude l’accesso alla
pienezza eterna. Da imitare non è la loro evidente propensione
ad infrangere la giustizia, ma piuttosto la decisione che essi mo-
strano, anche se ha come oggetto beni del tutto deperibili. Noi,
discepoli di Gesù, siamo altrettanto determinati nel cercare ciò
che ha il sapore dell’eternità? E siamo pronti a “compatire” e non
a “invidiare” chi vende la propria anima per un pugno di mosche?

Per la regia liturgica


È molto complesso suggerire attenzioni particolari per
questa domenica dell’anno liturgico. Forse, visto il tema, si
potrebbe valorizzare il momento della presentazione dei
doni (quando questa può avere luogo). «È bene che i fedeli
presentino il pane e il vino; il sacerdote, o il diacono, li rice-
ve in luogo opportuno e adatto e li depone sull’altare». Ol-
tre al pane e al vino, seguendo ancora le indicazioni del n. 73
dell’Ordinamento Generale del Messale romano, «si posso-
no anche fare offerte in denaro, o presentare altri doni per i
poveri o per la Chiesa, portati dai fedeli o raccolti in chiesa.
Essi vengono deposti in luogo adatto, fuori della mensa eu-
caristica». Come sempre si raccomanda la cura nella scelta
dei canti.

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102 Preparare la messa

laPreghiera
di Roberto Laurita

Tu sai bene, Gesù, che la ricchezza


non è né buona, né cattiva.
Tutto dipende dall’uso che ne facciamo.

I beni di questo mondo non sono


destinati a pochi privilegiati:
sono lì per la gioia di tutti.
Per questo ti ferisce l’avidità:
come si può arraffare il più possibile
e ignorare chi manca dell’essenziale?
Per questo ti sconcerta la spregiudicatezza
di chi imbroglia e inganna
pur di assicurarsi guadagni illeciti
per la loro stessa consistenza.

Lo so, non è facile, Gesù,


ragionare come il Padre tuo,
fare del denaro che abbiamo
un mezzo eccellente per soccorrere,
per diminuire il disagio,
per alleviare la miseria,
per sostenere chi è più fragile.

Grazie, Gesù, per tutti quelli


che la ricchezza rende generosi,
per coloro che provano
il piacere di distribuirla,
per quanti se ne servono
per aiutare il prossimo.

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25ª domenica ordinaria
18 settembre 2022 P
Accoglienza: In chi o in che cosa mettiamo la nostra fiducia? La celebrazione
di questa domenica ci esorta a mettere in Dio la nostra fiducia e a dare credito
agli altri. È lui la ricchezza che fa fiorire la nostra vita. Nutriti dal suo sacrificio di
amore, domandiamo di essere simili a lui: generosi nel dono di noi stessi e non
asserviti a logiche di possesso, di dominio e di controllo.
Invito all’atto penitenziale: O Dio che siedi nell’alto e ti chini a guardare sui cie-
li e sulla terra, con la tua misericordia sollevaci dalla polvere dei nostri peccati e
liberaci dalle bassezze in cui siamo sprofondati.
Conclusione dell’atto penitenziale: Donaci o Dio il tuo amore che salva. Aiuta-
ci a rimettere i debiti ai nostri debitori con la stessa gratuità con cui tu li rimet-
ti a noi.
Introduzione alla preghiera dei fedeli: Fratelli e sorelle, a Dio nostro salvatore.
il quale vuole che tutti gli uomini siano salvati, presentiamo la nostra supplica:
Dio, nostra unica ricchezza, ascoltaci!
Conclusione della preghiera dei fedeli: O Padre, donaci di vivere e operare co-
me figli della tua luce. Liberaci dai compromessi e dai tornaconti, rendici solidali
con tutti e fa’ che siamo segno trasparente della tua misericordia.
Al Padre nostro: O Padre che sempre rimetti a noi i nostri debiti, donaci di usa-
re la stessa misura di misericordia gli uno verso gli altri. Te lo chiediamo con la
preghiera che il Figlio tuo ci ha insegnato: Padre nostro…
Al dono della pace: Desideriamo condurre una vita calma e tranquilla, senza
collera e senza contese. Donaci la tua pace e aiutaci a donarcela gli uni gli altri.
Scambiamoci un segno di pace.
Al congedo: Glorificate il Signore con la vostra vita, andate in pace!

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C 25ª domenica ordinaria
18 settembre 2022

Invocazioni penitenziali:
– Signore Gesù, noi abbiamo messo i nostri interessi sopra ogni cosa e sopra di
te: abbi pietà di noi. Kýrie, eléison!
– Cristo Signore, mediatore tra Dio e gli uomini, hai dato te stesso in riscatto
per tutti: abbi pietà di noi. Christe, eléison!
– Signore Gesù, da ricco che eri ti sei fatto povero perché noi diventassimo ric-
chi: abbi pietà di noi. Kýrie, eléison!
Prima lettura: Amos denuncia l’avidità di chi calpesta i poveri, stermina gli umi-
li e così facendo non rispetta neppure Dio. Il duro monito finale è invito a ravve-
dersi e pentirsi.
Salmo responsoriale: Dio è Signore di ogni cosa. Egli abita in alto, ma si prende
cura dei poveri e dei deboli e capovolge le logiche umane.
Seconda lettura: Paolo raccomanda alla comunità l’importanza della preghiera
per tutti e per coloro che governano e stanno al potere. Essa è gradita a Dio che
vuole, per ciascuno, la salvezza.
Vangelo: Con chiarezza il vangelo dice che non è possibile servire Dio e la ric-
chezza. Si deve scegliere: dare o avere? Accumulare crediti o rimettere i debiti?
Intenzioni per la preghiera dei fedeli:
– Per la chiesa: sia segno profetico nel mondo. Sia liberata dalle logiche di am-
bizione. Povera e affidata alla potenza della tua Parola, si ponga a servizio di
tutti gli uomini e le donne. Ti preghiamo.
– Per chi governa le nazioni, per chi sta al potere e per quanti hanno responsa-
bilità nella società civile: operino sempre in vista del bene per tutti, con spiri-
to di dedizione. Ti preghiamo.
– Per tutti noi, quando ripiegati sui nostri interessi non siamo attenti al bisogno
dei poveri: insegnaci ad amare e a farci amici di tutti. Ti preghiamo.
– Per la nostra comunità, perché non ceda ai compromessi della ricchezza e del
dominio e, ravvedendosi, impari il dono dal Figlio tuo che ha dato se stesso
per tutti. Ti preghiamo.

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26ª domenica ordinaria
25 settembre 2022

Vivere la fede è aprirsi agli altri.


Il divario tra ricchi e poveri è sempre esistito, e ancora oggi
continua ad alimentare forme di discriminazione.
La parabola del ricco epulone e del povero Lazzaro
offre interessanti spunti a tal riguardo: se in vita il primo
ha goduto delle gioie assicurate dalla sua condizione agiata,
e il secondo è stato costretto ad accontentarsi delle briciole,
dopo la morte la loro sorte è ribaltata. Lazzaro è unito ad Abramo
e può gioire della ricompensa dei giusti; il ricco è tormentato,
non per la sua ricchezza, ma perché non ha soccorso
il povero che mendicava alla sua porta (vangelo).
Il godimento smodato dei beni mondani ottunde la mente,
come avviene per i nobili della Samaria, immersi nei loro bagordi,
ignari dell’imminente assalto delle truppe assire.
Sono troppo distratti per ascoltare le parole del profeta Amos,
che Dio ha suscitato perché possano ravvedersi (prima lettura).
La proclamazione del Vangelo è paragonabile a una battaglia
da combattere con le armi della fede, della giustizia e della carità
per non soccombere di fronte agli avversari, che tentano
in tutti i modi di ostacolare la diffusione della Parola.
Timoteo deve preservare il patrimonio della sana dottrina
che ha ricevuto, e impegnarsi a trasmetterlo
fino al ritorno glorioso del Cristo (seconda lettura).

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interpretare i testi
di Antonio Landi

«Tu hai ricevuto i tuoi beni, e Lazzaro i suoi mali»


Luca 16,25

Prima lettura Amos 6,1a.4-7


1
Guai agli spensierati di Sion e a quelli che si considerano sicuri sulla
montagna di Samaria! 4Distesi su letti d’avorio e sdraiati sui loro divani
mangiano gli agnelli del gregge e i vitelli cresciuti nella stalla. 5Canterella-
no al suono dell’arpa, come Davide improvvisano su strumenti musicali;
6
bevono il vino in larghe coppe e si ungono con gli unguenti più raffinati,
ma della rovina di Giuseppe non si preoccupano. 7Perciò ora andranno in
esilio in testa ai deportati e cesserà l’orgia dei dissoluti.

Amos non è nato profeta; egli allevava le pecore a Tekòa


(Am 1,1) e coltivava piante di sicomoro (6,14), quando il Si-
gnore lo scelse affidandogli il compito di far conoscere il suo
messaggio al popolo d’Israele. La sua vocazione è la prova

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26ª domenica ordinaria107

evidente che Dio agisce in maniera libera e sovrana, eleg-


gendo come suoi portavoce uomini che non hanno alcun ap-
parentamento con gli altri profeti. Dio gli affida un compito
scomodo: proclamare la sua Parola a un popolo che si è ri-
velato ribelle e ostinato nei suoi confronti. In particolare, la
profezia di Amos è improntata alla denuncia nei confronti
dei ricchi e dei potenti che, incuranti delle sorti della nazio-
ne, amano banchettare e darsi alle gioie più sfrenate.
Non li scuote neppure l’oracolo del profeta, al quale spet-
ta l’ingrato compito di preannunciare il tempo dell’esilio, che
si realizzerà per mano del re assiro Salmanassar V che, nel
722 a.C., piegò le resistenze dell’esercito del Regno d’Israe-
le e deportò in esilio gran parte della popolazione. La scon-
fitta e la successiva deportazione possono essere ritenute la
conseguenza della scellerata alleanza con la Siria, che costò
l’annessione di parti del territorio all’Assiria con Tiglat Pile-
ser III (733); tuttavia, gli autori sacri interpretano gli eventi
nefasti come la punizione divina per aver condotto una poli-
tica fondata sulle alleanze umane piuttosto che sulla fiducia
nel Signore.
La pericope liturgica riporta, parzialmente, il terzo «guai»
pronunciato contro Israele: dopo aver biasimato quanti de-
testano il diritto e la giustizia (5,7-17) e il culto improntato
esclusivamente all’esteriorità (5,18-27), i destinatari della
dura reprimenda profetica sono i ricchi, che vivono in ma-
niera spensierata, godendo dei beni di cui dispongono e de-
dicandosi al lusso più sfrenato (6,1a.4-7).

 Spensierati e fiduciosi. L’oracolo profetico si apre in to-


no minaccioso: «guai» (hôy). È Dio che parla rivolgendosi a
coloro che trascorrono il loro tempo in maniera spensierata
e allegra; essi non hanno nulla da temere, perché sono con-
vinti che la collina sulla quale è edificata la Samaria sia ine-
spugnabile per i nemici. È una certezza che si rivelerà falsa,
perché gli Assiri non faticheranno a forzare il blocco eretto

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108 Preparare la messa

contro di loro, e prevarranno su di essi, costringendoli a subi-


re una pesante umiliazione come l’esilio.

 I banchetti sontuosi. I verbi che ai vv. 4-6 descrivono lo


stile gaudente dei notabili della Samaria sono indicativi del
benessere di cui possono disporre. Gustano i loro cibi deli-
ziosi comodamente distesi su letti intarsiati d’avorio, segno di
una ricchezza ostentata. Sdraiati sui loro confortevoli divani
consumano le carni degli agnelli e dei vitelli. Esprimono la
loro allegria strimpellando l’arpa e intonando canti di letizia,
imitando il re Davide, abile a suonare la cetra e noto per aver
composto numerosi salmi secondo la tradizione. Trangugiano
vino servendosi di coppe di diametro largo, e si ungono con
gli unguenti più raffinati. La mollezza dei loro costumi e la ri-
lassatezza con la quale trascorrono i loro giorni li ha inebeti-
ti; sono sazi dei loro interminabili banchetti.

 La rovina che incombe. L’ottundimento delle loro menti,


causato dall’assuefazione alla pigrizia, impedisce loro di av-
vedersi del pericolo che incombe sulla nazione. Non si preoc-
cupano (ḥlh) della sorte di Giuseppe, vale a dire del Regno
d’Israele, perché sono troppo presi dai banchetti ai quali par-
tecipano incuranti della minaccia rappresentata dal popolo
assiro. Tuttavia, quando i nemici invaderanno la nazione, sa-
ranno essi per primi ad aprire il corteo dei deportati. Saran-
no puniti per la loro dissolutezza; si sono disinteressati di ciò
che stava accadendo, lasciando cadere a vuoto gli appelli di-
vini trasmessi dal profeta.

Salmo responsoriale Sal 145


Si tratta di un inno composto probabilmente in epoca post-
esilica (VI-V sec. a.C.), in cui si riflette l’esperienza d’Israele.
Aver tradito l’alleanza con Dio, confidato nel sostegno dei re
alleati e disatteso le parole che il Signore aveva pronunciato

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26ª domenica ordinaria109

per mezzo dei suoi profeti, ha costretto il popolo israelita a fa-


re i conti con la sciagura della distruzione di Gerusalemme e
del tempio e, soprattutto, con l’umiliante deportazione in ter-
ra babilonese da parte della classe dirigente. Tuttavia, in uno
scenario di desolazione, Israele ha potuto constatare che la
fedeltà del Signore non è venuta meno: ha reso giustizia agli
oppressi, dato il pane agli affamati e liberato i prigionieri. L’a-
zione divina è tangibile non solo sul piano materiale, ma an-
che morale e spirituale: non si tratta solo di restituire la vista
a chi è cieco, ma di aprire nuovi orizzonti; di ridare dignità a
chi è caduto; di proteggere chi, come i forestieri, gli orfani e le
vedove, sono meno tutelati e preda degli iniqui. Tutti possono
sperare nel Signore, perché il suo regno dura per sempre.

Seconda lettura 1 Timoteo 6,11-16


11
Tu, uomo di Dio, evita queste cose; tendi invece alla giustizia, alla pie-
tà, alla fede, alla carità, alla pazienza, alla mitezza. 12Combatti la buona
battaglia della fede, cerca di raggiungere la vita eterna alla quale sei sta-
to chiamato e per la quale hai fatto la tua bella professione di fede davan-
ti a molti testimoni.
13
Davanti a Dio, che dà vita a tutte le cose, e a Gesù Cristo, che ha dato la
sua bella testimonianza davanti a Ponzio Pilato, 14ti ordino di conservare
senza macchia e in modo irreprensibile il comandamento, fino alla mani-
festazione del Signore nostro Gesù Cristo, 15che al tempo stabilito sarà a
noi mostrata da Dio, il beato e unico Sovrano, il Re dei re e Signore dei si-
gnori, 16il solo che possiede l’immortalità e abita una luce inaccessibile:
nessuno fra gli uomini lo ha mai visto né può vederlo. A lui onore e po-
tenza per sempre. Amen.

La lotta contro i falsi dottori e gli insegnamenti eretici che


si discostano dalla retta fede è centrale nelle lettere pastorali;
in particolare, in questa lettera la polemica è condotta contro i
cosiddetti «dottori della legge», che propongono dottrine con-
trarie al Vangelo basate su favole e genealogie interminabili
(1,3-7). Da condannare sono anche la proibizione del matri-

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110 Preparare la messa

monio e il divieto di assumere determinati cibi sulla base di


una falsa ascesi (4,1-7); bisogna, altresì, ripudiare le chiacchie-
re inutili e le obiezioni fondate sulla falsa scienza (6,20).
La pericope scelta per l’odierna liturgia è preceduta dal
brano di 6,3-10, in cui si esorta Timoteo a prendere le di-
stanze da chi insegna diversamente dal deposito della fede
trasmessa, e insegna in maniera difforme rispetto alle parole
del Signore Gesù. Le conseguenze dell’eresia sono nefaste,
creando disordini e fazioni all’interno della comunità. In par-
ticolare, si palesa la velleità di guadagno insita in chi intende
speculare sulla pietà, incurante degli effetti deleteri che arre-
ca a se stesso e agli altri sul piano dell’ortodossia.
Timoteo, invece, deve mostrarsi coraggioso nell’affrontare
la «buona battaglia della fede» (v. 12) in vista della vita eter-
na che attende quanti hanno perseverato con fedeltà nella
testimonianza del Vangelo. Occorre, pertanto, essere vigilanti
nella fede, fino all’evento parusiaco, che avverrà alla fine dei
tempi quando sarà stabilito da Dio.

 La battaglia della fede. I falsi maestri agiscono e predica-


no accecati dalla presunzione, creando turbamenti e conflitti
interni all’assemblea. Non così deve comportarsi Timoteo,
a cui è rivolto l’appellativo di «uomo di Dio» (v. 11), perché
dal Signore è stato scelto, e solo a lui dovrà mantenersi fede-
le. In che modo? Anzitutto, evitando d’imitare i falsi dottori;
il suo ministero non dev’essere ispirato alla boria e alla vo-
lontà di guadagno, ma dovrà essere improntato alla giustizia,
ponendosi in maniera equa nei confronti dei membri della
comunità. Non dovrà lucrare sulla pietà, ma adottarla come
stile nella sua relazione con Dio, preferendo la sobrietà alla
tracotanza di chi presume di imporre una personale visione
della fede che non corrisponde alla retta dottrina. La fede,
l’amore e la costanza, così come la mitezza, devono contrad-
distinguere l’esercizio della guida della comunità; non do-
vrà cedere alla tentazione dell’arroganza che crea divisioni

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26ª domenica ordinaria111

all’interno dell’assemblea. L’impegno che Timoteo deve pro-


fondere è paragonabile allo sforzo dell’atleta; tuttavia, la sua
battaglia (agṓn) è definita kalós, cioè «bella», «buona» per-
ché ha in vista un nobile traguardo, la vita eterna. È il dono
al quale è stato chiamato (v. 12), e per il quale egli ha fatto
la sua professione di fede davanti a numerosi testimoni, che
possono identificarsi con i membri della comunità affidata
alla sua guida.

 Preservare il comandamento. L’appello nei confronti di


Timoteo si fa accorato: «ti scongiuro». La supplica chiama
in causa Dio, che dà vita a tutto, e Gesù, «che ha dato la sua
bella testimonianza davanti a Ponzio Pilato» (v. 13). Il verbo
martyréō (testimoniare) e il termine homologhía (professio-
ne di fede) pongono Timoteo in continuità con Gesù: come
nel giorno del battesimo, egli è chiamato a rendere testimo-
nianza alla verità in ogni circostanza, avendo a cuore di pre-
servare senza macchia e in maniera irreprensibile il coman-
do (entolḗ: v. 14a). Il riferimento è, nel complesso, al Vangelo,
inteso nella sua forma ortodossa; nella fattispecie è possibile
che si riferisca anche all’ortoprassi: la fede non può prescin-
dere dai suoi risvolti etici.

 Fino al ritorno del Signore. A Timoteo spetta il compito


di custodire l’autentico contenuto e la retta comprensione
del messaggio di Gesù fino al giorno del suo ritorno glorioso,
la parusía (v. 14b). Non è indicata una data precisa, né si ri-
tiene che si tratti di un evento che accadrà a breve o a lungo
termine. Solo il Signore conosce i tempi; è lui il Dio beato e
unico sovrano, il Re dei re e il Signore dei signori (v. 15). Il
linguaggio utilizzato, di matrice giudaica, non è estraneo al-
la cultura ellenistica, che celebra i sovrani terreni tributando
loro titoli e onori divini. Nella prospettiva della Prima lettera
a Timoteo, in realtà, solo a Dio compete il titolo regale e so-
vrano, perché egli solo è immortale e abita in una luce inac-

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112 Preparare la messa

cessibile, che agli uomini non è consentito penetrare. Solo il


credente, in virtù della sua adesione a Cristo, può ambire alla
vita eterna, ed essere ammesso alla presenza di Dio, l’unico a
cui tributare onore e gloria.

Vangelo Luca 16,19-31


In quel tempo, Gesù disse ai farisei: 19«C’era un uomo ricco, che indossa-
va vestiti di porpora e di lino finissimo, e ogni giorno si dava a lauti ban-
chetti. 20Un povero, di nome Lazzaro, stava alla sua porta, coperto di pia-
ghe, 21bramoso di sfamarsi con quello che cadeva dalla tavola del ricco;
ma erano i cani che venivano a leccare le sue piaghe.
22
Un giorno il povero morì e fu portato dagli angeli accanto ad Abramo.
Morì anche il ricco e fu sepolto. 23Stando negli inferi fra i tormenti, alzò
gli occhi e vide di lontano Abramo, e Lazzaro accanto a lui. 24Allora gri-
dando disse: “Padre Abramo, abbi pietà di me e manda Lazzaro a intinge-
re nell’acqua la punta del dito e a bagnarmi la lingua, perché soffro terri-
bilmente in questa fiamma”.
25
Ma Abramo rispose: “Figlio, ricòrdati che, nella vita, tu hai ricevuto i
tuoi beni, e Lazzaro i suoi mali; ma ora in questo modo lui è consolato, tu
invece sei in mezzo ai tormenti. 26Per di più, tra noi e voi è stato fissato un
grande abisso: coloro che di qui vogliono passare da voi, non possono, né
di lì possono giungere fino a noi”.
27
E quello replicò: “Allora, padre, ti prego di mandare Lazzaro a casa di
mio padre, 28perché ho cinque fratelli. Li ammonisca severamente, per-
ché non vengano anch’essi in questo luogo di tormento”. 29Ma Abramo
rispose: “Hanno Mosè e i Profeti; ascoltino loro”. 30E lui replicò: “No, pa-
dre Abramo, ma se dai morti qualcuno andrà da loro, si convertiranno”.
31
Abramo rispose: “Se non ascoltano Mosè e i Profeti, non saranno per-
suasi neanche se uno risorgesse dai morti”».

Nella cultura semitica la ricchezza era ritenuta una bene-


dizione divina; l’abbondanza di beni materiali di cui un uo-
mo poteva disporre era la prova tangibile della vicinanza e
dell’assistenza concessa da Dio. Tuttavia, la gestione della
ricchezza può nascondere insidie ed esporre alla tentazione
di vivere in maniera egoistica, divenendo insensibili ai biso-

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26ª domenica ordinaria113

gni e alle esigenze dei più poveri e deboli. In presenza dei


suoi discepoli, che hanno rinunciato a tutto per seguirlo, e di
alcuni farisei, che erano particolarmente sensibili al fascino
del denaro (cf. Lc 16,14), Gesù espone la parabola del ricco
epulone e di Lazzaro (16,19-31).
Il racconto si compone di tre atti: 1) la vita terrena dei
protagonisti (vv. 19-21); 2) la vita dopo la morte (vv. 22-23);
3) il dialogo tra il ricco e Abramo (vv. 24-31). Nei primi due
quadri prevale lo stile descrittivo: è il parabolista che si fa
carico di presentare, in maniera estremamente sintetica, il
percorso dei due protagonisti. Il terzo quadro, invece, è in-
centrato sullo scambio dialogico tra il ricco, che vive nei tor-
menti infernali, e Abramo, al quale egli si rivolge con il tito-
lo di «padre».

 La vita terrena del ricco e del povero. Il primo perso-


naggio a essere introdotto nel racconto è il ricco: di lui non
si conosce il nome, perché chiunque condivide la sua condi-
zione di agiatezza possa riconoscersi in lui. Si noti bene: vie-
ne descritto soprattutto per ciò che possiede; la sua persona
s’identifica con i suoi beni. Difatti, si fa riferimento al suo ab-
bigliamento ricercato, che consiste nell’indossare stoffe pre-
giate di porpora e di bisso. Inoltre, ogni giorno si concede la
possibilità di banchettare abbondantemente, con buona pro-
babilità in compagnia di parenti e amici. L’altro protagonista
è un povero (ptōchós), che non possiede nulla, ma ha un no-
me, Lazzaro, che significa «Dio aiuta», oppure «colui che è
assistito da Dio». Sta alla porta del ricco, e sarebbe contento
di sfamarsi di ciò che avanza alla sua mensa. L’avidità del ric-
co e dei suoi commensali non concede nulla più che briciole
al povero Lazzaro: saranno il suo nutrimento fino alla sua
morte. Inoltre, egli è nudo, privo di ogni dignità; ricoperto di
piaghe, e nessuno si prende cura di lui, eccetto i cani che lec-
cano le sue ferite. È un quadro desolante, ma profondamente
realistico.

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114 Preparare la messa

 Le cose cambiano. Il sopraggiungere della morte cambia i


destini dei due protagonisti: difatti, quando il povero muore,
giungono gli angeli celesti e lo introducono alla presenza di
Abramo, il primo dei patriarchi con il quale Dio aveva stipu-
lato la sua alleanza, il padre nella fede del popolo d’Israele.
È congiunto agli antichi Padri che possono godere in eterno
della presenza di Dio. Viceversa, il corpo del ricco è sepolto:
nulla è detto circa i suoi funerali, né è dato sapere se sia stato
rimpianto oppure no. Di fatto, sprofonda nell’Ade, nel luogo
della perdizione eterna; è tormentato dalle sofferenze e cer-
ca ristoro. Così, alzando gli occhi, scorge da lontano Abramo
e Lazzaro. Solo ora si accorge del mendicante che giaceva al-
la porta di casa sua; se l’abbondanza annebbia la vista della
coscienza, il dolore sperimentato per la propria condizione
consente di aprire gli occhi su realtà e persone sino a quel
momento ignorate.

 Una goccia d’acqua. Il ricco si rivolge ad Abramo invo-


candolo come «padre»: è la supplica di un figlio del popolo
d’Israele che ora soffre e desidererebbe essere, anche solo
temporaneamente, risollevato dalla sofferenza atroce che
gli è stata inflitta. Il ricco non contesta la sua collocazione
nell’Ade; qual è stata la sua colpa? Quegli occhi ora ben spa-
lancati in cerca di aiuto sono rimasti colpevolmente chiusi
durante la sua vita terrena di fronte alle richieste, anche si-
lenziose, del mendicante Lazzaro, che giaceva alla sua porta
in cerca di briciole per sfamarsi. Si ricorda di lui, e vorrebbe
che Abramo gli permettesse di andare a intingere nell’acqua
l’estremità del suo dito perché possa recare sollievo alla sua
lingua. Non è chiaro se la sua richiesta sia dettata dalla sua
ottusità o dal suo egoismo; sta di fatto che è assurda, perché
non c’è possibilità di passare dai cieli all’Ade. Esiste un limi-
te invalicabile, come quello che egli aveva posto in vita tra il
godimento egoistico dei suoi beni e le richieste di aiuto del
povero Lazzaro.

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26ª domenica ordinaria115

 Ascoltino Mosè e i Profeti! Non potendo ottenere per sé,


il ricco cerca di evitare che la stessa sorte si abbatta sui suoi
fratelli; chiede ad Abramo che Lazzaro possa recarsi presso
la sua casa paterna e mettere in guardia i suoi cinque fratelli
perché desistano dalla loro condotta, presumibilmente im-
prontata allo stesso stile che ha condotto il ricco nei tormen-
ti dell’Ade. Per Abramo, invece, sarebbe sufficiente mettere
in pratica la legge di Mosè e porsi in profondo ascolto del
messaggio profetico per convertirsi e, così, evitare di finire
nell’Ade. Il ricco prova ad incalzare, nella convinzione che
«se qualcuno dai morti andrà da loro, si pentiranno» (v. 30).
Il patriarca è decisamente più scettico: se non hanno dato
ascolto alla legge e ai profeti, non saranno persuasi (peíthō)
neppure se qualcuno risorgesse dai morti. È possibile che il
lettore lucano possa scorgervi una discreta allusione alla ri-
surrezione di Gesù, e all’incredulità da parte della maggio-
ranza del popolo d’Israele. Tuttavia, nel contesto della para-
bola il riferimento al ritorno in vita di un uomo denota una
certa sfiducia da parte del ricco non nei riguardi della vali-
dità dell’insegnamento delle Scritture, ma nell’incapacità da
parte dei suoi fratelli, simbolo di un intero popolo, a mettere
in pratica le istruzioni che Dio ha loro affidato. Occorre un
evento straordinario per “costringere” a credere, per susci-
tare conversione. La parabola invita, soprattutto, a scegliere
da che parte stare, nella consapevolezza che una gestione as-
solutistica e miope delle risorse a propria disposizione impe-
disce di credere in Dio e di aprire gli occhi alle necessità dei
bisognosi, così come accade al protagonista della parabola:
la condanna del ricco ai patimenti dell’Ade è legata alla sua
avida grettezza, che gli impedisce di avvedersi di chi giace
mendicando alla sua porta.

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attualizzare il messaggio
di Giorgio Lanzi

Siamo tutti responsabili verso Lazzaro


L’emergenza da Covid-19 pone alla nostra attenzione una
serie impressionante di temi spalancando le porte alle fragi-
lità personali e collettive del vivere moderno. Questioni di
salute, ma anche di ordine economico che non destano meno
preoccupazione sul presente e sul futuro. Parliamo di pover-
tà, dell’annullamento della dignità che travolge la vita di mi-
lioni di persone nella “sviluppata” Europa, miliardi nell’inte-
ro pianeta.

La ricchezza globale totale è aumentata nel 2020 del 7,4%,


quella media per adulto del 6%. Si rileva una costante cresci-
ta della ricchezza anche nell’anno della pandemia. Se però
la crescita è stata rilevante nel Nord America e in Europa,
in interi continenti ha assunto traiettorie diverse. L’India e
l’America Latina hanno riportato gravi perdite nella ricchez-
za complessiva. I patrimoni dei mille miliardari più ricchi al
mondo sono tornati ai loro livelli astronomici pre-pandemici
in soli nove mesi, mentre per le persone più povere del pia-
neta la ripresa potrebbe richiedere 14 volte lo stesso perio-
do: oltre un decennio. […] I giovani, le persone poco quali-
ficate, le donne e i lavoratori informali sono stati colpiti in
modo sproporzionato dalla perdita di posti di lavoro, milioni
di bambini stanno ancora affrontando interruzioni dell’istru-
zione. Gli impatti diretti e indiretti del Covid-19 su salute, fa-
me e insicurezza alimentare sono già estesi. Circa un decimo
della popolazione mondiale (fino a 811 milioni di persone)
era denutrito nel 2020 (fonte Fao e Unicef). L’aumento più
significativo della fame si è verificato in Africa, dove la pre-

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26ª domenica ordinaria117

valenza stimata della denutrizione – il 21% della popolazio-


ne – è più del doppio di quella di qualsiasi altra regione. Cre-
sce il tasso di individui sotto la soglia di povertà estrema (chi
vive con meno di 1,90 dollari al giorno), passando dall’8,4%
nel 2019 al 9,5% nel 2020: non si registrava un aumento dal
1998. Nel 2020 tra 119 e 124 milioni di persone sono finite in
condizioni di povertà estrema1.

Il contrasto alla povertà – o almeno la ricerca di una più


equa distribuzione della ricchezza – è da sempre terribile e
affascinante sfida per l’economia e la società. Su questo ar-
gomento, secoli di storia hanno portato all’avvicendarsi di
teorie, ed è del resto sufficiente il testo evangelico di questa
domenica per dire come anche per Gesù la questione della
povertà fosse dirimente, in qualche modo esemplare. Gesù
sembra utilizzare proprio il tema della povertà per definire
la linea netta di schieramento, il passaggio per il “dentro o
fuori” dal suo messaggio.
Il punto è che la povertà rimane un tema difficile, scandalo-
sa pietra di inciampo, perché misura il livello della coscienza e
della crescita sociale e personale, l’attenzione e la responsabi-
lità con cui ogni generazione – persone e organizzazioni – ri-
sponde alle sfide più importanti del proprio tempo. Sradicare
la povertà è un processo lunghissimo, seppure non si possano
negare i progressi registrati in materia. La stessa globalizza-
zione – per effetto della pandemia oggi così chiara nelle sue
manifestazioni positive e negative – offre spazi interessanti di
riflessione. Ad esempio, essa introduce il concetto di interdi-
pendenza tra economie, l’idea che siamo collegati e ancorati
alla salvezza e allo “stare bene” degli altri. Lo abbiamo pri-
ma pensato con riferimento al nostro Paese, poi ci abbiamo

1
Fonte della citazione reperibile in: www.ansa.it/ansa2030/notizie/as-
vis/2021/07/23.

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118 Preparare la messa

ragionato – faticosamente e con crescente convinzione – per


l’Europa e oggi siamo proiettati sulle prospettive di equità
del mondo intero. Tutto ciò conduce alla ricerca di regole co-
muni e di accordi, impone riflessioni trasversali (la «prospet-
tiva poliedrica» di papa Francesco), chiede il riconoscimento
dell’altro come soggetto paritario. La sfida oggi si pone con
chiavi interpretative diverse e interessanti per il futuro che
ci attende: l’interdipendenza, ma anche la corresponsabilità,
la consapevolezza di processi sociali e umani che – se non ge-
stiti – rischiano di minare il futuro. Questa consapevolezza
presenta forme diverse, se è vero ad esempio che persino il
profitto di impresa trova oggi la necessità di contenere l’idea
«sostenibile» e «sociale» del business. Sviluppiamo la consa-
pevolezza di vivere tempi di sfida e cambiamento, in cui nuovi
paradigmi aprono scenari diversi, finalmente più umani e ca-
paci di valorizzare parole di fraternità e reciprocità, preziosa
intuizione di Antonio Genovesi (filosofo, economista e sacer-
dote, 1713-1769), precursore dell’economia civile oggi con-
cretizzata nel senso dell’Economy of Francesco. Ciò significa
incamminarsi lungo un percorso di civiltà – la «responsabilità
e la chiamata sociale condivisa» cui accenna il papa – che re-
cuperi l’incontro, la relazione, la parola (logos che completa
oikos, e genera «ecologia») per definire in modo più comple-
to le regole della stessa casa (oikos e nomos: «economia»). In
sintesi: vivere le relazioni in giustizia ed equità.
Imparando a non sottrarsi a uno sguardo più soggettivo
al tema della ricchezza, nel tempo della complessità l’indi-
viduo – di volta in volta consumatore, lavoratore, utente,
risparmiatore, investitore, “vittima e carnefice” di un mecca-
nismo almeno contraddittorio – acquisisce consapevolezza
dell’importanza delle proprie scelte nella costruzione di un
mondo più giusto. Una cittadinanza globale – nelle scelte del
portafoglio, del consumo, dello stile di vita – che rimanda al-
le priorità e traduce nel concreto la cura del mondo, la sfida
della costruzione comune, la ricerca di giustizia e verità. Sia-

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26ª domenica ordinaria119

mo tutti responsabile verso Lazzaro, ed è vero che «I poveri


li avrete sempre con voi» (Mc 14,7): sono lì per richiamarci
tutto questo. Rimandano al limite, all’incertezza e alla fragili-
tà dell’esistenza, affinché esse vengano riconosciute, assunte
– per sé e per gli altri, senza pregiudizi o pretestuosi distan-
ziamenti – e ispirino la ricerca dell’essenzialità dell’esperien-
za dell’uomo, ciò che consente di rimanere umani in un mon-
do in cui abbia senso vivere. La povertà è scostante, provoca
fino a infastidire, inquieta. Obbliga a fare i conti con l’altro, e
dunque con noi stessi: interroga sulla giusta distanza dal de-
naro, potente arma di emancipazione, o di perdizione, e ne
chiede un uso responsabile. Il nostro tempo apre riflessioni
importanti: possiamo intuire comportamenti comuni e con-
divisi, con scelte quotidiane e incisive, anticipatrici dell’eco-
nomia che verrà. Possiamo attivare scelte e percorsi virtuosi
che – nel mentre fanno società, politica ed economia – gene-
rano effetti di condivisione. L’economia non è altro dalla giu-
stizia, e non è categoria a parte, a prescindere dalla giustizia:
facciamone uno strumento di incontro, riconoscimento, cre-
scita comune. Uno strumento di fraternità.

programmare la celebrazione
di Gabriele Tornambé

Per l’omelia
▶ Divenire “segni” del fare memoria. La storia di Lazzaro è
una storia che assume i contorni e i contenuti della più racca-
pricciante attualità. La sua vicenda nell’essere “al margine”
si ripresenta dinanzi agli occhi della nostra società contem-
poranea che si autodefinisce “civilizzata”.

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120 Preparare la messa

Divari tra chi spreca e chi fa fatica a nutrirsi, tra chi recla-
ma diritti, che spesso sono più che altro dei capricci, e coloro
ai quali sono negati i diritti basilari dell’umamo. Anche nel-
la problematica vicenda pandemica e nella sua risoluzione
abbiamo potuto miseramente verificare l’asimmetria di una
distribuzione delle risorse destinate alla cura e alla preven-
zione. I giorni a noi più vicini, inoltre, feriscono i nostri occhi
e la nostra sensibilità con immagini e storie che ci mettono a
contatto con la cruda e tragica realtà della guerra.
Quanti «Lazzaro» devono ancora soffrire in vita su que-
sta terra perché l’uomo possa comprendere e convertirsi?
Quanti ricchi e potenti devono rischiare la pienezza della
propria vita per non aver ascoltato la voce di chi si trova di-
nanzi alla porta della propria casa, malato, emarginato, pro-
fugo?
Cristo Gesù è venuto a portare la sua salvezza nella buo-
na novella, lui che è Parola eterna del Padre, e nei segni, non
solo per “fare in memoria” di lui ma per essere noi stessi me-
moria vivente del Dio della vita. Dobbiamo davvero arren-
derci al fatto che neanche se uno tornasse dai morti il cuore
dell’uomo saprebbe convertirsi e credere?

▶ La traballante sicurezza della nostra alta collina. La


collina su cui è eretta Samaria è un luogo sicuro, immagine
di quelle sicurezze che contraddistinguono molti di noi. Ci
sentiamo sicuri della nostra posizione, del nostro conto in
banca, delle nostre amicizie “importanti”, dei nostri contatti
“influenti”.
Al contempo non ci preoccupiamo di un pericolo incom-
bente, per noi e per gli altri. Tutto ciò che abbiamo conside-
rato come nostra roccia, nostra fortezza, nostro baluardo si
rivela inadeguato e ci riscopriamo tragicamente compresi in
quegli «altri» di cui ci siamo disinteressati.
L’attenzione con cui ci rivolgiamo alla guerra sorprenden-
temente ritornata “sulla collina” sicura del nostro vecchio

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26ª domenica ordinaria121

continente, ci riporta a interessarci a un fenomeno che pen-


savamo riguardasse soltanto “gli altri” Paesi, da noi lontani.
In questo scenario eticamente preoccupante, il cristiano
non può permettersi di vivere né da commensale spettatore
che partecipa del godimento del “ricco epulone”, né come
colui che si limita a leccare le ferite con palliativi che non
permettono la condivisione, ma che mettono a tacere i sensi
di colpa.
Vivere il tempo presente come un kairós, significa sentirsi
costantemente coinvolti dalla storia del mondo, per operare
con carità e senza lasciarsi vincere dalla mollezza data dalle
false sicurezze acquisite, che portano con sé un’invincibile pi-
grizia, capace di mettere a tacere ogni nostro slancio per ren-
dere visibile la buona notizia del Vangelo.

Capovolgimento in vista!
di Roberto Laurita

La parabola – dobbiamo ammetterlo – è piuttosto brutale.


Innanzitutto perché il ricco non viene denunciato per aver agito
illegalmente o ingiustamente. Quei beni di cui dispone potrebbe
semplicemente esserseli trovati tra le mani: ricchezze di famiglia,
frutto di eredità… Cosa c’è di male in tutto questo? La vita, co-
munque, gli va bene. Come per tutti, naturalmente, arriva anche
per lui la morte, ed è proprio a partire da questa che per lui inizia
il peggio. Il capovolgimento è radicale: un’arsura tremenda, una
fiamma insaziabile che lo divora, senza possibilità di rimedio, di
sollievo. E la situazione risulta definitiva. Perché? Che cosa ha
fatto poi di male? La sua colpa sembra essere solo quella di non
aver visto Lazzaro, il povero, di non aver fatto nulla per lui.
Sì, è proprio questo il messaggio del vangelo di questa dome-
nica. Un vangelo che d’un solo colpo annulla le nostre pretese di
goderci i nostri beni, ignorando la situazione degli altri. Un van-
gelo che non giustifica alcuno spreco; un vangelo che ci mette in

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122 Preparare la messa

guardia: chiudere il cuore a chi è nel bisogno significa, in fondo,


chiuderlo a Dio.
Ce n’è abbastanza per rivedere alla svelta stili di vita e com-
portamenti che spesso diamo per scontati.
Non accorgersi del povero non risulta una dimenticanza da
poco, ma un’omissione da cui dipende la vita eterna. I propri be-
ni rappresentano, dunque, non solo un vantaggio – come tutti
credono – ma anche una responsabilità, di cui render conto a
Dio.
Ecco perché vale la pena che i cristiani prendano maggior cu-
ra della coscienza, per destarla di fronte alle sofferenze e ai biso-
gni degli altri. Ecco perché aprire gli occhi di tutti, a partire dagli
adulti, sui mali endemici di cui soffrono tante persone. La loro
soluzione chiama in causa il nostro tenore di vita.
No, certe cose non ce le possiamo permettere! Nel cristiane-
simo il diritto (sacrosanto) alla proprietà privata ha questo limi-
te che non possiamo ignorare: i beni della terra sono destinati a
tutti. E non è colpa di Dio se da una parte del continente si spen-
dono soldi per dimagrire, dal momento che si mangia troppo, e
dall’altra si fa la fame. Oggi Gesù ci dice: attenzione! Capovolgi-
mento in vista!

Per la regia liturgica


• Si suggerisce di utilizzare la prima o l’ultima delle formule
di saluto proposte dal Messale romano, 130 e ispirate ri-
spettivamente a 2 Ts 3,5 ed Ef 6,23, per la menzione della
pazienza, di fede e carità, virtù esplicitamente menzionate
nella seconda lettura e che costituiscono alcuni dei nuclei
tematici nello sviluppo della liturgia della Parola.
• Si propone l’utilizzo dell’orazione Colletta alternativa per
il forte richiamo ai contenuti del testo del vangelo odier-
no. Qualora si pronunziasse l’altra orazione prevista per

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26ª domenica ordinaria123

questa domenica, questo testo eucologico potrebbe essere


pronunziato da colui che presiede a conclusione della pre-
ghiera dei fedeli.
• Nella settimana che precede questa domenica, i catechisti
potrebbero sensibilizzare i bambini della catechesi e le lo-
ro famiglie a fare una raccolta di alimenti o di altro genere
di beni da offrire al momento della presentazione dei doni
come concreto segno di condivisione con coloro che sono
nell’indigenza.
• Si propone l’uso del Prefazio IV delle domeniche del Tem-
po ordinario che in alcune delle sue espressioni riprende
alcune delle espressioni del vangelo e del salmo responso-
riale, e del Prefazio VI il cui embolismo, nella sua seconda
parte, ha una chiara colorazione escatologica che ben si
adatta alla pagina della pericope evangelica.
• Si suggerisce la benedizione solenne nel Tempo ordina-
rio IV. In consonanza con la pagina di Luca, si propone in
alternativa la Benedizione solenne VI che fa riferimento
alla “ricchezza” della gloria di Dio. Ispirata ai contenuti
della seconda lettura, si suggerisce altresì la Benedizione
solenne X.
• Potrebbe essere opportuno che, in questa domenica, le real­-
tà parrocchiali/comunitarie che si occupano di promozio-
ne umana sfruttino l’occasione per presentarsi brevemen-
te all’assemblea, al termine della celebrazione, prima della
benedizione e del congedo, ed esporre anche le azioni che
rivolgono nei confronti di quanti vengono assistiti.

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124 Preparare la messa

laPreghiera
di Roberto Laurita

La storia che hai raccontato, Gesù,


tocca ognuno di noi da vicino.
Alle porte del nostro Occidente,
non c’è solo un povero,
ma milioni di esseri umani
che sprofondano nella miseria,
che mancano dell’indispensabile.

Mentre noi rinnoviamo costantemente


il nostro guardaroba, seguendo la moda,
c’è chi va in giro coperto di stracci.

Mentre noi spendiamo un’enormità


in prodotti inutili e voluttuari,
un gran numero di nostri simili
manca di un tetto e di medicine.

Signore Gesù, come possiamo ignorare


i tanti Lazzari di questa terra
che aspettano le briciole
cadute dalla nostra tavola?

Signore Gesù, come possiamo


far finta di non vedere
coloro che qui tra noi
stentano ad andare avanti?

Apri una breccia nella nostra coscienza


perché cambiamo stile di vita
e cominciamo a soccorrere chi è nel bisogno.

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26ª domenica ordinaria
25 settembre 2022 P
Accoglienza:
Oggi la parola del Signore ci invita ad ascoltare «Mosè ed i Profeti», ad aprire gli
occhi verso coloro che mendicano dinanzi alle porte delle nostre realtà esisten-
ziali, spesso sazie di superfluo. Prestiamo dunque attenzione a quanto il Signo-
re vorrà dirci e donarci oggi, affinché i nostri cuori e le nostre mani possano di-
stendersi verso chi è desideroso e bisognoso d’incontro, di attenzione, di pane,
di Dio.
Invito all’atto penitenziale:
Chiediamo al Signore di cambiare la nostra postura: non più prostrati da tutto
ciò che appesantisce il nostro spirito, ma col capo proteso a colui che dona lu-
ce ai nostri occhi e senso alla nostra vita. Riconosciamoci peccatori e confidiamo
nella misericordia del Padre, fedele alla sua promessa d’amore.
Introduzione alla preghiera fedeli:
È dall’ascolto della Parola che sgorga la nostra preghiera più autentica e il nostro
agire dall’inconfondibile stile cristiano. Rivolgiamo con fiducia al Dio che regna
per sempre, le nostre preghiere e diciamo: Dio santo, Dio forte, Dio immortale,
abbi pietà di noi.
Conclusione della preghiera fedeli: vedi «Per la regia liturgica».
Al Padre nostro:
Col salmista abbiamo detto: «Il Signore regna per sempre». Nella preghiera del
Signore chiediamo al Padre che venga il suo Regno e che a ciascuno di noi non
manchi l’alimento quotidiano. Insieme diciamo: Padre nostro…
Al dono della pace:
Il vangelo ci invita ad aprire gli occhi verso coloro che ci stanno accanto. Con
questo desiderio, e nello spirito di una vera condivisione, scambiamoci il dono
della pace.
Al congedo:
Combattete la buona battaglia della fede! Andate in pace.

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C 26ª domenica ordinaria
25 settembre 2022

Invocazioni penitenziali:
– Signore, tu dai il pane gli affamati, liberi i prigionieri, ridoni la vita ai ciechi,
proteggi i deboli e gli indifesi. Kýrie, eléison!
– Cristo, tu ami i giusti e rendi giustizia agli oppressi ma sconvolgi le vie dei
malvagi. Christe, eléison!
– Signore, tu rimani fedele per sempre e regni di generazione in generazione.
Kýrie, eléison!
Prima lettura: Dopo essersi rivolto a quanti detestano il diritto e la giustizia, e a
coloro che praticano un culto solo esteriore, Amos, chiamato da Dio, indirizza ai
ricchi figli di Israele la parola che il Signore gli affida.
Salmo responsoriale: Nonostante la superficialità dell’uomo e la sua eccessiva
attenzione ai beni della terra, il Signore non cessa di realizzare il suo progetto sal-
vifico per l’umanità intera.
Seconda lettura: Rivolgendosi a Timoteo, l’Apostolo Paolo formula delle esorta-
zioni di carattere etico e invita con forza il discepolo, a combattere la buona bat-
taglia della fede e a custodire il comandamento del Signore.
Vangelo: La parabola che ci viene proposta ci rivela come la disattenzione verso
chi mendica alla porta dell’abbondanza e verso la parola di Dio costituisce il de-
nominatore comune dell’unica condanna ricevuta.
Intenzioni per la preghiera dei fedeli:
– Per la chiesa, affinché sia sempre madre attenta a ciascuno dei suoi figli e sap-
pia discernere le necessità spirituali e materiali di chi si ferma sulla soglia del-
la sua porta. Preghiamo.
– Per i governanti, affinché sappiano promuovere leggi e percorsi che favorisca-
no una più equa distribuzione delle risorse e una maggiore solidarietà socia-
le. Preghiamo.
– Per coloro che amministrano grossi capitali, affinché non siano asserviti a lo-
giche di sfruttamento ma sappiano sviluppare proposte nuove ed eticamen-
te fondate per una sostenibilità locale e mondiale. Preghiamo.
– Per quanti sono vittime della piaga dell’usura, possano trovare nella comuni-
tà civile e cristiana strumenti di rimedio alle tristi situazioni di sfruttamento e
oppressione che vivono. Preghiamo.
– Per la nostra comunità, affinché si renda sempre capace di condividere il pa-
ne della Parola e della carità, confidando nella continua provvidenza di Dio
che opera attraverso i cuori e le mani degli uomini e delle donne di buona
volontà. Preghiamo.

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27ª domenica ordinaria
2 ottobre 2022

La fede, vera certezza del credente.


Il cristiano sa di non avere meriti personali di fronte a Dio:
da lui ha ricevuto la vita, e a lui dev’essere grato per tutto ciò
che gli viene concesso. Eppure, l’orgoglio e la presunzione
inducono l’uomo a insuperbirsi e volersi sostituire a Dio.
La fede autentica è rimedio efficace contro la superbia,
perché pone l’uomo di fronte alla verità di sé e alla grazia di Dio.
I discepoli chiedono a Gesù di aumentare la propria fede.
È la fede che consente al credente di cogliere il senso
della dipendenza vitale che si crea nei confronti di Dio:
come il servo non può pretendere nulla dal suo padrone,
così l’uomo sa che la sua esistenza è nelle mani di Dio (vangelo).
È la fiducia riposta nel Signore che consente al credente
di perseverare nel tempo della prova, in cui gli oppressori
prendono il sopravvento. Dio interverrà per ristabilire la giustizia:
l’empio soccomberà, mentre il giusto sarà salvo (prima lettura).
Proclamare il Vangelo esige coraggio e fermezza: Timoteo,
collaboratore di Paolo, in virtù del dono ricevuto, è chiamato
a condividere le sofferenze dell’apostolo in vista dell’annuncio
della Parola che salva. Non deve farsi intimidire dagli avversari,
né provare vergogna: Dio gli darà la forza necessaria
per portare avanti la missione affidatagli (seconda lettura).

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interpretare i testi
di Antonio Landi

«Quando avrete fatto


tutto quello che vi è stato ordinato,
dite: “Siamo servi inutili”»
Luca 17,10

Prima lettura Abacuc 1,2-3; 2,2-4


2
Fino a quando, Signore, implorerò aiuto e non ascolti, a te alzerò il gri-
do: «Violenza!» e non salvi? 3Perché mi fai vedere l’iniquità e resti spetta-
tore dell’oppressione? Ho davanti a me rapina e violenza e ci sono liti e si
muovono contese.
2-2Il Signore rispose e mi disse: «Scrivi la visione e incidila bene sulle ta-
volette, perché la si legga speditamente. 3È una visione che attesta un ter-
mine, parla di una scadenza e non mentisce; se indugia, attendila, perché
certo verrà e non tarderà. 4Ecco, soccombe colui che non ha l’animo ret-
to, mentre il giusto vivrà per la sua fede».

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27ª domenica ordinaria129

Le notizie storiche relative all’esperienza profetica di


Abacuc sono scarne e difficilmente verificabili; sulla base
delle indicazioni presenti all’interno del testo, numerosi stu-
diosi ipotizzano che egli sia vissuto al tempo del re Ioiakim,
che dal 609 a.C. prese il posto di Giosia nel governo del Re-
gno di Giuda. È un tempo di forti tensioni sul piano politico:
fatale si rivelò la sua alleanza con l’Egitto per contrastare
l’ascesa del potere babilonese. Infatti, nel 599 il re babilonese
Nabucodonosor invase la Giudea e conquistò Gerusalemme;
Ioiakim morì durante l’assedio della città e il suo corpo fu
gettato fuori dalle mura.
Il profeta si rivolge a Dio invocando il suo intervento così
che si ponga fine all’empietà che imperversa e sia ristabilita
la giustizia; la fine del Regno di Giuda è ormai imminente, e
la sensibilità profetica avverte che il Signore ha decretato la
punizione per il suo popolo infedele. Tuttavia, si salverà non
chi potrà contare su appoggi economici o su sostegni politici,
ma chi avrà confidato nel Signore.
Il brano liturgico risulta composto dai versetti iniziali del
capitolo 1, in cui il profeta sfoga alla presenza del Signore
la sua amarezza per il dilagare della violenza e dell’iniquità
(1,2-3); la seconda parte, invece, contiene la risposta divina al
lamento del profeta (2,2-4).

 Fino a quando? Il profeta partecipa alla vita del popolo


in maniera attiva; non conserva un atteggiamento distaccato,
ma prova a incidere nel vissuto quotidiano denunciando le
ingiustizie perpetrate dai politici, che avranno conseguenze
nefaste per la gente. Il grido di Abacuc verso il cielo è acco-
rato: «fino a quando» dovrà implorare aiuto e attirare l’at-
tenzione del Signore con il grido della preghiera. Il profeta
lamenta la sordità di Dio («non ascolti») e il suo mancato in-
tervento a salvezza del popolo («non salvi»). La contestazio-
ne profetica si fa ancora più dolorosa: perché il Signore per-
mette che egli assista all’iniquità, mentre rapina e violenza,

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130 Preparare la messa

liti e contese, si moltiplicano senza numero. Abacuc è deluso


dall’inerzia divina di fronte ad una situazione di negatività
così diffusa; prova a trovare una spiegazione e non ha pudo-
re di chiedere conto a Dio sintantoché non ottiene una rispo-
sta dal suo interlocutore.

 La scadenza non tarderà. Chiamato in causa, il Signore


non disdegna di dare una risposta al suo profeta: lo invita a
mettere per iscritto e a incidere bene su tavolette la visione di
cui sarà destinatario. È un vero e proprio atto giuridico, che
impegna i due contraenti, Dio e Abacuc, a redigere un docu-
mento che non dovrà prestarsi a fraintendimenti; anzi, dovrà
essere letto speditamente, senza indugio, perché la fine è or-
mai imminente. La visione non è descritta, ma ne è rivelato
il contenuto: il termine ebraico mô’ēd, reso nella traduzione
liturgica con il sostantivo «termine», può essere inteso nel
senso di «tempo stabilito»; è il Signore che conosce i tempi, e
spetta a lui stabilire la fine (qēṣ) dell’empietà. Ciò che è de-
cretato da Dio è atteso dagli uomini: bisogna saper attendere,
perché ciò che il Signore ha deciso avverrà e non tarderà.

 Il giusto vivrà per fede. La fine degli empi è prossima;


colui che non ha l’animo retto (yšr), soccomberà. È una con-
danna senza appello nei confronti di coloro che hanno per-
severato nel peccato e si sono fatti forti della loro iniquità.
Il giusto (ṣaddîq), invece, vivrà per la sua fede. Il termine
’emûnāh, che può essere tradotto col significato di «fede» o
«fedeltà», deriva dalla radice ’mn che indica la stabilità divina
sulla quale poggia la fiducia del credente. Si contrappongono,
pertanto, due precisi profili: chi vive in maniera presuntuosa
è destinato a non aver successo; la sua arroganza decreta la
sua fine. Invece, l’uomo retto è approvato da Dio, e la fiducia
riposta nel Signore gli consentirà di vivere. L’oracolo di Ab
2,4 è citato da Paolo nella tesi programmatica della Lettera
ai Romani (Rm 1,17; cf. Gal 3,11; Eb 10,38), con lo scopo di

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27ª domenica ordinaria131

suffragare su base scritturistica la sua convinzione in base alla


quale la giustificazione è concessa da Dio al credente non in
base alle opere che egli compie, ma in virtù della fede.

Salmo responsoriale Sal 94


Il contenuto del salmo riflette una tipica scena di liturgia
d’ingresso nel tempio, con richiami alla vicenda esodica. L’o-
rante invita tutti i presenti alla lode: il Signore è acclamato
come «roccia della nostra salvezza». L’immagine della roccia
evoca l’idea di saldezza, ed è utilizzata anche come metafo-
ra della fede: chi pone nel Signore la sua fiducia, non resta
deluso, e ha motivo di ringraziare e di gioire in colui che gli
dà salvezza. Tutti possono accostarsi a Dio, entrare nel suo
santuario, perché ai membri del suo gregge non è precluso
l’accesso. Chi confida nel Signore si lascia condurre da lui at-
traverso il deserto per raggiungere la terra promessa, la ter-
ra della liberazione. Per tal motivo, è indispensabile prestare
ascolto alla sua voce, senza lasciarsi incantare o sedurre dalle
tentazioni, per evitare di incorrere nello stesso errore degli
antichi Padri, che non si fidarono di Dio nonostante avesse-
ro sperimentato i numerosi segni da lui compiuti per liberarli
dalla mano dei nemici e nutrirli in tempo di fame.

Seconda lettura 2 Timoteo 1,6-8.13-14


Figlio mio, 6ti ricordo di ravvivare il dono di Dio, che è in te mediante
l’imposizione delle mie mani. 7Dio infatti non ci ha dato uno spirito di ti-
midezza, ma di forza, di carità e di prudenza.
8
Non vergognarti dunque di dare testimonianza al Signore nostro, né di
me, che sono in carcere per lui; ma, con la forza di Dio, soffri con me per
il Vangelo.
13
Prendi come modello i sani insegnamenti che hai udito da me con la fe-
de e l’amore, che sono in Cristo Gesù. 14Custodisci, mediante lo Spirito
Santo che abita in noi, il bene prezioso che ti è stato affidato.

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132 Preparare la messa

Delle lettere denominate “pastorali”, la Seconda lettera


a Timoteo è quella che più delle altre presenta interessan-
ti analogie con le lettere autentiche: il prescritto, il ringra-
ziamento e i saluti finali echeggiano il lessico e i contenuti
dell’epistolario paolino. Tuttavia, l’esaltazione della figura di
Paolo, l’enfasi posta sulla sua lotta per il Vangelo, culminata
con la prigionia, è coerente con il progetto della tradizione
paolina di contrastare la diffusione delle dottrine eretiche fa-
cendo leva sulla retta fede trasmessa dall’apostolo.
L’autore, che s’identifica con Paolo, costretto in catene (2 Tm
2,9) e consapevole di andare incontro alla morte (4,6-8), si ri-
volge a Timoteo con parole cariche di affetto ed esortazioni
che si riveleranno preziose per il suo ministero a servizio del-
la comunità; dovrà non solo contrapporsi ai falsi maestri, ma
avrà anche l’onere di porsi come figura di riferimento per la
sana dottrina e modello di condotta esemplare. La sensazio-
ne è che si tratti di una vera e propria “lettera d’addio”, con
la quale Paolo si congeda da uno dei suoi più stretti e fidati
collaboratori.
La pericope liturgica è inserita nella sezione di 2 Tm 1,6-
14: l’apostolo esorta il suo collaboratore a condividere con
lui la sofferenza per il Vangelo e a custodire fedelmente il
deposito della fede; in particolare, Timoteo è chiamato a te-
ner vivo il dono di Dio ricevuto, per poter agire con fran-
chezza e sapienza (1,6-7). Chi annuncia il Vangelo deve met-
tere in conto la sofferenza; tuttavia, sarà Dio a dargli forza
e consolarlo nelle avversità (v. 8). La grazia conferitagli per
mezzo dello Spirito Santo lo preserverà dall’errore e lo por-
rà nella condizione di custodire il patrimonio spirituale rice-
vuto dall’apostolo (vv. 13-14).

 Ravvivare il dono di Dio. Il compito che Timoteo deve


assolvere alla guida della comunità affidatagli richiede fedel-
tà alla retta dottrina e zelo pastorale; per questa ragione è
indispensabile tener viva o, meglio, riattizzare la fiamma del

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27ª domenica ordinaria133

dono ricevuto da Paolo per mezzo dell’imposizione delle sue


mani (v. 6). Il contesto rimanda a un gesto solenne compiuto
dall’apostolo nei confronti del suo collaboratore con lo sco-
po d’impetrare su di lui il chárisma («dono») dello Spirito
Santo. È già presente in lui, ma occorre evitare che si spen-
ga, depotenziando la sua intrinseca capacità di infondere co-
raggio e forza nel cuore di chi lo possiede (v. 7). La dýnamis
(«potenza») che lo Spirito conferisce non è sinonimo di ti-
midezza né di violenza, ma è generatrice di agápē («carità»)
e di sōphronismós («saggezza»): Timoteo sarà all’altezza del
ministero affidatogli nella misura in cui si lascerà guidare
dallo Spirito e, con carità e saggia moderazione, si porrà a
servizio della comunità.

 Soffrire per il Vangelo. La sequela di Cristo non esenta


dall’affrontare prove e persecuzioni; lo sa bene Paolo, che
ha dovuto fronteggiare l’ostilità, anche violenta da parte dei
suoi oppositori, e ora si trova in catene. Il monito rivolto al
discepolo Timoteo, pertanto, è dettato sulla base dell’espe-
rienza personale: a causa del Vangelo bisogna tener conto di
dover patire (v. 8). La sofferenza non isola, perché è condi-
visa; nella sofferenza Dio non abbandona, perché intervie-
ne con il suo efficace sostegno (dýnamis). Per tale ragione,
Timoteo non ha motivo di vergognarsi né del Vangelo né di
Paolo; non è disonorevole scegliere la gloria di Dio, piuttosto
che l’onore degli uomini.

 Custodire il deposito della fede. Paolo è il paradigma di


riferimento a cui Timoteo deve ispirarsi non solo sul piano
pastorale, ma soprattutto dottrinale: le «sane parole» (v. 12)
che egli ha proclamato, e il discepolo ha udito con la fede e
la carità che lo hanno radicato in Cristo, rappresentano il pa-
trimonio di fede che è necessario preservare in un contesto
in cui si corre il pericolo di derive dottrinali e l’eresia attenta
seriamente all’unità della chiesa. Anche in tale circostanza

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134 Preparare la messa

Timoteo non è da solo, ma può avvalersi dell’assistenza dello


Spirito; in tal modo potrà «custodire il buon deposito» della
fede (v. 13). Il termine «deposito» (parathḗkē) fa riferimento
al nucleo essenziale della fede cristiana; esso può arricchirsi,
come attesta la storia dei concili della chiesa, ma non può es-
sere alterato, pena l’allontanamento dalla dottrina autentica.

Vangelo Luca 17,5-10


In quel tempo, 5gli apostoli dissero al Signore: 6«Accresci in noi la fede!».
Il Signore rispose: «Se aveste fede quanto un granello di senape, potre-
ste dire a questo gelso: “Sràdicati e vai a piantarti nel mare”, ed esso vi ob-
bedirebbe.
7
Chi di voi, se ha un servo ad arare o a pascolare il gregge, gli dirà, quando
rientra dal campo: “Vieni subito e mettiti a tavola”? 8Non gli dirà piutto-
sto: “Prepara da mangiare, stríngiti le vesti ai fianchi e sérvimi, finché avrò
mangiato e bevuto, e dopo mangerai e berrai tu”? 9Avrà forse gratitudine
verso quel servo, perché ha eseguito gli ordini ricevuti?
10
Così anche voi, quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato,
dite: “Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare”».

La pericope del vangelo domenicale è preceduta da un


monito impegnativo consegnato da Gesù ai suoi discepoli
in relazione alla correzione e al perdono: «se un tuo fratello
pecca, rimproveralo; ma se si pente, perdonagli» (17,3). An-
che se peccherà sette volte al giorno, nel caso in cui si ravve-
da della colpa commessa, dovrà essere perdonato. I discepoli
non ricusano la richiesta del Maestro, ma sono consapevoli
dell’onere che graverebbe su di loro; l’esercizio del perdo-
no impone di mortificare il proprio orgoglio che alimenta
l’istinto di vendetta e la sete di giustizia o di rivalsa nei con-
fronti dell’offensore.
La riconciliazione rappresenta un aspetto essenziale del-
la vita comunitaria: le relazioni fraterne che si stabiliscono
all’interno di essa non possono prescindere dal perdono, che
i credenti invocano dal Padre come un dono, impegnandosi a

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27ª domenica ordinaria135

loro volta a praticarlo (11,4). È perdonato chi ha molto ama-


to (7,47). La fede nel Cristo consente di ottenere il perdono
(5,20; 7,50) e di essere riconciliati con Dio.
Il brano scelto per la liturgia odierna abbina la richiesta
che i discepoli indirizzano al Maestro di aumentare la loro
fede (17,5-6) e le parole di Gesù pronunciate sul discepolato
(17,7-10).

 Aggiungere fede. Non sarà mai semplice né scontato per-


donare le offese ricevute da parte di un fratello, soprattutto
quando sono reiterate e umilianti. I discepoli ne sono ben co-
scienti e chiedono a Gesù che possa aumentare la loro fede.
Il verbo utilizzato, prostíthēmi, può essere reso in italiano sia
con «aumentare», sia con «aggiungere»: in entrambi i casi, è
evidente che la richiesta dei discepoli dev’essere intesa nel
senso di rendere più salda, radicata, tenace la loro fede, che
si è mostrata vacillante nella circostanza della tempesta d’ac-
qua verificatasi mentre stavano attraversando il lago. Ave-
vano paura di affondare e di morire, e Gesù li rimproverò:
«Dov’è la vostra fede?» (8,25). Il pericolo della morte, così
come il perdono, sono esperienze che palesano la fragilità e,
talvolta, l’inconsistenza della fede umana.

 Una fede grande o una grande fede? Gesù accoglie la


richiesta dei suoi discepoli; paradossalmente, dichiara che
basterebbe una fede grande quanto un chicco di senape, le
cui dimensioni sono così ridotte che difficilmente può essere
trattenuto tra le dita, per realizzare cose inimmaginabili da
un punto di vista umano. La metafora è già stata utilizzata
come similitudine per esprimere la realtà del regno di Dio,
i cui esordi agli occhi degli uomini appaiono piuttosto mo-
desti (13,19). Eppure, basterebbe una quantità di fede così
modesta per sradicare, ricorrendo solo alla parola, un albero
tanto robusto come il gelso. È senza dubbio una dichiarazio-
ne iperbolica, com’è tipica dello stile semitico e, in taluni ca-

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136 Preparare la messa

si, della predicazione di Gesù; tuttavia, è molto efficace per


convincere i discepoli che la fede non si misura da un punto
di vista quantitativo, bensì qualitativo. La fede implica una
relazione di piena fiducia nel Cristo e di totale affidamento a
Dio; impone all’uomo di rinunciare alle sue velleità monda-
ne e alle sue ambizioni di potere per poter accogliere il dise-
gno di Dio e compiere la sua volontà.

 Senza gratitudine. Gesù paragona la sua relazione con i


discepoli al rapporto tra il padrone e il suo schiavo. Il servo
non è autonomo, non gode di libertà di parola, di pensiero
o di movimento; è totalmente subordinato alle disposizioni
del suo padrone. Le mansioni, che egli è tenuto a svolgere,
sia che si tratti di arare il campo o di pascolare il gregge, non
obbligano il suo padrone a essergli riconoscente; anzi, rien-
trato in casa, il suo compito non è terminato, perché è tenuto
ad apparecchiare la cena per lui e, solo dopo, potrà provve-
dere per sé. Non gli è dovuta alcuna gratitudine (il termine
impiegato è cháris), perché tutto ciò che egli ha fatto rientra
nei suoi doveri; ha ottemperato ai suoi obblighi nei confronti
del padrone. Non può attendersi nessuna forma di ricompen-
sa, perché non può vantare né diritti né crediti nei confronti
di colui che dispone della sua vita.

 Servi inutili? La condizione del servo che agisce obbe-


dendo ai precetti del padrone corrisponde al ritratto dei di-
scepoli; anch’essi, dopo aver fatto tutto ciò che è stato loro
richiesto, possono definirsi dúloi achreíoi (v. 10). Nel Nuovo
Testamento l’aggettivo achreíos ricorre solo due volte, qui e
in Mt 25,30. In quest’ultimo caso si riferisce al servo che, pur
avendo ricevuto il suo talento, per pavidità l’ha sotterrato
nel terreno anziché investirlo e farlo fruttare; così facendo
non produce utile (chreía) per il suo padrone. Nel contesto
lucano, invece, achreíos è il servo/discepolo che non preten-
de nulla dal suo padrone; ha operato (poiéō) in obbedienza a

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27ª domenica ordinaria137

quanto gli è stato ordinato dal suo signore. Il motivo del fare
o dell’agire in conformità alla volontà divina o alla parola del
Signore è un tratto peculiare del discepolato: solo chi ascolta
e mette in pratica le parole del Cristo è paragonabile all’uo-
mo che ha edificato la sua casa sulla roccia (Lc 6,47-48); ap-
partenere alla famiglia che Gesù ha stabilito sulla base dei
legami spirituali comporta l’accoglienza e la pratica del suo
messaggio (8,21). È proclamato beato il servo/discepolo che,
al suo ritorno, il padrone troverà a svolgere fedelmente e
saggiamente l’incarico affidatogli (12,43). Pertanto, l’inutili-
tà dei discepoli non dev’essere concepita come se i discepoli
non debbano sentirsi utili alla causa del Vangelo; anzi, viven-
do secondo le indicazioni del Maestro, essi prendono parte
al compito di diffondere il Vangelo fino ai confini della terra
(At 1,8), senza trarne beneficio o guadagno sul piano perso-
nale. Difatti, la ricompensa terrena del discepolo è il disce-
polato stesso, perché la sequela gli consente di vivere in rela-
zione con il Cristo e di poter entrare nel regno di Dio e così
ottenere la vita eterna (18,29-30).

attualizzare il messaggio
di Lucia Felici

Servi e padroni
Credo che il brano del Vangelo di Luca proposto in questa
domenica possa risultare a prima lettura un po’ sgradito: es-
sere richiamati a un dovere non è mai piacevolissimo, soprat-
tutto se colui che lo fa ci invita a considerarci «servi inutili»!
Eppure la prima immagine che mi è venuta alla mente ri-
leggendo questo brano è quella di Gesù stesso che, indossa-

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138 Preparare la messa

to un grembiule, lava i piedi ai suoi discepoli prima dell’Ul-


tima cena.
Il cristiano, alla scuola di Gesù, indossa anche lui il grem-
biule come il Maestro e «farà tutto quello che gli è ordinato»,
nella consapevolezza che non è tanto Dio il padrone da ser-
vire – perché Dio non è un padrone ma un padre – ma il fra-
tello, specialmente il più povero e il più bisognoso.
Allora sì: preparargli da mangiare è proprio nostro dovere.
Il senso del dovere nasce dalla gratitudine che tutto ci è
donato, prima di ogni cosa, proprio dal fatto di essere stati
serviti da Dio in persona. Il primo dono, insomma, è Gesù
stesso che ha servito la nostra umanità rivelandoci il volto
buono, misericordioso e pieno di amore, pronto a morire per
noi, del Padre.
Allora, come non essere pronti a ricambiare questo amore
con il servizio ai fratelli che lui ci ha richiesto?
Nella quotidianità molti sono i doveri da assolvere, in fa-
miglia, al lavoro, nella comunità. Credo che un solo ingre-
diente possa renderli sensati anche se spesso pesanti: l’amore
che li ispira.
A volte siamo chiamati a servizi durissimi: penso alla cu-
ra di una persona cara ammalata, alla fedeltà in un rapporto
coniugale difficile, alla pazienza con figli che crescono ed è
quasi impossibile comprendere. E nella comunità quanto è
complesso lasciare spazio agli altri, fare un passo indietro e
rinunciare ai nostri piccoli poteri anche nei servizi, pur buo-
ni, per cui possiamo renderci disponibili? Il lavoro è un altro
banco di prova formidabile del vivere da «servi inutili»: la
logica della competizione ci spinge a schiacciare e a mettere
piuttosto in cattiva luce il collega oppure a evitare la fatica e
a fare il minimo indispensabile, a fronte magari di uno stipen-
dio poco soddisfacente o di una scarsa possibilità di carriera.
Il servo inutile invece è libero da se stesso perché guidato
dall’amore per le persone e per le relazioni. Al centro non
c’è lui ma gli altri: questa è la chiave della sua esistenza.

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27ª domenica ordinaria139

Nel vangelo c’è un altro servo che mi piace molto: quello


ammalato e molto amato per cui il centurione chiede a Gesù
la guarigione. Un servo nei confronti del quale il padrone si
fa servo a sua volta, senz’altro per via dell’amore e della gra-
titudine che per lui prova.
Gesù si lamenta un po’ della fede dei discepoli nel brano
di oggi, mentre loda quella del centurione, cui basta una pa-
rola per essere certo della guarigione del suo servo.
In nome della fiducia in un Dio che si è fatto servo, egli ci
invita a diventare servi gli uni degli altri: una perfetta sintesi
di cosa significhi essere cristiani.

programmare la celebrazione
di Gabriele Tornambé

Per l’omelia
Alcuni dei germi di riflessione che provengono dall’ab-
bondanza della parola di Dio che ci viene donata in questa
domenica, possono condensarsi attorno a tre diversi termini
qui di seguito riportati.

▶ Violenza! È il grido che caratterizza la parte iniziale della


prima lettura. È un grido che constata una realtà. È un grido
che denuncia. È un grido che segna l’esplosione di un fon-
dato senso d’indignazione da parte del giusto. Ogni uomo e
donna dalla retta coscienza non può restare indifferente di-
nanzi all’ingiustizia! Il cristiano non può essere né apatico né
“abituato” alle tragiche scene nelle quali la dignità umana
viene calpestata. L’indignazione, allora, diventa una risorsa
– preziosa – da canalizzare per fare sì che non si traduca in
disordinata violenza rivoluzionaria, ma susciti una risposta

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140 Preparare la messa

da parte di Dio e dell’uomo affinché si possa annunciare con


forza il messaggio del Vangelo. Ecco, allora, che al grido di
violenza, il cristiano risponde con la sua azione, suggerita e
supportata dalla carità, con quella salda certezza che provie-
ne dal messaggio di salvezza del Crocifisso risorto: violenza
e morte non avranno l’ultima parola perché Cristo ha vinto!

▶ Pazienza. Non una parola/espressione che indica rasse-


gnazione, ma sapiente consiglio divino da «incidere bene su
tavolette» cioè da trasmettere a perpetuità, perché è termi-
ne prezioso, perché va costantemente ricordato a se stessi
e suggerito agli altri. È parola che dice di un’attesa, di una
promessa di cui si aspetta la realizzazione, sebbene non se ne
conosca il tempo. È parola che diventa atto di fede e di spe-
ranza.
È parola che riassume degnamente l’attitudine misericor-
diosa di Dio stesso nei confronti dell’umanità redenta: un
Dio paziente come un agricoltore che, affidato il seme alla
terra, «dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia
e cresce; come, egli stesso non lo sa» (Mc 4, 27).
Alla scuola del nostro unico Maestro, forse che anche noi
non dovremmo incidere nel nostro atteggiamento, sulle «ta-
vole» di carne del nostro cuore la parola «pazienza» come il
più mite stile della vita cristiana?

▶ In-utilità. Il servo non è inutile nel senso che è privo di


utilità o è pigro. Al contrario, il servo di cui è questione nella
pagina evangelica odierna è un servo dalla molteplice utilità:
ascolta le indicazioni del padrone, pascola il suo gregge, lo
serve a tavola quando torna in casa. Il servo è inutile quan-
do è esausto della sua attività, quando ha svolto tutto ciò per
cui è degnamente chiamato servo. Non si impone né con i
suoi diritti al riposo, né con un esagerato e appariscente mo-
do di servire, ma è là dove il suo padrone gli chiede di essere,
discreto ma efficace, e sparisce quando di lui non si ha più

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27ª domenica ordinaria141

bisogno… Così la vita del cristiano: sempre in ascolto di ciò


che viene detto dal proprio Signore con la Parola, il magiste-
ro della chiesa, sempre pronto a servire fuori di casa nelle si-
tuazioni non confortevoli di uno spazio aperto – il pascolo di
cui ci parla la pericope – prendendosi cura di ciò che è consa-
pevole non esser suo, rimandando le proprie necessità (idee,
certezze, progetti…) per un bene che non gli appartiene. Sia-
mo (o desideriamo quantomeno essere) anche noi servi ca-
ratterizzati da questa in-utilità?

Quale fede?
di Roberto Laurita

Che cosa significa credere? Ecco una domanda a cui oggi non
è possibile sfuggire! Anche noi, infatti, siamo invitati a fare come
gli apostoli, a dire a Gesù: «Aumenta la nostra fede!». Ma cosa
significa esattamente «aver fede»?
Per qualcuno la fede si esercita nel credere ad alcune verità:
che Dio esiste, che è il creatore del mondo, che Gesù Cristo è vero
Dio e vero uomo… Ma non è esattamente questo che noi affer-
miamo quando recitiamo il Credo. Dopo il verbo «credere», infat-
ti, troviamo una preposizione – «in» – che gli conferisce un senso
tutto particolare: «credere in» significa non solo ritenere che una
persona esiste e riconoscerla nella sua identità, ma avere fiducia
in lei, abbandonarsi a lei come farebbe un bambino con la madre.
«Credere in Gesù Cristo», dunque, vuol dire affidargli la pro-
pria vita, essere disposti a mettere in pratica la sua Parola anche
quando costa, prendere sul serio le sue promesse e i suoi doni.
Da questo punto di vista appare del tutto bizzarro chi afferma di
“avere molta fede”, ma di “essere poco praticante”, esattamente
come chi dicesse che vuole tanto bene ad una persona, ma non
è disposto a fare proprio nulla per lei.
Di ben altra cosa parla oggi Gesù. Quello che lui chiama «fe-
de» ha a che fare con l’amore, un amore autentico, forte, che

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142 Preparare la messa

cambia tutta la vita. Questa fede, quella vera, produce degli ef-
fetti imprevedibili, insperati. Ne basta poca – quanto un granelli-
no di senapa, il più piccolo di tutti i semi – per riuscire a compie-
re azioni meravigliose. Il vangelo accenna ad un albero sradicato
dalla terra e trapiantato nel mare, il che a molti degli ascoltatori
sembrava impossibile. Ma noi oggi possiamo evocare anche al-
tre realtà, che a molti paiono ugualmente improbabili. La fede
– questa fede che è sempre unita all’amore – riesce a vincere l’o-
dio e la cattiveria con la bontà, la mitezza, il perdono. È in grado
di superare difficoltà insormontabili perché è dotata continua-
mente di pazienza e di dolcezza, di saggezza e di lungimiranza.
Si fa continuamente dono, offerta di aiuto, fino al sacrificio più
grande, quello della stessa vita.
Ecco la fede che anche noi oggi chiediamo a Gesù: la fede che
sorregge e trasforma, la fede che fa avvertire il sapore della bon-
tà di Dio, una bontà smisurata.

Per la regia liturgica


• Al fine di fare risuonare particolarmente il salmo, si sug-
gerisce di dare maggiore enfasi alla processione d’introito,
facendo un percorso che entri effettivamente in chiesa e
nutrendolo di un maggior numero di fedeli che preceda-
no i ministri e il presidente. Inoltre, si potrebbero portare
in processione, oltre i ceri, alcuni segni che rimandano alla
festa ed alla celebrazione del rendimento di grazie dome-
nicale.
• Si consiglia l’utilizzo della colletta alternativa nella quale
vengono anticipate le immagini evangeliche del granello
di senape e del servo «inutile», e dove si esprime altresì il
laborioso impegno di chi contribuisce all’avvento del re-
gno di Dio. L’uso dell’altra colletta ben si adatta – a nostro
avviso – alla conclusione della preghiera dei fedeli, con la

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27ª domenica ordinaria143

splendida espressione di chiusura che la caratterizza: «ag-


giungi ciò che la preghiera non osa sperare».
• Si potrebbe pronunziare il Prefazio VIII delle domeniche
del tempo ordinario che fa riferimento a Cristo, servo ob-
bediente. In alternativa, i Prefazi II e IV condensano, co-
me in due piccole professioni di fede, i tratti salienti del
credere cristiano. Il Prefazio X sottolinea la festività del
convenire domenicale e trova risonanza nel salmo respon-
soriale.
• Al momento del racconto dell’istituzione, come suggeri-
sce l’Ordinamento Generale del Messale, si può proporre
all’assemblea, secondo le possibilità di ciascuno, di met-
tersi in ginocchio per esprimere, in un coinvolgente atto
di fede, il senso di adorazione nei confronti della presenza
reale di nostro Signore.
• Si propongono le benedizioni solenni IV e X per l’esplici-
ta menzione del dono della fede di cui si impetra di essere
ricolmati e fortificati.

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144 Preparare la messa

laPreghiera
di Roberto Laurita

Sì, hai ragione Gesù, basta un po’ di fede


a cambiare completamente la situazione.

Fede nel Padre, il cui amore


ci accompagna sempre e ci sostiene.
Riconoscere la sua presenza
ci permette di affrontare
anche insuccessi e fallimenti,
senza perderci d’animo.

Fede in te, Gesù, nella tua Parola


che ci chiedi di mettere in pratica
anche quando si tratta di andare controcorrente
perché si offre misericordia e solidarietà
senza curarsi del pericolo,
abbattendo muri di separazione
e lanciando ponti arditi
che sembrano impossibili.

Fede nello Spirito Santo,


che continua a precederci
e ci obbliga a seguirlo
per sentieri del tutto inediti,
che ci induce a far posto
alla fantasia dell’amore.

Aumenta la nostra fede, Gesù,


perché ci liberiamo finalmente
di pregiudizi e di timori inutili
e procediamo liberi e leggeri
sulle strade dell’audacia evangelica.

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27ª domenica ordinaria
2 ottobre 2022 P
Accoglienza:
Il salmo 94 di questa domenica ci riporta ad un contesto liturgico nel quale tut-
to ciò che facciamo (canto, movimenti, preghiere) è orientato a Dio, dal qua-
le attendiamo la salvezza per la grazia dei suoi sacramenti e il compimento del-
la sua promessa. Ogni nostro atto di culto va compiuto nella fede, e proprio su
questo prezioso dono ci viene chiesto di soffermarci oggi, per chiederci quanto
la percepiamo, quanto la alimentiamo, quanto la viviamo. Allentiamo, dunque,
le nostre resistenze interiori perché la parola del Signore possa giungere ai nostri
cuori e produrre frutti di conversione per la vita eterna.
Invito all’atto penitenziale:
Ciascuno di noi ha da interrogarsi sulla rettitudine delle proprie intenzioni, dei
propri atteggiamenti e comportamenti. Accostiamoci al Signore con fiducia, a
lui che crede nell’uomo e ad esso dona gli strumenti della fede e della grazia.
Chiediamogli perdono, per ottenere la misericordia desiderata.
Introduzione alla preghiera dei fedeli:
La ricchezza della Parola che Dio ci dona, suscita in noi le intenzioni di preghiera
che desideriamo adesso rivolgere al Padre, per la mediazione del suo Figlio Ge-
sù, animati dal soffio vivificante dello Spirito. Con fiducia preghiamo: Accresci in
noi la fede, o Signore.
Conclusione della preghiera fedeli: vedi «per la regia liturgica».
Al Padre nostro:
Come ci ha esortati l’apostolo Paolo, siamo chiamati a «ravvivare il dono di Dio
in noi». Sostenuti da una fede che desideriamo si rafforzi sempre più, rivolgiamo
al Padre la preghiera che Gesù Cristo ci ha consegnato. Padre nostro…
Al dono della pace:
Riuniti attorno all’unica mensa di colui che si è fatto servo e dono d’amore per
tutti, riconosciamo il nostro essere discepoli, fratelli e sorelle. Scambiamoci il do-
no della pace.
Al congedo:
Testimoniate il Signore con la vostra vita. Andate in pace.
­

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C 27ª domenica ordinaria
2 ottobre 2022

Invocazioni penitenziali:
– Per tutte le volte in cui non abbiamo ascoltato la tua voce. Kýrie, eléison!
– Per tutte le volte in cui abbiamo indurito il nostro cuore. Christe, eléison!
– Per tutte le volte in cui ti abbiamo tentato e messo alla prova. Kýrie, eléison!
Prima lettura: Il profeta Amos rivolge al Signore due domande che hanno l’a-
maro sapore di uno sfogo causato dalla situazione di violenza e oppressione che
il popolo d’Israele sta vivendo. Il Signore non fa tardare il suo intervento di con-
forto.
Salmo responsoriale: Le parole di questo salmo descrivono scene di vita litur-
gica dei pellegrini che entravano nel tempio di Gerusalemme. La celebrazione
domenicale ci permette di cantare ed acclamare al Signore, di avvicinarci a lui e
rendergli grazie.
Seconda lettura: La voce dell’apostolo Paolo si rivolge al fidato compagno di
missione Timoteo. A questi rivolge l’esortazione di ravvivare il dono del mini-
stero a servizio del Vangelo e di non vergognarsi della testimonianza data al Si-
gnore.
Vangelo: Attraverso l’uso di due immagini, il Signore ammaestra gli apostoli de-
siderosi di aumentare la propria fede: con la semplicità del seme di senape e la
dedizione del «servo inutile» il Maestro di Nazaret concretizza la propria rispo-
sta andando oltre l’attesa dei suoi ascoltatori.
Intenzioni per la preghiera dei fedeli:
– Per i pastori della chiesa e i fedeli laici, per i religiosi e i missionari, e per colo-
ro che soffrono per il Vangelo, affinché possano trovare forza nella fede pro-
fessata e condivisa e ricevere dal Padre la ricompensa nella beatitudine eter-
na promessa da Cristo. Preghiamo.
– Per le chiese locali impegnate in cammini sinodali, affinché, sotto la guida
dello Spirito, possano accogliere i copiosi frutti di conversione pastorale che
il Signore vorrà loro donare. Preghiamo.
– Per i governanti, affinché, in ogni parte del mondo, si impegnino a promuo-
vere leggi consone agli insegnamenti del Vangelo. Preghiamo.
– Per quanti sono vittime di violenza a causa di guerre, violazione dei diritti e
sfruttamento insensato delle risorse naturali: possa il Signore manifestare la
sua presenza e la sua potenza, e possa l’uomo contribuire a una promozione
della giustizia e della pace. Preghiamo.
– Per la nostra comunità, affinché ciascuno dei suoi membri, in particolare
quanti svolgono un servizio ecclesiale, si sforzino di vivere il proprio servizio
come risposta a una vocazione ricevuta da Cristo e confermata dalla chiesa,
con disponibilità vera e umiltà sincera. Preghiamo.

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28ª domenica ordinaria
9 ottobre 2022

Riconoscere la grazia, per rendere grazie.


È doveroso che i cristiani tornino a comprendere
e ad apprezzare il senso della parola eucharistía:
significa gratitudine, ringraziamento al Padre per il dono
della salvezza nel suo Figlio Gesù e dello Spirito Santo.
È il caso dell’unico lebbroso tornato indietro per lodare Dio
e ringraziare Gesù per aver ottenuto la guarigione.
Sono stati purificati in dieci, ma soltanto uno, un samaritano,
ha preferito prostrarsi ai piedi di Gesù, invece di recarsi al tempio.
Non gli importa essere riconosciuto come sano dagli altri;
attraverso Gesù, egli è sanato e salvato da Dio (vangelo).
È l’esperienza che fa anche Naaman, affetto dalla lebbra.
Anche se reticente ad accogliere l’invito del profeta Eliseo,
tuttavia, constatando di essere guarito, riconosce che esiste
un unico Dio su tutta la terra. La guarigione più significativa
è quella sul piano spirituale: da una religiosità idolatrica,
sceglie di onorare solo il Signore (prima lettura).
Le catene che fermano l’impegno missionario di Paolo
non ostacolano il cammino della Parola; l’Apostolo è disposto
a sopportare ogni cosa per amore di Cristo, perché è divenuto
partecipe del suo mistero di passione, morte e risurrezione.
Le sue sofferenze non smorzano il suo entusiasmo,
ma ne hanno rafforzato la fedeltà (seconda lettura).

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interpretare i testi
di Antonio Landi

«Uno di loro […] si prostrò davanti a Gesù,


ai suoi piedi, per ringraziarlo»
Luca 17,15-16

Prima lettura 2 Re 5,14-17


In quei giorni, 14Naamàn [il comandante dell’esercito del re di Aram] sce-
se e si immerse nel Giordano sette volte, secondo la parola di Elisèo, uo-
mo di Dio, e il suo corpo ridivenne come il corpo di un ragazzo; egli era
purificato [dalla sua lebbra].
15
Tornò con tutto il seguito da [Elisèo] l’uomo di Dio; entrò e stette da-
vanti a lui dicendo: «Ecco, ora so che non c’è Dio su tutta la terra se non
in Israele. Adesso accetta un dono dal tuo servo». 16Quello disse: «Per la
vita del Signore, alla cui presenza io sto, non lo prenderò». L’altro insiste-
va perché accettasse, ma egli rifiutò.
17
Allora Naamàn disse: «Se è no, sia permesso almeno al tuo servo di ca-
ricare qui tanta terra quanta ne porta una coppia di muli, perché il tuo
servo non intende compiere più un olocausto o un sacrificio ad altri dèi,
ma solo al Signore».

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28ª domenica ordinaria149

La guarigione di Naaman, comandante dell’esercito ara-


meo, è descritta ampiamente nel capitolo 5 del Secondo libro
dei Re, ed è un invito a riflettere sulla dimensione universale
della regalità di Dio. Naaman ha contratto la lebbra e, grazie
all’interessamento di una ragazza israelita condotta prigio-
niera alla corte del re arameo, viene a conoscenza che in ter-
ra di Samaria v’è un uomo, il profeta Eliseo, che potrebbe li-
berarlo dalla sua malattia. Ottiene dal re, Ben Hadad II, una
lettera e doni votivi da presentare al cospetto del re israelita,
Ioram (852-841 a.C.). La richiesta di ottenere la guarigione
di Naaman è indirizzata al re d’Israele che, tuttavia, la inten-
de come una dichiarazione ostile nei suoi confronti. Eliseo,
però, lo rassicura: si occuperà personalmente dell’ufficiale
arameo.
Giunto al cospetto del profeta, Naaman resta deluso, per-
ché gli è stato chiesto di bagnarsi sette volte nelle acque del
Giordano; attendeva qualche gesto prodigioso o una parola
autorevole da parte di Eliseo. È intenzionato a fare ritorno
in patria quando i suoi attendenti lo convincono ad assecon-
dare la proposta del profeta: scende nelle acque del fiume e
la lebbra scompare dal suo corpo; è guarito, così come desi-
derava.
Il brano proposto per la liturgia odierna è incentrato sulla
figura del comandante arameo: si immerge nel Giordano ed
è purificato dalla lebbra che lo affliggeva (v. 14); alla presen-
za di Eliseo riconosce che non esiste altro Dio (v. 15), e vuo-
le omaggiarlo con un dono. Di fronte al diniego del profeta,
chiede di portare in patria una porzione di terra per offrire
sacrifici al Signore (vv. 16-17).

 Il corpo purificato. Naaman era giunto in Samaria cari-


co di attese e di speranze; aveva sentito parlare di Eliseo, ed
era fiducioso di poter essere mondato dalla lebbra che afflig-
geva il suo corpo, rendendolo inabile a guidare le truppe del
popolo arameo. Confidava di assistere a un gesto prodigio-

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150 Preparare la messa

so o di udire una formula solenne pronunciata da parte del


profeta che decretasse la sua immediata guarigione. Nulla di
tutto questo, e la sensazione è di trovarsi di fronte a un uomo
che non sia all’altezza del compito richiestogli. Inoltre, per-
ché compiere un viaggio faticoso soltanto per bagnarsi nelle
acque di un fiume? La delusione è tanta, e Naaman sarebbe
tentato di tornare in patria, col rischio che possa tornare in-
candescente il rapporto tra i due regni. A malincuore accetta
di scendere nelle acque del Giordano e può constatare che il
beneficio è immediato: il suo corpo è guarito. La parola che
egli attendeva dal profeta era semplice: «Bagnati e sarai pu-
rificato» (v. 13), ma andava eseguita. Parola del profeta, ge-
sto del lebbroso: il miracolo è compiuto.

 L’unico Dio su tutta la terra. Naaman proviene da una


nazione che adora il dio Rimmon, e non conosce il Dio d’I-
sraele. La guarigione ottenuta, però, gli consente di ricono-
scere che non esiste altro Dio sulla terra al di fuori di Yhwh:
è uno straniero, non appartiene al popolo eletto, eppure le
sue labbra pronunciano una confessione di fede piena nel Si-
gnore. È il riconoscimento dell’universalità di Dio, che esten-
de il suo dominio su tutte le nazioni, e offre i suoi benefici
a quanti non gli appartengono perché possano conoscere il
suo nome e prestargli culto. Naaman intende ricompensare
l’uomo di Dio che gli ha consentito di essere mondato dalla
lebbra, ma egli rifiuta: la guarigione ricevuta non ha prezzo; è
un dono divino, per il quale non è ammessa ricompensa.

 La conversione di Naaman. Il comandante delle trup-


pe aramee prende atto del diniego del profeta, e chiede di
poter portare via con sé un quantitativo di terra da Samaria
per poter offrire olocausti e sacrifici al Dio d’Israele. Non
intende in alcun modo continuare a prestare culto ad altre
divinità, perché ha sperimentato che solo Yhwh è degno di
venerazione. Si tratta di una solenne abiura nei confronti

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28ª domenica ordinaria151

delle divinità pagane e, al contempo, di una vera e propria


«conversione» al Dio d’Israele. Naaman ha dovuto superare
lo scetticismo iniziale prima di dover ammettere che l’unico
Signore che ha in mano le sorti degli uomini è Yhwh, che re-
ca beneficio non solo al suo popolo, ma anche a quanti non
gli appartengono, perché la salvezza appartiene solo a lui.

Salmo responsoriale Sal 97


Si tratta di un inno che esalta la regalità divina e annun-
cia l’avvento di Dio come re e salvatore per il mondo inte-
ro. L’orante invita tutti a cantare un canto nuovo al Signore
«perché ha compiuto prodigi»: la novità è strettamente col-
legata all’azione di Dio che, nella sua bontà, continua a ope-
rare e fa nuove tutte le cose. Conducendo fuori con braccio
potente il suo popolo dalla schiavitù d’Egitto si è rivelato vit-
torioso sui nemici d’Israele e ha manifestato la sua salvezza e
la sua giustizia anche alle nazioni che non lo conoscevano. Il
Signore non ha dimenticato di prendersi cura del suo popolo;
ha ascoltato il suo lamento e si è prodigato per affrancarlo
dalla schiavitù. Ha agito mosso esclusivamente dalla bon-
tà misericordiosa (ḥesed) e dalla fedeltà (’emûnāh) alla casa
d’Israele e all’alleanza stabilita con gli antichi Padri. Il suo
trionfo è avvenuto sotto gli occhi dei suoi nemici, e tutte le
genti possono testimoniare che non c’è nessuna divinità che
possa competere con Yhwh.

Seconda lettura 2 Timoteo 2,8-13

Figlio mio, 8ricòrdati di Gesù Cristo, risorto dai morti, discendente di Da-
vide, come io annuncio nel mio vangelo, 9per il quale soffro fino a porta-
re le catene come un malfattore.
Ma la parola di Dio non è incatenata! 10Perciò io sopporto ogni cosa per
quelli che Dio ha scelto, perché anch’essi raggiungano la salvezza che è in
Cristo Gesù, insieme alla gloria eterna.

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152 Preparare la messa

11
Questa parola è degna di fede: Se moriamo con lui, con lui anche vivre-
mo; 12se perseveriamo, con lui anche regneremo; se lo rinneghiamo, lui
pure ci rinnegherà; 13se siamo infedeli, lui rimane fedele, perché non può
rinnegare se stesso.

Nell’atto di congedarsi dal suo collaboratore, Paolo ha pa-


role gravide di affetto per Timoteo; lo incoraggia, lo esorta a
perseverare nella guida della comunità con carità e saggezza,
badando a custodire il patrimonio di fede ricevuto. L’emer-
genza di falsi maestri e dottori ha creato disagi all’interno
della chiesa, e Timoteo, sostenuto dalle raccomandazioni di
Paolo e sorretto dall’assistenza dello Spirito, deve fare in
modo di non mostrarsi cedevole, attingendo costantemente
forza alla grazia che deriva da Cristo.
Ha ricevuto lo Spirito per l’imposizione delle mani da
parte di Paolo; è un dono che egli deve alimentare, perché
sappia discernere e custodire il buon deposito della fede, ed
evitare le discussioni inutili e le chiacchiere vane, così come
le dissertazioni insensate, perché fomentano le divisioni e
mistificano la verità.
Nella sezione di 2 Tm 2,1–3,9 è delineato il profilo del ser-
vo fedele al Signore a cui Timoteo deve attenersi; in partico-
lare, il brano di 2 Tm 2,8-13 è scandito dall’appello al ricordo
(mneiamotiv: v. 8) della risurrezione di Cristo, che rappresen-
ta il cuore del Vangelo che Paolo ha proclamato e a motivo
del quale soffre (v. 9). La sua sofferenza è finalizzata alla sal-
vezza degli eletti (v. 10). Infine, sotto forma di inno, è descrit-
ta l’identità battesimale dei credenti (vv. 11-13).

 Appello alla memoria. Paolo esorta Timoteo non solo a


comprendere il suo insegnamento (2 Tm 2,7), ma anche a fa-
re memoria della risurrezione di Gesù Cristo dai morti, che
rappresenta, unitamente alla sua morte, il nucleo del keryg-
ma cristiano. Il ricordo è finalizzato ad affrontare il tempo
presente con la consapevolezza che ogni sofferenza, anche

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28ª domenica ordinaria153

quella che può rivelarsi fatale, può essere affrontata con la


forza che proviene dalla testimonianza resa a Cristo. I motivi
della risurrezione e della discendenza davidica di Gesù sono
già presenti in Rm 1,3-4, in ordine inverso rispetto a 2 Tm
2,8; lo scopo è, da un lato, di ribadire la verità dell’evento
della risurrezione (cf. 2,18) e, dall’altro, di richiamare la con-
tinuità tra il Figlio di Dio fatto uomo nella stirpe di Davide
(incarnazione) e la sua risurrezione dai morti. È il Vangelo
che Paolo rivendica come suo (2,8), e per il quale egli soffre
«fino a portare le catene come un malfattore» (v. 9a). L’apo-
stolo si presenta non solo come il garante della retta fede,
che Timoteo deve custodire, ma anche modello di testimone
credibile e affidabile, disposto a sacrificare il proprio onore e,
finanche, la propria vita.

 La parola non è incatenata. Paolo è in carcere (2 Tm 1,8)


e sente ormai imminente l’ora della sua morte (4,6). Tutta-
via, ciò non impedisce alla parola di proseguire la sua corsa
(2 Tm 2,9b): il Vangelo, che rende liberi dal peccato e dalla
morte, non può essere ostacolato, perché è la Parola che il
Signore ha pronunciato definitivamente nel suo Figlio Gesù;
è parola efficace, che non fa ritorno a Dio senza aver com-
piuto ciò per cui è stata inviata (cf. Is 55,11). La condizione
di prigionia di Paolo non arresta la corsa salvifica della Paro-
la; l’apostolo esprime la consapevolezza che, anche se la sua
bocca è stata messa a tacere, le sofferenze che egli sopporta
per amore di Cristo e del vangelo ridondano a beneficio degli
eletti, «perché anch’essi ottengano la salvezza in Cristo Gesù»
(2 Tm 2,10). Alla gloria degli uomini, i cristiani preferiscono
la gloria di Dio, che non ha durata effimera, bensì eterna.

 La fedeltà di Cristo. I vv. 11-13 appartengono alla tradi-


zione pre-paolina, ed è possibile che si tratti di un antico in-
no cristologico, sotto forma di confessione di fede. Il brano
segue uno schema parallelo, in cui gli elementi si corrispon-

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154 Preparare la messa

dono approfondendo la relazione battesimale tra i credenti


e Cristo. Il primo abbinamento riguarda la coppia morte-vi-
ta: l’immersione nell’acqua lustrale è il simbolo della morte
dell’uomo vecchio, così come l’emersione da essa e il rivesti-
mento dell’abito battesimale è il segno della vita nuova (v.
11). Chi persevera con Cristo nelle tribolazioni, come Paolo
(cf. v. 10), potrà condividere con lui il regno celeste (v. 12a);
all’eventuale apostasia da parte del cristiano corrisponde
il rinnegamento da parte del Signore alla fine dei tempi (v.
12b). Tuttavia, nel caso in cui il battezzato si riveli incredu-
lo, il Signore Gesù resta fedele, «perché non può rinnegare
se stesso» (v. 13). La fedeltà è una prerogativa di Dio, e non
può venir meno neanche di fronte all’infedeltà degli uomini;
nell’Antico Testamento la fedeltà divina si abbina alla sua
misericordia: il Dio fedele è anche il misericordioso, disposto
ad accogliere i peccatori e a condonare il peccato.

Vangelo Luca 17,11-19


11
Lungo il cammino verso Gerusalemme, Gesù attraversava la Samarìa e
la Galilea.
12
Entrando in un villaggio, gli vennero incontro dieci lebbrosi, che si fer-
marono a distanza 13e dissero ad alta voce: «Gesù, maestro, abbi pietà di
noi!». 14Appena li vide, Gesù disse loro: «Andate a presentarvi ai sacerdo-
ti». E mentre essi andavano, furono purificati.
15
Uno di loro, vedendosi guarito, tornò indietro lodando Dio a gran vo-
ce, 16e si prostrò davanti a Gesù, ai suoi piedi, per ringraziarlo. Era un Sa-
maritano.
17
Ma Gesù osservò: «Non ne sono stati purificati dieci? E gli altri nove do-
ve sono? 18Non si è trovato nessuno che tornasse indietro a rendere glo-
ria a Dio, all’infuori di questo straniero?». E gli disse: 19«Àlzati e va’; la tua
fede ti ha salvato!».

La quarta sezione del terzo vangelo è dedicata al viaggio


che Gesù compie, accompagnato dai suoi discepoli, verso Ge-
rusalemme (Lc 9,51–19,27). È consapevole che ad attenderlo

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28ª domenica ordinaria155

ci saranno la sofferenza e la morte; tuttavia, sa che tutto ciò


rientra nel disegno di salvezza che Dio ha predisposto per l’u-
manità, e di cui egli è stato costituito salvatore e redentore.
L’episodio della purificazione dei dieci lebbrosi (17,11-19)
si verifica quando è entrato in un villaggio tra la Samaria, ri-
tenuta una regione scismatica, e la Galilea, un territorio in
cui si sono trasferite genti provenienti dal mondo pagano e
si sono mescolate con gli abitanti autoctoni dando vita a una
popolazione meticcia. La collocazione geografica, così come
il successivo elogio che Gesù riserva al samaritano guarito
che torna indietro per dare gloria a Dio, sono funzionali al
messaggio della teologia lucana: il Cristo è stato riconosciuto
come tale dagli stranieri, e non dal suo popolo, Israele.
Il brano si compone di tre scene: 1) l’ingresso di Gesù nel
villaggio e la richiesta di purificazione da parte dei lebbrosi
(vv. 11-14); 2) il ritorno del lebbroso ormai guarito, samari-
tano, che dà lode a Dio e ringrazia Gesù (vv. 15-16); 3) la de-
lusione di Gesù per l’ingratitudine degli altri lebbrosi guari-
ti e la concessione della salvezza dell’unico tornato indietro
(vv. 17-19).

 I lebbrosi purificati. Gesù giunge in un villaggio di cui l’e-


vangelista non riporta il nome; si recano al suo cospetto dieci
lebbrosi che, come previsto dalle norme che disciplinano la
vita degli individui affetti da lebbra (cf. Lv 13,46; Nm 5,2), si
tengono a debita distanza. Non potendo avvicinarlo, alzano
la voce verso di lui e lo acclamano come maestro (epistátēs),
invocando pietà per la loro condizione. Desiderano essere
purificati dalla patologia che li affligge e li condanna a vivere
in luoghi isolati, privati degli affetti più cari. A causa della lo-
ro situazione, è severamente proibito loro di accedere all’in-
terno del tempio per pregare Dio; così, si rivolgono a Gesù
nell’impossibilità di entrare nel luogo dove il Signore ha po-
sto la sua dimora terrena. Gesù non li tocca, a differenza di
quanto aveva fatto in occasione della purificazione del leb-

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156 Preparare la messa

broso a Cafarnao (5,13); poi, li invita ad andare a mostrarsi ai


sacerdoti, gli unici deputati a verificare l’effettiva guarigione
dalla lebbra e ad autorizzare la loro riammissione nella vita
sociale e religiosa (cf. Lv 13–14). I lebbrosi obbediscono al
comando loro impartito: lo hanno acclamato come maestro
(v. 13), e ora si fidano della sua parola autorevole. La loro fi-
ducia è stata ben riposta perché, mentre sono ancora in cam-
mino, si accorgono di essere stati mondati (katharízō).

 Il Samaritano riconoscente. Dei dieci lebbrosi monda-


ti, solo uno trasgredisce il comando di Gesù: anziché recar-
si presso i sacerdoti, torna indietro. Resosi conto di essere
guarito, sceglie di non proseguire il suo cammino, ma ritorna
sui suoi passi e glorifica (doxázō) Dio a gran voce per aver
ottenuto la guarigione. Si prostra col volto a terra ai piedi di
Gesù per ringraziarlo. Il verbo eucharistéō (rendere grazie)
è impiegato quattro volte nel vangelo lucano, ed è sempre
Dio il destinatario della gratitudine: il fariseo al tempio rin-
grazia Dio per non essere un peccatore come gli altri uomi-
ni (18,11); durante l’Ultima cena con i suoi discepoli, è Gesù
che ringrazia il Padre dopo aver preso il calice (22,17) e il
pane (22,19). Lc 17,16 è l’unico caso in cui il ringraziamento
è rivolto a Gesù: attraverso di lui, il lebbroso guarito dà glo-
ria a Dio. Come ultima indicazione relativa alla descrizione
del lebbroso guarito, il narratore aggiunge che si tratta di
un appartenente al popolo samaritano. Non è la prima volta
che un samaritano è indicato come esempio virtuoso, come il
protagonista della parabola di Lc 10,29-37.

 La fede che salva. Gesù constata che, a fronte dei dieci


lebbrosi purificati, solo uno è tornato indietro per glorifi-
care Dio. Costui è uno straniero: il punto di vista adottato è
quello del giudeo che guarda al samaritano (v. 16) come ad
un alloghenḗs; l’aggettivo è un hapax del Nuovo Testamento,
ed enfatizza la prontezza di uno straniero a dare gloria a Dio.

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28ª domenica ordinaria157

Il motivo dell’estensione della salvezza ai Gentili è stretta-


mente correlato alla dimensione cristologica: Gesù è il me-
diatore che Dio ha consacrato per portare la salvezza a tutte
le nazioni; è la luce che illumina il cammino delle genti (Lc
2,30-32); la sua missione (e quella della sua chiesa), ostacola-
ta dai suoi connazionali e correligionari, sarà destinata agli
stranieri, come già accaduto a Elia ed Eliseo (4,25-27). La
fede del centurione non ha pari in Israele, e ottiene la guari-
gione del servo gravemente ammalato (7,9). Anche il lebbro-
so guarito ha dato prova di grande fede: come gli altri nove
guariti, si è fidato della Parola pronunciata da Gesù, e si è di-
retto in compagnia degli altri per recarsi presso i sacerdoti (v.
14); tutti si sono accorti di essere stati mondati, ma è l’unico
che, guarito, percorre il cammino a ritroso glorificando Dio
e ringraziando Gesù per la guarigione ottenuta (vv. 15-16).
È il segno di una fede, quella del lebbroso, che passa dalla
richiesta di purificazione alla consapevolezza di essere stato
guarito fidandosi della Parola pronunciata da Gesù, fino a
divenire azione di gratitudine nei confronti di colui che l’ha
liberato dalla piaga che lo escludeva dalla compagnia degli
uomini e dalla presenza di Dio. La sua fede lo ha salvato: co-
me la peccatrice (7,50), l’emorroissa (8,48) e il cieco (18,42),
ottiene ciò che non ha chiesto, perché la salvezza è un dono
gratuito concesso a chi crede in Cristo.

attualizzare il messaggio

Il difficile periodo della pandemia, che sembra stia andan-


do verso una tanto agognata risoluzione, unitamente al brano
evangelico di questa 28a domenica ordinaria, che ci parla di
lebbrosi guariti e credenti salvati, ci invita a soffermarci sul

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158 Preparare la messa

senso cristiano-evangelico della «salute», ribadendo il sempre


fecondo duplice significato del termine latino salus, come sal-
vezza e come benessere fisico.
Là dove spesso una spiegazione piana o una parola in pro-
sa rischiano di risultare retoriche o poco incisive, incapaci di
dare voce alla ragione del sentimento che proviamo, ecco che
ci viene in aiuto una parola poetica, specialmente nel confron-
to con quei temi che ci toccano da vicino, come la salute e la
salvezza nostra e di chi ci è caro.
È questo, dunque, il registro del prezioso contributo offer-
toci da Daniele Mencarelli, che con le sue parole pesate e cen-
tellinate, come l’essenza di un profumo, richiama il pericolo
che, forse, ci siamo lasciati alle spalle, e innalza una preghiera
a colui che, solo, può fondare e dare ragione della speranza
di salvezza e di salute che sempre abita in noi. Un testo tra la
storia (di oggi) e il compimento (dell’eternità), sullo sfondo
dell’autentica speranza cristiana che «tutti invocano» da colui
che solo può davvero accoglierci «nel suo abbraccio eterno».

Essere guariti, essere salvati


di Daniele Mencarelli

Cosa mi ammala? Da mesi viviamo sotto assedio, la


pandemia da Covid-19 ha reso evidente a tutti la nostra
fragilità. La risposta è arrivata, dalla scienza, il progres-
so: un vaccino per combattere il Virus. E il vaccino fun-
ziona. Lentamente si torna alla vita di prima, alla nor-
malità.
Ma tutti, anche chi non è consapevole, ha sfiorato al-
meno una volta una dismisura. La scienza può curare
il corpo, può salvarmi dalla malattia, la salute del corpo
è importante, importantissima, ma c’è una parte di me

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28ª domenica ordinaria159

che sente un bisogno di guarigione oltre il corpo stesso.


Io voglio essere salvato.
Salvato dalla morte. Non tanto io, ma quello che nutre
il mio cuore. Cerco chi accolga i miei amori nel suo ab-
braccio eterno.
Salva i miei amori.
Guarisci dalla morte chi dorme sotto la terra.
Ripara il tempo che ha invecchiato i genitori, e i loro
genitori prima di loro, donaci quel mondo dove tutto è
nel sempre e per sempre.
Tutti invocano salvezza.
E quanto è più straziante invocarla per chi amiamo e
non possiamo proteggere.
Credere è la sfida che anima la nostra vita, le nostre
giornate.
Credo che l’acqua possa tornare alla sorgente.
Il figlio nella madre, i genitori restituiti ai figli.
Il mio amore non può cedere alla visione che non esista
sorgente, che tutto scorra verso una foce inesorabile fat-
ta di nulla.
Allora pregare, sperare.
Vieni, Iddio, vieni.
Guarisci le nostre ferite, dona la vita eterna a chi ama,
riamato.
Solo la tua voce può pronunciare salvezza.

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programmare la celebrazione
di Andrea Andretto

Per l’omelia
La proposta omiletica per questa domenica potrebbe ar-
ticolarsi facendo riferimento a quattro termini chiave: «Ab-
bi pietà di noi!»; «Ricordati di Gesù Cristo!»; «Gratuità!»;
«Ringraziarlo!».

▶ Abbi pietà di noi! Chiunque prega, rivolgendosi alla di-


vinità, invoca e implora la liberazione dal male. Prova ne è la
recente esperienza della pandemia da Covid-19 che ha visto
tantissimi uomini e donne chiedere accortamente la possibi-
lità di essere liberati dal virus. Come Naaman il Siro e i dieci
lebbrosi della pagina evangelica si sono rivolti rispettiva-
mente a Eliseo e Gesù, chiedendo che si rivelasse anche per
loro la giustizia di Dio, così anche noi abbiamo re-imparato
a chiedere con umiltà il dono della guarigione. Questo primo
termine chiave permetterà dunque al presidente della cele-
brazione di riportare la coscienza credente al valore della
preghiera che nella tradizione ebraico-cristiana ha le caratte-
ristiche della richiesta, della lode e del ringraziamento.

▶ Ricordati di Gesù Cristo! La preghiera di supplica è


possibile per gli uomini di ogni tempo perché – ammaestra-
ti dall’insegnamento paolino – si «ricordano di Gesù Cristo,
risorto dai morti». Possiamo rivolgerci a Dio perché, nel mo-
mento della prova, Gesù ha saputo invocare la fedeltà del
Padre, rimanendo fedele lui per primo alla sua volontà, nel-
la ferma certezza di poter essere liberato dalle catene della
morte. Come i dieci lebbrosi si sono fidati della parola del
Maestro che li invitava a presentarsi ai sacerdoti, e obbeden-
do sono stati guariti, così anche l’uomo del nostro tempo si

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28ª domenica ordinaria161

affida alla parola del Signore che promette vita eterna a chi
cammina e prega con lui.

▶ Gratuità! Uno degli aspetti che accomuna la figura di Eli-


seo e di Gesù è quello di vivere il gesto della guarigione con
uno spirito di profonda gratuità: nulla in cambio è richiesto
per il dono fatto al fratello. Sarà dunque utile mettere in evi-
denza che ci sono doni (come quello della guarigione) che
sono di per se stessi gratuiti, perché impossibilitati ad essere
monetizzabili. Per questo motivo si potrà far notare all’as-
semblea che a volte, invece, si preferirebbe avere la possi-
bilità di poter pagare una cifra di denaro per “sdebitarsi” di
fronte al dono ricevuto, e non dover così affrontare, impe-
gnandosi, il caso serio del senso ultimo e definitivo della pro-
pria esistenza.

▶ Ringraziarlo! Naaman e il Samaritano hanno modo di


comprendere che l’unica ricompensa che possono offrire
al loro guaritore è quella della loro «conversione», ricono-
scendo il primato di Dio nella loro vita, unitamente al de-
siderio di offrirgli un culto gradito. Sarà anche interessante
ricordare come proprio due stranieri sono coloro riconosco-
no la singolarità di quanto è stato ricevuto. Per questo mo-
tivo un’autentica conversione non è mai frutto di un calcolo
fatto a tavolino, ma solo conseguenza di un modo trasfigu-
rato di guardare ai fatti dell’esistenza. Ecco perché la forma
più alta di ringraziamento per il cristiano è l’eucaristia: è il
modo con il quale egli confessa che intende fare della pro-
pria vita un servizio d’amore come quello di Cristo, risorto
dai morti.

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162 Preparare la messa

Grazie!
di Roberto Laurita

«Grazie!» è una parola che i nostri genitori ci hanno insegna-


to fin da quando eravamo piccoli. Una parola semplice, breve,
che però esprime qualcosa di grande e di bello, qualcosa che og-
gi – nella società dei diritti, che ignora facilmente i doveri – noi
stiamo forse dimenticando. Ci sono tante cose che non possia-
mo considerare né scontate, né dovute. Un sorriso, un gesto di
accoglienza, un segno di amicizia, un piccolo regalo sono doni
che costellano di luce e di gioia la nostra esistenza. Mostrano af-
fetto, attenzione, amore. Riceverli senza dire nulla significa igno-
rarli e poi, facilmente, dimenticarli.
Il vangelo di oggi ci parla di dieci lebbrosi, guariti da Gesù.
Hanno fatto appello al suo buon cuore, alla compassione che
prova per la loro situazione dolorosa: soffrono nel corpo e nello
spirito.
Gesù chiede loro solamente di andare dai sacerdoti, per fare
accertare la guarigione, e mentre sono per strada scoprono di es-
sere stati risanati, liberati dalla lebbra. Uno solo torna indietro a
ringraziarlo e, per dirgli la sua gratitudine. Le parole che Gesù gli
rivolge ci sorprendono: «Alzati e va’; la tua fede ti ha salvato!».
Perché Gesù parla di fede? Il «grazie» di quel samaritano è
proprio il segno della sua fede. Tutti e dieci quei lebbrosi sono
stati «guariti», ma solo lui è stato «salvato», cioè cambiato per
sempre da quell’incontro con Gesù. Solo lui, infatti, ha ricono-
sciuto il grande dono che gli era stato fatto e ha mostrato tutta
la sua fiducia e la sua riconoscenza.
Non è casuale che «eucaristia» significhi «rendimento di gra-
zie» e che di domenica in domenica i cristiani si trovino insieme
per «ringraziare» Dio nel giorno in cui egli ha risuscitato Gesù
dalla morte. Ogni domenica, infatti, essi riconoscono i grandi
doni che hanno ricevuto ed esprimono il loro ringraziamento.
Ma come mai non sono tutti presenti? Come mai molti manca-
no? È la stessa storia riferita dal vangelo: dei dieci solo uno è tor-

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28ª domenica ordinaria163

nato indietro per dire «grazie». Agli altri è bastato essere guariti,
poter tornare alle loro case. Hanno capito che sono un segno di
amore, di affetto, di amicizia? Solo quando sentiamo il loro «gra-
zie» ne siamo veramente sicuri…

Per la regia liturgica


• La pagina evangelica, e con essa tutte le altre letture bibli-
che, convergono su due azioni tipiche della liturgia cristia-
na: l’invocazione e il rendimento di grazie. Per questo mo-
tivo ci sembra opportuno offrire alcuni spunti per vivere
la preghiera liturgica.
• Accanto all’ambone sarebbe bene porre un cero ben visi-
bile, che richiami per certi versi il «cero pasquale» a sim-
boleggiare la libertà di una Parola che non è incatenata
ma viva e risorta, come dice Paolo nella seconda lettura.
• Guardando al gesto di Naaman vissuto in obbedienza al-
le indicazioni di Eliseo, in alternativa al rito penitenziale
proposto nelle schede per programmare la celebrazione, si
potrebbe proporre la memoria del proprio battesimo con
l’aspersione dell’acqua nel giorno di domenica.
• Per la preghiera Eucaristica proponiamo il Canone IV con
il relativo prefazio proprio.

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164 Preparare la messa

laPreghiera
di Roberto Laurita

Noi ti invochiamo, Signore Gesù,


e tu rispondi al nostro grido di aiuto.
Ci strappi al potere del male,
a quanto ci rovina la vita.
Ma noi, sanati lungo la via,
nel percorso della nostra esistenza,
ci dimentichiamo alla svelta di te.

Così torniamo alle nostre occupazioni.


Felici di aver superato il momento difficile,
ci facciamo riprendere dal vortice
delle cose da fare.

Tornare indietro, buttarsi ai tuoi piedi,


trovare il tempo per dirti grazie:
ecco che cosa vuol dire
riconoscere il tuo amore.
Aprire nel tragitto della settimana
uno squarcio – la domenica –
per riconoscere che tutto il tempo
è un dono che viene da te,
per esser presenti all’appuntamento
dell’eucaristia comunitaria,
per ascoltare senza fretta
la tua Parola d’amore.

Ecco cosa significa


credere veramente in te.
Pronti a fermarci per starti accanto,
pronti a ripartire per rendere ragione
della speranza seminata nei nostri cuori.

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28ª domenica ordinaria
9 ottobre 2022 P
Accoglienza: Fratelli e sorelle la nostra comunità cristiana celebra l’eucaristia, il
rendimento di grazie per i benefici che Dio concede all’umanità nel sacrificio pa-
squale del suo Figlio. Disponiamoci ad ascoltare la parola di Dio che con la sua
forza e potenza opera la guarigione del cuore, ad accogliere il cibo dell’eucaristia
che ci dispone a fare della nostra vita un culto a Dio gradito.
Invito all’atto penitenziale: Fratelli e sorelle, in questo giorno santo siamo chia-
mati a ricordarci di Gesù Cristo Risorto dai morti, parola di Dio libera e fedele che
dona lo Spirito per la remissione dei peccati. Con piena fiducia in questo mistero
d’amore, riconosciamo con umiltà i nostri peccati.
Conclusione dell’atto penitenziale: Dio onnipotente, che non ti stanchi di ma-
nifestare la tua salvezza agli occhi di tutti i popoli, abbi pietà di noi, perdona i
nostri peccati, e concedici di sperimentare la tua fedeltà nella risurrezione dei
giusti.
Introduzione alla preghiera dei fedeli: Il Signore compie prodigi con la sua de-
stra e il suo braccio santo. Certi della sua fedeltà eleviamo a lui le nostre invoca-
zioni. Preghiamo insieme e diciamo: Ascoltaci o Signore.
Orazione conclusiva: Padre santo, tu giudichi il mondo con giustizia e con la
forza della tua Parola che è stata liberata dalle catene della morte. Ascolta le no-
stre invocazioni e concedici la gioia di cantarti il canto nuovo dell’adorazione e
della lode per i tuoi innumerevoli benefici. Per Cristo nostro Signore.
Al Padre nostro: Prima di partecipare al banchetto dell’eucaristia, segno vivo di
Cristo crocifisso e risorto che fa della sua vita un sacrificio a Dio gradito, preghia-
mo il Padre come Gesù stesso ci ha insegnato. Padre nostro…
Al dono della pace: Ricordandoci di Cristo, risorto dai morti, che ha donato ai
suoi discepoli la sua pace, confessiamo la sua fedeltà, scambiandoci un gesto di
pace.
Al congedo: Ricordiamoci dei gesti prodigiosi con i quali Dio ha guarito i nostri
cuori e facciamo della nostra vita un suono e un canto melodioso per il Signo-
re. Andate in pace.

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C 28ª domenica ordinaria
9 ottobre 2022

Invocazioni penitenziali:
– Signore, tu che riveli a tutti i popoli la tua giustizia, abbi pietà di noi. Kýrie,
eléison!
– Cristo, tu che con la tua Parola guarisci le ferite di ogni fratello dell’umanità,
abbi pietà di noi. Christe, eléison!
– Signore, tu che ti ricordi del tuo amore e della tua fedeltà, abbi pietà di noi.
Kýrie, eléison!
Prima lettura: Obbediente alle indicazioni di Eliseo, lo straniero Naaman il Si-
ro si immerge nel Giordano, guarisce dalla sua malattia ed esprime il suo deside-
rio di servire il Dio di Eliseo.
Salmo responsoriale: Il salmista invita a riconoscere la fedeltà di Dio che mani-
festa la sua salvezza e la sua giustizia ai popoli, cantando il canto nuovo di una
vita offerta per amore.
Seconda lettura: L’apostolo Paolo esorta Timoteo a ricordare la fedeltà di Dio,
manifestata nella risurrezione di Cristo dai morti, che non viene meno nono-
stante l’infedeltà dell’uomo.
Vangelo: Dieci lebbrosi invocano da Gesù il dono della guarigione. Obbedendo
alla sua Parola si riconoscono guariti, ma soltanto uno è capace di ringraziare per
un dono che non ha prezzo.
Intenzioni per la preghiera dei fedeli:
– Per la chiesa: perché ogni battezzato possa riscoprire con umiltà l’arte di sa-
per invocare mediante la preghiera la guarigione del corpo e dello spirito.
Preghiamo.
– Per i governanti delle comunità civili: perché di fronte alle situazioni di malat-
tia e di dolore, non abbiano paura di riconoscere il valore dell’esperienza reli-
giosa dell’umano, delle sue tradizioni e dei suoi riti. Preghiamo.
– Per coloro che sono incapaci di riconoscere i gesti di gratitudine degli altri: il
tuo Spirito Signore illumini i loro occhi, li renda capaci di vedere i segni del
tuo amore. Preghiamo.
– Per la nostra comunità cristiana che celebra l’eucaristia: perché sappiamo at-
tingere da essa la sorgente per fare della nostra vita un culto a te gradito. Pre-
ghiamo.

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29ª domenica ordinaria
16 ottobre 2022

La preghiera, frutto di una fede autentica.


La preghiera è il respiro della fede e della vita del discepolo;
è lo Spirito, effuso nel sacramento del battesimo, che prega
nel cuore del credente e lo introduce nel mistero della Trinità.
L’orazione è uno stile che il battezzato è invitato ad adottare
perché la sua vita sia preghiera costante a Dio.
Con la parabola del giudice iniquo e della vedova insistente,
Gesù esorta i suoi discepoli ad attendere con perseveranza
il suo ritorno glorioso alla fine dei tempi.
La loro supplica, fatta con insistenza, non resterà inascoltata;
anzi, la loro richiesta sarà esaudita se fatta con fede (vangelo).
La preghiera costante, che poggia sulla fedeltà di Dio
alla sua alleanza e sulla fiducia che il popolo ripone in lui,
consente di sbaragliare i nemici e di spianare la strada
che conduce alla terra promessa. Ciò che umanamente
appare impossibile, è reso possibile dall’intercessione costante
di uomini oranti, come Mosè (prima lettura).
Paolo incoraggia il suo collaboratore, Timoteo, a rimanere saldo
nella fede ricevuta, insegnando, correggendo ed esortando
la comunità a lui affidata sulla base delle Scritture.
Egli è chiamato a essere completo e ben preparato per ogni opera;
non si presume che sappia o sappia fare tutto, ma tutto ciò che fa
dev’essere ispirato alla sapienza delle Scritture (seconda lettura).

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interpretare i testi
di Antonio Landi

«Dio non farà


forse giustizia
ai suoi eletti,
che gridano
giorno e notte
verso di lui?»
Luca 18,7

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29ª domenica ordinaria169

Prima lettura Esodo 17,8-13


In quei giorni, Amalèk venne a combattere contro Israele a Refidìm.
8

9
Mosè disse a Giosuè: «Scegli per noi alcuni uomini ed esci in battaglia
contro Amalèk. Domani io starò ritto sulla cima del colle, con in mano
il bastone di Dio». 10Giosuè eseguì quanto gli aveva ordinato Mosè per
combattere contro Amalèk, mentre Mosè, Aronne e Cur salirono sulla ci-
ma del colle.
11
Quando Mosè alzava le mani, Israele prevaleva; ma quando le lasciava
cadere, prevaleva Amalèk. 12Poiché Mosè sentiva pesare le mani, presero
una pietra, la collocarono sotto di lui ed egli vi si sedette, mentre Aronne
e Cur, uno da una parte e l’altro dall’altra, sostenevano le sue mani. Così
le sue mani rimasero ferme fino al tramonto del sole.
13
Giosuè sconfisse Amalèk e il suo popolo, passandoli poi a fil di spada.

Il brano della battaglia contro Amalek (Es 17,8-13), pro-


clamato nell’odierna liturgia domenicale, è preceduto dall’e-
pisodio della protesta degli Israeliti contro Mosè, lamentan-
do l’assenza d’acqua (17,1-7). Sono giunti a Refidìm e il luo-
go è deserto, inospitale; non s’intravede la possibilità di pro-
curare acqua e la mormorazione degli Israeliti monta contro
Dio e il suo servo: «Perché ci hai fatto salire dall’Egitto, per
far morire di sete noi, i nostri figli e il nostro bestiame?» (v.
3). Dio ha liberato il suo popolo per strapparlo alla schiavitù
egizia e garantirgli vita e benedizione con il dono di una ter-
ra, dove poter dimorare per sempre.
Eppure, il popolo sembra non fidarsi più del Signore e di
colui che ha scelto come sua guida; mette alla prova Dio per
verificare se egli è in mezzo al suo popolo oppure no (v. 7).
Non è la prima volta che gli Israeliti protestano, nonostante
Dio abbia sempre soddisfatto le loro richieste relative all’ac-
qua (15,22-27) e al cibo, donando loro la manna e le quaglie
(16,1-36) perché restassero fedeli a lui. Il cammino nel de-
serto, tuttavia, presenta numerose difficoltà, legate non so-
lo ai bisogni primari come la fame e la sete; il popolo deve
anche misurarsi con una tribù nomade, gli Amaleciti, guidati
da Amalek. Dopo aver consentito al suo popolo di fuggire

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170 Preparare la messa

indenne dall’esercito egiziano (14,5-31), Dio sarà ancora al


fianco d’Israele nonostante le sue continue ribellioni?
La pericope presenta una struttura tripartita: 1) Mosè
chiede a Giosuè di occuparsi dei preparativi per la battaglia
(vv. 8-10); 2) sul monte Mosè intercede per il popolo perché
prevalga sui suoi nemici (vv. vv. 11-12); 3) la vittoria contro
Amalek (v. 13).

 Con le armi o con la preghiera? Amalek, re e condottie-


ro della tribù degli Amaleciti, che vivevano tra il Negheb e le
montagne di Seir, decide di attaccare battaglia contro Israe-
le a Refidìm: il narratore non offre ulteriori informazioni
relativamente alle ragioni del conflitto o alle forze disposte
in campo. Non era infrequente che bande nomadi assalis-
sero carovane itineranti che attraversavano il deserto per
depredarle di tutto ciò che possedevano. L’attenzione si spo-
sta all’ordine impartito da Mosè a Giosuè, che compare per
la prima volta nel racconto senza alcun riferimento alla sua
identità e alla sua relazione con lui: si può presumere che sia
un suo collaboratore, al quale chiede di scegliere gli uomini
per affrontare in battaglia gli Amaleciti. Mosè, invece, si col-
locherà sulla cima del colle stringendo tra le mani il bastone
(maṭṭēh) che Dio gli ha dato, con il quale ha compiuto pro-
digi in presenza del Faraone, ha separato le acque del mar
Rosso e ha fatto scaturire acqua dalla roccia dell’Oreb. È il
segno dell’assistenza e del soccorso che Dio garantisce al suo
popolo. È anche l’unica volta che nel brano si fa riferimento
esplicito a Dio (’elōhîm): egli salva il suo popolo grazie all’in-
tercessione orante del suo servo.

 Le mani alzate. Mosè è salito sulla cima del colle insieme


con Aronne e Cur, che lo assistono durante l’intera battaglia.
Le sue mani sono alzate (rwm) verso il cielo: è la preghiera
di chi, a mani nude, confida esclusivamente in Dio e atten-
de da lui benedizione e soccorso. È il simbolo dell’orante,

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29ª domenica ordinaria171

che nella preghiera intesse un dialogo profondo con il suo


Signore e intercede a beneficio del suo popolo, per ottene-
re protezione e salvezza. Tuttavia, la stanchezza si fa sentire
anche per Mosè: così, sintanto che riesce a tenere protese le
sue mani verso il cielo, Israele prevale sui suoi avversari; ma
quando è costretto ad abbassarle, gli Amaleciti prendono il
sopravvento. Ecco allora l’ingegnoso espediente da parte di
Cur e Aronne: lo fanno sedere su una pietra (’eben), simbolo
della fedeltà di Dio, ed essi stessi provvedono a sostenere le
sue mani a destra e a sinistra. Chi prega non è solo e, quando
si tratta di portare davanti a Dio il peso di un’intera nazione,
Mosè può contare sull’aiuto dei suoi collaboratori.

 La vittoria finale. La battaglia contro gli Amaleciti sem-


bra passare in secondo piano nella prospettiva del racconto:
tutto si concentra sulla preghiera di Mosè, che persevera fi-
no al tramonto del sole e consente al popolo di sconfiggere
i suoi avversari. Ciò che ha permesso ad Israele di superare
la minaccia rappresentata da Amalek è stata l’intercessione
orante di Mosè: è Dio che dà vittoria al suo popolo, non le
armi. Il cammino verso la terra promessa può riprendere con
la consapevolezza che il Signore è in mezzo al suo popolo.

Salmo responsoriale Sal 120


Il Salmo 120 è stato inserito nella collezione dei salmi di
pellegrinaggio, che scandiscono il cammino verso Gerusa-
lemme in occasione delle festività. L’orante volge inizial-
mente il suo sguardo verso i monti, luoghi-simbolo del cul-
to alla divinità pagane. L’aiuto non può giungere dagli ido-
li vani, ma solo dal Signore: i primi sono opera delle mani
dell’uomo, mentre Yhwh è colui che ha creato il cielo e la
terra. La sua benevolenza si manifesta nei confronti di colo-
ro che confidano in lui, rendendo stabili i loro passi. Si pren-
de cura di ciascuno come custode che non si assopisce, ma vi-

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172 Preparare la messa

gila costantemente sulla sorte di quanti si sono affidati a lui,


al punto tale da diventare la loro ombra. Difatti, come l’om-
bra è indissociabile dalla persona e la segue ovunque, così il
Signore non perde mai di vista coloro che gli appartengono,
ponendoli al riparo non solo dagli eventi naturali, come il ca-
lore del sole, o il buio che accompagna la presenza della luna,
ma anche dal male. In ogni circostanza della vita, l’orante sa
di non dover temere: Dio è con lui.

Seconda lettura 2 Timoteo 3,14–4,2


Figlio mio, 14tu rimani saldo in quello che hai imparato 15e che credi fer-
mamente. Conosci coloro da cui lo hai appreso e conosci le sacre Scrittu-
re fin dall’infanzia: queste possono istruirti per la salvezza, che si ottiene
mediante la fede in Cristo Gesù.
16
Tutta la Scrittura, ispirata da Dio, è anche utile per insegnare, convince-
re, correggere ed educare nella giustizia, 17perché l’uomo di Dio sia com-
pleto e ben preparato per ogni opera buona.
4-1Ti scongiuro davanti a Dio e a Cristo Gesù, che verrà a giudicare i vivi
e i morti, per la sua manifestazione e il suo regno: 2annuncia la Parola, in-
sisti al momento opportuno e non opportuno, ammonisci, rimprovera,
esorta con ogni magnanimità e insegnamento.

Paolo ha a cuore che il suo fidato collaboratore, Timoteo,


possa vivere in spirito di fede autentica il compito pastorale
che gli è stato conferito; il Vangelo, ancor prima che essere
predicato, va vissuto e incarnato in un’esistenza interamente
dedita alla sua causa. L’apostolo fa spesso riferimento al sa-
no patrimonio dottrinale trasmesso che Timoteo è invitato a
preservare di fronte alla diffusa propaganda eretica condot-
ta da falsi maestri e dottori, che rischia di proliferare anche
all’interno della comunità cristiana.
Timoteo è incoraggiato a perseverare nella retta fede,
mettendo in conto di affrontare prove e persecuzioni, così
come già accaduto a Paolo, che non ha mai dubitato dell’as-
sistenza divina e ha sperimentato l’intervento liberante di

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29ª domenica ordinaria173

Dio. È consolante, inoltre, sapere che chi opera con malizia


ed empietà arrecando danno alla chiesa, non prospererà a
lungo, ma andrà di male in peggio.
Paolo è conscio di essere giunto al termine della sua vita
terrena, che paragona ad una corsa; in un ideale passaggio di
consegne, è prodigo di consigli ed esortazioni nei riguardi di
Timoteo. Questi deve ancorarsi al Vangelo e alle Scritture in
vista della salvezza (2 Tm 3,14-15); la Scrittura, nella sua in-
terezza, è ispirata da Dio ed è indispensabile per insegnare,
correggere, indirizzare i credenti (vv. 16-17). Per questa ra-
gione, Timoteo non dovrà mai derogare all’impegno di pro-
clamare la Parola in qualsiasi circostanza, in vista del giudi-
zio finale (4,1-2).

 Saldo nel Vangelo. Paolo tratteggia le caratteristiche che


devono contraddistinguere il suo fedele collaboratore nel mi-
nistero pastorale: anzitutto, egli deve rimanere saldo nella fe-
de che ha appreso e in cui crede fermamente (2 Tm 3,14). Il
verbo ménō («rimanere») indica la volontà di ancorarsi in ma-
niera stabile, come si evince dall’uso dell’imperativo presente,
nel patrimonio di fede che Timoteo ha ricevuto e appreso in
qualità di discepolo. L’istruzione che egli ha ricevuto da parte
di Paolo ha consentito di aderire alla fede in maniera convin-
ta, non superficiale o approssimativa. Senza trascurare le sacre
Scritture (hierá grámmata), che egli ha appreso sin dall’infan-
zia (v. 15): la fede cristiana non esclude il patrimonio scrittu-
ristico d’Israele, ma lo integra e lo dichiara normativo anche
per la chiesa. In effetti, la conoscenza dei testi sacri ha consen-
tito di comprendere e approfondire il mistero di Cristo, come
compimento delle promesse fatte da Dio agli antichi Padri.
Paolo insiste sul valore salvifico delle Scritture, «che si ottiene
per mezzo della fede in Cristo Gesù». È la formulazione più
cara della teologia paolina: l’accesso alla salvezza è consenti-
to non in virtù delle opere della Legge, ma della fede in Cristo
Gesù; ora toccherà a Timoteo viverlo e diffonderlo.

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174 Preparare la messa

 La Scrittura forma l’uomo di Dio. I vv. 16-17 riprendono


e amplificano la rilevanza delle Scritture in vista della tra-
smissione della fede e del ministero pastorale. Si afferma che
«tutta la Scrittura è ispirata da Dio» (v. 16a): l’aggettivo gre-
co theópneustos evoca l’azione divina mediante la quale so-
no ispirati divinamente gli autori dei testi sacri, ritenuti come
vincolanti e normativi perché derivano da Dio. La Scrittura
è lo strumento privilegiato per conservare la costante e pre-
murosa attenzione che il Signore nutre nei confronti del suo
popolo. La sua utilità (v. 16b) si palesa nei molteplici compiti
che l’uomo di Dio (v. 17), Timoteo, deve assolvere alla guida
della comunità: compete anzitutto a lui, in quanto leader, in-
segnare la sana dottrina contenuta nei testi sacri; in base ad
essi, convincere, senza vuoti giri di parole o discorsi ispirati
alla sapienza del mondo; correggere chi si allontana dalla fe-
de e formare in vista della giustizia, che consiste nel ricono-
scere e adempiere la volontà divina.

 In ogni circostanza. Paolo ha ricordato in precedenza a


Timoteo di aver ricevuto non uno Spirito di timidezza, ma di
forza, amore e saggezza (2 Tm 1,7). Per questa ragione, egli
non potrà comportarsi in maniera pusillanime, ma, in previ-
sione del giudizio finale che Cristo Gesù eserciterà per con-
to del Padre (4,1), dovrà assolvere il compito di proclamare
la Parola (v. 2), senza deflettere o arrendersi di fronte a un
compito così arduo. Anzi, dovrà insistere in ogni circostan-
za opportuna e non opportuna, perché emerga la verità del
Vangelo e sia smascherata qualsiasi mistificazione. Ammoni-
re, rimproverare, esortare sono le prerogative che si addico-
no al responsabile dell’assemblea cristiana, chiamato a co-
niugare benevolenza e solidità di dottrina.

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29ª domenica ordinaria175

Vangelo Luca 18,1-8

In quel tempo, 1Gesù diceva ai suoi discepoli una parabola sulla necessi-
tà di pregare sempre, senza stancarsi mai: 2«In una città viveva un giudi-
ce, che non temeva Dio né aveva riguardo per alcuno. 3In quella città c’e-
ra anche una vedova, che andava da lui e gli diceva: “Fammi giustizia con-
tro il mio avversario”.
4
Per un po’ di tempo egli non volle; ma poi disse tra sé: “Anche se non te-
mo Dio e non ho riguardo per alcuno, 5dato che questa vedova mi dà tan-
to fastidio, le farò giustizia perché non venga continuamente a importu-
narmi”».
6
E il Signore soggiunse: «Ascoltate ciò che dice il giudice disonesto. 7E Dio
non farà forse giustizia ai suoi eletti, che gridano giorno e notte verso di lui?
Li farà forse aspettare a lungo? 8Io vi dico che farà loro giustizia prontamen-
te. Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?».

La preghiera è un aspetto su cui Luca, nella sua duplice


opera, insiste molto: basti pensare che il suo vangelo inizia
con l’offerta dell’incenso all’interno del tempio di Gerusa-
lemme da parte del sacerdote Zaccaria (Lc 1,5-20) e termi-
na con la benedizione che il Risorto concede ai suoi apostoli
prima di salire al cielo, la loro adorazione nei suoi confronti
e il riferimento alla preghiera di lode che essi elevano a Dio
nel tempio (24,51-53). Anche nella chiesa di Gerusalemme,
che nasce attorno agli apostoli, la preghiera rappresenta un
elemento fondamentale della vita comunitaria, insieme all’a-
scolto dell’insegnamento apostolico, della comunione e della
frazione del pane (At 2,42-47).
La parabola della vedova importuna ha lo scopo di per-
suadere i discepoli sulla necessità della preghiera costante (v.
1); il racconto ha per protagonista un giudice, restio ad adem-
piere i suoi doveri; e una vedova che, senza sosta, reclama i
suoi diritti fino a quando il giudice non le concede quanto le
era dovuto (vv. 2-5). Se il giudice disonesto ha soddisfatto la
richiesta della vedova insistente, tanto più Dio darà ascolto e
farà giustizia per i suoi eletti; tuttavia, per perseverare nella
preghiera occorre la fede (vv. 6-8).

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176 Preparare la messa

 Senza cedere alla stanchezza. È la prima volta in cui è se-


gnalato in anticipo lo scopo della parabola (v. 1). L’evangeli-
sta collega l’istruzione di Gesù sulla preghiera incessante al
discorso tenuto poco prima (17,22-37) sul ritorno del Figlio
dell’uomo alla fine dei tempi (parusía). È necessario pre-
gare sempre, assumendo un vero e proprio stile orante, per
evitare di cedere alla stanchezza o allo sconforto (il verbo
enkakéō ricorre solo qui in Luca) e perseverare nell’attesa
del ritorno del Cristo glorioso. È possibile che la cristianità
alla quale Luca si rivolge sia stata già costretta a fare i conti
con le prove e le persecuzioni, con il rifiuto del Vangelo e dif-
ficoltà di ogni genere all’interno della comunità. Per questo
motivo, l’insistenza sulla preghiera intende offrire ai lettori
un valido sostegno per non cedere alla stanchezza.

 Una donna insopportabile. Il racconto parabolico è am-


bientato in una città dove vivono un giudice e una vedova. Il
primo è descritto come un uomo che non prova alcun timore
nei riguardi di Dio e non ha alcun rispetto del prossimo (v.
2). Temere Dio è la condizione necessaria per relazionarsi
con gli altri, ispirandosi ai valori della giustizia e della verità,
e così assolvere al proprio compito. Chi non teme Dio, non
ha la giusta considerazione dell’altro. Il secondo personag-
gio della vicenda è una donna: si tratta di una vedova (chḗra)
che si reca con una certa insistenza presso il giudice, chieden-
do di ottenere giustizia (ekdikéō) dal suo avversario (v. 3). Il
narratore non si sofferma sui dettagli della vertenza giudizia-
ria, ma dev’essere di vitale importanza per la donna, che non
può contare su altri sostegni. Non è chiaro perché per lungo
tempo il giudice si astenga dal suo dovere (v. 4); tuttavia, la
pervicacia della donna è divenuta insostenibile, e inizia a
procurargli fastidio (kópos). Decide, allora, di farle giustizia;
la sua decisione non dipende da un’improvvisa conversio-
ne, né perché sia pentito della sua precedente insensibilità;
vuole solo scongiurare il pericolo che la vedova prosegua a

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29ª domenica ordinaria177

tormentarlo con le sue richieste. La sua indifferenza è vinta


dall’insistenza della donna.

 E Dio non farà giustizia? La vicenda parabolica termina


con la giustizia ottenuta dalla vedova, e offre l’opportunità
per riflettere sulla giustizia divina. Gesù richiama all’atten-
zione dei presenti le parole pronunciate dal giudice iniquo
(l’espressione ho kritḗs tḗs adikías è un genitivus hebraicus: il
giudice dell’iniquità). Ora, se un uomo così perverso ha asse-
condato la richiesta di giustizia della vedova, è possibile im-
maginare che Dio non farà giustizia ai suoi eletti? Gli eletti
sono tutti coloro che riconoscono Dio come Padre (Lc 11,2)
e si rivolgono a lui, elevando suppliche e forti invocazioni e
confidando nella sua bontà misericordiosa. È un’orazione
ininterrotta, che dura di notte e di giorno; non si tratta solo
di pronunciare parole, ma di assumere uno stile orante, che
permea il credente nella sua essenza, al punto tale da diveni-
re egli stesso preghiera. In tal caso, il Signore non indugerà,
a differenza del giudice disonesto, e concederà la giustizia at-
tesa dai suoi figli. Dio non tarderà, ma farà giustizia in breve
tempo: è palese la contrapposizione tra il lungo tempo (epí
chrónon: v. 4) che il giudice fa intercorrere prima di esamina-
re la causa della vedova, e l’esiguo lasso di tempo (en táchei:
v. 8) che precede l’intervento divino. La domanda finale si ri-
collega al motivo della parusía finale: al suo ritorno, il Figlio
dell’uomo troverà fede sulla terra? (v. 8). Anche se, a giudi-
zio di alcuni studiosi, può essere ritenuta un’aggiunta reda-
zionale, la questione posta da Gesù è coerente con l’insegna-
mento proposto: la fede e la preghiera si alimentano recipro-
camente, perché se l’orazione non è fatta con fede rischia di
essere vuota, insensata; così la fede, se non è costantemente
alimentata dalla preghiera, può divenire idolatria. Pur essen-
do una questione destinata a rimanere aperta, il monito che
si può ricavare dalla domanda finale di Gesù è chiaro: l’atte-
sa del giorno finale dev’essere sostenuto dalla preghiera insi-
stente e costante, che consolidi la fede in Dio.

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attualizzare il messaggio
di Claudio Stercal

Le domande e la preghiera
1. Le domande di Gesù

Le domande hanno sempre accompagnato la vicenda ter-


rena di Gesù. Il Vangelo di Luca ce lo presenta, ancora do-
dicenne, «in mezzo ai maestri, mentre li ascoltava e li inter-
rogava» (Lc 2,46). Nel Vangelo di Giovanni le prime parole
pronunciate da Gesù, all’inizio della sua vita pubblica, sono
costituite da una domanda rivolta all’apostolo Andrea e a un
altro discepolo, forse il discepolo amato: «Che cosa cercate?»
(Gv 1,38). Nello stesso vangelo anche le ultime parole di Ge-
sù sono domande, questa volta indirizzate a Pietro: «Simo-
ne, figlio di Giovanni, mi vuoi bene? […] Se voglio che egli
rimanga finché io venga, a te che importa?» (Gv 21,17.22).
Le domande accompagnano, quindi, l’esperienza di Gesù e
costituiscono uno degli elementi fondamentali della sua sor-
prendente capacità di stabilire e approfondire relazioni per-
sonali. Porre domande gli consente di dare vita a un incontro,
di impostare un dialogo e un confronto, di accompagnare
nella ricerca della verità, di far intuire il suo amore, di riac-
cendere la libertà e la gioia degli interlocutori.

2. Nella preghiera

Non stupisce, perciò, che il momento centrale della sua


vita, la Pasqua, sia accompagnato da domande rivolte, nella
preghiera, a suo Padre. Prima nel Getsemani: «Abba! Padre!
Tutto è possibile a te: allontana da me questo calice!» (Mc

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29ª domenica ordinaria179

14,36; cf. Mt 26,39; Lc 22,42) e poi sulla croce: «Alle tre, Gesù
gridò a gran voce: […] “Dio mio, Dio mio, perché mi hai ab-
bandonato?”» (Mc 15,34; cf. Mt 27,46). Le domande accom-
pagnano, quindi, anche il momento finale della vita di Gesù
e contribuiscono a svelarne il senso: un intenso rapporto di
amore con il Padre, un amore messo alla prova dalla soffe-
renza e dalla morte, che nella preghiera ritrova la forza del
dono di sé, capace di vincere la separazione e la solitudine
causate dal peccato.

3. Dopo la Pasqua

Gesù continua a porre domande anche dopo la risurre-


zione. Nel Vangelo di Giovanni, nei racconti post-pasquali,
appaiono sette domande poste da Gesù: due rivolte a Maria
di Màgdala, al sepolcro: «Donna perché piangi? Chi cerchi?»
(20,15); una ai discepoli, sul mare di Tiberiade: «Figlioli, non
avete nulla da mangiare?» (21,5); le altre quattro a Pietro.
Tre riguardano il suo rapporto di amore con Gesù: «Simone
[…] mi ami più di costoro?» (21,15); «Simone […] mi ami?»
(21,16); «Simone […] mi vuoi bene?» (21,17); la quarta il suo
futuro: «Se voglio che egli rimanga finché io venga, a te che
importa? Tu seguimi» (21,22). Domande che manifestano il
desiderio di Gesù di incontrare di nuovo, su una base più so-
lida, i suoi discepoli, di invitarli a un amore più forte e sicuro,
di prepararli ad assumere con più matura responsabilità la
collaborazione alla sua missione.

4. L’insegnamento sulla preghiera

Non stupisce, perciò, che quando Gesù insegna a pregare


lo faccia con un testo come il Padre nostro, quasi interamen-
te composto da domande. Dopo l’invocazione al Padre, le
cinque richieste comuni alle due versioni (cf. Mt 6,9-13; Lc

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180 Preparare la messa

11,2-4) riguardano: la santificazione del nome, la venuta del


Regno, il pane quotidiano, il perdono dei peccati e la dife-
sa dalla tentazione. Matteo ne aggiunge due: l’adempimen-
to della volontà, in cielo e in terra, e la liberazione dal male.
La preghiera insegnata da Gesù sembra, quindi, orientata a
suscitare ed educare le domande dei discepoli, perché essi
imparino a chiedere ciò che è essenziale per una vita autenti-
camente umana: un buon rapporto con il Padre e i beni ma-
teriali e spirituali necessari per l’esistenza.

5. Il venir meno delle domande svela una crisi

A conferma dell’importanza che le domande hanno avuto


nell’esperienza di Gesù si può ricordare che quando nei van-
geli esse vengono meno è segno che qualcosa si sta incrinan-
do nelle relazioni personali. Infatti, mano a mano che cresce
il contrasto con i suoi oppositori, essi smettono di fargli do-
mande: «Nessuno era in grado di rispondergli e, da quel gior-
no, nessuno osò più interrogarlo» (Mt 22,46; cf. Lc 20,40). Allo
stesso modo, quando alcuni dei suoi interlocutori si rendono
conto che le domande poste a Gesù possono richiedere un
coinvolgimento personale, cessano di interrogarlo: «Gesù gli
disse: “Non sei lontano dal regno di Dio”. E nessuno aveva più
il coraggio di interrogarlo» (Mc 12,34). Persino i discepoli, nel
momento dell’incontro con il Signore risorto, presi dall’imba-
razzo e dalla paura, sembrano perdere il coraggio di porre do-
mande: «Nessuno dei discepoli osava domandargli: “Chi sei?”,
perché sapevano bene che era il Signore» (Gv 21,12).

6. Le domande e la preghiera

È vero che le domande, a volte, possono essere fastidio-


se e impertinenti, persino cattive, ma è altrettanto vero che
esse, più spesso, sono l’inequivocabile segno di un autenti-

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29ª domenica ordinaria181

co e profondo rapporto personale. Difficile, allora, pensare


che la fede e la preghiera cristiana possano fare a meno del-
le domande. Il problema non è smettere di fare domande,
ma valutare quali porre e come. Gesù lo ha vissuto e lo ha
insegnato e, spesso, la tradizione cristiana si è interrogata
su questo tema. Per esempio, un breve trattato medievale
sulla preghiera, il De virtute orandi («La forza della pre-
ghiera»), scritto nella prima metà del XII secolo da Ugo di
San Vittore (1096-1141), individua la forma più alta della
preghiera in quella che egli chiama la pura oratio (la pre-
ghiera pura), una preghiera che partendo dalle domande
più concrete della vita progressivamente cresce nell’amore
verso colui al quale si rivolge. Il vertice si raggiunge quando
il desiderio di ciò che si chiede si trasforma nel desiderio di
colui al quale si chiede: «Per l’intensità dell’amore, chi pre-
ga dimentica la propria domanda e volentieri, alle preoccu-
pazioni che lo hanno condotto alla preghiera, antepone l’a-
more per il Signore. Desidera ardentemente stare con Lui
e gioire di Lui» (De virtute orandi 7). Come avviene nelle
più intense e profonde esperienze di amore, non viene più
voglia di chiedere altro se non stare con la persona ama-
ta. Un bel modo di pregare. Un bel modo di vivere. Non fa
perdere nulla della propria vita, anzi aiuta a ritrovare tutto
nella persona amata, soprattutto se questa è Dio, l’origine,
il senso e il compimento di ogni cosa che siamo invitati a
domandare.

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programmare la celebrazione
di Domenico Fidanza

Discernere il messaggio
Il vangelo odierno propone una parabola con cui Gesù in-
segna la necessità di pregare sempre, senza stancarsi mai, e
garantisce che Dio farà giustizia ai suoi eletti che gridano a
lui giorno e notte. Il tema della preghiera segna anche la pri-
ma lettura, che propone un episodio del libro dell’Esodo, da
intendere in modo allegorico: Mosè sul monte alza le mani
in preghiera e Giosuè, in basso, combatte e vince la battaglia
contro Amalèk, figura del male. Con il salmo confermiamo
che il nostro aiuto viene dal Signore, che ci custodisce in tutti
i nostri passi. Nella seconda lettura l’apostolo Paolo invita il
discepolo Timoteo a rimanere saldo in quello che ha impara-
to e a fare tesoro delle sacre Scritture e a predicarle in ogni
modo anche agli altri.

Per l’omelia
▶ Dio e le nostre preghiere. Davanti al grande mistero del
male, alle guerre e alle sofferenze del mondo nasce la doman-
da che inquieta e accompagna l’esistenza umana: perché Dio
non risponde alle nostre preghiere? Le nostre mani si stanca-
no, non riusciamo a tenerle alzate e cresce in noi la paura di
essere abbandonati. C’è un rischio: il nostro cuore potrebbe
indurirsi e potrebbe crescere dentro di noi una sbagliata idea
di Dio, una falsa immagine di lui. Dio sa di cosa abbiamo bi-
sogno; ma noi lo sappiamo? Quanto le nostre preghiere sono
vicine al nostro cuore? Quanto le nostre preghiere sono solo
l’eco di emozioni passeggere? L’insistenza con cui domandia-
mo a Dio una cosa ci aiuta a intuire ciò di cui davvero abbia-

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29ª domenica ordinaria183

mo bisogno e a scoprire l’indice della profondità, della forza e


dell’urgenza del desiderio che abita nel nostro cuore.

▶ L’ ottica della giustizia divina. Solo Dio è in grado di


fare veramente giustizia, di ristabilire l’ordine, di risarcire i
danni, di capovolgere la situazione. La vedova del vangelo
chiede giustizia al Signore, cerca il suo diritto: il diritto di es-
sere accolta, ascoltata e riconosciuta.
Chiedere giustizia non vuol dire chiedere a Dio che ri-
solva i nostri problemi, ma che ci renda capaci di fare vera-
mente quello che lui ci comanda rimanendo in sintonia con
il progetto di Dio. Siamo giusti e compiamo la volontà di Dio
quando siamo in buona relazione con lui, quando pensiamo
come lui, quando parliamo come lui, quando agiamo come
lui, quando siamo simili a lui perché siamo suoi amici: in que-
sto modo siamo veramente giusti, godiamo la giustificazione
che ci viene dalla fede in Cristo Gesù.

▶ Le mani alzate e la preghiera di intercessione. Dio sem-


pre salva l’uomo e si serve degli uomini per salvare il popolo;
Mosè prega e intercede per il popolo con l’aiuto di Aronne e
Cur: è il segno di una comunità, di fratelli e sorelle che si aiu-
tano a vicenda a pregare. Le mani, alzate tutto il giorno fino
al tramonto del sole, rappresentano la fatica della preghiera,
l’impegno nell’elevare al Signore l’animo. È faticoso tenere
le braccia alzate e ancora più faticoso tenere l’animo elevato
a Dio: è una fatica spirituale, ma è la strada per la vittoria in
questo combattimento.

▶ Il tesoro della Scrittura. Il tesoro della Bibbia è il fonda-


mento della fede che ci è stata trasmessa e che noi vogliamo
trasmettere alle nuove generazioni. La preghiera migliore è
l’ascolto; capita di stancarci di ripetere tante formule a me-
moria che sono il modo migliore per distrarsi e accontentarsi
di un ritualismo vuoto. La preghiera autentica è ascolto del-

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184 Preparare la messa

la voce dello Spirito che abita in noi. La Scrittura è utile per


insegnare a vivere, per stimolarci a fare del nostro meglio, a
correggere i nostri errori, a educarci nella giustizia, perché
vogliamo essere uomini di Dio completi, ben preparati per
ogni opera buona.

Perché pregare?
di Roberto Laurita
È vero: sulla preghiera se ne sentono di tutti i colori. In effet-
ti ognuno ha costruito una definizione “su misura”, fatta appo-
sta per sé, adattata ai suoi gusti e ai suoi comportamenti. Così
chi prega poco ne mette in risalto la spontaneità (non bisogna
sentirla come un obbligo!), chi non ha la pazienza di ascoltare la
considera un “parlare con Dio” (anche se Dio dovrebbe rimanere
sempre zitto!), chi non ha tempo la presenta breve e rapida come
un telegramma (non occorrono tante parole: bastano un segno
di croce e un buongiorno!). In tutte c’è una parte di verità, ma
emergono anche vistose omissioni e sostanziali dimenticanze.
Oggi abbiamo l’opportunità di ascoltare quello che Gesù vuo-
le dirci sulla preghiera. Vengono così alla luce aspetti che forse ri-
schiamo di dimenticare, ma che agli occhi del Signore sembrano
decisamente importanti. Perché pregare, dunque?
Perché è un bisogno urgente della nostra fede! Collocati nel-
le situazioni più diverse, esposti alla tentazione, coscienti della
nostra fragilità, la fede si trova spesso in situazioni di prova. E
quindi rischia di venir meno. Rischia di perdere forza, vivacità,
tensione, energia, originalità. Rischia di non essere più in grado
di orientare scelte, decisioni, atteggiamenti evangelici. La pre-
ghiera, che nasce dalla fede, la rafforza, la sostiene, le permette
di affrontare ogni difficoltà. Un rapporto personale non si regge
senza dialogo, senza segni di affetto, di amicizia, di tenerezza: nel
nostro rapporto con Dio la preghiera assicura tutto questo.
La preghiera tiene desta la nostra speranza, ci mantiene vigi-
lanti, rivolti con il cuore, la mente e l’azione al compimento del

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29ª domenica ordinaria185

progetto di Dio. Se non preghiamo corriamo il pericolo di esse-


re tutti presi dal presente (le nostre difficoltà e le nostre fatiche)
o dal passato (il ricordo di ciò che è accaduto). La preghiera ci
mette in tensione, fa di noi delle sentinelle che scrutano l’oriz-
zonte per vedere i segni di ciò che sta per accadere, per essere
figli di quel «nuovo» che ci è stato annunciato.
La preghiera, infine, ci aiuta a vincere la “stanchezza”. La no-
stra stanchezza insinua, infatti, un dubbio atroce: giungerà a
compimento quello in cui speriamo? Abbiamo fatto bene a fi-
darci di Gesù e delle sue promesse? Ecco perché bisogna pregare
«sempre», «senza stancarsi», perché questa tentazione è con-
tinuamente in agguato. Il «dono della fede» domanda di essere
condiviso. Ma è possibile se la preghiera non lo mantiene vivo?

Per la regia liturgica


• Nella processione d’ingresso della celebrazione eucaristi-
ca colui che presiede può portare solennemente l’Evange-
liario valorizzando il messaggio della seconda lettura.
• Per il prefazio possiamo scegliere quello delle domeniche
del Tempo ordinario X, «Il giorno del Signore», dove ci
viene ricordato il significato del nostro partecipare all’eu-
caristia domenicale. Oppure il Prefazio IV, «La lode, do-
no di Dio», dove si mette in evidenza la dimensione della
preghiera e la potenza della grazia che ci salva.
• Riprendendo il gesto delle mani alzate presentato nella
prima lettura, colui che presiede può sottolineare il dialo-
go tra il celebrante e l’assemblea che precede il Prefazio
soffermandosi sull’invito «in alto i nostri cuori». Se i nostri
cuori sono rivolti al Signore, egli farà giustizia prontamen-
te rispetto al nostro avversario, vinceremo contro il male,
ma siamo chiamati a gridare a lui giorno e notte, senza
stancarci.

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186 Preparare la messa

laPreghiera
di Roberto Laurita

Tu lo affermi con chiarezza, Gesù:


il Padre tuo non fa aspettare a lungo
coloro che si rivolgono a lui con fede.
Di lui non dobbiamo affatto dubitare.

Siamo sicuri che le nostre parole


siano veramente ispirate dalla fede?
Siamo certi che a muoverci
sia il desiderio di veder realizzato
il suo progetto di salvezza per l’umanità?

Oppure le nostre richieste


nascono solamente dal bisogno,
e quello che ci aspettiamo
è di essere esonerati
dalla fatica di cercare la sua volontà,
dalla croce a cui si va incontro
quando si sceglie la strada del Vangelo?

Gesù, donaci la fede di chi


fa sgorgare la preghiera dalla tua Parola:
ascoltata con attenzione,
meditata con amore,
realizzata con impegno.

Donaci la fede di chi crede


che la cosa più sicura
sia mettere la propria vita
nelle mani del Padre, con semplicità.

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29ª domenica ordinaria
16 ottobre 2022 P
Accoglienza: Oggi la chiesa ci invita a celebrare la Giornata missionaria mon-
diale, uniamoci alla preghiera di tutti i missionari nel mondo affinché la paro-
la di Vita raggiunga tutti i confini della terra. La liturgia della Parola ci chiama a
prendere coscienza della necessità di una preghiera incessante, che è tale perché
poggia sulla fedeltà di Dio. Chiediamo al Signore il dono di saper pregare.
Invito all’atto penitenziale: Fratelli e sorelle, davanti all’invito di Gesù di prega-
re sempre senza stancarci, riconosciamo di aver pregato poco e di esserci ricor-
dati di lui solo quando eravamo nel bisogno. Invochiamo la misericordia di Dio
sulle nostre esistenze.
Introduzione alla preghiera dei fedeli: La Parola che abbiamo ascoltato susci-
ta in noi il desiderio di rivolgerci al Padre. Con la fiducia di Aronne e Cur, che so-
stenevano le braccia di Mosè, affidiamo al Signore le nostre intenzioni. Preghia-
mo insieme e diciamo: Ascoltaci, o Signore.
Orazione conclusiva: O Dio, tu ci chiedi di pregare con insistenza senza stan-
carci mai. Ti affidiamo la nostra vita perché tu sai di che cosa abbiamo bisogno.
Dona saggezza alla nostra preghiera e fa’ che sia animata da una fede autentica.
Per Cristo nostro Signore.
Al Padre Nostro: Gesù, consegnandoci le parole del Padre nostro, ci ha affidato
la preghiera dei figli. Con umiltà ci rivolgiamo al Padre. Padre nostro…
Al dono della pace: Uniti come fratelli e sorelle attorno all’unica mensa del pa-
ne spezzato, dono d’amore di Gesù, invochiamo dal Padre la pace che solo lui ci
può donare. Scambiamoci un gesto di pace.
Al congedo: Fate della vostra vita una continua preghiera di lode al Signore. An-
date in pace.

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C 29ª domenica ordinaria
16 ottobre 2022

Invocazioni penitenziali:
– Signore, che fai prontamente giustizia, abbi pietà di noi. Kýrie, eléison!
– Cristo, che ci insegni la necessità di pregare sempre senza stancarsi, abbi pie-
tà di noi. Christe, eléison!
– Signore, che ci doni sempre la tua Parola, abbi pietà di noi. Kýrie, eléison!
Prima lettura: Nel deserto, Israele lotta per sopravvivere ad Amalek, il nemico.
Mosè, su una collina, prega con le mani alzate, implorando la potenza di Dio per
il suo popolo. Mosè orante è modello della perseveranza nella preghiera.
Salmo responsoriale: Il Creatore è anche il Salvatore, colui che si prende cura di
ogni fedele; colui che accompagna, veglia e protegge.
Seconda lettura: Paolo indica al figlio spirituale Timoteo le caratteristiche del
cristiano adulto: saldo nell’educazione ricevuta e aggrappato alla sacra Scrittura.
Vangelo: Pregare sempre, senza stancarsi. Perché?
Intenzioni per la preghiera dei fedeli:
– Per il papa, i vescovi e per tutti i pastori della chiesa: siano per noi testimoni
fedeli della Parola. Preghiamo.
– Per i governanti: sappiano coltivare il bene e la pace nel mondo, animati dalla
giustizia misericordiosa di Dio, dalla sua carità e dal suo cuore di Padre. Pre-
ghiamo.
– Per gli uomini e le donne del nostro tempo, perché si aprano al dono della
fede e rivolgano il loro cuore a Dio, nella certezza di ottenere da lui pronta-
mente ogni bene necessario. Preghiamo.
– Provvedi alla tua chiesa i missionari del Vangelo, possano essere instancabi-
li nel pregarti, animati dalla fede e dall’abbandono al tuo amore. Preghiamo.
– Per noi qui riuniti: perché sentiamo l’esigenza di pregare sempre senza stan-
carci mai, alzando al cielo le nostre mani, per sostenerci reciprocamente nella
carità ed edificare il tempio santo di Dio. Preghiamo.

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consiglio di direzione: + Gianni Ambrosio, Davide Arcangeli, Paola Bignardi,


Giacomo Canobbio, Alberto Carrara, Cecilia Cremonesi,

SINODALITÀ
Flavio Dalla Vecchia, Roberto Laurita
direttore responsabile: Vittorino Gatti
redattore: Stefano Fenaroli

N. 539 - Settembre/Ottobre 2022


A questo numero hanno collaborato: Maurizio Aliotta, Andrea Andretto, Paola Bignardi, Alber-
to Carrara, Lucia Felici, Domenico Fidanza, Antonio Landi, Giorgio Lanzi, Daniele Menca-
E RIFORMA
relli, Antonio Montanari, Michele Roselli, Patrizio Rota Scalabrini, Claudio Stercal, Mario
Torcivia, Gabriele Tornambé. Una sfida ecclesiale
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d’Aujourd’hui.
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