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Sbobinatura

diritto penale
2018/2019
24/09/2018
Il diritto penale esprime il cosiddetto minimo etico comune, ossia un gruppo di regole minime che
secondo la legge tutti devono necessariamente rispettare. Il nostro attuale codice risale al 1930 ed
è diverso dal diritto penale passato.

Il diritto Penale è una scienza moderna rispetto al diritto civile. Il diritto penale nasce due secoli fa
con L’illuminismo e la Rivoluzione Francese. Prima di allora non esistevano principi. I libri del
CORPUS IURIS del diritto penale erano stati studiati e commentati con le cosiddette glosse. I primi
commentatori risalgono al 1200, 1600 in Italia e Germani. Alcuni principi ci sono ancora oggi (come
per esempio la responsabilità penale ), sono nati nel tredicesimo e quattordicesimo secolo,
(imputabilità : ossia chi la capacità di intendere e di volere e solo se ricorre questo presupposto il
soggetto può essere punito. Inoltre, questo principio del diritto penale ha un senso tecnico ed è
diverso dalla possibilità di poter essere imputato), ( distinzione tra dolo e colpa intendendosi per
dolo la volontà di compiere un reato e per colpa invece un reato compiuto per leggerezza e quindi
considerato meno grave.

Anticamente erano regolari pene atroci, come la pena di morte, le mutilazioni , le carcerazioni, la
tortura, di fatto contrarie al senso di umanità. Inoltre, il diritto era caratterizzato dal privilegio, ossia
alcune classi sociali non erano tenute a rispondere ad alcuni reati penali ( es il clero).

IL diritto penale era più che un sistema organico, un mezzo per esercitare il potere da parte del
sovrano, che si serviva delle pene per scopi politici al fine di controllare i sudditi, che avevano come
destinatario del diritto penale il criminale che era considerato il nemico da combattere e per la
quale non ci si creava scrupoli circa il rispetto dei suoi diritti. Il diritto penale del nemico fu la
teoria ideata da Jacobs nel 1800 il quale riteneva che il diritto penale moderno fondato sui principi
costituzionali, si rivolge esclusivamente ai cittadini, i quali si conformano al rispetto delle regole.
Coloro i quali si pongono al di fuori della società, perché non rispettano le regole, non meritano le
garanzie alla stregua dei membri della società.

Questa teoria ha concrete applicazioni nel diritto degli Stati Uniti , in cui dopo l’attentato alle torri
gemelle, i terroristi islamici furono sospettati di aver commesso l’attentato ma in mancanza di un
accertamento della loro responsabilità penale, sono stati allontanati dagli Stati Uniti e sono tutt’ora
in prigione, secondo l’idea del diritto penale del nemico. Alcune teorie hanno rifiutato l’idea del
diritto penale del nemico per via dei principi costituzionali, infatti anche se è accertata la
responsabilità penale del soggetto, non possono essere inflitte pene disumane. Con l’illuminismo e
in Italia nella fattispecie, Cesare Beccaria nella celeberrima opera del 1764 a Ginevra “ dei delitti e
delle pene” ribalta i presupposti del diritto del nemico. Prima dell’età moderna, quindi anticamente
era diffusa la teoria del legittimismo secondo cui il sovrano deteneva un potere conferitogli da Dio
e per questo legittimato. La suddetta teoria fu superata con il superamento della distinzione di
classi, tipicamente medievale, con la nascita della classe borghese, la quale iniziò a richiedere il
rispetto di sé, per cui fu ceduto il passo alla concezione che tutti i cittadini sono legittimati a godere
di diritti e libertà di natura ( Hobbes), data loro dalla natura stessa, motivo per cui questa loro
libertà può essere limitata solo se questa limitazione è funzionale al mantenimento della pace
sociale ( affinché gli uomini non si facciano guerra fra loro).

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La legge esprime la volontà generale ( Rousseau) pertanto gli uomini cedono volutamente una
parte una parte della loro libertà per godere di una condizione di sicurezza sociale. Con
l’affermazione della borghesia, il diritto penale da strumento del sovrano diventa un sistema di
limitazione condiviso dai cittadini e costituisce l’estrema ratio cui è necessario occorrere per
assicurare la pace sociale. E dunque tutte le volte in cui non è necessario, lo stato non è legittimato
a ricorrere a sanzioni penali. Bisogna quindi ricorrere al diritto penale in ultima istanza : prima si
ricorre al diritto pubblico, poi a quello amministrativo e infine a quello penale. Franz Follist disse
che “ il diritto penale è la magna carta del reo, ossia una carta di garanzia del reo, al quale lo Stato
assicura che solo a determinate condizioni il reo potrà essere punito e non anche in altri casi.
Secondo questa idea il diritto penale doveva essere limitato a poche, precise e chiare leggi per
assicurare la pace sociale , pertanto il giudice non doveva esercitare alcuna discrezionalità, ma
limitarsi ad applicare le leggi senza interpretarle , ma solo come da esse stabilito. Un esempio di
quanto detto, possiamo per esempio riscontrarlo nel Romanzo dei Promessi sposi in cui il viceré
prevedeva delle sanzioni sempre più dure. Renzo si rivolge dall’avvocato Azzeccacarbugli, il quale
non avendo capito che Renzo fosse una vittima, interpreta la legge a favore del brano e
successivamente si rifiuta di difendere Renzo. Fu uno stato in cui le leggi erano confuse e a capriccio
del giudice che operava in nome del re ( perché da lui incaricato). Tali leggi furono considerate un…
ai cittadini dagli illuministi. Il pensiero illuminista però non fu efficace perché non si può tenere
conto dell’opinione del giudice in quanto la legge è una proposizione linguistica che necessita di
un’interpretazione. Nel 1700 viene ribaltato anche il senso della pena. Fino a quel momento la pena
era concepita come un castigo, con l’illuminismo invece la pena è considerata come prevenzione
generale, ossia rivolta a tutti e volta a orientare il comportamento per evitare che siano commessi
fatti inammissibili. A tal proposito Romagnosi pensava che: La pena è la controspinta rispetto alla
spinta a commettere un Reato. Questo rappresenta la concezione illuminista secondo cui
attraverso la minaccia di una sanzione si evita di commettere il reato. Il risultato della Rivoluzione
francese e del pensiero illuminista fu la codificazione.

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25/09/2018
L’Illuminismo determinò la nascita del DIRITTO PENALE MODERNO con l’esigenza di tutela della
nuova classe borghese. IMPORTANTE: SENTENZA 364/1988 per stabilire il DISPOSITIVO (la
decisione, sentenza) sviluppa una serie di argomenti, i cosiddetti “OBITER DICTA” OSSIA il PENSIERO
DELLA CORTE COSTITUZIONALE. Con l’ILLUMINISMO nasce il fenomeno della CODIFICAZIONE.

Il primo codice fu il CODE NAPOLÈON DEL 1810;

-un altro successivo fu quello del REGNO DI SARDEGNA del 1859;

-poi il CODICE TOSCANO DEL 1853;

-IL CODICE PONTIFCIO DEL 1882;

-IL CODICE DELLE DUE SICILIE DEL 1819.

Quando l’Italia fu riunita, per un po’ rimase in vigore il codice del REGNO DI SARDEGNA. Dopo vi fu
il CODICE PENALE ZANARDELLI, ministro della Giustizia , che si limitasse all’essenziale senza
comprimere i diritti del cittadino. Il CODICE ZANARDELLI è un codice tipicamente LIBERALE,LAICO
che superò la tripartizione del diritto penale e abolisce infatti l’idea di CRIMINE che dava l’idea di
RIMPROVERO ETICO-MORALE diverso dal DELITTO. Si applica il PRINCIPIO DI LEGALITA’ e di
IRRETROATTIVITA’ delle LEGGI PENALI. Gli ILLUMINISTI volevano: “PENE CERTE (DETERMINATE) PER
OGNI REATO SIA MASSIME CHE MINIME”. Tuttavia, la legge prevedeva degli ISTITUTI DI CLEMENZA
come per esempio l’AMNISTIA. Il CODICE PENALE ZANARDELLI era un codice mite, non prevedeva
pene particolarmente severe, volto alla TUTELA DELL’INDIVIDUO e non dello STATO. Il Codice
penale ZANARDELLI entra in vigore nel 1889. Si contendevano in quel periodo 2 SCUOLE DI
PENSERO PENALISTICHE importantissime perché con le loro diverse e contrapposte teorie hanno
dato vita alla creazione del successivo codice che è tuttora in vigore: LA SCUOLA CLASSICA e LA
SCUOLA POSITIVA. Facevano parte della scuola CLASSICA alcuni filosofi del diritto penale come
ROMAGNOSI, FILANGERI i quali scrivevano alla fine del ‘900 e non si basano sui codici. Il
FONDATORE della SCUOLA CLASSICA fu FRANCESCO CARRARA ,che si basava sul CODICE TOSCANO,
pubblica : -SUI CRIMINI e OPUSCOLI DI DIRITTO PENALE nel 1877. CARRARA è il PADRE DEL
DIRITTO PENALE ITALIANO. È di matrice LIBERALE e ILUMINISTA. Le sue tesi sono quelle della
SCUOLA CLASSICA ossia: “il REATO è un ENTE GIURIDICO. Il REATO è tale perché c’è una legge che
lo prevede . NON È PERTANTO UN FATTO MORALE!”.

CARRARA pensava che “l’uomo è dotato di LIBERO ARBITRIO e proprio per tale ragione si
rendesse conto della propria condotta, e pertanto è suscettibile di CASTIGO RETRIBUTIVO” (cioè
… nel momento in cui l’uomo ha violato il diritto, va ripagato del male recato con l’infliggergli una
pena questo è visto come RIAFFERMAZIONE DEL DIRITTTO, PER questo si dice che il castigo è
RETRIBUTIVO, perché appunto RESTITUISCE.

Secondo CARRARA e per ovvie ragioni secondo la SCUOLA CLASSICA “il REATO è il risultato di 2
forze: - una FORZA FISICA (ossia il fatto fisico compiuto) e –una FORZA MORALE (ossia la
VOLONTA’ con cui si compie il fatto)”.

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Secondo loro il DIRITTO PENALE deve interessarsi solo che IL REO SIA PUNITO e non di come
avvenga l’esecuzione della pena. Essi si preoccupavano molto di distinguere tra morale e diritto
perché ci troviamo in uno STATO LAICO. Furono adottate delle MISURE PREVENTIVE che erano
diverse dal diritto AMMINISTRATIVO E NON PROPRIE DEL DIRITTO PENALE. La SCUOLA CLASSICA
era ILLUMINISTA, LIBERALE E DISINTERESSATA ALLE REALI CONDIZIONI DEL REO SUPPONENDO
CHE I SINGOLI SIANO UGUALI DAVANTI ALLA LEGGE.

Diverso è invece il pensiero della SCUOLA POSITIVA. Questa si muove con presupposti diversi e
nasce nel fine ‘800 con il NEOPOSITIVISMO secondo cui “LA REALTA’ PUO’ ESSERE
SCIENTIFIAMENTE SPIEGATA ATTRAVERSO MATERIE COME LA SCIENZA E LA MEDICINA
FORNENDO DUNQUE UNA SPIEGAZIONE EMPIRICO-MATERIALISTA”. Essi rifiutano il LBERO
ARBITRIO perché lo ritengono impensabile. Al contrario secondo loro TUTTI I COMPORTAMENTI
SONO SPIEGABILI CON CAUSE RICONDUCIBILI A ELEMENTI NATURALI E FISICI , PERTANTO TALI
COMPORTAMENTI NON POSSONO ESSERE CAMBIATI.

Per loro “IL DIRITTO PENALE NON AVEVA DUNQUE IL COMPITO DI CASTIGARE MA DI
PROTEGGERE LE PERSONE DAI SOGGETTI CON COMPORTAMENTI BRUTTI DERIVANTI DA FATTORI
NATURALI. PROTEGGERE ATTRAVERSO L’APPLICAZIONE DI MISURE CAUTELARI DI SICUREZZA
PER CONTENERE QUESTI SOGGETTI PERICOLOSI”.

La durata delle MISURE DI SICUREZZA NON ERA DETERMINATA DAL REATO IN SÉ MA DALLA
PERICOLOSITA’ DEL SOGGETTO.

Nelle PENE INVECE la durata è predeterminata: ad un FATTO GRAVE corrisponde una PENA GRAVE.

Il fondatore della SCUOLA POSITIVA FU CESARE D’AMBROSIO, un medico che nel 1905 fonda la
disciplina dell’ ANTROPOLOGIA CRIMINALE secondo cui: “GLI UOMINI CHE COMMETTONO DELITTI
POSSO ESSERE CLASSIFICATI IN CATEGORIE: -CRIMINALI PAZZI, -CRIMINALI ATALICI ossia
contraddistinti da SEGNI ANATOMICI PARTICOLARI (es. CRANIO DEFORMATO), -CRIMINALI
PASSIONALI ossia spinti da istinti incontrollabili, -CRIMINALI ABITUALI ossia quelli condizionati da
fattori ambientali e culturali, -CRIMINALI OCCASIONALI ossia quelli che agiscono per interesse.
OGGI questa teoria è ripresa ovviamente in chiave moderna dalle NEUROSCIENZE secondo cui
“dalle risposte fornite dal cervello si spiega e si può prevedere il comportamento dell’uomo”.

Riassumendo: secondo la scuola positiva il reato dipende dalla condizione fisica e mentale del
soggetto e non dalla libertà come affermano invece i fautori della scuola classica.

DIVERSI furono gli esponenti di questa scuola:

-ENRICO FERRI, era un socialista, secondo lui “LE CAUSE DEL COMMETTERE UN REATO SONO
RICERCABILI NELLE CONDIZIONI SOCIALI IN CUI VERTE IL SOGGETTO. ELIMINANDO QUESTE CAUSE
SI ELIMINEREBBE ANCHE LA POSSIBILITA’ DI COMMETTERE REATI” ovviamente la sua è una teoria
fermamente UTOPISTICA. Recentemente nella seconda metà dell’800 ALESSANDRO BARATTA crea
l’ABOLIZIONISMO;

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-RAFFAELE GAROFALO, che era più attento all’indagine psicologica ritenne che:” LE CAUSE CHE
SPINGONO A COMMETTERE REATO VANNO RICERATE NEI FATTORI PSICOLOGICI”. Anche lui
SOSTIENE LE MISURE DI SICUREZZA PER QUESTI PARTICOLARI SOGGETTI PERICOLOSI SE
VOGLIAMO.

Le scuole sono una doppia anima e matrici culturali dalle quali è nato il nostro Codice penale. In
questo contesto, influenzato da pensieri filosofici e scientifici si instaura un nuovo metodo:
l’INDIRIZZO TECNICO GIURIDICO di ARTURO ROCCO, il quale nel 1910 nella sua lezione introduttiva
di D.P intitolata: IL PROBLEMA DELLA SCIENZA DEL DIRITTO PENALE sostenne che “bisogna
abbandonare entrambi i precedenti pensieri perché interessavano interessi estranei al diritto, al
contrario la scienza del DIRITTO PENALE si deve fondare sulle norme penali vigenti, basate sul
diritto positivo”.

La legge non si esprime in termini generali (e. “FUNZIONE DELLA LEGGE”). Sui concetti si ragiona e
possono essere riuniti in categorie di concetti generai chiamati DOGMI,UNA NOZIONE SUPERIORE
CHE RIUNISSE OGGETTI DIVERSI. Per es. le cosiddette CAUSE DI GIUSTIFICAZIONE. Il diritto
coincide dunque con le norme. Chelsen sostiene infatti il NORMATIVISMO : lo studio va fatto sulle
norme. Tutte le altre discipline non fanno parte del diritto. Il problema è che in questa prospettiva il
diritto è troppo distante dalla realtà, è un’elaborazione ASETTICA come quella dei REGIMI
TOTALITARI perché ESCLUDONO qualsiasi tipo di giudizio e AMMETTONO la creazione di norme
giuridiche disumane come quelle dei regimi totalitari. Questa teoria è stata diffusissima fino al 1970
e non si era preoccupata di individuare parametri di riferimento che legittimassero le leggi penali,
che non erano presenti nella Costituzione. Solo successivamente una nuova teoria si preoccupa
della LEGGITTIMAZIONE nei principi costituzionali. Il nostro codice nasce nel 1930. Il codice mostra
un’ispirazione composita perché è il risultato di due componenti diverse: da un lato l’ISPIRAZIONE
POLITICA e dall’altro le SCUOLE PENALISTICHE. Quanto alla prima il nostro codice ROCCO risente
dell’ideologia politica del tempo, è il codice del FASCISMO anche se redatto da penalisti liberali
dell’Illuminismo del ‘800. Il codice è una sorta di compromesso di quelle 2 scuole che hanno trovato
una coesistenza. Il codice si chiama ROCCO dal ministro della giustizia ALFREDO ROCCO fratello di
Arturo del metodo tecnico giuridico . Il codice ha CARATTERE LIBERALE: presenta il PRINCIPIO DI
LEGALITA’, di IRRETROATTIVITA’ DELLE LEGGI PENALI, IL PRNCIPIO DI OFFENSIVITA’ secondo cui “il
reato deve essere in sé stesso offesa ad un bene giuridico: dunque la legge non entra nella
coscienza del soggetto ma si occupa di tutelare i beni oggettivi” alias… (rispondo alle tue azioni
senza scendere nel tuo intimo).

La pena del diritto CONSUMATO è Più dura di quello TENTATO. Viene inoltre, istituito il REATO
IMPOSSIBILE: ossia compiere atti per commettere il reato ma in modo INADEGUATO. In questo
caso, la legge stabilisce, che non si possa parlare di reato”.

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La disciplina delle cause di giustificazione esclude il reato anche se chi lo ha commesso non è a
conoscenza di tali cause, non è punibile. Il nostro Codice penale guarda più al FATTO che
all’INTENZIONE. Le caratteristiche DI STAMPO FASCISTA sono: 1.LA SEVERITA’ ESTRAMA DELLE
PENE, 2. LA RESPONSABILITA’ OGGETTIVA SENZA DOLO E COLPA NELL’INTERPRETAZIONE E LA
SISTEMAZIONE TEORICA DEL TEMPO ( la responsabilità oggettiva è una responsabilità senza
colpevolezza ), 3. SERIETA’NEL CONCORSO DI REATO: tutti rispondono della stessa pena. (es. colui
che fa da palo in una rapina risponde di furto esattamente come i suoi compagni), 4. Infine, la
STRUTTURA DEL CODICE PENALE: -CONTRO LO STATO, CONTRO LE FUNZIONI DELLO STATO(P.A),
-BENI DI NATURA INDIVIDUALE E COLLETTIVA E INFINE –I REATI ALLA PERSONA. Il reato risponde
allo stato etico del fascismo. Il diritto nasce dallo Stato al quale le persone sono soggette. Oggi
prima viene la persona.

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1/10/2019
Tornando a parlare del codice Rocco (1930) ricordiamo che questo rimane ancora sostanzialmente
in vigore.

Storicamente questo codice è il risultato di diverse linee. Dal punto di vista politico è espressione di
un pensiero liberale.

Dal punto di vista strettamente storico bisogna tenere conto che emanato durante il periodo
fascista, e sicuramente porta i segni dell’influenza di esso.

Espressione di un orientamento liberale sono: l'irretroattività della legge penale; il principio di


offensività, secondo il quale la legge penale non va a guardare l'intima coscienza del reo, ma
piuttosto l'offesa oggettivamente arrecata al bene giuridico che la legge vuole proteggere (le cause
di giustificazione operano indipendentemente dall’intenzione del soggetto).

Influenze del regime fascista sono invece rinvenibili in una matrice autoritaria di cui vi è traccia:
nella parte generale, il ricorso alla c.d. responsabilità oggettiva (senza dolo o colpa del reo; almeno
nell’originaria intenzione del legislatore); la grande severità delle sanzioni, la uguale responsabilità
nel caso di concorso di persone nel reato, indipendentemente dal ruolo avuto nell’esecuzione del
medesimo; nella parte speciale, dov’è presente una costruzione discendente, cioè si parte da beni e
interessi che fanno capo allo stato, seguono i c.d. beni super individuali o collettivi, e infine i beni
della persona.

I beni super individuali sono quei beni che vengono riferiti ad una indistinta pluralità di soggetti, ma
che di per sé appartengono ai singoli ( esempio: salute pubblica, incolumità pubblica). Il considerare
i reati contro i beni super individuale non come comportamenti lesivi del singolo soggetto,
comporta non un aggravamento della disciplina penale: diventano penalmente rilevanti fatti che se
riferiti al singolo potrebbero ancora non essere meritevoli di menzione, che quindi dimostrano più
una sorta di pericolosità indistinta piuttosto che un reale attacco verso qualcuno. Dunque, si ha lo
spostamento in un’ottica collettiva di fatti che di per sé dovrebbero avere una rilevanza nei
confronti della persona ( per esempio, nella logica originaria del codice, i reati sessuali stavano in un
gruppo di reati contro la moralità pubblica e il buon costume, poi nel 1966 sono stati trasferiti con i
reati contro la persona).

La contrapposizione tra principi liberali, di cui erano portatori gli autori del codice, e la matrice
autoritaria, dipendente dal regime fascista, è accompagnata dalla contrapposizione tra scuola
classica e scuola positiva. Questa risulta dall’incrocio, dalla coesistenza nel codice di due regimi
sanzionatori. Infatti, da un lato, si trovano le pene, cioè la classica risposta sanzionatoria pensata
per il reo, il quale abbia dimostrato di essere capace di intendere e volere (cioè un soggetto dotato
di libero arbitrio). Negli articoli 199 ss. Sono previste le c.d. misure di sicurezza (per esempio
originariamente il ricovero in un manicomio giudiziario, la confisca di beni utilizzati per commettere
il reato), che hanno come presupposto la pericolosità sociale del soggetto nei confronti del quale
vengono disposte. Queste sono chiaramente ispirate alla scuola positiva.

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Questo sistema, per il quale coesistono le pene e le misure di sicurezza, viene chiamato del doppio
binario. Il doppio binario non significa che ci sia un’alternativa tra pene e misure di sicurezza, ma
che queste camminano parallelamente. Possono essere previste cumulativamente se ricorrono i
presupposti dell’una e dell’altra.

Sono, dunque, possibili tre scenari diversi:

- Soggetto capace di intende e di volere ma non socialmente pericoloso -> pena


- Soggetto socialmente pericoloso, ma non capace di intendere e di volere -> misure di
sicurezza
- Soggetto capace di intendere e di volere e socialmente pericoloso -> può essere inflitta una
pena e disposta una misura di sicurezza
Oggi questo sistema è criticato anche in sede europea, perché è una sorta di raddoppio della
reazione da parte dello stato. È come se il soggetto venisse sanzionato due volte per lo stesso reato.

All’indomani della caduta del fascismo, nel 1944, con un decreto legislativo luogotenenziale, si cerò
di rimediare ai più grossolani difetti che il codice presentava:

- Furono reintrodotte (erano già previste dal codice Zanardelli e poi abolite) le c.d. attenuanti
generiche (articolo 62 bis c.p. ), le quali sono circostante attenuanti non specificatamente
indicate, di cui il giudice può liberamente tenere conto per diminuire la pena, si può
considerare un’espediente tecnico per abbassare generalmente le pene per tutti i reati.
- Fu cancellata dal Codice penale la pena di morte.
- Fu reintrodotta (attuale articolo 393 c.p.) la causa di esclusione del reato in caso di reazione
legittima ad atti arbitrari di un pubblico ufficiale, mentre ai sensi del codice Rocco il cittadino
non aveva la possibilità di reagire nei confronti del potere dello Stato.
- Fu reintrodotta la c.d. exceptio veritatis per i delitti contro l’onore ( ingiuria e diffamazione),
se rivolti a pubblici ufficiali. Cioè si può escludere il reato quando il fatto addebitato sia vero,
la reintroduzione di questa accezione rappresenta la possibilità di critica nei confronti del
potere pubblico, impensabile nell’ottica del codice fascista del 1930.
Dal punto di vista della giurisprudenza, fino agli anni 60, si può genericamente affermare che la
magistratura ebbe un atteggiamento “conservatore”: venivano comunque applicate le norme del
Codice penale, con lo spirito che le aveva animate nel 1930, senza tenere conto di tutto ciò che, nel
frattempo, la costituzione aveva portato, e che chiaramente era ispirata a principi totalmente
diversi da quelli che avevano ispirato il codice e che sarebbero dovuti essere tenuti in
considerazione dal giudice nell’applicazione della legge penale, dal momento che le norme di legge
vanno armonizzate con la fonte gerarchicamente superiore, cioè con la costituzione.

L’entrata in vigore della Costituzione del 1948 avrebbe richiesto un atteggiamento diverso. Infatti,
la costituzione è animata da principi democratici, di solidarietà e soprattutto, è rigida, cioè è
parametro di legittimità delle disposizioni di legge. In questo contesto, è compito della
Giurisprudenza individuare i casi i cui una norma di una legge penale sia in contrasto con la
Costituzione e sollevare l’eccezione di legittimità costituzionale, rinviando il problema alla Corte
costituzionale.

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Nei primi anni gli interventi della stessa corte, furono timidi, e spesso mirati a mantenere le norme
penali vigenti, preoccupata del fatto di poter creare dei vuoti di tutela, una mancanza di norme
penali ritenute necessarie, quindi un atteggiamento di conservazione piuttosto che di
adeguamento.

Nello stesso tempo si andarono evolvendo delle istanze diverse, contrarie. Parte della magistratura,
soprattutto la magistratura di merito ( giudici di primo grado e di appello ) invece si mostrarono più
sensibili al problema dell’adeguamento delle leggi penali del codice alla costituzione, pronunciando
sentenze che tendevano perfino a forzare il testo della legge per una sorta di diretta applicazione
dei principi costituzionali ai casi da giudicare, applicazione diretta che non è consentita.

Fu corretto il regime della responsabilità penale del direttore di stampa periodica ( art. 57 c.p.,
prima considerata responsabilità oggettiva). Nel 1957 si volle introdurre una responsabilità per
colpa.

La dottrina penalistica, a fianco e contemporaneamente con la magistratura di merito, con autori


come Marcello Gallo e Franco Bricola, cominciò a esprimere queste istanze volte a ricongiungere il
Codice penale ai principi costituzionali.

Il più significativo degli interventi in questo senso, fu nel 1973, la pubblicazione della voce teoria
generale del reato, ad opera di Bricola sul Novissimo digesto Italiano, una sorta di enciclopedia
giuridica in cui si espresse la necessità che le leggi penali fossero ricondotte ai principi costituzionali
e che se ne tenesse conto durante l’interpretazione e l’applicazione, soprattutto dei principi di
legalità e offensività, per cui non si punisce la mera intenzione ma il danno o il pericolo che il reo ha
oggettivamente procurato.

Va riletto anche ciò che riguarda la finalità della pena, concepita nella costituzione non più come
castigo per il male fatto, ma in un’ottica rieducativa del condannato.

Tra le disposizioni costituzionali da tenere a mente:

- Art.25 c.2 -> esprime il principio di legalità: nessuno può essere punito se non in forza di una
legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso.
- Art.27 C.1-> Si può ricavare il principio di personalità della responsabilità penale.
- Art.27 c.3 -> le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e
devono tendere alla rieducazione del condannato.
La nuova ottica, di cui Bricola, si può considerare un paladino, impone che si debba tenere conto di
queste disposizioni nella costruzione dell’intero sistema penale. Proprio Bricola sosteneva che
l’intera costituzione fosse da leggere come una sorta di tavola dei beni giuridici tutelabili dalla legge
penale.

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La giurisprudenza e la dottrina si sono man mano uniformate a questo nuovo approccio al sistema
penale, che tiene conto delle indicazioni e dei principi costituzionali nella ricostruzione del sistema,
nell’interpretazione e nell’applicazione delle leggi. Questo potrebbe sembrare ovvio, ma il metodo
tecnico giuridico proposto da Arturo Rocco nel 1910, in realtà, non teneva conto dei principi di
rango superiore, né aveva a che fare con questi, quindi il giurista tecnico si limitava a interpretare e
ricostruire le leggi, poi applicate dai giudici, solo per quello che esse disponevano, era un’opera
tecnica, un po' asettica.

Potrebbe sembrare normale che, dato che la Costituzione pone la legittimità di tutte le leggi ed era
ispirata ad un ben diverso spirito da quello del regime che aveva visto nascere il Codice penale, vi
fosse, all’indomani della caduta del fascismo, una radicale riforma. In realtà non si è mai proceduto
a interventi radicali ma sempre a modifiche sempre partendo dalla base dell’originaria struttura del
codice. Furono fatti molti tentativi di riforma ma non si è mai arrivati a una riforma compiuta del
codice.

Alcune riforme importanti rispetto all’impianto originario del codice:

- Il reato continuato, una modifica del 1974, un istituto per il quale se nell’esecuzione dello
stesso disegno criminoso vengono commessi con diverse azioni, anche in tempi diversi più
reati, l’istituto è stato modificato in senso favorevole al reo, prevedendo una diminuzione
complessiva della pena, ed estendendo l’applicazione non solo alla commissione dello stesso
reato, ma anche a reati diversi.

- Nel 1978 si ha invece una modifica di aggravamento del regime delle pene in materia di
sequestro di persona (30 anni, più dell’omicidio) e in materia di armi, che va
contestualizzato nel periodo del sequestro e dell’omicidio di Aldo Moro, per anni si cominciò
a parlare di legislazione di emergenza: gli anni ’70 sono i cosiddetti anni di piombo e
l’episodio del caso Moro è il culmine delle tensioni tra forze politiche che dava luogo ad
attentati ed omicidi, e di questo clima di emergenza risente la legislazione penale.

- Fu inaugurata la legislazione criminale, cioè quella che prevede delle diminuzioni (sconti) di
pena quando un soggetto abbia fatto qualcosa di importante per diminuire la gravità di ciò
che in precedenza aveva fatto, o diminuendo la gravità del fatto commesso ( esempio: un
sequestratore che informa la polizia dell’identità degli altri sequestratori o sul luogo dove si
trova la persona sequestrata) o dando informazioni alle autorità utili a contrastare fenomeni
criminali diffusi (es. criminalità organizzata, i pentiti o collaboratori di giustizia), l’origine di
queste norme è nella risposta al terrorismo degli anni ’70 e poi questo approccio fu
trasposto nella lotta alla Mafia.

- Radicalmente modificata, nel 1978, fu la legislazione in materia di aborto, che costituiva


reato (L.194/1978)

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- Furono cancellate le cause d’onore, nel 1981, per cui erano previste le pene minori

- Sempre nel 1981 fu riformato in buona parte il sistema delle pene, con L. 689/1981
(modifiche al sistema penale), che ha introdotto nel Codice penale la previsione di pene
sostitutive alle pene detentive brevi ( semi detenzione, per cui il soggetto deve passare dieci
ore al giorno in carcere e la libertà vigilata) e la pena pecuniaria sostitutiva della detenzione,
e questa riforma si scrive in un ambito europeo di contrasto alle pene detentive brevi,
poiché si osservò spesso che tali pene erano controproducenti, mentre un trattamento di
lunga durata dà la possibilità di realizzare una rieducazione;
- Nel 1982 è stata introdotta una norma di fondamentale importanza, cioè l’articolo 416 bis,
che è la norma utilizzata per punire l’associazione a delinquere di stampo mafioso, perché ci
si accorse che per contrastare in modo efficace il fenomeno della criminalità organizzata di
stampo mafioso, non era sufficiente la norma già esistente nel codice per semplice
organizzazione a delinquere.
- Nel 1990 si pose mano alle norme sui delitti contro la pubblica amministrazione, alla prima
grande riforma del ’90 ne fanno seguito altre:
- 1997, relativa all’abuso di ufficio
- 1992, piccoli aspetti tecnici
- 2012, c.d. Legge Severino anticorruzione, che ha rivisto in modo molto significativo la
corruzione per atti d’ufficio e la concussione.
- 2015, riforme volte ad aumentare le pene per questi reati

- Nel 1996 si ha la riforma dei reati sessuali, prima considerati reati contro la moralità
pubblica ed invece trasferiti tra i reati contro la persona e ampiamente riformati e posti a
tutela della libertà sessuale della persona umana.

- Nel 1998 sono stati introdotti i reati di porno pedofilia

- Nel 2001 si ha l’introduzione della responsabilità da reato delle persone giuridiche,


attraverso il d.lgs. 231/2001.

Si tratta sempre di modifiche parziali, disorganiche, discontinue, qualche volta persino


contraddittorie (talvolta in un’ottica di clemenza e talvolta di severità).

Alla fine del primo decennio del 2000 si sono susseguiti decreti c.d. sicurezza riguardo al fenomeno
delle immigrazioni, volte a disciplinare anche penalmente tali fenomeni.

Si era pensata ad una riforma complessiva del Codice penale. Nel 1992, l’allora ministro della
giustizia, Giuliano Vassalli, nominò una commissione di professori universitari, con il compito di
redigere una bozza di legge delega per la riforma del Codice penale. Tuttavia, questo progetto non
fu mai approvato.

11
Questo per ragioni di vario genere: siamo nel 1992, il c.d. crollo della prima repubblica e che aveva
determinato la nascita di nuovi partiti (Lega, Forza Italia) e perciò si pensò che il Codice penale
dovesse essere espressione di un’etica comune, e in questo periodo in cui vi era una società
disomogenea e perciò il periodo era poco propizio per varare una riforma.

Dietro ci sono anche motivi di gelosie accademiche, dove scuole e professori hanno forme di
autoreferenzialità, creando conflitti.

In seguito, per alcuni anni, ogni nuovo governo presentò progetti di riforma, che furono
essenzialmente limitati alla parte generale:

- Governo Prodi, che presentò un progetto redatto da Federico Grosso nel 2000, governo di
centro-sinistra
- Progetto Nordio, dal governo di centro-destra successivo
- Nel 2007 il governo di centro-sinistra, presentò il progetto Pisapia
Nessuno di questi progetti andò in porto.

12
2/10/2018
Il diritto penale non si caratterizza per un campo di materia, cioè per l'omogeneità dei rapporti
regolati. Per esempio: tributi-> diritto tributario; processo civile->diritto processuale civile; ecc...

Non c'è dunque una materia penale. Le norme penali infatti tutelano i più diversi interessi che
fanno capo a rapporti e situazioni diverse fra loro. Ci sono norme penali in materia tributaria o per
la tutela dell'ambiente, dei rapporti di famiglia, della proprietà e del patrimonio, della salute, della
incolumità o ancora sulla circolazione delle armi e degli stupefacenti ... Le norme penali si rifanno
quindi alle più svariate materie.

La materia penale si può invece definire attraverso il modo di disciplina, diverso dal campo di
materia. Questo vuol dire che il modo in cui tutte le norme penali regolano un certo fatto è sempre
lo stesso e cioè: La legge penale considera illecito un certo fatto, che si propone di evitare,
collegando al suo compimento una sanzione sfavorevole. Quindi il diritto penale è caratterizzato dal
fatto che le norme penali prevedono una sanzione sfavorevole per un dato fatto illecito.

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Piccola parentesi

Il diritto è una scienza che si occupa di regolare le norme che regolano i rapporti sociali, le quali
sono contenute in proposizioni linguistiche -> le parole della legge. Il diritto penale studia queste
proposizioni quindi per l'esattezza del discorso scientifico è indispensabile la proprietà del
linguaggio. La qual cosa può sembrare una pignoleria ma termini diversi indicano cose diverse.
Per esempio, spesso sono usati indifferentemente termini come Reato, delitto, fatto, evento,
condotta, comportamento ... termini che indicano tutte cose diverse l'una dall'altra. Quindi
attenzione ai termini utilizzati.

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Il diritto penale è parte del diritto pubblico nel senso che tutela interessi che riguardano l'intera
collettività non le interazioni tra singoli individui. Questo in alcuni casi è evidente -delitti contro la
personalità dello Stato, contro l'amministrazione della giustizia... - ma vale anche per quei casi in cui
apparentemente il fatto penalmente rilevante potrebbe sembrare che riguardi soltanto una
relazione tra singoli. Il diritto penale si occupa di fatti che immediatamente entrano nella sfera dei
singoli in quanto questi fatti hanno una più ampia rilevanza sociale che riguarda l'intera collettività.
Infatti, se per esempio, un marito uccide la moglie a Trento il fatto risuona in tutta Italia e ha un
impatto sull'intera società che rende problematica la convivenza civile. Lo stesso vale per lo
stalking, che va a rendere inquieta la vita sociale. Anche per dei rapporti il meno vicino a interessi
collettivi, come quelli patrimoniali, che sembrerebbero limitati ad una rilevanza soggettiva,
interviene il diritto penale qualora il fatto abbia una importanza che trascende i rapporti tra singoli
e cioè, non il semplice inadempimento di un'obbligazione, ma per esempio una truffa o un furto.

Qui siamo ai confini tra ciò che è penalmente rilevante e ciò che non lo è, particolarmente
complesso da individuare per esempio per la truffa.

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La legge penale seleziona con estrema precisione fatti che hanno questa caratteristica, cioè di
mettere in crisi le relazioni sociali e fatti che non ce l'hanno, ovviamente secondo il giudizio del
legislatore, e quindi secondo l'opinione della generalità dei consociati. E così, ad esempio, nei reati
contro il patrimonio soltanto fatti commessi con violenza o frode assumono rilevanza penale: se
non ci sono il fatto non assume, in linea di massima, rilevanza penale.

Alcuni ritengono che non ci sia altro modo per ottenere una definizione di diritto penale che una
nozione nominalistica cioè il diritto penale è quello che la stessa legge chiama così. Abbiamo
dunque un Codice penale, che sarà sicuramente diritto penale. Questa tesi è stata proposta
autorevolmente da studiosi importanti per esempio Marinucci e Dolcini ma non può essere accolta
intanto per una ragione generale: è quasi inutile, in quanto non ci dice quasi niente su cosa sia il
diritto penale. Dire che è diritto penale ciò che la legge chiama diritto penale non ci dice nulla sulla
sua natura. Ma non può essere accolta soprattutto perché non sempre è disponibile una
denominazione come questa. Oltre al Codice penale infatti ci sono circa 13.000 mila figure di reato
sparse dappertutto nella legislazione negli ambiti più disparati e non sempre è esplicitato che si
tratta di materia penale. E quindi per un verso non sempre è indicato esplicitamente che si tratta di
una norma penale; per altro verso certe volte si utilizza la parola penale in senso privatistico. Per
esempio, nell'abrogata legge sull'assegno c'era una disposizione che riguardava la clausola penale,
ma quella clausola era in realtà di natura civilistica: era usata questa parola ma non nel senso del
diritto penale.

Oggi pressoché la totalità degli autori è d'accordo nell'affermare che il diritto penale si
contraddistingue perché prevede un certo tipo di sanzioni. Le norme penali sono quindi quelle che
dispongono sanzioni penali o quelle sanzioni sussidiarie a queste. Per esempio, tutte le norme della
parte generale non prevedono direttamente sanzioni penali ma descrivono la natura, presupposti,
ecc… che poi si riferiscono e vengono associate a singole figure di reato.

Ma quali sono le sanzioni penali?

Noi sappiamo con certezza quali siano le sanzioni penali, che sono innanzitutto quelle previste
dall'art 17 c.p., escludendo i codici penali militari:

Pene principali: specie.

Le pene principali stabilite per i delitti sono:

1. l'ergastolo

2. la reclusione

3. la multa

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Le pene principali stabilite per le contravvenzioni sono:

1. l'arresto

2. l'ammenda

Ci sono due gruppi: le prime tre sono previste per i delitti e le ultime due per le contravvenzioni.
Queste due specie, delitto e contravvenzione, sono specie del genere REATO che è, a sua volta, un
genere dell'illecito. Quando si legge una disposizione di legge che prevede una di queste pene
sappiamo che si tratta di un reato, che poi possiamo, sempre in base alla sanzione, ricondurre alle
specie del delitto o della contravvenzione. Quindi l'operazione che facciamo parte dal basso e dalla
sanzione individuiamo la natura del fatto. Questa bipartizione è poi in parte discrezionale, vi sono
dei casi poco condivisibili, in cui sarebbe più giusto considerare il fatto che è contravvenzione un
delitto o viceversa. La differenza tra queste due specie non è priva di conseguenza, perché per i
delitti sono possibili alcune cose che non sono possibili per le contravvenzioni e viceversa, non è
dunque indifferente che un fatto sia l'uno o l’altro.

Proprio qui però cominciano le complicazioni.

Nelle lezioni precedenti abbiamo detto che nel nostro codice coesiste un sistema di sanzioni ispirate
alla logica della scuola classica, le pene, e accanto un altro gruppo di sanzioni ispirate alla scuola
positiva, le misure di sicurezza. Quelle appena indicate, e di cui nessuno ha mai dubitato, che sono
sanzioni penali, sono affiancate dalle misure di sicurezze per le quali bisogna guardare dagli artt.
199-215 e che stabiliscono che le misure di sicurezza sono o personali o detentive. Le detentive
sono l'assegnazione ad una colonia libera, il ricovero in una casa di cura di custodia, il ricovero in un
ospedale psichiatrico -che ormai è stato abolito-, il ricovero in un riformatorio giudiziario; quelle
non detentive sono la libertà vigilata, il divieto di soggiorno in uno o più comuni, il divieto di
frequentare osterie o pubblici spazi di bevande, l'espulsione dello straniero.

A parte la collocazione diversa all'interno del codice, se si guardano le intitolazioni del titolo VIII
queste sono chiamate dal legislatore Delle misure amministrative di sicurezza. Sembrerebbe chiaro
che non si tratta di norme penali. E nel 1930 si poteva probabilmente ritenere questo: che esse
fossero fuori dal diritto penale. Questa idea era strettamente collegata a quel dibattito fra le scuole.
Le vere sanzioni penali sarebbero quelle inflitte a coloro che hanno violato le norme penali e sono
capaci di intendere e di volere, per cui meritano un castigo. Si pensava che tutto ciò che non era
questo non fosse neanche diritto penale, per cui si rimaneva nell'ambito del diritto amministrativo,
nelle così dette misure di polizia, cioè mezzi di cui lo Stato si serve per regolare fatti antisociali ma
che non sono diritto penale. Questa posizione oggi è completamente abbandonata -l'ultimo
sostenitore si ebbe negli anni '60 ed era Giuseppe Bettiol- ed è pacifico che anche le misure di
sicurezza sono delle vere sanzioni penali. Come ci arriviamo a questa conclusione?

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Coloro che sostenevano la tesi che le misure di sicurezza non fossero sanzioni penali adducevano
questi argomenti: 1 La natura retributiva delle sanzioni penale. 2 Il carattere imperativistico della
norma penale.

1- Ritornando alla scuola classica, la vera pena è il castigo per il male commesso inflitta sulla base
del principio retributivo -> ripagare il bene con il bene e il male con il male. Le misure di sicurezza
non sono dei castighi, ma sono solo un modo per controllare dei soggetti pericolosi. Quindi le
norme che le dispongono non sono norme penali.

2- La norma penale è un comando imperativo rivolto da una volontà -legislatore- ad un'altra


volontà-cioè i destinatari della norma penale, che non sono solo i cittadini in quanto la norma
penale vincola anche gli stranieri-. Così che una sanzione inflitta ad un soggetto incapace di
intendere e di volere, e che quindi non è in grado di recepire questo comando, non è una sanzione
penale. La norma è penale se rivolta a quelle persone che possono comprendere, recepire il
comando loro rivolto: non può essere penale una norma rivolta a persone non in grado di recepire il
comando loro rivolto.

Le misure di sicurezza sono inflitte anche a soggetti non capaci di intendere e di volere -per esempio
un soggetto affetto da vizio totale di mente -> il pazzo- per cui non possono essere previste da
norme che sono comandi, ergo non potranno essere norme penale.

Confutazione tesi:

1- La natura retributiva della norma penale non è più accolta sostanzialmente da nessuno. La
sanzione penale non è un castigo per chi ha violato la legge penale ma piuttosto, come ci dice la
Costituzione, ha l'obiettivo di prevenzione generale e funzione rieducativa. Non è detto da nessuna
parte invece che sia un castigo, anzi oggi ci si sofferma sul fatto che è irragionevole pensare che
aggiungere male a male migliori le cose. Rispondere a male con male non elimina il reato ma
produce solo sofferenza e non è questa quindi la giustificazione per la pena. La risposta
dell'ordinamento giuridico deve puntare ad altro.

Resta però un qualcosa dell'idea retributiva, l'idea della proporzione, che non è lo stesso dell'idea
retributiva, ma significa che la legge non può prevedere una pena sproporzionata alla gravità del
fatto - un fatto grave sarà punito con una grave pena e viceversa- questo che era tradizionalmente
letto come un occhio per occhio oggi invece è vista come obbligo di rispondere in modo
proporzionato, la risposta deve essere adeguata alla gravità del fatto.

2- La norma penale ha una struttura imperativistica? No. Infatti non è vero che la norma penale sia
sempre un comando. Essa è strutturata in modo tale da poter funzionare come un comando ma
non è necessariamente un comando. Questo ce lo dice il fatto che è applicata anche a coloro che
non conoscevano il comando-> nessuno può invocare a propria scusa l'ignoranza della legge penale.

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Quindi non è vero che sia necessariamente un comando, la legge penale è applicata anche se non
ha funzionato come comando. Neppure quest'altro presupposto è perciò fondato. E questo vale
anche per le misure di sicurezza -> il soggetto affetto da vizio totale di mente subirà una sanzione
senza che la norma sia stata per lui un comando.

Se non è vero che la norma penale sia sempre un comando, anche le misure di sicurezza, che sono
disposte nei confronti di coloro che sono incapaci di intendere e di volere, sono norme penali.

Guardando alla Costituzione, all'art 27. 3, stabilisce che le pene non possono consistere in
trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato.

Cominciamo a vedere i caratteri positivi della sanzione penale. Innanzitutto, essa si caratterizza per
la sua afflittività, cioè provoca una sofferenza. Questo lo si ricava implicitamente dal fatto che la
costituzione si preoccupa di limitare questa sofferenza: pene degradanti, umilianti, atroci, che
mutilano la persona, condizioni disumane di detenzione e così via, sono vietate costituzionalmente.

Si dice poi che devono tendere alla rieducazione. Si parla di tendere perché non si può essere sicuri
che la pena ottenga questo risultato, la pena può solo proporsi di rieducare. Questo concetto può
essere espresso con l'emenda: il condannato fa un percorso attraverso il quale si emenda dal fatto
commesso e ritorna al rispetto delle regole. La funzione di rieducazione viene vista, a seconda del
pensiero di chi la considera, in 2 modi:

-Rieducazione come percorso interiore di recupero di certi valori. Il condannato viene portato ad
accorgersi del male compiuto per recuperare il rispetto di questi valori.->recupero interiore.

-Rieducazione come risocializzazione, cioè la capacità di reinserirsi nel contesto sociale a cui ha
inflitto un trauma con il suo comportamento.

Dal punto di vista logico la sanzione penale ha poi funzione di prevenzione generale, ovvero:
pensando che commettendo un certo fatto gli sarà inflitta una certa sanzione, la generalità dei
destinatari della norma dovrebbe astenersi dal compiere il fatto per non andare incontro alla
sanzione sfavorevole.

Una notazione che può essere interessante della dottrina pioneristica più recente americana, con
Joel Feinberg, superando completamente l'idea di castigo nega anche il carattere afflittivo della
pena, proponendo una norma che abbia una sanzione anche simbolica, che dovrebbe proporsi di
riaffermare simbolicamente che certi valori non vanno offesi, anche se non è necessario che
provochino una sofferenza.

Le sanzioni penali quindi mirano ad una prevenzione generale, hanno carattere afflittivo e hanno
una funzione di emenda del reo. Dunque, sono norme penali quelle che prevedono sanzioni aventi
queste specifiche caratteristiche.

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Si deve poi aggiungere che una conferma di quello che abbiamo detto per il problema pene-misure
di sicurezza, un indice importante del fatto che anche quest'ultime sono sanzioni penali è dato dal
fatto che esse possono essere disposte soltanto attraverso un processo penale: non possono essere
disposte da autorità amministrative.

Tuttavia, di tutto questo dibattito è rimasto un'eco in due casi, in cui la dottrina parla di quasi reato,
in cui è possibile disporre misure di sicurezza senza che possa essere inflitta anche una pena.
Normalmente, in tutti gli altri casi, la legge penale non parla di misure di sicurezza ma stabilisce
soltanto che chi stabilisce un fatto è condannato con una certa pena -pena, non misura di sicurezza-
senza parlare mai di misure di sicurezza. Le regole generali, previste quindi nella parte generale,
stabiliscono che se una persona che ha commesso uno di quei fatti che consideriamo reati, cioè per
i quali la legge prevede una pena, ed è anche o soltanto socialmente pericolosa, nei suoi confronti
verrà disposta anche una misura di sicurezza. Non è il singolo articolo che lo stabilisce ma le regole
generali.

Per esempio: Art 609-bis-> violenza sessuale Chiunque, con violenza o minaccia o mediante abuso
di autorità, costringe taluno a compiere o subire atti sessuali è punito con la reclusione da cinque a
dieci anni.

Se però l'autore non è capace di intendere e di volere, applichiamo le regole generali, in quanto è
socialmente pericoloso, per cui verrà sottoposto ad una misura di sicurezza.

La misura di sicurezza va quindi di pari passo alla possibilità di infliggere una pena. In soli due casi
non si applica questo meccanismo, in quanto il soggetto non è punibile- quindi manca la pena- ma è
possibile applicare la misura di sicurezza-> no pena, si sanzione penale. Sono:

Art. 49.2 -> Qualcuno vorrebbe compiere un reato ma questo non è possibile per l'inidoneità
dell'azione o l'inesistenza dell'oggetto. Si parla di qualunque reato. Per esempio, provo ad
avvelenare qualcuno ma gli metto lo zucchero al posto del veleno. C'è inidoneità dell'azione.
Oppure un soggetto spara ad un altro, ma questo era già morto. Manca il soggetto.

In questo caso manca l'offesa oggettiva, c'è però una pericolosità del soggetto. In omaggio al
carattere liberale, ispirato al principio di offensività, in cui si punisce solo l'offesa oggettiva e non la
cattiva intenzione, il soggetto non può essere punito ma è opportuno, alla luce della pericolosità
sociale, che sia sottoposto a misure di sicurezza.

Art. 115-> Stabilisce che non è punibile chi ha istigato qualcuno a compiere un reato se l'istigazione
non è stata accolta, né è punibile chi si sia messo d'accordo con altri per commettere un reato
senza che questo sia stato commesso. Le fattispecie sono accomunate dalla pericolosità del
soggetto e dalla mancanza della reale pericolosità.

18
03/10/18
Come abbiamo già detto il diritto penale si caratterizza non per il campo di materia ma per il modo
di disciplina, cioè un fatto illecito è sempre collegato ad una sanzione sfavorevole. Abbiamo visto
che le sanzioni penale sono caratterizzate dall’afflittività e che sono rivolte all’emenda del reo
(rieducazione). Quindi sono norme penali quelle che mirano alla prevenzione generale, cioè ad
evitare che siano commessi quei fatti, attraverso la minaccia di sanzioni sfavorevoli. Questa
impostazione, anche se può sembrare teorica, è ricca di conseguenze pratiche e non è così lineare e
semplice come si potrebbe pensare. Studieremo come le leggi penali sono regolate da principi
molto differenti, rispetto alle altre leggi, riguardo alla loro validità (intesa come capacità di produrre
effetti nel tempo, nelle persone) come principi di legalità, irretroattività, riserva di legge ecc…
Quindi il fatto che la norma sia penale o meno è di grandissima importanza.
Non è così sicuro come possa sembrare stabilire se una determinata norma abbia effettivamente
natura penale o no, perché secondo alcuni bisogna guardare alla definizione nominalistica: quello
che la stessa legge chiama legge penale è diritto penale. Ma ci sono sanzioni nell’ordinamento
giuridico che non vengono qualificate come penali ma che hanno sostanzialmente una natura
punitiva. Questo è emerso nel dibattito degli anni 30’ riguardo alle misure di sicurezza, che furono
formalmente qualificate amministrative ma che in realtà sono anch’esse sanzioni penali. La logica
pura della scuola positiva avrebbe voluto che la durata della misura di sicurezza fosse
indeterminata, proporzionata alle condizioni di pericolosità del soggetto sottoposto alla misura, che
cessa non appena il soggetto non è più pericoloso. Invece il fatto che la legge stabilisca una durata
fissa, non modificabile, è fuori dalla natura della misura di sicurezza, come originariamente pensato
dai sostenitori della scuola positiva. Il fatto che invece hanno una durata prestabilita fa sì che esse
escano fuori dal quadro delle misure amministrative, in quanto sono sanzioni penali.
Questo problema si pone per tanti altri casi, quando non siano definiti formalmente sanzioni penali
ma abbiano in realtà una natura punitiva. La questione è sorta principalmente in ambito europeo: la
corte EDU (corte europea dei diritti dell’uomo, competente ad applicare la CEDU) che ha sede a
Strasburgo, alla quale il singolo cittadino degli stati membri può ricorrere in caso di violazione dei
diritti umani, per condannare il proprio stato. Nel nostro caso possono riguardare la materia
processuale, come ad esempio condizioni disumane di detenzione, oppure il diritto penale. Nel
1976 (quindi da questo momento in poi) nel caso Engel contro i Paesi Bassi, la corte decise che al di
là della etichettatura formale, le sanzioni di cui si discuteva erano sostanzialmente penali. Si
trattava di sanzioni nell’ambito militare, che la corte decide anche se trattate formalmente come
disciplinari, in realtà avevano una natura punitiva (di conseguenza non potevano essere rilasciate
così facilmente ma il ricorrente aveva diritto ad un processo penale). La corte in quella occasione
formulò i famosi criteri Engel: a) la denominazione formale: se lo stesso ordinamento giuridico
qualifica come sanzione penale una certa legge la si deve prendere come tale; b) la natura
dell’illecito e della sanzione: se attenti a beni collettivi importanti per la vita sociale, la sanzione
non ha carattere meramente risarcitorio (tipico della sanzione civile) ma afflittivo, al di là
dell’etichetta formale; c) la gravità della sanzione: per la durata, il modo in cui viene eseguita, per il
suo importo (in Italia sono considerate sanzioni amministrative pecuniarie se l’importo è fino i 5
milioni di euro, nonostante abbiano un impatto fortemente afflittivo per chiunque). Quindi la
natura di tali sanzioni rimane un po' meno certa.

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Questo problema si pone ancora oggi per l’istituto dell’incandidabilità, che comporta l’impossibilità
di candidarsi alle elezioni politiche o la decadenza se si è già stati eletti. Per coloro che sono stati
colpiti dall’incandidabilità si tratta di una legge sostanzialmente punitiva, mentre la Cassazione
ritiene che si tratti del venir meno di un requisito necessario per rivestire una carica. Quindi
l’incandidabilità non ha natura afflittività ma accerta se un soggetto non è nelle condizioni di
compiere una determinata attività. Berlusconi, come altri, sostengono che essendo sostanzialmente
una norma penale, fosse stato violato il principio dell’irretroattività della sanzione penale in quanto
il reato è stato commesso prima dell’entrata in vigore della legge in questione. Ma il fatto da cui
derivi l’incandidabilità non è il reato ma la pronuncia della sentenza, che è avvenuta dopo
l’emanazione della legge e quindi con effetto non retroattivo. Questa questione sulla natura
dell’incandidabilità è tutt’ora alle analisi della corte EDU, che non ha ancora pronunciato la
sentenza.

Le norme penali si distinguono dalle norme processuali penali: diritto penale sostanziale (che è
quello che studiamo noi) e diritto processuale penale. Le prime hanno lo scopo di individuare i fatti
illeciti penali, cioè quali siano i reati con tutte le regole che seguono, quindi i requisiti di sostanza. Le
seconde hanno, invece, lo scopo di accertare se sia stato commesso un reato e chi ne sia l’autore,
se sia responsabile o meno. Questa distinzione sembra apparentemente facile ma in realtà crea dei
problemi che nascono in quanto nel nostro Codice penale ci sono delle disposizioni che regolano
qualcosa ha a che fare effettivamente con il processo penale, ma che stanno, appunto, dentro al
Codice penale. Si tratta delle condizioni di procedibilità e delle condizioni di sopravvenuta
improcedibilità: le prime stanno prima del processo, se mancano questo non si può cominciare; le
seconde intervengono durante il processo e lo bloccano.
- Le condizioni di procedibilità (artt. 120-131 c.p.) sono atti con i quali alcuni soggetti hanno la
facoltà di impedire o di permettere che si svolga il processo penale. Queste sono tre: la prima è la
querela, alcuni atti sono punibili a querela della parte (la persona offesa), essa rappresenta un filtro
di opportunità politica per stabilire quali sono quei casi (stabiliti dal codice) che offendono in
maniera meno rilevante la società (ad es. l’onore che riguarda quasi esclusivamente il soggetto che
riceve l’offesa), che ledono lievemente il patrimonio della parte e per i quali, se manca la querela,
non può avviarsi il processo penale; le altre due, la richiesta e l’istanza, sono dei filtri in rapporto
con gli stati esteri perché operano nel caso in cui il reato è stato commesso all’estero ( e si può
anche applicare la legge penale italiana) ed è necessario per avviare il processo: o la richiesta del
ministro della giustizia o l’istanza del soggetto privato che vi abbia interesse.
- Le condizioni di improcedibilità sopravvenuta (artt. 150-162 c.p.) sono: a) la morte del reo prima
della condanna, in quanto non ha senso svolgere il processo il quale non ha una funzione
risarcitoria ma afflittiva; b) l’amnistia; c) la remissione della querela, cioè ritirare la querela
presentata; d) l’oblazione nelle contravvenzioni, il pagamento di una somma che estingue il reato;
e) la prescrizione.

Sulla natura giuridica della prescrizione negli ultimi anni si è aperto un dibattito epocale che ha
riguardato il nostro intero sistema penale. La prescrizione è quell’istituto secondo il quale decorso
un certo lasso di tempo dalla commissione del reato, questo si estingue perché non c’è più
quell’attenzione da parte della società a punire quel reato.

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Secondo il Pagliaro ha una natura processuale (è una causa di improcedibilità come visto sopra) ma
la questione ha assunto rilievo nel caso Taricco: il signor Taricco fu assolto dal reato commesso
(un’evasione in materia di Iva ai danni dell’Unione Europea) perché era passato tempo. Ma il
pubblico ministero si è rivolto alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, per la quale il regime
italiano in merito alla prescrizione non fornisce una adeguata risposta punitiva in relazione a fatti
che recano offesa agli interessi finanziari dell’Unione Europea. La corte ha, in tal modo, imposto al
giudice italiano di disapplicare la norma sulla prescrizione con l’effetto di condannare il signor
Taricco. Il giudice europeo allarga lo spazio della punibilità in quanto ha previsto la non applicazione
di un istituto che cancella la punibilità. Ma per i giudici italiani, sulla base del principio
dell’irretroattività delle leggi penali, questo istituto non può essere regolato da una decisione della
Corte di Giustizia europea sopravvenuta al reato commesso, poiché quando questo fu commesso
era prevista la prescrizione. Ciò che ne venne fuori è che la prescrizione è una norma di diritto
penale sostanziale e non processuale, in quanto alle norme processuali non vanno applicate le
regole speciali (come appunto ad es. l’irretroattività delle leggi penali) previste per il diritto penale
sostanziale. Al contrario per le norme di diritto processuale penale valgono le regole uguali per
tutte le altre leggi, cioè il principio tempus regit actum: un atto giuridico è regolato dalle norme che
sono in vigore nel momento in cui quell’atto è compiuto, se le norme cambiano non hanno più
effetto sull’atto compiuto. Quindi mentre per la corte di Giustizia europea ha natura processuale,
per la Corte costituzionale italiana ha natura di diritto penale sostanziale e quindi dobbiamo
associarvi tutte le garanzie previste per la legge penale (irretroattività, prevedibilità delle
conseguenze…). Quindi la Corte costituzionale si è rivolta alla corte europea, per la quale ha violato
il principio di irretroattività, dicendole di poter attivare i controlimiti, cioè un limite all’applicazione
di una disposizione europea quando questa vìoli un principio costituzionale interno (in questo caso
il principio irrinunciabile dell’irretroattività). Alla fine, è prevalsa la soluzione per la quale la
prescrizione ha natura di diritto penale sostanziale.

Alle condizioni di procedibilità e di improcedibilità sopravvenuta, anche per quegli autori (come il
Pagliaro) che ritengano si tratti istituti di carattere processuale, si debbano applicare tutte le
garanzie previste per le leggi penali. Questo in quanto il legislatore le ha collocate dentro il Codice
penale, quindi anche per questi istituti pur avendo natura processuale, valgono tutte le regole
previste per le norme di diritto penale sostanziale.
Questi istituti vanno poi distinti da quelli apparentemente simili che sono di diritto penale
sostanziale, cioè le condizioni obiettive di punibilità regolate dall’art 44 c.p. Un esempio di queste è
il suicidio rispetto al delitto di istigazione al suicidio: l’istigatore è punibile soltanto se il suicidio
avviene, in quanto questo non dipende più dal comportamento dell’istigatore, che ha dato solo un
input (ha messo l’idea in mente), ma dal comportamento della persona istigata. Quindi non è più
nel dominio dell’istigatore, ma è un fatto esterno al suo comportamento e come tale costituisce
una condizione obiettiva di punibilità. Le condizioni obiettive di punibilità si distinguono dalle
condizioni di procedibilità (e improcedibilità sopravvenuta) in quanto:
a) le condizioni obiettive di punibilità hanno la funzione, come per tutte le norme penali sostanziali,
di orientare la condotta (nell’esempio sopra il legislatore si riferisce all’istigatore che dovrà tenerne
conto nel suo comportamento); le condizioni di procedibilità (e improcedibilità sopravvenuta) non
hanno nessun effetto sul destinatario della condotta, non orienta la sua condotta.

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b) per le condizioni obiettive di punibilità valgono tutte le regole delle leggi penali: irretroattività, le
regole in riferimento al tempo, la prescrizione, le regole delle leggi penali nello spazio ecc… Queste
non valgono per le condizioni di procedibilità. Inoltre, il giudice può disporre il risarcimento danno
non patrimoniale ex art 185 c.p. e contano soltanto le condizioni di punibilità e non di procedibilità.
c) la formula di proscioglimento è diversa in quanto: se manca la condizione obiettiva di punibilità il
giudice pronuncia l’assoluzione, in quanto manca un momento sostanziale del reato, se invece
manca una condizione di procedibilità il giudice non può procedere in quanto il processo non si può
fare.

Occorre fare una distinzione tra le sanzioni amministrative, di diritto amministrativo, che hanno
solo la funzione di autotutela di un interesse dello stato alla sua azione amministrativa, e le norme
penali che invece tutelano i beni giuridici. Ma in molte aree norme amministrative e norme penali si
intrecciano, ad esempio in materia di concessioni edilizie o in materia tributaria. Non dobbiamo
dimenticare che alcuni dei reati meno gravi, cioè le contravvenzioni, che in origine costituivano fatti
illeciti di polizia (quindi il diritto amministrativo), furono trasferiti nel Codice penale dell’800’ per
assicurarvi tutte le garanzie della legge penale (Codice penale come magna carta del reo) per
evitare che il cittadino fosse in balia della polizia che, senza processi e con discrezionalità, poteva
infliggere delle sanzioni sfavorevoli.
Al contrario, fatti che prima costituivano reati passano al diritto amministrativo, come il reato di atti
osceni in luogo pubblico, diventando illeciti amministrativi. Questo passaggio è il frutto di una serie
di leggi di depenalizzazione, come ad esempio la L. 706 /1975 che ha depenalizzato tutte le
contravvenzioni fuori dal Codice penale punibili con la sola ammenda. Di grande importanza è la l.
689/1981 che ha previsto, per la prima volta nel nostro ordinamento, l’illecito penale-
amministrativo, che non è né penale né amministrativo in quanto ha alcuni caratteri sia dell’uno e
che dell’altro. È regolato da questa legge in modo del tutto particolare perché costituisce un genere
a sé di illecito. Il legislatore per evitare la truffa delle etichette, cioè che la legge chiamasse illecito
penale-amministrativo facilmente qualcosa, aggirando tutte le garanzie della legge penale, in modo
da colpire più facilmente il cittadino solo cambiando il nome, nei primi dodici articoli della l.
689/1981 ha posto una serie di garanzie simili a quelle previste dalla legge penale per tutelare il
cittadino anche per questi illeciti penali-amministrativi: il principio di legalità, irretroattività, la
capacità di intendere e di volere, è richiesto il dolo o la colpa, le cause di esclusione della
responsabilità ecc…
I motivi della depenalizzazione sono quello di evitare di sovraccaricare il sistema processuale di fatti
di minor importanza e quello di una migliore giustizia. Cioè per fatti di minor importanza non serve
infliggere una condanna penale se si può far ricorso a sanzioni penali-amministrative, evitando una
maggiore sofferenza al soggetto.

22
Se non è indispensabile bisogna fare a meno di infliggere una pena e di avviare un processo, il fatto
che sia indispensabile o meno è soggetta alle valutazioni che la legge, con la società dietro,
compiono rispetto alla gravità dei fatti correlata alla vita sociale (la quiete sociale). Esiste una
circolare del 1983 della presidenza del Consiglio dei ministri rivolta agli uffici tecnici dei ministeri, i
quali hanno il compito di preparare il testo delle leggi, che indica i criteri in base ai quali nel
redigere un testo di legge si deve ricorrere perché sia una legge penale o per rimanere nell’ambito
amministrativo:

a) il rango del bene protetto, la sua importanza (es. la vita, la quiete pubblica);

b) il fatto se si tratti di illecito di danno o di pericolo, in quanto la legge penale in certi casi punisce
non il danno ai beni protetti ma il crearsi di una situazione di pericolo (es. chi provoca un incendio),
cioè di fatti in sé pericolosi. Se si tratta di danno a beni di alto rango si avrà un reato se si tratta di
pericolo di un bene di importanza minore, ci si orienterà verso un illecito penale-amministrativo.
Bisogna quindi combinarli tra loro.

23
08/10/2018
Come visto nella lezione precedente, il confine che si vorrebbe fosse netto tra ciò che è penale e ciò
che non lo è, non è poi così definito come si vede a proposito dell’istituto della prescrizione (“saga”
relativa al caso Taricco, denominata “Taricco tango” a causa dei continui rimandi tra una Corte e
l’altra).

Anche nel caso della distinzione tra diritto amministrativo e diritto penale, il confine ancora una
volta non è rigido; si è visto nell’800 quali fossero gli illeciti di polizia che furono introdotti nel
Codice penale a garanzia del soggetto a cui venivano attribuiti e come ai nostri giorni si assista
invece al processo contrario; preso atto dell’inflazione del sistema penale e processuale penale, si
ha infatti la tendenza a depenalizzare alcuni reati diventati illeciti amministrativi per non
sovraccaricare i tribunali e per non dare enfasi eccessiva a fatti che non sono poi tanto gravi.

Nel depenalizzare, la legge 689/1981 si è preoccupata di formalizzare questo movimento attraverso


una serie di garanzie per evitare la cosiddetta “truffa delle etichette”, cioè il caso in cui il Legislatore
qualifica come amministrativo un fatto per evitare le garanzie che sarebbero connesse alla
commissione di un reato; queste sono molto simili a quelle che si trovano nel Codice penale
previste per le leggi penali (principio di legalità, irretroattività, dolo e colpa, ecc…). Tuttavia,
esistono delle differenze tra illecito amministrativo e illecito penale; la prima è quella che per
l’illecito amministrativo non si ricorre al processo penale, ma ad un procedimento deputato ad
un’autorità amministrativa che può essere il prefetto o altri soggetti a seconda delle varie leggi che
lo prevedono (per esempio, quando arriva il verbale di accertamento della violazione di una norma
della strada da parte del prefetto o della polizia, contro cui è ammesso ricorso al giudice civile). Da
questa differenza, dipende il secondo carattere della mancanza di stigmatizzazione da parte delle
sanzioni amministrazione; il termine “stigmatizzazione” fa riferimento alle ferite che lasciano una
traccia, caratteristica propria della sanzione penale. Quest’ultima si dice che segni con un marchio il
soggetto che ne è colpito, perché una condanna penale certamente viene vista come una pesante
conseguenza per chi la subisce. I processualisti, in particolare Nobili, a fine della seconda metà del
‘900, hanno osservato che questa nota negativa stigmatizzante si può fare risalire allo stesso
processo penale ancor prima che alla sanzione penale stessa; il solo fatto che si avvii un processo
penale a carico di qualcuno, infatti, marchia e mette in cattiva luce il soggetto ancor prima che si
arrivi ad una vera e propria sentenza a suo carico, a maggior ragione se si dispone la custodia
cautelare in carcere nei suoi confronti se riguarda la commissione di reati particolarmente gravi (
questa non è una sanzione ma solitamente è disposta per evitare la ripetizione del reato, il pericolo
di fuga, che le prove si disperdano, quindi per scopi processuali ecc…ma che fa soffrire, è una
carcerazione a tutti gli effetti…). Tutto questo non è chiaramente possibile per le sanzioni
amministrative, per cui non esiste stigmatizzazione e neppure la possibilità di conversione, qualora
l’imputato non possa pagare, in una delle misure sostitutive previste dalla legge 689/1981;
quest’ultima stessa legge nel delineare l'illecito penale-amministrativo ha infatti espressamente
previsto la possibilità di convertire la pena pecuniaria in libertà controllata o lavoro sostitutivo
qualora il condannato non possa pagare, ma solo nel caso di illeciti penali.

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Queste sono sanzioni sostitutive della sanzione pecuniaria amministrativa. È un regime particolare
che riguarda le pene pecuniarie e non le sanzioni amministrative. Mentre le pene sono quelle che
abbiamo visto( ergastolo, reclusione, multa, arresto, ammenda), la sanzione amministrativa è
sempre una sola e cioè il pagamento di una somma di denaro.

Per l’illecito amministrativo, l'art. 6 della stessa legge prevede un regime di solidarietà significa che
due o più persone sono tenute in solido al pagamento di un’obbligazione ed è importante che sia
soddisfatta non importa da chi ma che lo sia salvo poi il diritto di rivalsa ma non si rivolge a tutti
singolarmente ma a ciascuno per l’intero. la pena invece ha una funziona afflittiva e tende alla
rieducazione, pertanto tutti i soggetti condannati scontano per intero la pena in questione. Per
esempio, nel caso di illecito stradale rispondono in solido il proprietario del veicolo e il guidatore nel
caso di infrazione al pagamento della somma se fosse una pena pecuniaria, non si tutela l'interesse
dello stato ma l'intento afflittivo della pena. Prevede l'art che il proprietario della cosa è obbligato
in solido al pagamento della somma dovuta da chi ha commesso il fatto servendosi di quella cosa.

Anche qua, quello che apparentemente sembra essere un indice di differenza sicuro, così sicuro non
è. Posto che nell’UE vi sono sia Paesi di civil law, ovvero quelli caratterizzati dal diritto scritto, e
Paesi di common law, contraddistinti dalla teoria del precedente, si ha a tal proposito l’intervento
della Corte europea nel corso della causa Grande Stevens (2014); tale avvocato della famiglia
Agnelli fu condannato ad una sanzione amministrativa per reato di manipolazione del mercato,
aggiotaggio, consistente nel diffondere notizie false volte allo scopo di far variare il prezzo delle
merci nel mercato, invece che essere determinato dal libero gioco del Mercato e dal rapporto
domanda-offerta, questa è la figura base prevista nel Codice penale..

Il TUF prevedeva all’art. 197-ter un illecito amministrativo del tutto identico a quello penale; il fatto
era esattamente lo stesso, per cui per questo fatto uguale c’era sia il reato di manipolazione del
mercato che l’illecito amministrativo, con una clausola (art. 197-terdecies) che permettesse di
evitare l’applicazione di una doppia sanzione; infatti, se qualcuno al quale era stata
immediatamente inflitta una sanzione amministrativa pecuniaria (grazie al rapido processo inflitto
dalla Consob) fosse poi stato condannato anche ad una pena pecuniaria (penale), la prima doveva
essere sottratta e scomputata alla seconda per quanto riguarda il pagamento della somma totale.
Nel caso Grande Stevens, la sanzione amministrativa in questione era pari a 5 milioni di euro; così la
Corte EDU, sulla base dei criteri Engel, ha sostenuto che questa non fosse una sanzione puramente
amministrativa, bensì una sanzione sostanzialmente penale; ha quindi condannato l’Italia per aver
violato il principio del “ne bis in idem sostanziale”, che va distinto invece dal “ne bis idem in
processuale” (sulla base del quale non si può essere processati due volte sullo stesso fatto, tranne
per singolari e particolarissime ipotesi di revisione previste dal codice di procedura penale). Il
principio sostanziale prevede che lo stesso fatto non possa essere punito due volte, dal momento
che due leggi diverse prevedono per lo stesso fatto, reati diversi; e quindi due reati per lo stesso
fatto, se il disvalore penale è lo stesso, il reo può essere punito una sola volta consentendo la
disapplicazione di una delle due norme attraverso un meccanismo per cui il risultato è che uno
stesso fatto non può essere punito due volte.

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Nel caso specifico, formalmente il TUF prevedeva un illecito penale e uno amministrativo per lo
stesso fatto; in sostanza si aveva tuttavia un effetto punitivo e quindi si stava punendo due volte la
stessa persona per il medesimo fatto, privandolo inoltre delle garanzie processuali normalmente
previste per le fattispecie penali. I confini tra illecito amministrativo e penale sono così molto
sfumati, poiché anche il primo può avere una natura sostanzialmente punitiva.

“Reato penale” è un’espressione tecnicamente scorretta poiché la parola “reato” ha di per sé insito
l’aggettivo “penale” (un reato non può non essere penale) non esiste altro reato se non l'illecito
penale; ciò che può essere aggettivato è il sostantivo “illecito” semmai, perché può essere civile,
amministrativo, penale, ecc…

● L’illecito amministrativo puro e semplice (come quello disciplinare nell’ambito della pubblica
amministrazione o contabile nell’ambito della Corte dei conti), invece, non risponde alle regole
previste dalla legge 689/1981; ha la finalità di autotutela dello Stato o degli enti pubblici per cui
viene disposto l’illecito stesso. Sono importanti in questo le cosiddette misure di prevenzione che, a
differenza delle misure di sicurezza (disposte solo quando il fatto sia già stato commesso), sono
ante delictum; vengono disposte nei confronti di soggetti dediti sospetti o dediti a traffici illeciti per
cui non è affatto detto che sia dimostrato che hanno commesso un fatto di reato. Queste sono state
disposte per la prima volta in generale dalla legge 1423/1956 e poi estese ai mafiosi con la legge
575/1965; sono misure come sorveglianza speciale da parte della polizia, rimpatrio nel caso di
stranieri, obbligo di soggiorno in un certo Comune o il suo divieto, confisca e sequestro di beni per i
quali non è dimostrata la provenienza lecita (ciò va tenuto distinto dalla misura di sicurezza di
confisca, sebbene abbiano lo stesso nome).

È stata messa in dubbio la legittimità costituzionale di queste misure, che per un verso si rendono
necessarie, per l’altro possono essere contrarie al principio di colpevolezza; uno infatti non viene
accusato in questo caso sulla base di un reato commesso, ma il presupposto è la pericolosità del
soggetto dedito a traffici illeciti o dedito sospetto.

●Politica tra diritto penale e politica criminale: la politica criminale corrisponde alla scelta di tutta
una serie di misure volte a contrastare la criminalità (informazione, educazione, attività di polizia e
di sorveglianza) e la sua parte principale è costituita dalla scelta di ciò che sia punibile e cosa no.
Non è sempre facile andare a stabilirlo; il problema si pone infatti per aree di confine che possono o
avere una minore rilevanza (illeciti meno gravi, come l’ubriachezza in pubblico ora depenalizzata) o
costituiscono grandi questioni etiche oggetto di dibattito (aborto o eutanasia). È una scelta
compiuta dal Parlamento delicata e difficile, secondo alcuni parametri che vengono individuati per
considerare se un fatto sia un reato oppure no; in genere si fa riferimento al rango del bene che
viene offeso (se si tratta di grande rilevanza oppure meno) e al fatto che si tratti di una lesione
effettiva o solo di un’esposizione al pericolo del bene in questione.

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La struttura della norma penale

A tal proposito, sono state proposte diverse tesi; una delle più antiche, sostenuta da Karl Binding in
un’opera chiamata “Le norme”, è la teoria sanzionatoria, secondo la quale la legge penale ha una
struttura essenzialmente sanzionatoria, cioè si limita a prevedere delle sanzioni particolari per fatti
considerati già illeciti da altre disposizioni dell’ordinamento giuridico. Binding distingueva infatti tra
“leggi penali”, che prevedono la sanzione, e “norme” che si trovano in tutto l’ordinamento giuridico
che prevedono il fatto illecito. Filippo Grispigni propose una versione diversa della medesima
teoria, sostenendo che la struttura della norma penale avesse carattere ulteriormente
sanzionatorio; secondo lui, le norme di diritto civile, amministrativo, ecc… prevedono già una loro
sanzione propria (come per esempio l’annullabilità di un contratto), mentre il diritto penale ne
aggiunge una ulteriore di carattere penale.

La teoria non può essere accolta, perché le sfugge un punto fondamentale: l’inscindibile unità tra
precetto e sanzione. Il precetto (“chiunque cagioni la morte ad un uomo…”) è la parte della norma
che indica che cosa bisogna fare o non fare, mentre la sanzione (“…viene punito”) è la conseguenza
del comportamento adottato. Non si può comprendere il senso pieno di una norma penale se non si
mette in collegamento il precetto con la sanzione; nel prevedere una determinata sanzione il
Legislatore penale attribuisce una fisionomia all’illecito, quindi la sanzione concorre a determinare e
a definire quale sia il precetto stesso. Ciò vale sempre; il tipo di sanzione, la sua entità e la funzione
della norma penale non sono estranee alla ricostruzione del precetto, anzi concorrono ad
individuarlo.

Previsto e disciplinato dagli artt. 314 e 316 c.p., il peculato è un delitto che si configura quando "il
pubblico ufficiale o l'incaricato di un pubblico servizio che, avendo per ragione del suo ufficio o
servizio il possesso o comunque la disponibilità di danaro o di altra cosa mobile altrui, se ne
appropria". La Cassazione stabilisce che l’appropriazione di un litro di benzina non è peculato;
questo perché, se per il delitto di peculato è prevista la reclusione da 4 anni a 10 anni e 6 mesi, è
evidente per la giurisprudenza che la pena della reclusione non inferiore a 4 anni non può essere
disposta per l’appropriazione di un litro di benzina, e quindi questo fatto non può integrare il
peculato. Il peculato è infatti un reato con cui non si tutelano soltanto i beni di cui la pubblica
amministrazione ha la disponibilità, ma anche il suo buon andamento; per esempio,
appropriandomi di un libro della biblioteca, impedisco a qualcuno di poterlo utilizzare e non rendo
funzionale il servizio della biblioteca stessa (non ha rilievo pertanto il valore venale del libro di per
sé). Il peculato non si tratta quindi di un reato contro il patrimonio come il furto o l’appropriazione
indebita, ma viene collocato dalla legge tra i delitti contro la pubblica amministrazione perché ne
viene offeso il buon andamento e il suo corretto funzionamento.

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Ecco come il precetto viene essenzialmente completato dalla sanzione, dimostrando che queste
due cose devono essere tenute in inscindibile connessione. Questo argomento fonda la cosiddetta
concezione autonomistica dei concetti penalistici: quando il soggetto penale si serve di un concetto
comune ad altre parti del diritto, può attribuirgli un significato proprio non comune agli altri. Il
possesso a cui si fa riferimento nel delitto di peculato, per esempio, non è quello del diritto civile; il
pubblico ufficiale come persona non ha il possesso della cosa, poiché non può proporne lo spoglio o
la reintegra come può fare la pubblica amministrazione intesa come ufficio. Il possesso di cui si
parla è invece un concetto autonomo del diritto penale che va interpretato come possibilità di
destinare la cosa mobile a qualche scopo o ad un altro scopo conforme o contrario a quello previsto
dalla legge o dagli atti (disponibilità).

Questo vale anche nei settori del diritto dove apparentemente è più semplice pensare ad una
natura sanzionatoria delle norme, come quelle che si trovano collocate al di fuori del Codice penale;
al suo interno vi si trovano infatti le disposizioni inerenti quelle realtà della vita da tutti
evidentemente percepite, mentre nella legislazione speciale (reati tributari, societari, bancari, ecc…)
vengono tutelati beni di non immediata percezione. Per esempio, gli art. 130 e 131 del TUB
prevedono il “reato di esercizio dell’attività bancaria in violazione dell’art. 11 dello stesso testo
unico” (secondo il quale, per esercitare un’attività bancaria è necessario avere l’autorizzazione della
Banca d’Italia); nella norma penale si fa un esplicito rinvio all’art. 11, quindi sembrerebbe che il
fatto sia interamente descritto da un’altra parte e la norma di riferimento si limiti semplicemente a
punire. In realtà, anche in questi casi c’è l’inscindibile unità tra precetto e sanzione, anzi, proprio il
fatto di prevedere una sanzione ci fa comprendere la portata del fatto punibile.

Teoria imperativistica: si sostiene che la norma sia un comando rivolto da una volontà ad un’altra
volontà; questa teoria è molto più vicina al vero perché coglie il fondamentale fatto che la funzione
della norma penale sia quella di orientare il comportamento dei destinatari. Questo è sicuramente
qualcosa a cui la norma penale tende, se non che, rigorosamente parlando, tale concezione non
può essere accolta perché nella sua impostazione precisa suppone che ci sia un comando rivolto da
una volontà ad un’altra volontà e proprio a ciò possono essere rivolte due obiezioni. Questa visione
poteva forse andare bene nelle monarchie, quando il sovrano si rivolgeva direttamente ai sudditi
rivolgendo loro il proprio comando nelle forme di una legge; oggi tuttavia abbiamo una forma di
volontà obiettivata e non personale, dal momento che la si forma all’interno delle aule
parlamentari. La legge vuole quindi qualcosa non riferibile ad una sola volontà, ma la volontà della
legge stessa si rivolge direttamente ai suoi destinatari.

Tale discorso è utile per distinguere la volontà soggettiva del Legislatore dalla volontà oggettiva
del testo di legge; non è detto infatti che la legge, per come viene formulata, abbia lo scopo che i
redattori della legge stessa desideravano. Per esempio, nel caso della riforma del delitto di abuso di
ufficio del 1997, si legge chiaramente nei lavori preparatori che questa fosse dichiaratamente
mirata ad escludere che costituisse reato di abuso il cosiddetto eccesso di potere; questo infatti non
viene visto come immediatamente percepibile da disposizioni di legge precise, ma risulta da
elementi che ne lasciano un indizio come la disparità di trattamento, la contraddittorietà con altri
precedenti, la manifesta illogicità; si preferì allora escludere che il giudice penale si intromettesse in
questioni non troppo precise, poiché avrebbe avuto un’eccessiva discrezionalità.

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Nonostante questa volontà soggettiva, il testo di prestava ad una lettura differente (del tutto
contraria) derivante dalla libera interpretazione della legge stessa; la voluntas legis coincide quindi
con la volontà obbiettivata del testo di legge per come questo viene debitamente interpretato.

Guardando dal punto di vista di chi impartisce il comando, si può effettivamente pensare che la
legge penale sia un comando a tutti gli effetti, seppur impersonale e obbiettivato in un testo. Non si
può però accogliere tale prospettiva dal lato di chi riceve il comando: non è vero che la norma
penale necessariamente venga percepita da coloro cui è rivolta. Secondo l’art. 5 c.p., infatti, questa
si applica anche a coloro che non hanno mai saputo che c’era un comando di quel tipo (nessuno
può invocare a propria scusa l’ignoranza della legge penale); in questi casi, la legge penale allora
non ha funzionato come un comando perché il destinatario non lo ha ricevuto, non conoscendolo
neppure. Non è vero allora che la norma penale sia nella sua struttura un comando, dal momento
che produce effetti anche quando non è stata percepita come tale dal destinatario.

Si potrebbe allora dire che se il soggetto era del tutto incapace di intendere e di volere, non gli si
può applicare una pena ma una misura di sicurezza; quindi, almeno quando parliamo di questi
soggetti, la norma penale si può applicare anche quando non ha funzionato come un comando. In
realtà, la legge penale è strutturata in modo tale che ci sia sempre una corrispondenza tra l’ipotesi
in cui il soggetto capace di intendere e di volere venga punito, e quella in cui il soggetto incapace di
intendere e di volere venga invece sottoposto alla misura di sicurezza; la legge penale è quindi
formulata esattamente allo stesso modo sia nel caso in cui venga prevista una pena, sia nel caso in
cui la conseguenza del comportamento illecito sia la sottoposizione ad una misura di sicurezza.

Qualcuno ha allora dato come risposta che la norma è sì un comando, ma è rivolta al giudice penale
invece che ai destinatari: tu, giudice penale, se accerti che qualcuno ha commesso quel fatto, allora
devi applicare questa sanzione. Tale teoria non può essere accolta, perché le sfugge completamente
la funzione essenziale della norma penale che non è di mera di “qualificazione” dei fatti come
illecito, ma di “orientamento” dei comportamenti al fine di proteggere il bene giuridico.

La funzione di orientamento presuppone che i destinatari della norma abbiano percepito


effettivamente questo comando, cioè si siano resi conto di non dover fare quella determinata cosa,
perché solo così si potrebbe realizzare; solo se io so che non devo fare quella cosa, allora la norma è
efficace e orienta il mio comportamento. Richiamando l’art. 5 c.p., la funzione di orientamento non
sembra essere svolta quando il reo viene punito anche quando non sapeva che il suo
comportamento integrasse una fattispecie penale.

Conclusione: la norma penale infatti che non è un imperativo, è però strutturata in modo tale da
potere in sé stessa funzionare come comando; non deve effettivamente essere stata per tutti i
singoli un comando percepito, ma è astrattamente strutturata in modo tale da essere percepita
come un comando. La struttura della norma penale è tale da poter funzionare (non
necessariamente) come un comando, pur non essendo percepita come tale dalla totalità dei singoli.

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09/10/2018

La norma penale non serve solo per attribuire una qualificazione giuridica, ma serve per orientare il
comportamento dei destinatari perché soltanto così si possono realmente proteggere quei beni che
la legge penale si propone di proteggere. Da questa osservazione se ne può ricavare che, sebbene la
norma non sia un comando, essa è strutturata in modo tale da poter funzionare come un comando.
Quindi occorre questa possibilità di conseguenza in negativo: quando la norma penale non viene
percepita come un comando, tale non può essere applicata. Se la norma non può essere percepita
da colui al quale è destinata, questo soggetto non può essere ? (non si sentiva)
Sul punto è intervenuta la Corte costituzionale (nel 1988 con sentenza n364) perché fino a quel
momento la dottrina –come Mantovani- formulava ipotesi puramente scolastiche. Esempio: non
punibile una persona che abitando in un paesino, poco collegato con il resto del territorio, nel quale
non fosse ancora arrivata la gazzetta ufficiale sulla quale era pubblicata la legge che prevedeva un
nuovo reato, avesse commesso quel fatto senza sapere del reato perché la gazzetta, appunto, non
era arrivata. Ma non è questo il senso.
Invece la Corte costituzionale è andata molto più avanti attraverso una sentenza molto dotta e
raffinata che ha ricostruito il senso delle norme penali, menzionando espressamente il contratto
sociale, quel patto per il quale i cittadini (originariamente liberi per natura) danno allo Stato il potere
di limitare la propria libertà con pene detentive a patto che lo Stato li informi preventivamente su
quello che non possono fare e per il quale potrebbero essere puniti: cd. Contropartita, io Stato
informo te cittadino e tu poi accetti di essere punito se violi quella legge, divenendo una propria
responsabilità.
Di conseguenza la Corte costituzionale ha pronunciato una sentenza che ha ridimensionato la portata
dell’art.5 c.p. (precedentemente esaminato) che stabilisce “nessuno può invocare a propria scusa,
l’ignoranza della legge penale”. La Corte ha pronunciato una sentenza interpretativa di accoglimento
nel senso che ha dichiarato una parziale illegittimità costituzionale di questa disposizione dell’art.5
con una formulazione complessa e rigorosa: <<Riuniti i giudizi, dichiara l'illegittimità costituzionale
dell'art. 5 c.p. nella parte in cui non esclude dall'inescusabilità dell'ignoranza della legge penale
l'ignoranza inevitabile>> (sentenza 364/1988). Si tratta di una sentenza additiva perché è come se
aggiungesse delle parole al testo della legge, cioè è come se dicesse che nessuno può invocare
l’ignoranza legis a meno che tale non sia inevitabile. Se l’ignoranza è inevitabile allora è scusabile,
quindi chi si trova in questa situazione non può essere punito. La ragione di questa pronuncia è il
fatto che la norma penale debba poter funzionare come un comando.
La Corte si preoccupa di stabilire in quali casi concreti tale ignoranza può essere ritenuta inevitabile
e quindi inscusabile. Un esempio è la contraddittorietà del testo di legge, per cui da una parte enuncia
qualcosa che viene poi appunto contraddetta: in un caso del genere l’ignoranza, la possibilità di
sapere cosa è vietato, sarebbe quindi inevitabile.

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Ma possiamo ricavare altre indicazioni; una prima è che la norma penale non può che disporre per il
futuro perché se si tratta di orientare il comportamento e se quindi il soggetto deve essere messo
nelle condizioni di conoscere la legge, questo fatto deve avvenire prima che abbia commesso quel
fatto per il quale è chiamato a rispondere. Dopo sarebbe punito anche in una condizione di totale
ignoranza. Questa possibilità di conoscere presuppone che il soggetto, conoscendo la legge, regoli il
suo comportamento altrimenti va incontro condizioni sfavorevoli.
Un altro caso di ignoranza inevitabile avviene quando la legge penale presuppone delle cognizioni
tecnico-scientifiche che non sono ancora possedute o raggiunte al momento del fatto. Esempio è
l’utilizzo dell’amianto, che provoca una forma di tumore ai polmoni mortale: in Italia, sono avvenuti
casi drammatici che hanno portato all’assoluzione degli accusati poiché all’epoca non era ancora noto
che tale materiale fosse così dannoso, nonostante il malcontento delle vittime.
Oggi abbiamo il problema degli OGM, organismi geneticamente modificati, che non sappiamo se in
futuro possano provocare danni alla salute. Il problema è che le leggi penali, nel caso degli OGM,
intervengono anche prima che si sappia che sono pericolosi quando non c’è la certezza che si possa
escludere un pericolo (cd. certezza negativa). Tanto che la dottrina si è chiesta se è logico punire in
un caso del genere e sono sorte delle questioni, di fatto ci sono dei reati per coloro che producono
questi organismi senza la necessaria autorizzazione.

La posizione di Pagliaro è formalmente diversa, ma sostanzialmente nella stessa direzione perché egli
afferma che la struttura di una norma penale è quella di un rapporto teleologico tra accadimenti.
Teleologico cioè finalistico, volto ad uno scopo ossia evitare certi avvenimenti mettendo in relazione:
fatto illecito → sanzione sfavorevole ;
fatto lecito → sanzione favorevole (assenza di punizione).
La legge penale mette in relazione al compimento di un certo comportamento quella sanzione
sfavorevole allo scopo teleologico/al fine di orientare il comportamento dei destinatari.

E così abbiamo detto quale sia la struttura della norma penale, analizziamo adesso quale sia la
funzione cioè a cosa serve, implicitamente già detto in quanto la funzione essenziale è quella di
prevenzione generale. Prevenzione significa impedire che in futuro accadano certi fatti; generale
perché è rivolta a tutti i soggetti ai quali si possa applicare la legge penale (fuori e dentro lo Stato).
Esiste poi la cd. prevenzione speciale, rivolta al singolo che ha commesso quel reato e mira ad evitare
che in futuro quella persona commetta di nuovo reati di quel tipo o diversi.
La prevenzione generale è l’idea fondante il diritto penale moderno, quello degli illuministi: ci
serviamo delle leggi penali per evitare che si creino danni alla vita associata senonché gli illuministi
pensavano alla norma penale nei termini di deterrenza. Attraverso la deterrenza la norma penale
incute la paura, il timore, di andare incontro ad una sanzione sfavorevole per cui il soggetto si astiene
dal commettere il fatto. Se vi ricordate vi ho citato Romagnosi il quale pensava in termini di spinta e
controspinta criminosa, cioè esistono motivi interni che spingono qualcuno a commettere un reato
mente l’esistenza della sanzione sfavorevole funge da controspinta.

Oggi invece, dagli anni ’50, si è maturata un’idea diversa di prevenzione generale vista come allargata
o positiva: la prevenzione generale non si ottiene o non si ottiene soltanto mediante la paura, ma
piuttosto proponendo una tavola di valori positivi da rispettare.

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Agire quindi nel rispetto di quelli che la legge penale ci indica come valori (es. non commetto una
rapina solo per la paura dell’arresto, ma perché comprendo il rispetto per i beni altrui).

Il pensiero degli illuministi va precisato anche sotto un altro profilo perché pensavano che la
prevenzione generale dipendesse da tre fattori:

1) Prontezza
2) Certezza
3) Severità

Oggi invece, la legge penale propone appunto dei valori per cui non si parla più di severità, piuttosto
di GIUSTIZIA cioè che la sanzione sia avvertita dai destinatari come giusta rispetto il reato commesso,
perché una sanzione ingiusta o per difetto o per eccesso potrebbe provocare una reazione inversa
per cui il destinatario non accetta la legge che appare ai suoi occhi come ingiusta. Dunque, si ottiene
un maggior effetto con una sanzione giusta e proporzionata, piuttosto che con una sanzione
severissima. Da ciò si ricava il fatto che le norme penali richiedono quindi il consenso implicito dei
destinatari: la norma penale è sostanzialmente accettata da tutti, anche da quelli che la violano (es.
l‘idea che non si possa commettere una violenza sessuale deve essere percepito da tutti come
accettato) altrimenti si dovrebbe costringere la popolazione a fare qualcosa che non ritiene giusto.
Dunque, la norma penale richiede un consenso implico dei destinatari.
A questo proposito si può osservare che questi tre fattori indicati e da cui dipende l’effetto di
prevenzione generale possono essere in qualche modo concepiti come fattori di un prodotto,
modificando l’entità dei quali il prodotto può restare uguale cioè maggiore severità e minore certezza
e viceversa. Questa idea è molto concreta in quanto si trova alla base di alcuni istituti del nostro
processo penale. Pagliaro lo aveva proposto osservando che nel diritto inglese esiste un doppio
ambito edittale di sanzioni. Edittale fa riferimento al diritto romano (editto del pretore) cioè cosa c’è
scritto nel testo della legge, la quale prevede astrattamente due diverse sanzioni a seconda del rito
processuale utilizzato: se si procede in senso formale con un processo formale con tutte le regole, le
garanzie, i tempi lunghi, gli accertamenti per cui l’imputato è ovviamente più garantito allora il livello
sanzionatorio è più alto; se invece si procede con un rito sommario, più sbrigativo, la eventuale
condanna arriva prima, con maggiore certezza e prontezza e la pena sarà più bassa. Questa idea è
stata in qualche modo accolta nel nostro ordinamento processuale poiché esistono due diversi istituti
collegabili cioè il rito abbreviato e il patteggiamento.
Processo più rapido, pena più pronta e condanna più certa. Aumentando certezza e prontezza
diminuisce invece l’entità della pena. Si pensa che questo possa portare allo stesso effetto di
prevenzione generale, perché il pensiero di qualcosa che sta arrivando agisce molto di più
psicologicamente.

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DIRITTO PENALE E MORALE

È evidente che il piano morale e quello giuridico sono distinti ed è anche evidente che, mentre la
morale si occupa anche di fatti che accadono all’interno del soggetto, per il diritto tutto ciò che non
si manifesta esternamente è irrilevante. Es. odiare una persona è moralmente sbagliata, ma non per
il diritto. Tutto ciò che quindi rimane all’interno del soggetto e non si traduce in un comportamento
esterno non conta: questo è sottolineato dall’art.49,1 c.p. il quale prevede la non punibilità del reato
putativo. Puto in latino significa “penso/credo che”, quindi è un fatto che il soggetto ritiene essere
reato, ma che in realtà non è tale. Non è punibile chi commette un fatto non costituente reato. In
sostanza, un’intenzione che sia meramente interna e che non si traduca in un fatto che
obiettivamente per la legge penale è reato non è assolutamente rilevante e punibile.
Detto ciò, bisogna esaminare la posizione di alcuni (come Fiandaca) i quali ritengono che ci siano
comportamenti soltanto contrari alla morale e non anche antisociali e che pertanto non potrebbero
essere puniti: comportamenti che essendo soltanto contrari alla morale e non alla convivenza pacifica
all’interno della società non possono essere puniti. È sicuramente condivisibile l’idea che occorra
tenere distinti, per utilizzare l’ideologia illuminista, reato e peccato/fatto contrario alla morale (gli
illuministi si esprimevano in una società che generalmente era cristiana quindi la nozione di male
morale coincideva con il peccato). Quindi i piani sono distinti, ma si intersecano: es. uccidere
qualcuno è un fatto antigiuridico penalmente rilevante, ma è anche un fatto moralmente sbagliato.
Ora, nel dire che ci sono fatti contrari soltanto alla morale e quindi non sono anche punibili richiede
molta attenzione: è vero che un fatto intanto è punibile in quanto sia antisociale, non perché
immorale, in quanto è considerato dalla legge come contrario alla convivenza pacifica (di cui il diritto
penale si occupa nello specifico). Es. nel nostro ordinamento prendere in giro qualcuno non è
considerato anche reato; prendere in giro nel senso di dire una falsità quindi di per sé non è reato,
può diventarlo se ci sono altri presupposti come un danno patrimoniale o dare falsa testimonianza
all’interno di un processo. Se dico ad un amico che la sua ragazza si frequenta con qualcun altro
questo fatto non sarà bello, sicuramente moralmente condannabile, ma non punibile in quanto non
antisociale. Per cui un fatto anche se non è antisociale, non è punibile anche se contrario a principi
della morale. Senonché il dibattito così come sì è storicamente presentato ha preteso di affermare
che esistono alcuni comportamenti in assoluto sottratti alla rilevanza penale in quanto in assoluto
rilevanti solo dal punto di vista morale e questo non può accettare. Ma bisogna, innanzitutto,
contestualizzare: la discussione ha preso il via in Germania negli anni ’60 del ‘900 con riferimento
specifico alla morale sessuale perché alcuni autori sostennero che non potevano essere puniti (come
invece la legge penale prevedeva) rapporti sessuali tra fidanzati o rapporti omosessuali. Era ancora
in vigore in Germania il Codice penale prussiano del 1871 e allora parte della dottrina si preoccupò di
dire che ci sono cose che riguardano soltanto la morale e non possono essere moralmente rilevanti,
così detta questa affermazione non può essere accolta in quanto richiede una precisazione: che un
fatto sia o non sia socialmente rilevante non vale in assoluto sempre e dovunque, ma è frutto di un
giudizio che deve essere contestualizzato nel tempo e nello spazio, hic et nunc.

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Perché nel tempo e nello spazio le valutazioni su che cosa è antisociale o meno va cambiando: es. la
società italiana di oggi non è quella dell’800. Le valutazioni cambiano nel tempo e bisogna prenderne
atto. Bisogna considerare il diritto nella sua dimensione storica, il diritto cammina insieme alla storia
umana.
Se voi conoscete la Traviata ricorderete che Alfredo, giovane di buona famiglia, si innamora di
Violetta, donna traviata e con una vita leggera; lui va a vivere con lei senza essersi sposati, ma la
sorella di Alfredo non può più sposarsi perché il promesso della sorella non può accettare la
condizione di Alfredo. Una situazione del genere quindi aveva conseguenze sociali.
100 anni fa la rilevanza non morale ma sociale di certi comportamenti era assolutamente diversa da
quella rilevanza che questi stessi comportamenti possono avere oggi per noi. Se si guarda ai paesi di
cultura musulmana certi comportamenti sono considerati inaccettabili, come il fatto che una donna
possa guidare una macchina. Quindi hic, paesi diversi, et nunc, ma tempi uguali.

Allora così si giustificherebbe qualsiasi fatto? no, perché esistono valori morali assoluti che
andrebbero rispettati sempre e dovunque, valori che oggi -post Seconda guerra mondiale- chiamiamo
diritti umani, sanciti e rispettati. Il punto è che il riconoscimento di questi diritti ha un percorso
storico complesso e lungo, per niente definitivo. Siccome il diritto segue la vita sociale, non c’è quindi
da stupirsi se in certo tempo sia considerato antisociale ciò che in seguito non è più percepito come
tale. Allora la vera dimensione problematica si traduce in questi termini: c’è una discrasia
(=contraddizione e differenza) tra ciò che la legge penale stabilisce e ciò che la società percepisce?
Ossia, la legge penale è rimasta indietro rispetto l’evoluzione sociale punendo ancora fatti non
meritevoli di punizione? Come si fa a tenere conto che col cammino storico ciò che prima appariva
punibile non appare più tale? Questo è esattamente il vero problema. Bisogna quindi affermare e
concludere che il legislatore (o il giudice in una certa misura) deve tener conto della evoluzione della
società e incarnare o applicare le norme, in questo caso penali, tenendo conto del contesto in cui
queste norme vanno applicate. In qualche caso è lo stesso legislatore ad essere lungimirante: per
esempio, nel nostro Codice penale, il legislatore del 1930 diede una illuminata definizione di atti
osceni. Quali sono gli atti osceni? l’art.529 c.p. “Agli effetti della legge penale, si considerano osceni
gli atti e gli oggetti che, secondo il comune sentimento, offendono il pudore.” Allora il giudice, nel
momento in cui il fatto è commesso, deve valutare se quel comune offende il comune sentimento
del pudore. È evidente che tale sentimento del pudore della società va cambiando dal 1930 ad oggi,
si modifica nel tempo. Es. abuso dei mezzi di correzione in famiglia: 50anni fa il padre puniva i figli
colpendoli con una cinta, oggi un magistrato lo condannerebbe per abuso dei mezzi di correzione in
quanto non accettabile.
Cambia la cultura, la società, il tempo e di conseguenza la legge. Occorre che il legislatore per conto
suo -nel rivedere le norme penali- e il giudice -nell’applicarle- tengano conto entrambi di questi
movimenti che la vita della società compie nel tempo: non si può dire una volta per tutte e in assoluto
che alcuni comportamenti sono sottratti alla rilevanza penale perché riguardano soltanto la sfera
morale, questo giudizio va fatto nel tempo.
Questo, tra l’altro, ci permette anche di fare il percorso contrario: non solo depenalizzazione, ma
anche creare sensibilizzazione per fatti che prima non erano considerati penalmente (es. vivisezione,
diritti degli animali).

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Detto ciò, bisogna prendere atto che il diritto penale è fortemente intriso di considerazioni di
ordine morale ed etico: il senso di giustizia della sanzione penale. Gli illuministi pensavano che la
norma dovesse essere severa, noi pensiamo invece debba essere giusta e questa è una valutazione
morale. Quindi il senso di giustizia è parte della risposta sanzionatoria che il diritto dà ai reati.

Riteniamo che non sia possibile punire chi non è capace di intendere e di volere: principio di
colpevolezza. E questa è una esigenza etica, morale; usiamo il termine “colpevole” per indicare
qualche cosa che esprime il rimprovero, una riprovazione (anche questa valutazione etica). E ancora,
la differenza tra dolo e colpa: il dolo è un delitto commesso con volontà, mentre la colpa è
un’inosservanza delle regole di negligenza, prudenza, perizia. Quindi c’è differenza tra il reato
commesso con dolo e quello commesso con colpa, differenza che si basa sul grado di rimproverabilità
del fatto al suo autore: nel primo caso ha agito precisamente volendo provare quel risultato, mentre
nel secondo è stato soltanto superficiale. Mentre dal punto di vista oggettivo i fatti sono
assolutamente uguali: es. se si uccide una persona violando le regole della legislazione stradale o la
si uccide accoltellando il risultato è uguale perché la vittima muore, tuttavia la conseguenza penale è
completamente diversa. Il disvalore etico si fonda non sul risultato, che è identico, ma sulla
colpevolezza del reo il quale in un caso ha voluto, mentre nell’altro è stato solo superficiale. Disvalore
che, dal punto di vista della sanzione, viene in evidenza poiché per l’omicidio doloso vi è una
reclusione pari a 21anni, mentre per quello colposo pari a 5 anni.

I GRANDI PRINCIPI DEL DIRITTO PENALE


1) Offensività
2) Frammentarietà
3) Sussidiarietà
4) Legalità

[nb. Nel Pagliaro non c’è un discorso espresso sul principio di sussidiarietà]

→ Il principio di OFFENSIVITÀ è uno dei pilastri portanti dell’intero sistema penale. Secondo tale
principio il reato in sé, nel suo aspetto sostanziale, è offesa ad un bene giuridico. Ovviamente il reato
è un fatto previsto come tale dalla legge penale, ma questo è l’aspetto formale. Con offesa si intende
un concetto di genere che si presenta in due specie: danno/lesione e pericolo.

Danno, significa compromissione definitiva del bene giuridico: se uccido qualcuno, la vita (che è il
bene giuridico in questione) viene definitivamente compromessa.

Pericolo, invece, è l’esposizione alla possibilità che si verifichi un danno: se sparo a qualcuno senza
colpirlo, ma arrivando vicino, creo un pericolo alla sua integrità fisica.
Entrambe le definizioni assumono una rilevanza penale come offesa al bene giuridico: se pensiamo
al bene giuridico della vita è rilevante penalmente sia il danno sia la messa in pericolo. Il concetto di
offesa è relativo al concetto di bene giuridico.

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10/10/2018
PRINCIPIO DI OFFENSIVITA' -> Abbiamo detto che dal punto di vista della definizione formale il
reato è quel fatto per il quale la legge prevede una sanzione penale , ma questo non ci dice nulla
sulla sostanza ed essenza del reato ; invece dal punto di vista della sostanza il REATO è UN'OFFESA
AD UN BENE GIURIDICO.

L'OFFESA è un genere che può presentarsi come DANNO o PERICOLO.

BENE GIURIDICO = questo concetto risale alla prima metà dell'800 , in particolare nel 1834 un
giurista tedesco di nome Birnbaum propose questo nuovo concetto del reato come offesa ad un
bene giuridico. Per la verità egli parlava semplicemente di "bene" , l'aggettivo "giuridico" fu
aggiunto da Binding alla fine dell'800.

Con questo nuovo concetto si volevano superare gli inconvenienti della concezione dominante di
quel periodo, ossia quella del reato come offesa e lesione ad un diritto soggettivo, proposta da
Feuerbach ( non è il filosofo, ma è stato un giurista tedesco), il quale in piena linea con l'idea
liberale , secondo la quale il diritto serve per tutelare le posizioni individuali, sosteneva appunto che
il reato fosse lesione di un diritto soggettivo.

Ma questo concetto presentava degli inconvenienti :

-la nozione di diritto soggettivo è ovviamente formale , è un concetto tecnico giuridico e quindi si
presta pochissimo a indicare le diversità di aggressioni e le varie intensità che il reato può portare.
(es. un conto è il delitto consumato, un conto è il delitto tentato, ma questa differenza di gravità noi
la cogliamo rispetto a qualcosa di sostanziale e di reale, mentre rispetto ad un concetto formale
giuridico non si può fare una differenza fra modalità di lesione e non si può esprimere la realtà delle
cose).

-L'inconveniente principale era che non tutto ciò che appare meritevole di tutela penale si presenta
come diritto soggettivo, ma ci sono realtà che non costituiscono un diritto soggettivo e che pure
appare necessario proteggere attraverso la legge penale.

Il caso particolare da cui partiva Birnbaum era quello dell'onore , a quell'epoca infatti si era disposti
a rinunciare alla vita per difendere il proprio onore che era un bene considerato di straordinaria
importanza. Eppure, nel diritto civile, l'onore non è un diritto soggettivo . Allora il giurista propose
questa nuova idea per la quale il reato non era lesione di un diritto soggettivo, ma OFFESA AD UN
BENE , un bene della vita , cioè ad una realtà della vita positiva.

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Questo concetto , variamente discusso nel corso dei tempi, ha una straordinaria utilità per diverse
ragioni:

-la prima è quella di costituire un passaggio intermedio tra la nozione troppo generica di convivenza
pacifica nella società e il reato stesso; dire semplicemente che il reato è ciò che reca offesa alla
convivenza pacifica nella società è non facile perché non si capisce quali siano i fatti che rendono
impossibile la convivenza pacifica. Ecco che il BENE GIURIDICO si propone come criterio intermedio
per individuare quelle realtà che necessitano di tutela penale. Quindi, il giudizio è riferito a realtà
più vicine e meglio individuabili rispetto alle quali è più facile interrogarsi se sia necessario tutelarle
per mantenere la pace sociale. Quindi c'è una prospettiva di fondo che è quella di mantenere la
pace sociale, e ci sono delle tappe intermedie da percorrere per mantenere questa pace (ad es.
rispettare la proprietà privata, la vita, l'andamento della pubblica amministrazione -> la tutela di
queste realtà è necessaria affinché la vita associata possa essere pacifica).

-Dall'altro lato , il concetto di BENE GIURIDICO si presta a generalizzare la tutela, evitando


valutazioni empiriche caso per caso che sarebbero profondamente ingiuste. (es. quando diciamo
che la fattispecie penale di omicidio tutela il bene della vita, individuiamo un bene giuridico che
sarebbe la vita e in questo modo configuriamo come qualcosa da proteggere la vita umana, questo
ci consente di non essere tenuti a giudicare se quella vita umana in particolare sia meritevole e
degna di protezione o no , se per la società sia davvero un danno o meno l'offesa a quella vita.
Parlare in generale di bene giuridico ci permette di dire che tutte le vite umane sono meritevoli di
tutela. Dal punto di vista esclusivamente sociologico-empirico , uno potrebbe pensare che certe vite
non siano meritevoli di tutela , era così nelle società antiche dove i soggetti disabili venivano
eliminati perché erano un peso per la società. Si potrebbe anche pensare che la vita di un
pericoloso criminale o di un vecchio moribondo non siano meritevoli di tutela e che addirittura
possa essere socialmente utile sopprimere queste persone che sono un peso o un danno.)

Parlare di bene giuridico, di questo concetto che rende generale l'idea e la realtà, permette di
ritenere e considerare meritevole di tutela qualunque realtà riconducibile a questo concetto , che si
tratti della vita, della proprietà o dell'onore, qualcuno per esempio a propositi di onore , grandi
penalisti avevano fatta propria la concezione fattuale dell'onore, cioè l'onore era una realtà
psicologica o sociale per cui se uno non ha una buona reputazione e una reputazione da difendere,
potrebbe essere offeso.

Musco in un suo libro ha sottolineato che è evidente che la dignità umana nell'arco dei valori
costituzionali va comunque tutelata a prescindere dai particolari meriti che quella persona possa
avere.

Questo concetto di bene giuridico oggi viene messo in discussione da alcuni Americani, i quali
parlano di DANNO , inteso in senso diverso , inteso come lesione di qualcosa che appartiene ad un
altro soggetto. Se non ci fosse questo impatto con il danno per un altro soggetto , non ci potrebbe
essere il reato.

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Questa è un'idea pericolosa perché si rischierebbe di lasciare sguarnito la tutela di tutte quelle
realtà che non sono riferibili immediatamente ad un soggetto, che presuppongono ad esempio una
valutazione psicologica , come la tutela di certi sentimenti : sentimento religioso, sentimento di
pietà per i defunti ecc ,dove non si può afferrare un danno in senso materiale , ma vi è comunque la
necessità di tutela penale.

Dal punto di vista della valutazione, l'idea che il reato sia un'offesa ad un bene giuridico viene
considerata alternativamente come AUTORITARIA o LIBERALE. Obiettivamente, quando Birnbaum la
propose , la sua intenzione era quella di allargare l'aria di quello che è penalmente rilevante,
estendendola all'onore e quindi il bene giuridico venne visto come uno strumento che permette di
punire ciò che la precedente concezione del reato come lesione del diritto soggettivo non
permetteva di punire , quindi un'impostazione espansiva del penale e perciò AUTORITARIA.

Ma questo potrebbe essere vero se ,invece, la storia del concetto di bene giuridico non ci dicesse
che in realtà il bene giuridico è sempre stato pensato dai teorici e dalla dottrina come un argine
all'onnipotenza del legislatore, che lo costringe a prevedere un reato soltanto lì dove è in gioco una
realtà preesistente alla legge , e che impedisca al legislatore di formulare leggi penali a suo capriccio
punendo fatti assolutamente privi di una sostanza offensiva , ad esempio andare vestiti in un certo
modo di color giallo all'università non è offensivo!

Quindi Birnbaum nel 1834 parlava di BENE; Binding aggiunse alla fine dell'800 l'aggettivo
GIURIDICO, cioè un bene della vita che deve essere rilevante per il diritto; mentre in Italia fu Arturo
Rocco a teorizzare questa materia , utilizzando il concetto di OGGETTO DEL REATO, in una sua
opera del 1916.

Per OGGETTO non s'intende l'oggetto materiale, ma s'intende l'oggetto di tutela , infatti nella
giurisprudenza si utilizzano come equivalente le espressioni di bene giuridico e oggetto di tutela .

Rocco distingueva 4 diverse nozioni di oggetto giuridico e cioè : UN OGGETTO FORMALE e poi TRE
diverse nozioni di OGGETTO SOSTANZIALE.

L'OGGETTO FORMALE consisterebbe nella pretesa dello Stato all'osservanza dei suoi precetti , cioè
l'obbedienza del diritto dello Stato, indipendentemente da qualsiasi cosa dal punto di vista del
contenuto. Il reato quindi offende questa pretesa dello Stato a che i destinatari della norma
osservino le leggi penali.

Però questa nozione è poco utile perché non ci dice sostanzialmente niente su cosa sia il reato
effettivamente , e potrebbe essere dannosa perché un diritto all'obbedienza da parte dello Stato lo
si potrebbe configurare di fronte a qualsiasi tipo di comando anche al più autoritario e ingiustificato
e antiliberale.

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OGGETTO SOSTANZIALE-> Rocco lo distingueva in 3 categorie : GENERICO- SPECIFICO- DI
CATEGORIA

-OGGETTO SOSTANZIALE GENERICO = è quello di cui abbiamo già parlato con altri termini e
sarebbe precisamente il mantenimento delle condizioni pacifiche per la vita della società. L'offesa a
questo oggetto è l'essenza del reato. Questa è un'idea molto generale che ha bisogno di essere
ulteriormente specificata e dettagliata ed è allora entra in gioco L'OGGETTO SOSTANZIALE
SPECIFICO = bene particolare offeso dalla singola fattispecie incriminatrice , quella realtà della vita
preesistente alla legge penale che non è inventata dal legislatore , ma è una realtà che si trova nella
vita sociale ed è tutelata dalla singola norma incriminatrice.

-OGGETTO SOSTANZIALE DI CATEGORIA= è l'oggetto di tutela più ampio, rispetto a quello specifico,
comune a diversi reati e che consente di raggruppare reati diversi sotto un'unica etichetta per i loro
profili di comunanza , così si parla ad esempio di "reati contro il patrimonio", dove il patrimonio è
l'oggetto sostanziale di categoria, ma dentro questo oggetto di categoria ci sono tanti diversi reati
come il furto, la rapina, lo scippo la truffa ecc , ciascuno dei quali tutela questo bene di categoria
che è il patrimonio , in un modo diverso e quindi tutelando tanti diversi beni giuridici specifici : es, il
furto tutela la pace nei rapporti di possesso, mentre la rapina tutela sia questo interesse che la
libertà della persona che viene aggredita con minaccia o violenza.

Il bene giuridico di categoria è essenziale per la strutturazione delle leggi penali e in particolare del
Codice penale , dove noi troviamo : reati contro la persona , reati contro la libertà personale, reati
contro la vita, contro l'integrità fisica , contro il patrimonio e così via . Quindi, è come l'indice di un
libro nel quale vanno messi insieme per grandi linee questi gruppi di reati che hanno in comune
questi profili. Dunque , il bene giuridico di categoria è quello attraverso cui si può organizzare e
strutturare la parte speciale del Codice penale . (es. titolo xii del libro II s'intitola "delitti contro la
persona, dentro esso c'è :delitti contro la vita e l'incolumità individuale, delitti contro l'onore, delitti
contro la libertà individuale, delitti contro il patrimonio.)

Il concetto più importante è quello di OGGETTO SOSTANZIALE SPECIFICO che sarebbe precisamente
quel bene offeso dal singolo reato , dalla singola fattispecie incriminatrice , la quale di volta in volta
è come se fotografasse sotto un'angolazione diversa la stessa realtà; la norma incriminatrice prende
in considerazione una realtà che ha tanti profili da una prospettiva e la tutela sotto quella
prospettiva, perché poi accanto c'è un'altra norma incriminatrice che tutela la stessa realtà ma
inquadrata in un'ottica un po’ diversa. Esempio : nel furto non c'è violenza; nello scippo c'è la
violenza sulla cosa; nella rapina c'è la violenza sulla persona -> si tratta sempre dello stesso fatto,
ossia sottrarre qualcosa a qualcuno ma con modalità differenti.

L'oggetto sostanziale specifico ci dice esattamente la prospettiva specifica e particolare per ciascun
reato.

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Il bene giuridico ha una storia complessa da quando è stato pensato fino ad oggi : alcuni lo
considerano un concetto che ha consentito di estendere l'area del penale ; mentre altri lo
considerano un concetto di tutela che limita il potere del legislatore.

Ci sono anche prospettive e modi di proporre il bene giuridico che ne svuotano la rilevanza pratica,
lasciandolo ad un concetto meramente teorico. La principale di queste concezioni è LA
CONCEZIONE METEODOLOGICA DEL BENE GIURIDICO , proposta nel 1919 dal tedesco Honich, il
quale sosteneva che il bene giuridico era utile per descrivere in termini sintetici quale fosse lo scopo
della norma incriminatrice , della singola norma penale. Qui evidentemente cambia completamente
la prospettiva perché noi abbiamo detto che il bene giuridico deve essere considerato una realtà
preesistente alla norma giuridica che il legislatore osserva e che si propone di tutelare , lo scopo sta
danti la norma giuridica, non dietro , cioè il legislatore formula una legge penale allo scopo di
tutelare qualcosa che è l'obiettivo che la legge si propone, non la realtà che la legge osserva e alla
quale fornisce tutela , il concetto di bene giuridico deve stare alle spalle e non davanti. Lo scopo
può essere di qualsiasi tipo ad esempio il legislatore potrebbe avere interesse a far vestire le
persone tutto allo stesso modo, in Cina ad esempio c'era una divisa comune per tutti, e considerare
inaccettabile vestirsi diversamente .

L'utilità è soltanto metodologica, cioè serve per dire con poche parole quello che la legge penale si
propone (es. uniformità dei vestiti) e lo scopo può essere qualsiasi. In questa maniera la rilevanza
del concetto di bene giuridico se perde completamente e si perde anche la sua funzione critica e
rimane soltanto una funzione puramente conoscitiva : il bene giuridico nella prospettiva della teoria
metodologica si limita a descrivere quello che la legge vuole raggiungere , il concetto non ha
nessuna capacità o attitudine a fungere da parametro e criterio per criticare e per valutare la legge
in termini critici. Si accentua in modo sconsiderato la funzione dogmatica-conoscitiva ma si perde
completamente la funzione critica. Parlare di funzione critica significa che la ragione per la quale è
utile pensare al bene giuridico è proprio quella di individuare per il legislatore correttamente quali
siano le realtà meritevoli di tutela; in sede di interpretazione e applicazione della legge è quella di
limitare l'applicazione della legge ai soli casi che realmente rechino offesa al bene che la legge si
propone di tutelare (es. litro di benzina nel peculato : chi dice che se uno si appropria di un litro di
benzina non commette peculato? Ce lo dice quale sia l'oggetto della tutela che non è la proprietà
della benzina , ma è il buon andamento della pubblica amministrazione , ciò ci permette di dire se
un determinato fatto costituisce veramente reato oppure non costituisce reato perché non reca
offesa al bene giuridico tutelato che è il buon andamento della pubblica amministrazione.)

Quindi, la capacità di descrizione della legge penale esistente e quella critica vanno tenute insieme
e la concezione metodologica invece ci fa perdere completamente questa capacità critica.

I sostenitori della Concezione Metodologica dicono che l'unico modo di individuare correttamente
il bene giuridico è quello di conoscere la legge penale , individuare quale sia il suo scopo e di
conseguenza individuare quale sia il bene giuridico da proteggere. Questa operazione si può fare
soltanto dopo che si prende atto della norma e non prima e perciò il bene giuridico non può essere
individuato come realtà preesistente alla norma giuridica.

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Questa impostazione non è accettabile perché ha una visione dell'interpretazione della legge non
corretta , come se l'interpretazione della legge e la sua applicazione fosse un procedimento
rettilineo , cioè che parte da un punto prende conoscenza della norma ,individua il suo scopo e
applica poi la norma. Invece, l'interpretazione della norma è un PROCEDIMENTO CIRCOLARE : parte
da un punto , va avanti, ritorna indietro e finalmente arriva ad un risultato definitivo.

Gli studiosi dell'ermeneutica hanno messo in luce che la nostra conoscenza non può fare a meno di
PREGIUDIZI= è un giudizio che viene prima della cosa da conoscere e che va successivamente
confermato o messo più esattamente a fuoco ( quando ci troviamo di fronte ad un oggetto della
conoscenza, abbiamo alle nostre spalle un bagaglio enorme di nozioni che sono già date e che
possediamo , abbiamo già giudizi su quelle cose , poi esaminiamo attentamente , vediamo se la
nostra preconoscenza corrisponde davvero a ciò che abbiamo davanti e alla fine concludiamo nel
senso esatto). Quindi non si può fare a meno di un punto di partenza nelle nostre conoscenze che
va verificato per ritornare poi sulla conclusione finale. Rispetto alla legge penale, questo circolo
sarebbe : una prima considerazione della realtà da tutelare che viene ancor prima della legge, la
verifica attraverso il testo e la struttura della legge e alla fine di nuovo un ritorno sul concetto di
bene giuridico che è l'oggetto di tutela per mettere esattamente a fuoco quale sia e come la legge
deve essere applicata alla luce di questo procedimento che ritorna su sé stesso.

Detto così non è vero che il bene giuridico possa essere individuato soltanto dopo aver conosciuto
la legge penale , ma c'è un primo approccio alla realtà da tutela che può essere precedente
all'esame della singola disposizione di legge nel suo testo e che però va messo a fuoco e precisato
attraverso l'esatta conoscenza della legge.

Così l'obiezione che i sostenitori della concezione metodologica facevano , secondo la quale non è
corretto partire già con un'idea , viene superata.

Il bene giuridico è una realtà preesistente alla vita che però viene conosciuto attraverso il processo
circolare di approfondimento. Proprio la natura di questo processo circolare fa si che , come ha
osservato il penalista tedesco Hassemer del 900, nel bene giuridico coesistono sia la funzione
dogmatica che la funzione critica ; dogmatica di rappresentare così come può apparire
immediatamente la norma di legge ; critica nel senso di mettere in luce eventuali tensioni fra il
testo della legge e la realtà della vita che si vuole tutelare (es. il bene dell'onore , può essere
assicurata un tutela nella legge molto ampia in passato, mentre la vita sociale ci diceva di che pian
piano una suprema considerazione del bene dell'onore si è andata profondamente modificando).

Hassemer osserva che più si sottolinea la funzione dogmatica, meno emerge quella critica ;
viceversa , più si utilizza il bene giuridico in funzione critica meno si è aderenti all'espressione
linguistica della legge così come appare nella sua formulazione . Si tratta di un sistema di equilibri e
bilanciamenti per cui accentuare l'una o l'altra cosa fa diminuire rispettivamente l'altro dei due
profili.

Questo discorso si basa solo sulla rilevanza teorica o ha anche una rilevanza pratica? - Il concetto è
pieno di ricadute sul terreno pratico.

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Molto raramente accade che direttamente e immediatamente si può osservare che una norma
penale non protegge alcun bene giuridico e quindi debba essere considerata priva di fondamento di
senso. Per esempio, la Corte costituzionale ha cancellato dichiarando costituzionalmente illegittimo
l'art. 553 del Codice penale che puniva l'incitamento a pratiche contro la procreazione, si trattava
quindi di una propaganda alla contraccezione , questo era considerato un reato. La Corte
costituzionale intorno agli anni 70 osservò che una norma del genere non tutelava nessun bene
giuridico e che quindi doveva essere cancellata. Più esattamente: quando era stata emanata la
norma , nel 1930, esisteva un interesse giuridico all'incremento della popolazione , perché nell'Italia
rurale di all'ora si poteva dire che ci fosse un interesse all'accrescimento della popolazione per scopi
di economia nazionale. Invece , negli anni 70 questo interesse era completamente venuto meno e
dunque la norma andava cancellata.

Una riflessione critica simile, si potrebbe fare oggi per gli organismi geneticamente modificati e la
teoria della precauzione , perché le norme che puniscono la produzione di organismi geneticamente
modificati non intercettano per definizione e pongono problemi non lì dove intercettano un
pericolo , perché dove c'è un pericolo c'è l'offesa al bene giuridico , ma alcune di queste norme
puniscono delle condotte nell'ottica di una pura precauzione , cioè non si sa nemmeno se ci sia un
pericolo, eppure si punisce quella condotta per estrema precauzione. Tutto questo è legittimo o
illegittimo? C'è un'offesa nel comportamento di chi produce organismi geneticamente modificati o
no? Di fatto esistono alcuni reati di questo genere e ci si interroga sulla loro compatibilità con il
principio costituzionale di offensività.

Le ricadute in termini pratici della nozione di bene giuridico e soprattutto della sua funzione critica
,limitativa della potestà e dell'onnipotenza del legislatore , potrebbero essere agganciate soltanto
ad una teoria giuridica? - Diciamo che ci siamo accorti che è un po’ troppo poco, cioè la teoria
giuridica elaborata non ha ancora la forza per arginare il legislatore nelle sue scelte, e allora a
partire dagli anni 60 del 900, prima in Germania con autori come Sax, e poi in Italia con soprattutto
Bricola , si pensò di agganciare il concetto del bene giuridico alla Costituzione per porre un limite al
legislatore, il quale non trova più lo sbarramento di un concetto dottrinale-teorico, ma trova uno
sbarramento posto dalla Costituzione attraverso il PRINCIPIO DI OFFENSIVITA' che impone al
legislatore di limitarsi a punire soltanto quei comportamenti che rechino offesa ad un bene
giuridico.

IL PRINCIPIO DI OFFENSIVITA' si può ricavare nella Costituzione negli art. 25 e nell'art. 27 :

-ART. 25 , COMMA 2 -> stabilisce che "nessuno può essere punito se non in forza di una legge che
sia entrata in vigore prima del fatto commesso."

Questa formulazione ha delle importantissime conseguenze; ci dice che ciò che il legislatore punisce
è un fatto e quindi non ad esempio uno stile di vita criticabile , censurabile, un soggetto che sia
diverso che non rispetti alcune convenzioni formali della vita sociale , vagabondo o che viva in
maniera diversa , ma il legislatore deve punire un comportamento preciso.

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La Corte costituzionale ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l'art. 61 n11bis del Codice
penale che in occasione di uno dei pacchetti di sicurezza del 2008 aveva aggiunto tra le circostanze
aggravanti per qualsiasi reato , la circostanza che il colpevole avesse commesso il fatto mentre si
trovava illegittimamente sul territorio nazionale. Si parla del così detto clandestino che si trova
illegalmente sul territorio nazionale , questa sua condizione, secondo la norma aggravava la pena
prevista per qualsiasi reato.

C'è una qualche ragione per la quale il reato di es. rapina sia più grave se è commesso da un
cittadino italiano o straniero con permesso di soggiorno o turista, oppure da un cittadino che si
trova illegalmente nel territorio dello Sato? - NO! Il reato ha la stessa gravità!

Questa aggravante puniva e aumentava la pena per tenere conto e per colpire la condizione della
persona clandestina; quindi era una punizione non del fatto e della sua oggettività, ma era una
punizione rivolta alla persona nel suo modo di essere e la Corte costituzionale il 5 Luglio del 2010 ha
dichiarato illegittimo questo articolo.

Quindi, quando si dice fatto, si vuole escludere questo modo di essere della persona. In Germania
durate gli anni 30 del Nazismo fu elaborata in fortissima contrapposizione con il principi di
offensività e la teoria del bene giuridico, la TEORIA DEL TETERIOUCH , tipo di autore, cioè l'essenza
del diritto penale era quella di intercettare i tipi di autore, non i fatti, non il furto , lo spaccio ecc ,
ma il ladro, lo spacciatore e così via, cioè un soggetto che avesse certe caratteristiche e punire
questo tipo di autore (es. ribelle al sentimento del popolo) per il suo modo di essere,
indipendentemente dai fatti commessi.

La parola FATTO espressa nell'art.25 della Costituzione , ci ricorda che si può legittimamente essere
puniti soltanto per un fatto commesso e non per una qualità non offensiva, perché logicamente è
ovvio fare un passo successivo : se si dà peso alla parola FATTO, ovviamente esso deve essere anche
OFFENSIVO; perché se uno possa essere punito per un fatto totalmente inoffensivo, come ad
esempio passeggiare per la strada o prendere il sole , sarebbe un fatto ma non si rispetterebbe il
valore della norma costituzionale , questo fatto deve essere offensivo che vada ad offendere un
qualche bene giuridico!

-ART.27, COMMA 3-> stabilisce che "le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso
di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato".

Anche qui non si parla di offensività, ma l'interpretazione delle norme costituzionali va fatta tirando
fuori da poche parole tutto quello che queste parole possono significare.

RIEDUCAZIONE vuol dire che il condannato deve essere ricondotto al rispetto dei valori che il
condannato con il reato ha offeso. Rieducare come funzione della pena , significa che la pena
attraverso le modalità di esecuzione deve riportare al rispetto di quei valori chi ha commesso un
fatto offensivo riguardo certi valori o beni giuridici. Non avrebbe senso rieducare uno che non ha
commesso un fatto che dimostra la mancanza di rispetto di quel valore; se c'è una pena è perché è
stato compiuto un fatto che recava offesa a determinati valori o beni. Anche la funzione della pena
di rieducazione ci dice che il reato nella prospettiva Costituzionale va pensato come offesa ad una
realtà che è quella del bene giuridico.

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Da qua a cavallo fra gli anni 60 e 70 del 900 , nasce il DIRITTO PENALE COSTITUZIONALE , cioè un
diritto penale non concepito soltanto sulla base tecniche di ricostruzione e indagine dogmatiche,
ma piuttosto ispirato dai principi che la Costituzione accoglie e in particolare al principio di
offensività= il reato deve essere offesa .

Dunque , l'intero sistema penale deve essere pensato come una serie di fatti che offendono i beni
giuridici. Questo significa, che in casi estremi si può dire che il reato deve sparire ; invece, nella
maggior parte dei casi si tratta di applicare la legge penale tenendo conto della dimensione
costituzionale del bene in questione.

ES. l'onore secondo i giuristi della pre-costituzione era una realtà psicologica o sociale; nella
ricostruzione costituzionale , l'onore è la dignità della persona che la Costituzione ribadisce
indipendentemente dalle sue particolari caratteristiche psicologiche o di relazioni sociali , una
dignità spettante ad ogni persona umana, anche quelli che socialmente possono essere considerati
emarginati hanno questa dignità per la Costituzione.

Noi studiamo i delitti contro la Pubblica Amministrazione e anche qua troviamo questa
osservazione che il bene tutelato da questi delitti non può essere più considerato come era
considerato dai penalisti degli anni 30 , ma quei valori che in modo esplicito la Costituzione indica
all'art.97 "il buon andamento e l'imparzialità della Pubblica Amministrazione "; quindi non più il
prestigio di quelli che esercitano le funzioni dello Stato, ma piuttosto il buon andamento e
l'imparzialità della pubblica amministrazione.

Il bene giuridico alla luce delle Costituzione , assume un volto differente, e l'interprete deve tenere
conto di questa nuova prospettiva costituzionale nell'individuare la fisionomia del bene giuridico
tutelato e di conseguenza quale sia il fatto che costituisce reato oppure no.

Nel percorso del diritto penale costituzionale si inserisce sempre dall'art 27, comma 1 una parte che
riguarda la responsabilità penale.

ART.27, COMMA 1 -> stabilisce "la responsabilità penale è personale".

Non basta, come si pensava negli anni 30 , un comportamento puramente materiale e fisico del
soggetto che non sia accompagnato da un grado di coscienza che renda il comportamento
personale , cioè un comportamento della persona : un movimento fisico può essere anche non
voluto , occasionale, incosciente, inconsapevole e produrre comunque delle conseguenze, ma la
responsabilità penale , secondo la Costituzione, non può essere fondata soltanto su un fatto
puramente meccanico e fisico , ma si richiede un comportamento personale cioè del soggetto in
quanto essere umano dotato di intelligenza e volontà.

Il diritto penale costituzionale ,in particola nel pensiero di Franco Bricola, avrebbe avuto una
portata ancora più ampia nel senso che l'intero sistema del diritto penale avrebbe potuto alla luce
del principio di offensività avere come oggetto di tutela soltanto beni giuridici indicati dalla
Costituzione in una sorta di tavola degli oggetti possibili di tutela da ricercare nella Costituzione.
Questo approccio lo possiamo indicare come fondazione costituzionale della tavola dei beni
giuridici tutelabili.

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Intorno al concetto di bene giuridico si costruisce un’importante attività, che riguarda sia il
legislatore, il quale nel regolare le fattispecie incriminatrici deve stare attento alla consistenza del
bene giuridico, sia per il giudice, che quando interpreta e applica le leggi penali deve farlo alla luce
del bene giuridico.

Questo riferimento al bene giuridico non può essere, e non è, soltanto un fatto dottrinale teorico-
culturale, infatti troviamo addirittura un aggancio alla Costituzione, il che dà più rilevanza al
concetto di bene giuridico e, in generale, al principio di offensività. In particolare, si deve fare
riferimento all’art. 25 Cost. che parla di FATTO, che deve logicamente intendersi come un fatto
connotato per il suo disvalore, e all’art. 27 c. 3 che parla di RIEDUCAZIONE del condannato,
rieducazione al rispetto di quei valori che ha offeso con il suo reato.

Chi per primo si è accorto di questo aggancio del principio di offensività alla Costituzione, cioè
Bricola, originariamente, nella voce del Novissimo Digesto Italiano teoria generale del reato (1973),
affermò che il reato potesse essere l’offesa ad un bene giuridico di rilevanza costituzionale, cioè il
bene colpito dall’offesa dovesse essere menzionato dalla Costituzione. Infatti, l’art.13 Cost., che
apre la parte della Costituzione dedicata ai diritti e doveri dei cittadini, parla di LIBERTA’
PERSONALE, come diritto fondante su cui poi poggiano tutti gli altri. L’art.13 stabilisce che:

“ La libertà personale è inviolabile. Non è ammessa forma alcuna di detenzione, ispezione o


perquisizione personale, né qualsiasi altra restrizione della libertà personale, se non per atto
motivato dall’autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge”.

Allora, secondo Bricola, data l’importanza della libertà personale e il fatto che possa essere limitata
soltanto nei casi e nei modi previsti dalla legge, bisogna supporre che non sia logico restringere la
libertà personale perché qualcuno ha offeso un bene di secondaria importanza, cioè di importanza
minore rispetto a quello della libertà personale. Cosicché i beni che si possono legittimamente
tutelare alla luce della Costituzione, attraverso le norme penali incriminatrici, devono per forza
essere beni di rilevanza costituzionale.

A questa formulazione della teoria, immediatamente, Federico Stella fece notare che c’erano dei
beni di sicura rilevanza sociale e meritevoli senza dubbio di tutela che però non avevano una
menzione, almeno esplicita nella Costituzione, per es. la fede pubblica, che viene protetta
attraverso i c.d. “reati di falso in atto pubblico”, scrivere qualcosa di falso su un atto pubblico
costituisce reato. Ci sono altri beni giuridici che sono indiscutibilmente meritevoli di tutela I quali
non erano ancora neppure nella mente dei costituenti del 1948, perché sono beni emersi, per
rilevanza sociale, successivamente per lo sviluppo della vita sociale (per es. i software; l’ambiente
perché non esisteva l’inquinamento, c’è semplicemente un accenno al paesaggio nella carta
costituzionale ma i due concetti possono addirittura essere in contrasto perché se le pale eoliche da
un lato possono proteggere l’ambiente dall’altro possono arrecare danno al paesaggio).

In conclusione, ci sono dei beni che o esistevano già o si sono evidenziati dopo l’entrata in vigore
della Costituzione che non hanno nessuna menzione nella Costituzione.

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Allora nel 1980, Bricola corresse il tiro delle sue affermazioni, dicendo che si dovesse trattare di
beni giuridici di rilevanza costituzionale almeno implicita. Nonché, questa nuova affermazione fa
notare che il concetto di rilevanza costituzionale implicita è sfuggente! Infatti, implicitamente
tutelato costituzionalmente potrebbe essere praticamente qualsiasi cosa. Quindi, in questo modo si
perde molto del carattere vincolante della teoria così come originariamente formulata da Bricola.
Come conseguenza di questa teoria, sicuramente non voluta da Bricola, si potrebbe giungere a due
esiti, entrambi del tutto inaccettabili. Bisogna aggiungere, prima di analizzare tali esiti, che Bricola
specificava che si dovesse trattare di un’offesa significativa a beni aventi rilevanza costituzionale.

Se si pensa alla Costituzione come ad una tavola (gerarchicamente ordinata) di valori da tutelare, e
tutelarli tanto più quanto più importanti sono, si potrebbe arrivare a due conseguenze, entrambi
questi sviluppi sono da rifiutare:

1 - FUNZIONE PROMOZIONALE DEL DIRITTO PENALE, per cui il diritto penale potrebbe avere la
funzione di promuovere beni che non esistono ancora nella società per un miglioramento del
tenore di vita (per es. Obbligare, sotto la minaccia di una sanzione penale, i cittadini proprietari di
immobili a dotarsi di impianti tecnologici per la produzione di energia), quindi si passerebbe ad
affermare che essendoci valori più importanti di altri compito del diritto penale sarebbe anche
quello di promuovere tali valori, e così negli anni ‘30 il giurista Antolisei pensava che il diritto penale
potesse avere anche questa funzione, ma il diritto penale può tutelare legittimamente solo beni che
già esistono, perché non si può fare carico al singolo individuo di assicurare un più alto standard di
vita, in quanto questo è compito dello Stato e delle istituzioni attraverso l’adozione di alcune misure
politiche, economiche e amministrative, ma non può essere compito del singolo che verrebbe
altrimenti punito per non essersi impegnato nel migliorare la vita sociale;

2 - OBBLIGHI COSTITUZIONALI DI TUTELA PENALE, se si pensa ad una gerarchia di valori nella quale
ve ne sono alcuni di assoluta rilevanza e se la legge penale punisce fatti lesivi di beni di minore
importanza e allora si potrebbe pensare che il legislatore sia obbligato a tutelare penalmente beni
che hanno un’importanza anche maggiore (per es. La vita, per cui il legislatore penale dovrebbe
intervenire contro OGNI minaccia che riguardasse la vita, quindi l’aborto, e per cui vi sarebbe un
obbligo costituzionale di punirlo in quanto fatto lesivo della vita umana). E così per esempio in
Germania, dopo la caduta del muro di Berlino e la riunificazione di Germania est ed ovest, la
questione sull’aborto arrivò alla Corte costituzionale tedesca perché mentre l’ordinamento penale
della repubblica federale tedesca (Ovest) era restrittivo, quello della repubblica democratica
tedesca (est) sotto l’influsso dell’allora Unione Sovietica era estremamente più liberare. E allora
nella riunificazione, mentre per altre materie si trovò un regime che poteva andare bene, per
questa materia rimase per un certo periodo un doppio regime regolatorio per l’Est e l’Ovest. Alla
fine, tra un ricorso alla Corte costituzionale e un intervento del legislatore si arrivò ad una
situazione di compromesso, cioè la possibilità di interrompere la gravidanza solo attraverso
indicazione di alcune motivazioni.

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In Italia, si pose lo stesso problema e quando nel 1978 fu modificata la legislazione in materia di
IVG si è sostenuto che la ragione per la quale si consentiva la deduzione della gravidanza era quella
di evitare la piaga degli aborti clandestini che provocano la morte del feto e rischi gravissimi per la
salute della donna.

Il vero fatto però, è che al di là di questa particolare questione, la risposta penale (il fatto di
prevedere un reato) è il risultato di un delicato e complesso bilanciamento di interessi, perché nella
misura in cui si punisce una certa condotta da una parte si tutela un certo bene e dall’altra se ne
sacrificano irrimediabilmente altri. Basti pensare al caso ILVA di Taranto, per cui ci sono in gioco da
un lato la tutela della vita e della salute e dall’altro quello della tutela dell’economia di un’intera
porzione del territorio, per tutti i lavoratori dell’acciaieria.

La decisione di tutelare un certo bene, per quanta importanza possa avere nella Costituzione, è
sempre il frutto di una valutazione che il legislatore penale deve fare e rispetto a queste valutazioni
non può essere obbligato a tutelare. Quindi, l’idea che ci sia una gerarchia non può condurre al
risultato che il legislatore sia obbligato ad intervenire penalmente.

In conclusione, si può dire che:

- in negativo, è sicuro che il legislatore non può punire comportamenti la cui repressione sia
incompatibile con la Costituzione (per es. Tutelare l’interesse di un gruppo etnico- sociale a scapito
di altri), quindi, non si possono tutelare interessi incompatibili con la Costituzione;

- in positivo, la Costituzione non può essere pensata come una sorta di scaletta rigida e
predeterminata che elenchi con precisione tutto ciò che il legislatore penale deve fare e in che
misura, ma deve essere pensata come un riferimento importante di cui il legislatore deve tenere
conto nella valutazione dei beni, della loro importanza e dei loro rapporti. Quindi è un riferimento
non assolutamente vincolante, ma un forte testo orientativo per l’intera attività del legislatore.

A questa conclusione erano arrivati i redattori del progetto di riforma del Codice penale del 1992, i
quali a proposito del bene giuridico dicevano:

“Opportuna è stata l’introduzione in materia di interpretazione della legge penale del canone
ermeneutico indicato nell’art.41 ispirantesi al principio di offensività. A prescindere dal dibattuto
problema se questo principio di offensività abbia o meno un fondamento costituzionale, ma pur
sempre nella convinzione che costituisca il baricentro di ogni diritto penale non totalitario,
poliziesco, non liberticida, esso è stato assunto come principio regolatore informatore del nuovo
codice, sicché da un lato esso costituisce per il legislatore una fondamentale direttrice a favore della
formulazione della fattispecie in termini di concreta offensività del bene giuridico (salve le deroghe
al principio di concreta offensività necessarie per la prevenzione delle lesioni a beni primari siano
essi individuali, collettivi o istituzionali) dall’altro rappresenta per l’interprete il criterio per
l’interpretare le fattispecie costruite nei termini suddetti.”

Dunque, il legislatore costituisce le fattispecie attorno alle offese ad un bene giuridico e a sua volta
l’interprete nell’interpretare e nell’applicare le norme penali deve tenere conto del bene giuridico
come canone per valutare se il fatto risponda realmente allo schema della legge o meno.

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L’offesa deve essere posta in termini concreti o astratti? È indispensabile una concreta offesa del
giuridico oppure un fatto può essere astrattamente offensivo? Il reato dovrebbe essere una
concreta offesa a beni giuridici, tuttavia si può anche pensare ad un carattere di offensività in
termini più astratti quando siano in gioco beni primari personali, collettivi, istituzionali.

Molto interessante è la questione se non esistano obblighi costituzionali di tutela penale derivanti
non direttamente dalla Costituzione, ma dal diritto internazionale. All’art. 117 della Costituzione,
infatti, si dice che “ La potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della
Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi
internazionali”.

Prendiamo, per esempio, un caso interessante. Il Presidente della Repubblica firmò una legge la
quale diminuiva la tutela penale rispetto a fatti consistenti nella produzione di armi a grappolo.
L’Italia aveva sottoscritto una convenzione internazionale per il divieto di produzione di queste
armi, cosicché il Presidente della Repubblica disse che privare di tutela penale la materia (non
punire chi produce armi a grappolo) viola gli obblighi che l’Italia ha assunto aderendo al trattato in
questione. Il presidente rinviò la legge con messaggio motivato alle Camere, nel quale diceva che, ai
sensi dell’art. 117, è costituzionalmente illegittima una norma penale che non punisca
adeguatamente la produzione di armi a grappolo perché questa norma viola la Costituzione,
attraverso l’art. 117. L’art. 117 è una norma parametro della Costituzione, la quale stabilisce come
si devono fare le leggi e fa, tra l’altro, riferimento ai trattati internazionali. Le norme di diritto
internazionale che l’Italia ha sottoscritto sono norme interposte nel giudizio sulla legittimità
costituzionale. Quindi il legislatore è sì libero, però esistono degli importanti obblighi di tutela
penale derivanti dal diritto internazionale, menzionato espressamente nell’art. 117 Cost.

Il giurista tedesco Hassemer osservava che la teoria del bene giuridico ha una funzione dogmatica e
una critica. Critica nel senso che indica cosa il legislatore deve fare e come l’interprete deve
applicare le leggi. Dogmatica nel senso che ricostruisce le leggi esistenti. Più ci sia attiene
letteralmente alle leggi esistenti e meno si evidenzia la capacità della teoria del bene giuridico di
criticare la legge per come è, e viceversa più la si critica e più ci si allontana dal testo della legge così
com’è. Applicando questa premessa, bisogna prendere atto del fatto che, al di là di ogni possibile
teorizzazione, esistono negli ordinamenti penali delle norme che o non tutelano o è problematico
asserire che tutelino dei beni giuridici (e che quindi rispettino il principio di offensività). Queste
norme non pienamente rispettose del principio di offensività sono:

- I reati senza vittima, cioè quelli che non offendono nessuno in particolare, come ad es. i reati in
materia di traffico di stupefacenti o pornografia:

- stupefacenti→ perché bisogna incriminare le condotte relative agli stupefacenti? Uno stato
democratico, in teoria, non può costringere gli individui a tutelarsi. Però, a ben vedere, ci si
accorge che per prima cosa non è punito chi assume sostanze stupefacenti. Ciò che è punito è lo
spaccio (tutte quelle condotte di commercio e produzione di stupefacenti) e per queste condotte
si può osservare che è opportuno punirle in quanto sono un fattore criminogeno elevatissimo,
poiché il soggetto che assume sostanze stupefacenti si mette in una condizione in cui è possibile
che compia fatti che sono dannosi per la società e la prassi suggerisce che questi stessi soggetti,

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pressati dalla necessità di procurarsi il denaro per acquistare gli stupefacenti, possono
commettere altri reati (es. Furti). Quindi il commercio degli stupefacenti, globalmente
considerato, è un fattore criminogeno importantissimo, tanto da far prevedere negli
ordinamenti penali delle sanzioni;

- pornografia→ bisogna distinguere tra minori e adulti. Per il minore si può ritenere che ci sia un
interesse giustificato al normale sviluppo e che quindi mettere a disposizione materiale
pornografico a minori possa essere un fatto lesivo e dunque offensivo rispetto a questo normale
sviluppo psicologico. Per quanto riguarda gli adulti è invece una scelta personale e per questo la
legge penale non si preoccupa di tutelare queste situazioni, sino a che questi fatti non siano anche
dannosi per la società.
Il nostro Codice penale tutt’ora punisce la pubblicazione di scritti e spettacoli osceni ma a partire
dagli anni ‘80 la Cassazione ha cominciato a fare dei distinguo: può essere vietata la vendita a
minori, non è reato la vendita a soggetti adulti che liberamente decidano di consumare questo
tipo di materiale. La preoccupazione che si insinua sottilmente ritorna e rimane relativamente ai
reati di pedopornografia, cioè l’utilizzazione di minori per la produzione di materiale pornografico,
ex art. 600-quater.1 c.p., nella rubrica pornografia virtuale. Per cui anche quand’anche non siano
utilizzati minori nella realizzazione di tali materiali, ma siano immagini realizzate virtualmente, vi è
comunque una fattispecie di reato, ma stavolta non per tutelare il minore ma si punisce (così come
all’art. 600-quater in cui si punisce la detenzione di materiale pedopornografico) il fatto che
potrebbe essere considerato pericoloso rispetto al compimento di atti nei confronti di minori che
costituiscano violenza sessuale, cioè un soggetto spinto dall’immagine virtuale potrebbe essere
indotto a compiere atti sessuali con minori, i quali a loro volta costituirebbero reati di violenza
sessuale.
- I reati c.d. di scopo (o ostacolo), cioè reati che puniscono fatti che in sé stessi non sono
direttamente offensivi ma che vengono puniti allo scopo che vengano compiuti altri reati, e quindi
per mettere un ostacolo alla realizzazione di altri reati. Un esempio sono i reati in materia di armi
(detenzione illegittima, porto abusivo ecc.). Infatti, il puro fatto di detenere delle armi, seppure non
denunciate, non è offensivo. Tuttavia, il legislatore pensa che una diffusione incontrollata si crei un
rischio della commissione di altri reati. Questo corrisponde ad una scelta, perché la misura di questa
tutela possono variare e dipendono dalle singole impostazioni culturali, perché com’è risaputo ci
sono paesi che in materia hanno posizioni ben più liberali (Stati Uniti) e paesi dove ci sono più
vincoli posti dalla legge. Si può ritenere che in quanto questi reati siano reputati davvero necessari
per evitare gravi fatti lesivi di beni giuridici essenziali è legittimo punire tale fattispecie e che quindi
il fatto mantenga una sua offensività in termini di pericolo.

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Quando i beni in questione diventano meno importanti, la risposta è più problematica, perché una
cosa del tutto simile esiste nel nostro ordinamento per la detenzione di chiavi adulterate e
grimaldelli. Il pericolo in questo caso non è per la vita o per l’integrità fisica ma piuttosto per reati
contro il patrimonio, e quindi c’è un reato di scopo. Qui sta al legislatore decidere se sia necessario
intervenire con legge penale o meno. Non sono dichiarate costituzionalmente illegittime ma il
problema si può porre;

- I reati di pericolo astratto (anche detti di pericolo presunto o di sospetto), per cui la Corte
Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 708 c.p., che era il più tipico dei
reati di sospetto, per cui essendo stati condannati per reati contro il patrimonio essere colti in
possesso di valori non confacenti al proprio stato e di cui non si riesca a dare dimostrazione sul
modo in cui se ne è entrati in possesso è punito con l’arresto da tre mesi a un anno. Qui non si
tratta di pensare che il soggetto possa in futuro commettere dei reati, si tratta piuttosto di
sospettare che ne abbia commessi e che quindi se ne sia appropriato in modo illecito. Questo modo
di punire opera in violazione di qualsiasi regola di procedura penale, per le quali un soggetto può
essere condannato soltanto se si riesce a provare che abbia commesso un fatto di reato, non si può
punire per il semplice sospetto che qualcuno abbia commesso un reato.

In conclusione, esistono materie in cui si è ai confini dell’offensività. Qualche volta interviene la


Corte costituzionale, altre volte la giurisprudenza ordinaria interpreta le norme in senso restrittivo e
comunque rimane una questione aperta.

Tutta la teoria fin ora sviluppata sul bene giuridico, viene di fatto utilizzata per dichiarare
l’illegittimità di fatti di reati che non rispettino il principio di offensività? La Corte costituzionale ha,
in effetti, più volte e in vario modo fatto riferimento al bene giuridico per dichiarare l’illegittimità
costituzionale di norme penali incriminatrici, sempre però dichiarandosi incompetente nel giudizio
sull’adozione della politica criminale del legislatore. Questo avviene in alcuni casi quali:

- disuguaglianza di trattamento, il parametro costituzionale è chiaramente l’art.3 (principio di


uguaglianza), per cui sono giustificate delle differenze quando la legge di applichi a situazioni
differenti e anzi sono dovute delle differenze, perché il principio di ragionevolezza impone di
trattare in modo uguale situazioni uguali e in modo diverso situazioni dissimili. Nel giudizio di
ragionevolezza per stabilire se la differenziazione nel trattamento sia fondata o meno la Corte deve
riferirsi alla realtà tutelata e a individuarla. Un esempio tipico è stata la dichiarazione di illegittimità
costituzionale delle disposizioni che punivano l’adulterio nel 1968. La Corte non contesta il fatto
stesso di punire l’adulterio (l’individuazione di tali fattispecie spetta infatti al legislatore) ma
afferma che non si può punire diversamente (come la legge faceva) il comportamento del marito e
quello della moglie. Infatti, la moglie era punita per il fatto di adulterio (quindi anche per il singolo
episodio) mentre il marito era punito per relazione adulterina (quindi in costanza di rapporto).
Questa disparità di trattamento è illegittima perché non è giustificato il trattamento diverso, poiché
rispetto al bene tutelato (l’unità del vincolo familiare) la posizione del marito e della moglie non
possono essere considerate diverse come nel 1930 quando le disposizioni sull’adulterio furono
redatte (società patriarcale).

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16/10/2018
La Corte costituzionale regolarmente utilizza dei parametri dell’ordinamento giuridico per le sue
decisioni, che possono portare anche alla dichiarazione di ILLEGGITTIMITA’ COSTITUZIONALE di
una norma. Nel fare questo la Corte costituzionale ha seguito diversi percorsi. Il più frequente è
quello che fa riferimento all’ART.3 della COSTITUZIONE : il PRINCIPIO DI UGUAGLIANZA. Abbiamo
detto ieri però che questa uguaglianza è in realtà RAGIONEVOLEZZA, e per valutare la
ragionevolezza bisogna vedere qual è l’oggetto della tutela, che cosa cioè la norma protegge, il
BENE GIURIDICO PROTETTO, e stabilire come sia, quale sia, che contorni e fisionomia abbia. Ieri
facevamo l’esempio della famiglia, l’unità familiare rispetto all’adulterio, e bisogna stabilire cosa
s’intende per unità familiare, qual è il ruolo di marito, di moglie eccetera.

Quindi la Corte costituzionale apprezza, valuta, giudica, come volete voi, il bene giuridico nella sua
fisionomia e consistenza.

SECONDO MODO DI PROCEDERE: certe volte la Corte costituzionale ha riformulato la


FATTISPECIE INCRIMINATRICE facendole dire qualche cosa che originariamente la norma non
diceva ART. 503 e individuando quindi un oggetto di tutela di bene giuridico completamente
differente rispetto a quello che la stessa norma prevedeva. Non volendo procedere ad una
SENTENZA DI ACCOGLIMENTO, voi sapete che la Corte Costituzionale si serve di una gamma di
sentenze: di RIGETTO, ACCOGLIMENTO , di ACCOGLIMENTO PARZIALE , e così via. Non volendo
spazzare via alcune di queste disposizioni dal Codice penale la Corte costituzionale si è servita di
servita di SENTENZE ADDITIVE o in questo caso è opportuno dire MANIPOLATIVE, cioè ha
manipolato, trasformato la disposizione, per rendere compatibile l’oggetto della natura penale con
la Costituzione. Un esempio perfetto è quello dello SCIOPERO PER FINI NON CONTRATTUALI che
già di per sé si capisce che è assai problematico rispetto al quadro costituzionale dei lavori perché
nel 1930 lo sciopero era sempre un reato, in quanto si riteneva che le controversie lavorative
andassero risolte attraverso il sistema corporativo, la camera delle corporazioni e non attraverso lo
sciopero. Non era consentito lo sciopero. Invece la costituzione sancisce e riconosce il diritto di
sciopero dei lavoratori e quindi una norma penale che incrimina un fatto “lo sciopero” che la
costituzione invece considera un diritto, evidentemente urta ,è in conflitto con la costituzione
stessa. E allora, che ha fatto la Corte Costituzionale? Nel codice c’è scritto che: “il datore di lavoro
o il lavoratore che, per fine politico, commettono alcuni dei reati disposti all’articolo precedente
cioè sciopero , sono puniti con la reclusione fino ad 1 anno eccetera”. E la Corte ha manipolato
questa norma che puniva lo sciopero per fini politici scrivendo : “l’articolo è illegittimo nella parte in
cui punisce anche lo sciopero politico che non sia diretto a sovvertire l’ordinamento costituzionale
ovvero a impedire o ostacolare il libero esercizio dei poteri legittimi nei quali si esprime la sovranità
popolare”.

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Dunque, fermiamoci sulla prima parte che è sicuramente più semplice: “illegittimo nella parte in cui
punisce anche lo sciopero politico” SIGNIFICA CHE : è REATO SOLTANTO QUELLO SCIOPERO CHE
SIA DIRETTO A SOVVERTIRE L’ORDINAMENTO COSTITUZIONALE . Quindi : non è più punito lo
sciopero, che è un modo per i lavoratori di entrare in conflitto con il datore di lavoro per risolvere
le controversie lavorative . Ad essere punito è invece il sovvertimento dell’ordine costituzionale,
una manifestazione che sia svolta con modalità tali, per esempio violenta, o vota a piegare le
autorità politiche, da sovvertire l’ordinamento costituzionale. Quindi l’oggetto della tutela, il bene
giuridico protetto, diventa non più l’assetto dei rapporti di lavoro, come prevedeva l’originaria
impostazione del codice, bensì l’integrità dell’ordinamento costituzionale. Quindi completamente
manipolato il bene giuridico protetto , e quindi in sostanza cancellata quella parte della norma che
puniva lo sciopero politico in quanto tale, il bene giuridico non è più riconosciuto dalla Corte , e
trasformata in un’altra figura di reato che tutela non più i rapporti di lavoro ma l’ordinamento
costituzionale, ovvero in qualche altro caso per esempio quello che riguarda il vilipendio della
religione cattolica, nel 1930 c’era la religione di Stato , secondo i PATTI LATERANENSI del 1929. La
religione cattolica non è più religione di Stato a partire dagli anni ’80, nell’84 infatti sono stati rivisti
i patti lateranensi. Quindi la religione cattolica non essendo più religione dello Stato non poteva
essere più considerata bene giuridico protetto dello Stato, allora la Corte costituzionale ha detto:
“va bene non si protegge più la religione come valore ma il sentimento di quella gran parte della
popolazione di fede cattolica che è offeso quando qualcuno compie fatti di offesa. Quindi non
proteggiamo più la religione come assetto istituzionale , come struttura , organizzazione, ma il
sentimento delle persone. Quindi anche qui, è stato rimodellato, cambiato sicuramente il bene
giuridico in questione.

TERZO TIPO DI INTERVENTO : in qualche raro caso la Corte ha supposto che ci sia una GERARCHIA
DEI VALORI COSTITUZIONALI . Abbiamo detto che è difficile pensare a una scala di valori , tuttavia
la Corte afferma che si può distinguere tra VALORI SUPREMI e SECONDARI. Come sapete è stata
riformata la LEGGITTIMA DIFESA NEL 2006 per la quale si possono usare le armi per difendere i
beni. Ma quali beni ? Anche i beni personali sicuramente: se qualcuno attenta alla mia vita , alla
mia integrità fisica, alla mia libertà, è lecito che io mi difenda. Ma può valere lo stesso per i BENI
PATRIMONIALI? Se qualcuno vuole rubare, posso sparargli per tutelare la proprietà? La risposta è :
NO. Ci sono molte ragioni di ordine europeo per cui non è consentita la legittima difesa se non per
respingere una violenza alla stessa, dunque è necessario l’impatto fisico. Ma anche l’ordine
costituzionale non si può per comune e pacifica opinione per difendere la proprietà, ossia un bene
patrimoniale, sacrificare la vita di un altro. C’è DIFFERENZA TRA LA VITA E LA PROPRIETA’. La vita è
al di sopra della proprietà , per cui è sproporzionare che per difendere un bene patrimoniale sia
sacrificata la vita, venga ucciso un uomo.

Altro esempio clamoroso è l’ ART 186 del CODICE PENALE MILITARE DI PACE il quale puniva la
INSUBORDINAZIONE . Questo articolo puniva con la stessa pena fatti tra loro molto diversi e cioè:
omicidio, volontario o preterintenzionale, lesioni gravissime, omicidio tentato perfino, quindi
diverso dall’omicidio consumato, insomma con questo articolo fatti diversi fra loro sono puniti con
la stessa pena.

52
Perché ? La corte sostiene che questo articolo non voleva tutelare il bene giuridico della vita,
dell’integrità fisica ma piuttosto il bene giuridico della disciplina militare. E quindi la pena era
stabilita in funzione dell’offesa alla disciplina militare senza curarsi se nel tutelare la disciplina fosse
stata da chi compiva il gesto di insubordinazione, offesa la vita, l’integrità fisica. Allora la Corte ha
detto: facendo così il legislatore ha messo al di sopra la disciplina militare, assegnando un ruolo
secondario alla vita e ha stravolto l’ordine costituzionale dei valori per il quale la vita sta al di sopra
della disciplina militare. Quindi la corte ha dichiarato illegittima la norma in questione. Il legislatore
si è affrettato a correggerla nel senso che, fermo restando il grado di insubordinazione , ha
graduato le pene in base sì alla disciplina militare ma soprattutto in funzione della tutela della vita.

Infine, ULTIMO TIPO DI INTERVENTO: questo è rarissimo e assolutamente eccezionale. La Corte


dice : non esiste più alcun bene giuridico che sia tutelato o tutelabile da una norma di questo
genere, cioè il bene giuridico non c’è , la norma non tutela niente e quindi io Corte la dichiaro
illegittima. Questo è stato il caso dell’ART 553 quello che puniva l’incitamento a pratiche contro la
procreazione. Chiunque pubblicamente incita a pratiche contro la procreazione o fa propaganda di
esse viene punito con la reclusione fino ad 1 anno. Ebbene dice la Corte : il bene giuridico protetto
non esiste più. C’era nel 1930 un interesse pubblico dello Stato ad un incremento della popolazione
per via delle politiche del tempo : agricole , eccetera eccetera , miravano ad un incremento della
popolazione. Ma oggi la Corte l’ha dichiarato illegittimo nel 1971 , poiché un simile interesse
all’interesse demografico non esiste più, e quindi la norma è da considerarsi costituzionalmente
illegittima perché punisce senza nessuna offesa al bene giuridico. Questo un caso limite in cui il
bene giuridico sparisce. Non è più considerato esistente.

Oltre all’intervento della Corte costituzionale il bene giuridico ha un ruolo dichiarato nel Codice
penale riconosciutagli da parte del legislatore del 1930. Ricordiamo che I compilatori del codice
sono di ispirazione liberale. La teoria del BENE GIURIDICO ha sostanzialmente un’ispirazione liberale
perché serve a mettere una cornice e quindi un limite alla potestà legislativa penale la quale può
essere esercitata in tanto e in quanto il reato sia offesa ad un bene giuridico : se non c’è offesa ad
un bene giuridico il legislatore non può punire i comportamenti relativi. Quindi questi giuristi che
avevano una formazione liberale, hanno fatto un’ espresso riferimento alla tutela del bene giuridico
nel Codice penale, in 2 ARTICOLI che sono fondamentali che dovete assolutamente conoscere:

-ARTICOLO 40 che riguarda: IL RAPPORTO DI CASUALITA’ : la condotta dell’evento.


“L’evento deve essere la conseguenza della condotta del soggetto”;
- ARTICOLO 43 che riguarda: l’ ELEMENTO SOGGETTIVO DEL REATO (DOLO, COLPA).
In entrambi si fa riferimento all’offesa al bene giuridico considerandola nelle forme in cui l’offesa si
presenta, che può essere costituita da : PERICOLO o DANNO per il bene giuridico . E l’art 40 stabilisce
che “Nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come reato, se l'evento
dannoso o pericoloso, da cui dipende l'esistenza del reato, non è conseguenza della sua azione od
omissione”; cioè l’esistenza del reato dipende dal fatto che si sia verificato e sia stato addirittura
provocato, causato un certo evento che questo art 40 qualifica come dannoso o pericoloso quindi
offensivo per il bene giuridico . La stessa cosa viene detta anche se in un contesto diverso all’articolo
43 :

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“Il delitto: è doloso, o secondo l'intenzione, quando l'evento dannoso o pericoloso, che è il risultato
dell'azione od omissione e da cui la legge fa dipendere l'esistenza del delitto, è dall'agente
preveduto e voluto come conseguenza della propria azione od omissione.
Quindi per il dolo, ha come oggetto questo evento da cui la legge fa dipendere l’esistenza del reato,
deve essere dannoso o pericoloso quindi offensivo per il bene giuridico. La sostanza del reato, lo
stiamo dicendo da più lezioni è l’offesa al bene giuridico, senza la quale non c’è tendenzialmente
l’esistenza del reato . Dico tendenzialmente perché abbiamo visto ieri quei casi che sono al limite ,
quelle situazioni : REATI SENZA VITTIME , REATI OSTACOLO dove non è facilissimo stabilire quale
esattamente sia l’offesa e rispetto a quale bene giuridico però come principio generale possiamo
dire che l’essenza generale del reato è l’offesa ad un bene giuridico. Ora, ci sono da aggiungere due
cose:

-che i fatti che non dimostrano un’offesa ad un bene giuridico tendenzialmente non possono
essere puniti: sono gli ILLECITI chiamati PAGATTELATI. Pagattella è una parola antica che significa
“cosa di poco conto, di poca importanza”. Quindi i fatti di poca importanza, anche se si sono ai
confini dell’ offensività è preferibile non punirli, non considerarli reati. In questa direzione univoca
si sono mosse due circolari della presidenza del coniglio dei ministri rivolte agli uffici legislativi su
come fare le leggi, e invitano gli uffici legislativi a non considerare reati quei fatti di poca
importanza e questo sia nella GIURISDIZIONE CON ILLECITO AMMINISTRATIVO, La circolare del
1983, sia nei rapporti tra delitti e contravvenzioni ; fatti di poca importanza sono contravvenzioni e
non delitti. Nel 2013 l’associazione Nazionale dei Magistrati ha suggerito al legislatore la
DEPENALIZZAZIONE DI TUTTE LE CONTRAVVENZIONI ritenendo che sia preferibile considerarle
ILLECITI AMMINISTRATIVI . Quindi nel 2013 l’Associazione Nazionale dei MAGISTRATI ha suggerito
al legislatore di trasformare tutte le contravvenzioni in ILLECITI AMMINISTRATIVI. Quello che per i
magistrati è rilevante : è l’AFFOLLAMENTO DEGLI UFFICI GIUDIZIARI perché dovendosi fermare a
fare processi per fatti di poca importanza, scarsamente offensivi si sovraccaricano gli uffici giudiziari
i quali non possono occuparsi di fatti importanti. Dunque, viene suggerita una DEFLAZIONE, uno
sgonfiamento insomma del sistema legale. Ora diciamo qualche cosa che sul testo attuale del
Pagliaro non c’è e che però voi trovate nel codice perché è la RIFORMA introdotta nel 2015: e cioè
L’ARTICOLO 131 BIS.

BIS vi fa capire che è un’aggiunta rispetto al testo originario del Codice penale. L’ART 131 BIS viene
collocato subito PRIMA degli ARTICOLI 132 e 133 che regolano il POTERE DISCREZIONALE DEL
GIUDICE perché il giudice nell’applicare la norma ,nel graduare, nella COMMISURAZIONE DELLA
PENA cioè STABILIRE TRA il MINIMO e il MASSIMO che la legge prevede (es. reclusione da 2 a 5
anni). Il giudice deve stabilirlo non a caso, a intuito, ma deve servirsi del suo POTERE
DISCREZIONALE . Il potere discrezionale non è un puro arbitrio ma è regolato dalla legge ma
secondo certi parametri indicati all’ ARTICOLO 133 e sono i CRITERI DI COMMISURAZIONE DELLA
PENA ricollegabili in 2 gruppi: uno riguarda LA GRAVITA’ DEL REATO , e l’atro che riguarda la
CAPACITA’ A DELINQUERE DEL COLPEVOLE .

Quindi diciamo molto grossolanamente, che il primo guarda più all’aspetto oggettivo del reato,
mentre l’altro più all’aspetto soggettivo, alla persona del colpevole, alla sua capacità a delinquere.

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Vi leggo alcuni parametri che riguardano la gravità del reato perché ci interessano anche ai fini
dell’articolo che stiamo prendendo in considerazione e cioè l’art 131 bis:

-LA GRAVITA’ DEL REATO, ARTICOLO 133: “IL GIUDICE DEVE TENERE CONTO DELLA GRAVITA’ DEL
REATO DESUNTA :

-1 DALLA NATURA, DALLA SPECIE, DAI MEZZI, DALL’OGGETTO,DAL TEMPO, DAL LUOGO E DA
OGNI ALTRA MODALITA’ DELL’AZIONE;

-2 DALLA GRAVITA’ DEL DANNO O DEL PERICOLO CAGIONATO ALLA PERSONA OFFESA DAL
REATO, DALL’INTENSITA’ DEL DOLO O DAL GRADO DELLA COLPA”. Quindi questi sono gli indici di
gravità del fatto. Cosa stabilisce invece l’ART 131 –BIS ?

L’ARTICOLO 131 –BIS , introdotto dal DECRETO LEGISLATIVO 28/2015 stabilisce che : “Nei reati per
i quali è prevista la pena detentiva non superiore nel massimo a cinque anni, ovvero la pena
pecuniaria, sola o congiunta alla predetta pena, la punibilità è esclusa quando, per le modalità
della condotta e per l'esiguità del danno o del pericolo, valutate ai sensi dell'articolo 133, primo
comma, l'offesa è di particolare tenuità e il comportamento risulta non abituale”.

Il legislatore non usa categorie dogmatiche cioè CAUSE DI GIUSTIFICAZIONE, CAUSE DI ESCLUSIONE
DELLA COLPEVOLEZZA, che sono invece proposte dalla DOTTRINA anche peraltro differentemente
perché ci sono diversi modi di qualificare queste situazioni. Il legislatore , la legge, usano invece
un’espressione neutra: NON PUNIBILITA’! che vuol dire che NON SI PUO’ APPLICARE LA PENA . Ci
si è interrogati a proposito dell’ART.131 BIS che cosa sia, se viene oggettivamente meno il reato, o
se il legislatore tiene in particolare considerazione la posizione del soggetto. Ma questa è una
discussione teorica, a noi interessa al momento che NON C’È IL REATO QUANDO : PER LE
MODALITA’ DELLA CONDOTTA, E CONGIUNTO, PER L’ESIGUITA’ DEL DANNO O PERICOLO,
VALUTATI AI SENSI DELL’ARTICOLO 133 PRIMO COMMA L’OFFESA E IN PARTICOLARE TENUITA’ E
IL COMPORTAMENTO RISULTA NON ABITUALE.

L’OFFESA a che cosa? Ovviamente al bene giuridico, che in questo caso non viene proprio
considerata nulla ma TENUE. E allora, quando per questi reati non gravissimi perché c’è una pena
massima di 5 anni o una pena pecuniaria, o entrambe , considerata l’azione e il danno pericolo,
l’offesa al bene giuridico è tenue, IL FATTO NON È PUNIBILE.

Al SECONDO COMMA dell’ART 131 BIS il legislatore si preoccupa di escludere per qualche caso che
si possa applicare la regola che abbiamo appena visto : “L'offesa non può essere ritenuta di
particolare tenuità, ai sensi del primo comma, quando l'autore ha agito per motivi abietti o futili,
o con crudeltà, anche in danno di animali, o ha adoperato sevizie o, ancora, ha profittato delle
condizioni di minorata difesa della vittima, anche in riferimento all'età della stessa ovvero
quando la condotta ha cagionato o da essa sono derivate, quali conseguenze non volute, la morte
o le lesioni gravissime di una persona”.

In questi casi NON SI PUO’ APPLICARE IL PRIMO COMMA!

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Adesso parleremo del PRINCIPIO DI FRAMMENTARIETA’ che non è presente nel testo del Pagliaro
ma di cui è importante fare cenno.

L’argomento è trattato nel Pagliaro seppure attraverso un altro punto di vista ,lì dove si parla di
TASSATIVITA’ DELLE NORME PENALI E DEL DIVIETO DI ANALOGIA . Studieremo perché le norme
penali non possono essere applicate a casi simili se ciò non è previsto .Inoltre devono essere
applicate dal giudice in modo tassativo, ossia esclusivamente per quello che dicono e non per quello
che non dicono. Il principio di frammentarietà si può considerare come la ragione politica criminale
di questi due limiti di cui vi ho appena parlato. Perché è vietata l’applicazione del principio di
analogia nelle norme penali? Perché il giudice deve applicare in modo tassativo? PER IL PRINCIPIO
DI FRAMMENTARIETA’ !Che è la ragione politica sottostante a questi due limiti. Che vuol dire
frammentarietà ? FRAMMENTARIETA’ VUOL DIRE CHE NEL DIRITTO PENALE NON OGNI
COMPORTAMENTO CHE POSSA SEMBRALE RIPROVEVOLE, CIOÈ RIMPROVERABILE, IMMORALE,
ANCHE SEMPLICEMENTE INGIUSTO, MERITA DI ESSERE PUNITO, PUO’ ESSERE PUNITO, MA
SOLTANTO QUELLI CHE LA LEGGE ACCURATAMENTE SELEZIONA, RITENENDOLI APPUNTO
INTOLLERABILI. NON TUTTI I COMPORTAMENTI FASTIDIOSI, SCOMODI, CHE DANNO DISTURBO,
IMMORALI MERITANO ANCHE DI ESSERE PUNITI MA SOLTANTO QUELLI CHE LA LEGGE PENALE
SCEGLIE.

Questo fatto si traduce nella circostanza che la legge penale distingue con accuratezza tra fatti che
spesso sono simili fra loro ma che hanno qualche maggiore differenza. Come fa questo? Inserendo
nelle fattispecie penali incriminatrici dei REQUISITI che li differenziano da altri fatti simili che sono
però diversi.

ESEMPIO: IL FURTO: un soggetto s’impossessa di una cosa mobile altrui al fine di trarne profitto
sottraendola a chi la detiene.

Se uno s’impossessa di una cosa mobile altrui non per trarne profitto ma per altro scopo come per
esempio restituire la cosa ad uno che l’ha smarrita. Si fa l’esempio di una madre che sottrae i soldi
al figlio tossico-dipendente per impedire che lui vada a comperarsi la droga con quei soldi. A questo
esatto scopo che non è evidentemente quello di trarre un profitto . In questi casi la legge penale, la
madre e colui che vuole restituire la cosa, non sono crimini, perché c’è una parte del fatto ma ad
uno scopo che per il legislatore è talmente diverso da quello che la legge penale richiede da
considerare il fatto non punibile.

ALTRO ESEMPIO, sul quale si è maggiormente riflettuto circa il principio di frammentarietà: LA


TRUFFA. Nella truffa chiunque mediante artifici o raggiri inducendo taluno in errore procura a sé o
ad altri un ingiusto profitto con altrui danno. Io posso andare dal tizio e dire: “questo è un orologio
di platino e vale un sacco”. Quello ci casca e me lo paga come se fosse di platino e invece è di
acciaio . La mia affermazione “è di platino “non può essere considerata artificio o raggiro. Ci vuole
molto di più perché siano integrati artifici o raggiri come per esempio un certificato di originalità
falso.

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Artifici e raggiri nel linguaggio del legislatore necessitano di un qualcosa di ulteriore rispetto alla
semplice menzogna. Se uno ci casca, perché è un credulone, la legge penale non intende
proteggere le persone superficiali, che non sanno badare a sé stesse. Mentre ovviamente, intende
proteggere, chi sia rimasto vittima di una macchinazione. Se il fatto è commesso attraverso le
modalità di artifici o raggiri allora è punibile a titolo di truffa. Se manca questo elemento, la sola
menzogna non è sufficiente ad integrare la truffa. Come vedete la legge penale traccia un confine e
distingue fatti molto simili perché tra la semplice menzogna e la macchinazione c’è una sottile
differenza, per il resto il fatto è uguale, ma questa differenza fa sì che il legislatore disponga che nel
caso di raggiri il fatto è punibile, nella menzogna no. Una linea di confine che indica la scelta di
scindere con attenzione e cura tra fatti vicini quelli che meritano la punizione e quelli che non la
meritano. Un simile modo di fare che non consenta al giudice per esempio, di estendere la
punibilità anche dove non ci sia, in fatti che appaiono simili, potrebbe sembrare ingiusto. Questo
modo di fare potrebbe suscitare l’impressione che è assai ingiusto punire in un caso sì e nell’altro
no. In realtà però noi ci accorgiamo benissimo della differenza che c’è tra quello che ruba il telefono
per trarne utilità e la madre che toglie i soldi al figlio affinché non comperi della droga. C’è grande
differenza. I giudici puniscono spesso con severità, estendendo le norme anche laddove forse
dovrebbero considerare la logica della frammentarietà . Vedremo per esempio l’ABUSO D’UFFICIO,
ART 323. Un’interpretazione non condivisibile considera integrato il reato ogni qual volta venga
compiuto un atto illegittimo da parte di un pubblico ufficiale. Invece non è sufficiente questo. La
legge richiede un ulteriore filtro: che il soggetto cioè abbia agito con un dolo intenzionale di danno
o vantaggio ingiusto. Ovvero, se il pubblico ufficiale ha compiuto un atto illegittimo per degli scopi
riguardanti, la pubblica amministrazione per esempio che non sono quelli di procurare a qualcuno
un vantaggio o un danno (per esempio pagare qualcuno che non doveva essere pagato, oppure
impedire a qualcuno di esercitare un proprio diritto) ma per altri scopi, che riguardano per esempio
il vantaggio di alcuni cittadini, non per avvantaggiare in particolare qualcuno o per svantaggiare in
particolare qualcun altro, dunque per una finalità diversa, non è punibile. Il delitto di abuso d’ufficio
presuppone che il pubblico ufficiale abbia agito appositamente allo scopo di procurare un vantaggio
un danno ingiusto a qualcuno. Se ha agito per altre finalità diverse, riguardanti l’utilità pubblica,
l’utilità generale, non è punibile. Anche qui abbiamo un esempio di frammentarietà, anche se il
giudice penale qualche volta, non è sufficientemente attento ad apprezzare e valutare la differenza
tra le cose. E può succedere che sia portato a far rientrare in unico calderone fatti che in realtà
avrebbero dovuto essere tenuti distinti proprio alla luce del principio di frammentarietà proprio
perché non perfettamente uguali tra di loro . Da questo fatto, deriva che ogni elemento della
fattispecie penale incriminatrice è importantissimo così come gli altri perché anche senza di esso il
fatto assume rilevanza completamente diversa. Quando parliamo di fattispecie penale intendiamo
dire quel modello astratto che la legge prevede, attraverso le parole contenute nella legge stessa.
Nell’esempio della truffa: chiunque mediante artifici o raggiri inducendo taluno in errore procura a
sé o ad altri un ingiusto profitto con altrui danno. Il fatto di reato sussiste soltanto quando sono
presenti tutti gli elementi di questi indici che la legge esprime. È sufficiente che ne manchi uno solo,
perché il fatto non appartenga più alla fattispecie incriminatrice e quindi non costituisca più reato.

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Non si può dire “c’assomiglia”, deve essere esattamente quello che la legge prevede, con tutti i
requisiti che la legge prevede. Tenete conto che ogni parola del testo di legge, corrisponde
sostanzialmente ad un requisito “artifici-inducendo-in errore” è l’artificio ad aver indotto all’errore,
“profitto-ingiusto-con altrui danno” il profitto deve essere ingiusto, non basta che vi sia un profitto,
se non ci sono questi elementi non c’è il reato di truffa.

Andiamo adesso al PRINCIPIO DI SUSSIDARIETA’, per il quale il Diritto Penale, lo ha pensato come
EXTREMA RATIO, cui il legislatore può ricorrere nelle sue scelte di politica criminale. Ovvero : SE
QUANDO E QUANTO È POSSIBILE RICORRERE AD ALTRI MEZZI O SISTEMI, QUINDI AD ALTRI TIPI DI
DISCIPLINE E SANZIONI (AL DIRITTO CIVILE, AL DIRITTO AMMINISTRATIVO, ALLE SANZIONI
DISCIPLINARI, E COSI’ VIA) SE SI RITIENE CHE SIA SUFFICIENTE RICORRERE AD ALTRI MEZZI È UN
DOVERE FARLO, E NON DOVERE DUNQUE RICORRERE AL DIRITTTO PENALE, ESCLUDENDO LA
CONFIGURAZIONE DI UN REATO, PER UN CERTO FATTO. LA LEGGE PENALE È ESTREMA E ULTIMA
RATIO! QUANDO NON SIA POSSIBILE FARNE A MENO.

Perché? Ci sono 2 diverse ragioni per questo principio. La prima attiene al fondamento del diritto
penale, l’altra ai costi delle sanzioni penali:

-per quanto riguarda IL FONDAMENTO DEL DIRITTO PENALE, abbiamo detto, illustrando il pensiero
degli Illuministi che oggi il moderno diritto penale, viene concepito non come l’obbligo di ripagare il
male con il male, che sarebbe un obbligo “assoluto” (“LA GIUSTIZIA VUOLE CHE CHIUNQUE
COMMETTE UN MALE SIA PUNITO”). Non viene più pensato così, ma come strumento di cui la
legge, e quindi la società si serve per evitare certi fatti incompatibile con una convivenza pacifica. È,
se volete, una prospettiva più pragmatica quella del diritto penale moderno. Naturalmente nel fare
queste scelte il legislatore deve essere guidato da un criterio di giustizia, cioè punire solo ciò che è
davvero grave, non punire o punire di meno ciò che è meno grave, ma il legislatore non può essere
mosso dall’intenzione di rimproverare tutto ciò che appare rimproverabile. E questo l’abbiamo
detto anche quando abbiamo parlato della distinzione tra DIRITTO E MORALE . Solo quello che
rende impossibile la convivenza pacifica giustifica una pena, una punizione.

Quindi, il fondamento del diritto penale, ci dice che va punito soltanto ciò che rende impossibile la
convivenza pacifica. E in questo senso quindi il diritto penale è extrema ratio, ossia quando diventa
necessario e non se ne può fare a meno;

-il secondo motivo sono I COSTI DELLA SANZIONE PENALE :

In primo luogo, i COSTI UMANI e cioè la sanzione penale per definizione è afflittiva e quindi procura
una sofferenza a chi la subisce in doppio senso, perché da una parte c ‘è una limitazione della
libertà e cioè la legge impedisce di fare certe cose, e per altro verso la legge limita la libertà
consistente nella sanzione, che può essere detentiva o pecuniaria ma comunque afflittiva. Quando
un fatto è configurato dalla legge come reato, è possibile per il pubblico ministero che avvia le
indagini per un procedimento penale, se ci sono determinati presupposti disporre la custodia
cautelare in carcere, che non è una sanzione, non è una condanna, non è una pena quindi non ha
carattere afflittiva,

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ma serve soltanto durante lo svolgimento di un processo per evitare che vengano alterate, distrutte
le prove; per evitare la fuga nei confronti del quale procedono le indagini, l’indagato, o per evitare
la reiterazione del reato. Quindi, per queste ragioni pratiche.

CUSTODIA CAUTELARE = significa che l’indagato sta in carcere. Ci sono poi dei provvedimenti
cautelari patrimoniali, per esempio il sequestro di cose che servirono per commettere il reato, un
sequestro di beni, di immobili, di aziende. Ora pensate voi se tutto questo viene afflitto a una
persona di cui poi si accerta non essere il colpevole, che è innocente, che non ha commesso il reato
e viene quindi assolto, e che magari ha trascorso due anni in carcere a titolo di custodia cautelare o
nei confronti del quale è stata sequestrata l’azienda che nel frattempo, lungo questi anni è andata a
rotoli. Tutto questo è evidentemente un costo umano, una sofferenza giustificata ma soltanto
quando è estremamente indispensabile, e rappresenta l’extrema ratio cui ricorrere;

° Altro COSTO UMANO, diretto nei confronti del diretto indagato o condannato. Ma ci sono anche
costi su persone vicine al condannato che non sono in nessun modo responsabili del reato e che
però subiscono ugualmente una sofferenza per effetto della sanzione penale inflitta all’autore del
reato. Per esempio: i parenti del reo. La moglie e i figli i quali subiscono gli effetti della condanna
del padre, figlio, eccetera. La legge prevede tra l’altro che se è condannata una donna che ha figli,
questi seppur con condizioni particolari, devono stare in carcere con la madre .Sicuramente avrete
sentito di quella donna tedesca che ha ucciso due dei suoi bambini che stavano in carcere, un gesto
sconsiderato, di cui però lei ha detto: “così almeno adesso sono liberi”. La pena inflitta ad uno si
ripercuote su altri vicini che non c’entrano nulla ma verso i quali essa si ripercuote. Si potrebbe dire
lo stesso se fallisca un’impresa: datore di lavoro condannato, l’impresa nel frattempo va a rotoli e
tutti i dipendenti pur non avendo fatto nulla, in via del tutto indiretta, subiscono la pena inferta
all’imprenditore. Se ci fate caso c’è un’assoluta e inaccettabile esagerazione da parte di alcuni dei
nostri politici nel pretendere di non essere condannati, ma c’è anche qualcosa di vero. Nel senso
che: quando la condanna colpisce una persona che ha un ruolo sociale, es. politico, il carcere di
questa si riflette su molti altri. Quando nel 1992 l’intera casse politica fu azzerata per conseguenza
dei fatti di Tangentopoli e dei processi che si avviarono e che dimostrarono che c’era una spessa
rete di corruzione era necessario perseguire quei reati di corruzione, ma il vedere scomparire i
principali partiti come per esempio la democrazia cristiana, questo ha determinato un contraccolpo
tale che in termini giuridici da quel momento parte LA SECONDA REPUBBLICA, una svolta epocale. Il
fatto che milioni di cittadini abbiano votato questi soggetti, tuttavia, non significa che questi non
debbano rispondere alla legge penale. Nel configurare un fatto come reato, il legislatore deve
tenere conto che non è senza conseguenze infliggere una sentenza penale a coloro che saranno
condannati; e quindi, se è necessario farlo, per assicurare una convivenza pacifica sarà giusto farlo.
Ma se non è indispensabile, se si può ricorrere ad altri mezzi: DIRITTO AMMINISTRATIVO,DIRITTO
CIVILE, allora è giusto ed è doveroso, ricorrere a quegli altri mezzi;

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Ci sono ancora altri COSTI ECONOMICI questa volta in senso proprio, sulla società, sui singoli,
perché la detenzione ha un enorme costo: significa tenere in piedi la struttura penitenziaria,
carceraria, corrispondere le spese per il mantenimento in carcere del condannato, eccetera. Quindi
ci sono delle spese in termini puramente economici. E anche questo è un ulteriore costo;

Infine, ci sono dei COSTI del tutto diversi, DI ORDINE PROCESSUALE. Infliggere una condanna
penale e quindi una sanzione penale comporta svolgere un processo penale. E ogni volta che si deve
condannare qualcuno, bisogna fare quindi un processo. E quindi ci sono molti processi, quando
molti sono i reati. Se si moltiplicano senza ragione le figure di reato, questo comporterà
necessariamente un moltiplicarsi senza ragione del numero di processi, cosa che, abbiamo già
detto, ingolfa il sistema processuale, sottraendo energie al perseguimento dei reati più gravi che
meriterebbero davvero di essere perseguiti.

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17/10/2018
Principio di sussidiarietà -->principio per il quale il diritto penale deve essere considerato come
extrema ratio, l'ultimo dei mezzi sistemi a cui ricorrere per controllare e cercare di evitare certi fatti
che sono dannosi per la società. Se è possibile ricorrere al diritto civile o amministrativo è doveroso
farlo ed evitare le sanzioni del diritto penale.

Questa indicazione non viene soltanto dalla dottrina ma anche da quelle due circolari della
presidenza del consiglio dei ministri ossia quella del 1983--> che riguarda la scelta tra illecito
penale ed illecito amministrativo e un'altra del 1986 che riguarda la scelta tra DELITTI E
contravvenzioni; in entrambe si fa espresso riferimento al PRINCIPIO DI SUSSIDIARIETA' del diritto
penale come extrema ratio e si deve tenere in considerazione l 'importanza del bene in questione (
es. vita umana) e l'intensità dell'attacco se è danno oppure semplice pericolo, mettendo insieme
questi vari elementi si può concludere in un senso o nell'altro. Bisogna ancora tenere conto per
questa scelta di 2 cose :

1) La sanzione amministrativa non possiede quel carattere di AFFLITTIVITA' che è tipico della norma
penale , in conseguenza di quell'effetto di STIGMATIZZAZIONE--> cioè la sanzione penale lascia un
segno che la sanzione amministrativa assolutamente non lascia.

la sanzione amministrativa quando si tratta di reati di natura economica (cioè dai quali il soggetto
ricava un grande guadagno), la sanzione amministrativa che consiste nel pagamento di una somma
di denaro, la sanzione amministrativa può rivelarsi inefficace perché chi è intenzionato a compiere
un certo fatto dal quale pensa che ricaverà un enorme vantaggio economico, può perfino mettere
in conto il fatto che subirà poi una sanzione amministrativa pecuniaria che considererà come una
specie "di costo" per il fatto commesso, quindi la sanzione amministrativa può essere altrettante
inefficace come il diritto penale

al contrario prevedere un fatto di reato in certe situazioni può essere più inefficace che ricorrere a
sanzioni amministrative. ES. per il contrasto al fenomeno dell'immigrazione clandestina, l'Italia ha
previsto attraverso i c.d. PACCHETTI SICUREZZA, un reato di immigrazione clandestina--> questo
reato prevedeva una sanzione DETENTIVA, la corte di giustizia dell'Unione Europea ha fatto
osservare all'Italia, condannandola, che questa sanzione detentiva era in aperto contrasto con le
linee di politica dell'UE le quali prevedono nel caso di immigrazione clandestina il RIMPATRIO del
soggetto entrato clandestinamente in un paese europeo. Quindi se uno deve rimpatriare non lo può
mettere in carcere, sono due cose in contrasto l'uno e l'altra. Quindi, l'Italia ha dovuto cambiare la
sanzione ed attualmente è prevista un'ammenda da 5000 a 10000 euro per coloro che entrano
illegalmente nel territorio dello stato; ma evidentemente questo soggetto non potrà pagare
un'ammenda di questo tipo, quindi la sanzione minacciata è persino inflitta risulta del tutto
inefficace, cosicché in questa materia sarebbe meglio per controllare realmente il fenomeno
dell'immigrazione adottare , rafforzare le misure amministrative di controllo, piuttosto che
minacciare sanzioni penali che si può prevedere che saranno inefficaci.

61
"COSTI" DELLA SANZIONE PENALE--> Bisogna anche tenere conto della posizione dell'autore del
reato, non è giusto infliggere delle sofferenze che non siano necessarie, se sono necessarie va
bene, ma se si può efficacemente ricorrere ad altri mezzi è giusto farlo , per evitare quelle
sofferenze che chi viene condannato per un reato (Lui e chi ci sta attorno: familiari) devono subire.
Il principio di sussidiarietà deve tener conto del bilanciamento tra un' efficacia repressione del reato
e prevenzione del reato(attraverso norme penale e/o di altro genere) e l'esigenza di non infliggere
inutili e non necessarie sofferenze a chi subisce la condanna per un reato.

LA NORMA PENALE:

IL PRINCIPIO DI LEGALITA'--> inteso non in senso generico( ossia rispetto delle leggi poiché è ovvio
che nel diritto bisogna rispettare le leggi), ma in un senso più specifico e cioè come quel principio
per cui nel diritto penale la sola fonte delle norme giuridiche può essere solo la legge.

Aspetti riguardanti la norma penale: PROBLEMI DI VALIDITA' DELLA NORMA PENALE : validità della
norma penale nel tempo, validità nello spazio e validità rispetto le persone.

IL DIRITTO PENALE non sempre è stato contrassegnato da questa istanza di legalità, perché fino al
periodo dell'illuminismo, la Rivoluzione Francese, al tempo delle monarchie assolute in Europa, le
leggi erano (in parte anche volutamente) confuse , ripetute , poco chiare, lasciate all'arbitrio del
sovrano, in modo da poterle applicare quando apparisse utile , vantaggioso per istanze di esigenza
politica criminale, ma anche politica in senso lato; quindi non era un caso che le norme penali
fossero dettate in maniera confusa. L'illuminismo, la rivoluzione Francese , segnano un radicale
mutamento , questo mutamento parte dall'idea che il potere non sia detenuto originariamente dal
sovrano ma piuttosto dal popolo, l'idea per cui è il sovrano a detentore il potere è quella che
corrisponde alla teoria del Legittimismo--> il legittimismo è l'dea per cui il potere viene da DIO , e
DIO in terra lo conferisce al re il quale agisce per grazia DI DIO quindi in forza di questa potestà
ricevuta dall'alto, potestà assoluta , cioè tutti i poteri sono concentrati nelle sue mani, al contrario i
sudditi non hanno alcun potere. L'illuminismo, la Rivoluzione Francese , la nuova classe sociale che
va ad affermarsi (borghesia) ribalta le cose : al contrario ogni uomo per sua natura nasce libero e
quindi il potere di regolare i rapporti tra gli uomini spetta originariamente al popolo , la sovranità
quindi è dei cittadini e la sovranità si esprime attraverso quegli atti tipici con cui i cittadini
manifestano la loro volontà , ossia attraverso la LEGGE. La legge è una decisione, una scelta
collettiva con la quale gli uomini che detengono questo potere originario attribuito dalla natura,
questa condizione di libertà , scelgono di sottomettersi a queste regole per il vantaggio generale; a
queste regole, quindi, deve essere data attuazione e messe in pratica nelle situazioni particolari e
concrete e poi ci vuole qualcuno che decida nell'eventuale caso di controversia come applicare ai
casi particolari , individuali , le leggi che il popolo si è dato ed in questo modo vengono individuati i
poteri dello stato : LEGISLATIVO( spetta di dettare le regole generali che vincolano tutti i cittadini),
ESECUTIVO o di GOVERNO(spetta di dare concreta attuazione alle regole che il popolo si è dato) ,
GIUDIZIARIO( spetta il compito di risolvere le controversie o tra privati e della giurisdizione civile o
tra un singolo e la collettività ed è la giurisdizione penale o le controversie nate riguardo
l'applicazione della legge).

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La concentrazione di tutti i poteri nelle mani di un solo soggetto determina facilmente la possibilità
di abusi, perché questo unico soggetto che è il monarca che comanda da solo e detenendo tutti i
poteri non è controllato da nessuno perché tutti i poteri fanno capo a lui, cosicché può abusare dei
poteri a danno dei cittadini, assoluto vuol dire che nessuno lo può vincolare, dal momento in cui i
funzionari esercitano il potere per conto del re ed esercita il potere come vuole. Questo suo potere
veniva investito dal papa per segnalare che questo potere veniva da DIO( ancora nello statuto
Albertino all'art. 4 si stabiliva che la persona del re è sacra e inviolabile, il re sta in una condizione di
sacralità).

La nuova classe borghese non poteva sopportare questa situazione, questa condizione, inoltre i
nobili e il clero ne beneficiavano, erano loro affianco al re e quindi potevano ben convivere con un
regime dove il re avesse questo tipo di potere, ma la classe borghese che invece non avevano
nessun tipo di vantaggio di sicurezza, invece si lamenta e la rivoluzione francese è infatti, una
rivoluzione della classe borghese che vogliono tutelati i loro diritti e allora non può essere che il
potere sia concentrato nelle mani di uno solo che può gestirlo come gli pare , e allora richiedono la
separazione dei poteri e di attribuirli ad altri soggetti, ad organi differenti, i quali essendo detentori
non di tutto il potere , ma solo di una parte dei poteri si autolimitano a vicenda , perché solo il
parlamento che è l'organo che esprime la volontà di tutto il popolo può dettare le leggi, ma non può
eseguirle in concreto, poiché questo compito spetta al governo , il quale è sì vincolato dal
parlamento , ma ha un'autonomia nell'esecuzione delle stesse leggi e soltanto il giudice (potere
giudiziario) può poi risolvere le controversie e nel fare questo è soggetto soltanto alla legge e non
al potere del governo, ed a sua volta il giudice controlla che gli atti dei membri del parlamento e
del governo siano posti nel rispetto delle leggi; quindi, questa tripartizione e separazione dei poteri
che fu teorizzato per primo da MONTESQUE nel 1746 che pubblicò a Ginevra " lo spirito delle leggi"
che voleva assicurare che si contenessero il più possibile gli abusi attraverso la ripartizione e
separazione dei poteri che se tutto ciò lo applichiamo al diritto penale ne segue che per la garanzia
del cittadino che è un'istanza di certezza da una parte , ed esprime il fatto che quella suprema
limitazione della libertà personale che rappresenta lo stato di natura, non può che essere decisa dai
cittadini , la limitazione deve essere dettata dai cittadini che si AUTOLIMITANO attraverso la c.d.
VOLONTA' GENERALE che si forma ( nei sistemi parlamentari rappresentativi) nel parlamento; il
parlamento è l'organo che esprime la volontà di tutti i cittadini , quindi soltanto la volontà generale
, il parlamento, la legge , può dettare norme penale--> che sono quelle che più gravemente
incidono sulla libertà dei cittadini. Questo fu asserito per la prima volta in America dalla "petitions
of rights" del 1774 e poi nella dichiarazione universale dei diritti dell'uomo e del cittadino del 1789
nella forma " nessuno può essere punito se non in forza di una legge stabilita e promulgata prima
del fatto commesso" (la promulgazione esprime l'esigenza che sia conosciuta)e quindi da questa
regola viene sintetizzata nel brocardo latino ( che non è di origine latino, ma risale al periodo
dell'illuminismo)"NESSUNO PUO' ESSERE PUNITO SE NON PER UNA LEGGE CHE SIA ENTRATA IN
VIGORE PRIMA DEL FATTO PER IL QUALE è PUNITO -->solo in questo modo i cittadini possono avere
CERTEZZA DELLE LORO SORTI, di quello che gli succederà se si comportano in un modo piuttosto
che in un altro.

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Dunque, in questo modo si stabiliscono una serie di cose e cioè:

1) Che la legge deve esistere prima del reato da punire , perché altrimenti ognuno sarebbe esposto
alla eventualità che l'indomani del compimento di un fatto , quel fatto diventasse ( che non era
punibile quando è stato compiuto) in seguito punibile .

2) Occorre una certezza nelle leggi, deve essere promulgata, chiara , semplice, facilmente
percepibili da parte dei destinatari. Questo principio ci consente di distinguere tra il SEMPLICE
ILLECITO MORALE e l'ILLECITO PENALE. Ci possono essere tanti fatti che sono rimproverabili,
criticabili, inaccettabili--> ma se non sono previsti come reato da una legge , chi li ha commessi non
può essere punito. Il governo restava escluso dalla possibilità di dettare leggi penali, perché la legge
penale non può che essere espressione della volontà generale , cioè di tutti i cittadini riuniti e
l'organo in cui tutti i cittadini sono rappresentati è il parlamento e non il governo nominato dalla
maggioranza dei rappresentanti parlamentari ed infatti esprime la maggioranza parlamentare il
governo, mentre in parlamento esercitano il loro potere rappresentativo i rappresentanti di tutti i
cittadini, ciò vuol dire che le leggi sono adottate in un confronto tra MAGGIORANZA e OPPOSIZIONE
, in questo processo dialettico partecipano tutti i rappresentanti dei cittadini, quindi in qualche
modo partecipano tutti i cittadini . ( secondo il principio della maggioranza) . Quindi maggioranza e
opposizione possono prevedere norme penale nella sola forma della legge, non atti del governo ,
ma atti del parlamento.

Infine il principio di legalità significa anche che il giudice non ha nessuna possibilità di creare
regole, norme , di manipolare, alterare quelle scelte che il parlamento ha compiuto, quindi quelle
regole che i cittadini stessi si sono date e secondo il pensiero originario degli illuministi non
dovrebbe neppure interpretare la legge, deve essere soltanto la bocca della legge(questo è
impossibile, la legge va sempre interpretata poiché si richiede una comprensione sia della regola
astratta , sia del caso concreto, quindi l'interpretazione è ESSENZIALE PER L'APPLICAZIONE DI
QUALSIASI LEGGE).

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23/10/2019
Se qualcuno detiene tutti i poteri la cosa porterà ad abusi in quanto questo soggetto sarà assoluto,
privo di vincoli, nessuno lo potrà giudicare perché è in suo nome che viene esercitato il potere, di
cui potrebbe abusare a danno dei cittadini. L'idea, dopo l'assolutismo, era quindi di separare i poteri
-legislativo, esecutivo e giudiziario- in diversi organi, i quali si controllassero e limitassero
reciprocamente. Il fondamento del principio di legalità sta esattamente qui. Il governo quindi non
potrà interferire con il potere legislativo, il potere giudiziario non può creare leggi, ma deve solo
applicarle; il potere legislativo deve essere anch'esso sottoposto alle leggi: vi è un reciproco
controllo.

Osserviamo ora che questa separazione è uno schema teorico-razionale ma nella realtà dei fatti ci
sono poi notevoli differenze o variazioni da questo modello ideale. Alcune variazioni sono previste
espressamente, per esempio la potestà legislativa può essere esercitata a certe condizioni dal
governo, altre invece sono interferenze di fatto nella prassi dell'esercizio di questi poteri. Esempi:

- Il governo sconfina i limiti che gli sono assegnati. Infatti, la Costituzione, agli artt. 76 e 77, prevede
che la potestà possa in casi particolari essere esercitata dal governo. All'art. 76 si dice che L'esercizio
della funzione legislativa non può essere delegata al Governo se non con determinazione di principi
e criteri direttivi e soltanto per tempo limitato e per oggetti definiti --> Decreto Legislativo

E poi all'art. 77 si dice che Il Governo non può, senza delegazione delle Camere emanare decreti che
abbiano valore di legge ordinaria. Quando, in casi straordinari di necessità e di urgenza, il Governo
adotta, sotto la sua responsabilità, provvedimenti provvisori con forza di legge, deve il giorno stesso
presentarli per la conversione alle Camere che, anche se sciolte, sono appositamente convocate e si
riuniscono entro cinque giorni

Si parla di casi straordinari- invasioni, calamità, e così via-, non deve essere quindi una situazione
che si presenta da anni, e deve esserci la necessità e l'urgenza. Il governo ha ripetutamente abusato
di questo suo potere, emanando decreti quando non c'erano queste condizioni o, cosa ancora più
grave, reiterando decreti che non erano stati approvati in parlamento. Nel nostro caso un decreto è
stato reiterato 18 volte, finché non è intervenuta la Corte Costituzionale , sostenendo che ci fosse
stata un'usurpazione del potere legislativo. Potere che invece appartiene alle camere: è
un'intromissione illecita.

- Da parte della magistratura negli ultimi anni si sono viste delle prese di posizione aventi sapore di
lotta quasi politica e giudiziaria, la quale però non compete alla magistratura: il giudice deve
applicare le leggi con massimo rigore e puntualità e non è un organo che può prendere parte al
conflitto politico, legittimo in altre sedi. La magistratura deve infatti essere terza e imparziale, per
cui una presa di posizione da parte del giudice è uno sconfinamento nel campo legislativo ed
esecutivo. Inaccettabile è anche, sempre da parte della magistratura, casi in cui ci sono state
applicazioni esageratamente estensive delle leggi penali, fatte quasi con un intento di punire a tutti
i costi.

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Per esempio, dopo le riforme riguardanti la pubblica amministrazione e la riforma del delitto di
abuso di ufficio- art 323 c.p.- , i giudici, soprattutto le procure della repubblica, si servirono di
questa norma in modo improprio. Nella formulazione degli anni '90 si prestava infatti ad una
applicazione molto estesa, per cui veniva usato come ''grimaldello''. L'unico presupposto per
l'abuso di ufficio era l'aver abusato del proprio potere per avvantaggiare qualcuno, per cui era
facilissimo che il giudice decidesse che il pubblico ufficiale avesse abusato del potere e poi, aperte
le indagini, si potevano accertare molte altre figure di reato. Un modo del genere di usare le norme
penali da parte del giudice, cioè per ottenere un risultato utile, è un'applicazione della legge al di
fuori della sfera del corretto esercizio del potere giudiziario.

-Il Parlamento -in particolare con i governi del centrodestra passati, ovvero con Berlusconi- ha
sostenuto che il capo del governo fosse soggetto ad una sorta di persecuzione da parte della
magistratura, e ha ritenuto legittimo adottare misure di risposta con delle leggi fatte ad personam,
le quali avevano lo scopo di salvaguardare quella persona, che veniva accusata dalla magistratura,
da ritenute intromissioni nel potere legislativo. Ma ciò, fatto in quegli anni, viene ripetuto oggi
quando i nostri vicepremier sostengono di essere stati votati da milioni di persone e che quindi i
giudici non possono loro impedire di svolgere la loro funzione. Cosa che non è accettabile: se
qualcuno, chiunque esso sia, ha commesso un reato, ne deve rispondere di fronte alla legge penale.
Non ci sono limiti di responsabilità, se non quelli puntualmente iscritti nelle c.d. immunità penali,
espressamente previsti e regolati. Non esistono quindi per i membri del governo o del parlamento
privilegi, forme di irresponsabilità per il fatto che esercitino un potere elettivo.

A causa di questi conflitti e tensioni negli anni passati è stato fatto un ricorso frequentissimo alla
Corte costituzionale, che ha anche la funzione di giudice dei conflitti di attribuzione tra i poteri dello
Stato, oltra a giudicare della legittimità delle leggi. E si è verificato frequentemente che Parlamento
da una parte e giudici dall'altra lamentassero che l'uno a l'altro avesse sconfinato il loro potere,
invadendo quello dell'altro, con una frequenza decisamente non normale.

In questa situazione ci si è reciprocamente delegittimati: il potere politico ha preteso che la


magistratura fosse politicizzata, esercitasse illegittimamente i propri poteri, e quindi che perfino la
Corte costituzionale non fosse autorevole nell'esercizio delle sue funzioni. Viceversa, per quanto
riguarda la magistratura nei confronti del parlamento.

Questa reciproca delegittimazione, cui i capi dello Stato hanno invitato ad evitare più volte, è
certamente dannosa per il buon funzionamento delle istituzioni.

La fonte Costituzionale del principio di legalità è l'art. 25 comma 2 -> Nessuno può essere punito se
non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso.

Questa formulazione esprime in forma estremamente sintetica il principio di legalità, persino


troppo sintetica. Infatti, le parole in forza di una legge potrebbero significare, se si leggessero in
astratto, anche che un provvedimento diverso dalla legge e di grado inferiore potrebbe integrare in
qualche misura parte della legge.

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Si osserva invece che l'unica cosa che risulta assolutamente chiara è il principio di irretroattività:
non si può essere puniti in forza di una legge che sia entrata in vigore dopo il fatto commesso. Per
ciò che riguarda l'espressione in forza non bisogna prendere questi dubbi troppo sul serio, nel senso
che per un verso i lavori preparatori della Costituzione ci dicono chiaramente che i costituenti
volevano escludere il concorso del governo nell'attività legislativa, di questa integrazione fra atti
con forza di legge e fonti minori; per altro verso le stesse norme penali nel Codice penale
stabiliscono molto più chiaramente che deve essere proprio la legge a indicare interamente quale
sia il fatto vietato, agli articoli 1 e 199 cod. pen., e sono anch'essi fonte del principio di legalità.

Art. 1 ->Nessuno può essere punito per un fatto che non sia espressamente preveduto come reato
dalla legge, né con pene che non siano da essa stabilite

Quindi il fatto di reato deve essere preveduto in modo espresso dalla legge: non ci può essere
un'altra fonte che concorre a stabilire quale sia il fatto da considerare reato.

art.199-> Nessuno può essere sottoposto a misure di sicurezza che non siano espressamente
stabilite dalla legge e fuori dei casi dalla legge stessa preveduti

Quindi occorre una espressa previsione della legge. Inoltre, Pagliaro fa osservare che queste
disposizioni fanno parte della c.d. costituzione materiale: leggi materialmente costituzionali ma non
formalmente tali. Si tratta di leggi antecedenti alla Costituzione, che in seguito all'adattamento dei
codici effettuati per adeguarli alla costituzione non sono state abrogate: se si sarebbe voluto
apportare qualche modifica lo si sarebbe potuto fare entro un anno dall'entrata in vigore della
costituzione: non essendo stato fatto art. 25 Costituzione e artt. 1 e 199 Codice penale si
completano a vicenda e ci dicono chiaramente che solo la legge può prevedere un reato. Per
modificare queste disposizioni occorrerebbe lo stesso procedimento che occorrerebbe per
modifiche costituzionali.

Detto questo, il principio di legalità si articola in 4 sotto principi, sotto aspetti, da guardare tutti
insieme: non se ne può eliminare uno senza intaccare gli altri. Essi sono:

-Il principio della riserva di legge

-il principio di tassatività e determinatezza

-il divieto di analogia

-principio di irretroattività

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La riserva di legge

Innanzitutto, per quello che riguarda la riserva di legge si vuole dire che le norme penali possono
essere dettate soltanto con legge. C'è una distinzione fra disposizione -il testo della legge- e la
norma -regole di comportamento che si ricavano da quel testo-. L'art. 25 Cost. non ha, per questo
argomento, una formulazione felicissima, come abbiamo già visto. Infatti, l'espressione in forza di
legge potrebbe far pensare che il regolamento, e quindi il governo, possa avere un ruolo nella
formazione della legge penale. Prima di affrontare l'argomento, comunque, dobbiamo ricordare che
le fonti di produzione del diritto sono poste fra di loro in un ordine gerarchico, per il quale la fonte
di grado superiore può modificare, derogare, ecc una fonte di grado inferiore o di pari grado,
mentre non è possibile farlo con una fonte di grado superiore. All'apice sta la Costituzione e le leggi
costituzionali, seguono le fonti primarie, quindi le leggi ordinarie e, anche se questo nella legge
penale in particolare è oggetto di discussione, gli atti aventi forza di legge, cioè decreti legislativi e
decreti-legge. Al di sotto stanno i regolamenti, la cui procedura di formazione è regolata dalla L
n.400\1988. Infine, abbiamo la consuetudine.

Fonte del diritto penale può essere soltanto la legge o -ovviamente- la costituzione. Questo
principio va esaminato sotto diversi aspetti. Innanzitutto, va detto se la riserva di legge sia assoluta
o relativa. In secondo luogo, si pone il problema degli elementi normativi e delle c.d. leggi penali in
bianco. Infine, il problema del significato dell'espressione legge ai fini della legge penale.

L'opinione prevalente, e sicuramente quella preferibile, considera la riserva di legge penale come
assoluta: ovvero la legge penale deve descrivere in tutti i suoi elementi e senza esclusioni il fatto
che costituisce reato, senza lasciare parti non previste. Questa è la formulazione che meglio
risponde all'esigenza di garanzia, per non lasciare a provvedimenti di grado inferiore, e quindi al
governo, di stabilire cosa costituisca reato. La riserva di legge fa sì che si escluda, nella legge penale,
che il potere legislativo sia esercitato dal governo: esso spetta solo al Parlamento. Il perché, lo
ripetiamo, è che nel Parlamento siedono i rappresentanti di tutto il popolo, non la sola
maggioranza, per cui è garantita l'espressione della volontà di tutti; al contrario il governo esprime
soltanto il parere della maggioranza.

Per riserva relativa si intende che, nonostante la legge avrà in ogni caso un ruolo prevalente e
fondamentale nella descrizione della fattispecie di reato, un certo ruolo può essere lasciato anche a
provvedimenti di grado inferiore. La formulazione più efficace di questa concezione della riserva è
stata data dalla stessa Corte costituzionale, alla sentenza n. 27 del 1966, che stabilì che, perché il
principio di riserva di legge sia rispettato, la legge deve indicare con sufficiente specificazione i
presupposti, i caratteri, il contenuto e i limiti dei provvedimenti dell'autorità non legislativa. La
legge deve quindi tracciare una cornice rigidissima dei provvedimenti dell'autorità sub legislativa,
ovvero del governo. A queste condizioni è possibile che la legge rinvii ad una fonte di grado
inferiore per determinare una parte della fattispecie incriminatrice. Ci si potrebbe chiedere perché
la Corte costituzionale si è piegata a questa visione, sicuramente meno garantista e che diminuisce
la portata della riserva. Le ragioni sono di due ordini: uno politico.

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Bisognava conservare infatti un gran numero di leggi penali emanate con rinvio ad atti sub
legislativi: si rischiava di spazzare via moltissime leggi penali che non rispettavano la riserva di legge
assoluta.

La seconda ragione è molto più complessa.

Le posizioni secondo le quali la riserva di legge è assoluta, che vanno a depotenziare il contenuto
della stessa, sono:
1) la teoria della presupposizione
2) la teoria che distingue tra campo di materia e di disciplina
3) la formulazione delle leggi penali in termini generici, tali da lasciare eccessivo spazio alle
interpretazioni da parte del giudice penale.
Il problema sta nell’individuare il fatto che si vuole punire:
1) la teoria della presupposizione, che fu fatta propria dalla corte costituzionale pochissimo tempo
prima della decisione del 1964 (che precede di pochissimo quella del 1966 detta prima), stabilisce
che: i provvedimenti del governo che si inseriscono nella legge penale sono soltanto dei presupposti
della legge penale, così che il precetto (la norma) è stabilito interamente dalla legge mentre il
provvedimento del governo è solo un presupposto per l’applicazione della legge, estraneo alla legge
stessa. In realtà si svuota la riserva e viene lasciata libertà al governo di emanare senza limiti, dato
che i presupposti sono esterni alla riserva di legge.
2) la teoria che distingue tra campo di materia e di disciplina (già fatta all’inizio del corso in merito
all’individuazione della legge penale per il modo di disciplina e non per il campo di materia)
stabilisce che: l’importante è che la legge per un determinato fatto stabilisca una sanzione, come
poi un certo fatto va effettivamente regolato non è oggetto della riserva di legge. Anche qui il ruolo
della riserva di legge assoluta viene svuotato, in quanto il fatto può essere regolato da altre fonti.
3) la formulazione delle leggi penali in termini generici tali da lasciare eccessivo spazio alle
interpretazioni da parte del giudice penale, in quanto manca una sufficiente determinazione
specifica di quelle espressioni troppo ampie. Questo perché: partendo dall’originario scopo della
riserva di legge, cioè di evitare che il parlamento sia privato della sua funzione di effettuare le scelte
politiche e di non lasciare al governo di operare quelle scelte, vari autori (che hanno cercato di
tenere conto di ciò) hanno utilizzato espressioni che lasciassero qualche spiraglio nelle materie più
tecniche e complesse ad altre parti. Cioè sarebbero consentite delle integrazioni marginali al
governo, ma dato che (secondo il principio di frammentarietà) la legge penale produce effetti
mirati, in quanto è il legislatore che stabilisce se un fatto deve essere punito e se un altro molto
simile no, questi elementi che possono sembrare marginali (che restano quindi fuori dalla riserva
assoluta) possono essere determinanti nello stabilire se un fatto è un reato o meno. Quindi la riserva
di legge è tendenzialmente assoluta, perché la legge dovrebbe scegliere il tipo di reato e il
provvedimento ma in realtà possono essere individuati da questi elementi marginali che stanno al
di fuori della riserva di legge.

La posizione del professore è quella del costituzionalista Mortati, per il quale la riserva di legge
relativa consente di lasciare la disciplina normativa ad altre fonti diverse dalla legge, a condizione
che questa determini le direttive alle quali queste devono uniformarsi.

69
Mentre dalla riserva assoluta deriva l’obbligo di disciplinare in modo diretto la materia riservata,
rimanendo possibile lasciare a fonti subordinate solo l’emanazione di disposizioni di dettaglio
necessarie alla esecuzione della legge. Quindi solo secundum legem e non praeter o contra legem.

Ma il provvedimento (le disposizioni di dettaglio) per il professore e parte della dottrina penalistica
devono possedere un altro requisito (oltre che essere meramente esecutivo e di rimanere nei limiti
stabili dalla legge): devono riguardare materia tecnica e non politica.

Quanto detto finora lo verifichiamo nella disciplina in materia degli stupefacenti della quale si
pone il problema di stabilire quali sono i precetti e delle soluzioni adottate nel tempo. La prima
soluzione è il testo originario dell’art 446 del Codice penale sul commercio clandestino di sostanze
stupefacenti che prevedeva la reclusione da uno a tre anni. Questo modo di regolare un fatto è
quella tecnica legislativa che lascia esclusivamente alla legge come descrivere il fatto ma non con
una espressione sufficientemente precisa: per sostanze stupefacenti, dal punto di vista
farmacologico, si intende quelle sostanze che esercitano flussi sul sistema nervoso centrale per
alterarne le capacità. Secondo questo punto di vista possiamo quindi dire che anche l’alcool è una
sostanza stupefacente eppure la disciplina che riguarda gli stupefacenti non reputa tale l’alcool.
Questo perché la nozione di stupefacente è in parte farmacologica ma in buona parte è anche
sociale, cioè fa riferimento a ciò che la società considera come stupefacente. Quindi è la legge (la
società) che stabilisce cosa è stupefacente, mentre non considera tali altre sostanze con effetti
simili (come l’alcool) che la società non ritiene tali. Quindi per le esigenze proprie della riserva di
legge è troppo vago e indeterminato il termine “sostanze stupefacenti”. C’è da dire che siamo nel
1930 quando ancora non vi era il problema del commercio di sostanze stupefacenti nei termini in
qui si è posto negli anni successivi, era qualcosa di riservato all’élite della società e si trattava di
sostanze molto differenti (di origine naturale rispetto a quelle sintetiche di oggi).
Nel 1954 il legislatore ha emanato una legge che punisce il commercio degli stupefacenti come
indicate (esattamente quali siano le sostanze stupefacenti) dal decreto del ministro della salute.
Questa legge fu sottoposta all’analisi della Corte costituzionale che rispose con la teoria della
presupposizione: il decreto è solo un presupposto di fatto dell’esecuzione della legge, che serve a
precisare quali sono queste sostanze, mentre è la legge che stabilisce quale sia il divieto (le sostanze
stupefacenti). Questa posizione non è accettabile in quanto dentro la nozione di sostanze
stupefacenti ci sta di tutto, dalle droghe leggere (es. la marjuana) alle droghe pesanti
(comprendendo quindi sostanze con effetti diversi) e non si può considerare indifferente stabilire se
una certa disciplina si applichi per una o per l’altro tipo di droga. Non è un fatto che può essere
lasciato alla disciplina di una autorità del governo, lo vediamo nelle discussioni sulla legalizzazione
delle droghe leggere e come queste vengano viste in modo differente rispetto a quelle pesanti. Non
si possono mettere sullo stesso piano. Quindi il decreto, che mette insieme droghe leggere e droghe
pesanti, entrava nel merito di scelte politiche di tutela penale (sul bene giuridico protetto),
configurando reato cose diverse tra loro. Quindi non era più il legislatore a indicare quale deve
essere il bene protetto ma il ministro con un decreto.

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Nel 1975 nella legge n. 685 le sostanze stupefacenti sono raggruppate in cinque tabelle in
conformità dei criteri del successivo articolo, cui controllo e aggiornamento delle tabelle è affidato
al ministro della salute. Quindi la legge detta i criteri sulla base del quale il ministro deve formulare
le tabelle, che vengono da lui pubblicate, nelle quali sono indicate le sostanze stupefacenti. Questi
criteri sono dei vincoli assoluti del ministero, al quale viene lasciato un ruolo meramente esecutivo
secundum legem in uno spazio tecnico assolutamente limitato dalla legge, in modo che non resti
nessun campo di scelta politica al ministro in merito a ciò che deve e non deve stare nel decreto. Ad
esempio, la prima e la terza tabella indicano le droghe pesanti, mentre la seconda quelle leggere e
in base all’appartenenza della diversa tabella ne discendono diverse conseguenze sanzionatorie.

La legge ne identifica l’appartenenza con precisione, quindi il ministro ha un ruolo meramente


tecnico, senza nessuna discrezionalità, non ha il compito di selezionarle ma solo di aggiornare
l’elenco (data la crescente produzione di nuove droghe), stabilendo se quella droga ha quelle
determinate caratteristiche previste dalla legge, introducendole con il decreto. Si tratta di un
rispetto pieno della riserva assoluta di legge, in quanto vi è solo una integrazione parziale del suo
contenuto attraverso il decreto ministeriale, senza incidere sulle scelte di fondo del legislatore.
La corte costituzionale con la sentenza del 1990 n. 282 e del 1991 n. 333 ha considerato legittimo
questo modo di disciplinare: nonostante la riserva di legge assoluta, sono possibili specificazioni di
carattere tecnico che vadano a riempire il contenuto una volta che la legge ha determinato queste
scelte.
La legge Giovanardi del 2006 (che ha anche modificato questa disciplina vista sopra e ha parificato
la disciplina delle droghe leggere con quella delle droghe pesanti, che in questa sede non ci
interessa) nell’individuare i fatti punibili (il commercio) e quelli non punibili (l’ uso personale), nel
regolare l’uso personale viene indicato quando si dovesse presumere che la detenzione di un certo
quantitativo di sostanza (in relazione al tipo di droga) sia destinato ad uso non personale ma allo
spaccio: queste quantità (superate le quali l’uso non viene considerato personale) erano stabilite
con il decreto del ministro della salute. Vi è uno sconfinamento della riserva di legge in quanto è il
ministro che stabilisce quando è reato (spaccio) e quando non lo è (uso personale). Ma questa
disciplina è stata dichiarata illegittima perché c’erano delle clausole salvaguardia: il giudice poteva
deciderne, sulla base del tipo di confezionamento, della condotta e delle circostanze del fatto, l’uso
personale pur superando le soglie previste per questo. C’è da ricordare che la legge Giovanardi era
stata approvata con un decreto-legge, convertito in legge, destinato a disciplinare i giochi olimpici
invernali di Torino. Quindi approfittando della conversione di legge venne infilata questa disciplina
di distinzione tra droghe leggere e pesanti, del tutto diversa da quella trattata dal decreto (le
olimpiadi invernali). La corte intervenne nel 2014 con la sentenza n.32 stabilendo che questo modo
di disciplina è illegittimo: la legge di conversione non può approfittare della corsia preferenziale che
ha il procedimento di conversione del decreto (che deve essere presentato alle camere lo stesso
giorno ed entro 60 giorni convertito in legge), alterando il rapporto normale tra legge di
conversione e decreto-legge. Quindi per ragioni formali, cioè per irregolarità del procedimento
legislativo, la legge Giovanardi è stata spazzata via. Ritornando alla vecchia disciplina attualmente in
vigore.

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24/10/2018

La terminologia di fatto può essere diversa, si potrebbe parlare di fattispecie astratta per indicare la
proposizione linguistica contenuta nella legge ( chiunque cagiona la morte di un uomo è punito), e
fattispecie concreta, questa espressione si presta a delle confusioni dato che si usa lo stesso
sostantivo fattispecie, e quindi è meglio distinguere le due cose chiamando fattispecie quell'astratta
e fatto l’accadimento storico particolare. Detto questo gli elementi normativi della fattispecie sono
elementi della fattispecie, ciascuna delle parole di cui la fattispecie è composta ( chiunque=
soggetto, cagiona= comportamento, la morte=evento, di un uomo=soggetto passivo del reato)
ognuno dei termini è un elemento della fattispecie di omicidio.
Molte volte e molto spesso le leggi penali si servono di elementi normativi, cioè parole che fanno
rinvio ad altre disposizioni per precisare il contenuto della stessa legge penale, queste disposizioni
possono essere giuridiche ( norme e regole), o sociali. Esempio è la nozione di altruità della cosa nel
diritto penale: chiunque si impossessa della cosa mobile altrui, questo è un elemento normativo
perché rinvia alle norme di diritto privato che regolano la proprietà. Si fa riferimento alle regole in
materia di proprietà e possesso che non sono penali sono poste dal diritto civile, e allora siccome il
diritto privato stabilisce ciò che questo telefono è mio per esempio rispetto ad ognuno degli altri è
una cosa altrui.
Ancora abuso d'ufficio, si parla di pubblico ufficiale nell'esercizio delle sue funzioni in violazione di
norme di legge e regolamenti, quest'espressione rinvia a tutto il diritto pubblico e amministrativo
che circoscrive i poteri del pubblico ufficiale, vincolando l'attività e come deve essere svolta,
l’attività è regolata da norme di diritto pubblico e amministrativo, qualsiasi tipo di norma che
stabilisce qual è la sua corretta attività, se viola queste leggi si può rendere responsabile di abuso di
ufficio, è un rinvio a quella parte del diritto pubblico.
È molto più frequente tale ricorso di quanto non si possa pensare. Dal punto di vista della riserva di
legge questa tecnica innanzitutto la legge penale è una proposizione linguistica esprime dei
significati. Si comunica dato che è una proposizione linguistica ( chiunque vuol dire qualunque
soggetto umano, perché la responsabilità penale si riferisce a persone umane, cagionare è un
elemento normativo fa riferimento a quelle norme dello stesso Codice penale che dicono quando si
può ritenere che un certo comportamento porti a un certo risultato, le parole della fattispecie sono
dotate di un significato). Nella comunicazione linguistica ci si serve di parole per esprimere
significati è normale che la legge comunichi ciò che stabilisce attraverso il riferimento ai significati
propri delle parole di cui si serve e questo può succedere in modo tale che il significato sia già
perfettamente comprensibile senza bisogno di ulteriori accertamenti oppure il significato non è
perfettamente comprensibile senza il ricorso ad ulteriori elementi che chiariscono il significato di
quel termine. Il giudice penale nell'applicare le disposizioni può comunque ricorrere ad
accertamenti ma la fattispecie incriminatrice indica in modo che non lascia mai margini di dubbio
un significato perfettamente comprensibile tra tutti e quando questo avviene non c'è
incompatibilità con il principio costituzionale della riserva di legge perché la legge penale descriva
fatti che sono fuori dalla legge penale già dotati di un certo significato, esempio patente di guida,
viene rilasciata secondo il codice della strada che prevede diverse categorie(A,B,C) ecc, secondo il
tipo di veicolo ma non ha il compito di entrare nel dettaglio di quale sia ogni singolo quello è il

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compito del codice della strada il reato di guida senza patente è che uno non può guidare quel
veicolo se non ha la patente e questo è perfettamente chiaro se si sta a vedere poi se per accertare
effettivamente se quel soggetto ha una patente data si deve ricorrere al codice della strada ma ciò
non cambia il significato del divieto che è quello di non mettersi alla guida del veicolo se non si ha la
patente adatta per quel veicolo stesso, il legislatore si serve di questa definizione, il nostro
linguaggio presuppone che le cose abbiano già un certo significato e lo stesso il linguaggio della
legge, questo modo di formulare le leggi penali non è' in contrasto con la riserva di legge.
-Diverso è il caso delle leggi penali in bianco; già la parola nel suo termine fa capire che al contrario
si tratta di una legge che è resa aperta, dove il fatto punito non è perfettamente indicato e la
differenza sostanziale è che queste contengono elementi che non implicano al destinatario della
norma un significato inequivocabile e chiaro se non attraverso l'integrazione di altre fonti giuridiche
e sociali. Richiedono un completamento, alcuni elementi non sono adeguatamente chiari e
comprensibili.
Ritornando agli esempi già utilizzati, quando la legge del 1974 diceva che le sostanze indicate dal
decreto del ministro della sanità questa determinazione da parte del ministro della sanità era
indispensabile per comprendere quale fosse il comportamento vietato senza il decreto del ministro
non si poteva sapere con precisione necessaria quale fosse il comportamento dato. Aveva una
funzione fondamentale di integrazione di una norma in parte in bianco, era chiaro quale fosse il
comportamento vietato ma non quale fosse l'oggetto. E ‘indispensabile un’integrazione mentre
negli elementi normativi questo significato è assolutamente chiaro per chiunque anche se profano
secondo l'uso linguistico comune.
Gli schemi possibili di leggi penali in bianco sono tre:
1.la legge penale rinvia ad una fonte diversa da sé prevedendo che le violazioni a quanto stabilisce il
provvedimento siano punite con una certa sanzione.
Il caso del testo unico delle leggi provinciali e comunali del 1934 poi modificato nel 1947 e poi
abrogato che stabiliva quando la legge non dispone altrimenti le violazioni ai regolamenti comunali
e provinciali sono punite con un’ammenda di 24 mila lire, cosicché una norma del genere contiene
solo l'indicazione della sanzione ma affatto il comportamento vietato, se uno non si legge cosa sta
scritto in questi regolamenti non può avere idee. Quindi in questo caso eclatante l'intero
comportamento vietato era descritto da una norma diversa, una norma del genere viola il principio
della riserva di legge. Non la indica la legge penale ma il regolamento provinciale.
2. Un altro caso è quello per cui la legge rinvia ad uno anche uno solo degli elementi del fatto,
lasciando indeterminato quale sia il contenuto di questo elemento. Nel caso della legge degli
stupefacenti tutto il resto della fattispecie era chiaro, ma non si sapeva quale fossero tali sostanze.
La Corte costituzionale sen,282\1990 ha dichiarato questo tipo di norma penale in bianco
costituzionalmente illegittima che prevedeva fosse un provvedimento amministrativo a individuare
i soggetti attivi del reato ( uno degli elementi del fatto), certe volte la legge ha come destinatario
non chiunque ma un gruppo di soggetti particolari. In questo caso la norma penale che puniva la
mancata adozione di sistemi antincendio chi fosse tenuto sotto la minaccia della sanzione penale a
curare tale adozione non era indicata dalla legge, e non poteva saperlo se ne era tenuto o meno se
no guardando il regolamento dell'autorità amministrativa. La norma era incompleta, questo tipo di
leggi non specifica il significato anche di uno solo elemento essenziale per la descrizione completa
del fatto.

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3. Diversamente dai precedenti è più problematico, quelli sono costituzionalmente illegittimi.
Questo è il tipo in cui l'esempio tipico è l'art.650 cod. pen. 1 degli articoli del terzo libro del Codice
penale, è la prima delle contravvenzioni che prevede l'inosservanza dei provvedimenti dell'autorità.
Lo stesso schema è riproposto dall'art.28 dello statuto dei lavoratori che punisce l'inottemperanza
ai provvedimenti dei giudici adottati in caso di condotta antisindacale, nella rimozione di tale
condotta. L'art 650 stabilisce che chiunque non osserva un provvedimento legalmente dato
dall'autorità per ragioni di giustizia, sicurezza pubblica o igiene è punito se il fatto non costituisce un
più grave reato con l'arresto fino a tre mesi o l'ammenda fino a euro 206.
La caratteristica di questo tipo di disposizione è che non si tratta del riferimento ad una legge
generale ed astratta ma di singoli provvedimenti dell'autorità dettati da specifiche ragioni della
legge, dunque è il riferimento della legge penale ad un singolo provvedimento dell'autorità e ci si
chiede questo rinvio rispetta la riserva di legge oppure no? sul punto c'è una divisione soprattutto
della dottrina italiana perché la giurisprudenza sia nella corte di cassazione che in quella
costituzionale è pacifica nel ritenere che questa norma non è illegittima. Gli argomenti sono che il
precetto è perfettamente individuato e comprensibile da tutti non ha bisogno di essere integrato
dal provvedimento dell'autorità nel senso che chiunque può capire di cosa si tratta senza bisogno di
ulteriori richiami ai provvedimenti famosi, e il contenuto della legge penale è individuato in questi
termini come se la legge penale dicesse "ubbidisci all'autorità", indipendentemente da cosa. Quindi
il fatto sarebbe nella disobbedienza all'autorità. Il reato sarebbe integrato da questa teoria fatta
propria da Pagliaro, Romano, Concini, viene indicato come il divieto di inosservanza, la
disobbedienza in quanto tale.
Non ha importanza sapere cosa dice, ma la conformità. Questa lettura che dà la maggior parte della
dottrina e la giurisprudenza concorde ritiene che il precetto della legge penale sia già perfetta e
chiaro, non ha bisogno di integrazioni.
L'altra parte della dottrina però, Carboni fu il primo in questo senso a contestare tale impostazione
e Padovani, osservavano che invece la norma non è sufficientemente chiaro e preciso perché in sé e
per sé non indica niente. Qual è il comportamento che si deve avere per obbedire? Cosicché
secondo l'altra impostazione il provvedimento entrerebbe in modo indispensabile nella legge
penale, perché senza tale provvedimento non sarebbe chiaro e quindi viola il principio della riserva
di legge, ed è illegittimo.
Non è stato possibile obbedire senza sapere cosa bisogna fare quindi quell’ordine dell'autorità
integra il precetto penale, quindi viola la riserva assoluta di legge.
Questa duplicità di posizioni è direttamente riconducibile ad una certa ambiguità di colui che per
primo autorevolmente prospettò questa possibilità cioè il famoso Attilio Rocco che nella sua opera
il concetto di reato si occupò anche delle leggi penali in bianco sostenendo due cose difficilmente
conciliabili e quindi in qualche modo in posizione ambigua. Da un lato Rocco che non aveva
problemi di legittimità costituzionale perché scriveva nel 1916 non era stata emanata la
costituzione e lo statuto albertino né il Codice penale di allora ponevano dei vincoli così stretti al
legislatore quindi non si stupiva che una parte della legge potesse essere modificata da fonti
diverse. Sosteneva che le leggi penali n bianco contengono pure sanzioni penali poste all'osservanza
di comandi o divieti ancora da emettersi e però inesistenti al momento in cui viene comminata la
pena.

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Il comando è ancora inesistente in esse la sanzione penale precede logicamente ma non
cronologicamente il precetto, conseguentemente il comando dell'autorità amministrativa è in tal
caso il comando della legge penale medesima, quindi in queste affermazioni sembrerebbe che
Rocco sposi la seconda posizione quella per cui il precetto è posto dall'ordine dell'autorità, che
costituisce il comando della legge penale.
Altrove però diceva che in tal caso ciò che si vieta è la disobbedienza come tale, la conseguenza
giuridica penale è collegabile al fatto stesso di un comando attualmente inesistente e da emettersi
in futuro, quindi viene indicato come precetto " obbedisci all'autorità", una posizione ambivalente
quindi, che sosteneva entrambe le tesi. Per la prima affermazione oggi diremmo che è illegittima
costituzionalmente, per la seconda invece diremmo che questo tipo di tecnica è compatibile con la
costituzione e diremmo che è disobbedire in quanto tale, questa posizione è fatta propria dalla
maggior parte dei penalisti italiani e dalla giurisprudenza.

È estremamente opportuno qui citare un aggiunta fatta da Pagliaro, con grande finezza, e cioè dopo
avere detto che in questi casi è punita la disobbedienza in quanto tale ed è compatibile con la
riserva di legge perché il divieto è chiaro Pagliaro aggiunge che questo vale da un punto di vista
formale ma ci vuole un altro requisito perché questo tipo di legge sia compatibile con la
costituzione e il principio della riserva ed è sostanziale, qui è necessario che anche dal punto di vista
sostanziale tale principio sia rispettato.
Nella sanzione penale il divario tra minimo e massimo è necessario che non sia esageratamente
ampio e al contrario non sia la sanzione indicata in termini precisi. Nell'esempio appena fatto
dell'art 650 e nello statuto dei lavoratori è previsto l'arresto a 3 mesi( il minimo è 5 giorni, quindi
non è un limite esageratamente ampio). Invece in un caso reale una disposizione di carattere molto
simile art.122 del Codice penale militare di pace che punisce la violata consegna la sanzione era da
due anni a 24 anni di reclusione; la violata consegna è un ordine da eseguire, violazione di un
ordine. La disposizione è stata dichiarata illegittima dalla Corte costituzionale con la sentenza
299\1992. Perché innanzitutto si deve presupporre tornando indietro al discorso della concezione
sanzionatoria del diritto penale, sosteneva il diritto penale si limita a porre le sanzioni nel caso di
violazione di regole di comportamento. Scollamento tra la fattispecie che indica il comportamento
vietato posta dal diritto civile ecc e la sanzione penale posta dalla legge penale, qui invece si osserva
che tale impostazione non si può accettare c'è un indissolubile unità tra il precetto e la sanzione tale
che il tipo della sanzione fa comprendere quale sia il comportamento vietato, la cassazione ad
esempio per il diritto di peculato ha stabilito che quel precetto di non appropriarsi delle cose di cui
si è in possesso per ragioni di pubblico servizio non è riferibile ad un litro di benzina perché non è
collegabile l'appropriazione di un litro di benzina ad una sanzione di 10 anni e mezzo di reclusione.
L'entità della sanzione fa capire che ciò che viene vietato è ben di più dell'appropriazione indebita di
un oggetto che vale poco. Qua la stessa cosa, se come faceva l’art. 122 del cod.pen. militare di pace
la sanzione oscilla tra 2 a 24 anni da qui si ricava citando questo rapporto stretto tra sanzione e
precetto che dentro la previsione di quest'articolo ci stanno tanti fatti diversi tra loro, alcuni
gravissimi e altri meno gravi. Non è tanto l'oscillazione della sanzione ma il fatto che ci indica che la
disposizione punisce fatti tra loro completamente diversi. Da che dipende questa gravità? Rocco un
po' dopo diceva che in tal caso ciò che si vieta è la disobbedienza come tale e che il divieto era
inesistente e doveva essere emanato in futuro, e dipende chiaramente dall'ordine ricevuto.

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La consegna è decisiva per stabilire la gravità del fatto punito. L'ordine è decisivo per individuare
l'entità del fatto punito, l'ordine entra nel comando della legge e ne costituisce l'essenza, è
integrato essenzialmente da tale ordine. Ne determina la fisionomia. Per questo problema di
carattere sostanziale non formale non si potrebbe dire affatto che è vietata la disobbedienza in
quanto tale ma il comando particolare di partito che può comportare o un reato poco grave o
gravissimo. Il comando pone e integra il precetto, così si viola la riserva di legge assoluta e in quanto
tale illegittima.

RIASSUNTO
Il punto principale è la differenza tra riserva formale e sostanziale di legge, dal punto di vista
dell'inquadramento formale secondo alcuni si potrebbe accettare la teoria della disobbedienza in
quanto tale indipendentemente dal fatto specifico la legge penale punisce. Ma dal punto di vista
sostanziale bisogna ulteriormente verificare la sanzione prevista, che non è estranea
nell'individuazione del precetto e se oscilla tra un minimo e un massimo molto lontano tra di loro,
questo si riflette direttamente sul precetto della legge penale perché dice che i fatti vietati non
sono uguali tra di loro, se lo fossero ci vorrebbe una pena compatibile.

Questo estremo divario dice che non sono fatti sostanzialmente uguale dello stesso disvalore ma di
fatti diversi e tale disp. punisce comportamenti del tutto differenti. La differenza è determinata
dall'ordine dell'autorità militare non dalla struttura della norma quindi l'ordine entra nella legge
penale, è decisivo per stabilire quale sia il comando penale, il comportamento è deciso dal
superiore militare che impartisce l'ordine e stabilisce non fare questo, non fare quest'altro.
Quell'ordine entra nella legge penale e ne determina il contenuto, c'è un’integrazione della legge
pen, da parte del singolo ordine militare che è contrario al principio costituzionale della riserva della
legge.

Ora si parlerà di cosa si intende per legge al fine della riserva. Nessuno può essere punito se non in
forza di una legge, che cosa si vuole dire?
Autorevolissime opinioni diverse tra loro. Sicuramente per legge si deve intendere la costituzione e
le altre leggi costituzionali che nella gerarchia delle fonti sono in un gradino superiore della legge e
a maggior ragione può stabilire ciò che è consentito alla legge di stabilire; le leggi costituzionali
art.90 costituzione stabilisce che il presidente della Repubblica non è responsabile di quanto
compiuto nell'esercizio delle sue funzioni tranne che per alto tradimento e attentato alla
costituzione, tale articolo delinea due figure di reato, tra parentesi bisogna dire che è stato posto il
problema di stabilire se la fonte giuridica che prevede il reato sia direttamente la costituzione o
descriva un fatto genericamente che deve essere poi individuato attraverso le leggi penali comuni e
in questo caso corrispondono due figure di reati la prima contenuta nel Codice penale ( attentato
alla costituzione), la seconda (alto tradimento) contenuto nel Codice penale militare. La seconda
opinione è più verosimile perché che cosa si intende per queste due parole e le sanzioni non sono
indicate.
Un po' più spesso la costituzione regola casi di non punibilità, e cioè nei casi in cui si prevedono
immunità penali situazioni in cui un certo soggetto che in relazione o meno alla carica che occupa
non è punibile per i reati commessi.

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È questo il caso dell'art.68 1 comma costituzione, insindacabilità dei membri del parlamento per le
opinioni espresse, ma con una disposizione analoga all'art 122 della costituzione e ancora l'art 1
della legge cost. 1\1948 che dice l'immunità dei giudici della Corte costituzionale. In questi casi le
norme non contano la punibilità ma la non punibilità.
Quando si dice riserva assoluta di legge ci si riferisce alla costituzione e alla legge ordinaria formale,
stabilita ai sensi dell'art.70 e seguenti costituzione, dal Parlamento ed è il senso essenziale della
riserva di legge, ciò che stabilisce il Parlamento è fonte di questa riserva senza alcun intervento del
governo.
La questione dei decreti legislativi è la seguente, art.77 cost.
I decreti come si sa dal diritto costituzionale, il parlamento approva una legge delega che stabilisce
un tempo e un contenuto dentro il quale il governo è autorizzato ad emanare un decreto legislativo
che ha forza di legge perché è esercizio del potere legislativo che il parlamento delega al governo.
La cosa può riguardare il diritto penale, tale decreto potrebbe essere fonte del diritto penale. Il
progetto Pagliaro era uno schema o bozza in quanto mai approvato dal Parlamento di delega
legislativa per l'emanazione di un nuovo Codice penale se fosse stato approvato avrebbe costituito
un testo che sarebbe stato approvato dal governo di un nuovo Codice penale, fino agli anni 70 a
nessuno era venuto in mente che il ricorso al decreto in maniera penale potesse essere contrario al
principio costituzionale della riserva di legge, la costituzione non pone limiti alla possibilità di delega
al governo del potere legislativo, il decreto può riguardare qualunque contenuto, anche leggi penali
dal punto di vista formale.

Anni 70 del 900 Carboni e dopo Marinucci e Dolcini hanno cominciato a dubitare che tale decreto
potesse essere fonte del diritto penale aprendo una questione complessa, l’occasione che
concretamente ha accesso il dibattito significativo della questione è la presentazione del progetto
Pagliaro, presentazione di una legge delega, in quest'occasione si alzarono alcune voci contrarie al
ricorso di questa legge, la ragione a cui gli autori si rifanno è la stessa per cui solo la legge può
essere fonte del diritto penale e il procedimento che conduce all'approvazione della legge formale
ordinaria, solo tale procedimento garantisce il rispetto dell'esigenze di separazione tra il potere
legislativo e quello governativo assegnando solo al parlamento di dettare leggi penali tanto è vero
che le leggi penali che vincolano la libertà dei cittadini devono essere adottati tramite una scelta
che impegna la comunità tutta e l'emanazione di un testo che rappresenta la volontà di tutti quanti,
al contrario il governo avrebbe uno spazio eccessivo. Vero è che c'è una legge delega ma con il
decreto legislativo si darebbe troppo spazio al governo per riempire di contenuto la legge delega.

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30/10/2018
Riprendiamo dall’elenco di quelle fonti giuridiche che possono prevedere le leggi penali. Avevamo
visto la Costituzione e le altre leggi Costituzionali, oltre che la normale legge formale, ma stavamo
parlando del DECRETO LEGISLATIVO. A riguardo abbiamo detto che alcuni autori (es. Mariucci)
ritengono che tale non possa essere fonte del diritto penale e, sebbene non sia la posizione
maggioritaria, è stata sostenuta da autori di particolare importanza. L’argomento è che la legge
penale deve esprimere non soltanto il punto di vista della maggioranza, ma deve anche tutelare le
minoranze, cosa che può avvenire soltanto attraverso la sua emanazione in Parlamento dove le
minoranze sono appunto rappresentate e dove la legge penale si forma attraverso il dibattito tra
posizioni differenti: solo così la legge può essere la reale espressione della volontà dei cittadini e
questo è l’argomento centrale.
[Questo punto che stiamo affrontando è stato oggetto di discussione in una lunga nota del testo
Pagliaro, una discussione che ha visto affermazioni e risposte quasi come un pingpong, cercate quindi
di tenere conto che ad ogni affermazione vi sarà la contro risposta. Ora quindi indicherò la posizione
di coloro che sono favorevoli alla possibilità per cui la legge penale venga emanata anche mediante
decreto legislativo: per personificare questa posizione indicheremo Pagliaro, in quanto presentò
addirittura uno schema di legge delega, mentre tra i contrari pensiamo a Mariucci].

L’argomento dei contrari è quello secondo cui soltanto la legge esprime la volontà generale, mentre
il decreto legislativo è emanato dal Governo: secondo la risposta, non è possibile emanare il Codice
penale in Parlamento in quanto teoricamente lo sarebbe ma praticamente no. Un Codice penale è
un’opera estremamente complessa, la sua approvazione in Parlamento richiederebbe mesi, forse
anni, e soprattutto un Codice penale deve essere coerente dal primo all’ultimo articolo, seguendo
ogni principio. Il modo in cui si formano le leggi, per un testo così lungo e articolato, sarebbe errato
poiché mancherebbero tempo e coerenza nell’intero processo.

[questo dibattito che era stato proposto negli anni ’70 da Carboni, si è riproposto con più
partecipazione nel momento in cui l’allora ministro della giustizia Vassalli incaricò la Commissione
Pagliaro (per il nome del Presidente) di redigere la bozza per una legge delega perché fu allora che
venne fuori il problema: “possiamo ricorrere al decreto legislativo?”.
Le ragioni per le quali questo progetto non arrivò mai in porto furono: ragioni alte poiché non si
condividevano le ragioni inerenti soprattutto la parte speciale (cioè i singoli reati) e ragioni meno alte,
cioè invidia accademica perché la Commissione era formate da un certo numero di professori
(Pagliaro, Bricola, Mantovani, Padovani, Fiorella) e gli esclusi ritenevano che si sarebbe dovuto dare
la possibilità loro di dire il proprio parere.

La risposta fondamentale è quella secondo cui sarebbe difficilissimo approvare l’intero codice in
Parlamento, mentre il Governo molto più snello e veloce –in quanto poche persone si riuniscono
dando l’incarico ad un ristretto gruppo che elabora il testo e poi il Governo lo approva- vi riuscirebbe
con velocità e coerenza.

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Risposta dei contrari: il Parlamento può lavorare in modo più snello grazie alle Commissioni. Si forma
una Commissione per la riforma del Codice penale, ad esempio, che è appunto composta da poche
persone in modo tale da rispettare l’articolazione del Parlamento così che tutti possano dire la loro e
così si potrebbe andare avanti velocemente e senza incoerenze.

Contro risposta dei favorevoli: si può lavorare in Commissione, però i regolamenti parlamentari
prevedono che quando il testo di legge viene approvato in Commissione se sorgono delle divergenze,
all’interno della Commissione, parte del Governo oppure parte del Parlamento oppure parte della
Commissione possono chiedere che il provvedimento venga riportato all’esame in aula proprio
perché non si raggiunge l’unanimità o comunque un sufficiente accordo.

[dobbiamo ricordare, inoltre, che il nostro sistema è organizzato secondo il bicameralismo perfetto
per cui un testo di legge deve passare per un ramo del Parlamento e poi all’esame dell’altro ramo del
Parlamento per poter essere approvato, ma basta cambiare una parte del testo e tale dovrà ritornare
all’esame del primo ramo. Così si determina la cd. Navetta da una camera all’altra, il che incide sulle
difficoltà precedentemente citate]

Risposta dei contrari: potrebbe darsi luogo al procedimento misto per cui la Commissione approva i
singoli articoli, mentre il testo finale risultante dai singoli articoli sia poi approvato per intero in
Parlamento.
Contro risposta: le divergenze potrebbero nascere in Commissione proprio nel redigere i singoli
articoli, tale per cui si ritornerebbe all’esame dell’aula che si sarebbe voluto evitare.

In sostanza, anche con queste correzioni di metodo sembra preferibile l’opinione –sostenuta nel
nostro testo- per la quale non sia possibile riuscire approvare il Codice penale direttamente in
Parlamento senza ricorrere ad una legge delega e decreto legislativo. Del resto, dal punto di vista
formale non ci sono degli impedimenti nel testo della Costituzione poiché nell’art.76Cost. non si fa
cenno a limiti di contenuto, si parla dell’esercizio della funzione legislativa delegata al Governo senza
ulteriori ostacoli. Invece, si deve notare che l’art.76Cost. non pone limiti contenutistici, ma “l'esercizio
della funzione legislativa non può essere delegato al Governo se non con determinazione di principi e
criteri direttivi e soltanto per tempo limitato e per oggetti definiti”: quindi la legge delega deve
ammettere tutti questi paletti alla potestà legislativa delegata al Governo e il Governo può esercitare
tale potestà soltanto nel rispetto di questi limiti, la corte Costituzionale inoltre può controllare che
tali vincoli vengano rispettati e dichiarare un’eventuale illegittimità; vi è quindi una doppia garanzia.
E allora si osserva che si tratta di adottare degli accorgimenti tale che quando si tratta di leggi penali
è necessario che la legge delega sia formulata in modo tale da vincolare sufficientemente la potestà
legislativa del Governo: legge delega quindi formulata con rigore, analiticità e chiarezza, come
suggerisce Romano. Nel voler rispettare tale suggerimento si può però aggiungere che la legge delega
nel rispettare questi canoni debba essere molto ampia, dettagliata e che quindi, in sostanza, anche
l’approvazione del Parlamento di questa delega comporti le stesse difficoltà precedenti: Pagliaro
allora ha formulato la soluzione per cui prevedere un doppio livello di determinatezza o analiticità
nel formulare il testo della legge delega, per consentire una maggiore sinteticità alla legge delega.

79
La legge delega quando si sono mantenute le soluzioni adottate dal codice vigente è stata più sintetica
poiché si tratta di un semplice richiamo, mentre è stata più analitica lì dove si è pensato di adottare
delle soluzioni più innovative.

Quindi poche sintetiche linee lì dove si mantiene l’aspetto vigente, mentre più specifiche lì dove si
pensa di innovare, così da ottenere un compromesso per accogliere le indicazioni Romano senza
appesantire la legge delega e senza svuotare il decreto legislativo.
Conclusivamente è possibile -e sembra inevitabile- il ricorso al decreto legislativo per l’emanazione
di leggi penali soprattutto quando si tratta di riformare il Codice penale, cosa che sembra invece
impossibile mediante una legge in Parlamento.
Detto questo vediamo la questione che riguarda il DECRETO LEGGE: tale atto esprime un modo di
procedere inverso rispetto il decreto legislativo, in quanto viene prima emanato il decreto-legge del
Governo che poi viene ratificato (cioè convertito in legge) dal Parlamento ed è infatti adottato in casi
straordinari di necessità e urgenza.
Per la legge penale tuttavia è raro che ci si trovi di fronte questi casi straordinari, poiché i problemi
penali non nascono improvvisamente. Ma, a parte questo, ricordiamo quanto stabilito dalla
Costituzione e cioè l’art.77Cost, 3comma “I decreti perdono efficacia sin dall'inizio, se non sono
convertiti in legge entro sessanta giorni dalla loro pubblicazione” quindi la Costituzione vuole che se
il Parlamento non ratifica il contenuto del decreto legge può eventualmente appunto non convertirlo
in legge e, in questo caso, il decreto perde efficacia ex tunc, cioè sin dal momento in cui è stato
emanato come se non fosse mai esistito. Tuttavia, vedremo che proprio in riferimento al decreto-
legge il Codice penale detta una disciplina particolare che riguarda gli effetti del decreto-legge
prodottisi nel tempo, considerato che alcuni di questi effetti non possono essere del tutto cancellati.
I problemi si pongono esclusivamente per il decreto in quanto tale nel dettare e produrre legge
penale, problema che esamineremo più avanti.

Ritornando all’analisi della GERARCHIA DELLE FONTI


Ricordiamo che al di sotto della Costituzione e degli atti Costituzionali, del decreto legislativo, del
decreto legge vi è il REGOLAMENTO, di cui abbiamo accennato quando abbiamo parlato della riserva
di legge e abbiamo ricavato la regola per cui i regolamenti possono concorrere a regolare la materia
insieme alla legge penale, ma soltanto in quei limiti stretti in cui la legge abbia fatto tutte le scelte di
fondo di politica criminale, abbia regolato con grande specificità la materia e il regolamento abbia
una mera funzione di esecuzione della legge lì dove si tratta di materia tecnica che il Parlamento non
è il più idoneo a regolare, in quanto si tratta di materia suscettibile di continui riesami e che invece il
regolamento entro/grazie a questi limiti può disciplinare.

Rimangono allora i BANDI MILITARI IN TEMPO DI GUERRA, affrontati solo per completezza teorica,
perché gli articoli dal 17 a 20 del Codice penale militare di guerra prevedono la possibilità per il
Comandante Supremo di emanare bandi militari che, tra l’altro, possono anche contenere leggi
penali. Comandante supremo oggi è il Consiglio Supremo Di Difesa, presieduto dal Presidente Della
Repubblica e composto da ministri della difesa, degli esteri, comandanti delle varie forze armate ecc.;
un organismo che ha il compito di affrontare le situazioni che si pongono in relazione alla guerra,
appunto consiglio supremo di difesa.

80
Questo organismo potrebbe quindi emanare delle leggi penali, in più il Codice penale militare di
guerra prevede che i comandanti -soprattutto nel caso in cui non possano comunicare con il consiglio
supremo- possano allora emanare da sé delle leggi penali, dei bandi contenenti leggi penali. Oggi
buona parte della dottrina ritiene che la materia sia regolata dall’art.78Cost., il quale stabilisce che
“le Camere deliberano lo stato di guerra e conferiscono al Governo i poteri necessari”: a riguardo
alcuni dicono che questa previsione Costituzionale, se si vuole che questi organi possano emanare
bandi militari che contengano leggi penali bisognerebbe che, ai sensi dell’art.78, il Parlamento nel
conferire al Governo i poteri necessari preveda espressamente il potere di emanare bandi contenenti
leggi penali. Vi sarebbe quindi una riserva a favore del Parlamento, nel senso che il Parlamento
dovrebbe esplicitamente autorizzare il Governo ad emanare tali bandi, però una espressa formale
limitazione in questo senso è molto implicita nella Costituzione perché i poteri necessari potrebbero
essere altri che emanare leggi penali.
Fine gerarchia delle fonti.

Costituzion
e
e legge
Costituzion
ale Ordinaria
Legge Statale
-Decreto Legislativo
e atti aventi forza di -Decreto Legge
legge

Regolamenti

Bandi Militari

FONTI CHE NON POSSONO COSTITUIRE FONTE DEL DIRITTO PENALE IN CONSEGUENZA
DELL'ESISTENZA DELLA RISERVA ASSOLUTA DI LEGGE

-LEGGE REGIONALE --> Ad esse vanno affiancate le leggi delle Province autonome di Trento e
Bolzano.
Per la legge regionale il problema comporta qualche difficoltà perché esse sono norme di legge,
quindi si potrebbe pensare che stiano sullo stesso piano delle leggi dello Stato e nelle Regioni a
statuto speciale , quando si tratta di leggi di competenza esclusiva delle Regioni, le leggi regionali
hanno un rango superiore alle leggi dello Stato perché possono derogare ad esse e hanno una forza
superiore.
Quindi, potrebbe sembrare che tali leggi siano o sulla stessa posizione o in qualche caso in una
posizione superiore e che quindi possano essere fonte di leggi penali . Tuttavia, dottrina unanime e
la Corte costituzionale ritengono che le leggi regionali non possano essere fonti del diritto penale.

81
Sino all'emanazione della legge Costituzionale n 3 del 2001, la questione era ancora più complessa.
Con l'emanazione di questa legge il riparto di competenze fra Stato e Regioni è stato capovolto, nel
senso che in precedenza l'art 117enumerava le materie di competenza e potestà legislativa delle
Regioni e fra queste materie non c'era la materia penale.
Oggi, invece, il sistema è capovolto : l'art 117 stabilisce che le Regioni hanno la potestà legislativa
tranne che nelle materie riservate allo Stato, indicate nello stesso art 117Cost.
Bisogna però ricordare che proprio con il riferimento alle leggi penali, l'indicazione di materie
riservate alla competenza dell'uno o dell'altro non funziona in modo perfetto, perché entra in gioco
la teoria per la quale la riserva di legge in materia penale non è una riserva per campo di materia ,
ma è una riserva per modo di disciplina, perché non esiste una materia penale, le leggi penali regolano
tutte le materie , dalla caccia ai reati commessi nell'ambito della famiglia, reati tributari o in materia
di lavoro ecc. .
Inoltre, le leggi penali sono caratterizzate da un modo di disciplina, cioè dal fatto che prevedono un
illecito e la relativa sanzione penale per chi commette quel fatto illecito.
Quindi, la stessa tecnica di indicare la riserva a favore o dello Stato o delle Regioni con riferimento
alle leggi penali, in sé stessa è già problematica, dato che una materia penale non esiste.
Attualmente, l'art 117 tra le materie che sono riservate allo Stato indica l'ordinamento civile e
l'ordinamento penale.
Che cosa si intende esattamente per ordinamento penale? È una formulazione non del tutto precisa,
così che non è chiarissimo che si intende che la potestà legislativa spetti allo Stato per quel che
riguarda le leggi penali; l'art nuovo 117 non è chiaro! Infatti, la dottrina continua a porsi problemi ,
alcuni come Marinucci fanno riferimento a questo articolo, ma altri continuano a porsi problemi.
Tutti dicono che le Regioni non possono emanare leggi penali, ma quale sarebbe la ragione? A tal
proposito sono state individuate diverse ragioni Costituzionali per le quali le leggi regionali non
possono dettare norme penali.
Pagliaro fa riferimento all'art 120 della Costituzione , il quale pone dei limiti contenutistici alle potestà
legislativa penale delle Regioni perché stabilisce che la Regione non può adottare provvedimenti che
ostacolino il qualsiasi modo la libera circolazione delle persone e delle cose tra le Regioni, né limitare
l'esercizio del diritto al lavoro in qualunque parte del territorio Nazionale. Questo è un riferimento
indiretto, cioè , se fosse punito in una Regione quello che non è punito in un'altra Regione , una
persona che abbia commesso un fatto potrebbe essere limitata del suo diritto di spostarsi a una parte
all'altra del territorio nazionale sapendo che ad esempio in quella parte del territorio dello Stato
potrebbe non essere punito a differenza di un'altra parte. Quindi, anche se indirettamente, questo
articolo impedirebbe di porre leggi penali che fortemente potrebbero limitare la libertà dei cittadini
di spostarsi da una parte all'altra.
Altri, invece, trovano il fondamento di questa esclusione della potestà legislativa delle Regioni nell'art
3 della Costituzione che sancisce il principio di eguaglianza. Essi osservano che in una materia così
fondamentale come quella penale, la limitazione fortissima alla libertà dei cittadini che le leggi penali
pongono , non è possibile per l'art 3 che ci siano disparità di trattamento nel territorio di una Regione
rispetto al territorio di un'altra, tutto ciò sarebbe lesivo per il principio di eguaglianza!

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Questo argomento è certamente da prendere in considerazione, però anche esso potrebbe non
essere così decisivo per una netta esclusione della potestà legislativa delle Regioni , perché se le
Regioni non potessero regolare diversamente certe materie importanti, probabilmente si dovrebbero
pensare delle limitazioni anche in tanti altri campi, nei quali invece le Regioni hanno potestà
legislativa , pensiamo ad esempio al regolare diritto alla salute , esso è regolato in un modo in Sicilia
e in un altro modo in Veneto.
Probabilmente le argomentazioni più forti e più esatte sono quelle che la Corte costituzionale ha
trovato nella sentenza 487/1989, la quale fa riferimento ad una legge regionale siciliana che
estendeva il condono per i reati edilizi urbanistici oltre i casi previsti dalla legge dello Stato, quindi
rendeva non punibili altri fatti rispetto a quelli della legge dello Stato.

La Corte costituzionale ha dichiarato illegittima questa legge della Regione Sicilia, indicando quale
siano i motivi per le quali le Regioni non possono derogare ed estendere le leggi penali dello Stato ->
"La potestà penale si associa , fuori dagli Stati di tipo federale, alla sovranità nazionale e
all'organizzazione statuale unitaria che è garanzia di libertà individuale e di ordine sociale."
Quindi, la Repubblica Italiana non è uno Stato federale come lo sono gli Stati Uniti D'America, in cui
ogni Stato ha un proprio Codice penale che prevede dei propri reati e in più c'è un Codice penale
federale che prevede i reati federali, che riguardano tutti gli Stati Uniti D'America, capita anche che
in uno Stato sia reato quello che in un altro Stato non lo è.
Il nostro Stato ha diverse Regioni, ma non è uno Stato federale! Quindi, l'organizzazione statuale è
unitaria , questo è stabilito dall'art 5 della Cost. "La Repubblica, una e indivisibile, riconosce e
promuove le autonomie locali".
La Corte costituzionale dice che le norme penali sono connesse e sono emanazione della sovranità
dello Stato, la quale è da concepirsi come un fatto unitario; la sovranità nazionale non può essere
ripartita perché la sovranità statuale è unitaria e quindi è unitaria anche la potestà normativa
attinente alla sovranità nazionale. La potestà penale attiene a questa organizzazione unitaria, in
quanto in un certo senso tutela l'intero ordinamento giuridico.
Quando abbiamo parlato dell'oggetto di tutela delle leggi penali, abbiamo ricordato la posizione di
Arturo Rocco, il quale distingueva fra oggetto formale e oggetto sostanziale che a sua volta viene
distinto in generale, specifico e di categoria. L'oggetto formale non è una nozione così importante
perché sarebbe il diritto dello Stato all'osservanza dei propri precetti , quindi la tutela della potestà
punitiva dello Stato. Ogni legge penale oltre a stabilire qualcosa che tutela in particolare , dal punto
di vista formale ha come oggetto di tutela questo diritto dello Stato a che vengano osservati i suoi
precetti penalmente sanzionati. Questo punto di vista formale ci dice che tutte le leggi penali tutelano
questo bene di interesse e che quindi non è pensabile frazionare la potestà legislativa penale.
La Corte Costituzionale diceva che organizzazione statuale unitaria è garanzia di libertà individuale e
ordine sociale; qui possiamo ritrovare una specie di eco di quegli argomenti che la dottrina ha
proposto : art.120(Pagliaro)->libertà di movimento, libertà di lavoro, tutela delle libertà individuali e
dall'altra parte tutela di ordine sociale, perché è problematica per la gestione dell'ordine sociale una
divisione di leggi e diversificazione delle leggi penai che consente di commettere in una parte del
territorio di una Regione, quello con non si può commettere in un'altra Regione, questo non è
certamente un modo per garantire l'ordine sociale!

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A rafforzamento di queste considerazioni si deve tener conto anche del fatto che la potestà penale e
le norme penali sono da considerarsi EXTREMA RATIO, quindi l'ultimo dei mezzi ai quali ricorrere per
regolare certi fatti; esse entrano in gioco quando non sia sufficiente e possibile ricorrere ad altre leggi.
Riconoscere alle Regioni una potestà legislativa penale sarebbe contrario al principio di sussidiarietà
del diritto penale, per il quale le leggi penali sono extrema ratio.
È molto importante tenere in considerazione che quando si parla di potestà legislativa penale, non si
intende soltanto prevedere leggi che puniscono un certo fatto , ma anche leggi che modificano le
leggi incriminatrici, derogano ad esse e prevedono cause di esclusione del reato; quindi non soltanto
la potestà penale nell'aspetto positivo , ma anche nell'aspetto negativo, cioè escludere che i fatti
siano puniti.
Dunque, quando diciamo che le Regioni non hanno potestà legislativa penale, dobbiamo riferirlo non
solo al fatto che non possono prevedere reati , ma anche al fatto che non possono escludere reati
derogando alle leggi dello Stato.
Qualcuno, proprio con riferimento alle cause di esclusione afferma che sarebbe possibile per le
Regioni prevedere delle cause di esclusione del reato, perché queste cause di esclusione sarebbero
esterne ed estranee al diritto penale e invece sarebbero ricavate dall'ordinamento giuridico nel suo
complesso , contenendo principi che valgono per tutto l'ordinamento e in particolare per quello
penale (es. la legittima difesa deriva da un principio generale dell'ordinamento giuridico dello Stato
e non sarebbe caratteristica esclusiva del diritto penale).
Secondo questi autori, quindi sarebbe possibile che le Regioni possano prevedere delle ipotesi che
escludano reati previsti da una legge dello Stato.
Questa conclusione non può essere accolta, perché logicamente la non punibilità di un certo fatto è
indissolubilmente connessa alla punibilità.
Diverso è il caso in cui la legge penale si serva di elementi normativi: entro certi limiti regolati dallo
Stato, è possibile che le materie siano regolate attraverso elementi normativi che rinviano a leggi
regionali , es. divieto di caccia nei periodi stabiliti dalle Regioni . Quindi è possibili che un elemento
normativo sia riempito attraverso leggi regionali e che le leggi dello Stato facciano rinvio a leggi della
Regione.
Bisogna prendere atto che di fatto in qualche caso le leggi dello Stato rinviano alle leggi regionali in
un modo così ampio da superare questi vincoli che riguardano gli elementi normativi: è la legge che
fissa tutta la regola in modo chiaro, la norma di rinvio serve solo per qualificare un certo fatto in un
modo o in un altro , ma non incide sulla sostanza del divieto, la quale è interamente formata dalla
legge penale.
In qualche caso , per esempio nel Codice dell'ambiente , il decreto legislativo 152 del 2006 prevede
nell'art 101 , comma 2 che un potere legislativo delle Regioni che sembra scavalcare questo limite
con riferimento agli elementi normativi, e sembra introdurre una potestà legislativa parziale delle
regioni -> "Tutti gli scarichi sono disciplinati in funzione del rispetto degli obiettivi di qualità dei corpi
ibridi e devono rispettare i valori limite previsti nell'allegato 5 "; al secondo comma l'art prevede " Ai
fini del primo comma , le Regioni nell'esercizio della loro autonomia, tenendo conto dei carichi
massimi e delle migliori tecniche disponibili, definiscono il valore limite di emissione diversi da quelli
di cui all'allegato5. Inoltre, le Regioni non possono stabilire i valori limiti meno restrittivi di quelli
fissati nell'allegato 5 ".

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Quindi, la Regione potrebbe dettare una disciplina di scarichi più severa di quella generale prevista
dalla legge dello Stato , perché i valori limite non possono essere meno restrittivi, ma possono essere
uguali o anche più restrittivi, quindi potrebbe dettare una disciplina penale più severa di quella delle
leggi statali.
Questo è in qualche modo una deroga a quel divieto di cui abbiamo parlato, che non è mai stato
dichiarato Costituzionalmente illegittimo ; è un caso in cui il principio secondo cui le Regioni non
possono emanare leggi penali, entra un po’ in crisi, perché almeno per una parte le Regioni hanno
una propria autonomia.
Un'altra cosa che riguarda sempre i limiti o meglio una possibilità data alle Regioni è previsto dall'art
9 ,secondo comma, della legge di depenalizzazione 689/1981-> esso prevede la possibilità che una
legge regionale deroghi alla legge dello Stato, però con dei limiti molto precisi e devono esserci alcuni
presupposti:
- Che la legge penale dello Stato , per la quale viene posta una deroga dalle leggi della Regione, sia
una legge sussidiaria , cioè una di quelle leggi che si applica soltanto se il fatto non è regolato da altre
leggi penali; se il fatto non è previsto da nessun'altra disposizione di legge allora interviene questa
disposizione sussidiaria.
-Che La legge regionale abbia un carattere di specialità rispetto a questa legge sussidiaria dello Stato.
Che abbia carattere di specialità vuol dire che regoli in maniera particolare e più specifico
determinate ipotesi.
-Che I fatti concretamente verificatesi non debbano essere disciplinati da altre leggi dello Stato dette
principali perché in questo caso si applicherebbero ovviamente queste leggi principali.
La conclusione è che in questi casi appena elencati , la Regione può stabilire delle sanzioni penali-
amministrative, regolate dalla legge 689/1981, per un determinato fatto e che non si applichino le
leggi penali sussidiarie dello Stato; si tratta quindi di una deroga alle leggi statuali! ----> "Quando uno
stesso fatto è punito da una disposizione penale e da una disposizione regionale che preveda una
sanzione amministrativa , si applica in ogni caso la disposizione penale dello Stato, salvo che
quest'ultima sia applicabile solo in mancanza di altre disposizioni penali." Quindi, prevale la legge
dello Stato , ma se quest'ultima è di carattere sussidiario , la legge regionale che prevede una sanzione
amministrativa prevale!
È uno spazio molto limitato riconosciuto alla legge regionale.

In conclusione, la legge regionale non è fonte del diritto penale! Oltre ad essa non sono fonti della
legge penali :
-I REGOLAMENTI (quello che abbiamo detto in positivo e in negativo nelle lezioni precedenti)
-LA CONSUETUDINE --> Questo dipende soprattutto dal sistema della gerarchia delle fonti. Se c'è una
riserva di legge , la consuetudine non può dettare leggi penali, perché solo la legge può farlo , mentre
la consuetudine è una fonte di produzione del diritto diversa della legge.
Può la consuetudine intervenire con la funzione di escludere la punibilità? Qua ricordiamo che la
consuetudine non può né abrogare né derogare alle leggi. Tutte le leggi non possono essere abrogate
per una consuetudine contraria , che sarebbe la così detta desuetudine.
Per la consuetudine è necessario che oltre ad esserci la ripetizione di un determinato comportamento
nel tempo , deve esserci anche la convinzione che quel comportamento sia consentito e previsto dalla
legge.

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Se il fatto è vietato dalla legge penale , non si può agire nella convinzione che sia permesso : quindi,
un'opinione contraria ad una legge positiva esistente che prevede come reato un certo fatto, non si
può formare!
Le leggi penali quindi non possono essere abrogate per desuetudine.

Detto questo, si pone un problema: sicuramente, la consuetudine non può creare nuove figure di
reato , essa già in generale secondo le disposizioni preliminari del Codice civile può operare intanto e
in quanto sia richiamata dalla legge, e non esistono leggi penale che richiamano la consuetudine ; ma
a parte questo potrebbe chiedere se la consuetudine possa riempire spazi di non punibilità, cioè può
essere che un certo fatto sia non punibile perché una consuetudine lo permette?
-Di certo questo non può avvenire quando il fatto sia un reato, non si può formare mai una
consuetudine che permetta ciò che è vietato.
Invece, all'interno delle cause di giustificazione , cioè se per qualche cosa possa essere esclusa la
punibilità da un'ulteriore disposizione-> all'interno delle cause di giustificazione potrebbe essere
lasciato uno spazio alla consuetudine , ma questo presuppone che una legge penale richiami la
consuetudine e questo succede entro certi limiti e precisamente per quello che riguarda l'esercizio di
un diritto.
L'art. 51 del Codice penale tra le cause di esclusione e di giustificazione prevede l'esercizio di un
diritto: non è punibile chi ha commesso il fatto di reato nell'esercizio di un diritto! Certe disposizioni
di legge possono avere un carattere speciale rispetto alla legge penale e consentire come diritto ciò
che la legge penale prevede come reato, es. l'art 889 del codice civile consente al proprietario del
fondo vicino di tagliare i rami che invadono il suo terreno= ci sarebbe un reato che consiste nel
danneggiamento dell'albero del vicino , però una norma speciale del codice civile attribuisce il diritto
al proprietario del fondo in cui i rami crescono di tagliare questi rami.
Una cosa del genere succede più in generale : esistono dei diritti regolati variamente che secondo il
modo in cui vengono esercitati, quindi anche per consuetudine , possono escludere il reato. Questo
vale in particolare in alcuni ambiti nei quali si è formata anche una giurisprudenza in materia nei quali
vi sono disposizioni particolari e certi fatti sono consentiti. Es. attività giornalistica e diritto di critica :
è consentito diffondere notizie diffamatorie quando questo risponda a precisi canoni che la Corte di
Cassazione ha individuato ; questi canoni sono dati dall'utilità o necessità di esercitare l'attività
giornalistica ai fini dell'informazione pubblica. Quindi, se ci sono certe condizioni, si possono
pubblicare certe notizie che di per sé potrebbero Costituire il reato di diffamazione.
Quindi la consuetudine si può formare nei casi limitati previsti dalla legge penale in cui quest'ultima
lasci spazio al formarsi di una consuetudine in materia.

86
31/10/18
Si sta parlando della consuetudine, la quale non può essere fonte del diritto penale.

Un ultimo senso in cui si potrebbe pensare alla consuetudine:

Consuetudine interpretativa ➔quando una parte del testo della legge vanno interpretate secondo
il tempo che va cambiando secondo il modificarsi della consuetudine-> esempio: il concetto di
“osceno”, che viene definito come ciò che offende il comune sentimento del pudore (art.529).
Questo, però, non è corretto dire che si tratti di consuetudine, in questo caso non si verifica niente
altro che quel normalissimo processo di interpretazione della legge penale, la quale assume
significati secondo il tempo in cui questi significati vengono espressi-> il concetto in questione è il
classico elemento normativo della fattispecie. Quindi la legge penale rinvia ad un'altra legge penale
per determinare il significato del termine (per esempio di “osceno”).

Questa parte nel libro non c’è!

Fonti del diritto che in linea di principio non possono essere fonti del diritto penale-> sono norme
del diritto internazionale e quelle dell’Unione Europea.

Norme del diritto internazionale:

Da un punto di vista puramente teorico l’art 15 comma 1 del “Patto internazionale dei diritti civili e
politici” del 1966 e l’art 7 della convezione europea dei diritti dell’uomo, non escludono dalle fonti
del diritto penale il diritto internazionale.

Art 15 del “Patto internazionale dei diritti civili e politici”

comma 1 “Nessuno può essere condannato per azioni od omissioni che, al momento in cui venivano
commesse, non costituivano reato secondo il diritto interno o il diritto internazionale. Così pure, non
può essere inflitta una pena superiore a quella applicabile al momento in cui il reato sia stato
commesso. Se, posteriormente alla commissione del reato, la legge prevede l'applicazione di una pena
più lieve, il colpevole deve beneficiarne.”

comma 2 “Nulla, nel presente articolo, preclude il deferimento a giudizio e la condanna di qualsiasi
individuo per atti od omissioni che, al momento in cui furono commessi, costituivano reati secondo i
principi generali del diritto riconosciuti dalla comunità delle nazioni.”

Ritorneremo su questo punto più avanti.

L’ art 10 della nostra costituzione richiama il diritto internazionale stabilendo che l’Italia si conforma
alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute. Quindi in linea teorica le norme del
diritto internazionale potrebbero essere fonte del diritto penale, tuttavia di fatto non esistono
disposizioni di questo genere. Questo perché ?

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Nel diritto internazionale ordinariamente soggetti di diritto sono gli stati, membri della comunità
internazionale, soggetti ai quali si rivolgono le norme del diritto internazionale-> quindi non
direttamente i singoli individui, ma siccome ovviamente si capisce che la responsabilità penale è la
responsabilità delle persone fisiche, dal diritto internazionale non può direttamente nascere un
obbligo per una persona fisica, quindi non può nascere direttamente una norma penale. Bisogna
sottolineare la parola direttamente, che non significa che il diritto internazionale non condizioni le
norme penali dei singoli stati, ma ciò avviene indirettamente e ciò attraverso i trattati e le convenzioni
internazionali. Ci sono moltissime convenzioni che riguardano tante materie che riguardano la
comunità internazionale e prevedono anche la repressione di queste condotte (stupefacenti,
prostituzione, ecc). Il trattato poi deve essere ratificato dall’Italia con una legge che da esecuzione al
trattato stesso-> legge per la quale quel trattato diviene effettivamente vincolante per l’ordinamento
giuridico italiano-> nel fare questo, lo stato italiano può anche recepire qualche variazione e
precisazioni il contenuto del trattato. Questo significa che fonte delle norme penali non è niente altro
che la legge formale italiana che ratifica il trattato, quindi non c’è nessuna particolarità in questo
modo di procedere.

Ruolo del diritto internazionale in questi casi è indiretto, perché gli stati si mettono d’accordo e si
vede se si aderisce a quella convezione o meno (con un ruolo del diritto internazionale indiretto)

Art 7 della CEDU:

comma 1 : “Nessuno può essere condannato per una azione o una omissione che, al momento in cui
è stata commessa, non costituiva reato secondo il diritto interno o internazionale. Parimenti, non può
essere inflitta una pena più grave di quella applicabile al momento in cui il reato è stato commesso.”

Comma 2 : “Il presente articolo non ostacolerà il giudizio e la condanna di una persona colpevole di
una azione o di una omissione che, al momento in cui è stata commessa, costituiva un crimine secondo
i principi generali di diritto riconosciuti dalle nazioni civili.”

Il secondo comma potrebbe apparire in contrasto con il primo; nel primo comma si fa riferimento al
principio di legalità, una norma di legge. Il secondo comma volle tener conto di quello che è successo
dopo la Seconda guerra mondiale, facendo riferimento ai famosi processi di Norimberga e di Tochyo
che costituiscono per il diritto penale un’assoluta eccezione alle regole ordinarie.

Di che si tratta? La Seconda guerra mondiale aveva dato luogo a delle atrocità e i diciannove paesi
vincitori si riunirono a Londra e approvarono uno statuto (Statuto di Londra) con il quale veniva
istituito un tribunale che doveva giudicare i reati commessi durante la guerra-> non si trattava di reati
comuni secondo le leggi dei vari Paesi; erano crimini di genocidio che non erano codificati nelle leggi
della Germania in particolare. Lo statuto prevedeva il fatto che il tribunale fosse stato costituito dopo
i fatti di reati commessi, e questa è un’eccezione assoluta a una delle regole basilari del processo
penale, cioè che ognuno deve essere giudicato dal giudice naturale precostituito per legge, cioè un
giudice che è nominato prima che il reato sia commesso, per assicurare che quel giudice sia
imparziale.-> ma se lo nominiamo dopo, l’imparzialità di questo soggetto è fortemente discutibile e
quindi lo statuto prevedeva così un’eccezione assoluta alle regole ordinarie.

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Questi statuti contengono delle disposizioni del tutto eccezionali rispetto al diritto penale, ed è
bene sottolineare il carattere di eccezionalità, sia sotto il profilo sostanziale che sotto il profilo
processuale.

Sotto il profilo processuale è una regola pressoché tangibile nel diritto processuale moderno degli
stati civili, cioè che si deve essere giudicati dal giudice naturale istituito per legge e si sa che quel
giudice è competente di quel fatto in modo imparziale, se invece succede un fatto e nominiamo un
giudice dopo che il fatto è successo, è fortemente pensabile che non sia proprio imparziale, perché
è stato nominato per giudicare quel fatto.

Sotto il profilo sostanziale, si è detto e ripetuto che occorre una legge che prevede il reato e deve
essere entrata in vigore prima del fatto commesso-> lo statuto di Londra e quelli per il processo del
processo di Norimberga e di Tochyo erano entrati in vigore dopo che i fatti erano stati commessi. La
tesi era che non si trattasse di una norma retroattiva, ma che queste norme fossero già esistenti
come principi generali di diritto al momento dei fatti. Questa impostazione risente molto che i paesi
vincitori erano buona parte influenzati dai paesi anglosassoni, nei quali vige il sistema di common
law con il precedente giudiziario (contrapposto al sistema di civil law)-> non era cosi sconvolgente
per questi paesi; per la mentalità dei paesi di civil law invece si trattava di una violazione del
principio di legalità-> i tedeschi rifiutarono sostenendo che il tribunale non aveva diritto di
giudicarli, perché non avevano violato nessuna legge vigente (genocidio e crimini contro l’umanità,
ecc) e questa era la difesa, perché non esisteva nessuna legge scritta che violasse quei fatti nel
momento in cui furono commessi. Si capisce che si trattò di fatti del tutto eccezionali. Pio XII, che
era un giurista, riconobbe il valore e la validità di questo modo di procedere e invocando il diritto
naturale che avrebbe vietato fatti atroci come quelli commessi.

Quello che è sicuro è che si tratta di processi del tutto eccezionali che non esprimono la normalità
del diritto, perché non è il diritto per una situazione ordinaria, anche se va ricordato che nella
seconda metà del 900 l’ONU nominò altri due tribunali ad hoc per i fatti verificatesi nei territori
dell’ex Jugoslavia e dell’Olanda, sempre per fatti gravi.

Data questa eccezionalità, si avvertì fin dall’inizio del secolo il desiderio e il bisogno di superare questo
regime, costituendo degli organi aventi una generale competenza per questi crimini rilevanti in sede
internazionale. Nel 1964 fu formulato un progetto di Codice di crimini internazionali contro la pace e
la sicurezza, ma questo tentativo di progetto fu abbandonato-> quest’idea venne ripresa più avanti
da un giurista scomparso l’anno scorso Mahmoud Cherif Bassiouni, il quale continuava l’idea che si
istituisse un tribunale penale internazionale.

In Europa nel 1950 fu stipulata la Convenzione per la tutela dei diritti dell’uomo e delle libertà
fondamentali” che ha istituito una “commissione europea per i diritti dell’uomo” e la relativa
“corte” che ha sede a Strasburgo, con la possibilità per i singoli di ricorrere alla corte per la
violazione dei diritti umani da parte dello stato cui sono cittadini, quando appunto vengono violati
quei diritti che la convenzione europea riconosce e stabilisce.

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La corte EDU può condannare lo stato per violazione di diritti umani e la condanna comporta
l’obbligo per lo stato di cessare il comportamento posto in essere, che può essere un
comportamento di fatto (es: condizioni disumani di carcerazione) o perché le norme non sono
compatibili con i diritti umani riconosciuti dalla convenzione europea.

In ambito internazionale, poi Bassiouni si è impegnato fino a quando non si è raggiunto


effettivamente la costituzione di una “corte penale internazionale permanente”-> la quale è stata
istituita con una conferenza dell’Onu svolta a Roma, conclusa nel ’98 con l’approvazione di un
trattato entrato in vigore il 1° Luglio del 2002. Nel 2004 è stato effettivamente istituito il Tribunale
penale internazionale e la corte penale internazionale permanente che ha sede all’Aja.

Nel trattato e nello statuto sono esplicati alcuni principi generali di diritto, come il principio di
legalità e di irretroattività e sono indicate le pene previste per i reati, che sono pene gravissimi per
reati gravissimi, e soprattutto sono indicate le fattispecie di reato, come crimini di guerra, crimini di
genocidio e aggressione.

Il trattato non è stato firmato grandi paesi come l’India e la Cina, ed è stato firmato da Stati Uniti e
la Russia che però, pur avendolo firmato, non lo hanno ratificato con una legge interna di
accoglimento, cosicché la Cote penale interazionale permanente si trova in una condizione un po’
particolare, perché può giudicare solo per quei cittadini che hanno firmato il trattato e lo hanno
ratificato e non può giudicare quelli che non hanno firmato o non lo hanno ratificato.

Norme dell’Unione Europea:

In origine si parlava di Comunità Europea, oggi di Unione Europea, la quale produce norme di diritto
derivato, cioè non norme degli stati, ma da organi dell’Unione. C’è un procedimento particolare che
vede coinvolta la “commissione europea” e il “parlamento europeo”. È un procedimento che si
conclude con l’emanazione di norme di diritto derivato. Quali sono i limiti e i rapporti delle norme
derivate e il diritto penale?

✓ Il primo punto, che si trova nel testo attuale, ed è sicuramente il punto di partenza della
questione, è che l’Unione Europea non ha competenza penale-> cioè non può emanare
norme penali, né può giudicare fatti cui reato, perché manca sia una legislazione penale, sia
una giurisdizione penale in ambito europeo-> questo perché i singoli stati aderenti alla
comunità si sono riservati espressamente la potestà punitiva, che spetta esclusivamente agli
stati membri e non all’Unione. Ciò si è detto anche per le leggi regionali e la potestà punitiva
è associata alla sovranità nazionale, una sorta di orgoglio per lo stato che si avvale della
propria autonomia e ciò è importante per il diritto penale-> il diritto penale rappresenta la
fisionomia di un ordinamento giuridico, perché individua quei valori minimi essenziali che
stabiliscono il punto di intesa per tutti i cittadini che appartengono a quello stato e una sorta
di minimo etico comune, cioè regole di comportamento accettate generalmente da tutti, cioè
tutti coloro che vivono in un certo paese sono tenuti a rispettare quelle leggi penali e non
possono metterle in discussione il rispetto della libertà ecc.. sono dei punti irrinunciabili per
qualunque comunità e non si transige, per queste materie non c’è libertà, perché ci sarà una

90
reazione penale severa da parte dello stato. Queste materie circoscrivono la libertà dei
cittadini in uno spazio rigido e rigoroso e ogni stato è geloso di individuare quali debbono
essere queste regole minime comuni che tutti sono chiamati a rispettare-> la potestà punitiva
non è stata trasferita all’Unione.
✓ La seconda cosa su cui si deve puntare l’attenzione, è che l’Italia è tenuta a rispettare le
disposizioni emanate dall’UE , non solo per civiltà, ma anche perché l’ art 117 della
costituzione pone un limite rigoroso in questo senso: lo stato e le regioni hanno la potestà
legislativa nel rispetto dei principi costituzionali e delle norme-> la potestà legislativa è
esercitata dallo stato e della regioni nel rispetto della costituzioni e dai vincoli derivanti
dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali. ->questi obblighi discendono dai
trattati internazionali e ciò vale anche per le direttive europee.
✓ Altra cosa che si deve tenere in considerazione è che queste norme si collocano in una
posizione di supremazia rispetto alle norme del diritto interno -> vincolano il legislatore a
rispettare dette norme, ma per quanto riguarda la costituzione, il prof non vuole sbilanciarsi
troppo, perché comunque la costituzione ha un ruolo di supremazia rispetto alle norme
derivate, ma per quanto riguarda le leggi ordinarie, prevalgono le norme derivate. Tuttavia,
pur ribadendo questa posizione di supremazia, bisogna prendere atto che l’ordimento italiano
e quello dell’unione europea sono ordinamenti distinti, cosicché dalla violazione delle norme
non deriva la necessità di disapplicare le leggi contrastanti, quanto piuttosto di “non
applicazione”, per sottolineare la “disapplicazione” e la “non applicazione” che si riferisce a
norme in posizione di supremazia, ma appartenenti a un ordinamento giuridico non italiano,
ma dell’unione europea.
✓ Tuttora si può ritenere che le norme dell’unione europea, rispetto allo standard italiano, siano
caratterizzate da un deficit parziale di democraticità-> nel senso che l’unione europea ha lo
stesso tipo di democraticità che noi italiani diamo alle leggi? E ciò è discutibile, in quanto che
la procedura con la quale vengono approvate le norme, è una procedura mista che richiede
l’intervento della commissione europea insieme al parlamento europeo. Il parlamento è di
tipo democratico, ma la commissione è di tipo non democratico nel senso della riserva di legge
, fa sì che le norme siano caratterizzate da un deficit di democraticità, non sono pienamente
democratiche.
✓ Nell’ambito dell’unione europea hanno un ruolo importante le Corti, precisamente la Corte
di Giustizia dell’Unione Europea e la Corte EDU con sede Strasburgo, con una differenza->
mentre il diritto dell’unione europea sono norme di diritto derivato, approvate direttamente
dagli organi dell’unione europea, viceversa, la CEDU è un trattato internazionali cosi come gli
altri trattati, seppur particolare-> mentre negli altri trattati non esiste un’apposita corte, per
la violazione dei diritti umani in ambito europeo è stata istituita la Corte EDU con sede a
Strasburgo.

In relazione alle norme dell’unione europea nascono delle questioni che hanno qualche somiglianza
con le leggi regionali: solo che le leggi regionali sono leggi che si collocano nell’ambito di uno stesso
ordinamento giuridico italiano, mentre le leggi dell’UE, direttive e regolamenti, sono norme
appartenenti a ordinamenti distinti e sono poste in una posizione di supremazia rispetto al diritto
interno.

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Le conseguenze di questo sistema? ➔ il giudice italiano ha innanzitutto un obbligo di interpretazione
conforme delle leggi nazionali conforme alle norme del diritto europeo. Quando ci si trova in una
situazione di dubbio di come interpretare le leggi italiane alla luce leggi del diritto europeo, deve
sottoporre la questione alla corte di giustizia dell’Unione europea. È un giudice di ultima istanza. La
corte di giustizia è l’unico organo competente a interpretare in ambito europeo le norme del trattato
ai sensi dell’art 267 del TFUE.

La norma europea che non è direttamente applicabile nell’ordinamento italiano, allora non deve
disapplicare la norma in questo caso penale, ma deve sollevare una questione di illegittimità
costituzionale della norma penale italiana ai sensi dell’art 117, cioè per violazione dell’ art 117.

Quando invece una norma penale italiana violi un articolo della CEDU, il giudice deve rivolgersi alla
Corte costituzionale.

Questo è stato fatto in rapporto alla legittima difesa-> la nuova disciplina pone il problema di
un’interpretazione di questo istituto, perché pone l’utilizzo delle armi per difendere i beni
patrimoniali. Si parla di beni, e si è posto se si parla di beni personali o di beni patrimoniali? Alla luce
dei principi della convenzione europea dei diritti dell’uomo art 2, che stabilisce che non si può
uccidere nessuno, si fa riferimento alla “violenza illegale”-> la quale è da intendersi come una violenza
ai beni della persona, non ai beni patrimoniali, cioè violenza della persona. Di conseguenza il giudice
italiano, nell’incerta formulazione della legittima difesa, è tenuto ad interpretarlo anche alla luce della
Convenzione europea dei diritti dell’uomo e quindi esclude che si possa ricorrere all’uccisone di un
altro per difendere beni patrimoniali.

Per il fatto che le norme europee si trovano in questa posizione di supremazia, può succedere che
dalle norme europee discenda, direttamente o indirettamente, di escludere l’applicazione di una
norma incriminatrice nazionale.

✓ Direttamente→ se la norma in questione è in contrasto con una norma europea;


✓ Indirettamente→ quando la norma europea estenda diritti o facoltà e quindi impedisce di
riflesso agli altri di tenere comportamenti che violino questi diritti.

Non è mai possibile l’ambito di punibilità per effetto di una disposizione europea, come si è in
precedenza detto-> i Paesi membri si sono riservati la potestà punitiva. Non può essere una
norma dell’unione europea a fondare la punibilità di un comportamento che non sia visto come
reato dalla legge italiana (art 25)-> le norme europee non sono “legge” in questo senso.

Quello che invece l’UE può fare è che può infliggere delle ammende pecuniarie, che non sono
considerate vere e proprie norme penali, proprio perché mancano i caratteri punitivi penali->
sono norme punitive, ma non penali (sono formalmente amministrative).

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05/11/2018
Stiamo parlando dei rapporti tra il DIRITTO PENALE e le norme di DIRITTO DERIVATO DELL’UNIONE
EUROPEA. Il diritto derivato, o perlomeno le NORME CONVENZIONALI come la CEDU ossia la
CONVENZIONE PER LA SALVAGUARDIA DEI DIRITTI DELL’UOMO E DELLE LIBERTA’ FONDAMENTALI
che è invece UN TRATTATO DI DIRITTO INTERNAZIONALE seppure con caratteristiche particolari
perché stipulando fra i Paesi dell’Europa, si pone su un piano diverso da quello del diritto
dell’Unione Europea in quanto è il risultato di un trattato o convenzione stipulato tra gli Stati, quindi
opera sul piano del diritto internazionale . Occorre distinguere dunque tra: NORME DEL’UNIONE
EUROPEA ossia il DIRITTO DERIVATO e NORME DELLA CONVENZIONE EUROPEA DEI DIRITTI
DELL’UOMO.

Avevamo detto che ,non c’è una potestà punitiva penale dell’Unione europea, tuttavia l’ITALIA EX
ART.117 della COSTITUZIONE è obbligata a emanare le proprie disposizioni penali in conformità
con i trattati , anzi abbiamo aggiunto che, mentre dalle norme costituzionali il legislatore penale
non può derivare un obbligo di emanare norme penali, tranne il caso dell’ART.13 COMMA 4 della
COSTITUZIONE per quanto riguarda le VIOLAZIONI DELLA LIBERTA’ PERSONALE, (Come nel caso del
reato di tortura per esempio), invece dai trattati internazionali deriva proprio, ex art 117, l’obbligo
per l’Italia di adottare norme corrispondenti ai vincoli e ali impegni assunti con i trattati. Quindi se
i trattati lo prevedono, adottare norme penali. L’anno scorso, il Presidente MATTARELLA ha
rinviato alla camera una disposizione che depenalizzava certi comportamenti relativi alla
produzione di armi a grappolo , mentre l’Italia aveva sottoscritto un trattato con il quale si
impegnava a punire la produzione di armi a grappolo e allora il presidente osserva che c’è un
obbligo di diritto internazionale di unire questi fatti e non si possono depenalizzare, proprio perché
l’Italia si è impegnata a punire questi reati ai sensi del trattato. Abbiamo detto quindi che il diritto
dell’Unione Europea, è un diritto derivato e che si trova in una posizione di supremazia rispetto al
diritto interno, anche se queste disposizioni derivate dal diritto dell’unione europea, sono
caratterizzate da un DEFICIT PARZIALE DI DEMOCRACITICITA’ perché : il procedimento legislativo
non è interamente affidato a organi elettivi, come sarebbe un parlamento Nazionale. Infine,
abbiamo detto, che ha un ruolo importante la giurisprudenza che emana le sentenze, alle quali
l’Italia è tenuta a conformarsi.

Dopodiché stavamo parlando dei vincoli derivanti al nostro diritto dalle norme di diritto europeo.
Innanzitutto, dobbiamo ricordare che IL GIUDICE HA L’OBBLIGO DI INTERPRETAZIONE CONFORME
DELLE NORME ITALIANE RISPETTO A QUELLE EUROPEE. QUANDO CI SIA UN DUBBIO È TENUTO A
RIVOLGERSI ALLA CORTE DI GIUSTIZIA DELL’UNIONE EUROPEA, CHE AI SENSI DELL’ARTICOLO 267
DEL TRATTATO DI LISBONA È L’UNICO ORGANO COMPETENTE A DARE UN’INTERPRETAZIONE
AUTENTICA, VINCOLANTE DELLE NORME DEL TRATTATO. SE PERO’ L’INTERPRETAZIONE
CONFORME NON È POSSIBILE, IL GIUDICE, QUALORA NON POSSA APPLICARE UNA NORMA
EUROPEA, DEVE SOLLEVARE UNA QUESTIONE DI LEGGITTIMITA’ DI FRONTE ALLA CORTE
COSTITUZIONALE.

93
QUANDO SONO VIOLATE LE NORME DELLA CEDU,CIOÈ È VIOLATO UN TRATTATO, IL GIUDICE
NON PUO’ DISAPPLICARE O NON APPLICARE DIRETTAMENTE LA NORMA ITALIANA E DEVE
RIVOLGERSI ALLA CORTE COSTITUZIONALE. Facevamo l’esempio della legittima difesa, che
normalmente è stata interpretata perché questo era previsto dall’ordinamento interno in un senso
restrittivo. Avevamo detto che le norme dell’Unione europea non possono mai ampliare l’aria dei
fatti penalmente rilevanti direttamente, perché l’Unione europea non ha una potestà legislativa in
materia penale, può però limitare la applicabilità di nome incriminatrici Nazionali o DIRETTEMENTE
cioè emanando disposizioni che sono in contrasto con quelle penali Nazionali, oppure
INDIRETTAMENTE ossia estendendo facoltà, diritti, ecc… . La Corte di Giustizia dell’Unione
Europea, sin dal 1979 e poi in seguito, molto importante è per esempio la SENTENZA GRANITAL, ha
riconosciuto l’obbligo del giudice Nazionale italiano, di non applicare le norme penali che siano in
contrasto con norme comunitarie. La Corte costituzionale ha confermato questo orientamento:
cioè IL GIUDICE ITALIANO NON PUO’ APPLICARE QUELLE NORME CHE CONTRASTINO CON DELLE
DISPOSIZIONI EUROPEE. In questo caso, dato che siamo alla presenza di ordinamenti giuridici
distinti, si preferisce la terminologia “NON APPLICAZIONE” rispetto al termine
“DISAPPLICAZIONE”. Disapplicazione farebbe riferimento ai vincoli posti da norme di diritto
interno, viceversa NON APPLICAZIONE si riferisce proprio a questa situazione particolarissima, di
un’ ordinamento che è altro, rispetto all’ordinamento Nazionale, che però si trova in una posizione
di supremazia per cui le sue norme vincolano il contenuto delle norme Nazionali.

Riepilogando: le norme europee possono determinare il contenuto delle disposizioni penali


italiane in 2 modi: o attraverso elementi normativi della fattispecie. Questo non deve servirci, nel
senso che una norma italiana può facilmente rinviare esplicitamente o implicitamente a disposizioni
europee. Supponiamo che ci siano delle norme tecniche, vigenti in ambito europeo per l’ambito
della costruzione di impianti elettrici, le famose NORME CE : un impianto deve essere fatto in un
certo modo che è uguale in tutta Europa perché queste caratteristiche ( es. il tipo di filo) sono
determinate da norme tecniche europee. Queste disposizioni potrebbero riempire di contenuto
delle norme penali che punissero il fatto a titolo di colpa. Vedremo in secondo semestre
sicuramente, che un delitto colposo : lesioni personali colpose o omicidio colposo, può derivare da
leggi, regolamenti, o ordini di discipline. In questo senso si può ritenere che, la violazione di norme,
che regolano criteri per la costruzione di impianti tecnici possa essere il presupposto per la
RESPONSABILITA’ COLPOSA: cioè CHI HA COSTRUITO L’IMPIANTO NON RISPETTANDO QUELLE
NORME PUO’ ANDARE INCONTRO ALLA RESPONSABILITA’ COLPOSA prevista dalla legge penale
italiana sulle lesioni colposa, che implicitamente richiama le disposizioni anche europee in tema di
impianti tecnici. Quindi un primo modo è quello che riguarda GLI ELEMENTI NORMATIVI. Ma si
potrebbero fare tantissimi esempi: voi sapete che, ci sono tante norme europee in ambito
alimentare, che definiscono le caratteristiche di certi prodotti e stabiliscono che “l’olio deve essere
fatto in questo e quest’altro modo” per essere definito “olio vergine di oliva”.

Ora, supponiamo che un commerciante venda ad un altro, olio che asserisce essere d’oliva invece
perché possa essere definito tal modo necessita di requisiti previsti dalla normativa europea,
potrebbe costituire essere una truffa. Insomma, indirettamente attraverso gli elementi normativi
della fattispecie incriminatrice si può estendere la rilevanza penale di certi fatti.

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In secondo luogo, è possibile che le norme europee disciplinino certi fatti DIVERSAMENTE DALLA
LEGGE ITALIANA. Ho già detto che non c’è una potestà penale DELL’Unione Europea, ma il discorso
va meglio approfondito in rapporto alle FONTI EUROPEE che come saprete sono: I TRATTATI, I
REGOLAMENTI, E LE DIRETTIVE. Per quanto riguarda i trattati, non sono a parte l’EURATOM, non ce
ne sono che prevedono reati. Per la verità le norme sul trattato EURATOM prevedono che ciascuno
Stato, tratti la violazione sui segreti in materia atomica, cioè li punisca così come punisce la
violazione dei Segreti di Stato nel proprio ordinamento. Quindi, dal trattato Euratom deriva
direttamente per l’Italia l’obbligo di punire le violazioni di segreti atomici come le violazioni dei
segreti di Stato. Ma questo è un episodio limitatissimo, nei trattati direttamente non ci sono norme
di questo genere, vedremo però un’ECCEZIONE: gli ARTICOLI 86 e 83 DEL TRATTATO DI LISBONA.

IMPORTANTE: quando i trattati prevedessero norme penali, queste tranne le eccezioni 86 e 83 del
trattato di Lisbona, hanno comunque bisogno di una LEGGE DI RATIFICA DEL TRATTATO.

Quindi, la fonte della norma penale, sarà la legge penale italiana che ratifica il trattato e non
direttamente il trattato. È ovvio che il trattato avrà importanza, perché indica al legislatore di
punire determinati fatti, tuttavia, dal punto di vista formale che poi tanto formale non è perché il
Parlamento si riunisce e approva il contenuto del trattato, la fonte è proprio la legge italiana di
ratifica del trattato.

Un’eccezione, dicevamo è quella data dall’ARTICOLO 83 DEL TRATTATO DI LISBONA: art. SUL
FUNZIONAMENTO DELL’UNIONE EUROPEA. L’ART 83 PRIMO COMMA va considerato
attentamente, perché stabilisce questo: “IL PARLAMENTO EUROPEO E IL CONSIGLIO
DELIBERANDO MEDIANTE DIRETTIVE, SECONDO LA PROCEDURA LEGISLATIVA ORDINARIA: CIOÈ
C’È UNA PROPOSTA DELLA COMMISSIONE RIVOLTA SIMULATANEAMENTE AL PARLAMENTO
EUROPEO E AL CONSIGLIO POSSONO STABILIRE NORME MINIME RELATIVE ALLA DEFINIZIONE
DEI REATI E DELLE SANZIONE”.

Dunque, attraverso una direttiva il Parlamento Europeo e il Consiglio, prevedono reati e


stabiliscono quali siano le sanzioni, CON QUESTA LIMITAZIONE : “… IN SFERE DI CRIMINALITA’
PARTICOLARMENTE GRAVE CHE PRESENTANO UNA DIMENSIONE TRANSNAZIONALE, DERIVANTE
DAL CARATTERE O DALL’IMPLICAZIONE DI TALI REATI, O DALLA NECESSITA’ DI COMBATTERLI SU
BASI COMUNI”.

Quindi sono particolari reati, che abbiano questa caratteristica “transnazionale”, e la seconda parte
del primo comma dice che dette sfere di criminalità avente carattere transnazionale sono le
seguenti : DETRONISMO, TRATTA DEGLI ESSERI UMANI E SFRUTTAMENTO SESSUALE DELLE
DONNE E DEI MINORI, TRAFFICO ILLECITO DI STUPEFACENTI, TRAFFICO ILLECITO DI ARMI,
RICICLAGGIO DI DENARO, CORRUZIONE, CONTRAFFAZIONE DEI MEZZI DI PAGAMENTO,
CRIMINALITA’ INFORMATICA E CRIMINALITA’ ORGANIZZATA.

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L’articolo 83 stabilisce che queste materie indicate sono di carattere transnazionale perché
supponiamo: un episodio di contraffazione dell’euro, questa cosa può succedere in Italia, ma
produce effetti in tutti i Paesi dell’Unione Europea. E così anche per gli altri reati. In più si prevede,
in funzione dell’EVOLUZIONE DELLA CRIMINALITA’ Il CONSIGLIO può adottare delle decisioni che
individuano altre SFERE DI CRIMINALITA’ , deliberando ad UNANIMITA’ previa consultazione del
PARLAMENTO EUROPEO. Questo è previsto ed è un’eccezione al criterio per cui l’Unione Europea
non può dettare norme penali perché con l’approvazione del Trattato di Lisbona anche l’Italia come
altri Paesi hanno assegnato all’Unione Europea la possibilità di emanare direttive che siano
direttamente applicabili in territorio Nazionale perché definiscono i reati e stabiliscono le sanzioni,
sebbene in questi ambiti limitati che abbiamo appena visto. Questa è una diretta possibilità per le
norme dell’Unione Europa che attraverso le direttive, emanata secondo la procedura legislativa
ordina di definire i reati e prevedere le sanzioni. Ritorneremo sull’articolo 83 perché c’è poi la
possibilità di normali direttive rivolte agli Stati che non prevedono direttamente i reati ma soltanto
invitano gli Stati ad emettere delle disposizioni.

Quindi stavamo parlando dei trattati … ci sono poi i REGOLAMENTI che si differenziano dai trattati
perché, mentre il trattato è una norma che viene ratificata dall’Italia attraverso la legge ordinaria
formale , viceversa I REGOLAMENTI SI TROVANO IN UNA POSIZIONE SINGOLARE PERCHÈ: SONO
APPROVATI DALL’UNIONE EUROPEA, E A DIFFERENZA DELLE ALTRE DISPOSIZIONI DEL DIRITTO
INTERNAZIONALE VINCOLANO DIRETTAMENTE SUGLI INDIVIDUI, si dice “PRODUCONO EFFETTI
VERTICALI” non orizzontali perché non producono effetti agli Stati ma direttamente ai singoli
individui. E in teoria vorrebbero prevedere norme penali. Ora però, sembra impossibile che un
regolamento europeo dotato della capacità di rivolgersi direttamente ai singoli possa prevedere,
data quella regola secondo cui gli Stati Membri si siano riservati la potestà politica, delle norme
penali. Non può definire i reati. Anche su questo punto, il trattato di Lisbona potrebbe sembrare
che abbia aperto uno spiraglio nel senso che: I REGOLAMENTI POSSONO PREVEDERE REATI, perché
all’ART 86. Si dice: “PER COMBATTERE I REATI CHE LEDONO GLI INTERESSI FINANZIARI
DELL’UNIONE, IL CONSIGLIO DELIBERANDO MEDIANTE REGOLAMENTI PUO’ ISTITUIRE UNA
PROCURA EUROPEA E QUEST’ULTIMA È COMPETENTE PER INDIVIDUARE,PERSEGUIRE E RINVIARE
GIUDIZIO IN COLLEGAMENTO CON EUROPOL GLI AUTORI DI REATI CHE LEDONO GLI INTERESSI
FINANZIARI DÈUNIONE ,QUALI DEFINITI DAL REGOLAMENTO PREVISTO NEL PARAGRAFO 1”.

Si è posto un problema di interpretazione di questo secondo comma dell’art 86: “2. La Procura
europea è competente per individuare, perseguire e rinviare a giudizio, eventualmente in
collegamento con Europol, gli autori di reati che ledono gli interessi finanziari dell'Unione, quali
definiti dal regolamento previsto nel paragrafo 1, e i loro complici. Essa esercita l'azione penale
per tali reati dinanzi agli organi giurisdizionali competenti degli Stati membri”.

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Quindi si è detto: questo trattato sembrerebbe prevedere che un regolamento europeo possa
definire i reati, quindi riconoscerebbe nell’ambito limitatissimo degli interessi finanziari dell’Unione
Europea una possibilità per i regolamenti di prevedere reati, senonché questo è impossibile perché
leggendo con cura e attenzione la formula ci si accorge che quel “definiti dal regolamento “ non si
riferisce alla definizione dei reati ma agli interessi finanziari definiti dall’Unione. Il testo italiano dà
luogo a questa incertezza interpretativa perché “definiti” potrebbe rivolgersi sia a reati che a
interessi. Per fortuna però in francese il testo è chiaro perché la parola reati è al femminile mentre
definiti è al maschile, cosicché si capisce che quel definiti non si riferisce ai reati bensì agli interessi.

Quindi RIEPILOGANDO: l’Art 86 del trattato sul funzionamento dell’unione europea, il trattato di
Lisbona, NON PREVEDE LA POSSIBILITA’ CHE UN REGOLAMENTO EUROPEO DEFINISCA REATI A
TUTELA DEGLI INTERESSI FINANAZIARI DELL’UNIONE EUROPEA PERCHÈ SI LIMITA
SEMPLICEMENTE A STABILIRE CHE GLI INTERESSI FINANZIARI DELL’UNIONE EUROPEA CHE
POSSONO ESSERE PERSEGUITI ATTRAVERSO REATI CHE EVONO ESSERE PREVISTI DA NORME
ALTRE, GLI INTERESSI FINANZIARI CHE SONO DEFINITI DAI REGOLAMENTI.

Dunque, questo per quanto riguarda i regolamenti. Andiamo ora alle direttive.

LE DIRETTIVE invece SI RIVOLGONO AGLI STATI, cioè NON VINCOLANO DIRETTAMENTE I SINGOLI,
E QUINDI NON POSSONO CONTENERE NORME PENALI, perché LE NORME PENALI SI RIVOLGONO
AI SINGOLI CHE VENGONO PERCIO’ PUNITI.

Le dirette possono avere un duplice effetto:

-IMPORRE AGLI STATI L’OBBLIGO DI PREVEDERE CERTI REATI; in questo caso lo Stato è tenuto ad
emanare norme penali conformi alla direttiva. Per esempio, questo è avvenuto concretamente in
materia di riciclaggio. Tuttavia, dal punto di vista formale la direttiva ha bisogno di una legge che sia
emanata dallo Stato e dà attuazione alla direttiva. Quindi se per esempio ci sono delle disposizioni
penali in materia di riciclaggio queste sono apportate in Italia con una legge ordinaria che tiene
conto di quanto stabilito nella direttiva, cosicché la direttiva ha un ruolo per quello che riguarda la
scelta di fondo ma non un ruolo formale nel senso che non è la fonte della legge penale e della
sanzione penale. Peraltro, le direttive possono essere più o meno vincolanti in base alle loro
caratteristiche. Molto spesso infatti LE DIRETTIVE SONO GENERICHE (ES. prevedere un reato di
riciclaggio) . Questa è sicuramente una norma generica perché poi si deve intendere come bisogna
qualificare “riciclaggio” e l’Italia deve scegliere come disciplinare il delitto di riciclaggio. Oppure al
contrario, una DIRETTIVA può essere ANALITICA cioè puntuale e precisa.

Ora, Mentre dalle direttive generiche non può derivare mai in senso positivo (di estendere) e in
senso negativo (di restringere, cioè che un fatto non venga punito), non può derivare nessun effetto
sulla legislazione penale italiana, invece in certi casi le direttive possono MAI ESTENDERE ma
RESTRINGERE l’ambito di applicabilità delle norme penali italiane quando siano : -ANALITICHE cioè
indicare puntualmente in maniera precisa in che cosa consiste il fatto indicato;

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- E CHE SIA SCADUTO IL TEMPO ENTRO IL QUALE LO STATO ITALIANO AVREBBE
DOVUTOEMANARE UNA PROPRIA LEGGE DI ATTUAZIONE DELLA DIRETTIVA E LO STATO ITALIANO
NON LO HA FATTO perché se avesse emanato la legge, la fonte che regola quella materia sarà la
legge. Ma se lo Stato non ha provveduto ad emanare la legge che sia dà attuazione per una direttiva
precisa allora ha direttamente forza vincolante la direttiva. Questo però, è importante ricordarlo,
può avvenire solo nel senso di limitare la punibilità di fatti, che costituirebbero reato secondo la
legge penale italiana. Non può mai avvenire nel senso contrario. Un esempio famoso di questo è la
causa RATTI, ( Ratti è l’imputato), il quale era stato CONDANNATO in base alla legge italiana PER
REATI DI OMESSA INDICAZIONE DI SOSTANZE TOSSICHE TENUTE IN VERNICI (lui era un produttore
di vernici). La legge italiana lo obbligava a scrivere sulle confezioni che quella vernice conteneva
certe sostanze tossiche. Successivamente era entrata in vigore una DIRETTIVA EUROPEA
SELFEXCUTING ossia precisa e scaduto il termine, la quale invece poneva a carico del produttore di
vernice l’obbligo di scrivere della presenza di eventuali sostanze tossiche in una maniera differente.
Ratti si era attenuto alla direttiva europea indicando la presenza di sostanze tossiche all’interno
della vernice e non secondo la precedente legge penale italiana. Condannato in secondo grado,
viene poi assolto perché la direttiva europea self executing precisa e scaduta gli consentiva di
scrivere in quel modo le sostanze tossiche e quindi il fatto da lui commesso in base alla direttiva
non era punibile come invece sarebbe stato per la legge penale italiana. Cosicché la legge penale
italiana viene non applicata dal giudice, il quale assolve Ratti perché ha rispettato la direttiva
europea.

Una questione dipendente da questa è se una norma penale italiana contrastante con una direttiva
possa essere non applicata dal giudice italiano con il risultato di applicare una più severa
disposizione incriminatrice e quindi di condannare un fatto che sarebbe secondo la legge italiana
più severamente di quanto la legge italiana preveda. La Corte di Giustizia Europea ha stabilito: “da
una direttiva non può derivare direttamente un’estensione della punibilità però questo effetto
può derivare indirettamente dalla direttiva”. Nel senso che: una direttiva, potrebbe stabilire che
una legge penale italiana sia troppo poco severa e che i fatti commessi devono essere puniti più
severamente. Questo non direttamente come effetto della direttiva, ma indirettamente in quanto
la direttiva renda applicabile una preesistente norma più severa italiana. RISPIEGO: C’è una norma
penale italiana, subentra un’altra norma italiana meno severa, questa norma penale meno severa
contrasta con la direttiva perché punisce troppo poco, allora VIENE DICHIARATA L’ILLEGGITTIMITA’
CONVENZIONALE (cioè in rapporto con le norme dell’Unione) di questa norma meno severa e
ritorna la legge italiana più severa. Sul punto la Corte di Giustizia ha avuto pareri contrastanti nel
tempo: perché in un primo momento, sino agli anni ’90 aveva ammesso questa possibilità.

La Corte di Giustizia aveva infatti detto: “C’era una legislazione italiana severa che successivamente
è stata cambiata in un senso più favorevole al meno severo che però non tutela abbastanza una
certa materia e allora non può andare bene, bisogna ritornare alla più severa legislazione
preesistente”. Questo è successo in tema di rifiuti, che dovevano essere stoccati, smaltiti, in un
certo modo perché altrimenti si commettono REATI AMBIENTALI. In due casi diversi ma simili :
DOMBESI e MISELLI riguardanti lo scarico di rifiuti, la Corte Europea aveva detto :

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“la legge italiana che dà una punizione molto limitativa di rifiuti non tutela abbastanza l’ambiente
quindi questa legge è in contrasto con le direttive europee sulla tutela dell’ambiente. E siccome i
signori Dombesi e Miselli avevano commesso i reati prima che entrasse in vigore la norma più
favorevole (meno dura) quando avevano commesso i fatti questi erano considerati reati, per cui in
questi due casi la legge posteriore più favorevole non viene applicata perché appunto contrastante
con una norma superiore, in posizione di supremazia che è la direttiva europea. Cosicché è stata
ammessa la possibilità di condannare gli imputati che avevano commesso un reato quando la legge
penale italiana era più severa non tenendo conto di una successiva legislazione penale (che viene
solitamente preferito secondo un principio generale del diritto penale).

La stessa Corte Di Giustizia ha cambiato orientamento in senso più favorevole al REO a partire dal
caso BERLUSCONI. Berlusconi era stato accusato di REATI DI FALSO BILANCIO commessi quando
la legge penale italiana in tema di falso bilancio, prevedeva questo comportamento come reato.
Successivamente entra in vigore in Italia una legge in materia di falso bilancio più favorevole al Reo
che escludeva la punibilità di Berlusconi. Berlusconi ricorre alla Corte di Giustizia e ottiene ragione
nel senso che la Corte dice: “non si può non applicare il principio del FAVOR REI perché non
possiamo punire più severamente di quanto la legge successiva dispone, sebbene questa
disposizione sia eventualmente contrastante con le direttive europee”.

Quindi prevale in questo orientamento posteriore, della Corte di Giustizia Europea il principio di
favorire il reo piuttosto che quello della disapplicazione della norma troppo favorevole.

Dunque, stiamo vedendo i rapporti fra direttive e norme penali italiane. Può anche succedere che
una norma penale italiana violi una direttiva europea e la Corte si pronunci condannando l’Italia.
Quando ciò accade la legge penale italiana contrastante con e disposizioni europee, in caso di
condanna dell’Italia da parte della Corte di Giustizia ha come risultato che il GIUDICE ITALIANO
DELL’ESECUZIONE DELLA SENTENZA DI CONDANNA ai sensi dell’articolo 673 del codice di
procedura penale, deve revocare la sentenza di condanna quando l’Italia sia stata condannata dalla
Corte di Giustizia europea perché la sua legislazione penale in base alla quale qualcuno era stato
condannato, è contrastante on norme europee di senso diverso. In questo senso, LA CORTE
COSTITUZIONALE ITALIANA, questo è molto interessante, lo ritroverete infatti in procedura penale,
con una sentenza del tutto creativa , la sentenza numero 113 del 2011 ha inventato un caso
ulteriore di revisione delle sentenze di condanna. Che cos’è la REVISIONE?? Le sentenze penali,
divengono definitive, quando è stato proposto l’appello, poi si è ricorso in Cassazione, la
Cassazione si pronuncia e la sentenza è definitiva.

Oppure può diventare definitiva anche se non diventa in corso d’Appello, decorre il tempo entro il
quale si può ricorrere in Appello, nessuno propone appello e la sentenza diventa definitiva. Lo
stesso anche se non si fa ricorso in Cassazione. C’è una sentenza d’appello ma nessuno ricorre in
Cassazione e la sentenza diviene definitiva.

Quando la sentenza diventa definitiva, ossia con termini tecnici “PASSA IN GIUDICATO” non può
più essere verificata, tranne alcuni casi cosiddetti “REVISIONE” casi del tutto straordinari in cui
sebbene ci sia una sentenza definitiva di condanna, per varie ragioni ci si accorge che è necessario
revocare quella sentenza.

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Una delle ipotesi è una sentenza di condanna per omicidio nel caso che ci si accerti che la persona
vittima, uccisa in realtà non è affatto morta ma è viva. Allora la sentenza di omicidio non ha più
senso e deve essere revocata. E ci sono altre ipotesi DI NUOVE PROVE DECISIVE SOPRAVVENUTE,
che dimostrano che la sentenza non può essere modificata, eccetera eccetera .

Ora, la Corte costituzionale nelle ipotesi di revisione, che sono casi ECCEZIONALI , TASSATIVE
indicate all’art 630 del CODICE PENALE, con una sentenza creativa ha raggiunto un’ulteriore ipotesi
: REVISIONE EUROPEA. Nel caso in cui una sentenza della Corte Europea abbia accertato non che
c‘era stato un errore processuale ma che la norma era contrastante con norme in posizione di
supremazia europee. Da questo accertamento della Corte Europea, può derivare il presupposto per
revocare la sentenza di condanna attraverso questo meccanismo di REVISIONE EUROPEA anche
quando la sentenza sia passata ormai in giudicato.

Trattiamo adesso dell’ILLEGGITTIMITA’ COSTITUZIONALE: o illegittimità costituzionale dichiarata


dalla corte Costituzionale in contrasto con le norme dell’Unione Europea e quindi disapplicazione
della norma che revoca ai sensi dell’ART 673 del CODICE DI PROCEDURA PENALE, oppure pronuncia
da parte della Corte Europea che dichiara che la norma italiana è in contrasto e, la nostra Corte
Costituzionale con una sentenza del 2011 ha inventato la REVISIONE EUROPEA così anche se si è
formata in giudicato il giudice può revocare la condanna in base a queste ipotesi particolarissime di
revisione.

Vediamo ora, una cosa particolarmente interessante che è IL CASO DARICCO. Qualcuno ha parlato
di “sagra Daricco” cioè un’epopea perché il processo Daricco, cosiddetto DARICCO-BIS anche se
l’imputato non è più Daricco si continua a parlare di Daricco.

È importante sotto diversi profili, ma quello che ci interessa ,maggiormente è il rapporto tra il
diritto penale e il diritto dell’Unione europea. Il signor Daricco era stato condannato per FRODE
FISCALE a danno dell’Unione Europea. Era stato assolto perché il reato era prescritto. Il procuratore
Europeo ricorre alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, la quale pronuncia una sentenza
singolarissima: stabilisce infatti che le norme in materia di trascrizione di reati ed in particolare per
quello che riguarda la cosiddetta INTERRUZIONE, cioè che il tempo della prescrizione si ferma e
ricomincia a decorrere da capo, riparte una volta che sia venuta meno la causa di interruzione. In
questo ripartire ci sono però comunque dei limiti, cioè il tempo della prescrizione non può superare
certi limiti stabiliti dalla legge.

Ora secondo quando stabilito dalla Corte Di Giustizia della Corte Europea questi limiti sono molto
brevi perché spessissimo non si arriva alla condanna proprio a causa della brevità dei tempi di
prescrizione. Ne deriva quindi un problema per la tutela degli interessi finanziari dell’Unione
Europea ai sensi dell’ART 325 DEL TRATTATO DI LISBONA paragrafi .1 e 2 , la Corte di Giustizia
rimprovera al giudice italiano di disapplicare questa norma troppo favorevole per l’imputato e
applicare le normali norme in termini di prescrizione allungando i tempi di prescrizione e quindi
consentendo la punizione IN TEMPURUM. Quindi la norma troppo favorevole considera la
prescrizione non ancora compiuta, quindi applica le regole generali che l’allungano e quindi punisce
Daricco.

100
Si sarebbe trattato di una cosa singolarissima perché dalla sentenza della Corte di Giustizia Europea
derivasse un allargamento della punibilità che il giudice avrebbe dovuto applicare una norma in
prescrizione. Da lì il ricorso della Corte costituzionale che dice che non è possibile che una sentenza
della Corte Europea direttamente imponga al giudica italiano di estendere la punibilità. La Corte
costituzionale italiana dice che la previsione della punibilità è uno dei principi generalissimi
dell’ordinamento giuridico italiano che prevede che un soggetto debba sapere fino a quando è
punibile e quando non sarà più punibile. Cosicché questo diritto fondamentale della conoscenza dei
termini della punibilità appartiene ai principi dell’ordinamento costituzionale italiano. E quindi la
Corte costituzionale piuttosto che pronunciare una sentenza, ha pronunciato un’ordinanza con la
quale rinviando il caso di nuovo alla Corte di Giustizia Europea dicendole in modo diplomatico:
“Corte di Giustizia, sei sicura di voler mantenere questa decisione? Perché guarda che questa tua
decisione che allunga la punibilità è contraria ai principi fondamentali della costituzione italiana. Se
tu proprio insisti nel volerlo fare, io attivo i contro limiti, ossia dei limiti all’applicabilità delle norme
europee derivanti dai principi fondamentali costituzionali italiani, per cui ci sono norme di
supremazia(quelle europee), ma se una norma pur in posizione di supremazia dovesse urtare con i
principi dell’ordinamento italiano sanciti dalla costituzione allora questo sarebbe un contro limite
alla possibilità di far prevalere le norme europee. E la normativa italiana dovrebbe essere
salvaguardata”.

La Corte costituzionale ha fatto capire alla Corte di Giustizia che essendo contro i principi
costituzionali italiana, viene attivato un contro limite per cui la sentenza viene bloccata perché in
contrasto col principio della RETROATTIVITA’ contenuto nell’ordinamento costituzionale italiano. La
Corte Di Giustizia recepita l’ordinanza da parte della Corte costituzionale, ritorna sui suoi passi, nel
senso che ha precisato che effettivamente questo limite ridotto della prescrizione che intendeva
allargare resta fermo ma solo per i processi che siano stati commessi dopo la mia sentenza, quando
cioè tutti sanno che i termini previsti dalla norma penale italiana sono stati ampliati dalla sentenza
della Corte di Giustizia. Ci sono però da chiarire alcuni punti:

-questa prevedibilità in realtà è discutibilissima perché riguarda la pena non il tempo che prescrive.
Il Reo non deve sapere quando dovrà stare nascosto prima che possa essere raggiunto da una
sentenza di condanna e prima che si ponga il termine della prescrizione. Quindi tutto questo
discorso secondo alcuni autori italiani non avrebbe fondamento e quindi si innesta un ulteriore
dibattito e cioè: “LA PRESCRIZIONE DEL REATO È UN ISTITUTO DI DIRITTO PENALE SOSTANZIALE
O PROCESSUALE ?

Se è sostanziale è riguardato dalle garanzie delle norme penali QUINDI il principio di retroattività.
Se invece è un istituto di diritto processuale vale per la prescrizione come per tutte le altre norme
processuali il principio REBUS REGIT ACTUM cioè la norma, in questo caso la prescrizione è
regolata dalle norme in vigore nel momento in cui si deve applicare, anche in senso sfavorevole”.
La Corte di Giustizia sostiene che la prescrizione sia un istituto di diritto processuale e quindi non
vede nessun ostacolo allorché anche dopo commessi i fatti, i tempi della prescrizione siano
ampliati, anche a sfavore del Reo. La Corte costituzionale invece ritiene che la prescrizione sia un
istituto di carattere sostanziale attenendo alla punibilità e che quindi ci sia un diritto alla
irretroattività alle norme che fossero più severe, nel caso in questione riguardo la prescrizione.

101
La questione è ancora aperta perché entrambe le posizioni sono sostenute e sostenibili. Secondo la
buona parte dei penalisti italiani, nonostante la prescrizione abbia carattere processuale, anche in
questo caso sarebbe assistita dalle garanzie che riguarderebbero la legge penale perché il
legislatore l’ha messa nel Codice penale la disciplina sulla prescrizione. E qui dal punto di vista
dogmatico è un istituto processuale ma la sua disciplina è contenuta nel Codice penale e quindi
anche per la prescrizione sebbene di carattere processuale, valgono quelle garanzie che valgono in
generale per la legge penale, cominciando dal principio di irretroattività. E tutti sono d’accordo che
in realtà per la prescrizione in Italia valga la regola dell’irretroattività. Non proprio tutti perché
come abbiamo detto poco fa alcuni pensano che per la prescrizione non ci sia il principio
dell’irretroattività è perché non riguarda essa ma il tempo del processo.

Questo era il caso Daricco, conclusosi così. Ora, detto questo concludiamo questo argomento
ritornando sulle tecniche con cui le direttive dell’Unione Europea, possono influenzare la legislazione
penale italiana. Ci sono due diverse modalità di tecniche: l’ASSIMILAZIONE e l’ARMONIZZAZIONE
.L’ASSIMILAZIONE consiste nell’imporre con direttività agli Stati di regolare certi fatti rilevanti in
ambito europeo, per esempio a danno dell’Unione Europea, così come vengono regolati gli stessi
fatti in ambito Nazionale. Quindi assimilare i fatti commessi a danno dell’Europa con quelli commessi
a danno dello Stato, dei cittadini italiani dunque in ambito Nazionale. Quindi fu prevista la stessa
legge, la stessa disciplina, che era già prevista per fatti riguardanti l’Italia, anche per disciplinare fatti
commessi in ambito europeo. Un ’esempio perfetto di questo tipo di tecnica di assimilazione è dato
da una delle norme della parte speciale, DELITTI CONTRO LA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE e cioè
l’ART 322-BIS il quale ha esattamente in attuazione della direttiva europea utilizzato questa tecnica
dell’assimilazione . ART 322-BIS : “Peculato, concussione, induzione indebita a dare o promettere
utilità, corruzione e istigazione alla corruzione di membri della Corte penale internazionale e degli
organi delle Comunità europee e di funzionari delle Comunità europee e di Stati esteri. Le
disposizioni degli articoli 314, 316, da 317 a 320 e 322, terzo e quarto comma, si applicano anche:
1) ai membri della Commissione delle Comunità europee, del Parlamento europeo, della Corte
di giustizia e della Corte dei conti delle Comunità europee;
2) ai funzionari e agli agenti assunti per contratto a norma dello statuto dei funzionari delle
Comunità europee o del regime applicabile agli agenti delle Comunità europee;
3) alle persone comandate dagli Stati membri o da qualsiasi ente pubblico o privato presso
le Comunità europee, che esercitino funzioni corrispondenti a quelle dei funzionari o agenti delle
Comunità europee;
4) ai membri e agli addetti a enti costituiti sulla base dei Trattati che istituiscono le Comunità
europee;
5) a coloro che, nell'ambito di altri Stati membri dell'Unione europea, svolgono funzioni o attività
corrispondenti a quelle dei pubblici ufficiali e degli incaricati di un pubblico servizio.
5-bis) ai giudici, al procuratore, ai procuratori aggiunti, ai funzionari e agli agenti della Corte penale
internazionale, alle persone comandate dagli Stati parte del Trattato istitutivo della Corte penale
internazionale le quali esercitino funzioni corrispondenti a quelle dei funzionari o agenti della Corte
stessa, ai membri ed agli addetti a enti costituiti sulla base del Trattato istitutivo della Corte penale
internazionale “

102
L’articolo stabilisce quindi che anche persone che non risponderebbero ai sensi della legge penale
italiana perché non sono pubblici ufficiali dello Stato italiano ma delle Comunità Europee, della Corte
Di Giustizia, rispondono esattamente come rispondono i pubblici ufficiali italiani per i delitti
corrispondenti all’art 322-bis. Quindi in base alla legge penale italiana, se non ci fosse questo articolo
322 –bis potrebbero rispondere solo i pubblici ufficiali italiani e non questi funzionari dell’Unione
Europea. L’articolo 322 –bis estende ai pubblici funzionari dell’Unione Europea, l’applicabilità per
questi reati, assimilando la disciplina italiana per i reati commessi ai danni dell’Unione Europea. QUAL
È L’INCONVENIENTE? In tutti gli Stati questi reati sono disciplinati in maniera diversa, con funzioni
penali differenti, quindi assimilando i fatti succederà che il funzionario europeo che fosse punito ai
sensi della legge italiana andrebbe incontro alla disciplina italiana; il funzionario europeo che fosse
punito ai sensi della legge tedesca, andrebbe incontro alla disciplina penale prevista dalla legge
tedesca, determinando una disparità di trattamento;
-l’altra tecnica è l’ARMONIZZAZIONE significa, che al contrario, c’è un modello unico europeo
dettato con una direttiva, e che gli Stati sono tenuti a dotarsi, a emanare norme penali corrispondenti
a quel modello segnato dalla direttiva. La direttiva ovviamente non può immediatamente essere
applicata come legge penale italiana per esempio, ma l’Italia è tenuta a prevedere un reato secondo
il modello preposto dalla direttiva. In questo modo si realizza quell’effetto di armonizzazione tra la
legislazione dei vari Paesi. L’esempio più forte di armonizzazione è quello che vi ho ricordato all’inizio
previsto dall’art 83 del trattato di Lisbona, il quale stabilisce che con delle direttive, il Parlamento e il
Consiglio possono porre delle norme minime relative alla definizione dei reati e delle sanzioni. I singoli
Stati sono ovviamente tenuti a rispettare il contenuto delle direttive in questione emanando nella
loro legislazione norme corrispondenti. E così abbiamo finito di parlare del rapporto tra norme penali
e norme dell’Unione Europea.

103
6/11/2018
Che cosa si intende per legge quando si parla di riserva di legge?
Legge non sono i regolamenti, non è la consuetudine. Per quello che riguarda la legge dell’Unione
Europea in linea di principio le norme di diritto derivato dell’Unione Europea non sono legge ai fini
della riserva di legge e, tuttavia, ci sono delle importanti interferenze tra norme dell’UE e quelle di
diritto penale.

TASSATIVITA’ E DETERMINATEZZA
Le due parole indicano un’esigenza comune ma da due angolazioni differenti. L'istanza è quella di
chiarire che cosa è vietato dalla legge penale. Questa stessa istanza può essere vista o nell’ottica del
legislatore penale, il quale deve formulare le norme penali incriminatrici in modo preciso, e allora si
parla di determinatezza. Quando si parla di tassatività, l’esigenza è la stessa, ma sotto il profilo
dell’interpretazione e applicazione da parte del giudice penale, il quale deve applicare la norma
penale incriminatrice per quello che essa stabilisce e non allargando l’applicazione della legge a casi
non previsti dalla stessa legge.
I due concetti sono strettamente collegati. Se non ci fosse determinatezza, e quindi se il legislatore
formulasse la legge penale in modo vago e indeterminato, che lasciano aperte l’applicazione della
legge a non ben chiare altre situazioni (es. espressioni come “in casi analoghi”), non avrebbe senso
vincolare il giudice ad attenersi al testo della legge, perché questa sarebbe formulata in modo tale
da consentirgli estensioni. Viceversa, il legislatore potrebbe sforzarsi di formulare la legge in modo
più chiaro e stringente possibile, ma se poi il giudice facesse un’applicazione della legge che non
rispetti il principio di tassatività, sarebbe vanificata comunque l’istanza comune ai due principi.
I principi in questione non hanno un formale ed espresso riferimento nell’art.25 c.2 della
Costituzione, fonte del principio di legalità. Tuttavia, il principio di legalità sicuramente si estende e
comprende quelli di tassatività e di determinatezza, proprio perché non ha senso porre una riserva
di legge se poi queste leggi fossero applicate in maniera troppo elastica. D'altra parte, esistono delle
precise disposizioni del Codice penale e delle disposizioni preliminari al Codice civile, che
riconoscono e sanciscono tali principi.

Nel Codice penale si ritrovano negli artt. 1 e 199:


• Art.1 c.p.: “Nessuno può essere punito per un fatto che non sia espressamente preveduto
come reato dalla legge, né con pene che non siano da essa stabilite”.
Quindi non solo il fatto deve essere previsto, ma lo deve essere espressamente. Certe volte il
confine tra ciò che è punibile e ciò che non lo è può essere molto sottile, ed è un’operazione che
richiede un’estrema precisione.
• Art.199 c.p.: “Nessuno può essere sottoposto a misure di sicurezza che non siano
espressamente stabilite dalla legge e fuori dei casi dalla legge stessa preveduti”.

Nelle preleggi invece ci si riferisce all’art.14:


• “Le leggi penali e quelle che fanno eccezione a regole generali o ad altre leggi non si
applicano oltre i casi e i tempi in esse considerati”.

104
Quindi, le leggi penali e le c.d. leggi eccezionali vanno applicate in modo tassativo, soltanto per
quanto espressamente previsto dalla legge stessa.
Queste disposizioni hanno un valore costituzionale: costituiscono dei principi non modificabili
perché attengono al procedimento legislativo e quindi fanno parte della c.d. “Costituzione
materiale”.

Bisogna citare anche l’art.13 della Cost., in quanto è il primo di quegli articoli che aprono la PARTE I
della Costituzione, sancendo in modo solenne quei diritti intangibili dei cittadini. L'art. 13 parla di
libertà personale:
• “La libertà personale è inviolabile.
Non è ammessa forma alcuna di detenzione, di ispezione o perquisizione personale, né qualsiasi
altra restrizione della libertà personale, se non per atto motivato dall'autorità giudiziaria e nei
soli casi e modi previsti dalla legge”.
Una restrizione della libertà personale è ammessa solo nei casi e modi previsti dalla legge. Questa
disposizione ha un carattere essenzialmente processuale: si rivolge all’autorità giudiziaria e/o di
polizia e riguarda il compimento di quegli atti di restrizione della libertà personali necessari e
funzionali al processo penale, ma anche ad altre misure, come quelle di prevenzione. Quindi, pur
essendo una disposizione di carattere processuale ma se le forme e le modalità di restrizione della
libertà personale devono essere previste dalla legge, ovviamente, a monte, anche i casi in cui è
possibile la restrizione della libertà personale (cioè i reati) devono essere previsti dalla legge, perché
se ci fosse una descrizione rigorosissima riguardo al procedimento e invece le norme di riferimento
ai reati fossero nebulose, si potrebbe limitare allora la libertà sulla base di un reato del tutto
fumoso e vago.

1) DETERMINATEZZA
Il principio di determinatezza esige che la legge penale si formulata in modo chiaro e stringente, in
modo da non lasciare spazi di incertezza e vaghezza. Questo è difficilissimo nella prassi: la legge è
una proposizione che esprime una regola generale e astratta, indica in generale una serie
amplissima di comportamenti. Per esempio, l’art. 575 c.p. punisce l’omicidio:
• “Chiunque cagiona la morte di un uomo è punito con la reclusione non inferiore ad anni
ventuno”.
L'espressione <<cagiona>> in questo caso è di principale importanza: il reato si caratterizza per il
cagionare la morte, ma questa può essere cagionata in una varietà di modi difficilmente
quantificabile.

Quindi, passare dall’astratto al concreto non è un’operazione facile. Per questo il legislatore ricorre
a varie tecniche:
• Talvolta si serve di un’elencazione casistica;
• Ricorre ad elementi vaghi della fattispecie penale.

105
L'elencazione casistica è un tipo di formulazione della legge penale che si sforza di indicare tutte le
possibili varianti del comportamento che si vuole punire. Questa tecnica si può osservare, per
esempio, all’art.73 del T.U. stupefacenti:

• “1. Chiunque, senza l'autorizzazione di cui all'articolo 17, coltiva, produce, fabbrica, estrae,
raffina, vende, offre o mette in vendita, cede, distribuisce, commercia, trasporta, procura ad
altri, invia, passa o spedisce in transito, consegna per qualunque scopo sostanze stupefacenti
o psicotrope di cui alla tabella I prevista dall'articolo 14, è punito con la reclusione da sei a venti
anni e con la multa da euro 26.000 a euro 260.000.”
Questa norma è un elenco di condotte indicate con determinatezza che vogliono e intendono
coprire tutta l’area dei possibili casi dello “spaccio”, includendo tanti altri comportamenti.
Importante è notare che con una precisa scelta di politica criminale, il legislatore, tra tutte queste
condotte non ha inserito l’acquisto di tali sostanze, con la limitazione che si deve trattare di uso
personale. L'elencazione casistica ha proprio lo scopo di separare condotte penalmente rilevanti da
condotte che invece non lo sono.

Nell'atto di compravendita, le due separate condotte di vendere e acquistare sono inscindibilmente


legate. I civilisti proprio per questo parlano di sinallagmatica, proprio per sottolineare l’inseparabile
unione tra i due atti. La legge penale invece separa le due cose: chi compra non è punito, chi vende
invece sì.
Il metodo casistico presenta alcuni inconvenienti: comporta espressioni ridondanti che
appesantiscono il testo della legge; non è sempre possibile utilizzare questo metodo (basti pensare
all’omicidio, per cui è impensabile elencare tutti i casi in cui si può cagionare la morte di un uomo);
inoltre, potrebbe indurre il giudice, il quale si trovi imbrigliato da una formulazione così rigida, ad
un’applicazione che vada oltre i limiti previsti che si riferisca a casi simili e affini.
Proprio per questi aspetti del metodo casistico si fa ricorso agli elementi vaghi, che sono
espressioni sintetiche e coincise per indicare una svariata molteplicità di fatti.
Per esempio, l’espressione “in tempo di notte”, ha la caratteristica degli elementi vaghi: è
caratterizzata da una zona “grigia” che sta al centro di un’area dove i fatti sono “bianchi” da un lato
e “neri” da un’altra. Ci sono orari che sono sicuramente tempo di notte (2:00 A.M.) e orari che
sicuramente non rientrano in questa espressione (12:00). Ma ci sono poi delle zone di confine che
non dipendono solo dall’orario indicato dall’orologio, ma in modo molto più complicato dalle
ragioni per le quali la legge penale usa l’espressione “in tempo di notte”, infatti questa viene usata
quando si vuole considerare una maggiore gravità del fatto, perché in questo lasso di tempo le
difese di chi subisce lesioni sono minorate per via dell’assenza di luce, per l’assenza di altre persone
ecc... Proprio per queste ragioni l’espressione deve considerare delle variabili (il periodo dell’anno,
il luogo).

Nei casi dei delitti contro la pubblica amministrazione, un esempio è il delitto di peculato d’uso
(art.314 c.2 c.p.):
• “Si applica la pena della reclusione da sei mesi a tre anni quando il colpevole ha agito al solo
scopo di fare uso momentaneo della cosa, e questa, dopo l'uso momentaneo, è stata
immediatamente restituita”.

106
L’espressione da attenzionare è “uso momentaneo”: non significa istantaneo, ma neanche d’altra
parte un uso prolungato. In mezzo una serie di altre durate, per le quali bisogna chiedersi se si
tratta di uso momentaneo o meno, e questo dipende anche da quello di cui si tratta.

Dal punto di vista del rispetto del principio di legalità, sotto il profilo della determinatezza questi
elementi sono in molti casi sono inevitabili, e sono accettabili perché lasciano capire la fattispecie
che si intende punire con quel grado di decisione che si può ritenere sufficiente ai fini del principio
di determinatezza. Se si volesse descrivere lo stesso fatto con termini ed espressioni del tutto
precise, sarebbe impossibile descrivere determinate situazioni.
Per esempio, la legge penale parla di schiamazzi notturni. Ma che si intende per schiamazzi? Si
dovrebbero conteggiare i decibel di questi? Ma con schiamazzi non si intende soltanto il rumore,
ma anche la confusione indeterminata. Quindi non si può nella maggior parte dei casi fare a meno
di elementi vaghi della fattispecie, perché non è possibile ricorrere a criteri tecnici, rigorosi o
scientifici per quello stesso fatto, con una chiarezza che sia adatta alla formulazione della legge
penale.
Parte più rigorosa della dottrina afferma che non ci si deve servire se non di elementi c.d.
“descrittivi-naturalistici”, che non fanno riferimento a nozioni flessibili ed elastiche, ma che siano
rigorosamente descrittivi. Questi elementi non sono facili da individuale, quelle parole che nell’uso
corrente hanno questa caratteristica, in realtà anche esse si prestano a flessibilità. Per esempio, la
nozione di uomo, che apparentemente è elementare, in realtà va adattata alla legge penale: per
esempio, esistono delle disposizioni in materia di infanticidio, che puniscono l’uccisione di un feto
durante il parto o immediatamente dopo il parto. Per la legge penale questo non è omicidio, anche
se nell’immediatezza del parto il bambino è già nato, ma è infanticidio, fatto differente. Lo stesso
vale per il concetto di morte: che cos’è la morte? Si può intendere come arresto cardio-circolatorio,
c’è l’arresto cerebrale.
Anche lì dove il termine sembrerebbe rigorosamente descrittivo in realtà la legge penale lo
rielabora in base alle sue esigenze.

Gli elementi normativi possono essere estremamente precisi e vincolanti in certi casi, come quando
si dice “attentato al Presidente della Repubblica”, la figura istituzionale è un’indicazione
estremamente chiara e non lascia dubbi. Mentre in altri casi gli elementi normativi chiari possono
incrociarsi a loro volta con elementi normativi vaghi. Per esempio, si fa rifermento ad altre
disposizioni che però non dicono in modo assolutamente preciso di cosa si tratti. Questo vale
ancora di più quando le norme cui si rinvia siano norme di carattere sociale, etico, che facciano
riferimento a comportamenti: per esempio, la definizione di atti osceni, come atti che secondo il
comune sentimento offendono il pudore. Il “comune sentimento” è un elemento che va variando
nel tempo, è un concetto sul quale si discute.

107
Ancora più complesso è il caso descritto dall’art.565 c.p., quando si fa riferimento alla morale
familiare:
• “Chiunque nella cronaca dei giornali o di altri scritti periodici, nei disegni che ad essa si
riferiscono, ovvero nelle inserzioni fatte a scopo di pubblicità sugli stessi giornali o scritti,
espone o mette in rilievo circostanze tali da offendere la morale familiare, è punito con la
multa da centotre euro a cinquecentosedici euro”.
A cosa ci si riferisce con l’espressione “morale familiare”? Un'indicazione potrebbe venire dal fatto
che questa disposizione viene subito dopo l’art.564 c.p. che punisce il delitto d’incesto, e quindi si
potrebbe pensare che i fatti lesivi di tale morale siano quelli che possano portare al delitto
d’incesto, ma comunque rimane estremamente imprecisato.
Di fronte a questo tipo d’imprecisione rafforza la tesi della parte della dottrina che non ritiene che
gli elementi vaghi possano essere sufficienti, visto che parametro di riferimento sono elementi
valutativi (“osceno”, “morale” ...).
Lì dove l’elemento vago si riferisca a concetti che esprimono una qualche valutazione connotata in
senso etico-sociale, questa vaghezza sarebbe ancora maggiore. Addirittura, in questo caso, la
posizione estrema di parte della dottrina è di rinunciare totalmente alla tutela penale per
l’impossibilità di formulare in modo sufficientemente preciso la legge penale.

La Corte costituzionale è stata estremamente cauta nel dichiarare illegittime norme penali per
violazione del principio di determinatezza. Lo ha fatto soltanto in due occasioni:
1. Per il delitto di plagio (art.603 c.p. “Chiunque sottopone una persona al proprio potere, in
modo da ridurla in totale stato di soggezione, è punito con la reclusione da cinque a quindici
anni”), dichiarato costituzionalmente illegittimo, e fu un caso anche politico e sociale, nel
contesto degli anni ‘80 e si riferiva ad una relazione omosessuale tra due uomini i quali non
potendo essere puniti perché omosessuali, erano stati accusati di plagio. La Corte
costituzionale affermò: “Lo <<stato di soggezione>> è stato ritenuto non verificabile nella
sua effettuazione e nel suo risultato, non essendo individuabile né accettabile le attività che
potrebbero concretamente esplicarsi per ridurre una persona in tale stato”. È una sentenza
un po’ “politica”, ma probabilmente tiene conto del fatto che questa disposizione si pone al
seguito di quelle che incriminano la schiavitù.
2. Una sentenza su una disposizione sugli stranieri (sent. 34/1995), che prevedeva la
espulsione di cittadini extracomunitari che “non si adoperano per ottenere il documento di
viaggio”. La Corte ritenne che la parola “adoperarsi” non fosse sufficientemente chiara.

In tutti gli altri casi in cui norme penali sono state sottoposte al controllo di legittimità da parte della
Corte non sono state ritenute illegittime, che quindi non violassero il principio di determinatezza
con due argomenti:
1. L’espressione ha in sé stessa un sufficiente significato che indica con la precisione necessaria
il fatto in questione, questo per esempio a proposito del vilipendio, per cui la Corte ha
affermato che vilipendio significasse “considerare vile”, quindi offendere, qualcuno o
qualcosa, e quindi la parola, che certo prevedeva una valutazione, fosse comunque
sufficientemente determinata;

108
2. Fa ricorso al c.d. diritto vivente, cioè quello concretamente applicato nelle aule di Giustizia,
quindi il risultato della interpretazione delle leggi da parte dei giudici (in primis della Corte di
Cassazione che ha funzione c.d. nomofilattica), e quindi vista la prassi interpretativa bisogna
applicare tale diritto vivente che chiarisce il significato corrente di certi concetti.

Certe volte il legislatore di fronte a casi in cui l’interpretazione non fosse sufficientemente chiara ha
provato a correggere le norme e molte volte ha peggiorato la situazione.
Per esempio, nella sua formulazione originaria, il delitto di peculato poteva essere commesso con
due tipi di condotta: appropriazione della cosa mobile o distrazione (ovvero, in termini giuridici,
destinare la cosa ad una finalità diversa da quella che invece dovrebbe avere e quindi sottrarla alla
sua destinazione originaria, “dis-trarre”).
Nell’interpretazione del termine distrarre si era registrato una varietà di posizione e un
comportamento eccessivamente rigoroso da parte della giurisprudenza: questa riteneva che ci
fosse un reato di peculato per distrazione in tutti i possibili casi di distrazione, quindi nel caso più
grave sottrarre la cosa alla sua finalità pubblica per destinarla ad uno scopo privato, nei casi meno
gravi sottrarre la cosa alla finalità di un ente pubblico per destinarla ad un'altra finalità ma di un
altro ente pubblico, o ancora meno grave sottrarre la cosa da una finalità pubblica per rivolgerla ad
altre finalità dello stesso ente pubblico. Per la dottrina l’atteggiamento della Cassazione per cui si
fosse sempre di fronte a peculato per distrazione in questi casi era esagerato. Allora il legislatore ha
pensato di correggere questa polisemanticità del termine distrazione, cancellandolo e lasciando
solo il verbo “appropriarsi”. Per cui il significato di quest’atto è stato interpretato come se ogni
forma di distrazione non costituisse più reato. Si osserva poi che quando la distrazione è fatta in
vista di uno scopo assolutamente privato è esattamente come un’appropriazione. L'idea che si
possa fare a meno di una qualche flessibilità dei termini non è realistica.

Un elemento per il quale è particolarmente importante, discussa e delicata la precisione della legge
è la sanzione. Come già detto negli artt. 1 e 199 c.p., le pene devono essere espressamente stabilite
dalla legge. Gli illuministi, nella loro geometrica aspirazione ad un rigore assoluto della legge che
non lasciasse potere al giudice, pensavano che le pene dovessero essere fisse. Questa precisione
non va bene per il diritto penale: le pene sono quasi sempre indicate da un minimo a un massimo
(c.d. ambito edittale). Quindi c’è un margine, che poi in concreto viene stabilito dal giudice
all’interno di tali limiti edittali. Il giudice non agisce ad arbitrio, ma esercita un potere discrezionale
che è regolato dall’art. 133 c.p., che detta i criteri ai quali il giudice deve ispirarsi per stabilire la
pena esatta tra il minimo e il massimo in rapporto al caso concreto. È sicuro che una pena fissa
sarebbe assolutamente ingiusta, e quindi in contraddizione con il principio di legalità, perché è
evidente che i fatti che corrispondono ad un’astratta descrizione della legge possono essere di
gravità ben diversa tra loro (un fatto è rubare 50€, altro è rubare un quadro di Van Gogh: il valore è
molto diverso e questo lo è anche dal punto di vista delle ragioni per cui si è commesso il fatto).
Dunque, è pacifico che un certo margine di elasticità, entro i limiti fissati dalla legge, è giusto e
doveroso e risponde alle esigenze della giustizia e della legalità.
Cosicché, paradossalmente, ci si è posti il problema per l’unica pena fissa del nostro ordinamento:
l’ergastolo, pena alla reclusione teoricamente a vita e che è uguale per tutti i fatti per i quali è
prevista.

109
Allora la Corte costituzionale è stata adita più volte per pronunciarsi sulla legittimità costituzionale
dell’ergastolo in quanto pena fissa che non consente al giudice di adattarla alla diversità dei fatti,
anche tenendo conto del fatto che l’art. 27 c.3 Cost. indica che la pena ha una funzione rieducativa,
intesa come “risocializzazione” del reo. La Corte ha sempre ritenuto che l’ergastolo sia
costituzionalmente legittimo con diverse motivazioni: innanzitutto, il regime dell’ergastolo prevede
una serie di particolarità per le quali il condannato all’ergastolo, ricorrendo certi presupposti, può
essere ammesso a una liberazione anticipata; poi in certi casi di estrema e particolare gravità le
istanze di rieducazione vanno ottemperate con esigenze di difesa della società (c.d. funzione di
incapacitazione della pena, per cui si rende il reo incapace di continuare a commettere il reato,
come nel caso di un mafioso che dal carcere continua ad avere rapporti con la mafia o di un
terrorista...).

2) TASSATIVITA’
Data una legge penale, formulata secondo il principio di determinatezza, il giudice deve applicare
rispettosamente e senza andare oltre quanto stabilito dalla legge stessa.
Tale principio è collegato strettissimamente al divieto di analogie, per cui non si possono applicare
le leggi penali se non nei casi espressamente previsti (v. artt. 1 e 199 c.p.; art. 14 Preleggi).

Bisogna ricordare che l’interpretazione consiste nell’individuare il significato della proposizione


linguistica in cui la legge consiste e applicarlo ai casi concreti. Questa operazione consiste in un
sillogismo: la legge è la premessa maggiore (“Chiunque cagiona... è punito...”), il caso concreto
sarebbe la premessa minore (Tizio ha cagionato la morte di Caio), la conclusione è l’applicazione
della legge al caso concreto (Tizio va punito).
In realtà è più complesso di quanto possa sembrare, perché richiede una serie di operazioni:
• l’interpretazione innanzitutto deve fondarsi sul momento letterale, quindi sul significato
letterale delle parole. Compito del giudice è di individuare il significato delle parole di cui è
composta la legge.
• Partendo dal momento letterale, il giudice deve allargare l’operazione interpretativa
attraverso il momento logico, cioè inserendo il singolo termine all’interno dell’espressione
più complessa di cui fa parte, e questo può cambiare di molto il senso delle singole parole.
• Ancora, segue un momento sistematico, che comprende il significato di un articolo di legge
in relazione a quelli che gli sono vicini, perché si tratta di un sistema di disposizioni che si
pensa ha una sua coerenza, e quindi quello che una parte di un articolo significa non può
essere considerato in modo isolato ma in relazione ad altre disposizioni dell’ordinamento.

Tutti questi momenti vanno poi considerati attraverso un esame che tenga in conto i fattori storici e
il momento teleologico. Il ruolo che il tempo e la fase storica in cui la legge va applicata ha
un’importanza estrema, in particolare per il diritto penale (basta provare ad immaginare cosa
potesse significare la parola “onore” nel 1930, e il significato che gli si può attribuire oggi la stessa
parola). Le norme di diritto positivo vivono nel tempo e si evolvono insieme alla società che devono
regolare.

110
Problematica è l’interpretazione teleologica. Qualcuno ritiene che nella interpretazione delle leggi
penali non si possa utilizzare il riferimento al bene giuridico protetto. Il bene giuridico secondo
alcuni sarebbe il risultato dell’interpretazione e quindi sarebbe individuato solo a seguito
dell’interpretazione della legge penale. Logicamente, quindi non sarebbe di nessuna utilità nel
processo di interpretazione, in quanto individuabile solo alla fine dello stesso processo. Questa
dimostrazione presupporrebbe che l’interpretazione fosse un processo rettilineo, in realtà è molto
più complesso perché tiene in considerazione contemporaneamente molti elementi (beni giuridici
inclusi), in un’operazione che è invece circolare, che parte da alcuni pre-giudizi, pre-concetti e li
verifica alla luce dei lavori preparatori, del decorso della storia, del significato sistematico, dei
principi superiori di ordine costituzionale e poi ritorna indietro per verificare il risultato dell’intera
operazione mettendolo a fuoco rispetto ai fatto concreti da giudicare.

In questo processo di ritorno del percorso interpretativo, il bene giuridico dà delle indicazioni che
vanno però ulteriormente messe alla prova, confrontandole con il testo, con le disposizioni vicine,
con le ragioni storiche che hanno portato ad una certa formulazione ecc... In questo processo, il
momento teleologico dell’interpretazione, cioè la considerazione del bene giuridico protetto è
importantissimo e dice molto rispetto a quali siano i contorni della tutela.
Per il peculato il fatto che offenda il buon andamento della Pubblica Amministrazione, la sanzione e
il rapporto con le altre disposizioni portano a concludere che se uno si appropria di un foglio di
carta bianco non commette peculato: il bene giuridico tutelato non è offeso!

111
7/11/2018
Per quanto riguarda l'interpretazione, essa può essere estensiva o restrittiva, cioè può indicare un
significato del termine più ampio di quello che appare a prima vista o più ristretto. Più ampio, per
esempio potrebbe essere l'espressione uomo con il quale si intende anche donna. Per esempio,
l'art. 575 che dice chiunque cagiona la morte di un uomo ... intende anche chiunque cagiona la
morte di una donna. Qualcuno propone di istituire una nuova figura di reato, il femminicidio -che è un termine giornalistico, non presente
nel c.p.- e lo fanno per uno scopo ben preciso, ovvero per porre l'accento ad un problema sociologico.

Al contrario se il codice per esempio parla di cosa mobile, si deve fare un'interpretazione restrittiva:
infatti cosa mobile potrebbe anche essere un foglio di carta, però se si pensa a fattispecie di furto,
appropriazione indebita o peculato, nessun giudice sensato potrebbe mai intendere un foglio di
carta come una cosa mobile ai sensi della fattispecie e quindi darà un'interpretazione restrittiva del
termine.

Ora, non è così semplice tracciare una linea di confine tra l'interpretazione estensiva e l'analogia.
L'analogia può essere iuris o legem. L'analogia legem è l'applicazione di una norma ad un caso non
espressamente previsto da questa, quando il caso sia simile a quello espressamente regolato.
L'analogia iuris è invece l'applicazione di un principio generale di diritto ad un caso simile non
espressamente regolato da quel principio.

Questa è la traduzione in termini tecnici del principio di frammentarietà -l'applicazione del diritto
penale avviene infatti in modo frammentario, appunto: è il legislatore che decide quali specifici fatti
siano reati, lasciando alcune aree dell'agire umano scoperte dal suo intervento.- Questo principio
comporta quindi che i fatti puniti sono solo quelli stabiliti dal legislatore. E il divieto di analogia
traduce questo principio in pratica: se c'è una legge penale non si può applicare ad altri casi,
seppure simili, ma può essere applicata solo a quei casi espressamente previsti dalla legge.

Non è dunque facile stabilire un confine netto tra l'interpretazione estensiva e l'analogia.
L'interpretazione estensiva nel d.p. è ovviamente consentita, a differenza dell'analogia, che si
riferisce a qualcosa di diverso. Possiamo dire così: sino a che il caso non espressamente indicato
rientra nella possibile volontà semantica del termine si può parlare di interpretazione estensiva. Per
esempio, con il termine uomo si può intendere anche essere appartenente alla specie umana, la
quale è composta da uomini e donne, siamo quindi dentro al significato che si può intendere con il
termine uomo. Non si tratta di analogia.

Viceversa, quando si va al di là di ogni possibile significato delle parole e si tratta semplicemente di


applicare la disciplina ad un caso simile, allora ci troviamo di fronte ad una analogia. Roberto Bobbio
riteneva che l'analogia non fosse nient'altro che un normalissimo caso di interpretazione perché applicando rigorosamente la legge al caso simile non

si fa altro che applicare la regola che il legislatore ha posto anche dove non sia formalmente indicato: non riteneva dunque che l'analogia fosse

qualcosa di diverso rispetto all'interpretazione.

Facendo qualche esempio.

112
Il Codice penale parlava di patria potestà, che con la riforma del diritto di famiglia è stata attribuita
ad entrambi i genitori -oggi addirittura si parla di responsabilità, non di potestà, genitoriale-. Nel
tempo intercorrente tra la riforma del diritto di famiglia e la modifica formale del cod. pen. - patria
potestà dei genitori, non più del padre- si poteva interpretare l'espressione patria potestà come
responsabilità genitoriale. Fin qui si trattava di interpretazione estensiva.

Un problema importantissimo invece si è posto fino al 2002 per il termine amministratore nel
diritto societario per i reati societari era quello relativo alla responsabilità penale
dell'amministratore c.d. di fatto -qualcuno risulta formalmente intestatario mentre un terzo,
l'amministratore di fatto, gestisce la società segretamente- mentre il cod.civ. detta una disciplina
solo per quanto riguarda l'amministratore. E allora a questo punto ci sono due concezioni.
Qualcuno dice che soltanto chi ha formalmente la qualifica di amministratore può essere
considerato tale, se quindi non è amministratore secondo il diritto civile non possiamo chiamarlo a
rispondere dei reati: contrariamente, facendo rispondere dei reati ad un amministratore di fatto, si
tratterebbe di una applicazione analogica -un soggetto che di fatto eserciti i poteri di
amministratore, ma che non lo sia formalmente non potrebbe dunque rispondere dei reati
societari.

A questa impostazione, che ha degli inconvenienti gravissimi perché in questo modo non sarebbe
chiamato a rispondere nessuno, si contrappone un'altra impostazione, poi accolta dal legislatore nel
2002: colui che di fatto amministra la società deve essere considerato amministratore -> art. 2639
c.c. introdotto nel 2002. Prima della riforma di questo articolo si discuteva sull'amministratore di
fatto e una posizione diceva: perché dobbiamo limitarci a considerare amministratore quello che è
tale secondo il diritto privato? Per il diritto penale può essere benissimo amministratore colui che
amministri, anche di fatto, la società. Infatti, quando la legge penale dice l'amministratore possiamo
intendere come la persona nominata regolarmente o colui che effettivamente si comporta di fatto
da amministratore. E questa era la concezione preferita sia da dottrina che da giurisprudenza. Da
ciò si capisce quanto può essere difficile distinguere tra interpretazione estensiva e analogia in una
certa applicazione.

Qualche altro esempio invece nel senso dell'analogia.

Qualche volta è stato contestato il delitto di insolvenza fraudolenta, art. 642 c.p. , a chi passasse dal
casello autostradale senza pagare il pedaggio. Ma l'art 641 non c'entrava nulla con questa
applicazione, sebbene descrivesse un fatto simile: Chiunque, dissimulando il proprio stato
d’insolvenza, contrae un’obbligazione col proposito di non adempierla è punito, a querela della
persona offesa, qualora la obbligazione non sia adempiuta, con la reclusione fino a due anni.
Questa norma era stata introdotta nel c.p. per il caso delle persone che andavano al ristorante a
mangiare senza pagare -siamo nel 1930-. Il rimedio sarebbe stato di natura civilistica, ma non aveva
senso in quanto queste persone erano nullatenenti.

Ovviamente non siamo nella situazione prevista nell'art. 641, si tratta dunque di analogia.

113
Altro caso.

L'art. 57 e ss. puniscono il direttore di stampa per quello che viene pubblicato nel suo giornale. Si
parla di stampa: che succede però nelle pubblicazioni online?

Il direttore non è responsabile in questo caso poiché il termine usato è stampa, termine il quale ha
dei limiti semantici e non può essere esteso fino a ricomprendere la pubblicazione online: si
tratterebbe di analogia a sfavore del reo, nonostante si tratta sostanzialmente della stessa cosa. E la
Cassazione lo ha inteso in questo stesso modo: ci sono volute delle riforme apposite per le
pubblicazioni online.

La ragione per la quale per leggi penali è stabilito il divieto di analogia non è tanto la certezza del
diritto quanto piuttosto l'esigenza di garanzia per il cittadino. Ovvero, la certezza del diritto tutto
sommato potrebbe ritenersi in qualche modo smussata con una rigorosa applicazione analogica. Da
un punto di vista della garanzia del cittadino il divieto di analogia vuole evitare che qualcuno venga
punito senza che questo possa adeguatamente e preventivamente aspettarsi l'applicazione di una
legge che espressamente non riguarda il suo caso. Dato che è così la dottrina unanime è concorde
nel ritenere che il divieto di analogia per le leggi penali si riferisca esclusivamente alle norme penali
incriminatrici e non anche a quelle a favore del reo.

Quindi se una disposizione penale prevede una regola a favore del reo, che lo garantisce di più
quindi, questa può essere applicata anche per analogia, in quanto la garanzia del reo si estende: si
dice in bonam partem. Quindi l'analogia in bonam partem è consentita in base al fondamento
stesso di garanzia del reo.

Adesso però entra in gioco una disposizione che considera le cose da una diversa prospettiva:
l'art.14 delle disposizioni preliminari del Codice civile: Le leggi penali e quelle che fanno eccezione a
regole generali o ad altre leggi non si applicano oltre i casi e i tempi in esse considerati .

Esso quindi vieta l'analogia per le leggi penali e per le leggi eccezionali, cosa logica, perché se una
legge è eccezionale dispone per un caso del tutto particolare. Qui a proposito dell'analogia in
bonam partem, Il fondamento del divieto di analogia la consentirebbe, ma a questo punto bisogna
porsi un'altra questione: queste leggi a favore del reo sono eccezionali? Perché se consideriamo le
norme a favore del reo eccezionali, allora non le possiamo estendere per analogia in quanto
eccezionali.

In questo punto la dottrina è assolutamente divisa.

Pagliaro: le disposizioni che escludono il reato dettate in generale, per esempio gli artt. 50-54 c.p.,
sono secondo lui eccezionali. Infatti, in un sistema democratico, la regola è la libertà, a meno che
una legge non vieti una determinata azione. Se c'è una legge che vieta qualcosa, questa non si può
fare, per cui la legge penale stessa costituisce un'eccezione: e fin qui siamo nell'ambito delle leggi
che prevedono reati. Quelle ulteriori leggi che invece escludono il reato sarebbero un'eccezione
all'eccezione.

114
La regola è la libertà, l'eccezione è la punizione per i soli fatti previsti dalla legge, la non punibilità
del reato è un'eccezione dell'eccezione. Quindi queste disposizioni sono comunque eccezionali e
perciò non possono di fatto essere estese per analogia. Quindi concretamente non è possibile
l'analogia in bonam partem.

La parte opposta sostiene invece che sia possibile l'analogia soprattutto con riferimento alle cause
esclusione del reato, che vengono chiamate con una diversa terminologia, cause di giustificazione
del reato. Questa concezione è fondata sulla struttura del reato. Secondo questi autori la struttura
del reato è data da tre elementi: fatto tipico, antigiuridico, colpevole. Il fatto tipico è quello
descritto dalla legge penale; con colpevole si intende dire che il fatto è commesso con dolo o con
colpa, o che in ogni caso sia rimproverabile al suo autore; antigiuridico significa che non deve essere
consentito da altre disposizioni che sono desunte dall'intero ordinamento giuridico, e quindi
esprimono principi dell'interno ordinamento giuridico. Dunque, queste cause che escludono
l'antigiuridicità, dette di giustificazione, non sono strettamente penalistiche ma al contrario sono
desunte dall'intero ordinamento giuridico ed esprimono principi e regole di esso. Allora secondo
questi autori le cause di giustificazione, che derivano dall'intero ordinamento giuridico non hanno
nulla di eccezionale ma al contrario esprimono regole generalissime, comune, stabili, per l'intero
sistema dell'ordinamento giuridico. Dunque, non sono da considerarsi eccezionali. La conseguenza
è che non sono neppure penali perché sono desunte dall'ordinamento giuridico, a prescindere dal
fatto che si trovano del Codice penale, e possono quindi essere estese per analogia.

Abbiamo quindi due posizioni contrastanti.

Stabilire la eccezionalità o meno di queste norme non è fattibile, in quanto non ci sono ragioni di
fondo. L'opinione del prof. è che sia più logico, piuttosto che fare un discorso astratto per tutti i
casi, stabilire per gruppi, e di volta in volta, se si tratta di principi generali o di norme eccezionali,
facendolo però concretamente.

L'approccio è quello di vedere per singole situazioni favorevoli al reo se realmente siano da
considerarsi eccezionali o meno.

Cause che escludono l'imputabilità art. 85 ss. Codice penale

La logica del nostro sistema penale è basata sull'ordine binario. Quindi perché sia inflitta una pena è
necessario che un soggetto sia capace di intendere e di volere: si parla di imputabilità. Imputabile è
chi è capace di intendere e di volere. Gli articoli seguenti regolano singole situazioni di incapacità di
intendere e di volere. L'art. 85, che prevede la formula generale, è una norma così aperta da potersi
applicare anche in modo da comprendere varie situazioni senza bisogno di ricorrere all'analogia.
Sono delle parole volutamente ampie. Non c'è quindi il bisogno di porsi il problema dell'analogia
per quanto riguarda l'imputabilità e le sue singole disposizioni che la regolano, perché la formula
dell'art 85 è così generica da poter ricomprendere tutto ciò che si riferisce alla capacità di intendere
e di volere, al di là da quello che poi è specificatamente regolato nei seguenti articoli.

115
Situazioni del tutto particolari che esprimono con assoluta certezza logiche eccezionali

Esse sono di diverso genere.

•Categorie delle cause di esclusione della sola pena. Categoria già di per sé problematica, in quanto
secondo alcuni in assenza di pena non ci può essere reato. Esistono situazioni nelle quali un fatto
per il quale non può essere inflitta una pena sotto un certo aspetto continua ad essere punibile. Per
esempio: art. 649 c.p. -> reati contro il patrimonio commessi senza frode o violenza, per cui è
stabilita la non punibilità. Non è punibile colui che ha commesso i fatti elencati in questo articolo:
cioè reati contro al patrimonio commessi senza dolo e senza violenza commessi contro alcuni
parenti. Non è punibile soltanto per chi abbia questo rapporto di parentela, mentre gli altri, estranei
al rapporto, sono punibili se hanno partecipato a questi fatti. L'esclusione della pena opera dunque
solo per quei particolarissimi soggetti. Il fatto è quindi oggettivamente punibile. Si tratta quindi di
una logica eccezionale, e non possono perciò essere estesi a soggetti diversi da quelli indicati ai
numeri 1,2,3 di tale articolo. La Cassazione ha concluso che la convivenza more uxorio non rientra
nella previsione dell'articolo, che invece prevede il coniuge: essa è infatti una norma del tutto
eccezionale. E questo nonostante si tratti di una situazione quasi identica. Con l'introduzione
dell'unione civile tra persone dello stesso sesso, è stato previsto un numero 1-bis.

•Stesso discorso vale per le c.d. immunità penali. Sono delle situazioni in cui non si può essere
chiamati a rispondere per un reato in ragione di una qualità personale collegata all'esercizio di
funzioni particolari, di diritto interno o internazionale. Si tratta di agenti diplomatici, ministri e capi
di stato estero, ma anche membri del parlamento e così via. I fatti commessi sono reato ma non
possono essere puniti in quanto chi li commette gode di immunità diplomatica: non c'è modo di
perseguirli. Questo per consentire agli Stati di continuare a mantenere rapporti diplomatici liberi
senza che ci sia il sospetto che lo stato estero vada a interferire, controllare, ispezionare, e quindi
punire, i soggetti in questione. Sono ragioni che non escludono la gravità del fatto ma sottolineano
l'inopportunità puramente politica di perseguire persone che si trovano in una situazione
particolarissima, e che quindi godono di questa immunità. Per esempio, per i parlamentari, si può
ritenere che mentre questi non possano essere puniti, un collaboratore possa invece essere punito
in quanto non gode della specialissima immunità di cui gode il membro del parlamento.

•Cause di estinzione del reato. Sono l'amnistia, la prescrizione, ecc... Queste sono il frutto di
valutazioni assolutamente eccezionali di natura politica, stabilite di volta in volta dal legislatore

Tutte queste, essendo situazioni particolari, non possono essere estese in nessun caso.

Andando invece verso cause di esclusione del reato comunemente dette di giustificazione
contenute negli artt. 50-54 c.p.: consenso dell'avente diritto, esercizio di un diritto o adempimento
di un dovere, difesa legittima, uso legittimo delle armi, stato di necessità. Queste vanno
ulteriormente in gruppi.

116
Per l'art 51 non si pone neanche il problema dell'analogia. Il codice si limita a dire che non è
punibile chi ha commesso il fatto nell'esercizio di un diritto o nell'adempimento di un dovere. Una
formula del genere è così aperta e ampia che non ha bisogno di analogia perché tutto ciò che
costituisce diritto o dovere rientra in questa previsione, è una formula onnicomprensiva.

Possiamo invece dire che si tratti di logiche eccezionali con riferimento all'uso legittimo delle armi e
allo stato di necessità. Il primo -art 53- prevede che non è punibile il pubblico ufficiale che, al fine di
adempire un dovere del proprio ufficio, fa uso ovvero ordina di fare uso delle armi o di un altro
mezzo di coazione fisica, quando vi è costretto dalla necessità di respingere una violenza o di vincere
una resistenza all'Autorità e comunque di impedire la consumazione dei delitti di strage, di
naufragio, sommersione, disastro aviatorio, disastro ferroviario, omicidio volontario, rapina a mano
armata e sequestro di persona. Chiaro l'intento del legislatore di circoscrivere a quelle ipotesi,
indicate espressamente nell'articolo, la norma ha quindi carattere eccezionale e non si può
estendere a situazioni analoghe.

Lo stesso discorso vale per l'art. 54, lo stato di necessità: non è punibile chi ha commesso il fatto per
esservi stato costretto dalla necessità di salvare sé od altri dal pericolo attuale di un danno grave
alla persona, pericolo da lui non volontariamente causato, né altrimenti evitabile, sempre che il
fatto sia proporzionato al pericolo.

La formulazione già fa capire che ci sono paletti precisissimi per l'applicazione di questa norma e
anche il fatto che in questa situazione non è del tutto esclusa la responsabilità civile. Residua infatti,
ai sensi dell'art. 2045 c.c., il risarcimento di un equo indennizzo. Questo non è un risarcimento del
danno, ma è una situazione totalmente differente. Si tratta di una situazione ibrida, infatti pur non
trattandosi di risarcimento non è nemmeno l'assenza di qualunque riparazione del danno: la legge
sa di trovarsi in una situazione particolarissima nel quale un innocente è stato danneggiato ma con
la considerazione che neanche l'altro era del tutto in torto.

La situazione per cui invece si è molto discusso è la legittima difesa. Quello che è il punto nevralgico
di questo dibattito si riferisce a questa più concretamente.

Ci sono due posizioni: la legittima difesa non si può estendere, oppure, la legittima difesa è principio
generalissimo, poiché non si può togliere a un soggetto il diritto di difendersi se non ci si può fare
difendere dalla forza pubblica.

Si pongono anche qui considerazioni ulteriori. La disciplina è stabilita con grande precisione, non
permette nessuna estensione.

L’art. 52 dice Non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di
difendere un diritto contro il pericolo attuale di una offesa ingiusta, sempre che la difesa sia
proporzionata all'offesa.

117
Si individuano almeno 8 requisiti, ognuno dei quali esprime un limite ben principio. Quello fra questi
limiti con il quale si potrebbe porre il problema di una somiglianza, e quindi di una analogia, è quella
della attualità del pericolo. Attuale vuol dire che il pericolo deve essere presente, non già passato
né futuro, perché in questi casi si può ricorrere alla forza pubblica. Si potrebbe osservare che in
relazione alla legittima difesa militare di pace, la corte costituzionale alla sentenza n.25 del 1987 fa
ricorso ad una sorte di analogia, poiché lì si richiede che ci sia una violenza attuale. La corte ha
detto che si può equiparare a questa una minaccia gravissima imminente, che sta quindi per
arrivare in pochissimo tempo. Questo comporta un allargamento delle possibilità di invocare la
legittima difesa nel Codice penale militare di pace.

Invece con riferimento al Codice penale si sono prospettate in parte della dottrina delle espressioni
come ora o mai più: situazioni di non pericolo attuale ma nelle quali l'esperienza dice che se non si
agisce ora non si potrà fare più, in quanto non ci saranno le condizioni per difendersi. Si invoca la
situazione che nella giurisprudenza americana costituisce quello del maltrattamento della donna:
essa subisce episodi di violenza dalla quale non può difendersi per questioni fisiche, sinché le si
presenta un'occasione di intervenire prima che quest'uomo eserciti effettivamente una violenza nei
suoi riguardi, anche se ci si avvicina verso quella situazione pericolosa. La giurisprudenza americana
è ricorsa a vari inquadramenti per dare spazio a questa tipica situazione. La nostra giurisprudenza
invece non ha mai riconosciuto una forza scusante a questo tipo di ipotesi se non in situazioni in cui
ha considerato quel pericolo come attuale. Cioè ha riportato il fatto ai requisiti della legge. Si ha
quindi un'interpretazione estensiva, ma non analogica, dei requisiti.

118
19/11/2018
PRINCIPIO DI LEGALITA'--> aspetti fondamentali :

- RISERVA DI LEGGE

-TASSATIVITA' E DETERMINATEZZA CON IL DIVIETO DI ANALOGIA

- IRRETROATTIVITA' DELLA LEGGE PENALE-->uno dei sotto principi/aspetti del principio di legalità è
quello che riguarda la IRRETROATTIVITA' DELLA LEGGE PENALE. (Questo argomento viene
solitamente trattato in un capitolo del Pagliaro che si chiama " validità legge penale nel tempo" , ci
sono delle regole particolari che riguardano la validità della legge penale nel tempo, nello spazio e
riguardo le persone ,la legge penale ha delle regole diverse rispetto la legge generale(in particolare
per quello che riguarda la validità nel tempo).Pagliaro comincia la trattazione di questo tema
dicendo che quando parliamo di validità della legge penale, con VALIDITA' si intende non in senso
tecnico-giuridico, ma diverso. Dal punto di vista tecnico-giuridico, VALIDITÀ' significa che un certo
atto ( in questo caso la legge) è valida in quanto emanata in modo conforme a quelle regole che
riguardano la produzione di quei tipi di atti (se si tratta di legge) ,quindi le disposizioni costituzionali
che regolano l'emanazione della legge. Una legge valida, non perde validità, non diventa invalida, se
viene abrogata non è che la legge diventa invalida in senso tecnico, ma per esempio se abrogata
cessa di produrre gli effetti (che sono tipici della legge stessa) riguardo i fatti da essa disciplinati, ma
questa cessazione di efficacia non è una validità nel senso giuridico formale ,la legge diventa non
valida per quei tipi di fatti in un senso empirico, corrente, quello che succede è che la legge non
produce più effetti riguardo ad un certo gruppo di fatti. Bisogna individuare criteri di collegamento
in base ai quali la legge penale si può applicare in certi fatti e produce effetti nei riguardi di quei
fatti oppure non ne produce più , e le regole sono:

1) La prima regola fondamentale è quella della "irretroattività della legge penale" che è
solennemente sancita dall'art 25 2 comma della costituzione--> "Nessuno può essere punito se non
in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso " : questo corrisponde alla
tradizione del diritto penale moderno sin dall'illuminismo ,questo è un principio IRRINUNCIABILE. Il
principio della irretroattività della legge penale incriminatrice va inteso in un senso estensivo come
irretroattività della legge penale incriminatrice o più severamente incriminatrice, dunque la legge
penale non può retroagire, produrre effetti per il passato , né in quanto incriminatrice , né in
quanto più severamente incriminatrice.( Retroagire vuol dire che la legge produce effetti riguardo a
dei fatti e accadimenti che si sono già verificati prima che la legge entrassi in vigore, questo non è
possibile). Questo principio della irretroattività della legge penale incriminatrice è assoluto, cioè
non conosce deroghe , eccezioni; non ci sono casi in cui venga meno questa regola.

Occorre ricordare parlando del rapporto con il diritto internazionale che all'indomani della 2 guerra
mondiale furono costituiti sulla base degli statuti di Londra e Tokyo ,quei tribunali particolari che
erano competenti a giudicare i reati commessi durante la guerra e che questi statuti prevedevano
come reato fatti che al momento in cui erano stati commessi non erano previsti come reato da una
particolare legge scritta in vigore nei paesi i quali i fatti erano stati commessi , ma c'è da osservare
due cose :

119
Primo che in quella legislazione si volle riferire secondo la tradizione dei paesi di common law, ad
un principio non scritto ( ma di legge), cui non si volle prescindere dalla legge, non si volle dire che
lo statuto aveva effetti irretroattivi, ma semplicemente che quello statuto metteva per iscritto un
principio, una regola già esistente al momento del fatto . Si pensò che ci fossero già in base ai
principi generali di diritto riconosciuti dalle nazioni civili che quel fatto fosse già un crimine non
scritto in una legge, ma comunque previsto da tutti i paesi civili come crimine. In secondo luogo,
una simile situazione (statuto , condanne) è assolutamente eccezionale, fuori da ogni regola, si
riferisci a episodi che sono avvenuti nel corso della guerra, giudicati dopo quella guerra, secondo
un’esperienza che non può essere presa come punto di riferimento per la legislazione (situazioni
assolute); a parte quella la regola della retroattività è assolutamente intangibile, non può MAI
essere superata, scavalcata. Perché la legge penale non può essere retroattiva? Per 2 ragioni :

1) è il modo stesso di funzionare della legge penale : la legge penale non è soltanto un criterio di
qualificazione di un fatto come illecito, ma la legge penale è un criterio di
determinazione/orientamento dei comportamenti, serve per orientare i comportamenti umani
attraverso la previsione di una sanzione sfavorevole, per tutelare certi beni giuridici ;visto che la
legge penale orienta i comportamenti, non ha senso che si applichi la legge penale ad un
comportamento che è stato compiuto prima che la legge entrasse in vigore, la legge deve
preesistere al comportamento che vuole guidare, orientare.

2) è una ragione di GARANZIA dei cittadini--> tutti i cittadini devono essere sicuri di quali siano i
fatti per i quali possono essere puniti . Questa esigenza è posta a livello costituzionale dall'art. 27 3
comma che per quello che riguarda la funzione della pena, stabilisce che la pena deve tendere alla
rieducazione del condannato; la rieducazione del condannato presuppone che il condannato abbia
violato colpevolmente certi valori, beni , al rispetto dei quali deve essere educato attraverso la
pena; se il condannato non è rimproverabile ,se non è colpevole per il suo comportamento , se non
lo si può rimproverare per quel comportamento in quanto non c'era una legge che lo vietava quel
comportamento, non ha senso parlare di rieducazione. Quindi la rieducazione presuppone la
colpevolezza del Reo. Questa colpevolezza e la Corte Costituzionale lo ha sottolineato con
ampiezza nella sentenza n.364 1988 sulla conoscenza o ignoranza della legge penale, questa
colpevolezza si colloca in un preciso quadro sociale e di rapporti tra cittadino e stato : un quadro in
cui i cittadini sono liberi , decidono insieme di trasferire allo stato una parte della loro libertà per
fare in modo che siano mantenute condizioni sociali pacifiche , ma nel fare questo, in questo
scambio , il cittadino ha il diritto di pretendere che lo stato lo informi prima di essere punito ,se non
è informato non può essere chiamato a rispondere, la sua libertà può essere limitata qualora sa e
qualora trasgredisce la regola posta dalla legge penale , se non vi è una preventiva informazione

non c' è colpevolezza e non ci può essere responsabilità penale. Per queste ragioni il cittadino ha
diritto di essere garantito.

I fatti riferiti alla vicenda di Stefano Cucchi integrerebbero oggi il delitto di tortura che è punito nel
nostro ordinamento con la reclusione fino 30 anni se la morte non è voluta o con l'ergastolo se la
morte è voluta, ma questa disposizione sulla tortura non può essere applicata al caso Cucchi perché
la legge è entrata in vigore nel 2017, mentre i fatti del caso Cucchi si erano verificati nel 2009.

120
Per la tortura l'art 13 4 comma della costituzione stabilisce che "è punita ogni violenza fisica e
morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà"; nonostante sia previsto come
obbligo dalla costituzione , in assenza di una legge penale che lo regolasse, non può essere punito
in quanto tortura ( è punito non come tortura ma come omicidio per esempio). Questa esigenza di
certezza, garanzia , impediscono di applicare retroattivamente la legge penale.

Ci sono altri principi che agiscono in senso opposto e cioè : la ragione per la quale esistono le leggi
penali e quella di tutelare certi bene è che siccome questo si realizza attraverso la minaccia di una
sanzione sfavorevole ,questo comporta dei costi/sofferenze per chi subisce la sanzione penale.
Questo sofferenze sono giustificate in tanto in quanto appare necessario infliggerle , ma sono
necessarie quando la legge ritiene che non se ne possa fare a meno ,anche a costo di infliggere
sanzioni dolorose, ma se non c'è questa ragione non c'è il fondamento per prevedere una simile
punizione, il diritto penale è la EXTREMA RATIO--> lo stato può ricorrere alle leggi penali solo se è
necessario, se non è necessario viene meno la legittimazione della legge penale . questo dipende
dalla concezione che abbiamo della legge penale e della pena, perché CHANT ( filosofo) era
convinto sostenitore della funzione retributiva della pena o funzione assoluta della pena, pensava
che la pena rispondesse ad una esigenza assoluta di giustizia , cosicché , commesso un reato la pena
dovesse essere inflitta per ragioni assolute di giustizia e non per raggiungere un certo scopo ( es.
pace sociale), ma perché è giusto punire chi ha commesso un reato. In base al principio per cui il
bene deve essere pagato con il bene ed il male con il male (retribuzione). In base a questa
concezione della pena assoluta CHANT scriveva una bellissima parabola ed ipotizzava questa
situazione : se una società abitante su una piccola isola decidessero di comune accordo di sciogliere
la loro società e andare per il mondo, prima che si sciogliesse questa società, l'ultimo omicida
detenuto in carcere dovrebbe essere comunque giustiziato perché il sangue versato per l'omicidio,
non ricada su coloro che non hanno fatto giustizia. Quindi , un'esigenza assoluta per Kant di punire
in quanto principio assoluto di giustizia che non guarda che cosa si produce attraverso la pena, ma,
che risponde a quella regola morale imperativo categorico . Lo stato moderno non pensa più così,
nel nostro ordinamento non si ha la pretesa di fare una giustizia assoluta e quindi indefettibile (che
non può venire meno). Il principio retributivo rimane come regola di proporzione, cioè la risposta
sanzionatoria deve essere proporzionata al male fatto; noi non pensiamo più che lo stato abbia
questo dovere indefettibile e ma che invece la pena sia funzionale cioè serva per mantenere le
condizioni di vita in comune, cosicché se in qualche momento viene meno questa convinzione
generale che sia indispensabile per mantenere la pace sociale punire certe condotte, potrà anche
venire meno la punizione di condotte che quando sono state compiute costituivano reato secondo
la legge che era in vigore in quel momento, ma che in seguito non appaiono più meritevoli e
bisognosi di punizione : questo per esempio non potrebbe avvenire per l'omicidio, in nessun
ordinamento mai ad un certo punto si riterrà che non è più il caso di punire l'omicidio, questo si
riferisce a comportamenti di minor gravità che in un certo momento la legge ritiene punibile e che
successivamente può anche ritenerla non punibile es. gli atti osceni : prima erano reato, dal 2016
non lo sono più ora è soltanto illecito amministrativo, ed come gli atti osceni anche l'ingiuria(la
corte costituzionale quest'ultimi li ha chiamati delitti di pura creazione legislativa oppure delitti non
particolarmente gravi tanto che con il passare del tempo si ritengano che non sia più indispensabili
punirli con legge penale).

121
Se la società cambia idea e cioè si ritiene che non sia più necessario punire un certo fatto può anche
venire meno l'applicazione di una legge che al momento in cui il fatto è stato compiuto era legittima
perché quel fatto costituiva reato, ma che con il mutamento del giudizio sociale appare non più
fondata su quella esigenza di necessità, diritto penale come necessario per punire, regolare i fatti
della vita sociale. Da questo altro e diverso principio deriva che può cessare l'applicazione di una
legge penale, riguardo ad un fatto che quando è stato commesso costituiva reato, ma che una
posteriore legge non considera più meritevole di pena e per il quale ritiene che non sia più
necessario ricorrere alla pena. Questo principio comporta un'applicazione RETROATTIVA della legge
posteriore al fatto che considera non più punibile un certo comportamento : es. io ingiurio una
persona nel momento in cui questo fatto costituisce reato, dopodiché la disposizione penale viene
abrogata e perfettamente logico che io non sia più punito perché viene meno la ragione della
punizione ;la legge che abroga il diritto di ingiuria quindi produce effetti nei riguardi di un
comportamento di offesa, di ingiuria, tenuto prima che la legge abrogatrice fosse emanata quindi ,
produce effetti retroattivi , produce effetti riguardo ad un fatto passato. Ma abbiamo detto che la
legge penale non può mai essere applicata retroattivamente ? Le due cose vanno lette insieme,
non può mai essere applicata retroattivamente una legge penale incriminatrice o più severamente
incriminatrice ,invece, quelle ragioni di garanzia non impediscono che sia applicata
retroattivamente una legge penale più favorevole , quindi, questa garanzia intangibile funziona a
"senso unico" , cioè solo nel senso che non si può punire più severamente, non funziona nel senso
inverso, cioè niente impedisce che non si sia puniti o che si sia puniti di meno in base ad una legge
successiva al fatto, perché in questo modo l'esigenza di garanzia del cittadino viene rispettata nel
modo migliore, il cittadino è ancor più tutelato di più nel suo diritto di libertà ,dunque è possibile
un'applicazione retroattiva della legge penale se è favorevole o se cancella quel reato. Questo
insieme di cose viene visto da Pagliaro come parti o aspetti di un principio superiore che giustifica
tutti che è il principio del FAVOR REI --> a favore del reo che non sia punito se il fatto noi sia reato,
ma è anche a favore del reo che non sia punito se il fatto era reato quando fu commesso , ma non
lo è più in base ad una legge posterie . Tutte e due le cose rispondono a questa logica del Favor rei,
questo è assolutamente vero dal punto di vista logico ,entrambe queste regole sono parti del
principio logico del favor rei, cioè tutta la legge penale è regolata da questa ispirazione, non è vero
però che le due cose cioè irretroattività della legge incriminatrice ed eventuale retroattività della
legge che meno severamente punisce o che cancella il reato , rispondano alle stesse regole, perché
invece come la corte cost. ha riconosciuto, il fondamento di queste due regole del principio del
FAVOR REI è differente:

Cioè IRRETROATTIVITA' della legge penale incriminatrice fondata sull'art 25 2comma cost. e sul
modo di funzionare della legge penale è assoluta, indefettibile, non può mai venir meno per
nessuna ragione di ordine interno o sovranazionale, invece, la RETROATTIVA'( si può non punire un
fatto che era reato) non è più fondata sull'art 25 2 comma bensì è fondata dall''art 3 ( principio di
uguaglianza) cioè non ha senso continuare a tenere in carcere qualcuno che ha commesso un fatto
che se commesso da un'altra persona il giorno dopo non sarebbe più punibile, perché se uno
commette il fatto il giorno prima ed un altro lo commette il giorno dopo, uno rimane in carcere e
l'altro no ?

122
Una ragione di uguaglianza , se il secondo soggetto non viene punito, non deve esserlo nemmeno il
prima, MA il principio di costituzionale di uguaglianza è un principio di uguaglianza in senso di
ragionevolezza, cioè se situazioni uguali devono essere trattate in modo uguali, situazioni differenti
devono essere trattate in modo differente, e ragionevole che siano trattate in modo differente.
Allora se ci fossero buone ragioni per non applicare un'uguaglianza assoluta, questo principio del "
si può non punire chi ha commesso un reato " potrebbe anche avere delle limitazioni , potrebbe
essere applicato entro certi ragionevoli limiti. Quindi non è incostituzionale un'applicazione
retroattiva di una legge penale quando questa legge è più favorevole. Tutta questa materia è
regolata nel Codice penale all'art.2. Questo articolo 2 è articolato in 6 commi : nel nostro libro ci
sono solo 5 commi, poiché il 3 comma dell'art 2 è stato introdotto successivamente nel 2006 , il 1 e
il 2 sono rimasti com'erano, è stato introdotto un 3 comma.

- Il 1 comma ribadisce il principio della irretroattività della legge penale incriminatrice "Nessuno può
essere punito per un fatto che secondo la legge del tempo in cui fu commesso non costituiva reato "
: il primo comma, quindi, stabilisce che se un fatto non era previsto dalla legge come reato e la
legge che lo prevede come reato interviene dopo , questa legge non può avere conseguenze, non
può essere applicata al fatto commesso in precedenza ( questa regola è assoluta, non c'è niente che
possa fare scavalcare questa regola , art 25 ). Questo divieto si estende anche a quelle conoscenze
nuove in ambito scientifico , tecnico.

-il 2 comma --> prevede una situazione del genere :quando il fatto commesso è reato ai sensi di una
certa legge , ma in seguito la legge viene completamente cancellata , abrogata, si parla di ABOLITIO
CRIMINIS perché viene abolita la figura astratta del reato, questa legge retroagisce e fa sì che quel
fatto non possa più essere punito, viene meno la possibilità di punire il reato, non viene meno il
reato . Vi è una duplice possibilità : 1) che per quel fatto sia ancora in corso un processo penale,
cioè non è stata pronuncia una sentenza ( in ambito di diritto penale intendiamo sentenza definitiva
di condanna) in questo caso il giudice pronuncia una sentenza di assoluzione ai sensi dell'articolo
530 1 comma del codice di procedura penale che è quello che regola le ipotesi di assoluzione con la
formula : "perché il fatto non è preveduto dalla legge come il reato , e cioè nel momento in cui
viene pronunciata la sentenza, se il processo è ancora in corso il giudice prende atto che non c'è più
una norma che prevede quel fatto come reato ed assolve con la formula dell'art 530 comma 1.

Seconda ipotesi :c'è già stata una sentenza definitiva ,in questo caso, in generale nell'ordinamento
giuridico ( e non solo penale) c'è un principio della c.d.INTANGIBILITA'DEL GIUDICATO , cioè se una
sentenza è divenuta definitiva non la si può modificare, perché se no ogni volta che cambia qualche
legge si dovrebbero rifare tutti i processi; in questo però data la gravità della questione, cioè, non si
tratta di regolare un rapporto contrattuale per esempio, ma si tratta di tenere in carcere una
persona , data la gravità della cosa il giudicato cede e la SENTENZA DI CONDANNA viene REVOCATA
dal giudice dell'esecuzione penale ( è un altro giudice che ai sensi dell'art. 673 del codice di
procedura penale revoca la sentenza definitiva di condanna comma. quindi in deroga al principio
di intangibilità la sentenza viene revocata e cessano anche tutti gli effetti della stessa sentenza-->
tutto ciò lo stabilisce il secondo comma dell' art 2 :

123
" Nessuno può essere punito per un fatto che secondo una legge posteriore non costituisce reato e
se c'è stata condanna cessano l'esecuzione e gli effetti penali" --> ABOLITIO CRIMIS, il reato viene
completamente cancellato e viene meno la sanzione da infliggersi o già inflitta.

(Si va al 4 comma prima perché il 3 comma dal legislatore è stato inopportunamente collocato lì
come terzo, meglio sarebbe stato collocarlo nel 4 e il 4 nel 3 ,perché il nuovo terzo comma
introdotto nel 2006 rappresenta un'eccezione alla disciplina del 4 comma).

-4 comma :la disciplina di tale comma viene indicata come FAVOR REI (abbiamo detto che il
principio del favor rei è l'intera logica di tutto il sistema che stiamo vedendo , però questo in un
senso ampio, qui parliamo in senso ristretto e specifico). Il 4 comma stabilisce che se la legge del
tempo in cui fu commesso il reato e le posteriori sono differenti, si applicano la legge le cui
disposizioni sono favorevoli al reo; in questo caso dovrà essere applicata ,appunto, la legge che
risulta più favorevole al reo , a meno che (questa è una profonda differenza con il secondo comma)
nel frattempo non sia stata pronunciata una sentenza definitiva, cioè irrevocabile e non può essere
modificata, ciò per due ragioni: la prima è che è molto più raro che un fatto che costituiva reato
cessi di essere considerato tale dalla legge, sono grandi cambiamenti di pensiero che succedono
molto raramente al passaggio di reato a non reato, invece, si verifica molto più frequentemente che
il legislatore riconsideri come regolare un certo fatto e se punirlo di più o meno. Per ragioni di mera
opportunità politico-criminale in questo caso non sembra opportuno andare a rifare ogni volta che
c'è una modifica del sistema penale rifare tutti i processi per tenere conto delle nuove leggi e
diminuire la pena adattandole alle nuove disposizioni, non si può e soprattutto non si verifica quel
"più grave " inconveniente che si verificherebbe se si tenesse ferma la condanna per un fatto che
non è più reato (2comma) , un conto è essere punito più severamente, un altro conto è essere
punito per un fatto che non esiste più. Nel 4 comma il legislatore lucidamente ha usato un plurale,
cioè se la legge nel tempo in cui fu commesso il reato e le posteriori(plurale) , perché può essere
che nel frattempo siano sopravvissute diverse modifiche , più di una legge differente e che tra tutte
le leggi in questione si siano succedute diverse leggi, la regola è che si deve applicare quella più
favorevole. 4 comma ." se la legge del tempo in cui fu commesso il reato e le posteriori sono diverse
si applica quella le cui disposizioni sono più favorevoli al reo, salvo che sia stata pronunciata
sentenza irrevocabile".

Come si fa a stabilire quale sia la legge più favorevole? Il criterio è quello che concretamente il
giudice applicherebbe al fatto particolare, cioè il giudice deve fare questo ragionamento : se io
applicassi una certa disposizione, quale sarebbe per il reo la conseguenza?

In base a quello che il reo ha fatto, a quando lo ha fatto ,come è stato commesso il fatto ecc..; e se
io invece applicassi un'altra legge quale regime stabilirei? ; a questo punto facendo una
comparazione in concreto , valutare quale sia il regime più favorevole per il reo ed applicare quella
disposizione .

124
(ESEMPIO 2) ci sono 2 specie di reato : DELITTI(la regola è che sono puniti se commessi con dolo,
cioè volontariamente; se il legislatore ritiene di punire anche l'omicidio colposo deve
espressamente prevederlo e accanto all'art 575 c'è un'art. 589 che prevede l'omicidio colposo : due
disposizioni assestanti di legge) e CONTRAVVENZIONI( la regola posta dall'art 42 è che si risponde
indifferentemente sia a titolo di dolo e a titolo di colpa). Ipotizziamo che un tizio ha commesso un
certo fatto con colpa e che quando lo ha commesso questo fatto costituiva una CONTRAVVENZIONE
, successivamente il legislatore decide di aggravare la pena e prevederlo come DELITTO, MA
soltanto delitto doloso. Succede che tizio sarebbe punibile in base alla disposizione che lo prevede
come contravvenzione , non è punibile con la disposizione astrattamente più grave che lo prevede
come delitto soltanto doloso(sempre nell'ipotesi che tizio abbia agito con colpa); per lui in concreto
è più favorevole essere accusato come delitto in questo caso che come contravvenzione, perché
come delitto non è punibile, mentre come contravvenzione non è punibile, quindi, la valutazione
sulla gravità va fatta con le conseguenze concrete perché per il caso particolare deriverebbe
l'applicazione per una o per l'altra legge, quello che non si può fare è una specie di "COCCHTAIL “di
leggi, il giudice non può prendere una parte di legge più favorevole da una legge e una parte più
favorevole da un'altra legge e metterli insieme, deve applicare o una legge o l'altra legge, non fare
un miscuglio di leggi. Se nel frattempo è stata pronunciata una sentenza definitiva questa non viene
modificata perché lo stabilisce il 4 comma dell'art 2.

- 3 comma : stabilisce che " in questa esclusiva ipotesi di modifica che il legislatore abbia stabilito
che dalla pena detentiva originariamente prevista , si passa ad una pena pecuniaria , in questa
esclusiva ipotesi anche se si è formato in giudicato , cioè se è stata pronunciata una sentenza
definitiva di condanna irrevocabile sulla base della precedente legge che prevedeva una pena
detentiva, c'è un'eccezione alla regola per cui nel caso di modifiche la sentenza è passato in
giudicato e intangibile, si fa un'eccezione e si modifica la sentenza pur passato in giudicato. Quindi,
il giudice dell'esecuzione preso atto che c'è stata una modifica legislativa e che per quel reato si è
passato con la nuova legge successiva ha prevista non più una pena detentiva, ma soltanto una
pena pecuniaria , in questa esclusiva ipotesi il giudice dovrà riconsiderare la pena, revocare la
sentenza di condanna e pronunciare una nuova misura della pena , come ?

Utilizzando quel criterio che si chiama del RAGGUAGLIO tra pena detentiva e pena pecuniaria ,
disposta dall'art 135 del Codice penale : " quando per qualsiasi effetto giuridico si deve eseguire un
ragguaglio fra pene pecuniarie e pene detentive , il computo al luogo calcolando 250euro di pena
pecuniaria per un giorno di pena detentiva ";quindi quando per qualsiasi effetto bisogna convertire
una pena detentiva in pena pecuniaria si considera che un giorno di pena detentiva equivalgono a
250 euro.

Se facendo il RAGGUAGLIO si arriva ad una pena che è superiore al quel tetto massimo che il Codice
penale stabilisce, che si fa? La situazione più ragionevole è quella di rispettare il tetto massimo,
cioè sarà inflitto il massimo dalla pena pecuniaria, senza però eccedere quel limite che in generale
in codice stabilisce per quel tipo di pena pecuniaria.

125
20/11/18

Abbiamo già visto cosa dicono i primi quattro commi dell’art 2 del Codice penale ->

1° comma: irretroattività della legge penale incriminatrice (che è sancito anche dall’art 25 comma
2)
2° comma: regola il fenomeno dell’abolitio criminis , cioè il caso in cui una disposizione successiva
abroghi una precedente norma penale incriminatrice.
3° comma: si parla della revoca della condanna.
4° comma: regola del favor rei, cioè se il fatto costituisce sempre reato e però è diversamente
disciplinato da una legge precedente o successiva, allora il giudice deve applicare quella più
favorevole al reo.

Bisogna ora però discutere quando ci si trova davanti a leggi incriminatrici.

Il legislatore raramente si limita ad abrogare una norma incriminatrice e basta. Invece, molto più
spesso, avviene che la norma incriminatrice venga implicitamente abrogata in quanto viene emanata
una diversa disposizione incompatibile che regola diversamente un certo fatto. (l’abrogazione può
essere esplicita o implicita, in questo caso è un’ abrogazione espressa; oppure può sostituire l’articolo
tale con un nuovo articolo che regola la stessa cosa ma in modo differente, e così la precedente
versione è implicitamente abrogata, quindi si capisce che la prima versione non è più in vigore).

In questo procedimento non è affatto raro che il legislatore può modificando il nome della fattispecie
incriminatrice, il nome del reato, pur modificando il nome, punisca la stessa cosa e magari
regolandola in un diverso articolo-> quindi non si tratta di una totale cancellazione del precedente
reato, ma soltanto di una modificazione della disciplina precedente. -> e allora così non è semplice
stabilire cosa realmente sia successo.

Facciamo degli esempi: l’art 323 punisce l’”Abuso di ufficio” e rispetto a se stesso, è stato modificato
due volte. prima si chiamava “abuso di ufficio in casi non preveduti specificamente dalla legge”, era
il nome che aveva nel 1930. Successivamente è stato modificato nel 1990 e si è cominciato a chiamare
“abuso di ufficio”. Successivamente è stato ancora modificato nel 1997 e si chiama sempre “abuso di
ufficio”.

Prima era prevista la reclusione fino a 2 anni, mentre oggi è prevista la reclusione da 1 a 4 anni (il
doppio!) e nel frattempo nel 1990 era prevista da 2 a 5 anni. Nonostante queste modifiche, si può
ritenere che si tratti della stessa figura del reato con modifiche, ma comunque la stessa tipologia di
reato.

126
Invece, in altri casi, il giudizio è molto più complicato: uno di questi riguarda l’art 319 quater
“Induzione indebita a dare o promettere utilità” -> questo nome di reato non esisteva prima e del
resto l’articolo è nuovo e aggiunto, quindi a prima vista, uno che guardasse quest’articolo potrebbe
pensare che si è davanti a una fattispecie di reato nuova che prima non esisteva. -> ma ora leggiamo
cosa viene punito

Art. 319-quater. c.p. (Induzione indebita a dare o promettere utilità) Il pubblico ufficiale, che, per
omettere o ritardare o per aver omesso o ritardato un atto del suo ufficio, ovvero per compiere o per
aver compiuto un atto contrario ai doveri di ufficio, riceve, per sé o per un terzo, denaro od altra
utilità, o ne accetta la promessa, è punito con la reclusione da sei a dieci anni.

Leggiamo ora l’art 317:

Articolo n. 317 c.p. Concussione: Il pubblico ufficiale o l'incaricato di un pubblico servizio che,
abusando della sua qualità o dei suoi poteri, costringe taluno a dare o a promettere indebitamente,
a lui o a un terzo, denaro o altra utilità, è punito con la reclusione da sei a dodici anni.

(A proposito: come si scrivono gli articoli? Quando c’è un bis – ter – quater, va messo il numero , poi
un trattino, poi la parola bis- ter – quater che va scritto in corsivo-> questo è il modo corretto di
scriverlo)

È facilissimo vedere che tra i due articoli gli elementi sono uguali tranne questo: qui il pubblico
ufficiale nella Concussione “costringe”, invece nell’art 319 quater “induce”.

La condotta di induzione era, fino al 2012, prevista nell’art 317 perché si diceva “il pubblico ufficiale
che costringe o induce”-> fino al 2012 era così e costituiva Concussione.

Dal 2012 in poi nella dottrina si parla di “spacchettamento”, nel senso che c’era un pacchetto
costituito da “costrizione” e “induzione”, che sono state separate, spacchettate e la induzione è stata
collocata in un diverso articolo. Da questo spacchettamento, è legittimo chiedersi: il nuovo reato 319
quater ha un numero di articolo differente nello stesso articolo, è collocato tra i fatti di Corruzione
(da artt. 318 a 322), quindi questo sta proprio in mezzo e ciò farebbe pensare che sia vicino ai fatti di
Corruzione-> è una nuova norma rispetto a quella originaria del 1930 o si tratta solo di una modifica
della disciplina? Nel 2012 quando si fa il passaggio a “induce” è solo una modifica o è un nuovo tipo
di reato che punisce qualcosa di diverso?

Ora supponiamo che nel 2010 un pubblico ufficiale avesse indotto qualcuno a dare o promettere
denaro, si inizia il processo, la sentenza arriva nel 2015, quindi dopo l’introduzione della nuova
disposizione. Ai fini di una più precisa valutazione diciamo anche che nel 1930 era prevista la
reclusione da 4 a 12 anni, mentre dopo il 2012 è prevista la reclusione da 6 a 10 anni. -> cosa succede
in questo caso? Applicherebbe il sistema più favorevole in concreto.

127
Ora immaginiamo che invece siamo tutti d’accordo che questa figura sia un nuovo reato diverso da
quello di prima, che cosa succede se questa disposizione 319 quater è una nuova disposizione
rispetto a quella originariamente prevista? Quella disposizione si considera abrogata per cui non si
può condannare qualcuno in base a quella disposizione, ma non si può nemmeno condannare
rispetto a questa nuova disposizione, che ancora non era in vigore quando il fatto non è stato
commesso-> conclusione: il fatto in questione resterebbe impunito completamente. È una
conclusione stride. Per cui si fa riferimento al 4° comma, cioè che è sempre punibile il fatto di
“indurre” seppur con nuovi elementi.

Bisogna individuare dei criteri che ci aiutano a valutare se in presenza di modifiche si tratti di una
norma completamente nuova oppure di una modificazione di una norma già esistente.

La dottrina ha stabilito diversi criteri astratti e generali-> questi criteri sono tre (o quattro in
relazione a come si considera il terzo criterio).

1° criterio “Della continuità del tipo di illecito”: utilizzato anche recentemente dalla Cassazione e
proposto da Mario Romano. In base a questo criterio ci sarebbe una semplice modificazione, quando
sia uguale il bene giuridico protetto e le modalità di aggressione. Quando ci sono questi due elementi
che rimangono uguali, le differenze non fanno sì che si tratti di qualcosa di nuovo. Criterio non accolto
e non può essere accettato: perché come dobbiamo intendere stesso bene e stesse modalità di
aggressione? In senso elastico o in senso rigido? Se lo intendessimo in senso rigido, arriveremmo a
conclusioni paradossali e totalmente inaccettabili. Se invece lo intendessimo in senso flessibile, si
potrebbe ritenere che ci sia una vicinanza tra reati che offendono il patrimonio, ma che sono
diversissimi tra loro. Questo era un criterio essenzialmente valutativo, cioè poggia sulla valutazione
del disvalore del bene giuridico.

2° criterio “Della continenza”: è un criterio formale, che fa leva sulla struttura del fatto, senza entrare
nel merito dei valori offesi. Vi sarebbe la stessa figura di reato, quando la norma successiva preveda
un’ipotesi speciale rispetto quella precedente: esempio art 416 bis “associazione a delinquere di
stampo mafioso” e art 416 (già esistente) “associazione a delinquere”-> quella a stampo mafioso è
un’associazione speciale rispetto a quella generale di associazione a delinquere. Quando il legislatore
ha introdotto questa figura nuova, ha previsto una norma speciale, quindi in questo caso si ha
continuità, si ha una semplice modifica, è una norma più severa rispetto a quella generale.

Si vede allora che è un criterio formale e strutturale, non guarda al contenuto dell’offesa.-> però è
stato detto che ci sarebbe una modifica anche nel caso inverso, cioè che da una norma speciale si
passi a una norma più generale. (es: “oltraggio” e “ingiuria”, l’oltraggio è un caso più particolare di
ingiuria. Se cancelliamo la disposizione in materia di oltraggio, il fatto di oltraggio rientra sempre nella
figura più generale di ingiuria).

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3° criterio “Dei rapporti strutturali”: che è il più accolto. Si intende tanto il passaggio da una norma
generale a una norma speciale, quanto da una norma speciale a una norma generale-> si tratta di una
norma generale che risponde la sua portata (come nel caso dell’ingiuria che riespande la sua portata
comprendendo anche l’oltraggio). Cosa c’è che non va? Si può osservare che la pretesa di poter
regolare tutti i casi di successione attraverso il criterio formale, non può essere sufficiente a regolare
tutti i casi, perché una componente valutativa in diverse ipotesi è indispensabile per arrivare a una
conclusione esatta. Quindi si vede che il “criterio dei rapporti strutturali” è un criterio meramente
formale, invece un giudizio di valore è irrinunciabile per comprendere se ci sia una semplice
modificazione o un reato completamente nuovo.

Facciamo un esempio per capire meglio e dobbiamo arrivare a conclusioni opposte:

✓ Primo caso: art 552 puniva il fatto di “procurata impotenza alla procreazione con il consenso
della persona”. Possiamo chiamarla “sterilizzazione volontaria” per intenderci. Ed è prevista
la reclusione fino a due anni. Mentre l’art 583 del Codice penale secondo comma, prevede va
il caso della “procurata impotenza alla procreazione” come lesione gravissima con la pena da
sei a dodici anni. Nel 1978 questa disposizione è stata abrogata
✓ Secondo caso: l’art 587 prevedeva l’”omicidio per causa d’onore punendolo” gravemente da
tre a sette anni; mentre l’”omicidio” art 575 viene punito con una condanna più severa
superiore.
La situazione strutturale di queste due situazioni è identica: -> viene abrogata una disposizione
che è speciale rispetto ad un’altra, la quale può riespandere la sua portata.

Nel primo caso si vede che poi nel 1978 questa norma viene abrogata, ma rimane quella che
punisce la procurata impotenza alla procreazione con il consenso della persona.

Anche nel secondo caso si ha la stessa situazione.

Le situazioni sono identiche, viene abrogata una disposizione speciale, e si può riespandere la
norma generale.

129
Ma il legislatore, secondo noi, voleva questo? Cioè che si riespandesse la norma generale?

Si arriva a due
conclusioni
Supponiamo che il marito ,prima nel 1970, uccide l’amante della
moglie, poi arriva la sentenza nel 1984 e il giudice si trova davanti la
disposizione dell’omicidio per causa d’onore che è stata abrogata, che
cosa farà? L’omicidio rimane, quindi quel fatto che era un’ipotesi
speciale, rimane illecito, ma in quanto rientra nella previsione di una
norma più generale di omicidio, quindi c’è solo una modifica -> si
aumenta la pena.

Al marito però viene applicato lo stesso l’art 587 perché la norma


successiva è una modificazione molto più sfavorevole, quindi sebbene
abrogata, viene applicata al fatto, in quanto più favorevole.

Viene comunque punito.

Siamo davanti al secondo comma dell’art 2 del Codice penale.

Invece, quando si cancella la rilevanza penale della procurata


impotenza con il consenso della persona: un medico nel 1977 ha
praticato una sterilizzazione su una donna che glielo ha richiesto. Viene
abrogata la disposizione, resta però la norma sulla procurata
impotenza alla procreazione molto più severamente punita. Cosa gli
succede? Massimo due anni di reclusione. Quindi viene punito. È la
stessa situazione di prima. Strutturalmente uguali.

Padovani aveva suggerito questa situazione; ma la dottrina ha


evidentemente interpretato l’abrogazione dell’art 552 non nel senso di
mantenere la punibilità di quelle condotte, ma nel senso di rendere
totalmente lecite quelle pratiche di sterilizzazione volontaria. E chi lo
dice? Lo dice un’interpretazione di valore della legge 194 sull’aborto.
L’intenzione del legislatore non era quella di riespandere a una norma
più generale, ma quella di rendere totalmente leciti quei fatti che prima
erano puniti. L’abrogazione della norma rende impunibile quel suo
comportamento e quindi siamo davanti al caso del quarto comma
dell’art 2 del Codice penale.

completamente opposte attraverso il giudizio di valore, e non tramite i rapporti formali.

130
Un giudizio di valore è fondamentale.

La CONCLUSIONE di questo faticoso percorso è data dal criterio che propone Pagliaro, che è il
“criterio del concreto fatto illecito”: che si può esprimere così-> “prima punibile, dopo punibile,
sempre punibile”. Cioè questo criterio dice: se un fatto concreto è punibile sia prima, con la
vecchia legge, che dopo, significa che è sempre punibile; ma entriamo più nel merito.

Sono state mosse delle critiche all’aggettivo “concreto”: bisogna guardare non ai fatti storici, ma
quello che succede nel passaggio da una legge a un’altra legge. Non si può fare riferimento ai fatti
concreti, ma ai fatti generali, astratti. -> risposta: quando ci si riferisce al fatto concreto, non ci
si riferisce all’episodio storico di Tizio, ma alla tipologia di comportamento. Non in quanto fatto
avvenuto a Firenze (per esempio), ma ci si riferisce a una sottotipologia del comportamento. Fatto
concreto in questo senso, ma sempre di fatti astratti si sta parlando.

Seconda critica, più importante: potrebbe succedere che il prima punibile, dopo punibile, sempre
punibile” conduca a fatti del tutto inaccettabili, perché la ragione era un elemento casuale.
Facciamo un esempio per ragionare meglio su questo argomento: un dirigente di un’associazione
che non comunica (è un fatto accaduto veramente) gli iscritti all’associazione. Reato. Questa
norma viene cancellata e ne viene introdotta un’altra-> “è punibile il dirigente di un’associazione
segreta”. Ora immaginiamo che a un fatto concreto come tipologia di comportamento, che un
dirigente di un’associazione segreta non comunica i dati prima della modifica. Questo signore
quando era in vigore la prima disposizione, il fatto era punibile. Disposizione poi abrogata. Si
svolge il processo e ci si chiede se deve essere punibile-> questa volta è sempre punibile, perché
sta dirigendo un’associazione segreta. Cosicché:

• “prima punibile” (perché non comunica)


• “dopo punibile” (associazione segreta)
• “sempre punibile”.
Ci si accorge che ciò che rende punibile e dopo punibile il fatto è un elemento che non ha niente di
illecito. Allora Pagliaro ha modificato e precisato il criterio, che non si chiama più “criterio del fatto
concreto”, ma ha aggiunto “illecito”, cioè “Concreto fatto illecito”: quest’aggiunta significa che
dobbiamo individuare la parte del fatto che porta l’illiceità. Se è punibile prima e dopo. Dopo la
riforma non puniamo più il fatto perché il soggetto non ha comunicato, ma perché si tratta di
associazione segreta. Assume importanza retroattivamente.

Le ragioni dell’illiceità sono giudizi penali, facendo riferimento al disvalore (della non comunicazione
e nell’altra parte il disvalore è l’associazione segreta).

Nella lezione di domani parleremo del 5°


comma.

131
21/11/18
L’art 324 c.p. era collocato tra i delitti dei pubblici ufficiali nella pubblica amministrazione e
prevedeva il delitto dell’interesse privato, è stato abrogato con la riforma del 1990. Per interesse
privato in atti di ufficio due sono le possibili interpretazioni date dalla Cassazione: avvantaggiarsi
indebitamente (es. un sindaco che approva un piano regolatore nel quale un terreno agricolo
diviene edificabile perché lui è diventato proprietario del terreno, che dovrebbe restare agricolo) e
non astenersi in presenza di un interesse privato (es. un atto regolare nel quale il pubblico ufficiale
prende parte senza astenersi).
Con la stessa riforma che ha abrogato quello precedente, l’art 323 c.p. stabilisce l’abuso di ufficio
per trarre vantaggio patrimoniale, nonostante non ci sia corrispondenza con le due interpretazioni
dell’art 324 c.p., ci sono delle aree di sovrapposizione. Ciò ha portato a porsi la domanda se si tratta
di una modifica del reato o della sua abrogazione: da una parte il non astenersi in presenza di un
interesse privato non corrispondeva affatto più con l’illecito previsto nell’art 323 c.p., in quanto
l’astenersi senza la finalità di trarre un vantaggio patrimoniale non corrispondeva al nuovo reato.
Questo fatto non costituiva più reato ai sensi dell’art. 323 c.p. perché si è verificata una abolitio
criminis. Dall’altra parte l’avvantaggiarsi indebitamente corrisponde all’abuso di ufficio per trarre
vantaggio patrimoniale e le due cose possono coincidere: chi si è indebitamente avvantaggiato
continuava ad essere reato anche ai sensi dell’art. 323 c.p. In questa ipotesi si è verificata una
modifica della disciplina.
In conclusione, vi è una parziale abolitio criminis e una parziale modifica delle norme ricavabili
dall’art 324 c.p. (cioè non avvantaggiarsi indebitamente e non astenersi in presenza di un interesse
privato). Possono quindi verificarsi entrambi i due fenomeni, già studiati, dell’art 2, comma 2 e 4
del c.p. cioè abolitio criminis e la successione delle leggi più favorevoli.

Ora trattiamo il fenomeno delle leggi penali temporanee (cioè una legge che sarà in vigore fino ad
una certa data) e delle leggi penali eccezionali (cioè una legge che devia dalla normalità delle
regole previste perché disciplina situazioni particolari) come previsto dall’art 2, comma 5 cioè che
“se si tratta di leggi eccezionali o temporanee, non si applicano le disposizioni dei capoversi
precedenti”, cioè la parte del verso che comincia quando si va a capo, quindi il secondo comma sarà
il primo capoverso, il terzo comma sarà il secondo capoverso e così via. In questo caso l’art 2,
comma 5 ci sta dicendo che in questa ipotesi (per le leggi temporanee ed eccezionali) non si
possono applicare le disposizioni dal secondo comma in poi. Quindi viene lasciato intatto il primo
comma che vale anche per le leggi penali temporanee ed eccezionali, cioè che “nessuno può essere
punito per un fatto che, secondo la legge del tempo in cui fu commesso, non costituiva reato”.
Per le leggi temporanee ed eccezionali non varranno solo le disposizioni trattate ieri, cioè abolitio
criminis e la successione delle leggi più favorevoli (cioè art 2, comma 2 e 4). Quindi la loro
abrogazione non farà venire meno né il reato né la sentenza di condanna, dal momento che il
comma 2 non si applica, e succederà lo stesso se queste leggi prevedono delle modifiche, in quanto
non si applica il regime di maggior favore (comma 4).

132
Questo perché si tratta di situazioni particolari che vanno regolate in un certo modo, in quanto se i
destinatari della norma potessero pensare che passata la situazione particolare ritorneranno in
vigore le leggi più favorevoli applicabili ai fatti da loro commessi, si perderebbe la ragione di
prevedere una disciplina eccezionale in quanto tornerebbe ad applicarsi la disciplina normale. Le
situazioni particolari devono rimanere tali.
Nel caso di successione di leggi eccezionali la Cassazione ha ritenuto che debba applicarsi il principio
del favor rei, quindi dovrà applicarsi la disposizione più favorevole. Ma per il professore si tratta di
una soluzione non del tutto logica perché si va ad escludere l’operatività della legge eccezionale in
quel particolare contesto, cioè nel momento in cui ne subentra un’altra. Bisognerebbe sempre
restare nella logica di eccezionalità, cioè a quella situazione eccezionale va applicata la sua legge
eccezionale mentre ad un’altra situazione eccezionale (diversa dalla prima) va applicata la legge
eccezionale successiva.

Ora trattiamo il caso dell’art 2, comma 6 che stabilisce ai decreti-legge non convertiti in legge si
applicano le regole generali previste dai commi precedenti dell’art 2. Quindi il codice tratta i
decreti-legge (in quanto tali perché non convertiti) nel periodo di tempo da quando sono stati
emanati alla loro mancata conversione (cioè 60 giorni massimo) esattamente come se fossero delle
leggi. Viene applicata ai decreti la stessa disciplina prevista per le leggi, in quanto l’art 2 nei commi
precedenti si riferisce sempre alle leggi ordinarie formali. La domanda da porsi è se questo sia
giusto o meno: era giusto quando è stato emanato il Codice penale perché la materia dei decreti-
legge era regolata dalla legge n. 100 del 1926 che stabiliva che in caso di mancata conversione il
decreto perdeva efficacia ex nunc cioè fin da ora, quindi per tutto il tempo in cui il decreto è stato in
vigore (dall’emanazione alla mancata conversione) produceva normali effetti come le leggi normali.
Questo andava bene in un regime in cui il potere del Governo in pratica era superiore a quello del
Parlamento, che era un organismo vuoto, ed era il Governo che emanava le norme giuridiche. La
Costituzione ha modificato tale sistema, in quanto se il decreto non viene convertito entro 60 giorni
dal Parlamento, perde efficacia ex tunc cioè fin da allora, come se non fosse mai esistito, perdendo
qualsiasi effetto. Questo perché la nostra Costituzione, a differenza delle leggi precedenti, ribadisce
la centralità del ruolo del Parlamento.
In realtà in certi casi il decreto legge produce degli effetti che non possono essere più cancellati (es.
viene aumentato il prezzo delle sigarette con decreto che poi non viene convertito, quindi si ritorna
al prezzo di prima ma non è facile eliminare gli effetti prodotti), tra questi vi rientra il caso di avere
delimitato il comportamento dei destinatari, se si tratta di decreti in materia penale. Cioè i
cittadini, che sono i destinatari della norma, per quei 60 giorni hanno agito avendo come
riferimento il decreto-legge. Ma non si può fare carico del cittadino di prevedere che un decreto
non venga convertito, in quanto non gli si può chiedere di stare attento alle vicende parlamentari.
In questo caso si intrecciano principi differenti: tutti i problemi che esamineremo si pongono
concretamente quando il decreto-legge fosse più favorevole della legislazione precedente (es. la
legge precedente prevede per un fatto illecito una reclusione di 4 anni a differenza del decreto-
legge non convertito che ne prevede 3 di anni) in quanto nell’ipotesi contraria, cioè decreto-legge
più sfavorevole, non vi sono problemi ad applicare le regole dell’art 2.

133
In questo secondo caso vuol dire che quello che stabilisce la costituzione e quello che stabilisce il
Codice penale vanno d’accordo in quanto: il codice stabilisce che una volta non convertito il
decreto-legge si deve applicare il principio della successione delle leggi più favorevoli, mentre la
costituzione stabilisce che è come se il decreto-legge non fosse mai esistito.
Grandi problemi sorgono nel primo caso, cioè quando il decreto prevede una disciplina più
favorevole per il reo. Partiamo dall’ipotesi di un reato commesso mentre era in vigore il decreto-
legge, l’autore si aspetta che il suo comportamento venga punito sulla base del decreto-legge, se
però il decreto non viene convertito e torna in vigore la legge precedente, se si applicasse questa
legge, per l’autore del fatto si tratterebbe di una efficacia retroattiva. Anche se la legge c’era già, dal
punto di vista del cittadino, (destinatario della norma penale) il decreto ha abrogato la legge
preesistente che in base al decreto non è più applicabile al fatto. Dal suo punto di vista quella legge
preesistente non esiste più e diventa una nuova legge quella che gli verrebbe applicata
retroattivamente, sulla base della Costituzione che impedisce l’applicazione del decreto-legge non
convertito. In conclusione, non sarà possibile l’applicazione retroattiva della legge in quanto lo
impedisce l’art 25 comma 2 della costituzione, nessuno può essere punito più severamente da una
legge non in vigore al momento del fatto, un principio che non può mai venire meno in quanto
assoluto e non bilanciabile (ciò è stato ribadito nella sentenza n. 336 del 2011 della Corte
costituzionale). Per il Pagliaro non è chiaro in una situazione simile quale sia la soluzione corretta in
quanto due disposizioni di rango costituzionale sono in contrasto: da una parte l’art 25, comma 2
dice che la legge non deve essere applicata mentre va applicato il decreto, dall’altra parte l’art 77,
comma 3 dice che dobbiamo fare come se il decreto non fosse mai esistito e quindi non va
applicato. Non è chiaro quale delle due disposizioni deve prevalere, in merito la Corte
Costituzionale ha detto che in realtà il peso di queste non è identico: l’art 25 sta nella prima parte
della Costituzione che riconosce i diritti e i doveri dei cittadini e quindi il pilastro fondamentale
dell’intero sistema giuridico, ritenuta la parte immodificabile della carta (e la irretroattività
costituisce uno di questi pilastri), mentre l’art 77 sta nella seconda parte della Costituzione, che
riguarda le forme di governo e i rapporti tra i vari organi costituzionali, suscettibile di modifiche.
Quindi va preferita l’applicazione dell’art 25. Per rispettare entrambe le disposizioni sarebbe più
corretto dire formalmente che (anche se non cambia nulla) si applica la legge (e non il decreto) che
è rientrata in vigore entro i limiti previsti dal decreto (si applica la legge ma la pena sarà quella
prevista dal decreto).
Adesso passiamo all’ipotesi in cui il fatto è stato commesso prima dell’entrata in vigore del
decreto-legge. Per l’art 2 comma 6 che stabilisce che le stesse disposizioni si applicano al decreto-
legge non convertito ( è come se il decreto fosse una legge emanata e poi subito abrogata) si
dovrebbe applicare il decreto-legge, in quanto è come nell’ipotesi in cui vi sono più leggi (quindi
anche nel caso di più decreti) e si applicano le disposizioni più favorevoli previste tra le leggi che si
susseguono. Invece la Costituzione nell’art 77 stabilisce che il decreto non ha efficacia ex tunc e
quindi va applicata le legge precedentemente in vigore. Anche qui vi è un contrasto tra la
costituzione e il regime previsto dal Codice penale, ma in questo caso prevale l’art 77 sull’art 2 del
codice, in quanto è di rango costituzionale. Mentre l’art 2 comma 6 non può essere applicato.

134
A differenza dell’ipotesi precedente manca l’aspettativa del destinatario della disposizione, in
quanto da una parte abbiamo il principio dell’irretroattività della legge penale che non può mai
essere scavalcato (non può essere punito più severamente da quanto previsto nel momento in cui
fu commesso il fatto), mentre dall’altra il principio del favor rei (cioè l’autore si aspettava il regime
in vigore nel momento in cui è stato commesso il fatto ma poi beneficia del regime più favorevole
che subentra successivamente) che non è assoluto ma può cedere il passo ad un’altra regola più
forte, in questo caso lo cede all’art 77 che è più forte.

La Corte si è pronunciata in merito con la sentenza n. 51 del 1985 dichiarando l’illegittimità del
sesto comma, riferendosi in realtà alla sola applicazione dei fatti pregressi (cioè quelli commessi
prima dell’entrata in vigore del decreto), ai quali l’art 2 comma 6 non può essere applicato (cioè il
principio del favor rei) perché non c’è da tutelare nessuna aspettativa del cittadino, a differenza
dell’ipotesi dei fatti concomitanti (commessi durante il decreto). Manca l’aspettativa di un
trattamento più favorevole, che l’art 2 comma 6 gli vorrebbe accordare ma che l’art 77 comma 3
della costituzione gli impedisce di farlo.
Per il Pagliaro sarebbe stato più semplice eliminare questo sesto comma e regolarsi così: chi avesse
commesso il fatto durante il vigore del decreto legge doveva essere punito da questo, in quanto
norma vigente al momento, senza la possibilità di essere punito più severamente (senza dover
ricorrere al sesto comma); chi avesse commesso il fatto in precedenza del decreto, doveva essere
punito sulla base della legge senza tener conto del decreto.

Adesso riprendiamo quanto detto nelle lezioni precedenti riguardo alla riserva di legge. Dobbiamo
verificare se possano esserci degli effetti definitivi e non cancellabili in contrasto con il principio
della riserva di legge. Questi effetti saranno sfavorevoli, perché nel caso contrario (quindi decreto
con effetti più favorevoli) non urterebbe il principio della riserva di legge che in generale tende a
garantire il cittadino. Si tratta di ipotesi scolastiche, quindi solo teoriche, e cioè l’ipotesi in cui si sia
formato il giudicato per un fatto commesso mentre era in vigore il decreto-legge con sentenza
definitiva, pronunciata nello stesso arco di tempo. Si produrrebbe un effetto contro il principio di
garanzia del cittadino (riserva di legge) sulla base di un atto del Governo e non del Parlamento,
effetto al quale non può porsi rimedio perché la sentenza sarebbe immodificabile. Se si trattasse di
un fatto commesso prima del decreto, il giudice dovrebbe applicare il regime più favorevole, cioè
della legge precedente.
Il progetto di legge Pagliaro del 1992 aveva previsto che non potesse essere pronunciata una
sentenza definitiva sulla base di un decreto-legge non ancora convertito in legge, sarebbe una
regola opportuna che nel nostro ordinamento non esiste.

È inopportuno ricorrere al referendum abrogativo per le norme penali perché un referendum


produrrebbe un’abrogazione secca della disposizione penale, in quanto non gode della duttilità
della legge ma può solo cancellare la norma esistente. Ma il referendum ha forza di legge e quindi
nella successione del tempo si creerebbe un vuoto, in quanto quel fatto non sarebbe più punibile e
tutti quelli commessi in precedenza non sarebbero più punibili. Dato che vi è stato un tempo in cui il
fatto non è previsto come reato, nessuna legge mai potrebbe tornare a punire quei fatti commessi
in precedenza, perché si tratterebbe di una legge retroattiva.

135
26/11/2018
l'espressione di successione di norme penali si intende sia in senso generale (art 2) sia in senso
stretto(art 2.4), il regime detto si applica solo alle norme penali o anche a quelle processuali? Alle
seconde si applica il principio secondo il quale il procedimento si svolge secondo le leggi in vigore in
quel momento.

. Detto questo bisogna prendere atto del fatto che ci sono situazioni a cavallo, intermedie tra diritto
penale sostanziale e processuale, per le quali invece si pone il problema se si deve applicare il
sistema del favor rei o meno, queste sono:

1. istituti che si sono chiamati cause di procedibilità ( querela, istanza, richiesta) o di improcedibilità
sopravvenuta( morte del reo prima della condanna, amnistia, prescrizione, indulto), bisogna dire
che è discusso se si tratti di una natura o l'altra, sul testo di Pagliaro si sostiene con un’ampia
motivazione che si tratti di diritto processuale penale, questa discussione oggi è ridiventata attuale
con il caso Taricco, in questo caso la corte di giustizia dell’UE aveva ritenuto che il regime penale
della prescrizione italiano fosse troppo blando, eccessivamente favorevole al reo e aveva deciso che
il giudice italiano la potesse disapplicare; questa decisione era fondata sulla tesi sostenuta dall’UE
che la prescrizione fosse istituto di carattere processuale e non sostanziale, la corte costituzionale
ritenendo che buona parte della dottrina sostenesse la tesi contraria a appoggiato il punto di vista
che si trattasse di un istituto di carattere sostanziale, e che quindi debbano valere per essa le
garanzie che il cod. pen. all'art 2 detta per le leggi penali. Il dibattito si è posto in questi termini con
le due posizioni contrapposte. Per concludere si può e si deve dire che anche quegli autori come
Pagliaro che ritengono che si tratti di istituti processuali, osservano che la disciplina è stata posta
dal legislatore nel Codice penale e quindi le norme che la descrivono e la regolano sono da
considerare leggi penali, sono sottoposte alla disciplina che il codice( art 2) detta per queste e
valgono tutte le garanzie che tale art detta in materia; se si aderisce a questa posizione ci si rende
conto che non ha tanta importanza o quanto meno non ha conseguenze pratiche il dibattito tra
corte di giustizia e costituzionale circa la natura dell'istituto. Vanno comunque applicate le garanzie,
una questione simile riguarda altre disposizioni di carattere processuale che hanno un’incidenza
sulle libertà dell'imputato e si traducono anche se non in un effetto che è una punizione tuttavia è
privazione della libertà, questo è un altro dei casi, su cui si tornerà più avanti molto importanti
deciso stavolta dalla corte edu, ed è il caso Scoppola del 2009. Il sig. Scoppola era stato condannato
all'ergastolo, in forza di una legge aveva avuto la possibilità di scegliere un rito processuale diverso
e attraverso tale scelta del rito abbreviato tenere il beneficio che la condanna all'ergastolo fosse
modificata a trent'anni di reclusione, un regime più favorevole. Aveva presentato domanda in tal
senso; quando si è parlato dell'effetto di prevenzione generale dipende secondo gli illuministi dalla
certezza, prontezza e severità della risposta sanzionatoria, ma oggi si pensa meglio dalla giustizia
della risposta, e che questa è una tesi di Pagliaro che il legislatore implicitamente accoglie con il rito
abbreviato o il cosiddetto patteggiamento che quando si arriva a prima e con più certezza alla
condanna si può anche abbassare il livello della sanzione.

136
L'effetto complessivo per il condannato si può pensare sia uguale cioè una pena meno severa ma
sicura ha lo stesso effetto di una più severa che arriverà chissà se o chissà quando. Sennonché dopo
la sua domanda il legislatore italiano aveva emanato una legge di interpretazione autentica( quando
ci sono incertezze sull'interpretazione certe volte il legislatore emana una legge che interpreta in
modo autorevole, che fa testo il senso della disposizione precedente), in realtà tale legge siccome
blocca un certo significato è una legge a posteriore a tutti gli effetti; dunque una legge tale aveva
stabilito che per "ergastolo" nella legge precedente si dovesse intendere solo l'ergastolo senza
isolamento diurno e non quelli con isolamento diurno ( quelli condannati con isolamento diurno
non potevano accedere al beneficio, questa legge è più severa esclude dal beneficio alcuni
condannati all'ergastolo) questo era il caso di Scoppola, lui aveva presentato domanda quando il
regime era favorevole, successivamente diventa più sfavorevole; e quindi non avrebbe in base a
tale legge potuto beneficiarvi. Scoppola si rivolge alla corte edu e dice che in questo mondo venga
punito più severamente del momento in cui aveva avanzato la richiesta, la corte stabilisce due cose
importanti:

1. il principio del favor rei è fissato nella convenzione eu dei diritti dell'uomo all'art.7 cui si deve
adattare tutta la legislazione per la verità è una valutazione troppo ampia perché l'art.7 stabilisce
che nessuno può essere condannato per un fatto che al momento della commissione non
costituisse reato secondo il diritto internazionale, né una pena superiore a quella che si applicava al
momento della commissione del fatto, ora questo è il principio di irretroattività non quello del favor
rei; ma non dice che tra due leggi diverse si deve applicare la più favorevole come stabilisce il 4
comma dell'art 2, la corte eu ha ritenuto che invece l'art7 implicitamente sancisse oltre
l'esplicitamente principio di irretroattività anche quello del favor rei. Scoppola avrebbe potuto in
questo caso beneficiare del più favorevole regime.

2. la corte ha detto che non ha importanza che tali leggi siano disposizioni processuali ( come in
questo caso, l'imputato aveva la possibilità di scegliere il rito abbreviato su quello ordinario) ma
siccome da questa scelta dipende un effetto sostanziale che è quello del regime sanzionatorio,
ergastolo o trent'anni e allora anche questa norma in sé processuale devono estendersi quelle
garanzie generali che riguardano le norme penali e quindi il principio del favor rei. È una legge
processuale particolare infatti.

Bisogna poi considerare un’ipotesi nel rapporto tra le leggi che si avvicina a quella delle successioni
delle leggi in senso lato ma se ne distingue cioè quella della dichiarazione di illegittimità
costituzionale delle leggi penali, si affianca ma se ne differenzia; perché in realtà non si verifica una
vera e propria successione di leggi penali. La costituzione prevede delle cose non facilissimamente
coordinabili tra loro: l'art.136 della costituzione stabilisce che quando la corte dichiara l'illegittimità
di una norma questa cessa di avere efficacia dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione
quindi si parla di efficacia ex nunc dal momento in cui la sentenza è pubblicata, il che significa che
invece per il tempo precedente prima della dichiarazione la norma è efficace sennonché l'art. 1
della legge costituzionale 1\1948 entrata in vigore simultaneamente alla stessa costituzione ha
stabilito il sistema della pregiudizialità costituzionale, nel nostro ordinamento non c'è un controllo
di costituzionalità diffuso, cioè non ci si può rivolgere alla corte costituzionale chiunque in qualsiasi
momento come in altri ordinamenti ma solo quando una legge si debba applicare in un processo

137
e devono essere le parti in un processo che sollevano la questione al giudice ordinario; in attesa
della decisione della corte il processo a quo resta sospeso, cioè quello da cui l'eccezione è partita. In
attesa della decisione della corte e una volta che si è pronunciata sarà sempre questo ad applicare
la decisione della corte, il giudice a quo, quale che sia la sua decisione . Almeno in riferimento al
caso in questione dispone che la legge illegittima perde efficacia e non si applichi ma non dal
momento dell'emanazione della sentenza ma in riferimento al caso precedentemente verificatosi,
che è anteriore alla pronuncia della corte; perde efficacia ex tunc, sin dal momento
dell'emanazione, tutti i fatti verificati dal momento dell'emanazione fino al momento della
dichiarazione di incostituzionalità non possono essere regolati dalla legge incostituzionale che non
deve produrre effetto per nessuno di questi casi, come se non fosse mai esistita, gli altri soggetti
che non hanno sollevato la questione per la stessa disposizione di legge si troverebbero in una
situazione di incongruenza e disparità di trattamento tenendo conto del fatto che una volta che la
corte si è pronunciata sulla faccenda non è più possibile riproporre una questione di illegittimità
costituzionale, quindi gli altri che ipoteticamente si trovassero nell'identica situazione non
potrebbero sollevare la stessa questione che la corte bollerebbe come inammissibile; si è concluso
che per necessità logica assoluta anche agli altri processi e casi nel corso di cui no n è stata sollevata
la questione si applica la decisione della corte, che si dichiara l'illegittimità questa è valida per gli
altri casi che potrebbero essere regolati da quella stessa legge dichiarata illegittima, questo è
confermato dall'art30 della legge ordinaria 87\1953 che regola concretamente il funzionamento
della corte costituzionale, dice che la legge non può essere applicata dal giudice a nessun caso,
potrebbe sembrare una sottigliezza ma la distinzione tra efficacia e applicazione è tangibile,
efficacia non può avere effetto da quel momento in poi, applicazione non può avere effetto
neanche per quei fatti che si sono verificati prima del tempo, quindi significa renderla disapplicabile
con effetto ex tunc, questo è il regime che sulla base della legge 1\48 e 87\53 regola il sistema.
Anche qui quest’argomento ha dei punti di contatto con la materia dei decreti legislativi non
convertiti e però se ne differenzia; anche in questo caso è possibile che la legge illegittima nel
frattempo abbia prodotto degli effetti e bisogna chiedersi se si devono ritenere nulli o meno, la
corte cost. continua a dichiarare parzialmente illegittime nell'anno 1981 norme del Codice penale
del 1930. Valerio Mira( costituzionalista) ha sostenuto che la legge costituzionale sia inesistente,
radicalmente nulla, ma questa tesi non può essere accolta significa che non potrebbe produrre
alcun effetto; il nostro ordinamento prevede che la legge in questione debba essere dichiarata
costituzionalmente illegittima e senza questa sentenza non può essere disapplicata e quindi è in
vigore fino ad allora, andrebbe più avvicinato al regime della annullabilità piuttosto che alla nullità,
che si può fare valere sempre mentre l'annullabilità esige che si sollevi un eccezione di invalidità ad
esempio per il contratto. Il meccanismo particolare è più vicino all'annullamento che alla nullità.
Questa legge produce effetti, bisogna chiedersi cosa ne è degli effetti eventualmente prodotti dalla
legge illegittima, l’analisi si svolgerà su due piste: vedere quale norma si determina a seguito della
dichiarazione di illegittimità costituzionale, sulle norme da adottare al futuro, e su quelli già
verificatesi prima che la norma venisse dichiarata illegittima dalla corte.

138
Come si diceva quale sarà la disposizione che rimane in vita dopo la sentenza di illegittimità della
Corte costituzionale, si dice quando la legge viene dichiarata illegittima normalmente perde anche
la capacità di abrogare le disposizioni precedenti che dovrebbero in teoria ritornare in vita, i
costituzionalisti parlano di reviviscenza di una norma non più in vigore. Questo però va incontro a
dei limiti, che ora si vedranno:

1. l'ipotesi abbastanza importante è che la norma legittima sia entrata in vigore prima della
costituzione, prima del 1948. Ed è il caso del Codice penale entrato in vigore nel 1930, in questo
caso la disposizione quando è stata emanata era valida dal punto di vista costituzionale, non poteva
essere considerata illegittima nel rispetto di una disposizione superiore che ancora non c'era. Ciò
non toglie che le norme preesistenti possano essere definite illegittime dalla corte, si parla in
questo caso di illegittimità sopravvenuta, cioè la norma era legittima quando è stata emanata ma è
diventata illegittima perché nel frattempo successivamente è entrato in vigore un testo di grado
superiore la quale quindi diventa illegittima per incompatibilità con quel testo, illegittimità
sopravvenuta. In una situazione del genere dal momento che quando è stata emanata era legittima
l'aspetto abrogativo di una disposizione precedente è ormai validamente definitivamente e
irrimediabilmente prodotto. Non si può quindi porre la riviviscenza di norme anteriori al Codice
penale tipo il codice Zanardelli 1869, quelle disposizioni sono state validamente sostituite da quelle
del codice Rocco del 1930.

Una cosa simile avviene anche se si tratta di una nuova incriminazione, se una norma regola un
certo fatto per la prima volta e prima non c'era nessun tipo di regime penale per quel fatto la norma
che prevede ex novo se viene dichiarata illegittima si determina un vuoto, non essendoci nessuna
disposizione anteriore sulla materia nessuna disposizione può rivivere.

Ancora, può essere che la norma in sé stessa sia dichiarata illegittima per una regione di fondo
perché contrasta con il suo contenuto con la costituzione, basta pensare alle norme che punivano lo
sciopero, le quali sono state dichiarate illegittime e non si può pensare che rivivano disposizioni
diverse relativamente al diritto di sciopero, si determina un vuoto, non ci saranno nuove norme
incriminatrici al seguito della sentenza della corte.

Invece, quando la corte dichiara l'illegittimità di una norma meramente abrogatrice, cosa un po’
rara, allora il senso di questa dichiarazione di illegittimità è proprio fare rivivere la disposizione
precedente. Questo può verificarsi quando la corte dichiara l'illegittimità di una norma che
semplicemente avesse modificato una disposizione anteriore che se possibile può rivivere, nella
misura che si vedrà. Questo è successo con la legislazione in materia di stupefacenti la cosiddetta
legge Bossi-Fini che prevedeva l'equiparazione di trattamento tra droghe leggere e droghe pesanti è
stata dichiarata illegittima per ragioni per lo più formali ( cioè era stata inserito un nuovo regime
nell'occasione della conversione in legge di un decreto che riguardava le olimpiadi invernali di
Torino la corte costituzionale aveva detto che non c'era alcuna convergenza tra il decreto delle
olimpiadi e la materia degli stupefacenti), e quindi è ritornata in vigore con una serie di problemi di
diritto intermedio la legge Lerbolino-Vassalli del 1993.

139
Per i fatti commessi mentre era in vigore la legge dichiarata incostituzionale si configura una
situazione che ricorda quella dei decreti legislativi, se i fatti in questione non sono stati ancora
giudicati ( caso facile) si applicherà ad essi la legge che è preesistente che riprende vigore, però con
il solito famoso limite che non si può essere puniti più severamente di quanto ci si potesse
aspettare al momento della commissione del fatto, il principio di irretroattività scavalca perfino
quella dell'incostituzionalità delle norme incriminatrici. Quindi se il fatto di reato è stato commesso
mentre era in vigore una legge più favorevole che la corte dichiara illegittimo costituzionalmente e
quindi perde tutti gli effetti fin dall'inizio come se non ci fosse mai stata, anche se rivive la legge
precedente comunque i fatti commessi non potranno essere puniti più severamente in una
situazione in cui ancora non si è formato il giudicato, questo urterebbe contro il principio di
irretroattività delle leggi penali. In ogni caso chi ha commesso un certo fatto si aspettava un regime
più favorevole, anche se il vero regime è più severo non può essere applicato. Dal punto di vista
formale si può dire che la legge ai fatti non ancora giudicati si applicherà la legge che riprende vita
ma con un limite alla punibilità che è dettato dalla disposizione precedentemente in vigore per
quanto questa fosse illegittima.

Ora però più recentemente si è posto il problema anche in riferimento alla legge Bossi- Fini in
materia di stupefacenti, che cosa succeda se invece si forma il giudicato mentre è in vigore la legge
più severa, sulla base della legge più severa. per i decreti-legge è un’ipotesi molto scolastica, la
sentenza dovrebbe arrivare entro i 60 giorni di vigore del decreto; per le leggi l'arco di tempo può
essere enorme, le disposizioni in materia di vilipendio e di religione sono state giudicate illegittime
nel 2006 dalla Corte costituzionale ed erano in vigore dal 1930, qui l'arco di tempo è di 76 anni. Ora
che cosa fare in questi casi? Questa situazione è diversa da quella dell'abolitio criminis, in questo
caso ponendo una sorta di analogia, si tratta di fenomeni differenti ma se provassimo ad accostarli,
succede che nell'abolitio il fatto non è più punito assolutamente, non c'è più una legge che lo
prevede come reato, e allora l'art.2 secondo comma e in combinato disposto con l'art 663 del
codice di procedura penale prevede che quando viene abrogata la norma incriminatrice il giudice
revoca la sentenza di condanna definitiva, lo stesso avviene nell'art 663 che stabiliva la questione
dell'illegittimità della legge penale; ma il vero problema nasce quando non si tratti di una totale
illegittimità della legge che sparisce come nel caso del vilipendio, che il fatto nell'ordinamento non è
più reato; invece per gli stupefacenti ritorna in vigore la legislazione precedente quindi che era stata
modificata dalla legge costituzionale e rivive una volta pronunciata l'illegittimità costituzionale. Ora
ci si chiede cosa si può fare in questo caso? Si può tenere conto della dichiarazione di illegittimità
costituzionale e applicare un regime che è analogo a quello dettato dal quarto comma dell'art.2?
Cioè si applica la disposizione più favorevole? No, perché lo stesso quarto comma prevede che si
applichi se non è intervenuta una sentenza passata in giudicato; il favor rei presuppone che il
giudicato non si sia formato e che ancora la vicenda processuale sia in itinere. Ragionando come se
le due cose fossero uguali, da sempre la dottrina e la giurisprudenza avevano negato che si dovesse
modificare la sentenza passata in giudicato; ci sono due binari che camminano separatamente, uno
riguarda la successione delle leggi penali nel tempo, per questo se si verifica una cosa del genere il 4
comma art, 2 impedisce di modificare la sentenza passata in giudicato, se si è formato ed è stata
pronunciata la sentenza irrevocabile, impedisce che la sentenza venga modificata;

140
se c'è l’abolitio criminis allora sì, ma se si tratta di una singola modifica e il fatto continua a
costituire reato allora il 4 comma che regola la successione di leggi( due leggi incriminatrici che
incriminano il fatto in maniera diversa nella successione), si applica la legge più favorevole ma a
patto che non si sia formato giudicato, che la sentenza non sia irrevocabile ancora; se lo è, rimane
per ragione di politica dell'ordinamento giuridico. Ora invece questo meccanismo non si adatta al
caso in cui la legge sia dichiarata illegittima costituzionalmente, il 4 comma regola la successione di
leggi tutte valide, disposizioni tutte valide; invece se la norma è illegittima la successione viene
interrotta e il fenomeno non è quello di una successione di legge( tale legge costituzionale perde
tutti i suoi effetti ex tunc come se non fosse mai esistita); ci sono delle affinità, ma non è la stessa
cosa. Non si verifica in senso stretto una successione di leggi è come se ci fosse un vuoto. Si tratta di
un caso diverso, il 4 comma non si può applicare. Parodi sostiene in un articolo pubblicato anni fa
che data la gravità del vulnus all'ordinamento giuridico costituita dalla legge incostituzionale anche
in questo caso si dovesse modificare la sentenza ed emanare una nuova che prevedesse un regime
più favorevole, nuovo. Ma questa posizione non è stata accolta da nessuno fino alla sentenza
Scoppola, con questa si è rivisto il meccanismo. Si è detto che devono prevalere le ragioni che
tendono a escludere ogni effetto della legge incostituzionale nella misura in cui è possibile privare
di effetti completamente una legge incostituzionale lo si deve fare, quindi se la legge aveva disposto
un trattamento più severo non ha importanza che nel frattempo si sia formato il giudicato,
bisognerà applicare il nuovo regime; Questo non è espressamente stabilito nell'art 653 del codice di
proc pen che fa riferimento all'incostituzionale dichiarazione che fa sparire la norma non che
determina una modificazione e quindi una reviviscenza di una norma più severa. Non prevede il
caso in cui la dichiarazione di incostituzionalità prevede solo un cambiamento di regime, allora la
cosa è stata sottoposta alla corte di cassazione, che assume due orientamenti sul punto opposti.
Alcune decisioni dicevano che siccome l'art 663 non lo prevede e il giudicato è intangibile, rimane
fermo il giudicato, una seconda posizione diceva che il fatto è più grave e si devono fare sparire gli
effetti più possibile e si deve fare sparire anche la sentenza, in questa contrapposizione tra sentenze
opposte della corte di cassazione il caso è stato assegnato alla sezioni unite della corte proprio per
formulare una linea comune; questo è stato riconosciuto per la prima volta con la sen, Ercolano del
2014,ha deciso che il regime giusto è che pur essendosi formato il giudicato e seppur l'art 663 non
prevede niente in una situazione del genere, bisogna modificare la sentenza e applicare il nuovo
regime più favorevole disposto dalla legge di prima che riprende vigore, questo è stato confermato
dalla sentenza della cassazione Gatto, delle sezioni unite, che è intervenuta dopo la dichiarazione di
illegittimità costituzionale dell'art 61 n 11 bis del Codice penale che aveva disposto la circostanza
aggravante per il fatto che il reato fosse stato commesso da un clandestino; la corte ha detto che
non fosse una buona ragione per dichiarare la pena e la dichiara illegittima e le sentenze
pronunciate sulla base di tale articolo? Bisogna mantenere la pena aggravata o cambiare la pena e
infliggerla senza tenere conto dell'aggravante? La sentenza dice che non bisogna tenerne conto,
pronunciando una nuova sentenza nonostante si sia formato il giudicato, Il principio che regola tale
materia è quello di fare in modo che la sentenza dato il momento in cui è pronunciata fino al
momento in cui si finisce di scontare la pena, sia sempre legale, pronunciato sulla base di una legge
conforme alla costituzione; non può diventare contraria all'ordinamento in quanto pronunciata
sulla base di una legge illegittima, fino all'ultimo giorno in cui produce i suoi effetti è doveroso
ritirarla e modificarla nel senso più favorevole al reo. Chi lo fa ?

141
Il processo si è concluso il giudice si è già pronunciato, deve continuare a essere legale durante
tutto il tempo della sua vita, la cassazione ha deciso che sarà il giudice dell'esecuzione non della
cognizione ( che stabilisce che il fatto sia stato commesso, quanta pena deve scontare), ma quello
dell'esecuzione che adotta tutti gli accorgimenti necessari per dare esecuzione alla sentenza ( i
permessi premio, il regime carcerario), tale preso atto che la sentenza di condanna definitiva è stata
pronunciata sulla base di una sentenza illegittima dovrà modificare il regime e stabilire il nuovo
regime conseguente e derivante dalla reviviscenza della legge precedente che ritorna in vigore per
effetto della dichiarazione di illegittimità costituzionale della legge.

Riassunto: le cose importanti sono:

1. questo fatto non è come la successione delle leggi penali nel tempo, non possono applicarsi le
stesse regole, perché lì sono tutte legittime e qui una illegittima rompe il sistema, si deve privare
dei suoi effetti nella massima misura possibile.

Un'altra questione legata al discorso ma avulsa da quella precedente, è che se una legge è più
favorevole al reo e c'è un processo che riguarda quella disposizione qualora la legge sia più
favorevole e il fatto è stato commesso quando era in vigore anche se illegittima si deve applicare,
principio di irretroattività. Allora le leggi penali di favore non possono mai essere giudicate
illegittime dalla corte costituzionale se nel corso di un processo( si presuppone ci sia un processo in
corso perché la questione possa essere posta), si sollevasse la questione di illegittimità della corte
costituzionale più favorevole della norma precedente anche ammessa la dichiarazione comunque
non potrebbe applicarsi il regime precedente più sfavorevole la bisognerebbe applicare in ogni
caso, la questione sarebbe inammissibile per difetto di rilevanza, la primissima cosa che fa la corte
costituzionale quando le viene proposta una questione è valutare se possa essere ammissibile o
meno davanti alla corte e può essere inammissibile per difetto di rilevanza cioè la legge potrebbe
anche essere viziata ma non è rilevante, è un problema ma non riguarda il caso particolare, e
quindi l'eventuale decisione della corte non sarebbe rilevante e la questione diventa inammissibile,
sarebbe sempre inammissibile tale questione perché la corte dovrebbe prendere atto che quella
legge si dovrebbe applicare, e quindi la questione è inammissibile. Si potrebbe pensare che la
questione sia irrilevante e non possa mai essere proposta, non potrebbe esserci un sindacato di
costituzionalità. Ma nel 1993 la corte costituzionale a proposito di un istituto che riguardava la non
responsabilità dei membri del Csm ha deciso in senso contrario, una norma di favore per i membri
del consiglio superiore e questa disposizione era stata sottoposta al suo giudizio e si era fatto
l'irrilevanza della questione e la corte ha detto che non possono esserci zone dell'ordinamento
giuridico penale sottratte dal controllo della corte, si creerebbero delle zone franche nei confronti
di queste norme e questo non è ammissibile. Nel processo in questione la legge legittima si dovrà
comunque applicare ma per il futuro quella disposizione sarà eliminata; riportando l'ordinamento
alla legittimità.

142
Si sta concludendo la parte che riguarda la successione delle leggi penali nel tempo, si usa questa
espressione in doppio senso: in senso molto ampio, riguarda tutti i vari fenomeni di successione
regolati dal 1 all'ultimo comma, certe volte si usa quest'espressione in senso stretto per indicare
esclusivamente il fenomeno del 4 comma quindi quella modifica più favorevole che può aversi
passando da una legge all'altra.

143
27/11/2018
Modifiche mediate della legge penale, quelle modifiche alla disciplina posta dalla norma penale che
derivano non dalla variazione della legge penale in sé, ma dalla variazione di quelle altre disposizioni
diverse dalla legge penale dominatrice che in qualche modo interferiscono però con la legge penale
in quanto tale, perché richiamate dalla stessa o perché sono un presupposto all’applicazione della
legge penale come nel caso delle norme penali in bianco. La domanda quindi: se varia non la legge
penale in sé, ma queste altre disposizione, di conseguenza varia anche la disciplina penale?
Esempio: esiste il delitto di calunnia, consistente nell’accusare davanti ad un’autorità giudiziaria una
persona che si sa essere innocente → art.368 cod. pen. “(…) incolpa di un reato taluno che egli sa
innocente, ovvero simula a carico di lui le tracce di un reato”.

La legislazione penale cambia nel tempo, quindi quello che oggi è reato potrebbe non esserlo più: es.
finanziamento illecito di partiti, atti osceni in luogo pubblico, ingiuria ecc. sono atti depenalizzabili.
Quindi io posso accusare qualcuno di aver commesso atti osceni in luogo pubblico e nel momento in
cui il fatto è commesso costituisce un reato; successivamente, però, il legislatore decide di
depenalizzare gli atti osceni e quindi ciò di cui ho accusato una certa persona NON è più reato, lo era
quando l’ho accusata.
Altro esempio: ho una licenza con determinate condizioni e violo le condizioni poste, commetto un
reato. Senonché la licenza è stata rilasciata in modo illegittimo e dunque viene modificata affinché
l’attività che io svolgo possa rispecchiare la licenza rilasciata. Quindi un atto amministrativo viene
revocato, annullato, modificato… Ma anche qui: continua ad esservi reato anche se il provvedimento
è stato modificato o posto nel nulla?
A rispondere a questa domanda ci sono stati due filoni di pensiero:
1) Un criterio uguale e applicabile a tutti i casi, una risposta sempre uguale;
2) Un criterio diverso per ogni caso, parametri sempre differenti.

Nel primo filone ci sono due teorie perfettamente opposte: quella seguita dalla giurisprudenza
maggioritaria e quella per cui, in questi casi, la disposizione extra-penale richiamata dalla legge penale
costituisce un dato di fatto e come tale non modificabile, bisogna guardare cioè al momento in cui è
stato commesso il reato e non le modificazioni successive della legislazione. Così, per esempio, la
Cassazione ha deciso nel 2008 -nella sentenza n°2451 a sezioni unite- riguardo la tematica dei
Rumeni: vi sono dei reati compiuti da soggetti estranei al territorio dello stato e dell’Unione Europea
(ingresso illegittimo, extracomunitari) in quanto al tempo la Romania non era tra gli stati membri.
Successivamente, però, la Romania è entrata a far parte dell’UE e quindi i rumeni non sono più, oggi,
extraeuropei ma cittadini europei: il fatto che quel soggetto fosse, nel corso del giudizio, diventato
cittadino europeo faceva venire meno il reato da lui commesso (reato che richiedeva la qualità di
extracomunitario)? Oppure il reato rimaneva? La cassazione ha deciso che il reato non poteva essere
considerato estinto, poiché il fatto che al momento dell’ingresso il cittadino non fosse cittadino
europeo non era modificabile. Naturalmente questa posizione va a svantaggio del reo, perché un
eventuale mutamento della legge penale nel senso di miglioramento, non ha rilevanza.

144
La posizione di Pagliaro risultata uguale a questa, ma diversa dal punto di vista teorico: Pagliaro
esclude che una norma di legge o una disposizione possa essere considerata un fatto, una norma è
una norma; però una certa disposizione produce una qualifica dei fatti e questa qualifica va
considerata al momento del reato, non ha rilevanza una qualificazione successiva al momento del
fatto. Il risultato quindi è lo stesso, ma la teorizzazione diversa.

L’altra teoria (sostenuta da Musco e Padovani) ritiene che si debba sempre considerare la variazione
di queste norme diverse dalla legge penale.
Spiegazione teorica: l’art.2,2 cod. pen. stabilisce che “Nessuno può essere punito per un fatto che,
secondo una legge posteriore, non costituisce reato”, la parola <<fatto>> va intesa con riferimento
non solo alla descrizione data direttamente dalla legge penale, ma ricomprendendo tutti gli elementi
che concorrono a determinare il fatto che costituisce il reato, quindi anche la legge extra-penale. Così
che per stabilire se un fatto non costituisce più reato, se vi è stata abolitio criminis, non bisogna
guardare soltanto alla legge penale ma a tutto l’insieme delle disposizioni che la legge penale richiama
per la sua applicazione: sono proprio loro che propongono la definizione la definizione di modifiche
mediate della legge penale, nel senso che ci sarebbero modifiche della legge penale non
immediate/dirette, ma mediate cioè attraverso la modificazione di un’altra disposizione non penale
richiamata dalla legge penale. Si dovrebbe dire che quel fatto, con tutti gli elementi che lo connotano,
non costituisce più reato in un certo momento e quindi non è più punibile. Questa posizione è
animata da uno spirito di favor rei perché consente di tenere conto delle modificazioni delle leggi
penali anche a favore del reo, perché nessuno mai ha pensato di sostenere che queste modificazioni
di norme estranee alla legge penale possano produrre un effetto a sfavore del reo: in altre parole,
nessuno ha mai pensato che quanto -al momento in cui fu commesso- non costituiva reato potesse
diventarlo successivamente per effetto di una modificazione di una legge extra-penale. Supponiamo
che il codice della strada preveda che fosse una violazione superare certi limiti di velocità e che
qualcuno circoli a 70chm/h e che poi il limite venga abbassato a 50chm/h: ebbene chi percorreva la
strada a 70, quando il limite era tale, allora non potrà essere mai accusato di aver violato la legge.
Naturalmente, secondo le due teorie che abbiamo visto, la variazione potrebbe essere influente o
non influente: secondo la prima posizione -quella della Giurisprudenza maggioritaria- se uno va a
60chm/h, mentre il limite è a 50chm/h, e il limite viene portato successivamente a 70chm/h secondo
la cassazione il fatto costituisce sempre reato. Secondo Fiandaca e Musco, al contrario, se il limite
viene alzato chi camminava ad una velocità che al momento non era consentita, ma che diventa
consentita, non deve rispondere della sua azione.

Queste due posizioni antitetiche sono posizioni che considerano un solo rimedio; poi c’è la posizione
sostenuta da Mario Romano che non usa un unico paramento, ma distingue a seconda del tipo di
integrazione fra norma penale e norma extra penale arrivando a conclusioni differenti: se le norme
extra penali concorrono a formare il tipo di illecito allora una variazione sarà rilevante penalmente.
In questi casi la variazione della norma extra penale avrà riflesso sulla legge penale e a favore del reo,
nel senso che se la nuova legge che integra la legge penale in bianco bisognerà tenerne conto e
ritenere che il fatto non costituisce reato.
Invece se si tratta di semplici elementi normativi, che non concorrono ad integrare il tipo di illecito
allora la norma penale resterà immutata e quindi la modificazione non avrebbe importanza.

145
Io penso che questa seconda posizione sia, forse, un po’ più vicina al vero cioè che non si possa dare
un criterio unico, ma che bisogna utilizzare diversi metodi di valutazione; però mentre il metodo
fornito da Romano è un po’ formale (cioè elementi normativi ed elementi che concorrono a formare
il tipo di illecito) io direi che bisogna chiedersi che se questi elementi extra penali hanno a che fare
con il disvalore che la legge penale vuole punire. Se si verifica cioè una variazione della valutazione
politico-criminale rispetto al disvalore del fatto, in conseguenza della variazione della legge diversa
da quella penale. Così, continuando ad utilizzare questo criterio, ci si accorge che la variazione delle
leggi di diritto civile o amministrativo non determinano la variazione del valore politico-criminale del
reato; se invece cambiano dei criteri, delle norme, delle regole di carattere sociale queste si riflettono
sulla legge penale (es. comportamento contrario alla morale familiare; oscenità di certi atti; carattere
offensivo di una certa parola ecc.). Queste variazioni si riflettono sul disvalore penale e lo fanno
venire meno, così che è come se fosse cambiata la valutazione sul disvalore politico del fatto. Per
quello che riguarda la variazione di norme penali, richiamate da una data disposizione incriminatrice
bisogna distinguere: così nel caso della calunnia, se il fatto di cui si è incolpato l’innocente non è più
reato questo non fa venire meno il giudizio di disvalore sul reato di calunnia perché avere messo in
moto inutilmente e anzi dannosamente un processo penale contro un innocente, rimane tale come
fatto, indipendentemente dall’accusa specifica. Invece, se cambiano altre leggi penali rispetto altre
norme incriminatrici, la cosa può avere conseguenze diverse se questo si traduce in una valutazione
del disvalore politico del fatto: es. associazione a delinquere, è punito chi si associa per commettere
un certo delitto ma supponiamo che quel delitto sia depenalizzato allora il fatto per cui ci si era
associati perde quel disvalore che possedeva al momento in cui è stato commesso perché rimane
un’associazione per qualcosa di penalmente lecito, di non socialmente rilevante in senso negativo, e
quindi -a mio parere- non ha senso continuare a punire un’associazione a delinquere per un certo
fatto non considerato più reato dalla legge.
Concludendo, ricordiamo sempre che qualunque posizione si assuma non sarà mai possibile che
diventi reato ciò che –al momento in cui era stato commesso- non lo era, in conseguenza di una
variazione della legge penale.

Un altro problema si individua con la frase latina “tempus commissi delicti”, ossia il tempo del reato
commesso: in quale tempo si considera che sia stato commesso il reato? Perché abbiamo ragionato
sulla variazione delle leggi penali nel tempo, queste variazioni però presuppongono che comunque il
reato è stato commesso in un certo momento. In qualche caso è assolutamente semplice stabilire
quando il reato è stato commesso, cd. Reati uni sussistenti cioè reati che si esauriscono in certo
attimo: es. do un pugno ad una persona (delitto di percosse), è un’istante e il delitto avviene proprio
nel momento in cui colpisco l’altro. Invece, per altri reati può intercorrere un lasso di tempo anche
molto ampio tra un momento e l’altro nella realizzazione del reato, cd. Reati vel d’aiuto (??? Non si
sentiva) dove ci può essere una distanza tra il momento della condotta –cioè del comportamento
umano vietato- e il momento del risultato che si voleva ottenere: supponiamo un reato di edificazione
abusiva per cui il palazzo progettato crolla dopo 30 anni dal momento in cui era stato costruito
(l’evento quindi si verifica dopo 30 anni e sono anche morte delle persone, omicidio colposo), allora
quale sarà il momento in cui si considera commesso il reato? Quando il palazzo è stato costruito o
quando è crollando causano la morte delle persone?

146
[abbiamo detto che c’è una distinzione tra condotta ed evento, qui bisogna prendere la parola
“evento” come qualcosa che sia distinto dalla condotta in senso naturalistico, sia cioè un risultato
separabile dalla condotta e non sia invece la stessa condotta considerata come evento del reato.
Es. se io sparo a qualcuno, la condotta consiste nel far partire un proiettile da un’arma da fuoco, ma
l’evento morte della vittima è assolutamente distinto dal mio comportamento. Invece, se io evado
dal carcere l’evento non è distinto dal mio comportamento, cioè l’evento consiste proprio nel fatto
che io esca dal carcere e si identifica -dal punto di vista naturalistico scientifico- nel mio
comportamento.
Quando, quindi, ci poniamo questo problema stiamo facendo riferimento a questo modo di pensare
l’evento del reato, considerandolo distinto dalla condotta umana altrimenti il problema non si
porrebbe.]

Allora, se tra la condotta e l’evento passa molto tempo che cosa si deve dire?
Es. se sparo a qualcuno e l’altra persona rimanga in coma per anni e, alla fine, muoia. Per rispondere
bisogna fare riferimento alla funzione delle leggi penali: tale funzione è quella di orientare il
comportamento dei destinatari; Pagliaro dice che vi è un rapporto teleologico tra accadimenti, per
cui se si commette qualcosa allora accadrà qualcosa di sfavorevole. La legge penale si propone di
spingere le persone a non fare certe cose o a farne certe altre, quindi la legge penale esaudisce la sua
funzione nel momento della condotta cioè del comportamento umano: posta in essere la condotta e
la legge violata, tutto ciò che segue non è più controllabile da parte dal reo., proprio perché il reato
è stato già commesso.
Dunque, il momento in cui si deve considerare commesso il reato è il momento della condotta: la
distinzione tra condotta ed evento e la distanza temporale che può separare la condotta dall’evento
è quello della condotta. Senonché nascono altri problemi perché anche la condotta può avere una
sua durata nel tempo, perché non è detto che sia un pugno che quindi dura un’istante ma può
protrarsi nel tempo: questo succede in particolare in alcuni casi come il delitto tentato, il reato
permanente, il reato abituale e i reati a condotta frazionata.

• DELITTO TENTATO: Il tentativo si compone di atti che possono quindi essere più di uno;
• REATO A CONDOTTA FRAZIONATA: esempio tipico è quello dell’avvelenamento a piccole dosi
somministrate ogni giorno, dosi che prese nel singolo non sono mortali ma nell’intera
distribuzione sì;
• REATO ABITUALE: reato che non è integrato dal compimento di un solo fatto, ma dalla ripetizione
di più atti. O meglio esistono due tipi di reato abituale: uno per cui i singoli atti già da sé
costituiscono reati (es. maltrattamenti in famiglia: una singola percossa è già un reato, se ripetuta
integra il reato di maltrattamento); invece, in altri casi è necessario più di un atto perché occorre
la ripetizione di certi comportamenti;
• REATO PERMANENTE: [da non confondere con il reato continuato!!!] è un reato che per il tipo di
condotta incriminata richiede necessariamente il mantenimento della situazione antigiuridica,
non basta non cioè una situazione istantanea, ma occorre mantenere nel tempo il reato. Esempio
è il sequestro di persona, che vale solo se ha raggiunto una certa durata.

147
Per tutti questi casi ci sono due diverse soluzioni: quella che tiene conto del momento iniziale e quella
che tiene conto del momento finale. In tutti i casi esposti la condotta ha una durata nel tempo e allora
si può pensare che il momento in cui è stato commesso il reato sia quello inziale o quello finale, con
esiti diversi. Supponiamo un sequestro di persona che comincia il 1gennaio 2016 e la vittima viene
tenuta fino ad oggi 27novembre 2018, cioè quasi due anni: si può pensare che il reato sia stato
commesso nel momento inziale (A) o nel momento finale (B). Supponiamo che il reato sia commesso
alla fine e che la legge in vigore all’inizio prevedeva una sanzione di reclusione pari ad un anno, ma
alla fine del sequestro entra in vigore una legge che lo punisce con tre anni: se riteniamo che il fatto
è stato commesso alla fine, allora, vi applicheremo la legge del suo tempo cioè quella che lo punisce
con tre anni. Sembrerebbe a prima vista che sia in gioco il principio di retroattività per cui non si può
essere puniti più severamente di quanto ci si potesse aspettare, ma in questo caso il “di quanto ci si
potesse aspettare” è rispetto il momento della condotta/di quando si commette il reato e allora non
si potrebbe applicare una legge intervenuta dopo che il fatto che è stato commesso. Ma se noi
consideriamo il fatto commesso in QUESTO momento allora gli applichiamo la legge del tempo, non
ci interessa che prima il reato fosse punito meno severamente, non ci sarà una legge retroattiva:
retroattiva sarebbe questa, quando ormai il reato si è concluso allora gli applico una legge più severa,
ma se gli applico la legge del momento non è retroattiva.
La posizione contraria, considerare il reato commesso nel momento inziale, impedisce di applicare al
fatto una legge più severa posteriore (questa sarebbe retroattiva, non si può fare), ma non esclude
che se la legge diventa più favorevole al reo -in quanto posteriore al fatto- si possa, anzi si debba,
applicare. Quindi la posizione secondo la quale il reato si considera commesso al momento inziale -
fermo restando che non si potrà mai punire più severamente di quanto sia previsto quando sia
commesso- consente di tenere conto di eventuali modifiche a favore del reo che siano sopravvenute
mentre il reato è ancora in essere, cioè la condotta perdura nel tempo.

Secondo la giurisprudenza prevalente (Pagliaro, Mantovani) il reato si considera commesso


nell’ultimo momento perché, sino a quel momento, il reo può decidere se insistere nel suo
comportamento o no. Saputo che la legge è stata modificata e, per esempio, peggiorata il reo può
decidere se smettere di adottare il suo comportamento per non andare incontro alla sanzione più
severa. Tant’è vero che Pagliaro suggerisce, nel progetto di riforma del Codice penale (commissione
Pagliaro), che nel caso di reato permanente una legge modificativa entri in vigore 15gg dopo la sua
emanazione, proprio per dare il tempo a chi sta compiendo il reato di interrompere la propria
condotta.
Altri, ispirati dal criterio del favor rei, ritengono invece che il reato sia commesso all’inizio di questo
iter, mossi proprio dall’intenzione di dare al reo il beneficio di un’eventuale legge che fosse
subentrata senza mai pensare di aggravare la sua posizione.
Poi può succedere che, nella durata del tempo, i fatti siano disciplinati da disposizioni che non sono
identiche fra loro, quindi addirittura cambi la disciplina: allora si deve stabilire se c’è un nuovo reato
oppure se si tratti semplicemente di una modifica di un precedente reato. Se si tratta dello stesso
reato, diversamente disciplinato, potremmo applicare se più favorevole la nuova legge; se si tratta,
invece ,di una nuova figura di reato dovremmo scindere il comportamento in due rami e dire che sino
a questo momento era in vigore questa legge e valutarne le conseguenze, da questo momento in poi
dobbiamo applicare la nuova legge.

148
28/11/2018
VALIDITA' DELLA LEGGE PENALE NELLO SPAZIO

La legge penale produce effetti differenti a seconda che un certo fatto si sia verificato in un luogo o
in un altro, nel territorio dello Stato oppure fuori, perché la legge è valida comunque ma non
produce effetti in certi casi in cui i reati sono commessi all'Estero.

I principi che riguardano questa materia sono diversi :

1- PRINCIPIO DI TERRITORIALITA'-> è stabilito negli artt. 3 e 6. Secondo questo principio , la legge


penale italiana si applica a tutti i fatti che sono commessi nel territorio dello Stato.

Art 3:"La legge penale italiana obbliga tutti coloro che ,cittadini o stranieri, si trovino nel territorio
dello Stato, salvo le eccezioni stabilite nel diritto pubblico interno e dal diritto internazionale.
Queste eccezioni vengono dette IMMUNITA'".

Quindi tutti sono obbligati ad osservare le leggi penali dello Stato italiano, se si trovano nel suo
territorio: i destinatari di tale legge sono sia i cittadini italiani che gli stranieri che si trovano nel
territorio italiano .

Sempre l'art 3: "La legge penale italiana obbliga anche tutti coloro che , cittadini o stranieri, si
trovino all'Estero, ma limitatamente ai casi stabiliti dalla legge medesima o dal diritto
internazionale".

Quindi la legge penale italiana non si applica esclusivamente per i fatti commessi nel territorio
italiano , ma in certe situazioni si può applicare e obbliga cittadini e stranieri anche se il fatto è
commesso all'estero . Questo è ciò che esprime il secondo principio detto-> PRINCIPIO DI
UNIVERSALITA', secondo il quale la legge penale si applica ovunque il fatto sia stato commesso.

La stessa cosa è ribadita dall'art 6 :"Chiunque commette reato nel territorio dello Stato è punito
secondo la legge italiana" .

A questi due principi ne vengono aggiunti altri 2 : Principio Della cittadinanza e Principio della difesa

PRINCIPIO DELLA CITTADINANZA-> stabilisce che sia punito il cittadino in base alla propria legge
dovunque si trovi, sia in Italia che all'Estero . questo principio viene detto anche Principio della
personalità

PRINCIPIO DELLA DIFESA-> in base ad esso, si considera punibile ai sensi della legge penale italiana, i
fatti che offendano determinati interessi di notevole importanza, come gli interessi dello Stato o dei
cittadini.

Per territorio dello Stato italiano si intende il territorio metropolitano stabilito dai trattati
internazionali , compreso il sottosuolo e lo spazio aereo spaziale. Per il mare vige la regola per cui si
considerano territorio dello stato quelle acque nella costa .

149
Le navi e gli aerei militari o di polizia sono considerati territorio dello Stato ovunque si trovino,
quindi anche fuori dalle acque territoriali. Mentre le navi e gli aerei privati sono considerati nel
territorio dello Stato soltanto se il fatto si verifica entro le acque territoriali, altrimenti il fatto si
considera commesso all'Estero.

Questo è importante anche per capire la disciplina dei fatti connessi ai soccorsi in mare : es. se
succede qualcosa a bordo d’una nave della guardia costiera che sta soccorrendo immigrati , il fatto
si considera commesso nel territorio dello Stato italiano anche se questa nave si trova in acque
internazionali.

Interessante fu un fatto successo anni fa : due ufficiali di marina erano a scorta di un mercantile
italiano al largo delle coste dell'Idia e credendo che un'imbarcazione che si avvicinava fosse guidata
da pirati, hanno sparato contro quelli che stavano in questa imbarcazione che poi alla fine erano dei
pescatori e li hanno uccisi.

Allora è nata una questione complicata nei rapporti tra l’Italia e l'India perché il fatto si era svolto
fuori dalle acque territoriali indiane e quindi la giurisdizione avrebbe dovuto essere italiana , se non
che l'India riteneva che anche al di là delle proprie acque ci fosse una zona di influenza commerciale
più ampia , dove il fatto era accaduto, e riteneva che fosse propria la giurisdizione sul fatto. I due
ufficiali sono stati arrestati, detenuti per lungo tempo e poi la situazione è stata definita grazie ad
una Corte internazionale , chiamata per stabilire di chi fosse la giurisdizione fra due Paesi .

REATI CH POSSONO ESSERE PUNITI CON LA LEGGE ITALIANA ANCHE SE COMMESSI ALL'ESTERO ->
Questo è regolato dagli artt. da 7 a 10 del Codice penale.

Art.7=prevede alcuni reati che la legge penale italiana considera particolarmente gravi e che per
tanto sono puniti anche all'Estero . È punito secondo la legge italiana il cittadino o lo straniero che
commette in territorio estero uno dei seguenti reati , reati che per lo Stato italiano assumono una
particolare rilevanza :

- Delitti contro la personalità dello Stato, per esempio portare guerra contro lo Stato italiano ;

-Delitti di contraffazione del sigillo dello Stato e di uso di tale sigillo contraffatto. Qui è in gioco la
possibilità di formare documenti ufficiali dello Stato ;

-Delitti di falsità in monete aventi corso legale nel territorio dello Stato, o in valori di bollo o in carte
di pubblico credito italiano;

-Delitti commessi da pubblici ufficiali a servizio dello Stato abusando dei poteri, o violando i doveri
inerenti alle loro funzioni.

Questi reati particolarmente gravi sono punibili da chiunque commessi , sia cittadino che straniero ,
ovunque commessi , sia in Italia che all'Estero.

Il principio è quello del TIPO DI INTERESSE PROTETTO, quindi si dice il PRINCIPIO DELLA DIFESA di un
interesse importante per lo Stato italiano.

150
Art.8= Prevede il delitto politico commesso all'Estero e stabilisce :" il cittadino o lo straniero che
commette nel territorio estero un delitto politico contro lo Stato italiano, è punito secondo la legge
italiana a richiesta del Ministro della giustizia".

In questo caso, interviene l'elemento della richiesta che sarebbe il corrispondente funzionale della
querela , quando si tratta appunto di uno di questi reati che vanno puniti con un'attivazione del
Ministro della giustizia. Quando c'è l'interesse dello Stato italiano per punire questi fatti opera un
filtro di pura opportunità politica che è assegnato al Ministro che giudica in base a criteri politici. Si
è verificato un delitto politico all'Estero e può essere che lo Stato italiano abbia interesse alla
punizione di questo reato o che non abbia interesse a farlo, questa scelta politica è lasciata al
ministro della giustizia che deciderà se presentare la richiesta o meno.

Bisogna capire quale sia la nozione di DELITTO POLITICO e l'art 8 lo definisce ; questa definizione è
data però ai fini della possibilità di punire appunto un delitto politico commesso all'estero ; perché,
invece , la nozione di delitto politico interessa anche ad altri fini, come a quello della ESTRADIZIONE
, che significa dare ad un altro Stato qualcuno. L'estradizione non è però consentita per fini politici .

Dunque, abbiamo due profili differenti di DELITTO POLITICO: punibilità di certi reati politici e non
possibilità di estradizione per i delitti politici.

Ai fini dell'art. 8 ,che si occupa della punibilità dei fatti commessi all'estero, il delitto si intende
politico in due sensi: uno oggettivo e l'altro soggettivo.

-Quello OGGETTIVO è un delitto commesso contro la personalità dello Stato , ovvero che offenda un
diritto politico del cittadino. Il diritto politico dello Stato si può intendere come un interesse alla vita
e all'integrità dello Stato , oppure nelle forme essenziali di realizzazione delle attività dello Stato,
come Governo e le sue funzioni ecc. . Il diritto politico del cittadino riguarda la formazione della
volontà del cittadino per esempio in occasione delle votazioni.

-In senso SOGGETTIVO si considera politico, qualsiasi reato che sia commesso per ragioni politiche ,
es: assicurarsi del denaro per commettere un atto terroristico ai danni dello Stato italiano.

In entrambi questi casi il delitto è punito a richiesta del ministro della giustizia.

Con gli artt. 9 e 10 ci andiamo allontanando sempre di più da una gravità o interesse e infatti le
condizioni per la punibilità diventano sempre di più .

Art.9= si occupa del delitto non politico del cittadino commesso all'estero. Qui si dice che è in gioco
il Principio di personalità , perché i fatti sono punibili in quanto siano commessi da un cittadino .
L'art stabilisce: "Il cittadino che , fuori dai casi indicati dagli art precedenti, commette in territorio
estero un delitto per il quale la legge italiana stabilisce la pena di ergastolo o la reclusione non
inferiore nel minimo a 3 anni , è punito secondo la legge italiana sempre che si trovi nel territorio
dello Stato".

Quindi in questo caso è necessario che il cittadino italiano abbia commesso all'estero un reato
abbastanza grave ma poi sia ritornato in Italia , così può essere punito.

151
Se il reato è meno grave, allora occorre anche qua la richiesta del ministro della giustizia . Se si
tratta di un reato per il quale è stata stabilita una pena di minore durata di 3 anni , il colpevole è
punito a richiesta del ministro della giustizia , o a istanza o querela della persona offesa. L'istanza
sarebbe la corrispondente della richiesta presentata però da un privato , mentre la richiesta è fatta
dal ministro al giudice.

Se questo reato è commesso ai danni o delle Comunità europee o di uno Stato estero, o di uno
straniero, non ci vuole ancora un'altra condizione e cioè : che si trovi attualmente nel territorio
dello Stato , che ci sia la richiesta e che non ci sia l'ESTRADIZIONE = istituto con il quale uno Stato o
richiede che vi sia consegnato o consegna una persona ad un altro Stato perché sia processato o
perché sconti una pena che gli è stata inflitta per un certo reato.

Se l'Italia non concede allo Stato estero che avesse richiesto l'estradizione e quindi il cittadino
italiano rimane in Italia , o se lo Stato estero non accetta l'estradizione che l'Italia offre ad esso e
anche in questo caso il cittadino rimane in Italia, il reato è punibile anche se è meno grave , cioè con
una pena inferiore nel minimo di 3 anni.

Quindi, se la pena è superiore, è sufficiente che il cittadino sia tornato in Italia e che ci sia la
richiesta del ministro; se la pena è inferiore a 3 anni , il cittadino deve essere tornato in Italia, ci
vuole la richiesta del ministro e non ci deve essere stata estradizione.

ART 10 = Si occupa del delitto commesso dallo straniero all'estero : "Lo straniero che commette
,fuori dai casi degli artt. 7e8, in territorio estero a danno dello Stato italiano o di un cittadino
italiano , un delitto per il quale la legge italiana stabilisce la pena dell'ergastolo o la reclusione non
inferiore alla minima di un anno , è punito sempre che si trovi nel territorio dello Stato e vi sia la
richiesta del ministro della giustizia".

Quindi, se il fatto è commesso all'estero da uno straniero ma in danno di un cittadino italiano, ad


esempio un giapponese che uccide un italiano, è punito a richiesta del ministro della giustizia se
decidesse di andare in Italia, perché se rimane all'Estero non è punibile.

Se, invece, il delitto è commesso a danno estero di un Pese delle Comunità Europee o di uno
straniero , ci vogliono ancora più condizioni e cioè: innanzitutto la richiesta del ministro, poi deve
trovarsi nel territorio dello Stato italiano , deve essere un reato grave per il quale è prevista la
reclusione non inferiore a 3 anni e infine non deve esserci stata l'estradizione. In tutti questi casi il
diritto è punibile!

DISCIPLINA DELL'ESTRADIZIONE->ART13

L'estradizione può essere attiva o passiva.

L'estradizione attiva è quella con cui l'Italia chiede ad uno Stato estero che le sia consegnata una
persona che deve essere giudicata o deve scontare una pena che già le è stata inflitta.

Un esempio è il caso di Battisti, ex terrorista delle brigate rosse, che ha commesso diversi omicidi in
Italia è stato condannato e si trova in Brasile dove si è rifugiato e il Brasile ritiene di non dover
concedere l'estradizione.

152
L'estradizione passiva è quella che l'Italia concede ad un altro Stato che la richiede .

Ci sono dei limiti alla possibilità di concedere l'estradizione :

Innanzitutto, c'è il PRINCIPIO DELLA DOPPIA INCRIMINAZIONE , cioè il fatto deve essere reato sia
per l'Italia, sia per il Paese al quale si chiede o si concede l'estradizione.

Non è necessario che la fattispecie abbia lo sesso nomen in iuris, perché nei diversi ordinamenti
ovviamente la qualificazione e il nome che un certo reato assume può essere diversa; l’importante
è che sia punito lo stesso fatto, anche se con qualche elemento di differenza nella disciplina.

L'estradizione non può essere concessa se la persona in questione può essere condannata alla pena
di morte o se si teme che possa essere condannata alla pena di morte che in Italia non è ammessa.
Questo era stabilito espressamente dall'art 698 , secondo comma del codice di procedura penale ,
che riteneva :"Non può essere concessa l'estradizione se si teme che nello Stato estero possa essere
eseguita la pena di morte".

Questo comma è stato dichiarato illegittimo dalla Corte Costituzionale , ma non basta solo una
considerazione formale , cioè la Corte ha cancellato il secondo comma e quindi ci sarebbero due
alternative : la prima è che si possa concedere l'estradizione; la seconda, che è quella giusta, è che
secondo La Corte Costituzionale non può in nessun caso essere concessa la pena di morte verso un
Paese dove questa pena sia prevista , a prescindere dal fondato timore che la pena possa essere
eseguita.

Quindi, se in quel Paese vi è la pena di morte , secondo La Corte costituzionale mai si può estradare
una persona indipendentemente dalle condizioni stabilite dall'art 698.

Quello che diceva precedentemente l'art era che se ci fossero state determinate assicurazioni di
non procedere con la pena di morte, si sarebbe potuto con l'approvazione del giudice e del
ministro della giustizia concedere l'estradizione. La Corte ha dichiarato l'illegittimità di questa
disposizione e il senso non è che non ci sia più il divieto di estradizione verso quei Paesi che hanno
la pena di morte, ma è quello escludere comunque l'estradizione anche se lo Stato nel quale vi è la
pena di morte desse adeguate assicurazioni, cioè queste assicurazioni non bastano !

Nella Costituzione è previsto il divieto di estradizione per delitti politici. Sono due disposizioni
diverse : una per il cittadino e l'altra per lo straniero.

Per lo straniero è l'art 10, ultimo comma:" Non è ammessa l'estradizione dello straniero per reati
politici".

Per il cittadino è l'art26 :" L'estradizione del cittadino può essere concessa soltanto se è
espressamente prevista dalle Convenzioni Internazionali fra l'Italia e gli altri Stati."

Il secondo comma stabilisce:" Non può in nessun caso era ammessa per reati politici".

153
La nozione di reato politico che la Costituzione coglie ai fini del divieto di estradizione è la stessa di
quella stabilita dall'art 8 per la punibilità dei reati politici? La risposta è varia: subito dopo l'entrata
in vigore della Costituzione , si tendeva a dire che le due nozioni coincidevano, perché questa
nozione dell'art 8 è molto ampia e l'Italia all'epoca aveva un interesse politico a non concedere
l'estradizione di stranieri o cittadini che si fossero resi responsabili di un delitto motivato
politicamente, perché nella tragedia della Guerra che fu la conclusione di regimi politici autoritari, si
pensava che ci fosse la necessità di tutelare al massimo soggetti che avessero commesso reati
motivati politicamente e quindi c'era l'esigenza di estendere la nozione di delitto politico in modo
da garantire il più possibile persone che nella confusione della guerra avessero commesso reati
politici.

Passata questa fase del dopo guerra, invece, la nozione è stata ridimensionata e un poco ristretta.
Per questa nozione più stretta , si considera delitto politico e non può essere concessa l'estradizione
per tutti quei reati che tendono a difendere valori riconosciuti e sanciti dalla Costituzione.

Si è affermata anche una nozione più ampia , secondo la quale si considera reato politico quello per
cui si teme che il soggetto estradato possa essere sottoposto a persecuzione ,ad un regime ingiusto
per ragioni politiche .

Vi sono incertezze fra queste due nozioni.

L'art 698 del codice di procedura penale , al primo comma distingue il reato politico e il reato per il
quale si possa temere la persecuzione, allora sembrerebbe più logico considerare il delitto politico
solo come viene descritto nella nozione più ristretta .

Il primo comma stabilisce :" Non può essere concessa l'estradizione per un reato politico, né
quando vi è ragione di ritenere che l'imputato e condannato verrà sottoposto ad atti persecutori e
discriminatori per motivi di razza, di religione, di sesso di nazionalità, ovvero a pena di trattamenti
crudeli e disumani o comunque per quegli atti che vanno a violare i diritti fondamentali della
persona".

Allora, si può ritenere che il divieto previsto dalla Costituzione sia quello del delitto politico in senso
più stretto e che per il resto , cioè nel caso in cui si tema discriminazione o persecuzione, valga l'art
698 del codice di procedura penale.

LUOGO IN CUI è STATO COMMESSO IL REATO -> Il reato si può dividere in varie fasi e quindi può
svolgersi in diversi luoghi, es: Tizio spara a Caio in Italia, la vittima scappa e muore in Romania.

L'art.6 è ispirato alla logica della massima applicabilità ed estensione della legge penale e cioè
considera che purché una parte del reato si sia verificata in Italia, il fatto si considera commesso in
Italia.

"Il reato si considera commesso nel territorio dello Stato quando l'azione o omissione che lo
costituisce è lì avvenuta in tutto o in parte , ovvero si è ivi verificato l'evento che è la conseguenza
dell'azione o omissione".

154
Nel reato bisogna distinguere il comportamento umano, che può essere un'azione o omissione, e il
risultato di questo comportamento : io sparo =azione; Tizio muore=evento .

Qualunque parte del reato si sia realizzata in Italia , il reato si considera commesso in Italia: se
l'azione in tutto o in parte sia compiuta in Italia , il fatto si considera commesso nel territorio dello
Stato . Anche nel caso in cui l'azione si è svolta all'estero ma l'evento si realizza in Italia, il reato si
considera commesso nel territorio dello Stato.

VALIDITA' DELLA LEGGE PENALE RISPETTO ALLE PERSONE

In certi casi e in certe condizioni, anche se la legge penale è valida, non può produrre effetti nei
riguardi di determinate persone.

Bisogna distinguere 3 posizioni nelle quali si può trovare il soggetto:

SOGGETTO DEL FATTO - SOGGETTO DELLA CONSEGUENZA - SOGGETTO DELL'ILLECITO.

1-SOGGETTO DEL FATTO= è chiunque figuri nella fattispecie penale come una persona che tiene una
condotta, colui che fa qualcosa prevista come tale dalla legge penale. Nella maggior parte dei casi,
questo soggetto è anche punibile , però è possibile che pur facendo qualcosa non sia anche
punibile, ma sia soltanto soggetto del fatto ma non anche soggetto dell'illecito , es.->nella
corruzione, il pubblico ufficiale, abusando dei suoi poteri, costringe qualcuno a dare ad un terzo del
denaro. Il soggetto che dà il denaro è il soggetto del fatto, nel senso che figura nella fattispecie
incriminatrice come una persona che tiene u certo comportamento descritto dalla legge penale.
Tale soggetto però è stato costretto a dare il denaro, quindi non risponde di questo fatto perché è
la vittima del reato!

La differenza tra soggetto del fatto e soggetto dell'illecito può avere particolare importanza lì dove
la legge richieda perché il fatto sussista la presenza di un certo numero di persone che devono
essere soggetti del fatto, es.-> La rissa, prevista dall'art.588. Perché ci sia una rissa , la
giurisprudenza ha stabilito che occorrono almeno 3 persone , altrimenti non c'è rissa ; quindi
occorrono 3 persone del fatto , però qualcuno di questi soggetti potrebbe non essere anche
responsabile e punibile, come ad esempio un minore di 14 anni , che per la legge penale è
completamente privo di capacità penale e quindi non può rispondere penalmente. Però, pur non
potendo rispondere è capace di essere soggetto del fatto. Quindi il reato c'è, c'è stata la rissa
perché sono presenti 3 persone dette soggetti del fatto , una di queste potrebbe non rispondere
però penalmente e le altre sì!

2-SOGGETTO DELLA CONSEGUENZA= se intendiamo per conseguenza la sanzione penale che la


legge ricollega al reato, questa nozione coincide con la nozione del soggetto dell'illecito, perché la
sanzione penale prevista dalla legge ricade sul soggetto dell'illecito.

155
Se però, per conseguenza riteniamo qualsiasi conseguenza derivante dal reato, quindi anche non
una sanzione penale, ma una sanzione di altra natura, allora possono essere soggetti della
conseguenza anche soggetti che non subiscono la sanzione penale, ma altro tipo di sanzione
derivante dal reato. In particolare, questo vale per le persone giuridiche , che nel nostro
ordinamento in senso stretto non sono penalmente responsabili , però possono essere tenute ai
sensi dell'art 197 a pagare una somma di denaro se il loro rappresentante , condannato per un
reato, non può pagare perché è insolvibile, quindi in sostituzione la persona giuridica paga una
somma di denaro che però non è una sanzione penale, ma è una sanzione civile! Questa è una
conseguenza del reato, ma non è una sanzione penale.

Lo stesso vale per il regime previsto per gli enti in generale , dotati o meno di personalità giuridica,
ai sensi del decreto legislativo 231/2001 che ha introdotto nel nostro ordinamento la responsabilità
del reato degli enti. Questi enti subiscono delle conseguenze che sono delle sanzioni , la cui natura è
discussa , ma non si tratta di sanzioni penali in senso stretto.

3-SOGGETTO DELL'ILLECITO= è colui al quale l'ordinamento giuridico imputa la responsabilità per il


fatto previsto dalla legge e quindi è chiamato a rispondere penalmente e gli viene inflitta la
sanzione penale prevista da un certo reato.

La nozione più importante e più rilevante è proprio quella del soggetto dell'illecito , perché bisogna
chiedersi se una persona debba rispondere oppure no di un certo reato.

Per affrontare questo argomento, buona parte della dottrina penalistica fa ricorso al concetto di
CAPACITA' GIURIDICA PENALE , cioè l'attitudine ad essere punto di imputazione di un illecito penale.
Senza la capacità giuridica penale non ci può essere imputazione del reato , cioè non si può essere
chiamati a rispondere del reato : se un soggetto non è giuridicamente capace, non può rispondere
del reato!

Anche nel diritto penale, oltre alla capacità giuridica c'è anche la CAPACITA' DI AGIRE. Il rapporto tra
le due capacità è capovolto rispetto a quello del diritto civile, perché:

-nel diritto civile , la capacità giuridica si acquista con la nascita e quindi l'hanno tutti; invece, la
capacità di agire, cioè la capacità di porre in essere atti capaci di produrre conseguenze giuridiche, si
acquista con il compimento dei 18 anni di età.

-Nel diritto penale, le cose sono capovolte , ovvero tendenzialmente tutti hanno la capacità di agire
con la nascita (anche un neonato con le sue manine può provocare una lesione all'occhio di una
persona); invece , il neonato non ha la capacità giuridica perché non può essere chiamato a
rispondere di quello che ha fatto, perché la capacità giuridica penale si raggiunge con il compimento
dei 14 anni di età. Sotto i 14 anni non si può essere punto di imputazione penale.

L'INCAPACITA' può essere GERNERALE o PARZIALE ; generale rispetto a tutti i casi di reato e parziale
rispetto ad alcuni di essi.

156
-INCAPACITA' GENERALE= è molto rara e riguarda : le persone giuridiche, i capi di stato estero o
Pontefice , secondo il diritto internazionale, i quali non possono essere chiamati a rispondere di
nessun reato da loro commesso.

Questa incapacità generale di questi soggetti appena elencati , oggi è ridotta a seguito
dell'istituzione della Corte Penale internazionale permanente , che considera responsabili
penalmente anche i Capi di Stato e i ministri con diverse limitazioni:

-per rispondere dinanzi la Corte penale internazionale, occorre che lo Stato di cui è cittadino il
soggetto che è chiamato a rispondere, abbia aderito alla Convenzione di Roma, con la quale è stata
istituita questa Corte internazionale; il cittadino dello Stato non aderente non può essere chiamato
a rispondere (il soggetto in questo caso è sempre il capo di stato o un membro del governo).

-Questa responsabilità si limita a quei determinati reati previsti dallo Statuto internazionale: crimini
di guerra, crimini contro l'umanità, genocidio. La responsabilità entra in gioco esclusivamente per
questi reati; per tutti gli altri reati questi soggetti mantengono la loro incapacità penale, soltanto
per questi reati previsti dallo Statuto e nel caso in cui il proprio Stato abbia aderito alla Convenzione
, possono rispondere penalmente.

Per il diritto internazionale è già un progresso , perché la tradizione era proprio quella della non
punibilità e irresponsabilità dei capi di stato estero.

-INCAPACITA' PARZIALE O SPECIALE=può dipendere o dal tipo di reato o dal tipo di sanzione.

Per il tipo di reato , abbiamo visto che o straniero può essere chiamato a rispondere solo per certi
reati e a certe condizioni , per tutti gli altri che non rientrino in quegli articoli dal 7 al 10 non ha
capacità di rispondere penalmente->si tratta di incapacità parziale.

Per il tipo di sanzione , non tutti possono essere chiamati a rispondere per un fatto per il quale sia
prevista una determinata sanzione penale.

Perché si possa rispondere di un illecito per il quale è previsto una pena occorre l'imputabilità, cioè
la capacità di intendere e di volere , occorre la pericolosità sociale , così che c'è un'incapacità dei
non imputabili rispetto agli illeciti per i quali è prevista una pena e c'è un'incapacità dei non
socialmente pericolosi rispetto ai fatti per i quali è prevista una misura di sicurezza.

Sono quindi giuridicamente capaci rispetto ai fatti per i quali è prevista una pena i soggetti
imputabili , e sono giuridicamente capaci rispetto ai fatti per i quali è prevista una misura di
sicurezza i soggetti socialmente pericolosi

L'imputabilità dipende dalla capacità di intendere e di volere : non hanno capacità penale i soggetti
infermi.

157
INCAPACITA' DELLE PERSONE GIURIDICHE

Le persone giuridiche non possono essere chiamate a rispondere penalmente ad un reato , non
possono essere punti d'imputazione di un illecito penale: possono essere soggetto della
conseguenza, ma non soggetto dell'illecito.

Questa affermazione va pensata in termini problematici.

Innanzitutto, c'è un argomento che si ricava dall'art 197 del c.p. , rubrica "Obbligazione civile delle
persone giuridiche per il pagamento delle multe e delle ammende". L'art stabilisce che gli enti
forniti di personalità giuridica qualora sia pronunciata la condanna per reato contro chi ne abbia la
rappresentanza o l'amministrazione sono obbligati al pagamento , incasso di insolvibilità del
condannato, di una somma pari all'ammontare della multa o dell'ammenda inflitta.

Quindi, in questo caso abbiamo il rappresentante di un ente con personalità giuridica al quale è
stata inflitta una pena pecuniaria ; se il rappresentante non può pagare , allora la persona giuridica
è tenuta al pagamento di una somma di denaro pari al valore dell'ammenda o multa inflitta.

La natura giuridica di questo pagamento è diversa , perché per la persona fisica si tratta della
condanna ad una sanzione penale, mentre per la persona giuridica si tratta di un'obbligazione di
natura civilistica.

Dal ciò si deduce che alle persone giuridiche non può essere inflitta la sanzione penale e non posso
rispondere penalmente , sono soggetti della conseguenza ma non dell'illecito. Questa situazione è
stata espressa per secoli dal principio SOCIETAS DELINQUERE NON POTEST = la società non può
rispondere penalmente, può rispondere soltanto una persona fisica. Questa regola provoca forti
inconvenienti ; Franco Bricola scrisse l'art "I Costi del principio societas delinquere non potest". I
costi sono : il fatto che non potendo punire le persone giuridiche si rischia di non fornire
un'adeguata tutela in molti casi in cui il reato viene commesso nell'interesse della persona giuridica.
Infatti, la persona giuridica può avere interesse nella commissione di certi reati , può avere anche
un interesse a corrompere funzionari pubblici per ottenere ad esempio un appalto. In questo caso ,
si parla di compimento di reati naturalmente attraverso persone fisiche e viene attributo sempre a
quest'ultima il reato ed è chiamata a rispondervi. Questo però non basta a fermare la commissione
di reati perché vi sono delle vere e proprie politiche di impresa volte alla commissione di reati che
vengono perseguite sistematicamente in certi casi senza che la responsabilità penale della persona
fisica sia sufficiente per scoraggiare e distogliere dalla commissione dei reati.

Allora, in Europa sin dalla seconda metà dell'800 si è posto il problema della responsabilità penale
vera e propria delle persone giuridiche . Nel diritto anglosassone c'è una filosofia del diritto più
pragmatica , meno sensibile alla dogmatica .

Dal punto di vista delle categorie dogmatiche evidentemente una persona fisica non è come una
persona giuridica : i presupposti della responsabilità sono diversi.

La Costituzione nell'art 27 , comma 1 stabilisce la responsabilità penale e personale.

158
03/12/2018
VALIDITA' DELLA LEGGE PENALE RISPETTO LE PERSONE : non si tratta di validità in senso tecnico
giuridico , ma della possibilità che una certa legge produca effetti rispetto a certe persone oppure
distinguendo SOGGETTO DEL FATTO e SOGGETTO DELL'ILLECITO--> perché non è detto che
chiunque compia qualche cosa che è descritta dalla fattispecie penale sia anche chiamato a
rispondere penalmente di ciò che ha fatto. Per rispondere occorre la CAPACITA' GIURIDICA PENALE
che è l'idoneità ad essere fonte di imputazione dell'illecito penale, cioè colui al quale l'ordinamento
giuridico attribuisce l'illecito e lo chiama a risponderne. Ma possono esserci delle ragioni di
INCAPACITA' GIURIDICA, perché alcuni soggetti per la loro posizione non sono chiamati a
rispondere. L'INCAPACITA' può essere : GENERALE O SPECIALE.

INCAPACITA'SPECIALE--> rispetto al tipo di fatto o rispetto al tipo di estradizione.

INCAPACITA' GENERALE --> per le persone capaci si riferisce esclusivamente nel diritto
internazionale a persone che hanno una posizione particolarissima : ad esempio i capi di stato
estero , il papa. Invece, nell'ordinamento interno la situazione generale di incapacità generale
riguarda le persone giuridiche.

Le persone giuridiche non hanno capacità giuridica penale nel nostro ordinamento ( questa
affermazione va verificata assieme con il decreto legislativo 231 del 2001 che ha introdotto un
sistema di responsabilità delle persone giuridiche). In generale possiamo mantenere l'idea che le
persone giuridiche non abbiano una capacità penale nel nostro ordinamento e questo si può
ricavare dal punto di vista del diritto positivo dall'art 196 del Codice penale " Quando una persona
fisica (amministratore, rappresentante) di una persona giuridica, sia stato condannato al
pagamento di una sanzione penale pecuniaria (cioè multa o ammenda) e non sia solvibile ( cioè non
può pagare) , allora è tenuto al pagamento di una somma pari la persona giuridica, ma questa
somma pari lo stabilisce la legge non è una sanzione giuridica penale, ma è l'oggetto di
un'obbligazione di diritto civile, quindi la persona giuridica è tenuta sia al pagamento , sia alle
obbligazioni di natura civile, quindi non è una responsabilità penale della persona giuridica, quella
che si ricava dall’art 196 del Codice penale. Il fatto che la persona giuridica non è soggetta a
responsabilità penale crea degli inconvenienti molto seri, non basta la responsabilità penale delle
persone fisiche (amministratore, rappresentare) per evitare certi fenomeni che corrispondono a
vere e proprie politiche di impresa es. la produzione di oggetti non conforme alla legge penale, per
bloccare ciò però non basti che sia chiamato a rispondere l’amministratore, poiché l’impresa basta
che cambia l’amministratore può continuare nella sua violazione della legge penale. Quindi, fin dagli
anni 60 BRICOLA aveva pubblicato un articolo sugli inconvenienti che derivano da questo fatto,
allora si è cominciato a discutere che le persone giuridiche rispondessero penalmente . Nei paesi
anglosassoni il problema non si pone da più di 100 anni , perché dall’inizio del 900 in quei paesi
esistono i “REATI DELLE SOCIETA’, invece, questa questione ha sollevato nei sistemi dei paesi di
diritto continentale delle resistenze , perché si è detto che colpevole può essere soltanto un essere
umano, una persona fisica;

159
la persona giuridica può essere si sanzionata con una sanzione amministrativa , di diritto civile ecc...
In Italia il dibattito da almeno 40 anni si è svolto riguardo a questo approccio e cioè la costituzione
all’art. 27 stabilisce che la RESPONSABILITA’ PENALE è personale , questo esige che ci sia un
comportamento della persona che è chiamata a rispondere, non si può rispondere per un fatto
altrui. Quando un ente giuridico è chiamato a rispondere per il fatto fisicamente, materialmente
compiuto dall’amministratore si tratta di una responsabilità per fatto proprio o per fatto altrui?
Perché l’ente non può fare delle cose che corrispondono al reato , ci vuole un soggetto che compia
queste azioni, una persona fisica ( es. rappresentante, amministratore) , cosicché se chiamiamo a
rispondere la società , in realtà sarà responsabile per il fatto di un altro es. del suo amministratore
(e l’art 27 dice ,appunto, che non si può essere puniti per un fatto altrui) , a questo tipo di difficoltà
si è risposto con la TEORIA ORGANICISTICA→ sostiene che quando si tratta di un ente giuridico o
persona giuridica , si può dire che siano compiuti dalla persona giuridica, dall’ente, quegli atti che
sono stati posti in essere dai suoi organi ( es. rappresentante in caso di società, amministratore…) ;
gli atti dell’amministratore compiuti in nome e in conto della persona giuridica sono atti delega
della persona giuridica e questo vale se l’amministratore firma un contratto , questo contratto in
quanto amministratore , non impegna lui come persona fisica , ma impegna la società alla quale si
producono gli effetti giuridici del contratto (responsabilità, diritti, vantaggi ecc..) , il contratto ha
effetti nei riguardi della società e non nei riguardi della persona fisica dell’amministratore, il quale
ha agito come organo della società. La stessa cosa potrebbe valere per il diritto penale, cioè ,
l’amministratore fa qualche cosa ( es. afferma il falso nel bilancio) ma questa cosa che è fatta
dall’amministratore per curare gli “ interessi”( pur sempre interessi illeciti, ma nei riguardi della
società) si deve riferire alla società e non soltanto alla persona fisica dell’amministratore. Questa è
la risposta, ma a questa risposta c’è un’ulteriore risposta : siccome le sanzioni nei riguardi della
persona giuridica sono sanzioni pecuniarie, gravano sui soci, perché il danno patrimoniale
economico per la società che è tenuta a pagare la sanzione, si ripercuote indirettamente sui soci il
quale nella gran parte dei casi sono del tutto all’oscuro di quello che l’amministratore fa e quindi
sopporterebbero delle conseguenze sanzionatorie per il fatto non commesso da loro , ma un fatto
dell’amministratore, quindi si tratterebbe di una responsabilità penale per fatto altrui( questa è una
prima difficoltà) . Altre difficoltà : Una società , un ente, una persona giuridica, non può avere
quell’atteggiamento soggettivo psicologico che è previsto per il reato, cioè , il dolo o la colpa , il
reato deve essere commesso o con dolo o con colpa; una società non può essere né in dolo né in
colpa , perché questo è un comportamento psicologico (la negligenza per esempio che può essere
compiuta da una mente , non da una struttura organizzativa come la società), però anche a ciò si è
data una risposta e cioè : non ci può esserci un atteggiamento psicologico come a quello dell’uomo,
ma, si può parlare comunque di colpevolezza della persona giuridica, e precisamente si può parlare
di PRECOLPEVOLEZZA ORGANIZZATIVA→ cioè la “ colpa” dell’organizzazione dell’ente, consiste
nell’avere una organizzazione difettosa , carente, che lascia spazio ai singoli, alle persone fisiche , lo
spazio per commettere dei reati; se la società fosse meglio organizzata , con più controlli , i singoli
non avrebbero abbastanza spazio per commettere fatti illeciti. Quindi, la colpa della persona
giuridica è quella di essere male organizzata PRECOLPEVOLEZZA ORGANIZZATIVA.

160
Ultima difficoltà: cioè ammesso tutto questo, non è possibile la responsabilità penale per le persone
giuridiche perché non si possono infliggere alle persone giuridiche delle sanzioni penali, le quali
hanno un carattere afflittivo, non si può affliggere un ente, non si può provocare una sofferenza
all’ente, si può provocare una sofferenza soltanto ad una persona umana , fisica, che ha un
sentimento, che subisce il dolore della conseguenza della sanzione; l’ente inoltre non può essere
RIEDUCATO .

Risposte: si può parlare di misure capaci di avere un forte impatto sulla persona giuridica, in Francia
per esempio si è perfino parlato della estinzione della persona giuridica. Se non si può parlare di
rieducazione in senso morale si può parlare però di RISOCIALIZZAZIONE cioè reinserimento in
società nel rispetto delle regole sociali. La persona giuridica potrebbe essere “risocializzata” cioè
attraverso sanzioni viene ricondotta al rispetto delle regole giuridiche perché le misure che vengono
adottate impediscono, mettono dei forti freni alla persona giuridica perché continui a compiere
quei fatti che costituiscono reato

Dunque, anche sotto il profilo delle sanzioni ci sono tesi e contro tesi.

In molti paesi europei, in particolare in Francia nel 1994 hanno previsto una responsabilità penale
per le persone giuridiche come per esempio la cancellazione dal registro delle imprese, misure
patrimoniali pene pecuniarie molto severe (cioè moltiplicate per 5), scioglimento, chiusura dello
stabilimento usato per commettere reati ecc… Queste sanzioni in Francia possono essere
esageratamente severe perché si riversano sui dipendenti perché per esempio in caso di
scioglimento dell’ente ne subiscono le conseguenze i lavoratori i quali non sono in nessun modo
colpevoli.

Fin dal 1981 nel nostro ordinamento era prevista dall’art. 6 della legge 689 del 1981 (legge che ha
introdotto nel nostro ordinamento L’ILLECITO PENALE AMMINISTRATIVO) all’art. 6 terzo comma
stabilisce: se la violazione è commessa dal rappresentante o dal dipendente di una persona giuridica
o un ente privo di personalità giuridica, la persona giuridica o l’ente è obbligato in solido al
pagamento di una somma da questo dovuta→si tratta quindi di una responsabilità solidale della
persona giuridica ma attenzione, per l’illecito penale amministrativo previsto dalla legge 689 del
1981 che sicuramente non è un illecito penale, non è un reato. La legge 689 del 1981 conosce
questo tipo di sanzione si chiama tecnicamente pagamento di una somma di denaro. Questa
sanzione al pagamento di una somma di denaro può essere tenuta in solido con la persona fisica e
la persona giuridica, non si tratta di una responsabilità penale ma si ricava da una natura solidale;
Principio della solidarietà significa che quando vi è un’obbligazione in solido entrambi o se ci sono
più soggetti sono tenuti al pagamento di una sanzione indifferentemente, solidalmente, dopo di che
se uno dei due abbia soddisfatto l’obbligazione, l’obbligazione è soddisfatta e non si può chiedere
all’altro lo stesso adempimento; chi ha pagato potrà rivalersi su colui che non ha pagato quindi non
importa da chi la somma sia pagata purché l’obbligazione venga soddisfatta.

161
Questa è un’eresia per il diritto penale per il quale una sanzione si rivolge a tutti gli autori del reato
infatti, se più persone concorrono in reato (il pagamento è sempre sanzione pecuniaria), possono
essere anche 100 persone, tutte e 100 dovranno pagare la stessa sanzione pecuniaria perché il
senso della responsabilità penale non è quello risarcitorio riparatorio ma è quello afflittivo
rieducativo, cioè ognuno deve sopportare personalmente e interamente la conseguenza della
sanzione penale dunque questa responsabilità solidale si distingue dalla responsabilità penale delle
persone giuridiche. In questa situazione descritta di un dibattito è intervenuto il decreto legislativo
231 del 2001 “disciplina della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche delle società e
delle associazioni anche prive di personalità giuridica” a norma dell’art.11 della legge 29 settembre
del 2000 n.300 che era la legge delega che attua il decreto legislativo 231 del 2001 che ha
introdotto nel nostro ordinamento LA RESPONSABILITA’ DEL REATO DELLE PERSONE GIURIDICHE. La
prima questione è quella di stabilire se davvero si tratta di responsabilità penale oppure no: è
rimasto un dubbio su questa questione così che il legislatore in questo contesto non se l’è sentita di
prendere una posizione decisa per una o l’altra delle due tesi cioè se fosse possibile una
responsabilità penale delle persone giuridiche oppure no e assunto un atteggiamento
compromissorio perché si è preoccupato di definire questa responsabilità come responsabilità
amministrativa delle persone giuridiche quindi questa responsabilità è chiamata RESPONSABILITA’
AMMINISTRATIVA quindi nel decreto legislativo è citato più volte questo aggettivo amministrativo.
La nostra domanda è: è o non è sanzione penale? →Nel diritto penale vi è la cosiddetta posizione
NOMINALISTICA cioè diritto penale, norma penale, sanzione penale, Codice penale, legge penale è
l’ordinamento che li qualifica come tali ossia come “penali” quindi si tratta di una norma di diritto
penale. Se invece è diversamente qualificata da “penale” non può essere responsabilità penale,
quindi i base a questa posizione nominalistica la responsabilità amministrativa non può essere
responsabilità penale perché è chiamata più volte responsabilità amministrativa quindi alcuni
sostengono che non può essere una responsabilità penale. Dalla parte esattamente opposta ci
stanno altri autori es. Paviero i quali dicono “ lasciamo stare l’etichetta, la qualificazione formale, il
nome, guardiamo alla realtà di questo sistema sanzionatorio è un sistema che ha tutte le
caratteristiche di un sistema penale produce effetti assolutamente assimilabili a quelli delle sanzioni
penali e quindi al di là della qualificazione formale, del nome che il legislatore può dare si tratta di
regole proprie del diritto penale (le corti europee hanno più volte adottato questo stesso
atteggiamento cioè di fronte al problema delle garanzie dettate dalle legge penale hanno detto non
è importante stabilire se si tratta di diritto penale in senso tecnico e stretto, bisogna vedere se le
norme in esame hanno un effetto sostanzialmente punitivo nei riguardi di colui al quale si applica
per esempio il problema del rito processuale abbreviato con conseguenza ergastolo o reclusione di
30 anni, qui formalmente una norma è processuale ma sostanzialmente produce un effetto più
severo dal punto di vista punitivo quindi dice la corte europea dei diritti dell’uomo “lasciamo stare
le etichette e guardiamo la realtà”. Quindi questa posizione sostiene che si tratti di sanzione penale.

162
Poi vi è una terza posizione intermedia che è quella adottata dalla giurisprudenza, secondo il quale
tutto questo sistema costituisce il terzo genere tra la sanzione penale in senso stretto e la sanzione
amministrativa dall’altra parte, è un ibrido perché possiede alcuni caratteri del diritto penale ma
anche altri caratteri diversi quindi un terzo genere di sanzione e responsabilità. Questa posizione è
la più corrispondente al vero in quanto compie degli aspetti delle due posizioni e questi aspetti sono
dati dal fatto che il sistema della responsabilità delle persone giuridiche ha alcuni profili che sono
simili a quelle del diritto penale e però altri che sono del tutto diversi con il principio del diritto
penale.

Aspetti di somiglianza: Bisogna tenere conto che il decreto legislativo nei primi articoli stabilisce e
detta una serie di principi generali che si riferisce all’intero sistema dettato dal decreto.
Innanzitutto, individua i soggetti chiamati a rispondere all’art.1 presente decreto legislativo
disciplina la responsabilità degli enti per gli illeciti amministrativi dipendenti dal reato, le
disposizioni si applicano agli enti forniti di responsabilità giuridica e alle società e associazioni anche
prive di personalità giuridica, non si applicano allo stato, agli enti pubblici non economici. Questi
sono i soggetti ai quali si attribuisce questo illecito amministrativo da reato. In realtà nel decreto
legislativo si verifica questo : una persona fisica (amministratore, rappresentante, dipendente ecc..)
commette un reato, questo reato però è commesso nell’interesse o a vantaggio della persona
giuridica ( per es. corrompere un funzionario per avere un’autorizzazione che serve alla persona
giuridica). (stiamo vedendo cosa c’è di simile tra il diritto penale): Tra le garanzie dei principi
penalistici il primo citato dall’art. 2 è il PRINCIPIO DI LEGALITA’ come nel diritto penale è un
principio in doppio nel grado nel senso che perché ci sia responsabilità della persona giuridica
occorre 1) che la persona fisica nel settore commetta un fatto previsto dalla legge come reato e
quindi se è reato è in gioco il principio di legalità , e però per questo secondo grado occorre che una
legge (no regolamento) stabilisce che qualora una persona fisica dell’amministratore per esempio
commetta un reato né risponde la persona giuridica ; occorre che una legge prevede la
responsabilità della persona giuridica per il fatto commesso dalla persona fisica; questa
responsabilità dell’ente deve essere regolato , previsto, sancito da una legge, nel senso della riserva
di legge del principio di legalità→ per questo principio di doppio grado, perché per un verso il fatto
commesso dalla persona fisica deve essere un reato e quindi previsto dalla legge , per un altro verso
non basta solo questo, occorre che una legge apposita stabilisca se viene commesso questo reato
la persona giuridica risponde con questa sanzione, tutto ciò deve essere dettato da una apposita
legge (principio di legalità in questo senso). C’è poi il principio di irretroattività (come per il diritto
penale) , successione di legge all’art.3 , che si dicono delle cose del tutto analoghe come quelle che
abbiamo visto per l’ente che non può essere punito per un fatto che ( secondo la legge posteriore)
non costituisce più reato o non è più prevista la responsabilità amministrativa dell’ente, e , se vi è
stata condanna cessano l’esecuzione degli effetti giuridici.

L’art 3 delle successioni di legge stabilisce che se c’è un’abolitio criminis sia del reato che dell’illecito
amministrativo non si può che essere puniti e se c’è una sentenza necessitano un’esecuzione
necessitano l’esecuzione.

Al 2° comma stabilisce che “si applica la disposizione più favorevole tra le diverse disposizioni
succedutosi nel tempo” , questa legge in corrispondenza del 4 comma dell’art. 2.

163
All’art 4 si detta una disciplina per i reati commessi all’estero che ricalca la disciplina penale.

Dopodiché altrettanto penalistici sono i criteri di IMPUTAZIONE SOGGETTIVA → nel diritto penale
l’imputazione soggettiva assume le due forme del dolo o della colpa; invece, nella società non ci
può essere un dolo o una colpa identica a quella prevista per il diritto penale. Però il legislatore si è
sforzato di prevedere una COLPEVOLEZZA DELL’ENTE, esigendo che si possa “rimproverare all’ente
qualche cosa” come di difetto di organizzazione. Questa rimproverabilità esprime un coefficiente
soggettivo psicologico di imputazione analogo a quello previsto per i reati e consistenti nel dolo e
nella colpa.

Ancora risponde a questo intendo di corrispondere alla colpa, alla rimproverabilità dell’ente, il
sistema delle sanzioni pecuniarie, che sono stabilite per quote in rapporto alla capacità giuridica
dell’ente , in modo da “procurare un effetto afflittivo “ corrispondente alla personalità dell’ente, in
concreto maggiore è il capitale dell’ente maggiore sarà la sanzione , in modo da procurare un
impatto sull’ente proporzionato alla sua capacità economia . Questo è l’esatto opposto di una
sanzione meramente riparatoria /risarcitoria che guarda al danno procurato ed è sempre uguale .

Ma ci sono delle regole, che al contrario si allontanano dal sistema penale e sono:

-quello riguardante la regola riguardante la prescrizione dell’illecito stabilito dall’art 2 → la


prescrizione è il fatto che si estingue l’illecito per il passare del tempo: nell’art.22 del decreto
legislativo riguardante gli enti stabilisce che il tempo necessario a prescrivere è sempre di 5 anni
(come la prescrizione breve di diritto civile). Mentre per il reato il tempo necessario a prescrivere
dipende dalla gravità del reato, cioè dalla gravità della pena prevista da quel reato, oggi nel nostro
ordinamento il tempo necessario a prescrivere è uguale al massimo della pena detentiva prevista
per il reato: es. se la pena prevede 12 anni come massimo, il reato si prescrive in 12 anni. Invece per
l’ente, qualsiasi sia il reato commesso dalla persona fisica e l’illecito della persona giuridica è
sempre di 5 anni (questo è un regime civilistico, non penalistico).

- Negli articoli 28 e 29 si prevede il caso della trasformazione dell’ente : la trasformazione può


essere o a seguito di scissione o a seguito di fusione, dalle quali risulta un nuovo ente, soggetto ; nel
diritto penale questo non ha senso perché una persona fisica non si trasforma è sempre quella che
è, il problema per il diritto penale non si pone; Invece per la società che è un ente giuridico si può
trasformare.

Gli art. 28 e 29 stabiliscono che può rispondere dell’illecito il nuovo soggetto che risulta da quella
fusione o scissione; questo per il diritto penale è un’eresia impossibile , perché la responsabilità
penale è PERSONALE, nessuno può rispondere per un fatto altrui. La responsabilità del soggetto
diverso è incompatibile con uno dei principi fondamentali del sistema penali (responsabilità altrui).

Ed è per questo : per i profili di somiglianza con il diritto penale e per i profili di diversità che sembra
più plausibile riguardo la natura giuridica dell’ente quella posizione intermedia → la quale dice che
non è esattamente penale , ma non è del tutto diversa, è qualcosa di intermedio.

Si è detto che l’illecito che risulta è una fattispecie complessa : nel senso che è costituita da due
entità che sono :

164
1) Il reato commesso dalla persona fisica

2) L’illecito della persona giuridica (perché la persona giuridica non risponde sempre e
comunque, ma a certe condizioni che sono previste dal decreto).

Questi 2 assieme formano quella fattispecie complessa , in parte penale e in parte no , da cui
risulta la responsabilità dell’ente.

I due illeciti sono distinti : cioè la persona fisica continua a rispondere con le regole di diritto
penale per il fatto da lui commesso ( es. corruzione); e la persona giuridica ( se ci sono tutti i
presupposti) risponde per l’illecito suo previsto espressamente dalla legge qualora sia
accertato i presupposti della responsabilità. Sono accertati simultaneamente dallo stesso
giudice penale , il quale condanna da una parte alle pene la persona fisica e dall’altra alle
sanzioni la persona giuridica→ quindi due illeciti distinti che camminano parallelamente.

Il CRITERIO DI ATTRIBUZIONE OGGETTIVA→ che vuol dire attribuzione oggettiva? È il


criterio con il quale viene imputato a qualcuno sul piano no psicologo mentale ma oggettivo
il fatto. Nel diritto penale questo criterio di imputazione oggettiva è la CAUSALITA’, cioè uno
risponde per ciò che ha provocato oggettivamente -> es. se io oggettivamente ho causato un
certo risultato/ evento di un reato, questo è il criterio oggettivo per il devo essere imputata.
Invece nelle persone giuridiche il criterio di imputazione è diverso, ma c’è un criterio
oggettivo per il quale un reato che è stato commesso dalla persona fisica nell’interesse o a
vantaggio dell’ente. Questa espressione “interesse o vantaggio” ci si è chiesto se sono la
stessa cosa o sono due diversi profili: sembra meglio dire sono due prospettive distinte dalle
quali guardare lo stesso fatto e cioè l’interesse va valutato EX ANTE-> cioè prima che il fatto
sia commesso, mentre il vantaggio come risultato oggettivo EX POST-> cioè una volta che il
reato si è commesso; quindi, due modi distinti, diversi di valutare la cosa. Tenendo conto
che l’art 12 del decreto al 1 comma stabilisce una riduzione della sanzione pecuniaria ridotta
della metà se l’autore del reato ha commesso il fatto nel prevalente interesse proprio e
l’ente non ne ha ricavato vantaggio, quindi si distinguono le due prospettive : l’interesse
della persona fisica ed il vantaggio della persona giuridica.

ART. 5 L’ente è responsabile per i reati commessi nel suo interesse o a suo vantaggio . al 2
comma si stabilisce che se manca questo criterio l’ente non risponde se le persone fisiche
hanno agito nell’interesse esclusivo, proprio, viceversa risponde se è nell’interesse della
persona giuridica.

IMPUTAZIONE SOGGETTIVA → è quella colpevolezza dell’ente , vi sono 2 forme . NELL’ART


5 (anche 6 e 7) si distingue tra due categorie di soggetti : Soggetti di persone fisiche che
hanno commesso il reato e cioè soggetti c.d. in posizione apicale che cioè stanno all’apice
dell’ente ( es. amministratore, rappresentante) che hanno poteri di direzione e di controllo
sull’ente.

SOGGETTI SOTTOPOSTI ALLA DIREZIONE VIGILANZA: che non hanno queste funzioni apicali
ma che sono sottoposti ai vertici dell’ente.

165
I criteri per l’imputazione soggettiva sono differenti a seconda che si tratti dei vertici
(regolati dall’art 6 decreto) o dei soggetti sottoposti (art. 7 decreto).Per i vertici il decreto
riprende quel principio organicistico cioè presume che ciò che l’amministratore ha fatto sia
senz’altro fatto nell’interesse e a vantaggio dell’ente e quello che l’ente sia senz’altro
chiamato a rispondere, l’ente deve essere comunque responsabile per ciò che
l’amministratore ha fatto nell’interesse o a vantaggio della persona giuridica. TUTTAVIA, lo
stesso art. 6 stabilisce che l’ente ha la possibilità di discolparsi se riesce a dimostrare nel
processo di non essere “colpevole o rimproverabile”, quando , cioè ha fatto tutto quello che
poteva come ente per evitare il reato fatto dalla persona fisica. Se l’ente dimostri che è
ORGANIZZATO può sottrarsi alla responsabilità. Quindi, se il reato è commesso da persona
apicale l’ente ne risponde, ma , se però riesce a dimostrare di non avere colpa l’ente non è
soggetto a sanzioni, ma non si può dire che sia completamente esente da responsabilità,
dato che rimane sempre e comunque la confisca. Cosa deve fare l’ente per dimostrare che
non era colpevole? Deve dimostrare di essersi ben organizzato e cioè che è stato adottato
ed efficacemente attuato MODELLI DI ORGANIZZAZIONE E DI GESTIONE idonei a prevedere
reati .Che vuol dire modelli organizzativi? Che l’ente ha una regolamentazione la quale
prevede le competenze di ogni soggetto, l’eventuale ripartizione fra di loro, che sia stato
istituito un organo di controllo che deve sorvegliare sul fatto che quella struttura
organizzativa sia poi effettivamente attuata, messa in pratica; inoltre è ancora necessario
che questo organismo di sorveglianza operi effettivamente ; un altro requisito affinché
l’ente possa discolparsi e che deve dimostrare che il reato è stato commesso da quella
persona fisica eludendo tutti questi sistemi di controllo previsti. Se l’ente riesce a dimostrate
nel processo penale tutte queste cose è esente da questa responsabilità. Questa
dimostrazione non è necessaria sempre, ogni volta, sarà cura della persona giuridica se
vuole discolparsi , dimostrare che c’era il modello di organizzazione.

Invece, nell’art 7→ nel caso delle persone sottoposte, tutta l’impostazione è diversa perché
non c’è la presunzione di identificazione tra persona fisica ed ente. Per il dipendente la
disorganizzazione dell’ente è un requisito positivo dell’illecito della persona giuridica , e
quindi, il pubblico ministero nel processo penale deve provare che c’era una
disorganizzazione dell’ente , affinché l’ente sia chiamato a rispondere.

Quindi nel caso in cui il reato sia stato fatto da persona apicale si presume la responsabilità
dell’ente e il pubblico mistero deve soltanto dimostrare la responsabilità, almeno che l’ente
voglia discolparsi; invece, nel caso di soggetto sottoposto al controllo dipendente è il
pubblico ministero che deve dimostrate la disorganizzazione, perché questo è un elemento
costitutivo dell’illecito.

Nel caso dei sottoposti l’ente è responsabile se ciò è stato previsto dall’inosservanza degli
obblighi di direzione o vigilanza. Questo requisito di inosservanza è requisito del fatto illecito
è va dimostrato nel processo da parte del pubblico ministero.

166
È importante Come nel processo penale la rilevanza del dubbio, in caso di soggetti apicali se
vi è il dubbio circa il fatto del reato, questo non esclude condanna; invece, in ogni caso se vi
è un dubbio sull’esistenza dell’elemento che esclude il reato, in caso di dubbio il giudice
deve assolverlo , perché per la condanna occorre la certezza degli elementi positivi. La stessa
cosa si verifica per i soggetti in posizione subordinata, in caso di dubbio il giudice deve
assolvere l’ente.

L’art. 8 stabilisce un principio di autonomia della responsabilità della persona giuridica rispetto a un
reato della persona fisica : nel senso che la persona giuridica può essere condannata anche se non è
condannata la persona fisica, perché non si riesce a dimostrate chi sia stato materialmente a
commettere il reato, però si sa che c’è stato un reato, non si riesce ad individuare il soggetto fisico
che lo ha commesso. Risponde lo stesso l’ente se il reato si estingue per esempio per morte del reo.

167
05/12/18
CORREZIONE PROVA SCRITTA:

Possiamo far riferimento a tre tipi di interpretazione:

-L’INTERPRETAZIONE abbiamo detto LETTERALE (momento di partenza), poi abbiamo


L’INTERPRETAZIONE LOGICA e l’INTERPRETAZIONE SISTEMATICA.

L’ART.321 è RIMASTO IMMODIFICATO. Cosa dice l’articolo?

“Le pene stabilite nel primo comma dell’ART.318 si applicano anche a chi dà o promette denaro
ad un pubblico ufficiale per i suoi servizi ”.

Il riferimento voi lo avete inteso come esclusivo riferimento alle pene; cioè il fatto sarebbe quello di
dare o promettere denaro, le pene invece quelle previste dal primo comma dell’articolo 318.
Quest’interpretazione è ILLOGICA perché in tale articolo c’erano due commi che prevedevano due
distinti fatti:

-dare denaro PRIMA DELL’ATTO;

-dare denaro DOPO L’ATTO.

In termini tecnici parliamo di CORRUZIONE ANTECEDENTE e SUSSEGUENTE.

Perché illogica?

A: perché il giurista deve avere il senso giuridico della realtà;

B: è più grave dare denaro al pubblico ufficiale, prima o dopo che compia l’atto? Ci riferiamo
comunque ad un atto conforme.

ESEMPIO: il proprietario va dal sindaco e lo invita ad una settimana di vacanza, lussuosa, costosa,
prima che il sindaco gli dia il permesso di costruire. E il sindaco glielo dà.

OPPURE: il sindaco riceve una vacanza lussuosa dopo aver concesso al proprietario un regolare
permesso di costruire.

Cosa vi sembra può contrario all’imparzialità della pubblica amministrazione? IL PRIMO CASO
OVVIAMENTE MA PERCHÈ ? L’atto è regolare, quindi il sindaco non ha avvantaggiato il cittadino,
ma c’è stato il rischio che lo facesse, lasciandosi motivato dal regalo ricevuto! Viceversa, se il regalo
viene ricevuto dopo il compimento dell’atto regolare. Quindi il fatto di dare o ricevere denaro prima
del compimento di un regolare atto della pubblica amministrazione è da ritenere più grave. E
questo lo si vede anche direttamente dalla sanzione, perché il legislatore logicamente prevede DA
SEI MESI A TRE ANNI PER LA CORRUZIONE ANTECEDENTE, E SOLO 1 ANNO PER QUELLA
SUSSEGUENTE, che è sicuramente un fatto non corretto, non elegante ma meno grave. Allora con
l’interpretazione che voi tutti avete fatto cioè le pene del primo comma si applicano al privato,
avremmo due straordinari inconvenienti logico-sistematici e cioè:

168
-1. Che il privato sarebbe punito allo stesso modo con una pena severa, da sei mesi a tre anni sia se
avesse dato questa somma prima dell’atto, sia anche se l’abbia data dopo l’atto. Non può essere
punito così severamente perché c’è una disparità fra i due fatti e il disvalore ce lo dice la sanzione
della stessa art. 318 in cui il primo comma è severo, il secondo invece molto meno severo. Quindi i
due fatti sono diversi e non possiamo metterli assieme e attribuire al privato, lo stesso trattamento
per queste due cose diverse tra di loro;

-2. Il privato sarebbe punito in questa applicazione della corruzione susseguente della questione più
severamente del pubblico ufficiale. Voi non l’avete ancora studiato però con il buon senso
giuridico: secondo voi, fra il sindaco (pubblico ufficiale tenuto secondo ‘ART 97 della
COSTITUZIONE ad assicurare il buon andamento e l’imparzialità della pubblica amministrazione) e
il privato cittadino chi è il soggetto più rimproverabile?

Intuitivamente si capisce che il privato cittadino potrebbe essere punito alla stregua del pubblico
ufficiale ma certamente non più severamente del pubblico ufficiale. Non ci sarebbe logica. E invece
voi erroneamente avete pensato che bisognasse punire il privato perché così stabilisce l’art. 318
applicando la pena prevista dal primo comma cioè da sei mesi a tre anni, mentre al pubblico
ufficiale infliggiamo la reclusione fino ad un anno. È SBAGLIATISSIMO POICHÈ ILLOGICO
QUESTO!!!!!

Alcuni di voi hanno invece parificato la pena applicando il secondo comma dell’art 318, infliggendo
così al privato la pena fino ad un anno così come per il pubblico ufficiale: QUESTO È DOPPIAMENTE
SBAGLIATO PERCHÈ L’ARTICOLO 321 È IN QUESTO MODO MALAMENTE INTERPRETATO! PERCHÈ
L’ARTICOLO 321 FA RIFERIMENTO AL PRIMO COMMA DELL’ARTICOLO 318 NON AL SECONDO!!!!

QUINDI: per il fatto descritto al primo comma, il privato è punibile, mentre per il fatto descritto al
secondo comma il privato non è punibile!

IL RINVIO DELLE PENE PREVISTE SI DEVE INTERPRETARE COME LA FATTISPECIE PREVISTA DAL
PRIMO COMMA.

Alcuni di voi ancora hanno sostenuto la non punibilità osservando che nella nuova formulazione
dell’articolo 318 per l’esercizio della funzione ci sarebbe solo la punibilità dei fatti commessi IN
VISTA DI… PER UN FUTURO ESERCIZIO DELLA FUNZIONE quindi il solo caso di corruzione
antecedente.

In realtà il “per” dell’articolo 318 indica sia il fine sia la causa quindi contempla sia il caso di
corruzione antecedente che il caso di corruzione susseguente.

LEZIONE:

Abbiamo visto che ci sono due CRITERI SOGGETTIVI DI IMPUTAZIONE a seconda che IL REATO SIA
STATO COMMESSO DA UNA PERSONA CHE SI TROVA IN UNA POSIZIONE APICALE O
IMPENDENTE, perché nel primo caso si presume che l’atto sia attribuibile alla persona giuridica, la
quale può soltanto, se ci riesce, discolparsi adducendo quelle delittuose operazioni .

169
Nel secondo caso invece la persona giuridica è più lontana dal soggetto, è soltanto un dipendente e
non l’amministratore l’organo, e quindi ci vuole un legame più stretto. E il legame più stretto
consiste nel fatto che la disorganizzazione è un elemento dell’illecito, che il pubblico ministero
(l’accusa) deve dimostrare che esista la disorganizzazione, nel processo penale. Avevo anche detto
dell’ AUTONOMIA NELLA RESPONSABILITA’ DELLA PERSONA GIURIDICA E DELLA PERSONA
FISICA cioè che risponde per conto suo innanzitutto, e che la persona giuridica può essere
condannata anche se la persona fisica non è condannabile o che non si individui chi sia stato o
perché non è imputabile, o anche perché il reato si estingua per una delle cause di estinzione del
reato (per esempio MORTE DEL REO) diverse dall’amnistia. Vediamo adesso quali sono le SANZIONI
PREVISTE ALL’ARTICOLO 9 DEL DECRETO. Nella rubrica dell’articolo 9 del DECRETO LEGISLATIVO
231/2001 viene indicato che si tratta di SANZIONI AMMINISTRATIVE.

L’ARTICOLO 9 STABILISCE CHE : “LE SANZIONI PER ILLECITI AMMINISTRATIVI DIPENDENTI DA


REATO SONO:

-A. LA SANZIONE PECUNIARIA;

-B. LE SANZIONI INTERDITTIVE;

-C. LA CONFISCA;

-D. LA PUBBLICAZIONE DELLA SENTENZA”.

Innanzitutto, la sanzione pecuniaria e la confisca perché entrambe sono SEMPRE DISPOSTE nel
caso in cui sia condannata la persona giuridica.

Invece le sanzioni interdittive (secondo comma dell’art.9) : L’INTERDIZIONE DELL’ESERCIZIO


DELL’ATTIVITA’ ( ESEMPIO: “ non puoi più produrre tale prodotto in quanto è inquinante”) ,

LA SOSPENSIONE O LA REVOCA DI AUTORIZZAZIONI, LICENZE E CONCESSIONI, FUNZIONALI ALLA


COMMISSIONE DELL’ILLECITO (ESEMPIO: “ ti dò la licenza per produrre alcuni alimenti, che poi hai
prodotto non rispettando i principi previsti dalla legge e per questo ti revoco la licenza”),
L’ESCLUSIONE DA AGEVOLAZIONI, FINANZIAMENTI,CONTRIBUTI O SUSSIDI E LA REVOCA DI
QUELLI GIA’ CONCESSI e infine IL DIVIETO DI PUBBLICIZZARE BENI O SERVIZI ( non si può fare
pubblicità). Come vedete sono molto pesanti in quanto a causa del reato la legge ti blocca
l’attività, ti sospende tutte le eventuali licenze concesse e non ti dà o comunque ti blocca gli
eventuali finanziamenti per la tua attività.

Per la sanzione pecuniaria, avevo detto che è ispirata da un’intenzione punitiva e la modalità di
esecuzione o meglio la previsione, costituiscono essere uno dei connotati che l’avvicinano alle
sanzioni penali.

La pena pecuniaria viene stabilita per quote il procedimento per imporre questa sanzione è
BIFASICO cioè passa per due fasi ovvero:

170
-nella prima fase il giudice ( vi ricordo che il giudice penale è lo stesso che sta giudicando la persona
fisica nello stesso luogo e nello stesso momento) in base alla gravità del fatto, stabilisce in base alla
gravità del fatto, a quante quote condannare la persona giuridica. Il numero di quote è stabilito
dalla legge secondo IL PRINCIPIO DI LEGALITA’ previsto all’articolo 25 del decreto.

Art. 25 Concussione e corruzione, induzione indebita a dare o promettere utilità


(rubrica così modificata dall'art. 1, comma 77, lettera a), legge n. 190 del 2012)

1. In relazione alla commissione dei delitti di cui agli articoli 318, 321, 322, commi primo e
terzo, e 346-bis del Codice penale, si applica la sanzione pecuniaria fino a duecento quote.
(comma così modificato dall'art. 1, comma 9, legge n. 3 del 2019)

-SECONDA FASE: dipende dalla dimensione, ossia dalla capacità economico-finanziaria dell’Ente. In
rapporto a queste capacità economico-finanziarie ciascun importo di ciascuna quota, varia da 258 a
1549 euro. Le quote possono essere da 100 a 1000 a seconda della previsione della legge. Perché
c’è l’importo variabile? Per affliggere la persona giuridica cioè : perché si tratta di una sanzione
punitiva. Allora è chiaro che se l’illecito fosse commesso dalla Fiat o dal mercatino non sarebbe lo
stesso. Lo scopo di questa differenziazione fa in modo che si procuri un impatto tendenzialmente
uguale della sanzione data la differenza economico-finanziaria dei soggetti in questione : tenderà al
massimo dell’importo la sanzione per la fiat e al minimo possibile quella per il mercatino. Su questo
sistema è stato osservato che nonostante il discorso del legislatore, non è detto che sia riuscito a
calibrare le cose perché il minimo possibile in assoluto sono 25000 euro ( ossia 100 quote da 250
euro) mentre il massimo (1000 quote da 1500 euro) sono 1 milione e mezzo. Nel caso dei 25000 si
tratta di un reato di poca importanza, che vede protagonista un soggetto piccolo, ma per lui
potrebbe essere una grossa somma di denaro . Mentre il milione e mezzo per la Fiat o altra società
di grosse dimensioni, rispetto agli illeciti che hanno procurato vantaggi immensi in termini
economici, non hanno una sufficiente capacità persuasiva, perché vengono considerati
semplicemente dei costi per la realizzazione di vantaggi di gran lunga maggiore. Esempio : “ sono la
fiat e commetto un illecito. Sarò condannato si, dovrò pagare 1 milione e mezzo ma alla fine con
l’illecito che commesso ne guadagnerò 1 miliardo e mezzo per cui il gioco vale la candela”.

Gli ARTICOLI 13 E 17 PREVEDONO LA DURATA DELLE SANZIONI AMMINISTRATIVE : possono


durare da tre mesi fino a 2 anni.

L’ARTICOLO 15 prevede la NOMINA DI UN COMMISSARIO GIUDIZIALE PER PROSEGUIRE


L’ATTIVITA’, SICURAMENTE NON SECONDO LA CONDUZIONE DEI DUE SOGGETTI CHE LA
CONDUCEVANO PRIMA, IN MODO DA ASSICURARE L’OCCUPAZIONE DEI DIPENDENTI CHE
SUBIREBBERO UN GRAVE DANNO SE VENISSE CHIUSAL’ATTIVITA’.

La confisca è disciplinata dall’ARTICOLO 19 il quale prevede che essa sia SEMPRE OBBLIGATORIA.

È prevista anche nel caso in cui l’Ente riesca a dimostrare la sua estraneità. Ad essere confiscato è IL
PREZZO o IL PROFITTO DERIVANTE DAL REATO.

171
Il profitto è il vantaggio, il prezzo invece quanto si è pagato qualcuno per commettere il reato. La
confisca può essere disposta anche per EQUIVALENTE cioè non solo per gli alimenti prodotti in
modo illecito, ma anche una somma di denaro equivalente a quello stock di alimenti prodotti
contro la legge.

Andiamo a vedere l’ARTICOLO 28 che riguarda LE VICENDE DI TRASFORMAZIONE DELL’ENTE.

Abbiamo detto poco fa, questo è uno dei casi di differenza radicale rispetto al diritto penale, perché
l’illecito può essere stato commesso a vantaggio di un ente (es. Società Tizia) e la sanzione può
essere inflitta ad una Società Cavia nel caso di trasformazione della prima società. Nel caso di
trasformazione dell’Ente, resta ferma la responsabilità resta ferma per i reati commessi
anteriormente alla data in cui la trasformazione ha avuto effetto. La trasformazione non esclude
dunque la responsabilità per i reati già commessi. Le possibilità come vi dicevo sono 2 :

-FUSIONE: di 2 o più Società. In questo caso la nuova società risponde per INTERO dei reati
commessi dalla o dalle società risultati prima della fusione delle società; questo perché la società
riassume in sé tutte le precedenti società che confluiscono tutte nella nuova società che risponderà
dunque in forza di ciò dei reati da esse commessi;

-SCISSIONE: ossia quando una società si divide in più società che risultano tali a partire dalla
scissione. In questo caso facciamo riferimento all’ARTICOLO 30.

Art. 30. Scissione dell'ente

1. Nel caso di scissione parziale, resta ferma la responsabilità dell'ente scisso per i reati commessi
anteriormente alla data in cui la scissione ha avuto effetto, salvo quanto previsto dal comma 3.

2. Gli enti beneficiari della scissione, sia totale che parziale, sono solidalmente obbligati al
pagamento delle sanzioni pecuniarie dovute dall'ente scisso per i reati commessi anteriormente
alla data dalla quale la scissione ha avuto effetto. L'obbligo è limitato al valore effettivo del
patrimonio netto trasferito al singolo ente, salvo che si tratti di ente al quale è stato trasferito,
anche in parte il ramo di attività nell'ambito del quale è stato commesso il reato.

3. Le sanzioni interdittive relative ai reati indicati nel comma 2, si applicano agli enti cui è rimasto
o è stato trasferito, anche in parte, il ramo di attività nell'ambito del quale il reato è stato
commesso”. Supponiamo che una grossa Società che produce macchine, si divida in tante società.
La nuova società che produce veicoli industriali sarà colpita da sanzioni interdittive, e non invece
quella che produceva macchine.

Per quello che riguarda il processo, vi ho già detto, l’ARTICOLO 38 stabilisce che “IL PROCESSO si
svolga davanti al giudice penale, che è lo stesso competente ad accertare, giudicare il reato
commesso dalla persona fisica e si svolge CONTESTUALMENTE cioè è lo stesso giudice mentre
accerta il reato della persona fisica (l’ amministratore ), accerta l’ILLECITO DELLA PERSONA
GIURIDICA con le stesse regole del processo penale”.

172
Non rimane da dire quali siano i reati perché in Francia per esempio nel 1994 il legislatore ha
previsto che le società rispondessero per tutti i reati penali commessi. Da noi invece, il legislatore
oltre ad aver rilegato tale disciplina fuori dal Codice penale, nel decreto legislativo, oltre ad avere
insistito che la commissione di questo tipo di illeciti abbia RESPONSABILITA’ AMMINISTRATIVA, è
stato anche molto cauto rispetto ai reati della persona fisica da cui deriva la responsabilità della
persona giuridica. Inizialmente vi ho già detto che c’è un principio di LEGALITA’ cioè non è che la
persona giuridica risponde solo perché il suo amministratore commette un reato, occorre che la
legge stabilisca che la persona giuridica risponda per quota nel caso in cui il suo amministratore
abbia commesso un reato. Ora, nell’elencare questi reati il nostro legislatore è stato molto cauto,
perché all’inizio nel decreto c’erano soltanto gli ARTICOLI 24 e 25 che prevedevano un numero
molto limitato di ipotesi di reato. E cioè : TRUFFA O DANNO ALLO STATO O A UN ENTE PUBBLICO ,
CONCUSSIONE E CORRUZIONE , e basta, perché tutte le altre previsioni sono state aggiunte in
seguito da leggi posteriori per incrementare questo tipo di reati.

Nel 2002 sono stati opportunamente aggiunti i REATI SOCIETARI , e in generale è stato previsto per
questi il RADDOPPIO DELLE PENE .

Nel 2003 sono stati aggiunti i DELITTI COMMESSI CON FINALITA’ DI TERRORISMO O DI EVERSIONE
DELL’ORDINE DEMOCRATICO e ancora REATI DI SCHIAVITU’ O PEDOFILIA. Ancora REATI IN
AMBITO FINANZIARIO.

Nel 2006 è stato aggiunto il REATO PER MUTILAZIONE DI ORGANI GENITALI FEMMINILI ma è una
norma simbolica perché non è un atteggiamento tipico dell’attività di impresa. È simbolico in
quanto il legislatore ritiene inaccettabili anche questi fatti.

Nel 2007 è stato aggiunto il REATO PER OMICIDIO COLPOSO O LEVIOSI GRAVI O GRAVISSIME
COMMESSE CON VIOLAZIONE DELLE NORME ANTINFORTUNISTICA cioè la società non assicura che
ci siano condizioni di sicurezza adeguate per il lavoratore e si verifica la morte di un dipendente per
cui è giusto che risponda la società. Ancora nel 2007 abbiamo reati economici come il REATO DI
RICETTAZIONE E RICICLAGGIO. Poi anche il REATO PER LA VIOLAZIONE DEL DIRITTO DI AUTORE .

Nel 2011, importantissimo, I REATI AMBIENTALI perché evidentemente l’ambito dei reati
ambientali è uno di quei tipici settori in cui la persona giuridica si avvantaggia.

Nel 2012 è stato aggiunto il REATO PER L’IMPIEGO DI STRANIERI IL CUI SOGGIORNO È
IRREGOLARE.

E infine l’ultimissimo del 2017 il REATO PER RAZZISMO E XENOFOBIA .

E così abbiamo concluso l’esame della RESPONSABILITA’ DA REATO DELLE PERSONE GIURIDICHE.

173
10/12/2018
Le immunità

Esse sono delle situazioni nelle quali chi ha commesso un reato non è punibile in considerazione
della sua condizione personale. Questa è ancora un'idea molto generica da approfondire e
diversificare, infatti le immunità hanno natura e generi differenti.

Fa riferimento espressamente all'obbligarietà della l.p. l'art. 3 c.p. che stabilisce che la legge penale
italiana obbliga tutti coloro che, cittadini o stranieri, si trovano nel territorio dello Stato salve le
eccezioni stabilite dal diritto interno o dal diritto internazionale.

Le immunità sono proprio queste eccezioni.

La seconda cosa precisare è: la legge parla di obbligatorietà della l.p. ma per la verità si può ritenere
che anche i soggetti che si trovano in una situazione di immunità non è che non siano più obbligati a
rispettare la l.p., solo che non subiscono le sanzioni.

Si tratta di una discussione teorica: infatti si può dire che senza la sanzione i soggetti non sono
obbligati ad un certo comportamento, si tratta solo di un obbligo morale; d'altra parte ci sono delle
norme di legge che prevedono se non l'obbligo, il dovere di rispettare le leggi, per esempio l'art 54
della Cost., che dice che tutti i cittadini hanno il dovere di essere fedeli alla repubblica e di
osservarne la costituzione e le leggi. E questo anche se non possono essere puniti.

Per quanto riguarda invece il diritto internazionale, l'art. 41 primo paragrafo della convenzione di
Vienna del 1961 per gli agenti diplomatici stabilisce la stessa cosa, cioè che gli agenti diplomatici,
nonostante non siano punibili, sono tenuti a rispettare le leggi del paese in cui si trovano.

La parte più importante dell'art. 3 è quella che riconosce che queste situazioni di immunità nelle
quali un soggetto non è obbligato a osservare la legge sono eccezionali: ciò è sicuramente vero. Le
immunità non sono quindi un principio normale dell'ordinamento -come la legittima difesa o
l'adempimento del dovere- si tratta di istituti eccezionali.

Così l'analogia, nonostante sarebbe a favore del reo, non può essere usata in questo caso: si tratta
di disposizioni eccezionali.

Le immunità si distinguono in:

•Privilegi Il loro concetto per la verità è antico e oggi non ha molto senso parlarne. Si tratta di una
causa di esclusione della punibilità collegata ad una persona in quanto tale. Guarda al soggetto.

•Prerogative Essa è collegata alla funzione di diritto pubblico, fa quindi parte dei benefici derivanti
da una specifica funzione. Guarda alle funzioni del soggetto.

174
All'art 4 dello Statuto Albertino per esempio si stabiliva che la persona del re è sacra e inviolabile,
per cui non poteva essere chiamato a rispondere penalmente. Questo si può dire un privilegio. Oggi
si parla invece di prerogative.

Dopodiché alcune di queste immunità sono previste dal diritto interno e altre dal diritto
internazionale.

Per quanto riguarda quello interno ci sono: quelle previste per i membri del parlamento -art.68
Cost.- Presidente della Repubblica -art- 90 Cost.- Ministri e Presidente del Consiglio -art. 96 Cost- e
per i deputati regionali -art.122 Cost-.

Si tratta di norme Costituzionali.

Ci sono poi quelle previste dal diritto internazionale da sempre. Alcune di queste possono
riecheggiare la figura del privilegio -come il pontefice, con il quale si ricalca la stessa formula dello
Statuto Albertino, ovvero che la persona del papa è sacra e inviolabile-

Godono poi di immunità assoluta i capi di stato esteri.

Di queste immunità la Corte costituzionale si è posta il problema se possano trovare o meno


riconoscimento nella costituzione. Tutte sono comunque da mettere in raffronto da disposizioni
costituzionali di segno contrario:

L'art. 24 assicura il diritto di difesa del cittadino in ogni stato e grado del processo. Se una persona
che ha commesso un reato però è immune non si può fare processo e la vittima non troverà
risposta alle sue istanze nel processo penale.

L'art. 112 Stabilisce l'obbligatorietà della legge penale. Quando c'è un reato infatti, chiunque l'abbia
commesso, il p.m. deve esercitare l'azione penale. Se però ci si trova davanti un soggetto immune
anche questo principio costituzionale fondamentale porta istanze che le immunità non consentono
di soddisfare.

Per le immunità di diritto interno è la stessa costituzione a fare la valutazione. Invece per il diritto
internazionale la Corte ha dovuto porsi in termini diversi il problema non essendoci disposizioni
costituzionali che le prevedano direttamente. Gli artt. 10 e 11 consentono di ritenere legittime le
immunità in due prospettive: Quelle in vie consuetudinarie -per esempio gli ambasciatori- e poi per
altre le immunità sono rese legittime da trattati internazionali.

Altra distinzione riguarda l'oggetto. Le immunità infatti possono essere funzionali o non funzionali,
ovvero coprire fatti nell'esercizio delle funzioni oppure coprire qualsiasi tipologia di reato.

Ancora, possono essere immunità sostanziali o processuali. Il primo significa che il fatto non può
essere considerato come reato. Le immunità processuali invece impediscono che si svolga un
processo per quel fatto. Normalmente però le immunità processuali cessano con il cessare della
carica coperta dal soggetto. Quindi al momento in cui la carica cessa si può svolgere il processo.

175
Natura giuridica

C'è un dibattito. Alcuni ritengono che le immunità operino come sole cause di esclusione della pena
-come la fattispecie di reato, già nominata, di un reato patrimoniale commesso da un soggetto che
abbia precisi rapporti di parentela con la vittima, precisata dall'art.649c.o-. Quindi secondo alcuni -
Mantovani, Anrolisei- il fatto in sé considerato non è lecito solo che il soggetto non è punibile.
Questo comporta che, nonostante il soggetto immune non sia punibile, lo è però un eventuale
collaboratore. Inoltre, si potrebbe opporre la legittima difesa, cioè se il soggetto immune sta
compiendo un fatto per il quale non è punibile ma che non è lecito, la vittima si può difendere. Il
fatto infatti è ingiusto.

Un'altra prospettiva le considera cause di esclusione del reato a tutti gli effetti, le quali
escluderebbero la illeceità del fatto in sé considerato. In questo senso sono da riportare alla logica
di un esercizio di un diritto o all'adempimento di un dovere, anche se con modalità particolari, cioè
più ampie.

Immunità di diritto internazionale

Queste immunità sono le uniche rimasta come immunità assolute, ovvero senza rapporto con le
funzioni e oltre la carica. Quel soggetto non può essere punibile, in nessun caso.

Esistono per rendere possibile i rapporti diplomatici e politici tra gli stati: se un capo di stato venisse
accusato di un reato all'estero si avrebbe un gravissimo conflitto politico internazionale. Per questo
si preferisce da secoli lasciare impunito il singolo soggetto piuttosto che compromettere
gravemente i rapporti fra gli stati.

I capi di stato hanno quindi un'immunità funzionale ma anche extra-funzionale, cioè non collegata
all'esercizio di una funzione. Questo vale anche per il papa e si estende pure ai familiari e al seguito
ufficiale.

Per gli agenti diplomatici, i loro familiari e il loro personale -tranne che non sia cittadino dello Stato
presso cui il diplomatico svolge le proprie attività- vige un sistema uguale di immunità, funzionale
ed extra-funzionale, per le stesse ragioni di prima.

Gli organi di stato esterno godono di un'immunità funzionale.

Tra i diplomatici vi sono poi i consoli, i giudici della Cedu, i giudici della Corte penale internazionale,
che hanno immunità funzionale ed extrafunzionale, tranne che per alcuni gravissimi reati.

I funzionari di organizzazioni internazionali, per esempio dell'ONU, della Nato, che hanno immunità
sostanzialmente funzionali e qualche volta anche extra-funzionali.

Infine, i parlamentari europei godono della stessa immunità di cui godono i parlamentari nazionali.

176
Immunità di diritto interno

Presidente della Repubblica, art.90 Cost Il presidente della Repubblica non è responsabile per gli
atti compiuti nell'esercizio delle funzioni tranne che per attentato alla costituzione e alto
tradimento. Si tratta quindi di un'immunità funzionale. Il motivo è che, da un lato, si dà serenità al
Presidente per l'esercizio delle sue funzioni, d'altra parte perché si dice che il presidente non è
politicamente responsabile degli atti compiuti, quindi è un soggetto che non è logico chiamare a
rispondere. Questo tranne che nei due casi di attentato alla costituzione e alto tradimento.

Ci si è chiesti però quali siano questi reati, e non possono essere considerati solo come quelli
descritti nella Costituzione, infatti non si capisce in cosa consista il fatto né è specificata la sanzione
-dovrebbe stabilirla la Corte costituzionale. Meglio è agganciare queste previsioni a norme del
Codice penale o penale militare. Per quanto riguarda l'attentato alla costituzione si fa riferimento
all'art. 283 c.p. che prevede esattamente questo reato: chiunque, con atti violenti, commette un
fatto diretto e idoneo a mutare la Costituzione dello Stato o la forma del governo, è punito con la
reclusione non inferiore a cinque anni. Per quanto riguarda invece l'alto tradimento la fonte sarebbe
l'art. 77 del c.p. militare in tempo di pace. Quando si verificano questi presupposti il Presidente è
messo in stato d'accusa dal parlamento in seduta comune a maggioranza assoluta dei suoi membri.
Detto così è chiaro che il Presidente della Repubblica non gode di alcuna immunità extra-funzionale.
Non si tratta di un caso, infatti nell’Assemblea costituente si pose questo problema e si volle
escludere consapevolmente che per reati non connessi all'esercizio delle funzioni il presidente della
repubblica godesse di una qualche forma di immunità: si usciva da un periodo fascista.

Per cui sarà generalmente responsabile per tutti i reati extra-funzionari. Ovviamente si tratta di una
situazione delicata.

I casi concreti sono stati due: Cossiga, il quale fu accusato dopo che era cessata la sua causa;
Scalfaro, il quale facendo un discorso politico sostenne che lui non ci stava e la cosa finì lì.

Invece nel 2013, nel corso delle indagini della così detta Trattativa Stato-Mafia Napolitano sollevò
un conflitto di attribuzione davanti alla Corte costituzionale nei confronti della magistratura del
tribunale di Palermo, perché volevano utilizzare delle intercettazioni che lo riguardavano. Si trattava
di intercettazioni indirette fatte ad un suo consigliere del quale si pensava potesse dare notizie utili.
La Corte costituzionale ritenne, con la sentenza n. 1 del 2013 che non si potessero utilizzare perché,
nonostante la costituzione non preveda nessuna immunità a riguardo, ma indissolubilmente
connessa alle prerogative del capo dello stato è la possibilità di parlare liberamente con chi gli serva
senza la possibilità di essere intercettato, seppure in via indiretta. Evidentemente si tratta di
allargare la sfera di irrilevanza di un atto.

Il problema si è pure proposto collegato a fatti che riguardavano il presidente del Consiglio dei
ministri, Berlusconi. Per ben due volte il governo propose in parlamento e approvò leggi che
prevedevano delle immunità processuali per le c.d. cinque più alte cariche dello stato: presidente
della repubblica, presidente del senato, presidente della camera, presidente del Consiglio dei
ministri e presidente della Corte costituzionale.

177
Fu proposta per la prima volta con la L. n. 140 del 2003, e poi riproposta una seconda volta con una
legge del 2008. La ragione politica fondamentale era che in quegli anni si verificò uno scontro senza
precedenti tra governo e magistratura. Nel pubblico dibattito si sosteneva che c'era un attacco nei
confronti del capo del Governo da parte della magistratura, per cui si ritenne giusto fornire una
difesa a questo.

La Corte costituzionale dichiarò questa prima legge illegittima con una motivazione molto scarna,
senza entrare molto nel merito, non sufficientemente esaustiva, invocando il diritto della difesa per
l'imputato, che essendo coperto da immunità non avrebbe potuto difendersi pur non essendo
punibile: c'è anche un interesse ad essere dichiarato innocente piuttosto a che il processo non si
svolga. La prima legge viene comunemente chiamata Lodo Maccanico -Schifani. Il primo aveva
proposto la legge ma poi ritirato il suo nome, per cui Schifani si sostituì a lui nella proposta. La cosa
più interessante è il nome. Infatti, il lodo è un atto stragiudiziale pronunciato da un arbitro il quale
risolve una controversia tra due privati. Nominare così una legge della repubblica significa
avvicinarla come effetto comunicativo a quell'atto con il quale due privati risolvono fra loro una
controversia. Però è chiaro che una legge che riconosce delle immunità non è una risoluzione di una
controversia privata di questioni politiche: la legge ha una portata generale, non può essere
emanata per risolvere questioni private.

Anche ora, in ogni caso abbiamo un contratto di governo, anche se non si tratta di un contratto ma di un accordo. Probabilmente hanno tradotto dal

tedesco, in cui la stessa parola indica l'accordo e il contratto.

Dichiarata illegittima il Lodo Maccanico-Schifani fu sostanzialmente riproposta la stessa cosa,


questa volta però tentando di recepire le indicazioni della Corte costituzionale, prevedendo cioè la
possibilità che il soggetto immune rinunciasse all'immunità per affrontare il processo e avere la
possibilità di difendersi. Questa volta prese il nome di Lodo Alfano, che era il ministro della
Giustizia, e fu però escluso il presidente della Corte costituzionale fra i soggetti che avrebbero
goduto dell'immunità, per cui rimasero in quattro. La Corte costituzionale con la Sent. n 262 del
2009 dichiarò questa legge illegittima, dando però una ben più ampia motivazione, osservando che
innanzitutto non c'era una ragione tecnica plausibile per riconoscere l'immunità soltanto ai
presidenti di questi organismi collegiali e non anche a tutti gli altri: i presidenti infatti sono primus
inter pares non hanno una posizione distinta rispetto a gli altri membri dell'organo. La vera
giustificazione era poi che questa legge violava quel delicato equilibrio che la stessa costituzione ha
posto nel rapporto tra punibilità del reato e legittimo spazio di libertà per coloro che svolgono
funzioni di rilievo costituzionale. Equilibrio che richiede una comparazione tanto delicata che può
farla solo la costituzione, così che introdurre una modifica a questo regime di responsabilità penale
con una legge ordinaria, contro quelle disposizioni di rango costituzionale, è illegittimo: se si vuole
introdurre una modifica nella materia lo si deve fare con leggi costituzionali. Non abbiamo quindi
nessuna immunità su queste cariche.

178
Bisogna ritornare però su una particolare vicenda. L'art. 96 Cost. prevede una particolarissima
immunità per il presidente e il Consiglio dei ministri: Il Presidente del Consiglio dei ministri ed i
ministri, anche se cessati dalla carica, sono sottoposti, per i reati commessi nell'esercizio delle loro
funzioni, alla giurisdizione ordinaria, previa autorizzazione del Senato della Repubblica o della
Camera dei deputati, secondo le norme stabilite con legge costituzionale.

Non si tratta di una vera e propria immunità e fu introdotta con L. Cost. n.1 del 1989. Si tratta solo
di un particolare regime processuale. L'organo giurisdizionale competente a giudicare i ministri è il
c.d. tribunale dei ministri, il quale non è altro che un collegio composto da giudici dei vari distretti
delle corti d'appello appositamente nominati che siedono stabilmente. Non è quindi un tribunale ad
hoc ma è già formato. Si tratta quindi solo di una giurisdizione di riserva a favore di quest'organo.
Questo regime è venuto in questione per il primo processo Ruby, che era stata portata alla questura
di Milano nel 2010 per sospetto di furto. La coinquilina telefonò al capo del governo, Berlusconi, il
quale telefonò al responsabile della questura di Milano perché la ragazza, all'epoca minorenne,
fosse affidata non ad una comunità per minorenni, come prevede la legge, ma ad una consigliera
regionale del partito di Berlusconi Nicole Minetti, in modo da mettere a tacere tutto quanto. La
pressione esercitata quella sera avrebbe costituito concussione per induzione, cioè si era
fortemente caldeggiato il responsabile perché la ragazza fosse affidata alla consigliera. Il processo si
è chiuso poi con l'assoluzione di Berlusconi in quanto era stato diviso il reato di concussione per
induzione e per costrizione. E per il nuovo delitto di concussione non c'erano i presupposti. La
fantasia indecentemente spesa in parlamento per sottrarre all'eventuale giudizio Berlusconi -in
quanto il senato o la camera possono negare l'autorizzazione che sia giudicato un ministro, a
maggioranza assoluta, solo se reputino che il soggetto inquisito abbia agito per la tutela di un
interesse costituzionalmente rilevante ovvero per il perseguimento di un interesse pubblico
nell'esercizio della funzione di governo- fu il sostenere che c'era stato un preminente interesse dello
Stato Italiano a coprire la vicenda perché la ragazza sarebbe stata ritenuta nipote dell'ex presidente
egiziano Mubarach, per cui la pressione era stata fatta per evitare conflitti tra l'Italia e l'Egitto in
ragione di questa parentela. Questa cosa è stata perfino votata in parlamento per impedire lo
svolgimento del processo.

Immunità dei giudici della Corte costituzionale

La loro è un'immunità doppia, funzionale e processuale. Cioè non possono essere perseguiti per le
opinioni espresse e i voti dati nell'esercizio delle loro funzioni e inoltre per essere eventualmente
sottoposti a processo per altri fatti, o anche per questi. si richiede l'autorizzazione a procedere da
parte della stessa Corte costituzionale. Ora è interessante osservare che i giudici costituzionali
continuino ad averla sebbene non ce l'abbiano più i membri del parlamento. Infatti, la legge che la
prevede, all'art 3 comma 2 della L cost. n. 1 del 1948 faceva riferimento all'art. 68 della costituzione
che prevedeva l'immunità dei membri del parlamento. Nel 1948 quindi i membri del parlamento
avevano sia l'immunità funzionale che processuale. Nel 1993 l'immunità processuale è stata
cancellata, ma questo rinvio è stato ritenuto recettizio non formale, ovvero un rinvio fatto ad uno
specifico contenuto, considerato in sé stesso e bloccato: non è un rinvio alla fonte.

179
Considerandolo recettizio il rinvio quindi si intende fatto alla legge così com'era nel 1948, non
soggetto alle modifiche che l'art 68 ha subito nel corso del tempo.

Per questo i giudici costituzionali conservano entrambe le immunità.

Immunità consiglieri regionali

L'art. 122 Cost. prevede la non punibilità per i pareri e i voti espressi nell'esercizio delle loro
funzioni, analogamente a quella dei membri del parlamento, nonché degli atti amministrativi da
loro compiuti purché previsti dalla legge dello stato e non regionale. Non hanno alcuna immunità
processuale.

Membri del consiglio superiore della magistratura

Interessante è osservare che questi soggetti godono di una immunità sostanziale, che è stata posta
in questione e giudicata dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 148 del 1983 che aveva per
oggetto l'art. 5 della L n.1 del 1981 che aveva previsto questa immunità. La cosa interessante è che
si trattava di una legge ordinaria. La Corte costituzionale ha ritenuto che fosse legittima perché non
si tratta di una piena immunità, che esclude il compimento di atti extra funzionali, ma è
riconducibile in tutto all'esercizio di un diritto o al compimento di un dovere specificati nella legge
che per principio generale escludono per chiunque la responsabilità per qualsiasi tipo di reato: è
solo una sottolineatura di un principio già esistente.

immunità dei membri del Parlamento

Essa è prevista dall'art. 68 della Cost. che originariamente era articolato in due commi: al primo era
indicata l'immunità sostanziale, al secondo l'immunità processuale. Quella sostanziale, con una
piccolissima precisazione, è rimasta intatta. Al secondo comma era prevista l'inviolabilità, ovvero
l'impossibilità di essere oggetto di ispezioni, perquisizioni, intercettazioni; nonché l'immunità
processuale relativa alla possibilità di sottoporli a processo o di eseguire una pena già stabilita in un
precedente processo penale.

Fermo restando che l'inviolabilità non è stata modificata in nessun modo -infatti per perquisizione,
intercettazioni, arresto, ecc.… è necessaria tutt'ora l'autorizzazione della camera di appartenenza-,
per l'altra parte -la sottoposizione a processo- si verificò una tensione elevatissima nel 1993 quando
la Camera dei deputati negò per Craxi l'autorizzazione a procedere sia per il finanziamento illecito
dei partiti, sia per il delitto di corruzione per il quale era accusato. Il popolo italiano, arrabbiato, tirò
a lui addosso delle monetine. Il parlamento, sulla spinta dell'opinione pubblica, avviò un processo di
revisione costituzionale che quell'Ottobre, con la L. cost. n. 3, cancellò l'immunità processuale.

Questa stessa legge ha mantenuto la necessità dell'autorizzazione a procedere per gli atti invasivi e
ha introdotto un terzo comma che stabilisce: analoga autorizzazione è richiesta per sottoporre i
membri del parlamento ad intercettazioni in qualsiasi forma di conversazioni o comunicazioni o a
sequestro di corrispondenza.

180
Questa disposizione è illogica perché se uno sa di essere intercettato non dirà mai delle cose per lui
o altri compromettenti. Perché la cosa fosse più funzionale si sarebbero dovute adottare diverse
misure, per esempio era stato suggerito dal CSM di chiedere l'autorizzazione soltanto e in via
riservata al presidente, oppure di rendere inutilizzabili le intercettazioni eseguite senza
autorizzazione.

Interessante osservare che due anni dopo in Francia avvenne la stessa cosa, mentre quasi tutti i
paesi del mondo hanno una simile garanzia per i membri del Parlamento, tranne che in Inghilterra,
con cui però non si può fare un paragone stretto.

A prescindere da Craxi si decise di abolire questa garanzia perché è opinione unanime che il
Parlamento avesse, dall'inizio della repubblica fino al '93, abusato di questo istituto, che avrebbe
potuto funzionare perfettamente nel caso di fumus persecutionis, cioè il sentore che il giudice
volesse perseguire ingiustamente un membro del parlamento. E sarebbe stato giusto in questo caso
l'immunità processuale per tutelare non tanto il soggetto, quanto l'organismo costituzionale nella
sua completezza, per non vedere uno dei suoi membri non poter svolgere correttamente le sue
funzioni. Ma tranne che pochissimi casi si fece una distorsione di questo istituto rendendolo una
sorta di difesa invalicabile della casta dal controllo del potere giudiziario. E in questo c'era una
specie di alleanza tra partiti diversi, perché si negava l'autorizzazione a procedere anche nei
confronti dei membri di partiti politici opposti, proprio per difendere il corpo in quanto tale.

Rimane quindi la sola immunità sostanziale e scompare quella processuale.

181
11/12/18
Si sta parlando dell’Immunità e si è detto in particolare di quella dei membri del Parlamento che è
articolata in due commi, che fino al 1993 era un’immunità e che se ne prevedevano due tipi:

• immunità sostanziale: se, per esempio, un membro del parlamento nella foga della
discussione offende qualcuno presente-> non costituisce reato;
• immunità processuale: quando i membri del Parlamento, fin quando sono in carica, non
possono essere perseguiti per nessun tipo di reato, commesso in qualsiasi momento-> non
potevano essere processati fin quando erano in carica-> questa seconda immunità è stata
abolita nel 1993 con la Legge Costituzionale n°3.
Ci fu una generale indignazione, una reazione molto forte che va associata ai fatti della
Tangentopoli-> a seguito della denuncia di una moglie che sospettava del tradimento del
marito, venne fuori per caso che furono pagati alcuni politici, da lì le indagini si andarono
allargando a macchia d’olio, fino a quando travolsero l’intera classe politica italiana, sparirono
i partiti che fino a quel momento avevano retto-> e in questa vicenda si inserisce il fatto di cui
stiamo parlando.
L’immunità dei membri del Parlamento è un fatto che ha delle ripercussioni di enorme portata
sull’intero sistema nazionale.
L’abolizione di questa immunità processuale ha degli aspetti negativi e positivi:
o positivi: è quello di avere messo fine all’inaccettabile abuso che era stata fatta
dell’immunità da parte delle Camere del Parlamento che avevano coperto qualunque
tipo di reato, indipendentemente dal fumus persecutionis (di cui si è già parlato ieri).
o Negativi: perché non essendo più protetti, abolito questo filtro tra potere giudiziario
e potere politico parlamentare-> i membri del parlamento sono così esposti senza
nessun filtro all’iniziativa di qualunque pubblico ministero, per ragioni che potrebbero
o non potrebbero essere valide. Vero è che il nostro sistema prevede poi una serie
enorme di passaggi successivi, perché le indagini vengono controllate dal giudice
preliminare, poi c’è il dibattimento di primo grado, poi il secondo grado, poi c’è la
cassazione-> quindi, sì, ci sono tutta una serie di verifiche e poi vedono l’assoluzione
dei soggetti accusati; ma già il fatto di essere sottoposti a un’ indagine o di essere
condannati in primo grado o di essere rinviati in giudizio, espone a una fortissima
censura e giudizio negativo da parte della collettività, che vede Tizio indagato ( anche
se alla fine del giudizio era innocente)-> quindi c’è sicuramente un problema di
coordinamento.

Allora che cosa successe quando nel ’93 fu abolita questa immunità? Due cose:

✓ innanzitutto, le camere si orientarono verso una applicazione dell’immunità rimasta


estensiva, la quale, in qualche modo, si allargasse per andare a coprire alcuni degli spazi
che erano rimasti sguarniti di tutela, allargandoli all’immunità sostanziale;

182
✓ la seconda cosa: successe che per regolare le vicende giudiziarie il governo emanò un
decreto-legge, che non fu però convertito in legge-> allora il decreto fu reiterato con
qualche leggera modifica per ben diciotto volte, che è un caso limite e assolutamente
inaccettabile.
Interpretazione estensiva dell’art 68 comma 1°: si ritenevano coperti dall’immunità
sostanziale esclusivamente gli atti compiti nelle camere, nell’edificio della camera e del
senato-> ciò risaliva alla vecchia riformulazione prima della costituzione del ’48 che
limitava l’immunità agli atti avvenuti nelle camere-> non era adatta alla nuova
interpretazione costituzionale che si riferisce “all’esercizio nelle proprie funzioni”, perché
questi atti possono svolgersi anche al di fuori delle camere-> seconda versione un po’ più
ampia che ricomprende gli atti tipici della funzione dovunque svolti (dentro e fuori il
parlamento). In questo senso si disse che la ripetizione all’esterno delle camere di un
discorso già svolto all’interno delle camere potesse essere sicuramente coperto da
immunità. La terza interpretazione ritiene che qualunque modalità di riproposizione di un
contenuto connesso all’attività tipica parlamentare sia coperto da immunità (per
esempio: all’interno di un dibattito in tv, un membro del Parlamento illustra la sua
posizione e nel mentre che lo fa offende un’altra persona presente, questo fatto è coperto
da immunità, in quanto collegato alla divulgazione e spiegazione dell’attività
parlamentare)-> così però non si fa distinzione tra collegamento ex ante o ex post. In
Germania è coperto di immunità solo il fatto che è stato compiuto dopo l’atto tipico-> e
questo non è un dettaglio, perché se l’atto sia stato già compiuto in una forma tipica, ha
un senso che la sua ripresentazione fatta in altra sede, sia pure coperta da immunità.
Ultima interpretazione diceva che tutta l’autorità politica dovesse essere coperta da
immunità-> quando questo filtro fu cancellato si posero tante questioni e la corte
costituzionale aveva accolto la soluzione procedimentale, cioè indipendentemente da
cosa sia coperto da immunità, spetta a ciascuna camera, in quanto titolare della
prerogativa, stabilire se un certo fatto commesso rientri o no nell’immunità sostanziale->
una volta che la camera si sia pronunciata nessuno può contrastare questa decisione.

In questa situazione, i decreti di cui abbiamo parlato, avevano stabilito questo, cioè: se il
giudice penale è sicuro che il fatto rientri nell’immunità non giudica: il fatto è impunibile
perché coperto da immunità; se invece ritiene totalmente inesistente, l’immunità va
avanti, ma informa la camera di appartenenza che sta indagando quel membro (così anche
nel caso di dubbio di immunità o meno, e deve trasmettere gli atti alla camera)-> la
decisione della camera è inappellabile e indiscutibile-> se la camera ritiene che l’immunità
è esistente, il giudice non può fare altro. In questo contesto pero di fatto si era creato uno
squilibrio assoluto perché in un gran numero di cause i giudici avevano sollevato conflitti
di attribuzione tra i poteri dello stato, ritenendo però di fatto che la camera di
appartenenza avesse esercitato il suo potere in modo arbitrario e la Corte costituzionale
era stata chiamata troppe volte a decidere se il fatto era vero o meno-> per porre fine a
ciò è stata emanata la Legge 240 del 2003 , che ha stabilito:

183
innanzitutto ha regolato e confermato questo sistema dei rapporti di giudice che indaga
e camera di appartenenza, perché se il giudice ritiene che sia applicabile l’art 68 primo
comma provvede con sentenza che non si può procedere; se invece non ritiene che sia
applicabile l’art 68, il giudice con ordinanza trasmette gli atti alla camera-> la quale entro
90 giorni (prorogabili di altri 30 eventualmente) può decidere-> se la camera decide che
sia presente l’immunità, il giudice senz’altro pronuncia una richiesta di archiviazione. La
decisione è inappellabile.

Invece, la legge si è occupata di indirizzare questa valutazione dando una definizione che risolvesse il
problema posto, quando ci si trova davanti l’art68 primo comma, la legge in questione definisce
l’ipotesi prevista dal primo comma dell’art 68:
ART. 3.
1. L'articolo 68, primo comma, della Costituzione si applica in ogni
caso per la presentazione di disegni o proposte di legge,
emendamenti, ordini del giorno, mozioni e risoluzioni, per le
interpellanze e le interrogazioni, per gli interventi nelle Assemblee
e negli altri organi delle Camere, per qualsiasi espressione di voto
comunque formulata, per ogni altro atto parlamentare, per ogni
altra attività di ispezione, di divulgazione, di critica e di denuncia
politica, connessa alla funzione di parlamentare, espletata anche
fuori del Parlamento.

Alcuni costituzionalisti, come Pace, si chiedono se si è coperti da immunità anche se si è


presenti nella sede del parlamento e si inveisce e offende qualcuno, il fatto è giustificato?
In particolare, Pace ritiene di no: si può esprimere la propria idea, ma con modalità non
offensive.

È un’opinione discutibile, perché vi è da valutare il discorso di Tizio e di Caio e di fatto non


si è mai verificato che per un discorso tenuto nelle camere, un giudice è andato mai a
valutare se ciò costituisce reato o meno.

Così abbiamo concluso l’argomento


sull’immunità.

Abbiamo finito tutte le questioni relative alla validità della legge penale.

184
❖ Ora passiamo al Concorso di norme:
il concorso di norme si ha quando più norme penali convergono nella stessa situazione
di fatto.
Per aversi questo concorso di norme è necessario:

1. Pluralità delle disposizioni;


2. Convergenza;
3. Che si tratti dello stesso fatto.
Bisogna chiarire che tutte le norme in questione devono essere tutte valide rispetto alle persone e
validità nel tempo-> perché non si può proporre un concorso di norme se una di queste disposizioni
è stata abrogata e non è più in vigore. Quindi prima bisogna risolvere i problemi sulla validità della
norma penale nel tempo, nello spazio e nelle persone. Individuata se una diposizione è applicabile o
meno, si stabilisce se sono compresenti in un certo momento più disposizioni che regolano lo stesso
fatto. Il concorso di norme è quando sono norme tutte valide rispetto al tempo, allo spazio e alle
persone.

I veri guai nascono rispetto al caso del reato permanente: è un caso complicato (argomento che di
solito il Prof Parodi all’esame non chiede, a meno che il candidato non sia molto bravo per migliorare
la sua posizione)-> l’argomento è questo: l’eventuale pluralità di norme coesistenti nel tempo
presuppone che si sia risolto il problema della successione nel tempo di leggi penali-> questa
questione diventa particolarmente complessa lì dove si tratti di un reato permanente (il reato
permanente è quello che per la sua stessa struttura richiede il mantenimento della condotta illecita
per una incerta durata di tempo, non si risolve in un istante).

Esempio tipico è quello dell’associazione per delinquere che si distingue perché presuppone per una
struttura organizzativa stabile, che abbia una sua durata per un certo tempo-> è un reato
permanente.

Quando ci si chiede quando sia commesso il reato permanente si è detto che la soluzione preferibile
ed accolta dalla giurisprudenza è quella per cui il reato sia commesso nell’ultimo momento, fino a
quando cessa la permanenza.

Ora che dire nel caso reale della introduzione del nostro ordinamento di una norma che prevede il
reato per l’associazione a delinquere di stampo mafioso:

o art 416 è nel codice, era ed è nel codice dal 1930 e c’è tutt’ora e punisce le persone che si
associano per commettere dei delitti;
o invece nel 1982 è stato introdotto nel Codice penale il nuovo articolo 416-bis che punisce le
associazioni a delinquere di stampo mafioso.
Ora non entriamo nel merito, perché sarebbe una situazione troppo complessa e non ci interessa in
sé-> per semplicità diciamo che ci sono degli aspetti comuni, perché che cos’è che rende “mafiosa”
un’associazione? Il metodo-> cioè gli atti di violenza ed intimidazione esercitano una sottoposizione
sulle persone che deriva dal vincolo associativo (pizzo, estorsione, ecc)-> c’è una conformità tra le
due disposizioni, però l’art 416-bis nel definire l’associazione mafiosa ha una portata più ampia:

185
“si considera mafiosa quando coloro che ne fanno parte si avvallano della forza di intimidazione del
vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva, per commettere
delitti, ma anche per acquisire in modo diretto o indiretto la gestione o comunque il controllo di
attività economiche, concessioni, autorizzazioni, appalti e servizi pubblici o per realizzare profitti
ingiusti o per se o per altri, o per ostacolare il libero esercizio del voto”-> sono diverse ipotesi:
soffermiamoci sugli “appalti” : gestire un appalto o un’attività economica. Di per sé gestire un’attività
economica non è un delitto, eppure se con quel metodo un’associazione si propone di controllare le
attività economiche, il fatto costituisce reato. Un fatto se fosse commesso in modo non violento,
senza intimidazioni, sarebbe una normale gestione di attività economica, ma ora immaginiamo che
una persona aderisca a Cosa Nostra e viene processata dopo il 1982 e allora dobbiamo chiederci:
prima si devono risolvere i problemi di successioni di leggi penali nel tempo e poi vedere se le due
disposizioni sono in una situazione di concorso. Si deve vedere se l’associazione in questo caso sia
mafiosa o no, in modo da applicare l’art 416 o il 416-bis. Il problema si pone quando il reato è
permanente, quando continua a commettere reato fino al momento in cui venga emanata la
sentenza-> che fare? Cioè quale disposizione applicare al fatto? Prima si deve risolvere il problema
delle successioni penali nel tempo e stabilire se ci sia una sorta di continuità o se la nuova disposizione
è totalmente diversa e nuova rispetto alla vecchia.

Per risolvere questa questione bisogna stabilire il rapporto tra le due norme, cioè se utilizziamo il
criterio del rapporto strutturale, ci si deve chiedere se questa disposizione è speciale rispetto
all’altra?

▪ Perché se così fosse, ci sarà una continuità, cosicché si applica l’art 416-bis a tutto il fatto,
perché il mafioso lo era prima e continua ad esserlo dopo, quindi lo si punisce con una
disposizione più severa.
▪ Se invece ritenessimo che c’è una totale discontinuità, perché questa disposizione non si può
ritenere speciale rispetto a quest’altra, allora si deve fare quello che la Cassazione ha fatto in
alcune sentenze, cioè stabilire che il fatto va diviso in due tronconi: il primo troncone sarà
regolato dall’art 416-bis; il nuovo troncone, regolato da una legge del tutto diversa, sarà
regolato dall’art 416-bis.
In realtà le opinioni relative alle posizioni tra 416 e 416-bis sono molte, alcuni ritengono che ci sia un
rapporto di specialità, altri no-> perché? Perché sarebbe specialità se fosse una violenta associazione
per commettere delitti e questo è un caso di specialità-> però qua c’è qualche cosa che non era
previsto prima, cioè ottenere il controllo economico, che non è un delitto-> quindi l’art 416-bis
prevede anche dei fatti che presi singolarmente non sarebbero delitti, allora la nuova norma non
rientra interamente in quella di prima, c’è qualche cosa di nuovo, qualcosa che prima non era
punibile-> a questo “nuovo” non si può ritenere che l’intero fatto sia regolato dall’art 416-bis.

Se volessimo utilizzare il criterio del “concreto fatto illecito” di Pagliaro, qui si apprezza l’aggettivo
concreto: cioè significa che:

o se ipoteticamente, questa associazione volesse commettere quel concreto fatto, cioè delitti
ci sarebbe continuità;

186
o se invece, concretamente, l’associazione si proponesse solo il controllo di attività
economiche, allora non ci sarebbe continuità, perché quello prima non era reato, quindi
sarebbe un nuovo reato-> e alla luce di ciò si deve capire se c’è una continuità di disciplina
oppure un’interruzione.
Detto questo, risolto il problema della validità del tempo e della successione delle leggi penali, si
verifica un concorso di norme, quando? Quando più disposizioni convergono verso il medesimo fatto
e in questo caso si è di fronte a un concorso di norme.

Il concorso può essere “ apparente” o “effettivo”:

✓ Apparente: significa che l’applicabilità di una disposizione esclude l’applicabilità dell’altra,


quindi sarà applicabile solo una disposizione-> quindi apparentemente c’è una pluralità di
norme, ma in realtà la norma applicabile è una;
✓ Effettivo: se tutte le disposizioni che convergono verso una medesima situazione sono
effettivamente applicabili.
Il vero problema è quando il concorso è apparente, perché si deve escludere una norma e non può
essere applicabile.

Questo argomento da Pagliaro è trattato prima ancora di trattare il “Reato”; mentre da altri, come
Fiandaca e Musco e non solo loro, è trattato dopo aver concluso il “Reato”, in quel capitolo che si
intitola “Concorso di reati”-> secondo l’opinione del Prof Parodi, l’opzione di trattare adesso questo
argomento è molto più corretta, perché? Avevamo visto nelle prime lezioni che, secondo Francesco
Carrara, il reato è un “ente giuridico”, non è un ente naturale-> la possibilità che l’applicabilità di una
norma escluda l’altra e quindi pur apparendo coesistenti due norme, in realtà sia applicabile solo una,
non è un’eccezione alla regola, perché si tratta di stabilire a monte qual è il fatto particolare se è uno
oppure l’altro. E solo dopo aver risolto questo problema stabiliremo se ci sono più reati o ne esiste
solo uno. Individuare una norma incriminatrice come presupposto logico per esaminare se c’è un
fatto che costituisce reato o no.

Cosa succede che sia applicabile una disposizione o più disposizioni?

➢ Se sono applicabili più disposizioni coesistenti, quindi un concorso effettivo di norme,


necessariamente ci sarà un concorso di reati: il fatto è reato di un certo tipo rispetto alla
norma A e diverso reato se applichiamo la norma B-> un unico fatto integrerà due reati.
➢ Invece, se riteniamo che sia applicabile una sola norma, la soluzione è diversa e più complessa,
perché nella maggior parte dei casi sarà applicato un solo reato, non vi è un concorso di reati;
però non è affatto escluso che ci possa essere un concorso omogeneo di reati, cioè più reati
dello stesso tipo. Una norma-> più reati.
Es: tizio premendo, in un istante, un mitra da guerra potentissimo fa partire una raffica di
proiettili, che investono cinque persone e ne provoca la morte-> in questo caso la norma
applicabile è una sola: omicidio; però per la qualità dei beni in questione, beni personalissimi,
se uno uccide cinque persone, ci sono cinque distinti reati di omicidio.
Oppure: se uno ruba in quest’aula cinque computer diversi di persone diverse, non commette
cinque furti, ma un solo furto nel danno di cinque vittime. La natura del bene giuridico fa sì
che non determini un reato a sé stante.

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Ora facciamo un’altra distinzione tra disposizione e norma-> perché quando parliamo di concorso di
reato, parliamo di norme, non di disposizioni. Disposizione -> è il testo di un articolo; dal testo di un
articolo possono eventualmente ricavarsi anche più norme, più regole di comportamento. Dal testo
di un solo articolo si possono ricavare più norme. Questo è il tema delle “Leggi miste” che possono
essere “cumulative” o “alternative”.

➢ Quelle alternative sono quelle nelle quali nonostante la pluralità delle espressioni di legge, la
norma ricavabile è una sola, quindi più parole da cui si ricava una sola norma-> es: art 635
“danneggiamento”: <<chiunque distrugge, disperde, deteriora o rende in tutto o in parte
inservibili cose mobili o immobili altrui […]>> chi fa questo viene punito per un‘ unica
violazione, cioè danneggiamento (c’è un solo reato).
Invece qualche volta la pluralità delle espressioni determina una pluralità di norme-> in
proposito la Legge Merlin viene normalmente interpretata dalla giurisprudenza come un
esempio di quello che si sta dicendo. Cioè se qualcuno tollera la prostituzione, mette a
disposizione un luogo per l’esercizio della prostituzione, induce qualcuno alla prostituzione->
si tratta di fatti diversi, reati diversi-> quindi stessa persona risponde per tre distinti reati
diversi. Come si fa a stabilirlo (se risponde a più reati o solo ad uno)? Bisogna interpretare la
legge (non ce lo dice nessuno).

➢ Quelle cumulative: contengono tante norme incriminatrici quante sono le fattispecie


legislativamente previste, nel senso che le condotte non sono alternative tra loro, bensì
costituiscono differenti elementi materiali di altrettanti reati.

188
12-12-18
Il concorso di norme si verifica quando più norme convergono verso lo stesso fatto, cioè appaiono
applicabili allo stesso fatto. Questo richiede una unitarietà del fatto, cioè che sia lo stesso. Questa
unitarietà si può apprezzare da due punti di vista:
- naturalistico: cioè osservando il fatto questo è uguale ad un altro. Ad esempio, abbiamo due
norme distinte che puniscono una l’omicidio ex art 575 e l’altra l’omicidio del consenziente
(eutanasia) ex art 579, l’elemento differente è il consenso che in uno c’è mentre nell’altro no, ma
oltre il consenso, i fatti che le norme prevedono sono identici (naturalisticamente parlando). Vi è
una identità naturalistica in quanto il fatto uguale ad entrambe è “chiunque cagioni la morte di un
uomo”, nella seconda norma vi è in più solo “con consenso di lui”.
- giuridico: in altri casi l’identità può essere di tipo normativo, cioè secondo una valutazione
giuridico-sociale. Ad esempio Tizio ferisce Caio e dopo un po' di tempo (questo intervallo è
importante, altrimenti sarebbe un’unica cosa) lo uccide, in questa sequenza c’è qualcosa in comune
per la quale non c’è una identità naturalistica ma una identità normativa: ferire una persona ed
uccidere una persona dal punto di vista naturalistico sono due cose differenti, però nel fatto che si
verifica complessivamente se ci accorgiamo che se noi punissimo a titolo di omicidio (art 575) e
anche a titolo di lesione (art 582) -quindi se noi applicassimo entrambe le disposizioni-
sostanzialmente puniremmo qualcosa due volte, cioè anche se sono due fatti diversi, uno sta
dentro l’altro (provocare la morte è molto più grande) e viene assorbito dal fatto ben più grave. Se
punissimo Tizio anche per lesione significherebbe punirlo due volte per lo stesso fatto, perché
l’offesa al soggetto passivo che viene ucciso è così ampia, in questo caso, che ricomprende anche la
prima offesa. Si tratta di una valutazione giuridica per la quale i fatti complessivamente sono
ricompresi tutti in quello più grave della morte e quelli della lesione perdono rilevanza giuridica. Un
solo fatto soltanto dal punto di vista del diritto ma non dal punto di vista naturalistico sulla base del
principio “nel più sta il meno”.

Questo tipo di relazione appena detta è regolata dall’art 15 del c.p. che prevede il principio di
specialità, cioè il rapporto di specialità su uno stesso fatto regolato da più norme. “Quando più
leggi penali o più disposizioni della medesima legge penale regolano la stessa materia, la legge o la
disposizione di legge speciale deroga alla legge o alla disposizione di legge generale, salvo che sia
altrimenti stabilito.” Abbiamo quindi: una pluralità di disposizioni, la stessa materia (che può essere
intesa tale dal punto di vista naturalistico o giuridico) e la regola è che la disposizione speciale
deroga quella generale. Ritorniamo all’esempio di prima: art 575 (omicidio) e art 579 (omicidio del
consenziente), la prima rispetto alla seconda è generale perché prevede tutti i casi di omicidio
volontario, mentre la seconda norma prevede un caso particolare (consenso della vittima). Così l’art
15 ci dice che l’autore sarò punito solo per l’omicidio del consenziente e non anche per omicidio.
Sul secondo punto della norma “salvo che sia altrimenti stabilito” la dottrina non è un’anime, cioè ci
sono due operandi filoni normativi –due interpretazioni- :
1) la prima ritiene che significhi che in qualche caso la legge potrebbe espressamente indicare (per
ragioni particolari) che la disposizione speciale non prevalga su quella generale. Questa
interpretazione è irragionevole perché non ha ragion d’essere la disposizione speciale, se questa
prevede che non possa derogare quella generale, non ha alcun senso che si punisca per entrambe.

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2)l’altra ritiene che significhi che ci possono essere anche altri criteri, oltre quello espressamente
indicato nell’art 15, per regolare le situazioni di convergenza. Questa interpretazione è
maggiormente accolta. Sarebbero i criteri di consunzione (o assorbimento) e di sussidiarietà.

Il rapporto di specialità contenuto nell’art 15, prevede che due norme siano tra loro in un rapporto
di genere a specie, quindi la prima norma regola un fatto e la seconda regola un fatto particolare
che rientra nella previsione della prima. Quindi la prima ha un tot di requisiti che dovranno essere
gli stessi della seconda norma con in più uno o più altri. Ad esempio, le ipotesi di peculato e di
peculato d’uso: nel primo caso abbiamo il “Pubblico ufficiale ha in possesso una cosa mobile e se
appropria”, nel secondo caso abbiamo sempre un “Pubblico ufficiale in possesso di una cosa mobile
e se ne appropria ma (in più rispetto alla prima ipotesi) momentaneamente e la restituisce subito
dopo”. La seconda ipotesi è speciale rispetto alla prima in quanto ha tutti gli elementi della prima
con solo qualcosa in più.
Perché ci sia un vero rapporto di specialità, la disposizione speciale deve essere concepita come un
sottoinsieme dei casi della norma generale. Se non c’è questa logica non si può parlare di rapporto
di specialità, in quanto questo si configura se tutti (senza eccezioni) i casi della norma speciale
rientrano in quella generale. Si tratta di un rapporto logico, cioè non esige una valutazione, un
giudizio di valore (al contrario dell’esempio di prima tra morte e lesione).
Le caratteristiche di questo rapporto: identità naturalistica tra i due fatti, solo della parte in
comune dei due fatti; l’elemento specializzante può comportare una maggiore gravità del fatto o
una minore gravità del fatto o la non punibilità del fatto (es. omicidio per legittima difesa); se per
una ragione propria (che riguarda esclusivamente) la norma speciale non potesse o dovesse
applicarsi (es. amnistia o prescrizione del reato), non potrà lo stesso essere applicata la norma
generale in quanto questa è definitivamente esclusa per la relazione logica esistente tra le due
disposizioni (quindi il soggetto non sarà punibile).
La prova che si tratti davvero di un rapporto di specialità è data dal fatto che se si pensasse non
esistente la norma speciale, tutti i casi regolati dalla norma speciale rientrerebbero
necessariamente nell’ambito dei casi regolati dalla norma generale.

In tutti i casi appena detti dobbiamo ricordare si tratti di un concorso di norme apparente, cioè
apparentemente sembrano regolare lo stesso fatto ma guardando più esattamente ci si accorge che
una delle due disposizioni è speciale, quindi va applicata solo quest’ultima e non entrambe. A
differenza del concorso di norme effettivo della lezione precedente.

Secondo gli autori (sostenitori dell’interpretazione 1) sulla seconda parte dell’art 15 detta sopra)
per i quali esiste soltanto il rapporto di specialità ex art 15 e non altri criteri (come invece sostiene
l’interpretazione 2) riguardo ai criteri di consunzione e di sussidiarietà), si trovano in difficoltà nei
casi in cui è evidente, per un sano senso giuridico, che non è possibile applicare entrambe le norme
ma che tuttavia non esiste un vero rapporto di specialità. Vediamo due casi distinti:
- specialità in concreto: cioè in astratto tra le due disposizioni non c’è un rapporto di specialità, ci
potrebbe essere se facciamo riferimento alla modalità particolare del fatto storico concreto (così
come si è verificato) e apparirebbe un caso speciale rispetto a quello della norma generale.

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Ad esempio, l’art 629 prevede il delitto di estorsione cioè “chiunque mediante violenza o minaccia
costringendo taluno a dare/fare qualche cosa procura a sé o ad altri un ingiusto vantaggio con altrui
danno”, e l’art 317 concussione cioè “il pubblico ufficiale che costringe taluno a dare indebitamente
denaro a lui denaro”. Le due ipotesi non sono in rapporto di specialità (non si può dire che in tutti i
casi di costrizione rientrano nei casi dell’art 629), le ipotesi in astratto, cioè cosi come le vediamo,
sono diverse. È possibile però nel caso particolare (quindi concreto) che ci sia una coincidenza:
supponiamo che questa costrizione (es. un dare) sia caratterizzata da una minaccia e che questa di
fatto comporti un vantaggio associato ad un danno. In questa situazione di fatto, per come sono
andate le cose, ci sarebbe una specialità con l’art 317 (dato che si tratta di un pubblico ufficiale,
quindi un soggetto particolare, e che tra le tante modalità di costrizione si è realizzata quella della
minaccia) ma questo dipenderebbe esclusivamente dalla modalità particolare di fatto (casuale) in
cui si è verificata la costrizione. Perché tra le due disposizioni non c’è un rapporto di genere e
specie. Questa parte della dottrina sostiene che ci sarebbe un rapporto di specialità in concreto,
cioè il caso, per come si sono verificati i fatti, sarebbe in un rapporto di specialità.
Questo modo di rappresentare il rapporto di specialità in concreto non può essere accettato perché
mancano i requisiti della relazione logica (di genere e specie) che deve essere astratta e generale tra
le disposizioni, e non può riguardare la particolarità dei fatti così come casualmente si sono
storicamente verificati. Inoltre, in queste situazioni non è chiarissimo sempre quale delle norme
potrebbe essere speciale rispetto all’altra, e quindi non sapere quale delle norme applicare.

- specialità reciproca: è data da un caso di intersezione. Ad esempio, l’art 564 prevede il delitto di
incesto cioè “compiere atti sessuali con una persona legata da vincoli di parentela”, e l’art 609-bis
che punisce la violenza sessuale cioè “compiere atti sessuali con violenza o minaccia”. Sarebbero
una speciale rispetto all’altra, o viceversa, perché: tra tutti i casi di incesto solo alcuni sarebbero
anche commessi con violenza o minaccia, e viceversa tra tutti i casi di violenza sessuale solo alcuni
sarebbero commessi con una persona legata da vincoli di parentela. I sostenitori di questa tesi
dicono che questo potrebbe essere un caso speciale rispetto all’altro, avendo alcuni elementi
comuni e altri caratterizzanti: cioè la minaccia, che non è richiesta nel delitto di incesto, dove invece
l’elemento caratterizzante sarebbe il rapporto di parentela. Ma, come abbiamo già detto, il
rapporto di specialità è quando la norma generale comprende tutti i casi (senza eccezioni) della
norma speciale. Qui vi sarebbe un numero limitato di casi che sarebbero in entrambe le
disposizioni, che rende impossibile capire quale è speciale rispetto all’altra e quindi quale deve
essere applicata, in quanto la specialità essendo reciproca manca il criterio per stabilire quale
prevale. I sostenitori di questa tesi distinguono ancora i casi di:
- specialità reciproca per aggiunta: questi casi sarebbero quelli in cui l’elemento specializzante si
aggiunge all’elemento comune. Questo è il caso dell’esempio sopra: la violenza si aggiunge
all’elemento comune. Non esiste un concorso apparente di norme ma esiste un concorso effettivo,
quindi si applicano entrambe le disposizioni. Questo dipende soprattutto, nell’esempio, dalla
circostanza che l’elemento comune sia in sé considerato non un illecito penale e quindi (di
conseguenza) tutta la ragione della punibilità, sia in un caso che nell’altro, sta esclusivamente
nell’elemento specializzante. Così che se un fatto ha le caratteristiche corrispondenti per entrambe
le disposizioni, l’autore va punito ai sensi di entrambe.

191
Ad esempio, il padre che con violenza compie atti sessuali sulla figlia: compiere atti sessuali è
l’elemento in comune, che considerato in sé da solo, senza l’elemento aggiunto, non è un fatto
penalmente rilevante. Ci sono tutte le ragioni per applicare entrambe le disposizioni: riguardo la
parentela ci sono le ragioni per punire il padre e riguardo la violenza ci sono tutte le ragioni per
punire il violentatore (il caso corrisponde sia ad incesto che a violenza sessuale).
In conclusione, per i suoi sostenitori non c’è una diposizione che prevale sull’altra.

- specialità reciproca per specificazione: vuol dire che qualcuno degli elementi della norma speciale
starebbero dentro gli elementi dell’altra, sempre su un rapporto di elemento speciale rispetto
all’altro. Ad esempio, art 591 percosse cioè “è punito chiunque percuote un’altra persona”, e l’art
572 maltrattamento in famiglia cioè “una persona che ha un rapporto di parentela maltratta un
minore”. In questo caso l’art 572 è speciale perché non riguarda chiunque ma solo certi soggetti (es.
il genitore), riguarda poi ancora non chiunque ma il minore. Mentre dal punto di vista della
condotta è l’art 591 ad essere speciale in quanto le percosse sono un particolarissimo tipo di
maltrattamento. Quindi la specialità è reciproca per specificazione in quanto l’elemento è già
contenuto in forma speciale sia in un caso che nell’altro, l’elemento non è un’aggiunta (come nel
caso sopra) ma è una specificazione dell’elemento già presente.

Dato che una norma è speciale per certi profili mentre l’altra per altri profili, prevarrebbe una delle
due norme sulla base di questi criteri: la specificità del contesto, il numero degli elementi
specializzanti (chi ne ha di più), nucleo più ristretto dei soggetti attivi. Prevarrebbe la disposizione
che assorbe in sé questi criteri.

L’obiezione è che questi criteri non è detto vadano tutti nella stessa disposizione, alcuni elementi
possono andare in un senso e altri nell’altro, quindi ritornerebbe il problema di stabilire quale
norma prevale rispetto all’altra. La verità è che anche in questo caso non c’è un vero rapporto di
specialità, in quanto se non esistesse quella speciale non potrebbe applicarsi sempre quella
generale (es. in presenza di un maltrattamento non corrispondente in percosse, nei confronti di un
minore, non esistendo la norma dei maltrattamenti in famiglia, non potrebbe applicarsi la norma
sulle percosse se queste non sussistono).

Quindi queste situazioni non vanno risolte con forme modificate del rapporto di specialità
(reciproca e in concreto) ma ricorrendo ad altri criteri diversi da quello di specialità, dato che non
sussiste nessun rapporto di specialità.

192
La legge n 689 del 1981, che ha introdotto nel nostro ordinamento l’illecito penale-amministrativo,
all’art 9 parla di principio di specialità nel caso di norme che prevedono un illecito penale e norme
che prevedono un illecito amministrativo. Quando uno stesso fatto è punito da una disposizione
penale e da una disposizione che prevede una sanzione amministrativa si applica la disposizione
speciale. Quindi si ha un rapporto di specialità anche se si parla di ambiti diversi, in quanto non
sono due leggi penali. Sempre l’art 9 nel 2 co. prevede che quando ci sia un rapporto tra legge
penale (ovviamente dello Stato, in quanto le regioni non hanno potestà penale) e una legge
regionale che prevede un illecito amministrativo, se quest’ultima è speciale rispetto alla prima e se
in se stessa la legge statale aveva carattere sussidiario (cioè la legge che si applica in mancanza di
un’altra disposizione, ha un carattere marginale, non è fondamentale), prevale la legge regionale
con l’illecito amministrativo.

Questo caso è diverso in quanto nel primo caso si parla di due leggi dello Stato, una penale e una
amministrativa, mentre qui la legge che prevede l’illecito amministrativo è della regione.

193
17/12/2018
Si parla di rapporto di consunzione . Si può usare per stabilirlo infatti il criterio della differenza dei
beni giuridici e della loro identità. Si fa l'esempio che riguarda la morte e la lesione dei beni che può
avvenire anche a seguito dell'omicidio.

È evidente che qui l' identità non è naturalistica. Una cosa sono Le lesioni, e un’altra e ben diversa è
la morte, non sono fatti uguali, sul libro si trova un esempio ancora più esemplare e radicale,
sempre in riferimento all'omicidio, che normalmente il più delle volte provoca anche il
danneggiamento dei vestiti della vittima, tipo l'accoltellamento rovina un vestito; questo fatto è un
danneggiamento volontario, che era anche reato allora, un danneggiamento volontario oggi che
invece è assorbito nel disvalore dell'omicidio, non si tratta di una identità naturalistica ma
giuridicamente si può parlare di un fatto che ricomprende tutto. Proprio per questa caratteristica
cioè non si tratta di un rapporto logico, il rapporto è di valore, presuppone una valutazione
giuridica, il fatto meno grave sta dentro l'altro, non nell'identità naturale ma per disvalore giuridico
e perciò questo rapporto è più problematico da riconoscere nell'intercettare che ci sia un rapporto
di specialità, nel senso rigoroso di cui abbiamo parlato prima cioè genere- specie è facile, perché
tutti i casi previsti dalla norma speciale devono essere previsti anche dalla norma speciale, qui la
cosa è più discutibile. Si è fatto l'esempio delle ferite ma se si parlasse delle violenze sessuali? Se
una violenza sessuale sta dentro l'omicidio è più complicato stabilirlo e in questo caso si può dire
che si tratta di due fatti giuridicamente distinti, la giurisprudenza in questi casi si serve del criterio
dell'identità del bene giuridico e dice che quando il bene giuridico in questione è sostanzialmente lo
stesso ci può essere assorbimento, ma se il bene è un altro allora invece non può esserci. E qua
l'esempio tra lesioni e vita fa dire che ci sia una continuità in senso giuridico, l'integrità fisica che
all'estremo grado comporta la perdita della vita, mentre la libertà sessuale e la vita sono due beni
diversi.

Tuttavia, questo criterio del bene giuridico può essere solo indicativo, non può essere seguito
rigorosamente. Possono esserci casi in cui essendoci una differenza di bene non si debba dire due
volte, è l'esempio proposto da Pagliaro è indicativo in questo senso, L'esempio dei vestiti- morte,
cioè patrimonio e vita è ovvio che siano due beni diversi ma è altrettanto sicuro che non si può
punire anche per danneggiamento chi distrugge i vestiti e quindi in questo caso ci sarà un
assorbimento dell'omicidio ma anche se c'è una differenza dei beni giuridici in gioco, patrimonio-
vita. Questo basta a spiegare come il criterio della differenza dei beni giuridici per stabilire se ci sia o
meno un rapporto di consunzione non è da utilizzare sempre e in modo assoluto, anche se può
essere indicativo.
Si vedono le caratteristiche di questa relazione, assorbimento o consunzione.

1.È un rapporto di valore non logico, richiede un apprezzamento di valore; bisogna stabilire se il
secondo fatto è meno grave e se rientri nel disvalore giuridico del fatto più grave, giudizio che
comunque è soggetto a margini di opinabilità e non è assoluto.

194
2. Il principio di consunzione può aversi esclusivamente quando c'è una norma che prevede un fatto
più grave e un’altra che ne prevede uno meno grave e va sempre in direzione unica per cui il fatto
meno grave è assorbito dal fatto più grave, e può prevalere solo quella più grave non può essere
altrimenti.

3. Mentre nel rapporto di specialità può succedere che per autonome faccende relative a una
disposizione speciale questa non può essere applicata, tipo viene pronunciata dal legislatore un'
amnistia per il reato previsto dalla legge speciale e in questo caso non si applicherà la norma
generale, perché ormai logicamente il fatto è stato sussunto nella previsione della norma speciale
con tutto ciò che ne può seguire compresa la non applicabilità della norma per ragioni come
l'amnistia, la prescrizione , l'impossibilità di dimostrare nel processo che il fatto si sia verificato,
viceversa nel rapporto di consunzione dove non si potesse applicare la norma più grave si potrebbe
applicare eventualmente la norma che prevede il fatto meno grave perché viene meno la ragione
per la quale non si doveva applicare questa, la ragione era solo non punire due volte infatti; rimane
in gioco la punibilità del secondo fatto che non è esclusa dato che la norma più grave non si applica.

Quello che si è già detto parlando della specialità reciproca, dove manca il rapporto di specialità, nel
caso che viene designato la specialità reciproca, nel chiedersi se per caso sia in gioco il rapporto di
consunzione si deve valutare se per caso la parte che le due disposizioni hanno in comune sia
costituita da un fatto lecito, se è cosi, vuol dire che non potrà esserci perché non puniremmo due
volte lo stesso fatto in quanto che quel fatto non viene punito, non è per quella parte che si è
punito ma per le altre parti. Andando all'esempio si era proposto quello dell'incesto o violenza
sessuale, se il padre commette incesto con violenza verso la figlia la parte che le due disposizioni
hanno in comune è il compimento di atti sessuali che in sé stessi non sono punibili ma lo diventano
o perché c'è una parentela o perché c'è la violenza. Se il fatto ha entrambe le caratteristiche
saranno integrati entrambi i reati non potrà esserci un rapporto di consunzione non puniamo due
volte il compimento di atti sessuali, ma una volta il rapporto di parentela e un’altra volta la violenza,
le ragioni per cui sono puniti i fatti sono diverse.

Rimane da vedere quando ci sia un simile rapporto di consunzione; quando il reato meno grave
appartiene al quadro normale di vita in cui si realizza il reato più grave( esempio del
danneggiamento dei vestiti, come nel caso dell'omicidio), prima erano due distinti reati la violenza
carnale e gli atti di libidine violenti, la violenza carnale richiedeva una penetrazione dell'organo
sessuale e gli atti di libidine no; ora si può senz'altro dire che appartiene al quadro normale di vita
della violenza carnale che nel compiere tale violenza si compiano anche atti di libidine violenta.

Il secondo punto è il cosiddetto antefatto e post fatto non punibili, cioè reati che si presentano in
una sequenza temporale tale per cui questa successione determini l'assorbimento o di un fatto
commesso in precedenza o di quello commesso susseguentemente, se uno ruba un oggetto per
chiedere poi la somma di denaro per dare in dietro l'oggetto rubato, il furto commesso in
precedenza viene assorbito dal più grave delitto di estorsione; e rientra nel disvalore di estorsione
l'antefatto del furto.

195
Post fatto, falsificazione di monete e spendita di monete falsificate, sono due reati diversi, ma se lo
stesso soggetto ha falsificato ( reato più grave) e poi la spende ( reato meno grave) la spendita sta
dentro la falsificazione; il post fatto qui non è punibile e assorbito nel disvalore del primo.
Nell'ambito del delitto della pubblica amministrazione si può usare quest'esempio, cioè truffa
aggravata ai danni dello stato o delle autorità europee per lesioni pubbliche art. 640 bis del Codice
penale e malversazione ai danni dello stato 316 bis; la truffa ai danni dello stato consiste
nell'induzione di qualcuno in errore mediante artefici o raggiri procurando a sé e ad altri un ingiusto
profitto ( sovvenzioni pubbliche ottenute) in danno altrui ( dello stato), questo soggetto che ha
fraudolentemente ottenuto tali sovvenzioni è possibile che non le impieghi per le finalità per le
quali erano state assegnate, ottenendo ad esempio un contributo fraudolento per l'olivicoltura
dimostrando di avere un terreno che invece non ha, falsificando i documenti; ottenendo i contributi
che spenderà in altro modo. Allora il non utilizzare i contributi così ottenuti per le finalità per cui
erano state concesse viene assorbito dal più grave fatto di averli ottenuti fraudolentemente. Dal
libro si può ricavare questo ma qualcuno potrebbe sostenere che i due reati si riferiscono a cose
diverse, è sicuro che nella truffa i contributi sono ottenuti fraudolentemente, mentre qualcuno
ritiene che nell'art 316 l'uso del termine ottenere, fa pensare che si tratti di un ottenimento fatto in
modo regolare, se si ritiene che significhi ottenuto lecitamente i due reati sarebbero del tutto
distinti; ma se invece si ritiene che significhi anche averlo ottenuto fraudolentemente si può
pensare che si applichino allo stesso fatto. Qui la logica direbbe che sia giusto punire solo per truffa
ai danni dello stato perché è più grave; infatti la pena è più grave della malversazione. Ma la
giurisprudenza che ragiona sulla base del bene giuridico diverso dice che non c'è assorbimento
perché i beni sono diversi, il primo è un reato contro il patrimonio essendo un’ipotesi particolare di
truffa e il secondo offende il buon andamento della pubblica amministrazione, quindi sono
entrambi punibili. Al prof. non sembra una conclusione corretta.

3. Progressione criminosa o meglio reato progressivo, c'è una leggera differenza nel reato
progressivo non c'è nemmeno una diversità dei reati( accoltellare tante volte una persona,
continuità ininterrotta di fatti per cui quelli precedenti sono un modo per procurare la morte)
mentre nella pc si presuppone uno stacco e una distinzione tra i fatti; qui c'è un’articolazione tra
fatti che potrebbero assumere un’autonoma e distinta rilevanza.

4. caso previsto dall'art 84 del cod. pen. caso di consunzione espressamente regolato dalla legge,
reato complesso, quello in cui una figura di reato riassume in sé fatti che sono altrimenti previsti
come autonome figure di reato da singole disp. di legge, tipo la rapina che è la sintesi del furto e di
violenza privata, è un furto realizzato mediante violenza, ha in sé elementi che integrano le due
cose messi assieme e diventano un autonomo reato con il nome di rapina. Chi è responsabile di
rapina non sarà punito anche per gli altri due reati ma solo una volta.

C'è da dire anche che questa situazione potrebbe essere considerata anche una situazione in cui c'è
un rapporto di specialità di furto, ovvero rappresenta un caso speciale di furto; e la stessa cosa
identica si può dire della violenza. Si può vedere in tutti e due modi.

196
PRINCIPIO DI SUSSIDIARIETA’

La ragione per cui il legislatore prevede reati attraverso norme che hanno questo carattere di
sussidiarietà è quella di non lasciare spazi aperti per comportamenti che invece si vuole siano
penalmente rilevanti. Cioè dopo aver previsto una serie di reati principali che puniscono i principali
fatti in un certo ambito si dispone una norma di chiusura che evita che qualche fatto che non
corrisponda alle altre disposizioni sfugga dalla tutela penale e quando si richiede di ricorrere a
questo rapporto c'è una scelta legislativa che è all'opposto del principio della frammentarietà della
legge penale, ovvero che tra i vari casi la legge penale individua singoli fatti e punisce solo quelli e
non modalità simili e vicini selezionando accuratamente quelli punibili e lasciando impuniti altri fatti
e questa è la ragione di fondo del divieto di analogia, c'è una scelta a monte per una tutela
frammentaria, profondamente antitetica rispetto a questa. Bisogna distinguere questo che è un
rapporto di sussidiarietà dal principio di sussidiarietà del diritto penale di cui abbiamo parlato a suo
tempo, quando parliamo del principio di sussidiarietà vogliamo dire che è lecito ricorrere al diritto
penale quando non si può dire che sia sufficiente ricorrere al sistema di controllo di certi fatti negli
altri diritti, quindi le norme penali hanno un effetto sussidiario rispetto altre norme
dell'ordinamento giuridico, ovvero in prima battuta è giusto e doveroso servirsi di norme di altri
diritti e solo se queste non bastano è legittimo ricorrere alle gravi sanzioni penali. Qui si parla di
sussidiarietà rispetto ad altre norme anche esse penali, infatti delle fattispecie incriminatrici
servono a tutelare quelle che sfuggono. Esempio perfetto è costituito dal vecchio art.223 del cod.
penale che puniva il delitto di abuso d'ufficio ma che ha subito due variazioni per cui ci sono tre
versioni diverse, quella del 1930 codice rocco, quella del 1990, e un ulteriore del 1997 , riforma solo
per quest’abuso d'ufficio. La prima versione era un perfetto esempio di norma sussidiaria, abuso
d'ufficio in casi non prevenuti esplicitamente dalla legge per un abuso di poteri c'era il delitto di
peculato, malversazione ecc, ma se il fatto non rientrava in nessuno di questi veniva attivato questa
tutela, il pubblico ufficiale che commette qualsiasi fatto non provveduto come reato da una
particolare disposizione di legge, abusando dei poteri inerenti alla sue funzioni; quindi la
caratteristica era che la norma in questione poteva applicarsi solo se il fatto non fosse punito da
nessun altra disposizione di legge e qui per pacifica interpretazione non doveva per forza trattarsi di
un reato contro la pubblica amministrazione poteva anche essere un reato comune( contro il
patrimonio, persona ecc) aggravato dall'abuso dei poteri, se questo costitutiva elemento di un altro
reato penale non si applicava l'art 223. Si poteva applicare solo se l'abuso del potere non integrasse
nessun’altra previsione penale e quindi era una norma sussidiaria. Questo tuttavia è stato
modificato.

Un altro esempio è dato dall'art.616 che punisce la violazione e sottrazione di corrispondenza


ancora vigente. Chiunque prenda cognizione del contenuto di una corrispondenza chiusa a lui non
diretta o sottrae una chiusa o aperta è punibile se il fatto non è provveduto come reato da altra
disposizione di legge con la reclusione fino ad un anno.

197
Non si applica per altri casi, ma solo se non è punito quel fatto a nessun altro titolo come reato,
disposizione di carattere sussidiario ( è a questo che il 2 comma dell'art.9 della 689 del 1981 si
riferisce, la situazione in cui una legge regionale che prevede un illecito amministrativo se è speciale
rispetto ad una legge statale penale esclude la possibilità della legge statale in forza del rapporto di
specialità che si costituisce in forza di tale legge in via eccezionale tra un illecito amministrativo e
una penale diversamente dal solito tra due penali, ma si applica in via sussidiaria solo in mancanza
di altra disposizione di legge quella legge penale, quindi ha carattere sussidiario).

In certi casi la legge prevede espressamente che una certa disposizione si applichi solo se un fatto
non costituisca un più grave reato anche questa è un’ipotesi di sussidiarietà ma limitata non se il
fatto non costituisce nessun altro reato ma se lo stesso fatto di cui la norma sussidiaria prende in
considerazione non sia punito da una norma di legge che prevede un reato più grave. Ad esempio,
l'attuale abuso di ufficio, violazione del diritto di abuso di ufficio comincia con una clausola di
questo tipo :" salvo che il fatto non costituisca un reato più grave, il pubblico ufficiale." quindi
l'abuso d'ufficio può costituire reato se contemporaneamente non costituisca un più grave reato,
tipo il peculato che è più grave ad esempio; sussidiarietà nei confronti solo di una norma che
prevede un reato più grave.

Infine certe volte si può prevedere il caso in cui la legge dica :" fuori dai casi previsti dalla norma x",
probabilmente una cosa del genere c'è rispetto ad uno dei soliti reati che si studieranno l'intenta
percezione di erogazione ai danni dello stato, art. 316 ter; è punito chi consegue indebitamente
presentando documenti falsi contributi e cosi via salvo che il fatto non costituisca addirittura il reato
previsto dalla norma 640 bis, un esclusione rispetto ad una determinata disposizione , potrebbe
essere che le due si incrocino ma se è applicabile anche l'altra questa non può essere applicata. In
fondo le modalità con cui si realizza quest'articolo sembrerebbero quasi uguali a quella della truffa,
nella truffa si punisce chiunque mediante raggiri o artifici inducendo qualcuno in errore ottiene
sovvenzioni, qui la legge descrive il fatto chiunque l'utilizzo o la presentazione di dichiarazione o
documenti falsi o attestanti cose non vere o mediante l’omissione di informazioni dovute , ma
queste condotte descritte nei due articoli sembrerebbero sovrapponibili, Pagliaro si chiede quando
si prospetta il profilo più grave della truffa? la conclusione è che per la truffa occorrono veri e propri
imbrogli mentre qui basta meno, la parola imbrogli richiede di più della semplice allegazione di
documenti falsi, una macchinazione più articolata e meglio confezionata. Tra le due norme la legge
chiarisce c'è tale rapporto di esclusività se si applica il 640 bis non si applica il 316 ter. Per questo
bisogna distinguere le due cose.

Con questo si completa la parte che riguarda la norma penale ( storia del diritto penale, principi di
diritto penale, norma penale, concorso di norme).

Ora si parla di reato. Il reato è un fatto illecito penale, ovvero un fatto alla cui commissione una
norma di legge collega una sanzione penale; non si deve parlare di reato penale, ma solo di reato. Il
reato è un concetto di genere che si specifica nelle due specie di delitto e contravvenzione, o
possono essere delitti o contravvenzioni in base al tipo di sanzione prevista. per il delitto sono
previste le pene dell'ergastolo, reclusione, multa, per le contravvenzioni arresto e ammenda.

198
Non si deve parlare indifferentemente di delitto e reato, il delitto è una specie di reato ma non
esaurisce la categoria, ci sono anche le contravvenzioni. Il delitto tentato ad esempio è punibile solo
se si tratta di un delitto, non è punito il reato tentato, ma solo il delitto. Ci dice questa norma che la
contravvenzione in questo caso non è punibile. Quindi bisogna usare le parole giuste. Il delitto è un
reato ma reato può essere anche una contravvenzione.

Prima ancora del codice Zanardelli si usava la parola crimini, tale parola fa riferimento a reati di
particolare gravità connotati dal punto di vista etico per la loro efferatezza e quindi presuppone un
giudizio etico sul disvalore; fin dal 1889 il legislatore italiano ha ritenuto di rinunciare a tale
categoria, e lo stesso ha fatto il codice Rocco, nel nostro ordinamento non esiste questa categoria.

Ora bisogna dare una definizione di cosa sia reato, perché quella che si è data che si trova sui testi è
una definizione di tipo formale collegando il significato solo alla sanzione non dicendo niente su
cosa consiste questo fatto, sulla sua essenza. E invece sotto vari profili si è avvertito da sempre il
bisogno di dare una definizione sostanziale di reato, cosa oggettivamente costituisca reato, il
legislatore nel prevedere una sanzione penale per un certo fatto fa un ragionamento, pensando che
certi fatti particolarmente gravi in sé meritano di essere trattati come penali. Ci sono tentativi di
dare una definizione sostanziale di reato, il primo è quello del giusnaturalismo secondo il quale
sarebbe reato le più gravi violazioni della legge morale che appunto vengono punite dalla legge con
le più gravi delle sanzioni disponibili; si può subito dire come conclusione di un ragionamento più
complesso che tale conclusione non va, esistono fatti che non sono così gravemente offensivi della
morale puniti dal punto di vista penale. In un tempo come il nostro bisogna anche capire a quale
morale si debba fare riferimento, infatti se per alcuni fatti siamo tutti d'accordo( omicidio), per altri
fatti ( eutanasia) potrebbero esserci grandi differenze di pensiero e così via. Ci sono dei fatti che
incontestabilmente qualunque sia il punto di vista non costituiscano qualcosa di gravemente
offensivo per una perenne legge morale, tipo certi reati tributari, certi reati che consistono nel
mancato rispetto di provvedimenti amministrativi ( autorizzazione, licenze ecc), chiunque compia
un certo fatto senza autorizzazione secondo il legislatore va punito ma non si può dire che offenda
una morale naturale eterna ecc. il legislatore ritiene di stabilire una regola e punire chi non la
osserva.

Questo concetto non è così campato in aria, perché addirittura la Corte costituzionale nella
famosissima sentenza 364\1988 sull'errore di legge penale ha parlato di delitti naturali, perché ha
voluto e dovuto fare riferimento ad una differenza tra questi delitti e quelli di mera creazione
legislativa ( tipo un reato tributario appunto), e sono puniti perché il legislatore ha ritenuto di
punirli ma non sono in sé stessi reato per una legge naturale. L’art 5 ha detto che nessuno può
invocare a propria scusa l'ignoranza della legge penale ma la corte ha corretto dicendo a meno che
non si tratti di un’ignoranza inevitabile, e quindi allora è scusabile ed è inevitabile in certi casi
specifici, ma la Corte costituzionale ha precisato che questo disposto vale solo per i reati di mera
creazione legislativa per questi si può porre il problema della scusabilità ma non per i delitti
naturali. Questi delitti naturali non sono in nessun caso mai scusabili.

199
Questa nozione in qualche modo è importante, bisogna tenere conto, perché è necessario stabilire
quali siano tali delitti naturali, tipo in certe materie di confine come la bigamia. Quest'idea a parte
sotto questo profilo appena detto è recuperabile sotto il profilo dell'istanza di depenalizzazione cioè
lasciare al delitto penale il compito di punire i reati più gravi non anche i fatti di gravità minore e
marginale che non appaiano in sé stessi così bisognosi di tutela. Bisogna osservare che tale istanza è
contraddittoriamente perseguita nella nostra legislazione, da un lato si invoca il principio di
sussidiarietà del diritto penale , quando non è necessaria è bene ricorrere ad altri tipi di norme e
sanzioni; questo è un grande principio che il legislatore persegue anche attraverso la
depenalizzazione ma nello stesso tempo mentre se ne cancellano alcune se ne aggiungono nuove
quasi incessantemente e il numero dei reati aumenta , ogni volta che spunta qualche esigenza
politica particolare; le due cose sono in controtendenza un legislatore dovrebbe essere coerente
non lasciandosi condizionare da istanze contingenti dal momento, e invece c'è un tale altalenante
orientamento di cui risente la nostra legislazione.

200
18/12/2018
Stiamo parlando del reato e abbiamo visto che c’è la possibilità di vederlo dal punto di vista formale
oppure sostanziale: quello sostanziale sono, innanzitutto, il giusnaturalismo (la privazione della legge
morale) e non tutti i reati offendono la legge morale, cd reati di pura creazione legislativa da
distinguersi dai reati morali e, però, la cosa che possiamo ricavare è un vinto a limitare il ricorso al
diritto penale a quei soli fatti che veramente appaiano dotati di gravità. Questo si può recepire dalla
teoria che stiamo considerano e anche questo ha dato luogo ad un movimento da parte del legislatore
verso la depenalizzazione, la quale ha avuto una serie di tappe: infatti, nel 1967 con la legge 317 sono
state depenalizzate alcune leggi previste dal codice della strada; nel 1975 sono state depenalizzate le
contravvenzioni per le quali fosse stata prevista una sanzione pecuniaria; ecc.
Si usa il termine “depenalizzazione” in modo molto generico, a volte viene utilizzato anche il termine
“decriminalizzazione” che vorrebbe indicare il passaggio dalla sanzione penale ad una sanzione
comunque punitiva, ma in realtà amministrativa. L’istanza è quella riduzione del numero dei reati,
anche se purtroppo nella nostra legislazione c’è una controtendenza a prevedere nuovi reati non
sempre resi necessari per la gravità dei comportamenti in questione.
Una seconda teoria, anch’essa sostanziale, fa riferimento a paramenti sociologici e non invece morali:
utilizzando parametri propri della sociologia e considera il reato come un comportamento
disfunzionale per il mantenimento della pace sociale. Ogni comportamento disfunzionale rispetto la
convivenza pacifica costituisce quindi reato. Questa teoria riprende parte delle idee originali degli
illuministi, per i quali la funzione del diritto penale è quella di mantenere la pace sociale: gli illuministi,
vi ricordo, puntavano proprio a distinguere tra reato (contrario alla convivenza pacifica) e peccato
(contrario a legge morali).
Vi ricorderete che abbiamo affrontato la questione se esistessero dei fatti che potrebbero essere
rilevanti solo per la morale, ma hanno osservato che proposto in questi termini l’affermazione non è
del tutto esatta perché bisogna rilevare che ciò che definito rilevante per la morale e non anche per
la convivenza pacifica va modificandosi nel corso degli anni, perché con il passare del tempo fatti che
erano socialmente rilevanti non lo sono più e viceversa. Quindi ciò che è esclusivamente moralmente
rilevante non è stabile in eterno.
Il problema della definizione che stiamo considerando è se questo giudizio possa essere fornito da
parametri di carattere squisitamente sociologico in termini scientifici e, anche in questo caso,
dobbiamo prendere atto del fatto che non è possibile ricorrere sempre ad un parametro di questo
genere per individuare con esattezza i fatti che costituiscono reato: ci sono fatti che il legislatore
ritiene di punire, ma che non mettono così gravemente in crisi eppure costituiscono reato (es. quando
abbiamo parlato degli OGM), si tratta come di misure preventive. E poi ci sono fatti che il legislatore
ritiene di punire anche se appaiono come non dannosi o, addirittura, neutri: es. eliminazione di
persone che, in un’ottica puramente funzionale, potrebbero essere inutili e cioè il malato terminale,
il criminale… se si volesse utilizzare un parametro puramente funzionale, come facevano gli antichi,
questi soggetti potrebbero essere considerati un peso; ma il diritto penale tutela anche queste
persone, perché tutela le persone in generale, la vita come un valore da difendere e, nonostante una
certa avversione da parte di alcuni per reati che offendono valori, si deve osservare che esistono
questi reati come, ad esempio, il reato di vilipendio (espressione di un disprezzo e come tale è punito):
si tratta piuttosto della tutela di certi valori.

201
Recentemente, nel 2017, è stato introdotto un’aggravante per i cd fatti di negazionismo, cioè la
posizione di coloro che vogliono negare che si siano verificati fatti razzisti e discriminatori, anche
come l’olocausto. Quindi in alcuni casi si tutelano dei valori per il loro significato perché riconosciuti
tali dalla legge e dall’ordinamento e, a questo proposito, è utile osservare una posizione di pensiero
come quella di Fainberg secondo cui il reato non possa essere altro che un danno recato a qualcuno
contro la sua volontà, quindi con il consenso della persona offesa invece non c’è danno. Ma questa
posizione non è accettabile perché il nostro ordinamento tutela una persona anche contro la sua
stessa decisione, punendo coloro che offendono beni cd indisponibili: ebbene alcuni diritti sono per
la legge sono indisponibili, cioè io non posso consentire che qualcuno li danneggi (come il bene della
vita: non posso acconsentire che qualcuno per mia volontà lo faccia venire meno poiché si
tratterebbe di omicidio, da lì anche la problematica dell’eutanasia, ma bisogna distinguere se si possa
mettere fine ad una vita in qualche modo terminale da una invece che si trovi fuori da tale
condizione). Dunque, il semplice consenso non fa venire meno la presenza del reato, non si può
accettare la posizione di Fainberg.
Tuttavia, rimane in ogni caso importante l’orientamento che da questa posizione si possa ricavare nel
limitare il numero di reati a quei soli fatti che sono contrari al mantenimento della pace sociale, senza
andare punendo cose perché risulta più comodo (argomento discusso già in tema di sussidiarietà del
diritto penale). Invece, sicuramente da respingere e contrastare le concezioni politiche del reato che
sono state proposte in regimi autoritari nel corso del ‘900 -per esempio nei regimi nazista, fascista e
sovietico- i quali considerano il reato come qualcosa di contrario al regime/sistema politico
instauratosi in un determinato Paese: così, ad esempio, in Germania negli anni ‘30 era considerato
reato la disobbedienza alla legge, in quanto contrario al sano sentimento del popolo, ma tale
sentimento e il fatto della ribellione della volontà accentrano in modo intollerabile il profilo interiore
del reato disinteressandosi della offesa oggettivamente recata, a parte poi la evidente manipolabilità
di questo sano sentimento. In Italia non si arrivò a questa posizione, ma qualcuno aveva proposto
una definizione del reato come qualcosa di contrario alla volontà del duce e, anche qua, viene
tutelato un interesse politico contro le minoranze, imposto con autorità.
Concezioni poi scomparse con la caduta degli stessi regimi.
Quindi, giusnaturalismo sì, esistono dei diritti naturali ma non è una base per la definizione esatta e
precisa del reato; prospettiva della tutela sociale sì, ma non soltanto con i parametri proprio della
sociologia perché questi hanno anche un’altra finalità, piuttosto invece con la finalità di tutelare un
interesse sociale e, infine, niente nozioni politiche.
Allora rimane un riferimento alla costituzione, il cd diritto penale costituzionale, cioè l’idea che
soltanto la costituzione possa indicare quali siano quei beni che legittimamente possano essere
tutelati dalle norme penali perché al di fuori del quadro costituzionale non ci sarebbe per il legislatore
la possibilità di prevedere reati. E abbiamo visto, a suo tempo, che quando si disse che occorreva una
rilevanza costituzionale esplicita ciò era eccessivamente restrittivo, poiché ci sono beni non espressi,
ma di cui nessuno dubita. Bisogna però che i principi tutelati non siano, ovviamente, in contrasto con
la stessa costituzione, per cui il legislatore deve sempre tutelare una certa armonia.

202
Nonostante questo, non si può rilevare una definizione di reato dalla costituzione perché anche di
fronte ai più alti valori si pone sempre un problema di equilibrio e cioè fino a che punto un fatto vada
punito, l’equilibrio tra la libertà di azione e la tutela del bene non può essere dettato in modo generico
o di principio, ma richiede una individuazione esatta di ciò che si vuole proteggere da una parte e di
ciò che si vuole vietare dall’altra. Questo equilibrio soltanto la legge penale può individuarlo
positivamente e definirlo. Tra l’altro nella necessità di distinguere e demarcare tra illecito penale e
illecito amministrativo, poiché il fatto che il bene richieda una tutela non significa che il legislatore
debba necessariamente intervenire con sanzioni penali, ci può essere anche una seria tutela
amministrativa (es. gli atti osceni).
I parametri in base ai quali stabilire se un fatto deve essere previsto come reato o meno sono due:
meritevolezza di pena e bisogno di pena. La meritevolezza riguarda il comportamento di chi ha
commesso il reato, cioè la sua colpevolezza; invece, il bisogno riguarda la necessità del mantenimento
della pace sociale e questo si ricava in base la gravità del fatto rispetto i beni giuridici da tutelare, sia
per l’importanza del bene sia per la pericolosità dell’aggressione al bene. Queste regole sono già
codificate in alcune circolari.
Non resta che abbracciare, adesso, la nozione formale, cioè il reato è un fatto per il quale
l’ordinamento giuridico prevede una sanzione penale. Le pene principali (art.17 cod.pen.) stabilite
per i delitti sono l’ergastolo, la reclusione, la multa. Prima ancora c’era persino la pena di morte, ma
è stata cancellata dal decreto legislativo 1944. Invece le pene previste per le contravvenzioni sono
l’arresto e l’ammenda. E, a seconda del tipo di pena prevista, distinguiamo se si tratta di delitto o
contravvenzione.
Ricordiamo, però, che ci sono anche le misure di sicurezza per cui il fatto costituisce anche reato;
però, per l’individuazione di ciò che è reato non è necessaria l’applicazione delle norme di sicurezza,
in quanto tale serve quando un soggetto pericoloso commette un fatto di reato cioè un fatto per il
quale è prevista una pena.

Vi ricorderete che ci sono solo due casi, nel nostro ordinamento, in cui è prevista la possibilità di
sottoporre l’autore del fatto alla misura di sicurezza senza che sia possibile applicare una pena:
1) Art. 49, 2comma, cod.pen. = reato impossibile
2) Art.115 cod.pen. = accordo di più persone per commettere un reato non seguito dalla
commissione ovvero istigazione a delinquere non accolta

In questi casi è possibile che il giudice disponga una misura di sicurezza senza sottoporre a pena
l’autore del fatto. Per questa misura di asimmetria la dottrina continua a chiamare questi casi come
“quasi reato”, che dipende dal fatto se le misure di sicurezza siano o non siano vere sanzioni penali.
Tuttavia, adesso, questa asimmetria è stata superata per cui anche le misure di sicurezza vengono
considerate sanzioni penali, individuando così un fatto come vero reato.
Riguardo alla definizione di reato bisogna affrontare due tematiche: concezione realista dell’illecito
penale e distinzione tra reati di danno e reati di pericolo.

203
La concezione realistica dell’illecito penale è stata proposta negli anni ’60, partendo dall’art.49, 2
comma sostenendo che potrebbero esservi dei fatti astrattamente conformi alla descrizione
dell’illecito penale, MA inoffensivi cioè incapaci di recare offesa al bene giuridico protetto. Un
esempio può essere quello del “falso grossolano”, cioè una falsificazione fatta in modo così
grossolana che chiunque potrebbe riconoscerla. L’aggancio al diritto positivo è dato dall’art.49 che
sarebbe esattamente questo, secondo questi autori, in quanto l’azione è inidonea a recare offesa; la
dottrina prevalente ha però respinto questa concezione con due argomentazioni:
1) dal punto di vista del diritto positivo, è dominante l’dea che invece l’art.49 preveda l’opposto
del delitto tentato, cioè regolerebbe un caso di tentativo non riuscito, e quindi si prevede che
il giudice possa disporre una norma di sicurezza
2) dal punto di vista degli argomenti di fondo, si osserva che la concezione realistica nel
sostenere che i fatti sarebbero conformi alla norma incriminatrice e nel sostenere, poi, che
questi fatti conformi possono essere poi incapaci di recare offesa al bene giuridico, postula
necessariamente che questa incapacità ad offendere sia desunta da parametri estranei dalla
norma incriminatrice per necessità logica. Se il fatto è conforme alla norma ma inoffensivo,
allora sarà qualcos’altro a darci una diversa valutazione, ma il giudice non può stabilire che
quel fatto non è punibile, non può servirsi di parametri esterni alla legge.

Certi fatti non possono essere puniti sebbene appaiano conformi alla legge, allora il modo corretto
per impostare la questione è quello di trovare all’interno della norma penale incriminatrice i criteri
per individuare la non punibilità di tali fatti: ricorriamo quindi alla interpretazione teleologica delle
norme, utilizziamo cioè non solo la rilevanza letterale ma anche il senso proprio espresso dalla norma
rispetto il bene giuridico tutelato. Il fatto, dunque, non è conforme alla fattispecie incriminatrice.
La differenza quindi tra la concezione realistica e quella teleologia, consiste nel fatto che la prima
cerca i criteri FUORI dalla legge penale, mentre la seconda all’interno rispettando così il principio di
legalità. Bisogna quindi fare riferimento alla legge penale.

Parliamo, adesso, dei reati di danno e dei reati di pericolo. Nella sua essenza il reato è un’offesa ad
un bene giuridico. Secondo la nozione formale è reato tutto ciò per il quale i miei comportamenti
sono sanzionati da una norma penale, ma la sostanza di questo fatto è data dall’offesa ad un bene
giuridico. Questo si ricava dalla legge penale perché gli art. 40 e 43 lo confermano, infatti:
-l’art.40 cod.pen. regola il rapporto di causalità tra la condotta, cioè l’azione o l’omissione del
soggetto, e l’evento che ne consegue: Nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla
legge come reato, se l'evento (1) dannoso (2) o pericoloso, da cui dipende l’esistenza del reato,
non è conseguenza della sua azione od omissione (3).
Non impedire un evento, che si ha l'obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo (4).
Quindi fa riferimento al danno o pericolo: cioè l’evento, o il risultato che deriva, da cui dipende
l’esistenza del reato viene qualificato come dannoso o pericoloso.

-art.43 cod.pen regola l’elemento psicologico del reato, viene stabilito che il delitto è doloso, o
secondo l'intenzione, quando l'evento dannoso o pericoloso, che è il risultato dell'azione od
omissione e da cui la legge fa dipendere l'esistenza del delitto, è dall'agente preveduto e voluto
come conseguenza della propria azione od omissione.

204
In entrambi gli articoli la legge ripete che l’evento in questione deve essere dannoso o pericoloso.
Danno e pericolo sono le due specie del genere offesa: il reato è un fatto che reca offesa.
Il danno è una lesione definitiva del bene stesso e qualora il bene giuridico al quale si reca l’offesa,
per la sua natura o caratteristica, sia tale da ritornare alla primitiva condizione una volta cessata
l’azione illecita, anche in questo caso si considera danno una compressione del bene. Pensare alla
libertà personale o sessuale: il sequestratore cessa l’azione di offesa, la libertà si riespande, ma
ugualmente ha subito il danno. Quindi una lesione definitiva ovvero una lesione quando il bene può
riprendere la sua originaria condizione.
Invece pericolo, è da definirsi come possibilità o probabilità di un danno. La dottrina li usa in modo
indifferente, ma in realtà bisogna tenere riguardo al male temuto. Possibilità e probabilità sono due
cose diverse e bisogna fare riferimento all’uno all’altro a seconda del danno: possibilità è un concetto
puramente logico; probabilità invece è una cosa che statisticamente può verificarsi in un numero x di
casi su y.
A seconda del danno temuto ci si può accontentare della possibilità, mentre per la probabilità vi deve
essere un evento significativo.
Per i reati di danno non si pone alcuna particolare questione se non stabilire quando ci sia un danno
o meno e questo è compito del legislatore.

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19/12/2018
DISTINZIONE TRA REATI DI DANNO E REATI DI PERICOLO

IL DANNO è una lesione definitiva del bene giuridico ;

IL PERICOLO è la possibilità e probabilità di un danno.

Questi concetti sono variamente da pensare a seconda del tipo di danno più o meno grave. Più
grande è il danno temuto, più ci si può accontentare di un basso grado di probabilità, e perfino della
mera possibilità logica che non guarda al grado di probabilità : anche un fatto che è possibile una
volta su 10 milioni è possibile anche se estremamente improbabile!

-I reati di danno non creano particolari problemi perché, se non quelli di cui abbia già parlato
relativi alla scelta di politica criminale , se per l'ordinamento giuridico un certo fatto non può essere
tollerato perché reca danno ad un bene giuridico deve quindi essere punito. Questa scelta dipende
da valutazioni che possono modificare nel tempo, a seconda che un ordinamento sia più aggressivo
o più liberare, si possono punire certi fatti che in un altro ordinamento non sono puniti e viceversa.

Quando si tratta di fatti meno gravi o marginali , oppure che richiedono una valutazione sensibile
dal punto di vista etico , ci possono essere delle differenze di punti di vista tra un ordinamento e un
altro.

-I reati di pericolo creano molti più problemi.

Certe volte, il legislatore punisce già il fatto, si chiama anticipazione della tutela penale, cioè la
legge penale interviene prima d quanto interverrebbe nel caso di lesione definitiva-> in certi casi, il
legislatore ritiene che sia già necessario punire chi mette in pericolo un bene giuridico. Questo si
verifica di fronte ai beni di maggiore importanza, se si tratta di un bene secondario come il
patrimonio sostanzialmente non ci sono danni di pericolo. Il pericolo si apprezza dal punto di vista
penale di fronte ai beni della vita, dell'incolumità pubblica, della salute pubblica, della sicurezza
pubblica o dello Stato.

Il pericolo poi può essere ASTRATTO o CONCRETO.

Tradizionalmente, questa distinzione dipende dal fatto che il pericolo sia o meno un elemento della
fattispecie penale incriminatrice espressamente menzionato, cioè quando la legge dice "chiunque
pone in pericolo la sicurezza ecc...". Quindi il PERICOLO deve essere un elemento espressamente
indicato, perché in questo caso il giudice deve accertarlo, deve accertare che ci sia stato un pericolo
con la massima ampiezza di giudizio possibile, cioè tenendo conto di tutti gli elementi a sua
disposizione.

È un'opinione corrente ormai che il giudizio di pericolo vada fatto ex post, ovvero a cose fatte, dopo
che si è completata l'azione pericolosa, dopo che il fatto si è concluso, il giudice, tenendo conto di
questi elementi, valuterà se c'è stato o no un pericolo.

206
Però bisogna considerare che in realtà ogni giudizio di pericolo concreto è sempre in qualche modo
astratto, cioè ha una parte di astrazione dalla realtà, nel senso che il giudice non potrà mai tenere
conto di come sono andate a finire le cose; se il giudici dovesse tenere conto in questa sua
valutazione anche di come sono andate a finire le cose, inevitabilmente arriverebbe al giudizio che
o c'è stata una lesione o non c'è stata una lesione , in mezzo non resterebbe nessuno spazio per il
pericolo, il giudizio di pericolo non può non prescindere dal risultato finale: se io sparo ad una
persona, mettendo in pericolo la sua vita, i casi sono due o la colpisco o non la colpisco-> se la
colpisco c'è un danno, se non la colpisco non le provoco nessun danno. Allora se il giudice dovesse
considerare e tenere conto solo del risultato finale , il pericolo stesso svanirebbe nel nulla e si
risolverebbe nella costatazione che o c'è stato un danno o non c'è stato un danno.

Per poter apprezzare l'esistenza del pericolo, bisogna che nel giudizio per quanto si possa tenere
conto di tutte le circostanze presenti, per lo meno non si tenga conto di come sono andate a finire
le cose. Quindi il giudizio di pericolo, il più concretamente pensabile è sempre un po’ astratto,
astrae dall'esito finale.

Invece, secondo l'opinione tradizionale, il pericolo astratto è quello che costituisce per il legislatore
la ratio delle incriminazioni, cioè la ragione per cui punisce un certo fatto ; il legislatore punisce un
certo fatto perché ritiene che in quella situazione si verifichi un pericolo per beni rilevanti, ma
questa ratio non viene espressa: essa rimane come ciò che ha spinto il legislatore a prevedere un
certo fatto di reato, ma non viene tradotta anche in un elemento della fattispecie incriminatrice,
quindi non troviamo la parola "pericolo" nel testo della legge. L'esempio perfetto per spiegare
queste due situazioni è dato dall'art 423 del Codice penale che punisce in due diversi commi il
delitto di incendio:-1 comma punisce l'incendio di cosa altrui; il 2 comma punisce l'incendio di cosa
propria:

-1comma:" Chiunque cagiona un incendio è punito con la reclusione da 3 ai 7 anni"

-2comma:"La disposizione precedente si applica anche nel caso di incendio della cosa propria, se dal
fatto deriva pericolo per l'incolumità pubblica".

Il primo comma prevede un tipico reato di pericolo astratto; il secondo reato invece prevede un
pericolo concreto("se dal fatto deriva pericolo"). Quindi, è possibile che l'incendio della cosa propria
può determinare pericolo pubblico.

Chi ce lo dice che nel primo comma si tratti di un reato di pericolo? ce lo dice l'inscindibile legame
che c'è tra il precetto e la sanzione: la sanzione ci fa vedere e ci dice quale sia il precetto. Il fatto che
l'incendio di cosa altrui sia punito con la reclusione da 3 ai 7 anni, cioè più gravemente di un
omicidio colposo, ci dice ovviamente che nel fatto di incendio di cosa altrui , non c'è il solo dar
fuoco a qualcosa e distruggerla, ma l'incendio è punito così severamente perché dall'incendio di
cosa altrui che non si può controllare , si pensa che derivi pericolo per l'incolumità pubblica o
pericolo di distruzione di molte altre cose, oltre a quella a cui si è data fuoco. Quindi, interpretando
la disposizione in questione , si vede che non è punito il solo danneggiamento con il fuoco, ma è
punita l'azione pericolosa. Questo è il punto di vista tradizionale.

207
Per la verità però a guardare meglio ci si accorge che non basta dire che nel testo di legge ci sia la
parola "pericolo" perché si tratti di un pericolo concreto o perché si tratti di un pericolo effettivo ,
cioè di un pericolo realmente presentatosi , perché anche quando la legge usa la parola "pericolo" è
possibile che la situazione non sia portatrice di una effettiva, reale e grave pericolosità. Da che cosa
può dipendere questa minore pericolosità? Dipende dalla presenza di uno dei fattori che
allontanano il pericolo, pur concreto, dal massimo grado di effettività e lo avvicinano al pericolo
astratto. Questi fattori che allontanano dal pericolo concreto e avvicinano al pericolo astratto sono :

1-TEMPO CHE LA LEGGE CONSIDERA PER PUNIRE L'AZIONE-> In genere, il reato di pericolo
comporta un'anticipazione della tutela penale, cioè la legge penale interviene prima che si sia già
verificato qualcosa. Tanto più ci spostiamo indietro nel tempo, questo momento in cui si verifica il
comportamento punibile, tanto più ci allontaniamo dalla reale possibilità del danno; es: è punito chi
mette in commerci delle sostanze alterate, perché c'è il pericolo che chi lo compra , consumando
queste cose abbia un danno alla sua salute. Poi c'è il pericolo di chi detiene per il commercio, quindi
non ha ancora venduto , ha la merce per esempio in un magazzino e poi la venderà. Il fatto di
detenere il commercio è pericoloso, ma presuppone che queste merci dal magazzino in cui si
trovano vengano messe effettivamente nel punto di vendita e vendute a qualcuno: se sono vendute
è probabile che si verifichi un danno; se sono messe in vendita non è detto che qualcuno le compri
e stiamo facendo un passo indietro ; se sono detenute per il commercio e non messe in vendita per
il pubblico, siamo ancora più indietro. In sostanza la legge penale, descrivendo queste diverse fasi,
va sempre più all'indietro e quindi anche se c'è la parola "pericolo" , si tratta di un pericolo meno
reale ed effettivo di quello che si avrà con la messa in commercio e la vendita.

2- -Certe volte è la stessa legge che indica al giudice, mette una sorta di filtro nella valutazione del
giudice, imponendogli di giudicare sulla pericolosità che è pure prevista dalla legge soltanto sotto
certi profili e non altri: stanze pericolose per quantità o qualità.

È un giudizio che non guarda proprio tutto quello che si potrebbe considerare, ma soltanto a
qualche elemento di pericolosità; perciò, anche se il giudice ritiene che certe sostanze siano
pericolose per qualità e quantità, il giudizio sul pericolo non è il più concreto possibile ma si
allontana ancora dal massimo dell'effettività

3-Infine il modo in cui è formulato il bene giuridico e cioè quando si parla di salute pubblica,
incolumità pubblica, sicurezza pubblica ecc.. , il soggetto che potrebbe essere vittima non è
individuato e nemmeno individuabile, è chiunque possa subire un danno. Quindi perché vi sia
pericolo non si richiede che si ritrovi Tizio, Caio o Sempronio che effettivamente abbiano subito un
danno. L'incolumità di chi potesse eventualmente subire un danno, questo qualcuno è una persona
non ancora individuata, perciò il pericolo ovviamente è un po’ astratto, non è precisamente
concreto, perché per essere concreto ci vorrebbe che si provasse che Tizio era lì nel momento in cui
si è verificata una certa situazione.

Se mettiamo assieme tutti questi indici e troviamo un pericolo per la salute pubblica, consistente in
una condotta lontana nel tempo e da valutare con parametri vincolati, troviamo che ci allontaniamo
molto dal pericolo effettivo per qualcuno e che ci avviciniamo molto al pericolo astratto.

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Descritti così i tipi di pericolo, la questione è questa: è legittimo il ricorso ai reati di pericolo
astratto? Perché, mentre nei reati di pericolo concreto il giudice deve accertare che ci sia stato
effettivamente un pericolo e questo è sufficiente per punire qualcuno ad esempio che abbia
sparato una persona anche se non l'abbia colpita; invece, per il pericolo astratto, alcuni dicono che
il giudice non deve accertare che realmente ci sia stato un pericolo, il giudice deve solo accertare
che il fatto corrisponda alla descrizione della legge(pericolo astratto), ad esempio nel caso di
incendio, il giudice deve verificare che qualcuno abbia provocato un incendio di una cosa altrui e
basta! Anche se non è successo niente e nessuno concretamente è stato messo in pericolo.

Allora si dice che si va a punire un fatto inoffensivo, che non offende realmente nessun bene
giuridico e questo non è compatibile con i principi costituzionali : 2 comma art 25 e 3 comma art27 .

-2comma ,art 25: "Nessuno può essere punito se non in forza della legge entrata in vigore del fatto
commesso". Quando la costituzione dice "fatto" si riferisce ad un fatto che in se stesso deve avere
degli elementi di gravità e deve recare offesa a un bene giuridico, solo così è giustificato punire
qualcuno.

-3comma,art 27: " Le pene devo tendere alla rieducazione del condannato". Significa che il
condannato ha dimostrato di avere offeso e violato dei valori e beni che per la società e per il diritto
erano importanti e deve essere ricondotto, attraverso la sezione penale, al rispetto di questi valori.

Che senso ha punire qualcuno che ha commesso un fatto che non reca offesa a nessun bene? a che
cosa dovrebbe essere rieducato? Quindi il fatto deve essere un REATO OFFENSIVO per queste due
ragioni. Così che i reati di pericolo astratto che potrebbero anche prevedere la punibilità di
qualcuno che ha creato una situazione, nella quale non si è verificato nessun reale ed effettivo
pericolo, sarebbero incostituzionalmente illegittimi, perché punirebbero anche comportamenti che
si sono dimostrati inoffensivi.

Allora cosa si deve fare? Sono state proposte varie soluzioni:

1-Abolire i reati di pericolo astratto e ci si dovrebbe limitare ai soli reati di pericolo concreto.

Nel progetto Pagliari di riforma del Codice penale c'è un suggerimento in questo senso , cioè di
prevedere di regola i reati di pericolo concreto, ma si lascia la strada ai pericoli astratti quando si
tratta di prevenire gravi offese a beni di particolare importanza.

In questo modo non si risolve il problema, perché se volessimo sostenere che si può punire soltanto
un fatto che è stato veramente offensivo , non potremmo punire nemmeno i reati di percolo
concreto, perché per definizione anche nel reato di pericolo concreto non c'è stato nulla, anche il
reato di pericolo concreto punisce qualcosa che non si è necessariamente tradotta in un danno.

Allora anche i reati di pericolo concreto dovrebbero essere cancellati, ma nessuno ha mai sostenuto
questa definizione, quindi vuol dire che non è questa la soluzione!

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2-Lasciare i reati di pericolo astratto, però si pensa di costruire una sorta di presunzione relativa di
pericolo astratto, cioè si pensa di dare all'imputato la possibilità di provare che il fatto, che
costituisce reato di pericolo astratto, non ha creato in realtà pericolo per nessuno. Se si riesce a
dimostrare ciò, l'imputato non sarà punibile.

Anche questa concezione non può essere accolta per due diverse ragioni:

-La prima ragione è che in questo modo si trasformano praticamente i reati di pericolo astratto in
reati di pericolo concreto, perché se dobbiamo prendere in considerazione questo giudizio sul fatto
che ci sia stato o no un pericolo, tanto vale prevedere direttamente una fattispecie di pericolo
concreto, non ha senso prescindere dalla prova il giudizio di pericolo concreto. Quindi dal punto di
vista della tecnica di incriminazione , non funziona questa opinione perché si tratta solo di una
trasformazione del reato di pericolo astratto in reato di pericolo concreto.

-La seconda ragione è che si violano le regole in tema di prova del processo penale, perché è una
regola importantissima per l'intero processo penale che la prova del fatto deve essere data
dall'accusa e non dall'imputato e quindi non si può mettere a carico della difesa il compito di
provare che ciò che l'imputato ha fatto non corrispondeva alla norma giuridica violata. Deve essere
l'accusa a dimostrare che il fatto corrispondeva, non ci può mai essere un onere della prova di
discolpa a carico del reo.

Allora qual è la soluzione al problema? Secondo il professore la soluzione al problema consiste nel
distinguere tra PERICOLO PRESUNTO e PERICOLO ASTRATTO ; molti autori pensano che ci sia una
differenza tra questi due tipi di pericolo, secondo altri autori invece le due espressioni sono
identiche , cioè pensano che il pericolo astratto sia un pericolo presunto dalla legge iuris et iure,
cioè senza possibilità di prova in contrario.

Secondo altri, il PERICOLO PRESUNTO è qualcosa di diverso dal PERICOLO ASTRATTO: il pericolo
presunto davvero non corrisponde al principio di offensività. Il pericolo presunto è quello rispetto al
quale il giudice potrebbe accertare realmente di fatto se un pericolo si è verificato oppure no,
perché si tratta di fatti di dimensione individuale e limitata. Quindi il giudice potrebbe compiere
l'accertamento ma la legge lo impedisce , es. vendita di medicinali in quantità diversa da quella
pattuita-> qui il giudice potrebbe andare a vedere se il tipo di medicinale realmente crea pericolo ,
invece non può farlo -> art 445 del Codice penale , questo effettivamente è un reato di pericolo
presunto, cioè si potrebbe verificare , ma la legge non lo consente.

Invece, IL PERICOLO ASTRATTO è quel pericolo che per la sua tipologia e per le sue caratteristiche,
non consente un accertamento caso per caso, rispetto al quale è inevitabile che il legislatore si
serve di una generalizzazione , punendo fatti i quali sono dotati normalmente di generali
caratteristiche di pericolo.

Qualcuno parla di fattispecie PREGNANTI, per esempio nel nostro ordinamento , contro l'incolumità
pubblica : frana, inondazione, valanga-> chi cagiona un'inondazione , non possiamo pensare di
punire soltanto quando una persona è rimasta travolta perché si è rotta una diga del fiume , per
punire un fatto del genere non possiamo aspettare di valutare se c'era qualcuno cha stava passando
di lì.

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Normalmente provocare una valanga è un fatto che in sé stesso e senza aver bisogno di ulteriori e
specifici accertamenti di lesioni ha già delle connotazioni di pericolosità, tale da giustificare la
punizione; si determina un pericolo, quando il fatto ha queste caratteristiche, che è già in se stesso
intollerabile per l'ordinamento giuridico e per la società, non si può lasciare impunito uno che
provoca un'inondazione, una valanga o una frana.

Quale deve essere il modo per evitare che siano puniti fatti che effettivamente non avevano
nessuna connotazione offensiva pur rispondendo alla descrizione della legge? Ancora una volta,
interpretare la norma di legge in modo che l'incriminazione sia compatibile con il principio di
offensività, e cioè leggendo non le espressioni della legge, ma dando alle parole della legge quel
senso che la fattispecie di pericolo astratto richiede e quindi facendo sì che il fatto, inteso in un
certo modo, sia inevitabilmente dotato di caratteristiche di pericolosità. Es-> esempio tratto da un
libro di un tedesco del 900, il quale dice se uno fa esplodere una bomba in un vicolo abitato o in un
ristorante frequentato, è punibile anche se per puro caso in questi posti non c'era nessuno. Se noi
dovessimo dire che non è punibile, che si tratta di un pericolo finto, perché nel ristorante in quel
momento non si trovava nessuno, allora dovremmo dire che è punibile soltanto se c'era qualche
persona dentro il ristorante; però anche in questo caso, se la bomba è esplosa in un angolo del
ristorante e le persone si trovavano in un altro angolo, è possibile che queste persone non siano nel
raggio esplosivo e quindi non siano state esposte al pericolo. Ma se andiamo avanti su questa linea,
cioè alla ricerca di elementi di concretezza sempre maggiori, dobbiamo dire che anche le persone
che stavano nel raggio di esplosione della bomba non sono state esposte a pericolo, se non erano
nella traiettoria dei frammenti esplosivi della bomba. Così andando avanti e avanti alla ricerca di
una sempre maggiore concretezza, dovremmo arrivati alla conclusione che c'è stato pericolo solo
quando effettivamente qualcuno ha subito un danno ed è stato colpito; così però capovolgiamo il
concetto stesso di pericolo, quindi non si può pretendere il massimo della concretezza possibile, ma
si può pretendere che il giudice non faccia un’interpretazione letterale, ma interpreti le norme di
legge alla luce del principio di offensività e faccia un'interpretazione teleologica , cioè alla luce del
bene giuridico protetto, es. il bene protetto dal delitto contro l'incendio è l'incolumità pubblica.
Allora, in questo caso la Cassazione dice che incendio non è qualsiasi appiccamento di fuoco,
appiccare il fuoco vuol dire accenderlo anche in un posto dove il fuoco resta bloccato e non può
andare in nessun’altra parte, questo non un incendio, perché un fatto per la legge penale ,ai sensi
dell'art423 comma1 , sia qualificato per vastità delle dimensioni, difficoltà di spegnimento, facilità di
propagazione; se effettivamente un fatto possiede queste caratteristiche è evidente che è già
sufficientemente pericoloso per essere punito: un fuoco di vaste dimensioni, difficile da spegnere e
che si propaga facilmente è ovvio che crea un pericolo inaccettabile per la pace sociale e
sicuramente un fatto del genere merita una punizione!

La stessa cosa si può dire per un'inondazione, se io rompo un canale di irrigazione e allago un
campetto, questa non è un'inondazione; oppure una valanga non è tale solo se sposto 3 metri cubi
di neve! Dobbiamo dare a queste espressioni della legge un significato tale che ci consenta di
trovare un'offensività in ciascuno di questi fatti , non dobbiamo pretendere di individuare una
singola persona che di volta in volta sia stata raggiunta dal pericolo. È sufficiente per rendere
compatibile con i principi costituzionali, che ci siano questi indici generali di pericolosità, più che
sufficienti per punire il fatto!

211
Il pericolo astratto però incontra un limite, in questo senso, e cioè che il fatto temuto sia possibile,
se il fatto non è possibile non ci potrà essere il rato in questione, es.-> omettere o togliere impianti
antiinfortunistici in luoghi di lavoro. La rimozione di questi impianti è un reato di pericolo astretto,
perché senza essi i lavoratori potrebbero subire danni; allora non dobbiamo aspettare che qualcuno
si faccia male per punire chi rimuove gli impianti, ma è più che sufficiente e logico punire chi
rimuove gli impianti anche se non è successo niente.

Però vi è questo limite che ci deve essere sempre la possibilità che il danno si verifichi!

Supponiamo ,invece, che gli impianti fossero stati rimossi, per sostituirli con altri e che durante
questo pericolo di tempo la lavorazione fosse sospesa, proprio per consentire la sostituzione degli
impianti; oppure si approfitti del periodo di ferie per cambiare gli impianti , cioè che il fatto si sia
verificato in una situazione in cui nessuno poteva essere messo in pericolo. In questo caso, la
semplice rimozione degli impianti antiinfortunistici non sarebbe punibile perché mancherebbe
l'indice di pericolosità che la legge richiede.

Quindi, le fattispecie di pericolo astratto non sono incompatibili con il principio costituzionale di
offensività ed è sufficiente per punire legittimamente che il fatto sia dotato di generali
caratteristiche di pericolosità che lo rendono normalmente e solitamente capace di rendere danno
a qualcuno, senza dover caso per caso accertare che effettivamente un soggetto sia rimasto
coinvolto nel fatto.

Con due accorgimenti, di cui abbiamo appena parlato, cioè si devono interpretare le fattispecie di
pericolo astratto in modo tale da individuare nella descrizione della legge quegli indici che rendono
il fatto meritevole di punizione e non si può punire quando l'eventuale danno temuto fosse
impossibile per diverse ragioni. Detto tutto ciò , si può ritenere che le fattispecie di pericolo astratto
siano conformi al principio costituzionale di offensività.

(Sul testo del Pagliaro, questo argomento è impostato in modo diverso)-> di fronte al problema se
sia compatibile con il principio di offensività il ricorso a fattispecie di pericolo astrati, Pagliaro
sviluppa questo argomento: ci sono reati di pericolo astratto per i quali ci si chiede se siano legittimi
dal punto di vista costituzionale e reati di pericolo concreto che si ritengono compatibili con il
principio costituzionale, ma ci sono anche reati di danno concreto e astratto, per i quali nessuno si è
mai posto il problema se i reati di danno astratto siano o no punibili.

Così che non c'è ragione di mettere indubbio la legittimazione costituzionale dei reati di pericolo
astratto perché come non si mette in dubbio la legittimità costituzionale dei reati di danno astratto,
allo stesso modo bisogna considerare legittimi i reati di pericolo astratto; in entrambi i casi, è il
legislatore che stabilisce cosa sia pericoloso e cosa sia dannoso, non il giudice attraverso l'esame
concreto della situazione. Mentre nei reati di danno concreto e pericolo concreto è il giudice che
deve effettivamente accertare l'esistenza di un danno o di un pericolo, nei reati di danno o pericolo
astratto è la legge che stabilisce se un fatto è astrattamente dannoso o astrattamente pericoloso.

Quali sarebbero questi reati di danno astratto e concreto?

212
I reati di danno concreto sono , e qui Pagliare si rifà a quel concetto secondo il quale normalmente
si ritiene che la distinzione tra pericolo astratto e pericolo concreto dipenda dal fatto che si intenda
un pericolo espresso nella fattispecie incriminatrice, attraverso le parole del testo di legge:
chiunque incendi una cosa, se dal fatto deriva pericolo per l'incolumità pubblica; perché la
fattispecie sia di pericolo concreto dobbiamo trovare la parola PERICOLO e espressioni di questo
tipo.

La stessa cosa, dice Pagliaro, si verifica con i reati di danno, cioè in certi casi la legge richiede
espressamente che ci sia un danno, per esempio nella truffa l'art 640 dice "Chiunque con artificio
raggiri inducendo taluni in errore , procura a sé o ad altri un ingiusto profitto con altrui danno è
punito con..." > quindi si richiede espressamente un danno! Questa è la fattispecie di danno
concreto , perché il giudice deve accertare effettivamente che ci sia stato un danno.

La maggior parte delle fattispecie di danno non menzione tra i requisiti del fatto il danno con parole
, per esempio nel furto non si parla di danno, se uno si impossessa della cosa mobile è punito, non
bisogna accertare che questo fatto abbia costituito o abbia recato danno a qualcuno, ma è un
danno presunto dalla legge.

Allora, dice Pagliaro, perché porsi il problema? Nei reati di danno astratto è il legislatore che giudica
quel fatto dannoso senza esigere che il giudice vada a verificare di volta in volta; nei reati di pericolo
astratto è il legislatore che giudica quel fatto pericoloso senza esigere che il giudice vada a
verificare il fatto di volta in volta.

Dunque si fa un parallelismo per giustificare l'esistenza e la compatibilità con il principio


costituzionale di offensività delle fattispecie di pericolo astratto, per le quali concretamente nella
dottrina italiana si è posto il problema della compatibilità con i principi costituzionali, per
giustificare la legittimità costituzionale delle fattispecie di pericolo concreto, Pagliaro fa un
confronto con le fattispecie di danno e dice che le fattispecie di danno astratto, così come quelle di
pericolo astratto, sono quelle delle quali non figura la parola DANNO tra gli elementi della
fattispecie; mentre sono fattispecie di pericolo concreto quelle in cui vi è la parola PERICOLO e altre
parole simili. Secondo Pagliaro, la stessa distinzione si deve fare per i reati di danno: sono reati di
danno concreto quelli in cui la legge richiede che ci sia un danno e il giudice accerti tale danno; negli
altri casi non c'è questa parola DANNO o parole del genere e quindi si tratta di reati di danno
astratto.

Pagliaro dice che nessuno si è mai posto il problema se il furto, che è un reato di danno astratto, sia
compatibile con i principi costituzionali, il giudice non deve andare a vedere che l'impossessamento
della cosa altrui abbia provocato danno, il furto è punito perché è ritenuto dannoso dal legislatore ,
osserva così Pagliaro che allo stesso modo anche i fatti pericolosi, i reati di pericolo astratto sono
puniti dalla legge perché il legislatore considera pericoloso quel determinato comportamento.

213
Osservazione del prof-> questo argomento non è del tutto convincente perché quando si parla di
danno in realtà si sta parlando di quella offesa al bene giuridico che è effettivamente una
valutazione rimessa al legislatore, un certo comportamento è incompatibile con la tutela del bene
giuridico perché reca un danno al bene stesso. Invece, quando si tratta di pericolo, il legislatore non
ha la stessa libertà nel valutare se un fatto vada considerato pericoloso oppure no; mentre il
legislatore è libero relativamente di considerare un fatto dannoso per la società , non è ugualmente
libero di considerare un fatto pericoloso perché mentre il concetto di offesa è un concetto
esclusivamente valutativo e quindi è il legislatore che valuta, il concetto di pericolo è in parte
valutativo ma in parte empirico, cioè risponde ad un fatto da accertare, ovvero in una data
situazione c'è la possibilità che si verifichi un'altra situazione, questo è il concetto di pericolo! Il
legislatore su questo, non può intervenire con assoluta discrezionalità, perché da certe premesse
non è possibile logicamente che derivino certe conseguenze. Quindi si tratta di un giudizio
relativamente condizionato, il legislatore non ha un campo assolutamente aperto ma deve tenere
conto del dato empirico della realtà, per cui certe cose possono provocare un certo danno e altre
no , quindi il suo giudizio è limitato e condizionato, e quello che non si può fare è superare una
valutazione di questo genere e considerare pericolose certe condizioni rispetto ad un possibile
danno contro la logica delle cose stesse; a differenza che nella valutazione puramente di politica
criminale sulla inaccettabilità di quei fatti di danno astratto.

DISTINZIONE TRA DELITTI E CONTRAVVENZIONI

Il reato può presentarsi come DELITTO O CONTRAVVENZIONE, non ci sono più crimini.

LE CONTRAVVENZIONI corrispondono a quelli che all'inizio dell'800 erano illeciti di polizia, cioè
amministrativi, non reati, ed erano disciplinati al di fuori dei codici penali. I codici penali
prevedevano soltanto i più gravi reati. Tuttavia si prese atto che configurare certi comportamenti
come illeciti di polizia, limitava di più il diritto e le garanzie dei cittadini che non considerarlo reato,
perché rispetto agli illeciti di polizia, in quanto illeciti amministrativi, l'illecito viene accertato, le
sanzioni vengono inflitte con discrezionalità dall'autorità amministrativa al di fuori del processo
penale, con un procedimento amministrativo che non offre al soggetto che subisce la sanzione le
stesse garanzie che invece offre il diritto penale con tutti i suoi principi e il processo penale con
tutte le sue regole.

Quindi, il cittadino è più garantito se un certo fatto costituisce reato piuttosto che un illecito
amministrativo. Infatti, quando il legislatore nel 1981 con la legge 689 ha voluto introdurre l'illecito
amministrativo, ha dettato regole che sono molto uguali a quelle del diritto penale.

Quelli che erano gli illeciti di polizia sono stati introdotti nel Codice e sono andati a costituire le
CONTRAVVENZIONI , questa è la loro origine storica!

Dopo di che si cerca, così come per il reato in genere, per le contravvenzioni in particolare si cerca
di trovare degli indici più sostanziali che li caratterizzino e le contraddistinguono dai delitti e allora si
dice che i delitti sono più gravi e le contravvenzioni sono meno gravi, ma questo non è sempre vero,
es-> nel 2002 il legislatore penale ha trasformato il delitto di falso bilancio che era previsto nel
codice civile in una contravvenzione però punita più severamente di alcuni delitti,

214
con fino a 2 anni di arresto, e poi caratterizzata da una serie di elementi costitutivi del fatto che
indicavano una notevolissima gravità del fatto, perché occorreva che i bilanci con l'intenzione di
trarre in inganno i soci e il pubblico e gli amministratori esponesso dati falsi , idonei a trarre in
errore i destinatari dei dati, al fine di trarre profitto e quando queste falsità superavano certe soglie
di rilevanza , erano considerati fatti particolarmente gravi, tanto che Massimo Domini ha pensato di
costruire un' espressione "Contravvenzione delittuosa" , questa espressione ovviamente non si
regge giuridicamente, ma indica che è una contravvenzione che però ha delle caratteristiche del
delitto.

Quindi non è sempre vero che le contravvenzioni sono sempre meno gravi! Anche perché il codice
ancora per ceti delitti si limita a prevedere solo delle sanzioni pecuniarie , quindi una pena meno
grave dell'arresto.

Un'altra proposta di distinzione è che i Delitti sarebbero "mala in sé " , e le Contravvenzioni "mala
quia prohibita", cioè i primi sarebbero in se stessi un male e gli altri sarebbero un male soltanto in
quanto il legislatore ha ritenuto di doverli punire. Questa distinzione ricrea un po’ quella tra Delitti
Naturali e Delitti di pura creazione legislativa , quest'ultimi sarebbero quei fatti che vengono puniti
perché il legislatore ritiene di punire quel determinato comportamento!

Anche questa distinzione non corrisponde necessariamente alla realtà, per esempio tra le
contravvenzioni ci sono dei fatti pericolosi che offendono beni giuridici importanti , e anche qui si
può dire che ci sia una naturale necessità di punire questi fatti.

Infine, secondo Rocco le contravvenzioni tutelavano interessi amministrativi dello Stato.

Quella circolare della Presidenza del Consiglio dei Ministri del 1986 che ha dettato i criteri per
distinguere i delitti dalle contravvenzioni, rivolta agli uffici legislativi e ai ministeri nel momento in
cui formulano proposte di legge; questa circolare ha ritenuto che la funzione delle contravvenzioni
sarebbe quella di dettare regole aventi natura preventivo/cautelare e richiedono di non tenere
comportamenti in assenza di autorizzazioni amministrative.

Secondo l'orientamento in questione, questa caratteristica sarebbe propria delle contravvenzioni.

Ancora una volta però , l'unico vero modo sicuro per distinguere delitti e contravvenzioni è quello di
vedere la sanzione prevista per ciascuno dei due gruppi -> l'art 17 stabilisce che le pene previste per
i delitti sono: l'ergastolo, la reclusione e la multa; le pene previste per le contravvenzioni sono:
arresto e ammenda.

Quindi se un certo fatto è sanzionato con l'arresto o con l'ammenda vuol dire che si tratta di una
contravvenzione e non di un delitto.

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DISTINZIONE PRATICA TRA DELITTI E CONTRAVVENZIONI -> Ci sono delle differenze di disciplina, e
cioè le principali sono :

1- Mentre per i delitti l'art 42 stabilisce che la regola è che siano puniti se commessi con dolo e che
per la punibilità a titolo di colpa è necessaria un'espressa distinta previsione da parte della legge :
omicidio doloso- omicidio colposo; invece le contravvenzioni sono normalmente punite
indifferentemente a titolo di dolo o a titolo di colpa , significa che possono essere commesse o con
dolo o con colpa è il giudice che dovrà valutare la situazione , se non vi è né dolo né colpa allora non
potrà essere punibile.

In certi casi, la stessa struttura della contravvenzione impedisce che sia commessa con colpa,
perché la legge richiede un elemento soggettivo tipicamente doloso, ad esempio nel falso bilancio si
richiede che il soggetto che abbia commesso il fatto, abbia agito intenzionalmente .

2-TENTATIVO->ART56 " Chiunque commette atti idonei diretti in modo non equivoco a commettere
un delitto."

Il tentativo è punibile soltanto per i delitti, non è punibile il tentativo delle contravvenzioni , visto
che esse sono considerate dei reati meno gravi.

Infine, ci sono ancora regole particolari che riguardano la professionalità e abitualità nel reato ->art
104 .

Altra differenza riguarda la prescrizione : per le contravvenzioni che in linea generale matura in 4
anni; per i delitti la prescrizione si compie con il passare del tempo pari al massimo della pena
prevista dalla legge . Questo è diverso da quello che c'è scritto nel libro , perché questo sistema è
stato modificato nel 2005, nel libro in tema di prescrizione troviamo un tempo per fasce, cioè se la
legge prevede la reclusione da tot a tot, la prescrizione si matura in tanti anni e così via. Invece, oggi
il sistema è sempre uguale, e cioè la prescrizione matura nel tempo uguale al massimo della pena
prevista dalla legge per quel reato. Comunque, per le contravvenzioni è sempre di 4 anni.

Infine, le contravvenzioni possono essere estinte dall'oblazione che sarebbe il pagamento di una
somma di denaro , questo però soltanto se è prevista la pena dell'ammenda; se è prevista
congiuntamente la pena dell'ammenda e dell'arresto ,l'art 162 bis prevede la possibilità di
estinguere il reato con un'oblazione ma con aggiunte.

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04/03/2019
Vi sono Diverse definizioni di reato cominciando da quelle sostanziali, che cercano di cogliere un
carattere oggettivo del medesimo in base a criteri diversi… una prima nozione orientata verso il
giusnaturalismo, sostiene che il reato è la grave violazione delle regole appartenenti alla legge
morale, o meglio naturale nella prospettiva del giusnaturalismo. Questa nozione non è accolta per
intero, perché ci sono reati che non corrispondono a questa idea che di fatti non offendono
l’ordine morale come alcuni reati tributari o quelli che attengono allo svolgimento di alcune attività
senza le prescritte autorizzazioni da parte della pubblica amministrazione, qui vi è una giuridica
regolamentazione di certi fenomeni ma non una violazione della legge naturale. Però questa
accezione di reato in fondo ci orienta verso una riduzione degli illeciti penali a quei fatti gravi che
urtano contro un’ esigenza diffusa della collettività… infatti, anche da questa prospettiva si
osservano le leggi di depenalizzazione, volte a cancellare reati ritenendo che non siano fatti così
gravi da meritare la più grave delle sanzioni di cui l’ordinamento giuridico dispone. Per altro verso,
occorre ricordare La stessa Corte Costituzionale con la sentenza 364 del 1988 che ha provveduto a
una lunga ampia approfondita ricostruzione dell’illecito penale e dei rapporti stato cittadino, nel
riconoscere che in certi casi l’errore circa la legge penale è scusabile, ( e quindi scusa nonostante
ciò che l’art 5 dispone, che stabilisce nessuno può invocare l’ignoranza delle legge penale ) ha
statuito che questa ignoranza scusabile sia inevitabile, indicandone le ragioni ma nel fare questo la
stessa corte ha detto che questa ignoranza scusabile in quanto inevitabile può riferirsi a quei reati
di mera creazione legislativa in contrapposizione a quei delitti che la corte chiama naturali… ovvero
ci sono delitti che la coscienza di chiunque percepisce come tali, perché offendono dei beni che la
comune percezione di ogni cittadino, avverte come primari e meritevoli di assoluta tutela come i
delitti di omicidio ,rapina, violenza sessuale etc... per i quali nessuno può dire commetto violenza
sessuale ma non sapevo fosse reato. Si fa riferimento a una regola naturale per la quale non si può
vivere insieme, se uno va rubando le cose degli altri o commette violenza sessuale su terzi. Quindi
non possiamo accogliere per intero ed esclusivamente la nozione formale del reato, data dal
riferimento alla legge naturale ma essa comunque ci dice qualcosa di utile, che i reati devono
essere ristretti e che vi è uno zoccolo duro di illeciti puniti in tutte le legislazioni senza differenze.
Altra Nozione è quella sociologica di reato… il reato è un fatto disfunzionale rispetto alla vita
sociale, e questa disfunzionalità va valutata su parametri precisi che la sociologia individua, ci sono
infatti comportamenti funzionali o disfunzionali alla vita collettiva. Abbiamo osservato che un simile
concetto ha aspetti positivi e negativi, ma non corrisponde in pieno a ciò che nel nostro
ordinamento è punito con la reclusione, poiché qui ci sono comportamenti che il legislatore ritiene
di punire ma non si può dire siano contrari a una vita sociale. Basandosi su un canone di funzionalità
o disfunzionalità sociale, si potrebbero lasciare impuniti fatti che non ostacolano la vita sociale ma
che comunque devono essere tutelati come la vita di soggetti “inutili” come il disabile o l’anziano
malato o soggetti socialmente pericolosi come il mafioso incallito che non ha intenzione di pentirsi.
Si potrebbe dire che Eliminare questi soggetti non crea disturbo alla collettività forse in qualche
caso stabilizza situazioni sociali ma non si può ammettere che uno uccida un mafioso solo perché
pericolosissimo quindi c’è discrepanza tra parametro di pura funzionalità e un parametro di
punibilità.

217
Inoltre, Ci sono valori che l’ordinamento vuole tutelare, infatti si discute della punibilità del
favoreggiamento della prostituzione, se uno vuole prostituirsi perché si deve punire chi consente
ciò e attualmente se ci atteniamo al diritto positivo sebbene faccia parte della vita corrente, la
prostituzione, per l’ordinamento il fatto di aiutare qualcuno integra un disvalore ( si integra infatti
un reato).
Ci sono quindi certi valori che sono tutelati anche se non sia del tutto disfunzionale alla vita sociale
questo tipo di comportamento. Ma è vero che Il richiamo che già gli illuministi sottolineavano alla
dannosità sociale è fondamentale, perché non si può punire un fatto poiché semplicemente
immorale a meno che non sia socialmente intollerabile e creare un disturbo per le condizioni della
vita sociale. Quindi non è la sociologia a poterci indicare quali siano questi fatti ma occorre il filtro
della legge penale, di una scelta ponderata che nei casi di confine scelga appunto che un certo fatto
debba essere ritenuto intollerabile con una convivenza pacifica oppure no. In conclusione, la
nozione fondamentale di reato deve essere formale, in base alle sanzioni che l’ordinamento
giuridico collega al compimento di una certa condotta, infatti è punito con certe sanzioni chi fa
qualcosa e questo è l’illecito penale, le sanzioni sono di fatto quelle previste dal Codice penale
all’art 17 che distingue i delitti e le contravvenzioni. I delitti sono quei fatti per cui l’ordinamento
giuridico prevede ergastolo, reclusione o multa, mentre le contravvenzioni ricomprendono fatti per
i quali si prevede arresto o ammenda. Non è scritto da nessuna parte nel testo di legge, questo è
un delitto bensì è una conclusione che si fa collegando l’art 17 che stabilisce le pene principali
previste per i delitti cioè reclusione, ergastolo e multa e questo disposto dell’art 17 riferito alle
13.000 forme di reato del nostro ordinamento che ci fa dire se quel certo fatto è un delitto oppure
no e lo stesso vale per le contravvenzioni.
La disciplina per delitti e contravvenzioni è diversa, infatti per i delitti è regola stabilita dall’art 42
del cod. penale che sia punibile soltanto la forma dolosa a meno che la legge penale espressamente
non preveda anche la punibilità della forma colposa. Così che il legislatore qualora voglia punire
dinanzi ai beni di maggiore importanza, anche le condotte colpose e non solo quelle volontarie, lo
fa indicando chi è punito per colpa quel fatto. Nell’incendio, art 423, vi è la descrizione del fatto
(chiunque cagioni un incendio è punito ) e la regola nell’art 42 è il fatto sia doloso dopodiché in un
altro articolo che viene subito dopo ( il prof non dice esattamente quale ) il legislatore dice che è
punito anche chi commette per colpa uno dei fatti espressamente previsti, sapendo dunque che
chiunque cagioni per colpa un incendio è punito con la reclusione da 1 a 5 anni e le legge deve
prevedere la punibilità di quel fatto che sia commesso con colpa e non con dolo. Stessa cosa per
omicidio, chiunque cagioni la morte di un uomo si intende con dolo mentre poi viene punito anche
l’omicidio colposo. Un importante differenza è che Per i delitti sono rilevanti se commessi con colpa
solo se la legge lo prevede mentre per le contravvenzioni la legge non stabilisce nulla e il solito art
42 stabilisce che sono indifferentemente puniti i fatti se commessi con dolo o colpa… occorre
comunque che il giudice accerti l’elemento psicologico. Altra differenza è Per le contravvenzioni
non è punibile il tentativo, esiste il delitto tentato e non la contravvenzione tentata che non è
nemmeno penalmente rilevante. L’oblazione estingue solo le contravvenzioni e non i delitti.
Un'altra differenza sta nella prescrizione, le contravvenzioni si prescrivono in 4 anni a prescindere
dalla pena, mentre per i delitti ci sono regole diverse, cioè non meno di sei anni qualunque sia la
pena prevista e se la legge prevede una pena superiore, i delitti si prescrivono in un tempo pari al
massimo della pena che di volta in volta la legge prevede per ciascun reato.

218
Ci sono contravvenzioni più gravi di certi delitti, per il reato di falso in bilancio tra il 2001 e 2015,
disciplinato come contravvenzione, si osservò che era un assurdo, poiché si trattava di fatti gravi
che il legislatore aveva disciplinato come contravvenzione, coniando il termine di contravvenzione
delittuosa senza acquisire però un netto senso giuridico, ma tanto per dire che per la legge si
trattava di contravvenzione ma che l’essenza dei fatti per la loro gravità avrebbe richiesto una
diversa disciplina venendo trattati come delitti.
Si è inoltre sostenuto che il reato dovesse essere offesa a un bene giuridico di rilevanza
costituzionale esplicita( tesi di Bricola) a questa osservazione subito la dottrina, Federico stella ha
fatto notare che la costituzione non menziona beni e che pure sono meritevoli di tutela penale ad
esempio l’ambiente o il software per il fatto che queste istanze ( software) non esistevano nel 48 ai
tempi della costituzione, quindi ci sono beni di tutela penale che però la costituzione non
menziona. Bricola disse che la rilevanza costituzionale debba essere almeno implicita, ma si osservò
che la costituzione almeno implicitamente può tutelare una serie di beni e valori e quindi non ha più
un carattere vincolante questo riferimento. La conclusione di questo dibattito è che, primo non si
possono tutelare interessi contrari alla costituzione, non ci possono essere norme penali che
statuiscano una discriminazione razziale e dall’altro il legislatore, ha davanti a sé un quadro di
valori delineato dalla costituzione e a quello deve attenersi conformandosi il più possibile e di
orientarsi secondo quel quadro costituzionale di beni e valori indicati dalle norme della carta
fondamentale.
Il Reato di danno è visto come danno, come offesa definitiva al bene giuridico protetto, ciò vale
anche per quei beni che per la loro natura sono complessi e poi rispandersi assumendo l’originaria
fisionomia. Il sequestro di persona è reato di danno anche se il soggetto poi acquista la libertà, non
è come la vita che se ne viene privata non c’è nulla da fare. Mentre i reati di pericolo creano la
probabilità del verificarsi di un danno e qui emerge il problema della legittimità costituzionale dei
reati di pericolo astratto, proprio perché pericolo astratto è possibile che un fatto che corrisponde
alla fattispecie di pericolo astratto può darsi che non provochi pericolo per nessuno, Quindi non ci
sia stata alcuna offesa per il bene giuridico perché il concetto di offesa al bene giuridico può
presentarsi nelle due forme di danno e pericolo. Danno e pericolo sono le due forme di offesa al
bene giuridico protetto, e non è vero i delitti di pericolo astratto per principio siano contrari al
carattere di offensività che connota il reato perché se il legislatore ha descritto il fatto in un certo
modo, questo fatto è connotato da note di pericolosità più che sufficienti dal punto di vista della
punibilità, l’interprete deve individuare in ciascun fatto di reato questi caratteri, dando
un’interpretazione della legge penale non formalistica, ma che tenga conto della realtà sostanziale
che il legislatore aveva inteso punire. Nel caso del delitto di incendio ( reato di pericolo astratto), la
legge punisce chiunque cagioni un incendio con una pena che prevede una reclusione da 3 a 7 anni
molto di più del delitto di danneggiamento, che in quanto tale è stato addirittura depenalizzato.
Chiedendosi il perché l’incendio sia punito così gravemente, essendo tra i reati contro la pubblica
incolumità quindi la collocazione, il livello della sanzione, orientano l’interprete nel dire che
l’incendio non è qualsiasi caso in cui un soggetto accende un fuoco che non reca danno a nessuno
ma è un fatto secondo la cassazione, caratterizzato dalla facilità di propagazione e la difficoltà dello
spegnimento, il fuoco con queste caratteristiche provoca sicuramente un pericolo per l’incolumità
pubblica.

219
Quanto il Soggetto attivo del reato, è colui che lo compie, avevamo già osservato che è opportuno
distinguere tra soggetto del fatto e soggetto dell’illecito, il primo figura nella norma penale
incriminatrice con qualsiasi ruolo, il secondo è responsabile del reato cui l’ordinamento giuridico
chiama a rispondere attribuendogli il fatto illecito. Non tutti coloro che figurano nella fattispecie
prevista dalla legge penale sono chiamati a rispondere del fatto commesso. Ad esempio, la
concussione, il pubblico ufficiale abusando dei suoi poteri, costringe taluno a dare denaro quindi ci
sono due persone, l’una il pubblico ufficiale che costringe e l’altra chiunque che dà, ma per aversi
concussione occorre il comportamento del soggetto concusso che dà per l’appunto il denaro. Però,
intuitivamente soltanto il pubblico ufficiale viene punito in questo caso perché l’altro costretto a
dare è la vittima del reato e quindi il suo aver dato non è un fatto di cui rispondere penalmente.
Allora questa situazione la si può indicare dicendo che c’è un soggetto dell’illecito cioè il pubblico
ufficiale il quale ovviamente è anche il soggetto del fatto, perché figura nella norma penale
incriminatrice, compiendo una certa condotta ed è chiamato a risponderne penalmente, in quanto
soggetto dell’illecito ed è a lui che l’ordinamento attribuisce il reato e al quale rivolge il rimprovero.
Il concusso invece non è punito perché per l’appunto non è l’autore dal reato ma solo la vittima.

Quanto ai delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione, è utile riguardo a questo
argomento tenere conto di tre diversi reati, uno è la concussione in cui il pubblico ufficiale costringe
il privato che è vittima del reato, l’altro è la corruzione che si distingue in attiva e passiva.
Corruzione attiva è il comportamento di chi offre e promette al pubblico ufficiale denaro,
corruzione passiva invece è il comportamento di chi trattiene il medesimo. Sono punite entrambe le
modalità di corruzione. La Giurisprudenza sostiene che a differenza della concussione, nella
corruzione, ci sia una parità di posizioni, non c’è il predominio del pubblico ufficiale che schiaccia il
privato, i due si mettono d’accordo ma contrattano su posizioni paritarie per ottenere un risultato,
il pubblico ufficiale di farsi pagare, il privato per ottenere qualcosa che altrimenti non potrebbe
avere. Per questi due reati si pensi se si tratti di un unico reato a struttura plurisoggettiva cioè
entrambi i soggetti siano soggetti dell’illecito o se al contrario si tratti di due distinti reati uno
corruzione attiva l’altro corruzione passiva. La domanda non è causale poiché. Il legislatore prevede
due distinte disposizioni, nell’art 318 e 19 il comportamento del pubblico ufficiale cioè corruzione
passiva e nell’art 321 la punibilità del corruttore, ovvero la corruzione attiva. Così nasce la
domanda… sono due distinti reati? In realtà è preferibile la tesi che si tratti di due reati distinti
dove però se non fosse prevista dalla legge la punibilità di entrambi, se non ci fosse quell’art 321
che punisce il corruttore cioè il privato, sicuramente il privato potrebbe rispondere a titolo di
concorso di persone nel reato del pubblico ufficiale. Il privato, cioè anche se non esistesse l’art 321,
dovrebbe rispondere per aver provocato il fatto del pubblico ufficiale, che accetta il denaro
offrendoglielo come un’istigazione del privato al pubblico ufficiale di ricevere il denaro. In realtà il
privato non risponde a titolo di concorso perché vi è norma speciale che prevede il suo fatto l’art
321, se non ci fosse dovrebbe rispondere a titolo di concorso. Abbiamo distinto due figure
antitetiche, uno è la concussione in cui il privato non è punibile, l’altra la corruzione in cui il privato
è sicuro punibile, perché vi è l’art 321 e lo sarebbe anche se non ci fosse l’art 321 per istigazione nei
riguardi DEL PUBBLICO UFFICIALE.

220
Vi è poi una terza figura di reato intermedia quale l’induzione indebita a dare denaro che è una
sorta di concussione meno forte che di avvicina alla corruzione ,ove il pubblico ufficiale non
costringe il privato come nella concussione ma induce… ( art 319 quater), questa differenza ha
messo in difficoltà giurisprudenza e dottrina per capire la differenza tra costringere e indurre. La
differenza principale è che questo reato prevede punibilità del privato, Il privato indotto a dare
denaro è punibile, ma perché punirlo dato che è stato indotto a dare denaro ?. Ma se il pubblico
ufficiale lo ha indotto a dare denaro perché punire il privato? però intanto la giurisprudenza, ha
detto che è necessario che il privato si sia avvantaggiato nel dare il denaro. Questa figura di reato è
apparentata con la corruzione, essa è un contratto(io ti do qualcosa, tu qualcos’altro) nell’induzione
indebita invece, il pubblico ufficiale abusa dei suoi poteri ma il privato si avvantaggia quindi lo
puniamo. L’illustrazione di Questi tre reati servono per farci capire la distinzione tra il soggetto del
fatto e il soggetto dell’illecito. Cioè Chi ci dice però se questo privato che si presenta in questi tipi
di reato, debba essere punito oppure no? Ce lo dice in due di questi casi la legge, corruzione art
321 e induzione indebita art 319n quater. Però, perché nell’induzione indebita il privato indotto a
dare denaro è punibile mentre nella concussione all’art 317, il privato costretto a dare denaro non è
punibile ?. Ciò ce lo dice la ricostruzione interpretativa delle diverse fattispecie di reato o più
esattamente, nel caso dell’induzione indebita e corruzione ce lo dice la legge, che in entrambi i
delitti è punibile il privato, sia se corruzione e ha agito in situazione di parità col pubblico ufficiale
sia che sia stato indotto. Mentre nel caso sia stato costretto il privato non è punibile, la cassazione
ha osservato che il reato concussione si presenti come plurioffensivo, non solo offende l’andamento
della pubblica amministrazione ma anche l’interesse del privato alla libertà di disposizione ( cioè il
dare oppure no il denaro), quindi il privato è portatore di un interesse che viene offeso dalla
concussione e in quanto tale esso stesso è vittima del reato insieme alla stessa pubblica
amministrazione e perciò non deve essere punito. Quindi il privato in questo caso è soggetto del
fatto ma non dell’illecito perché subisce un danno come offesa del bene giuridico di cui è portatore,
cioè la libertà di disposizione patrimoniale.
In certi casi di violenza sessuale ad esempio, la persona costretta a compiere violenze su un’altra
non è punibile, poiché ha subito l’offesa alla sua libertà sessuale ed è vittima del reato anche se ha
compiuto l’atto di violenza sessuale.
Stando al soggetto attivo del reato ci sono tre questioni, la prima è la responsabilità delle persone
giuridiche, la seconda i limiti della responsabilità del soggetto attivo nell’ambito di un ente pubblico
o privato, e infine la terza, la responsabilità per i cosiddetti reati propri.
Quanto alla capacità giuridica penale, le persone giuridiche non hanno capacità giuridica penale,
non sono punto di imputazione di un illecito penale, infatti si è detto che la persona giuridica non
risponde penalmente, perché non commette azioni, esse come l’uccidere qualcuno lo possono fare
solo gli esseri umani e non gli enti. Ma in vero Le persone giuridiche analogamente potrebbero
commettere un fatto, come un amministratore che corrompe qualcuno. Non potrebbero agire con
colpa perché essa è un elemento psicologico che solo una mente umana può avere, ma a questa
risposta si è detto che la persona giuridica può essere malamente organizzata da rendere possibile
la condotta di soggetti quali amministratori, che possono commettere reato.

221
La caratteristica della pena è come sappiamo l’afflittività ed essa non potrebbe riguardare una
persona giuridica perché essa non può soffrire, però la sanzione penale ha anche una funziona
risocializzatrice e in questo senso con misure la persona giuridica può essere riportata a un alveo di
legalità, con accorgimenti che la orientino verso il rispetto della legge penale.
In questa grande discussione, il legislatore ha introdotto il sistema di responsabilità amministrativa
da reato degli enti che è un sistema a sé di responsabilità che vuole appunto regolare situazioni in
cui rappresentante o amministratore di un ente abbia commesso fatti di reato nell’interesse o nel
vantaggio della persona giuridica. Il legislatore non ha voluto chiamare penale questa responsabilità
e la qualificò come responsabilità amministrativa. Oggi gli enti rispondono per i reati commessi a
loro vantaggio con sanzioni di natura particolare.

222
05/03/2019
Il TESTO UNICO BANCARIO del 1993 , negli articoli 135 e 136 ha previsto che : risponda dei reati
bancari chi svolge funzioni di amministrazione , direzione e controllo degli istituti bancari. Quindi
indipendentemente dalla sua qualifica, l'addetto che si chiami direttore ,preposto o come altri
individuati dalla legge bancaria, è l'esercizio delle funzioni corrispondenti dell'amministrazione che
qualifica il soggetto nell'esercizio di queste. E ancora nel TESTO UNICO SULL'INTERMEDIAZIONE
FINANZIARIA sono riportati gli stessi concetti. La disposizione che più ci interessa al riguardo, è
l'ARTICOLO 2639 del CODICE CIVILE perché qui i reati societari sono stati oggetto di svariate
modifiche soprattutto attraverso il DECRETO LEGISLATIVO 61/2002. Va semplificato un
comprensibile fenomeno e cioè : per inconfessabili ma nuove esigenze politiche si è voluto
procedere ad una riforma dei reati societari, in particolare quelli di FALSO BILANCIO, ancor prima
che fosse completata la riforma del diritto societario. Questa è un'infrazione metodologica inusuale
e non corretta perché evidentemente le norme penalistiche fanno da supporto ad una disciplina
civilistica. Per sistematicità si dovrebbe prima modificare l'assetto civilistico e
contemporaneamente o successivamente quello delle norme penali, invece le norme penali sono
state modificate nel 2002 prima della riforma del diritto societario del 2003. Perché
quest'infrazione? Ho detto per ragioni inconfessabili ma sicure, e cioè per creare uno scudo
attraverso la riforma del delitto di falso bilancio, a chi era stato più volte accusato di falso bilancio,
modificando la fattispecie in senso notevolmente favorevole al reo, tanto che chi appunto era
imputato di falso bilancio poteva sottrarsi alla responsabilità penale, perché la nuova legge aveva
fissato i paletti tali da escludere la responsabilità penale prevista nella legge precedente. Si pensa
che nello specifico quest'infrazione fosse stata fatta a protezione di Berlusconi, allora capo del
Governo, quindi per interessi particolari.

La riforma del diritto societario era già in cantiere perché si sapeva che prima o poi sarebbe stato
emanato un regime diverso; vi ho fatto cenno che nell'amministrazione della società era stato
introdotto con la riforma del diritto societario ,oltre al regime tradizionale dell'amministratore che
accentra in sé tutti i poteri, il regime monistico e quello dualistico , cioè altri due modi diversi di
amministrare, controllare e gestire la società.

Allora, il legislatore penale che sapeva che sarebbe sopravvenuta questa riforma del diritto
societario, delle figure di amministratore eccetera, ha emanato una norma che potesse adattarsi
per l'avvenire ad una riforma successiva del diritto civile e societario. Accogliendo quella nozione
funzionale sostanziale e adattandola alle nuove figure. Vi leggo l'articolo 2639:

"PER I REATI PREVISTI DAL PRESENTE TITOLO , AL SOGGETTO FORMALMENTE INVESTITO DELLA
QUALIFICA, O TITOLARE DELLA FUNZIONE PREVISTA DALLA LEGGE CIVILE, È EQUIPARATO SIA CHI
È TENUTO A SVOLGERE LA STESSA FUNZIONE DIVERSAMENTE QUALIFICATA, SIA CHI ESERCITA IN
MODO CONTINUATIVO E SIGNIFICATIVO I POTERI TIPICI INERENTI ALLA QUALIFICA O ALLA
FUNZIONE".

223
Ci sono 2 parti "SIA - SIA" :

-la prima riguarda proprio la prevista riforma del diritto societario che dice "è equiparato chi è
tenuto a svolgere la stessa funzione diversamente qualificata" cioè non più l'amministratore ai sensi
dell'articolo 2380 del codice civile, ma membro del comitato di gestione per esempio, il quale non si
chiama più amministratore formalmente ma esercita funzioni di amministrazione tra cui la gestione,
oppure "membro del comitato di controllo" , ha un nome diverso dalla denominazione civilistica ma
esercita le stesse funzioni. Quindi lo stesso tipo di funzione o una parte delle funzioni
dell'amministratore diversamente qualificate dal punto di vista dell'amministrazione civile;

-la seconda parte, quella che forse ci interessa ancora di più, è equiparato chi esercita in modo
continuo e significativo i poteri tipici inerenti alla qualifica o alla funzione. Queste aggiunte, "in
modo continuativo o significativo" ci dicono che non basta un atto isolato, unico, santuario
dell'esercizio della funzione, perché viene considerato "amministratore", "direttore" eccetera, chi
esercita in modo continuativo e significativo quindi atti di gestione importanti, le funzioni
corrispondenti. Si adotta la nozione funzionale, agganciandola non alla condizione di mero fatto, ma
al reale svolgimento delle funzioni. Non alla occasionale circostanza che il soggetto avesse
esercitato queste funzioni ma all'esercizio continuativo e significativo di esse.

Rimane tuttavia una flessibilità di queste nozioni, poiché "continuativo" e "significativo" si prestano
a margini non proprio fissi, tassativi. Questo però rappresenta un problema generale del diritto
penale che abbiamo osservato tante volte in cui il legislatore si serve di elementi vari della
fattispecie dove appunto vi è un uso momentaneo della cosa. La modifica dell'articolo 2639 del
Codice civile non ha risolto totalmente i problemi poiché la nozione vale solo per i reati societari di
cui al Codice civile dall'articolo 2621 a 40 . Per tutti gli altri casi, come per esempio la bancarotta o
le leggi fallimentari, e in generale per tutti i reati commessi da soggetti che avessero una certa
modifica non si può far riferimento all'articolo 2639 ma ai concetti che abbiamo esposto, cioè quelle
nozioni che abbiamo indicato, e quindi l'esercizio continuativo e significativo consente di
individuare il soggetto qualificato. La Giurisprudenza penale costante parla senza problemi , per
quanto riguarda i pubblici ufficiali di ESERCIZIO DI FATTO DELLA FUNZIONA PUBBLICA. Noi
sappiamo che questo concetto non dev'essere una pura occasionalità ma deve corrispondere a un
atto di esercizio della funzione pubblica.

In passato voi sapete, che esisteva un solo modello di esercizio della società e che proprio nel 2003
sono stati individuati altri due sistemi: il sistema monistico il sistema dualistico, attraverso il quale le
funzioni, che prima erano accentrate in un unico soggetto, quello dell'amministratore, sono state
ripartite all'interno degli organi. Si individuano nel sistema monistico, funzioni diverse all'interno
dello stesso organo, amministrazione e controllo; oppure nel sistema dualistico organi diversi:
comitato di gestione e comitato di controllo che esercitano le funzioni di amministrazione e di
controllo. La tesi formale civilistica, sostiene che bisogna per stabilire chi sia l'amministratore, far
riferimento agli articoli 2380 e seguenti del Codice civile perché ci consentono di individuare con
assoluta certezza e precisione chi sia il soggetto in questione, quali connotati debba avere,
attraverso quali procedimenti venga designato e nominato.

224
Se invece non ci riferissimo ad altri concetti, le funzioni piuttosto che alla loro posizione formale,
noteremo una estensione della norma penale attraverso un’analogia in mala partem. Spessissimo
nelle società, taluni soggetti pur non essendo formalmente amministratori, esercitano le funzioni di
questi. Si parla di amministratore occulto, che si nasconde dietro la cosiddetta firma del partner,
cioè c’è uno che viene nominato proforma, magari perché l’amministratore occulto non ha i
requisiti quindi non potrebbe fare legalmente l’amministratore, e allora individua qualcuno che
viene qualificato amministratore anche se in realtà chi gestisce la società è un’altra persona (non è
un prestanome). Qual è lo svantaggio di questa posizione che sembrerebbe garantista, poiché vuole
evitare estensioni di responsabilità penale a soggetti che non sono qualificati come amministratori.
L’intento è dunque quello di evitare un’analogia in mala partem a sfavore del reo, considerando
responsabile penalmente persone che non si sanno qualificare. Questa sarebbe l’intenzione, ma
l’inconveniente è enorme. Si potrebbe determinare infatti una totale assenza di responsabilità
perché può essere che in questo modo chi non è formalmente amministratore secondo la legge
civile non risponderebbe. Ma spesso non potrebbe rispondere neppure l’amministratore ufficiale
perché magari non ha fatto nulla , o era all’oscuro di tutto, e non poteva rispondere penalmente.
Dunque, non avrebbe risposto nessuno, e questo era un inconveniente enorme. Per sopperire al
problema , i sostenitori dell’altra teoria, TEORIA FUNZIONALE, che era accolta dalla prevalente
dottrina della Giurisprudenza ritengono che si debba far riferimento all’esercizio effettivo delle
funzioni cioè risponde penalmente chi effettivamente è rivestito delle funzioni corrispondenti a
quelle che la legge penale individua, nell’ambito della società. Risposta all’obbiezione della
precedente teoria: così si fa un’analogia in mala partem perché il soggetto esercita funzioni proprie
dell’amministratore senza esserlo per legge e motivo per il quale non può essere punito. Qui entra
in gioco L’AUTONOMIA DELLE NOZIONI PENALISTICHE RISPETTO A QUELLE CIVILISTICHE e cioè i
sostenitori della teoria funzionale rispondono agli altri : “chi ‘ce lo dice che quando la legge penale
usa la parola amministratore, sia attribuito lo stesso connotato nel codice civile ?” Non è detto! I
concetti del diritto penale si formano autonomamente rispetto a quello civile. E questa è una cosa
sicura, si possono fare molteplici esempi. Nel nostro ambito, dei reati, quando per esempio nel
peculato si parla di possesso non si fa affatto riferimento al possesso designato nel Codice civile, in
cui si attribuisce al possessore il potere di agire per essere reintegrato ed esercitata l’azione di
spoglio, qualora venga privato del possesso, secondo gli ambiti civilistici. Ma quando nel peculato si
dice che il pubblico ufficiale avendo ottenuto per l’esercizio il possesso di beni di altri, la parola
possesso non ha lo stesso significato del Codice civile perché il possesso della cosa mobile,
civilistica, ce l’ha la pubblica amministrazione, come ufficio, non la persona fisica. È la pubblica
amministrazione che può esercitare la reintegrazione e titolare dei poteri del possessore nel Codice
civile. Il pubblico ufficiale, al contrario , si trova in una posizione materiale con la cosa di cui può
disporne , infatti si dice il possesso è la disponibilità, compiere cioè atti di disposizione della cosa.
Anche nel caso dell’amministratore c’è divergenza tra ambito civilistico e penalistico.
Amministratore nell’ambito civile risponde all’esigenza del diritto civile di individuare chi può
svolgere e accentrarsi certi poteri, compiere certe azioni, assumere certi obblighi . Invece
nell’ambito penale si tratta di un soggetto chiamato a rispondere penalmente se commette uno dei
fatti che la legge penale prevede.

225
Per esempio, nei reati societari, contenuti nel Codice civile ma disciplinati da norme penali dagli
articoli 2621 a 2640 del Codice civile. È possibile che la nomina dell’amministratore sia irregolare,
poiché non rispondente ai requisiti del Codice civile, decaduta, occulta, a noi non interessa. In
questo modo :

-non è vero che vi sia analogia in mala partem poiché le due nozioni di amministratore in ambito
civile e penale sono differenti!

-Secondo : si può individuare chi effettivamente è tenuto a rispondere ossia chi ha esercitato le
funzioni di amministratore.

La Giurisprudenza è attestata pacificamente su questa posizione. Nei reati di bancarotta per


esempio, si ammette pacificamente che è tenuto a rispondere del reato l’imprenditore occulto se è
stato lui ad aver gestito i beni. Non si tratta di un puro esercizio di fatto, ma del reale esercizio delle
funzioni corrispondenti di amministrazione, direzione. In questo senso si è progressivamente
orientata anche la legislazione penale e civile. Il primo assaggio in questo senso è la legge 86/1990
con cui si superò la diatriba nozione soggettiva e oggettiva di pubblico ufficiale. La nozione
soggettiva diceva che bisogna guardare al rapporto tra il soggetto e l’ente. Se l’ente era pubblico
allora era un pubblico ufficiale. Se l’ente era privato allora lo era anche il soggetto. Invece la
nozione oggettiva, sosteneva che bisogna guardare alle funzioni esercitate : se un soggetto esercita
una pubblica funzione, questo soggetto indipendentemente dalla natura dell’ente (può essere
anche un ente privatistico che ha in concessione per esempio un’attività ad interesse pubblico)
deve essere considerato un pubblico ufficiale. Questa concezione oggettiva è stata consacrata dalla
riforma del 1990 la quale negli articoli 357 e 358 ha fatto riferimento all’esercizio delle funzioni
pubbliche per individuare la figura di pubblico ufficiale.

226
6/03/2019
I reati propri possono essere commessi soltanto da una persona che abbia determinate qualità.
Il fatto che la legge richieda una certa qualità non è dovuto, come si è detto in passato, alla
intenzione del legislatore di unire la violazione dell’obbligo di fedeltà avrebbe per il fatto di
possedere quelle qualità.
In realtà, non si tratta di questo profilo prevalentemente etico, quanto, piuttosto, il fatto che
soltanto un soggetto qualificato che ha quelle qualità può recare offesa al bene giuridico nel modo
descritto dal reato, perché si trova nella condizione in cui gli è possibile offendere il bene giudico:
soltanto il pubblico ufficiale può recare un danno all’andamento della Pubblica Amministrazione,
perché è lui che esercita l’azione pubblica ed è lui che può far deviare l’attività che esercita verso
altri scopi; mentre un soggetto non qualificato non sarebbe in grado di recarvi offesa, se non ad
altro titolo o altra ragione (ma è comunque diverso). Lo stesso esempio si può fare con il parente:
sono il parente può offendere l’ordine delle relazioni familiari attraverso l’incesto; mentre qualcuno
che non è un parente non ha questa possibilità.
Quindi, la ragione per cui viene richiesta una certa qualità non sta tanto nel fatto che viene punito
più severamente chi violi il dovere di fedeltà, ma piuttosto nel fatto che soltanto un soggetto dotato
di una certa qualità è in grado di recare offesa a quel bene.

I reati dei pubblici ufficiali contro la PA possono essere qualificati come reati propri a struttura
inversa (terminologia proposta da Pagliaro) → normalmente nel reato proprio prima viene la
qualifica del soggetto e, di conseguenza, il fatto illecito (es. reati militari, per poterli commettere
bisogna essere appartenenti alle forze armate); invece, nel caso dei reati contro la PA funziona al
contrario: prima viene il fatto e dal fatto segue la qualifica, perché il fatto comporta sempre un
esercizio distorto di una funzione pubblica ed è da questo esercizio che deriva la qualità di pubblico
ufficiale o incaricato di pubblici servizi, perché, come sancisce il codice dopo la riforma del 1990, è
pacifico che si considera pubblico ufficiale colui che esercita la pubblica funzione. Così, se una
persona, anche solo di fatto, esercita la funzione pubblica commettendo un reato e quindi abusa
dei poteri che derivano dalla funzione pubblica per questo fatto si qualifica come pubblico ufficiale.
Quindi chi compie una certa attività, che consista nell’esercizio di una funzione pubblica, assume la
qualifica di pubblico ufficiale cosicché il fatto di esercitare una pubblica funzione precede, e
addirittura fonda, la qualità oggettiva di pubblico ufficiale o di incaricato di pubblici servizi.
Quindi, normalmente nei reati propri prima si ha la qualifica e in conseguenza a questo commette
un reato.
Nei delitti dei pubblici ufficiali si verifica il contrario: un soggetto ha una certa qualità in quanto
esercita una funzione pubblica in modo non regolare.
Nella terminologia corrente il soggetto qualificato viene chiamato “intranus” (cioè che sta dentro
quella cerchia di persone che hanno la qualifica); mentre chi non ha la qualifica è chiamato
“extranus”, perché sta al di fuori di quel gruppo di soggetti che hanno la qualifica.

227
Problemi relativi ai reati propri sono:
1. L’individuazione del soggetto qualificato, di cui si è già trattato;
2. Se la qualità del soggetto debba essere ricoperta dal dolo;
3. Se l’extranus può concorrere in un reato di un soggetto qualificato come intranus.

Analizziamo il punto 2. Che significa che la qualifica debba essere ricoperta dal dolo? Significa che il
dopo (il ragionamento psicologico del reo) deve ricomprendere la qualità, cioè che il soggetto che
agisce deve sapere di essere un pubblico ufficiale. In concreto è difficile stabilire se l’attività
esercitata sia un servizio pubblico o una funzione pubblica. Per questo motivo un soggetto può
benissimo non avere consapevolezza di essere o non essere un pubblico ufficiale. Si aggiunga che, è
pacifico che quando si dice che si richiede una certa consapevolezza della qualità si intende che tale
consapevolezza debba essere “alla stregua del profano” (come lo possa comprende chi non ha
particolari competenze giuridiche). E quindi, ritornando all’interrogativo principale, occorre o non
occorre la consapevolezza? È sicuro che se il soggetto non ignora di essere qualificato non risponde
del reato in questione. A questo punto si apre un’ulteriore questione: la qualità del soggetto rientra
o no nell’oggetto del dolo? Per oggetto del dolo si intende ciò che il soggetto deve sapere per
essere doloso. Sul punto rientra la disposizione dell’art. 43 c.p. (da imparare a memoria), il quale
detta disposizioni in tema di elemento soggettivo del reato, detto “elemento psicologico del reato”,
e distingue i delitti in dolosi, colposi e preterintenzionali, e stabilisce in che cosa consista il delitto
doloso:
“Il delitto è doloso, o secondo l’intenzione, quando l’evento dannoso o pericoloso, che è il risultato
dell’azione od omissione e da cui la legge fa dipende l’esistenza del delitto, è dall’agente preveduto
e voluto come conseguenza della propria azione od omissione”. Allora oggetto del dolo, secondo
l’art. 43, è l’evento. Sommariamente, al momento ci si può limitare a dire che l’evento è la
conseguenza della condotta del reo, che può essere azione od omissione. Per fare un semplice
esempio nell’omicidio l’evento è la morte di un uomo.
A questo punto si potrebbe concludere che la qualità del soggetto sia estranea e non rientrante
nell’oggetto del dolo, e che quindi non fosse necessario che il soggetto lo conosca, perché ciò che
deve essere conosciuto è l’evento, e non la qualità del soggetto. Su questo Pagliaro fa una sottile
distinzione: secondo la definizione codicistica la qualità del soggetto agente è estranea all’oggetto e
quindi non è necessario, per rispondere di reato proprio, che il soggetto sappia di essere qualificato;
però, questo in linea teorica, e non vale di fatto perché è una eccezione, perché nella maggior parte
dei casi si verifica il contrario, e cioè che il soggetto per rispondere del reato proprio debba essere
consapevole della sua qualità, perché questa qualità si riflette, si riverbera, sull’evento del reato,
cosicché non è possibile volere e conoscere l’evento senza conoscere la qualità, la quale, in linea di
principio rimarrebbe estranea all’oggetto del dolo se non fosse che si riflette sull’evento. Seguono
due esempi:
- ESEMPIO 1. La qualità del soggetto agente rimane, come sarebbe in via di principio, estranea
all’oggetto del dolo, cioè il soggetto risponde anche se non sa di possedere la qualifica. La
qualità di fallito nei reati di bancarotta prefallimentare, cioè i fatti di reato vengono
commessi prima della dichiarazione di fallimento. Nella bancarotta prefallimentare i fatti
che devono essere voluti sono quelli che consistono, sinteticamente, in una sottrazione del
patrimonio dell’imprenditore alla funzione di garanzia che quel patrimonio ha per i creditori.

228
Ex art. 2740 c.c.: “Il debitore risponde dell'adempimento delle obbligazioni con tutti i suoi
beni presenti e futuri.”. Se l’imprenditore fa “sparire” i suoi beni, cosicché i creditori non
possono più rivalersi su quei beni per soddisfare le loro pretese, si rende responsabile dei
fatti. Questi fatti possono essere commessi anche prima che sia pronunciata la sentenza che
dichiara il fallimento, anzi così succede normalmente. Ma nel momento in cui viene posta in
essere la condotta il soggetto non è ancora fallito, quindi logicamente non può sapere se
sarà o non sarà dichiarato fallito, non può avere dunque consapevolezza della sua qualità di
fallito. La qualità di fallito in questo caso è estranea all’oggetto del dolo.
- ESEMPIO 2. La qualità del soggetto si riflette sullo stesso evento e dà all’evento stesso un
significato, una consistenza particolare e diversa da quella che avrebbe se il soggetto non
fosse qualificato. L’esempio è quello del peculato/ appropriazione indebita. Se io ricevo da
un amico in prestito un libro di grande valore e invece di restituirglielo me ne approprio,
sono consapevole di commettere quel fatto, che appunto costituisce appropriazione
indebita (mi è stato dato il possesso della cosa, e io mi comporto come proprietario). Se
invece quello stesso libro mi è stato dato dalla biblioteca dell’università per l’esercizio delle
mie funzioni tipiche (preparare una lezione, svolgere una ricerca) e so che quel libro deve
essere restituito all’ufficio pubblico dell’università, la mia qualità di pubblico ufficiale che
tiene il libro per lo svolgimento di un pubblico servizio fa sì che lo stesso identico evento,
cioè l’appropriazione del libro, assuma una fisionomia differente rispetto al caso in cui sia
stato prestato da un amico. Non è più arrecare un danno patrimoniale a chi mi ha prestato
quel volume, ma è recare danno al buon andamento della Pubblica Amministrazione. Quindi
la qualità, e il contesto in cui si agisce, fa sì che lo stesso evento materiale abbia un’identità
differente a seconda che si sia o meno pubblico ufficiale e quindi qualificato. Qualità
soggettiva si riflette sull’evento e lo fa mutare di significato e di portata, tanto che per
sapere di commettere peculato si deve essere consapevoli di essere un pubblico ufficiale.

Se siamo in presenza di un diritto doloso, tutto ciò che riguarda il reato stesso deve essere
conosciuto e voluto. Se si tratta di un delitto colposo è sufficiente che il soggetto sia in errore per
colpa. Se si tratta di un diritto doloso non è sufficiente che il soggetto sia in errore per colpa, quindi
se il soggetto, colpevolmente, ignora la qualità di parente di una certa persona, non risponderà di
incesto, perché l’incesto è punito esclusivamente a titolo di dolo e non a titolo di colpa. L’errore può
avere rilevanza, ma non un errore sulla legge penale, ma un errore extra penale: la qualità di
pubblico ufficiale è contenuta negli artt. 357-358 c.p., se le si ignora non si può addurre a propria
scusa l’ignoranza della legge penale, perché la legge all’art. 5 c.p. così stabilisce; se invece, l’errore
non è sulla legge penale che stabilisce la qualità, ma su un’altra disposizione, a quel punto entra in
gioco un’altra disposizione, che è l’art. 47 c. 3 c.p., che stabilisce che quando l’errore su una legge
diversa dalla legge penale ha determinato un errore su un fatto che costituisce reato, questo errore
scusa. Esempio, un soggetto riceve un incarico dalla P.A., attraverso l’interpretazione di tale incarico
il soggetto ritiene che gli sia stato conferito un incarico a titolo privato, perché il contratto induce a
pensare così, mal interpretandolo; in questo caso si tratterebbe di un errore non sulla legge penale,
ma su una legge diversa dalla legge penale, e questo tipo di errore esclude il dopo e di conseguenza
la responsabilità.

229
Passiamo ad analizzare il punto 3. Può un extranus concorrere nel reato proprio del soggetto
qualificato?
Perché vi sia un reato penale sono necessarie due cose dal punto di vista oggettivo: che il soggetto
qualificato faccia qualcosa, cioè che abbia dato un apporto al fatto, altrimenti non ci può essere
reato proprio; qualcos’altro deve averlo fatto anche l’extranus, che risponde, a titolo di concorso,
insieme al soggetto qualificato.
Si pone un problema: l’extranus per rispondere del reato proprio deve sapere o no che sta
collaborando con un soggetto qualificato? Ci sono due casi:

1. Il reato in questione è uno di quei reati c.d. di mano propria o esclusivi, cioè reati che senza
la qualità particolare del soggetto non costituiscono nessun reato. Potrebbe essere il caso
dell’incesto, così come l’abuso di ufficio. Se un soggetto commette un fatto procurando
vantaggio a qualcun altro senza essere pubblico ufficiale, il fatto non costituisce alcun reato.
Se un extranus, senza sapere di collaborare con un soggetto qualificato lo aiuta a
commettere un reato che in assenza della qualifica non costituirebbe alcun reato, l’extranus
non risponde di nulla, perché nella sua mente ciò che sta facendo non è reato.
2. La qualità del soggetto agente fa mutare il tipo di reato, quindi il fatto senza la qualità non è
lecito, ma costituisce un diverso reato. È il caso di appropriazione indebita e del peculato. Se
l’extranus aiuta un pubblico ufficiale a portare via dei libri senza sapere che sta aiutando una
persona incaricata di pubblici servizi. Evidentemente, l’extranus è consapevole del fatto che
sta aiutando qualcuno ad appropriarsi di libri di cui non potrebbe disporre, senza rendersi
conto che sta aiutando di qualcuno che disponeva di quei libri in ragione del servizio
pubblico svolto. In questo caso, dovrebbe rispondere secondo la logica, di appropriazione
indebita.
Sul punto, però intervengono gli artt. 116-117 c.p. L’art. 116 regola il caso in cui delle
persone si mettono d’accordo per commettere un reato ma ne viene commesso uno diverso
(il “palo”, va con altri per commettere un furto, senonché nel negozio quelli che entrano
minacciano il proprietario o lo uccidono), in questi casi quando commesso un reato di verso
da quello voluto da uno dei concorrenti tutti rispondono del più grave reato commesso. In
questo caso vi sarà sempre una diminuzione della pena. L’art. 117, invece, stabilisce che se
per le condizioni o le qualità personali del colpevole, o per i rapporti tra il colpevole e
l’offeso, muta il titolo del reato per taluno di coloro che vi sono concorsi, anche gli altri
rispondono dello stesso reato; cosicché se uno dei soggetti è pubblico ufficiale e si appropria
di libri, questa appropriazione in quanto commessa dal pubblico ufficiale costituisce non
semplice appropriazione indebita ma peculato, e anche l’extranus risponderà del più grave
reato (il peculato). In alcuni casi il giudice potrà diminuire la pena per l’extranus. Ritornando
al nostro quesito originario, la dottrina maggioritaria, ritiene che al caso che stavamo
analizzando vada comunque applicato l’art. 117. Pagliaro invece distingue: se la qualità
personale di uno dei soggetti è estranea all’oggetto del dolo si applica l’art. 117; se invece la
qualità del soggetto si riflette sull’evento e ne modifica il senso o la consistenza si tratta di
un reato diverso da quello voluto e quindi l’art. 116. In tutti e due i casi l’extranus risponde
per il più grave reato del soggetto qualificato.

230
SOGGETTO PASSIVO DEL REATO
Il termine soggetto passivo del reato non si trova nella legislazione, ma è elaborato dalla dottrina
penalistica, ed indica il titolare del bene giuridico offeso dal reato, e quindi del bene giuridico che la
norma penale intendeva proteggere.
Il Codice penale non parla di soggetto passivo ma utilizza l’espressione “persona offesa dal reato”, e
ne parla all’art. 120 c.p.: “Ogni persona offesa da un reato per cui non debba procedersi d'ufficio o
dietro richiesta o istanza ha diritto di querela.”
Si prevede dunque che la persona offesa dal reato possa presentare la querela nei casi in cui la
legge penale prevede che un certo reato sia punibile a querela della persona offesa, perché è più
frequente che un reato sia procedibile d’ufficio, cioè che il PM possa esercitare l’azione penale di
sua iniziativa. Nel furto comune (non aggravato) per esempio è necessario che ci sia la querela del
derubato perché si avviino le attività d’indagine. Questa nozione di soggetto passivo va distinta da
altre due nozioni, che nella stragrande maggioranza dei casi coincidono, ma in qualche caso
possono non coincidere.
La prima distinzione è con soggetto passivo dell’azione, la seconda è con il soggetto danneggiato.
Il soggetto passivo dell’azione è colui sul quale ricade la azione tipica del reato. Normalmente sarà
la stessa vittima del reato (come nel caso di lesioni), in qualche caso può essere una persona diversa
dal soggetto passivo. Esempio: art. 642 c.p., frode in assicurazione→ “Chiunque, al fine di
conseguire per sé o per altri l'indennizzo di una assicurazione o comunque un vantaggio derivante
da un contratto di assicurazione, distrugge, disperde, deteriora od occulta cose di sua proprietà,
falsifica o altera una polizza o la documentazione richiesta per la stipulazione di un contratto di
assicurazione è punito con la reclusione da uno a cinque anni”→ una persona provoca un danno
fisico a se stesso per ottenere dall’assicurazione un risarcimento frodando l’assicurazione. In questo
caso il soggetto passivo dell’azione è la persona che procura a sé stessa un danno; mentre, il
soggetto passivo del reato è l’assicurazione che subisce un danno patrimoniale.
Il danneggiato è il soggetto che subisce un danno dal reato, danno che può essere patrimoniale o
non patrimoniale. L’art. 185 c.p. stabilisce che chi ha subito un danno derivante da un reato può
chiedere il risarcimento del danno. Il risarcimento può essere chiesto sotto due forme diverse: o
rivolgendosi direttamente al giudice civile, oppure costituendosi parte civile nel processo penale e
quindi affiancandosi alla pubblica accusa per assicurare il soddisfacimento dei propri interessi al
risarcimento nella stessa sede del processo penale. Il danneggiato normalmente sarà lo stesso
soggetto passivo del reato (come per il caso di lesioni). Il caso tipico di non coincidenza è quello del
danneggiato è quello di omicidio: il soggetto passivo è la persona uccisa, che era il titolare del bene
protetto (la vita); mentre danneggiati sono i suoi familiari, i quali possono chiedere il risarcimento
dei danni morali o materiali derivanti dall’omicidio.

Non sempre è facile stabilire se un soggetto sia soggetto passivo o semplicemente danneggiato.
Questo è particolarmente complesso quando ci si trova di fronte a quei reati cc.dd. plurioffensivi,
cioè dove sono offesi una pluralità di beni giuridici o di interessi. La esistenza stessa di reati
plurioffensivi è discussa: per esempio, Pagliaro dice che bisogna sempre trovare l’interesse
principale che una certa figura di reato vuole proteggere. Però è innegabile che diversi reati,
effettivamente, offendono una pluralità di interessi.

231
Esempi: il falso in bilancio, ci sono interessi differenti: quello dei soci, dei creditori, del pubblico
interessato alla società. Nel caso, altrettanto tipico, della rapina (che consiste nell’impossessarsi di
cosa altrui mediante violenza o minaccia) se la persona su cui si esercita la violenza o la minaccia è
diversa dal proprietario della cosa sono due gli interessi offesi: quello patrimoniale del proprietario
e quello alla libertà di disposizione della persona minacciata (che può essere un cassiere di un
negozio).

Per i reati contro la PA è complicato stabilire se il privato sia o meno soggetto passivo del reato,
perché trattandosi di delitti dei pubblici ufficiali contro la PA è pacifico che comunque soggetto
passivo sia la PA. Ma si può considerare soggetto passivo anche il privato che eventualmente sia
stato coinvolto?

Esempio: concussione, art. 317→ “Il pubblico ufficiale o l'incaricato di un pubblico servizio che,
abusando della sua qualità o dei suoi poteri, costringe taluno a dare o a promettere indebitamente,
a lui o ad un terzo, denaro od altra utilità, è punito con la reclusione da sei a dodici anni”. → per un
verso viene offeso il buon andamento e l’imparzialità della PA, per altro verso una persona è stata
costretta a dare al pubblico ufficiale denaro o altra utilità subisce un pregiudizio, è offeso nel suo
interesse alla libertà di disporre di quel denaro o altra utilità. Recentemente la Cassazione, a seguito
della riforma del 2012, ha precisamente stabilito che nel delitto di concussione il privato è soggetto
passivo, perché il delitto di concussione è plurioffensivo. A differenza, del delitto di nuova
introduzione (2012) di induzione indebita (art. 319- quater), dove il pubblico ufficiale non costringe,
ma induce taluno a dargli denaro o altra utilità, e questo qualcuno secondo l’interpretazione della
Cassazione comunque seppur indotto si avvantaggia in qualche modo, e quindi non è soggetto
passivo, perché non subisce una offesa, ma al contrario è in qualche modo corresponsabile
dell’offesa all’unico interesse tutelato del buon andamento e imparzialità della PA.

Problemi simili si possono porre per l’abuso di ufficio: nell’abuso di ufficio il pubblico ufficiale o
l’incaricato di pubblico servizio, nell’esercizio delle sue funzioni, in violazione di norme di legge,
intenzionalmente procura a sé o ad altri ingiusto vantaggio o procura ad altri un danno ingiusto.
Questo soggetto, al quale il pubblico ufficiale ha provocato un danno ingiusto, è o non è soggetto
passivo del reato? Si può ritenere, ma è discusso, che si soggetto passivo.

In ogni caso, bisogna valutare con attenzione se, soprattutto in queste situazioni complesse,
l’ulteriore soggetto offeso possa o non possa dare il consenso che esclude il reato. E cioè, un’altra
delle ragioni per le quali essere soggetto passivo del reato è rilevante è che è proprio il soggetto
passivo del reato colui che può dare il proprio consenso a ché sia compiuta l’azione tipica del reato,
con effetto di escludere l’esistenza del reato. Questo però presuppone che si tratti di uno di quei
beni di cui la persona possa validamente disporre (art. 50), e cioè che si tratti di uno dei cc.dd. beni
disponibili. Nel caso dei beni indisponibili, anche il titolare non può con piena libertà disporre di
quello stesso bene, come per esempio nel caso della vita, per cui il consenso è irrilevante e non
esclude la punibilità di chi ne disponga, e nel caso della vita è anzi integrazione di una particolare
fattispecie che è il c.d. omicidio del consenziente.

232
Posto che si tratti di un bene disponibile, il soggetto passivo, può dare il consenso a compiere un
fatto che altrimenti costituirebbe reato. Esempio: se si è autorizzati dal proprietario a prendere il
suo telefono, il consenso esclude che si possa integrare la fattispecie del furto.
A questo punto bisogna stabilire se e chi possa dare il consenso con l’effetto di escludere il reato;
questa questione si pone rispetto a diversi tipi di reati, e in un gran numero di questi il consenso
non esclude il reato:

- Nei reati che offendono interessi cc.dd. superindividuali o collettivi→ cioè appartenenti ad
un numero aperto di persone→ la salute pubblica, l’incolumità pubblica, la sicurezza
pubblica… in questi casi il consenso non esclude il reato, nessuno può dare il consenso
perché nessuno può disporre del bene nella sua dimensione superindividuale.

- Reati cc.dd. senza vittima→ reati sul commercio di stupefacenti, che riguardano la
pornografia ecc.→ qui non c’è una vittima individuata, la ratio non è la protezione del
singolo ma una collettività, quindi non c’è un soggetto particolare che possa dare in
consenso.

- Stessa cosa si può dire per i cc.dd. reati ostacolo, che sono quelli che vengono puniti perché
si vuole mettere un ostacolo a ché possano essere commessi altri reati→ per es. detenzione
di armi→ vietata senza autorizzazione di un’autorità di pubblica sicurezza, non perché la
detenzione sia di per sé un fatto dannoso, ma potrebbe esserlo. Anche in questo caso non
c’è un soggetto passivo particolare e quindi nessuno può autorizzare il fatto.

La stessa cosa vale per i reati plurioffensivi: quando il reato è plurioffensivo, il consenso di uno dei
soggetti direttamente offesi non esclude il reato, perché rimangono altri interessi offesi e protetti.
Per esempio, nella concussione, ammettendo che il soggetto concusso (costretto) desse la propria
autorizzazione, questo non esclude il delitto di concussione, perché comunque rimane l’offesa al
buon andamento e all’imparzialità della PA, della quale in concusso evidentemente non può
disporre.
Pagliaro osserva che nei reati plurioffensivi la legge può richiedere (come nell’abuso di ufficio) che
la condotta abbia provocato un danno ingiusto, e che quindi se una persona non considera un
danno qualcosa che di per sé normalmente sarebbe tale, e dà il suo consenso vuol dire che non
considera per sé un danno l’attività in questione: allora, non è che assuma rilevanza il consenso
dell’avente diritto negli stessi termini di prima, ma si può dire che venga meno uno dei requisiti del
fatto di reato, cioè l’esistenza del danno, in quanto non si può recare un danno a chi ritiene che per
lui qualcosa non sia un danno ma un vantaggio.

Esempio: supponiamo che arbitrariamente un pubblico ufficiale espropri il terreno di qualcuno,


violando la legge. Il privato cui è stato espropriato il terreno consideri addirittura un vantaggio
questa espropriazione. Quello che astrattamente potrebbe essere considerato un danno, nel caso
concreto per il privato tutto sommato non costituisce danno, cosicché non è che il privato consenta
l’offesa al suo interesse, ma non ritiene dannoso quel fatto e quindi viene meno l’esistenza di uno
dei requisiti, richiesti dalla legge, del reato che è il danno. Mancando il danno, manca il reato.

233
La persona del soggetto passivo certe volte è necessaria perché il fatto costituisca un certo reato.
Per esempio: l’oltraggio a pubblico ufficiale richiede che la persona offesa rivesta la qualità di
pubblico ufficiale. In questi casi la qualità del soggetto passivo deve essere conosciuta dal reo: se chi
offende il pubblico ufficiale non conosce la sua qualità risponderà di ingiuria, ma non di oltraggio,
perché il dolo deve estendersi alla qualità del soggetto passivo.
È molto interessante a questo proposito la questione riguardante l’età della persona offesa nei reati
di violenza sessuale: i reati di violenza sessuale sono o commessi con violenza, o ipotesi di violenza
presunta per legge, cioè che si ritiene che non ci possa essere stato il consenso della persona offesa
in quanto la persona in questione ha una bassa soglia di età. Queste soglie di età possono variare a
seconda che vi sia un rapporto di affidamento o custodia l’età è 16 anni (al di sotto si ritiene che il
minore non sia libero di dare il consenso), normalmente l’età è 14 anni. Nel caso di giovani in cui la
differenza non si superiore a tre anni, l’età scende a 13 anni. Al di sotto di queste soglie il fatto
oggettivamente costituisce reato. Da sempre, sin dal codice Rocco del 1930, e poi con la riforma del
1996 dei reati sessuali, per offrire maggiore tutela alla vittima, era stata stabilita dalla legge, all’art.
609-sexies c.p., la irrilevanza dell’errore sull’età della persona offesa.
Nel 2012 il legislatore, accogliendo un opportuno suggerimento della dottrina, ha modificato la
disposizione, introducendo un ulteriore requisito: la colpa. Il colpevole non può invocare a propria
scusa l’ignoranza dell’età della persona offesa, salvo che si tratti di ignoranza inevitabile, quindi che
il soggetto abbia mentito sull’età e che appunto si dimostrasse più grande. In questo caso si esclude
il reato.

234
11/03/2019
Il diritto penale è una scienza recente, come è stato detto nelle prime lezioni: fino alla Rivoluzione
francese il d.p. infatti era pensato come strumento di governo, di mezzo per esercitare il potere
sovrano, reprimendo le condotte sgradite. Solo nell'800 nasce una vera e propria scienza del d.p.

La struttura del reato

Ovvero come è articolato, nei suoi elementi strutturali, ciascun fatto di reato. Non si tratta di cose
materiali ma di una elaborazione concettuale. La prima elaborazione è quella di Francesco Carrara,
il quale concepiva il reato come un insieme di forza fisica e forza morale. La forza fisica era un
elemento, un dato fisico, che trasformava il mondo e interveniva nella realtà circostante - un
movimento, un'azione, un comportamento esteriore insomma-. La forza morale invece era quello
che oggi potremmo chiamare elemento psicologico del reato, cioè la parte psichica che sorregge
questa forza fisica, la quale è infatti il risultato di una volontà o di un atteggiamento mentale, la
forza morale appunto

Questa è un prima forma di bipartizione del reato.

Qualche anno dopo in Germania CHarl Behring propose invece una teoria destinata ad avere un
grande successo che fu accolta generalmente dalla dottrina tedesca e anche da quella italiana, che
teneva in grande considerazione questa. Fu importata in Italia da Giacomo Delitata che nel 1930
pubblicò un volume in cui accoglieva le teorie di Behring.

Questa è la teoria della tripartizione. In questo caso il reato è un fatto tipico, antigiuridico e
colpevole. La struttura del reato è articolata quindi in tre elementi:

- Tipicità. Quando parliamo di tipicità evidentemente l'avvenimento deve corrispondere al tipo di


fatto descritto dalla legge penale. Essa è data dall'assetto esteriore oggettivo del reato, il quale a
sua volta è costituito da condotta, nesso di causalità ed evento. La condotta è un comportamento
umano, un evento che risulta da questo comportamento. I due sono legati da un nesso di causalità.
Originariamente, e quindi nella sua prima formulazione, la tipicità era da considerare nel suo
aspetto puramente obiettivo, il che significa che non ne facevano parte elementi psicologici o
soggettivi, che invece erano collocati nella colpevolezza.

- Antigiuridicità. Questa deve essere intesa come antigiuridicità obiettiva, da distinguersi da


quell'antigiuridicità in cui consiste il reato: esso infatti, essendo contrario alla legge penale è
antigiuridico. Ma quando si parla di questo elemento non ci si riferisce al fatto che il reato è
contrario alla legge penale, ma il termine è utilizzato in senso più stretto. L'antigiuridicità obiettiva è
la contrarietà di quel fatto ad ulteriori regole appartenenti all'intero ordinamento giuridico.
Guardando la cosa da un altro punto di vista possiamo osservare che l'antigiuridicità obiettiva è la
sede concettuale in cui vanno collocate le cause di giustificazione.

235
Significa che essa è esclusa quando è presente una causa di giustificazione -esercizio di un diritto,
adempimento di un dovere, legittima difesa, uso legittimo di armi, stato di necessità, consenso
dell'avente diritto- Artt. 50-54 c.p. L'antigiuridicità significa che il fatto non deve essere
caratterizzato da nessuno di questi elementi. Ed è proprio l'antigiuridicità che differenzia
bipartizione e tripartizione, che sottolinea la contrarietà del reato all'intero ordinamento giuridico,
non solo da quello penale.

- Colpevolezza. Esprime il dolo e la colpa, almeno nella sua prima formulazione. Ovvero quegli
elementi psicologici che sostengono la condotta. Si tratta appunto dell'aspetto psicologico del
reato.

Marinucci e Dolcini, due penalisti, hanno addirittura proposto l'introduzione di un quarto elemento:
la punibilità. Sostennero infatti che potrebbe accadere che, nonostante vi siano tutti e tre gli
elementi indicati, potrebbe esserci una causa di non punibilità del soggetto. E allora, secondo loro,
sarebbe necessario un quarto elemento. La categoria è contestata dalla dottrina, perché
presupporre che la punibilità è un requisito interno e non esterno alla struttura del reato.

Esempio: le c.d. cause di esclusione della sola punibilità, le quali lascerebbero intero il reato ma
renderebbero impossibile applicare la pena. Un’ipotesi tipica di ciò è quella regolata dall'art. 649
c.p. che stabilisce che quando i reati contro il patrimonio sono commessi da un soggetto legato da
un certo rapporto di parentela con la vittima, non sono punibili. E questo non perché il fatto sia
giustificato ma perché non sembra opportuno entrare con il diritto penale in una vicenda relativa a
persone legate fra loro per questioni meramente patrimoniali. Non è quindi il fatto che non
costituisce il reato, ma è solo la persona ad essere esclusa dalla pena.

Altra parte della dottrina italiana ha ribattuto che non sembra né necessario né opportuno
aggiungere un nuovo elemento alla struttura del reato per situazioni del tutto eccezionali che
possono essere spiegate diversamente.

Rimaniamo quindi fermi alla tripartizione. Molti autori hanno sottolineato che quest'ordine degli
elementi del reato non è casuale e non può essere alterato: sono posti in successione logica fra
loro. Questo perché non avrebbe senso porsi un problema che riguardi un reato se non c'è quel
primo momento, quel fatto corrispondente alla norma di legge, senza il quale non ci può essere
nessuna ulteriore considerazione. L'antigiuridicità va immediatamente legata ad esso, infatti se il
fatto, pur essendo corrispondente alla norma di legge, è obiettivamente giustificato, non ha senso
chiedersi la colpevolezza perché il fatto non sarà reato in quanto giustificato. Solo alla fine ci si
potrà porre il problema della colpevolezza.

Perché sarebbe necessario aggiungere l'antigiuridicità?

La prima motivazione è di ordine sistematico concettuale: se non si considerasse l'antigiuridicità,


bisognerebbe ricomprendere tutto ciò che riguarda l'aspetto oggettivo del reato nel primo
elemento e ciò che riguarda l'aspetto soggettivo nel secondo.

236
Se ci fermassimo al primo dovremmo dire che corre sullo stesso piano, perché non costituisce
reato, "sia l'uccisione di un uomo in presenza di una causa di giustificazione, sia l'uccisione di una
Mosca" (cit. Tullio Padovani). Infatti, se mettiamo insieme tipicità e antigiuridicità, perché ci sia
reato bisogna che sussistano entrambi e sullo stesso piano e quindi mancherebbe il primo elemento
sia nel caso di mancanza delle tipicità (l'uccisione della mosca) che dell'antigiuridicità (uccisione
dell'uomo in presenza di causa di giustificazione). Per enfatizzare che c'è stato un fatto tipico tragico
bisogna aggiungere un terzo elemento: l'antigiuridicità. Si tratta solo di valore culturale simbolico,
in nessuno dei due casi comunque l'autore del fatto verrà punito.

L'esempio è fatto in modo volutamente accentuato, ma secondo una considerazione più realistica
dal punto di vista penale nessuno dei due fatti assume rilevanza.

Bisogna prendere atto che questa originaria struttura è stata nel corso del tempo trasformata. La
colpevolezza ha mutato contenuto per effetto di un'impostazione teorica sostenuta dal tedesco
Hans Welzel, il quale sostenne la c.d. teoria finalistica dell'azione, secondo la quale
ontologicamente ogni azione umana ha un fine, uno scopo. Questo fine è, secondo Welzel,
inscindibilmente legato all'azione stessa. Non si può scindere l'azione dal fine che la sorregge: le
due cose vanno considerate insieme. Quindi il fine caratterizza inseparabilmente la condotta
umana.

Nella sua formulazione originale della tripartizione la tipicità doveva prendere in considerazione la
condotta come mero movimento corporeo, un fatto solo fisico e non anche mentale. Ma con Welzel
la maggioranza della dottrina tedesca si orienta sul pensiero che il fine vado preso in considerazione
già nella tipicità, guardando alla condotta. Quindi dolo e colpa connotano inseparabilmente la
condotta e sono da prendere in considerazione all'interno del fatto tipico. Si modifica la struttura
della colpevolezza che, da atteggiamento psicologico si trasforma in colpevolezza in senso
normativo e indica la rimproverabilità da parte dell'ordinamento giuridico nei confronti di questo
soggetto che ha commesso il reato. Così la colpevolezza, da essere in senso psicologico diventa in
senso normativo.

A queste teorie se ne oppongono altre sotto forma di critiche.

Critiche alla teoria della tripartizione

1) La teoria della tripartizione, richiedendo l'antigiuridicità, la spezza poi in due tronconi. Infatti,
l'antigiuridicità per un verso può essere esclusa da elementi che riguardano il fatto tipico, e quindi
l'aspetto oggettivo; mentre per un altro verso essa può essere escluso da elementi che attengono
alla colpevolezza. Ciò comporta che la contrarietà all'ordinamento giuridico non è più data da un
unico blocco ma è come staccata in due.

Esempio: Lo stato di necessità è causa di giustificazione. Ma la sua presenza opera in modi diversi a
seconda che privi del disvalore oggettivo il fatto o faccia venire meno la colpevolezza. Un conto
sarebbe infatti il furto di una macchina per fuggire da un pericolo di vita, in cui viene meno il
disvalore oggettivo del fatto -viene meno la contrarietà all'ordinamento.

237
Altro conto sarebbe il caso in cui il naufrago per salvare sé stesso allontana qualcun'altro dal
salvagente. In questo caso opera lo stato di necessità ma qui non si può dire che non ci sia un
disvalore oggettivo. Ma non si può pretendere però che un essere umano non pensi a salvare la
propria vita per rispettare la legge: è un comportamento inesigibile dalla legge. In questo caso viene
meno la colpevolezza nel senso normativo, ovvero la rimproverabilità. In questo caso lo stato di
necessità opera come qualcosa che esclude la sola colpevolezza.

L'obiezione che si fa è che il giudizio di antigiuridicità viene spaccato in due perché da una parte
riguarda qualcosa di oggettivo e dall'altra qualcosa di soggettivo.

2) Gli elementi normativi della fattispecie contaminano il primo requisito, il fatto tipico, con
chiarimenti che attendono o alla giuridicità o alla colpevolezza. E cioè se per esempio si dice
"ingiustamente", "indebitamente", ecc ... avremmo degli elementi normativi che attengono al fatto
tipico ma esprimono un connotato di antigiuridicità, in quanto esprimono la contrarietà di quel
fatto ad altre norme dell'ordinamento giuridico.

In altri casi, contaminano il fatto di elementi della colpevolezza. Questo quando, per esempio, si
dice "senza giustificato motivo". Questa espressione fa sempre parte della descrizione del fatto
tipico ma in realtà vi inserisce delle considerazioni che atterrebbero alla colpevolezza (-> se il fatto
tipico ha un giustificato motivo verrà esclusa la colpevolezza).

Questi elementi contaminano il fatto tipico, che dovrebbe essere meramente oggettivo con
elementi che attendono all'antigiuridicità o alla colpevolezza.

3) Il fatto tipico -obiezione rivolta soprattutto all'ordinaria formulazione, anche se mantiene il suo
senso anche dopo- non può essere staccato del tutto dalla colpevolezza, perché per comprendere e
individuare la sua sussistenza occorre necessariamente guardare all'elemento psicologico. Questo
può infatti comportare una differenziazione del fatto tipico che assume tipicità rispetto ad un'altra
norma incriminatrice. Ciò significa che spessissimo la tipicità dipende dall'atteggiamento psicologico
del soggetto.

Esempio: Qualcuno spinge un'altra persona. A seconda dell'intenzione del soggetto questo fatto
tipico può essere tanti reati diversi che corrispondono ad altrettante norme diverse: percosse,
violenza privata, legittima difesa, esercizio arbitrario delle proprie ragioni, ingiuria.

Altro esempio è dato dalla bancarotta. Nella bancarotta fraudolenta si parla di dissipazione del
patrimonio; in quella semplice di spese eccessive. Qual è la differenza? Parte della dottrina ritiene
che la differenza debba essere fatta in base all’atteggiamento psicologico con cui i comportamenti
sono messi in pratica e non sulla base di un'osservazione oggettiva.

Quindi non si può individuare quale sia il fatto tipico senza fare riferimento all'atteggiamento con
cui il soggetto ha agito.

238
Sulla base di queste critiche, personalità della dottrina italiana (Antolisei, Mantovani, Mugolone)
hanno ritenuto di poter restare fermi alla più semplice bipartizione fra elemento oggettivo e
soggettivo, eliminando quindi quello dell'antigiuridicità.

---Le cose di cui stiamo parlando non sono nella legge: si tratta di una dogmatica penalista, ovvero
della costruzione di concetti giuridici che servono per comprendere ed analizzare il reato e sono
chiavi di lettura per cercare di comprendere meglio ciò che la legge disciplina, anche se la legge
penale non fa riferimento a queste teorie.

Inoltre, in qualche misura queste diverse teorie hanno un che di opzionale, cioè sposando una o
l'altra teoria non si hanno risultati troppo diversi. Si tratta solo di trovare elementi concettuali per
descrivere meglio o peggio un certo fatto.

Esempio: Se si propone ad un turista un giro nella città di Palermo si possono fare itinerari diversi: si
possono visitare zone della città ovvero i quartieri; si può seguire anche un itinerario di tipo storico -
> fenici, arabi, normanni, spagnoli, ecc ... Non è che in un caso si veda Palermo e in un altro caso no:
è solo un modo di esaminare la città in modo diverso. E non si può dire che sia meglio o peggio l'uno
o l'altro.

Qualcosa di simile vale per ciò di cui stiamo parlando. ---

La bipartizione nell'analizzare la struttura del reato si ferma sugli elementi soggettivi e oggettivi. Le
cause di giustificazione, che erano poste nell'antigiuridicità, sono prese in considerazione come
elementi negativi della condotta illecita e stanno quindi all'interno dell'elemento oggettivo.

Per elementi negativi della condotta illecita si intende che il fatto di reato è costituito da una serie
di elementi negativi e una serie di elementi positivi, dove positivo e negativo sono da intendere in
senso algebrico. Per cui il reato è presente se ci sono elementi positivi e non ci sono elementi
negativi -> perché ci sia reato: +condotta +nesso di causalità +evento - legittima difesa -
adempimento di un dovere -tutte le altre cause di giustificazione

Dall'insieme di questa presenza e assenza viene fuori l'elemento oggettivo.

I sostenitori della tripartizione rimproverano a questa teoria che, se non viene formulata la
categoria dell'antigiuridicità, ci si può servire di questo modo di presentare il reato con un intento
repressivo per non considerare la insicura presenza di cause di giustificazione, ovvero non dare
conto di quei casi in cui è in dubbio che ci sia una causa di giustificazione.

Esempio: supponiamo di avere un elemento oggettivo e uno soggettivo: secondo un'elementare


bipartizione le cause di giustificazione non sono neanche tenute in conto. Si verifica dunque una
legittima difesa, o ancora peggio non siamo sicuri che questa ci sia. I sostenitori della tripartizione
dicono che in questo caso il giudice dovrà condannare perché ci sono sia l'elemento oggettivo che
quello soggettivo (per questo "intento repressivo").

239
Secondo la critica alla bipartizione quindi non si dà abbastanza rilevanza ai casi in cui non si è sicuri
ci sia o meno una causa di giustificazione.

Ora invece nessuno dubita che per potere condannare l'imputato bisogna avere la certezza che il
fatto da lui compiuto sia reato e che non sia giustificabile: nel caso di dubbio non possiamo
condannare.

Questa obiezione scompare e perde consistenza con la sistemazione che considera elementi
negativi le cause di giustificazione, perché per arrivare alla condanna è necessaria la presenza degli
elementi positivi e l'assenza di quelli negativi. Nel caso di dubbio, non essendo completo ciò che in
giudizio deve essere provato, il giudice deve assolvere l'imputato . Dal momento che gli elementi
negativi fanno parte della struttura del reato, per poter giungere alla condanna occorre la sicurezza
di questi elementi.

Questa critica, mossa dai sostenitori della tripartizione ai sostenitori della bipartizione, è quindi
ormai superata.

La conclusione è ribadita dal nuovo codice di procedura penale emanato nel 1988, infatti il codice,
quando regola all'art. 530 la sentenza di assoluzione stabilisce una disciplina che corrisponde
esattamente a questo schema:

Se il fatto non sussiste, se l'imputato non lo ha commesso, se il fatto non costituisce reato o non è
previsto dalla legge come reato ovvero se il reato è stato commesso da persona non imputabile [c.p.
85] o non punibile per un'altra ragione, il giudice pronuncia sentenza di assoluzione indicandone la
causa nel dispositivo.

Il giudice pronuncia sentenza di assoluzione anche quando manca, è insufficiente o è contraddittoria


la prova che il fatto sussiste, che l'imputato lo ha commesso, che il fatto costituisce reato o che il
reato è stato commesso da persona imputabile. ->Se manca la prova che il fatto esiste il giudice
assolve.

Se vi è la prova che il fatto è stato commesso in presenza di una causa di giustificazione o di una
causa personale di non punibilità ovvero vi è dubbio sull'esistenza delle stesse, il giudice pronuncia
sentenza di assoluzione a norma del comma 1. -> Se c'è un dubbio sulla presenza delle cause di
giustificazione il giudice assolve, quindi per condannare è necessario che siano sicuri la presenza
degli elementi e positivi e della mancanza degli elementi negativi.

Con la sentenza di assoluzione il giudice applica, nei casi previsti dalla legge, le misure di sicurezza.

240
12/03/2019
-Sintesi di quello che si è detto ieri: si sta parlando della struttura del reato:

Si è visto che alle elementari teorizzazioni ottocentesche si sono succedute altre teorie, in particolare
quella della Tripartizione, secondo la quale il reato è strutturato e consiste in un:

fatto tipico- antigiuridico e colpevole-> 3 elementi strutturali.

Originariamente nelle tipicità doveva stare l’aspetto tipicamente oggettivo del reato stesso, quindi la
condotta e il nesso di casualità. Invece l’antigiuridicità obiettiva esprime la contrarietà del fatto
rispetto all’intero ordinamento giuridico. E la colpevolezza che era costituita dal dolo e dalla colpa.

Si è detto perché è fondamentale questa teoria per coloro che la sostenevano, e cioè: per un verso
per sottolineare la differenza tra un fatto non essendo punibile, perché antigiuridico e un fatto che
non è nemmeno tipico (es dell’uccisione della mosca e dell’uccisione dell’uomo).

Inoltre, si è detto che se non collochiamo le cause di giustificazione all’interno della struttura del
reato, quando ci sia incertezza sulle cause di giustificazione, il giudice non si chiede che il fatto sia
antigiuridico, e pur nell’incertezza di una causa di giustificazione, può arrivare alla condanna-> e ciò
è ingiusto.

Il passaggio successivo è che i sostenitori della tripartizione dicono che collocano le cause di
giustificazione all’interno della struttura del reato tra gli elementi negativi della condotta, cioè
devono mancare. Il giudice deve assolvere sia se manca o se è dubbio l’esistenza dell’elemento
positivo, sia se è presente l’elemento positivo o è dubbia la sua assenza-> in questi casi il giudice deve
assolvere (come dice l’art 530 c.p.).

Abbiamo poi osservato le critiche della tripartizione: i sostenitori della tripartizione ritengono che
una semplice bipartizione non consente di cogliere a pieno tutti gli elementi che costituiscono il reato,
che c’è un eccesso di sintesi; all’opposto i sostenitori della bipartizione sostengono che ci sia un
eccesso di analisi e frammentazione degli elementi e questa eccessiva frammentazione comporta
che tra questo stacco tra i tre elementi è reso impossibile per la presenza di elementi che trascorrono
dall’uno all’altro. Cosa che è riconosciuta anche dai sostenitori della tripartizione con la teoria
finalistica: questa è la nuova versione della tripartizione che dice che dolo e colpa fanno già parte del
primo elemento e quindi di conseguenza dolo e colpa stanno già nel fatto tipico e quindi la
colpevolezza rimane non come colpevolezza in senso psicologico, ma come colpevolezza come
rimproverabilità del fatto (dal punto di vista normativo).

In sostanza si comprende che la due versioni si fronteggiano una per la necessità di scomporre per
avere un quadro più corrispondente alla realtà; l’altra ha la necessità di accorpare, per evitare di
frantumare l’immagine complessiva del reato.

Con la lezione di ieri eravamo arrivati fin qui.

______________________

241
Ora si deve esporre un’altra critica che i sostenitori della tripartizione formulano nei confronti dei
sostenitori della bipartizione. All’interno della struttura del reato si incorre in un inconveniente
notevolissimo, cioè di richiedere sotto il profilo oggettivo un dolo mostruoso, perché per essere in
dolo il soggetto non dovrebbe fare solo e pensare che sta tenendo questo comportamento e che ciò
porterà a un determinato risultato, cioè quindi il soggetto non deve pensare solo a questo per essere
in dolo; ma per essere in dolo, il soggetto dovrebbe anche pensare che mancava il consenso
dell’avente diritto, mancava l’adempimento di un dovere, mancava la legittima difesa, mancava lo
stato di necessità, mancava l’uso legittimo delle armi. Quindi che ci sia l’assenza degli elementi
negativi, e quindi si dovrebbe richiedere un dolo mostruoso -> risposta: non è vero che c’è un dolo
mostruoso, perché in generale il dolo non richiede un‘ analitica, specifica e dettagliata
rappresentazione mentale attuale (al momento del fatto) di tutto ciò che compone il quadro
complessivo del reato. -> per essere in dolo è sufficiente che il soggetto implicitamente
sinteticamente abbia consapevolezza della situazione del suo complesso e che in precedenza abbia
conseguito conoscenza di tutti gli elementi che comportano un quadro complessivo della situazione,
che queste conoscenze le abbia immagazzinate e possa richiamarle alla mente con un procedimento
semplice. Facciamo un esempio per chiarire meglio: quando uno guida la macchina, impara a guidare
la macchina e gli insegnano come si fa a cambiare marcia e si compiono tutta una serie di operazioni;
all’inizio queste cose sono complicate e deve soffermarsi su ciascun passaggio, ma pian piano si
acquisisce questa capacità e chi guida non pensa più pensare a ciò che sta facendo, lo fa
spontaneamente. Questo è il modo normale in cui un soggetto pensa. Quando un soggetto ha in
mano la pistola per premere il grilletto, non è che si presenta in mente tutto quello che succede per
premere il grilletto, ma con un solo flash del pensiero si pensa “sto sparando”. Per essere in dolo non
è che il soggetto si deve soffermare sull’assenza di tutti gli elementi, ma deve con un unico pensiero
istintivo deve sapere di non essere giustificato.

Allora riassumendo: non è vero che questa costruzione richieda un dolo mostruoso, perché è
sufficiente che il soggetto abbia una conoscenza implicita e immediata della realtà dove si trova.

Detto questo, passiamo alla posizione di Pagliaro che è ancora più sintetica: postula un solo elemento
nella struttura del reato, che chiama “Il fatto di reato”-> che è l’insieme di tutti gli elementi da cui
dipende l’inflizione di una sanzione penale, cioè che rendono quel fatto illecito penalmente. Si
potrebbe dire che questa visione riecheggia il pensiero di Chelsen, perché per Chelsen il diritto si
costruisce attorno il concetto di “illecito”.

Tutto ciò da cui dipende la possibilità di collegare la sanzione, costituisce “il fatto di reato”.

Riguardo le considerazioni che abbiamo fatto prima, secondo Pagliaro non è corretto separare
l’elemento oggettivo, dall’elemento soggettivo, perché in realtà ci sono delle intersezioni tra
l’elemento soggettivo e l’elemento oggettivo-> già per individuare l’elemento oggettivo, bisogna
avere in mente l’elemento soggettivo. Stanno insieme.

All’interno di una costruzione, stanno oltre che la condotta, che è l’elemento centrale del reato, poi
gli elementi negativi della condotta illecita e il profilo psicologico. Bisogna parlare per Pagliaro, di
Aspetto soggettivo e Aspetto oggettivo (no elemento soggettivo ed elemento oggettivo).

242
La realtà è una sola ed è composta da aspetti oggettivi e anche e inseparabilmente da aspetti
soggettivi, non sono due elementi staccati, ma sono due aspetti di un'unica cosa, della condotta
illecita, che si compone del dato oggettivo e del dato soggettivo.

Pagliaro parla di “significato”, cioè un comportamento oggettivo assume nel mondo sociale un
significato, quindi una consistenza, a seconda dell’elemento psicologico. In questo modo vengono
superate quelle problematiche relative alle contaminazioni tra i vari momenti di cui avevamo parlato
ieri.-> questo tipo di problemi vengono superati. E noi dobbiamo utilizzare questo schema di Pagliaro.

Il principio che ispira tutta la nostra materia è il cd. Rasoio di Occam-> il rasoio taglia, elimina. Il
principio è così espresso: “Entia non sunt multiplicanda praeter necessitatem” cioè “è inutile
moltiplicare gli enti se non sono necessari” ; oppure “pluralitas non est ponenda sine necessitate”
cioè “è inutile porsi una pluralità di problemi se non è necessario”. -> questo metodo è anche
utilizzato dalla scienza. E questo è un po’ il criterio usato per semplificare l’argomento in materia
quando non è necessario. Questo argomento risulta utile per l’argomento che stiamo per affrontare,
cioè la cd. “costruzione separata dei tipi di reato”-> alcuni autori ritengono che per presentare al
meglio la teoria del reato sia necessario costruire tipi diversi di reato a seconda delle principali
caratteristiche che il reato rappresenta, e cioè a seconda che la condotta sia commissiva oppure
omissiva, e il fatto che queste condotte possano essere poste in essere o con dolo o con colpa. (non
si tratta più della struttura, ma dello studio , cioè dell’esposizione. Fiandaca e Musco aderiscono alla
teoria della tripartizione, ma nel momento di esporre e studiare il reato, la materia è trattata in base
allo studio separato dei tipi di reato, tenendo conto dei singoli elementi dei reati e non proporre una
trattazione unitaria.-> ma siccome sono 4 elementi, vengono fuori 4 tipi di reato, quindi questa
costruzione separata vede 4 tipi di reato, cioè:

• il reato commissivo doloso


• il reato commissivo colposo
• il reato omissivo doloso
• il reato omissivo colposo
se si studia dal manuale del Fiandaca, si vede che c’è una parte in cui si studiano questi tipi di reato.

All’interno di questi capitoli si andrà anche a parlare della struttura del reato di cui abbiamo parlato,
ognuno riferito al tipo diverso di reato. In questo modo la casualità va trattata quattro volte e così
tutti gli altri elementi, e ciò, secondo il Prof sovraccarica l’esposizione e non bisogna seguire questo
schema. È un quadro esageratamente frammentato del reato e non ci fa avere un quadro
complessivo.

◆Detto questo esaminiamo quella che è la vera struttura del reato:

dobbiamo fare però una premessa-> il prof sta invertendo l’ordine di disposizione del libro del
Pagliaro, cioè nel testo l’analisi del reato inizia con l’aspetto psicologico, perché Pagliaro dice che il
reato è un fatto illecito per il quale è prevista una sanzione, e questo fatto ha una sua genesi nella
mente dell’autore, il quale concepisce un pensiero e decide di realizzarlo.

243
Nel processo penale si parte dal corpo del reato, cioè la sostanza del fatto, cioè la Fattispecie-> (es
c’è un morto e bisogna indagare-> si parte dal fatto oggettivo e si analizza).

Il Prof ritiene ,invece, che per lo studio è preferibile partire da ciò che oggettivamente il reato
consiste. Detto ciò, se guardiamo l’aspetto oggettivo del reato, questo è composto da tre parti:

• la condotta: comportamento umano che provoca un certo risultato;


• Il nesso causale;
• Evento.
Iniziamo a studiare la Condotta : stabilire la nozione di condotta è complicato e ci avviciniamo
progressivamente. Padovani dice che la condotta ha la funzione di ancorare l’esistenza del reato a un
comportamento oggettivo esteriore. Tutto ciò che rimane nella mente della persona (es odiare una
persona), per il diritto penale è irrilevante (quello che rimane nella mente della persona).

Di ciò se ne parla nell’art 49 primo comma-> reato putativo: qualcosa che io credo sia reato e in
realtà non lo è. E questo art recita <<Non è punibile chi commette un fatto non costituente reato,
nella supposizione erronea che esso costituisca reato>> -> la mera intenzione del soggetto non
assume rilevanza nel diritto penale. Questo problema si pone quando qualcuno intende realizzare un
proposito e procede per gradi alla realizzazione di questo proposito, la realizzazione avanza pian
piano-> a partire da quale momento questa realizzazione assume rilevanza penale? Questa è
l’essenza del delitto tentato -> art 56 c.p. <<Chi compie atti idonei (1), diretti in modo non
equivoco (2) a commettere un delitto, risponde di delitto tentato(3), se l'azione non si compie o
l'evento non si verifica>> . se si immagina di voler uccidere qualcuno, si fa un piano e ciò si realizza
per tappe-> non ho la pistola, mi procuro la pistola, ottengo il porto d’armi, studio la vittima da
bersagliare, mi reco sul posto in cui penso di volerlo uccidere, ecc. il giorno x ci si prepara per
ucciderlo, si prende la mira, ecc. in tutte queste fasi quando c’è una condotta penalmente rilevante?
Lo studieremo a proposito del Tentativo. ->prima nel passato si parlava di atti di esecuzione (punibili),
per distinguerli dagli atti preparatori- (non punibili)-> concetto riproposto dall’art 56 c.p. attuale.

Nella condotta serve un comportamento esteriore e non un qualunque comportamento esteriore,


ma corrispondente alla norma penale incriminatrice.

La condotta ha la funzione di esprimere:

• la necessità di un comportamento esterno, significativo, rilevante per il diritto


• e restringere la punibilità ai soli comportamenti descritti dalla legge penale
Detto questo, passiamo alle nozioni di Condotta, che sono tante;

244
→la più antica nozione di condotta è quella ottocentesca di Condotta = “movimento muscolare” (es
piegare il dito sul grilletto della pistola) e a seconda del reato può essere più o meno grave. È
un’osservazione oggettiva, scientifica. Ma proprio per questo si presta a due inconvenienti:

✓ il primo: non si può tenere conto che sia omissiva (non fare qualcosa)-> è il contrario del
movimento muscolare. Esclude i reati omissivi (che nell’800 erano molto pochi, siamo in uno
stato liberale);
✓ secondo: proposta dal Pagliaro-> in questo modo si assume un approccio che taglia il
significato che i gesti umani possano avere, che sono gesti non muscolari-> posso abbracciare
una persona per affetto oppure per molestarla, ma cambia il significato del mio gesto.
Quindi questa nozione di condotta come movimento muscolare non va bene per tutti i campi di
reati.

245
13/03/2019
Nel 1950 Hazel propose la teoria finalistica della condotta secondo la quale l’uomo agisce sempre
per raggiungere uno scopo, quindi l’azione umana non può essere definita senza tener conto di
questa finalità che il soggetto si propone di raggiungere, scopo che è collegato all’azione stessa.
Così Hazel da una nozione di condotta come azione finalisticamente ridotta ad uno scopo. (In Italia
questa nozione non è genericamente accolta). A causa di questa teoria -per la quale la condotta
(uno degli elementi del fatto tipico) contiene questa finalità e quindi ha questo aspetto soggettivo-
il dolo e la colpa furono fatti rientrare nello stesso fatto tipico, mentre la colpevolezza cambiò
fisionomia: passò da colpevolezza psicologica (cioè come atteggiamento della persona di dolo o
colpa, come si pensava prima) a colpevolezza in senso normativo cioè non è più uno stato mentale
ma un giudizio dell’ordinamento giuridico che rimprovera al soggetto di aver fatto o non aver fatto
qualcosa (cioè diventa la rimproverabilità del soggetto per ciò che ha fatto).
Obiezione sollevata da Hazel stesso: ma se parliamo di azione rivolta ad uno scopo come facciamo
a ricomprendere anche la colpa? Che per definizione esclude la volontà del reo. Hazel così parlò di
finalità potenziale per i delitti colposi: il soggetto avrebbe voluto qualcosa di diverso (es. non
avrebbe voluto fare l’incidente anche se correva troppo), ma questa definizione è insoddisfacente.
Ancora per le condotte omissive Hazel, per rimanere fedele alla sua teoria, disse che l’omissione
consisteva nella possibilità di tenere un’azione finalistica che però non era stata realizzata (es.
omissione di soccorso, potevo soccorrere e quindi attivarmi allo scopo di soccorrere).

Nella seconda metà del 900’ in Germania Jeschecch propose la c.d. teoria sociale per la quale la
condotta è un comportamento umano socialmente rilevante. Questa definizione si adatta a tutti i
tipi di comportamento, anche a quelli colposi e omissivi però rimane un grande inconveniente: per
“socialmente rilevante” può essere inteso tutto, è poco precisa.

Nella dottrina italiana abbiamo una pluralità di opinioni sotto diversi profili:
1) è possibile una definizione che vada bene sia per l’azione che per l’omissione? (ricordiamo che
sono i due tipi di condotta) La dottrina è divisa in quanto:
a) NO: se ci si attiene ad una nozione di tipo naturalistico tanto più difficile sarà ricondurre i due
concetti in un unico, perché dal punto di vista della scienza (ciò che può osservare) l’omissione non
è apprezzabile (non si può percepire) e presuppone un concetto di condotta differente. Per alcuni
(es. Fiandaca Musco) non è possibile ricondurli ad un unico concetto (cioè di fatto umano) in quanto
l’omissione è tutt’altra cosa. L’omissione può essere apprezzata solo sul piano normativo, cioè
quando la legge impone di fare qualcosa e questa non viene fatta. Quindi l’azione è apprezzabile
sul piano naturale mentre l’omissione è apprezzabile solo sul piano normativo.
b) SI: Pagliaro invece sostiene che è possibile un unico concetto che sta nella realizzazione della
volontà. Per Pagliaro anche nella colpa c’è una volontà ma non è quella rivolta verso quell’evento
per il quale si è puniti (es. corro con la macchina e commetto un omicidio colposo, non c’è la
volontà della morte della persona ma c’è la volontà di correre, di fare qualcosa di imprudente).
Nell’azione è evidente la realizzazione della volontà: voglio fare qualcosa e la faccio.

246
Anche nell’omissione il soggetto vuole ottenere un risultato (es. voglio far morire una persona
omettendo di darle i medicinali di cui ha bisogno), la volontà si realizza omettendo. Questa tesi
solitamente si appresta bene per la stragrande maggioranza dei casi ma esistono due eccezioni, dei
casi nei quali manca la volontà:
-l’omissione da dimenticanza (es. l’infermiere non vuole far morire il paziente ma si dimentica di
dargli una medicina fondamentale e il paziente muore)
-movimento maldestro (es. sto pulendo la pistola e parte un colpo)
In questi due casi è evidente che ad es. se io corro con la macchina c’è una volontà, che è quella di
correre mentre nel movimento maldestro ad es. maneggio la pistola e scappa un colpo non c’è
nessuna volontà che si realizza. E su questo punto la dottrina italiana e a sua volta divisa: Mannucci
dice che al centro del reato non c’è necessariamente un’azione (cioè una realizzazione della
volontà) in quanto la nozione base, di tutti i reati, di condotta può essere apprezzata solo sul piano
normativo, i quanto ci sono questi due concetti dove manca la realizzazione della volontà. Per
Manucci per dare una definizione occorre partire da ciò che è comune a tutti i casi di responsabilità
(comprese le due eccezioni), cioè la base giuridica: la legge (cioè il concetto normativo) chiama a
rispondere anche in assenza di un comportamento voluto (la colpa). Quindi il concetto di condotta
va formulato in termini normativi: la condotta è quel comportamento umano per il quale la legge
chiama un soggetto a rispondere, è decisivo il punto di vista della legge. Per Pagliaro invece per
queste due eccezioni, dato che la definizione di condotta come realizzazione della volontà non può
applicarsi, vi è una responsabilità penale senza condotta. Quindi arriva anche lui a dire (mancando
la condotta illecita) la responsabilità penale è un’attribuzione normativa.
Entrambe le teorie per sole due eccezioni arrivano alla stessa conclusione!

Art 42 c.p. definisce ciò di cui stiamo parlando: dice che la regola generale per la responsabilità
penale è il dolo mentre se il legislatore vuole colpire anche la forma colposa deve dirlo
espressamente. Questo non vale per le contravvenzioni, per le quali si risponde indifferentemente
con dolo o colpa.
Tale articolo distingue da un lato azione ed omissione e dall’altro ritiene la coscienza e volontà,
quindi aspetto fisico e psicologico, l’aspetto fisico da solo non può essere considerato perché gli atti
umani sono intrinsecamente dotati di uno sforzo del volere. Quindi ogni condotta illecita, sia dolosa
che colposa, necessita di coscienza e volontà. Ma la coscienza e volontà dell’azione ed omissione
non vanno confuse con il dolo: questo si riferisce all’evento cui sono chiamato a rispondere -ad es.
provoco la morte della persona, ma se lo faccio correndo molto con l’auto in questo caso ci sarà
solo colpa in quanto non corro per uccidere qualcuno-. Mentre la coscienza e volontà si riferisce alla
condotta -ad es. corro molto con l’auto, voglio farlo. Se invece non è voluto, ad esempio si rompono
i freni, manca oltre il dolo anche la coscienza e volontà-. Sia nel delitto colposo che doloso ci vuole la
coscienza e volontà della condotta. In quei due casi in cui manca la coscienza e la volontà
(omissione da dimenticanza e movimento maldestro) la dottrina è divisa:
- alcuni ritengono che anche in questi casi ci sia un pur minimo coefficiente di coscienza;
- mentre Pagliaro che non c’è la coscienza e la volontà, sono casi di responsabilità senza queste.
Come giustifica il fatto che l’art 42 richiede sia la coscienza e la volontà della condotta illecita ?

247
Nel libro dice che anche se queste devono sussistere nella condotta illecita, se la legge chiama a
rispondere anche in loro assenza, non ha senso andar a cercare una coscienza e volontà in quanto
manca. Quindi in questi due casi è possibile poter risponderne in quanto è la legge che non esige la
sussistenza della coscienza e volontà.

La coscienza può mancare per ragioni fisiologiche, es. chi dorme, o patologiche, es. un malore
improvviso. Questo non significa che non ci sia né responsabilità né colpa, in questi casi non bisogna
guardare se ci sia o non ci sia una colpa (quindi alla coscienza) al momento in cui si verifica il fatto
ma ad un momento anteriore, in cui il soggetto si sia posto in una certa posizione da cui
incontrollabilmente può derivare un certo risultato. Ad es. guido un aereo sapendo di soffrire di
epilessia e con una crisi perdo il controllo di questo. In questo caso non posso dire che non ci sia la
coscienza in quanto occorre guardare al momento in cui mi sono messo alla guida. Parte della
dottrina parla di azione liberatoria in causa e cioè è una azione che è libera (l’ho fatto liberamente)
nel momento in cui si immessi nella posizione in cui non si può uscire. Altri come Fiandaca Musco
dicono che in questi casi i concetti di colpa e di condotta si tengono insieme, cioè si può dire che ci
sia una condotta finché c’è colpa e viceversa (mi sono messo alla guida alla guida pur sapendo di
star male costituisce una condotta perché sono colpevole, viceversa siccome sono colpevole
diciamo che c’è un comportamento).
Occorre poi distinguere:
a) atti privi di coscienza e volontà: atti riflessi, es. un riflesso del muscolo mi fa alzare la gamba,
atti istintivi, es. una luce mi abbaglia e chiudo le palpebre.
b) atti con coscienza e volontà: atti automatici, il soggetto non esercita in modo costante il
controllo della coscienza ma agisce automaticamente (es. camminare lo facciamo senza pensarci
ma sono coscienti perché decidiamo dove vogliamo andare), atti abituali (es. buttare a terra il
mozzicone della sigaretta per abitudine, senza preoccuparmi, manca un lucido pensiero ma posso
decidere di non farlo).

I reati senza condotta consistono nell’essere colti in una determinata situazione senza che il
soggetto faccia niente. Stiamo parlando dell’art 708 c.p. “Chiunque, trovandosi nelle condizioni
personali indicate nell'articolo precedente, è colto in possesso di denaro o di oggetti di valore, o di
altre cose non confacenti al suo stato, e dei quali non giustifichi la provenienza, è punito con
l'arresto da tre mesi ad un anno ” è una convenzione dichiarata illegittima (per ragioni processuali)
in quanto la prova di non aver commesso il fatto non può essere data dal reo (inversione della
prova) ma per una regola generale del processo penale è l’accusa che deve fornire tale prova. Prima
che venisse dichiarata illegittima, ci si chiedeva se questo fosse un reato senza condotta, dato che il
soggetto non sta facendo assolutamente nulla, in quanto è un altro che lo trova in possesso di
qualcosa. Per altri la condotta è il tenere presso di sé quegli oggetti, ma allora qual è il disvalore di
tenere un oggetto di valore presso di sé? Nessuno, il disvalore dovrebbe stare nel rubare e non nel
solo fatto del possesso in sé.

In conclusione, possiamo definire la condotta come quel comportamento umano corrispondente ad


una fattispecie penale incriminatrice che la legge penale voleva impedire, quindi condotta illecita.

248
A seconda delle modalità dell’azione, occorre poi distinguere tra:

- reati a forma vincolata, nei quali l’azione deve corrispondere perfettamente a quella che la legge
descrive altrimenti non c’è reato. Es. la truffa “mediante artifici o raggiri procura un ingiusto
vantaggio patrimoniale con l’altrui danno”, solo in presenza di queste condizioni vi è reato.

- reati a forma libera (o reati causali puri), per i quali la legge non descrive la condotta ma si serve
di altri parametri per indicare il fatto punibile, in particolare del nesso causale, cioè è punito chi
causa un certo risultato. La condotta può assumere svariate forme alla sola condizione che siano
capaci di provocare un certo risultato. Es. l’omicidio “chiunque cagiona la morte di un uomo” non si
descrive la condotta, come si può cagionare la morte -non importa il modo della condotta ma il
risultato!-. Il legislatore si serve di questi reati per tutelare beni di maggior importanza (l’incolumità
pubblica, la vita, la salute pubblica...), perché non guarda a come il soggetto ha agito ma vieta
qualunque tipo di condotta che in qualsiasi modo abbia potuto arrecare offesa al bene in questione.

249
18/03/2019
Abbiamo detto che la condotta può essere costituita da due componenti quali l’azione o omissione
per le quali occorre la coscienza e la volontà. Però, occorre distinguere la coscienza e volontà
dall’azione, dal dolo, il quale è volontà. Ma mentre il dolo è riferito all’evento del reato, la coscienza
e volontà di cui parla l’art 42, si riferisce ad azione o omissione. Infatti, se qualcuno fa un incidente
stradale e provoca la morte una persona, l’eventuale volontà si riferirebbe alla morte quindi il dolo
si riferisce alla morte della medesima e non essendo voluto, l’incidente stradale, si tratta di delitto
colposo. Mentre la volontà di azione o omissione consiste nella volontà ad esempio di correre
eccessivamente con la macchina. Stessa cosa vale anche per l’omicidio doloso, investo una
persona per provocarne la morte , allora un conto è la coscienza e volontà della condotta, voglio
andare a 100 allora, e un'altra cosa è il dolo riferito alla morte, voglio investire quella persona per
provocarne la morte. Quindi Coscienza e volontà dell’azione è un primo requisito, azione che
comunque può essere involontaria quando è compiuta in una condizione di malore fisico, cosi come
l’evento oppure no. Quindi distinguere coscienza e volontà dell’azione.

Poi abbiamo notato che coloro che ritengono ( come Pagliaro) che la condotta illecita vada
considerata come volontà che si realizza e questo anche nei delitti colposi, tendono ad affermare
che esistono reati colposi senza condotta illecita, che sono i due casi di omissione da dimenticanza,
in cui non c’è volontà e condotta illecita, cosi come nel movimento maldestro( scappa la mano del
chirurgo che provoca un danno al paziente). In questi casi ci sarebbe una responsabilità penale
senza condotta illecita. Pagliaro dice, ma come è possibile una responsabilità penale senza
coscienza e volontà? E risponde che la coscienza e volontà si riferisce alla condotta illecita, ma se ci
sono casi di responsabilità senza condotta illecita, non ha senso chiedere una coscienza e volontà
dato che la condotta illecita manca. Altri autori invece sostengono un concetto normativo di
condotta laddove l’ordinamento chiama il soggetto a rispondere, ritengono che ci sia una pur
minima coscienza e volontà anche in queste due ipotesi di movimento maldestro e omissione da
dimenticanza. Parlando distintamente di azione e omissione…

Per l’azione, per la maggioranza dei casi ci sarà movimento corporeo del soggetto e bisogna
distinguere reati a forma libera, detti anche causali puri, dove il legislatore, non descrive la forma
del comportamento, dell’azione, ma si limita a dire che qualunque azione che causi quell’azione
morte di un uomo ad esempio, qualunque condotta è tipica e corrisponde alla fattispecie
incriminatrice, perché qualunque condotta che abbia causato quel risultato è penalmente rilevante.
Il parametro in base al quale si afferma o nega la tipicità del comportamento è il nesso causale, se
quella condotta è causa dell’evento è tipica , corrisponde alla legge penale. Reati a forma vincolato,
la legge descrive esattamente il comportamento. Ad esempio, Art 73 testo stupefacenti in cui il
legislatore condanna chi mette in transito e commercia stupefacenti, precisando le modalità della
condotta e se uno fa qualcosa di non corrispondente non è punito.

Circa l’omissione, il primo problema è stabilire se esiste o meno un concetto superiore ,unitario, che
ricomprenda insieme azioni e omissioni, ci sono due posizioni contrastanti.

250
Pagliaro dice che è possibile ricondurre azione e omissione al concetto di condotta illecita, perché
anche nell’omissione vi sia una condotta illecita, intesa come volontà che si realizza attraverso
un’omissione, un non intervento. Ad esempio, Sono il medico, il paziente voglio che muoia, ma
invece di dargli il medicinale, non gli e lo somministro e ad adempio alla mia volontà di ucciderlo
Altra dottrina dice che l’omissione sia un concetto normativo e coincida con il mancato
compimento di un’azione che la legge diceva di compiere a pena di una sanzione.

Effettivamente l’omissione non si può apprezzare sul piano naturalistico, l’omissione si tratta di non
far qualcosa, è la mancanza di un comportamento dal punto di vista naturalistico.

La responsabilità non si fonda però sul nulla, cosi che parte della dottrina ha ritenuto che per
definire il concetto di omissione si debba ricorrere al concetto dell’aliud agere, cioè fare
qualcos’altro rispetto a quello che si doveva fare, quindi l’omissione sarebbe un comportamento
osservabile naturalisticamente, qua, coinciderebbe nel comportamento positivo che il soggetto ha
tenuto invece di fare quello che doveva, per esempio nell’omissione di soccorso tizio che ha
investito una persona, si allontana invece di assisterla, allora l’omissione consisterebbe nello
scappare e più in generale nella diversa azione che il soggetto sta facendo invece di fare quello che
la legge gli chiederebbe. Questa teoria però non può essere accettata, perché sarebbero
penalmente rilevanti comportamenti privi di rilevanza penale. Si potrebbe dire rilevante il fatto di
scappare, se pensassimo però alla madre che dovrebbe nutrire il neonato ma fa un viaggio o solo
rimane ferma senza fare niente, è evidente che queste azioni in se stesse, non in rapporto
all’evento, non possono essere fondamento di responsabilità penale. Bisogna considerare piuttosto
non quello che il soggetto sta facendo ma quello che il soggetto avrebbe dovuto fare. Questa teoria
va incontro a inconvenienti.

Se si dice che l’omissione consista nel fare cosa diversa, si considererebbe questo qualcos’altro che
si fa, come ciò che determina il comportamento punibile, e quindi riferire a questo far altro, la
commissione nel momento temporale ad esempio. Quindi Le disposizioni riferite a spazio e tempo
dovrebbero essere riferite ad altro comportamento.

In realtà, C’è una sola considerazione che si può ricavare utilmente dall’aliud agere, cioè, se il
soggetto nel momento in cui non ha fatto quello che avrebbe dovuto fare, si trovava
nell’impossibilità di farlo, avendo un impedimento, perché ad esempio era malato o sequestrato da
qualcuno, non incorre a una responsabilità penale, perché non poteva adempiere al suo obbligo e
quindi si può prendere la condizione di questo aliud agere, solo nella misura in cui da questo derivi
l’impossibilità di tenere il comportamento dovuto.

Allora rimane quella contrapposizione circa il concetto di omissione tra le due concezioni, e cioè
quella di Pagliaro che anche nell’omissione vi sia condotta illecita consistente nella realizzazione
della volontà, Sia intervenendo nel mondo esterno sia non intervenendo quando si sa che il decorso
naturale delle cose condurrebbe a un certo risultato, e pur essendo tenuto ad intervenire ci si
astiene dall’intervenire realizzando una propria volontà.

251
Questa condotta omissiva va però distinta però dalla pura e semplice inerzia, dal mero non fare,
una condotta omissiva, secondo Pagliaro, in tanto sussiste in quanto il soggetto voleva raggiungere
un certo risultato e lo ha raggiunto, non intervenendo nel divenire causale orientato verso quel
risultato.

Bisogna distinguere tra vera condotta omissiva, nella quale il soggetto realizza la sua volontà in base
alle sue conoscenze non intervenendo a modificare le cose che vanno in un certo modo, ad esempio
l’infermiera folle decide di far morire il paziente e volontariamente non dà la pillola e ne causa la
morte ( condotta omissiva), invece il puro non fare, non associato a questa volontà non
integrerebbe una condotta omissiva. Per capire ciò bisogna parlare di dolo e delle forme di volontà
del dolo. Rinvio.

Altri autori come Fiandaca, ritengono che non si possa in nessun caso considerare il concetto di
omissione in questo modo, come qualche cosa in cui il soggetto sta realizzando la sua volontà,
ottenendo un obbiettivo attraverso l’astensione dall’azione, perché invece l’omissione, secondo
questi autori, ha matrice normativa, avrebbe una sua consistenza esclusivamente dal punto di vista
del diritto, è soltanto un giudizio dell’ordinamento che dice” tu sei responsabile per non aver fatto
ciò che io ordinamento, ti obbligavo di compiere”. Quindi l’omissione è qui un elemento normativo
nel quale il soggetto è considerato dalla legge responsabile per non essere intervenuto quando
avrebbe potuto. In tutti i casi, perché si possa dire che vi sia condotta omissiva, è necessaria la
possibilità di intervenire e compiere ciò che si doveva compiere per legge …. se il soggetto non può
intervenire , non si parla di responsabilità penale.

Nei reati omissivi, la loro punibilità è qualche cosa di variabile nel tempo in rapporto alla concezione
del diritto e vi dicevo che nello Stato liberale ottocentesco, che riteneva che lo Stato dovesse
impedire conflitti tra cittadini, restando neutrale a ciò che i cittadini facessero. I reati omissivi erano
pochissimi, perché si pensava che non si potesse imporre a qualcuno dietro minaccia di una
sanzione, perché ognuno è libero di comportarsi come vuole ma non deve agire per recare offesa ai
beni giuridici.

La responsabilità penale era un una responsabilità per l’azione, io stato ti vieto di fare danno ma
non ti impongo di intervenire ed agire. Il nostro stato costituzionale invece è diverso, come
sappiamo nella nostra costituzione c’è uno spirito solidaristico, la Repubblica non è indifferente
rispetto a ciò che capita ai cittadini ma sente come compito suo di promuovere determinate
condizioni di vita ( uguaglianza, sviluppo della persona ecc…)e in qualche caso fa carico anche ai
singoli di impegnarsi in questo senso, cosi che i reati omissivi sono maggiori rispetto che per il
passato. Ad esempio, l’ omissione di cautele antiinfortunistiche, il datore deve dotare il luogo
lavorativo con presidi infortunistici, perché l’integrità fisica del lavoratore deve essere
salvaguardata e il datore non può dire non ho fatto nulla per danneggiare la sua salute, perché
l’ordinamento ritiene al contrario che il datore debba far qualcosa di positivo per evitare che
possano venire dei danni. Se non fa ciò risponde a doppio titolo, per il puro fatto di avere omesso di
collocare certi impianti infortunistici e pure se da questa omissione derivasse un evento lesivo come
lesione o morte del lavoratore.

252
Nel nostro ordinamento sono tanti i reati omissivi. Ciò non significa che lo stato sia autoritario, cioè
punisca il cittadino per violazione di un’obbedienza di una fedeltà, da un dovere di solerzia, si tratta
piuttosto di un’ampia tutela dei bei giuridici, tutela che si concretizza non esclusivamente con il
divieto di far danni ma anche attraverso l’imposizione di attivarsi perché non ci sia danno. Ad
esempio, Le omissioni in ambito tributario non sono punizioni al cittadino infedele ma è perché
provoca danno al fisco, all’erario pubblico e si vuole mantenere sano l’interesse che l’erario abbia
fondi per poter fare ciò che si richiede.

I reati omissivi si distinguono in due gruppi: propri o puri e impropri detti anche commissivi
mediante omissioni. Per intenderci, quelli propri, sono omissioni di atti di ufficio o omissioni di
soccorso o omissione di referto da parte di un medico mentre i reati omissivi impropri sono
rappresentati dal non dare ad esempio la medicina al paziente. Quelli puri sarebbero reati di mera
condotta, mentre i secondi reati di evento. Nel primo caso la legge penale punirebbe il fatto che
una persona non ha fatto qualcosa, per esempio omissione di rapporto, il pubblico ufficiale dopo
aver assistito a un avvenimento non fa un rapporto, quindi non fa un qualcosa che in realtà gli
spettava di fare. Nel secondo caso si tratta di reati evento in cui si provoca un certo evento e
risultato, proprio non facendo ciò che si era tenuti a fare. Il soggetto è punito per aver provocato
quell’evento, la morte del paziente è provocata dall’omissione dell’infermiera che non ha fatto
quello che doveva fare. I reati omissivi impropri sono fondati sull’art 40 del Codice penale il quale
nei due commi, indica al primo comma la causalità dell’azione cioè provocare un risultato, un
evento facendo qualche cosa, ma al secondo comma descrive, regola, la causalità dell’omissione
stabilendo che non impedire un evento che si ha l’obbligo giuridico di impedire equivale a
cagionarlo.

Osserviamo che da questa disposizione, secondo comma deriva che per la legge penale quel
risultato, la morte del paziente è causato dal medico o infermiera che non ha fatto quello che
avrebbe dovuto, quindi la legge penale considera evento come quello causato dal soggetto che
doveva fare qualcosa ma non l’ha fatto. Quindi reati omissivi impropri, reati di evento, o commissivi
mediante omissione cioè attraverso un’omissione non dare la medicina, si provoca la morte del
paziente.

Parte della dottrina però ha dato e proposto u diverso criterio di distinzione. Quello indicato, è che
quelli propri sono di mera condotta, ed vento quelli impropri. Altro criterio è che i reati omissivi
propri sono quelli che la legge penale descrive in una fattispecie incriminatrice Apposita, siano essi
di condotta o evento mentre i reati omissivi impropri sarebbero quelli che risultano dal combinato
disposto di una singola fattispecie incriminatrice speciale che descrive reato di azione associato al
secondo comma art 40 che dice che non impedire un evento equivale a cagionarlo. Nel caso di
omicidio, associando art 575 al secondo comma art 40, non impedire la morte di un uomo equivale
a cagionarla. Da questo quadro emerge che gli omissivi propri sono descritti nel loro fatto tipico, da
una norma incriminatrice della parte speciale, mentre gli Omissivi impropri dal combinato disposto
di una norma incriminatrice di parte speciale che descrive un reato di azione, associato all’art 40
secondo comma che stende la responsabilità anche al caso in cui il soggetto non abbia agito ma
abbia omesso di far qualcosa di rilevante.

253
Chiunque cagioni morte di uomo è una fattispecie commissiva,

l’Art 316- bis statuisce che chiunque sia estraneo alla pubblica amministrazione, avendo ottenuto
dallo stato, contributi, sovvenzioni o finanziamenti destinati per la realizzazione di opere o
svolgimento di attività di pubblico interesse, non li destina alle già menzionate finalità è punibile
con la reclusione fino a 4 anni. Questa è una fattispecie omissiva ed il fatto tipico descritto dalla
legge consiste nel non destinare questi contributi alle già menzionate finalità, quindi abbiamo un
comportamento omissivo.

Circa il 316 -bis, questa è fattispecie omissiva, è pur vero che avendo dei contributi un soggetto può
costruirsi la casa ma questo non è un reato commissivo sol perché il medesimo si costruisce la casa,
infatti se dobbiamo descrivere la fattispecie incriminatrice, bisogna dire che si tratta di un reato
omissivo cioè il fatto tipico descritto dalla legge consiste nel non destinare i contributi alle finalità
prescritte da quest’ultima. La fattispecie tipica prevista dalla legge è costituita quindi da
un’omissione ovvero non destinare i contributi.

Invece tornando al primo esempio, come si può cagionare la morte di un uomo? A questo
proposito bisogna tenere in conto le due grosse categorie di Azione o omissione.
Chiunque cagioni la morte di un uomo è una fattispecie commissiva, mediante azione o
commissione, la fattispecie in sé è commissiva ed è realizzata tramite un comportamento attivo, un
esempio è sparo e provoco la morte.
Nell’omissione invece la fattispecie rimane commissiva ma può essere realizzata mediante
omissione, provoco morte non dando la pillola. Quindi fattispecie commissiva mediante azione,
sparo e provoco la morte a qualcuno, e fattispecie commissiva mediante omissione, sono
un’infermiera e non do la pillola al paziente provocandone la morte.
Il non Destinare contributi alle finalità prescritte dalla legge all’art 316-bis si concretizzerebbe con
un’azione ( costruirsi la casa) ma anche attraverso un’omissione etc. tenendo ad esempio
conservati i soldi nel cassetto. Abbiamo qua una fattispecie omissiva perché il reato è omissivo,
mediante azione, ovvero fattispecie omissiva mediante omissione. Nel primo caso abbiamo una
fattispecie omissiva realizzatasi con un comportamento commissivo, quei soldi li impiego per
costruire la casa.
Ma succede, come nel secondo caso che la fattispecie omissiva si realizzi senza compiere un’azione,
prendo i soldi e me li conservo nel cassetto.

Parlando invece dei presupposti della condotta, essi sono eventi che accompagnano la condotta e
che danno alla condotta un certo significato. Ad esempio, atti abortivi su donna incinta, se essa non
è incinta si può rispondere di altri atti come lesione e percosse… e non di atti abortivi se non è
incinta. Questi presupposti devono essere conosciuti oppure conoscibili, non è necessario che siano
voluti o posti in essere dallo stesso soggetto. Qualche volta presupposto del reato è una qualità
della persona offesa, della vittima, in questo caso sarà necessario conoscere la qualità della
persona. Per oltraggio del magistrato in udienza, si deve sapere che quella persona è un magistrato.

254
In casi eccezionali però si prescinde dalla conoscenza della persona, era la situazione tipica della età
della vittima in un caso violenza sessuale, ove non aveva importanza se l’autore del reato, fosse
consapevole che la vittima avesse un’età inferiore che le legge indica ad esempio 16 anni, più
recentemente però questo particolare della qualità della persona offesa è stato modificato e si
richiede almeno sulla colpa dell’agente circa l’errore sull’età, se esso è dovuto a circostanze che
non si possono fare, allora il soggetto non ne risponde.

La Condotta come detto, si presenta come azione o omissione, e l’evento è l’ultimo elemento che la
determina. Tra condotta ed evento vi è il nesso di causalità. Ci sono due disposizioni del Codice
penale che fanno riferimento all’evento. L’art 40 parla di rapporto di causalità, art 43 invece di
elemento psicologico del reato, due facce della stessa medaglia.

Sotto questo profilo è rilevante il nesso di causalità, l’evento deve essere conseguenza dell’azione o
omissione. Secondo l’Art 40, nessuno è punito per un fatto che non sia prevedibile dalla legge come
reato, se l’evento dannoso o pericoloso da cui dipende il reato non è conseguenza della sua azione
o omissione.
Questa parola “conseguenza” descrive il rapporto di causalità.

L’evento è quindi dannoso o pericoloso e poi si dice anche che dall’evento dipende l’esistenza del
reato. Senza evento di fatti, non c’è reato.
l’Art 43 fa leva invece sull’ elemento psicologico del reato, l’evento dannoso o pericoloso da cui la
legge fa dipendere il reato, deve essere voluto precisamente come conseguenza dell’azione o
omissione

Ma cosa è l’evento ?
Ci sono tre teorie a riguardo. La prima teoria è considerare l’Evento in chiave naturalistica:
collochiamolo nell’ambito del pensiero, in realtà c’è un modo di considerare aspetti del diritto
penale in termini scientifico oggettivi, in termini naturalistici che è stato tipico della cultura
positivistica di fine Ottocento, che ancora oggi ha ampio seguito e molti continuano a pensare
all’evento come accadimento naturalistico. Evento in senso naturalistico È una modificazione del
mondo esterno distinta dalla condotta del soggetto e provocata da questa. La morte di un uomo è
l’evento nell’omicidio, nell’incendio l’evento è una vasta propagazione del medesimo. Quali sono i
vantaggi?

È facile accettarlo, un evento da pensare in questi termini si può filmare, gli svantaggi si
concretizzano invece nel fatto che non tutti i reati hanno un evento, perché ci sono quelli di mera
condotta, e di conseguenza non è facile in questi casi distinguere la forma dolosa da quella colposa
oltre al fatto che nel mondo umano un evento non si presenta mai in termini oggettivi perché è
carico di un senso, di un significato, prima cosa non tutti i reati hanno un evento in senso
naturalistico, ci sono reati di condotta, come delitti di evasione, chi è in carcere ad esempio ed
evade, si sposta col suo corpo ed esce dal posto di detenzione, quale sarebbe l’evento esteriore
distinto dall’azione in questo caso cioè movimento corporeo del soggetto?

255
Non ce n’è, perché tutto il reato consiste in un movimento fisico del soggetto che in questo caso si
sposta da un posto a un altro.

Ora si dice non va bene che ci siano reati di sola condotta, la formula dell’art 40 è generale che
indica un connotato irrinunciabile per tutti i reati , cioè, che nessuno è punito se l’evento dannoso o
pericoloso da cui dipende il reato non è conseguenza della sua azione o omissione. ci indica, ci
orienta verso il fatto che tutti i reati devono avere un evento. Però siccome non tutti i reati hanno
un evento in senso naturalistico, questo è già un’inconveniente.
Secondo inconveniente… non è possibile distinguere per i reati senza evento naturalistico, la forma
dolosa da quella colposa, il delitto è doloso quando l’evento è voluto, ma se non c’è evento non c’è
previsione e volontà e non si può stabilire se il delitto è stato preveduto e voluto o causato da
negligenza e imperizia.
Il problema è per i reati senza evento naturalistico, se la distinzione dolo e colpa si fa con l’evento,
quando questo non c’è come distingui tra dolo e colpa. Ad esempio, gli atti osceni non sono più
puniti , la forma colposa costituisce illecito amministrativo, In questi atti non c’è un evento, come si
fa a distinguere quelli dolosi o colposi .

Questo è un grande inconveniente, inoltre si osserva che da questa mentalità naturalistica, spesso
un risultato esterno è per il diritto, diverso a seconda dall’intenzione del soggetto, non si può
considerare l’accadimento, quello che succede, nel suo puro aspetto obbiettivo tecnico scientifico
perché avvenimenti che interessano diritto sono carichi di senso umano, e non possiamo dare
un’idea puramente oggettivistica e naturalistica dell’evento che non si presta descrivere quei
risultati che sono il frutto di un’azione umana e sono visti e provocati per il senso che hanno.

256
19/03/2019
L'evento
Ci sono diverse nozioni riguardo all'evento:
•la prima è l'evento in senso naturalistico, come un accadimento esteriore distinto (questo è il
punto fondamentale) dalla condotta del soggetto che lo provoca. Questa teoria ha un
inconveniente perché ci sarebbero per ammissione degli stessi sostenitori reati di mera condotta e
quindi senza evento. È un problema perché:
1. la formula generalissima dell'art 40 ("nessuno può essere punito se l'evento dannoso e pericoloso
non è conseguenza dell'azione o omissione") sembrerebbe dire che in ogni reato ci debba essere un
evento.
2. non si può distinguere in mancanza di evento tra reato doloso e colposo perché è in riferimento
all'evento che la legge (art.43) che la legge distingue tra eventi dolosi e colposi: se l'evento è voluto
il reato è doloso, se l'evento è dovuto a negligenza ecc è colposo.
3. L'idea di evento esclude un riferimento al senso( che un certo avvenimento può avere nel mondo
esterno) che dipende da quello che ad esso dà la persona che lo compie. Un senso di un
avvenimento cambia da contesto a contesto però, quindi non è una giusta raffigurazione della
realtà.
•la seconda teoria parla di evento in senso giuridico, sarebbe l'offesa al bene protetto dalla legge
penale. Questa teoria ha alcuni vantaggi e alcuni svantaggi.( in ogni caso non è accettabile).
vantaggi=
1-corrisponde alla terminologia del legislatore, al testo della legge che parla di evento dannoso o
pericoloso( bisogna ricordare che in riguardo all'offesa al bene giuridico si è detto che l'offesa si
può presentare nelle due forme del danno o del pericolo: offesa è l'oggetto generale e si divide in
due specie cui fanno riferimento e ripetono l'art 40 e il 43). L'evento consiste in un’offesa al bene
protetto dalla legge penale.
2. un simile evento c'è teoricamente in tutti i reati, il reato nella sua definizione è l'offesa al bene
giuridico, quindi non ci sarebbero reati privi di evento anche in quei reati dove non c'è una
modificazione del mondo esterno distinta dalla condotta in senso naturalistico, anche qui c’è
un’offesa al bene giuridico. Non ci sarebbero reati senza evento.
svantaggi=
1 obiezione superabile, meno grave. il concetto di offesa non sta sullo stesso piano dell'azione o
omissione, perché è un giudizio di disvalore, mentre noi abbiamo cercato un avvenimento ,
un’azione che causa un risultato, l'evento deve essere qualcosa che si trova, che sta come
conseguenza sullo stesso piano dell'azione o omissione che è una realtà fenomenica, si vede , si
tocca. Il risultato deve essere sul piano degli accadimenti, come l'azione così l'evento. Non può
essere un giudizio di valore o disvalore in questo caso; come è l'offesa (= l'ordinamento giuridico
dato un fatto lo valuta come offesa).
2 obiezione insuperabile, accettando tale nozione comporterebbe la necessità di formulare due
diverse nozioni di evento una rispetto l'art.40 ( di cui ci stiamo occupando- l'evento dannoso o
pericoloso è la conseguenza dell'azione o omissione-), e un’altra diversa rispetto l'art 43(-il delitto è
doloso quando l'evento dannoso o pericoloso è prevveduto e goduto) seppure con le stesse parole (
evento dannoso o pericoloso): è infatti sicuro che nell'art 43 l'evento non può essere giuridico,

257
e quindi ci sarebbero due diverse nozioni che non è ragionevole.
Perché nell'art 43 l'evento di cui la legge parla non può essere l'evento inteso in senso giuridico?

Tale articolo parla dell'elemento psicologico del reato del dolo e della colpa;
se l'evento affinché il soggetto sia in dolo, dovrebbe essere provveduto e goduto il soggetto
dovrebbe essere consapevole di offendere il bene protetto dalla legge penale e quindi dovrebbe
conoscere la legge penale, per essere consapevoli che il proprio comportamento è offensivo. Ma
poiché l’art. 5 stabilisce che nessuno può invocare a propria scusa l'ignoranza della legge penale
non può essere questa l'idea di evento.
Altrimenti si accetterebbe che il soggetto possa giustificare il proprio dolo usando la scusa
dell'ignoranza, della non conoscenza della legge penale, e questa costituirebbe una ragione di
scusa. ciò sarebbe inaccettabile.

Queste osservazioni sono confermate dalla sentenza della Corte costituzionale sull'art 5 la numero
364|1988 questa ha confermato che nessuno può invocare a propria scusa l'ignoranza della legge
penale a meno che non si tratti di ignoranza inevitabile che la legge ha individuato e solo per i delitti
di pura creazione legislativa, non per i delitti naturali. Non si richiede la conoscenza effettiva ma la
possibilità di conoscere che dipende dal fatto che la legge sia formulata in modo chiaro, non ci siano
contrasti giurisprudenziali, non ci sia un assicurazione dell'autorità pubblica che dice sì questo si
può fare ecc. >la possibilità di conoscere è diversa dalla conoscenza effettiva( che io lo sappia o non
sappia delle pubblicazioni del matrimonio per dire è un fatto occasionale, ciò che conta è che avevo
la possibilità di conoscere), ( lo stesso se viene fatta una notifica e io non sono a casa, legalmente
avevo la possibilità di conoscere, questa viene depositata nella casa comunale).
Per la legge penale si richiede sempre per questi la possibilità di conoscere, non l'effettiva
conoscenza ( con la concezione dell'evento in senso giuridico si richiederebbe un’effettiva reale
conoscenza della legge penale per poter essere idonea ). E questo aspetto dell'evento in senso
giuridico sarebbe in contrasto con l'art 5 pur nella rilettura data dalla Corte costituzionale.

• La terza teoria è:
La nozione di evento significativo:
l'accadere esteriore nel suo significato umano e sociale.
Questa nozione è pensata per superare gli inconvenienti delle altre due.
rispetto alla nozione di evento in senso giuridico-
prescinde dalla conoscenza della legge penale( parla di significato umano e sociale non si richiede la
conoscenza della legge penale per essere consapevoli che ciò che si sta facendo ha un senso nei
rapporti umani e sociali)
rispetto alla nozione di evento naturalistico-ha due vantaggi:
1-c'è in tutti i reati,
anche quelli che sarebbero privi di evento( violazione, omicidio, atti osceni) ovvero non c'è un
accadimento esteriore distinto dalla condotta, ma ci sarebbe lo stesso un accadimento esteriore
dotato di significato umano e sociale. ( evasione dal carcere, non c'è un evento in senso
naturalistico, Tizio si è solo spostato dal carcere c'è solo un movimento corporeo, non un
accadimento distinto, ma c'è comunque un fatto dotato di rilevanza umana e sociale).

258
2-colora, arricchisce l'evento del suo senso e significato, si attribuisce a questo comportamento
l'indispensabile connotazione di senso che per il diritto penale è indispensabile per fare cogliere
quel che è successo. Non è il puro dato fisico naturale, ma l'accezione di significato.

Obbiezioni
questo evento in tutti i casi in cui non si distingue dal movimento corporeo del soggetto, e quindi
l'evento significativo coincide con la condotta, non si può presentare questo come conseguenza
della condotta legata da un nesso di causalità perché si identifica con la condotta stessa, si
esaurisce, non c'è una conseguenza diversa provocata dalla condotta e a questa collegata
attraverso il nesso di causalità.
Ma l'art 40 parla di conseguenza come cosa necessaria per la punibilità vuol dire che deve essere
conseguenza dell'azione e omissione, non si può identificare con essa.(stessa obbiezione che vale
anche per l'evento naturalistico).

Contrizione
sarebbe così se intendessimo il nesso di causalità(come vedremo che non è) come una
conseguenza intesa in senso fisico e naturale, invece il senso di causalità può essere inteso come
una conseguenza in senso logico ( se non ci fosse l'uscita di tizio dal carcere non ci sarebbe
l'accadimento che chiamiamo evasione del pericoloso detenuto), in senso puramente logico non
fisico( se non c'è A non c'è nemmeno B).
In realtà così rispondendo non diciamo niente di diverso rispetto a questo tipo di situazioni ( reati
privi di un accadimento distinto dalla condotta) sotto il profilo causale rispetto a quanto detto nella
teoria dell'evento in senso naturalistico( le due cose coincidono).

Rimangono gli altri pregi, questo non è un danno particolare.


•soprattutto che a differenza della concezione dell'evento naturalistico questa consente di
distinguere tra la situazione colposa da quella dolosa. Lì l'evento manca e quindi non c'è distinzione
tra forma dolosa e colposa dato che il dolo si riferisce all'evento. mentre qui c'è sempre l'evento
anche se in questa ipotesi materialmente si sovrappone alla condotta.
In realtà il nesso di causalità deve essere esattamente concepito come un rapporto logico nella sua
natura, non fisico naturale.

Rapporto di causalità

Innanzitutto, in ogni reato deve esserci un rapporto causale; riconsideriamo l'art.40 che è
sostanzialmente la prima delle disposizioni che il codice dedica al reato ( titolo III) .
Comincia con l'art 39 che distingue tra delitti e contravvenzioni in base alle diverse sanzioni,
e l art.40 e 41 ancor prima di indicare la condotta (art.42 azione e omissione) .
"nessuno può essere punito per un fatto provveduto dalla legge come reato se l'evento dannoso o
pericoloso da cui dipende l'esistenza del reato non è conseguenza della sua azione o
omissione(condotta).

259
Non impedire un evento che si ha l'obbligo di impedire equivale a cagionarlo"
la parola conseguenza colloca la necessità
del nesso di causalità, l'evento deve essere conseguenza dell'azione o omissione.

•L'azione e omissione sono la causa,


• l'evento è l'effetto,
•il legame è dato dal rapporto di causalità,

questa è la nozione elementare del diritto penale, essenziale di civiltà giuridica: uno non può
penalmente rispondere per gli accadimenti provocati da altri(1)
, ovvero che si verificano per conseguenza di pure forza naturali (2). Fatto proprio ( proprio ha
diversi sensi, ma il minimale senso è che sia stato provocato da chi ne deve rispondere.)

Questo è stabilito anche a livello costituzionale art27 1 comma ( la responsabilità penale è


personale)
Questo comma ha due contenuti>
•una minimale, base, elementare
l'idea base è che ognuno può rispondere solo per quello da lui provocato non per ciò che altri
hanno provocato, principio per responsabilità di fatto proprio o divieto di responsabilità per fatto
altrui.

Parentesi sul concorso di persone


Nel concorso di persone ci sono regole particolari infatti. la collaborazione con altri la cosa va
giudicata diversamente. Anche se è discusso per la verità, nel concorso di persone si mantiene il
rapporto di causalità? 2 indirizzi:
1- si, tutti i comportamenti di tutte le persone in concorso devono essere causa del reato stesso,
rapporto di causalità tra ciascuno dei comportamenti dei vari soggetti che hanno commesso i reati.
2- per Pagliaro è sufficiente che non tutti i comportamenti devono essere strettamente causa , ma è
sufficiente che l'insieme delle condotte di tutti deve essere causa dell'evento all'interno della
pluralità però il contenuto che ciascuno fornisce non deve essere in senso proprio tale, ma è
sufficiente che sia un contributo che abbia facilitato o reso più agevole la commissione del reato ( è
una tesi più corretta, la stessa giurisprudenza parla di causalità agevolatrice e rinforzo, non una vera
e propria causalità ma una che abbia rinforzato. Es, persone che vanno per commettere un furto,
Caio si limita a fornire senza nemmeno recarsi sul luogo una chiave che servirà ad aprire la
cassaforte ma questa chiave non viene usata ma si trova che sia possibile aprirla diversamente ecc,
allora da un punto di vista logico non è una causa indispensabile per la realizzazione dell'evento
però l'aver avuto a disposizione la chiave abbia rinforzato la intenzione dei soggetti che puntando
sul fatto di avere la chiave sono stati più sicuri di commettere il furto. Questa per Pagliaro non è una
vera causalità ma appunto un dover fornire un contributo, mentre per altri si, anche se particolare
perché non ha le caratteristiche della causalità normale.

260
In entrambi i casi viene punito ugualmente, la tesi di Pagliaro ha un forte ancoraggio nel diritto
positivo l'art 114 c.p. ( parla del concorso di persona e prevede le circostanze attenuanti e speciali
per il concorso di persone prevede come attenuante il fatto che qualcuno abbia fornito un
contributo di minima importanza):Pagliaro si chiede come può una causa essenziale essere
considerata formalmente causa, se il giudice talora ritiene che il contributo è di minimo importanza
può diminuire la pena? Per Pagliaro non può essere formalmente causa, non tutti i contributi sono
causa.

•un'altra più complessa

nel diritto penale la causalità non si deve intendere come c naturale perché l'esigenza di un
rapporto di causalità è parte di una più ampia esigenza che si può indicare attraverso la teoria
dell'imputazione oggettiva dell'evento, l'evento per cui si è tenuti a rispondere deve essere
imputato cioè attribuito oggettivamente a chi ne risponde o chi ne è chiamato a rispondere.

Non usare la parola imputabile corrisponde ad un’accezione assolutamente tecnica art.85, capacità
di intendere e di volere.
È un principio generalissimo dentro cui va collocato il rapporto di causalità, il principio per cui
l'ordinamento giuridico può chiamare qualcuno a rispondere in quanto abbia creato un rischio
illecito che si verifichi l'evento se invece l'evento è la conseguenza di un rischio lecito questo
soggetto non ne può rispondere, in quanto nonostante ci fosse un rischio era lecito per
l'ordinamento ( es. un medico
deve eseguire un intervento difficile e urgente in situazioni molto gravi in cui è sicuro che
nonostante la massima attenzione la condizione del paziente possa condurre alla morte senza
poterlo impedire; il medico ha il dovere di informare il paziente e lo fa nell'interesse del paziente
l'affrontare tale rischio, se si verifica poi la morte il medico se rispetta tutte le cose che deve, non
potrà rispondere della morte verificatasi materialmente in conseguenza ma la situazione di rischio
non era illecita perché era preesistente) (es, degli inizi del 900 un nipote unico erede di un ricco zio
convince lo zio ad affrontare un viaggio in treno nella speranza che vada incontro ad un incidente e
muoia, lo zio muore, da un punto di vista vivamente naturalistico è evidente che c’è un rapporto di
causalità nella persuasione dello zio ad affrontare il viaggio, l'opera di convincimento procura il
viaggio in treno e la morte, il ruolo è decisivo, ma nella società l'attività del trasporto è considerata
assolutamente normale, essenziale , indispensabile, vero è che ci siano dei rischi ma questo fa parte
della vita è normale e lecito, si può correre e affrontare).
Se si verifica in occasione di tali rischi l'evento che ne segue non può essere oggettivamente
imputato alla persona che ha innescato tale processo perché l'evento è conseguenza di un rischio
lecito.
La causalità non è da intendersi come causalità assolutamente in senso naturale o fisico, occorre un
ulteriore punto di vista-. Ci sono certi limiti, quando il rischio è illecito e non rischio lecito.

261
Quando si può imputare un certo evento ad un soggetto-
chiarimento generale per comprendere la posizione di Pagliaro: critica molte teorie compresa
quella che alla fine noi accogliamo; la critica non nel suo postulato fondamentale ma in quanto tale
nozione ( la teoria della conditio sine qua non) non considera che l'imputazione dell'evento va
differenziata per le esigenze giuridiche a seconda che il reato di cui si tratta sia reato doloso,
colposo o senza colpa( causa di responsabilità dal rischio totalmente illecito). La definizione del
rapporto va trattata e considerata all'interno di ciascuno di questi tre tipi di reato perché le
esigenze della imputazione oggettiva dell'evento sono diverse nei tre tipi di reato e siccome il
problema della causalità è problema di un più ampio problema di imputazione all'evento la
questione va inserita---->nella struttura complessiva del reato e diversificata, non in sé stessa ma
in quanto si affianca ad ulteriori connotati che diversificano le tre cose.

Alla condicio sine qua non per Pagliaro vanno aggiunte ulteriori precisazioni perché da sola la
teoria non considera tali elementi indispensabili per comprendere come e perché sia imputato un
soggetto differentemente in questi tre casi.

Teoria della condicio sine qua non


Accolta della maggior parte dei penalisti, condizione senza la quale non si sarebbe verificata.
Penalista tedesco Fonburi la propose alla fine dell'800- è anche detta dell'equivalenza delle
condizioni-

Afferma che si considera causa ogni condizione senza la quale l'evento non si sarebbe verificato,
ogni condizione è causa dell'evento se è necessaria al suo verificarsi e tutte sono poste sullo stesso
piano. Non può differenziarsi tra l'una e l'altra, se anche ha un ruolo marginale essendo comunque
necessaria è sullo stesso piano dell'altra.
1-Il giudice dovrà nel processo penale ricostruire il quadro, considerare tutte.
2-il diritto penale dovrà prendere in considerazione tra tutte, quelle o quella che assumono una
rilevanza penale.
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^

Pagliaro critica anche questa teoria perché soltanto attraverso tale concetto si propone di risolvere
il problema dell'individuazione della causa per tutti i reati. E aggiunge che in nessun caso una
condotta umana esprime la totalità delle condizioni in cui un certo evento si verifica perché a
fianco di queste ce ne sono molte altre; questa è solo una.

come si stabilisce se una condizione è o no condicio sine qua non

Attraverso il procedimento di eliminazione mentale ,

262
mentale----> (il problema si pone sempre per il d.p. a cose avvenute, io chiedo chi debba rispondere
della morte di Caio dopo che Caio è morto. Quello che è successo non può annullarsi, portarlo nel
nulla , le cose si sono verificate. La ricostruzione è mentale: il nesso causale non può formarsi, ma si
può solo osservare ( ci si può chiedere cosa potesse succedere se non ci fosse stata quella
condotta), IL GIUDICE LA PUO’ SOLO ELIMINARE MENTALMENTE, PENSARE COME SE NON CI FOSSE
STATA-.)
Ci sono due forme in cui può formularsi:
•una positiva
il dato antecedente è causa dell'evento se eliminandolo mentalmente l'evento non si sarebbe
verificato
•una negativa
il dato antecedente non è causa dell'evento se eliminandolo mentalmente l'evento si sarebbe
verificato( non sarebbe venuto a mancare).

Ora immediatamente dopo aver detto ciò bisogna fare:


•una precisazione
•un’aggiunta
riguarda le ipotesi di causalità addizionale,
ovvero si accetta che un certo evento si è svolto per il contemporaneo operare e agire di più cause
addizionali (a) e (b), sono cause umane quindi la condotta di a e la condotta di b. Un certo evento si
è verificato come conseguenza dell'operare di a e di b presupponendo che abbiano agito
all'insaputa l'uno dell'altro, indipendentemente non per intesa, altrimenti si sarebbe nel concorso di
persona: qua siamo fuori, perché non erano d'accordo (es. a e b simultaneamente e
indipendentemente appiccano il fuoco ad un edificio che effettivamente prende fuoco e si verifica
la morte di una persona).

Applicando senza correttivo la formula della condicio sine qua non si deve logicamente escludere la
responsabilità sia di a sia b ( mentalmente escludendo solo la condotta di a, la vittima sarebbe
ugualmente morta nell'incendio; e lo stesso escludendo la condotta di b; si dovrebbe arrivare alla
conclusione paradossale che il comportamento solo di a e solo di b non sono condotte sine qua
non). E ‘evidente che questa è una conclusione paradossale e illogica bisogna correggere la
formula:1 condizione il complesso delle condotte di a e b deve essere rigorosamente condicio sine
qua non dell'evento (eliminando l'insieme delle condotte non ci sono problemi), 2 condizione
ciascuna delle due o più cause dovrebbe poter essere considerata condicio sine qua non
dell'evento qualora ipotizzassimo che l altra non esisteva e quindi da sola considerata( in
concreto se si pensa di escludere la condotta di b, da sola pensata la condotta di a poteva fare
danno? se la risposta è sì allora è causa dell'evento).

263
25/03/2019
RAPPORTO DI CASUALITA'

Il rapporto di casualità è una parte fondamentale di una più ampia questione che riguarda
l'imputazione oggettiva di un fatto ad un soggetto : il collegamento oggettivo che c'è tra
comportamento di un soggetto e un risultato/evento.

La formula migliore per individuare il rapporto di casualità è quello della CONDITIO SINE QUA NON
che opera attraverso il procedimento di eliminazione mentale, cioè il giudice prova ad immaginare
mentalmente cosa sarebbe successo se non ci fosse stata quella condotta e valuta se l'evento non si
sarebbe verificato, allora può affermare che la condotta è la causa!

Questa formula va corretta nel caso delle ipotesi di CASUALITA' ADDIZIONALE, cioè quando ci sono
più condotte simultanee che convergono verso lo stesso risultato, es. Tizio appicca l'incendio e
anche Caio senza saperlo appicca un incendio.

In questo caso la formula della "conditio sine qua non" deve essere modificata riferendo la conditio
all'insieme delle condotte, ciascuna delle quali poi dovrebbe essere "conditio sine qua no" se l'altra
non ci fosse stata.

CASUALITA' ALTERNATIVA E IPOTETICA-> Certe volte si potrebbe avere l'impressione che un certo
comportamento non sia "conditio sine qua non" dell'evento in quanto, utilizzando quel
procedimento di eliminazione mentale si arriverebbe alla conclusione che l'evento si sarebbe
verificato ugualmente, o in un modo diverso o poco tempo dopo , ma comunque si sarebbe
verificato lo stesso.

Allora si potrebbe dire che la condotta su cui ci si interroga non è "conditio sine qua non" perché
tanto l'evento si sarebbe verificato ugualmente. Es: Tizio spara a Caio il quale però è affetto da un
male incurabile a causa del quale gli rimangono pochissimi giorni di vita e quindi sarebbe comunque
con assoluta certezza morto fra poco anche se Caio non gli avesse sparato; oppure il comandante di
una nave pilota la nave su un iceberg , ma la nave aveva già un guasto che con assoluta sicurezza in
ogni caso l'avrebbe fatta affondare.

In questi casi, eliminare il procedimento dell'eliminazione mentale non è corretto, si tratta di


precisare in che modo va svolto tale procedimento di eliminazione mentale, perché nell'analisi e
nell'individuazione del rapporto di casualità non bisogna chiedersi cosa sarebbe potuto succedere di
diverso da quello che è realmente successo. Il rapporto di casualità va trovato fra la condotta di un
soggetto e l'evento che si è verificato e così come si è verificato e nel tempo in cui si è verificato :
Tizio raggiunto dal proiettile è morto perché qualcuno gli ha sparato, non dobbiamo preoccuparci di
cosa gli sarebbe potuto succedere di lì a poco per altre cause, ma dobbiamo vedere se la morte
della vittima così come si è verificata e in quel momento è stata provocata dalla condotta di Caio
che gli ha sparato un colpo di pistola e rispetto a questo dobbiamo applicare il procedimento di
eliminazione mentale.

264
La giurisprudenza è pacificamente afferma che anticipare un evento che si sarebbe comunque
verificato equivale a cagionarlo, l'esempio potrebbe essere quello di un paziente gravemente
malato ma a cui è stata somministrata una terapia completamente sbagliata e quindi viene
anticipata la sua morte.

L'equivoco che si potrebbe verificare riguarda il verificarsi dell'evento per cause non dipendenti
dallo stesso soggetto che agisce, perché invece se in un certo momento lo stesso soggetto che
agisce ha diverse possibilità la situazione è differente e la indichiamo come COMPORTAMENTO
ALTERNATIVO LECITO.

Quindi, questa situazione della casualità ipotetica va distinta dal comportamento alternativo lecito
dello stesso soggetto.

Sono state fatte 3 obiezioni al criterio della conditio sine qua non :

1-Dal momento che per definizione questa teoria pone l'equivalenza delle condizioni potrebbe
portare ad un regresso all'infinito , perché secondo questa impostazione tutte le condizioni
vengono poste sullo stesso piano e quindi nell'esempio di un soggetto che spara qualcuno per
ucciderlo si potrebbe dire anche che anche chi ha venduto l'arma all'assassino è stato "conditio sine
qua non " dell'evento.

A questa pima obiezione, i sostenitori della teoria della "conditio sine qua non" hanno osservato
che in questi casi comunque è esclusa la responsabilità di questi soggetti aggiuntivi, perché questi
non hanno agito né con dolo né con colpa, il signore che vende una pistola certamente non ha dolo
e colpa rispetto all'uso illecito che l'acquirente della pistola va a fare!

Però questa osservazione non è del tutto soddisfacente, quindi è una controbiezione alla risposta
per due ragioni : la prima è che sposta sul piano soggettivo e psicologico quello che è il problema di
accertamento casuale; la seconda è che nel nostro ordinamento ci sono delle ipotesi in cui si
risponde senza dolo e senza colpa e quindi la correzione non sarebbe idonea.

2-La teoria della "conditio sine qua non" non è adatta quando entrano in gioco fattori del tutto
eccezionali, perché di fronte a questi fattori si avverte che la responsabilità di chi compie un certo

comportamento va limitata: Tizio si è comportato in una maniera normale e normalmente non si


sarebbe verificato un certo evento, il quale invece si verifica ma per il sopravvenire di fattori del
tutto eccezionali e non sembra giusto fare carico a chi compie un'azione normale di questa
eventualità che non è dipesa interamente dal suo comportamento.

3-Il criterio della "conditio sine qua non" presuppone che si conoscano quelle regole , le leggi
scientifiche che determinano il divenire casuale con sicurezza e che quindi si possa compiere quel
processo di eliminazione mentale in modo limpido e lineare.

265
Es. si sa che se uno accoltella una persona al cuore con una lama di 10 cm prova una frattura del
muscolo cardiaco e quindi la morte, e di questo si è sicuri! Ma in molti casi non siamo a conoscenza
di leggi assolutamente certe che regolino il decorso degli avvenimenti , per esempio vale in molti
casi per quello che riguarda la responsabilità medica , perché la medicina non può stabilire che
sempre in determinate condizioni è sicuro che al 100 per 100 è sicuro che succederà una certa cosa,
i soggetti reagiscono ai mali e alle terapie in diversi modi.

Ci sono molte situazioni in cui non si conoscono con sicurezza le leggi scientifiche che regolano un
certo campo; allora come operare il procedimento di eliminazione mentale? Procedimento che
presuppone un ragionamento lineare e la sicurezza di uno sviluppo mentale; nei casi in cui non si è
sicuri, c'è o non c'è un rapporto casuale?

Per superare queste obiezioni è stata proposta alla fine dell'800 dal penalista tedesco Von Kries
un'altra teoria che non è quella della "conditio sine qua non" e prende il nome di CASUALITA'
ADEGUATA-> secondo questa teoria, è causa un antecedente che sia tipicamente oppure
normalmente capace di produrre un certo risultato secondo la comune esperienza, considerando le
conoscenze di un uomo medio e inoltre le conoscenze particolari e ulteriori possedute
effettivamente dal soggetto agente; supponiamo ad esempio che un soggetto sappia le condizioni
patologiche della vittima, normalmente una cosa non fa male ad un essere umano, però se quella
persona ha una particolare patologia può essere che quella situazione gli provochi un danno, questa
particolarità della vittima potrebbe essere conosciuta non da tutti, ma potrebbe essere conosciuta
da chi agisce. Di tutto ciò bisognerebbe tener conto nell'operare il giudizio sulla casualità adeguata,
la quale si può formulare anche in questi termini: è causa un certo antecedente, quando tenuto
conto delle conoscenze di un uomo medio e delle ulteriori particolari conoscenze possedute dal
soggetto agente, non è improbabile che si verificasse quel determinato evento.

La teoria della casualità adeguata va pensata come l'imitazione rispetto alla "conditio sine qua non",
non come estensione eventuale della sua portata; cioè in ogni caso ciò che si verifica deve
rispondere alla valutazione operata sulla base della "conditio sine qua non" con il limite che si può
considerare causa soltanto una causa adeguata. Non si può, al contrario, estendere la nozione di
casualità sulla base del concetto di casualità adeguata oltre ciò che potrebbe risultare attraverso la
"conditio sine qua non", es. Tizio spara a Caio, il quale è protetto con assoluta sicurezza da un
sistema tale che il colpo della pistola non gli potrà provocare nessuna lesione-> ragionando in modo
errato sullo schema della casualità adeguata si potrebbe dire che il giubbotto antiproiettile non si
vede perché è nascosto sotto i vestiti, allora sparare a qualcuno al torace è normalmente capace di
produrre la morte, allora dovrebbe essere considerato causa del risultato perché Tizio ha sparato. In
questo modo si amplierebbe la responsabilità penale e si riterrebbe esistente un nesso casuale e
anche lì dove non c'è.

Invece, l'utilizzo dello schema della casualità adeguata presuppone che prima ancora si possa
effettuare un giudizio attraverso lo schema della "conditio sine qua non", cioè se Tizio non avesse
sparato, Caio non sarebbe morto?

266
Ma siccome aveva il giubbotto antiproiettile non sarebbe morto, allora il fatto di sparagli non è
sufficiente a produrre la morte, perché secondo il ragionamento che si serve della "conditio sine
qua non" lo sparare in quel caso non è la conditio sine qua non del delitto.

I FATTORI ECCEZIONALI E LE OBIEZIONI A QUESTA TEORIA

1-La nozione di casualità dovrebbe essere sicura, certa, dovrebbe rispondere a criteri
assolutamente precisi e rigorosi; mentre questo concetto di adeguatezza risulta vago, non
sufficientemente preciso.

2-Questa teoria, la quale ha lo scopo essenzialmente di escludere la casualità e quindi la


responsabilità penale rispetto alle situazioni eccezionali, confonde e intreccia criteri attinenti al
piano oggettivo, perché la casualità opera sul piano oggettivo, con criteri che invece hanno a che
vedere con l'elemento psicologico perché questa normalità degli sviluppi riguarda la prevedibilità e
la conoscibilità dei fatti, cioè secondo le normali conoscenze una certa azione sarebbe tipicamente
capace di produrre un certo risultato prevedibile-> Alla casualità adeguata si può rispondere solo
con ciò che è prevedibile. Questo giudizio di prevedibilità non riguarda il piano oggettivo della
casualità perché può essere provocato anche qualcosa di imprevedibile e quindi mischiare la
prevedibilità che è un fatto psicologico con il decorso degli avvenimenti che invece si svolge su un
piano oggettino è improprio!

3-OBIEZIONE DECISIVA -> Questa teoria potrebbe andare bene rispetto ai delitti colposi dove
effettivamente quando qualcosa non è prevedibile non si può essere chiamati a risponderne, ma
non va affatto bene per i delitti dolosi, dove si è chiamati a rispondere per ciò che è stato voluto
anche se l'evento che si era verificato era assai poco prevedibile o del tutto improbabile.

es.Tizo con un fucile ad alta precisione spara a Caio che si trova a 2chm di distanza, è evidente che
valutando con lo schema della casualità adeguata è assolutamente che qualcuno riesca a colpire
un’altra persona che si trova a 2chm di distanza , eppure volendolo colpire, lo colpisce! Utilizzando
lo schema della casualità adeguata dovremmo dire che era totalmente improbabile riuscire a
centrare la persona vista la distanza e quindi l'azione di chi spara non potrebbe essere considerata
causa del risultato , il che è assurdo perché se volendo colpire è riuscito a colpirlo, noi siamo sicuri
che deve essere chiamato a rispondere perché c'è un rapporto di casualità tra lo sparo e l'evento
che si verifica anche se il fatto era altamente improbabile.

Quindi non va bene la teoria della casualità adeguata!

A metà dell'900 in Italia, Antolisei Francesco , grande penalista, propose la teoria della CASUALITA'
UMANA-> l'uomo è dotato di poteri conoscitivi e volutivi e sa bene che agendo in certo modo può
arrivare ad un certo risultato e quindi si serve di questi suoi poteri per intervenire nel decorso
casuale inserendo elementi in modo tale da orientare il decorso degli avvenimenti nella direzione
da lui voluta. Nel fare questo , egli può tenere conto dei fattori anormali atipici come esclusione di
quelli del tutto eccezionali, per es. se Tizio ferisce anche leggermente Caio è normale che una ferita
possa poi degenerare e provocare gravi lesioni e anche la morte;

267
non è del tutto normale se la ferita è leggera, questo è più anormale. In questo modo, Antolisei
voleva superare i limiti della casualità adeguata, secondo la quale non sarebbe stata adeguata una
lieve ferita e considerarla causa della morte, perché non è probabile che con una lieve ferita si
possa morire, però la correzione di Antolisei è che anche i fattori anormali e atipici non escludono la
casualità e devono essere tenuti in considerazione in questo agire dell'uomo.

Ma resta un'obiezione praticamente insuperabile , cioè: come si fa a distinguere i fattori


anormali/atipici da quelli eccezionali? Secondo Antolisei, i fattori eccezionali avrebbe escluso del
tutto la casualità perché l'uomo nel suo progettare ciò che fa è tenuto a considerare gli eventi
anche anormali che possono derivare dalle sue condotte, ma non quelli del tutto eccezionali. Quindi
i fattori eccezionali escludono il nesso di casualità, quelli anormali no! Come si fa a distinguerli? Non
c'è un confine sicuro e stabile! Sono termini quasi equivalenti!

Inoltre, ad Antolisei è stata sollevata la stessa obiezione che riguarda la casualità adeguata, cioè
anche qua si confonde il piano della casualità con il piano della prevedibilità e della conoscibilità :
un conto è la prevedibilità e la conoscibilità che attiene all'elemento psicologico del reato , non si
può rimproverare qualcuno per un fatto che non è prevedibile, un altro conto è il piano oggettivo
del decorso degli avvenimenti i quali vanno spiegati con parametri e criteri oggettivi.

Quindi la teoria della casualità umana intreccia e mischia il piano puramente oggettivo con quello
psicologico oggettivo dato da questa prevedibilità dell'uomo che conosce le conseguenze del suo
agire.

Il succo di questa discussione è che è eccessivamente estensiva la teoria della "conditio sine qua
non " perché anche in tutti i casi eccezionali comunque si potrebbe dire che il comportamento
seppure affiancata da fattori eccezionali è stato "conditio sine qua non" dell'evento. Quindi la
"conditio sine qua non" estende eccessivamente la nozione di casualità rispetto all'esigenze proprie
del diritto penale ; mentre la teoria della casualità adeguata e anche quella della casualità umana la
restringono esageratamente, perché non consentono di attribuire la responsabilità in casi in cui pur
di fronte ad eventi eccezionali bisogna affermare l'esistenza della casualità. Quindi una teoria è
troppo espansiva e l'altra è troppo restrittiva!

In questa situazione è necessario fare riferimento a quello che ha stabilito il nostro legislatore con
riguardo alla disciplina delle CONCAUSE.

OBBIEZIONI MOSSE ALLA TEORIA DELLA CONDICIO SINE QUA NON :

-1. e cioè che prima si presta a dar luogo al cosiddetto REGRESSO ALL’INFINITO (tutte le
condizioni comprese quelle più remote, logiche e illogiche);
-2. Non soddisfa il senso giuridico quando si prevedono fattori del tutto eccezionali ;
-3 non si può applicare quando ci si trova di fronte a fatti per i quali non si conoscono le leggi
scientifiche con assoluta sicurezza e quindi non si può nemmeno sapere quel che
succederebbe provando ad eliminare eventualmente il fatto perché non si hanno
conoscenze scientifiche sufficienti a riguardo.
Questo perché il legislatore, all’ARTICOLO 40 COMMI 1 e 2 DEL CODICE PENALE che riguarda il
RAPPORTO DI CASUALITA’ .

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Finora abbiamo visto solo il primo comma che stabilisce che “Nessuno può essere punito per un
fatto preveduto dalla legge come reato, se l'evento dannoso o pericoloso, da cui dipende
l'esistenza del reato, non è conseguenza della sua azione od omissione “.

La parola conseguenza fa direttamente riferimento al rischio di causa. Ora rispetto a questi


problemi che stiamo guardando, cioè “fattori eccezionali” eccetera , il nostro legislatore ha
pensato di risolverli attraverso la disciplina posta all’ARTICOLO 41 anch’esso articolato
essenzialmente su 2 COMMI .

La rubrica è CONCORSO DI CAUSE quindi ci sono più cause che conducono ad un certo evento. E
stabilisce una nozione preliminare e poi una regola che è l’eccezione rispetto all’altra. La NOZIONE
PRELIMINARE è questa:

“Le disposizioni precedenti si applicano anche quando la causa preesistente o simultanea o


sopravvenuta consiste nel fatto illecito altrui “.

Dunque, queste con-cause per questo di parla di concorso di cause, significa che un certo evento
risulta dalla cooperazione di più cause viene comunemente indicate come CONCAUSE.

Questo “CON” fa riferimento ad una CAUSA PRINCIPALE che è la CONDOTTA DEL SOGGETTO.

Dunque, l’articolo 40 ha stabilito che nessuno può essere punito se l’evento non è causa di azione o
omissione di un soggetto.

Quindi : la causa è la condotta del soggetto che può essere di azione o omissione ma a questa causa
PRINCIPALE possono affiancarsi altre cause = CONCORSO DI CAUSE.

Una concausa può anche essere IL FATTO UMANO. In diritto penale non c’è una regola che invece
c’è in diritto civile relativa al CONCORSO DI COLPA : “QUANDO UN CERTO DANNO SI VERIFICA PER
IL CONCORSO DI CERTI COMPORTAMENTI RIFERIBILI A PIU’ SOGGETTI, LA RESPONSABILITA’
CIVILE VIENE RIPARTITA IN BASE AL RUOLO E QUINDI ALL’IMPORTANZA CHE I COMPORTAMENTI
DI QUESTI SOGGETTI HANNO AVUTO e SI PUO’ ATTRIBUIRE : IL 30% A UNO E AL 70% ALL’ALTRO
O 50 E 50%”

In questo caso Tizio essendo in colpa per il 30% è tenuto al risarcimento del 30% e Caio che è in
colpa per il 70% è tenuto al 70% del risarcimento del danno. Questa è la regola civilistica. Invece dal
punto di vista penale, anche se Tizio ha avuto un ruolo che ipoteticamente possiamo indicare con il
5 % e Caio del 95%, RISPONDONO ENTRAMBI ALLO STESSO IDENTICO MODO, CON LA STESSA
IDENTICA PENA! Non c’è differenza perché la sanzione penale, non serve a ripagare il danno ma
serve alla prevenzione tutelare di certi comportamenti. E sul presupposto che stiamo discutendo di
condicio sine qua non , senza quel 5% l’evento non si sarebbe verificato.

Quindi non ha importanza stabilire chi abbia più colpa. Dal punto di vista del diritto penale entrambi
rispondono. Questo è esattamente quello che stabilisce l’ultimo comma dell’ARTICOLO 40.

Detto questo, vediamo qual è la regola DI BASE e la regola di ECCEZIONE dell’ARTICOLO 41.

269
La REGOLA DI BASE è che: il concorso di cause rispetto alla condotta del soggetto, non esclude in
nesso di causalità.

Quindi anche se sopravvengono o c’erano già altri fattori causali quando uno di questi sia il
comportamento del soggetto, la causalità non è del soggetto. Il concorso di causa, (concorso
rispetto alla condotta del soggetto), preesistenti, simultanee o sopravvenute, anche se indipendenti
dall’azione del soggetto, non esclude il rapporto di causalità fra l’azione omissiva e il soggetto.

Queste concause vengono definite come preesistenti, simultanee o sopravvenute anche se


indipendenti dall’azione del soggetto.

ESEMPIO CAUSE PREESISTENTI: una patologia, anomalia della vittima, la quale era affetta da una
certa malattia dalla nascita supponiamo dalla nascita e tale patologia che lo espone a particolari
rischi.

ESEMPIO CAUSE SIMULTAENEE: Tizio accende un fuoco in campagna, e sopraggiunge proprio in


quel momento un vento fortissimo che fa propagare il fuoco provocando un incendio.

ESEMPIO DI CAUSE SOPRAVVENUTE: Tizio ferisce leggermente Caio con un coltello provocandogli
una piccola ferita e su questa ferita sopravviene un’infezione batterica che provoca danni gravissimi
a Caio.

C’è da chiarire una cosa: abbiamo detto che le cause sono preesistente, simultanee e sopravvenute.
Da un punto di vista prettamente logico le serie causali non hanno un inizio ma sono lì in un quadro
della realtà da sempre.

ESEMPIO: Il vento che si alza dopo che Tizio ha acceso il fuoco, vede la sua origine dal fatto che un
mese prima in Siberia si era alzata la temperatura e quindi si è determinato uno spostamento di
aria per cui arriva un’ondata di vento proveniente dalla Siberia. Quindi a quella causa dovremmo
cercare la ragione del caldo in Siberia e altre cause precedenti.

E allora, come facciamo a stabilire se si tratta di una causa preesistente, simultanea o


sopravvenuta?

Si considera tale, per esigenze del diritto, una serie causale NEL MOMENTO IN CUI PRENDE
CONTATTO CON LA VITTIMA.

ESEMPIO: il vento che arriva è stato generato da un fenomeno meteorologico avvenuto un mese
prima, però nel momento in cui Tizio ha acceso il fuocherello , il vento non c’era. Quand’è che
arriva? Quando accende il fuoco! Contemporaneamente!

Quindi consideriamo il vento come CAUSA SIMULTANEA perché è arrivata sul posto del fuoco
quando Tizio ha acceso il fuoco. Anche se le sue origini erano di un mese fa.

ALTRO ESEMPIO: il tetano causa sopravvenuta. I batteri entrano A CONTATTO CON LA VITTIMA
DOPO IL TAGLIO DELLA FERITA.

270
L’infezione è sopravvenuta rispetto alla ferita perché ha preso contatto con la vittima solo dopo che
questa è stata ferita.

Perché ci interessa questa differenziazione? Ci interessa poi per stabilire quale sia l’ECCEZIONE
rispetto alla regola generale (“di base” è uguale) che ricordiamo essere: le concause non
escludono il nesso di casualità, siano esse preesistenti, simultanee o sopravvenute.

L’ECCEZIONE RIGUARDA SOLO LE CAUSE SOPRAVVENUTE!!!!!!! Rispetto alle quali l’ARTICOLO 41


SECONDO COMMA stabilisce questo:

“LE CONCAUSE SOPRAVVENUTE ESCLUDONO IL RAPPORTO DI CASUALITA’ QUANDO SONO STATE


DA SOLE SUFFICIENTI A DETERMINARE L’EVENTO. IN TAL CASO SE L’AZIONE O OMISSIONE
PRECEDENTEMENTE COMMESSA COSTITUISCE DI PER SÈ UN REATO SI APPLICA LA PENA PER
QUESTO STABILITA”.

QUINDI: il nesso di casualità è escluso normalmente per le cause sopravvenute a meno che esse
non costituiscano di per sé un reato a prescindere da un ulteriore sviluppo determinato dalla causa
sopravvenuta. Se ciò che è stato fatto costituisce reato, per esempio l’aver ferito una persona, nel
nostro caso Tizio risponderà per la ferita provocata.

Quali sono dunque le concause sopravvenute sufficienti a determinare l’evento? E qua nasce il
problema.

L’interpretazione che buona parte della Giurisprudenza assume riguardo al punto è quella di
Antolisei secondo cui queste concause sopravvenute, sufficienti a determinare l’evento sono I
FATTORI ECCEZIONALI ed IMPREVEDIBILI . Abbiamo detto poco fa che nel rapporto di casualità si
deve tenere conto dei fattori anormali ma non di quelli eccezionali.

Quest’idea tutto sommato potrebbe andar bene ma ha l’inconveniente di voler essere superata da
un’altra impostazione più moderna, che peraltro è accolta da Pagliaro, secondo cui questa nozione
di causa sopravvenuta capace di escludere il rapporto di casualità dall’azione e omissione identifica
questi fattori eccezionali e imprevedibili su base essenzialmente psicologica cioè fa riferimento ad
una prevedibilità, cioè esclude il nesso causale ciò che è eccezionale e quindi imprevedibile. Questo
è l’inconveniente più che altro teorico che presenta questa impostazione. E allora la dottrina
coerentemente è andata alla ricerca di un criterio oggettivo . Questo CRITERIO OGGETTIVO è
L’APPROFONDIMENTO DEL RISCHIO cioè approfondimento del rischio che si verifichi l’evento,
rischio determinato dalla condotta del soggetto.

QUINDI: c’è una condotta di un essere umano che determina (se la stiamo considerando causa) il
rischio che si verifichi l’evento. La concausa sopravvenuta si inserisce in questo rischio creato
dalla condotta, e può approfondirlo o non approfondirlo. Sono concause quelle che stiamo
cercando di individuare, di cui al secondo comma dell’ARTICOLO 41 . Sono concause
sopravvenute sufficienti a determinare l’evento quelle che non approfondiscono il rischio che si
verifichi l’evento, rischio determinato dalla condotta del soggetto.

271
Questo concetto dell’APPROFONDIMENTO DEL RISCHIO non è totalmente diverso dal criterio dei
fattori eccezionali, ma prevalentemente è fondato su base oggettivo piuttosto che su quella
psicologica ossia la prevedibilità.

ESEMPIO: Consideriamo due estremi: uno in cui c’è il nesso causale, l’altro in cui non c’è il nesso
causale. Entrambi sono caratterizzati dal fatto che non individuano delle concause ma soltanto dei
parametri per l’esclusione del nesso di causalità.

L’ABERRATIO CAUSE : Il nesso causale ha un decorso differente da quello impresso dal soggetto
originariamente ma con una deviazione che per il diritto è totalmente insignificante.

Es. del libro: Tizio vuole uccidere Caio ( tutta la questione del nesso di casualità riguarda soprattutto
l’omicidio e le lesioni perché fanno parte dei cosiddetti reati causali puri ossia col riferimento al solo
nesso causale) e per fare ciò lo getta nel fiume da un ponte in modo da farlo annegare solo che il
livello dell’acqua del fiume è troppo basso e Caio muore non perché annega ma perché sbatte la
testa su un sasso. Quindi Caio muore ma non come secondo il modo in cui originariamente doveva
svolgersi l’avvenimento per annegamento ma per un trauma alla testa. Dal punto di vista
puramente scientifico , le due cose sono molto diverse: nel primo caso l’autopsia dirà che Caio è
morto per annegamento in quanto ha ingerito acqua ; nel secondo caso per un trauma. Questa
avveratio per il diritto penale e per il diritto in generale è assolutamente irrilevante cioè non ci
interesse che dopo che Tizio voleva uccidere Caio, questo ultimo sia morto perché è annegato o ha
battuto la testa. Consideriamo dal punto di vista giuridico del diritto penale come nesso causale
sempre quello identico a sé stesso, non diverso. In questo modo è evidente che Tizio che getta Caio
dal ponte risponderà non ai sensi dell’Art. 41 che stiamo interpretando, bensì ai sensi
dell’ARTICOLO 40 cioè quello che fonda il nesso di casualità, perché la causa in questo caso è una
sola, cioè l’azione di Tizio che getta Caio nel ponte. L’unica causa rilevante giuridicamente è questa.

Ancora una volta è sufficiente SOLO l’articolo 40 nel caso delle SERIE CAUSALI AUTONOME cioè
scollegate dalla condotta della gente.

ESEMPIO: Tizio somministra a Caio una dose letale di veleno che avrebbe fatto morire Caio nell’arco
di alcune ore. Sopraggiunge Sempronio, che con arma da fuoco spara alla vittima già avvelenata e
ne provoca la morte per il colpo di arma da fuoco, senza che ovviamente tra i due vi sia alcuna
correlazione o accordo. Quindi avremmo la morte per avvelenamento ma in realtà la morte si è
verificata per una serie causale del tutto indipendente, cioè il colpo di pistola che non ha nessun
rapporto con l’azione dell’avvelenatore. La sola ragione per la quale la vittima è morta è il colpo di
pistola, che è autonoma rispetto all’avvelenamento.

272
Ci troviamo di fronte a due estremi:

- C’È la responsabilità che ha compiuto la condotta, perché è stata l’unica causa (il colpo di
pistola);

- NON C’È invece la responsabilità del soggetto che ha compiuto la condotta


(l’avvelenamento) perché non è stata la causa.
Quindi in nessuno dei due casi siamo di fronte a un concorso di causa. In entrambi i casi la
causa dell’evento è una sola: la condotta del soggetto nel caso di avveratio causae , la
condotta di un altro o comunque di un altro evento, nel caso di SERIE CAUSALI AUTONOME
cioè scollegate dalla condotta del soggetto.
PICCOLA PARENTESI : la Giurisprudenza, ma non è condivisibile, considera come concause
queste serie causali autonome, perché il legislatore nella legge 41 comma 2 stabilisce :
“QUANDO SIANO SUFFICIENTI DA SOLE A DETERMINARE L’EVENTO”.

Erroneamente questo “da sole” in qualche caso viene inteso dalla Giurisprudenza come
autonome, cioè sganciate. Ma questo è chiaramente sbagliato perché se stiamo parlando di
concorso di cause vuole dire che devono essere agganciate, cooperare, agire insieme !
E allora rispetto a questa possibilità noi abbiamo due situazioni intermedie:
2 e 3 entrambe costituite da concausa:
una condotta che non approfondisce il rischio, e una concausa che approfondisce il rischio.
I due casi di riferimento sono quelli di CONCAUSE SOPRAVVENUTE.
Ho sottolineato “ concausa” perché deve effettivamente trattarsi innanzitutto di una
concausa, che per essere tale deve rispondere al parametro della CONDITIO SINE QUA NON
cioè se provassimo a declinare la concausa in esame per capire se esclude o meno il nesso
causale , l’evento non si verificherebbe o comunque non si verificherebbe in quel modo.
Questo requisito deve essere comune a entrambi, cioè devono rientrare nel paradigma della
conditio sine qua. Entrambe sono legate per cui, togliendone una non avremmo l’altra o
comunque non avremmo lo stesso risultato.
Altrimenti non sarebbe una concausa o non ci sarebbe una pluralità di cause.

ESEMPIO: Tizio ferisce Caio, e quest’ultimo rimane tramortito per terra e viene colpito da
un fulmine che cade su di lui provocandone la morte. Da un punto di vista logico è ovvio che
tra le due cose si determina un rapporto di concausalità perché vi ho già detto un attimo fa
che per essere ritenute concause devono rispondere allo schema della conditio sine qua
non. Se Tizio non fosse stato colpito e ferito si sarebbe trovato in quel posto? No! Quindi il
ferimento è logicamente una conditio sine qua non. E lo stesso il fulmine che sarebbe potuto
cadere da qualsiasi altra parte. Quindi le due cose associate provocano la morte ma c’è un
maggior rischio di essere colpiti da un fulmine stando in un posto piuttosto che in un altro?
NO ! Il soggetto che risponde alla formulazione dell’articolo 41 cioè la concausa che non
approfondisce il rischio è il fulmine. Il fulmine non approfondisce il rischio della morta creato
dal soggetto agente che ha dato il pugno a qualcuno.

273
Quindi il fulmine è causa sopravvenuta rispetto alla condotta del soggetto agente, e quindi
prende il nome di CONCAUSA SOPRAVVENUTA SUFFICIENTE DA SOLA A DETERMINARE
L’EVENTO.

Il fulmine per il diritto sebbene abbia agito insieme alla condotta di Tizio la consideriamo da
sola a determinare l’evento, anche se questa teoria non ha molto senso logico perché in
realtà non avrebbe determinato un bel niente se Caio non fosse stato a terra tramortito,
quindi dobbiamo dire che è una concausa in quanto ha agito insieme a Tizio. Invece sempre
con causa sopravvenuta ma che NON È SUFFICIENTE DA SOLA A DETERMINARE L’EVENTO è
la intenzione rispetto ad una condotta di ferimento. Tizio ferisce Caio, sopraggiunge in
questa ferita un’infezione che provoca il danno o morte. L’infezione approfondisce il rischio
di una lesione grave oppure la morte, creato dalla condotta del soggetto -cioè la ferita-, che
si lega poi al danno, si avvicina ad esso. Si tratta però di due cose diverse, di due concause, e
la ferita quindi approfondisce il rischio.

274
26/03/2019
Per quanto riguarda la causalità, la teoria principale è quella della condicio sine qua non.
Causa è ogni condizione senza la quale l’evento non si sarebbe verificato. Questa teoria è andata
incontro a delle obiezioni:
1. si presta teoricamente ad un regresso all’infinito;
2. non è consona al senso giuridico quando sopravvengono nel contesto fattori del tutto
eccezionali;
3. non funziona bene quando non si conoscono con esattezza le leggi che regolano il decorso
causale perché si tratta di fatti non ben conosciuti, e quindi non si può nemmeno operare il
procedimento di eliminazione mentale in quanto non si è in grado di capire che cosa sarebbe
successo se non si fosse verificato un certo fatto.

Per risolvere la questione dei fattori eccezionali il legislatore ha dettato l’art. 41, articolato in tre
commi, di cui il terzo stabilisce che alle cause naturali sono da equipararsi le condotte umane
illecite; mentre il primo comma stabilisce che le concause non escludono il nesso causale rispetto
alla condotta (commissione o omissione) del soggetto e al secondo comma si stabilisce
un’eccezione a questa regola: le concause sopravvenute rispetto alla condotta, sufficienti da sole a
determinate l’evento, escludono il nesso causale.
Si tratta di capire quando tali concause sopravvenute siano sufficienti da sole a determinare
l’evento.
Innanzitutto, si stabilisce che in alcuni casi sebbene apparentemente ci si trovi di fronte a concause,
in realtà c’è un solo nesso causale in base al quale si può affermare la responsabilità di chi ha agito
o si può negare. Questo si verifica nel caso della c.d. aberratio causae (es: Tizio getta la vittima dal
ponte per farlo annegare, ma il decorso causale prende un’altra strada e la vittima sbatte la testa su
una pietra e muore per trauma cranico; la deviazione del nesso causale -c.d. aberratio- è irrilevante
per il diritto in quanto la morte è conseguenza dell’azione). Si considera quindi una sola causa,
senza richiamare l’art. 41 sul regime delle concause, trovandoci in presenza di una sola causa
(almeno per il diritto) ai sensi dell’art.40 che stabilisce che nessuno può essere punito se il fatto non
è conseguente alla sua azione.
Situazione inversa si prospetta nell’ultimo caso: sebbene si possa pensare ci siano delle concause
non c’è nessuna concausa, perché le serie causali sono del tutto autonome (es: Tizio avvelena Caio,
Caio entro dodici ore morirà, senonché sopravviene un altro che spara alla vittima e lo uccide; è
evidente che la morte dipende esclusivamente dal colpo di pistola e in nessun modo
dall’avvelenamento. C’è una serie causale -lo sparo- che rispetto alla condotta di colui di cui ci
interroghiamo -l’avvelenatore- è del tutto autonoma, è sganciata e non ci sono due cause, ma una
sola, cioè lo sparo e l’avvelenatore non risponderà in nessun modo della morte, semmai del tentato
omicidio). Anche in questo caso si applica esclusivamente l’art. 40.
In mezzo ci stanno i veri casi in cui siamo in presenza di concause (concorso di cause). Perché si
tratti di una concausa occorre che entrambe debbano essere considerate condicio sine qua non
dell’evento, perché allora sono legate tra di loro in quanto concause: senza l’una o senza l’altra
l’evento non si sarebbe verificato, o non si sarebbe quantomeno verificato in quel modo.

275
Il criterio che la dottrina (e Pagliaro) più recente ha adotto è quello dell’approfondimento del
rischio: in presenza di due concause, se quella sopravvenuta approfondisce il rischio, chi ha posto in
essere la prima causa risponderà dell’evento; se invece la concausa non approfondisce il rischio
creato dall’azione chi ha posto in essere la prima causa con una sua condotta non risponderà
perché la concausa sopravvenuta si presenta come sufficiente da sola a determinare l’evento.
Esempi:
1. Tizio ferisce (anche leggermente) Caio, su questa ferita sopravviene una infezione che diventa
grave e incurabile e che porta alla morte di Caio. La infezione sopravvenuta approfondisce il rischio
della morta creato con la ferita. Chi ha ferito risponderà della morte perché l’infezione
sopravvenuta non è sufficiente da sola a determinare l’evento.
2. Tizio ferisce Caio, Caio resta stordito e stordito sta in un posto, e in quel posto lo colpisce un
fulmine, che provoca la sua morte. Entrambe sono concause perché se Tizio non fosse stato stordito
non si sarebbe trovato lì e il fulmine non lo avrebbe colpito. Tuttavia, il fulmine (causa
sopravvenuta) non approfondisce il rischio di morte creato dallo stordimento perché si presente
come causa sufficiente da sola a determinare l’evento; e quindi, chi ha stordito non risponderà della
morte provocata dal fulmine che sopravviene.
Se il fulmine non approfondisse il rischio si potrebbe pensare che questo non abbia rilevanza: tale
criterio però si intende come la creazione di un preponderante rischio, cioè il “non” va inteso come
irrilevanza della prima causa. Per cui la seconda causa agisce come sufficiente da sola a determinare
l’evento, anche se non del tutto comunque ha un ruolo sovrabbondante rispetto alla prima.
Si deve aggiungere che tale situazione si può estendere anche alle concause sopravvenute che
approfondiscono il rischio in modo socialmente adeguato: Tizio viene ferito da Caio, si chiama
l’ambulanza, l’ambulanza ha un incidente e Tizio muore. È chiaro che nell’andare in ambulanza c’è
più rischio (nella circolazione stradale si può avere incidenti), però questo rischio è socialmente
adeguato: normalmente si usano le ambulanze, quindi è vero che c’è un po’ più di rischio di morire
rispetto ad una semplice ferita, ma questo aumento del rischio va considerato come socialmente
adeguato. Chi ha ferito anche in questo caso non risponde della morte.

L’Antolisei per primo e la giurisprudenza italiana a seguito, consideravano concause sopravvenute,


sufficienti da sole a determinare l’evento gli avvenimenti eccezionali e imprevedibili: era questo lo
schema teorico e non quello dell’approfondimento del rischio. In realtà la formulazione proposta
fatta da Antolisei con la sua teoria della causalità umana serviva proprio per risolvere il problema
dei fattori eccezionali ed imprevedibili. Questa disciplina (art. 41 c.2) non risolve per intero il
problema che esiste per i fattori eccezionali, che non sembra giusto accollare a chi ha compiuto un
fatto scarsamente offensivo. L’art. 41 risolve soltanto il caso dei fattori eccezionali sopravvenuti, ma
non risolve il problema di quelli preesistenti o concomitanti o simultanei: se Tizio era affetto da
un’inconosciuta e inconoscibile patologia preesistente e del tutto eccezionale, per la quale gli fa
male qualcosa che non fa male a nessun altro, all’improvviso in modo non preventivabile
sopraggiunge un vento terribile che espande un fuocherello. Dal punto di vista del senso della
giustizia si coglie che è esagerato chiamare a rispondere qualcuno per un evento che è stato dovuto
in buona parte a fattori eccezionali, e per risolvere questo (Antolisei criticava il fatto che il
legislatore avesse disciplinato l’ipotesi delle cause sopravenute ma non quello delle simultanee) ci si
riferisce alla teoria dell’imputazione obiettiva dell’evento, che nel suo schema fondamentale,

276
con una serie di sotto-ipotesi, stabilisce che non si può rispondere per la creazione di un rischio
lecito. L’esempio è quello del nipote che manda lo zio in aereo sperando che l’aereo cada e lo zio
muoia: la caduta dell’aereo è un fatto eccezionale e quindi il nipote non risponderà della morte
dello zio.

Così si può comprendere perché Pagliaro affermi che non basta da sola la teoria della condicio sine
qua non, in quanto lo schema va utilizzato in modo diverso a seconda della diversa struttura dei
delitti dolosi, colposi o a c.d. responsabilità oggettiva (meglio chiamarla responsabilità da rischio
totalmente illecito).

Pagliaro critica la teoria della condicio sine qua non, non perché non vada accolta ma, perché
omette che il discorso sulla causalità va diversificato. La pura e semplice applicazione del principio
del rischio lecito vale anche per i delitti dolosi (se il nipote spera che lo zio muoia non risponderà di
una morte voluta e quindi doloso, perché il rischio creato era lecito e rispetto a questo passa in
secondo piano e non ha rilevanza penale l’atteggiamento interiore del soggetto). Esempio molto
significativo è quello degli sport violenti: la boxe soprattutto, dove lo scopo è fare male
all’avversario e colpirlo nel modo più violento possibile, è regolamentata dall’ordinamento giuridico
(c’è una federazione nazionale all’interno del CONI), ci sono attività consentite e altre vietate (i colpi
sotto la cintura non sono permessi). È quindi previsto dall’ordinamento giuridico sportivo (che sta
dentro l’ordinamento giuridico dello stato, che uno possa colpire l’altro con l’intenzione di fargli
male). Se in seguito a queste attività seguono lesioni, o addirittura la morte, il pugile che colpisce
non risponde di omicidio, perché sono ipotesi contemplate dall’ordinamento giuridico e sportivo.
Risponderebbe qualora avesse dato un colpo non consentito. Lo stesso si può dire per altri sport in
cui è previsto il contatto fisico. Esclude la responsabilità il fatto che quel rischio c’è ma è
considerato lecito dall’ordinamento giuridico. Queste ipotesi sono ipotesi di rischio lecito, anche se
il soggetto è in dolo rispetto all’evento non ne risponderà perché l’ordinamento permette che si
verifichino questi fatti.

Invece, altri schemi e situazioni valgono soltanto per i delitti colposi o a responsabilità da rischio
totalmente illecito. I delitti colposi sono regolati dal principio dell’affidamento: ognuno può agire e
comportarsi confidando nel fatto che gli altri rispettino le leggi e le regole di cautela, cosicché se un
certo avvenimento si verifica perché un altro non ha rispettato o le leggi o le regole di cautela, chi
ha confidato nel rispetto da parte dell’altro non risponde penalmente.

Esempi:
1. incidente stradale: Tizio ha il verde e passa regolarmente (e addirittura con una certa lentezza,
come stabilisce la Cassazione), arriva Caio e passa col rosso e provoca un incidente in cui succedono
lesioni o morti ecc. Chi passa col verde in questo caso ha il diritto di confidare nel fatto che gli altri
rispettino le regole sulla precedenza e non attraversino con il rosso, cosicché se si verifica qualcosa
ne risponderà soltanto Caio.

277
2. un carabiniere ha la sua pistola di ordinanza e la tiene a casa in un cassetto dove può essere
presa anche dalla moglie (persona responsabile, matura e adulta) la quale decide un giorno di
uccidere qualcuno con quella pistola. Il carabiniere poteva confidare sul fatto che la moglie, persona
sana e normale, non potesse utilizzare la sua pistola. Il carabiniere non risponderà.
Il principio di affidamento vale nei limiti della colpa, e cioè se ed in quanto il soggetto non abbia
colpa per quanto si sia verificato. Il principio ha delle sue regole interne che esigono ci sia colpa
nell’essersi affidati: per affidarsi a qualcuno occorre che questi sia affidabile, e che quindi questo sia
adulto e non un bambino (il carabiniere non può lasciare la pistola in un cassetto raggiungibile da
un bambino, perché non può confidare che il bambino non lo prenda per un gioco e faccia dei
danni) o che la persona sia una persona non sana (se il carabiniere sa che la moglie è incapace di
intendere e/o di volere deve adattare cautele particolari, altrimenti risponderebbe). Il principio
esclude l’imputazione obiettiva dell’evento nei limiti in cui non ci sia colpa.
C’è un problema di auto-esposizione della vittima. Esempio: in un’impresa c’è un datore di lavoro e
degli operai. Il datore di lavoro ha l’obbligo di assicurare certe misure di sicurezza, il lavoratore
(vittima) si auto-espone al rischio (non indossa il casco, non si aggancia la cintura di sicurezza su un
ponte e cade). In questo caso se il datore di lavoro ha impartito idonee indicazioni a dei lavori adulti
e responsabili, se ha fornito i mezzi, se l’organizzazione de lavoro è predisposta in modo tale che gli
operai possano essere sottoposti alle misure di sicurezza, e poi il lavoratore per leggerezza non
adotta queste misure allora in datore di lavoro non risponderà. Vale anche in questo caso lo stesso
principio di affidamento.

Ricapitolando, il principio di affidamento si applica solo ai reati colposi e non anche a quelli dolosi.
Pagliaro dice che si potrebbe applicare in una certa misura anche ai delitti dolosi, ma tutto sta nel
capire la precisazione di Pagliaro fuori dal concorso di persone: il concorso di persone si ha quando
due o più persone concorrono nel medesimo reato. Naturalmente, se c’è un concorso di persone
non ci può essere affidamento (se Caio mette volutamente a disposizione di Tizio la pistola perché
uccida qualcuno non c’è nessun principio di affidamento). Il concorso di persone non si ha solo
nell’ipotesi di accordo tra due persone, ma anche nel caso di una adesione unilaterale: delle
persone stanno commettendo una rapina in un negozio, passa un loro amico che non è a
conoscenza di quanto stanno facendo e non si è messo d’accordo con loro, vede la situazione e
decide di mettersi a fare il palo per aiutarli nella realizzazione. Quindi tale persona sa che sta
collaborando con gli altri, gli altri non sanno che lui li aiuta. Se una persona che l’altro commetterà
un certo fatto si è di fronte ad un’ipotesi di concorso di persona.
Per risolvere il problema del regresso all’infinito: se l’armiere vende la pistola ad uno che
notoriamente è un delinquente (ma ha il porto d’armi e non ha divieti), l’armiere che desiderasse
che questa persona utilizzi la sua arma per uccidere il Tizio odiato, avrebbe la volontà ma non gli si
potrebbe imputare obiettivamente ciò che succede, perché non c’è una consapevolezza reale di ciò
che succederà, ma una sorta di desiderio.
Fuori dal concorso di persone nel reato non si può parlare del principio di affidamento. Quando
invece c’è il concorso (per il quale è sufficiente la consapevolezza che qualcuno commetterà un
reato) non si può ricorrere all’affidamento nei reati dolosi.

278
Schema del comportamento alternativo lecito: nasce da un famoso episodio della giurisprudenza
tedesca, che è il paradigma per questo schema, il caso del cosiddetto ciclista ubriaco. L’autista di un
camion investe un ciclista perché lo supera passando troppo vicino. Si accerta che il ciclista era
ubriaco e che procedeva a zig-zag e che anche se il camionista lo avesse superato ad una distanza
adeguata lo avrebbe comunque investito. In generale, il comportamento alternativo lecito si può
definire come una situazione in cui il soggetto ha agito senza rispettare una regola imposta
dall’ordinamento, ma l’evento si sarebbe verificato ugualmente anche se egli avesse rispettato la
regola. In questo caso è sicuro che se il soggetto avesse voluto l’evento risponderà dell’evento,
quindi quando il soggetto si trovasse in dolo! Altro esempio è quello del dentista che per errore
somministra una sostanza anestetica dannosa al paziente anziché quella dovuta, ma si accerta che il
paziente era gravemente allergico anche a quella dovuta. Quindi anche se il dentista gli avesse
iniettato la sostanza giusta il paziente sarebbe comunque andato incontro a gravi problemi.
Quindi, qualsiasi cosa avesse fatto il soggetto l’evento si sarebbe verificato lo stesso e quindi non
c’è ragione di imputare l’evento al soggetto che non ha rispettato le regole. Questa situazione va
tenuta distinta dalla causalità alternativa ipotetica: nel caso di specie si tratta della condotta dello
stesso soggetto il quale si comporta nello stesso modo o si poteva comportare in un diverso modo;
mentre nello schema della causalità alternativa ipotetica c’è una certa condotta e un diverso modo
(diverso percorso causale) per il verificarsi dell’evento (Tizio avvelena Caio, Caio esce e gli cade una
tegola in testa e muore).

L’ultimo di questi schemi è quello della diminuzione del rischio: A sta sparando a B per ucciderlo,
interviene C nella situazione, sposta la mano di A (per difendere B), ma siccome agisce in modo
frettoloso e maldestro (non riesce a deviare completamente il colpo) lo sparo di A raggiunge
comunque B ma non in un punto vitale (supponiamo la spalla), ferendolo semplicemente. Quindi C
si inserisce come concausa nel decorso causale, partecipa all’evento ed è in qualche modo concausa
del risultato, ma lo ha fatto con l’intenzione di salvare la vittima che andava incontro a morte
probabilissima e quindi allo scopo di diminuire il rischio. È evidente che C non dovrà rispondere a
titolo di colpa, e non potrà rispondere delle lesioni che materialmente ha contribuito a provocare.
Se invece fosse intervenuto con dolo (con l’intenzione di concorrere a provocare danni alla vittima)
dovrebbe rispondere per lesioni dolose.

In questo modo la teoria dell’imputazione obiettiva dell’evento ci consente di risolvere dei problemi
che la pura disciplina della causalità da sola non risolverebbe a pieno. In particolare, la disciplina dei
fattori eccezionali (siano essi sopravvenuti – art.41 c.2- o antecedenti, preesistenti o simultanei)
come il discorso del regresso all’infinito (attraverso il principio dell’affidamento).
Resta l’ultimo dei problemi relativi alla condicio sine qua non: il caso in cui non si conoscano con
certezza sufficienti le leggi che regolano il decorso causale in certe situazioni. Esempio
paradigmatico: il caso della talidomide. La talidomide è il principio attivo di un farmaco, il quale era
un tranquillante-sedativo, somministrato negli anni Sessanta. Si verificò che questo farmaco
somministrato anche a donne in gravidanza avesse provocato una malformazione dei bambini nati
da quelle gravidanze. Nel periodo in cui il farmaco era somministrato si verificò un aumento
anomalo del numero di malformazioni. Nato il sospetto che la malformazione dipendesse da questo
farmaco si sospese la somministrazione alle donne in gravidanza.

279
Dal momento della sospensione il numero delle malformazioni ritornò a casi sporadici. Si tratta in
particolare della nascita di bambini con arti microscopici.

Ma come si accerta che le malformazioni dipendessero dal farmaco? Le regole scientifiche


presuppongono la verifica sperimentale. Tuttavia, essendoci il sospetto in questo caso non si poteva
continuare a somministrare il farmaco alle donne incinta, perché c’è la possibilità che questo
provochi danni: non si può acquisire la certezza scientifica con il metodo scientifico. In situazioni del
genere bisogna che il giudice intuisca che c’è un nesso causale. Questa affermazione non può essere
accettata: non si può lasciare all’impressione del giudice l’affermazione del nesso causale e quindi
della responsabilità penale. Nel caso particolare il tribunale di Aquisgrana assolse il responsabile
della casa farmaceutica per mancanza di colpevolezza (dolo), ma li condannò in sede civile al
risarcimento dei danni. Tale condanna in sede civile è rivelatoria del fatto che in sede civile si
ritenne provato il nesso causale, altrimenti non sarebbero stati condannati al risarcimento.

Sul punto il penalista Federico Stella dice che bisogna provare nel corso del giudizio l’esistenza del
nesso causale, e dimostrare la legge scientifica in base alla quale si ritiene che da A segua B. Questa
tesi è inadatta alle esigenze giuridiche: il giudice nel processo penale non può essere la sede della
dimostrazione scientifica delle leggi scientifiche, leggi che tra l’altro in un buon numero di casi non
si è in grado di formulare e dimostrare. Per esempio, nel caso della responsabilità medica, data la
diversità degli individui e quindi delle condizioni complessive che sono un numero infinito, è difficile
che sempre che al verificarsi di una situazione ne segua necessariamente un’altra.

La dottrina assolutamente prevalente, nel 2002 la Cassazione con la famosa sentenza Franzese (che
fa riferimento alla probabilità logica), ha affermata che oltre alle leggi scientifiche devono essere
utilizzate anche le leggi probabilistiche. Le leggi scientifiche non ammettono smentita, mentre le
leggi probabilistiche dicono che nel 99% dei casi ad A seguirà B, ma non c’è invariabilità assoluta.
Questo può dipendere o dalla differenza dei casi (come nella medicina) o dalla impossibilità di fare
degli esperimenti (come nel caso della talidomide).

È sufficiente utilizzare una regola probabilistica? Sì, ma a determinate condizioni:


1. La legge scientifica o probabilistica in questione deve essere capace di spiegare il maggior
numero dei casi (alcuni dicono “alto grado di probabilità razionale”): se nel 7% dei casi ad A
segue C invece che B, si prende comunque in considerazione il 93% dei casi in cui segue B.
2. Non deve esserci un’altra diversa legge più adatta a spiegare il fenomeno verificatosi.
3. Il giudice deve fare ricorso alla migliore scienza possibile in certo momento, secondo le
conoscenze acquisite.
4. Nel caso rimanga un dubbio significativo sul come siano realmente le cose, e quindi sul
decorso causale, deve assolvere: il giudice non può condannare se non c’è una certezza (art.
530 c.p.). Pagliaro riassume questo concetto dicendo che il giudice deve essere moralmente
convinto che le cose siano andate in un certo modo.

280
Quando si verifica questo contesto è corretto e giusto, e risponde alle esigenze giuridiche di
imputazione dei fatti, considerare esistente un nesso causale tra una condotta ed un evento; ed è
ulteriormente sufficiente per il diritto, non potendosi pretendere la dimostrazione processuale di
un’invariabile legge scientifica che spieghi il 100% dei casi come quello verificatosi.

Esistono nel nostro ordinamento delle fattispecie penali come i reati di pericolo: situazioni in cui è
possibile o probabile che si verifichi un certo risultato. Non è tanto un problema di causalità, quanto
più di politica criminale (sotto il profilo della offensività). Qui non ci si chiede se ci sia un nesso
causale: il legislatore vuole a monte vietare che si creino situazioni di rischio, perché ritiene
necessario per assicurare la tutela di beni importanti (vita, incolumità, salute…) bloccare a monte le
fonti di probabilità. Ci si è chiesti fino a che punto si possa spingere il legislatore in questo percorso,
perché recentemente, sulla base di alcune direttive europee, sono state formulate figure di reato
relative alla produzione di OGM (organismi geneticamente modificati), la cui caratteristica è che
non c’è neppure il rischio che ci siano dei danni (non ci sono elementi positivi che li individuino), c’è
piuttosto la mancanza di una certezza che non possa succedere un danno, quindi una mancanza di
conoscenza e di indizi negativi. Il legislatore ha ritenuto di vietare con sanzioni penali la produzione
di OGM in assenza di conoscenze, per sbarrare la porta a qualunque possibilità di rischio seppure
non ci siano indizi. Ci si è chiesto se questo fosse legittimo e la dottrina ne ha dubitato.

Parte della dottrina ha osservato che siccome il fatto non costituisce reato se chi produce questi
organismi è autorizzato a farlo, la sola mancanza di autorizzazione non ci dice che ci sia maggior
rischio e pericolosità: probabilmente quello che è rafforzato probabilmente è il controllo piuttosto
che la rischiosità. Si può anche pensare invece che data la gravità delle possibilità, che potrebbero
essere anche in qualche modo irreversibili e quindi siano giustificate misure di estrema e assoluta
cautela.

L’amianto che era utilizzato tranquillamente fino agli anni Settanta/ Ottanta, per la produzione
dell’eternit, con il quale si facevano serbatoi per l’acqua, tubi ecc., si è scoperto che l’amianto nella
lavorazione, e soprattutto se è polverizzato e poi inalato, provoca un tumore ai polmoni che porta
alla morte. Si è visto che i lavoratori addetti alla lavorazione dell’amianto andavano incontro a
questo tipo di tumore. Ci sono stati molti processi penali, la maggior parte dei quali si sono però
conclusi con l’assoluzione dell’imputato. Bisogna ora distinguere due situazioni estreme e una
intermedia.

- Situazione estrema A. Non si ha idea che l’amianto possa provocare qualche danno in un
tempo remoto: non si può punire chi non sapeva di provocare un danno.

- Situazione estrema B (opposta). Si ha la certezza che respirare polvere di amianto provochi il


tumore: se qualcuno ancora lavorasse l’amianto andrebbe pacificamente incontro a
responsabilità penale.

281
- Situazione intermedia. Su questa si giocano i processi in corso, e cioè relativamente a fatti
verificatasi quando ancora non c’era né una certezza né un’assoluta ignoranza, ma un
qualche sospetto che cominciava a profilarsi. Le sentenze hanno ritenuto fin ora che non ci
fosse responsabilità dei produttori, ma i parenti delle vittime o vittime ancora vive si sono
lamentati ritenendo che invece ci fosse colpa da parte dei produttori nell’avere continuato
le lavorazioni quando si era cominciato ad affacciare un dubbio. Si tratta di valutare che tipo
di sospetto ci potesse essere al momento in cui le lavorazioni venivano portate avanti (se si
pensa che 1/1000000 di casi porti al tumore non si può condannare qualcuno).

282
27/03/2019
Il reato omissivo

Mai un reato omissivo potrà essere la causa di un evento: il non fare niente non può portare a
qualcosa. Perché accada qualche cosa occorrono invece delle cause, naturali o umane, che
inneschino un certo evento. Il non fare niente mai può determinare un risultato. Questo risultato
invece dipendere necessariamente d altre cause, che possono essere naturali o umane.

Per esempio, l’infermiera che non dà il farmaco ad un paziente con una certa patologia cardiaca,
non provocherà la morte del paziente: sarà la patologia cardiaca a causarne la morte. La ragione
della morte sarà quindi la malattia. E così in tutti gli altri casi, se si verifica un certo evento ci sono
delle cause positive che intervengono: dall’omissione in sé non può mai derivare niente.

E allora perché ci occupiamo della causalità dell’omissione? Perché non siamo nel mondo naturale
ma nel mondo giuridico, dove le esigenze sono diverse da quelle del mondo scientifico: sono
esigenze umane, in questo caso imputazione degli eventi.

Allora Pagliaro esordisce questo argomento con un’osservazione: “mentre nella causalità
dell’azione la condicio sine qua non- il criterio attraverso il quale stabiliamo se un comportamento
precedente è causa dell’evento- serve soltanto all’accertamento del nesso causale esistente nella
realtà, viceversa nella causalità dell’omissione la condicio sine qua non è il fondamento e la
consistenza unica della causalità stessa”. Cioè all’infuori della condicio sine qua non c’è nulla nella
realtà quando si tratti di una omissione. Quindi nell’azione c’è una serie causale reale (io sparo,
ferisco la vittima, quella muore), così che lo schema è un criterio di accertamento di uno
svolgimento causale nella realtà. Invece nell’omissione non c’è uno svolgimento nella realtà che
corrisponda all’omissione, perché per definizione nell’omissione il soggetto non ha fatto nulla.

E allora utilizziamo sempre il criterio della condicio sine qua non ma in questo caso questo criterio
fonda e costituisce il nesso causale, è un criterio di esistenza, non di accertamento.

Di questo era perfettamente consapevole il nostro legislatore, il quale all’art. 40 comma 2 (L’art. 40
dell’azione, al secondo si parla della causalità dell’omissione. L’art. 41 descrive le concause).

L’art. 40.2 stabilisce: Non impedire un evento, che si ha l'obbligo giuridico di impedire, equivale a
cagionarlo.

L’accento va posto sulla parola “equivale” perché è un termine perfetto, il legislatore infatti era
consapevole che dal nulla non può derivare niente. Se qualcosa risponde per un’omissione è perché
per il diritto il non essere intervenuti equivale a cagionarlo: si tratta di una valutazione giuridica.
Dunque, è un’equivalenza sul piano giuridico normativo.

Da questo fatto deriva una conseguenza importantissima: la causalità dell’omissione si può


distinguere tra reati omissivi propri e impropri.

283
I reati omissivi propri sono quelli nei quali è incriminato il puro e semplice non far niente. I reati
omissivi impropri, detti anche commissivi mediante omissione, sono quelli in cui dall’omissione, per
l’ordinamento giuridico, deriva un certo risultato che viene imputato a chi ha omesso di fare ciò che
doveva. Questa costruzione si ottiene combinando singole fattispecie incriminatrici della parte
speciale e l’art. 40.2, che stabilisce che non impedire un evento equivale a cagionarlo.

Ma da ciò che stabilisce l’art. 40.2 significa che non tutte le fattispecie incriminatrici della parte
speciale possono essere convertite in fattispecie omissivi, ma soltanto quelle per le quali è possibile
una simile equivalenza. Queste sono le fattispecie che abbiamo già chiamato “fattispecie a forma
libera” o “causali pure”, cioè quelle nelle quali il legislatore per descrivere il fatto non indica le
modalità articolate, le forme specifiche della condotta di azione, ma si serve di un verbo che faccia
riferimento alla causalità, come “causare, cagionare, determinare, ecc…”. Questo perché per
stabilire un’equivalenza da tutte e due le parti ci deve essere qualcosa che abbia a che fare con la
causalità. Così se provassimo a formare una fattispecie omissiva che incrimini il non aver impedito,
e considerando l’equivalente al cagionare, dall’altra parte ci deve stare un “cagionare”: altrimenti
non potremmo fare un‘equivalenza. Se la fattispecie invece descrive una condotta non possiamo
stabilire un’equivalenza, perché c’è la descrizione specifica di un comportamento.

Per esempio, se qualcuno mette a qualcun altro un oggetto in tasca, e questo non fa nulla, non può
essere accusato di furto, perché il non restituire non equivale ad “impossessarmi” di quella cosa.
L’impossessamento infatti presuppone un’azione.

Quindi la causalità dell’omissione che si risolve interamente nel giudizio espresso dalla condicio sine
qua non stabilisce un’equivalenza fra una fattispecie di azione e una di omissione, e questa
equivalenza è possibile soltanto se la fattispecie di azione è una causale pura.

Il fatto di formulare con precisione questa valutazione della codicio sine qua non avrà grandissima
importanza essendo che la fattispecie si basa solo su questa valutazione.

Questo problema si complica quando il fatto risulta dal concorso di più persone –artt. 110 seg.-,
cioè quando più persone sono responsabili del verificarsi di un certo evento. Se n’era parlato a
riguardo dei reati di un organo collegiale. Un organo collegiale infatti, formato da più persone,
risponderà per un certo fatto. Risponderanno dunque i soggetti che lo compongono. Se però
piuttosto che un’azione c’è un’omissione la situazione sarà differente, soprattutto quando qualcuno
fa e qualcun altro omette. Quando chi omette è responsabile anche per chi fa? Per non essere
responsabile è necessario che questo manifesti una volontà contraria, che si dissoci. Questo
problema si pone anche in un concorso di persone sincronico –tutti agiscono nello stesso momento-
sia in senso diacronico –nello scorrere del tempo-. Se qualcuno omette qualcosa che doveva fare, e
a lui si sostituisce un altro soggetto il quale gli succede e che a sua volta dovrebbe impedire l’evento
che il primo non ha impedito (Per esempio, c’è un edificio pericolante. Il responsabile di questo
deve metterlo in sicurezza, ma omette di farlo. Ne subentra un altro, che omette ancora.

284
Ne subentra un altro, che omette anch’esso, ma a quel punto l’edificio crollo. Poiché l’obbligo
persisteva sin dall’inizio su tutti i soggetti che hanno rivestito quel ruolo, è stato ritenuto dalla
giurisprudenza che anche coloro che in precedenza non abbiano impedito il risultato siano
responsabili, perché se fossero intervenuti a suo tempo il danno non si sarebbe verificato. Quindi la
responsabilità si estende anche a coloro che in precedenza si erano trovati nella stessa situazione).

Formulazione giudizio relativo alla condicio sine qua non per l’omissione

Il giudizio è sempre “se Tizio avesse adempiuto al suo obbligo l’evento non si sarebbe verificato”. Ci
sono però tre momenti differenti in cui si formula

• Possibilità materiale di intervenire. Cioè per esempio l’infermiera deve somministrare dei
farmaci ad un paziente, ma se supponiamo che non ci siano le medicine non si può applicare il
giudizio in quanto mancava la possibilità materiale di intervenire.

• Possibilità conoscitiva. Cioè potrebbe essere che ci sia la possibilità materiale di intervenire
ma il soggetto –senza sua colpa- non conosca il modo di intervenire. Per esempio, il computer di un
aereo potrebbe intervenire per evitare un incidente, ma non sono state date informazioni
sufficienti per comandare adeguatamente l’aereo e il pilota non è in grado di intervenire.

• Se l’azione richiesta fosse stata compiuta, l’evento non si sarebbe verificato. Non è infatti
detto che sia così infatti. Per esempio, il pompiere, che ha i mezzi per intervenire e sa come
intervenire per spegnere un incendio, ma le condizioni dell’incendio erano tali che il pompiere non
poteva intervenire, per cui egli non può essere chiamato a rispondere perché l’evento si sarebbe
verificato lo stesso. Quindi l’omesso intervento è condicio sine qua non del verificarsi dell’evento:
bisogna fare il ragionamento “se fosse intervenuto, si sarebbe impedito l’evento?” Se la risposta è
no, l’omissione non potrà essere causa dell’evento.

Nel fare questo giudizio rileva l’art. 47.2., il quale presuppone valutazioni molto delicate perché
in questo processo non abbiamo sempre dei risultati bianco-nero o si-no, ma abbiamo
valutazioni insicure. Se per esempio parlassimo della manutenzione di un ponte, o della fuga di
un paziente, cure mediche, ecc… il bianco-nero non funziona più.

In particolare, nel campo medico si è formato da parte della giurisprudenza italiana a partire
dagli anni ’80 un atteggiamento di grande severità, per il quale la Cassazione che ha esteso la
responsabilità dei medici ad una percentuale molto bassa di probabilità -30%- che l’evento non
si verificasse se il medico avesse fatto qualcosa. In conseguenza di questo orientamento è nata
la c.d. medicina difensiva, un orientamento da parte di medici che, preoccupati di andare
incontro a responsabilità penale e civile di conseguenza (chi commette un reato è tenuto a
risarcire il danno), hanno assunto un atteggiamento difensivo. Si sono formate delle prassi volte
più a difendere il medico dalla responsabilità penale che a curare realmente il paziente, con
prescrizione di una serie di esami magari non necessari che sovraccaricano il sistema sanitario.,
come pure interventi e terapie.

285
Possiamo concludere dicendo che non sembra corretto l’orientamento della giurisprudenza, che
si accontenta di un grado di probabilità molto basso, estendendo esageratamente la
responsabilità dei medici, addirittura oltre quanto richiesto dal diritto stesso. La dottrina parla di
elevato grado di credibilità razionale, cioè nel giudizio di condicio sine qua non si deve
raggiungere un elevato grado di credibilità razionale, non un grado di probabilità così basso per
fondare una responsabilità penale, che alla fin fine non è nei fatti (come è stato detto all’inizio).

L'obbligo giuridico di impedire

L'art 40. 2 c.p. dice che "non impedire un evento che si ha l'obbligo giuridico di impedire,
equivale a cagionarlo". Dunque, è necessario che l'obbligo sia giuridico, non solo morale.

Trattandosi di una responsabilità giuridico-penale, l'obbligo deve essere fondato sul diritto, non
sulla buona prassi morale.

Per esempio, si potrebbe vedere la differenza nel diverso trattamento nei casi di omissione di
soccorso e per la morte in seguito all'omissione di soccorso.

L'obbligo del primo si riferisce specificatamente al soccorso, non è l'obbligo di impedire la


morte. Questa comporterà la pena di un anno.

Se però dall'omissione deriva la morte di un uomo la pena per l'omissione sarà raddoppiata,
sarà dunque di due anni.

Se però vi è non solo un obbligo giuridico di soccorrere, ma anche un dovere professionale -per
esempio un medico- e il soggetto non interviene comunque, rispronerà per omicidio colposo,
con una pena fino a cinque anni.

Questa differenza deriva dal tipo di obbligo e cioè, l'obbligo specifico del medico è quello di
impedire il danno alla salute, mentre l'obbligo specifico di chi si imbatte in un corpo inanimato è
quello del solo soccorso.

L'obbligo giuridico deve essere volto a impedire eventi del tipo di quello che si sono verificati.
Non deve essere né generico né morale.

Ma da cosa deriva l'obbligo? Ci sono due posizioni:

1) Guarda al tipo di fonte. Descrive in modo formale la fonte da cui proviene l'obbligo, ovvero
la legge o altra fonte normativa fino al contratto; e -ma questo è più discusso- precedente
azione pericolosa del soggetto. Per esempio, se qualcuno scava un pozzo, poi ha il dovere di
impedire in ogni modo che qualcuno ci finisca dentro. Quindi da un'azione pericolosa deriva
l'obbligo di adottare una serie di misure per arginare il pericolo.

286
2)Guarda alla sostanza dell'obbligo in questione. Essa guarda all'essenza dell'obbligo giuridico.
Viene espressa attraverso il concetto della "posizione di garanzia" con cui coincide l'obbligo
giuridico. Cioè l'ordinamento giuridico costituisce una persona garante del fatto che non si
verifichino certi eventi. Questa posizione si specifica in due sotto ipotesi, in situazione inversa
l'una rispetto all'altra:

- Posizione di protezione In questa il bene giuridico è individuato, quindi è individuato il


soggetto da proteggere, mentre non è individuata la fonte del danno, che può essere la
qualunque. Un esempio sono i genitori nei confronti dei figli, ma rispecchia anche, in modo più
parziale, la posizione degli insegnanti.

-Posizione di controllo Il soggetto da proteggere qui è chiunque, da una specifica fonte di danno.
Si presuppone che vi sia una fonte di pericolo, per esempio un'industria. Il proprietario dovrà
adottare delle misure volte a proteggere chiunque venga in contatto con questa, in primis i
lavoratori, ma anche clienti, mezzi che circolano, ecc... Per cui la fonte del pericolo è individuata
e qualsiasi possibile destinatario non deve subire danni.

In entrambi i casi si tratta di obblighi specifici, gravano dunque su soggetti individuati, non su
una generalità di soggetti. Questo vale anche nell'omissione di soccorso: solo chi si imbatte nel
corpo umano inanimato avrà l'obbligo di soccorrerlo.

Questo obbligo può essere trasferito attraverso una delega di funzioni. Bisogna però ricordare
che la delega ha dei limiti: non tutte le funzioni sono delegabili, il delegato deve essere un
soggetto idoneo, per quello che riguarda ambiti particolari deve risultare da atto scritto, con
data certa e la delega deve essere accettata con un altro atto scritto, devono essere dati i mezzi
adeguati al delegato per fare quanto richiesto.

Quindi la posizione può essere originaria o derivata (trasferita con la delega).In questo ambito
bisogna guardare alla sostanza. Cioè normalmente non sono necessarie formalità particolari-es:
babysitter- ma è necessario che la posizione di garanzia sia effettivamente assunta dal nuovo
soggetto - se la baby-sitter arriva in ritardo, la responsabilità fino al suo arrivo sarà dei genitori-.

Ci si è chiesti se possa essere obbligato giuridicamente chi ha assunto spontaneamente la


posizione di garanzia, e si fa l'esempio della guida di montagna. La risposta può essere sì, ma
nella misura in cui i soggetti non avrebbero intrapreso quella attività nell'assenza di quel
soggetto -non avrei scalato una montagna se non ci fosse stata la guida-.

Per quanto riguarda invece il dover impedire il comportamento di un terzo, la giurisprudenza è


molto severa nei confronti delle forze dell'ordine, che avrebbero l'obbligo di impedire tutti i
reati a cui assistono, anche occasionalmente -è ai limiti del paradossale-. Famosa è la sentenza
dei due carabinieri accusati di atti osceni in luogo pubblico per non aver impedito, avendo
assistito al fatto, ad una prostituta di andare con un altro soggetto in un luogo pubblico.

287
Ma il reato qui è l'omissione di atti d'ufficio, infatti non c'è un obbligo specifico su tutti i possibili
reati che potrebbe compiere qualcuno. Le forze dell'ordine hanno certi obblighi specifici, non
possono avere una responsabilità tanto estesa. Il loro compito è quello di impedire determinati
fatti, non tutti i possibili fatti di reato che terzi possano commettere, perché l'omissione deve
essere riferita non a tutti i reati particolari ma agli atti d'ufficio. Quindi questa posizione,
sporadicamente adottata dalla giurisprudenza, è stata rifiutata da tutta la dottrina.

Secondo Pagliaro inoltre la responsabilità per omissione è limitata al solo caso del dolo
intenzionale. Il dolo si presenza infatti in tre forme di gravità decrescente- e questo è il più
grave- ci sono poi d. indiretto e d. eventuale.

In questo caso l'agente prevede e vuole l'evento. Per cui l'evento deve essere un fine ultimo o
un mezzo necessario per realizzare il suo scopo. Dice Pagliaro che nell'omissione il soggetto non
ha materialmente fatto nulla, ma è l'ordinamento che pone accanto un evento che si è
verificato per cause di altro tipo. Allora per chiamare il soggetto a rispondere per dolo
dobbiamo trovare nel suo animo qualcosa che corrisponde con la volontà del risultato, quindi
come chi ha posto in essere l'azione.

La giurisprudenza è qui diversamente orientata, infatti generalmente si accontenta della


previsione, anche se il soggetto non abbia come scopo il verificarsi dell'evento.

Però in alcune sentenze si spinge più in là. Per esempio, degli amministratori che vedono che c'è
un disastro nell'amministrazione della società ma che non intervengono, nonostante non
abbiano intenzione di commettere certi reati. La giurisprudenza si accontenta in questi casi dei
segnali di allarme, che farebbero comprendere la situazione agli amministratori, in presenza dei
quali, nel caso non facciano nulla, questi sarebbero chiamati a rispondere.

A questo si è opposta parte della dottrina in quanto si dice che si tenderebbe a confondere il
dolo con la colpa: siamo in casi di grave negligenza, la quale è però caratteristica della colpa -
siamo sul filo della distinzione fra i casi di dolo meno intenso e di colpa più grave, che si
avvicinano parecchio-.

L'ultima cosa da dire a riguardo è se la responsabilità per omissione riguardi o meno tutti i reati.
Abbiamo detto che l'art. 40.2 stabilisce un'equivalenza fra la commissione e l'omissione del
reato. Per stabilire questa equivalenza è necessario individuare una fattispecie causale pura.
Allora ci si è detto che alcune categorie di beni stanno fuori dalla responsabilità per omissione,
perché il legislatore si serve delle fattispecie causali pure solo per i beni di maggiore importanza
(chiunque cagiona ... è punito ...). Nel caso in cui invece è descritta solo la condotta non si può
stabilire un'equivalenza, inoltre il bene tutelato avrà minore importanza. Allora si dice che
l'omissione non possa essere a protezione dei beni di rango inferiore. Questo orientamento è
discutibile per due ragioni:

288
1) Innanzitutto, questo discorso non vale quando ci si trovi in una situazione di concorso di
persone, e su questo la giurisprudenza è pacifica, anche se ci sono dubbi in dottrina.
Supponiamo che ci sia un furto con concorso di persone (per furto di un singolo non si può
essere chiamati per omissione), in cui i ladri si mettono d'accordo con il guardiano che lascia la
porta aperta, permettendo il reato. In questo caso la guardia, essendo d'accordo con i ladri,
risponderà di furto, perché il suo dovere specifico era sorvegliare il locale, e questo sebbene si
tratti di un bene patrimoniale. La guardia potrà essere chiamata a rispondere se la sua
omissione ha permesso il furto.

2) La stessa cosa si può dire probabilmente per fattispecie di reato omissivo per reati contro il
patrimonio, se la formula della legge si presta ad indicare un nesso causale. Per esempio, nel
"danneggiamento" la parola che può essere intesa come "cagionare un danno", per cui
potrebbe essere chiamato a rispondere un custode che non abbia impedito il cagionarsi di un
danno a dei beni (es: museo).

Per cui non è esclusa la responsabilità per omissione per beni che non siano di rango superiore.

289
01/04/2019

Obbligo giuridico di impedire l'evento


1.Non si deve tanto parlare dell'aspetto formale, della fonte giuridica a cui deriva (legge, contratto,
azione pericolosa)
2. tanto piuttosto alla posizione di garanzia che nell'ordinamento giuridico un certo soggetto
riveste, ricopre. L'ordinamento lo considera garante rispetto alla protezione di certi beni,
la posizione di garanzia
si specifica in due sottospecie:
• la posizione di protezione
riguarda soggetti individuati che possono essere protetti da ciascun tipo di danno ( genitori, figli e
simili)
• la posizione di controllo
invece all'inverso individua una fonte di rischio e di pericolo, e impone l'obbligo di evitare che da
questa fonte possa derivare rischio per chiunque possa trovarsi nel raggio di azione della sorgente di
pericolo.

Nel caso particolare che l'omissione consista nel non impedire il comportamento di un terzo,
l’obbligo giuridico dovrà essere un obbligo specifico, non può essere un obbligo genericissimo( di
impedire quel tipo di reato).

Secondo qualcuno (Pagliaro) per i reati omissivi occorre un dolo particolare ( criterio molto
importante), cioè un dolo intenzionale, diretto esattamente verso il non intervenire, diretto a fare in
modo che si verifichi quel certo risultato. Se questo manca il semplice sapere che le cose andranno
in un certo modo se uno non agisse non basterebbe a fondare la responsabilità.
Condizioni obbiettive di punibilità
Aggiungiamo un ultimo elemento al fatto di reato.
Sono previste dall'art 44 del codice generale:
"quando per la punibilità del reato la legge richiede il verificarsi di una condizione, il colpevole
risponde del reato anche se l'evento, da cui il verificarsi della condizione dipende ,non è da lui
voluto" Queste costituiscono avvenimenti che non sono voluti =
• non è necessario che siano da esso volute e nemmeno causate dal soggetto;
non è necessario che : non significa che debbano essere non causate e non volute, significa che non
ha importanza e quindi è indifferente se siano stati voluti o meno. Mentre normalmente si richiede
che siano stati causati dal soggetto e anche voluti, per questi non si richiede né il rapporto causale
né la volontà che si verifichino, è indifferente.
• Deve trattarsi di avvenimenti posteriori alla condotta e all'evento tipico del reato, le
condizioni obbiettive di punibilità stanno all'ultimo posto nella successione dei requisiti che
costituiscono il reato; così stabilisce logicamente l'art 158 2 comma del Codice penale. Tale
articolo non c' entra nulla con le condizioni obbiettive di punibilità, ma riguarda la
prescrizione.

290
La prescrizione è l'estinzione della pena per il decorrere del tempo- stabilisce che quando la legge
fa dipendere la punibilità del reato dal verificarsi di una condizione , il termine della prescrizione
decorre dal giorno in cui la condizione si è verificata. Trascorso il periodo si estingue la pena. E
‘logicamente necessario pensare che tale condizione si verifichi dopo gli altri requisiti del reato,
perché non avrebbe un senso logico fare cominciare a decorrere il tempo quando ancora non sono
stati posti in essere tutti i requisiti del reato, prima ancora che l'evento si verifichi o si sia sviluppata
la condotta dell'evento, il reato non può cominciare a prescriversi, ma si può cominciare a
prescrivere solo dopo che tutto si è verificato e se la legge richiede una condizione di punibilità
dopo che all'ultimo si sia verificata la condizione obbiettiva di punibilità- sono necessariamente
posteriori all'evento- .
• indicano due diverse cose: o che la gravità del fatto è maggiore ( se la condizione si verifica)
oppure che un fatto che ancora non sembra il caso di punire diventa opportuno punirlo per
la presenza di questa condizione. Rispondono a due logiche differenti:
1. un tipo di condizione aggrava il fatto, offende di più (se c'è) il bene giuridico protetto,
approfondiscono l'offesa, aggiungono qualcosa al disvalore.( condizioni intrinseche di
punibilità)
Esempio 1--->
Istigazione al suicidio... chi istiga una persona a suicidarsi è punibile soltanto se il suicidio
si verifica se non si verifica non è punibile.
IL verificarsi del suicidio rende al massimo la gravità insita già nell'istigazione ( che già
l0ordinamento non accetta e reputa offensivo per la vita, il più alto livello dell'offesa si
raggiunge solo se però segue il suicidio, l'istigazione cui non segue il suicidio non è
punibile.

esempio 2----> art 423 secondo comma punisce l'incendio di cosa propria, il fatto è
punibile se deriva pericolo per l'incolumità pubblica con quanto previsto dal primo
comma, che si applica anche. Ci deve essere pericolo per l'incolumità.
(L'OFFESA PUò ESSERE DANNO O PERICOLO, INTERVENENDO IL PERICOLO L'OFFESA SI
AGGRAVA.)

2. indica semplicemente l'opportunità politico criminale o inopportunità di punire un fatto già


di per sé offensivo, sviluppando il suo disvalore dal punto di vista della legge penale, perché
finché non si verifica la condizione il legislatore non ritiene si debbano punire. Non
aggiungono niente al disvalore del fatto in termini di offesa del bene giuridico, non
l'approfondiscono e non la diminuiscono. (condizioni estrinseche di punibilità)

291
Esempio 1--->
art 688 cod.pen. ( ormai depenalizzato) puniva chi era colto in un luogo pubblico o aperto al
pubblico in stato di manifesta ubriachezza è punito con l'arresto di 6 mesi e l'ammenda ( il
legislatore dava molta attenzione per chi fosse ubriaco in pubblico, posto che il disvalore sta nel
perdere il controllo di sé essere colto o no nello stato di manifesta ubriachezza rende la cosa più
grave, anche se uno si ubriaca a casa può fare strage della sua famiglia, la gravità è la stessa sia
che venga sorpreso in pubblico sia che non venga sorpreso e se questa persona sta in pubblico
senza che nessuno se ne accorga non viene punito. È evidente che qui il problema non è il
disvalore, ma se non viene colto è come se il legislatore non ritenesse opportuno intervenire se
non viene colto mentre era ubriaco in questo secondo esempio non indica la gravità del fatto ma
indica l'opportunità di punire o meno.
esempio 2---> art 564 incesto: chiunque in modo che ne derivi pubblico scandalo commette
incesto con un discendente o un ascendente o un affine in linea retta o una sorella o un fratello è
punito con la reclusione fino a 5 anni.

CRITERI per sapere se si è davanti a una condizione di punibilità


due tipi di criteri:
1. il modo in cui si esprime " se dal fatto deriva, qualora il fatto determini, in modo che ne derivi" la
legge, tramite espressioni linguistiche che fanno capire che il fatto è punito se; queste espressioni
per comune giudizio da sole non sono sufficienti a indicare se siamo in presenza di una condizione di
punibilità o meno. ( criterio linguistico formale)
2. vedere se e come la punizione si riferisce si rapporto con il resto del fatto appunto in uno dei due
modi indicati ( o aggravandolo o esprimendo l'opportunità politica di punirlo) (criterio sostanziale).

in particolare, se la condizione esprimesse l' unico elemento del disvalore, ragione di offesa, in
realtà non si tratterebbe di una condizione di punibilità ma dell'evento del reato, cioè l'evento del
reato accentra in sé il giudizio di disvalore e offesa ed è dannoso o pericoloso. L'offesa consiste
nell'evento cosi che se non c'è altro profilo di offensività di un certo fatto al di fuori di quella che
sospettiamo potrebbe essere una condizione in realtà condizione non è, ma è l'evento del reato(
unico elemento portatore del disvalore penale).
Nel caso di incesto ad esempio la dottrina penalistica si è interrogata,
3 linee di pensiero
• il pubblico scandalo viene interpretato come condizione obbiettiva di punibilità il fatto è
l'incesto, la relazione sessuale tra le persone legate da parentela. ( condizione che non ha a
che fare con il disvalore, che condiziona soltanto la opportunità di punirlo)
• questi sono reati contro la morale familiare e quindi l'incesto arreca offesa alla pace
familiare ma il legislatore ritiene di punirlo solo se deriva il pubblico scandalo.( si tratta di
condizione che ha a che fare con il disvalore, perché lo aumenta)

292
• Altri si chiedono in cosa consisterebbe questa offesa alla morale familiare se sono persone
che di per sé per il diritto penale hanno un consenso dovrebbe restare indifferente e se si
punisce è solo perché determina lo scandalo ed è questo scandalo l'offesa morale alla
famiglia, per cui sarebbe questo l'unico profilo di disvalore di questo fatto che in sé stesso (
da solo considerato)non sarebbe offensivo. (In questa ipotesi il pubblico scandalo
costituisce l'evento del reato, il cuore del reato stesso. Si è punito perché costituisce
pubblico scandalo.)

Tale distinzione è decisiva per il momento psicologico, evidentemente trattandosi di un delitto


doloso se si ritiene che il pubblico scandalo sia l'evento, questo deve essere voluto da chi commette
incesto; altrimenti non ci sarebbe il dolo tipico.
Quando si tratti di evento secondo l'interpretazione e non di condizione.
Se si resta nella condizione invece si risponde di delitto doloso anche se l'evento non è voluto;

questo fatto non voluto viene attribuito al soggetto non per dolo sicuramente, ma per colpa o a
titolo di responsabilità oggettiva? Si attribuisce a titolo di responsabilità oggettiva; è cosiddetta
oggettiva, una responsabilità oggettiva in senso proprio non c'è in realtà si chiama in diverso modo.
Anche se secondo alcuni si tratta di colpa ( ma i requisiti della colpa non sono presenti) il che
comporta che ciò che costituisce la condizione di punibilità deve essere quanto meno prevedibile ed
evitabile.
Particolare ipotesi di condizione. che potrebbe essere il prototipo delle condizioni cosiddette
estrinseche.

la bancarotta prefallimentare;
comportamento del creditore che in presenza di un rischio di dissesto compia sui suoi crediti dei
comportamenti che fanno diminuire la garanzia che hanno i suoi creditori ( vende i beni, li occulta, li
intesta più o meno fittiziamente a qualcun altro);
prefallimentare perché è costituita da questi comportamenti quando sono tenuti prima che venga
pronunciata una sentenza di fallimento ( poi c'è quella post dove le stesse cose sono fatte dopo la
sentenza).
Ci si è chiesti se la sentenza che dichiara il fallimento quale ruolo ha rispetto la bancarotta? è un
elemento costitutivo o è una condizione di punibilità?
Inspiegabilmente la giurisprudenza l'ha considerato varie volte un elemento costitutivo del reato,
aggiungendo però che si tratta di un elemento costitutivo che non è necessario né che sia provocato
dal soggetto né che sia voluto dal soggetto questo perché è chiaro non dipende dall'imprenditore la
sentenza ma dipende dal giudice che valuta il dissesto e ritiene se pronunciarla o meno, non
dipende dall'imprenditore né dal punto di vista causale né volontario. La giurisprudenza ha
costruito un’anomala figura di evento del reato. Non potrebbe essere del tutto fuori dalla volontà
o dal rapporto causale; la sentenza è un punto centralissimo nel reato e bisogna considerarlo
elemento costitutivo.

293
La dottrina dice che il disvalore del fatto è pregresso sta nel fatto che questo creditore sa del rischio
del dissesto; è questo il fatto carico del disvalore, l evento; la sentenza che dichiara il fallimento ha
un ruolo meramente estrinseco di esprimere la punibilità di una condotta già meramente capace
di esprimere un disvalore- anche se ha tenuto tali comportamenti il giudice potrebbe deciderlo di
non condannarlo se lo condannasse l'impresa finirebbe , per le ragioni dei creditori sarebbe ancora
peggio, l'imprenditore sarebbe in carcere, l'impresa fallirebbe. È opportuno aspettare e vedere
come vanno le cose; e pronunciare sentenza solo dopo considerando il reato completo. E una
condizione obbiettiva estrinseca, manifesta l'opportunità di punire il reato o no.

La cassazione nel gennaio 2017 aveva dopo anni di insistenza se il fatto costituisse reato o meno
aveva aderito a questa posizione dicendo che aveva ragione la dottrina.

Nel 2018 torna alla vecchia posizione di elemento costitutivo del reato. Revirement, virare in
termine francese. La sentenza parte da un punto, arriva ad un altro punto, poi vira e torna indietro.
Il vantaggio secondo la giurisprudenza è puramente teorico siccome gli atti sono atti di
disposizione dell'imprenditore sul suo patrimonio questi atti entrano nella libertà
dell'imprenditore, quello che fa scattare il reato è soltanto la sentenza, senza la sentenza nessuno
può mettere un limite all’imprenditore che dissipa e siccome è decisivo per la giurisprudenza è
elemento costitutivo.

Elementi che costituiscono il reato

(L'OFFESA NON LO è; è L'IN Sé DEL REATO, IL COLLEGAMENTO CHE LA LEGGE FA DELLA SANZIONE
PER UN CERTO FATTO CHE DIVENTA ILLECITO ESPRIME L'OFFESA, L'OFFESA è UN GIUDIZIO DI
DISVALORE)

1. soggetto attivo
deve avere capacità giuridica penale ( possibile punto di imputazione di illecito penale se ne è privo
non può essere chiamato a rispondere).

Profilo oggettivo
2. presupposti della condotta
(sono in posizione simmetrica con le condizioni obbiettive di punibilità)
quelle condizioni vengono necessariamente dopo tutto, mentre i presupposti vengono prima del
nucleo centrale del reato che è la condotta illecita.
è discusso quali siano presupposti, ispessissimo si associano inseparabilmente all'evento (es, la
donna incinta, per gli atti abortivi, ritiene un tutt'uno che non si può separare se la donna non è
incinta non possono esserci atti abortivi ci sono altri reati. In tal caso è discutibile parlare di
presupposto, è una qualità dell’evento o della condotta);
3. condotta
può essere o azione o omissione.
causa dell'evento.

294
5. nesso di causalità
le lega, nesso necessario.
4. evento
conseguenza che segue alla condotta.

Profilo soggettivo (o subbiettivo)

3.coscienza e volontà
si riferisce alla condotta,
deve essere posta con coscienza e volontà.

4. il dolo o la colpa
si riferiscono all'evento.
( dal punto di vista teorico e strutturale, il dolo è legato all'evento e quindi la qualità del soggetto
agente dovrebbe stare fuori dall'oggetto del dolo)
Ma sotto il profilo psicologico anche il soggetto attivo è legato all'evento, quando la legge richiede
per il soggetto attivo una particolare qualità questa il più delle volte di fatto, si riverbera sull’evento.
Per volere il peculato ad esempio è indispensabile sapere di essere pubblico ufficiale , altrimenti si
vuole un altro fatto( l'appropriazione indebita)
Il più delle volte la qualità del soggetto agente da fisionomia all'evento, mentre teoricamente
sarebbe esterna al dolo.

295
02/04/2019
Aspetto Soggettivo (psicologico)

(attenzione!!! Quando parliamo di “aspetto soggettivo”, non si intende “che riguarda il soggetto”,
perché in diritto penale si fa riferimento all’aspetto psicologico del reato. La parola è la stessa:
“soggetto”, ma non è quello che riguarda il soggetto, ma riguarda il momento psicologico).

Cominciamo con il Dolo (di cui abbiamo già parlato):

innanzitutto, osserviamo che il dolo è certamente la forma più grave dell’aspetto psicologico del reato
e siccome il diritto penale non è staccato dall’etica, questo ha una grande importanza nella
costruzione del reato stesso e lo si vede dalla risposta sanzionatoria che l’ordinamento giuridico
dispone: un delitto doloso è punito molto più severamente di un delitto colposo.

Tanto per fare un esempio.: l’omicidio doloso volontario è punito con la reclusione non inferiore ad
anni 21; mentre lo stesso fatto colposo è punito da 2 a 5 anni-> c’è un abisso di distanza, che sta
solamente nel momento psicologico-soggettivo, perché dal punto di vista esteriore la realizzazione è
uguale (cioè qualcuno cagiona la morte di una persona e il risultato, dal punto di vista dell’offesa, è
uguale, l’evento è lo stesso: la morte di un uomo; se non che, in un caso è voluto, in un altro no,
perché è dovuto per negligenza, imprudenza e imperizia). La ragione di questa differenza nella
risposta si apprezza si sotto il profilo etico (un conto è volere questo risultato e un conto è provocarlo
per leggerezza), ma l’altra ragione è che nel delitto doloso il soggetto si pone volontariamente contro
l’ordinamento giuridico, contro la regola, che è la legge penale “non uccidere-> e invece qualcuno
uccide).

Se andiamo alla definizione, qui c’è un problema, perché Pagliaro definisce il Dolo come l’aspetto
soggettivo di una fattispecie penale dolosa-> questo a prima vista potrebbe sembrare il più lampante
dei circoli viziosi, perché definire il dolo come l’aspetto soggettivo della fattispecie dolosa, ci si chiede:
da dove partiamo? Si parte dalla fattispecie dolosa-> la fattispecie dolosa si distingue dalla fattispecie
colposa-> perché? Perché nella fattispecie dolosa la legge si serve di elementi normativi astratti,
mentre nella fattispecie colposa si serve di elementi normativi concreti. -> ma in che senso? Partiamo
dalla fattispecie colposa che è la più semplice: il delitto è colposo quando l’evento è provocato da
una condotta che viene definita dalla legge negligente, imprudente o imperita, oppure in osservanza
di leggi o regolamenti, ordine e disciplina. Questi eventi non possono essere considerati in modo
astratto, ma soltanto in modo concreto, cioè con riferimento al particolarissimo evento che si è
effettivamente verificato. Non esiste per il diritto penale una imprudenza in astratto; esiste una
negligenza, imprudenza, imperizia in rapporto al fatto concreto che si è verificato; solo quella
violazione della regola dell’imprudenza che è in rapporto all’vento concreto verificatosi.

296
Facciamo un esempio per spiegare meglio: un automobilista cammina in controsenso in una strada,
così facendo con le ruote urta una bottiglia di vetro che sta al centro della strada, la quale schizza e
ferisce gravemente un passante che sta sul marciapiede-> cosa si pensa? Tizio era in controsenso e
andando in controsenso con la macchina, ha ferito qualcuno; quindi si potrebbe dire “ha violato la
legge, si è verificato in conseguenza di questo un danno, cioè lesioni gravi al passante, quindi risponde
per colpa”-> e invece no! Perché la violazione dell’automobilista che ha guidato in controsenso, non
ha nessuna relazione, dal punto di vista della regola violata, con l’evento che si è verificato -> cioè
l’evento si sarebbe potuto verificare anche se fosse andato nel senso giusto; perché le regole sul
senso di marcia non sono dettate per evitare che oggetti si trovino casualmente al centro della
strada-> servono per agevolare il flusso dei veicoli e dei pedoni. -> qui non c’è responsabilità per
colpa. Sebbene ci sia violazione, questa non è in rapporto con l’evento concreto verificatosi.

Quindi nella fattispecie penale colposa, la violazione della regola non può essere considerata in
astratto, ma soltanto in relazione all’evento concreto che si è verificato. Quindi detto al contrario: la
fattispecie penale colposa si serve, per descrivere il fatto punibile, di elementi normativi concreti->
cioè in rapporto all’evento concreto.

E ora si capisce la differenza con la fattispecie dolosa-> che non ha questa tecnica. Cioè
semplicemente vieta di fare certe cose senza riferimento a un particolare risultato (es: “non cagionare
la morte di un uomo”-> in qualsiasi modo). Non è necessario stabilire se c’è delitto doloso andare a
verificare il rapporto tra la violazione della regola e l’evento. Quindi la fattispecie si serve di una
descrizione del fatto astratta, in generale, non con riguardo al particolare concreto evento.

Questa è la differenza tra Struttura oggettiva della Fattispecie colposa e Struttura oggettiva della
fattispecie dolosa -> di conseguenza il dolo è l’aspetto soggettivo di una fattispecie così strutturata
(così come abbiamo appena finito di spiegare) ; mentre poi vedremo, nella colpa è l’ aspetto
soggettivo di una fattispecie colposa.

Questo dal punto di vista della definizione.

Il professore ci ha detto più volte che il dolo può essere considerato sinonimo di Volontà-> e questo
va bene-> e potrebbe sembrare un argomento semplice, invece si vedrà quanto è complesso questo
argomento, quanto dia da fare da sempre alla dottrina, alla giurisprudenza, definire i connotati e le
caratteristiche di questa volontà è estremamente complicato.

Quando all’esame ci chiedono “il dolo” si può rispondere in tanti modi diversi scendendo nel dettaglio
in questi problemi che adesso andremo a vedere oppure in modo molto superficiale.

Prima cosa: dimenticare la nozione civilistica del dolo -> nel diritto civile il dolo è il vizio della volontà
(dolo- errore- violenza)-> es i romani il dolo è “Omnis calliditas, fallacia, machinatio”. -> Quindi è un
imbroglio, una frode , un inganno che altera la volontà di un soggetto in riferimento a un negozio
giuridico, quindi è un vizio della volontà. Grossomodo potrebbe corrispondere al delitto di truffa ->
comunque la frode è l’elemento centrale della truffa. Quindi il dolo civilistico è un inganno, un
imbroglio , una frode-> niente a che vedere con il dolo del diritto penale.

297
Andiamo adesso all’art 43 che dà la nozione di dolo, osservando per prima cosa che il legislatore del
1930 riecheggia una teoria della bipartizione della struttura del reato, perché mentre da un parte c’è
l’elemento oggettivo, dall’altro c’è l’elemento soggettivo .-> perché dopo aver parlato della causalità
negli art 40 e 41 , all’art 43 la rubrica è “elemento psicologico del reato” -> quindi il legislatore di
allora prevedeva che vi era un elemento oggettivo (aggiunto dalla causalità) e un elemento
psicologico -> noi abbiamo detto che questa scomposizione così radicale non risponde perfettamente
alla migliore lettura, perché dall’elemento psicologico dipende anche l’elemento oggettivo.

Non definisce direttamente l’elemento psicologico, ma il delitto -> cioè distingue il delitto colposo,
doloso e preterintenzionale -> ma il dolo , abbiamo appena finito di dire, che è l’aspetto psicologico
del delitto doloso -> quindi questo aspetto psicologico corrispondente al delitto che qui viene definito
come doloso.

Osserviamo ancora diverse cose:

• Nel precedente articolo 42, la legge pone la regola che normalmente si risponde per delitto,
quando è doloso; e poi la legge prevede espressamente i casi di delitto colposo e
preterintenzionale -> quindi mentre in assenza di qualunque altra indicazione, un delitto si
deve considerare doloso, quando il legislatore deve anche definire il fatto colposo, ha bisogno
di stabilirlo espressamente (omicidio-> omicidio colposo… e così via). Nel “danneggiamento”
non si fa riferimento alla colpa e così anche nell’”ingiuria” non c’è una forma colposa.
Questa regola vale per i delitti, ma non per le contravvenzioni-> in cui invece si risponde per
dolo e per colpa-> può essere realizzata sia con dolo sia con colpa.
• Secondo chiarimento: nell’art 43 si definiscono tre tipi di delitto, in coerenza con l’art 42 che
stabilisce che la regola è il dolo, a meno che la legge espressamente non preveda un delitto
colposo o preterintenzionale; e il legislatore definisce il delitto doloso, preterintenzionale e
colposo-> ci sono tre forme di elemento psicologico: dolo- preterintenzione- colpa. Però
vedremo più avanti ed è pacifico che la preterintenzione non si può considerare una
autonoma, distinta forma dell’elemento psicologico, perché è in realtà un misto di dolo e
secondo alcuni, colpa, e secondo altri “misto di dolo e responsabilità oggettiva”. In ogni caso
non è un’autonoma, individuabile forma, distinta a sé stante dell’elemento psicologico; è
soltanto il misto, l’insieme, la somma di questi due profili: dolo e responsabilità oggettiva.
Quindi il problema sta nell’individuare il dolo e la colpa. E quindi cominciamo dal dolo.

La definizione che l’art 43 dà del dolo è estremamente articolata, perché si dice:

<<Il delitto:

è doloso, o secondo l'intenzione, quando l'evento dannoso o pericoloso, che è il risultato dell'azione
od omissione e da cui la legge fa dipendere l'esistenza del delitto, è dall'agente preveduto e voluto
come conseguenza della propria azione od omissione (1);

è preterintenzionale, o oltre l'intenzione, quando dall'azione od omissione deriva un evento dannoso


o pericoloso più grave di quello voluto dall'agente (2);

298
è colposo, o contro l'intenzione, quando l'evento, anche se preveduto, non è voluto dall'agente e si
verifica a causa di negligenza o imprudenza o imperizia, ovvero per inosservanza di leggi,
regolamenti, ordini o discipline (3).

La distinzione tra reato doloso e reato colposo, stabilita da questo articolo per i delitti (4), si applica
altresì alle contravvenzioni, ogni qualvolta per queste la legge penale faccia dipendere da tale
distinzione un qualsiasi effetto giuridico.>>

-> quindi il dolo riguarda l’evento.

Ma ora andando avanti vedremo come si necessario raggiungere molte altre cose-> la legge parla di
volontà riferita all’evento e notiamo subito dal Pagliaro che in realtà in questa definizione ci sono ben
tre diversi punti di vista, perché si dice -> il delitto è doloso o secondo l’intenzione (quindi porta a
compimento un’intenzione del soggetto rivolta all’evento); ma poi si dice “quando l’evento è
preveduto e voluto” -> quindi previsione e volontà.

Allora noi dobbiamo affrontare questa questione, che sembrava facile, esaminando due profili:

1. La struttura di questo processo psicologico: cioè previsione, volontà, intenzione.


2. L’oggetto di questa volontà, cioè che cosa vuole il soggetto.
Esaminiamo la Struttura (1) con questi tre indici: intenzione, previsione, volontà-> “l’elemento
doloso secondo l’intenzione è preveduto, voluto. “ -> questa definizione non è casuale e dipende dal
fatto che nel 1930 c’erano diverse teorie sulla natura di questo processo psicologico, della struttura
del dolo , le quali si contendevano in campo: quella che considera il dolo come previsione (o più
esattamente come rappresentazione) e l’altra che considera il dolo come volontà -> quindi le due
grandi linee sono: previsione (o anche rappresentazione) e volontà.

Previsione o rappresentazione = vuol dire “rappresentazione mentale” , cioè nella mia mente io mi
raffiguro, mi rappresento quello che succederà come conseguenza della mia azione (sparo e penso
che partirà il proiettile, raggiungerà la persona, la colpirò in un punto vitale e quindi quel soggetto
morirà) -> ora quando la definizione fu formulata nel 1930, alcuni pensavano che l’essenza
consistesse in questa rappresentazione, perché partivano da una concezione positivista, legata alla
psicologia analitica, per la quale l’uomo non può volere di fatti esterni, può solo pensarli-> quello che
l’uomo può volere è esclusivamente ciò che lui controlla, cioè il movimento del suo corpo (io posso
volere piegare il dito sopra il grilletto di una pistola-> questa è la volontà in senso stretto. Quello che
poi succede, non posso più volerlo, perché gli eventi seguono le loro leggi naturali -> cioè parte il
proiettile, raggiunge la persona, la persona viene ferita, ecc...muore) -> posso pensarlo, posso
rappresentarlo che in conseguenza dopo aver premuto il grilletto, succederanno queste cose. Quindi
l’essenza del dolo è Rappresentazione; la volontà si riferisce soltanto alla condotta, che deve essere
cosciente e volontaria -> ma il dolo dato che l’uomo può volere solo la condotta, invece il dolo riferito
al fatto esterno, non può che essere rappresentazione mentale.

299
Questa teoria è in un certo senso più semplice dell’altra che considera il dolo come volontà, perché
è più semplice per il punto di vista dell’accertamento, perché tutto sommato è più semplice stabilire
che cosa il soggetto sapeva, pensava -> mentre è molto più complicato stabilire che intenzione avesse
nel fare qualcosa, a che cosa era rivolta questa volontà -> mentre è relativamente più semplice
stabilire cosa pensasse. -> ma questa concezione non può essere accolta.

1. Perché? Perché anche nella colpa può esserci una previsione o rappresentazione dell’evento
-> questo è stabilito dall’art 61 c.p. numero 3, che considera come “circostanza aggravante
del delitto colposo”, l’aver agito con la previsione dell’evento :

<< 3) l'avere, nei delitti colposi [43], agito nonostante la previsione dell'evento (3);>> ->
quindi per legge anche nella colpa, può esserci la previsione; tanto che la previsione
costituisce una circostanza aggravante, che non definisce l’essenza del reato, ma che si può
eventualmente presentare oppure no. La previsione nel delitto doloso è necessaria, mentre
nel delitto colposo è eventuale, possibile, come circostanza aggravante. -> allora si vede che
non può essere la “previsione” a caratterizzare il dolo (che può esserci, come no)

es: una persona con la macchina attraversa con il semaforo rosso in un momento di circolazione, una
persona con un minimo di testa sa che potrebbe arrivare un’altra macchina, quindi prevede la
possibilità di andare a sbattere e ciononostante attraversa lo stesso -> si agisce nonostante la
previsione dell’evento e come ci dice il legislatore del 1930 “nel diritto doloso è necessario, mentre
del delitto colposo, di solito uno non lo prevede, quindi agisce in modo imprudente, nonostante la
previsione dell’evento.

La previsione non può essere l’elemento che caratterizza il dolo.

Chiarimento: ATTENZIONE a non confondere questo di cui abbiamo parlato in


quest’istante, cioè della previsione che c’è sicuramente nel dolo, e che PUO’ esserci nella
colpa, con la “prevedibilità”, che si riferisce alla colpa. Vedremo più avanti che nei delitti
colposi e anche quelli detti a responsabilità oggettiva si richiede sempre la prevedibilità
(che parleremo a suo tempo) -> ma intanto non confondiamo “previsione” con
“prevedibilità” -> è chiaro che sono due cose diverse, così come qualcosa in atto è diverso
da qualcosa in potenza.
Previsione significa che io nella mia mente prevedo un certo fatto (prevedo per es. la
possibilità di sbattere); prevedibilità, invece, è la possibilità di prevedere, non è affatto vero
che un fatto prevedibile sia stato realmente previsto effettivamente dal soggetto. Il giudizio
della prevedibilità, tra l’altro, riguarda il cd. Uomo medio -> cioè, in una certa situazione,
una persona normale dotata di normale capacità mentale, ecc, avrebbe potuto prevedere
che si verificasse qualcosa. Non è detto che questa prevedibilità sia effettivamente lo stato
mentale di un soggetto concreto. Quindi la prevedibilità è una possibilità generale per
l’uomo medio; la previsione è uno stato mentale effettivo di un soggetto determinato ->
una cosa può essere prevedibile, ma non prevista (è prevedibile che se uno fa una cosa
pericolosa, succeda un danno, ma il Signore X quando ha fatto quella cosa non ci ha
pensato, cioè non l’ha previsto). Nei delitti colposi è sempre necessaria la prevedibilità, cioè
la possibilità generale di prevedere; qualche volta, e allora è un aggravante, ci può anche
essere la previsione.

300
La teoria della previsione può dar luogo ad una concezione del dolo per cui una volta che sia stata
voluta la condotta, necessariamente, accompagnata dalla previsione dell’evento, il soggetto è
necessariamente in dolo -> ci si riferisce a quella costruzione, che parleremo più avanti, che si chiama
Dolus in re ipsa (che troviamo sul libro). -> cioè tizio ha fatto una certa cosa? Sì. L’ha voluta? Sì. Si è
rappresentato la possibilità della conseguenza? Sì. E allora è in dolo.

Mentre non è detto che per il solo fatto di avere voluto una condotta, la volontà del soggetto si sia
estesa anche all’evento. L’esempio più semplice da fare è quello che si riferisce alla pronuncia di
parole di cui non si conosca il significato-> io mando una mail a Tizio, scrivendo una certa cosa, che
immagino voglia dire una cosa, ma in realtà ho voluto mandargli quella parola e ho pensato che lui
l’avrebbe letta-> sono in dolo? In base alla teoria della previsione sì, perché si potrebbe pensare che
una volta che io gli ho mandato l’e-mail, gli ho scritto quella parola, pensavo che lui l’avrebbe letta e
ho voluto ingannarlo, sono in dolo. Perché quella parola induce in errore, inganna tizio e io gliel’ho
scritta, quindi sono in dolo-> E invece NO-> perché bisogna ulteriormente pensare che cosa ho voluto
fare, che senso ho attribuito alla lettera scritta-> per me quel messaggio significava una certa cosa,
per lui un’altra. Allora l’ulteriore difficoltà di questa impostazione è che non corrisponde al senso
comune-> se io sparo a qualcuno mirando al petto, nessuno di noi si sogna di dire che “non ho voluto
la sua morte”, ma che ho voluto premere il grilletto e ho pensato, mi sono rappresentato la sua morte
-> nel comune senso, si dice che ho voluto uccidere quell’uomo, ho voluto la sua morte. Cioè, vero è
che dal punto di vista meccanico, biologico, la nostra volontà influisce sul nostro corpo, ma abbraccia
gli eventi del mondo esterno, li fa propri, che sa essere conseguenza delle proprie azioni (es:
abbraccio la conseguenza della morte della persona colpita). Dunque, è contrario al senso comune
dire che la volontà non si estende alle conseguenze e si ferma al momento del movimento corporeo
-> cosicché abbiamo in qualche modo presentato la seconda Teoria, sicuramente da preferire,
secondo la quale il dolo è volontà -> cioè non soltanto conoscenza (rappresentazione), ma
l’abbracciare la realizzazione in quanto oggetto della volontà-> un evento voluto. In questa volontà
(come vedremo meglio nella lezione di domani), si possono poi configurare forme differenti. Una di
queste, anzi, la forma per eccellenza della volontà è esattamente l’Intenzione-> cioè quando diamo
che io sparo a Tizio, perché voglio provocargli la morte, la mia intenzione è esattamente rivolta a
questo evento. Vedremo che la volontà si presenta anche in altre forme, certamente la più tipica
delle forme della nostra volontà è quella dell’intenzione (ho agito con l’intenzione di determinare
quel fatto) -> cosicché dentro il concetto di volontà, oltre alle altre forme (di cui parleremo nella
lezione di domani), ci sta sicuramente l’intenzione. Quando un soggetto ha agito con l’intenzione di
provocare un evento, si dice che lo ha voluto.

Conclusione di questo discorso è che la parola, il concetto di Volontà è il migliore e il più preciso per
indicare la Struttura mentale del Dolo-> perché comprende l’intenzione e presuppone, ma non si
sovrappone, cioè non coincide con la previsione. La volontà presuppone la previsione. Vi è una regola
latina “Nihil volitur, nisi pra ecognitur” -> cioè non si può volere niente se prima non lo si è
conosciuto; quindi io penso ad una cosa e la faccio mia, l’abbraccio con la volontà. Quindi la previsione
è il presupposto della volontà; l’intenzione è la forma più tipica e principale della volontà.

In conseguenza di questo, il concetto che esprime meglio di ogni altro la struttura del dolo è quello
di Volontà.

301
Ora esaminiamo più da vicino i due momenti della previsione (conoscenza) e volontà (in senso
stretto).

Pagliaro tratta di questi argomenti di passaggio, affrontandoli implicitamente, trattando di altre


questioni, ma noi soffermiamoci un po’ di più.

Ci vuole una coscienza o previsione-> che cosa si deve esattamente sapere? Apparentemente la
definizione legislativa si riferisce esclusivamente all’evento, cioè il delitto è doloso quando l’evento è
voluto-> in realtà quando diciamo che l’evento è voluto, intendiamo necessariamente affermare che
occorre anche una conoscenza di altri elementi, senza i quali l’evento non può essere neppure
conosciuto, e cioè:

1. presupposto -> abbiamo già detto che la condotta in certi casi ha dei presupposti che danno
un senso alla cosa;
2. condotta -> la condotta deve essere conosciuta dal soggetto, occorre “coscienza della
condotta”, come dice la legge. Che può essere la coscienza dell’azione (sono consapevole di
fare quel movimento); in qualche caso, abbiamo detto, che può mancare questa coscienza, e
nel caso dell’omissione è più complesso ancora, perché la coscienza si riferisce:

❖ alla situazione di fatto


❖ l’omissione richiede una consapevolezza della posizione di garanzia, cioè devo
sapere che sono tenuto ad intervenire: questa consapevolezza non deve essere
intesa nel senso tecnico, ma nel senso corrente, alla “maniera del profano”, cioè che
so che fa parte dei miei compiti intervenire, non è un’analisi tecnica, scientifica,
giuridica, è la coscienza di essere obbligati a impedire quel gesto. Questa conoscenza,
in generale può riguardare o:
o fatti naturali (cagiona la morte di un uomo)
o o può passare attraverso la conoscenza di una disposizione normativa
(indebitamente si fa dare denaro da un altro -> concussione. Debbo sapere
in questo caso, che la somma che mi faccio dare non è dovuto-> perché se
invece sono convinto che sia dovuta, non sono in dolo.

Abbiamo detto fino a ieri, che il dolo può richiedere perfino la consapevolezza delle qualità del
soggetto agente. La legge parla di evento, ma certe volte la qualità del soggetto agente si riflette
sull’evento e colora l’evento in un certo senso-> es: se sono pubblico ufficiale e so di esserlo, mi rendo
conto che l’appropriazione di quella cosa di cui sono in possesso, costituisce l’evento di peculato; se
non so di essere pubblico ufficiale non mi rendo conto che appropriarmi di quella cosa costituisca
l’evento del delitto di peculato e penso che si tratti di una semplice appropriazione qualsiasi. Quindi
nel maggior numero dei casi si riverberano sull’evento e quindi il soggetto deve anche conoscere
queste qualità per essere in dolo rispetto a quell’evento lì.

302
Infine (e poi lo vedremo meglio), quando si dice che deve essere voluto l’evento, ci si deve riferire
all’evento con tutto il suo significato (e l’esempio è lo stesso di quello di poco fa: mando una mail a
qualcuno, gli scrivo una parola, non basta la pura coscienza del fatto materiale di avere scritto quella
parola, ma devo anche rendermi conto di cosa quella parola significa-> bisogna cogliere il significato,
non la pura materialità).

Ancora una cosa: il Nesso Causale -> quando l’evento è preveduto e voluto come conseguenza della
propria azione o omissione. La dottrina ha formulazioni varie, ma sostanzialmente convergenti e cioè:
per es., qualcuno dice, per es. Fiandaca e Musco “occorre la rappresentazione generica del nesso
causale” -> cioè so che se sparo a qualcuno con una calibro 38, quella persona muore.

Pagliaro dice “non è essenziale la rappresentazione esatta del nesso causale”-> è più o meno la stessa
cosa, detta in negativo -> in qualche modo devono rendergli conto che quell’evento non si verifica
“cosi”, per caso, ma è il risultato di quello che sto facendo. Collegare l’evento alla condotta. E ciò è
necessario che il soggetto lo sappia.

Va ricordata una cosa, che il professore ha già detto in altro proposito, ma va detta propriamente in
questa sede: quando abbiamo parlato della Tripartizione, una delle critiche che i sostenitori della
Tripartizione muovono alla Teoria che considera le cd. “cause di giustificazione” come elementi
negativi della condotta illecita, una delle critiche è: che questa costruzione presupporrebbe un Dolo
Mostruoso, cioè il soggetto per volere quel famoso evento dovrebbe sapere di non essere in legittima
difesa, ecc… dovrebbe pensare tutte queste cose -> quindi c’era questa obiezione, e il professore
allora aveva detto che l’obiezione si supera facilmente (e aveva fatto l’esempio del cambio marcia).
il discorso è molto più generale: sempre il dolo e questo profilo del dolo, cioè la coscienza, la
consapevolezza, non esige una rappresentazione attuale, specifica, puntuale e analitica di tutti gli
elementi che compongono il quadro della situazione, ma è sufficiente che il soggetto abbia a
disposizione delle informazioni, delle conoscenze, che le abbia acquisite e che volendo possa
richiamarle all’attenzione in modo vigile, senza fare studi che richiedono processi mentali (era
appunto l’esempio del cambio marcia, che uno non pensa a tutte le operazioni che sta compiendo, li
sa, li ha imparati, non li ripensa uno per uno, decide di cambiarli -> la stessa cosa vale sempre per il
dolo).

Se io decido di provocare la morte ad una persona “incaprettandolo”, come fa la mafia, cioè legando
mani e piedi, non vado a pensare dettagliatamente quali siano le conseguenze tecniche dal punto di
vista medico di queste operazioni -> so che in questo modo quella persona morirà e afferro in unico
pensiero, quale sarà la conseguenza del mio comportamento. Il dolo non richiede quel pensiero nel
momento dell’azione, basta che io sappia che facendo una certa cosa, so anche quali conseguenze ci
saranno. Basta questa conoscenza sintetica.

303
L’ultima cosa che riguarda ancora la Coscienza: cioè il ruolo che ha il dubbio, l’incertezza conoscitiva,
che succede se io non sono sicuro di quali siano le conseguenze del mio comportamento e quindi
sono in dubbio su quello che si verificherà. Abbiamo detto che devo sapere come stanno le cose, lo
stato di fatto, i presupposti, soggetto, condotta, nesso causale, risultato, significato del risultato,
ecc…ma posso essere incerto, la mia conoscenza può essere insicura -> questo esclude il dolo oppure
no? La risposta è che dipende dalle forme del dolo (che saranno trattate nella lezione di domani).

Il dubbio, l’incertezza conoscitiva non ha nessuna rilevanza, nel senso che non esclude il dolo, quando
si tratta di dolo intenzionale, mentre il dubbio è esattamente quello che distingue le altre due forme
del dolo -> le forme del dolo sono tre:

▪ dolo intenzionale
▪ dolo indiretto
▪ dolo eventuale

il dubbio è ciò che determina la differenziazione tra dolo indiretto e dolo eventuale -> nel senso che
il dolo indiretto presuppone la certezza; mentre il dolo eventuale presuppone l’incertezza, cioè il
dubbio.

Questa incertezza, la giurisprudenza ha stabilito, che può riguardare anche uno dei momenti di tutta
queste serie che abbiamo già visto -> per es. la cassazione ha ritenuto che nel delitto di “ricettazione”
(ricevere cose che si sospetta possano venire dal reato), si può anche essere incerti sulla provenienza
della cosa e ciononostante rispondere per ricettazione -> cioè io voglio prendere quella cosa, anche
se non sono sicurissimo che venga da un reato.

Normalmente la legge non fa differenza tra queste forme del dolo, mentre in qualche caso,
espressamente, richiede l’una o l’altra delle forme (ma di questa cosa ne parleremo meglio domani).

Quello che si è detto fino ad ora riguarda la Coscienza, la Rappresentazione.

Ora iniziamo a parlare della Volontà:

prima cosa-> per potersi parlare di dolo occorre la realizzazione effettiva dell’evento-> cioè una
volontà che si spinge verso un certo risultato, che però non si verifica, in questo caso, non è dolo.
Per aversi il dolo deve aversi la realizzazione, occorre l’evento. Il delitto è doloso quando l’evento
che si è verificato è preveduto e voluto -> una volontà che si spinge verso il risultato, non è dolo. Tizio
agisce per ottenere un risultato che non si verifica, risponde per “tentativo” (es tentato omicidio),
che è un’altra cosa, ma certamente non risponde di omicidio consumato, perché l’evento non si è
verificato. -> e si vede che sebbene possa sembrare che il dolo sia identico, in verità, il dolo richiesto
per il tentativo è diverso da quello richiesto da quello per il reato consumato -> facciamo un es: io
sparo a Tizio, ho l’intenzione di colpirlo e non lo colpisco, se non si verifica l’evento non si può parlare
di dolo, perché l’evento non c’è -> però rispondo per tentativo di omicidio. Ora nonostante la
differenza materiale, l’elemento soggettivo non è uguale, perché viene definito non dalla natura, ma
dalla legge-> il concetto di dolo è un concetto normativo, che si atteggia diversamente nel delitto
consumato e nel delitto tentato.

304
Per il delitto consumato è necessario che alla volontà segua la realizzazione; i requisiti del dolo nel
tentativo, per legge, sono diversi da quelli del delitto consumato.

Quando studieremo il “tentativo” ritroveremo quello che si è appena spiegato.

Per quello che ci riguarda in questo momento, il dolo esige la realizzazione dell’evento.

Un’altra importante conseguenza di questo, di cui si è appena detto, la si trova nel “concorso di
persone”-> quando studieremo il concorso di persone, troveremo che è necessaria che ci sia la
volontà di una realizzazione comune -> potremmo pensare al dolo-> e invece NO! Perché anche qui
c’è la differenza tra la nozione tecnica di dolo e questa volontà, perché è possibile che nel concorso
di persone, delle persone si mettano d’accordo per fare qualche cosa, ma poi succeda un’altra cosa,
e commettono un altro reato (andiamo per esempio per fare un furto, ma poi il furto non c’è , però
c’è una violenza sessuale ai danni della proprietaria del negozio-> del furto non c’è nemmeno il
tentativo-> allora quella volontà riferita al furto, non si chiama dolo, ma si chiama volontà di una
realizzazione comune consistente nel rubare qualcosa-> non è la nozione tecnica di dolo.

Continuiamo domani con la Volontà.

305
03/04/2019
Per quanto attiene la volontà concernente il dolo, essa è riferita all’evento tipico di un reato. Non è
da considerare sul terreno naturale, l’osservazione dello psicologo e giudice penale sono diverse e
rispondono esigenze diverse.

Il dolo del delitto consumato non è uguale a quello del delitto tentato, poiché per il tentativo si
richiede un dolo particolare e non è sufficiente il dolo eventuale.
Nel concorso di persone si può parlare di una volontà in senso naturale ma non di dolo se non si
realizza il reato.

Quanto al Dolo come concetto normativo, il dolo è la volontà riferita all’ evento del reato e questo
concetto ha sicuramente rilevanza anche rispetto al dolo alternativo. Il dolo alternativo è quello nel
quale, il soggetto pensa e vuole un evento in alternativa rispetto ad un altro ma con la caratteristica
che la realizzazione di un evento escluda il compiersi dell’altro. Il soggetto vuole l’uno o l’altro in
alternativa, ma sa che se si realizza uno, non realizza l’altro. Ad esempio nella roulette russa, c’è
una pistola a tamburo caricata con un solo proiettile, si gira il tamburo, non si sa dove sia il
proiettile e si spara in un gioco folle evidentemente, però siccome il proiettile è uno, anche se si
spara a più persone una sola è colpita, le altre no dato che vi è un singolo proiettile , quindi chi
spara o si spara sa che se il proiettile esplode verso una persona non potrà esplodere verso le
altre. Il dolo quindi c’è esclusivamente nei riguardi di quell’ evento che si realizza, mentre la
volontà naturalistica che si riferisce agli altri perde rilevanza e il soggetto risponderà solo del reato
che si è realizzato e non anche del tentativo di altri reati possibili.
Quindi in definitiva risponderà solo del delitto consumato. Invece, diverso dal dolo alternativo
risulta essere il dolo indeterminato, il soggetto in questo caso vuole indifferentemente o una o
l’altra cosa, ad esempio una persona spara ad altezza uomo, disposto a colpire una parte vitale del
corpo o anche in una parte che lo è di meno come un braccio, volendo procurare lesioni o morte
indifferentemente. Di conseguenza per questa situazione del dolo indeterminato, si applica la
regola espressa dalla frase “il dolo indeterminato è caratterizzato dal risultato di ciò che accade
effettivamente e il soggetto risponde di ciò che si verifica, ma se ci fossero altri presupposti di
rilevanza potrebbe rispondere all’altro reato che non si è realizzato, questo perché le due cose si
sommano senza che la realizzazione dell’uno escluda logicamente il verificarsi dell’altro.
Il dolo, sempre come concetto normativo, va pensato come volontà di un evento che si realizza e
non hanno importanza per il diritto le sfumature che questa volontà assume nella mente del
soggetto, come ad esempio una certa riluttanza, titubanza, la quale si avvale del momento in cui il
soggetto non è magari convinto del suo agire e in lui alberga la speranza che quello che sta facendo
non arrivi al risultato finale. Questi movimenti interiori della volontà non hanno rilevanza per il
diritto. Un altro aspetto che non ha rilevanza è il dolo cosiddetto antecedente né quello
susseguente, essi sono atteggiamenti della volontà che si formano prima che si verifichi l’evento
oppure dopo. Il dolo deve essere presente nel momento in cui il soggetto compie il reato, però
questo momento va individuato, infatti ci sono quei reati in cui l’evento tipico si manifesta dopo la
condotta, tizio ad esempio da fuoco a Caio, lui riporta gravi lesioni e poi muore in ospedale dopo
un mese.

306
La morte quindi si verifica dopo un mese rispetto alla condotta, ma il momento al quale fare
riferimento, per vedere se c’era o meno la volontà, è quello in cui Tizio materialmente ha dato
fuoco a Caio.

Considerando il dolo antecedente, il dolo c’è in rapporto a un evento prima che si compi il
medesimo e che si interrompe immediatamente prima che si realizzi. Tizio vuole uccidere Caio, lo
aspetta armato ma quando Caio arriva c’è un inseguimento, inciampa, cade, parte un colpo di
pistola senza che lo abbia voluto, che lo raggiunge. Tizio voleva ucciderlo ma quando parte il colpo
della pistola non c’è un movimento volontario e spesso la difesa utilizza questo argomento della
mancanza di esso. Se quindi non c’è movimento volontario, non c’è dolo.

Per ciò che attiene il dolo susseguente: io guido la macchina e magari senza nessuna colpa investo
una persona e ne provoco lesioni, poi vedo che quella persona è un mio nemico e faccio mio
questo risultato, e lo accetto, rallegrandomi delle sue lesioni, quindi il dolo susseguente non
costituisce dolo perché il dolo deve essere simultaneo o alla condotta o all’evento.

Nei reati omissivi si deve volere il fatto di non intervenire o può essere sufficiente la consapevolezza
di trovarsi nella situazione in cui vi è obbligo di intervenire, mi accorgo che c’è una persona ha
bisogno di soccorso e tiro avanti. Questa volontà in questo caso, si riferisce all’ultimo momento in
cui deve essere valutata, cioè, non una settimana prima ( supponiamo che si tratti di un pubblico
ufficiale che deve compiere un determinato atto), ma deve sussistere al momento della scadenza
perché è lì che il fatto assume rilevanza. Che una settimana prima non volesse compiere l’atto non
ha importanza, perché potrebbe sempre compierlo fin quando non scade il termine per compierlo.

Per ciò che riguarda Il dolo nei reati omissivi impropri: il dolo può essere più o meno intenso, l’art
133 del Codice penale, indica i criteri ai quali il giudice deve attenersi per graduare la pena tra
minimo e massimo per attuare il suo potere discrezionale che va comunque incanalato nei limiti
indicati dalla legge, e l’art 133 tiene conto di elementi quali la gravità del reato che si desume anche
dall’intensità del dolo o dal grado della colpa. La prima può riguardare o il metro della conoscenza,
della rappresentazione o il momento della volontà-. Per quello che riguarda il pensiero o meglio la
rappresentazione, più nitida è la conoscenza delle cose, più intenso è il dolo, mentre un’ incertezza
su cosa avvenga e su come sia il decorso casuale, può rendere meno intenso il medesimo. Per la
volontà si distingue il dolo di impeto e la premeditazione, la quale in alcuni casi è un’aggravante
come nell’omicidio, il soggetto pianificando quel reato in anticipo, rende più intenso il dolo, e
andrà contro a una sempre più accentuata responsabilità penale… . Il dolo di impeto invece è un
fatto scatenante determinato dalla realizzazione di una data volontà e a questo riguardo occorre
approfondire il tema delle Tempeste emotiva, il criterio è che una simile situazione emotiva
riguarda la capacità di intendere e di volere ( imputabilità) e in particolare l’art 90 stabilisce che gli
stati emotivi e passionali non escludono l’imputabilità. Quindi dovrebbe essersi accertato con le
perizie che non tanto si è trattato di una tempesta motiva, ma addirittura un disturbo psichico di
tale gravità da determinare un vizio parziale di mente, il quale se è totale esclude completamente la
capacità di intendere e di volere.

307
Nel rapporto tra volontà e conseguenze si determinano le forme del dolo che dipendono dal modo
in cui la volontà si orienta verso le conseguenze.
Le forme del dolo sono tre: dolo intenzionale, dolo indiretto, dolo eventuale.
Dolo intenzionale ( diretto 1 grado)- l’evento tipico del reato costituisce il fine ultimo per il quale il
soggetto ha agito, oppure un mezzo necessario per realizzare il fine ultimo, la volontà quindi c’è, la
quale si dirige come fine, verso l’evento tipico del reato. L’evento è il fine della volontà ( le due
cose coincidono). Un esempio è che Voglio uccidere tizio perché lo odio.
Il dolo intenzionale però può presentarsi anche in un'altra forma, cioè l’evento è il mezzo
necessario per conseguire il fine. Ad esempio, il mio fine è ereditare, per ereditare uccido la
persona da cui desidero ricevere l’eredità ma il mio scopo per cui agisco, non è quello di uccidere
ma ottenere l’eredità ma per ereditare purtroppo occorre che vi sia un de cuius ( una persona
morta)e lo uccido come mezzo per conseguire il fine ovvero l’eredità.
Bisogna poi distinguere il fine dal motivo che sta dietro la volontà e cioè ciò che spinge la volontà.
Se uccido per gelosia, allora la gelosia è il motivo che spinge la mia volontà a uno scopo o fine che è
uccidere tizio. Quindi la morte di Tizio è il fine, lo scopo, mentre quello che mi ha spinto a concepire
questa volontà è il motivo che è la gelosia.

Dolo Indiretto ( diretto secondo grado): La volontà si presenta come consenso a che qualche cosa si
verifichi, accetto nella mia mente che si verifichi qualcosa ma non voglio spingermi verso quel fine
ma acconsento affinché quell’avvenimento si verifichi.

Nel dolo indiretto, l’evento si presenta come certo o altissimamente probabile, mentre nell’altro
caso ( dolo eventuale), si presenta come semplicemente probabile ed anche incerto. Nel dolo
indiretto la volontà si dirige a un fine che sia lecito o illecito non importa, ed il soggetto sa che va
incontro a una conseguenza accessoria, non logicamente indispensabile, che però può essere certa
come nel caso del dolo indiretto oppure incerta come nel caso del dolo eventuale.

Un esempio che si può fare a riguardo è quello dei cosiddetti danni collaterali, io debbo
bombardare un importante obbiettivo nemico ma so bene che vicino si trova un edificio abitato, ciò
che interessa è che il bombardamento colpisca persone civili che muoiano nel bombardamento, e
questo risultato lo posso rappresentare come certo o altamente probabile. Oppure solo come
possibile o probabile ma con un grado di probabilità molto bassa. Nel primo caso si parla di dolo
indiretto, nel secondo caso, di dolo eventuale. In entrambi i casi la volontà si presenta come
accettazione che si verifichi l’evento che non è affatto preso di mira né come fine ultimo né come
mezzo necessario.

Un altro esempio significativo è Tizio vuole ottenere il premio dell’assicurazione e da fuoco


all’edificio di sua proprietà, però sa che nell’edificio abita una vecchia paralitica, e che nell’incendio
morirà. Un altro caso è invece, che Tizio non sappia che c’è la paralitica ma poteva immaginare che
potesse rimanere nell’edificio che non ha sgombrato, possa esserci qualcuno che potrebbe
rimanere bloccato nell’edificio e morire, in questo caso non è sicuro che vi sia questa persona
dentro ma anche se vi fosse, potrebbe riuscire comunque a scappare.

308
Ciò che diversifica le due ipotesi è che nel primo caso l’evento è pensato come certo o altamente
probabile mentre nel secondo è considerato come non propriamente certo. Il dubbio qui è decisivo
in queste situazioni perché è quello che diversifica il dolo indiretto dal dolo eventuale.
Se sono sicuro che si verifica l’evento, Si tratta di dolo indiretto, se sono insicuro che l’evento si
verifichi trattasi di dolo eventuale.

Nei reati omissivi impropri, la volontà può atteggiarsi in qualsiasi modo? O è necessaria una
particolare forma del dolo? (Forma nel senso che qui stiamo parlando. E qui c’è sempre diversità di
posizioni.

Pagliaro dice: la vera volontà è questa. Allora in questo caso può trattarsi anche di un dolo riferito a
un reato omissivo improprio cioè l'infermiera che vuole perché l'ha deciso in un suo piano, così,
provocare la morte dei pazienti, dei vecchi affidati alle sue cure, decide di non somministrare le
medicine necessarie nel momento in cui doveva farlo perché il suo scopo è di far morire queste
persone. Allora in questo caso quindi ha un DOLO INTENZIONALE.

In questo caso sicuramente la sua volontà abbraccia l'evento e si può dire che l'evento sia voluto.
Negli altri casi, ma soprattutto il problema si pone nel DOLO EVENTUALE, quando l'evento non è preso
di mira dal soggetto che si astiene dal fare qualche cosa, ma è pensato soltanto come conseguenza
possibile o probabile, quindi dolo eventuale, siamo sicuri che basti questa forma, dolo eventuale, per
fondare la responsabilità penale, nel caso di reato omissivo improprio? Cioè che il sindaco, il quale
vuole risparmiare, perché il comune è in situazione di dissesto, di qua e di là, sapendo che in questo
modo non potrà riparare le buche che ci sono nella strada e rappresentandosi la possibilità che non
riparando le buche succeda qualcosa, qualcuno ci vada a finire dentro, siamo sicuri che debba
rispondere? In una situazione in cui non si può dire che ci sia una volontà rivolta a fare cadere la gente
dentro le buche ma semplicemente un CONSENSO rispetto ad un evento possibile.

Pagliaro sostiene che siccome questo concetto del dolo è un concetto normativo, il consenso rispetto
ad un fatto che non è provocato dal SOGGETTO perché è chiaro che non è provocato da lui, no? Se si
tratta di REATI OMISSIVI IMPROPRI chi risponde dovrebbe fare qualcosa per evitare un risultato che
si produce per ragioni sue, il paziente muore perché ha la malattia, la buca cade perché da tempo
l’asfalto è stato messo male, non è colpa del sindaco, non è che il sindaco ha fatto il buco, il buco c è.
Quindi siamo sicuri che questo atteggiamento risponda a quei requisiti per i quali il soggetto è
chiamato a rispondere? NEL CASO DELL’ AZIONE SI, QUESTO CONSENSO CI BASTA PER RISPONDERE
DELLE CONSEGUENZE ACCESSORIE e PROBABILI, nel caso dell'omissione, quando le conseguenze si
verificano per fatti loro e il soggetto semplicemente acconsente al che si verifichino, senza intervenire
come dovrebbe fare, ma non perché lo voglia, non perché la sua volontà sia rivolta a produrre
quell'evento ma semplicemente appunto nella forma del consenso, secondo Pagliaro non è
sufficiente questa formula quindi non si può rispondere per reati omissivi impropri se il soggetto si
trovava in dolo eventuale.

309
La Giurisprudenza e buona parte dell'altra dottrina invece sono di avviso contrario, però bisogna
prendere atto che le giustificazioni che vengono date (non trovate molto di questo, sono cose che sto
aggiungendo io, sul libro voi trovate solo quello che ho detto finora) in questi casi sono un po'
traballanti, esempi: la famosissima vicenda dei coniugi Oneda che erano due genitori sardi testimoni
di Geova e avevano una figlia affetta di talassemia , una malattia del sangue a causa della quale c'è
bisogno di continue trasfusioni di sangue ma i Testimoni di Geova sono assolutamente contrari alle
trasfusioni di sangue per ragioni che ritengono fondate sulla Bibbia, discutibili. Loro omettono, non è
che fanno qualche cosa, omettono di portare la figlia all'ospedale per le trasfusioni sino a che questa
bambina muore. E allora che cosa dire?

È evidente, è sicuro, non c'è il più pallido dubbio che i genitori non volessero la morte della figlia,
erano genitori normalissimi e anche affettuosi, agivano, nella loro convinzione, per il bene della
bambina, perché pensavano che farle quella trasfusione sarebbe stato un male per lei, quindi le
volevano bene, non volevano affatto che morisse, la loro omissione=non portarla in ospedale non era
finalizzata a farla morire, tutt'altro, quindi non avevano un dolo intenzionale, avevano un dolo tra
l'indiretto e l'eventuale cioè si rappresentavano che non facendo le trasfusioni la bambina sarebbe
sicuramente o probabilmente morta.
E qua ci sono state 2 diverse spiegazioni che ci dicono come ci si trovi in difficoltà in questi casi rispetto
a dire responsabilità anche nell'ipotesi dolo eventuale. Le 2 diverse impostazioni erano state una
quella della giurisprudenza e una quella di parte della dottrina. La Giurisprudenza ha condannato i
coniugi per omicidio colposo, non doloso, e direi forzando un po' la realtà dei fatti, perché in realtà i
coniugi non l'avevano portata in forza della loro convinzione, cioè non era stata una trascuratezza, si
erano dimenticati di portarla in ospedale il giorno x, ecc., non l'avevano voluta portare, quindi il
problema era se ci fosse o no il dolo, però per attenuare, per così dire, la responsabilità sono stati
condannati per omicidio colposo. La dottrina invece ha tirato in ballo dei discutibilissimi, motivi
religiosi e cioè << la libertà di pensiero e in particolare di culto, che la Costituzione assicura, sarebbe
esercizio di un diritto che scriminerebbe, causa di esclusione del reato in quanto il fatto è compiuto
nell'esercizio di una libertà religiosa>>.

Ma questa posizione è ancora più inaccettabile perché la libertà religiosa, il diritto di professare la
religione non si può mai spingere fino al punto di provocare risultati come la morte di una persona,
tanto più se si tratta di un minore affidato alle cure dei genitori. I genitori non possono, in nome di
un'idea religiosa, provocare la morte dei figli, in nessun caso. Quindi, vedete, in linea teorica si
ammette la possibilità di rispondere anche con dolo eventuale ma poi si cercano in casi come questo
delle scappatoie.

Altro caso molto interessante quello: sul libro di Pagliaro trovate il caso di un padre in una sentenza
degli anni 30 che aveva assistito ad una riunione di un'associazione criminale durante la quale i
membri di quest'associazione di cui il padre faceva parte, avevano deciso l' uccisione del figlio di
questo padre, quindi il padre che, sapendo che sarebbe stato ucciso non interviene per fermarli.

310
Un altro caso molto interessante è quello di Sindona che era un mafioso e un banchiere membro del
consiglio di amministrazione del Banco Ambrosiano e di altre banche, che gestiva con metodi
spregiudicati, essendo mafioso, e con azioni illecite che avevano portato alla bancarotta di queste
banche, perché lui distoglieva, distraeva i soldi. I membri del consiglio di amministrazione di queste
banche gli lasciavano carta bianca, mano libera, e quindi lui faceva il bello e il cattivo tempo, quello
che voleva, anche se queste persone potevano, dalla situazione, immaginare che la gestione della
banca portasse verso la bancarotta e quindi poi danni per i clienti della banca ecc. Gli amministratori,
quindi, cosa hanno fatto? Sono rimasti inerti di fronte alle azioni del Sindona, non sono intervenuti,
vengono condannati penalmente ma nella sentenza si legge che <<la ragione della condanna è che il
mancato intervento era diretto a consentire a Sindona di fare quello che volesse>> e quindi in un
certo senso si legge il dolo di questi altri membri del consiglio di amministrazione come fosse un dolo
intenzionale, rivolto intenzionalmente a lasciargli mano libera finalizzato a questo, diretto a questo
scopo.

Quindi viene costruito il dolo come fosse un dolo intenzionale. La Giurisprudenza più recente, in
queste situazioni tipiche, cioè amministratori perché è un caso frequente, ricorrente, ecc.
amministratori che non intervengono adeguatamente nel caso del dissesto di società provocato dalla
condotta di altri, la giurisprudenza ha elaborato una linea, che la dottrina accoglie, dei cosiddetti
segnali d'allarme, forse ve ne ho parlato qualche volta. I SEGNALI d'ALLARME, cosa sono? Sono una
scappatoia, segnale d'allarme significa che la situazione ti deve fare pensare che le cose stiano
andando male, ci sono dei segnali per cui operazioni spregiudicate, mancanza di garanzie, di
coperture, ecc. ecc., devi capire che l'amministrazione di quella società va male, con possibili risultati
dannosi ecc... e quindi in presenza di questi segnali d'allarme, dovresti intervenire, e sei responsabile
se non intervieni. Però sul punto c'è un famoso articolo, una famosa presa di posizione di un grande
penalista, esperto tra l'altro di diritto penale e commerciale, CRESPI il quale dice <<attenzione, così
si trasforma di fatto un delitto doloso in un delitto colposo, cioè se la legge formula un delitto doloso
vuol dire che ci vuole la volontà, se tu sei semplicemente negligente, cioè trascurato, perché in
presenza di certi segnali non ti attivi, non si può ritenere che ci sia una volontà del risultato, cioè
cattiva amministrazione, amministrazione fatta male, è piuttosto una colpa nel non essere
intervenuto, ma la colpa non è sufficiente per l'ipotesi di reato in questione per es. bancarotta
fraudolenta, evidentemente un reato non doloso, non si può essere chiamati a rispondere per un
reato doloso quando il soggetto si trovava in realtà in un atteggiamento in cui è stato trascurato e
negligente, quindi era in colpa rispetto all'evento. Quindi anche in questi casi, la teoria che la
giurisprudenza e buona parte della dottrina accolgono dei segnali d'allarme, non soddisfa appieno
perché tende a trasformare la responsabilità per reato doloso in una responsabilità quasi per colpa.

Detto questo affrontiamo il tema, uno dei più spinosi, e cioè la distinzione tra il dolo eventuale e la
colpa cosciente o con previsione. A proposito, meglio parlare di colpa con previsione, perché, questo
ve l'ho detto ieri, parlando del fatto che secondo alcuni la struttura del dolo sarebbe data dalla
rappresentazione o previsione, abbiamo osservato come questa teoria non può essere accolta perché
nel nostro Ordinamento ma anche negli altri, esistono casi di colpa con previsione quindi la previsione
ci può essere tanto nel dolo quanto nella colpa e perciò non può essere l’elemento che caratterizza il
dolo, art.61 n°3 c.p.- l’aggravante della previsione nel delitto colposo.

311
Meglio parlare di colpa con previsione, correntemente si parla della distinzione tra dolo eventuale e
colpa cosciente. Io vi ho detto così? Meglio dire colpa con previsione perché l'espressione "colpa
cosciente" potrebbe anche fare riferimento ad un'altra cosa di cui abbiamo già parlato e cioè:
(ricorderete) nel delitto colposo e più esattamente quando si tratta dell'azione, ci sono casi che -
potreste ricordare quali sono-sono due, in cui ciò che normalmente è sorretto da coscienza e volontà
cioè la condotta, l'azione, invece non è sorretto da coscienza e volontà e pur tuttavia si risponde lo
stesso penalmente,- quali sono questi due casi, nel delitto colposo non c'è un’azione voluta e
imprudente di andare a 100 all'ora ma si risponde ugualmente in conseguenza di qualcosa che si è
fatto pur senza averne coscienza: MOVIMENTO MALDESTRO ed OMISSIONE DA DIMENTICANZA, non
c'è coscienza di stare facendo una omissione, perché se me lo dimentico non sono cosciente per
definizione, quindi l'espressione COLPA COSCIENTE potrebbe far riferimento alla stragrande parte dei
casi di colpa in cui il soggetto sa quello che sta facendo, voglio andare a 100 all'ora, voglio mettermi
in questa situazione rischiosa, quindi ciò che si fa è cosciente, colpa cosciente potrebbe fare
riferimento a questa situazione ma non è di questo che stiamo parlando adesso, la distinzione non
riguarda questi casi ma altri casi, di COLPA CON PREVISIONE DELL'EVENTO cioè quella coscienza si
riferisce alla condotta, voglio andare a 100 all'ora: sono cosciente che sto guidando la macchina a 100
all'ora, mentre la previsione di cui stiamo adesso parlando, colpa con previsione, si riferisce non alla
condotta ma all'evento farò un incidente stradale, sono 2 cose diverse. Vi ho detto a suo tempo di
ricordarvi di distinguere la coscienza e volontà dalla condotta dal dolo. La coscienza e volontà è
riferita alla condotta, al comportamento- sto guidando a 100 all'ora- il dolo si riferisce all'evento-
investo tizio e ne provoco la morte o lesioni, sono 2 cose totalmente differenti, un conto è andare a
100, un conto è pensare di investire qualcuno. Per andare a 100 ci vuole coscienza e volontà, per
investire qualcuno, rispetto all'evento di investire qualcuno, può esserci o no la colpa, il dolo.

Allora DISTINZIONE TRA DOLO EVENTUALE E COLPA CON PREVISIONE.


Innanzitutto, bisogna capire di che si tratta: si tratta dei casi in cui il dolo e la colpa si avvicinano il più
possibile perché evidentemente il dolo eventuale è la forma meno grave di dolo mentre la colpa con
previsione è la forma più grave di colpa perché il soggetto oltre ad agire in modo imprudente pensa
che si potrebbe verificare un certo risultato. Quindi le 2 cose si sfiorano: dolo meno grave, colpa più
grave sono vicinissime e bisogna distinguere l'una dall'altra. Questa distinzione non è affatto un
problema teorico perché vi ricordo sempre che per l'omicidio se uno è in dolo anche eventuale può
essere condannato a 21 anni di reclusione se uno è in colpa a 5 anni di reclusione, quindi non è un
problema di pura teoria ma di enorme rilevanza pratica.

Ora COME DISTINGUERE TRA I DUE CASI? C'è innanzitutto un elemento di base che è diventato quasi
una specie di formula, non particolarmente pregnante e significativa e cioè il dolo eventuale è
caratterizzato dall'ACCETTAZIONE DEL RISCHIO, che si verifichi l'evento. E ci si ferma qua. Però è facile
accorgersi che una qualche accettazione del rischio c'è anche nella colpa con previsione, se io passo
col rosso avendo visto che sta arrivando quell'altra macchina facendo il ragionamento<<va be ce la
faccio>> e passo lo stesso, accetto il rischio perché prevedo la possibilità dell'incidente, quindi in una
certa misura un'accettazione del rischio c'è anche nel delitto colposo quando si tratta di colpa con
previsione dell'evento. Perciò questa formula: dolo eventuale caratterizzato dall'accettazione del
rischio dell'evento non dice abbastanza, va ulteriormente approfondita.

312
E a questo punto ci sono 2 linee, questo problema io ve lo presento ma travaglia la dottrina penalistica
da più di 100 anni, quindi noi non troveremo oggi la soluzione al problema della distinzione tra dolo
eventuale e colpa con previsione, prospettiamo le possibilità che la dottrina e la giurisprudenza hanno
fatto, con l'accorgimento che secondo gli stessi autori che propongono le varie formule, che adesso
vedremo, tutto sommato si potrebbe arrivare a dei risultati spesso equivalenti adottando l'una o
l'altra delle teorie cioè non è che ci sia un abisso tra l'una e l'altra, si tratta di sforzarsi di individuare
il concetto che sembra il più preciso per descrivere queste 2 diverse situazioni, dolo eventuale – colpa
con previsione, e vedremo che le formule potrebbero andare bene l’una o l’altra dipende in parte
anche dalle caratteristiche dei casi.

Allora, prima linea: differenziare sotto il profilo conoscitivo cioè questo per es. lo sostiene Mario
Romano, nel dolo c'è una previsione del fatto concreto e quindi della possibilità concreta che si
verifichi qualcosa, mentre nella colpa con previsione c'è la previsione appunto dell'astratta possibilità
che si verifichi qualcosa, cioè passo col rosso, nel dolo eventuale (stiamo parlando sempre del dolo
eventuale, tutto quello che stiamo dicendo riguarda la distinzione tra dolo eventuale e colpa con
previsione) ci sarebbe una previsione dell'evento concreto, con le sue caratteristiche concrete, reali,
mentre nella colpa con previsione si prevederebbe l'evento nel generale astratto tipo di intervento:
pensiamo passiamo col rosso, è chiaro uno sa che se passa col rosso astrattamente può fare un
incidente o avere un incidente mentre se vede la macchina che arriva e le passa davanti x 2 metri o
non le passa perché va a sbattere e allora la previsione dell'evento è concreta, è cioè riferita a un
caso tipo.

E questa è una possibilità. Però la maggior parte delle teorie si concentra sull'altro versante cioè
quello della volontà, individuare diverse caratteristiche della volontà che differenzierebbero le due
situazioni, e allora c’è la teoria dell’agire a costo di … cioè accettando il risultato, (questo è dolo
eventuale) cioè tizio è determinato a fare ciò che sta facendo, quindi il fine potrebbe essere del tutto
lecito, e lo vuole fare anche a costo di provocare un risultato che costituisce reato.

Altra impostazione: la teoria della speranza o fiducia: nella colpa con previsione chi agisce, agisce con
la speranza o anche la fiducia sicura che l’evento non si verificherà. Speranza e fiducia sicuramente
non ci sono nel dolo, il caso che si prospetta, per illustrare questa situazione, è quello del lanciatore
di coltelli al circo, negli spettacoli, il quale lancia i coltelli verso il suo partner, a chi gli fa da bersaglio.
Allenato a lanciare coltelli sa che non lo colpirà perché lo scopo, ma d'altra parte c'è il rischio che
possa in un momento sbagliare la mira e colpirlo. Ora il lanciatore di coltelli, si dice, agisce con la
sicura fiducia che non colpirà il partner, la persona che fa da bersaglio, e se lo colpisse non sarebbe
in dolo eventuale, sarebbe in colpa con previsione dell'evento.

Ha accettato il rischio ma agiva con la fiducia sicura di poter evitare il risultato. Pagliaro fa un
ulteriore criterio che è quello del disprezzo dimostrato verso il bene giuridico protetto, criterio che
però va associato alla c.d. FORMULA DI FRANCH. Il criterio del disprezzo è questo: nel dolo il
soggetto agisce mostrando, il modo in cui si comporta ecc. un disprezzo verso il bene cioè di non
rispettare il bene in questione, di trattarlo con assoluta non curanza, disprezzo che manca invece
nella colpa, il dolo eventuale sarebbe caratterizzato da questo avvenimento.

313
Alla radice di tutto sta un’osservazione con la quale Pagliaro inizia questo discorso, differenza dolo
eventuale-colpa con previsione, che è assolutamente impeccabile e cioè qualunque formulazione
sia, e ne abbiamo viste diverse, il nucleo di questo discorso sta nel cogliere che il grado di
rimproverabilità nel dolo eventuale è molto maggiore che nella colpa con previsione. Le varie
formule teoriche devono sostanzialmente esprimere questo: che è molto più grave, più
rimproverabile, chi ha agito con dolo, seppure eventuale, rispetto a chi ha agito con colpa con
previsione. Questa è la sostanza di questa discussione, di questa distinzione. Le formule sono
tutte finalizzate a farci affermare questo fatto, cioè che è più grave , l'Ordinamento Giuridico
rimprovera di più colui che ha agito con dolo eventuale rispetto a chi ha agito semplicemente con
colpa con previsione.

Ancora una volta proprio su questo terreno percepiamo quanto il concetto di dolo sia normativo più
ancora che psicologico, cioè un problema di risposta da parte dell'O,G. piuttosto che un problema di
sezionare la psiche del soggetto, se è più colpevole, più rimproverabile in questo caso e meno in
quest'altro. Ora questa teoria del disprezzo comunque va associata alla c.d. formula di Frank, il
quale nel suo manuale di diritto penale agli inizi del 1900 propose questa formula.

Di questa formula bisogna capire alcune cose .La prima cosa da capire è che è uno schema di
accertamento che prescinde dalla realtà dei fatti e che serve soltanto come criterio di giudizio per il
giudice, anche per lo studioso, per distinguere le due ipotesi ipotizzando qualcosa che non è ciò che
si è verificato effettivamente. Ricordate in matematica le famose dimostrazioni per assurdo? Per
assurdo se fosse così, arriveremmo a questa conseguenza quindi vuol dire che, non è per assurdo
ma è per ipotesi, cioè si costruisce una ipotesi mentale che non corrisponde alla realtà e che serve
per interpretare la realtà dei fatti. In che cosa consiste questa ipotesi? L’ipotesi consiste
nell'immaginare che il soggetto si fosse trovato, allora, di fronte alla certezza del verificarsi
dell'evento.

Questo, per definizione, non è la realtà dei fatti perché in tutti e due i casi, sia dolo eventuale che la
colpa con previsione, il sogg. non era certo del verificarsi dell'evento, (il dolo eventuale è
caratterizzato dal fatto che l'evento viene pensato come probabile non come sicuro, se fosse
pensato come sicuro saremmo nel dolo indiretto ma il sogg., ma noi non ci stiamo ponendo il
problema di differenziare il dolo indiretto dalla colpa con previsione, ma il dolo eventuale dalla
colpa con previsione. Ora immaginiamo invece che il sogg.si fosse trovato in una situazione che
qualificheremmo di dolo indiretto, cioè che agendo con uno scopo, quale che sia, si fosse
rappresentato la sicurezza del risultato e ci chiediamo: in base alla sua personalità, alle sue
precedenti azioni, alle caratteristiche del fatto, così come si è svolto effettivamente, cosa avrebbe
fatto questo sogg.?

Avrebbe probabilmente agito, anche a costo di produrre l'evento o si sarebbe astenuto dall'agire
pensando che l'evento che costituisce reato, quindi di cui dovrebbe rispondere, si sarebbe
verificato con sicurezza? che avrebbe fatto?

314
E il giudice dice: se io giudice ritengo che questa persona pensando alla certezza dell'evento si
sarebbe astenuto dall'agire, dirò che era in colpa con previsione, se invece immagino che pur avendo
la certezza del risultato avrebbe ugualmente agito, sarebbe ugualmente andato avanti anche a costo
di produrre l’evento, dirò che era in dolo eventuale. Questa è la formula di FRANK.

(È il giudice che giudica, che valuta: ricostruisce il caso, formula nella sua mente (attenzione a questo)
l’ipotesi ricostruttiva, l’ipotesi interpretativa, ipotizza che il soggetto si fosse trovato, ma non è, in
questa situazione e si chiede il giudice: che avrebbe fatto questa persona? E si dà una risposta:
avrebbe agito lo stesso perché non gliene importava nulla e allora dirà che era in dolo, oppure no, se
fosse stato sicuro si sarebbe astenuto. Troviamo un esempio qualsiasi, ma ci torneremo lunedì, il
lanciatore di coltelli, se il lanciatore di coltelli avesse pensato <<oggi non mi sento benissimo, sono
stanco, mi trema la mano, non ci vedo bene, ecc. ecc.>> e pensasse <<io lo colpisco di sicuro, va a
finire che lo colpisco sicuramente>> cosa avrebbe fatto il lanciatore di coltelli?

Non avrebbe tirato, si può dire, invece Ignatik, che è uno slavo, non so di quale paese esattamente, il
quale con un grosso furgone scappava dalla polizia perché era stato fermato al posto di blocco ma
non voleva farsi fermare perché era senza patente, a Roma attraversa sei semafori diversi tutti col
rosso, interrogato dice <<io non dovevo fermarmi, la polizia non mi doveva prendere, qualunque cosa
succedesse io dovevo scappare>> allora da questo elemento indiretto, in interrogatorio, il giudice
ricava che anche se fosse stato sicuro di fare l'evento non gliene importava niente, lui non si doveva
fare prendere, doveva scappare e succedesse quel che succedesse, se anche avesse pensato di fare
un incidente girava con questo furgone a costo di fare l'incidente io devo passare col rosso e passava
col rosso. Ignatik è stato condannato per omicidio ma su questo ritorneremo lunedì.

315
08/04/2019
DOLO : STRUTTURA DELLE FORME DEL DOLO

Ci sono 3 tipi di Dolo :

1) Dolo intenzionale(diretto primo grado)

2)Dolo indiretto(diretto secondo grado)

2)Dolo eventuale (Indiretto)

queste 3 forme per il diritto sono sostanzialmente equivalenti.

1) NEL DOLO intenzionale la volontà si dirige all'evento come fine ultimo o come mezzo necessario
per conseguire il fine.

2) DOLO INDIRETTO O EVENTUALE la volontà si presenta non come intenzione, ma semplicemente


come consenso a che si verifichi qualche cosa che non è voluto, non vi è volontà , ma è una
conseguenza accessoria della realizzazione del fine, la quale può essere rappresenta o come certa o
semplicemente come possibile o probabile.

In questi due casi non siamo di fronte alla volontà nella sua forma tipica , pura, che è quella
rappresentata dall'intenzione.

Questa differenza è molto importante e va colta e ne vediamo diversi aspetti, per esempio nel
secolo scorso illustri penalisti come ad. es DE MARSICO, hanno dubitato che il DOLO EVENTUALE
non fosse una vera forma di dolo, perché il soggetto non vuole affatto che si verifichi quell'evento,
semplicemente se n'è rappresenta la possibilità.

Pagliaro si pone il problema, ma soltanto per l'omissione. Nell’omissione(anziché nell'azione) ,


Pagliaro osserva che queste due ipotesi, secondo la sua considerazione, non possono essere
considerate sufficienti perché ci sia un dolo omissivo. Questa differenza risale addirittura alla
TEOLOGIA MORALE--> che è la prima più compiuta , più approfondita , riflessione sul punto. Per la
TEOLOGIA MORALE , la vera forma di peccato , cioè di illecito questa situazione non costituisce un
peccato :--> se un medico somministra ad una donna , con lo scopo di curare una grave
malattia ,una medicina ,in conseguenza della quale è sicuro che si verificherà la morte del feto che la
donna porta in grembo, non commette peccato nel concezione morale cattolica in tema di aborto,
perché la sua volontà non è affatto quella di provocare la morte, ma la sua volontà è quella di curare
la paziente, il fatto che sappia che quella medicina provocherà un certo risultato non è sufficiente
considerarlo responsabile moralmente di ciò che si verifica.

Adesso si pone il problema di distinguere il DOLO EVENTUALE dalla COLPA CON PREVISIONE. In
generale, il concetto utilizzato, soprattutto dalla giurisprudenza, è quello dell'ACCETTAZIONE DEL
RISCHIO . Nel dolo c'è l'accettazione del rischio dell'evento ,cosa che ,invece, nella colpa non c'è.

316
Però questa teoria è un po’ debole, perché (magari in modo differente)anche nella colpa c'è una
qualche accettazione del rischio : ad esempio il lanciatore di coltelli che certamente vuole colpire il
suo bersaglio, sa che è una cosa rischiosa, può sempre venire male il tiro . Quindi una certa
accettazione del rischio c'è anche nella colpa con previsione.

Mario Romano distingue tra la rappresentazione della possibilità in concreto , cioè il DOLO
EVENTUALE, ad esempio : vedo la macchina che arriva al rosso e dico va bene ce la faccio a passare,
e quindi mi rappresento concretamente la possibilità di andare a sbattere lì con quella macchina che
sta arrivando, mentre, nella colpa la previsione in astratto: se si passa con il rosso si può fare un
incidente.

Altre teorie fanno leva sul modo in cui si presenta la volontà. Per esempio, Antolisei , con l'idea della
fiducia, nella colpa c'è la fiducia sicura che si riuscirà ad evitare l'evento : ad esempio il lanciatore
agisce con la fiducia sicura che non colpirà il suo partner.

Altri nell'identificare il dolo dicono che si accetta il rischio e si agisce anche al costo di provocare
l'evento. (Questa formula è di Fiandaca)

Pagliaro utilizza l'idea che nel dolo eventuale il soggetto che agisce mostra un disprezzo per il bene
protetto e tutelato. Inoltre, Pagliaro aggiungendo che, la maniera per individuare questa situazione
di disprezzo e per distinguere dolo eventuale dalla colpa con previsione,--> è la formula di Frank :"
Immaginiamo che se si fosse rappresentato l'evento sicuro, che avrebbe fatto? Avrebbe agito lo
stesso o si sarebbe astenuto? Se il giudice pensa che avrebbe agito lo stesso, concluderemo che era
in DOLO EVENTUALE. Se invece pensiamo che si sarebbe astenuto, concluderemo che era in
COLPA".-->-->

--> PROPONIAMO ALCUNI CASI CONCRETI DI GRANDE IMPORTANZA:

1) Lancio dei sassi dal cavalcavia : ci fu un momento in cui si era diffusa questa assurda moda di
giocare con la vita degli altri tirando sassi dai cavalcavia dell'autostrada e c'erano dei ragazzi che
tiravano sassi sulle macchine per colpirle. Si potrebbe pensare che, quasi certamente, non volessero
provocare la morte o le lesioni di quelli che passavano con la macchina, il loro scopo era quello di
divertirsi. È probabile che si verifiche un incidente. La giurisprudenza ritenne che si trattasse
addirittura di un DOLO INDIRETTO, cioè che queste persone che lanciavano sassi non si fossero
rappresentati la possibilità di uccidere o ferire quelli che passavano. ma addirittura la certezza che si
verificasse la morte o la lesione. Perché questa lettura? Abbiamo detto che il concetto di Dolo è un
concetto normativo, cioè il dolo è definito dalla legge, dalle esigenze che il diritto pone non è
soltanto un fatto esclusivamente psicologico, quindi, va limitato, ristretto. allargato, secondo il
diritto. Secondo Pagliaro queste due forme non sono sufficienti, ma il dolo del tentativo, secondo la
definizione della legge che richiede atti diretti in modo non equivoco a commettere un delitto, non
è identico al dolo del reato consumato, che invece esige che ci sia una corrispondenza tra volontà e
realizzazione.

317
In conseguenza di questo, sebbene sia discusso anche quello nella giurisprudenza, si ritiene
generalmente che non basti il dolo eventuale per la punibilità a titolo di tentativo, questo viene
chiamato qualche volta dolo diretto di secondo grado, invece in questa situazione, la giurisprudenza
spesso è incline a ritenere che si possa unire per tentativo.

Comunque sia , non basti il dolo eventuale per la punibilità del tentativo. Supponiamo che uno lanci
il sasso e non riesce a colpire neanche la macchina, l'intenzione qual era? Danneggiamento, il
tentativo di danneggiamento allora era punibile, ora non più, in ogni caso è un fatto di gravità
risibile, perché è un reato contro il patrimonio che non significa niente. Se si prendesse , invece,
come riferimento per il tentativo, l’evento grave morti o lesioni, rispetto a questo, il soggetto,
doveva essere identificato con dolo eventuale, può essere che centro la macchina si verificano
morte o lesione.

Ma se la macchina non fosse stata colpita affatto, configurare la situazione come Dolo eventuale di
lesioni, non sarebbe stato sufficiente per punire un tentativo serio di morte o lesione, sarebbe
rimasto solo il tentativo di danneggiamento che non era adeguato alla gravità del fatto. Cosicché la
giurisprudenza qualificava questi fatti come se le persone fossero sicure di produrre morti o lesioni
( sebbene non voluti, il fine era un "gioco"),in modo di poter punire a titolo di tentativo di omicidio,
questi gravissimi fatti che meritavano una risposta grave, seria sul piano sanzionatoria, data
l'assurdità del comportamento. Quindi, A titolo di dolo eventuale non sarebbero stati puniti, perché
il dolo eventuale non basta e allora è stato immaginato con lo scopo di punire
severamente ,secondo la prevalente opinione è possibile punire il tentativo dell'evento che si
presenta come conseguenza quasi certa del proprio comportamento. CONSEGUENZA ACCESSORIA -
-> vuol dire che non è necessario che si verifichi l'evento . Esempio della vecchia paralitica : se uno
vuole ottenere il premio dell'assicurazione incendiando l'edificio, non è che è necessario che muoia
la vecchia paralitica, è necessario se si vuole l'ereditare è indispensabile che la persona che debba
dare l'eredità muoia, quindi incendiare l'edificio non è necessario, perciò è una conseguenza
accessoria, non necessaria. Questo aggettivo è importante per individuare il rapporto che sta tra la
volontà e la conseguenza di cui si è chiamati a rispondere.

2) Altro caso tipico: L'attraversamento con il rosso.--> Questa situazione ha dato luogo a diverse
sentenze della cassazione, ha visto risposte diverse rispetto a fatti estremamente simili, e cioè
proprio nella stessa città, a Roma, e proprio nello stesso quartiere Nomentano (è un quartiere non
lontano dal centro della città di Roma) si sono verificati, a poca distanza di tempo, due episodi uguali
"ATTRAVERSAMENTO COL ROSSO, CON MORTE DI QUALCUNO", che però hanno condotto la
cassazione a due orientamenti opposti: in un caso si è ritenuto che ci fosse DOLO EVENTUALE e
quindi si è condannato per omicidio; in un altro caso invece COLPA CON PREVISIONE. Che cosa ha
spinto la cassazione a decidere in questi due sensi, essendo fatti uguali? La cassazione, la
giurisprudenza non decide in astratto, ma dovendo giudicare un fatto particolare, quindi le
particolarità di quel caso hanno sempre una importanza decisiva questo si può dire perfino e lì dove
anche quando la cassazione decida a sezioni unite (se nella situazione di cui stiamo parlando ci sono
contrasti fra diverse sezioni o rispetto a diversi casi per cui c’è un orientamento diverso rispetto a
“passare con il rosso” 🡪 dolo eventuale o “passare con il rosso”🡪 colpa con previsione) il presidente
della corte di cassazione può assegnare un ulteriore caso alle sezioni unite le quali danno

318
un orientamento che dovrebbe essere seguito nel futuro ebbene anche dopo decisioni di questo
genere si verifica che ulteriori decisioni si discostino da quell’orientamento adottato a sezioni unite.
Questo perché ? Per la particolarità dei casi che possono essere leggermente diversi da quelli
precedentemente decisi. Nel nostro ordinamento dove il punto di riferimento è la legge e non lo
stare decisis cioè il precedente giurisprudenziale come nei sistemi di common law e allora perché in
un caso LUCIDI (Lucidi è l’imputato) si decide COLPA CON PREVISIONE e nell'altro (lo slavo di cui vi
ho parlato l’altra volta) DOLO EVENTUALE ?

Lucidi era difeso dall'avvocato Marco Coppi, il quale poteva giocare al meglio le sue carte per
difendere il cliente, le ragioni erano diverse. Lucidi chi era? Era uno che con un SUV attraversava a
grande velocità litigando con la propria fidanzata che era seduta accanto e preso dalla discussione
passa con il rosso, certamente senza voler fare un incidente, e dopo che si rende conto di aver
investito una ragazza e un ragazzo che erano sul motorino, di cui poi si verificò la morte, si rende
conto di ciò che è successo. Questi elementi: litigava, non aveva nessuna particolare ragione che lo
spingesse a passare con il rosso, lui era una persona incensurata, questi dati dimostrano che dopo il
fatto lui sia rimasto colpito e sorpreso di non avere messo in conto che potesse investire quei
ragazzi🡪 CONCLUSIONE: La Cassazione ha ritenuto che si trattasse di colpa con previsione. Ignati era
uno slavo con precedenti penali, fermato dai carabinieri, lui scappa e attraversa con il rosso diverse
volte (addirittura o 5 o 6 volte), investe una persona e ne provoca la morte. Lui era assolutamente
determinato a scappare dai carabinieri, a costo di qualsiasi cosa, addirittura senza patente, cosicché
viene condannato per omicidio commesso con dolo eventuale.

Per risolvere questi casi e non solo questi, il legislatore data la difficoltà di capire se in particolare
(cioè nel caso della circolazione stradale) ci sia dolo eventuale o colpa con previsione sono stati
introdotti nel nostro ordinamento due figure di reato 🡪 art589 bis e art590 bis (legge 41 marzo
2016)

589bis è omicidio stradale

590bis è lesioni personali gravi o gravissime

Per risolvere queste incertezze sono state emanate queste due fattispecie apposite per le quali in
caso di incidente provocato sono previste una serie di violazioni, quelle più gravi del codice della
strada, il legislatore prevede che si tratti di reato colposo ma aggravandone notevolmente la pena
perché si è ritenuto, cogliendo la sensibilità generale, che non fosse sufficiente la pena prevista per
il semplice omicidio colposo (per esempio per omicidio stradale la reclusione va da due a sette anni,
per casi più gravi da otto a dodici anni o da cinque a dieci anni, insomma una pena ben più severa
del semplice omicidio colposo). Da notare che ciononostante non si può escludere che nel caso
particolare, sebbene il legislatore abbia previsto il fatto come omicidio colposo, si possa comunque
residuare uno spazio più limitato per ipotesi di omicidio doloso commesso con dolo eventuale
quando il comportamento con le sue caratteristiche particolari indichi che non si è trattato del tipico
comportamento colposo cioè estrema imprudenza e trascuratezza ma addirittura di un agire a costo
di provocare l’evento con disprezzo verso il bene.

319
Potrebbero residuare Casi estremi in cui ancora ci potrebbe essere un dolo eventuale nella
previsione di questi incidenti. Tutto ciò che ho detto voi sul libro non lo trovate ma soprattutto non
trovate quello che adesso vado a dire.-->

🡪Proprio in ragione di queste incertezze la cassazione a sezioni unite il 24 aprile 2014 pronuncia la
sentenza che risolve il caso THYSSEN CHRUPP--> è UN'azienda tedesca associata (Thissen + Krupp) le
quali avevano due stabilimenti in Italia: uno a Torino e uno a Terni.

Lo stabilimento a Torino era previsto che chiudesse entro 1 anno. Allora che cosa era successo? che
volutamente la direzione aveva trascurato la manutenzione dei macchinari perché si sarebbe
trattato di spendere dei soldi per dei macchinari che da lì a poco si sarebbero dovuti dismettere
forse demolire comunque non più utilizzare, anche se si erano verificati degli episodi pericolosi,
c’erano state perdite di olio che avevano provocato piccoli incendi nella fabbrica che erano stati
spenti dagli stessi operai, piccoli episodi in conseguenza del fatto che queste tubature non erano più
perfettamente funzionanti fino a che un brutto giorno si verificherà uno spacco importante nelle
tubature, a grande pressione, e prendono fuoco prima investono 5 operai che vengo avvolti dalle
fiamme e muoiono in conseguenza di questo fatto. Allora ci si chiese : i responsabili che
volutamente avevano omesso di effettuare la manutenzione, pur sapendo che si erano verificati
episodi di piccoli incendi, dovevano esser considerati responsabili a titolo di dolo eventuale o di
colpa? In primo grado la corte di assise di Torino giudica in modo importante, ritiene che si tratti di
omicidio doloso con dolo eventuale, questo è un caso non tanto frequente, quindi la cosa fu di
grande impatto, i responsabili furono condannati per omicidio doloso. In corte di assise di appello la
decisione viene ribaltata e i giudici decisero che si trattasse di colpa con previsione, la sentenza va in
cassazione e allora viene assegnata alle sezioni unite che decidono che si tratti di COLPA CON
PREVISIONE. Quello che ci importa è che la decisione è stata formata su un iter che è questo: È
come se la cassazione si fosse preoccupata di dare una specie di definizione del dolo eventuale e
della distinzione con colpa di previsione e la cassazione a sezioni unite ha deciso in un senso che
non si può considerare definitivo perché la quantità degli elementi utilizzati in questa decisione
lascia aperta la porta a possibili decisioni differenti in quanto il criterio che si è utilizzato più che
quello di dare spiegazioni teoriche è stato quello di ricorrere a una serie di indicatori del dolo
eventuale cioè elementi da cui si può normalmente ricavare che il soggetto abbia agito con dolo
eventuale anziché con colpa con previsione: quali sono questi indicatori? Sono numerosissimi e
sono il riassunto di tutto ciò che abbiamo detto finora e sono elencati come INDICATORI:

1)CARATTERISTICHE E MODALITA' DELLA CONDOTTA per esempio 🡪 parti prese di mira : un conto è
mirare alle gambe di una persona ,un conto è mirare al torace, però se ha sparato al torace è più
probabile che si tratti di un dolo eventuale, mentre se ha sparato alle gambe no. 1A) RIPETIZIONE
DEGLI ATTI NELLA CONDOTTA per esempio🡪 Lucidi era passato una volta perché stava litigando con
la fidanzata, lo slavo aveva intenzione di scappare e ripete la sua condotta (passa più volte col
rosso).

320
2) LONTANANZA DELLA CONDOTTA DALLO STANDARD DI DILIGENZA RICHIESTO cioè un conto è fare
incidente andando a 60chm/h un conto è andare a 200chm/h contromano. Sono cose diverse.
Mettiamo che lo standard (limite)è 50chm/h, se è violato di poco è un conto e si penserà alla colpa,
altrimenti a 200 in contromano si pensa che ci sia un dolo.

3) La storia ed i precedenti del Reo

4) la personalità

ABUSO DI UFFICIO richiede un dolo esclusivamente intenzionale.

In riferimento al punto 3 la storia ed i precedenti del reo ci aiutano a capire se il soggetto per
esempio era dedito a correre con le auto, a fare scommesse oppure no. In riferimento al punto 4
per personalità si intende il grado di cultura ,di preparazione del soggetto oppure l'immaturità di un
soggetto può orientare verso la colpa mentre il grado di cultura dovrebbe piuttosto orientare verso
il dolo.

-La condotta successiva al fatto : come reagisce il reo dopo che si accorge di aver commesso il fatto:
Stupore , fuga insistita( continua a tenere lo stesso comportamento dopo che si è verificato il fatto )
percezione della probabilità dell'evento ( questo è esattamente quello che indicava Mario Romano ,
se l'evento è rappresentabile come probabile in astratto oppure in concreto ) ,contesto di base lecito
o illecito (chi tenta di frodare l'assicurazione parte da un contesto illecito=>orienta verso il dolo , chi
svolge un'attività produttiva parte da un contesto lecito => orienta verso la colpa con previsione),
motivazione della condotta ( se si agisce per motivazioni importanti e fondate ( corro con la
macchina per l'urgenza di raggiungere l'ospedale ) o motivi futili come tirare i sassi dal cavalcavia,
previsione di danni per il reo ( per esempio nell'incidente stradale anche il reo può temere di essere
coinvolto nell'incidente, nell'incidente stradale infatti la giurisprudenza consolidata infatti tende
piuttosto verso la colpa dato che è anche lui è coinvolto piuttosto che protendere verso il dolo ) ,
l'ultimo degli indicatori più importanti è la formula di Frank : la cassazione dice alla fine si può
ricorrere a questa formula per distinguere le due cose . Osservazioni : alla fine questa decisione
importantissima che è il punto di arrivo non può essere considerata risolutiva per la ragione che
tutti questi indicatori ovviamente possono andare anche in direzioni diverse le une rispetto alla altre
e per esempio può accadere che una persona incensurata agisca per motivi assolutamente
riprovevoli quindi questi 10 elementi possono anche essere contraddittori fra di loro e tendere in
parte per il dolo ed in parte per la colpa . Non è detto che devono essere tutti nella direzione del
dolo eventuale e neppure tutti verso la direzione della colpa cosciente quindi alla fin fine è lasciato
all'apprezzamento del giudice scegliere quali tra questi indicatori è il più importante nella
fattispecie . Pagliaro inizia il discorso tra dolo eventuale e colpa cosciente dicendo che nel dolo
eventuale il soggetto si dimostra più rimproverabile e quindi il fatto è più grave per l'ordinamento
giuridico , mentre nella colpa con previsione il soggetto si dimostra meno rimproverabile e il fatto
appare essere meno grave per l’ordinamento giuridico : come determinare poi la misura di questa
maggiore rimproverabilità o meno dipende in gran parte dai casi e dagli indicatori che la cassazione
ha elencato .

321
Queste forme nel caso del reato consumato e in forma monosoggettiva perché abbiamo detto che
nel caso del tentativo è diverso , nel caso di concorso di persone si può parlare di volontà in senso
naturalistico piuttosto che di dolo ma la regola è che queste 3 forme sono per il diritto
sostanzialmente equivalenti cioè possono soltanto determinare una maggiore intensità del dolo e il
giudice con la sua discrezionalità irrogare una pena più o meno severa ma non escludono o
affermano il dolo , cioè in tutti e tre i casi il soggetto risponde per il reato a titolo di dolo. Quando si
dice chiunque cagiona la morte di un uomo può essere che sia dolo intenzionale o eventuale .

Invece rarissimamente la fattispecie penale incriminatrice seleziona volutamente qualche forma del
dolo considerando necessario purché il reato ci sia una particolare forma di dolo e non
accontentandosi di ciascuna di queste tre : questo succede in alcuni casi particolari in cui la legge
richiede espressamente un dolo intenzionale per esempio nell'abuso di ufficio ex art 323 “ Salvo
che il fatto non costituisca un più grave reato, il pubblico ufficiale o l'incaricato di pubblico servizio
che, nello svolgimento delle funzioni o del, in violazione di norme di legge o di regolamento, ovvero
omettendo di astenersi in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto o negli altri
casi prescritti, intenzionalmente procura a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale ovvero
arreca ad altri un danno ingiusto, è punito con la reclusione da uno a quattro anni.

La pena è aumentata nei casi in cui il vantaggio o il danno hanno carattere di rilevante gravità.
Questo caso è il frutto dell'ultima impostazione che il delitto di abuso di ufficio ha avuto nel nostro
ordinamento : l'abuso d'ufficio così come nel 1930 ha subito una modifica nel 1990 e infine un
ulteriore modifica nel 1997 che è la forma attualmente vigente. In questa ultima modifica è stato
aggiunto il termine intenzionalmente : la ratio è quella di restringere l'ambito di applicazione della
norma perché se il soggetto non agisce con intenzione non è reato punibile ex articolo 323 c.p.

Un altro caso interessante è quello del falso in bilancio art 2621 cc nel codice del 1942 era presente
il termine fraudolentemente , con la riforma del 2002 quella che si ritiene preordinata ad
avvantaggiare l'imputato Berlusconi , il legislatore richiese un dolo intenzionale, cioè l'intenzione di
ingannare i soci o il pubblico cioè se un falso in bilancio fosse commesso per altri scopi pur sapendo
che quello avrebbe indotto in errore i soci e il pubblico il fatto non era punibile . Individuare un dolo
simile però era molto difficile perché gli amministratori avrebbero potuto dire che hanno agito allo
scopo di nascondere l'immagine troppo squalificata della società pur sapendo che così avrebbero
indotto in errore qualcuno .Dunque anche qui estrema selettività del dolo intenzionale e inganno.

Non è dunque necessaria la consapevolezza del falso dell'amministratore amministratore che però
agisce per altri scopi affinché ci siamo gli estremi del reato. Nella recente riforma di questo delitto
del 2015 ed ha abbandonato il dolo intenzionale utilizzando una formula diversa che è quella del
consapevolmente che sembra intendere la stessa cosa della espressione utilizzata all’art. 368 c.p.
che prevede il delitto di calunnia ovvero quel delitto per cui un soggetto incolpa davanti l'autorità
giudiziaria qualcuno che egli sa essere innocente . “Sa di essere innocente “vuole dire che se chi
incolpa è incerto ed ha il sospetto e denuncia che sia stato Tizio in questo caso ci sono delle
possibilità che possa essere stato lui , in questo caso non c'è calunnia: Tizio può essere il colpevole
oppure no . Se invece ha la certezza che non è stato Tizio e sa di incolpare un innocente allora si
parla di calunnia .

322
La stessa cosa è stata ripetuta nelle false comunicazioni sociali : in cui si richiede la certezza sulla
diffamazione . A parte questi casi normalmente un reato può essere commesso in tutte e tre le
forme del dolo. Qualche volta si può pensare che la stessa indicazione della legge sebbene non usi la
parola intenzionale richieda una intenzione . Un esempio potrebbe essere il delitto di concussione:
quel delitto con cui si costringe taluno a dare indebitamente .

Costringere una persona si può fare se non con l'intenzione di farsi dare ? Se io costringo Tizio a
darmi del denaro nella stragrande maggioranza dei casi si pensa che questa mia condotta sia
intenzionale . È molto difficile immaginare che si possa costringere qualcuno con dolo eventuale =>
il verbo costringere spinge verso una interpretazione per la quale il soggetto agisce per quello scopo
con intenzione , implicitamente sembra che il requisito della costrizione debba richiedere un dolo
intenzionale . -con questo finisce il discorso sul dolo.

Adesso parliamo di un ulteriore tipo di dolo che in realtà però dolo non è , ed è il cosiddetto dolo
specifico . Il dolo specifico è una finalità cui il soggetto tende indicata dalla legge e che però non è
necessario che si realizzi effettivamente . Chiunque s'impossessa della cosa mobile
altrui ,sottraendola a chi la detiene, al fine di trarne profitto per sé o per altri, è punito con la
reclusione da sei mesi a tre anni e con la multa da centocinquantaquattro euro a cinquecentosedici
euro. Dunque, se trovo un telefono sul banco dimenticato da qualcuno e lo prendo con l'intenzione
di restituirlo , c'è sì il momento dell'impossessamento ma manco quello del profitto quindi non
siamo in caso di dolo specifico .

Questo requisito che guarda l'intenzione del soggetto non è un vero dolo perché il dolo è l'aspetto
psicologico di una fattispecie penale che esige che il fatto sia realizzato , se l'evento non si realizza
non si può parlare negli stessi termini di dolo : ai fini della legge è indifferente se il fatto si sia
realizzato : manca la necessità della realizzazione perciò non si tratta di un dolo nei termini in cui lo
abbiamo trattato sinora . Il dolo specifico si contrappone al dolo generico .

Il dolo generico è il vero dolo cioè l'aspetto psicologico di una fattispecie penale che deve
realizzarsi , mentre il dolo specifico è un ulteriore requisito che è l'inverso rispetto alle condizioni
obiettive di punibilità perché in quest'ultime che stanno dentro il fatto di reato ma fuori dalla
condotta illecita la legge richiede l'aspetto oggettivo e non esige anche la volontà , nel dolo specifico
è esattamente il contrario cioè quella legge richiede che la fattispecie sia reato, l'aspetto soggettivo ,
ma non pretende anche che si verifichi oggettivamente ciò a cui il soggetto punta .

Questo scopo si ritrova in due reati che noi studiamo : la corruzione e il peculato d'uso Nella
corruzione la legge indica il compimento contrario ai doveri d'ufficio come un requisito del fatto ,
invece costituisce un dolo specifico rispetto al delitto di corruzione in quanto non è necessario
purché sussista il delitto di corruzione che il pubblico ufficiale abbia effettivamente compiuto l'atto ,
può compierlo o non compierlo , l'importante è che abbia accettato in cambio il denaro o la
semplice promessa del denaro . ( art 319 c.p. )

È già punibile il pubblico ufficiale a titolo di corruzione il pubblico ufficiale che accetta il denaro
anche se l'atto contrario al dovere d'ufficio effettivamente non viene compiuto .La stessa cosa vale
per il peculato d'uso :

323
Dispositivo dell'art. 314 Codice penale Il pubblico ufficiale o l'incaricato di un pubblico servizio , che,
avendo per ragione del suo ufficio o servizio il possesso o comunque la disponibilità di danaro o di
altra cosa mobile altrui , se ne appropria , è punito con la reclusione da quattro a dieci anni e sei
mesi. Anche la formulazione di tale delitto sembra essere orientata verso un dolo specifico al
secondo comma : Si applica la pena della reclusione da sei mesi a tre anni quando il colpevole ha
agito al solo scopo di fare uso momentaneo della cosa, e questa, dopo l'uso momentaneo, è stata
immediatamente restituita. In questo caso che è peculato d'uso , sembrerebbe indicare un dolo
specifico e cioè una finalità che potrebbe anche accadere che non si realizzi, ma a leggere con più
attenzione si ricava invece che non è indifferente che questo scopo sia raggiunto anzi al contrario è
indispensabile che lo scopo sia effettivamente rispondente alla realtà a differenza del dolo
specifico : se non c'è uso momentaneo , corrispondenza non c'è peculato d'uso .Dunque
nonostante le parole “allo scopo di “ non si parla di dolo specifico ma dolo generico : volontà e
realizzazione devono corrispondere .

324
09/04/2019
Abbiamo detto che il dolo specifico si contrappone al dolo generico (che è il semplice dolo) in
quanto ha questa finalità ulteriore che la legge richiede che il soggetto abbia quando compie il
fatto, ma che non è necessaria che si realizzi ma basta che sia presente nella mente del reo -ad
esempio nella corruzione non è necessario, perché vi sia reato, che chi riceve il denaro per
compiere un atto poi lo compia effettivamente-.

Come abbiamo già detto al centro del fatto vi è la condotta illecita e poi elementi estranei alla
condotta, cioè condizione, obiettivi di punibilità e il dolo specifico. Per le condizioni obiettive è
necessario che si verifichi l’aspetto oggettivo mentre l’art 44 ci dice che si risponde anche se non è
conosciuto, quindi l’aspetto oggettivo deve certamente esserci e può mancare quello soggettivo (è
eventuale ma non necessario). Per il dolo specifico è esattamente il contrario di quanto detto: è
indispensabile l’elemento soggettivo, che è la finalità ulteriore, mentre può mancare l’aspetto
oggettivo, cioè la realizzazione della finalità. Ad esempio, nel furto è richiesto che il soggetto abbia
agito al fine di trarne profitto, questo può essere sia realizzato che no.

La mancanza del fine in questione (il soggetto agisce senza il fine richiesto) può avere due effetti:
che il fatto diventi un altro reato oppure che non sia un fatto penalmente rilevante. Ad esempio,
qualcuno sottrae un pezzo di macchina non per trarne profitto (rivenderlo) ma per danneggiare la
macchina, il senso del fatto non è di rubare ma di danneggiare, quindi il fatto non costituirà un furto
ma un altro reato (il danneggiamento). Ancora ad esempio la madre che avendo un figlio tossico
dipendente gli prende dei soldi non per utilizzarli ma per evitare che questo vada a comprare altra
droga, mancando il fine di trarre profitto non c’è alcun reato.

Ma come si fa a stabilire se si tratta di dolo specifico?


Di solito ci sono delle espressioni specifiche: al fine di, allo scopo di, per compiere un atto… Per la
dottrina questo non è l’unico riferimento, perché pur in presenza di queste espressioni specifiche il
fatto non costituisca un dolo specifico ma un requisito che deve essere effettivamente pensato
(realizzazione concreta). Quindi occorre interpretare nella norma penale il ruolo che questa finalità
assume per capire se è necessario che si realizzi o meno.

Nell’ opportunità politico criminale del ricorrere al dolo specifico vedremo più avanti una simmetria
con le condizioni obiettive di punibilità, in queste anche se non si richiede che il soggetto conosca
l’elemento oggettivo, è sufficiente che questo elemento assuma almeno la forma della prevedibilità
(cioè una mera possibilità che ci sia l’elemento soggettivo). Specularmente per il dolo specifico, in
base alla sua funzione, occorre distinguere due casi:

325
a)quelli in cui il dolo specifico ha la funzione di escludere la punibilità di fatti che potrebbero già
costituire una condizione di punibilità, che sono di per se significativi –ad esempio un soggetto che
compie uno spossessamento di una cosa compie un fatto che di per se ha una sua rilevanza- il dolo
specifico filtrerà negativamente quei fatti rari, come quello detto prima della madre, per togliere
loro rilevanza penale.
b)quelli in cui il dolo specifico assume in se un aspetto importante di disvalore, se non l’unico –ad
nell’associazione per delinquere (art 416 c.p.) il fatto che si associano con lo scopo di commettere
delitti è un dolo specifico, quindi non è richiesto che vengano effettivamente compiuti perché
costituisca reato- in questi casi il dolo specifico ha il compito di esprimere tutto il disvalore del
fatto, si punisce solo in ragione di questo scopo.

Solo in questi casi per essere compatibili con il principio di offensività la dottrina penalistica richiede
una idoneità a realizzare lo scopo – sarebbe il corrispondente della prevedibilità rispetto
all’elemento soggettivo detto sopra, cioè la possibilità che si conosca- cioè è richiesta la capacità di
raggiungere l’obiettivo.

Ci si è chiesti se il dolo specifico sia compatibile con un dolo eventuale, cioè se la fattispecie
incriminatrice possa essere strutturata in modo tale da richiedere contemporaneamente il dolo
specifico ed il dolo eventuale. Un caso risolto dalla Cassazione è quello della ricettazione (art 648
c.p.), cioè chi al fine di trarne profitto riceve denaro o cose provenienti da un qualsiasi delitto. La
corte ha stabilito che non è possibile che il dolo eventuale o il dolo specifico riguardino lo stesso
oggetto, cioè il reo non può avere dolo eventuale rispetto a ciò che costituisce dolo specifico. È
necessario che ci sia intenzione nella realizzazione del profitto, cioè l’oggetto del dolo specifico.
Invece è possibile che il soggetto sia in dolo eventuale rispetto ad altre parti del fatto punibile, nel
nostro caso rispetto al presupposto della provenienza illecita: perché vi sia ricettazione è necessario
che la cosa provenga da un delitto (furto, rapina...) e sulla provenienza il soggetto può anche essere
in dubbio e quindi avere un atteggiamento di incertezza che può corrispondere con il dolo
eventuale. In conclusione, contemporaneamente può aversi un soggetto che agisca allo scopo di
procurarsi un profitto (dolo specifico) ricevendo delle cose che non sa se effettivamente
provengono da un delitto (dolo eventuale).

Adesso trattiamo la coscienza dell’offesa, cioè l’oggetto del dolo, rispetto alla consapevolezza
dell’offesa ad un bene giuridico. Ricorderete che secondo la teoria della tripartizione i tre elementi
erano il fatto tipico, la antigiuridicità e la colpevolezza e che in questa ricostruzione il fatto era
concepito in termini rigorosamente oggettivi, cioè come fatto esteriore, in quanto il dolo si
collocava nell’aspetto soggettivo. Anche nella bipartizione (la ricostruzione italiana) il dolo stava
nell’elemento soggettivo e non anche nell’elemento oggettivo.

326
Ciò vuol dire che pur in assenza del dolo si riteneva che sussistesse il fatto nella sua oggettività, ma
abbiamo visto che il successivo sviluppo della dottrina ha spostato il dolo nel fatto, fa parte di esso,
adesso è un suo elemento essenziale. Questa differenza comporta che mentre dal punto di vista
penalistico le conclusioni con il passato non cambiano, dal punto di vista processuale: prima si
riteneva che ci fosse un fatto anche in assenza del dolo (mancando solo la colpevolezza) e la
formula assolutoria era “perché il fatto non costituisce reato”, cioè c’è un fatto oggettivo ma in
mancanza della componente psicologica quel fatto oggettivo non costituisce reato; mentre se noi
diciamo che il dolo è componente essenziale del fatto (dell’azione o omissione) se manca la volontà
non c’è un fatto e la formula assolutoria è “il fatto non sussiste”, in assenza di dolo non c’è il fatto.
Ciò ha anche conseguenze dal punto di vista civile in quanto l’assenza di volontà rispetto all’azione
o omissione fa sì che non possa esserci responsabilità civile per mancanza di un fatto doloso o
colposo.

Continuando a parlare dell’oggetto del dolo, che l’art 43 c.p. lo individua come l’evento, abbiamo
già detto che per evento intendiamo:
a)secondo la concezione naturalistica come avvenimento esteriore distinto dall’azione o omissione,
tale concezione corrisponde a quanto detto dalla legge che definisce come evento la conseguenza
dell’azione o omissione;

b)ma non tutti i reati hanno l’elemento naturalistico (ad es. nell’evasione non c’è qualcosa di
diverso dal movimento fisico dell’agente che evade) e quindi non consente di distinguere tra dolo o
colpa, ma dato che in ogni reato deve esserci un evento è stata fornita la nozione di evento
giuridico, cioè offesa del bene protetto dalla legge penale. Quest’ultimo è presente in tutti i reati
ma la differenza è che per essere in dolo rispetto all’evento come inteso nella seconda concezione,
bisognerebbe sapere che questo reca offesa al bene che la legge penale protegge e quindi occorre
conoscere la legge. Ma sappiamo che l’art 5 esclude la rilevanza della ignoranza della legge penale,
non ci sono scusanti, quindi tale concezione non va bene;
c)così Pagliaro elabora quella ulteriore concezione dell’evento significativo cioè l’accadere esteriore
nel suo significato umano e sociale, quindi non fa riferimento alla legge ed è presente in tutti i reati
(ad es. nell’evasione, detta prima, se uno evade dal carcere è un fatto degno di rilevanza sociale e
umana).

d)esiste anche una quarta concezione (sostenuta ad es. da Fiandaca Musco) che, invece di fare
riferimento all’art 43 c.p., fa riferimento all’art 47 c.p. che disciplina l’errore e stabilisce che l’errore
sul fatto che costituisce reato ne esclude la punibilità dell’agente. L’art 47 non descrive il dolo ma il
suo contrario cioè se il dolo richiede una conoscenza, l’errore esclude la conoscenza. Allora se
l’errore che di per sé esclude il dolo (in quanto esclude il momento conoscitivo del dolo) cade sul
fatto, possiamo dire al contrario che il soggetto perché sia in dolo deve avere la conoscenza del
fatto. Quindi nelle concezioni prima –a) b) e c)- abbiamo detto che oggetto del dolo è l’evento,
mentre in questa quarta concezione oggetto del dolo è il fatto.

327
Sembrerebbe che ci sia una divergenza di posizioni ma in realtà esiste una convergenza tra le varie
posizioni, infatti la tesi secondo cui oggetto del dolo è l’evento significativo non è dissimile da quella
secondo cui oggetto del dolo è il fatto perché in sostanza: nella seconda concezione occorre la
conoscenza di tutto ciò che integra il fatto (cioè tutti gli elementi della fattispecie così come
descritta dalla legge penale), nella prima concezione occorre (anche qui) conoscere tutto in quanto
il soggetto per volere l’evento significativo deve in realtà conoscere i presupposti (es. negli atti
abortivi su una donna se l’agente non sa che la donna è incinta non può avere come oggetto della
sua volontà l’evento dell’aborto, in quanto è logicamente necessario avere questa conoscenza per
poter volere quel risultato) che quindi nella maggior parte dei casi si ricollegano all’evento (la
conoscenza dell’evento esige la consapevolezza del presupposto).

Ho dimenticato a dire che riguardo al nesso causale del dolo, a suo tempo, vi ho fatto notare come
le formule sono leggermente diverse, infatti c’è chi sostiene che non occorre ci sia una conoscenza
generica del nesso causale, mentre per altri (Pagliaro) non è rilevante una conoscenza specifica.
Sostanzialmente le due cose coincidono, ad es. uno scienziato non sa esattamente cosa succede nel
corpo umano quando gli spara un colpo di pistola ma sa che morirà, quindi ha una conoscenza
generica del nesso causale.

Anche le qualifiche del soggetto attivo, nella maggior parte dei casi, si riflettono sull’evento perché
determinano il diverso significato che ha quell’evento -ad es. nell’appropriazione indebita e nel
peculato se è un pubblico ufficiale che compie l’illecito allora quel fatto di appropriazione diventa
peculato- cioè la qualità del soggetto si riflette sull’evento e lo qualifica in un fatto diverso da quello
se non avesse tali qualità.

Ritornando a prima, Pagliaro dice che quando i sostenitori della tripartizione parlano di fatto si
riferiscono all’aspetto puramente obiettivo naturalistico senza considerare il significato del
comportamento, che invece è essenziale per capire di cosa si tratta (es. la spinta che a seconda
dell’intenzione può essere tante cose diverse). A tale obiezione i sostenitori che l’oggetto sia il fatto
rispondono osservando che dopo che l’attuale formulazione ha ricompreso il dolo nel fatto, in
realtà quel fatto non va osservato nella sua pura oggettività ma intriso di significato perché esprime
anche la volontà del soggetto, cioè cosa il soggetto intende fare -non solo ad esempio la spinta che
intende fare- nella sua oggettività naturalistica ma è associato anche al dolo che la qualifica –quindi
spingere può essere percuotere…- . Con questa correzione aggiunta per la quale il dolo è
intrinsecamente connesso al fatto, quel significato che il Pagliaro rimproverava non essere
ricompreso in quella concezione del dolo che ha come oggetto il fatto, in realtà quel significato sta
anche nel fatto. Quindi tali sostenitori quando parlano di fatto non intendono parlarne solo nel suo
aspetto oggettivo naturalistico ma collegandolo al dolo, ancora sotto questo profilo le due
impostazioni si rivelano estremamente vicine.

Quanto detto ci consente di chiarire l’inaccettabilità del concetto del dolus in re ipsa che viene
utilizzato dalla giurisprudenza per affermare la rilevanza di certi fatti sulla base del puro
accadimento esteriore. Dolus in re ipsa vuol dire che se qualcuno ha in modo volontario commesso
un certo fatto è necessariamente in dolo, ad es. scrivere qualcosa in una chat il solo fatto che l’ha
scritta vuol dire che l’ha voluta altrimenti non lo avrebbe fatto.

328
Si tratta di una posizione superficiale e “comoda” per il giudice il quale non deve approfondire e
vedere cosa veramente volesse fare quel soggetto. In realtà dietro un’azione può esserci un
ragionamento psicologico diverso, cioè fare materialmente qualcosa non vuol dire che ci sia anche
la volontà di farla, ad es. scrivo una parola ma quella chat è in inglese che non conosco bene e
scrivo un termine che in realtà ha un significato diverso da quello che penso io. Non è detto che io
sia in dolo rispetto a ciò che ho fatto.

Ancora ad una realizzazione esteriore uguale possono corrispondere fatti diversi dal punto di vista
penale a seconda dell’intenzione del soggetto, quindi quello stesso gesto può essere sorretto da
una volontà differente, non si può dire che per il solo fatto obiettivo che l’hai commesso sei in dolo
perché tu lo hai fatto in re ipsa. Dal giudice in certi contesti viene utilizzata, invece, la massima di
esperienza e cioè mediamente quel gesto vuol dire quella cosa in un determinato contesto –ad. Es.
due ragazzi si incontrano in università e si abbracciano si pensa sia un gesto in amicizia- però la
massima di esperienza differisce dal dolus in re ipsa, in quanto consente di essere contraddetta con
la prova di elementi diversi e cioè che normalmente è così (l’esperienza ci dice questo) però in quel
caso particolare le cose sono andate diversamente. Quindi è una regola flessibile al caso concreto.

Adesso andiamo al problema sostanziale detto prima del dolo e coscienza dell’offesa, cioè per
essere in dolo il soggetto deve avere la consapevolezza della violazione della legge. Il nostro Codice
penale all’art 5 stabilisce che “nessuno può invocare la ignoranza della legge penale”, però ci sono
molti casi in cui questa regola sembra davvero troppo severa e non corrispondente alle esigenze di
un diritto penale giusto, dato che non ammette qualunque incertezza o dubbi da parte del
soggetto.

Ovviamente ciò non vale per i delitti naturali e cioè nessuno può avere incertezza ad esempio che
uccidere una persona, rubare qualcosa, corrompere un giudice, non costituisca reato.

Il problema nasce quando la legge penale incrimina ad es. un venditore che non era adeguatamente
informato su come doveva essere l’etichetta, cosa dovesse indicare ed espone un prodotto senza
etichetta, ovviamente è sicuro che venga condannato per il reato previsto dalla legge, ma occorre
chiedersi bisogna dare qualche spazio alla coscienza dell’offesa? Innanzi tutto, è pacifico che
esclude il dolo la consapevolezza dell’esistenza di una causa che esclude l’antigiuridicità, se vi
ricordate nella tripartizione si parla di antigiuridicità obiettiva e cioè esprime la contrarietà del fatto
alle norme dell’intero ordinamento giuridico (ad es. adempimento di un dovere).

Se diciamo ciò al contrario, il dolo richiede la rappresentazione mentale che mancano le cause di
giustificazione, questa rappresentazione mentale non si deve pensare come la spunta di un elenco
ma come una sintetica complessiva consapevolezza del soggetto che il suo comportamento non è
giustificabile per la legge. Alla stessa identica conclusione si arriva con la teoria che considera tali
elementi, non come cause di esclusione dell’antigiuridicità, ma come elementi negativi della
condotta illecita perché per avere la volontà della condotta illecita il soggetto deve sapere che
mancano delle ragioni che giustificano il suo comportamento. Dunque, è pacifico che il dolo esige
questa consapevolezza sintetica che il comportamento è ingiustificato e cioè che non esistono
norme dell’ordinamento giuridico diverse da quelle penali che lo autorizzano.

329
Ma la teoria della consapevolezza del carattere antisociale del fatto non può essere accettata in
quanto fallisce proprio dove dovrebbe risolvere il problema, cioè è ovvio che tutti mediamente
hanno la coscienza della antisocialità dell’omicidio, della corruzione del giudice, della violenza
sessuale, rapina ecc.… quindi di reati che sono contrari alle esigenze sociali. Qui non c’è il problema
di fondare la consapevolezza rispetto a questi reati, in quanto il problema si pone rispetto ad altri
come nell’esempio fatto prima del venditore che espone il prodotto senza etichetta. In questi casi
manca una coscienza dell’antisocialità, non emerge una evidente illiceità penale del fatto, occorre
andare a studiare cosa ci dice la legge penale.

330
29/04/2019
La colpa: analogamente per il dolo, la colpa è l’aspetto subbiettivo di una fattispecie penale colposa,
definizione che va integrata con una serie di definizioni. Ricordando quanto detto Per il dolo,
sembrerebbe esserci un circolo vizioso, cioè la colpa è l’aspetto soggettivo di fattispecie colposa, e
allora ci si accorge subito che è la fattispecie colposa ad essere diversa da quella dolosa nella sua
struttura.

Di conseguenza l’elemento psicologico è anche differente.

La fattispecie dolosa si serve di elementi normativi astratti, quella colposa di elementi normativi
concreti ( rinvio alle teorie imperativistiche). Al centro, cosi come dice l’art 42 del codice C’è sempre
una condotta illecita, nel caso del delitto colposo la condotta è caratterizzata dal fatto che la
condotta è negligente, impedita o posta in essere in violazione di leggi e regolamenti. Da questa
condotta deriva un evento, e l’art 43 si esprime in questi termini, ricordando che esso risponde a
una logica di bipartizione della struttura del reato, parlando di elemento psicologico trattando di
dolo, colpa e preterintenzione e considera l’elemento psicologico distinto dall’elemento oggettivo
che è la condotta e il nesso causale... . Il delitto è colposo o contro l’intenzione quando l’evento
anche se preveduto non è voluto dall’agente, e si verifica a causa di negligenza o imperizia o
inosservanza di leggi e regolamenti, Quindi ci vuole una condotta che abbia causato l’evento e
debba essere qualificata come negligente e impedita oppure posta in essere in violazione di leggi e
regolamenti.

Mentre la fattispecie colposa nel considerare queste qualità della condotta ( negligente,
imprudente etc..) utilizza un elemento normativo concreto , concreto perché non si può
determinare la caratteristica richiesta dalla legge ( cioè che la condotta sia negligente e
imprudente se non in relazione all’evento concretamente verificatosi e non posto in astratto.

Un chiaro esempio è il seguente: Qualcuno circola con la macchina in controsenso senonché cade
un bambino dal balcone di un’abitazione e lui lo investe, l’evento concernente l’investimento del
bambino con lesioni non è in nessun modo dipendente dalla violazione della regola di andare in un
senso piuttosto che in un altro, perché sia che andasse in un senso sia che andasse in un altro se
cade un bambino dal balcone lo investe allo stesso modo.

Vi sono due elementi diversi che caratterizzano la fattispecie colposa : al solito il legislatore
definisce l’elemento psicologico ma viene subito visto che anche l’aspetto oggettivo del fatto è
interessato, perché la struttura della condotta è differente che nel delitto doloso, si tratta anche di
come è descritto il, fatto nel delitto colposo diversamente che nel delitto doloso.

La prima caratteristica risulta essere inerente al piano psicologico della volontà, che è bene nel
rispetto della legge e per una maggiore evidenza, mettere per primo. Dal punto di vista psicologico
il delitto colposo è caratterizzato dalla non volontà dell’evento , l’evento quindi deve essere non
voluto ma non è indifferente che sia voluto o no, non è che non sia richiesta semplicemente la
volontà al contrario deve essere esclusa la volontà dell’evento. Il delitto quindi è colposo solo se
non è minimamente voluto, poiché se solo lo fosse anche nella forma minimale come visto nel dolo
eventuale, il delitto sarebbe doloso e non colposo.

331
La seconda caratteristica è che sul piano oggettivo la fattispecie colposa è connotata dalla violenza
delle regole cautelari, la condotta viola esse, le quali sono inerenti alla diligenza, prudenza, perizia,
in modo che la medesima risulti negligente, imprudente e imperita.

Quindi la colpa sotto il profilo psicologico si caratterizza per il fatto che l’evento deve essere non
voluto, mentre sotto il profilo oggettivo dal fatto che la condotta si profila come la violazione di
regole cautelari di diligenza, prudenza e perizia.

L’art 43 del codice potrebbe dare luogo a incertezze nella sua formulazione, perché fa riferimento
all’evento il quale necessita di un opportuno inquadramento. Se intendessimo l’evento in senso
naturalistico questo creerebbe difficoltà insuperabili, perché in quei reati in cui non c’è
pacificamente un evento naturalistico come reati di mera condotta , come la violazione di domicilio
o l’evasione, non si può stabilire se il fatto è doloso o meno non essendoci il punto di riferimento:
l’evento.

Questo vale sia per i reati di mera condotta senza evento naturalistico, sia per pochi reati di azione,
come gli atti osceni colposi oramai depenalizzati, sia per i molti reati di omissione colposa. Allora,
l’evento di cui parla l’art 43 deve essere inteso come evento significativo perché solo in questo
modo si può dire che ci sia in tutti i reati. La modificazione del mondo nel suo significato umano e
sociale e si consente di individuare se il comportamento sia doloso o colposo anche se non c’è un
evento in senso naturalistico. La dottrina più antica, si limitava a una considerazione del delitto
colposo che ricalcava la rubrica dell’art 43, l’elemento psicologico del reato e si riteneva che la colpa
avesse a che fare con l’elemento piscologico.

La conseguenza di questa prospettiva era che dinanzi a un comportamento non voluto si riteneva
che il fatto fosse integrato e quindi da questo fatto derivasse una responsabilità non penale ma
civile, quando l’evento non fosse voluto ma ci fosse un comportamento. Invece chiarendo che la
colpa riguarda anche la condotta, ci si accorge che per considerare il reato colposo non basta la
non volontà dell’evento ma che vi sia un comportamento che sia qualificabile come negligente e
impedito, occorre che qualcosa sul piano obbiettivo corrisponda alla definizione della legge.

Vediamo anche come questo requisito stia in rapporto alla volontà del soggetto.

Prima ancora osserviamo che l’art 42 del Codice penale stabilisce la regola che quando il legislatore
non stabilisca nulla di particolare, il delitto debba essere considerato doloso.

Quando il legislatore intende dare rilevanza anche per i delitti alla colpa e quindi punire il delitto
colposo deve espressamente prevederlo con apposita disposizione, infatti ci sono articoli del codice
che puniscono l’omicidio colposo, l’incendio colposo ecc… . Quando il legislatore decide di
prevedere una fattispecie colposa . quando si torva dinanzi a tematiche importanti da tutelare e
vuole incriminare non solo il caso più grave , che un soggetto abbia voluto provocare quell’evento,
ma anche il caso meno grave in cui lo abbia determinato per negligenza e imperizia. Essi sono i temi
della vita, sicurezza e incolumità pubblica. Per essi sono previste fattispecie colpose.

Le fattispecie colpose hanno quindi una funzione residuale rispetto a quelle dolose. La figura base
del delitto è quella dolosa eventualmente il legislatore ricorre alla fattispecie colpose quando il
legislatore vuole assicurare una tutela più ampia.

332
Quello che si può dire sul piano normativo, cioè la regola è il dolo, la colpa è un’eccezione che deve
essere prevista, non corrisponde alla frequenza statistica dei fatti. Sono sempre di più i casi di
lesioni colpose di quelli di omicidio doloso o lesioni dolose. Succede più spesso che uno provoca la
morte di una persona più di quanto non succeda nei casi in cui il fatto è sorretto dalla volontà.

Occorre ricordare che l’art 42 stabilisce che questa differenza vale solo per i delitti, per le
contravvenzioni si risponde indifferentemente sia per il dolo che per la colpa. Ciò richiede di due
chiarimenti, primo che questo non significa che nel caso delle contravvenzioni la colpa fosse
presunta e non sia necessario accertarla, piuttosto significa che entrambi possono imputare
responsabilità e che il giudice accerti che ci sia stata la colpa anche nelle contravvenzioni.

Questa regola vale a meno che la stessa struttura del fatto che costituisce contravvenzione non
esiga di per sé un dolo, ad esempio il delitto del falso in bilancio fino al 2015, era richiesto un dolo
intenzionale e in questi casi non vale la regola generale che si risponde anche per colpa.

Detto ciò bisogna avventurarsi sul complesso argomento del rapporto tra condotta e colpa, perché
la condotta deve essere cosciente e volontaria, ora si tratta di stabilire che rapporto ci sia tra questa
coscienza e volontà della condotta e la colpa. Qualcuno ritiene che intanto si possa parlare di colpa
in quanto ci sia una condotta cosciente e volontaria, e viceversa Fiandaca e musco dicono che se c’è
la colpa c’è una condotta e viceversa, mentre altri dicono che prima c’è la condotta e poi con
giudizio distinto occorre valutare ci sia la colpa.

Nell’ottica Fiandaca e Musco perché ci sia una colpa, è sufficiente che vi sia quella che si chiama la
suitas del comportamento, che quel comportamento corrisponda alla natura del soggetto. Cioè alle
caratteristiche psichiche fisiche del soggetto in esame essendo esclusa la condotta quando il
comportamento sia dato, si manifesti al di fuori di questo ambito della suitas.

Le caratteristiche biologiche del soggetto stabiliscono se il comportamento del soggetto


corrisponde alla sua natura.

Tizio è epilettico e lo sa che può perdere il controllo in seguito alle crisi epilettiche, questa
caratteristica propria ( suitas ) fa sì che questa persona che sa che può andare a queste crisi, pur in
assenza assoluta della volontà, perché in seguito alla crisi è mosso dalla crisi epilettica, se fa qualche
cosa in questa situazione, questo qualche cosa lo si deve ritenere come fatto compiuto da lui e di
conseguenza colpevole nel senso che non avrebbe dovuto mettersi alla guida di una macchina
sapendo che va incontro a queste crisi epilettiche. Quindi, se qualcuno fa qualche cosa per il quale
in dipendenza di sue proprie caratteristiche dà luogo a comportamenti che violano regola di
prudenza, bisogna ritenere che vi sia una condotta e che questa sia colposa. Al contrario se c’è un
fatto che non corrisponde alla natura della persona, come un malore improvviso, si dovrà ritenere
che non ci sia colpa perché il soggetto non poteva sapere gli potesse capitare questo. La
giurisprudenza su questo concetto di suitas era astata severa, ritenendo il malore come
caratteristica di questa persona anche se improvviso. A partire dagli anni 90 ha riconosciuto che di
fronte al malore improvviso, di cui il soggetto non sapeva di andare incontro, è esclusa la colpa.

333
Altri autori invece ritengono che si debbano fare due diversi giudizi, prima accertare se il
comportamento corrisponde alle caratteristiche del soggetto e poi separatamente formulare una
valutazione che riguardi la colpa. L’utilità di questo secondo approccio è data che stabilendo che nel
caso di comportamento che non corrisponde alle caratteristiche del soggetto, non sarebbe esclusa
la colpa ma addirittura l’azione la condotta, questo importante ai fini della responsabilità civile. In
assenza di un fatto non ci sarebbe neppure la responsabilità civile, il soggetto agente mosso da una
non caratteristica per lui condizione patologica, sarebbe escluso del tutto il fatto e quindi il soggetto
non andrebbe incontro neppure a responsabilità civile. A questo punto si inserisce il dibattito se
nella colpa ci sia o meno sempre la volontà riferita alla condotta. L’art 42 stabilisce che ciascuno
risponde della propria omissione cosciente e volontaria.

Alcuni ritengono che la colpa non sia caratterizzata dalla volontà riferita alla condotta nel senso che
si risponde anche nel caso di condotte non volontarie quando appunto queste condotte siano
rimproverabili per colpa del soggetto.

Chi si mette a volante sapendo delle sue crisi epilettiche, fa qualche cosa che nel momento in cui lo
compie, perdendo il controllo della macchina, non è voluto ma fonda giudizio di colpa perché
questo soggetto non si sarebbe dovuto metter al volante. Inoltre, ci sono quei famosi casi in cui
parlando della azione o omissione in cui non si può dire ci sia la volontà e sono le situazioni di
omissione da dimenticanza, l’infermiera che si dimentica di somministrare al malato il farmaco
all’orario stabilito, o il movimento maldestro nel caso in cui tizio fa scappare un colpo non perché
voglia farlo. In questi due casi non c’è una volontà della condotta.

La condotta non si può dire volontaria e cosciente e la dottrina penalistica è divisa perché secondo
alcuni queste ipotesi in cui non c’è volontà della condotta, nel delitto colposo secondo Pagliaro, c’è
la volontà che si realizza e c’è una condotta illecita perché trasgredisce una regola di
comportamento. Le ipotesi in cui si risponde penalmente per colpa senza una condotta volontaria,
sono eccezionali. Cioè Manca una condotta, nell’omissione da dimenticanza non c’è un
comportamento del soggetto, c’è un rimprovero dell’ordinamento giuridico, però si risponde
ugualmente. In questi casi eccezionali non si richiede una coscienza e volontà del comportamento.
Altra parte della dottrina dice che la responsabilità per colpa si ha in tutti i casi, quelli in cui la colpa
è cosciente e il soggetto sa che sta facendo qualcosa di imprudente ma anche quelli in cui non c’è
un simile comportamento.

La nozione di colpa che meglio si presta quindi a è quella in cui la colpa è un rimprovero
dell’ordinamento giuridico ricolto al soggetto, quindi a un fondamento essenzialmente normativo e
non psicologico e non si tratta di volere un comportamento imprudente ( Pagliaro) ma l’essenza
della colpa sta nel rimprovero dell’ordinamento giuridico. Questo rimprovero, c’è in tutti i casi di
colpa, sia quando il soggetto voleva correre con la macchina o si sia dimenticato di fare qualche
cosa.

334
Quindi due prospettive: Pagliaro che sostiene Anche nella colpa c’è la volontà, non riferita
all’evento morte ma riferita alla condotta imprudente ( correre troppo con la macchina), i casi in cui
non c’è una condotta sono eccezionali. Gli altri dicono che non è importante ci sia una volontà della
condotta , quello che è fondamentale4 è che l’ordinamento giuridico attribuisca una responsabilità
al soggetto perché si sarebbe dovuto comportare diversamente, quindi un concetto normativo di
colpa.

TEORIE IMPERATIVISTICHE E TEORIE ANTI-IMPERATIVISTICHE

COMINCIAMO DALLE TEORIE ANTI-IMPERATIVISTICHE che, per la verità bisognerebbe cominciare


logicamente dalle prime ma preferisco partire dalle altre.

Teorie Anti-imperativistiche: in sostanza sono esattamente quelle di cui ho appena finito di parlare,
secondo le quali cioè nella colpa non c' è una volontà, non c' è un comportamento volontario. Un
vostro collega mi chiedeva: <<allora è una differenza soltanto teorica?>> Sì, fondamentalmente è una
differenza soltanto teorica, con qualche però risvolto pratico, come ora vedremo.

La questione teorica è questa: esiste, come ritiene Pagliaro, una nozione superiore unitaria, un
concetto superiore unitario che si riferisca sia al dolo che alla colpa? Pagliaro ritiene di sì e ritiene che
questo concetto sia dato dalla condotta illecita. Sia nei delitti dolosi che nei delitti colposi c'è una
condotta illecita, che consiste nella realizzazione della volontà. Ovviamente nel delitto doloso questa
realizzazione della volontà abbraccia l'evento, -io voglio uccidere Tizio- quindi la mia volontà è rivolta
o comunque abbraccia l'evento morte della persona, nell'omicidio doloso, invece nel delitto colposo
la volontà che si realizza non abbraccia ovviamente l'evento, ovviamente non si vuole la morte della
persona quando si fa un incidente stradala però c'è la volontà della condotta -voglio andare a 100
all'ora, mi piace correre, sto correndo e lo faccio volutamente- e questa è una condotta illecita perché
imprudente o comunque viola il codice della strada. Quindi in tutti e due i casi c'è una condotta.

Quindi il soggetto viola un comando, cioè <<non superare i 50 all'ora e io vado a 100>>. C'è un
imperativo della legge che dice <<NON SUPERARE I 50>> E IO INVECE SUPERO I 50, VOLUTAMENTE.
Ora, le teorie anti-imperativistiche sostengono quello che ho appena finito di dire, nell'ultima parte
dell'ora precedente, che non ha nessuna importanza e non è decisiva questa volontà della violazione
del comando, cioè della condotta illecita perché la colpa sussiste anche quando una volontà non c'è
affatto, come nei famosi esempi dell'omissione da dimenticanza e movimento maldestro. Quindi è
estranea alla natura della colpa la volontà di violare il comando "Non superare i 50" e dunque
l'imperativo.

Teorie Anti imperativistiche, individuano l'essenza della colpa non nella volontà di trasgredire la
regola cautelare ma piuttosto nel rimprovero che l'Ordinamento Giuridico muove al soggetto per non
aver fatto altro, per non essersi comportato diversamente da come si è comportato in effetti. Perché
non vanno queste teorie? Perché possono essere criticate? Perché in realtà, secondo Pagliaro, l'art.42
richiede sempre che ci sia una condotta illecita, cosciente e volontaria, che naturalmente non
abbraccia sempre l'evento, l'abbraccia nei delitti dolosi, non l'abbraccia nei delitti colposi, tranne casi
eccezionali: i casi per responsabilità senza condotta illecita sono da considerarsi eccezionali.

335
Andiamo invece alle teorie IMPERATIVISTICHE, che pure vanno criticate. Questo obiettivamente è
così, è accertato che non possono essere accolte. Le teorie imperativistiche, sostenute in Italia
fondamentalmente da Vannini, ancora prima in Germania da Ton, sostengono questo: anche nella
colpa, l'essenza del reato è precisamente la violazione di un comando, non diversamente che nel
dolo. L'essenza della colpa e la struttura, state attenti a questo, la struttura del fatto colposo consiste
nella volontà di violare un imperativo --voglio superare i 50 all'ora—

Il fondamento della punibilità nel delitto doloso è dato da questa volontà di violare l'imperativo, ti
punisco perché hai voluto andare a 100 all'ora. Osservazione: va bè, non è che ogni volta che uno
supera i 100 all'ora viene punito per un qualche delitto colposo, è punito non in tutti i casi in cui ha
superato il limite di velocità ma solo se si verifica un incidente con morte, lesioni ecc. E allora questi
autori, Vannini e i sostenitori delle teorie imperativistiche, dicono <<va bene, l'essenza è la volontà
di violare il comando però si è puniti solo a condizione che si verifichi un certo evento, cioè morte di
qualcuno, lesioni.

Questo evento sarebbe una condizione obiettiva di punibilità, ne abbiamo già parlato in precedenza,
quelle definite dall'art. 44 del Codice penale, cioè l'essenza sta nell'aver voluto comportamento
imprudente, violando l'imperativo che diceva <<tieni un comportamento prudente>> questa è
l'essenza della colpa, questo comportamento che fonda la punibilità è tuttavia punibile solo se
condizione obiettiva si verifica l'evento.

Che cosa c'è che non va in questa impostazione? Non va il fatto che, secondo questa impostazione,
non ha nessuna importanza questa freccia all'indietro che io ho tracciato, perché se l'essenza sta nella
, se l'essenza della colpa sta nella volontà di violare l'imperativo, l'evento rispetto a questo che è il
fondamento della punibilità non ha una funzione, si è puniti per questo, a condizione che si verifichi
l'evento. Questa teoria disconosce l'importanza di quello che faccio, invece che l'evento ha nel
definire il comportamento . Il ruolo dell'evento non è solo quello di condizione obiettiva di punibilità,
essenziale per concretizzare le qualifiche normative di negligenza, imprudenza e imperizia, ma anche
violazione del codice di disciplina.

Dunque, l'evento ha un ruolo decisivo nella struttura del delitto colposo perché solo alla luce
dell'evento concretamente verificatosi si può verificare se il comportamento del soggetto
corrispondesse a quello tipizzato dalla legge penale, cioè si possa considerare imprudente, negligente
e così via. Facciamo un esempio: supponiamo che uno faccia un incidente, vi ho già fatto l'esempio
della bottiglia che schizza ma possiamo farne un altro: una macchina non è stata sottoposta alla
revisione periodica, sapete che ogni 4 anni e poi ogni 2, viene detto di fare la revisione per vedere se
in condizioni e allora, secondo questa impostazione, uno cammina con la macchina non revisionata,
fa un incidente, provoca delle lesioni a qualcuno, violazione del codice della strada in base alla quale
si verifica l'evento, responsabilità per colpa.

Ma ipotizziamo che l'evento, l'incidente si sia verificato per un guasto della macchina che non era
evitabile, nella revisione si controllano alcune cose ma non so che altro.

336
Supponiamo che quello per cui si è verificato l'evento sia una rottura che in nessun caso sarebbe sta
se si fosse fatta la revisione perché non si sarebbe controllato quel particolare della macchina. Allora
non basta dire --Tizio non ha sottoposto il veicolo a revisione, si è verificato un evento ne risponde.
Non si può dire così perché l'evento non ha alcuna connessione , alcun ruolo nello stabilire se il
comportamento fosse la legge tale che questa tassazione se l'evento non è di quel tipo il soggetto
non risponderà penalmente, purché non possa figurare altri profili di colpa ma questo è un altro
aspetto. Dunque, questa relazione è rafforzata dal disposto dell'art. 45 c.p., che è una delle norme
la cui violazione è più discussa in dottrina.

L'art. 45 è quello che regola il caso fortuito di forza maggiore, escludendo in questi due casi, viene
immediatamente dopo il 43 che parla dell'elemento psicologico dolo o morte, il 44 che parla delle
condizioni obiettive di punibilità e dopo di che c'è appunto il 45 che semplicemente si limita a dire
<<non è punibile chi ha commesso il fatto per cause fortuite o di forza maggiore.

Consideriamo innanzitutto che caso fortuito si definisce un evento imprevedibile. È fortuito ciò che
non è preventivamente calcolabile, non si può mettere in conto preventivamente perché si verifica
appunto per caso, mentre forza maggiore si definisce come qualche cosa di inevitabile, anche se
l'avessi previsto arriva un’alluvione nel fiume in piena, lo posso prevedere benissimo ma non ho che
cosa fare, è inevitabile, anche sapendolo non posso impedire che si verifichi quel certo fatto. Quindi
caso fortuito e forza maggiore definiscono rispettivamente imprevedibile. Forza maggiore.

Che ruolo hanno questi elementi nella struttura del Vi ho già detto che le dottrine sono varie ,
secondo alcuni escluderebbero addirittura il nesso causale, perché, vi ricordate, secondo qualcuno
quei fattori che sopravvenuti, le concause sopravvenute a determinare l'evento vanno definite come
i fatti imprevedibili. E allora se questi fatti che escludono il nesso causale prevedibili, il nesso causale
esclude la causalità.

Occorre ricordare che la fattispecie colposa abbraccia soltanto la responsabilità per quegli eventi che
fossero prevedibili ed evitabili. Fuori dalla prevedibilità ed evitabilità non c'è responsabilità per colpa,
esclusa appunto dall'art.45 che stabilisce che non è punibile chi ha commesso il fatto per cause
maggiori e lo vediamo immediatamente alle regole cautelari. Questo discorso lo leghiamo subito alle
regole cautelari, perché abbiamo detto oggettivamente la struttura della specie colposa richiede che
ci sia un comportamento negligente, imprudente, imperito oppure inosservante di leggi, ordini,
discipline.

Queste qualità --negligente, imprudente, imperito-- dalla violazione delle cosiddette regole cautelari,
regole di cautela, le quali sono di due gruppi REGOLE CAUTELARI SOCIALI e GIURIDICHE. E SOCIALI
sono le prime 3, negligenza, la legge parla al negativo ma le regole sono DILIGENZA, PRUDENZA e
PERIZIA, le quali sono dette sociali in quanto determinate dall'esperienza comune dell'uomo nella sua
vita sociale, mentre le altre giuridiche : violazione di leggi, ordini e discipline. Ora le vediamo
dettagliatamente. Anche queste sono regole cautelari ma di natura giuridica proprio perché vengono
definite non sulla base dell'esperienza comune ma in fonti normative: fonti, regolamenti e discipline.

337
Tuttavia, entrambe , regole sociali e regole giuridiche, hanno esattamente la stessa natura , cioè sono
regole di cautela ovverossia volte a prevenire ed evitare il verificarsi di danni socialmente rilevanti:
non metter una fiamma accesa accanto a sostanze infiammabili perché altrimenti possono prendere
fuoco, e così via.

Ci sono infinite regole di cautela alle quali noi non pensiamo nemmeno ma che regolano
continuamente il nostro comportamento. Ora (ed ecco il collegamento che lei mi chiedeva) le regole
sociali sono la cristallizzazione dei giudizi di prevedibilità ed evitabilità degli eventi che l'esperienza
umana consolidata detta.

Quand'è che un fatto umano è imprudente? Quando si poteva prevedere ed evitare che quel fatto
derivasse un certo danno. Quindi l'esperienza ci dice che se fai una certa cosa devi prevedere che ne
possa succedere un'altra, dannosa, e devi quindi evitare di fare quella cosa, di tenere quel
comportamento perché in questo modo eviti di fare un certo danno.

Quindi questi giudizi sulla prevedibilità ed evitabilità sono l'essenza delle regole cautelari sociali e
vengono cristallizzati cioè formulati astrattamente nelle regole di negligenza, imprudenza e imperizia.
Dicevo <<non mettere il fuoco vicino alle sostanze infiammabili>> perché ? Perché si può prevedere
che le sostanze infiammabili prendano fuoco causando danni, quindi prevedibile e anche evitabile,
se devi accendere un fuoco fallo in un altro posto lontano sostanze infiammabili.

Questi giudizi consolidati dall'esperienza umana, la più antica anche, ci fanno prevedere le cose, ci
dicono che bisogna farle in un certo modo formano, vengono cristallizzate in queste regole diligenza,
perizia di cui andremo a parlare. Invece, come dicevo, certe volte il legislatore, la legge, fonti
normative varie definiscono addirittura quali siano i comportamenti.

Ho fatto continuamente esempio al codice della strada, il codice della strada di regole di prudenza -
-non girare dove c'è quella freccia, non superare quella velocità, quando arrivi all'incrocio osserva
attentamente, fai passare prima questo e quell'altro>> servono per prevedere ed evitare incidenti
durante la circolazione della strada. Le regole giuridiche hanno la stessa natura, questo è molto
importante, delle regole sociali, cioè anche queste hanno una funzione cautelare.

Non ha la minima importanza che io non avessi pagato l'assicurazione, quindi che io non fossi coperto
da assicurazione, l'assicurazione responsabilità civile però la legge che impone di assicurare il veicolo
ha una funzione assolutamente diversa da quella di evitare che si verifichino lesioni o morte serve
per risarcire, per ricoprire la responsabilità civile in caso di incidente, ma non serve per impedire che
si verifichi l'incidente, per impedire che si verifichi l'incidente bisogna guidare rispettando il codice,
stare attenti ecc. Quindi le regole giuridiche la cui violazione fonda la colpa non sono tutte le regole
genericamente disposte per una certa attività ma solo quelle che hanno anch'esse una funzione
cautelare.

Andiamo alle REGOLE SOCIALI che sono tre, sono regole di DILIGENZA, PRUDENZA e PERIZIA.
Naturalmente i comportamenti che violano queste regole sono rispettivamente NEGLIGENTI,
IMPRUDENTI, IMPERITI. Infatti, la legge, l'art.43 dice <<ha causato il fatto per negligenza,
imprudenza, imperizia.

338
Cominciamo col dire, (ci ho messo una parentesi quadrata) secondo la giurisprudenza da un punto di
vista processuale sono equivalenti cioè la contestazione dell'una equivale all'altra cioè si può dire cioè
sono e sostituibili l'una con l'altra, mentre nel caso di regolamenti disciplina occorre una nuova e
puntuale contestazione nel processo perché nel processo. Vediamole: DILIGENZA consiste nel tenere
un comportamento, adottare tutte quelle misure che l'esperienza insegna essere necessarie per
evitare danni.

È difficile fare esempi che siano esattamente dell'una e non dell'altra. Svolgo un'attività di costruzione
pericolosa e devo recintare lo spazio in modo che non possa andarci nessuno, devo adottare questa
cautela in modo che nessuno possa andare a finire lì dove sto svolgendo attività pericolosa. La
PRUDENZA invece impone di non agire se l'esperienza dimostra che un certo tipo di comportamento
può provocare danni socialmente rilevanti <<non mettere una cosa in bilico sul balcone che potrebbe
cadere provocando danni agli altri.

Come vedete c'è una strettissima parentela tra le cose perché la cosa potrebbe essere vista sia sotto
il profilo della diligenza, sia sotto il profilo della prudenza. Invece diversa è la PERIZIA e problemi
assolutamente diversi pone ed ha posto nella pratica e nella teoria perché la perizia impone di
rispettare le regole che sono dettate per l'esercizio di una professione, di un mestiere o di un'arte e
quindi l'IMPERIZIA consiste una professione, un mestiere, un'arte senza il rispetto delle regole che
disciplinano quel tipo di attività specifico. più particolare della diligenza e prudenza perché diligenza
e prudenza si riferiscono a qualunque attività umana, indistintamente, mentre la perizia si riferisce
solo a professioni, mestieri o arti. Un lavoro fatto a regola d'arte.

Per la perizia sono posti e si continua a porre problemi molto seri in particolare alla responsabilità dei
medici o in generale del personale sanitario il quale non abbia rispettato nell'esercizio dell'attività
medica o in quelle attività affini -infermiere, ausiliario, ecc-non abbiano rispettato le regole dettate
dalla medicina, quando dal mancato rispetto di queste regole sia derivato una conseguenza dannosa,
morte del paziente o anche lesioni, diminuzione della salute.

In questo caso, sin dagli anni 50 la dottrina italiana e la giurisprudenza al seguito, avevano ritenuto
doveroso utilizzare una limitazione della responsabilità, introdurre una limitazione di responsabilità
utilizzando la regola dettata dallìart.2236 c.c., il quale è dettato relativo al contratto di prestazione di
opera e stabilisce che quando la prestazione richieda la risoluzione di problemi tecnici di particolare
difficoltà, non si risponde che per colpa grave.

2236) RESPONSABILITA' PRESTATORE D'OPERA: implica la soluzione di problemi tecnici di speciale


difficoltà il prestatore d’opera non risponde dei danni se non in caso di dolo o di colpa grave. Quindi
la responsabilità civile è limitata grazie al caso della colpa grave. Questa norma è una NORMA
ECCENTRICA per il diritto penale perché nel diritto penale il grado della colpa non ha praticamente
mai la funzione di escludere o affermare la responsabilità ma soltanto quello di graduare la misura
della pena ai sensi dell'art.133 del codice.

Quando il giudice stabilisce la entità della pena da infliggere deve tenere conto nell'esercizio del
potere discrezionale nella misura di commisurazione tra il minimo e il massimo il giudice deve tenere
conto della gravità del reato, desunta -numero3-dall'intensità del dolo o dal grado della colpa.

339
Quindi il grado della colpa ha un ruolo importante ma soltanto per graduare la pena, non per stabilire
se uno risponde penalmente o non risponde penalmente. Ci son per la verità alcuni rarissimi casi,
nella legislazione penale, in cui invece è espressamente richiesta una colpa grave per l'esistenza della
colpa e quindi per la responsabilità e questi si possono individuare nell'art. 217 della legge
fallimentare che ai numeri 3 e 4 richiede una grave colpa: ( n.4 è fallimento o con altra grave colpa,
quindi diritto di bancarotta semplice che sostanzialmente in questo caso è colposo è punibile solo in
presenza di colpa grave e lo stesso l'art,64 c.p.c. stabilisce che la responsabilità del perito soltanto in
caso di colpa grave. Esi può anche comprendere, sono 2 ambiti in cui è abbastanza facile commettere
errori, il perito che valuta la situazione non agisce esattamente con la più assoluta cautela, attenzione
ecc., oppure l'imprenditore che ha gestito le sue cose con qualche superficialità dando luogo a
bancarotta. Insomma, in questi soli casi la legge penale richiede una colpa grave, in tutti gli altri casi
non si fa distinzione tra colpa lieve e colpa grave.

Ora però per quel che riguarda la COLPA PER IMPERIZIA, la dottrina imperativistica, questo ve l’ho già
detto Crespi, in particolare, Alberto Crespi un grande penalista italiano, sosteneva che bisognasse
applicare anche alla responsabilità penale questo articolo, il 1886 del codice il quale ovviamente è
dettato a tutt'altro fine perché regola la responsabilità civile, si parla di responsabilità civile per danni,
contrattuale per altro perché nell'ambito del contratto per prestazione d'opera. La responsabilità per
danni è limitata alla sola colpa grave quando l'attività che si deve svolgere problemi tecnici di speciale
difficoltà.

Io penso sempre, come esempio, al raddrizzamento della concordia, la nave è affondata nell’isola di
giglio da parte di Schettino. Per un anno intero squadre di tecnici, del più alto livello al mondo, hanno
lavorato per compiere un'operazione di raddrizzamento di questa nave enorme, piena d'acqua che
doveva essere riportata dritta e in condizioni tali da galleggiare.

Problemi tecnici di speciale difficoltà, allora diceva Crespi, è di buon senso ed è giuridicamente
fondato, ed ora vedremo perché, anche rispetto alla responsabilità penale utilizzare lo stesso
parametro cioè quando sono da risolvere problemi di speciale difficoltà, limitare la responsabilità
solo se chi agito lo ha fatto con colpa grave e questo discorso era riferito in modo particolare appunto
alla responsabilità del medico. il medico si trova frequentemente di fronte a casi difficilissimi o perché
non studiati prima, o perché le condizioni del paziente sono gravissime e complicate, ci possono
essere casi molto difficili da affrontare e da curare e da risolvere. Allora diceva Crespi: dobbiamo
ricorrere a 1 principio che è quello dell'unitarietà dell'Ordinamento Giuridico, che è coerente con sé
stesso e quindi non può entrare in contraddizione.

Se il legislatore ritiene di escludere la lieve responsabilità civile a maggior ragione per logica bisogna
escludere la ben più grave responsabilità penale, non avrebbe senso andare esenti dalla
responsabilità civile, patrimoniale ed incorrere nella ben più grave responsabilità penale,
l'Ordinamento Giuridico entrerebbe in contraddizione con sé stesso se non mi punisci per il meno
non puoi punirmi più severamente ancora.

340
Questo corrisponde alla funzione, alla natura, di cui abbiamo parlato nel 1^ semestre del diritto
penale come estrema ratio, cioè dal momento che la sanzione penale incide sui beni fondamentali
della persona -la libertà, la possibilità di - il legislatore è legittimato a ricorrere a sanzioni penali solo
quando questo sia indispensabile, sia necessario e quindi le norme penali, le fattispecie penali, le
sanzioni penali sono l'estrema ratio a cui ricorrere quando non sia possibile regolamentare con più
lievi sanzioni un certo fatto. Allora se riteniamo che non sia nemmeno il caso di prevedere
responsabilità civile è contraddittorio responsabilità penale che non sarebbe in linea con questa
natura del diritto penale come estrema ratio. Questo orientamento è stato confermato dalla Corte
costituzionale, la quale nella sentenza 166 del 1973 aveva ritenuto che ci volesse in base al principio
dell' unitarietà dell'Ordinamento giuridico ci volesse una colpa grave invocando l'art.2236 nel caso
particolare di esercizio della professione sanitaria per la speciale difficoltà di questa cosa in alcuni
casi.

Senonché la Giurisprudenza pian piano si era andata discostando da questo orientamento perché in
un primo momento aveva ribadito una cosa che in effetti si poteva ritenere logicamente compresa in
questo discorso e cioè che questa responsabilità della colpa grave valesse esclusivamente per la
perizia o imperizia, non per la diligenza e la prudenza, cioè diligenza e la prudenza devono essere
quelle normali, massime come per tutti gli altri casi, il medico non è esonerato da responsabilità se
non adotta le cautele della diligenza e prudenza, per esempio se intraprende un'operazione
chirurgica ci vuole la diligenza di stabilire che, il responsabile della sala operatoria, dell'equipe, colui
che opera deve stabilire che sia tutto a posto, la sala, i ferri, i medicinali, ecc, questo non richiede una
speciale perizia, è una diligenza nello svolgimento dell'attività.

Per diligenza e perizia si disse valgono le regole normali, quindi anche una leggera imprudenza,
negligenza può fondare la responsabilità penale. Per l'imperizia venne ribadito deve trattarsi di casi
per risolvere i quali bisogna superare problemi di speciale difficoltà fino a che negli anni 80, nell'87
esattamente, con la sentenza MONDONICO si ribaltò addirittura il criterio e si disse:

<<no, nel diritto penale non vale la regola dettata dall'art.2236 c.c., quella regola vale per la
responsabilità civile, risarcimento danni, ma non vale per il diritto penale perché nel diritto penale è
sufficiente una colpa anche lieve, una semplice colpa, non ci sono speciali regole e l'argomento che
la Cassazione addusse fu quello che la norma, l'art.2236 è una norma di carattere eccezionale che
quindi non poteva essere applicata al di fuori dei casi e dei tempi in essa previsti, quindi al di fuori
della responsabilità civile. Ritenne che non si trattasse di un principio generalissimo di tutto
l'Ordinamento Giuridico ma soltanto di una norma speciale , eccezionale relativa alla responsabilità
civile, non asportabile al di fuori del diritto civile e quindi non valida per il diritto penale.

341
30/04/2019
REGOLE CAUTELARI SOCIALI: definiscono la colpa generica, distinta dalla colpa specifica.
Problemi particolarmente complessi si pongono in relazione alla perizia, con specifico riguardo
all’ambito delle professioni sanitarie, che nella prassi giudiziaria, storicamente, è soprattutto in
questo campo che si sono posti problemi, perché nell’ambito medico data la particolarità
dell’attività che ha che fare con la cura di persone, esseri umani, per i quali è difficile dare delle
informazioni standardizzate, dato che ogni organismo è costituito in modo leggermente diverso
dagli altri: l’attività va sempre calibrata in relazione alle particolarità di ciascun individuo. D’altra
parte, la particolare situazione dell’attività medica non consente per esempio prove o
sperimentazioni che per esempio si potrebbero fare su un manufatto o una costruzione, o ancora
perché spesso ci si trova in situazioni di urgenze.

L’evoluzione della risposta, soprattutto da parte della giurisprudenza, è andata nella direzione di
una sempre maggiore responsabilità dei medici (e più in generale, degli operatori in ambito
sanitario), perché se in origine la dottrina Crespi aveva previsto che si dovesse applicare anche per
l’ambito penale il criterio dettato dall’art. 2236 c.c. per il quale quando si tratta di prestazioni di
opera si risponde soltanto per colpa grave se ci si trovi di fronte a situazioni di difficile soluzione,
quel criterio di fare così anche in ambito penale era stato pian piano abbandonato. In un primo
tempo la Corte Costituzionale l’aveva confermato però soltanto per la perizia e non anche per la
diligenza e la prudenza; poi, la giurisprudenza aveva sottolineato che ci volessero speciali difficoltà;
fino ad arrivare all’idea che non si dovesse affatto far riferimento al criterio dettato dall’art. 2236
c.c. perché quella norma è una norma a carattere eccezionale (limita la normale responsabilità
contrattuale del prestatore d’opera) e come tale non può essere applicata per analogia (regola la
responsabilità civile e per analogia non si può estendere a quella penale).

L’ultimo di questi passaggi nel 2007: una decisione della Corte di Cassazione è quello per il quale
questo criterio non vale come norma giuridica cogente, ma soltanto come regola di esperienza per
il giudice, nel senso che nel caso in cui il giudice si trovi davanti a un caso particolarmente difficile,
dovrà stare attento e valutare con riguardo l’attività del medico, ma non applicando rigorosamente
l’art. 2236 c.c.

Per la causalità nella omissione, molte volte la giurisprudenza si è accontentata di un grado di


probabilità di evitare l’evento molto basso, cioè adattandolo al caso di fattispecie quando il medico
non fa una certa cosa (non ha prescritto farmaco, esame diagnostico…) e c’erano delle probabilità
che se avesse fatto quella certa cosa l’evento (morte, lesioni…) non si sarebbe verificato. Nel
valutare quale probabilità la giurisprudenza aveva erroneamente aveva stabilito anche un grado di
probabilità molto basso, senza considerare che trattandosi di responsabilità omissiva non è il
medico a cagionare l’evento, e quindi per affermare la responsabilità per omissione bisogna che il
grado di probabilità di riuscire ad evitare l’evento intervenendo sia invece molto alto.

342
Di fatto, combinando gli elementi analizzati, si è determinato quel fenomeno della c.d. medicina
difensiva, che caratterizza da alcuni decenni la nostra sanità. il personale sanitario è preoccupato di
andare incontro a responsabilità penale grave per la loro attività e adotta delle misure che mirano
piuttosto a difendere sé stessi dalla eventuale responsabilità penale o civile, oltre che (se non più) a
curare il paziente: per esempio prescrivendo una serie di esami non indispensabili, perché non si
possa dire che non hanno fatto quel tipo di accertamento; astenendosi dal praticare delle terapie
che potrebbero avere un certo rischio. Questo porta aggravi per il sistema sanitario nazionale, con
un sovraccarico a scarico dell’efficienza complessiva del sistema stesso.

Allora il legislatore è intervenuto con il c.d. Decreto Balduzzi, D.L. 158/2012 (successivamente
modificato e poi abrogato), il quale all’art. 3 ha stabilito <<l’esercente la professione sanitaria che
nello svolgimento della propria attività si attiene a linee guida e buone pratiche accreditate dalla
comunità scientifica non risponde penalmente per colpa lieve, in tali casi resta comunque fermo
l’obbligo di cui all’art. 2043 del cod. civ.>>. Il criterio era che se l’esercente professioni sanitarie
avesse seguito le linee guida e le buone pratiche non avrebbe dovuto rispondere penalmente per
colpa lieve. Questa disciplina aveva suscitato moltissimi problemi:

- Innanzitutto, si era lamentato un difetto di determinatezza, cioè di precisione della


fattispecie: quali linee guida? Ne esistono di diverse specie, tra cui potrebbero anche
esistere dei contrasti.

- Ci si è chiesti: se il medico segue linee guida e buone pratiche non risponde se non per colpa
grave, ma come può essere in grave colpa un medico che ha seguito le linee guida? Qui la
dottrina ha inventato l’espressione “in culpa sine culpa”: ci può essere grave colpa del
medico anche se questi ha fatto esattamente quello che doveva fare secondo le linee guida.
La soluzione data dalla dottrina, e anche dalla giurisprudenza nell’importante sent. Cantore,
era che ci può essere colpa, anche grave, nel caso in cui il medico non si sia scostato dalle
linee guida quando le particolarità del caso specifico lo richiedessero.

Dopo alcuni anni, si è visto che il decreto Balduzzi non produceva alcun effetto positivo, nonostante
fosse mirato a lasciare un po’ più di serenità ai medici, i quali non avrebbero risposto penalmente
per colpa lieve, nonostante questo non ottenne il risultato sperato. È sopravvenuta un’ulteriore
riforma con la legge c.d. Gelli-Bianco (L. 224, marzo 2017) la quale ha addirittura introdotto nel
Codice penale una norma speciale, per la responsabilità medica, l’art. 590-sexies. La rubrica recita:
“Responsabilità colposa per morte o lesioni personali in ambito sanitario”, abrogando l’art. 3 del
Decreto Balduzzi.

343
Art. 590-sexies. Se i fatti di cui agli articoli 589 e 590 sono commessi nell’esercizio
della professione sanitaria, si applicano le pene ivi previste salvo quanto disposto
dal secondo comma.
Qualora l’evento si sia verificato a causa di imperizia, la punibilità è esclusa quando
sono rispettate le raccomandazioni previste dalle linee guida come definite e
pubblicate ai sensi di legge ovvero, in mancanza di queste, le buone pratiche clinico-
assistenziali, sempre che le raccomandazioni previste dalle già menzionate linee
guida risultino adeguate alle specificità del caso concreto.

È detto chiaramente che questa speciale disciplina si riferisce esclusivamente all’imperizia, e non
anche alla diligenza e alla prudenza (che devono essere normali).
Per i casi di esclusione della punibilità è superata la distinzione tra colpa lieve e colpa grave: non c’è
più il riferimento. La dottrina ha affermato che in un certo senso questo è stato una sorta di passo
indietro dal punto di vista della severità: prima quando la colpa era lieve il medico non rispondeva,
adesso, non essendoci più differenza, la colpa lieve è di nuovo sufficiente per affermare la
responsabilità del medico.

La legge Gelli-Bianco ha previsto all’art. 5 “buone pratiche clinico-assistenziali e raccomandazioni


previste da linee guida”: è previsto un meccanismo di pubblicazione, con un osservatorio nazionale
delle buone pratiche e una sorta di elenco delle linee guida in questione, a cura del Ministero della
Sanità: è superato il problema della indeterminatezza della fattispecie, le linee guida sono state
ufficializzate. In mancanza di linee guida si devono seguire le buone pratiche clinico-assistenziali,
anche queste come definite dal Ministero.

L’ultimo inciso del secondo comma di questo articolo si stabilisce che le linee guida devono risultare
adeguate alla specificità del caso concreto. Questo lo stabilisce il giudice penale: è suo compito
stabilire se il medico abbia fatto bene a seguire le linee guida oppure, nel caso particolare, avrebbe
dovuto adottare altre pratiche perché le linee guida ufficiali non erano adeguate a risolvere il caso.
Cosicché, in ultima istanza, si torna indietro alla valutazione che alle linee guida si vorrebbe dare
uno status di standard, ma in realtà con questo ultimo inciso molte volte potrà essere di nuovo
chiamata in causa la valutazione del giudice, e quindi la insufficienza delle linee guida per stabilire la
responsabilità del medico.

La Cassazione in una sentenza, in riferimento alla nuova disciplina, ha stabilito che il medico
risponda innanzitutto anche per colpa lieve per negligenza o imprudenza (questo era pacifico, in
quanto espressamente previsto), può rispondere per colpa lieve per imperizia se non ci sono linee
guida (quindi quando il caso sia lasciato alla sua professionalità), così come se sceglie delle linee
guida inadeguate; mentre, quando si tratta della mera esecuzione (cioè della messa in atto) delle
linee guida, quindi non l’aspetto diagnostico-teorico, ritorna il criterio del prudente apprezzamento
del giudice per cui si risponde solo per colpa grave.

344
Conclusivamente, si può dire che nonostante tutti gli sforzi del legislatore non è migliorato di molto
il sistema: ci sono casi in cui il medico può essere chiamato a rispondere anche per colpa lieve ai
sensi dell’art. 590-sexies, o comunque degli artt. 589-590.

La colpa può derivare dalla violazione di leggi, regolamenti, ordini o discipline ai sensi dell’art. 43
c.p.
In generale, deve trattarsi non di leggi qualsiasi, ma sempre aventi una finalità cautelare, volte ad
evitare il verificarsi di danni a beni socialmente rilevanti.

Es. assicurazione per la responsabilità civile: non ha importanza che la macchina sia o no assicurata
quando si tratta di stabilire perché si sia verificato un incidente, quello è un problema che riguarda
il risarcimento dei danni, ma niente a che vedere con la causalità dell’evento.
Il primo problema che si pone: tra le leggi aventi finalità cautelare, ci sono anche le leggi penali,
oltre quelle speciali sulla sicurezza? Dalla violazione di una legge penale può dipendere la
responsabilità per colpa?

Es. Tizio incendia un magazzino dove ci sono macchinari per minacciare qualcuno, danneggiando
dolosamente qualcosa: da questo fatto deriva un incendio in cui riportano delle lesioni persone che
si trovano nel luogo dove il fatto avviene.

Altro esempio classico: uno spacciatore spaccia sostanze stupefacenti, l’acquirente assume le
sostanze che gli sono state vendute e muore per overdose, oppure per sostanze dannose.
Dalla violazione della legge penale che punisce lo spaccio, o da quella riguardante il
danneggiamento può derivare la responsabilità per morte o lesioni?

Sul punto c’è stato un contrasto di opinioni, perché sin dalla metà del ‘900 Leone (un processuale-
penalista che poi fu anche presidente della Repubblica) ritenne che sì la violazione delle leggi penali
potesse fondare la colpa per violazione di leggi. Gli rispose De Marsico, e oggi la dottrina prevalente
è attestata su questa seconda posizione, che le leggi penali non hanno in generale la funzione di
evitare ulteriori danni possibili a beni socialmente rilevanti, ma soltanto quella di tutelare
specificamente il bene giuridico che esse intendono proteggere caso per caso.

Quindi per esempio le disposizioni in tema di spaccio di stupefacenti non servono per impedire la
morte del tossicodipendente che intendesse assumerle, ma per controllare la circolazione degli
stupefacenti. Questo criterio può non valere quando singole specifiche disposizioni penali abbiano
esse stesse una natura cautelare, per esempio l’art. 451 c.p., il quale è disposizione penale a
carattere cautelare.
Art. 451. Omissione colposa di cautele o difese contro disastri o infortuni sul
lavoro Chiunque, per colpa, omette di collocare, ovvero rimuove o rende inservibili
apparecchi o altri mezzi destinati alla estinzione di un incendio o al salvataggio o
al soccorso contro disastri o infortuni sul lavoro, è punito con la reclusione fino a
un anno o con la multa da centotre euro a cinquecentosedici euro.

345
È chiaro che una disposizione penale del genere, serve a rafforzare anche penalmente una serie di
disposizioni che di per sé sono norme cautelari, perché infortuni sul lavoro, incendi… sono regole di
legge che vogliono evitare questo tipo di incidente, e quindi la disposizione fonda una
responsabilità penale.

Invece la violazione di altre regole non può essere considerata in generale, e salvo l’esistenza di
specifiche norme particolari (art. 586 c.p., come si vedrà più avanti), come fondante della
responsabilità penale per qualsiasi tipo di evento che si possa verificare, tranne che non si tratti di
norme penali aventi finalità cautelare.

Per esempio, prima si affermava la responsabilità dello spacciatore per la morte del
tossicodipendente, oggi la giurisprudenza ritiene che perché lo spacciatore possa rispondere debba
essere in colpa riguardo alla possibilità che si verifichi la morte: per esempio, abbia tagliato male la
sostanza stupefacente con altri componenti che sono palesemente nocive per la salute. È lo stesso
tossicodipendente ad assumere la sostanza, per questo in linea generale lo spacciatore non
risponde, in quanto l’atto di assumere la sostanza non è vietato dalla legge penale, e quindi è
penalmente irrilevante.

Abbiamo parlato della legge. I regolamenti sono dei provvedimenti generali di origine ministeriale o
governativi, disciplinati dalla L. 300/1988. È stato stabilito che se anche il regolamento è emanato
illegittimamente, comunque vincola: va rispettato per esigenze di certezza giuridica e la violazione
del regolamento può fondare la colpa.

Gli ordini sono dei provvedimenti individuali, specifici (rivolti ad una situazione specifica) da parte di
un’autorità che può essere pubblica o anche privata. Anche rispetto a questi, la giurisprudenza ha
stabilito, soprattutto riguardo alla circolazione stradale, che un ordine illegittimo sia vincolante, nel
caso specifico di cartelli stradali posti illegittimamente o irregolarmente. Se il cartello viene
posizionato in un luogo sbagliato, la Cassazione ha stabilito che quando il cartello sia stato posto (a
prescindere dal modo in cui è stato fatto) va rispettato.
Infine, le discipline sono delle regole generali volte a organizzare attività private (es. il regolamento
di un’azienda che stabilisca mansioni, competenze, orari ecc.).

Individuate le regole cautelari, bisogna chiedersi: il rispetto delle regole esclude necessariamente la
colpa? E la violazione della regola comporta necessariamente la colpa?
- Prima domanda. Bisogna distinguere tra regole specifiche (aventi un contenuto
particolareggiato) e generiche di prudenza, diligenza ecc. In linea di massima, si dovrebbe
dire che le regole generiche sono elastiche, quindi vanno rispettate con la maggiore
ampiezza possibile, ovvero, è necessario adottare tutti gli accorgimenti che sono possibili
per evitare un certo danno. Invece, le regole specifiche di per sé dovrebbero escludere la
colpa. Per esempio: le regole relative all’impianto elettrico su come vada costruito, se
l’impianto fosse costruito nel rispetto di queste regole non dovrebbero residuare spazi per la
colpa se succedesse un incidente.

346
Però bisogna tenere conto che spesso in queste normative esistono delle clausole generali di
chiusura, che oltre alle regole specifiche, impongono comunque di adottare ogni altra
ulteriore cautela necessaria per evitare danni (es. nel CdS, il legislatore dopo avere indicato
le varie regole di circolazione e di guida, detta una norma di chiusura generale, in cui dice
che il guidatore deve in ogni caso adattare la guida del veicolo alle situazioni particolari; poi
per il datore di lavoro l’art. 2087 c.c. costituisce una norma di chiusura simile rispetto ai
danni possibili per i lavoratori, per cui l’imprenditore è tenuto ad adottare, nell’esercizio
dell’impresa, le misure che secondo le particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica sono
necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro).
- Seconda domanda. In linea di massima la giurisprudenza risponde positivamente. Tuttavia,
ci sono considerazioni da fare: La stessa giurisprudenza ha delle aperture di flessibilità per
quelle che vengono definite “manovre di emergenza”, soprattutto in relazione alla
circolazione stradale o come visto per le violazione delle linee guida quando richiesto dal
caso concreto (il guidatore è costretto ad effettuare una manovra di emergenza violando le
regole sulla circolazione) in questo caso, data la situazione di necessità sarà esente da colpa
perché non c’era possibilità di rispettare la regola (come visto a proposito del
comportamento alternativo lecito).

CONTENUTO DELLE REGOLE CAUTELARI: innanzitutto impongo di agire con la massima attenzione
per evitare genericamente danni a beni socialmente rilevanti.
C’è un obbligo di astenersi dall’intraprendere un’attività quando non si è sicuri di poterla portare a
termine senza provocare danni: vale in generale, tanto che si può configurare una c.d. colpa per
assunzione se si intraprende un’attività che non è in grado di fare senza rischi per beni socialmente
rilevanti.

Altro obbligo è quello di informarsi: bisogna conoscere le particolarità del caso, le situazioni in cui si
opera, le specifiche condizioni di alcuni soggetti, luoghi, cose… questi obblighi sono particolarmente
ampi nel caso di soggetti che svolgano attività particolari: per es. il datore di lavoro, l’imprenditore,
il professionista che non possono semplicemente avere un grado di informazione di un soggetto
qualsiasi, ma ulteriori e specifiche conoscenze relative alla loro attività e informarsi con diligenza.
Nel caso che ci si rivolga ad altri bisogna informare i collaboratori di tutto ciò che è necessario
sapere per evitare danni: il datore di lavoro nell’affidare incarichi ai suoi dipendenti deve portarli a
conoscenza di tutto quello che può essere necessario sapere in ordine ai loro compiti.

Infine, sempre nel caso della cooperazione di terzi, un obbligo di scegliere dei collaboratori in modo
attento, altrimenti si può incorrere in una c.d. culpa in eligendo, una colpa per avere scelto una
persona non adatta a svolgere quel tipo di attività. Questo vale in particolare nel caso dell’equipe
medica: un intervento chirurgico deve essere necessariamente avvenire con un’equipe, un gruppo
di persone con un capo equipe che deve ripartire adeguatamente i ruoli e sorvegliare per evitare i
danni.

347
LO STANDARD DELLA DILIGENZA: L’AGENTE MODELLO. La dottrina è divisa sul punto: secondo
alcuni innanzitutto il giudice dovrebbe ricostruire una specie di modello oggettivo di standard
(standard assoluto, secondo le migliori possibili conoscenze e attenzioni) e però poi adeguarla, in un
secondo momento, alla condizione particolare del soggetto che concretamente agisce.

La posizione prevalente è quella per cui però bisogna fare un’unica valutazione, che fa riferimento
alla figura che è quella della homo eiusdem condicionis ac professionis: il c.d. agente modello.
L’agente modello è una figura ideale (non concreto) ricavata dall’esperienza del soggetto che è
attento nello svolgere le attività in quella situazione particolare o un’attività professionale che è il
modello al quale tutti si dovrebbero adattare. Un modello di persona attenta, prudente e diligente
che rispetta tutte le regole per evitare i danni. L’agente modello varia a seconda delle varie attività:
mamma modello che sorveglia con attenzione i figli, la maestra modello che sorveglia con
attenzione gli scolari, il guidatore che rispetta le regole di circolazione stradale…

Lo standard cui bisogna uniformarsi per non essere in colpa è quello della figura dell’agente
modello. Questa figura a sua volta potrebbe essere diversificata in alcuni ambiti a seconda del
grado di specializzazione e competenza: per esempio, c’è il medico di base al quale si possono
richiedere certe conoscenze ed abilità, c’è lo specialista che è una figura di agente modello
differente che deve avere delle conoscenze ulteriori nel suo ambito rispetto al medico di base e ci
potrebbe essere il primario di un reparto universitario che dovrebbe avere ancora ulteriori
differenze. Quindi la figura dell’agente modello non è unitaria.

Se un soggetto particolare ha delle conoscenze ulteriori che l’uomo medio (cioè l’agente modello)
non avrebbe nel valutare la colpa si deve tenere conto di queste conoscenze ulteriori? La risposta è
positiva. Generalmente, invece, si ritiene che non si possa fare carico a qualcuno di non avere
utilizzato delle particolari e speciali abilità esecutive che avesse e che superino quelle dell’agente
modello.

Altra questione: esiste una doppia misura della colpa che tenga conto di particolari debolezze del
soggetto agente? Qui ci sono distinte opinioni: Pagliaro ritiene di no, e cioè che il grado della
diligenza sia quello dell’agente modello e che eventuali difetti possano eventualmente incidere
sull’imputabilità (cioè la capacità di intendere e di volere del soggetto) escludendola e
diminuendola (quindi se uno è psichicamente con dei difetti o anche disabile materialmente questo
atterrebbe alla capacità di intendere e di volere e non alla colpa in senso stretto); altri, invece,
ritengono che ci sia una doppia misura della colpa per cui bisognerebbe innanzitutto formulare
questo standard di diligenza e però anche fare un’ulteriore valutazione che tenga conto dei possibili
difetti intellettuali o anche di comportamento (es. particolare stanchezza, condizione di
debilitazione) e quindi le capacità di compiere quella determinata attività.

348
CASO FORTUITO: si è visto che è estremamente varia la collocazione del caso fortuito e l’effetto che
determina. Secondo alcuni esclude il nesso causale e quindi non si sarebbe in tema di colpa;
secondo altri escluderebbe la colpevolezza, e cioè la rimproverabilità del soggetto; e secondo
Pagliaro escluderebbe il requisito essenziale della colpa dato dalla prevedibilità dell’evento, perché
se è vero che le regole cautelari servono a prevedere possibili danni per evitarli, quando ci si trovi di
fronte ad un fatto imprevedibile manca il requisito strutturale posto dalle regole cautelari, che
comportano che non si risponda per fatti per i quali il rispetto delle regole non sia stato sufficiente
perché il fatto si è verificato essendo imprevedibile o inevitabile. Quindi secondo l’impostazione di
Pagliaro, il caso fortuito, così come la forza maggiore, atterrebbero a questo requisito strutturale
della colpa che richiede la violazione di una regola di diligenza, prudenza o perizia.

349
06-05-2019
IL RISCHIO CONSENTITO

In tutte le attività umane, e in alcune di queste in particolare -traporti, costruzioni, ecc.…-

c'è un certo livello di pericolo che non può essere del tutto eliminato. Si potrebbe ridurre o quasi
azzerare il rischio, ma per farlo si dovrebbe modificare in modo insopportabile le attività umane (es:
far viaggiare i treni a 10 km/h) -> una parte del rischio è collegata a queste attività.

Rischio consentito significa che l'ordinamento giuridico, così come la società, avendo interesse allo
svolgimento di certe attività e non potendo eliminare i rischi collegati a queste, stabilisce un limite
di rischio al di sotto del quale l'attività è consentita e al di sopra del quale non lo è. Un esempio
sono i limiti di velocità delle auto.

Se si verifica un fatto entro quella soglia di rischio consentito stabilita, non si può chiamare a
rispondere chi sta svolgendo quella attività, perché l'attività in questione seppur pericolosa è
permessa dall'ordinamento: non ci può essere colpa.

Se l'attività supera quella soglia ci sarà invece una colpa.

Il fatto che la colpa sia caratterizzata dal superamento del rischio consentito è importante perché ci
permette di distinguere la responsabilità per colpa dalla responsabilità oggettiva (in cui non esiste
un simile rischio consentito: tutto il rischio creato è per l'ordinamento inaccettabile).

Secondo alcuni questo limite sarebbe esterno alla struttura dei reati e lì dove ci siano attività
pericolose sarebbe meglio individuare regole specifiche di comportamento attraverso dei
provvedimenti amministrativi particolari o generali, rispettando le quali colui che mette in pratica
l'attività sarebbe esente da colpa. La prevalente dottrina preferisce invece ricorrere al concetto di
rischio consentito, che rappresenta il punto di bilanciamento tra l'interesse sociale allo svolgimento
di certe attività e l'interesse dell'ordinamento giuridico a che non si verifichino danni a beni
giuridicamente tutelati.

Pagliaro (costruzione): Egli parla di un elemento interno e di un elemento esterno nel delitto
colposo. "Interno" o "esterno" sono riferiti alla condotta illecita (ovvero della realizzazione della
volontà del soggetto), non allo stato psicologico.

Esempio: Un soggetto è chiamato a rispondere penalmente per lesioni causate da un incidente


stradale. L'evento è colposo, per cui le lesioni sono colpose. Per definizione l'evento non è voluto, e
non essendo la realizzazione della volontà del soggetto, non rientra nella condotta illecita, però è
collegato alla condotta illecita dal nesso causale.

Ma si può avere anche un elemento interno, ovvero la realizzazione di una volontà che dipende
dalla sua azione o omissione, la quale causa un risultato, un evento (che è quindi voluto ed è
interno alla condotta) che a sua volta causa un elemento esterno alla condotta e quindi non voluto.

350
Esempio: Tizio accelera e supera il limite di velocità in città (primo risultato voluto interno alla
condotta illecita: aumento di velocità), c'è poi un altro nesso causale: l'investimento di qualcuno,
che avrà delle lesioni di cui Tizio sarà chiamato a rispondere.

Quindi interno ed esterno non si riferiscono al soggetto, ma alla condotta illecita.

Perché un soggetto sia chiamato a rispondere è necessario che l'evento del delitto colposo sia la
concretizzazione di quel rischio che le regole cautelari volevano evitare, che non sia cioè un altro
fatto che non abbia relazione con le regole cautelari violate, anche se la giurisprudenza questo non
lo riconosce facilmente.

Fatto del terzo

Ovvero responsabilità per colpa quando si verifichi un evento determinato anche dal
comportamento di un terzo soggetto.

Questa situazione deve intanto verificarsi al di fuori del concorso di persone nel reato, infatti in
questo caso ci sono delle regole particolari. Il concorso è qualificato all'art. 113 c.p. con il nome di
"cooperazione nel delitto colposo" infatti si pensava che il concorso fosse possibile solo nel delitto
doloso, in quanto era necessario un accordo, che invece è impossibile nel caso in cui il delitto sia
colposo. Di fatto però la sostanza è la stessa.

Es: Due ragazzi in una strada fanno una gara illegale di moto. Entrambi vogliono correre, vincere,
ma non vogliono investire qualcuno. Nel caso in cui investano qualcuno c'è una cooperazione nel
delitto colposo, anche se sia solo uno di loro a investire quella persona.

Il fatto del terzo comunque non riguarda questa ipotesi. Infatti, riguarda il caso in cui un reato si
verifichi indipendentemente dalla volontà comune dei due soggetti. Questo è il caso in cui un
soggetto faccia qualcosa, senza essere d'accordo con l'altro, il quale però a sua volta interviene
collegandosi a quello che è stato fatto dal primo e realizzi un certo evento dannoso.

Es: Carabiniere che lascia la pistola nel cassetto, che viene presa dalla moglie per commettere un
reato (la moglie è il terzo).

Bisogna distinguere fra colpa generica -fatto colposo risultato di negligenza, imprudenza, imperizia-
e colpa specifica -inosservanza di una regola cautelare-.

Nel caso della colpa specifica è necessario che la regola violata sia dettata per prevenire eventi del
tipo di quelli che si sono verificati, ovvero che le regole fossero dettate proprio per evitare
comportamenti del tipo poi messo in atto dal terzo.

Es: La scorta di un soggetto sorvegliato si allontana per fumare, e questi viene aggredito: l'evento è
proprio quello che un'attenta vigilanza avrebbe dovuto impedire. Immaginando invece che la scorta
si sia allontanato e il soggetto sorvegliato è coinvolto in un incendio. La guardia di scorta non sarà
chiamata a rispondere delle lesioni in conseguenza dell'incendio.

Per la colpa generica invece vale il principio di affidamento. Nei reati colposi infatti -e solo in questi-
si può confidare che gli altri, i terzi, si comportino rispettando le leggi e le regole cautelari.

351
Il principio di affidamento ha dei limiti propri e interni ad esso:

-La persona su cui si fa affidamento deve essere una persona normale, adulta e sana di mente.
Esempio: psichiatra che diminuì i farmaci e il controllo ospedaliero ad un soggetto, che poi uccise un
altro paziente. -> Medico responsabile per colpa.

Altro esempio è quello delle equipe mediche. Intanto tutti possono confidare che ognuno stia
svolgendo adeguatamente il suo compito. Il capo equipe ha una serie di doveri di informazione a gli
altri e genericamente sorvegliare l'andamento dell'operazione. Entro questi limiti ognuno dovrebbe
rispondere per le sole azioni personali anche se la giurisprudenza è molto severa per il capo equipe
configurando quasi una responsabilità di posizione. In questo caso anche il terzo risponde per colpa.

Il terzo però potrebbe anche essere in dolo (e in questo caso sarebbe necessario che il primo
avesse delle conoscenze che gli permettessero di sapere di non poter fare affidamento sul terzo).

C'è una convivenza fra principio di affidamento e probabilità dell'azione imprudente del terzo,
ovvero quando è probabile che il terzo agisca in modo imprudente non si può invocare il principio di
affidamento, cosa che restringe molto questo criterio. Per esempio, la Cassazione, nel caso degli
incidenti stradali, ha ritenuto responsabile il guidatore che passando con il verde non avesse
previsto la probabilità che qualcuno passasse con il rosso.

Il comportamento incauto della vittima non esclude la responsabilità dell'agente, a meno che il suo
comportamento non sia completamente imprevedibile (negli altri casi invece si). Per esempio, un
uomo riceve una minaccia, e per sfuggirgli si getta nel vuoto: colui che lo ha minacciato non sarà
chiamato a rispondere per la sua morte.

Nel caso in cui, fuori dall'ipotesi di concorso, due persone abbiano determinato con il loro
comportamento convergente un certo risultato, entrambe risponderanno INTERAMENTE per colpa.
Siamo infatti nell'ambito penale, non civile, e ognuno risponde per intero della pena inflittagli: non
conta la misura del danno provocato dall'uno o dall'altro.

Elemento Soggettivo

Tutto quello che finora abbiamo detto riguarda la struttura oggettiva della fattispecie colposa, che
si caratterizza dal fatto che il legislatore utilizza elementi normativi concreti.

Per quello che riguarda l'elenco soggettivo o psicologico invece sappiamo che l'evento colposo di
cui si è chiamati a rispondere deve essere un evento NON VOLUTO dal soggetto che lo ha compiuto.

Ci può essere la previsione dell'evento, non ancora la volontà, la quale sarà regolata come
circostanza aggravante dall'art. 61 n. 3 c.p. (è sottile la differenza con il dolo eventuale, in cui il
soggetto accetta la possibilità che quell'evento si verifichi).

Una parte della dottrina più antica con riferimento alla volontà era solita parlare di colpa impropria
in tre situazioni, in cui il soggetto aveva agito volendo l'evento ma in situazioni nelle quali la legge
prevedeva solo una responsabilità per colpa.

352
Data questa particolare impostazione, la dottrina, in particolare Antolisei, parlava di colpa
impropria. Questa teoria comunque non può essere accettata.

I casi sono tre:

1)Errore colposo sul fatto art. 47 c.p.

2)Eccesso colposo nell'uso di cause di giustificazione art. 55 c.p.

3)Errore dovuto a colpa sull'esistenza di una causa di giustificazione art 59 c.p.

Sono situazioni che dal punto di vista del rilievo giuridico sono assimilabili.

Nel primo caso tipico esempio è il cacciatore che per sbaglio spari al suo compagno di caccia
pensando si tratti di un animale. Questo è un errore dovuto a colpa. In questo caso la responsabilità
per colpa non è esclusa, e la colpa consiste nell'aver mal valutato la situazione. Se però il cacciatore
è completamente solo e non ha visto nessun'altro in giro, sparando verso un cespuglio che si
muove, se colpirà un uomo verrà esclusa la colpa.

Questa dottrina parlava di colpa impropria per l'atteggiamento materialistico con cui l'evento era
considerato: il cacciatore ha il fucile, ha premuto il grilletto e voleva colpire quella figura movente,
per cui l'atteggiamento mentale è del dolo. La dottrina oggi rifiuta questa costruzione perché, dice,
la volontà non è quella dell'evento che si è effettivamente realizzato, non c'è un dolo, perché la
volontà del cacciatore non era quella di uccidere il suo compagno, ma un animale. Non è dolo
quindi, neanche nella mente del soggetto.

Lo stesso schema si ripete per gli altri due casi. Vediamo un esempio del secondo caso: un soggetto
è aggredito e risponde con un bastone (legittima difesa) e cercando di stordire l'aggressore gli dà un
colpo sulla testa e lo uccide. Questo caso presuppone che la causa di giustificazione ci sia, ma che
siano superati i suoi limiti.

Nel terzo caso invece non c'è causa di giustificazione ma il soggetto, per errore dovuto a colpa,
ritiene che ci sia. Esempio: calciatore Re Cecconi che finge per scherzo una rapina ad un gioielliere,
il quale non lo riconosce e lo ammazza per difendersi.

Concludendo, tutti questi casi in cui una vecchia dottrina aveva parlato di colpa impropria, sono
considerati pacificamente in dottrina colposi.

353
07/05/2019
Stiamo parlando dell’aspetto soggettivo della colpa.

L’evento è necessario che sia non voluto (art 43) e che la colpa deve essere cosciente, quando l’evento
sia previsto.

Per converso, c’è la colpa senza previsione dell’evento, cioè incosciente, cioè quando: e qua ci sono
due posizioni diverse:

➢ alcuni ritengono che nella colpa ci sia una condotta illecita e quindi normalmente e nel
maggior numero di casi anche nella colpa c’è la volontà, una volontà che si realizza e che
riguarda il comportamento imprudente che determina un certo evento interno voluto dal
soggetto che provoca un ulteriore risultato non voluto. Parte della dottrina, per esempio
Pagliaro, ritengono che nel delitto colposo ci sia normalmente una condotta illecita-> ma
secondo questa impostazione, bisogna ammettere che ci sono casi in cui manca una condotta
illecita, che vengono ritenuti “eccezionali”-> in questi casi la volontà non è cosciente, non gli
passa per la mente quello che vorrebbe fare, quindi non c’è una condotta illecita e quindi sono
casi eccezionali di responsabilità penale per colpa senza condotta illecita.
➢ l’altra parte della dottrina, invece ritiene, che questi casi in cui manca la condotta illecita non
siano soltanto numerosi, ma siano tutto sommato quel minimo comune che individua tutte le
ipotesi di colpa, perché in tutti i casi di colpa c’è un comportamento diverso da quello che si
sarebbe dovuto tenere o perché uno non ci pensa (dimenticanza) oppure perché uno fa
qualche cosa di imprudente diverso da quello che avrebbe dovuto fare e quindi l’ordinamento
giuridico lo rimprovera per avere fatto una cosa diversa da quella che avrebbe dovuto fare
-> cosicché secondo questa parte della dottrina (Marinucci) non sarebbe affatto ipotesi
eccezionali quelle di omissioni, dimenticanza, perché il concetto comune a tutte le ipotesi di
colpa e che definisce la colpa è proprio un concetto normativo di rimprovero per non aver
tenuto il comportamento che l’ordinamento giuridico si aspettava dal soggetto. Quindi
secondo quest’impostazione tutti i casi di colpa sono accomunati da ciò.

Le due ipotesi in sintesi:


➢ per Pagliaro c’è una condotta illecita e quindi una volontà che si realizza;
➢ Secondo altri non c’è una condotta illecita nel senso psicologico del termine, perché
ciò che ha importanza è il giudizio dell’ordinamento giuridico.

354
Vediamo adesso il Grado della Colpa:

abbiamo già in qualche modo parlato, a proposito del decreto Balduzzi, osservando che il grado
della colpa nella maggior parte dei casi non ha rilevanza per affermare o escludere la colpa, ma
soltanto ai fini della commisurazione della pena che spetta al giudice, ai sensi dell’art 133 c.p.-> il
giudice deve usare “discrezionalità”, che non è arbitrio, ma è incanalata dal fatto di tenere conto
di certe cose, tra le quali la gravità del reato, dal grado della colpa, che vincola il potere
discrezionale del giudice. Maggiore è il grado della colpa, maggiore sarà la pena.

Da cosa dipende il grado della colpa? Innanzitutto:

✓ dall’obiettiva divergenza dal comportamento che si sarebbe dovuto tenere ;


✓ inevitabilità dell’evento che dipende dal grado di certezza dell’evento-> per un evento
improbabile, il grado della colpa è meno elevato; per un evento probabile, il grado della
colpa è più elevato.
✓ abilità del soggetto di cui il giudice può tenere conto ai fini della commisurazione della
pena;
✓ difficoltà del comportamento che il soggetto dovrebbe tenere-> e qua potrebbero essere
presi in considerazione condizioni del soggetto (es particolare stanchezza, condizioni di
salute non favorevoli, ecc).
Invece il grado della colpa non rileva per affermare o escludere la colpa-> qualunque grado di
colpa è sufficiente. Tranne casi del tutto eccezionali, in cui il legislatore richiede espressamente
una colpa grave:

❖ bancarotta semplice, i numeri 2 e 4 dell’art 117 della legge fallimentare che richiedono
una colpa grave ;
❖ l’art 64 del Codice di procedura civile in cui il consulente tecnico è chiamato a rispondere
quando ha agito con grave colpa- >salvo queste due ipotesi, nell’ordinamento penale non
ci sono casi in cui è prevista espressamente una colpa, basta anche una colpa lieve.
Secondo alcuni il caso fortuito, cioè l’imprevedibilità, cioè una cosa che si verifica ed è
imprevedibile, secondo qualcuno escluderebbe l’aspetto soggettivo della colpa-> quindi il caso
fortuito inciderebbe sulla colpevolezza. Mentre per Pagliaro il caso fortuito esclude il profilo
strutturale oggettivo della colpa e viene meno quel profilo di imprudenza, negligenza e perizia.

Un ultimo cenno sulle cause di giustificazione e cioè -> possono escludere il delitto colposo le
cause di giustificazione? Si può prendere in considerazione:

• il consenso dell’avente diritto: in linea di principio potrebbe escludere il delitto colposo->


i delitti colposi sono previsti dalla legge per tutelare dei beni di grande importanza
(sicurezza pubblica, ecc..), normalmente questi beni sono anche considerati indisponibili
e quindi il titolare del bene non può dare il consenso al che viene offeso il bene stesso,
non può per esempio dare il consenso di essere ucciso. Sono beni di cui lo stesso soggetto
titolare non può disporre, tanto meno può disporre di quei beni che riguardano il
pubblico, come la sicurezza pubblica, la salute pubblica ecc.

355
• la legittima difesa: può senz’altro escludere anche il delitto colposo-> bisogna costruire
quest’ipotesi, che uno si trovi in una situazione di legittima difesa, ha il diritto di
difendersi, però senza volerlo, provoca un danno proporzionato alla situazione di
legittima difesa. Senza volontà->non vorrebbe colpire l’altro, ma lo può fare perché
oggettivamente si è in legittima difesa. In questo caso si può escludere il delitto per
legittima difesa.
• lo stato di necessità: si può dire la stessa cosa-> la differenza intanto è: nella legittima
difesa c’è un’offesa ingiusta all’individuo da parte dell’aggressore; nello stato di necessità
manca questa figura dell’ingiusto aggressore e il pericolo nasce da situazioni non
volontariamente provocate da qualcuno (il naufrago che si prende il salvagente
togliendolo all’altro soggetto) vi è un danno grave per la persona (è un campo più ristretto
rispetto alla legittima difesa). Se qualcuno, senza volerlo, commette delitto, trovandosi in
uno stato di necessità può essere giustificato: es ho in macchina un parente con gravi
condizioni di salute che sto portando di gran corsa all’ospedale perché ha bisogno di
essere ricoverato, si trova in una situazione di danno grave e di pericolo e io con la
macchina corro violando le regole della strada e senza volerlo faccio un incidente, dove
qualcuno rimane ferito-> questo delitto colposo, se il fatto è proporzionato a quello che
io volevo evitare, allora può essere giustificato e non punibile, perché commesso in stato
di necessità.

Detto questo passiamo alla Responsabilità cd. “oggettiva”:

di questa bisogna studiare:

✓ la fonte giuridica;
✓ la compatibilità con i principi costituzionali;
✓ la struttura dei fatti;
✓ e alcuni dei principali casi di responsabilità cd. oggettiva.

Cominciamo dall’individuazione dell’ipotesi di responsabilità cd. oggettiva, che avviene in


maniera negativa-> mentre nell’art 43 si dice positivamente quando un delitto sia doloso o
colposo, qui invece per la responsabilità oggettiva (o obiettiva) si dice quello che non è. E questo
si trova all’art 42 c.p.

Responsabilità per dolo o per colpa o per delitto preterintenzionale. Responsabilità


obiettiva:
Nessuno può essere punito per un'azione od omissione preveduta dalla legge come reato,
se non l'ha commessa con coscienza e volontà (1).

Nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come delitto, se non l'ha
commesso con dolo, salvo i casi di delitto preterintenzionale o colposo espressamente
preveduti dalla legge(2).
La legge determina i casi nei quali l'evento è posto altrimenti a carico dell'agente, come
conseguenza della sua azione od omissione (3).

356
Nelle contravvenzioni ciascuno risponde della propria azione od omissione cosciente e
volontaria, sia essa dolosa o colposa (4).

La prima cosa che stiamo vedendo è che la legge non ci dice quali siano questi casi se non in via
negativa -> “altrimenti” cioè “diversamente da”-> ma diversamente da che cosa? Da dolo, colpa
e preterintenzione. Quindi la prima connotazione è una connotazione negativa-> cioè per
responsabilità oggettiva si risponde senza dolo e senza colpa e senza preterintenzione-> ma
vedremo che la preterintenzione è un misto di dolo e responsabilità oggettiva, quindi non è
necessario aggiungere la preterintenzione, ma basta dire che si risponde senza dolo e senza colpa.

Questa responsabilità oggettiva connotata negativamente è fondata su un contesto evolutivo, c’è


un punto di partenza che è il 1930, ma nel tempo quello che era stabilito nel codice si è andato
modificando per effetto della legislazione, della dottrina e della giurisprudenza, quindi è un
discorso che si va svolgendo. Originariamente questa responsabilità era fondata sul puro nesso di
causalità materiale tra il comportamento del soggetto e il risultato (l’evento), quindi era
sufficiente che qualcuno facendo o non facendo qualcosa, avesse provocato anche senza volerlo,
senza dolo e senza colpa, avesse provocato un certo risultato per cui è chiamato a rispondere a
titolo di responsabilità oggettiva. Quindi una responsabilità fondata sul puro nesso causale
materiale anche per fatti che non fossero connotati da negligenza ecc..-> quindi imprevedibili. Il
principio che veniva invocato, nel 1930, era quello del “qui in re illicita versatur, tenetur etiam
pro casu” -> questa regola la possiamo trovare anche sintetizzata con “principio del versari in re
illicita”(trovarsi in una situazione illecita) o ancora con “principio del versari”.

Non essendoci nessuna volontà e nessuna negligenza, imprudenza e imperizia riferite all’evento,
si trattava di un’ipotesi di responsabilità senza condotta illecita anche per fatti fortuiti.

Ci vuole un’azione o omissione, ma non c’è una volontà o imprudenza riguardo all’evento.

Facciamo un esempio: art 586 “morte o lesioni come conseguenza di altro delitto” -> qualcuno
commette una violenza sessuale nei riguardi di una persona, la quale si suicida per il dolore del
fatto subito. Ai sensi dell’art586 si potrebbe rispondere per la morte della persona vittima di
violenza sessuale-> dove il comportamento è la violenza sessuale, che non ha nessuna relazione
con la successiva morte-> potrebbe esserci un rapporto di causalità, ma non c’è volontà e
nemmeno imprudenza da cui deriva il suicidio della vittima.

Questa responsabilità è compatibile con i principi costituzionali?

Viene in rilievo il profilo della personalità della responsabilità penale-> che significa
“responsabilità personale” ? la Corte costituzionale è stata chiamata a prendere posizione sul
punto e una delle più antiche sentenze ha inteso questo disposto del primo comma dell’art 27
della costituzione nel senso che ponesse un divieto di responsabilità per fatto altrui.

357
Intendendo così escludere di punire altre persone per fatti commessi da soggetti diversi nelle
rappresaglie-> qualcuno commette un fatto e si va a punire un'altra persona rispetto a quello che
ha commesso il fatto-> questo è contrario alla costituzione. E a questo divieto corrisponde quel
principio di personalità della sanzione, cioè la sanzione penale può essere inflitta esclusivamente
a chi ha commesso il reato e non ad altre persone e questo è un cardine irrinunciabile. Non si può
rispondere per le colpe degli altri. Ma questo è una portata minimale, è un contenuto minimo->
nel tempo si è andato evidenziando un più ampio contenuto ulteriore e precisamente la necessità
di un qualche coefficiente psicologico su cui fosse fondata la responsabilità penale.

Perché? Perché si è interpretato questo disposto della costituzione perché un fatto viene
attribuito ad una persona, la quale conosce e agisce di conseguenza, è un essere pensante e
quindi come essere umano è chiamato a risponderne. La prima indicazione è la posizione di
Pagliaro del 1960, fra i primissimi ad evidenziare qualcosa in più.

Se si intende la responsabilità personale nel senso minimale, cioè nel senso di fatto proprio, si
potrebbe ritenere che la responsabilità oggettiva fosse compatibile con la costituzione (io
provoco un danno, io ne rispondo, anche se non c’è un nesso psicologo, ma è un fatto che ho
provocato io), quindi così sarebbe compatibile con la costituzione, perché non ne risponde
un'altra persona, ma sempre chi ha provocato il danno.

Ma in realtà si è capito che questa norma costituzionale andava intesa in modo più ampio,
“personale” nel senso che risponde l’essere umano, cioè la sua psiche.

La prima sentenza costituzionale che ha introdotto concetti di questo tipo del 1965 n°42
riguardava uno dei casi più importanti di responsabilità oggettiva, cioè l’art 116 c.p. “reato diverso
da quello voluto da taluno dei concorrenti”-> si va a fare un furto, c’è il palo che resta fuori a
guardare se arriva la polizia, e quelli che entrano nel negozio incontrano il proprietario senza che
pensassero che lui si trovasse lì e allora lo uccidono-> il palo voleva semplicemente collaborare
nel furto, ma ora si trova chiamato a rispondere di omicidio anche se non l’ha provocato in nessun
modo.

Se ci attenessimo al principio antico, “tu stai facendo un furto, stai facendo una cosa illecita, tutto
quello che succede ne sei chiamato a rispondere”-> e allora non sarebbe una responsabilità
personale e però in questa sentenza che abbiamo citato, si iniziò a dire che non in tutti i possibili
reati il soggetto è chiamato a rispondere, ma solo di quelli che fossero sviluppo prevedibile del
reato originariamente programmato.

Quindi la prima sentenza introduce questa restrizione: non tutti i reati, ma solo quelli che sono
sviluppo prevedibile.

Ma ancora in dottrina si discuteva e si diceva: questo non significa che il soggetto in questione sia
in colpa, perché la colpa richiede una prevedibilità in concreto, cioè nella situazione così com’è
con tutte le sue caratteristiche, non un’astratta prevedibilità.

358
Quindi la Corte costituzionale allora, si diceva, non aveva introdotto un mero requisito di una vera
e propria colpa, perché per la colpa ci vuole prevedibilità in concreto, mentre nella sentenza si
parlava di generale prevedibilità, astratta.

Il passaggio successivo è la famosissima sentenza 364 del 1988 della Corte costituzionale, che si
è pronunciata in un modo che ancora fa discutere la dottrina-> si è pronunciata in modo non del
tutto chiaro, cioè:

➢ ha stabilito che sia dall’art 27 sia più in generale dalla visione del diritto penale nel
rapporto tra cittadino e stato-> sulla base del principio di colpevolezza, impone che
per gli elementi più significativi del fatto ci sia almeno la colpa, ma questo non
comporta un assoluto divieto di responsabilità oggettiva (-> per questo la sentenza è
ambigua, è da interpretare e lascia spazio alla discussione:
- “elementi più significativi” quali sono?
- la corte stessa dichiara che non c’è un tassativo ed esplicito divieto di responsabilità
oggettiva e quindi ci si chiede che spazio c’è per la responsabilità oggettiva o meno?
• qui ci sono due grandi linee teoriche che si contrappongono tra di loro: da
una parte della dottrina italiana, dice che nel nostro ordinamento penale non
esiste più uno spazio per una responsabilità senza colpa, ma ci vuole o almeno
il dolo o almeno la colpa. Quindi non c’è più responsabilità oggettiva nel senso
originario del termine. Questa posizione a sua volta si diversifica, perché
alcuni dicono che in conseguenza della sentenza della Corte costituzionale il
giudice volta per volta deve fare una valutazione correttiva e trasformare
quello che potrebbe essere un caso di responsabilità oggettiva in altre figure
di responsabilità per colpa-> è il giudice ad interpretare correttamente la
legge, che prevede ipotesi di responsabilità oggettiva.

Altri, sempre all’interno di questo filone, più cautamente, dicono, come


Padovani, ma anche la stessa corte costituzionale che è esagerato
trasformare tutte le ipotesi di responsabilità oggettiva in altrettanti ipotesi di
responsabilità per colpa-> oppure Fiandaca e Musco osservano che una simile
interpretazione darebbe luogo ad esiti incerti e non è detto che sia
opportuno, dal punto di vista della politica criminale, spazzare via queste
figure-> è stato pensato in un certo modo e non possiamo stravolgere le cose
(quindi posizioni più caute).

359
• A questo orientamento si contrappone, invece, la posizione di Pagliaro, ma
anche qualcun altro, il quale dice che non è vero che ci voglia sempre la colpa-
> la costituzione consente che il legislatore prevede casi di responsabilità
anche senza colpa, perché quello che è indispensabile è che la responsabilità
sia personale. La Corte costituzionale ha parlato di principio di colpevolezza
ricavato dall’art 27 del primo comma della costituzione , questa impostazione
della Corte costituzionale però può essere imprecisa nella misura in cui si
confonde il principio di colpevolezza con il concetto dogmatico di
colpevolezza-> che sono due cose distinte.

Cosa è il concetto dogmatico di colpevolezza? È quello della teoria della


tripartizione: implicita, antigiuridicità e colpevolezza-> sono i tre elementi
strutturali secondo la teoria della tripartizione. La colpevolezza,
sostanzialmente, esprime il requisito del dolo e della colpa. Quindi se si
intendesse la colpevolezza nel senso del concetto dogmatico di colpevolezza,
effettivamente ci vorrebbe o il dolo o la colpa.

Ma invece il Principio di colpevolezza che effettivamente si deve trovare nella


costituzione, è un’altra cosa: cioè -> sta all’interno di un più ampio principio
di responsabilità penale, perché la costituzione dice che la responsabilità
penale è personale (non dice “è colpevole”, osserva Pagliaro!!!) -> quindi il
principio fissato della costituzione è quello di personalità della responsabilità
penale.-> e che significa allora? Il principio di colpevolezza, che sta all’interno
del più ampio principio della responsabilità penale si riferisce esclusivamente
ai fatti per il quale è comminata una pena, ed esige possa essere inflitta una
pena solo a chi è capace di intendere e di volere -> si può punire solo chi è
capace di intendere e di volere. E questa è una parte del principio di
personalità della responsabilità penale.

Invece, il principio di personalità, che la costituzione sancisce, indica un’altra


cosa, cioè-> l’uomo può essere chiamato a rispondere delle conseguenze
delle sue azioni solo in quanto lo si chiami a rispondere come persona umana,
che può prevedere i suoi comportamenti e può governarli-> quello che è
necessario è la possibilità di dominare gli eventi finalisticamente (agire o non
agire, intervenire o non intervenire al fine di produrre o evitare un certo
risultato)-> ciò si può realizzare nel cd. “Dominio Finalistico” , cioè un
soggetto è in grado di dominare gli eventi agendo o astenendosi dall’agire,
allo scopo di ottenere un certo risultato.

360
Questo si esprime attraverso i principi della prevedibilità ed evitabilità
dell’evento di cui si è chiamato a rispondere. Un soggetto è chiamato a
rispondere quando quell’evento poteva prevederlo ed evitarlo e non l’ha
fatto-> ma se quell’evento non era prevedibile o non era evitabile, non lo si
può chiamare a rispondere, perché lo si tratterebbe altrimenti come un ente
fisico della natura, come una pietra, che provoca un risultato ma non in
quanto e come una persona umana.

Sintetizzando: Quando un fatto, sebbene non voluto e non determinato da


una colpa, è causato dal soggetto ed era prevedibile ed evitabile, allora ne
può rispondere.
Non è necessario richiedere anche la colpa penale nel senso tecnico.
Quindi alla domanda se ciò è compatibile con i principi costituzionali-> la
risposta è SI’.

Concludendo il discorso, e dando delle conclusioni un po’ provvisorie,


arriviamo alla conclusione che la Costituzione, art 27 primo comma, richiede
che:
✓ Si risponde di un fatto proprio soggetto provocato dal soggetto
✓ Chiede che il soggetto sia trattato come persona che agisce nel
mondo, con un dominio finalistico degli avvenimenti e che sia
chiamato a rispondere per fatti prevedibili e inevitabili.
Questa conclusione è assolutamente rivoluzionaria rispetto
l’impostazione del 1930, che era fondata sul principio del versari in re
illicita, che stabiliva che chi si trova in una situazione illecita, risponde
anche per cose imprevedibili-> nel 1930 dottrina e giurisprudenza
pensavano che la responsabilità oggettiva è restare su questo aspetto,
appunto era detta “responsabilità OGGETTIVA” per questo, era una
responsabilità forte, anche per fatti imprevedibili e inevitabili, basata solo
sul nesso di causalità materiale-> oggi è detta “cosiddetta oggettiva”
proprio perché è stato superato questo concetto.

-Dobbiamo chiarire quale sia la differenza tra le situazioni che stiamo prospettando con la colpa in
senso tecnico (e lo vedremo nella lezione di domani). –

361
08/05/2019

Struttura del fatto della responsabilità oggettiva nella differenza con la responsabilità per colpa

La fattispecie oggettiva colposa consiste nella violazione di una regola che riguarda un'attività
lecita, sulla figura di un agente modello 1.
Consiste in un superamento del rischio consentito rappresentato dalla regola 2. ( base lecita, il reato
è costituito dal superamento di un dato rischio consentito) con prevedibilità ed evidibilità
dell'evento 3.

La fattispecie a responsabilità oggettiva,


in questi fatti c'è sempre senza eccezione un contesto di base illecito a differenza della colpa ( il
soggetto sta già compiendo qualcosa in sé illecito) es. accordo di commettere un reato
es. omicidio preterintenzionale che parte da atti diretti a percuotere o ledere es. omissione di
soccorso se deriva la morte.
nella responsabilità oggettiva il soggetto crea con la sua azione un rischio che per l'ordinamento è
totalmente illecito. E da qua il nome autentico di responsabilità da rischio totalmente illecito, nasce
sulla base di un’attività totalmente illecita che provoca un ulteriore evento illecito di cui si deve
rispondere ( base illecita, evento illecito). 1.

non ha senso richiedere la violazione di una regola cautelare in questo caso; che è quello che si
chiede tecnicamente quando c'è la colpa. Possono esistere regole cautelari volte a disciplinare
l'attività di chi compie un’attività illecita? No, se è vietata non può contemporaneamente essere
regolamentata. (tipo se è vietato il sequestro questa attività totalmente illecita non può essere
regolata, al contrario ad esempio della circolazione delle macchine, che è lecita). Non esiste una
colpa in un’attività illecita; 2.

qualcuno sostiene ci sia un agente modello anche per l'attività illecita, al contrario.

conseguenze
1.inanzitutto anche nell'ipotesi di responsabilità oggettiva c'è una forte illecità
questa è connotata da una maggiore gravità rispetto quella della colpa, nella colpa il rischio da cui
deriva l'evento è per una parte lecito e per una parte illecito, qui è totalmente illecito.
Infatti, tutte le ipotesi di responsabilità ogg. prevedono sanzioni più gravi di quelle che potrebbero
essere le somma delle pene previste per 1. il reato di base
2. l'evento più grave prodotto ( la massima entità supera la ipotetica somma delle pene previste per
i singoli reati , somma che si dovrebbe fare se si considera la tesi che si tratta di concorso di reati).
es.( omicidio preterintenzionale atti che vorrebbero ledere a cui segue la morte. recentemente alla
stazione di Roma da un 5 o 6 anni qualcuno diede un pugno ad una donna che sbatte la testa
cadendo e morì; percosse che portano alla morte; le percosse possono prevedere 3 anni di
reclusione massimo, se si sommano le pene previste per tali due reati dato che secondo la tesi del
manuale ci vorrebbe sempre la colpa.

362
Ma non è cosi: Ci si è accorti che per il fatto base è prevista la sanzione fino a 3 anni mentre per
l'omicidio non voluto colposo il massimo è 5, il giudice deve sommare le due case arrivando 8. Ma
INVECE LA RECLUSIONE NEL NOSTRO ORDINAMENTO è PREVISTO FINO A 18 ANNI.) e ciò si verifica
in tutti gli ordinamenti, anche non italiano

(nell'ordinamento tedesco per le lesioni esiste la figura di morte non voluta a seguito di lesioni, 5
anni massimo, per l'omicidio colposo, 5 anni, mentre per la fattispecie particolare di morte a seguito
di lesioni è 15 anni. Si supera di gran lunga la somma). Nell'ordinamento tedesco richiede sempre
almeno la colpa, da noi non è così all'art 42 è scritto "altrimenti", e si parla di un’ipotesi che sfugge
sia al dolo che alla colpa e nella rubrica si parla di responsabilità oggettiva-

La dottrina si chiede cosa succede in queste figure di reato? Ad esempio, nella morte a seguito di
lesioni occorre la colpa, come stabilisce esattamente l'ordinamento tedesco.
In cosa consiste la colpa?

In questi casi non si può comunque richiedere una violazione di una regola cautelare perché
commettendo un reato già la colpevolezza per il reato, associata alla preventività ecc è sufficiente
per punire.

La colpa nei delitti qualificati dall'evento ( morte successa a seguito di lesioni) si riduce alla
prevedibilità dell'evento, tutti gli altri elementi della fattispecie colposa sono già contenuti nella
commissione del delitto di base. Ciò presuppone che il delitto di base costituisca un fatto nel quale
c'è già un qualche rischio rispetto all'evento concretamente verificatosi. Questo rischio quando non
ci fosse non sembrerebbe sufficiente a fondare il collegamento, in questo caso l'evento è una
conseguenza immediata della commissione del delitto di base, il delitto di base costituisce uno
specifico pericolo per l'evento questo nel nostro ordinamento corrisponde all'art.586: il fatto è più
grave indica una colpevolezza maggiore del soggetto. Alcuni riconoscono che nel nostro
ordinamento c'è una connotazione generalmente più grave rispetto a certi fatti
Alcuni autori sostengono che rispetto a certi fatti c'è una reazione più grave( dottrina italiana
riconosce questo);

Alcuni (Pagliaro) sostengono ci sia bisogno di una colpa in senso stretto.


• MA l'obiezione è che così la responsabilità da fatto totalmente illecito costituisce un inutile
doppione della colpa.
• 1obbiezione i requisiti che caratterizzano quest'ipotesi di responsabilità sarebbero gli stessi
della colpa,
• 2 obbiezione e del resto non sempre c'è una soglia di "rischio consentito", per alcune
particolari attività( industriali, mediche ecc) c'è ma per molte altre no.
In quanto il rischio consentito è stato formulato dalla dottrina per interpretare e dare una veste al
delitto colposo e quindi non può essere usato per spiegare la responsabilità oggettiva----
tali possono essere facilmente superate.

363
1. non è vero che la responsabilità oggettiva costituisca un duplicato: la differenza è che nella colpa
si deve accertare la violazione di una regola cautelare fondata su una legge moderna, mentre nella
responsabilità oggettiva non ha senso chiedere la violazione di un evento cautelare, non può
pensare questo.
2. Non significa che non possa essere usato anche per altro
3.in tutte le attività umane c'è un rischio consentito.

L'autore agisce in modo illecito sia dal punto di vista obbiettivo che subbiettivo la sua azione è già
violazione di una regola cautelare e appunto perché tale violazione è sempre presente già nel
momento in cui si commette il delitto di base, la colpa consiste solo nella prevedibilità dell'evento:
per il solo fatto di commettere un delitto, si è già in questa colpa, la violazione del delitto base è già
violazione della regola cautelare senza bisogno di cercarne formalmente un ulteriore.

Casi di responsabilità da rischio totalmente illecito

Mantovani prospetta una distinzione tra:


• casi espressi,
quelli che la legge prevede. La responsabilità oggettiva tradizionalmente ,si distingue tra
a. casi puri non misto a dolo o colpa
l'unico caso rimasto è quello dell'art 116 ( reato diverso da quello voluto dai concorrenti)
qualora il reato commesso sia diverso da quello voluto dai concorrenti, anche questi ne
risponde se l'evento è conseguenza della sua azione o omissione. Se il reato commesso è
più grave di quello voluto la pena è diminuita riguardo a chi volle il reato meno grave.
la cosa importante è perché si considera tale: per pacifica interpretazione non è affatto
necessario che il reato originariamente prospettato, sia poi effettivamente stato realizzato
nemmeno nella forma della consumazione o del tentativo; manca completamente il primo
reato, la prima parte non c'è. e rimanga soltanto la resp. a titolo obbiettivo, per il reato
diverso. È pura perché non si associa per la resp. per un altro reato di base.
1. In passato si parlava della responsabilità del direttore della stampa periodica per la
redazione del giornale art 57 Codice penale si rispondeva a titolo obbiettivo. Nel 1930 il
regime fascista voleva fortemente imbrigliare la stampa chiamando il direttore a rispondere
sempre per questa responsabilità oggettiva per tutto ciò che fosse stato pubblicato per
frenare la libertà di stampa.

Negli anni 50 è stato modificato tale articolo, e si è rotta l'interpretazione dell'art che c'era. è stato
introdotto che si risponde a titolo di colpa anche se non è chiarissimo ci sia colpa o meno: è però
sicuramente certo che sia colpa perché ce lo dicono i requisiti della responsabilità oggettiva ( che si
trova solo relativamente nell'attività di base totalmente illecita, l'attività di base di redazione del
giornale non è un’attività illecita, ma anzi è lecita).

364
a. casi misti a dolo o colpa
1. ( omicidio preterintenzionale, oltre l'intenzione, ci sono due reati, reato doloso ed evento
aggravante, lesioni( si risponde a titolo di dolo o colpa) e morte( si risponde a titolo
oggettivo), per una parte si risponde a titolo di c o d perché è voluto- dall'altra per qualcosa
non voluta a titolo obbiettivo), quando non è voluto ed è la conseguenza della commissione
di un altro reato. Delitti preterintenzionali
2. delitti aggravati dall'evento, diversi nel nostro ordinamento, anche qui c'è una parte voluta e
un evento non necessariamente voluto ( che in alcuni casi potrebbe essere voluto: es.
omissione di soccorso ma la persona muore); la morte non voluta aggrava l'omissione.
( calunnia cui segue una sentenza di condanna, accuso un innocente che viene condannato ma
anche se viene assolto il reato c'è, se viene anche condannato la condanna aggrava la pena).

3. le condizioni obbiettive di punibilità ,certe volte la punibilità di un fatto è subordinato al verificarsi


di un fatto per cui non si ritiene ne dolo ne colpa ( art 586 morte o lesioni non volute con
conseguenza di altro delitto, è simile al caso precedente, si discute se sia duplice).

4. caso dell'art 609 septies in tema di violenza sessuale su minore ( fino al 2012 la legge stabiliva che
rilevava l'errore sull'età, unico elemento di rilevanza in certi casi, era il cuore del reato se si trattava
di attività sessuale cosiddetta presunta, con il consenso. Il vincolo era l'età per dare il consenso, la
persona doveva avere l'età almeno per dare il consenso; in tali casi l'età era l'unico elemento di
rilevanza penale del fatto: non importava il dolo o la colpa, la legge chiamava a rispondere anche in
assenza. Il legislatore nel 2012 l’ha modificato, solo se si tratta di un errore inevitabile il soggetto
non risponde, risponde solo se colpevole.) è stata trasformata quella responsabilità oggettiva per
colpa.

5. La cosiddetta imputabilità presunta che ha dato luogo a una sentenza famosa della corte di
cassazione tedesca ( prevedeva che nell'ubriachezza la colpa si presume, perché si doveva sapere
che se si fosse ubriacati così tanto non si poteva controllare i propri comportamenti, il solo fatto di
ubriacarsi fonda la responsabilità oggettiva); riguarda le ipotesi di...accidentale e volontaria,
preordinata( es mi drogo per avere il coraggio di commettere un reato), abituale, e infine il caso in
cui il soggetto si intossica completamente ad esempio beve troppo: l'inevitabilità viene esclusa se
fortuita, non voluta, o tramite intossicazione; in tutti i casi intermedi c'è, il soggetto non capisce
quello che sta facendo ma è comunque imputabile, risponde penalmente. È un’imputabilità
presunta dalla legge contro il fatto naturale che il soggetto non comprendeva cosa stava facendo.

• casi occulti

la giurisprudenza chiama a rispondere anche senza dolo e senza colpa, presumendo l'esistenza del
dolo e della colpa, la legge non li prevede espressamente.

365
A. Un caso è il dolus in re ipsia( mantovani presuppone la colpevolezza, l'esistenza del dolo e il
giudice condanna lo stesso anche senza accertare), è una forma di responsabilità oggettiva-
la presunzione dell'esistenza del dolo, anche se in dolo non si è
B. atteggiamento della giurisprudenza, errore su legge diversa della legge penale 3 comma art.
47; la legge riguardo all'errore su legge diversa da legge penale, richiamata; esclude la
punibilità.
la giurisprudenza da una soluzione interpretativa, ricostruttiva diversa dicendo che la legge penale si
incorpora in quella extra-penale, formano un tutt'uno, quindi estende alla legge penale la rilevanza
dell'errore ex art.5.
essenzialmente viola ciò che il codice stabilisce in questo comma ( es. errore sulle norme di diritto
civile); e chiama a rispondere quando c'è un errore: anche in questo caso è occulto, risponde senza
sapere il significato di quello che sta facendo.

La preterintenzione

i casi previsti dall'ordinamento sono solo due:


• omicidio preterintenzionale
art 584 chiunque con atti diretti a commettere uno dei delitti previsti dagli art. 581( percosse) e
582 ( lesione personale) cagiona la morte di un uomo è punito con la reclusione da 10 a 18 anni.
c'è un delitto di base, il delitto di base deve essere percosse o lesioni dolose( è un delitto doloso).
atti diretti
divergenza tra dottrina e giurisprudenza, basta la semplice intenzione oppure ci vogliono i
requisiti del delitto tentato: 1. idoneità dei fatti ( profilo oggettivo ) 2. unicità, dimostrare che
l'intenzione era diretta solo a quello.( profilo soggettivo)
1. giurisprudenza
i fatti devono essere solo diretti, non idonei, ci si accontenta della semplice intenzione. Es. malgrado
minaccia l'atto che viene compiuto è inidoneo a percuotere la vittima designata che fugge, ma
fuggendo sbatte la testa e muore. La giurisprudenza qua vede che la direzione c'era (atto diretto a )
ma l'atto era non idoneo, quindi il tentativo non c'era. MA qua per la punibilità basta meno del
tentativo, la semplice intenzione del reato.
2. dottrina
bisogna richiedere una vera e propria colpa in senso stretto occorre che la condotta sia configurata
in modo colposo rispetto l'evento della morte.

Bisogna accertare i requisiti formali della condotta colposa:


1.- non esiste più una forte responsabilità oggettiva
2. se questo non fosse un caso di responsabilità di colpa non potrebbe distinguersi tra
preterintenzione e responsabilità oggettiva ( che c'è consiste nel fatto che nella preterintenzione
l'evento più grave deve sempre non essere voluto, sennò si risponde del reato voluto; la
responsabilità oggettiva in alcuni casi invece può anche essere voluto o anche non esserlo;( esempio
nella calunnia la condanna dell'innocente può essere voluta senza che questo costituisca un reato
diverso).

366
Si può osservare che non può considerare colpa, non potrebbe ravvisarsi né una colpa specifica né
una generica; tali articoli non sono finalizzati a evitare la morte, non possono considerarsi
fondamento di una responsabilità di colpa a senso stretto e nemmeno ci sono regole di prudenza
ecc previste( colpisci qualcuno ma evitando di farlo morire) è sufficiente la prevedibilità della morte
per fondare la responsabilità.
1. La giurisprudenza
certe volte arriva a sentenze davvero esagerate applicando tali regole nel senso della vecchia
responsabilità oggettiva senza nemmeno chiedere la prevedibilità dell'evento, cioè per il puro fatto
fisico che è legato al comportamento. Ed è per questo che la dottrina cerca di superare ciò;

• aborto preterintenzionale ( azioni dirette a provocare lesioni alla donna senza volerlo si
provoca l'aborto) previsto dall'art 18 2 comma della legge 194 della legge sull’interruzione
della gravidanza.

non è espressamente qualificato come aborto preterintenzionale, ma omicidio;

367
13/05/2019
Responsabilità da rischio totalmente illecito : abbiamo detto che non è più il caso di chiamarla
responsabilità oggettiva, perché oggettiva era quella che dottrina e giurisprudenza consideravano
sulla base di un puro nesso di causalità materiale senza nessun ulteriore coefficiente che
collegasse sul piano psicologico l'evento (che si è chiamati a rispondere ) al soggetto. Invece la
responsabilità da rischio totalmente illecito esige questo dominio finalistico, e quindi, la
prevedibilità ed evitabilità dell'evento. Abbiamo visto l'ultima volta che questo non sembra doversi
tradurre nel richiedere la colpa in senso tecnico, perché la colpa in senso tecnico presupporrebbe la
violazione di regole cautelari costruite sulla figura dell'agente modello e quando ci si trova nel
compimento di un'attività illecita , un reato, un'attività non consentita dall'ordinamento, non
sembra ragionevole ( sebbene qualcuno abbia sostenuto la tesi contraria) formulare/ prospettare la
figura dell'agente modello in relazione ad un'attività che è totalmente illecita .

CASI DI RESPONSABILITA DI RISCHIO TOTALMENTE ILLECITO: una sola sembra essere quella pura,
cioè per la quale l'unico titolo della responsabilità è proprio quello da rischio illecito ed è l' art. 116
Codice penale " REATO DIVERSO DA QUELLO VOLUTO DA TALUNO DEI COMPARTECIPI", perché per
il reato originariamente previsto secondo la prevalente interpretazione non è neppure necessario
che ci sia il tentativo, che già sarebbe un fatto illecito, e quindi , rimane soltanto ed esclusivamente
la responsabilità per il fatto per il reato diverso effettivamente realizzato, quindi da sola
responsabilità da rischio illecito pure, e poi una serie di altre figure come ad esempio il diritto
preterintenzionale, i reati aggravati dall'evento, le condizioni obiettive di punibilità, l'art. 586 che è
una figura molto importante ( questi sono casi i principali). Questi ulteriori che vengono detti di
responsabilità da rischio illecito mista , sono tutti strutturati in questo modo: c'è una prima parte
del reato che è sostanzialmente voluta ,illecita perché costituisce reato, più un ulteriore evento che
aggrava, aumenta il disvalore del fatto che invece viene posto a carico del soggetto sulla base di
questa responsabilità da rischio totalmente illecito. E cosi è il DIRITTO PRETENTENZIONALE

REATI AGGRAVATI DALL'EVENTO della condanna che sono molti nel c.p. per esempio la CALUNNIA
art.368 .

OMISSIONE DI SOCCORSO art. 593 : se dal fatto deriva una lesione o la morte della persona (non
voluta) . Ci sono tre tipi di struttura di reati aggravati dall'evento, in alcuni di questi in realtà
l'evento non è al di fuori della struttura del fatto voluto dal soggetto, anzi è proprio voluto dal
soggetto e queste sino le Ipotesi di attentato o reati a dolo specifico. In queste situazioni il
legislatore anticipa la punibilità ad un momento anteriore a quello in cui si potrebbe verificare il
fatto che il soggetto ha voluto, e questi in realtà sono casi apparenti di reati aggravati dall'evento,
perché l'evento deve essere necessariamente voluto dal soggetto, -->per esempio nell' attentato
art. 243 . I delitti di attentato in cosa consistono ? Consiste nella punibilità a titolo autonomo,
intelligenze con lo straniero, cioè accordi , intese con lo straniero a scopo di guerra, chiunque tiene
intelligenze con lo straniero affinché uno stato estero muova guerra contro lo stato italiano, è
punito con una reclusione non inferiore a 10 anni, se la guerra segue si applica la pena
dell'ergastolo.

368
Quindi, le intelligenze con lo straniero per fare guerra sono punite di per sé , se poi segue la guerra
la pena è aumentata. ATTENTATO, in realtà, il legislatore si serve di questa tecnica per punire ancor
prima che si verifichi l'evento voluto, cioè è una specie di tentativo di fare scoppiare una guerra
contro l’Italia, punito autonomamente, cioè non come si fa di solito per il tentativo attraverso l'art.
56 che prevede la punibilità del tentativo e il reato di parte speciale, invece, qui quello che sarebbe
ipoteticamente il tentativo di guerra contro lo stato è punito a sé con una norma apposita, art. 243
è un delitto di attentato, si tratta cioè di casi di tentativo punite auto nomante, con norme apposite.
In realtà, qui, l'evento aggravante è esattamente quello che il soggetto voleva, è lo scopo per cui ha
agito e quindi si tratta di false ipotesi di delitti aggravati dall'evento, perché vero è che se la guerra
succede la pena è maggiore, ma in realtà è al contrario, quella sarebbe la pena per il reato nella sua
struttura normale, per il reato consumato con tutti i suoi requisiti, ed al contrario è la pena per il
semplice attentato che è diminuita rispetto a quello che sarebbe tutto il fatto pieno se si verificasse
poi effettivamente la guerra.

Lo stesso si può dire per i reati a dolo specifico, anche qua se il fatto per il quale si è agito si verifica
qualche volta può essere aggravato, la pena può essere maggiore.

Queste che abbiamo appena detto sono la prima struttura.

Il secondo tipo è una situazione ( es. calunnia )dove il soggetto è punito per il fatto base (calunnia),
è l'evento aggravante anche se voluto, il fatto che sia voluto o meno non sposta in niente le
conseguenze per il soggetto, quindi è punito se oggettivamente segue la condanna, non ha
importanza che sia realmente voluta o che non sia voluta, non è un elemento decisivo nella
struttura del reato, rileva in quanto effettivamente si sia realizzato, Quindi è irrilevante che sia
voluto.

Il terzo gruppo DI REATI AGGRAVANTI DALL'EVENTO si caratterizza perché l'evento aggravante


deve essere non voluto, altrimenti si risponde per l'evento più grave voluto. Esempio
maltrattamenti in famiglia seguiti da lesioni o morte della persona maltrattata che costituisce un
fatto aggravante l'evento di base, in questi casi l'evento aggravante, le lesioni, è indispensabile che
sia non voluto, perché se il soggetto avesse agito maltrattando i familiari e volendo la lesione,
risponderebbe non di maltrattamenti in famiglia aggravati, ma addirittura, più gravemente, delle
lesioni dolose provocate. Quindi il terzo gruppo è caratterizzato dal fatto che l'evento aggravante
deve essere non voluto.

Questa struttura si avvicina sostanzialmente alla struttura della preterintenzione, perché in


sostanza, in queste ipotesi c'è un fatto base voluto, più un ulteriore evento che deve essere
provocato dal soggetto, che certe volte può essere voluto oppure no, certe volte necessariamente è
volte e altre necessariamente non voluta, ma la figura si avvicina a quella della preterintenzione. La
cosa più complessa in queste situazioni è stabilire se quando il legislatore dice la pena è aumentata,
la pena è aggravata , se si tratta di una circostanza aggravante, ovvero di uno di questi reati
aggravati dall'evento, quindi un'ipotesi di responsabilità assestante e autonoma.

369
Qual è la differenza sul piano pratico, cioè come conseguenze? se si trattasse di una semplice
circostanza la rilevanza di questa circostanza dovrebbe essere valutata con le regole generali che
riguardano le circostanze , compiendo quella operazione che si chiama GIUDIZIO DI PREVALENZA O
EQUIVALENZA, cioè il giudice quando si trova di fronte ad una circostanza deve tenere conto di
tutte le circostanze aggravanti o attenuanti e stabilire se sono tutti aggravanti ci sarà una serie di
aumenti, se sono attenuanti una serie di diminuzioni, se ci sono circostanze aggravanti da una parte
e circostanze attenuanti dall'altra parte, potrebbe valutare liberamente con discrezionalità ,
l'eventuale Equivalenza o addirittura la prevalenza di una, ad esempio l'attenuante; nel caso in cui
valutasse o la prevalenza dell'attenuante o l'equivalenza ,l'effetto aggravante della circostanza
scomparirebbe, sarebbe assorbito da questo regime.

Mentre, quando il legislatore configurare una forma di reato autonoma , assestante, dove
l'elemento aggravante non è una circostanza, ma è un requisito del fatto specifico, questa
sparizione dell'effetto aggravante non avviene, perché la circostanza non è una circostanza in senso
tecnico, configura una nuova ipotesi di reato, e dunque la pena base è proprio quella che la legge
stabilisce. Questo è accaduto ad esempio nell'art. 319 ter CORRUZIONE IN ATTI GIUDIAZIARI ( un
giudice ad esempio che si fa corrompere)--> prima della riforma dei reati del 1990 questo fatto era
una circostanza ,in senso tecnico, aggravante del reato , e quindi, andava incontro a quel
bilanciamento di che è stato detto prima, quindi il reato poteva anche non essere aggravato se c'era
una circostanza attenuante che il giudice ritenesse importante tanto quanto l'aggravante, invece
con la riforma del 1990 il legislatore ha fatto diventare questo elemento, cioè che si tratti di
corruzione in atti giudiziari, lo ha fatto diventare un titolo assestante di reato, è un reato autonomo
diverso dalla corruzione semplice, quindi l'aggravamento non può scomparire perché la pena più
alta è quella prevista dal legislatore per questa particolare ipotesi di corruzione.

CONDIZIONI OBIETTIVE DI PUNIBILITA' --> le abbiamo considerate all'interno della struttura del
reato , vedendo che , presupposti, soggetto attivo, condotta, nesso causale, evento, dopo tutto ,
alla fine di tutto, può eventualmente sopravvenire una condizione obiettiva di punibilità :
nell'istigazione al suicidio, l'istigazione è punibile soltanto se il suicidio si verifica (art. 580) . Adesso
vediamo sotto il profilo psicologico , dell'elemento soggettivo.

Vi ricorderete che dal momento che la prescrizione per le condizioni obiettive di punibilità
incomincia a decorrere dal momento in cui si sia verificata la condizione ,abbiamo detto che per
forza, logicamente, la condizione deve verificarsi come ultimo di tutti gli elementi, perché non
avrebbe senso che la prescrizione del reato cominciasse a decorrere quando ancora si richiede che
si verifichi qualcos'altro perché il reato sia completo, quindi il verificarsi della condizione obiettiva di
punibilità deve essere l'ultimo tassello della fattispecie con tutti i suoi vari requisiti, da quel
momento , quando si verifica la condizione obiettiva di punibilità, può cominciare a decorrere il
tempo per la prescrizione. Le condizioni sono suddivise in 2 gruppi : Intrinseche ed Estrinseche.

370
Le condizioni estrinseche non vengono attribuiti al soggetto, il soggetto non è chiamato a
rispondere per le condizioni obiettive di punibilità c.d. estrinseche, cioè quelle che non aggravano il
fatto, che non hanno a che fare con il disvalore del fatto , ma che costituiscono semplicemente una
ragione di opportunità per il legislatore per eventualmente non punire ( finché non si verificano) un
fatto già carico di tutto il suo disvalore.

Quindi, hanno un effetto sospensivo o esclusivo della responsabilità, il fatto ( con tutta la sua
gravità) è già completo, ma il legislatore aspetta a punirlo per ragioni di pura opportunità politico
criminale, che si verifichi questo ulteriore requisito che non è che renda più grave il fatto già
commesso, semplicemente viene utilizzato come parametro per stabilire se sia il caso o non sia il
caso di intervenire con il diritto penale : esempio della sentenza che dichiari il fallimento rispetto ai
reati di banca rotta prefallimentari, cioè il fallito ha già compiuto tutto quello che rappresentava un
disvalore , perché ha sottratto i beni , li ha intestati fittiziamente a qualcun altro ecc, quindi ha fatto
sparire dei beni, privando i creditori della garanzia che questi beni rappresentavano, dopodiché si
richiede anche una sentenza che dichiari il fallimento, se l'imprenditore fatto questo, non viene
dichiarato fallito, il reato non c'è, non si perfeziona, quindi è un requisito indispensabile, ma questo
requisito, cioè che venga pronunciata la sentenza che dichiari il fallimento, non aumenta in niente
la gravità , il disvalore per i creditori del fatto già commesso, semplicemente serve per evitare che
sopraggiunga, prima della sentenza dichiarativa di fallimento, un eventuale condanna penale che
determinerebbe la morte dell'impresa per la condanna del titolare.

Quindi, il legislatore dice, il creditore ha compiuto delle condotte assolutamente riprovevoli,


obiettivamente punibili, potrebbe essere punito, però se fosse subito punito , i creditori non
avrebbero più nessuna possibilità di rivalersi, allora per fare scattare il processo penale della pena,
aspettiamo e più opportuno aspettare che arrivi anche la sentenza che dichiari il fallimento,
perché a quel punto per l'impresa non c'è più niente da fare e si avvia la procedura concorsuale del
fallimento e quindi si punisce la imprenditori; in questo caso è una mera ragione di opportunità
aspettare che si verifichi quel ulteriore evento che non aggrava in niente il reato già commesso. Per
queste condizioni che non pongono un problema di attribuzione, cioè l'imprenditore fallito non
risponde perché c'è stata la sentenza, risponde perché a tenute le altre condotte, non si pone
nessun requisito psicologico; quindi sono delle condizioni obiettive di punibilità di cui non è
chiamato a rispondere.

Invece, quando il fatto che costituisce la condizione obiettiva di punibilità, aggrava ,allora il reo ne
risponde, cioè viene attribuito, caricato al reo, nell'istigazione al suicidio, l’istigazione è punita solo
se il suicidio si verifica perché il suicidio aggrava l'istigazione e quindi la responsabilità si fonda sul
verificarsi del suicidio stesso. Questo configura una tipica ipotesi di responsabilità da rischio
totalmente illecito, perché non è rischio dolo, non è richiesta colpa, ( art. 44 c.p. stabilisce così) e
dunque viene attribuito al soggetto perché con la sua condotta ha posto , ha creato , il rischio
totalmente illecito che si verificasse l'evento, istigare qualcuno a togliersi la vita , quando poi
effettivamente si verificasse questo avvenimento, cioè il suicidio, il soggetto sarebbe chiamato a
rispondere; ci vuole il dolo ? no, questo lo stabilisce l'art. 44; ci vuole la colpa?

371
No, non possiamo formulare la regola cautelare, violando la quale ci sia chiamati a rispondere del
suicidio, cioè ci sarebbe un istigatore cauto, che istiga ma con garbo, in modo tale che poi la
persona non si tolga la vita, è una costruzione insensata. Se ha voluto istigare dolosamente , ha già
creato obiettivamente con questa condotta, un rischio che l'altro si tolga la vita, totalmente illecito ,
perché l'ordinamento guarda con sfavore questa situazione, ne risponderà a l'unico requisito che
l'evento sia prevedile ed evitabile, e cioè che non sia avvenuto in modo totalmente fuori da ogni
possibilità.

In questi casi ,condizioni obiettive di punibilità intrinseche, che aggravano il disvalore del fatto, non
è richiesto il dolo, non è richiesta la colpa, si tratta di ipotesi di responsabilità da rischio totalmente
illecito , e perciò l'unico requisito richiesto e che l'evento sia prevedibile ed evitabile.

(QUESTO NEL LIBRO NON C'È)-> ART 586 che chiude questa tematica dei casi di responsabilità da
rischio totalmente illecito.

L'art 586 è intitolato "Morte o lesioni come conseguenza di altro delitto" ed esso dice : "quando da
un fatto preveduto come delitto doloso deriva, quale conseguenza non voluta dal colpevole, la
morte o lesione di una persona si applicano le disposizioni dell'art 83, ma le pene stabilite negli art
589 e 590 sono aumentate."

In questo caso c'è un delitto doloso quindi voluto dal soggetto , ma questo delitto provoca come
conseguenza necessariamente non voluta la morte o lesioni di una persona, se queste conseguenze
fossero volute si risponderebbe per omicidio e si prevedono le pene dell'art 83 che disciplina
l'ipotesi di aberattio delicti= vuol dire che il corso programmato del delitto che una persona voleva
compiere devia e si verifica un reato diverso. Questa aberattio delicti può essere mono lesiva o
plurilesiva : è mono lesiva quando Tizio vuole danneggiare la vetrina del negozio e rompere il vetro ,
ma sbaglia mira e colpisce una persona provocando delle lesioni, dunque il delitto che si voleva
compiere non si verifica, ma si verifica un altro delitto e si risponde per quest'altro delitto
effettivamente realizzato.

Quella plurilesiva oltre al delitto più grave originariamente non voluto si verifica anche il delitto che
il soggetto aveva programmato , si verificano entrambi e si applicano le pene previste per il reato
più grave , diventa una specie unitaria è un concorso formale di reati e il soggetto risponde per i
reati commessi più gravi.

L'art 856 ha la funzione di prevedere la responsabilità da rischio totalmente illecito e ha anche la


funzione di aggravare ulteriormente le pene rispetto alle pene normalmente previste per le lesioni
o omicidio colposo.

Quindi l'ipotesi è che un soggetto abbia voluto compiere un reato e che ne sia derivata come
conseguenza necessariamente non voluta delle lesioni o la morte di una persona.

372
Questa disposizione ha un carattere sussidiario , è una norma di chiusura, cioè vuole che non
rimangano spazi aperti di non punibilità nel danno derivante alla tutela della vita e dell'integrità
fisica e quindi se in qualsiasi modo un soggetto pur non essendo in colpa ma ha comunque portato
a quel risultato negativo come conseguenza della sua attività totalmente illecita cioè il delitto
doloso, viene intercettata questa responsabilità da rischio totalmente illecito.

Nell'omicidio preterintenzionale l'unico reato è l'omicidio , mentre qui si risponde anche per le
azioni compiute. Poi nell'omicidio preterintenzionale il reato base consiste in atti diretti a
percuotere un soggetto, mentre qui qualsiasi reato doloso come violenza sessuale.

CHE RAPPORTO SI DEVE RICHIEDERE TRA IL REATO BASE CHE è STATO VOLUTO QUINDI DOLOSO E
L'EVENTO DI MORTE O LESIONI ?

Letteralmente la legge non richiede nessuna specifica relazione, cioè quello di base può essere
anche il più dei diversi delitti , come ad esempio morte di un cardiopatico che assiste ad una
violenza su altra persona , quindi la morte sarebbe conseguenza del delitto colposo di violenza
commessa su altra persona. Un altro esempio potrebbe essere il suicidio della vittimi di un abuso
sessuale o la morte del tossico dipendente a seguito di cessione di sostanze stupefacenti da parte
dello spacciatore.

Che rapporto ci deve essere tra il reato base e l'evento non voluto che si verifica? Formalmente
nessuno! cioè può trattarsi delle situazioni più diverse , nessuna particolare relazione. Non si può
richiedere che si tratti di un reato che costituisce diciamo la premessa logica per un ulteriore
risultato, ad esempio : percosse e poi lesioni , questo sarebbe assolutamente logico . Restringere la
responsabilità a queste sole ipotesi cioè dove ci sia una naturale logica obiettiva e prosecuzione del
danno appare frammentario; la dottrina minore ritiene che il rapporta possa esserci tra qualsiasi
reato però richiede che il primo reato doloso sia commesso con modalità tali da porsi come spinta e
presupposto e discendente causale per il verificarsi del più grave evento. Verifichiamo questa idea
alla luce della ipotesi di suicidio della vittima di altro reato: tematica della CASUALITA'
CONSECUTIVA, cioè si innesca su questa base del delitto doloso un comportamento di un terzo che
interviene autonomamente creando un altro evento , ad esempio una persona che ha assistito al
reato che poi decide di togliersi la vita , quindi interviene un ulteriore comportamento voluto da chi
pensa di uccidersi.

La soluzione più ragionevole sembrerebbe questa : non tanto ricondurre formalmente e


tecnicamente questa ipotesi dello schema dell'istigazione al suicidio, perché non si può dire che se
Tizio offende Caio , questa sia un'istigazione al suicidio per quello che assiste ; ma richiede che le
modalità del fatto base commesso siano tali da potersi presentare in qualche maniera
oggettivamente , non come volontà di voler procurare la morte di qualcuno ma oggettivamente
costituiscano un'istigazione.

373
La dottrina ha formulato questa ipotesi : se il primo reato è stato commesso con modalità tali da
essere pur senza volere provocata la morte o con modalità tali che oggettivamente spingano la
vittima a suicidarsi e allora si può trovare questa ipotesi, es : uno commette una violenza sessuale e
nel farlo riversa sulla vittima un tale disprezzo da farle capire che la sua vita non vale più niente ,
cioè il fatto realizzato con modalità tali da generare nella vittima del reato di violenza sessuale un
tale turbamento interiore , tale da potere determinare poi il gesto di togliersi la vita. Quindi quando
si innesta il comportamento libero e volontario di un altro soggetto (suicidio) richiede che le
modalità del fatto siano tali da costituire obiettivamente una spinta , un serio pericolo per il
verificarsi dell'altro reato più grave.

Se il primo reato non è punibile che succede? Bisogna distinguere se il primo reato non è punibile
perché c'è una vera e propria causa di giustificazione quindi non costituisce reato perché viene
meglio il disvalore penale del fatto e allora non ci sarà neanche la responsabilità per la morte o
lesione prevista dall'art 586.

Se invece, il primo reato non è punibile per ragioni più attinenti alla persona del soggetto, per
esempio un soggetto non del tutto sano di mente , oppure perché vi è una causa di esclusione della
sola pena , quindi che non rendono giustificato il fatto e allora si potrà rispondere per morta o
lesione ex art 586.

Il titolo di responsabilità è ragionevole dire che sia responsabilità da rischio totalmente illecito
perché non è pensabile richiedere una violazione di una regola cautelare nel commettere il primo
reato , tale da evitare che si possano verificare altri reati.

Non ci sono particolari regole che chi commette un reato deve seguire per evitare che dal quel
reato si possano evitare altri reati.

MORTE DEL TOSSICO DIPENDENTE -> Tradizionalmente la giurisprudenza ha affiancato al fatto dello
spacciatore questa ipotesi se la cessione della sostanza avesse determinato poi la morte del tossico
dipendente -> CAUSALITA' CONSECUTIVA perché la morte non dipende in sé dallo spaccio, ma dal
fatto che il tossico dipendente abbia assunto la sostanza stupefacente e questo lo abbia portato alla
morte.

Tradizionalmente la giurisprudenza a questa ipotesi applicava l'art 586, anche sulla base del fatto
che lo stesso testo unico degli stupefacenti orienta in questa direzione e sarebbe l'art 81 che dice
:"Quando l'uso di sostanze stupefacenti o psicotrope abbaia cagionato la morte o lesioni personali
dell'assuntore, e taluno per aver determinato o agevolato l'uso delle sostanze debba risponderne ai
sensi degli artt. 586,589,590 del c.p. le pene stabilite dai 3 articoli sono ridotte dalla metà ai due
terzi se il colpevole ha prestato assistenza alla persona offesa ed ha informato l'autorità sanitaria o
di polizia."

Questa è una forma di ravvedimento operoso cioè quando uno ha commesso un reato però poi
riflette su quello che sta succedendo e cerca di impedire che si verifichi il tutto .

374
L'ipotesi che il testo unico degli stupefacenti invoca è la stessa dell'art 586. Tuttavia, bisogna
prendere atto che la giurisprudenza ha recentemente costruito questa situazione, cioè la morte del
tossico dipendente piuttosto come ipotesi di omicidio colposo , pensando che lo spacciatore possa
essere in colpa rispetto alla morte del tossico dipendente .

Ma se noi ricolleghiamo questa situazione alla responsabilità da rischio totalmente illecito occorre
che la situazione che si viene a verificare sia prevedibile , ma la giurisprudenza ha stabilito che è
necessaria una colpa vera e propria quindi che deve essere violata una particolare regola cautelare .

La questione è questa : le norme sullo spaccio servono solo ad impedire lo spaccio o hanno anche
una funzione rispetto alla morte eventuale del tossico?

Perché se avessero questa funzione allora si potrebbe costituire la figura della responsabilità
colposa , esempio hai venduta la droga ad una persona che non stava bene e quindi hai violato delle
leggi , sei stato incauto nello spacciare perché dovevi prevedere si potesse verificare la morte . Se,
invece diciamo che non c'entra niente si tratterà di un'ipotesi da rischio totalmente illecito .

375
14/05/2019
Legittima difesa

È stata modificata recentemente. Il presidente della repubblica ha promulgato la legge il 3 maggio


ed entrerà in vigore il 18 maggio.

La legittima difesa è una delle cause di esclusione del reato. Le cause di esclusione del reato
secondo la sistemazione proposta da Pagliaro sono divise in 3 parti:

➢ CAUSE DI INCOMPLETEZZA DEL FATTO DI REATO: cioè quelle situazioni nelle quali ma
espressamente regolate dalla legge ma nelle quali manca un elemento positivo richiesto
perché il reato sia completo. Ad esempio, l’errore esclude il dolo, questi sono il caso
fortuito, forza maggiore, l’errore, reato impossibile e reato putativo.
➢ ELEMENTI NEGATIVI DELLA CONDOTTA ILLECITA: devono mancare affinché il fatto assuma il
carattere di liceità penale. Sono regolati dal Codice penale dagli articoli 50 a 54. Quindi
consenso dell’avente diritto, esercizio del diritto nell’adempimento del dovere, legittima
difesa, uso legittimo delle armi, stato di necessità.

➢ CAUSE CHE ESCLUDONO L’IMPUTABILITA’: l’immunità.


Nella dottrina frequentemente si parla di cause di giustificazione distinguendole dalle cause di
discolpa. Le cause di giustificazione escludo l’antigiuridicità obiettiva contrasto tra il fatto tipico e
l’intero ordinamento da queste ne deriva l’esercizio di un diritto. Le cause di discolpa eliminano la
colpevolezza quindi il profilo soggettivo di rimproverabilità all’autore. Vedremo che questo
richiamo è importante perché nella nuova disciplina della legittima difesa sono intercettati questi
due profili: per un verso si regolano nuove ipotesi in cui la difesa è consentita per l’ordinamento;
per un altro verso che disciplinano l’accesso colposo si introduce una situazione in cui si disciplina in
modo nuovo in cui il soggetto non può essere rimproverato.

Esistono 3 fasi storiche:

❖ La legittima difesa disciplinata dal codice nell’emanazione del 1930 fino al 2006
❖ La prima riforma del 2006 legge n 59 del 13 febbraio
❖ La riforma del 2019 legge n 36 del 26 aprile.
Diciamo subito che la legge del 2006 ha introdotto nel Codice penale all’articolo 52 che è quello che
disciplina la legittima difesa, due nuovi commi secondo e terzo, relativi entrambi alla cosiddetta
legittima difesa DOMICILIARE ovvero si verifica in ambito domiciliare.

Mentre la legge del 2019 ha regolato ulteriormente la legittima difesa domiciliare.

La legittima difesa possiede 2 statuti nel nostro ordinamento:

➢ Legittima difesa ordinaria: quando il fatto della difesa si verifica in un luogo qualsiasi
diverso dal domicilio.
➢ Legittima difesa domiciliare: sono subentrate le 2 modifiche del 2006 e 2019.

376
Principi generali in tema di legittima difesa e la disciplina di base resta immodificata:

articolo 52 comma 1 Codice penale: ‘’non è punibile chi ha commesso il fatto, per esservi stato
costretto dalla necessità di difendere un diritto proprio od altrui contro il pericolo attuale di
un’offesa ingiusta, sempre che la difesa sia proporzionata all’offesa’’.

L’articolo esaurisce con la locuzione ‘’NON È PUNIBILÈ’: è una locuzione tipica del codice che non fa
riferimento a categorie particolari. La dottrina osserva quale sia il senso di questo istituto: possiamo
anticipare che il fatto commesso per legittima difesa è legittimo e autorizzato sotto ogni profilo
dell’ordinamento giuridico. Non si ha responsabilità penale e civile.

il fondamento della legittima difesa è composto da 2 principi di fondo:

➢ SI DICE CHE IL DIRITTO ALLA DIFESA È UN DIRITTO NATURALE INSOPPRIMIBILE: ognuno che
venga aggredito ingiustamente da un altro ha un originario e naturale e insopprimibile
diritto di difendere sé stesso o altri soggetti vicino.
➢ STA NELLA CONSIDERAZIONE DELLA LEGITTIMA DIFESA CONTRIBUISCE AL
MANTENIMENTO DELL’ORDINE GIURIDICO: se uno difende legittimamente attua un
precetto dell’ordinamento giuridico. Esempio: non si devono rubare le cose agli altri. Se si
difende, fa sì che la legge che dice che non si deve rubare abbia una reale attuazione perché
impedisce il furto.
Hegel diceva che è logico che prevale l’interesse lecito e non l’interesse illecito. Ad esempio:
l’interesse dell’aggressore ad esempio di appropriarsi di qualcosa, l’interesse dell’aggredito per
mantenere il possesso; l’interesse dell’aggredito in quanto lecito prevale. Questo principio, in altri
termini, prevede la prevalenza dell’interesse dell’aggredito su quello dell’aggressore con il
presupposto che l’aggressore agisca in modo ingiusto.

Questa situazione è diversa da quella disciplinata dallo stato di necessità articolo 54 c.p.: dove
invece, il presupposto è che non ci siano queste due posizioni asimmetriche perché si è in presenza
del pericolo di un danno grave alla persona. Il danno non è provocato da un’ingiusta aggressione ma
fatto non attribuibile alla responsabilità di qualcuno. (esempio: naufrago che sta per affogare).

Deve essere chiaro che ci sono due fatti:

quando parliamo di LEGITTIMA DIFESA: ci riferiamo alla NON PUNIBILITA’ DI UN REATO COMMESSO
DA CHI SI DIFENDE LEGITTIMAMENTE. LEGITTIMA DIFESA COME ELEMENTO NEGATIVO DELLA
CONDOTTA ILLECITA.

Ad esempio: qualcuno mi attacca, allora io scappo, quindi non commetto nulla di penalmente
rilevante. Il problema nasce quando, per difendermi provoco un fatto che è penalmente rilevante
come percuotere, ferire, uccidere un'altra persona. Questo risulta giustificato se lo provoco per
legittima difesa.

377
Esempio: aggressione ingiusta, l’aggredito si difende. Nel difendersi commette un fatto considerato
reato. Questo fatto non è tale perché il reato è stato commesso in una condizione di difesa
legittima.

Per quanto concerne il rafforzamento dell’ordinamento giuridico del diritto, prevalenza


dell’interesse lecito: si può dire che la legittima difesa mandasse un messaggio culturale alle norme
penali. Questo messaggio culturale che manda l’articolo 52 è questo: se tu ingiusto aggressore
compi un’azione contraria al diritto, sappi che la persona aggredita ha il diritto di difendersi e può
provocare danni proporzionali al danno che tu minacci. L’aggressore ingiusto si espone alla
possibilità di subire dei danni da parte di chi si difende legittimamente.

Offesa, aggressione, difesa, si possono esaminare in modo distinto:

il requisito dell’offesa: si deve trattare di un’offesa al diritto che può essere:

❖ PROPRIO:
❖ ALTRUI: di qualsiasi persona
Deve trattarsi di un DIRITTO. La parola diritto deve essere intesa in modo ampio ovvero l’offesa
recata ad un diritto in senso tecnico o ad una facoltà che subisce l’offesa. NON PUO ESSERE UN
INTERESSE LEGITTIMO: è quello di cui gode un soggetto in conseguenza dell’applicazione di una
legge del diritto pubblico. Esempio: l’interesse ad iscriversi all’università. Lo stesso si può dire per
un interesse che riguarda la collettività. Possono intervenire se l’offesa all’interesse legittimo si
traduce in un danno alla mia persona.

Esempio: tizio sta per incendiare un bosco. Il bosco è vicino alla mia casa. L’incendio del bosco
potrebbe mettere in pericolo la mia casa, allora intervengo per impedire ciò.

Di questa offesa deve esserci il pericolo attuale. Deve essere un pericolo e non un danno. Se si
realizza il danno definitivo e si intende se non c’è il pericolo non si è più in presenza di legittima
difesa.

Questo pericolo deve essere attuale quindi ne passato e ne futuro.

Esempio: il negoziante subisce un furto, il quale insegue il rapinatore, all’esterno nel negozio,
quando sono in fuga con un motorino, il negoziante spara alle spalle al rapinatore. Qui siamo fuori
dei presupposti della legittima difesa perché se il rapinatore scappa dopo aver recato l’offesa non ci
sono i requisiti del pericolo attuale.

Una tradizione interpretativa costante considera attuale il pericolo quando il soggetto,


nell’immediatezza del fatto che ancora non si è concluso in modo definitivo, può ripristinare la
situazione giuridica in modo adeguato. In altri termini: il ladro scappa, il negoziante non può
sparargli per recuperare la refurtiva. Ma può difendersi cercando di recuperare le cose che sono
state sottratte ed intervenendo in modo proporzionale rispetto a questo può farlo cadere ad
esempio.

378
Il pericolo non deve essere futuro perché l’idea di fondo dello stato di diritto è che si debba
rivolgere alla forza pubblica. Lo stato deve difendere dalle aggressioni ingiuste.

Il Presidente della repubblica, Mattarella nel promulgare la legge della legittima difesa del 2019
l’affianca con una lettera rivolta al presidente del senato, camera, Consiglio dei ministri, nel quale
sottolinea che la legittima difesa mantiene il carattere eccezionale di difesa che non diminuisce il
compito originario ed essenziale delle forze di polizia di provvedere alla difesa.

(Il dibattito verificatosi in dottrina a proposito dell’analogia nel diritto penale in particolare
l’analogia per le disposizioni di favore per il reo come questa, analogia che vietata per le norme
penale incriminatrici è il principio, ammessa per le norme penali di favore. ci si chiede se si tratti o
meno di disposizioni eccezionali quindi non è possibile estendere per analogia. Si conclude con la
dottrina che si tratta di disposizioni eccezionali con una finestra aperta per quei casi la quale una
donna viene offesa dal marito questo la uccide. Da noi questa cosa non è ammessa. )

Se il reato è permanente il pericolo deve considerarsi sempre attuale finché rimane la situazione
antigiuridica: esempio: sequestro di persona.

L’esempio attribuito da Fiandaca sul sequestro di persona è sbagliato: come legittima difesa
anticipata ovvero rispetto ad un pericolo futuro.

Questo pericolo va valutato EX ANTE O EX POST: nell’ottica di colui che si difende o alla luce di tutto
quello che si può sapere con cose fatte con ulteriori indagini?

Sembra meglio considerare che questo giudizio possa avvenire EX POST: si può dare avvantaggio di
chi si difende nel senso che se ex post si accerta che c’era un pericolo che non appariva ex ante,
formulando un giudizio ex post, l’aggredito può avvantaggiarsi. Viceversa, un pericolo che non
appare o che appare ex ante ma ex post si verifica inesistente, per questa situazione interviene
l’articolo 59 c.p. stabilisce che non è punibile chi ha commesso un fatto nella convinzione di trovarsi
in presenza di una causa di giustificazione. In altri termini secondo l’articolo 59 c.p. il soggetto senza
colpa ritiene di trovarsi in una situazione di legittima difesa non è punibile.

Mentre nello stato di necessità che ha uno spazio più limitato perché si agisce contro un innocente;
la legge introduce altri due requisiti che invece non ci sono nella legittima difesa. Nello stato di
necessità il pericolo deve essere da lui non causato né altrimenti imputabile: vale anche per la
legittima difesa in quanto ci si deve essere costretti dalla necessità. ‘’da lui non causato non è un
requisito della legittima difesa in quanto la situazione da cui ci si difende sarebbe anche
involontariamente provocata.

Pericolo di una offesa:

offesa significa che il bene minacciato deve essere esposto al danno. L’offesa si può presentare
come danno o come pericolo. Ma in questo caso, la parola offesa deve essere interpretata come
danno perché altrimenti ci si potrebbe difendere nel pericolo di un pericolo. Questo risulterebbe
esagerato.

379
La condotta di chi aggredisce può essere attiva ma anche omissiva.

Il pericolo può derivare da cose (albero che minaccia di cadere) o da animali ( cane feroce che mi
aggredisce: posso intervenire o sull’animale oppure sul proprietario costringendolo o minacciandolo
affinché trattenga l’animale).

L’offesa deve essere ingiusta: ci sono diverse interpretazioni:

• Si può intendere contro una norma giuridica: ci deve essere una norma giuridica che vieta di
fare la cosa che costituisce l’offesa.
• Oppure si intende sine iure ovvero non è proprio vietato dalla norma ma non esiste una
norma che lo autorizzi.
• Secondo pagliato questa connotazione di giustizia non è semplicemente morale ma i
sentimenti di giustizia generalmente condivisi dalla società.
Se qualcuno commette un fatto a sua volta esercitando una causa di giustificazione, questo fatto
non è ingiusto. Ad esempio: esercizio del diritto: taglio il ramo del vicino che invade il mio fondo. Il
Codice civile mi autorizza. Se reco un’offesa al proprietario dell’albero questa offesa non è ingiusta
perché lo faccio nell’esercizio di un diritto.

Non è ingiusto un fatto compiuto nell’adempimento di un dovere: non ci si può difendere dal
carabiniere che viene ad arrestarmi.

Consenso dell’avente diritto: io do a qualcuno la possibilità di utilizzare la mia macchina. Non posso
riprendermela repentinamente Perché potrei recare un danno a colui a cui consento di guidare la
macchina.

Stato di necessità: l’articolo 2045 del Codice civile prevede che quando qualcuno provoca un danno
in stato di necessità: chi provoca il danno non è punibile ma il danneggiato ha diritto ad un equo
indennizzo da parte del giudice. Il che significa che lo stato di necessità è una situazione ibrida
ovvero ciò che si compie in stato di necessità non è del tutto giustificato, rimane uno spazio per un
indennizzo.

Queste valutazioni vanno contemperate da considerazioni di equità sociale.

Per quanto riguarda OCCUPAZIONI DI EDIFICI IN STATO DI NECESSITA’ ad esempio: resta da


ponderare in base a considerazioni di solidarietà quanto sia impedibile un fatto commesso in
condizioni di stato necessità.

Invece se si tratta di una situazione di IMMUNITA’ dipende se è fondata sulla mera opportunità
criminale di non andare a punire il papa in questi casi ci si può difendere perché il fatto è contrario
ad un diritto. Mentre se l’immunità funzionale ovvero collegata con l’esercizio di una funzione o
dovere da parte di un soggetto immune non ci si può difendere in quanto il fatto coperto da
immunità rappresenta un diritto o un dovere del soggetto immune.

380
La difesa:

il soggetto deve essere costretto in quanto l’articolo 52 del Codice penale statuisce che deve
‘’essere costretto dalla necessità di difendere un diritto proprio o altrui...’’

Il termine costretto può essere inteso in due modi:

• OGGETTIVO: la situazione è tale che esercita una pressione su colui che si difende.
• SOGGETTIVO: la persona che si difende deve avere percepito l’aggressione.
L’interpretazione soggettiva è preferibile. Oggi si dà grande spazio a questo senso perché si
riconosce che se il soggetto è turbato gravemente può invocare la legittima difesa.

Quindi chi incomincia un’azione ad esempio una rissa non può a sua volta invocare la legittima
difesa perché non si può dire che sia stato costretto a meno che non ci sia stata una successiva
proporzione del contesto ovvero ad esempio facciamo una rissa a pugni ad un certo punto chi
provoca la rissa non può dire di essere stato costretto. Però supponiamo che l’altro soggetto tira
fuori una pistola a questo punto la situazione si sbilancia quindi la situazione originaria di chi
comincia la lite non possiede più importanza di fronte all’aggressione dell’arma.

Nella rissa la giurisprudenza fa una distinzione tra chi interviene con l’anima di colluttare e chi
interviene per difendere un altro. In certi casi c’è una rissa, successivamente arriva un altro prende
parte alla rissa, può intervenire con due modi diversi:

• Per difendere il suo amico quindi prende parte alla rissa con un significato difensivo
• Oppure con l’animo di colluttare quindi vuole partecipare alla rissa in questo caso non può
invocare la legittima difesa.
Vi è un punto fondamentale ovvero la differenza tra lo stato di necessità e la legittima difesa
rispetto la fuga:

è possibile sottrarsi all’offesa fuggendo. Qui ci si chiede: se uno può fuggire è costretto a difendersi?

Qui la risposta è diversa:

❖ Nello stato di necessità dove si fa qualche cosa che non è punibile ma non è nemmeno del
tutto giustificato dall’ordinamento giuridico. Quindi se c’è modo di sottrarsi al pericolo in
qualsiasi maniera lo si deve fare esempio: fuggire, allontanarsi.
❖ Nella legittima difesa: vi è un aggressore ingiusto ed io posso trovarmi nei limiti di una difesa
giusta. Allora bisogna distinguere due situazioni:
1. Se il soggetto aggredito possiede il cosiddetto ‘’COMMODUS DISCESSUS’’: ovvero la
possibilità di allontanarsi comodamente. Comodamente significa senza rischi. Esempio:
si chiude la porta blindata ed il soggetto non può entrare.
2. La fuga: significa che la difesa diventa pericolosa, ardua, complicata.
La locuzione ‘’costretto dalla necessita di difendere sé stesso o altri’’: questa necessità significa che
non ci deve essere altro modo per difendersi che non quello cioè tra tutte le condotte possibili per
la difesa bisogna scegliere quella meno aggressiva. Innanzitutto, la difesa deve essere idonea.

381
Questo significa che a proposito della necessità è importante fra tutti i mezzi a disposizione debbo
usare quello meno aggressivo: ad esempio se un ragazzino di 8 anni cerca di togliere il portafoglio
ad un uomo robusto posso dargli uno schiaffo quindi bloccare la sua mano.

L’ordinamento giuridico riconosce il potere di difendersi quindi commettere fatti che costituiscono
reato ma nella misura strettamente necessaria!

La legittima difesa va contenuta nel carattere necessario per ottenere il risultato di ottenere il
proprio diritto.

L’ultimo dei requisiti è la PROPORZIONE TRA LA DIFESA E L’OFFESA, SEMPRE SE LA DIFESA SIA
PROPORZIONATA ALL’OFFESA:

l’articolo 52 c.p. non dice uguale ovvero non deve trattarsi della stessa identica offesa.

Ci si è chiesti se la proporzione è una proporziona tra i mezzi o tra i bene dell’aggredito e


dell’aggressore in gioco?

In passato si riteneva che fosse una proporzione tra i mezzi: questo significa ottenere una soluzione
inaccettabile poiché tenendo conto dei soli mezzi se qualcuno non aveva a disposizione altri mezzi
poteva essere giustifica ad utilizzare mezzi aggressivi. Così il vecchio contadino che vede il giovane
ragazze che gli sta rubando una cassetta di arance nel suo giardino non potendo inseguirlo poteva
utilizzare il fucile da caccia quindi sparare.

Visto che questa soluzione non può essere accettata venne stabilito che si tratta di una proporzione
tra i beni in gioco: il bene dell’aggredito e il bene dell’aggressore perché il rapinatore va incontro ad
un danno. Allora questa proporzione prevede un equilibrio.

Ad esempio: per difendere la libertà posso uccidere il sequestratore.

La vera domanda è se vi sia proporzione tra beni patrimoniali e beni personali, in quanto l’offesa nel
codice Rocco del 1930 distingueva che l’offesa poteva essere pe qualsiasi diritto.

Tra un’offesa ad un bene patrimoniale e la mia reazione, dove sta la proporzione?

Se qualcuno mi ruba il portafoglio posso reagire anche con comportamento offensivi. Ma non posso
attentare alla sua vita oppure all’integrità fisica. Non posso sparare a chi mi ruba il portafoglio.

Viene ribadito dalla giurisprudenza che nella nostra costituzione troviamo una gerarchia di valori: è
palese che la vita viene prima del patrimonio. Non ce proporzione se per difendere un bene
patrimoniale reagisco sacrificando la vita del ladro.

Qualcuno dice che se il povero pensionato gli rubassero la pensione mensile potrebbe reagire nei
confronti dei rapinatori con comportamenti offensivi: qui si può dire che occorre calibrare la
proporzione.

Questo giudizio va fatto tenendo conto di tutti gli elementi.

382
15/05/2019
Da circa 20 anni in Italia era emersa una istanza politica portata avanti soprattutto dalle forze di
centro destra ed in particolare dalla lega nord che dopo una serie di proposte nel 2006 porto ad una
riforma con la legge 59 del 13 febbraio 2006 che mirava a rafforzare la tutela di chi fosse oggetto di
aggressioni nel proprio domicilio o nel luogo in cui si svolge un’attività lavorativa. Esempio: rapina in
villa, negozi ecc...

Furono aggiungi nel 2006 due commi all’articolo 52 del Codice penale che vanno integrati con la
previsione del primo comma che configura in generale la legittima difesa.

Articolo 52:

comma 2: ‘’nei casi previsti dall’articolo 614, primo e secondo comma, sussiste il rapporto di
proporzione di cui al primo comma del presente articolo se taluno legittimamente presente in
uno dei luoghi ivi indicati usa un’arma legittimamente detenuta o altro mezzo idoneo al fine di
difendere:

1. La propria o la altrui incolumità;


2. I beni propri o altrui, quando non vi è pericolo d’aggressione.
Comma 3: ‘’ la disposizione di cui al secondo comma si applica anche nel caso in cui il fatto sia
avvenuto all’interno di ogni altro luogo ove venga esercitata un’attività commerciale,
professionale o imprenditoriale.’’

La prima cosa da osservare che questi due commi quindi questa nuova disciplina si riferisce alle
ipotesi previste nel primo e secondo comma dell’articolo 614 c.p.

L’articolo 614 c.p. punisce la VIOLAZIONE DI DOMICILIO.

Il concetto di ‘’DOMICILIO’’ viene indicato perché ‘’ abitazione, altro luogo di privata dimora’’ quindi
può essere una casa di villeggiature ecc.

Ad esempio: un invitato a cena non viola il domicilio.

Ad esempio: viene una persona, la faccio entrare mi accorgo che questo tizio mi vuole far compilare
un contratto per la luce. Gli dico di uscire. Lui non esce quindi si trattiene contro la mia volontà.
Costituisce reato.

IL TERZO COMMA DELL’ARTICOLO 52 C.P.: estende anche al luogo in cui si svolge un’attività’.

L’esigenza era quella di rafforzare la tutela di questi luoghi: intervenendo su uno dei requisiti della
legittima difesa: ovvero sulla PROPORZIONE.

Abbiamo detto che deve essere necessario che sia stato costretto dalla necessità di evitare di
difendere se o altri dal pericolo attuale di un’offesa ingiusta. Alla fine, si dice sempre che la difesa
sia proporzionata all’offesa.

383
La disciplina è posta per lo più dal secondo comma dell’articolo 52 del Codice penale: stabilendo
una PRESUNZIONE DI PRESUNZIONE ovvero abbiamo visto ieri nell’originaria disciplina vigente
ancora oggi al 1 comma dell’articolo 52 c.p. è il giudice che deve valutare se ci sia o meno la
proporzione. Occorre precisare che prima si tratta di proporzione tra i mezzi mentre oggi si parla di
PROPORZIONE DI BENE IN GIOCO.

Il 2 comma dell’articolo 52 c.p.: prevede che c’è sempre una proporzione. La parola SEMPRE è stata
introdotta il 18 maggio 2019. Esso statuisce: ‘’ sussiste il rapporto di proporzione di cui al primo
comma del presente articolo…’’. ci sono una serie di condizioni:

• La persona che invoca questa nuova legittima difesa deve trovarsi legittimamente nel
DOMICILIO. Esempio: il rapinatore o chi commette il reato non può avvalersi di questa
ampliata legittima difesa in quanto vale solo per quella persona che si trova nel domicilio
legittimamente come ad esempio il proprietario, un suo parente, un amico ecc.… perché il
secondo comma dell’articolo 52 c.p. richiami sia il primo che il secondo comma dell’articolo
614 c.p. non è legittimamente presente uno che era entrato legittimamente ma poi è stato
invitato ad andare via ed invece si trattiene. Quindi legittimamente significa che è entrato
legittimamente oppure essendo entrato legittimamente non si trovi nella situazione in cui il
proprietario lo invita ad uscire ed invece lui non esce. In altri termini: è illegittimo sia
l’ingresso contro la volontà del proprietario che il trattenersi dopo essere entrato
legittimamente contro la volontà del proprietario.
• Può usare un’arma o altro mezzo idoneo alla difesa legittimamente detenuta. Questo per
evitare una proliferazione dell’utilizzo di armi anche allo scopo di difendersi. L’uso dell’arma
deve essere al fine di difendersi non per altri ragioni. Ad esempio non posso vendicarmi.
• Che cosa difendere?
a) Si deve difendere la propria o l’altrui incolumità: più o meno è sempre stato
possibile utilizzare un’arma o un mezzo idoneo alla difesa. Se è in gioco l’incolumità
di una persona anche con la vecchia disciplina ci si poteva difendere. Il termine
incolumità significa vita o integrità giustifica da sempre le più gravi reazioni possibili.
Non ci poteva essere proporzione tra beni patrimoniali e beni personali della vita. Ma
quando viene minacciata la mia incolumità (pericolo di vita, violenza sessuale), anche
prima ci si poteva difendere con un’arma; dunque sotto questo profilo possiamo
ritenere che la riforma del 2006 non abbia aggiunto niente di particolare.
b) Inoltre, si devono difendere anche i beni propri o altrui, quando non vi è desistenza
ma vi è pericolo di aggressione: è norma scritta male. È stata molto criticata dai
penalisti italiani. l’espressione ‘’se non vi è desistenza’’ è un’espressione del tutto
pleonastica perché se l’aggressore desiste quindi si allontana, va via, sappiamo che
non vi può essere legittima difesa. Si aggiunge poi ‘’SE VI È PERICOLO
D’AGGRESSIONÈ’: ci si chiede l’aggressione a che cosa? Qui è possibile fare 2 letture:
➢ BENI PERSONALI: è un’interpretazione che renderebbe legittima la nuova
legittima difesa ma del tutto inutile perché già viene detto nella lettera A
l’incolumità.

384
➢ BENI PATRIMONIALI: subito dopo si dice se vi è pericolo d’aggressione.
Quindi aggressione a questi stessi beni patrimoniali?
No, poiché già si vogliono difendere i beni patrimoniali quindi si presuppone che
già vi è un’aggressione ai beni patrimoniali.
Allora aggressione alla persona? Così si ritorna al pericolo della propria
incolumità. È una norma strutturata male perché supponendo che l’attacco sia
diretto ai beni patrimoniali poi questa aggiunta pericolo di aggressione è
superflua.

Fermiamoci sui beni patrimoniali: la corte di cassazione dal 2006 ad oggi nelle non molte sentenze (
vi sono circa 50 sentenze. Quindi 4 sentenze della cassazione all’anno) su questa ipotesi di legittima
difesa domiciliare. La corte di cassazione ha dato un’interpretazione costituzionalmente orientata (
la norma in questione viene letto non da sola ma in riferimento con la costituzione): la costituzione
in modo implicito e sicuro che non ci può mai essere proporzione tra beni patrimoniali e bene della
vita. Quindi con questo riferimento alla costituzione, la corte di cassazione ha regolarmente escluso
che i beni analizzati dalla lettera B al secondo comma posso essere beni patrimoniali.

In altri termini: non è giustificato chi per difendere beni esclusivamente patrimoniali usa un’arma
contro un'altra persona. Lo si ricava anche da un vincolo costituzionale fortissimo dato dall’articolo
2 della CEDU: le norme della cedu sono norme interposte nel giudizio di legittimità costituzionale ai
sensi della norma parametro che è l’articolo 117 della costituzione. L’articolo 117 della costituzione
stabilisce che la potestà legislativa è esercitata dallo stato e dalle regioni nel rispetto della
costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi
internazionali.

Le norme della cedu devo essere rispettate ai sensi dell’articolo 117 della costituzione dal
legislatore italiano ordinario.

Cosa stabilisce la cedu al riguardo?

Dopo il primo articolo che è una sorta di preambolo in quanto dice che le parti contraenti
riconoscono ad ogni persona i diritti e libertà riconosciute al titolo primo della presente
convenzione. Il primo di questi diritti all’articolo 2 è il diritto alla vita.

Articolo 2 comma 2 della cedu si sancisce: la morte non si considera cagionata in violazione del
presente articolo se è il risultato di un ricorso alla forza resosi assolutamente necessario:

a. Per garantire la difesa di ogni persona contro la violenza illegale.


Altri termini: La morte può essere provocata attraverso il ricorso alla forza quando questo è
assolutamente necessario.

Violenza significa un atto contro l’incolumità della persona. Si può uccidere qualcuno per difendersi
quando è assolutamente necessario e se si tratta di difendere la persona da un attacco violento.

Se il legislatore nazionale stabilisce che è possibile difendere dei beni patrimoniali utilizzando le
armi, questo risulti proporzionato anche nell’ipotesi che si provochi la morte; questa disposizione
risulta contraria all’articolo 2 della cedu e l’articolo 117 costituzione.

385
Dal 2006 ad oggi non abbiamo mai avuto una dichiarazione di incostituzionalità perché la corte di
cassazione ha sempre interpretato questa disposizione in modo conferme ai principi costituzionali.

Dottrina e giurisprudenza avevano sempre fatto notare che questo secondo comma incide soltanto
il rapporto di proporzione. Non riguarda tutti gli altri requisiti della legittima difesa che devono
essere presenti (pericolo attuale di un’offesa), compreso la necessità di difendersi.

Quindi il requisito della necessità non viene meno. Cosi che escluso che si tratti di beni patrimoniali
perché questo è contrario alla costituzione ma anche all’articolo 2 della cedu, riferendosi comunque
a beni personali questo rapporto di proporzione ai sensi dell’articolo 52 è sempre esistente va
riferito al caso in cui sia necessario difendersi con armi perché ad esempio se arriva il ragazzino che
commette furti che entrata in un negozio che ruba la borsa della signora basta dare una spinta o
uno schiaffo quindi non è necessario utilizzare l’arma.

In conclusione: la portata innovativa della modifica del 2006 era molto scarsa perché nonostante
la dichiarata intenzione del legislatore, un po’ per la formulazione ma anche l’applicazione dei
principi costituzionali e della cedu, le conseguenze pratiche di un ampliamento erano quasi nulle.

Alberto Cadoppi scrisse un articolo affermando: ‘’ la nuova legittima difesa molto fumo e poco
arrosto ’’.

La lega si accorse che la riforma del 2006 non aveva prodotto nessun risultato apprezzabile: cosi vi
fu l’ulteriore riforma nel 2019.

Allora erano state fatte due osservazioni:

1. Se si fosse voluto dare un senso a questa riforma lo si sarebbe potuto intendere come invito
al giudice ha soppesare con attenzione la presenza di tutti i requisiti sulla legittima difesa
con un atteggiamento di comprensione nei confronti di chi è ingiustamente aggredito
tendendo conto che non è da sottovalutare l’ingiustizia dell’attacco portato nel proprio
domicilio. Quindi l’applicazione della legittima difesa la proporzione, la necessità sono dei
giustizi complessivo che il giudice deve fare tenendo conto di tutti gli elementi i quali sono
dosati.
2. La preoccupazione che questa riforma fosse letta come una sorta di incoraggiamento al
proprietario di un negozio, di una casa per tenere comportamenti particolarmente aggressivi
nei confronti di chi commette reati nella loro casa.
Dal 18 maggio si ha la nuova riforma:

questa riforma si ottenne perché si osservò che la riforma del 2006 non ebbe effetti desiderati; si è
approvato un pacchetto di misure ampie che non riguardano soltanto la legittima difesa ma anche
altre disposizioni tendenti complessivamente a rafforzare questo messaggio.

Esempio: chi commette reati nel domicilio (anche negozi), è visto con assoluto sfavore da parte
dell’ordinamento giuridico che combatte contro di lui in ogni modo e ogni mezzo.

386
Modifiche:

1. Riguarda la legittima difesa


2. Inasprimento delle pene per i reati commessi nel domicilio in particolare: (non occorre
saperli)
➢ la pena per la violazione del domicilio: è stata alzata era da 6 mesi a 3 anni, adesso
è da 1 a 4 anni.
➢ L’articolo 624 bis furto in abitazione: era 3 a 6 anni ora è 4 a 7 anni.
➢ L’articolo 624 bis al comma 3 furto in abitazione aggravato: era 4 a 10 anni, ora è 5
a 10 anni in più si stabilisce con la riforma del 2019 con la legge n 36 che si possa
accedere al beneficio della sospensione condizionale della pena soltanto se si è
risarcito integralmente il danno prodotto con il furto nell’abitazione.
➢ L’articolo 628 rapina semplice: era da 4 a 10 anni; adesso è 5 a 10 anni.
➢ L’articolo 628 al 3 comma rapina aggravata: era 5 a 20 anni; adesso 6 a 20 anni.
➢ Rapina pluriaggravata: era 5 a 20 anni. Adesso 7 a 20 anni.
L’obiettivo complessivo è quello di allargare il più possibile la non punibilità di chi si difende. La
nuova disciplina si riferisce esclusivamente alla legittima difesa domiciliare!! La legittima difesa al
primo comma non è stata toccata né dalla riforma del 2006 né da quella del 2019.

Quindi la non punibilità per chi si difende con esclusione più ampia della responsabilità penale,
esclusione della responsabilità civile (la legittima difesa esclude la parte civile. Non vi è risarcimento
del danno. Se uccido una persona in piena legittima difesa non risarcisco nulla perché commetto un
fatto legittimo per l’ordinamento).

Novità: vi è un’agevolazione processuale cioè corsie preferenziali perché si svolga velocemente il


processo penale contro chi ha commesso un reato per legittima difesa.

Questa filosofia di non punibilità è stata perseguita con 4 interventi:

1. Rafforzamento della disciplina del 2 e 3 comma dell’articolo 52 c.p.


2. È stato introdotto un nuovo 4 comma nell’articolo 52 c.p. con una nuova presunzione di
legittima difesa: mentre prima nel 2 e 3 comma la riforma riguardava solo la proporzione.
qui si presume la legittima difesa in toto.
3. Modifica alla disciplina per l’eccesso colposo di legittima difesa regolato dall’articolo 55
c.p.: vale per tutte le cause di giustificazioni.
4. Misure sul piano processuali.

MODIFICA AL 2 E 3 COMMA DELL’ARTICOLO 52 C.P.:

la modifica consiste nell’avere aggiunto la parola ‘’SEMPRÈ’:

nel 2006 il secondo comma prevedeva ‘’ vi è proporzione’’.

oggi si dice ‘’ vi è sempre proporzione’’.

la dottrina risponde: questa disposizione ancora una volta non significa niente perché continua ad
essere che vero che tra i beni patrimoniali e la vita non ci può essere proporzione.

387
I casi sono due: o il giudice fa un’interpretazione conforme alla costituzione o si rivolte alla corte
costituzione per sollevare la questione di legittimità.

NUOVO COMMA 4:

l’articolo 1 della legge nuova statuisce: ‘’dopo il 3 comma viene aggiunto il seguente: nei casi di
cui al 2 e 3 comma agisce sempre in stato di legittima difesa colui che compie un atto per
respingere l’intrusione posta in essere con violenza o minaccia di uso di armi o di altri mezzi di
coazione fisica da parte di una o più persone’’.

Spiegazione: siamo sempre in ambito della legittima difesa domiciliare o negozio. Ci si chiede se si è
voluto introdurre una difesa del domicilio come in America ( se qualcuno entra a casa puoi
sparare)?

in America possiamo parlare di questa cultura dell’utilizzo di armi per la storia di quel paese. Nel
1600 i coloni inglesi allontanandosi dalla madre patria inglese andarono in questo sconfinato paese
dove vi era i pellerossa, conquistarono molti territori dove si insediarono in località distanti da
centri abitati. Quindi l’impossibilità di ricorrere alla forza pubblica giustificava il fatto che ognuno
avesse a casa un fucile per difendersi da questi pericoli. Nella costituzione America è sancito il
diritto a possedere un’arma.

In Italia la situazione è diversa dal punto di vista della cultura ma anche della legislazione. Questo
nuovo 4 comma dicendo ‘’ nei casi di cui al 2 e 3 comma’’ fa riferimento al fatto che ci sia
un’aggressione all’incolumità da difendere.

Secondo il professore Spena si tratta di una difesa del domicilio. Secondo altri commenti si tratta di
una difesa nel domicilio.

In altri termini: non si tratta di una difesa del domicilio in quanto tale ma attraverso il richiamo del 2
e 3 comma una difesa nel domicilio di quei beni che sono indicati al 2 e 3 comma.

In questo 4 comma si presuppone che vi sia una violenza esercitata per entrare nel domicilio. Ci
sono due casi di legittima difesa:

1. Regolato dal 2 e 3 comma in cui il soggetto è nel domicilio, entra nel domicilio ma senza
violenza.
2. Casi di intrusione violenza con armi comma 4: è come se fossero saltati tutti i paletti posti in
quanto si presume che ci sia sempre legittima difesa se un altro entra violentemente.
Sembrerebbe saltare anche il requisito della NECESSITA’ DELLA DIFESA cioè uno entra con
violenza ed io lo uccido.
Il termine violenza può indicare anche una violenza sulle cose ma anche sulle persone.

Nella legittima difesa non sarebbe richiesta la necessità della difesa.

388
Commenti:

è pacifico che ancora una volta come in passato o il giudice interpreta questa cosa nel senso che
reintroduce il requisito della necessità ricavandola dalla costituzione; per quello che concerne
l’uccisione del rapinatore anche dall’articolo 2 della cedu ovvero sottopone alla corte costituzione la
questione della legittimità.

Secondo il professore il requisito della necessità è insito nel concetto stesso di difesa cioè un conto
è l’offesa un altro conto è la difesa. La difesa in un certo senso per necessità logica implica l’idea
stessa di necessità. Se non è necessario esercitare la violenza mi sembra che non si possa parlare di
difesa.

MODIFICA DELL’ECCESSO COLPOSO ARTICOLO 55 C.P.: L’eccesso colposo nell’uso di cause di


giustificazioni. Nel nuovo articolo 55 c.p. è stato limitato esclusivamente alla riforma nella
legittima difesa domiciliare.

Secondo comma articolo 55 c.p. nuovo: ‘’Infatti nei casi di cui ai commi 2 e 3 e 4 dell’articolo 52
c.p. la punibilità è esclusa se chi ha commesso il fatto per la salvaguardia per la propria o altrui
incolumità ha agito nelle condizioni di cui l’articolo 61 comma 1 n5 ovvero in stato di grave
turbamento derivante dalla situazione di pericolo in atto.’’

Si riferisce questo secondo comma alla difesa domiciliare. Si trovata in condizioni di minorata difesa
cioè è una circostanza aggravante per chi commette il reato. Il legislatore dice di essere stato
formulato male in quanto l’aggravante è per chi commette il reato non per chi viene aggredito. Ma
si può interpretare facilmente dicendo che la vittima era in condizione di minorata difesa che
sarebbero:

• Avere approfittato di circostanze di tempo, luogo o di persona anche in riferimento all’età


tali da ostacolare la pubblica o privata difesa.
L’eccesso colposo: dovuto dall’approssimazione, avere agito con fretta ecc.

Se l’eccesso è doloso quindi (eccedo in piena lucidità) non è giustificato.

Questa disposizione non viene applicata all’eccesso incolpevole.

Questo nuovo comma riguarda solo all’eccesso colposo.

Questo eccesso può derivare da due cose:

➢ NELLA CONOSCENZA: valuto male per fretta la situazione esistente


➢ NELLA ESECUZIONE MATERIALE: eccedo nel movimento, nel colpire.
L’eccesso colposo è diverso dalla legittima difesa nel senso che la disciplina dell’articolo 52 esclude
che il fatto sia contrario all’ordinamento. Non vi è responsabilità penale, civile, amministrativa.

L’eccesso colposo agisce sul piano della rimproverabilità. In questa situazione segue come nello
stato di necessità un obbligo di indennizzo nei riguardi della persona danneggiata. Questo è stato
disposto aggiungendo all’articolo 2044 del Codice civile un primo comma: dove vi è legittima difesa
non vi è risarcimento del danno.

389
Al danneggiato è dovuta un equo indennizzo la cui misura è rimessa all’equo apprezzamento del
giudice. L’articolo 55 comma 3 dice che l’attacco deve essere rivolto all’incolumità della persona.

GRAVE TURBAMENTO:

1. Deve essere provocato dall’azione dell’aggressore.


2. Deve avere un’incidenza nella mia reazione.
Deve essere un grave turbamento oggettivamente accertabile.

390
20/05/2019

Legittima difesa riepilogo:

per quanto concerne la riforma del 2006 introduce la legittima difesa domiciliare.

La riforma del 2019 introduce il 4 comma i quali fa riferimento al 2 e 3 comma quindi la legittima
difesa domiciliare: vi è un problema interpretativo in quanto il 4 comma introduce un’ipotesi di
difesa del domicilio come in America oppure legittima difesa nel domicilio ovvero secondo le
condizioni previste dal 2 e 3 comma allargate poiché nel caso di intrusione con violenza il comma
4 presuppone la legittima difesa.

Come abbiamo detto la questione sostanziale se la disposizione sia costituzionalmente legittima; al


riguardo vi sono due possibilità:
1. Se ce un reato di pericolo della persona non c’è incolumità
2. Se si tratta solo di difendere un bene materiale allora il giudice può effettuare
un’interpretazione conforme alla costituzione oppure sollevare la questione di
illegittima’ costituzionale.

Parte nuova:
è stato introdotto un comma 2 nell’articolo 55 c.p.: ‘’nei casi di cui ai commi 2 e 3 e 4
dell’articolo 52 c.p. la punibilità è esclusa se chi ha commesso il fatto per la salvaguardia per la
propria o altrui incolumità ha agito nelle condizioni di cui l’articolo61 comma 1 n°5 ovvero in
stato di grave turbamento derivante dalla situazionedi pericolo in atto.’’

Questa riguarda l’eccesso colposo solo alla legittima difesa nell’ipotesi del 2 e 3 e 4 comma
dell’articolo 52 c.p.

I gradi di turbamento sono due:

1. Minorata difesa
2. GraveTurbamento

Questo assume rilevanza quindi esclude il reato solo se ci si trova di fronte all’azione offensiva è
mirata alla salvaguardia della propria o altrui incolumità. Questo turbamento deve derivare dalla
situazione di intrusione.

L’eccesso colposo deve derivare da questa condizione di turbamento. Abbiamo osservato che
anche in Germania è cosi però si richiede un accertamento con caratteri oggettivo ovvero
attraverso una perizia, esame che accerti lo stato psicologico di chi agisce.

391
Questo grave turbamento sembra ragionevole intenderlo nel senso che abbia determinato un
indebolimento della condizione psicologica del soggetto ovvero lo stato di paura, di ansia non una
condizione di aggressione. Non sembra che questo tipo di turbamento possa essere una scusa che
uno è arrabbiato. Invece è lecito pensare che il turbamento abbia agito nel senso di determinare
uno stato di paura.

Aggiungiamo che la legge ha costruito una corsia preferenziale dal punto di vista processuale
perché modificando alcuni articoli del codice di procedura penale stabilisce che: vi sia una priorità
nel ruolo delle udienze per i fatti commessi in legittima difesa ma anche per la trattazione di
questi casi. Poi stabilisce che in caso di assoluzione o non si può fare il processo a carico di chi si è
difeso le spese di giustizia siano a carico dello stato con l’intenzione di alleggerire questo iter
veloce.

Posizione di GATTO: si manda un messaggio culturale ovvero chi si difende si trova dalla parte
della ragione. Bisogna valutare sempre con maggiore favore la condizione di chi si difende;
mandando un messaggio inverso all’aggressore.

La preoccupazione evidenziata nel 2006 per quanto concerne la legittima difesa domiciliare che
oggi è stata rafforzata con l’incremento dell’utilizzo delle armi.

Sicuramente questa disciplina prevista dal nuovo comma 4 è più favorevole rispetto a quella
precedente; il che significa che se per un fatto è ancora in corso un processo, si deve applicare
l’istituto della legittima difesa domiciliare.

La legge è stata promulgata il 3 maggio dal presidente della repubblica il quale manda un segnale
forte all’intera collettività con una serie di comportamenti:

1. Ha aspettato il 29° giorno per firma la legge


2. Ha aggiunto un messaggio al presi dente del senato, camera e al presidente del Consiglio
dei ministri dicendo che: a suo parere in ogni caso bisogna ritenere che rispetto al quadro
costituzionale di valori si debba accertare la necessità della difesa. Il 4 comma presuppone
che vi sia la legittima difesa quindi mira a superare l’accertamento del requisito della
necessità.
3. Saremmo fuori dal quadro costituzionale se uno pensasse di difendersi quando non è
necessario.
4. Il turbamento sempre nel senso conforme dalla costituzione deve essere inteso in senso
oggettivo: il turbamento deve essere accertato. Quando vi è un rischio per l’incolumità
non ci sarebbe di invocare questi requisiti.
5. Il giudice nell’apprezzare questi requisiti deve tenere conto delle particolari situazioni
specifiche.

392
Il presidente fece notare due errori tecnici perché nella redazione della legge di illogicità perché si
è disposto la sospensione condizionale della pena nei casi furto di abitazione, furto con violenza
alla persona ma non nel caso di rapina. Occorre specificare che la rapina è molto più grave del
furto.

6. L’osservazione del presidente per quanto attiene le spese di giustizia riguarda solo la
legittima difesa domiciliare.

Non si comprende bene questa differenziazione.

Riassunto delle riforme: nel 2006 è stata introdotta una prima che riforma la quale presumeva
soltanto la PROPORZIONE nel caso di legittima difesa domiciliare; si osserva che questa riforma
modifica pochissimo quindi se vi era un attacco l’incolumità la risposta era proporzionata. Se vi
era un attacco ad un bene materiale o patrimoniale non c’è secondo la costituzione un uso
legittimo di armi.

Ulteriore disciplina prevista dal 4 comma, in relazione all’ipotesidel 2 e 3 comma quando si


aggiunge l’intrusione con violenza quindi chi attacca entra con violenza a cose o persone; qui si
prospetta l’intera figura di legittima difesa.
Inoltre, sempre per la legittima difesa domiciliare vi è la regolamentazione dell’eccesso colposo
perché si avrebbe anche nel caso di grave turbamento.

Esempio: in un paese vicino Roma una ragazza di 19 anni uccise il padre con una coltellata in testa.
La ragazza era molto brava studiosa ecc.…il padre era un ex pugile il quale da tempo era vittima da
alcool o stupefacenti, già in passato aveva commessi reati di percosse, lesioni nei confronti della
moglie, della figlia; era stato denunciato. In una occasione di litigio , madre e figlia scappano; il
padre ubriaco le insegue nell’androne del palazzo la figlia tira fuori un Coltello colpendo il padre in
testa, uccidendolo.

Occorre osservare che vi è un omicidio; vi è un elemento negativo della condotta. L’androne è


domicilio. se è fuori dal domicilio: si applica solo il primo comma della legittima difesa.
Se è dentro il domicilio si applica il secondo comma.

Filippo Crispini, grande penalista del 900 diceva che il diritto penale è la parte speciale. La parte
speciale è decisiva perché quando qualcuno commette un fatto questo risulta penalmente rilevante
in quanto è previsto da una disposizione incriminatrice.

Se il fatto non è previsto da una disposizione incriminatrice nessuno può essere punito ai sensi
dell’articolo 1 del Codice penale.

393
Se il fatto che ha commesso tizio non è presente nella legge penale questo soggetto non può
essere punita. Questo può suscitare un senso di insoddisfazione: Se la legge prevede il fatto
commesso da tizio verrà punito in caso contrario non verrà punito.

Esempio: un oggetto che prima del 1988 avesse sfruttato una ragazza di 14 anni per fare
spettacoli pornografici guadagnandoci, non per il solo fatto della produzione di immagini
pornografiche non sarebbe stato punibile. Questo ci lascia insoddisfatti.

Alcuni comportamenti erano no già resti come l’omicidio, lesioni, percosse ecc. ma alcuni fatti
non rientrano nella previsione della fattispecie della tortura quindi non erano punibili. Allora
non potevano essere puniti per tortura ma per i fatti gravi commessi. Se il fatto non è previsto
come reato dalla legge, l’autore non può essere punito.

Quando abbiamo parlato dell’irretroattività della legge penale incriminatrice abbiamo analizzato il
caso CONTRADA: contrada era un funzionario della pulizia che attribuisce informazioni ad alcuni
mafiosi sulle indagini che si stavano svolgendo ed è stato condannato per CONCORSO ESTERNO
PER ASSOCIAZIONE MAFIOSA: il fatto di chi non essendo mafioso da un contributo dall’esterno alla
mafia facendo qualcosa che aiuta al mafioso.

Quando lui aveva commesso il fatto, la giurisprudenza italiana era incerta e indecisa sul fatto che si
potesse formulare questa ipotesi poiché vi è il reato di associazione mafiosa; però si riteneva ‘’ è
punito chi fa parte della mafia, è mafioso’’.

Nel 1996 arriva la sentenza che chiarisce: era possibile strutturare ai sensi dell’articolo 110 c.p.
del concorso di persone; il concorso di persone rispetto il reato quindi contrada venne
processato in quanto punibile.

La corte edu la quale dà ragione perché pure esistendo la legge ai sensi dell’articolo 416 bis c.p.
‘’associazione a delinquere di stampo mafioso’’: nel momento in cui aveva dato queste notizie,
non era prevedibile per il destinatario della norma che anche senza far parte della mafia, si
potesse essere puniti per questo concorso esterno.

La figura del concorso esterno era il risultato di una interpretazione nuova della giurisprudenza ai
sensi dell’articolo 416 bis.

Conclusione: pure esistendo già la legge, la nuova interpretazione della legge data dalla
cassazione rappresenta per il destinatario contrada, una cosa che rendeva non prevedibile la
punibilità del fatto commesso. Quindi non poteva essere punito, ed è stata revocata la
sentenza di condanna.

Non solo occorre che la legge esista prima del fatto ma è necessario che sia prevedibile la
punibilità alla luce anche dell’interpretazione attribuita dalla giurisprudenza per quella legge.
394
Se l’interpretazione amplia l’applicazione della legge esistente si può considerare
un’interpretazione non prevedibile per il destinatario quindi in quanto nuova norma incriminatrice
risulta inapplicabile dai fatti commessi in precedenza.

La conseguenza di questo è che l’approccio metodologico è diverso nello studio della parte speciale:
mentre nella parte generale si affrontano grandi principi, la parte speciale è centrata sull’analisi
meticolosa dei fatti che costituiscono reato con distinzioni che staccano in 4 rispetto al
comportamento penalmente rilevante.

L’esempio della tecnica casistica rispetto agli stupefacenti: in questo caso il venditore viene punito;
l’acquirente no.

Questa analisi dei fatti nella parte speciale esige il collegamento con tutte le regole studiate
nella parte generale.

Per le singole figure di reato esiste uno schema di esposizione che è uguale per qualsiasi reato.
Prima si guarda la figura di reato per vedere di cosa si tratta, poi ci si chiede chi sia il soggetto
attivo, bene giuridico protetto, da questo deriva una valutazione sulla sostanza del fatto, ovvero
se sia o meno offensivo. Poi si descrive la condotta. Poi si fa riferimento all’evento. Poi vi sono le
circostanze comuni, ma nei singoli reati troviamo circostanze speciali che riguardano dei reati ed
altri no. Ci possono essere problemi di tentativo o eventuali casi di punibilità del tentativo;
problemi di concorso di persone ma anche concorso di reato, ovvero se c’è un reato e un altro
vicino e simili saranno entrambi puniti oppure uno esclude l’altro per il rapporto di specialità
delle norme incriminatrici o rapporto di consunzione tra norme. Infine, sanzioni.

Noi studiamo i reati dei pubblici ufficiali o incarica di pubblico servizio. In certi casi viene punito solo
un pubblico ufficiale e non l’incarica di pubblico servizio.

Rispetto a queste ipotesi di reato , occorre pensare che da re concretezza attraverso una
disciplina giuridica alle scelte di politica criminale: occorre punire questo fatto oppure no. Questo
fatto merita l’applicazione della legge penale? Non occorre pensare a fatti clamorosi come
l’omicidio di qualcuno ma occorre pensare che questo è il risultato di una valutazione complicata
e delicata che chiama in gioco l’opinione della società rispetto ad un certo fatto.

Esempio: istigazione di suicidio. Nell’aborto: in Alabama è diventato fuori legge.

L’articolo 1 della costituzione tedesca statuisce che la dignità umana è intangibile. Di fronte a tale
articolo, la Corte costituzionale si è chiesta se interrompere la gravidanza risulti conforme a tale
articolo: ne ottiene che soltanto in presenza di altri certi elementi sia giustificabile di questa
opzione.

395
La scelta delicata trova espressione in una formulazione.

La norma penale ha anche una funzione prevenzione generale: impedisce il verificarsi di fatti che
turbano la vita della società. Questa prevenzione generale va concetto come prevenzione positiva.

396
21/05/2019 (bis, da leggere pure per integrazione)
Il diritto penale manda un messaggio culturale ai destinatari, comunicando quello che non si può fare
nell’interesse del mantenimento di una pace sociale, di una condizione civile e umana di convivenza.
Su questo bisogna dire che, innanzitutto, presuppone il consenso di chi lo riceve (una norma non
potrebbe mai imporsi se la generalità delle persone non l’approvasse implicitamente). L’effettività
delle norme dipende dalla loro accettazione: ci si convince che sia giusto non uccidere e rubare, se
non ci fosse questa convinzione sarebbe impossibile ottenere il rispetto di tali regole. Il diritto penale
ha l’ulteriore caratteristica di poter essere definito come “minimo etico comune”: un minimo di regole
comune a tutti.
Il diritto ha quindi un ruolo fondamentale.
La mafia usa la forza per sottomettere gli altri: ha una semplice e unica regola, che è quella che
comanda il più forte. Infatti, l’art. 416-bis al comma 3 definisce associazioni di tipo mafioso:
<<L'associazione è di tipo mafioso quando coloro che ne fanno parte si avvalgono della forza di
intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva
per commettere delitti…>>. Questo tipo di reato ha delle affinità con quelli contro la Pubblica
Amministrazione.

La parola corruzione ha due significati: uno più stretto, che indica le fattispecie di reato che hanno
questo nome (artt. 318/19/19-ter/21); e un senso più lato, che indica non una particolare figura di
reato, ma indica che le cose non vanno come dovrebbero.

(NEL LIBRO QUESTE COSE NON CI SONO)-> Dal processo Mafia Capitale si è visto che da alcuni anni,
un controllo della politica, degli appalti ecc. è stato realizzato da soggetti che hanno costituto una
organizzazione con le caratteristiche della mafia: si è visto che c’è una compenetrazione tra
associazioni mafiose e corruzione. In un primo momento, si è dubitato che teoricamente dal punto di
vista dell’applicazione delle norme giuridiche che questo fosse possibile: se la caratteristica
dell’associazione mafiosa è di imporsi attraverso l’assoggettamento alla forza non può essere che
l’associazione mafiosa corrompa, in quanto corrompere significherebbe un do ut des. Non sarebbe
tipico della mafia e non sarebbe possibile che corrompa, perché se corrompe non è mafia: questa era
stata prima obbiezione. Il procuratore Pignatone ha sostenuto una tesi diversa, cioè: è possibile che
la mafia, pur mantenendo le sue caratteristiche, ricorra anche alla corruzione, gestendo nel modo più
conveniente o l’uso della forza o la corruzione quando fosse più pratico.

Lo stesso si può dire per la concussione, che ha uno schema comune all’associazione mafiosa: ci si
avvale del potere per ottenere indebitamente qualcosa. Quindi l’abuso di un potere. La mafia è
un’associazione di cui può fare parte chiunque e che si serve della forza fisica per ottenere
l’assoggettamento e compiere il delitto. Nella concussione, invece, il pubblico ufficiale incaricato del
pubblico servizio, che ha un potere pubblico ne abusa per costringere taluno a dare a lui o un terzo
indebitamente denaro o altra utilità (art. 317 c.p.). In entrambi i casi c’è un potere, nel caso della mafia
è illecito, nel caso dei pubblici ufficiale legittimamente detenuto, però in entrambi i casi vi è un abuso
di questo per costringere qualcuno a fare o dare qualcosa di non dovuto. C’è una qualche vicinanza
tra la concussione e l’associazione mafiosa.
397
Il senso della violazione che i delitti contro la Pubblica Amministrazione, in primis la concussione, ma
anche gli altri, esprimono una distorsione dei poteri pubblici che offende il buon andamento e
l’imparzialità della Pubblica Amministrazione.

Si vedrà che ciò che le varie fattispecie di reato vogliono proteggere sono il buon andamento e
l’imparzialità della Pubblica Amministrazione. Imparzialità significa che tutti i destinatari dei
provvedimenti e delle attività della PA si devono trovare in posizioni pari, senza indebite preferenze.
Se in passato, la PA aveva funzioni meramente organizzativi all’interno dello Stato, oggi nello Stato
Sociale di diritto che si preoccupa del benessere dei cittadini (il Welfare State) la PA ha una quantità
di compiti enorme, per assicurare ai cittadini una serie di prestazioni e servizi di estrema importanza
che riguardano salute, sicurezza pubblica, istruzione… Una distorsione del potere in rapporto a queste
prestazioni che la PA fornisce ferisce i cittadini: non è un fatto di pura regolarità, si incide sui
destinatari dei servizi che sono privati di prestazioni o servizi essenziali per la qualità della vita.

La non imparzialità della PA è in rotta di collisione con il principio di uguaglianza sancito dall’art. 3
della Costituzione.
I delitti contro la pubblica amministrazione si trovano nel secondo libro del Codice penale, contenente
i delitti, nel secondo titolo. In particolare, il primo capo contiene i delitti compiuti dai pubblici ufficiali.
Per Pubblica Amministrazione si intende l’esercizio di tutte le funzioni dello stato. Nella ripartizione
dei poteri (legislativo, amministrativo-esecutivo e giudiziario) il concetto penalistico di pubblico
ufficiale ricomprende tutti e tre i poteri. Quindi è un controllo penale dell’esercizio del potere pubblico
in tutte le sue articolazioni. Questi reati assicurano il buon funzionamento del potere pubblico, senza
trattarsi di una tutela settoriale. Oltretutto, si pone il problema teorico-pratico che trattandosi di reati
i fatti di reato vengono accertati (e le relative sanzioni inflitte) dal giudice, il quale a sua volta esercita
il potere giudiziario, cosicché c’è il controllo da parte della magistratura sull’esercizio dei poteri
pubblici nel loro insieme. Questo crea dei problemi di aggiustamento e in alcuni casi di conflitto tra i
poteri. Il potere esecutivo-amministrativo, “politico”, in particolare, scalpita di fronte al controllo di
legalità da parte del potere giudiziario. I politici, da sempre, ma in particolare nell’ultimo trentennio,
lamento una indebita ingerenza della magistratura nell’ambito politico.

Si sono sentite giustificazioni inaccettabili: come se la legittimazione politica degli elettori escludesse
dal controllo sulla liceità degli atti compiuti. Questo si ripropone crea frizioni. L’argomento è che si
darebbe al giudice il potere di incidere sulla politica. Esiste una sfera in cui è teorizzato che ci sia una
non influenza del giudice penale: le immunità penali, area in cui chi esercita un potere (in particolare
membri del Parlamento o dei Consigli regionali) sono sottratti al controllo giudiziario nell’esercizio
delle loro funzioni, perché si vuole rendere l’esercizio del potere indipendente e sganciato dal potere
giudiziario. Nel nostro ordinamento questa garanzia si estendeva ulteriormente attraverso l’immunità
processuale, abolita per i parlamentari nel 1993: non si poteva essere sottoposti a processo nemmeno
per fatti non riguardanti l’esercizio delle funzioni pubbliche (furto, violenza sessuale…).

398
L’opinione unanime fu ai tempi che il parlamento avesse abusato di questa prerogativa a suo
vantaggio, impedendo processi che si sarebbero dovuti svolgere. Questo riguarda solo i membri del
parlamento, ma tutti coloro che esercitano il potere amministrativo-esecutivo sono controllati e
controllati e controllabili dal giudice penale quando e in quanto commettano un reato. Si dice che in
questo modo il giudice abbia in mano uno strumento politico: è un argomento inaccettabile perché il
nostro sistema costituzionale e processuale prevede una enorme serie di garanzie per lo svolgimento
del processo penale (ci sono tre gradi di giudizio, una serie di possibilità a favore della difesa, parità di
posizioni tra accusa e difesa), e anche se ci possono essere dei difetti c’è un apparato di norme di
funzionamento di uffici e principi costituzionali che assicurano che l’esercizio della funzione
giurisdizionale si svolga nel modo più corretto e imparziale. Può anche essere che in singoli casi ci
siano delle deviazioni, non si può escludere in quanto la giustizia è umana, ma in questi casi
l’ordinamento prevede delle modalità di revisione e alcuni rimedi.

Questa questione ha riguardato in modo particolare proprio il delitto di corruzione, perché negli anni
’70 ci fu un celebre processo (che riguardava l’acquisto di aerei militari) nel quale si disse che non si
poteva giudicare per corruzione un membro del parlamento perché se il giudice penale avesse dovuto
accertare la corruzione, avrebbe dovuto entrare nell’intimo delle motivazione, e quindi delle scelte
politiche fatte dal parlamentare, e stabilire perché aveva approvato una certa legge e quindi avrebbe
compiuto un sindacato sulle scelte politiche del membro del parlamento.

Mentre la costituzione specifica che i membri del parlamento non possono essere perseguiti per
opinioni espresse e i voti dati nell’esercizio delle loro funzioni, quindi sarebbe stata un’indebita
ingerenza. È interessante osservare che la commissione della Camera e il Presidente della
Commissione della Camera (Vassalli) che si pronunciarono sul caso, rifiutarono l’autorizzazione a
precedere. Vassalli, subito dopo, come professore di diritto penale, pubblicò un articolo in cui
sosteneva esattamente il contrario, cioè come il suo pensiero era che giudice penale potesse
sicuramente indagare rispetto ad un caso di corruzione, perché non si tratta di valutare
esclusivamente la scelta politica insindacabile, ma piuttosto di accertare un fatto materiale vietato:
l’accettazione di denaro o di utilità da parte di un membro del parlamento. Il giudice non può sindacare
le scelte del parlamentare, anche se il membro del parlamento sostenesse gli interessi di qualcun altro,
però non può accettare denaro o altra utilità e questo è un fatto che è assolutamente sottratto alla
sfera dell’immunità, e il giudice penale può e deve accertarlo. Quindi il controllo da parte del giudice
sull’esercizio del potere pubblico e/o politico è sicuramente da fare.

Nel 1930 il codice aveva concepito la tutela della P.A. alla stregua dei criteri di allora: la P.A., che nel
senso penalistico riguardava tutti i poteri dello Stato, doveva stare su un piedistallo rispetto al quale
era considerato un interesse pubblico la tutela del prestigio e dell’autorevolezza della P.A., ne andava
della figura dello Stato. Invece, con la Costituzione, l’art.97 implica qualcosa di totalmente diverso. I
valori costituzionali che devono essere assicurati sono il buon andamento e l’imparzialità. Buon
andamento significa che le funzioni pubbliche devono essere svolte nel modo corretto e senza danni
per la Pubblica Amministrazione; imparzialità significa non fare distinzioni fra i destinatari e che la P.A.
non deve avvantaggiare sé stessa a scapito dei cittadini.
399
Essendo cambiati i criteri, si rendeva necessaria una riforma dei delitti contro la pubblica
amministrazione, che tenesse conto della nuova impostazione costituzionale. Furono allora presentati
diversi progetti: uno dallo stesso Vassalli, uno da Martinazzoli ma non andarono in porto, fino a che
nel 1990 un altro che era allo stesso tempo senatore e penalista, Marcello Gallo, fece approvare molto
rapidamente la riforma dei delitti contro la P.A. con L. n.86 dell’aprile 1990, che è la più importante
delle modifiche rispetto al sistema dei reati come originariamente era configurato nel codice del 1930.
A questa legge sono seguite numerose ulteriori leggi di riforma, che hanno ulteriormente inciso
sull’assetto di questi delitti.

Innanzitutto, dopo la riforma del ’90 ci si accorse di una serie di difetti tecnici, che furono corretti già
con L. 181/1992. Dopodiché nel 1997 la L. 234 modificò il solo delitto di abuso di ufficio e quindi ebbe
a distanza di pochi anni un ulteriore trasformazione. Nel 2019 la legge n. 190, la legge c.d. Severino
(ministro della giustizia allora in carica) o anticorruzione, ha modificato alcuni reati. Ulteriori modifiche
sono state apportate nel 2015, e in ultimo la L. 3/2019 (c.d. legge spazza-corrotti).

1. Originariamente, nel codice, poteva essere commesso attraverso una condotta di appropriazione
o di distrazione (cioè distogliere una cosa dalla sua utilità per rivolgerla ad un altro scopo). Si ritenne
di “abolire” il peculato per distrazione, rendendo, nell’intenzione del legislatore del ’90, quegli stessi
fatti punibili a titolo di abuso di ufficio. Questo obiettivo di riforma non fu davvero raggiunto.
2. In passato c’erano due diversi reati quando la cosa di cui il pubblico ufficiale si appropriava
appartenesse ad un privato (art. 315) e le due cose sono state unificate in un unico reato all’art. 314.
La malversazione è scomparsa, l’art. 315 non c’è più, perché si è detto che non ha importanza se la
cosa di cui il pubblico ufficiale si appropria, appartenga alla P.A. oppure no.
3. È stato aggiunto all’art. 316-bis un nuovo reato, di malversazione a danno dello Stato quando non
si destinano alle finalità pubbliche i fondi pubblici che sono stati percepiti. Ma questa norma è stata
male inserita tra i delitti dei pubblici ufficiali, perché in realtà può essere commessa da chiunque,
mentre gli altri reati sono reati propri.
4. All’art. 316-ter è stato aggiunto il delitto di indebita percezione di erogazioni a danno dello Stato. È
una norma un po’ pleonastica perché, come si vedrà, i fatti sarebbero già punibili come truffa
aggravata ai danni dello Stato.
5. Riguardo l’art. 317, la legge del 2012 ha prodotto quello che è stato chiamato spacchettamento del
delitto di concussione, nel senso che originariamente la concussione poteva essere commessa in due
modi: o con la costrizione oppure con la induzione. Le due condotte sono state “spacchettate”, ma
nell’art. 317 è rimasta soltanto la condotta di costrizione, mentre la condotta di induzione è andata a
costituire una nuova figura di reato, introdotta dall’art. 319-quater, che si chiama induzione indebita
a dare o promettere utilità.
6. Sempre la legge del 2012 ha modificato l’art. 318, il primo che disciplina la corruzione, la quale era
“corruzione impropria”, che consisteva nel fatto di farsi pagare senza però che l’atto fosse contrario
all’ufficio e quindi illecito in sé. A seguito delle modifiche è denominata corruzione per l’esercizio della
funzione. In qualunque modo si accetti reato per eseguire una funzione il fatto è reato ai sensi di
questo nuovo tipo di corruzione.
400
7. È stato aggiunto un art. 319-bis con un’aggravante per i delitti di corruzione, nel caso in cui la
corruzione sia commessa per particolari utilità: conferimento di pubblici impieghi o stipendi o pensioni
o la stipulazione di contratti nei quali sia interessata l'amministrazione alla quale il pubblico ufficiale
appartiene nonché il pagamento o il rimborso di tributi.
8. È stato aggiunto l’art. 319-ter, per il delitto di corruzione in atti giudiziari. Prima il fatto che ad essere
corrotto fosse il giudice, il PM, il cancelliere… costituiva semplicemente una circostanza aggravante
del delitto di corruzione e, essendo semplicemente una circostanza, l’effetto di aggravamento poteva
sparire se per lo stesso reato ci fossero contemporaneamente delle attenuanti. Configurando, invece,
come figura autonoma di reato la legge ha autonomamente previsto la pena e anche le caratteristiche
del reato aggravandola in modo tale da non poter essere diminuita la pena attraverso le circostanze:
l’effetto aggravante non può essere azzerato.
9. La legge n. 300 del 2000 ha utilizzato quella che si chiama la tecnica di assimilazione del rapporto
tra il diritto interno e il diritto europeo, nel senso che ha considerato il trattato allo stesso modo in cui
vengono trattati dal diritto italiano interno certi reati contro la P.A. fatti commessi nell’ambito
dell’Unione Europea oggi. Quindi il peculato, la corruzione in ambito europeo e anche internazionale
sono reato per effetto della L. 300/2000, così come quando sono commessi dai pubblici ufficiali
italiani.
10. È prevista, sempre dalla legge 300/2000, attraverso l’art. 322-ter, una confisca obbligatoria dei
beni che costituiscono il prodotto o il prezzo del reato, e nel 2012 è stato aggiunto anche il profitto
del reato, cioè il guadagno ricavato dal reato.
11. L’art. 323, sull’abuso di ufficio, è stato completamente trasformato. Nel codice del 1930 era stato
definito da Padovani la “Cenerentola” dei reati contro la P.A., il reato contro la P.A. meno importante.
Aveva una funzione sussidiaria, di chiusura: qualunque fatto che non rientrasse nella previsione di
nessuna delle altre norme dei reati contro la P.A poteva costituire abuso d’ufficio. Invece, con la legge
del ’90 gli venne data una grande importanza: oltre ad essere puniti i fatti già punibili in precedenza,
la funzione sussidiaria viene abolita. Questo reato assorbì una serie di fattispecie che nel frattempo
erano state modificate o abrogate: parte dell’art. 324 (interesse privato in atti d’ufficio), che oggi
costituisce abuso di ufficio; parte dell’art. 328 (omissione in atti d’ufficio), che in qualche caso oggi
integra la fattispecie dell’art. 232; nonché secondo le intenzioni del legislatore parte del peculato (per
distrazione) che sarebbe dovuto confluire nell’abuso di ufficio.
12. È stato aggiunto nell’art. 323-bis un’attenuante per casi particolari.
13. È stato radicalmente modificato il delitto di omissione di atti d’ufficio; abrogato il delitto di
abbandono collettivo di pubblici uffici; è stata data una nuova definizione delle nozioni di pubblico
ufficiale e incaricato di pubblico servizio, cambiando radicalmente gli articoli relativi (artt. 357-358).
14. La riforma del 2015 ha innalzato le pene previste per alcuni reati, che sono state in qualche caso
ulteriormente aumentate nel 2019. Nel 2015, inoltre il legislatore è “tornato indietro” rispetto al 2012,
quando con lo “spacchettamento” aveva cancellato dall’art. 317 come soggetto attivo l’incaricato di
pubblico servizio. Nel 2015 è stato nuovamente inserito tra i soggetti attivi del relato di concussione.

401
15. Infine, nel 2019, sono state leggermente aumentate le pene, modificate alcune disposizioni
procedurali (per esempio, con la figura dell’agente provocatore, cioè uno che si infiltra negli uffici per
far scoprire che c’è una situazione di corruzione), e soprattutto è stata stabilita la non punibilità di chi
a certe condizioni denunci il reato, pur essendo autore del reato di corruzione, consentendo di
scoprire di più sull’altra parte.
Questo è molto rapidamente uno specchietto delle modifiche apportate.

Quando si parla di tutela dei delitti contro la Pubblica Amministrazione non si intende P.A. nel senso
del diritto amministrativo, cioè come cura degli interessi dello Stato che può essere funzione esecutiva
o di governo, ma si intende l’intera attività funzionale dello Stato, attraverso l’esercizio di tutti i poteri
dello stato, cioè: legislativo, esecutivo, amministrativo e giudiziario. I membri del Parlamento possono
rendersi responsabili di reati. Anche il corretto esercizio della funzione legislativa è tutelato da questi
delitti contro la P.A. in questo senso ampio, penalistico.
Nella riforma del 1990 si era parlato di attività giurisdizionale, un errore perché la giurisdizione spetta
esclusivamente al giudice, il quale pronuncia una sentenza, mentre va tutelata (come corresse la legge
del 1992) la funziona giudiziaria, di cui fanno parte anche gli uffici della pubblica accusa, gli ausiliari
del giudice e i soggetti estranei agli uffici giudiziari (es. periti, consulenti tecnici, testimoni…).
L’individuazione di questi poteri e del loro esercizio è stata ottenuta e modificata attraverso la
ridefinizione di pubblico ufficiale e incaricato di pubblico sevizio, perché chi svolge questa attività, che
va svolta lecitamente, sono queste due categorie di persone.

402
22/05/2019
I delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione:

Sono reati propri.

Ricordiamo alcune cose sui reati propri:


1. Sono rati che sono commessi solo da coloro che ne hanno la qualifica.
2. Nei reati propri, per il dolo, occorre la consapevolezza di averne la qualifica-> serve per
rendersi conto che si sta compiendo un’attività pubblica e non un’attività privata.
3. Il terzo non qualificato può concorrere nel reato, purché ci sia una condotta del pubblico
ufficiale. Può essere anche una condotta omissiva. -> ma ci deve essere anche una condotta
del pubblico ufficiale, anche in parte.
Quando l’azione esula completamente, ed è il caso dell’art 46, dove c’è il costringimento fisico per
commettere il fatto-> qui non c’è una condotta del pubblico ufficiale, e quindi non solo non
risponde il pubblico ufficiale, ma non essendoci l’azione di condotta del pubblico ufficiale, nessuno
risponde del delitto contro la pubblica amministrazione-> il terzo risponderà per il reato che ha
commesso (rapina, ecc).
Invece nel caso di stato di necessità o stato di incapacità indotto a commettere ad altri un reato->
in tal caso risponde chi l’ha costretto-> c’è una minaccia-> il pubblico ufficiale ha compiuto una
condotta, ma non ne risponde lui, perché è stato costretto-> e però questa condotta compiuta dal
pubblico ufficiale è sufficiente al che al terzo risponde per il reato del pubblico ufficiale -> quindi il
pubblico ufficiale non ne risponde, ma il terzo sì.

Ricordiamo altre cose:


1. Se il terzo concorre con il pubblico ufficiale, senza sapere che lo sta aiutando, ci sono due
possibilità:
• Che il fatto commesso senza la qualità di pubblico ufficiale non costituisca alcun
reato -> es: abuso di ufficio.
• Se pur in assenza della qualifica, il fatto in sé è tipico di un’altra norma
incriminatrice-> il terzo anche se non sa che sta aiutando il pubblico ufficiale a
commettere peculato, in questo caso si applica l’art 116 del c.p. che fonda una
responsabilità oggettiva, perché il terzo risponde del più grave reato contro la
pubblica amministrazione a titolo di responsabilità oggettiva.
2. Ricordiamo la definizione che il Pagliaro da di questi reati, come “reati propri a struttura
inversa”-> nel senso che normalmente il reato proprio è un reato nella cui struttura c’è un
soggetto che ha di per se una certa qualifica e in quanto tale può rendersi responsabili di
questi fatti-> qua invece è al contrario: cioè se qualcuno fa qualche cosa ed esercita una
funzione pubblica, questo fatto lo qualifica e quindi dalla qualifica deriva poi la
responsabilità per il reato proprio. Quindi prima viene la condotta che qualifica il soggetto
e poi viene la stessa qualifica-> questo discorso è collegato con il discorso che abbiamo fatto
parlando del soggetto attivo del reato.

403
Andiamo ora alla nozione di pubblico ufficiale, che è data dagli art. 357 e 358.

Non si ha idea di quanto sia difficile stabilire chi sia o no pubblico ufficiale incaricato di pubblico servizio.

Per renderci conto della difficoltà vi è il manuale Marinucci Dolcini in cui spiega questa definizione in 40
pagine -> perché varietà delle situazioni possibili è straordinaria e la Cassazione si è trovata tantissime
volte a valutare se questa o quella attività era esercitata in qualità di pubblico servizio.

Innanzitutto, ricordiamo che l’art 357 e 358 individua le tre funzioni pubbliche in riferimento ai tipici
poteri dello stato:

o Amministrativo;
o Esecutivo;
o Giudiziario
Ora per individuare l’attività legislativa e giudiziaria non sorgono particolari problemi, perché l’attività
legislativa è esercitata da un numero ristrettissimo di persone ben individuate (membri del parlamento
e/o consiglieri regionali); per l’attività giudiziaria la questione è un po’ più estesa, ma comunque non è
difficile individuarli e cioè si tratta di giudici, pubblico ministero, ausiliari del giudici come il cancelliere,
ma anche come il curatore fallimentare, il testimone, il perito di parte-> quindi anche l’attività
giudiziaria è abbastanza facile da definire.

I problemi nascono per la funzione amministrativa.

Dobbiamo fare un piccolo passo indietro, perché la dottrina fino al 1990 era divisa circa il fatto che
si dovesse adottare una nozione soggettiva o oggettiva di pubblico ufficiale-> oggettiva,
cioè dipendente dall’attività oggettivamente svolta; invece soggettiva, per vedere in che tipo
di rapporto si trovasse questa persona con la pubblica amministrazione. -> questo perché?
Perché l’art 357 era formulato diversamente e in modo ambiguo:

vecchia versione ART 357:


<<Agli effetti della legge penale, sono pubblici ufficiali: 1) gli impiegati dello Stato o di altro
ente pubblico che esercitano, permanentemente o temporaneamente, una pubblica
funzione, legislativa, amministrativa o giudiziaria; 2) ogni altra persona che esercita,
permanentemente o temporaneamente, gratuitamente o con retribuzione, volontariamente o per
obbligo, una pubblica funzione, legislativa, amministrativa o giudiziaria">>

La dottrina maggioritaria riteneva e preferiva una nozione oggettiva. -> la riforma del 1990 ha
definitivamente consacrata la nozione oggettiva. -> proprio in quegli anni anche nel testo unico
bancario e nel Codice civile, venivano utilizzati queste direzioni, cioè individuava le figure attraverso
un orientamento oggettivo, piuttosto sulla base di qualifiche soggettive.

404
Ora questa incertezza, subito prima del 1990 c’era stato il grande problema della qualificazione
degli operatori bancari, per i quali c’era stata una forte oscillazione da parte della Corte di
Cassazione, la quale aveva fatto propria la teoria soggettiva e quindi distingueva i bancari a seconda
se erano impiegati presso una banca privata o presso una di quelle banche di credito di diritto
pubblico->a partire dal 1981 la Cassazione si spostò con il suo orientamento e accolse la concezione
oggettiva e bisogna guardare non il rapporto di banca privata o banca di diritto pubblico, ma
l’attività svolta-> cioè l’esercizio del credito. -> quest’attività è di natura pubblicistica-> quindi tutti
coloro che esercitano un’attività di credito, esercitano un pubblico servizio. Da qui in poi ci furono
dei problemi, perché i bancari si videro attribuire delle responsabilità gravissime (non retroattive)
per reati più gravi (come peculato, ecc) .

Questo indirizzo poi, nel 1987, fu nuovamente modificato -> rimase ferma la giurisprudenza sulla
posizione oggettiva, quindi la qualifica dipende dal tipo di funzione esercitata oggettivamente, però
si mutò completamente orientamento riguardo alla natura di questa funzione. L’attività di credito
era divenuta una funzione esercitata in ambito privatistico, con caratteri privatistici-> quelli che
svolgevano quest’attività erano da considerarsi soggetti privati, non incaricati di pubblico servizio.

Torniamo alla definizione-> cioè individuare quali siano le caratteristiche della funzione amministrativa,
la quale è molto più variegata.

Osserviamo che in un primo tempo, nel’90, il legislatore era caduto in errore, perché aveva usato la
congiunzione “e” per indicare le caratteristiche della funzione amministrativa, richiedendo
simultaneamente e contemporaneamente che per essere considerata amministrativa, la funzione
avesse tutte le caratteristiche che ora andremo a vedere-> si accorse che nessun soggetto avesse queste
caratteristiche indicate, ma solo qualcuna di queste-> allora con la Legge del ’92 sostituì quella “e” con
una particella disgiuntiva “o”-> quindi è sufficiente essere caratterizzato da questo elemento o da
quest’altro.

Se leggiamo oggi lo stesso articolo 357:

<<Agli effetti della legge penale, sono pubblici ufficiali (1) coloro i quali esercitano una pubblica funzione
legislativa, giudiziaria o amministrativa.

Agli stessi effetti è pubblica la funzione amministrativa disciplinata da norme di diritto pubblico e da atti
autoritativi, e caratterizzata dalla formazione e dalla manifestazione della volontà della pubblica
amministrazione o dal suo svolgersi per mezzo di poteri autoritativi o certificativi (2).>>

405
Prima cosa:

• notare l’inciso “agli effetti della legge penale”-> consacra l’autonomia dei concetti e delle
nozioni penalistiche, rispetto a quelle del diritto pubblico.
• “disciplinata da norme di diritto pubblico e da atti autoritativi, e caratterizzata dalla
formazione e dalla manifestazione della volontà della pubblica amministrazione o dal suo
svolgersi per mezzo di poteri autoritativi o certificativi”-> quindi come primo indice si
individuano:
➢ le fonti della disciplina
➢ poi si individuano le caratteristiche
➢ e poi le modalità con cui si svolge.
• <<disciplinato da norme di diritto pubblico>> proprio questa è la parte più complicata.
Mentre gli <<atti autoritativi>> sono quelli che esercitano una potestà di imperio e
impongono a un soggetto di fare qualche cosa. Poi è caratterizzata dalla <<formazione o
manifestazione della volontà della pubblica amministrazione>> (es bando di gara,
oppure atti di disposizione del sindaco.
E infine << o dal suo svolgersi per mezzo di poteri autoritativi o certificativi>> -> cioè
quelli che esercitano una certa forza morale su qualcuno; e quelli certificativi sono quelli
che attestano delle cose (atto pubblico per esempio).
La parte più complicata è <<disciplinata da norme di diritto pubblico>> -> e quali sono le norme di diritto
pubblico diverse da quelle di diritto privato? Si individuano alcuni elementi che caratterizzano il diritto
pubblico che lo distinguono dal diritto privato:

❖ Le norme di diritto pubblico sono a soggetto vincolato, cioè riguardano sempre la pubblica
amministrazione.
Mentre le norme di diritto privato si rivolgono a soggetti privati.
❖ L’esercizio della libertà è regolato in modo diverso, perché per il privato c’è una assoluta libertà
di disposizione-> un privato può decidere liberamente senza nessun particolare vincolo,
secondo quanto dispone la legge.
Mentre la pubblica amministrazione non è libera allo stesso modo, perché esercita un potere
discrezionale, quindi la libertà è vincolata dal fatto che la pubblica amministrazione agisce
sempre in vista di un fine pubblico, non può fare ciò che le pare!
❖ Per quanto riguarda la sanzione: le sanzioni nell’ambito del diritto privato normalmente
vengono attivate su iniziativa di parte;
mentre le sanzioni di diritto pubblico sono previste di ufficio.
❖ E infine, la posizione dei soggetti-> le norme di diritto pubblico determinano a vantaggio di
qualcuno (la p.a.) una posizione di supremazia, rispetto ad altri soggetti;
mentre le norme di diritto privato pongono i soggetti la cui attività è regolata in condizione di
parità tra di loro.
Questi 4 indici sono idonei ad indicare quando ci si trovi in presenza di una pubblica funzione
amministrativa.

406
Abbiamo così individuato le funzioni amministrative-> ricordiamo che non ha nessuna importanza se si
tratta di un soggetto privato (come l’esempio del notaio, o il privato che esegue un arresto in flagranza
art 383 codice procedura penale).

Secondo Pagliaro, addirittura, sarebbe pubblico ufficiale l’usurpatore -> art 347 c.p. punisce come reato
il fatto di usurpazione delle funzioni pubbliche-> cioè uno che non ha nessun titolo e usurpa una
funzione pubblica. E però dice Pagliaro-> dopo che abbia usurpato questo soggetto, la esercita di fatto
e dunque anche l’usurpatore andrebbe considerato pubblico ufficiale di fatto.

Si può dire che l’incaricato di pubblico servizio sia un ruolo più ampio di quello di pubblico ufficiale->
cioè il pubblico ufficiale sarebbe tra tutti gli incaricati di pubblico servizio uno che addirittura ha una
specifica posizione, cioè quella di esercitare una funzione pubblica-> perché è facile accorgersi che dalla
definizione dell’art 358 che la posizione viene individuata allo stesso modo, ma con una differenza, cioè
che l’incaricato di pubblico servizio non esercita poteri nello svolgimento del servizio, quindi

Quindi ciò che differenzi il pubblico servizio dalla pubblica funzione-> è che nella pubblica funzione si
esercitano poteri e nel pubblico servizio no.

Questo soggetto può essere anche un privato e ci sono tantissimi esempi di soggetti privati che siccome
svolgono un’attività che è propria della pubblica amministrazione, in quanto risponde a un interesse
pubblico, vanno considerati incaricati di pubblico servizio-> esempio: una ditta che per appalto ha
ottenuto la manutenzione delle strade-> siccome la manutenzione della strada risponde ad un servizio
di interesse pubblico, è considerato pubblico servizio-> e anche se lo svolge una società per azioni, è
da considerarsi uno svolgimento di pubblico servizio.

❖ Quando le aziende comunali sono state privatizzate, il fatto che l’attività fosse svolta nell’ambito
del diritto privato-> non significa che si tratti di un’attività privata, perché per es. la distribuzione
dell’acqua è un interesse pubblico, quindi chi la esercita sta svolgendo un servizio pubblico.
❖ Ci sono situazioni ancora più complicate-> per es. le ferrovie: mentre l’attività di trasporto è
privatistica, l’attività di manutenzione è un’attività pubblicistica.
❖ Cosa simpatica successe alla Rai quando Pippo Baudo fu accusato di corruzione, perché si
pensava che avesse favorito una società per acquisizione di pubblicità durante una sua
trasmissione, senza rendersi conto che la Rai contemporaneamente svolge attività di servizio
pubblico (telegiornale, previsioni del tempo) e altre attività privatistiche (film , varietà ecc)->
quindi la trasmissione di servizio di Pippo Baudo non è un servizio pubblico, è un’attività
commerciale che la Rai svolge in un sistema privatistico.
❖ Oppure il medico che per es redige la cartella clinica del malato e quindi certifica che Tizio sia
ricoverato presso quell’ospedale e redige un atto-> in questo momento il medico sta svolgendo
la funzione di pubblico ufficiale. Mentre nel momento in cui cura, visita, sta svolgendo un
servizio pubblico, perché non ha poteri autoritativi nei confronti del malato. Se organizza il
reparto svolge una funzione pubblica. Se invece fa il medico si tratta di servizio pubblico.
Bisogna guardare la tipologia di attività.

407
Storicamente è stata proprio la legge del 1990 che ha fatto nascere i più significativi problemi per
la successione delle leggi penali nel tempo-> in riferimento all’art 324 c.p. La giurisprudenza ha
ritenuto che i più gravi fatti di interesse di ufficio, cioè avvantaggiare se stesso erano diventati
abuso di ufficio-> quel comportamento continuava ad essere previsto come reato sotto il profilo di
abuso di ufficio-> e quindi nel passaggio dal vecchio al nuovo regime, si poteva continuare ad essere
puniti ai sensi della nuova norma. -> prima punibile e dopo punibile-> “il concreto fatto illecito (il
concetto i Pagliaro). Mentre una parte dei comportamenti che erano previsti dall’art 324, quelli
meno gravi cioè-> la cassazione dopo l’abrogazione dell’art 324 ha detto che non si era più punibili
per abuso di ufficio.

Quindi-> per le condotte più grandi di cui il soggetto si è avvantaggiato indebitamente, erano
sempre punibili; per un’altra parte le condotte meno gravi, non erano più punibili.

Entriamo nel dettaglio dei crimini e iniziamo dal:

“Peculato”

Art 314 c.p.-> il peculato è stato oggetto di diverse modifiche.

Innanzitutto, “peculato” è importante sapere che viene dal latino pecus, che indica il gregge, cioè
qualcosa di mobile, che si sposta, che però in una società antica dedita alla pastorizia , era un bene
mobile riguardante l’interesse pubblico-> infatti si distingueva in furtum, che era una sottrazione
di una cosa privata, dal peculatum che invece era l’appropriazione del gregge, considerato un bene
di interesse super individuale. E questa connotazione bene o male, il peculato ce l’ha ancora oggi,
perché consiste essenzialmente che un pubblico ufficiale o un incaricato di pubblico servizio (che
sono entrambi i soggetti attivi), ha il possesso di una cosa mobile altrui per ragioni del suo ufficio
o servizio e se ne appropria.

Ora iniziamo a vedere qual è il bene tutelato: c’è una diversità di posizioni-> secondo alcuni è un
reato contro la tutela del patrimonio; c’è un’analogia con il delitto di appropriazione indebita, dove
un privato che ha una cosa a titolo di deposito, invece di tenerla per deposito, se ne appropria-> ed
è un delitto contro il patrimonio. Allora si dice che il peculato è un delitto contro il patrimonio dello
stato-> questa concezione non può essere accolta e vedremo il perché.

È un delitto che offende gli interessi del buon andamento e dell’imparzialità della pubblica
amministrazione:

➢ buon andamento: perché la pubblica amministrazione privata di quel buon andamento che
serve per lo svolgimento delle funzioni pubbliche, non può funzionare nel modo giusto (il
prof universitario che si porta a casa un libro dalla biblioteca e se ne appropria-> priva il
pubblico di consultare quel libro e intacca la funzionalità della biblioteca, la quale offrirebbe
anche quel libro)
➢ imparzialità: perché c’è un vantaggio da parte del pubblico ufficiale.

408
Che cos’è che ci dice che non è un reato contro il patrimonio? Ce lo dice la ben maggiore gravità del
peculato rispetto ad una appropriazione indebita ai danni dello stato. Per fare questo facciamo un
confronto con la Truffa (reato contro il patrimonio)-> esistono forme aggravate di truffa che riguarda la
truffa ai danni dello stato e il fatto che il soggetto danneggiato sia lo Stato, determina un aumento della
pena rispetto la truffa comune-> per la truffa in generale vi è reclusione dai 6 mesi a 3 anni; mentre per
la truffa ai danni dello stato è da 1 anno a 5 anni-> la pena è più elevata.

Facciamo lo stesso confronto per appropriazione indebita per peculato-> la pena per l’appropriazione
indebita è della reclusione è dai 15 giorni fino a 3 anni -> la pena per peculato è da un minimo di 4 anni
a un massimo di 10 anni e 6 mesi-> è infinitamente maggiore rispetto all’appropriazione indebita.

Questo divario ci dice che il peculato non è leggermente più grave dell’appropriazione indebita, in
quanto l’appropriazione indebita è ai danni dello stato-> non è così! È una cosa ben più grave, perché
non si tratta di tutelare il patrimonio, ma c’è un aumento perché il bene non è più il patrimonio, non lo
è affatto, ma è il buon andamento e l’imparzialità della pubblica amministrazione.

Andiamo alla condotta illecita: c’è un presupposto, cioè che il pubblico ufficiale abbia in possesso o la
disponibilità:

art 314 c.p. Peculato: <<il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio che, avendo per ragione
del suo ufficio o servizio il possesso o comunque la disponibilità di denaro o di altra cosa mobile altrui,
se ne appropria, è punito con la reclusione da 4 a 10 anni e 6 mesi>>

il possesso non significa proprietà-> è di chi si comporta come dominus sulla cosa.

In che forme si può realizzare l’appropriazione? Con condotta di

o consumazione,
o alienazione (vendita, donazione, usufrutto)
o ritenzione (riceve delle somme che dovrebbe consegnare all’ufficio pubblico e invece le
trattiene).

Si è distinto che per l’appropriazione ci vuole l’espropriazione e l’impropriazione-> togliere la cosa alla
pubblica amministrazione e poi tenerla per sé.-> se manca uno dei due non c’è l’appropriazione, per es.
se la cosa viene abbandonata, manca il momento dell’impropriazione.

Ma la vera questione, che viene spesso chiesta all’esame, è il problema della distrazione: in passato nel
90, le possibilità di condotta erano due:

o appropriazione o distrazione
Distrarre significa rivolgere una cosa, che era destinata ad una finalità ad una diversa finalità. Questa
distrazione poteva avere diverse forme: -> il pubblico ufficiale può rivolgerla

➢ ad una finalità privata ( prende i soldi pubblici e si compra una casa)


➢ ad un’altra finalità pubblica, la quale a sua volta potrebbe essere o dello stesso ente o per un
altro ente pubblico.

409
In questi due casi in cui la cosa sia rivolta ad una finalità pubblica o di altro ente o dello stesso ente, la
dottrina riteneva che fosse esagerato considerare il peculato-> perché sì c’era un’irregolarità, ma non
c’è il grave disvalore del peculato, perché comunque lo si è utilizzato per il buon andamento della
pubblica amministrazione sebbene in un altro settore. Non sarebbe stato logico punire a titolo di
peculato.

La giurisprudenza però, sempre prima del 1990, riteneva che qualunque distrazione fosse peculato->
era una decisione esagerata.

Allora il legislatore disse di escludere questa modalità di realizzazione del peculato, cancellando la
distrazione, ma sarà punibile per abuso di ufficio, quando ha avvantaggiato se o un terzo.

Si cancellò la parola distrazione.

A questo punto Pagliaro e qualche altro fa una sottile relazione interpretativa e dice che sono cambiate
le parole, ma l’effetto è che prima la appropriazione era una species del genere distrazione, con la
riforma si deve ritenere che si sia completamente capovolto e che la distrazione sia divenuta una
species del genere appropriazione-> che vuole dire? Cioè in passato si poteva dire che il concetto più
vasto fosse quello della distrazione , perché in tutti i casi c’era la cosa che veniva distolta-> avendo tolto
la parola distrazione, dice Pagliaro, che non fosse più rilevante la distrazione, invece non è questo il
risultato-> perché con la parola appropriazione si può ricomprendere anche la distrazione.-> la
distrazione è diventata una modalità di appropriazione (consumazione-alienazione. Ritenzione –
distrazione).

Come si arriva a questa conclusione? Con due indicazioni date da Pagliaro: la prima accettabile, la
seconda è discutibile.

❖ Prima indicazione: il confronto con l’art 646, dove l’interpretazione corrente ricomprende nella
nozione di appropriazione anche quella di distrazione.
❖ Seconda indicazione: nel 1990 è stato aggiunto un secondo comma all’art 314 che prevede il
peculato d’uso-> e considera peculato l’uso momentaneo della cosa e allora se l’uso
momentaneo della cosa, è considerata una forma di appropriazione, sebbene meno grave, a
maggior ragione la definitiva distrazione della cosa deve essere considerata una forma di
appropriazione. Cioè se ne appropria momentaneamente e poi la restituisce-> questo è
peculato. Una definitiva distrazione a maggior ragione deve essere considerata appropriazione.
-> ma questo argomento non convince molto il Prof Parodi, secondo la sua opinione.

Analizziamo la struttura del fatto: cosa avviene nella distrazione?

Nella distrazione avviene che il pubblico ufficiale sebbene per un attimo si comporta uti dominus, come
se fosse il padrone della cosa, e poi la destina per ciò che gli piace. Quindi nella distrazione c’è il
passaggio attraverso una appropriazione. Questo fatto è stato confermato in qualche sentenza della
Cassazione.

410
L’ultimo passaggio è il buon senso giuridico, cioè-> se la distrazione è approfitto pubblico, il disvalore
sostanziale rispetto i beni tutelati non è tale da integrare il peculato. Il bene rimane per fini pubblici,
sebbene per altra finalità-> il disvalore è totalmente diverso quando questa distrazione/appropriazione
avviene a profitto privato e lì c’è tutto il disvalore del peculato, ovvero a profitto pubblico, ove la
struttura formale della condotta è uguale, ma il risultato è diverso, perché rimane avvantaggiata la p.a.
e beneficia della cosa in questione.

Conclusione del ragionamento è-> quando la distrazione avviene a finalità privata, questo integra,
nonostante la riforma, un caso di peculato-> peculato per appropriazione.-

411
22/05/2019 (bis, da leggere pure per integrazione)
Abbiamo visto che ci sono oggi tre diverse situazioni di legittima difesa art. 52 c.p. Abbiamo visto
che l'eccesso colposo determina una disciplina che è differente da quella che esclude totalmente la
rilevanza del fatto, perché vero è che il soggetto non è punibile , però non è esclusa del tutto la
responsabilità civile. Dunque, si tratta di una situazione intermedia, ibrida, dove la responsabilità
penale è esclusa, ma le conseguenze civili non sono escluse al 100%, come se fosse un caso di PIENA
LEGITTIMA DIFESA.

COMINCIAMO ORA LA LEZIONE SULLA PARTE SPECIALE (io considero questa lezione forse la più
importante di tutto l'anno !!!!!)

Nelle prime lezioni avevo accennato che Filippo Crispini, che è un penalista degli anni del'900 diceva
che : "IL DIRITTO PENALE È LA PARTE SPECIALE" . L'analisi delle singole figure di reato è infatti
decisiva perché quando un soggetto commette un fatto, questo FATTO è PENALMENTE RILEVANTE
SE E IN QUANTO È PREVISTO DA UNA DISPOSIZIONE INCRIMINATRICE DI QUELLA CHE CHIAMIANO
APPUNTO PARTE SPECIALE, PUO' ESSERE SIA NEL CODICE PENALE O ANCHE FUORI DAL CODICE
PENALE MA COMUNQUE È SEMPRE UNA LEGGE PENALE.

Se il fatto non è previsto da una disposizione incriminatrice, NESSUNO PUO' ESSERE PUNITO!
(ARTICOLO 1).

Se un fatto non è previsto dalla legge come reato, l'autore non può essere punito. Questo susciterà
sicuramente il nostro senso di indignazione, ma così è perché appunto quel fatto non rientra tra i
reati previsti dalla legge. Per esempio, se stringessi la mano ad un immigrato, potrei essere punito
qualora la legge preveda che manifestazioni di solidarietà nei confronti degli immigrati. Se ricordate,
quando abbiamo parlato dell'irretroattività della legge penale vi ho accennato del caso Contrada.

Contrada era quel funzionario di polizia il quale aveva dato informazioni ai mafiosi sulle indagini che
si stavano svolgendo senza essere lui mafioso ed è stato condannato per CONCORSO ESTERNO IN
ASSOCIAZIONE MAFIOSA. Quando lui aveva commesso il fatto la Giurisprudenza italiana , era
estremamente incerta e indecisa sul fatto che si potesse parlare di questa ipotesi, perché c'è il reato
di associazione mafiosa però si riteneva che andasse punito chi effettivamente fa parte
dell'associazione mafiosa, chi è quindi mafioso, non chi senza essere mafioso dà un aiuto esterno.
Nel 1996 la sentenza DEMITRI ha chiarito che era possibile strutturare utilizzando l'articolo 110 , il
reato di concorso di persona rispetto al reato associativo, pertanto Contrada era punibile e pertanto
fu processato. Si arrivò alla Corte dei diritti dell'uomo la quale gli ha dato ragione perché pur
esistendo già l'articolo 416 bis "ASSOCIAZIONE A DELINQUERE IN STATO MAFIOSO" nel momento
in cui egli aveva dato queste notizie, non era prevedibile per il cittadino, destinatario della norma,
che anche senza far parte della mafia si potesse essere puniti per questo "CONCORSO ESTERNO".

412
La figura del concorso esterno era il risultato di un'interpretazione nuova per la Giurisprudenza
dell'articolo 426 bis. CONCLUSIONE: pur esistendo già la legge, la nuova interpretazione data dalla
Corte di Cassazione, rappresentava per il destinatario della norma una cosa che rendeva non
prevedibile la punibilità del fatto commesso e quindi non poteva essere punito! Infatti, è stata
REVOCATA LA SENTENZA DI CONDANNA!

Per considerare un fatto reato e quindi il suo autore punibile è necessario dunque non solo che la
legge esista, ma è anche necessario che SIA PREVEDIBILE LA PUNIBILITA' alla luce anche dell'
INTERPRETAZIONE CHE LA GIURISPRUDENZA DA' DI QUELLA LEGGE PUR ESISTENTE. Se
l'interpretazione , cambia l'applicazione della legge esistente, si può considerare una prescrizione
del fatto non prevedibile per il destinatario e quindi trattandosi di una nuova norma incriminatrice
, non è applicabile a fatti commessi in precedenza.

Qual è la conseguenza di ciò? Che l'approccio metodologico è completamente diverso nello studio
della parte speciale, cioè dei singoli reati , perché mentre nella parte generale si affrontano grandi
questioni di fondo e di principio anche (colpevolezza, elemento soggettivo , eccetera), la parte
speciale è centrata sull'analisi meticolosa, puntuale, precisissima dei fatti che costituiscono reato,
proprio perché si tratta di dare applicazione e sostanza al principio di legalità . Allo stesso tempo
quest'analisi esige il collegamento con tutte le regole della parte generale che riguardano: il
soggetto attivo del rato, la descrizione della condotta, il nesso di casualità, l'elemento psicologico,
le circostanze aggravanti , le condizioni di punibilità, le sanzioni , il tempo e il luogo in cui il fatto è
stato commesso, eccetera.

Tutto quello che riguarda la parte generale, si applica poi al singolo reato, sotto i vari profili utili.

Per le singole figure di reato, esiste uno schema di esposizione, che voi troverete sempre puntuale.

Prima si dà uno sguardo di insieme per capire di cosa si tratta ( esempio se è furto o concussione) e
ovviamente leggere l'articolo x. Dopodiché ci si incomincia a chiede: chi sia il soggetto attivo. I nostri
reati sono TUTTI TRANNE UNO , REATI DEI PUBBLICI UFFICIALICONTRO LA PUBBLICA
AMMINISTRAZIONE.

L'espressione "pubblici ufficiali" indica in realtà il pubblico ufficiale l' incaricato di pubblico servizio
. La formula tecnica più precisa sarebbe: PUBBLICO UFFICIALE O AGENTE ricoprendo tutti e due. Si
usa però, ed è usata anche la legge, l'espressione di pubblici ufficiali con la consapevolezza che si
parla anche dell'incaricato di pubblico servizio. A volte però è utile distinguere, perché in certi casi è
punibile solo il pubblico ufficiale e non anche l'incaricato di pubblico servizio.

QUINDI: SOGGETTO ATTIVO: PUBBLICO UFFICIALE O L'INCARICATO DI PUBBLICO SERVIZIO;

SECONDO: BENE GIURIDICO PROTETTO: bisogna individuare perché come ben sappiamo,
dall'individuazione del bene giuridico deriva una valutazione del fatto, se sia o meno offensivo.;

TERZO: DESCRIZIONE DELLA CONDOTTA: in che cosa consiste il comportamento;

413
QUARTO: EVENTO O RISULTATO : la condotta causa, determina un certo risultato che va
considerato con le sue caratteristiche particolari;

QUINTO: CIRCOSTANZE : che riguardano quel particolare reato o gruppi di reati;

SESTO: TENTATIVO DI PUNIBILITA' : "tentativo" perché in qualche caso il soggetto non è punibile
per la struttura del fatto;

SETTIMO: PROBLEMI DI CONCORSO DI PERSONA;

OTTAVO: PROBLEMI DI CONCORSO DI REATI: cioè se c'è un reato e ce n'è un altro VICINO e SIMILE
saranno integrati tutti e due? O uno esclude l'altro? Per una delle due possibili situazioni che
conoscete: RAPPORTO DI SPECIALITA' TRA NORME INCRIMINATRICI, o RAPPORTO DI
CONSUNZIONE tra norme per cui il disvalore dell'una assorbe il disvalore dell'altra.

NONO: SANZIONI: e quindi le possibili conseguenze.

Ciascun reato presenta questo schema! Rispetto a queste ipotesi di reato, dovete pensare al fatto
che, si tratta di dare concretezza attraverso la disciplina giuridica, alle scelte di politiche criminali.
CIOÈ : "DOBBIAMO PUNIRE O NO QUESTO FATTO?" , "QUESTO FATTO MERITA L'INTERVENTO
DELLA LEGGE PENALE O NO PERCHÈ È SCARSAMENTE OFFENSIVO?" Questo è il risultato di una
valutazione complicata.

Prendiamo ad esempio il CASO MILVA, stabilimento di Taranto che con i suoi fumi , è stato
accertato, aumentasse i danni delle persone che abitavano nella zona di Taranto. D’altro canto, però
quello stabilimento dava lavoro a migliaia di persone. Cosicché all'interno della stessa città c'era un
contrasto tra quelli che giustamente desideravano lavorare e quegli altri che si rifiutavano di
respirare quell'aria. Quindi : da una parte la tutela della salute, bene assolutamente principale,
dall'altra la tutela del lavoro. Si sono succeduti nel tempo ipotesi di incriminazione, decreti del
governo fatti proprio per risolvere la situazione specificissima dello stabilimento di Taranto, nuove
leggi in materia di inquinamento; tutt'ora il caso è aperto. È un esempio questo, per farvi capire che
le soluzioni date dalla legge penale, non sono così semplici , ma il frutto di una scelta di incriminare,
che è la risultante valutazione complessa e mutevole nel tempo, rispetto alle difficili situazioni
concrete di una società .

La scelta difficile della legge penale trova espressione in una certa formulazione, è in quei limiti che
la legge consente di punire qualcuno . La norma penale ha anche una funzione di PREVENZIONE
GENERALE , che consente di evitare che siano commessi quei fatti che la legge considera
inaccettabili perché turbano la vita della società stesse. Questa prevenzione generale però viene
considerata quale prevenzione positiva a differenza di quanto affermato dai giuristi del'700 che
ritenevano che dovesse incutere timore della pena, oggi attraverso le leggi penali, si manda un
messaggio culturale , sociale ai destinatari della legge: ossia che è necessario per la società
conformarsi alle regole perché determinati comportamenti sono ritenuti inaccettabili dalla legge.

414
27/05/2019
Stiamo parlando del peculato e si è visto che la cosa più importante del peculato per distrazione,
cioè che il legislatore del 1990 avrebbe voluto cancellare, ma in realtà non è stato cancellato,
perché la distrazione è diventata una modalità di appropriazione-> che assume una rilevanza
penale quando la distrazione comporta una destinazione della cosa, dalla finalità pubblica verso
una finalità privata.-> in questo caso assume il disvalore tipico del peculato.

Mentre quando rimane un fatto di irregolarità amministrativa, quindi da una finalità pubblica, la
cosa viene distolta ad un’altra finalità pubblica-> non si può dire che vi è peculato, ma vi è abuso di
ufficio.

La legge n3 del 2019 ha introdotto una modifica a riguardo (ma ne parliamo dopo).

Dunque, la condotta è questa-> appropriazione che si realizza attraverso varie modalità (anche con
distrazione a profitto privato).

I. La prima questione che ci poniamo è il: Vuoto di cassa


➔ (chiesta molto spesso agli esami)-> è l’espressione con la quale si indica questo tipico
comportamento-> il pubblico ufficiale che gestisce una cassa e ha a disposizione del denaro, si
appropria di una parte di denaro-> dopo di che per coprire l’ammanco, preleva fondi da
un’altra parte e li versa in modo da coprire il vuoto da lui creato e così via con successivi
comportamenti, per non rendere evidente l’ammanco creato. Allora ci si chiede, che rilevanza
abbiano queste diverse condotte-> la risposta corretta è questa:
➢ la prima condotta, quella con la quale si crea il vuoto la prima volta è un peculato per
appropriazione.
➢ Le successive condotte invece non hanno rilevanza penale, non sono illeciti, perché
non c’è una sottrazione della somma, ma c’è solo uno spostamento che serve per
coprire il vuoto.
Il fatto che non ci sia un obbligo di rendiconto delle somme di cui il pubblico ufficiale si appropria, non
esclude che ci sia il reato.

II. L’oggetto del peculato: è denaro o altra cosa mobile o mobilizzata (mobilizzata = es il
condizionatore o una porta, che è fissa lì, ma si può staccare. A questo proposito rilevano anche
le energie, equiparate alle cose-> possono essere oggetto di furto. -> però non le energie
umane, cioè l’energia lavorativa -> le energie lavorative sottratte alla pubblica
amministrazione, non possono essere oggetto di peculato e il lavoro umano non può essere
considerato una cosa mobile.

415
Interessantissimo il caso delle telefonate, che è una questione di incertezza in giurisprudenza e in
dottrina -> nelle telefonate ci si chiede-> allora intanto noi con le telefonate ci appropriamo di energia,
perché il telefono funziona con scatti di energia e allora ci sono due tesi:

• che si tratti di peculato


• o di peculato d’uso (cioè il pubblico ufficiale usa quella cosa per un certo periodo e poi la
restituisce).
Allora ci si chiede: nelle telefonate in un pubblico ufficio, c’è un’appropriazione definitiva di questa
energia o c’è un peculato d’uso dell’apparecchio telefonico? E sono state sostenute in dottrina e
giurisprudenza entrambe le tesi. La più recente posizione della Cassazione è ritornata all’idea (che noi
ritroviamo nel libro), cioè che si tratta di peculato d’uso-> cioè che il soggetto si appropria
dell’apparecchio telefonico e poi lo restituisce. Perché? Quando l’energia non può essere appresa
direttamente , ma soltanto attraverso un apparecchio che funziona con quella energia, non c’è una
diretta apprensione dell’energia , ma piuttosto ci si appropria dell’apparecchio e non si tratterebbe di
peculato, cioè di appropriazione definitiva di energia, ma piuttosto di un’appropriazione temporanea
dell’apparecchio per fare le telefonate (questa è la tesi di Pagliaro e la più recente tesi della
Cassazione).

Ma secondo Parodi bisognerebbe distinguere a secondo delle tariffe telefoniche, cioè se si tratta di
una di quelle tariffe indipendenti dal consumo e allora effettivamente c’è appropriazione
dell’apparecchio e non dell’energia-> per la p.a. c’è una spesa sempre uguale, perché c’è una tariffa
fissa.

Invece se c’è una tariffa a consumo, e uno fa delle chiamate che consumano e costano moltissimo,
allora secondo il parere di Parodi, c’è un’appropriazione definitiva di quell’energia che fa scattare
i contatori del contratto e che determina un costo maggiore.

Questa è la personale idea del Prof Parodi.

La cosa di cui ci si appropria deve avere un qualche valore e quindi ci si è chiesto se appropriarsi di
uno scontrino usato sia peculato oppure o no-> questo perché? Perché ci si appropria di uno scontrino
usato? Per commettere una truffa-> qui non si può dire che si è fatto peculato, ma c’è una truffa
tentata o consumata-> perché il pezzettino di carta non ha nessun valore.

Deve avere un valore quindi-> se invece la cosa ha valore insignificante non si può dire che c’è questo
grave reato di peculato.

La cosa deve essere una cosa mobile “altrui”-> questo significa che può essere della p.a. o anche di
un privato, perché con la riforma del 90 si è riunito in un unico art 314, quelli che prima erano due
articoli 314 e 315, dove l’art 315 la differenza era che la cosa non apparteneva alla p.a., ma ad un
privato, ma la deteneva per ragioni di servizio-> queste due figure di reato sono state riunite in
un’unica senza differenza di trattamento.
416
Cosa mobile altrui “di cui egli abbia il possesso o comunque la disponibilità”-> queste parole si è detto
che sono state aggiunte nel 1990, prima si parlava solo del possesso. Qui c’è da dire due cose:

1. che il concetto di possesso non è quello del diritto privato, il quale è quella posizione che
legittima il possessore alle azioni di reintegro, ecc del codice civile.-> il possesso in questo caso
ce l’ha la p.a. -> non è un possesso civilistico e ciò è importante per confermare quel canone
interpretativo per il quale le nozioni penalistiche sono autonome rispetto a quelle del diritto
civile, ecc.
2. nel 90 oltre al possesso è stata aggiunta la disponibilità-> il possesso è un rapporto immediato
e fisico con la cosa; mentre la disponibilità è un rapporto mediatico attraverso atti giuridici
(ordine di pagamento per es), non con rapporto fisico con la cosa. Di questa cosa il pubblico
ufficiale deve avere il possesso per ragione del suo ufficio o servizio, e qua si distingue per
ragione di ufficio da in occasione del servizio->
• cioè “in occasione” indica un puro rapporto di contestualità temporale-> mentre svolgeva
il suo servizio, si è ritrovato ad avere un possesso della cosa ma non per ragioni di servizio.
• Mentre per “ragione di servizio” significa che quella cosa gli serve e la utilizza per svolgere
le sue funzioni o il suo servizio, ben diverso da una pura occasionalità -> per esempio se
viene consegnata al pubblico ufficiale una cosa smarrita perché la restituisca, questo non
è un possesso per ragioni di ufficio, ma in occasione. La differenza tra le due cose è molto
importante, perché: affinché ci sia peculato è necessario che questo possesso sia dovuto
per ragioni di servizio-> se invece la cosa non serve alla p.a. ,come l’oggetto smarrito, non
c’è il disvalore, cioè la situazione tipica del peculato-> quindi il pubblico ufficiale risponderà
di appropriazione aggravata dal fatto di aver commesso reato abusando dei suoi poteri,
perché ha agito da pubblico ufficiale.

III. L’aspetto psicologico soggettivo: è un rito doloso-> non si può commettere peculato per colpa.
È un dolo generico che si contrappone a quello specifico-> specifico significa che il soggetto
deve aver agito per uno scopo particolare, che non è detto che si realizzi. Vedremo che questi
reati sono caratterizzati da dolo specifico, come il peculato d’uso o la corruzione. Invece il
peculato no, perché è un dolo generico. Il pubblico ufficiale deve essere in errore . -> questo
errore escluderebbe il dolo, se non che la giurisprudenza è molto severa in generale e
sostanzialmente fa ricorso a quella teoria del dolo in re ipsa e non considera adeguatamente
le ragioni dell’errore che potrebbero aver escluso quel dolo.

IV. La consumazione del reato: la consumazione coincide con il momento dell’appropriazione->


mentre può essere punito il tentativo. Un terzo non qualificato può rispondere di peculato se
concorre con il pubblico ufficiale nella realizzazione-> questo terzo risponde di peculato,
purché il pubblico ufficiale abbia fatto qualcosa, cioè ci sia contributo del pubblico ufficiale->
se non ha fatto niente, allora non c’è peculato nemmeno per il terzo.

417
V. Concorso con altri reati: che rapporto c’è con altri reati? Il peculato è una forma qualificata di
appropriazione indebita commessa dal pubblico ufficiale su cose di cui ha il possesso per
ragioni di pubblico ufficio-> se mancasse la ragione di ufficio, non ci sarebbe peculato, ma
appropriazione indebita aggravata.
▪ Rapporto con la truffa aggravata-> sono due cose diverse: perché nel peculato il pubblico
ufficiale ha già lecitamente il possesso della cosa, ce l’ha perché gli serve per il suo ufficio.
Mentre nella truffa il pubblico ufficiale attraverso raggiri, si procura il possesso della cosa
illecitamente.
▪ Il peculato d’uso-> nel 1990 fu introdotto nel codice all’art 314 un secondo comma che
punisce il peculato d’uso, che consiste che il pubblico ufficiale si limita ad usare la cosa per
un certo tempo e poi la restituisce
Art 314:
<<Si applica la pena della reclusione da sei mesi a tre anni quando il colpevole ha agito al
solo scopo di fare uso momentaneo della cosa, e questa, dopo l'uso momentaneo, è stata
immediatamente restituita (6) >>

La cosa sembrerebbe semplice ma ci sono da dire un sacco di cose: innanzitutto è una


fattispecie autonoma e non una circostanza attenuante-> è un reato a sé stante. Invece di
appropriarsi definitivamente della cosa , se ne appropria per un certo tempo e poi lo
restituisce-> ma è sempre un reato autonomo.

Poi si deve ricordare che si dice “uso momentaneo”-> questo è il più tipico degli elementi
vari della fattispecie-> che significa “momentaneo”?-> è il giudice a dover apprezzarlo.
Questo “momentaneo” non è “istantaneo” (tipo 2 minuti), ma è apprezzato dal giudice in
relazione da ciò di cui si tratta.

Poi si deve ricordare che la legge usa una formula che sembra fatta a posta per trarre in
inganno “al solo scopo di fare uso momentaneo della cosa”-> e questo a prima vista è la
più classica delle ipotesi del dolo specifico. Alcuni autori ritengono che il peculato d’uso sia
un reato a dolo specifico-> lo scopo di fare l’uso momentaneo-> ma a guardare con
attenzione l’articolo << dopo l’uso momentaneo è stata immediatamente restituita>> ->
che significa? Che l’uso momentaneo è un requisito oggettivo del fatto, non è solo della
mente di chi agisce. Intenzione e realizzazione qui camminano di pari passo. Occorre lo
scopo di usare la cosa per un tempo limitato-> quindi si tratta di un dolo generico
intenzionale. -> quando l’evento è preso di mira come il fine ultimo del soggetto.

Altra cosa ancora da sottolineare: in una sentenza della corte costituzionale relativa al furto
d’uso-> esiste un reato di furto d’uso, cioè rubo una cosa, es una macchina, e poi la
restituisco-> la corte costituzionale ha deciso per il furto d’uso che se la restituzione non
avviene per cause indipendenti dalla volontà del soggetto, per cause di forza maggiore (es
incidente o la polizia sequestra la macchina) e quindi manca la restituzione, ma è sicuro
che il soggetto voleva restituire la cosa, questo ladro non risponde di furto semplice,
418
ma di furto d’uso, pur non avendo restituito la cosa-> perché la mancata restituzione non
è dipesa dalla sua volontà, ma una causa di forza maggiore.

Per analogia a favore del reo (in bonam partem)-> se nel peculato d’uso il pubblico ufficiale
si era appropriato della cosa con l’intenzione di restituirla immediatamente, ma non può
restituirla per cause di forza maggiore, non risponderà di peculato (grave), ma risponde di
peculato d’uso, sebbene non abbia restituito la cosa.

Ancora si deve dire che anche qua, questa appropriazione temporanea deve avere in
qualche modo diminuito il valore della cosa.

Ancora un’altra questione: il secondo comma dell’art 314 parla di “cosa”-> è stato notato
che la formula è diversa da quella del primo comma, perché nel primo comma si dice
“denaro o altra cosa mobile altrui”-> qui si dice solamente “cosa”-> allora che significa? Ci
si è chiesto-> si può commettere peculato d’uso sul denaro o no? E ci sono due
interpretazioni: quella di Pagliaro e della giurisprudenza e quella di altri autori come
Fiandaca Musco e Spena.
• Per i secondi si può commettere peculato d’uso anche con il denaro e dicono che se
non si è ripetuta la parola “denaro” è solo per ragioni di economia legislativa, per non
appesantire la definizione. Quindi si comprende anche la cosa, che è la tipica cosa
mobile.
• Secondo Pagliaro-> no! Non può essere il denaro e nessun’altra cosa fungibile-> dal
momento che si tratta di cosa fungibile, cioè può essere sostituita con altra cosa
equivalente, non può commettersi peculato d’uso, perché la cosa fungibile e quindi il
denaro, una volta entrata nel possesso del pubblico ufficiale si confonde con tutte le
altre che lui possiede e allora il pubblico ufficiale potrà restituire l’equivalente, ma non
quella identica cosa. Il peculato è definitivo-> è quello previsto dal primo comma!

Art 316 bis : Malversazione a danno dello Stato

I. cioè non destinare agli scopi che erano stati concessi dei contributi finanziari pubblici, frustrando
le finalità per le quali il finanziamento era stato concesso:

<< (1) Chiunque, estraneo alla pubblica amministrazione, avendo ottenuto dallo Stato o da
altro ente pubblico o dalle Comunità
Europee contributi, sovvenzioni o finanziamenti destinati a favorire iniziative dirette alla
realizzazione di opere od allo svolgimento di attività di pubblico interesse , non li destina alle
predette finalità, è punito con la reclusione da sei mesi a quattro anni.>>

419
Questo era stato disposto per regolare e coprire una fase degli abusi dei finanziamenti pubblici
successiva e diversa dalla truffa. -> esisteva già una truffa nei finanziamenti pubblici. -> però è
un reato contro il patrimonio sebbene dello stato.

Questo invece di cui stiamo parlando è contro la pubblica amministrazione-> e il senso è


questo: mentre la truffa presuppone che il finanziamento sia stato ottenuto illecitamente, con
raggiri propri della truffa; invece, nella malversazione non presuppone questo illecito
ottenimento, anzi implicitamente presuppone che siano stati ottenuti lecitamente. Il non
utilizzarli per lo scopo per il quale erano stati concessi non poteva essere punito come truffa
in linea di massima.
In nome “malversazione” non c’entrerebbe molto ed è stato ereditato dall’art 315, quello che
puniva il peculato quando le cose fossero di un privato, che prima si chiamava “malversazione
ai danni dei privati”-> malversazione , cioè usare male le cose-> e qui c’è una malversazione,
cioè una cattiva utilizzazione ai danni dello stato.

Qual è l’interesse tutelato? È un interesse particolare, perché si tratta sì del buon andamento
della pubblica amministrazione, ma sotto un profilo particolarissimo, cioè che possano
effettivamente realizzati e perseguiti e raggiunti gli obiettivi che lo stato si prefiggeva che
fossero raggiunti attraverso quei finanziamenti. Quindi è un bene? È un bene un po’
evanescente-> è la frustrazione degli obiettivi di politica economica da parte dello stato-> è un
interesse spiritualizzato.

È un concetto-> Lo stato con la sua politica ha deciso di disfarsi delle somme in questione
assegnandole a chi si trovi in quelle condizioni, quindi la diminuzione patrimoniale ci sarebbe
comunque -> cosicché se ci si mette nell’ottica patrimoniale, non è una diminuzione
patrimoniale, ma piuttosto che quel bene patrimoniale viene sviato e non utilizzato per quegli
scopi-> è una concezione non statica del patrimonio, ma dinamica.

II. Soggetto attivo: l’art 316 male è stato collocato tra i delitti dei pubblici ufficiali contro la p.a.->
perché? Perché questo è commesso da chiunque , estraneo alla pubblica amministrazione. Non è,
quindi, un reato proprio, non richiede una qualifica particolare, ma può essere commesso da
chiunque -> però va compreso “estraneo alla p.a.”-> che si intende? Non si intende che il soggetto
non debba avere alcun rapporto con la p.a., quindi che non debba essere un funzionario ecc-> non
è questo il senso-> perché se così fosse resterebbero impunti tutti quei casi in cui un soggetto che
pur essendo per esempio un impiegato, prende una somma per l’agricoltura e poi non la utilizza-
> questa persona così non sarebbe punibile-> ma non è questo il senso.

420
Il senso è un altro e cioè qua la parola “pubblica amministrazione” bisogna intenderla come se
fosse esercizio di una funzione pubblica o di un servizio pubblico-> cioè chiunque non
esercitando una funzione pubblica o non essendo incaricato di servizio pubblico, è punibile->
si deve intendere così, perché se invece il soggetto in questione esercita una funzione pubblica
e non utilizza la somma ecc, allora risponderà non di malversazione ai danni dello stato, ma
con uno dei più grandi reati contro la p.a. perché ha agito in qualità di funzionario-> per
esempio peculato o abuso di ufficio. Quindi se non ha quella qualifica risponde di
malversazione-> se è semplice impiegato dello stato, per esempio.

Quando uno non ha partecipato al provvedimento amministrativo con il quale sono stati
concessi quei contributi o con i quali si verifica che siano stati utilizzati, per fase di controllo->
chiunque non ha preso parte alla fase amministrativa , può essere chiamato a rispondere di
questo.

III. I contributi : devono essere stati ottenuti lecitamente e questo esclude il rapporto con la truffa->
se il contributo è stato ottenuto illecitamente si risponde per truffa.

Devono essere finanziamenti, contributi, sovvenzioni destinati ad un’opera di pubblico


interesse-> destinati a favorire iniziative per la realizzazione di opere o svolgimento di attività
di pubblico interesse.

Che si intende per opera di pubblico interesse? Ci sono due linee: quella di Padovani e quella
di Pagliaro.
❖ Pagliaro dice: per il solo fatto che uno abbia ottenuto dei contributi agevolati o a fondo perduto
o a condizione di prestito vantaggiosi ecc, già denota di opera di pubblico interesse e non
avrebbe nessun interesse a dare contributi a condizioni vantaggiose- > quindi vuol dire che c’è
un interesse pubblico.
❖ Altri dicono che bisogna accertare di volta in volta che quell’opera sia importante per il
raggiungimento di scopi pubblici-> questa individuazione è incerta.

IV. La condotta: dobbiamo ricordare che il Prof ci aveva detto che questo era un reato omissivo per
la sua struttura-> perché è punito chi non destina la somma dei contributi, allo scopo per il quale
è stato concesso-> il fatto penalmente rilevante è il non destinare.
Regolarmente all’esame gli studenti dicono “usa i soldi per un altro scopo”-> e non è così! Già
il solo fatto di non utilizzarli, sarebbe reato, perché è reato omissivo-> è punito chi non destina
i fondi-> questa mancanza può accompagnarsi che il soggetto usa questa somma per altre cose,
ma questo non è decisivo.
Struttura della fattispecie: reato omissivo in questo caso-> condotta tipica può essere
omissiva , ma anche commissiva. Per es. prendo i soldi, li metto nel cassetto e li lascio là->
reato omissivo. Ma può essere anche realizzato anche attraverso un fatto commissivo, ma si
tratta sempre di reato omissivo (non destinare), mediante commissione (prendo i soldi e
costruisco la piscina).
421
Queste modalità sono relativamente indifferenti, non ti interessa se uno ha usato i soldi o non
li ha usati, quello che è decisivo è che non li abbia usati per lo scopo per il quale erano destinati.
E qua ci sono da dire due cose, cioè:
➢ Può essere che dopo che il fondo sia stato realizzato, nel frattempo la realizzazione
dell’attività sia divenuta impossibile, perché non ci sono più le condizioni materiale
(devo costruire la vigna, ma c’è stata un’inondazione)-> in questo caso se è
materialmente impossibile, i fondi intanto vanno restituiti e poi bisogna informare delle
nuove condizioni, per dimostrare che non ci sono intenzioni negativi per commettere
reato.
➢ Omissivo è quando li mette nel cassetto (non a caso)-> perché se invece li mette in
banca, cioè li impiega, allora quella somma gli frutta qualche cosa e questo frutto è già
commissivo, che però non cambia molto, il reato c’è sempre.

➢ Può essere che l’utilizzo sia divenuto eccessivamente oneroso, cioè per realizzare una
certa industria nel frattempo i prezzi per realizzare quel tipo di attività sono triplicati e
i fondi che ho avuto, non mi bastano più-> anche qui devo informare la p.a. che l’opera
non è più possibile.
➢ Risparmio: uno ottiene 100€ e riesce a realizzare spendendo 80€, risparmiando 20€->
che cosa succede con questi 20€? Ci sono tre teorie:
• Prima teoria: Che debba restituirli e se non li restituisce risponde di reato
• Seconda teoria esattamente antitetica: se ha ottenuto un risparmio, buon per
lui-> lui l’opera pubblica l’ha realizzata, è riuscito a spendere di meno, ma si
tiene il di più perché è un vantaggio che va a lui , ma non c’è nessun danno per
la p.a.
• Terza teoria: bisogna valutare se la concezione del finanziamento preveda un
obbligo di rendiconto oppure no-> se prevede un obbligo di rendiconto significa
che la p.a. vuole sapere del modo in cui sono stati impiegati i fondi e quindi un
eventuale risparmio deve essere restituito.
Se non c’è un obbligo di rendiconto (contributi a fondo perduto), è possibile che
un risparmio del genere non sia reato, perché la p.a. non tiene conto di come
l’hai speso, purché realizzi quello che dovevi.

➢ Si realizza l’opera soltanto in parte: qui c’è il reato-> perché la parte di finanziamento che
doveva servire per quella parte di opera, non sia stata utilizzata.
➢ Ultima questione: se si utilizza una somma per un’altra finalità diversa da quella pubblica per
la quale era stata concessa-> bisogna valutare caso per caso e con attenzione quanto quella
particolare realizzazione fosse essenziale per la p.a.-> facciamo l’esempio che uno ottiene il
fondo per costruire una casa e sceglie di costruirla non in paese, ma in campagna-> non cambia
molto, ma se per esempio questo fondo era per la ricostruzione del centro storico di
particolare importanza: tu avevi un antico palazzo perché voglio che ricostruisci quel palazzo
storico, se tu fai una casa a mare, allora non realizzi la finalità del contributo.
422
V. Dolo: il dolo richiede la consapevolezza dei vari elementi (destinato a questo e non destinato a
quest’altro); mentre si distingue un dolo omissivo dalla semplice inerzia.
Inerzia vuol dire “trascuratezza”, senza nessuna volontà non fare qualcosa.
Dolo omissivo significa non fare con lo scopo e con l’intenzione di raggiungere un certo
obiettivo.
Quello che è richiesto è un puro dolo, non basta la semplice inerzia, cioè lasciare passare per
mancata intraprendenza, che sarebbe come una “colpa”-> occorre che il soggetto non destini
la somma perché non vuole destinarla per questa ragione. Non basta la semplice pigrizia tipica
della colpa.
Dovrebbero escludere questo dolo, degli errori sulle condizioni del finanziamento ecc-> se uno
commette questo, può essere escluso.

VI. Concorso di persone: e qua c’è una particolarità-> si è detto che è un reato che può essere
commesso da chiunque ma non possono concorrere il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico
servizio -> perché? Per le stesse ragioni che si è detto per il soggetto attivo-> se interviene un
pubblico ufficiale, quello che deve verificare che la finalità sia stata raggiunta e da pubblico ufficiale
, d’accordo con il privato che non ha utilizzato la somma, dichiara falsamente che l’opera è stata
realizzata e collaboro al fatto della malversazione-> in questo caso il pubblico ufficiale che realizza
una condotta del genere, risponderà per il reato suo proprio (abuso di ufficio) e allora anche la
condotta del privato viene attratta nel più grave reato del pubblico ufficiale. Perché si mettono
d’accordo, ed è concorrente per il reato del pubblico ufficiale.

VII. Concorso di reati: non ci può essere concorso con la truffa delle sovvenzioni pubbliche-> perché
la truffa per le sovvenzioni pubbliche, presuppone che illecitamente, mediante artificio o raggiro,
inducendo taluno in errore, ci si procuri un vantaggio a danno dell’ente pubblico.

Invece nella malversazione, la somma viene ottenuta in modo lecito-> quindi non ci può essere
concorso con la truffa, perché se la somma è procurata illecitamente=truffa; la giurisprudenza
punisce sia truffa che malversazione. Ma non è logica questa impostazione-> perché se uno ha
ottenuto illecitamente la somma, è impensabile che poi la vada ad usare per la finalità per la
quale gli è stata concessa, non ci può essere concorso.

La truffa può essere utilizzata anche nella fase dell’utilizzazione -> cioè ottengo la somma
lecitamente, ma poi mi rendo responsabile di truffa, come? Perché presento documenti falsi,
foto false, e faccio credere che ho realizzato l’attività-> si realizza una truffa non relativa
all’ottenimento, ma in una fase della gestione ed è punibile-> è rilevante in quanto truffa e non
come malversazione.

423
28/05/2019
Facciamo un cenno all’art.316 ter.

Anche quest’articolo, come l’art 316 bis, è collocato in modo poco opportuno tra i delitti dei pubblici
ufficiali, perché può essere commesso da chiunque. La rubrica è:

Indebita percezione di erogazioni a danno dello stato

Art 316-ter
<< (1)
Salvo che il fatto costituisca il reato previsto dall'articolo640bis, chiunque mediante l'utilizzo o la
presentazione di dichiarazioni o di documenti falsi o attestanti cose non vere, ovvero mediante
l'omissione di informazioni dovute, consegue indebitamente, per sé o per altri, contributi,
finanziamenti, mutui agevolati o altre erogazioni dello stesso tipo, comunque denominate, concessi o
erogati dallo Stato, da altri enti pubblici o dalle Comunità europee (2) è punito con la reclusione da sei
mesi a tre anni.

Quando la somma indebitamente percepita è pari o inferiore a 3999 euro e novantasei centesimi
si applica soltanto la sanzione amministrativa del pagamento di una somma di denaro da 5164 euro a
25822 euro. Tale sanzione non può comunque superare il triplo del beneficio conseguito (3).>>

Innanzitutto, è il comportamento di chiunque, quindi non esclusivamente il pubblico ufficiale, quindi


non è un reato proprio-> può essere commesso da qualunque persona.

L’art comincia con questa clausola “salvo che il fatto costituisca il reato previsto dall’art 640 bis-> che
è il vero problema interpretativo di questa disposizione. Perché l’art 640-bis è quello che punisce la
truffa nei finanziamenti pubblici, e quindi se il fatto costituisce truffa per i finanziamenti pubblici, più
severamente punita, non si applica questo articolo, ma soltanto il 640-bis (che prevede un’ipotesi
particolare di truffa, quando la truffa riguarda sovvenzioni o finanziamenti pubblici).

“il fatto” punito dall’art 316-ter consiste nel fatto di utilizzare documenti falsi o che attestano cose
non vere oppure nel non fornire delle informazioni necessarie e dovute, in modo da ottenere
indebitamente questi contributi.

Leggiamo l’art 640-bis per capire meglio:

Truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche:


<<(1)La pena è della reclusione da due a sette anni e si procede d'ufficio se il fatto di cui
all'articolo 640 riguarda contributi, finanziamenti, mutui agevolati ovvero altre erogazioni dello stesso
tipo, comunque denominate, concessi o erogati da parte dello Stato, di altri enti pubblici o delle
Comunità europee.>>

424
Si vede che è più grave dell’art 316-ter.

L’oggetto è lo stesso: mutui, contributi concessi dallo Stato o dalle Comunità europee.

Allora la differenza qual è tra il 316-ter e il 640-bis? La differenza sta in questo: che l’art 640-bis è una
forma di truffa e lo si è stabilito da “la pena è della reclusione se il fatto di cui l’art 640-> cioè la truffa”
-> allora leggiamo l’art 640 che prevede il delitto di truffa

Chiunque, con artifizi o raggiri , inducendo taluno in errore , procura a sé o ad altri un


ingiusto profitto con altrui danno, è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni e con la multa da
cinquantuno euro a 1032 euro .

La differenza fondamentale tra le due disposizioni 316-ter e 640-bis, dato che l’oggetto è uguale, sta
nella condotta. -> nell’art 640-bis si richiedono (collegandolo con l’art 640) artifizi o raggiri che
inducono taluno in errore-> ma allora l’unico elemento che differenzia le cose sta nelle modalità della
condotta:

• nella truffa ci vogliono artifizi o raggiri inducendo taluno in errore, errore che deriva da questi
artifizi o raggiri-> sono loro che provocano l’errore al soggetto
• invece dell’art 316-ter si richiede qualcosa che è un po’ meno, cioè l’utilizzazione di documenti
falsi o documenti che attestano cose che non sono vere, oppure omettere delle informazioni
importanti.
Allora, osserva Pagliaro, c’è questa piccola differenza-> nella truffa si richiedono dei veri e propri
imbrogli, qualcosa di più complesso e più artificiosamente organizzato; mentre per il 316-ter basta
qualcosa di meno, cioè la presentazione di un documento falso o omissione di indicazione, che non è
qualcosa di macchinoso e organizzato come la truffa.

Complessivamente l’art 316-ter ha voluto coprire una fascia di comportamenti che stanno al di sotto
della truffa, un po’ meno gravi, preparatori ad una truffa, punendoli. La previsione dell’art 316-ter
deriva da un’osservazione della comunità europea che chiedeva all’Italia di estendere la punibilità
anche oltre dallo spazio ricoperto già dalla truffa, intercettando questi comportamenti meno gravi.

È interessante osservare, ed è stato fatto osservare in uno dei primi commenti alla L 3/2019 “legge
spazza corrotti” che a questo articolo è stato aggiunto un comma, o meglio dire delle parole, cioè un
aggravante << se il fatto è commesso da un pubblico ufficiale o da un incaricato di pubblico servizio
con abuso della qualità o dei poteri>> -> quindi non chiunque, ma nell’ipotesi che il 316-ter sia
realizzato dal pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio.

A detta di Giovanni Flora, che commenta questa aggiunta: l’aggiunta era una norma ad personam
mirante a coprire gli illeciti commessi da esponenti di forze politiche e consistenti in fatti di peculato
per distrazione. Si voleva far sì che questa disposizione aggiunta nel 316-bis fosse speciale al peculato
per distrazione e punisse meno severamente il caso in cui questo venisse commesso da un pubblico
ufficiale-> in realtà si osserva che il bersaglio è stato preso male, perché questa novità riguarda il
momento dell’ottenimento di questi fondi, trattandosi di una truffa minore. Perciò l’introduzione di
questa variante non è riuscita.
425
Detto questo, passiamo alla:

Concussione
Che è sostanziosamente il cuore della riforma introdotta dalla L. 190 del Novembre 2012, che ha
riguardato alcuni altri aspetti, ma i più importanti sono due, cioè la “modifica della concussione con
l’introduzione di una nuova fattispecie” e “la trasformazione della corruzione impropria in corruzione
per l’esercizio della funzione”.

La concussione è stata trasformata anche con l’aggiunta del nuovo delitto previsto dall’art. 319-quater
“induzione indebita dare-promettere utilità” e la seconda trasformazione della corruzione detta
impropria.

Cominciamo dalla concussione:

nel libro troviamo solo la disciplina anteriore al 2012-> molte delle cose che sono dette rimangono
tuttora esatte con alcune differenze che ora indicheremo, che sono dovute sia alla legge del 2012 sia
a ulteriori disposizioni del 2015, sia per l’interpretazione che la corte di cassazione nella sentenza
“maldera”, ha fornito.

La concussione è prevista dall’art 317, ed è il più grave dei delitti contro la pubblica amministrazione-
> oggi la pena (che è andata cambiando), attualmente la pena della reclusione è dai 6 a 12 anni-> è la
più elevata per i delitti dei pubblici ufficiali contro la p.a. -> perché è la più elevata? Perché la
caratteristica di questo delitto è che oltre ad offendere il buon andamento della p.a. viene anche
conculcata e lesa la libertà del privato che è costretto a dare o promettere denaro o altra utilità.

Leggiamo l’art 317

<<Il pubblico ufficiale o l'incaricato di un pubblico servizio che, abusando della sua qualità o dei
suoi poteri , costringe taluno a dare o a promettere indebitamente, a lui o ad un terzo, denaro od
altra utilità, è punito con la reclusione da sei a dodici anni >>

Cominciamo dal bene tutelato: il bene tutelato sicuramente è il buon andamento e
l’imparzialità della p.a. , perché “buon andamento”-> perché il pubblico ufficiale si serve dei
suoi poteri di cui abusa, per piegare il privato a fare qualcosa che non dovrebbe fare,
indebitamente-> non è il modo corretto di utilizzare i poteri e il risultato non è corretto, e nello
stesso tempo c’è una violazione del principio di “imparzialità”, perché il pubblico ufficiale si
avvantaggia tenendo questo denaro e arreca un danno al privato che dà o promette denaro o
altra utilità.

426
Ora iniziano le differenze: nel libro troviamo che il privato, costretto a dare, non è soggetto
passivo del reato-> ma semplicemente danneggiato-> invece: la sentenza Maldera costruisce
la concussione come reato pluri-offensivo, cioè offende sicuramente il buon andamento e
l’imparzialità della p.a. , ma anche la libertà di disposizione del privato di disporre liberamente
i suoi beni-> il privato non solo è danneggiato, ma addirittura soggetto passivo del reato->
perché questa lettura da parte della cassazione?

Perché a seguito dell’introduzione di induzione indebita, si sono distinti i due reati “nuova
concussione” e “induzione” proprio anche attraverso il ruolo del privato, che nella nuova
concussione è pienamente vittima del pubblico ufficiale e titolare di un bene giuridico protetto,
mentre nel nuovo reato di induzione indebita, il privato è co-reo, punito insieme al pubblico
ufficiale sebbene meno.

Questo nuovo assetto dipende dal fatto che si usa questo termine, che l’attuale disciplina
deriva dallo “spacchettamento” della precedente concussione, la quale sino al 2012
prevedeva due diverse modalità attraverso due diverse condotte, cioè la condotta di
costrizione e la condotta di induzione-> prima erano insieme come modalità della concussione.
Oggi, invece, la concussione si realizza solo attraverso costrizione, il pubblico ufficiale che
costringe-> mentre l’induzione è rilevante ai sensi dell’art nuovo 319 –quater-> perché tutto
questo ?

Perché l’unione europea, e in particolare il G.R.E.C.O (Groupe d'Etats contre la Corruption) un


gruppo all’interno dell’unione europea riteneva che la disciplina italiana in materia di
concussione fosse troppo benevola per il privato-> perché la lettura costante che veniva data
dalla dottrina della concussione era veicolata dal “dogma della mutua alternatività tra
concussione e corruzione” -> mutua alternatività significa che o c’era l’uno o c’era l’altro dei
reati-> nella concussione il privato era vittima e non punibile, mentre nella corruzione era co-
reo al pubblico ufficiale, faceva un accordo con il pubblico ufficiale per ottenere vantaggi.

L’unione europea, in particolare il G.R.E.C.O. ha osservato però che in diversi casi era possibile
che il privato pure avendo subito una pressione e una costrizione e una induzione da parte del
pubblico ufficiale, si fosse anche indebitamente avvantaggiato ottenendo cose che non
avrebbe potuto ottenere.

Il Greco ha detto che questo regime non andava bene, perché il privato, troppo comodamente
può sfuggire alla responsabilità penale nei casi in cui si sia avvantaggiato-> cosicché il nostro
legislatore ha pensato di spacchettare la precedente concussione e creare due figure di reato
autonome “concussione” e la “nuova induzione indebita dare o promettere denaro o utilità”-
> la sentenza Maldera osserva che il termine spacchettamento non è proprio preciso-> perché
farebbe pensare che il nuovo art 319 quater è un sottotipo della concussione per induzione->
invece come vedremo, la nuova disposizione dell’art 319 quater per induzione indebita è più
vicina alla corruzione che non alla concussione.
427

Soggetto attivo del reato: questo è un tipico reato del pubblico ufficiale o dell’incaricato di
pubblico servizio -> e vale quello che troviamo ancora nel libro.

Nel 1930 si riteneva che soltanto il pubblico ufficiale potesse costringere o indurre il privato,
in quanto dotato di un ruolo di assoluto prestigio, mentre l’incaricato di pubblico servizio, che
non esercitava poteri, si pensava che non potesse commettere il reato di concussione.

Nel 1990 si prese atto che in molti casi l’incaricato di pubblico servizio, anche se non esercita
poteri coercitivi, ha di fatto la possibilità di gestire e compiere attività di pubblico servizio, in
maniera tale da costringere qualcuno a dare denaro o altra utilità (es: l’incaricato infermiere
di un turno ospedaliero il quale non è pubblico ufficiale, ma fa capire ai pazienti che se gli
danno i soldi, posso passare avanti nel turno e essere trattati prima degli altri-> si tratta della
salute, e il privato si trova in una posizione di sottoposizione rispetto all’incaricato di pubblico
servizio che lo costringe).

Nel frattempo, ci sono stati due ulteriori cambiamenti che sono poi un ritorno a questa
situazione. -> con la riforma Severino del 2012, dal momento che c’era stato questo
spacchettamento, il ministro disse che l’incaricato di pubblico servizio poteva forse indurre,
ma non poteva costringere e siccome ora la concussione è solo per costrizione, togliamo
l’incaricato di pubblico servizio, e fu tolto del 2012-> la nuova concussione poteva essere
commessa solo dal pubblico ufficiale. E si pose il problema: e se di fatto l’incaricato di pubblico
servizio costringe qualcuno che cosa fa ?

E le soluzioni erano state:

➢ il fatto non è punibile-> perché nel nuovo articolo si parla di induzione. (ma era
assurdo ovviamente)

➢ allora si era detto: facciamo rientrare il concetto di costrizione nella nozione di


induzione e siccome la induzione è una costrizione ancora più forte, puniamo
l’incarico di pubblico servizio ai sensi dell’art 319 quater che dice “induce”->
ma era una interpretazione contraria al senso delle parole: se si dice “induce” e si
distingue da “costringe”, non ha senso rileggere l’art 319 quater che dice soltanto
“induce” e leggendolo come se dicesse “costringe e induce”-> non era corretto.

E allora la soluzione più ragionevole suggerita dalla stessa corte di cassazione era
quella di considerare punibile l’incaricato di pubblico servizio per estorsione
aggravata dalla qualità di pubblico servizio. -> ma anche qua c’erano degli
inconvenienti assurdi, e cioè “estorsione aggravata dalla qualità di pubblico servizio”,
si doveva ricorrere come tappa-buchi ad una norma che non ha niente a che fare con
i delitti dei pubblici ufficiali-> perché l’estorsione è un reato contro il patrimonio art
629, e non c’entra niente!
428
E poi aggravando la pena già molto elevata prevista per l’estorsione, si poteva
ottenere una pena superiore a quella della concussione, con l’effetto paradossale che
il pubblico ufficiale che costringeva sarebbe punito meno severamente dell’incaricato
di pubblico servizio che avesse estorto il denaro con minaccia.

Così, nel 2015, con l’ulteriore legge di riforma L 69/2015 è stato reinserito tra i
soggetti attivi del delitto di concussione nuovamente l’incaricato di pubblico servizio.
Quindi oggi la posizione è uguale a quella del 1990-> quindi quello che troviamo nel
libro va bene.

▪ Condotta: della condotta è importante capire che la legge dice che <<abusando dei suoi poteri
o delle sue qualità costringe taluno>> -> questo abuso e la costrizione sono la stessa cosa. La
legge utilizza il gerundio a posta-> la costrizione si realizza attraverso l’abuso dei poteri-< se
non c’è questa coincidenza, non c’è concussione.

Che significa “abuso della qualità”-> far valere quel riflesso intersoggettivo dal fatto di
esercitare una funzione pubblica, spendendola socialmente.
L’abuso della qualità va distinto dall’abuso dei poteri e la giurisprudenza per distinguerli usa il
concetto di “competenza”-> cioè se il soggetto è competente a fare una certa cosa, abusando
dei suoi poteri; se il soggetto è incompetente, è abuso della qualità (perché non è competente
in materia).

Precisazione di Pagliaro: La legge parla si abuso della qualità e non di uso della qualità-> cioè
la qualità si potrebbe usare senza abusarne -> come si distingue l’uso dall’abuso-> l’uso si ha
quando c’è un diretto collegamento tra la qualità del soggetto ciò che viene costretto, quindi
si strumentalizza direttamente la qualità per ottenere ciò che si vuole
L’abuso dei poteri si può ottenere quando si usano dei poteri, quando non si potrebbero usare
o si usa il potere in modo non corretto dal quale si dovrebbe utilizzare e infine minacciando di
fare questo uso scorretto dei poteri-> quindi o lo si usa effettivamente in modo distorto o si
minaccia di usarlo in modo distorto.

Ora vi è il grosso problema se vi si possa minacciare un male giusto o no: nel senso, è sicuro
che se si minaccia per qualcosa di ingiusto, siamo in presenza di un abuso di poteri.
Ma ci si chiedeva-> e se invece si minaccia di qualche cosa di giusto? Arriva per esempio il
carabiniere con il mandato di arresto e deve arrestare Tizio, ma se Tizio dà dei soldi fa finta di
non averlo trovato-> allora si minaccia qualcuno per qualcosa di giusto. In questi casi l’abuso
di poteri e la costrizione deriva dal fatto che il privato eviti un male e un danno che sarebbe
giusto secondo il diritto.

429
Prima questo era un problema, ma oggi, per effetto della sentenza Maldera, la cassazione ha
ritenuto che le due cose “minaccia di un danno ingiusto” “minaccia di un danno giusto” siano
uno dei criteri discretivi tra concussione e induzione indebita-> cioè nella concussione
necessariamente ci vuole la minaccia di un danno ingiusto; mentre nell’induzione indebita la
minaccia di un danno giusto, da evitare pagando. Oggi quindi questa questione è stata risolta
in questi termini.

Spesso il pubblico ufficiale compirà un provvedimento amministrativo e molte volte questo


provvedimento sarà illegittimo-> cioè il provvedimento amministrativo può essere affetto da
tre vizi:
➢ violazione di legge;
➢ incompetenza;
➢ eccesso di potere.

Non è affatto necessario che il provvedimento in questione sia viziato nel senso del diritto
amministrativo-> perché l’abuso del potere può esercitarsi in forme diverse.

L’abuso dei poteri: è un tema complicato e oggetto di modifica, può essere commesso con violenza (e
nel libro troviamo anche “inducendo in errore”). La violenza può avere tre forme:

➢ violenza fisica,
➢ violenza psichica assoluta,
➢ violenza psichica relativa.
La violenza fisica è quella nella quale si agisce sul corpo della persona per costringerla fisicamente a
fare qualcosa.

La violenza psichica è quella che si esercita sulla mente della persona che subisce la violenza e a sua
volta può essere assoluta o relativa.

Assoluta -> quando il minacciato non ha nessuna alternativa e quindi è costretto a fare quello che gli
si chiede

Relativa-> è quella che si ha quando la persona che subisce la violenza, ha una possibilità di scelta.

L’abuso di poteri si realizza attraverso l’ultima di queste tre forme , cioè una violenza psichica relativa-
> perché se si tratta di violenza fisica, non c’è un abuso dei poteri tipici del pubblico ufficiale (sarebbe
rapina); la violenza psichica assoluta sarebbe l’estorsione; invece la concussione si realizza attraverso
una violenza psichica relativa (scegliere se dare il denaro al pubblico ufficiale o viceversa).

La sentenza Maldera aggiunge che si può anche utilizzare la violenza fisica nel concetto di costrizione
e abuso dei poteri-> ma solo quando appartenga al potere tipico del pubblico ufficiale l’esercizio della
forza fisica, di cui egli può anche abusare (carabiniere che esegue l’arresto, può trattenere e afferrare
la persona che deve arrestare e potrebbe abusarne).

430
Ora discutiamo su una divergenza che c’è con il nostro testo riguardo l’induzione in errore: nel codice
Zanardelli c’erano due forme di concussione: una con costrizione e una con induzione in errore->
Pagliaro nel testo riprende questa impostazione, dicendo che si può piegare la volontà di una persona
solo in due modi, o con la violenza o con l’inganno (aut vi aut fraude)

La violenza psichica relativa rientrerebbe nel concetto di costrizione; mentre l’inganno nel concetto di
induzione.

Oggi questa lettura non è più attuale, perché oggi le due cose stanno in due articoli diversi, costrizione
da una parte e induzione da un’altra-> e allora si dice: nella induzione 319 quater, il privato indotto
è anche punito-> quindi è reo. Non si può più sostenere quindi che sia stato ingannato, indotto in
errore, perché non avrebbe senso punire una persona indotta in errore -> oggi l’induzione non può
più essere commessa mediante inganno.

Ad essere ancora più precisi la cassazione aggiunge che può esserci un inganno nel concetto di
induzione, perfino nell’inganno sempre che quest’ultimo non verta sulla doverosità della dazione della
promessa del cui carattere indebito il privato resta perfettamente conscio-> cioè, spiegamelo meglio:
ci può anche essere un’induzione attraverso inganno, ma non, riguardante l’inganno, la doverosità
della dazione o promessa-> se io pubblico ufficiale faccio credere al privato che quel denaro mi è
dovuto, ingannandolo, il privato non può essere punito-> ma se io lo inganno su altri profili (ti rilascio
il permesso di costruzione se tu mi paghi), qui l’inganno riguarda non il carattere indebito della
minaccia, ma un altro aspetto dell’atto.

L’induzione si può realizzare oggi anche mediante inganno, purché l’inganno non riguardi il carattere
dovuto o non dovuto della dazione o promessa-> perché quello è ciò che rende privata vittima.-> se
mi inganni facendo credere che la somma è dovuta, sono vittima di un raggiro, quindi io privato non
posso essere punito; se invece mi inganni su altri aspetti diverso da questo, puoi anche indurmi a darti
denaro o altre utilità.

La costrizione deve coincidere con l’abuso della qualità o dei poteri-> cioè attraverso l’abuso della
qualità, si pressa e si costringe il privato a dare questo denaro.

Andiamo al problema del metus (metus pubblici potestati)-> metus=paura, timore. Pubblici potestati=
di fronte al potere pubblico. E ci si chiede: è necessario che nel privato venga generato, dal pubblico
ufficiale, questo timore di fronte all’esercizio distorto del potere pubblico, o no? E la risposta che dà
Pagliaro è NO! Cioè non ha nessuna importanza come se la prendesse il privato-> il privato può essere
un timoroso, incapace di reagire-> non ha importanza quello che succede nella mente del privato
quando riceve questa minaccia, se si spaventa o meno-> noi ci stiamo chiedendo se dobbiamo punire
il pubblico ufficiale per quello che ha fatto. Va punito per quello che lui ha fatto, indipendentemente
dalla reazione del privato costretto o indotto. -> quindi non è necessario che l’attività costrittiva del
pubblico ufficiale generi realmente nella mente del privato un timore di fronte all’esercizio della
potestà pubblica.

431
C’è poi il problema, che potrebbe essere ancora attuale, della cd. “concussione ambientale”-> cosa è?
È un’ipotesi di concussione in cui il pubblico ufficiale non fa niente di esplicito, ma il privato che entra
e ha a che fare con un certo ambiente ( un ufficio pubblico), sa o almeno crede che di fatto sia tenuto
indebitamente a dare denaro, perché altrimenti non gli sarà mai dato ciò che lui ha diritto-> sa che
all’ufficio x del comune di Palermo, se uno non dà una somma a un pubblico funzionario, la pratica
non andrà mai avanti-> concussione ambientale-> cioè quell’ambiente è così, lo si sa, lo si è sentito
dire.

Il pubblico ufficiale non dice “se non mi dai i soldi, la pratica si blocca”, ma il privato si sente costretto
ugualmente, perché che le cose vanno così in quell’ufficio-> si può dire che il pubblico ufficiale
costringa il privato in una situazione del genere? E la risposta è:

innanzitutto, valutare se il pubblico ufficiale ha contribuito a creare questo clima oppure no;
▪ se lui , con suoi precedenti comportamenti, abbia contribuito a creare il clima dell’ufficio, per
cui anche lui è la causa di questa aria che gira, che bisogna pagare, quindi anche se non
esplicita in quel momento questa situazione, potrà essere responsabile di concussione.
▪ Se invece il pubblico ufficiale non ha contribuito a creare quel clima e però sa che le cose sa
che vanno così in quell’ufficio, non dipende da lui ma lo sa-> se è ignaro e si vede offrire una
somma dal privato, non risponde di concussione, ma di corruzione
▪ Se invece questa situazione non l’ha causata lui, ma lo sa -> sa che la gente pensa questo
quando entra in quell’ufficio-> allora ci sono due possibilità:
1. che sebbene con cenni vaghissimi, con comportamenti non eloquenti, faccia capire al
privato che sarebbe bene dare questa somma di denaro, allora risponde di concussione,
perché questo velato riferimento al clima è a tutti gli effetti una costrizione;
2. oppure il pubblico ufficiale si limita semplicemente a ricevere la somma che il privato gli
offre, quindi non c’è costrizione e il pubblico ufficiale risponde di corruzione.

432
1

29 Maggio 2019

Abbiamo parlato della costrizione, della nuova concussione che si può realizzare attraverso la costrizione,
non più anche attraverso l’induzione-> quindi quello che troviamo sul libro relativamente all’induzione non
è più attuale, perché l’induzione adesso è la condotta del nuovo reato art 319-quater ed è cambiato rispetto
al passato-> in passato c’erano due tesi relativamente all’induzione:

➢ una, quella di Pagliaro, che riteneva che si trattasse di un induzione in errore, cioè di una condotta
che inganna il privato.
➢ Mentre l’altra tesi che si andava rafforzando in giurisprudenza, era quella per cui l’induzione fosse
una forma più blanda di costrizione-> quindi non così forte come la vera costrizione, ma una più
blanda forma di costrizione.

Detto questo, sempre in riferimento alla concussione-> ci si chiede: è necessario che il concusso, cioè il
privato, sappia che la cosa che dà è indebita? Cioè non dovuta? E ci sono due posizioni: una che ritiene di sì,
facendo leva su quel metus, su quel timore di cui si è parlato ieri, che però appunto, dall’altra posizione, che
ritiene che il metus non sia necessario (e quindi Pagliaro), ritiene che non sia necessario che ci sia la
consapevolezza che si sta dando una cosa indebita.

Ora la dottrina aveva osservato relativamente al vecchio art 317 che non era del tutto logico e giusto punire
allo stesso modo la costrizione e l’induzione, soprattutto con riferimento a questa posizione per cui
l’induzione sarebbe stata una forma più blanda di costrizione e quindi questa parte della dottrina riteneva
che sarebbe stato gusto punirla meno severamente.-> vedremo che in effetti il nuovo delitto di induzione
punisce meno severamente il pubblico ufficiale.

Per quanto riguarda il soggetto costretto, può essere una persona fisica ma anche una persona giuridica.
Comunque quando sia una persona giuridica è evidente che deve sempre fare pressione e costringere una
persona fisica-> il rappresentante, l’amministratore-> qualcuno che agisce per conto della persona giuridica.

I. La dazione: cioè il pubblico ufficiale, abusando, costringe a dare o promettere-> questa dazione, cioè
il dare o promettere, deve essere in un rapporto di causalità con la costrizione-> cioè deve essere
provocato dall’attività, dalla condotta di costrizione del pubblico ufficiale-> non è una causalità fisica,
ma psicologica, perché il soggetto è stato costretto e nella sua mente si sente in quella situazione in
cui non può fare a meno di dare-> deve essere l’attività del pubblico ufficiale che causa il gesto del
privato che dà la cosa.

II. Per quello che riguarda la promessa, è interessante il fatto che non ha molta importanza il fatto che
il privato abbia agito con una riserva mentale, cioè pensando poi di non dare effettivamente la cosa-
> e al solo scopo di incastrare il pubblico ufficiale per farlo condannare per il reato. Questa riserva
mentale del privato non esclude la concussione, perché è una cosa che rimane nell’intimo della
mente del privato e non cambia la condotta del pubblico ufficiale che è in rilievo e che viene punita.

III. Indebito: la cosa deve essere data indebitamente -> e ci si chiede: il reato è escluso soltanto se la
cosa è dovuta alla pubblica amministrazione oppure anche se la cosa è dovuta al pubblico ufficiale
per rapporti privati con la persona concussa?-> perché quello che il privato dà deve essere non
dovuto; se è dovuto, non c’è reato.
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Secondo Pagliaro, anche in questo caso il reato non c’è, perché il disvalore grave e severo della
concussione, non sarebbe pienamente integrato.

IV. Che cosa si dà? Si dà denaro o altra utilità -> qualcuno aveva ritenuto che si dovesse trattare di
un’utilità di natura patrimoniale, essendo affiancata al denaro-> ma questa limitazione, non si può
assolutamente ricavare dalla legge, che parla in generale di “utilità” e quindi l’utilità può essere
qualunque cosa che possa soddisfare un interesse, quindi anche attività lavorative, prestazioni
sessuali, costringere a fare qualsiasi cosa che per il pubblico ufficiale che la riceve possa essere un
vantaggio o utilità, non necessariamente patrimoniale.

V. Il dolo è interessante-> innanzitutto per il dolo, occorre la consapevolezza di tutti gli elementi del
fatto-> quindi deve sapere di essere pubblico ufficiale; deve sapere che sta abusando dei poteri,
perché potrebbe essere convinto di usarne legittimamente il suo potere.
Ora anche se non è detto da nessuna parte, è giusto ritenere che il dolo di costrizione sia
implicitamente un dolo intenzionale, perché la natura stessa dell’attività di costringere non può che
essere mirata allo scopo-> se io voglio costringere qualcuno, evidentemente lo faccio sapendo che
quello che sto facendo lo costringerà-> è intrinseco nell’atto della costrizione il fatto che il soggetto
agisca per costringere -> non può e non è pensabile che ci siano altre forme di dolo.
Invece -> e questa è un’osservazione interessante, ci può essere un dolo eventuale, quindi l’incertezza
da parte del pubblico ufficiale agente sugli altri elementi, non sulla natura della condotta, ma sugli
altri elementi, cioè sull’abuso di poteri-> potrebbe non essere sicuro che quello che sta facendo è un
abuso, potrebbe non essere sicuro che la cosa che si fa dare sia indovuta-> potrebbe avere qualche
incertezza ed essere in dolo eventuale.

Si parla di dolo eventuale-> ma in realtà diciamo che per essere precisi, il dolo eventuali dovrebbe
riguardare soltanto le conseguenze dell’azione, ma comunemente si dice che il dolo eventuale è
quando qualcuno degli elementi del fatto è pensato dall’agente in una situazione di incertezza.

VI. Per quanto riguarda la Consumazione: il reato si consuma nel momento in cui viene data o promessa
il denaro o l’altra utilità-> prima ci può essere un tentativo, ovviamente punibile-> se il pubblico
ufficiale tenta di farsi dare la cosa che ancora non viene data.

Invece bisogna considerare che se alla promessa fatta dal privato, dovesse seguire la dazione-> cioè
prima gliela promette e poi effettivamente gli dà questo denaro-> il momento consumativo si sposta
in avanti, non è più il momento della promessa, ma si consuma quando gli dà effettivamente la cosa.
-> e cosa importante: non ci saranno due reati: cioè uno commesso al momento della promessa e
uno una settimana dopo, al momento della dazione-> il reato rimane uno solo!

VII. Per quanto riguarda il Concorso di persone: può anche concorrere un privato, che per esempio aiuta
il pubblico ufficiale a costringere, purché ci sia ovviamente la condotta del pubblico ufficiale e l’abuso
da parte del pubblico ufficiale -> l’abuso deve essere commesso dal pubblico ufficiale, non da un
altro-> perché l’abuso di uno estraneo alla pubblica amministrazione non è un abuso significativo.
Quindi il pubblico ufficiale costringe e un altro può anche collaborare.
Se questo estraneo non sa di aiutare il pubblico ufficiale, normalmente non risponderà di nulla, a
meno che il fatto commesso non sia di per se reato.
3

VIII. Per quanto riguarda il Concorso di reati: è interessante ricordare quello che abbiamo detto nella
lezione di ieri, cioè-> nella concussione l’abuso dei poteri e la costrizione sono la stessa cosa. Si
costringe abusando del potere.
Se invece ci fossero due condotte parallele ma distinte, una di abuso di poteri e una con cui si
costringe (per es, il pubblico ufficiale costringe perché assume un atteggiamento minaccioso,
gridando, impressiona il privato e si fa dare del denaro, e nello stesso tempo emette un atto con
abuso di poteri-> ma il privato si sente costretto non perché non lo sa dell’atto con abuso di poteri,
ma il privato si sente costretto perché il pubblico ufficiale ha assunto un atteggiamento aggressivo)-
> se le due cose abuso di poteri e costrizione, non sono la stessa condotta, ma sono due condotte
diverse non ci sarà concussione, ma estorsione-> aggravato eventualmente dal fatto che la persona
che lo compie riveste la qualità di pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio.

Quindi quando la costrizione è lo stesso atteggiamento di abuso di poteri-> c’è concussione;


se invece sono due comportamenti distinti, sebbene affiancati-> allora ci sarà il reato comune, che
sarà l’estorsione.
Sul libro troviamo anche la “truffa”, ma questo non è più attuale, perché riguardava il caso che avesse
indotto in errore-> quindi si poneva un problema simile-> se imbrogliando, costringe, allora è
concussione; se c’è un imbroglio a parte e poi un abuso di poteri a parte, allora c’era truffa-> ma
questo non vale più, perché non c’è più questa modalità ingannatoria nella concussione (che rientra
solo in parte nella nuova induzione indebita).

Passiamo adesso alla nuova disciplina della concussione-> più in generale guardiamo le
modifiche apportate dalla L. 190/2012 (poi alcune cose sono state modificate ulteriormente nel
2015).

Per quello che ci interessa, ci sono stati degli aumenti di pena notevoli->

➢ per il peculato per es l’ultimo aumento nel 2015 è stato portato a un massimo di 10 anni e 6 mesi;
questo aumento del minimo rende molto difficile la sospensione temporanea dei pubblici uffici;
invece verosimilmente come conseguenza ci sarà una sospensione perpetua dai pubblici uffici,
come dispone l’art 317-bis.
➢ Anche la pena per l’abuso di ufficio è stata aumentata e così è di nuovo possibile disporre della
custodia cautelare in carcere (che è una cosa di grande impatto, perché ha un grande effetto
deterrente notevole)-> questa è una minaccia forte.
➢ È stata elevata la pena per la concussione che è dai 6 ai 12 anni.
➢ Nonché la pena per la corruzione, quella meno grave, che prima veniva chiamata “impropria”
prevista dall’art 318-> ora si chiama “corruzione per l’esercizio della funzione” ;-> prima era dai 6
mesi ai 3 anni, ovvero nel caso di corruzione del precedente ovvero dai 15 giorni a 1 anno nel caso
di corruzione susseguente; mentre ora è in tutti i casi, la pena prevista dall’art 318 di corruzione
per l’esercizio della funzione, da 1 a 6 anni-> che si può ritenere anche un po’ esagerata.
➢ È stata aumentata la pena per corruzione in atti giudiziali, che è altissima, da 6 a 12 anni->
ulteriormente aggravata se segue la condanna.
➢ Invece il nuovo art 319-quater, quello che prevede l’induzione indebita, ha una pena meno severa
per il pubblico ufficiale, di quella della concussione-> perché con l’ultima modifica del 2015 è la
reclusione da 6 anni a 10 anni e 6 mesi.
4

➢ È stata corretta una svista del legislatore per quello che riguarda la confisca , disposta dall’art 322-
ter , perché con la riforma del ’90 era stata prevista solo la confisca del prodotto e del prezzo del
reato, ma si era dimenticato di inserire anche il profitto che si ricava da una corruzione-> e allora
nel libro troviamo che mentre la giurisprudenza riteneva che si potesse confiscare anche il profitto,
con una interpretazione in malam partem a sfavore del reo, non consentita-> era più esatto
ritenere che il profitto non potesse essere confiscato, ma con la legge del 2012 è stato aggiunto il
profitto.

➢ Poi le due grandi modiche riguardano il nuovo reato di induzione indebita art 319-quater e la
corruzione , che si chiamava prima impropria art 318:
andiamo ad esaminarlo, perché è la continuazione del discorso sulla concussione e andiamo prima
ad affrontare l’induzione indebita (anche se non è possibile trattarle separatamente):
si era detto che l’unione europea e il G.R.E.C.O aveva rimproverato l’Italia per questo fatto che il
concusso, indotto e non costretto, un soggetto che avesse ricevuto una blanda pressione e che però
contemporaneamente si sia avvantaggiato di tutta questa situazione, restasse del tutto impunito (es
la vittima del pubblico ufficiale) e quindi il G.R.E.C.O. aveva suggerito di modificare la legge e di
prevedere la punibilità del privato e questo effettivamente è stato il senso fondamentale della
modifica e dell’introduzione di questo nuovo reato di “induzione indebita a dare o promettere
utilità”-> perché oltre al pubblico ufficiale che induce e non costringe, è punito anche il privato.
Per quello che riguarda il pubblico ufficiale, la condotta è ricalcata esattamente sulla vecchia
concussione per induzione (non per costrizione)-> quindi c’è l’abuso dei poteri, costringere a dare o
promettere ecc, inducendo ; invece al secondo comma è prevista la punibilità del privato.

Art 319 quater “induzione indebita a dare o promettere utilità”:

<<(1) Salvo che il fatto costituisca più grave reato (2)


, il pubblico ufficiale o l'incaricato di pubblico
servizio (3)
che, abusando della sua qualità o dei suoi poteri, induce (4)
taluno a dare o a promettere
indebitamente, a lui o a un terzo, denaro o altra utilità è punito con la reclusione da sei anni a dieci
anni e sei mesi. (6)

Nei casi previsti dal primo comma, chi dà o promette denaro o altra utilità è punito con la
reclusione fino a tre anni (5)
.
Quindi il privato (che non è detto affatto che sia un privato, può essere a sua volta anche un pubblico
ufficiale, o un superiore di grado-> per comodità si dice privato) indotto viene punito secondo quelle
direttive che il G.R.E.C.O. aveva dato all’Italia.

Prima della riforma del 2012 Pagliaro e Spena sostenevano che il privato potesse essere punito
quando si fosse avvantaggiato, sebbene costretto, perché ognuno risponde per quello che fa lui, non
per quello che fanno gli altri-> cosicché ci sono due persone: una pubblico ufficiale che costringe o
induce , e l’altro che sebbene costretto si fosse avvantaggiato dalla vicenda, potevano essere puniti
entrambi-> però uno, cioè il pubblico ufficiale per concussione; e l’altro, il privato per corruzione->
questa tesi comportava la rottura di quel dogma della mutua alter natività tra concussione e
5

corruzione, non poteva esserci un concorso tra i due reati-> o solo concussione, e quindi il privato
non punibile; oppure solo corruzione, quindi il privato punibile, perdendo il senso della concussione.
Allora questa situazione richiedeva che nel medesimo contesto, il pubblico ufficiale avesse costretto
il privato a dargli il denaro e nello stesso tempo offerto un vantaggio illecito al privato-> e sul libro
c’è questo esempio: un agente della guardia di finanza va a fare un’ispezione in un’impresa e trova
delle irregolarità tali per cui l’imprenditore dovrebbe pagare delle sanzioni o anche reati, ecc-> se
non che fa questa proposta”se tu imprenditore mi da del denaro, io sono disposto a chiudere un
occhio, magari non interamente, ma rileviamo solo una piccola infrazione e quindi tu mi dai dei soldi,
ma ti avvantaggi perché non rispondi delle sanzioni e importi dovuti e pagherai molto meno; se non
mi dai i soldi, io sto qui per mesi e faccio le pulci alla tua contabilità e troverò altre cose irregolare e
sarai nei guai”-> lo costringe e nello stesso tempo gli offre un vantaggio-> in questa situazione, che
si chiama Threat-offer in inglese ( cioè “mianccia” e “offerta” e incrocia le due cose), è un misto di
una minaccia e di una offerta, e nel privato in una costrizione e nello stesso tempo di una presa di
vantaggio.
Allora Pagliaro e Spena dicono-> in questa situazione il pubblico ufficiale va punito per concussione,
ma il privato che si è avvantaggiato va punito pure, perché si trova nella posizione di corruzione per
atti contrari ai doveri di ufficio-> quindi uno punito per concussione e l’altro per corruzione.

Questa impostazione si fonda su due presupposti teorici non da tutti condivisi-> ecco perché l’idea
non era stata facilmente accettata.-> cioè:
1. Presupposto: che il concorso di persone nel reato sia punito per fattispecie pluri-soggettiva
differenziata-> cioè che se uno legge la disposizione sul furto-> se uno pensa alla funzione
del custode che lascia aperto, non esiste nessuna fattispecie penale che punisce uno che
lascia aperto un magazzino- > non c’è disposizione penale incriminatrice-> quello che è
penalmente rilevante è impossessarsi di una cosa mobile altrui. Se la persona è una sola,
non basta-> deve aprire il magazzino e portarsi via le cose, se no il suo comportamente non
risponde alla legge-> se le persone sono più di una , possono realizzare il fatto complessivo,
descritto dalla fattispecie generatrice di furto, con comportamenti diversi (uno dà la chiave
, uno lascia aperto, uno distrae il collega custode, uno mette le cose sul camion, uno guida il
camion)-> possono fare cose che isolatamente prese non sarebbe tipico rispetto alla
fattispecie del furto, ma che lo diventa perché la fattispecie è Pluri-soggettiva-> cioè che
considera e estende la norma del furto in modo tale che chiunque dà un contributo alla
realizzazione, risponde per il fatto che è stato complessivamente commesso.
Ma abbiamo detto “fattispecie pluri-soggettiva differenziata”-> cioè non è detto che tutti i
soggetti rispondano allo stesso titolo di reato-> rispondo per il medesimo fatto, ma non allo
stesso titolo. Sul libro troviamo questo esempio: due persone incendiano la bandiera, però
con dolo differente (atteggiamento psicologico differente), perché uno dei due vuole
commettere vilipendio alla bandiera; l’altro vuole danneggiare il proprietario della bandiera-
> nel nostro caso possiamo dire, per corruzione, e lo riconosce anche la giurisprudenza, è
possibile che uno risponde di corruzione propria e l’altro di corruzione impropria-> nella
corruzione impropria si commette un reato per atti contrari a quelli di ufficio (fa qualcosa
che non dovrebbe fare); mentre nella corruzione propria il pubblico ufficiale fa un atto
conforme a quelli di ufficio, semplicemente il rato sta nel fatto che riceve del denaro che
non dovrebbe ricevere-> può essere che il pubblico ufficiale ha compiuto un atto conforme
ai doveri di ufficio e lo sappia; mentre il privato creda che il pubblico ufficiale lo ha
avvantaggiato di qualcosa che non avrebbe potuto fare , gli ha dato una licenza che non gli
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avrebbe potuto dare -> quindi il privato agisce convinto che si tratta di corruzione per atto
contrario ai doveri di ufficio; mentre il pubblico ufficiale sa che si tratta di corruzione per atti
conformi a quelli di ufficio-> quindi uno, il pubblico ufficiale risponde di corruzione impropria
(atto conforme ai doveri di ufficio), mentre il privato di corruzione propria (atto contrario
ai doveri di ufficio).
È possibile che per lo stesso accadimento, in base a un atteggiamento mentale differente,
uno risponde ad un titolo di reato (vilipendio della bandiera) e l’altro per un altro reato
(danneggiamento)-> uno risponde di corruzione impropria e l’altro di corruzione propria.->
questa cosa non è da tutti facilmente accetta-> quindi questo primo presupposto di Pagliaro
rende complicato il discorso.

Questo concetto è espresso nel libro a pag. 200. Non facile rendersene conto, perché è nella
parte che tratta la corruzione-> perché prima un problema era distinguere la concussione
dalla corruzione, ma è esattamente quello di cui stiamo parlando-> perché ci si chiede: il
privato deve essere punito o no? È concusso o corruttore? Siamo di fronte il caso di
concussione o corruzione? E lì nel libro dove si fa distinzione tra i criteri differenziali, si fa
anche questo discorso:

<<nel caso del pubblico ufficiale che si faccia dare o promettere denaro o altra utilità dal
privato per commettere un atto contrario ai doveri di ufficio, si ha senz’altro corruzione
propria. Se il privato invece versa o prometta utilità per evitare il compimento di un atto
contrario ai doveri di ufficio, ciò significa che egli era costretto dal pubblico ufficiale a dare o
promettere indebitamente la utilità: si è dunque nel campo della concussione […] questa
affermazione è stata criticata, osservando che alle volte il privato accetta di retribuire l’atto
contrario ai doveri di ufficio, ma a lui favorevole (es un accertamento tributario per un valore
inferiore a quello reale), perché comprende che se non addivenisse alle pretese del pubblico
ufficiale che gli chiede dei soldi, questi compirebbe altri atti, contrari ai doveri di ufficio, ma
stavolta gravemente dannosi per il privato-> es: il pubblico ufficiale compirebbe
accertamenti tributari sproporzionatamente approfonditi e ripetuti, tale da mettere in crisi
la gestione stessa dell’azienda-> ebbene in un caso del genere vi sarebbe concussione e non
concussione (cioè quando il privato è costretto);>>
<<ora, certamente è vero che la situazione di fatto prospettata corrisponde alla fattispecie
di concussione, e non a quella di corruzione. Però , il principio sopra enunciato non ne è
scalfito. Il privato, infatti, accetta, in un tutto inscindibile, l’atto contrario ai doveri di ufficio
che gli è favorevole e il non compimento di atti contrari ai doveri di ufficio che per lui
sarebbero dannosi e che sono prospettati al fine di costringerlo. Si tratta dunque di una
situazione mista, nella quale dal punto di vista del pubblico ufficiale v’è sicuramente
concussione. Dal punto di vista del privato, a mio parere bisogna distinguere se egli sia una
vittima della concussione oppure secondo le regole indicate nella nota seguente, prevalga
una responsabilità per corruzione attiva diretta ad ottenere gli atti conformi o contrari ai
doveri di ufficio -e qui fa una sottile ironia- (non deve stupire questa diversità del titolo di
reato tra p.u. e privato:come tutti sanno, le responsabilità penali sono personali e dipendono
da ciò che ciscuno fa, non da ciò che fanno gli altri).

Se il privato è stato schiacciato, sebbene abbia potuto avere un danno, ma è costretto->


allora sarà la vittima; se invece ha agito puntando ad ottenere un vantaggio, allora è
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responsabile per corruzione-> si vede che questa soluzione è flessibile e si adatta alle
situazioni.

Vedremo invece cosa ha proposto la riforma-> la riforma ha previsto una fattispecie 319-
quater più rigida-> perché quando il p.u. induce, il privato è sempre punito.-> però senza
fare distinzioni.

Ora dobbiamo affrontare due problemi:


• Cosa significa oggi “induzione”-> perché in passato c’erano le varie teorie; ma questa
discussione era solo teorica, perché non c’era nessuna conseguenza pratica-> il
reato era sempre quello di concussione e il p.u. rispondeva comunque sia avesse
costretto, sia avesse indotto, perciò non cambiava molto.
Invece oggi distinguere tra “costrizione” e “induzione” è decisivo-> perché se è
costrizione , risponde solo il p.u. per il più grave reato di concussione; se è induzione,
risponde anche il privato con reclusione fino a 3 anni e il p.u. con una pena meno
severa-> quindi bisogna stabilire come si pone oggi la differenza tra costrizione e
induzione.
Per procedere a questo, per dire che il privato sia punibile, si impone di escludere la
situazione per la quale l’induzione possa essere un inganno, perché non avrebbe
nessun senso punire il privato che sia stato per giunta ingannato-> se il privato sia
stato ingannato dal p.u. sul fatto che gli doveva dare quella somma o cosa, allora
non può essere punito-> è vittima di raggiro-> allora oggi induzione non può più
essere intesa come induzione in errore.
Si è detto, però, che con la sentenza Maldera ha osservato che ci può essere un
piccolo spazio per l’inganno, quando l’inganno non ricade sulla doverosità della
dazione-> allora come si individua la induzione con la differenza con la costrizione?
E sul punto è decisiva la sentenza Maldera della sezione penale a sezioni unite, che
danno un ‘indicazione (non vincolante) -> dice la cassazione che ci sono tre teorie
per distinguere tra costrizione e induzione:
➢ La prima è la della sentenza Nardi che fa riferimento sul grado della
pressione esercitata dal p.u. -> forte pressione =costrizione; blanda
pressione= induzione.
➢ La seconda sentenza Roscia fa riferimento al vantaggio: se il privato agisce
dando il denaro per evitare un danno= concussione; se il privato agisce per
ottenere un vantaggio= induzione;
➢ La terza sentenza Melfi utilizzava un criterio misto-> cioè prima faceva
riferimento alla forza della pressione e in via sussidiaria al criterio del
vantaggio.

La sentenza Maldera non accetta nessuno di questi tre orientamenti-> in effetti


il primo orientamento ha un inconveniente enorme e cioè che rende punibile il
privato per il fatto che la pressione fosse meno forte-> significa che il privato
viene punito perché non ha resistito a questa indicazione del pubblico ufficiale
che non era così tremenda e irresistibile, ma in forma più blanda (persuasione,
suggestione, allusione, silenzio e inganno)-> quindi non una minaccia grave, ma
un comportamento ambiguo di allusione, ecc..
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Ora se si accetta l’idea che la differenza tra costrizione e induzione sia questa-
> e che il privato venga punito perché ha subito una pressione non
particolarmente forte, il fondamento della punibilità del privato sta nel fatto che
poteva resistere. Mentre nel caso della costrizione assoluta non poteva
resistere-> nel caso della persuasione il privato avrebbe potuto resistere-> per
assicurare il buon andamento e l’imparzialità della p.a.

“sfortunato il Paese che ha bisogno di eroi”-> non si può far carico al privato che
di fronte ad una violazione di doveri, che lo voglia pressare, non abbia avuto la
forza morale di resistere accettando la minaccia in nome del buon andamento
e imparzialità della p.a.-> è una costruzione improponibile-> il privato deve
ottenere dal p.u. degli atti che non siano abusivi, non può stare lì a resistere alle
ambiguità del p.u.-> quindi questo criterio non va bene.

D’altra parte il criterio del vantaggio non è sempre equivoco-> perché quando il
privato agisce per evitare un danno giusto-> qui non significa che ci sia
concussione. Allora la sentenza maldera trova questo discrimine-> che è quello
della minaccia: la costrizione si caratterizza per la minaccia di un danno ingiusto;
viceversa la minaccia o la prospettiva di un danno giusto, integra la induzione. -
> in questo secondo caso c’è induzione.

Ora come immediato riscontro collegata a questa situazione c’è il fatto che il
privato ottiene nella concussione subisce un danno ingiusto; nella induzione
indebita ottiene complessivamente un vantaggio ingiusto-> induzione indebita
a dare.

Quindi la cassazione specifica “minaccia” - “non minaccia”.

Quindi la cassazione maldera afferma che “danno ingiusto” e “indebito


vantaggio” sono “elementi costitutivi impliciti rispettivamente della fattispecie
dell’art 317 e 319 quater”-> anche se non sono menzionati nella legge,
implicitamente si esige per logica che nella concussione ci sia un danno ingiusto,
e nella induzione indebita un vantaggio indebito.

È molto interessante osservare che la sentenza prospetta una serie di ipotesi


che sono sostanzialmente riconducibili a questa-> e cioè: compresenza di danno
ingiusto e vantaggio indebito (che è la stessa cosa di minaccia–offerta)-> e la
soluzione è quella che Pagliaro aveva proposto e avevamo letto a pag.200.

La cassazione però indica altre soluzione, come l’abuso della qualità-> dove non
è chiaro cosa si sia minacciato, e bisogna valutare il poliziotto che pretende di
non pagare ad un ristoratore una cena con amici-> si deve valutare se il fatto si
colora per la sopraffazione (fa spaventare il ristoratore), o della dialettica
utilitaristica (cioè che potrà avere un ricambio)-> deve valutare se ha agito per
paura (concussione), se invece è per ingraziarselo (induzione indebita).

Oppure nella prospettazione di un danno generico->qundo cioè non si sa bene


quale sia la minaccia-> caso Berlusconi e Rubi: nelle telefonate fatte al questore
non è stato detto niente di preciso, e quindi chi riceveva la chiamata poteva
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immaginare un danno ma generico non precisamente individuato-> in un caso


del genere perché si possa avere concussione è necessaria una pressione molto
forte-> che la generica minaccia sia fatta in modo forte e pesante-> infatti
Berlusconi è stato assolto proprio perché si è ritenuto che il questore non avesse
subito nessuna specifica minaccia per il fatto.

E infine vengono menzionati anche dei casi che non superano il criterio del
danno e del vantaggio, perché si rifanno all’importanza del bene giuridico
minacciato-> es la salute: se si tratta di cosa di un bene di straordinaria
importanza, cioè la salute, a prescindere da quello che il p.u. prospetta,
trattandosi della salute, la prospettazione che di per se sarebbe induzione (se
mi dai dei soldi ti faccio operare tra una settimana)-> questo sarebbe induzione-
> ma diventa concussione, perché il privato non può resistere trattandosi di una
situazione del genere.

È lo stesso esempio della prostituta che viene fatta salire in macchina dai
poliziotti perché non si sa bene che cosa le possano minacciare-> è in gioco la
libertà sessuale della persona.

Ci sono state sentenze posteriori alla sentenza maldera , che in parte sono
ritornate sul criterio del metus, cioè la forza della pressione, ma sostanzialmente
la sentenza è stata confermata.

Ora però la cassazione ha confermato una distinzione importante, che mentre


la concussione è un reato pluri-offensivo, viceversa la induzione indebita è un
reato mono-offensivo-> perché il privato non è offeso nel suo interesse, perché
insieme al p.u. contribuisce ad una offesa del buona andamento e imparzialità
della p.a.

Oltre a questa caratteristica “plurioffensivo” -> concussione; “mono-lesivo”->


induzione indebita;

• Si pone il problema di collocare l’induzione indebita all’interno dei reati dei p.u.,
precisamente tra concussione- induzione indebita- corruzione –istigazione alla
corruzione-> ci sono queste quattro figure -> se già in passato ci si chiedeva come
distinguere tra concussione e corruzione (passo di Pagliaro pag 200 e c’erano tre
criteri), oggi la situazione è ancora più articolata, perché si è inserito un ulteriore
quarto elemento da distinguere -> prima era solo corruzione e concussione; ora la
situazione è più complessa.
3 giugno ultima lezione. :)

Il sistema prima era tripartito su tre figure di reato: CONCUSSIONE, CORRUZIONE, ISTIGAZIONE ALLA
CORRUZIONE.

OGGI E’ COMPLICATO PERCHE VI SONO 4 FIGURE DI REATO: CONCUSSIONE, INDUZIONE INDEBITA,


CORRUZIONE E ISTIGAZIONE ALLA CORRUZIONE.

Un autore definisce la corruzione come fascino discreto: ovvero la corruzione sarebbe funzionale al
sistema: nel senso che mosso dall’interesse a farsi corrompere, il privato e il pubblico ufficiale
manderebbero avanti le cose con piu slancio.

I delitti di corruzione sono un sistema complesso: Pagliaro si impegna quante siano le possibile
combinazioni dovute dal fatto che la corruzione si presenta in figure di reato distinte l’una dall’altra. La
prima distinzione e’ tra:

➢ la corruzione prevista ai sensi dell’articolo 318 c.p. chiamata CORRUZIONE IMPROPIA: non si
chiama piu cosi; la rubrica dell’articolo e’ stata modificata ed e’ diventata ‘’corruzione per
l’esercizio della funzione’’. Anche oggi e’ meno grave rispetto a quella del 319 codice penale.
Il fatto può essere commesso in due modi. Si tratta di un accordo tra un pubblico ufficiale o
incaricato di pubblico servizio e un privato i quali fanno un accordo: il privato da o promette al
pubblico ufficiale del denaro o altra utilità che il pubblico ufficiale accetta la promessa o riceve
denaro per compiere un atto dell’ufficio.
Il professore Spena lo chiama: TURPE MERCATO TRA UN ATTIVITA’ DELL’UFFICIO DENARO O
ALTRO il quale e’ centrato sulla DAZIONE DEL DENARO. Quest’ultimo rappresenta il momento
consumativo del reato. Mentre il compimento dell’atto e’ una mera eventualità: può esserci o non
esserci. E’ fondamentale che sia preso di mira dai soggetti. Il dare denaro può essere rispetto
all’atto a cui si vorrebbe compiere antecedente o susseguente. Si distingue:
• corruzione antecedente: il denaro e’ dato PRIMA CHE SIA COMPIUTO L’ATTO.
• corruzione susseguente: se il denaro e’ dato DOPO che sia compiuto l’atto.
➢ e quella dell’articolo 319 c.p. CORRUZIONE PROPRIA

per quanto concerne l’incaricato di pubblico servizio la previsione della legge sta a parte: il legislatore
prevede due disposizioni differenti:

✓ articolo 318 e 319 c.p. si parla solo del comportamento del pubblico ufficiale
✓ articolo 320 c.p. si parla di incaricato di pubblico servizio il quale estende la punibilità dei fatti
previsti anche l’incaricato di pubblico servizio: se il fatto e’ compiuto da un incaricato di pubblico
servizio, le pene, sono ridotte.
✓ L’artico 321 c.p. si prevedono le pene per il corruttore perché negli articolo 318 e 319 c.p. e’
descritta solo la condotta del pubblico ufficiale.
✓ 319 ter c.p. c.p. corruzione di atti giudiziari

Occorre chiedersi quale sia il bene tutelato ed e’ complicato stabilirlo perché un importante teoria ritiene
che si tratta dell’IMPARIZIALITA’ DELLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE: siccome sia il pubblico ufficiale, sia il
privato alterano le condizioni normali per adempiere all’atto; il pubblico ufficiale si avvantaggia quindi non
e’ imparziale perché riceve il denaro mentre il privato agisce nella prospettiva di ottenere qualcosa che
normalmente non potrebbe ottenere.

Questa concezioni non e’ campata in aria ma non coglie esattamente l’oggettività giuridica ovvero il bene
tutelato perché parlare di lesione di imparzialità e’ troppo lontano in generale ed in particolare nelle forme
meno gravi di corruzione.
Anche nelle forme piu gravi ad esempio corruzione propria per atto contrario al dovere di ufficio: non e’
necessario che l’atto sia effettivamente compiuto; la lesione di imparzialità e’ soltanto potenziale ovvero
c’è un pericolo di lesione.

In quella meno grave: corruzione per l’esercizio della funzione dove non e’ nemmeno richiesto che ci sia un
esercizio della funzione ma non e’ richiesto che sia contrario; può essere atto di ufficio ovvero un atto
regolare. Ad esempio: il privato paga il pubblico ufficiale in relazione anche ad un atto regolare. Questo già
dice che se l’atto e’ regolare l’imparzialità e’ solo possibile: il pubblico ufficiale pensa che il privato può
dargli del denaro ed in questo modo potrebbe essere motivato ad agire in modo irregolare ma di fatto
agisce in modo anche regolare. Qui la lesione manca.

Per tutte queste condotte non e’ detto che viene compiuto l’atto; costituisce reato consumato la promessa
di questo denaro quindi non vi e’ uno scambio viene solo promesso.

Occorre considerare che nell’articolo 322 c.p. e’ punita anche l’istigazione alla corruzione che nonostante il
nome in realtà si tratta di un TENTATIVO DI CORRUZIONE. Il tentativo crea il pericolo di qualche cosa; ma
siccome questo qualche cosa e’ già remotamente pericoloso rispetto all’imparzialità, nell’istigazione che e’
un tentativo ci sarebbe un ulteriore allontanamento di offensivita’.

In altri termini: se per alcune ipotesi piu gravi si può pensare che sia in gioco l’imparzialità della pubblica
amministrazione quanto meno nelle forme di pericolo, per le forme piu lontane dalla realizzazione vera di
un atto che offende l’imparzialità non può ritenersi che ci sia.

In dottrina viene discusso se sia rilevante il pericolo di un pericolo: secondo Pagliaro e’ possibile punire un
pericolo di un pericolo perché il pericolo e’ un concetto graduabile ovvero qualcuno mette del materiale in
un modo tale facendo dei lavori creando un pericolo che causa una frana su una strada pubblica. Questo e’
un reato di pericolò pero potrebbe essere punito anche chi sta facendo dei lavori anche se ancora non ha
riversato questo materiale sulla strada creando un pericolo reale quando si muove senza protezioni vicino
la strada ecc. con il pericolo che si crei un pericolo.

Esempio: potrebbe costituire un reato il pericolo di una frana.

Per l’associazione a delinquere solo in Italia c’è una disciplina cosi severa: la dottrina dice che queste
associazioni devono avere delle caratteristiche nella loro organizzazioni tali da mettere in pericolo il bene
tutelato che e’ l’ordine pubblico.

Il pericolo si può arrecare ma non esageratamente.

Ad esempio: se pensiamo all’istigazione, alla corruzione per l’esercizio della funzione nella forma della
promessa per un atto conforme ai doveri di ufficio abbiamo recato 5 volte la soglia di pericolosità. Ognuno
di questi passaggi e’ un andare indietro: promessa al posto della dazione di denaro.

Pagliaro fa un altro ragionamento: parte dalla distinzione tra:

❖ CONCENZIONE ROMANISTICA: fa leva sul fatto che il pubblico ufficiale non deve accettare doni per
il compimento della sua attività.
❖ CONCEZIONE GERMANICA: punisce la compravendita di un atto di ufficio: scambio di un atto con
una somma di denaro o altra utilità.

Pagliaro fa questo ragionamento: la CONCEZIONE ROMANISTICA non può essere accettata perché nel
nostro sistema si richiede comunque l’articolo 318 o 319 c.p. il riferimento ad un atto. Quindi non e’ il
divieto generico di ricevere doni ma piuttosto il divieto di scambiare un atto dell’ufficio con denaro o altra
utilità.
si potrebbe osservare che se questo continua ad essere valido per l’articolo 319 c.p. dove e’ tutt’oggi
richiesto un atto non necessariamente compiuto ma preso di mira invece potrebbe dubitarsi per l’articolo
vigente 318 c.p. dove e’ punito il ricevere denaro (corruzione) per l’esercizio della funzione senza piu
riferimento ad un atto particolare.

Ma siccome l’esercizio della funzione si traduce necessariamente in quanto tale in atti, la novità della
formulazione dell’articolo 318 c.p. sta nel fatto che non si richiede piu un atto specifico individuato ma pur
sempre un esercizio della funzione o del servizio pubblico dell’incarico di pubblico servizio; non
esattamente indicato come in precedenza ma comunque preso di mira. ( il denaro si riceve in vista di un
esercizio della funzione).

Quindi possiamo concludere su questo punto del bene tutelato ripetendo che immediatamente che
l’offesa del reato consiste nella compravendita di un atto di ufficio cioè il pubblico ufficiale riceve denaro
che non dovrebbe ricevere in relazione all’attività del suo ufficio. Questo rappresenta il disvalore tipico
della corruzione.

Quando indichiamo il bene giuridico tutelato noi pensiamo sempre ad un bene giuridico immediatamente
offeso ma anche ad un bene che può stare sullo sfondo come ultima ragione della punizione per un certo
fatto.

Esempio: nei reati in ambito economico sullo sfondo c’è la tutela del patrimonio (risparmiatori) ma questa
e’ una prospettiva ultima; immediatamente il legislatore per ottenere quell’obiettivo di politica criminale
punisce qualcosa di anticipato come tutela il corretto andamento del mercato finanziario: investimenti ecc..
in modo tale da evitare quelle situazioni di disordine che potrebbero pregiudicare il patrimonio dei singoli.

Quindi sullo sfondo ci sta il bene finale come patrimonio, vita ecc.. ma immediatamente, in vista
dell’obiettivo ultimo il legislatore considera reato, quindi autonoma offesa sussistente un qualcosa che
viene prima che merita di essere tutelato prima. Qui e’ vero che sullo sfondo ci sta l’imparzialità della
pubblica amministrazione ovvero obiettivo ultimo che si vorrebbe raggiungere; immediatamente per
adempiere a questo obiettivo si vieta ai pubblici agenti di scambiare la loro attività per denaro. Quindi si
vieta la compravendita dell’atto di ufficio.

La corruzione viene prevista da disposizioni diverse:

➢ Articolo 318 e 319 c.p. : comportamento del pubblico ufficiale


➢ Articolo 321 c.p. : punibilità del corruttore

Questi due fatti sono complementari: uno da e l’altro riceve. Uno promette l’altro accetta la promessa.

Il legislatore penale distingue i fatti e le condotte, qualche volta considera reato uno dei due
comportamenti se pur complementari l’altro no. Questo avviene negli stupefacenti: viene punito lo spaccio
ma non l’acquisto.

Ci si chiede se si tratta di un unico reato o di due reati differenti? si tratta di unica fattispecie a concorso
necessario o si tratta di due reati distinti?

Il termine ‘’ FATTISPECIE A CONCORSO NECESSARIO’’ immaginiamo il duello o la rissa. Nel duello ci sono
due soggetti che fanno il duello.

si preferisce la tesi di due reati differenti secondo Pagliaro:

❖ La corruzione attiva: il comportamento di chi offre o promette denaro ad un pubblico ufficiale


❖ Corruzione passiva: il comportamento di chi trattiene il medesimo
La tesi piu diffusa in dottrina che si tratta di un unico reato a concorso necessario con condotte
complementari:

➢ Si dice che sarebbe complicato vedere due reati distinti.


➢ Il regime giuridico con effetti particolari in materia di prescrizione, competenza del giudice per
territorio, amnistia sarebbe quello di un unico reato.
➢ Se davvero si trattasse di reati distinti ciascuno dei due soggetti dovrebbe rispondere in primo
luogo del suo reato ma anche dovrebbe rispondere per il concorso nel fatto dell’altro come
istigatore. Il privato che da il denaro dovrebbe anche rispondere del reato del pubblico ufficiale in
quanto come se lo avesse istigato; e’ viceversa.
➢ Nel caso di un terzo per esempio un segretario di un imprenditore il quale fa da tramite perché
porta del denaro ad un pubblico ufficiale. Il terzo non si sarebbe a quale reato concorre se in quello
del privato o quello del pubblico ufficiale; con il rischio di poter rispondere di tutti e due.

Il legislatore con la riforma del 90 prevede nell’articolo 322 c.p. l’istigazione alla corruzione: nonostante
questo nome particolare in realtà si deve pensare sempre come TENTATIVO DI CORRUZIONE.

Il tentativo di omicidio si punisce mettendo insieme l’articolo che prevede l’omicidio ai sensi dell’articolo
575 c.p. e l’articolo che punisce il tentativo in generale ai sensi dell’articolo 56 c.p.

Perché il legislatore lo prevede appositamente nell’articolo 322 c.p.?

Questi autori dicono: dato che la corruzione e’ un reato con concorso necessario se uno dei due fa la sua
parte ma l’altro non accetta non sarebbe punibile questo tentativo per mancanza d’idoneità.

Esempio: il privato offre del denaro il pubblico ufficiale lo rifiuta.

In una simile situazione, pensando il reato come risultante necessariamente dall’incontro, se ci fosse una
sola parte non sarebbe ancora punibile il tentativo perché mancherebbe una parte essenziale quindi non si
può ritenere che quello che viene fatto da uno solo sia già dotato di tuti i requisiti per la punibilità del
tentativo. Non sarebbe un atto idoneo rispetto alla corruzione.

Questi autori dicono: proprio perché invece e’ giusto punire il privato che offre, anche se il pubblico
ufficiale non accetta per questa ragione il legislatore crea l’articolo 322 c.p.

Questi sono gli argomenti a favore della tesi che si tratti di un unico reato.

ARGOMENTI DI DUE REATI:

1. Il legislatore descrive in articolo diversi i due comportamenti.


2. La cassazione ritiene che sia diverso il regime per quanto concerne l’ amnistia
3. Non si può rispondere del concorso nel reato dell’altro perché esiste una norma SPECIALE che
prevede come autonomo reato il fatto di compiere l’attività: la fattispecie che punisce il corruttore
e’ speciale rispetto a quella che punirebbe il concorso nella corruzione del pubblico ufficiale. Quindi
non si applica al privato.
4. Questi soggetti vengono puniti una sola volta
5. Per quanto concerne il terzo bisogna vedere a quale delle condotte e’ piu vicino ed essere punito a
titolo di concorso nella condotta vicina.

L’istigazione articolo 322 c.p. si risponde con due argomenti:

1. Proprio perché esistono questi reati convergenti l’articolo 322 c.p. chiarisce che il tentativo che non
si incrocia con l’accettazione dell’altro e’ già punibile.
2. L’articolo 322 c.p. introduce un regime sanzionatorio diverso da quello del tentativo, piu severo
perché la pena generale prevista per il tentativo comporta la riduzione da 1/3 a 2/3 della pena
prevista per il reato. Mentre qui la riduzione e’ fino ad un 1/3.
3. La pena del tentativo e’ superiore a quella che si avesse applicando l’articolo 56 c.p.

In conclusione: si tratta di due reati distinti che si incrociano quando c’è un reato consumato.

Nella concussione: il fatto che sia indispensabile che vi sia un privato che da denaro non significa che il
reato sia di tutti e due.

Ricordiamo:

❖ Il soggetto del fatto: figura nella norma penale incriminatrice


❖ Soggetto dell’illecito: risponde del reato

Nel concussione il privato che da e’ soggetto del fatto. Mentre il pubblico ufficiale e’ soggetto dell’illecito.

N.B. Quando abbiamo parlato di Pagliaro e Spena che prospettavano nei casi di thuoffue la punibilità a
titolo diverso dei due soggetti: il pubblico ufficiale viene punito per concussione; il privato per corruzione.

Questa impostazione ha 2 presupposti:

1. Lo stesso fatto due persone possono rispondere a titolo diverso. ‘’esempio: vilipendio della
bandiere e incendio della bandiera. Entrambi bruciano la bandiera uno a titolo di vilipendio e l’altro
per danneggiamento’’
2. La fattispecie di corruzione costituisce una serie di fattispecie penali distinti ed autonome. In
particolare la corruzione attiva e’ distinta dalla corruzione passiva cosicché e’ possibile che si
punisca qualcuno a titolo di corruzione attiva ovvero il privato corruttore anche se non c’è dall’altra
parte un pubblico ufficiale corrotto che risponda di corruzione. Quindi si possano incrociare tra loro
concussione del pubblico ufficiale e corruzione attiva del privato.
Se la corruzione fosse un reato a concorso necessario dove non si possono staccare i fatti del
privato e del pubblico ufficiale; ed entrambi rispondono di corruzione, questa costruzione secondo
Pagliaro sarebbe impossibile perché a fronte della corruzione del privato che da ci dovrebbe
necessariamente essere la corruzione del pubblico ufficiale che riceve.
Staccando i due fatti e’ possibile prevedere la corruzione attiva del privato che si incontra con la
concussione del pubblico ufficiale.

la teoria dei due reati distinti viene anche affermato dalla giurisprudenza la quale qualche volta, in base
all’atteggiamento psicologico dei soggetti ha condannato a titolo diverso.

Per esempio: corruzione propria e corruzione impropria quando il pubblico ufficiale sa di aver compiuto un
atto contrario ai doveri di ufficio mentre il privato crede di avere pagato un atto regolare o viceversa;
oppure corruzione antecedente e corruzione susseguente quando il privato crede che il pubblico ufficiale
abbia già compiuto l’atto mentre il pubblico ufficiale sa che ancora l’atto non e’ compiuto. Quindi per il
privato sarebbe una corruzione susseguente mentre per il pubblico ufficiale sarebbe una corruzione
antecedente;

In passato nell’articolo 318 la corruzione chiamata impropria si richiedeva che il denaro fosse dato in
retribuzione. Questo era che giusto perché trattandosi di un atto conforme al dovere di ufficio il legislatore
voleva sottolineare che doveva essere una somma consistente.

Invece nell’articolo 319 questo requisito non era e non e’ previsto. Allora ci si chiede cosa significa questo:
siccome nell’articolo 319 corruzione per atto contrario ai doveri di ufficio e’ piu grave qualunque offerta e’
già reato?
La risposta e’ NO: non qualsiasi dazione e’ reato ma anche se bisogna distingue perché il denaro quando si
può pensare, a meno che non si tratti di una semplice mancia, ma questo dipende dalla qualità del
soggetto:

ad esempio: al sindaco della citta’ ci Palermo non si può offrire una mancia; la si può dare all’infermiere di
un ospedale che fa alcune prestazioni.

Se e’ una piccola mancia va bene anche il denaro; in generale quando si tratta di denaro anche se e’ poco
assume rilevanza in ambito della corruzione. Non e’ da considerarsi illecito nemmeno ai sensi dell’articolo
319 c.p. quei regali che corrispondono ad un gesto di cortesia.

Esempio: bottiglia di vino, mazzo di fiori ecc.

Recentemente sono stati emanati codici di comportamento dei pubblici dipendenti che prevedono delle
soglie: ad esempio si prevede che non si possono accettare dei regali per un valore superiore a 150 euro.

Oltre la dazione, e’ possibile la PROMESSA: deve essere una promessa informale, sensata. Nell’articolo 318
si dice indebitamente mentre non lo si dice nell’articolo 319 c.p. ma questo ‘’INDEBITAMENTE’’ E’
LOGICAMENTE predisposto dalla fattispecie del reato perché se la somma fosse dovuta e’ evidente che non
si può essere reato; anche se il pubblico ufficiale ha la facoltà di ricevere la somma.

Dolo specifico: sia nell’articolo 318 e 319 c.p. il riferimento all’attività dell’ufficio costituisce un dolo
specifico; per la verità questo vale per la corruzione antecedente: ‘’la somma di denaro o altra utilità e’ data
prima del compimento dell’atto.’’ Questo atto non e’ necessario che sia effettivamente compiuto ma deve
essere voluto dai soggetti quindi siamo di fronte la situazione che costituzione dolo specifico cioè quando
qualcosa deve essere voluto dal soggetto agente senza che sia anche necessario che si realizzi
effettivamente. Questo viene denominato dolo specifico.

L’atto contrario ai doveri di ufficio non e’ necessario che si compie. Nell’articolo 318 prima si diceva ‘’ atto
di ufficio ’’ mentre nell’articolo 319 si parla di ‘’ un atto contrario ai doveri di ufficio ’’.

In altri termini: nell’articolo 318 doveva essere un atto conforme ai doveri di ufficio. Oggi questo
riferimento all’atto nell’articolo 318 non c’è piu. Si parla invece di esercizio della funzione.

La rubrica contenuta oggi dell’articolo 318 e’ ‘’ corruzione per l’esercizio della funziona’’ questa modifica
venne fatta del 2012 con la legge Severino. In passato era ‘’corruzione per un atto di ufficiò’’ inteso come
atto conforme.

Rubrica dell’articolo 319 ‘’corruzione per un atto contrario ai doveri di ufficio ’’.

Spiegazione: l’articolo 318 e 319 vanno letti insieme perché in qualche modo sono collegati. Nell’articolo
319 la formula era un po’ complicata, sinteticamente possiamo dire un atto contrario ai doveri di ufficio
come indicato nella rubrica. Cosa che si specifica in una serie di ipotesi:

• Omettere o ritardare un atto dovuto


• Le formule sono ripetute rispetto al passato: questa e’ una corruzione antecedente ovvero
ricevo il denaro per omettere ad un atto di ufficio per compiere un atto contrario o per ritardare.
Ma può accadere che io ho già omesso, ritardato l’atto oppure compiere un atto contrario quindi
parleremo di una corruzione susseguente.

In tutti i casi nell’articolo 319 era ed e’ tutt’oggi fondamentale il riferimento a questo atto contrario
all’ufficio. Questo aveva creato dei seri problemi alla giurisprudenza perché spesso no si riusciva ad
individuare quale fosse questo atto. Si poteva intuire che c’era stato un accordo o intesa pero non si
riusciva a provare che fosse stato compiuto quell’atto particolare.
Cosi dottrina e giurisprudenza si andavano allargando: atto determinato oppure almeno atto determinabile
del genere cioè che si può pensare che fosse quello. Sino a che era stato ritenuto che fosse reato la
cosiddetta ‘’ISCRIZIONE AL LIBRO PAGA’’.

L’ISCRIZIONE AL LIBRO PAGA: il fatto che un pubblico ufficiale fosse pagato con regolarità senza una
richiesta particolare ma per essere a disposizione del privato.

Esempio: il privato paga un giudice per averlo come amico per quando potesse servirgli all’occorrenza.

Inoltre la giurisprudenza e i penalisti hanno osservato che se in passato la corruzione si poteva concepire
come io ti do il denaro tu mi dai l’atto ovvero come un ipotesi circoscritta ad una vicenda particolare. In
realtà l’esperienza dei processi come ad esempio ‘’tangentopoli mani pulite 1992 scoppiato a Milano’’:
hanno mostrato che si tratta di una rete pervasiva di interessi che sono ampi e diversificati per cui il privato
può avere interesse per il compimento di questa o quell’altra prestazione, ad avere il pubblico ufficiale a
disposizione. Le forme di scambio si sono moltiplicate.

Precisamente per intercettare questo tipo di relazioni da una parte; per risponde all’esigenze giustificate
della dottrina che si lamentava dell’interpretazione che la cassazione aveva dato all’articolo 319, il
legislatore ha riformato l’articolo 318.

La cassazione era stata costretta ad interpretare in modo ampio il requisito dell’atto contrario ai doveri di
ufficio, li dove apparendo evidente la necessità di intercettare e punire certi fatti non si poteva dimostrare il
compimento di un atto ed il risultato era stata un interpretazione sempre piu larga della fattispecie oltre il
limite dell’accettabile perché la dottrina rigorosa diceva che none’ un applicazione corretta della norma
penale tassativa. Se la legge parla di un atto necessita di un atto.

Tutto ciò porta la modifica dell’articolo 318 dove non c’è piu il riferimento ad un atto di ufficio ma si parla di
un esercizio della funzione.

Prima si diceva ai sensi dell’articolo 318 che il pubblico ufficiale che pe compiere un atto del suo ufficio,
riceve.

Oggi si dice che il pubblico ufficiale, per l’esercizio dei suoi poteri e funzioni indebitamente riceve.

Quindi questo riferimento e’ generico per l’esercizio delle sue funzioni o dei suoi poteri.

La prima cosa da osservare che:

❖ Non si fa piu riferimento ad un atto particolare.


❖ Che la norma dell’articolo 318, oggi e’ generale quindi piu ampia rispetto all’articolo 319. In
passato erano due ipotesi alternative; oggi l’articolo 318 prevede tutta la possibile attività
dell’ufficio.

Allora l’articolo 319 oggi e’ diventato un ipotesi speciale rispetto a quella dell’articolo 318.

L’articolo 318 punisce qualunque scambio di denaro con l’attività pubblica. L’articolo 319 che e’ un caso
particolare speciale che e’ l’attività in questione riguardi il compimento di un atto contrario ai doveri di
ufficio.

Quindi oggi il rapporto e’ ritornato piu stretto rispetto al requisito dell’atto di ufficio perché se prima si
poteva pensare che la cassazione aveva dato un interpretazione elastica oggi quando non si individua un
atto particolare si applicherà l’articolo 318 che prevede delle sanzioni molto piu gravi, oggi la pena va da 1 a
6 anni mentre in passato era punito con la reclusione da 15 giorni fino a 3 anni.

Per quanto concerne ‘’ L’ATTO CONTRARIO AI DOVERI DI UFFICIO’’:


trattandosi d’attività di ufficio il consenso o l’ordine del superiore non esclude il reato.

Esempio: se qualcuno commette un fatto contrario ai doveri di ufficio con il consenso del superiore di
ufficio, non per questo non e’ punibile. Perfino anche quando l’ordine sia illegittimo anche in questo caso il
pubblico ufficiale che effettua l’ordine non può giustificarsi in questo modo.

Rispetto a questo elemento ‘’CONTRARIETA’ DEI DOVERI DI UFFICIO’’ per rispondere dell’articolo 319 il
pubblico ufficiale deve essere consapevole che l’atto per compiere il quale riceve denaro e’ contrario ai
doveri di ufficio:

➢ Se lo crede l’atto legittimo non risponderà di corruzione propria 319 ma risponderà di corruzione
per l’esercizio della funzione ai sensi dell’articolo 318 perché ammesso che ritiene l’anno conforme
sa comunque di ricevere denaro in relazione alla sua attività di ufficio . sa comunque che questo
non può farlo.

Quando ci siamo posti il problema dei soggetti attivi abbiamo detto anche i membri del parlamento
possono rispondere per corruzione. Era stato obiettato poiché cosi si guarda che cosa e per quale ragione il
membro del parlamento si fa dare denaro. Questo sarebbe una violazione della sua immunità che copre le
opinioni espresse e i voti dati.

Nel caso analizzato: vassalli come presidente della commissione parlamentare aveva negato
l’autorizzazione a procedere quando ancora era richiesta invece poi aveva scritto che il parlamentare può
essere responsabile della corruzione. In quel caso era stato fatto un errore tecnico perché era stato
contestato il reato di corruzione propria per atto contrario ai doveri di ufficio. Questo e’ un errore perché il
membro del parlamento non può rispondere di corruzione propria in quanto che l’attività legislativa e’
libera nel suo svolgimento.

Qualunque sia il contenuto della proposta di legge non può farsi pagare per questo. In realtà si potrebbe
ipotizzare ma e’ ipotesi di scuola anche una corruzione propria nei casi in cui il parlamentare violasse
norme imperative.

Esempio: presidente delle camere che nel verbale di udienza attesta il falso. E’ stato approvato la tale legge
con tot voti favorevoli e tot voti contrari. Firmato il presidente della camera invece non e’ vero. Questo
sarebbe contrario ai suoi doveri di ufficio.

Piu importa e’ il caso: ‘’ che il DENARO SIA RICEVUTO PER IL COMPIMENTO DI UN ATTO DISCREZIONALE’’:

il giudice penale non può valutare il merito dell’atto. Quasi sempre un atto, anche se discrezionale ha dei
limiti posti da leggi, regolamenti ecc.. che devono essere rispettati, sui quali non c’è discrezionalità.

Nell’esercizio della discrezionalità il pubblico ufficiale non e’ totalmente libero: non si tratta di un arbitrio
libero ma si tratta di una libertà vincolata dal perseguimento dell’interesse pubblico. Può esserci anche in
riferimento all’atto discrezionale una contrarietà ai doveri di ufficio in queste ipotesi:

1. Il pubblico ufficiale deliberatamente altera le condizioni di parità che dovrebbero esserci tra i
soggetti.
Esempio: in un concorso pubblico comunica ad uno dei concorrenti il testo delle domande
alternando la parità delle posizioni. La scelta fra i concorrenti e’ discrezionale.
Ogni volta che si e’ difronte ad un potere discrezionale questo deve essere esercitato in vista del
fine pubblico per il quale il potere e’ stato attribuito. Perciò se e’ il pubblico ufficiale compisse l’atto
in vista di finalità private per avvantaggiare qualcuno in particolare e non perseguire il fine pubblico
ci sarebbe corruzione.
Quello che abbiamo detto riguarda la corruzione antecedente. In questo il compimento dell’atto costituisce
un dolo specifico: io ricevo il denaro per compiere un atto contrario ai doveri di ufficio ovvero 319 per
esercitare la funzione 318.

Non e’ detto che la funzione sia esercitata o che l’atto sia compiuto. Pero e’ anche rilevante la corruzione
susseguente ovvero la funzione e’ stata già esercitata o l’atto contrario e’ stato già compiuto, si riceve il
denaro dopo. In questo caso si parla di un presupposto ovvero se si richiede nella corruzione susseguente
che ci sia già stato l’atto ovviamente ci vuole l’atto adempiuto.

La CONSUMAZIONE avviene nel momento in cui o il denaro viene consegnato o viene fatta la promessa
questo per la corruzione attiva. Per la corruzione passiva nel momento in cui si riceve denaro o si accetta la
promessa.

Che cosa succede se alla promessa che già e’ sufficiente per consumare il reato segue la dazione?

La corruzione e’ una fattispecie mista alternativa per la quale modalita’ differenti senza che questo
comporti una moltiplicazione dei reati.

Esempio: danneggiamento, traffico di stupefacenti. Se uno produce, coltiva, importa o vende commette un
solo reato.

La giurisprudenza erroneamente, nel caso della corruzione ritiene che se alla promessa segue la dazione si
tratta di reati diversi. Ma questo e’ sbagliato perché si tratta di un solo reato. Quello che accade che si
sposta in avanti il momento della consumazione.

Vi e’ una differenza tra PERFEZIONE E CONSUMAZIONE DEL REATO:

➢ PERFEZIONE: il reato e’ perfetto. Possiede tutti i requisiti per essere un reato punibile.
➢ CONSUMAZIONE: portare a massimo grado il livello di offesa al bene giuridico. Questo e’
esattamente quello che succede.

Con la promessa il reato e’ perfetto: il reato sussiste in tutti i suoi elementi. Se alla promessa segue la
dazione il massimo dell’offesa si realizza con la dazione successiva. Quindi la consumazione non e’ piu nel
momento della promessa.

Bisogna osservare una nozione che concerne la corruzione per l’esercizio della funzione:

il sistema prevede che ci sia un articolo 321 c.p. che rinvia al 318.

In passato l’articolo 318 era suddiviso in 2 commi:

➢ Nel primo comma si puniva la corruzione antecedente: e’ sempre piu grave perché il pubblico
ufficiale motivato a fare qualcosa per aver ricevuto denaro. Se già l’avrà fatta e’ soltanto riceve un
pagamento che non dovrebbe accettare ma ormai l’atto e’ stato adempiuto.
➢ Il secondo comma: puniva la corruzione susseguente:

l’articolo 318 c.p. descrive il fatto del pubblico ufficiale. La punibilità del corruttore si ottiene dall’articolo
321 che rinvia all’articolo 318.

L’articolo 321 c.p. e’ immodificato cioè ripete sempre il primo comma dell’articolo 318. Ma oggi l’articolo
318 ha solo un comma. Questo non e’ di poco importanza. Che cosa significa?

Significa che fino al 2012 per la corruzione impropria il privato corruttore era punito soltanto nel caso di
corruzione antecedente. Quindi se avesse dato denaro in retribuzione al pubblico ufficiale per il
compimento di un atto conforme ai doveri di ufficio ma prima che quest’atto fosse compiuto.
Se invece l’atto era già stato compiuto conforme ai doveri di ufficio ed il privato dava del denaro al pubblico
ufficiale. Quest’ultimo era punito ai sensi del secondo comma dell’articolo 318, il privato non era punito
perché l’articolo 321 che riguarda la sua responsabilità di privato corruttore faceva riferimento soltanto al
primo comma dell’articolo 318 corruzione antecedente. Il privato nel caso di corruzione impropria
susseguente non veniva punito.

Oggi l’unico comma dell’articolo 318 prevede tutte le ipotesi di corruzione per l’esercizio della funzione
antecedente e susseguente; senza distinzione poiché si dice che stabilito che riceve denaro per l’esercizio
delle sue funzioni, che può essere ancora da svolgere oppure già svolto.

Il privato in quanto l’articolo 321 e’ immutato, oggi e’ diventato punibile anche nel caso di corruzione per
l’esercizio della funzione susseguente mentre prima non lo era.

ISTIGAZIONE ALLA CORRUZIONE articolo 322 c.p.:

Istigazione da parte del pubblico ufficiale alla corruzione attiva del privato:

esempio: se il pubblico ufficiale istiga il privato a commettere il delitto di corruzione attiva dal punto di
vista del pubblico ufficiale si tratta DEL TENTATIVO DI CORRUZIONE PASSIVA.

Se il privato propone al pubblico ufficiale di compiere un atto contrario ai suoi doveri commette un
tentativo di corruzione attiva.

L’equivoco nasce dal fatto che il legislatore impropriamente usa il termine ‘’istigazione’’. Istigazione in
senso stretto si ha quando qualcuno istiga un altro per compiere lui un reato. Qui il termine ‘’istigazione
viene utilizzato perché qualcuno provoca a fare qualcosa di illecito; per il pubblico ufficiale prova ad
ottenere per il privato e’ farsi dare un atto contrario.

Conclusione: questo viene previsto dall’articolo 322 c.p. in 4 commi: il primo si deve trattare di un tentativo
nella sostanza: tentativo di corruzione. il nome viene capovolto rispetto al titolo descritto nella fattispecie:
l’istigazione alla corruzione attiva e’ un reato del pubblico ufficiale che tenta di compiere una corruzione
passiva.

L’istigazione alla corruzione passiva e’ il tentativo del privato che prova ad ottenere dal pubblico ufficiale un
atto pagandolo quindi tenta di compiere una corruzione attiva.

L’istigazione alla corruzione passiva può essere:

➢ Propria ai sensi 319


➢ Impropria ai sensi dell’articolo 318

Il legislatore per la parte del privato utilizza il termine ‘’sollecita’’.

Queste fattispecie sono una forma di tentativo eccettuato: non si punisce in base all’articolo 56 c.p. ma c’è
una norma apposita che la punisce.

Esempio: nei delitti sono leggermente diversi di ‘’ ATTENTATO’’ COME attentare la vita al presidente della
repubblica. E’ un tentativo che la legge punisce autonomamente prevedendo un apposito articolo.

Il nostro panorama risulta molto complicato perché abbiamo:

1. Concussione
2. Induzione indebita
3. Corruzione
4. Istigazione alla corruzione
In passato la distinzione veniva posta solo tra concussione e corruzione vi sono 3 criteri utili per
ragionare:

1. INIZIATIVA: prima del 2012 se l’iniziativa la prendeva il pubblico ufficiale era concussione; se la
prendeva il provato era corruzione. Questo criterio nel tempo si era perduto ed il privato può
essere costretto dall’inerzia voluta da parte del pubblico ufficiale il cosiddetto ostruzionismo.
Questa ipotesi non va
2. METUS PAURA: se il privato aveva agito a causa del timore di fronte la potesta’ pubblica quindi in
una posizione di subordinazione allora era concussione per il pubblico ufficiale mentre per il privato
non rispondeva niente. Mentre se i due aveva contrattato in un piano di parità era corruzione.
La dottrina non prevedeva la possibilità che ci fossero due fatti contemporaneamente o era l’uno o
era l’altra.
3. VANTAGGIO: se il privato lotta x ottenere un lucro e’ corruzione mentre se evita un danno e’
concussione. Anche questo non andava bene perché il privato poteva anche evitare un danno. Ma
siccome quel danno era dovuto e giusto c’è corruzione prima del 2012.

Con l’induzione indebita le cose si complicano.

Oggi abbiamo 4 termini di riferimento. Allora occorre distinguere questi passaggi l’uno dall’altro.

Per quello che concerne la distinzione tra CONCUSSIONE E INDUZIONE INDEBITA: la cassazione dice se ce la
minaccia di un danno ingiusto e’ concussione. Se ce la prospettazione di un danno giusto ed il privato dietro
sollecitazione del pubblico ufficiale da l’indebito avvantaggiandosi vi e’ induzione indebita.

In mezzo vi sono ipotesi di thuoffuer: a secondo cosa sia stato piu importante se si agisce sostanzialmente
per evitare il danno, il privato sarà in concussione; mentre se agisce per avvantaggiarsi piuttosto nel
miscuglio tra minaccia e offerta e’ induzione indebita.

Ora come si distingue l’induzione indebita dalla corruzione?

La stessa collocazione dell’articolo 319 quater che sta dopo il 319 lo mette nella famiglia delle corruzioni
secondo la cassazione. Nonostante il nome derivato dallo spacchettamento sostanzialmente e’ piu vicina
alla corruzione che alla concussione.

Qui e’ molto simile alla corruzione il fatto che entrambi hanno un vantaggio: il pubblico ufficiale perché
riceve il denaro che si fa dare dal privato. Il privato e’ punito perché logicamente si avvantaggia.

Il pubblico ufficiale viene punito con una reclusione fino a 10 anni mentre il privato sino a 3 anni.

Si distingue dalla corruzione perché potrebbe venissimo essere il pubblico ufficiale ad andare dal privato
per dirgli se mi dai tot di euro ti do una licenza.

Cosi il criterio distintivo individuato dalla cassazione consiste nel fatto che qui come nella concussione vi
e’ un diretto e immediato abuso della qualità e dei poteri finalizzato a farsi dare denaro dal privato.

L’abuso della qualità e dei poteri che manca nella corruzione.

Qui con l’abuso in induce a dare. Invece nella corruzione manca il requisito.

Distinzione tra tentativo di induzione indebita e istigazione alla corruzione:

posto che nel tentativo di induzione indebita il pubblico ufficiale ci prova ma il privato non gli da nulla.
Oppure al contrario il privato che offre. Qui la cassazione rispolvera il criterio proposto da Pagliaro per
distinguere fra concussione e corruzione dice che se si tratta di una distinzione che riguarda la forza.
Oggi questo criterio dell’iniziativa e’ utilizzato dalla cassazione per distinguere tra induzione indebita e
istigazione: se l’iniziativa e’ del pubblico ufficiale quindi vi e’ un abuso della qualità vi sarà induzione
indebita mentre se manca l’iniziativa e l’abuso vi sarà la corruzione.

Quindi nell’istigazione il pubblico ufficiale sollecita.

Quindi la distinzione sta tra indurre e sollecitare:

indurre e’ piu forte. Sollecitare e’ piu delicato.


Abuso di ufficio disciplina all’articolo 323.

Era stato definito nel codice del 1930 la cenerentola dei reati ovvero l’ultimo chiodo della carrozza perché
aveva una funzione meramente residuale era il tipico esempio di rapporto tra norme di sussidierà perché il
legislatore prevedeva la possibilità che costituisca abuso di ufficio che si chiamava ‘’ABUSO DI UFFICIO IN
CASI NON PREVEDUTI SPECIFICAMENTE DALLA LEGGE il pubblico ufficiale abusando dei poteri commette
per recare un danno un vantaggio QUALSIASI FATTO NON PREVEDUTO COME REATO DA UNA PARTICOLARE
DISPOSIZIONE DI LEGGE’’.

Quindi se il fatto integrava una violenza privata, concussione, un furto, o qualunque reato commessa dal
pubblico ufficiale non si applicava l’articolo 323 ma quell’altra disposizione; cosicché l’articolo 323 aveva
una funzione marginale e sussidiaria.

La dottrina, come Bricola, aveva dubitato della legittimità costituzionale per l’eccessiva determinatezza
perché gli elementi erano ‘’abusa dei poteri’’ e ‘’ ed era un dolo specifico di recare vantaggio o danno a
qualcuno’’.

Nel 1990 quella che era stata la cenerentola diventò il fulcro del sistema dei delitti dei pubblici ufficiali:
fermo restando gli elementi strutturali cioè abuso del potere con finalità sempre con dolo specifico ma qui
viene distinta o di danneggiare qualcuno oppure distingueva di arrecare o un vantaggio non patrimoniale
oppure arrecare un vantaggio patrimoniale.

In questa situazione ovvero questi elementi ‘’abuso dei poteri e finalità’’ restava quella indeterminatezza
che Bricola aveva fatto notare. Il reato e’ diventato piu importante perché invece di essere integrato
l’articolo 323 soltanto se non fosse in gioco nessun altro reato, la clausola che era stata modificata si diceva
‘’se il fatto non costituisce un piu grave reato’’; quindi l’abuso di ufficio cedeva, la norma non era
applicabile nel caso di peculato, concussione ecc. ma era applicabile quando ci fossero gli abusi come
omissione o altro.

In particolare era stato ampliato l’ambito di applicazione dell’articolo 323 che aveva ereditato il risultato di
molte fattispecie soppresse o modificate: in particolare lo stesso articolo 323 vecchio poi interesse privato
in atti di ufficio ai sensi dell’articolo 324, totalmente abrogato di cui era rimasto punibile il fatto che il
pubblico ufficiale avesse prese un interesse per avvantaggiare se stesso.

Oggi a titolo di abuso di ufficio. Ancora nell’intenzione del legislatore peculato per distrazione in teoria
secondo quanto dichiarato nella relazione di accompagnamento della legge del 90 il peculato per
distrazione avesse dovuto integrare l’abuso di ufficio. Infine omissione di atti di ufficio, i casi piu gravi di
omissione di atti di ufficio potevano essere puniti dall’articolo 323.

In questa situazione si era verificato che alcune procure avessero usato indebitamente l’abuso di ufficio
come grimaldello per cominciare delle indagini nei confronti della pubblica amministrazione.

Si era determinata per pacifica opinione una situazione in cui i pubblici ufficiali si sentivano una spada sulla
testa ovvero la possibilità di essere indagati fin troppo facilmente di fronte a qualsiasi esercizio di poteri che
fosse per qualcuno non corretto quindi finalizzato con scopi di vantaggio o danno per i privati.

In questa situazione si arriva alla riforma del 1997: l’abuso di ufficio venne ridimensionato lo spazio di
applicazione introducendo una serie di nuovi requisiti. Lo scopo di questa riforma era quello di superare la
situazione di stallo sui cui si trovava la pubblica amministrazione che si era paralizzata per la paura di un
indagine penale anche li dove non ci fossero i presupposti.

Questo venne fatto attraverso una serie di elementi:


1. Quello che era un dolo specifico divenne EVENTO DEL REATO: evento significa che deve realizzarsi.
Mentre prima era uno scopo che poteva realizzarsi o no; ora invece viene richiesto che deve
procurarsi a qualcuno un vantaggio o un danno ingiusto.
2. E’ sparita la rilevanza degli abusi commessi a vantaggio non patrimoniale: se oggi il pubblico
ufficiale procura un vantaggio non patrimoniale non ce abuso di ufficio. Si dice che in questi casi
sono meno gravi si può ricorrere alla sanzione disciplinari.
Nel nostro paese le sanzioni disciplinari della pubblica amministrazione non hanno mai funzionato.
Non e’ corretto che in certi casi vantaggi non patrimoniali di grande importanza siano attribuiti ed il
fatto sia penalmente irrilevante.
Esempio: pensiamo ad uno che si laurea senza aver superato gli esami. Non ce un vantaggio
patrimoniale diretto. Oppure un giudice che non per corruzione ma per amicizia assolve qualcuno.
In questi casi non costituirebbe reato ed e’ inaccettabile.
3. Elemento che restringe la punibilità e’ il dolo: la legge espressamente richiede un dolo intenzionale.
Questo e’ un filtro delicato per la punibilità dell’abuso di ufficio

I casi piu discutibili con la riforma del 1990 erano ritenuti quelli in cui l’attività del pubblico ufficiale fosse
viziata per eccesso di poteri. Quando si parla di provvedimenti amministrativi possono essere illegittimi per:

❖ Violazione di legge
❖ Incompetenza: regolati da leggi o da provvedimenti della pubblica amministrazione
❖ Eccesso di potere: e’ un vizio sfuggente perché ci sono solo degli indicatori tipici dell’eccesso di
potere che sono l’irrazionalità, disparità di trattamento, si tratta di una irregolarità molto sfuggente
che si presenta dove il pubblico ufficiale essere un potere discrezionale. Di fronte un potere
discrezionale se proprio non viola macroscopicamente i limiti posti dalla legge è facile che violi la
legge compiendo un atto con eccesso di potere.

Come aveva operato il legislatore del 1997 per restringere anche sotto questo profilo la punibilità:

richiedendo la violazione di norme di legge o di regolamento. Quindi non bastava secondo la corrente
interpretazione un qualsiasi vizio del provvedimento adottato ma occorreva accertare che fosse stata
violata una determinata norma di legge o di regolamento. Cosi si riteneva di aver risolto il problema.

Il problema si ripresentava: la cassazione aveva fatta sua questa lettura nella sentenza TOSCS: dice che non
basta piu un qualsiasi vizio del provvedimento ma occorre accertare che vi sia una violazione di legge o di
regolamento. Inoltre non basta che si tratta di norme a carattere semplicemente procedimentale ma
nemmeno di norme generalissime o di principio. Quest’ultime sono l’articolo 97 della costituzione che
prevede: ‘’ i pubblici uffici sono organizzati secondo disposizioni di legge, in modo che siano assicurati il
buon andamento e l’imparzialità dell’amministrazione’’.

In sostanza in gioco c’era l’imparzialità della pubblica amministrazione: in un caso in cui senza violare
norme di legge almeno formalmente si fosse fatta un indebita disparità; secondo la cassazione non integra
l’abuso di ufficio perché la norma che avrebbe imposto al pubblico ufficiale di essere imparziale ovvero
l’articolo 97 della costituzione era definita una norme generalissima o di principio e non specifica regola di
legge.

Si e’ notato che l’articolo 97 della costituzione certamente e’ una norma di principio ma contiene anche una
regola precisa ovvero la pubblica amministrazione non deve fare disparità fra i soggetti con cui entra i
contatto; deve trattare tutti allo stesso modo.

La cassazione aveva detto di no all’articolo 97 della costituzione perché e’ troppo generale. Il giudice
penale non può entrare nel merito; il giudice accerta solo se vi e’ una violazione di norme di legge.
Se vi e’ una violazione dell’imparzialità ce una violazione dell’articolo 97 della costituzione. La cosa
paradossale era che una sentenza della cassazione assurda nella sua sostanza aveva ritenuto che in un caso
in cui il pubblico ufficiale aveva dichiaratamente favorito qualcuno non costituisca reato avendo egli violato
il codice di comportamento dei dipendenti pubblici il quale era un regolamento approvato con un decreto
del presidente del consiglio dei ministri e non nelle forme previste dalla legge n400 del 1988 che regola i
regolamenti governativi o interministeriali che prevede un certo procedimento per l’emanazione dei
regolamenti.

La cassazione aveva detto non e’ un regolamento ai sensi della legge 88 n400. La violazione del codice dei
pubblici dipendenti che prescriveva l’imparzialità in quanto approvata soltanto con un decreto del consiglio
dei ministri non era rilevante per integrare l’abuso di ufficio.

Questo determina una reazione da parte della dottrina ma anche della giurisprudenza che aveva osservato
due cose:

1. Si era ricreduta che l’articolo 97 costituzione non fosse sufficiente per costituire violazione di
norma di legge. Quindi se si viola l’imparzialità ce abuso di ufficio.
2. Violazione finalistica della legge: significa che formalmente la legge e’ rispettata. Pero il potere
della commissione era stato esercitato finalisticamente rivolgendola in un risultato contrario a
quello che la legge avrebbe richiesto.

Con uno di questi due sistemi ci si avviava al superamento: il problema e’ stato definitivamente risolto con
un decreto del 2013 ed e’ stato nuovamente emanato il codice di comportamento dei pubblici ufficiali nelle
forme corrette del regolamento.

Quindi oggi il nuovo codice di comportamenti dei pubblici ufficiali che costituisce regolamento prescrive
di non fare disparità di trattamento.

Quindi dal 2013 il problema e’ risolto perché se deliberatamente un pubblico ufficiale nell’esercizio dei
suoi poteri avvantaggia intenzionalmente qualcuno come la legge non gli permetterebbe di fare viola il
codice di comportamento dettato con il regolamento del codice di comportamento dei pubblici
dipendenti che e’ un regolamento agli effetti di legge quindi commette abuso di ufficio.

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