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FILOSOFIA POLITICA

LEZIONE 1: APPUNTI SU ORDINE PUBBLICO TRA OBBLIGO POLITICO E DISSENSO.

L'ordine pubblico è l'insieme delle regole di condotta che siano riconosciute come eque e vincolanti da individui
interessati a perseguire i propri piani di vita agendo in cooperazione con altri. Questa definizione ha 4 importanti
conseguenze che delineeranno la nostra discussione sull'ordine pubblico:

1. Individualismo metodologico: l'unità ultima di giustificazione è la persona, considerata nella sua individualità;
2. Le regole pubbliche devono essere eque (cioè moralmente accettabili) e vincolanti (cioè capaci di guidare
l'azione);
3. La concezione che si ha della persona è quella di un individuo che sceglie intenzionalmente di compiere azioni
razionali;
4. La concezione che si ha della società è quella di un sistema di cooperazione per il mutuo vantaggio.

Per quanto riguarda la valutazione normativa dell'ordine pubblico, essa viene considerata prendendo in
considerazione due cose:

1. La legittimità: Chi detiene il potere sull'ordine pubblico ha titolo per esercitarlo? Questo problema può essere
risolto con due differenti approcci sull'utilizzo del potere coercitivo:
 ESITI: I fini perseguiti da chi esercita il potere ne legittimano l'utilizzo;
 PROCEDURE: I modi in cui il potere viene acquisito, ne legittimano i mezzi.

Questo approccio è quello che riguarda l'OBBLIGO POLITICO.

2. La giustizia: Il sistema di cooperazione che costituisce l'ordine pubblico è moralmente giustificato? Anche in
questo caso ci sono due differenti approcci:
 ESITI: I costi e i benefici prodotti dalla cooperazione sociale sono distribuiti a coloro che vi partecipano in
modo inerentemente accettabile? → Giustizia negli stati di cose finali.
 PROCEDURE: I termini secondo i quali la cooperazione sociale è strutturata trattano chi vi partecipa in modo
inerentemente accettabile? → Giustizia nelle interazioni.

Questo approccio è quello che riguarda l'OBBLIGO MORALE E IL DISSENSO.

Obbligo politico:

Siamo tutti parte di una qualche comunità di natura politica, in prima istanza dello Stato in cui viviamo. La nostra
relazione con questa comunità e con gli altri membri è spesso vissuta come un mero dato di fatto (paghiamo le tasse,
ecc..). Questa relazione non crea problemi fino a quando non si pensa che una richiesta avanzata dallo Stato sia
inaccettabile o una proibizione ingiustificata (come ad esempio l'obbligo di vaccinare i propri figli). È in questo spazio
di dissenso che l'autorità delle istituzioni viene messa in discussione e ci si interroga su cosa esse possano
legittimamente aspettarsi da noi e cosa noi, in qualità di cittadini, dobbiamo dare loro  Detto altrimenti, è in
questo spazio che la questione dell'obbligo politico si rivela centrale e intricata.

Da questo punto di vista, la questione dell'obbligo politico ha a che fare con i fondamenti, i limiti e il contenuto
dell'obbligo che le persone hanno verso la comunità politica della quale sono membri (ha a che fare con chi è
obbligato verso chi o che cosa e a quali condizioni).  Da qui si può capire che l'obbligo legale è solo una possibile
componente dell'obbligo politico che può essere ridefinito come il requisito che le azioni delle persone prendano in
considerazione gli interessi e il benessere della loro comunità politica (comprendiamo quindi che, ad esempio, il
pagamento del biglietto del bus è una questione di obbligo politico, poiché il mio evadere il costo provocherà danni
al benessere della mia comunità se per questa ragione i servizi pubblici venissero ridotti o sospesi).

OBBLIGO POLITICO ≠ OSSERVANZA DELLE LEGGI (OBBLIGO LEGALE) ≠ OBBLIGO MORALE


Nonostante l'obbligo legale sia certamente parte dell'obbligo politico, esso presenta al contempo tratti più:

 GENERALI: Perché l'obbligo legale si estende anche a coloro che non sono membri di una data comunità politica,
ma in essa si trovano a soggiornare. Il problema dell'obbligo politico si applica invece alla sola relazione speciale
che si instaura tra un individuo e la sua comunità politica di appartenenza;
 SPECIFICI: Perché la questione dell'obbligo politico coinvolge la complessità dei rapporti tra un individuo e la sua
comunità, dei quali l'aspetto legale è solo uno tra molti.

L'obbligo politico è un obbligo che convalida tutta una serie di altri obblighi, che necessariamente astrae dal casi
singolo, e che può quindi talora condurre ad un aperto conflitto con l’obbligo morale, il quale non può mai venire
scisso dal caso singolo, non tollera compromessi e non ammette eccezioni.

ESEMPIO:

 Giudice che applica una legge, che lui disapprova, in quanto valida  Obbligo politico.
 Giudice che si rifiuta di applicare una legge perché disonesta  Obbligo morale.

Già ai tempi di Socrate e nel periodo delle guerre di religione guidate dall’Inghilterra ci si chiedeva cosa fosse
l’obbligo politico, ma nonostante questi riferimenti, sono mutati i termini del vincolo politico e la concezione stessa
della comunità e dell’individuo al suo interno.

L’obbligo politico ha a che fare con i legami morali ed etici tra gli individui e la loro comunità politica. Questo significa
che tale legame non può essere meramente visto come caratterizzato da un atto di sottomissione all’imposizione
arbitraria della forza. Come per altre richieste di natura morale (ad esempio la pratica del mantenere una promessa),
l’obbligo politico ci richiede di agire speso in modo che risultiamo contrati alla razionalità o all’auto-interesse. Gli
obblighi forniscono ragioni morali per compiere una certa azione. L’obbligo politico ha a che fare con il
riconoscimento che la comunità politica può avanzare delle pretese morali verso i suoi membri  problema della
legittimità dell’ordine pubblico.

PER RIASSUMERE: A differenza dei doveri morali generali, l’obbligo politico ha sempre natura specifica in quanto si
applica a un individuo non in quanto essere umano, ma in quanto membro di una data comunità politica. Il concetto
di obbligo politico può essere utile per distinguere fra doveri che derivano esclusivamente dalla nostra condizione di
cittadini, e doveri che sono inerenti alla nostra qualità di esseri morali, alle nostre qualità di uomini.

LEZIONI 2: “IN DIFESA DELL’ANARCHIA” – WOLFF

Il concetto di autorità

Lo Stato è un gruppo di persone che possiede ed esercita l’autorità suprema all’interno di un territorio: la
caratteristica peculiare dello Stato è l’autorità suprema, con la “sovranità”  l’autorità è il diritto di comandare e il
diritto di essere obbediti: essa va distinta dal potere che è la capacità di imporre l’obbedienza con la forza, o con la
minaccia della forza (lo Stato è senz’altro la più alta autorità, ma il suo diritto a comandare è meno che assoluto).
Bisogna distinguere tra un comando autoritario e un argomento persuasivo: quando mi si ordina di fare qualcosa,
posso scegliere di obbedire anche senza aver subito minacce, perché mi si convince che la cosa va fatta; in un caso
del genere, io non obbedisco a un comando, ma constato la forza di un argomento o la giustezza di una prescrizione
 l’autorità risiede nelle persone: esse la posseggono - se la posseggono - in vita di quello che sono e non degli
ordini che danno (il mio dovere di obbedire è un dovere dovuto a loro, non alla legge morale o ai benefici dell’azione
che mi si ordina di compiere). Esistono molte ragioni per le quali l’uomo obbedisce alle pretese d’autorità, e la più
comune è la forza prescrittiva della tradizione: il fatto che una cosa sia sempre stata fatta in un certo modo è per la
maggior parte degli uomini una ragione perfettamente sufficiente per continuare a farla in quel modo. L’obbedienza
non significa fare ciò che qualcuno ti dice di fare, ma farlo perché è lui che ti dice di farlo  è per questo che
l’autorità legittima riguarda la base e la fonte dell’obbligo morale. Ciò che definisce il problema fondamentale della
filosofia politica è il concetto normativo dello Stato inteso come comunità umana che possiede autorità legittima su
un dato territorio.

Il concetto di autonomia

L’assunto fondamentale della filosofia morale è che gli uomini sono responsabili delle loro azioni: come asseriva
Kant, gli uomini sono metafisicamente liberi, cioè che in qualche maniera sono capaci di decidere in che modo
agiranno. Assumersi le responsabilità comporta il tentativo di stabilire ciò che si deve fare, e questo, come i filosofi
hanno riconosciuto fin da Aristotele, impone l’ulteriore compito di ottenere conoscenze, di riflettere sui motivi e di
criticare i principi  ogni uomo che possieda sia la ragione che il libero arbitrio ha l’obbligo di assumersi la
responsabilità delle proprie azioni, anche se non può essere continuamente assorbito in un processo attivo di
riflessione, di studio e di deliberazione su come deve agire: l’uomo responsabile non è ne capriccioso, ne anarchico,
perché si riconosce legato da obblighi morali. Poiché l’uomo responsabile giunge a decisioni morali che esprime a se
stesso sotto forma di imperativi, potremmo dire che egli stabilisce da solo le leggi della propria condotta, che è il
legislatore di se stesso; l’autonomia morale è una combinazione di libertà e responsabilità: è la sottomissione alle
leggi che uno ha fatto per se stesso. L’uomo autonomo, in quanto tale, non è soggetto al volere di un altro; potrebbe
anche fare ciò che un altro gli dice di fare, ma non perché gli è stato detto: quindi è, nel senso politico della parola,
libero. MA: poiché la responsabilità delle proprie azioni è in un uomo conseguenza della sua capacità di scelta, egli
non può più rinunciarvi e nemmeno metterla da parte, ma può rifiutarsi di ammetterla, o esplicitamente o non
riconoscendo la propria condizione morale. Tutti gli uomini prima o poi rifiutano di assumersi la responsabilità delle
proprie azioni, e alcuni di loro si sottraggono con costanza al proprio dovere e presentano più l’aspetto di bambini
cresciuti fisicamente troppo, che adulti  dato che l’autonomia morale non è nient’altro che l’assunzione della
piena responsabilità delle proprie azioni, ne segue che gli uomini possono abdicare quando vogliono alla loro
autonomia: un uomo può decidere di obbedire agli ordini di un altro senza sforzarsi minimamente di stabilire per
conto suo se gli ordini impartitigli siano giusti e buoni. Assumersi la responsabilità delle proprie azioni significa
prendere decisioni definitive su ciò che si deve fare: per l’uomo autonomo non esistono, a rigore di termini, cose che
si possono chiamare ordini  MA l’esigenza morale ci impone di riconoscere la responsabilità e di raggiungere
l’autonomia sempre e dovunque sia possibile.

Conflitto tra autorità ed autonomia

Se il segno caratteristico dello Stato è l’autorità, cioè il diritto di dominare, l’obbligo primario di un uomo è
l’autonomia, cioè il rifiuto di essere dominato  sembra che non possano esistere soluzioni di sorta nel conflitto tra
l’autonomia dell’individuo e l’autorità dello Stato, perché fino a quando un uomo adempirà l’obbligo di farsi autore
delle proprie scelte, egli si opporrà alla pretesa dello Stato di avere autorità su di lui.

La democrazia come unica possibile soluzione

Esiste solo una forma di comunità politica che offre qualche speranza di risolvere il conflitto tra autorità e
autonomia: la democrazia  gli uomini non possono essere liberi fino a quando sono soggetti alla volontà di altri
uomini, sia che si tratti di una sola persona (un monarca), sia che si tratti di più persone (gli aristocratici); ma se gli
uomini governano se stessi, legiferando e obbligando alle leggi, allora essi possono combinare i benefici del governo
con il bene della libertà. L’obbligo di sottomettersi alle leggi non deriva dal diritto divino di un monarca e nemmeno
dall’autorità ereditaria di una classe nobile, ma dal fatto che egli stesso è l’origine delle leggi che lo governano.

Democrazia diretta unanime

Una comunità politica dove ogni persona vota su ogni questione, governata in base alla regola dell’unanimità  ogni
membro della società vuole liberamente ogni legge effettivamente approvata, quindi, come cittadino, ha a che fare
solo con leggi alle quali ha dato il consenso, e siccome un uomo vincolato solo dai dettami della propria volontà è
autonoma, ne seguo che, nella democrazia diretta unanime, gli uomini possono armonizzare il dovere
dell’autonomia con gli ordini dell’autorità. Questo tipo di democrazia è possibile solo perché esiste un accordo
sostanziale tra tutti i membri di una comunità sulle questioni di primaria importanza: per la regola dell’unanimità
basterebbe un singolo voto negativo a sconfiggere ogni mozione, e il minimo disaccordo sulle questioni essenziali
bloccherebbe l’attività della società e la società cesserebbe di funzionare come comunità politica cadendo in una
condizione di “anarchia”. Esistono due tipi di democrazia diretta unanime:

1. Una comunità di persone, ispirate da qualche ideale religioso o secolare comune a tutti, potrebbe trovarsi
così completamente d’accordo sugli scopi della comunità e sulle misure per raggiungerli, che le decisioni su
tutti i problemi di primaria importanza potrebbero essere prese con il metodo del consenso generale.
2. Una comunità di individui, razionalmente e personalmente motivati, potrebbe scoprire che si possono
cogliere i frutti della cooperazione solo conservato l’unanimità; fino a quando ogni membro della comunità è
convinto che i benefici derivatigli dalla comunità superano i benefici che gli deriverebbero da una rottura con
il resto della comunità, questa continuerà a funzionare.

L’unanimità è considerata tra i metodi per prendere decisioni quello più evidentemente legittimo.

La democrazia rappresentativa

Può un uomo responsabile impegnarsi a rispettare le leggi approvate dai suoi rappresentanti? Il tipo più semplice di
rappresentanza è la rappresentanza diretta: se non posso partecipare a un’assemblea nella quale si deve votare,
posso consegnare la mia procura a un rappresentante con le istruzioni su come votare, MA il ruolo di un
rappresentante legale è definito entro i limiti troppo ristretti per servire da adeguato modello per un rappresentate
eletto. In una democrazia rappresentativa io ho l’obbligo di rispettare le leggi che io stesso ho approvato, e di
conseguenza l’obbligo di rispettare le leggi approvate dai miei rappresentanti in stretto accordo con le mie istruzioni;
ma su quali basi io ho l’obbligo di obbedire alle leggi approvate a nome mio da un uomo che non ha alcun obbligo di
votare come voterei io, e che non ha nessun sistema efficace per scoprire quali sono le mie preferenze sulla misura
che gli viene sottoposta? Il mio obbligo si basa sulla mia promessa di obbedire, ma dato che una promessa di questo
genere è l’unica base del mio dovere di obbedire, non si può più dire che io sia autonomo. La democrazia
rappresentativa non è il solo governo per il popolo, ma anche il governo (indirettamente esercitato) del popolo: io
devo obbedire a ciò che il parlamento decreta perché i suoi voleri sono i miei, le sue decisioni sono le mie, etc.. e di
conseguenza perché la sua autorità è solamente l’autorità che riunisce la mia e quella di tutti i miei concittadini. Un
governo rappresentativo sembra impeccabile in confronto alle pretese di avere una forma politica “democratica”,
però gli uomini non possono essere chiamati liberi nel vero senso della parola se i loro rappresentanti votano
indipendentemente dai loro desideri e se le leggi promulgate riguardano problemi che essi non sono in grado di
capire; ne possono essere chiamati liberi gli uomini che sono soggetti a decisioni segrete, basate su dati segreti e con
conseguenze imprevedibili per il loro benessere e per la loro stessa vita. L’assunto che costituisce il fondamento
dell’esercizio della rappresentanza è che il singolo cittadino ha l’opportunità, tramite il suo voto, di manifestare le
sue preferenze.

Proposta per una democrazia diretta istantanea

Per rimuovere gli ostacoli a una democrazia diretta deve essere messo a punto un sistema di congegni elettorali a
domicilio: in ogni abitazione si dovrebbe installare sul televisore un dispositivo che registri elettronicamente i voti e li
trasmetta a un elaboratore che si trova a Washington; per evitare brogli elettorali, il dispositivo potrebbe anche
essere attrezzato in modo da registrare le impronte digitali. Ogni sera, all’ora in cui ci sarebbe il notiziario, ci sarebbe
anche un programma, in collegamento nazionale su tutte le stazioni, dedicato al dibattito delle varie questioni
davanti a tutti i cittadini: qualunque progetto di legge presentato al “Congresso” sarebbe battuto fai rappresentanti
di tutte le diverse posizioni. Ogni venerdì, dopo una settimana di discussioni e dibattimenti, si procederebbe alle
votazioni  la proposta non è perfetta perché c’è una differenza tra il ruolo passivo di chi ascolta il dibattito e quello
attivo di chi vi partecipa: dovrebbe essere ovvio che una comunità politica che amministra i suoi affari per mezzo
della “democrazia diretta istantanea” è più vicina a realizzare l’ideale di una democrazia autentica che non le nazioni
democratiche oggi esistenti; MA l’obiezione principale che susciterebbe questa proposta, soprattutto da parte degli
esperti di scienza politica americani, è che sarebbe troppo democratica: la risposta iniziale a un sistema di
democrazia diretta istantanea sarebbe caotica, ma gli uomini imparerebbero che i loro voti possono produrre un
cambiamento nel mondo immediato e visibile.

La democrazia maggioritaria

La soluzione che salta immediatamente agli occhi è la regola della maggioranza: gli elettori sono divisi e si ricorre al
voto, dando ad ognuno il diritto di votare e il gruppo nel suo insieme è impegnato dai voti che sono preponderanti. I
membri della maggioranza sottostanno alle leggi che hanno promulgato, come fanno tutti i cittadini in una
democrazia unanime; avendo i membri della maggioranza decretato la legge, sono vincolati da questa e conservano
la loro autonomia sottomettendosi alla sua autorità. Poiché la maggioranza è il gruppo più forte, deve esserle
consentito di governare con i mezzi elettorali, altrimenti ricorrerà alla forza, precipitando il paese nel caos —> quindi
la democrazia maggioritaria costituisce la più valida difesa contro il governo di un’élite egoista. Al governo
maggioritario, dal quale dipende il conseguente funzionamento della società, è attestata una clausola dell’accordo
originario: ognuno si impegna per l’avvenire a rispettare il governo della maggioranza, e quando un cittadino obietta
che gli si chiede di obbedire a leggi per le quali non ha votato, gli si potrà ricordare la sua promessa —> su questo
patto poggia l’autorità morale di uno Stato maggioritario. Se il solo argomento in difesa del sistema della
maggioranza è la sua legittimazione da parte di un voto unanime all’atto dell’accordo, probabilmente qualunque
metodo decisionale al quale fosse data la stessa approvazione sarebbe ugualmente legittimo: una possibile linea di
argomentazione consiste nel fondare il metodo maggioritario sul principio secondo cui ciascuno nella società
dovrebbe avere uguali opportunità di trasformare le sue preferenze in legge. MA un sistema legislativo basato sul
sorteggio sarebbe probabilmente più in armonia con il principio delle uguali probabilità: la legislazione basata sul
sorteggio offrirebbe alcune possibilità alla minoranza, ma non offrirebbe a ciascun cittadino un’eguale probabilità di
fare approvare le sue preferenze. Il governo maggioritario è fondato sulla premessa unanime di obbedienza da parte
dei suoi sudditi: il governo ha veramente il diritto morale di comandare.

LEZIONE 3: APPUNTI SU VOLONTARIETA’ DELL’OBBLIGO POLITICO

Ricapitolando ciò che afferma Wolff, siamo tutti parte di una qualche comunità di natura politica, in prima istanza
dello stato in cui viviamo. La nostra relazione con questa comunità e con gli altri membri è spesso vissuta come un
mero dato di fatto. Questa relazione rimane a-probelmatica fino a quando non si pensa che una richiesta avanzata
dallo stato sia inaccettabile o una proibizione ingiustificata  PER GLI ANARCHICI QUALSIASI RICHIESTA
PROVENIENTE DA UN’AUTORITÀ ESTERNA ALL’INDIVIDUO È INGIUSTIFICATA E ILLEGITTIMA.

Secondo lui, un qualsiasi riconoscimento dell’autorità politica è incoerente con la precedente obbligazione che
ciascuno ha di agire come un agente morale autonomo.  Ne segue che o si rifiuta l’autorità dello stato oppure si
deve rinunciare alla propria autonomia. Ma essendo quest’ultima la condizione per prendere la piena responsabilità
delle propria azioni, essa non può essere sospesa, ergo l’autorità statale deve essere eliminata  Il solo modo per
preservare l’autonomia e nel contempo l’autogoverno collettivo è la democrazia diretta unanime. Inoltre, secondo
Wolff, considerando l’istituzione dell’ordine politico come la stipula di un contratto che sancisce l’attribuzione
volontaria di autorità tramite consenso, una promessa di rispettare la volontà della maggioranza crea un obbligo, ma
lo crea proprio perché si rinuncia alla propria autonomia.

RISPOSTA = TEORIE VOLONTARISTICHE

Le teorie volontariste spiegano l’OP nei termini di un atto di adesione, liberamente scelto, tramite il quale gli
individui si legano moralmente alla loro comunità politica. I maggiori esempi di teorie volontaristiche dell’OP
possono essere rintracciati in coloro che vedono la fonte dell’obbligo in un CONTRATTO SOCIALE o in qualche forma
di TACITO CONSENSO.  Esse affermano che nessun individuo ha obblighi politici a meno che sia volontariamente
legato a una comunità politica.

Cosa rende le teorie volontaristiche così attraenti? L’accento posto sulla scelta libera e volontaria dell’individuo come
fonte di un obbligo morale iscritto nella sfera dell’appartenenza politica. Secondo queste teorie, l’individuo, in
quanto libero agente, è l’autore dei suoi obblighi, e questi non vanno ad intaccare in alcun modo l’autonomia morale
del soggetto. Questo fa della comunità politica un’associazione volontaria al pari di una società sportiva o un club di
volontariato, un partito politico o un sindacato.

CONSENSO = Il consenso mira a spiegare come coloro che sono nati in uno Stato (o vi si trasferiscono) sono soggetti
all’autorità politica dello stato stesso (Beran).

CONSENSO = Spiega come individui liberi ed uguali possono unirsi in società, sottoponendosi all’autorità politica
(Hobbes, Rousseau).

La teoria volontaristica proposta da Beran si basa sull’idea di consenso personale reale e si articola nelle seguenti
tappe:

1. Consenso = Accettazione dell’appartenenza (membership) a una comunità politica. L’OP viene anche supportato
da considerazioni circa la partecipazione alle elezioni democratiche e il godimento dei benefici della
cooperazione e ottemperanza alle leggi da parte dei partner sociali;
2. Il consenso offre solo una ragione per obbedire allo stato, vale a dire quella alla base della relazione di autorità
tra lo stato stesso e i suoi cittadini;
3. Le democrazie liberali esistenti spesso non soddisfano il requisito del consenso e quindi si trovano in una falsa
relazione di autorità con i propri cittadini (questo comporta che argomenti fattuali circa l’inesistenza di un
consenso reale dei cittadini allo stato non hanno presa alcuna: perché la teoria volontarista si applichi, è
necessario un progetto di riforma istituzionale).

Consenso = promessa Se l’agente A acconsente o promette di fare X, l’agente A ha l’obbligo di fare X e B, la
persona che riceve il consenso o la promessa, ha il diritto a che X venga fatto. L’obbligo e il suo corrispettivo diritto
hanno natura morale poiché l’agente A sarebbe passibile di disapprovazione morale se non facesse ciò che ha
acconsentito o promesso di fare (a meno che non abbia valide ragioni morali per l’accaduto). Perché si crei un
vincolo morale, la promessa non deve essere estorta e chi promette deve poterlo fare (le promesse dei bambini non
hanno valore, in quanto non sono agenti morali responsabili) e avere le informazioni necessarie che costituiscano un
adatto contesto di scelta.

Secondo Beran, anche il consenso tacito può essere considerato una forma di consenso reale, se si verificano 5
condizioni:

1. La situazione richiede che sia espresso consenso o dissenso;


2. L’assenza di dissenso entro un certo temo limite conte come consenso;
3. Le persone possono dissentire ed esprimere il loro dissenso in modo non troppo complesso;
4. Non vi sono condizioni che invalidino la regola del “silenzio-assenso”;
5. I potenziali consenzienti o dissidenti sono a conoscenza delle regole 1-2-3-4.

Quattro tipi di ragioni per l’azione:

1. Una ragione incontestabile (indefeasible) o assoluta è una ragione che non può essere vinta da nessun altra
ragione in nessuna circostanza;
2. Una ragione definitiva (conclusive) è una ragione che non può essere vinta da altre in certe circostanze;
3. Una ragione escludente (exclusionary) non vince su né ha maggiore peso di altre ragioni, ma le esclude dal
calcolo per la decisione su ciò che una persona ha il dovere di fare;
4. Una ragione semplice (mere) prende parte nel calcolo per la decisione su ciò che una persona ha il dovere di
fare.

Il consenso all’autorità crea una ragione per l’azione di natura escludente.

La proposta di Beran si fonda su 4 assunzioni normative:


1. Le persone hanno diritti naturali;
2. Uno di questi è il diritto all’auto-determinazione;
3. Le promesse creano obblighi e diritti;
4. Accettare un atto benefico genere un obbligo di contraccambiare con un altro atto benefico, qualora ve ne
fosse il bisogno.

Se qualcuno potesse avere autorità sugli altri senza il loro consenso, questi si troverebbero in una relazione non
auto-determinata. Ne segue che la base dell’autorità politica, all’interno di una teoria democratica liberale, deve
risiedere nel consenso reale personale di coloro che sono sottoposti all’autorità”.

L’argomento per l’OP proposto da Beran si specifica in questi termini:

 Accettando (esplicitamente – es. immigrati – o tacitamente – cittadini nati in uno stato che vi continuano a
risiedere) l’appartenenza a un’associazione governata da regole, si esprime il proprio assenso a obbedire alle
regole dell’associazione;
 Dando il proprio assenso ad obbedire alle regole di un’associazione, si assume un obbligo di obbedire a tali
regole;
 Lo stato è un’associazione governata da regole;
 Accettando l’appartenenza ad uno stato, si assume un obbligo ad obbedire alle leggi dello stato.

Siccome tutte le relazioni tra i membri adulti di una comunità devono essere volontarie, nel rispetto del diritto di
auto-determinazione, una teoria fondata sul consenso deve prevedere la possibilità di secessione, quantomeno per
minoranze territorialmente concentrate.  Il liberalismo democratico deve consentire a gruppi territorialmente
concentrati di esercitare la propria sovranità, vale a dire il loro diritto morale di determinare le proprie relazioni
politiche, per mezzo della secessione piuttosto che dell’emigrazione di massa.  Discussione della libertà del
consenso: se sono molto povero o molto legato alla mia terra natia e tengo ai legami affettivi ad essa connessi, la
mia decisione di restare in uno stato con le cui leggi sono in (parziale o totale) disaccordo può comunque essere
considerata come fonte di consenso generante un obbligo moralmente vincolante?

Critiche alle teorie volontariste dell’OP basate sul consenso:

1.Riducono lo stato a un’associazione volontaria simile ad un club di scacchi o una squadra di calcio. Il problema qui
ha una duplice natura:

 In primo luogo, nel momento in cui le regole non mi vanno più bene, mentre da una squadra di calcio me ne
posso andare senza mettere in discussione aspetti fondamentali della mia identità, non così facilmente posso
revocare il mio consenso e recidere i legami con la mia comunità politica di origine;
 In secondo luogo, una teoria dell’OP – stabilendo il collante stesso di tutta una comunità – dovrebbe avere basi
più solide rispetto ad un mero consenso volontario che può essere richiamato in qualsiasi momento, rompendo
così ogni obbligo. Una società che fonda l’OP esclusivamente sul consenso sembra instabile e non riuscire a
dare ragioni per non revocare tale obbligo – specialmente se si assume, come fa Beran, che esiste un diritto
naturale (e quindi non abdicabile) all’autodeterminazione, che mi potrebbe richiedere in qualsiasi momento di
rompere le promesse iniziali. La questione può essere formulata anche in questi termini: perché l’obbligo
politico creato dal consenso deve essere più forte di altri obblighi positivi e/o doveri naturali, tanto da
costituire una ragione escludente altre ragioni per la determinazione della mia condotta?

2. Gli approcci volontaristici, e quello proposto da Beran non fa eccezione, tendono ad avere una visione riduttiva
dell’OP come obbligo giuridico. Questo manca di cogliere tutti quegli aspetti non giuridici che costituiscono
comunque parte degli obblighi di chi è cittadino. Si pensi a questioni come il diritto di voto (che trascendo l’obbligo
giuridico) o meglio ancora alla raccolta differenziata dei rifiuti, qualora non sia disciplinata da una legge, ma resa
possibile da apposite aree ecologiche che sarebbe buon dovere di un residente utilizzare.
3. Al di là del modo in cui il consenso può essere concepito, perché dovremmo pensare che solo gli atti volontari
generano obblighi moralmente vincolanti? Sicuramente questo deve avere lo status di un’assunzione: non posso
sostenere che è così perché si tratta di una condizione volontariamente stabilita, altrimenti si cadrebbe in un
regresso all’infinito di atti volontari. Ma si tratta di un’assunzione problematica: vi sono numerosi obblighi morali che
non derivano da atti volontari (come quelli verso i nostri genitori). Sembrerebbe, quindi, che il consenso non sia una
condizione necessaria perché sorgano obblighi. Ma non è neanche una condizione sufficiente: non basta
acconsentire a qualcosa per esserne moralmente vincolati. Per esempio se prometto a qualcuno di uccidere una
persona, non sono moralmente vincolato a farlo.

LEZIONE 4: “DA PARADIGMA DEL CONSENSO A PARADIGMA DEL CONTRATTO” DI PETRUCCIANI

L’ordine politico legittimo è quello che deciderebbero di darsi individui che, come in un esperimento mentale, non
vivessero già in uno stato costituito, ma si trovassero a vivere in una condizione prepolitica e prestatale, privi di
rapporti dii subordinazione reciproca e in una situazione di eguaglianza e libertà  l’ordine politico legittimo è
quello che meriterebbe il consenso razionale da parte di individui liberi ed eguali, che si trovassero a scegliere come
organizzare la loro convivenza partendo da una condizione prepolitica da uno “stato di natura”.

Thomas Hobbes

Hobbes sostiene la tesi della naturale eguaglianza tra gli uomini (che impedisce loro di assestarsi in rapporti
gerarchici) e quella della loro conflittualità (che impedisce loro di convivere pacificamente)  egli dimostra che gli
uomini sono eguali per natura, e che non è plausibile è legittimo spacciare come naturale qualsiasi rapporto
gerarchico tra essi: gli uomini sono e si presentano eguali, MA sono anche conflittuali:

1. Individui che si trovassero in uno stato di natura entrerebbero in conflitto per differenza;
2. Gli uomini entrano in conflitto perché animati da quella passione che Hobbes chiama “gloria”.

Finché non vi è un legame comune, ognuno ha diritto a tutto, ma poiché tutti hanno diritto a tutto, questi diritti
entrano in conflitto, e la conseguenza è che gli uomini si ritroverebbero a vivere in uno stato dove neanche il più
piccolo diritto è gerarchico. Lo stato di natura è uno stato di guerra di tutti contro tutti  è uno stato di pericolo,
insicurezza e morte da cui gli individui desiderano di uscire. Le regole di condotta che assicurerebbero loro una
pacifica convivenza sono chiamate “leggi di natura”: una legge di natura è una regola, scoperta dalla ragione, che
vieta ad un uomo di fare ciò che è lesivo della sua vita; comandano agli uomini di astenersi da tutti quei
comportamenti che produrrebbero la guerra e la metterebbero a repentaglio con l’autoconservazione.

Nello stato di natura le leggi di natura non sono per gli uomini veramente vincolanti  per ragioni di razionale
prudenza, io devo essere sempre pronto ad attaccare per primo, a non mantenere la parola data, a fare agli altro i
torti che devo temere da loro. Per liberarsi da questa situazione, gli individui hanno una sola via d’uscita: stringere
tra di loro un patto in forza del quale ognuno di loro rinuncia a tutti i diritti che aveva nello stato di natura è lì
trasferisce a un sovrano  la legge naturale viene sostituita dalla legge civile o positiva, dalla legge che il sovrano
riterrà opportuno emanare: il potere che gli individui hanno conferito a un solo sovrano è ora un potere assoluto.

Per Hobbes libertà significa “assenza di impedimenti”: vi è sempre libertà finché l’individuo può disporre di spazi
d’azione nei quali muoversi a piacimento senza esserne impedito. MA anche la più dura sovranità assoluta è
preferibile alla condizione misera dello stato di natura: il potere sovrano esiste per garantire pace e sicurezza.

I due patti di Jean-Jacques Rousseau

Rousseau pretende di costruire una visione scientifica: per lui lo stato di natura è uno stato di isolamento  l’uomo
naturale è un uomo solo che abita in una natura ostile, nel rapporto con la quale non ha difficoltà a soddisfare i suoi
limitati bisogni. Il processo di costruzione della società ineguale e oppressiva di addensa attorno a uno snodo
fondamentale, che è quello della proprietà  la proprietà è una impostura che si stabilizza solo per l’ingenuità delle
vittime, MA l’ineguaglianza della proprietà è il vero stigma della società corrotta.
Le prime emergenze della corruzione e della diseguaglianza si trovano già nel primitivo stato di società, che è simile a
quello in cui si trovano ancora i “popoli selvaggi”  gli uomini avrebbero potuti rimanere a lungo in questo stato di
ineguaglianza embrionale, se non fosse intervenuto lo sviluppo delle abilità tecniche, dell’agricoltura e del lavoro, a
determinare quella delle proprietà, perché la proprietà nasce dal lavoro, MA poiché gli uomini hanno diversa forza,
capacità e talento, il lavoro di alcuni procura loro la maggior parte di quanto non accada ad altri.

Il proliferare dell’ineguaglianza, il polarizzarsi di ricchezza e povertà, l’impossibilità di legittimare la proprietà con una
origine nel lavoro, gettano la società non ancora politicamente organizzata in una condizione di conflitto e disordine
 qui si ha il vero stato di guerra: da esso gli uomini sono usciti con un patto politico proposto dai ricchi e poveri,
MA si tratta di un patto che i poveri accettarono solo per ingenuità, perché il patto sanciva una proprietà che era
divenuta frutto di inganno e rapina. Si tratta di un patto non razionale perché i ricchi ci guadagnano troppo e i
poverini troppo poco rispetto a ciò che cedono.

Bisognerà considerare gli uomini che di fatto sono e le leggi come possono essere, in modo che si possano associare
la giustizia e l’utilità, ciò che il diritto permette e ciò che l’interesse prescrive  l’ordine sociale non è dato per
natura a è un ordine artificiale che deve essere istituito tra uomini liberi ed eguali. Il potere legittimo non può essere
pensato come il risultato di un patto di sottomissione in cui un popolo aliena la sua libertà nei confronti di un
sovrano divenendone suddito  il problema che gli uomini devono risolvere è quello di trovare una forma di
associazione che protegga e difenda la persona e i beni di ciascun associato, mediante la quale ognuno unendosi a
tutti non obbedisca che a se stesso e resti libero come prima: il problema può essere risolto se tutti gli individui
alienano i loro diritti in favore del corpo politico comune che tutti insieme costituiscono. È questo l’unico patto
politico razionalmente possibile: rinunciando al diritto di autogovernarsi da se, l’individuo accetta che gli altri
abbiano un diritto su di lui, ma al tempo stesso acquisisce un diritto sugli altri e non perde nulla della sua libertà  il
patto esige l’alimentazione totale di tuti i diritti in favore della comunità: lo Stato è padrone di tutti i loro beni.

Il compito del patto sociale è quello di rinforzare l’uguaglianza naturale nella forma di “un’eguaglianza morale e
legittima”  l’istituzione dello Stato é legittima e razionale per perseguire un preciso fine: il bene o l’interesse
comune.

Uguaglianza = nessun cittadino deve essere in grado di imporre la sua volontà a un altro, nessuno deve essere
abbastanza ricco da poter comprare un altro e nessuno deve essere tanto povero da essere costretto a vendersi.

Eguaglianza = condizione di uno stato che abbia di mira il bene comune ma, più in profondità, è condizione della
libertà stessa.

Il compito difficile dell’arte politica è quello di governare la società a partire da questo interesse comune, di cui la
“volontà generale” è voce: la volontà generale può divergere dalla volontà di tutti, che è una somma di interessi
particolari.

LEZIONE 5: “LA FILOSOFIA POLITICA” DI S. VECA

Utilitarismo

Vi sono molte versioni o forme dell’utilitarismo, ed è naturale chiedersi se vi sia qualcosa come un nucleo comune; il
nucleo comune consiste nell’idea secondo cui il criterio di valutazione morale deve essere sensibile alle conseguenze
delle scelte o dei corsi di azione e queste conseguenze devono essere valutate nei termini dell’utilità o disutilità che
esse generano sui nostri prospetti di vita  la giustizia consiste nella massimizzazione dell’utilità collettiva, data una
comunità politica pertinente: ingiustizia è spreco di felicità pubblica. Questo nucleo è rinvenibile nelle formulazioni di
Bentham o di Cesare Beccaria  proposizioni benthamiane:

1. Essa afferma che c’è un fatto cui è rispondente il principio dell’utilitarismo: piacere e pena governano la nostra
condotta, ci dicono cosa dobbiamo fare, ci danno il criterio del giusto e dell’ingiusto; il principio dell’utilitarismo
riconosce tale fatto e lo assume come fondamento di quel sistemai cui scopo è costruire con la ragione la
fabbrica della felicità.
2. Essa specifica che l’espressione “principio di utilità” si deve intendere il “principio che approva o disapprova
qualsiasi azione sulla base della tendenza che essa sembra avere di aumentare o diminuire la felicità della parte il
cui interesse è in questione” .
3. Essa afferma che l’utilità consiste nella “proprietà di ogni oggetto, con cui o grazie a cui esso tende a produrre
benefici, vantaggi, piacere, bene o felicità”.
4. Essa precisa che può trattarsi dell’unità collettiva tanto quanto dell’unità individuale a seconda della popolazione
pertinente di chi è incluso fra i clienti dell’etica.
5. Essa ci dice come intendere un espressione importante nel lessico politico come quella di interesse collettivo: la
somma degli interessi dei membri che compongono una determinata comunità o collettività, quale che sia.
6. Essa spiega che cosa prescrive il principio di utilità: un’azione è detta conforme al principio di utilità quando la
sua tendenza ad aumentare la felicità di una comunità è maggiore di quella a diminuirla.
7. Essa risponde che termini come “dovere”, “giusto” o “ingiusto” hanno senso solo in rapporto all’esito
dell’applicazione del principio di utilità.
8. Essa afferma che il principio di utilità è il principio razionale perché gli altri principi sono principi del capriccio,
arbitrari.
9. Afferma che il calcolo sociale della felicità pubblica va eseguito in questo modo: somatici i valori di tutti i piaceri
e di tutte le pene  il saldo a vantaggio dei piaceri è il bene dell’individuo  prendi ora conto del numero di
persone i cui interessi sono implicati  ripeti il processo di prima rispetto a ciascuno  somma i numeri che
esprimono i gradi di bene = avrai il saldo del numero totale o della comunità.

L’utilitarismo non è intrinsecamente una teoria politica normativa: esso è una teoria morale comprensiva che ha di
mira la valutazione morale di qualsivoglia tipo di azione o scelta. Consideriamo ora le caratteristiche dell’utilitarismo
come teoria della giustizia:

1) L’idea centrale è quella della massimizzazione di una qualche grandezza sociale: la giustizia è concettualizzata
come una sorta di “efficienza sociale”.
2) Il criterio di valutazione di istituzioni e politiche o scelte collettive è un criterio razionale, indipendente da
qualsiasi giudizio intuitivo di giustizia: la teoria è autonoma e indipendente nei confronti del senso di giustizia.
3) La teoria è monistica: vi è solo un criterio di giustificazione.
4) La teoria è teleologica, nel senso che, data una definizione previa del bene, definisce come giusto ciò che
massimizza il bene.
5) L’approccio all’utilitarismo a questioni di giustizia è aggregativo: ha di mira gli ammontatori di utilità totale e non
le proprietà delle loro distribuzioni.
6) La teoria è consequenzialistica: il criterio di valutazione si applica a stati del mondo, intesi come conseguenze
attese di scelte o azioni.
7) La teoria è welfaristica: le conseguenze sono valutate alla luce dell’informazione sull’utilità generata.
8) La procedura di scelta collettiva adottata dalla teoria è maggioritaria dato che l’esito del calcolo sociale è quello
che soddisfa gli interessi.
9) La teoria incorpora una interpretazione dell’eguaglianza morale.

L’utilitarismo si basa su un concezione soggiacente di quale sia il contenuto di una moralità riconoscibile per noi , e
tale contenuto è specificato in termini di questioni di benessere, soddisfazioni o frustrazioni e bisogni. La moralità
deve proteggere tutti gli esseri che hanno interessi per il semplice fatto che la loro frustrazione è male.

John Harsanyi: l’utilitarismo della preferenza

Secondo Harsanyi l’etica va considerata parte di una più ampia teoria del comportamento razionale. Una teoria
generale della razionalità prevede una distinzione fra casi in cui individui si trovino a scegliere razionalmente in
situazioni individuali e sci in cui individui si trovino a scegliere razionalmente in situazioni sociali. Harsanyi propone di
connettere etica e teoria delle decisioni o della scelta razionale: nel caso in cui consideriamo gli interessi della società
come un tutto, la scelta razionale si baserà su un criterio fornito da una teoria etica  è in questo senso che l’etica
può essere definita come parte di una teoria della scelta razionale, e la massima di razionalità nell’ambito dell’etica è
una massima utilitaristica. Egli ci chiede di adottare un semplice modello per i nostri giudizi ordinari di valore morale:
consideriamoli come giudizi di preferenza  essa può essere personale o impersonale; MA possiamo adottare anche
una differente prospettiva per valutare stati del mondo alternativi: possiamo valutarli alla luce delle nostre
preferenze impersonali  queste sono altro che le preferenze etiche o morali di ciascuno di noi.

Se accettiamo di valutare eticamente (giustificare o no) dobbiamo essere disposti a valutarne le conseguenze al buio
delle nostre preferenze personali e sapendo di avere lestezza probabilità di essere chiunque nello stato del mondo o
nella società cui valutiamo istituzioni o pratiche: la scelta etica è una scelta individuale incerta sul mondo sociale.

Harsanyi propone di riformulare il principio di utilità: la riformulazione consiste nella massimizzazione dell’utilità
media attesa  l’utilitarismo non è propriamente una teoria politica, esso è soprattutto una dottrina morale
comprensiva che ci prescrive come rispondere nel modo giusto a ciò che per noi ha valore.

LEZIONE 6: “UNA TEORIA DELLA GIUSTIZIA” DI J. RAWLS

L’obbligo politico: una questione di “fair play”

Le teorie deontologiche non sono interessate alle conseguenze di atti o dell’applicazione di principi, ma giudicano
tali azioni come moralmente giuste o sbagliate alla luce di principi generali o sistemi di doveri. Nella versione
kantiana, questo significa che le conseguenze delle nostre azioni sono del tutto irrilevanti da un punto di vista
morale; in versioni più mitigate (come quella rawlsiana) vi sono azioni che dobbiamo compiere al di là della bilancia
costi/benefici in termini della promozione della nostra concezione del bene, anche se i principi di giustizia vengono
valutati sulla base degli effetti che producono su determinati stati del mondo. Le teorie deontologiche dell’obbligo
politico, quindi, lo giustificano alla luce di un qualche principio morale generale o sistema di doveri.

La teoria della giustizia di John Rawls:

Elementi chiave:

 L’oggetto di una teoria della giustizia sono le istituzioni (politiche e sociali) di società considerate come chiuse e
isolate le une dalle altre.
 Principi di giustizia = assegnano diritti e doveri in merito alle principali istituzioni della società e distribuiscono
e costi e i benefici della cooperazione sociale
 Teoria della giustizia = teoria della giustificazione

Giustizia come prima virtù delle istituzioni sociali (al pari della verità per i sistemi di pensiero): se una teoria è
ingiusta (e dunque pone sacrifici ingiustificati a carico di qualcuno per il beneficio di altri) deve essere rigettata
(come vengono rigettati i paradigmi teorici qualora si rivelino falsi).
 Concezione di società come sistema di cooperazione per il mutuo vantaggio.
 Società bene ordinata = promuove il bene dei cittadini ed è retta da una concezione pubblica di giustizia 
1. Tutti accettano e sanno che anche gli altri accettano gli stessi principi di giustizia;
2. Le istituzioni sociali soddisfano e sono riconosciute soddisfare questi principi.
 Un concetto di giustizia [espresso da principi che definiscono istituzioni giustificate e stabili nel tempo à idea di
società bene ordinata] – più concezioni di giustizia [definizione dei principi] à dunque la teoria della giustizia
come equità è una tra le tante possibili.
 Perché la teoria di Rawls è una teoria del contratto? Perché i principi di giustizia vengono presentati (e
giustificati) come quelli che sarebbero oggetto di accordo in una condizione originaria di scelta (stato di natura)
 la fonte di legittimità delle istituzioni è l’adesione del singolo.
 Interesse politico del contrattualismo rawlsiano (no trattazione sistematica di ogni virtù, solo in merito alla
giustizia.

La natura dei principi di giustizia: l’equilibrio riflessivo

I principi di giustizia non devono essere lasciati né al mero calcola razionale delle conseguenze (≠ utilitaristi), né alle
nostre intuizioni, ma per rendere conto del nostro senso di giustizia è necessario raggiungere un equilibrio riflessivo
tra i principi di giustizia razionalmente ricavati e i nostri giudizi morali ponderati. E’ possibile che i nostri giudizi
morali ponderati non corrispondano immediatamente ai principi di giustizia: questo non è un problema per la
filosofia morale rawlsiana poiché è possibile che, per quanto ponderati, i nostri giudizi siano deviati da errori o viziati
da interessi particolari. Ciò che conta è realizzare, tramite l’equilibrio riflessivo, una corrispondenza tra di essi. La
nozione di e.r. è fondamentale per Rawls per giustificare la sua concezione di giustizia come equità, che – in quanto
concezione – sappiamo non essere l’unica disponibile, ma una tra le tante.

Secondo Rawls attraverso il meccanismo dell’equilibrio riflessivo, la teoria della giustizia come equità si rivela una
migliore candidata, rispetto all’utilitarismo e al perfezionismo, a rispondere ai nostri giudizi morali ponderati, oltre a
fondarsi su quei principi che noi sceglieremmo in quanto individui razionali  il raggiungimento di un equilibrio
riflessivo pieno rappresenta un ideale filosofico. In realtà l’equilibrio si presenta come temporaneo e sempre
rivedibile.

L’instaurarsi dell’equilibrio riflessivo permette anche di dare stabilità all’adesione ai principi di giustizia (e quindi ad
una società bene ordinata): premette cioè di formare un senso di giustizia che sia conforme ai principi e che li
supporti di conseguenza (ruolo educativo della pratica).

La posizione originaria e la scelta dei principi di giustizia

Circostanze di giustizia = circostanze in cui la cooperazione tra uomini è possibile e necessaria:

1. Oggettive = individui hanno capacità uguali o comparabili + moderata scarsità di risorse (Hume)
2. Soggettive = egoismo limitato (individui hanno interessi confliggenti e non hanno un interesse negli interessi
degli altri, sono cioè mutuamente disinteressati) + differenza di piani di vita, concezioni filosofiche, credenze
religiose, dottrine politiche e sociali.

Scelta dei principi di giustizia: i principi base della società per essere giusti sono quelli su cui individui razionali, liberi
e auto-interessati convergerebbero in una certa situazione di scelta).

posizione originaria e velo d’ignoranza

Quali sono le informazioni bloccate dal velo di ignoranza? Classe o status sociale; fortuna e talenti; forza e
intelligenza; concezioni del bene; piano di vita e tratti della psicologia, quali l’inclinazione al rischio, l’ottimismo o il
pessimismo; informazioni sulla società di appartenenza.

Quali informazioni hanno a disposizione le parti?

1. Sanno che si danno le circostanze di giustizia oggettive e soggettive, conoscono gli affari della politica e le
basi della teoria economica, le leggi sociali e psicologiche.
2. Le parti sono capaci di senso di giustizia e sono a conoscenza di questo fatto  questo non significa che
concorderanno sulla stessa concezione che giustizia, ma che sono in grado di ragionare in modo
formalmente eguale su cosa sia giusto prendendo in considerazione tutte le informazioni rilevanti.
3. Inoltre, le parti conoscono la lista di beni sociali primari = mezzi per molti scopi che chiunque è razionale
preferisce avere di più piuttosto che di meno.  sono oggettivi (≠ preferenze che sono soggettive)
Le parti sono capaci di senso di giustizia e sono a conoscenza di questo fatto à questo non significa che
concorderanno sulla stessa concezione che giustizia, ma che sono in grado di ragionare in modo formalmente eguale
su cosa sia giusto prendendo in considerazione tutte le informazioni rilevanti.

Qual è la funzione del velo d’ignoranza? Creare un punto di vista morale imparziale in modo che gli interessi di
nessuno prevalgano e che i principi di giustizia possano essere accettati da tutti à regole imparziali.

Situazione di scelta unanime e puramente razionale  Le parti sono razionali nel senso che ognuno cerca di
promuovere i suoi interessi nel modo migliore possibile. Ma, se le parti in posizione originaria sono all’oscuro delle
loro concezioni del bene e dei loro piani di vita come possono promuovere i loro interessi? Tutti sanno, in quanto
razionali, che vogliono più beni sociali primari e si muovono in modo che questo divenga possibile
indipendentemente dalla posizione da loro contingentemente occupata. In generale, ciò che vogliono è proteggere
le loro libertà, ampliare le opportunità ed espandere i mezzi per promuovere i loro fini, qualunque essi siano. Alla
luce della loro razionalità, inoltre, un accordo sarà valido solo quanto esso è rispettabile in tutte le circostanze
rilevanti e prevedibili.

La teoria rawlsiana si presenta così come un istanza del costruttivismo  i principi di giustizia non sono considerati
tali (cioè giusti) per delle proprietà intrinseche al loro contenuto, ma per il tipo di procedura attraverso la quale sono
definiti.

Oltre alla procedura di costruzione, Rawls pone 5 vincoli formali sulla natura dei principi:

1. I principi devono essere generali, non devono cioè dipendere da contingenze legate a particolari circostanze
accidentali o alle identità delle parti;
2. In principi devono essere universalmente applicabili e rispettabili da tutti gli individui in quanto soggetti
morali (generale ≠ universale  “tutti devono rispettare la mia volontà” è un principio universale ma non
generale);
3. I principi devono essere pubblici e riconosciuti da tutti;
4. I principi devono essere in grado di gestire i conflitti, permettendo di ordinare le pretese e richieste
contrastanti;
5. I principi devono essere finali, in quanto le parti devono farvi ricorso come l’ ultima corte d’appello del
ragionamento pratico.

Riassumendo: Una concezione di giustizia è un insieme di principi generali nella forma e universali nell’applicazione,
insieme che deve essere pubblicamente riconosciuto come corte d’appello ultima per stabilire un ordine tra le
richieste confliggenti presentate da persone morali.

I principi di giustizia

Principi lessicalmente ordinati:

1. Principio di libertà: che ciascuno abbia il massimo sistema di libertà, compatibile con il massimo sistema di
libertà di ciascun altro. Le libertà fondamentali sono: libertà politica (di votare ed essere votati), libertà di parola
ed assemblea, libertà di coscienza e pensiero, libertà della persona e alla proprietà privata, libertà dall’arresto
arbitrario;
2. Principio di differenza: che ciascuno abbia diritto alla stessa quota di beni sociali primari, e che disuguaglianze
nella distribuzione siano ammesse solo qualora vadano a vantaggio di chi è più svantaggiato. à la scelta avviene
alla luce del principio del maximin = in posizione originaria tra gli esiti peggiori (minimi) scelgo i migliori
(massimi).
3. Consenso sulla lista di beni sociali primari = mezzi per molti scopi che chiunque è razionale preferisce avere di
più piuttosto che di meno (i.e. diritti e libertà, poteri ed opportunità, reddito e ricchezza). à sono oggettivi (≠
preferenze che sono soggettive).

Dopo avere stabilito in PO i principi per le istituzioni, le parti sono anche chiamate a stabilire i PRINCIPI PER GLI
INDIVIDUI, in termini di obblighi e doveri naturali.

1. OBBLIGHI  espressi in termini di EQUITÀ = un individuo deve rispettare le regole emanate da un’istituzione
quando si verificano due condizioni:
 Le istituzioni sono giuste
 Ha già goduto volontariamente dei vantaggi della sua partecipazione in società.
2. DOVERI NATURALI  deve essere rispettati senza condizioni, essendo connaturati allo status degli esseri
umani.

OBBLIGHI DOVERI NATURALI


TIPO DI VINCOLO Volontaristico (atto esplicito- Non-volontaristico (si applicano a
promesse – o tacito – godimento dei tutti gli individui indipendentemente
benefici della cooperazione) dalla loro accettazione)
CONTENUTO Definito dalle istituzioni Indipendente dalle istituzioni (es.
mutua assistenza)
DESTINATARI Individui specifici, partner della Tutti gli individui in quanto esseri
cooperazione umani

DUPLICE FONDAMENTO DELL’OP:

1. Principio di equità (ho un obbligo di fare la mia parte nel sistema di cooperazione se ho goduto dei benefici
del suo funzionamento);
2. Dovere morale di sostenere istituzioni giuste (funzione di controllo che le istituzioni siano conformo ai
principi di giustizia e che la società sia bene ordinata.

LEZIONE 7: “LA GIUSTIZIA NELLE INTERAZIONI” DI E. CEVA

Dinamiche di conflitto antagoniste e la giustizia nelle interazioni

Dinamiche di conflitto antagoniste e dinamiche di conflitto cooperative

I conflitti di valore in politica sollevano un insieme di problemi  le dinamiche di conflitto antagonistiche


espongono le parti a forme di mancanza di considerazione per le loro rivendicazioni: durante le interazioni
antagonistiche, le parti si relazionano come rivali che cercano di trarre vantaggio le une sulle altre con ogni mezzo,
incluso l’inganno e la manipolazione.

Invece le dinamiche di conflitto cooperative sono definite dalla considerazione inclusiva delle rivendicazioni delle
parti  questa considerazione si denota come un’apertura alle idee altrui, nonostante la permanenza del disaccordo
con esse.

Pace, giustizia negli Stati di cose finali e giustizia nelle interazioni

Quando un conflitto è articolato secondo dinamiche di interazione antagonistiche emergono problemi filosofici
significativi da una prospettiva normativa: sembra difficile individuare una base morale condivisa a partire dalla
quale stabilire quali rivendicazioni dovrebbero prevalere e in quale misura  oppure bisognerebbe evitare che le
tensioni tra le parti finiscano per danneggiare l’ordine pubblico che le Istituzioni dovrebbero mantenere. Questo tipo
di problemi ricade nell’ambito della giustizia negli stati di cose finali, mentre il secondo chiama in causa l’ideale
normativo della pace.
L’ordine pubblico è giustificato quale limite al potere arbitrario degli individui al fine di metterli in condizione di
cooperare, per il perseguimento dei propri piani di vita secondo termini che tutti possono considerare accettabili 
le dinamiche di interazione cooperative sono rispondenti alla dignità umana delle persone perché istanziano
relazioni di fiducia reciproca che consistono nell’apertura alle rivendicazioni altrui e alla revisione delle proprie
posizioni: le parti coinvolte in queste relazioni condividono la capacità di guardare al loro conflitto come a un
problema condiviso che richiede una qualche forma di azione coordinata  la realizzazione della giustizia nelle
interazioni richiede che le istituzioni pubbliche adempiamo al loro dovere di costruire un sistema socio - politico
all’interno del quale le persone sono trattate in modo accettabile. La giustizia nelle interazioni richiede che si
abbandonino forme di interazione antagonistiche e che venga data a tutte le parti la dovuta considerazione delle
loro rivendicazioni, secondo termini che tutte e ciascuna possono trovare accettabili su basi morali.

Conflitti di valore all’impasse

Le dinamiche di conflitto antagonistiche sono tipiche dei conflitti di valore all’impasse in politica: le parti in conflitto
si trovano in una situazione di impasse quando, incapaci di stabilire un ordine di priorità tra le proprie rivendicazioni
di valori contrastanti su basi accettabili, sono bloccate senza via di uscita; in una simile situazione le parti coinvolte
sono vulnerabili a forme di trattamento inaccettabili su basi morali. I conflitti di valore rilevanti si verificano in
politica quando persone diverse su fanno portatrici di rivendicazioni di valori in competizione per la regolazione di
una questione di pubblico interesse  le parti coinvolte in questo tipo di conflitti sono mosse dall’impegno s
realizzare i propri valori, tramite le regole e le politiche pubbliche.

Le strategie necessarie per risolvere i conflitti richiedono che venga stabilito un consenso si di un ordine di priorità
tra le diverse rivendicazioni di valori in gioco  i conflitti di valore rilevanti per questo studio hanno una
connotazione interpersonale: i conflitti interpersonali hanno la forma di un conflitto pratico, che si verifica quando
una stessa persona ha una ragione per intraprendere un certo corso di azione x, ma ha anche una ragione per fare y,
anche se non può fare sia x che y. Una caratteristica significativa dei conflitti di valore in politica è la loro
(in)trattabilità : questi conflitti intrattabili condividono alcune specificità che li rendono egualmente intrattabili,
nonostante la diversità dei loro contenuti di riferimento. La trattabilità è un indicatore di ragionevolezza di un
conflitto: le persone ragionevoli sono sempre pronte a ricercare nei termini di cooperazione con coloro con i quali si
trovano in disaccordo # l’intrattabilità sta in proporzione inversa alla ragionevolezza delle parti: meno le parti sono
ragionevoli, più il loro conflitto tende a divenire diviso, intenso e pervasivo, e anche la sua complessità tende ad
aumentare.

Il pluralismo reale e il pluralismo ragionevole

Pluralismo reale  si tratta di una prospettiva agnostica da un punto di vista meta – etico perché non prende
posizione rispetto allo statuto ontologico dei valori; essa si limita al riconoscimento fattuale della presenza
persistente di una pluralità di valori confliggenti, difesi da diversi soggetti in relazione alla regolazione di questioni di
pubblico interesse, quale circostanza rilevante di giustizia. La tesi del pluralismo reale prende le mosse del
riconoscimento della presenza di una pluralità di forme di vita umana e si concentra su diversi valori a esse
sottotese, che le rendono buone agli occhi di chi vi aderisce; parte da una osservazione di fatto e mostra il senso in
cui questa è foriera di questioni filosoficamente rilevanti.

Pluralismo ragionevole  può essere visto come un’istanza di pluralismo epistemologico; la tesi del pluralismo
ragionevole ha implicazioni si natura assiologia, antropologica e politica. La ragionevolezza è presentata come una
virtù politica intesa come la capacità e la predisposizione dei cittadini di una democrazia costituzionale a interagire in
buona fede gli uni con gli altri, facendo uso di ragioni e argomenti che tutti possono ricevere e comprendere, unite
alla disponibilità a rivedere le proprie posizioni alla luce di argomenti cogenti presentati da altri al fine di raggiungere
un accordo accettabile: le persone ragionevoli condividono un impegno alla reciprocità. La ragionevolezza si
presenta come virtù politica: le persone ragionevoli sono agenti morali, motivati a trattarsi come libere ed eguali e
ad agire secondo giustizia.
L’idea di pluralismo consiste nel riconoscimento di una pluralità di rivendicazioni di valori in competizione per la
regolazione di una qualche questione di pubblico interesse  tutti i conflitti che riguardano la regolazione di una
questione di pubblico interesse sono rilevanti; essi coinvolgono persone di diversi gradi di ragionevolezza e
irragionevolezza: se le parti fossero idealmente ragionevoli, il loro conflitto sarebbe articolato secondo dinamiche di
interazione cooperative, MA anche persone ragionevoli possono essere portatrici di rivendicazioni di valori
differenti: assumere la ragionevolezza delle parti significa mettere tra parentesi il problema di come e perché
stabilire dinamiche di interazione cooperative.

L’obbligo politico e la qualità delle relazioni sociali

La gestione dei conflitti richiede gli strumenti teorici del proceduralismo  L’aspetto distintivo del proceduralismo è
il suo interesse normativo per le proprietà inerenti alle procedure, invece che per quelle relative agli esiti. La
distinzione tra una teoria della giustizia delle procedure è una teoria della giustizia degli esisti riguarda il locus in cui
la giustizia viene realizzata  l’idea alla base del modello di proceduralismo è che vi sono modi di interazione umana
dotati di valore perché fanno si che le persone vengano trattate in una maniera accettabile sul piano morale, in
considerazione della dignità associata al loro status di potenziali portatrici di pretese valide.

Giustizia procedurale perfetta, imperfetta e pura

Nei casi di proceduralismo perfetto e imperfetto, le proprietà qualificanti esiti giusti sono stabilite prima rispetto alla
costruzione e allo svolgimento delle procedure necessarie al loro raggiungimento  una teoria proceduralista è
perfetta quando offre una caratterizzazione normativa delle procedure capaci di produrre esiti inerentemente giusti
con certezza. Nei casi di proceduralismo imperfetto non ci sono garanzie che si possa individuare una specifica
procedura in grado di portare a un esito inerentemente giusto (ad esempio, il processo penale).  queste versioni di
proceduralismo vanno distinte dalla giustizia procedurale pura: le proprietà di un esito non possono essere
conosciute prima che una giusta procedura venga compiuta, e la giustizia degli esiti dipende dalla giustizia delle
procedure che li producono; le procedure acquistano un ruolo centrale nella realizzazione della giustizia, essendo
capaci di trasferire le loro proprietà ai loro esiti.

Versioni di proceduralismo puro

1. I principi di giustizia sono costruiti attraverso una procedura strutturata in accordo con le basi del ragionamento
pratico  il costruttivismo di presenta come un’istanza di proceduralismo puro; gli esiti rilevanti (i principi di
giustizia) sono giustificati poiché sono costruiti attraverso una procedura di ragionamento (la posizione originaria)
che esibisce certe proprietà inerenti.

2. La seconda accezione concerne la caratterizzazione della giustizia procedurale di base: questa idea di giustizia si
realizza nella costituzione politica giusta che sta alla base di un giusto sistema di cooperazione  il proceduralismo si
presenterebbe come uno strumento retorico per presentare l’idea che la giustizia è una proprietà di istituzioni
distributive di beni sociali.

3. La terza accezione riguarda l’applicazione di questa idea ai fondamenti normativi della legittimità democratica:
l’idea di fondo è che per i cittadini di una democrazia non è possibile convergere in modo consensuale sulla sostanza
delle decisioni collettive.

4. Un quarto senso può essere ricavato guardando ai tipi di prescrizione contenuti nei principi di giustizia: se essi
caratterizzano i termini oppure gli esiti della cooperazione sociale. I principi di giustizia sono chiamati a valutare le
rivendicazioni concorrenti dei cittadini nei confronti di determinati beni così che ciascun cittadino riceva la quota che
gli spetta dei beni in gioco.

Critiche principali al proceduralismo puro

W. NELSON:
1) il proceduralismo puro svolge una funzione classificatoria, poiché contribuisce a farci raggiungere una descrizione
corretta di determinate situazioni;

2) il proceduralismo puro svolge una funzione esplicativa, offrendo un resoconto del perché determinati esiti sono
considerati giusti in determinate circostanze. I difensori del proceduralismo puro faticano a spiegare quale proprietà
si una procedura assicura la giustizia degli esiti della procedura stessa.

L’argomento in favore del proceduralismo

HAMPSHIRE: ogni moderna democrazia è probabile sia pluralistica  il pluralismo non lascia spazio a un accordo su
ciò che può essere considerato un esito distributivo giusto, dal momento che qualsiasi resocontò di questo tipo di
giustizia dipende da determinati valori che con ogni probabilità sono controversi. Egli propone una teoria
proceduralista della giustizia basata sul principio del contraddittorio, in base al quale il requisito minimo per una
interazione giusta tra agenti in conflitto è che tute le parti siano ascoltate.

Perché essere proceduralista allora?

Il proceduralismo puro rivela una preoccupazione fondamentale nei confronti della giustizia negli stati di cose finali:
la giustizia è vista come una proprietà degli esisti  il proceduralismo puro ci parla solo della correttezza formale di
un esito  si consideri, per esempio, il principio del giusto processo in ambito legale: le caratteristiche del giusto
processo dovrebbero far sì che la verità dei fatti emerga e sono perciò strumentali all’assicurarsi che l’imputato
venga dichiarato colpevole solo se ha commesso il crimine. Il principio del giusto processo è dotato di valore poiché
garantisce questo genere di trattamento a tutte le parti di un procedimento legale, e può essere considerato
un’istanza di riconoscimento di dignità. La realizzazione della giustizia in ambito procedurale è una condizione
necessaria ma non sufficiente per la realizzazione della giustizia in politica, in società e nei tribunali.

I teorici della giustizia degli esiti hanno ridotto la giustizia nelle interazioni alla giustizia negli stati di cose finali,
mentre i proceduralisti puri hanno fatto dipendere la giustizia negli stati di cose finali dalla giustizia nelle interazioni
 in entrambi i casi rischiamo di perdere la specificità delle richieste di giustizia che sorgono dai due diversi domini.

Pluralismo reale, proceduralismo intrinsecò e minimalismo giustificativo

1. Il minimalismo sostantivo riguarda il contenuto dei principi normativi;


2. Il minimalismo giustificativo riguarda il modo in cui i principi normativi sono presentati: se come parte di una
teoria etica comprensiva o in quanto istanze autonome di teorizzazione in grado di sposarsi con un numero
di dottrine etiche differenti.

NB. L’obiettivo non è quello di trovare principi che siano minimalisti nei generi di prescrisciome che fanno
(minimalismo sostantivo), piuttosto elaborare principi normativamente vincolanti, che siano minimalisti dal punto di
vista delle ragioni che li sostengono e che non siano riserva di specifiche dottrine etiche  il minimalismo
giustificativo è una implicazione del progetto Liberale di giustificazione politica.

LEZIONE 8: APPUNTI SULLA CONTESTAZIONE DELL’OBBLIGO POLITICO

FORME DELLA DISOBBEDIENZA:

CI SONO CONDIZIONI IN CUI UNA QUALCHE FORMA DI DISOBBEDIENZA È GIUSTIFICATA?

PROBLEMA SOPRATTUTTO ALL’INTERNO DELLE DEMOCRAZIE  Se tutti i cittadini concorrono in un sistema


democratico a determinare la politica nazionale attraverso il parlamento, da essi stessi eletto, il singolo può opporsi
alle leggi che vengono democraticamente deliberate e che devono quindi essere da tutti rispettate?

Sì  se così non fosse, si rischierebbe la tirannia della maggioranza.


Ma  servono condizioni di giustificazione (disobbedire è giusto) o di scusante (disobbedire è sbagliato ma può
essere tollerato). In particolare, perché la disobbedienza sia giustificata o scusata, è necessario che il disobbediente
dia prova di avere “buone e valide ragioni” che possono essere ricondotte o alla “voce della coscienza”, oppure al
“dettame di una norma superiore”. La bona fide dovrà passare il vaglio della società, possibilmente attraverso
l’operato di giudici imparziali (es. commissioni per stabilire le ragioni degli aspiranti obiettori di coscienza alla leva
militare). Inoltre, il dissidente dovrà rispettare il sistema di leggi, pur trasgredente una componete, in quanto
emanazione dell’autorità democratica (obbligo poliltico).

Quattro condizioni:

1. La disobbedienza è accettabile solo quando è extema ratio;


2. I disobbedienti devono essere pronti a pagare il prezzo del loro atto (es. sanzioni);
3. La disobbedienza è accettabile solo per i casi morali;
4. La disobbedienza deve assumere forme non violente, perché il suo linguaggio non è la forza ma la ragione.

Disobbedienza civile  violazione della legge, con un atto comunicativo di coscienza pubblico e non violento,
compiuto con lo scopo di produrre un cambiamento nelle leggi o nelle politiche di governo [es. proteste
ambientaliste contro lo smaltimento delle scorie nucleari].

Obiezione di coscienza  violazione di / esenzione da una legge su basi morali o etiche [es. obiezione medica contro
l’interruzione volontaria di gravidanza].

Mentre la disobbedienza civile è sempre contro la legge, l’obiezione di coscienza non deve necessariamente esserlo,
e può essere contra legem o secundum legem:

 Obiezione di coscienza contra legem come rivendicazione  Essa può essere ATTIVA (commissiva) – violazione di
un obbligo / divieto (es. servizio militare); oppure PASSIVA (omissiva) – omissione di una prestazione (es.
aborto).
La OC ha una doppia dimensione:
1. MORALE à l’obiettore vuole preservare la propria integrità personale, che sarebbe minata dall’osservanza di
una certa legge;
2. SOCIALE/POLITICA à l’obiettore vuole ottenere un’esenzione legalmente riconosciuta, da una legge
considerata incompatibile con le sue credenze morali.

Siccome la OC si configura come un atto morale contro una norma legale, esso può essere visto come una
dichiarazione di autonomia contro un comandamento eteronomo.

OC ≠ evasione di coscienza/obbedienza passiva  la evasione di coscienza è non-pubblica e non ha, di


conseguenza, alcuna implicazione politica (es. Cristiani che praticavano la loro religione in segreto nella Roma
antica).

 Obiezione di coscienza secundum legem come atto/diritto legalmente riconosciuto  Mentre gli atti di OC contra
legem sono caratterizzati dalla volontà dell’obiettore di accettare le sanzioni legali previste per la violazione
commessa, nei casi di OC secundum legem nessuna sanzione è solitamente prevista per l’esercizio di OC (in
alcuni casi sono previste sanzioni, ma queste sono diverse da quelle previste per i trasgressori ordinari, es.
obiettori di coscienza al servizio militare non erano trattati come disertori, ma dovevano prestare un servizio più
lungo (+8 mesi) e, se fossero stati coinvolti in episodi di violenza, sarebbero stati soggetti a sanzioni più severe).
≠ Opzione di coscienza = casi in cui viene chiesta una manifestazione preliminare della volontà di scegliere tra
due alternative legalmente previste. Nessuno può essere identificato come obiettore in questo caso poiché
nessuno deve rivendicare alcun diritto di agire secondo coscienza, contravvenendo a una prescrizione di legge. Vi
è semplicemente una legge che prevede due corsi d’azione alternativi ed egualmente generali. Detto altrimenti,
non può essere identificata qui alcuna deroga, poiché non vi è alcuna legge alla quale obiettare, ma una
variazione di coscienza legalmente consentita (es. “giuramento del testimone non credente”: era il giudice stesso
ad affermare che il testimone avrebbe dovuto giurare solo se credente, senza che questo dovesse manifestare
alcuna intenzione di obiettare alla pratica per ragioni di coscienza).
A queste si aggiunge la protesta legale  azione pubblica e non violenta, con fini di comunicazione, mirata a
promuovere e realizzare un cambiamento nella società, all’interno dei limiti consentiti dalla legge (es.
manifestazione di piazza; sciopero).

Le seguenti forme di disobbedienza NON possono essere considerate come espressioni di dissenso accettabile:

 Violazione ordinaria delle legge  mancata osservanza di una legge per motivi di interesse personale (es.
evasione fiscale); azione nascosta per eludere la punizione.
 Forme di contestazione dell’autorità e della legittimità delle istituzioni:
1. Resistenza passiva/civile  atti di protesta non violenta atti a mettere in discussione la legittimità delle
istituzioni e orientati a modificarle (es. Ghandi);
2. Resistenza attiva/protesta radicale  azione di protesta violenta (es. terrorismo) atti a mettere in
discussione la legittimità delle istituzioni;
3. Rivoluzione  simile alla protesta radicale (contestazione dell’autorità delle istituzioni), ma orientata ad
ottenere non tanto un mero cambiamento di una qualche legge, quanto la sovversione del regime stesso (es.
Primavere arabe);

Tutte queste azioni, pur esprimendo un disaccordo valoriale tra i cittadini e le istituzioni, non verranno prese in
esame in quando mancanti di quella dimensione comunicativa verso istituzioni legittime che rende le forme di
dissenso parte integrante della vita democratica di uno stato. Quello che ci interessa non è la messa in discussione
della legittimità istituzionale, ma le risposte delle istituzioni a contestazioni di leggi per motivi morali (di giustizia,
etici o religiosi).

(vedi anche schema negli appunti prof e appunti presi a lezione)

LEZIONE 9: “UNA TEORIA DELLA GIUSTIZIA” DI J. RAWLS

La definizione della disobbedienza civile

La teoria della disobbedienza civile che verrà affrontata in questa lezione riguarderà il suo ruolo nei riguardi di
un’autorità democratica legittimamente istituita. Infatti, il problema della disobbedienza civile sorge soltanto
all’interno di uno stato democratico e per quei cittadini che accettano e riconoscono la legittimità della costituzione.
La disobbedienza civile nasce con lo scontro tra doveri  A che punto il dovere di rispettare leggi poste in vigore da
una maggioranza legislativa smette di essere vincolante, alla luce del diritto di difendere le proprie libertà e del
dovere di opporsi all’ingiustizia?

Una teoria costituzionale della disobbedienza civile è formata da tre parti.

1. Definisce questo genere di dissenso e lo separa dalle altre forme di opposizione democratica all’autorità.
2. Stabilisce le ragioni della disobbedienza civile e le condizioni in cui una simile azione è giustificata in un
regime democratico giusto.
3. La teoria dovrebbe spiegare il ruolo della disobbedienza civile in un sistema costituzionale, e rendere conto
dell’appropriatezza di questo modo di protesta in una società libera.

Per iniziare, si può definire la disobbedienza civile come un atto di coscienza pubblico, non violento, e tuttavia
politico, contrario alla legge, in genere compiuto con lo scopo di produrre un cambiamento nelle leggi e nelle
politiche di governo. Un commento preliminare a questa definizione è che essa non richiede che l’atto di
disobbedienza civile infranga la medesima legge che viene contestata. Un secondo commento è che l’atto di
disobbedienza civile è realmente considerato contrario alla legge, perlomeno nel senso che coloro che lo
intraprendono sono pronti ad opporsi alla legge, anche se essa dovesse essere mantenuta.

La disobbedienza civile è:

1. Un atto politico  non soltanto perché si indirizza alla maggioranza che detiene il potere politico, ma anche
perché è un atto guidato e giustificato da principi politici. Nel giustificare la disobbedienza civile si fa appello
alla concezione della giustizia pubblicamente condivisa che sottostà all’ordinamento politico.
2. Un atto pubblico  non soltanto si indirizza a principi pubblici, ma si compie in pubblico.
3. Un atto non violento  Essa tenta di non ricorrere all’uso della violenza, in particolar modo contro le
persone, non a causa di un rifiuto di principio dell’uso della forza, ma per il significato profondo della stessa
azione. Impegnarsi in azioni violente che possono danneggiare o ferire è incompatibile con la disobbedienza
civile in quanto forma di appello politico. Inoltre, esprime una disobbedienza alla legge nei limiti della fedeltà
ad essa. La legge viene infranta ma la fedeltà ad essa rimane.

La disobbedienza civile è stata definita in modo da venirsi a trovare tra la protesta legale e l’obiezione di coscienza 
è chiaramente distinta dall’azione militante ed è ben lontana dalla resistenza violenta organizzata. Infatti, l’azione
militante non si situa all’interno dei vincoli di fedeltà alla legge, ma rappresenta un’opposizione più profonda
all’ordinamento giuridico.  La legge, nel caso dell’azione militante, viene considerata così sbagliata, che è
necessario tentare di sradicarla completamente per introdurne una nuova.

La definizione dell’obiezione di coscienza

L’obiezione di coscienza è la mancata osservanza a un’ingiunzione giuridica o a un provvedimento amministrativo più


o meno diretti. Si tratta di un’obiezione nel senso che ci viene rivolto un ordine e, data la natura della situazione, il
nostro acconsentirvi o meno è noto all’autorità. Nel caso l’obiezione sia segreta, si può parlare di un’evasione
consapevole piuttosto che di un’obiezione di coscienza.

Vi sono numerosi contrasti fra l’obiezione di coscienza e la disobbedienza civile.

 In primo luogo, l’obiezione di coscienza non è una forma di appello che si richiama al senso di giustizia della
maggioranza.
 L’obiezione di coscienza non è basata per forza su principi politici; essa può essere fondata su principi religiosi o
di altro genere, a seconda dell’ordinamento costituzionale. La disobbedienza civile è un appello a una concezione
di giustizia condivisa dalla comunità, mentre l’obiezione di coscienza può avere altri motivi. Tuttavia, l’obiezione
di coscienza può essere fondata anche su principi politici  ci si può rifiutare di rispettare una legge se si pensa
che essa è tanto ingiusta che osservarla è fuori questione.

L’ordinamento giuridico deve regolare il perseguimento da parte degli uomini dei loro interessi religiosi, in odo da
realizzare il principio di eguale libertà, ed esso non può certo proibire pratiche religiose quali, per prendere un caso
limite, i sacrifici umani. In generale, il grado di tolleranza accordato a concezioni morali oppose dipende dalla misura
in cui è possibile permettere loro un’eguale posizione all’interno di un giusto sistema di libertà.

Prendiamo ad esempio il pacifismo: se esso non va soltanto tollerato, ma trattato con rispetto, la spiegazione deve
essere che esso si accorda in modo ragionevole con i principi di giustizia  Anche se le opinioni di un pacifista non
sono completamente valide, i moniti e le proteste che egli è pronto ad esprimere, a conti fatti, possono ottenere il
risultato che i principi di giustizia siano più sicuri di prima. Il pacifismo, in quanto deviazione naturale della dottrina
corretta, può compensare le debolezze degli uomini nel vivere in accordo con quanto professano. In una società
libera, nessuno può essere costretto a compiere atti che violano l’eguale libertà, né può accadere che un soldato
debba obbedire a ordini sicuramente malvagi mentre è in attesa di un appello a un’autorità più elevata.

La giustificazione della disobbedienza civile


Tre condizioni per la giustificazione:

1. Se si considera la disobbedienza civile come un atto politico rivolto al senso di giustizia della comunità, sembra
allora ragionevole limitarlo, a parità di condizioni, a esempi di ingiustizia sostanziale ed evidente, e
preferibilmente a quelli che rappresentano un ostacolo per l’eliminazione di altre ingiustizie.  L’appello alla
concezione pubblica della giustizia non risulta sufficientemente chiaro. È meglio lasciare la soluzione di questi
casi al processo politico. La violazione del principio dell’eguale libertà è quindi l’oggetto vero e proprio della
disobbedienza civile.
2. Un’altra condizione per la disobbedienza civile è la seguente: si può supporre che i normali appelli alla
maggioranza politica siano già stati fatti in buona fede, ma siano falliti.  I mezzi legali di riparazione non si sono
dimostrati utili e siccome la libertà di parola sussiste ancora, si utilizza il canale della disobbedienza civile per
essere ascoltati. In alcuni casi estremi di ingiustizia, però, può non esistere il dovere di usare prima soltanto i
mezzi legali di opposizione politica.  Anche la disobbedienza civile può essere tuttavia insufficiente se la
maggioranza ha già dimostrato di perseguire scopi eccessivamente ingiusti o apertamente ostili.
3. Se una certa minoranza è giustificata nel suo impegnarsi nella disobbedienza civile, allora qualunque altra
minoranza che si trovi in circostanza simili è ugualmente giustificata. E’ però concepibile, anche se improbabile,
che ci siano numerosi gruppi con una ragione egualmente valida per abbracciare la disobbedienza civile, ma se
essi agissero tutti in quel modo, ne deriverebbe un grave disordine che probabilmente potrebbe mettere in
pericolo una costituzione giusta. Assumo quindi che esista un limite nella misura in cui è possibile impegnarsi
nella disobbedienza civile. L'efficacia della disobbedienza civile come forma di protesta tende a decrescere oltre
un certo punto, e la soluzione ideale richiede un'alleanza politica cooperativa delle minoranze per regolare il
livello globale del dissenso. Quando vi sono numerose pretese ugualmente forti che, se considerate insieme,
superano ciò che può essere concesso, allora bisognerebbe adottare qualche piano equo, in modo che tutte
vengano considerate in modo eguale. Esse possono compiere il proprio dovere nei confronti delle istituzioni
coordinando le loro azioni in modo che, mentre ciascuna ha l'opportunità di esercitare il proprio diritto, non
vengano superati i limiti del grado di disobbedienza civile. Bisognerebbe tuttavia osservare che una minoranza
offesa è indotta a credere che le proprie pretese siano forti come quelle degli altri gruppi, e di conseguenza
spesso può risultare saggio supporre che le loro pretese siano di pari valore.

Queste tre condizioni non bastano; bisogna tenere conto anche della possibilità di offese a terzi, cioè agli innocenti.
Se la nostra condotta serve soltanto a provocare una dura ritorsione della maggioranza, possiamo avere agito
all'interno dei nostri diritti, eppure in modo poco saggi. Dato che la disobbedienza civile è una modalità del rivolgersi
a qualcuno che ha luogo in pubblico, bisogna fare attenzione che essa venga compresa. di conseguenza, l'esercizio
del diritto della disobbedienza civile dovrebbe essere strutturato in modo razionale allo scopo di far progredire i
propri fini o i fini di coloro che si desidera appoggiare.

La giustificazione dell’obiezione di coscienza

Il principio fondamentale del diritto internazionale è un principio di eguaglianza. Popoli indipendenti, organizzati in
stati, possiedono certi eguali diritti fondamentali. Una conseguenza dell'eguaglianza delle nazioni è il principio di
autodeterminazione, cioè il diritto di un popolo a risolvere i propri problemi senza che intervengano potenze
straniere. Un'altra conseguenza è il diritto di autodifesa contro l'attacco, compreso il diritto di stipulare alleanze
difensive per proteggere tale diritto. Anche in una guerra giusta, però, certe forme di violenza sono assolutamente
inammissibili e, nel caso in cui il diritto di un paese a muovere guerra sia discutibile o incerto, le restrizioni sui mezzi
che esso può usare devono essere ancora più severe. Lo scopo della guerra è una pace giusta e, di conseguenza, i
mezzi impiegati non devono distruggere la possibilità della pace, o incoraggiare a un disprezzo della vita umana che
mette a repentaglio la nostra sicurezza è quella dell'umanità. Se l'obiezione di coscienza in tempo di guerra si appella
a questi principi allora è fondata sulla concezione politica e non necessariamente su nozioni religiose o di altro
genere. Ad esempio, se un soldato riceve l'ordine di compiere determinati atti di guerra illeciti, può rifiutarsi, se
crede con ragione e coscienza che siano stati apertamente violati i principi che si applicano alla condotta di guerra.
Egli può sostenere che, tutto considerato, il suo dovere naturale di non divenire l’attore di una grave ingiustizia o
danno per qualcun altro prevalga sul suo dovere di obbedire. Una questione un po' differente è quella se uno debba
o meno entrare nelle forze armate nel caso di alcune guerre particolari. La risposta tende a dipendere tanto dallo
scopo della guerra quanto dalla sua condotta.

La coscrizione è permessa solo se richiesta dalla difesa stessa della libertà, che comprende non soltanto la libertà dei
cittadini della società in questione, ma anche quella delle persone che fanno parte di altre società. Una persona può
rifiutare in coscienza di attenersi al dovere di entrare nelle forze armate in una certa guerra, poiché gli scopi del
conflitto sono ingiusti. Non esiste una causa giusta di guerra, e può essere sufficientemente evidente che un
cittadino sia giustificato nel rifiutarsi di adempiere al proprio dovere giuridico. Un cittadino può sostenere che, una
volta chiaro che la legge morale di guerra viene regolarmente violata, egli ha il diritto di rifiutare il servizio militare in
base al fatto che il diritto di assicurarsi di rispettare il proprio dovere naturale. In realtà, se gli scopi del conflitto sono
abbastanza dubbi, e se le probabilità di ricevere ordini ingiusti è sufficientemente alta, si può avere il dovere, e non
soltanto il diritto, di rifiutarsi. Esonerando i pacifisti dall’ottemperare alle sue disposizioni, lo Stato può anche
sembrare disposto a dimostrare una certa magnanimità. Ma l'obiezione di coscienza basata sui principi di giustizia
dei popoli che si applicano a conflitti particolari è tutta un'altra cosa.

Il ruolo della disobbedienza civile

Quando ci si impegna nella disobbedienza civile si intende rivolgersi al senso di giustizia della maggioranza e far
presente in modo leale che, secondo la propria opinione sincera e ponderata, sono state violate le condizioni per una
libera cooperazione. Ci appelliamo agli altri affinché essi riconsiderino il problema, e riconoscono che non possono
aspettarsi da parte nostra un’aquiescenza indefinita alle condizioni che ci hanno imposto. Una volta che la società
viene interpretata come uno schema di cooperazione tra uguali, coloro che sono danneggiati da gravi ingiustizie non
devono necessariamente sottomettersi. In effetti, la disobbedienza civile è uno dei meccanismi di stabilizzazione di
un sistema costituzionale, sebbene sia per definizione illegale. La disobbedienza civile usata nei limiti stabiliti e con
valido giudizio, aiuta a mantenere e rafforzare le istituzioni giuste. Una generale disposizione a impegnarsi in una
disobbedienza civile giustificata introduce stabilità in una società bene ordinata, o in una quasi giusta.

Negare giustizia a qualcuno significa o non considerarlo come uguale, o manifestare la volontà di sfruttare la forza
del caso e della cadere naturali al nostro vantaggio. In entrambi i casi, l'ingiustizia deliberata invita o alla
sottomissione o alla resistenza. La sottomissione stimola il disprezzo di coloro che perpetuano un'ingiustizia e li
conferma nelle loro intenzioni, mentre la resistenza recide vincoli di comunità. Parlando di disobbedienza civile non
si è fatto riferimento a principi che non siano politici, concezioni religiose o pacifiste non sono essenziali. Anche se
coloro che si impegnano nella disobbedienza civile spesso sono stati rimossi dalle convenzioni di questo genere, tra
questa e la disobbedienza civile non c'è alcuna relazione necessaria. Essa infatti si basa su principi di senso comune
della gustizia che gli uomini possono reciprocamente chiedersi di seguire, e non su affermazioni di fede o amori
religiosi, che non si può richiedere vengano accettati da tutti. In una società democratica, quindi, si riconosce che
ciascun cittadino è responsabile della propria interpretazione dei principi di giustizia della propria condotta alla luce
di questi ultimi. Non può esistere alcuna interpretazione di questi principi, giuridica o socialmente approvata, che
siamo moralmente sempre vincolati ad accettare, neppure quando ci viene data da un tribunale o da un organo
legislativo supremo.

LEZIONE 10: “I DIRITTI PRESI SUL SERIO” DI R. DWORKIN

Disobbedienza civile

Come dovrebbe comportarsi il governo nei confronti di coloro che disobbediscono alle leggi sul servizio militare per
ragioni di coscienza? Il governo deve perseguire i dissidenti e, se sono dichiarati colpevoli, deve punirli  una società
non può sopravvivere se tollera qualsiasi tipo di disobbedienza, ma da ciò non segue che essa di disintegrerà se ne
tollera alcuni  MA la società non potrebbe funzionare se ognuno disobbedisse alle leggi che disapprova o trova
svantaggiose: se il governo tollerasse quei pochi che non stanno al gioco, permetterebbe loro di assicurarsi i benefici
derivanti dal rispetto della legge da parte di tutti gli altri senza sopportarne gli oneri, e ciò avverrebbe anche nel caso
delle leggi sul servizio militare obbligatorio. L’argomento presuppone che i dissidenti siano consapevoli di violare una
norma valida, e che rivendichino il diritto di poterlo fare; tutti coloro che discutono sulla disobbedienza civile
riconoscono che in America una legge non può essere valida se è incostituzionale: se la legge non è valida, nessun
crimine è stato commesso e la società non ha il potere di punire  se la legge è valida è stato commesso un crimine
e la società deve punire. Negli USA ogni legge cui la maggior parte delle persone potrebbe essere tentata di
disobbedire per motivi morali è dubbia per motivi costituzionali  la connessione tra questioni morali e giuridiche è
apparta chiara a partire dagli anni 60’ e 70’; il dissenso si è basato sulle seguenti obiezioni morali:

 Gli USA stanno usando in Vietnam armi e tattiche immorali;


 La guerra non è mai stata approvata dai rappresentanti eletti dai cittadini con una votazione apposita; etc..

I giuristi ammetteranno che queste posizioni morali forniscono le basi per gli argomenti costituzionali, perché:

 La Costituzione trasforma i trattati in diritto interno;


 La Costituzione stabilisce che spetta al congresso dichiarare la guerra; etc..

Cosa dovrebbe fare il cittadino quando il diritto non è chiaro ed egli ritiene che esso gli permetta di fare ciò che altri
pensano gli vieti? Con tale quesito si vuole sapere quale sia il suo dovere in quanto cittadino: si tratta di una
questione cruciale, perché non può essere scorretto non punirlo se egli sta agendo nel modo in cui secondo noi
dovrebbe agire. Dworkin afferma che non esiste un diritto a seguire la propria coscienza, e quindi se non esiste tale
diritto, seguire la propria coscienza può in certi casi essere comunque la cosa giusta da fare? In inglese la parola right
esprime sia i casi in cui abbiamo un diritto di fare qualcosa che i casi in cui una cosa è giusta da fare: se noi siamo
padroni di un appartamento, e abbiamo un inquilino moroso, abbiamo il diritto di sfrattarlo, ma potrebbe non essere
la cosa giusta da fare se magari questo inquilino è appena stato licenziato o ha dovuto affrontare delle spese
impreviste per la propria salute  l'autore specifica che i due significati della parola inglese non coincidono.

Dworkin non si chiede a quali condizioni abbiamo il diritto di fare qualcosa di sbagliato, ma si chiede in quali
condizioni abbiamo la possibilità di fare cose per le quali non abbiamo diritto  per affrontare questo problema,
Dworkin afferma che questo sembra un problema nella misura in cui noi non ci chiariamo su cosa sia un "diritto" e lo
utilizziamo per indicare due tipi di diritti:

 I diritti pretese (claim): dire che abbiamo un diritto pretesa a fare qualcosa vuol dire che c'è almeno un'altra
persona al mondo che è titolare del dovere corrispondente al mio diritto;
 I diritti come libertà (liberty): i diritti come libertà non hanno un dovere corrispondente in capo a qualcuno
(io ho diritto di indossare una certa giacca, ma nessuno ha il dovere di comprarmela se non ce l'ho).

La questione è se disobbedire possa essere considerato come un diritto pretesa o come diritto libertà: Dworkin
prosegue dicendo che ciò che rende l'ordine pubblico legittimo e che quindi genera obblighi politici è la capacità del
governo di garantire i diritti fondamentali delle persone che sono i diritti come pretesa. Il governo non ha il diritto
libertà di esercitare il suo potere in modo che sia lesivo dei diritti come pretesa delle persone; qualora il governo
dovesse in qualche modo violare un diritto pretesa (e quindi essere un'istituzione ingiusta), disobbedire diventa
moralmente giustificabile in senso forte: non solo in senso che è moralmente permissibile, ma nel senso che a fronte
della violazione dei diritti pretesa si genera un nuovo diritto che normalmente le persone non hanno ossia appunto il
diritto di disobbedire.

LEZIONE 11: “THE AUTHORITY OF LAW” DI J. RAZ

Non dovrebbe esserci il diritto morale alla disobbedienza in uno stato liberale  Uno Stato è liberale solo se include
leggi che facciano in modo che nessun uomo debba essere responsabile per una violazione dei doveri, se la sua
violazione deriva dal credere che è moralmente ingiusto obbedire a una legge.

Coscienza e rispetto per le persone


L’obiezione di coscienza non è adatta solo per il servizio militare. La difficoltà nel dimostrare ciò, però, sta nel riuscire
a mostrare che una persona ha la possibilità di andare contro la legge SOLO perché pensa che sia sbagliato. I punti di
forza dell’utilitarismo sono l’impossibilità dell’uso della forza assoluta e la difficoltà di soddisfare gli altri desideri
senza portare danni agli altri.

Da questo punto di vista, l’utilitarismo può essere considerato come una forma di umanesimo:

 Creazione e protezione delle condizioni di sviluppo dei talenti delle persone in armonia con la loro natura;
 Creazione di un ambiente che faccia in modo di perseguire i desideri in ogni modo possibile.

Problema della scelta tra l’essere falsi rispetto alle proprie convinzioni morali, o sacrificare ciò che potrebbe essere
essenziale peri propri obiettivi  L’Umanesimo risponde con il preferire il moralmente sbagliato.

Coscienza e scopo della legge

Una società umanistica permetterebbe l’imposizione dei doveri sulle persone solo se questi sono giustificati da
interesse personale al dovere, interesse di altri individui identificabili o interesse pubblico  E’ difficile immaginare
una situazione in cui costringere la coscienza di un adulto normale alla legge possa essere giustificato. È assunto che
la legge rispetta il pluralismo e frena la libertà d’azione individuale raramente.

 Le leggi che proteggono il pubblico interesse permettono una certa flessibilità per l’inutilità del contributo di
ogni individuo;
 In una società umanistica, le misure penali ci saranno solo per casi in cui il danno è inadeguato per
compensazione e in cui la materia colpisce i vitali interessi della vittima (vedi eutanasia/suicidio assistito).

Libertà di coscienza e diritto di obiezione

Risolvere il problema  Istituire una dottrina legale per regolare l’obiezione di coscienza:

1. La sua esistenza incoraggerebbe forme di introspezione indesiderate;


2. La dottrina dovrebbe sanzionare gradi di pubblica intrusione negli affari privati degli individui.

È preferibile tutelare la libertà di coscienza in altri modi  Forgiare (o riforgiare) la legge controversa in modo da
evitare potenziali obiettori.

LEZIONE 13: “L’OBIEZIONE DI COSCIENZA CONTRA LEGEM COME UNA RIVENDICAZIONE DI RISPETTO” DI E. CEVA

Originariamente concepita come un atto di resistenza contro l’uso illegittimo o ingiusto del potere, l’obiezione di
coscienza è divenuta uno strumento diffuso di contestazione politica nelle mani delle minoranze  la coscienza è
stata chiamata in causa quale fonte di richieste di trattamento differenziale: viene invocata come una sorta di scudo
contro linee di condotta sostenute dalla maggioranza ma ritenute moralmente sbagliate dall’obiettore. La coscienza
è intesa come la facoltà di discernere ciò che è moralmente giusto o sbagliato.

Obiezione di coscienza, disobbedienza civile e rivoluzione

Per comprendere la specificità dell’obiezione di coscienza (OC) sarà utile distinguerla da altre forme di protesta
illegale quali la disobbedienza civile (DC) e la rivoluzione:

 Gli atti rivoluzionari sono indirizzati alle istituzioni, la cui autorità viene contestata.
 La DC e l’OC sono indirizzate verso una legge o una politica specifica, emanate da un’autorità legittima; esse
emergono da un conflitto tra il dovere che ogni cittadino ha di obbedire alle decisioni prese da un’autorità
legittima e quello di seguire le proprie convinzioni in materia di giustizia e moralità personale.

Un obiettore di coscienza richiede di essere messo al riparo da un male morale, giudicato come tale secondo i suoi
standard di moralità personale # la DC si configura come un appello al senso di giustizia della maggioranza su di una
questione che tocca standard riconosciuti dalla società di riferimento  l’OC affonda le radici in appelli alla
coscienza individuale dell’obiettore su di una questione che tocca standard di moralità personale.

NB: si possono ritenere giustificate solo quelle forme di DC che sono pubbliche e portate avanti da persone pronte
ad accettarne le conseguenze morali e legali.

La DC è stata difesa quale strumento attraverso il quale i cittadini possono esercitare controllo sull’operato dei
propri governanti  l’OC può essere vista come strumento nelle mani delle minoranze per superare una inerzia
legislativa: quando le istituzioni democratiche cedono a favore della maggioranza e non considerano le rivendicazioni
di coscienza delle minoranze, l’OC può far si che tali rivendicazioni emergano e raggiungano l’agenda politica quali
rivendicazioni di rispetto.

Il carattere pubblico dell’OC può emergere se viene comparata all’evasione di coscienza: l’OC è pubblica nel senso
che si manifesta attraverso infrazioni paesi di certe previsioni al fine di ottenere un’esenzione legale da esse. L’OC è
in grado di veicolare rivendicazioni fondate su morali personali di cittadini che si trovano in posizione minoritaria
rispetto a una previsione democraticamente stabilità, l’osservanza della quale comporterebbe per l’obiettore un atto
moralmente sbagliato che può mettere a rischio la sua integrità morale.

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