Sei sulla pagina 1di 28

Lez 9/10

I filosofi utilitaristi reputano necessario adempiere ai nostri doveri in quanto questo genera delle
conseguenze attese. Gli utilitaristi si dividono però in due famiglie: gli utilitaristi dell'atto e gli
utilitaristi della regola; i primi si limitano a pensare cosa succede in seguito all'azione singola,
mentre i secondi si interrogano sull'ipotesi che il principio che ha guidato la singola azione possa
venire generalizzato e cercano di pensare a quali conseguenze porterebbe questo processo. Una cosa
moralmente sbagliata non è necessariamente un'ingiustizia, infatti ogniqualvolta c'è un'ingiustizia
c'è un dovere a cui si è venuti meno e/o un diritto di qualcuno che è stato violato e questi solo sono i
caratteri che connotano un'ingiustizia.

La giustizia è una relazione formale tra portatori di diritti e portatori di doveri

Quella definizione di giustizia è formalmente corretta, ma è concettualmente vuota infatti non dice
quali diritti e quali doveri vengono interessati. Quando si costituisce l'ordine pubblico è necessario
stabilire un sistema di regole che sia rispettabile e rispettato da tutti e da ciascuno. Quando noi
osserviamo la condotta di un individuo dobbiamo tenere presente le varie sfere morali in cui si
colloca un'azione piuttosto che un'altra. Ci sono però dei casi in cui non è possibile dire se una linea
di condotta è preferibile ad un'altra e questi casi vengono definiti dilemmi, e sono azioni in cui c'è
sempre una perdita di valori, e ciò si evince quando le condotte possibili conducono
necessariamente ad una ingiustizia o per se o per gli altri. Quando noi cerchiamo di giustificare
l'ordine pubblico dobbiamo cercare delle ragioni pratiche ossia in grado di guidare l'azione; non
sono quindi sufficienti motivazioni razionali. Per ordine pubblico intendiamo l'insieme delle regole
di convivenza e a tale ordine possiamo guardare da una prospettiva descrittiva (che è il lavoro di
sociologi e scienziati sociali che devono capire perchè l'ordine pubblico è come lo vediamo), ma lo
possiamo anche vedere da una prospettiva normativa per cui ci chiediamo se le cose che vediamo
sono come dovrebbero essere. La prospettiva normativa può essere indagata con il criterio della
legge, che è un valore positivo (cioè creato) oppure possiamo interrogarci in base al criterio morale.
L'obbligo politco è un obbligo indipendente dal contenuto, gli obblighi politici perchè funzionino
devono essere capaci di vincolare le persone in quanto provengono da una certa autorità e non per il
contenuto che hanno. Gli obblighi politici sono stati definiti come una "cambiale in bianco" che noi
firmiamo al momento della nascita e che in qualunque momento può esserci chiesta. Alcuni
criticano questa concezione di obbligo politico in quanto questa spiegazione darebbe giustificazione
anche di un certo tipo di autorità. Riguardo obblighi giuridici, politici e morali si creano poi
questioni di legittimità, legalità e giustizia. Woods (?) sostiene che la politica è il dominio delle
mani sporche e che non c'è modo di agire per un agente pubblico senza sporcarsi le mani. Ci sono
anche filosofi che giustificano la disobbedienza civile; chi la giustifica ritiene la disobbedienza
civile come una forma di comunicazione politica che viene utilizzata a seguito del fallimento degli
altri metodi di comunicazione. Chi giustifica la disobbedienza civile lo fa se e solo se ha esaurito
tutti i canali legali e quindi come estrema ratio viola la norma; inoltre la disobbedienza civile per
essere giustificata deve essere pubblica e rivendicata fin da subito (come fece Martin Luter King,
non chi fa un mezzo illecito di nascosto e poi si giustifica). La disobbedienza civile è
contravvenzione alla norma per motivi politici, mentre l'obbiezione di coscienza è contravvenzione
alla norma per integrità morale propria.

Lez 10/10
Definire significa dare una serie di condizioni individualmente necessarie e congiuntamente
sufficienti perchè una cosa sia tale. Per ordine pubblico intendiamo [1] un insieme di regole di
condotta [2] riconosciute come eque e vincolanti [3] da individui interessati a perseguire i propri
piani di vita [4] in maniera cooperativa con altri. L'elenco numerato corrisponde alle 4
caratteristiche che servono a descrivere l'ordine pubblico. Analizzando le singole caratteristiche
vediamo che le regole sono di tipo specifico ovvero sono regole di condotta e sono regole pratiche
che ci dicono come ci dobbiamo comportare in quanto cittadini; tali norme devono essere eque e lo
sono se sono ritenute moralmente accettabili (dovremo poi vedere quali sono le caratteristiche di
accettabilità morale). Le regole di condotta devono essere eque, cioè moralmente accettabili, ma
devono anche essere vincolanti, ovvero devono essere in grado di guidare l'azione umana. Le regole
devono avere queste caratteristiche, però non solo devono essere tali in linea di principio, ma
devono essere passibili di riconoscimento presso i soggetti che vi si devono sottoporre. La
prospettiva che adotteremo non è quella dell'oggettivismo filosofico (secondo cui esisterebbe una
qualche verità oggettivamente data), ma è di individualismo metodologico e quindi il soggetto
moralmente rilevante è proprio l'individuo. In questa caratterizzazione dell'ordine pubblico gli
individui vengono connotati come agenti morali motivati al perseguimento di piani di vita, e
concepire l'individuo come agente morale significa concepire l'individuo come responsabile delle
proprie azioni ed un soggetto razionale che è autodereminante è autore del proprio piano di vita. Gli
agenti morali sono capaci di autonomia e per questo sono responsabili del piano che decidono di
crearsi; tale capacità di assunzione di responsabilità è cruciale al fine di determinare i tipi di
condotta moralmente rilevanti. Un agente morale si distingue da un paziente morale perchè il
paziente morale è destinatario di diritti, solo gli agenti morali sono titolari anche di doveri morali.
Tipicamente gli animali sono pazienti morali perchè io non posso fare con loro quello che voglio, il
che non significa che hanno dei diritti, ma noi abbiamo delle limitazioni nei loro confronti, gli
agenti morali hanno anche la possibilità di avere dei diritti da rivendicare. Hofeld ha distinto vari
tipi di incidenti normativi e ha qualificato i diritti in 2 fattispece: i diritti pretesa e i diritti libertà e ai
diritti libertà non corrisponde necessariamente un dovere (io sono libero di indossare una certa
giacca, ma nessuno è obbligato a comprarmela se io non ce l'ho), si crea solo una zona di non
interferenza da parte degli altri soggetti. Ai diritti pretesa corrisponde invece un dovere perfetto (al
mio diritto di vita corrisponde il dovere di non uccidermi da parte degli altri soggetti). Qualcuno
sostiene che non esistano doveri a cui non corrispondono a dei diritti specifici, mentre altri credono
che il mio diritto, ad esempio, a non creare danno può generare dei privilegi presso taluni soggetti,
ma è da essi indipendenti. Affermare che i soggetti sono interessati a perseguire i propri piani di vita
non significa assumere che essi siano mossi da egoismo in quanto il mio piano di vita può essere
interamente altruistico. L'ultima condizione della definizione qualifica l'idea di società con la quale
lavoreremo, ossia l'idea di un sistema collaborativo: si entra in società perchè la realizzazione del
nostro piano di vita può essere portata avanti solo tramite la collaborazione con altri. L'assunzione
che si fa è che la vita in società non è una condizione naturale, ma una condizione artificiale (cit
Hume) ossia necessaria date certe condizioni. Quest ultimo assunto della teoria contrattualistica si
contrappone all'aristotelismo che vede invece l'uomo come un animale sociale e quindi
naturalmente portato alla vita di società. In entrambe le caratterizzazioni però l'idea di società è la
stessa ed è quella di un sistema di cooperazione. Dalla definizione di ordine pubblico possiamo
ricavare alcune idee fondamentali: l'idea di persona come agente morale; l'idea di società come
sistema di cooperazione; l'idea della scelta dell'individualismo metodologico per cui giustificare
l'ordine pubblico significa renderlo accettabile ai signoli cittadini; questo con l'obiettivo di
giustificare in un modo che sia equo e vincolante (ciò è difficile da raggiungere per via del
pluralismo morale). Passiamo ora da un lavoro analitico a quello normativo. Quando si parla di
ordine pubblico noi possiamo valutarlo secondo due ideali normativi fondamentali, dove valutare
dal punto di vista normativo significa saggiare l'argomento alla luce di un qualche ideale che ci dice
come le cose dovrebbero essere. I due ideali con cui lavoreremo sono quelli di legittimità e
giustizia. Interrograsi rispetto alla legittimità dell'ordine pubblico significa chiedersi: chi detiene il
potere nell'ordine pubblico, a che titolo lo fa? La domanda di legittimità tocca l'autorità politica,
dove l'autorità è chi detiene potere coericitivo, e la titolarietà del suo esercizio. La legittimità può
essere un giudizio che noi diamo sulla base degli esiti oppure rispetto ai modi di acquisizione del
potere. Le teorie orientate agli esiti sono teorie per le quali ciò che legittima all'utilitzzo del potere è
una qualche caratteristica dei fini che si perseguo, per esempio c'è chi sostiene che l'autorità dello
stato sia legittima se viene utilizzata per tutelare i diritti fondamentali dei cittadini (uno stato
incapace di tutelare i diritti civili perchè certe categorie di popolazione vengono discriminate o che
limita la libertà di stampa, è uno stato con autorità messa in dubbio). Questa posizione si
contrappone a chi pensa che la legittimità sia un fattore procedurale, per cui quello che conta è il
modo attraverso il quale si arriva al potere (le elezioni democratiche sono uno strumento di
legittimità procedurale, il governo italiano è legittimo perchè è eletto democraticamente,
indipendetemente dallo scopo per cui poi si usa il potere). La corrente della legittimità legata ai
modi si è sviluppata in quanto molti pensano che gli esiti siano inevitabilmente esposti alle
limitazioni del soggetivismo e pluralismo morale per cui ci sarà sempre qualcuno che è in
disaccordo con gli scopi perseguiti; la presunzione è che le procedure sono per loro natura meno
controverse degli esiti (non è propriamente così facile). La domanda di giustizia, da porsi
ulteriormente a quella di legittimità, è: il sistema di cooperazione è moralmente giustificato? Anche
dalla prospettiva della giustizia è possibile rispondere circa la giustificazione morale in base alle
due prospettive: quella degli esiti e quella legata ai modi. Valutare il sistema di cooperazione sulla
base degli esiti significa valutare alla luce della distribuzione di costi e benefici che risulta dal
sistema di cooperazione: i costi e i benefici prodotti dalla cooperazione sociale, distribuiti tra coloro
che vi partecipano, sono distribuiti in modo moralmente accettabile? Quando parliamo di giustizia
orientata agli esiti parliamo essenzialmente di giustizia distributiva, che è quella proprietà che
riguarda l'allocazione di qualche bene. Dalla prospettiva delle procedure un sistma di cooperazione
è giusto se i termini secondo i quali la cooperazione sociale è strutturata trattano i soggetti in un
modo che è inerentemente moralmente strutturato. La giustizia da questo punto di vista è una
questione relazionale, non più distributiva e da questa prospettiva un sistema è giusto se instaura un
insieme di relazioni politiche di un certo tipo. L'idea fondamentale, da questo punto di vista, è che
quello che conta non è solo quello che ottengo, ma come lo ottengo. Secondo i teorici della giustizia
relazionale non è politicamente sufficiente che vengano forniti dei servizi, ma il modo in cui tale
vengono concessi. Jonathan Wolff aveva condotto uno studio su un sistema di distribuzione di
vaucher a strati sociali meno agiati e questo, che era stato presentato come un provvedimento
rispondente alla giustizia degli esiti, per il modo attraverso cui veniva ottenuto era però
profondamente ingiusto perchè il vaucher identificava il soggetto come meno abbiente e quindi in
qualche misura lo umilia pubblicamente. A seconda che noi valutiamo l'ordine pubblcio a seconda
di legittimità o giustizia e a seconda di esiti o procedure possiamo avere ordini pubblici opposti. Si
possono avere quindi ordini pubblici legittimi, ma ingiusti, ed è possibile anche trovare sistemi
pubblici giusti ma illegittimi (colpo di stato che però instaura un regime di tirannia illuminata). Per
dare un giudizio completo di ordine pubblico sia giudizio di legittimità che giudizio di giustizia
devono essere verificati, in tal caso si dice verificato "tutto considerato"; se solo uno dei due rami è
giustificato diremo che è giustificato "pro tanto". C'è una terza categoria che è la giustificazione
prima face, ossia c'è una presunzione che quello che stiamo analizzando sia giustificato, ma
potrebbe non esserlo. Il problema dell'obbligo politico è tipicamente un problema che parte dalla
presunzione di giustificazione almeno prima face. Quello dell'obbligo politico è un dubbio che
riguarda primariamente il problema della legittimità in quanto ha a che vedere con i limiti e
l'estensione dell'autorità pubblica. Se l'obbligo politico ha a che vedere con la questione di
legittimità, la giustizia solleva invece principalmente problemi di obbligo morale e di morale
pubblica, nel caso ideale c'è una armonizzazione tra obbligo politico e obbligo morale in quanto
l'obbligo morale sosterrebbe l'obbligo politico. L'obbligo politico si distingue anche in modo chiaro
dall'obbligo giuridico la cui fonte è la norma positiva (la legge), i motivi di differenza principali
sono due: l'obbligo politico è più specifico dell'obbligo giuridico in quanto l'obbligo politico vincola
soltanto chi è memrbro della comunità politica, mentre le leggi si applicano anche a chi non è
membro (i turisti per esempio); tuttavia l'obbligo politico qualifica una sottospecie di obbligo
giuridico che riguarda la complessità dei rapporti tra individuo e la sua comunità; possiamo quindi
dire che l'obbligo politico è più ristretto riguardo agli ambiti di applicazione, ma ha una maggiore
estensione numerica.
Lez 16/10
[Prendere libro "in difesa dell'anarchia"]
Il problema dell'obbligo politico spesso non viene tematizzato perchè si nasce in una comunità e
quindi in qualche misura si da per scontato che ci siano degli obblighi a cui noi dobbiamo
adempiere. Il problema nasce quando l'autorità ci richiede qualcosa e noi non riconosciamo come
giustificata quella data richiesta. Per cercare di capire questioni come questa può sempre essere utile
cercare di estremizzare l'esempio e quindi cercare di capire cosa pensano coloro che ritengono che
nessuna richiesta sia giustificata. La posizione dell'anarchismo filosofico, non è la posizione
dell'ognuno per se e dio per tutti, significa ritenere che l'autorità non sia mai moralmente giustificata
e questa posizione non coincide necessariamente con l'anarchismo politico, posso infatti obbedire
alla legge perchè temo le conseguenze negative e non perchè percepisco un obbligo morale.
Secondo gli anarchici è impossibile giustificare l'autorità politica perchè questa è inevitabilmente e
logicamente incompatibile con l'autonomia morale delle persone. L'argomento che Wolff sostiene
nel suo libro è che non esiste obbligo politico perchè obbedire all'autorità vorrebbe dire venir meno
alla propria autonomia. Wolff afferma che lo stato è il gruppo di persone che detiene e esercita
l'autorità suprema sulle persone che vivono in un certo territorio e definisce autorità (che è la
proprietà normativa dello stato) (p 35) come il diritto di comandare e di converso il diritto di essere
obbediti, essa va distinta dal potere che è la capacità di imporre qualcosa con la violenza o
minacciando l'uso della violenza. Il tipo di autorità politica che dobbiamo giustificare se vogliamo
giustificare l'obbligo politico è quello "della cambiale in bianco". Wolff scrive che l'obbedienza
significa obbedire a quello che ci dice qualcuno non per il contenuto della richiesta, ma perchè è lui
a chiederlo. Wolff arriva all'argomento dell'autonomia passando attraverso un altro elemento
normativo fondamentale che è l'idea di responsabilità. Il senso più ovvio per cui una persona viene
ritenuta responsabile è quello della responsabilità causale, e questo non necessariamente individua
una relazione tra soggetti. La responsabilità causale è solitamente retrospettiva, quindi noi ci
chiediamo la causa di un evento che si è già verificato, e se ci sono più concause dobbiamo dare un
peso specifico alle varie concause. Non sempre il responsabile in senso causale, e quindi
retrospettivo, corrisponde con il responsabile in senso prospettico (in inglese si contrappongono
responsability e accountability e la migliore traduzione per il secondo termine è "dover rendere
conto di"). La responsabilità prospettica implica un esercizio di agenza morale e quindi implica
autonomia nel senso più letterale possibile ovvero avere governo di se stessi; in quest'ottica
respnsabilità significa documentarsi, prepararsi e poi mettere in atto il proprio piano di vita in modo
tale che, se fosse necessario, sarei in grado di rendere conto scientemente delle mie scelte. Secondo
Wolff essere autonomi prospettivamente non è un'opzione che gli uomini hanno, ma un loro dovere
(p 46-7) ed anche se noi possiamo decidere di sospendere la nostra autonomia, ma questo non vuol
dire che noi ipso facto smettiamo di essere autonomi, infatti in questo senso Wolff dice che l'uomo è
metafisicamente libero, perchè l'uomo è libero per natura. Si pone il problema dei casi in cui
l'autorità prevale sull'autonomia e quindi i casi in cui noi sospendiamo la nostra autonomia per
obbedire all'autorità e questo meccanismo di sospensione della libertà è ritenuto diverso, secondo
Wolff, dal meccanismo di sospensione della libertà che si pone in essere quando noi manteniamo
una promessa. La differenza tra i due casi è che nella promessa hai un obbligo specifico, mentre
l'obbligo politico è generale e diffuso, tu devi sospendere la tua libertà in continuazione ogni volta
che lo stato "stacca la cambiale".

Lez 17/10
Possiamo avere due visioni riguardo all'autonomia: una di tipo puramente strumentale rispetto alla
responsabilità ossia quello che conta sarebbe l'essere responsabili e per agire in modo responsabile
ci vuole libertà per potersi informare, prendere decisioni liberamente e quindi diventare autori delle
proprie scelte. La seconda visione è quella inversa per cui quello che conta è agire in modo
autonomo e per raggiungere questo tipo di vita dobbiamo essere responsabili. Questa posizione
sarebbe però molto complessa da gestire perchè chi decide di non agire liberamente o chi non può
agire liberamente (neonati, anziani non autosufficienti..) starebbe vivendo una vita di minor valore
rispetto a chi invece vive una vita pienamente libera, vita che sarebbe secondo questa concezione
l'unica degna di essere vissuta. Gli anarchici rifiutano l'implicazione che l'autonomia abbia un
valore intrinseco e cercano quindi di percorrere la strada secondo cui la libertà ha un valore
strumentale, quindi l'obiettivo è dimostrare che non è possibile essere responsabile (inteso nel modo
di essere capaci di decisioni deliberative) in nessuna tipologia di stato. Per raggiungere questo
scopo Wolff indaga la forma di governo che sembrerebbe avere maggiori chances per giustificare
l'obbligo politico, ossia la democrazia (pg 55). Secondo Wolff non basta dire che la democrazia è
l'oggetto del suo studio, perchè la democrazia è una procedura di aggregazione delle preferenze, ma
ci sono varie procedure con cui si può giungere a questo scopo. La forma migliore di democrazia,
che è l'unica che realizzerebbe l'eguaglianza tra autorità e autonomia deve avere 2 caratteristiche:
democrazia diretta e unanime: una comunità in cui tutti i membri sono chiamati a pronunciarsi su
tutti i temi e affinchè sia presa una decisione tutti devono essere di pensiero unanime. I critici
principali della democrazia deliberativa hanno come punto di accusa maggiore quello che è una
tipologia di democrazia che non rispetta il pluralismo, ma è anche vero che, come pensava
Rousseau, se c'è una minoranza c'è qualcuno che sbaglia, e discutendo viene fuori la verità che
convince tutti. Chi sostiene che esiste una verità politica che va disvelata attraverso la discussione,
sostiene il modello della epistocrazia ovvero il modello dei tecnici, intesi come persone che sono
maggiormente competenti e quindi adatti a scegliere in determinati ambiti. Secondo Habermas
quello che conta durante il processo di democrazia deliberativa è la forza dell'idea migliore e più
razionale, aspetto che però è facilmente sottoposto a critica per via della presenza, in questo
conteggio di forza dell'idea, di una componente soggettiva data dal carisma della persona che la
sostiene. Nel contesto dell'unanimità dei teorici della democrazia deliberativa non è previsto
oggettivismo morale, ma costruttivismo: non deve esistere una morale intersoggettivamente
condivisa che porti a prendere la decisione che viene percepita come "giusta", ma c'è un dibattito
basato sugli aspetti positivi e negativi e si deve arrivare ad una decisione che convince tutti.
Secondo Wolff i problemi con l'unanimità sono due: il primo è quello del disaccordo e il secondo è
quello delle tempistiche e la costruzione di unanimità può richiedere molto/troppo tempo soprattutto
se in condizione di disaccordo e differenza di abilità delgi oratori. Oltre ai problemi legati
all'unanimità, c'è anche il problema della partecipazione diretta che è difficile da realizzare
soprattutto in contesti più grandi e quindi per Wolff la democrazia diretta non può essere raggiunta
per problemi di spazi. Visto che la democrazia diretta e unanime, che risolverebbe i problemi di
coerenza tra autorità e autonomia, non è raggiungibile, dobbiamo trovare altre soluzioni. Partendo
dal problema della partecipazione diretta, Wolff afferma che si potrebbe passare alla democrazia
rappresentativa, pur immaginando di mantenere il requisito dell'unanimità. A tal proposito Wolff si
chiede se può un uomo preservare la sua responsabilità nell'adempiere a decisioni prese da un
proprio rappresentante? Wolff nega questa possibilità perchè dovrei sottostare a leggi approvate da
qualcuno che vota a nome mio, ma che non ha alcun obbligo di votare come voterei io e che non ha
nemmeno alcuno strumento efficace per sapere le mie preferenze. In questo modello noi non
possiamo pensare che i cittadini sviluppino lo stesso grado di conoscienze che hanno i
rappresentanti politici, perchè non hanno tempo per informarsi su tutto e scegliere in maniera
responsabile e chi ha già un altro lavoro non riesce a farlo. Wolff, assunto che la rappresentatività
non va bene, afferma che potremmo ipotizzare di installare delle voting machine nei televisori dei
cittadini e i canali associati a questa macchinetta sono tribune politiche o comunque canali di
informazione, a quel punto potremmo votare tutti e anche informati. Anche assumendo come
possibile l'utilizzo di queste macchinette, rimane il secondo problema (che prima avevamo
immaginato di accantonare) ovvero quello del disaccordo, quindi la democrazia diretta e unanime,
di nuovo, non sarebbe percorribile. Rinunciando anche al criterio dell'unanimità si giunge alla scelta
della democrazia maggioritaria e quindi Wolff si chiede com'è possibile far convivere sistema
maggioritario e autonomia, dato che l'esistenza della minoranza è certa non è solo un esito
sfortunato della votazione. Wolff prova ad individuare risposte possibili alla desiderabilità della
regola maggioritaria: la prima è che comunque è la migliore in via prudenziale in quanto la
maggioranza avrà comunque la meglio, ma così magari si evita il ricorso alla violenza; il secondo
argomento è strumentale e riguarda la capacità che la maggioranza ha di promuovere il benessere
generale (secondo Wolff questo argomento non funziona perchè chi, a torto o a ragione, sia nelle
minoranza, non viene trattato come chi appartiene alla maggioranza); l'utlimo elemento è che non è
il sistema ottimale, ma abbiamo buone ragioni di scegliere il sistema maggioritario perchè si vota su
questioni varie e possiamo assumere che nell'arco di una vita ciascuno si troverà alternativamente in
maggioranza e in minoranza ma nessuno sarà sempre non autonomo (secondo Wolff questo non
funziona perchè esistono le minoranze permanenti in quanto, per esempio, se i menu andassero a
votazione i vegani saranno sempre in minoranza). Ci sono poi altri 2 argomenti che Wolff analizza:
il primo è quello che ritiene essere il migliore (p 76) ed è quello del contratto con il quale l'ordine
pubblico viene costituito, in quanto nella transizione eventuale da democrazia diretta a modello di
regola di maggioranza, ogni cittadino deve (ipoteticamente) accettare volontariamente di rispettare
quello che la maggioranza sceglierà e pertanto se qualcuno dovesse successivamente obiettare che
si sta prendendo una decisone a lui contraria gli si potrebbe rinfacciare che egli ha sottoscritto
volontariamente un contratto sulla forma di governo. Wolff è contrario a questo argomento perchè
in prima istanza chi è membro di una minoranza permanente non avrebbe alcun interesse a scegliere
di sottoporsi volontariamente a una forma in cui sa che perderà la sua libertà e, ultreriormente, se il
punto è la volontarietà dell'accordo, allora non è necessariamente detto che venga scelta la
democrazia come forma di governo. Ultimo argomento da affrontare è quello secondo cui l'idea
vincente che sta alla base della democrazia non è l'effettiva uguaglianza tra la mia idea e la legge
perchè esistono i disaccordi, ma almeno da a tutti le stesse opportunità di partecipazione e influenza
sulla decisione finale. Per quanto venga riconosciuta come argomentaazione pregevole, Wolff non
cede e afferma che se la nostra preoccupazione è che tutti abbiano la stessa possibilità di influenzare
la decisione finale allora senza stare a mettere in atto la democrazia ci basterebbe attuare una
lotteria (che dal punto di vista procedurale è massimamente egualitaria).
Confutati tutti questi argomenti, Wolff giunge alla conclusione che il conflitto tra autorità e libertà
rimane e non esiste forma di governo che lo possa limitare o eliminare; la forma di governo diventa
quindi quella del non governo ossia dell'organizzazione sociale anarchica. Questa anarchia si
baserebbe prevalentemente sull'ideale della solidarietà pienamente volontaria e che non richiede nè
prevede un ordine generale, essendo infatti intrinsecamente mutevole e instabile.

Lez 23/10
La prima teoria in difesa dell'obbligo politico è la teoria volontarista dell'obbligo politico e queste
idee si basano sull'idea che gli unici obblighi moralmente vincolanti sono quelli che controlliamo in
prima persona: la volontarità del nostro contrarre un obbligo è condizione necessaria e sufficente
affinchè non si sia effettivamente vincolati nella nostra condotta a fare quello che qualcuno ci
chiede di fare (quindi condizione necessaria e sufficente dell'obbligo politico). Sono state fatte
diverse teorie dell'obbligo volontaristico che si basano o sull'idea di consenso (esplicito o tacito
reale o ipotetico) o su quella di contratto (pactum unionis o pactum subjectionis), quale che sia la
formulazione della teoria volontarista, tutte le teorie del contratto sono concordi nell'assumere che
le persone sono fondamentalmente libere e la libertà individuale richiede sottomissione volontaria
all'autorità politica.
Le teorie del consenso mirano a caratterizzare le condizioni dell'adesione di un singolo all'autorità
costituita quindi abbiamo il problema della giustificazione dell'adesione. Come facciamo a
verificare che tutte le persone che sottostanno ad una autorità politica abbiano aderito in maniera
volontaria e che quindi è per quel motivo che sono su quel terreno? Le teorie del contratto si
pongono invece la questione dell'istituzione della comunità politica e quindi si chiedono come mai
individui liberi dovrebbero decidere di vincolarsi gli uni agli altri istituendo diritti e doveri e
creando una comunità politica.
Beran scrive un libro che s'intitola "La teoria del consenso dell'obbligo politico" e secondo lui il
consenso moralmente rilevante è un consenso individuale e reale, non basta un consenso ipotetico a
legittimare la comunità politica. Il consenso secondo Beran è rilevante nella misura in cui
l'accettazione di un'autorità vuol dire accettazione dell'appartenenza, la cittadinanza va intesa come
membership e la comunità politica in quanto associazione volontaria è tale e quale a qualsiasi
associazione privata che dei singoli cittadini possono creare. La fonte del vincolo è quindi
l'accettazione volontaria di un sistema di regole, poi, che siano regolo pubbliche o private non fa
differenza. Beran per argomentare questa sua tesi segue l'idea che se la forma di consenso
vincolante è una forma che viene volontariamente contratta, allora bisogna chiedersi quale forma di
contratto potrà avere questa adesione? Il consenso ha la stessa forma morale di una promessa
volontariamente contratta, io mi impegno a fare volontariamente qualcosa nella misura in cui
qualcun altro si impegna a fare qualcos'altro, nel momento in cui una parte viene onorata, l'altra
parte è moralmente obbligata ad onorare la propria. Perchè le promesse siano normativamente
vincolanti devono esserci tre requisiti: una promessa estorta non è una promessa moralmente
vincolante; deve esserci una base di informazione e questo è importante perchè si entra nell'ambito
della responsabilità morale; le promesse devono essere sostenibili. Queste condizioni sono
individualmente necessarie e congiuntamente sufficenti, devono darsi tutte e tre perchè il consenso
sia moralmente vincolane. Questo ci porterebbe a pensare che il consenso reale che Beran insegue è
il consenso esplicito, Beran però afferma che per quanto il consenso debba essere reale, esso può
essere tacito in quanto nessuno di noi entrando nella società deve firmare un foglio simile al
consenso informato dell'ospedale. Per Beran l'assenza di dissenso equivale al consenso, ma anche in
questo caso devono darsi delle condizioni: dev'essere chiaro che la situazione è una situazione che
richiede assenso o dissenso; dovremmo immaginarci dei vincoli temporali massimi per il mio
dissenso; dev'esserci un'opportunità concreta di esprimere il proprio dissenso, ed è fondamentale
che tutti i membri della società siano a conoscenza di queste regole. In termini politici
l'implicazione di questa teoria è che deve esistere un diritto collettivo alla secessione, oltre che il
diritto individuale alla migrazione. Altro punto cruciale della teoria di Beran è che il consenso
siffatto è l'unica fonte di obbligo politico; l'autore però, per evitare di cadere nelle critiche degli
anarchici, afferma che la volontarietà del consenso ci da quella che è solo una ragione per obbedire
alle richieste dell'autorità politica. Beran individua 4 tipologie di ragioni pratiche per fare qualcosa:
il tipo di ragione più forte è la ragione di tipo incontestabile, le ragioni incontestabili sono ragioni
che sono sempre vincolanti in ogni circostanza; le seconde ragioni sono le ragioni definitive e una
ragione è di questo tipo se è una ragione che vince sempre sulle altre date certe circostanze, e in
questo tipo potrebbe ricadere l'obbligo politico anche perchè sarebbero le ragioni che connotano la
democrazia diretta e unanime di Wolff, poi secondo Wolff queste condizioni non ci sono e quindi
non c'è obbligo politico; il terzo tipo è quello delle ragioni di tipo escludente, e sono ragioni che non
vincono sulle altre, ma semplicemente escludono le altre ragioni dal nostro ragionamento morale.
Secondo Beran l'obbligo politico corrisponde a ragioni di tipo escludente e non a ragioni definitive
perchè queste ultime verrebbero eliminate da una ragione esludente; Alessandro Passerin
d'Entrèves, in accordo con la posizione di Beran, afferma che l'obbligo politico è il sonnifero del
ragionamento morale (dato appunto che per obbligo politico si escludono le altre ragioni morali). Le
quarte ragioni sono le ragioni semplici ovvero le ragioni di primo ordine. In conclusione, accettando
di restare in uno stato e quindi accettando di non andarsene, accetto l'obbligo politico in quanto lo
stato è fatto di regole e l'accettazione della partecipazione è l'accettazione delle regole. La domanda
che ci dobbiamo porre è se effettivamente l'analogia tra associazione privata e stato tiene e quindi se
è sufficiente prospettare una via d'uscita collegiale o individuale (secessione o migrazione) per poter
ritenere consenso il non dissenso.
Il primo limite che ha questa teoria è che un consenso che può essere revocato in qualsiasi
momento, sarebbe un consenso che genera un ordine pubblico altamente instabile. Il secondo limite
che possiamo individuare nelle teorie volontariste è il fatto che per ipotesi si ritiene che la
partecipazione allo stato esprima la nostra conformità alle regole che questo ha e quindi la
partecipazione allo stato esprimerebbe la nostra futura obbedienza alle norme volontariamente
accettate, ma questo significherebbe ridurre l'obbligo politico al livello dell'obbligo giuridico.
Questo limite sarebbe problematico anche perchè noi sappiamo che esistono obblighi politici che
non possono essere definiti obblighi giuridici, come ad esempio la partecipazione elettorale è un
obbligo politico, ma non essendo in alcun modo punita con una sanzione la non partecipazione, non
possiamo sostenere l'equivalenza tra obbligo politico e obbligo giuridico; inoltre, ad esempio, siamo
tenuti a rispettare le leggi di uno stato in cui ci troviamo come turisti senza però per questo contrarre
obblighi politici. Il terzo limite ha a che fare con la volontarità, in quanto queste teorie assumono la
volontarietà come condizione necessaria e sufficiente dell'obbligo politico, ma questo non è
plausibile perchè non siamo tenuti a fare solo le cose a cui noi diamo il nostro consenso, ci sono
infatti obblighi che non derivano dalla nostra volontarietà come l'obbligo di assistenza nei confronti
dei nostri genitori: il fatto di nascere in una famiglia ci pone nelle condizioni di avere un obbligo
morale di assistenza, che però noi non abbiamo contratto volontariamente. Il requisito della
volontarietà come condizione necessaria sembra vacillare, ma ci sono delle ragioni per dubitare
anche della sua natura sufficiente: se io sono un sicario e prometto di ammazzare una persona sotto
compenso e volontariamente contraiamo questo patto, ma poi ci sottraiamo al rispetto di esso,
difficilmente posso pensare di aver fatto qualcosa di sbagliato ottemperando al mio dovere morale
di non fare del male ad altre persone.

Lez 24/10
Altra famiglia delle teorie volontariste dell'obbligo politico è quella del contratto. Per quanto
riguarda le attribuzioni di volontarietà bisogna ricordare che anche in caso di coercizione non
possiamo scontare l'intera volontarietà dell'azione perchè anche nel caso del rapinatore che mi
minaccia di uccidermi se non gli do qualcosa, ad un costo molto alto che è quello della vita, posso
sempre decidere di ribellarmi alla coercizione. I teorici del contratto si muovono all'interno della
stessa cornice dei teorici del consenso, ma la domanda non è più come rintracciamo all'interno di
una comunità esiste i motivi di adesione, ma bensì come mai individui liberi e razionali dovrebbero
decidere di rinunciare a porzioni della propria libertà per sottomettersi ad una autorità esterna. La
triade rilevante per i contrattualisti è quella tra libertà, eguaglianza (mediate dalla razionalità) e
tutela della sicurezza; la spiegazione della triade è che per un individuo razionale è giusto rinunciare
a parte di libertà e eguaglianza per ottenere sicurezza. Bisogna rinunciare anche all'eguaglianza
perchè nel momento in cui creo un qualche tipo di autorità genero automaticamente anche una
gerarchia con a capo il soggetto a cui conferisco la mia libertà e pertanto perdo anche
l'uguaglianza. I teorici del contratto sociale partono dal presupposto che la triade non è
raggiungibile in natura, ma serve l'artificio dell'autorità.
Il maggiore teorico della teoria contrattualista è Hobbes; la sua teoria può essere vista come la
procedura di ragionamento attraverso la quale individui liberi ed eguali decidono di istituire
un'autorità pubblica. La teoria del contratto hobbsiana è una teoria del tutto ipotetica, quello che
l'autore fa è proporci un'idea, e quindi questo procedimento si contrappone a quello di Beran che
richiedeva un consenso reale. La teoria di hobbes presenta come caratteristiche formali: essere una
teoria eduttiva, ossia una teoria della scelta razionale, infatti Hobbes vuole dimostrare che sia
perfettamente razionale che, date certe condizioni che chiamerà "condizioni di giustizia", gli
individui decidano di consorziarsi e istituire una qualche autorità; la teoria parte da un'assunzione
antropologica di fondo che è quella che gli individui per natura devono essere concepiti come dei
calcolatori razionali in grado di decidere quale sia il percorso migliore per loro, si assume anche che
l'uomo ragiona con una razionalità semplice ossia quella che pone in relazione mezzi e fini, e questa
è una razionalità strumentale e strategica. In tutto questo, il calcolo razionale è fonte di moralità,
quindi non c'è una fonte di moralità che vada al di là del calcolo razionale. Quali sono le circostanze
di giustizia? Le circostanze di giustizia sono caratterizzate da quello che Hobbes definisce come lo
stato di natura, che l'autore vede come condizione ipotetica che non si è mai realizzata; lo stato di
natura è caratterizzato da due circostanze di giustizia fondamentali che sono una soggettiva e una
oggettiva: la prima condizione, nonchè fatto socialmente rilevante, è la moderata disponibilità di
beni sociali, per cui tutti noi vorremmo una quota più ampia di beni indispensabili (risorse, spazio e
gloria, che secondo Hobbes è il bene sociale più importante), e questi sono beni sociali perchè
richiedono una dimensione interpersonale per essere prodotti (se io vivo in una stanza non posso
ottenere gloria per una mia eccellenza). Le risorse sociali sono moderatamente scarse, servono
quindi dei principi per decidere chi può avere accesso a cosa ed è per questo che gli uomini entrano
in conflitto tra loro (non si può fare l'eremita). Secondo Hobbes per riuscire ad avere questi beni
sociali ogni individuo razionale è spinto ad agire per ottenere potere (e questa è la parte soggettiva)
e la ricerca di potere è la causa dei nostri problemi perchè il potere è una risorsa infinita, non c'è mai
fine alla lotta per l'acquisizione del potere; per questa ragione lo stato di natura è uno stato di guerra
di tutti contro tutti e la guerra è proprio la lotta per l'acquisizione del potere in circostanze di
diffidenza reciproca e competizione, che sono appunto le circostanze di giustizia. Nello stato di
natura l'eguaglianza ha una connotazione ben specifica che è quella che nessuno ha più potere degli
altri ed è per questo che si crea uno stallo che è la lotta per l'autoconservazione, nessuno da solo può
prevaricare sugli altri proprio per l'eguaglianza di fondo. In queste condizioni l'unica strategia
razionale è la strategia dell'attacco preventivo, questo genera una conflittualità universale e
perpetua; date queste circostanze Hobbes si domanda com'è possibile modificare lo stato di natura.
Siccome allo stato di natura io sono libero, la mia strategia di difesa, ossia l'attacco preventivo, è un
diritto a tutto (tutti hanno diritto di fare tutto ciò che è in loro potere per difendersi). Il diritto a tutto
stabilisce quindi l'ambito della razionalità; questo diritto non è un diritto-pretesa come sono i diritti
di giustizia, ma è un diritto-libertà, è per me moralmente lecito fare tutto il necessario per
accaparrare potere o beni sociali. Secondo Hobbes possiamo immaginarci che non ci sia solo un
diritto a tutto, ma è plausibile immaginarsi che ci siano anche delle leggi di natura che sono regole
che definiscono l'ambito della moralità e che dicono che non soltanto le persone devono poter
essere considerate libere, ma pongono dei vincoli impedendo alle persone di mettere in atto
condotte auto distruttive: per le persone, concepite in questo modo, non è solo razionale avere
diritto a strategia aggressiva, ma hanno anche un dovere di non mettere in atto condotte lesive della
propria vita (quindi diritto e dovere di auto conservazione). Attaccare, in una competizione di tutti
contro tutti, è prevedibile che porti alla mia auto distruzione (nasty, brutish, short sono gli agggettivi
della vita nello stato di natura) e quindi abbiamo delle ragioni forti per cercare la cooperazione. La
cooperazione e il rispetto dei patti cooperativi sarebbero resi possibile dalle leggi di natura, c'è però
il problema che le leggi di natura fungono da vincoli sull'accaparramento di potere perchè la
cooperazione fa si che ognuno abbia la maggior quota di potere in modo che tutti abbiano la stessa
quota (e questa quota sarà comunque inferiore a quella che raggiungerei se potessi assoggettare gli
altri soggetti) ed è nel mio interesse che i patti siano mutuamente vantaggiosi per tutti al fine che
questi patti siano stabili. Qui c'è però il problema dell'accessibilità a questi patti: io posso
riconoscere che per me è razionale rispettare i patti, di fatto però questa strategia si rivela
irrazionale, in quanto si crea la situaizone del dilemma del prigioniero in cui sarebbe razionale non
confessare, ma non è possibile perchè è razionale pensare che l'altro confessi e quindi finiamo per
confessare tutti e due. La defezione ai patti viene vista quindi come una scelta razionale, è la
posizione del free rider che è colui che collabora fino ad un certo punto, ma poi si sottrae alla
collaborazione quando può ottenere maggiori vantaggi non collaborando, ed è questa un'opzione
sempre razionalmente percorribile. Secondo Hobbes è però possibile costruire delle coalizioni
difensive: per me è strategicamente razionale date queste circostanze stabilire dei patti bilaterali di
difesa, non si tratta di cooperare (che significa produrre assieme qualcosa che altrimenti non ci
sarebbe), ma appunto di coalizzarsi. Questa scelta è razionale perchè minimizzo i fronti rispetto ai
quali mi devo parare. Secondo Hobbes se è raizonale stabilire delle coalizioni di mutua difesa, è
presumibile pensare che queste coalizioni nel tempo si stabilizzino perchè l'individuo è
perfettamente razionale e vede i vantaggi di ridurre i fronti di attacco e per questo estende il numero
dei patti di coalizione e si creano due conseguenze rilevanti: la prima è che in un contesto in cui la
maggior parte delle persone sono coalizzate la defezione non è più razionale perchè mi troverei da
solo contro tutti, ma perchè questo tenga (ed è questa la seconda conseguenza) è fondamentale che
io pensi che le coalizioni siano stabili e durino nel tempo, per ottenere questi requisiti è necessario
un contratto che pone un garante esterno che non è parte delle coalizioni, questo garante è sopra le
coalizioni e punisce chi defeziona. Devo quindi istituire un sovrano, il leviatano, a cui tutti e
ciascuno diamo la nostra libertà, rinunciando quindi alla nostra eguaglianza perchè il leviatano non
è subordinato, tratteniamo solo il diritto alla vita (altrimenti non sarebbe razionale dargli potere) e in
cambio otteniamo sicurezza, in questo modo assumiamo degli obblighi di natura squisitamente
politica. Questo sancisce l'ingresso nella società civile secondo Hobbes e questo accordo è stabile
nel tempo perchè è sorretto sia dalla morale che dalla coerenza con la nostra necessità di perseguire
interessi in un ambiente sicuro. Il sovrano per detenere la sua autorità deve avere effettiva capacità
di proteggere sia verso l'interno, garantendo l'ordine sociale, che verso i nemici esterni di altre
comunità politica. La teoria di legittimazione di Hobbes è sostanziale, la legittimità deriva dalla
capacità di esercitare potere in modo da garantire sicurezza. In queste circostanze, se pensiamo che
Hobbes abbia ragione abbiamo delle risposte ai limiti delle teorie del consenso: il primo limite era
che non trovavo motivazione alla natura prevalentemente politica, mentre qui c'è perchè abbiamo
una comunità politica istituita per perseguire obiettivi politici; il secondo problema era il fatto che
potevo revocare il consenso in qualunque moemento, mentre Hobbes crea un sistema duraturo e
abbiamo anche una chiara distizione tra obbligo politico e obbligo giuridico e quindi Hobbes rende
conto del perchè solo gli atti volontari generano il consenso. Due dei problemi principali della teoria
di Hobbes sono, oltre a quello esterno dell'assunzione antropologica di razionalità: il primo è che
bisogna dare una risposta convincente all'obbiezione dello stolto, ossia dimostrare che non sia mai
razionale defezionare; altro problema è che il prezzo da pagare per far quadrare questa costellazione
è troppo alto, il sovrano ottiene tutto e lascia ai cittadini niente ed è quindi un patto truffaldino.

Lez 30/10
La libertà che teorizza Hobbes è una libertà negativa ossia una libertà "da".
La teoria di Hobbes viene criticata da Russeau per due questioni: la prima è la natura del patto,
infatti il patto che istituisce la società di Hobbes, secondo Russeau, è un patto truffaldino perchè
tramite quell'accordo il sovrano ottiene tutto per niente e quindi questo patto viola le libertà
dell'uomo (in pratica dice che Hobbes non risponde al problema posto dagli anarchici che affermano
che libertà e autorità non stanno assieme); il secondo problema individuato è che secondo Hobbes
l'ordine pubblico è necessario perchè allo stato di natura siamo condannati alla guerra del tutti
contro tutti, ma questa assunzione antropologica è falsa perchè, secondo Russeau, le persone allo
stato di natura sono portate a separarsi anzi che ad unirsi e quindi ci sarebbe una tendenza naturale
all'autosufficienza. Questo "farsi i fatti propri" è dovuto alla presenza di eguaglianza ed infatti
Russeau in un saggio racconta come e quando sono state introdotte le disuguaglianze. Secondo
Russeau è l'introduzione della proprietà privata a dare inizio alle disuguaglianze ed è appunto
l'introduzione di queste disuguaglianze che crea conflitto. L'istituzione della proprietà privata crea
disuguaglianze, le disuguaglianze creano invidie e tensioni e generano quindi la situazione in cui
regole condivise sono necessarie. Russeau si contrappone quindi agli anarchici che sostengono che
gli uomini allo stato di natura sono portati a collaborare. In un saggio Amartya Sen ha scritto sulle
basi dell'uguaglianza affermando che ogni volta che ci proponiamo di studiare una teoria
egualitarista dobbiamo chiederci "uguaglianza di cosa"; quindi se ci serve il contratto tra i cittadini
per ricostituire l'eguaglianza che la società civile ha distrutto, dobbiamo chiederci appunto
uguaglianza di cosa. L'eguaglianza va intesa come un oggetto che va di pari passo con la libertà, e
Russeau teorizza una libertà più complicata della libertà negativa di Hobbes; per provare a capirla
immaginiamo due scenari: immaginiamo di essere in uno scenario in cui vige la schiavitù e c'è uno
schiavo che viene fustigato dalla sera alla mattina e c'è un sovrano che interviene pesantemente
sullo schiavo. Nel secondo scenario immaginiamo uno schiavo che è stato comprato da un padrone
benevolo e altamente disinteressato, per cui egli è libero di fare quello che vuole. Possiamo dire che
il secondo schiavo è più libero del primo? Immaginiamo inoltre uno stato che è una colonia, quindi
dipendente da un'altra nazione, la quale decide di non interferire mai (scenario analogo allo schiavo
fortunato, ma con connotazione politica); immaginiamo invece una ex colonia che sta passando una
transizione democratica (con democrazia universale e diretta), e il governo, democraticamente
eletto, interferisce pesantemente nelle vite private dei cittadini. Possiamo dire che i cittadini della ex
colonia sono meno liberi di quelli della colonia? La prima questione che ci dobbiamo porre è se la
libertà è una proprietà scalare o binaria; la seconda questione è qual è lo statuto della libertà in
termini relazionali e quindi che tipo di relazioni configura la libertà e in modo particolare se quando
noi diciamo "libertà" stiamo portando avanti una rivendicazione oppure una qualche forma di
beneficio o concessione (quindi se l'attribuzione della libertà è il frutto di rivendicazione oppure se
è concessa). Sulla prima questione chi pensa che la libertà sia una libertà negativa allora la libertà è
anche scalare e per questo io posso contare tutto ciò che posso e non posso fare e quindi
quantificare il mio grado di libertà; secondo Russeau invece questa concezione di libertà è sbagliata
in quanto la libertà è uno status che significa "non dominio" e quindi io non sono libero se c'è
qualcuno che può dominare su di me, sia che poi chi domina su di me decida di esercitare il suo
potere, sia che decida di non farlo (quindi in quest'ottica lo schiavo fortunato e la colonia hanno lo
stesso livello di libertà degli esempi opposti). In entrambi i casi di concezione di libertà, rimane
sempre la questione di come veniamo ad ottenere il nostro status di libertà. Feindberg ci propone al
proposito di immaginarci di vivere in una città uguale alle nostre, a parte il fatto che non esistono
diritti, per il resto c'è tutto (vestiti, cibo, sanità) e questo "esserci tutto" avviene per forme di
solidarietà, la domanda che ci pone è se saremmo contenti di vivere in quella città. Findberg pone
quindi la questione di quale sia la fonte delle nostre relazioni di diritto e di dovere: l'autorità può
avvenire in terza persona e quindi esterna oppure può essere interna. Secondo Findberg avere diritti
è quello che ci permette di avere dignità e per questo fa differenza dire che le cose stanno come
stanno perchè ne ho diritto e dire che sono così per qualcuno ha così deciso. Avere dei diritti
significa essere in possesso di un'autorità sulle altre persone in quanto posso esigere da loro una
certa condotta. Secondo Russeau possiamo equilibrare l'eguaglianza con una sottomissione di tutti e
di ciascuno ad una volontà generale. Secondo Russeau affinchè noi possiamo essere liberi
collettivamente, dobbiamo porci delle norme che riconosciamo nella sostanza e non solo nella
forma, dobbiamo creare quindi delle leggi che non tutelino vari interessi di parte, ma interessi che
tutti possano ritenere come propri. L'argomento di Russeau non è a favore della democrazia, ma
della repubblica e in questo senso la volontà generale è diversa dalla volontà di tutti in quanto la
volontà di tutti è un aggregato delle volontà individuali mentre la volontà generale non è neppure
un'idea di volontà della comunità. La volontà generale può essere rappresentata come un
sottinsieme d'intersezione tra le volontà diverse di tutti e di ciascuno, in altre parole è una sorta di
compromesso tra i vari intereessi. Esiste un ordine pubblico nella misura in cui noi riusciamo ad
individuare questa volontà generale. Un esempio è dato dalle costituzioni: le costituzioni sono i
principi generali che funzionano da cemento della società e sono interessi condivisi da tutti, poi
esistono le varie leggi che possono essere anche espressione di interessi più particolaristici, ma una
legge non può modificare la costituzione. Russeau si spinge addirittura a dire che ogni legge
dovrebbe essere ottenuta come se fosse un articolo della costituzione. La volontà generale non è
l'esito di un negoziato perchè nella società civile non c'è spazio per interessi contrastanti in quanto
altrimenti la società non sarebbe in grado di vincolare le persone. Dalla prospettiva di Russeau è la
volontà generale ad essere la fonte dell'obbligo.

Lez 31/10
La presenza di conflitti tra portatori di valori diversi è considerata come una delle circostanze di
giustizia fondamentali e questo perchè le persone tendono ad entrare in conflitto tra di loro. I
conflitti sono il tessuto della politica, potremmo addirittura pensare che l'istituzione della comunità
politica sia pensata come una risposta di gestione dei conflitti. La presenza e permanenza nel tempo
dei conflitti è una delle maggiori cause di instabilità dell'ordine pubblico. Le teorie volontariste
basate sul consenso erano strutturalmente instabili perchè basavano tutto sulla volontà del singolo,
che deve però avere anche la possibilità di ritirare il proprio consenso in qualsiasi momento; il fatto
che i conflitti tendano a perdurare peggiora la situazione perchè lo spazio del disaccordo non è
annientabile nemmeno con l'azione della politica e quindi c'è forte rischio che il consenso venga
ritirato, i conflitti sono ragioni di revoca del consenso. Le teorie volontariste del contratto, nelle
varianti di Hobbes e di Russeau, cercano di dare una risposta a questo problema, ma permane il
fatto che i conflitti interni manifestano ancora il problema del free rider. La volontà generale,
essendo l'insieme d'intersezione, comprende almeno in parte interessi favorevoli a tutti e ciascuno,
ma allo stesso tempo tutti e ciascuno hanno degli interessi che rimangono fuori dalla volontà
generale e quindi tutti possono avere almeno la tentazione di sottrarsi alla legge per ottenere un
proprio maggiore interesse, pur beneficiando del fatto che generalmente tutti si adeguano (chi non
paga il biglietto del treno, ma beneficia del servizio). In questo caso quindi il problema non è quello
della revoca del consenso, ma quello della defezione.
Possibili risposte alternative alla sfida anarchica all'obbligo politico capovolgono la visione e
mettono il focus non su consenso o contratto, ma valutano la forza dell'ordine pubblico alla luce di
quali siano i fini che possiamo promuovere con l'introduzione di un ordine pubblico. Le teorie
consequenzialiste giustificano l'obbligo politico solo se gli obblighi politici portano alla
realizzazione di fini positivi, e solo in questo senso gli obblighi diventano vincolanti. L'obbligo non
è più un atto volontario perchè, avendo dei fini positivi, se io potessi scegliere di non aderire
all'obbligo politico starei facendo qualcosa di moralmente scorretto. L'idea non è quella di
dimostrare che gli anarchici si sbagliano, perchè gli anarchici possono avere ragione, ma l'idea è che
possiamo pensare che valga la pena di perdere autonomia per ottenere benessere generale.
Immaginiamo di essere un ufficiale di polizia che cattura un terrorista; in quanto ufficiale di polizia
abbiamo la certezza che la persona catturata è un terrorista e che ha messo una bomba in un centro
commerciale e sappiamo che tale bomba esploderà nel giro di un'ora; la domanda è se siamo
moralmente tenuti, o se è moralmente concesso torturare il terrorista dato che non c'è tempo di fare
evaquare il centro commerciale? In questo caso, come nel caso dello scambio dei binari, si aprono
casi di dilemma morale in cui la differenza è tra doveri morali nei confronti dei miei cari e doveri
morali nei confronti di sconosciuti; ci sono anche però problemi di giustificazione della mia azione
in situazione di dilemma, ossia situazione in cui qualsiasi cosa io scelga, sbaglio nel senso che violo
i diritti di qualcuno (è questo il regno delle "dirty hands"). La buona notizia è che se noi assumiamo
una prospettiva consequenzialista e utilitarista, non c'è il dilemma perchè l'utilitarista ha il dovere
morale di massimizzare l'utilità collettiva e quindi tortura il terrorista e aziona la leva. La cosa
interessante è che questo vale sempre ed indipendentemente da chi siano le potenziali vittime delle
mie azioni, per l'utilitarista l'obbligo è a massimizzare l'utilità collettiva e quindi agisce su una
logica consequenzialista (ad A segue B..); inoltre in quest'ottica non c'è differenza tra morale
pubblica e morale privata. L'utilitarismo è una teoria consequenzialista, ma è una prospettiva
teleologica ossia che individua ciò che è bene e fa dipendere quello che dobbiamo fare dall'idea di
bene così individuata e il bene è la massimizzazione dell'utilità collettiva. Gli utilitaristi classici
intendono l'utilità collettiva come la massimizazione di una qualche forma di felicità, ed ha preso
quindi le forme di un utilitarismo edonista, in quanto si massimizza la felicità pubblica e
minimizziano le sofferenze; questa posizione è stata messa in discussione data la difficoltà di
calcolare la felicità oggettiva delle persone, e siccome abbiamo detto che la promessa
dell'utilitarismo è quella di darci una linea d'azione chiara, se non è chiara l'azione allora
l'utilitarismo ha fallito la sua promessa. Le teorie utilitariste contemporanee intendono l'utilità
collettiva come aggregazione dell'utilità individuale e l'utilità individuale è l'interesse personale (la
rappresentazione dell'utilità collettiva per loro è la sommatoria) e per questa ragione il criterio di
scelta è che l'interesse dei più è sempre maggiore dell'interesse singolo. In quest'ottica non c'è
garanzia dei diritti, infatti il punto non è che se torturo il terrorista io violo il suo diritto perchè per
me il terrorista non ha diritti e io invece ho il dovere di massimizzare l'utilità comune. Altro
esempio spesso discusso dagli utilitaristi è quello proposto da Peter Singer: siamo di fianco ad uno
stagno e vediamo un bambino che sta affogando, naturalmente non c'è nessuno e l'unico modo per
salvarlo è buttarmi nello stagno, sono moralmente tenuto a farlo? Singer utilizza questo
ragionamento in un saggio intitolato "carestia, ricchezza e moralità" e usa quest'esempio per dire
quali sono i nostri doveri in caso di emergenza e per analogia afferma che se io sono tenuto a
buttarmi nello stagno per salvare il bambino a patto che il costo non superi il beneficio, ossia che
non rischiamo di morire in due o che per salvare un bambino io non possa più recarmi in ospedale a
salvare 2 persone, allora analogamente se io sono ricco e il mio donare soldi a qualcuno non mi
mette nell'impossibilità di auto sostentamento, allora ho il dovere morale di donare i miei soldi (e
quindi fare aperitivo diventa fare qualcosa di moralmente indegno). La morale viene quindi ridotta
ad essere un calcolo razionale di utilità. L'utilitarismo prevede due varianti distinte da Harsany:
utilitarismo dell'atto e utilitarismo della regola. La versione di utilitarismo discussa fin'ora è quella
dell'atto, ossia quella in cui dobbiamo calcolare le conseguenze del nostro atto per aumentare il
benessere collettivo ed in questo caso il mio obbligo politco è vincolante a seconda dei casi ossia a
seconda delle conseguenze che produce ed essendo questa risposta ovvia, il problema dell'obbligo
politico diventa un non problema. Secondo la versione dell'utilitarismo della regola la domanda da
porsi è cosa sono tenuto a fare se la mia azione diventasse regola generale di condotta e quindi non
come ragionamento specifico. Devo quindi chiedermi quali sono le conseguenze
dell'istituzionalizzazione della mia condotta e quindi la domanda dell'obbligo politico diventa più
interessante.
I problemi che permangono sono però due: il primo problema ha a che vedere con l'instabilità
dell'utilitarismo della regola perchè rischia o di ricadere nell'utilitarismo dell'atto oppure di
spingerci in una condizione deontologica (che è il principio Kantiamo di agire in modo aspirante ad
essere modello di azione per tutti); il secondo problema è più specifico ed è un problema relativo
alla natura dell'obbligo che vogliamo giustificare, infatti con l'utilitarismo l'obbligo politico si
schiaccia sull'obbligo morale in quanto l'obbligo è solo quello di massimizzare il benessere e questo
vale sia in situazioni specifiche che in linea di pensiero di azione generale e non dipende dal ruolo o
status che io ricopro nella situazione di dilemma.

Lez 06/11
Le teorie deonteologiche dell'obbligo politico sono direttamente alternative alle teorie teleologiche
che abbiamo visto con le teorie utilitariste. Secondo queste teorie la natura del vincolo all'obbligo
politico risiede nel principio che è sempre conveniente obbedire alle regole. Secondo queste teorie
noi siamo tenuti ad adempiere ai nostri doveri indipendentemente da quanto questo ci possa costare.
Una particolare teoria che prenderemo in esame è la teoria della giustizia di John Rawls (morto nel
2002, quindi quasi contemporaneo). Questa teoria parte da un'idea molto innovativa e cioè che la
giustizia è la prima virtù delle istituzioni sociali e questa idea è interessante perchè fino ad ora
discutendo degli obblighi di giustizia parlavamo di obblighi personali, mentre in questa teoria la
giustizia si riferisce alle istituzioni. Ovviamente le istituzioni non esistono indipendentemente dalle
persone che le abitano, ma con la sua affermazione Rawls vuole dire che la giustizia viene vista in
chiave della partecipazione dei cittadini alla vita e alle attività delle istituzioni. Le istituzioni
devono essere giuste come le formule matemtiche devono essere vere, questo è l'assioma della
teoria in esame.
Una società giusta è una società retta da principi di giustizia, ovvero regole che distribuiscono diritti
e doveri ai cittadini in un modo specifico e cioè che rende questo modo di distribuzione di diritti e
doveri "ben ordinato". Una società ben ordinata ha un requisito principale: la realizzazione del
principio della pubblicità ossia la società è retta da una concezione pubblica di giustizia e una
concezione della giustizia è pubblica quando soddisfa 3 requisiti:
1) si articola attraverso principi che tutti i cittadini conoscono
2) tutti i cittadini riconoscono come giusti i principi
3) tutti riconoscono gli stessi principi

La teoria di Rawls assume i connotati del neocontrattualismo, il riconoscimento quindi non è un


requisito di consenso reale, ma ipotetico. La società per essere ben ordinata deve anche soddisfare
l'idea di cooperazione, in quanto la società è vista come una cooperazione per il mutuo vantaggio
dei partecipanti. Altra assunzione alla basse di questa teoria è l'assunzione antropologica secondo
cui le persone sono distinte da due poteri morali fondamentali: il primo potere è la capacità del
senso di giustizia, tutte le persone sono contraddistinte dall'essere capaci di esercitare un senso di
giustizia ossia di riconoscere ciò che è giusto, e adeguare a ciò che è giusto la propria condotta (è
questo potere che distingue un uomo da un cane); il secondo potere morale ha a che fare con l'idea
di bene in quanto le persone sono capaci di formulare, seguire e rivedere una concezione del bene di
loro scelta. Le persone sono quindi in grado di formulare un piano di vita e successivamente
seguirlo e rivederlo in caso ci fossero problemi. Perchè si riesca a sviluppare un sistema di
ragionamento stabile, secondo Rawls, dobbiamo fare in modo che i giudizi ponderati e quelli
istintivi entrino in un equilibrio riflessivo, ossia devo pensare moralmente a cosa farei e poi pensare
cosa sarebbe razionale fare. Se le due risposte coincidono sono a posto, se non coincidono devo
rivedere uno alla luce dell'altro finchè non trovo un compromesso tra ciò che è istintivo con ciò che
è razionale fare. Questo compromesso lo riesco a raggiungere proprio per via della capacità di senso
di giustizia e soltanto attraverso questo compromesso arriviamo a giudizi di giustizia stabili;
attraverso questo Rawls ci sta dicendo che la giustiza è sia razionale che moralmente corretta.
Rawls dice che quando lavoriamo sull'idea di giustizia dobbiamo ragionare in modo ipotetico,
infatti secondo lui isituzioni giuste sono quelle istituzioni governate dai principi che noi
sceglieremmo se ci trovassimo in una condizione iniziale di scelta (ripropone in chiave più
sofisticata lo stato di natura di Hobbes), che Rawls caratterizza come una posizione originaria sotto
un velo di ignoranza. Rawls ci invita a riflettere da una prospettiva che ci metta al riparo da tutti gli
elementi che possono viziare il nostro ragionamento e renderlo parziale. Ogni soggetto deve quindi
compiere uno sforzo di astrazione partendo da ciò che è giusto per sé, e per farlo deve appunto
avere una sorta di amnesia selettiva (il velo d'ignoranza) che cancella ad esempio la nostra
situazione sociale, le preferene e i gusti. Rawls pone queste premesse perchè la giustizia deve
almeno aspirare ad essere universale e quindi deve avere la possibilità di essere giusta per tutti. La
prima domanda da porsi è come effettuare la scelta, visto che dobbiamo immaginare di non sapere
nulla. L'amnesia è però selettiva ed infatti Rawls ritiene che ci siano elementi che vanno mantenuti
fuori dal velo e sono sostanzialmente 3: scarsità moderata di risorse; egoismo limitato dal fatto che
le persone sono comunque capaci del senso di giustizia (circostanze di giustizia riprese da Hobbes);
il terzo è il fatto che tutti noi vogliamo una quota più ampia possibile di beni sociali primari, che
sono "mezzi per molti fini" e questi beni sociali primari sono: diritti, reddito, ricchezza e "basi
sociali per il rispetto di se". Per Rawls i principi di giustizia che servono per garantire a tutti la più
ampia quota di beni sociali data la scarsità, devono avere 5 caratteristiche formali: essere generali e
quindi valere per tutti; essere universali e cioè valere ovunque; essere finali cioè essere in grado di
dare l'ultima parola sull'agire; essere pubblici nel senso detto prima; essere vincolanti nella
risoluzione dei conflitti. I principi di giustizia individuerebbero due principi: il primo è un principio
di libertà in quanto una società giusta è una socità in cui le istituzioni garantiscono lo stesso livello
di libertà fondamentali possibili compatibili con il massimo di libertà per chiunque altro e le libertà
fondamentali che Rawls ha in mente sono quelle tipiche degli ordini liberali. Il secondo principio è
egualitario in quanto una società ben ordinata è una società in cui tutte le persone devono avere un
equa possibilità di accedere alle risorse sociali; inoltre secondo Rawls le diseguaglianze nella
distribuzione dei beni sociali primari sono gistificate a condizione che vadano a vantaggio dei più
svantaggiati (questa seconda parte del principio viene definita come principio di differenza).
Immaginiamo 3 stati di cose A,B,C e sono caratterizzati da 3 gruppi di persone X,Y,Z.
Immaginiamo la distribuzione A tra i vari soggetti come una distribuzione egualitaria con tutti e tre i
soggetti che hanno quota di beni 5; una seconda distribuzione vede X con 10, Y con 7 e Z con 5;
l'ultima distribuzione (C) vede X con 10000, Y con 7 e Z con 6. Se noi confrontiamo le tre
distribuzioni vediamo che la A è quella più egualitaria, mentre la C è quella massimamente
diseguale. Nella visione di Rawls la risposta a quale distribuzione sia la migliore richiede di
guardare solo quanti beni sociali hanno coloro che stanno peggio e quindi in questo caso Z, degli
altri due non ci interessa, moralmente parlando. La risposta è quindi che la distribuzione migliore è
la C, perchè il più svantaggiato ha comunque 6 anzi che 5. La maggiore critica che è stata mossa a
Rawls è che lui si occupa solo degli svantaggi socialmente prodotti (quindi quelli di mercati ad
esempio), ma non considera gli svantaggi di natura come i talenti e le capacità fisiche. I punti
fondamentali sono 2 e cioè che la teoria di Rawls non è perfettamente egualitaria (il secondo
manca). Secondo Rawls abbiamo un obbligo politico, cioè il dovere di partecipare attivamente alla
società nella misura in cui la società è giusta e partecipando in una società giusta noi abbiamo tratto
benefici. La teoria Rawlssiana è una teoria di reciprocità, ma questo solo sotto istituzioni giuste,
quindi sotto istituzioni ingiuste non c'è obbligo politico, nemmeno nel caso di sottomissione
volontaria all'autorità ingiusta. Inoltre Rawls sostiene che il dovere di sostenere istituzioni giuste è
un dovere fondamentale e inderogabile che sta in capo alle persone per loro natura; sostenere
istituzioni giuste significa obbedire a queste istituzioni quando le istituzioni sono in essere e fare di
tutto per istituirle quando esse non ci sono. Gli obblighi derivano da principi di giustizia e doveri
morali ponderati.

Lez 07/11
Scheda cartacea

Lez 13/11
La chiave di lettura che ci serve per capire quali siano i limiti dell'obbligo politico è la presenza di
conflitti. La politica è un dominio di conflitti, e ce l'ha spiegato bene Hobbes, ma anche chi ha una
visione più armonica sostiene che ci siano dei conflitti tali per cui ci serve un'autorità. Il problema
dei conflitti rimane vero per tutte le teorie che provano a giustificare l'obbligo politico: nelle teorie
volontariste la presenza di conflitti può essere un'argomentazione per ritirare il mio consenso; per le
teorie consequenzialiste la presenza di conflitti compromette le basi dell'ordine pubblico. Dobbiamo
quindi prima di tutto capire cos'è un conflitto e quali sono i conflitti politicamente rilevanti: a noi
interessano i conflitti di valore. I conflitti di valori vengono definiti come quegli accadimenti che si
verificano in politica quando persone diverse si fanno portatrici di valori differenti per la
regolazione di situazioni specifiche (la definizione sarebbe sul libro a p 22). Dal punto di vista della
filosofia politica sono significativi solo i conflitti interpersonali e non quelli intrapersonali e quindi
solo i conflitti nei quali si scontrano valori (ideali normativi) differenti che riguardano le scelte non
personali, ma di interesse pubblico la cui regolamentazione è rilevante per la condotta della società
nel suo insieme. La seconda questione importante per la nostra analisi è che i conflitti sono distinti
dalle dispute in quanto i conflitti sono appunto dati dalla presenza di due differenti visioni di ideali
normativi riguardo ad un tema, mentre una disputa è il modo in cui il conflitto si manifesta. Il
conflitto generale si esplica in dispute specifiche, e quindi ad esempio il conflitto sull'aborto si
esplica nei conflitti sulla possibilità di concedere l'obbiezione di coscienza o meno ed altri aspetti
specifici. Risolvere un conflitto, non significa semplicemente affrontare o risolvere una disputa in
quanto un conflitto è composto da molte dispute.
Altra distinzione necessaria riguarda il tipo di conflitti interpersonali rilevanti [all'esame non
scrivere tipologia] ed in politica ve ne sono due: conflitti ragionevoli e conflitti intrattabili. I
conflitti ragionevoli sono quelli con i quali ha a che fare principalmente Rawls, e sono quei conflitti
caratterizzati da dinamiche di interazione tra le parti di natura cooperativa: definiamo infatti un
conflitto ragionevole quando le parti di un conflitto veicolano il loro disaccordo attraverso
dinamiche di interazione cooperative. Morton Deutsch individua 3 caratteristiche delle dinamiche di
interazione cooperativa (intendendo per cooperative le dinamiche che tengono in considerazione
tutte le voci in capitolo espresse dalle persone): assumono la forma del confronto tra posizioni
differenti i cui portatori si riconoscono legittimamente come interlocutori; altra caratteristica è la
fiducia tra le parti, nel senso che si fidano che il disaccordo che viene articolato sia un disaccordo
genuino e c'è fiducia nell'impegno reciproco a trovare un accordo; la terza caratteristica è l'apertura
agli altri, intesa non solo come apertura ad ascoltare, ma apertura a rivedere le nostre posizioni alla
luce delle argomentazioni espresse dagli altri. Quando ci sono dinamiche di interazione cooperative
si dice che le parti in conflitto mostrano la virtù della ragionevolezza. I requisiti della
ragionevolezza sono esposti da Rawls nella sua seconda opera e sono due caratteristiche principali:
la prima è la disposizione a proporre termini equi di cooperazione e la disposizione a conformarsi
ad essi a patto che anche gli altri si conformino; la seconda caratteristicha è la disposizione a
riconoscere l'onere del giudizio e (...) ossia si riconosce che il disaccordo è genuino. [parte da audio
silvia]. Questi conflitti sono trattabili perchè sono caratterizzati dalla presenza di persone già
inclinate alla risoluzione del problema: se noi assumiamo che il conflitto sia ragionevole,
assumiamo che il conflitto possa essere risolto.
I conflitti di valore intrattabili sono contrapposti ai ragionevoli perchè, in prima battuta, sono
caratterizzati da dinamiche di interazione antagonistiche e non cooperative; se la cifra delle
dinamiche di interazione cooperative è l'inclusione, le dinamiche antagonistiche sono caratterizzate
dall'esclusione arbitraria, che mette a tacere alcune voci usando spesso la forza. Secondo Deutsch le
dinamiche antagonistiche espongono all'arbitraria mancata rivendicazione delle mie posizioni, e non
ci sarà nemmeno fiducia reciproca in quanto le parti opposte sono disposte ad usare qualsiasi mezzo
pur di portare a casa il conflitto e quindi c'è forte oppressione. I conflitti antagonistici presentano
alcune caratteristiche di forma e di sostanza che non sempre però tengono allo stesso modo (p 25
libro). L'intrattabilità è una funzione di 4 caratteristiche principali:
– la prima caratteristica è la divisività di alcune questioni, ossia dobbiamo chiederci se il
conflitto ha la tendenza a polarizzare le parti rendendo la soluzione del conflitto molto
costosa (chi fa il primo passo per un compromesso perde la faccia) e quindi secondo questo
criterio ci sono delle questioni che sono intrattabili in sè;
– la seconda dimensione è l'intensità del conflitto ossia se il conflitto è particolarmente
coinvolgente ed ha un portato emotivo significativo. Qui si fa quindi riferimento a
caratteristiche più soggettive;
– il terzo è la pervasività ossia se il conflitto interessa solo la vita pubblica o anche quella
privata, e i conflitti che pervadono anche la sfera privata si pensa siano migliori candidati ad
essere intrattabili;
– il quarto elemento è la complessità vale a dire se tocca diversi aspetti e strati della vita
sociale rendendo difficile individuare quale sia l'arena migliore in cui affrontarlo.

I confltti intrattabili, caratterizzati da queste dinamiche antagonistiche, sono conflitti che sono
particolarmente rischiosi perchè tipicamente tendono a raggiungere situazioni di empasse in cui non
si vede una via di uscita (dialogo tra sordi). Di fronte alla presenza di conflitti ci troviamo 3 strade:
risoluzione, gestione o contenimento. In politica ci sono sia conflitti trattabili che intrattabili e le
risposte devono essere diverse perchè cambiano gli argomenti trattati e gli atteggiamenti tenuti dalle
parti. Noi risolviamo un conflitto quando siamo in grado di stabilire un ordine di priorità assoluto
tra i valori in gioco, e quest'ordine di priorità deve avere una caratteristica specifica ossia essere
consensuale (qui la lingua italiana non ci aiuta, in inglese ci sono consent e consensus). Le teorie
della risoluzione dei conflitti possono funzionare nella risoluzione dei conflitti intrattabili se
riescono a far cambiare idea ad una delle parti, altrimenti se non c'è modo di far cambiare posizione
sull'inconciliabilità dei valori esposti, non c'è risoluzione possibile. Le teorie della risoluzione,
criticate nella loro impossibilità della risoluzione di alcuni conflitti, vengono sostituite dalle teorie
del contenimento che contemplano la possibilità di trovare delle soluzioni temporanee che evitino di
far montare e diventare distruttivo il conflitto. L'ideale "risolutivo" di questo genere di teorie è il
compromesso, dove il compromesso è inteso come quella soluzione in cui c'è sempre dello
scontento, mentre nelle teorie del consenso tutti convergevano sulle stesse posizioni. Il
compromesso è necessariamente mutevole perchè è una questione di bilanciamento di posizioni
differenti. Il problema però è che entrambi gli approcci teorici presuppongono che ci sia almeno un
minimo di spirito cooperativo tra le parti, cioè nessuna delle due parti prende sul serio l'intrattabilità
del conflitto, e per questo quando siamo davanti a conflitti intrattabili in senso pieno ci troviamo
davanti alla fase della gestione dei conflitti, che lavora sulla trasformazione dell'atteggiamento delle
parti in conflitto. Questa fase non lavora, come era per le altre due, sul merito delle questioni, ma
lavora per trasformare il modo in cui le parti si rapportano tra loro e nei confronti del conflitto.
L'ideale normativo che sta alla base della fase della gestione del conflitto è la comprensione: le parti
comprendono che il conflitto è un problema condiviso che richiede una qualche forma di impegno
condiviso. Un conflitto gestito è un conflitto che da intrattabile diventa ragionevole in quanto le
parti affrontato congiuntamente il problema. [fine lezione da audio]

Lez 14/11
Il conflitto arabo israeliano è un conflitto intrattabile "per antonomasia" in quanto presenta tutte le
caratteristiche enunciate sopra: c'è forte polarizzazione, forte carattere emotivo e vi è
inconciliabilità nelle ricostruzioni storiche fornite dalle parti in causa. La preoccupazione principale
davanti ai problemi del conflitto è quella di creare un ordine giusto che cerchi di realizzare valori
che siano di possibile accordo per tutti e per ciascuno. Questa giustizia ha una caratteristica
specifica: è una giustizia come stato di cose finali, ossia la giustizia si realizza come esito di un
processo e la cooperazione sociale è uno strumento per realizzare tale giustizia. La giustizia è quindi
un bilanciamento tra le diverse parti (come diceva Platone con il mito dell'auriga), ed in questo
contesto sono normali i conflitti, ma bisogna saper dare un ordine di priorità dei diritti che tutte le
parti in gioco riconoscono come giusto, c'è quindi un'idea di armonia sociale cooperativa molto
forte. Questo ideale è stato messo in discussione su due basi: la prima è una base di infattibilità o,
meglio, di anelito utopico ingiustificato, in quanto i filosofi che appartengono al realismo criticano
ai moralisti che quest'aspirazione alla parità è deleteria e se noi pensiamo che l'ordine pubblico
debba funzionare per dare giustizia in questi termini, siamo condannati fin dalla partenza a
perseguire un obiettivo irrealizzabile. John Grey si basa su una posizione metaetica ossia una
posizione che ci dice qualcosa sullo status dei valori, ed ha quindi a che vedere con le assunzioni
teoriche di una posizone; da questa sua posizone critica ai moralisti di basarsi su una premessa falsa
e per questo risulta impossibile trovare una risoluzione dei conflitti e realizzare quindi un mondo
armonico. Secondo questi realisti i moralisti presuppongono quello che vogliono dimostrare, ed
aggiungono che essendo i valori molteplici, sono destinati a confliggere. Questa teoria del
pluralismo intrinseco dei valori viene mutuata da Berlin ed egli afferma che possiamo trovare delle
soluzioni di bilanciamento rispetto a dispute specifiche, ma non riusciremo mai ad ordinare i valori
in quanto essi sono destinati a confliggere. La posizione realista è una posizione "storica" in quanto
il principio è quello di guardare alla storia e vedere che non c'è che conflitto tra i valori; la posizone
metaetica è una posizione di principi secondo cui, anche se si riuscisse a trovare un periodo storico
di armonia, noi non riusciremmo ad ordinare i valori. I realisti affermano che la giustizia è
irraggiungibile e quindi dobbiamo ripiegare sul contenimento dei conflitti, che in sè però rimane un
piano di serie B, che viene attuato solo perchè il primo piano è impossibile. Per i metaetici invece il
contenimento non è un ripiego, ma è l'obiettivo della politica in quanto la giustizia non è
realizzabile e quindi non ha nemmeno senso parlare di giustizia. L'ideale centrale della teoria del
contenimento dei conflitti non è la giustizia (come era per quelli della risoluzione), ma quello della
pace. Assicurare un ordine pubblico non significa dare un ordine giusto, ma dare un ordine pacifico
che tiene i conflitti a bada e argina la violenza. La pace è vista come ideale positivo che condivide
una caratteristica con la giustizia, in quanto anch'essa è una proprietà normativa di stati di cose
finali. I filosofi di questa frangia si dividono in due grosse famiglie che hanno visioni della pace
differenti: c'è chi sostiene, in termini minimalisti, che la pace è una pace negativa ossia l'assenza di
violenze; l'altra posizione è quella di una pace positiva che non è semplicemente assenza di conflitto
ma una forma di interazione cooperativa che ha come fine non quello di trovare un consenso
generale, ma un compromesso. Le procedure che servono alla risoluzione dei conflitti sono
deliberative, mentre le procedure che mirano al contenimento cercano di raggiungere il
compromesso tramite un negoziato. Roberta Sala ha condotto un'analisi interessante della legge
sull'aborto italiana, analizzando quindi come questa sia interpretabile come espressione di un
consenso su un ordine di priorità dei diritti oppure come l'esito di un negoziato, e la filosofa
sostiene questa seconda ipotesi. Il prezzo da pagare per la stabilità delle teorie del consenso che
sono stabili è il fatto che sembrano irraggiungibili; le teorie del contenimento sono più
raggiungibili, ma sono intrinsecamente instabili perchè le varie posizioni non cambiano idea e
quindi si può ricadere nel conflitto da un momento all'altro. Entrambe le teorie presuppongono che
le parti abbiano una predisposizione alla cooperazione e al confronto, però c'è il problema del fatto
che nei conflitti intrattabili questa predisposizione è tutto meno che scontata e le parti non sono
inclinate a vedere gli altri come loro interlocutori nel dialogo. Bellamy sottolinea come si tratti di
gradi di ragionevolezza da parte delle posizoni in conflitto, ma questa ragionevolezza è proprio
quella che viene meno nei conflitti intrattabili che sono caratterizzati da dinamiche egoistiche e non
cooperative. È necessario quindi che le relazioni siano gestite in modo che le relazioni siano
gestibili e quindi l'oggetto non è più il conflitto in sè, ma le dinamiche di interazione tra le parti. La
gestione ci può portare, a seconda della natura del conflitto, alla risoluzione o al contenimento, in
quanto la gestione è una fase preliminare che punta a far nascere una cooperazione, che non è più
uno strumento come nelle due teorie normative precedenti, ma diventa un locus di giustizia. La
gestione dei conflitti mira a realizzare anch'essa una giustizia, che è però una giustizia nelle
interazioni, ossia giustizia che non è soltanto una proprietà normativa degli esiti distributivi di certi
processi, ma è una proprietà di certi processi in sé stessi. Uno stato di cose finali giusto è uno stato
che distribuisce costi e benefici accettabili per tutti, mentre un processo giusto è un proceso che
tratta le parti in modo moralmente accettabile, indipendentemente dagli esiti di questo processo.
Questa idea si rende evidente nel caso del film "sotto accusa" con Jodie Foster, in cui la
protagonista si assume il rischio di andare in tribunale con la possibilità che i suoi stupratori
vengano assolti pur di far sapere che il torto che lei aveva subito non è quello di aggressione ma di
stupro e ciò rende quindi evidente come la giustizia non si possa risolvere in una giustizia degli esiti
(che si sarebbe raggiunta accettando di far accusare gli stupratori solo di aggressione, ottenendo per
loro una pena simile), ma deve essere una giustizia dei processi. La via della gestione dei conflitti
intrattabili, rifondando le relazioni tra le parti, deve essere intrapresa prima di arrivare alla
risoluzione o al contenimento.
La giustizia delle interazioni ha una caratterizzazione differente nella misura in cui guarda i processi
come locus di giustiza distintivo e serve quindi una giustizia procedurale. Rawls distingue tra
giustizia procedurale perfetta, imperfetta e pura. Per spiegare questi modelli di proceduralismo ci fa
tre esempi:
– immaginiamo di essere ad un compleanno e dobbiamo dividere una torta tra tutti gli invitati,
tutti vogliono una fetta di torta che sia la più grande possibile, come dividiamo la torta
assicurandoci che sia divisa in parti uguali? La soluzione è che dobbiamo fare in modo che
chi divide è l'ultimo che sceglie la fetta e così sono incentivato a fare fette davvero uguali
altrimenti io ne mangio meno degli altri. Questo spiega che la giustizia procedurale perfetta
si ha quando, dato un esito procedurale desiderato, noi troviamo una procedura che ci
garantisca di arrivare a quell'esito.
– Nei casi di giustizia procedurale imperfetta i processi rimangono strumenti per il
raggiungimento di certi esiti, ma non abbiamo la garanzia che si arrivi all'esito sperato.
L'esempio che porta Rawls è il processo penale, che ha quindi buone probabilità di portare
all'esito sperato, ma l'esito non è garantito perchè ci possono essere errori. Quello che
accomuna questi primi due tipi di giustizia è che sono giustizie strumentali al nostro fine e
ciò che da valore morale alla procedura sono le proprietà dell'esito, che noi assumiamo come
desiderabile.
– I casi di giustizia procedurale pura sono casi in cui la procedura è condizione necessaria e
sufficiente per l'esito e cioè se abbiamo una procedura, questa conduce a esiti giusti quali
che essi siano. L'esempio è quello delle scommesse: se io accetto di andare a scommettere
l'esito è giusto indipententemente da quale esso sia, è un esito giusto per definizione. Questo
perchè, secondo Rawls, in questi casi le procedure creano la giustizia dell'esito e
trasferiscono ad essa la propria proprietà di giustizia.

In questa distinzione la giustizia è sempre un esito finale, ma differiscono appunto i modi in cui la
procedura influisce su di essi. C'è una quarta forma di proceduralismo, non rawlssiana, che è quella
del proceduralismo intrinseco, secondo cui la giustizia non è data dall'esito, ma dalla procedura
stessa. In questa visione la giustizia non è solo una caratteristica delle situazioni di cose finali, ma
realizza la giustizia nelle interazioni e quindi le procedure sono un locus di giustizia ed è li che la
giustizia si realizza.

Lez 20/11
La questione cruciale sulla valutazione dell'ordine pubblico è quella che ha a che fare con la
giustificazione morale dell'obbligo politico. Le strategie sviluppate nelle teorie esposte mirano a
tenere assieme la società nonostante la presenza di dissenso. Ci si deve chiedere però se ci sono
delle circostanze che ci autorizzano a sentirci moralmente giustificati a mettere in dubbio l'obbligo
politico e quindi a ritirare la nostra conformità a certi atti. Questo diventa un problema
particolarmente pregnante nelle comunità di natura democratica, in quanto c'è aspettativa generale
di rispetto delle norme: la domanda fondamentale diventa quindi cosa è giusto attenderci dalle
minoranze? Ci si aspetta infatti che le minoranze si adeguino al volere della maggioranza, ma cosa
succede quando il volere della maggioranza è profondamente incoerente con le nostre convinzioni?
In democrazia ci sono dei sistemi istituzionalizzati di manifestazione di dissenso, come ad esempio
la manifestazione, lo sciopero, la petizione o anche raccolta di firme per un referendum abrogativo.
Queste forme di dissenso non sono particolarmente problematiche da giustificare, in quanto sono
dei diritti riconosciuti in molte costituzioni. La nostra domanda verte su quelle forme di dissenso
che comprendono qualche atto illegale: la disobbedienza civile e l'obiezione di coscienza. Ci sono 2
elementi di partenza fondamentali: il primo riguarda la natura della nostra impresa, quando noi
giustifichiamo qualcosa noi offriamo delle ragioni che rendono conto del perchè qualcosa avviene,
la giustificazione si distingue però da un'altra funzione che le ragioni possono svolgere nel rendere
conto della condotta di qualcuno ossia le scusanti. Una ragione giustificante mostra che io ho fatto
bene a fare quello che ho fatto, una ragione scuante riconosce che ho fatto qualcosa di sbagliato, ma
avevo delle ragioni per farlo e sono quindi delle considerazioni attenuanti. Se io dico che la
disobbedienza è giustificata dico che obbedire è quindi la cosa sbagliata, se io invece dico che c'è
un attenuante l'obbedienza continua ad essere la via migliore, ma il mio comportamento viene
tollerato, date certe condizione estreme. Quando usiamo il termine tolleranza vuol dire che c'è
sempre un qualcosa di negativo, che però decido di sopportare. Quale che sia la forma che il
dissenso assume, generalmente si ritiene che le forme di dissenso che possono essere candidate ad
essere giustificate o almeno scusate, devono avere delle caratteristiche generali. Queste
caratteristiche sono cruciali per rendere compatibile il dissenso con il mantenimento dell'ordine
pubblico; la premessa è quindi quella che ci muoviamo in una cornice di legittimità dell'ordine
pubblico. Le caratteristiche che le forme di disobbedienza devono avere sono 4:
1) Il dissenso, seppur espresso in modo che implica la violazione di qualche norma, ossia
espresso in modo illegale, può essere scusato solo nella misura in cui è una extrema ratio.
Devo aver provato a manifestare il mio dissenso in altre forme, e solo se queste altre forme
si sono rivelate inefficaci posso intraprendere le forme illegali. Questa caratteristica deriva
dal fatto che io ritengo legale l'ordine pubblico
2) I dissenzienti, per ragioni morali, devono essere sempre pronti ad accettare la sanzione.
Ancora una volta questo deriva dal fatto che io riconosco l'autorità e l'ordine legittimo e
quindi sono pronto a pagare i costi della mia azione.
3) L'obiezione o la disobbedienza deve avvenire sempre ed esclusivamente per ragioni di etica,
non può essere dettata da ragioni di auto interesse. Le ragioni di etica possono derivare dalla
religone, dalla propria morale o da ragioni culturali
4) La disobbedienza deve essere non violenta per potere essere definita come disobbedienza
civile

Immaginiamo di dover fare un test per cui costruiamo un albero che ci permetta di porci delle
domande sulla solidità della nostra comunità politica. La prima domanda che dobbiamo porci è la
domanda fondamentale ossia se l'ordine pubblico è legittimo e quindi dobbiamo chiederci se chi
esercita il potere ha titolo per farlo. Qui abbiamo la prima biforcazione: se l'ordine pubblico non è
legittimo, il dissenso mira a contestare l'autorità di chi detiene il potere, le forme di dissenso, in
questo caso, sono forme di dissenso radicale che possono prendere 3 strade differenti illegali: [1]
rivoluzione; [2] resistenza attiva, ossia forme di azione interna che mirano a far si che accada un
cambiamento di regime e queste forme possono essere distinte o meno, a seconda degli autori, dalla
terza tipologia: [3] il terrorismo. Le forme di dissesno che sono candidate ad essere giustificate
devono essere non violente e quindi queste 3 strade non ricadono in questa caratteristica. L'altra
parte della biforcazione è quella secondo cui la domanda riguardo la giustificazione dell'ordine
pubblico ha esito positivo e quindi c'è obbligo politico; in questi casi viene violato un obbligo
giuridico in nome dell'obbligo morale. In questa casistica si crea una nuova biforcazione data dalla
domanda: chi esercita potere legittimamente su di me, mi sta facendo fare cose che è moralmente
giustificato fare secondo me?
Questa domanda ha quindi a che fare con le ingiunzioni che dall'autorità provengono. La
biforcazione caratterizza due diverse basi morali in base alla quale posso contestare un obbligo
specifico e sono: ideali generali di giustizia oppure la coerenza della norma con una mia norma
interiore e quindi coscienza. La distinzione è quindi tra quello che ritengo buono per me e quello
che ritengo buono per la società nel suo insieme, e non necessariamente sono la stessa cosa. Nella
parte di domanda sulla giustizia se io ritengo che le norme mi imponogno di fare cose concordi ai
miei ideali di giustizia io avrò obbligo politico, giuridico e morale che coincidono; se le norme mi
impongono qualcosa che non ritengo giusto per me allora avremo la disobbedienza civile, di cui
esempi possono essere le violazione ai divieti di eutanasia o suicidio assistito (eluana englaro). La
disobbedienza civile cerca di stabilire un dialogo con le istituzioni in quanto comunque le ritengono
legittime. La disobbedienza civile a sua volta si biforca tra diretta e indiretta: è diretta se io violo la
legge che contesto (gli afroamericani che si sedevano negli autobus nei posti riservati ai bianchi
disobbedivano la norma che contestavano); indiretta è quando la disobbedienza colpisce un'altra
norma, anche completamente scollegata a quella che ci interessa, in modo da ottenere l'attenzione.
La resistenza passiva viene messa in atto quando non ci si oppone ad una legge particolare, ma
quando si fa una rivendicazione di legittimità (ghandi non è un disobbediente civile, ma un resiste
passivo, anche se era una resistenza pacifica). Per quanto riguarda invece la domanda riguardo la
coscienza personale ci muoviamo nell'ambito di quanto costi a me obbedire ad una norma in quanto
quest'utlima è profondamente contraria ai miei valori, siamo quindi nel campo dell'obiezione di
coscienza. L'obiezione di coscienza è su basi di integrità morale e richiede un'esenzione per se,
mentre la disobbedienza civile richiedeva una revisione della norma e su una base di giustizia.
L'obiezione di coscienza si distingue a sua volta in due casi: mentre la disobbedienza civile è
sempre contro la legge, l'obiezione di coscienza può essere contra legem o secundum legem.
L'obiezione contra legem è un atto illegale secondo cui io mi sottraggo ad un mio dovere o non
obbedisco a qualche ordine perchè questo metterebbe a rischio la mia integrità morale (obiezione al
servizio militare); questi casi si contrappongono alle forme di evasione di coscienza che sono casi
diversi in cui non vengono rispettate principalmente le caratteristiche della pubblicità dell'atto, e
quindi il mio manifesto si esprime in maniera pubblica senza fare appello al senso di giustizia della
maggioranza, ma alla coscienza della maggioranza. Uno dei casi di obiezione di coscienza più attivi
al momento è il rifiuto da parte dei farmacisti cattolici di vendere la pillola del giorno dopo ed è
obiezione di coscienza solo nel momento in cui sottrai te stesso da questa pratica perchè minerebbe
la tua integrità morale, ma è fondamentale che questo dissenso sia pubblico, altrimenti se io fingo
"che sia finita" la mia non è obiezione, ma evazione di coscienza. L'obiezione di coscienza
secundum lege è quella che in realtà è tutelata dalla legge (come sull'aborto in italia) e quindi non
sono obbligato a manifestare le ragioni del mio dissenso in modo pubblico e questo perchè in realtà
più che un obiezione questa è una opzione di coscienza.

Lez 21/11
La strategia che prevede la tolleranza del dissenso corrisponde al contenimento del conflitto; la
strategia che consegna maggiore importanza all'obbligo morale rispetto a quello giuridico invece
corrisponde alla risoluzione del conflitto (è quella che stabilisce un ordine di valori).
Rawls divide i principi di giustizia in principi che riguardano le istituzioni (principio di libertà e
principio di equa eguaglianza di opportunità) e principi che riguardano le interazioni tra individui e
questi principi riguardano in prima battuta gli obblighi di cittadinanza e gli obblighi hanno a che
fare con questione di reciprocità (fariplay) e sono obblighi che si realizzano solo all'interno di
istituzioni giuste e perciò siccome io godo dei benefici dell'esistenza di istituzioni giuste, io devo
fare il mio per contribuire a tale istituzioni e quindi l'obbligo legale deriva direttamente dall'obbligo
politico: è perchè ci sono istituzioni giuste che io ho un obbligo di rispettare le leggi che esse
emanano, indipendentemente dal contenuto delle leggi. Esistono anche dei doveri, che Rawls divide
dagli obblighi (in inglese i doveri sono duty, gli obblighi sono obligation) e mentre gli obblighi sono
specifici e condizionati, i doveri sono generici e incondizionati. Gli obblighi esistono solo a
condizione che le istituzioni siano giuste, mentre i doveri sono indipendenti dalla natura delle
istituzioni. Gli obblighi hanno quindi una caratterizzazione politica, mentre i doveri sono "doveri
naturali". Il dovere naturale più importante è quello di sostenere e promuovere le istituzioni giuste:
dobbiamo rispettare le istituzioni giuste e fare la nostra parte in esse nel caso in cui esse esistano e
ci riguardino (e questa è la prima parte dell'obbligo); dobbiamo aiutare ad istituire assetti giusti nel
caso essi non esistano, perlomeno quando è possibile fare iò con un costo moderato per noi
(seconda parte ed è importante perchè introduce una considerazione utitlitaristica). In questa teoria
il mio obbligo politico si esplicita attraverso l'adempimento dell'obbligo legale. La quiescenza
(accettazione passiva), o anche il consenso, verso istituzioni chiaramente ingiuste, non da luogo ad
alcun obbligo (p 287) secondo Rawls e quindi secondo lui in queste condizioni la disobbedienza
non è solo scusata, ma giustificata. Come facciamo però a stabilire se le istituzioni sono giuste o
ingiuste? Rawls nel suo pensiero è fortemente costituzionalista e per questo afferma che la
costituzione viene considerata come la costruzione di una procedura giusta, ma imperfetta nella
misura consentita dalla circostanze: è imperfetta perchè non c'è alcun processo politico che
garantisce leggi coerenti con essa. I due casi in cui possono verificarsi ingiustizie sono: i casi in cui
gli assetti del momento variano in maniera più o meno variabile dai valori dichiarati pubblicamente
giusti oppure gli assetti possono confermarsi nella concezione di giustizia della società, ma è la
concenzione in sè ad essere irragionevole e quindi ingiusta ed inevitabilmente produrrà leggi
ingiuste. Nel primo contesto noi siamo tenuti a rispettare le leggi. Si può percorrere la via della
revisione delle leggi ingiuste, ma in alcuni casi questa revisione non è possibile e comunque rimane
il problema di cosa fare durante il processo di revisione e la risposta è quella che dobbiamo
momentaneamente rispettare la legge ingiusta. Ci sono però delle leggi a cui noi siamo portati a
disobbedire non perchè ledono dei nostri principi, ma perchè sono contrarie alla carta costituzionale
e quindi sono ingiuste per la società nel suo insieme. Questo tipo di incoerenza tra la legge singola e
la costituzione è la situazione che apre la via della disobbedienza, che diventa quindi un'appello che
viene fatto da una minoranza verso la maggioranza e le istituzioni. Per Rawls comunque la
violazione della norma deve essere l'extrema ratio e l'obiettivo è quello di scuotere la coscienza dei
cittadini e il loro senso di giustizia ed in questo modo, secondo Rawls, non solo compio un'azione
moralmente permissibile, ma onoro il mio dovere di creare (o correggere) le istituzioni che non
sono giuste. Un'istituzione è chiaramente ingiusta solo quando c'è una violazione del primo
principio di giustizia e quindi quando le libertà di qualcuno vengono violate: se io sono in
disaccordo con il principio di riscossione delle tasse posso al massimo essere scusato, ma non
giustificato alla disobbedienza in quando i disagi riguardano tutti e non solo qualche gruppo
specifico. Mentre le diseguaglianze materiali possono essere oggettto di controversia, quando c'è
violazione di libertà fondamentale non c'è da discutere: la legge è chiaramente ingiusta. [punto che
non mi spiego è che se ci sono delle libertà che io credo che siano fondamentali, e che sarebbero
nella costituzione se solo non fosse stata scritta parecchi anni fa, non ho mai possibilità di essere
giustificato alla disobbedienza?]. La teoria della disobbedienza civile vale solo per il caso speciale
di una società quasi giusta che risulta per la maggior parte ben ordinata, ma in cui accadono delle
violezioni gravi. Rawls ritiene che una società quasi giusta sia quella di democrazia costituzionale,
la teoria riguarda quindi solo questi contesti perchè fuori da questi ambiti viene a mancare la
legittimità. La teoria di Ralws ha quindi una duplice giustificazione della disobbedienza civile: noi
abbiamo un dovere di disobbedire per realizzare il sostegno alle istituzioni giuste (realizzato
mediante la correzione di quelle ingiuste); il secondo aspetto di giustificazione è che noi abbiamo il
diritto, inteso come libertà, di disobbedire. Rawls è l'unico tra i teorici che parla di un dovere di
disobbedire, mentre per Dwarkin c'è solo un diritto e per Raz c'è una giustificabilità morale. La
definizione di disobbedienza civile di Rawls è quindi: la disobbedienza è un atto pubblico, non
violento, e tuttavia politico contrario alla legge, in genere compiuto con lo scopo di produrre un
cambiamento nelle leggi o nelle politiche del governo, agendo in questo modo ci si rivolge al senso
di giustizia della maggioranza e si dichiara che secondo i propri principi ponderati non vengono
rispettati dei diritti di cooperazione sociale (controllala a p 302).
La disobbedienza deve quindi essere pubblica, se io non la manifesto anche se io ho le migliori
ragioni al mondo non agisco in modo giustificabile moralmente (come nel caso del sindaco di riace
che ha cercato di insabbiare la questione prima di dichiararsi un disobbediente). La pubblicità intesa
da Rawls comprende anche gli atti di rivendicazione posteriore rispetto all'atto stesso, l'importante è
non far finta di nulla. La disobbedienza è politica perchè io non posso disobbedire su basi morali
personali nè su basi religiose, devo disobbedire facendo riferimento alla concezione pubblica di
giustizia. Ultimo elemento che secondo Rawls è un auspicio ha a che vedere con i modi di
manifestazione della disobbedienza, che per appartenere all'alveo della civiltà deve avvenire in un
modo che minimizzi l'impatto sulla tenuta della legittimità e quindi si deve cercare di far nascere un
consenso tra la parti dissenzienti per far si che non ci siano più rivendicazioni simultanee singole,
che creerebbero un effetto che mette a repentaglio la legittimità dell'ordine pubblico. Tutto questo,
ossia tutta la discussione attorno alla disobbedienza civile, sostanzia un nuovo dovere che è il
dovere di civiltà tale per cui noi abbiamo la possibilità di disobbedire, ma lo dobbiamo fare in
maniera civile. Il discorso di Rawls lascia scoperti i dilemmi riguardanti i casi in cui le leggi non
sono in contrasto con il senso di giustizia, ma sono in contrasto con le nostre leggi morali. In questo
caso la cosa da fare è agire come obiettore di coscienza e l'obiezione di coscienza occupa uno
spazio residuale nella società civile in quanto è differente dalla disobbedienza civile che è un
sintomo di salute dell'ordinamento perchè elimina il dubbio che ci sia quiescenza nei confronti del
potere. L'obbiezione di coscienza non ha i caratteri della disobbedienza in quanto non è pubblica,
non è politica, non richiede organizzazione delle mionranze ed è tutela della propria integrità
morale.

Lez 27/11
Rawls come punto a cui guardare per trovare la moralità comune da seguire e riguardo alla quale
decidere se una norma lede la moralità, indica la costituzione e quindi se il testo è di una
costituzione giusta. Waldron critica Rawls affermando che il fatto che ci sia una costituzione non
implica che tutti i cittadini siano d'accordo sui contenuti della costituzione e quindi all'interno di una
democrazia la disobbedienza civile non è mai giustificata, si possono sostenere posizioni di
obiezione di coscienza, ma io non posso perchè non ne sono in grado, rivendicare come ingiusta per
tutti una norma. Dworkin scrive "i diritti presi sul serio" che è il suo libro più importante di filosofia
politica e lo scrive come risposta a Rawls perchè viene scritto 6 anni dopo a "una teoria della
giustizia" e quindi scrive nel 1977. Secondo Dworkin, Rawls è troppo costituzionalista nel suo
pensiero, non ci dobbiamo fermare al ruolo della corte federale, ma serve un ruolo più attivo dei
cittadini. Dworkin afferma che non esiste un diritto a seguire la propria coscienza, e quindi se non
esiste tale diritto, seguire la propria coscienza può in certi casi essere comunque la cosa giusta da
fare? In inglese la parola right esprime sia i casi in cui abbiamo un diritto di fare qualcosa che i casi
in cui una cosa è giusta da fare. Se noi siamo padroni di un appartamento e abbiamo un inquilino
moroso abbiamo il diritto di sfrattarlo, ma potrebbe non essere la cosa giusta da fare se magari
questo inquilino è appena stato licenziato o ha dovuto affrontare delle spese impreviste per la
propria salute, quindi l'autore specifica che i due significati della parola inglese non coincidono.
Dworkin non si chiede a quali condizioni abbiamo il diritto di fare qualcosa di sbagliato, ma si
chiede in quali condizioni abbiamo la possibilità di fare cose per le quali non abbiamo diritto. Per
affrontare questo problema, Dworkin afferma che questo sembra un problema nella misura in cui
noi non ci chiariamo su cosa sia un "diritto" e lo utilizziamo per indicare due tipi di diritti: i diritti
pretese (claim) oppure i diritti come libertà (liberty). Dire che abbiamo un diritto pretesa a fare
qualcosa vuol dire che c'è almeno un'altra persona al mondo che è titolare del dovere corrispondente
al mio diritto, mentre i diritti come libertà non hanno un dovere corrispondente in capo a qualcuno
(io ho diritto di indossare una certa giacca, ma nessuno ha il dovere di comprarmela se non ce l'ho).
La questione è se disobbedire possa essere considerato come un diritto pretesa o come diritto
libertà; Dworkin prosegue dicendo che ciò che rende l'ordine pubblico legittimo e che quindi genera
obblighi politici è la capacità del governo di garantire i diritti fondamentali delle persone, ossia i
diritti come pretesa. Il governo non ha quindi il diritto libertà di esercitare il suo potere in modo che
sia lesivo dei diritti come pretesa delle persone, qualora il governo dovesse in qualche modo violare
un diritto pretesa (e quindi essere un'istituzione ingiusta), disobbedire diventa moralmente
giustificabile in senso forte: non solo in senso che è moralmente permissibile, ma nel senso che a
fronte della violazione dei diritti pretesa si genera un nuovo diritto che normalmente le persone non
hanno ossia appunto il diritto di disobbedire. Anche Dworkin fa riferimento alla costituzione come
testo dal quale trarre i diritti fondamentali dei cittadini, nella sua prima formulazione del testo, in
seguito parlerà generalmente dei diritti dell'uomo. Questo però non fa cadere Dworkin nella tesi di
eccessivo costituzionalismo che lui ha criticato a Rawls, perchè afferma che il vero problema di
Rawls stava nel fatto che il disobbediente aveva il dovere di disobbedire per segnalare la legge
ingiusta nella speranza di muovere il senso di giustizia della maggioranza ed una volta fatto questo
il suo dovere terminava. Per Dworkin non c'è un dovere, ma un diritto e noi abbiamo diritto a
disobbedire ad oltranza fino a quando non vengono ripristinati tutti i diritti che venivano lesi e
quindi io posso (ossia ne ho il diritto) continuare a disobbedire anche dopo l'espressione della
Suprema Corte se ritengo che sia ancora lesiva di qualche diritto (per Rawls invece il dovere
terminava non andava ad oltranza). Questo aspetto è molto importante perchè Dworkin mette quindi
in dubbio una delle istituzioni principali dell'ordinamento quale la corte che supervisiona le leggi e
Rawls non faceva questo perchè si poneva l'obiettivo di giustificare un dovere pertanto non può
esprimere una teoria in cui i cittadini abbiano il dovere di vivere la loro vita esprimendo il dissenso
alle istituzioni perchè sarebbe troppo oneroso; inoltre Rawls deve giustificare un dovere ossia
giustifica di meno, mentre Dworkin giustificando un diritto può essere più battagliero. Secondo
Dworkin i diritti sono come le briscole, ossia carte che posso giocare contro qualsiasi altra
considerazione (usa il termine trump per indicare la carta vincente) e quindi quando ho un diritto
pretesa non valgono considerazioni legate alle conseguenze: se io ho il diritto di parola, posso
esprimermi, ossia giocare la briscola del mio diritto, anche se quello che dico può dare fastidio a
qualcuno. Questo però non vuole dire che i diritti siano assoluti, in quanto è possibile che ci siano
diritti che entrano in conflitto gli uni con gli altri e quindi è possibile che l'esercizio delle mia libertà
di espressione possa entrare in conflitto con il diritto alla sicurezza di cui sono titolari altre persone
ed in questi casi un diritto può essere limitato. Secondo Dworkin esiste una gerarchia dei diritti in
quanto è un monista, ossia ritiene che esistano dei diritti sovraordinati ad altri, ad esempio i diritti
che hanno a che vedere con l'integrità fisica sono sovraordinati rispetto ad altri diritti come quello di
espressione, che a sua volta è sovraordinato ad altri diritti come il diritto all'istruzione e questa sua
posizione fa si che quando si da un conflitto per Dworkin è sempre possibile risolverlo (questo è un
aspetto fortemente criticato da chi afferma che nel mondo si vedono molti conflitti di diritti che non
vengono risolti) e al tempo stesso evita la possibilità di nascita di dilemmi. La gerarchia tra i diritti è
una gerarchia morale, che ha a che vedere con le condizioni necessarie per l'esercizio di tutti gli altri
diritti (per questo il diritto alla vita è sovraordinato al diritto di espressione perchè se sono morto
non me ne faccio nulla). Dworkin si chiede cosa dobbiamo fare come cittadini di uno stato legittimo
quando ci troviamo davanti ad una legge di cui non sono sicuro se violi o meno dei diritti e secondo
lui ho 3 alternative: [1] nel dubbio obbedisco in quanto comunque vale l'obbligo politico; [2] seguo
il mio giudizio fino a quando un tribunale non abbia preso una soluzione in merito (che è la
soluzione di Rawls); [3] seguo il mio giudizio anche contro il parere della corte. Secondo Dwarkin
anche nei casi di leggi non chiare, se ho il dubbio che una legge violi un qualche diritto
fondamentale, io ho il diritto di seguire la terza opzione ed agire quindi secondo coscienza.

Lez 4/12
Fino ad ora abbiamo visto le posizioni di Rawls e di Dworkin rispetto alla giustificazione della
disobbedienza civile: per Rawls date certe condizioni disobbedire è doveroso per obbedire al dovere
naturale di giustizia (che però è temperato dal dovere di civiltà per cui la disobbedienza è
ammissibile solo in certi termini e se espressa in certe modalità) e quindi il suo pensiero è liberale e
per questo una legge è ingiusta quando viola i diritti di libertà; per Dworkin invece la disobbedienza
civile è un diritto che può essere esercitato ogniqualvolta che ci troviamo davanti ad una legge
chiaramente ingiusta perchè viola i diritti fondamentali delle persone, per queste ragioni la
disobbedienza viene quindi scusata e non giustificata come faceva Rawls.
Joseph Raz parte da quello scenario che abbiamo affrontato con Dworkin, in cui si chiedeva cosa
fare quando abbiamo un dubbio riguardo ad una legge che non capiamo se è ingiusta oppure no e
proponeva 3 vie di risoluzione. Raz afferma che delle 3 soluzioni ritiene corretta la seconda ovvero
che posso disobbedire fino a che non si esprime una corte, ma da quel momento in poi cesso la mia
disobbedienza, qualsiasi sia la sentenza. Secondo Raz la stabilità delle leggi è un valore che deve
essere tutelato sia dai politici che dai cittadini e la stabilità delle leggi è importante perchè permette
alle persone di crearsi un sistema di aspettative stabili: il punto non è mettere al riparo da violenze
derivanti da conflitti evenutali, ma tutelare un diritto a costruirsi delle previsioni stabili basate su
leggi certe. Il sistema di aspettative stabili è una questione di rispetto per la dignità umana,
rispettare le persone nella loro dignità vuol dire rispettare le persone come agenti morale e quindi
rispettare questa persona come legislatore di se ed autore del proprio piano di vita (ed è per questo
che devo avere capacità prospettica). Il sistema di Raz non tollera quindi la soluzione di Dwarkin
perchè quella creerebbe una situazione troppo instabile potendo io disobbedire ad oltranza anche
quando una legge è dubbia. Per una persona che sostiene come Raz che la disobbedienza deve
essere giustificata solo in pochi casi, perchè altrimenti si crea un sistema troppo instabile, sembra
sorprendente leggere che Raz stesso afferma che noi non abbiamo obblighi morali di rispettare le
leggi e questo perchè secondo lui ci sono 2 altre basi di giustificazione: la prima ha una natura
prudenziale in quanto lo stato di diritto in cui noi possiamo farci delle aspettative ha per noi un
valore strumentale in quanto l'ordine in se non è un valore, ma sono le conseguenze di un tale
ordine che ci interessano (siamo quindi all'opposto delle teorie aristoteliche secondo cui la
partecipazione politica è un valore in se perchè migliora le persone); obbedire alle leggi può avere
anche un'altra giustificazione (e questo argomento è vagamente aristotelico) e fa riferimento al
valore dell'amicizia, afferma "una persona che rispetta la legge, esprime in questo modo il suo
atteggiamento verso la società la sua identificazione e la sua lealtà ad essa, è il rispetto degli altri
che genera la sua obbedienza". Quello che noi facciamo è quindi guidato dal fatto che in primo
luogo mi conviene perchè mi permette di essere autonomo, ma ha anche un valore espressivo
perchè esprime la mia amicizia politica per le altre persone ed afferma di me che sono una persona
leale e fedele. In entrambi i casi io non ho un dovere di rispettare la legge perchè è un valore in se e
quindi c'è un discostamento totale dell'obbligo morale dall'obbligo giuridico. All'interno di questo
schema di rispetto per le norme Raz ricostruisce una tipologia delle forme di dissenso: la prima
forma di dissenso la chiama disobbedienza rivoluzionaria, definendola come l'infrazione della legge
per motivi politici al fine di produrre un cambiamento di governo o di disposizioni costituzionali; la
seconda forma di disobbedienza è la disobbedienza civile vera e propria che è la disobbedienza
della legge per motivi politici al fine di produrre un cambiamento di una legge, di una poitica
pubblica o di esprimere il proprio dissenso verso una legge o poltica (il fine del disobbediente è
duplice: operare un cambiamento ed esprimere il proprio disaccordo); la terza, ed ultima, forma di
dissenso è l'obiezione di coscienza che viene definita come l'infrazione della legge alla luce di un
obbligo morale (e questo sta in piedi perchè non c'è obbligo morale di rispettare le leggi). Secondo
Raz all'interno di una società bene ordinata si può dire che è anche legittima quando rispetta il
principio liberale ed una società è liberale se obbedisce al principio secondo cui ogni persona ha un
diritto alla partecipazione alla vita politica nella società. Quando il principio liberale è affermato
allora la società è legittima e quindi non è possibile giustificare la prima forma di disobbedienza.
Per Raz lo spazio per la disobbedienza civile è molto ridotto perchè non sono nemmeno legittimato
ad intervenire su basi di solidarietà verso chi non si vede riconosciuti i diritti di partecipazione alla
vita poltica, in quanto anche se quello è un mio dovere morale, il mio primo principio base
dev'essere lo stato di diritto e la sua organizzazione. Raz fa una distinzione netta tra ciò che è
morale e ciò che è politico, il primo campo tocca le questioni personali, mentre il secondo ambito si
rivolge alle questioni pubbliche e ciò indipendentemente dalle motivazioni quindi anche una
questione che è basata su considerazioni morali, ma riguarda non solo me ma tutte le persone,
assume carattere politico. Solo se io non ho accesso ai canali formali di rappresentanza democratica
allora ho la possibilità di esercitare la mia facoltà (si parla di permissibilità morale) di disobbedire
come modo di partecipare dato che non ho altri mezzi di partecipazione e devo comunque rimanere
all'interno della legalità. Questo tipo di posizione è una posizione che è stata recentemente
emendata da un filosofo del diritto Leftcowiz (controlla), che mantiene l'impianto generale di Raz,
ma parla di un diritto disgiunto di partecipazione politica per riferirsi a chi in uno stato legittimo ha
la possibilità di partecipazione o attraverso canali formali o disobbediendo pubblicamente e
ricevendo un trattamento proporzionato alla propria disobbedienza. Secondo Lefcowitz c'è quindi
una possibilità più ampia di disobbedienza civile in quanto la disobbedienza viene espressa come
una modalità di espressione anche per chi avrebbe il diritto di voto. L'obiezione di coscienza è vista
da Raz come uno scudo attraverso il quale un cittadino cerca di proteggersi da un obbligo che
ritiene lesivo della propria coscienza e per questo l'obiezione per questa natura di scudo non ha
come intento quello di cambiare la norma, ma è una rivendicazione di esenzione. Secondo Raz è
possibile dare due linee di risposta se esista mai un diritto all'obiezione di coscienza: la prima è
prettamente utilitarista e quindi dobbiamo calcolare le conseguenze attese della mia obiezione ed è
un calcolo di bilanciamento tra l'intensità della mia preferenza e quanto costa il mio dissenso alla
società, se ci sono buone ragioni di ordine pubblico per la mia obbedienza allora non c'è spazio per
l'obiezione di coscienza. La seconda linea di risposta è una ragione espressiva di rispetto:
l'obiezione di coscienza può essere giustificata se l'obiettore riesce a dimostrare che obbedire ad una
norma mina il proprio rispetto di se e per questo bisogna dare ragioni pubbliche che mostrino la
propria impossibilità morale di conformarsi ad una norma (io non vendo come farmacitsta cattolica
la pillola del giorno dopo perchè altrimenti non avrei rispetto di me) e deve quindi essere chiara la
base morale e di coscienza. Se si da una di queste due condizioni (che sono due condizioni che
ricalcano le due giustificazioni dell'obbligo giuridico) allora il legislatore ha buone ragioni per
inserire un'esenzione all'interno della legge per introdurre un opzione di coscienza e l'obiezione
diventa quindi secundum legem e non contra legem. Questa idea di obiezione secundum legem è
creata appositamente con l'intento di contribuire a limitare lo spazio di disordine sociale e sono
previsti anche dei costi per chi si avvale dell'opzione di coscienza, costi che devono testare la
validità delle mie ragioni (se faccio l'obiettore e non vado a militare, accetto di fare il doppio del
tempo di servizio), e hanno anche uno scopo di compensazione perchè se l'idea è che la società ha
bisogno della mia prestazione e io non la presto perchè sono obiettore, allora devo compensare in
altro modo. Secondo Raz quindi i dottori obiettori non sono giustificati perchè non sono previsti
degli oneri aggiuntivi. Un secondo elemento importante sono i rischi che Raz vede nella
giustificazione in questi termini dell'obiezione e sono 3: il primo rischio è ovviamente l'abuso, ossia
data la difficoltà di giudicare le ragioni di coscienza delle altre persone c'è possibilità che se ne
abusi; il secondo rischio è quello di autoconvincersi di avere argomenti validi per l'obiezione, in
inglese il termine è "auto-inganno". Il terzo rischio è quello di introdurre una disparità di
trattamento tra chi ha una maggiore capacità argomentativa e chi è più in difficoltàda questo lato,
visto che l'obettore deve dare giustificazione delle proprie ragioni

Lez 5/12
Il disobbediente civile lo fa su basi generali, in quanto ritiene che la norma sia sbagliata per tutti e
quindi nessuno la dovrebbe seguire; l'obiettore invece disobbedisce per non contrastare la propria
intergrità morale. Mentre la disobbedienza civile implica sempre una trasgressione della norma,
l'obizione di coscienza può avvenire contra legem o secundum legem, a seconda che esista o meno
un qualche diritto a non ottemperare ad un diritto generalmente valido. L'obiezione di coscienza
contra legem può essere omissiva oppure commissiva: obiezione di coscienza contra legem
omissiva si ha quando qualcuno si rifiuta di prestare un certo servizio (medici anti abortisti);
obiezione di coscienza contra legem commissiva si ha quando qualcuno agisce in violazione di un
obbligo (no vax). Rawls pensa che l'obiezione di coscienza, sia essa omissiva o commissiva, non
può essere mai giustificata, ma può essere tollerata per cui per lui l'obiezione di coscienza occupa
un ruolo "interstiziale" (termine introdotto da anna maria galeotta, controlla) per cui l'obiezione di
coscienza si insinua negli interstizi tra le norme, e quindi quando l'adesione è troppo onerosa per il
singolo e vi è quindi un peso che è lesivo del rispetto di se e solo quando si verificano queste
condizioni l'obiettore è tollerabile e quindi si tengono in considerazione delle attenuanti di
coscienza quando si decidono le sanzioni per l'obiettore. Altra caratteristica fondamentale per la
tolleranza dell'obiezione secondo Rawls è la pubblicità di questa propria obiezione in modo da
rendere l'obiezione di coscienza diversa dalle forme evasive. Nel caso di Dworkin la disobbedienza
civile e obiezione di conscenza sono unite perchè esiste una base sola per tollerare il dissenso che è
la violazione dei diritti delle persone. Raz assegna all'obiezione di coscienza un ruolo maggiore
della disobbedienza civile in quanto la disobbedienza non è giustificata per i cittadini che hanno
diritti politici all'interno di uno stato liberale e quindi per lui è la disobbedienza civile ad avere un
ruolo interstiziale perchè si applica solo per le minoranze che non si vedono riconosciuti i diritti di
partecipazioni. Raz ha una teoria delle istituzioni molto diversa da quella di Rawls in quanto
quest'ultimo ritiene che le istituzioni devono dirimere i conflitti, mentre Raz ritiene che il ruolo
delle istituzioni sia quello di adoperarsi per portare le persone a sviluppare una qualche virtù morale
importante e quindi: per Rawls la teoria è del liberalismo neutralista, mentre per Raz è una teoria
del liberalismo perfezionista. In particolare secondo Raz una vita virtuosa è una vita autonoma, e
l'obiezione di coscienza è uno strumento con il quale le istituzioni realizzano la possibilità per i
cittadini di agire in modo autonomo, e quindi è parte integrante del ruolo delle istituzioni quello di
concedere spazio per l'obiezione di coscienza. L' obiezione di coscienza ha per Raz un ruolo
cruciale e lo ha su basi di rispetto, anche se non qualsiasi tipo di obiezione di coscienza può essere
considerata come una rivendicazione di rispetto, devono darsi infatti alcune condizioni: deve essere
chiaro che l'obiezione di coscienza messa in atto ha rilievo per le persone per cui ad esempio non
posso rifiutarmi di far abortire solo perchè sono interventi poco interessanti dal punto di vista
chirurgico. Nascono quindi i problemi dell'autoconvincimento in convinzioni morali a cui in realtà
non credo, e che adotto solo per poter sfuggire a qualcosa che in realtà non voglio fare per motivi
che sono tutto meno che morali; altro problema è che ci sono persone che riescono a persuadere
della bontà delle loro ragioni perchè hanno risorse intellettuali maggiori o retorica migliore e quindi
dover dare conto della validità delle proprie motivazioni per l'obiezione può risutare un carico
troppo pesante perchè inserisce una disparità di trattamento verso chi ha minor capacità di
argomentare e quindi rischia di non vedersi riconosciuti i suoi diritti. C'è poi il problema di decidere
chi ha l'autorità per venire ad indagare cosa sia lesivo dei miei principi morali ed inoltre l'ispezione
delle motivazioni è molto intrusiva ed in più in una società pluralista non c'è un testo che stabilisce
cosa sia morale e quindi una cosa che magari non è morale per me non è necessariamente immorale
per tutti porprio perchè sulla moralità c'è disaccordo. Queste problematiche portano Raz ad
affermare che l'obiezione di coscienza contra legem non è mai giustificata, c'è spazio solo per
l'opzione di coscienza se è prevista dalla legge. Applicare dei costi alla pratica dell'obiezione di
coscienza può essere un modo di verificare in maniera indiretta la forza delle mie convinzioni: non
sarei mai disposto a finire in galera se obietto se lo faccio solo per non prestare servizio di leva per
esempio, il rovescio della medaglia di questa pratica è che rischio di spostarmi da un ottica
deontologica secondo cui agisco in un certo modo per non ledere la mia coscienza ad un ottica di
costi benefici. Raz suggerisce d'intraprendere la strada dell'obiezione di coscienza secundum legem
e bisogna quindi chiedersi a quali condizioni sia giustificato inserire una clausola di coscienza
direttamente all'interno della legge e ciò può avvenire secondo due binari diversi: o ex ante legem e
quindi in fase legislativa oppure ex post legem ossia in fase giudiziaria. L'obiezione di coscienza ex
ante legem è quella che il legislatore si prefigura prima dell'entrata in vigore della legge, mentre
l'obiezione di coscienza ex post legem si ha quando si verifica un obiezione di coscienza contra
legem per cui si arriva ad un processo che poi avvia un percorso per cui la legge viene modificata e
l'obiezione di coscienza si tollera. L'obiezione di coscienza ex ante si esplica nell'opzione di
coscienza, in cui appunto il legislatore prevede due percorsi distinti a seconda della propria scelta. Il
percorso dell'obiezione di coscienza contra legem che poi è diventata secundum legem è quello
fatto dall'obiezione di coscienza al servizio militare che in un primo momento era contra legem, poi
è diventata una scelta che portava con se dei costi per verificare la validità e la coerenza delle
motivazioni (il servizio civile durava il doppio e poi non potevi richiedere il porto d'armi e avevi un
aggravante se venivi coinvolto in risse o in reati violenti), questo però ha poi fatto revisionare la
norma inserendo una opzione di coscienza in cui servizio civile e servizio militare erano uguali. Un
processo che mira a stabilire se c'è un diritto o no all'obiezione di coscienza ex post legem deve
avere degli obiettivi da verificare: il primo è che è fondamentale che l'obiettore non si stia
sottraendo ad un obbligo perfetto e cioè quegli obblighi soggettivi ed in cui è quindi indispensabile
che sia quella persona ad adempiere (come l'obbligo a non torturare altre presone) e quindi
l'obiettore non deve star violando dei diritti di qualcuno in modo diretto; la seconda considerazione
è consequenzialista e riguarda il numero di esenzioni tollerabili, ed è questa una considerazione
rilevante per esempio nel caso dei vaccini in cui magari io posso tollerare un 5% di non vaccinati,
ma non oltre.
Brian Barry scrive un libro "culture and equality" nel 2000 in cui esprime delle considerazioni
contrarie all'obiezione, ma afferma che il legislatore deve porsi un triplice test davanti alle questioni
controverse riguardo all'introduzione dell'opzione di coscienza, il legislatore deve: chiedersi se c'è
almeno una buona ragione che giustifica la legge; se c'è almeno una buona ragione contro la legge
e, terzo punto, la ragione contro la legge deve valere per qualcuno, ma non per tutti. Questo triplice
test è la ragione per cui è stato rimosso l'obbligo di leva perchè non c'era più una buona ragione per
avere la legge in quanto gli obblighi di difesa potevano essere assolti con una leva volontaria. Due
considerazioni cruciali riguardano che tutta la contestazione prevede che le forme di espressione del
dissenso sono forme comunicative attraverso le quali un soggetto contribuisce ad un miglioramento
dell'ordine pubblico in termini morali contrastando un'ingistizia o proteggendo alcune persone dal
comemettere atti lesivi della propria coscienza e per questa natura comunicativa sia obiezione di
coscienza che disobbedienza civile quando sono pubbliche possono essere considerate forme di
partecipazione pubblica; il secondo aspetto cruciale è che niente legittima atti che minano l'ordine
pubblico perchè le forme tollerate sono tutte rientranti nell'ordine pubblico, anche se in questo
punto rimane da chiarire cosa sia violento nei confronti dell'ordine pubblico e rimane anche il limite
del principio di proporzionalità tra violenza effettuata e scopo che voglio raggiungere.

Lez 12/12
Su quali basi si può sostenere che i genitori abbiano l'obbligo di vaccinare i propri figli anche
quando questo andasse contro le loro convinzioni etiche? [quando la domanda parte con "su quali
basi" il punto è fornire delle giustificazioni possibili, e quindi dobbiamo vedere se ci sono basi
etiche].

Non ha senso chiedersi se ci sia un obbligo politico per fare un'azione specifica perchè l'obbligo
politico è sempre generale in quanto è la cambiale in bianco l'obbligo politico. Se non tiene
l'obbligo politico, il sistema in cui viviamo non ha il potere di tenerci vincolati sotto alcun aspetto.
Provare a dimostrare che c'è un obbligo politico significa provare ad affermare che si adempie
all'obbligo per dimostrare la propia riconoscenza verso le istituzioni legittime. Per interpretare
questo come un obbligo politico bisogna interpretare l'obbligo in questione come un qualcosa che
va al di fuori della potestà normativa del ministro della salute.
Chiederci se c'è un obbligo morale significa chiederci se i genitori hanno un obbligo di vaccinare i
figli anche nel caso non ci fosse una norma, e non è questo il nostro caso perchè sarebbe un caso di
etica personale e non una questione di etica pubblica (il filosofo politico si occupa solo della
questione etica pubblica). DOBBIAMO SEMPRE DIRE COME INTERPRETIAMO IL CASO E
SPIEGARE PERCHE'. L'obbligo giuridico è dipendente dal contenuto, l'obbligo politico è
indipendente dal contenuto.
La seconda parte della domanda chiede di vedere se ci sono basi di contestazione, date dal contesto
specifico che la domanda espone. La base di contestazione è sempre di natura etica ossia religiosa,
morale personale. Ad esempio se avevo scelto la strada interpretativa dell'obbligo politico posso
pensare che non ci sia diritto per il ministro della salute di normare la vaccinazione perchè invade il
mio potere genitoriale oppure nel caso si lavori sulla tensione con l'obbligo giuridico la
rivendicazione sarebbe di esclusione per se e quindi su basi ad esempio religiose (come il turbante
al posto dei caschetti per i lavoratori di religione sic). LA PRIMA PARTE DEL TEMA DEVE
DISAMBIGUARE I TERMINI DELLA DOMANDA, LA SECONDA PARTE DEVE
RISPONDERE ALLA DOMANDA E QUINDI DOBBIAMO FARE RIFERIMENTO A UNA O
PIU' DELLE TEORIE CHE ABBIAMO VISTO. Libertà di scelta, di opinione e di coscienza sono
libertà fondamentali per Rawls e quindi se vengono violate legittimano la tesi secondo cui non c'è
obbligo. La religione non può mai essere base per la disobbedienza civile eprchè la disobbedienza
deve essere pubblica (nel secondo senso ossia di valori pubblicamente riconosciuti) e quindi vale
solo per gli stati teocratici; le convinzioni religiose spostano la questione sul lato dell'obiezione di
coscienza. Dalla prospettiva di Dwarkin potremmo dare conto dei disaccordi che ci sono sulla
questione dei diritti fondamentali, anche perchè c'è l'onere della prova per il disobbedienti e quindi
dobbiamo tenere conto di quali diritti ci sono in gioco per i genitori (diritto educativo ad esempio).
Nel caso di dwarkin c'è però anche da tenere conto che ci sono delle considerazioni che non
possono mai agire come limitazioni dei diritti e quindi non sono rilevanti le considerazioni di natura
consequenzialista ossia considerazioni che hanno a che vedere i costi della tenuta dell'ordine
pubblico e che non ledono i diritti altrui (che è l'unico argomento che limita l'esercizio di obblighi).
Per dwarkin non è rilevante che se tutti non si vaccinassero calerebbe la soglia di immunizzazione
collettiva, l'interesse collettivo è invece rilevante per gli utilitaristi che pensano a cosa massimizza
l'utilità collettiva. Dalla prospettiva di raz dobbiamo vedere l'impatto che l'obligo ha sulla certezza
delle leggi e vedere l'impatto dell'obbligo sul diritto di libertà; inoltre secondo raz l'ordine pubblico
è giusto quando c'è un principio liberale di partecipazione politica e quindi dobbiamo vedere in che
modo è stato stabilito l'obbligo perchè se l'obbligo è stato deciso in termini democratici io non sono
giustificato a disobbedire (ciò non implica che io non possa chiedere esenzioni su basi di
coscienza), mentre lo sarei se l'obbligo è stato stabilito senza rispettare i diritti di partecipazione
politica. Da una prospettiva volontarista l'obbligo tiene nella misura in cui c'è un'adesione
volontaria ma nel momento in cui c'è una contestazione di base etica, l'obbligo viene meno.

Potrebbero piacerti anche