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Le verità del velo

Le verità
del velo

a cura di M. Ferrara A. Saggioro G.P. Viscardi


a c ura di Marianna Ferrara,
Alessandro Saggioro,
Giuseppina Paola Viscardi

euro 24,00
www.sefeditrice.it Società Editrice Fiorentina
2  Ù Le verità del velo

‘Alti Studi di Storia intellettuale e delle Religioni’ Series

The volumes featured in this Series


are the expression of an international community of
scholars committed to the reshaping of the field of textual
and historical studies of religions and intellectual traditions.
The works included in this Series are devoted to investigate
practices, rituals, and other textual products, crossing
different area studies and time frames. Featuring
a vast range of interpretative perspectives,
this innovative Series aims to enhance
the way we look at religious and
intellectual traditions.

Series Editor

Federico Squarcini, Ca’ Foscari University of Venice, Italy

Editorial Board

Piero Capelli, Ca’ Foscari University of Venice, Italy


Vincent Eltschinger, École Pratique des Hautes Études, Paris, France
Christoph Emmrich, University of Toronto, Canada
James Fitzgerald, Brown University, USA
Jonardon Ganeri, British Academy and New York University, USA
Barbara A. Holdrege, University of California, Santa Barbara, USA
Sheldon Pollock, Columbia University, USA
Karin Preisendanz, University of Vienna, Austria
Alessandro Saggioro, Sapienza University of Rome, Italy
Cristina Scherrer-Schaub, University of Lausanne and EPHE, France
Romila Thapar, Jawaharlal Nehru University, India
Ananya Vajpeyi, University of Massachusetts Boston, USA
Marco Ventura, University of Siena, Italy
Vincenzo Vergiani, University of Cambridge, UK

Editorial Coordinator

Marianna Ferrara, Sapienza University of Rome, Italy


Introduzione Ù  3

LE VERITÀ DEL VELO

a cura di
Marianna Ferrara
Alessandro Saggioro
Giuseppina Paola Viscardi
4  Ù Le verità del velo

Società Editrice Fiorentina


www.sefeditrice.it

This edition first published in Italy 2017


by Società Editrice Fiorentina
via Aretina, 298 - 50136 Florence, Italy
Tel. +39 055 55 32 92 4 | Fax +39 055 55 32 08 5
info@sefeditrice.it

Questo volume è stato realizzato con il contributo di

Unità di ricerca di Catania


Modelli e interazioni di genere nei gruppi religiosi antichi:
il caso dei gruppi protocristiani
coordinata da Arianna Rotondo

© 2017 Società Editrice Fiorentina


individual chapters © individual contributors

The moral right of the authors has been asserted.

Cover photograph courtesy of www.danieleroccabianca.it

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into a retrieval system, or transmitted, in any form or by any means
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without the prior written permission of both the copyright
owner and the above publisher of this book.

ISBN-13: 978 88 6032 427 6 (Hbk)


ISBN-10: 88 6032 427 6 (Hbk)
Introduzione Ù  5

Indice

Alessandro Saggioro
Premessa 7

Marianna Ferrara, Giuseppina Paola Viscardi


Introduzione 11

Uno Sguardo teorico

Massimo Leone
Homo velans: Paradossi del velo nella semiosfera contemporanea 27

Sguardi sul mondo antico

Pietro Giammellaro
Velo si dice in molti modi. Coprirsi il capo nell’epica greca arcaica 49

Giuseppina Paola Viscardi


Verità e rappresentazione. Logiche discorsive e pratiche performative
del dis/ velamento nell’antica Grecia 59

Francesca Romana Nocchi


Obnubilatio capitis: simbologia sacra e profana del velo
nell’antica Roma 89

Cristina Simonelli
Tertulliano e l’obbligo del velo 121
6  Ù Le verità del velo

Caterina Moro
Il velo nel mondo biblico e nel giudaismo 135

Il velo nell’islam plurale

Alessandro Vanoli
L’invenzione del velo. Alcune considerazioni su colonialismo,
moda femminile e identità islamica 149

Sara Hejazi
Il velo islamico. Pratica del passato e re-invenzione del presente 167

Claudia Porretto
Il velo risonante. Una lettura critica della rappresentazione
del burqa in un film di Samira Makhmalbaf 187

Claudia Mattalucci
Modernità e politiche dell’abbigliamento femminile in Turchia 205

Emilia Lazzarini
Il tabu del velo islamico attraverso le leggi italiane 239

Casi studio dal Sudasia

Carmela Mastrangelo
La donna s-velata. I nudi delle divinità femminili nel Veda 275

Mara Matta 283


Nudo di donna: ri(s)coprire la Devi
Introduzione Ù  7

Premessa

Questo volume scaturisce da un progetto che è stato al tempo stes-


so didattico, di ricerca e infine editoriale e si è sviluppato nell’arco
degli ultimi dieci anni. Assume, giungendo a compimento, anche un
coté o un intento intellettuale e, per certi versi, politico.
Le verità del velo vuole significare due cose: da una parte riconosce-
re ad un oggetto —il velo che copre e dissimula le identità dei volti,
dei corpi, degli individui— una certa unità di funzione, quale che ne
sia la specifica declinazione spazio-temporale e culturale; dall’altra
accettare, appunto, che tale oggetto sostanzialmente univoco abbia
di fatto una varietà di espressioni, ricezioni, interpretazioni che lo
rendono polisemico.
Non solo, dunque, in contesti diversi può essere prodotto, com-
mercializzato, indossato, rappresentato, descritto e interpretato in
maniere diverse, tutte vere, a seconda dei punti di vista, ma esso
anche nel medesimo contesto, anche nella stessa realtà circoscritta,
anche nella stessa specifica oggettualità può avere più significati e
conseguentemente ottemperare ad esigenze di produzione di valo-
re simbolico o di verità in maniera massimamente soggettiva. Con-
temporaneamente è un oggetto che produce discussione, dibattito,
agonismi: ciascuno può cercare di dire la sua rispetto ai motivi per
cui è indossato, per cui è imposto, per cui è scelto; ma anche rispet-
to ai motivi per cui è tolto, per cui è sottratto, per cui è abbando-
nato. Le stesse persone possono farne usi diversi in contesti diversi,
attribuirgli un significato diverso a seconda delle situazioni, sfrut-
tarlo, financo, in base ad istanze e aspettative variabili. Dunque non
esiste solo la verità di chi lo indossa, ma anche di chi lo fa indossare;
ed esistono le verità di chi interpreta questo atto e lo considera ora
simbolo di emarginazione e sottomissione, ora di emancipazione e
libertà.
8  Ù Le verità del velo

Pur in presenza di un’apparente conflittualità di visioni o di


un’ambiguità di fondo, resta un oggetto semplice: strumento antro-
popoietico elementare, è assimilabile sia alle minime e meno invasive
forme temporanee di copertura del corpo, sia alle più complesse e
stratificate modalità di mascheramento che pur essendo reversibili
hanno invece tutto il tratto della permanenza.
Per questi motivi, non pochi e qui solo accennati, è diventato ar-
gomento di una didattica che si è protratta per anni, nell’ambito dei
corsi di Simbologia del vestire della Sapienza e altrove; è stato al tem-
po stesso argomento di un numero elevato di tesi triennali e magistra-
li e tema di alcuni progetti di ricerca; infine è diventato, per impulso
di chi scrive, insieme alle curatrici e con la generosa disponibilità
degli autori dei diversi saggi, anche un progetto editoriale. Questo
insieme di fattori ne ha ritardato la scaturigine definitiva che tuttavia
giunge finalmente a compimento oggi. Il volume non è una rassegna
completa delle possibili riflessioni sulle verità del velo o sui veli, non
ha ambizioni di completezza e di esaustività. Abbiamo insieme, cura-
tori e autori, l’ambizione di affrontare diversi aspetti, in diverse epo-
che, in diversi contesti, guardando a diverse tipologie di fonti e infine
anche con approcci diversi, in un intento interdisciplinare ma conso-
nante in un obiettivo unico, che è quello di disvelare la complessità
dell’oggetto e la sua polisemia, ma anche la sua rilevanza, in diversi
contesti e diverse epoche —possiamo dire anche in diversi orizzonti
culturali— così da sottrarlo alle banalità delle semplificazioni e alla
rozzezza delle approssimazioni, alla volubilità delle generalizzazio-
ni. In ciò risiede dunque l’obiettivo intellettuale e politico: contro
usi, abusi, distorsioni, ma anche contro facili strumentalizzazioni, si
rivendica la necessità della cautela, dell’attenzione al dato storico,
alla precipuità delle varianti in gioco, ma anche della cura contro i
rischi di deformazione, di forzatura, di violenza nel leggere la realtà
e le realtà. Quando sono in gioco valori o verità degli individui o dei
gruppi, l’accortezza metodologica, la decrittazione dei segni, il rico-
noscimento della diversità costituiscono un programma scientifico
che si fa anche politico, nel senso di pretendere e avvalorare modalità
condivisibili di descrizione e comprensione della realtà. Se abbiamo
assolto a questo scopo con questo volume valuterà il lettore; se poi
altri vorranno proseguire su questa strada e approfondire questa ri-
flessione ampliando e moltiplicando i percorsi di studio, l’obiettivo
sotteso a questo lavoro sarà compiuto.

Numerosi ringraziamenti sono necessari per concludere e licen-


ziare questo lavoro. Anzitutto sono debitore nei confronti delle due
colleghe che con me firmano la curatela del libro, Marianna Ferra-
ra e Giusy Viscardi: senza di loro non sarei probabilmente riuscito a
portare a termine un coordinamento editoriale nato, appunto, circa
dieci anni fa da discussioni con Marta Rivaroli, Mariachiara Giorda,
Emanuela Prinzivalli, Diana Segarra, Federico Squarcini, Alessandro
Introduzione
Premessa Ù  9

Vanoli. Un ringraziamento speciale va alla collega e amica Arianna


Rotondo, che a lungo ha seguito il progetto editoriale, lo ha spes-
so discusso con noi e ora lo accoglie fra le azioni proficue del FIRB
"Futuro in ricerca 2012" La percezione dello spazio e del tempo nella tra-
smissione di identità collettive. Polarizzazioni e/o coabitazioni religiose nel
mondo antico (I-VI secolo d.C.). Nell'Unità di Ricerca di Catania, che si
è occupata di Modelli e interazioni di genere nei gruppi religiosi antichi: il
caso dei gruppi protocristiani, il tema del velo è tornato a più riprese e
ritengo importante che questo volume possa in qualche modo riflet-
tere quell'interesse scientifico, a maggior ragione per la prospettiva
comparativa e ampia del progetto stesso.
Devo poi ringraziare gli autori che hanno avuto la generosità di
affidare le loro pagine a noi e hanno avuto la pazienza di aspettare la
pubblicazione, contro la quale fattori di ogni genere si sono schierati,
in stagioni diverse, fino al momento attuale: la revisione delle biblio-
grafie, l’aggiornamento dei dati, il rinnovamento della discussione e
della loro stessa visione, che hanno seguito questo iter di non poca
durata, si aggiungono alla generosità iniziale. I cenni di questa pre-
messa alla complessità di fondo non giustificano il ritardo, ma credo
possano renderlo appena comprensibile.

Alessandro Saggioro
10  Ù Le verità del velo
Introduzione Ù  11

Marianna Ferrara, Giuseppina Paola Viscardi

Introduzione

Velo, velare, velarsi, ma anche svelare, svelarsi. Il velo quale ogget-


to che copre o nasconde è spesso di grande interesse agli occhi di un
semiologo come di un antropologo o di uno storico dell’arte o delle
religioni, di un sociologo o di un giurista che si addentra tra le pieghe
delle pratiche e delle rappresentazioni, delle storie pubbliche e pri-
vate, dunque tra i sistemi normativi e i campi semantici nei quali un
oggetto apparentemente innocuo come il velo agisce come un’arma,
trasmette un messaggio, esercita una forma di controllo, ma anche di
resistenza o di ostensione. Velo si dice in molti modi, recita uno dei saggi
qui presentati, ma il velo è anche molte cose: un copricapo, una veste,
un accessorio, un oggetto di protezione. È un segno che non si limita
a indicare. Il velo produce un’azione, appunto copre, nasconde, la-
scia intravedere, distingue, esibisce. Il velo talvolta è gender-oriented, ha
una valenza religiosa, una funzione normativa, un significato identi-
tario. La sua rimozione può dunque diventare un gesto di rottura, di
ribellione, un affronto, uno smascheramento che getta luce e sguardi
su quanto il velo intendeva tenere al riparo, in segreto, in disparte.
Per tutte queste ragioni, il velo è innanzitutto un oggetto di studio
che attraversa la storia e le storie. Ripartiamo dunque dalle possibili
metodologie dello studio del velo nei sistemi religiosi.
Nell’introduzione all’opera di Marcel Mauss Sociologie et anthropo-
logie (1950), Claude Lévi-Strauss parlava, con riferimento all’analisi
delle cosiddette “società primitive”, di significante fluttuante per indi-
care un significante che non designa niente di preciso, una semplice
forma o piuttosto un simbolo allo stato puro, con una sorta di “valo-
re simbolico zero”, che tuttavia è condizione necessaria del pensiero
simbolico. Il significante fluttuante —tipicamente riferito a espressio-
ni linguistiche intese come pure forme, che si riempiono di volta in
volta di significati diversi— obbedisce a un regime ambiguo, perché
12  Ù Le verità del velo

non indica alcunché di preciso e individuato, ma ci permette di de-


scrivere ciò che sfugge alla funzione semantica. Nel 1978 il filosofo
portoghese José Gil —addottorato nel 1982 con una dissertazione sul
concetto di corpo come campo di potere— ha individuato nel corpo
il significante fluttuante per eccellenza. Sotto questo profilo, il corpo
è “energia libera”, regione incodificabile che assume la funzione di
scambio di codici. Il corpo si trova così «al limite della funzione sim-
bolica, al di là della quale cessa di significare o di designare qualsiasi
cosa».1 La funzione svolta dal corpo sarebbe dunque quella di emet-
tere e ricevere segni, di iscriverli in se stesso, fungendo da infralingua,
ambito che supera il campo semantico permettendo la generazione
del senso. In tale prospettiva, il corpo rimane escluso dal semiotico e
confinato, per così dire, all’ambito del presemiotico. Pur prendendo
le distanze da orientamenti strutturalisti di stampo classico, l’idea del
corpo come sostrato presemiotico della significazione è stata recen-
temente riproposta negli studi di semiotica corporale in cui si rico-
noscono al corpo due funzioni, quella di substrato della semiosi e
quella di figura del discorso.2 La distinzione tra corpo come substrato
e corpo come figura del discorso consente di tracciare un percorso
generativo incarnato della significazione, cioè di accogliere un mo-
dello teorico che presuppone la dicotomia sensibile vs intelligibile: in
quanto carne, il corpo è materia, sostanza estensiva, cosa tra le cose
del mondo. Ma è possibile distinguere in modo netto il sensibile e
l’intelligibile?3 È possibile pensare al corpo come a una datità? È mai
il corpo una cosa indipendentemente dallo sguardo di qualcuno che
lo costruisce?
Domande come queste prestano il fianco a una visione, per così
dire, ontologizzante del corpo e della corporeità, ma fanno anche da
contrappeso a un’altra visione del corpo, elaborata nell’ambito degli
studi di critica culturale, per la quale è impossibile pensare il corpo
come un ente naturale indipendente dalla cultura che lo definisce.
Proprio nel clima della contestazione dell’ontologizzazione del cor-
po insorge la riflessione foucaultiana sul corpo quale superficie dove
si iscrive la memoria. Il corpo negli scritti di Michel Foucault è il
luogo a partire dal quale si può ricostruire la genealogia dell’anima
moderna, dalla sua nascita allo sviluppo nella società occidentale; at-
traverso lo studio delle discipline e delle tecniche corporali è possibi-
le tracciare la storia dell’Occidente. Con Foucault s’inaugura dunque

1
J. Gil, s.v. “Corpo”, in Enciclopedia Einaudi, Einaudi, Torino 1978, vol. 3, pp. 1096-
1162. In ambito italiano, la definizione di corpo come significante fluttuante è ripresa e
sviluppata in una serie di studi sul corpo post-organico, cfr. ad es. T. Macrì, Il corpo post-
organico, Costa & Nolan, Genova 1996; G. Mura, R. Cipriani (a cura di), Corpo e religione,
Città Nuova Editrice, Roma 2009.
2
Vedi soprattutto J. Fontanille, Soma et Séma: Figures du corps, Maisonneuve et Larose,
Paris 2004 .
3
Sulla possibilità di distinguere in modo chiaro il sensibile dall’intelligibile, vedi
ancora J. Fontanille, G. Zilberberg, Tension e signification, Madraga, Liège 1998.
Introduzione Ù  13

un paradigma critico che non solo contesta l’ontologizzazione del


corpo, ma ne ribadisce la natura di costrutto, di oggetto culturalmente
“costruito”4 e come tale costantemente investito dalla produzione di-
scorsiva, regolato e manipolato dalle strategie ad essa sottese. Il tema
della manipolazione, critico quanto scottante, acquisisce una maggio-
re eco nella critica femminista che insegue il modello foucaultiano
di ricerca, ma si rinnova nella riflessione di Judith Butler allorché
la studiosa denuncia il rapporto di causa ed effetto tra la capacità
performativa dei discorsi e delle pratiche e la materialità dei corpi.5
Butler mostra come il corpo materico non abbia densità maggiore
rispetto al corpo in quanto discorso costruito performativamente e,
in tal senso, come non sia possibile pensare a un corpo come punto
zero della significazione. Afferma Butler: «anche il non costruito (l’e-
videnza del corporeo) non può porsi come materia muta e ottusa,
bensì come un confine delimitato a sua volta da una pratica signifi-
cante: non c’è rimando a un corpo puro che non sia già una forma-
zione del corpo».6
Tra la prospettiva strutturalista e ontologizzante e quella costrut-
tivista delineata negli scritti di Foucault e Butler, è tuttavia possibile
tracciare una terza via di riflessione sulla questione del corpo, che
viene a porsi in una posizione intermedia, facendo leva sul carattere
relazionale del corporeo. L’attenzione si sposta dal corpo quale esito
di discorsi e pratiche al corpo quale oggetto del contesto semiotico,
posizionato in uno spazio, in un tempo, in relazione ad altri corpi
e, in modo più generale, al sistema di pratiche e rappresentazioni
nel quale agisce ed è percepito.7 Questa terza via deve alla lezione
costruttivista il diniego dell’ontologizzazione del corpo, ma al con-
tempo riconosce al corpo la sua fisicità, non come carattere che lo
essenzializza ma in termini di determinazione materica. Da una tale
prospettiva, il corpo diventa superficie di iscrizione, luogo di trasfor-
mazioni e territorio di scambi di diverse articolazioni del senso, è
posto come limen, come spazio transizionale,8 “casella vuota” o istanza

4
Ricorrente nella critica foucaultiana, il tema del corpo è centrale in Naissance
de la Clinique: une archéologie du regard médical, PUF, Paris 1963; Id., Surveiller et punir.
Naissance de la prison, Gallimard, Paris 1975; Id., La volonté de savoir. Histoire de la sexualité,
I, Gallimard, Paris 1976.
5
J. Butler, Bodies that Matter: On the Discoursive Limits of Sex, Routledge, London-New
York 1993; cfr. Ead., Gender Trouble: Feminism and the Subversion of Identity, Routledge,
London-New York 1990.
6
C. Demaria, Generi e soggetti sessuali. Le rappresentazioni del femminile, in C. Demaria,
S. Nergaard (a cura di), Studi Culturali. Temi e prospettive a confronto, MacGraw-Hill,
Milano 2008, pp. 147-186, in particolare p. 167.
7
Cfr. F. Borel, Le vêtement incarné: les métamorphoses du corps, Calmann-Lévy, Paris
1992; P. Borgna, Corpo a corpo, in Ead., Sociologia del corpo, Laterza, Roma-Bari 2005,
pp. 52-102; A. Busto (a cura di), Il velo: tra mistero, seduzione, misticismo, sensualità, potere e
religione, Silvana Editoriale, Cinisello Balsamo 2007.
8
Per la definizione di “spazio transizionale”, inteso come spazio potenziale tra
individuo e ambiente soggettivamente costruito e oggettivamente percepito in cui si
modella ogni forma di processo mentale creativo, vedi i lavori del pediatra e psicoanalista
14  Ù Le verità del velo

dinamica in grado di attivare complessi processi di significazione, fi-


nendo per essere percepito come motore delle trasposizioni, risultato
delle traduzioni, operatore e al contempo esito dell’enunciazione.9
In questa direzione si muovono anche alcuni tra i più recenti stu-
di sul corpo nell’ambito della teoria della comunicazione. Una pro-
posta interessante e fruttuosa è quella che opera il passaggio dalla
visione del corpo come limen a quella del corpo come medium. Lungo
un percorso d’indagine per molti versi contiguo e consequenziale,
si passa dunque dal concetto di corpo come spazio transizionale a
quello di corpo come elemento mediatico, basilare dell’interazione
umana. Un tale sguardo teorico, se da un lato focalizza la rilevanza e
il significato assunti dal corpo come medium nei sistemi di comunica-
zione socio-culturale —con particolare riferimento alla religione, qui
intesa, appunto, come sistema di comunicazione altamente simbolico
ed efficace—,10 dall’altro mette in rilievo lo statuto del corpo —cosa
dovrebbe essere fatto con o per il corpo— e il ruolo da attribuire ai
piaceri corporali. Il corpo è qui un elemento centrale che agisce ed è
agito nel sistema di regole e di significati attivati nelle molte tradizio-
ni religiose, le quali, nel tempo, hanno elaborato e sviluppato un lin-
guaggio sofisticato e fortemente specializzato per comunicare idee,
valori e norme. Da questa prospettiva il corpo non è mero oggetto di
protezione o di devozione, idealizzato o normatizzato, “genderizzato”
e inserito all’interno di complessi modelli di rappresentazione. Ciò
che spesso viene trascurato, infatti, è che questo corpo idealizzato
o immaginato produce, a sua volta, dinamiche apparentemente au-
tonome all’interno delle quali il corpo stesso diventa un mezzo a sé

britannico Donald Woods Winnicott, in particolare Transitional Objects and Transitional


Phenomena – A Study of the First Not-Me Possession, in «International Journal of Psycho-
Analysis», 34 (1953), pp. 89-97; Playing and Reality, Penguin, Middlesex, England 1971.
Rinviando alla realtà dell’in-between (space), la visione dello spazio transizionale evocata
dalla definizione di intermediate o third area proposta da Winnicott risulta strettamente
complementare all’idea di Zwischenmenschliche elaborata dal filosofo, teologo e
pedagogista austriaco naturalizzato israeliano Martin Mordechai Buber, cfr. spec. Die
Gesellschaft, Sammlung sozial-psychologischer Monographien (“Society. A Collection of Social-
Psychological Monographs”), 40 voll., Rütten & Loening, Frankfurt am Main 1906-1912;
Between Man and Man, Macmillan, New York 1965.
9
Cfr. F. Marsciani, Il corpo, in C. Demaria, S. Nergaard (a cura di), Generi e soggetti
sessuali, cit., pp. 187-221.
10
Nell’ambito di tali studi va segnalato il progetto di ricerca internazionale e
interdisciplinare Commun(icat)ing Bodies (Researching Body & Religion communicating-
bodies.net, URL: <http://communicating-bodies.net>) connesso allo studio su Religiöse
Kleidung und vestimentäre Religion. Wechselwirkungen aus religionswissenschaftlicher Sicht
condotto per l’Università di Zurigo dalla Dr. Anna-Katharina Höpflinger sotto la
supervisione della studiosa svizzera Daria Pezzoli Olgiati. I temi della ricerca coprono un
ampio spettro d’indagine, spaziando dalla mitologia antica ai più moderni rituali Parsi,
fino ad affrontare il discorso sulle frontiere tra corpo e tecnologia. Cfr. M. Glavac, A.-K.
Höpflinger, D. Pezzoli-Olgiati (a cura di), Second Skin. Körper, Kleidung, Religion (“Research
in Contemporary Religion”, 14), Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen 2013; A.D. Ornella,
S. Knauss, A.-K. Höpflinger (a cura di), Commun(icat)ing Bodies. Body as a Medium in
Religious Symbol Systems (“Religion – Wirtschaft – Politik”, 11), Pano Verlag, Zürich 2014.
Introduzione Ù  15

stante. Come medium, il corpo s’impone come un testimone privile-


giato di esegeti e tradizioni religiose che cercano di inscrivere i pro-
pri sistemi di credenze sul corpo e nel corpo, rendendolo contenitore
di informazioni, messaggero e messaggio.11 Ma in virtù di uno statuto
così privilegiato nella comunicazione, il corpo impone anche nego-
ziazioni che incidono sulla produzione semiotica.
In altre parole, se la concezione e la percezione del corpo sono
esiti delle pratiche collettive e degli immaginari socio-culturali, al
tempo stesso e per riflesso, il corpo, quale materia viva e vivente che
occupa e si muove nello spazio, contribuisce a dare ordine e senso
alle pratiche e agli immaginari attraverso le prestazioni —ad esem-
pio, definendo i limiti tra pubblico e privato con le diverse declina-
zioni operabili sul piano economico, sociale, ma anche tra natura e
cultura, puro e impuro, profano e sacro, nudo e vestito, materiale
e immateriale, femminile e maschile, in definitiva tutte quelle cate-
gorizzazioni attraverso cui si costruiscono le visioni del mondo, del
suo ordine e della sua alterità.12 Questo per dire che la concezione,
la qualificazione e il controllo dei corpi in termini culturali si con-
formano a schemi dicotomici e a strategie di comunicazione che si
pongono come naturali, quando invece sono puramente arbitrari.13
Ma i corpi, nella tripla funzione di messaggio, messaggero e sup-
porto del messaggio, sono più che la somma di tali distinzioni, anzi
sfidano qualsiasi facile forma di categorizzazione. Proprio per que-
sto i corpi sono in grado di generare, veicolare e mediare relazioni
semantiche e sociali che trascendono le semplici dicotomie: i corpi
sono “naturali” e “culturali” allo stesso tempo, sono individuali e col-
lettivi, sono un “affare privato” della persona e insieme ricoprono
un interesse pubblico. I corpi vanno oltre la semplice somma di op-
posizioni binarie, benché tali opposizioni rinviino alla dimensione
corporea dell’essere umano per la loro costruzione e la riflessione
che ne consegue, finendo per costituire la base delle attività e della
cognizione umana.14
I rituali legati al corpo sono pratiche basate sui sistemi di norme
e rappresentazioni comuni e condivise ma sono anche in grado di
riprodurli e di crearne nuovi. Tali pratiche si pongono, al contempo,
come risultato, come marcatori e meccanismi costitutivi di visioni

11
Cfr. F. Borel, Le vêtement incarné, cit.
12
Per le costruzioni corporali dell’“altro”, vedi S. Hall, The Spectacle of the “Other”, in
S. Hall (a cura di), Representation. Cultural Representations and Signifying Practices, Sage,
London 1997, pp. 223-290; S. Lanwerd, Die Repräsentation des Anderen. Bemerkungen zu
Bild, Geschlecht und Religion, in S. Lanwerd, E. Márcia (a cura di), Frau, Gender, Queer.
Gendertheoretische Ansätze in der Religionswissenschaft, Königshausen & Neumann,
Würzburg 2010, pp. 163-183.
13
Cfr. P. Bourdieu, Les rites comme actes d’institution, in «Actes de la recherche en
sciences sociales», 43 (1982), pp. 58-63; Id., Ce que parler veut dire: l’économie des échanges
linguistiques, Fayard, Paris; Esquisse d’une théorie de la pratique, Droz, Genève 1972.
14
Cfr. T. Eagleton, The Idea of Culture, Blackwell, Oxford 2000, pp. 2-3.
16  Ù Le verità del velo

del mondo collettive. Considerati “naturali” e, insieme, irriducibil-


mente connessi alla visione personale e all’esperienza soggettiva,
i corpi sono caratterizzati da un’“aura di fattualità”15 e associati a
emozioni e motivazioni profonde e radicate. I significati connessi
ai corpi e il corpo stesso come entità materiale non sono mai “pura
natura”, ma categorie culturalmente costruite, polisemiche, dinami-
che, caotiche, a-strutturate, sfuggenti, “fluttuanti”. La definizione e
la regolamentazione dei corpi mediante le norme sociali, le relazio-
ni interpersonali, le tradizioni religiose e le visioni del mondo sono
dunque tentativi di stabilire un ordine a partire da una ben precisa
idea di disordine, trasformando i corpi in portatori inequivocabili
delle norme, delle relazioni e delle visioni del mondo che ne irreg-
gimentano lo statuto.16
Date le premesse teoriche fin qui delineate, una riflessione sul
velo e sul corpo velato nel campo delle scienze storico-religiose non
può che muovere dal presupposto che non c’è velo chiamato a copri-
re il corpo o una parte di esso in modo innocuo, né atto di svelare che
sia del tutto innocente. Le intenzioni e le implicazioni del velare e
del disvelamento fanno parte dei codici istituiti nei contesti culturali
e sociali e perfino della resistenza che talvolta insorge all’interno o
all’esterno di essi. Pertanto la possibilità, talvolta l’obbligo, di mostra-
re il corpo e/o il viso, liberandosi della veste o del telo coprente, così
come la necessità di sottrarsi alla sguardo dell’altro, possono dipen-
dere da fattori normativi e assumere significati ideologici, sfumando
fino all’identificazione dei confini tra politica e religione, tra sfera
pubblica e sfera privata.17 Prendendo le mosse dall’esplorazione dei
modi di rappresentazione concettuale all’interno di culture diverse,18
il presente volume mira innanzitutto a indagare i significati e le va-
lenze profonde del velo nelle pratiche e nelle retoriche discorsive
che si articolano intorno all’utilizzo o alla rivendicazione, al divieto
o all’imposizione di questo indumento, ora simbolo, ora accessorio.

15
Riprendiamo la terminologia di Clifford Geertz, il quale, nel tentativo di dare ua
definizione di religione, individua nelle emozioni e nelle motivazioni il mezzo più efficace
per stabilire l’ordine e trasmettere i significati —attività che, secondo Geertz, contribuisce
al funzionamento della religione nella società. Cfr. C. Geertz, Dichte Beschreibung. Beiträge
zum Verstehen kultureller Systeme, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1987, p. 84.
16
Cfr. A.-K. Höpflinger, S. Knauss, A.D. Ornella, Introduction. Body, Communication and
Religion, in Idd. (a cura di), Commun(icat)ing Bodies, cit., pp. 11-24, in particolare pp. 11-13;
M. Combi, Corpo e tecnologie. Simbolismi, rappresentazioni e immaginari, Meltemi, Roma 2000.
17
Cfr., ad esempio, F. El Guindi, Veil: Modesty, Privacy and Resistance, Berg, Ox-
ford-New York 1999; A. Galadari, Behind the Veil: Inner Meanings of Women’s Islamic Dress
Code, in «The Journal of Interdisciplinary Social Sciences» 6, 11 (2012), pp. 115-125; K.
Bullock, Rethinking Muslim Women and the Veil: Challenging Historical and Modern Stere-
otypes, The International Institute of Islamic Thought, Herndon (VA) 2002; R. Weitz,
Women and Their Hair: Seeking Power through Resistance and Accommodation, in «Gender
and Society», 15, 5 (2001), pp. 667-686.
18
Cfr. D. Sperber, Le symbolisme en général, Hermann, Paris 1974; Id., Explaining
Culture: A Naturalistic Approach, Blackwell, Oxford 1996; Id., Metarepresentations: A
Multidisciplinary Perspective, Oxford University Press, New York 2000.
Introduzione Ù  17

I significati e le valenze sono essenzialmente determinati dalla tri-


plice funzione connessa alla dimensione visuale, spaziale ed etica19
che condiziona l’uso del velo (islamico e non) quale “indumento”
da un lato e prodotto e medium di una “ideologia” dall’altro. Il focus
su questa triplice dimensione —visuale, spaziale, etica— denuncia
la complessità semiotica che è alla base delle dinamiche di visibilità
e invisibilità del corpo (o di alcune sue parti), che regolano la sfera-
pubblica e privata della vita sociale non soltanto con le parole e la
forza della legge, ma anche con quella delle immagini. Attraverso
la costruzione e la percezione visiva dell’ordine attraverso il corpo,
il discorso religioso sul velo e sul corpo velato si fa espressione del-
la posizione di forza, dunque dell’autorità, del codice di norme, del
sistema di valori, atteggiamenti, credenze comuni e condivise.20 L’e-
sito, o uno degli esiti, di una negoziazione simbolica così articolata
incide drasticamente sul ruolo e sulla funzione assunti dal corpo (e
dal corpo velato), che viene codificato ora come oggetto estetico, ora
come prodotto sociale, entrambi soggetti alle logiche che regolano la
distanza tra i corpi, in grado di veicolare un messaggio culturale, dove
il corpo stesso è concepito come luogo di negoziazione dei significati.
Pensato come prodotto culturale —cioè come forma espressiva
di un sistema di produzione di senso, articolato in significanti e si-
gnificati, dunque, veicolo di informazione che rende tale sistema
non solo aperto, ma più o meno “culturale”—, il velo, come l’abito,
più in generale, rappresenta più di quanto la sola denominazione
vestimentaria sappia indicare. In un discorso specificamente inteso
in termini di processualità antropopoietica, si potrebbe dire che il
velo, come l’abito, acquista una valenza comunicativa nella misura
in cui funziona come linguaggio non verbale,21 asservito alle logiche
di un’estetica corporale,22 dove l’ethos (il comportamento o l’attitudi-
ne) è direttamente funzionale all’esthes (l’abito o la veste) e viceversa,
ossia dove l’abito è posto al servizio dell’abitudine e viceversa. Di qui,
l’ipotesi di una reciproca inerenza tra abito e abitudine (sociale, reli-
giosa, culturale). Nella continuità assunta tra abito e corpo —inteso
come territorio fisico-culturale costruito, immaginato, vissuto con-

19
Cfr. S. Asha, Narrative Discourses on Purdah in the Subcontinent, in «ICFAI Journal of
English Studies», 3, 2 (2008), pp. 41-51. Sebbene lo studio di S. Asha (Assistant Professor
in Comparative Literature alla Central University of Kerala) verta sulla realtà ideale e
materiale del purdah indiano, le sue riflessioni restano un adeguato punto di partenza
per ripensare i vari dibattiti che ciclicamente si riaccendono intorno alla questione del
velo islamico.
20
Cfr. P. Bourdieu, Remarques provisoires sur la perception sociale du corps, in «Actes
de la recherche en sciences sociales», 14 (1977), pp. 51-54; Id., Sur le pouvoir symbolique,
in «Annales. Économies, Sociétés, Civilisations», 32, 3 (1977), pp. 405-411; Id., Les rites
comme actes d’institution, cit.
21
N. Lindisfarne-Tapper, B. Ingham (a cura di), Languages of Dress in the Middle East,
Curzon, Richmond (Surrey) 1997.
22
F. Remotti, Luoghi e corpi. Antropologia dello spazio, del tempo e del potere, Bollati
Boringhieri, Torino 1993.
18  Ù Le verità del velo

formemente al genere, all’etnicità, alla religione, al gruppo socio-


economico di appartenenza ecc.—, se consideriamo il corpo come
materiale scrittorio, possiamo immediatamente riconoscere nell’atto di
vestizione o svestizione uno dei linguaggi possibili attraverso cui si
realizza ciò che abbiamo chiamato “discorso incorporato”: cioè il
processo comunicativo —la langue— in grado di attivare, mediante
l’abito o la parole vestimentaria, la percezione del mondo che si espri-
me attraverso il corpo o sui modi di coprirlo.
Alla base del presente volume vi è dunque il tentativo di raggiun-
gere un duplice obiettivo: (1) fornire un’analisi storicamente e cul-
turalmente contestualizzata del/i significato/i e delle implicazioni
ideologiche e religiose, socio-economiche e politico-istituzionali ine-
renti l’uso di un indumento fortemente connotato dal punto di vista
semantico; (2) considerare le strategie comunicative e le dinamiche
culturali sottese al discorso del dis/velamento (di sé o di altri), dove
l’atto di velarsi e svelarsi —inteso come demarcazione socio-cultu-
rale— assume un significato simbolico paradigmatico, cioè rappre-
sentativo a livello sociale e collettivo, di un modo di porsi e di agire
che è normativamente disciplinato e disciplinante. Ne consegue la
riflessione sull’uso pubblico e privato, ritualistico e ritualizzato, poli-
tico e propagandistico del velo in diversi sistemi culturali e secondo
logiche comportamentali precipue di gruppi sociali storicamente
condizionati.23
Il nostro discorso tenta di focalizzare quegli aspetti prescrittivi e
normativi, rituali e cerimoniali, sociali e civili, che si combinano con
le funzioni metaforiche e reali del “velo” quale dispositivo semiotico.
L’attenzione rivolta al potenziale semantico del velo e del velamento
del corpo, o di una sua parte, induce a riflettere sulla capacità del-
l’“oggetto-velo” di (1) definire l’identità di chi ne fa uso; (2) traman-
dare una memoria sociale; (3) sancire uno status di appartenenza;
nonché (4) legittimare un ethos culturalmente codificato, basato sul
consensus.
La pista di indagine che attraversa il volume è diretta a esaminare
gli usi del velo, le sue valenze e i suoi significati espliciti e impliciti,
ed è sviluppata a partire dalle pratiche religiose, qui intese come
costitutive delle e funzionali alle politiche di definizione identitaria di
un popolo o di una nazione. C’è un filo conduttore tra le ricerche
qui proposte che consiste nell’obiettivo di analizzare, quando non
smascherare, alcune delle strategie e delle logiche discorsive che
sottendono la presenza del corpo e che ne attivano la percezione

23
Cfr. M.G. Muzzarelli, A capo coperto: storie di donne e di veli, il Mulino, Bologna 2016;
D. Fraccaro, Veli: oltre la donna, oltre l’Islam: la comunanza del velo nella tradizione ebraica,
cristiana, islamica, Irfan, San Demetrio Corone 2011; L. Babès, Le voile démystifié, Bayard,
Paris 2004; M. Sunder, Piercing the Veil, in «Yale Law Journal», 112 (2003), pp. 1399-1472;
K. Bullock, Rethinking Muslim Women and the Veil, cit.; M. Giolfo, Attraverso il velo: la donna
nel Corano e nella società islamica, Ananke, Torino 2002.
Introduzione Ù  19

come “oggetto” relazionale. Nel campo religioso così inteso l’agente


sociale risulta egli stesso agito, fabbricato attraverso la manipilazione
del corpo, con adeguate tecniche e modalità di velamento e disvela-
mento, dove il velo si pone e impone come oggetto d’abbigliamento
profondamente connesso all’esercizio dell’autorità, del prestigio,
della separazione, della segretezza, della segregazione —considerati
sia dal punto di vista sociale sia da quello rituale, da cui proviene
l’esigenza di distinguere il velo virginale da quello nuziale, funebre,
sacerdotale, mistico ecc.
Là dove la varietà d’uso del velo potrebbe disorientare il lettore,
la direzione dello sguardo costante sulle logiche che ne sottendono
la convenzionalità consente di apprezzare le riflessioni qui raccolte
sul potere normativo e auto-legittimante dell’indumento e sulle de-
rive simboliche e retoriche che sono connesse all’utilizzo cerimonia-
le e sociale dei veli. Obiettivo più generale è fornire un’analisi del-
l’“oggetto-velo” in termini di rappresentazione simbolica e sociale,
tenendo conto, da un lato, della costruzione e percezione culturale
del corpo come medium semiotizzato, nella misura in cui è usato e
riempito di senso per mezzo dell’attributo vestimentario, e consi-
derando, dall’altro lato, la semiotica del gesto, dell’atto compiuto
e della distanza posta tra l’agente e gli altri corpi. Già negli anni
’60 del Novecento, l’antropologo americano Edward T. Hall aveva
intuito l’importanza semiotica assunta dalla distanza che intercor-
re tra un agente e gli altri corpi nella comunicazione non verbale.
Con un neologismo, Hall fondava la proxemics,24 una nuova disciplina
semiologica che intendeva studiare il significato della distanza che
un agente interpone tra sé e gli altri corpi nella comunicazione che
passa attraverso il corpo e i sensi. Benché gli studi di Hall abbiano
avuto sviluppi ben più incisivi nel campo delle scienze cognitive, qui
ci interessa evidenziare come l’attenzione allo spazio e alla distanza
consentano di ripensare il modo in cui gli “agenti religiosi”, storica-
mente e culturalmente condizionati, occupano uno spazio e situano
il loro corpo rispetto ad altri corpi. La presenza del velo, qui inteso
come corpo interposto tra sguardi sui corpi, rivela, di fatto, informa-
zioni sullo status sociale del corpo coprente e di quello coperto, sulla
loro personalità, sull’atteggiamento con cui si pongono rispetto a
specifiche situazioni e, in termini più generici, con cui si relazionano
al mondo, sono e agiscono nel mondo. Di qui si comprendono le di-
namiche che segnano la necessità di definire i confini tra spazi pub-
blici e spazi informali o personali, spazi che circondano la persona
e che si distinguono per dimensione intima, sociale o pubblica nei
termini di minore o maggiore distanza posta tra il corpo “proprio”

24
E.T. Hall, The Silent Language, Doubleday, Garden City, NY 1959; Id., The Hidden
Dimension, Doubleday, Garden City (NY) 1966; Id., Beyond Culture, Anchor Press, Garden
City (NY) 1976.
20  Ù Le verità del velo

e quello degli “altri”. Le aspettative culturali riguardo a tali spazi


variano considerevolmente.25
Pertanto, alla domanda «Perché espormi a scoprire il viso davanti
a uno sconosciuto?», posta dalla Signora di Perfezione ne Il facchino
e le dame de Le Mille e una Notte, la risposta va cercata nei segni che
rivelano il rapporto con l’altro. Scoprire il viso equivale a esporsi, de-
nudarsi, rendersi visibili e perciò potenzialmente vulnerabili. L’espo-
sizione può diventare una debolezza quando delinea il rapporto con
l’altro da noi, lo straniero, ciò che non si conosce e rispetto al quale,
evidentemente, insorge sospetto, reticenza a mostrarsi, scoprirsi, sve-
larsi. La condizione di prestare il fianco all’altro sollecita la necessità
di una regolamentazione dell’esposizione intesa come una consegna
di qualcosa che si vuol tenere riposto e segreto —il corpo, la persona,
l’identità, l’essenza stessa dell’individuo. La custodia del quid che non
va condiviso è affidata al sistema del velo e alle dinamiche di occulta-
mento e rappresentazione, sparizione ed esibizione ad esso correlate
attraverso pratiche di rigida codifica e normativizzazione, di cui resta
traccia nel codice assiro, nella legge coranica, nelle prescrizioni bibli-
che e nelle consuetudini rituali greco-romane.
In ultima istanza, porre l’accento sul tema del velo nelle pratiche
religiose e nelle corrispondenti retoriche costitutive26 delle culture
sviluppatesi intorno a due grandi mari —il Mediterraneo e l’Ocea-
no indiano— potrebbe rivelarsi un utile strumento di analisi delle
dinamiche socio-culturali che, tanto nell’antichità quanto nella con-
temporaneità, si attivano intorno all’uso del velo, contribuendo alla
nascita di una “questione del velo” posta in termini di accettazione
o non accettazione di un indumento dal forte portato ideologico e
dalla elevata pregnanza semantica.
Se il tema del velo è entrato prepotentemente nell’agenda poli-
tica sull’ordine pubblico e sull’istruzione,27 guadagnando l’empatia

25
Le ricerche pionieristiche di Hall sull’antropologia dello spazio hanno spianato
la strada agli studi successivi, influenzando non solo le più moderne ricerche
antropologiche sul concetto di built environment come espressione di idee culturalmente
condivise (cfr. D.L. Lawrence, S.M. Low, Built Environment and Spatial Form, in
«Annual Review of Anthropology», 19 [1990], pp. 453-505), ma anche le indagini
sulla comunicazione interculturale, nel campo della teoria della comunicazione
(cfr. S. Niemeir, C.P. Campbell, R. Dirven [a cura di], The Cultural Context in Business
Communication, John Benjamins Publ., Amsterdam-Philadelphia 1998), oltre ai lavori
di geografia umana incentrati sulla nozione di spazio relativo e relazionale e sulle
modalità in cui le diverse comunità umane creano e usufruiscono di tale spazio.
26
Per retorica costitutiva intendiamo, con le parole di James Boyd White, «the
art of constituting character, community and culture in language» (Id., Heracles’ Bow,
University of Wisconsin, Madison 1985, p. 37), pertinente alla capacità del linguaggio
o dei simboli di creare un’identità collettiva, specialmente attraverso la condensazione
di simboli, letteratura e narrative. Cfr. T.O. Sloane, s.v. “Constitutive Rhetoric”, in Id. (a
cura di), Encyclopedia of Rhetoric, Oxford University Press, New York 2001, p. 616.
27
Cfr. R. Debray, Che cosa ci vela il velo? La Repubblica e il Sacro, Castelvecchi, Roma
2007 (ed. orig. Paris 2004).
Introduzione Ù  21

dell’opinione pubblica e della readership italiana dei nostri tempi,28 è


alla contemporaneità che bisogna porre le prime sfide dell’indagine.
Grazie ai saggi di Massimo Leone (Homo velans: Paradossi del velo nella
semiosfera contemporanea), Claudia Porretto (Il velo risonante. Una lettura
critica della rappresentazione del burqa in un film di Samira Makhmalbaf)
ed Emilia Lazzarini (Il tabu del velo islamico attraverso le leggi italiane), il
velo diviene oggetto controverso di un’indagine a voci multiple: velo
come oggetto da cristallizzare e museificare nell’arte (Leone) e da
abolire o disciplinare con la forza della legge (Lazzerini), ma che, al
tempo stesso, rimosso o riposto, rivela il suo fondamento antropolo-
gico. Lo mostra la disamina del burqa nella cinematografia dell’irania-
na Samira Makhmalbaf (Porretto), dove l’oggetto coprente risponde
contemporaneamente a questioni di uso quotidiano, di intento re-
pressivo e omologante, di identità religiosa, con una funzione simbo-
lica che agisce sul doppio, ma opposto, versante dell’uniformità vs la
resistenza all’uniformità. Ne emerge l’idea del velo come indumento-
elemento fortemente rappresentativo dell’ossessione scopica del no-
stro tempo, connesso alla vanità dell’apparire, ovvero all’illusorietà
del consumo, e, al tempo stesso, all’aridità dell’immaginazione e alle
storture etnico-religiose e di genere. Queste considerazioni ruotano
intorno alla centralità delle donne nelle dinamiche di omologazione
o di resistenza al corredo semiotico del velo, fatto spesso di gerarchie,
subordinazione, costrizioni, marginalità.
Di donne trattano i saggi di Sara Hejazi (Il velo islamico. Pratica del
passato e re-invenzione del presente) e Claudia Mattalucci (Modernità e
politiche dell’abbigliamento femminile in Turchia), dove “identità” divie-
ne una nozione polisemica, continuamente rinegoziata tra fenomeni
di interazione, scambio, acculturazione. Dalle realtà metropolitane
occidentali (Hejazi) alla Turchia dell’ultimo decennio (Mattalucci),
il velo —precipuamente, il velo islamico— finisce per evidenziare il
corpo di chi lo indossa, assumendo la funzione di facile strumento di
generalizzazione: velo anti-democratico, anti-laicista, fortemente con-
notato dalla distinzione di genere e connotante la subordinazione
delle donne nelle società islamiche. Ma proprio la storia della que-
stione del velo in Turchia mostra come lo svelamento, spesso invocato
come strumento di “salvezza” delle donne musulmane, possa essere
altrettanto segregante e autoritario, in definitiva insufficiente a ga-
rantire pari opportunità alle donne musulmane.
Se l’apparire segna fortemente il “consumo” del velo nelle società
contemporanee, il raccontare diversifica le storie e aiuta a compren-
dere le specificità con cui il dibattito degli ultimi anni non riesce
a mediare. Come cartina di tornasole che spiega le ragioni etno-

28
Cfr., tra i molti bestseller, L. Djitli, Lettera a mia figlia che vuole portare il velo, Piem-
me, Casale Monferrato 2005 (ed. orig. 2004); J.P. Sasson, Dietro il velo: la drammatica sto-
ria di una principessa saudita nella sconvolgente realtà del mondo arabo, Sperling Paperback,
Milano 1993 (ed. orig. 1992).
22  Ù Le verità del velo

centriche dell’orientalismo indefesso, interviene Alessandro Vanoli


(L’invenzione del velo. Alcune considerazioni su colonialismo, moda femmi-
nile e identità islamica) con una disamina del dibattito ottocentesco
francese sul velo, quale dibattito non puramente estetico. Ritorna la
questione del corpo femminile, fotografato e ritratto, rubato dallo
sguardo occidentale e riconsegnato in una nuova luce, complice del
rinnovamento delle società musulmane in dialogo con l’imperiali-
smo europeo.
Il velo appare ora come arma di lotta laica e democratica, ora
come simbolo identitario di un mondo —quello musulmano— da
preservare o da rinnovare, ma la questione del corpo velato non si
esaurisce con le problematiche connesse all’applicazione della legge
coranica. La manipolazione del corpo religioso, ora femmina, ora
maschio, è un tema che coinvolge anche altri sistemi religiosi.
Dei monoteismi storici trattano i saggi di Cateria Moro (Il velo
nel mondo biblico e nel giudaismo) e Cristina Simonelli (Tertulliano e
l’obbligo del velo), con esiti affatto scontati. Benché, infatti, il mondo
biblico richiami alla mente le costrizioni di una “società patriarcale”,
nella Bibbia ebraica indagata da Caterina Moro non riscontriamo
riferimenti inequivocabili all’obbligo sociale del velo, né motivazioni
morali e religiose che ne imponessero l’uso da parte delle donne;
piuttosto indizi di una progressiva enfatizzazione della velatura del
capo, che raggiunge la sua acme con la lunga esortazione di Paolo
di Tarso nel discorso ai Corinzi. Nel cuore del cristianesimo anti-
co ci porta Cristina Simonelli, con uno sguardo acuto sull’opera di
Tertulliano e le sue indicazioni sull’abbigliamento femminile e sulla
relazione fra corpo femminile, velo e desiderio sessuale.
Per quanto riguarda l’antichità, tre sono gli autori che approda-
no all’epica greca e alla letteratura latina: Pietro Giammellaro (Velo
si dice in molti modi. Coprirsi il capo nell’epica greca arcaica), Giuseppi-
na Paola Viscardi (Verità e rappresentazione. Logiche discorsive e pratiche
performative del dis/ velamento nell’antica Grecia) e Francesca Romana
Nocchi (Obnubilatio capitis: simbologia sacra e profana del velo nell’an-
tica Roma). Fuori dalle griglie interpretative monoteistiche, questi
tre saggi offrono un’articolata indagine sulle caratteristiche e le fun-
zioni del velo nella cultura greca e romana. Il velo è qui frontiera,
passaggio, limite che diventa il suggello delle situazioni di liminarità
o un indicatore multifunzionale di identità (Giammellaro); ma è an-
che un elemento simbolico ad alto potenziale semiotico che marca
i momenti di grande coesione della vita comunitaria (dalle nozze al
lutto) e che controlla il funzionamento sociale attraverso il marchio
della verginità, della castità, della bellezza e della purezza femminile
(Viscardi). Ma il velo è anche un separatore, uno schermo, che isola
da ciò di cui si ha paura, preservando al contempo l’oggetto “isolato”
(Nocchi).
Lo sguardo sull’antichità abbraccia le tradizioni al di là del Me-
diterrano, con il saggio di Carmela Mastrangelo (La donna s-velata.
Introduzione Ù  23

I nudi delle divinità femminili nel Veda), che esamina la metafora del
corpo velato in alcune delle raccolte più antiche del canone vedico
nonché espressione della tradizione brahmanica che si riconosceva
nell’autorevolezza dei Veda, e quello di Mara Matta (Nudo di donna:
ri(s)coprire la Devi), che mostra come l’atto di svelare un corpo possa
diventare un gesto di resistenza all’ordine costituito e di ribellione
alla violenza esercitata in nome della Legge. In entrambi i saggi è
la nudità a captare l’attenzione del lettore, guidato dai movimenti
provocatori e dissacranti del velo che cessa di coprire.
Veli che si posano, dunque, ma anche veli che cadono. Alle storie
che legittimano questi gesti dovremmo volgere lo sguardo con l’au-
spicio di un dibattito critico sulla libertà di dis/ velarsi.
24  Ù Le verità del velo
Introduzione Ù  25

Uno sguardo teorico


Sguardi sul mondo cristiano Ù  27

Massimo Leone

Homo velans:
Paradossi del velo nella semiosfera contemporanea

Ed egli aggiunse sommessamente, come sempre:


“Qui, e forse assolutamente non qui”
(Murasaki Shikibu, Genji monogatari, § 52)

Questo articolo riflette sulle “verità del velo” in quattro mosse.


Immagina una società distopica ove ogni velo sia stato abolito. S’in-
terroga sul fondamento antropologico del velo. Analizza una serie di
opere d’arte che sondano il regime del velo contemporaneo. Con-
clude con una meditazione sul “velo delle verità”.

1. Distopie del disvelamento

Si provi a immaginare un mondo senza veli. Il corpo si presente-


rebbe nudo sin dalla nascita. Nemmeno la placenta interverrebbe
a nasconderlo. Eliminata ogni velatura, esso però non apparirebbe
come nudo, ma semplicemente come corpo, come sé stesso. Non vi
sarebbero indumenti a celarlo, ma neppure tatuaggi, piercing, ac-
conciature. Gli esseri umani non occulterebbero mai alcuna parte
del proprio corpo, ed esisterebbero solo posture che lascino inte-
ramente scoperte tutte le membra. Gli oggetti, poi, circolerebbero
senza involucro alcuno. Le sostanze liquide o aeriformi sarebbero
contenute esclusivamente in contenitori della più totale trasparenza.
Nel dono non vi sarebbe impacchettamento alcuno, e vigerebbe in-
vece la norma culturale secondo cui ogni sovrapposizione di oggetti
debba essere scoraggiata e persino proibita. Il vetro dominerebbe
ovunque, e ingenti sforzi verrebbero profusi per conservarlo sempre
perfettamente immacolato. Quanto alla parola, anch’essa verrebbe
28  Ù Le verità del velo

epurata di ogni scoria che la rendesse opaca. Ogni messaggio sareb-


be perfettamente chiaro e univoco, e la metafora, così come tutte le
altre figure retoriche, verrebbero contrastate o financo rese illegali.
Il linguaggio verbale verrebbe utilizzato unicamente per descrivere
stati di realtà, escludendo qualsiasi tipo di doppio senso o ambiguità.
Tutta la vita sociale, dal nucleo più piccolo della famiglia fino a quel-
lo più esteso della comunità, sarebbe retta dallo stesso principio di
ostensione completa e continua, a tal segno che riuscirebbe difficile
distinguere tra famiglia e comunità, in quando la prima si dischiude-
rebbe e dunque si fonderebbe completamente nella seconda.
Ogni passo della vita verrebbe compiuto sotto gli occhi di tut-
ti. Nella nascita, la partoriente non verrebbe isolata in un angolo
discreto e tranquillo, accompagnata soltanto dal padre e dall’oste-
trico; il parto avverrebbe in piena luce, visibile a qualunque inte-
ressato. In seguito, compiuti i primi passi, il bambino o la bambina
si recherebbero in un edificio completamente vitreo, ove le lezioni
avrebbero luogo nella più totale nudità di insegnanti e allievi. Tutti i
corpi sarebbero completamente depilati, e sofisticate tecnologie ver-
rebbero adottate per eliminare alla vista anche l’ostacolo della pelle.
I bambini dovrebbero capire sin da piccoli che ogni volto non è al-
tro che un ammasso di ossa, muscoli, tendini, vasi sanguigni, e che
questi a loro volta celano conglomerati di proteine, giù giù fino alla
struttura atomica e subatomica del reale. Tutto l’esistente verrebbe
indicato e percepito come una nuvola continuamente cangiante ma
pur sempre perfettamente trasparente di atomi senza spessore. In
questa scuola diafana, gli insegnanti si esprimerebbero per frasi bre-
vi e concise, ognuna descrivente una certa porzione di realtà.
Vi sarebbe equivalenza perfetta tra parola e cosa, al punto che ai
bambini sarebbe vivamente sconsigliato di utilizzare il linguaggio per
esprimere l’immaginazione. Gradualmente, attraverso un sistema di
castighi e premi, ai bambini verrebbe invece inculcato l’uso del lin-
guaggio verbale come mero strumento ostensivo. Anzi, sia presso i
bambini che presso gli adulti, l’ostensione a mezzo di gesti sarebbe
calorosamente incoraggiata al posto del più ambiguo linguaggio ver-
bale. I primi amori fra ragazzini non si accenderebbero nel segreto
di qualche cameretta ma si giocherebbero invece in pubblico, sotto
gli occhi di tutti, con dichiarazioni sempre aperte e precise del desi-
derio reciproco. La trasparenza infatti dominerebbe incontrastata in
ogni ambito sociale, a cominciare da quello politico.
Tutte le riunioni di ogni tipo avverrebbero sempre a porte aperte,
e tutti i contenuti sarebbero registrati in archivi accessibili. Si parle-
rebbe tutti la stessa lingua, per evitare che l’uso di idiomi sconosciuti
ad alcuni possa generare segreti, e ogni informazione relativa ai po-
litici e ai loro amici e familiari sarebbe esplicita, visibile, e condivisa.
Un sistema sofisticato di telecamere montate su droni e collegate a
satelliti permetterebbe a chiunque di osservare qualsiasi aspetto del
mondo in qualunque momento. L’accesso a tutti i luoghi terrestri
Massimo Introduzione
Leone ∙ Homo velans Ù  29

potenzialmente forieri di segretezza, come il sottosuolo o i fondali


marini invisibili, sarebbe proibito per legge. Si vieterebbe altresì di
dar luogo a qualsiasi fenomeno sociale in caso di nebbia o foschia.
Sofisticate apparecchiature verrebbero ideate ed azionate per ren-
dere l’atmosfera rarefatta e conferirle una straordinaria visibilità. I
tessuti sarebbero fuori legge. Quelli prodotti da civiltà passate ver-
rebbero bruciati in maestosi falò delle vanità. Col tempo, la memoria
stessa di come intrecciare fra loro dei fili per creare una coltre si
perderebbe. E per fortuna: a cosa potrebbero servire mai i tessuti,
in un mondo in cui tutto, dai corpi agli oggetti alle architetture, sia
costantemente esposto?
Al freddo e al caldo si ovvierebbe non più coprendo le membra,
ma riscaldando e raffreddando l’aria. Tutti gli edifici del passato in
cui mura, porte e finestre regolavano la visibilità e l’invisibilità degli
abitanti sarebbero distrutti. La nuova città sarebbe un panopticon
interamente di vetro, e di vetro completamente trasparente sareb-
bero tutti i nuovi manufatti. A nessuno sarebbe data la possibilità
di nascondere alcunché in alcun luogo. La più grave delle colpe sa-
rebbe quella di avere segreti. L’umana capacità di immaginare uno
scenario diverso dalla realtà, e di serbarlo nel proprio foro interiore
come speranza, paura, o desiderio, sarebbe considerata come retag-
gio antropologico di civiltà passate e inferiori. Ogni sforzo verrebbe
profuso per estirparla. Ognuno dovrebbe pensare solo a ciò che ha
davanti agli occhi, e a nulla più. Soprattutto, nessuno dovrebbe ce-
lare in sé un pensiero non espresso. Qualunque sentimento, dal più
tenero al più crudele, andrebbe subito manifestato, verbalizzato, ar-
chiviato. In questa società della trasparenza assoluta si capirebbe che
ciò che civiltà passate avevano considerato come un vantaggio della
specie umana, cioè quello di costruire nel pensiero un mondo di fin-
zione, è in realtà causa di nocive opacità. Si apprezzerebbe, invece, e
si prefiggerebbe come ideale sociale da perseguire con ogni mezzo,
uno stato mentale simile a quello di alcuni primati, o meglio di alcu-
ni pesci, in cui la percezione presente e immediata è costantemente
vissuta come l’unico mondo possibile. Concepire un altro mondo
alternativo rispetto a quello presente, infatti, significa potervisi na-
scondere perlomeno con l’immaginazione.
E che dire della religione? L’idea che un essere superiore esista e
contemporaneamente nasconda sé stesso sarebbe accantonata come
puerile. Se una trascendenza sussiste, essa deve dimostrarlo manife-
standosi. Delle religioni rivelate si manterrebbe solo la rivelazione, e
non la ri-velazione. Del Cristianesimo, per esempio, si valorizzerebbe
la presenza reale, terrena, concreta di Gesù fra gli uomini, ma non il
suo ambiguo riferirsi a “un regno dei cieli” invisibile, né tantomeno
l’esprimersi per parabole oscure. Se qualcosa è bene, bisogna dirlo
subito e con chiarezza. Se qualcosa è male, bisogna condannarlo. La
parabola verrebbe svalutata non solo nel discorso cristico, ma nella
comunicazione in generale. Il genere di scrittura più apprezzato sa-
30  Ù Le verità del velo

rebbe il manuale, o meglio ancora il bugiardino (cui si cambierebbe


nome, per non destare ambiguità): la scrittura servirebbe per descri-
vere lucidamente e senza fronzoli il reale, non per evocare scenari
immaginari. La letteratura del passato, dunque, come i poemi o i
romanzi di civiltà remote, verrebbero conservati unicamente quali
controesempi didattici, per mostrare agli studenti “come non si deve
comunicare”.
Le conseguenze economico-sociali di una totale eliminazione di
ogni velo sarebbero ingenti. Al pari di ogni altro genere discorsivo
non-descrittivo, scomparirebbe la pubblicità. Di un prodotto in ven-
dita non potrebbero esaltarsi qualità non esistenti, e nemmeno ma-
gnificare quelle realmente esistenti. Al contrario, di ogni servizio o
prodotto dovrebbero descriversi per filo e per segno, possibilmente
a mezzo di immagini o meglio ancora di ologrammi tridimensionali,
tutte le caratteristiche e nulla più. D’altra parte, la concorrenza fra
produttori verrebbe messa a dura prova dal divieto assoluto di ser-
bare segreti industriali di qualsiasi tipo. Ogni innovazione sarebbe
immediatamente condivisa. Non vi sarebbero bibite dalle formule
segrete, né artisti che lavorino nel chiuso dei loro atelier. L’epoca in
cui l’inaugurazione di un nuovo monumento consisteva nel liberarlo
dal drappo che ne velava le fattezze sarebbe considerata con ribrezzo.
Al contrario, lo scultore (o meglio il vetraio, essendo il vetro l’unico
materiale consentito agli artisti) lavorerebbe costantemente in pub-
blico, e ogni suo gesto o azione sarebbero diuturnamente osservati,
filmati, archiviati.
Anche l’università cambierebbe in modo drastico. I docenti sa-
rebbero costantemente monitorati da tutti, colleghi e studenti, sia
nello svolgimento delle proprie funzioni che in privato. Di fatto, la
separazione fra sfera pubblica e privata verrebbe a cadere completa-
mente. Le lezioni universitarie sarebbero aperte a chiunque, e con-
dotte nella più completa nudità. Chiunque avesse qualcosa da dire
potrebbe dirla in qualsiasi momento, in modo da non serbarla nel
proprio foro interiore, e tuttavia dovrebbe farsi un sforzo per non
sovrapporre le voci. Gli articoli, le dispense, i libri non verrebbero
redatti nel chiuso di uno studio ma in una grande sala dalle mura
trasparenti. Né potrebbe essere fatta distinzione alcuna fra bozze e
prodotti finali: ogni stadio della creazione accademica sarebbe regi-
strato e conservato nel pubblico dominio.
Le differenze di classe economica e sociale scomparirebbero.
Non sarebbe più concesso ad alcuno di celare uno stile di vita, un
conto bancario, o degli averi. Ogni possesso sarebbe esibito, e ogni
desiderio immediatamente sfogato. Dopo un lungo periodo di vio-
lenza efferata, la società della totale trasparenza diventerebbe estre-
mamente pacifica. All’inizio, infatti, la visibilità dei beni altrui li ren-
derebbe appetibili. Gli uomini e le donne rimarrebbero storditi di
fronte allo spettacolo permanente di corpi nudi, cibi esibiti, denaro
esposto alla vista di tutti. Risse scoppierebbero ovunque, in quanto
Massimo Introduzione
Leone ∙ Homo velans Ù  31

a essere inesorabilmente manifestati sarebbero non solo gli oggetti


del desiderio, ma il desiderio stesso. Si rivelerebbe senza indugi la
bramosia per la moglie altrui, per la casa altrui, per l’altrui fortuna.
Tuttavia, dopo un periodo di sangue versato a rivi, gli uomini e le
donne imparerebbero a non desiderare ciò che non possono otte-
nere senza violenza. I corpi nudi che prima suscitavano l’eccitazione
diverrebbero mera cosa. L’accoppiamento sarebbe viepiù scoraggia-
to come pratica che occulta un corpo dentro un altro corpo, e così
pure il bacio. I corpi resterebbero allora esibiti come oggetto fra gli
oggetti, senza alcun valore. In realtà verrebbe meno qualsiasi forma
di desiderio, che non fosse quello della stessa trasparenza. L’unico
valore, e l’unico discrimine della gerarchia sociale, resterebbe quel-
lo di accrescere ulteriormente l’ostensione del tutto. Anche le classi
sociali si strutturerebbero di conseguenza. I ricchi, le classi abbienti,
non sarebbero più coloro che accumulano beni sottraendoli al con-
sumo degli altri, bensì coloro che aumentano la trasparenza media
della comunità. Gli ingegneri o gli esperti di software che inventino
un nuovo modo di visualizzare dati in un archivio, o che perfezio-
nino la formula chimica del vetro aumentandone la trasparenza, o
ancora i linguisti che depurino la parola di ogni scoria non referen-
ziale: questi sarebbero gli eroi della nuova società. Le prigioni, dun-
que, sarebbero piene non di criminali di vecchia generazione, quelli
che stupravano, rubavano, uccidevano, bensì di coloro che abbiano
peccato di privatezza, segretezza, ambiguità. Sarebbe imprigionato il
poeta che abbia osato evocare in versi uno scenario non fattuale; il fi-
losofo che abbia cercato rifugio in una grotta per pensare o scrivere;
la fanciulla che abbia concesso il suo corpo come nascondiglio di un
corpo altrui. La pena non consisterà nella reclusione, bensì nell’a-
simmetria della trasparenza: dei detenuti tutto si potrà sapere, fino
al ritmo del battito cardiaco, e invece con un gioco di falsi specchi si
proibirà loro qualsiasi conoscenza o visione: essi non vedranno che
sé stessi, e al tempo stesso saranno visti da tutti.
Di fatto, il genere televisivo che civiltà passate chiamavano “Gran-
de Fratello” diverrà la nuova modalità di rieducazione detentiva. I
prigionieri dovranno imparare a non celare più nulla prima di es-
sere reinseriti in società. I media in effetti vi giocheranno un ruolo
educativo di primo piano. Non esisterebbe più la figura del giorna-
lista investigativo, nel senso che si trasformerà in quella del giudi-
ce. Di fatto i due profili professionali e i due albi si fonderebbero:
qualsiasi giornalista che riuscisse a mostrare che un politico o anche
un privato cittadino abbia nascosto qualsiasi tipo di informazione sa-
rebbe autorizzato a fare appello alle forze dell’ordine per un arresto
e una detenzione immediati. Non vi sarebbe bisogno di processo.
Basterebbe infatti rivelare una verità qualsiasi che non fosse almeno
potenzialmente nota a tutti per incastrare il reo.
Il mondo dell’informazione non avrebbe dunque più il compito
di selezionare i fatti, di verificarne la realtà, di raccontarli. Il gior-
32  Ù Le verità del velo

nalismo “narrativo” del passato verrebbe additato come perversione


nelle nuove scuole di giornalismo. Al contrario, il bravo giornalista
dovrebbe semplicemente raccogliere dati e immagazzinarli, renden-
doli potenzialmente disponibili a tutta la comunità. Se da un lato
i giornalisti prenderebbero il posto dei giudici, dall’altro lato gli
esperti informatici di sistemi di ricerca e archiviazione sostituireb-
bero in larga misura i giornalisti. Ogni forma di discorso ipotetico
verrebbe scoraggiata a vantaggio della pura e semplice esibizione
di dati preferibilmente numerici. Anche la teoria, la sintesi, e in
generale ogni procedimento mentale o discorsivo che conduca al
possibile occultamento di alcuni dettagli nell’astrazione, sarebbero
scoraggiati o proibiti. Il racconto, questa forma discorsiva primitiva
che nasconde il valore per poi ritrovarlo, sarebbe considerato come
un modo puerile di utilizzare il linguaggio. Il valore c’è o non c’è.
Una cosa è buona o cattiva. Nero e bianco. Bianco e nero. Il lettore
non dovrebbe desiderare ciò che sia stato artatamente nascosto dal
narratore, per esempio la sorte di un personaggio o il finale di una
peripezia. La comunicazione privilegiata sarebbe invece quella della
sinossi, del grafico che tutto mostra e tutto rivela, nella sincronia. Più
in generale, ogni forma di comunicazione diacronica, che occulti in
un tempo futuro gli sviluppi di un senso presente, sarebbe malvista.
A interessare non sarebbe il raccontare ma il contare, lasciare che
la realtà si esibisca da sola nei grafici, nelle tabelle, nelle più ardite
visualizzazioni di big data. In definitiva, ciò cui i nuovi arrangiamenti
sociali, politici, economici, culturali ambirebbero sarebbe una sorta
di perfetta intelligenza collettiva, in cui le individualità della cono-
scenza, del desiderio, e dunque dell’azione scompaiano nell’indi-
stinzione della trasparenza. Tutti saprebbero tutto di tutti, e dunque
tutti si fonderebbero in una comunità sempre presente, compatta,
inscalfibile. Una comunità senza veli.

2. Fondamenti antropologici del velo

Immaginare un mondo senza veli conduce inevitabilmente a un


risultato distopico. Perché mai? L’angoscia di una tale prospettiva
sociale, di una completa nudità, non si può comprendere in assolu-
to, ma solo in relazione a un certo standard di trasparenza e opaci-
tà. Le comunità in cui viviamo regolano costantemente l’esibizione
e l’occultamento di pensieri, parole, azioni, oggetti, corpi. Vi può
essere una certa flessibilità in questa regolazione, ma se ci si allon-
tana troppo dal baricentro della propria cultura dell’ostensione e
del nascondimento, si soffre o per eccesso di esposizione ovvero per
eccesso di segretezza. Vi è tuttavia qualcosa di assoluto nell’ansia che
promana dal racconto di una società distopica in cui ogni forma di
velo sia stata eliminata. Di fatto, il racconto paradossale di questa so-
cietà paventa che l’eliminazione di ogni nascondimento metterebbe
a repentaglio il senso stesso, ovvero il fondamento del linguaggio,
Massimo Introduzione
Leone ∙ Homo velans Ù  33

della comunicazione, e poi su fino alla società e i suoi ordinamenti.


È come se l’interposizione di un ostacolo fra l’oggetto e la percezio-
ne fosse un meccanismo antropologico fondamentale per generare
valore, e dunque senso.
Si può forse immaginare una situazione in cui il valore sia dato
apertamente, senza veli, e riesca pur tuttavia ad attivare gli ingranag-
gi fondamentali dell’esistenza? Si possono forse immaginare una tra-
scendenza religiosa, una rappresentanza politica, un desiderio amo-
roso senza veli? Il velo è un dispositivo essenziale nella costruzione
del valore sociale perché forse rispecchia una certa povertà antropo-
logica: alla specie umana non è dato facilmente di poter apprezzare
qualcosa o qualcuno senza che questo qualcosa o qualcuno sia visto
in qualche modo come al di là di un ostacolo. Da questo punto di
vista, il racconto, o meglio la narratività, non è che la forma antro-
pologica astratta cui soggiace il desiderio della specie. Io non posso
semplicemente amare. Io devo raccontare l’amore. Io devo, cioè,
simulare che questo amore sia da me disgiunto a mezzo di un ostaco-
lo, oltrepassato e sconfitto il quale io riuscirò a ricongiungermi con
l’oggetto d’amore e con il suo valore. Il soggetto deve la sua esisten-
za a questa rincorsa continua, e questa rincorsa continua sarebbe
impensabile senza un velo. Il velo traduce percettivamente ciò che
è al fondamento della narratività: una disgiunzione, una separazio-
ne, un “allontanamento”, direbbe Propp. La forza del soggetto, ma
anche la sua stessa identità, derivano dal desiderio, oppure dal dove-
re, di trascendere l’ostacolo del velo verso una pienezza trasparente.
Che cosa succede allora al soggetto quando il velo sia stato rimosso,
l’ostacolo oltrepassato, l’opponente sconfitto? È quello che accade
alla fine di un racconto: il racconto termina, e un senso di tristezza,
come di morte, s’impossessa del lettore. È la stessa malinconia che
coglie chiunque abbia raggiunto una vetta dopo averla sognata per
anni dietro una spessa coltre di nubi, o di chi s’impossessa di un cor-
po dopo averlo immaginato a lungo dietro seducenti velami. Morto
un velo, se ne deve fare un altro. Pena l’insignificanza del soggetto,
il suo sprofondare in una calma senza desiderio, senza valore, senza
azione. Ma non è forse possibile una felicità senza veli, che si consu-
mi nella contemplazione della verità piuttosto che nella costruzione
di una meta da conseguire tramite l’azione, la lotta, la sofferenza?
Le culture occidentali, e specialmente quelle influenzate dalle
religioni abramitiche, perlopiù immaginano questa quiete contem-
plativa come pleroma situato in una trascendenza lontana. Raggiun-
gere la calma della contemplazione senza veli del vero trascendente,
però, richiede paradossalmente sforzo, concentrazione, abnegazio-
ne. Il paradiso esiste, ed è un paradiso senza ostacoli, ove il bagliore
della trascendenza ci si parerà innanzi senza opacità alcuna. Rag-
giungerlo, d’altra parte, necessita di astinenze e costrizioni immani.
Da un lato ci si può interrogare sulla effettiva universalità di questa
condizione. La specie umana è davvero condannata a costruire il
34  Ù Le verità del velo

valore tramite veli? Lo studioso occidentale ha sempre tendenza a


proiettare antropologie alternative in mondi lontani, e soprattutto
in un fantomatico “Oriente”. Tuttavia, è vero che in plaghe spiritua-
li distanti, dominate per esempio dalla diffusione del buddhismo,
il concetto di agone è in un certo senso spostato dal desiderio di
oltrepassamento di un ostacolo all’eliminazione stessa dell’idea di
ostacolo. Non bisogna sforzarsi di rimuovere il velo, ma autocon-
vincersi che il velo non esiste, ovvero che dietro il velo non si celi
assolutamente nulla.
Un certo quietismo sociale deriva, senza dubbio, da questa conce-
zione dell’ostacolo come illusione (o, viceversa, è un certo quietismo
sociale che genera questa concezione dell’ostacolo). L’idea di velo
però non scompare del tutto ma viene meramente sussunta a un
livello superiore, in una dimensione-meta ove l’ostacolo da rimuo-
vere diviene l’idea stessa di ostacolo. Si può allora ipotizzare che, sia
pure esprimendosi a livelli differenti, la dialettica fra desiderio, velo
e pienezza sia antropologicamente definitoria, e si ritrovi in forme
diverse in tutte le culture. Il velo come oggetto tessile, e i suoi usi
rituali o erotici nella creazione del valore della trascendenza o dei
corpi, non sarebbe allora che l’epitome lampante e concreta di una
dinamica astratta e onnipresente.
Homo velans, si potrebbe definire la specie umana, nel senso che è
nell’imposizione di regimi di raggiungibilità (percettiva e non) che
essa pone, genera, fa circolare, sposta e distribuisce il valore. Sulle
origini paleontologiche di questa dialettica si potrebbe speculare a
lungo. Da un lato, si potrebbe sostenere che vi è qualcosa di intrinse-
camente predatorio nel funzionamento del velo. Si velano un corpo
o un oggetto per difenderli dall’agguato altrui, da parte di qualcuno
il cui desiderio e la cui azione si generino in un altrove (l’esterno, lo
straniero, il barbaro). Allo stesso tempo, questo velare corpi e ogget-
ti non li difende solo in quanto corpi e oggetti, ma anche e soprattut-
to in quanto fonti di valore; paradossalmente, per difendere il valore
di un corpo o di un oggetto bisogna segnalarne la desiderabilità e
l’appetibilità tramite l’imposizione di un ostacolo, di un velo. Il velo
dunque contemporaneamente respinge il predatore e lo crea.
Più nello specifico, due elementi astratti intervengono a forgiare
l’homo velans; uno di essi è il movimento, o meglio la motilità. Una
specie immobile non potrebbe costruire il valore nello stesso modo
in cui lo pone la specie umana, ovvero costruendo ostacoli sia reali
che immaginari fra il soggetto e il conseguimento dell’oggetto di va-
lore, in quanto questa rimozione di ostacoli consiste (anche etimolo-
gicamente) nel risultato di un movimento. Che i corpi umani siano
capaci di muoversi nello spazio è essenziale affinché essi immaginino
il valore come situato sempre al di là di un framezzo.
In secondo luogo, la specie umana è velans grazie ai meccanismi
della ricorsività. Affinché la dialettica di soggetto/ostacolo/oggetto/
desiderio funzioni, è necessario che il soggetto sia capace di immagi-
Massimo Introduzione
Leone ∙ Homo velans Ù  35

nare, ed è necessario inoltre che questa immaginazione sia in un cer-


to qual senso illimitata. Io soggetto devo essere capace non solo di
rappresentarmi come esistente, desiderabile, e raggiungibile un og-
getto che è celato alla mia percezione. Io devo anche essere in grado
di costruire i confini di questo oggetto come sfilacciati, ovvero come
aperti al brulichio incessante della potenzialità. Bramare, ingegnarsi
o lottare per conquistare un corpo dietro un velo non sono compor-
tamenti mentali e azioni concrete che nascano da un’immaginazio-
ne precisa. Se io mi limitassi a figurarmi solo un corpo dietro il velo,
il desiderio non avrebbe modo di svilupparsi in tutta la sua potenza
narrativa. Al contrario, io lotto per l’oggetto velato proprio perché il
velo funziona come moltiplicatore della potenzialità. Io ho un vago
sentore di ciò che si para dietro l’ostacolo, ma i confini dell’oggetto
desiderato devono rimanere sfrangiati attorno a un nucleo centrale.
È questo un altro dei paradossi del velo. Il primo è che esso de-
signa come preda ciò che si intende difendere dalla predazione. Il
secondo è che esso rende cocentemente desiderabile un oggetto
proprio in quanto lo rende parzialmente inconoscibile, ovvero in-
finitamente rappresentabile. Il velo in quanto dispositivo non po-
trebbe dunque funzionare se non in relazione a una mente in grado
di costruire un’infinità di simulacri del non-percepito, del probabil-
mente-esistente. Bisogna allora ribaltare la prospettiva antropologi-
ca secondo cui ci si concentra su un dispositivo sociale, per esempio
il velo, e poi se ne indagano le proprietà. Al contrario, il velo è così
diffuso come dispositivo sociale in così tante culture perché le sue
proprietà materiali si adattano benissimo a un’esigenza funzionale
antropologica, che è quella di regolare finemente il rapporto fra tra-
sparenza e opacità, occultamento e rilancio dell’immaginazione. Se
il velo, e soprattutto il velo tessile, ha così tanto successo nelle cultu-
re, non è semplicemente perché occulta, ma perché lascia trapelare
alcune caratteristiche dell’oggetto occultato, in modo che queste
briciole di senso che oltrepassano l’ostacolo frapposto alla percezio-
ne siano poi infinitamente ricombinabili nel desiderio.

3. Sondaggi artistici attorno alla velatura

Del velo però non è sufficiente elencare le generalità antropolo-


giche, quelle che si ritrovano in tutte le culture a seguito di filiazioni
generali caratterizzanti la specie dell’homo velans. È difatti sotto gli
occhi di tutti che le varie comunità regolino questo funzionamento
generale del velo in modi diversi, articolando con svariate combina-
torie gli elementi che seguono: 1) gli oggetti velati; 2) le modalità
della velatura; 3) le modalità del disvelamento. Ogni comunità, cioè,
elabora e tramanda una serie di abiti sociali i quali in modo più o
meno cogente prescrivono cosa si debba velare, in che modo lo si
debba fare, e in che modo si debba procedere al processo opposto
del disvelamento. Queste modalità possono poi essere iscritte sempli-
36  Ù Le verità del velo

cemente nella memoria culturale di una comunità, di cui costituisca-


no la tradizione, ovvero essere codificate in legge, come avviene per
esempio nel caso della velatura dei corpi, e in particolare di quelli
femminili, in numerose società. Rispetto a queste idiosincrasie nel
dettare i criteri per il funzionamento del velo, a una semiotica della
cultura spetta da un lato un compito descrittivo: fornire una mappa-
tura articolata e possibilmente esaustiva di cosa, come, e quando le
comunità scelgono di velare; dall’altro lato, è compito del semiotico
così come del teorico della cultura formulare ipotesi esplicative al
riguardo. Posto che il velo è un dispositivo onnipresente delle culture
umane, perché alcune comunità decidono di (o si ritrovano a) velare
in un modo piuttosto che in un altro? Quali agentività premono nella
storia perché il velo, o altri tipi di ostacoli percettivi, si componga-
no in una tradizionale ritualità, in una liturgia dell’occultamento e
dell’ostensione?

Fig. 1. Pavel Grishin [Павел Грншин], L’ultima cena [Тайиая вечеря]


(2011, media misti, 170 x 1300 x 300 cm), photo from the Erarta Museum
of Contemporary Art, St. petersburg, Russia [Эрарта. Музей и галереи
современного искусства].

Gli artisti svolgono spesso un ruolo centrale nell’intuire e mettere


in evidenza, attraverso varie strategie della rappresentazione, gli abiti
scopici di una comunità. Si consideri, a titolo di esempio, la provo-
cante opera di Pavel Grishin1 intitolata L’ultima cena (2011; fig. 1),
conservata presso Erarta – Galleria di arte contemporanea di San Pie-
troburgo. Quella di velare, impacchettare, imballare oggetti noti e in
special modo monumenti, statue, opere d’arte ecc. è pratica ormai
così diffusa nell’arte contemporanea da essere divenuta una sorta di
cliché. Christo e Jeanne-Claude vi hanno costruito attorno tutta la

1
Mosca, 1978.
Massimo Introduzione
Leone ∙ Homo velans Ù  37

loro poetica, nonché una fortunata carriera. Invertire il gesto che


svela il monumento all’inaugurazione è in effetti stratagemma visivo
e cinetico semplice ma potente per provocare una riflessione sul re-
gime scopico della contemporaneità, sulla dittatura della visibilità e
dell’esibizione, sulla dimenticanza e l’insignificanza dell’arte in un’e-
poca in cui tutto è vetrina, palcoscenico, ribalta. In questo caso, però,
tale dispositivo dell’arte contemporanea viene declinato in modo ori-
ginale. La disposizione degli oggetti velati nell’opera di Grishin, così
come la loro collocazione nella sala specialmente in relazione alle tre
finestre retrostanti e alla luce che ne filtra, spingono l’osservatore a
identificare immediatamente, malgrado il velo, le figure di un’Ultima
Cena, e in particolare quelle del Cenacolo di Leonardo.
La sagoma della velatura, con i suoi picchi e le sue depressioni,
con l’orografia di luci e ombre tratteggiata dal drappeggio, con lo
sbalzare e l’incavarsi dei corpi misteriosamente celati sotto un velo
di tessitura e colore uniformi, filtra alcuni dati percettivi, relegandoli
dietro l’ostacolo scopico, però altri ne lascia passare, a sufficienza per
riconoscere l’iconografia dell’Ultima Cena, ma non per identificare
con precisione i tratti dei singoli personaggi, l’espressione sui volti,
l’interazione degli sguardi. Il velo funziona cioè, in questo caso, con le
caratteristiche antropologiche generali che gli sono state attribuite so-
pra, vale a dire la capacità di acuire la visione e il desiderio per l’ogget-
to occultato, ma anche l’abilità di moltiplicare la potenzialità immagi-
nativa, scatenando così il proliferare delle abduzioni e dei simulacri.
Accanto a queste modalità generali ve ne sono però alcune spe-
cifiche, sintomo del punto di vista dell’artista rispetto alla cultura
scopica del proprio tempo. Perché velare il Cenacolo nel 2011? Come
lo storico dell’arte Victor I. Stoichita ha brillantemente dimostrato
in un saggio recente,2 da un certo punto di vista il cenacolo nasce
esso stesso “velato”. Leonardo lascia infinito il volto di Cristo, in una
sorta di “effetto Timante”3 in cui l’unico modo di rappresentare un
istante così carico di senso (una trascendenza tradita dalla sua crea-
tura) è di velarlo, di lasciarlo incompiuto e dunque attribuire a cia-
scuno degli spettatori il compito di figurarselo, ma anche di riviverlo
empaticamente.
Nell’era di Dan Brown e del suo best seller The Da Vinci Code,
tuttavia, questo “effetto Timante” è sovvertito dalla logica del mer-
cato e del consumo. Ciò che Leonardo aveva lasciato appositamente
senza definizione, al fine di potenziare all’infinito la ricezione sia

2
V.I. Stoichita, Du visage, in M. Leone, H. de Riedmatten, V.I. Stoichita (a cura di),
Il sistema del velo / Système du voile: Trasparenze e opacità nell’arte moderna e contemporanea
/ Transparence et opacité dans l’art moderne et contemporain (“Saggi di Lexia”, 19), Aracne,
Roma 2016, pp. 195-209.
3
Sull’“effetto Timante” si veda M. Leone, L’inimmaginabile, in «Lexia», 7-8, Immagi-
nario – Imaginary, numero monografico, a cura di Massimo Leone, Aracne, Roma 2011,
pp. 471-490.
38  Ù Le verità del velo

cognitiva che emotiva del dipinto, diviene fulcro di un disvelamento


commerciale, il quale segue due vie: da una parte, la forma narrativa
della detective story, che è una delle più becere incarnazioni del dispo-
sitivo del velo nell’epoca contemporanea; dall’altra parte, il turismo
di massa, che spinto dalla lettura del best seller o semplicemente dai
sentito dire che esso dissemina, si reca in massa a visitare il Cenacolo,
senza tuttavia comprenderne né rispettarne il mistero, ma violando-
ne invece la velata timidezza col desiderio contemporaneo del con-
sumo di immagini. Si vuole vedere il cenacolo, così come si vuole
vedere la Sindone, a tutti i costi, sopportando lunghe file e disposi-
tivi di sicurezza e burocrazia turistica alienanti. Non si coglie affatto
il senso ultimo dell’operazione leonardesca, che era quello di spin-
gere a una riflessione sui limiti dell’immaginazione umana di fronte
alla trascendenza. L’opera di Grishin allunga allora il drappo della
tavola, grezzo e quasi funerario nel suo grigio spessore, per coprire
l’intero Cenacolo, e obbligare così lo spettatore, tramite una terapia
shock, a figurarselo interiormente, a dare con la propria fantasia un
volto a Cristo, e uno a Giuda, e uno agli altri Apostoli, riaddestran-
dosi così a quel senso del pudore scopico, ma anche del desiderio in-
teriore d’immaginazione, che era così magistralmente presente nel
Cenacolo di Leonardo, e che l’epistemologia di Dan Brown trasforma
in mero scoop commerciale.
È difficile produrre generalizzazioni, ma è lecito sospettare che vi
sia una vena nella cultura visiva russa contemporanea, così profonda-
mente influenzata dalla filosofia cristiano-ortodossa dell’immagine
e della rappresentazione, una vena che reagisce in modo peculia-
re all’idea del disvelamento commerciale della trascendenza. Nello
stesso museo Erarta, poche sale più in là, s’incontra per esempio
un dipinto di Dmitry Gretsky,4 altro giovane artista russo contem-
poraneo, il quale invita a una riflessione sul senso della velatura in
una direzione altrettanto provocatoria ma diversa. In Dalla serie del-
la spazzatura (fig. 2), con consueto iperrealismo l’artista getta uno
sguardo ironico su una delle caratteristiche essenziali del velo, già
teoricamente descritta sopra. Quattro sacchi neri di spazzatura sem-
brano accasciarsi su un marciapiede, mentre un sacco di spazzatura
arancione pare brillare alla loro sinistra, ed ergersi vitale al di sopra
degli altri. Si tratta, ovviamente, di un sacco di spazzatura come gli
altri quattro, benché contenente materiali di altro tipo (come av-
viene in molte città che riciclano i rifiuti). Il sarcasmo dell’artista ci
inchioda però a una riflessione su quanto radicato sia in noi l’istinto
di attribuire una desiderabilità e dunque una modalità d’esistenza a
seconda di come gli oggetti ci appaiano rivestiti. Anche i nostri corpi
sono o saranno ben presto rifiuto, eppure il velarli ci illude della
loro identità, della loro differenza, della loro capacità di superare la

4
San Pietroburgo, 1970.
Massimo Introduzione
Leone ∙ Homo velans Ù  39

morte. Il velo non è dunque solo dispositivo che rilancia l’immagina-


zione interiore, ma anche supporto di un’auto-illusione identitaria.

Fig. 2. Dmitry Gretsky [Дмитрий Грецкий],


Dalla serie della spazzatura [из серии Garbage 2]
(2000, olio su tela, 198 x 213 cm), photo from
the Erarta Museum of Contemporary Art, St.
petersburg, Russia [Эрарта. Музей и галереи
современного искусства].

Passeggiando lungo le sale del museo Erarta di San Pietroburgo ci


si imbatte in un altro dipinto al cui cuore tematico c’è il rapporto fra
il desiderio e la trasparenza. Si intitola Packaging (fig. 3), ed è stato
realizzato nel 1976 da Davyd Plaksin, un artista nato nel 1936.

Fig. 3. Davyd Plaksin [Давыд Плаксин], Packaging [Упаковка]


(1976, tempera su pannello in fibra, 40 x 60 cm), photo from
the Erarta Museum of Contemporary Art, St. petersburg, Russia
[Эрарта. Музей и галереи современного искусства].
40  Ù Le verità del velo

Con stile anche in questo caso tendente all’iperrealismo, la tela


raffigura alcuni frutti racchiusi in un sacchetto di plastica trasparente.
Sul fondo del sacchetto si riconoscono alcune pere, mentre gli altri
frutti non sono riconoscibili altrettanto nitidamente. Il sacchetto gia-
ce coricato, orizzontale, un po’ come i sacchi neri nel dipinto di Gret-
sky. La tela non usa colori ma solo sfumature di un grigio piuttosto
metallico. Le pieghe della plastica sono rese con tocchi di bianco e
di grigio di grande maestria, mentre lo sfondo dell’immagine è nero
come quello di una natura morta secentesca. Si tratta, in effetti, di una
messa in scena pittorica che ricorda una vanitas barocca. Spicca netta-
mente il contrasto fra la vitalità di pere turgide, pronte per essere ad-
dentate, e un packaging che già le trasforma in rifiuti, in immondizia.
Vita e morte dunque, proprio come nelle vanitas del Seicento,
s’intrecciano inseparabili nella rappresentazione. Ma l’operatore vi-
sivo di questo ossimoro è, di nuovo, il velo, in questo caso incarna-
tosi in un sacchetto di cellophane.5 È il particolare arrangiamento
di questa trasparenza plastica, biancastra, metallica, clinica nel suo
rigore latteo, a trasformare una manciata di frutti in immagine di
rigor mortis. Il sacchetto infatti li riveste come un telo plastico riveste il
cadavere di un’autopsia, o quello abbandonato in un obitorio. Il sen-
so che l’artista ha inteso attribuire all’immagine scaturisce poi dalla
sua interazione col titolo.
Si tratta di una scelta sarcastica, che anche in questo caso si con-
centra sui paradossi e le assurdità scopiche di un’epoca. Il packaging
è infatti di norma il velo che riveste le merci al fine di renderle più
desiderabili, ovvero di identificarle come prodotto di una certa mar-
ca.6 Il packaging è allora solitamente funzionale a uno dei meccani-
smi essenziali delle economie di mercato, che è quello di provocare
il desiderio della merce (non si può vedere o toccare direttamente
il prodotto, lo si deve desiderare per il tramite di un suo simulacro
abbellito, ingigantito, ripulito, e soprattutto “marchiato” da un ente
produttore); di rendere la merce un prodotto circolabile, scambia-
bile, immagazzinabile, vendibile senza che ciò ne provochi un dete-
rioramento; di trasformare una merce generica in una merce cui si
aggiunge il valore dell’identità che le conferisce un discorso pubbli-
citario. Tutte queste funzioni sono rese possibili dal cellophane, che
funziona esattamente come un velo. Esso si interpone fra sguardo e
merce proprio al fine di consentire una proliferazione di simulacri,
di potenzialità, di desideri. Io non bramo semplicemente una pera,
ma l’idea infinitamente sfrangiata della pera, delle mille pere che
potrebbero celarsi dietro il vedo-e-non-vedo dell’involucro.

5
Sul cellophane come velo, si veda P. Ortoleva, Un sottile strato di plastica trasparente.
La velatura sintetica degli oggetti, in M. Leone, H. de Riedmatten, V.I. Stoichita (a cura di),
Il sistema del velo, cit., pp. 301-307.
6
A tal proposito si veda U. Volli, Per una grammatica dell’imballaggio, in Id., Laborato-
rio di semiotica, Laterza, Roma-Bari 2005.
Massimo Introduzione
Leone ∙ Homo velans Ù  41

Il dipinto di Plaksin ironizza su questo funzionamento, e lo fa se-


condo molteplici direttrici di sarcasmo. In primo luogo, ironizza sul
packaging come velo e dispositivo moltiplicatore del desiderio: non
solo il velo è semplice sacchetto di plastica, simile a quelli utilizzati
per l’immondizia, ma anche ciò che esso contiene, delle splendide
pere, sono solo un illusorio simulacro della vita che ci attende al
primo morso. Non appena venga consumata, la merce diventa un
orribile fantasma di sé stessa, lasciando dietro sé una scia di plastica
vuota, rifiuti, e disillusione.7 In secondo luogo, nel contesto della
Russia sovietica, il dipinto ironizza altresì sulla mancanza di ogni
logica del packaging in un Paese che rifiuta ideologicamente il ca-
pitalismo: non è infatti un elaborato imballaggio griffato a rivestire
le pere, ma un sacchetto di plastica mortifera. Il dipinto dunque
si presta a letture differenti a seconda che lo si collochi negli anni
della sua produzione ovvero nell’epoca contemporanea. Sul finire
degli anni ’70, esso esprimeva un sarcasmo politico nei confronti
dell’utopia di salvezza promessa con il rifiuto comunista del capita-
lismo: se gli oggetti vengono strappati al circolo vizioso di mercifica-
zione e consumo, diverranno veri oggetti, cose in sé, vita restituita
alla natura e agli uomini.
Il dipinto insinua che non sia così: anche in un sistema comunista,
la logica del desiderio s’insinua comunque nel rapporto fra uomini
e cose, uomini e uomini, anche se lo fa in maniera più sincera, e
dunque più triste. Nell’epoca contemporanea, questo monito sull’il-
lusorietà di ogni messa in scena di vitalità diviene da politica antropo-
logica, assumendo il carattere di natura morta, di vanitas: quel velo
che crea desiderio, e dunque slancio vitale, in realtà non fa che na-
scondere il destino di ogni esistenza, di ogni vitalità, che è quello di
divenire rifiuto, cadavere, cosa inanimata e indesiderabile.
Velo come critica alla società del voyeurismo senza empatia; velo
come ironia verso l’illusione della perfettibilità estetica; velo come
amarezza nei confronti dell’illusione del desiderio. Gli artisti con-
temporanei, beneficiari di un’eredità pittorica che risale almeno
fino all’Alberti,8 e che nel velo individua un elemento centrale, se
non la metafora più alta, della rappresentazione artistica, riflettono
su questo connubio di trasparenza e opacità che modifica la visione
del mondo e instaura una soggettività desiderante; questa riflessio-
ne, tuttavia, è sempre un’autoriflessione. Un altro artista russo con-
temporaneo, Valeriy Valran, nato nel 1949, dipinge una Tavola (fig.
4) che sembra riferirsi quasi in modo esplicito all’estetica albertiana
del velo.

7
Si veda su questo tema G. Cuozzo (a cura di), Resti del senso. Ripensare il mondo a
partire dai rifiuti (“Saggi di Lexia”, 6), Aracne, Roma 2012.
8
Si veda su questo L. Corrain, Il velo della pittura: tra opacità e trasparenza, tra
presentazione e rappresentazione, in M. Leone, H. de Riedmatten, V.I. Stoichita (a cura di),
Il sistema del velo, cit., pp. 43-90.
42  Ù Le verità del velo

Fig. 4. Valeriy Valran [Валерий Вальраи], Tavola [Стол] (2003,


olio su tela, 120 x 160 cm), photo from the Erarta Museum of
Contemporary Art, St. petersburg, Russia [Эрарта. Музей и
галереи современного искусства].

Sullo sfondo di una tela grezza, apparentemente senza colore, o


del colore stesso del lino che la intesse, l’artista ha dipinto in obliquo
una tavola che appare bassa, o meglio scorta con taglio che ne vi-
sualizza soprattutto il piano orizzontale (s’intravede appena uno dei
piedi), perfettamente quadrata. La figura geometrica del quadrato
si ripropone poi ossessivamente nelle pieghe della tovaglia bianca, la
quale mostra rughe irregolari che si approfondiscono soprattutto in
prossimità dei segni della piegatura. Questa tovaglia bianca è rimasta
a lungo piegata, e i segni del lungo ripiegamento sono ancora visibili,
come cicatrici del tempo, sul tessuto disteso. È una tovaglia morbida
questa, di buona fattura, e soprattutto di un candore immacolato.
Nonostante ciò, è una tovaglia refrattaria a qualsiasi stiratura, una
tovaglia nella quale e sulla quale le tracce del tempo resteranno sem-
pre visibili.
I sensi possibili di questo bellissimo ed essenziale dipinto sono
molteplici. Vi è sicuramente un riferimento implicito alla tradizione
albertiana del velo quadrettato come ausilio alla visione prospettica,
cui il dipinto russo in effetti rimanda accentuando le linee di fuga
della rappresentazione pittorica. Il gioco di parole e di immagini che
lega la tela del dipinto (vistosa nella sua nuda materialità) al telo
della tovaglia, così come la tavola dipinta alla tavola imbandita, è evi-
dente in italiano come in russo. Imbandire una tavola è un po’ come
preparare una tela per l’immaginazione, sembra suggerire l’artista.
Ma anche in questo caso il dipinto ruota attorno a una riflessione sul
velo, e connota tale riflessione come disforica.
Il velo della tovaglia è ciò che consente a un tavolo di trasformarsi
in una tavola, ovvero di trasformarsi da elemento del mobilio in sup-
Massimo Introduzione
Leone ∙ Homo velans Ù  43

porto di vita domestica, di socialità; allo stesso modo, il velo quadret-


tato dell’Alberti consente al nudo telo di lino di divenire una tela,
ovvero supporto per l’immaginazione. In entrambi i casi, la sovrap-
posizione di un velo consente il rilancio della vitalità, quella sociale
del convivio, quella estetica dell’immaginazione. Eppure, in nessuno
dei due casi questa velatura da sola è sufficiente a garantire la felicità
di un pasto, o quella di una raffigurazione. Una tovaglia quadrettata,
segnata da rughe di tessuto per il troppo tempo del suo inutilizzo, ap-
pare altrettanto desolante quanto una tela orfana d’immaginazione.
In entrambi i casi, il velo prepara alla vita (il pasto, il dipingere) ma
non è vita; anzi, lascia l’amaro in bocca la freddezza vuota della sua
quadrettatura, della sua prospettiva. Il colore, le linee curve, le mac-
chie mancano a questa tovaglia invecchiata come mancano a un’im-
maginazione inaridita.

Fig. 5. Elena Figurina [Елена Фигурина],


Madonna [Мадонна](2002, olio su tela, 90
x 80 cm), photo from the Erarta Museum
of Contemporary Art, St. petersburg, Rus-
sia [Эрарта. Музей и галереи современного
искусства].

L’arte contemporanea si attarda poi anche sull’attualità politica


del velo, ma lo fa sempre di sguincio, senza estenuarsi, come vuoti
giornalisti prezzolati, sul centimetro in più o in meno che copre il
volto della donna immigrata. Si osservi, a titolo di esempio, Madonna
(fig. 5), di un’altra artista russa contemporanea di spicco, Elena Figu-
rina (nata in Lettonia nel 1955).
Su uno sfondo rosso a campitura energica, un’esile figura si sta-
glia compita, il volto di un anonimo viola a pennellate orizzontali, la
veste dello stesso colore; vi si indovinano due braccia e due manine
agganciate in una postura di tenera timidezza. Spicca intorno al capo
44  Ù Le verità del velo

un velo bianco, quasi un turbante. L’opera è del 2002, ad appena un


anno dalla tragedia delle Torri Gemelle. Anche in questo caso l’in-
terazione col titolo è fondamentale. Grazie al suggerimento verbale,
il gioco dei colori semplici, l’arrangiamento delle forme, la topolo-
gia del dipinto designano il corpo di una Madonna, uno dei corpi
femminili più rappresentati nell’arte occidentale. Allo stesso tempo,
la dialettica titolo-immagine insinua anche che, fatta astrazione del
volto, ciò che contraddistingue una Madonna come figura cardine
dell’iconografia cristiana è lo stesso elemento che rende il corpo del-
la donna arabo-musulmana così estraneo allo spettatore occidentale:
il velo. La Madonna è la “nostra” Madonna perché indossa il velo,
sembra suggerire il dipinto, ed il velo è anche ciò che rende il corpo
della donna arabo-musulmana “altra”. Ma il dipinto non si limita a
questa provocazione. Invita piuttosto a una riflessione sul fatto che il
volto della donna scompare sullo sfondo di un rosso che evoca inevi-
tabilmente il sangue, la violenza, mentre un corpo minuto di donna
in lutto (il viola, colore quaresimale per eccellenza) si stringe su sé
stesso, come a voler scomparire dalla tela, come fosse un corpo di
bambina. Vedere l’innocenza di una bambina nel corpo della Ma-
donna, ma anche in quello della donna astratta, della donna velata,
di cui tanto parla il cattivo giornalismo; ridare un volto a questa soffe-
renza, al di là del velo che lo circonda: questo sembra essere uno dei
messaggi del dipinto.

4. Conclusioni: il velo delle verità

Non si possono azzardare estrapolazioni a partire da un corpus


esiguo di dipinti, sia pure conchiuso in un ambito culturale e stori-
co limitato, come quello della Russia contemporanea. Innumerevoli
sono le rappresentazioni del velo, in tutte le sue forme e in tutte le
varianti di questo fondamentale dispositivo antropologico, nelle cul-
ture odierne. Sia pure a seguito di un’osservazione impressionistica,
tuttavia, un dato pare emergere con prepotenza: se ogni società co-
struisce i propri abiti scopici, tramite i quali occulta o mostra in ma-
niera più o meno stringente i corpi e gli oggetti che circolano all’in-
terno di una comunità e che sono di volta in volta esibiti e nascosti,
guardati e sottratti alla vista, posseduti con lo sguardo e desiderati,
e se gli artisti contemporanei sono coloro che più problematizzano
questa dialettica, anche sulla scorta della centralità che il velo ha da
sempre assunto nella storia delle rappresentazioni visive, allora que-
sta riflessione, o meglio questa auto-riflessione dell’arte contempora-
nea sul velo, è piuttosto malinconica, quando non distopica.
Il velo è riferimento all’ossessione scopica del nostro tempo, op-
pure alla vanità dell’apparire, ovvero all’illusorietà del consumo, o
ancora all’aridità dell’immaginazione o alle storture etnico-religiose
e di genere. In filigrana, dietro tutte queste rappresentazioni provo-
catrici, ironiche, sarcastiche, malinconiche, amare del velo scorre un
Massimo Introduzione
Leone ∙ Homo velans Ù  45

pensiero che, sia pure nel mondo programmaticamente anticonfor-


mista dell’arte contemporanea, pare confermare uno dei cliché del
nostro tempo: la verità delle cose, l’innocenza del mondo, si cela al di
là dei suoi veli. Tutto ciò che si interpone fra lo sguardo del soggetto
e gli oggetti del suo interesse è opponente disforico da eliminare al
più presto. La catarsi scopica consiste allora nell’inseguimento di una
trasparenza assoluta ove ogni forma di ostacolo alla visione scompa-
ia. Tali sono la forza e la centralità della pulsione visiva nelle cultu-
re contemporanee che ogni istanza di nascondimento, da quella di
un’immaginazione che si ripiega nel silenzio visivo a quella del corpo
di donna serbato da occhi desideranti, appare illegittima.
Al semiotico o all’analista di culture non spetta il compito di sug-
gerire sentieri migliori per lo sviluppo delle civiltà, anche perché non
avrebbe la forza di diffondere una pedagogia. Il semiotico non può
però non registrare questo squilibrio, questa idea che la verità si situi
sempre al di là del velo e non attraverso il velo. È forse un’ennesima
versione della fantasia nevrotica di cui tanto parla la psicanalisi, spe-
cie nella versione lacaniana interpretata da Žižek, e che costruisce
incessantemente il simulacro di un oppressore al fine di rilanciare il
“fantasma della libertà” e dunque l’utopia di una sua realizzazione
completa. Se lo studio interdisciplinare del velo ha un compito oggi,
è allora forse proprio quello di dichiarare lo statuto fantastico di que-
sta utopia. La verità che è dietro il velo non esiste indipendentemente
da esso. La trasparenza attrae solo nella sua dialettica con l’opacità, e
liturgie antiche ci hanno tramandato varie coreografie del nascondi-
mento esattamente perché, come si è evidenziato nella prima parte
di questo scritto, la rivelazione ha bisogno di veli.
L’arte contemporanea è senz’altro in diritto di sognare un disve-
lamento totale, o una società senza opacità. E tuttavia non cogliere il
carattere illusorio di ogni idea di rivelazione è forse gesto altrettanto
se non più infantile di quello che occulta per avvalorare. L’homo rive-
lans che sognano molte estetiche o politiche moderne e contempora-
nee non è infatti che il contraltare dell’homo velans. Le verità del velo
continueranno a essere non solo le verità che il velo nasconde, ma
anche quelle che il velo produce, nascondendole.
Sguardi sul mondo cristiano Ù  47

Sguardi sul mondo antico


Pietro Giammellaro

Velo si dice in molti modi


Coprirsi il capo nell’epica greca arcaica

1. Questioni di metodo

Un’indagine volta a delineare le caratteristiche e le funzioni del


velo nella cultura greca antica deve fare i conti in fase preliminare
con una serie di nodi metodologici relativi non solo allo stato della
documentazione disponibile ma anche alla lunga e articolata storia
di questo “istituto culturale” dalle sue prime attestazioni nel Vicino
Oriente e nel Mediterraneo antico fino alle più recenti e controverse
questioni politiche e religiose legate ai rapporti e alle forme di inte-
grazione tra mondo islamico e civiltà occidentale.
Si tratta innanzitutto di un dislivello semantico: nelle lingue mo-
derne europee infatti il termine “velo” (voile, veil, Schleier, velo ecc.)
indica al contempo un tipo di tessuto, un indumento connesso alla
sfera esistenziale e religiosa della vita femminile (velo matrimoniale,
velo religioso, velo del lutto ecc.), un simbolo dell’esotismo orientale
e un emblema —reale o presunto— dell’oppressione delle donne nel
mondo islamico. Come si cercherà di mostrare, solo in pochi casi è
possibile trovare precise corrispondenze tra l’accezione moderna del
velo e la ricca e articolata terminologia greca antica per definire l’atto
di coprirsi il capo, con notevoli differenze di ordine antropologico
ma anche sorprendenti analogie sul piano sociale e religioso.
Il secondo nodo metodologico è costituito, come spesso accade
per le ricerche sul mondo antico, dal carattere frammentario e diso-
mogeneo delle fonti letterarie, spesso difficili da interpretare, non di
rado contraddittorie (almeno apparentemente) e quasi mai integra-
bili con le coeve testimonianze iconografiche.
Per queste ragioni, oltre che per un “fardello ideologico” connes-
so all’immagine della Grecia antica come ideale punto di partenza
50  Ù Le verità del velo

della civiltà occidentale, gli studi sul velo nella cultura greca han-
no tardato a trovare spazio tra gli interessi scientifici della comu-
nità internazionale. Solo nell’ultimo decennio si è assistito, specie
in area anglosassone, ad una riscoperta del velo antico, forse anche
in considerazione del rinnovato approccio antropologico al mondo
greco, affrontato e studiato, oggi più che mai, sul versante dell’alte-
rità culturale piuttosto che in termini di rispecchiamento. In questa
direzione si muovono ad esempio gli studi di Douglas Cairns sulla
connessione tra velo e aidos1 e il bel libro di Lloyd Llewellyn Jones,2
che analizza la questione del velo femminile nella Grecia antica nel-
le sue molteplici sfaccettature: il presente saggio si colloca sulla scia
di questi lavori.

2. Il velo nell’epica arcaica: terminologia

2.1 veli femminili

È opportuno innanzitutto rilevare come l’azione di coprirsi il capo


possa essere espressa nell’epica greca arcaica con una grande varietà
di termini e locuzioni; questo dato può essere certamente collega-
to alla necessità di differenziare linguisticamente gli indumenti non
solo sulla base della funzione specifica ma anche in considerazione
dei diversi tessuti, colori, fogge; ma risponde anche, verosimilmen-
te, alla flessibilità e intercambiabilità dell’abbigliamento greco: molti
degli abiti, dei mantelli o dei teli in uso nella Grecia antica potevano
infatti facilmente essere sollevati a coprire la testa e il volto, assumen-
do così la funzione di veli veri e propri.3
È questo il caso di termini come ὀθόνη (telo di lino),4 ἑανός (abi-
to, manto),5 φᾶρος (mantello),6 ma anche della comunissima χλαῖνα
(mantello)7 e persino dei cenci da mendicante.8
A dispetto di una tale varietà, è possibile tuttavia individuare una
sola parola che all’azione di velarsi il capo sia connessa etimologica-
mente: si tratta del termine κρήδεμνον, composto di κάρα (testa, capo)

1
D.L. Cairns, The meaning of the veil in ancient greek culture, in L. Llewellyn-Jones (a
cura di), Women’s dress in the ancient greek world, David Brown Book Co., Oakville 2001, pp.
73-93; Id., Anger and the veil in ancient greek culture, in «Greece and Rome», 48, 1 (2001),
pp. 18-32.
2
L. Llewellyn-Jones, Aphrodite’s tortoise. The veiled woman of ancient Greece, Classical
Press of Wales, Swansea 2003. Sul tema generale dell’abbigliamento nella Grecia antica,
va segnalato il recente lavoro di M.M. Lee, Body, Dress, and Identity in Ancient Greece, Cam-
bridge University Press, New York 2015 che affronta la questione del velo (pp. 154-158),
senza tuttavia aggiungere alcunché di significativo alla trattazione di Llewellyn-Jones.
3
L. Llewellyn Jones, Aphrodite’s tortoise, cit., pp. 24-26.
4
Usato come “velo” in Il. III, 141 e forse in Il. XVIII, 595.
5
Il. III, 385 e Il. XVIII, 352.
6
Od. VIII, 82-92; Hes., Op., 198.
7
Il. XXIV, 163; Hymn. Aph., 183.
8
Od. XIV, 359.
Introduzione
Pietro Giammellaro · Velo si dice in molti modi Ù  51

e δέω (legare);9 attestato in tutta la più antica poesia greca e spesso


accompagnato dall’aggettivo λιπαρός (lucido, splendente, luminoso),
κρήδεμνον indica normalmente un indumento femminile, forse un
telo allungato o una sorta di benda, che copre il capo e che all’occor-
renza può essere calato a velare anche gli occhi e il volto. È adoperato
indistintamente da dee10 e donne mortali,11 viene indossato preva-
lentemente in contesti in cui il personaggio femminile deve entrare
in relazione con uno o più individui di sesso maschile in uno spazio
pubblico o collettivo12 e sembra essere uno dei primi ornamenti di
cui ci si libera nei momenti di dolore o di lutto.13 Kρήδεμνον è usato
poi anche a indicare le mura, i merli e in generale le difese esterne di
una città:14 un’accezione che si rivela, come vedremo, estremamente
significativa per la definizione di alcune delle principali funzioni del
velo greco.
L’epica arcaica conosce poi altri due termini specificamente iden-
tificati come “veli”, entrambi destinati ad un’utenza femminile, en-
trambi derivati dal verbo καλύπτω ed entrambi di controversa inter-
pretazione.
Nel caso di κάλυμμα, le uniche due occorrenze arcaiche offro-
no importanti informazioni non solo sulle caratteristiche esteriori
dell’indumento ma anche sul versante per così dire “psicologico”,
legato alla funzione di questo particolare tipo di velo in rapporto
alla condizione emotiva di chi lo indossa. Il primo passo si trova
nell’ultimo canto dell’Iliade:15 Achille è tornato in battaglia, ha uc-
ciso l’eroe troiano Ettore e ne ha straziato il cadavere, sancendo così
il proprio destino di morte precoce. La dea Teti, sua madre, viene
convocata da Zeus perché interceda presso il figlio convincendolo
a restituire al re Priamo il cadavere di Ettore. Teti dapprima rifiuta,
poiché ha «nell’animo un profondo dolore (ἄχος)»; poi, conscia della
perentorietà dell’invito, indossa «un κάλυμμα azzurro cupo (κύανος),
non ve n’era uno che fosse più scuro» e si mette in cammino alla volta
dell’Olimpo.

9
P. Chantraine, Dictionnaire étymologique de la langue grecque. Histoire des mots,
Klincksieck, Paris 1999 (1968), p. 581.
10
Hera (Il. XIV, 184-185), Charis (Il. XVIII, 382-383), Ino-Leucothea (Od. V, 346,
351, 373, 459), Ecate (Hymn. Dem., 24-27, 438-439), Demetra (Hymn. Dem., 40-44, 459),
una ninfa (Hes. fr. 244, 17).
11
Andromaca (Il. XXI, 466-472), Penelope (Od. I, 332-336; XVI, 414-417; XVIII,
208-211; XXI, 63-66), un gruppo di spose (Od. IV, 620-623), le ancelle di Nausicaa (Od.
VI, 99-100).
12
Ciò vale ad esempio per il κρήδεμνον di Hera, di Ino-Leucothea, di Penelope, del
gruppo di spose e, per contrasto, anche delle ancelle di Nausicaa che, uscite dallo spa-
zio pubblico della città, gettano via i propri κρήδεμνα per giocare sulla riva del fiume.
13
È il caso di Andromaca e di Demetra.
14
Troia: Il. XVI, 97-100; Od. XIII, 387-388. Tebe: Hes., Sc., 105. Cipro: Hymn. Aph.,
1-3. Atene: Hymn. Dem., 149-152.
15
Il. XXIV, 89-94.
52  Ù Le verità del velo

Anche il secondo passo, dal secondo degli Inni Omerici,16 ha per


protagonista una dea: si tratta di Demetra, ritratta nel momento in
cui percepisce il grido straziante della figlia rapita: «un acerbo dolore
(ἄχος) le prese il cuore, e dai capelli divini si strappava il κρήδεμνον. Si
gettò sulle spalle un κάλυμμα azzurro cupo (κύανος) e si lanciò come un
uccello sulla terra e sul mare, alla ricerca».
I due contesti presentano alcune evidenti analogie: due madri,
furiose e addolorate per la perdita (imminente o appena avvenuta)
dei rispettivi figli, indossano un velo: un velo che stavolta è tutt’altro
che brillante, splendente o luminoso. κύανος, azzurro cupo, è il colo-
re del lutto per eccellenza, associato al fiume Cocito, al lago Averno,
alle lamentazioni funebri e alle lacrime.17 Un velo scuro dunque, che
nasconde rabbia, furia, dolore e disperazione.
Quanto poi all’ultimo termine comunemente inteso come “velo”,
καλύπτρα, esso è considerato unanimemente come un sinonimo di
κρήδεμνον.18 Un’analisi capillare delle (poche) occorrenze arcaiche
consente tuttavia di precisare meglio questa affermazione. I tre con-
testi omerici di riferimento, due dei quali formulari, sembrano in ef-
fetti rimandare all’immagine di un indumento ornamentale: Ecuba
getta via la sua καλύπτρα alla vista del cadavere di Ettore straziato,19
in un gesto di lutto scomposto e di “planctus irrelativo” che com-
porta —secondo il modello ricostruito da Ernesto De Martino20—
l’eliminazione degli elementi superficiali dell’abbigliamento e l’au-
tomutilazione («si strappava i capelli»), come segno della negazione
del sé nel momento del cordoglio; Calypso e Circe indossano una
καλύπτρα sul capo, a coronamento di una serie di ricchi ornamen-
ti, mentre si preparano alla partenza di Odisseo.21 Nella Teogonia di
Esiodo, poi, una καλύπτρα piena di ricami fa parte della descrizione
degli ornamenti di Pandora,22 in un contesto in cui dominano im-
magini di luce, splendore e bellezza non distanti dalle connotazioni
del κρήδεμνον.
Occorre menzionare infine il caso di Demetra nell’omonimo
Inno, che si copre il volto con una καλύπτρα quando, «silenziosa e piena
di tristezza», viene accolta nella casa di Iambe.23 Καλύπτρα sembra dun-
que definire un velo che copre tutta la testa, e che in certi casi può

16
Hymn. Dem., 38-44.
17
Sul valore di κύανος cfr. da ultimo P. Kingsley, Misteri e Magia nella filosofia antica.
Empedocle e la tradizione pitagorica, Il Saggiatore, Milano 2007 (ed. orig. Oxford 1995),
pp. 106-109.
18
L. Llewellyn Jones, Aphrodite’s tortoise, cit., p. 32 con bibliografia precedente.
19
Il. XXI, 405-409.
20
E. de Martino, Morte e pianto rituale. Dal lamento funebre antico al pianto di Maria,
Bollati Boringhieri, Torino 1975, passim.
21
Rispettivamente Od. V, 228-233 e Od. X, 541-545. È opportuno sottolineare che i
versi in questione sono formulari.
22
Hes., Th., 570-584.
23
Hymn. Dem., 192-201.
Introduzione
Pietro Giammellaro · Velo si dice in molti modi Ù  53

essere usato per oscurare il volto, segnalando così uno stato emotivo
di dolore o di tristezza.
Sul versante della foggia, si differenzia dal κρήδεμνον solo per il
fatto di non essere “legata” ma solo adagiata sul capo. Quanto alla
funzione, καλύπτρα partecipa al contempo del carattere “ornamen-
tale” di κρήδεμνον e della connotazione “coprente” (anche sul piano
psicologico) di κάλυμμα.

2.2 καλύπτω nell’epica arcaica

Le considerazioni esposte fino a questo punto indurrebbero a


considerare l’azione di coprirsi il capo nella Grecia arcaica come una
prerogativa esclusivamente femminile. E in effetti, un’analisi circo-
scritta ai termini specificamente destinati a indicare un velo non può
che condurre a questa conclusione.
Il quadro, tuttavia, cambia sensibilmente se si allargano le maglie
dell’indagine, includendo nella ricerca anche il verbo καλύπτω: comu-
nemente inteso col significato di “coprire”, “avvolgere” o “nascondere”24
e base linguistica di due delle tre parole usate in greco per definire il
velo, questo verbo si rivela infatti particolarmente significativo ai nostri
fini, e un’analisi dei suoi usi specifici può forse gettare nuova luce sul
senso originario dell’atto di velarsi il capo nel mondo greco.
Le occorrenze di καλύπτω nella letteratura greca arcaica sono nu-
merosissime: solo nei poemi omerici, nelle opere di Esiodo e negli
Inni se ne contano più di 130.
La prima si trova nel contesto di un sacrificio rituale: le ossa dell’a-
nimale sacrificato vengono racchiuse, nascoste, in uno strato di grasso,
vi si sovrappongono le parti da destinare agli dei e si procede col rito:
«estrassero dalle cosce le ossa, le avvolsero (ἐκάλυψαν) nel grasso e sopra vi
posero le parti scelte».25 Si tratta, è bene dirlo, di una procedura sacrifica-
le tipica, che ricorre, a volte anche come formula, in vari altri luoghi
dei poemi.26
Non mancano poi i casi in cui ad essere “velate” sono ossa umane,27
o addirittura cadaveri: uno degli esempi più celebri, ma non l’unico,
è quello del rito funebre in onore di Patroclo: «poi lo deposero su un
letto funebre e dalla testa ai piedi lo avvolsero (κάλυψαν) in un soffice ἑανός
di lino, sopra distesero un bianco φᾶρος».28
Del resto, καλύπτω è uno dei verbi “tecnici” per descrivere la mor-
te eroica: espressioni come «l’ombra / la notte / la tenebra velò (κάλυψε)

24
P. Chantraine, Dictionnaire, cit., p. 487.
25
μηρούς τ’ ἐξέταμον κατά τε κνίσῃ ἐκάλυψαν / δίπτυχα ποιήσαντες: Il. I, 460-461.
26
Cfr. in espressione formulare Il. II, 423-424; Od. III, 457-458; XII, 360-361; il
medesimo contesto con la stessa terminologia si trova anche in Od. XVII, 241 e in Hes.,
Th., 538-542.
27
Per es. in Il. XXIII, 91, 168, 253; XXIV, 796.
28
ἐν λεχέεσσι δὲ θέντες ἑανῷ λιτὶ κάλυψαν / ἐς πόδας ἐκ κεφαλῆς, καθύπερθε δὲ φάρεϊ
λευκῷ: Il. XVIII, 352-353.
54  Ù Le verità del velo

i suoi occhi» ricorrono nell’epica arcaica in almeno una cinquantina


di occorrenze, spesso formulari.
Esiste poi un’altra nutrita serie di casi in cui καλύπτω è associato
alla nebbia e alle nuvole, prevalentemente in funzione di difesa dal
nemico e / o salvezza dalla morte: una divinità nasconde, sottrae alla
vista un mortale in una fitta nube, rendendolo immune dal pericolo
imminente.29
Alla luce di queste considerazioni, è possibile attribuire al verbo
καλύπτω una connotazione religiosa / rituale,30 associata da un lato
all’ambito della morte e dei riti ad essa connessi, dall’altro all’inter-
vento divino in difesa dei mortali, e legata all’oscuramento fisico del
volto o della vista. In questo senso, mi pare, vanno interpretati quei
contesti in cui καλύπτω indica specificamente l’atto di velarsi: a ben
vedere, infatti, le (poche) attestazioni del verbo in tale accezione
—quasi tutte con protagonisti di sesso maschile— rientrano in uno
dei due ambiti sopra delineati.
Alla sfera funeraria è certamente collegato il passo dell’Iliade che
descrive il lutto del re Priamo per la morte del figlio Ettore: «dentro il
cortile i figli, seduti intorno al padre, bagnavano di lacrime le vesti, e in mezzo
a loro stava il vecchio re velato (κεκαλυμμένος) nel suo mantello».31 Vale
forse la pena di ricordare che ancora una volta ci troviamo in presen-
za di un contesto in cui un genitore piange la perdita del figlio.
Non dissimile nelle linee essenziali è il celebre passo odissiaco
che ritrae il banchetto alla corte dei Feaci: mentre l’aedo canta le vi-
cende della guerra di Troia, Odisseo, ancora sotto mentite spoglie,
non riesce a trattenere le lacrime, ed è costretto a velare il suo volto:

Questo l’aedo famoso cantava. Ma Odisseo afferrò con le mani il gran


φᾶρος di porpora e se lo trasse sul capo, velò (κάλυψε) il bellissimo
volto. Si vergognava di piangere davanti ai Feaci. E quando l’aedo vi-
cino smetteva il suo canto, Odisseo si asciugava le lacrime, toglieva
il φᾶρος dal capo e, sollevata la coppa a due anse, libava agli dei. Ma
quando riprendeva a cantare l’aedo, e lo incitavano i principi che go-
devano nell’udire il suo canto, ancora velatosi (καλυψάμενος) il capo,
piangeva. 32

29
Sotto questa specie vanno annoverati anche i casi in cui la funzione di protezione
è svolta non dalla nebbia ma da un oggetto materiale: un peplo, uno scudo ecc.
30
Secondo quanto afferma, con diverse argomentazioni, R.R. Dyer, The use of
kalypto in Homer, in «Glotta», 42 (1964), pp. 29-38.
31
παῖδες μὲν πατέρ’ ἀμφὶ καθήμενοι ἔνδοθεν αὐλῆς / δάκρυσιν εἵματ’ ἔφυρον, ὃ δ’ ἐν
μέσσοισι γεραιὸς / ἐντυπὰς ἐν χλαίνῃ κεκαλυμμένος·: Il. XXIV, 161-162.
32
ταῦτ’ ἄρ’ ἀοιδὸς ἄειδε περικλυτός· αὐτὰρ Ὀδυσσεὺς / πορφύρεον μέγα φᾶρος ἑλὼν
χερσὶ στιβαρῇσι / κὰκ κεφαλῆς εἴρυσσε, κάλυψε δὲ καλὰ πρόσωπα· / αἴδετο γὰρ Φαίηκας
ὑπ’ ὀφρύσι δάκρυα λείβων. / ἦ τοι ὅτε λήξειεν ἀείδων θεῖος ἀοιδός, / δάκρυ’ ὀμορξάμενος
κεφαλῆς ἄπο φᾶρος ἕλεσκε / καὶ δέπας ἀμφικύπελλον ἑλὼν σπείσασκε θεοῖσιν· / αὐτὰρ
ὅτ’ ἂψ ἄρχοιτο καὶ ὀτρύνειαν ἀείδειν / Φαιήκων οἱ ἄριστοι, ἐπεὶ τέρποντ’ ἐπέεσσιν, / ἂψ
Ὀδυσεὺς κατὰ κρᾶτα καλυψάμενος γοάασκεν. Od. VIII, 82-92.
Introduzione
Pietro Giammellaro · Velo si dice in molti modi Ù  55

L’azione di velarsi il capo è in questo caso collegata ad una doppia


necessità: da un lato il mantello rappresenta uno schermo di difesa,
connesso al pudore delle lacrime, dall’altro agisce nell’eroe il timore
di rivelare indirettamente la propria identità.33
Esistono altri esempi di personaggi maschili velati, coperti o sem-
plicemente sottratti alla vista con tessuti di vario tipo: Enea schermato
dai colpi con il peplo di Afrodite,34 Odisseo che giace nella nave na-
scosto dal mantello,35 o col capo coperto di cenci nel racconto (falso)
del falso mendico,36 un neonato Pan avvolto in una pelle di lepre
montana dal padre Hermes.37
Ma mi sembra significativo concludere questo rapido elenco con
l’immagine esiodea della dea Aidos che, velata (καλυψαμένω) in un
bianco φᾶρος, abbandona la stirpe degli uomini in compagnia di
Nemesi.38

3. Conclusioni

Non è un caso che Esiodo abbia scelto di velare proprio la personi-


ficazione di αἰδώς. Come ha rilevato recentemente Douglas Cairns,39
esiste una profonda connessione tra l’atto di coprirsi il capo e quel
misto di rispetto, pudore e vergogna espresso in greco col termine
αἰδώς. In questa “costellazione emotiva” rientra certamente il κάλυμμα
di Teti che si reca controvoglia al cospetto di Zeus,40 il κρήδεμνον di
Penelope che per ben quattro volte copre il suo volto nel rivolgersi
ai Proci,41 la καλύπτρα di Demetra nella casa di Iambe, segno della
tristezza per la perdita della figlia.42
Eppure, come si è cercato di mostrare finora, il velo assolve per
i Greci dell’età arcaica ad una molteplicità di funzioni, non sempre
direttamente collegabili alla sfera psicologica dell’αἰδώς.
Esso costituisce un’interfaccia fisica e simbolica tra chi lo in-
dossa e il mondo esterno: agisce da schermo difensivo nel caso di
Demetra, di Penelope, delle ancelle di Nausicaa e, indirettamente,
anche nell’episodio del κρήδεμνον offerto da Ino-Leucothea a Odis-
seo come talismano di salvezza dal naufragio;43 proprio in questo

33
Su questo passo cfr. L. Faranda, Le lacrime degli eroi. Pianto e identità nella Grecia
antica, Qualecultura, Vibo Valentia 1992, pp. 129-133 e da ultimo M. Nucci, Le lacrime
degli eroi, Einaudi, Torino 2014, pp. 25-26 e 52-55.
34
Il. V, 315.
35
Od. X, 53.
36
Od. XIV, 349.
37
Hymn. Pan., 42.
38
Hes., Op., 197-200.
39
D. Cairns, The meaning of the veil, cit., pp. 75-76.
40
Il. XXIV, 89-96.
41
Od. I, 332-336; XVI, 414-417; XVIII, 208-211; XXI, 63-66.
42
Hymn. Dem., 192-201.
43
Su questa parte del quinto canto dell’Odissea, cfr. D.R. Kardulias, Odysseus in
Ino’s veil: feminine headdress and the Hero in Odyssey 5, in «Transactions of the American
56  Ù Le verità del velo

senso va interpretato a mio parere l’uso metaforico di κρήδεμνον a


indicare le difese esterne della città. Ma funziona anche, inversa-
mente, come un richiamo di seduzione legato alla sfera dell’eros: il
κρήδεμνον «fulgido come la luce del sole» di Era che si accinge a concu-
pire Zeus e la καλύπτρα «dai mille ricami» di Pandora nella Teogonia di
Esiodo agiscono con ogni evidenza in questa direzione.
Il velo è una frontiera, un passaggio, un limite; e delle situazioni
di liminarità diventa in alcuni casi il suggello: i versi formulari che
descrivono prima Calypso e poi Circe al momento della partenza di
Odisseo, ritraggono le dee con indosso una καλύπτρα, segno tangi-
bile di un distacco, di una perdita e di un cambiamento di status.
Proprio alla specie del cambiamento di status può essere poi ri-
condotto l’uso del velo nei rituali di matrimonio, attestati in età più
tarda anche in forme socialmente codificate,44 e soprattutto l’asso-
ciazione con la morte e col rituale funerario, che determinano nel
modo più radicale una vera e propria “crisi della presenza”, secondo
l’ormai classica definizione demartiniana.45
L’azione di coprirsi il capo ha a che fare dunque, in ultima analisi,
con i momenti di crisi dell’identità individuale, relazionale e sociale
dell’uomo e della donna greca.46 Il velo rappresenta in altre parole,
per i Greci dell’età arcaica, un indicatore multifunzionale di identità,
che interviene a preservare il soggetto dalle conseguenze della crisi,
configurando uno spazio escluso che consente di interagire con l’e-
sterno da una posizione per così dire “protetta”.
Io credo che questa funzione sia strettamente connessa con l’idea,
non solo greca, del volto come primo indicatore di identità e con la
concezione, stavolta tipicamente greca, della vista come senso privile-
giato della conoscenza.47 È il πρόσωπον a determinare primariamente
l’individualità pubblica e privata del soggetto, e la ὄψις ne rappresen-
ta il principale veicolo di interazione col mondo; l’oscuramento del
volto e della vista segnala allora, per contrasto, un isolamento tem-
poraneo che inibisce sul piano fisico e simbolico la facoltà di essere
riconosciuti e di (ri)conoscere.
In questa chiave andrà letta, come ha acutamente osservato
Cairns,48 la preponderante associazione del velo alla sfera del
femminile: diversamente dall’identità maschile, che viene a trovarsi
sotto scacco solo in contesti e situazioni limite, lo status della donna
greca è invece permanentemente messo in discussione, specie nella

Philological Association», 131 (2001), pp. 23-51.


44
Mi riferisco al rito denominato ἀνακαλυπτήρια, per una trattazione esauriente del
quale rimando a L. Llewellyn Jones, Aphrodite’s tortoise, cit., pp. 227-248 e, da ultimo, a
M.M. Lee, Body, Dress, and Identity, cit., pp. 211-212.
45
Cfr. E. de Martino, Morte e pianto rituale, cit., pp. 12-56.
46
Secondo la lettura di D. Cairns, The meaning of the veil, cit., pp. 81-82.
47
Su questo problema cfr. L.M. Napolitano Valditara, Lo sguardo nel buio. Metafore
visive e forme grecoantiche della razionalità, Laterza, Roma-Bari 1994.
48
D. Cairns, The meaning of the veil, cit., pp. 81-82.
Introduzione
Pietro Giammellaro · Velo si dice in molti modi Ù  57

sua proiezione pubblica e collettiva. Il velo femminile sottolinea


questa “minorità identitaria”, rappresentando al contempo anche
uno spazio di libertà e di moderata autonomia.
L’immagine della “tartaruga di Afrodite” usata da Llewellyn Jo-
nes per rappresentare le donne velate49 è in questo senso estrema-
mente efficace: come le tartarughe, nella percezione popolare tutte
femmine e tutte mute,50 la donna greca porta con sé il suo “spazio
vitale”: il velo disegna così una linea di demarcazione che delimita
e circoscrive l’ambito di azione, ma garantisce nello stesso tempo,
pur entro le regole fissate da un’ideologia maschile, la possibilità di
un’interazione col mondo “pubblico” degli uomini.

49
L. Llewellyn Jones, Aphrodite’s tortoise, cit., passim e in particolare le pp. 189-214.
50
Ivi, pp. 190 e 208, n. 5.
58  Ù Le verità del velo
Introduzione
Giuseppina Paola Viscardi ∙ Verità e rappresentazione Ù  59

Giuseppina Paola Viscardi

Verità e rappresentazione.
Logiche discorsive e pratiche performative
del dis/ velamento nell’antica Grecia

“… Appena uscite dalla casa della Notte, alla luce …


Dopo aver sollevato i veli dal capo …”
(Parmenides, fr. 1 Diels-Kranz)

1. Una nota introduttiva a partire da Eustazio: sul valore semantico del


termine katapetasma

Per introdurre il discorso sul valore semantico assunto e il porta-


to ideologico veicolato dall’uso del velo nella tradizione greca antica
ci sembra particolarmente efficace il brano ripreso dal commento ai
versi 334-335 del primo canto dell’Odissea redatto nel XII secolo d.C.
dall’arcivescovo di Tessalonica Eustazio. Nel passo omerico è il riferi-
mento ai «fulgidi veli» (liparà krēdemna) che la figlia di Icario, Penelo-
pe, solleva sul volto a nascondere il viso in segno di lutto presentando-
si al cospetto dei pretendenti illegittimi al trono di Odisseo, lo sposo
sovrano di Itaca creduto morto a Troia.1 In Eustazio, con un’acribia
filologica squisitamente bizantina, per dare il senso del significato pro-
fondo assunto dal termine krēdemnon se ne descrive la funzione non
solo evidenziandone l’uso in qualità di «legaccio, fasciatura» o «ben-
da» (desmos: «qualcosa atto a legare o fissare»), nel caso in cui esso sia
avvolto intorno alla testa a mo’ di turbante, ma ricorrendo anche al
nesso sinonimico con un altro termine, un termine chiave della lette-
ratura ellenistica e tardo-antica, il katapetasma, precisamente indicante
un «ampio telo», operante come «tenda, cortina» o «sipario», qualco-
sa di «vincolante, costringente, avvolgente» (kathelkō), atto ad essere

1
Hom., Od. I, 332-335. In riferimento al kredemnon e alla sua attestazione nell’epica
arcaica, si veda in questo volume il contributo di Pietro Giammellaro, Velo si dice in molti
modi. Coprirsi il capo nell’epica greca arcaica.
60  Ù Le verità del velo

«steso» a mo’ di «sudario» (epikaluptō),2 nel caso in cui sia calato (ka-
tapetannumi) davanti al volto fino al mento, collo o spalle. Katapetasma
è vocabolo d’uso alessandrino impiegato a partire dal III secolo a.C.
principalmente nella letteratura giudaico-cristiana di lingua greca in
sostituzione del classico parapetasma, attestato da Erodoto in avanti a
designare «tappeti», «tende» e «arazzi» persiani, o ancora «coperte»,
«rivestimenti» (anche in senso figurato), «sipari» (teatrali).3
Nella tradizione veterotestamentaria dei Settanta4 e, seppur in
misura minore, in quella neotestamentaria dei Vangeli e delle Let-
tere di Paolo,5 così come nell’opera di Filone Giudeo,6 Giuseppe
Flavio7 e negli scritti dei Padri della Chiesa,8 katapetasma, anche usa-
to in associazione con kalumma (lett. «velame, involucro, copertu-
ra», da kaluptō, lat. occulo, celo),9 acquista un preciso valore sacrale
laddove è per lo più utilizzato per designare la Tenda del Tempio
in Gerusalemme e, specificamente, «il velo più interno» (to esōtatō
katapetasma)10 che separava il luogo più sacro, il tabernacolo, dal-
la corte esterna. Nella tradizione ebraica e cristiana il tabernacolo
(lat. tabernaculum, diminutivo di taberna, col significato di «dimora»)
indica il luogo della casa di Dio fra gli uomini: secondo il racconto
biblico (Es 26-27), era originariamente costituito da una recinzione
fatta di teli; all’interno della recinzione c’era una tenda realizzata
in pelle di capra, tasso e montone dipinto di rosso che faceva da
copertura all’intera struttura (Es 25, 1-16). La tenda al suo inter-
no era divisa in due da un telo: questo «secondo velo» (to deuteron

2
G. Stallbaum (a cura di), Eustathii archiepiscopi Thessalonicensis commentarii ad Ho-
meri Odysseam [1825-1826], 2 Voll., Weigel, Leipzig 1970, Vol. 1, p. 64, l. 9 [v. 335]: Ὅτι ἐν
τῷ, ἄντα παρειάων σχομένη ὡς ἐῤῥέθη λιπαρὰ κρήδεμνα, ἐμφαίνεται ὡς οὐ μόνον δεσμός ἐστι
κεφαλῆς τὸ κρήδεμνον, ἀλλὰ καὶ καταπέτασμά τι πλατὺ, εἴπερ καὶ εἰς παρειὰς καθέλκεται καὶ
ἐπικαλύπτει αὐτάς.
3
Hdt. IX, 82; Ar., Ra. 938; Pl., Prt. 316e; Dem. 45, 19; Diod. 11, 56; Men., fr. 406, 4.
4
LXX Es 26, 31 e 33; Es 35, 12; Es 37, 3, 5 e 16; Es 39, 19; Lv 4, 6; Lv 21, 23; Lv 24, 3;
Nm 3, 26; Nm 4, 5; 1Mac 1, 22; 3TM 6, 36a; PRLPMN 2Cr 3, 14.
5
Mt 27, 51; Mc 15, 38; Lc 23, 45; Eb 9, 3.
6
Ph., De gig. 53, 5 e Vit.Mos. II, 81, 1; 87, 1 e 4; 101, 3. Cfr. L. Cohn (a cura di), Philonis
Alexandrini opera quae supersunt, 4 voll., Reimer, Berlin 1962 [1902].
7
J., BJ V, 212, 1. Cfr. B. Niese (a cura di), Flavii Iosephi opera, 6 Voll., Weidmann,
Berlin 1955 [1895].
8
Attestato soprattutto nella formula καταπέτασμα τοῦ ναοῦ. Cfr. Clem.Al., Paed. III,
2, 5, 2; Exc. ex Theod. 1, 7, 2; 2, 38, 2; Orig., Cels. II, 33, 7; Comm. in evang. Joan. X, 40,
284, 2 (καταπέτασμα τῆς αὐλῆς); XIX, 16, 103; Eus., DE VI, 18, 41; VIII, 2, 112 e 116 e 119;
Comm. in Psalm. 23, 729 e 744; Syn., Ep. 67, 183 (καταπέτασμα μυστικόν) ecc.
9
LXX Es 27, 16; Nm 3, 25; Ph., Vit.Mos. II, 87, 1 e 4.
10
LXX Es 26, 37; Es 38, 18; Es 40, 34-38; Lv 16, 2, 12 e 15; Nm 3, 26; Eb 6, 19: τὸ
ἐσώτερον τοῦ καταπετάσματος; Ph., De gig. 53, 5: ἐσωτάτω καταπέτασμα. Precisamente, si
fa riferimento a due katapetasmata (cfr. 1Mac 4, 51), relativamente al “telo” o cortina fi-
nemente ricamata, di porpora viola, rossa e scarlatta, posta all’entrata del Tempio (vedi,
supra nota 9) e al “velo” o tendaggio posto a copertura della parte segreta, più riposta
del Tempio, la skené detta Santo dei Santi (Ἅγια Ἁγίων, cfr. Eb 9, 3). Questo “secondo
velo” è l’unico menzionato in NT (vedi, supra nota 5).
Introduzione
Giuseppina Paola Viscardi ∙ Verità e rappresentazione Ù  61

katapetasma)11 creava così due spazi, il «Luogo sacro», cui potevano


accedere sia i leviti che i sacerdoti, e il «Santo dei Santi» (equiva-
lente allo «spazio interno al velo», detto anche in senso figurato
del Cielo come vera dimora di Dio),12 cui poteva accedere solo il
sacerdote designato una volta all’anno. In quest’ultimo era custodi-
ta l’Arca con le Tavole dell’Alleanza, la verga di Aronne e la manna.
Per gli Ebrei, nel Tabernacolo —costruito secondo il modello del
Santuario celeste— si manifestava la presenza (fisica) di Dio in ter-
ra, la Shekhinah (Es 25-27), etimologicamente connessa alla radice
semitica dal significato di «stabilirsi, abitare, dimorare» e pertanto
resa, in senso letterale, come «dimora».13
Considerata l’importanza assunta dal velo nell’edificazione del
Tempio, di cui il katapetasma delimita, separa, articola gli spazi cu-
stodendone la sacralità in senso ideale e materiale, l’associazione
semantica suggerita da Eustazio tra i termini katapetasma e kredem-
non carica il secondo termine di un’elevata pregnanza simbolica,
dischiudendo un orizzonte di senso che trova, specialmente in
riferimento all’immagine della «tenda» o «cortina», un riscontro
immediato a livello lessicale nella pratica religiosa e sociale del pur-
dah o pardaa indiano (da cui si è sviluppato linguisticamente e sto-
ricamente l’afgano burqa) —equivalente dell’hijâb islamico e niqab
arabo.14 Quest’ultimo, nella semantica stessa della parola, letteral-
mente designante «velo, cortina, tenda, schermo», vede efficace-
mente adombrata la condizione di isolamento di cui lo stesso ter-
mine purdah è sinonimo nell’inglese colloquiale. A tale condizione
di “separatezza, segretezza, isolamento” rinvierebbe un uso del velo
direttamente rimontante alla tradizione orientale di esclusione15

11
Eb 9, 3: τὸ δεύτερον καταπέτασμα.
12
Eb 6, 19. Cfr. G.E. Rice, Hebrews 6:19: Analysis of Some Assumptions Concerning Kata-
petasma, in «Andrews University Seminary Studies», 25, 1 (1987), pp. 65-71.
13
Cfr. K. Kohler, L. Blau, Shekinah, in I. Singer et al. (a cura di), Jewish Encyclopedia,
The Kopelman Foundation, Philadelphia 2002, URL: <http://www.jewishencyclope-
dia.com>. Attestato per la prima volta nella letteratura rabbinica il termine Shekhinah
è usato, in particolare, in riferimento: 1) alla tenda del convegno costruita nel deserto
durante l’esilio del popolo ebraico narrato nell’Esodo; 2) al Tempio di Gerusalemme
edificato da Salomone nel X secolo a.C.; 3) alle manifestazioni epifaniche del Signore
ai suoi fedeli, cfr. M. McNamara, Targum and Testament Revisited: Aramaic Paraphrases of
the Hebrew Bible, Eerdmans Publishing, Grand Rapids 2010 [2nd ed.], pp. 148-149. La
parola Tabernacolo, mishkan, deriva dalla stessa radice ed è usata nel senso di “dimora”
in Sal 13, 5 e Nm 24, 5.
14
Sviluppatasi probabilmente nella Persia pre-islamica, con cui i Greci ebbero peral-
tro frequenti contatti fin dall’alto arcaismo, e rigorosamente osservata sotto il regime
dei Talebani in Afghanistan diventando perciò spia di fondamentalismo islamico, la
pratica del purdah, diffusa nei paesi a maggioranza musulmana e nelle comunità indù
sud-asiatiche, è ancora oggi vitale nelle comunità rurali e nei quartieri più vecchi delle
città, sebbene sia ormai in fase di progressiva riduzione soprattutto negli stati dell’ex
Raj Britannico (Bangladesh, India, Pakistan) e resti praticata altrove solo in occasioni
di particolare rilievo religioso.
15
Alla pratica del purdah vanno soggette soprattutto le donne sposate, visivamente
accessibili solo al marito e a pochissimi altri membri della famiglia: di qui l’uso im-
62  Ù Le verità del velo

sullo sfondo della quale sembra proiettarsi anche un certo impiego


metaforico e reale del velo e della prassi rituale ad esso connessa
nell’antica Grecia, rintracciando nell’idea di isolamento ed esclu-
sione (non immediatamente da intendersi in senso negativo) l’e-
spressione di una condizione speciale, isolata in quanto separata,
distinta, privilegiata, perciò fortemente connotata a livello religioso
e sociale. Per questa sua connotazione specifica il velo diventa di-
spositivo semiotico efficace all’interno di dinamiche antropopoieti-
che che in tale oggetto/ indumento scoprono un pattern visuale a
forte impatto mediatico.
Dei vari termini che la lingua greca adotta per indicare il velo o,
più precisamente, l’ampio mantello passibile di essere sollevato sul
capo per una delle estremità a copertura totale o parziale del volto
oltre che del corpo (krēdemnon, kaluptra, kalumma, kolpos, pharos, tegi-
dion, himation ecc.),16 scegliamo dunque di concentrarci sull’uso del
krēdemnon e del pharos, sovente ripreso in forma sinonimica a indica-
re l’ampio telo di rivestimento o copertura impiegato all’occorrenza
come lenzuolo funebre o sudario, per delineare un quadro generale
delle logiche discorsive sottese alla loro attestazione nei testi classici
e delle pratiche performative a carattere mistico o iniziatico cui il
riferimento al kredemnon o al pharos rinvierebbe nel contesto socio-
culturale della Grecia antica.

posto specialmente alle donne delle classi sociali più elevate (in conformità con gli
antichi precetti coranici e in analogia anche con l’uso del velo nell’antica Grecia, vedi
infra nel testo) di coprire il volto con un lembo del sarī, l’ampia coltre che avvolge spalle
e corpo rendendo inaccessibile l’identità di chi la indossa. Così, se da un lato l’uso del
purdah rivela l’intenzione primaria di protezione e controllo della sessualità, castità e
onore femminile rispetto al contatto con l’altro o lo straniero, dall’altro manifesta il
grado di prestigio e il rango della casata, il senso di riservatezza, che è anche indice di
distanza (= levatura) sociale, e di decoro e il potere politico esercitato a livello locale
dove il velo stesso, elevato a status symbol, diventa espressione materiale del benessere
familiare.
16
Cfr. L. Llewellyn-Jones, Aphrodite’s Tortoise: The Veiled Woman of Ancient Greece, The
Classical Press of Wales, Swansea 2003. Sull’uso del velo nelle civiltà antiche in generale
esiste un’ampia bibliografia; per l’antica Grecia in particolare, cfr. P. du Bois, Sowing the
Body: Psychoanalysis and Ancient Representations of Women, University of Chicago Press, Chica-
go-London 1988; F. Frontisi-Ducroux, Du masque au visage. Aspects de l’identité en Grèce anci-
enne, Flammarion, Paris 1995; N. Salomon, Making a World of Difference: Gender, Asymmetry,
and the Greek Nude, in A.O. Koloski-Ostrow, C.L. Lyons (a cura di), Naked Truths: Women,
Sexuality, and Gender in Classical Art and Archaeology, Routledge, London-New York 1997, pp.
197-219; E. Fantham (a cura di), Women in the Classical World: Image and Text, Oxford Uni-
versity Press, New York-Oxford 2001; D.L. Cairns, Veiling, Aidos, and a Red-Figure Amphora
by Phintias, in «Journal of Hellenic Studies», 116 (1996), pp. 152-158; Anger and the Veil in
Ancient Greek Culture, in «Greece & Rome», second series 48, 1 (2001), pp. 18-32; The Mean-
ing of the Veil in Ancient Greek Culture, in L. Llewellyn-Jones (a cura di), Women’s Dress in the
Ancient Greek World, Duckworth, London 2002; L. Llewellyn-Jones, M. Harlow (a cura di),
The Clothed Body in the Ancient World, Oxbow Books, Oxford 2005; L.J. Roccos, Ancient Greek
Costume: An Annotated Bibliography, McFarland & Co., Jefferson 2006; L. Cleland, D. Glenys,
L. Llewellyn-Jones, Greek and Roman Dress from A to Z, Routledge, London-New York 2007;
F. Gherchanoc, V. Huet (a cura di), Vêtements antiques. S’habiller, se déshabiller dans les mondes
anciens, Errance, Arles 2012.
Introduzione
Giuseppina Paola Viscardi ∙ Verità e rappresentazione Ù  63

2. Il velo mistico dell’eroe: l’uso del krēdemnon o pharos nell’epica


omerica

Quando si pensa al velo si è in qualche modo socialmente indotti a


pensare in primo battuta a forme di velamento più o meno integrale
del corpo femminile. Tuttavia, le civiltà antiche conoscono vari tipi
di velami dagli usi più svariati e ad essi fanno riferimento per desi-
gnare diversificati processi di occultamento in relazione tanto alla
sfera pubblica che a quella privata, religiosa o meno che sia. Prima,
dunque, di andare a indagare in maniera dettagliata l’uso e il valore
ritualistico del velo nell’ambito del femminile, vale la pena ricordare
che un certo uso rituale è attestato anche in ambito maschile, dove il
velo ricorre come oggetto o indumento utilizzato o indossato in spe-
cifiche occasioni e con funzioni precise. Pensiamo ad esempi princi-
palmente desunti dall’epica omerica e programmaticamente evocati
in età ellenistica nella produzione epica di Apollonio Rodio, in rife-
rimento al velo inteso come attributo mistico dell’eroe iniziato a un
determinato tipo di culti misterici, nella fattispecie quelli praticati a
Samotracia.17
Il primo di tali esempi è ripreso dall’ottavo canto dell’Iliade (vv.
220-252) dove è menzionato l’ampio pharos di tinta scarlatta impu-
gnato da Agamennone (v. 221: πορφύρεον μέγα φᾶρος ἔχων ἐν χειρὶ
παχείῃ) nel momento in cui, una volta salito sulla nera nave di Odis-
seo, rivolgendosi agli Argivi, il comandante delle flotte alleate invoca
Zeus affinché conceda agli Achei di fuggire e trarsi in salvo dall’attac-
co dei Teucri che vanno mietendo gran strage di eserciti, ottenendo
come risultato di rinvigorire gli animi degli astanti spronandoli a re-
agire. Lo stesso termine pharos compare poi nel quinto canto dell’O-
dissea (vv. 258-261), attestato al plurale, in riferimento ai pharea che la
ninfa Calipso avrebbe procurato a Odisseo per fabbricare la vela della
zattera con la quale l’eroe, dopo il prolungato soggiorno ad Ogigia,
avrebbe compiuto il suo nostos verso Itaca. Nel medesimo canto (vv.
346-460) è peraltro ripreso il tema mitico del dono magico che Odis-
seo avrebbe ricevuto dalla ninfa Ino, la Dea Bianca Leucothea (figlia
del fenicio Cadmo e di Armonia)18 protettrice dei marinai, dove è

17
Situata nell’Egeo nord-orientale, l’isola di Samotracia occupava una posizione
intermedia su un’immaginaria linea di confine dove nel corso del tempo le civiltà pre-
elleniche, seguite da quella greca, s’incontrarono e incrociarono col mondo orientale.
A Samotracia erano attestate pratiche misteriche (cfr. Hdt. II, 51, che ne designa il
rituale d’ingresso col verbo mueîsthai) consacrate ai Cabiri, noti anche come Grandi
dèi o dèi di Samotracia. Tali pratiche conobbero una relativa diffusione anche a Tebe e
ad Andania, oltre che sulle isole, come Lemno e Imbro, e nella Troade, associando alla
dimensione misterica una prospettiva soteriologica.
18
Ricordato dalla tradizione come il mitico eroe fondatore della Tebe beotica, Cad-
mo è noto anche per i suoi legami con Samotracia, ai cui misteri sarebbe stato iniziato
prima delle nozze (Ephor., FGrHist 70, F120; D.S. V, 48, 2 e 49, 1-4; Schol. E., Ph. 7 e
1129): il legame di Cadmo con Samotracia evidenzia una volta di più sul piano mitico la
64  Ù Le verità del velo

finalmente utilizzato il termine krēdemnon a indicare il velo immortale


per mezzo del quale l’eroe, naufrago in balìa delle onde, si sarebbe
salvato dalla furia del mare compiendo una vera e propria azione
magica, secondo le indicazioni di Ino:

Tieni, distendi sotto il petto (ὑπὸ στέρνοιο τανύσσαι) questo velo immor-
tale (κρήδεμνον ἄμβροτον): non avrai più timore di soffrire o morire (οὐδέ
τί τοι παθέειν δέος οὐδ’ ἀπολέσθαι). Appena avrai toccato con le mani la
terra, scioglilo e scaglialo di nuovo nel livido mare, lontano dalla riva, ma
tu voltati indietro […]. Allora [Odisseo] il velo rapidamente intorno al
petto si stese e prono saltò in mare, allargando le braccia a nuotare. […]
e quando tornò a respirare e si fu raccolta l’anima in petto, allora il velo
della dea sciolse gettandolo nel fiume là dove si mescola al mare.

Nel mutato contesto socio-culturale del III secolo a.C., ricolle-


gandosi alla letteratura epica d’epoca arcaica, il celebre direttore
della Biblioteca di Alessandria Apollonio Rodio ne recupera i co-
dici narrativi nella stesura delle sue Argonautiche, il cui riferimento
immediato è appunto il secondo dei grandi componimenti epici
attribuiti ad Omero, a proposito del viaggio per mare intrapreso da
Giasone alla volta della Colchide a bordo della nave Argo. Nel pri-
mo libro delle Argonautiche (v. 917) l’autore fa esplicito riferimento
agli «usi segreti» appresi da Giasone «nelle amabili cerimonie d’ini-
ziazione ai misteri» (ἀρρήτους ἀγανῇσι τελεσφορίῃσι θέμιστας), allu-
dendo, secondo i tardi commentatori al testo,19 ai riti mistici (teletai)
condotti dall’eroe a Samotracia:

[τὰς τελετὰς] … [riti mistici] che, una volta che uno è stato iniziato, pro-
teggono dai pericoli sul mare (cfr. A.R. I, 918). Si dice infatti che anche
Odisseo, essendo stato iniziato (Ὀδυσσέα μεμυημένον) a Samotracia, si
servisse del velo a mo’ di fascia toracica (χρήσασθαι τῷ κρηδέμνῳ ἀντὶ
ταινίας, cfr. Od. V, 346); gli iniziati ai misteri usavano infatti avvolgersi
una benda color porpora intorno al torace e all’addome (περὶ γὰρ τὴν
κοιλίαν οἱ μεμυημένοι ταινίας ἅπτουσι πορφυρᾶς); e si dice, ancora, che
Agamennone, che pure era stato iniziato (Ἀγαμέμνονα δέ μεμυημένον),
trovandosi in mezzo a una gran confusione sotto le mura di Troia,
riuscì a domare il tumulto dei Greci brandendo la benda porporina
(πορφυρίδα ἔχοντα, cfr. Il. VIII, 221).

In relazione al velo eroico di Odisseo e Agamennone va dunque


innanzitutto rilevata la specifica valenza iniziatica riconosciuta all’in-
dumento nel commento bizantino al testo di Apollonio in cui l’uso
del krēdemnon è significativamente accostato all’uso del pharos, lad-
dove lo scoliaste intende entrambi come tainiai, «bende» o «fasce di

posizione ambigua ricoperta nell’immaginario greco dall’isola dell’Egeo, posta a metà


strada tra la Grecia e l’Oriente.
19
Schol. A.R. I, 917b: ἀρρήτους ἀγανῇσι, cfr. Scholia in Apollonii Rhodii Argonautica
(scholia vetera), p. 77, ll. 15-21.
Introduzione
Giuseppina Paola Viscardi ∙ Verità e rappresentazione Ù  65

protezione» della cavità toracica. In realtà, bisognerebbe notare che


nel testo omerico, cui allude lo scoliaste, i due termini non sono im-
piegati in contesti analoghi, ma sembrano fare riferimento a situazio-
ni specificamente distinte.
Di certo, nello scolio alle Argonautiche, l’assimilazione del krēdemnon
al pharos è basata sul riscontro di un’analogia funzionale tra “velo” e
“telo” considerati per la loro precipua qualità di oggetti/ indumen-
ti protettivi e salvifici, legati al prestigio e alla funzione di autorità
o di comando —sovente associata al tema della gloria e del trionfo
sulla morte o sul nemico— esercitata da chi li indossa (stringendoli
intorno al torace) o brandisce (tenendoli in mano): Odisseo e Aga-
mennone sono entrambi re; entrambi si trovano in un momento di
difficoltà, personale, per il primo, e collettiva, per il secondo; entram-
bi risolvono la situazione di pericolo e di caos iniziale (= violenza del
mare, tumulto della battaglia), connessi a un momento di krisis, di
«svolta», servendosi in un caso del «velo immortale» che libera dal
timore della morte e della sofferenza, nell’altro del «telo purpureo»
che pure, in un contesto di incitamento alla lotta, appare connesso
alla capacità esercitata da chi ne fa uso di infondere negli animi lo
stesso ardimento e lo stesso coraggio che solo dal repentino supera-
mento del timore della sofferenza e della morte possono derivare.
A tale proposito vale la pena osservare che alla qualità (apotro-
paica) di immortalità attribuita al krēdemnon donato da Ino a Odisseo
(che vi si distende sopra usandolo a mo’ di tappeto magico per caval-
care le onde) corrisponde la duplice valenza simbolica, vitalistica e
funesta (perciò altrettanto apotropaica), della marca coloristica del
rosso (= sangue) connotante il pharos di tinta scarlatta impugnato da
Agamennone a sprone e guida di eserciti. Dai contesti epici presi in
esame ci sembra di poter inferire che l’indumento-velo (sia esso inteso
come benda o fascia) e il gesto del velarsi/ bendarsi o semplicemente
impugnare il velo nell’esercizio di determinate funzioni di controllo e
comando dovevano veicolare una funzione precisa, che finì per deno-
tare la dimensione iniziatica di quei rituali misterici, particolarmente
diffusi nel mondo greco dell’Egeo orientale, che rappresentarono il
risultato concreto di riadattamenti e ibridazioni, frutto della fusione
degli apporti di diverse culture da cui si sarebbero formate nuove re-
altà, tra cui appunto i musteria di Samotracia. La particolare connes-
sione del velo con la dimensione di segretezza e la prospettiva sote-
riologica, in cui s’individuano i tratti distintivi di tali culti,20 dovette
concorrere in ultima analisi a fare dell’indumento un elemento chia-
ve del simbolismo sotteso alle cerimonie sacre, interamente fondate
sulla coppia complementare di azioni connesse a una duplice fase di
occultamento e rivelazione (della conoscenza iniziatica). Da qui deri-

20
Cfr. E. Fabbro, Lo sguardo e il silenzio. Il velo nei rituali e nel mito greco, in «Multiver-
so», 5 (2007), pp. 38-41, in particolare p. 38.
66  Ù Le verità del velo

verebbe l’adozione del velo, impiegato nella fattispecie per coprire la


testa, come simbolo religioso di evidente pregnanza semantica nella
fisionomia rituale dei culti misterici in età ellenistico-romana, dove
gli officianti, depositari di una conoscenza specifica e inaccessibile al
volgo, operavano appunto capite velato:21 così era, in Oriente, per l’ar-
chigallus che presiedeva ai riti celebrati in onore di Cibele e di Attis;
così era ad Eleusi per lo ierofante e il dadouchos, sovente ritratti con
l’ampio mantello ripiegato sulla testa; lo stesso Pontefice Massimo di
Roma officiava con un lembo della toga tirato sul capo.22

3. Il velo della vergogna e della colpa nella drammatizzazione mitica degli


eroi tragici

Altrettanto significativa è la deriva ideologica e semantica del velo


come elemento denotante una particolare condizione di riserbo e
pudore (su cui si avrà modo di tornare) non solo nell’ambito del
femminile, ma anche per quanto riguarda la sfera maschile. Riferi-
menti precisi ai veli della vergogna e della colpa sono ripresi dal co-
dice scenico dove alla «modulazione dello sguardo» è conferita una
programmatica valenza simbolica atta a connotare una «situazione
di disagio» per la quale «l’ira, lo sconforto, la meditazione, la paura,
la vergogna inducono a tacere», abbassando lo sguardo o voltandosi
all’indietro, nascondendo la testa tra le mani o nel manto, dando an-
cor più rilievo alla componente gestuale che, con l’assenza di verba-
lizzazione implicata, «diventa il più netto significante espressivo del
silenzio».23 Conservando nella drammatizzazione del mito elementi
espliciti della sua primigenia matrice rituale, la tragedia di fatto veico-
la significanti e significati attraverso un linguaggio gestuale altamente
simbolico e fortemente semantizzato.

21
Sul tema si veda in questo volume il contributo di Francesca Romana Nocchi,
Obnubilatio capitis: simbologia sacra e profana del velo nell’antica Roma.
22
Cfr. S. Baschirotto, Il velo, i misteri e i riti, in «Multiverso», 5 (2007), pp. 34-36, in
particolare p. 36. Sull’uso del velo nell’antica Roma, vedi anche J.L. Sebesta, L. Bon-
fante (a cura di), The World of Roman Costume, University of Wisconsin Press, Madison
1994; L. La Follette, The Costume of the Roman Bride, in J.L. Sebesta, L. Bonfante (a cura
di), The World of Roman Costume, cit., pp. 54-64; J.L. Sebesta, Women’s Costume and Femi-
nine Civic Morality in Augustan Rome, in «Gender and History», 9, 3 (1997), pp. 529-541.
23
Cfr. E. Fabbro, Lo sguardo e il silenzio, cit., p. 40: «In un noto passo delle Rane aristofa-
nee (vv. 911s.) viene stigmatizzata da Euripide la consuetudine eschilea di introdurre sulla
scena, a inizio di tragedia, figure velate e sedute, tutte ravvolte nei loro panni, che, senza
scoprire il volto, osservano lunghi silenzi. Sono personaggi che si negano alla comunica-
zione verbale, perché avviluppati in un dolore tanto profondo da non sopportare parole:
Achille per la morte di Patroclo, Niobe per l’assassinio dei figli. Per il codice drammatico
velarsi significa dunque chiudersi […]. La volontaria ritrazione dal dialogo (vv. 1071s.)
segna anche l’uscita di scena di Giocasta nel finale dell’Edipo re: ella ha compreso prima
di Edipo la verità, non ha più parole e si allontana per darsi la morte. In un cratere di
Siracusa esiste una precisa corrispondenza figurativa: nel momento di ritirarsi dalla scena
—e dalla vita— Giocasta è raffigurata nell’atto di coprirsi il volto con un lembo del peplo,
gesto che forse costituiva un effettivo dettaglio della rappresentazione scenica».
Introduzione
Giuseppina Paola Viscardi ∙ Verità e rappresentazione Ù  67

Ne deriva la creazione di figure drammatiche oltremodo eloquen-


ti come quella dell’Ippolito velato, protagonista dell’omonima tra-
gedia perduta di Euripide, che tanto scandalo suscitò tra gli Ateniesi
per il ritratto spudorato di Fedra che con le sue profferte amorose
avrebbe indotto il pudico figliastro a coprirsi il capo per la vergogna,
da cui il titolo di Hippolutos kaluptomenos per la prima versione tea-
trale del dramma, successivamente sostituita dalla più nota versione
dell’Hippolutos stephanephoros (portato sulle scene nel 428 a.C.). Spe-
culare al ritratto di Ippolito velato è l’immagine di Eracle restituita
dall’omonimo dramma euripideo di cui l’eroe tebano è a sua volta
protagonista: dopo aver sterminato i figli e la moglie Megara in preda
al delirio suscitato da Lissa per ordine di Hera (tradizionalmente osti-
le all’eroe), una volta tornato in sé e presa coscienza della strage com-
piuta, Eracle nasconde la testa nelle vesti (πέπλοισιν κρύπτει κάρα)
coprendosi gli occhi per negarsi la vista e negarsi alla vista (αἰδόμενος
τὸ σὸν ὄμμα), scegliendo così di sottrarsi agli sguardi altrui per non
contaminarli con sguardo impuro di paidophonos (vv. 1198-1231).
Il gesto scenico di Eracle troverebbe peraltro un’immediata corri-
spondenza iconografica nel ritratto di un altro celebre padre infanti-
cida, il thuter thugatros Agamennone, che anima la scena del sacrificio
di Ifigenia ripresa dal cosiddetto Altare di Cleomene, datato al II
secolo a.C. ma forse basato su un precedente modello classico (pre-
sumibilmente ritracciabile in un’opera perduta di Timante di cui ci
informa Plinio il Vecchio in HN 35,73). Nella composizione romana
Agamennone è efficacemente raffigurato in piedi, di spalle, nell’atto
di coprirsi la testa e il volto col peplo a nascondersi il viso in segno
di cordoglio e vergogna. L’eroe è posto in posizione decentrata, alla
sinistra di Ifigenia, che è la figura centrale della scena, a sua volta
ritratta in mezzo a un giovane nudo (probabilmente Achille, il suo
presunto promesso sposo) e a un uomo barbuto (forse Calcante),
intento quest’ultimo a velare (con finti veli nuziali) o svelare (libe-
randola dai veli virginali) la testa della giovane prima del sacrificio.

Fig. 1. Scena del sacrificio di Ifigenia dall’Altare di Cleomene (II sec. a.C.). Dettaglio
a disegno. LIMC 5 (1) 720, n. 42; LIMC 5 (2) 474, n. 42. Cfr. A. Rumpf, Malerei und
Zeichnung, Beck, München 1953.
68  Ù Le verità del velo

4. La donna velata: la retorica del velo tra lutto e matrimonio, protezione


e difesa

L’immagine della giovane figlia di re avvolta in velami trova ri-


scontro nella documentazione letteraria greca fin dall’epos eroico in
cui l’uso del krēdemnon è decisamente attestato anche per le donne,
siano esse dee o mortali, queste ultime tipicamente di stirpe reale,
in conformità col codice largamente diffuso nelle civiltà dell’area
mediterranea,24 dove l’uso del velo, imposto specialmente alle donne
delle classi più elevate, era indice di separazione intesa in termini di
distinzione sociale (autorità, prestigio, levatura di rango) prima an-
cora che di segregazione.25 Nell’epica omerica è peraltro già rintrac-
ciabile il più largo impiego semantico del termine, rivelatore di una
griglia di significati contestualmente funzionali alla trama attraverso
cui si dipana la cifra segnica del narrato.
Dall’Iliade, ad esempio, viene l’immagine di Hera divina che di veli
ricopre la candida testa (κρηδέμνῳ δ’ ἐφύπερθε καλύψατο δῖα θεάων)
per andare a sedurre il fratello/ consorte nel talamo, distogliendone
lo sguardo dalla battaglia con astuzie muliebri (XIV, 184-210); e il
ritratto di Andromaca, sposa di Ettore, che alla notizia della morte
del marito, ucciso in duello da Achille sotto le mura di Troia, presa da

24
L’uso del velo ha origini antiche, documentate dal canone del Codice di Hammu-
rabi come anche da quello della Legge Assira, di poco posteriore (VII secolo a.C.), che
sanciva per le donne sposate l’obbligo di portare il velo e che, di contro, ne interdiceva
l’uso a schiave e prostitute.
25
Si pensi alla prescrizione coranica che imponeva il velo alle donne (mogli e figlie)
del profeta, oltre che a quelle dei suoi seguaci: «Oh tu, proprio tu, nabī, raccomanda alle
tue donne, alle tue figlie, alle donne dei credenti di calare un poco su di loro i loro veli:
questo servirà a distinguerle dalle altre, perché non vengano offese» (Sura 33, 59, trad.
di F. Peirone). L’uso islamico prescritto dal Corano nasceva dalla necessità di difendere
le donne musulmane dalle molestie cui andavano facilmente soggette, soprattutto nel
periodo medinese. Una traccia della deriva semantica e culturale del velo verso l’acce-
zione e, di conseguenza, la connotazione (negativa) di possesso/ sottomissione, nonché
subordinazione, si ritrova nel passo biblico di Paolo 1Cor 11, da contestualizzare all’in-
terno di un discorso in cui è fortemente rimarcato l’aspetto pragmatico delle norme
vestimentarie, improntate a principi di buon comportamento rivolti agli uomini come
alle donne: «[7] L’uomo non deve coprirsi il capo, perché egli è immagine e gloria di
Dio; la donna invece è gloria dell’uomo … [10] Per questo la donna deve avere sul capo
un segno di autorità [exousia]…», dove il termine exousia, sovente tradotto con «segno
di soggezione», suggerirebbe più che l’idea di una autorità subìta, quella di una autorità
esercitata su qualche cosa, nella fattispecie sulla propria testa, in riferimento all’obbligo
di tenere la testa acconciata in modo conveniente per non apparire una donna di facili
costumi. In Es 21, 22-24 e Dt 25, 11-12 la violazione fisica delle donne era strettamente
associata alla volontà di infrazione dei diritti di proprietà maschili. Per una storia inter-
culturale che prenda le mosse da uno studio comparato sulla segregazione della donna
dallo sguardo maschile mediante velamento, resta comunque di fondamentale impor-
tanza il testo coranico, spesso tradotto e interpretato in modo arbitrario. Sull’adozione
del velo da parte delle donne delle prime comunità cristiane di Corinto e Cartagine,
oltre al testo di Paolo si vedano anche le opere di Tertulliano (De virginibus velandis) e
Cipriano (De habitu virginum). Si rimanda inoltre, in questo volume, al contributo di
Caterina Moro, Il velo nel mondo biblico e nel giudaismo.
Introduzione
Giuseppina Paola Viscardi ∙ Verità e rappresentazione Ù  69

svenimento cade all’indietro, lasciando scivolare dal capo il velo (ἀπὸ


κρατὸς βάλε… κρήδεμνον) ricevuto in dono da Afrodite «nel giorno in
cui Ettore la portò via dalla casa del padre Eezione» (XXII, 468-472).
Nell’Odissea, oltre alla figura velata di Penelope, cui si è accennato
all’inizio di questo saggio, è il riferimento a Nausicaa, giovane princi-
pessa dei Feaci, che in veli virginali tiene avvolta la testa e di tali veli si
sbarazza, «gettandoli via dal capo» (ἀπὸ κρήδεμνα βαλοῦσαι) durante
il gioco fanciullesco con le proprie ancelle (VI, 99-101).

Fig. 2. Fanciulla in abito minoico con velo


virginale. Particolare dall’Affresco delle
Raccoglitrici di Croco, da Thera. “Set-
tore femminile” della Xesté 3. Akrotiri.
Dettaglio a disegno. Cfr. C. Doumas, The
Wall-Paintings of Thera, The Thera Foun-
dation – Petros M. Nomikos, Athens 1992.

La duplice valenza del velo come indumento di lutto (Penelope)


e abito nuziale (Andromaca), oltre che elemento simbolico della ver-
ginità e della castità, della bellezza e della purezza femminile (Nau-
sicaa), trova la massima espressione in due figure divine idealmente
situate ai due opposti semantici. Da un lato, infatti, l’immagine della
«Velata», della «Nascosta» per eccellenza, è immediatamente evoca-
ta dal nome stesso di Calipso (derivato dalla radice i.e. di kaluptō,
«occultare, nascondere»), potnia numphe figlia di Atlante (Od. I, 14),
temibile sovrano di Ogigia conoscitore degli abissi marini e reggitore
degli ampi pilastri che terra e cielo sostengono. Calipso è colei che
«tra le dee eccelle e riluce», ma che pure «nasconde e occulta alla
vista», fissata per sempre nella condizione di fanciulla in età puberale
non ancora o appena maritata. Dall’altro lato è il riferimento alla
dea che, unica tra le dee del pantheon greco, assume l’epiteto qua-
lificante di liparokredemnos. Si tratta di Hecate «dal fulgido velo» che
ha «candida mente» (Hymn.Hom.Cer. 25 e 438), portatrice di fiaccola
nottivaga e ctonia, messaggera di Demetra oltre che guida e ancel-
la di Persefone, signora delle soglie e dei passaggi, delle transizioni
e dei mutamenti di stato tipicamente legati a processi di trasforma-
zione e cambiamento che sempre sottintendono l’idea di una morte
(metaforica o reale) seguita da una rinascita o rigenerazione. In tal
senso, i velami occorrono a evidenziare una volta di più la condizione
70  Ù Le verità del velo

di liminarità, necessariamente ambigua, che caratterizza determinate


figure del mito, entità o personaggi eroici o divini (Calipso, Hecate)
che vengono a trovarsi in posizione intermedia tra due statuti, sfere
o dimensioni di appartenenza assegnate per legge, costume, conven-
zione sociale o religiosa (età puberale–età maritale, vita–morte ecc.):
i loro attributi, ambigui e indeterminati, trovano espressione in una
molteplicità di simboli in tutte le società tendenti a ritualizzare i mo-
menti di transizione sociale e culturale. Tale liminarità è appunto fre-
quentemente connessa all’idea della morte, all’oscurità, alla natura
selvaggia, alla invisibilità:26

The attributes of liminality or of liminal personae (“threshold people”)


are necessarily ambiguous, since this condition and these persons elude
or slip through the network of classifications that normally locate sta-
tes and positions in cultural space. Liminal entities are neither here or
there; they are betwixt or between the positions assigned and arrayed
by law, custom, convention, and ceremonial. As such, their ambiguous
and indeterminate attributes are expressed by a rich variety of symbols
in the many societies that ritualize social and cultural transitions. Thus
liminality is frequently likened to death, to being in the womb, to invisi-
bility, to darkness, to bisexuality, to the wilderness, and to an eclipse of
the sun or moon.

Al di là del significato letterale, è interessante, sul piano metafo-


rico, l’impiego dello stesso termine krēdemnon per indicare propria-
mente i «sacri bastioni» (nell’uso generalmente attestato al plurale:
hiera krēdemna) elevati di guardia alla cinta muraria a protezione e
difesa del centro urbano: in tal senso l’immagine del «velo» è evocata
nel discorso tra Patroclo e Achille laddove, nella furia della battaglia,
il Pelide esclama, rivolto al cugino: «Ah, se noi due soli emergessimo
dalla strage, se noi due soli sciogliessimo i sacri veli di Troia!» (Il.
XVI, 100: ὄφρ’ οἶοι Τροίης ἱερὰ κρήδεμνα λύωμεν). La stessa espressio-
ne sciogliere i veli (= far breccia nelle mura/ conquistare la rocca) ritorna nel
discorso di Odisseo ad Atena, dove l’eroe rammenta come la dea l’a-
vesse ispirato, infondendogli audacia e vigore, quando sciolsero insie-
me i fulgidi veli di Troia (Od. XIII, 388: οἷον ὅτε Τροίης λύομεν λιπαρὰ
κρήδεμνα). E ancora, vale la pena ricordare il riferimento a Posidone,
riportato nel testo pseudo-esiodeo noto come Scudo di Eracle, dove il
taurino scuotitore di terra è presentato come «colui che tiene il velo (=
la rocca) di Tebe» (Sc. 105: ὃς Θήβης κρήδεμνον ἔχει).27

26
Cfr. V. Turner, The Ritual Process: Structure and Anti-Structure. A Demonstration of
the Use of Ritual and Symbol as a Key to Understanding Social Structure and Processes, Cornell
University Press, Ithaca: NY 1969, p. 95.
27
Si osservi, per inciso, che la stessa metafora militare ricorre anche in un passo
del De virginibus velandis (7, 9) di Tertulliano (cit., supra nota 25), in cui si loda l’usanza
di alcune vergini di Cartagine di raccogliere le chiome sul capo in modo da coprire
interamente la testa, pensata come una “cittadella” fortificata da proteggere per mezzo
di un “accerchiamento” di capelli: in questo caso, i capelli femminili, specialmente se
Introduzione
Giuseppina Paola Viscardi ∙ Verità e rappresentazione Ù  71

Negli esempi citati, il parallelismo emergente tra consuetudini


linguistiche e figurative suggerisce di cogliere, dietro l’immagine del
bastione “sacro” —cioè “inviolabile”— eretto a custodia della rocca,
la possibilità di accesso all’idea di un contesto urbano pensato dall’in-
terno, cioè come segno figurativo risultante dalla somma di due com-
ponenti conflittuali, il centro cittadino e il territorio circostante, ciò
che è al di qua delle mura e ciò che è posto all’esterno, ma che pure,
in tale gioco di separazione e integrazione, svolge un ruolo chiave in
termini economici e sociali. Il confine tra città e periferia appartie-
ne al dominio delle abitudini, delle esperienze vissute, esattamente
come ciò che è posto al di qua del velo e ciò che è posto al di là di esso
si situa entro il dominio semiotico e semantico dell’abito. Parafrasan-
do l’osservazione formulata dallo storico Alain Schnapp a proposito
delle raffigurazioni greche dell’oikos, inteso come «spazio privato»
che «visto dal di fuori è come la città racchiusa tra le sue mura, cioè
un segno figurativo destinato a dichiarare: “questa è una casa”» (in
riferimento alla scena di corteo nuziale ripresa da un aryballos attico
a figure rosse del 540-530 ca. a.C.),28 ci sembra che anche la figura
velata (nella fattispecie una figura femminile), vista da fuori, possa
essere letta come segno figurativo destinato a dichiarare, all’occor-
renza, «questa è una vergine/ questa è una sposa/ questa è una don-
na maritata», cioè come uno spazio privato, un «paesaggio interno»,
condiviso da chi lo osserva e ci si relaziona, a cui si può accedere solo
a determinate condizioni, secondo forme socialmente codificate e
normativamente fondate.

Fig. 3. Scena di corteo nuziale.


Aryballos attico a figure rosse (540-
530 ca. a.C.). Museo di Bonn 994.

ammassati insieme sul capo, funzionano esattamente come i veli proteggendo la testa
da attacchi stranieri, cioè da sguardi indiscreti. Per il parallelismo tra i capelli femmi-
nili e il velo, cfr. Virg. vel. 7, 1, dove l’autore ribadisce che è altrettanto disonorevole per
una donna, sia essa maritata o meno, tagliare i propri capelli e sollevare i propri veli.
Sull’opera di Tertulliano vedi, in questo volume, il contributo di Cristina Simonelli,
Tertulliano e l’obbligo del velo.
28
A. Schnapp, Città e campagna. L’immagine della polis da Omero all’età classica, in S.
Settis (a cura di), I Greci. Storia Cultura Arte Società 1. Noi e i Greci, Einaudi, Torino 1996,
pp. 117-163, in part. p. 152. Nella scena del corteo nuziale in marcia (riprodotta nel
testo), alla destra del campo visivo è riprodotta la casa, da cui muove la processione; al
centro è la sposa, integralmente velata.
72  Ù Le verità del velo

Letto nell’ottica dello scioglimento dei veli, lo «svelamento» della


donna è, dunque, metaforicamente accostabile alla breccia aperta nel-
la difesa della città una volta che se ne è conquistata la fortezza e
della violazione della città stessa che inevitabilmente ne consegue. Il
krēdemnon diviene così un simbolo potente dell’importanza ricono-
sciuta al velo come elemento di protezione della castità, dell’onore,
della posizione sociale di chi lo indossa, ovvero dell’aidos (femmini-
le), termine, quest’ultimo, etimologicamente connesso all’intimo
senso di pudore o vergogna mostrato da chi indossa un certo indu-
mento, da un lato, e al senso di riguardo o rispetto (i.e. αἰδέομαι)
mostrato nei confronti di chi indossa un certo indumento, dall’altro.
Altrettanto significativa è la deriva semantica del termine ricor-
rente in greco per definire, oltre che uno specifico indumento, una
determinata tipologia di oggetto atto a velare, coprire, sigillare (=
coperchio) o anche a raccogliere, contenere, occultare (= contenito-
re). Il riferimento immediato va all’immagine del vecchio re Nestore
che, nel dare ospitalità al figlio di Odisseo, Telemaco, offre libagioni
di vino prezioso, di undici anni invecchiato, sciogliendo il velo (ὤϊξεν
ταμίη καὶ ἀπὸ κρήδεμνον ἔλυσε) posto a copertura della tamia (Od. III,
390-392).29 Ma, è bene ricordarlo, sia il coperchio posto a sigillo del
contenitore che il contenitore stesso vanno aperti, sollevati o rimossi in
determinate occasioni (ad esempio, per adempiere agli oneri dell’o-
spitalità e della commensalità), così come accade per l’imene fem-
minile30 durante il primo atto sessuale, consumato durante il rito nu-
ziale celebrato in occasione delle feste dette appunto anakalupteria.31

29
“Velare il calice” (unitamente alla benedizione dell’incenso) è pratica diffusa nel-
la liturgia cristiana, dove la presenza di tende e veli è riconducibile al culto giudaico,
cfr. Pr 25, 2: «È Gloria di Dio nascondere le cose, è gloria dei re investigarle»: si tratta
della Parvenza di Dio, che accompagna e in cui si cela la Shekhinah intesa come luce e
tenebra insieme, detto dell’oscurità legata alla Sua luce, di cui Egli «si avvolge come un
manto», secondo il commento a Pr 25, 2 del Massekhet Azilut (trattato pseudo epigrafico
dell’inizio del XIV secolo). Di qui, il rimando all’immagine della «nube», intesa come
nascondimento e rivelazione divina insieme (cfr. Es 20, 21: «Il popolo si tenne dunque
lontano mentre Mosè avanzò verso la nube oscura dove era Dio»; Es 40, 34: «allora la
nube coprì la tenda del convegno e la Gloria del Signore riempì la dimora»; Gb 37, 21-
23: «All’improvviso la luce diventa invisibile, oscurata dalle nubi»). Per la traduzione
dei passi biblici citati, cfr. La Bibbia di Gerusalemme, ed. Dehoniane, Bologna 20114). In
tali pratiche rituali il velo rappresenta visibilmente l’esigenza di non toccare con mani
impure le cose sacre, facendosi perciò simbolo dell’esigenza di purezza spirituale impre-
scindibile per avvicinarsi a Dio. Tra i simboli liturgici, il velo è uno dei più importanti. In
linea di principio, i vasi sacri, quando non vengono usati, sono sempre velati per alludere
alla ricchezza che vi si nasconde.
30
Per un interessante parallelismo con la letteratura cristiana dei primi secoli si
rimanda ancora al testo di Tertulliano, dove il velo è segno pubblico, tangibile, di quel
velo privato, fisiologico, che sta tra il corpo femminile e il desiderio maschile (l’imene):
costringere una vergine a “rimuovere il velo” equivale a obbligarla a perdere la propria
verginità.
31
Per una sintesi efficace delle problematiche di diverso ordine relative alla celebra-
zione degli anakalupteria, come l’impossibilità di ricostruire con certezza le varie fasi
del rituale e le fasi di velamento e svelamento della numphe, il momento e il luogo di
svolgimento dell’anakalupterion ecc., cfr. F. Gherchanoc, Le(s) voile(s) de mariage dans le
Introduzione
Giuseppina Paola Viscardi ∙ Verità e rappresentazione Ù  73

5. Festa e dono rituale: simbologia delle nozze e del dis/ velamento femmi-
nile

Il momento topico della deflorazione femminile trova in effetti il


proprio corrispettivo rituale nelle cosiddette «feste dello svelamen-
to» celebrate nel giorno in cui la sposa deponeva per la prima vol-
ta il velo virginale e riceveva dallo sposo i «doni nuziali», pure detti
anakalupteria,32 da situare verosimilmente al livello degli hedna ome-
rici che indicavano materialmente il «prezzo della sposa», cioè a un
livello arcaico in cui la donna veniva letteralmente comprata dal fu-
turo marito.33 Tali doni, generalmente offerti alla sposa dalla famiglia
dello sposo nel terzo giorno delle nozze, sancivano un uso, un nomos
—e con questo un ethos— valido tanto per gli uomini quanto per gli
dèi. Vale la pena anche ricordare, in questo contesto, che nell’ambito
della società greca arcaica, ai doni portati dallo sposo pare facesse da
contro-dono la phernē (lett. «ciò che è portato dalla sposa»), presumi-
bilmente consistente in «tessuti» femminili (specificamente tria hima-
tia), secondo la prescrizione soloniana di cui informa Plutarco (Sol.
20, 6). Tale usanza avrebbe avuto, peraltro, un contraltare normativo
anche in ambito funerario (Sol. 21), dove Solone avrebbe ridotto il
numero di abiti per i morti a tre himatia, a rimarcare la vicinanza ideo-
logica tra due momenti rituali (matrimonio e funerale), «où les liens
sociaux sont renoués par l’échange des dons […] Il y aussi le moment
où les participants font l’expérience des normes communes».34
A offrire un vero e proprio aition mitico degli anakalupteria sono
un paio di frammenti ripresi dalla cosmogonia di Ferecide di Siro,
mitografo del VI secolo a.C., che secondo lo storico Teopompo sa-

monde grec: se voiler, se dévoiler. La question particulaire des anakaluptêria, in «Mètis», N.S. 4
(2006), pp. 239-267.
32
Timae.Hist., FGrH 3b, 566, F149; Poll. 3, 36; Hsch. s.v. ἀνακᾰλυπτήρια (sulle cerimo-
nie dello svelamento); Plut., Tim. 8 (sui doni nuziali): in riferimento alla Sicilia —dove
secondo il mito sarebbero avvenuti i fatti relativi al rapimento di Core— offerta in dono,
nel giorno delle nozze, da parte di Ade alla giovane sposa Persefone e perciò a lei consa-
crata, cfr. Pi., Nem. 1, 14; D.S. V, 3; Schol. Theoc., Id. 15, 14. Sull’isola mediterranea pare
si svolgessero anche anakalypteria in onore di Persefone (Schol. Pi., Ol. 2, 16); una festa
analoga era attestata anche a Cizico (App., Mithr. 57).
33
Cfr. J.-P. Vernant, Mythe et société en Grèce ancienne, Maspero, Paris 1974, trad. it.
Einaudi, Torino 1981, pp. 57ss.; J.H. Oakley, R. H. Sinos, The Wedding in Ancient Athens,
University of Wisconsin Press, Madison 1993, pp. 23ss.; L. Breglia Pulci Doria, Ferecide di
Siro tra orfici e pitagorici, in M. Tortorelli Ghidini, A. Storchi Marino, A. Visconti (a cura
di), Tra Orfeo e Pitagora. Origini e incontri di culture nell’antichità: atti dei seminari napoletani
1996-1998, Bibliopolis, Napoli 2000, pp. 161-194, in part. p. 186. Sugli hedna, tipicamen-
te intesi come «doni nuziali», vedi Hom., Il. XVI, 178 e 190; XXII, 472; Od. VIII, 318;
XVI, 391; etc. Cfr. anche Call., fr. 193; Theoc., Id. 25, 114 e 27, 33; Nonn., D. 42, 28 et al.
In riferimento ai doni nuziali fatti alla sposa dai membri del suo parentado, cfr. Hom.,
Od. I, 277; II, 196; E., Andr. 2; Pi., Ol. 9, 10. In Pi. Pyth. 3, 94; Orph., A. 873; Dio Cass. 79,
12, lo stesso termine è usato per indicare genericamente i doni fatti dagli ospiti a una
coppia sposata.
34
B. Wagner-Hasel, Tria himatia. Vêtements et mariage en Grèce ancienne, in F. Gher-
chanoc, V. Huet (a cura di), Vêtements antiques, cit., pp. 39-46, in part. p. 46.
74  Ù Le verità del velo

rebbe stato «il primo a scrivere sulla natura e l’origine degli dèi».35
In Ferecide è l’accenno in particolare alle nozze sacre di Zas/ Zeus e
Chthonie, «alla quale toccò il nome di Gè dopo che Zas le ebbe dato
in dono (geras) la Terra».36 Nella cosmogonia ferecidea Zas, ossia
l’etere o ciò che agisce, «è da sempre» insieme a Chthonie, la terra
o ciò che patisce, e a Chronos, il tempo, in cui sono regolate tutte
le parti. Per Zas «si fabbricano case grandi e numerose e una volta
portate a termine, insieme agli arredi […] e alle altre cose necessa-
rie, ecco, quando tutto è pronto, si celebrano le nozze»; così, «una
volta giunto il terzo giorno delle nozze, allora Zas fabbricò un manto
grande e bello (τρίτη ἡμέρη γίγνεται τῶι γάμωι, τότε Ζὰς ποιεῖ φᾶρος
μέγα τε καὶ καλὸν) e vi ricamò sopra con fili colorati la Terra e l’Oce-
ano/ Ogenos»; poi, rivolto a Chthonie, avrebbe esclamato: «volendo
invero che le nozze siano tue, con questo [dono] io ti onoro. Salute
a te. Unisciti a me. Ecco come avvennero —dicono— i primi riti del
disvelamento (ταῦτά φασιν ἀνακαλυπτήρια πρῶτον γενέσθαι): da ciò
ebbe poi origine la consuetudine sia per gli dèi che per gli uomini
(ἐκ τούτου δὲ ὁ νόμος ἐγένετο καὶ θεοῖσι καὶ ἀνθρώποισιν)».37
Nel testo di Ferecide si insiste sul regalo di nozze offerto da Zeus a
Chthonie e sulla sua valenza cosmogonica: sul «manto» o «velo» fab-
bricato e intessuto dal dio è figurato il mondo appena creato con la
terra e l’oceano che la circonda. Offerto da Zeus —qui rappresentato
nel suo aspetto demiurgico— il manto/ velo di Chthonie non è più
soltanto un dono nuziale, ma costituisce un vero e proprio «atto d’in-
vestitura», un mezzo mediante il quale è sancita la trasformazione di
Chthonie in Gè e con essa il riconoscimento alla dea di una sua sfera
d’influenza ufficiale, con tanto di onori tributateli dallo stesso con-
sorte chiamato a promuoverla al rango di protettrice del matrimonio
(alla stregua di Hera). Nell’evidenza tautegorica del racconto mitico,

35
Theopomp.Hist., FGrH 115, F71 apud D.L. I, 116. Aristotele (Metaph. 1091b, 7-11)
poneva il mitografo di Siro nel novero dei teologi o filosofi «astratti» (che dicono le
cose in modo misto), paragonandolo ai Magoi persiani e a filosofi più tardi come Em-
pedocle e Anassagora. Secondo i dati biografici, Ferecide (contestualmente collegato
tanto a Orfeo che a Pitagora) avrebbe avuto contatti con Egiziani, Fenici, Caldei: la sua
produzione mitica andrebbe perciò ricondotta nell’ambito del pensiero orientale, cfr.
L. Breglia Pulci Doria, Ferecide di Siro, cit., p. 166 e passim.
36
Pherecyd.Syr. B1 D-K (= 14 Schibli). Nella cosmogonia ferecidea il racconto delle
nozze tra Zas e Chthonie —in cui viene affrontato il problema della differenziazione
delle varie parti della terra, futura abitazione degli uomini— non è posto all’inizio, ma
solo a un certo punto della storia della «creazione» di Chronos (originariamente ases-
suata), cfr. L. Breglia Pulci Doria, Ferecide di Siro, cit., p. 184.
37
Pherecyd.Syr. B2 D-K (= 68 Schibli). In tutti i testi risalenti a Ferecide il mantello
fabbricato da Zas è detto pharos, e non peplo, a indicare appunto l’ampio telo «che può
essere usato anche come lenzuolo funebre e che sembra aver avuto una grande impor-
tanza nelle cerimonie iniziatiche, se è vero che a Sparta un pharos era l’offerta delle
fanciulle ad Artemis Orthia (Alcm. fr. 1. 67 Calame); […] conviene accettare il valore
di grande mantello e di offerta che si fa ad un momento di passaggio della propria vita
(ed in questo senso si comprende perché il pharos possa indicare anche il lenzuolo fu-
nebre)» (L. Breglia Pulci Doria, Ferecide di Siro, cit., pp. 185-186).
Introduzione
Giuseppina Paola Viscardi ∙ Verità e rappresentazione Ù  75

la ierogamia tra Zeus e Chthonie assume palesemente una funzione


cosmologica, oltre che eziologica.38
La consuetudine nuziale cui il mitografo fa riferimento non ri-
guarda soltanto lo svelamento in sé (coincidente con l’unione ses-
suale legittimata dal matrimonio), ma interessa anche l’offerta del
dono accompagnato dal saluto, ossia da uno scambio di parola che
si conclude con una accettazione. In tal senso il manto/ velo dato da
Zeus a Chthonie si fa oggetto di mediazione, nella misura in cui rati-
fica una transazione, manifestando al contempo il segno dell’accordo,
del legame stabilito nell’unione, e ponendosi perciò come imma-
gine plastica dell’erotismo connesso a un gesto di seduzione che
prefigura la notte di nozze, di per sé evocatrice dell’idea di accop-
piamento e procreazione sanciti legalmente.39 Il rito matrimoniale
e in particolare la festa dello svelamento conferiscono perciò alla
sposa e ai suoi futuri figli una legittimità socialmente riconosciuta.
Al tempo stesso, l’abbigliamento della sposa può essere inteso come
la principale forma attiva di comunicazione tra la stessa e il pubblico.
L’intero abbigliamento nuziale diviene infatti un modo per espri-
mere il proprio valore al marito e alla nuova famiglia, valore inteso
in termini economici e riproduttivi, in base al quale la giovane sposa
e il suo ornamento si caricano di un potere sessuale culturalmente
significante.
A tale proposito va ricordato che le stoffe, i tessuti (pepli o veli)
offerti come doni nuziali —prima o durante le nozze— assumono
un grande valore dovuto alla bellezza, alla ricchezza del tessuto, ma
anche al nome cui sono associati quando vengono consegnati in ere-
dità alla sposa. Tali tessuti, perciò, preservano dall’oblio, diventano
ricettacoli e trasmettitori di memoria sociale, acquistando un elevato
potere di persuasione, giocato sull’idea della potenza e autorevolez-
za riconosciute all’oggetto donato, idea inseparabile dal concetto di
forza o legame —religiosamente e socialmente coercitivo e vincolan-
te— instaurato attraverso lo scambio del dono.40 Ancora, durante le
nozze, il velo conferisce alla numphe la charis, grazia e bellezza, che
pure all’aidos si accompagna.41 Il velo stesso è, anzi, charis, laddove

38
Cfr. F. Gherchanoc, Le(s) voile(s) de mariage dans le monde grec, cit., p. 263.
39
Cfr. G. Arrigoni, Amore sotto il manto e iniziazione nuziale, in «Quaderni Urbinati di
Cultura Classica», 15 (1983), pp. 7-56; H.-G. Buchholz, in Das Symbols des gemeinsamen
Mantel, «Jahrbuch des Deutschen Archäologischen Instituts», 102 (1987), pp. 1-55; J.
Scheid, J. Svenbro (a cura di), Le métier de Zeus. Mythe du tissage et du tissu dans le monde
gréco-romain, Editions Errance, Paris 2003 (1994), pp. 51-54.
40
Cfr. M. Mauss, Essai sur le don. Forme et raison de l’échange dans les sociétés primitives
[1923-1924], in Sociologie et anthropologie, PUF, Paris 1950, trad. it. Einaudi, Torino 1965,
pp. 153-292; L. Gernet, Anthropologie de la Grèce antique, avec Préface de J.-P. Vernant,
Maspéro, Paris 1968.
41
Cfr. Hymn.Hom.Cer., 214: Χαῖρε γύναι … ἐπί τοι πρέπει ὄμμασιν αἰδὼς καὶ χάρις ὡς εἴ
πέρ τε θεμιστοπόλων βασιλήων, per il quale si riprende la traduzione riportata in F. Càs-
sola (a cura di), Inni Omerici, Mondadori, Milano 2006 [1975], p. 55 («Salute a te, donna
[…] illuminano il tuo sguardo dignità e maestà, come quello dei re amministratori di
76  Ù Le verità del velo

è inteso come simbolo del potere attrattivo (associato al potere ses-


suale), che rinvia all’idea di una relazione sociale reciproca (lega-
ta al piacere erotico) oltre che obbligante (legata alla nozione di
dono). Le nozze vengono così ad articolarsi intorno a una sequenza
di scambi —di sguardi e di doni— in cui la donna, velata prima del
matrimonio, poi svelata e di nuovo velata, rappresenta l’attrazione
principale: il momento più solenne dell’intera procedura rituale
coincide, non a caso, col momento topico in cui la sposa, con gesto
cerimonioso, solleva il suo velo al cospetto del futuro marito e degli
invitati, com’è rappresentato in modo particolarmente espressivo
nelle sculture delle metope di Selinunte.42

Fig. 4. Figura femminile con peplos solle-


vato sul capo per il kolpos. Statuetta bron-
zea (460-450 ca. a.C.). Museo del Louvre
BR 297.

Da questo punto di vista, il velo del matrimonio —pur non essen-


do il solo— costituisce l’elemento chiave della cerimonia, l’attribu-
to mediatico che, se da un lato fa risaltare la bellezza della numphe,
dall’altro segnala lo stato transitorio di un rapporto in divenire. In-
dossare e togliere il velo sono gesti che ritmano la vita sessuale delle
giovani donne, così come, più tardi, lo stesso indumento si fa simbolo
del legame che unisce la donna allo sposo, identificandola in quanto
gune nello statuto di sposa e madre legittima. Di qui, il significato
profondo di un oggetto d’abbigliamento che funziona simultanea-
mente come indicatore visivo rivelatore di codici sociali e marcatore
d’identità,43 atto a suggellare l’acquisizione di un diritto di proprie-

giustizia»), dove l’autore sceglie di rendere aidos con «dignità» e charis con «maestà»,
compatibilmente con l’interpretazione complessiva del passo.
42
Cfr. J. Kott, The Eating of the Gods. An Interpretation of Greek Tragedy, Random House,
New York 1970, trad. it. Bruno Mondadori, Milano 2005, p. 127.
43
Cfr. R. Barthes, Histoire et sociologie du vêtement, «Annales: économies, sociétés, civi-
lisations», 3 (1957), pp. 430-441; vedi anche, in chiave comparativa e multiculturale, W.
Parkins (a cura di), Fashioning the Body Politic: Dress, Gender, Citizenship, Bloomsbury, New
York 2002. Vale la pena ricordare ancora il trattato tertullianeo De virginibus velandis (cui
si è accennato) dove, con chiaro intento prescrittivo e normativo, stigmatizzando l’abbi-
gliamento delle donne pagane s’invitavano le donne cristiane a distinguersi dalle prime
attraverso l’adozione di un codice vestimentario ispirato a principi di moralità e castità
in cui l’uso del velo —consigliato indiscriminatamente a tutte, giovani e adulte, sposate
e non sposate, in accordo coi costumi delle altre chiese cristiane d’Oriente, benché non
Introduzione
Giuseppina Paola Viscardi ∙ Verità e rappresentazione Ù  77

tà, dove il velamento della donna, al pari di altre forme di interven-


to estetico e manipolazione corporale (physical disfigurements) più o
meno invasive o permanenti (tatuaggi, scarificazioni, piercing ecc.),44
evidenzia una forma di appartenenza e di dipendenza, identificando
e distinguendo una moglie da una concubina, ma si fa pure garante,
a un tempo, della memoria familiare e di quella civica.

6. Il linguaggio dell’abbigliamento: estetica corporale e funzione comuni-


cativa del corpo velato

Pensato come prodotto culturale —cioè come forma espressiva di


un sistema di produzione di senso articolato in significanti e signifi-
cati (perciò veicolo di informazione che rende tale sistema non solo
«aperto», ma in misura maggiore o minore «culturale») il velo— e la
veste in generale —rappresenta molto più di quanto la sola denomi-
nazione vestimentaria possa indicare. Esso è principalmente un teme-
nos, un recinto sacro in cui tutto può avvenire purché non avvenga,
non venga da fuori. Così, ripensando alla cosmogonia di Ferecide,
Chthonie si trasforma in Gé nel momento in cui Zas le dona il manto
nuziale, ossia nel momento in cui si presume che essa si ricopra col
velo: la Terra, Gè, non è altri che una Chthonie velata, il cui occul-
tamento tramite vestizione è rappresentativo di un divenire associato
all’accesso a una nuova condizione.45 Da un tale divenire, nella pro-
spettiva cosmogonica greca, nasce in ultima istanza il cosmo, conside-
rato che Gè, matrice primaria della sacra stirpe degli immortali, è po-
sta con Urano all’inizio del tempo e dello spazio mitico dell’origine.
Passando dal discorso mitopoietico a un discorso più specificamente
inteso in termini di processualità antropopoietica, si può dire che il

in linea con quelli di Cartagine (dove tenere il capo coperto in chiesa era d’obbligo solo
per le donne sposate)— assumeva particolare rilevanza come marcatore identitario. Il
testo di Tertulliano si pone come un tentativo di modellare l’identità delle nuove comu-
nità cristiane irreggimentando l’invisibilità del corpo femminile allo scopo di proteg-
gere non tanto la donna dallo sguardo dell’uomo, ma piuttosto l’uomo dal desiderio
sessuale che il corpo femminile suscita alla vista. Lo stesso modello di visibilità e invisi-
bilità intorno alla presenza del corpo nella società ammetteva anche per gli uomini l’uso
di velare la testa in circostanze particolari, come durante la celebrazione dei sacrifici.
44
Cfr. S. Jacobs, The Body As Property. Physical Disfigurements in Biblical Law, Blooms-
bury, New York 2013: «The Body As Property indicates that physical disfigurement func-
tioned in biblical law to verify legal property acquisition, when changes in the status of
dependents were formalized. […] Legitimate property acquisition was as important in
biblical law, where physical disfigurements marked dependents, in a similar way that
the veil or the head covering identified a wife or concubine in ancient Assyrian and
Judean societies. […] It is further argued that legal entitlement was relevant also to
the punitive disfigurements recorded in Exodus 21:22-24, and Deuteronomy 25:11-12,
where the physical violation of women was of concern solely as an infringement of male
property rights».
45
Si tenga presente lo sviluppo etimologico del verbo greco enduō, col significato di
«indossare», che dal senso originario di «entrare, immergersi in» si evolve nel senso di
«rivestire, indossare», cfr. F. Rigotti, Il filo del pensiero. Tessere, scrivere, pensare, il Mulino,
Bologna 2002, pp. 24 e 42.
78  Ù Le verità del velo

velo o l’abito acquista una valenza comunicativa nella misura in cui


funziona come «linguaggio non verbale»46 asservito alle logiche di
una «estetica corporale»,47 dove l’ethos, il comportamento (uso, co-
stume, inclinazione, carattere), è direttamente funzionale all’esthēs,
la veste, e viceversa —oppure, in altri termini, dove l’abito è posto
al servizio dell’abitudine e viceversa. Di qui l’ipotesi di una reciproca
inerenza tra abito e abitudine per la quale, dietro il gesto del velare o
svelare un corpo, si celerebbe l’intento di velare e svelare le condizio-
ni sociali, le intenzioni o propensioni personali e via di seguito.
Nella continuità esistente tra abito e corpo —inteso come terri-
torio fisico-culturale costruito, immaginato, vissuto conformemente
al genere, all’etnicità, alla religione, al gruppo socio-economico di
appartenenza, ecc.—, se si assume il corpo come materiale scrittorio,
si riconosce immediatamente nell’atto di vestizione/ svestizione uno
dei linguaggi possibili attraverso cui si realizza quel «discorso incor-
porato» o processo comunicativo —langue— in grado di attivare, con
la parole vestimentaria, mediante l’abito, una percezione del mondo
espressa attraverso il corpo.48 Dalla confluenza e integrazione, dinami-
ca e dialettica, di corpo e abito è possibile dunque ricavare la precipua
funzione comunicativa del velo o della veste, puntualmente integrata e
orientata dal corpo che oltre alle leggi del vestire detta anche quel-
le del vivere nel mondo. Una tale funzione emerge con particolare

46
In generale, per un’ampia panoramica di studi e prospettive sul linguaggio non
verbale attivato dall’abbigliamento, cfr. N. Lindisfarne-Tapper, B. Ingham (a cura di),
Languages of Dress in the Middle East, Curzon, Richmond: Surrey 1997. Nello specifico,
sul tema del «linguaggio vestimentario» nell’antichità greco-romana, vd. la più recente
collettanea curata da F. Gherchanoc, V. Huet (a cura di), Vêtements antiques, cit.
47
F. Remotti, Interventi estetici sul corpo, in F. Affergan et al., Figures de l’humain. Les re-
présentations de l’anthropologie, Éditions de l’EHESS, Paris 2003), trad. it. Meltemi, Roma
2005, pp. 335-369, in part. p. 336: «Ammettere la dimensione estetica di qualsiasi tipo
di intervento antropopoietico significa riconoscere l’onnipresenza del corpo e l’impos-
sibilità di eludere le sue esigenze estetiche». Sulle simboliche sottese alle dinamiche
antropopoietiche connesse al corpo e all’abito, cfr. A. Saggioro, Simbologia del vestire,
Nuova Cultura, Roma 2007.
48
In merito al discorso sul linguaggio del corpo dal punto di vista storico-religioso
e, più specificamente, sulle interconnessioni tra corpo, abbigliamento e religione, tra gli
studi più recenti va segnalato il progetto di ricerca «Religiöse Kleidung und vestimentäre
Religion. Wechselwirkungen aus religionswissenschaftlicher Sicht» condotto dall’Uni-
versità di Zurigo per iniziativa della Dr. Anna-Katharina Höpflinger e sotto la supervisio-
ne della studiosa svizzera Daria Pezzoli Olgiati. Focalizzando l’attenzione sulla rilevanza
e il significato del corpo come medium nei sistemi di comunicazione socio-culturale
—con particolare riferimento alla religione intesa appunto come sistema di comunica-
zione— tale progetto si concentra sulla funzione che tali sistemi riconoscono al corpo,
assunto come medium basilare dell’interazione umana, dal punto di vista mediatico e
della teoria della comunicazione. I temi della ricerca coprono un ampio spettro d’inda-
gine, spaziando dalla mitologia antica ai più moderni rituali Parsi, fino alle frontiere tra
corpo e tecnologia. Cfr. M. Glavac, A.-K. Höpflinger, D. Pezzoli Olgiati (Hrsg.), Second
Skin. Körper, Kleidung, Religion (Research in Contemporary Religion 14), Vandenhoeck
& Ruprecht, Göttingen 2013 e A.-K. Höpflinger, S. Knauss, A. D. Ornella (a cura di),
Commun(icat)ing the Body. The Body As Medium in Religious Communication Systems, Vanden-
hoeck & Ruprecht, Göttingen 2014.
Introduzione
Giuseppina Paola Viscardi ∙ Verità e rappresentazione Ù  79

evidenza dall’analisi del momento performativo del rituale in cui lo


svelamento è posto come elemento chiave, intendendo la performan-
ce come dimensione attiva di comunicazione atta a legittimare un co-
dice simbolico veicolando messaggi culturalmente condivisi.49 In tal
modo il velo, nel momento stesso in cui si fa simbolo del passaggio tra
momenti, fasi o stadi della vita, manifesta —come ogni altro simbo-
lo che sia sostanzialmente connesso alla dimensione transitoria delle
trasformazioni di stato— una natura ambivalente e contraddittoria
proprio perché il passaggio richiede e innesca una procedura artico-
lata e complessa, configurantesi di volta in volta come momento di
rottura (di un ordine preesistente) e rinnovamento o restaurazione
(di un ordine nuovo), una procedura chiaramente intesa in termini
di processualità simbolica scandita, citando Ernesto de Martino, in
crisi della presenza, riscatto mitico-rituale e progetto etico.
A tale proposito è illuminante la definizione ripresa dal semiologo
Roland Barthes per qualificare l’abito più prototipico, l’abito «senza
cuciture»,50 in grado a un tempo di affermare il corpo come contenu-
to/ significato (seppur in larga misura misterioso) negandolo come
forma/ significante, privandolo cioè di senso plastico, dipendente
quest’ultimo dalla continuità degli elementi costitutivi dell’indu-
mento (le maniche, che seguono il profilo delle braccia, il corpetto
che definisce le forme del torace ecc.). Nella fattispecie, la formula
«senza cuciture» ricorre nel Vangelo di Giovanni a proposito della
scena della Crocifissione di Gesù, dove la tunica indossata dal Cristo
è appunto definita senza cuciture, «tessuta tutta d’un pezzo da cima a
fondo»,51 e come tale è stata identificata con la tipica tallèt o manto
di preghiera ebraico.52 La stessa tunica appare peraltro assai simile e
perciò assimilabile al lenzuolo funebre o sudario, sempre tessuto in
un unico pezzo, che Pietro avrebbe ritrovato nel sepolcro vuoto «pie-
gato in un luogo a parte», all’alba del terzo giorno dal supplizio.53
L’accostamento immediato che si viene a creare tra la tunica
ebraica e il velo o manto indicato dai Greci col termine pharos o
krēdemnon induce a riflettere, una volta di più, sulla possibilità di
un’analogia funzionale tra due tipologie affini di abiti «senza cu-
citure», di indumenti cioè che avviluppano il corpo interamente
negandone l’identificabilità e assumendo perciò una funzione sper-

49
Cfr. P. Bourdieu, Remarques provisoires sur la perception sociale du corps, in «Actes
de la recherche en sciences sociales», 14 (1977), pp. 51-54; Sur le pouvoir symbolique, in
«Annales. Économies, Sociétés, Civilisations», 32, 3 (1977), pp. 405-411; Les rites comme
actes d’institution, in «Actes de la recherche en sciences sociales», 43 (1982), pp. 58-63.
50
R. Barthes, Système de la Mode, Seuil, Paris 1967, trad. it. Einaudi, Torino 1970, p. 138.
51
Gv 19. 23-24.
52
Cfr. R. Calimani, Gesù ebreo, Mondadori, Milano 1998, p. 409.
53
Gv 20. 6-7. Dall’accostamento ideale tra tunica e sudario deriverebbe appunto
l’importanza escatologica dell’abito che collega il passato al futuro, la vita alla morte,
cfr. G.P. Jacobelli, Senza cuciture, in S. Botta (a cura di), Abiti, corpi, identità. Significati e
valenze profonde del vestire, SEF, Firenze 2009, pp. 27-43, p. 34.
80  Ù Le verità del velo

sonalizzante, nella misura in cui non seguono e di conseguenza non


rivelano le forme del corpo, né serbano traccia del passaggio del
corpo al proprio interno, ma che pure col corpo si fondono presso-
ché interamente, suggerendo in tal modo una totale assimilazione
di superficie o soggetto da coprire e oggetto coprente.

Fig. 5. Donne avvolte nel pharos. Cratere co-


rinzio a figure rosse del pittore di Eupolis
(450-440 ca. a.C.). Mount Holyoke College Art
Museum South Hadley Massachusetts. Nancy
Everett Dwight Fund, 1913, 1.B.SII.

Così, se da un lato il corpo spersonalizzato, proprio in quanto


privato dei tratti somatici salienti, può porsi e imporsi come luogo
d’elezione privilegiato di mirati processi simbolici di significazione,
dall’altro, la totale assimilazione di abito e corpo, ricordando anco-
ra l’analisi di Barthes, rifletterebbe in modo profano un «vecchio
sogno mistico» (iniziatico).54 In tal senso, potremmo recuperare
al velo o manto una certa funzione apocalittica che in una «cultura
dell’invisibilità»,55 caratterizzante non solo la società greca ma, in

54
Per i mistici occidentali “prendere il velo” implica un atto di separazione dal
mondo che determina anche una separazione del mondo dalla dimensione di intimità
attraverso cui si realizza il progetto di una vita con e in Dio: avvolgersi nel mantello
significa perciò aver scelto la saggezza, intesa come forma di conoscenza derivata dalla
rivelazione, assumendo con essa una dignità, una funzione, spirituale.
55
Sulle cosiddette «culture di invisibilità» esiste un’articolata serie di studi secondo
cui le culture visuali o visive possono e devono essere analizzate anche dal punto di
vista di ciò che esse celano, occultano e scelgono di non rappresentare, conferendo
così una «assenza iconica» a ciò che è presente. Negli ultimi cinquanta anni tali studi si
sono concentrati soprattutto sul velo, inteso non solo come indumento, ma anche come
«categoria semiotica» complessa, dalla cui analisi emergerebbero interessanti caratte-
ristiche relative al modo in cui diverse culture visuali concepiscono l’idea e la pratica
di invisibilità. Cfr. R.F. Murphey, Social Distance and the Veil, in «American Anthropol-
ogist», 66, 6 (1964), pp. 1257-1274; U.M. Sharma, Women and Their Affines: the Veil as a
Symbol of Separation, in «Man», 13, 2 (1978), pp. 218-33; M. Myerowitz Levine, The Gen-
dered Grammar of the Ancient Mediterranean Hair, in H. Eilberg-Schwartz, W. Doniger (a
cura di), Off with Her Head. The Denial of Women’s Identity in Myth, Religion, and Culture,
University of California Press, Berkeley and Los Angeles 1995, pp. 76-130; M. Leone,
Cultures of Invisibility: the Semiotics of the Veil in Ancient Rome, in «Proceedings of Semio
Istanbul 2007», 2 (2007), pp. 1069-1079; Cultures of Invisibility: the Semiotics of the Veil in
Ancient Judaism, in D. Cmeciu, T.D. Stănciulescu (a cura di), Transmodernity – Managing
Global Communication, «Proceeding of the 2nd Congress of the Romanian Association
for Semiotics» (Bacău, October 2008), Alma Mater Publishing House, Bacău 2009, pp.
Introduzione
Giuseppina Paola Viscardi ∙ Verità e rappresentazione Ù  81

generale, le società dell’intero bacino del Mediterraneo antico, va


intesa nel senso più greco della parola, cioè come funzione rivela-
trice, dove il verbo apokaluptō è sinonimo di anakaluptō, ricordando
per inciso che «in greco il risultato del disvelamento si dice aletheia,
verità»56 e che tale verità si pone sempre come risultato di una rive-
lazione. Tornando, con tale premessa gnoseologica, al motivo mitico
delle nozze di Zas e Chthonie potremmo allora concludere, con
Colli, che «è la verità e dunque l’abissale, ovvero la nudità di Chtho-
nie» a non poter essere mostrata. Di conseguenza, nel momento in
cui la divina sposa di Zas/ Zeus si libera del velo virginale, lo sposo
regale la riveste del manto nuziale da lui stesso intessuto, un manto
che in ultima analisi rappresenta un’altra conoscenza, non più legata
alla verità profonda (abissale), ma superficiale (illusoria), ovvero
una conoscenza dal di fuori, efficacemente visualizzata dalla celebre
immagine metaforica del cosiddetto Velo di Maya, assunto come
simbolo dell’illusorietà della realtà che ci circonda, rispetto alla qua-
le, «ben lungi dall’essere un impedimento alla visione diretta della
realtà suprema e permanente, la māyā può essere, anzi è l’unico
tramite per giungere alla Liberazione finale, all’Illuminazione».57

189-201; Remarks for a Semiotics of the Veil, in «Chinese Semiotic Studies», 4, 2 (2010), pp.
258-278; Pudibondi e spudorati. Riflessioni semiotiche sul linguaggio del corpo (s)vestito, in
«Rivista Italiana di Filosofia del Linguaggio», 2 (2010), pp. 74-94.
56
G. Colli (a cura di), La sapienza greca II, Mondadori, Milano 2006 [1978], p. 22.
Cfr. anche J. Kott, The Eating of the Gods, cit., p. 128, a proposito del matrimonio finale
celebrato nell’Alcesti euripidea tra Admeto e la donna velata, la «straniera» che si rive-
lerà essere la sposa defunta del re tessalo, riportata tra i vivi dall’Ade per l’intervento
di Eracle: «Il velo che viene sollevato è un’allegoria della verità. “Il tempo che svela la
verità” era, seguendo l’antico modello, un tema frequente della scultura e della pittura
nel rinascimento e nel barocco, oltre che un adagio retorico: “smascherare la falsità e
portare la verità alla luce”, scrive Shakespeare (Il ratto di Lucrezia, 940). Anche in Alcesti
il velo che si solleva è il momento della verità».
57
A. Grossato, Il ‘velo di Maya’, un’invenzione dell’Occidente, in «Multiverso», 5, 2007,
pp. 45-46. Der Schleier der Maya è invenzione del filosofo tedesco Arthur Schopenhauer,
coniata per la prima volta ne Il mondo come volontà e rappresentazione (Die Welt als Wille
und Vorstellung, Dresda 1819): «Diversamente da quel che molti ancor oggi credono,
la fin troppo nota espressione “velo di Maya” non traduce alcuna frase sanscrita o
di altra lingua dell’India, semplicemente perché non è stata mai così formulata in
nessun testo indù o buddista. Tanto meno esprime correttamente il concetto, l’idea
di Māyā così come essa è stata originariamente concepita dalle menti indiane. […]
questo simbolo appartiene peculiarmente a quel gruppo di religioni che non a caso
si autodefiniscono come ri-velate; come se venissero nascoste una seconda volta, dove
se il secondo velo corrisponde all’oscurità della rivelazione spirituale in quanto tale,
e cioè ineffabilmente incomprensibile, il primo è certamente quello corrispondente
alla natura ingannevole del mondo […] la parola sanscrita māyā esprime ad un tem-
po le idee di produzione, arte, magia, illusione. Dunque di qualcosa o di un insieme
che viene prodotto naturalmente, o mediante procedimento artistico o magico, e che
comunque mantiene sempre in sé una natura essenzialmente illusoria. Illusoria, ma,
si badi bene, non per questo irreale. […] in fondo Māyā è pur sempre anche il nome
della madre naturale del Buddha, dell’Illuminato» (ibidem). Si ricordi, per inciso, che
nel mito greco Maia è la ninfa Pleiade madre di Hermes (Hymn.Hom.Merc. 3), il dio
hermeneus, mediatore nei transiti e nella comunicazione.
82  Ù Le verità del velo

7. Il lessico dell’incompiutezza: velami e metafore nella cultura dell’in-


visibilità

A tale proposito va rimarcato che in una mentalità come quel-


la greca arcaica —per la quale la verità si raggiunge principalmente,
seppur non unicamente, attraverso lo sguardo, l’occhio, la visione— il
velo si pone necessariamente come il segno visuale del processo erme-
neutico votato all’acquisizione di conoscenza, intesa in termini di verità
nascosta, occultata alla vista.
Da qui deriva la costruzione dell’immagine tardo-arcaica, trasmes-
sa da Eschilo, della parola profetica, portatrice di verità ma anche
ambivalente e contraddittoria, la parola dell’oracolo «che occhieg-
gia da dietro i veli» proprio «come una giovane sposa novella» (ὁ
χρησμὸς… ἐκ καλυμμάτων ἔσται δεδορκὼς νεογάμου νύμφης δίκην).58
Una parola in ultima analisi connessa alle modalità di espressione del
Lossia, l’«obliquo/ oscuro» Apollo di Delfi, «interprete del padre»
(Διὸς προφήτης ἐστὶ Λοξίας πατρός),59 la cui stessa sacerdotessa appare
inequivocabilmente raffigurata col capo velato nell’unica immagine
attestata per la Pizia su kylix attica a figure rosse del pittore di Kodros,
datata al 440-430 a.C., proveniente da Vulci, in cui è il ritratto di Egeo
che consulta la promantis60 di Apollo assisa sul bacile del tripode.

Fig. 6. Pizia velata. Kylix attica a figure rosse del


pittore di Kodros, da Vulci (440-430 a.C.). Cfr.
E. Gerhard, Das Orakel der Themis. Programm zum
Winckelmannsfeste der Archäologischen Gesellschaft zu
Berlin, 6, Berlin 1846 (Themis und Aigeios).

È appunto sulla polarità dialettica tra oscurità (= inintelligibilità


della parola del dio) e luminosità (= chiara evidenza del dettato divi-
no) che si basa la logica del «guardare o osservare» per interpretare,
da cui deriva la forma divinatoria che in società come quella greca
è sostanzialmente fondata sull’osservazione dei segni messa in pratica
per stabilire la norma di comportamento individuale e collettivo da
seguire, ovvero per pontificare l’entità e il tipo di reazione cosmica
e divina scatenata da un comportamento ritualmente o moralmente

58
A., Ag. 1178-1179.
59
A., Eu. 19.
60
Cfr. Hdt. VI, 66; VII, 111 e 141 (a proposito della Pizia Perìallò).
Introduzione
Giuseppina Paola Viscardi ∙ Verità e rappresentazione Ù  83

scorretto. Posto su un piano di complementarità ideale con l’oraco-


lo e con la pratica dell’interpretazione oracolare —dove la parola
ispirata necessita sempre di una comunicazione mediata— l’atto del
disvelamento femminile viene a coincidere con una vera e propria ri-
velazione che, come tale, trova nel velo il proprio strumento media-
tico, il proprio elemento di persuasione, quella stessa Persuasione che,
personificata dalla figura divina di Peithò, rivela, fin dalle prime atte-
stazioni del termine, un campo metaforico rigidamente codificato,
rinviando prevalentemente alla sfera della sessualità, del matrimonio
e di Afrodite (di cui, nella tradizione, Peithò è figlia o ipostasi), ma
allargandosi poi, specialmente nei tragici, alla sfera semantica della
parola e del discorso,61 andando infine ad interessare una forma di
comunicazione basata sull’autorità e sul consenso.
Si pensi, ad esempio, alla rappresentazione parmenidea di peitho
—sia essa identificata con la divinità o con l’atto di persuasione— in-
tesa come intimazione al consenso e come tale intimamente legata alla
parola autorevole che pure presuppone l’idea dell’auto-evidenza della
verità.62 Specularmente al coevo contesto tragico eschileo e alla rap-
presentazione dell’oracolo col capo velato, nell’immaginifica visione
parmenidea del viaggio del filosofo alla ricerca dell’Essere, le Helia-
des, figlie del Sole, cui spetta appunto il compito di guidare il sapiente
(εἰδὼς φώς) nel proprio personale percorso di acquisizione di cono-
scenza, di Verità (personificata da Ἀληθείη), escono —inizialmente e
programmaticamente— dalle stanze della Notte «verso la luce» (εἰς
φάος), «dopo aver sollevato i veli dal capo» (ὠσάμεναι κράτων ἄπο
καλύπτρας).63 Letta come rappresentazione metaforica di un discorso
fondato sul consenso e sulla verità (intesa come legittimità), acquista
un senso rivelatore l’immagine restituita in tardo IV secolo a.C. dalla
celebre pyxis siciliana del Gruppo di Adrano con scena nuziale raffi-
gurante una sposa velata affiancata da Peithò.

Fig. 7. Scena nuziale con sposa velata (figura


centrale) affiancata da Peithò. Dettaglio a di-
segno da pyxis siciliana del Gruppo di Adrano
(325 ca. a.C.). MFA Moscow 510.

61
Cfr. R. Buxton, Persuasion in Greek Tragedy. A Study of Peitho, Cambridge University
Press, Cambridge 1982, passim.
62
Cfr. G. Scalera McClintock, Dalle personificazioni di Esiodo alla Thea di Parmenide.
Considerazioni del rapporto tra femminile ed astratto, in «Annali dell’Istituto Orientale di
Napoli (filol.)», 28 (2006), pp. 25-48, in part. p. 41, n. 72.
63
Parm., Fr. 1 D-K = S.E., Math. VIII, 111 (vv. 1-30); Simp., In Cael. 557, 20 (vv. 28-32),
spec. vv. 4-13.
84  Ù Le verità del velo

Su tale base epistemologica, il velo è concepito come vera e pro-


pria frontiera dell’invisibile, «bordo spaziante» o «confine», pensato e
percepito in senso nomico, cioè come legge (nomos) costitutiva di
uno spazio (topos) da abitare, a sua volta configurato e risemantiz-
zato come dimora, apertura simbolica di un luogo di appartenenza
(ethos). In quest’ottica, l’invisibile, il non immediatamente intelle-
gibile, costituisce non un’altra regione, un territorio inaccessibile,
ma piuttosto la dimensione a cui aspirare, il luogo a cui tornare.
Celare alla vista rende, dunque, il corpo —nella fattispecie il corpo
femminile— luogo d’elezione di un processo di significazione che
nell’occultamento scopre la rivelazione, ponendo alla base dell’e-
thos (anche inteso come inizio o apparire) uno scomparire, pensato
in termini assolutamente greci, cioè come assenza di compimento.64
Una tale “assenza di compimento” trova nel krēdemnon un perfetto
medium semiotico, riconducendone il valore astratto a un lessico
dell’incompiutezza che, accanto al significato primario di «legare,
fasciare, bendare, bordare, tenere in vincoli la testa o il volto» (=
«cingere la sommità»), assume il senso metaforico di «perdere, ne-
cessitare, mancare di compimento o di conclusione» che, in fin dei
conti, è alla radice semantica del termine, composto da kras/ kara
(poet. per kephale, lat. cerebrum), letteralmente «testa, picco, sommi-
tà» (anche «bordo, margine, estremità superiore»), col significato
traslato di «compimento, conclusione»,65 e deō, nel senso di «legare,
fasciare» ma anche «mancare, necessitare (di qualcosa)».66
In tale ordine di pensiero la sparizione determinata dall’occul-
tamento implica effettivamente un annullamento che in sé presup-
pone un effetto simile a quello determinato dalla morte, nel senso
di un ritorno al principio ultimo e ultimativo in cui si realizza la no-
stra frontiera, dove la morte sia intesa come incompiutezza nei termini
di un «non rappresentabile ontologico», dove la fine corrisponde
all’inizio e l’origine è posta come «condizione del rilancio costante
del gioco culturale».67 In questo modo il velo (= linguaggio) —as-

64
Per il riferimento metaforico alla «testa» come «compimento, fine, conclusione»
di qualcosa (di un argomento, di una discussione) oltre la quale non è possibile andare,
vedi Pl., Grg. 505d: «affinché il discorso abbia una testa» (ἵνα ἡμῖν ὁ λόγος κεφαλὴν λάβῃ)
e Ti. 69b, 1 (καὶ τελευτὴν ἤδη κεφαλήν τε τῷ μύθῳ πειρώμεθα). Cfr. J.-P. Vernant, La mort
dans les yeux, Hachette, Paris 1985, trad. it. Il Mulino, Bologna 1987, p. 69.
65
Si pensi anche al significato del termine Κήρ (etimologicamente connesso con
κάρα) come personificazione divina della morte, con le relative implicazioni ideologico-
culturali. Cfr. G. Scalera McClintock, Il pensiero dell’invisibile nella Grecia arcaica, Tempi
Moderni, Napoli 1989, p. 22.
66
Cfr. TLG, s.v. κρήδεμνον.
67
S. Borutti, Per un’ontologia dell’incompiutezza (Kant, Heidegger, Wittgenstein, Freud),
in F. Affergan et al., Figures de l’humain, cit., p. 396. Se all’idea di morte intesa come
principio ultimo e ultimativo si associa la dimensione di eternità che la morte stessa
dischiude, allora assume un valore pregnante l’associazione stabilita, sul piano lessi-
cale, nella lingua ebraica tra il termine ‘olam, ripetutamente attestato nella Tōrāh per
indicare il principio di «eternità» (nel senso di «tempo lungo, eterno, etc.») e il verbo
‘alam, col significato di «occultare, nascondere, etc.», derivati dalle stesse radicali. In
Introduzione
Giuseppina Paola Viscardi ∙ Verità e rappresentazione Ù  85

sunto nella duplice accezione di forma (= apertura di un mondo di


senso) e limite (= struttura d’orizzonte impensata in cui nasciamo a
un mondo di senso già dato)— può farsi medium rituale nella re-
alizzazione del passaggio da una condizione a un’altra, indumento
iniziatico fortemente connotato dal punto di vista antropopoietico,
necessario a realizzare il perfetto compimento (telos) della donna,
infine strumento culturale in grado di assumere la funzione di «in-
dicatore», marcatore visivo (tekmar) del confine —ideale e mate-
riale, simbolico e reale— tracciato tra territorio corporale, inteso
come spazio privato, e sguardo esterno, appartenente alla dimen-
sione dello spazio pubblico. Di conseguenza, il velo/ telo/ manto
funziona come oggetto portatore o datore di senso nella misura in
cui segnala la via d’accesso nell’aporia (= impraticabilità del passag-
gio) che è assenza di poros:68 con questa precisa valenza lo si ritrova
appunto come lenzuolo funebre o sudario atto ad avvolgere, quale
segno del trapasso, il corpo del defunto nell’ultimo transito (= attra-
versamento di confine, superamento del limite). Così, il momento
dello svelamento può essere posto su un piano di complementarità
ideale col momento topico dell’attraversamento della soglia che a
livello di rappresentazione simbolica scandisce la fase di passaggio
da una dimensione a un’altra.69
Paradigmatico in tal senso è il celebre finale dell’Alcesti euripidea
in cui l’eroe tebano Eracle, dopo aver sottratto alla morte la sposa
defunta del re tessalo Admeto, ritorna sulla scena recando con sé
una donna interamente avvolta da veli,70 offerta in dono al re come

particolare, il termine `âlâm è utilizzato nella Bibbia per indicare il silenzio degli uo-
mini, anche se i rabbini lo utilizzeranno per indicare il silenzio di Dio, che nel testo
biblico appare piuttosto evocato dall’espressione haster panîm. Vale la pena osservare
che alla radice di `âlâm è altresì connesso il termine ‘illem, col significato di «muto»:
la chiave di lettura ce la fornisce l’espressione haster panîm, che significa letteralmente
«nascondere il volto» (con un travestimento o una maschera). Cfr. E. Lévinas, Dieu, la
Mort et le Temps, éd. Jacques Rolland, Grasset, Paris 1993, trad. it. Jaca Book, Milano
1996, p. 58. Si noti per inciso come la stessa corrispondenza, stabilita nel testo biblico
a livello lessicale, tra l’atto di occultamento e la dimensione del silenzio si riscontra, a
livello cerimoniale, nei culti misterici a carattere iniziatico (cui si è accennato all’inizio
di questo saggio) diffusi nel mondo greco dall’epoca arcaica all’età ellenistico-romana,
tipicamente fondati sul segreto rituale che è tratto caratterizzante della procedura
tanto a Eleusi che a Samotracia.
68
Sul significato di tekmar, letteralmente indicante la «linea di demarcazione» (di
territorio o regione), inteso come segnalatore della via d’accesso a qualcosa di inac-
cessibile, cfr. M. Detienne, J.-P. Vernant, Les ruses de l’intelligence. La Métis des Grecs,
Flammarion, Paris 1974, trad. it. Laterza, Roma-Bari 1977, pp. 108-110 (dove poros è
metaforicamente inteso in termini di «soluzione abile» in una situazione apparente-
mente priva di via d’uscita).
69
Cfr. E. Fabbro, Lo sguardo e il silenzio, cit., p. 41.
70
A tale proposito va ricordato, per inciso, che nonostante la fortuna letteraria ri-
scossa dal tema della sposa velata —oggetto di una robusta e tenace tradizione di inter-
preti (cfr. J. Kott, The Eating of the Gods, cit., p. 100-133)— nel testo di Euripide non è mai
fatta esplicita menzione al velo di Alcesti (vedi vv. 1061-1158) e l’introduzione di tale
motivo mitico è presumibilmente imputabile ai commenti normalizzatori e forse alla
hypothesis di Dicearco, discepolo di Aristotele del III-II sec. a.C.
86  Ù Le verità del velo

nuova promessa sposa in segno di riconoscenza per l’ospitalità ri-


cevuta. Davanti a un Admeto riluttante a unirsi nuovamente in ma-
trimonio (per non mancare alla promessa fatta alla moglie di non
risposarsi dopo la sua morte), Eracle come uno ierofante solleva il
velo, lasciando apparire la forma di Alcesti che resta muta sulla scena,
perché al re non è concesso di sentirla parlare, almeno fino a quan-
do la donna non si sarà purificata al cospetto degli dèi inferi, nel
terzo giorno delle nozze (vv. 1143-1146), coincidente non a caso sul
piano rituale col tempo dell’anakalupterion. Per Alcesti, dunque, è
senz’altro possibile ravvisare nel velo la marca semiotica del silenzio,
la cui codificazione scenica risulta, in ultima analisi, affidata al gesto
di coprirsi il capo, nascondendo il volto (particolarmente attestato
nell’ambito delle rappresentazioni figurative), con la conseguente
deriva semantica che vede nello svelamento il gesto chiave della ri-
nascita (coincidente con una riattivazione della comunicazione).71
Di qui l’elevazione finale del velo —oltre che del gesto del velare/
svelare— da «segno iconico», aderente a una certa cosa (l’accessorio
d’abbigliamento o l’atto di s/vestizione in sé), a «segno simbolico»,
rappresentativo di una certa cosa per convenzione, prodotto del con-
sensus che in quanto tale necessita di essere decodificato, per dirla
con Agostino (De doctrina Christiana II, 25, 38-39).
In conclusione, anche da una sommaria esplorazione dei modi di
rappresentazione intrinseci a una determinata civiltà, a una cultura
data (nella fattispecie greca), è facile dedurre che il velo, adottato
come dispositivo semiotico ad alto potenziale semantico, al quale
è finalmente possibile riconoscere una triplice funzione legata alla
triplice dimensione visuale, spaziale ed etica, doveva essere perce-
pito e utilizzato come elemento centrale nell’articolazione di un
complesso modello di visibilità e invisibilità costruito intorno alla
presenza del corpo nella struttura visiva di quelle società in cui, se-
condo una logica comune alle culture del Mediterraneo antico (da
quella giudaica a quella romana), l’invisibilità stessa è posta come
chiave di accesso al mondo.72

71
Cfr. E. Fabbro, Lo sguardo e il silenzio, cit., p. 38: «Il ravvolgersi nel mantello, compre-
se le braccia e le mani, è uno schema figurativo che codifica l’indisponibilità comunicati-
va anche in altri campi, al di là del mero fatto verbale […] Se l’uomo greco è consapevole
dello sguardo e della sua potenza, alla donna ogni sguardo è interdetto e di riflesso
ella non deve essere toccata dallo sguardo altrui. Persino Afrodite, accompagnandosi ad
Anchise, accosta il velo “distogliendo il volto e abbassando i begli occhi” (Hymn.Hom.Ven.
156). Ma la seduzione femminile ammicca sul liminare tra coprire e dischiudere […] Il
funzionamento dell’opposizione significante coperto/ scoperto ha dunque un ambito
più ampio di quello implicato dalla mera scelta fra silenzio e contatto verbale, marcando
l’interferenza fra aree distinte dello stesso codice di comportamento».
72
Cfr. M. Myerowitz Levine, The Gendered Grammar of the Ancient Mediterranean Hair,
cit., pp. 76-130. Si pensi ad esempio alla particolare importanza riconosciuta sul pia-
no spirituale al hijâb nella tradizione islamica, dove il velo che avvolge simboleggia
la conoscenza non rivelata, il velo sollevato, di contro, la conoscenza comunicata al
discepolo.
Introduzione
Giuseppina Paola Viscardi ∙ Verità e rappresentazione Ù  87

In tale prospettiva, l’interdizione dell’invisibilità, o quanto meno


la marginalizzazione di un tale epifenomeno riscontrabile in gran
parte delle culture visive europee e nord-americane, è un fenomeno
relativamente recente, il cui sviluppo appare condizionato da dina-
miche culturali spesso anche assai complesse, con ricadute normati-
ve e legali di altrettanto complessa interpretazione.

Fig. 8. Testa di donna con volto parzialmente


coperto da velo semi-trasparente, Metropolitan
Museum of Art, NY (prestito da collezione pri-
vata). Provenienza ignota (Foto: H. van Wees).
Cfr. L. Llewellyn-Jones, Aphrodite’s Tortoise: The
Veiled Woman of Ancient Greece, The Classical
Press of Wales, Swansea 2003, p. 318, fig. 173.
88  Ù Le verità del velo
Sguardi sul mondo cristiano Ù  89

Francesca Romana Nocchi

Obnubilatio capitis:
simbologia sacra e profana del velo nell’antica Roma

1. Introduzione

L’usanza di velare il capo fu connotata in epoca classica da mol-


teplici valenze sociali e culturali. L’originalità del popolo romano
consiste proprio in questa polisemia: le civiltà successive, giudaica,
cristiana e musulmana, operarono una scelta che le condusse a valo-
rizzare solo quegli aspetti simbolici che potevano armonizzarsi con
le specifiche esigenze cultuali.1 Al contrario, nella cultura romana
l’impiego del velo assolse a una pluralità di funzioni, sebbene esse si
possano ricondurre grosso modo a due distinti ambiti: l’uso religio-
so, e quello identificativo del ruolo assolto dalle donne nella società.
Sottesa a entrambi è, però, l’idea di separazione: il velo, infatti, per
il suo potere dissimulatorio, diviene un ornatus ideale per le cerimo-
nie cultuali, ad esempio quelle misteriche, perché impedisce la con-
taminazione del sacro e del profano.2 Allo stesso modo esso segna
una cesura fra la dimensione maschile e quella femminile, sancendo
l’inesorabile sottomissione di quest’ultima, anche qualora sembri ac-
cettare volontariamente la propria sorte o addirittura considerarla
segno di un privilegio.
L’idea di una polisemia semantica è avvalorata dall’uso del verbo
velare, impiegato con diverse accezioni, anch’esse riducibili alla di-
cotomia sacro/profano: infatti il termine si trova riferito all’atto del-

1
Cfr. R.A. Lambin, Le voile des femmes. Un inventaire historique, social et psycologique, P.
Lang, Bern 1999, pp. 45 ss.; Id., Paul et le voile des femmes, in «Clio», 2 (1995), pp. 461-484.
2
A. Van Gennep, I riti di passaggio, Bollati Boringhieri, Torino 1981, pp. 147 ss.
90  Ù Le verità del velo

la consacrazione,3 o a quello dell’isolamento atto a preservare,4 ma


viene usato anche nel senso di vestire,5 ornare, cingere6 con finalità
cultuali o semplicemente estetiche.
Inoltre occorre preventivamente specificare che l’atto di velare il
capo il più delle volte non veniva compiuto per mezzo di un velo, ma
con la stola dalle donne e con la toga dagli uomini,7 per questo la
valenza simbolica rappresentata dall’ornatus spesso si sovrapponeva e
aggiungeva al significato dell’atto in sé.
Già nel I-II sec. d.C. ci si chiedeva quale fosse il significato origi-
nario del gesto: Plutarco8 prospetta diverse ipotesi senza offrire una
soluzione definitiva, scontrandosi con la difficoltà di ridurre questa
pratica a un significato univoco. L’autore, infatti, cerca di spiegare
per quale motivo i Romani velano il capo quando sacrificano e lo sco-
prono quando incontrano personaggi di alto lignaggio. Il costume
sembrerebbe risalire a Enea: quando l’eroe approda in Epiro con-
sulta Eleno, che regna sulle città greche di quel territorio, e questi
gli raccomanda di prendere i voti una volta sbarcato oltremare, ma
precisa: purpureo velare comas adopertus amictu,/ ne qua inter sanctos ignis
in honore deorum/ hostilis facies occurrat et omina turbet./ Hunc socii morem
sacrorum, hunc ipse teneto,/ hac casti maneant in religione nepotes.9 Pur
non riferendosi specificamente al velo, l’espressione virgiliana pur-
pureo velare amictu allude chiaramente ai rituali connessi al suo uso.
Il gesto compiuto da Enea —afferma Plutarco— sembrerebbe non
riguardare nello specifico l’aspetto cultuale: infatti l’eroe troiano co-

3
Come si cercherà di chiarire, i Romani velavano la parte del loro corpo cui
attribuivano un significato simbolico, ad esempio la testa come emblema dell’intera
persona o la mano, pegno di fedeltà (cfr. infra).
4
Cfr. Ov. met. 12, 598-599: Delius indulgens nebula velatus in agmen/ pervenit Iliacum
(«Il dio di Delo, acconsentendo, si recò avvolto in una nube nel campo troiano»).
5
Cfr. ivi 2, 23-24: purpurea velatus veste sedebat/ in solio Phoebus claris lucente smaragdis
(«Febo, vestito di un abito purpureo, era assiso su un trono scintillante di smeraldi
luminosi»); Liv. 3, 26, 10: qua (scil.: toga) simul absterso pulvere ac sudore velatus processit
(«Deterso il sudore e la polvere e indossata la toga si fece avanti»).
6
Per le bende che cingono le tempie cfr. Ov. met. 5, 109-110: Phinea cecidere manu
Cererisque sacerdos,/ Amphycus albenti velatus tempora vitta («Caddero per mano di Fineo e
Ampico, sacerdote di Cerere dalle tempie coperte da una bianca benda»); Id. Pont. 3, 2,
75; per la corona cfr. ivi 4, 14, 55: tempora sacrata mea sunt velata corona («Voi avete cinto
le mie tempie di una corona sacra») e Verg. Aen. 5, 72: sic fatus velat materna tempora myrto
(«Detto così vela le tempie di materno mirto»); per le ghirlande ivi 2, 248-249: nos delubra
deum miseri, quibus ultimus esset/ ille dies, festa velamus fronde per urbem («Noi sventurati,
nel nostro ultimo giorno,/ per la città coroniamo i templi degli dei di fastosa fronda»).
7
Rientra in questa tipologia il cosiddetto cinctus Gabinus (Serv. Aen. 7, 612),
un costume che assolveva a funzioni militari e religiose; cfr. a questo proposito L.
Bonfante-Warren, Roman Costumes, in «Aufstieg und Niedergang der römischen Welt»,
I, 4 (1973), pp. 596-597 e G. Cressedi, ‘Caput velatum’ e ‘Cintus Gabinus’, in «Rendiconti
della Accademia dei Lincei», 5 (1950), pp. 450-456.
8
Plut. quaest. Rom. 10, 266c-e.
9
Verg. Aen. 3, 405-409: «Vela le chiome coperto di un manto purpureo, perché tra
i santi fuochi in onore degli dei non compaia un ostile aspetto e turbi i presagi. Tu e i
tuoi compagni serbate questo rituale: in questa devozione rimangano fermi i nipoti».
Per questo episodio cfr. anche ivi 3, 545-546.
Francesca RomanaIntroduzione
Nocchi ∙ Obnubilatio capitis Ù  91

prirebbe la sua testa per proteggersi dagli influssi nefasti provenienti


dalla vista del nemico Diomede che si trova a passare per caso mentre
Enea compie un sacrificio propiziatorio.10 Per contrasto, gli uomini
sono soliti scoprire il capo quando passa un amico o un personaggio
ragguardevole, da cui non può provenire alcun maleficio.11 Analo-
gamente, coprirsi con la toga le orecchie quando ci si inginocchia
di fronte a una statua o a un santuario degli dei serve per non udire
le parole di cattivo augurio che provengono dall’esterno: questa in-
terpretazione sembrerebbe avvalorata dall’usanza di produrre forti
rumori con oggetti di bronzo in occasione della consultazione degli
oracoli. È evidente che in questo caso prevale una forte connotazio-
ne apotropaica del gesto, che serve a proteggere l’individuo nel mo-
mento in cui si dispone a ricevere il favore divino. Plutarco prospetta
una seconda ipotesi: velare il capo significherebbe tributare rispetto
al dio. Secondo la mentalità comune, dimostrare la stessa devozione
nei confronti di uomini, per quanto di origini nobili, susciterebbe la
gelosia divina,12 per questo è preferibile scoprire il capo. In questo
caso, sul fattore scaramantico prevale quello religioso, rappresentato
dalla pietas verso gli dei. Il significato “laico”, dunque, si intreccia con
quello cultuale, a riprova di quella molteplice funzionalità dell’uso
del velo, che si cercherà di dimostrare.

2. Implicazioni apotropaiche

2.1. Il flammeum: escamotage contro il malocchio?

Come si è accennato, dunque, non è sempre possibile separare


la componente propriamente cultuale da quella superstiziosa, spes-
so compresenti nei riti romani. Un esempio emblematico in questo
senso è costituito dalla cerimonia nuziale, partecipe di valori diversi,
sociali, religiosi, giuridici: il matrimonio, sin dall’età preclassica, era
l’evento centrale della vita dell’uomo e della donna, perché compor-
tava l’atto generativo, fondamentale per la prosecuzione della stirpe,

10
La versione di questo aneddoto accettata da Plutarco, secondo la quale il velo
è utilizzato a scopo apotropaico, si trova in Dioniso di Alicarnasso (Ant. Rom. 12, 16,
22). In effetti sembra ne esistesse un’altra (Serv. Aen. 2, 166) in base alla quale Enea
stabilisce preventivamente di sacrificare velato, ed essendosi girato per adempiere
ai propri officia, non vede Diomede: in questa prospettiva diverrebbe prioritaria la
funzione sacra del velo e non vi sarebbe nessun intento scaramantico. In ogni caso
l’ambiguità interpretativa conferma ancora una volta la polisemia attribuita al velo
dalla mentalità comune.
11
Questa interpretazione è condivisa da Festo (430-431 L.) per il quale Enea si vela
il capo per non avere sotto gli occhi la vista nefasta del nemico Ulisse.
12
Riguardo a questa credenza cfr. E.R. Dodds, The Greek and the Irrational, University
of California Press, Berkeley 1959, pp 38-40. Una conferma di questa interpretazione
plutarchea sembrerebbe provenire da Svetonio (Vitell. 2, 5), il quale afferma che Lucio,
padre di Vitellio, si inginocchiava e velava il capo al cospetto di Caligola, assecondando
le tendenze teocratiche dell’imperatore che pretendeva onori divini.
92  Ù Le verità del velo

ma anche della società, come dice Cicerone, il quale definisce questa


cerimonia: principium urbis et quasi seminarium reipublicae.13 L’elemen-
to cultuale, in particolare, sanciva la validità dell’unione e rivestiva
un’importanza maggiore, dal momento che la procreazione era le-
gata a valori mistici e per questo si credeva che la nuova famiglia
avesse bisogno della protezione divina: in questa circostanza, però,
i confini fra religio e superstitio, non erano così netti.14 Sembrerebbe,
quindi, più corretto parlare di riti matrimoniali piuttosto che di ce-
rimonie religiose: l’unica forma propriamente religiosa di nuptiae
era la confarreatio,15 che prevedeva anche la presenza di importanti
sacerdoti, quali il flamen Dialis ed il pontifex maximus.16 Tutte le altre
tipologie si riducevano all’istituto giuridico della conventio, con la
quale la donna passava sotto la manus del marito.17 Nonostante ciò,
in entrambi i casi la celebrazione prevedeva tutta una serie di riti
che assumevano una connotazione scaramantica, pur implicando la
partecipazione divina. Del resto l’obiettivo era troppo importante per
rischiare che qualcosa inficiasse le potenzialità procreative della cop-
pia. È naturale, quindi, che in questa occasione anche la vestizione
della sposa divenisse un momento fondamentale della celebrazione,
perché la scelta di ogni particolare assumeva implicazioni apotropai-
che e propiziatorie. Il mundus muliebris non era frutto esclusivo di una
valutazione estetica, ma palesava il ruolo sociale che la nupta sarebbe
andata a ricoprire una volta assunto lo status di matrona.

13
Cic. off. 1, 54.
14
Illuminante, a questo proposito, è la raffigurazione lucreziana della religio (1, 62-
79) che incombe sugli uomini dall’alto, secondo una chiara allusione all’etimologia di
superstitio attraverso la quale l’autore fa coincidere i due concetti.
15
La confarreatio, quale istituto particolarmente solenne, creava fra gli sposi un
legame solido grazie alla tutela sacrale comportata dalla cerimonia e alla sanzione
giuridica del potere maritale sulla sposa. Ciò è confermato dal fatto che il padre della
donna non poteva più rivendicare alcun diritto sulla figlia e che per sciogliere il vincolo
occorreva addirittura un’altra cerimonia, la diffarreatio (Fest. p. 65 L.): non casualmente
Plinio il Vecchio (nat. 18, 110) dice a proposito di questa fattispecie: in sacris nihil
religiosius confarreationis vinculo («Nelle cerimonie sacre non vi è nulla di più solenne del
vincolo creato dalla confarreatio»).
16
Serv. georg. 1, 31: tribus enim modis apud veteres nuptiae fiebant: usu [...] farre, cum
per pontificem maximum et Dialem flaminem per fruges et molam salsam coniungebantur —unde
confarreatio appellabatur— ex quibus nuptiis patrimi et matrimi nascebantur; coemptione vero
atque in manum conventione, cum illa in filiae locum, maritus in patris veniebat («Le nozze
si facevano in tre modi presso gli antichi: con l’usus [...] con il farro, quando tramite il
pontefice massimo e il flamen Dialis si congiungevano per mezzo di cereali e mola salsa
—da cui (la cerimonia) prendeva il nome di confarreatio— dalle quali nozze nascevano
patrimi e matrimi; con la coemptio e la conventio, quando quella [la donna] assumeva la
posizione di figlia, il marito di padre»).
17
Gaius inst. 1, 110: olim itaque tribus modis in manum conveniebat: usu, farreo, coemptione
(«Un tempo si cadeva sotto la potestà [del marito] in tre modi: con l’usucapione, con il
farro, con la compravendita»). Anche se la confarreatio ricadeva nella tipologia giuridica
della conventio essa non era mai disgiunta dalle nuptiae religiose. Per la differenza fra
l’istituto giuridico della conventio e quello delle nuptiae cfr. F.R. Nocchi, Roma antica/1/
Abiti nuziali, Nuova Cultura, Roma 2007, pp. 19-25.
Francesca RomanaIntroduzione
Nocchi ∙ Obnubilatio capitis Ù  93

In particolare, secondo Frazer,18 il flammeum, tipico velo che indos-


sava la sposa, serviva a proteggerla dagli influssi negativi provenienti
dal mondo esterno; a questo scopo, addirittura, il giorno del matri-
monio era costume ingaggiare una falsa fidanzata, perché attirasse
verso di sé la mala sors. Questo spiegherebbe anche per quale motivo
il flammeum non fosse un velo piccolo, ma avvolgesse tutta la perso-
na o almeno il viso della sposa. Festo, nel descrivere il suo impiego,
non a caso usa il verbo amiciri: flammeo amicitur nubens,19 solitamente
riferito al gesto di avvolgersi in un abito ampio, come, ad esempio,
la toga o il pallium. In effetti la componente apotropaica giocava un
ruolo fondamentale nel corso di tutti i festeggiamenti, soprattutto
nell’ambito dei riti nuziali non giuridicamente necessari. Non solo
la sposa, ma l’intera coppia doveva essere protetta dagli influssi ne-
gativi provenienti da coloro che provavano invidia per la condizione
beata in cui essa si trovava e per questo era anche necessario otte-
nere la protezione divina. Il matrimonio vero e proprio era, quindi,
sempre preceduto da una presa degli auspici puramente simbolica;20
durante la deductio in domum della sposa venivano eseguiti una serie
di rituali volti a stornare gli influssi negativi e a propiziare la fertilità
della coppia.21 Per di più alla sposa veniva interdetto di oltrepassare
la soglia con i suoi piedi: anche questo costume aveva funzioni scara-
mantiche, in quanto si temeva che inciampasse, evento che sarebbe
stato di cattivo augurio.22 Ella, inoltre, spinta da motivazioni super-
stiziose, ungeva gli stipiti della porta con grasso di lupo o di maiale
e li ornava con bende di lana: il gesto aveva lo scopo di allontanare

18
G. Frazer, The Fasti of Ovid, Macmillan and Co., London 1929, in particolare fast.
3, 675-676.
19
Il passo completo contiene anche un’allusione alla flaminica (Fest. p. 79 L.):
flammeo amicitur nubens («Con il flammeum si avvolge la sposa»). Per la citazione completa
del passo cfr. infra.
20
Val. Max. 2, 1, 1: apud antiquos non solum publice sed etiam privatim nihil gerebatur
nisi auspicio prius sumpto; quo ex more nuptiis etiam nunc auspices interponuntur qui, quamvis
auspicia petere desierint, ipso tamen nomine veteris consuetudinis vestigia usurpantur («Presso
gli antichi nessuna azione, non solo pubblica, ma anche privata, veniva compiuta, se
prima non fossero stati presi i relativi auspici. Questa consuetudine ha fatto in modo
che anche oggi gli indovini partecipino delle nozze: e anche se costoro non chiedono
più gli auspici, il loro stesso nome rivendica ad essi le vestigia dell’antica usanza»).
21
In primo luogo il corteo pronunciava a gran voce i versi fescennini, dal contenuto
licenzioso e ironicamente offensivo verso gli sposi, così da allontanare l’invidia dei
malevoli dalla coppia, particolarmente felice.
22
Catull. 61, 166-169: transfer omine cum bono/ limen aureolos pedes/ rasilemque subi
forem («Poggia con felice augurio il tuo piedino d’oro oltre la soglia, supera il gradino
corroso»). Isid. orig. 9, 7, 12 offre un’altra motivazione: nubentes puellae […] ideo
vetabantur limina calcare, quod illic ianuae et coeunt et separantur («Era vietato alle spose
[…] calpestare la soglia perché in tal punto le porte si uniscono, ma si separano anche»).
Secondo un’altra versione, l’usanza è un retaggio dell’antico ratto delle Sabine (Plut.
quaest. Rom. 29, 271d): «Perché alla sposa non è permesso di attraversare la soglia della
sua casa da sola, ma quelli che la stanno scortando la devono sollevare? È perché essi
portarono fuori con la forza le prime spose romane e le donne non entravano di loro
spontanea volontà? O volevano che sembrasse che entravano contro la loro volontà in
un luogo dove stavano per perdere la loro verginità?».
94  Ù Le verità del velo

gli influssi maligni dalla casa, utilizzando proprio le forze malefiche


provenienti da una bestia feroce e la scelta delle bende serviva per
purificare la casa, vista la sacralità che ad esse era attribuita.23 Era
necessario, infine, per scongiurare ogni cattivo augurio, impetrare la
protezione delle divinità, a ciascuna delle quali era dedicato un culto
specifico. Pur essendo Iuno colei che primariamente presiedeva alla
tutela del matrimonium, vi era anche un gran numero di dii certi, ov-
vero divinità che presenziavano alle fasi specifiche delle nuptiae: per
esempio Iugatinus24 univa i coniugi, Domiducus conduceva la sposa
nella casa maritale, Domitius ne propiziava l’ingresso, Manturna la
tratteneva presso il focolare domestico.25 Una folla di divinità era-
no invocate in occasione dell’unione nella camera nuziale: Cinxia26
aiutava il marito a sciogliere il nodo che avvolgeva la veste nuziale
della donna; Subigus27 interveniva per sottomettere la sposa. Tutte
queste precauzioni volte a proteggere la coppia non devono stupire:
il matrimonio era considerato il rito di passaggio più importante,
soprattutto per la donna, in quanto segnava il suo ingresso nella so-
cietà con il ruolo che le competeva, ovvero quello di potenziale mater
familias. Inoltre, proprio in virtù della loro unione, l’uomo e la don-
na assicuravano alla civitas la sopravvivenza: era naturale, dunque,
che la superstizione avesse un ruolo così importante durante le cele-

23
Serv. Aen. 4, 458: moris fuerat ut nubentes puellae simul venissent ad limen mariti,
postes antequam ingrederentur, propter auspicium castitatis, ornarent laneis vittis […] et oleo
et unguerent, unde uxores dictae sunt, quasi unxores. [...] Hi tamen qui de nuptiis scripsisse
dicuntur, cum nova nupta in domum mariti ducitur, solere postes unguine lupino oblini quod
huius ferae et unguen et membra multis rebus remedio sunt («Era proprio del costume che
le spose, non appena fossero giunte alla soglia della casa del marito, prima di entrare,
per auspicio di castità, ornassero gli stipiti di bende […] e li ungessero con olio, da
cui sono dette uxores (mogli) quasi da unxores (untrici). [...] Questi tuttavia, che si dice
abbiano scritto sulle nozze, tramandano che quando la sposa è condotta in casa del
marito, è solita ungere gli stipiti con grasso di lupo, perché il grasso di questo animale
e le sue membra sono di rimedio per molte cose»); Isid. orig. 9, 7, 12: moris erat antiquitus
ut nubentes puellae simul venirent ad limen mariti et postes antequam ingrederentur ornarentur
laneis vittis et oleo unguerentur («Anticamente era costume che non appena le spose
giungevano alla porta dello sposo, prima di entrare ornassero gli stipiti con bende di
lana e li ungessero con olio»).
24
Aug. civ. 6, 9, 3: cum mas et femina coniunguntur, adhibetur deus Iugatinus» («Quando
un maschio ed una femmina si uniscono, viene coinvolto il dio Giogatino»).
25
Ibidem: sed domum est ducenda quae nubit; adhibetur et deus Domiducus; ut in domo sit,
adhibetur deus Domitius; ut maneat cum viro, additur dea Manturna («Ma occorre portare la
sposa a casa e si impiega il dio Domiduco; perché vi si trattenga, il dio Domizio; perché
rimanga con il marito, la dea Manturna»).
26
Fest. p. 55 L.: Cinxiae Iunonis nomen sanctum habebatur in nuptiis quod initio coniugii
solutio erat cinguli quo nova nupta erat cincta («Nelle nozze si considerava Cinzia il nome
sacro di Giunone, perché all’inizio del matrimonio vi era lo scioglimento della cintura
con cui la novella sposa si cingeva»).
27
Aug. civ. 6, 9, 3: et certe si adest Virginensis dea ut virginea zona solvantur, si adest
Subigus ut virgo subigatur, si adest dea Prema ut subacta ne se commoveat comprimatur, dea
Pertunda ibi quid facit? («E se è presente la dea Verginiese perché sia sciolta la cintura
di castità alla vergine, se è presente il dio Subigo perché si assoggetti al marito, se è
presente la dea Prema perché una volta assoggettata non resista e si lasci comprimere,
la dea Pertunda che cosa ci sta a fare?»).
Francesca RomanaIntroduzione
Nocchi ∙ Obnubilatio capitis Ù  95

brazioni e che la sposa venisse isolata e preservata attraverso l’uso di


un velo avvolgente, in quanto ella, che viveva il momento di massima
felicità, diveniva oggetto di invidia.
Anche il colore del flammeum avvalorerebbe la tesi di una sua
valenza scaramantica: anzitutto l’etimologia del termine allude
chiaramente alle sfumature della fiamma.28 Il nome è talvolta ac-
compagnato da aggettivi che ne denotano il colore: lo scoliasta a
Giovenale29 lo definisce sanguineum, sia Lucano30 che Plinio il Vec-
chio31 usano l’attributo luteum. Mentre flammeus designava un aran-
cio tendente al rosso, luteus un colore arancio, tendente al giallo:
del resto la fiamma del fuoco assume varie gradazioni, che vanno
dal rosso all’arancio e il velo della sposa aveva, probabilmente, una
tonalità che si avvicinava ad entrambe.32 Sia il rosso che l’arancio
avevano un valore apotropaico che ben si adattava alla ricorrenza
matrimoniale: nel Satyricon di Petronio, ad esempio, Trimalcione, il
liberto superstizioso, al cui sontuoso banchetto partecipano i pro-
tagonisti dell’opera, indossa un accappatoio coccineus,33 di un rosso
intenso, quasi scarlatto; intorno al collo mette un tovagliolo bor-
dato di frange di porpora, per evitare che influssi negativi passino,
attraverso la bocca, alla sua persona.34 A tutela delle categorie mag-
giormente “a rischio”, a Roma le toghe dei bambini erano bordate

28
Cfr. J. André, Études sur les termes de couleur dans la langue latine, C. Klincksieck,
Paris 1949, p. 115; N. Boëls-Janssen, La vie religieuse des matrones dans la Rome arcaïque,
École francaise de Rome, Rome 1993, p. 133.
29
Schol. ad Iuv. 6, 225.
30
Lucan. 2, 354-364: festa coronato non pendent limine serta/ infulaque in geminos
discurrit candida postes/ legitimaeque faces gradibusque adclinis eburnis/ stat torus et picto
vestes discriminat auro/ turritaque premens frontem matrona corona/ translata vitat contingere
limina planta;/ non timidum nuptae leviter tectura pudorem/ lutea demissos velarunt flammea
vultus,/ balteus aut fluxos gemmis astrinxit amictus,/ colla monile decens umerisque haerentia
primis/ suppara nudatos cingunt augusta lacertos» («I serti festosi non pendono dalla soglia
incoronata, né la candida benda è distesa sugli stipiti, non ci sono le torce nuziali né il
talamo troneggia su gradini d’avorio né compaiono le vesti screziate d’oro o la matrona
che, con in capo la corona turrita, evita di toccare la soglia alzando il piede; il velo rosso,
destinato a proteggere con delicatezza il timido pudore della sposa, non copre il suo
volto chinato, né la cintura impreziosita di gemme stringe le vesti ondeggianti, né una
bella collana adorna il suo collo, né un piccolo mantello, scendendo dalla sommità delle
spalle, circonda le nude braccia»).
31
Plin. nat. 21, 46: lutei video honorem antiquissimum, in nuptialibus flammeis totum
feminis concessum («Trovo scritto che il luteus era un onore antichissimo, concesso solo
alle donne per i veli nuziali»). Cfr. C. Fayer, L’«ornatus» della sposa romana, in «Studi
Romani», 34 (1986), pp. 7-8.
32
Per questa teoria cfr. N. Boëls-Janssen, La fiancée embrasée, in H. Le Bonniec,
D. Porte, J.-P. Néraudau (a cura di), Res sacrae. Hommages à H. Le Bonniec, Latomus,
Bruxelles 1988, p. 22.
33
Petron. 28, 4: hinc involutus coccina gausapa lecticae impositus est («A questo punto,
avvolto in un accappatoio scarlatto, lo adagiano su una lettiga»).
34
Ivi 32, 2: pallio enim coccineo adrasum excluserat caput, circa oneratas veste cervices
laticlaviam immiserat mappam fimbriis hinc atque illinc pendentibus («Da un mantello
scarlatto lasciava infatti sbucare la testa rapata, e intorno al collo un tovagliolo con liste
di porpora e frange penzolanti qua e là»).
96  Ù Le verità del velo

di rosso35 e così le praetextae degli uomini politici; infine il rosso


ricordava il colore del sangue, a cui erano attribuite virtù magiche.36
Probabilmente, quindi, la tinta del velo era un arancione scuro ten-
dente al rosso e la foggia era ampia per la funzione protettiva che
doveva assolvere.
Va precisato però che, il flammeum era così denominato non solo
dal colore della fiamma, ma anche in riferimento al potere fecon-
dante del fuoco.37 Esso, del resto, è considerato elemento maschile,
in quanto vi sono sostanziate tutte le qualità di forza, di coraggio, di
ardore, di vitalità: come l’aria, infatti, è elemento attivo, la terra e
l’acqua sono elementi femminili perché freddi e passivi.
Che il fuoco possedesse poteri fecondanti era idea diffusa anche
nell’immaginario collettivo antico: in effetti esistono miti seconda-
ri che attestano la nascita di personaggi storici avvenuta grazie all’
intervento di questo elemento. Uno di questi ci narra una versione
diversa dell’origine divina di Romolo la cui nascita sarebbe il frutto
dell’unione di un simbolo fallico, comparso nel focolare della reggia
di Tarchezio, e di una giovane vergine;38 sia Plutarco che Ovidio so-
stengono che Servio, antico re di Roma, fu generato da una schiava
e dal Lar familiaris o addirittura da Vulcano, dio del fuoco:39 infine
Ceculo, fondatore di Preneste, sarebbe stato concepito in seguito al
contatto di una scintilla con il grembo della madre.40
Oltre al flammeum anche altri ornamenta della sposa avevano la stes-
sa tinta. Festo ci informa che faceva parte del corredo nuziale un
reticulus luteus,41 che serviva per raccogliere i capelli, mentre Catul-
lo42 testimonia che anche i calzari della nubenda erano del medesimo
colore: tutto concorreva alla salvaguardia della sposa e costituiva un
presagio di fecondità.
Un’ulteriore conferma di questo potere scaramantico del flam-
meum è offerta da Festo, che, accomuna la sorte della sposa a quella
della flaminica: flammeo amicitur nubens ominis boni causa quod eo adsidue
utebatur flaminica, id est flaminis uxor, cui non licebat facere divortium.43

35
I Romani consideravano sacra la purezza dei fanciulli e per questo ricorrevano a
diversi espedienti per preservarla. Per questo argomento cfr. infra.
36
E.E. Burris, Taboo. Magic, Spirits, a Study of Primitive Elements in Roman Religions,
Mcmillan and Co., New York 1931, pp. 78 ss.; J. Bayet, Croyances et rites dans la Rome
antique, Payot, Paris 1971, pp. 27-32.
37
Questo spiegherebbe, secondo N. Boëls-Janssen (La prêtresse aux trois voiles, in
«Revue des Études Latines», 67 [1989], pp. 117-133, p. 120) per quale motivo sia la sposa
che la flaminica erano le uniche persone insignite dell’onore di questo velo: infatti, se il
migliore augurio per una sposa era che fosse fertile, la flaminica, a sua volta, in virtù del
suo influsso benefico su tutta la città, aveva il potere di renderla prospera.
38
Plut. Rom. 2, 4.
39
Ov. fast. 6, 626-636, ma cfr. anche Plin. nat. 36, 204 e Dion. Hal. 4, 2, 1-3.
40
Verg. Aen. 7, 679-681 e 10, 543.
41
Fest. p. 364 L.
42
Catull. 61, 9-10.
43
Fest. p. 79 L.: «La sposa si avvolge con il flammeo per un augurio favorevole
Francesca RomanaIntroduzione
Nocchi ∙ Obnubilatio capitis Ù  97

Indossare il velo, dunque, era garanzia di un matrimonio duraturo:


la sacerdotessa, infatti, era legata indissolubilmente alla sua funzione
di mulier flaminis, come la sposa si augurava di esserlo al suo uomo.44
Si può ipotizzare che, per il velo nuziale, al valore originario del
colore rosso-arancio, simboleggiante, nelle sue varie gradazioni, il
potere fecondante del fuoco ed avente funzioni apotropaiche, si sia
sovrapposto in un secondo momento il concetto di purezza e onestà,
derivato dal ruolo particolare rivestito dalle spose e dalla flaminica
che lo indossavano. Per questo motivo, quando, con l’avvento del Cri-
stianesimo si dette maggior rilievo alla verginità della sposa, si optò
per la scelta del velo bianco.45
Un’ulteriore prova della funzione protettiva svolta dal velo pro-
viene da una consuetudo tipica della confarreatio: i nubentes, a detta di
Servio,46 stavano seduti su seggi uniti, sui quali era posta una pelle
di pecora sacrificata47 ed erano ricoperti entrambi da un velo (velatis

(ominis causa), poiché lo usava sempre la flaminica, ovvero la moglie del flamine, a cui
non era lecito divorziare».
44
Il mandato del flamen durava fino a quando era in vita la sua sposa; inoltre gli era
imposto il divieto assoluto di infrangere il matrimonio (per questo tema cfr. infra). Cfr.
N. Boëls-Janssen, Le statut religieux de la flaminica Dialis, in «Revue des Études Latines»,
51 (1974), pp. 77-100; A. Maiuri, Roma antica / 3 / Paramenti Sacri, Nuova Cultura, Roma
2007, pp. 35-45.
45
La Chiesa, però, continuò per un certo periodo, a utilizzare il velo rosso.
Sant’Ambrogio dice che il flammeum nuptiale ricopriva la testa della sposa durante la
cerimonia nuziale (P.L. 16, 5, col. 286.). Questa notizia è molto importante, perché
testimonia la permanenza del flammeum quale elemento distintivo nei riti matrimoniali,
confermandone il ruolo centrale rivestito sin dall’inizio nella cerimonia. Solo nel III-
IV secolo i cristiani adottarono l’uso del velo nuziale bianco, volendo ripudiare tutte
le consuetudini pagane (A. De Gubernatis, Usi nuziali in Italia e presso gli altri popoli
indoeuropei, Milano 1869, p. 145).
46
Serv. Aen. 4, 374: mos enim apud veteres fuit, flamini ac flaminicae, dum per
confarreationem in nuptias convenirent, sellas duas iugatas ovilla pelle superiniecta poni eius
ovis quae hostia fuisset, ut ibi nubentes velatis capitibus in confarreatione flamen ac flaminica
residerent («Fu costume presso gli antichi che i flamini e le flaminiche, sposandosi
secondo il rito della confarreatio, stessero seduti su seggi uniti, sui quali era posta una
pelle di pecora sacrificata e che fossero ricoperti da un velo»).
47
Secondo N. Boëls-Janssen, La vie religieuse des matrones, cit., pp. 154-158, i seggi
riuniti rappresentano il connubio degli sposi. Così anche A. De Gubernatis, Usi nuziali in
Italia e presso gli altri popoli indoeuropei, cit., p. 146, il quale riferisce il medesimo costume
per gli sposi indiani, che sedevano su una pelle rossa di toro; anche i russi solevano
utilizzare allo stesso scopo un tappeto di raso color rosa. La Boëls-Janssen inoltre ritiene
che Servio farebbe riferimento anche ad un’altra usanza che costituiva parte integrante
della cerimonia nuziale, il passaggio sotto il giogo da parte degli sposi (Serv. Aen. 4, 374:
sellas duas iugatas ovilla pelle), una sorta di rito di iniziazione, che purificava l’uomo e la
donna e segnava l’ingresso nella nuova vita. In realtà l’espressione utilizzata da Servio
potrebbe riferirsi semplicemente alla prassi di unire i seggi (sellas iugatas) degli sposi con
una pelle di animale sacrificato. Quest’uso è stato variamente interpretato: forse esso
poneva in diretto contatto con la divinità dal momento che la bestia era stata immolata;
d’altra parte Festo (p. 102 L.) ritiene che la scelta di questa pelle, per di più non ancora
conciata, servisse per ricordare alla donna la sua futura funzione di lanifica o fosse un
retaggio di quando gli uomini si vestivano di pelli animali; più verosimili le supposizioni
di E. Westermarck, Histoire du mariage, IV, Mercure de France, Paris 1935, pp. 217 e 285,
per il quale la pelle aveva lo scopo di proteggere gli sposi dagli influssi nefasti provenienti
dal mondo sotterraneo, oppure serviva per propiziare la fecondità della coppia.
98  Ù Le verità del velo

capitibus). Come la pelle aveva lo scopo di proteggere gli sposi dal


mondo sotterraneo, così il velo li preservava dal mondo esterno. Iso-
lamento, dunque, come precauzione che separa dall’impurità ciò
che deve rimanere intatto e a riprova dell’assimilazione e dell’adat-
tamento dei riti pagani da parte del Cristianesimo, veniamo a sape-
re che l’uso di stendere un velo su entrambi gli sposi permane nel
primo Cristianesimo e, probabilmente, anche nel Medioevo.48 L’e-
timologia del termine nuptiae deriverebbe proprio dall’importanza
attribuita al rito di coprire gli sposi con un drappo (obnubere) e di
velarsi (nubere).49 Anche i reperti archeologici confermano l’ipotesi:
nei pressi di Chiusi, a Poggio Gaiella, è stata rinvenuta un’urnetta
funeraria del VI-V sec. a.C., in cui sembrerebbe raffigurata proprio
la cerimonia della confarreatio nelle sue diverse fasi: vi compaiono
un suonatore di flauto che accompagna il corteo, un sacerdote, due
figure che sostengono un tessuto ondulato al di sopra di tre persone,
di cui una è sicuramente una donna e un’altra, probabilmente di ses-
so maschile, le tiene l’avambraccio.50 Sembra possibile identificare il
tessuto drappeggiato proprio con il velo che secondo la testimonian-
za di Servio veniva posto sulla testa degli sposi, il che avvalorerebbe
la tesi della centralità dell’uso del velo nei riti matrimoniali etruschi
ed in particolare nella confarreatio.

2.2. Isolare il vitium per proteggere il mondo esterno

Da baluardo di difesa dagli influssi esterni, il velo poteva divenire


strumento di segregazione e di isolamento degli impuri, perché non
nuocessero alla comunità: ciò è particolarmente vero per le donne.
In effetti la disposizione dei Romani verso le donne fluttuava fra la

48
L.A. Muratori, Antichità italiche, dissertazione XX.
49
Fest. p. 174 L.: flammeo caput nubentis obvolvatur, quod antiqui obnubere vocarint («Con
il flammeum si ricopre il capo di chi si sposa, cosa che gli antichi chiamarono obnubere»);
Id. p. 201 L.: obnubit, caput operit; unde et nuptiae dictae a capitis opertione («Obnubit, copre
il capo; da cui anche le nozze sono chiamate dalla copertura del capo»); Non. pp. 208-
209 L.: nubere veteres non solum mulieres, sed etiam viros dicebant, ita ut nunc Itali dicunt («Gli
antichi riferivano il termine nubere non solo alle donne ma anche agli uomini, così come
ora dicono Itali»); Isid. orig. 9, 7, 10-11: nuptae dictae, quod vultus suos velent. Translatum
nomen a nubibus, quibus tegitur caelum. Unde et nuptiae dicuntur, quod ibi primum nubentium
capita velantur. Obnubere enim cooperire est. Cuius contraria innuba, hoc est innupta, quae
adhuc vultum suum non velat («Le nuptae sono chiamate in questo modo perché velano
il proprio volto: è nome figurato, derivato da quello delle nubi che coprono il cielo. Da
qui anche il fatto che si parli di nuptiae, perché in occasione di esse si vela per la prima
volta il capo delle future spose: obnubere, infatti, significa coprire. Il contrario di sposa è
innuba, ossia non sposata: costei non vela ancora il proprio volto»).
50
L. Peppe (L’urnetta n. 2260 di Chiusi ed il matrimonio romano arcaico. Alcuni spunti
sulla formazione del diritto, in S. Romano et al. (a cura di), Nozione formazione e interpreta-
zione del diritto. Dall’età romana alle esperienze moderne. Ricerche dedicate al Professor F. Gallo,
II, Jovene, Napoli 1997, pp. 97-139) sostiene che il collegamento fra il passo di Servio
e la scena dipinta sull’urna di Chiusi sia indizio di una penetrazione nel VI sec. a.C. di
elementi rituali etruschi nel matrimonio romano (p. 108).
Francesca RomanaIntroduzione
Nocchi ∙ Obnubilatio capitis Ù  99

riconoscenza e la paura, il rispetto e la sfiducia. Questa dicotomia


era dovuta all’ambiguità della natura femminile, buona e generosa,
in quanto datrice di vita, pericolosa in quanto il suo corpo sacro
cela molteplici poteri, come è testimoniato da numerosi aneddoti
pseudostorici, che attribuiscono alle donne la salvezza della città; al
contrario la donna è esclusa da certi culti, perché nociva. Il corpo
femminile appare come un oggetto magico: spogliarlo o coprirlo
corrisponde a reprimere o liberare le sue potenzialità. Ad esempio
la denudazione del seno aveva uno scopo propiziatorio, soprattutto
in quanto fonte magica del latte: secondo Plinio il Vecchio51 addirit-
tura le fasce che lo avvolgevano acquisivano le sue virtù, infatti erano
usate per calmare il mal di testa. Le stesse considerazioni possono
essere avanzate soprattutto a proposito dei piedi nudi, efficace rime-
dio contro gli insetti dei campi,52 delle unghie, ingrediente di ogni
sortilegio, ma soprattutto dei capelli. Secondo Varrone,53 è dall’at-
tenzione rivolta alla pettinatura che alla donna deriva il suo fascino.
La capigliatura femminile aveva una funzione apotropaica e l’accon-
ciatura era regolamentata proprio in virtù della sua potenza nociva
o benefica nei confronti della comunità: i capelli, infatti, venivano
sciolti dalle meretrici per conquistare gli uomini o dalle matrone
durante alcune cerimonie religiose, come quelle atte a propiziare la
pioggia. Secondo la testimonianza di Plinio il Vecchio: quae ex mulie-
rum corporibus traduntur, ad portentorum miracula accedunt […]: capilli,
si crementur, odore serpentes fugari, eodem nitore vulvae morbo strangulatas
respirare; cinere eo quidem, si in testa sint cremati vel cum spuma argenti,
scabritias oculorum ac prurigines emendari;54 così Petronio: antea stola-
tae ibant nudis pedibus in clivum, passis capillis, mentibus puris, et Iovem
aquam exorabant.55 Infine, sembra che lo scioglimento dei capelli nel-
le occasioni di lutto avesse un valore apotropaico,56 poiché, secondo

51
Plin. nat. 28, 76.
52
Ivi 28, 78: si nudatae segetem ambiant, urucas et vermiculos scarabaeosque ac noxia alia
decidere […]. Alibi servatur, ut nudis pedibus eant capillo cinctuque dissoluto («Se le donne
indisposte percorrono nude il perimetro di un campo di grano, cadono dalle spighe i
bruchi, i piccoli vermi, gli scarabei e gli altri insetti nocivi […] Altrove vige l’usanza di
andare in giro a piedi nudi coi capelli sciolti e la cintura slacciata»).
53
Varro ling. 7, 44.
54
Plin. nat. 28, 70-71: «I rimedi che si fanno derivare dal corpo della donna
assomigliano a prodigi mostruosi […] l’odore dei capelli bruciati della donna
metterebbe in fuga i serpenti, questa stessa esalazione ridarebbe respiro alle donne
che soffocano per un attacco isterico; la cenere di quei capelli, calcinati in un vaso di
terracotta oppure insieme al letargirio, guarirebbe le granulazioni delle palpebre e il
prurito degli occhi, così pure le verruche e le ulcere dei fanciulli».
55
Petron. 44, 18: «Un tempo le dame dell’aristocrazia ascendevano il colle a piedi
nudi, sparsi i capelli, puro il cuore, e pregavano Iuppiter per la pioggia».
56
Cfr. Liv. 26, 9, 7-8: undique matronae in publicum effusae circa deum delubra discurrunt,
crinibus passis aras verrentes («Ovunque le matrone riversatesi nelle strade corrono di qua
e di là intorno agli altari degli dei sfiorandoli con le chiome sciolte»; Plut. quaest. Rom.
14, 267a-c); J. Gagé, Matronalia. Essai sur les dévotions et les organisations cultuelles des femmes
dans l’ancienne Rome, (“Latomus”, 60), Latomus, Bruxelles 1963, p. 168, n. 2.
100  Ù Le verità del velo

la mentalità comune, essi proteggevano i vivi dal mondo dei morti.


Da un passo di Cesare,57 addirittura, veniamo a sapere che i capelli
erano usati per realizzare strumenti di guerra. Da tutte queste testi-
monianze si può dedurre che gli antichi sentissero l’esigenza di do-
minare o, quanto meno di contenere i poteri magici insiti nella capi-
gliatura femminile, a questo si aggiungano le potenzialità seduttive
che essa possedeva, fonte di perdizione per l’uomo. A questo scopo
si riteneva indispensabile velare il capo delle donne ed anche la loro
pettinatura era regolamentata secondo un rigido codice: ad esempio
le matrone portavano i capelli legati in uno chignon, il tutulus, avvolto
in bende,58 affinché non potessero traviare con il proprio fascino gli
uomini, oggetto passivo dei loro sortilegi, e per lo stesso motivo non
uscivano mai se non con il capo coperto.
Infine, Plutarco59 narra che la Vestale colpevole di incesto era ve-
lata con il flammeum per evitare che contaminasse il resto della gente
e per lo stesso motivo era portata su una lettiga chiusa. Da Isidoro60
sappiamo che esisteva un manto speciale destinato a ricoprire le im-
pudicae, l’amiculum: esso veniva indossato dalle matrone sorprese in
adulterio, che proprio in virtù di questo velo potevano essere ricono-
sciute e distinte dalle altre donne oneste. Allo stesso modo uno sco-
liasta omerico61 ci informa che, secondo un’antica usanza, l’autore di
un delitto involontario doveva andar via dalla sua patria, entrare nella
casa di uno sconosciuto e sedersi al suo focolare con la testa velata per
purificarsi della sua colpa.

3. Significato religioso del velo

3.1. La consecratio

A Roma nel suo significato religioso il velo è indumento comune


dell’uomo e della donna: in effetti, sin dall’epoca arcaica, come si è

57
Caes. civ. 3, 9, 3: sed celeriter cives Romani ligneis effectis turribus sese munierunt,
et cum essent infirmi ad resistendum propter paucitatem hominum crebris confecti vulneribus,
ad extremum auxilium descenderunt servosque omnes puberes liberaverunt et praesectis omnium
mulierum crinibus tormenta effecerunt («Ma subito i cittadini romani, costruite delle
torri di legno, provvidero alla propria difesa e poiché la resistenza risultava difficile
per mancanza di uomini, sfiniti dalle ripetute ferite, si ridussero all’estremo rimedio:
liberarono tutti gli schiavi adulti e fecero tagliare le chiome a tutte le donne per
ricavarne corde per le macchine da guerra»).
58
Cfr. Ov. fast. 4, 134.
59
Plut. Numa 10, 12.
60
Isid. orig. 19, 25, 5: amiculum est meretricum pallium lineum. Hunc apud veteres
matronae in adulterio deprehensae induebantur, ut in tali amiculo potius quam in stola polluerent
pudicitiam. Erat enim apud veteres hoc signum meretriciae vestis, nunc in Hispania honestatis
(«L’amiculum è il mantello di lino delle meretrici. Anticamente lo indossavano anche
le matrone sorprese in adulterio perché il loro pudore macchiato non poteva essere
coperto da una stola. L’amiculum infatti era presso gli antichi simbolo di meretricio,
mentre oggi, in Ispania, è segno di onestà»).
61
Schol. ad Iliad. 24, 480.
Francesca RomanaIntroduzione
Nocchi ∙ Obnubilatio capitis Ù  101

accennato, il velo era ornatus indispensabile delle cerimonie religio-


se. Plutarco62 rammenta che é usanza tipica dei Romani coprirsi la
testa quando rivolgono preghiere a un dio e Varrone63 conferma che
le donne, quando sacrificano Romano ritu si velano la testa.
In questo senso l’uso del velo è testimoniato anche nelle con-
sacrazioni alle divinità: si tratta di atti di adorazione in cui il velo
simbolicamente isola e preserva al dio persone ed oggetti; ad esem-
pio il costume del ver sacrum prevedeva che i genitori, i quali, per
essere salvati da qualche pericolo, avessero fatto voto agli dei di im-
molare i figli nati in primavera, potessero mutare tale sacrificio in
una devotio. In base a questa consuetudo i giovani, dopo essere stati
velati, venivano cacciati dal territorio e abbandonati alla volontà di-
vina. In questo caso il velo diviene simbolo di remissione totale: ver
sacrum vovendi mos fuit Italis. Magnis enim periculis adducti vovebant,
quaecumque proximo vere nata essent apud se, animalia immolaturos. Sed
cum crudele videretur pueros ac puellas innocentes interficere, perductos in
adultam aetatem velabant atque ita extra fines suos exigebant.64 Famoso
è anche il caso dei Deci, entrambi autori di una devotio attuata per
salvare i propri eserciti: in particolare, a proposito di Decio Mure,
Livio ci dice che il Pontefice, in questa occasione, gli velò il capo.65
La stessa procedura della consecratio capitis era rispettata per la con-
secratio bonorum, ovvero per la dedica di un luogo ad un dio: per esem-
pio, quando Clodio fece espropriare la tenuta di Cicerone e vi fece
costruire un tempio, il magistrato che celebrò questa cerimonia aveva
la testa velata, evidentemente perché quando l’oggetto del dono non
è una creatura umana, è il donatore che prende il velo.66 Un’ulteriore
prova di questa proprietà transitiva proviene da Catone, il quale ci te-
stimonia che i fondatori di una nuova città, nel tracciare il perimetro

62
Plut. quaest. Rom. 10, 266c, ma per questo passo cfr. supra pp. 84-85. Proprio in
virtù del loro ufficio anche i flamini e gli auguri si coprivano con un velo (cfr. Varro
ling. 5, 84; Liv. 1, 18, 7).
63
Varro ling. 5, 130, infra nota 123.
64
Fest. pp. 519-520 L.: «La primavera sacra fu l’usanza tipica dei Romani di offrire
in voto. Infatti, indotti da gravi pericoli promettevano di immolare qualsiasi figlio
fosse nato loro nella primavera successiva. Poiché sembrava crudele uccidere fanciulli e
fanciulle innocenti, una volta giunti ad età matura li velavano e così li spingevano al di
fuori dei loro territori».
65
Liv. 8, 9, 4-5: in hac trepidatione Decius consul M. Valerium magna voce inclamat:
‘Deorum —inquit— ope, M. Valeri opus est: agedum, pontifex publicus populi Romani, praei
verba, quibus me pro legionibus devoveam’. Pontifex eum togam praetextam sumere iussit et
velato capite, manu subter togam ad mentum exserta, super telum subiectum pedibus stantem sic
dicere» («In questa confusione il console Decio gridò a gran voce a Marco Valerio: “O
Valerio, disse, c’è bisogno dell’aiuto degli dei: orsù, dunque, pubblico pontefice del
popolo romano, dettami le parole rituali con cui io devo offrirmi in voto per l’esercito”.
Il pontefice gli ordinò di indossare la toga pretesta e di dire queste cose stando in piedi
su di un giavellotto, col capo velato e con la mano protesa sotto la toga fino a toccare
il mento»).
66
Cic. dom. 47-48.
102  Ù Le verità del velo

delle mura, avevano la testa ricoperta dalla toga.67 Anche Pompeo e


Cesare, morendo, coprirono la propria testa con la veste: è possibile
ipotizzare che non fu paura quella che li spinse a questo atto, ma il
desiderio di votarsi agli dei;68 alla medesima tipologia appartiene il
costume arcaico di velare i condannati a morte.69 Infine, era costume
delle donne in procinto di partorire di velare il capo e impetrare la
protezione divina.70 Il velo sacrificale romano rappresenta, dunque,
la consacrazione temporanea della vita di colui che lo porta, durante
tutto il tempo in cui resta velato. Rientra in questa fattispecie il rito
del velamento della mano destra, tipico del culto della Fides: Numa
stabilì che quando si sacrificava a questa divinità si doveva velare sim-
bolicamente la mano destra, perché la si considerava inviolabile e
consacrata, nonché segno tangibile del patto.71
Anche il matrimonio romano può essere considerato una forma
di consecratio: la cerimonia, infatti, sancisce l’esclusiva dedizione del-
la nupta al culto domestico dello sposo e determina la sua rinuncia
alle tradizioni della famiglia d’origine. Il flammeum, dunque, non solo
proteggeva la sposa, ma la consacrava alla nuova gens. A riprova della
totale sottomissione della sposa al marito si può ricordare che, se-
condo un’antica consuetudo, presto decaduta, la virgo nubens tagliava
i propri capelli e ne faceva dono al suo sposo al momento della cele-
brazione, esplicitando così la sua rinuncia ad ogni velleità attrattiva
che non fosse direttamente rivolta al legittimo consorte.72

67
Serv. Aen. 5, 755: conditores enim civitatis taurum in dexteram, vaccam intrinsecus
iungebant, et incincti ritu Gabino, id est togae parte caput velati […] sulco ducto loca murorum
designabant («Infatti i fondatori della città univano un toro a destra, una mucca
all’interno e dopo essersi coperti secondo il rito Gabino, cioè avendo velato il capo con
una parte della toga, […] tracciato il solco, stabilivano il tracciato delle mura»).
68
Plut. Pomp. 79.
69
Livio (1, 26, 6), a proposito dell’istituzione dei duoviri perduellionis, afferma: lex
horrendi carminis erat: ‘duumuiri perduellionem iudicent; si a duumviris provocarit, provocatione
certato; si vincent, caput obnubito; infelici arbori reste suspendito; verberato vel intra pomerium
vel extra pomerium’» («La formula della legge era terribile: “I duumviri giudichino del
reato di alto tradimento; se il reo ricorrerà contro la sentenza dei duumviri, si appelli al
popolo; se i duumviri prevarranno, gli sia velato il capo e sia appeso con una fune ad un
albero infecondo; sia frustato sia dentro le mura che fuori dalle mura”»). Cfr., inoltre, a
questo proposito, R. Reinach, Cultes, mythes et religions, I, E. Leroux, Paris 1908, p. 304.
70
Plaut. Amph. 1091-1094: postquam parturire hodie uxor occepit tua/ ubi utero exorti
dolores, ut solent puerperae/ invocat deos immortales, ut sibi auxilium ferant,/ manibus puris,
capite operto («Quando oggi tua moglie doveva partorire, appena ha sentito giungere
i dolori delle doglie, come sono solite fare le puerpere, ha invocato gli dei perché la
soccorressero, dopo essersi lavata le mani ed aver velato il capo»).
71
Liv. 1, 21, 4: et soli Fidei sollemne instituit. Ad id sacrarium flamines bigis curru arcuato
vehi iussit manuque ad digitos usque involuta rem divinam facere, significantes fidem tutandam
sedemque eius etiam in dexteris sacratam esse («Istituì anche un apposito culto alla Fides;
prescrisse che i Flamini fossero condotti al suo santuario su di una biga coperta da una
tenda arcuata, e che eseguissero il rito con la mano velata fino alle dita, a significare che
la fede data si deve custodire e proteggere, e che la mano destra deve essere considerata
sua sede sacra»).
72
N. Boëls-Janssen, La vie religieuse des matrones, cit., p. 110 ha ipotizzato che si
tratti di un retaggio di un rito di iniziazione all’età adulta, successivamente inglobato
Francesca RomanaIntroduzione
Nocchi ∙ Obnubilatio capitis Ù  103

L’uso del velo ha la medesima funzione nell’antica liturgia roma-


na: alle vergini che hanno intenzione di consacrarsi a Dio, la Chiesa
domanda un sacrificio assoluto ed una rinuncia alla vita passata di cui
la velatio è simbolo. Anche in questo caso, dunque, si è mantenuto il
senso religioso del velo romano, ma l’uomo ne è stato estromesso, a
causa di una tradizione secolare, di cui si parlerà fra breve, in base
alla quale solo la donna pudica deve coprire la testa, nascondendo
i propri capelli e preservandosi per il proprio sposo. A tal proposito
sarà sufficiente richiamare alla memoria l’immagine della Monaca di
Monza e del suo ciuffo ribelle, segno tangibile, appunto, della corru-
zione della donna.
In una lettera ai vescovi Galli, il Papa Siricio distingue la vergine
votata a Dio con una sola promessa verbale (puella nondum velata),
da quella che ha fatto voto pubblico con una cerimonia solenne e
con la presa del velo (virgo velata iam Christo).73 Nel mondo cristiano
l’espressione “consacrarsi” è spesso sostituita dalla perifrasi “prende-
re il velo”, evidentemente il velo ufficializzava il rito, garantendone
la solennità e la perpetuità. Cosa ben più straordinaria, veniamo a
sapere che in questa occasione anche le monache utilizzavano per
la consacrazione il medesimo velo rosso-arancio indossato dalle spo-
se romane. Lodando la vergine Ambrosia,74 Sant’Ambrogio dice che
ella era circondata dalle massime virtù e «rivestita del velo purpureo
del sangue di Cristo». Anche San Girolamo, parlando della consa-
crazione di Demetriade, definisce il velo flammeum virginale sanctum
o Christi flammeum:75 ci si sarebbe aspettati la scelta del suffibulum
bianco, soprattutto in virtù dell’analoga consacrazione perpetua che
accomunava le Vestali e le Spose di Cristo,76 ma la Chiesa preferisce
porre in rilievo l’amore promesso a Dio dalle monache, come quello
delle mogli ai mariti, piuttosto che la purezza della sposa, perché il
flammeum diviene il simbolo «dell’amore mistico delle vergini che si

nelle cerimonie nuziali. In effetti anche ai fanciulli, in occasione di tali riti, veniva
praticata la medesima tonsio, caratterizzata da un taglio fino alla nuca, secondo
quanto testimoniato delle statue votive a Lavinio; invece a Sparta alle spose venivano
completamente rasati i capelli (M. Torelli, Lavinio e Roma. Riti iniziatici e matrimonio fra
archeologia e storia, Quasar, Roma 1984, pp. 31 ss.). Del resto si potrebbe pensare anche
ad un uso specificamente nuziale tipico dell’area romano-etrusca, che prevedeva un
taglio parziale della capigliatura e non totale come in Laconia. Luciano (dea Syr. 60) ci
informa che a Trezene sia i giovani che le fanciulle offrivano i propri capelli a Ippolito
prima di sposarsi; Plutarco (Lyc. 15, 5) dice che a Sparta la giovane sposa era affidata ad
una donna chiamata nympheutria che la vestiva da uomo, le rasava i capelli e la metteva
sopra un pagliericcio al buio, in attesa che il marito la prendesse e la portasse sul letto
nuziale. Su questi travestimenti maschili o femminili, cfr. M. Delcourt, Hermaphrodite.
Mythes et rites de la bisexualité classique, Presses Universitaires de France, Paris 1958.
73
P.L. 13 coll. 1182-1183.
74
Ivi, 16, 17, col. 332.
75
Hier. epist. 130, 2, 3 e 147, 6, 2.
76
R. Schilling, Vestales et vierges chrétiennes dans la Rome antique, in «Revue des
Sciences Religieuses», 35 (1961), pp. 113-129.
104  Ù Le verità del velo

consacrano a Dio».77 Il significato della velatio, quindi, trae origine


dagli antichi culti pagani, in particolare dalla devotio, quale offerta
della propria persona alle divinità. Il colore del velo monacale venne
modificato solo nel VII secolo;78 la prima menzione di un velo bian-
co si trova nel Pontificale romano-germanico: accipe puella pallium (velo
sacro) quod perferas sine macula. Inoltre, nel Concilio di Toledo del
656 si decise che le vedove che intendevano votarsi a Dio dovevano
indossare un velo rosso o nero, il che implica un colore di contrasto
con quello delle vergini.79

3.2. Il suffibulum

Il velo per eccellenza destinato alla consacrazione era il suffibulum,


ornatus tipico delle Vestali, che avevano il delicato compito di custodi-
re il fuoco sacro da cui i Romani facevano dipendere la sopravvivenza
dello Stato. Esso è simbolo di aggregazione civile e statale, nonché di
purificazione, ma mantiene ancora le prerogative maschili di forza e
potenza, riferito al perdurare dello Stato; non a caso Servio,80 com-
mentatore di Virgilio, sottolinea che il termine focus spesso designa
i Penati, simbolo delle tradizioni e della stessa casa, mentre Livio81
definisce il fuoco conservato nel tempio di Vesta pignus imperii Ro-
mani. Del resto il culto di Vesta aveva a Roma un carattere essenzial-
mente politico, dal momento che la dea era considerata protettrice
dello Stato e nel penus Vestae, cioè il luogo più riposto del santuario,
cui accedevano le sole Vestali, erano conservati i Penati. È evidente,
quindi, l’importanza deputata all’abbigliamento delle sacerdotesse,
connotativo della loro funzione e delle qualità richieste per assolvere
a questo ruolo così prestigioso.
Le notizie relative al suffibulum ci sono trasmesse ancora una vol-
ta da Festo: suffibulum vestimentum album, praetextum, quadrangulum,
oblungum, quod in capite Vestales virgines sacrificantes habebant, idque fi-
bula comprehendebatur.82 La scelta del colore non è affatto casuale: il
bianco rappresenta la purezza, che per questo sacerdozio diviene
elemento imprescindibile, quasi costitutivo. Infatti, l’infrazione del
voto di castità non era ritenuta un semplice crimine, se pur grave,

77
Cfr. R. Schilling, Le flammeum, voile sacré, voile profanum, in «Revue des Études
Latines», 34 (1956), pp. 67-68; Id., Le voile de consécration dans l’ancien rit romain, in
Mélanges en l’honneur de Mons. Michel Andrien, Université de Strasbourg, Strasburg 1956,
pp. 403-414.
78
Cfr. R. Metz, La consécration des vierges dans l’église romaine, Université de Strasbourg,
Paris 1954, p. 203.
79
J.D. Mansi, Sacrorum conciliorum nova et amplissima collectio, Zatta, Venetiae 1757-
1798, XI, 35.
80
Serv. Aen. 3, 134.
81
Liv. 26, 27, 14.
82
Fest. p. 475 L.: «Il suffibulum è un velo quadrangolare, bianco, bordato di porpora,
di forma allungata, che le vergini Vestali sono solite avere sul capo quando sacrificano
ed è fermato da una fibbia».
Francesca RomanaIntroduzione
Nocchi ∙ Obnubilatio capitis Ù  105

riguardante i singoli responsabili, ma investiva tutta la comunità, lo


Stato in quanto tale, tanto da coinvolgere le istituzioni e richiedere
addirittura sacrifici espiatori;83 la colpevole di incesto, se scoperta,
veniva sepolta viva. Livio racconta che Minucia, macchiatasi di questo
crimine, subì nel 417 questa punizione e fu sepolta presso Porta Col-
lina, nel luogo che da lei prese il nome di Scellerato: eo anno Minucia
Vestalis, suspecta primo propter mundiorem iusto cultum […] facto iudicio
viva sub terram ad Portam Collinam dextra viam stratam defossa Scelerato
campo.84 Una sorte analoga ebbe Opimia, mentre Floronia, anche lei
colpevole di incesto, preferì suicidarsi piuttosto che morire in modo
così atroce e infamante.85 Festo ricorda anche una legge affissa all’A-
trium Libertatis, in base alla quale chi avesse violato una Vestale sareb-
be stato frustato a morte: probrum virginis Vestalis ut capite puniretur, vir,
qui eam incestavisset, verberibus necaretur: lex fixa in atrio Libertatis cum
multis aliis legibus incendio consumpta est.86 Anche un abbigliamento
fuori luogo era una colpa per le Vestali: Minucia, infatti, divenne so-
spetta proprio per la sua eccessiva eleganza,87 mentre nel 420 a.C. una
Vestale di nome Postumia fu accusata di aver violato i voti di castità
perché troppo curata.88 L’importanza della castità della Vestale, come
si è accennato, aveva motivazioni di carattere pubblico: ella, infatti,

83
Cfr. S. Boldrini, Verginità delle Vestali: la prova, in R. Raffaelli (a cura di), Vicende
e figure femminili in Grecia e a Roma, Commissione delle pari opportunità fra uomo e
donna della Regione Marche, Ancona 1995, pp. 295-300; M. C. Martini, Carattere e
struttura del sacerdozio delle Vestali: un approccio storico-religioso, in «Latomus. Revue et
collection d’études latines», 56, 2 (1997), pp. 245-263; M. Salvadore, La Vestale incesta, in
M. Passalacqua, M. De Nonno, A.M. Morelli (a cura di), Venuste noster. Scritti offerti a L.
Gamberale, OLMS, Zürich-New York 2012, pp. 549-612.
84
Liv. 8, 15, 7-8: «In quell’anno la Vestale Minucia, dapprima sospettata per la sua
eccessiva eleganza […] processata e condannata fu sepolta viva presso Porta Collina
accanto alla via lastricata nel campo Scellerato».
85
Liv. 22, 57, 2 e 4: territi etiam super tantas clades cum ceteris prodigis, tum quod duae
Vestales eo anno, Opimia atque Floronia, stupri compertae et altera sub terra, uti mos est, ad
Portam Collinam necata fuerat, altera sibimet ipsa mortem consciverat […] Hoc nefas cum inter
tot, ut fit, clades in prodigium versum esset, decemviri libros adire iussi sunt («Oltre a così
grandi sventure, furono anche atterriti non solo da ogni altro genere di prodigi, ma
anche dal fatto che quell’anno due Vestali, Opimia e Floronia, erano state riconosciute
colpevoli di violazione della castità e l’una era stata sepolta viva, come è costume, presso
la porta Collina, l’altra si era data la morte da sé […] Poiché questo atto di empietà,
in mezzo a tante disgrazie, come succede, era stato interpretato come un prodigio, si
ordinò ai decemviri di consultare i libri»).
86
Fest. p. 277 L.: «Per punire l’oltraggio di una vergine Vestale con la morte, l’uomo
che aveva avuto rapporti sessuali con lei doveva venire ucciso a colpi di verghe: la legge,
affissa nell’atrio della Libertà, andò distrutta nell’incendio insieme a molte altre leggi».
87
Liv. 8, 15, 7-8, supra.
88
Liv. 4, 44, 11-12: Postumia, virgo Vestalis, de incestu causam dixit crimine innoxia, ab
suspicione propter amoeniorem ingeniumque liberius quam virginem decet parum abhorrens. Eam
ampliatam, deinde absolutam pro collegii sententia pontifex maximus abstinere iocis colique sancte
potius quam scite iussit («La Vestale Postumia fu accusata di amore sacrilego, per quanto
innocente, ma davano sospetto la sua eccessiva cura della persona e la sua condotta più
libera di quanto convenisse ad una vergine. La causa fu differita, poi Postumia venne
assolta, ma il Pontefice Massimo, in base al parere del collegio, le ordinò di astenersi da
ogni lusso eccessivo e di ornarsi più di santità che di eleganza»).
106  Ù Le verità del velo

non poteva maritarsi in quanto almeno per trent’anni doveva esse-


re completamente devota ai sacra della famiglia che l’aveva adottata,
ovvero Roma. Quando le giovinette avevano 6-10 anni, venivano pre-
scelte dal Pontefice Massimo e consacrate tramite la cerimonia della
captio,89 nel corso della quale venivano letteralmente strappate dalle
braccia della propria famiglia dal pontefice che pronunciava la frase
«Amata te capio»: con questo rito la fanciulla passava dalla potestà del
padre a quella del pontefice e trascorreva almeno trent’anni al ser-
vizio della dea, di cui dieci nell’apprendistato, dieci nell’esecuzione
delle proprie mansioni ed infine ulteriori dieci con funzione di mae-
stra. Le Vestali, proprio in virtù dello stato di castità permanente che
si esigeva da loro, e anche per la loro devozione al fuoco, agente di
purificazione per eccellenza, sovraintendevano a tutti i riti di lustratio
della città: durante i Parilia il popolo sfilava davanti al santuario di
Vesta e le sacerdotesse distribuivano gli ingredienti per la santifica-
zione, come ceneri di vitelli nati morti; in occasione dei Vestalia, il 15
giugno, veniva pulito il tempio e le donne scendevano verso di esso a
piedi nudi portando delle offerte.90
Evidentemente, dunque, la scelta del velo bianco trovava la sua
giustificazione in questo ruolo emblematico assunto dalle Vestali, sia
per la simbologia sottesa al colore sia per la ricerca di un abbiglia-
mento semplice, che non attirasse sguardi indiscreti e cancellasse
ogni velleità seduttiva da parte della sacerdotessa, che rinunciava così
alla sua identità di donna per consacrarsi totalmente al suo ruolo e
alla dea. Del resto sappiamo anche che ella non aveva diritto a far uso
di profumi, fiori e vesti colorate: l’abito versicolor e la poliedricità cro-
matica dei fiori, infatti, erano considerati dai Romani come emblemi
di «mutevolezza, instabilità delle cose, incertezza e ambiguità delle
apparenze».91

89
Gell. 1, 12, 11-14: sed Papiam legem invenimus qua cavetur ut pontificis maximi arbitratu
virgines e populo viginti legantur sortitioque in contione ex eo numero fiat et, cuius virginis ducta
erit, ut eam pontifex maximus capiat eaque Vestae fiat […] Capi autem virgo dici videtur quia
pontificis maximi manu prensa ab eo parente in cuius potestate est, veluti bello capta abducitur.
In libro primo Fabii Pictoris quae verba pontificem maximum dicere oporteat cum virginem capiat
scriptum est. Ea verba haec sunt: ‘Sacerdotem Vestalem quae sacra faciat quae ius siet sacerdotem
Vestalem facere pro populo Romano Quiritibus, uti quae optima lege fuit, ita te, Amata, capio’
(«Troviamo però la legge Papia, con la quale si dispone che siano scelte tra il popolo
venti vergini a discrezione del pontefice massimo, e poi da questo numero si tragga a
sorte nell’assemblea; e che la vergine estratta a sorte, il pontefice massimo la prenda
ed essa appartenga a Vesta […] La vergine, poi, si dice che viene presa perché viene
afferrata per mano dal pontefice massimo e così portata via, come una preda di guerra,
al genitore che l’ha in potestà. Nel primo libro di Fabio Pittore è documentata la formula
che il pontefice massimo deve pronunciare nell’atto di prendere la vergine. Le parole
sono: “Così ti prendo, o Amata, come sacerdotessa Vestale per celebrare i riti che una
sacerdotessa Vestale è giusto che celebri nell’interesse del popolo Romano e dei Quiriti,
essendo compiutamente idonea secondo la legge”»).
90
D. Porte, Les donneurs de sacré. Le prêtre à Rome, Les Belles Lettres, Paris 1989, p. 121.
91
Cfr. D. Segarra Crespo, L’abito della dea Flora, in Roma antica / 2 / Costumi
tradizionali, Nuova Cultura, Roma 2007, p. 92.
Francesca RomanaIntroduzione
Nocchi ∙ Obnubilatio capitis Ù  107

Festo dice anche che il suffibulum era orlato di porpora:92 questo


elemento lo accomuna alla toga praetexta. Quest’indumento tradizio-
nale romano era indossato, oltre che dai fanciulli e dalle fanciulle,
anche dai magistrati e dai pontefici. La porpora rappresentava, sin
dall’epoca imperiale, il potere politico e religioso, e proprio in virtù
di quest’ultimo era ammessa per i fanciulli ai quali si doveva, a detta
dello stesso Giovenale, il più grande rispetto;93 inoltre si credeva che
fosse dotata di virtù magiche e protettive, tanto che addirittura Persio
la definisce “custode” della sua fanciullezza: cum primum pavido custos
mihi purpura cessit/ bullaque subcintis Laribus donata pependit.94 Quinti-
liano asserisce che per mezzo di essa la debolezza diveniva sacralità:
illud sacrum praetextarum [...] quo infirmitatem pueritiae et sacram facimus
et venerabilem;95 infine non si deve dimenticare che il rosso aveva va-
lore apotropaico. La pretesta, dunque, proteggeva essenzialmente la
sacralità dei magistrati e dei sacerdoti e l’innocenza dei fanciulli,96
qualità che conferiva loro una capacità religiosa; di conseguenza la
sua deposizione, oltre a marcare l’accesso all’età adulta e allo status
di civis e di matrona, rappresentava anche la perdita di purezza a causa
dell’incontro con la sessualità per l’uomo e la donna, nonché l’in-
gresso nella vita militare, esclusivamente per l’uomo.97 Si può dun-
que presupporre che anche nel caso delle Vestali il bordo di porpora
servisse a sottolineare la sacralità e inviolabilità del sacerdozio: infatti
la sacerdotessa, in cambio del suo sacrificio di devozione, godeva di
massimi onori pubblici: era preceduta da un littore, i magistrati per
strada le cedevano il passo, deponeva in tribunale senza giuramento e
poteva graziare un condannato a morte se lo incontrava per strada.98
Il suffibulum traeva il nome dalla spilla che veniva applicata sul pet-
to per fermarlo: i sacerdoti che la indossavano erano detti infibulati,99
dal momento che questa spilla rivestiva una grande importanza in

92
Fest. p. 475 L., cfr. supra p. 98.
93
Iuv. 14, 47.
94
Pers. 5, 30-31: «Non appena la custodia della toga pretesta lasciò libero me ancora
timido e il mio ciondolo d’oro fu appeso come offerta ai succinti Lari».
95
Ps.-Quint. decl. 340, 13: «L’inviolabilità delle preteste […] con cui rendiamo sacra
e venerabile la debolezza».
96
Non è un caso, probabilmente, che Isidoro faccia risalire l’etimologia di puer da
purus (Isid. orig. 11, 2, 10).
97
Per i riti vestimentari in occasione della deposizione della praetexta, cfr. J.P.
Néraudau, La jeunesse dans la littérature et les institutions de la Rome républicaine, Les Belles
Lettres, Paris 1979, p. 156 e F.R. Nocchi, Morte e rinascita simbolica: il cambio d’abito, in S.
Botta (a cura di), Abiti, corpi, identità. Atti del convegno ‘L’abito sì che lo fa il monaco’, Società
Editrice Fiorentina, Firenze 2009, pp. 169-202.
98
P. Chini, La religione, Quasar, Roma 1990, pp. 67-68.
99
Fest. p. 100 L.: infibulati sacrificabant flamines propter usum aeris antiquissimum
aereis fibulis («I flamini sacrificavano infibulati, a causa dell’uso antichissimo del
bronzo attuatosi per mezzo di fibbie realizzate con questo metallo»); Id. p. 475 L.: idque
(suffibulum) fibula comprehendebatur («Questo era fermato da una fibbia»). Per il valore
religioso della fibula cfr. L. Bonfante-Warren, Roman Costumes, cit., p. 588.
108  Ù Le verità del velo

ambito cultuale.100 La fibula era fatta di bronzo, essendo il ferro in-


terdetto per usi religiosi, in quanto impiegato per la realizzazione di
armi: anche i chiodi con cui era fatto il manico del coltello sacrificale,
la secespita, e le asce adibite allo stesso uso erano di bronzo.101 Sem-
brerebbe, addirittura, che la tunica recta, uno degli indumenti che
caratterizzavano il costume tradizionale della sposa, non fosse cucita
per lo stesso motivo:102 questo abito, oltre a sottolineare la semplicità
e la purezza della sposa, era realizzato nel rispetto di precise prescri-
zioni religiose, in base alle quali si doveva evitare il contatto con un
qualsiasi strumento fatto di ferro, compresi gli aghi per cucire e le
borchie ornamentali.103
Verosimilmente il velo era di lana, essendo questo il materiale
prediletto per la confezione di indumenti sacri: la lana, infatti, era
dotata di virtù purificatrici. Tra l’altro le Vestali, durante i sacrifici,
ponevano intorno al capo l’infula, una fascia a forma di diadema,104
da cui pendevano altrettante bende di stoffa fatte proprio di lana.105
Esse non avevano solo la funzione estetica di guarnire questo par-
ticolare ornamento del capo, ma erano finalizzate ad allontanare
dal ministro del culto ogni forma di contaminazione proveniente
dall’esterno.106
Infine, come ulteriore prova dell’importanza conferita alla castità
delle sacerdotesse di Vesta, occorre fare una precisazione sulla loro
acconciatura: i seni crines, infatti, servivano a connotarle come ver-
gini perenni. Molte sono le ipotesi relative alla foggia di questa pet-
tinatura supportate anche dai recenti ritrovamenti archeologici,107
ma è singolare che essa costituisca un elemento di comunanza con
la sposa nel giorno del suo matrimonio. La nubenda, infatti, portava
originariamente i seni crines, ovvero trecce o boccoli, che non veni-
vano legati, ma cadevano sulle spalle a gruppi di tre, come avveniva
anche per le Vestali: senis crinibus nubentes ornantur quod hic ornatus
vetustissimus fuit, quidam quod eo Vestales virgines ornentur.108

100
Non è, però, del tutto chiaro se con il termine infibulati Festo intendesse, per
l’appunto, l’uso di spille applicate sulla veste del sacerdote o l’impiego di aghi particolari
per la confezione degli abiti, anch’essi chiamati così dalle fonti: sull’argomento cfr. A.
Maiuri, Roma antica / 3 / Paramenti Sacri, cit., p. 70.
101
D. Porte, Les donneurs de sacré, cit., p. 81.
102
C. Fayer, L’«ornatus» della sposa romana, cit., p. 5.
103
Per questa interpretazione cfr. L. Morpurgo, Chiton araphos, tunica recta, in
«Rendiconti della Accademia dei Lincei», 9 (1954), pp. 88-102.
104
Serv. Aen. 10, 538.
105
Fest. p. 100 L.: infulae sunt filamenta lanea, quibus sacerdotes et hostiae templaque
velantur («Le infulae sono fili di lana con cui si velano i sacerdoti, le vittime ed i templi»),
cfr. anche Verg. Aen. 12, 120.
106
Plin. nat. 29, 30-38.
107
M. Torelli, Lavinio e Roma, cit., pp. 33 ss.; C. Fayer, L’«ornatus» della sposa romana,
cit., pp. 10-15.
108
Fest. p. 454 L.: «Le donne in procinto di sposarsi si ornano con sei trecce, poiché
questo ornamento fu antichissimo, o, come dicono alcuni, perché con esso si ornano le
vergini Vestali».
Francesca RomanaIntroduzione
Nocchi ∙ Obnubilatio capitis Ù  109

L’analogia, come si è accennato, è dovuta al dovere di castità che


entrambe avevano, rispettivamente nei confronti del marito e della
dea: l’acconciatura diveniva un deterrente nei confronti dei potenzia-
li seduttori, in quanto identificava la donna come intangibile.
Secondo Torelli,109 le statue ritrovate a Lavinio testimonierebbe-
ro una certa evoluzione di questa pettinatura: attraverso una com-
parazione fra le teste raffiguranti giovani spose e quelle riproducen-
ti sacerdotesse Vestali, lo studioso arriva alla conclusione che fino
al VII sec. a.C. i seni crines consistevano in piccole trecce fermate da
heliches, ovvero spirali che avevano la stessa funzione delle perline
che vengono usate oggi; successivamente si passò all’uso di grandi
boccoli, tre per ciascuna parte; infine la pettinatura divenne più
complessa, con riccioli tenuti insieme da diademi. Nonostante le
numerose analogie fra spose e Vestali, però, occorre sottolineare
anche le sostanziali differenze fra i due status: anzitutto la sposa
porta i seni crines solo nel giorno delle nozze, la Vestale nel corso di
tutto il suo ufficio, quale emblema di una condizione permanente.
Inoltre le finalità intrinseche, sottese al diverso destino delle donne,
sono rappresentate dalla differenza cromatica del velo, quello della
sposa color fuoco, simbolo di prosperità, quello della Vestale bian-
co, per sottolineare la purezza della sacerdotessa e la sua fecondità
virtuale, destinata a rimanere inespressa: se l’obiettivo del matrimo-
nio è infatti la procreazione, quello del sacerdozio in questione è il
mantenimento della castità.

4. Il velo come segno di distinzione sociale: connotazioni socio-psicologiche

4.1. Preservare la donna da occhi indiscreti

L’usanza di uscire in pubblico con il capo coperto dalla stola e an-


che il privilegio di indossare la rica, una foggia particolare di velo, era
segno a Roma di distinzione e appartenenza a una categoria specifi-
ca: tale valenza simbolica caratterizzava esclusivamente le donne,110
divenendo emblema tangibile della loro onestà. Infatti, per essere
rispettata una donna romana doveva apparire modesta: in base alla
testimonianza di Nonio sembra che il flammeum fosse, nei tempi an-
tichi, la copertura tipica delle matrone romane simboleggiante la
pudicizia: flammeus vestis vel tegmen quo capita matronae tegunt,111 ma
ben presto, come si mostrerà, esso venne sostituito dalla rica. In ogni
caso, coloro che osavano uscire in pubblico prive di copertura dive-

109
M. Torelli, Lavinio e Roma, cit., p. 40, ma cfr. anche L. Bonfante-Warren, Roman
Costumes, cit., p. 588.
110
Virgilio (Aen. 4, 215-218) definisce semivir l’uomo che ricopre i suoi capelli con
la mitra o li imbeve di profumi.
111
Non. p. 869 L.: «Il flammeus è una veste o un indumento con cui coprono le teste
le matrone».
110  Ù Le verità del velo

nivano oggetto di biasimo o, addirittura, potevano essere ripudiate.


Valerio Massimo racconta che Sulpicio Gallo, avendo saputo che la
moglie era uscita a capo scoperto, la cacciò; egli giustificò il suo ge-
sto riaffermando perentoriamente il valore sacro della consuetudo, in
base alla quale la donna aveva l’obbligo di far mostra delle proprie
qualità estetiche al solo marito, l’unico ad avere il diritto di poterle
giudicare e apprezzare:

Lex enim —inquit— tibi meos tantum praefinit oculos, quibus formam tuam
adprobes. His decoris instrumenta compara, his esto speciosa, horum te certiori
crede notitiae. Ulterior tui conspectus supervacua inritatione arcessitus in suspi-
cione et crimine haereat necesse est.112

La durezza dell’uomo sancisce in maniera inequivocabile come


la consuetudine non concedesse alla matrona alcuna opportunità di
farsi ammirare a eccezione del marito e mortificasse la sua persona.
Isidoro testimonia che in epoca storica la situazione non era molto
cambiata, perché la matrona continuava a uscire coprendo la testa
con un lembo della sua stola: stola matronale operimentum, quod cooper-
to capite et scapula a dextro latere in laevum humerum mittitur: stola autem
Graece vocatur quod superemittatur.113 Orazio ci fa sapere che la stola
ereditò dal velo anche la funzione di proteggere la virtù matronale;
in effetti era fatta di un tessuto pesante che scendeva fino ai piedi e
veniva posta sopra tuniche leggere. Al contrario, le donne di facili
costumi, uscendo, indossavano la toga, ma erano obbligate anche
loro a tenere coperti i capelli per contenere i propri poteri seduttivi;
nei postriboli, invece, portavano abiti trasparenti che alimentavano
le fantasie e i desideri.114 Giovenale, indignato per il continuo af-
flusso di stranieri a Roma, inveisce anche contro le prostitute e nel
descriverle fa riferimento con tono di disprezzo al loro copricapo,

112
Val. Max. 6, 3, 10: «La legge stabilisce che le tue forme possano essere giudicate
solo dai miei occhi. Per questi occhi acconcia la tua bellezza, a questi occhi dovrai
apparire bella, all’infallibile commento di questi occhi dovrai affidarti. La circostanza
che ti sia messa in vista in maniera troppo provocante ti rende necessariamente sospetta
e colpevole».
113
Isid. orig. 19, 25, 3: «La stola matronale è una sopravveste, che avvolge la testa e
la spalla destra, ed è fermata sul braccio sinistro: è chiamata stola in greco, perché si
mette sopra».
114
Hor. sat. 1, 2, 94-102: matronae praeter faciem nil cernere possis,/ cetera, ni Catia est,
demissa veste tegentis./ Si interdicta petes, vallo circumdatam nam te,/ hoc facit insanum, multae
tibi tum officient res,/ custodes, lectica, ciniflones, parasitae,/ ad talos stola demissa et circumdata
palla, /plurima, quae invideant pure adparere tibi rem./ Altera, nil obstat: Cois tibi paene videre
est/ ut nudam, ne crure malo, ne sit pede turpi;/ metiri possis oculo latus («Della matrona non
si può vedere nulla se non il viso, a meno che non si tratti di Cazia, dal momento che
copre tutto il resto con lo strascico. Se cerchi le parti proibite (è questo che ti attira) le
trovi difese quasi da un fossato, molte cose costituiranno per te un ostacolo: i guardiani,
la lettiga, gli arricciatori, le inservienti, la stola che pende fino ai talloni, il mantello
avvolto tutto intorno. Per l’altra non c’è alcuna difficoltà: attraverso i veli di Coo puoi
quasi vedere come se fosse nuda che non abbia la gamba malfatta o il piede brutto;
potresti misurarne il fianco con l’occhio»).
Francesca RomanaIntroduzione
Nocchi ∙ Obnubilatio capitis Ù  111

la mitra, criticandola perché eccessivamente impreziosita da ricami:


evidentemente con questa precisazione egli intende contrapporla
all’austera sobrietà del velo e delle coperture matronali.115 Occorre-
va, dunque, che la donna, al suo apparire, manifestasse palesemente
lo status di appartenenza, perché questo divenisse un monito per i
malintenzionati o potenziali aggressori, i quali, se solo avessero osa-
to infastidire una matrona, sarebbero incorsi in sanzioni gravissime.
Questo costume, in realtà, non era una prerogativa romana e risaliva
ad un’epoca molto antica: già a metà del secondo millennio a.C. tra
gli Assiri esisteva una rigida regolamentazione giuridica in base alla
quale le donne sposate e quelle di nascita libera dovevano indossare
il velo quando si mostravano in pubblico, mentre alle schiave e alle
prostitute tale privilegio era interdetto.116
Le matrone a Roma formavano una casta: sembra, però, che la
più alta considerazione fosse riservata alle matres familias, le sole che
a buon diritto potevano beneficiare del privilegio di un abbigliamen-
to e di una pettinatura speciale. Ad esempio Varrone117 testimonia
che il tutulus era esclusivo appannaggio delle matres familias. Cicero-
ne e Aulo Gellio distinguono la donna che può essere considerata
anche mater familias da quella che è solo uxor, ovvero moglie.118 Si
tratta di due diverse condizioni giuridiche della donna maritata, la
prima, quella di mater familias, più illustre, quindi più ambita dalle
matrone. Essa, però, implicava che le donne avessero celebrato, con-
testualmente al matrimonio, anche la conventio in manum. Questo

115
Iuv. 3, 65.
116
M. Jastrow, Veiling in ancient Assyria, in «Revue Archéologique», 14 (1921), pp.
209-238.
117
Varro ling. 7, 44: tutulus appellatus ab eo quod matres familias crines convolutos ad
verticem capitis quos habent vitta velatos dicebantur tutuli («Il tutulus è chiamato così perché
i capelli delle madri di famiglia avvolti sulla sommità del capo e cinti da una benda,
erano denominati tutuli»).
118
Cic. top. 3, 14: genus enim est uxor; eius duae formae: una matrum familias (eae sunt,
quae in manum convenerunt); altera earum, quae tantummodo uxores habentur («Il genere è
la donna, di questo esistono due tipologie; una categoria è quella delle matres familias,
si tratta di quelle che sono passate sotto la tutela del marito, l’altra è quella di coloro
che sono solo mogli»). Anche Aulo Gellio (18, 6, 9) sostiene questa distinzione. L’autore
critica le teorie di Elio Melisso, grammatico a suo parere esibizionista. Egli sosteneva
che la “matrona” è colei che ha partorito una volta sola, la mater familias quella che ha
avuto diversi parti. Gellio afferma, rifacendosi ad accreditati esperti del lessico arcaico,
che la “matrona” è propriamente colei che si è unita in matrimonio con un uomo, anche
in mancanza di figli: il nome verrebbe da “madre”, non perché la donna lo sia già,
ma perché è negli auspici che lo diventi. Poi Gellio spiega il termine mater familias:
matrem autem familias appellatam esse eam solam quae in mariti manu mancipioque aut in eius
in cuius maritus manu mancipioque esset, quoniam non in matrimonium tantum sed in familiam
quoque mariti et in sui heredis locum venisset («Mater familias è invece l’appellativo riservato
alla donna che è in potestà e possesso del marito o di chi ha la potestà e il possesso
del marito, dato che essa è entrata non solo nel matrimonio, ma anche nell’ambito
familiare del marito e nella condizione di sua erede»). È evidente che l’espressione non
in matrimonium tantum sed in familiam sottolinea come il matrimonio poneva la donna
nella condizione di moglie, mentre la conventio metteva la donna nello stato di filia
familias, con le conseguenze giuridiche inerenti a tale qualità, compresa quella di heres.
112  Ù Le verità del velo

istituto specificamente romano, come si è accennato, aveva lo scopo


di porre una donna sotto la tutela (manus) di un uomo e di equipa-
rarla giuridicamente ad una figlia legittima o ad una sorella dei figli
di lui, di metterla dunque sotto la patria potestas dell’uomo.119 Qualo-
ra, al contrario, la donna non si fosse legata al marito con conventio,
poteva conservare l’originario status familiae, non importa se come
persona sui iuris o soggetta alla potestas di un paterfamilias, in ogni
caso ella, così, non aveva nessun rapporto di parentela civile (adgna-
tio) né con il marito, né con i figli di lui.
È facile dedurre come l’appartenenza alla categoria più illustre
implicasse forti limitazioni della libertà femminile: il fatto che la
donna potesse godere di privilegi e del rispetto procuratole da un
abbigliamento e un’acconciatura che connotavano il suo status, è
indizio di una società che fonda le proprie valutazioni su criteri me-
ramente esteriori, imponendo alla donna costi e rinunce molto alte.
Il mundus muliebris, in questo caso, diviene manifestazione tangibile
di una condizione di sudditanza ammantata dal velo del privilegio,
ma non per questo meno ingiusta. In realtà il vero obiettivo dell’uo-
mo era quello di assicurare la purezza e la continuità della propria
stirpe. Le regole che gli antichi consideravano privilegi e di cui ricer-
cavano la giustificazione in aneddoti pseudostorici, erano, in realtà,
delle precauzioni destinate a preservare la matrona da ogni contat-
to, anche visivo, suscettibile di poterla contaminare: ad esempio nes-
suno poteva mettere le mani su di lei, neppure un magistrato;120 si
aveva l’obbligo di cederle il posto per strada, ma soprattutto, come
si è detto, le era riservato un abbigliamento specifico, ossia la stola121
e l’insita, una striscia di stoffa cucita nella parte bassa della stola, che
arrivava a coprire anche i piedi delle matrone più pudiche; infine
solo lei poteva indossare gioielli, ma con moderazione.122

119
Gaius inst. 1, 110.
120
Val. Max. 2, 1, 4: sed quo matronale decus verecundiae munimento tutius esset, in ius
vocanti matronam corpus eius adtingere non permiserunt, ut inviolata manus alienae tactu stola
relinqueretur («Inoltre, affinché il decoro delle matrone fosse più protetto dal baluardo
della pudicizia, non permisero a chi citava una donna in giudizio di sfiorare il suo
corpo, affinché la stola rimanesse inviolata dal contatto della mano altrui»); a questo
proposito cfr. anche Fest. p. 143 L.
121
Fest. p. 112 L.: matronas appellabant eas fere, quibus stolas habendi ius erat
(«Chiamarono matronae coloro alle quali era concesso l’uso delle stole»).
122
Val. Max. 5, 2, 1: in quarum (scil. Veturiae et Volumniae) honorem senatus matronarum
ordinem benignissimis decretis adornavit: sanxit namque ut feminis semita viri cederent,
confessus plus salutis rei publicae in stola quam in armis fuisse, vetustisque aurium insignibus
novum vittae discrimen adiecit. Permisit quoque his purpurea veste et aureis uti segmentis («In
onore di Veturia e Volumnia il senato fece dono all’ordine delle matrone di generosi
provvedimenti: sancì, infatti, che gli uomini cedessero il passo alle donne, dimostrando
così che la loro stola era stata più salutare per lo Stato delle armi, e all’antico ornamento
degli orecchini aggiunse il nuovo segno di distinzione delle bende. Permise loro anche
l’uso di vesti color porpora e di ornamenti d’oro»).
Francesca RomanaIntroduzione
Nocchi ∙ Obnubilatio capitis Ù  113

4.2. Rica e venenatum

L’abbigliamento femminile assumeva una sua connotazione spe-


cifica soprattutto nelle occasioni ufficiali. Il velo indossato nelle ce-
rimonie sacre era la rica, un accessorio riservato alle donne, come
risulta evidente dalle parole di Varrone:123 rica ab ritu quod Romano
ritu sacrificium feminae cum faciunt capita velant; Festo124 ce ne fornisce
la definizione: ricae et riculae vocantur parva ricinia aut palliola ad usum
capitis facta: la rica, semplicemente poggiata sul capo, era un velo più
piccolo del ricinium, che, al contrario, avvolgeva tutta la donna, infatti
Varrone ci informa che quest’ultimo era indossato solo in occasioni
tristi e dolorose, dal momento che la morte costituiva per i Romani
elemento contaminatore e solo un ampio velo poteva proteggere la
donna dal contagio.125 Interessante, inoltre, la testimonianza di Aulo
Gellio che, nell’enumerare gli indumenti di un uomo che intende
travestirsi da donna,126 menziona una tunica lunga, un mantello di
vari colori, ma anche la rica: da queste parole si potrebbe dedurre che
essa in epoca molto antica era usata anche quotidianamente e che
successivamente venne destinata ai soli riti, quando ormai le donne
uscivano avvolte nella stola. La rica, dunque, aveva contemporanea-
mente lo statuto di velo religioso, in quanto indossata in occasione
delle celebrazioni rituali, ma anche di ornamento denotante la con-
dizione sociale di matrona, come si dimostrerà. Queste due funzioni
sono emblematicamente rappresentate dalla flaminica che, oltre a
essere una sacerdotessa, indossava la rica in quanto emblema della
materfamilias perfetta: rica est vestimentum quadratum, fimbriatum, pur-
pureum, quo flaminicae pro palliolo utebantur. Alii dicunt quod ex lana fiat
sucida, alba, quod conficiunt virgines ingenuae, patrimae, matrimae, cives
et inficiatur caeruleo colore.127 La flaminica appariva, infatti, in quanto

123
Varro ling. 5, 130: «La parola rica viene da ritu perché quando le donne compiono
un sacrificio secondo il rito romano velano con esso il capo».
124
Fest. p. 342 L.: «Rica o riculae erano chiamati piccoli ricinia, come foulard per
coprire il capo».
125
Non. p. 869 L.: mulieres in adversis rebus ac luctibus, cum omnem vestitum delicatiorem
ac luxuriosum postea institutum ponunt, ricinia sumunt («Le donne, nelle circostanze avverse
e nei lutti, quando depongono ogni vestito elegante e sfarzoso, indossano il ricinium»).
Il ricinium era, probabilmente, ripiegato così da formare un triangolo da porre a riparo
della testa e avvolgere il collo con le sue estremità: è Varrone che ci fornisce indicazioni
a proposito (ling. 5, 132) e ricostruisce anche un’etimologia chiaramente errata del
termine, facendolo derivare dal verbo reicere. Su questo argomento ed in generale
sull’uso della rica da parte della flaminica cfr. N. Boëls-Janssen, La prêtresse aux trois voiles,
cit., pp. 128 ss. Sulla duplicitas del ricinium in relazione alla laena duplex cfr. A. Maiuri,
Solennità e abbigliamento in Roma antica: toga, trabea e lena, in Roma antica / 2 / Costumi
tradizionali, Nuova Cultura, Roma 2007, pp. 70-73.
126
Gell., 7, 10, 4: tunica longa muliebri indutus et pallio versicolore amictus et caput rica
velatus («Rivestito di una tunica femminile lunga, ricoperto di un pallio variopinto, con
il capo velato dalla rica»).
127
Fest. p. 369 L.: «La rica è un indumento quadrato, dotato di frange, di color
porpora, che le flaminicae usavano come un foulard per coprire il capo. Altri dicono che
114  Ù Le verità del velo

moglie del flamen Dialis, come una sorta di matrona modello, con-
centrando in sé tutte le virtù della femminilità per metterle al servizio
non più di un singolo uomo, ma dell’intera città: lo statuto coniugale,
dunque, era la condizione primaria e la giustificazione del suo ruolo
sacerdotale. Il primo dovere di una moglie verso il marito era la casti-
tà e la fedeltà: per questo era necessario che ella fosse univira, ovvero
doveva aver avuto un solo marito. In questo senso la flaminica costitui-
va un modello esemplare:128 infatti il legame che la univa al flamen era
sacro, in quanto celebrato secondo il rito della confarreatio,129 l’unica
forma di matrimonio religioso esistente a Roma, che non poteva esse-
re sciolto se non dalla morte130 e il flamen non poteva esercitare il suo
mandato se perdeva la sua sposa.131 Inoltre la flaminica era una lanifica
perfetta, in quanto tesseva in prima persona la veste del marito:132
tale prescrizione simboleggiava, probabilmente, l’unione della cop-
pia flaminale, in quanto solo le mani della sposa potevano toccare
l’abito del marito per non contaminarlo. Allo stesso modo era atti-
vità imprescindibile di ogni matrona il lanificium, tanto che nell’a-
trio della casa era posto il telaio con la tela, perché rappresentasse la
virtù di chi vi abitava.133 Nei tempi antichi la matrona fabbricava gli
abiti dell’intera famiglia e la tradizione della flaminica è un retaggio
di questa usanza. Si comprende perfettamente, dunque, per quale
motivo la matrona e la sacerdotessa fossero accomunate dall’uso del-

era fatto di lana bianca grezza, che era lavorato da vergini di nascita libera, con padre e
madre ancora vivi, cittadine, ed era tinto di color ceruleo».
128
Serv. Aen. 4, 29.
129
Gaius inst. 1, 112: Farreo in manum conveniunt per quoddam genus sacrificii, quod Iovi
Farreo fit: in quo farreus panis adhibetur, unde etiam confarreatio dicitur; complura praeterea
huius iuris ordinandi gratia cum certis et sollemnibus verbis, praesentibus decem testibus
aguntur et fiunt. Quod ius etiam nostris temporibus in usu est; nam flamines maiores, id est
Diales, Martiales, Quirinales, item reges sacrorum, nisi ex farreatis nati non leguntur; ac ne ipsi
quidem sine confarreatione sacerdotium habere possunt («Con il farro le donne passano nella
potestà del marito, tramite un certo tipo di sacrificio, che è fatto a Iuppiter Farreus, nel
quale viene usato il pane di farro: da cui la cerimonia prende il nome di confarreatio.
L’adempimento regolare di questo istituto comporta molti riti che si effettuano con
delle formule solenni, in presenza di dieci testimoni. Questo istituto è ancora in
vigore ai nostri giorni, perché i flamini maggiori, cioè quello di Iuppiter, di Mars e di
Quirinus, e anche i re dei sacrifici non possono essere scelti che fra quelli che sono nati
da genitori uniti dalla confarreatio; ed essi stessi non possono esercitare il loro ministero
senza la confarreatio».
130
Questa prescrizione così rigida era valida per la coppia sacerdotale, ma in
generale tutti gli sposi confarreati soggiacevano ad una rigida normativa: un’iscrizione
di Anzio dell’epoca di Commodo parla di un sacerdos confarreationum et diffarreationum
(CIL X, 6662), evidentemente il matrimonio celebrato secondo questo rito poteva essere
sciolto solo attraverso il rito contrario ad esso, la diffarreatio, celebrata dallo stesso
sacerdote.
131
Plut. quaest. Rom. 50, 276e-f; Gell. 10, 15, 22.
132
Serv. Aen. 4, 262: veteri enim religione pontificum praecipiebatur inaugurato flamini
vestem, quae lena dicebatur, a flaminica texi oportere («Secondo l’antico costume religioso
dei pontefici si stabiliva che, dopo aver preso gli auguri, la veste del flamine, che era
chiamata lena, doveva essere tessuta dalla flaminica»).
133
CIL I, 2, 1211: domum servavit, lanam fecit.
Francesca RomanaIntroduzione
Nocchi ∙ Obnubilatio capitis Ù  115

la rica, per entrambe emblema di virtù e del ruolo svolto. Vi erano


però, delle significative differenze fra i due veli: la rica della flaminica
era solitamente color porpora, per la valenza apotropaica del colore,
ma talvolta essa era color ceruleo,134 probabilmente in occasione di
cerimonie funebri: Servio135 dice che le donne indossavano vesti di
questo colore in occasione del lutto e che questa tinta si avvicinava
al nero. Sopra la rica la sacerdotessa indossava l’arculum,136 un ramo
proveniente da un’arbor felix, ripiegato così da formare un cerchio:137
secondo Festo esso serviva per portare più comodamente sulla testa
i vasi nei sacrifici pubblici,138 ma il suo significato era molto più pro-
fondo ed è da ricercare nei materiali che lo costituivano. In primo
luogo le due estremità del ramoscello erano collegate tramite una
fascia di lana, della cui valenza purificatrice si è già detto: essa viene
confermata anche da una testimonianza di Ovidio, che usa l’arculum
per esemplificare la parola februa, ovvero gli oggetti impiegati per la
santificazione.139 In secondo luogo il ramoscello doveva essere tratto
da un’arbor felix, ovvero una categoria di alberi considerati di buon
augurio o purificatori, come il melograno, l’olivo, l’alloro, il pino. Ca-
tone li identifica con le piante feconde che producono frutti,140 ma la
presenza nell’elenco di una pianta come l’alloro, che notoriamente
non è fruttifero, fa pensare che con il passare del tempo l’aggettivo
felix abbia assunto una valenza semantica più ampia, comprendendo
una gamma di significati più variegata, ma tutti caratterizzati da una
connotazione positiva. Sembra plausibile pensare, dunque, che l’ar-
culum proteggesse con la sua santità la persona che lo indossava.141
Dalle testimonianze risulta evidente che molte erano le precauzio-
ni che venivano rispettate per la realizzazione del velo: anzitutto le
fanciulle al servizio della coppia sacerdotale dovevano preservarne la

134
Cfr. Fest., p. 369 L.
135
Serv. Aen. 3, 63: caeruleis vittis: Cato ait, deposita veste purpurea, feminas usas caerulea
cum lugerent. Veteres sane ‘caeruleum’ nigrum accipiebant («Con bende cerulee: Catone dice
che, deposta la veste color porpora, le donne usavano la veste color ceruleo quando
erano in lutto. Gli antichi, certamente, intendevano “ceruleo” come nero»).
136
Gell. 10, 15, 28: quod in rica surculum de arbore felici habet («Sulla rica porta un
ramoscello di albero propizio»); Serv. Aen. 4, 137: arculum vero est virga ex malo Punica
incurvata, quae fit quasi corona et ima summaque inter se alligatur vinculo laneo albo («L’arculum
è una bacchetta di melograno incurvata a mo’ di corona, con le sue estremità legate tra
di loro con un filo di lana bianca»).
137
Serv. Aen. 4, 137: praeterea flaminicam habere praecipitur arculum, ricam, venenatum,
fibulam («Inoltre si dice che la flaminica ha l’arculum, la rica, il venenatum, la fibula»).
138
Fest. p. 15 L.
139
Ov. fast. 2, 28-31: nomen idem (scil. februa) ramo, qui caesus ab arbore pura/ casta
sacerdotum tempora fronde tegit./ Ipse ego flaminicam poscentem februa vidi:/ februa poscenti
pinea virga data est («Lo stesso nome di februa va riferito al ramoscello tagliato da una
pianta pura, che con le sue foglie circonda e protegge le sacre tempie dei sacerdoti. Io
stesso ho visto una flaminica chiedere dei februa e vedersi consegnare una bacchettina
di legno di pino»).
140
Cfr. Fest. p. 81 L.
141
Per le valenze dell’arbor felix cfr. A. Maiuri, Roma antica / 3 / Paramenti Sacri, cit.,
pp. 21 ss.
116  Ù Le verità del velo

santità proprio grazie alle loro caratteristiche. Era assicurata la loro


purezza attraverso la verginità, la cittadinanza,142 la provenienza da
una famiglia nobile e inoltre esse dovevano essere patrimae e matrimae,
cioè con entrambi i genitori vivi per non aver subito alcuna contami-
nazione da parte della morte. La stessa precauzione veniva osservata
a proposito dei camilli e delle camillae, assistenti del flamen e della
flaminica,143 per le Vestali,144 e per i fanciulli che accompagnano la
sposa alla casa del marito durante la deductio.145 Inoltre l’indumento
doveva essere rigorosamente di lana: un solo filo di lino impiegato
nella tessitura sarebbe stato considerato sacrilegio.146
Se la rica in epoca storica veniva utilizzata solo nelle cerimonie
sacre e specificatamente dalla flaminica è anche vero che Festo lascia
intravedere un impiego diverso per questo ornatus da parte della sola
sacerdotessa. Egli dice che era una fascia del capo di cui ella si cin-
geva come fosse una benda,147 ma aggiunge anche, in una sezione
piuttosto lacunosa del suo testo, che il tessuto era triplex.148 Sembra
verosimile pensare che il velo della flaminica venisse piegato in tre
(triplex)149 così da formare una fascia rettangolare che veniva avvolta
attorno al tutulus,150 con l’esclusione di due lembi che scendevano ai
lati del viso come le vittae. Questa interpretazione sembra avvalorata

142
Per N. Boëls-Janssen, La prêtresse aux trois voiles, cit., p. 130, questa caratteristica
era resa necessaria dal fatto che la funzione religiosa di queste assistenti della flaminica
riguardava il benessere dell’intera città.
143
Fest. p. 82 L.: Flaminia dicebatur sacerdotula quae flaminicae Diali praeministrabat:
eaque patrimes et matrimes erat, id est patrem et matrem adhuc vivos habebat («Era detta flaminia
la sacerdotessa che assisteva la flaminica di Giove: questa era patrimes e matrimes, cioè
aveva ancora padre e madre vivi»).
144
Gell. 1, 12, 10.
145
Fest. p. 282 L.: patrimi e matrimi pueri praetextati tres nubentem deducunt: unus qui
facem praefert ex spina alba, quia noctu nubebant, duo qui tenent nubentem («Tre fanciulli con
la pretesta e con padre e madre ancora vivi conducono la sposa: uno che porta la torcia
di biancospino, poiché si sposavano di notte, due che tengono la sposa»).
146
Cfr. Serv. Aen. 12, 120: cum flaminica esset inventa tunicam laneam lino habuisse
consutam, constitisset […] piaculum esse commissum («Qualora si scopra che la flaminica abbia
tessuto la tunica di lana con il lino, si stabilisce […] che è stato commesso un sacrilegio»).
Sulla santità della lana, impiegata soprattutto a scopi religiosi e l’interdizione del lino,
tipico dei riti funerari cfr. A. Maiuri, Roma antica / 3 / Paramenti Sacri, cit., pp. 63-65.
147
Fest. p. 342 L.: Granius quidem ait esse muliebre cingulum capitis quo pro vitta flaminica
redimiatur («Granio dice che è una copertura del capo tipicamente femminile con cui la
flaminica si cingeva come fosse una benda»).
148
Id. p. 368 L.: rica est vestimentum quadratum, fimbriatum, purpureum, quo flaminicae
pro palliolo mitrai existimat. Titius [...] quod ex lana fiat sucida alba vestimentum dici rica,
idque esse triplex quod conficiant virgines ingenuae, patrimae, matrimae, cives […] tum lavetur
aqua perenni […] caeruleum («La rica è un indumento quadrato, dotato di frange, di color
porpora con cui le flaminicae, come con una mitra, si coprivano il capo. Tizio [...] dice
che era fatto di lana bianca grezza, che era triplex, lavorato da vergini di nascita libera,
con padre e madre ancora vivi […] lavato con acqua corrente […] ceruleo»).
149
Fest. p. 368 L.
150
Id. p. 484 L.: tutulum vocari aiunt flaminicarum capitis ornamentum quod fiat
vitta purpurea innexa crinibus et extructum in altitudinem («Dicono che si chiami tutulus
l’ornamento del capo delle flaminicae che si fa con una benda color porpora intrecciata
ai capelli e realizzato in altezza»).
Francesca RomanaIntroduzione
Nocchi ∙ Obnubilatio capitis Ù  117

dal fatto che Festo paragona la rica della flaminica ad una mitra,151 ov-
vero una fascia che si avvolgeva intorno alla testa e che all’inizio veni-
va impiegata per nascondere la capigliatura, poi divenne ornamento
con funzioni puramente estetiche.152
Un’ultima precisazione riguarda la menzione di un velo piutto-
sto misterioso che, a quanto pare, era indossato dalla flaminica: il
venenatum. Le fonti letterarie sono molto parche di informazioni a
questo proposito, ci dicono solo che fra gli obblighi della flaminica
vi era quello di coprirsi con il venenatum (venenato operitur).153 Servio
ribadisce la prescrizione rivolta alla flaminica in base ad un antico
costume: vetere cerimoniarum iure praeceptum est ut flaminica venenato
operta sit,154 ma aggiunge anche che fra gli oggetti sacri della sacer-
dotessa erano inclusi l’arculum, la rica, il venenatum, la fibula.155 Dal
momento che l’arculum veniva posto sopra la rica, la fibula, evidente-
mente, era un accessorio del venenatum. Si può supporre, allora, che
questo velo fosse utilizzato in maniera similare al suffibulum, ovvero
venisse posto intorno alla testa e poi fermato da una spilla sul petto.
Il mistero che avvolge questo ornatus ha dato adito a diverse inter-
pretazioni: Helbig156 lo ha identificato con la vitta, la benda con
cui si avvolgeva il tutulus della flaminica, ma l’uso da parte di Servio
del verbo operire, che propriamente significa “coprire”, sembrereb-
be invalidare questa supposizione, dal momento che la benda era
troppo piccola per coprire il capo. Inoltre, non si può prescindere
dal contesto in cui Servio inserisce la menzione del velo: l’autore
sta commentando il passo in cui Virgilio descrive Didone che parte
con Enea per la caccia e si avvolge con una clamide. Il commenta-
tore vede in Enea e Didone l’emblema della coppia flaminale, per
questo paragona la clamide della donna al venenatum, ma è evidente
che con questo termine vuole intendere un indumento avvolgente e
non semplicemente ornamentale come una benda.
Schilling,157 invece, ha assimilato il venenatum al tutulus che a suo
avviso era originariamente un berretto indossato sopra lo chignon,158

151
Fest. p. 368 L.
152
In latino era detta capital da caput (Varro ling. 5, 130); Tertulliano, lamentandosi
della corruzione femminile, dice che la mitra non era più usata per nascondere la testa,
ma era avvolta intorno all’acconciatura come ornamento (Tert. virg. vel. 17, 1).
153
Gell. 10, 15, 27: «Si copre con il venenatum».
154
Serv. Aen. 4, 137: «In base all’antico diritto delle cerimonie si stabilì che la
flaminica si coprisse con il venenatum».
155
Ibidem.
156
W. Helbig, Über den Pileus der alten Italiken, in «Sitz. Ber. der Bayer Akad. (philol.-
hist. Classe)», 1880, i, p. 515. L’autore, per giustificare la sua teoria, pensa a un’evoluzione
della foggia delle vittae, che nei tempi antichi sarebbero state tanto larghe da poter
coprire il capo e si avvale della testimonianza di Varrone (ling. 7, 44) per comprovare
la sua tesi.
157
R. Schilling, La Religion romaine de Vénus, De Boccard, Paris 1954, p. 44.
158
Lo studioso si basa su un’assimilazione di Venere latina con la dea etrusca
Turan, che nelle rappresentazioni figurate avrebbe il tutulus, equivalente etrusco del
latino venenatum. In effetti Festo (p. 484 L.), dice che il tutulus era anche un cappello
118  Ù Le verità del velo

mentre successivamente con lo stesso termine si sarebbe designata


l’acconciatura tipica delle matrone e della sacerdotessa. Anche in
questo caso, però, si tratta di una forzatura: infatti è difficile ipotiz-
zare, tenendo conto del forte conservatorismo religioso romano, che
la flaminica cambiasse nel tempo il proprio ornatus, abbandonando il
berretto e limitandosi a portare lo chignon. Inoltre, ancora una volta
bisogna tener conto della iunctura con il verbo operire: il tutulus, essen-
do un accessorio più che un velo non poteva “coprire” la sacerdotessa.
Infine, bisogna escludere anche l’identificazione del venenatum
con il flammeum,159 per il quale non si faceva uso della fibula.
Più verosimile la supposizione di Nicole Boëls-Janssen,160 che cer-
ca di svelare il mistero a partire dall’etimologia del nome: venenatum
è un participio sostantivato dal verbo venenare che significa contem-
poraneamente “impregnare di veleno” e “tingere”.161 Veniamo alla
prima accezione: il venenum nel mondo latino non sempre era una
sostanza nociva, spesso era considerato un filtro d’amore, in ogni
caso con questo termine si designava una sostanza dalle virtù magi-
che.162 Nel caso del venenatum, dunque, si alluderebbe alle sue po-
tenzialità magiche, ma tali poteri erano assicurati soprattutto dal suo
colore. Infatti, e qui veniamo alla seconda accezione del verbo, il
significato di venenare è propriamente “tingere di porpora” e anche
venenum viene usato spesso in questa accezione.163 Sulle virtù ma-
giche e apotropaiche di questa tinta si è già detto a proposito del
flammeum e non sembra strano che la flaminica, anche in questo caso,

che indossavano i flamini ed i pontefici: quidam pilleum lanatum forma metali figuratum
quo flamines ac pontifices utantur eodem nomine vocari, e questo farebbe pensare che
originariamente con questo termine si indicasse un oggetto e solo successivamente
la pettinatura della flaminica e delle matrone. Di diversa opinione è N. Boëls-Janssen,
La prêtresse aux trois voiles, cit., p. 123, che rifiuta la tesi di un’evoluzione storica del
termine e ritiene semplicemente che Festo intendesse riferire il diverso significato che
veniva dato al termine tutulus (quidam), che per alcuni indicava un berretto, per altri
l’acconciatura: l’analogia si fondava sulla forma conica similare.
159
L. Sensi, Ornatus e status sociale delle donne romane, in «Annali della Facoltà di
Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Perugia», 18 (1980-81), pp. 53-102, p. 73.
160
N. Boëls-Janssen, La prêtresse aux trois voiles, cit., pp. 121-128.
161
Illuminante, a questo proposito, è la spiegazione offerta dallo stesso Servio
(Aen. 4, 137): vetere caerimoniarum iure praeceptum est ut flaminica venenato operta sit.
Operta, autem, cum dicitur, pallium significatur; venenatum autem, infectum: quod ipse ait in
Bucolicis ‘alba nec Assyrio fucatur lana veneno’. Hic vero cum dicit ‘Sidoniam’, ostendit Tyriam
et purpuream: purpuream declarat infectam («Secondo l’antico diritto cerimoniale è stato
stabilito che la flaminica venga coperta dal venenatum. Quando si dice “coperta” si
intende da un mantello; venenatum, invece, “tinto”: come dice egli stesso nelle Bucoliche:
“né la lana bianca si colora della tintura assira”. Quando afferma “Sidonia” indica di
Tiro, purpurea: purpurea significa tinta»).
162
Cfr. Verg. ecl. 8, 95-98: has herbas atque haec Ponto mihi lecta venena/ ipse dedit Moeris
nascuntur plurima Ponto;/ his ego saepe lupum fieri («Queste erbe e questi veleni raccolti
dal Ponto me li diede Meri, il Ponto ne produce moltissimi; con questi vidi spesso Meri
trasformarsi in lupo»); Hor. epod. 5, 62; Plaut. Pseud. 870.
163
Gell. 20, 9, 3: iam tonsiles tapetes ebrii fuco/ quos concha purpura imbuens venenavit
(«Tappeti di raso, ebbri di fuco, che la conchiglia imbevendo ha tinto di porpora»); Serv.
georg. 2, 465; Hor. epist. 2, 1, 207.
Francesca RomanaIntroduzione
Nocchi ∙ Obnubilatio capitis Ù  119

indossasse un velo di questa tinta. Sulla base di queste supposizioni


Boëls-Janssen arriva alla conclusione che il venenatum fosse un velo
di color rosso, indossato dalla sacerdotessa in occasione delle ceri-
monie sopra il tutulus e che per il suo color porpora era dotato di
potenzialità magiche e protettive nei confronti di chi vi si avvolgeva.

In conclusione si può affermare che nella cultura romana esiste-


vano due distinte tipologie di velo, non sempre distinguibili, la cui
simbologia finiva spesso per confondersi: il velo della consacrazione,
destinato agli uomini e alle donne, impiegato sia dall’officiante del
rito che da colui che era oggetto di sacrificio, e quello che identifica-
va le donne in base allo status di appartenenza. In entrambi i casi esso
era uno strumento che serviva per materializzare la separazione fra
due essenze differenti, l’una sacra, l’altra profana, l’una femminile,
l’altra maschile; ugualmente, inoltre, ciò che era avvolto dal velo dive-
niva oggetto di sacrificio, poiché lo consacrava al dio o, nel caso della
donna, allo sposo. Il velo era, dunque, un “segno” che parlava prima
della parola, esprimeva l’appartenenza ad una categoria, diveniva in
questo senso elemento uniformante, ma allo stesso tempo ostentato-
rio, in quanto segnava la rottura con la società. Nel caso della donna
era anche ricordo onnipresente della possibile aggressione sessuale
che questa avrebbe potuto produrre sull’uomo e da cui egli intende-
va difendersi. L’obnubilatio capitis, dunque, fungendo quasi da scher-
mo, isolava da ciò di cui si aveva paura, ma allo stesso tempo serviva a
preservare. L’usanza cristiana della velatio capitis riprende e sintetizza
questa duplice valenza, in quanto simbolizza contemporaneamente
la consacrazione a Dio e allo Sposo.
120  Ù Le verità del velo
Cristina SimonelliIntroduzione
∙ Tertulliano e l’obbligo del velo Ù  121

Cristina Simonelli

Tertulliano e l’obbligo del velo

Esporrò anche in latino la mia delibera-


zione: tutte le nostre ragazze devono esse-
re velate quando entrano nell’età adulta
(Tert., Virg. 1,1)

Queste note si soffermano su uno scritto cristiano antico espres-


samente dedicato alla questione del velo delle donne nella comu-
nità cartaginese di inizio III secolo dell’era volgare. L’occasione
prossima dell’intervento di Tertulliano, l’autore, è molto precisa:
alcune donne adulte ma, per scelta, non sposate (virgines) rifiutano
di portare il velo durante il culto, come le loro coetanee coniuga-
te. La questione in primo piano è dunque relativa alla prassi co-
munitaria e al modo di vivere la sessualità femminile all’interno di
essa; ma la sua trattazione, evidentemente, offre anche indicazioni
sull’abbigliamento femminile e sulla relazione fra corpo femmini-
le, velo e desiderio sessuale e, non ultimo, permette di avanzare
alcune considerazioni sul metodo con cui “natura, Scrittura (sacra)
e consuetudine” vengono evocate per prescrivere abbigliamento e
comportamento delle donne.

1. Tertulliano di fronte alle donne

Lo scritto in questione non è certo l’unico contesto in cui Tertul-


liano si confronta con le donne: è ben noto l’interesse del polemista
nordafricano per la questione, così come sono noti alcuni suoi passi
decisamente misogini, come il seguente, che apre un pamphlet, prece-
dente al nostro, Sull’abbigliamento delle donne:

Non sai di essere Eva? In questo modo è ancora operante la sentenza


divina contro codesto tuo sesso: è necessario che duri anche la con-
122  Ù Le verità del velo

dizione di accusata. Sei tu la porta del diavolo, sei tu che in maniera


tanto facile hai spezzato il sigillo dell’albero, sei tu la prima che ha
trasgredito la legge divina, sei stata tu a circuire colui che il diavolo
non era riuscito a raggirare; tu in maniera tanto facile, hai annientato
l’uomo, immagine di Dio.1

Se vi accostiamo altri scritti, troviamo un autore tale da invitare


a una sorta di paradossale “elogio del misogino”: spesso —e di fat-
to con rare eccezioni2— è proprio chi è più turbato e ossessionato
dalle donne a fornire la maggior parte delle nostre conoscenze in
merito. Così è lui, scagliandosi contro alcune “vipere sfacciate”, a in-
formare che in Cartagine vi era un gruppo di donne che rifacendosi
ad una genealogia apostolica femminile —gli Atti di Paolo [e Tecla]—
insegnava e pretendeva di battezzare;3 è ancora lui che descrive il
ruolo liturgico di una soror nella sua comunità, probabilmente colle-
gata alla Nuova profezia meglio nota come montanismo,4 le cui visioni

1
Tertulliano, L’eleganza delle donne, I, 1, 1-2, trad. di S. Isetta, in Tertulliano, Opere
catechetiche. Gli spettacoli, la preghiera, il battesimo, la pazienza, la penitenza alla moglie,
l’eleganza femminile, a cura di S. Isetta, S. Matteoli, V. Sturli, 2 voll., Città Nuova Editrice,
Roma 2008. Della stessa curatrice è anche l’efficace introduzione (pp. 325-351), che
ripropone le acquisizioni fondamentali dell’edizione curata in precedenza, cfr. Sandra
Isetta (a cura di), L’eleganza delle donne: de cultu feminarum, Firenze, Nardini Editore,
1986. Si veda anche commento in R. Uglione, La donna in Tertulliano, in E. Dal Covolo
(a cura di), Donna e matrimonio alle origini della Chiesa, LAS, Roma 1996, pp. 81-110, in
particolare 81-89.
2
Tra le quale segnalerei, almeno, l’epitalamio composto da Paolino di Nola insieme
alla moglie Terasia, dono per le nozze di Tiziana e Giuliano, futuro vescovo di Eclano e
oppositore di Agostino in merito ad una laus nuptiarum.
3
Tertulliano, ne Il battesimo, 6, 1, si riferisce a «quella vipera della setta di Caino», una
donna che avrebbe fatto parte di un gruppo, forse gnostico, contrario alla materialità
dei riti; invece, in 17, 4-5, presenta le donne di Cartagine che si appoggiavano a Tecla:
«Ma l’insolenza (petulantia) di quella donna che già ha usurpato il diritto di insegnare
(quae usurpavit docere), non giungerà ad arrogarsi anche quello di battezzare, a meno
che non sorgano altre bestie simili alla prima: così, come quella voleva eliminare il
battesimo, un’altra potrebbe pretendere di amministrarlo lei stessa! Ma se queste
donne, basandosi sugli Atti erroneamente attribuiti a Paolo, ricordano l’esempio di
Tecla per difendere il diritto delle donne di insegnare e battezzare, sappiano che in
Asia il presbitero che ha composto questo scritto pensando di aggiungere qualcosa di
suo alla fama di Paolo, una volta scoperto, dichiarò di aver agito per amore di Paolo e fu
comunque deposto dal suo incarico».
4
Tertulliano ha aderito alla Nuova Profezia in una fase successiva alla fondazione
frigia, della quale mantiene la stima per il carisma profetico, l’ansia di rinnovamento e
compimento escatologico (attesa della fine dei tempi), manifestando in particolare un
forte accento rigorista in campo morale e più ampiamente ecclesiale. Oggi si discute
se la sua appartenenza si sia configurata o meno come uno scisma formalizzato. Cfr. C.
Micaelli, Tertulliano e il montanismo in Africa, in M. Marin, Claudio Moreschini (a cura
di), Africa Cristiana. Storia, religione, letteratura, Morcelliana, Brescia 2002, pp. 15-49. Per
un inquadramento più ampio del fenomeno si può inoltre fare riferimento a Giuseppe
Visonà, Il fenomeno profetico nel montanismo, in «Ricerche Storico-Bibliche», 5 (1993), pp.
149-164; Id., Cristianesimo primitivo e profezia, in G. Calabrese (a cura di), Chiesa e Profezia,
Edizioni Dehoniane, Roma 1996, pp. 59-78; E. Norelli, Parole di profeti, parole sui profeti.
La costruzione del montanismo nei frammenti dell’Anonimo antimontanista (Eusebio di Cesarea,
HE V, 16-16), in G. Filoramo (a cura di), Carisma profetico. Fattore di innovazione religiosa,
Morcelliana, Brescia 2003, pp. 107-132; M.G. Mara, Movimenti e figure del cristianesimo
Cristina SimonelliIntroduzione
∙ Tertulliano e l’obbligo del velo Ù  123

sono peraltro sottoposte alla verifica e interpretazione autorizzata


di un “noi” che sembra molto maschile;5 è ancora lui a parlare alla
(e della?) propria moglie con accenti affabili e rispettosi,6 così come
è lui a definire stuprum qualsiasi rapporto sessuale, dentro e fuori
delle nozze, e siano esse “prime” o “seconde”, per divorzio o vedo-
vanza, così come sostiene che sulle cose che riguardano la gestazio-
ne e la nascita bisogna che dicano le donne,7 mentre è lui che ne
sta scrivendo!
Nella interpretazione di questo quadro non univoco e comunque
riassunto qui in modo sommario, si dovrebbero perlomeno tener
presenti due aspetti, di diverso significato ma di grande rilievo: l’im-
pianto retorico del polemista, coerente nel metodo di confutazione
anche a costo di essere contraddittorio nei contenuti, e la concezione
ambivalente della corporeità.
Quanto al primo aspetto, vale almeno considerare il fatto che
l’abilità di dimostrare il tema prefisso, a tutti i costi, è percepita
come bagaglio indispensabile del bravo retore, e non come difetto
di coerenza e di autenticità. È questo un orizzonte di indagine forse
più promettente che la semplice ricerca di uno sviluppo diacroni-
co dei temi: se Tertulliano deve dimostrare che il matrimonio, in
quel caso tra due cristiani, è buona cosa, attinge a tutti i luoghi a
sua disposizione per farlo; se vuol dimostrare che quel matrimonio
di cui parla, non è opportuno, nello stesso modo, ricorre a tutto
ciò che può escogitare per dimostrare che quello e, se necessario,
ogni rapporto sessuale è negativo. In questo, appunto, l’evoluzione
ideologica ha forse meno peso di quanto i lettori moderni possono
pensare. Quanto all’atteggiamento espresso nei confronti della cor-
poreità, Giorgio Bonaccorso titola «Il corpo ambivalente nell’epoca
patristica» un paragrafo del suo scritto Il corpo di Dio, dedicando a
Tertulliano due pagine, sotto la rubrica de «il corpo come vergogna
e come salvezza».8 L’assunto è che il discorso, sospeso tra esaltazio-
ne e disprezzo, muti non solo e non principalmente a seguito di

antico, in C. Militello (a cura di), Profezia. Modelli e forme nell’esperienza cristiana laicale,
Cedam, Padova 2000, pp. 107-124, in particolare 114-117.
5
Tertulliano, De anima, 9, 4.
6
«Che unione quella di due fedeli, uniti da una stessa speranza, da un unico
desiderio, da un unico modo di vita (disciplina) dallo stesso servizio! Entrambi fratelli,
entrambi compagni di servitù; nessuna distinzione nello spirito o nella carne, ma
veramente due in una carne sola. E dove unica è una carne sola, è uno anche lo spirito:
insieme pregano, insieme meditano, insieme affrontano i digiuni, si ammaestrano
reciprocamente, reciprocamente si esortano, reciprocamente si sostengono. Sono
entrambi pari davanti alla Chiesa (pariter), pari al banchetto di Dio e nelle sofferenze,
nelle persecuzioni, nella consolazione. Nessuno dei due nasconde nulla all’altro,
nessuno vieta nulla all’altro, nessuno è di peso all’altro» (Alla moglie, 2, 8, 7-8, trad. di V.
Sturli, in Tertulliano, Opere catechetiche, cit.).
7
Tertulliano, De anima, 25, 3.
8
G. Bonaccorso, Il corpo di Dio. Vita e senso della vita, Cittadella, Assisi 2006, pp. 48
e 55-56 su Tertulliano.
124  Ù Le verità del velo

un’evoluzione del pensiero, ma cambi relativamente all’argomento,


proponendo una difesa della fisicità in campo dottrinale, contro il
dualismo “gnostico”,9 e assumendo invece i toni del disprezzo quan-
do l’ambito è morale. Mi sembra, tuttavia, che si potrebbe avanzare
anche un’altra interpretazione: i toni di interesse misto a disprez-
zo sono gli stessi, nell’uno e nell’altro ambito, cambiando solo il
motivo per cui sono utilizzate le descrizioni della sessualità e della
gestazione. Può mostrarlo uno dei passi più spesso citati “a difesa”,
in cui il tema è sostenere la realtà dell’incarnazione:

Poiché fin dall’inizio ci hai fatto conoscere il tuo odio per la nascita,
adesso mettiti a sproloquiare su questa sozzura che gli elementi genita-
li hanno messo nel ventre, su questi laidi grumi di sangue e di acqua,
su questa carne che deve, per nove mesi, trarre il suo nutrimento da
questo letamaio. Descrivi dunque questo ventre, ogni giorno sempre
più mostruoso, tormentato e mai in riposo, neanche nel sonno […]
tu odi la nascita dell’uomo, e come puoi amare qualcuno? Il Cristo,
almeno, amò quest’uomo, questo grumo formato nel seno tra le im-
mondizie, quest’uomo che viene al mondo attraverso gli organi della
menzogna, quest’uomo nutrito in mezzo a ridicole carezze. E’ per lui
che è disceso dal cielo, per lui che ha predicato, per lui che in tutta
umiltà si è abbassato fino alla morte e la morte di croce.10

La difficoltà dunque non è costituita da un’astratta corporeità, ma


dalla sua sessualizzazione, ossia dalla concreta corporeità delle donne
e degli uomini, nella cui descrizione fisica sono senza dubbio impli-
cate figurazioni simboliche e schemi socioculturali: e si potrebbe
mostrare la cosa anche, per converso, indicando i passi sulla resur-
rezione in cui i risorti avrebbero una corporeità asessuata.11 L’oriz-
zonte di queste affermazioni —ad un tempo retorico, culturale e
individuale— configura, dunque, la posizione di genere12 di Tertullia-
no, determinante anche nello scritto che stiamo qui percorrendo.

9
Senza entrare nella complessa delimitazione del fenomeno gnostico, ricordiamo
qui solo che Tertulliano tende ad interpretare sotto un’unica chiave dualista movimenti
ed autori diversi, Marcione compreso, come appare nella sua cosiddetta “trilogia
antimarcionita”: La carne di Cristo, Contro Marcione (5 libri, composti di diversi momenti),
La resurrezione della carne. Cfr. P. Podolak, Introduzione a Tertulliano, Morcelliana, Brescia
2006, pp. 55-59, ed anche Tertulliano, La resurrezione della carne, a cura di P. Podolak,
Morcelliana, Brescia 2004.
10
Tertulliano, La carne di Cristo, 4, 1-3.
11
Si può infatti confrontare l’affermazione secondo la quale risorgerà et quidem ipsa
et quidem integra (Resurrezione, 61) con quanto appena prima affermato (Resurrezione, 59).
12
Qua inteso in senso ampio, come relazione fra sesso biologico e configurazioni di
ruolo culturalmente e socialmente determinate: «Il concetto di Politics of Location (della
Rich) consiste nel dire che il punto di partenza deve essere il vissuto sessuato femminile
di ognuna di noi e che questo non è identico per noi tutte. La nostra somiglianza è
invece tessuta di differenze: siamo le stesse nella nostra corporalità femminile, ma il
corpo non è pura natura (sex), ma specialmente cultura, cioè punto di intersezione fra
il biologico, il sociale e il simbolico (gender). Il fatto di essere donne resta comunque il
nostro punto di partenza, la nostra collocazione nel mondo, il nostro modo d’inserzione
Cristina SimonelliIntroduzione
∙ Tertulliano e l’obbligo del velo Ù  125

2. Uno scritto sul velo

La causa prossima dello scritto —che allude nell’incipit a un altro


intervento in greco, non conservato— è la rivendicazione di alcu-
ne donne non sposate (virgines) di tenere il capo scoperto durante
il culto, nonostante l’età matura, come segno della loro particola-
re condizione. L’argomento, in termini però meno netti e in uno
stadio precedente della questione, è già affrontato nel De oratione,
abitualmente collocato negli anni 200/206: mentre la prima parte
dello scritto commenta strettamente la preghiera del Padre Nostro,
la seconda affronta il tema frequente nell’autore della prassi comuni-
taria (disciplina), introducendo in forma sintetica questioni cui in se-
guito dedicherà più ampia attenzione. Cosi, per quanto qui interessa,
prima accenna ad habitus, cultus e ornatus della donne13 e poi, date le
prassi diversificate che esistono, propone di considerare nuovamente
(retractare) l’opportunità che tutte le donne, coniugate o meno, por-
tino il velo durante la preghiera.14
Adesso, però, sembrano venire a confronto due diversi usi delle
donne della comunità: alcune virgines mettono il velo, e il gruppo di
coloro che si svelano durante il culto si sentirebbe minacciato nella
propria libertà e identità dall’altra prassi, tanto da volere costringere
anche le altre a scoprire il capo. Non c’è modo di poter verificare
questa seconda affermazione del cartaginese e dunque neanche di
confutarla: sottolineiamo però il fatto che questa accusa tra gruppi
di donne non viene più ripresa nel testo, mentre il resto degli argo-
menti portati istruisce la causa contro la libertà e l’orgoglio che si
palesano nel capo femminile non velato. Anche questo sviluppo della
questione, comunque, oltre all’orizzonte montanista conclamato, per-
mette di datare il nostro scritto attorno al 213, vicino alla redazione
de L’anima e La resurrezione della carne.15

nella realtà: all’inizio c’è il fatto di essere un corpo sessuato femminile che è fonte di
vita e di maternità; questo viene articolato dalla Rich come posizione politica e teorica»
(R. Braidotti, Il paradosso del soggetto “femminile e femminista”. Prospettive tratte dai recenti
dibattiti sulle gender theories, in La differenza non sia un fiore di serra, a cura di Il Filo di
Arianna, Franco Angeli, Milano 1991, p. 23). Pur non ignorando ulteriori sviluppi delle
gender theories, preferisco attenermi a questa prospettiva, cfr. C. Simonelli, Patrologia in
questione, in Non contristate lo Spirito. Prospettive di genere e teologia: qualcosa è cambiato?, a
cura di M. Perroni, Il segno dei Gabrielli Editori, Negarine di S. Pietro in Cariano (VR)
2007, pp. 173-179.
13
Tertulliano, La preghiera 20. All’abbigliamento ed alla cosmesi femminile dedica
in seguito il de cultu, al cui incipit ci siamo sopra riferiti.
14
Tertulliano, La preghiera 21-22. Eva Schulz-Flügel (Tertullien, Le voile des vierges
[“Sources Chrétiennes”, 424], Édition du Cerf, Paris 1997, pp. 26-30) offre un’accurata
sinossi dei due testi, che permette di individuare parallelismi e differenze.
15
Più ampia discussione in E. Schulz-Flügel, Tertullien, Le voile des vierges, cit., pp. 41-46:
anche per il testo si farà riferimento a questa edizione. Esiste anche una traduzione italiana:
Tertulliano, De virginibus velandis. La condizione femminile nelle prima comunità cristiane, a cura
di P.A. Gramaglia, Borla, Roma 1984. Gramaglia opta tuttavia per la traduzione “ragazze”,
ritenendo che la questione anche in partenza non sia unicamente riferita al culto.
126  Ù Le verità del velo

Le protagoniste/accusate sono dunque alcune donne, il cui caso


è amplificato da un episodio recente: un vescovo16 ha accettato nel
gruppo delle vedove, un ordo riconosciuto ufficialmente nella chiesa
nordafricana, una ragazza di 20 anni che aveva evidentemente fatto
voto di verginità e mostrava durante la preghiera il giovane capo
scoperto. Forse la ragazza fa capo al più ampio gruppo, che resta
infatti l’oggetto diretto della requisitoria: per strada camminano ve-
late, come tutte le donne sposate,17 ma quando entrano nel luogo
in cui è adunata la comunità cristiana per la preghiera, si svelano,
ostentando così la libertà e la condizione ecclesiastica in cui vivono.
Se questo è il fatto di cui si discute, non altrettanto evidente ne
appare il significato: Tertulliano infatti interpreta questo contegno
non solo come immorale, ma come pretesa di un riconoscimento
particolare dovuto alla verginità e rivendicazione di un rango eccle-
siastico. Bisogna dire, in proposito, che ben presto la gerarchizza-
zione degli stati di vita nelle comunità cristiane condurrà proprio
all’esito qui paventato, per cui la condizione monastica rappresen-
terà in effetti un primato e un motivo di vanto, relegando in secon-
do piano la condizione delle persone coniugate.
Tuttavia, la presenza insistita di un vocabolario relativo ad auda-
cia e libertà (3, 3: liberae e nuda plane fronte temerarie excitatae; 3, 6:
impudentia, petulantia; 9, 4: libertatas capitis; 13, 1 e 14, 5: audere; 13,
2: libertas) lascia trapelare un’istanza di indipendenza e anche una
richiesta di riconoscimento di ruolo che va ben al di là non solo
dello schieramento di argomenti morali, per cui il comportamento
è sanzionato in quanto subdolamente seduttivo, ma anche dell’ac-
cusa di orgoglio e, in fondo, del tentativo di rimandare la questione
ad una querelle des femmes.

3. Le donne di Grecia e d’Arabia

Se questa è la questione principale —e dunque riguarda più i


ruoli all’interno della comunità cristiana che l’abbigliamento delle
donne in generale— non è irrilevante neanche quanto viene affer-
mato sugli usi in merito al velo in altri contesti, sia cristiani che
pagani.
L’uso cristiano di velare anche le virgines è ricondotto a chiese di
Grecia e della barbaria ad essa legata —stesso termine in de praescrip-
tione è riferito ad esempio ad Efeso— ed anche ad alcune comunità

16
«Da qualche parte» (9, 4-6: alicubi). La determinazione vaga del luogo potrebbe
tuttavia indicare anche la comunità di Cartagine stessa, dato che in più di una occasione
Tertulliano allude in questo modo a vescovi molto noti. Il caso più citato è quello di
pudicitia, in cui l’incriminato potrebbe essere il vescovo di Cartagine o quello di Roma.
17
Anche se, in conclusione dell’opusculum, trova modo di redarguire anche queste,
in quanto certi veli sono più ornamenti che reali coperture (17). Un’osservazione simile
è presente anche in Tradizione Apostolica 18.
Cristina SimonelliIntroduzione
∙ Tertulliano e l’obbligo del velo Ù  127

in Africa, senza che esse vengano geograficamente precisate (alicu-


bi). Il richiamo alle Chiese di Grecia potrebbe tuttavia anche essere
legato alla prova costituita dall’excursus paolino sul velo, presente
nell’epistola indirizzata dall’Apostolo alla comunità di Corinto, che,
come vedremo, rappresenta un punto di riferimento importante
dell’opusculum. Si tratterebbe comunque di comunità note negli
scritti neotestamentari, dato che sono definite di fondazione apo-
stolica. Non vengono invece ricordate qui le donne giudee, a diffe-
renza di quanto accade nel de oratione, in cui si fa riferimento all’uso
giudaico: «Anche Israele osserva questa usanza, ma anche nel caso
non la osservasse, la nostra Legge ampliata e reintegrata potrebbe
bastare per difendere la nuova prescrizione di introdurre il velo per
le appartenenti al genere femminile».18
L’uso pagano è invece riferito all’Arabia, nome con cui veniva in-
dicata la provincia romana che era succeduta al regno nabateo, ma
spesso, per estensione, indicava anche altre popolazioni semitiche:

Ci giudicheranno le donne pagane dell’Arabia, che non si coprono


solo il capo, ma tutto il viso, più contente di poter godere di metà della
luce e della visione attraverso l’unico occhio che lasciano scoperto,
piuttosto che di prostituire l’intero volto (17, 4).

Questo uso, che appare a Tertulliano piuttosto barbaro, sarebbe


a suo dire stato riprovato da una romana reina, che avrebbe commi-
serato quelle donne, che potevano guardare e amare più che essere
viste ed amate. Schulz-Flügel in questo caso avanza l’ipotesi, che co-
munque tale resta, che la potente signora in questione possa essere
Giulia Domna, siriana, e dunque non ignara dei costumi dei grup-
pi ricordati. Accoglie favorevolmente inoltre l’opinione di Monce-
aux, che all’inizio del secolo scorso proponeva come possibile fonte
scritta di Tertulliano, se se ne deve indicare una, il testo di re Iuba
sull’Arabia, che è citato da Tertulliano nel suo Apologeticum (19, 6).
È scontato, ma nondimeno utile, rimarcare come quest’uso definito
arabo —secondo Schulz-Flügel indicazione etnografica più che geo-
politica— sia largamente pre-islamico.

4. Scrittura, natura, disciplina: cortocircuito del metodo

Cercando di andare oltre la descrizione per vedere come si svilup-


pa il ragionamento, osserviamo una massiccia presenza di passi bibli-
ci, citati a favore dell’opinione di chi voleva far portare a tutte il velo.
Lo scritto è stato a ragione definito da Barnes una «attenta esegesi

18
Tertulliano, La preghiera 22, 7. Gramaglia (Tertulliano, De virginibus velandis, cit.,
p. 146) si riferisce anche alle prescrizioni matrimoniali riportate in Ketubot 7, 6, secondo
le quali le donne devono uscire di casa a capo coperto.
128  Ù Le verità del velo

di un testo cruciale della Bibbia (1Cor 11, 5 ss.)».19 In effetti, anche


nell’affermazione di aver condotto la trattazione secondo “Scrittura,
natura, disciplina”20 si può scorgere un’influenza del testo paolino,
che a propria volta parla di natura e discute di consuetudine, anche
se la modalità retoricamente articolata e dialetticamente stringente
è ben distante dall’affanno21 con cui gli argomenti sono presentati
nell’epistola inviata a Corinto.

4.1. La Scrittura

Adesso, come nello scritto precedente sulla Preghiera, il testo prin-


cipale è dunque il passaggio paolino sul velo per le donne che profe-
tizzano nell’assemblea:

Ma ogni donna che prega o profetizza senza velo sul capo, manca di
riguardo al proprio capo, poiché è lo stesso che se fosse rasata. Se dun-
que una donna non vuol mettersi il velo, si tagli anche i capelli! Ma se
è vergogna per una donna tagliarsi i capelli o radersi, allora si copra.
L’uomo non deve coprirsi il capo, poiché egli è immagine e gloria di
Dio; la donna invece è gloria dell’uomo. E infatti non l’uomo deriva
dalla donna, ma la donna dall’uomo; né l’uomo fu creato per la donna,
ma la donna per l’uomo. Per questo la donna deve portare sul capo
un segno dell’autorità a motivo degli angeli. Tuttavia, nel Signore, né
la donna è senza l’uomo, né l’uomo è senza la donna; come infatti la
donna deriva dall’uomo, così l’uomo ha vita dalla donna; tutto poi
proviene da Dio. Giudicate voi stessi: è conveniente che una donna
faccia preghiera a Dio col capo scoperto? Non è forse la natura stessa
a insegnarci che è indecoroso per l’uomo lasciarsi crescere i capelli,
mentre è una gloria per la donna lasciarseli crescere? La chioma le è
stata data a guisa di velo (1Corinzi 11, 5-15).

L’argomentazione di Tertulliano riguarda principalmente la di-


mostrazione che con mulieres si intende ogni essere femminile adul-
to, dunque virgines comprese, e non solo le donne sposate, come
obiettavano evidentemente sostenitori e sostenitrici dell’opposta
opinione. Rispetto a questo, ha buon agio a dimostrare che il termi-
ne può essere utilizzato ampiamente in riferimento a tutto il genere

19
T.D. Barnes, Tertullian. A Historical and Literary Study, Oxford University Press,
Oxford 19852, p. 141.
20
Schulz-Flügel indica altre formulazioni parallele, sempre a tre membri e di
simile significato ma non identiche, in altre opere di Tertulliano, cfr. E. Schulz-Flügel,
Tertullien, Le voile des vierges, cit., p. 262.
21
La facile constatazione è confortata dall’opinione di un attento studioso quale
Daniel Marguerat: l’apostolo risponde affastellando argomenti, con una retorica
affrettata ed incoerente, che tradisce imbarazzo. Cfr. D. Marguerat, Statut des femmes
dans les communautés religieuses. L’affaire du voile des femmes à Corinthe, in R. Frei-Stolba,
A. Bielman, O. Bianchi (a cura di), Egypte – Grèce – Rome. Les femmes antiques entre
sphère privée et sphère publique (“Echo”, 2), Peter Lang Verlag, Bern 2003, pp. 237-247, in
particolare 238.
Cristina SimonelliIntroduzione
∙ Tertulliano e l’obbligo del velo Ù  129

femminile, ricorrendo all’analisi di vari testi, da Genesi ad altri passi


paolini.
Quanto al resto, l’autore non manifesta alcuna incertezza nell’in-
terpretazione, “risolvendo”, si fa per dire, tutti i punti controversi
e tuttora discussi: caput significa che l’uomo è capo della donna,
potestas —con cui il testo che ha a disposizione rende la crux in-
terpretum rappresentata dalla exousia sul capo a motivo degli ange-
li— indica l’autorità che il marito ha sulla moglie, gli angeli sono
per lui senza dubbio quelli di Genesi 6, che sono stati sedotti dalle
figlie degli uomini. Inoltre, mette in relazione questo passaggio con
quello di 1Corinzi 14, 33-36,22 in cui viene imposto (da Paolo? dalla
lettera comunitaria a cui risponde?) il silenzio alle donne: i due
passi sono anche ad una prima lettura contraddittori, in quanto la
disciplina proposta dal primo riguarda l’abbigliamento delle don-
ne che intervengono “profetizzando” nell’assemblea, mentre quella
richiesta dal secondo sembrerebbe esigerne il silenzio pubblico. Di-
verse sono le ipotesi avanzate, dall’antichità fino ad oggi,23 e la loro
discussione non è qui opportuna: segnaliamo solo che, in fondo,
non solo la prassi24 ma anche la natura fanno ancora largamente
(troppo?) parte dell’instructio esegetica.25

4.2. La natura

Ma la natura, evocata già nel testo paolino e volentieri ripresa


anche in diverse latitudini e temperie, non si accontenta di deter-
minare la foggia dei capelli: in Tertulliano almeno, scopertamente,
descrive e di conseguenza prescrive di preferenza i comportamen-
ti sessuali. Quanto segue ne è un esempio, che si può facilmente

22
È soprattutto su questo passo che viene sviluppato l’argomento a partire dalla
disciplina, che oltre alla parola interdirebbe, secondo Tertulliano, anche le altre
funzioni “tipicamente maschili” (virg. 9).
23
Larga recensione degli interventi antichi e recenti in G. Biguzzi, Velo e silenzio.
Paolo e la donna in 1Cor 11, 2-16 e 14, 33b-36, EDB, Bologna 2001, pp. 85-152. Acute
osservazioni in E.E. Green, Il vangelo secondo Paolo. Spunti per una lettura al femminile (e
non solo), Claudiana, Torino 2009, pp. 171-191 e M.L. Rigato, Una rilettura di 1Cor 10, 32-
33 + 11, 1-16, in «Rivista Biblica», 53 (2005), pp. 31-70.
24
È opinione di Marguerat (Statut des femmes, cit., p. 247) che le donne di Corinto
avessero compreso l’istanza universalistica del messaggio di Paolo, portandola a
conseguenze “prevedibili”, ma la cui portata aveva destabilizzato l’assetto sociale della
comunità ed anche lo stesso apostolo.
25
«L’espressione “La donna deve avere exousia sulla [sua] testa” significa dunque
probabilmente che essa deve acconciare i suoi capelli in modo da rendere visibile
all’occhio di tutti la sua irrinunciabile identità, per non mettersi fuori dal disegno del
Creatore che, portando all’esistenza uomo e donna in modo diverso, attribuì all’uno e
all’altra un diverso status creaturale» (G. Biguzzi, Velo e silenzio, cit., pp. 46-47 e 70: «In
una parola, in 1Cor 11, 2-16 Paolo si fa inflessibile difensore della differenziazione dei
sessi: l’uomo resta uomo e la donna resta donna anche nell’economia della redenzione e
nelle assemblee corinzie di preghiera e di profezia l’uomo continui dunque a mostrarsi
uomo e la donna continui a mostrarsi donna».
130  Ù Le verità del velo

riconnettere a quanto detto all’inizio sull’atteggiamento misto di


interesse e disprezzo:

A causa di quella razza di teste che credono di essere roba da vendere


al mercato, le sante vergini vengano allora trascinate in chiesa, rosse di
vergogna perché sono lì, davanti agli occhi di tutti, tremanti di paura
perché sono esposte a capo scoperto, poco manca che vengano invita-
te a qualche prestazione sessuale. […] per una brava ragazza, tutte le
volte che la si espone in pubblico significa essere praticamente svergo-
gnata, senza dire poi che subire concretamente la deflorazione nella
carne è qualcosa di meno grave, dato che è una semplice conseguenza
di una funzione della natura (virg. 3, 4).

Caratteristica anche la descrizione della pubertà: le ragazze cessa-


no di essere vergini dal giorno in cui possono non esserlo più (virg.
11, 2). Questa pretesa natura configura in realtà certo un discorso di
genere, in cui campeggia, ben più che la condizione femminile, una
problematica prettamente maschile. Se poi anch’essa, nonostante la
potenza ostentata, ricorra alla supplica in realtà o per artificio retori-
co, non è facile dire:

ci resta ancora il compito di rivolgerci alle interessate con la speranza


che accettino più volentieri quanto abbiamo detto. Puoi essere una ma-
dre, una sorella, o una figlia vergine —tanto per usare i termini che si
riferiscono alle varie età— ebbene, vi prego, mettetevi il velo in testa!
Se sei una madre fallo per i figli, se sei una sorella fallo per i fratelli e
se sei una figlia fallo per i padri! (virg. 16, 4).

4.3. Un metodo

Al di là delle singole affermazioni è soprattutto interessante os-


servare la sintesi che Tertulliano offre del proprio metodo. Raccoglie
infatti i tre luoghi già enunciati nell’epistola paolina, ma così facendo
dà vita ad un sistema rigido, nel quale i singoli elementi, così legati e
messi sotto l’autorità divina, diventano inattaccabili:

ecco i punti sui quali abbiamo basato la difesa del nostro modo di
risolvere questo problema: in conformità alla Scrittura, in conformità
alla natura, in conformità alla disciplina. La Scrittura istituisce la nor-
mativa, la natura ne fornisce la conferma e la disciplina la concretizza.
[…] la Scrittura è di Dio, di Dio è la natura e di Dio è pure la disciplina.
Qualunque cosa si opponga a queste tre realtà non è di Dio.26

In questo nuovo orizzonte anche il riferimento al Paraclito che gui-

26
In his consistit defensio nostrae opinionis secundum scripturam, secundum naturam,
secundum disciplinam. Scriptura legem condit, natura contestatur, disciplina exigit. Cui ex his
consuetudo opinionis prodest vel qui diversae sententiae color? Dei est scriptura, Dei est natura,
Dei est disciplina; quicquid contrarium est istis, Dei non est (virg. 16, 1-2).
Cristina SimonelliIntroduzione
∙ Tertulliano e l’obbligo del velo Ù  131

da alla verità intera, frequentemente bagaglio di movimenti ansiosi


di novità e libertà, diviene perno di una prescrizione irrevocabile. La
tesi iniziale, infatti, non è più avanzata come un’opinione, ma presen-
tata come esigenza ispirata:

Il Paraclito è l’unico al quale si debba attribuire dopo Cristo il titolo e


l’onore di maestro (Mt 23, 8), egli infatti non parla da sé, ma riferisce
i precetti che vengono insegnati da Cristo (Gv 16, 3). È l’unico che
abbia un’autorità a cui rifarsi nella guida della chiesa, perché solo lui è
il successore (antecessor) di Cristo. Quanti l’hanno accolto, alla consue-
tudine preferiscono la verità (virg. 1, 7).

Poi il testo, inesorabile, prosegue:

Quanti l’hanno ascoltato di continuo, e non soltanto allorché un tempo


manifestava le sue profezie, impongono alle ragazze di coprirsi con un
velo (virg. 1,7).

Anche al di là del contenuto delle affermazioni, mi sembra uti-


le porre attenzione al metodo, che resterebbe “rischioso” anche se
applicato a temi meno inquietanti: Scrittura/natura/disciplina sono
di fatto piegate senza verifica ad una precomprensione, che viene in
questo modo sacralizzata, come nella menzione iniziale del Paraclito.
Così il discorso viene trasformato in theologoumenon, la cui eventuale
contestazione si connoterà non solo come sovvertitrice di un ordine
patriarcale, ma anche come necessariamente dissacrante.

5. Una storia degli effetti: «da mihi magistrum»

La discussione cartaginese presto viene archiviata o quanto meno


non si presenta più nella stessa forma e la velatio rappresenterà il rito
di consacrazione delle vergini, mentre le profetesse non hanno luogo
pubblico.27 Ma la lezione di Tertulliano ha trovato molti allievi e, tra i
più promettenti, Girolamo, che scrive:

io trovai a Concordia, che è una città dell’Italia, un vecchio di nome


Paolo, il quale diceva di avere visto a Roma, quando era ancora giova-

27
Probabilmente ne sono eredi movimenti, ricorrenti nella storia, di riforma,
all’interno dei quali l’ispirazione evangelica riconfigura anche i ruoli, sia sociali che di
genere. Se ne potrebbe vedere un esempio antico nella crisi messaliana, in cui il tratto
monastico è in modo evidente portatore di istanze di riforma ecclesiale. Le fonti sono
chiaramente di parte avversa, ma permettono quanto meno di individuare modalità
di ridistribuzione dei ruoli avvertite come destabilizzanti. Così osserva Timoteo
di Costantinopoli: «Costoro promuovono a maestre dei loro insegnamenti eretici le
donne consentendo loro di presiedere non soltanto agli uomini, ma perfino ai preti.
E mettendo a loro capo delle donne disonorano il vero capo, Cristo Dio» (De iis qui ad
ecclesiam accedunt 18 – PG 86, 52, trad. L. Cremaschi). Analoghe osservazioni in Epifanio,
Panarion 80, 3 (PG 48, 760-761), cfr. L. Cremaschi, Introduzione, in Pseudo-Macario,
Spirito e fuoco, a cura di L. Cremaschi, Edizioni Qiqajon, Magnano (BI) 1995, p. 14.
132  Ù Le verità del velo

ne, un segretario, ormai in età avanzata, del beato Cipriano, il quale


riferiva che Cipriano, come era solito, non aveva mai lasciato passare
un giorno senza la lettura di Tertulliano e spesso gli diceva: da mihi
magistrum (de viris illustribus 53, trad. C. Gastaldo)

L’accuratezza con cui Girolamo si cautela potrebbe far pensare


che la denominazione di magistrum non sia così certamente cipria-
nea. Comunque, anche al di là di questo sospetto, non c’è dubbio
che l’esegeta del IV secolo citi ampiamente gli scritti di Tertulliano,
in larga misura anche quelli di epoca montanista e dunque, si riter-
rebbe, “censurati”.
Interessante a questo proposito istruire un confronto con la que-
stione agitata da Gioviniano, che sosteneva la pari dignità battesimale
dello stato matrimoniale e di quello verginale, e che dunque aveva
qualche tratto in comune con i rimproveri di orgoglio che Tertullia-
no aveva rivolto alle vergini svelate del secolo precedente. Gioviniano
propone infatti quattro tesi, che si ricostruiscono proprio attraverso
la confutazione di Girolamo: 1) le vergini, le vedove e le spose, che
sono state battezzate in Cristo, se non differiscono per le altre opere,
hanno lo stesso merito; 2) coloro che sono rinati nel battesimo plena
fide non possono essere nel peccato; 3) non c’è differenza fra astener-
si dal cibo ed assumerlo in rendimento di grazie; 4) tutti coloro che
avranno conservato il proprio battesimo avranno nel Regno dei cieli
una stessa ricompensa.28 Così si conclude il I libro:

Vergine, non ti reco offesa: hai scelto la continenza per l’urgenza del
tempo presente. Ti è piaciuto esser santa nel corpo e nello spirito: ma
non ti insuperbire, sei parte della stessa Chiesa di cui sono membra an-
che le donne sposate (Gioviniano, in Girolamo, Contro Gioviniano, I, 4).

Anche Agostino interviene a distanza nel dibattito, con La bontà


del matrimonio, spiegando in seguito così i motivi del suo intervento:

L’eresia di Gioviniano che metteva sullo stesso piano il merito delle


vergini consacrate e la pudicizia coniugale, prese nella città di Roma

28
La questione sollevata da Gioviniano è di grande interesse proprio anche in
relazione alla questione “pelagiana” e soprattutto alla declinazione che del tema farà
Giuliano di Eclano, in difesa delle nozze. Appare ancora attuale l’invito di Hunter a
riesaminare la questione, rintracciandola nella fonte più diretta che è rappresentata
proprio dalla confutazione di Girolamo nel Contro Gioviniano, cfr. D.G. Hunter, Resistance
to the Virginal Ideal in Late-Fourth-Century Rome: The Case of Jovinian, in «Theological
Studies», 48, 1 (1987), pp. 45-64. Duval ha in seguito pubblicato i risultati dei suoi studi
sul Contro Gioviniano, iniziati negli anni ’70, in un’importante monografia, cfr. Y.-M.
Duval, L’affaire Jovinien: d’une crise de la société romaine à une crise de la pensée chrétienne à
la fin du IV e tau début du Ve siècle (Studia ephemeridis “Augustinianum”, 83), Institutum
Patristicum Agostinianum, Roma 2003. Per il più ampio contesto che accompagna
questa prospettiva di Agostino, cfr. V. Grossi, Il contesto del De bono coniugali di S.
Agostino. A proposito della sessualità umana in alcuni movimenti cristiani del tardo antico, in
«Rassegna di Teologia», 47, 6 (2006), pp. 873-892.
Cristina SimonelliIntroduzione
∙ Tertulliano e l’obbligo del velo Ù  133

un grande sviluppo. Si dice addirittura che anche alcune monache, la


cui pudicizia era stata fino ad allora superiore a qualunque sospetto,
si riducessero al matrimonio. L’argomento principale con cui le spin-
geva, era la domanda: «Tu, dunque, sarai migliore di Sara, migliore di
Susanna o di Anna?» E sulla base della Sacra Scrittura rammentava
loro tutte le altre figure femminili così ammirevoli, alle quali esse non
potevano pensare di essere superiori e neppure pari. In questo modo
aveva la meglio anche sul celibato santo di santi uomini, sempre ram-
mentando le nozze dei padri e facendo il paragone con loro. A queste
mostruosità la Chiesa di Roma resistette con fedeltà ed energia estre-
me. Nessuno ormai osava sostenere le tesi di costui apertamente, però
esse continuavano a circolare sotto forma di mormorii nelle conversa-
zioni private. Ma era necessario affrontare l’eresia con ogni forza che
il Signore ci donava, anche se ormai i suoi veleni strisciavano occulta-
mente, soprattutto perché si pretendeva che non si potesse controbat-
tere Gioviniano lodando il matrimonio, ma solo denigrandolo. Ecco
il motivo per cui pubblicai questo libro (Agostino, Ritrattazioni, 2, 22).

Gioviniano incorre in diverse sanzioni ed è confutato, appunto,


da Girolamo, attraverso una silloge di testi in buona parte del Tertul-
liano montanista, ma senza utilizzare Il velo delle vergini, che avrebbe
forse apportato argomenti contro l’orgoglio verginale.
Resta, comunque, la singolarità di una vicenda per la quale un
personaggio in aperto contrasto con la Grande Chiesa, come Tertullia-
no, vede conservata la quasi totalità della sua opera, a fronte di altri
autori fortemente penalizzati, come ad esempio Origene. Saggezza?
Tolleranza? O propensione rigorista condivisa? La storia degli effetti
potrebbe anche far pensare ad un irrigidimento di temi e di toni che
riguarda, in particolare, la sessualità —normata in eccesso— e la giu-
stizia, contemplata sempre in difetto.
Per questo contenuto e per molti, persistenti, cortocircuiti di me-
todo, una narrazione di vicende pur remote di uomini e donne che
tenga in considerazione anche i rispettivi modi e ruoli apre spazi
pratico-simbolici di resistenza agli integralismi29 e di riformulazione
degli orizzonti, anche religiosi:

Lo scritto delle donne che a un tratto affiora? Grida soffocate infine


fissate, parola e silenzio insieme fecondate! [...] Già da gran tempo
ormai sempre fra corpo e voce e questo beccheggiare di lingue nel
movimento di una memoria da scavare da soleggiare rischi della mia
scrittura d’involo d’esilio d’incessanti partenze segni nella sabbia an-
cestrale. Il beccheggiare delle lingue, certo sarebbe non rinunciare
alla speranza. […] Scrivere è una strada da aprire […] scrivere è un
lungo silenzio che ascolta. 30

29
I. Trevisani, Il velo e lo specchio. Pratiche di bellezza come forma di resistenza agli
integralismi, Baldini Castoldi Dalai, Trebaseleghe (PD) 2006.
30
A. Djebar, Queste voci che mi assediano. Scrivere nella lingua dell’Altro, Il Saggiatore,
Milano 2004, pp. 83; 13-18 (passim).
134  Ù Le verità del velo
Introduzione Ù  135

C aterina Moro

Il velo nel mondo biblico e nel giudaismo

Benché l’espressione “società patriarcale” richiami in forma im-


mediata alla mente il mondo biblico, nella Bibbia ebraica i passi
che ci parlano dell’uso del velo sul capo da parte delle donne, come
pure le occorrenze dei termini che lo indicano (o dovrebbero) in
descrizioni di abbigliamento, sono estremamente scarsi, e sono del
tutto assenti i riferimenti a un obbligo sociale, o, tanto meno, a una
motivazione morale e religiosa di questo. Giova inoltre ricordare, in
via preliminare, che l’espressione “mondo biblico” (o anche “Bibbia
ebraica”) non indica un sistema di pensiero coerente o un contesto
storico unico, bensì un insieme di testi frutto di epoche e di idee
diverse, che solo le vicende storiche successive hanno selezionato e
riunito in un corpus.1 Questa natura composita e selettiva della lettera-
tura biblica rende anche difficile ogni ricerca lessicale: da una parte
dipendiamo da un corpus limitato rispetto a quello che doveva essere
l’uso della lingua (solo di recente i dizionari accolgono le voci e le
accezioni provenienti dalla letteratura di Qumran o dai frammenti
del Siracide), dall’altra pesa ancora molto sulla nostra comprensione
la serie di interpretazioni che si sono succedute nei secoli (prime tra
tutte le versioni antiche), spesso dettate da considerazioni puramente
teologiche e da volontà di armonizzazione.2

1
Ricordiamo l’esistenza di almeno due “canoni” biblici, quello dei manoscritti del-
la versione greca della Bibbia, che è più ampio e comprende libri scritti in ebraico ma
non canonici per gli ebrei (come ad es. Siracide) e libri composti direttamente in greco
(come ad es. Sapienza), e quello dei manoscritti ebraici, diviso in Legge, Profeti e Scrit-
ti, la cui fissazione è datata tradizionalmente al II secolo d.C. Sul tema si veda ad es. J.
Trebolle Barrera, La Biblia judía y la Biblia cristiana, Trotta, Madrid 1993.
2
Sul problema si veda G. Garbini, Note di lessicografia ebraica, Morcelliana, Brescia
1998, spec. 9-11. Riguardo all’argomento di questo saggio, il nuovo libro di C. Ben-
136  Ù Le verità del velo

Nella Bibbia ebraica i termini di abbigliamento generalmente in-


terpretati come “velo” o “manto” sono quattro. Il sostantivo tsai‘if è
collegato dai lessicografi a radici verbali affini di altre lingue semi-
tiche, col significato di “raddoppiare” o “piegare”,3 e compare solo
nelle due storie di Genesi che saranno analizzate più avanti. Il termine
redid, usato in Cantico 5,7 e Isaia 3,23, esiste anche in aramaico targu-
mico (redidah), in siriaco e in arabo, e indica un indumento esterno
fine. Entrambi sono tradotti nel greco dei LXX col termine théristron
“veste o manto estivo”.4 Il termine plurale re‘aloth, che si trova in Isaia
3,19,5 sarebbe di origine araba (indica il velo composito che lascia
scoperti gli occhi): la radice del termine ricompare nel Documento di
Damasco col significato “coprire”,6 e in ebraico mišnico, nella notizia
di m.Šab. 6,6 secondo la quale nei paesi arabi le donne ebree escono
di casa “velate” (re‘uloth) di sabato.7 Un quarto termine, tsammah, che
compare in Isaia 47,2 (gr. katakàlumma “velo, copertura”) e Cantico
4,1.3 e 6,7 (gr. siōpēsis “silenzio”), in realtà non sarebbe un velo per
la faccia o per il capo ma (come dimostra Isaia 47,3 “si scopra la tua
nudità, si veda la tua vergogna”) un indumento intimo.8
Il velo in testa o sulla faccia (chiamato tsa‘if) è protagonista di due
soli episodi biblici: nel primo esso svolge un ruolo del tutto inciden-
tale, come indumento che Rebecca si pone in testa nel momento in
cui le viene presentato il futuro sposo Isacco (Genesi 24,65). Da un
punto di vista antiquario, l’andamento della storia fa pensare non
a un indumento a sé, quanto a qualcosa che Rebecca già indossa,
come uno scialle, o un mantello, di cui riporti un lembo sul capo.9
L’azione di Rebecca sembra genericamente connessa con la velatura
della sposa, un elemento presente nel rito ebraico del matrimonio10

der (Die Sprache des Textilen: Untersuchungen zu Kleidung und Textilen im Alten Testament
[“BWANT”, 177}, W. Kohlhammer, Stuttgart 2008) non prende in esame i termini qui
analizzati, e non ho potuto consultare H.W. Hönig, Die Bekleidung des Hebräers, Brunner,
Zürich 1957.
3
Vedi la voce s‘p in L. Koehler, W. Baumgartner (revisione di W. Baumgartner, J.J.
Stamm), The Hebrew and Aramaic Lexicon of the Old Testament III, E.J. Brill, Leiden 1996,
1042a.
4
Il sostantivo compare come tale, oltre che nei LXX e in Giuseppe e Aseneth, in An-
tologia Palatina 6, 254 (riferito agli indumenti raffinati di un travestito); nella forma
theristrion è usato anche da Teocrito (Le siracusane, 69).
5
La versione greca non è di aiuto in questo caso.
6
L. Koehler, W. Baumgartner, The Hebrew and Aramaic Lexicon of the Old Testament,
cit., III, 1266.
7
Vedi oltre per altre prescrizioni riguardanti il sabato.
8
G. Garbini (a cura di), Cantico dei Cantici, Paideia, Brescia 1992, 70 ss.
9
Il collegamento dei lessicografi con una radice che vuol dire “ripiegare” favorisce
questa ipotesi: si tratterebbe di una parte “ripiegata” del mantello o della sopravveste,
che si può riportare sul capo.
10
R.G. de Vaux, Les Institutions de l’Ancien Testament I, Editions du Cerf, Paris 1958,
59 (secondo questo A. la velatura della sposa è presupposta anche dall’episodio di Gen.
29,23-25, in cui Labano sostituisce Rachele con Lia come sposa di Giacobbe. Tuttavia
nel testo non si parla affatto di copertura o velatura della sposa); D.R. Edwards, Dress
and Ornamentation, cit., 235a.
Introduzione
Caterina Moro · Il velo nel mondo biblico e nel giudaismo Ù  137

e a cui però si fa riferimento esplicito solo a partire da testi tardo-


antichi, se si esclude un’allusione presente, come vedremo oltre, in
una versione del romanzo greco detto Giuseppe e Aseneth. Nel secondo
episodio, sempre da Genesi (38,1-26) lo tsa‘if ha invece un ruolo deci-
sivo nella trama. Tamar, nuora del patriarca Giuda, si vede negare il
diritto ad avere un figlio da un fratello del marito morto.11 Si traveste
allora da prostituta, avvolgendosi nello tsa‘if,12 e fa in modo di avere
un rapporto con Giuda, rimanendo incinta e facendo poi riconosce-
re il figlio mediante i “pegni” lasciati dal suocero-cliente (38,14-26).
L’uso del velo, che evidentemente copre non solo il capo ma almeno
parte della faccia, è riferito qui all’abbigliamento tipico di una pro-
stituta (o ierodula),13 e nella trama il velo ha lo scopo fondamentale
di rendere irriconoscibile Tamar e permetterle di mettere in atto il
suo “inganno virtuoso” nei confronti del suocero: “Giuda la vide e la
ritenne una prostituta, perché si era coperta la faccia” (Genesi 38,15).
In questo ruolo il velo con cui Tamar inganna Giuda rappresenta un
“contrappasso” al vestito sporco di sangue con cui Giuda e i suoi fra-
telli avevano ingannato il padre Giacobbe per convincerlo che Giu-
seppe era morto.14 Proprio questa prevalenza del fatto narrativo ci
impedisce però di trarre la conclusione che un velo sulla faccia fosse
parte dell’abbigliamento delle prostitute nell’Israele antico o meglio
all’epoca (riconosciuta dai più come tardiva)15 dell’autore di questa

11
Il riferimento è al levirato, ovvero all’obbligo per il fratello di un uomo morto sen-
za figli di sposarne la vedova: il primogenito di questa unione risulterà figlio del primo
marito (Deuteronomio 25,5-10; il levirato è anche al centro della narrazione del libro di
Ruth). Tamar resta vedova in successione di due figli di Giuda, e viene rimandata dal
padre in attesa che divenga adulto il terzo figlio. Ma poiché il suocero non vuole co-
munque darglielo come marito, per paura che muoia anche lui, Tamar ricorre allo stra-
tagemma narrato per avere un figlio dal suocero e quindi ottemperare al suo obbligo.
12
V. 14 “(…) e si coprì con lo tsa‘if, si avvolse”. La forma verbale usata per “avvolgersi”
(hitpa‘el di ‘alaf ) con questo senso è un hapax, altrove significa “appassire, venir meno”
(Amos 8,13 e Giona 4,8). Impossibile dire quindi se l’azione si addice a un velo posto sulla
faccia, o piuttosto a un manto che coprisse più o meno tutta la figura.
13
Nel v. in questione Tamar è presa per una zonah “prostituta”, ma oltre è detta
qedaša, generalmente tradotto “prostituta sacra”. Il termine presenta alcuni problemi
perché al di fuori dell’ambito ebraico indicherebbe una donna impiegata nel tempio,
ma non una prostituta (M.I. Gruber, Hebrew Qĕdēšāh and Her Canaanite and Akkadian
Cognates, in «Ugarit Forschungen», 18 [1986], pp. 133-143). K. Van der Toorn è più pos-
sibilista sull’esistenza della prostituzione sacra, ma la considera un servizio prestato per
garantire un’entrata al Tempio o per potersi procurare i mezzi per soddisfare un voto
(vedi Deut. 23,18-19; Female Prostitution in Payment of Vows in Ancient Israel, in «Journal
of Biblical Literature», 108 [1989], pp. 193-205; Ead., s.v. “Cultic Prostitution”, in D.N.
Freedman [a cura di}, The Anchor Bible Dictionary 5, Doubleday, New York 1992).
14
In Genesi 37,31-33 i fratelli di Giuseppe usano un vestito sporco del sangue di un
capretto (e un capretto compare tra i pegni lasciati da Giuda alla presunta prostituta)
per convincere Giacobbe che Giuseppe è morto (sulle corrispondenze narrative tra la
storia di Giuseppe e quella di Giuda, già note all’esegesi antica, vedi R. Alter, The Art of
Biblical Narrative, Basic Books, New York 1981, pp. 3-22).
15
J.A. Soggin, Judah and Tamar, in H.A. McKay, D.J.A: Clines (a cura di), Of Prophets’
Visions and the Wisdom of the Sages, (“JSOT”, Suppl. 162), JSOT Press, Sheffield 1993, pp.
281-287, spec. pp. 284 ss.; Id., Das Buch Genesis, cit., pp. 452 ss.; A. Catastini, Storia di
138  Ù Le verità del velo

parte di Genesi. Lo stesso racconto, al contrario, potrebbe dimostrare


che la velatura del volto, che di per sé potrebbe garantire da sanzio-
ni sociali chi pratica la prostituzione solo in occasioni particolari,16
esponga al rischio dell’incesto. Nel complesso, nel mondo ebraico
l’uso di coprirsi la testa per le donne esiste ma rimane a margine del-
le preoccupazioni degli autori biblici: nella legislazione ebraica c’è
solo un accenno là dove si parla della donna sospettata di adulterio
(Numeri 5,11-28), cui il sacerdote deve “scoprire il capo”17 (v. 18) nel
corso di un rito volto a metterla in una condizione di vergogna e di
umiliazione. Tale brano, che sarà la base per le più importanti spe-
culazioni legali successive sul velo,18 può indurci tutt’al più alla con-
clusione che la copertura del capo fosse ritenuta parte del decoro
della persona, ma non che fosse oggetto specifico di preoccupazioni
religiose, o meritasse un obbligo esplicito.
Discendendo nel tempo il romanzo Giuseppe e Aseneth, redatto in
greco e ritenuto dai più un prodotto del giudaismo ellenistico,19 ci
fornisce qualche preziosa notizia sulla velatura delle donne. Il roman-
zo narra per così dire il retroscena della breve notizia contenuta in
Genesi 41,45, secondo la quale Giuseppe avrebbe sposato Aseneth, fi-
glia del sacerdote di On (Eliopoli). È una storia edificante, ricca di
elementi favolistici e simbolici20 assai complessi da dipanare, in cui
si narra come la bellissima Aseneth, di cui Giuseppe rifiuta l’amici-
zia perché pagana, attraversi un periodo di digiuno e di penitenza,
al termine del quale riceve la visita di un angelo che ne accetta la

Giuseppe, Marsilio, Venezia 1994, pp. 52-58; Id., Le testimonianze di Manetone e la «Storia
di Giuseppe», in «Henoch», 17 (1995), pp. 279-300.
16
Come l’adempimento di un voto, come sostiene K. Van den Toorn, Female Prosti-
tution, cit.
17
Il verbo para‘ è interpretato in questo modo dalla traduzione greca, e di conse-
guenza da Filone Alessandrino e da Flavio Giuseppe (vedi oltre), mentre i lessicografi
in conformità con altri passi gli danno il significato “sciogliere (i capelli)”. All’epoca del
Talmud le due interpretazioni finirono con l’essere considerate due fasi del rito, una in
cui il sacerdote levava la copertura dalla testa, e una seconda in cui scioglieva i capelli
della donna (Sotah 8b).
18
Assieme a Deuteronomio 24,1 «ha trovato in lei qualcosa di vergognoso».
19
Sul romanzo vedi M. Philonenko, Joseph et Aséneth. Introduction, texte critique,
traduction et notes (“Studia post-biblica”, 13), E.J. Brill, Leiden 1968; C. Burchard, Ein
vorläufiger Text von Joseph und Aseneth, in «Dielheimer Blätter zum Alten Testament», 14
(1979), pp. 2-53; Id., Verbesserung zum vorläufigen Text von Joseph und Aseneth, in «Dielhei-
mer Blätter zum Alten Testament», 16 (1982), pp. 37-39; Id., Joseph and Aseneth, in J.H.
Charlesworth (a cura di), Old Testament Pseudoepigrapha II, Doubleday, New York 1985,
pp. 177-247; G. Boek, Joseph and Aseneth and the Jewish Temple in Heliopolis (“SBL Early
Judaism and its Literature”, 10), Scholars Press, Atlanta 1996; D. Maggiorotti, Giuseppe
e Asenet, in P. Sacchi (a cura di), Apocrifi dell’antico testamento, IV, Morcelliana, Brescia
2000, pp. 423-452; vedi anche C. Grottanelli, Sette storie bibliche (“Studi Biblici”, 119),
Morcelliana, Brescia 1998, pp. 54-57 (per l’A. l’uso del tema della purezza e della com-
mensalità inserisce quest’opera nettamente nell’orbita giudaica).
20
Ritengo tali, e quindi non significativi per la condizione della donna nella società
di riferimento, particolari come il fatto che Aseneth viva isolata e sorvegliata a vista
in una torre (su questo concordano M. Philonenko, Joseph et Aséneth, cit., pp. 40-43; G.
Boek, Joseph and Aseneth, cit., pp. 67 ss., 78-74).
Introduzione
Caterina Moro · Il velo nel mondo biblico e nel giudaismo Ù  139

conversione alla fede nel Dio unico, conversione che le permette di


sposare Giuseppe. Lo scopo centrale di questa narrazione è quello di
appianare la contraddizione presente in un passo della Bibbia (un
personaggio piissimo che sposa una pagana, azione non conforme
alla legge ebraica): la narrazione spiega che la contraddizione è solo
apparente perché Aseneth si è convertita prima di sposarlo.21 In que-
sto romanzo il velo, detto thèristron,22 compare tre volte: in Giuseppe e
Aseneth 3,11 e 18,6 si tratta della vestizione di Aseneth prima di anda-
re incontro a Giuseppe, che nel primo caso è paragonata a “la sposa
di un dio”, mentre nel secondo si specifica che indossa un velo “come
una sposa”.23 Potremmo essere quindi sempre nell’orbita dell’uso del
velo per andare incontro a un futuro sposo, come in Genesi 24,65,
anche se non è escluso che la copertura della testa sia collegata alla
presenza di una persona non di famiglia. La seconda menzione del
velo è per noi la più intrigante: in 14,17-15,1, nel cuore della scena
dell’iniziazione di Aseneth da parte dell’angelo, questi la esorta a to-
gliersi il velo con cui si è appena coperta perché ora ella è “una vergi-
ne pura” e la sua testa è come quella di “un giovane uomo”.
Il passo è stato variamente commentato nella storia degli studi,
anche se la reazione alla lettura “misterica” del romanzo da parte di
Philonenko24 ha portato gli studiosi più recenti a trascurarlo. Ai no-
stri scopi, una lettura “minimalista” ci permette di stabilire che per
l’autore e per il suo pubblico di riferimento il velo è un indumento
che caratterizza la donna in quanto tale, quindi non solo la sposa nel
momento delle nozze. L’assimilazione a un “giovane uomo” (gr. hōs
andròs neanìskou) può essere compresa alla luce di un passo talmudi-
co in cui si afferma che gli uomini talvolta si coprono e talvolta no, le
donne sono sempre coperte, mentre i minorenni (qeṭannim) stanno
sempre a testa scoperta (B.Nedarim 30b). Ma possiamo anche spin-
gerci oltre e affermare che l’iniziazione cui Aseneth viene sottoposta
sospenda (solo temporaneamente, tant’è che poi in 18,6 si rimette
il velo) proprio quella differenza di genere25 di cui il velo sulla testa

21
Per questo procedimento esegetico in ambito giudeo-ellenistico si vedano ad es. i
frammenti di Demetrio in L. Bombelli, I frammenti degli storici giudaico-ellenistici, DARFI-
CLET, Genova 1986, pp. 23-32, 71-96.
22
Come abbiamo visto, si tratta del termine usato dai traduttori greci per tsa‘if e redid.
23
La precisazione è presente solo nel testo edito da C. Burchard (Ein vorläufiger Text
von Joseph und Aseneth, cit., p. 32), non nel testo più breve edito da Philonenko.
24
Philonenko cita come paralleli la natura androgina della dea egiziana Neith, con
cui Aseneth ha dei punti di contatto (Joseph et Aséneth, cit., p. 76) e l’aspetto androgino
dell’iniziato nei culti misterici (p. 181). Ad es. D. Maggiorotti, Giuseppe e Aseneth, cit., p.
495, circa il “giovane uomo” si limita a respingere la tesi di Philonenko (seguendo C.
Burchard, Joseph and Aseneth, cit., 226b).
25
Nel suo commentario Philonenko (Joseph et Aséneth, cit., p. 181) riconosce che
l’espressione hōs andròs neanìskou è problematica, essendo neanìskos un sostantivo usato
come aggettivo. Non è impossibile che si tratti della conflazione di due letture concor-
renti, una meno connotata ideologicamente che paragona Aseneth a un “giovinetto”
(cioè, secondo il dettato rabbinico, a un minorenne non tenuto a coprirsi), e una che
invece la assimila a un anēr, cioè sospende la differenza di genere.
140  Ù Le verità del velo

è per l’autore un simbolo ovvio e quotidiano. Viene fatto di portare


un paragone con il passo di Galati 3, 27-28 «Non c’è più giudeo né
greco, non c’è più schiavo né libero, non c’è più uomo né donna».
Tale passo è stato infatti commentato come una formula battesimale
pre-paolina sullo stato del cristiano all’atto della sua iniziazione, che
annullerebbe, tra le altre, le differenze di genere.26 Se il paragone
tra Giuseppe e Aseneth e la formula di Galati è lecito, Paolo si porrebbe
nello stesso atteggiamento dell’autore del romanzo anche nel rite-
nere questa sospensione della differenza di genere solo temporanea,
o semmai connessa con la perfezione escatologica, giacché, com’è
noto, egli sottolinea in più passi delle sue lettere l’importanza di tale
differenza nella comunità cristiana presente,27 differenza che secon-
do 1Corinzi 11 comporta la copertura obbligatoria del capo durante
le liturgie. La prima motivazione che Paolo fornisce per tale obbligo
(v. 5) sembra alludere a Numeri 5,18: «la donna che stia a testa sco-
perta (akataklyptōi tēi kephalēi) svergogna la sua testa», cioè, secondo
Paolo, si mette da sola nella condizione di disagio e di pubblica umi-
liazione in cui è messa la donna oggetto del rito. M.L. Rigato, dopo
aver ricordato che la stessa espressione akataklyptōi tēi kephalēi ricorre
nella parafrasi di Numeri 5,18 di Filone Alessandrino (De specialibus
legibus 3,56,60), stranamente sostiene che non c’è allusione a questo
passo biblico in 1Corinzi 11,5.28 Al verso 5 segue una complessa giusti-
ficazione scritturale, che rimanda alla modalità di creazione dell’uo-
mo (maschio), creato per primo come “immagine e gloria di Dio”,
e della donna plasmata in seguito a partire dall’uomo e in funzione
di lui (vv. 7-9).
Questo modo di narrare la creazione non nasce con Paolo ma
rappresenta una tendenza, già presente nella letteratura giudaica
pre-cristiana, a sintetizzare i due racconti della creazione dell’uomo:
quello di Genesi 1,26-28 in cui l’uomo è creato «a immagine di Dio
[…] però maschio e femmina»,29 e quello di Genesi 2,7.21-22, in cui

26
W.A. Meeks, The Image of Androgyne: Some Uses of a Symbol in Early Christianity, in
«History of Religions», 13 (1974), pp. 165-208, spec. pp. 180-185; M.R. D’Angelo, Tran-
scribing Sexual Politics: Images of the Androgyne in Discourses of Antique Religions, in C. Loca-
telli, G. Covi (a cura di), Descrizioni e iscrizioni: politiche del discorso, Università di Trento,
Dipartimento di scienze filologiche e storiche, Trento 1998, pp. 115-146, spec. pp. 119-
122; L. Fatum, Immagine di Dio e gloria dell’uomo: le donne nelle comunità paoline, in K.E.
Børresen (a cura di), A immagine di Dio: modelli di genere nella tradizione giudaica e cristiana,
Carocci, Roma 2001, pp. 63-144, spec. pp. 64-68, 75-91 (ritengo assai centrato il com-
mento dell’A. sul ruolo che questa affermazione ha nel sistema di pensiero di Paolo, non
come un’affermazione di parità ma come aspirazione a un’abolizione dei ruoli sessuali,
in un generale ripudio della sessualità).
27
Oltre a 1Corinzi 11, di cui parleremo più in dettaglio, vedi anche 1Corinzi 14,34-35.
28
M.L. Rigato, Paolo imita Gesù nella promozione della donna, in J. Murphy-O’Connor,
C. Militello, M.L. Rigato, Paolo e le donne (“Orizzonti biblici”), Cittadella, Assisi 2006,
pp. 110-182, spec. pp. 133 s.
29
Su questa espressione e il modo in cui è tradotta qui vedi C. Moro, Dividere e unire:
la creazione dell’uomo e della donna nell’esegesi giudaica antica e nella critica moderna, in «Studi
e Materiali di Storia delle Religioni», 28 (2004), pp. 123-143, spec. pp. 128-132; Ead., Di-
Introduzione
Caterina Moro · Il velo nel mondo biblico e nel giudaismo Ù  141

Adamo viene plasmato dalla polvere del suolo ed Eva da una sua
costola. Il più antico tentativo di sintesi logica è quello offerto dal
libro dei Giubilei,30 in cui dopo una parafrasi dei due racconti31 si
dice «nella prima settimana fu creato Adamo e anche la costola, sua
moglie, e nella seconda settimana Egli gliela mostrò» (3,8), come a
dire che l’espressione biblica «maschio e femmina» di Genesi 1,27
deve essere intesa come una creazione del maschio che includeva
già la femmina nel suo corpo. Un perfetto parallelo alla protologia
di Paolo in 1Corinzi 11 si ha nel primo libro degli Oracoli Sibillini, un
testo giudeo-ellenistico pervenutoci in una rielaborazione cristiana,
in cui il solo Adamo è creato «a immagine di Dio» (vv. 22-23) e la
donna è creata per lui, dopo che questo è stato posto nell’Eden.32
Ovviamente questa forma di sintesi aveva bisogno di una società in
cui per “uomo” si intenda soprattutto il maschio. A tale motivazione
scritturale Paolo giustappone una sentenza circa la complementarità
della creazione dell’uomo e della donna (1Corinzi 11,11-12): «tutta-
via, né la donna [è] senza l’uomo né l’uomo è senza la donna nel
Signore: come infatti la donna deriva dall’uomo, così l’uomo [nasce] per
mezzo della donna; tutto poi viene da Dio». Tale sentenza si ritrova
citata per ben due volte (senza la parte messa qui in corsivo) nel
commentario ebraico Berešit (Genesi) Rabba, redatto attorno al V sec.
d.C. Nel commentario la frase è posta in bocca a Rabbi Aqiba (attivo
attorno al 135 d.C.) e a Rabbi Simlai (attorno al 250 d.C.) nel conte-
sto dell’interpretazione rispettivamente di Genesi 4,1 e 1,26-27: «nel
passato Adamo fu creato dalla polvere ed Eva fu creata da Adamo;
ma d’ora innanzi sarà A nostra immagine, secondo la nostra somiglianza;
né l’uomo senza donna né la donna senza l’uomo, e nessuno dei due
senza la Presenza Divina».
Si può notare che la frase citata da Paolo ha qualcosa di più,33
ma anche qualcosa di meno, ovvero la citazione biblica: è probabile
che in origine la sentenza non fosse collegata con l’interpretazione
di un passo biblico, ma volesse, come in Paolo, semplicemente con-

viding the Image of God: the Creation of Man and Woman in Genesis, in L. Niesiolowski-Spano,
C. Peri, J. West (a cura di), Finding Myth and History in the Bible: Scholarship, Scholars and
Errors (Essays in Honor of Giovanni Garbini), Equinox, Sheffielf-Bristol 2016, pp. 103-115.
30
L’opera è una narrazione degli eventi della storia sacra fino all’uscita dall’Egitto,
e fu composta in ebraico attorno al II secolo a.C.; si veda J.C. van der Kam, The Book of
Jubilees (“Corpus scriptorum Christianorum orientalium”, 511, “Scriptores Aethiopici”,
88), Peeters, Lovanii 1989, pp. v-xxxviii (introduzione); pp. 11-17 (racconto della crea-
zione dell’uomo).
31
Nella parafrasi del primo racconto non si parla però di creazione a immagine di
Dio. Tale omissione compare anche nella parafrasi di Flavio Giuseppe in Antichità Giu-
daiche I, 32-36, in cui il secondo racconto della creazione è presentato come il modo in
cui si svolse, in concreto, la creazione del maschio e della femmina.
32
Vedi C. Moro, Dividere e unire, cit., pp. 134-137, e la letteratura ivi citata.
33
La parte aggiunta rispetto al detto rabbinico è comunque parte della citazione e
non è un’aggiunta personale di Paolo, in quanto si afferma quanto egli nega al v. 8, ossia
che l’uomo viene ad essere dià tēn gynaika “per mezzo della donna”.
142  Ù Le verità del velo

trapporre alla prima creazione, avvenuta una volta per tutte, la gene-
razione umana nel tempo, come un processo di creazione continua
cui partecipa lo stesso Dio.34 Non c’è quindi alcuna affermazione
di parità tra uomo e donna, né contraddizione con l’affermazione
che la donna deve coprirsi come segno dell’autorità (exousia) che
l’uomo ha su di lei.35 La teologia della creazione è usata come pez-
zo forte di un’argomentazione incentrata sul tema della gerarchia
“naturale”, che si appoggia però sostanzialmente, come dimostrano
i vv. 4-6 e 14-15 che formano un’inclusione, su argomenti di decoro
e di convenienza sociale. Il problema è: ci sarebbe stato bisogno di
un argomentazione così ricca e complessa, se l’apostolo considerasse
scontata un’approvazione su tali temi, perché parte di un patrimo-
nio comune di usi e di convenzioni? La prima obiezione possibile è
che, come più tardi Tertulliano, Paolo aveva delle oppositrici con-
vinte delle loro motivazioni,36 anche se l’apostolo parla di loro ma
non certo a loro.37 Ci sono inoltre degli indizi di un mutamento nel
costume allora in atto, che coinvolse sia il giudaismo che la società
pagana. Cynthia L. Thompson38 ha condotto uno studio su reperti
archeologici provenienti dalla Corinto del I secolo, per fornire una
base documentaria alla ricerca sulle convenzioni dell’epoca di Paolo
riguardo alla copertura del capo: in esso l’autrice mostra come nel
mondo greco-romano e mediterraneo fosse uso comune coprirsi il
capo durante un rito, sia per gli uomini che per le donne. Tuttavia la
maggior parte delle rappresentazioni femminili è a testa scoperta,39
segno che non si trattava di un atteggiamento socialmente disappro-
vato: gli affreschi di Pompei (79 d.C.) mostrano donne sia scoperte
che velate. Questo stato di cose muta nelle testimonianze tardo an-
tiche, che rappresentano più spesso donne velate. Tra il I e il II se-
colo d.C. abbiamo due testimonianze letterarie sull’uso del velo nel
mondo mediterraneo: Dione Crisostomo (33,48), che afferma che
le donne di Tarso si presentano in pubblico completamente velate,
e Plutarco (Moralia 267 A).40 Riguardo ai modi di questa velatura nel

34
Per un’interpretazione di questo “detto” nei vari contesti in cui appare (Berešit
Rabba 8 e 22) vedi C. Moro, Dividere e unire, cit., pp. 139-140; Ead., Dividing the Image of
God, cit.
35
Trovo convincente l’interpretazione del v. 10 in L. Fatum, Immagine di Dio, cit., p.
105 e n. 73, e non quella di M.L. Rigato (Paolo imita Gesù, cit., pp. 148-160).
36
Gli antagonisti di Paolo obiettavano forse che la redenzione operata da Cristo
aveva abolito la disuguaglianza creazionale, accentuata dal peccato (E. Prinzivalli, Lo
studio dell’esegesi dei Padri riguardo la donna / le donne, in «Annali di Studi Religiosi», 9
[2008], pp. 267-277, spec. p. 268; si veda anche il contributo di Cristina Simonelli in
questo stesso volume).
37
L. Fatum, Immagine di Dio, cit., p. 100 e n. 62.
38
C.L Thompson, Hairstyles, Head-covering, and St. Paul. Portraits from Roman Corinth,
in «Biblical Archeologist», 51, 2 (1988), pp. 99-115.
39
Vedi anche R. McMullen, Woman in Public in the Roman Empire, in «Historia», 29
(1980), pp. 208-218, spec. pp. 217 ss.
40
R. McMullen, Woman in Public, cit., pp. 208 ss.
Introduzione
Caterina Moro · Il velo nel mondo biblico e nel giudaismo Ù  143

mondo giudaico, nella serie di monete Iudea capta, coniate tra il 71


e il 82 d.C., il velo delle donne non è rappresentato come un indu-
mento a sé, bensì come una parte di manto o sopravveste (himation)
riportata sul capo,41 come in altre rappresentazioni di parte pagana,
sia di uomini che di donne. Di questo tipo di velatura parla anche
Flavio Giuseppe, che a proposito del rito della donna sospettata di
adulterio, nella sua parafrasi di Numeri 5,18 dice che il sacerdote
toglie l’himation dal suo capo.42 L’himation ricompare negli affreschi
della sinagoga di Dura Europos, del II sec. d.C., una serie di rappre-
sentazioni bibliche e simboliche in cui i personaggi presentano un
abbigliamento peculiare, con caratteristiche sia ellenistiche che per-
siane.43 In queste rappresentazioni le donne, sia sposate che nubili,
sono sempre velate: fanno eccezione una schiava nella scena di Ester
(tav. VI)44 e la donna nuda nel fiume nella scena del ritrovamento
di Mosè (tav. IX). La scena del trionfo di Ester rappresenta la regi-
na con un’alta corona turrita,45 i capelli ricadenti sulle spalle, e un
velo bianco fino alla vita.46 La velatura con un lembo dell’himation è
presente sia nella rappresentazione della vedova cui Elia resuscita il
figlio (tav. VIII),47 che nella scena del ritrovamento di Mosè, per le
due figure femminili che compaiono a sinistra sulla riva del fiume e
a destra di fronte al faraone, e che il commentatore identifica con la
sorella e la madre di Mosè.48 Le tre figure centrali della scena indos-
sano invece un chitone senza maniche, con un velo corto sulla testa.
Per tutti i personaggi femminili il velo lascia scoperto il viso e parte
dei capelli e ricade semplicemente dietro le spalle, senza (eccetto
Ester) le corone presenti in alcune delle rappresentazioni pagane,49
né gli accessori e le complesse acconciature cui alludono le fonti
rabbiniche.50 Benché i dati in nostro possesso non siano molti, non è

41
D.R. Edwards, s.v. “Dress and Ornamentation”, in D.N. Freeedman (a cura di), The
Anchor Bible Dictionary II, Doubleday, New York 1992, pp. 232-238, spec. pp. 237a-237b.
42
Antichità Giudaiche 3,270.
43
In generale sulla simbologia dell’abbigliamento a Dura Europos, vedi E.R. Goo-
denough, Jewish Symbols in the Graeco Roman Period, vol. IX: Symbolism in the Dura Sinago-
gue, Pantheon Books, New York 1964, pp. 124-174, in part. pp. 124 ss. sull’abbigliamento
femminile, di cui tratta più in dettaglio nel commento alle illustrazioni.
44
Le tavole cui si fa riferimento sono quelle contenute in E.R. Goodenough, Jewish
Symbols in the Graeco Roman Period, vol. XI: Symbolism in the Dura Sinogogue. Illustrations,
Pantheon Books, New York 1964.
45
Nel Talmud (Sotah 49a) questa corona è tipica delle spose.
46
E.R. Goodenough, Jewish Symbols, cit., vol. IX, pp. 178 ss.
47
La vedova è qui rappresentata due volte, con un himation nero e il figlio morto in
braccio, e con un himation giallo chiaro e il figlio resuscitato (E.R. Goodenough, Jewish
Symbols, cit., vol. IX, p. 228).
48
Secondo Goodenough (Jewish Symbols, cit., vol. IX, p. 199) Miriam e Iochebed
sono qui identificate, come nella tradizione ebraica, con le due levatrici che disobbedi-
scono al faraone in Esodo 1,15-21.
49
Vedi ad es. la moneta col ritratto di Livia (C.L. Thompson, Hairstyles, Head-cove-
ring, and St. Paul. Portraits from Roman Corinth, cit., p. 107).
50
Vedi oltre, n. 55.
144  Ù Le verità del velo

impossibile ipotizzare che all’epoca di Paolo il costume fosse in evo-


luzione e la copertura del capo delle donne stesse assumendo una
diffusione più ampia e, in parallelo, un’importanza religiosa e sim-
bolica maggiore. A questi risultati si giunge anche confrontando lo
scarso rilievo che la velatura delle donne ha nella Bibbia ebraica con
le informazioni che ci giungono dalla letteratura rabbinica, sia ri-
guardo al velo che in genere alla condizione della donna nel giudai-
smo. Nel commentario di Strack e Billerbeck al Nuovo Testamento51
il passo di Paolo è analizzato alla luce della Mišna, raccolta di leggi
orali messa per iscritto nel II secolo della nostra era, della Gemara
palestinese e babilonese, del V e VI sec.,52 e dei commentari biblici
(midrašim).53 L’uso di questi testi per ricostruire lo sfondo sociale e
storico delle affermazioni di Paolo non è privo di inconvenienti ed è
stato anche fortemente messo in discussione: le attribuzioni di singo-
li detti a maestri dei primi secoli della nostra era non sono affidabili
dal punto di vista storico, e la tendenza a rappresentare una pluralità
di pareri discordanti non ci assicura che l’affermazione di questa o
quella autorità rabbinica fosse poi ritenuta normativa, o riflettesse
una pratica sociale diffusa.54
Riguardo all’argomento del velo, o meglio della copertura del-
la testa per le donne,55 c’è comunque una certa convergenza nelle
fonti raccolte dai commentatori, almeno per quanto ne riguarda la
valutazione positiva sul piano della pratica religiosa. Negli esempi
che seguono, tenteremo però di distinguere il piano della riflessio-
ne legislativa (in termini ebraici, dell’halakah), che comunque pre-
suppone una preoccupazione e un peso sociale delle affermazioni,
anche se talvolta l’argomentazione appare ai nostri occhi cavillosa e
contraddittoria, dal piano dell’aneddotica e delle riflessioni morali
(in termini ebraici, dell’aggadah). Già nella Mišna (Ketubbot 7,6) per

51
H.L. Strack, P. Billerbeck, Kommentar zum neuen Testament aus Talmud und Midrash,
III Band, C.H. Beck, München 1926.
52
La Mišna (Legge orale) e la Gemara, che ne costituisce il commento e l’amplia-
mento, compongono assieme il Talmud Palestinese e quello Babilonese (nella parte
che segue facciamo sempre riferimento a quest’ultimo). Per i titoli dei trattati seguia-
mo la trascrizione di F. Manns, Leggere la Mišnah (“Studi biblici”, 78), Morcelliana,
Brescia 1987.
53
Di più difficile datazione, sebbene alcuni siano ritenuti piuttosto antichi (o al-
meno, contenenti alcuni materiali antichi) dai commentatori. Si veda H.L. Strack-G.
Stemberger, Introduction to the Talmud and Midrash, T&T Clark, Edinburgh 1991 (trad.
ingl. di M. Bockmuehl di Einleitung in Talmud und Midrash, C.H. Beck, München 1982).
54
Si veda la parte riservata ai problemi delle fonti in R.S. Kraemer, Jewish Women and
Women’s Judaism(s) at the Beginning of Christianity, in R.S. Kraemer, M.R. D’Angelo, Women
& Christian Origins, Oxford University Press, New York-Oxford 1999, pp. 50-79, spec. pp.
52 ss.; R.S. Kraemer, Jewish Women and Christian Origins: some Caveats, in ivi, pp. 35-49,
pp. 35-39 della raccolta di studi citata.
55
Sulle acconciature dei capelli e gli accessori di ornamentazione per la testa, che
interessano i legislatori soprattutto per il pericolo che siano rimossi di sabato e portati
in mano per più della distanza permessa, vedi H.L. Strack, P. Billerbeck, Kommentar zum
neuen Testament aus Talmud und Midrash, cit., p. 428.
Introduzione
Caterina Moro · Il velo nel mondo biblico e nel giudaismo Ù  145

una donna andare a testa scoperta è una delle trasgressioni alla pra-
tica ebraica che possono essere causa di divorzio senza indennizzo.
Nella Gemara (B.Ketubbot 72a) il commento a questa norma si incen-
tra sulla possibilità che essa sia già contenuta nella Legge di Mosè,
poiché l’espressione “scoprirà la testa della donna” in Numeri 5,18
viene interpretata da R. Ismael come un ammonimento alle donne a
non andare con la testa scoperta. Tuttavia resta (72b) una differenza
tra “essere a capo coperto” secondo la Legge, per cui basterebbe un
cesto da lavoro posto sulla testa, ed “essere a capo coperto” secondo
la pratica ebraica, per la quale il solo cesto non basta.56 Sempre nel-
la Mišnah scoprire la testa di una donna in pubblico significa farle
un’offesa per la quale è prevista una compensazione in denaro (Baba
Qamma 8,6). Nel complesso, il velo resta una questione di decoro,
ma assume un peso legale e sociale che difficilmente si può ricavare
dalle testimonianze bibliche. Nella Gemara (B.Berakot 24a) ci sono
tracce di una possibile motivazione là dove si afferma che i capelli
di una donna rappresentano un incitamento sessuale. Non manca
nella letteratura una sorta di motivazione protologica, differente da
quella di Paolo ma facilmente rapportabile: tra le dieci maledizioni
della donna che sarebbero state contenute nelle parole di Dio ad
Eva in Genesi 3,16 c’è quella di essere “coperta come chi sta in lutto”
(B.Erubim 100b). La preoccupazione principale delle fonti legali è
la copertura della testa in pubblico, ma nei testi a contenuto morale
compare anche la lode di donne pie dell’antichità come Qimhit, ri-
cordata anche da Flavio Giuseppe,57 che sarebbe stata ricompensata
da Dio con sette figli sommi sacerdoti perché non aveva permesso
nemmeno “alle travi della sua casa” di vedere i suoi capelli:58 si vede
bene come il tema si sia caricato di un forte contenuto ideologico,
che emerge anche da un singolare commento all’episodio di Tamar
nel Talmud (Sotah 10b), secondo il quale Giuda non riconobbe Ta-
mar non perché era velata nelle vesti di prostituta, ma perché si ve-
lava (evidentemente, anche in viso) nella casa del suocero. Benché
il passo prosegue dicendo che Tamar, in quanto nuora ideale, fu
ricompensata con una discendenza di re e profeti, questa interpreta-
zione sembra però portatrice non di una norma sociale, bensì di un
paradosso: a controbilanciare questa affermazione sono citati infat-
ti maestri che sostengono che proprio per questo è necessario che
in famiglia non si porti un velo sulla faccia. Aldilà dello sfoggio di
ingegnosità, abbiamo tutt’al più una conferma dell’esistenza di un

56
Sulla questione delle fonti dell’halakah vedi F. Manns, Leggere la Mišnah, cit., pp.
120-134.
57
Chiamata Kamithos in Antichità Giudaiche 18,2,2, madre di Simone (I sec. d.C.).
58
L’aneddoto è narrato nel Talmud Palestinese (Megilla 1,10; J. Neusner, The Talmud
of the Land of Israel. A Preliminary Translation and Explanation, vol. 19, University of Chica-
go Press, Chicago 1987, p. 68; notare che il nome della pia protagonista non ha meritato
nella traduzione moderna una voce a parte nell’indice analitico, e va cercata sotto il
nome del figlio Simone…).
146  Ù Le verità del velo

uso non soggetto a norme ma socialmente accettato e anzi elogia-


to, almeno da rendere plausibile il rovesciamento di segno operato
dall’interprete citato in Sotah 10b.
In conclusione, il confronto tra le testimonianze a nostra dispo-
sizione ci permette di ipotizzare che nel mondo giudaico ci sia stata
un’accentuazione progressiva dell’enfasi sulla velatura del capo, pa-
rallela forse a un mutamento di costume cui non fu immune nemme-
no il mondo pagano (meriterebbe un discorso più lungo, e potrebbe
essere occasione di futuri approfondimenti, il confronto tra questo
mutamento e la concezione della sessualità). Questa evoluzione ci
appare già compiuta nel II secolo, con le norme della Mišna e le
rappresentazioni di Dura Europos, ed è probabile che Paolo, con la
sua lunga esortazione di 1Corinzi 11, sia stato sia colui che impresse,
in campo cristiano, una svolta definitiva, sia, a suo modo, il testimone
di una fase di mutamento.
Sguardi sul mondo cristiano Ù  147

Il velo nell’islam plurale


Sguardi sul mondo cristiano Ù  148
Sguardi sul mondo cristiano Ù  149

Alessandro Vanoli

L’invenzione del velo.


Alcune considerazioni su colonialismo,
moda femminile e identità islamica

Qualche passo più in là, una fontana faceva scorrere la sua acqua gor-
gogliante da quattro rubinetti di bronzo; delle donne vestite di lunghe
vesti blu vi portavano dei vasi di forma antica; grandi cammelli getta-
vano sulla folla uno sguardo pacifico, attendendo che i loro conduttori
avessero riempito gli otri in pelle di capra; i cani passavano ringhiando;
dei conduttori di asini spingevano davanti a me i loro animali bardati
di selle rosse; dei militari vestiti di bianco e acconciati con un dei tar-
bouch ornati di piastrine di rame passeggiavano tenendosi per il dito
mignolo. Gli addetti alle merci, mezzi nudi, si precipitavano attorno a
me disputandosi il bagaglio che mi seguiva; qualche ardito piccione si
lanciava in questo tumulto beccando i grani caduti vicino a un muc-
chio di sacchi; dei mercanti gridavano la loro mercanzia: datteri, doura
(mais), confetture, sorbetti, frutta e pezzi di canna da zucchero; sul tet-
to di una caserma, sventolava la bandiera rossa con la croce d’argento;
al di sopra della mia testa il cielo era tutto blu.1

Era giovedì 15 novembre 1849: così Maxime Du Camp avrebbe


ricordato il suo sbarco nel porto egiziano di Alessandria. La storia
di questa spedizione è piuttosto nota: in Oriente il fotografo fran-
cese giungeva per incarico del ministero francese della pubblica
istruzione, con il compito di inventariare i monumenti di Egitto
e della Terra Santa. Assieme a lui viaggiava l’amico Gustave Flau-
bert; che avrebbe lasciato un’altra famosa memoria scritta di quei
giorni in Egitto. Di Flaubert e l’Oriente è stato scritto molto, forse
anche troppo, credo finendo col sopravvalutarne il ruolo nella de-
finizione dei canoni estetici orientalistici.2 Anche riguardo al reali-

1
M. Du Camp, La Nil. Égypte et Nubie, Hachette, Paris 1889, p. 7.
2
Il riferimento è ovviamente alle note tesi di che nel 1978 Edward Said presentò
in forma compiuta nel suo Orientalism (ultima edizione italiana: E. Said, Orientalismo,
150  Ù Le verità del velo

smo di Flaubert si è scritto tanto, presumendo persino di cogliervi


un intento quasi fotografico;3 non ritornerò sull’argomento se non
per notare come tale realismo sia stato talvolta accostato proprio a
Maxime Du Camp. È ben noto l’entusiasmo del fotografo france-
se (e di tanta parte dell’ambiente scientifico di quel periodo4) nei
confronti della pretesa oggettività che il nuovo mezzo fotografico
pareva garantire. È altrettanto noto che tale ricerca di oggettività
si espresse anche nella sua prosa; nell’introduzione ai suoi Ricordi,
infatti, Du Camp così affermava: «la bobina della mia memoria si è
srotolata da sé, come la tavola mobile degli ottici; ho visto passarmi
davanti agli occhi gli eventi ai quali avevo assistito».5
A partire da tale complesso rapporto tra la prosa di Du Camp (e
di altri suoi contemporanei) e le necessità poste dalle nuove tecni-
che fotografiche, intendo porre l’attenzione su un elemento di fatto
marginale: l’immagine di quelle «donne vestite di lunghe vesti blu»
che si recavano alla fontana portando «dei vasi di forma antica». Il
cenno è apparentemente insignificante, all’interno com’è di una
vasta e colorata ricostruzione d’ambiente; Flaubert peraltro, nella
sua cronaca di quegli stessi istanti, non ne fa neppure menzione.6 Il
riferimento alla veste e a quelle anfore, permette però di introdur-
re alcune considerazioni sull’abbigliamento delle donne islamiche
così come fu percepito e rielaborato dalle immagini europee nella
seconda metà del XIX secolo.

Feltrinelli, Milano 2005; per alcune note sull’associazione tra Oriente e sessualità in
Flaubert si vedano in particolare pp. 190-192). Per una critica recente (polemica ma so-
stanzialmente condivisibile) alle posizioni di Said riguardo a Flaubert si veda R. Irwin,
Lumi dall’oriente. L’orientalismo e i suoi nemici, Donzelli, Roma 2008 (ed. ingl. Penguin
Books, London 2006), p. 286.
3
Così già É. Scherer, Un roman de M. Flaubert (dic. 1869), in Id., Études sur la littéra-
ture contemporaine, IV, Lévy, Paris 1886, p. 295; si veda inoltre, per un particolare punto
di vista sul problema, C. Ginzburg, Decifrare uno spazio bianco, in Id., Rapporti di forza,
Feltrinelli, Milano 2000, pp. 109-126.
4
Famoso è l’invito rivolto da François Arago, in una celebre allocuzione presso l’A-
cadémie des sciences il 19 agosto 1839, affinché i primi dagherrotipisti partecipassero
alla decifrazione dei geroglifici raccogliendone le «immagini fedeli» grazie alla foto-
grafia «sottomessa alle regole della geometria»: D.F. Arago, Rapport sur le daguerréotype
avec les textes annexes de C. Duchâtel et L.-J. Gay-Lussac, fac-similé, Rumeur des Âges, La
Rochelle 1995, p. 38.
5
M. Du Camp, Souvenirs de l’année 1848, Hachette, Paris 1876, p. 2. Come è stato
giustamente notato, quella «tavola mobile degli ottici» allude con ogni probabilità al
diorama inventato da Daguerre ed antesignano del cinema: C. Ginzburg, Decifrare uno
spazio bianco, cit., p. 120).
6
Questa la stessa scena dello sbarco ad Alessandria, così come riportata negli ap-
punti di Falubert: «Sbarco, caos di grida e di pacchi; sul bordo della banchina, dei
buoni arabi pescano alla linea. La prima imbarcazione che vedo nel porto è un brick di
Saint-Malo, e la prima cosa sulla terra d’Egitto, un cammello. Ero salito sulle sartie e da
lì avevo colto i tetti del serraglio di Mehmet-Ali che brillavano al sole. Cupola nera, in
mezzo a una grande luce d’argento fuso sul mare. Negre, negri, fellah. La scialuppa ci
sbarca; c’è una fontana, i cammellieri vengono a riemprivi le loro otri. Impressione so-
lenne e inquieta quando ho sentito i miei piedi poggiarsi sulla terra d’Egitto» (G. Flau-
bert, Notes de Voyage. Égypte, in Œuvres complètes, Louis Conard, Paris 1910, vol. IV, p. 94.
Introduzione
Alessandro Vanoli ∙ L’invenzione del velo Ù  151

1. Le immagini di donne musulmane sarebbero tornate spesso


nel testo di Du Camp; in particolare, alcune pagine più avanti, in un
ritratto delle strade del Cairo, egli avrebbe inserito una lunga anali-
tica digressione sui costumi femminili arabi (la riporto mantenendo
le trascrizioni di nomi arabi e turchi utilizzate dall’autore):

A Costantinopoli le donne sono velate dallo yachmac e avvolte da un


feredjé (mantello) di colore chiaro, ciò che è bene e di buon effetto tra
le folle; ma qui esse si attorcigliano in un gran pezzo di taffetas nero
(habara) da cui escono in basso degli scarponcini [bottines] e dei panta-
loni gialli; sul viso esse si applicano un pezzo di stoffa bianca (bourkó),
sostenuto internamente da una banda di laccetti di cotone intrecciato
che si appoggia sul naso; quando si fa un giuramento a una signora
[grande dame] si giura per la purezza del suo bourkó, esenti così da ogni
reprimenda. Questo insieme è però brutto, sgraziato e senza armonia
nei toni. Esso non si applica alle donne dell’harem; e neppure alle po-
polane, che quasi tutti i giorni portano una veste blu aperta sul petto;
esse posano sulla loro testa una grande sciarpa (milayeh) che lasciano
scendere sino a terra e nascondono la loro figura sotto una serie di
piccole trecce in seta nera raccolte assieme e ornate di piastrine d’ar-
gento. […] Alcune di queste fellahins sono graziose, sino a quando sono
giovani e non sono state ancora deformate dalle gravidanze troppo
precoci; il colore bruno dorato della loro pelle, l’eccessiva semplicità
del loro costume, il modo elegante con cui portano ogni minimo far-
dello, dona loro l’apparenza di quelle canefore antiche che disegnano
il loro profilo sui bassorilievi in marmo ingiallito dal tempo.7

Quest’ultima notazione di Du Camp sembra chiarire meglio il


fugace accenno da cui siamo partiti, ponendo in diretta relazione
l’immagine delle fellahins, le contadine dalla veste blu e dal volto sco-
perto, con un modello classico di bellezza, desunto esplicitamente
dalla statuaria greco-romana. La cosa, in sé, non può stupire: che in
Europa, ai tempi del fotografo francese, l’ideale di bellezza femmini-
le guardasse ancora al modello classico è ben noto. Il problema più
che altro si cela nell’antitesi tra i due modelli femminili “arabi” così
come descritti da Du Camp: quello della grande dame, infagottata e
nascosta da veli che ne celano i tratti e ne rendono la figura “brutta
e sgraziata” e la popolana, povera, visibile, ma dal portamento clas-
sicamente elegante. È a partire da questa non scontata distanza che
occorre proseguire.
Maxime du Camp fu uno dei primi fotografi professionisti a
giungere in Egitto. Prima di lui, da più di un decennio, erano stati
in molti a spingersi in Oriente per produrre dagherrotipi di vedute
antiche e immagini esotiche. Il dagherrotipo, come è noto, presen-
tava però notevoli difficoltà di gestione e trasporto, ma soprattutto
produceva un’unica copia. Du Camp portava con sé invece la nuova

7
M. Du Camp, Le Nil, cit., pp. 42-43.
152  Ù Le verità del velo

tecnica del negativo su carta ai sali d’argento, da poco introdotta


in Francia.8 Dopo di lui i fotografi europei che avrebbero lavorato
in Turchia, Egitto o Tunisia furono sempre di più. Alla fine del se-
colo alcuni nomi divennero relativamente famosi: J. Pascal Sebah,
Henri Béchard, Émile Brugsch, Ermé Désiré, Otto Schoefft, Gabriel
Lékégian, Lehnert & Landrok. Fu dai loro studi, che uscì gran parte
di quelle immagini orientaliste sempre più ricercate dal mercato
europeo.
Tale produzione fotografica è nota e ampiamente indagata.9 In
particolare, è stato rilevato come molto del materiale etnografico
prodotto in quel contesto rimandi più o meno esplicitamente a mo-
delli pittorici e raffigurativi europei. Così ad esempio per quanto
riguarda le fotografie di gruppi di individui disposti in posizione ar-
tificiosa su una o due file (piuttosto celebri le immagini di confra-
ternite sufi e di dervisci in particolare: fig. 1): è stato dimostrato con
buoni argomenti, infatti, come rimandino ai ritratti di corporazione
già diffusi nella pittura olandese del XVII secolo.10 Lo stesso, natural-
mente, si può dire per i ritratti femminili: anche le donne raffigurate
nelle fotografia orientalistiche di fine secolo sono preliminarmente
disposte davanti all’obbiettivo secondo formule radicate in una tra-
dizione pittorica e scultorea europea. Spesso collocate davanti a fon-
dali dipinti che riproducono sfondi “orientali” di palazzi o deserti,
le modelle impersonano differenti tipi sociali secondo una sintassi
fortemente debitrice alla tradizione delle arti visive: uso del triango-
lo per adattare le figure e le forme, cura nella postura del modello,
direzione dello sguardo, orientamento della luce e dell’ombra. Così,
ad esempio, per l’anonima immagine di una donna beduina (fig.
2)11 raffigurata mentre allatta un bambino: una giovane dallo sguar-

8
Un dettagliato elenco dei materiali e delle sostanze chimiche utilizzate è fornito
da Du Camp in una lettera indirizzata a Flaubert nel 1849: M. du Camp, Lettres inédites
à Gustave Flaubert, lettre du 15 octobre 1849, Edizioni Bonaccorso Giovanni, Messina
1978, p. 152.
9
Si veda Kh. Mounira (a cura di), L’Orientalisme. L’Orient des Photographes au XIX
siècle, Union, Paris 1994; C. Bustarret, The journey to Egypt, in M. Frizot (a cura di), A
New History of Photography, Könnemann, Köln 1998; O. Colin, Egypt. Caught in Time, Gar-
net, London 1999; R. Benjamin, Orientalist Aesthetics: Art, Colonialism, and French North
Africa, 1880-1930, University of California Press, Los Angeles 2003; M.B. Vogl, Picturing
the Maghreb: Literature, Photography, (re)presentation, Rowman & Littlefield, Oxford 2003.
10
N. Rosenblum, A World History of Photography, Abbeville Press, New York 1984, pp.
344, 349-351; C. Ginzburg, Oltre l’esotismo: Picasso e Warburg, in Id., Rapporti di forza, cit.,
pp. 134-135. Per quanto riguarda i ritratti di corporazione olandesi si veda A. Rigel,
Das holländische Gruppenporträt, in «Jahrbuch der kunsthistorischen Sammlungen des
Allerhöchsten Kaiserhauses», 23, 3-4 (1902), pp. 71-278; per una più recente puntualiz-
zazione si veda A. von Hülsen-Esch, Gelehrte im Bild: Repräsentation, Darstellung und Wahr-
nehmung einer sozialen Gruppe im Mittelalter, Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen 2006.
11
Fondo fotografico “Mondo arabo” della Cineteca Comunale di Bologna (devo
la conoscenza di tali immagini all’ottimo lavoro di ricerca condotto da D. Mema, Il
fondo fotografico “mondo arabo” della cineteca comunale di Bologna. Problematiche di riordino,
catalogazione e digitalizzazione, Tesi di Laurea, Università di Bologna, anno accademico
2004/2005).
Introduzione
Alessandro Vanoli ∙ L’invenzione del velo Ù  153

do leggermente abbassato —forse imbarazzato12— il viso scoperto


e incorniciato da una sciarpa che ne cinge i capelli neri e crespi,
collane e monili che le scendono verso il petto, e il corpo cinto da
una lisa veste a righe. Sul piano formale però tale figura rispetta un
rigoroso rapporto geometrico tra le parti: il triangolo formato dalla
sciarpa che scende sulle spalle e dal braccio che stringe il seno, il
cerchio costituito dal bambino ecc. Inoltre, soprattutto, un modello
iconografico di riferimento che rimanda più o meno esplicitamente
alle raffigurazioni cristiane della Madonna col bambino. Un discor-
so analogo potrebbe farsi per l’immagine di Donna araba con bambino
dello studio di Lékégian (fig. 3), anche in questo caso una donna dal
volto scoperto anche se incorniciato da un lungo velo che scende su
una veste apparentemente dello stesso colore; il bambino siede sulla
sua spalla sinistra tenuto dalla mano destra della donna, mentre la si-
nistra regge un vaso di terracotta. Quello che ne risulta è un gruppo
relativamente statico che sembra riecheggiare modelli desunti dalle
figure ellenistiche: tanto nella posizione del braccio destro quanto
nella postura del corpo e nel rapporto formale col bambino sulla
spalla (si pensi ad esempio ad alcune opere di Ingres come la Venere
del 1848, e soprattutto La fonte del 1856: fig. 4). Per quanto le affi-
nità con le descrizioni femminili offerte da Du Camp siano dunque
numerose, occorre però procedere oltre. Molte, infatti, sono anche
le fotografie che ritraggono donne di ceto sociale più elevato. Così è
per un’altra immagine dello studio Lékégian: una donna in groppa
a un asino e accompagnata da un servitore: la figura appare in que-
sto caso irriconoscibile, coperta com’è da un bourkó che giunge a na-
sconderle persino i piedi (fig. 5). Discorso simile vale per un ritratto
dello studio Soler di Tunisi: la didascalia Femme arabe riche commenta
una foto di studio in cui appare una donna coperta da una pesante
veste bianca, con un velo nero a nasconderle il volto: la figura è gras-
sa e relativamente goffa, pur mantenendo anche in questo caso una
costruzione dell’immagine relativamente rigorosa (fig. 6).
Di fronte alla distanza formale che separa i differenti modelli
femminili, vale forse la pena, allora di seguire la traccia letteraria di
Du Camp, quando coglieva in quelle ricche donne arabe infagottate
e nascoste, un insieme «sgraziato e senza armonia nei toni», mentre
nelle povere donne del popolo coglieva «un’eleganza di portamen-
to» antica. Che cosa Du Camp intendesse per “grazia” e “armonia”,
si evince chiaramente dalle sue note sulla sulle belle arti scritte in
occasione delle Esposizioni Universali degli anni Sessanta: «Nessuna
contorsione, nessun gesto esagerato; tutte le membra concorrono
allo stesso movimento e provano, con il bell’ordine dell’insieme,
come la singola figura esiga quanto un gruppo una profonda scienza

12
Sullo sguardo imbarazzato come segnale di una resistenza al modello straniero
imposto in simile ritrattistica, si veda C. Ginzburg, Oltre l’esotismo, cit., p. 135.
154  Ù Le verità del velo

della composizione».13 Du Camp, insomma, non si discostava di mol-


to dall’espressione della bellezza neoclassica così come era stata teo-
rizzata già un secolo prima da Winkelmann: uniformità delle parti,
semplicità, unità. Espressione che sul piano della figura femminile
il fotografo francese vedeva riflessa nella “castità” delle veneri clas-
siche e contrapposta, non a caso, alle forme scomposte, voluttuose
e tentatrici, che si potevano cogliere nei “ginecei orientali”.14 La di-
stanza che separa la bellezza classica dalle scomposte forme orientali
va chiarita però su un piano più ampio di quello del solo giudizio
estetico.

2. Una delle più importanti (e tra le prime) rappresentazioni


dell’Oriente era stata pubblicata all’inizio del secolo XIX a seguito
della spedizione di Bonaparte. Le tavole della Description de l’Égypte15
furono divise in una serie di volumi, dedicati alle vestigia antiche,
allo Stato moderno e alla storia naturale. Indipendentemente dal-
le descrizioni delle vesti femminili, che non si discostano di molto
da quanto già abbiamo incontrato,16 le illustrazioni sono particolar-
mente interessanti. Non occorre una particolare conoscenza dei mo-
delli classici per scorgere nella postura di quelle donne —siano esse
velate (raramente) o meno— modelli di matrice europea. Il discorso
non vale solo per le rappresentazioni di costumi tipici o per l’imma-
gine della donna del popolo anche in questo caso rappresentata con
il consueto vaso antico posto sul capo (fig. 7). Il richiamo a modelli
classici è ben presente persino nel caso della rappresentazione di
due danzatrici mostrate a volto e seno sco­perti (fig. 8) e anche per la
raffigurazione di un me­stiere a dir poco umile, come la raccolta del-
lo sterco dove le donne e il contesto naturale sembra riecheggiare
più un tema arcadico che la realtà egiziana di fine Settecento (fig. 9).
Le illustrazioni della Description de l’Égypte segnarono non poco
l’immaginario dell’orientalismo, francese in particolare ed europeo
in generale.17 Ma al di là della fortuna successiva, in questa sede è
rilevante soprattutto la lettura che dell’Egitto la description napoleo-
nica voleva offrire. Tale lettura, peraltro, prima ancora di rifletter-
si nelle tavole era esplicitata da Jean-Baptiste-Joseph Fourier, nella
prefazione:

Posto tra Africa e Asia, facilmente raggiungibile dall’Europa, l’Egitto


occupa il centro dell’antico continente. Questa terra evoca solo ricordi

13
M. Du Camp, Les beaux-arts à l’exposition universelle et aux salons de 1863, 1864, 1865,
1866 et 1867, Vve J. Renouard, Paris 1867, p. 40.
14
Ivi, pp. 29-31.
15
Description de l’Égypte, ou Recueil des observations et des recherches qui ont été faites en
Égypte pendant l’expédition de l’armée française, I-XXIII, Impr. impériale, Paris 1809-1828.
16
Si veda a titolo di esempio Description de l’Égypte, XVI, p. 182.
17
Piuttosto nota è la definizione di Said riguardo alla Description de l’Égypte: «gran-
diosa appropriazione collettiva di un paese da parte di un altro»: Orientalismo, cit., p. 89.
Introduzione
Alessandro Vanoli ∙ L’invenzione del velo Ù  155

grandiosi; è la patria delle arti e conserva innumerevoli monumenti; i


templi più importanti e i palazzi un tempo abitati dai sovrani esistono
tuttora, nonostante il fatto che i meno antichi tra questi edifici furo-
no terminati prima della guerra di Troia. Omero, Licurgo, Solone,
Pitagora e Platone, tutti si recarono in Egitto per studiare le scienze,
la teologia, le leggi. Alessandro vi fondò una città opulenta, che a lun-
go ha mantenuto la propria supremazia commerciale, e che ha visto
Pompeo, Cesare, Marco Antonio e Augusto decidere tra loro il fato di
Roma e quello del mondo intero. Si può dunque dire che sia proprio di
questo paese attrarre l’attenzione dei principi illustri, che governano
il destino delle nazioni. Nessuna nazione, né in Occidente né in Asia,
ha mai raggiunto una potenza considerevole senza volgersi di conse-
guenza verso l’Egitto, considerandolo in un certo senso una preda a lei
naturalmente destinata.

Dire, come è stato fatto, che queste parole mostrano come l’Egitto
fosse «il più degno palcoscenico per progetti e azioni d’importanza
storica universale»18 è più che altro una tautologia. L’orizzonte classi-
co dell’Egitto rispondeva ad attese più complesse. Lo mostra bene la
testimonianza di Vivant Denon che, al seguito di Napoleone, redasse
una dettagliata cronaca di quella spedizione:

Ho ritrovato a Tyntira rappresentazioni di peristili di templi con caria-


tidi, eseguite in pittura nel bagno di Tito, copiate da Raffaello, e che
noi scimmiottavamo tutti i giorni nei salotti, senza immaginare che gli
egiziani ce ne hanno dato i primi modelli. La matita in mano passavo
di oggetto in oggetto. Distratto dall’uno per l’interesse dell’altro, sem-
pre attratto sempre distolto, mi mancavano occhi, mani e una testa
abbastanza vasta per vedere, disegnare e mettere un po’ d’ordine in
tutto ciò da cui ero colpito.19

È interessante questo riferimento finale alla necessità di mette-


re ordine e, al di là dei rischi di un facile psicologismo, varrebbe
forse la pena di seguire tale traccia chiedendosi quanta parte abbia
avuto tale necessità di “mettere ordine” nella ricostruzione europea
dell’immagine orientale. Qui mi sembra sufficiente sottolineare
quanta importanza avesse la ricerca della classicità. Classicità a cui
si poteva accostare l’arte egizia degli obelischi e delle piramidi, che
già da tempo in Europa era stata assimilata all’architettura greca e
soprattutto romana.20
Ciò che gli europei invece non vedevano e non potevano vedere
erano invece le vestigia più recenti dei secoli islamici. Ancora Denon
raccontava in un altro punto:

18
E. Said, Orientalismo, cit., p. 90.
19
V. Denon, Voyages dans la Basse et la Haute Égypte pendant les campagnes de Bonaparte
en 1798 et 1799, Ch. Taylor, London 1817, pp. 36-37.
20
Gli obelischi e le piramidi, prima ancora che monumenti del deserto egiziano,
erano parti integranti della memoria storica imperiale, come avevano ricordato, già nel
1756, le Antichità romane di Giambattista Piranesi.
156  Ù Le verità del velo

Feci un disegno di due obelischi e dei paesaggi e dei monumenti che


li circondavano: osservando il monumento Saraceno (Sarrasins) che si
trovava accanto a loro, trovai che il suo basamento apparteneva a un edi-
ficio greco o romano; vi si distinguevano ancora dei capitelli di colonne
di ordine dorico in esso inserite, e il cui fusto si perdeva al di sotto del
livello del mare.21

Non sapremo mai quale fosse la natura di quel “monumento sa-


raceno”: la sua unica importanza era in fondo quella di conservare,
incastonate nelle sue mura, tracce della classicità. Per tanti france-
si venuti dopo di lui (ma vi si potrebbero aggiungere senza troppi
problemi gli inglesi e pure gli italiani) il viaggio in Africa, durante il
secolo coloniale, fu più spesso una scoperta di tracce antiche: quelle
di grandi civiltà del passato o, al più, di memorie bibliche. Agli occhi
di autori come Eugène Fromentin o Émile Masqueray, le città arabe
erano città da razionalizzare, da nobilitare attraverso la costruzione
di opere monumentali (come ad esempio il teatro il teatro di Alge-
ri22) facendole così entrare nella storia, dopo secoli passati in una
sorta di sonnolenta infanzia.23 Un po’ quello che, con altra eleganza,
avrebbe fatto dire Maupassant al suo Douroy in Bel Ami: «Algeri è
una città tutta bianca...» poi gli mancarono le parole, incapace di
descrivere «la bella città chiara, che digradava, come una cascata di
case basse, dall’alto della montagna verso il mare».24 Quella città non
recava in sé segni della storia: come una cascata o una sorta di colata
lavica, era in realtà solo parte del paesaggio naturale: «l’anticamera
dell’Africa misteriosa e profonda, l’Africa degli Arabi vagabondi e
dei negri sconosciuti, l’Africa inesplorata e tentatrice, di cui si mo-
strano, qualche volta, nei giardini pubblici, le bestie inverosimili,
che sembrano create per i racconti delle fate…».25
Con questo, ovviamente, non intendo certo affermare che il mon-
do coloniale non abbia esercitato un profondo influsso nella cultura
dei paesi colonizzatori o, peggio, che le città musulmane non sia-
no state guardate con interesse e affascinato stupore da parte degli

21
V. Denon, Voyages, cit., pp. 36-37.
22
E. Fromentin, Sahara et Sahel, E. Plon, Paris 1887, p. 204: «Des places ont été
créées, comme autant de centres de fusion pour les deux races: la porte Bab-Azoun,
où l’on suspendait à côté de leurs têtes les corps décapités, a été détruite; les remparts
sont tombés; le marché au savon, où se donnaient rendez-vous tous les mendiants de
la ville, est devenu la place du théâtre; ce théâtre existe, et, pour le construire, nos
ingénieurs ont transformé en terrasse l’énorme rampe qui formait le glacis escarpé
du rempart turc».
23
É. Masqueray, Souvenirs et visions d’Afrique, E. Dentu, Paris 1894, pp. 6-7: «Pays
bien fait pou des ascètes et des voluptueux tout ensemble. […] Si l’on entend bien
son langage, il nous donne à choisir entre deux voies: aspirer au monde invisible, in-
finiment plus beau, plus varié, plus riche, plus vivant que le choses présentes qui ne
changent pas […] Il ne convient bien qu’à deux sortes d’hommes, que le hasard a réu-
nies, il y a deux cents ans, dans Alger même: les marabouts et les corsaires».
24
Bel ami, I, 3.
25
Ibidem.
Introduzione
Alessandro Vanoli ∙ L’invenzione del velo Ù  157

europei. La storia dell’orientalismo è già stata fatta da tempo: da


decenni si studia ormai l’idea di Oriente così come fu prodotta e
diffusa in Europa attraverso la letteratura, la pittura l’architettura
e quant’altro.26 Semplicemente non è questo l’oggetto delle pagine
seguenti. Il problema non è infatti il grado di indubbio fascino eser-
citato da una città come Alessandria d’Egitto o l’interesse suscitato
dai suoi pittoreschi “esotismi” (il mercato, la moschea le rovine “sa-
racene” ecc.). Il problema è stabilire perché tali esotismi non furono
guardati come memorie storiche, perché in luoghi come Algeri si
percepì l’assenza della storia, pur notandone le moschee e i palaz-
zi “saraceni”, o perché in Egitto, di fronte a un palazzo ottomano,
presumibilmente di una certa antichità, ci si fermasse ammirati solo
perché serbava tra le sue mura le tracce di un capitello dorico o
perché nel suo cortile celava un reperto, statua o colonna che fosse,
dell’antica civiltà egizia.

3. La storia della fortuna moderna del modello artistico greco e


romano è stata ampiamente narrata, così come è stata dettagliata-
mente descritto il suo progressivo coincidere con l’affermazione mo-
numentale in senso nazionalista.
Dovendo riassumere, si potrebbe cominciare forse da un paesag-
gio romano, o meglio dallo sguardo dei tanti che in pieno Settecen-
to si recarono in Italia, a Roma in primo luogo, cercando in quelle
antiche tracce di perfezione urbanistica e monumentale, i segni di
una corretta gestione politica,27 una razionalità che poteva esprimere
tanto i fasti dell’Ancient Régime quanto le attese di una rivoluzione.
Era l’aria del tempo; Winkelmann fornì una definizione dell’ideale
greco di bellezza, destinata a una duratura fortuna: era un problema
di proporzioni tra le differenti parti dell’opera e la sua completezza;
alle proporzioni spettava dare il senso della simmetria, ma i singoli
dettagli dovevano ricomporsi in una più alta unità formale. Una sua
definizione di stile “classico” è piuttosto famosa (già vi ho accennato
sopra): l’unità propria di un oceano, che appare levigato come uno
specchio pur essendo in perenne movimento.28
Sono cose ben note e ampiamente documentate da ormai più
di un secolo di studi. Vi è innanzi tutto un convergere di rinato cul-
to dell’antico, percepito sempre più fortemente come una sorta di

26
Inevitabile ancora il rimando a l’Orientalismo di Said. Per alcuni apporti più
recenti e per una riflessione sul dibattito storiografico si veda però J.M. MacKenzie,
Orientalism. History, theory and the arts, Manchester University Press, Manchester-New
York 1995 (per il dibattito sull’Orientalismo, pp. 1-19).
27
Rimando su questo all’importante lavoro di A. Ottani Cavina, I paesaggi della ra-
gione, Einaudi, Torino 1994, in particolare pp. 26-46. Per un approccio più introduttivo
si veda anche M. Vitta, Il paesaggio. Una storia tra natura e architettura, Einaudi, Torino
2005, in particolare 217-224; inoltre le pagine dedicate a L’arte e la Rivoluzione in C. Sa-
vettieri, Dal neoclassicismo al romanticismo, Carocci, Roma 2006, pp. 221-242.
28
Winkelmanns Werke, a cura di H. Meyer, J. Schulze, Dresden 1811, IV, p. 57.
158  Ù Le verità del velo

impareggiabile primavera dell’umanità e proprio per questo fonte


di salute e rinnovamento.29 E se è vero che il rigore neoclassico di
Versailles ben si era prestato a rievocare i fasti imperiali ad uso dello
Stato assoluto del Re sole, è altrettanto vero, però, che tale stile fu
ritenuto il migliore anche per esprimere le nuove necessità della Ri-
voluzione: ancora Winckelmann aveva scritto negli anni sessanta del
Settecento che solo la libertà sapeva sollevare l’arte alla sua perfe-
zione.30 Si guardò alla Grecia, dunque, ma naturalmente anche alla
Roma repubblicana, ritenuta portatrice di quegli ideali di libertà,
patriottismo ed eroismo che agitavano il nuovo mondo europeo. La
cultura latina riprodotta ossessivamente in archi di trionfo, rotonde
e peristili si offrì anche come sostituto di una religione sempre meno
sentita: gli architetti della rivoluzione ritrovarono così, nelle opere
imponenti, nella nudità, nelle forme geometriche elementari, la cit-
tà, le case e gli uomini dell’utopia di Rousseau.31
L’imposizione di tale ordine politico in ambito coloniale è stata
ben studiata. Sul piano urbanistico, ad esempio, essa si lega alle
necessità imposte dal nuovo modello di matrice francese.32 I centri
antichi vennero distrutti in nome delle necessità igieniche e viarie:
le nuove strade dovevano far sparire i quartieri malsani e, allo stesso
tempo, dovevano fornire nuovi spazi: quelli che servivano alle nuo-
ve tecnologie, all’accelerazione delle comunicazioni, ma anche, e
soprattutto, alle rappresentazioni pubbliche della-nazione, come le
adunanze, le feste o le parate militari. Simili tendenze modernizza-
trici si diffusero un po’ ovunque sulle coste meridionali e orientali;
non solo però come esplicita imposizione delle potenze coloniali,
ma sempre più spesso come volontà dei governatori locali di avvici-
narsi agli standard scientifici e culturali dell’Europa. Lo stesso, na-
turalmente, avvenne quasi ovunque nel mondo coloniale di quegli
anni di fine Ottocento: al Cairo, ad Alessandria o ad Algeri.33

29
Desumo tali considerazioni dalla classica —ma ancora importante— opera di A.
Hauser, Storia sociale dell’arte, Einaudi, Torino 1956, II, p. 153.
30
Cit. in H. Honour, Neoclassicismo, Einaudi, Torino 1993 (ed. ingl., Neo-classicism,
Penguin Books, London 1968), p. 49.
31
Cfr. F. Furet, D. Richet, La Révolution Française, Hachette, Paris 1963, pp. 472-473;
inoltre L. Canfora, Ideologie del classicismo, Einaudi, Torino 1980; M. Ozouf, Le Panthéon,
in P. Nora (a cura di), Le lieux de mémoire, Gallimard, Paris 1986, vol. I, La république, pp.
139-166.
32
Il riferimento è ovviamente all’opera di Eugène Haussmann, prefetto della Sen-
na sino al 1870 e al cui nome si legarono le grandi trasformazioni urbane della Parigi
di quegli anni. Su questo e per ulteriori elementi di bibliografia si vedano L. Benevolo,
La città nella storia d’Europa, Laterza, Roma-Bari 1993, pp. 172-191; G. Zucconi, La città
nell’Ottocento, Laterza, Roma-Bari 2004. Per un approccio più specifico rimando a D.H.
Pinkney, Napoleon III and the Rebuilding of Paris, Princeton University Press, Princeton
1958; A. Sutcliffe, The Autumn of Central Paris. The Defeat of Town Planning. 1850-1970,
Edward Arnold, Bath 1970.
33
Si veda come esempio il contributo di Kh. Asfour, The domestication of Knowledge:
Cairo at the turn of the Century, in AA.VV., Muqarnas X: An Annual on Islamic Art and Ar-
chitecture. Essays in honor of Oleg Grabar, Brill, Leiden 1993, pp. 125-137; più in generale
Introduzione
Alessandro Vanoli ∙ L’invenzione del velo Ù  159

Una profonda ristrutturazione delle forme che sottintendeva


un’altrettanto profondo sforzo di modificazione istituzionale e cul-
turale. Ed è proprio anche attraverso questo processo che la storia
dei paesi a maggioranza islamica prese a farsi, per così dire, “classi-
ca”: l’accettazione dei modelli rappresentativi e raffigurativi desun-
ti dalla classicità faceva entrare quel mondo in un comune ambito
mediterraneo di matrice greco romana e, inevitabilmente relegava al
margine le altre tradizioni. Così alla nuova e razionale città coloniale
corrispondeva la vecchia irrazionale medina luogo dell’assenza delle
istituzioni e, magari, della presenza del folclore e del pittoresco (mer-
canti di spezie, bagni turchi, moschee ecc.). È per questa via che nel
1918 Ozenfant e Le Corbusier avrebbero potuto dichiarare:

Se i greci trionfarono sui barbari, se l’Europa erede del pensiero greco,


signoreggia sul mondo, la ragione è semplice: i selvaggi amano solo i
colori violenti e la cacofonia dei tamburi, che dominano i sensi; i gre-
ci invece amavano la bellezza intellettuale che si cela dietro la bellezza
sensibile.34

Eccoci allora al tema da cui siamo partiti: il legame tra ordine


politico e bellezza e la distanza tra disordine barbarico e violenza di
forme e colori. È in questo discorso che anche la moda islamica si
trovò al centro di una nuova attenzione. Per coglierne il cambiamen-
to, però occorre cambiare il punto di vista e volgersi alla percezione
per così dire interna che di quei problemi ebbe il mondo islamico di
Fine Ottocento.

4. Ḥiğāb, chador, pardé, burqa, niqāb, hayq…non entrerò nella com-


plessa (e ampiamente studiata) definizione del velo islamico, se non
per ricordare come a tale ampio panorama terminologico corri-
sponda (e abbia corrisposto in passato) un’infinita varietà di atteg-
giamenti, usi, e pratiche.35 Qui mi limiterò solo a ricordare come,
anche al di là di molte considerazioni religiose, il velo sia stato spesso
considerato un segno distintivo di carattere sociale. Al di là di ogni
ricostruzione in senso europeo, l’occhio dei fotografi aveva in real-
tà colto una serie di distinzioni sociali che agivano inevitabilmente
anche sul vestiario. In tal senso, erano soprattutto le donne ricche a
indossare il velo, a nascondere i tratti del volto. La cosa peraltro non
può destare troppo stupore, perché la medesima logica patriarcale
che considerava la donna un bene di proprietà del padre prima e del
marito poi, era quella che aveva agito per secoli anche nella tradizio-
ne europea. E che il velo fosse (e, per la verità, sia ancora) conside-

rimando al mio A. Vanoli, Beni culturali e identità mediterranea, in G. Masetti, A. Panaino


(a cura di), Operazione Teodora, Longo, Ravenna 2005, pp. 333-44.
34
A. Ozenfant, Ch.-E. Jeanneret, Après le cubisme, Éditions des Commentaires, Paris
1918; cit. in C. Ginzburg, Oltre l’esotismo, cit., p. 129.
35
G. Vercellin, Tra veli e turbanti, Marsilio, Venezia 2000, p. 117.
160  Ù Le verità del velo

rato anche un segno dello status sociale, lo dimostrano bene gli studi
che hanno analizzato l’elemento apparentemente più frivolo di tale
veste: la pluralità delle stoffe impiegate, i disegni preferiti ecc.36 Di
tale fruizione non partecipavano tutte le donne islamiche allo stesso
modo: le contadine, le donne più povere in generale, mostravano
spesso molto di più il viso; si coprivano i capelli, questo sì, ma soven-
te lasciavano trasparire molto del loro corpo. La veste, insomma, e
talvolta l’uso del velo, rimandava a una esplicita distinzione di status
sociale: i recenti studi sul mondo materiale del tardo impero ottoma-
no hanno mostrato bene come le donne dell’alta società fosse per-
sino più attente dei loro mariti a preservare la loro reputazione: sul
piano delle relazioni interpersonali servendosi di una complessa rete
di intermediari (schiavi, servi ecc.); sul piano personale prestando
una particolare attenzione a quei gioielli e quelle vesti che avevano
il compito di marcare tale differenza di status.37 Una differenza che
sul piano istituzionale si proiettava persino all’interno di un esplicito
regolamento relativo alle vesti: già dal secolo XVI, infatti, l’impero
ottomano aveva varato una serie di leggi volte a definire il rango at-
traverso una minuziosa distinzione tra fogge e colori di abiti, scarpe,
cinture e altri accessori.38 È comprensibile, dunque, che all’interno
di un tale sistema, il velo fosse anche un oggetto di ostentazione,
legato al gusto e alla moda,. E in tal senso, esso quasi non esisteva:
in quanto parte delle dinamiche sociali era vissuto come elemento
necessario e dato per scontato, se così si può dire.
Così, fu inevitabilmente il confronto con l’occhio Europeo a crea-
re il velo. I fotografi, come abbiamo visto, cominciarono distinguen-
do: magari sottolineando la grazia e l’eleganza delle giovani contadi-
ne, opponendola, più o meno implicitamente, a quelle donne grasse
(e più ricche) infagottate e nascoste da pesanti tuniche. Spesso, per
giunta, la ricerca di forme “artisticamente belle” andò di pari passo
con la produzione di immagini erotiche:39 giovani donne che mo-
stravano il corpo davanti all’obbiettivo o alla tela, riproducendo nel-
le loro pose i modelli della raffigurazione femminile classica.

36
Mi riferisco in particolare a J. Scarce, Women’s Costume of the Near and Middle
East, Unwin Hyman, London 1987 e al lavoro curato da C.F. El-Solh, J. Mabro, Muslim
Women’s Choices. Religious Belief and Social Reality, Berg, Providence-Oxford 1994, in par-
ticolare pp. 7 ss.
37
L. Peirce, The material world: ideologies and ordinary things, in V.H. Aksan, D. Goff-
man (a cura di), The Early Modern Ottomans. Remapping the Empire, Cambridge University
Press, Cambridge 2007, in particolare pp. 221-223.
38
D. Quataert, L’impero ottomano (1700-1922); Salerno editrice, Roma 2008 (ed. ingl.
Cambridge 2005), pp. 183-185.
39
Molto si è detto riguardo all’immagine erotizzata del colonialismo riguardo alla
donna musulmana. Si vedano, a titolo di esempio, M. Alloula, The Colonial Harem, The
University of Minnesota Press, Minneapolis 1986 (ed. fr. 1981); S. Graham-Brown, Imag-
es of Women: The portrayal of Women in Photography of the Middle East 1860-1950, Columbia
University Press, New York 1988; R. Lewis, Gendering Orientalism: Race, Femininity, and
Representation, Routledge, London 1996.
Introduzione
Alessandro Vanoli ∙ L’invenzione del velo Ù  161

Poi venne la moda in senso stretto: in Egitto, in Tunisia o Algeria,


il colonialismo modificò sempre più le abitudini e il gusto stesso de-
gli abitanti locali; e naturalmente questo avvenne, come quasi sem-
pre nella moda, a partire dalle classi elevate, quelle il cui contatto
con il modo europeo si stava facendo sempre più stretto. E così, se a
fine secolo la classe media del Cairo scopriva il gusto di scalare le pi-
ramidi (come già da decenni facevano i turisti europei),40 allo stesso
modo le ragazze egiziane di buona famiglia cominciarono ad essere
attratte sempre più dai vestiti che giungevano da Parigi, e persino
dall’uso delle parrucche, stando almeno a quanto riporta al-Tahta-
wi.41 Nel 1873, in occasione dell’esposizione internazionale di Vien-
na lo notava Hamdy Bey, Commissario generale dell’Impero otto-
mano, in un volume illustrativo sopra i Costumi popolari della Turchia:

Nella maggior parte delle grandi città della Turchia, a Manissa come a
Costantinopoli, si trovano due sistemi opposti, ognuno dei quali preten-
de, per ciò che lo concerne, di dare il tono, di indirizzare il costume. L’u-
no rappresenta la moda, l’importazione straniera; l’altro che si appog-
gia sulla tradizione, è quello del gusto nazionale. Uno tende a cambiare
in continuazione […] l’altro non ammette che minime modificazioni e
resta immodificabile nel suo insieme.
Meno progredite dei loro mariti, le signore musulmane più progressi-
ste, quelle che indossano stivaletti di Parigi, vesti di tessuto di Lione,
guanti Jouvin e che acquistano i profumi da Lubin, non osano tuttavia
capovolgere da cima a fondo l’edificio della loro toeletta. Ne conservano
sempre l’aspetto generale. Così una certa impronta orientale vi rimane
impressa, e il fossato che separa il costume alla franca dal costume indi-
geno non è altrettanto profondo dalla parte delle dame quanto lo è da
quella degli uomini.42

Molto ci sarebbe da dire sulla complessa interazione delle catego-


rie interpretative europee nel discorso di Hamdy Bey: la percezione
di una “impronta orientale”, l’idea stessa di un “costume indigeno”,
di una moda, cioè, capace di distinguere i tratti nazionali. Proprio
questa complessa commistione lessicale mi sembra un’interessante
spia di quella commistione di codici che ormai si rifletteva anche nel-
la moda femminile. Anche Hamdy Bey notava, non a caso, come i
gusti orientali apparissero «troppo selvatici» ai sarti europei, i quali
provvedevano a sostituire forme e temi troppo appariscenti con dise-
gni più, per così dire, ordinati.43

40
Lo ricordava al-Ṭahṭāwī, nel suo al-A’mal al-kamila (Opere complete), al-Mu‘assasa
al-‘Arabiyya li-l-Dirasāt wa l-Našr, Beirut, 1973, vol. II, p. 387. Sull’Egitto e la colonizza-
zione si veda in particolare T. Mitchell, Colonizing Egypt, University of California Press,
Berkeley-Los Angeles-Oxford 1991.
41
Rifā‘a al-Ṭahṭāwī, Taḫlīṣ al-ibrīz, trad. fr. L’or de Paris, Sindbad, Paris 1988, p. 153.
42
S.E., Hamdy Bey, M. de Launay, Les coutumes populaires de la Turquie en 1873. Ou-
vrage publiée sous le patronage de la Commission impériale ottomane pour l’Exposition universelle
de Vienne, Impr. du «Levant Times and Shipping Gazette», Costantinople 1873, p. 147.
43
Ibidem.
162  Ù Le verità del velo

Giunti a questo punto i termini del problema appaiono già con-


fusi, talvolta sovrapposti: all’origine c’è un vestiario islamico che
ammanta senza costringere il corpo; un vestiario che a un occhio
europeo appariva ormai da secoli sinonimo di mollezza se non di
vero disordine morale.44 Ora tale distinzione diventa sempre più sfu-
mata, cominciando, come al solito, dalle classi elevate, le cui donne
si percepiscono, per la prima volta, sgraziate e non eleganti. Non
solo: se grazia vi è da cogliere, essa sembra trasparire ben di più dalle
donne delle classi più povere: contadine e schiave, dove l’assenza del
velo si accompagna, come abbiamo visto a una grazia e un’eleganza
antiche (non importa in questo caso che tanto l’eleganza quanto la
stessa antichità siano frutto di un artificio o, meglio, di un’invenzio-
ne europea).
In quegli anni di fine Ottocento il dibattito sul velo, ovviamente,
non si limitò al mero problema estetico. È ben noto il libro dell’e-
giziano Qāsim Amīn (m. 1908) sulla condizione femminile e altret-
tanto nota è la sua condanna del velo in nome di quella «libertà che
la legge e la natura riconoscono alla donna»;45 ma tale discussione
esula, almeno in parte, dal tema di queste pagine. Era la rappresenta-
zione stessa della donna e delle sue vesti ad essere qui in discussione,
nella convinzione che anche da tale aspetto, apparentemente margi-
nale, potesse emergere la traccia di quelle complessi rapporti di forza
culturali ed istituzionali che attraversarono il mondo musulmano di
fine Ottocento. In quelle immagini di donna colte da scrittori e foto-
grafi, traspariva infatti l’immagine di un “Oriente” che, poco a poco,
andava modificandosi, assecondando, spesso impercettibilmente e
talvolta inconsapevolmente, lo sguardo e i presupposti culturali di un
mondo europeo sempre più presente. Quell’accostamento tra donna
reale e immagine classica era specchio di una più radicale trasfor-
mazione che investiva, come abbiamo visto, le istituzioni e persino
la rappresentazione spaziale della propria storia; quell’accostamento
tra etnia e classicità ritrovata, come è stato notato,46 creava anche un
discorso gerarchico che avrebbe avuto una lunga e triste storia sino
almeno agli anni del Mediterraneo fascista. Ma tale discorso, d’al-
tra parte, introiettato e rielaborato all’interno della cultura islamica
stessa, contribuì a definire una nuova scala di valori estetici: in bilico
tra tradizione e classicità riscoperta, il velo, non scomparve: in realtà
moltiplicò, per così dire, i suoi significati, adattandosi alla complessi-
tà di quel nuovo mondo musulmano che stava nascendo.

44
Cfr. G. Butazzi, Incanto e immaginazione per le nuove regole vestimentarie: esotismo e
moda tra Sei e Settecento, in R. Orsi Landini (a cura di), L’abito per il corpo; il corpo per l’abito:
islam e occidente a confronto. Catalogo della mostra, Museo Stibbert di Firenze, Artificio, Firenze
1998, pp. 35-44.
45
Qāsim Amīn, Taḥrīr al-mar’a (L’emancipazione della donna), Egitto 1886; cit. in P.
Branca, Voci dell’islam moderno, Marietti, Genova 1997, p. 155.
46
C. Ginzburg, Oltre l’esotismo, cit., pp. 135-136.
Introduzione
Alessandro Vanoli ∙ L’invenzione del velo Ù  163

Fig. 1. Fig. 2.

Fig. 3. Fig. 4.
164  Ù Le verità del velo

Fig. 5.

Fig. 6.

Fig. 7.
Introduzione
Alessandro Vanoli ∙ L’invenzione del velo Ù  165

Fig. 8.

Fig. 9.
166  Ù Le verità del velo
Sguardi sul mondo cristiano Ù  167

Sara Hejazi

Il velo islamico.
Pratica del passato e re-invenzione del presente

1. Velo e identità

Identità è un termine che rimanda a un concetto carico di mol-


teplici significati, utilizzato molto spesso, e il cui reale senso si dà
abitualmente per scontato ed è dunque quasi mai chiarito; si parla
spesso di identità culturale quando ci si riferisce, con poche immagi-
ni che il più delle volte sono semplificate ed essenzialiste, ai gruppi di
migranti presenti nelle grandi città industrializzate d’Occidente, che
all’interno del sistema complesso costituiscono tasselli di innovazio-
ne e tradizione insieme, di arricchimento e di minaccia, di scontro e
incontro, di compromesso e di eccesso culturale, senza tenere conto
del fatto che i gruppi umani sono spesso caratterizzati da più identità
convergenti, concentriche, divergenti, connesse o sconnesse tra loro,
dilaniate e conflittuali. L’identità culturale non è infatti un blocco di
saperi, conoscenze e punti di riferimento che l’individuo si porta ap-
presso fin dalla nascita; ma è piuttosto un sistema di idee in continua
trasformazione e adattamento, e in continuo conflitto con la contro-
parte a partire dal quale essa si definisce.
Nonostante sia facile essere fuorviati nella generalizzazione e nella
banalizzazione parlando di identità nella società complessa, bisogna
dunque sforzarsi di avere ben chiaro quale sia il suo reale significa-
to o quello che s’intenda dargli, attraverso la contestualizzazione del
discorso sull’identità; quest’ultimo è infatti un termine interdiscipli-
nare, che in tutte le scienze umane assume significati molto diversi e
che necessita ancora oggi di una riflessione affinché il suo uso non
risulti svuotato di significato o addirittura privo di utilità in quanto
incapace di aggiungere informazioni sull’oggetto a cui si riferisce. In
realtà in passato si è assistito più a una decostruzione del concetto di
identità nelle scienze umane, unanimemente critiche nei confronti
168  Ù Le verità del velo

di una nozione dell’identità integrale, originale e unificata, che ad


una innovativa costruzione del suo significato.1
In questa sede l’identità viene pensata come l’insieme di processi
dinamici che si costruiscono attraverso le pratiche dei contatti cultu-
rali e soprattutto come progettualità e strategia collettiva, che si tra-
duce anche in comunicazione e rappresentazione. Essa è infatti una
costruzione, continuamente in fieri, che ricorre a codici diversi, che
servono a configurarla, trasmetterla, promuoverla o imporla. Questi
codici possono essere comportamentali, linguistici, simbolici, valoria-
li ed etici, professionali e di mestiere; essi sono i canali comunicativi
attraverso i quali l’identità o le identità si esprimono. Da un insieme
di tali codici può quindi prodursi un’identità ibrida, meticcia, il cui
contesto di sviluppo è quello dell’incontro, confronto, competizione,
conflitto con altro o altri; ciò implica che anche le controparti dello
scontro-incontro giochino un ruolo fondamentale in questo proces-
so: con tale controparte andranno ricostruiti infatti i fenomeni di in-
terazione e di scambio, di comunicazione, rappresentazione e infine
di acculturazione dell’identità.
Dunque l’identità diventa autocosciente costruendosi in un pro-
cesso dinamico di relazione con elementi esterni la cui funzione è
quella di sottolinearla, amplificandone i codici espressivi, o di contra-
starla, cercando di appiattirla, renderla anonima o di omologarla a
quella di un gruppo dominante.
Nella società complessa si assiste ad una crescente pluralizzazione
dei coinvolgimenti di ruolo delle identità, che assumono una mobi-
lità del tutto nuova rispetto al passato: emigrare, transmigrare, intro-
durre saperi innovativi e al contempo ripristinare quelli tradizionali
genera oggi una pendolarità tra ruoli e luoghi sociali, una ‘pendo-
larità delle identità’ che si trovano ad essere alla perenne ricerca di
punti di riferimento a stili di vita alternanti tra modelli, aspettative,
aspirazioni e luoghi geografici nettamente distinti.2
In relazione al concetto di identità culturale a cui ci si vuole ri-
ferire spiccano degli elementi che servono dunque ad esprimerla
e connotarla: sono i codici, azioni visibili ed esteriorizzabili, i quali
con la loro stessa esistenza conferiscono diversi significati all’indivi-
duo che li porta, li trasporta, li trasmette, li indossa, li sopporta o
semplicemente li fa propri; questi elementi sono infiniti, e cambiano
a seconda del tempo e dello spazio della propria presenza. Alcuni
esempi di questi elementi, che rimandano a determinati aspetti di
un’identità individuale o di gruppo, possono essere le modificazioni
o le decorazioni del corpo come i tatuaggi o i piercing, un certo tipo

1
Si vedano S. Hall, Introduction: who needs Identity?, in H. Steven, P. du Gay (a cura
di), Questions of cultural Identity, Sage, London 1996 e F. Remotti, Contro l’identità, Laterza
Roma-Bari 2001.
2
Per un approfondimento della teoria della pendolarità, si veda G.L.Bravo, Italiani.
Racconto etnografico, Meltemi, Roma 2001.
Introduzione
Sara Hejazi ∙ Il velo islamico. Pratica del passato e re-invenzione del presente Ù  169

di abbigliamento o di moda, certi atteggiamenti nel parlare (come lo


slang, gli usi dialettali, i lessici familiari ecc.), nel mangiare o gestico-
lare, alcune azioni nei confronti di un altro presupposto e predefini-
to (per esempio gli atti di razzismo contro lo straniero, il clochard, il
diverso ecc.), gli schieramenti idelogici, filosofici, religiosi e politici,
gli associazionismi ecc.
Il velo islamico rientra senza dubbio tra tali codici, in quanto
caratterizzato da una grande visibilità e capacità di marcare le linee
immaginarie che tracciano i confini culturali proprio grazie alla sua
fisicità; inoltre il rimando culturale che esso comunica è immedia-
to: il velo è associato al mondo islamico più tradizionalista, quello
che oggi capace assume una posizione politica di opposizione nei
confronti dell’Occidente, e in quanto tale risulta spesso incompren-
sibile, ambiguo, persino fuori luogo nel contesto metropolitano eu-
ropeo.
Non soltanto nel presente, ma nel corso della storia il velo ha avu-
to una notevole rilevanza come codice identitario, e questo appare
evidente da come esso sia stato spesso manipolato, abolito, imposto,
modificato in epoche e contesti diversi.
Il velo islamico, caricato di significati molteplici e immediatamen-
te individuabili, ha infatti ben rappresentato nella storia il processo
di costruzione dell’identità operato attraverso l’immedesimazione, l’
abolizione e infine il ripristino di simboli e significati di appartenen-
za, anche come forma di una riproposta o di una ri-appropriazione
identitaria mossa dal basso della società.
Il velo è infatti passato da essere un indumento comune e diffuso
in gran parte del mondo conosciuto nell’antichità, a rivestire in epo-
ca moderna il ruolo di simbolo contraddittorio e molteplice, politico
e anti-colonialista, tradizionale e al contempo tipico proprio della
modernità, e per questa ragione si è visto più volte strappare via con
la forza, venire demonizzato, per poi essere di nuovo raccomandato e
addirittura imposto da governi, e in alcuni casi scelto come emblema
di un’autenticità culturale che si sentiva a rischio di essere perduta.3
Nel presente il contesto culturale in cui il velo è indossato ne de-
termina la sua stessa essenza; nelle realtà metropolitane occidentali
il velo —indumento la cui funzione è quella di coprire— finisce in
realtà per evidenziare il corpo di chi lo indossa, connotandolo subito
come corpo altro od estraneo.
Nonostante si parli del velo come fosse un unico indumento sem-
pre uguale a se stesso, infatti, in realtà esso compare in molteplici for-
me, colori e dimensioni e ogni volta apporta un significato diverso

3
«La modernità si fonda sull’idea, elaborata dall’illuminismo del diciassettesimo
secolo, che la chiave del progresso umano e dell’ordine sociale sia una conoscenza
oggettiva del mondo, perseguita attraverso l’indagine scientifica e il pensiero
razionale», in D. Lupton, Il Rischio: percezioni, simboli, culture, il Mulino, Bologna 2003,
pp. 12 ss.
170  Ù Le verità del velo

agli occhi di chi lo osserva. Un chador nero indossato a Teheran può


voler dire per esempio che chi lo porta appartiene alla classe meno
abbiente, oppure che è una guardiana della rivoluzione, o che sta
andando ad un funerale o in una moschea ecc.4
Al contrario, un hejab colorato unito a un trucco vistoso e a vestiti
succinti può esprimere una forma di dissidenza verso il regime islami-
co, l’appartenenza ad una classe media o medio alta della società, o
perfino la disponibilità della donna a incontri sessuali occasionali ecc. 5
Ovunque e comunque venga indossato nel presente, il velo non
rappresenta mai dunque una scelta ‘neutra’ ma il frutto di una ne-
goziazione dell’identità femminile con il contesto circostante, che sia
l’Occidente con il suo sguardo spesso inquisitore e demonizzante, o
l’Oriente, ancorato ad un’idea di onore (namus) intrecciato proprio
al corpo femminile e alla sua visibilità.

2. Il velo storico

Delle origini del velo poco si sa: era un’usanza diffusa molto pro-
babilmente in tutta l’area del Mediterraneo in epoca pre-islamica:
già le ancelle che in Persia custodivano il fuoco sacro di Zoroastro
circa duemila anni prima di Cristo indossavano un velo sul capo;6 la
raccomandazione alle donne di coprirsi i capelli con un velo si trova
nell’Antico Testamento,7 mentre è probabile che le donne romane
patrizie lo dovessero indossare nelle rare occasioni in cui uscivano
dalle proprie dimore, come segno distintivo.8
Più in generale l’antica pratica di velarsi aveva a che fare con una
visione molto particolare della donna e del suo corpo, che venne poi
pienamente espressa nelle fedi monoteiste. In esse la concezione del
corpo era infatti caratterizzata da un duplice aspetto, costituito dall’i-
dea di impurità da un lato, legata alle mestruazioni, all’allattamento e
a tutta la prepotente fisicità dell’esperienza femminile della gravidan-
za e del parto; e dall’altro collegata all’idea di sacralità e di potenza
creatrice messo in relazione alla donna, comunemente associata al
mondo della natura, della terra e dei suoi cicli.9

4
Detta anche basiji. Sono donne velate di nero che pattugliano le strade iraniane per
controllare che la morale pubblica venga rispettata: affinché questo avvenga le donne
non devono essere “mal velate”, uomini e donne non sposati né legati da parentela
stretta non possono andare per strada insieme ecc.
5
Riguardo al rapporto tra le giovani generazioni in Iran e il velo si veda S. Hejazi,
L’Iran s-velato. Antropologia dell’intreccio tra identità e velo, Aracne, Roma 2008.
6
E. Phalippou, Aux sources de Shéhérazade: Contes et coutumes des femmes zoroastrienne,
Peeters, Leuven 2003.
7
W. Phipps, Maometto e Gesù. Differenze e affinità tra i fondatori delle due maggiori
religioni mondiali, Mondadori, Milano 2002.
8
N. Keddie, B. Baron, Shifting Boundaries in Sex and Gender, New Haven, London
2002.
9
Si veda a questo proposito P. Dubois, Il corpo come metafora. Rappresentazioni della
donna nella Grecia Antica, Dedalo, Bari 1990.
Introduzione
Sara Hejazi ∙ Il velo islamico. Pratica del passato e re-invenzione del presente Ù  171

Il velo serviva così a rendere la fisicità della donna riconoscibile in


quanto entità diversa e pericolosa per eccellenza, ma, al contempo,
dimostrava la possibilità di controllo maschile attraverso la limitazio-
ne della sua stessa visibilità.
Al corpo femminile la comunità intera, comprese le donne stesse,
attribuivano infatti poteri naturali di vario genere: essa era capace al
contempo di nuocere e creare, limitare il caos o indurlo, sovvertire
l’ordine costituito per mezzo della promiscuità sessuale o mantener-
lo attraverso la morale e l’ordine. Così, il velo non fu che uno degli
infiniti segni sul corpo femminile che si sono succeduti nel corso del
tempo e che avevano l’intento di suggellare —attraverso la pubblica
visibilità— contemporaneamente la diversità della donna dotata di
un corpo pericoloso, potente e terreno rispetto all’uomo, e il control-
lo del corpo femminile esercitato dall’intera comunità per mantener-
ne l’ordine fondante.
Nel Corano non si fa esplicito riferimento al velo sulle donne,
ma piuttosto si raccomanda loro di velare le ‘parti belle’ o intime,
per non attirare l’attenzione su di sé. All’interno del sacro libro
dell’Islam infatti la parola hejab, che in italiano si può tradurre come
‘tenda’ compare in una sura che fa riferimento alla buona educa-
zione e al decoro nel comportamento,10 e, nello specifico, all’edu-
cazione che si deve avere in casa dello stesso Profeta Maometto, ad
esempio delle case di tutti i membri della comunità. Per spiegare
meglio questa sura dove hejab e buon costume sono messi in rela-
zione, vi è un hadith tramandato dal testimone Anas, discepolo e
seguace di Maometto, che narra che nel giorno delle nozze tra il
Profeta e Zeynab, donna dalla bellezza straordinaria, fosse stata in-
vitata al pranzo nuziale nell’Harem tutta la comunità musulmana di
Medina. Una volta terminato il pranzo di nozze, tre invitati grosso-
lani insistettero a rimanere e a gozzovigliare nella casa degli sposi;
il profeta, il cui desiderio immediato era di stare solo con Zeynab,
ma le cui caratteristiche principali erano la calma e la riservatezza,11
si allontanò dalla sala da pranzo, aspettando con pazienza che i tre
ospiti maleducati si congedassero. Quando tornò, i rozzi invitati
erano ancora seduti al tavolo, offendendo, con la loro prolungata
presenza, la giovane sposa.
Maometto, mantenendo ancora la calma, si allontanò di nuovo,
finché gli uomini non se ne andarono. Allora il Profeta, tenendo un
piede dentro la camera nuziale di Zeynab e un piede nella sala da
pranzo, fece cadere dal soffitto un hejab tra lui e il suo discepolo Anas,
e, proprio in quel momento, gli fu dettato il versetto sullo hejab, che
si trova nel Corano.

10
Corano, sura 33, versetto 53.
11
A proposito della vita di Maometto si veda J. Glubb, The Life and Times of
Muhammad, Stein & Day, New York 1970.
172  Ù Le verità del velo

In base a questo hadith, appare evidente come l’idea stessa di hejab


nell’Islam sia nato dunque non tanto per separare i due sessi e creare
così una gerarchia di genere, o per proibire il corpo della donna allo
sguardo esterno come se esso rappresentasse un luogo e uno spa-
zio geografico inaccessibile, bensì come un oggetto la cui improvvisa
comparsa sarebbe servita a separare due uomini (Anas e Maometto)
o meglio due ambiti differenti della vita sociale: l’ambito pubblico da
quello privato.
Da un lato della tenda vi è il profeta, che si trova a guidare spi-
ritualmente una comunità con poche norme di auto-disciplina, per
trasformarla in un popolo sottomesso (muslimun) ad un unico Dio
e a precise regole di vita spirituali, ma soprattutto materiali e socia-
li, compresa la buona creanza; dall’altro lato della tenda vi è Anas,
suo discepolo, che rappresenta l’occhio del pubblico onnipresente,
che infine, dopo l’incidente dei tre invitati, viene escluso per mano
divina dalla sfera privata del profeta, o meglio della sua famiglia. La
funzione dello hejab è dunque in origine quella di separare in modo
tangibile il sacro —lo spazio dell’intimità— dal profano, ciò che è
accessibile allo sguardo di tutti, che è condiviso con il resto della
comunità. La tenda e la sua funzione sono in tal modo specchio
della necessità, nell’Islam, che è una religione che si fonda sulla vita
comunitaria, di porre dei confini materiali e immateriali tra gli spazi
a cui i componenti della comunità hanno diritto e dovere di accesso
e gli spazi proibiti, di delimitare le sfere allora ancora sconosciute
del pubblico e del privato, di regolare, attraverso le dimensioni spa-
zio e tempo, i rapporti tra i membri della comunità, della ‘umma, in
quanto i concetti di lecito e illecito non riguardano esclusivamente il
comportamento che un fedele ha nei confronti del proprio Dio, ma
anche, e soprattutto, quello che i fedeli hanno tra di loro: ciò che è
nascosto da un velo o una tenda diventa dunque un oggetto o uno
spazio proibito nel momento stesso in cui viene velato.
Per quanto riguarda la pratica femminile di velarsi nell’Islam è
storicamente noto che le mogli del profeta avessero l’abitudine
di indossare sempre un velo sul capo per distinguersi dalle donne
comuni;12 esse divennero un esempio agli albori dell’islam per le mo-
gli dei musulmani dell’epoca che iniziarono a indossarlo sistematica-
mente, mentre velarsi fu proibito alle schiave, il cui status, essendo
svelate, era immediatamente identificabile. Così, le donne senza velo
nel mondo recentemente islamizzato del VIII e IX secolo erano po-
tenzialmente soggette a violenze di ogni tipo in quanto non godeva-
no dei diritti giuridici riservati invece alle donne libere.
L’avvento dell’Islam rappresentò dunque l’istituzionalizzazione
di una pratica, quella di velarsi, già conosciuta in precedenza nella
penisola araba; in seguito, con l’espansione dell’Islam, il velo assun-

12
F. Mernissi, Le Harem Politique: Le Prophéte et les femmes, Albin Michel, Paris 1987.
Introduzione
Sara Hejazi ∙ Il velo islamico. Pratica del passato e re-invenzione del presente Ù  173

se il ruolo di indumento disciplinante rispetto alla disordine o al


caos preesistente la rivelazione coranica (jahillyia),13 diventando un
tratto distintivo delle donne libere e muslimuna, cioè assoggettate
alla fede islamica.14

3. La legge del namus

L’idea della donna velata agli albori dell’Islam ruotava intorno alla
legge del namus, traducibile come “onore”.15 Il namus aveva un valore
sia individuale che comunitario: ogni individuo doveva attenersi in-
fatti alla legge del namus all’interno della propria famiglia, così come
ogni famiglia rispettava il namus all’interno della comunità, e ogni co-
munità all’interno del sistema più amplio di úmma islamica.16 L’onore
era prevalentemente basato sulla disciplina nella pratica sessuale di
ciascun membro della comunità che sottostava alle regole del Corano
e doveva comunque avvenire solo ed esclusivamente all’interno dei
legami matrimoniali. La condotta sessuale della donna era la parte
fondante del namus da cui dipendeva l’onore di tutti i membri del
gruppo; per fare un esempio, la violazione del namus di una donna
appartenente al tal gruppo famigliare non avrebbe coinvolto solo suo
marito, ma anche i fratelli, il padre e i parenti tutti.
In questo senso, la violazione del tabù sessuale rappresentava per
la comunità islamica un’onta e una stigma di vergogna tale che l’u-
nica sua conseguenza era la morte o il definitivo allontanamento e
conseguente isolamento del trasgressore.
Il corpo femminile era concepito come una continua tentazione
sessuale e dunque anche come possibile e costante spinta alla tra-
sgressione del namus. Esso andava dunque limitato, coperto, velato e
comunque tenuto sotto stretta sorveglianza almeno fino al giorno in
cui un matrimonio avrebbe allentato la tensione sessuale che poten-
zialmente poteva essere provocata da un corpo femminile (o maschi-
le) giovane e ancora nubile.
In realtà anche se a prima vista questo tipo di legge sulla morale
sessuale può sembrare costituita da una serie di divieti rigidi, ad
uno sguardo più approfondito appare evidente come l’Islam rap-
presenti anche da questo punto di vista un sistema elastico di ecce-
zioni alla regola dominante; per fare un esempio, il Corano prevede

13
Per l’Islam l’epoca precedente la rivelazione è chiamata appunto jahilliya termine
traducibile come “confusione” o “ignoranza”.
14
La parola Islam infatti, composta dalla radice S-L-M, che è la stessa della parola
Salam, che significa “pace”, può tradursi come “sottomissione attiva”, cioè un atto di
fede consapevole il cui risultato è il riconoscimento dell’unicità e del potere di Dio, che
genera, appunto uno stato di pace interiore.
15
In realtà la traduzione riduce il significato di namus che ha a che fare proprio
con l’idea di una legge che regola il comportamento i ogni individuo nella comunità.
16
L’idea utopica di umma intende trascendere i confini geografici ed etnici per
accomunare ogni popolo sotto un’unica grande fede che è quella musulmana.
174  Ù Le verità del velo

che per un prolungato allontanamento dal tetto coniugale (dovuto


al pellegrinaggio o alla guerra) il musulmano possa prendere in
sposa una seconda moglie senza interpellare la prima; i musulmani
sciiti si spingono ancora più oltre permettendo agli uomini il ma-
trimonio detto mu’ta (sigheh in lingua farsi) per cui è possibile per
la coppia sposarsi a tempo determinato, cioè per un periodo che
va dai cinque minuti ai novantanove anni. All’interno del mu’ta la
prostituzione, per esempio, diventava così una pratica legale che
in teoria non infrangeva il namus.17 Inoltre, per una vedova o una
divorziata è possibile risposarsi, trascorso un periodo di tempo che
serve per accertarsi dell’eventualità di non essere incinte del marito
precedente.
Se dunque la morale del namus è, nelle società musulmane delle
origini, la condizione fondante della vita nella comunità, essa con-
templa, all’interno del sistema complesso della shar’ia, eccezioni e
forme di tolleranza ad una generica rigidità delle regole sessuali.
Inoltre, nonostante il ruolo della donna all’interno del sistema del
namus sembri banalizzato a passivo oggetto da preservare, in realtà
il genere femminile gioca un ruolo principale nello svolgersi degli
eventi che determinano il rispetto o meno della legge dell’onore:
infatti erano le stesse donne che, scegliendo la nuora per il figlio o
tessendo alleanze tra membri della comunità, determinavano la for-
mazione delle nuove famiglie e si assumevano la responsabilità del
controllo delle giovani nubili.
In ultimo è interessante notare come il concetto di namus sia
stato ristretto, fino all’epoca pre-moderna, alla sfera religiosa:
il namus-e-Islam aveva infatti a che fare con un onorevole e retto
comportamento basato sulle leggi musulmane, dunque religiose,
che imponevano disciplina nella pratica sessuale; una volta che la
modernità investì però anche i paesi musulmani, verso la fine del
diciassettesimo secolo, il namus-e-Islam divenne progressivamente
un namus-e-watan, cioè l’onore della patria, subendo un processo
di secolarizzazione e diventando così gradualmente un namus na-
zionale, culturale, identitario, un onore basato cioè sull’orgoglio
della nuova presunta cittadinanza, dunque su un’etica sociale sia
maschile sia femminile. Attraverso questa trasposizione, l’onore
della comunità non si basava più sul controllo del corpo espresso
dal velo, ma sull’onore della patria, rappresentata da una nuova
costruita idea di nazione moderna, una terra madre connotata al
femminile, che aveva progressivamente sostituito la donna islamica
velata e che, proprio come la donna, andava difesa e preservata in
nome dell’onore.

17
A proposito del matrimonio temporaneo nell’Islam si veda il brillante saggio
dell’antropologa americana S. Haeri, Law of desire: Temporary marriage in Iran, Tauris,
London 1998.
Introduzione
Sara Hejazi ∙ Il velo islamico. Pratica del passato e re-invenzione del presente Ù  175

4. La prima abolizione del velo

Fintanto che la raccomandazione alle donne di velarsi, coprirsi


e genericamente non mostrarsi in pubblico era più o meno diffusa
presso distinti popoli ed etnie, nessuno mai pensò al velo come ad un
simbolo da abolire. È infatti soltanto con la progressiva etnicizzazione
della pratica di velarsi che si giunse ad una sua forzata rimozione:
quando, cioè, il velo divenne immediatamente ed esclusivamente ri-
conducibile ad una determinata identità e ad un gruppo di appar-
tenenza specifico —quello musulmano— che aveva nel frattempo
assunto, per il mondo cristiano, connotati fortemente negativi.
In questo senso, non si trattava più solo di un segno che denotava
una distinta concezione dei generi sessuali e del loro ordine gerar-
chico, dei loro rispettivi ruoli e delle loro caratteristiche o capacità
all’interno di una comunità, quanto piuttosto della rappresentazio-
ne di una generica alterità culturale asessuata, indesiderata e presente
sul territorio ‘cristiano’, e riconducibile al nemico per eccellenza che
proveniva allora da oriente.
La prima abolizione del velo risale al 1526 per mano di Carlo V. Il
re aveva riconquistato le terre spagnole che a partire dal VII secolo
erano state occupate dai mori, che avevano fatto del regno di Al-anda-
lus la massima espressione della cultura islamica di allora.
Fino a prima della conquista araba della Spagna il Mare Mediter-
raneo aveva avuto la funzione di separare fisicamente le due confes-
sioni monoteiste, quella cristiana da quella musulmana, come fossero
due mondi opposti; dopo l’avvento del regno di Al-Andalus, esse si
trovarono invece a convivere nello stesso territorio, cosa che non si
realizzò solo secondo rapporti conflittuali e antagonisti, ma anche
in modo pacifico e proficuo, per esempio a Cordoba e Granada, ma
anche ad Amalfi e Palermo, generando però risentimento e velleità
di rivalsa soprattutto presso le élite nobiliari dell’epoca.
Qualche secolo dopo, quindi, ‘riprendersi’ la Spagna significava
per un re cristiano come Carlo V anche cancellare i segni di un’oc-
cupazione che fu sempre considerata (dall’alto) umiliante e molesta:
la visibilità musulmana fu allora soprattutto un segno da cancellare
perché carico di un significato che rimandava a rapporti di forza e
di dominio e la cui abolizione serviva da strumento per ribadire la
supremazia economica e territoriale della classe nobiliare cristiana
in Europa. Abolendo il velo, il re non faceva altro che minare la pos-
sibilità del genere femminile musulmano di identificarsi simbolica-
mente e fisicamente con un tratto visibile e specifico in opposizione
al cristianesimo.

5. La separazione dei sessi in epoca pre-moderna

Nelle società musulmane pre-moderne il rispetto del namus era


centrale a tal punto che per esso venne gradualmente ad accentuarsi
176  Ù Le verità del velo

la separazione degli ambiti di azione dei due distinti generi che si


divisero prevalentemente secondo il seguente schema: sfera pubblica
riservata agli uomini, sfera privata riservata alle donne. Naturalmente
la suddivisione non rappresentava un rigido confine, ma si può parla-
re di una tendenza dei due sessi a rimanere separati e a spartirsi due
ambiti distinti della vita nella comunità.
Questa separazione aveva generato diverse conseguenze; per
esempio la studiosa iraniana Afsaneh Najmabadi ha fatto notare
come essa desse in realtà adito ad una grande libertà all’interno delle
rispettive sfere di influenza.18 Le donne “senza uomini” tra di loro si
potevano permettere atteggiamenti rilassati, un linguaggio tranquil-
lamente scurrile e argomenti che riguardavano la propria intima sfe-
ra di interazione: dall’allattamento, ai metodi contraccettivi o abor-
tivi naturali, dalle erbe curative o cosmetiche ecc. In questo senso la
separazione dei sessi garantiva una libertà nelle relazioni che non ci
sarebbe stata allora in una situazione di promiscuità.
Vanessa Maher ha fatto notare come la rigorosa separazione dei
sessi all’interno delle società musulmane non corrispondesse ad una
minore rilevanza della figura femminile nella comunità. Le donne
nei villaggi erano infatti responsabili della maggior parte degli avve-
nimenti locali ed esercitavano il proprio potere nella comunità oc-
cupandosi di tutto ciò che costituiva i legami tra famiglie e i rapporti
interpersonali: dall’organizzazione dei matrimoni, alla scelta delle
mogli per i figli, all’allevamento dei bambini, alla diffusione delle no-
tizie e delle informazioni, alla stabilizzazione di alleanze e inimicizie;
né il velo sul capo, né l’ambito domestico costituivano in realtà un
limite di azione per le donne.19
Un’altra conseguenza della separazione, almeno per quanto ri-
guarda la sfera maschile, fu quella di una diffusa omosessualità tra gli
uomini, e soprattutto dell’amore di uomini adulti per giovani adole-
scenti sbarbati (amrad). Le testimonianze di questa tendenza si tro-
vano per esempio nei dipinti e nella letteratura persiana precedente
l’avvento della dinastia Quajar che segna l’inizio dell’epoca moderna
per l’area che comprende oggi l’Iran, l’Iraq e l’Afghanistan (fino al
1798). Questi dipinti raffigurano il Paradiso musulmano in cui il cre-
dente avrebbe trovato cibo in abbondanza, vino, e soprattutto giovani
ragazzi amrad insieme alle consuete giovani vergini (Hur) a cui fa
riferimento il Corano. In questi dipinti nessuna figura femminile è
velata, così come nessuna figura maschile porta la barba lunga come
erano soliti fare i musulmani adulti. Si tratta dunque di rappresenta-
zioni di un Paradiso anche omo-erotico, in cui diventava lecito tutto
ciò che durante la vita terrena trasgrediva invece il namus.

18
A. Najmabadi, Women with mustaches and men without Beard. Gender and Ssexual
Anxieties in iranian Modernity, University of California Press, Berkley 2005.
19
V. Maher, Potere e purezza: la religiosità femminile nel Maghreb, in L. Cabria Ajmar, M.
Calloni, L’altra metà della luna. Capire l’islam contemporaneo, Marietti, Genova 1993.
Introduzione
Sara Hejazi ∙ Il velo islamico. Pratica del passato e re-invenzione del presente Ù  177

Così i generi separati si identificavano reciprocamente in base a


due codici identitari netti e distinti: per i maschi la barba lunga, che
rimandava ad un’identità virile, dunque ben sessualmente definita;
per le femmine il velo.
Tra questi due poli separati esistevano però degli ‘interstizi’ iden-
titari, che avevano a che fare col desiderio erotico ed esulavano dalla
procreazione e dai ruoli socialmente definiti di genere: questi erano
rappresentati da chi si trovava in un periodo sessualmente indefinito
della propria vita: gli adolescenti, gli amrad e le hur. Il desiderio, spes-
so omosessuale, per giovani adolescenti, non costituiva una messa in
discussione della virilità degli uomini adulti barbuti; era proprio in-
fatti la fisicità dei simboli delle barbe e dei veli che definivano i sessi.
Chi non aveva né barba né velo era un genere “neutro”, dunque ses-
sualmente lecito perché al di fuori del namus.

6. L’avvento della modernità e la messa in discussione del velo

È solo con l’avvento dell’epoca moderna, verso la fine del diciot-


tesimo secolo, che la questione del velo si risvegliò, sia in Occidente
sia in Oriente, e solo per un nuovo contatto culturale tra le due aree
geografiche.
Se è infatti a partire dall’altro in senso antropologico che il sé si
autodefinisce e si differenzia, allora è solo con il massiccio contatto
con la ‘controparte’ occidentale che il mondo musulmano ‘si accor-
se’ del velo iniziando un lungo e doloroso dibattito su di esso che
durerà fino ai giorni nostri e che esaspererà a tal punto l’indumento
da estrapolarlo dal proprio contesto religioso e locale per condurlo
soprattutto ad un contesto politico e globale.
L’epoca del colonialismo e dei grandi viaggi a Oriente, nonché
il romanticismo e lo squisito esotismo attraverso cui venivano letti,
interpretati e intesi i popoli musulmani di allora, stigmatizzò il velo
come elemento carico al contempo di fascino e di arretratezza cultu-
rale. Il fascino era dovuto al mistero di cui si avvolgeva l’Oriente ve-
lato e le sue donne invisibili. Per i viaggiatori europei tante potevano
essere le ragioni di questo costume così rigoroso, ma la più ricorrente
era il fatto che il velo dovesse nascondere gelosamente bellezze inde-
scrivibili e sensuali.
L’arretratezza era dovuta alla familiarità che la stessa Europa aveva
con il velo sul capo femminile (si pensi alla rappresentazione della
Vergine Maria sempre velata, all’abito delle monache, al foulard sul
capo per entrare in chiesa ecc.), che faceva intendere i popoli musul-
mani come una versione estremista e retrò dell’Europa antecedente
l’epoca illuminista.
Per fare un esempio dell’effetto che la vista delle donne velate
faceva agli occhi dei viaggiatori europei riporto un breve brano estra-
polato da un resoconto di viaggio fatto verso la metà del diciannove-
simo secolo dal Golfo persico al Mar Caspio:
178  Ù Le verità del velo

Di colori qui non ce ne sono. Le donne si muovono furtivamente per le


strade coperte dalla testa ai piedi da un lenzuolo lungo e nero tenuto
stretto a sé, e con una garza bianca sugli occhi, e mostrando nulla della
propria figura se non i piedi, fasciati da stivali gialli. È il vestito meno
affascinante che un marito geloso possa concepire. Nessun estraneo
può guardare le donne persiane e vedere la bellezza che molti poemi
e romanzi hanno portato a credere possa esistere sotto quei veli tenuti
stretti.20

Questo atteggiamento non fu però unilaterale. Gli stessi musulma-


ni intellettuali e politici iniziarono attraverso la presenza occidentale
in Oriente a interrogarsi sul proprio infelice destino rispetto all’ovest
dominatore, e a imputare la propria ‘inferiorità’ o ‘disponibilità ad
essere dominati’ anche al velo delle donne, che le rendeva ignoranti
e pessime compagne dei loro mariti con cui non avevano nulla da
spartire, e che teneva l’intera società attanagliata da un’arretratezza
culturale tale che solo con l’imitazione dell’europeo si poteva sperare
in un riscatto.
Nell’Europa ottocentesca d’altronde i rapporti tra i generi stavano
cambiando profondamente e senza dubbio —a detta degli intellet-
tuali musulmani— il maggiore contatto tra i sessi nella sfera pubblica
aveva contribuito alla rivoluzione culturale europea e alla conseguen-
te supremazia economica sulle terre d’Oriente.
Iraj Mirza, poeta e scrittore di satire d’inizio Ottocento, aveva per
esempio messo in relazione il velo femminile con la piaga dei matri-
moni combinati, allora molto diffusi, che generavano unioni infelici e
spingevano gli uomini alla ricerca di avventure amorose omosessuali.
Con la presenza massiccia dell’Occidente nei paesi di religione
musulmana il satiro auspicava un cambiamento sociale in senso mo-
derno, dove uomo e donna non fossero uniti in matrimoni combinati
senza mai essersi visti prima, con il rischio di rimanere degli estranei
per tutta la vita e rimanere estranei all’amore; al contrario, uomo e
donna dovevano, secondo Iraj Mirza, riuscire, grazie all’affetto e alla
complicità, a costituire una coppia affiatata per libera scelta, dove le
donne, smesso il loro velo che le relegava ad essere oggetti privi di
stimolo e interesse per l’uomo, annientassero con le armi della pari-
tà culturale la pratica omosessuale. Così scriveva il satiro:

Until our tribe is tied up in the veil / This very queerness is bound to
prevail / The draping of the girl with her throat divine / Will make the
little boy our concubine //.21

A una prima timida imitazione o aspirazione al modello occiden-

20
F.B. Bradley-Birt, Through Persia: from the Gulf to the Caspian, Smith Elder & Co.,
London 1909, p. 42.
21
«Finché il nostro popolo è serrato nel velo / Questa devianza dovrà prevalere /
Il mantello della ragazza con un gola divina / Farà del ragazzino la nostra concubina».
Introduzione
Sara Hejazi ∙ Il velo islamico. Pratica del passato e re-invenzione del presente Ù  179

tale, corrispose però in seguito un atteggiamento di orgoglio e di


rifiuto verso l’ingenuo tentativo di assimilazione della cultura euro-
pea; in questo senso l’unica àncora di salvezza ad un dominio che
ormai appariva inevitabile era la resistenza culturale. In questo pe-
riodo, alla fine dell’ Ottocento, nacque l’idea di mimic man, che si ri-
feriva in modo dispregiativo a tutti gli orientali che volevano imitare
gli europei come dei burattini, ma che finivano solo per diventare
una brutta copia dei farangi,22nonché un ulteriore strumento di do-
minio straniero.
In questo periodo di crisi dell’Islam, in cui il mondo musulmano
non poteva pensare a se stesso senza costantemente fare riferimen-
to all’Occidente, il velo delle donne giocò un ruolo centrale. Esso
iniziò ad assumere una valenza simbolica di resistenza al processo
di colonizzazione in atto, sia economico, sia culturale. Il velo venne
così inteso dalle élite come elemento che designava un’identità mu-
sulmana e locale forte, basata sulla tradizione e sulla religione, che
progressivamente poteva diventare anche militante da un punto di
vista politico.
Come spesso accade, il pensiero dell’élite e della classe intellet-
tuale raramente coincide con il pensiero del popolo e della gente
comune. Per le donne dei villaggi e che non avevano avuto accesso
all’istruzione, il velo continuava ad essere un’abitudine tramandata
di madre in figlia, e serviva principalmente a mantenere decenza e
decoro di fronte agli uomini, mentre non aveva particolare valenza
culturale, politica e simbolica. E, soltanto quando capitò che esso ve-
nisse strappato loro di dosso, si accorsero che probabilmente il velo
islamico significava —almeno per altri attori sociali— molto di più.

7. La seconda abolizione del velo

L’Iran, al contrario di molti paesi islamici non divenne mai una


colonia europea; tuttavia a partire dall’avvento della dinastia Pahlevi
(alla fine degli anni Venti del Novecento), il modello europeo fu
preso a prestito in modo radicale.
Reza Scià volle puntare alla trasformazione definitiva di un paese
alla deriva per mezzo della forza dell’esercito: introdusse l’uniforme
nazionale e il concetto moderno di patria e nazione (lui stesso si pre-
sentava in pubblico rigorosamente vestito in uniforme), e da questo
stesso principio, cioè che l’esercito dovesse rappresentare il modello
della nazione, fece derivare l’idea che i cittadini dovessero essere
innanzitutto servitori della patria decretando l’uniforme civile: un
abbigliamento di tipo europeo. Abolì l’uso del velo, arrivando fino a
farlo strappare per le strade per mano dell’esercito.

22
Termine persiano che significa “europeo” con un’accezione negativa e dispre-
giativa.
180  Ù Le verità del velo

In realtà questa decisione di Reza Khan non va interpretata come


un mero tentativo di occidentalizzare il paese, ma piuttosto come una
tappa fondamentale per avvicinarsi al suo ideale di cittadino-soldato:
Reza Khan aveva in mente il modello tedesco e quello turco, anche
se, a differenza di quest’ultimo, che era sorto dalle rovine del califfato
ottomano, non fondava la propria legittimità sulla secolarizzazione
delle istituzioni; per questa ragione sotto Reza Scià, nonostante l’abo-
lizione del velo, non vi fu una vera e propria rottura con l’Islam, anzi;
il clero iraniano rappresentava allora una forza progressista ed eser-
citava una grande influenza sulla popolazione. Se lo Scià aveva da un
lato creato un nuovo codice penale sul modello europeo, infatti, la
legge sulla famiglia, che riguardava soprattutto le donne, era rimasta
invariata secondo la shar’ia: segno del fatto che sia secondo lo Scià, sia
secondo i Majlis (i parlamentari) lasciare invariato il diritto di fami-
glia era un modo per preservare la morale e il pudore della comunità
contro il dilagare di costumi corrotti provenienti da ovest. Dunque
la legge islamica regolava ancora il diritto di famiglia, ma nella sfera
pubblica lo Scià esigeva che le donne diventassero parte attiva nella
nuova costruzione dello stato-nazione moderno, e, fatto ancora più
straordinario, non come mano d’opera nelle nuove fabbriche, ma in
qualità di formatrici culturali.
Oltre a trasmettere cultura alle nuove generazioni le donne di
Reza Scià dovevano anche essere frugali ed evitare il lusso e lo spreco:
dunque erano caricate di una doppia responsabilità: quella di cresce-
re e, di fatto, educare una nazione alla propria nazionalità, e quella
di non perdere, nonostante questo compito oneroso, la propria mo-
destia, la propria identità femminile che nel processo di modernizza-
zione non poteva comunque prescindere dai dettami religiosi della
religione islamica: frugalità, modestia e devozione.
Anche in questo caso l’identità femminile andava costruendo-
si attraverso scelte politiche mirate e consapevoli: la donna passò
dall’essere incoraggiata ad uscire dall’isolamento delle mura dome-
stiche e diventare parte attiva della società istruendosi, al non dover
abbandonare l’Islam come modello d’identità di riferimento; inol-
tre, il fatto di escludere le donne dal processo produttivo, riservan-
do loro il lato culturale della questione sociale, limitava il fenomeno
innovatore alle donne della classe media o medio-alta; di fatto, per
il resto della popolazione femminile, la vita sociale rimaneva immu-
tata, o quasi.

8. La re-interpretazione del velo e la nascita dell’Islam politico

Premesso che non è possibile considerare l’Islam come una reli-


gione monoteista particolarmente politicizzabile o particolarmente
intrisa di modelli di vita che i fedeli possano prendere come esempio,
si può asserire che l’Islam, in alcuni casi determinati da contingen-
ze storiche particolari, è assurto a ossatura costitutiva del linguaggio
Introduzione
Sara Hejazi ∙ Il velo islamico. Pratica del passato e re-invenzione del presente Ù  181

politico e a tratti è stato trasformato in politica del linguaggio.23 A


tale riguardo più che di un uso del vocabolario islamico al fine di
avere una risonanza politica, si è trattato di una variante dell’uso
della terminologia islamica da parte delle autorità e delle forze di
opposizione nei momenti di mobilitazione sociale. Così, immagini e
simboli appartenenti alla religione sono stati utilizzati e trasformati
in modelli identitari ed esortazioni politiche per mano di ‘mediatori’,
cioè intellettuali capaci in qualche modo di manipolare tradizione
e saperi per fini precisi. Sono stati quindi ristrutturati alcuni simbo-
li della tradizione affinché anche la parte più religiosa della società
potesse identificarsi con la mobilitazione sociale che, per esempio
nel caso iraniano, ha portato al rovesciamento della monarchia e alla
rivoluzione islamica del 1978-79: una politica del linguaggio capace
di trasformare il velo, reminiscenza del passato, in nuova promessa
per un futuro più giusto.
Nella dialettica del rapporto tra modernità e tradizione, religione
e politica, si trova la chiave per una comprensione più approfondita
del cambiamento sociale avvenuto in generale nei paesi musulmani
durante il Novecento e in particolare in Iran durante la Rivoluzio-
ne: se è sbagliata la visione troppo rigidamente dicotomica tra Islam
come forza culturale avversa al cambiamento e Modernità come forza
distruttrice delle società tradizionali,24 questo appare evidente nell’I-
ran degli anni Settanta, dove, nonostante fosse avvenuto un vero e
proprio mutamento dell’apparato sociale in senso moderno, pure l’I-
slam, in quanto elemento culturale radicato nella società, era appar-
so come unica forza sociale capace di legittimare questi cambiamenti,
soprattutto di fronte alla minaccia di invasione culturale dall’Ovest
che il processo di modernizzazione portava intrinseco dentro sé. La
parte più cospicua del lavoro di modernizzazione da un lato e di legit-
timazione religiosa dall’altro è stato compiuto sul ruolo, sull’identità
e sul corpo delle donne.
Dunque nella tradizione musulmana sciita si sono cercate le fonda-
menta per un nuovo femminismo islamico, rileggendo la storia e la re-
ligione in un modo e attraverso procedimenti tipici della modernità.
Tra le caratteristiche della branca sciita dell’Islam, quella più signi-
ficativa e che si differenzia notevolmente dal sunnismo è il costante
riferimento che i fedeli fanno alla sacra famiglia di Maometto e soprat-
tutto alle donne di questa famiglia: se gli Imam sciiti intercedono per
i fedeli, altrettanto lo fanno le figure femminili, le eroine e le martiri
che per una ragione o per l’altra ai dodici Imam sono collegate.
Prima tra queste donne è Fatima, figura centrale del nucleo costi-
tutivo della sacra famiglia formata dai cosiddetti cinque della Casa:

23
F. Eickelman Dale., Muslim Politics, Princeton University Press, Princeton 1996.
24
E. Black, The Dynamics of Modernizations: A Study in Comparative History, Row, New
York 1966.
182  Ù Le verità del velo

Maometto il padre, ‘Ali il marito, Husayn e Hasan, i figli. Maometto


concesse solo a sua figlia Fatima di pregare sulle tombe e onorare i
morti, ed è per questo che al contrario dei sunniti, che non costru-
iscono tombe scultoree, gli sciiti onorano i propri morti erigendo
mausolei sontuosissimi.25
Ci sono tradizioni di studi orientali diverse e opposte sulla figura
di Fatima: da un lato essa viene tramandata come una donna coc-
ciuta e piagnucolona, immagine che deriva dalla tradizione sunnita
Omayyade, nemica degli sciiti;26 dall’altro si dà di Fatima un’immagi-
ne importante in quanto mistica: è lei che riceve i proseliti del padre,
che intercede con gli stranieri, che tiene testa al califfo Abu Bakr e a
sua figlia ‘Aysha, che intercede per i morti, e la cui preghiera è perpe-
tua in quanto non soggetta a sospensione nel periodo mestruale, al
contrario di tutte le altre donne.
Tuttavia il primo a rivoluzionare la tradizione su Fatima fu il filo-
sofo e teologo iraniano ‘Ali Shari’ati, a cui si ispirò tutta l’ideologia
del movimento rivoluzionario in Iran negli anni Settanta del secolo
scorso; sottolineando infatti l’inadeguatezza e la limitata influenza
dei ruoli femminili nella tradizione islamica e la falsità e superficia-
lità del modello di donna emancipata nelle società occidentali, egli
tratteggiò un unico e nuovo modello di riferimento per l’universo
femminile: la figlia di Maometto e le altre donne della sacra famiglia.
Shari’ati volle in un certo senso liberare Fatima dal ruolo limitati-
vo di personaggio storico (era stata la prima credente della comuni-
tà27 ed era la prima persona direttamente coinvolta nella lotta per la
discendenza) sottolineando invece le sue qualità umane e spirituali.28
Fatima era diventata, secondo il filosofo, fautrice del proprio desti-
no, attrice consapevole della propria vita e cosciente della propria
identità, perché capace di compiere delle scelte spirituali in modo
consapevole e critico.
Si può immaginare quanto potesse essere innovativa questa inter-
pretazione, risorta dalle ceneri di una Fatima passiva, idolatrata dai
fedeli per concessione del proprio padre, e ora rinata come figura
autonoma, intrisa di realtà e spiritualità insieme, caratterizzata da
una forte autostima e identità, meritevole dunque di essere una gui-
da spirituale.
Anche Zeynab, sorella di Huseyn e figlia di Fatima, fu reinterpe-
tata dalla filosofia rivoluzionaria di Shariati che la restituì al presente

25
Per esempio L’Haram Reza di Mashad, luogo di culto e pellegrinaggio, ziyara, per
tutti gli sciiti, il mausoleo dell’Imam Khomeini a Teheran, e la tomba Hazrat-e-Fatema-ye
Ma’suma, sorella dell’Imam Reza a Qom, e tutti gli altri vari luoghi di pellegrinaggio o
emamzade.
26
H. Lammens, Fatima et les filles de Mohammad, Scripta Pontificii Instituti Biblici,
Rome 1912.
27
la prima a convertirsi fu Khadija, la moglie più anziana di Maometto, tuttavia
Fatima è stata la prima a credere e professare.
28
Y. Richards, Shi’ite Islam, Blackwell, Cambridge 1995.
Introduzione
Sara Hejazi ∙ Il velo islamico. Pratica del passato e re-invenzione del presente Ù  183

come modello di donna combattente e coraggiosa; una volta acqui-


sita o riappropriatasi della propria identità (una volta diventata Fati-
ma), la donna è capace infatti di scendere in campo per difendere
con la lotta la propria famiglia, la propria storia, o proprio l’identità
recentemente conquistata. Esperta nell’arte del linguaggio, dunque
capace di parlare alla masse, Zeynab diventò simbolo di intelligenza
finalizzata al sovvertimento del potere.
Fatima Ma’sluma, sorella dell’Imam Reza, il cui culto è praticato
soprattutto a Qom, dove esiste anche il suo mausoleo, è invece rinata
come modello di purezza; per il pensiero rivoluzionario non si tratta-
va di una purezza concessa per grazia divina, passiva, che riguardava
esclusivamente la castità o l’etica sessuale, ma di una purezza attiva,
conquistata con sforzo di autocoscienza tramite una grande forza d’a-
nimo capace di esercitare l’attrazione della benevolenza della comu-
nità, grazie alla pratica ascetica unita alla costante ricerca di giustizia
ed equilibrio.
Dunque nel teorizzare un nuovo stato secondo l’ordine islamico,
durante gli anni Settanta, l’identità della figura femminile era stata
riformulata attraverso una reinvenzione della tradizione che potesse
contenere al suo interno il nuovo modello della donna musulmana:
devota ma attiva, impegnata ma modesta, velata ma visibile, spirituale
e al contempo immersa nella quotidianità, autonoma ma non indi-
vidualista, pronta anche al sacrificio, o al martirio, per il bene della
collettività.
In questo senso entrarono in scena nella costruzione dell’identità
nuovi e inaspettati veli: il velo di Fatima, che non copre Fatima per
nasconderla, ma per conferirle la sua stessa identità e sublimarla nel
suo ruolo di mediatrice con gli stranieri, con gli intrusi, con l’Aldilà,
con i vivi e i bisognosi. Il velo di Zeynab, della combattente impavida,
che dimostra la sua fede, ma che non rappresenta un ostacolo alla
guerra e al sacrificio; il velo di Fatima Ma’sluma, simbolo di una pu-
rezza conquistata attraverso una vera e propria pratica di autoconsa-
pevolezza e di devozione assoluta ad un’idea, che può essere Dio, ma
anche un ideale politico.
Questi veli, per la filosofia rivoluzionaria, erano certo veli innova-
tivi, in quanto avevano l’intento di trasformare la donna da oggetto
velato il cui pensiero era irrilevante, in soggetto auto-velato il cui pen-
siero poteva provocare grossi cambiamenti sociali e politici; la Rivolu-
zione iraniana ha in seguito probabilmente tradito quella giustizia so-
ciale che aveva promesso; ma senza dubbio una promessa di giustizia
vi era stata, e questa promessa doveva trovare la propria credibilità e
le proprie fondamenta all’interno della religione islamica sciita.

9. Tempi moderni col velo

Con la fine degli anni Settanta del Novecento l’Islam politico rag-
giunse la maturità come movimento di opposizione e contestazione,
184  Ù Le verità del velo

e questo divenne evidente con la rivoluzione iraniana, che vide, ac-


canto allo schieramento molteplice a fianco di centinaia di differenti
partiti, una folla di donne col chador manifestare contro lo Scià.
Allora il velo, carico di grandi tensioni politiche, rappresentava
una libera scelta. Due anni dopo, nel 1981, divenne raccomandato
negli ambienti pubblici, e in seguito, nel 1982 divenne obbligatorio
e lo è tuttora.
Nell’Afghanistan preso tra la morsa sovietica e americana, il velo
integrale, detto anche Burqa, fu imposto a partire dal 1996 per mano
dei talebani; in nessun altro paese musulmano è oggi obbligatorio ve-
larsi, nonostante in forma variabile esso sia una pratica ancora molto
diffusa. Ma non è necessario viaggiare lontano per vedere donne
velate: in Europa si può parlare di un vero e proprio revival islami-
co e di una riscoperta dell’indumento velo come codice identitario
che esprime una scelta religiosa e spirituale, ma anche e soprattutto
la costruzione di un’appartenenza culturale. La sociologia moderna
ha fatto notare infatti come le giovani generazioni cresciute in paesi
europei di immigrazione tendano a rispettare maggiormente questa
pratica rispetto alle proprie madri.29 Per esempio tra le immigrate
turche il velo era diffuso tra le ragazze più giovani nate in Germa-
nia, mentre le prime immigrate giunte negli anni Settanta non lo
indossavano. È evidente quindi che non si tratta in realtà propria-
mente di una ripresa del passato, ma piuttosto di una costruzione e
re-invenzione di esso.
Il velo stesso è infatti profondamente cambiato: oggi indossato
dalle giovani musulmane in Europa è divenuto colorato, spesso ab-
binato a scarpe e borse, decorato da brillanti, o che incornicia volti
vistosamente truccati; a volte si accompagna addirittura a jeans suc-
cinti o a scarpe col tacco, o fa intravedere ciocche di capelli colorati.
In questo senso il velo è anche, per dirla con Barman,30 il codice di
un’identità che si è scelto di ‘indossare’ nella ‘modernità liquida’,
oppure è simbolo di una nostalgica affermazione di appartenenza
etnica, o di una presa di posizione politica.
L’attenzione che soprattutto oggi e soprattutto in Occidente è
riservata al velo lo rende un terreno privilegiato per un discorso
comparativo tra società a maggioranza musulmane in cui il velo è
parte storica di una tradizione complessa e società in cui la presenza
islamica immigrata viene percepita come minacciosa e come altra,
capace di racchiudere in sé tutti i valori negativi e contrari alle fon-
damenta della società civile; in questo senso il Velo diventa un ogget-
to identitario controverso e un facile strumento di generalizzazioni
e pregiudizi sul mondo islamico.

29
Si veda S.Allievi l’Occidente di fronte all’Islam, Franco Angeli, Milano 1996; F.
Dassetto, L’Islam in Europa, Edizioni della Fondazione Giovanni Agnelli, Torino 2000;
C. Saint-Blancat, L’Islam della diaspora, Edizioni Lavoro, Roma 1995.
30
Z. Bauman, Intervista sull’identità, a cura di B. Vecchi, Laterza, Roma-Bari 2003.
Introduzione
Sara Hejazi ∙ Il velo islamico. Pratica del passato e re-invenzione del presente Ù  185

Nonostante quindi una diffusa tendenza a banalizzare questa


pratica, riconducendola spesso ad un generico status di ‘arretratez-
za culturale’, l’atto di velarsi rimane comunque un segno identita-
rio che emerge sotto diversi punti di vista: ha infatti rappresentato
un’utopia tradita, l’espressione di una presa di posizione che vuole
differenziarsi da una cultura dominante straniera ed estranea, uno
strumento di repressione sessuofobica da parte di una nuova élite
fortemente misogina, l’avvicinamento ad un modello femminile va-
gheggiato nelle filosofie islamiste di qualche decennio fa, una sem-
plice tradizione che non va messa in discussione, una scelta spiritua-
le o un’odiosa imposizione anacronistica e priva di utilità. Quale che
sia l’uso e il significato che del velo si fa, esso sembra essere il punto
di partenza comune delle donne musulmane, in patria e all’estero,
da cui successivamente si sviluppa un discorso sulla propria identità
individuale in quanto persone a sé stanti e autoriflessive, consapevoli
cioè, nella homelessness dell’identità moderna, di dover riformulare
un’immagine di se stesse nella diaspora e in un ‘mondo musulmano’
reinventato. Il velo stesso nella complessità di simboli e significati di
cui è intriso o di cui è stato caricato nel corso della storia, non è al-
tro che uno specchio della complessità dell’identità femminile, che
ha dovuto più volte ridefinirsi cercando modelli di riferimento ogni
volta nuovi e ogni volta in contrapposizione e in rapporto alla sua
controparte ideologica: il mondo occidentale.
186  Ù Le verità del velo
Claudia Porretto

Il velo risonante.
Una lettura critica della rappresentazione del burqa
in un film di Samira Makhmalbaf

1. Introduzione: problemi preliminari e oggetto d’analisi

Nel momento in cui ci si propone di utilizzare l’approccio antro-


pologico al fine di produrre un sintetico contributo riguardante il
tema del velo, si incontrano almeno due problemi (che costituiscono
di per sé altrettanti dati significativi dai quali prendere le mosse).

1.1. Problema di carattere teorico contingente riguardante l’argomento

Il velo, soprattutto se “islamico”1 e soprattutto nella sua espres-


sione estrema (burqa),2 nel contesto euro-occidentale è oggetto di
accese discussioni, la maggior parte delle quali legate al tema della
subordinazione della donna rispetto alla figura maschile. Sembra che
l’oggetto-velo abbia una grandissima “forza acustica”, nel senso che
costituisce il punto d’origine di una serie di onde (discussioni) che
si propagano progressivamente, rimandando indissolubilmente a ciò
che si trova sotto il velo (un corpo di donna) e a ciò che si trova oltre
il velo (una società).
Detto in altri termini: le discussioni sul velo rinviano a una serie
di manifestazioni sociali (subordinazione, disuguaglianza, percosse
fisiche, lapidazioni) a volte, non sempre, prodotto di una società che
legittima l’esistenza del velo stesso ma, di fatto, oggettivamente in-

1
L’aggettivo “islamico” è arbitrariamente riportato tra virgolette perché uno degli
argomenti di questo lavoro sarà la non necessaria corrispondenza tra religione (Islam)
e capo d’abbigliamento (velo).
2
Il burqa è un modello particolare di velo che copre la testa della donna, il suo viso
(all’altezza degli occhi è posta una grata che permette a chi lo indossa di vedere senza
che gli occhi siano scoperti) e tutto il suo corpo.
188  Ù Le verità del velo

dipendenti da esso. È il discorso sociale che, eventualmente, lega i


fenomeni e non sono i fenomeni a possedere di per sé un intrinseco
legame tra di loro (difatti la presenza di una di queste manifestazioni
in un particolare contesto sociale non presuppone affatto, nel mede-
simo contesto, l’esistenza di tutte le altre).

1.2. Problema di carattere teorico ampio riguardante l’antropologia

Qualsiasi questione che scateni dibattiti accesi sembra richiedere


risposte di ordine pragmatico e di portata immediata. La richiesta di
tali prese di posizione cresce in maniera esponenziale nel momento
in cui le discussioni abbandonano l’ordine puramente speculativo e
invadono gli ambiti decisionali dei pubblici poteri.
Ma una disciplina come l’antropologia, fondata sull’analisi delle
società umane e delle loro manifestazioni culturali, mal si presta alla
formulazione di giudizi perentori. Tale caratteristica costituisce un’i-
nestimabile ricchezza a patto che la comunità degli antropologi per
prima non si chiuda nella propria “intimità culturale”3 e si impegni
a comunicare i benefici, in termini d’interpretazione “densa” e com-
prensione dinamica delle culture, che i pubblici poteri potrebbero
trarre dall’approccio antropologico, superando così l’aura di incom-
prensibilità, inapplicabilità e conseguentemente inutilità che (alme-
no in Italia) grava sulla disciplina.
Un’ottima strategia in questa direzione la fornisce Françoise Héri-
tier4 nel momento in cui afferma che «se vogliamo […] accedere a
un livello di comunicazione che ci permetta di essere pienamente
ascoltati dai pubblici poteri, dobbiamo continuare a fare grandi sfor-
zi, superare alte barriere, per far capire che le cose di cui parlia-
mo si riferiscono non ad “altri” totalmente esotici e a noi estranei,
a mentalità arcaiche, a modi di vivere scomparsi o a sopravvivenze,
ma a noi stessi, alla nostra società, alle nostre reazioni e ai nostri
comportamenti».5 A tal proposito, il tentativo di riflessione sull’indu-
mento-velo che propongo si soffermerà su un oggetto ben circoscrit-
to: la rappresentazione del burqa nel film Alle cinque della sera6 diretto
da Samira Makhmalbaf.7

3
Cfr. M. Herzfeld, Intimità culturale, L'Ancora del Mediterraneo, Napoli 2003.
4
Françoise Héritier (n. 1933) è un’antropologa francese (africanista e specialista
di rapporti di parentela) allieva di Claude Lévi-Strauss. Dal 1998 è professore onorario
presso il Collège de France.
5
F. Héritier, Maschile e femminile, Laterza, Roma-Bari 2002, p. 6.
6
Alle cinque della sera (2003) prende il titolo da un verso della poesia Lamento per
Ignacio Sànchez Mejìas (1935) di Federico Garcìa Lorca. Il film rappresenta la Kabul
post-regime talebano in cui una ragazza (Noqreh, la protagonista) sogna di diventare
presidente dell’Afghanistan. Le scene si susseguono tra ex talebani disorientati, ragazze
che aspirano alle pari opportunità, profughi che lottano per la sopravvivenza, soldati
ignoranti, fotografi tradizionalisti e un poeta che aiuterà Noqreh nella sua impresa e le
farà conoscere la poesia di Garcìa Lorca.
7
Samira Makhmalbaf nasce a Teheran nel 1980. È la figlia del noto regista iraniano
Introduzione
Claudia Porretto · Il velo risonante Ù  189

2. Il metodo

Gli strumenti da me scelti per affrontare l’analisi sono i seguenti:


1) concetto di risonanza fornito da Stephen Greenbatt8 nel sag-
gio Risonanza e Meraviglia. Secondo l’autore la risonanza è il potere
dell’oggetto di «varcare i propri limiti formali evocando le forze cul-
turali complesse e dinamiche da cui è emerso e di cui l’osservatore
può considerarlo un campione rappresentativo».9 Ciò che interessa
in questa sede della definizione appena riportata è che la risonan-
za distoglie l’osservatore dal celebrare i singoli oggetti orientandolo
verso una serie di rapporti e problemi scarsamente visibili anche se
impliciti. Inoltre, proprio in virtù di quest’ultima peculiarità, la riso-
nanza coinvolge l’immaginazione del visitatore che fa scattare delle
catene di relazioni tra i diversi oggetti e tra gli oggetti e il contesto
(sia rappresentativo che esterno).10
2) il concetto di rappresentazione fornito da Francesco Faeta11 nel
saggio Le molte morti, e le molte resurrezioni, di un fuso dove si legge:

Proporrei, dunque, di definire rappresentazione un processo di costi-


tuzione dell’oggetto alla conoscenza, come sintesi della propria storia
e come allusione alla più vasta storia e al più vasto contesto cui appar-
tiene; proporrei di definire rappresentazione, altresì […] un processo
d’inserimento delle proprietà iconiche dell’oggetto nell’ambito cultu-
rale e sociale di un osservatore esterno in grado di riconoscere quanto è
sotto ai propri occhi.12

Moshen Makhmalbaf (tra i film di quest’ultimo va ricordato in particolar modo Viaggio


a Kandahar del 2001). All’età di 17 anni gira il suo primo film (La mela) che vince il
premio “Un certain regard” del Festival di Cannes 1998. Nel 1999 gira Lavagne che vince
il premio speciale della giuria al Festival di Cannes 2000 e riceve il premio “Federico
Fellini” dall’UNESCO e il premio “Francois Truffaut” dall’Italia. Sua creazione è anche
il cortometraggio God, construction and distruction parte del film 11 settembre 2001. Assieme
a Samira lavorano per la casa di produzione Makhmalbaf (fondata alla fine degli anni
’90 da Moshen e comprendente anche una scuola di cinema): Marzyeh Meshkini (moglie
di Moshen e madre di Samira ha realizzato nel 2000 il film The day I became woman e
nel 2004 il film Piccoli ladri), Maysam Makhmalbaf (fratello minore di Samira che nel
2000 ha realizzato il documentario How Samira made the blackboard) e Hana Makhmalbaf
(sorella minore di Samira che all’età di 14 anni ha girato il documentario Joy of madness).
8
Stephen Greenblatt (n. 1943) è docente di letteratura inglese presso la University
of California (Berkley) e tra i fondatori della rivista «Representations».
9
S. Greenblatt, Risonanza e Meraviglia, in I. Karp, S.D. Lavine (a cura di), Culture in
mostra, CLUEB, Bologna, 1995, pp. 27-45, p. 27.
10
Per approfondimenti cfr. ivi, in particolar modo, pp. 28-36.
11
Francesco Faeta (n. 1946), antropologo italiano, è professore ordinario di
antropologia culturale presso l’Università degli Studi di Messina. Suoi principali ambiti
di studio sono: il Mezzogiorno d’Italia, l’etnografia visiva e l’antropologia visuale,
l’organizzazione sociale e culturale dello spazio, la museografia e la museologia,
la festa e il rito. Si interessa attualmente allo studio delle manifestazioni culturali e
dell’immaginario sottesi alla formazione dell’idea nazionale e della forma statale
italiane. Fotografo e documentarista etnografico, ha realizzato numerose mostre di sue
immagini nelle principali città italiane e all’estero.
12
F. Faeta, Le molte morti, e le molte resurrezioni, di un fuso, in Id. (a cura di), Questioni
italiane, Bollati Boringhieri, Torino 2005, p. 65.
190  Ù Le verità del velo

Di questa descrizione si tenga presente soprattutto il ruolo atti-


vo dell’osservatore che rende la rappresentazione «un compito, non
un dato; […] una possibilità di messa in relazione dell’autoimmagi-
ne e della somiglianza e di entrambe con un concreto vissuto, che
può realizzarsi soltanto all’interno di un campo, di uno spazio a ciò
deputato».13
È chiaro che gli strumenti approntati per determinati studi mu-
seografici e museologici non potranno trovare perfetta applicazio-
ne a un’analisi cinematografica: i film non sono contesti materiali
in cui vengono inseriti oggetti (e concetti) sottratti alla quotidianità
presente o passata e deputati alla rappresentazione.14 I film sono la
realtà stessa di ciò (oggetti, ambienti, personaggi) che opera all’inter-
no di essi e molto spesso rispondono a delle regole non riscontrabili
in nessun’altra realtà (l’esempio più lampante sono i film di fanta-
scienza). Tuttavia è proprio questa vocazione alla rappresentazione,
comune a film e musei, che rende le due forme di rappresentazione
paragonabili: anche nei contesti museali è costantemente presente
un certo grado di artificialità che assimila questi ultimi, se non a un
set cinematografico, quantomeno a una scenografia teatrale.
Pensiamo ad Aristotele, secondo il quale la rappresent-azione è
mimesi, imitazione della realtà in genere e delle azioni in particolare.
Compito delle immagini è, di conseguenza, scatenare nello spettato-
re una serie di riconoscimenti che stimolino, tramite la visione dello
spettacolo, la comprensione del racconto (fine della tragedia e sua
essenza). Tutto il resto è relegato in secondo piano: persino i caratteri
sono importanti solo perché, essendo la tragedia imitazione di un’a-
zione, diviene automaticamente imitazione di coloro che agiscono.15
Tale considerazione si presta perfettamente sia all’indagine di un
contesto museale, sia all’esame di un film come Alle cinque della sera il
cui intento realistico e documentaristico è costantemente ricordato
dalla regista.16 In particolar modo Samira Makhmalbaf, nell’intervista
presente sul sito della casa di produzione Makhmalbaf,17 afferma:

13
Ibidem. Per “autoimmagine” Faeta intende l’oggetto, nel caso specifico del saggio
il fuso, che una volta musealizzato diviene immagine di se stesso prima di divenire
“somiglianza”, ossia immagine di tutti i fusi presenti all’interno di una determinata
cultura del filare. Cfr. ivi, in particolar modo, p. 63.
14
Si sta parlando in questo caso esclusivamente di musei storici e antropologici. A
questo proposito si tenga presente che non sempre gli oggetti esposti sono realmente
sottratti alla quotidianità: in certi casi vengono utilizzate delle copie o comunque
degli oggetti costruiti ad hoc per il contesto museale (ne sono un esempio lo Jüdisches
Museum di Berlino all’interno del quale i pochissimi originali sono circondati da copie).
Il dibattito sulla correttezza o meno di adoperare oggetti “non originali” è tutt’ora in
corso, ma non è questa la sede per approfondire tale tematica.
15
Cfr. Aristotele, Poetica, trad. di M. Valgimigli, Laterza, Roma-Bari 1997.
16
Cfr. S. Vincent, Beyond the words, in «The guardian», 3 aprile 2004; R.C. L’avenir par
le femmes, in «Le quotidien du medecin», 20 maggio 2003; G. Macnab, A woman’s place,
in «The guardian», 19 maggio 2003; D. Borde, Le fantôme de la liberté, in «Le Figaro», 17
maggio 2003; E. Frois, Samira Makhmalbaf, tèmoin persan, in «La Figaro», 16 maggio 2003.
17
<www.makhmalbaf.com> (12/16). Usualmente si preferisce evitare l’utilizzo di
Introduzione
Claudia Porretto · Il velo risonante Ù  191

Il mio film tenta di correggere le false informazioni generate dal vortice


della politica e dei mass media. La radio e la televisione costituiscono la
voce ufficiale del potere, mentre il cinema è l’unico mezzo di trasmissio-
ne attraverso il quale un autore può dare voce allo spirito di una nazione
e rifiutare gli schemi precostituiti.18

Nell’opera, inoltre, nessun attore è un professionista: persino la


protagonista, Noqreh (Agheleh Rezale), è in realtà una giovane ve-
dova con tre figli che lavora come maestra. In più tutti i dialoghi che
compongono la pellicola sono frutto della rielaborazione di ciò che
Samira Makhmalbaf ha visto e sentito nei mercati e nei luoghi pubbli-
ci di Kabul oltre ad essere il risultato di interviste19 e incontri casuali
(come quello con il soldato francese di cui si dirà più avanti).

3. Il burqa risonante

Riflettendo preliminarmente sul burqa come oggetto di accesi


dibattiti è possibile evidenziare una sua qualità altamente risonante
(nel senso proposto da Greenblatt).
Tuttavia le catene di connessioni messe in atto dalle discussioni
riguardo questo indumento come simbolo della religione islamica
trasformano la “rappresentazione” (il burqa in quanto oggetto mate-
riale che rimanda all’ambito più ampio del religioso) in “icona” (il
burqa in quanto reificazione del religioso): il mezzo è confuso con il
messaggio e caricato di una serie di significati aggiuntivi che lo tra-
sformano in una “maschera ipertrofica”.20 Ciò che si perde di vista è
l’arbitrarietà del rapporto tra significante, significato e referente. E
nel momento in cui vengono meno sia la cognizione di tale arbitra-
rietà, sia la consapevolezza che occorre familiarità con il codice per
comprendere il messaggio risultante dall’insieme dei segni, allora il
simbolo diventa la realtà che rappresenta: l’oggetto-burqa, anziché
avere delle proprietà iconiche che rimandano al contesto religioso,
diventa quel contesto.
Lo stesso ragionamento può valere anche per tutti gli attributi
che, secondo il discorso occidentale, connotavano il regime taleba-

siti internet a causa della presenza in rete di numerose informazioni errate. Tuttavia,
in questa sede, il sito della casa di produzione cinematografica Makhmalbaf è stato
ritenuto attendibile in quanto sito ufficiale e, dunque, mezzo di autorappresentazione
della produzione cinematografica dei Makhmalbaf.
18
Poiché ho curato io stessa la traduzione di questa citazione (come di tutte quelle
che seguiranno) di volta in volta riporterò per completezza il testo originale: «My film
tries to correct the false information generated by the frenetic vortex of politics and
mass media. Radio and television constitute the official voice of power, while cinema is
the only broadcast medium where the author can voice the spirit of nations and denied
a platform».
19
Le interviste sono raccolte nel documentario The joy of madness girato da Hana (la
sorella minore di Samira) e incentrato sulle riprese di Alle cinque della sera.
20
Cfr. A. Saggioro, Simbologia del vestire, Nuova Cultura, Roma 2007.
192  Ù Le verità del velo

no in Afghanistan (percosse fisiche, lapidazioni ecc.) e che sono visti


come inscindibili gli uni dagli altri: il burqa, da segno manifesto ricon-
ducibile a una realtà comprendente anche gli altri elementi, diventa
sia quegli elementi che quella realtà. Il burqa diventa le percosse fisi-
che e le lapidazioni e, assieme ad esse, diventa il regime dei talebani e
l’Afghanistan tutto: di nuovo il mezzo è confuso con il messaggio. In
più il rapporto di consequenzialità che il discorso occidentale instau-
ra tra regime talebano, burqa, violenza e subordinazione del genere
femminile, trasmette la sensazione che, eliminando uno qualsiasi de-
gli elementi, crolleranno automaticamente non solo gli altri tre, ma
il sistema stesso.
Stabilendo risonanze e rapporti di somiglianza a partire dall’og-
getto-burqa in Alle cinque della sera il nostro primo obbiettivo sarà
tentare di scongiurare proprio l’atteggiamento essenzialista appena
descritto: si stabiliranno dei nessi per saggiare le possibilità di connes-
sione a partire dalla rappresentazione di un dato oggetto; tali relazio-
ni, però, non andranno mai considerate né assolute, né necessarie,
né tantomeno inscindibili le une dalle altre.
Nell’opera di Samira Makhmalbaf il burqa è un oggetto intensa-
mente risonante. Di seguito propongo di inscrive tale risonanza nel
segno della polisemia, assegnando al burqa sette diversi significati ri-
spondenti ad altrettante funzioni:
1) Funzione pratica. Il burqa nel film è innanzi tutto un oggetto di
uso quotidiano: compare in tutte le scene e desta l’attenzione dell’os-
servatore solamente all’inizio, poiché nel momento in cui lo sguardo
si abitua alla sua presenza diviene quasi parte del paesaggio.
2) Funzione repressiva. Durante il dialogo nella scuola di Galè21
sulla possibilità che una donna afghana diventi Presidente della
Repubblica una ragazza afferma: «Come può un’afghana diventare
Presidente con il burqa sulla faccia e i bambini da accudire?». Il burqa
è quindi rappresentato come una limitazione e, in questo senso, re-
prime le aspirazioni delle giovani donne. È inoltre da notare la cu-
riosa associazione tra lo strumento-repressivo-burqua e la funzione
materna.
3) Funzione omologante. Dopo essersi candidata nella scuola di Galè
come possibile Presidente22 Noqreh riflette su quella che potrebbe
essere la sua campagna elettorale e, nel farlo, viene aiutata dal poeta:
avendo stabilito che uno degli elementi essenziali per essere eletti è
farsi una buona pubblicità, quest’ultimo accompagna la protagoni-

21
Scuola esclusivamente femminile istituita sicuramente dopo la caduta del regime
talebano con lo scopo di recuperare l’analfabetismo e l’ignoranza della maggior parte
delle giovani donne afghane.
22
La scuola di Galè nel film ha messo in atto un esercizio di democrazia: tre
ragazze si sono proposte come candidate e, sotto la supervisione della maestra, hanno
dibattuto sui loro progetti per l’Afghanistan. Alla fine del dibattito l’insegnante spiega
che si sarebbe tenuta una votazione che avrebbe coinvolto tutte le allieve della scuola e
avrebbe decretato una vincitrice che sarebbe stata segnalata al Ministero dell’Interno.
Introduzione
Claudia Porretto · Il velo risonante Ù  193

sta da un fotografo suo amico per realizzare le foto per i manifesti


elettorali. Si succedono vari tentativi, quando il fotografo chiede a
Noqreh di coprirsi il viso con il burqa e, nel momento in cui lei esegue
la richiesta, esclama: «Ecco così è perfetto!». In questo caso il burqa
assume un significato omologante: rende tutte le donne senza volto,
identiche e contemporaneamente in contrapposizione rispetto all’al-
terità maschile.
4) Funzione “religiosa”.23 Dal punto di vista del padre di Noqreh il
burqa costituisce il mezzo per ottemperare a una prescrizione reli-
giosa (“Fa sì che tutti gli uomini chiudano gli occhi al cospetto delle
donne e fa sì che reprimano gli istinti” recita Noqreh mentre, coperta
dal burqa, viene accompagnata dal padre in città).
Questa tipologia di velo è dunque il marcatore della soglia rela-
tiva che separa spazio privato e spazio pubblico: nel primo le donne
possono scoprirsi il volto, mentre nell’ultimo devono dissimulare la
loro presenza per non far peccare gli uomini e non «imboccare la
strada che conduce all’inferno», come il padre di Noqreh rimprove-
ra a due ragazze che si scoprono il volto mentre si trovano sul suo
carretto.
Si è detto che la soglia tra privato e pubblico è relativa. Questo
perché alle donne nel film è permesso scoprirsi il volto non solo in
presenza di persone afferenti alla loro sfera privata, ma anche in pre-
senza di individui che, anche se sconosciuti, sono ritenuti innocui.
Infatti, in una delle ultime scene, Noqreh, la cognata e il padre, si tro-
vano nel deserto e scorgono un uomo in lontananza. Avvicinandosi le
due donne fanno per coprirsi il volto ma il padre le ferma dicendo:
«Non serve che vi copriate, è solo un vecchio». In più anche lo spazio
privato non è ben delimitato: la casa della protagonista è una vec-
chia abitazione scampata ai bombardamenti e completamente priva
di pareti. Dunque, anche quando si trova a volto scoperto perché nel
privato dell’abitazione, Noqreh potrebbe essere vista da chiunque.
5) Funzione sovversiva. Noqreh nasconde le scarpe bianche con il
tacco in un tascapane che custodisce sotto il burqa. Quest’ultimo ri-
veste, dunque, anche una funzione sovversiva: delimita uno spazio
privato inaccessibile che sfugge al controllo di tutti, anche di chi lo
impone.
Un secondo esempio di questa funzione è riscontrabile nella sce-
na in cui Noqreh, la cognata e il padre sono in cammino per cercare
una nuova casa e vengono fermati da un posto di blocco militare: i
soldati chiedono alle donne di mostrare cosa tengono sotto i burqa
per paura che vi possano nascondere delle armi.

23
Ho ritenuto opportuno descrivere la funzione come religiosa poiché nel film
il padre di Noqreh adduce la convinzione che le donne debbano coprirsi il volto a
motivazioni religiose. Tuttavia il termine è stato incluso tra virgolette sia per scongiurare
il rischio essenzialista sopra esposto, sia perché non è assolutamente intento del film
presentare il burqa come concernente le prescrizioni dell’Islam.
194  Ù Le verità del velo

6) Funzione simbolica 1. Dal punto di vista di Noqreh il burqa costi-


tuisce la differenza tra assenza e presenza del controllo sociale (suo
padre): tutte le volte che si trova al cospetto del padre e in un conte-
sto pubblico la protagonista indossa il burqa, ma tutte le volte che non
è soggetta all’autorità paterna (ad esempio quando va a prendere
l’acqua o durante il cammino per la scuola di Galè) si aggira tranquil-
lamente a volto scoperto.
In questo senso il burqa per Noqreh è anche il confine simbolico
tra passato tradizionalista e futuro cosmopolita: si scopre il volto e
sostituisce un paio di ballerine nere con delle scarpe bianche con
il tacco per andare alla scuola di Galè; in più spesso la protagonista
alza il burqa nell’atto di passare da uno spazio chiuso a uno aperto,
cosicché l’atto di “svelarsi” assume il significato simbolico di un vero
e proprio “uscire allo scoperto”.
7) Funzione simbolica 2. Il burqa è anche simbolo dell’inefficacia
dell’opposizione Bene/Male:24 la sofferenza non è eliminabile dalla
vita perché parte della vita stessa. Tale concetto è espresso nel film
tramite un continuo accostamento e un’incessante unione di imma-
gini belle e di immagini terribili: il burqa, se sviscerato dalla funzio-
ne di copertura di un corpo di donna, è un oggetto bello (è di uno
splendido color ceruleo, ha ricami molto raffinati), ma se congiunto
alla funzione repressiva è terribile; la poesia Alle cinque della sera è
sublime, ma è dedicata a un torero morto e parla di morte; nel film
i versi sono regalati a Noqreh dal poeta che li ha precedentemente
trascritti sul retro della fotografia stampata che ritrae la ragazza con
il burqa abbassato.
La poesia di Garcia Lorca, poi, riveste nel film un’importanza par-
ticolare. La scena con cui si apre la pellicola ritrae Noqreh e sua co-
gnata frontalmente, in mezzo al deserto e la voce della prima fuori
campo recita: «Ah che terribili cinque della sera, / Eran le cinque a
tutti gli orologi, / Eran le cinque all’ombra della sera». L’ultima sce-
na del girato è identica alla prima, con l’unica differenza che le due
donne sono riprese di spalle anziché frontalmente. Questo escamo-
tage conferisce al film un senso di circolarità lasciando intuire che il
tema della non-eliminabilità della sofferenza dalla vita degli individui
è il filo rosso dell’intera opera.
Tralasciando completamente la disamina della prima funzione
(poiché è tautologico riscontrare che se un oggetto è molto pre-

24
Nell’intervista rilasciata a Sally Vincent per il quotidiano «The guardian» del
3 aprile 2004 Samira Makhmalbaf afferma: «Forse soffrire non è male. Dobbiamo
provare tristezza e dolore perché siamo vivi. Dobbiamo sopportare le difficoltà. Questo
è il meglio che c’è. Sapere che sei molto piccolo e che la vita è molto difficile e che è
tutto bello, bello, bello…perché sei vivo…». Testo originale: «And maybe to suffer is not
bad. We must have sadness and grief because we are alive. We must endure hardness.
That is the best there is. To know you are very small and life is very difficult and it is
all beautiful, beautiful, beautiful... because you are alive...». Cfr. S. Vincent, Beyond the
words, cit.
Introduzione
Claudia Porretto · Il velo risonante Ù  195

sente è perché è molto usato o perché un gruppo di persone gli


attribuisce caratteristiche che lo rendono spesso necessario) e mo-
mentaneamente l’ultima (che approfondirò in seguito) notiamo
come le diverse scene dalle quali sono stati dedotti i vari significati
del burqa comunichino (per affermazione o per negazione) una de-
mocrazia in idea;25 nel senso di prototipo ideale, dunque esemplare
e, in quanto tale, presente sotto forma di nozione nella mente di
alcuni individui (prima fra tutti Noqreh) ma non ancora realizzato
sul piano fattuale.
Nello specifico: costituiscono un’idea di democrazia per negazio-
ne (ossia la democrazia dovrebbe NON-essere quello che si sta osser-
vando) tutte quelle scene in cui il burqa è presentato come strumento
repressivo e omologante rispetto a un’inconciliabile, nonché supe-
riore, alterità; veicolano invece un’idea di democrazia per afferma-
zione (la democrazia dovrebbe essere quello che si sta osservando)
le scene che mostrano uno scambio alla pari tra punti di vista diversi.
Nel modello che propone il film, quindi, la democrazia dovrebbe
essere una forma di governo che contrasta la repressione e le disu-
guaglianze pur riconoscendo ampio valore alle differenze, soprattut-
to d’opinione.
Si consideri ora come quest’ultimo concetto sia rappresentato in
forma indiretta attraverso una tecnica molto cara a Samira Makhmal-
baf: come nel cortometraggio God, construction and distruction e nel
film La mela, la regista mette in campo, attraverso i dialoghi, punti di
vista differenti su una medesima questione, così da conferire spesso-
re realistico alla pellicola che si allontana notevolmente dal rischio
di essere la messa in scena di un unico punto di vista e presenta le
sfaccettature del quotidiano. In questo modo quasi a nessuno26 è ne-
gato il diritto di esprimere la propria opinione, nemmeno ai talebani
che non sono raffigurati come “cattivi”, ma in maniera estremamente
relativista (sull’importante tema del punto di vista relativo dal quale
vengono osservati i talebani tornerò più avanti).
Sempre lo stesso concetto è espresso poi in forma diretta dalle pa-
role di Minà (una delle candidate della classe di Noqreh) quando le
viene chiesto cosa farebbe, come Presidente dell’Afghanistan, all’uo-
mo che ha ucciso suo padre, sua madre e suo fratello: «Gli chiederei
di venire qui a parlare con noi. Sarebbe interessante capire da cosa
ha origine il fondamentalismo religioso».

25
È la stessa Samira Makhmalbaf che, intervistata da Sally Vincent, dichiara che
«avendo deciso di fare un film su di un Paese che si trova nel mezzo del processo di
trasformazione verso la democrazia, sapeva che avrebbe dovuto provare a descrivere
cosa la democrazia fosse». Testo originale: «Having decided to make a film about a
country in the process of turning itself into a democracy, she knows she must try to
describe what democracy is». Cfr. ibidem.
26
È doveroso segnalare come tra i numerosissimi punti di vista messi in campo ne
manchi uno molto significativo: quello delle donne che desiderano indossare il burqa e
non lo vedono come costrizione.
196  Ù Le verità del velo

Inoltre nell’idea di democrazia espressa dall’opera dovrebbe


essere consentito alle donne accesso al pubblico, sia impiego che
spazio.
Per accesso all’impiego pubblico si intende la possibilità che una
donna ricopra una carica pubblica, ad esempio quella di Presidente
della Repubblica. Non a caso gli argomenti proposti dalle ragazze
della scuola di Galè che aspirano a tale carica sono:
– l’appello a risorse come curiosità, intelligenza, volontà e istru-
zione;
– la menzione delle qualità di moglie e madre27 che renderebbero
la donna in politica particolarmente desiderabile in quanto la sfera
pubblica, fino ad allora ad appannaggio maschile, beneficerebbe di
questa diversità positiva;
– l’impegno, proprio in virtù delle qualità di moglie e madre, in
settori quali l’istruzione.
Ragionamenti, questi, che sono incredibilmente simili a quelli
proposti, durante la prima metà del ’900, da alcuni dei sostenitori
del diritto al suffragio femminile, soprattutto in Inghilterra e ita-
lia. Si prenda ad esempio la dichiarazione della baronessa Irene
de Bonis che Giulia Galeotti cita all’interno del libro Storia del voto
alle donne in Italia: «[il diritto al voto] lungi dallo sfemminizzare la
donna, tende a integrarne la personalità morale e civile, rendendo
così più coscientemente forti i suoi doveri di madre e di sposa. E co-
ordinandoli con i diritti suoi propri, che non sono punto incompa-
tibili con la nobile funzione di educatrice di figliuoli e di compagna
dell’uomo».28
L’accesso della donna allo spazio pubblico è invece rappresenta-
to dalle scarpe bianche con il tacco che comunicano lo stesso signi-
ficato di “uscire allo scoperto” narrato attraverso l’atto di scoprirsi il
volto e, in più, costituiscono per Noqreh anche una soglia simbolica
d’accesso alla realtà occidentale e alla sua promessa di benessere.
La protagonista, infatti, mentre scende una scala di pietra, vede un
soldato occidentale (subito dopo, attraverso il dialogo, lo spettatore
verrà a conoscenza del fatto che si tratta di un soldato francese) e,
prima di rivolgergli la parola, indossa le scarpe bianche con il tacco:
oggettivamente la comunicazione sarebbe stata possibile anche se
Noqreh fosse stata scalza o avesse indossato le ballerine nere, eppu-
re è necessario per lei indossare le scarpe bianche, uscire dall’ambi-
to del “tradizionale” ed entrare in una realtà altra, quella sua ideale,
per potersi relazionare con l’“altro” occidentale.

27
Minà, durante il primo dibattito nella scuola di Galè, afferma che se fosse
Presidente si comporterebbe con i cittadini «come una madre affettuosa si comporta
con i propri figli».
28
Cfr. G. Galeotti, Storia del voto alle donne in Italia, Biblink, Roma 2006. In particolar
modo, pp. 69-114.
Introduzione
Claudia Porretto · Il velo risonante Ù  197

4. Specchi incrinati

Ma qual è l’immagine dell’“altro” occidentale che un film come


Alle cinque della sera suggerisce?
La scena descritta alla fine del paragrafo precedente ci viene
in soccorso nel rispondere a questa domanda. Protagonisti sono
Noqreh, il poeta e il soldato francese.29 Noqreh sta scendendo le scale
in pietra del palazzo in rovina dove attualmente abita con suo padre,
sua cognata e il figlio neonato di quest’ultima. In lontananza vede un
soldato, continua a scendere le scale, si mette le scarpe bianche con
il tacco, nel frattempo anche il soldato ha notato la ragazza, e avviene
in dialogo seguente:

Noqreh: “Hello Mister! How are you? My name is Noqreh. What is…
What is you name?”
Soldato: “Pardon?”
Noqreh: “What is you name?”
Soldato: “Gerom.”
Noqreh: “What?”
Soldato: “Gerom.”
Noqreh: “Gerom. Yes…I’m from Afghanistan. Where are you…Where
are…Where are you from?”
Soldato: “I came from France.”
Noqreh: “France…What is president…What is president…president’s
name?”
Soldato: “Pardon?”
Noqreh: “Come si…yes, president’s name.”
Soldato: “My president’s name?”
Noqreh: “Appunto, yes.”
Soldato: “My president name is Mr. Chirac.”
Noqreh: “What?”
Soldato: “Mr. Chirac.”
Noqreh: “Mr. Chirac. Thank you.”
(arriva il poeta in sella alla sua bicicletta)
Soldato: “Stop! What do you want?”
Poeta: “Hi. I am her friend.”
Solado: “Go back!”
Noqreh: “Mi aiuti per favore? Gli volevo chiedere qualcosa sul suo pres-
idente.”
Poeta: “Can I be her translator?”
Soldato: “Please.”
Noqreh: “Gli potresti domandare quali parole ha usato il presidente nei

29
Si ricordi che nessun attore è professionista, neppure il soldato. A tal proposito,
durante l’intervista rilasciata a Sally Vincent, la regista dichiara di aver incontrato il soldato
per caso, averci scambiato qualche parola e avergli chiesto di recitare nel film. In più
Samira Makhmalbaf afferma: «Non ho pianificato di mostrarlo come un ignorante. Non
sapevo che non sarebbe stato in grado di rispondere alle domande. Volevo semplicemente
che fosse se stesso, e lui fu molto felice di questo». Testo originale: «I did not plan to show
him as ignorant. I didn’t know he wouldn’t be able to answer the questions. I wanted him
to just be himself and he was happy with that». Cfr. S. Vincent, Beyond the words, cit.
198  Ù Le verità del velo

comizi elettorali per convincere gli elettori che dovevano votare per lui?”
Poeta: “What was your president lecture which made him president?”
Soldato: “I don’t know.”
Poeta: “Capito? Dice che non lo sa.”
Noqreh: “Non lo sa? Allora domandagli se sa per quale ragione il popolo
del suo paese ha deciso di eleggere questo presidente.”
Poeta: “So why did you vote for him?”
Soldato: “I can’t say that. I’m a soldier. I don’t interfere in politics.”
Noqreh: “Che cos’ha detto?”
Poeta: “Che non ti può rispondere. Un soldato non si occupa di politica.
Ma se vuoi la risposta alla tua domanda la so io. Ai francesi non piaceva
il candidato rivale di Chirac e sono stati costretti a scegliere lui.”

È chiaro come questo dialogo metta a nudo ciò che viene velato
dal discorso reificante delle istituzioni e che invece emerge all’inter-
no dell’“intimità culturale” francese: nella quotidianità i significati
sono costantemente rielaborati e negoziati dagli individui, per cui
anche la forma di governo democratica (che dalla Francia è dipinta
come espressione “naturale” dell’esprit nazionale) può tradursi nella
vittoria di un candidato scelto non per convinzione, ma per avversio-
ne nei confronti del suo rivale.
Inoltre anche gli ideali (come la religione) possono essere usati
in modo situazionale. Samira Makhmalbaf critica aspramente le per-
sone che «vengono con le loro pistole in un paese per portare la de-
mocrazia, e quando gli chiedi di descrivere la democrazia, non sono
in grado di farlo».30
Ad ogni modo la regista non disapprova la Francia in particolare,
ma tutti coloro che considerano la forma di governo democratica
non come un processo, ma come merce da esportazione. In questo
senso è il sistema occidentale nella sua interezza ad essere chiamato in
causa. Infatti un’altra delle tecniche ricorrenti nei film di Makhmal-
baf è l’utilizzo di figure stereotipiche del “benessere occidentale” (il
progresso, l’uguaglianza, le pari opportunità) mediante l’addizione,
alla rappresentazione convenzionale di tali prototipi, di una venatura
oscura che fende la visione coerente e senza macchia dell’auto-rap-
presentazione occidentale. Così facendo gli specchi attraverso i quali
l’occidente riflette se stesso vengono incrinati e compaiono, nell’im-
magine che ne risulta, le distorsioni del quotidiano.
Volendo addurre un esempio: nel cortometraggio God, construction
and distruction, parte del film 11 settembre 2001, una classe di bambini
afghani rifugiati in Iran viene esortata dalla maestra a osservare un
minuto di silenzio per i morti delle torri gemelle. Poiché i bambini
non si rendono conto di cosa possa essere un grattacielo, la maestra
li porta sotto una ciminiera e commemora in quel luogo le vittime

30
Testo originale: «These people come with their guns to a country to bring
democracy, and when you ask them to describe what democracy is, they don’t know».
Cfr. ibidem.
Introduzione
Claudia Porretto · Il velo risonante Ù  199

dell’attentato. Ora, la ciminiera utilizzata come memoriale è un sim-


bolo estremamente ambiguo: se da un lato rappresenta l’industria e
quindi il progresso, dall’altro rassomiglia a una grande torre nera,
minacciosa e tetra che non ha niente a che vedere con la patina scin-
tillante dei grattacieli americani. È come se gli Stati Uniti venissero
mostrati per quello che sono: nazione del progresso per antonoma-
sia, ma con lati tenebrosi; paese al quale non si nega una commemo-
razione che, tuttavia, una volta esaminate le parti oscure proprie a
ogni stato euro-occidentale, appare superflua.
Tornando al film, ho avuto modo di riscontrare almeno tre spec-
chi incrinati: quello dell’uguaglianza, quello delle pari opportunità e
quello della democrazia.

4.1 Lo specchio dell’uguaglianza

Si è già interpretata la scena in cui il fotografo ritrae Noqreh con il


burqa abbassato come manifestazione della funzione omologante del
capo d’abbigliamento che rende le donne tutte uguali nel loro essere
contrapposte all’alterità maschile inequivocabilmente superiore.
Tuttavia esistono almeno altre due interpretazioni di questa scena.
La prima consiste nel considerare la macchina fotografica sim-
bolo del progresso tecnologico occidentale e, quindi, per metoni-
mia, dell’occidente tutto. Noqreh, dunque, non rappresenterebbe
più il genere femminile, ma il genere umano non-occidentale nel
suo insieme omologato dall’ottica occidentale “the West and the
rest”. La prospettiva omogeneizzante di questa concezione consiste
infatti nel ridurre gli altri, variopinto e caleidoscopico insieme di
individui e popolazioni, all’Altro caratterizzato per la maggior parte
delle volte in negativo.
La seconda parafrasi della scena sopra menzionata potrebbe in-
vece collegarsi al motivo per cui Noqreh si sta fotografando: la sua
campagna elettorale. Il burqa potrebbe allora essere una critica alla
realizzazione (occidentale) della democrazia che rende i candidati
alle cariche governative tutti uguali e anonimi, tanto che basta una
preferenza dettata dalla simpatia o dall’antipatia per determinale la
vittoria di uno e la sconfitta dell’altro. Del resto questa spiegazione
risulta essere anche coerente con la fine del dialogo della scena appe-
na precedente: nel momento in cui il soldato francese è incapace di
rispondere alla domanda «Perché i francesi hanno votato Chirac?», il
poeta suggerisce che lo hanno votato non perché convinti che avreb-
be amministrato la repubblica meglio del suo avversario, ma perché
quest’ultimo non gli piaceva.

4.2 Lo specchio delle pari opportunità

Nel terzo paragrafo ho asserito che, in Alle cinque della sera, il di-
scorso sulle pari opportunità si basa sull’accesso delle donne all’i-
200  Ù Le verità del velo

struzione e si motiva con la loro diversità nella funzione generatrice


(donna = madre) e con una loro possibile implicazione in campi di
tipo assistenziale.
Ho altresì riscontrato una somiglianza tra questo discorso e quelli
proposti da coloro i quali sostenevano la causa del diritto al suffragio
femminile in Italia e in Inghilterra. In merito a ciò Françoise Héritier
critica quanti riducono la specificità femminile alla funzione femmi-
nile: anche gli uomini sono biologicamente e socialmente padri, ep-
pure il loro accesso alla politica è fondato sul loro essere (individui),
non sulla loro funzione biologica (generare).31
È proprio in relazione a questa differenza che, sempre secondo
Héritier, è possibile spiegare il ritardo con cui in Francia è stato ri-
conosciuto il diritto di voto alle donne:32 se in Inghilterra e in Italia
il diritto al voto è motivato dalla differenza, in Francia è proprio
questo elemento che rende l’accesso delle donne alle urne incon-
ciliabile con la teoria su cui si fonda la Repubblica. Il motto della
Repubblica francese infatti è Liberté, Égalité, Fraternité: è dunque pre-
cisamente in nome della diversità che alle donne è negato il voto in
quanto non-individui politici (alterità rispetto agli uomini e dunque
“non eguali”), esseri segnati dai “condizionamenti del loro sesso”.33
La funzione generatrice della donna ritorna spesso nel film di Sa-
mira Makhmalbaf: Minà dice che come Presidente si sarebbe com-
portata “come una madre affettuosa si comporta con i suoi figli”;
dopo che il fotografo esprime la sua contrarietà all’entrata delle don-
ne in politica Noqreh gli risponde: «Meno male che delle donne vi
hanno partorito, altrimenti direste che non sappiamo fare nemmeno
questo». Poiché la condizione di madre è l’unica funzionalità che
viene riconosciuta alla donna, l’unico apporto che essa può dare alla
società, allora le donne motivano le loro rivendicazioni in base a que-
sta funzione. Così facendo, però, rafforzano il legame già consolidato
tra figura femminile e funzione materna.
È molto interessante analizzare l’opposizione binaria moglie-ma-
dre/prostituta. Tale dicotomia è stata utilizzata in Italia proprio da chi
disprezzava le suffragiste: Giuseppe Cimbali,34 ad esempio, afferma che
«in Europa, oltre che da certi uomini, le nuove idee dell’emancipazio-

31
Cfr. F. Héritier, Maschile e femminile, cit., pp. 193-204.
32
Il diritto di voto alle donne in Francia è stato riconosciuto nel 1944: 26 anni dopo
rispetto all’Inghilterra, 23 rispetto all’India e 10 rispetto alla Turchia; ma 2 anni prima
rispetto all’Italia.
33
Cfr. F. Héritier, Le donne sono individui?, in Ead., Maschile e femminile, cit., pp.
195-196. Notiamo come anche in questo caso, parimenti rispetto al discorso reificante
dello Stato-Nazione, costruzione politica (cultura) e dato fisiologico (biologia) vengano
accostati creando un gioco metaforico volto alla legittimazione di un determinato
discorso: se le donne sono naturalmente diverse sul piano biologico, allora è naturale
che ad esse venga negato un diritto detenuto dagli uomini.
34
Giuseppe Cimbali (1858-1924) giurista, altro funzionario del Ministero dei
Lavori pubblici, scrittore e filosofo, insegnò Filosofia del diritto all’Università di Roma
“La Sapienza”.
Introduzione
Claudia Porretto · Il velo risonante Ù  201

ne muliebre sono propugnate da certe donne spiritate ed epilettiche,


per lo più pessime mogli prima diventate poscia bagascie emerite».35
Sempre la dicotomia moglie-madre versus prostituta ritorna anche
nel film dato che gli unici tre manifesti che si vedono affissi duran-
te le riprese sono uno l’ingrandimento di una fotografia di Minà (il
giorno della commemorazione della sua morte) e gli altri due po-
ster di una donna-oggetto afghana (un’avvenente donna mora mol-
to truccata, vestita all’occidentale e, in uno dei due poster, con una
blusa leopardata).
Il fatto che la donna-oggetto sia vestita all’occidentale la dice lun-
ga: è come se il corpo della donna afghana fosse un corpo velato e
privato (sia nel senso di proprietà privata dell’uomo che la possie-
de, che nel senso di privato dei diritti fondamentali), il corpo della
donna occidentale, invece, è corpo di donna-oggetto, corpo svelato
e pubblico (anche nel senso di res-publica, non a caso l’effige della
Repubblica è sempre una donna).
Tuttavia un modo per non rientrare nella casella negativa del bi-
nomio la donna occidentale lo ha: essere inclusa nella casella posi-
tiva. Il corpo della donna occidentale moglie-madre non rischia di
divenire corpo pubblico e d’altronde la storia ci dimostra che sono
stati oggetto di maggior controllo sociale proprio quei corpi di donna
non “normalizzati” attraverso il matrimonio e la maternità. Si pren-
dano come esempio le procedure di schedatura delle prostitute nelle
case chiuse, abolite solo sul finire degli anni Cinquanta, o le leggi
sull’aborto continuamente rimesse in discussione. Oppure si rifletta
sull’atteggiamento di quelle “showgirl” italiane alle quali non sono
attribuibili notevoli attitudini (a meno che non si consideri attitudine
l’esibizione del proprio corpo) che, quando vengono interrogate sui
loro progetti futuri, replicano di volere dei figli. Tale risposta è un’ot-
tima cartina tornasole del sentire comune: è come se per riscattarsi
dalla condizione di donna-oggetto e non sconfinare nella prostituzio-
ne (si ricordi il caso di “vallettopoli”) la redenzione passasse attraver-
so il matrimonio e, soprattutto, la maternità.36

4.3 Lo specchio della democrazia

Ciò che incrina lo specchio della democrazia occidentale sono le


rovine: elemento onnipresente nel film, costituiscono il punto di rot-
tura materiale della logica secondo la quale la democrazia può essere
impiantata militarmente ovunque.

35
Giuseppe Cimbali, cit. in G. Galeotti, Storia del voto alle donne in Italia, cit., p. 69.
36
Purtroppo non è stato possibile approfondire oltre il tema della condizione della
donna occidentale, le osservazioni riportare sono frutto di deduzioni elementari che
andrebbero approfondite e passate al setaccio di un’analisi con un livello di scientificità
maggiore. Tuttavia, per una lettura divulgativa ma affidabile, si rimanda al libro di L.
Lipperini, Ancora dalla parte delle bambine, Feltrinelli, Milano 2007.
202  Ù Le verità del velo

Nel film è possibile scorgere sia rovine di edifici antichi e moder-


ni, sia “rovine” di persone: esseri umani in preda alla disperazione,
con notevoli problemi di sostentamento, costretti a vivere tra le mace-
rie di vecchie case e antichi palazzi o tra le lamiere di aeroplani pre-
cipitati. Noqreh si imbatte in molte di queste persone (lei per prima
è una di loro) e a chiunque incontri chiede chi sia il Presidente della
Repubblica nel suo paese di provenienza, ma nessuno sa risponder-
le. Ciò nonostante dalle scene non è mai desumibile un’accusa di
ignoranza da parte della regista: è chiaro che il motivo per cui tali
individui non si interessano alla politica è che devono occuparsi in-
nanzitutto della loro sussistenza.
In un’intervista rilasciata a Dominique Borde per «Le Figaro» del
17 maggio 2003, Samira Makhmalbaf afferma che il suo film possie-
de un intimo legame con Viaggio a Kandahar (diretto da suo padre):
quest’ultimo denuncia le aberrazioni di un regime totalitario e setta-
rio, Alle cinque della sera, invece, denuncia il caos di una liberazione
precoce; «in entrambi i casi, ci sono sempre uomini dimenticati che
non capiscono».37
Sicuramente, nel film, sono “uomini dimenticati che non capisco-
no” le persone disperate che non hanno tempo di pensare alla poli-
tica delle quali si è appena detto, ma sono anche i talebani. Un’in-
crinatura particolarmente potente è infatti la prospettiva relativista
attraverso la quale vengono visti questi ultimi.
È la stessa Samira Makhmalbaf, nell’intervista rilasciata a Geoffrey
Macnab per «The Guardian» del 19 maggio 2003, ad affermare che il
suo film «rifiuta di demonizzare i fondamentalisti religiosi che hanno
reso le donne praticamente invisibili in Afghanistan. Al contrario, si
sforza di capirli».38
Il padre di Noqreh ne è l’esempio più eclatante: fervente devo-
to musulmano, come talebano suscita più tenerezza che paura. In
una scena, ad esempio, si spoglia del turbante per lasciare che sua
nuora lo utilizzi come panno per asciugare il figlioletto neonato; in
un altro momento lo si vede “proteggere” la nuora non dicendole
che suo marito è morto e sopportando da solo il dolore per la scom-
parsa del figlio. Anche i dialoghi con il cavallo, seppur incorniciati
dalla consapevolezza di rivolgersi a un essere inferiore (è ricorrente
l’affermazione «ma tu sei un cavallo, cosa ne capisci»), costituiscono
comunque il principio di una relazione esplicitata in particolar modo
nella scena in cui l’uomo, confidando al cavallo il dolore provato per
la morte del figlio, esclama:

37
Testo originale: «dans le deux cas, il y a toujours des hommes oubliés qui ne
comprennent pas», in D. Borde, Le fantôme de la liberté, cit.
38
Testo originale: «refuses to demonise the religious fundamentalists who rendered
women almost invisible in Afghanistan. Instead, it strives to understand them», in G.
Macnab, A woman’s place, cit.
Introduzione
Claudia Porretto · Il velo risonante Ù  203

Ah mio mansueto Bashir, ti ho condotto fin qui per aprirti il mio cuo-
re. Tu non capisci cos’ho passato. Non so più nemmeno sospirare. Ora
che devo nascondere a mia nuora che suo marito è morto, suo figlio
adesso è orfano. La tua mente non arriva a tanto, perché tu non co-
nosci che la biada. Nell’ora in cui morì la tua compagna anche tu so-
spirasti. Come hai fatto? Non affliggerti oltre dal dolore, da un dolore
immenso. Non essere più in grado nemmeno di sospirare. Tuttavia,
anche sospirare dà gran pena. C’è una cosa che non mi spiego, come
lo capisti quando morì la tua compagna?

Questa confessione implica non solo un primo passo verso il rap-


portarsi con un essere considerato inferiore, ma anche un esordio di
dubbio della non-logicità di quest’ultimo.

5. Oltre gli specchi

La prospettiva relativista che il film propone nella rappresentazio-


ne dei talebani è un ulteriore elemento che comunica l’inefficacia
dell’opposizione Bene/Male che abbiamo affrontato descrivendo una
delle funzioni simboliche del burqa. In quell’occasione ho altresì evi-
denziato che il tema dell’ineliminabilità della sofferenza dalla vita degli
individui è comunicato anche dall’accostamento di immagini belle e
immagini terribili e dalla corrispondenza tra prima e ultima scena che
conferiscono all’intera opera un senso di circolarità. Le stesse rovine,
che abbiamo incontrato nel paragrafo precedente, benché simbolo di
distruzione, conferiscono alla fotografia un notevole valore estetico.
Il rifiuto del binomio Bene/Male è dunque centrale nel film e, se
guardato attraverso la luce degli elementi sottolineati fin’ora, assu-
me una portata ancora più ampia: è il sistema dicotomico nella sua
interezza ad essere criticato. Quello stesso sistema che vede contrap-
posizioni come bello/brutto, buono/cattivo, felicità/tristezza, occi-
dente/oriente, uomo/donna.
Nella scena immediatamente successiva alla commemorazione
della morte di Minà, la protagonista cammina in uno degli oscuri cor-
ridoi del palazzo che la sua famiglia ha scelto come casa provvisoria.
Si dirige verso la luce, fa tre passi e si ferma, alza il burqa scoprendosi
il volto, si toglie le ballerine nere, le scansa con un calcio e indossa
le scarpe bianche con il tacco. Fa qualche altro passo, batte i piedi a
terra, toglie le scarpe bianche con il tacco e, sempre con un calcio,
le getta dalla parte opposta rispetto alle ballerine nere rimanendo
scalza. La scena appena descritta è emblematica del rifiuto delle di-
cotomie da parte della regista: Noqreh respinge sia le scarpe che rap-
presentano la tradizione, che quelle che rappresentano l’occidente,
nessuna delle due caselle la soddisfa perché è il sistema oppositivo in
sé ad essere sbagliato. La realtà è troppo complessa per essere incasel-
lata in opposizioni autoescludentesi.
Tale potente critica è esplicitata anche dalla morte di Minà: è chia-
ro che la ragazza, mentre si avvicina al carretto di un venditore am-
204  Ù Le verità del velo

bulante, viene uccisa da un’esplosione. Tuttavia vi è molta ambiguità


sull’origine di quest’ultima: non è dato di sapere se l’esplosione avvie-
ne vicino al carretto o è il carretto stesso a esplodere, come non si af-
ferra se ci si trova in presenza di un attentato (e in tal caso, compiuto
da chi?) o di una mina inesplosa. Anche in questo caso, nella manca-
ta ricerca di un “colpevole” appartenente all’una o all’altra fazione, è
osservabile il rifiuto delle dicotomie: le colpe non sono importanti, è
la logica della violenza in sé ad essere denunciata.
Claudia Mattalucci
Modernità e politiche dell’abbigliamento femminile in Turchia

Questo capitolo tratta della questione del velo in Turchia. È stato


scritto nel 2009, quando il progetto di questo libro ha preso forma.
L’occasione che mi aveva portata a riflettere su questo argomento
erano le mobilizzazioni cui avevo assistito ad Ankara in risposta alla
modifica della costituzione votata dal parlamento turco nel febbraio
2008, che avrebbe dovuto consentire alle studentesse universitarie
velate di accedere all’università. All’inizio di giugno, la decisione
parlamentare fu annullata da una sentenza della corte costituziona-
le che ne stabiliva l’incompatibilità con il laicismo ufficiale.1 Que-
sti eventi erano parte di un processo di lunga durata e carico di
tensioni, che in Turchia ha messo a confronto idee contrapposte
di modernità, di diritti, di educazione e di genere per quasi un se-
colo. Dalla fine dell’impero ottomano intellettuali e leader politici
di diverso orientamento ideologico hanno definito la femminilità
e normalizzato l’abbigliamento, per lo più senza dare la parola alle
donne. Nel testo mettevo in prospettiva gli eventi del 2008 collocan-
doli nella lunga durata delle controversie intorno al velo che ave-
vano avuto luogo dai tempi delle riforme e della costituzione della
repubblica turca sino ad allora, evidenziando i significati identitari
e politici, oltre che religiosi, che questo capo di abbigliamento ha
assunto nella storia del paese. Negli anni che sono seguiti alla pri-
ma stesura di questo testo, la Turchia ha conosciuto trasformazioni
importanti legate, oltre che ai cambiamenti negli equilibri politici
globali, alla svolta autoritaria del partito al governo (AKP, il Partito

1
In Turchia, il laicismo (lâiklik) più che alla separazione tra religione e stato, si
riferisce al controllo da parte dello stato delle istituzioni e delle pratiche religiose. Cfr.
N. Berkez, The Development of Secularism in Turkey, Hurst & Co, London 1998.
206  Ù Le verità del velo

della giustizia e dello sviluppo) e in particolare del suo primo mini-


stro, Recep Tayyip Erdoğan. Le politiche neo-liberiste e gli interventi
di islamizzazione dello spazio pubblico e della società portati avanti
da AKP e la reazione alle forme di protesta che hanno suscitato,
hanno rivelato un aspetto della sua agenda politica che getta una
luce diversa sui provvedimenti in difesa della libertà di portare il
velo. Aggiornare il capitolo alla luce di queste trasformazioni, avreb-
be richiesto un ulteriore sviluppo di un testo già lungo in cui la
storia della questione del velo in Turchia dialogava con le osserva-
zioni e le testimonianze che avevo raccolto ad Ankara e ad Istanbul
durante il mio soggiorno di ricerca. Nel rivedere il capitolo in vista
della pubblicazione ho deciso di preservare la ricostruzione storica,
eliminare i riferimenti a un’attualità ormai temporalmente lontana
e inserire alcuni brevi riferimenti a quanto accaduto da allora.2 La
descrizione che presento si basa su un corpus di testi che raccoglie
lavori storici sulla Turchia (in particolare, sulla storia delle donne)
e studi dedicati all’abbigliamento, ai consumi e alla politica. Il qua-
dro costruito a partire da queste letture fornisce degli elementi di
riflessione sui significati del velo, sulle relazioni tra genere e idee di
modernità e sull’interdipendenza tra discorsi locali e rappresenta-
zioni globali del corpo femminile.
Prima di addentrarci nella storia della relazione tra modernità e
politiche dell’abbigliamento in Turchia, è necessaria una precisazio-
ne terminologica. Nelle lingue occidentali il termine velo è dotato
di una notevole estensione semantica e si applica a indumenti di
diversa foggia e significato come il foulard, che lascia scoperto il viso;
il velo vero e proprio, che copre il viso lasciando scoperti gli occhi;
per arrivare alle burqua, indossate in Pakistan e in Afghanistan.3 In
turco esistono molti termini che vengono abitualmente tradotti con
velo.4 Il termine tesettür indica genericamente l’obbligo di coprirsi ed
evitare lo sguardo maschile prescritto alle donne dall’islam. Çarşaf,
letteralmente lenzuolo, designa un ampio indumento, solitamente
nero, indossato fuori di casa, che copre completamente il corpo la-
sciando scoperti solo il volto o gli occhi.5 Il termine başörtü viene

2
Ringrazio Lorenzo D’Orsi per i preziosi commenti sulla versione che questo testo
ha assunto. Il capitolo è stato ultimato all’inizio del 2016. Non rende conseguentemente
conto dei successivi e preoccupanti sviluppi della politica di Erdoğan.
3
Per una discussione del velo come “nodo” mediorientale si veda U. Fabietti, Cul-
ture in bilico. Antropologia del Medio Oriente, Paravia Bruno Mondadori, Milano 2002, pp.
139-166.
4
Come ricordano Nancy Lindisfarne-Trapper e Bruce Ingham, l’analisi dell’abbi-
gliamento come linguaggio richiede che si presti attenzione ai termini locali impiegati
per designare i capi di vestiario. Cfr. N. Lindisfarne-Tapper, B. Ingham, Approaches to the
study of Dress in the Middle east, in Idd. (a cura di), Languages of Dress in The Middle East,
Curzon, London 1997, pp. 1-39.
5
In Turchia il çarşaf è utilizzato da una minoranza di donne. Secondo un’inchie-
sta effettuata nel 2007 su commissione del gruppo editoriale Doğan, era utilizzato
dall’1.3% della popolazione femminile. Secondo la stessa inchiesta il 30.6% non si co-
Claudia Mattalucci ∙ Modernità e Introduzione
politiche dell’abbigliamento femminile in Turchia Ù  207

impiegato per indicare un foulard di circa un metro per un metro


che può essere indossato in modo da coprire il capo e le spalle in ma-
niera più o meno rigorosa. La parola türban, dal francese turban, è,
come vedremo, di più recente adozione. Inizialmente introdotto per
designare un foulard alla moda, che doveva essere annodato dietro
la nuca in modo da coprire i capelli ma non il collo, è oggi general-
mente impiegato da una parte della società per designare il nuovo
foulard islamico. Portato sui capelli raccolti e protetti da una guaina,
il türban è generalmente avvolto intorno al collo in modo da lasciare
scoperto soltanto il volto ed è fermato dietro alla nuca con l’ausilio
di spilli. Sia i laicisti che gli islamisti6 e le ragazze che lo indossano,
riconoscono le specificità di questo modo di coprirsi. Per i primi, a
differenza del foulard leggero che le donne nelle campagne indos-
sano “per proteggersi dal sole”, del foulard che portavano le donne
delle generazioni passate e che le donne non istruite continuano a
indossare “per tradizione”, il türban è un simbolo politico associato
a un progetto di società islamica dal quale si sentono minacciati.
Per i secondi, invece, il foulard, che non distinguono terminologica-
mente da quello delle generazioni passate (başörtü) ma che le don-
ne indossano diversamente, è segno di una devozione all’islam più
autentica, profonda e consapevole rispetto a quella delle donne che
si coprono in modo “tradizionale”, spesso senza aver cura di nascon-
dere completamente i capelli e il collo.7

1. La Turchia si toglie il velo 8

È noto che nella Turchia degli anni Venti Mustafa Kemal


Atatürk, fondatore e primo presidente della Repubblica turca,
scoraggiò apertamente l’uso del velo islamico9 che considerava un

priva, il 51.9% usava un foulard (başörtü) e il 16.2% indossava il türban. Secondo il rap-
porto la distribuzione varia considerevolmente in relazione all’età e al livello di istru-
zione. Cfr. Religion, Secularism and the Veil in Daily Life Survey, URL: <http://www.konda.
com.tr/> (12/16).
6
La letteratura sulla Turchia, generalmente, utilizza l’aggettivo “musulmano” per
esprimere l’identità religiosa; l’aggettivo “islamista” viene invece impiegato in riferi-
mento a movimenti sociali o partiti per i quali l’identità musulmana rappresenta la base
di un progetto sociale e politico altro rispetto al laicismo ufficiale. “Laicista”, di contro,
si riferisce a una posizione, ugualmente militante, opposta al progetto islamista.
7
Questo modo di coprirsi viene anche designato come yarım tesettür, ovvero mezzo
tesettür.
8
Riprendo qui il titolo di un saggio di Franz Fanon sull’Algeria coloniale che resta
una delle critiche più lucide alle battaglie contro il velo condotte nel secolo scorso. Cfr.
F. Fanon, L’Algeria si toglie il velo, in Fanon 1. Opere scelte, a cura di Giovanni Pirelli, Einau-
di, Torino 1971 (ed. orig. 1959), pp. 149-177.
9
Mustafa Kemal non arrivò a interdire formalmente il velo come fece nel 1925 con il
fez. Sull’abolizione del fez si veda C. Mattalucci, “Ecco il nostro cappello”. Rivestire la Turchia
moderna, in S. Botta (a cura di), Abiti, corpi, identità. Atti del convegno “L’abito sì che lo fa il
monaco”, Società Editrice Fiorentina, Firenze 2009, pp. 335-358. L’uso del velo fu scorag-
giato dal governo ma, per evitare insurrezioni, non fu mai vietato; il velo che copriva
208  Ù Le verità del velo

segno di arretratezza e di “barbarie”: il velo (çarşaf) era insieme sim-


bolo e strumento della condizione denigrante e dell’oppressione che
gravava sulle donne nella società ottomana. Per Atatürk lo svelamen-
to delle donne e la loro partecipazione attiva alla vita sociale erano
condizioni necessarie al progresso della nazione.
In realtà in Turchia i dibattiti sulla condizione delle donne e
sull’uso del velo incominciarono ben prima dell’ascesa al potere
di Mustafa Kemal. Come ha osservato Nilüfer Göle “a partire dalle
Tanzimat,10 i tentativi di definire i criteri dell’occidentalizzazione si
cristallizzano intorno alle prescrizioni imposte alle donne e ai limiti
della promiscuità”.11 Le posizioni assunte dai gruppi al governo, ri-
spettivamente, nel periodo delle Tanzimat e nel II periodo costituzio-
nale (1908-1919) furono, tuttavia, significativamente differenti.12 Nel
XIX secolo, infatti, l’élite progressista utilizzò il “problema della don-
na” per esprimere la propria insoddisfazione per le rigide convenzio-
ni che regolavano la società ottomana. La difesa dell’emancipazione
femminile assunse spesso toni sentimentali e moralistici, e coloro che
si pronunciavano a favore di un miglioramento della condizione del-
le donne condannavano ugualmente la decadenza morale causata
dall’influenza occidentale. Nel II periodo costituzionale, invece, tra i
membri dell’élite emersero spaccature nuove e più profonde rispetto
al passato. Le tre ideologie che si affermarono in questi anni di guer-
re13 e grandi trasformazioni furono l’occidentalismo, l’islamismo e
il turchismo.14 Gli intellettuali occidentalisti ritenevano che la civiltà

il volto venne tuttavia proibito da alcune autorità locali. Cfr. O. Lewis, The Emergence of
Modern Turkey, Oxford University Press, New York-Oxford 2002 (I ed. 1961), p. 271, n. 62.
10
Tanzimat, letteralmente “riforme”, designa il periodo della storia turca inaugu-
rato dall’editto di Gülhane (1839). Le riforme introdotte in quest’epoca riguardarono
l’esercito, la leva, la burocrazia, l’esazione delle tasse, il sistema giuridico, l’educazione.
Nel 1876 fu inoltre emanata la prima costituzione. Tali cambiamenti miravano a mo-
dernizzare l’impero migliorandone l’amministrazione e il funzionamento ma dipesero
ugualmente dalle pressioni delle potenze europee. Cfr. O. Lewis, The Emergence of Mod-
ern Turkey, cit., pp. 74-129; E. Zürcher, Turkey. A Modern History, I.B. Tauris, London-New
York 2004, (I ed. 1997), p. 50-70.
11
N. Göle, Musulmanes et modernes. Voile et civilisation en Turquie, La Découverte, Paris
1993 (ed. orig. 1991), p. 21. Nora Şeni ha analizzato i dibattiti sull’abbigliamento fem-
minile sulla stampa satirica di Istanbul alla fine del XIX sec. Cfr. N. Şeni, Fashion and
Women’s Clothing in the Satirical Press of Istanbul at the End of the 19th Century, in Ş. Tekeli (a
cura di), Women in Modern Turkish Society, Zed Books, London-New Jersey, 1995 (ed. orig.
1990), pp. 25-45. Sullo stesso tema, per il periodo compreso tra il 1908 e il 1911, si veda
invece P. Brummett, Dressing for the Revolution: Mother, Nation, Citizen and Subversive in the
Ottoman Satirical Press, in Z. Arat (a cura di), Deconstructing Images of “The Turkish Woman”,
Palgrave, New York 2000, pp. 37-63.
12
D. Kandiyoti, End of the Empire: Islam, Nationalism and Women in Turkey, in D. Kandi-
yoti (a cura di), Women, Islam and the State, Macmillan, London 1991, pp. 22-47.
13
La guerra dei Balcani e successivamente la prima guerra mondiale.
14
Niyazi Berkez parla di “scuole di pensiero” e mette in evidenza che le denomina-
zioni oggi comunemente utilizzate per designarle si diffusero in seguito all’affermarsi
dei turchisti i quali, influenzati dai russi che utilizzavano l’espressione “occidentalisti”,
presero a designare i due gruppi avversari occidentalisti ed islamisti. Cfr. N. Berkez, The
Development of Secularism in Turkey, cit., pp. 337-338.
Claudia Mattalucci ∙ Modernità e Introduzione
politiche dell’abbigliamento femminile in Turchia Ù  209

fosse il prodotto dell’affermazione di valori universali, che fosse una


sola e che corrispondesse a quella occidentale. Quest’ultima dove-
va essere assunta come modello per riformare la società ottomana.
Secondo i sostenitori dell’occidentalismo il ritardo dei musulmani
nella marcia verso la civiltà dipendeva dall’influenza dell’islam che
imponeva tradizioni primitive come la poligamia, l’uso del velo, la
segregazione delle donne nello spazio domestico, la loro riduzione
a strumento di piacere o mezzo di riproduzione. Affinché la società
progredisse era necessario che le donne uscissero dallo spazio chiu-
so della casa (mahrem), che ricevessero un’educazione e ottenessero
diritti politici. L’abbandono del velo islamico era necessario all’e-
mancipazione delle donne.15 Di contro, i sostenitori dell’islamismo
ritenevano che la salvezza della comunità dipendesse dalla purezza
femminile e dal rispetto delle prescrizioni religiose: la promiscuità,
l’abbandono del velo, il fatto che le donne si comportassero come
le occidentali rappresentavano una minaccia per la società ottoma-
na, che soltanto l’islam avrebbe potuto proteggere dalla decadenza
morale imperante in occidente. La şeriat (legge islamica) prescriveva
l’uso del velo per impedire l’insorgere di desideri sessuali, causa di
disordine (fitne) nella società. Autorizzava inoltre la poligamia, con-
forme alla “legge naturale” e agli interessi della famiglia, e accordava
agli uomini il diritto di ripudiare le loro mogli.
A differenza dagli occidentalisti e dagli islamisti, i sostenitori dell’i-
deologia turchista si prefiggevano di modernizzare la società salva-
guardando la cultura turca; anche in questo caso il corpo delle donne
e il loro ruolo nella vita sociale assunsero un’importanza cruciale. Il
turchismo ebbe come suo maggiore ideologo Ziya Gökalp,16 il quale
riteneva che la civiltà andasse perseguita salvaguardando la cultura
turca delle origini.17 Questa, nel corso della storia, era stata offusca-
ta dall’influenza dell’islam, della cultura bizantina, di quella araba e
di quella persiana. Fonte della cultura nazionale a venire, il passato
preislamico era caratterizzato da un “femminismo” che affondava le
sue radici nel sistema religioso dei popoli turchi.18 Nella società prei-

15
N. Göle, Musulmanes et modernes, cit., p. 28.
16
Ziya Gökalp (1876-1924) è riconosciuto come il primo sociologo turco; i suoi lavo-
ri s’ispirarono alle analisi di Emile Durkheim. Fu ugualmente attivo sulla scena politica
divenendo una delle figure chiave del CUP (Comitato Unione e Progresso). Prendendo
le distanze dai progetti di modernizzazione ispirati al modello europeo, Gökalp so-
stenne che occorreva guardare al passato della nazione e rivitalizzarlo. Sebbene morì
soltanto un anno dopo la nascita della repubblica turca, ma il suo pensiero esercitò
un’influenza profonda sul kemalismo. Cfr. Z. Gökalp, Turkish Nationalism and Western
Civilisation, George Allen and Unwin, London-New York 1959; T. Parla, The Social and
Political Thought of Ziya Gökalp, E.J. Brill, Leiden 1985.
17
Gökalp distinse tra cultura e civiltà. Mentre la cultura era l’elemento autentico di
ogni nazione e, in quanto tale, doveva essere preservata, la civiltà era invece una sola e
derivava dalle tradizioni di differenti gruppi etnici. I turchi avrebbero dovuto, al tempo
stesso, preservare la propria cultura e adottare la civiltà occidentale.
18
Si tratta evidentemente di un passato fantasiosamente ricostruito attraverso l’a-
210  Ù Le verità del velo

slamica, sosteneva Gökalp, le donne esercitavano la magia, avevano


diritti pari a quelli degli uomini, non portavano il velo, erano libere
ed emancipate; come le amazzoni montavano a cavallo, usavano le
armi, potevano essere sovrane o ambasciatrici. La diffusione dell’i-
slam comportò la fine dell’eguaglianza tra i sessi; ma l’influenza della
civiltà occidentale, secondo Gökalp, avrebbe consentito alle donne di
ritornare a godere dell’antica condizione di parità.19
All’interno dei discorsi sulla “questione della donna” che ho sin-
tetizzato, il velo è un simbolo al quale, come abbiamo visto, sono
associati significati di segno opposto. Per gli occidentalisti era uno
strumento di oppressione e segnalava l’esclusione delle donne dalla
vita pubblica; per gli islamisti, al contrario, il velo era una barriera
contro il desiderio maschile che consentiva alle donne di muover-
si nello spazio pubblico senza generare disordine, garantendo loro
una forma d’indipendenza. L’abbandono del velo fu caldeggiato sia
dagli occidentalisti sia dai turchisti che, pur sostenendo che le don-
ne dovessero partecipare alla vita pubblica, furono entrambi critici
rispetto all’emulazione delle europee da parte delle donne dell’élite
istanbuliota, accusate dai primi di curarsi solo dell’apparenza e degli
aspetti frivoli della vita sociale e dai secondi di perseguire un grado di
sofisticazione che le allontanava irrimediabilmente dal popolo.
Naturalmente, oltre ad essere oggetto di discorsi costruiti intorno
ai loro corpi e ai luoghi che avrebbero dovuto occupare, le donne
furono soggetti attivi del rinnovamento sociale che caratterizzò il II
periodo costituzionale: alcune di loro, appartenenti alle élite urbane,
studiarono, entrarono nel mondo del lavoro, fondarono associazioni
per la difesa dei loro diritti.20 Vi furono donne che sfidando la pubbli-
ca riprovazione si tolsero il velo o, più frequentemente, lo adattarono
alla moda europea. Tra queste azioni e i discorsi degli uomini che so-
stenevano la necessità dell’emancipazione femminile, tuttavia, restò
uno iato che, come vedremo, ha caratterizzato anche le fasi successive
della storia turca.
Quando alla fine della guerra d’indipendenza venne costituita la
repubblica, le donne furono nuovamente al centro dei discorsi sulla
nazione. La retorica nazionalista, che ebbe in Mustafa Kemal il suo
principale artefice e promotore, esaltava la donna dell’Anatolia, ma-

nalisi di miti, leggende, evidenze archeologiche e antropologiche. Per Gökalp, infatti,


era possibile ritrovare nella cultura popolare le vestigia della cultura degli antichi popo-
li turchi, sopravvissute all’avvento delle civiltà che si erano susseguite.
19
Si veda K.E. Fleming, Women as Preservers of the Past: Ziya Gökalp and Women’s Re-
form, in Z. Arat (a cura di), Deconstructing Images of “The Turkish Woman”, cit., pp. 127-138.
L’emancipazione delle donne, secondo Gökalp doveva investire 1) la vita sociale ed eco-
nomica, 2) l’educazione e 3) il diritto. Fleming attribuisce l’importanza che l’emanci-
pazione delle donne riveste nell’opera di Gökalp al fatto che, per quest’autore, le donne
erano custodi del passato e di quelle tradizioni ideali che occorreva far rinascere.
20
Si veda a questo proposito A. Demirdirek, In Pursuit of the Ottoman Women’s Move-
ment, in Z. Arat (a cura di), Deconstructing Images of “The Turkish Woman”, cit., pp. 65-81.
Claudia Mattalucci ∙ Modernità e Introduzione
politiche dell’abbigliamento femminile in Turchia Ù  211

dre dei soldati che avevano dato la vita per salvare la patria dagli in-
vasori. Forti, virtuose e infaticabili le donne avevano preso parte alla
guerra d’indipendenza trasportando le munizioni, portando cibo ai
soldati, curando i feriti.21 Mustafa Kemal non celebrò soltanto le don-
ne del popolo, fu anche un acceso sostenitore della partecipazione
delle donne alla vita moderna che, come abbiamo visto, era già stata
invocata da occidentalisti e turchisti. A differenza di questi ultimi,
tuttavia, Mustafa Kemal osò adottare misure radicali per circoscrivere
l’influenza dall’islam e sottrarre il diritto e le istituzioni della repub-
blica alla sua influenza.22 Mustafa Kemal voleva che le donne smet-
tessero il velo, avessero accesso all’istruzione (che dal 1928 fu laica
e unificata),23 lavorassero fuori casa e ottenessero il diritto di voto
(cosa che avvenne molto prima che lo stesso diritto fosse accordato
a diverse donne occidentali).24 Si sarebbe allora nuovamente istituita
quell’antica uguaglianza tra i sessi che, come Gökalp aveva sostenuto,
era stata in vigore presso gli antichi popoli nomadi turchi e che ap-
parteneva all’ethos nazionale.
Sono molte le fotografie di questo periodo che ritraggono donne
eleganti, senza veli che partecipano insieme agli uomini alle attività
che contraddistinguono la vita moderna. Sebbene queste donne si-
ano a lungo restate una minoranza, le loro immagini giocarono un
ruolo di primo piano nella strategia politica di Mustafa Kemal: erano
la prova della liberazione dal giogo dell’islam,25 dell’emancipazione
femminile e del progresso dell’intera nazione. La figura della donna
istruita, emancipata, forte, attiva, in compagnia dell’uomo in pubbli-
co come in casa fu assunta come simbolo della Turchia moderna.26 La

21
Le donne del popolo sono un elemento costante delle rappresentazioni artistiche
(scultoree o pitturali) che celebrano la guerra di indipendenza.
22
Il 3 marzo 1923, fu abolito il califfato; il 4 ottobre 1926 fu abolito il codice civile
islamico (Mecelle) e ne venne adottato uno modellato su quello svizzero; il 10 aprile
1928, fu eliminata l’articolo della costituzione che dichiarava l’islam religione di Stato;
infine, il 5 febbraio 1937, il principio di laicità acquisì valore costituzionale.
23
Zehra Arat ha analizzato le politiche educative tra gli anni Venti e gli anni Trenta
mettendo in evidenza che, a dispetto dell’enfasi posta sulla necessità di unificare l’e-
ducazione e formare classi miste, di fatto, soprattutto a livello della scuola secondaria,
furono mantenute differenze significative tra curricula maschili e femminili. Le carriere
scolastiche delle donne che l’autrice ha intervistato mostrano inoltre, sempre a livello
di scuola secondaria e università, una maggiore resistenza da parte delle famiglie al
proseguimento della loro educazione in strutture miste, soprattutto laddove questa ri-
chiedeva il trasferimento in contesti urbani nei quali non vi erano parenti che potessero
assumerne la tutela. Cfr. Z. Arat, Educating the Daughters of the Republic, in Ead. (a cura
di), Deconstructing Images of “The Turkish Woman”, cit., pp. 157-179.
24
In Turchia le donne ottennero il diritto di voto nel corso degli anni Trenta: nel
1930 votarono per le elezioni comunali e nel 1934 per quelle politiche; nel 1937 18 don-
ne furono elette in parlamento. Nessun governo successivo ebbe una rappresentanza
femminile altrettanto cospicua.
25
Dopo la costituzione della Repubblica turca, il laicismo divenne l’ideologia di
stato e le istituzioni e le organizzazioni islamiche vennero progressivamente abolite.
26
Cfr. A. Durakbaşa, Kemalism as Identity Politics in Turkey, in Z. Arat, Deconstructing
Images of “The Turkish Woman”, cit., pp. 139-155. L’autrice afferma che sebbene nel perio-
212  Ù Le verità del velo

“donna nuova” frequentava i giardini, le sale da ballo e i ricevimenti


organizzati dal partito o dalle case del popolo insieme a uomini vestiti
all’occidentale; aveva inoltre accesso alle professioni che tradizional-
mente erano riservate agli uomini. In questi anni vi furono avvocate,
pilote, parlamentari, atlete ecc. la cui esistenza servì a promuovere
la politica kemalista dentro e fuori dal paese, mostrando la piena
realizzazione di uno stato moderno e civilizzato. Tra queste figure
femminili esemplari spiccano alcune figlie adottive di Mustafa Kemal:
Sabiya Gökcen, la prima donna pilota della Turchia che prese parte
all’operazione militare di Dersim-Tunçeli,27 e Afet İnan, studiosa cui
venne affidato il prestigioso compito di scrivere la storia nazionale.28
Come scrive Yesim Arat,

L’immagine di Sabina Gökcen in uniforme dell’aeronautica, sotto gli


occhi rispettosi di spettatori maschi, tra i quali figura il suo orgoglio-
so padre, è incisa nella coscienza collettiva della popolazione urbana e
istruita della Turchia.29

Quest’immagine, che si offriva come modello per le donne del


paese, rappresentava una nuova Turchia liberale, democratica e se-
colare. Afet İnan fu invece membro della Società per la storia turca
(Türk Tarih Kurumu)30 e autrice di numerose pubblicazioni tra cui un
libro sull’emancipazione della donna in Turchia.31
Oltre alle figlie di Mustafa Kemal Atatürk, una delle giovani don-
ne che più efficacemente concorsero a mostrare la vertiginosa tra-
sformazione della nuova Turchia, fu la vincitrice del concorso per il

do kemalista il privato continuasse a essere percepito come prevalentemente femminile,


gli uomini furono investiti di un ruolo più attivo nell’educazione dei bambini, erodendo
il controllo delle donne sulla sfera domestica. A. Durakbaşa, Kemalism as Identity Politics
in Turkey, cit., p. 143.
27
Sulla costruzione della figura di Sabiya Gökcen cfr. A.G. Altınay, The Myth of
the Military Nation: Militarism, Gender, and Education in Turkey, Palgrave Macmillan, New
York, 2005, pp. 33-58. Il 6 febbraio 2004 il giornalista armeno Hrant Dink, assassinato
a Istanbul il 19 febbraio 2007, pubblicò sulla rivista Agos un’intervista alla nipote di Sa-
biha Gökcen, in cui questa affermava, provocando grande indignazione, che lei stessa,
figlia adottiva di Mustafa Kemal, aveva origini armene.
28
Secondo Durakbaşa (Kemalism as Identity Politics in Turkey, cit.), la sua erudizione
derivò in buona misura dall’aver assistito, prendendo appunti, alle riunioni che si te-
nevano periodicamente a Çankaya (il palazzo presidenziale) tra Atatürk, intellettuali
e uomini di governo. Afet İnan fu allieva di Eugène Pittard, professore di antropologia
generale e di preistoria a Ginevra. Da lui apprese i princìpi di craniologia di cui più
tardi si servì per studiare i turchi dell’Anatolia.
29
Y. Arat, The Project of Modernity and Women in Turkey, in S. Bozdoğan, R. Kasaba (a
cura di), Rethinking Modernity and National Identity in Turkey, University of Washington
Press, Seattle-London 1997, pp. 95-112.
30
Istituita nel 1931 per promuovere la ricerca storica sulle civiltà preislamiche
dell’Anatolia, la società fu all’origine delle cosiddette “Tesi sulla storia turca” secondo
cui gli attuali turchi erano i diretti discendenti dei popoli dell’Anatolia i quali, prima di
essere incorporati all’impero e convertiti all’islam, avrebbero dato un contributo essen-
ziale al fiorire delle grandi civiltà dell’Asia minore e della Mesopotamia.
31
A. İnan, The Emancipation of the Turkish Woman, UNESCO, Paris 1962.
Claudia Mattalucci ∙ Modernità e Introduzione
politiche dell’abbigliamento femminile in Turchia Ù  213

titolo di Miss Mondo che si tenne in Belgio nel 1932.32 Keriman Halis
fu presentata dai media occidentali come la nipote di uno seyhülislam
(la massima autorità per l’islam) che osò sfilare in costume da bagno
di fronte ad un pubblico internazionale. Come fa notare Alev Çınar
«Mostrare il corpo di Halis… allo sguardo europeo era un gesto parti-
colarmente significativo perché questo sguardo era considerato come
il supremo arbitro della modernità e dell’occidentalizzazione».33 Era
uno sguardo profondamente imbevuto di orientalismo e si attendeva
che le donne turche fossero tutte coperte dal velo o celate dalle mura
dell’harem.
Benché simbolicamente potenti, le trasformazioni prodotte dal
“femminismo di Stato”34 sul corpo e sulla vita delle donne ebbero
dei limiti, che gli studi femministi35 pubblicati tra la fine degli anni
Ottanta e gli anni Novanta36 hanno reso evidenti. Le riforme a favore
delle donne ebbero, infatti, un carattere strumentale: i loro autori
non si chiesero che cosa volessero le cittadine della nazione, ma ac-

32
Sul ruolo dei concorsi di bellezza nazionali e internazionali nel pubblicizzare la
modernizzazione della nuova Turchia si veda A.H. Shissler, Beauty Is Nothing to Be Ashamed
Of: Beauty Contests As Tools of Women’s Liberation in Early Republican Turkey, in «Comparative
Studies of South Asia Africa and the Middle East», 24, 1 (2004), pp. 109-126.
33
A. Çınar, Modernity, Islam, and Secularism in Turkey. Bodies, Places, and Time, Univer-
sity of Minnesota Press, Minneapolis-London 2005, p. 72.
34
Riferendosi alla colonizzazione inglese dell’Egitto, Leila Ahmed ha parlato di
“femminismo coloniale” per designare la preoccupazione selettiva dei colonizzatori per
l’oppressione delle donne (per liberare le egiziane si accanirono contro il velo, ma non
si applicarono con una determinazione analoga a diffondere la scolarizzazione). Cfr. L.
Ahmed, Women, Gender and Islam, Yale University Press, New Haven 1992. In riferimento
alla Turchia, l’espressione “femminismo di stato” è stata impiegata per designare la
preoccupazione dell’élite al governo di emancipare le donne della nazione utilizzando
una strategia analogamente selettiva.
35
Sulla storia del femminismo (laico) in Turchia si vedano: N. Sirman, Feminism
in Turkey: A Short History, in «New Perspectives on Turkey», 3, 1 (1989), pp. 259-288;
M. Grünell, A. Voeten, State of the Art Feminism in Plural: Women’s Studies in Turkey, in
«European Journal of Women’s Studies», 4 (1997), pp. 219-233. Sul contrasto tra il fem-
minismo derivante dall’adesione all’ideologia kemalista e il femminismo più radicale
emerso negli anni Ottanta per iniziativa delle donne, si veda: Y. Arat, The Project of Mo-
dernity and Women in Turkey, cit. Sul femminismo islamico emerso negli anni Novanta
si veda, infine, Y. Arat, Feminists, Islamists, and Political Change in Turkey, in «Political
Psychology», 19, 1 (1998), pp. 117-131.
36
Si vedano per esempio: Y. Arat, The Patriarchal Paradox: Women Politicians in Tur-
key, Fairleigh Dickinson University Press, Rutherford 1989; D. Kandiyoti, Women and the
Turkish State: Political Actors or Symbolic Pawns, in N. Yuval-Davis, F. Anthias (a cura di),
Women-Nation-State, Macmillan, London 1988, pp. 126-50; D. Kandiyoti, End of the Em-
pire: Islam, Nationalism and Women in Turkey, in Id., Women, Islam ad the State, MacMillan,
London 1991, pp. 22-47; N. Göle, Musulmanes et modernes, cit.; Z. Arat, Turkish Women
and the Republican Reconstruction of Tradition, in F.M. Göçek, S. Balaghi (a cura di), Re-
constructing Gender in the Middle East: Power, Identity, Tradition, Columbia University Press,
New York 1994, pp. 57-81; Ş. Tekeli (a cura di), Women in Modern Turkish Society, cit.; D.
Kandiyoti, Gendering the Modern. On Missing Dimensions in the Study of Turkish Modernity,
in S. Bozdoğan, R. Kasaba (a cura di), Rethinking Modernity and National Identity in Turkey,
cit., pp. 113-132; D. Kandiyoti, Afterword: some awkward questions on women and modernity
in Turkey, in L. Abu-Lughod (a cura di), Remaking women: feminism and modernity in the
Middle East, Princeton University Press, Princeton 1998, pp. 270-287.
214  Ù Le verità del velo

cordarono loro i diritti che reputavano utili per perseguire i propri


obiettivi politici. Così, con l’adozione del codice civile in luogo della
şeriat (1926) inflissero un duro colpo ai loro oppositori islamisti. Con
l’estensione alle donne del diritto di voto (1934) mostrarono la de-
mocraticità di un governo in realtà autoritario. Infine, presentando
il principio dell’uguaglianza tra uomini e donne come eredità degli
antichi popoli turchi, alimentarono il mito nazionalista, prima che
servire la causa delle donne. Progressivamente, alle donne che aveva-
no partecipato alla guerra d’indipendenza e cercato di trovare uno
spazio d’azione tra la leadership della nuova repubblica venne ne-
gata l’autonomia cui aspiravano. Nel 1923, data di fondazione della
repubblica, fu loro negato il permesso di fondare un Partito repub-
blicano della donna. Nel 1935 fu ugualmente chiusa la Federazione
della donna turca. Il governo reputava che le donne avessero ormai
conseguito tutti i diritti e non vi fosse quindi ragione perché mante-
nessero forme autonome di organizzazione.
In realtà a cambiare abbigliamento e stile di vita, ricevere un’e-
ducazione, esercitare una professione o votare fu soltanto un’esigua
minoranza di donne della classe media o medio alta che abitava in
città. Negli anni Trenta, infatti, la popolazione delle campagne resta-
va per lo più apolitica e faceva fatica ad accogliere il nuovo modello
di società proposto (e imposto) dal governo. Per entrare in relazione
con le istituzioni moderne dello stato secolare i contadini doveva-
no ricorrere alla mediazione di leader tribali, proprietari terrieri o
autorità religiose, cosicché la loro dipendenza da coloro che, tradi-
zionalmente, detenevano il potere si accrebbe. La situazione delle
donne era anche peggiore poiché per accedere a questi mediatori
dovevano prima rivolgersi a un uomo della loro famiglia. Anziché
essere emancipate dalle riforme, le donne delle campagne vennero
dunque ulteriormente marginalizzate e rese ancor più dipendenti da-
gli uomini.37 Al contrario, le donne che vivevano in città ed ebbero
accesso all’insegnamento superiore o alle università trovarono impie-
go nella funzione pubblica, che in quegli anni conobbe una rapida
espansione, e conseguirono un certo grado di autonomia. Come fa
notare Şirin Tekeli,38 tuttavia, il principale ruolo assegnato loro dalla
retorica nazionalista continuava ad essere quello di madri. Le riforme
garantirono alle donne un posto nella vita pubblica ma non produs-
sero cambiamenti sostanziali nella sfera domestica, dove la divisione
dei compiti e la sessualità restarono fondamentalmente immutate.
Nella sfera pubblica, inoltre, l’abolizione della separazione tra i sessi
e soprattutto l’abbandono del velo richiesero l’adozione di modelli
comportamentali ed estetici che negavano la sessualità e il potenziale

37
Y. Ertürk, Rural Woman and Modernization in Southeastern Anatolia, in Ş. Tekeli (a
cura di), Women in Modern Turkish Society, cit., pp. 141-152.
38
Ş. Tekeli, The Meaning and Limits of Feminist Ideology in Turkey, in F. Özbay (a cura
di), Women, Family and Social Change in Turkey, UNESCO, Bangkok 1990, pp. 139-159.
Claudia Mattalucci ∙ Modernità e Introduzione
politiche dell’abbigliamento femminile in Turchia Ù  215

disordine di cui era foriera. “Diversamente dal velo —scrive Deniz


Kandiyoti— che nascondendo chi lo indossa, conferma inequivoca-
bilmente la sua femminilità, l’abito severo e la faccia scoperta della
donna nella funzione pubblica può emettere potenti messaggi di non
disponibilità sessuale de-enfatizzando la femminilità e proiettando
[verso gli altri] un’identità ‘neutra’. Così, il controllo della femminili-
tà e della modestia sessuale divennero parte integrante dell’armatura
simbolica della donna ‘moderna’”.39

2. L’emergere della questione del velo

Come abbiamo visto, durante i primi anni di vita della repubblica


molte donne che vivevano in città abbandonarono il velo e furono
incoraggiate dal regime a trovare un impiego nella sfera pubblica.
Nelle campagne, tuttavia, a dispetto degli sforzi per implementare
un sistema educativo ancora frammentato e incoraggiare entrambi i
sessi a frequentare la scuola, le donne continuavano a ricoprire ruoli
tradizionali e a coprirsi il capo. Con la vittoria del Partito democrati-
co (DP) di Celal Bayar alle prime elezioni multipartitiche nel 1950, si
ammorbidì la campagna anti-islamica portata avanti dal partito unico
fondato da Atatürk (CHP).40 Di fatto, tuttavia, il Partito democrati-
co non introdusse cambiamenti sostanziali riguardo alle relazioni di
genere e fu soprattutto dopo il colpo di stato del 1960 che le cose
cominciarono a cambiare.41 La costituzione emanata nel 1961 (che
introduceva alcuni diritti individuali e il diritto al lavoro) inaugurò
una nuova era che fu caratterizzata dall’emergenza di vari gruppi po-
litici. Negli anni che seguirono, videro la luce una destra e una sini-
stra radicale, un movimento islamista organizzato e un movimento
di contestazione curdo.42 Le donne furono reclutate tra le loro fila,
spesso con una funzione ausiliaria.
Per la maggior parte, i membri delle formazioni islamiste proveni-
vano dall’Anatolia, che era rimasta profondamente religiosa e pres-

39
D. Kandiyoti, Gendering the Modern, cit., p. 126.
40
Dopo la morte di Atatürk il malcontento per un regime sempre più reazionario fu
alimentato da una grave crisi economica. Il partito di opposizione vinse così le elezioni
del 1950. Per ottenere consensi il Partito democratico legittimò nuovamente l’islam e i
valori tradizionali.
41
Il 27 maggio 1960, i militari intervennero con un violento colpo di stato in difesa
dei valori kemalisti della laicità, dell’unità e del prestigio dello stato nazione turco.
Dopo aver rovesciato quello di Adnan Menderes, formarono un governo provvisorio.
Il 9 luglio 1961 fu promulgata una nuova Costituzione. Ebbe così inizio l’epoca della
seconda Repubblica.
42
La violenza tra formazioni politiche radicali d’orientamento opposto e gli scontri
tra maggioranza turca e sunnita e minoranze etniche e religiose (in particolare curdi
e aleviti) si intensificarono, sino a che, all’inizio degli anni Settanta, i militari rispose-
ro dichiarando lo stato d’assedio (1971-1973). Le violenze, tuttavia, ripresero e furono
all’origine di un nuovo intervento militare nel 1980.
216  Ù Le verità del velo

soché immune alle trasformazioni sociali volute dal kemalismo.43 La


massiccia e rapida urbanizzazione che aveva investito la Turchia a par-
tire dagli anni Cinquanta aveva fatto sì che la parte più “tradizionale”
della popolazione, sino ad allora confinata nelle campagne o nelle
cittadine di provincia, si riversasse nelle città. Divennero così evidenti
i limiti del processo di secolarizzazione dall’alto imposto da Atatürk.
Nel 1969 Necmettin Erbakan, influenzato dallo şeyh nakşbendi44
Mehmet Zahid Kotku, fondò il Partito d’ordine nazionale (MNP)
con l’obiettivo di proporre un progetto politico alternativo all’occi-
dentalizzazione. Sei anni più tardi, lo stesso Erbakan era a capo del
Partito della salvezza nazionale (MSP).45 Fu allora che formulò la sua
“visione” (Millî Görüs): una versione nazionalista dell’ideologia isla-
mica che esaltava il sangue e la storia turca, era ostile alla NATO e più
generalmente all’occidente, ma non alla modernizzazione.
Nel corso degli anni Settanta, crebbero sia la partecipazione delle
donne alle lotte ideologiche, sia il peso dell’islam sulla scena politica.
In questi anni, tuttavia, le donne che frequentavano le università o
che lavoravano nella funzione pubblica non si coprivano il capo. Una
prima e isolata eccezione risale al 1969 quando una giovane donna
fu espulsa dalla facoltà di teologia dell’università di Ankara perché
rifiutava di togliersi il foulard, ma il suo restò a lungo un caso isolato.
Il partito di Erbakan cercò di legittimare un abbigliamento femmini-
le musulmano nazionale composto di un lungo soprabito (pardesü) e
un foulard (başörtü). Questi indumenti si diffusero rapidamente per
le strade delle maggiori città, segnalando l’orientamento religioso e

43
Qui di seguito presento alcune informazioni che consentono di contestualizzare
l’emergere della questione del velo sulla scena politica turca degli anni Ottanta e No-
vanta. In questa sede non mi è possibile affrontare la complessa evoluzione dell’islam
politico in Turchia. A questo proposito si vedano: J. White, Islamist Mobilization in Turkey,
University of Washington Press, Seattle 2002; H. Yavuz, Islamic Political Identity in Turkey,
Oxford University Press, New York 2003, H. Gülalp, Whatever Happened to Secularization:
The Multiple Islam in Turkey, in «South Atlantic Quarterly», 102 (2003), nn. 2/3, pp. 381-
396; Q. Mecham, From the Ashes of Virtue, A Promise of Light: The Transformation of Political
Islam in Turkey, in «Third World Quarterly», 25 (2004), pp. 339-358.
44
In Turchia le confraternite sufi (tarikat) sono sempre state un elemento centrale
della religiosità popolare. Formalmente interdette nel 1925, riuscirono a sopravvivere
clandestinamente fino al secondo dopoguerra quando il clima politico si ammorbidì e
la loro presenza fu nuovamente autorizzata. L’ordine dei nakşbendi è stato, insieme con
quelli dei mevlevi e degli alevi-bektaşi, tra i più popolari e influenti. Mentre diversi membri
del partito di Erbakan e lo stesso Turgut Özal (che fu al governo dal 1983 al 1991, prima
come primo ministro e poi come presidente della repubblica) erano legati all’ordine
nakşbendi, molti membri del partito di Erdoğan si sono legati al movimento fondato da
Fethüllah Gülen (cfr. H. Yavuz, Islamic Political Identity in Turkey, cit.). Nel tempo le rela-
zioni tra il movimento e AKP si sono logorate fino ad arrivare a una completa rottura.
45
Il Partito dell’ordine nazionale (MNP) fu sciolto dai militari nel 1971 e venne
rifondato nel 1972 come Partito della salvezza nazionale (MSP). Da allora i partiti isla-
misti sono stati ripetutamente chiusi e riaperti sotto nuovo nome. Dopo che il colpo di
stato del 1980 aveva interrotto ogni attività politica, il partito fu rifondato nel 1983 come
Partito della prosperità (RP). A questo sono poi succeduti il Partito della virtù (FP) e il
Partito della felicità (SP). Dalla separazione della componente “modernista” del partito
islamista è nato il Partito della giustizia e dello sviluppo (AKP) di Recep Tayyip Erdoğan.
Claudia Mattalucci ∙ Modernità e Introduzione
politiche dell’abbigliamento femminile in Turchia Ù  217

politico di chi li indossava. Ma i corpi che rivestivano restavano fuori


dalle istituzioni pubbliche.
Il 12 settembre 1980 per fermare l’escalation della violenza che
aveva caratterizzato tutti gli anni Settanta, i militari, guidati dal ge-
nerale Kenan Evren, intervennero con un nuovo colpo di stato: fu
proclamato lo stato d’assedio, l’assemblea nazionale fu sciolta, la
maggior parte degli uomini politici venne arrestata e tutte le attività
sindacali sospese. La giunta che aveva preso il potere intendeva assi-
curare stabilità politica, mettere fine alla violenza civile e ripristinare
il kemalismo. In questo contesto, fu emanato un regolamento con-
cernente l’abbigliamento e l’apparenza, che proibiva ai funzionari
e agli studenti di esibire segni esteriori di appartenenza politica e
religiosa. Alle donne nella funzione pubblica venne interdetto l’u-
so di minigonne, scollature e ugualmente del foulard (başörtü), agli
uomini di portare i capelli lunghi, i baffi o la barba. Il regolamento
aveva come obiettivo di impedire l’immediata identificazione dell’o-
rientamento politico delle persone. Come ha messo in evidenza John
Norton,46 infatti, nel corso degli anni Settanta l’apparenza era una
ragione sufficiente per sparare a chi veniva identificato come appar-
tenente ad una fazione opposta. La giunta lasciò il potere nel 1983
dopo aver ristabilito l’ordine47 ed emanato una nuova costituzione.48
Nel 1982 fu promulgata la nuova costituzione. Nel 1983 il Partito
della madrepatria di Turgut Özal vinse le elezioni e il generale Ke-
nan Evren fu eletto presidente della repubblica. Özal, grazie all’ap-
poggio di un elettorato composito che comprendeva la borghesia
industriale, piccoli imprenditori dell’Anatolia, contadini, piccoli
commercianti, ma anche gli immigrati che affollavano le periferie
urbane, governò il paese dal 1983 al 1991, intraprendendo un pro-
cesso di liberalizzazione dell’economia e di democratizzazione della
società. Sostenne, inoltre, il rafforzamento dei legami fra l’Occiden-
te e la Turchia e il riconoscimento di quest’ultima come membro
della Comunità europea fu uno degli obiettivi del suo programma
di governo. Benché più moderato rispetto a Erbakan, di cui ottenne
l’appoggio, Özal non fece mai mistero della sua fede religiosa e in
buona misura legittimò i movimenti islamisti che, nel corso degli

46
J. Norton, Faith and Fashion in Turkey, in N. Lindisfarne-Tapper, B. Ingham (a cura
di), Languages of Dress in The Middle East, cit., pp. 149-177.
47
L’ordine fu ristabilito a prezzo di enormi costi umani e sociali. Nell’anno succes-
sivo al colpo di stato vennero effettuati 122.600 arresti; nel settembre del 1982, 80.000
persone erano ancora in carcere, 30.000 attendevano il processo. Sia durante gli inter-
rogatori precedenti all’arresto che durante la detenzione fu fatto un ampio uso della
tortura. Cfr. E.J. Zürker, Turkey. A Modern History, I.B. Tauris, London-New York 2004 (I
ed. 1993), pp. 278-280.
48
Come quello del 1960, anche il colpo di stato del 1980 inaugurò una nuova era.
La soppressione di tutte le attività politiche da parte dei militari, aveva creato un vuoto
che spinse la parte più impegnata della popolazione a concentrarsi su questioni diverse
rispetto a quelle che erano state al centro dell’attenzione nei due decenni precedenti
come la democrazia, i diritti umani, i diritti delle minoranze e i diritti delle donne.
218  Ù Le verità del velo

anni Ottanta, acquisirono una crescente influenza e visibilità. Dal


1984 in avanti fu edificato un elevato numero di nuove moschee
e si moltiplicarono ugualmente le imam-hatip (scuole religiose) i
cui diplomati potevano ormai accedere alle università;49 crebbero
ugualmente il numero degli argomenti religiosi all’interno dei libri
di testo e dei programmi televisivi con riferimenti alla religione,
che venivano mandati in onda sulla televisione di stato, in parti-
colare durante il ramadan o in occasione delle festività religiose;
si moltiplicò inoltre il numero delle pubblicazioni e delle librerie
religiose.50
I movimenti islamisti s’impegnarono per raggiungere le donne e
lo fecero principalmente attraverso la stampa. Come ha evidenziato
Feride Acar, nella seconda metà degli anni Ottanta la maggior par-
te dei gruppi religiosi pubblicavano riviste letterarie, “scientifiche”,
politiche o generiche che avevano sezioni riservate a questioni di
interesse femminile. Alcuni di questi pubblicarono anche giornali
specificamente indirizzati alle donne, come Kadin ve Aile, Bizim Aile
e Mektup.51 Si moltiplicò inoltre il numero dei libri che si rivolgeva-
no alle donne per istruirle nella fede, aiutarle a essere delle buone
musulmane, rifiutare le pratiche o i costumi occidentali o semplice-
mente non islamici. Queste pubblicazioni promettevano alle donne
che l’islam avrebbe migliorato la loro esistenza, liberandole dal la-
voro eccessivo, dall’oppressione, dallo sfruttamento; che le avrebbe
rese migliori e più felici in questo mondo e garantito loro la salvezza
nell’altro.
Fu in questo periodo che alcune studentesse cominciarono a chie-
dere di entrare in università con il capo coperto, così come la fede
che professavano richiedeva.52 Tali richieste non vennero orchestra-
te dai partiti islamisti che, tuttavia, si appropriarono del fenomeno,
utilizzando ancora una volta il corpo e l’abbigliamento femminile

49
Una legge del 1972 ha permesso alle scuole religiose (imam-hatîp), sino a allora
esclusivamente destinate alla formazione dei predicatori, di assumere il valore dei licei e
di poter quindi garantire l’accesso agli esami d’ammissione all’università a coloro che le
frequentavano. Al momento della riforma erano soltanto 29, ma il loro numero crebbe
rapidamente. Questi istituti furono quindi aperti anche alle ragazze. Generalmente le
scuole religiose sono scelte dalle famiglie che desiderano che le proprie figlie ricevano
un’educazione conforme ai precetti dell’islam e preferiscono che le ragazze non siano
inserite in classi miste. Cfr. F. Acar, A. Ayata, Discipline, Success and Stability: The Repro-
duction of Gender and Class in Turkish secondary Education, in D. Kandiyoti, A. Saktanber
(a cura di), Fragments of Culture. The Everyday of Modern Turkey, I.B. Tauris & Co, London
2002, pp. 90-111.
50
E. J. Zürker, Turkey. A Modern History, cit., p. 289.
51
Per un’analisi degli articoli pubblicati da queste tre riviste tra febbraio 1985 e
maggio 1988 si veda: F. Acar Women and Islam in Turkey, in S. Tekeli (a cura di), Women
in Modern Turkish Society, cit., pp. 46-65. Si veda inoltre Y. Arat, Feminism and Islam: Con-
siderations on the Journal Kadin ve Aile, in S. Tekeli (a cura di), Women in Modern Turkish
Society, cit., pp. 66-78.
52
Sulla storia della questione del velo si veda E. Özdalga, The Veiling Issue: Official
Secularism and Popular Islam in Modern Turkey, Curzon Press, Surrey, UK, 1998.
Claudia Mattalucci ∙ Modernità e Introduzione
politiche dell’abbigliamento femminile in Turchia Ù  219

come simbolo del loro progetto di società. Nel giugno del 1984,
quattro studentesse della facoltà di medicina dell’Università Uludağ
di Bursa furono sospese per essersi presentate agli esami indossando
un foulard. A pochi giorni di distanza una ricercatrice d’ingegneria
chimica dell’Università Ege di Izmir rivendicò il diritto di coprirsi
il capo affermando che la sua negazione da parte dell’istituzione
per cui lavorava costituiva una violazione dei diritti umani. Il rettore
rispose che avrebbe dovuto togliersi il foulard e che se proprio vo-
leva coprirsi il capo avrebbe potuto farlo con un turbante (türban).
Pressappoco nello stesso periodo, due studentesse che indossavano
il foulard vennero allontanate dalla biblioteca dell’assemblea nazio-
nale. A una studentessa della facoltà di medicina dell’Università di
Ankara venne negato il privilegio di pronunciare il discorso pubbli-
co riservato al miglior studente in occasione delle lauree, nonostan-
te i suoi brillanti risultati scolastici, perché aveva il capo coperto.53
Questi eventi e le reazioni che generarono da parte dei parla-
mentari vennero riportati dalla stampa. Il mese precedente, infatti,
il consiglio dell’educazione superiore (YÖK) aveva stabilito che, seb-
bene secondo il regolamento sull’abbigliamento emanato durante
il regime militare non fosse lecito velarsi, era però possibile entra-
re in università con un türban, vale a dire con un piccolo foulard
portato seguendo la moda, poiché questo era un indumento “mo-
derno”. Come ha osservato Alev Çınar, una sottile strategia retorica
trasformava il foulard autorizzato da simbolo religioso in accessorio
alla moda, compatibile con la laicità delle istituzioni all’interno del-
le quali avrebbe fatto la sua comparsa.54 I giornali pubblicarono il-
lustrazioni che mostravano al pubblico come annodare il türban. Il
consiglio dell’educazione superiore cercava in questo modo di argi-
nare un problema che allora aveva dimensioni circoscritte. Ma la sua
strategia risultò inefficace. Il termine türban, che era stato introdotto
per neutralizzare le valenze religiose e politiche del foulard, divenne
infatti sinonimo di velo islamico. Nonostante i tentativi di addomesti-
camento messi in atto dallo stato e dalla stampa kemalista, il foulard
continuò a essere indossato per coprire interamente il capo e il collo.
Tra il 1984 e il 1987, il numero delle studentesse che lo portavano re-
gistrò un notevole incremento. Il consiglio dell’educazione superiore
emanò allora un nuovo decreto che annullava il precedente poiché,
come recitava il testo, il türban era diventato simbolo di una certa
ideologia. Il decreto stabiliva che all’interno dei campus e durante le
lezioni gli studenti dovevano indossare un abbigliamento moderno
(çağdaş kiyafet) e che spettava alle singole università stabilire che cosa
fosse conforme a questa dicitura.

53
Cfr. E.A. Olson, Muslim Identity and Secularism in Contemporary Turkey: “The Head-
scarf Dispute”, in «Anthropological Quarterly», 58, 4 (1985), pp. 161-169; J. Norton, Faith
and Fashion in Turkey, cit., pp. 186-170.
54
A. Çınar, Modernity, Islam, and Secularism in Turkey, cit., pp. 78-83.
220  Ù Le verità del velo

Le studentesse che si videro negare l’accesso alle lezioni orga-


nizzarono varie forme di protesta che furono supportate dai grup-
pi islamisti e una parte della società civile.55 Queste giovani donne
utilizzavano gli strumenti e le tattiche della democrazia moderna,
mostrando i limiti della logica kemalista che associava l’islam all’ar-
retratezza e alla subordinazione femminile e lo opponeva al laici-
smo, alla modernità e all’emancipazione delle donne. Erano allo
stesso tempo musulmane e moderne, come recita il titolo francese
del libro dedicato da Nilüfer Göle a questo soggetto.56 L’ostilità di-
chiarata dei sostenitori del laicismo e i provvedimenti disciplinari
presi dalle istituzioni non furono sufficienti a far cessare la protesta:
le studentesse continuavano a presentarsi in università con il capo
coperto e in molti casi a farsi respingere; furono organizzate nuove
manifestazioni, scioperi della fame, petizioni, invii di lettere ai pub-
blici uffici ecc. In assenza di una normativa unitaria, le università
adottarono misure più o meno restrittive. Spesso il rigore con il
quale una stessa istituzione applicava la propria normativa variava
a seconda del momento. Alcuni docenti erano particolarmente in-
transigenti, altri più permissivi, con il risultato che le studentesse
con il capo coperto si vedevano alternativamente concesso o negato
l’accesso alle lezioni. Essendo la frequenza alle lezioni obbligatoria,
anche laddove la politica delle università non era particolarmente
rigida le studentesse finivano spesso per cumulare un numero di
assenze sufficiente per non essere ammesse agli esami finali.
In un clima di crescente tensione, il Partito della madrepatria di
Özal (AP), con l’appoggio del partito di Erbakan e della destra ul-
tranazionalista, propose una legge che consentisse l’uso del foulard:
questa stabiliva che nei locali e corridoi degli istituti universitari
l’abbigliamento doveva essere moderno e che, tuttavia, il portamen-
to di un velo o di un foulard che copriva il collo e i capelli per ragio-
ni di convinzione religiosa era libero. All’inizio del 1989 il presiden-
te Kenan Evren oppose il suo veto all’approvazione della legge da
parte del parlamento e ne sottopose il testo alla corte costituziona-
le. Quest’ultima stabilì l’incostituzionalità della legge, sulla base del
fatto che il foulard e il tipo di abiti che lo accompagnano non sono
indumenti moderni: sono strumenti di segregazione, incompatibili

55
Come ha osservato Navaro-Yashin, nozioni quali “società civile” (sivil toplum),
“popolo” o “società” non vanno intese come realtà empiriche ma come effetti di speci-
fici discorsi. Nel corso degli anni Ottanta e Novanta, islamisti e laicisti si sono alterna-
tivamente presentati come rappresentanti della società civile; i primi per contrapporsi
al potere dello stato; i secondi per contestare a un governo che, dal loro punto di vista,
metteva a rischio la laicità, intesa come aspirazione della società civile anziché come
imposizione dello stato. Cfr. Y. Navaro-Yashin, Faces of the State. Secularism and Public Life
in Turkey, Princeton University Press, Princeton-Oxford 2002. L’identificazione con la
società civile è stata ugualmente, come vedremo, un elemento importante della presen-
tazione di sé dei soggetti coinvolti nelle proteste di Gezi Park.
56
N. Göle, Musulmanes et modernes, cit.
Claudia Mattalucci ∙ Modernità e Introduzione
politiche dell’abbigliamento femminile in Turchia Ù  221

con i principi repubblicani del laicismo e del riformismo.57 La cor-


te sottolineava ugualmente che la libertà di manifestare la propria
religione poteva essere limitata per ragioni d’ordine pubblico e allo
scopo di preservare il principio di laicità. Questa decisione scate-
nò imponenti manifestazioni di piazza e scontri con la polizia nelle
principali città del paese. Nuove manifestazioni vennero organiz-
zate in dicembre, prima che il consiglio dell’educazione superiore
emanasse un nuovo decreto in cui stabiliva che le singole università
avrebbero dovuto scegliere se autorizzare o interdire l’accesso alle
studentesse con il foulard. In pratica, la decisione fu lasciata ai di-
rettori di dipartimento e ai singoli insegnanti.
Quella del türban divenne sempre più una questione politica.
Nel 1990 i fondamentalisti uccisero due professori universitari:
Muammer Aksoy, presidente della Società di legge turca e Bahiriye
Üçok, noto oppositore dell’islam radicale. Nel marzo 1994, il Par-
tito della prosperità di Necmettin Erbakan ottenne la maggioranza
alle elezioni municipali di ventotto città del paese, tra cui Ankara
e Istanbul. Le impiegate comunali furono autorizzate a portare il
foulard. Nel luglio dell’anno successivo l’avvocato Ali Günday, noto
per essersi opposto alle rivendicazioni del diritto a portare il fou-
lard, fu assassinato. Nel dicembre 1995, il partito di Erbakan vinse
le elezioni parlamentari. Questi eventi non fecero che esasperare la
tensione tra diverse componenti della società e alimentare i timori
che esistesse un pericolo islamista che minacciava le conquiste del
kemalismo.58
Durante la campagna elettorale, il Partito della prosperità di
Necmettin Erbakan aveva utilizzato il corpo femminile velato come
simbolo di un’ideologia nazionalista e di una modernità alternative
a quelle perseguite da Mustafa Kemal. Per il partito, le donne con
il capo coperto simboleggiavano una nazione che era stata ed era
musulmana e aveva diritto di vivere secondo i principi e le norme
dell’islam. Lo stato laico aveva negato alle donne questo diritto; le
aveva inoltre sottratte alla casa, alla maternità, alla cura dei figli e
costrette a trovare un’occupazione nella sfera pubblica. Ma il parti-
to avrebbe difeso i diritti negati dallo stato e traghettato la nazione
verso un futuro migliore. Come ha osservato Alev Çınar, se nei primi
anni della repubblica le immagini delle donne vestite all’occidentale

57
I principi fondatori della repubblica turca sono il populismo, il riformismo, il
repubblicanesimo, il laicismo, lo statalismo e il nazionalismo. Per un’analisi critica cfr.
R. Kasaba, Kemalist certainties and modern ambiguities, in S. Bozdoğan, R. Kasaba (a cura
di), Rethinking Modernity and National Identity in Turkey, cit., pp. 15-36.
58
In Turchia il kemalismo è l’ideologia di stato. È difficile darne una definizione
perché ha assunto significati diversi a seconda delle epoche e dei soggetti che vi hanno
aderito. Quelli che qui identifico come kemalisti sono coloro che, soprattutto a par-
tire dagli anni Novanta, hanno utilizzato Atatürk e i suoi principi come antidoto alla
crescente presenza dell’islam nello spazio pubblico. In questa accezione, il termine si
sovrappone a laicismo.
222  Ù Le verità del velo

erano servite a mostrare la realizzazione della modernità secolare,


negli anni Novanta le immagini delle donne con il capo coperto ser-
vivano a dare corpo a un altro progetto di società. In entrambi i casi,
i discorsi maschili hanno utilizzato il corpo femminile a fini politici
negando, di fatto, uno spazio di azione autonoma alle donne.59
Nel 1995 il partito di Erbakan ottenne il 21,4% dei voti alle ele-
zioni politiche. Nonostante l’opposizione dei militari, sei mesi dopo
le elezioni, riuscì a formare un governo di coalizione con il Partito
della giusta via (DYP) di Tansu Çiller.60 Dopo aver mantenuto per
qualche tempo un profilo basso, Erbakan avanzò una nuova propo-
sta di legge sul velo, ma anche questa, come la precedente, incontrò
il veto dell’esercito. Il consiglio per l’insegnamento superiore si op-
pose apertamente non soltanto alla legge, ma anche agli insegnanti
che accettavano in classe le studentesse con il capo coperto. Una
circolare del ministero dell’educazione che vietava l’uso del foulard
nelle università, generò nuove manifestazioni.61 Si moltiplicarono i
regolamenti che interdicevano l’uso del foulard, costringendo le stu-
dentesse a toglierlo all’entrata delle università o a coprirlo con un
berretto o con una parrucca. Le più rigorose non accettarono solu-
zioni di mediazione preferendo interrompere gli studi che avevano
intrapreso. Un’esigua minoranza, che ne aveva la possibilità, scelse
di completare la propria istruzione all’estero.
L’opposizione dei militari al governo di Erbakan e Çiller raggiun-
se il suo apice il 4 febbraio 1997, quando dei carri armati furono
inviati a Sincan (vicino ad Ankara), dove il sindaco del Partito della
prosperità aveva ospitato manifestazioni considerate estremiste nel
corso del ramadan. Il 28 febbraio ebbe quindi luogo il cosiddetto
golpe bianco: durante la riunione del consiglio di sicurezza naziona-
le, l’esercito intimò al governo di far cessare qualunque attività isla-
mista in Turchia. Il 18 giugno il primo ministro Erbakan, fu costretto

59
Il Partito della prosperità utilizzò immagini di donne velate durante la campagna
elettorale ma non presentò nessuna candidata, né alle elezioni municipali del 1994, né
a quelle politiche del 1995. Cfr. A. Çınar, Modernity, Islam, and Secularism in Turkey, cit.,
pp. 83-87.
60
Professoressa di economia formatasi negli Stati Uniti, Tansu Çiller succedette
alla guida del partito quando Süleyman Demirel divenne presidente della repubblica.
Come sottolinea Y. Arat, alcuni membri del suo partito, composto al 99,8% da uomini,
erano stati critici rispetto alla candidatura di una donna alla carica di primo ministro.
Çiller riuscì a rassicurare l’elettorato confermando che in casa era suo marito
a esercitare le funzioni di capofamiglia e, al tempo stesso, mostrandosi in pubblico
come una donna di ferro e agendo come un uomo. Cfr. Y. Arat, On Gender and Citizenship
in Turkey, in «Middle East Report», 198 (1996), pp. 28-31.
61
Nella sua descrizione della manifestazione che ebbe luogo ad Istanbul il 25 febbra-
io 1998, Ayşe Saktanber, ha sottolineato che questa fu probabilmente la prima occasione
nella recente storia turca in cui studenti di orientamento ideologico diametralmente
opposto (islamisti, nazionalisti, di destra, di sinistra, liberal-democratici) si riunirono
intorno ad un’unica causa. A. Saktanber, “We Pray Like you Have Fun”: New Islam Youth in
Turkey between Intellectualism and Popular Culture, in D. Kandiyoti, A. Saktanber (a cura
di), Fragments of Culture, cit., pp. 254-276.
Claudia Mattalucci ∙ Modernità e Introduzione
politiche dell’abbigliamento femminile in Turchia Ù  223

a dimettersi. Nel gennaio del 1998, la corte costituzionale bandì il


Partito della prosperità, interdicendo per cinque anni a Necmettin
Erbakan di svolgere attività politica. Nel luglio del 2001 la stessa sor-
te toccò al Partito della felicità, le cui attività furono analogamente
giudicate anti-costituzionali. Alle elezioni politiche del 1999, il par-
tito ottenne il 15.41% dei voti. Il 2 maggio, in occasione della prima
seduta dell’assemblea nazionale, una giovane deputata del Partito
della felicità si presentò in parlamento indossando il türban. Merve
Kavakçı, laureata in ingegneria informatica all’università del Texas,
violò uno dei luoghi più sacri della repubblica turca, scatenando una
violenta reazione da parte dei presenti. Come lei stessa scrisse: «Per
circa quaranta minuti, i miei colleghi del parlamento turco mi han-
no gridato “Fuori! Fuori!” Le loro grida si sono brevemente inter-
rotte quando il primo ministro Bülent Eçevit ha sollevato la mano
puntandola verso di me: “Mettete questa donna al suo posto!” ha
gridato».62 La donna venne allontanata dal parlamento. Pochi giorni
più tardi, perse la cittadinanza turca e dovette lasciare il paese.63

3. La Turchia rivelata

Il 13 novembre 2002 il Partito della giustizia e dello sviluppo di


Recep Tayyip Erdoğan (AKP) vinse le elezioni con una maggioranza
del 34,4%, mentre il partito repubblicano (CHP), precedentemen-
te al governo, non riuscì a superare lo sbarramento del 10%. Per i
partiti che si consideravano i difensori della laicità del paese, la vit-
toria di AKP fu un duro colpo. Oltre a rappresentare una minaccia
per il proprio stile di vita, lo schiacciante successo elettorale di un
partito percepito come islamista ebbe un’enorme portata simbolica:
i neo-eletti parlamentari e le loro mogli velate gettavano un’ombra
sull’immagine laica che la Turchia si era tenacemente conquistata.
Per questa ragione il 29 ottobre dell’anno successivo, il presiden-
te della repubblica Ahmet Necdet Sezer, fedele alleato dell’eserci-
to laicista, non estese alle mogli dei parlamentari di AKP l’invito a
presenziare alle celebrazioni per l’ottantesimo anniversario della
repubblica. Benché fosse consuetudine in queste occasioni invitare
le mogli di tutti gli alti ufficiali e dei legislatori, Sezer decise di non
farlo, alimentando la già accesa diatriba tra il partito al governo e i
sostenitori della laicità dello stato.

62
M. Kavakçı, Headscarf Heresy. For one Muslim woman the headscarf is a matter of choice
and dignity, in «Foreign Politics», 142 (2004), pp. 66-67.
63
Mentre nell’articolo citato alla nota precedente Kavakçı implicitamente suggeri-
sce che ciò sia avvenuto come conseguenza del suo gesto, in una lettera di risposta com-
parsa sullo stesso periodico Aytul Özbakir Goral afferma che Kavakçı aveva ottenuto
la cittadinanza statunitense senza informare le autorità turche, mentre in accordo con
una legge del 1981 i cittadini che desiderano acquisire un’altra cittadinanza, per non
perdere quella turca debbono preventivamente essere autorizzati dallo Stato. A. Özba-
kir Goral, Liberty and the Headscarf, in «Foreign Politics», 144 (2004), p. 4.
224  Ù Le verità del velo

Il partito di Erdoğan si definisce conservatore e musulmano.


Dopo la sua elezione si è impegnato per far sì che la Turchia sod-
disfacesse i criteri richiesti per l’accesso all’Unione Europea, com-
piendo cambiamenti significativi per rimuovere le restrizioni alla
libertà imposte dalla costituzione del 1982 e limitare l’ingerenza
dell’esercito nella politica. Soddisfare i criteri di Copenhagen, ga-
rantendo ai cittadini maggiori libertà politiche e religiose, d’altra
parte, era un modo per mettere il partito e i suoi elettori al riparo
dall’autoritario laicismo di stato.64 L’appoggio dell’Europa al pro-
cesso di democratizzazione, non è stato privo di ambiguità: se da un
lato questa chiedeva alla Turchia delle garanzie in merito alla tutela
dei diritti umani (tra cui la libertà di coscienza, di credenza e di
convinzione religiosa), dall’altro sulle sue relazioni con il paese ha
sempre gravato il timore del fondamentalismo islamico. Come han-
no evidenziato Banu Gökarıksel e Katharyne Mitchell, la decisione
della Corte europea per i diritti umani sul caso Leyla Sahin con-
tro la Turchia, del 29 giugno 2004, è a questo riguardo particolar-
mente significativa. Iscrittasi alla facoltà di medicina dell’Università
Cerrahpaşa di Istanbul nel 1998, Sahin non aveva potuto proseguire
gli studi, essendo stata sospesa per un semestre per aver rifiutato
di togliere il türban. Dopo aver fatto ricorso al sistema giudiziario
nazionale che aveva dato ragione all’università, la studentessa, tra-
sferitasi a Vienna per ultimare i suoi studi, si è rivolta al tribunale di
Strasburgo. La corte, tuttavia, ha stabilito che l’interdizione all’uso
del velo nelle università non costituisce una violazione dei diritti
umani, affermando che: «quando si affronta la questione del fou-
lard islamico nel contesto turco, non si può fare astrazione dell’im-
patto che può avere il portamento di questo simbolo, presentato o
percepito come un obbligo religioso costrittivo, su quelli che non lo
sfoggiano».65 Gökarıksel e Mitchell fanno notare che l’interdizione
del velo nelle università non è in vigore in alcuno stato europeo e
che mentre la corte per i diritti umani emetteva questo verdetto,
Human Rights Watch inoltrava alla Turchia un memorandum in
cui si esprimeva, tra l’altro, preoccupazione per i limiti alla «libertà
accademica e all’accesso all’istruzione superiore alle donne che in-
dossano il foulard».66
Il mancato accesso della Turchia alla Comunità europea ha ral-
lentato gli sforzi di AKP sul piano delle riforme. Negli anni succes-
sivi gli scontri intorno al velo sono continuati. Nel 2005 Erdoğan

64
In Turchia lo stato è rappresentato in primo luogo dall’esercito, ma ugualmente
da altre istituzioni come la corte costituzionale, la magistratura, l’accademia, ecc. Per
un’etnografia dello stato si veda J. Navaro-Yashin, Faces of the State, cit.
65
<www.dirittiuomo.it/News/News2005/sahinduplocasa7.pdf> (12/16).
66
Cit. in B. Gökarıksel, K. Mitchell, Veiling, secularism and the neoliberal subject, in
«Global Networks», 5, 2 (2005), pp. 147-165.
, Sul doppio standard applicato alla questio-
ne del velo si veda A. Piatti-Crocker, L. Tasch, Unveiling the Veil Ban Dilemma: Turkey and
Beyond, in «Journal of International Women’s Studies», 13, 3 (2012), pp. 17-32.
Claudia Mattalucci ∙ Modernità e Introduzione
politiche dell’abbigliamento femminile in Turchia Ù  225

ha proposto di risolvere la questione con un referendum che non è


mai stato indetto per incostituzionalità. Emine Erdoğan, moglie del
primo ministro è stata sistematicamente esclusa dalle cerimonie di
stato. Il 17 maggio 2006 Mustafa Yucel Özbilgin, un alto magistrato
del consiglio di stato è stato ucciso e cinque suoi colleghi feriti da
un avvocato legato ai Lupi grigi e a Hezbollah. Il consiglio aveva da
poco emesso una sentenza che vietava alle insegnanti di indossare il
foulard islamico non solo in classe, ma anche nei pressi della scuola.
Contemporaneamente, è visibilmente aumentata la presenza di sim-
boli religiosi nello spazio pubblico, un processo già iniziato negli
anni Novanta quando il partito di Erbakan aveva ottenuto le muni-
cipalità delle più importanti città della Turchia.67 Da allora, i media
nazionali hanno dato ampio rilievo ai tentativi da parte dei comuni,
degli uffici e delle istituzioni scolastiche controllate dai membri del
suo partito di introdurre cambiamenti per islamizzare la vita pubbli-
ca, come l’inserimento di argomenti inerenti l’islam nei programmi
della scuola primaria e secondaria, la chiusura di alcune mense sco-
lastiche durante il ramadan, il rifiuto di concedere licenze a locali
che servivano alcolici in determinate aree della città, l’apertura di
parchi, piscine o spazi per il tempo libero riservati alle donne, il
divieto di servire alcolici in spazi espositivi o ricreativi di proprie-
tà dei comuni ecc. Queste misure, portate avanti dal governo di
Erdoğan,68 sono state interpretate dai laicisti come un’alternativa
alla realizzazione di uno stato islamico, impraticabile per la resisten-
za delle istituzioni statali (in particolare dell’esercito e della corte
costituzionale). AKP avrebbe optato per una strategia lenta ma ine-
sorabile di islamizzazione progressiva della società. Nel 2006 il par-
tito ha nuovamente ottenuto la maggioranza alle elezioni politiche
e l’anno successivo ha candidato Abdüllah Gül, già ministro degli
esteri del governo di Erdoğan, alla presidenza della repubblica.
Quando, il 28 agosto 2007, al termine di un lungo periodo di cri-
si istituzionale, Gül è stato eletto presidente, il senso di disfatta dei
laicisti è stato fortissimo. La moglie del presidente, Hayrünnisa Gül
che, come quella dell’allora primo ministro, Emine Erdoğan, porta
il foulard,69 è stata al centro di un intenso dibattito pubblico che

67
In quest’occasione Erdoğan era stato eletto sindaco di Istanbul. L’esercizio della
carica di primo cittadino della più importante e più popolata città della Turchia gli ha
consentito di conseguire un’enorme popolarità. Diversamente da Erbakan che, pur te-
nendo un discorso populista, amava portare abiti costosi (corredati dalle sue ben note
cravatte Versace) e all’occasione indire ricevimenti sfarzosi, Erdoğan si è sempre pre-
sentato come un uomo del popolo fedele alle sue umili origini. Cfr. J. White, The Islamist
Paradox, in D. Kandiyoti, A. Saktanber (a cura di), Fragments of Culture, cit., pp. 191-217;
H. Gülalp, Whatever Happened to Secularization, cit.
68
Sull’islamizzazione della sfera pubblica durante il governo di AKP si veda A.
Kaya, Islamisation of Turkey under the AKP Rule: Empowering Family, Faith and Charity, in
«South European Society and Politics», 20, 1 (2014), pp. 1-23.
69
Hayrünnisa Gül è stata una delle donne che si erano rivolte al tribunale di Stra-
sburgo per essere stata sospesa dall’università in seguito al suo rifiuto di smettere il
226  Ù Le verità del velo

ha visto opporsi coloro che pensavano che la first lady non rappre-
sentasse un paese moderno ed occidentalizzato quale la Turchia e
coloro che, di contro, hanno visto nel suo ingresso al palazzo presi-
denziale un’occasione di riscatto per le donne con il capo coperto.70
Dopo l’elezione di Gül alla presidenza della repubblica, grazie ad
un abbassamento dell’età del pensionamento, AKP ha potuto inse-
rire diversi suoi sostenitori nel sistema giudiziario, nella burocrazia,
nella sicurezza, nell’istruzione superiore e in altre istituzioni statali.
Come ho ricordato all’inizio di questo capitolo, il 28 febbraio
2008 il parlamento ha votato una modifica alla costituzione per con-
sentire l’uso del velo nelle università e negli uffici pubblici. Al voto
hanno fatto seguito imponenti manifestazioni di piazza. Nei giorni
successivi all’approvazione dell’emendamento, il consiglio dell’edu-
cazione superiore e numerose università hanno contestato la legge.
Alla ripresa delle lezioni, la maggior parte delle università ha deciso
di non ammettere le studentesse velate all’interno dei campus. In
contrasto con la decisione dei rettori e dei presidi di facoltà, miglia-
ia di professori hanno firmato petizioni in supporto del diritto di
portare il foulard nelle università, nella speranza che queste dive-
nissero luoghi in cui diverse credenze, idee e stili di vita potessero
trovare espressione. Il principale partito all’opposizione (CHP) ha
quindi fatto appello alla corte costituzionale affinché bloccasse la
nuova legge. All’inizio di giugno, in effetti, la corte ha annullato
l’emendamento voluto dal governo sulla base della sua incompati-
bilità con il laicismo ufficiale. Benché la decisione della corte fosse
appoggiata da una minoranza della popolazione, i parlamentari di
AKP, consapevoli dei rischi di uno scontro diretto con le istituzio-
ni, non hanno fatto resistenza. Nel 2010, tuttavia, il partito, che ha
nuovamente vinto le elezioni politiche, ha introdotto un pacchetto
di emendamenti alla costituzione del 1982. Forte del consenso po-
polare, della presenza nelle istituzioni statali e delle tutele garantite
dalle modifiche apportate alla carta costituzionale,71 ha poi attutato
una graduale erosione del veto di portare il foulard nelle università
e negli uffici pubblici. Il consiglio dell’istruzione superiore ha invia-
to all’Università di Istanbul un memorandum in cui dichiarava che,

foulard. Ritirò la causa all’indomani della vittoria alle elezioni politiche del partito di
Erdoğan, in cui militava il marito.
70
I media hanno dato voce a queste due rappresentazioni contrapposte. Come ha
osservato Meral Uğur Cinar, tuttavia, se dalle descrizioni delle first ladies presentate
da giornali di orientamento opposto emergono interpretazioni divergenti dell’identità
nazionale e dell’accettabilità dei simboli religiosi sulla scena globale, emergono ugual-
mente interpretazioni molto simili delle norme di genere che assegnano le donne al
ruolo domestico. M. Cinar, Construction of Gender and National Identity in Turkey: Images
of the First Lady in the Turkish Media (2002–7), in «Middle Eastern Studies», 50, 3 (2014),
pp. 482-492.
71
Le riforme hanno aumentato il numero dei membri della corte costituzionale,
hanno garantito al parlamento la facoltà di nominare dei giudici e ridotto il potere dei
tribunali militari.
Claudia Mattalucci ∙ Modernità e Introduzione
politiche dell’abbigliamento femminile in Turchia Ù  227

in nessuna circostanza, le studentesse che indossavano il velo dove-


vano essere costrette a lasciare le lezioni. Ha inoltre incoraggiato le
studentesse di tutto il paese a presentare reclami qualora i funziona-
ri continuassero ad applicare restrizioni, promettendo intervenire
attraverso misure adeguate.
Nel giugno del 2013, a Istanbul e in altre città della Turchia, han-
no avuto luogo imponenti manifestazioni di protesta.72 Questo mo-
vimento (#OccupyGezi), o piuttosto l’insieme degli eventi che ha
preso il nome del parco in cui hanno avuto inizio, Gezi Park, è stato
una reazione alle politiche neoliberiste di AKP e ai suoi interventi
di “ingegneria sociale” (l’essenzializzazione della famiglia, l’enfasi
sull’importanza di formare una gioventù religiosa e conservatrice,
le pressioni sulle madri affinché facessero almeno tre figli, le prese
di posizioni sui contenuti delle serie televisive, sul consumo di alco-
lici, sugli studentati misti, ecc.) e al suo progetto di islamizzazione
dello spazio pubblico (che includeva la costruzione di due nuove
moschee in piazza Taksim e sulla collina di Camlica). La reazione
del governo alle proteste, che hanno visto un’inedita partecipazio-
ne di giovani appartenenti a componenti diverse della società, è
stata molto dura. L’indignazione per l’uso sproporzionato della for-
za nei riguardi di manifestazioni pacifiche, ha provocato le critiche
della comunità internazionale. Dopo Gezi Park, e in vista prepara-
zione della campagna per le elezioni presidenziali del 2014,73 AKP
ha varato un pacchetto di riforme di “democratizzazione” che com-
prendeva l’introduzione della libertà di portare il velo negli uffici
pubblici. Diversamente dalle altre riforme, tra cui l’inasprimento
delle pene per i reati di odio, alcune timide aperture verso le mino-
ranze (in particolare quella curda), l’eliminazione dell’obbligo del
giuramento nelle scuole74 ecc., quella concernente l’uso del velo è
stata immediatamente implementata da un regolamento. Il divieto
di coprirsi il capo è rimasto in vigore per le donne impiegate nella
magistratura, nell’esercito e nella polizia, corpi provvisti di un ab-

72
Sulle proteste di Gezi Park si vedano Y. Arat, Violence, Resistance, and Gezi Park, in
«Journal of Middle East Studies», 45 (2013), pp. 807-809; AA.VV., Protest and Politics. Tur-
key after Gezi Park, in «Insight Turkey», 15, 3 (2013), pp. 27-38; U. Yıldırım, Y. Navaro-Yash-
in, An Impromptu Uprising: Ethnographic Reflections on the Gezi Park Protests in Turkey, Cultural
Anthropology Online, 2013, URL: <http://www.culanth.org/fieldsights/391-an-impromp-
tu-uprising-ethnographic-reflections-on-the-gezi-park-protests-in-turkey> (12/16); G.
Koç, H. Aksu (a cura di), Another brick in the wall: Gezi Resistance and its aftermath, Wiener
Verlag für Sozialforschung, Wien 2015.
73
Il 10 agosto 2014 i cittadini hanno eletto Recep Tayyip Erdoğan Presidente della
repubblica. Nello stesso anno il suo partito ha nuovamente vinto le elezioni politiche.
74
In Turchia al mattino i bambini delle scuole elementari dovevano ripetere il
giuramento (and): “Sono turco, onesto e lavoratore. Sono turco, retto, lavoratore, il mio
principio è di difendere i più piccoli e rispettare gli anziani, amare il mio paese e la mia
nazione più di me stesso; la mia legge è crescere e andare avanti. O supremo Atatürk,
creatore del nostro quotidiano, io giuro che camminerò ininterrottamente sulla via che
tu hai tracciato, verso l’obbiettivo che hai definito e gli ideali che hai fondato. Fa che
la mia esistenza sia subordinata all’esistenza turca. Felice è colui che può dirsi turco”.
228  Ù Le verità del velo

bigliamento specifico e, soprattutto, tradizionalmente identificati


come i guardiani dello stato.

4. Modernità plurali

Nei paragrafi precedenti, dopo aver descritto le politiche dell’ab-


bigliamento femminile tra la fine dell’impero ottomano e la prima
repubblica, ho ricostruito l’emergere della questione del velo (türban
meselesi) e l’affermarsi sulla scena politica dei partiti islamisti. In que-
sto contesto l’abbigliamento e, più generalmente, la vita delle don-
ne sono state ancora una volta al centro del dibattito politico. Come
già aveva fatto il kemalismo, il partito islamista di Erbakan prima, e
quello conservatore e musulmano di Erdoğan che l’ha succeduto, si
sono fatti portavoce di alcune istanze di rinnovamento presenti nel-
la società, sfruttando a proprio vantaggio le iniziative delle donne
che rivendicavano il proprio diritto alla modernità nel rispetto dei
dettami dell’islam. Queste donne escluse dalla componente laicista
della società, spesso non si sono sentite rappresentate dai movimenti
e dai partiti islamisti con cui sono state identificate. Come ha osser-
vato Ayse Saktanber, “hanno criticato l’élite islamista maschile e …
il governo per non aver fatto passi avanti sufficienti per risolvere la
questione del velo, ed essersi limitati a invitare le donne con il capo
coperto ad avere pazienza e comportarsi con moderazione, mentre
loro beneficiavano del privilegio di essere al potere.”75
Diversi lavori etnografici e analisi sociologiche76 hanno cercato di
illustrare le ragioni del successo dell’islam tra le giovani donne che
frequentavano le università e messo in evidenza come questo sia di-
peso dalla loro condizione all’interno di un ordine sociale che ten-
deva a marginalizzarle. Le ragazze che dalla metà degli anni Ottanta
hanno rivendicato il diritto di coprirsi il capo in università, proveni-
vano da classi sociali basse o medio basse, dalle città di provincia o
da famiglie immigrate dalle aree rurali verso le grandi città. Per loro
l’islam sembrava offrire un’alternativa ad un mondo che tendeva ad
escluderle e nel quale non si sentivano a proprio agio, una via per
acquisire maggiore autostima e perseguire la propria realizzazione.
In questo senso, le studentesse con il türban rappresentavano effet-
tivamente il fallimento della promessa di emancipazione kemalista:
la loro traiettoria di vita era la prova che la realizzazione dell’egua-

75
A. Saktanber, Women and the Iconography of Fear: Islamization in Post-Islamist Turkey,
in «Signs: Journal of Women in Culture and Society», 31 (2006), pp. 21-31, p. 27.
76
Si vedano tra gli altri N. Göle, Musulmanes et modernes, cit.; E. Özdalga, The Veiling
Issue, cit.; F. Acar, Women and Islam in Turkey, cit.; A. İlyasoğlu, Islamist women in Turkey:
Their identity and self-image, in Z. Arat, Deconstructing Images of “The Turkish Woman”, cit.,
pp. 241-261; A. Saktanber, Living Islam. Women, Religion and the Politicization of Culture in
Turkey, I.B. Tauris, London-New York 2002; A. Secor, Islamism, Democracy, and the Political
Production of the Headscarf Issue in Turkey, in G.-W. Falah, C. Nagel (a cura di), Geographies
of Muslim Women, The Guilford Press, New-York-London 2005, pp. 203-225.
Claudia Mattalucci ∙ Modernità e Introduzione
politiche dell’abbigliamento femminile in Turchia Ù  229

glianza politica e sociale sbandierata dal kemalismo restava ancora


lontana dall’esperienza quotidiana di molte donne, e in particolare
di quelle che provenivano da contesti sociali e familiari in cui la vita
continuava ad essere ordinata dai valori tradizionali. Al tempo stesso,
tuttavia, come le giovani donne che si distinguevano dalle loro madri
segnalando con il capo scoperto la distanza dall’ambiente sociale da
cui provenivano, le studentesse universitarie che portavano il türban
utilizzavano l’abbigliamento per distinguersi dal mondo in cui erano
cresciute. In molti casi, la loro decisione di coprirsi non è stata appog-
giata dai famigliari. Benché questi avessero generalmente un basso
livello di scolarità, attribuivano valore all’istruzione e temevano che
la decisione di coprirsi privasse le figlie della possibilità di completare
gli studi. Spesso la scelta di indossare türban e soprabito è stata inter-
pretata come eccessiva e, in alcuni casi, apertamente osteggiata dalle
famiglie. Per molte studentesse la sua messa in atto ha coinciso con
l’ingresso in università.77
Nel discorso delle studentesse con il türban,78 le donne che indos-
sano un foulard che lascia scoperto il collo e parzialmente i capelli,
non conoscono il significato del velo per l’islam. Per loro la religione
si riduce a un insieme di gesti abituali e, come per la maggioranza
dei turchi che si dichiarano musulmani, riguarda la coscienza indivi-
duale. Il modo di coprirsi che le studentesse hanno adottato simbo-
leggia una diversa attitudine nei confronti della religione, una fede
più consapevole, coltivata attraverso la lettura delle fonti e di testi di
approfondimento, la riflessione e la discussione tra pari. Per le stu-
dentesse che portano il türban, il tesettür, ovvero l’obbligo di coprire
completamente i capelli, il collo, le braccia, le gambe e le curve del
corpo, ha la funzione di proteggere la virtù e di limitare il potere
di seduzione, fonte di disordine per la società. Il tesettür, tuttavia, è
anche una parte di sé, di un sé che ambisce a un universo più ampio
di quello in cui sono cresciute e che, grazie all’istruzione, aspira a
esercitare una professione attraverso la quale essere utile alla società
nel rispetto della religione. Nello spazio sociale il türban distingue
queste musulmane consapevoli e moderne dalle donne che si dicono
musulmane ma che non mettono in pratica tutti i precetti dell’islam e
le distingue ugualmente da quelle che rispettano l’obbligo di coprirsi
per abitudine o per tradizione.
Per molte ragazze la decisione di indossare il türban durante gli
anni di formazione universitaria è stata all’origine di esperienze di

77
In Turchia l’accesso all’università è vincolato al superamento di un esame na-
zionale estremamente selettivo. Gli studenti possono indicare alcune preferenze, ma
l’assegnazione della sede universitaria e della facoltà dipendono dai risultati ottenuti.
78
Nonostante tra le studentesse che si coprono il capo siano esistite ed esistano dif-
ferenze di punti di vista, esperienze e posizione sociale, il loro discorso, come quello dei
laicisti, rivela una certa stereotipia riconducibile, tra l’altro, al ruolo dei media nell’o-
rientare opinioni e foggiare linguaggi e agli effetti omologanti che la partecipazione a
forme di attivismo produce sulla retorica.
230  Ù Le verità del velo

esclusione che le hanno portate a sviluppare un crescente senso di


distacco rispetto alla società laica e intraprendere forme di attivismo.
Queste, come abbiamo visto, sono state assorbite e in parte orchestra-
te dall’islam politico che presentava un’alternativa alla civiltà occi-
dentale. Come ha osservato Aynur İlyasoğlu, se il senso di marginalità
e d’isolamento è stato all’origine della decisione di molte donne di
portare il türban e adottare uno stile di vita musulmano, per le ragaz-
ze che hanno frequentato l’università dalla metà degli anni Ottanta
in avanti, un ruolo importante è stato ugualmente giocato dal de-
siderio di prendere posizione, di appartenere ad un gruppo e alla
comunità musulmana.79 La crescente mobilizzazione e l’attenzione
dedicata dall’opinione pubblica alla questione del velo hanno fatto
del türban un segno di empowerment, simbolo di una nuova identità
di genere musulmana che coniuga virtù, educazione e attivismo. Il
türban è stato così assunto e difeso pubblicamente come prescrizione
religiosa e come scelta individuale.
L’aspetto estetico del tesettür è diventato manifestamente impor-
tante: foulard dai colori vivi, ornati da fantasie e motivi che varia-
no da una stagione all’altra e denotano stile e ricercatezza hanno
sostituito quelli più anonimi indossati dalle generazioni preceden-
ti. Analogamente i soprabiti non sono più esclusivamente in tinte
scure (blu, grigi, o marroni) ma in colori che variano di stagione
in stagione e che sono contemporaneamente discreti e alla moda.
Come ha illustrato Yael Navaro-Yashin,80 infatti, tra gli anni Ottanta
e Novanta l’ascesa dei movimenti islamisti e l’emergere di un “capi-
talismo islamico” hanno coinciso con la nascita di un’industria e di
un mercato specializzati nell’abbigliamento femminile musulmano,
che comprendevano sia prodotti di poco prezzo e bassa qualità, che
indumenti realizzati con tessuti migliori, disegnati da stilisti e decisa-
mente più costosi. Le studentesse universitarie e le donne con una
professione hanno adottato modelli più eleganti realizzati con tessuti
di qualità. Per loro l’abbigliamento era uno strumento importante
per segnalare distinzioni di generazione, di estrazione sociale81 e di

79
A. İlyasoğlu, Islamist women in Turkey, cit., p. 250.
80
Y. Navaro-Yashin, The Market for Identities: Secularism, Islamism, Commodities, in D.
Kandiyoti, A. Saktanber (a cura di), Fragments of Culture, cit., pp. 221-253. Sull’islamicità
della moda musulmana si veda B. Gökarıksel, A. Secor, Islamic-ness in the life of a commod-
ity: Veiling-fashion in Turkey, in «Transactions», 35, 3 (2010), pp. 313-333.
81
Tradizionalmente le formazioni politiche islamiste hanno reclutato buona parte
del loro elettorato tra le fasce più povere della popolazione. Tra le loro fila, tuttavia,
hanno ugualmente raccolto numerosi imprenditori dell’Anatolia. Nonostante il loro
discorso populista tenda a minimizzare le differenze, anche tra gli islamisti esistono
di fatto delle distinzioni. Naturalmente, come già aveva messo in evidenza Bourdieu,
non sempre le distinzioni di classe, educazione e, in questo caso, consapevolezza reli-
giosa coincidono. L’élite cui le studentesse universitarie rivendicano di appartenere è
principalmente definita dall’educazione e dalla profondità della loro fede. Tuttavia, la
distinzione perseguita attraverso l’abbigliamento ha anche un’innegabile dimensione
economica. Cfr. P. Bourdieu, La distinzione. Critica sociale del gusto, il Mulino, Bologna
Claudia Mattalucci ∙ Modernità e Introduzione
politiche dell’abbigliamento femminile in Turchia Ù  231

gusto, nel rispetto dei dettami dell’islam. Le scelte riguardo al colore,


alla foggia e al tessuto delle bluse, delle giacche, delle lunghe gonne,
dei pantaloni o dei soprabiti, i colori, le fantasie e lo stesso modo di
portare il foulard hanno permesso loro di rendere visibile la propria
individualità. Come hanno osservato Banu Gökarıksel and Anna Se-
cor i foulard e più in generale i capi di abbigliamento sono strumenti
che permettono alle donne che si coprono il capo di smarcarsi dalle
immagini negative dell’islam che circolano a livello nazionale e glo-
bale, ma anche di costruire un’immagine di sé come consumatrici
attente alla moda e integrate nella società.82 Poiché il codice d’abbi-
gliamento musulmano impone la modestia, il contestato obiettivo83
di chi ieri come oggi segue la moda musulmana non è apparire, ma
mostrare la propria differenza. Il velo alla moda segnala la comparsa
di nuovi soggetti femminili multi-posizionati in rapporto alle diverse
norme che nella Turchia contemporanea definiscono il genere, la
devozione, la modestia, la sessualità, l’appartenenza di classe, l’età e
l’inclusione nella vita urbana.
Durante il processo di modernizzazione dall’alto che seguì la cre-
azione della repubblica turca, i segni e le pratiche connessi alla reli-
gione furono rimossi dalla sfera pubblica. In questo contesto, come
abbiamo visto, la partecipazione delle donne alla vita pubblica, la visi-
bilità dei loro corpi e la creazione di spazi misti furono gli strumenti
per trasformare il paese e, insieme, per rappresentare la modernità
così rapidamente conseguita agli occhi del mondo. Secondo la logi-
ca dicotomica implicita alla retorica kemalista, l’islam era associato
all’ignoranza, all’arretratezza, alla segregazione tra i sessi e alla su-
bordinazione femminile, e contrapposto alla civiltà, al progresso, alla
partecipazione di entrambi i sessi alla vita pubblica e all’emancipa-
zione delle donne. Gli spazi della modernità (spazi urbani come le
università, le istituzioni di governo, ma anche i teatri, i ristoranti e le
sale da tè) richiedevano l’adozione di linguaggi, tecniche del corpo,
abitudini e abiti ispirati all’occidente e necessariamente distanti da
quelli prescritti dall’islam. La presenza di donne con il capo coper-
to nello spazio urbano, alimentata dalle migrazioni interne iniziate
negli anni Cinquanta, non ha prodotto gli effetti generati dalla com-

2001 (ed. orig. 1979). Si vedano ugualmente J. White, The Islamist Paradox, cit.; Ead.,
Islamic Chic, in Ç. Keyder (a cura di), Istanbul. Between the Global and the Local, Rowman
& Littlefield Publishers, Lanham 1999, pp. 77-91; B. Kılıçbay, M. Binark, Veiling in Con-
temporary Turkey Consumer Culture, Islam and the Politics of Lifestyle: Fashion for Veiling in
Contemporary Turkey, in «European Journal of Communication», 17 (2002), pp. 495-511.
82
B. Gökarıksel, A. Secor New transnational geographies of Islamism, capitalism and
subjectivity: the veiling-fashion industry in Turkey, in «Area», 41, 1 (2009), pp. 6-18.
83
La moda islamica ha spesso attirato le critiche dei laicisti così come dei musul-
mani più conservatori. Il velo, infatti, con i suoi significati religiosi, culturali e politici
sembra, da diversi punti di vista, difficilmente conciliabile con un sistema futile, auto-
referenziale e mutevole come quello della moda, legato al capitalismo e alla società dei
consumi.
232  Ù Le verità del velo

parsa del türban nelle università. Mentre la prima confermava l’idea


che vi fossero, da un lato, una Turchia urbana, laica e moderna e,
dall’altro, una Turchia rurale, religiosa e arretrata destinata ad essere
trasformata dall’avanzata del progresso, la seconda faceva riemergere
la religione nel cuore stesso della modernità.
La comparsa di studentesse con il capo coperto all’interno delle
istituzioni universitarie, luoghi d’elezione della civiltà, mostrava che,
diversamente da quanto prevedeva la logica kemalista, la moderniz-
zazione non aveva prodotto l’auspicato processo d’interiorizzazione
della religione. Pur vivendo in contesti urbani ed essendo istruite,
queste ragazze mostravano di non voler rinunciare ai segni esteriori
della propria fede religiosa. Come se non bastasse, rivendicavano il
diritto a coprirsi il capo utilizzando argomenti (come la libertà di
coscienza, credenza e convinzione religiosa e la libertà di espressio-
ne) e mezzi (manifestazioni, scioperi della fame, raccolte di firme,
ecc.) tipici della democrazia. I tentativi dei laicisti di leggere questo
nuovo fenomeno attraverso vecchi quadri concettuali, foggiati du-
rante la prima repubblica, non ne hanno ridotto l’effetto di novità.
Dal loro punto di vista le studentesse con il foulard, lungi dall’agire
autonomamente, erano meri strumenti controllati dalle formazioni
politiche musulmane, da forze oscure, supportate da poteri esterni
al paese, che lavoravano per la realizzazione di una società islamica,
in cui sarebbe tornata in vigore la şeriat e sarebbero state cancellate
le conquiste del kemalismo. Benché chiedessero a gran voce il diritto
di completare la loro istruzione, le studentesse con il foulard non
avrebbero mai utilizzato il titolo di studio eventualmente consegui-
to perché l’ambiente dal quale provenivano e lo stesso integralismo
religioso di cui davano prova le avrebbe escluse dall’esercizio di una
professione. Non avrebbero, infatti, potuto esercitare eticamente il
loro lavoro (quello di medico, avvocato o insegnante), nel rispetto
della laicità dello stato dal momento che l’islam che professavano
imponeva la segregazione dei sessi e l’uso del velo.
L’incompatibilità tra modernità e religione, tuttavia, è diventata
sempre più difficile da sostenere di fronte a quella che Nilüfer Göle
ha denominato una «polisemia dei segni che confonde tanto i mu-
sulmani che i laici»:84 sempre più giovani donne che portano il tür-
ban conoscono l’inglese, usano le nuove tecnologie, vanno all’opera,
visitano le esposizioni. Come Merve Kavakçı, la parlamentare che si
presentò all’assemblea nazionale con il capo coperto, sono moder-
ne, sebbene il loro corpo contraddica visibilmente quella laicità che
per l’ideologia kemalista rappresenta una condizione necessaria del-
la modernità. Oltre a confondere l’immaginario della modernità, la
questione del velo e le reazioni che ha suscitato hanno ugualmente

84
N. Göle, Interpénétrations. L’Islam et l’Europe, Galaade Éditions, Paris 2005, p. 87.
Claudia Mattalucci ∙ Modernità e Introduzione
politiche dell’abbigliamento femminile in Turchia Ù  233

alterato l’immaginario della laicità:85 la Turchia laica ed europea nei


costumi, nel gusto e nei consumi ha infatti mostrato un volto rea-
zionario che, dopo essere stato a lungo prerogativa dell’esercito e
più genericamente dello stato, è stato assunto anche ad una parte
della società civile. Mentre negli anni successivi al colpo di stato del
1980, quando la giunta militare era al potere, l’adesione ai principi
di Atatürk ed il culto della sua persona furono imposti dall’alto, negli
anni successivi all’ascesa dei partiti islamisti, una parte della società
se ne è spontaneamente appropriata.86 Questo “kemalismo dal basso”
è stato una reazione alla crescente visibilità dell’islam nello spazio
pubblico e alle accuse rivolte allo stato turco di limitare le libertà
religiose, culturali, politiche ed economiche dei suoi cittadini, accuse
che sono state formulate dagli islamisti, dai movimenti per la difesa
dei diritti dei curdi e da varie organizzazioni internazionali, tra cui il
Fondo monetario internazionale e la Comunità europea. Associazio-
ni come Çadaş Yaşami Destekleme Derneği (l’associazione per la difesa
della vita moderna) o Atatürkçü Düşünce Derneği (l’associazione del
pensiero atatürkista) si sono date l’esplicito obiettivo di difendere la
vita moderna e i principi di Mustafa Kemal Atatürk dagli attacchi dei
loro oppositori. L’adesione a queste associazioni e la partecipazione
alle attività che hanno organizzato (manifestazioni di protesta, eventi
in occasione delle festività nazionali ecc.) hanno mostrato, insieme al
consumo di gadget e immagini del fondatore della repubblica, un’a-
desione ai suoi principi e un culto della sua persona che non poteva-
no più essere ricondotte all’autoritarismo dello stato. Questo nuovo
kemalismo militante e volontario ha assunto un’evidente dimensione
di genere. Le donne kemaliste, ha scritto Nilüfer Göle,

si vivono come moderne nel corpo, nell’abbigliamento e nello stile di


vita [...]. Sono il prodotto di una rottura storica, emozionale e corporea
del legame con l’identità musulmana [...]. Non possono più fare marcia
indietro. Difenderanno le conquiste laiche della repubblica, i loro diritti
di donne moderne, se necessario anche fisicamente.87

L’opposizione alla comparsa del foulard negli spazi istituzionali e


alle proposte di legge per autorizzarne l’uso nelle università e negli
uffici pubblici ha visto le donne laiciste assumere un ruolo portante.
Se durante la prima repubblica lo scontro tra l’islam e la laicità si
giocava sul corpo delle donne, a partire dagli anni Novanta è diven-
tato anche uno scontro tra donne che avevano e che desideravano
stili di vita differenti. Le studentesse con il türban rivendicavano il di-

85
Per una discussione del rapporto tra questione del velo e immaginari sociali
dominanti nel contesto turco si veda N. Göle, “Islam in Public”. New Visibilities and New
Imaginaries, in «Public Culture», 14, 1 (2002), pp. 173-190.
86
Cfr. Y. Navaro-Yashin, Faces of the State, cit.; E. Özyürek, Nostalgia for the Modern:
State Secularism and Everyday Politics in Turkey, Duke University Press, Durham 2006.
87
N. Göle, Interpénétrations. L’Islam et l’Europe, cit., pp. 87-88.
234  Ù Le verità del velo

ritto di studiare senza sacrificare una parte importante della propria


soggettività e di trovare in una professione che consentisse loro di
mettere a profitto la formazione ricevuta. Oltre ad essere osteggia-
ti dallo stato, questi diritti sono stati ugualmente contestati da una
parte della società civile: dalle donne (e dagli uomini) che suppor-
tavano il laicismo di stato e chiedevano che per entrare in università
si togliessero il foulard e da molti uomini islamisti con i quali hanno
condiviso le esperienze di attivismo che, pur sostenendole quando
rivendicavano il diritto allo studio, si sono spesso mostrati contrari al
loro ingresso nelle professioni.88 In questa situazione, l’opposizione
al controllo maschile non è diventata la base di una possibile allean-
za tra donne.

La maggior parte delle legislatrici musulmane che avrebbero potuto so-


stenermi —scrive Merve Kavakçı— si sono invece schierate con i loro
colleghi maschi e hanno protestato la mia presenza [all’assemblea na-
zionale]. Altre donne sono persino scese in strada, dichiarando che non
avrebbero mai consentito alla presenza di una donna che indossa un
foulard in parlamento… Piuttosto che promuovere la liberazione delle
donne musulmane queste posizioni rivelano una profonda e crescente
incomprensione.89

In quanto donna musulmana e turca —risponde una lettrice, con una


lettera indirizzata al giornale sul quale Kavakçı ha scritto— sento che
il foulard è una ghigliottina sospesa con un filo sopra le mie libertà, un
filo che quelle come Kavakçı minacciano di tagliare.90

Dall’emergere della questione del velo, le donne laiciste hanno


percepito le studentesse e, più in generale, le donne investite di un
incarico istituzionale che portano il türban come una minaccia al loro
stile di vita. Non avevano nulla in contrario al fatto che le donne
che vivevano in città e pulivano le loro case o i locali delle univer-
sità si coprissero il capo. Non era il loro foulard (başörtü) a urtarle,
né quello delle loro madri o delle loro nonne (che chiamavano allo
stesso modo), ma un indumento nuovo (il türban), associato all’islam
globale, che percepivano come una minaccia alla loro versione della
modernità.91

88
Cfr. J. White, The Islamist Paradox, cit. e N. Göle, Interpénétrations. L’Islam et l’Eu-
rope, cit.
89
M. Kavakçı, Headscarf Heresy, cit.
90
A. Özbakir Goral, Liberty and the Headscarf, cit.
91
Secondo un paradigma a lungo dominante la modernità veniva misurata in
rapporto al modello europeo. Erano moderne le società che erano meglio riuscite
a imitare la modernizzazione occidentale, un processo iniziato nell’età dei Lumi e
culminato con la creazione dello stato-nazione. Diversi studi, condotti nell’ambito
dell’antropologia culturale e degli studi post-coloniali, hanno messo in discussione
questo paradigma. Una volta dissociata dal modello europeo, la modernizzazione si
è rivelata essere la realizzazione di progetti sociali, politici e culturali di volta in volta
differenti. A questo proposito si vedano i lavori ormai classici di J.L. Comaroff e A. Ap-
Claudia Mattalucci ∙ Modernità e Introduzione
politiche dell’abbigliamento femminile in Turchia Ù  235

La politica sempre più autoritaria e repressiva di Erdoğan e i ripe-


tuti attacchi del suo partito ai diritti delle donne,92 hanno esacerbato
le tensioni tra laicisti e islamisti. Ma hanno anche generato reazioni
di protesta, manifestazioni e forme di partecipazione inedite, che
hanno coinvolto soggetti, molti dei quali giovani, di orientamento
ideologico opposto: non soltanto musulmani e laici, ma sostenitori
della sinistra e liberal-democratici; appartenenti alle minoranze et-
niche, religiose, membri delle ONG ecc. Il coinvolgimento in queste
forme di azione politica, dalle manifestazioni per il diritto a porta-
re il velo in università a Gezi Park, 93 ha messo in contatto segmen-
ti della società civile che sino ad allora avevano condotto esistenze
separate, favorendo la condivisione di esperienze, il confronto e la
scoperta di aspirazioni comuni, come la tutela dei diritti umani, la
difesa dell’ambiente, il desiderio per un’economia attenta al sociale
ecc. Il movimento di Gezi Park per diverse settimane ha coinvolto i
manifestanti in forme di contestazione alternative a quelle dell’agire
politico tradizionale, come i forum organizzati nei giardini pubblici
o i pasti per la rottura del digiuno (itfar). Questi ultimi sono stati ini-
zialmente organizzati dai membri di due gruppi di antagonisti mu-
sulmani che partecipavano alla protesta: gli Antikapitalist Musulman-
lar (musulmani anticapitalisti) e i Devrimci Musulmanlar (musulmani
rivoluzionari). Su fogli di giornale distesi per terra il cibo portato da
casa veniva condiviso da coloro che rispettavano il digiuno per il Ra-
madan e coloro che non lo facevano. Mangiando insieme per terra
i commensali contestavano i lussuosi pasti per la rottura del digiuno
organizzati negli hotel a cinque stelle dai membri di AKP e insieme
sfidavano la rappresentazione dualista della società turca che con-
trappone islamisti e laicisti.94 Per quanto circoscritte a momenti ec-

padurai, che hanno rispettivamente parlato di “modernità multiple” e di “modernità


alternative”. Cfr. J. Comaroff, J.L. Comaroff, Introduction, in Idd. (a cura di), Modernity
and Its Malcontents. Ritual and Power in Postcolonial Africa, University of Chiacago Press,
Chicago-London 1993, pp. xi -xxxvi; A. Appadurai, Modernità in polvere, Meltemi, Roma
2001 (ed. orig. 1996), pp. 13-42.
92
Tra questi: i suoi tentativi di prevedere per legge il matrimonio tra le donne che
avevano subito violenza e i loro violentatori; di criminalizzare il tradimento; di limitare
l’accesso all’aborto; la negazione dell’uguaglianza tra uomini e donne; le ripetute cele-
brazioni della famiglia musulmana tradizionale; le dichiarazioni sulla necessità per le
donne di fare da tre a cinque figli e sulla natura patologica dell’omosessualità ecc. Cfr.
G. Akkaa, AKP versus women, in «Perspectives. Political analysis and commentary from
Turkey», 4 (2013), pp. 52-55.
93
Cfr. L. D’Orsi, Gezi Park, in «Antropologia museale: etnografia, patrimoni, cultu-
re visive», 12, 34-36 (2013-2014), pp. 83-85.
94
Cfr. L. D’Orsi, Crossing Boundaries and Reinventing Futures: An Ethnography of Prac-
tices of Dissent in Gezi Park, in G. Koç, H. Aksu, Another brick in the wall, cit., pp. 16-33.
Nilüfer Göle ha identificato i “pasti della terra” (yeryüzü sofraları) come una trasgres-
sione complementare a quelle delle studentesse universitarie che dagli anni Ottanta
hanno iniziato ad entrare in università con il capo coperto, confondendo i confini tra
religioso e secolare Cfr. N. Göle, Yer sofrası ve sınır ihlalleri, in «T24», 21 luglio 2013,
<https://t24.com.tr/yazi/yer-sofrasi-ve-sinir-ihlalleri/7056> (12/16).
236  Ù Le verità del velo

cezionali e separate dalla vita ordinaria, queste esperienze, radicate


nelle storia turca e alimentate dalla politica di AKP, ma ugualmente
in risonanza con i movimenti di protesta globali, hanno ridotto la
paura dell’alterità e reso visibili possibili convergenze e forme di co-
alizione tra le diverse modernità che abitano il paese.

Conclusioni

In Turchia oltre il 60% delle donne si copre il capo.95 Non tutte lo


fanno allo stesso modo, né per le stesse ragioni. Molte delle donne
che si coprono (kapalı, letteralmente chiuse) non sono islamiste, così
come molte delle donne che hanno il capo scoperto (açık, aperte)
non sono laiciste. Sebbene esista una grammatica che consente di
leggere le differenze scritte sui corpi attraverso l’abbigliamento,96 è
impossibile identificare in modo univoco il significato che il foulard
riveste per le donne che lo portano e le ragioni che le spingono a
farlo. Le studentesse con il türban, e gli studi che le hanno descritte,
parlano di scelte consapevoli nelle quali si sovrappongono motiva-
zioni religiose, consapevolezza di sé e impegno politico; ma esistono
ugualmente donne che si coprono il capo a causa delle pressioni dei
familiari o dell’ambiente in cui vivono; così come donne che lo fan-
no per consuetudine. All’interno delle stesse famiglie vi sono donne
che si coprono e altre che non lo fanno: a volte una madre porta il
foulard ma le sue figlie no, e a volte accade il contrario; a volte una so-
rella è coperta mentre l’altra non lo è. Lo stesso vale per le amicizie
che, almeno in alcuni casi, passano attraverso i confini segnati dagli
accessori e dall’abito. I percorsi che conducono a portare il foulard, i
modi di indossarlo e i significati soggettivi di cui è investito sono pro-
babilmente altrettanto numerosi delle donne che si coprono il capo
e non possono essere interpretati alla luce della sola opposizione tra
islamismo e laicismo.
Le trasformazioni dell’abbigliamento femminile in Turchia e i
discorsi che le hanno sostenute, d’altra parte, rivelano la rilevanza
di questi due orientamenti ideologici nella storia del paese. La ri-
costruzione che ho presentato mostra che laicismo e islamismo non
sono entità fisse, ma cambiano nel tempo, in relazione agli attori
sociali che in essi si riconoscono e al peso istituzionale che rivesto-
no. La controversia intorno al velo ha preso forma all’interno della
complessa dialettica tra progetti di società concorrenti elaborati in
risposta al confronto con l’occidente, in un contesto che era e resta
maggioritariamente musulmano. I suoi principali attori sono stati

95
Cfr. nota 4. Si veda inoltre K.S. Akoglu, Piecemeal Freedom: Why the Headscarf Ban
Remains in Place in Turkey, in «Boston College International & Comparative Law Re-
view», 38, 2 (2015), pp. 277-304.
96
Cfr. I. Karademir-Hazır, How bodies are classed: An analysis of clothing and bodily tastes
in Turkey, in «Poetics», 44 (2014), pp. 1-21.
Claudia Mattalucci ∙ Modernità e Introduzione
politiche dell’abbigliamento femminile in Turchia Ù  237

segmenti della società che hanno stili di vita, riferimenti culturali,


orientamenti ideologici, forme di consumo e aspirazioni differenti.
La sua evoluzione è dipesa dai cambiamenti nell’equilibrio tra questi
due gruppi, dalle trasformazioni politiche, economiche e istituziona-
li, ma anche dall’insorgere di nuove aspirazioni e forme di protesta
per realizzarle. Islamisti e laicisti non rappresentano la totalità della
società turca. La mobilizzazione per legittimare o vietare l’uso del
velo nelle università e nella funzione pubblica è stata un fenomeno
prevalentemente urbano e ha coinvolto una minoranza della popo-
lazione. Spesso le manifestazioni di protesta sono state strumentaliz-
zate dai partiti, che hanno contribuito a esacerbare le tensioni tra
diverse componenti della società. Almeno in alcune circostanze, tut-
tavia, hanno anche offerto occasioni d’incontro e fatto intravedere
le possibilità di una politica di coalizione tra persone che hanno vite
radicalmente differenti.
La storia della questione del velo in Turchia ci ricorda la polisemia
di questo accessorio, i cui significati dipendono tanto dalle disposi-
zioni incorporate di chi lo porta, quanto da quelle di chi osserva.
Mostra, inoltre, la stretta relazione che intercorre tra genere e idee
di modernità. In Turchia, come altrove, il corpo delle donne è stato,
e resta, un’arena politica su cui si sono affrontati, e si affrontano, im-
maginari sociali contrapposti. Com’è accaduto tra la fine dell’impero
ottomano e la prima repubblica, nei decenni che hanno visto l’ascesa
dei partiti islamisti, le controversie intorno all’abbigliamento femmi-
nile sono state al centro del dibattito politico interno ed esterno al
paese. I modernisti consideravano l’Europa come arbitro del grado
di civiltà conseguito dal paese ed esibivano i corpi delle donne senza
velo come prova del progresso della nazione. L’ascesa dei partiti isla-
misti e l’evolversi delle relazioni tra la Turchia e la Comunità europea
(che ha avuto una posizione oscillante sul suo ingresso nell’unione
così come sulla stessa questione del velo), ha reso il suo antico ruolo
quantomeno più incerto. Per i laicisti, le first ladies velate sono l’an-
titesi delle figlie di Mustafa Kemal Atatürk: i loro foulard parlano di
oscurantismo, di regresso e di oppressione. Sono il simbolo di un
islam militante con appoggi internazionali, un’immagine che, sul pal-
coscenico globale, incontra la paura occidentale dell’islam terrorista.
Per gli islamisti, al contrario, le first ladies con il nuovo foulard islami-
co, se da un lato offrono un’immagine più fedele del paese, dall’altro
sono espressione di una Turchia musulmana, moderna e alla moda,
in grado di reggere il confronto sulla scena internazionale.
Complessivamente, la storia della questione del velo mostra che
lo svelamento, che spesso continua a essere invocato come strumen-
to per “salvare” le donne musulmane,97 può essere altrettanto segre-

97
L. Abu-Lughod, Do Muslim Women Need Saving?, Harvard University Press, Cam-
bridge (MA) 2013.
238  Ù Le verità del velo

gante e autoritario dell’imposizione del velo e che da solo non basta


a garantire pari opportunità alle donne. Mostra, ugualmente, che
dietro alle norme e ai discorsi sui corpi femminili esistono spazi di
agentività e forme di soggettivazione che eccedono le dicotomie es-
senzializzanti che li reificano. Le studentesse universitarie con il tür-
ban che per quasi trent’anni hanno rivendicato il diritto allo studio
nel rispetto dei principi dell’islam, parlando di democrazia, diritti
umani e libertà, sono espressione di una politica che si muove ai
margini di quella che usa strumentalmente il corpo delle donne;
una politica i cui attori sono le donne che individualmente e colletti-
vamente lottano per acquisire uno spazio in cui realizzare le proprie
aspirazioni. Le studentesse universitarie rappresentano un’esigua
minoranza delle donne che in Turchia si coprono il capo. Pur non
godendo della stessa visibilità e avendo spesso accesso a uno spettro
più ristretto di possibilità, anche le altre donne che si coprono il
capo, attraverso il velo, gli abiti, le pratiche, gli stili corporei, ecc.
esprimono la propria individualità e partecipano al cambiamento
sociale, mediando tra prescrizioni religiose, norme istituzionali, con-
trollo familiare, idee di modernità e cultura dei consumi.98

98
Cfr. A. Alemdaroğlu, Escaping femininity, claiming respectability: Culture, class and
young women in Turkey, in «Women’s Studies International Forum», 53 (2015), pp. 53-62.
Sguardi sul mondo cristiano Ù  239

Emilia Lazzarini
La questione del velo islamico tra Francia e Italia:
profili giuridici

1. Premessa

Da tempo immemore il continente europeo ospita individui pro-


venienti da terre lontane o che, pur europei, si mescolano e si stan-
ziano in territori diversi da quelli propri di origine; è interessante
notare, fra i tanti aspetti che caratterizzano le migrazioni, come negli
ultimi decenni sia stato imponente il fenomeno che ha visto indivi-
dui appartenenti a determinate confessioni religiose spostarsi verso
territori nei quali storicamente gli dèi sono altri. Ed è innegabile che,
tra le tante e variegate appartenenze e sensibilità oggi stanziate sul
Vecchio Continente, quelle che riflettono in modo più sgargiante
sono senza dubbio quegli immigrati di fede musulmana che portano
nel proprio bagaglio culture e tradizioni profondamente diverse da
quello che le società occidentali sono solite incontrare. Spiccano per-
ché sconvolgono: sconvolge il vestiario che propongono, sconvolgono
le abitudini alimentari, sconvolge che la moschea sia anche luogo di
culto, oltre ad essere, prima di tutto, luogo di comunità. Tutto questo
desta molti interrogativi, che a volte restano incompresi e non risolti,
trasformandosi in comodi divieti.
Così in Italia si vieta la costruzione di moschee perché luoghi anche
“militari”1 nei quali si fomenta il terrorismo. La regione Lombardia, il
Veneto e la Liguria hanno recentemente modificato le rispettive leggi
sul governo del territorio, nella parte riguardante i servizi religiosi:

1
Così la relazione alla proposta di legge dei deputati Gibelli e Cota n. 1246 della
XVI Legislatura. A tal proposito vedere N. Colaianni, Come la xenofobia si traduce in
legge: in tema di edifici di culto, in «Osservatorio delle libertà ed istituzioni religiose»,
giugno 2004, URL: <http://www.olir.it/areetematiche/73/documents/Colaianni_edi-
ficidiculto.pdf> (12/16).
240  Ù Le verità del velo

attraverso le armi di una burocrazia oppressiva, della richiesta di re-


quisiti di difficile individuazione e della discriminazione per quelle
confessioni che non hanno un’intesa con lo Stato (come l’Islam), ha
reso assai remota la possibilità di vedersi riconosciuto un luogo ove
esercitare il proprio culto.2 Ancora, si pretende di imporre l’utilizzo
di una lingua europea in luogo della lingua araba durante le funzioni
religiose, imponendo un controllo di merito sul contenuto di quelli
che sarebbero momenti attinenti la sfera religiosa e dunque come
tale insindacabile dal pubblico potere sedicente laico. È della regio-
ne Veneto la possibilità lasciata ai comuni che stipulino una conven-
zione ai fini urbanistici con le parti interessate per la costruzione di
un luogo di culto, di inserire in essa l’impegno a utilizzare la lingua
italiana per tutte le attività ivi svolte che non siano strettamente con-
nesse alle pratiche rituali di culto.3 Appare forse superfluo eviden-
ziare come una tale previsione contrasti apertamente non solo con
i principi fondamentali della Carta Costituzionale, ma anche con il
principio supremo di laicità che, come accennato, impone una netta
separazione tra gli affari religiosi e quelli secolari, senza considerare
poi l’oggettiva impossibilità di realizzazione pratica di essa, e come
essa rappresenti un inutile e fallimentare mezzo preventivo di con-
trollo e di tutela della sicurezza pubblica.4
Tuttavia, il luogo di culto non è l’unica vittima della scelleratez-
za delle scelte istituzionali: l’inserimento di menu halal nelle mense
scolastiche è avversato da più parti, nella convinzione che l’aderenza

2
La riforma approvata dalla Regione Lombardia (L.r. 3 febbraio 2015, n. 2 di modi-
fica alla L. r. n. 12/2005) ha subito il ricorso da parte della Presidenza del Consiglio dei
Ministri depositato il 9 aprile 2015 alla Corte Costituzionale la quale, il 24 marzo 2016
ha emesso la sentenza n. 63, dichiarando l’illegittimità costituzionale di buona parte
delle modifiche regionali; la proposta della Regione Veneto (l. r. n. 12/2016 di modifica
alla L.r. 11/2004) è stata anch’essa oggetto di impugnativa da parte del Presidente del
Consiglio, con ricorso depositato il 21 giugno 2016. La proposta della Regione Liguria
(di modifica alla L. R. n.4/1985 sulla disciplina urbanistica dei servizi religiosi) invece, è
stata approvata a maggioranza dalla Commissione Territorio e Ambiente il 20 settembre
scorso, e attende la prosecuzione del proprio iter. Per approfondimenti: N. Marchei, La
normativa della Regione Lombardia sui servizi religiosi: alcuni profili di incostituzionalità alla
luce della recente novella introdotta dalla legge «anti-culto», in «Quaderni di diritto e politi-
ca ecclesiastica», 2 (2015), pp. 411-424, spec. pp. 419-420, Corte Costituzionale, sent. n.
63/2016. Si veda A. Licastro, La Corte Costituzionale torna protagonista dei processi di transizio-
ne della politica ecclesiastica italiana?, in «Stato, chiese, pluralismo confessionale», (2016),
pp. 1-34, spec. pp. 18-19; G. Monaco, Confessioni religiose: uguaglianza e governo del territorio
(brevi osservazioni a margine della sentenza della Corte Costituzionale n. 63/2016), in «Forum
costituzionale», (2016), pp. 1-8, p. 3; E. Lazzarini, Governo del territorio, edilizia di culto,
ordine pubblico e libertà religiosa: l’arduo bilanciamento, in Atti del Convegno ADEC, Caserta, 6-7
ottobre 2016, in c.d.p.
3
Art. 31 ter comma 3 L.r. 12/2016 di modifica alla L. 11/2004.
4
Si rimanda alla sentenza del 15 gennaio 2010, n. 19, con cui il Tar Lombardia ha
annullato, per motivi di incompetenza, l’ordinanza del Sindaco di Trenzano (BS) n. 312
del 5 dicembre 2009 relativa all’uso della lingua italiana nelle riunioni pubbliche, e la
successiva ordinanza del 29 gennaio 2010, n. 71, con cui il Tribunale di Brescia è entrato
nel merito delle libertà costituzionalmente garantite, individuando nell’imposizione
dell’uso della lingua italiana un’illegittima disparità di trattamento.
Introduzione
Emilia Lazzarini ∙ La questione del velo islamico tra Francia e Italia Ù  241

a un dettame religioso non sia degno di considerazione quanto il


rispetto di intolleranze o problematiche alimentari, pur essendo, la
tutela della libertà religiosa e il diritto alla salute, entrambe di pari
rango costituzionale.
Si pretende infine di vietare un determinato abbigliamento per-
ché antidemocratico, inidoneo alla tutela di genere o potenzialmen-
te pericoloso per l’ordine pubblico e la sicurezza, senza svolgere non
solo un’indagine sul perché un simbolo viene indossato, ma nemme-
no per accertare la reale presenza del fenomeno.

2. Le fonti

La storia del velo, che costituisce l’oggetto della presente tratta-


zione, è in realtà molto più antica di quello che si possa immaginare,
e presenta radici che non affondano esclusivamente nella tradizione
islamica. Da sempre infatti il velo che copre il capo della donna è una
forma di abbigliamento che richiama memorie religiose: nel Nuovo
Testamento sono rinvenibili tracce di precetti riguardanti l’abbiglia-
mento e il buon costume: Paolo di Tarso, nella Prima Lettera ai Corinzi
[11,3], così esortava la comunità cristiana della città greca:

Voglio però che sappiate che di ogni uomo il capo è Cristo, e capo della
donna è l’uomo, e capo di Cristo è Dio. Ogni uomo che prega o profe-
tizza con il capo coperto, manca di riguardo al proprio capo. Ma ogni
donna che prega o profetizza senza velo sul capo, manca di riguardo
al proprio capo, poiché è lo stesso che se fosse rasata. Se dunque una
donna non vuol mettersi il velo, si tagli anche i capelli! Ma se è vergogna
per una donna tagliarsi i capelli o radersi, allora si copra. L’uomo non
deve coprirsi il capo, poiché egli è immagine e gloria di Dio; la donna
invece è gloria dell’uomo. E infatti non l’uomo deriva dalla donna, ma
la donna dall’uomo; né l’uomo fu creato per la donna, ma la donna per
l’uomo. Per questo la donna deve portare sul capo un segno della sua
dipendenza a motivo degli angeli.[...]Giudicate voi stessi: è conveniente
che una donna faccia preghiera a Dio col capo scoperto? Non è forse la
natura stessa a insegnarci che è indecoroso per l’uomo lasciarsi crescere
i capelli, mentre è una gloria per la donna lasciarseli crescere? La chio-
ma le è stata data a guisa di velo. 5

Nel codice di diritto canonico del 1917, rimasto in vigore fino al


1983, va ricordato il canone 1262 § 2 del Codice del 1917, che recita-
va testualmente

Gli uomini devono assistere alla messa, sia in chiesa che fuori, a testa
nuda, a meno che costumi locali o circostanze speciali non vi si oppongo-
no. Le donne invece, devono portare un velo sulla testa ed essere vestite
con modestia, specialmente quando si avvicinano alla mensa del Signore.

5
Nella versione della Bibbia CEI, consultabile sul sito internet della Santa Sede
<http://www.vatican.va/archive/ITA0001/__PXO.HTM> (12/16).
242  Ù Le verità del velo

Se con il tempo nella tradizione cristiana l’osservanza di tali pre-


cetti è andata indubbiamente scemando, l’Islam ha invece fortemen-
te enfatizzato il concetto di pudore e modestia nell’interazione tra
membri di sesso opposto, soprattutto attraverso un codice di abbiglia-
mento per certi versi abbastanza puntuale.
Per sgomberare il campo da dubbi, è innegabile che il porto del
velo per una donna islamica è un preciso obbligo coranico: nel Libro
sacro per i fedeli musulmani infatti, si tratta della questione del velo
in due Sure particolari, senza tuttavia prescriverne alcuna forma par-
ticolare.
La prima è la Sura n. 24, detta Sura della Luce, al versetto 31:

E di’ alle credenti che abbassino i loro sguardi e custodiscano le loro


vergogne e non mostrino troppo le loro parti belle, eccetto quel che di
fuori appare, e si coprano i seni d’ un velo —khumur— e non mostrino
le loro parti belle altro che ai loro mariti, o ai loro padri, o ai padri dei
loro mariti, o ai loro figli, o ai figli dei loro mariti, o ai loro fratelli, o ai
figli dei loro fratelli, o ai figli delle loro sorelle, o alle donne musulma-
ne, o agli schiavi di loro proprietà, o ai servi maschi privi di genitali, o ai
fanciulli impuberi che ignorano tutto delle parti nascoste delle donne,
e che non battano i piedi cosi che si scorgano le loro bellezze nascoste. E
volgetevi tutti a Dio, o credenti, affinché possiate prosperare!6

“Velo” in questo caso, è la traduzione della parola khmur, cioè


“qualcosa con cui una donna copre la propria testa”, da “far scendere
fin sul petto”, così da potere coprire “orecchie, collo e anche la parte
sporgente dei seni”.7 La donna ha l’obbligo di tenere tale compor-
tamento vestiario in presenza di persone non strettamente legate al
nucleo familiare.
Il secondo richiamo coranico alla materia è contenuto nella Sura
n. 33, Sura delle fazioni alleate, al versetto 59:

O Profeta! Di’ alle tue spose e alle tue figlie e alle donne dei credenti
che si ricoprano dei loro mantelli —jalabib—: questo sarà più atto a di-
stinguerle dalle altre e a che non vengano offese.8

In questo passo si trova il termine jalabib,9 tradotto come “man-


tello”, o letteralmente “ampio indumento esterno”. Risulta dunque
evidente che il codice di abbigliamento islamico per le donne non

6
Trad. it. in A. Bausani (a cura di), Il Corano, Rizzoli, Milano 2010, p. 255.
7
I dizionari arabi più conosciuti così traducono il versetto. Cfr. ad esempio, Al-
Munjid (Daru ’l-Mashriq, Beirut 1986), p. 195; at-Turayhi, Majma‘u ’l-Bahrayn, vol.1
(Daftar Nashr, Tehran 1408 AH), p. 700. Cfr. at-Tusi, at-Tibyan, vol. 7 (Maktabatu ’l-
l‘lam al-Islami, Qum 1409 AH), p. 428; at-Tabrasi, Majma’u ’l-Bayan, vol. 7 (Dar Ihyai
’t-Turathi ’l-‘Arabi, Beirut 1379AH), p. 138
8
A. Bausani (a cura di), Il Corano, cit., p. 311
9
Cfr., tra i dizionari arabi, ad esempio, al-Munjid, p. 96; at-Turayhi, Majma‘u ’l-
Bahrayn, vol. 1, p. 384.
Introduzione
Emilia Lazzarini ∙ La questione del velo islamico tra Francia e Italia Ù  243

prescrive soltanto un velo che copre la testa, il collo e il seno (khu-


mur), ma include altresì l’abito completo, il quale deve essere lungo
e largo.
Per i sostenitori dell’interpretazione letterale del Corano, i Sala-
fisti in particolare, questi versetti sarebbero “chiari” ed esigerebbero
l’uso del velo o addirittura del niqab. Tuttavia, secondo parte della
dottrina razionalista musulmana, l’uso del velo non è un obbligo:
Gamal al-Banna, fratello del fondatore dei Fratelli musulmani, ritie-
ne che ai nostri giorni l’imposizione del velo non sia più valida, in
considerazione del fatto che questi versetti nascono in un momento
in cui ogni donna, da Medina ad Atene, era velata.10 D’altra parte
molte musulmane, in Tunisia o in Turchia, anche ferventi praticanti,
indossano il velo solo durante la preghiera, mentre altre, più anzia-
ne, lo portano sia per tradizione che per pudore. Recentemente l’i-
mam di al-Azhar, il grande istituto di teologia del Cairo, ha dichiara-
to che l’uso del velo integrale, del niqab in particolare, è “un’usanza
tribale e non deriva dal culto”,11 annunciando di volerlo vietare alle
studentesse dell’Università di cui è rettore. Lo sceicco Khaled Bento-
unès, guida spirituale del sufismo magrebino, ha affermato che “si è
fatto del velo uno strumento ideologico per avere uno stereotipo di
donna modello”,12 denunciando così questa uniforme dell’ideologia
salafita.

3. Tipologie e geografia del velo

Nonostante la grande spaccatura all’interno della stessa dottrina


islamica, la richiesta del velo, da considerare oggi cogente o meno, è
innegabilmente un ordine religioso contenuto nel Corano, che rap-
presenta un obbligo non circoscritto nel tempo e nello spazio, ad
esempio ad orari di preghiera o a luoghi sacri.
Il suo significato è quello di mettere in luce il pudore e la sobrietà
che deve caratterizzare la donna islamica quand’ella si relazioni con
estranei, anche se non è escluso tuttavia che in tempi di instabilità
sociale svolgesse anche la funzione di proteggere le donne dalle ag-
gressioni.
L’Islam non entra nel merito dello stile: questo è l’aspetto dinami-
co della sharia, la legge sacra, che provoca interazione tra religione
e cultura. Per quanto attiene al colore e al materiale del velo infatti,
ogni gruppo musulmano può seguire l’ingiunzione coranica in ac-

.10
Sito internet dedicato al pensiero di Gamal al-Banna <http://www.islamiccall.
org/L%27Enseignement%20de%20Gamal%20al-Banna%20%281%29.htm> (01/16).
11
<http://www.aton-ra.com/egitto/notizie-egitto/attualita-politica-egiziana/185-
imam-anti-velo-al-azhar.html> (12/16). Si veda inoltre <http://www.thenational.ae/
news/world/africa/egyptian-cleric-praises-frances-ban-on-niqab> (12/16).
12
<http://ilblogdibarbara.ilcannocchiale.it/2011/02/27/il_salafismo_in_dieci_do-
mande.html> (12/16).
244  Ù Le verità del velo

cordo al proprio retroterra culturale. L’hijāb è un ampio fazzoletto, di


colori diversi, che cela orecchie, nuca e capelli. È la forma più sem-
plice di copertura del capo, e nelle fogge più alla moda può essere di
qualunque colore, ornamento e tessuto.
Il chādor è un soprabito di origine persiana, di forma rotonda,
che copre quasi tutto il corpo, si chiude sotto il mento ma lascia il
volto scoperto. Molto diffuso in Iran, è visibile anche in altri Paesi
mediorientali; alcune donne integrano il chador coprendosi anche
le mani con guanti neri. Esistono altri tipi di coperture non inte-
grali (come al Amira, Shayla) simili all’hijab ma allacciate in modi
diversi, oppure composte da un sottocopricapo tubolare che copre
testa e collo.
Infine, le coperture cosiddette integrali. Il burqa è un capo di ab-
bigliamento utilizzato soprattutto in Afghanistan, dove è nato, ma è
diffuso anche in Pakistan e nell’India musulmana; è una specie di
mantello che copre ogni parte del corpo femminile, con una retina
a maglie fitte dinanzi agli occhi. Spesso di colore azzurro, in Afgha-
nistan viene reintrodotto obbligatoriamente nel 1996, durante il re-
gime dei Talebani, poi abolito da un decreto del governo Karzai nel
dicembre 2002.
Il niqab è una copertura generalmente di colore scuro, che am-
manta l’intera figura, con una fessura all’altezza degli occhi. Di solito
si compone di due parti, divise fra loro: la prima è formata da un
fazzoletto di stoffa collocato al di sotto degli occhi a coprire naso e
bocca, e legato al di sopra delle orecchie, mentre la seconda parte è
formata da una porzione di stoffa molto più ampia della prima, che
nasconde i capelli e buona parte del busto, da legare dietro alla nuca.
È diffuso preminentemente in Arabia Saudita, ma anche in India e
Pakistan.
In qualche ordinamento islamico vige l’obbligo di portare il velo,
in altri invece è una mera facoltà, in altri ancora è addirittura vietato.
In Arabia Saudita ad esempio è imposto alle donne, nelle scuole e nei
luoghi pubblici di coprire il capo, le braccia e le gambe con un par-
ticolare tipo di velo (abayaa), obbligo fatto osservare da uno speciale
corpo di polizia religiosa.
In Egitto è invece fatto divieto di portare il niqab, e le allieve di
scuole pubbliche superiori possono essere autorizzate a portare un
copricapo a patto che non copra il viso.
In Turchia è fatto divieto di indossare uniformi religiose in pub-
blico, compreso il velo per le donne, mentre da notizie recentissime
e non ancora confermate emerge che il governo marocchino avreb-
be vietato la produzione e la vendita del burqa per motivi legati alla
sicurezza.13

13
<http://www.ilfattoquotidiano.it/2017/01/11/marocco-vietata-la-produzione-
e-la-vendita-del-burqa-messo-al-bando-perche-criminali-lhanno-usato-per-mascherar-
Introduzione
Emilia Lazzarini ∙ La questione del velo islamico tra Francia e Italia Ù  245

4. Il velo islamico in Europa

In Europa la regolamentazione del fenomeno del velo islamico


è in costante evoluzione e mutamento. Apripista delle leggi cd. an-
tiburqa è stata la Francia dell’allora Presidente Sarkozy, seguita dal
Belgio, il quale nel luglio 2011 ha emanato una legge volta a vietare
la dissimulazione del volto nei luoghi pubblici, giudicata conforme
alla Costituzione dalla Cour constitutionnelle nel dicembre 2012. Inte-
ressante il bilancio a qualche anno dall’entrata in vigore: se le donne
integralmente velate alla promulgazione della legge ammontavano
a poco più di duecento su 400.000 fedeli musulmani sul territorio
belga, all’ultima rilevazione del primo semestre del 2015 le infrazioni
alla legge così si contavano: 13 nel 2012, 16 nel 2013, 25 nel 2014 e 8
per i primi sei mesi del 2015.14
La Cancelliera tedesca Angela Merkel ha recentemente rivolto un
appello per vietare forme di coperture integrali quali burqa e niqab in
Germania, in quanto non compatibili con il modello di integrazione
tedesco,15 proposta già avanzata dal Ministro dell’interno:16 il pun-
to però è sempre lo stesso, cioè verificare quale portata possiede il
fenomeno. Il Zentralrat der Muslime in Deutschland sottolinea l’esiguo
numero di soggetti potenzialmente interessati dalla norma,17 mentre
il politologo egiziano-tedesco Hamed Abdel-Samad, famoso per le
sue critiche nei confronti dell’islam ravvisando persino un legame tra
tale religione e fascismo, stima che le donne che indossano il burqa
o il niqab in Germania sarebbero tra le 200 e le 300 unità, lo 0,01%
se si conta che nella Repubblica tedesca vivono circa 4.7 milioni di
musulmani.18
Il parlamento svizzero ha votato a favore del divieto di indossare il
burqa in pubblico lo scorso settembre,19 mentre il Canton Ticino aveva
già previsto il divieto con multe per i trasgressori fino a 10.000 euro.20

si/3310257/> (12/16); <http://www.lastampa.it/2017/01/11/esteri/la-svolta-laica-del-


marocco-vietato-produrre-e-vendere-burqa-IvAROhQIwdzfdN9szbhB4K/premium.
html> (12/16).
14
<http://www.rtbf.be/info/societe/detail_la-loi-contre-le-niqab-et-la-burqa-en-
belgique-a-cinq-ans?id=9363590> (12/16).
15
<https://www.theguardian.com/world/2016/dec/06/angela-merkel-cdu-partial-
ban-burqa-niqab-german> (12/16).
16
<https://www.washingtonpost.com/world/europe/german-interior-minister-
proposes-partial-burqa-ban/2016/08/19/c91f224c-65f6 -11e6 -8b27-bb8ba39497a2_
story.html?utm_term=.a957b682c24c> (12/16).
17
<http://www.rbb-online.de/politik/beitrag/2016/08/zentralrat-der-muslime-
kritisiert--burkaisierung--der-innenpolit.html> (12/16).
18
<https://www.washingtonpost.com/news/worldviews/wp/2016/08/19/germanys-
potential-burqa-ban-has-a-problem-where-are-the-burqas/?utm_term=.a20a8d783282>
(12/16).
19
<https://www.thesun.co.uk/news/1862610/swiss-parliament-votes-to-ban-muslim-
women-from-wearing-the-burka-in-public/> (12/16).
20
<http://nytlive.nytimes.com/womenintheworld/2015/11/24/swiss-state-passes-
law-banning-women-from-wearing-a-burqa-in-public/> (12/16).
246  Ù Le verità del velo

Anche l’Olanda ha intrapreso la strada del bando delle coperture


integrali,21 mentre nulla di rilevante emerge dalle terre inglesi.
Per esigenze di trattazione non sarà possibile indagare approfon-
ditamente come i diversi stati europei abbiano affrontato e succes-
sivamente regolamentato la questione del velo islamico, motivo per
cui si prenderanno in esame, in un’ottica comparativa che consenta
di evidenziare tratti comuni e diversi, esclusivamente gli esempi di
Francia e Italia.

5. Il velo in Francia

La Francia accoglie una popolazione di oltre 65 milioni di abi-


tanti, 27 dei quali si dicono cattolici, 1,2 si professano protestanti,
600.000 di religione ebraica e altrettanti praticanti buddhisti, 300.000
ortodossi e 4 milioni musulmani.22
La ragione dell’alto numero di persone di fede musulmana è pre-
valentemente da ricercare intorno al fenomeno dei flussi migratori
pre e post colonizzazione: non è casuale, infatti, che la maggior parte
di islamici provenga dalle regioni del Maghreb, —Marocco, Algeria,
Tunisia e Sahara occidentale— storica colonia francese, il rimanente
dall’Africa del Nord e dalla Turchia.23
Non è facile stimare precisamente il numero di donne velate in-
tegralmente che vive sul territorio francese, tuttavia alcuni dati rela-
tivamente soddisfacenti sono stati resi noti a seguito di una duplice
indagine delle istituzioni francesi, che da tempo coltivavano l’inten-
zione di bandire l’uso di alcuni simboli religiosi nella sfera pubblica:
una nota della Direzione Centrale del Servizio Informativo francese
sostiene che le donne in burqa e in niqab al 2009 sarebbero 367,24
mentre nello stesso anno il governo ha realizzato un altro studio se-
condo cui il numero si aggirerebbe intorno alle 2000 unità.25 Anche
se il gap tra i due dati non è trascurabile, ancora più interessante è
vedere chi sarebbero tali donne. La metà di loro ha meno di trent’an-

21
<http://www.independent.co.uk/news/world/europe/dutch-burqa-veil-ban-
holland-votes-for-partial-restrictions-some-public-places-a7445656.html> (12/16).
22
Cfr le tabelle di A.-S. Lamine fornite nel suo Les formes actuelles du retour du
religieux, in La laïcité à l’épreuve du voile intégral, in «Regards sur l’actualité», 364 (2010),
pp. 21-34. Dati più recenti sono consultabili on line alla pagina <http://www.worldatlas.
com/articles/religious-demographics-of-france.html> (12/16) ed evidenziano un
lieve aumento dei fedeli musulmani (tra il 7 e il 9%), e <http://www.lemonde.fr/les-
decodeurs/article/2015/05/07/une-grande-majorite-de-francais-ne-se-reclament-d-
aucune-religion_4629612_4355770.html> (12/16) che segnala la grande diffusione in
Francia dell’ateismo.
23
P. Portier, Les mutations du religieux dans la France contemporaine, in «Social
Compass», 59, 2 (2012), pp. 193-207, p. 200.
24
Pubblicato, tra gli altri, anche da Le Monde nell’edizione del 30 luglio 2009
<http://w w w.lemonde.fr/cgi-bin/ACH ATS/acheter.cgi?offre=A RCHI V ES&type_
item=ART_ARCH_30J&objet_id=1092641&xtmc=burqa&xtcr=545> (12/16).
25
<www.droitdesreligions.net/rddr/burqa_mission.htm> (12/16).
Introduzione
Emilia Lazzarini ∙ La questione del velo islamico tra Francia e Italia Ù  247

ni, i due terzi sono di nazionalità francese —dunque appartenenti


alla seconda o terza generazione di immigrati—, e la quasi totalità
di queste proviene dai grandi agglomerati urbani (Provenza, Costa
Azzurra ecc.); nella maggioranza dei casi il burqa è frutto di una scelta
volontaria.
Negli ultimi anni sono state numerose le proposte di legge pre-
sentate all’Assemblée Nationale contro pratiche religiose ritenute lesive
della dignità della donna,26 e si può ritenere che il vero fil rouge che
lega tali iniziative sia senza alcun dubbio la strenua difesa della laicité,
che impone di lottare contro ogni simbolo cultural-religioso che pos-
sa attentare ai valeurs républicaines, e innestare il pericoloso germe del
Comunitarismo. A questo punto risulta opportuno procedere a un
breve excursus sugli interventi legislativi che hanno visto la Francia in
prima linea in questa importante battaglia.
È del 23 giugno 2009 la nomina di una Missione di Informazione
alla quale viene affidato il preciso obiettivo di individuare i luoghi
in Francia in cui è diffusa la pratica di portare il velo integrale27 così
da comprenderne origini ed evoluzione. I lavori della Missione si
conclusero circa sei mesi dopo e il Rapporto di Informazione con-
cludeva non solo per la contrarietà del velo integrale ai valori della
Repubblica Francese in quanto simbolo di schiavitù per le donne,28
ma anche che esso non era da considerare un simbolo legato alla
religione islamica.29

26
Si ricorda, tra gli altri, la proposta di legge n. 1121 presentata a settembre 2008
dal deputato Jacques Myrad (UMP), rubricata Invito a lottare contro gli attacchi alla dignità
della donna, determinati da certe pratiche religiose, il cui testo integrale è consultabile on
line alla pagina <http://www.assemblee-nationale.fr/13/propositions/pion1121.asp>
(12/16); o ancora, <http://www.assemblee-nationale.fr/13/propositions/pion2272.asp>
(12/16).
27
A. Levade, Épilogue d’un débat juridique: l’interdiction de la dissimulation du visage
dans l’espace public validée!, in «La Semaine Juridique Edition Générale», 43, 25 (2010),
pp. 1977-1981.
28
J.P. Feldman, Burqa: une loi dangereuse et inutile, in «Recueil Dalloz», 2010, p. 387, URL:
<http://w w w.dalloz.fr/documentation/lien?famille=revues&dochype=RECUEIL/
CHRON/2010/0065> (12/16): «trois députés, dont […] Jean-François Copé et François
Baroin, ont proposé eux aussi une résolution sur l’attachement au respect des valeurs
républicaines qui, dans son point 2, affirme que l’exercice de la liberté d’expression,
d’opinion ou de croyance, ne saurait être revendiqué par quiconque afin de s’affranchir
des règles communes au mépris des valeurs, des droits et des devoirs qui fondent la
société. Bref, pas de liberté pour le ennemis de la liberté! Surtout, nos trois députés ont
déposé une brève proposition de loi dont l’article 1er est ainsi libellé: Nul ne peut, dans
les lieux ouverts au public, et sur la voie publique, porter une tenue ou un accessoire ayant pour
effet de dissimuler son visage, sauf motifs légitimes, précisés par décret en Conseil d’État. L’exposé
des motifs nous apprend qu’il s’agirait d’une loi de libération et non d’interdiction. Nicole
Ameline, qui a corédigé cette proposition, indique dans une tribune écrite avec treize
autres députées UMP, que certaines décisions individuelles sont une insulte à la fraternité, et
que la loi d’interdiction doit être générale ou ne pas être».
29
Si legge infatti nel Rapporto, interamente consultabile a questo indirizzo <http://
www.assemblee-nationale.fr/13/rap-info/i2262.asp#P371_45277> (12/16): «Mais par-
delà la diversité de ces tenues vestimentaires, l’étude de leur histoire semble indiquer que
leurs origines remontent à une époque antérieure à la conversion à l’islam des sociétés ou
248  Ù Le verità del velo

L’attività legislativa cominciò a muoversi nel solco tracciato dal


Rapporto, e nel febbraio 2010 tre deputati dell’UMP, Copè, Ameline
e Baroin depositavano un disegno di legge incentrato sul divieto di
portare vestiti o accessori tali da celare il volto nei luoghi aperti al pub-
blico e nelle strade,30 mentre l’11 maggio dello stesso anno l’Assemblée
votava una risoluzione sul rispetto dei valori repubblicani minacciati da
pratiche religiose radicali.31 Dieci giorni più tardi il primo Ministro fran-
cese Fillon presentava all’Assemblée un nuovo disegno di legge che
vietava di celare il volto nei luoghi pubblici, giustificando l’iniziativa
con il motto Liberté, Égalité, Fraternité, e parità fra i sessi. I tempi era-
no maturi per squarciare quel velo che, ad opinione dei proponenti,
simboleggiava un rifiuto totale per i principi repubblicani e la non
volontà di integrazione.
I tempi serrati e le scadenze rispettate con cui venne gestito l’iter,
suggerivano la precisa intenzione del legislatore di far sì che quelle
idee si consolidassero in legge: il 13 luglio 2010 il testo venne adot-
tato dall’Assemblea Nazionale con la quasi unanimità dei consensi,
e il 14 settembre 2010 venne definitivamente approvato dal Senato.
Il 7 ottobre 2010 la legge riceveva la bolla di conformità del “Conseil
Constitutionnel” non solo alla Costituzione,32 ma anche alla Dichia-
razione dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino, nella parte in cui illu-
stra il contenuto della Libertà, intesa nella sua più ampia accezione,
che incontra quale unico limite la libertà altrui. È la legge —e solo
essa— che può vietare azioni ritenute nocive alla società; ma tutto
ciò che non è ritenuto contro essa non può essere, per alcun motivo,
impedito.33

groupes au sein desquels elles sont portées. Il en va ainsi de la burqa, tenue des femmes
appartenant au groupe des Pachtounes, tribu qui vit de part et d’autre des frontières de
l’Afghanistan et du Pakistan. Lors de son audition, M. Dalil Boubakeur, recteur de la
Grande Mosquée de Paris, a affirmé avec force que “le terme existe bien dans la littérature
antéislamique arabe (Antar Ibn Shahad) mais c’est un archaïsme qui n’a rien à voir avec l’islam”.
De même, le niqab, principalement porté aujourd’hui par les femmes des pays du Golfe
arabo-persique, peut se présenter comme une tenue ayant des origines plus historiques
que religieuses. M. Dalil Boubakeur a ainsi fait observer aux membres de la mission que le
terme arabe de niqab, devenu n’gueb chez les Touaregs, désigne également un voile couvrant
le visage (sauf les yeux) et destiné à se protéger des ardeurs du soleil ou des vents du sable.
Cette explication rejoint la thèse défendue par Mme Dounia Bouzar, anthropologue du
fait religieux, suivant laquelle “la burqa […] existait avant l’islam [...]. Comme la burqa, le
niqab était d’abord un vêtement traditionnel. Mais certains savants ont réussi à l’imposer au début
du XXe siècle en Arabie saoudite”».
30
<http://www.assemblee-nationale.fr/13/propositions/pion2283.asp> (12/16).
31
<http://www.assemblee-nationale.fr/13/ta/ta0459.asp> (12/16).
32
<http://www.conseil-constitutionnel.fr/conseil-constitutionnel/francais/les-
decisions/acces-par-date/decisions-depuis-1959/2010/2010-613-dc/decision-n-2010-
613-dc-du-07-octobre-2010.49711.html> (12/16).
33
«Eu égard aux objectifs qu’il s’est assignés et compte tenu de la nature de la peine
instituée […], le législateur a adopté des dispositions qui assurent, entre la sauvegarde de
l’ordre public et la garantie des droits constitutionnellement protégés, une conciliation
qui n’est pas manifestement disproportionnée» (Cons. Const., déc. n. 2010-613 DC).
La libertà di manifestare opinioni religiose, per esempio, può essere ristretta solo se
Introduzione
Emilia Lazzarini ∙ La questione del velo islamico tra Francia e Italia Ù  249

L’11 ottobre 2010 è la data ufficiale di promulgazione della


legge,34 e il 2 marzo 2011 il Primo Ministro Fillon emana la Circolare
attuativa.35 La portata della norma si riduce a un mero divieto: l’art. 1
vieta a chiunque di portare, nei luoghi pubblici, tenute che possano
occultare il volto. Il luogo pubblico è da intendersi, secondo l’art.
2, come l’insieme delle vie pubbliche, degli spazi aperti, e tutti quei
contesti destinati a un servizio pubblico; si può incorrere nella vio-
lazione della legge in questione se si cela il volto nei luoghi a libero
accesso (parchi pubblici per esempio) e quelli che la legge italiana
nominerebbe luoghi aperti al pubblico, cioè teatri, cinema, locali. Nel-
la definizione di servizio pubblico poi, rientra ogni tipo di istituzio-
ne, giurisdizione, amministrazione pubblica: i Comuni, i Tribunali,
le Prefetture, gli ospedali, le Poste, le scuole, i musei, le biblioteche
ecc.36 Non va dimenticato che al secondo comma dello stesso art. 2
sono previste alcune deroghe all’applicazione della legge, in ipote-
si specifiche e tassativamente disciplinate: se la tenuta in questione
è prescritta o autorizzata da disposizioni legislative o regolamentari,
come ad es. l’ art 431-1 del Code de la Route, che impone l’uso del
casco a chi guida un qualsiasi due ruote a motore,37 ovvero se la tenu-
ta è giustificata da ragioni di salute o da motivi professionali, come
ad es. l’art L4122-1 del Code du Travail.38 L’ultima deroga è prevista
se l’indumento che cela il volto è ascrivibile nell’ambito di pratiche
sportive, feste, manifestazioni artistiche o tradizionali (ad es. il Car-
nevale). Orbene, risulta evidente che le processioni religiose siano
da considerare condotte scriminate qualora presentino un carattere
tradizionale; non così invece per gli abbigliamenti indossati per mo-

contraria all’ordine pubblico (artt. 4, 5, 10 della Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e


del Cittadino).
34
Il testo definitivo della Legge, in vigore al 3 agosto 2011, è consultabile on line
alla pagina <http://www.legifrance.gouv.fr/affichTexte.do;jsessionid=0CAFA910C2D
266BA3F2EDD6D82338339.tpdjo05v_2?cidTexte=JORFTEXT000022911670&dateTex
te=20110803> (12/16).
35
Circulaire du 2 Mars 2011, relative à la mise en oeuvre de la loi n. 2010-1192 du 11
octobre 2010 interdisant la dissimulation du visage dans l’espace public, URL: <http://www.
legifrance.gouv.fr/affichTexte.do?cidTexte=JORFTEXT000023654701> (12/16).
36
Interessante a questo proposito, l’intervento di O. Bui-Xuan, L’espace public: l’émergence
d’une nouvelle catégorie juridique? Réflexions sur la loi interdisant la dissimulation du visage dans
l’espace public, in «Dalloz», RFDA 2011, p. 551, URL: <http://www.dalloz.fr/documentation/
lien?famille=revues&dochype=RFDA/CHRON/2011/0123> (12/16): «À notre connais-
sance, il s’agit de la première loi qui comporte la notion d’espace public et qui tente de
la définir. Ce faisant, la loi du 11 octobre 2010 juridicise l’espace public, lequel relevait
jusqu’à présent davantage du champ de la philosophie politique ou des sciences de la
communication».
37
<http://www.legifrance.gouv.fr/affichCodeArticle.do;jsessionid=BDA27418CD79
A6A3948F72BE454192EF.tpdjo11v_1?idArticle=LEGIARTI000006842331&cidTexte=L
EGITEXT000006074228> (12/16).
38
Le istruzioni fornite dal datore di lavoro precisano quando la natura dei rischi
le giustifica, quali le condizioni di utilizzazione delle attrezzature da lavoro, i mezzi di
protezione, le sostanze e le preparazioni pericolose. Cfr. <http://www.legifrance.gouv.
fr/affichCodeArticle.do?idArticle=LEGIARTI000006903153> (12/16).
250  Ù Le verità del velo

tivi religiosi o culturali, anche se indossati senza la finalità di rendersi


irriconoscibile, ma semplicemente per esprimere una propria identi-
tà cultural-religiosa.39
La sanzione prevista per la violazione della legge è una contrav-
venzione di massimo 150 euro, la quale può essere sostituita o ac-
compagnata dal cd. “stage di cittadinanza”40 con la precisa finalità
di (re)indirizzare il reo verso i valori repubblicani d’uguaglianza e di
rispetto della dignità umana, lasciando dunque trasparire il pensie-
ro che chi indossa un simile vestiario ha necessariamente bisogno
di essere educato a determinati principi e valori che evidentemente
ignora. Ci si chiede allora perché non rendere esplicito il divieto di
indossare veli islamici integrali, posto che chi viene fermato indos-
sando una sciarpa che cela gran parte del proprio volto non abbi-
sogna, si immagina, di lezioni di cittadinanza. Di più, un’apposita
collaborazione interministeriale41 ha dato vita a una rete di infor-
mazione per le persone direttamente coinvolte, incentrata preva-
lentemente sul dialogo con gli individui che celano il proprio volto,
al fine di indurre costoro a rinunciare a una pratica confliggente
con i valori della Repubblica. Il concreto svolgimento di tale opera
è affidata ad associazioni, a movimenti per i diritti delle donne42 e a
mediatori sociali.
Dunque la riflessione che tale intervento normativo è diretta-
mente rivolto a colpire un fenomeno particolare è più che confer-
mata anche dall’inserimento di nuovo articolo del codice penale,43
che prevede la pena fino a un anno di reclusione e fino a 30.000
euro di ammenda per coloro che, con violenza, minaccia, abuso
d’ufficio o abuso di potere, costringono uno o più individui, in ra-
gione del loro sesso, ad occultare il volto; se poi la vittima dovesse
essere un minore, la pena verrebbe aumentata del doppio.44

39
Sull’elemento soggettivo della condotta, in particolare M. Lacaze, La contravention
de port d’une tenue destinée à dissimuler le visage dans l’espace public: incertitude des fondements
juridiques, inchoérence des catégories pénales, in «Droit Pénal», 2 (2012), pp. 7-13.
40
c.d. “Obligation d’accomplir le stage de citoyenneté mentionné au 8° de l’article
131-16 du code pénal”.
41
Ministère de la Ville, Ministère des Solidarités et de la cohésion sociale, Ministère
de l’Interieur.
42
Ad es. Centre d’information sur les droits des femmes (CDIFF).
43
Art. 225-4-10 c.p., “De la dissimulation forcée du visage”.
44
La Circolare applicativa della legge, dopo averne precisato il campo di
applicazione, regolamenta la condotta da tenere in occasione di pubblici servizi, in
particolare quella del caposervizio: egli è responsabile, nell’insieme dei poteri che
detiene per assicurare il buon funzionamento dell’amministrazione, circa l’attuazione
dei regolamenti interni. Egli ha il dovere di illustrare lo spirito e l’economia della
legge agli agenti sottoposti alla sua autorità, affinché questi ultimi si conformino alle
disposizioni e possano garantirne il rispetto fra gli utenti del servizio pubblico. È
previsto un controllo all’accesso dei luoghi in cui viene svolto un pubblico servizio: a
partire dall’11 aprile 2011, un agente incaricato di servizio pubblico sarà autorizzato
a impedire l’accesso a soggetti con il volto coperto, ma senza disporre di alcun
potere per costringere una persona a scoprirsi o a uscire. Nel caso in cui l’agente
Introduzione
Emilia Lazzarini ∙ La questione del velo islamico tra Francia e Italia Ù  251

Dall’entrata in vigore della legge sino al 2014, l’Observatoire de la


laicité ha stimato 1300 condanne a seguito della violazione della legge
e una media di 350 controlli all’anno di donne con burqa o niqab.
Ovviamente la maggior parte delle condanne sono state emesse nei
confronti di donne integralmente velate, ma una parte ha riguardato
alcuni manifestanti perché indossavano il casco.45
Per completezza di trattazione, un ultimo accenno merita un feno-
meno che ha avuto grande eco mediatica nel corso dell’estate scorsa
e che ha visto protagoniste le donne integralmente velate sulle spiag-
ge francesi: il c.d. burkini. Una quindicina di sindaci, tra cui quelli
di Cannes e di Villeneuve Loubet, hanno adottato ordinanze volte a
vietare l’uso di indumenti inappropriati sulle spiagge, tali da arrecare
pregiudizio non solo all’igiene, alla sicurezza, all’ordine pubblico ma
anche alla laicità e alla neutralità dei servizi comuni.46 Misure queste
ultime che ancora una volta evidenziano come tragici eventi quali
gli attentati terroristici che recentemente hanno visto protagonista la
Francia, conducano all’adozione di misure legislative da un lato liber-
ticide nei confronti del fenomeno religioso e dall’altro inopportune
nonché inutili sul piano del contrasto al terrorismo e della tutela del-
la sicurezza pubblica.

6. Il velo in Italia

La situazione italiana è radicalmente diversa da quella francese


poc’anzi descritta, anche se le premesse sono per certi versi assimila-
bili a quelle della realtà francese.
Secondo il XXV Rapporto Immigrazione 2015 di Caritas/Migran-
tes, all'inizio del 2015 risiedevano in Italia 60.795.612 persone, di
cui 5.014.437 stranieri, in maggioranza donne (52,7%); il dato è in
aumento di circa l'1,9% rispetto all'anno precedente. Primi fra tutti
gli immigrati provenienti dalla Romania (22.6%), seguiti da Abanesi
(9,8%) e Marocchini (9%).47 I musulmani in Italia raggiungerebbero

ricevesse un rifiuto di ottemperare alla regola, egli dovrà fare appello alle Forze di
Polizia o della Gendarmeria Nazionale. La Circolare applicativa si conclude con un
importante capoverso sull’informazione al pubblico circa la nuova legge nel periodo
precedente la sua entrata in vigore: un’informazione generale, compiuta attraverso
manifesti informativi, recanti lo slogan “la Repubblica si vive a viso scoperto”, cartacei
o elettronici, da porsi nei luoghi pubblici o destinati a pubblico servizio, in modo
visibile. Al manifesto possono essere accompagnati anche depliant informativi, volti a
precisare meglio il contenuto della legge, disponibili anche in lingua inglese e araba,
oltre che francese.
45
<http://www.gouvernement.fr/la-laicite-aujourd-hui-note-d-orientation-de-l-
observatoire-de-la-laicite> (12/16).
46
Per approfondimenti, D. Ferrari, “I sindaci francesi contro il “burkini”: la laicità a
ferragosto? A prima lettura di alcuni recenti orientamenti giurisprudenziali”, in «Stato, Chiese
e pluralismo confessionale», (2016), pp. 1-24.
47
Sintesi del XXV Rapporto Caritas/Migrantes, consultabile all'indirizzo
<http://s2ew.caritasitaliana.it/materiali/dossier_immigrazione/Sintesi_Rapporto_
Immigrazione_2015.pdf> (12/16).
252  Ù Le verità del velo

la cifra di 1.645.902,48 mentre una stima del Cesnur a inizio 2006, ne


contava 850.000. In pochi anni dunque, la cifra sarebbe raddoppiata.
Sul numero di donne islamiche che indossano coperture integrali c’è
una sorta di mistero: non è mai stata presa in considerazione l’idea
di intraprendere un’indagine su quante lo portano ovvero sui motivi
che spingono loro a portarlo.
Dal 2008 —anno in cui è stata presentata la prima proposta di
legge sul tema49— ad oggi, si contano oltre una decina di proposte di
legge depositate in Parlamento, quasi tutte accomunate dalla previ-
sione di una modifica dell’art. 5 della L. 152 del 1975.50
Orbene, prima di approfondire la previsione e il dettato di tale
legge, vi è da indagare il profilo della libertà di abbigliamento in Ita-
lia. In primis è opportuno volgere lo sguardo ai principi costituzionali
su cui si basa il nostro ordinamento.51
È di facile comprensione il motivo per cui nell’ordinamento fran-
cese il porto di simboli religiosi non ricada sotto la tutela della libertà
religiosa, ma anzi, proprio per il carattere ostentatorio che indumen-
ti riconducibili a una tradizione religiosa presentano, sarebbero da
considerare atti di pressione, proselitismo, propaganda,52 con un’ac-
cezione certamente negativa. Nell’ordinamento italiano invece pare
si debba pervenire a tutt’altre conclusioni. In primo luogo, l’art. 19
della Costituzione sancisce che “tutti hanno diritto di professare li-
beramente la propria fede religiosa in qualsiasi forma, individuale o
associata, di farne propaganda e di esercitarne in privato o in pubbli-
co il culto”; la libertà religiosa e il diritto di professare la propria fede
in qualsiasi forma, individuale o associata, di farne propaganda con
il solo limite del buon costume. Ancora, il primo comma dell’art. 21
della Costituzione recita “Tutti hanno diritto di manifestare libera-
mente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo
di diffusione”: quest’ultimo potrebbe pacificamente includere anche
il porto di un velo, di un turbante, di un abito tradizionale, se lo si
considera quale estrinsecazione di proprie credenze.53
Dunque, già a prima vista il quadro è assai diverso rispetto a quello
di altri Paesi: nel nostro ordinamento è garantita la più ampia libertà

48
Dato contenuto nel XXII dossier statistico sull'immigrazione di Caritas/
Migrantes, riportato da K. Rhazzali e M. Equizi, I musulmani e i loro luoghi di culto, in E.
Pace (a cura di), Le religioni nell’ Italia che cambia: mappe e bussole, Carocci, Roma 2013,
pp. 47-72, p. 52.
49
Proposta di legge n. 627, d’iniziativa dei deputati Binetti e altri, “Modifica
all’articolo 5 della legge 22 maggio 1975, n. 152, in materia di utilizzo di mezzi, anche
aventi connotazione religiosa, atti a rendere irriconoscibile la persona”, presentata il 30
aprile 2008.
50
Vedi infra pp. 264 ss.
51
Così S. Carmignani Caridi, Libertà di abbigliamento e velo islamico, in S. Ferrari (a
cura di), Musulmani in Italia: la condizione giuridica delle comunità islamiche, il Mulino,
Bologna 2000, pp. 223-234, pp. 223 ss.
52
Così il Consiglio di Stato si pronuncia il 27 novembre 1989.
53
S. Carmignani Caridi, Libertà di abbigliamento e velo islamico, cit.
Introduzione
Emilia Lazzarini ∙ La questione del velo islamico tra Francia e Italia Ù  253

di espressione, di qualsivoglia tipo, e nessuna restrizione è prevista


per opere di proselitismo della propria religione, anzi, il fatto che i
Padri Costituenti abbiano inserito esplicitamente questa declinazio-
ne della libertà religiosa nell’articolo che la sancisce è un segnale
molto forte di come il fenomeno religioso dovrebbe essere inteso e
di come soprattutto si presenta la nostra laicità. Lo Stato laico ha
il dovere di tutelare la più ampia e libera espressione dell’apparte-
nenza religiosa di ogni individuo presente sul territorio nazionale e
conseguentemente non pretendere alcuna forma di laicità necessaria
da parte di questi.54
Parrebbe dunque non sussistere alcun limite di rango costituzio-
nale per ciò che concerne la manifestazione della propria apparte-
nenza religiosa con riguardo agli indumenti indossati, ma anzi, pare
percepirsi quasi un diritto costituzionalmente garantito di indossare
l’abbigliamento religioso preferito.55 A questo punto, considerata
l’ampia libertà lasciata dalla Legge fondamentale, appare necessario
indagare se la fonte ordinaria o primaria in senso lato presenti limiti
alla libertà di abbigliamento.
La giurisprudenza degli ultimi decenni si è trovata più volte ad
occuparsi della cd. “pubblica decenza” e della idoneità o meno di
un indumento a indurre a una falsa individuazione della persona o
ad occultarne o ridurne la riconoscibilità. A tal riguardo si può ri-
cordare l’art. 726 c.p., “Atti contrari alla pubblica decenza. Turpiloquio”,
contravvenzione di polizia recentemente depenalizzata,56 che puni-
va atti contrari alla pubblica decenza, in un luogo pubblico, aperto
o esposto al pubblico. La giurisprudenza ha da sempre sostenuto la
contrarietà alla pubblica decenza di tutti quegli atti che offendevano
la costumatezza, la pudicizia e la morale, capaci di destare, in una
persona normale e nel momento storico di cui trattavasi, un senti-
mento di ripugnanza, disagio o disapprovazione.57
Non è certamente di secondaria importanza che la valutazione
venga effettuata tenendo in considerazione un preciso momento
storico: in tal modo la Corte di Cassazione sancisce proprio la varia-
bilità di tale parametro (e dunque l’applicabilità dell’intero artico-
lo) al mutare del costume sociale e dalla percezione che la società

54
Così N. Colaianni, Eguaglianza e diversità culturali e religiose: un percorso costituzionale,
il Mulino, Bologna 2006, pp. 164 e ss.
55
V. Pacillo, J. Pasquali Cerioli, I simboli religiosi: profili di diritto ecclesiastico italiano e
comparato, Giappichelli, Torino 2005, p. 29.
56
L. 28 aprile 2014, n. 67.
57
Così S. Carmignani Caridi, Libertà di abbigliamento e velo islamico, cit., pp. 223 e ss.
La giurisprudenza ha avuto modo di riferirsi a tal proposito al “senso di riprovazione,
di disgusto o disagio” e al rispetto dei minimi “criteri di convivenza, di decoro e di
costumatezza”: a tal proposito si veda: Cassazione penale sez. III 22 settembre 2011
n. 40012; Cassazione penale sez. III 22 maggio 2012 n. 23234; Cassazione penale sez.
III 04 ottobre 2012 n. 47868; Cassazione penale sez. III 05 dicembre 2013 n. 5478;
Cassazione penale sez. III 23 aprile 2014 n. 39860.
254  Ù Le verità del velo

tutta ha rispetto a un dato fenomeno, e così se nel 1969 era reato


indossare nelle pubbliche vie un succinto bikini, negli anni ’80 si di-
scuteva circa la liceità del topless sulle spiagge, arrivando ad esclude-
re rilevanza penale dell’esibizione del seno nudo femminile.58 Trat-
tasi pertanto di limiti mobili alla libertà di abbigliamento, ma legati
a una rilevanza sessuale che sembra non poter calzare con riguardo
al velo islamico, il quale anzi tenderebbe proprio a perseguire lo
scopo opposto.59
Se si esclude dunque la questione della pubblica decenza, ci si
dovrà interrogare se esista un limite al porto del velo islamico con ri-
ferimento alla legislazione strettamente a tutela dell’ordine pubblico.
Occorre tuttavia, ribadire l’importante distinzione tra le donne
islamiche indossanti veli che coprono solo il capo lasciando il viso
scoperto (hijab, chador etc.) e quelle invece coperte da veli integrali
(burqa e niqab). Per le prime, e con riguardo alla legislazione qui in
esame, qualsiasi dubbio è stato dissipato dalla Circolare del Ministero
dell’Interno n. 4/95 del 14 marzo 1995, con la quale si autorizzava
l’uso del copricapo nelle fotografie destinate alle carte di identità
di cittadini professanti culti religiosi che impongano l’uso di questo.
Con altra circolare del Dipartimento Pubblica Sicurezza del 24
luglio 2000 il Ministero dell’Interno ha precisato che il turbante, il
chador e il velo, indossati per motivi religiosi, “sono parte integrante de-
gli indumenti abituali e concorrono, nel loro insieme, ad identificare chi li
indossa, naturalmente purché mantenga il volto scoperto” e pertanto tali
accessori sono ammessi, anche in ossequio al principio costituzionale
di libertà religiosa, purchè i tratti del viso siano ben visibili. Detta cir-
colare, di conseguenza, estende il principio della precedente, riferita
alla carta d’identità, anche alle fotografie da apporre sui permessi di
soggiorno.
Possibili problematiche potrebbero dunque sorgere solo in ipote-
si di veli integrali, che occultino interamente —o quasi— il volto. Tut-
tavia, come visto, nell’attuale ordinamento italiano non vi sono leggi
che disciplinano l’utilizzo di indumenti indossati per motivi religiosi
o culturali; dunque, indossare il velo non è reato e in particolare esso
non sembra neppure vietato dall’art. 572 della L. n. 152 del 1975, il
quale originariamente puniva chi, munito di casco protettivo o col
volto altrimenti coperto, partecipava a pubbliche manifestazioni.60
Vero è che appena un paio d’anni più tardi il Parlamento varava la L.
n. 533/1977, modificativa della precedente, che così recitava:

58
Cassazione Penale, III sezione, sentenza n. 3557/2000.
59
S. Carmignani Caridi, Libertà di abbigliamento e velo islamico, cit.
60
«[...] è vietato prendere parte a pubbliche manifestazioni, svolgentisi in luogo
pubblico o aperto al pubblico, facendo uso di caschi protettivi o con il volto in tutto o
in parte coperto mediante l’impiego di qualunque mezzo atto a rendere difficoltoso
il riconoscimento della persona. Il contravventore è punito con l’arresto da uno a sei
mesi e con l’ammenda da lire cinquantamila a lire duecentomila» (art. 572 della L. n.
152 del 1975).
Introduzione
Emilia Lazzarini ∙ La questione del velo islamico tra Francia e Italia Ù  255

È vietato l’uso di caschi protettivi, o di qualunque altro mezzo atto a


rendere difficoltoso il riconoscimento della persona, in luogo pubblico
o aperto al pubblico, senza giustificato motivo. È in ogni caso vietato
l’uso predetto in occasione di manifestazioni che si svolgano in luogo
pubblico o aperto al pubblico, tranne quelle di carattere sportivo che
tale uso comportino. Il contravventore è punito con l’arresto da uno a
due anni e con l’ammenda da 1.000 a 2.000 euro. Per la contravvenzio-
ne di cui al presente articolo è facoltativo l’arresto in flagranza.

Va sicuramente ricordato che tale legge, nota come “Legge Re-


ale”, nasceva in un particolare contesto emergenziale di violenza e
guerriglia urbana, tristemente passato alla storia con il nome di “Anni
di Piombo”. Premesse dunque, completamente diverse da quelle di
oggi: nessuna esigenza di armonizzare una società multiculturale,
nessuna emergenza immigratoria, e conseguentemente nessuna ne-
cessità di studiare politiche di integrazione.
Parrebbe pertanto ardito assimilare al militante guerrigliero degli
anni Settanta o al terrorista internazionale dei giorni nostri, la don-
na musulmana che indossa il velo: rischierebbe anzi di intensificare
quell’inopportuno automatico collegamento tra terrorismo e religio-
ne musulmana. E invece le odierne proposte di legge si muovono
proprio nel segno di una estensione del dettato della L. Reale, pale-
sando una forzatura: il bene giuridico protetto da tale norma infatti è
l’ordine pubblico, e la ratio della stessa è da ricercarsi nella necessità
di evitare che taluno possa rendersi irriconoscibile, mentre è del tut-
to palese che la donna musulmana non si prefigge lo scopo dell’irri-
conoscibilità, ma osserva un precetto tradizional-religioso.
Per il dettato della legge, un divieto assoluto vi è solo in occasione
di manifestazioni in luogo pubblico o aperto al pubblico, mentre in
tutti gli altri casi è vietato l’uso di tali mezzi solo se avviene “senza giu-
stificato motivo”. Anche con le più recenti modificazioni61 la legge ha
mantenuto inalterata la scriminante del “giustificato motivo”.
Il legame tra la Legge Reale e il velo islamico nasce nel settembre
del 2005, quando, in occasione della celebrazione di un processo
per fatti di terrorismo, nell’aula d’udienza della Corte d’Assise di
Cremona si presentava una donna tunisina, musulmana, indossante
un burqa, per assistere a un processo a carico del marito.62 All’entra-
ta dell’aula le forze dell’ordine chiedevano alla signora di sollevare
il velo affinché la si potesse identificare. La stessa adempiva imme-
diatamente, consentendo così il raffronto con la fotografia presente
sulla propria carta d’identità. Tuttavia la donna veniva ugualmente
tratta in giudizio per rispondere del reato previsto dall’art 5 della L.

61
Ad esempio con il pacchetto antiterrorismo varato alla fine del Luglio 2005.
62
Trib. Cremona, 27 novembre 2008, M., in «Corriere del Merito», 2009, p. 294 s.,
con nota di N. Folla, L’uso del burqa non integra reato, in assenza di una previsione normativa
espressa (pp. 295-302).
256  Ù Le verità del velo

n. 152 del 1975: dopo tre anni il Tribunale di Cremona63 ha assolto


la donna, escludendo che al concetto di “altri mezzi atti a rendere diffi-
coltoso il riconoscimento della persona” potesse essere ricondotto il burqa,
ove esso non abbia avuto in concreto l’effetto di rendere difficoltoso
il riconoscimento della persona che lo indossava, considerata la sua
immediata disponibilità a prestarsi al riconoscimento.
Orbene, il motivo che ha spinto sia sindaci che parlamentari a
emettere ordinanze e presentare proposte di legge specificamente
sul divieto di portare il velo islamico integrale è dato da una serie
di concause, primo fra tutti il cd. “Fattore 11 settembre” e non da
ultimo il terrore seminato da Isis, il sedicente stato islamico di Iraq
e Siria, ma anche un aumento consistente del numero di migran-
ti di fede musulmana, e naturalmente il compiersi del processo di
integrazione europea, responsabile della sopravvenuta liquidità dei
confini tra gli Stati. L’insieme di tali fattori ha generato una vera e
propria “sindrome da accerchiamento”64 che ridesta l’orgoglio iden-
titario e rigetta la contaminazione di culture troppo diverse. Tutto
questo unito al fatto, non trascurabile, che la giurisprudenza italiana
—del Consiglio di Stato in particolare— dal ’77 in poi, ha sempre
avallato il porto del burqa e del niqab in quanto rientranti nel “giusti-
ficato motivo” (religioso) che l’art. 5 indicava quale deroga al divieto
di rendersi irriconoscibile.65
Ma si veda nel dettaglio. Il primo significativo e coraggioso inter-
vento in materia è da ricondurre all’emanazione di una Circolare del
Dipartimento di Polizia di Stato nel Dicembre 2004, in cui il burqa
veniva definito “segno esteriore di una tipica fede religiosa” e “prati-
ca devozionale”; identificare ripetutamente una persona indossante
tale indumento, sarebbe stato un eccesso non consentito.66 Tale Cir-
colare veniva emanata in seguito all’ordine impartito dal Sindaco di
Treviso alla Polizia Municipale, di denunciare le donne con il burqa,
ai sensi dell’articolo 5 della legge n. 152 del 1975.
È solo nel 2007 che viene dissipato l’intrigo giuridico fra la legge e
la Circolare, che parevano in contrasto tra loro: il Prefetto di Treviso
stabilì che “Se per motivi religiosi una persona indossa il burqa, lo può fare,
basta che si sottoponga all’identificazione e alla rimozione del velo”.
La stessa cautela non accompagnò l’ordinanza del Sindaco del Co-
mune di Azzano Decimo (PN),67 contenente un generale “invito”,
in qualità di Ufficiale di Governo, “a tutti coloro che in concreto possono

63
Sentenza depositata il 27 novembre 2008.
64
V. Pacillo, La discriminazione nei rapporti tra Stato e confessioni religiose, in T. Casadei
(a cura di), Lessico delle discriminazioni tra società, diritto e istituzioni, Diabasis, Reggio
Emilia 2008, pp. 95-108, p. 98.
65
Fra gli altri, E Raffiotta, La Francia approva il divieto del burqa: e l’Italia?, in
«Quaderni costituzionali», 4 (2010), pp. 846-848.
66
A. Lorenzetti, “Il divieto di indossare “burqa” e “burqini”. Che genere di ordinanze”, in
«Le Regioni», (2010), pp. 349-366, pp. 352 e ss.
67
Ord. 24/2004 “Ordinanza generale in materia di pubblica sicurezza”.
Introduzione
Emilia Lazzarini ∙ La questione del velo islamico tra Francia e Italia Ù  257

trovarsi nelle condizioni descritte nella normativa” (per “normativa” si deve


intendere l’art. 5 L. 152/1975) di adeguarsi. Veniva stabilito che sulla
Polizia Municipale sarebbe gravato un generale incarico di vigilare
sul rispetto della citata ordinanza.68
Il Prefetto di Pordenone annullò tale ordinanza, sulla scorta an-
che di un parere del Ministero dell’Interno del 24 agosto 2004. La
reazione del Comune non si fece attendere: il Sindaco impugnò il
decreto prefettizio e il parere ministeriale, ma il Collegio respinse il
ricorso perché infondato: anzitutto il Sindaco, in quanto organo
del Comune, era privo di competenza ordinaria e generale nel caso
di specie, in quanto, avendo emesso un atto generale in materia di
pubblica sicurezza egli aveva agito in funzione di Ufficiale di Go-
verno e, quindi, nell’ambito di un rapporto gerarchico rispetto al
Prefetto, che ammette in capo a quest’ultimo il potere di annulla-
mento.69
Risulta poi inammissibile ridurre l’ordinanza sindacale che in-
terpreta il divieto di uso di caschi protettivi o di mezzi atti a rendere
difficoltoso il riconoscimento della persona ex art. 5 c. 1 della L.
152 del 1975 come espressamente riferibile al “velo che copre il volto”,
a una diffida al rispetto di una norma già esistente nell’ordinamen-
to. È infatti evidente che la disposizione di legge sia stata oggetto di
interpretazione analogica, vietata nel campo penale: infatti all’or-
dine (di legge) di non usare mezzi tali da rendere difficoltoso il
riconoscimento della persona, si sovrappone l’ordine (sindacale)
di considerare tali —a prescindere da ogni altra interpretazione—
anche i tradizionali veli delle donne musulmane.
È invece innegabile che a prescindere dai singoli casi concreti in
cui ogni ufficiale di pubblica sicurezza è tenuto a valutare caso per
caso se la norma di legge possa o meno ritenersi rispettata, un gene-
rale divieto di circolare in pubblico indossando tali tipi di coperture
può derivare solo da una norma di legge che lo specifichi.70
Il Consiglio di Stato, al quale il Sindaco di Azzano fece appello,
confermò la dipendenza del Primo cittadino dall’Autorità Provincia-
le di Pubblica Sicurezza, il Prefetto. In virtù di questa gerarchia, il
Prefetto ha il potere di sospendere le competenze in materia di pub-
blica sicurezza, e annullare d’ufficio gli atti adottati dal sindaco quale
Ufficiale di Governo che siano illegittimi.

68
Il caso di Azzano Decimo non fu isolato: altri comuni emanarono ordinanze sul
tema. Si ricorda, a titolo esemplificativo, il Comune di Drezzo (CO), ord 8/2004, annullato
dal Prefetto di Como, e il Sindaco ha riapprovato l’ordinanza nel 2009; nell’anno 2009 i
Comuni di Fermignano (PU), Varallo (VC), Brugherio (MB), Montegrotto (PD).
69
TAR Lombardia, I Sez, n. 10/2001. A ciò va aggiunta la considerazione che l’atto
prefettizio impugnato richiama espressamente anche l’art. 2 del R.D. n. 773/1931, nel
cui generale potere di assumere ordinanze d’urgenza ben può rientrare anche un atto
di annullamento di altre ordinanze d’urgenza assunte da soggetti incompetenti.
70
Sent. TAR, n. 645/2006: <http://www.fvgsolidale.regione.fvg.it/infocms/
repositPubbl/table12/5/allegati/41-2006-1610tarfvg.pdf> (12/16).
258  Ù Le verità del velo

Dal punto di vista contenutistico, il Consiglio rilevava l’errato ri-


ferimento all’art. 85 R.D. n. 773 del 1931 “Divieto di comparire masche-
rato in luogo pubblico”, in quanto burqa e niqab non sono maschere,
ma tradizionali capi d’abbigliamento di alcune popolazioni. Ugual-
mente non risultava nemmeno pertinente il richiamo all’art. 5 del-
la L. 152 del 1975, che vieta l’uso di caschi protettivi o di qualun-
que altro mezzo atto a rendere difficoltoso il riconoscimento della
persona, in luogo pubblico o aperto al pubblico, senza giustificato
motivo, poiché un divieto assoluto vi è solo in occasione di manife-
stazioni in luogo pubblico o aperto al pubblico, tranne quelle di ca-
rattere sportivo, mentre negli altri casi l’utilizzo di mezzi potenzial-
mente idonei a rendere difficoltoso il riconoscimento è vietato solo
se avviene “senza giustificato motivo”; in riferimento al velo, questo
non ha lo scopo di evitare o rendere difficoltoso il riconoscimen-
to, ergo non spetterebbe al giudice sentenziare sull’appartenenza o
meno di tale simbolo a una confessione religiosa, né ancor prima,
verificare se trattasi di simbolo culturale o religioso.

7. Le proposte di legge italiane

In questi anni il Parlamento italiano si è attivato per la regola-


mentazione del fenomeno del velo islamico integrale. Come si è già
avuto modo di evidenziare, le proposte avanzate si riducono quasi
tutte a una modifica della Legge Reale: ad esempio, le Proposte
di legge Sbai, 71 Cota72 e Mantini-Tassone73 avanzano la medesima
intenzione di modifica dell’art. 5 della suddetta legge, con la sola
difformità che il primo e il terzo nominano espressamente “gli in-
dumenti denominati burqa e niqab” mentre il disegno di Cota solo un
generale “indumento indossato in ragione della propria affiliazione reli-
giosa”. Non a caso le tre proposte, rispettivamente del Maggio 2009,
del 2 Ottobre 2009 e del 3 Dicembre 2009, sono state abbinate per
una trattazione congiunta in Commissione Affari Costituzionali. Ri-
mangono sostanzialmente invariati, per tutti e tre i disegni di leg-
ge, i restanti due commi dell’articolo, i quali prevedono la misura
dell’arresto da uno a due anni e un’ammenda da 1000 a 2000 euro
per chi contravviene; rimane inalterata anche la misura dell’arresto
facoltativo in flagranza.

71
Proposta di legge n. 2422, d’iniziativa dei deputati Sbai, Contento, “Modifica
all’articolo 5 della legge 22 maggio 1975, n. 152, concernente il divieto di indossare gli
indumenti denominati burqa e niqab”, presentata il 6 maggio 2009.
72
Proposta di legge n. 2769, d’iniziativa dei deputati Cota e altri, “Modifica
dell’articolo 5 della legge 22 maggio 1975, n. 152, in materia di tutela dell’ordine
pubblico e di identificabilità delle persone”, Presentata il 2 ottobre 2009.
73
Proposta di legge n. 3018, d’iniziativa dei deputati Mantini, Tassone, “Modifica
dell’articolo 5 della legge 22 maggio 1975, n. 152, concernente il divieto di indossare gli
indumenti denominati burqa e niqab”, Presentata il 3 dicembre 2009.
Introduzione
Emilia Lazzarini ∙ La questione del velo islamico tra Francia e Italia Ù  259

L’elaborato di Amici (e altri)74 invece, preferisce non correre il


rischio di sfiorare derive discriminatorie o islamofobiche, e dunque
propone un nuovo c. 2 all’art. 5 in cui specifica che nel “giustificato
motivo” scriminante la condotta del c. 1, rientrano sicuramente indu-
menti indossati per ragioni religiose o culturali, a condizione però
che la persona mantenga il volto scoperto e chiaramente riconosci-
bile; la formulazione del nuovo c. 2 art. 5 secondo Amici dovrebbe
presentarsi nel seguente modo: “Costituisce in ogni caso giustificato mo-
tivo, per i fini di cui al comma 1, l’uso di indumenti indossati per ragioni di
natura religiosa, etnica o culturale, a condizione che la persona mantenga il
volto scoperto e chiaramente riconoscibile”. Una proposta di modifica di
cui non si coglie la ratio: mai si è messo in discussione in Italia —for-
tunatamente— il diritto di circolare in luoghi pubblici indossando
qualsivoglia indumento o segno che rappresenti la propria fede re-
ligiosa, come una kippa, una croce o un foulard, e sicuramente que-
sto, proprio perché nessun problema ha mai generato con riguardo
all’ordine pubblico, non può rientrare fra i giustificati motivi di cui
all’art. 5. Appare chiaro in questo caso che esigenze di tornaconto
elettorale hanno indotto il parlamentare a presentare una proposta
celata dietro un buonismo di maniera che nessun apporto, né al di-
battito politico, né a quello giuridico, può fornire.
Vi è poi una voce fuori dal coro: la proposta Vassallo75 (e altri),
presentata nel Febbraio 2010, in cui sostanzialmente si propone di
codificare, in un testo di spessore sia giuridico che culturale diverso
dagli altri, l’orientamento della giurisprudenza amministrativa che
fino ad oggi ha caratterizzato il tema oggetto della presente mate-
ria: l’uso di indumenti che coprono il volto, motivati da ragioni re-
ligiose o culturali, costituiscono un giustificato motivo di cui all’art.
5, e solo nei casi ove si renda necessario da specifiche e motivate
ragioni, la persona deve consentire di essere riconosciuta mostran-
do il volto. Una proposta tuttavia che, viste le premesse e la boz-
za licenziata dalla Commissione in Agosto 2011, non avrà fortuna.
Nell’ampia Relazione preliminare (sette pagine), il Parlamentare
approfondisce l’inquadramento dei diversi tipi di velo esistenti nella
cultura islamica, e ripercorre la vicenda del comune di Azzano De-
cimo, con le pronunce del TAR e del Consiglio di Stato, già viste
in precedenza. Ricordando poi il caso francese, il deputato si sof-
ferma sui dati riguardanti il numero esiguo di donne che portano
il velo integrale in Francia, aggiungendo però un aggiungendo un

74
Proposta di legge n. 3020, d’iniziativa dei deputati Amici e altri, “Modifica
dell’articolo 5 della legge 22 maggio 1975, n. 152, in materia di tutela dell’ordine pubblico
e di uso di indumenti indossati per ragioni di natura religiosa, etnica o culturale”,
presentata il 4 dicembre 2009.
75
Proposta di legge n. 3205, d’iniziativa dei deputati Vassallo e altri, “Modifica
dell’articolo 5 della legge 22 maggio 1975, n. 152, in materia di tutela dell’ordine
pubblico e di uso di indumenti indossati per ragioni di natura religiosa o etnico-
culturale”, presentata l’11 febbraio 2010.
260  Ù Le verità del velo

dato assai rilevante, soprattutto per il dibattito sviluppatosi intorno


alla violazione che subirebbe la donna musulmana costretta ad in-
dossare un certo tipo di abbigliamento: la metà delle donne d’Ol-
tralpe che usa il velo integrale ha un’età al di sotto di trent’anni e i
due terzi di queste sono di nazionalità francese, dunque appartenenti
alla seconda o terza generazione dell’immigrazione degli anni ’50.
Vassallo si chiede poi se un ipotetico divieto di porto di tali indu-
menti sia un modo efficace per contrastare il fenomeno di eventuali
violenze private, e risponde negativamente perché da un lato un
divieto in tal senso non farebbe che aggravare la segregazione di
donne vittime di violenza dei famigliari più integralisti e dall’altro,
la legge di un ordinamento democratico, intriso di libertà fonda-
mentali dell’individuo non può non tutelare chi liberamente scelga
di indossare tali abiti: non è compito di un ordinamento verificare
se ciò che per una data comunità costituisce precetto religioso o di
qualsivoglia genere, corrisponda a una corretta esegesi e interpre-
tazione di testi fondativi (nella specie il Corano) ovvero sia frutto di
evoluzioni culturali. Vassallo cita l’esempio della clausura, e si spin-
ge oltre, ricordando che nel mondo che siamo abituati a conoscere
esistono pratiche di vera mortificazione del proprio corpo, come ad
esempio il porto del cilicio, che ugualmente sarebbero lesivi della
integrità della persona e della dignità umana.
Vassallo propone, per meglio tutelare la libertà individuale delle
donne, di intervenire con programmi volti a contrastare, sul piano
culturale, arcaismi di cui esse siano eventualmente vittime, piutto-
sto che distorcere impropriamente leggi che riguardano la sicurezza
pubblica, che poco hanno a che vedere col tema in questione. Dun-
que la proposta di modifica Vassallo verte sul comma 2 dell’art. 5 L.
n. 152 del 1975:

Ai fini del divieto di cui al comma 1, costituisce giustificato motivo la


circostanza che l’uso di indumenti che coprono il volto sia motivato da
ragioni di natura religiosa o etnico-culturale. In tali casi, ove richiesto
da un pubblico ufficiale o da un incaricato di pubblico servizio per mo-
tivate e specifiche esigenze di pubblica sicurezza la persona deve tempe-
stivamente consentire di essere riconosciuta mostrando il volto, al fine
della momentanea identificazione.

Il 13 luglio 2011 è stato licenziato dalla Commissione Affari Costi-


tuzionali il testo base denominato

Disposizioni concernenti il divieto di indossare indumenti o utilizzare


altri mezzi che impediscono il riconoscimento personale, l’introduzio-
ne del reato di costrizione all’occultamento del volto e modifiche alla
legge 5 febbraio 1992, n. 91, in materia di cittadinanza,

che dunque propone un intervento modificativo dell’art. 5 L. n.


152 del 1975, in luogo della creazione di una legge ex novo.
Introduzione
Emilia Lazzarini ∙ La questione del velo islamico tra Francia e Italia Ù  261

All’art 1 del testo base si legge infatti che l’articolo 5 è sostituito


dal seguente:
Art. 5. - 1. Salvi i casi di giustificato motivo previsti dal comma 2, è
vietato celare o travisare il volto o comunque rendere impossibile il ri-
conoscimento personale volontariamente76 in luogo pubblico o aperto
al pubblico, anche mediante caschi protettivi o indumenti o accessori
di qualsiasi tipo, compresi quelli di origine etnica e culturale, quali il
burqa e il niqab. È in ogni caso vietato celare o travisare il volto o comun-
que rendere impossibile il riconoscimento personale in occasione di
manifestazioni che si svolgono in luogo pubblico o aperto al pubblico.
2. Fermo il divieto di cui al comma 1, costituiscono giustificato motivo
le ipotesi previste o espressamente autorizzate da disposizioni legisla-
tive o da regolamenti o la presenza di condizioni di salute certificate o
di motivi professionali. costituiscono altresì giustificato motivo a par-
tecipazione77 a feste o manifestazioni artistiche o tradizionali, nonché
la partecipazione autorizzate dalle autorità di pubblica sicurezza.78
3. Salvo che il fatto costituisca più grave reato, il contravventore del
divieto di cui al comma 1 è punito con l’ammenda da 300 a 500 euro.
Il giudice può disporre che l’ammenda sia commutata nell’obbligo di
prestare servizio non retribuito presso associazioni o enti che svolgono
attività sociali e culturali comunque finalizzate al raggiungimento di
obiettivi di integrazione sociale.

All’art. 2 del testo base è previsto un nuovo articolo del codice


penale, il 612ter, rubricato come “Costrizione all’occultamento del volto”,
che punisce con la reclusione da quattro a dodici mesi e con la multa
da 10.000 a 30.000 euro chiunque costringa taluno all’occultamento
del volto con violenza, minaccia o abuso di autorità tale da ingenerar-
gli un perdurante stato d’ansia o paura. La pena è raddoppiata se la
vittima è minore o disabile.
L’articolo 3 modifica la L. n. 91 del 1992, aggiungendo l’art. 24
bis, il quale preclude l’acquisto della cittadinanza per coloro i quali
sono stati condannati in via definitiva per il reato di cui all’art. 612
ter del c.p.
Nel testo adottato dalla Commissione è facile rinvenire il conte-
nuto delle proposte succitate; la novità risiede piuttosto nell’interdi-
zione all’acquisto della cittadinanza per chi sia stato condannato per
avere costretto taluno ad occultare il viso, misura che tuttavia può
dirsi coerente con la direzione intrapresa dalla Commissione con ri-
guardo al tema in esame.
Quello che stona è la scelta del legislatore con riguardo sia all’op-
portunità di regolamentare un fenomeno a dir poco marginale nel

76
La parola “volontariamente” è stata aggiunta in seguito all’approvazione
dell’emendamento 1.8 Flavia, Donadi, 2 agosto 2011.
77
Da “Costituiscono” a “partecipazione”: periodo aggiunto in seguito all’approvazione
dell’emendamento 1.16 Zaccaria, Amici, Pollastrini, Vassallo, Naccarato, 2 agosto 2011.
78
Da “autorizzate” a “sicurezza”: periodo aggiunto in seguito all’approvazione
dell’emendamento 1.18 Flavia, Donati 2 agosto 2011.
262  Ù Le verità del velo

contesto italiano e che di per sé non ha mai generato rilevanti pro-


blemi di ordine pubblico, sia sul come si è deciso di intervenire. Non
stupisce più di tanto il fatto che la bozza della Commissione sia un
testo bipartisan: tolta la voce di Vassallo, non sono presenti rilevanti
differenze di vedute sul tema fra esponenti di centro-destra, centro-
sinistra e centro, a parte qualche sfumatura che a destra è più colo-
rata con riguardo all’ordine pubblico, mentre a sinistra non manca
mai un riferimento alla dignità della donna e all’eguaglianza di tutti
i consociati.
Sconcerta la scelta del legislatore di regolare la materia inter-
venendo sull’art. 5 L. n. 152 del 1975, che come si è ripetuto più
di una volta, nasce con intenti ben diversi dal facilitare l’identifi-
cazione di una donna musulmana velata. Forse al legislatore non
è ben chiara la definizione di “ordine pubblico”, ovvero la crede
una categoria mobile e malleabile al servizio della politica. La Corte
Costituzionale rese, quasi cinquant’anni fa, una magistrale, nonché
attuale, definizione di ordine pubblico, come quel

valore costituzionalmente protetto, quale patrimonio dell’intera col-


lettività; sono pertanto costituzionalmente legittime le norme che ef-
fettivamente, ed in modo proporzionato, siano rivolte a prevenire e a
reprimere i turbamenti all’ordine pubblico (intesi come insorgere di
uno stato concreto ed effettivo di minaccia all’ordine legale mediante
mezzi illegali idonei a scuoterlo) eventualmente anche mediante la li-
mitazione di altri diritti costituzionalmente garantiti.79

Si ammette, giustamente, la compressione di altri diritti tutelati


dalla Costituzione, a patto però che tale misura sia proporzionata
alla necessità di tutela della società rispetto a un dato fenomeno. E
pare potersi affermare che, di fronte a un divieto di indossare il velo
islamico integrale, la limitazione della libertà religiosa, della libertà
individuale piuttosto che di manifestazione del pensiero —a secon-
da se si considera il burqa o il niqab indumenti religiosi, tradizionali,
culturali, identitari— non sia giustificabile, in Italia, da esigenze di
tutela dell’ordine pubblico, e i motivi sono stati ampiamente rilevati
nel corso di questa trattazione.
Non che l’attuale XVII legislatura si distacchi dalle precedenti
per l’originalità nel trattare il tema del velo islamico.80 È dell’11 set-
tembre 2013 la proposta di legge Molteni (et al.)81 recante le modi-

79
Sent. 16 marzo 1962 n. 19.
80
Tra gli altri si veda anche la proposta di legge Vaccaro del 21 marzo 2013 “Modifica
dell’articolo 5 della legge 22 maggio 1975, n. 152, concernente il divieto dell’uso di
indumenti o altri oggetti che impediscano l’identificazione nei luoghi pubblici o aperti
al pubblico”, consultabile on line, URL: <http://www.camera.it/_dati/leg17/lavori/
schedela/apriTelecomando_wai.asp?codice=17PDL0003500> (12/16).
81
Molteni, Allasia, Attaguile, Borghesi, Matteo Bragantini, Buonanno, Busin,
Caparini, Grimoldi, Guidesi, Invernizzi, Marcolin, Gianluca Pini, Prataviera, Rondini.
Introduzione
Emilia Lazzarini ∙ La questione del velo islamico tra Francia e Italia Ù  263

fiche all’articolo 5 della legge 22 maggio 1975, n. 152, concernenti


il divieto dell’uso di indumenti o altri oggetti che impediscono l’i-
dentificazione nei luoghi pubblici o aperti al pubblico, con l’intro-
duzione degli articoli 612-ter del codice penale e 24-bis della legge 5
febbraio 1992, n. 91, concernenti il delitto di costrizione all’occulta-
mento del volto. La necessità di tale proposta, stando alla relazione
introduttiva dell’On. Molteni,82 sta nella

allarmante crescita esponenziale in Italia di centri islamici e di mo-


schee in molti casi abusivi. Nel giro di poco tempo sono sorte in tutta
Italia moschee di dimensioni enormi, centri culturali e religiosi, scuole
coraniche e attività commerciali gestite direttamente dalle comunità
musulmane (macellerie, centri telefonici eccetera). Sempre più spesso,
stando alle notizie pubblicate dagli organi d’informazione, ci trovia-
mo dinnanzi a casi emblematici nei quali è facilmente riscontrabile,
da un lato, il manifesto rifiuto da parte delle comunità musulmane
presenti in Italia di rispettare le normative vigenti e di adeguarsi alle
regole comportamentali e culturali del nostro Paese e, dall’altro lato,
l’atteggiamento superficiale di alcune istituzioni che, non compren-
dendone i rischi, adottano soluzioni semplicistiche, mettendo conse-
guentemente in pericolo la sicurezza dei cittadini.

Forse appare superfluo ogni commento, a cominciare dalla falsa


dichiarazione della crescita esponenziale di moschee (in Italia se
ne contano 6, e sono site a Roma, a Segrate (MI), a Ravenna e a
Colle Val d’Elsa (SI), a Palermo e a Catania), passando per l’incom-
prensibile accusa di esercitare attività commerciali —lecite— quali
ad esempio le macellerie, che non è ben chiaro quale tipologia di
problemi possa ingenerare con riferimento alla sicurezza urbana,
per poi tirare le somme che tutto quanto detto sta chiaramente a
significare la volontà di tali immigrati di non integrarsi con la po-
polazione italiana. Al di là di qualsiasi altra riflessione che non è
il caso di svolgere a questo proposito, è che proposte come queste
celano l’amara constatazione che rappresentanti politici ai quali è
stato dato mandato di rappresentare la democrazia del Paese siano
ben lontani dal dimostrare di possedere le conoscenze sufficienti
per affrontare tematiche ed emanare leggi che incidono così gran-
demente sulle libertà fondamentali degli individui.
L’intervento più recente, non legislativo ma rientrante nel sinda-
cato ispettivo esercitabile dall’organo legislativo, è un’interrogazio-
ne a risposta scritta firmata l’11 dicembre 2015 dell’On. Vincenza
Labriola del Gruppo Misto destinata al Ministero dell’Interno, che
invece di formare il proprio pensiero sul tema su articoli di dottrina
presenti in qualsiasi biblioteca giuridica, ovvero interventi di giuri-
sprudenza di non difficile accesso a maggior ragione per un Ono-

82
Consultabile on line, URL: <http://www.camera.it/_dati/leg17/lavori/stampati/
pdf/17PDL0013520.pdf> (12/16).
264  Ù Le verità del velo

revole della Repubblica, riporta nella sua interrogazione “articoli di


quotidiani”:
si apprende, da notizie di stampa, che il burqa, oltre a non essere im-
posto dal Corano, non sia nemmeno un simbolo del multiculturalismo
e dell’integrazione, lo avrebbero affermato sia dall’Imam inglese Taj
Hargey (intervista pubblicata su www.tempi.it del 18 luglio 2014) che
Amina Afzali, leader del movimento delle donne afghane, in un co-
municato radio a tutte le donne del Paese (www.republica.it mondo del
30 dicembre 2001); da un articolo, pubblicato da l’Eco di Bergamo il 3
dicembre 2015, si apprende che in regione Lombardia sia stata pre-
sentata alla giunta regionale dall’assessore alla sicurezza, protezione
civile e immigrazione, Simona Bordonali, una proposta normativa per
rafforzare le misure di sicurezza per l’accesso agli uffici della regione,
delle aziende sanitarie e ospedaliere, contenente il divieto di indossare
burqa, niqab, passamontagna e caschi integrali, al fine di difendere sia
i dipendenti che gli operatori ed i visitatori [...].

8. I motivi del divieto

8.1. La laicità velata

Si abbandoni dunque l’attività parlamentare odierna che pare


non apportare alcun valore aggiunto alle odierne riflessioni accade-
miche, e si cerchi dunque di capire le motivazioni ragionate che pos-
sono supportare un divieto di portare il velo islamico integrale.
La prima motivazione è che esso minerebbe la laicità dello Stato.
Il quadro è assai variegato e differente da Paese a Paese; si prendano
sempre i casi, in ottica comparatistica, di Francia e Italia.
Nel 2003 in Francia l’allora Presidente della Repubblica J. Chirac
nominava la Commissione Stasi con il compito di riflettere sull’appli-
cazione del principio di laicità nella Repubblica. Questa si concentrò
su uno snodo di fondamentale importanza per comprendere i carat-
teri della laicità francese: il fatto che tale principio si innalzi su due
presupposti, la neutralità di stato e la libertà di coscienza. Orbene, il
primo si concretizza in un onere negativo per lo Stato che deve aste-
nersi dall’interferire con le opinioni religiose e dal preferirne qualcu-
na, il secondo suggerirebbe un’azione positiva da parte dello Stato in
quanto garante necessario delle condizioni obiettive perché ogni in-
dividuo possa esercitare il suo diritto di praticare qualsivoglia religio-
ne. La Repubblica è costretta a vigilare e quindi occuparsi, dell’affare
religioso, ed è suo compito intervenire per una “sana convivenza” fra le
stesse. Tale premessa vale, evidentemente anche per l’Italia: il punto
di rottura tra le due esperienze è che la Francia cade nell’errore di
impostazione costituito da quel necessario ed ontologico contrasto
fra le diverse appartenenze, dal quale non possono che scaturire quei
divieti come quello di affissione nelle scuole dei simboli religiosi, o
quello, rivolto ai membri di una stessa comunità di influenzarsi l’un
l’altro con segni religiosi visibili, quasi come se ogni consociato rap-
Introduzione
Emilia Lazzarini ∙ La questione del velo islamico tra Francia e Italia Ù  265

presentasse nel suo piccolo lo Stato e il suo pilastro fondamentale


della laicità. Dal 2004 una legge ha imposto che nelle scuole francese
gli studenti non possano, durante l’orario scolastico, indossare segni
o abbigliamenti tali da potere ingenerare nei compagni il sospetto
dell’appartenenza a una determinata fede religiosa: così, non solo ve-
niva interdetto l’uso del foulard islamico, ma anche della kippa ebraica
e di croci cristiane “dalle dimensioni manifestamente eccessive”, che,
a ben vedere, nessun problema, tanto meno di ordine pubblico, ave-
vano —né avrebbero— mai creato in ambiente scolastico.
La legge che “vieta di celare il volto nei luoghi pubblici” allora,
altro non è che l’ultimo tassello di un preciso disegno, che come tutte
le iniziative legislative che la precedono raffigura il categorico divieto
di creare commistione fra la sfera pubblica —necessariamente neu-
tra— e la sfera privata —liberamente confessionale.
Paradossalmente è proprio il concetto di laicità a partorire, alle
volte, leggi che contrastano con il significato di libertà religiosa: la
laicità così intesa è esattamente l’opposto di ciò che è libertà reli-
giosa. Il principio che il legislatore vuole affermare in Francia è che
costumi o segni religiosi visibili indossati per esempio da adolescenti
all’interno di un contesto comune, finirebbero per contaminare gli
altri, rischiando separazione e conseguentemente la formazione di
diverse comunità nella Comunità educativa scolastica. Ma si badi, è
proprio il concetto di educazione ad essere qui erroneamente inteso:
ricostruendo il significato attribuitogli dal legislatore, non si può non
constatare come esso sia in palese contrasto con la moderna educa-
zione alla diversità, necessaria soprattutto a un piccolo cittadino per-
ché possa conoscere e comprendere il mondo che fuori lo attende.
Nascondere, o peggio, vietare le differenze è la via per un’educazione
parziale, che termina il suo compito laddove le diversità necessaria-
mente si rivelano, vale a dire, negli spazi immediatamente attigui non
interessati dal divieto (fuori le mura scolastiche). Se la scuola per pri-
ma non rende possibile il confronto, allora nella società si afferme-
ranno con prepotenza le forme di una separazione inesorabilmente
destinate a cadere in contrapposizione.
In Italia la situazione è dunque diversa.
Innanzitutto il principio di laicità dello Stato italiano non è espres-
so nella Carta Costituzionale, bensì si ricava in via ermeneutica pro-
prio dalla stessa, come suggerito dalla Corte Costituzionale nella sto-
rica sentenza n. 203 del 1989: “emerge dagli artt. 2, 3, 7, 8, 19 e 20 della
Costituzione e implica non indifferenza dello Stato dinanzi alle religioni ma
garanzia dello Stato per la salvaguardia della libertà di religione, in regime di
pluralismo confessionale e culturale”.
Sono proprio gli articoli sopracitati che concorrono a “strutturare il
principio supremo della laicità dello Stato, che è uno dei profili della forma di
Stato delineata nella Carta Costituzionale della Repubblica”.
Quale miglior modo per esprimere i caratteri della nostra laicità:
una “laicità positiva”, attiva nei confronti del fenomeno religioso, così
266  Ù Le verità del velo

lontana da quella laicité de combat che ha sempre colorato la Francia di


eccessi nei confronti del fenomeno in questione.
La cultura religiosa del pluralismo confessionale viene insegnata
nelle scuole perché intrisa di valore formativo insieme ai principi del
cattolicesimo, in quanto patrimonio storico del popolo italiano, nonostan-
te non sia più prevista la religione di stato.83 Giova citare ciò, al fine
di rendere compiuto il quadro sulla laicità: non vi è ostilità o paura
dello Stato rispetto alla religione, ma c’è uno stato laico che chiede
un atto di libera scelta agli interessati, esortandoli però a non ignorare
o avversare un fenomeno che è parte della vita del singolo ma anche
della comunità.84
Spiega Stefano Rodotà, a proposito della natura pubblica della
fede:

[p]retendere di chiudere il cattolico nella Chiesa, o nella cappelletta


fa parte di visioni laiciste e superate della cultura e della storia. Del re-
sto, se noi vogliamo una Chiesa aperta al mondo, quella che ha saputo
distinguere con umanità e saggezza errore ed errante, anche il mondo
deve accettare, sia pur criticamente, la Chiesa.85

Prosegue Rodotà:

[q]uando parlo di laicità intendo dire che la Chiesa non può fare poli-
tica attiva, cioè non influire nelle cose concrete dei partiti. Ma ritengo

83
La legge n. 121 del 1985, che come si ricorderà, contiene parziali modifiche
ai Patti Lateranensi, fra le quali l’abbandono di una religione di Stato e dell’obbligo
dell’insegnamento della religione cattolica nelle scuole, all’art. 9 recita «La Repubblica
italiana, riconoscendo il valore della cultura religiosa e tenendo conto che i princìpi del
cattolicesimo fanno parte del patrimonio storico del popolo italiano, continuerà ad assicurare
[...] l’insegnamento della religione cattolica nelle scuole […]. Nel rispetto della libertà di
coscienza […] è garantito a ciascuno il diritto di scegliere se avvalersi o non avvalersi di detto
insegnamento».
84
La legge Turco-Napolitano (<http://www.camera.it/parlam/leggi/98040l.
htm> (12/16)) su immigrazione e condizione dello straniero, all’art. 36 c.3 recita «La
comunità scolastica accoglie le differenze linguistiche e culturali come valore da porre a fondamento
del rispetto reciproco, dello scambio tra le culture e della tolleranza; a tale fine promuove e favorisce
iniziative volte alla accoglienza, alla tutela della cultura e della lingua d’origine e alla realizzazione
di attività interculturali comuni»; nel DPR 24 giugno 1998, n. 249 “Regolamento recante lo
Statuto delle studentesse e degli studenti della scuola secondaria”, al quarto comma del
primo articolo si legge «La vita della comunità scolastica si basa sulla libertà di espressione,
di pensiero, di coscienza e di religione, sul rispetto reciproco di tutte le persone che la compongono,
quale che sia la loro età e condizione, nel ripudio di ogni barriera ideologica, sociale e culturale».
Emerge dunque con chiarezza la necessità del rispetto di ogni forma di abbigliamento,
come conseguenza naturale del carattere interculturale che l’educazione scolastica in
particolare è tenuta a rispettare e far rispettare; non dunque uno spazio laico che, per il
solo fatto che deve rimanere tale, viene svuotato di ogni possibile richiamo alla religione,
al culto, ma laicità come rispetto di ogni manifestazione religiosa-tradizionale, di ogni
specificità culturale.
85
Intervista a S. Rodotà, realizzata da B. Volpe <http://www.pontifex.roma.it/index.
php/interviste/varie/1306 -il-concetto-di-laicita-non-significa-ostilita-preconcetta-
alla-chiesa-la-fede-non-puo-rimanere-nelle-sacrestie-ed-ha-una-valenza-pubblica-nel-
rispetto-delle-diversita-laicita-non-e-laicismo> (12/16).
Introduzione
Emilia Lazzarini ∙ La questione del velo islamico tra Francia e Italia Ù  267

che i religiosi e i vescovi abbiano la facoltà di opinare su temi pastorali


con implicazioni sociali ed anche indirettamente politiche.

Quest’ultima affermazione si presenta invece, senza dubbio, in-


concepibile per un francese, e invero appare, altrettanto sicuramen-
te, un’opinione condivisibile dalla gran parte dei laici italiani.
Il rispetto del pluralismo confessionale, l’equidistanza e imparzia-
lità nei confronti di tutte le religioni, il riconoscimento della libertà
di coscienza a tutti gli individui, le libere scelte in materia confessio-
nale per ogni opzione religiosa, sono i caratteri essenziali del nostro
Stato laico.
Emerge con chiarezza la distanza tra le due concezioni di laicità,
quella francese e quella italiana: la prima che pare essere il vero mo-
tivo giustificatore di leggi anti-burqa, seppure vengono celate sotto
l’egida della tutela della sicurezza pubblica; la seconda invece, quella
italiana, apparirebbe di segno opposto, e pare non sottendere alle
proposte di legge in materia di velo islamico, che paiono invece mag-
giormente giustificate da ragioni politiche di ordine pubblico.

8.2 L’attentato alla sicurezza

La seconda motivazione di chi si dice contrario al porto del velo


integrale è essenzialmente una ragione di sicurezza, che si concretiz-
za nella necessità di mostrare il volto nei luoghi pubblici.
L’unica deroga alla libertà di coscienza, secondo l’ordinamento
francese, è rappresentata dalla tutela dell’ordine pubblico, con il
necessario corollario della possibilità di identificare un individuo:
ma esso, da solo, è in grado di giustificare un generale divieto di
portare il velo integrale, indipendentemente dalle circostanze, e in-
dipendentemente dal fatto che è molto più usuale incontrare, nelle
giornate invernali, individui coperti da sciarpe e cappelli tali per
cui la loro riconoscibilità è pari a quella di una donna indossante il
niqab, ma che fino ad oggi non hanno mai rappresentato alcun pro-
blema? Ancora, è ammissibile un obbligo di identificazione apriori-
stico e continuativo a carico di tutti i consociati da parte del pubbli-
co potere? Ma soprattutto: quel tipo di “comportamento vestiario”
costituisce davvero un attentato all’ordine pubblico? Quanti atti di
terrorismo sono stati commessi in territorio europeo da persone
indossanti un burqa?
La dissimulazione del viso, in generale, è potenzialmente idonea
a creare problemi di ordine pubblico, e dunque può interessare sia
un diritto di prevenzione che uno di repressione. E ciò per differen-
ti motivi. Il principale è legato alla questione dell’identificazione, e
dunque alla volontà dell’ordinamento di evitare, in via preventiva, il
rischio di falsificazioni e usurpazioni d’identità.
In secondo luogo, il viso celato alimenta sospetti, ancora prima di
problemi di identificazione.
268  Ù Le verità del velo

Sostiene parte della dottrina che gli attentati terroristici dell’11


settembre 2001 abbiano liberato i responsabili politici, simbolica-
mente e giuridicamente, dall’obbligo di rispettare i limiti propri
dello Stato di diritto, concedendo al legislatore ampie compressioni
delle libertà fondamentali e dei diritti dell’uomo, in nome di quel
mito chiamato “Sicurezza Globale”; alla luce degli accadimenti de-
gli ultimi anni si potrebbe parzialmente rettificare tale posizione
sostenendo che non è più il singolo evento dell’11 settembre bensì
tutti gli eventi di stampo terroristico dall’11 settembre in poi hanno
aperto la strada a interventi legislativi incidenti in modo pregnante
sulla libertà personale largamente intesa. Una generale tendenza
dell’ordinamento a controllare la vita di tutti i consociati potrebbe
risultare esattamente l’opposto di una società pluralista, laica, ri-
spettosa di tutte le culture che abitano il suo territorio: una società
distopica, priva della coscienza che i limiti imposti dall’ordine pub-
blico —quando fondati— e dal buon costume siano necessari per
il mantenimento della pace sociale, ma quando essi non si trovino
in pericolo, o lo siano solo perché ne è stata distorta la loro vera
essenza, allora tutti i principi e le libertà sanciti dalla Costituzione si
riveleranno un fallimento.

9. Quale dignità?

La terza ragione a sostegno di una legge anti-burqa è rappresen-


tata dalla tutela della dignità della persona umana —della donna
in particolare— la quale subirebbe di fatto una continua negazione
della sua identità, cancellata dietro un muro di stoffa; quel velo rap-
presenterebbe la degradazione della donna a mero oggetto. Senza
dubbio quest’ultima è la motivazione più suggestiva, ma nel conte-
sto nel quale è inserita, presenta riflessi contraddittori.
L’ordinamento francese, ancor più forse di quello italiano, è
profondamente permeato del concetto di libero arbitrio,86 che vie-
ne declinato nelle sue forme più tipiche: “ogni essere umano senza
distinzione di razza, di religione e di credenza, possiede inalienabili e sacri
diritti” che proprio grazie alla libertà di autodeterminazione rico-
nosciutagli, ha diritto di esercitare. Una eguale libertà di potere
scegliere, che nelle moderne democrazie distingue due forme di li-
bertà: una positiva e una negativa. Il filosofo Berlin distingueva una
“libertà di” e una “libertà da”.87 La presenza del libero arbitrio deve
significare da un lato che si è liberi di esercitare i propri diritti, con
la garanzia di essi da parte dell’ordinamento, ma allo stesso tempo
si deve potere essere liberi dalla costrizione altrui, compresa quella

86
Si veda in particolare i Preamboli alle Costituzioni del 1958 e del 1946.
87
I. Berlin, Due concetti di libertà (1958), in Id., Quattro Saggi sulla Libertà, Feltrinelli,
Milano 1989, pp. 185-241.
Introduzione
Emilia Lazzarini ∙ La questione del velo islamico tra Francia e Italia Ù  269

del pubblico potere, salvaguardando quella intima sfera dell’indi-


viduo nella quale egli deve potere sempre trovare rifugio. Troppo
spesso si è costretti ad essere liberi, dunque l’interrogativo è: quale la
tutela per quelle donne che consciamente scelgono di indossare il
velo islamico perché simbolo identitario? E perché dubitare della
genuinità di tale scelta, a fortiori quando la donna si sia trasferita o
sia addirittura nata in un contesto, come quello Europeo che non
le ha mai impedito di scegliere liberamente? Può un ordinamento
arrogarsi il diritto di decidere con quale abito una donna è libera?
Non si negherà che, a volere scendere in giudizi di merito, la società
occidentale è colma di simboli della supremazia maschile che de-
gradano la donna ad oggetto: perché riviste erotiche, fotografie di
nudo, molti aspetti della cultura mediatica etc. non potrebbero rap-
presentare il degrado del genere femminile? Molto di tutto questo
non viene forse messo in atto per uniformarsi a un ideale maschile
di bellezza femminile che riduce la donna a semplice oggetto ses-
suale? Per quale motivo chi propone il divieto del burqa non propo-
ne anche di vietare tutte queste pratiche?
Se poi è davvero imposto ad ogni individuo un generale obbligo di
declinare la propria identità attraverso la comunicazione con il resto
della società, e questa comunicazione —a detta degli antiburqisti— sa-
rebbe totalmente impedita a (e con) una donna velata integralmen-
te, la china diventa molto scivolosa: è naturale chiedersi allora se un
non vedente sia da considerarsi totalmente incapace di espressioni e
comunicazioni.
Ancora, non è difficile comprendere che un divieto legislativo di
tale portata si ripercuoterebbe in maniera funesta proprio su quella
parte (minoritaria) di musulmani integralisti e dunque sulle donne
facenti parte di quelle famiglie. Se infatti fosse fatto loro divieto di
circolare nei luoghi pubblici con la tipologia di velo ritenuta con-
forme ai principi religiosi professati, esse sarebbero costrette en-
tro le mura domestiche, rafforzando proprio quell’esclusione dal
circuito sociale lamentato dal porto del velo: la legge a loro tutela
si rivelerebbe così la loro condanna. Orbene, se simili previsioni
hanno davvero l’obiettivo di difendere nonché prevenire violenze
e abusi, esse non sono in realtà necessarie. In Francia esiste già un
compendio legislativo volto a punire i comportamenti violenti, di
imposizione o costrizione nei confronti delle donne, specialmen-
te entro le mura domestiche: si può ricordare a titolo di esempio,
la L. n. 399 del 4 aprile 2006, la quale, oltre a una esplicita tutela
contro le violenze sui minori, persegue l’obiettivo di contrastare
il fenomeno dei matrimoni forzati, introducendo la possibilità di
annullamento di questo in caso di mancanza di libero consenso,
introducendo anche un consistente inasprimento sanzionatorio per
gli autori di violenze domestiche. Ancora, la L. n. 769 del 9 luglio
2010 sulle violenze contro le donne: le vittime hanno la possibilità
di usufruire di una “ordinanza di protezione” giudiziaria, la quale
270  Ù Le verità del velo

prevede l’allontanamento del molestatore dal nucleo familiare e la


sperimentazione di un bracciale elettronico antiviolenza. Anche in
Italia esiste un nutrito complesso normativo penale a tutela della
libertà personale: in primis, l’art 610 c.p. che punisce con la reclusio-
ne fino a 4 anni la violenza Privata, ovvero il comportamento di chi,
con violenza o minaccia costringa altri a fare, tollerare o omettere
qualcosa, la cui procedibilità è d’ufficio, la Legge 154/2001, che
contiene misure contro le violenze nelle relazioni familiari: quindi
tutto ciò che concerne sottomissioni, violenze, pressioni, intimida-
zioni rivolte da un coniuge all’altro, l’art. 571 c.p., che punisce con
la reclusione gli abusi dei mezzi di correzione o disciplina, quindi a
tutela anche delle figlie, l’art 572 c.p. che punisce con la reclusione
i maltrattamenti in famiglia o verso fanciulli, e la legge conosciuta
come “Legge sul femminicidio”, del 15 ottobre 2013, n. 119 che ha
convertito il decreto legge 14 agosto 2013, n. 93, recante disposizio-
ni urgenti in materia di sicurezza e per il contrasto della violenza di
genere.
Anche le fonti sovranazionali, europee e non, si sono interessate al
tema: a tal proposito si ricorda la recente Convenzione del Consiglio
d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti
delle donne e la violenza domestica, redatta a Istanbul l’11 maggio
2011 e ratificata in Italia con la L. 27 giugno 2013, n. 77.

Conclusioni

Italia e Francia costituiscono dunque due esempi vicini ma allo


stesso tempo lontani di come un fenomeno religioso, sociale ovvero
culturale possa portare a interventi legislativi sostenuti da varie e
diversificate motivazioni. L’Italia si orienta, come è emerso nel cor-
so della trattazione, verso un divieto esclusivamente integrali prin-
cipalmente per motivi di sicurezza: il diverso modo di intendere
la laicità rispetto alla tradizione francese non ha portato, e forse
non porterà mai, a una negazione dei simboli religiosi nello spazio
pubblico, anche per il motivo che ciò porterebbe a una rimozione
dei simboli del Cristianesimo di cui l’Italia si è mostrata strenua
difensore. Che la sicurezza del Paese sia minacciata da quelle rare
donne che indossano il burqa è chiaramente una falsità facilmente
smascherabile: e allora il velo motivo potrebbe essere, a ben guarda-
re, molto simile a quello francese.
La Francia ha cristallizzato in legge il fallimento delle proprie
politiche di immigrazione e integrazione; contrariamente a quan-
to si possa immaginare, non è mai esistito un multiculturalismo di
stato, perché la Francia ha convintamente sposato il modello cd.
“monoculturale”,88 che vuole uno “Stato forte” e un corpo di norme

88
Philippe Portier, Direttore del Groupe sociétés, religions et laïcité (GSRL-
Introduzione
Emilia Lazzarini ∙ La questione del velo islamico tra Francia e Italia Ù  271

e valori esterno e preesistente a qualsivoglia dettato religioso. Non


è fatto divieto al singolo di legarsi accidentalmente a una comunità
particolare, ma qualora volesse accedere alla “sfera generale” se ne
dovrà in ogni caso liberare. Risulta chiaro ancora una volta quell’ap-
proccio che rifiuta le comunità e il particolarismo, con tutte le con-
traddizioni e i paradossi che un simile atteggiamento porta con
sé: un Repubblicanesimo esasperato che si chiude in sé stesso per
scongiurare il pericolo comunitarista, qualsiasi prezzo esso richie-
da. E ciò comporta in realtà che si verifichi il risultato insperato:89
la Francia laica, repubblicana e progressista ha visto collassare nella
banlieue quella piattaforma di valori che pretendeva di far accettare
all’individuo prima ancora che egli si riconoscesse in un proprio
gruppo etnico, religioso, culturale.90 La negazione del pluralismo
in nome di principi e valori che possono legittimamente non esse-
re unanimemente riconosciuti tali, primo fra tutti lo sgombero di
qualsiasi simbolo sacro nella sfera pubblica, sono un esempio lam-
pante della crisi identitaria dalla quale l’Europa non riesce a uscire.
Leggi anti velo, italiane per “motivi di sicurezza”, francesi per “mo-
tivi di laicità” sono la maschera indossata da un finto orgoglio iden-
titario che emerge a comando perché teme il contagio di culture
diverse e semina pregiudizi e stereotipi; così non importa perché
un velo venga indossato, ma è sufficiente legarlo a quella religione
irriducibile,91 fondamentalista, semplicisticamente ed erroneamen-
te ritenuta l’unico Islam esistente, che avrebbe segregato la donna
dietro un muro di stoffa.
Occorrerebbe invece cautela, perché non è dato sempre sapere
il motivo per il quale una persona indossi un simbolo; questo può
essere una convinzione, una difesa, una forma di proselitismo, un

CNRS), classificazione consultabile in La laïcité à l’épreuve du voile intégral, in «Regards


sur l’actualité», 364, octobre (2010), pp. 35-52, pp. 44 e ss.
89
Béatrice Durand, nel suo volume La Nouvelle Idéologie Française, Éditions
Stock, Paris 2010, pp. 12-13, argomenta che il «New Republicanism», il quale invoca
la cancellazione dei segni distintivi delle Religioni nella sfera pubblica, «does not
constitute a coherent doctrine, but an ideology in the worst sense of the term, a
diffuse set of discourses and values, an avalanche of dogmatisms and received wisdoms
structuring our political meaning [...] representing the blindness of society on itself, a
deformed reading of the present and past, inspiring exclusionary and antidemocratic
responses, a chauvinism […]».
90
N. Piqué, Jean Baubérot, l’intégralisme républicain contre la laïcité, in «Revue de
l’histoire des religions», 4 (2008), pp. 1-4, p. 3, versione telematica: «[...] la volonté de
critiquer le modèle républicain universaliste l’emporte sur l’analyse nécessairement
distanciée, lorsq’est évoqueé, dans le cadre du débat concernant le multiculturalisme,
[…] le merveilleux modèle français, tellement performant qu’il a conduit à la France à
être la seule démocratie qui connaisse en 6 mois deux révoltes de sa jeunesse, celle des
jeunes de banlieues en octobre-novembre 2005 et celle des jeunes de classes moyennes
en mars-avril 2006».
91
Così A. Ferrari, Symbolon/diabolon: simboli, religioni, diritti nell’Europa
multiculturale, in E. Dieni, A. Ferrari, V. Pacillo (a cura di), La lotta ai simboli e la speranza
del diritto. Laicità e velo musulmano nella Francia di inizio millennio, il Mulino, Bologna,
2005, pp. 193-237, pp. 193 e ss.
272  Ù Le verità del velo

ricordo, oppure semplicemente è un comportamento ritenuto or-


dinario dal suo autore. Orbene, questa impossibilità di indagare il
perché si porti un simbolo dovrebbe essere un invito alla prudenza,
soprattutto nei confronti del legislatore: la proibizione incondizio-
nata di quel comportamento colpisce certamente anche chi ha de-
ciso liberamente e coscientemente di tenerlo. Il divieto generale e
generalizzato di portare il velo islamico con sanzione per il trasgres-
sore non può essere la risposta di una moderna ed evoluta società
multiculturale; il ricorso al diritto penale e alla previsione di pene
per i trasgressori, tra l’altro, dovrebbero sempre rappresentare l’ex-
trema ratio, ovvero attivarsi solo quando ogni altra strada si sia rive-
lata inadeguata o insufficiente per regolamentare o nel dialogare
con un dato fenomeno. E non sembra, soprattutto in Italia, che ci
sia nemmeno mai stata una preventiva indagine del fenomeno in
questione.
Nulla vieta che in determinate situazioni sia necessario rinuncia-
re al proprio simbolo per ragioni ritenute non sacrificabili, come
mostrare il proprio volto durante un controllo dell’Autorità di si-
curezza, tuttavia è necessario che tali ipotesi siano tassativamente
previste dalla legge in quanto fondamentale in quasi tutti i sistemi
europei è il principio di legalità: nullum crimen, nulla poena sine lege.
Sguardi sul mondo cristiano Ù  273

Casi studio dal Sudasia


274  Ù Le verità del velo
Carmela Mastrangelo ∙ La donna Introduzione
s-velata. I nudi delle divinità femminili nel Veda Ù  275

Carmela Mastrangelo
La donna s-velata. Nudi femminili nel Veda

Nel sanscrito classico uno dei termini più usati per tradurre la pa-
rola “velo” è paṭa, che nella sua variante, derivata a mezzo di un suffis-
so secondario, paṭala (o paṭara) ricorre sovente a indicare qualunque
tipo di copertura o schermo, quali le coltri di nubi che si addensa-
no nel cielo come veli blu (nīlapaṭala).1 Vale la pena di notare che
la forma paṭa si presenta di fatto come un nome d’azione/d’agente
costruito a partire dalla radice verbale paṭ, “spaccare, strappare”.2 Il
velo viene a essere, in tal modo, il risultato di uno strappo;3 oppu-

1
Il composto è frequentemente attestato nella favolistica: si veda per esempio la
raccolta di hitopadeśa (“novelle”) edita da M.R. Kale, Hitopadeśa of Nārāyaṇa, Motilal
Banarsidass, Delhi 1967 (6 a ed.), in particolare pp. 72-73.
2
Come nome d’azione è attestata la forma pāṭa “estensione, intersezione”, con vo-
cale lunga. La quantità vocalica può essere spiegata col fatto che queste formazioni ri-
chiedevano originariamente il grado o della radice, che in sanscrito, secondo la legge di
Brugmann, è reso a mezzo di ā in sillaba aperta. Anche la variante paṭa con vocale breve
è tuttavia ammissibile, se si considera che la ṭ retroflessa può essere l’esito, per la legge
di Fortunatov, di un originario gruppo *lt (cfr. gr. πέλτη “scudo”): la vocale radicale
veniva in tal modo a trovarsi in sillaba chiusa, bloccando perciò la legge di Brugmann.
Anche la cronologia relativa supporta questa ricostruzione, dal momento che la legge
di Fortunatov agisce molto più tardi rispetto a quella di Brugmann; cfr. A. Lubotsky, La
loi de Brugmann et *H3e-, in (s.e.) La reconstruction des laryngales, Société d’Edition «Les
Belles Lettres», Liège-Paris 1990, pp. 129-136.
3
Il passaggio semantico da nomen actionis a oggetto dell’azione è frequentemente
attestato in diversi contesti linguistici. Si veda per esempio il latino sulcus “solco” dalla
radice *selk- (gr. ἕλκω) “tirare, trascinare”, oppure l’ittita parša- “briciola” da paršiya-
“rompere”; cfr. M. Weiss, Outline of the Historical and Comparative Grammar of Latin, Beech
Stave Press, Ann Arbor-New York 2009, p. 271. In ambito non indoeuropeo, si può con-
frontare l’ungherese lakás “casa, appartamento”, originariamente “l’atto di abitare (una
casa)”, dal verbo lakni “abitare”. In sanscrito, in particolare, i nomi d’azione in -a, indica-
ti con il termine tecnico ghañ-anta, si specializzano nel denotare il risultato dell’azione,
rispetto ai nomi in -ana, ossia lyuḍ-anta, che designano piuttosto il processo, lo svolgi-
mento dell’azione, e si distinguono in quanto di genere neutro; cfr. i sūtra 3.3.114-115
276  Ù Le verità del velo

re, ancora, qualcosa che squarcia o che, schopenhauerianamente, va


squarciato, strappato, quale per esempio la veste —è questa, infatti,
una delle accezioni di paṭa—, la stessa che, in altro contesto storico
e culturale, si strappavano insieme con i capelli in segno di lutto le
tebane del famoso sintagma ovidiano (“scissae cum veste capillos”,
Metamorfosi 4.546). In questo senso, quindi, paṭa diventa un sinonimo
di vastra, letteralmente “lo strumento con cui ci si riveste”, l’abito
che si indossa.4 Trattare del velo nella civiltà indiana significa dun-
que considerare l’indumento, che ci si mette addosso ritualmente
o convenzionalmente (si potrebbe dire κατὰ συνθήκην), che serve a
coprire, schermare (come suggerisce il senso di paṭala) e financo na-
scondere, e che può essere infine strappato o rimosso sì da svelare
quanto si cercava di contenere.
La disamina deve concentrarsi, in questa sede, sulla fase più arcai-
ca, quella vedica, testimoniata tanto dalle quattro raccolte, saṁhitā,
di inni, canti, formule rituali e magiche —R ̥gveda,5 Sāmaveda, Yajur-
veda, Atharvaveda—, quanto dai loro commentari, in particolare i
Brāhmaṇa, che ne spiegano il contenuto in relazione al rito e alle
pratiche del culto. Perciò, quando ci si accosta all’ambito vedico, non
si può non prendere le mosse da quello che Sylvain Lévi ha icastica-
mente definito il “meccanismo”6 del sacrificio (yajña), da intendersi,
questo, non tanto come pratica cruenta quanto piuttosto come rito
attraverso il quale il devoto accosta la divinità. Tale sacrificio, come ri-
leva lo stesso Lévi facendo riferimento a un passaggio dello Śatapatha-
Brāhmaṇa7 (1.3.2.1 púruṣo vái yajñáḥ), è l’uomo, si identifica, cioè,
con la persona che lo offre. In questo passaggio, “uomo” è reso dal
termine puruṣa, tradizionalmente considerato un derivato a mezzo di
suffissazione primaria dalla radice pr˳ˉ “riempire”. Grammaticalmente
maschile, il termine è originariamente privo di connotazione di ge-
nere, tanto da essere impiegato per indicare la persona nella coniu-
gazione verbale e da comparire, ancora nei Gr˳ hyasūtra (trattati ancil-

della grammatica Aṣṭādhyāyī di Pāṇini (ed. S.M. Katre, Motilal Banarsidass, Delhi 1989;
d’ora in avanti A) napuṁsake bhāve ktaḥ, lyuṭ ca, “i suffissi -ta e -ana indicano un nome
d’azione al neutro”.
4
Il sostantivo vastra è formato a mezzo del suffisso -tra, che indica appunto lo stru-
mento dell’azione (cfr. lat. aratrum, letteralmente “lo strumento con cui si ara”, dal ver-
bo aro “arare”), a partire dalla radice vas “vestire, indossare” (cfr. ingl. wear “indossare”,
gr. ἕννυμαι med. sig., e il sostantivo latino ves-tis “veste”).
5
D’ora in avanti R˳ V; si veda come edizione di riferimento quella di B.A. van Nooten
e G.B. Holland, Rig Veda: a metrically restored text with an introduction and notes, Harvard
University Press, Cambridge (MA) 1994.
6
S. Lévi, La dottrina del sacrificio nei Brāhmaṇa, Adelphi, Milano 2009 (ed. orig. Paris
1898); si vedano in particolare le pp. 103-167. Sulla nozione di yajña, cfr. M. Ferrara,
One yajña, many rituals. How the Brahmanical ritual practices became the “Vedic sacrifice”, in
«AIΩN, Sezione Orientale» 76 (2016), pp. 166-198.
7
D’ora in avanti ŚB; si veda come edizione di riferimento quella di A. Weber, The
Çatapatha-Brāmaṇa in the Mādhyandina-Çākhā with extracts from the commentaries of Sāyaṇa,
Harisvāmin and Dvivedagaṅga, Ferd. Dümmler’s Verlagsbuchhandlung, Berlin 1849-1855
(rist. Varanasi 1964).
Carmela Mastrangelo ∙ La donna Introduzione
s-velata. I nudi delle divinità femminili nel Veda Ù  277

lari del Veda, che forniscono le regole per i rituali domestici), nella
maggior parte delle occorrenze accompagnato dalla specificazione
pumān nel senso di “persona di sesso maschile”. È pur vero tuttavia
che tanto la parola puruṣa quanto il sacrificante (e quindi il sacrificio
stesso) finiscono con l’essere identificati con l’elemento maschile, al-
trimenti si avrebbe un mondo viparīta, “alla rovescia”, come rimarca
Charles Malamoud illustrando l’uso peculiare dell’aggettivo nell’Ero-
tica indiana.8 Il sacrificio deve però essere “fecondo” per risultare ef-
ficace, e tale fecondità è data dai mithuna, “accoppiamenti”, dei suoi
vari componenti in base alla distinzione del genere sessuale oppure
grammaticale:9 il maschile (puṁliṅga), al quale viene associato anche
il genere grammaticale neutro (napuṁsaka), si deve accoppiare con il
femminile (strīliṅga). La donna fa la sua comparsa nel rito in quanto
patnī (“moglie”) dello yajamāna (“sacrificante”, inteso come devoto
che onora gli dèi a mezzo dello yajña), formando con questo un pri-
mo mithuna. Un altro mithuna è costituito dagli indumenti che l’uo-
mo e la donna devono portare per entrare nella scena del sacrificio:
il sacrificante indossa una cintura di fili d’erba detta, a mezzo di un
sostantivo femminile, mekhalā, la moglie invece si cinge di un cordo-
ne chiamato, con termine neutro, yoktra. È proprio sulla funzione di
questo yoktra e sul vestiario della donna all’interno del sacrificio che
vale la pena di soffermarsi.10 Lo ŚB (1.3.1.13), innanzitutto, mette
in relazione il cordone con lo strumento con il quale si aggiogano
gli animali da tiro (yógyaṁ yuñjánti);11 quanto alla sua funzione, esso
servirebbe primariamente a coprire, velare appunto, la parte al di
sotto dell’ombelico considerata non idonea al sacrificio (amedhyáṁ
yádavācīˊnaṁ nāˊbheḥ). L’aggettivo usato per indicare l’inidoneità al
sacrificio è amedhya; spesso tradotto come “impuro”, questo rappre-
senta di fatto un derivato di medha, nome d’azione da midh/mith “al-
ternarsi, combinarsi”. Dalla forma mith è stato costruito il sostantivo
mithuna, a mezzo del suffisso primario -una: la parte della donna al di
sotto dell’ombelico non può costituire una coppia rituale, e l’indu-
mento che la cinge serve quindi a creare un velo, uno schermo, ossia

8
C. Malamoud, La danza delle pietre, Adelphi, Milano 2005 (ed. orig. Paris 2005),
pp. 93-94. Nell’accezione erotica il termine ricorre sovente sia nella letteratura epica sia
nella poesia kāvya.
9
Si consideri, tuttavia, che i grammatici indiani tradizionalmente non associano il
genere grammaticale a quello sessuale; cfr. il commento di Patañjali ad A 2.1.36 (S.D.
Joshi, J.A.F. Roodbergen [a cura di], Patañjali’s Vyākaraṇa-Mahābhāṣya, The Poona Uni-
versity Press, Poona 1968-1986): liṅgam aśiṣyaṁ lokāśrayatvāt liṅgasya, “il genere (gram-
maticale) non è determinabile sulla base del genere reale”.
10
Sulla funzione della mekhalā, cfr. C. Malamoud, La danza delle pietre, cit., pp. 100-
101.
11
La relazione tra i termini è, di fatto, etimologica: tutti derivano dalla radice
yuj “unire, aggiogare”, yoktra a mezzo del suffisso di strumento -tra, yogya (“animale
da tiro”) a mezzo del suffisso secondario -ya sulla base del nome d’azione yoga (cfr. A
5.1.102), e yuñjanti essendo la forma verbale coniugata alla terza persona plurale attiva
del presente indicativo (laṭ).
278  Ù Le verità del velo

a isolarla, “strapparla” (si ricordi il senso primo di paṭa) dalla scena


sacrificale. Ancora, nello ŚB (1.3.1.14) è detto che lo yoktra rappre-
senta il laccio di Varuṇa (varuṇyāˋ rájjuḥ), il dio che mantiene il r˳ ta,
ossia l’ordine del mondo; tale laccio va posto al di sopra di una veste
(abhivāsa) costituita da fili d’erba (óṣadhayo vái vāˊsaḥ). Per indicare
la veste, compare in questo passaggio la forma vāsa, corradicale di
vastra: l’indumento che ne viene denotato —a differenza dello yoktra
che è appunto un giogo, un laccio— serve piuttosto a coprire, pro-
teggere, nascondere; funziona altresì, ancora una volta, da “isolante”,
crea cioè una separazione, una spaccatura, uno “strappo” tra il cor-
po della donna e l’azione del laccio di Varuṇa. Quanto lumeggiano
queste considerazioni è l’immagine di una patnī femminile che par-
tecipa al rito, per così dire, velata. La sua nudità va nascosta da un
doppio schermo, il quale ha la funzione, primariamente, di impedire
che il sistema ordinato del sacrificio sia in qualche modo sconvolto
dalla nir-r˳ ti (nel senso di “dis-ordine”) che tale nudità sembra recare
con sé.12 È proprio questa nirr˳ iti, l’assenza o il capovolgimento (si
pensi all’aggettivo viparīta) dell’ordine, a far sì che in diversi ambiti
del mondo brahmanico alla donna sia spesso associato l’elemento
dinamico, l’energia, la potenza (śakti). Tale potenza va, non di meno,
preservata, impedendo che Varuṇa la riporti all’ordine e alla norma,
sicché si rende necessario un secondo velo, una veste che la nasconda
e che blocchi e orienti l’azione normalizzatrice del dio.13 Nel passo
immediatamente seguente dello ŚB (1.3.1.15) è detto inoltre che la
recitazione del mantra che nel rito rende la donna patnī del devoto
fa anche sì che il laccio di Varuṇa diventi una cintura, un ornamento
(tád asyā etád rāˊsnām evá karóti ná rájjum). Il termine rāsnā, che indica
appunto la cintura femminile, appare quindi come il corrispettivo
della mekhalā maschile: oltre a comparire nel rito vedico in mithuna
con lo yoktra, la mekhalā rappresenta altresì l’indumento che i giova-
ni brahmani devono rimuovere prima della cerimonia di iniziazione
(upanayana) a mezzo del mantra col quale è sciolto proprio il laccio
di Varuṇa (R˳ V 1.24.15: úd uttamáṁ varuṇa pāˊśam asmát, “rimuovi da
noi il sommo laccio, o Varuṇa”). Stephanie Jamison sapientemente
rimarca la tradizionale identificazione, per le donne, dell’upanayana
con il matrimonio.14 Lo yoktra assume quella stessa connotazione sim-
bolica che in altri contesti temporali e culturali è propria appunto del

12
Questa è la funzione dello yoktra, ossia del laccio di Varuṇa: si consideri, a tale
proposito, che lo stesso nome di Varuṇa contiene la nozione di “coprire, proteggere”,
derivando dalla radice vr˳ (PIE *wer-) costruita con il suffisso primario -una.
13
Analogamente, il vāsa, la “veste”, grammaticalmente maschile, si interpone e
blocca il mithuna tra la donna e lo yoktra, il “cordone”, grammaticalmente neutro —la
parte del corpo femminile al di sotto dell’ombelico è, si ricordi, “non ritualmente ac-
coppiabile” (amedhya).
14
S.W. Jamison, Sacrificed Wife/Sacrificer’s Wife. Women, ritual, and hospitality in ancient
India, Oxford University Press, New York-Oxford 1996; si vedano in particolare le pp.
42-48.
Carmela Mastrangelo ∙ La donna Introduzione
s-velata. I nudi delle divinità femminili nel Veda Ù  279

velo; il laccio di Varuṇa nella cerimonia nuziale preserva la castità ri-


tuale e propizia la fecondità dell’unione, parimenti nello yajña impe-
disce che quanto è ritualmente amedhya renda infecondo il mithuna.
Come è chiaramente rilevato da Malamoud,15 nell’ambito del rito
trova la sua piena realizzazione il variegato pantheon vedico che ha
origine nel mito. Il dio per eccellenza nei Brāhmaṇa è Prajāpati “il
signore delle creature”, figura cosmogonica che finisce per identi-
ficarsi col sacrificio stesso.16 Egli è al centro di quello che, per usare
una nota formula di Abel Bergaigne, può essere definito il galimatias17
della cosmogonia vedica, ossia il gioco di “non-sense” che soggiace
al sistema di filiazione reversibile (anyonyayonitā),18 per il quale gli
dèi si danno reciprocamente la nascita, sono padri e figli insieme,
vengono alla luce più volte costantemente rigenerandosi. All’interno
di questo sistema, il femminile che dovrebbe essere associato all’e-
lemento materno perde parte della sua valenza: non sono molte le
dèe che trovano posto nel pantheon vedico; queste tuttavia tendono
a sdoppiarsi, a moltiplicarsi in una pluralità, tanto che l’opposizione
maschile-femminile del mithuna sovente si accompagna all’opposizio-
ne tra singolare e plurale.19 Compare frequentemente al plurale, per
esempio, Uṣas, l’Aurora. Generata da Prajāpati mentre questi prati-
cava il tapas,20 ella è, d’altro canto, indissolubilmente connessa con
Rātri, la Notte, considerata sua sorella in quanto, come lei, figlia del
cielo (divó duhitāˊ21); insieme costituiscono due aspetti della stessa
divinità, che si avvicendano e rinascono ogni giorno, rendendo ra-
gione dell’uso del plurale per invocarle. Aurora è tradizionalmente
descritta nell’atto di spogliarsi della propria veste. In R˳ V 1.113.14b si
dice che questa è nera, come la notte appunto: ápa kr˳ ṣṇāˊṁ nirṇíjaṁ
devyāˋ vaḥ, “la dea ha aperto la nera veste”. Ancora, in R˳ V 1.124.7cd
l’abbigliamento di Uṣas si connota quale bello e sontuoso: jāyèva pàtya
uśatīˊ suvāˊsāḥ uṣāˊḥasréva ní riṇīte ápsaḥ, “come una moglie che arde per
il marito, Aurora dalla bella veste libera il petto quasi sorridendo”.
L’aggettivo suvāsas (“dalla bella veste”) presente in questo passo22 è

15
C. Malamoud, Il gemello solare, Adelphi, Milano 2007 (ed. orig. Paris 2002), pp.
49 e ss.
16
Cfr. S. Lévi, La dottruna del sacrificio, cit., pp. 45 e ss.
17
Si veda A. Bergaigne, Quelques observations sur les figures de rhétorique dans le Ṛig-
Veda, in «Mémoires de la Société de linguistique de Paris» 4 (1881), p. 96; cfr. Id., La
religion védique, F. Vieweg, Paris 1878.
18
Cfr. C. Malamoud, Il gemello solare, cit., pp. 50-51.
19
Cfr. C. Malamoud, La danza delle pietre, cit., pp. 106-107.
20
Cfr. S. Lévi, La dottrina del sacrificio, cit., pp. 52-53. Vale la pena di notare che il
senso primo della radice verbale tap da cui tapas “austerità, ardore ascetico” è quello di
“ardere, bruciare” (cfr. lat. tepeo, tepesco): l’attività ascetica quindi, associata con l’accen-
sione del fuoco rituale, genera calore creatore.
21
L’epiteto è formulare per entrambe nel R˳ V; si veda per esempio il verso 6a dell’in-
no 5.80 nel quale ricorrono molti dei τόποι relativi all’Aurora e al quale si fa riferimento
infra.
22
L’aggettivo, insieme con l’intero passo, è riferito a Vāc, la Parola, in R˳ V 10.71.4d;
280  Ù Le verità del velo

un corradicale di vastra e vāsa, e proprio come un velo considerò gli


abiti d’Aurora Carducci che, ispirato dai versi vedici, nella sua ode
barbara (All’Aurora) raffigurò la dea intenta a spogliarsi dei “veli leg-
giadri”. Il velo di Aurora è innanzitutto il cielo notturno che, sovente
assimilato a un tessuto nel R˳ V,23 è coperto dalle tenebre esattamente
come dai nembi, ossia i nīlapaṭala (“veli blu”) della narrativa indiana
classica. Non è un caso che il termine impiegato in R˳ V 1.113 per indi-
care la veste che è nera sia nirṇij, il quale antiteticamente reca con sé
la nozione di abito ornato e sgargiante, e deriva dalla radice verbale
nij (cfr. gr. νίζω) il cui senso primo è quello di “lavare, nettare”.24 Ma
che cosa cela il velo di Aurora? Primariamente, il prosperoso cor-
po della dea: il suo seno abbondante25 e inoltre le sue “parti care”
(priyāˊṇi, in R˳ V 1.124.4), le stesse che nel rito devono essere velate in
quanto amedhya (cfr. per esempio la funzione del vāsa nell’aśvamedha,
in ŚB 13.5.2). Di questo corpo ella va altamente fiera;26 spogliandosi
lo mostra sfacciata, come suggerisce l’uso in R˳ V 1.124.7d dell’agget-
tivo hasra derivato secondario dalla radice has “sorridere”, semantica-
mente connesso con il participio saṁsmayamāna (da saṁ-smi) sempre
attribuito all’Aurora in altro luogo (R˳ V 1.123.10c). Ancora, si posso-
no confrontare queste occorrenze con R˳ V 5.80.4ab: eṣāˊ vyènī bhavati
dvibárhāḥ āviṣkr˳ ṇvānāˊ tanvàṁ purástāt, “costei [sc. Uṣas] variegata di-
venta doppiamente potente mostrando il corpo da oriente”. Sebbene
non si faccia esplicito riferimento allo “strappo” della veste di Aurora,
l’espressione āviṣkr˳ ṇvānāˊ tanvàṁ (“mostrando il corpo”) corrispon-
de di fatto a ní riṇīte ápsaḥ di R˳ V 1.124.7d (cfr. nota 25), e presume
quindi un atto, si potrebbe dire, di “dis-velamento”, in conseguenza
del quale la dea appare non soltanto in tutta la sua nudità ma anche
come dvibarhas. Questo aggettivo, che è attestato precipuamente nel
R˳ V, è costruito sulla base di barhas, tema in sibilante dalla radice br˳ h
“diventare/rendere forte, grande, solido”. A proposito di tale radi-

cfr. D. Maggi, Noterella stravagante su un bersaglio della passione: Il nudo di Aurora nella
R˳ gvedasaṁhitā, in «Rivista italiana di linguistica e di dialettologia» 8 (2007), pp. 27-40,
in particolare p. 39. La Parola è la divinità femminile predominante nel mondo vedico,
in quanto connessa e con la poesia e con le formule del rito: tutte le dèe sono in qualche
modo associate a lei; cfr. C. Malamoud, Femminilità della parola. Miti e simboli dell’India
antica, Appunti di Viaggio - La parola, Roma 2008 (ed. orig. Paris 2005).
23
Cfr. D. Maggi, Noterella stravagante su un bersaglio della passione, cit., p. 31 nota 4.
24
Il cielo, del resto, è spesso associato all’idea dello “scorrere”, del “lavare via”; si
veda per esempio una delle possibili etimologie del gr. οὐρανός, connesso con la radice
sanscrita vr˳ ṣ, da cui varṣa “pioggia”; cfr. R.S.P. Beekes, Etymological Dictionary of Greek, vol.
2, Brill, Leiden 2009, pp. 1128-1129.
25
Si veda l’interpretazione di ní riṇīte in D. Maggi, Noterella stravagante su un bersaglio
della passione, cit., p. 30. La formula ní riṇīte ápsaḥ, “libera il petto”, di R˳ V 1.124.7d ricorre
identica in R˳ V 5.80.6b; cfr. l’espressione āvírvákṣāṁsi kr˳ ṇuṣe, “tu mostri il seno”, sempre
riferita all’Aurora in R˳ V 1.123.10d.
26
Si vedano per esempio le espressioni tanvāˋ śāˊśadānā (R˳ V 1.123.10a) “trionfante
per il suo corpo” e tanvò vidānāˊ (R˳ V 5.80.5a) “conscia del suo corpo”; cfr. D. Maggi, No-
terella stravagante su un bersaglio della passione, cit., pp. 29-30.
Carmela Mastrangelo ∙ La donna Introduzione
s-velata. I nudi delle divinità femminili nel Veda Ù  281

ce, Heinrich Zimmer27 ne enfatizza la tradizionale connessione con


il nome del dio vedico Br˳haspati, ossia il maestro del re degli dèi
Indra, e con la parola brahman alla base della concezione filosofica e
religiosa brahmanica, e arriva ad associare l’uso che di questa parola
si fa nel Veda a quello che è proprio del termine śakti (cfr. supra) nel
sanscrito classico.28 Il sontuoso e nero vāsa di Aurora quindi, esatta-
mente come il vāsa di fili d’erba descritto nello ŚB, serve a velare (nei
passi r˳ gvedici sarebbe più appropriato dire dis-velare) l’energia e la
potenza strettamente connesse con il corpo femminile. In particola-
re, nel R˳ V queste sembrano potersi dispiegare liberamente: il vāsa
non le “strappa” e nasconde alla scena dell’azione, ma è esso stesso
ripetutamente squarciato dalle Aurore cantate negli inni. In che cosa
consista tale potenza è forse suggerito dal parallelo con Vāc, la dea
Parola, anch’ella descritta in R˳ V 10.71.4cd —a mezzo del medesimo
verso formulare riferito a Uṣas in R˳ V 1.124.7c (cfr. nota 22)— nell’at-
to di liberarsi della sua bella veste per mostrarsi solo ai pochi capaci
di intendere la voce (è questo il significato etimologico di vāc) degli
inni vedici, ossia la voce della poesia.29
Con questa breve disamina si è inteso rilevare l’evoluzione, in am-
bito vedico, di una specifica funzione del velo, attraverso le occorren-

27
H. Zimmer, J. Campbell (a cura di), Philosophies of India, Pantheon books, New
York 1951, pp. 74-83.
28
Si veda, non di meno, M. Mayrhofer, Etymologisches Wörterbuch des Altindoarischen
(EWAia) II, Universitätsverlag C. Winter, Heidelberg 1996, pp. 212-213, 232-233, 236-
238, che riporta le diverse ipotesi di derivazione indoeuropea di queste tre basi. In
particolare, br˳h (da cui barhas) deriva da PIE *bherǵh - con deaspirazione dell’aspirata
iniziale per effetto della legge di Grassmann, laddove brahman è variamente spiegato
—tra le varie ricostruzioni vi è anche quella che connette il tema con gr. μορφή “forma”
(via *mrég wh -men-), la quale, pur se difficilmente sostenibile, suggerisce un parallelo fra
il senso di “potenza” attribuito da Zimmer e le forme femminili nascoste dal velo di
Aurora.
29
Con la poesia —e quindi con Vāc— sono state connesse anche le apsaras (divinità
femminili assimilate alle ninfe) di R˳ V 10.95, ossia dell’inno dialogato (saṁvāda) tra la
ninfa Urvaśī e il suo amante mortale Purūravas; cfr. R. Lazzeroni, RV, X, 95, 1: Invito al
dialogo o esortazione alla poesia?, in «Studi e saggi linguistici» 18 (1978), pp. 172-178. Ana-
logamente, in R. Lazzeroni, Analisi di un testo vedico. Rappresentazione e evocazione in RV, X,
95, in «AIΩN, Sezione Linguistica» 7 (1985), pp. 211-220, le apsaras sono connesse con
le Aurore sulla base della suggestione evocata dall’espressione formulare añjayo ’ruṇayo
(“rossi unguenti”, v. 6c), che ricorre al caso strumentale in R˳ V 2.34.13 riferita ai Marut (i
Venti) paragonati alle Uṣas. Un’analisi della significativa e caratteristica attribuzione ad
Aurora dell’uso di unguenti e belletti è presente in D. Maggi, Noterella stravagante su un
bersaglio della passione, cit., pp. 36-40, il quale rileva anche il valore simbolico dell’impie-
go nelle diverse occorrenze della radice per “ungere” añj, che nella sua forma composta
con preverbio, vy-añj “manifestare”, è chiaro riferimento alla valenza manifestatrice e
significante del linguaggio —cfr. il termine tecnico sanscrito per le consonanti (“ma-
nifestatrici” del significato della radice), ossia vyañjana nome d’azione/d’agente da añj.
Relativamente a R˳ V 10.95, vale la pena di notare infine che il dis-velamento della nudità
è attribuito nel saṁvāda e nel mito che vi fa da sfondo (cfr. ŚB 11.5.1 ss.) non già alle
femminee forme delle apsaras, bensì al corpo maschile del mortale Purūravas, reo di
essersi integralmente mostrato alla sua amante Urvaśī —cfr. V. Pisani, L’inno X 95 del
Rigveda e un mito indo-greco, in «Indologica Taurinensia» 5 (1977), pp. 127-137, che rileva
le connessioni di questo e altri elementi della narrazione con il mondo greco orientale.
282  Ù Le verità del velo

ze in particolare della parola vāsa “veste” riferita all’atto di coprire,


velare appunto, il corpo femminile. Questo si presenta, nelle diverse
fasi della tradizione indiana, come intimamente connesso con una
forza dinamica e creatrice la quale va talvolta limitata e, per così dire,
degradata, talvolta invece assecondata e magnificata tanto nei testi
quanto nelle pratiche —si pensi per esempio alla specifica rilevanza
della nozione di śakti in ambito tantrico.30 La dicotomia tra l’atto di
s-velare e quello di velare si riflette nel passaggio dal contesto arcaico
e letterario della compilazione degli inni r˳ gvedici a quello dell’ela-
borazione del rito nei Brāhmaṇa e nei trattati più tardi. Al centro del
primo vi è il potere creativo, mitopoietico, demiurgico della poesia,
che esalta quindi, anche attraverso l’atto di dis-velamento, il femmi-
nile dinamico; il secondo, al contrario, tende alla stabilizzazione, nor-
malizzazione, e preservazione di un fittizio statu quo ante, nel quale
—se è lecito, mutatis mutandis, usare il termine— “borghesemente” si
nasconde dietro a un velo tutto quanto possa minare e sconvolgere
l’ordine costituito.

30
Sul concetto di energia associato al femminile e sulle pratiche rituali tantriche
atte a captare tale energia, si veda in particolare l’edizione italiana curata da R. Torella
di A. Padoux, Tantra, Einaudi, Torino 2011 (ed. orig. Paris 2010).
Introduzione
Mara Matta ∙ Nudo di donna: ri(s)coprire la Devi Ù  283

Mara Matta
Nudo di donna: ri(s)coprire la Devi

In qualità di scrittrice —e scrittrice di romanzi e racconti— mi sono


spesso chiesta se lo sforzo di essere sempre precisa, di mantenere una
completa correttezza riguardo ai dati della questione non finisca in
qualche modo per sminuire la portata epica di quel che accade. Fini-
sce forse per mascherare una verità più ampia? Temo di lasciarmi indurre a
fornire una prosaica, ancorché precisa, sfilza di semplici fatti, mentre
ciò di cui avremmo davvero bisogno è un urlo selvaggio e ferino, oppure la forza
trasformatrice e l’esattezza autentica della poesia.1

Il 2016 tristemente registra la scomparsa dalla scena letteraria


e artistica di due dei più grandi esponenti del panorama culturale
e politico dell’India contemporanea. La morte di Mahasweta Devi
(1926-2016), scrittrice e attivista sociale bengalese di fama internazio-
nale, e la successiva scomparsa del regista teatrale manipuri Heisnam
Kanhailal (1941-2016), hanno lasciato un vuoto che difficilmente
potrà essere colmato. Il loro impegno artistico, personale e sociale
per una letteratura militante e un teatro di trasformazione sociale
costringono chi resta sulla scena politica e artistica dell’India di oggi
a confrontarsi con la loro eredità, a raccogliere una sfida che si ri-
vela, giorno dopo giorno, sempre più pressante. Il pensiero ribelle
veicolato dalle opere di Mahasweta Devi, la cui parola scritta era il
campo privilegiato di riflessione e decostruzione, e l’azione eversiva
dell’attore nel teatro di Kanhailal —teatro rivoluzionario e innovati-
vo che inventava un linguaggio performativo dove il corpo era sito
privilegiato di trasformazione—, sono testimoni di una vita spesa non
soltanto a denunciare l’oppressione delle comunità “subalterne”, ma

1
Cfr. A. Roy, Con gli insorti naxaliti nel cuore della foresta indiana, (Reportage) Centro
di documentazione “Porfido”, Torino 2010 (enfasi aggiunta).
284  Ù Le verità del velo

anche e soprattutto a smascherare le ipocrisie di una scena intellet-


tuale incapace di parole e azioni di reale impatto sociale e politico.
In questo saggio non si potrà dar conto dell’immenso contributo
creativo e umano di Mahasweta Devi e di Heisnam Kanhailal alla vita
culturale dell’India contemporanea, ma si tenterà di leggere una del-
le loro opere più famose, Draupadi, quale testo di rivoluzionaria por-
tata sulla scena letteraria dell’India postcoloniale attraverso la penna
di Mahasweta Devi, e come canovaccio di rivolta politica sulla scena
teatrale e sociale, nella performance di Sabitri Heisnam, moglie del re-
gista Kanhailal. Due figure femminili in una, dunque, la Draupadi
letteraria e quella teatrale. Se nel racconto di Mahasweta Devi il cor-
po nudo di Draupadi si ritaglia uno spazio semantico di grande forza
emotiva, la performance della nudità di Sabitri nel “teatro-non-spetta-
colo” di Heisnam Kanhailal sottoscrive con la sua presenza scenica
un manifesto del dissenso profondo, dove il corpo nudo della donna
non si concede allo sguardo voyeurista dello spettatore, quanto piut-
tosto si riveste di significato politico. Alla luce di una riflessione sul
potere della parola-immagine e del corpo-immagine, tracceremo un
discorso preliminare sul nudo femminile e la sua forza espressiva e
sovversiva nel contesto artistico e politico dell’India contemporanea.

1. Introduzione

Sebbene il tema del nudo e della nudità non sia un argomento


estraneo agli studi sull’India, specialmente in relazione a pratiche ri-
tuali di tipo esoterico, a tipi di abbigliamento (o mancanza di esso)
che indicano l’aderenza a culti o gruppi religiosi particolari, o alle
rappresentazioni artistiche riprodotte in dipinti, bassorilievi e scultu-
re negli antichi templi hindu e jaina, questo tema è stato ammantato
di una sorta di velo censorio per quanto concerne l’ambito della sfera
pubblica dell’India contemporanea. La nudità, ancora ammessa per
i sādhu e gli asceti, è respinta nelle sfere della vita pubblica e negli
ambiti della creatività artistica, anche là dove la si voglia rivestita di un
simbolismo veicolante una critica di tipo socio-politico. Tuttavia, va
sottolineato come questa reticenza, e un certo tipo di atteggiamento
diffidente e imbarazzato di fronte al corpo nudo, non appartenga
solo al contesto sociale e politico dell’India, ma sia ampiamente con-
divisa. Come ha sostenuto Ruth Barcan, infatti,

In the predominantly clothed societies of modernity, nakedness is an


exceptional state, especially in public space, where it is, by and large,
forbidden to adults —except in strictly circumscribed conditions or as a
theatrical, subversive or criminal possibility.2

2
R. Barcan, The Moral Bath of Bodily Unconsciousness: Female Nudism, Bodily Exposure
and the Gaze, in «Continuum: Journal of Media and Cultural Studies», 15, 3 (2001), pp.
303-317, in particolare p. 303.
Introduzione
Mara Matta ∙ Nudo di donna: ri(s)coprire la Devi Ù  285

Forse proprio in virtù del potenziale sovversivo del corpo nudo


quale manifesto politico carico di senso (e di dis-senso), il controllo
quasi totale sui corpi dei cittadini della nazione si è fatto sempre più
totale e assoggettante. Dato che ogni forma di potere si poggia sulla
capacità discorsiva e performativa di demarcare i limiti del consenso
—e del consentito— al popolo che lo deve legittimare, l’attenzione
che lo Stato riserva al corpo degli individui e alla possibile «alleanza
dei corpi»3 che questi potrebbero sancire è estrema. Come ha fatto
notare Judith Butler, infatti, «l’agire di concerto [può] costituire una
forma incarnata di contestazione delle più recenti, e potenti, con-
cezioni dominanti del politico».4 Questo «agire di concerto» pone
una minaccia al potere costituito, specialmente se il controcanto non
è affidato all’espressione puramente verbale del disaccordo, quanto
piuttosto alla performatività del corpo, o dei corpi, di chi rivendi-
ca una agency individuale e collettiva attraverso la pratica di azioni
performative coordinate.5 Fare gruppo è costituire un’alleanza dove,
nelle parole della Butler, «[o]gni “io” prevede un “noi” […]»:

Potremmo dire che c’è un gruppo, se non proprio un’alleanza, che


passeggia là fuori, visibile o meno. […] se viene attaccato, quell’attacco
colpisce tanto l’individuo quanto la categoria sociale. Potremmo forse
definire ancora una volta “performativi” sia questo esercizio del genere,
sia la sua incarnata rivendicazione politica di uguaglianza, protezione
dalla violenza e capacità di muoversi con tutta la categoria sociale nello
spazio pubblico.6

In India, la rivendicazione dello spazio pubblico come territorio


di esercizio della propria libertà ha dato luogo negli ultimi decenni
a vari esercizi di performatività che hanno visto il corpo delle donne
indiane divenire mezzo e strumento di forti azioni di protesta. Nel
2012, a Delhi, alla notizia della morte della giovane Jyoti Singh Pan-
dey per le terribili ferite riportate in seguito a uno stupro di gruppo
da parte di alcuni uomini che volevano, a loro dire, punirla per il
suo comportamento “immorale”,7 migliaia di persone si riversarono

3
J. Butler, L’alleanza dei corpi, Nottetempo, Milano 2017 [Edizione Kindle E-book]
(ed. orig. 2015).
4
Ivi, posizione 162.
5
Ivi, posizione 859.
6
Ibidem.
7
Il “caso” di Jyoti Singh Pandey, la giovane studentessa indiana di 23 anni stupra-
ta il 16 dicembre 2012 da sei uomini su un autobus in corsa a Delhi mentre tornava a
casa con un amico dopo una serata al cinema, suscitò grandissimo scalpore e rabbia
sia in India sia tra le comunità indiane all’estero. La notizia rimbalzò subito dai media
nazionali su quelli internazionali, assumendo una portata globale. Oltre allo sdegno
espresso da alcuni intellettuali e da gruppi di femministe, anche la comunità artistica si
mobilitò: scrittori, registi, artisti teatrali si impegnarono nella produzione di opere di
denuncia dello stupro e della violenza sulle donne, riecheggiando l’indignazione pub-
blica di migliaia di persone che si erano riversate sulle strade di Delhi per protestare lo
stato di assedio del corpo delle donne e lo stupro come vile e obbrobriosa arma di “puni-
286  Ù Le verità del velo

in strada per protestare contro la cultura maschilista e patriarcale


che continuava a identificare lo spazio domestico e del privato come
l’unico “sicuro” per le donne indiane. Pur ottenendo, attraverso que-
sta pubblica «alleanza dei corpi», che lo stato indiano rivedesse le
leggi a tutela delle donne nella sfera pubblica,8 alcuni studiosi non
hanno mancato di sottolineare quanto tali azioni di protesta siano
state limitatamente efficaci, perché sostenute e veicolate dai media
attraverso la costruzione del corpo di Jyoti come rappresentativo solo di
un determinato tipo di “donna indiana”, ad esclusione di altre ca-
tegorie sociali. Come ha sottolineato Krupa Shandilya, infatti, nella
riproduzione mediatica del corpo violentato e vilipeso di Jyoti e nella
sua riconfigurazione nelle vesti di un’eroina quasi mitica, è emersa
una «biopolitica della rappresentazione» dove il corpo dell’individuo
Jyoti Singh Pandey è divenuto un simbolo, un’icona, un’immagine
trasfigurata che riproduceva la donna indiana («everywoman») come
la donna hindu, di classe media, di casta alta.9 Esaminando e proble-
matizzando il modo in cui i media avevano rappresentato l’immagine
di Jyoti, Shandilya ha ripercorso la storia della sua trasformazione in
simbolo di lotta e speranza. Tale trasfigurazione simbolica era passata
attraverso una non secondaria attribuzione di vari nomi10 alla vittima

zione”. Per approfondire il “caso” di Jyoti e la letteratura ad esso relativa, si vedano, tra
altri: D. Dutta e O. Sircar, India’s Winter of Discontent: Some Feminist Dilemmas in the Wake
of a Rape, in «Feminist Studies» 39, 1 (2013), pp. 293-306; B.Q. Man, The Damini Rape
Case: Addressing Sexual Violence and Women’s Rights in Indian Society, in «Asian Journal of
Research in Social Sciences and Humanities» 4, 7 (2014), pp. 223-242; B. Madhavi, Gang
Rapes on Women in India: Nampally Road by Meena Alexander, in «International Journal of
English: Literature, Language & Skills», 5, 2 (2016), pp. 63-66; M. Inchley, Theatre as
Advocacy: Asking for It and the Audibility of Women in Nirbhaya, the Fearless One, in «Theatre
Research International» 40, 3 (2015), pp. 272-287; A. Datta, The Genderscapes of Hate:
On Violence Against Women in India, in «Dialogues in Human Geography» 6, 2 (2016),
pp. 178-181; T.P. Lapsia, Impact of the “Nirbhaya” Rape Case: Isolated Phenomenon or Social
Change? (Honors Scholar Theses 453), 2015, URL: <http://digitalcommons.uconn.edu/
srhonors_theses/453> (12/16); R. K. Gautam e S. Nargunde, The Delhi Gang Rape: The
Role of Media in Justice, in «International Journal of Research», 1, 8 (2014), pp. 869-881;
S. Mayer, Demanding a New Story: Visual Pleasure at Forty and Narratives of Non-Violence, in
«Feminist Media Studies», 15, 5 (2015), pp. 888-892.
8
Il caso dello stupro di Delhi del 2012 suscitò forti critiche nei confronti del Codice
Penale, nel quale i giuristi della Justice Verma Committee riscontrarono un anacronistico e
patriarcale linguaggio dello “stigma” e del “disonore” in relazione alla “vittima”, da un
lato, e l’incapacità di fornire adeguate risposte sociali e misure legali nei casi di stupro,
dall’altra. Si veda, tra altri, S. Sharmila, From “Living Corpse” to India’s Daughter: Exploring
the Social, Political and Legal Landscape of the 2012 Delhi Gang Rape, in «Women’s Studies
International Forum», 50 (2015), pp. 89-101; K. Singh, Violence Against Women and the
Indian Law, in S. Goonesekere (a cura di), Violence, Law, and Women’s Rights in South Asia,
Sage Publications, New Delhi 2004, pp. 77-147.
9
K. Shandilya, Nirbhaya’s Body: The Politics of Protest in the Aftermath of the 2012 Delhi
Gang Rape, in «Gender & History», 27, 2 (2015), pp. 465-486.
10
«According to Section 228 A of the Indian Penal Code, revealing the identity
of rape victims is a crime punishable by imprisonment. This law was passed to protect
victims of sexual assault from social stigma.12 Thus, the victim of the Delhi gang rape
was unknown to the press until her father gave permission for her name to be known on
5 January 2013». Cfr. K. Shandilya, Nirbhaya’s Body, cit., p. 468.
Introduzione
Mara Matta ∙ Nudo di donna: ri(s)coprire la Devi Ù  287

dello stupro, nomi che, pur non rivelando molto della sua storia indi-
viduale, avevano contribuito a restituire alla gente riunita in protesta
l’effige di un’eroina mitica:

In the absence of an official name, newspapers and magazines com-


peted to give the raped woman a symbolic one. Outlook magazine
christened her Jagruti (“Awakening”), and India Today named her Jyoti
(“Light”), which coincidentally is also her given name. Other popular
names were Nirbhaya (“Fearless”) and Amanat (“Treasure”). The pos-
sible rationale for these particular names was that the victim and her
story could serve as an inspiration to all Indian women. However, these
names render her a symbol of light, hope and courage, over-determin-
ing the narrative trajectory of her rape and recreating it as a narrative
of struggle and hope rather than one of pain and violence. Interest-
ingly, most of the names chosen for the victim (with the exception of
Amanat) are derived from Sanskrit and are largely names for Hindu
women. Thus, even before much was known about the rape victim, she
was putatively a Hindu woman.11

Ribadendo l’importanza dell’atto performativo pubblico e delle


proteste per la rivendicazione di una sfera pubblica che non fosse sol-
tanto controllata ma realmente sicura e protetta, Shandilya riprende
e sottoscrive le critiche di altre eminenti voci di femministe indiane,
come quella di Urvashi Butalia,12 le quali avevano criticato la mancan-
za di simili manifestazioni di rabbia e denuncia dinanzi ai numerosi
casi di stupro e violenza dove le vittime non erano, per dirla semplice-
mente, “la ragazza della porta accanto”. Ciò tradiva una forma di par-
zialità e di razzismo (neppur troppo latente) nei riguardi di categorie
sociali, etniche e religiose che non rientravano in quelle riconosciute
come rappresentative della donna indiana. Le donne dalit, le ādivāsī e
quelle appartenenti ad altri gruppi “minoritari” sembravano non me-
ritare la stessa manifestazione di alleanza, verbale o performativa, che
meritavano le Jyoti dell’India.
Se, come scrive Butler, «il corpo, o meglio gli atti corporei concer-
tati —il radunarsi, la gestualità, lo stare in piedi, tutto ciò che concor-
re alla costituzione dell’assemblea e che non può essere facilmente
assimilato al linguaggio verbale— possono assurgere a principi di li-
bertà e uguaglianza […]», in che modo si può assicurare che il corpo
non sia reso partecipe di forme di discriminazione? Ovvero, esiste un
modo di universalizzare il suo linguaggio, perché non parli solo per un
certo gruppo sociale ma si faccia manifesto di una rivendicazione di
libertà? Questa è una delle domande che emergono dal discorso sulla
nudità come arma di lotta politica e sul “nudo di donna”, in particola-

11
Ivi, p. 469.
12
U. Butalia, Let’s Ask How We Contribute to Rape, in «The Hindu», 26 December
2012, <http://www.thehindu.com/opinion/op-ed/lets-ask-how-we-contribute-to-rape/
article4235902.ece> (12/16).
288  Ù Le verità del velo

re, come meccanismo di sospensione della norma e come strumento


di riappropriazione della sfera pubblica da parte di gruppi margina-
lizzati e discriminati. Se il rischio che si presenta nello svestire gli abiti
sociali e il “buon costume” dettato dal genere è quello di esporsi a
una pericolosa visibilità, che potrebbe accentuare piuttosto che pre-
venire o evitare la vulnerabilità del corpo nudo, la strategia della nu-
dità utilizzata dalle donne come arma di dissenso politico e di denun-
cia della violenza mostra il suo potere performativo, di discorso agito,
nel momento in cui attraverso l’atto —individuale o collettivo— della
dismessa dell’abito sociale, il corpo femminile si riveste di un nuovo
senso etico e politico. Se, quindi, la nudità del corpo non equivale a
una sua “scostumatezza” che invita alla possessione e/o alla soppres-
sione —reificante e punitiva— dello stesso, in che modo le performan-
ce di protesta dove le donne usano il loro corpo privo di vesti possono
essere interpretate come un atto di riscrittura, attraverso il corpo, di
un altro tipo di linguaggio? Esiste una possibilità reale di rendere visi-
bile non la nuda carne ma quella che Judith Stacey definisce una carne
sensata («sensate flesh»), dove la visibilità del corpo nudo non invita
a un’attenzione morbosa e voyeurista, ma mira piuttosto a riprodurre
un ribaltamento di senso, a lanciare una sfida semantica prima che
politica, a respingere lo sguardo maschilista e sessista, erotico e og-
gettivizzante che tenta di feticizzare il corpo femminile rendendolo
mero oggetto del piacere, passivo e de-soggettivato?
Secondo alcune teorie della nudità o meglio, della capacità per-
formativa del corpo nudo, la risposta è affermativa e sostiene il nudo
femminile come discorso etico e politico di tipo sovversivo. Come
scrive Stacy Alaimo:

While politically effective, certainly, in calling attention to its cause,


the naked protests do something more. They embody an urgent sense
of conviction, as well as an alternative ethos that acknowledges not only
that discourse has material effects but that the material realm is always
already imbricated with, and sometimes against, the discursive, howev-
er veiled corporeality may be. Disrobing, they momentarily cast off the
boundaries of the human, which allows us to imagine corporeality not as
a ground of static substance but as a place of possible connections, intercon-
nections, actions, and ethical becomings.13

Il corpo in quanto immagine, dunque, non è un sito di statica


rappresentazione di senso, dove semplicemente inscrivere un signi-
ficato, ma si pone come un mezzo, un luogo della possibilità, una
limen che offre l’opportunità di accedere a uno spazio ontologico ed
etico che Alaimo definisce «post-umano».14 L’uso della nudità, dun-

13
S. Alaimo, The Naked Word: The Trans-Corporeal Ethics of the Protesting Body, in
«Women & Performance: A Journal of Feminist Theory», 20, 1 (2010), pp. 15-36, in
particolare p. 31 (corsivo mio).
14
Ivi, p. 32.
Introduzione
Mara Matta ∙ Nudo di donna: ri(s)coprire la Devi Ù  289

que, è un tentativo di riscrivere il corpo e di scrivere attraverso il corpo,


ricollocando il nudo di donna sulla soglia tra immanenza e trascen-
denza, liberandolo dalle briglie di un pensiero dicotomico e di un di-
scorso fallologocentrico, perché possa agire nel senso pieno, ovvero
performare, piuttosto che incarnare, la nudità come protesta, evitando
dunque la trappola dell’essere nudi e vulnerabili attraverso la messa
in scena della nudità come processo di ri-vestizione di un nuovo costu-
me simbolico. E tuttavia tale costume rivela, come fa notare Jean-Luc
Nancy, che non c’è nulla da rivelare, risolvendo la tensione tra imma-
nenza corporea e trascendenza spirituale in una rivelazione del nulla
“a fior di pelle”, del mistero della mancanza di mistero:

Occorre giungere a questo sapere per il quale il mistero nudo non pos-
siede nulla della tensione nascosta, sotterranea, che si suppone nel mi-
stero. È mistero in quanto è nudo, è mistero anche a fior di pelle, non
sotto la pelle. Non è nel corpo, è il corpo: è la manifestazione del corpo
in quanto corpo, vale a dire in quanto è qui. Non il mistero di una verità
da rivelare, ma la rivelazione stessa: che ci sia qualcosa da rivelare e che
ce ne sia infinitamente.15

Nel commentare il pensiero di Nancy, Salvatore Piromalli defini-


sce la nudità come una «sottrazione del senso» e una «sovversione
del pensiero», dove «[i]l corpo nudo si rivolge direttamente alla li-
bertà del pensiero e al pensiero in quanto libertà».16 In questo atto
di coraggio, dove il pensiero perde i suoi punti fermi ed è costretto a
confrontarsi con una nuova ontologia, etica ed estetica, l’immagine
del corpo nudo assume un significato che è necessariamente anche
politico. Partendo dalla biopolitica della rappresentazione del corpo
nudo delle donne che hanno scelto tale prassi per manifestare un
profondo sentimento di rabbia e di rifiuto delle ingiustizie subite, si
tenterà una rilettura della nudità come meccanismo di sospensione
del senso comune, a cui segue un capovolgimento e talvolta un to-
tale annullamento delle norme che regolano la performatività del
genere. Lo svelamento del corpo nudo non è simbolico di una verità
che viene rivelata, di un velo di Māyā che è rimosso per far affiora-
re il mistero della realtà. Il velo che viene tolto, se da un punto di
vista sociale rimanda a un atto di liberazione da un indumento che
rappresenta, nell’immaginario comune, la compostezza femminile,
l’appartenenza a un certo ceto sociale, il rispetto delle regole, e via
dicendo, dall’altro rappresenta un atto che segna l’accesso a un pia-
no etico dove le norme sono dissolte e una nuova ontologia etica è
costituita. Deviando dalla norma, s-velandosi, le donne riformulano
le norme di incorporazione di un codice che le ha ingabbiate nel

15
J.L. Nancy, À la nue accablante..., in Nudità. Emergenze, in «Kainos», 8 (2008), URL:
<http://www.kainos.it/numero8/emergenze/nancy.html> (12/16).
16
S. Piromalli, Nudità: sottrazione del senso, sovversione del pensiero, in «Epekeina», 3,
2 (2013), pp. 191-200, p. 197.
290  Ù Le verità del velo

loro stesso corpo. Tali norme, come ha ben illustrato Judith Butler,
«informano le modalità vissute di incorporazione che acquisiamo nel
corso del tempo; e queste forme di incorporazione possono rivelarsi
modi per contestare o sovvertire le norme stesse».17 Nello spiegare
come si può anche fallire nella messa in atto del proprio genere, si
apre una possibilità di scelta deviante che è importante per compren-
dere in che modo la nudità performata, il corpo che agisce come corpo
nudo, fornisca uno spazio interstiziale di scelta e di rivolta contro la
normatività del genere.
Rendendo quella possibilità di “fallire” come condizione non solo
possibile ma necessaria a far affiorare la consapevolezza del divario
profondo tra l’idealità e la realtà delle situazioni di genere, la per-
formatività del nudo di donna può assumere un peso simbolico e un
risvolto politico di grande portata rivoluzionaria. Vedremo dunque
come, nel rivendicare i propri diritti, alcune donne in India abbiano
deciso di attuare un’intenzionale performance “deviata” del proprio ge-
nere, scegliendo l’espressività del corpo nudo come palinsesto dove
respingere la normativizzazione di uno «stato di eccezione» che ri-
duce gli individui appartenenti alle classi subalterne a «nuda vita».18
La nudità come espressione del dissenso e il corpo nudo delle
donne come luogo di un processo di riaffermazione della dignità e

17
J. Butler, L’alleanza dei corpi, cit., [Kindle E-book, posizione 507].
18
Come ha sostenuto Giorgio Agamben, «[l]o stato di eccezione si presenta [...]
come una soglia di indeterminazione fra democrazia e assolutismo», una sospensione
della legge e dei diritti costituzionali che «tende sempre più a presentarsi come il pa-
radigma di governo dominante nella politica contemporanea». Nel descrivere questa
«terra di nessuno fra il diritto pubblico e il fatto politico, e fra l’ordine giuridico e la
vita […]», Agamben utilizza la metafora del velo da rimuovere per poter rispondere alla
domanda «che cosa significa agire politicamente?»: «Solo se il velo che copre questa
zona incerta verrà rimosso potremo avvicinarci a comprendere la posta in gioco nella
differenza —o nella supposta differenza— fra il politico e il giuridico e fra il diritto
e il vivente». Il “vivente”, spogliato dei suoi diritti costituzionali, viene ridotto a «nuda
vita», un concetto complesso che Agamben riprende in diversi suoi saggi ma di cui
non dà mai una definizione completa e definitiva. In Homo Sacer, egli scrive: «“Nuda”,
nel sintagma “nuda vita”, corrisponde qui al termine greco haplōs, con cui la filosofia
prima definisce l’essere puro. L’isolamento della sfera dell’essere puro, che costituisce
la prestazione fondamentale della metafisica dell’occidente, non è, infatti, senza analo-
gie con l’isolamento della nuda vita nell’ambito della sua politica. A ciò che costituisce,
da una parte, l’uomo come animale pensante, fa riscontro puntualmente, dall’altra,
ciò che lo costituisce come animale politico. In un caso, si tratta di isolare dai molte-
plici significati del termine “essere” (che, secondo Aristotele, “si dice in molti modi”),
l’essere puro (on haplōs); nell’altro, la posta in gioco è la separazione della nuda vita
dalle molteplici forme di vita concrete. L’essere puro, la nuda vita —che cos’é contenu-
to in questi due concetti, perché tanto la metafisica che la politica occidentale trovino
in essi e in essi soltanto il loro fondamento e il loro senso? Qual è il nesso tra questi
due processi costitutivi, in cui metafisica e politica, isolando il loro elemento proprio,
sembrano, insieme, urtarsi a un limite impensabile? Poiché, certo, la nuda vita è altret-
tanto indeterminata e impenetrabile dell’essere haplōs e, come di quest’ultimo, così si
potrebbe dire di essa che la ragione non può pensarla se non nello stupore e nell’atto-
nimento». Per un approfondimento dei concetti di Agamben e della sua biopolitica, si
vedano in particolare i suoi saggi: G. Agamben, Homo Sacer, Einaudi, Torino 1995; Id.,
Stato di eccezione, Bollati Boringhieri, Torino 2003.
Introduzione
Mara Matta ∙ Nudo di donna: ri(s)coprire la Devi Ù  291

della rivendicazione dei diritti che lo stato di «nuda vita» ha cercato di


negare si pongono come strategie etiche ed estetiche per la conquista
di un proprio spazio, da occupare con una «intenzionalità corporea»
che vìoli sia le costruzioni sociali sia le forme di femminilità normati-
va, al fine di affermarne di nuove.19 Per farlo non è sufficiente, però,
spogliarsi ed esibirsi nella propria nudità. La modalità performativa e
la riscrittura scenica dello svelamento come atto portatore di nuovi si-
gnificati - attraverso una messinscena del corpo nudo di donna come
un significante che trascende il senso comune - sono processi fonda-
mentali per comprendere in che modo la nudità sia un’altra maschera
di senso, un costume di scena che si indossa come un velo, se non di
grazia come nella lettura biblica, almeno di rivolta. La “scostumatez-
za” potenziale dell’apparire senza veli è superata da una «esplosione
di senso»20 che riveste di un significato alternativo —ribelle ed ever-
sivo— il corpo nudo che agisce nell’atto performativo, modificando
le regole del gioco delle parti e costringendo a un’improvvisazione. Il
processo di nudità, che differisce dallo stato dell’essere semplicemen-
te privi di vesti, è quindi un fenomeno complesso, come ben illustra
John Berger nel suo celebre saggio Questione di sguardi:

Essere spogliati è essere se stessi.


Essere nudi è essere visti spogliati e, tuttavia, non essere riconosciuti
per se stessi. Per diventare un nudo, il corpo spogliato deve essere visto
come un oggetto. (La vista del corpo nudo come oggetto ne stimola l’uso
come oggetto.) Lo spogliarsi è rivelazione di sé. La nudità è esibizione.
Essere spogliati è essere senza maschere.
Essere esibiti significa che la superficie della propria pelle, i peli del
proprio corpo, sono stati trasformati in una maschera da cui, in quella
situazione, non ci si potrà più liberare. Il nudo è condannato a non esse-
re mai spogliato. La nudità è una forma di abito.21

Stando a tali affermazioni, si gioca sul filo del rasoio: le donne che
si spogliano per protesta sono dunque nude o no? Forse potremmo
dire che sono “loro stesse”, nel loro essere spogliate, ovvero denuda-
te della maschera del ruolo sociale. E tuttavia, rifiutando con forza
espressiva lo sguardo egemone e regolatore che tenta di velarle di
senso, hanno assunto un’altra maschera, quella forma d’abito che
è la nudità esibita come modalità di protesta. In questo processo di
messa a nudo delle pratiche di potere che opprimono le donne, alcu-

19
Cfr. M.B. Gale, Resolute Presence, Fugitive Moments, and the Body in Women’s Protest
Performance, in «Contemporary Theatre Review», 25, 3 (2015), pp. 313-326; si veda an-
che T. O’Keefe, Flaunting Our Way to Freedom? Slut Walks, Gendered Protest and Feminist
Futures, in «New Agendas in Social Movement Studies», National University of Ireland
Maynooth, November 2011, URL: <http://eprints.nuim.ie/3569/> (12/16).
20
Cfr. J.M. Lotman, La cultura e l’esplosione: prevedibilità e imprevedibilità, Feltrinelli,
Milano 1993.
21
J. Berger, Questione di sguardi. Sette inviti al vedere fra storia dell’arte e quotidianità, Il
Saggiatore, Milano 2009, p. 56 (ed. orig. 1972).
292  Ù Le verità del velo

ne hanno trovato nella nudità una forma d’abito che permette loro di
comunicare la propria presa di posizione dissidente nei confronti del
potere coercitivo e oppressivo dello stato patriarcale fallocentrico. È
quanto si tentava di delucidare con l’uso della parola “scostumatezza”
in rapporto alla percezione della nudità: la donna che utilizza il suo
corpo nudo come strumento di protesta, a seconda della modalità
performativa che adotta, riesce a sovvertire questa stessa percezione
della nudità come “scostumata” e a renderla “costumata”, ovvero che
veste, non senza una certa grazia, il costume del nudo per esprimere
un forte messaggio di denuncia. La “scostumatezza” è di chi guarda,
la “vergogna” —parola chiave per comprendere alcuni passaggi del
processo di nudità come manifesto di dissenso— è nello sguardo di
chi osserva, scruta e vorrebbe riconfigurare il corpo nudo di donna in
una certa performance normativa. Nello spazio della rinegoziazione di
cosa sia, prima di che cosa significhi, un corpo nudo, si innesca una
possibilità di «esplosione di senso» che parte proprio dall’immagine
del corpo. Come ha sostenuto Gail Weiss, infatti, l’immagine del cor-
po non è data come fissa, ma è prodotta nello scambio continuo tra
i corpi e le relative immagini: «A body image is neither an individual
construction, nor the result of a series of conscious choices, but rath-
er, an active agency that has its own memory, habits, and horizons of
significance».22
Nell’ambito di tali «orizzonti di significato», si comprende lo scan-
dalo del ritratto di Olympia di Manet che guarda, altera e nuda, il suo
potenziale osservatore smascherandone derisoriamente il desiderio
erotico e causandone l’imbarazzo pubblico. Spesso citata come opera
che sancisce l’inizio dell’arte moderna, l’Olympia di Manet ben illustra
quella delicata negoziazione tra il corpo e il corpo-immagine, tra ciò
che il corpo è come soggetto e ciò che il corpo è in quanto rappresen-
tazione, non tanto di sé, ma di quelle stesse negoziazioni che fissano
un’immagine come accettabile e rappresentativa. L’Olympia di Manet,
come scrive Rebecca Schneider, non creò scandalo per la sua nudità,
quanto per il suo modo di essere nuda, per il suo sguardo che interro-
gava la pruriginosa borghesia parigina e ne smascherava le ipocrisie:

Manet’s Olympia […] caused a scandal when it was unveiled in 1863.


The painting was proclaimed indecent not because of nudity or sex-
ual display, but rather because of the nude’s seeming self-possession.
Manet had painted a courtesan, or in modern parlance a prostitute,
laying on a couch much like the courtesan in Titian’s famous The Venus
of Urbin. […] Unlike Titian’s courtesan, Manet’s naked Olympia “looked
back” at her audience not with seductive pleasure but with a pride that
resembled disdain.23

22
G. Weiss, Body Images: Embodiment as Intercorporeality, Routledge, New York 1999,
p. 3.
23
R. Schneider, The Explicit Body in Performance, Routledge, London-New York 1997,
p. 25.
Introduzione
Mara Matta ∙ Nudo di donna: ri(s)coprire la Devi Ù  293

L’Olympia di Manet, pur nella sua nudità che si offriva allo sguar-
do dello spettatore, al contempo lo respingeva quasi con disprezzo,
interrogandolo con un contro-sguardo che neutralizzava il potere
fagocitante e reificante del voyeurismo erotico. È questa capacità
di indossare la nudità, di portarla in scena e, attraverso una perfor-
mance dove la corporeità femminile è utilizzata come uno specchio,
sovvertire lo sguardo perverso e pervertito dello spettatore, che pos-
siamo leggere alcune delle manifestazioni di protesta in India. Al-
cune donne, da sole o in gruppo, hanno deciso di utilizzare il pro-
prio corpo come arma di protesta e strumento di “messa a nudo”
della violenza e dell’ipocrisia dello stato patriarcale e delle sue lo-
giche fallocentriche. La letteratura, il teatro e il cinema, di volta
in volta, hanno ispirato o si sono ispirati a fatti reali, amplificando
la risonanza di tali proteste e impedendo all’apparato del potere
di farle scomparire nell’ombra. Il nudo di donna, in tali contesti,
interroga l’ipocrisia dello stato patriarcale, ne denuncia la violenza
e smaschera il perbenismo osceno dei suoi gendarmi: nel racconto
Draupadi (1978) di Mahasweta Devi, prima, e nell’opera teatrale di
Heisnam Kanhailal (2000; 2014), dopo, queste richieste di giustizia
sono portate sulla scena letteraria e artistica per rendere il pubblico
consapevole del perverso sguardo egemonico dello stato e dell’o-
scenità dei suoi meccanismi di coercizione e punizione.
Quello che va sottolineato è il modo in cui la letteratura e il tea-
tro, partendo dalla vita reale, abbiano poi restituito allo spettatore
la scena e un canovaccio su cu preparare una messinscena nel teatro
pubblico. Nel breve spazio di questo saggio, dunque, tenteremo di
mettere in relazione la memoria della performance teatrale portata
in scena nel 2000 a Imphal, nello stato di Manipur, dalla compa-
gnia teatrale Kalakshetra Manipur —dove l’attrice Heisnam Sabitri
si denudò come la Draupadi dell’omonimo racconto di Mahasweta
Devi— con un evento della vita reale accaduto nel 2004, quando
un gruppo di dodici donne manipuri si spogliò di fronte al Kangla
Fort di Imphal per denunciare lo stupro e la morte violenta, per
mano dell’esercito, di una giovane donna, Tanjam Manorama. Che
relazione può esistere tra la messa in scena di un nudo di donna a
teatro e l’esibizione dei corpi nudi di un gruppo di donne mani-
puri? Come l’Olympia di Manet, questa nudità sembrava porre un
problema di ontologia etica: operando una castrazione simbolica
e smascherando la vergogna e l’ipocrisia dei soldati e degli ufficia-
li dell’Esercito indiano, al contempo faceva emergere la subdola e
perversa strategia oppressiva dello Stato. Le donne manipuri, come
le Draupadi sovversive dell’arte, sembravano esporre un corpo de-
nudato dove la nudità in senso letterale non accadeva: ciò che si
esponeva, nell’esibizione del nudo di donna, era lo sguardo dell’Al-
tro, del colonizzatore e del voyeur, a cui si legava anche il sentimen-
to della vergogna, liberando così il corpo delle donne dalla vulne-
rabilità e dalla nudità.
294  Ù Le verità del velo

2. Dopdi/Draupadi e la parola-immagine: nudità del pensiero, libertà di


azione

Scritto da Mahasweta Devi nel 1978 e pubblicato per la prima volta


nell’originale in lingua bangla all’interno della raccolta di novelle
Agnigarbha (Calcutta, 1978), Draupadi rimane ancora oggi uno dei
racconti più famosi di Mahasweta Devi. Draupadi narra la storia del-
la giovane Dopdi/Draupadi Mejhen,24 una donna appartenente al
gruppo indigeno dei Santal.25 In fuga insieme al marito e compagno

24
Il nome della protagonista del racconto, come sottolinea anche la Spivak nel-
la sua Prefazione, è significativo non soltanto perché richiama l’eroina del Mahābhārata,
Draupadi —di cui Dopdi è forse la forma tribale oppure una storpiatura dovuta al fatto
che Dopdi non riesce a pronunciare bene il nome che le fu dato dalla sua padrona al
momento della nascita— ma è un nome che gioca anche un ruolo importante nella strut-
tura diegetica del racconto. La Spivak scrive: «Dopdi è (tanto eroica quanto) Draupadi.
È anche quel che Draupadi —scritta all’interno del sacro testo, patriarcale e autoritario,
in quanto prova del potere maschile— non può essere. Dopdi è allo stesso tempo un
palinsesto e una contraddizione». E aggiunge: «Nel momento in cui, varcando la so-
glia del differenziale sessuale, passa nel campo di ciò che può capitare solo a una donna,
Dopdi emerge come il “soggetto” più potente […]». Lo slash / che si usa nel presente
saggio demarca quello spazio —semiotico e simbolico— tra la Dopdi tribale, che parla
la lingua della foresta e ululando lancia segnali ai suoi compagni e agli uccelli che si
alzano in volo, e la Draupadi mitica, che emerge dall’immaginario di Senanayak come
il suo peggiore incubo, poiché egli non riesce a segnarne la completa disfatta. La linea
obliqua che separa i due nomi, al contempo congiungendoli in una specularità che li
rende l’uno il riflesso dell’altro, indica anche il percorso emotivo e di coscienza della
Draupadi letteraria e teatrale. Dopdi muore nel momento della cattura, quando cade
preda dei soldati di Senanayak. L’ultimo atto del racconto, infatti, comincia con le paro-
le: «Draupadi Mejhen è stata catturata alle 6 e 53 del pomeriggio». Nella foresta, Dopdi
abbandona anche la sua identità tribale: i soldati trascinano Draupadi nel campo, «“Cat-
turata Draupadi Mejhen, eccetera”, Draupadi Mejhen viene portata dentro […]», «Drau-
padi fissa la tenda», «Draupadi nuda che cammina», «Draupadi è di fronte a lui, nuda»,
«Draupadi gli viene più vicina», fino alla scena finale in cui «Con i suoi seni maciullati,
Draupadi dà una spinta a Senanayak, e per la prima volta Senanayak ha paura […]”».
Nell’atto finale, Mahasweta Devi non utilizza più il nome “Dopdi”: quella maschera non
serve più. L’uso dello slash ci aiuta a ricordare che Dopdi/Draupadi è un’individuali-
tà soggettivata, ma è anche un doppio significante, perché rimanda continuamente a
ciò che lei è (la donna tribale Dopdi) e a ciò che gli altri vedono semplicemente come
un’alterità da assimilare (chiamandola con il nome nobile di Draupadi). Lo scivolone
semantico e simbolico che Senanayak, e con lui tutti noi, compiamo è dovuto all’errore
di sguardi, alla ottusità di non vedere che Dopdi ha la fierezza nobile di Draupadi, ma
questa Draupadi ha mantenuto l’irriverente libertà della donna tribale che non ha tra-
dito la legge dei suoi avi per piegarsi a quella fallocentrica dei padri del Mahābhārata.
Lo slash occupa, in questo saggio, quello che per Roland Barthes era lo spazio “ottuso”,
ovvero —nella spiegazione che ne dà Andrea Velardi— «lo spazio in cui il significante si
trova a stare senza significato, nella sua sola tensione di significante preso per se stesso,
nudo o meglio spogliato del suo rivestimento ideologico». Cfr. A. Velardi, La semiotica
“bucata”. Il ritmo della semiosi nella prospettiva della significanza, in A. Ponzio, P. Calefato,
S. Petrilli (a cura di), Con Roland Barthes alle sorgenti del senso, Meltemi, Roma 2006, pp.
162-183, specialmente p. 167. Per la traduzione e l’interpretazione del racconto Draupadi
a cura della Spivak, si veda Cfr. M. Devi, Draupadi, in M Devi, La trilogia del seno (prefa-
zione e traduzione in italiano a cura di Ambra Pirri), Filema, Napoli 2005, pp. 35-53.
25
I Santal sono uno dei gruppi tribali dell’India che rientrano nella categoria della
Scheduled Tribes (ST). Sono tra le comunità più numerose, e la loro presenza è attestata in
diversi stati dell’India (Bengala Occidentale, Bihar, Jharkhand, Tripura, Orissa) e in al-
Introduzione
Mara Matta ∙ Nudo di donna: ri(s)coprire la Devi Ù  295

di lotta Dulna, sono braccati dai soldati dell’esercito indiano, i quali


riescono a uccidere Dulna e, dopo una caccia serrata, catturano e stu-
prano Dopdi/Draupadi. Costantemente in bilico tra due nomi, pe-
rennemente ai margini tra l’oscurità della foresta e la pseudo-civiltà
del mondo fuori di essa, la protagonista del racconto si muove con
destrezza e abilità, come una preda che sa di essere seguita e cerca
di sviare il suo cacciatore. Tuttavia, per evitare il rischio di condurre
i soldati dell’esercito indiano troppo vicino al nascondiglio dei suoi
compagni di guerriglia, Dopdi/Draupadi rinuncia a rientrare nel fit-
to della boscaglia, dove le sarebbe facile far perdere le tracce di sé.
Scegliendo di restare sul sentiero, si sacrifica per la causa del suo
popolo. Catturata dai soldati di Senanayak, il cui nome non a caso
indica semplicemente la funzione che egli ricopre, ovvero “ufficiale

cune zone di confine tra India e Bangladesh. Per una definizione del termine Scheduled
Tribes si rimanda a quella, sintetica ma esaustiva, del Dizionario Treccani (Online) <http://
www.treccani.it/enciclopedia/scheduled-tribes_(Dizionario-di-Storia)/> (12/16). Sia in
epoca coloniale, sia in epoca post-coloniale, i Santal sono stati protagonisti di rivolte e
insurrezioni contro l’oppressione dello Stato. Alla fine degli anni Sessanta, quando scop-
piò il Movimento Naxalita, diversi gruppi tribali aderirono alla guerriglia armata che si
poneva come scopo principale quello di combattere forme di imperialismo economico e
di oppressione politica. Il Movimento Naxalita, detto anche movimento maoista per l’i-
spirazione che traeva, all’inizio della sua formazione in India negli anni 1967-1971, dalle
teorie politiche di Mao Zedong, è tra le voci sulla storia moderna dell’India contempora-
nea riportate anche nel Dizionario Treccani, ove così è descritto: «Rivolta contadina india-
na avvenuta nel 1967, nel villaggio Naxalbari (nel distretto di Darjeeling), a causa della
mancata attuazione dell’abolizione del latifondo in India; a essa parteciparono anche
studenti universitari ed elementi della sinistra intellettuale rivoluzionaria. La violenta
repressione della rivolta attuata dalle forze di polizia del West Bengal (allora agli ordini
di un governo comunista) spinse gli aderenti a migrare verso altre regioni dell’India,
segnatamente in un’area detta “corridoio rosso” fra Bihar, Jharkhand, Chhattisgarh e
Andhra Pradesh, dove si sviluppò, nei decenni seguenti, un movimento di resistenza
all’establishment, detto appunto n., o maoista, che sommò la questione contadina a quella
delle locali comunità tribali. Agli inizi del 21° sec. il movimento n. entrò in una nuova
fase di attività, anche sul piano militare, in opposizione alle politiche neoliberiste del
governo, costituendo un’organizzazione di controllo del territorio capace di sfidare le
autorità e sostituirsi alle istituzioni dello Stato». Resta, oltre che sul piano politico per il
governo indiano, anche uno degli argomenti più complessi da un punto di visto storico e
socio-antropologico, a cui sono stati dedicati articoli, libri e monografie di studio e ricer-
ca. Per un approfondimento, oltre al bellissimo reportage di Arundhati Roy con il quale
abbiamo scelto di aprire questo saggio, si vedano anche: P. Singh, The Naxalite Movement
in India, Rupa & Co., New Delhi 1995; M. Mohanty, Challenges of Revolutionary Violence: The
Naxalite Movement in Perspective, in «Economic and Political Weekly», 22 July (2006), pp.
3163-3168; B. Chakrabarty, R.K. Kujur, Maoism in India: Reincarnation of Ultra-Left Wing
Extremism in the Twenty-First Century, Routledge, New York 2010. Per la questione naxalita
in rapporto alla guerriglia armata dei Santal, si veda E. Duyker, Tribal Guerrillas: The
Santals of West Bengal and the Naxalite Movement, Oxford University Press, New York 1987.
Invece, per un excursus storico-antropologico e socio-letterario delle questioni legate
alla definizione e politicizzazione della indigeneity, si vedano R. Ciocca, S. Das Gupta,
Out of Hidden India. Adivasi Histories, Stories, Visual Arts and Performances, Anglistica 19,
1 (2015), URL: <https://www.anglistica-aion-unior.org/copia-di-18-2-1> (12/16); S. Das
Gupta - R.S. Basu (a cura di), Narratives from the Margins: Aspects of Adivasi History in India,
Primus Books-Ratna Sagar, New Delhi 2015; D.J. Rycroft - S. Dasgupta (a cura di), The
Politics of Belonging in India: Becoming Adivasi, Routledge, Abingdon-New York 2011.
296  Ù Le verità del velo

dell’esercito”,26 questi la riconsegna ai suoi soldati con le parole «Fa-


tevela. Fate tutto quel che è necessario […]».27 I soldati ai suoi ordini
non hanno dubbi sul significato profondamente letterale del fare il
corpo della preda e la riducono a «nuda vita», dove «[v]igorosi pistoni
di carne si alzano e si abbassano, si alzano e si abbassano su di lei».28 Il
racconto della notte di violenza subita da Dopdi/Draupadi è narrato
con un linguaggio grafico che nulla lascia all’immaginario, pur rima-
nendo a tratti intriso di un lirismo drammatico, come nell’immagine
della «luna [che] vomita un po’ di luce e poi va a dormire». La scena
termina con l’immagine del corpo della giovane donna, ancora le-
gata, ancora preda: «Un corpo immobile aperto a forza, dispiegato
come quello di un’aquila».29 Un corpo crocefisso, se volessimo legge-
re in esso la metafora di una sorta di transustanziazione che sta per
compiersi. Pur nella restituzione lucida e cruda della sequenza dello
stupro di gruppo a cui Dopdi/Draupadi è assoggettata nel tentativo
di modellare il corpo della donna tribale per riformarlo e piegarlo
alla legge fallocentrica dello stato patriarcale, Mahasweta Devi condu-
ce il lettore a un finale inaspettato. All’alba, quando viene slegata, il
suo panno le viene buttato addosso. Un catino d’acqua le è porto con
gesto di consuetudine, come se fosse un rituale normale, una prassi
a cui semplicemente bisogna conformarsi. In questo preciso istante,
la Dopdi/Draupadi delle scene precedenti rifiuta di riassumere il suo
ruolo e riemerge dalla notte oscura con una potenza quasi sovruma-
na, che sconcerta e spaventa gli astanti. Rifiutando di indossare la
veste, si dirige, sanguinante, verso la tenda di Senanayak.
Attraverso il corpo di Draupadi, che si erge nella sua nudità offesa
e sanguinante e cammina con «la testa alta» verso la tenda di Sena-
nayak, Mahasweta Devi inscrive nel corpo nudo di donna il dissenso

26
Nel saggio della Spivak che introduce il racconto Draupadi di Mahasweta Devi,
la studiosa scrive: «Ho tradotto questo racconto breve dal bengali all’inglese tanto per
il cattivo, Senanayak, quanto per il personaggio che dà il titolo alla storia, Draupadi (o
Dopdi). Poiché Senanayak è colui che maggiormente si approssima allo studioso del
Primo Mondo che va in cerca del Terzo Mondo, parlerò di costui per prima cosa». La
Spivak dedica un’ampia riflessione al “cattivo” della storia, e giunge ad analizzarne il
nome, che significa semplicemente “ufficiale dell’esercito”, un appellativo comune che
ne chiarisce (forse?) l’identità. Aggiunge ancora la Spivak: «Questa potrebbe essere
una critica all’identità dell’uomo, una identità apparentemente adeguata a sé, e che dà
sostegno ai suoi giochi di destrezza tra teoria e pratica. Se è così, ciò fa parte di quello
che io vedo come il progetto della storia: spezzare le catene di questa identità usando il
cuneo di una paura irragionevole». Cfr. G.C. Spivak, Prefazione a Draupadi, in M. Devi, La
trilogia del seno, Filema, Napoli 2005, pp. 17-34.
27
Cfr. M. Devi, Draupadi, in Ead., La trilogia del seno (prefazione e traduzione in
italiano a cura di Ambra Pirri), Filema, Napoli 2005, pp. 35-53. La pubblicazione in
italiano contiene anche la traduzione di alcuni saggi della Spivak, tra cui uno di Prefa-
zione al racconto Draupadi, a cui si è già fatto riferimento. Cfr. G.C.Spivak, Prefazione a
Draupadi, cit.
28
M. Devi, Draupadi, cit., p. 51. L’uso del corsivo nella traduzione italiana rende
quelle parole che, nel testo originale in lingua bangla, erano in inglese.
29
Ibidem.
Introduzione
Mara Matta ∙ Nudo di donna: ri(s)coprire la Devi Ù  297

più profondo verso la Legge: rifiutando gli schemi sociali e le norme


morali della “vergogna”, Draupadi rivolta il senso della sua nudità.30
Strappando la veste con i denti e confrontando, nuda, fiera e indo-
mita, un terrorizzato Senanayak —l’ufficiale che aveva studiato tutto,
ma non aveva capito niente— costringe il gendarme pusillanime (e
con lui tutto l’apparato oppressivo che egli rappresenta) a prendere
atto dell’impotenza dinanzi alla forza morale e al senso di giustizia
della donna tribale. Operando una castrazione simbolica del potere
esercitato attraverso canne di fucile e pistoni di carne, Draupadi re-
spinge il linguaggio fallocentrico della violenza di Stato e si fa puro
significante, impedendo dunque a Senanayak di comprendere il si-
gnificato del suo gesto. Lui che pensava di conoscere il nemico alla
perfezione, ora si scopre incapace di decifrare il comportamento di
Draupadi, la sua denegazione di assenso alla sconfitta. Ella, infatti,
gli si staglia di fronte fiera come l’aquila liberata dai lacci della cattu-
ra, e lo sfida a (in)contrarla, o giocando con i fonemi, (in)kontrarla.31
Infatti, il ribaltamento di senso è totale: in quest’ultima parte del rac-
conto, Dopdi è quasi sempre identificata con il solo nome di Draupa-
di, come se si fosse prodotto uno slittamento identitario completo.
Pur pronunciando la parola encounter in modo scorretto (kounter),
Draupadi mostra di averne compreso appieno il significato e di esse-

30
La parola Legge è qui utilizzata nel triplice senso di: 1. Legge come Codice Le-
gale, insieme di atti giuridici ai quali Draupadi si rifiuta di aderire, essendo tali norme
applicate attraverso una paradossale sospensione della legalità stessa. 2. Legge come
costume sociale, come prassi e norma culturale che detta il normale comportamento
di una donna. 3. Legge come Dharma, al quale Draupadi non fa alcun appello. Contra-
riamente alla Draupadi del Mahābhārata, che invoca l’intervento salvifico di Krishna
(Kṛṣṇa) come sostenitore della Legge Suprema, del Dharma, il quale compie il miracolo
della “infinita vestizione” della sua devota, nel racconto di Mahasweta Devi, Draupadi
non solo non chiede l’intervento divino, bensì essa stessa rifiuta la veste e si ammanta di
un corpo di metamorfosi, un corpo “transustanziato” e quasi sovrumano.
31
L’encounter è divenuta una delle modalità più frequenti con cui la polizia o le forze
militari e paramilitari dello Stato dispongono —attraverso l’assassinio del “criminale”
con la giustificazione della “legittima difesa”— del corpo di un individuo “pericoloso”.
La prassi dell’encounter è divenuta tale da giustificare diversi studi sul fenomeno di que-
sti “extrajudicial killings”. Come ha evidenziato l’antropologa Beatrice Jauregui: «The
encounter killing has become such a widespread and well-known practice across South
Asia that it even has its own Wikipedia entry, which as of August 2010 defines encounter
killings by police as “a euphemism used in India, Pakistan and Bangladesh to describe
extrajudicial killings in which police shoot down alleged gangsters and terrorists in gun
battles” (emphasis added). As this description indicates, people generally assume that
most reported encounters are in fact “fake encounters,” not an instance of self-defense
but rather a premeditated and often elaborately staged form of state-sponsored murder».
Nel racconto, la Devi distorce la parola encounter, che Dopdi pronuncia quindi come
kounter, senza tuttavia modificarne il senso convenuto, chiaro a entrambe le parti in cau-
sa. Pur nella sua versione scorretta, la parola non perde il suo significato. Lo slittamento
di senso è prodotto semmai dal modo in cui Dopdi/Draupadi la utilizza: rivendicando la
libertà di azione, invita Senanayak a (in)kontrarla, costringendolo a uscire allo scoperto
e agire alla luce del sole, contrariamente alla tipica modalità dell’encounter che avviene
quasi sempre lontano dagli occhi di possibili testimoni. Cfr. B. Jauregui, Law and Order:
Police Encounter Killings and Routinized Political Violence, in I. Clark-Decès (a cura di), A
Companion to the Anthropology of India, Wiley-Blackwell, Oxford 2011, pp. 371-388, p. 379.
298  Ù Le verità del velo

re lei a conoscere il nemico e il suo linguaggio alla perfezione. Attra-


verso questo processo di ribaltamento di ruoli, Draupadi è capace di
mettere a nudo l’immoralità del meccanismo sadistico del potere, che
nel ridurla a sola carne, ha indotto una metamorfosi profonda dove
la sua nudità è trasfigurata, rivestita di un simbolismo che la rende
visione terrifica piuttosto che oggetto erotico.
La scena merita di essere letta con attenzione, perché Mahasweta
Devi non tralascia alcun dettaglio nella descrizione dell’(in)kontro tra
Senanayak e Draupadi, preparando la loro battaglia finale con un
crescendo emotivo incalzante.

La guardia spinge il catino d’acqua davanti a lei.


Draupadi si alza. Rovescia l’acqua a terra. Strappa a morsi la pezza di
stoffa. Vedendo questo strano comportamento, la guardia grida, - Ma
è impazzita! E corre a cercare ordini. Potrebbe anche portare la prigio-
niera fuori, ma non sa cosa fare se la prigioniera si comporta in modo
incomprensibile. Quindi va a chiedere al superiore.32

L’apparato sadistico e coercitivo del potere messo in piedi da Sena-


nayak con la complicità dei suoi soldati comincia a mostrare i primi se-
gni di debolezza: i comportamenti “fuori manuale”, che non seguono
un copione, risultano incomprensibili ai soldati e allo stesso ufficiale.
Incapaci di afferrare il senso del comportamento anormale di Drau-
padi, si fanno prendere dal panico: «Il trambusto è tale che sembra
che l’allarme sia suonato in una prigione»,33 scrive non senza ironia
Mahasweta Devi. Là dove la logica della normalità/normatività viene
meno, l’ordine costituito vacilla perché non trova appoggio in una
spiegazione che segua la codificazione del comportamento “norma-
le”. Come evidenzia Pierre Bourdieu, infatti, la codificazione implica
un cambio di status ontologico, un cambio di natura, che si accompagna
sempre alla disciplina e alla normalizzazione delle pratiche. Codifica-
re significa, dunque, effettuare un’operazione dell’ordine simbolico,
al fine di minimizzare il rischio di ambiguità.34 Ma non è da tutti, solo
alcuni possiedono quello che Bourdieu chiama le sens du jeu:

Le bon joueur, qui est en quelque sorte le jeu fait homme, fait à chaque
instant ce qui est à faire, ce que demande et exige le jeu. Cela suppose
une invention permanente, indispensable pour s’adapter à des situa-
tions indéfiniment variées, jamais parfaitement identiques. Cela n’assu-
re pas l’obéissance mécanique à la règle explicite, codifiée (quand elle
existe) [...]. Le sens du jeu n’est pas infaillible; il est inégalement réparti,
dans une société comme dans une équipe. Il est parfois en défaut, no-
tamment dans le situations tragiques [...]. Mais cette liberté d’invention,

32
M. Devi, Draupadi, cit., p. 52.
33
Ibidem.
34
P. Bourdieu, Habitus, code et codification, in «Actes de la recherche en sciences
sociales» 64, 1 (1986). pp. 40-44.
Introduzione
Mara Matta ∙ Nudo di donna: ri(s)coprire la Devi Ù  299

d’improvisation, qui permet de produire l’infinité des coups rendus


possibles par le jeu (comme aux échecs) a les mêmes limites que le jeu.35

In pratica, potremmo forse commentare, bisogna essere dei bra-


vi attori capaci di improvvisare, stando al gioco senza conoscerne del
tutto le regole, o perché le regole sono state disfatte e rifatte nel corso
dell’azione, o perché semplicemente non ci sono più regole. Per poter
decifrare il comportamento ambiguo di Draupadi, i soldati avrebbero
bisogno di possedere gli strumenti essenziali che Bourdieu identifica
in un «certo genio per le relazioni sociali» e uno straordinario istinto,
un “senso del gioco” appunto. Né i soldati, meri pistoni di carne non
pensante, né il loro capo Senanayak, pur nella sua pretesa intelligenza,
possiedono l’acume e la sensibilità necessarie: essi sono privi di quel
sentire che gli permetterebbe, senza necessariamente comprendere per
via razionale, il nuovo linguaggio espresso dalle azioni di Draupadi, di
fare la mossa successiva. Mahasweta Devi ci presenta la scena in uno dei
passaggi letterari più famosi della letteratura indiana contemporanea:

Senanayak esce dalla sua tenda sorpreso, e vede Draupadi nuda che
cammina verso di lui nell’accecante luce del sole, la testa alta. Dietro di
lei arranca nervosa la guardia.
Cos’è questa cosa? Sta per urlare, ma si ferma.

Adesso Draupadi è di fronte a lui, nuda. Sulle cosce e sul pube, il sangue
raggrumato. I suoi seni, due ferite aperte.
Cos’è questa cosa? Sta per abbaiare.

Draupadi gli viene più vicina. È in piedi con le mani sui fianchi, ride e
dice, - L’oggetto della tua ricerca, Dopdi Mejhen. Gli hai detto, fatevela!
Non vuoi vedere cosa mi hanno fatto?

Dove sono i suoi vestiti?


Non se li vuole mettere, sir, li ha strappati.

Il corpo nero di Draupadi gli si fa ancora più vicino. Draupadi è scossa da


una risata indomabile che Senanayak, semplicemente, non può capire.36

Nel tentativo di ridurre Dopdi/Draupadi a pura carne, a «pura


corporeità» attraverso il dispositivo sadico della violenza e dello
stupro di gruppo, Senanayak fallisce nell’annichilire la sua libertà
di soggetto che può ancora agire (o scegliere di non agire). Come
aveva elaborato Sartre, infatti, «Quanto più il sadico si accanisce
a trattare l’altro come uno strumento, tanto più questa libertà gli
sfugge».37 Giorgio Agamben, commentando il pensiero di Sartre,

35
P. Bourdieu, Choses dites, Éd. de Minuit, Paris 1987, p. 79.
36
M. Devi, Draupadi, cit., p. 52 (corsivo mio).
37
J.P. Sartre, L’Être e le Néant. Essai d’ontologie phénoménologique, Gallimard, Paris
2000, cit. in G. Agamben, Nudità, Nottetempo, Milano 2009, p. 111.
300  Ù Le verità del velo

aggiunge: «La nuda corporeità, come la nuda vita, è soltanto l’oscu-


ro, impalpabile portatore della colpa. In verità, vi è solo la messa a
nudo […]».38 A dispetto delle costrizioni e delle torture inflitte al
suo corpo, Dopdi/Draupadi resta (o diviene?) essenzialmente libera,
capace di riprendersi la scena e agire in essa come «il “soggetto” più
potente»39. In tal modo, smaschera il sadismo di Senanayak e lo an-
nichilisce, lo rende impotente, castrando le sua velleità di possedere
il corpo e lo spirito di Draupadi. Scrive bene, a proposito del sadismo,
Claudio Tarditi nel suo saggio Al di là della vittima:

Il sadismo è passione, aridità e accanimento. È accanimento, perché è


lo stato di un per-sé che si coglie nell’impegno senza sapere con chi si
impegna e che persiste in tale impegno senza avere la chiara coscienza
del fine che si è proposto; è aridità, perché sorge quando il desiderio si è
svuotato del suo turbamento. Il sadico si è reimmerso, dopo il turbamen-
to provocato dal desiderio, nella sua fatticità, si sente di fronte all’altro
come pura trascendenza, ha in orrore il turbamento, considerato come
uno stato umiliante, e, in quanto si accanisce in questa fuga dal turba-
mento del desiderio, è un appassionato. Il suo fine, come nel desiderio,
è di asservire l’altro, tuttavia non solo in quanto pura trascendenza-in-
carnata, ma anche in quanto strumento-incarnato: il per-sé incarnato su-
pera la sua incarnazione per impadronirsi dell’incarnazione dell’altro.
[…] In sostanza, il sadismo vuole rendere presente la carne in un altro
modo alla coscienza dell’altro: vuole renderla presente trattando l’altro
come un utensile, e ciò si manifesta concretamente attraverso il dolore.40

Draupadi coglie appieno il meccanismo del sadico Senanayak e lo


interroga sarcasticamente, invitandolo a osservare «l’oggetto della tua
ricerca», una frase implicitamente contraddittoria poiché Draupadi è
tutt’altro che “oggetto” passivo. Senanayak non è riuscito né a soppri-
mere la libertà di Draupadi, né a costringerne la soggettività all’inter-
no della sua «carne torturata»41: se «il momento del piacere, per il car-
nefice, è quello in cui la vittima si umilia»42, allora il gesto di Draupadi
diventa ancor più significativo, come castrazione simbolica e rifiuto
di sottomettersi al desiderio di Senanayak, restando dunque libera.
Nella descrizione dello sguardo di Senanayak, che restituisce al
lettore l’immagine di Draupadi indomita, si iscrive anche il profon-
do stravolgimento semantico del corpo nudo della donna: Mahaswe-

38
G. Agamben, Nudità, cit., p. 111.
39
Come commenta la Spivak nella sua Prefazione a Draupadi: «Nel momento in cui,
varcando la soglia del differenziale sessuale, passa nel campo di ciò che può capitare solo a
una donna, Dopdi emerge come il “soggetto” più potente; lei che, pur continuando a uti-
lizzare il linguaggio dell’“onore” sessuale, è capace di chiamare se stessa, derisoriamente,
l’“oggetto della vostra ricerca”, lei che può essere descritta come un superoggetto terrifi-
cante —“un obiettivo disarmato”». Cfr. G.C. Spivak, Prefazione a Draupadi, cit., pp. 28-29.
40
C. Tarditi, Al di là della vittima. Cristianesimo e fine della storia, Marcovalerio, Tori-
no 2004, pp. 57-58.
41
Ivi, p. 58.
42
Ibidem.
Introduzione
Mara Matta ∙ Nudo di donna: ri(s)coprire la Devi Ù  301

ta Devi ci rende partecipi del pensiero di Senanayak, che sembra


incapace di darne espressione attraverso la parola. «Cos’è questa
cosa?», è la sua osservazione non formulata verbalmente che all’ini-
zio, appena vede Draupadi «nuda che cammina verso di lui», sta per
urlare. Un attimo dopo, quando «Draupadi è di fronte a lui, nuda»,
anche la sua capacità di esprimersi a parole sembra venir meno. Il
pensiero concettuale è annichilito dal potere del corpo-immagine
che gli si staglia dinanzi, una visione che riduce l’umanità e la razio-
nalità di Senanayak, il quale ora sta per «abbaiare». Draupadi sembra
leggergli nel pensiero e gli risponde «L’oggetto della tua ricerca,
Dopdi Mejhen. Gli hai detto, fatevela! Non vuoi vedere cosa mi han-
no fatto?». Ride con le mani sui fianchi, riportando per un attimo
l’attenzione di Senanayak e del lettore al volto della donna, che era
rimasto in secondo piano, adombrato dalla presenza della nuda cor-
poreità di Draupadi. Mahasweta Devi non ci descrive il viso di Drau-
padi, ci dice soltanto che ride e, dopo essersi avvicinata ancora di
più al corpo di Senanayak, «è scossa da una risata indomabile che
Senanayak, semplicemente, non può capire». Con le labbra tumefat-
te e «con una voce che dà tanto sgomento da poter dividere il cielo,
e così tagliente da poter sembrare un ululato, dice: «A che servono i
vestiti? Tu puoi spogliarmi, ma mai mai potrai rivestirmi. Sei forse un
uomo tu?».43 Sputa un grumo di sangue sulla camicia di Senanayak e
lo invita a (in)kontrarla, di nuovo.
Prima ancora del famoso finale in cui la Devi restituisce lo sguardo
terrorizzato di Senanayak di fronte a un «obiettivo disarmato», il rac-
conto ci inchioda a questa frase «Sei forse un uomo tu?», che river-
bera nella voce straziata di Draupadi, quasi ululante come la Dopdi
della foresta, un attimo prima della cattura, che «apre le braccia, alza
la faccia al cielo, si volta verso la foresta e ulula, ulula, ulula con quan-
to fiato ha in gola. […]».44 Dopdi/Draupadi conduce Senanayak sulla
soglia, su quel limen che, solo apparentemente, divide la donna dalla
dea, la tribale Dopdi dalla celebrata Draupadi. Su questa soglia, però,
è Senanayak —e con lui tutto il dispositivo sadistico e fallocentrico
dello Stato indiano che violenta e opprime le popolazioni indigene—
ad essere messo in discussione, ad essere messo a nudo, a trovarsi in
bilico sul nulla che si trova dinanzi: incapace di afferrare la quiddità di
Draupadi, di rispondere alla domanda «Cos’è questa cosa?», Senana-
yak è colto dal terrore, dallo sgomento della realizzazione che la forza
dell’intelletto si ferma dinanzi al corpo-immagine del nudo di donna,
che il pensiero si scopre incapace di afferrarne il senso ultimo. Forse
perché «conoscendo la nudità, non si conosce un oggetto, ma sol-
tanto un’assenza di veli, soltanto una possibilità di conoscere».45 Lo

43
M. Devi, Drauapadi, cit., pp. 52-53.
44
Ivi, p. 50.
45
G. Agamben, Nudità, cit., p. 115.
302  Ù Le verità del velo

aveva ribadito anche Nancy nell’affermare che la nudità non è uno


svelamento della verità, non equivale o coincide con essa. Tutt’altro:

La nudità non è la verità. Ne è insieme l’inquietudine, l’attesa, la cura e


l’appello. Forse anche lo svestimento: tolta la veste, occorre comprende-
re che tutto resta da scoprire. Può darsi che si scopra alla fine che non
c’era niente da svelare, ma ciò stesso diventa scoperta e lezione. La nudi-
tà non è l’esito, ma l’esordio di una iniziazione, un’apertura propedeuti-
ca alla ricerca della verità attraverso il lume naturale, come direbbe un
trattato classico di metafisica. […]
La luce, sicuramente, è ciò di cui si tratta. Il corpo nudo rischiara in
modo del tutto differente ciò che gli è intorno; quale che sia il colore
della sua pelle, propaga un sordo chiarore che fa ombra al mondo
circostante. L’evidenza e la certezza delle cose vacillano. Tutto avviene
come nell’esperimento cartesiano del dubbio metodico. Il mondo non
è più garantito, e la sola assicurazione che sussista non è affatto quella
di una sostanza. È quella di un soggetto, senza dubbio —è certo che là
ci sia qualcuno (qualcuna)— ma di un soggetto nel senso di un evento
singolare e fragile, inafferrabile, tremante. Questo soggetto non trema
né di freddo, né di vergogna, né di timidezza: trema di essere.46

Draupadi, feroce e rabbiosa come una Kali, apre al mistero della


conoscenza che non può essere né “appresa” (apprehended) né “in-
contrata” (encountered). In virtù di tale metamorfosi dei (s)oggetti in
scena, si attua una sospensione delle norme socio-culturali che vor-
rebbero l’ufficiale Senanayak in controllo della situazione e la disar-
mata Dopdi in preda alla paura e alla “vergogna”. La “sfacciataggine”
di Draupadi diviene ulteriore prova della sua trasposizione simbolica,
dove la sua nudità è esibita come «assenza di segreto».47
La possibilità di restituire lo sguardo, di sconfiggere la reificazione
del corpo nudo femminile da parte di un pubblico (dentro e fuori
dello spazio del teatro) che tenta di s-velarne una qualche essenza,
quella quiddità che Senanayak cercava di catturare in Dopdi e che si
trova disperatamente a voler sfuggire nel terrore del confronto con la
potenza della śakti di Draupadi, ha ispirato la trasposizione scenica del
racconto Draupadi da parte del regista manipuri Heisnam Kanhailal.

3. Draupadi/Savitri e il corpo-immagine: nudità dell’emozione

Il teatro è nell’atto, cioè nell’immediato, in quello che un filosofo chia-


mò l’immediato svanire, la presenza e al tempo stesso, assenza. Questo
è il superamento del grande attore (Carmelo Bene).

46
J.L. Nancy, À la nue accablante..., in Nudità. Emergenze, «Kainos», 8 (2008), URL:
<http://www.kainos.it/numero8/emergenze/nancy.html> (12/16).
47
Come scrive Agamben: «La sfacciataggine (la perdita del viso) è ora la contro-
parte necessaria della nudità senza veli. Il volto, divenuto complice della nudità, guar-
dando nell’obiettivo o ammiccando allo spettatore, dà a vedere un’assenza di segreto,
esprime soltanto un darsi a vedere, una pura esposizione». Cfr. G. Agamben, Nudità,
cit., p. 126.
Introduzione
Mara Matta ∙ Nudo di donna: ri(s)coprire la Devi Ù  303

Nel 2000, Heisnam Kanhailal porta per la prima volta in scena


Draupadi, interpretata dagli attori della compagnia teatrale Kalakshe-
tra Manipur, da lui diretta.48 L’opera viene rappresentata solo due
volte, a Imphal, capitale dello stato di Manipur.49 La seconda volta
che Heisnam Sabitri,50 moglie dello stesso regista, recita la scena del-

48
Informazioni e dettagli sulla compagnia teatrale Kalakshetra Manipur e sulle sue
numerose produzioni teatrali si trovano online sul sito web: <http://kalakshetramani-
pur.org> (12/16).
49
Manipur è uno degli otto stati che, insieme a Tripura, Assam, Arunachal Pra-
desh, Meghalaya, Mizoram, Nagaland e Sikkim, costituiscono quella che è generalmente
identificata come la “regione del Nordest”. Nonostante la stessa definizione di North East
rimanga problematica e sia utilizzata più che altro in maniera funzionale, senza voler
accorpare in un’unica entità geografica e geopolitica le migliaia di etnie, lingue e culture
che la compongono, l’area condivide (nell’eccezione, forse, degli stati del Mizoram e del
Sikkim) una storia comune di scontri, violenze e lotte etno-nazionaliste. Manipur è lo
stato del Nordest che registra uno dei più alti tassi di violenza, sia per i conflitti inter-
etnici sia per la lotta indipendentista contro lo Stato indiano. Si veda, tra gli altri, M.S.
Hassan, Explaining Manipur’s Breakdown and Mizoram’s Peace: The State and Identities in North
East India (“Crisis States Programme. Working Paper”, 79), Development Studies Institute,
LSE London 2006, URL: <http://eprints.lse.ac.uk/28150/1/wp79.pdf> (12/16). Per una
preliminare bibliografia sulla storia di Manipur e la situazione geopolitica del Nordest
in generale, si vedano anche: N. Sanajaoba, Manipur Past and Present, Mittal Publications,
New Delhi 1988; S. Baruah, Durable Disorder: Understanding the Politics of Northeast India,
Oxford University Press, New Delhi 2005; Id., India Against Itself: Assam and the Politics
of Nationality, Oxford University Press, Delhi 1999; Id., A New Politics of Race: India and
Its Northeast, «IIC Quarterly», (New Delhi: India International Centre), 32, 2/3 (2005),
pp. 165-176; Id., Postfrontier Blues: Toward A New Policy Framework for Northeast India, East-
West Center, Washington D.C. 2007, URL: <http://www.eastwestcenter.org/publications/
postfrontier-blues-toward-new-policy-framework-northeast-india> (12/16); L.E. Cline, In-
surgency Environment in Northeast India, «Small Wars and Insurgencies», 17, 2 (2006), pp.
126-147; D. McDuie-Ra, Civil Society, Democratization and the Search for Human Security. The
Politics of the Environment, Gender, and Identity in Northeast India, Nova Science Publishers,
New York 2009a; D. McDuie-Ra, Fifty-Year Disturbance: the Armed Forces Special Powers Act and
Exceptionalism in a South Asian Periphery, «Contemporary South Asia», 17, 3 (2009), pp. 255-
270; M. Khan, State and Ethnic Violence in Manipur: A Multilateral Federation of Territories and
Cultures for Peace, in «The Indian Journal of Political Science», 67, 3 (2006), pp. 429-442; L.
Arambam, Language, Identities and Crisis in Manipur’s Civilization, in «Imphal Free Press»,
(Special Edition: Selected Writings on Issues of Identity), 2003 (pagine non riportate).
50
Nell’editoriale della rivista STQ (Seagull Theatre Quarterly) del giugno-settembre
1997, interamente dedicato al teatro di Manipur, Anjum Katyal spende alcune parole su
Heisnam Sabitri (chiamata anche Sabitri Devi), la moglie di Kanhailal, il cui talento è
stato spesso celebrato come ineguagliabile tra le attrici di Manipur: «Sabitri is one of this
country’s most sensitive and powerful actresses, speaks only Manipuri, though, once she
is performing, she needs no language other than her talent. Married to H. Kanhailal and
an integral part of his theatre, she has been a gifted medium for his theories and meth-
ods, demonstrating in practice what he wishes to communicate, and at the same time
infusing it with her own genius». Parlare del teatro di Kanhailal senza parlare di Sabitri
non avrebbe dunque senso alcuno, poiché è sempre stato attraverso il corpo e l’azione
scenica di Sabitri che le teorie e le visioni del teatro di Heisnam Kanhailal hanno preso
forma. Cfr. Anjum Katyal, Editorial, in «Seagull Theatre Quarterly», 14-15 (1997), p. 8.
Tra le principali pubblicazioni sul teatro di Heisnam Kanhailal e sulla scena artistica e
teatrale di Manipur, si vedano tra altri: Y. N. Devi & Ramthai, Growth of Modern Manipuri
Theatre and Its Importance in Manipuri Society, in «Asian Journal of Multidisciplinary Stud-
ies», 4, 6 (2016), pp. 62-66; R. Bharucha, Politics of Indigenous Theatre: Kanhailal in Mani-
pur, in «Economic and Political Weekly», 26, 11/12 (1991), pp. 747-754; Id., The Indigenous
Theatre of Kanhailal, in «New Theatre Quarterly», 8 (1992), pp. 10-22; Id., The Theatre of
304  Ù Le verità del velo

lo stupro e della rivolta di Draupadi, si sveste e rimane nuda in scena.


La rappresentazione teatrale viene messa al bando e l’attrice è ac-
cusata di oscenità. La nudità di Sabitri, che nel suo movimento per-
formativo ri-significa il suo corpo sottraendolo allo spettacolo osceno,
rende invece atto del teatro della parola agita di Heisnam Kanhailal e
del suo manifesto per un teatro dove il corpo è «sito di una trasforma-
zione socio-culturale».51 Come la letteratura di Mahasweta Devi svela
le atrocità e il sadismo del potere nella lotta contro le popolazioni
subalterne, attraverso l’uso di potenti parole-immagine che liberano
l’immaginazione dalle catene di significante-significato e concedono
spazio a esplosioni di senso veicolate dall’emozione, così il teatro di
Heisnam Kanhailal —attraverso il corpo attoriale di Sabitri— mette
in scena la nuda e cruda realtà della violenza che le donne indige-
ne e le comunità del Nordest subiscono da decenni. Questo avviene
sulla scena attraverso un teatro della corporeità, dove il corpo non
rappresenta, bensì è immagine, è significante pre-espressivo, che solo
nell’atto scenico restituisce un (nuovo) significato.
Per comprendere la forza comunicativa e l’originalità del teatro di
Heisnam Kanhailal, bisogna partire dalla sua terra, Manipur, che con
la sua cultura e la sua politica —entrambe complesse e in continua
evoluzione— hanno profondamente segnato e caratterizzato il lin-
guaggio performativo del suo «teatro della terra», come aveva scelto
di chiamarlo:

Theatre of the Earth. This is how I would like to call my theatre. My


theatre is the theatre of the earth, it is essentially rooted in the earth
and do [sic] not necessarily descend from heaven, it is informed by the
accumulated wisdom that gathered from the earth, from here and now,
our surroundings, our milieu. It intimately emanates from its own ecol-
ogy, its own native landscape. […] Even the social experiences of the in-
dividual and the community are actually solidified through its intimate
linkages with the earth.

[F]or me theatre […] is essentially about the intimate nuances, the raw
earthy immediacy of experiences. This is what “Theatre of Earth” is all
about. I strongly believe that theatre is essentially grounded with ideolo-
gy and a deep rooted social commitment. 52

Kanhailal: Pebet and Memoirs of Africa, Seagull Books, Calcutta 1992; H. Kanhailal, Ritual
Theatre: Theatre of Transition (2004), in D. Krasner (a cura di), Theatre in Theory 1900-2000:
An Anthology, Blackwell, Oxford 2008; A.A. Theatre of the Earth: The Works of Heisnam Kan-
hailal, Seagull Books, Calcutta 2016. Tutta l’edizione a cura di Anjum Katyal del «Seagull
Theatre Quarterly», 14-15 (1997), è interamente dedicata al teatro sperimentale di Mani-
pur, con una particolare attenzione al lavoro di Heisnam Kanhailal.
51
La citazione è tratta da una recente intervista che il regista Heisnam Kanhailal
ha rilasciato durante una delle sue ultime apparizioni pubbliche, a Kolkata, dove era
ospite di Prabir Guha, direttore artistico dell’Indian Alternative Theatre. Per il video
completo si veda: < https://www.youtube.com/watch?v=KaQsBN8p1Yo&t=54s> (12/16).
52
J. Prodhani, “I call my theatre as the Theatre of the Earth”- Heisnam Kanhailal, [inter-
vista rilasciata alcuni mesi prima della morte del regista e pubblicata online in data
Introduzione
Mara Matta ∙ Nudo di donna: ri(s)coprire la Devi Ù  305

Per Heisnam Kanhailal, dunque, non vi era scopo puramente este-


tico nella performance teatrale: il suo era un teatro etico, dove il corpo
attoriale portava in scena un linguaggio di protesta e dissenso incar-
nato, agito e offerto al pubblico come un manifesto ideologico e una
sfida al potere:53

Theatre is not a detached art, it is strongly linked with its ideological


commitments for it must become a voice for the voiceless, a means that
gives the power and strength to the disempowered to resist and take on
the challenges. Theatre must speak for the weak, the vulnerable, the
voiceless. Or else what should theatre strive for?54

Un teatro per dare «una voce a chi non ha voce»55, riprendendo


uno dei mantra del teatro sociale, che in India ha trovato grandi in-
terpreti di singolare talento come Badal Sircar (1925-2011). Sarà pro-
prio il cosiddetto Terzo Teatro56 di Sircar —con il suo sperimentalismo
e l’uso di un linguaggio scenico minimalista da teatro povero alla Gro-
towski57— a influenzare profondamente lo sviluppo della metodolo-

15/11/2015 sul sito Nezine.com] Online: <http://www.nezine.com/info/“I%20call%20


my%20theatre%20as%20the%20Theatre%20of%20the%20Earth”-%20Heisnam%20
Kanhailal> (12/16).
53
Tuttavia, come aveva sottolineato lo stesso Kanhailal, Kalakshetra Manipur non ave-
va mai pubblicato un vero e proprio Manifesto: «There was no manifesto as such, as it was
experimental. However, there was a strong sense of conviction deep within us, though
we could not express it in words. That conviction helped us to envision vividly the kind
of play we wanted to create. It led us to detour from the conventional theatre and take
a new approach». Cfr. U. Rojio, Kanhailal: Resistance Incarnate, 14 Ottobre (2016), URL:
<http://www.thehindubusinessline.com/blink/watch/rememberance-manipuri-thea-
tre-legend-heisnam-kanhailal/article9215754.ece> (12/16).
54
Ibidem, enfasi aggiunta.
55
Per un’indagine approfondita dei movimenti quali il “teatro di strada”, il “teatro
popolare” e il “teatro sociale” nell’India contemporanea, si veda J. Srampickal, Voice to
the Voiceless. The Power of People’s Theatre in India, Manohar, New Delhi 1998.
56
Badal Sircar nasce a Calcutta nel 1925, dove studia ingegneria civile e urbanistica.
Nel 1953, Sircar comincia a dedicarsi al teatro e alla drammaturgia, recandosi nel 1957 a
Londra per approfondire gli studi. Alla ricerca di un nuovo linguaggio, Sircar crea un tea-
tro innovativo, non direttamente legato al teatro di proscenio di tipo occidentale né erede
acritico della tradizione del teatro popolare indiano. Il suo è un teatro alternativo a que-
ste due modalità di concepire la scena e il lavoro dell’attore: un “terzo teatro”, sperimen-
tale, dove Sircar riduce o elimina tutto ciò che non è essenziale alla performance perché
essa sia ancora tale. Per lui, fondamentale è il teatro come spazio di “coscientizzazione”
(conscientization), dove il teatro dialoga e instaura una comunicazione su quattro livelli
(attore-attore; attore-spettatore; spettatore-attore; spettatore-spettatore) nel tentativo di
creare una scena significativamente democratica, dove sia possibile sfidare le convenzioni
sociali e permettere ai presenti (attori e spettatori) un processo di “presa di coscienza”.
Come scrive Anjum Katyal: «His was a theatre as anti-establishment counterculture, chal-
lenging normative middle-class mores and complacency, an attempt at conscientisation
and awareness-raising, protest and political comment». Cfr A. Katyal, Badal Sircar: To-
wards a Theatre of Conscience, SAGE Publications India, New Delhi 2015; si veda anche K.
Thamizharasi, Theatre of Conscientization with Reference to the Select Plays of Badal Sircar, PhD
Thesis, Periyar University 2014, URL: <http://hdl.handle.net/10603/21443> (12/16).
57
Erede dello sperimentalismo di Antonin Artaud, Jerzy Grotowski (1933-1999),
insieme al suo allievo Eugenio Barba (poi fondatore dell’Odin Teatret) inventa quel-
306  Ù Le verità del velo

gia teatrale di Kanhailal, attraverso l’educazione al teatro come luogo


di riflessione e presa di coscienza. Come dirà lui stesso anni dopo,
l’incontro con Sircar fu di fatto fondamentale per l’evoluzione del suo
gruppo Kalakshetra Manipur;58 tuttavia, il suo metodo e il suo teatro
avevano bisogno di evolversi in modo indipendente e autonomo, di
elaborare un linguaggio alternativo, fino a diventare quello che è stato
anche chiamato “teatro della trascendenza”, al centro del quale vi è
sempre il corpo immanente e la performance trascendente di Sabitri.59
Questo «nuovo fenomeno nel teatro Manipuri» non ha mancato
di lasciare una traccia profonda, di segnare una nuova strada e di cre-
are un nuovo linguaggio, potente sulle scene e con un forte riverbero
fuori da esse. Ma procediamo con ordine.
Kanhailal era nato e cresciuto in quello che oggi è lo stato indiano
di Manipur. Dopo una breve parentesi di formazione e studio presso
la National School of Drama (NSD)60 di Delhi, da cui viene espul-

lo che chiamerà un “teatro povero”, alla ricerca dell’essenza dell’esperienza teatrale. Nel
1968, Grotowski pubblica una raccolta di saggi intitolata Per un teatro povero (pubblicato
in Italia da Bulzoni, Roma 1970), a cui si rimanda per una visione più approfondita del
lavoro del regista polacco.
58
In uno dei documenti pubblicati online sul sito del gruppo Kalakshetra Manipur,
Kanhailal scrive a proposito della sua esperienza con Badal Sircar: «Later on we realized
the unequilibrium between his system and our vision of a new aesthetic. What we could
really benefit from our contact with Badal is the clues that guide us towards objective re-
search and history of oppression and resistance». Cfr. H. Kanhailal, Clarifying New Trajecto-
ry, Imphal 2015 [Online sul sito della compagnia Kalakshetra], URL: <http://kalakshetra-
manipur.org/wp-content/uploads/2015/10/clarifying-new-trajectory.pdf> (12/16).
59
«Kanhailal-Sabitri combination is a new phenomenon in Manipuri theatre. This
eminent theatre personality of India, Kanhailal, since his early association with Badal Sir-
car of Calcutta, goes on evolving with his new theatrical language from “physical theatre”
to “intimate theatre” and now to “theatre of transcendence”. Indian critics call it “alternate
theatre”. This is a new theatre language with an accent on silence and gesture and integrat-
ed expression of dance, music and body expression. […] Sabitri’s performance-amazing-
ly energetic, brilliantly précised [sic] and moving. She hardly speaks, but looks, shouts,
groans and moans and keeps the audience spell bound. Her acting is a complete language
as expressed in her body and voice, her gestures, tones, looks of the eye, tilts of the head,
music and emotion of vocal levels. This is great acting by any standard». Manal Abdul
Azir, Extract from Experimental Theatre, (Friday 6 September 1991, Ministry of Culture,
The 3rd Cairo International Festival), citato in H. Kanhailal, Clarifying New Trajectory, cit.
60
Paradossalmente, Heisnam Kanhailal diventerà poi uno dei visiting professors della
NSD di Delhi. Una volta divenuto famoso e riconosciuto come una delle personalità più
influenti e interessanti del teatro contemporaneo in India, Kanhailal ricorderà quasi
con ironia la sua espulsione dalla scuola d’arte drammatica, che segnò un momento
di grande sconforto per il giovane artista, ma anche il punto di inizio di una presa di
coscienza attraverso il teatro. Espulso perché non padroneggiava la lingua hindī, pri-
vilegiata nel contesto urbano di Delhi ed eletta a lingua ufficiale dalla NSD, Kanhailal
ritorna a Manipur e crea il suo teatro. Altri artisti e registi teatrali del Nordest, negli anni
a seguire, frequenteranno la NSD. Il regista manipuri Ratan Thiyam, tra le personalità
più importanti della scena teatrale contemporanea, ne diventò per un breve periodo
persino direttore. Tuttavia, a detta di alcuni, la sua appartenenza etnica non mancò di
creare problemi all’establishment. Come ha sottolineato Samik Bandyopadhyay, vice-di-
rettore della NSD: «I feel the opposition had to do with Thiyam’s “ethnicity”. A Manipuri
couldn’t be accepted in a predominantly Hindi set-up. Wasn’t Heisnam Kanhaiyalal, one
of the greatest theatre directors of India today, kicked out of the NSD as a student?». Il
problema dell’appartenenza a un gruppo etnico, religioso o linguistico “minoritario”,
Introduzione
Mara Matta ∙ Nudo di donna: ri(s)coprire la Devi Ù  307

so dopo pochi mesi, un giovane Heisnam Kanhailal torna a Imphal.


Sono gli anni Sessanta: l’India ha ottenuto l’indipendenza da meno
di venti anni, ma le popolazioni indigene dell’India nordorientale
non si sentono affatto liberate. Semplicemente registrano un cam-
bio di governo: dall’essere, nelle parole di Rustom Bharucha, «the
backwaters of the Raj»,61 Manipur diventa uno territorio di confine,
periferico rispetto al centro dello stato-nazione e percepito, insieme
alle altre “Sette Sorelle”,62 come un mondo di alterità e diversità da
assimilare il più velocemente possibile tramite programmi educativi e
progetti di “sviluppo” economico. Il risultato di questa visione miope
è lo scoppio di numerose rivolte contro quella che è esperita come
una nuova forma di colonizzazione del governo di Delhi ai danni del-
le popolazioni indigene della regione del Nordest. E tuttavia, poiché
lo stesso concetto di indigeneity63 si è progressivamente complicato nel
corso dei decenni e diversi dissidi inter-etnici si sono aggiunti a fo-
mentare il conflitto tra stato e gruppi di ribelli —provocando una
situazione di continua instabilità sociale e politica che ha giustificato
l’intervento delle forze militari governative e la sospensione di alcu-
ni dei diritti costituzionali sotto la famigerata legge AFSPA 1958—,64
il caos in cui versa oggi lo stato di Manipur è tale da richiedere un
intervento concertato da parte delle autorità politiche e della socie-
tà civile, al fine di poter trovare almeno un punto di incontro dove
arrestare definitivamente la spirale di violenza in cui è precipitata la
regione. Come hanno ripetutamente sottolineato analisti e studiosi
dell’India del Nordest, la soluzione militare è di fatto causa di ulterio-

dunque, sancisce ancora oggi i confini della discriminazione, non solo nella sfera politi-
ca ma anche, evidentemente, sulla scena artistica. Ciò non fa che accrescere il merito e
l’importanza del teatro di Heisnam Kanhailal, la cui vita, in scena e non, è stata anche
una rivalsa e uno smacco contro quelle istituzioni “culturali” che lo avevano respinto per
la sua incapacità di esprimersi nelle lingue del potere e dello stato egemonico. Cfr. G.
Ramnarayan, 50 Years of Drama. The debate on the National School of Drama gains topicality
as the premier institution begins its golden jubilee celebrations, in «Frontline», 25, 5 (2008),
URL: <http://www.frontline.in/static/html/fl2505/stories/20080314250508400.htm>
(12/16).
61
R. Bharucha, The Indigenous Theatre of Kanhailal, cit., p. 10.
62
Le “Sette Sorelle” (Seven Sisters) è un altro nome per indicare i sette Stati del
Nordest (ad esclusione del Sikkim).
63
Per alcuni riferimenti bibliografici a studi sulle popolazioni indigene, si veda
supra nota 25.
64
AFSPA 1958 (Armed Forces Special Powers Act, 1958) è una legge in vigore in alcuni
stati dell’India (in particolare nella regione del Nordest e in Kashmir), che prevede una
sospensione dello stato di diritto come specificato nella sezione “Objects and Reasons”
che dichiara: «Keeping in view the duty of the Union under Article 355 of the Constitu-
tion, inter alia, to protect every State against internal disturbance, it is considered desir-
able that the Central government should also have power to declare areas as “disturbed”,
to enable its armed forces to exercise the special powers». Sotto la protezione di questa
legge speciale, le forze armate possono prelevare, interrogare, detenere e persino ucci-
dere sospetti “terroristi” e “ribelli”. Si veda Institute for Defense Studies and Analysis,
Manipur and Armed Forces (Special Powers) Act 1958 [Online]; J. Sandeep, Court-appointed
panel highlights misuse of AFSPA in Manipur, in «The Hindu», 17 July 2013.
308  Ù Le verità del velo

re instabilità e non può essere considerata la soluzione alle complesse


dinamiche sociali, politiche ed economiche che affliggono le popola-
zioni di questa vasta area. In particolare, la presenza dei corpi militari
e paramilitari dell’Esercito è divenuta sinonimo di torture e violenze
che colpiscono centinaia di civili, tra cui molte donne e bambini, fo-
mentando ulteriormente quella che Duncan McDuie-Ra ha chiamato
una «frontier culture of violence».65 Differenziandola da altre forme
culturali di violenza contro le donne in India («national culture of
violence»), i cui fattori sono generalmente identificabili nelle rigide
norme religiose, nello stato subordinato delle donne all’interno del
matrimonio, nelle ineguaglianze di casta o nello scarso livello di istru-
zione, con conseguente dipendenza economica, di un’ancora larga
sezione delle donne indiane, McDuie-Ra sottolinea come tali fattori
siano quasi del tutto assenti nel contesto del Nordest, dove si rivela-
no pertanto inadeguati per comprendere l’elevato tasso di violenza
contro le donne —uno dei più alti dell’India. Lo studioso postula
dunque la necessità di altri strumenti per analizzare le cause della
violenza contro le donne nel Nordest, insieme ad alcune possibili so-
luzioni, e offre degli interessanti spunti di riflessione che possono es-
sere illuminanti nella nostra analisi del corpo performativo di Sabitri
nella Draupadi di Kanhailal. A proposito dei numerosi casi di stupro
di donne indigene da parte di membri dei contingenti militari e para-
militari stazionati nella regione, McDuie-Ra scrive:

Women’s bodies have become the territory on which this culture of violence is
marked. […] Race and gender intersect in harassment and violence di-
rected toward tribal women, particularly by nontribal members of the
armed forces. Thus, tribal women are not just “women of the enemy,”
but also perceived to be less bound by moral codes that apply to women
in other parts of India.66

Sono, dunque, i corpi delle donne il territorio penetrato e occupa-


to dai soldati delle forze militari governative indiane: poiché il cor-
po della donna tribale è costruito come un’alterità da assimilare,
da riportare sotto il controllo e l’egemonia dello Stato, lo stupro
diviene un’arma di sottomissione dell’intera comunità, il cui onore
e disonore è legato all’integrità del corpo delle donne. Non a caso
lo stupro avviene spesso di fronte a mariti, figli, genitori e suoceri,
nell’intenzione di creare una ferita irreparabile nel corpo della fa-
miglia e nel corpus sociale della comunità intera. Poiché, come non
ha mancato di sottolineare McDuie-Ra, la regione del Nordest è co-
struita come una eccezione alle norme e alle leggi in vigore in altre

65
Cfr. D. McDuie-Ra, Violence Against Women in the Militarized Indian Frontier, in «Vi-
olence Against Women», 18, 3 (2012), pp. 322-345.
66
Ivi, p. 332.
Introduzione
Mara Matta ∙ Nudo di donna: ri(s)coprire la Devi Ù  309

parti dell’India,67 il corpo delle donne del Nordest diviene metafori-


camente sito di occupazione e territorio dove vige lo stesso stato di
eccezione a cui è soggetta la regione. Il corpo nudo della donna tri-
bale, ridotto allo stato di «nuda vita», è pertanto reso oggetto di con-
tesa e sito di conflitto: la vulnerabilità di questi corpi fatti carne nuda
restituiscono un’immagine doppiamente oscena/o-scena, perché, da
un lato, l’Esercito tenta di riaffermare il proprio potere e il controllo
dello Stato iscrivendo la propria presenza attraverso l’appropriazio-
ne violenta del corpo femminile, mentre dall’altro tenta di occultare
il meccanismo sadistico della sua perversa occupazione —corporale
e territoriale— tramite l’occultamento del corpo del reato, mantenen-
dolo o-skené, “fuori scena”.
Nello spazio di tali riflessioni e in questo teatro della crudeltà in-
scenato da decenni nel Nordest dell’India, possiamo forse tentare
una lettura preliminare e più circonstanziata del lavoro di Heisnam
Kanhailal e del suo teatro di protesta, dove la performance dell’attrice
Sabitri Devi in Draupadi ribalta il significato del corpo nudo di donna,
rendendolo significante che si sottrae al significato egemonicamente
assegnato da un linguaggio patriarcale e fallocentrico, modificando
quindi il senso del nudo e caricandolo di un’esplosiva significatività.68

Fig. 1. Sabitri Devi e gli attori della compagnia


Kalakshetra Manipur nell’opera teatrale Draupa-
di. Foto per gentile concessione del Kalakshetra
Manipur Archives.

67
Cfr. D. McDuie-Ra, Fifty-year Disturbance: The Armed Forces Special Powers Act and
Exceptionalism in a South Asian Periphery, in «Contemporary South Asia», 17 (2009), pp.
255-270. Dello stesso autore, si vedano anche Searching for Human Security in “Disturbed”
Areas: Women as Agents for Change in Manipur, India, in «Australasian Journal of Human
Security», 1, 2 (2005), pp. 49-64; Gender, Ethnicity, and Civil Society: Exploring the Links Be-
tween Women’s Movements and Identity Politics in Northeast India, in J.H. Ulrich, B.T. Cosell
(a cura di), Handbook on Gender Roles: Conflicts, Behavior and Attitudes, Nova Science, New
York 2009, pp. 123-146.
68
I termini “senso”, “significato” e “significatività” sono utilizzati nell’accezione
in cui li aveva elaborati Victoria Welby nel suo saggio del 1903 What is Meaning? Stu-
dies in the Development of Significance, che Susan Petrilli ha curato e tradotto in italiano.
Nel primo capitolo, la Welby scriveva a proposito della sua teoria della Significs —che si
muoveva nella direzione dell’etosemiotica e poneva in stretta relazione il segno e il suo
310  Ù Le verità del velo

Nel 2000, sebbene forti reazioni alla scena della nudità di Sabitri
avessero prevenuto la messinscena del dramma a Imphal, l’opera
venne portata in giro per le metropoli dell’India: il potere perfor-
mativo del corpo dell’attrice guadagnò a Kanhailal e Sabitri il plau-
so della critica, ma non riuscì a placare le critiche e le accuse volte
contro l’attrice da parte di diversi gruppi, tra cui molte associazioni
di donne manipuri. Come ha ricordato lo stesso Kanhailal in suo
saggio:

[A]fter two shows at Imphal on 14th and 20th April, 2000 we faced a con-
troversy. A group of known feminists, writers, intellectuals, critics and
even the ordinary women of Imphal were complaining against the nu-
dity in the last scene. They treated Sabitri as notorious, as a shameless
woman who hurt the sentiments and ideal image of Manipuri women
in particular. Another group mainly of men jumped in on defence of
nudity in justifying the need if such theatre in the interface of the pres-
ent crisis of attack on the female sex by the Indian army in Manipur.
The attack and counter-attack continued in the daily papers for about
three months. Since then we stopped showing Draupadi in Manipur
categorically denying the suggestion of dropping the nude scene.69

La percezione e la ricezione dell’opera Draupadi cambiò radical-


mente quattro anni dopo, nel 2004, quando dodici donne di mezz’e-
tà, rinominate le “Madri di Manipur”, si denudarono in pieno giorno
davanti al Kangla Fort di Imphal per denunciare le violenze dei sol-
dati del contingente Assam Rifles, che avevano causato la morte della
giovane Thangjam Manorama. La donna era stata prelevata dalla sua
casa, torturata e verosimilmente stuprata. I soldati avevano dichiarato
che era morta in un encounter. La protesta divampò e le foto delle
donne nude con lo striscione “Indian Army Rape Us” dispiegato di-
nanzi ai loro corpi fecero il giro del mondo.

valore: «Si sosteneva che spetta all’educazione dare il “nuovo avvio” di cui si ha bisogno.
Ma soltanto coloro che sono stati addestrati fin dal principio a distinguere 1) il senso
(sense), 2) il significato (meaning), e 3) la significatività (significance), —cioè la tendenza,
l’intenzione e l’interesse essenziale di ciò che si presenta alla loro attenzione— possono
sperare di superare i limiti attuali […]». E aggiunge più avanti: «Io spero di dimostrare
che il “senso” di qualsiasi forma di espressione non è stato ancora differenziato dal “si-
gnificato” e dalla “significatività” di essa; e che questa omissione è letale. Spesso cerchia-
mo un significato dove, per la natura del caso in questione, un significato, nel senso che
qui lo intendiamo, non è possibile: cercare il senso. Invece spesso rinunciamo al signi-
ficato quando invece potremmo scoprire non soltanto il senso, ma anche qualcos’altro
che lo ingloba e lo trasforma, —cioè la significatività». Cfr. V. Welby, Senso, significato,
significatività, in «Idee»13 (1990), pp. 145-154 (trad. S. Petrilli); si vedano anche: S.
Petrilli, Signifying and Understanding: Reading the Works of Victoria Welby and the Signific
Movement, De Gruyter Mouton, Berlin 2009; A. Ponzio, S. Petrilli (a cura di), Semioetica,
Meltemi, Roma 2003.
69
Kanhailal Heisnam, Draupadi: A Performance of Twists and Turns [saggio non pub-
blicato], citato in T.N. Banerjee, The Loss of Wor(l)ds: Theatre in Manipur and Heisnam Kan-
hailal, in «Humanities Underground», December 20 (2013), URL: <http://humanitiesun-
derground.org/the-loss-of-worlds-theatre-in-manipur-and-heisnam-kanhailal/> (12/16).
Introduzione
Mara Matta ∙ Nudo di donna: ri(s)coprire la Devi Ù  311

Fig. 2. Le “Madri di Manipur”


si denudano in segno di prote-
sta contro lo stupro e la morte di
Thanjam Manorama (Imphal, 15
luglio 2004). Foto: www.outlookin-
dia.com (05/17).

L’atto performativo di Sabitri Devi in Draupadi fu improvvisamen-


te riconosciuto come visionario e Heisnam Kanhailal fu chiamato
“profeta”.70 Come ha raccontato lui stesso: «I received phone calls
where the callers used to address me as “Ching’ü”, the foreseer or
a prophet».71 Dopo la protesta delle Madri di Manipur, la nudità di
Sabitri in scena acquisì un’ulteriore significatività.72
Finalmente, nel 2014, dopo quattordici anni dalla prima messin-
scena, Kalakshetra Manipur ha riportato Draupadi nella capitale Im-
phal. Una giovane attrice recita la parte della tribale Dodpi, braccata
dall’esercito. Tuttavia, al momento dell’ultimo atto, ovvero quello
della cattura da parte dei soldati di Senanayak, la ragazza lascia il
posto all’ormai anziana Sabitri, il cui corpo compie l’atto finale della
transustanziazione della carne nuda in corporeità trascendente, inaf-
ferrabile e terrifica come quella di un’invincibile dea Kali.

Figg. 3 e 4. Scene tratte dalla performance di Draupadi. Foto per gentile concessione del
Kalakshetra Manipur Archives.

70
Ibidem.
71
Cfr. J. Prodhani, “I call my theatre as the Theatre of the Earth”- Heisnam Kanhailal, cit.,
URL: <http://www.nezine.com/info/“I%20call%20my%20theatre%20as%20the%20
Theatre%20of%20the%20Earth”-%20Heisnam%20Kanhailal> (12/16).
72
Cfr. G. Hariharan, When Bodies Speak, in «World Literature Today», 91, 2 (2017),
pp. 16-20; A.R. Baishya, “Counter Me, Rape Us”: Bare Life And The Mimicry of the Sovereign,
in A. De, A. Ghosh, U. Jana (a cura di), Subaltern Vision: A Study in Indian English Postcolo-
nial, Cambridge Scholars Publishing, Newcastle Upon Tune 2012, pp. 134-181.
312  Ù Le verità del velo

Rispetto all’opera del 2000 e a tutte le rappresentazioni che hanno


preceduto la protesta del 2004, ora il corpo di Sabitri è doppiamente
significato: non soltanto l’attrice è Draupadi nel suo atto di ribellione
ultima dove si rivolta contro il potere fallocentrico dello Stato, ma
è anche memoria dell’atto sovversivo e profondamente significativo
delle Madri di Manipur davanti al Kangla Fort. L’oscenità che Sabitri
porta in scena ha anche un valore doppio: non solo dichiara impoten-
te l’apparato del potere oppressivo dello Stato, al contempo insulta
con il suo corpo di madre —la cui nudità è tabù supremo— i soldati
dell’Esercito indiano, chiamandoli neanche troppo tra le righe dei
motherfuckers. Il sadismo pornografico dello Stato e dei suoi scagnozzi,
rappresentati da questo “ufficiale dell’esercito” vigliacco e ipocrita,
è smascherato con una forza espressiva che lascia gli spettatori at-
toniti. Senanayak, come nell’opera letteraria di Mahasweta Devi, si
rivela anche nella trasposizione scenica come la mente pragmatica
e il braccio vile dello Stato: convinto di aver compreso la strategia e
il modo di pensare dei suoi “nemici”, egli si pone nei loro confronti
con un atteggiamento quasi paternalista, che cerca di convincerli che
è per il loro bene che l’operazione militare repressiva deve essere
messa in atto. Tuttavia, come il potere che rappresenta, preferisce
non sporcarsi le mani e lascia fare ai suoi sottoposti il lavoro sporco,
vigliaccamente ritirandosi nella sua tenda e consegnando la preda ai
cani sciolti. L’azione sovversiva di Draupadi lo costringerà, invece, a
rivelare, letteralmente e senza troppi giri di parole, il cane che pure
lui è, al punto che quasi si tradisce e sta per abbaiare dinanzi alla visio-
ne terrifica del corpo scuro, nudo e sanguinante di Draupadi. Come
ha scritto Deepti Misri a proposito del personaggio di Senanayak:

[He] may be similarly understood as the eager agent of the state’s pan-
optical desires. Senanayak’s chosen method of getting rid of the young
revolutionaries is by “apprehension and elimination”—the English word
“apprehension” in the story referring at once to his efforts to physically
capture the revolutionaries and to know and understand their modes of
organization […]. For the rebels, then, an important strategy of resist-
ance is to frustrate legibility by becoming suddenly unknowable.73

La messinscena di tale potente immagine attraverso il corpo


dell’attrice Sabitri non poteva non infastidire l’occhio censorio del-

73
Cfr. D. Misri, “Are you a man?”: Performing Naked Protest in India, in «Signs», 36, 3
(2011), pp. 603-625, in particolare p. 607. La Misri, riferendosi all’interessante libro di
James C. Scott Seeing Like a State (1998), illustra il meccanismo della decodificazione che
sostiene il panopticon benthaniano degli apparati di potere: «In his book Seeing Like a State,
James C. Scott (1998) demonstrates how modern states assert power over their subjects by
attempting to make them legible in the codes of the state. This explains, for instance, the
state’s quest to settle its itinerant populations so that it can see where they are and thus
include them within the purview of its control: by including them in census counts or sub-
jecting them to taxes, for instance». Si veda anche J.C. Scott, Seeing Like a State: How Certain
Schemes to Improve the Human Condition Have Failed, Yale University Press, New Haven 1998.
Introduzione
Mara Matta ∙ Nudo di donna: ri(s)coprire la Devi Ù  313

Figg. 5, 6, 7. Scene tratte dalla performance


di Draupadi. Foto per gentile concessione
del Kalakshetra Manipur Archives.

lo Stato, che cerca incessantemente di afferrare —per eliderlo ed


eliminarlo— il corpo ribelle della donna tribale e si trova, invece,
ad osservare la nudità di Draupadi, sfuggente al tentativo di norma-
tivizzazione del senso comune, che non rappresenta un’immagine
ma restituisce soltanto la «pelle delle immagini».74 In tale ottica va
dunque interpretato il teatro di Kanhailal, dove al corpo-immagine,
e non alla parola o all’espressione verbale, è affidato il compito di
scrivere, performandolo, un nuovo linguaggio. Il suo modo di fare
teatro può forse ricordare —negli intenti etici più che nei risultati
estetici— quello di Carmelo Bene quando sosteneva che «[a] Lacan
interessava aver articolato l’inconscio come linguaggio. Io parto ar-
ticolando il linguaggio come un inconscio, ma affidandolo ai signi-
ficanti e non ai significati, in balia dei significanti...».75 Anche quello
di Kanhailal è un teatro in balia dei significanti, dove attraverso i
corpi degli attori si inventa continuamente un «linguaggio come un
inconscio», un flusso di coscienza che de-generava e ri-generava il
corpo dell’attore, unico veicolo di significato che diveniva in-signifi-
cante e ri-significato in scena, nel movimento che scriveva il dialogo
tra lui e lo spettatore. «Noi inventiamo il linguaggio del teatro»,
sosteneva Kanhailal, utilizzando un noi che abbracciava il collettivo
degli attori e delle attrici impegnati nella creazione di una «body-
culture of performance that is committed to contemporary issues of

74
Cfr. J.L. Nancy, F. Ferrari, La pelle delle immagini, Bollati Boringhieri, Torino
2003.
75
Cfr. U. Artioli, Carmelo Bene, Un dio assente. Monologo a due voci sul teatro, Medusa,
Milano 2006, p. 97.
314  Ù Le verità del velo

identity».76 La questione dell’identità del popolo Meitei, a cui ap-


parteneva, e il desiderio di inventare un teatro che fosse di forte im-
patto politico e sociale nel suo contesto particolare e, al contempo,
di portata universale nel suo messaggio artistico e culturale, erano
alla base della sua ricerca e della sua sperimentazione teatrale. Al
centro di tale sperimentazione Kanhailal poneva il corpo dell’atto-
re, la sua fisicità e la capacità di plasmare attraverso il corpo un nuo-
vo linguaggio. Il corpo, prima che la parola e oltre qualsiasi trucco
o maschera —che egli non privilegiava— era il luogo del teatro, era
il teatro. Forse questa era l’unica lezione che, giovanissimo studente
della National School of Drama (NSD) di Delhi, aveva appreso nei
pochi mesi prima della sua definitiva espulsione dalla scuola dal
suo direttore Ebrahim Alkazi (1925), lui stesso esponente di spicco
del teatro indiano contemporaneo. Nonostante Alkazi non abbia
mai privilegiato un teatro minimalista e povero alla Grotowski, ha
recentemente espresso il suo sospetto per coloro che «scrivono sul
teatro», sostenendo che il teatro è, in ultima istanza, una «rivelazio-
ne» che si compie sulla scena, attraverso «l’espressione creativa che
emerge dalla performance».77 Il teatro, per Alkazi, «emerge nella
relazione dinamica tra il testo, lo spazio scenico, i personaggi, i cor-
pi degli attori, tutto ciò in relazione a un conflitto, il quale disegna
il movimento di un essere umano dall’oscurità alla scoperta di sé».78
In questo Heisnam Kanhailal si rivela uno dei suoi migliori allievi:
il suo teatro della terra trae nutrimento dalla stessa, la sua scena è
l’unica ad essere, in un certo senso, davvero nuda, perché in essa si
rivela il senso del movimento dell’attore, del suo corpo che —anche
quando privo di trucco, maschera o persino di abiti o costumi— non
è mai spoglio di significato. Se Alkazi aveva invitato ad andare oltre
le inanità, Kanhailal si spinge fino ad eliminare anche il testo scritto,
di cui fa volentieri a meno. Allo stesso modo, in un processo di sot-
trazione che aggiunge, anziché togliere, significato, Sabitri in scena
dismette uno per volta i veli che la rivestono, confrontando solo con
il suo corpo nudo —mascherato dai suoi movimenti e dal velo del
suo nuovo essere cosciente— la scabrosa verità della presenza sadica
e oppressiva del Potere incarnato da Senanayak. Nel suo movimento
sulla scena, il corpo di Sabitri, pur privo di vesti e “svelato”, si sottrae

76
Cfr. #KaahonPerformingArts - Heisnam Kanhailal | Manipur | Indian Theatre,
<https://www.youtube.com/watch?v=KaQsBN8p1Yo&t=54s> (12/16).
77
E. Alkazi, citato un’intervista con G. Ramnarayan, “Theatre is Revelation”. A Con-
versation with the Multifaceted Ebrahim Alkazi, «The Hindu», 24 February (2008), URL:
<line: http://www.thehindu.com/todays-paper/tp-features/tp-sundaymagazine/The-
atre-is-revelation/article15401453.ece> (12/16).
78
Ibidem. Alla domanda su che tipo di estetica il teatro possa forgiare per se stesso,
Alkazi risponde: «Go beyond inanities. Educate audiences, not with sermons, but with a
dramatically powerful presence. My open air-theatre posed challenges, but drew nour-
ishment from mother earth, created a living environment with the vigour of the pipal
tree, its branches through wind, rain and the flight of birds».
Introduzione
Mara Matta ∙ Nudo di donna: ri(s)coprire la Devi Ù  315

al processo di carnalizzazione e incarnazione operato dal desiderio di


Senanayak —e dell’apparato governativo che egli rappresenta— per
riappropriarsi della sua singolare umanità, immanente e al contempo
trascendente. Come aveva peraltro fatto notare Sartre:

Il corpo dell’altro è sempre in origine corpo in situazione; la carne, al


contrario, appare come pura contingenza della presenza. Di solito essa è
mascherata dal trucco, dai vestiti ecc.; ma soprattutto è mascherata dai
suoi movimenti; nulla è meno “in carne” di una danzatrice, foss’anche
nuda. Il desiderio è il tentativo di spogliare il corpo dei suoi movimenti
come delle sue vesti per farlo esistere come pura carne; è un tentativo di
incarnazione del corpo dell’altro.79

Sabitri, nella sua ri-vestizione scenica (perché di una ri-vestizione,


più che di una rivisitazione, bisogna forse parlare) della Draupadi di
Mahasweta Devi, doveva eludere la trappola della pura contingenza
della presenza della carne. La sfida che si poneva all’attrice era totale,
poiché doveva affidare quasi esclusivamente ai movimenti del suo
corpo, alla sua pura corporeità, quello che la scrittrice aveva potuto
affidare alle parole-immagini. Come evitare di essere intrappolata
nella carnalità delle sue forme? I movimenti e le emozioni doveva-
no fluire dal corpo dell’attrice come fossero la sua maschera, il suo
costume di scena. Il suono, che non si articola in parola ma rimane
quasi pura sonorità significante ma non significata, accompagna i
movimenti del suo corpo, la cui nudità è trascesa nel resistere lo
sguardo dello spettatore, che tenta inevitabilmente di reificarlo, di
“incarnarlo”, per possederlo al di là della maschera. E tuttavia, qui si
rivela l’arte magistrale di Sabitri, la sua capacità di essere senza vesti
ma non nuda, di denudarsi ma non dare espressione alla nudità.
Come ha sostenuto Luigi Allegri:

un attore nudo non è un attore senza costume, perché quella nudità im-
plica comunque una scelta esplicita e cosciente, che diviene per questo
significante. Significa ad esempio, la volontà di trasgredire le regole, di
stupire o di provocare. O quanto meno il rifiuto di ogni costume che
contestualizzi storicamente e socialmente l’azione. Questo ci porta a un
primo punto fermo, che deve accompagnare ogni riflessione e ogni di-
scorso sul teatro: sulla scena il grado zero della significazione non esiste,
ogni segno (o anche ogni mancanza di segno) è significante, ogni gesto
o ogni immobilità lo è, ogni parola, ogni suono, ogni silenzio.80

Sabitri è capace di comunicare con il suo corpo, o meglio, attra-


verso i movimenti del suo corpo, le sensazioni e le emozioni che flu-
iscono da esso come una musica da uno strumento. Come tale, lo
spettatore si ritrova immerso in un campo di segni visivi e uditivi che

79
J.-P. Sartre cit. in G. Agamben, Nudità, cit., p. 108.
80
L. Allegri, Prima lezione sul teatro, Laterza, Bari-Roma 2012, pp. 7-8.
316  Ù Le verità del velo

finiscono per restituire un’immagine diversa da quella di un semplice


“nudo di donna”: Sabitri/Draupadi si erge al di sopra dello sguardo
erotizzante dello spettatore, che si trova a subirne la presenza, im-
potente e impaurito come un altro Senanayak dinanzi a un “obiettivo
disarmato”. Forse perché disarmato in verità non è, quanto piuttosto
disarmante. La scena che si presenta allo spettatore —che Mahaswe-
ta Devi aveva magistralmente restituito nel suo racconto attraverso
l’uso di una lingua “sporca”, dove parole e nomi erano corrotti, di-
storti nel loro significato etimologico per assumere altri significati
comprensibili soltanto agli adepti che navigano gli spazi interstiziali
della nazione indiana— è mirabilmente consegnata dalla performance
di Sabitri attraverso una de-formazione del corpo di Draupadi. Nella
sua presa di coscienza che l’unica vittoria possibile appartiene alla
sfera del simbolico, dove disarmata e nuda può affrontare il corpo
disciplinato e limitato di Senanayak, ella si riveste della nudità e del-
la rabbia di Kali, la dea dal corpo scuro come quello della tribale
Dopdi. Lo spazio della scena teatrale, dunque, diviene luogo del rito
di trasformazione della donna in devī, pura śakti distruttrice la cui
nudità trascende i codici morali e comportamentali degli uomini.
Così come Camus sollecitava a immaginare Sisifo felice, dobbiamo
forse compiere uno sforzo emotivo, sostenuto dal rasa sprigionato
dall’ultima scena, per immaginare Draupadi vittoriosa, danzante con
la testa mozzata di Senanayak, vestita della nudità della devī, che non
può scadere nell’oscenità di un voyeurismo erotico né nel sadismo
pornografico della nuda carne.
Dobbiamo immaginare tale visione terrifica come in un rito dove
il corpo dell’attrice, un corpo nudo di donna, diviene il sito della
trasformazione simbolica, luogo di ri-significazione del corpo denu-
dato dove la nudità, però, non accade. Non accade perché la carica
erotica è neutralizzata dalla performatività di un corpo fisico che si
sottrae al linguaggio simbolico egemone, per iscrivere nei gesti un al-
tro codice, sovversivo e destabilizzante, che si sottrae all’ordine degli
eventi come lo aveva possibilmente immaginato il regista dell’azio-
ne, Senanayak. Respingendo il ruolo sociale della donna tribale —
vittima e sconfitta dalla violenza patriarcale, egemonica, gerarchica,
razziale— Draupadi non cade nella trappola della riconfigurazione
sociale. Il suo rifiuto della veste è un rifiuto più radicale: è l’abito
sociale, è il suo ruolo di subalternità ad essere respinto, in un gesto
eclatante dove il corpo nudo di Sabitri diviene un altro costume di
scena. Draupadi cambia le regole del gioco e costringe Senanayak a
uscire allo scoperto: questa volta è lei che agisce, mostrando quello
straordinario «senso del gioco» che Bourdieu aveva indicato come in-
dispensabile per sopravvivere in uno spazio non codificato. La doman-
da quasi urlata, quasi abbaiata di Senanayak «che cos’è questa cosa?»
trova una risposta semplice e al contempo inaccettabile: un corpo, un
corpo nudo. Non vi è altro se non questo al di là del baratro, in quella
quinta evanescente che si pone tra Dopdi e Draupadi, tra la donna
Introduzione
Mara Matta ∙ Nudo di donna: ri(s)coprire la Devi Ù  317

selvaggia e la donna del mitologema indiano, tra la figura femminile


e la devī, tra la donna e la madre. E tuttavia un corpo non è un’imma-
gine semplice. Come ha scritto Elizabeth Grosz nel suo famoso testo
Volatile Bodies. Towards a Corporeal Feminism,

The body is a most peculiar “thing”, for it is never quite reducible to


being merely a thing; nor does it ever quite manage to rise above the
status of thing. Thus it is both a thing and a nonthing, an object, but
an object which somehow contains and coexists with an interiority, an
object able to take itself and others as subjects, a unique kind of object
not reducible to other objects. Human bodies […] are uncontainable
in physicalist terms alone. If bodies are objects or things, they are like
no others, for they are the centers of perspective, insight, reflection,
desire, agency.81

Lo sconcerto di Senanayak davanti al corpo nudo di Draupadi e


la risata irriverente di quest’ultima nell’intendere la perdita di con-
trollo e la confusione mentale di Senanayak è data in questa tensio-
ne che Grosz teorizza tra il corpo come semplice “cosa” e il corpo
come centro del desiderio, della riflessione, di una prospettiva e una
percezione, ovvero il corpo come sito di agency. Non è dunque un
semplice “obiettivo disarmato” quello che si erge davanti a Senana-
yak: è un quid pensante, qualcosa che sta agendo e, nel suo agire, sta
risorgendo dalla nuda vita a cui era stato assoggettato, per reclamare
una soggettività e una soggettivazione che evita la condanna della
reificazione. Tuttavia, sebbene non ci sia dato di sapere, la scelta che
compie Draupadi di respingere l’assoggettamento e reclamare una
sua Alterità rispetto al ruolo sociale a cui voleva costringerla Sena-
nayak, implica verosimilmente una sua conseguente “distruzione”.
«Solo permanendo nell’Alterità è possibile permanere nel proprio
essere»,82 ha argomentato Judith Butler, ma si paga un prezzo. L’o-
pera teatrale di Kanhailal, come il racconto della Devi, non ci con-
ducono fino in fondo al baratro in cui Draupadi sceglie alla fine di
saltare, ma ci lascia intravedere quello spazio di possibilità che si era
reso necessario per poter sfuggire alla totale oggettivizzazione del
suo essere nella figura di un corpo nudo femminile, sessuato e reifi-
cato. Per dirla ancora con Butler:

Il punto non è stabilire nuove forme di genere come se vi fosse l’obbligo


di fornire una misura, una norma che giudichi dei generi in competizio-
ne. Qui si tratta di un’aspirazione che ha a che vedere con la capacità di
vivere, di respirare e di muoversi, e che, senza dubbio, potrebbe entrare
a pieno titolo in una filosofia della libertà. Possono indulgere al pensiero
di una vita possibile solo coloro che già sanno di essere possibili. Ma per

81
E. Grosz, Volatile Bodies. Towards a Corporeal Feminism, Indiana University Press,
Bloomington-Indianapolis 1994, p. xi.
82
J. Butler, La vita psichica del potere, Meltemi, Roma 2005, p. 32.
318  Ù Le verità del velo

coloro che stanno cercando di diventare possibili, la possibilità rappre-


senta una necessità.83

Il teatro di Kanhailal e la performance di Sabitri si iscrivono dun-


que in questo tentativo di cercare una filosofia della libertà, per coloro
che sono ancora sospesi sul baratro di una “nuda vita” priva di diritti,
dove la possibilità, la messa in atto della possibilità, è una condizione
necessaria. Il corpo nudo di Sabitri pertanto è in-significante nel sen-
so che si sottrae, non veicola un significato socialmente codificato.
Esso apre uno spazio di possibilità, di trasformazione, una mutazione
possibile solo nel teatro come rito, nella performance dove il corpo-
immagine (e non la parola) diviene sito di un nuovo linguaggio e vei-
colo dell’emozione. Come direbbe Nancy, infatti, «nella mente non
c’è niente che non sia nei sensi: nell’idea non c’è niente che non sia
nell’immagine».84

3. Le Madri di Manipur e il “nudo di donna”: la psicologia emotiva della


nudità

Furono le immagini della protesta delle Madri di Manipur a risve-


gliare la coscienza della nazione. La forza dirompente di quei cor-
pi nudi, vulnerabili ed esposti, intenzionalmente esibiti davanti alla
sede del contingente militare delle Assam Rifles, scatenò un’ondata
di proteste che costrinse il corpo della nazione indiana a reagire. La
società civile, gli intellettuali, gli artisti, i poeti trovarono in quelle
immagini la forza e l’ispirazione per dar voce a un profondo dissenso,
come quello espresso dai versi del poeta bengalese Subodh Sarkar
nella sua poesia Le madri di Manipur (Maṇipurer Mā),85 di cui si ripor-
tano qui alcuni versi tradotti in inglese dallo stesso Sarkar:

Naked they stood up, my mothers of Manipur


My eyes are born from their eyes
All that I speak is from them, from their music
Naked they stood up, my mothers of Manipur.
Can the Army and the Police do anything they like?
Nobody is allowed in the streets, only smoke goes by
Nobody can speak up? No way to protest?

83
J. Butler, La disfatta del genere, Meltemi, Roma 2006, p. 251 (ed. orig. 2003).
84
Cfr. J.L. Nancy, Tre saggi sull’immagine, Cronopio, Napoli 2002.
85
La poesia, scritta originariamente in lingua bangla, è stata tradotta in inglese
dallo stesso Subodh Sarkar (insieme a Christopher Merrill) in occasione di un simposio
sulla Giustizia tenutosi a Paros nel 2007. L’articolo in cui la poesia appare è un pezzo
di denuncia, dal titolo significativo: Manorama is dead but speaks through the mothers of
Manipur, pubblicato online all’URL: <https://iwp.uiowa.edu/programs/international-
conferences/the-new-symposium/2007/sarkar> (12/16). Il testo originale in lingua
bangla è disponibile alla pagina: <http://www.milansagar.com/kobi/subodh_sarkar/
kobi-subodhsarkar_kobita1.html> (12/16). Cfr. S. Sarkar, Manipurer Ma, Ananda Pub-
lishers, Kolkata 2013.
Introduzione
Mara Matta ∙ Nudo di donna: ri(s)coprire la Devi Ù  319

Naked they stood up, my mothers of Manipur.


Army jeeps move around under the sky
Army jeeps sing our National song
There is unbuttoning in one jeep
A girl reeled into the jeep.
Should the girl go home?
Should the girl die under the sky?
The Police have erased her name
What’s her address? A village outside Imphal?
This is what happens everyday
A young girl is found unconscious
Somewhere else her younger sister missing
Only their scarves flutter from trees.
But, in the month of July, the limit is passed
Naked they stood up, the breast-milk-givers
Let the world watch the veins in their chest
How do you feel when you see your own mother naked?
As Assam Rifles shut down the gates
I feel as I did in the womb
I feel the river Ganga streaming out hot
The mothers of Manipur redefined mothers.
Where mothers walk naked in protest
Colonels, commanders, what did you do?
Do you think your Mom still remains Mom?
She is burning, she is burning
Inside every mother,
A mother within mother.

Il corpo delle madri contro il corpo militare, il corpo della madre


—in India storicamente simbolo della Nazione rappresentata dalla
dea Durgā— come un corpo nudo di donna: un’immagine intollera-
bile, un’offesa allo sguardo, che infrange un tabù antico, vìola l’in-
violabile: il corpo materno, sorgente di vita e fonte di nutrimento,
quel seno che il poeta descrive come attraversato dalle vene —Let the
world watch the veins in their chest—, un corpo fisico e perituro, sessua-
to e mortale. Lo scandalo della nazione dinanzi a tale esibizione del
corpo delle Madri di Manipur ne svela l’ipocrisia e la “vergogna”:
non il corpo di Manorama, violentato e ammazzato —con una pal-
lottola delle cinque inferte ritrovata nella vagina della vittima— ave-
va suscitato l’ira o lo sdegno dei cittadini indiani, bensì la nudità dei
corpi di queste madri, che spogliandosi avevano svelato (e sconfitto)
lo sguardo voyeurista e violento dello Stato. Il loro corpo si era fatto
veicolo di parola, strumento di rivendicazione della giustizia, arma
di denuncia. Se tale atto fosse stato realmente ispirato dalla memoria
dell’atto performativo sovversivo di Sabitri sulla scena di Draupadi
non è certo. Sicuramente le due forme di “esibizione”, nel senso
doppio che la parola conviene, rendono testimonianza del potere
della performance come luogo di ridefinizione del linguaggio e come
spazio di articolazione del dis-senso. Da un lato, una politica della per-
formance che il teatro di Kanhailal persegue attraverso il corpo atto-
320  Ù Le verità del velo

riale di Sabitri, dall’altro una performance della politica del dissenso


che le Madri di Manipur inscenano attraverso i loro corpi nudi nello
spazio pubblico —militarizzato e controllato— di Imphal. Se il te-
atro della «sofferenza rituale» (ritual suffering) di Kanhailal mette
in scena l’oppressione della popolazione indigena e ne riscatta la
dignità e la forza attraverso la rivolta fisica e morale di Draupadi,
la performance pubblica delle Madri di Manipur —con la stessa forza
espressiva veicolata dalla nudità come costume di dissenso— costrin-
ge i soldati (e tutto il corpo della nazione) a provare “vergogna”. Nella
domanda che pone Subodh Sarkar, «Come ti senti quando vedi tua
madre nuda?», la risposta implicita che viene sollecitata è: “vergo-
gna”. Il poeta incalza: «Là dove le madri camminano nude, in segno
di protesta/ Colonnelli, comandanti, cosa avete fatto?/ Pensate che
la vostra mamma resti ancora la mamma?». Nella domanda rivolta di-
rettamente al corpo militare, all’Arma che è braccio del corpo dello
Stato nella sua manifestazione patriarcale e fallocentrica, il corpo
della Nazione —immaginato come materno e divino— si rivolta: è
un atto incestuoso quello che viene denunciato. Il vilipendio e l’abu-
so del corpo della Madre, della mamma che nutre e protegge e che
si trova, dopo l’atto di rivolta delle Madri di Manipur —The mothers
of Manipur redefined mothers—, a rivestire un nuovo senso del corpo
materno. Queste madri sono aggressive, pronte alla lotta, con il loro
sesso esposto che invita i soldati a stuprarle, a violentarle.
La scena, nel 2004, aveva gelato lo sguardo dei soldati del con-
tingente Assam Rifles, i quali erano rimasti asserragliati all’interno
del quartier generale, incapaci come il Senanayak del racconto della
Devi di reagire dinanzi a un’azione, stavolta pubblica e collettiva,
che non ripiegava sul solito copione delle madri piangenti sul corpo
vilipeso di una loro figlia trovata morta, ma sceglieva il canovaccio
drammatico fornito dall’opera teatrale di Kanhailal e dalla forza
performativa del corpo nudo di Sabitri per smascherare la viltà dei
soldati e l’immoralità della loro presenza, denunciandola come pe-
ricolosa e realmente oscena. Lo svelamento del corpo, però, rivelava
anche un altro livello di significato: la “vergogna”, così come il de-
siderio, appartiene al sadico e all’occhio di chi guarda. La nudità
dell’altro in qualche modo svela la perversione dello sguardo di chi
osserva, costringendolo a provare “vergogna”. Nella sua nudità —al
tempo stesso immanente e trascendente, umana e sovrumana— il
“nudo di donna” esposto, performato, da Sabitri/Draupadi e dalle
Madri di Manipur operava la medesima sottrazione di senso, nella
maniera in cui si spogliava del costume sociale e ripudiava le regole
della modestia femminile e del pudore. Il sentimento della lajjā,86

86
Per un’interessante analisi della parola lajja nel contesto indiano, si vedano U. Me-
non, R.A. Shweder, Kali’s Tongue: Cultural Psychology and the Power of Shame in Orissa, In-
dia, in S. Kitayama, H.R. Markus (a cura di), Emotion and Culture: Empirical Studies of Mu-
tual Influence, American Psychological Association, Washington, DC 1994, pp. 241-284,
Introduzione
Mara Matta ∙ Nudo di donna: ri(s)coprire la Devi Ù  321

impropriamente tradotto con “vergogna” ma che, in tale contesto,


potremmo forse tradurre con l’espressione suggerita da Clifford Ge-
ertz di «paura del palcoscenico»,87 è propriamente il velo che viene
dismesso in scena, portando il pubblico —che la esperisce attraverso
lo sguardo di un “ufficiale dell’esercito”— sull’orlo del baratro. Non
potendosi più aggrappare al significato incarnato dal corpo femmi-
nile, che svelandosi sottrae il senso comune e costringe chi osserva
a un salto nel vuoto, in quel teatro dei significanti dove il nulla ha
un senso, lo spettatore-voyeur è smascherato, denudato e pertanto
esposto, nella sua fragilità, al terrore, alla “paura del palcoscenico”, a
quella lajjā che è solo sua, della sua forma diminuita di umanità. Ma-
hasweta Devi aveva fatto dire alla sua Draupadi «Sei forse un uomo
tu?»: la vergogna e la paura sono solo dell’uomo ipocrita denudato
del suo ruolo sociale.
In quanto “ufficiale dell’esercito”, egli avrebbe dovuto farsi ga-
rante della “giustizia”: avendo tradito la sua maschera, attraverso una
sospensione della legge e dello stato di diritto, Senanayak non può
ora pretendere che Draupadi “reciti a soggetto”: come lui non è un
uomo giusto, così lei non è una colpevole da svergognare. Il terrore
di Senanayak corrisponde a questo senso della parola lajjā come sta-
ge fright: egli è messo a nudo e si rivela incapace di improvvisare fuori
dal copione. Allo stesso modo, le Madri di Manipur —risignificando
il significante madre— costringono i soldati del contingente militare
ad asserragliarsi, verosimilmente in preda al “panico da palcosceni-
co” su cui sono stati improvvisamente proiettati, a provare lajjā. An-
che qui, la castrazione simbolica e il depotenziamento del corpo ma-
schile, reso impotente di fronte alla nudità del corpo materno, svela
il potere della performatività del corpo nudo di donna come sito di
protesta e denuncia in una sfera pubblica fortemente controllata e
disciplinata dalla presenza dell’esercito. La sfera pubblica, in questo
caso, diviene teatro dello svelamento, scena risignificata e palcosce-
nico su cui i soldati, trascinati fuori dal “dietro le quinte” del potere
oscuro di cui generalmente si ammantano, sono costretti a confron-
tare i corpi nudi delle loro vittime, il sesso esibito delle madri che

URL: <https://pdfs.semanticscholar.org/bf99/d85ba3f6ce02a224d6022cca1589657a-
edbe.pdf> (12/16). Si vedano inoltre: J. Kripal, Kali’s tongue: Shame and disgust in a Tan-
tric world. Unpublished manuscript, 1993; S.N. Kurtz, All the mothers are one: Hindu India
and the cultural reshaping of psychoanalysis, Columbia University Press, New York 1992.
87
In Interpretazione di culture, Geertz parla della scena sociale di Bali come di un
elaborato «spettacolo teatrale» dove bisogna saper recitare, attraverso forme di auto-
controllo e l’applicazione di norme precise. Nel processo di messinscena sociale, però,
la paura di sbagliare può dar luogo a un vero e proprio terrore, un timore di non saper
recitare bene il proprio ruolo. Per Geertz, il lek era questa «paura del palcoscenico», un
termine balinese che traduce un’emozione che ha poco a che fare con il nostro normale
senso della “vergogna”. La parola lajjā, in questo contesto del dramma sociale indiano,
è come il lek balinese: la “paura da palcoscenico” appartiene ai soldati che si trovano co-
stretti a improvvisare ma non sanno recitare senza copione. Cfr. C. Geertz, Interpretazione
di culture, il Mulino, Bologna 1987.
322  Ù Le verità del velo

ne denunciano la perversità e la violenza, e a provare “vergogna”. Il


teatro, come la violenza e la possibilità di denuncia e riscatto dalla
stessa, possono avvenire ovunque e lo spazio della performance della
politica, così come di una ridefinizione della politica della performance,
può essere offerto anche solo da un corpo, un “corpo nudo di don-
na” che si fa sito, luogo e possibilità di interpretazione e di dis-senso.
Come ha scritto Allegri, «qualcosa che possiamo chiamare “teatro”
può darsi ovunque, in ogni luogo e in ogni condizione, perché a
definire l’evento è l’azione che si compie».88 In questo caso, il cor-
po di Sabitri e quello delle Madri di Manipur ridefiniscono l’evento
della nudità attraverso la loro azione, artistica e politica, dove il loro
corpo non interpreta ma è il teatro, dove il loro nudo non esprime
un’emozione ma ne è il senso.

Conclusioni

Attraverso la performance dello svelamento si accede a una scena


emotiva carica di senso, che va al di là di una politica della svestizione
per penetrare nella sfera di una psicologia culturale delle emozioni
ancora poco studiata ma che meriterebbe più attenzione anche da
parte di studiosi delle culture dell’Asia. Come ha sostenuto Alaimo,
l’atto dello svestirsi segna la dismessa, e con essa il temporaneo ri-
fiuto, di un confino nei limiti del corpo umano, attraverso una rico-
dificazione della corporeità come «luogo di possibili connessioni,
interconnessioni, azioni e trasformazioni etiche» che costringe a una
presa di coscienza del corpo nudo come qualcosa di più di un «sito
di inscrizione culturale».89
Il corpo nudo segna anche un delicato passaggio tra un corpo che
protesta, cioè che esprime una protesta veicolandola con la parola e il
gesto, e un corpo della protesta, che nella sua nudità diventa un «bodily
tableaux of “truth force”»90 che non può essere ignorato. Come han-
no sottolineato Julia C. Strauss e Donald B. Cruise O’ Brien nel loro
Staging Politics: Power and Performance in Asia and Africa,91 il rapporto
tra il potere e le azioni performative è fondamentale per compren-
dere il modo in cui la politica funziona nei teatri pubblici dell’Asia
e dell’Africa. Riconoscendo che il processo politico e le azioni di
performance sociale hanno un impatto emotivo e drammatico in

88
L. Allegri, Prima lezione sul teatro, cit., pp. 7-8.
89
S. Alaimo, The Naked Word: The Trans-Corporeal Ethics of the Protesting Body, cit., pp.
31-32.
90
Cfr. I. Souweine, Naked Protest and the Politics of Personalism, in M. Narulka et al.
(a cura di), Sarai Reader 05: Bare Acts, Sarai Programme, Delhi 2005, pp. 526-536. Si
veda anche M.L. Veneracion-Rallonza, Women’s Naked Body Protests and the Performance
of Resistance: Femen and Meira Paibi Protests Against Rape, in «Philippine Political Science
Journal», 35, 2 (2014), pp. 251-268.
91
Cfr. J.C. Strauss, D.B.C. O’ Brien, Staging Politics: Power and Performance in Asia and
Africa, I.B. Tauris & Co Ltd., Londra 2007.
Introduzione
Mara Matta ∙ Nudo di donna: ri(s)coprire la Devi Ù  323

senso pieno nel contesto della sfera pubblica, Strauss e O’Brien han-
no infatti affermato:

Social movements and contestation in public space are almost as a mat-


ter of definition theatrical. This is a very rich field for the politics of
performance, as it is through theatrics and capturing the imagination
of both a wider public and the attention of the state that groups whose
very existence may have gone unrecorded become visible, and the de-
mands that frequently may not have been articulated can make them-
selves heard.92

In questo gioco delle parti dove chi è invisibile si denuda della sua
veste sociale e costringe lo sguardo del potere egemone (vestito di
un’invisibilità diversa, tipica del potere latente ma non assente) pri-
ma ad osservare la corporeità resa visibile, poi a prendere coscienza
della possibilità del suo potere, l’emozione gioca un ruolo cruciale.
Attraverso una psicologia culturale delle emozioni, possiamo forse
comprendere il senso, il significato e la significatività del “nudo di
donna” in India. Se Mahasweta Devi e Heisnam Kanhailal hanno sa-
puto magistralmente utilizzare nella loro arte l’immagine del corpo
femminile nudo senza cadere nella trappola del voyeurismo o nella
semplicistica strumentalizzazione della sessualità femminile tipica di
un certo femminismo militante, le Madri di Manipur e altre donne
dell’India contemporanea hanno scelto di “vestire il nudo” come
un costume di scena, per smascherare le ipocrisie e le violenze del-
lo stato patriarcale e le logiche sessiste e fallocentriche che vedono
ancora oggi le donne vittime di violenza. Il corpo nudo, da simbolo
degenerato e/o insignificante, acquista sulla scena artistico-letterario
e politica-pubblica una forza emotiva rigenerante, che lo risigni-
fica in corpo simbolico, al contempo svelato e (ri)velato in scena.
Esso acquista una dimensione simbolica attraverso la sospensione
di senso comune della parola-segno a favore dell’immagine-corpo
come “carne sensata”: il corpo femminile, nell’accezione di un’ef-
fige terrifica, trascende la propria immanenza di corpo umano per
stagliarsi nella sua raffigurazione di corpo sovrumano, trascendente
il linguaggio fallocentrico e il sistema della legge dei padri. Sebbene
il corpo straziato e privo di vita di Tanjam Manorama, anche dopo
l’eco nazionale e internazionale della protesta delle “Madri”, non sia
divenuto simbolico come quello di Jyoti Singh, e nonostante il fatto
che di morti violente come la sua Manipur ne abbia registrate molte
ancora, quello che è significativo è il modo in cui la protesta delle
Madri e l’azione scenica di Sabitri abbiano saputo riportare l’atten-
zione della Nazione su temi delicati e importanti, senza tuttavia tra-
sformare i loro corpi in nudi oggetti dello sguardo, esibiti, reificati
e feticizzati. La vulnerabilità dei loro corpi spogliati si è rivestita di

92
Ivi, p. 11.
324  Ù Le verità del velo

un simbolismo che ha reso la loro nudità espressiva: denudatesi, si


sono rivestite di un senso che ha prevenuto l’appropriazione e la
consumazione erotica della loro carne nuda. Facendo ricorso alla
psicologia delle emozioni legate al corpo della madre, alla sua nudi-
tà come tabù capace di offendere lo sguardo, le Draupadi di questi
drammi contemporanei hanno rievocato le parole della figura epica
del Mahābhārata quando, persa ai dadi e trascinata al centro della
scena, urla a gran voce:

If you have loved and revered the mothers who bore you
and gave you suck, if the honour of wife or sister or
daughter has been dear to you, if you believe in God and
Dharma, forsake me not in this horror more cruel than death!93

Riecheggiano le parole del poeta Sarkar, dove una madre «sta bru-
ciando, sta bruciando/ una madre dentro ogni madre», ma le urla
strazianti di Draupadi ci ricordano forse anche la domanda, nuda
e disarmante come «quella cosa» davanti a Senanayak, che Pasolini
aveva affidato alla sua Ballata delle madri:

Mi domando che madri avete avuto.


Se ora vi vedessero al lavoro
in un mondo a loro sconosciuto,
presi in un giro mai compiuto
d’esperienze così diverse dalle loro,
che sguardo avrebbero negli occhi?94

Lo sguardo terrifico di Dopdi, forse, nel riprendersi la scena come


un’aquila liberata, lasciando a Senanayak il ruolo del cane impaurito,
dell’uomo messo a nudo perso nella ballata dei significanti del corpo
nudo di donna.

93
Mahābhārata, 93 citato in E.S. Latha, Political Suppression in Mahasweta Devi’s
Draupadi, in «The Indian Review of World Literature in English», 9, 2 (2013), pp. 1-5.
94
P. Pasolini, La ballata delle madri, in Poesia in forma di rosa (1961-1964), Garzanti,
Milano 1964.

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