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FERRARA-SAGGIORO-VISCARDI - Le Verità Del Velo
FERRARA-SAGGIORO-VISCARDI - Le Verità Del Velo
Le verità
del velo
euro 24,00
www.sefeditrice.it Società Editrice Fiorentina
2 Ù Le verità del velo
Series Editor
Editorial Board
Editorial Coordinator
a cura di
Marianna Ferrara
Alessandro Saggioro
Giuseppina Paola Viscardi
4 Ù Le verità del velo
Indice
Alessandro Saggioro
Premessa 7
Massimo Leone
Homo velans: Paradossi del velo nella semiosfera contemporanea 27
Pietro Giammellaro
Velo si dice in molti modi. Coprirsi il capo nell’epica greca arcaica 49
Cristina Simonelli
Tertulliano e l’obbligo del velo 121
6 Ù Le verità del velo
Caterina Moro
Il velo nel mondo biblico e nel giudaismo 135
Alessandro Vanoli
L’invenzione del velo. Alcune considerazioni su colonialismo,
moda femminile e identità islamica 149
Sara Hejazi
Il velo islamico. Pratica del passato e re-invenzione del presente 167
Claudia Porretto
Il velo risonante. Una lettura critica della rappresentazione
del burqa in un film di Samira Makhmalbaf 187
Claudia Mattalucci
Modernità e politiche dell’abbigliamento femminile in Turchia 205
Emilia Lazzarini
Il tabu del velo islamico attraverso le leggi italiane 239
Carmela Mastrangelo
La donna s-velata. I nudi delle divinità femminili nel Veda 275
Premessa
Alessandro Saggioro
10 Ù Le verità del velo
Introduzione Ù 11
Introduzione
1
J. Gil, s.v. “Corpo”, in Enciclopedia Einaudi, Einaudi, Torino 1978, vol. 3, pp. 1096-
1162. In ambito italiano, la definizione di corpo come significante fluttuante è ripresa e
sviluppata in una serie di studi sul corpo post-organico, cfr. ad es. T. Macrì, Il corpo post-
organico, Costa & Nolan, Genova 1996; G. Mura, R. Cipriani (a cura di), Corpo e religione,
Città Nuova Editrice, Roma 2009.
2
Vedi soprattutto J. Fontanille, Soma et Séma: Figures du corps, Maisonneuve et Larose,
Paris 2004 .
3
Sulla possibilità di distinguere in modo chiaro il sensibile dall’intelligibile, vedi
ancora J. Fontanille, G. Zilberberg, Tension e signification, Madraga, Liège 1998.
Introduzione Ù 13
4
Ricorrente nella critica foucaultiana, il tema del corpo è centrale in Naissance
de la Clinique: une archéologie du regard médical, PUF, Paris 1963; Id., Surveiller et punir.
Naissance de la prison, Gallimard, Paris 1975; Id., La volonté de savoir. Histoire de la sexualité,
I, Gallimard, Paris 1976.
5
J. Butler, Bodies that Matter: On the Discoursive Limits of Sex, Routledge, London-New
York 1993; cfr. Ead., Gender Trouble: Feminism and the Subversion of Identity, Routledge,
London-New York 1990.
6
C. Demaria, Generi e soggetti sessuali. Le rappresentazioni del femminile, in C. Demaria,
S. Nergaard (a cura di), Studi Culturali. Temi e prospettive a confronto, MacGraw-Hill,
Milano 2008, pp. 147-186, in particolare p. 167.
7
Cfr. F. Borel, Le vêtement incarné: les métamorphoses du corps, Calmann-Lévy, Paris
1992; P. Borgna, Corpo a corpo, in Ead., Sociologia del corpo, Laterza, Roma-Bari 2005,
pp. 52-102; A. Busto (a cura di), Il velo: tra mistero, seduzione, misticismo, sensualità, potere e
religione, Silvana Editoriale, Cinisello Balsamo 2007.
8
Per la definizione di “spazio transizionale”, inteso come spazio potenziale tra
individuo e ambiente soggettivamente costruito e oggettivamente percepito in cui si
modella ogni forma di processo mentale creativo, vedi i lavori del pediatra e psicoanalista
14 Ù Le verità del velo
11
Cfr. F. Borel, Le vêtement incarné, cit.
12
Per le costruzioni corporali dell’“altro”, vedi S. Hall, The Spectacle of the “Other”, in
S. Hall (a cura di), Representation. Cultural Representations and Signifying Practices, Sage,
London 1997, pp. 223-290; S. Lanwerd, Die Repräsentation des Anderen. Bemerkungen zu
Bild, Geschlecht und Religion, in S. Lanwerd, E. Márcia (a cura di), Frau, Gender, Queer.
Gendertheoretische Ansätze in der Religionswissenschaft, Königshausen & Neumann,
Würzburg 2010, pp. 163-183.
13
Cfr. P. Bourdieu, Les rites comme actes d’institution, in «Actes de la recherche en
sciences sociales», 43 (1982), pp. 58-63; Id., Ce que parler veut dire: l’économie des échanges
linguistiques, Fayard, Paris; Esquisse d’une théorie de la pratique, Droz, Genève 1972.
14
Cfr. T. Eagleton, The Idea of Culture, Blackwell, Oxford 2000, pp. 2-3.
16 Ù Le verità del velo
15
Riprendiamo la terminologia di Clifford Geertz, il quale, nel tentativo di dare ua
definizione di religione, individua nelle emozioni e nelle motivazioni il mezzo più efficace
per stabilire l’ordine e trasmettere i significati —attività che, secondo Geertz, contribuisce
al funzionamento della religione nella società. Cfr. C. Geertz, Dichte Beschreibung. Beiträge
zum Verstehen kultureller Systeme, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1987, p. 84.
16
Cfr. A.-K. Höpflinger, S. Knauss, A.D. Ornella, Introduction. Body, Communication and
Religion, in Idd. (a cura di), Commun(icat)ing Bodies, cit., pp. 11-24, in particolare pp. 11-13;
M. Combi, Corpo e tecnologie. Simbolismi, rappresentazioni e immaginari, Meltemi, Roma 2000.
17
Cfr., ad esempio, F. El Guindi, Veil: Modesty, Privacy and Resistance, Berg, Ox-
ford-New York 1999; A. Galadari, Behind the Veil: Inner Meanings of Women’s Islamic Dress
Code, in «The Journal of Interdisciplinary Social Sciences» 6, 11 (2012), pp. 115-125; K.
Bullock, Rethinking Muslim Women and the Veil: Challenging Historical and Modern Stere-
otypes, The International Institute of Islamic Thought, Herndon (VA) 2002; R. Weitz,
Women and Their Hair: Seeking Power through Resistance and Accommodation, in «Gender
and Society», 15, 5 (2001), pp. 667-686.
18
Cfr. D. Sperber, Le symbolisme en général, Hermann, Paris 1974; Id., Explaining
Culture: A Naturalistic Approach, Blackwell, Oxford 1996; Id., Metarepresentations: A
Multidisciplinary Perspective, Oxford University Press, New York 2000.
Introduzione Ù 17
19
Cfr. S. Asha, Narrative Discourses on Purdah in the Subcontinent, in «ICFAI Journal of
English Studies», 3, 2 (2008), pp. 41-51. Sebbene lo studio di S. Asha (Assistant Professor
in Comparative Literature alla Central University of Kerala) verta sulla realtà ideale e
materiale del purdah indiano, le sue riflessioni restano un adeguato punto di partenza
per ripensare i vari dibattiti che ciclicamente si riaccendono intorno alla questione del
velo islamico.
20
Cfr. P. Bourdieu, Remarques provisoires sur la perception sociale du corps, in «Actes
de la recherche en sciences sociales», 14 (1977), pp. 51-54; Id., Sur le pouvoir symbolique,
in «Annales. Économies, Sociétés, Civilisations», 32, 3 (1977), pp. 405-411; Id., Les rites
comme actes d’institution, cit.
21
N. Lindisfarne-Tapper, B. Ingham (a cura di), Languages of Dress in the Middle East,
Curzon, Richmond (Surrey) 1997.
22
F. Remotti, Luoghi e corpi. Antropologia dello spazio, del tempo e del potere, Bollati
Boringhieri, Torino 1993.
18 Ù Le verità del velo
23
Cfr. M.G. Muzzarelli, A capo coperto: storie di donne e di veli, il Mulino, Bologna 2016;
D. Fraccaro, Veli: oltre la donna, oltre l’Islam: la comunanza del velo nella tradizione ebraica,
cristiana, islamica, Irfan, San Demetrio Corone 2011; L. Babès, Le voile démystifié, Bayard,
Paris 2004; M. Sunder, Piercing the Veil, in «Yale Law Journal», 112 (2003), pp. 1399-1472;
K. Bullock, Rethinking Muslim Women and the Veil, cit.; M. Giolfo, Attraverso il velo: la donna
nel Corano e nella società islamica, Ananke, Torino 2002.
Introduzione Ù 19
24
E.T. Hall, The Silent Language, Doubleday, Garden City, NY 1959; Id., The Hidden
Dimension, Doubleday, Garden City (NY) 1966; Id., Beyond Culture, Anchor Press, Garden
City (NY) 1976.
20 Ù Le verità del velo
25
Le ricerche pionieristiche di Hall sull’antropologia dello spazio hanno spianato
la strada agli studi successivi, influenzando non solo le più moderne ricerche
antropologiche sul concetto di built environment come espressione di idee culturalmente
condivise (cfr. D.L. Lawrence, S.M. Low, Built Environment and Spatial Form, in
«Annual Review of Anthropology», 19 [1990], pp. 453-505), ma anche le indagini
sulla comunicazione interculturale, nel campo della teoria della comunicazione
(cfr. S. Niemeir, C.P. Campbell, R. Dirven [a cura di], The Cultural Context in Business
Communication, John Benjamins Publ., Amsterdam-Philadelphia 1998), oltre ai lavori
di geografia umana incentrati sulla nozione di spazio relativo e relazionale e sulle
modalità in cui le diverse comunità umane creano e usufruiscono di tale spazio.
26
Per retorica costitutiva intendiamo, con le parole di James Boyd White, «the
art of constituting character, community and culture in language» (Id., Heracles’ Bow,
University of Wisconsin, Madison 1985, p. 37), pertinente alla capacità del linguaggio
o dei simboli di creare un’identità collettiva, specialmente attraverso la condensazione
di simboli, letteratura e narrative. Cfr. T.O. Sloane, s.v. “Constitutive Rhetoric”, in Id. (a
cura di), Encyclopedia of Rhetoric, Oxford University Press, New York 2001, p. 616.
27
Cfr. R. Debray, Che cosa ci vela il velo? La Repubblica e il Sacro, Castelvecchi, Roma
2007 (ed. orig. Paris 2004).
Introduzione Ù 21
28
Cfr., tra i molti bestseller, L. Djitli, Lettera a mia figlia che vuole portare il velo, Piem-
me, Casale Monferrato 2005 (ed. orig. 2004); J.P. Sasson, Dietro il velo: la drammatica sto-
ria di una principessa saudita nella sconvolgente realtà del mondo arabo, Sperling Paperback,
Milano 1993 (ed. orig. 1992).
22 Ù Le verità del velo
I nudi delle divinità femminili nel Veda), che esamina la metafora del
corpo velato in alcune delle raccolte più antiche del canone vedico
nonché espressione della tradizione brahmanica che si riconosceva
nell’autorevolezza dei Veda, e quello di Mara Matta (Nudo di donna:
ri(s)coprire la Devi), che mostra come l’atto di svelare un corpo possa
diventare un gesto di resistenza all’ordine costituito e di ribellione
alla violenza esercitata in nome della Legge. In entrambi i saggi è
la nudità a captare l’attenzione del lettore, guidato dai movimenti
provocatori e dissacranti del velo che cessa di coprire.
Veli che si posano, dunque, ma anche veli che cadono. Alle storie
che legittimano questi gesti dovremmo volgere lo sguardo con l’au-
spicio di un dibattito critico sulla libertà di dis/ velarsi.
24 Ù Le verità del velo
Introduzione Ù 25
Massimo Leone
Homo velans:
Paradossi del velo nella semiosfera contemporanea
1
Mosca, 1978.
Massimo Introduzione
Leone ∙ Homo velans Ù 37
2
V.I. Stoichita, Du visage, in M. Leone, H. de Riedmatten, V.I. Stoichita (a cura di),
Il sistema del velo / Système du voile: Trasparenze e opacità nell’arte moderna e contemporanea
/ Transparence et opacité dans l’art moderne et contemporain (“Saggi di Lexia”, 19), Aracne,
Roma 2016, pp. 195-209.
3
Sull’“effetto Timante” si veda M. Leone, L’inimmaginabile, in «Lexia», 7-8, Immagi-
nario – Imaginary, numero monografico, a cura di Massimo Leone, Aracne, Roma 2011,
pp. 471-490.
38 Ù Le verità del velo
4
San Pietroburgo, 1970.
Massimo Introduzione
Leone ∙ Homo velans Ù 39
5
Sul cellophane come velo, si veda P. Ortoleva, Un sottile strato di plastica trasparente.
La velatura sintetica degli oggetti, in M. Leone, H. de Riedmatten, V.I. Stoichita (a cura di),
Il sistema del velo, cit., pp. 301-307.
6
A tal proposito si veda U. Volli, Per una grammatica dell’imballaggio, in Id., Laborato-
rio di semiotica, Laterza, Roma-Bari 2005.
Massimo Introduzione
Leone ∙ Homo velans Ù 41
7
Si veda su questo tema G. Cuozzo (a cura di), Resti del senso. Ripensare il mondo a
partire dai rifiuti (“Saggi di Lexia”, 6), Aracne, Roma 2012.
8
Si veda su questo L. Corrain, Il velo della pittura: tra opacità e trasparenza, tra
presentazione e rappresentazione, in M. Leone, H. de Riedmatten, V.I. Stoichita (a cura di),
Il sistema del velo, cit., pp. 43-90.
42 Ù Le verità del velo
1. Questioni di metodo
della civiltà occidentale, gli studi sul velo nella cultura greca han-
no tardato a trovare spazio tra gli interessi scientifici della comu-
nità internazionale. Solo nell’ultimo decennio si è assistito, specie
in area anglosassone, ad una riscoperta del velo antico, forse anche
in considerazione del rinnovato approccio antropologico al mondo
greco, affrontato e studiato, oggi più che mai, sul versante dell’alte-
rità culturale piuttosto che in termini di rispecchiamento. In questa
direzione si muovono ad esempio gli studi di Douglas Cairns sulla
connessione tra velo e aidos1 e il bel libro di Lloyd Llewellyn Jones,2
che analizza la questione del velo femminile nella Grecia antica nel-
le sue molteplici sfaccettature: il presente saggio si colloca sulla scia
di questi lavori.
1
D.L. Cairns, The meaning of the veil in ancient greek culture, in L. Llewellyn-Jones (a
cura di), Women’s dress in the ancient greek world, David Brown Book Co., Oakville 2001, pp.
73-93; Id., Anger and the veil in ancient greek culture, in «Greece and Rome», 48, 1 (2001),
pp. 18-32.
2
L. Llewellyn-Jones, Aphrodite’s tortoise. The veiled woman of ancient Greece, Classical
Press of Wales, Swansea 2003. Sul tema generale dell’abbigliamento nella Grecia antica,
va segnalato il recente lavoro di M.M. Lee, Body, Dress, and Identity in Ancient Greece, Cam-
bridge University Press, New York 2015 che affronta la questione del velo (pp. 154-158),
senza tuttavia aggiungere alcunché di significativo alla trattazione di Llewellyn-Jones.
3
L. Llewellyn Jones, Aphrodite’s tortoise, cit., pp. 24-26.
4
Usato come “velo” in Il. III, 141 e forse in Il. XVIII, 595.
5
Il. III, 385 e Il. XVIII, 352.
6
Od. VIII, 82-92; Hes., Op., 198.
7
Il. XXIV, 163; Hymn. Aph., 183.
8
Od. XIV, 359.
Introduzione
Pietro Giammellaro · Velo si dice in molti modi Ù 51
9
P. Chantraine, Dictionnaire étymologique de la langue grecque. Histoire des mots,
Klincksieck, Paris 1999 (1968), p. 581.
10
Hera (Il. XIV, 184-185), Charis (Il. XVIII, 382-383), Ino-Leucothea (Od. V, 346,
351, 373, 459), Ecate (Hymn. Dem., 24-27, 438-439), Demetra (Hymn. Dem., 40-44, 459),
una ninfa (Hes. fr. 244, 17).
11
Andromaca (Il. XXI, 466-472), Penelope (Od. I, 332-336; XVI, 414-417; XVIII,
208-211; XXI, 63-66), un gruppo di spose (Od. IV, 620-623), le ancelle di Nausicaa (Od.
VI, 99-100).
12
Ciò vale ad esempio per il κρήδεμνον di Hera, di Ino-Leucothea, di Penelope, del
gruppo di spose e, per contrasto, anche delle ancelle di Nausicaa che, uscite dallo spa-
zio pubblico della città, gettano via i propri κρήδεμνα per giocare sulla riva del fiume.
13
È il caso di Andromaca e di Demetra.
14
Troia: Il. XVI, 97-100; Od. XIII, 387-388. Tebe: Hes., Sc., 105. Cipro: Hymn. Aph.,
1-3. Atene: Hymn. Dem., 149-152.
15
Il. XXIV, 89-94.
52 Ù Le verità del velo
16
Hymn. Dem., 38-44.
17
Sul valore di κύανος cfr. da ultimo P. Kingsley, Misteri e Magia nella filosofia antica.
Empedocle e la tradizione pitagorica, Il Saggiatore, Milano 2007 (ed. orig. Oxford 1995),
pp. 106-109.
18
L. Llewellyn Jones, Aphrodite’s tortoise, cit., p. 32 con bibliografia precedente.
19
Il. XXI, 405-409.
20
E. de Martino, Morte e pianto rituale. Dal lamento funebre antico al pianto di Maria,
Bollati Boringhieri, Torino 1975, passim.
21
Rispettivamente Od. V, 228-233 e Od. X, 541-545. È opportuno sottolineare che i
versi in questione sono formulari.
22
Hes., Th., 570-584.
23
Hymn. Dem., 192-201.
Introduzione
Pietro Giammellaro · Velo si dice in molti modi Ù 53
essere usato per oscurare il volto, segnalando così uno stato emotivo
di dolore o di tristezza.
Sul versante della foggia, si differenzia dal κρήδεμνον solo per il
fatto di non essere “legata” ma solo adagiata sul capo. Quanto alla
funzione, καλύπτρα partecipa al contempo del carattere “ornamen-
tale” di κρήδεμνον e della connotazione “coprente” (anche sul piano
psicologico) di κάλυμμα.
24
P. Chantraine, Dictionnaire, cit., p. 487.
25
μηρούς τ’ ἐξέταμον κατά τε κνίσῃ ἐκάλυψαν / δίπτυχα ποιήσαντες: Il. I, 460-461.
26
Cfr. in espressione formulare Il. II, 423-424; Od. III, 457-458; XII, 360-361; il
medesimo contesto con la stessa terminologia si trova anche in Od. XVII, 241 e in Hes.,
Th., 538-542.
27
Per es. in Il. XXIII, 91, 168, 253; XXIV, 796.
28
ἐν λεχέεσσι δὲ θέντες ἑανῷ λιτὶ κάλυψαν / ἐς πόδας ἐκ κεφαλῆς, καθύπερθε δὲ φάρεϊ
λευκῷ: Il. XVIII, 352-353.
54 Ù Le verità del velo
29
Sotto questa specie vanno annoverati anche i casi in cui la funzione di protezione
è svolta non dalla nebbia ma da un oggetto materiale: un peplo, uno scudo ecc.
30
Secondo quanto afferma, con diverse argomentazioni, R.R. Dyer, The use of
kalypto in Homer, in «Glotta», 42 (1964), pp. 29-38.
31
παῖδες μὲν πατέρ’ ἀμφὶ καθήμενοι ἔνδοθεν αὐλῆς / δάκρυσιν εἵματ’ ἔφυρον, ὃ δ’ ἐν
μέσσοισι γεραιὸς / ἐντυπὰς ἐν χλαίνῃ κεκαλυμμένος·: Il. XXIV, 161-162.
32
ταῦτ’ ἄρ’ ἀοιδὸς ἄειδε περικλυτός· αὐτὰρ Ὀδυσσεὺς / πορφύρεον μέγα φᾶρος ἑλὼν
χερσὶ στιβαρῇσι / κὰκ κεφαλῆς εἴρυσσε, κάλυψε δὲ καλὰ πρόσωπα· / αἴδετο γὰρ Φαίηκας
ὑπ’ ὀφρύσι δάκρυα λείβων. / ἦ τοι ὅτε λήξειεν ἀείδων θεῖος ἀοιδός, / δάκρυ’ ὀμορξάμενος
κεφαλῆς ἄπο φᾶρος ἕλεσκε / καὶ δέπας ἀμφικύπελλον ἑλὼν σπείσασκε θεοῖσιν· / αὐτὰρ
ὅτ’ ἂψ ἄρχοιτο καὶ ὀτρύνειαν ἀείδειν / Φαιήκων οἱ ἄριστοι, ἐπεὶ τέρποντ’ ἐπέεσσιν, / ἂψ
Ὀδυσεὺς κατὰ κρᾶτα καλυψάμενος γοάασκεν. Od. VIII, 82-92.
Introduzione
Pietro Giammellaro · Velo si dice in molti modi Ù 55
3. Conclusioni
33
Su questo passo cfr. L. Faranda, Le lacrime degli eroi. Pianto e identità nella Grecia
antica, Qualecultura, Vibo Valentia 1992, pp. 129-133 e da ultimo M. Nucci, Le lacrime
degli eroi, Einaudi, Torino 2014, pp. 25-26 e 52-55.
34
Il. V, 315.
35
Od. X, 53.
36
Od. XIV, 349.
37
Hymn. Pan., 42.
38
Hes., Op., 197-200.
39
D. Cairns, The meaning of the veil, cit., pp. 75-76.
40
Il. XXIV, 89-96.
41
Od. I, 332-336; XVI, 414-417; XVIII, 208-211; XXI, 63-66.
42
Hymn. Dem., 192-201.
43
Su questa parte del quinto canto dell’Odissea, cfr. D.R. Kardulias, Odysseus in
Ino’s veil: feminine headdress and the Hero in Odyssey 5, in «Transactions of the American
56 Ù Le verità del velo
49
L. Llewellyn Jones, Aphrodite’s tortoise, cit., passim e in particolare le pp. 189-214.
50
Ivi, pp. 190 e 208, n. 5.
58 Ù Le verità del velo
Introduzione
Giuseppina Paola Viscardi ∙ Verità e rappresentazione Ù 59
Verità e rappresentazione.
Logiche discorsive e pratiche performative
del dis/ velamento nell’antica Grecia
1
Hom., Od. I, 332-335. In riferimento al kredemnon e alla sua attestazione nell’epica
arcaica, si veda in questo volume il contributo di Pietro Giammellaro, Velo si dice in molti
modi. Coprirsi il capo nell’epica greca arcaica.
60 Ù Le verità del velo
«steso» a mo’ di «sudario» (epikaluptō),2 nel caso in cui sia calato (ka-
tapetannumi) davanti al volto fino al mento, collo o spalle. Katapetasma
è vocabolo d’uso alessandrino impiegato a partire dal III secolo a.C.
principalmente nella letteratura giudaico-cristiana di lingua greca in
sostituzione del classico parapetasma, attestato da Erodoto in avanti a
designare «tappeti», «tende» e «arazzi» persiani, o ancora «coperte»,
«rivestimenti» (anche in senso figurato), «sipari» (teatrali).3
Nella tradizione veterotestamentaria dei Settanta4 e, seppur in
misura minore, in quella neotestamentaria dei Vangeli e delle Let-
tere di Paolo,5 così come nell’opera di Filone Giudeo,6 Giuseppe
Flavio7 e negli scritti dei Padri della Chiesa,8 katapetasma, anche usa-
to in associazione con kalumma (lett. «velame, involucro, copertu-
ra», da kaluptō, lat. occulo, celo),9 acquista un preciso valore sacrale
laddove è per lo più utilizzato per designare la Tenda del Tempio
in Gerusalemme e, specificamente, «il velo più interno» (to esōtatō
katapetasma)10 che separava il luogo più sacro, il tabernacolo, dal-
la corte esterna. Nella tradizione ebraica e cristiana il tabernacolo
(lat. tabernaculum, diminutivo di taberna, col significato di «dimora»)
indica il luogo della casa di Dio fra gli uomini: secondo il racconto
biblico (Es 26-27), era originariamente costituito da una recinzione
fatta di teli; all’interno della recinzione c’era una tenda realizzata
in pelle di capra, tasso e montone dipinto di rosso che faceva da
copertura all’intera struttura (Es 25, 1-16). La tenda al suo inter-
no era divisa in due da un telo: questo «secondo velo» (to deuteron
2
G. Stallbaum (a cura di), Eustathii archiepiscopi Thessalonicensis commentarii ad Ho-
meri Odysseam [1825-1826], 2 Voll., Weigel, Leipzig 1970, Vol. 1, p. 64, l. 9 [v. 335]: Ὅτι ἐν
τῷ, ἄντα παρειάων σχομένη ὡς ἐῤῥέθη λιπαρὰ κρήδεμνα, ἐμφαίνεται ὡς οὐ μόνον δεσμός ἐστι
κεφαλῆς τὸ κρήδεμνον, ἀλλὰ καὶ καταπέτασμά τι πλατὺ, εἴπερ καὶ εἰς παρειὰς καθέλκεται καὶ
ἐπικαλύπτει αὐτάς.
3
Hdt. IX, 82; Ar., Ra. 938; Pl., Prt. 316e; Dem. 45, 19; Diod. 11, 56; Men., fr. 406, 4.
4
LXX Es 26, 31 e 33; Es 35, 12; Es 37, 3, 5 e 16; Es 39, 19; Lv 4, 6; Lv 21, 23; Lv 24, 3;
Nm 3, 26; Nm 4, 5; 1Mac 1, 22; 3TM 6, 36a; PRLPMN 2Cr 3, 14.
5
Mt 27, 51; Mc 15, 38; Lc 23, 45; Eb 9, 3.
6
Ph., De gig. 53, 5 e Vit.Mos. II, 81, 1; 87, 1 e 4; 101, 3. Cfr. L. Cohn (a cura di), Philonis
Alexandrini opera quae supersunt, 4 voll., Reimer, Berlin 1962 [1902].
7
J., BJ V, 212, 1. Cfr. B. Niese (a cura di), Flavii Iosephi opera, 6 Voll., Weidmann,
Berlin 1955 [1895].
8
Attestato soprattutto nella formula καταπέτασμα τοῦ ναοῦ. Cfr. Clem.Al., Paed. III,
2, 5, 2; Exc. ex Theod. 1, 7, 2; 2, 38, 2; Orig., Cels. II, 33, 7; Comm. in evang. Joan. X, 40,
284, 2 (καταπέτασμα τῆς αὐλῆς); XIX, 16, 103; Eus., DE VI, 18, 41; VIII, 2, 112 e 116 e 119;
Comm. in Psalm. 23, 729 e 744; Syn., Ep. 67, 183 (καταπέτασμα μυστικόν) ecc.
9
LXX Es 27, 16; Nm 3, 25; Ph., Vit.Mos. II, 87, 1 e 4.
10
LXX Es 26, 37; Es 38, 18; Es 40, 34-38; Lv 16, 2, 12 e 15; Nm 3, 26; Eb 6, 19: τὸ
ἐσώτερον τοῦ καταπετάσματος; Ph., De gig. 53, 5: ἐσωτάτω καταπέτασμα. Precisamente, si
fa riferimento a due katapetasmata (cfr. 1Mac 4, 51), relativamente al “telo” o cortina fi-
nemente ricamata, di porpora viola, rossa e scarlatta, posta all’entrata del Tempio (vedi,
supra nota 9) e al “velo” o tendaggio posto a copertura della parte segreta, più riposta
del Tempio, la skené detta Santo dei Santi (Ἅγια Ἁγίων, cfr. Eb 9, 3). Questo “secondo
velo” è l’unico menzionato in NT (vedi, supra nota 5).
Introduzione
Giuseppina Paola Viscardi ∙ Verità e rappresentazione Ù 61
11
Eb 9, 3: τὸ δεύτερον καταπέτασμα.
12
Eb 6, 19. Cfr. G.E. Rice, Hebrews 6:19: Analysis of Some Assumptions Concerning Kata-
petasma, in «Andrews University Seminary Studies», 25, 1 (1987), pp. 65-71.
13
Cfr. K. Kohler, L. Blau, Shekinah, in I. Singer et al. (a cura di), Jewish Encyclopedia,
The Kopelman Foundation, Philadelphia 2002, URL: <http://www.jewishencyclope-
dia.com>. Attestato per la prima volta nella letteratura rabbinica il termine Shekhinah
è usato, in particolare, in riferimento: 1) alla tenda del convegno costruita nel deserto
durante l’esilio del popolo ebraico narrato nell’Esodo; 2) al Tempio di Gerusalemme
edificato da Salomone nel X secolo a.C.; 3) alle manifestazioni epifaniche del Signore
ai suoi fedeli, cfr. M. McNamara, Targum and Testament Revisited: Aramaic Paraphrases of
the Hebrew Bible, Eerdmans Publishing, Grand Rapids 2010 [2nd ed.], pp. 148-149. La
parola Tabernacolo, mishkan, deriva dalla stessa radice ed è usata nel senso di “dimora”
in Sal 13, 5 e Nm 24, 5.
14
Sviluppatasi probabilmente nella Persia pre-islamica, con cui i Greci ebbero peral-
tro frequenti contatti fin dall’alto arcaismo, e rigorosamente osservata sotto il regime
dei Talebani in Afghanistan diventando perciò spia di fondamentalismo islamico, la
pratica del purdah, diffusa nei paesi a maggioranza musulmana e nelle comunità indù
sud-asiatiche, è ancora oggi vitale nelle comunità rurali e nei quartieri più vecchi delle
città, sebbene sia ormai in fase di progressiva riduzione soprattutto negli stati dell’ex
Raj Britannico (Bangladesh, India, Pakistan) e resti praticata altrove solo in occasioni
di particolare rilievo religioso.
15
Alla pratica del purdah vanno soggette soprattutto le donne sposate, visivamente
accessibili solo al marito e a pochissimi altri membri della famiglia: di qui l’uso im-
62 Ù Le verità del velo
posto specialmente alle donne delle classi sociali più elevate (in conformità con gli
antichi precetti coranici e in analogia anche con l’uso del velo nell’antica Grecia, vedi
infra nel testo) di coprire il volto con un lembo del sarī, l’ampia coltre che avvolge spalle
e corpo rendendo inaccessibile l’identità di chi la indossa. Così, se da un lato l’uso del
purdah rivela l’intenzione primaria di protezione e controllo della sessualità, castità e
onore femminile rispetto al contatto con l’altro o lo straniero, dall’altro manifesta il
grado di prestigio e il rango della casata, il senso di riservatezza, che è anche indice di
distanza (= levatura) sociale, e di decoro e il potere politico esercitato a livello locale
dove il velo stesso, elevato a status symbol, diventa espressione materiale del benessere
familiare.
16
Cfr. L. Llewellyn-Jones, Aphrodite’s Tortoise: The Veiled Woman of Ancient Greece, The
Classical Press of Wales, Swansea 2003. Sull’uso del velo nelle civiltà antiche in generale
esiste un’ampia bibliografia; per l’antica Grecia in particolare, cfr. P. du Bois, Sowing the
Body: Psychoanalysis and Ancient Representations of Women, University of Chicago Press, Chica-
go-London 1988; F. Frontisi-Ducroux, Du masque au visage. Aspects de l’identité en Grèce anci-
enne, Flammarion, Paris 1995; N. Salomon, Making a World of Difference: Gender, Asymmetry,
and the Greek Nude, in A.O. Koloski-Ostrow, C.L. Lyons (a cura di), Naked Truths: Women,
Sexuality, and Gender in Classical Art and Archaeology, Routledge, London-New York 1997, pp.
197-219; E. Fantham (a cura di), Women in the Classical World: Image and Text, Oxford Uni-
versity Press, New York-Oxford 2001; D.L. Cairns, Veiling, Aidos, and a Red-Figure Amphora
by Phintias, in «Journal of Hellenic Studies», 116 (1996), pp. 152-158; Anger and the Veil in
Ancient Greek Culture, in «Greece & Rome», second series 48, 1 (2001), pp. 18-32; The Mean-
ing of the Veil in Ancient Greek Culture, in L. Llewellyn-Jones (a cura di), Women’s Dress in the
Ancient Greek World, Duckworth, London 2002; L. Llewellyn-Jones, M. Harlow (a cura di),
The Clothed Body in the Ancient World, Oxbow Books, Oxford 2005; L.J. Roccos, Ancient Greek
Costume: An Annotated Bibliography, McFarland & Co., Jefferson 2006; L. Cleland, D. Glenys,
L. Llewellyn-Jones, Greek and Roman Dress from A to Z, Routledge, London-New York 2007;
F. Gherchanoc, V. Huet (a cura di), Vêtements antiques. S’habiller, se déshabiller dans les mondes
anciens, Errance, Arles 2012.
Introduzione
Giuseppina Paola Viscardi ∙ Verità e rappresentazione Ù 63
17
Situata nell’Egeo nord-orientale, l’isola di Samotracia occupava una posizione
intermedia su un’immaginaria linea di confine dove nel corso del tempo le civiltà pre-
elleniche, seguite da quella greca, s’incontrarono e incrociarono col mondo orientale.
A Samotracia erano attestate pratiche misteriche (cfr. Hdt. II, 51, che ne designa il
rituale d’ingresso col verbo mueîsthai) consacrate ai Cabiri, noti anche come Grandi
dèi o dèi di Samotracia. Tali pratiche conobbero una relativa diffusione anche a Tebe e
ad Andania, oltre che sulle isole, come Lemno e Imbro, e nella Troade, associando alla
dimensione misterica una prospettiva soteriologica.
18
Ricordato dalla tradizione come il mitico eroe fondatore della Tebe beotica, Cad-
mo è noto anche per i suoi legami con Samotracia, ai cui misteri sarebbe stato iniziato
prima delle nozze (Ephor., FGrHist 70, F120; D.S. V, 48, 2 e 49, 1-4; Schol. E., Ph. 7 e
1129): il legame di Cadmo con Samotracia evidenzia una volta di più sul piano mitico la
64 Ù Le verità del velo
Tieni, distendi sotto il petto (ὑπὸ στέρνοιο τανύσσαι) questo velo immor-
tale (κρήδεμνον ἄμβροτον): non avrai più timore di soffrire o morire (οὐδέ
τί τοι παθέειν δέος οὐδ’ ἀπολέσθαι). Appena avrai toccato con le mani la
terra, scioglilo e scaglialo di nuovo nel livido mare, lontano dalla riva, ma
tu voltati indietro […]. Allora [Odisseo] il velo rapidamente intorno al
petto si stese e prono saltò in mare, allargando le braccia a nuotare. […]
e quando tornò a respirare e si fu raccolta l’anima in petto, allora il velo
della dea sciolse gettandolo nel fiume là dove si mescola al mare.
[τὰς τελετὰς] … [riti mistici] che, una volta che uno è stato iniziato, pro-
teggono dai pericoli sul mare (cfr. A.R. I, 918). Si dice infatti che anche
Odisseo, essendo stato iniziato (Ὀδυσσέα μεμυημένον) a Samotracia, si
servisse del velo a mo’ di fascia toracica (χρήσασθαι τῷ κρηδέμνῳ ἀντὶ
ταινίας, cfr. Od. V, 346); gli iniziati ai misteri usavano infatti avvolgersi
una benda color porpora intorno al torace e all’addome (περὶ γὰρ τὴν
κοιλίαν οἱ μεμυημένοι ταινίας ἅπτουσι πορφυρᾶς); e si dice, ancora, che
Agamennone, che pure era stato iniziato (Ἀγαμέμνονα δέ μεμυημένον),
trovandosi in mezzo a una gran confusione sotto le mura di Troia,
riuscì a domare il tumulto dei Greci brandendo la benda porporina
(πορφυρίδα ἔχοντα, cfr. Il. VIII, 221).
20
Cfr. E. Fabbro, Lo sguardo e il silenzio. Il velo nei rituali e nel mito greco, in «Multiver-
so», 5 (2007), pp. 38-41, in particolare p. 38.
66 Ù Le verità del velo
21
Sul tema si veda in questo volume il contributo di Francesca Romana Nocchi,
Obnubilatio capitis: simbologia sacra e profana del velo nell’antica Roma.
22
Cfr. S. Baschirotto, Il velo, i misteri e i riti, in «Multiverso», 5 (2007), pp. 34-36, in
particolare p. 36. Sull’uso del velo nell’antica Roma, vedi anche J.L. Sebesta, L. Bon-
fante (a cura di), The World of Roman Costume, University of Wisconsin Press, Madison
1994; L. La Follette, The Costume of the Roman Bride, in J.L. Sebesta, L. Bonfante (a cura
di), The World of Roman Costume, cit., pp. 54-64; J.L. Sebesta, Women’s Costume and Femi-
nine Civic Morality in Augustan Rome, in «Gender and History», 9, 3 (1997), pp. 529-541.
23
Cfr. E. Fabbro, Lo sguardo e il silenzio, cit., p. 40: «In un noto passo delle Rane aristofa-
nee (vv. 911s.) viene stigmatizzata da Euripide la consuetudine eschilea di introdurre sulla
scena, a inizio di tragedia, figure velate e sedute, tutte ravvolte nei loro panni, che, senza
scoprire il volto, osservano lunghi silenzi. Sono personaggi che si negano alla comunica-
zione verbale, perché avviluppati in un dolore tanto profondo da non sopportare parole:
Achille per la morte di Patroclo, Niobe per l’assassinio dei figli. Per il codice drammatico
velarsi significa dunque chiudersi […]. La volontaria ritrazione dal dialogo (vv. 1071s.)
segna anche l’uscita di scena di Giocasta nel finale dell’Edipo re: ella ha compreso prima
di Edipo la verità, non ha più parole e si allontana per darsi la morte. In un cratere di
Siracusa esiste una precisa corrispondenza figurativa: nel momento di ritirarsi dalla scena
—e dalla vita— Giocasta è raffigurata nell’atto di coprirsi il volto con un lembo del peplo,
gesto che forse costituiva un effettivo dettaglio della rappresentazione scenica».
Introduzione
Giuseppina Paola Viscardi ∙ Verità e rappresentazione Ù 67
Fig. 1. Scena del sacrificio di Ifigenia dall’Altare di Cleomene (II sec. a.C.). Dettaglio
a disegno. LIMC 5 (1) 720, n. 42; LIMC 5 (2) 474, n. 42. Cfr. A. Rumpf, Malerei und
Zeichnung, Beck, München 1953.
68 Ù Le verità del velo
24
L’uso del velo ha origini antiche, documentate dal canone del Codice di Hammu-
rabi come anche da quello della Legge Assira, di poco posteriore (VII secolo a.C.), che
sanciva per le donne sposate l’obbligo di portare il velo e che, di contro, ne interdiceva
l’uso a schiave e prostitute.
25
Si pensi alla prescrizione coranica che imponeva il velo alle donne (mogli e figlie)
del profeta, oltre che a quelle dei suoi seguaci: «Oh tu, proprio tu, nabī, raccomanda alle
tue donne, alle tue figlie, alle donne dei credenti di calare un poco su di loro i loro veli:
questo servirà a distinguerle dalle altre, perché non vengano offese» (Sura 33, 59, trad.
di F. Peirone). L’uso islamico prescritto dal Corano nasceva dalla necessità di difendere
le donne musulmane dalle molestie cui andavano facilmente soggette, soprattutto nel
periodo medinese. Una traccia della deriva semantica e culturale del velo verso l’acce-
zione e, di conseguenza, la connotazione (negativa) di possesso/ sottomissione, nonché
subordinazione, si ritrova nel passo biblico di Paolo 1Cor 11, da contestualizzare all’in-
terno di un discorso in cui è fortemente rimarcato l’aspetto pragmatico delle norme
vestimentarie, improntate a principi di buon comportamento rivolti agli uomini come
alle donne: «[7] L’uomo non deve coprirsi il capo, perché egli è immagine e gloria di
Dio; la donna invece è gloria dell’uomo … [10] Per questo la donna deve avere sul capo
un segno di autorità [exousia]…», dove il termine exousia, sovente tradotto con «segno
di soggezione», suggerirebbe più che l’idea di una autorità subìta, quella di una autorità
esercitata su qualche cosa, nella fattispecie sulla propria testa, in riferimento all’obbligo
di tenere la testa acconciata in modo conveniente per non apparire una donna di facili
costumi. In Es 21, 22-24 e Dt 25, 11-12 la violazione fisica delle donne era strettamente
associata alla volontà di infrazione dei diritti di proprietà maschili. Per una storia inter-
culturale che prenda le mosse da uno studio comparato sulla segregazione della donna
dallo sguardo maschile mediante velamento, resta comunque di fondamentale impor-
tanza il testo coranico, spesso tradotto e interpretato in modo arbitrario. Sull’adozione
del velo da parte delle donne delle prime comunità cristiane di Corinto e Cartagine,
oltre al testo di Paolo si vedano anche le opere di Tertulliano (De virginibus velandis) e
Cipriano (De habitu virginum). Si rimanda inoltre, in questo volume, al contributo di
Caterina Moro, Il velo nel mondo biblico e nel giudaismo.
Introduzione
Giuseppina Paola Viscardi ∙ Verità e rappresentazione Ù 69
26
Cfr. V. Turner, The Ritual Process: Structure and Anti-Structure. A Demonstration of
the Use of Ritual and Symbol as a Key to Understanding Social Structure and Processes, Cornell
University Press, Ithaca: NY 1969, p. 95.
27
Si osservi, per inciso, che la stessa metafora militare ricorre anche in un passo
del De virginibus velandis (7, 9) di Tertulliano (cit., supra nota 25), in cui si loda l’usanza
di alcune vergini di Cartagine di raccogliere le chiome sul capo in modo da coprire
interamente la testa, pensata come una “cittadella” fortificata da proteggere per mezzo
di un “accerchiamento” di capelli: in questo caso, i capelli femminili, specialmente se
Introduzione
Giuseppina Paola Viscardi ∙ Verità e rappresentazione Ù 71
ammassati insieme sul capo, funzionano esattamente come i veli proteggendo la testa
da attacchi stranieri, cioè da sguardi indiscreti. Per il parallelismo tra i capelli femmi-
nili e il velo, cfr. Virg. vel. 7, 1, dove l’autore ribadisce che è altrettanto disonorevole per
una donna, sia essa maritata o meno, tagliare i propri capelli e sollevare i propri veli.
Sull’opera di Tertulliano vedi, in questo volume, il contributo di Cristina Simonelli,
Tertulliano e l’obbligo del velo.
28
A. Schnapp, Città e campagna. L’immagine della polis da Omero all’età classica, in S.
Settis (a cura di), I Greci. Storia Cultura Arte Società 1. Noi e i Greci, Einaudi, Torino 1996,
pp. 117-163, in part. p. 152. Nella scena del corteo nuziale in marcia (riprodotta nel
testo), alla destra del campo visivo è riprodotta la casa, da cui muove la processione; al
centro è la sposa, integralmente velata.
72 Ù Le verità del velo
29
“Velare il calice” (unitamente alla benedizione dell’incenso) è pratica diffusa nel-
la liturgia cristiana, dove la presenza di tende e veli è riconducibile al culto giudaico,
cfr. Pr 25, 2: «È Gloria di Dio nascondere le cose, è gloria dei re investigarle»: si tratta
della Parvenza di Dio, che accompagna e in cui si cela la Shekhinah intesa come luce e
tenebra insieme, detto dell’oscurità legata alla Sua luce, di cui Egli «si avvolge come un
manto», secondo il commento a Pr 25, 2 del Massekhet Azilut (trattato pseudo epigrafico
dell’inizio del XIV secolo). Di qui, il rimando all’immagine della «nube», intesa come
nascondimento e rivelazione divina insieme (cfr. Es 20, 21: «Il popolo si tenne dunque
lontano mentre Mosè avanzò verso la nube oscura dove era Dio»; Es 40, 34: «allora la
nube coprì la tenda del convegno e la Gloria del Signore riempì la dimora»; Gb 37, 21-
23: «All’improvviso la luce diventa invisibile, oscurata dalle nubi»). Per la traduzione
dei passi biblici citati, cfr. La Bibbia di Gerusalemme, ed. Dehoniane, Bologna 20114). In
tali pratiche rituali il velo rappresenta visibilmente l’esigenza di non toccare con mani
impure le cose sacre, facendosi perciò simbolo dell’esigenza di purezza spirituale impre-
scindibile per avvicinarsi a Dio. Tra i simboli liturgici, il velo è uno dei più importanti. In
linea di principio, i vasi sacri, quando non vengono usati, sono sempre velati per alludere
alla ricchezza che vi si nasconde.
30
Per un interessante parallelismo con la letteratura cristiana dei primi secoli si
rimanda ancora al testo di Tertulliano, dove il velo è segno pubblico, tangibile, di quel
velo privato, fisiologico, che sta tra il corpo femminile e il desiderio maschile (l’imene):
costringere una vergine a “rimuovere il velo” equivale a obbligarla a perdere la propria
verginità.
31
Per una sintesi efficace delle problematiche di diverso ordine relative alla celebra-
zione degli anakalupteria, come l’impossibilità di ricostruire con certezza le varie fasi
del rituale e le fasi di velamento e svelamento della numphe, il momento e il luogo di
svolgimento dell’anakalupterion ecc., cfr. F. Gherchanoc, Le(s) voile(s) de mariage dans le
Introduzione
Giuseppina Paola Viscardi ∙ Verità e rappresentazione Ù 73
5. Festa e dono rituale: simbologia delle nozze e del dis/ velamento femmi-
nile
monde grec: se voiler, se dévoiler. La question particulaire des anakaluptêria, in «Mètis», N.S. 4
(2006), pp. 239-267.
32
Timae.Hist., FGrH 3b, 566, F149; Poll. 3, 36; Hsch. s.v. ἀνακᾰλυπτήρια (sulle cerimo-
nie dello svelamento); Plut., Tim. 8 (sui doni nuziali): in riferimento alla Sicilia —dove
secondo il mito sarebbero avvenuti i fatti relativi al rapimento di Core— offerta in dono,
nel giorno delle nozze, da parte di Ade alla giovane sposa Persefone e perciò a lei consa-
crata, cfr. Pi., Nem. 1, 14; D.S. V, 3; Schol. Theoc., Id. 15, 14. Sull’isola mediterranea pare
si svolgessero anche anakalypteria in onore di Persefone (Schol. Pi., Ol. 2, 16); una festa
analoga era attestata anche a Cizico (App., Mithr. 57).
33
Cfr. J.-P. Vernant, Mythe et société en Grèce ancienne, Maspero, Paris 1974, trad. it.
Einaudi, Torino 1981, pp. 57ss.; J.H. Oakley, R. H. Sinos, The Wedding in Ancient Athens,
University of Wisconsin Press, Madison 1993, pp. 23ss.; L. Breglia Pulci Doria, Ferecide di
Siro tra orfici e pitagorici, in M. Tortorelli Ghidini, A. Storchi Marino, A. Visconti (a cura
di), Tra Orfeo e Pitagora. Origini e incontri di culture nell’antichità: atti dei seminari napoletani
1996-1998, Bibliopolis, Napoli 2000, pp. 161-194, in part. p. 186. Sugli hedna, tipicamen-
te intesi come «doni nuziali», vedi Hom., Il. XVI, 178 e 190; XXII, 472; Od. VIII, 318;
XVI, 391; etc. Cfr. anche Call., fr. 193; Theoc., Id. 25, 114 e 27, 33; Nonn., D. 42, 28 et al.
In riferimento ai doni nuziali fatti alla sposa dai membri del suo parentado, cfr. Hom.,
Od. I, 277; II, 196; E., Andr. 2; Pi., Ol. 9, 10. In Pi. Pyth. 3, 94; Orph., A. 873; Dio Cass. 79,
12, lo stesso termine è usato per indicare genericamente i doni fatti dagli ospiti a una
coppia sposata.
34
B. Wagner-Hasel, Tria himatia. Vêtements et mariage en Grèce ancienne, in F. Gher-
chanoc, V. Huet (a cura di), Vêtements antiques, cit., pp. 39-46, in part. p. 46.
74 Ù Le verità del velo
rebbe stato «il primo a scrivere sulla natura e l’origine degli dèi».35
In Ferecide è l’accenno in particolare alle nozze sacre di Zas/ Zeus e
Chthonie, «alla quale toccò il nome di Gè dopo che Zas le ebbe dato
in dono (geras) la Terra».36 Nella cosmogonia ferecidea Zas, ossia
l’etere o ciò che agisce, «è da sempre» insieme a Chthonie, la terra
o ciò che patisce, e a Chronos, il tempo, in cui sono regolate tutte
le parti. Per Zas «si fabbricano case grandi e numerose e una volta
portate a termine, insieme agli arredi […] e alle altre cose necessa-
rie, ecco, quando tutto è pronto, si celebrano le nozze»; così, «una
volta giunto il terzo giorno delle nozze, allora Zas fabbricò un manto
grande e bello (τρίτη ἡμέρη γίγνεται τῶι γάμωι, τότε Ζὰς ποιεῖ φᾶρος
μέγα τε καὶ καλὸν) e vi ricamò sopra con fili colorati la Terra e l’Oce-
ano/ Ogenos»; poi, rivolto a Chthonie, avrebbe esclamato: «volendo
invero che le nozze siano tue, con questo [dono] io ti onoro. Salute
a te. Unisciti a me. Ecco come avvennero —dicono— i primi riti del
disvelamento (ταῦτά φασιν ἀνακαλυπτήρια πρῶτον γενέσθαι): da ciò
ebbe poi origine la consuetudine sia per gli dèi che per gli uomini
(ἐκ τούτου δὲ ὁ νόμος ἐγένετο καὶ θεοῖσι καὶ ἀνθρώποισιν)».37
Nel testo di Ferecide si insiste sul regalo di nozze offerto da Zeus a
Chthonie e sulla sua valenza cosmogonica: sul «manto» o «velo» fab-
bricato e intessuto dal dio è figurato il mondo appena creato con la
terra e l’oceano che la circonda. Offerto da Zeus —qui rappresentato
nel suo aspetto demiurgico— il manto/ velo di Chthonie non è più
soltanto un dono nuziale, ma costituisce un vero e proprio «atto d’in-
vestitura», un mezzo mediante il quale è sancita la trasformazione di
Chthonie in Gè e con essa il riconoscimento alla dea di una sua sfera
d’influenza ufficiale, con tanto di onori tributateli dallo stesso con-
sorte chiamato a promuoverla al rango di protettrice del matrimonio
(alla stregua di Hera). Nell’evidenza tautegorica del racconto mitico,
35
Theopomp.Hist., FGrH 115, F71 apud D.L. I, 116. Aristotele (Metaph. 1091b, 7-11)
poneva il mitografo di Siro nel novero dei teologi o filosofi «astratti» (che dicono le
cose in modo misto), paragonandolo ai Magoi persiani e a filosofi più tardi come Em-
pedocle e Anassagora. Secondo i dati biografici, Ferecide (contestualmente collegato
tanto a Orfeo che a Pitagora) avrebbe avuto contatti con Egiziani, Fenici, Caldei: la sua
produzione mitica andrebbe perciò ricondotta nell’ambito del pensiero orientale, cfr.
L. Breglia Pulci Doria, Ferecide di Siro, cit., p. 166 e passim.
36
Pherecyd.Syr. B1 D-K (= 14 Schibli). Nella cosmogonia ferecidea il racconto delle
nozze tra Zas e Chthonie —in cui viene affrontato il problema della differenziazione
delle varie parti della terra, futura abitazione degli uomini— non è posto all’inizio, ma
solo a un certo punto della storia della «creazione» di Chronos (originariamente ases-
suata), cfr. L. Breglia Pulci Doria, Ferecide di Siro, cit., p. 184.
37
Pherecyd.Syr. B2 D-K (= 68 Schibli). In tutti i testi risalenti a Ferecide il mantello
fabbricato da Zas è detto pharos, e non peplo, a indicare appunto l’ampio telo «che può
essere usato anche come lenzuolo funebre e che sembra aver avuto una grande impor-
tanza nelle cerimonie iniziatiche, se è vero che a Sparta un pharos era l’offerta delle
fanciulle ad Artemis Orthia (Alcm. fr. 1. 67 Calame); […] conviene accettare il valore
di grande mantello e di offerta che si fa ad un momento di passaggio della propria vita
(ed in questo senso si comprende perché il pharos possa indicare anche il lenzuolo fu-
nebre)» (L. Breglia Pulci Doria, Ferecide di Siro, cit., pp. 185-186).
Introduzione
Giuseppina Paola Viscardi ∙ Verità e rappresentazione Ù 75
38
Cfr. F. Gherchanoc, Le(s) voile(s) de mariage dans le monde grec, cit., p. 263.
39
Cfr. G. Arrigoni, Amore sotto il manto e iniziazione nuziale, in «Quaderni Urbinati di
Cultura Classica», 15 (1983), pp. 7-56; H.-G. Buchholz, in Das Symbols des gemeinsamen
Mantel, «Jahrbuch des Deutschen Archäologischen Instituts», 102 (1987), pp. 1-55; J.
Scheid, J. Svenbro (a cura di), Le métier de Zeus. Mythe du tissage et du tissu dans le monde
gréco-romain, Editions Errance, Paris 2003 (1994), pp. 51-54.
40
Cfr. M. Mauss, Essai sur le don. Forme et raison de l’échange dans les sociétés primitives
[1923-1924], in Sociologie et anthropologie, PUF, Paris 1950, trad. it. Einaudi, Torino 1965,
pp. 153-292; L. Gernet, Anthropologie de la Grèce antique, avec Préface de J.-P. Vernant,
Maspéro, Paris 1968.
41
Cfr. Hymn.Hom.Cer., 214: Χαῖρε γύναι … ἐπί τοι πρέπει ὄμμασιν αἰδὼς καὶ χάρις ὡς εἴ
πέρ τε θεμιστοπόλων βασιλήων, per il quale si riprende la traduzione riportata in F. Càs-
sola (a cura di), Inni Omerici, Mondadori, Milano 2006 [1975], p. 55 («Salute a te, donna
[…] illuminano il tuo sguardo dignità e maestà, come quello dei re amministratori di
76 Ù Le verità del velo
giustizia»), dove l’autore sceglie di rendere aidos con «dignità» e charis con «maestà»,
compatibilmente con l’interpretazione complessiva del passo.
42
Cfr. J. Kott, The Eating of the Gods. An Interpretation of Greek Tragedy, Random House,
New York 1970, trad. it. Bruno Mondadori, Milano 2005, p. 127.
43
Cfr. R. Barthes, Histoire et sociologie du vêtement, «Annales: économies, sociétés, civi-
lisations», 3 (1957), pp. 430-441; vedi anche, in chiave comparativa e multiculturale, W.
Parkins (a cura di), Fashioning the Body Politic: Dress, Gender, Citizenship, Bloomsbury, New
York 2002. Vale la pena ricordare ancora il trattato tertullianeo De virginibus velandis (cui
si è accennato) dove, con chiaro intento prescrittivo e normativo, stigmatizzando l’abbi-
gliamento delle donne pagane s’invitavano le donne cristiane a distinguersi dalle prime
attraverso l’adozione di un codice vestimentario ispirato a principi di moralità e castità
in cui l’uso del velo —consigliato indiscriminatamente a tutte, giovani e adulte, sposate
e non sposate, in accordo coi costumi delle altre chiese cristiane d’Oriente, benché non
Introduzione
Giuseppina Paola Viscardi ∙ Verità e rappresentazione Ù 77
in linea con quelli di Cartagine (dove tenere il capo coperto in chiesa era d’obbligo solo
per le donne sposate)— assumeva particolare rilevanza come marcatore identitario. Il
testo di Tertulliano si pone come un tentativo di modellare l’identità delle nuove comu-
nità cristiane irreggimentando l’invisibilità del corpo femminile allo scopo di proteg-
gere non tanto la donna dallo sguardo dell’uomo, ma piuttosto l’uomo dal desiderio
sessuale che il corpo femminile suscita alla vista. Lo stesso modello di visibilità e invisi-
bilità intorno alla presenza del corpo nella società ammetteva anche per gli uomini l’uso
di velare la testa in circostanze particolari, come durante la celebrazione dei sacrifici.
44
Cfr. S. Jacobs, The Body As Property. Physical Disfigurements in Biblical Law, Blooms-
bury, New York 2013: «The Body As Property indicates that physical disfigurement func-
tioned in biblical law to verify legal property acquisition, when changes in the status of
dependents were formalized. […] Legitimate property acquisition was as important in
biblical law, where physical disfigurements marked dependents, in a similar way that
the veil or the head covering identified a wife or concubine in ancient Assyrian and
Judean societies. […] It is further argued that legal entitlement was relevant also to
the punitive disfigurements recorded in Exodus 21:22-24, and Deuteronomy 25:11-12,
where the physical violation of women was of concern solely as an infringement of male
property rights».
45
Si tenga presente lo sviluppo etimologico del verbo greco enduō, col significato di
«indossare», che dal senso originario di «entrare, immergersi in» si evolve nel senso di
«rivestire, indossare», cfr. F. Rigotti, Il filo del pensiero. Tessere, scrivere, pensare, il Mulino,
Bologna 2002, pp. 24 e 42.
78 Ù Le verità del velo
46
In generale, per un’ampia panoramica di studi e prospettive sul linguaggio non
verbale attivato dall’abbigliamento, cfr. N. Lindisfarne-Tapper, B. Ingham (a cura di),
Languages of Dress in the Middle East, Curzon, Richmond: Surrey 1997. Nello specifico,
sul tema del «linguaggio vestimentario» nell’antichità greco-romana, vd. la più recente
collettanea curata da F. Gherchanoc, V. Huet (a cura di), Vêtements antiques, cit.
47
F. Remotti, Interventi estetici sul corpo, in F. Affergan et al., Figures de l’humain. Les re-
présentations de l’anthropologie, Éditions de l’EHESS, Paris 2003), trad. it. Meltemi, Roma
2005, pp. 335-369, in part. p. 336: «Ammettere la dimensione estetica di qualsiasi tipo
di intervento antropopoietico significa riconoscere l’onnipresenza del corpo e l’impos-
sibilità di eludere le sue esigenze estetiche». Sulle simboliche sottese alle dinamiche
antropopoietiche connesse al corpo e all’abito, cfr. A. Saggioro, Simbologia del vestire,
Nuova Cultura, Roma 2007.
48
In merito al discorso sul linguaggio del corpo dal punto di vista storico-religioso
e, più specificamente, sulle interconnessioni tra corpo, abbigliamento e religione, tra gli
studi più recenti va segnalato il progetto di ricerca «Religiöse Kleidung und vestimentäre
Religion. Wechselwirkungen aus religionswissenschaftlicher Sicht» condotto dall’Uni-
versità di Zurigo per iniziativa della Dr. Anna-Katharina Höpflinger e sotto la supervisio-
ne della studiosa svizzera Daria Pezzoli Olgiati. Focalizzando l’attenzione sulla rilevanza
e il significato del corpo come medium nei sistemi di comunicazione socio-culturale
—con particolare riferimento alla religione intesa appunto come sistema di comunica-
zione— tale progetto si concentra sulla funzione che tali sistemi riconoscono al corpo,
assunto come medium basilare dell’interazione umana, dal punto di vista mediatico e
della teoria della comunicazione. I temi della ricerca coprono un ampio spettro d’inda-
gine, spaziando dalla mitologia antica ai più moderni rituali Parsi, fino alle frontiere tra
corpo e tecnologia. Cfr. M. Glavac, A.-K. Höpflinger, D. Pezzoli Olgiati (Hrsg.), Second
Skin. Körper, Kleidung, Religion (Research in Contemporary Religion 14), Vandenhoeck
& Ruprecht, Göttingen 2013 e A.-K. Höpflinger, S. Knauss, A. D. Ornella (a cura di),
Commun(icat)ing the Body. The Body As Medium in Religious Communication Systems, Vanden-
hoeck & Ruprecht, Göttingen 2014.
Introduzione
Giuseppina Paola Viscardi ∙ Verità e rappresentazione Ù 79
49
Cfr. P. Bourdieu, Remarques provisoires sur la perception sociale du corps, in «Actes
de la recherche en sciences sociales», 14 (1977), pp. 51-54; Sur le pouvoir symbolique, in
«Annales. Économies, Sociétés, Civilisations», 32, 3 (1977), pp. 405-411; Les rites comme
actes d’institution, in «Actes de la recherche en sciences sociales», 43 (1982), pp. 58-63.
50
R. Barthes, Système de la Mode, Seuil, Paris 1967, trad. it. Einaudi, Torino 1970, p. 138.
51
Gv 19. 23-24.
52
Cfr. R. Calimani, Gesù ebreo, Mondadori, Milano 1998, p. 409.
53
Gv 20. 6-7. Dall’accostamento ideale tra tunica e sudario deriverebbe appunto
l’importanza escatologica dell’abito che collega il passato al futuro, la vita alla morte,
cfr. G.P. Jacobelli, Senza cuciture, in S. Botta (a cura di), Abiti, corpi, identità. Significati e
valenze profonde del vestire, SEF, Firenze 2009, pp. 27-43, p. 34.
80 Ù Le verità del velo
54
Per i mistici occidentali “prendere il velo” implica un atto di separazione dal
mondo che determina anche una separazione del mondo dalla dimensione di intimità
attraverso cui si realizza il progetto di una vita con e in Dio: avvolgersi nel mantello
significa perciò aver scelto la saggezza, intesa come forma di conoscenza derivata dalla
rivelazione, assumendo con essa una dignità, una funzione, spirituale.
55
Sulle cosiddette «culture di invisibilità» esiste un’articolata serie di studi secondo
cui le culture visuali o visive possono e devono essere analizzate anche dal punto di
vista di ciò che esse celano, occultano e scelgono di non rappresentare, conferendo
così una «assenza iconica» a ciò che è presente. Negli ultimi cinquanta anni tali studi si
sono concentrati soprattutto sul velo, inteso non solo come indumento, ma anche come
«categoria semiotica» complessa, dalla cui analisi emergerebbero interessanti caratte-
ristiche relative al modo in cui diverse culture visuali concepiscono l’idea e la pratica
di invisibilità. Cfr. R.F. Murphey, Social Distance and the Veil, in «American Anthropol-
ogist», 66, 6 (1964), pp. 1257-1274; U.M. Sharma, Women and Their Affines: the Veil as a
Symbol of Separation, in «Man», 13, 2 (1978), pp. 218-33; M. Myerowitz Levine, The Gen-
dered Grammar of the Ancient Mediterranean Hair, in H. Eilberg-Schwartz, W. Doniger (a
cura di), Off with Her Head. The Denial of Women’s Identity in Myth, Religion, and Culture,
University of California Press, Berkeley and Los Angeles 1995, pp. 76-130; M. Leone,
Cultures of Invisibility: the Semiotics of the Veil in Ancient Rome, in «Proceedings of Semio
Istanbul 2007», 2 (2007), pp. 1069-1079; Cultures of Invisibility: the Semiotics of the Veil in
Ancient Judaism, in D. Cmeciu, T.D. Stănciulescu (a cura di), Transmodernity – Managing
Global Communication, «Proceeding of the 2nd Congress of the Romanian Association
for Semiotics» (Bacău, October 2008), Alma Mater Publishing House, Bacău 2009, pp.
Introduzione
Giuseppina Paola Viscardi ∙ Verità e rappresentazione Ù 81
189-201; Remarks for a Semiotics of the Veil, in «Chinese Semiotic Studies», 4, 2 (2010), pp.
258-278; Pudibondi e spudorati. Riflessioni semiotiche sul linguaggio del corpo (s)vestito, in
«Rivista Italiana di Filosofia del Linguaggio», 2 (2010), pp. 74-94.
56
G. Colli (a cura di), La sapienza greca II, Mondadori, Milano 2006 [1978], p. 22.
Cfr. anche J. Kott, The Eating of the Gods, cit., p. 128, a proposito del matrimonio finale
celebrato nell’Alcesti euripidea tra Admeto e la donna velata, la «straniera» che si rive-
lerà essere la sposa defunta del re tessalo, riportata tra i vivi dall’Ade per l’intervento
di Eracle: «Il velo che viene sollevato è un’allegoria della verità. “Il tempo che svela la
verità” era, seguendo l’antico modello, un tema frequente della scultura e della pittura
nel rinascimento e nel barocco, oltre che un adagio retorico: “smascherare la falsità e
portare la verità alla luce”, scrive Shakespeare (Il ratto di Lucrezia, 940). Anche in Alcesti
il velo che si solleva è il momento della verità».
57
A. Grossato, Il ‘velo di Maya’, un’invenzione dell’Occidente, in «Multiverso», 5, 2007,
pp. 45-46. Der Schleier der Maya è invenzione del filosofo tedesco Arthur Schopenhauer,
coniata per la prima volta ne Il mondo come volontà e rappresentazione (Die Welt als Wille
und Vorstellung, Dresda 1819): «Diversamente da quel che molti ancor oggi credono,
la fin troppo nota espressione “velo di Maya” non traduce alcuna frase sanscrita o
di altra lingua dell’India, semplicemente perché non è stata mai così formulata in
nessun testo indù o buddista. Tanto meno esprime correttamente il concetto, l’idea
di Māyā così come essa è stata originariamente concepita dalle menti indiane. […]
questo simbolo appartiene peculiarmente a quel gruppo di religioni che non a caso
si autodefiniscono come ri-velate; come se venissero nascoste una seconda volta, dove
se il secondo velo corrisponde all’oscurità della rivelazione spirituale in quanto tale,
e cioè ineffabilmente incomprensibile, il primo è certamente quello corrispondente
alla natura ingannevole del mondo […] la parola sanscrita māyā esprime ad un tem-
po le idee di produzione, arte, magia, illusione. Dunque di qualcosa o di un insieme
che viene prodotto naturalmente, o mediante procedimento artistico o magico, e che
comunque mantiene sempre in sé una natura essenzialmente illusoria. Illusoria, ma,
si badi bene, non per questo irreale. […] in fondo Māyā è pur sempre anche il nome
della madre naturale del Buddha, dell’Illuminato» (ibidem). Si ricordi, per inciso, che
nel mito greco Maia è la ninfa Pleiade madre di Hermes (Hymn.Hom.Merc. 3), il dio
hermeneus, mediatore nei transiti e nella comunicazione.
82 Ù Le verità del velo
58
A., Ag. 1178-1179.
59
A., Eu. 19.
60
Cfr. Hdt. VI, 66; VII, 111 e 141 (a proposito della Pizia Perìallò).
Introduzione
Giuseppina Paola Viscardi ∙ Verità e rappresentazione Ù 83
61
Cfr. R. Buxton, Persuasion in Greek Tragedy. A Study of Peitho, Cambridge University
Press, Cambridge 1982, passim.
62
Cfr. G. Scalera McClintock, Dalle personificazioni di Esiodo alla Thea di Parmenide.
Considerazioni del rapporto tra femminile ed astratto, in «Annali dell’Istituto Orientale di
Napoli (filol.)», 28 (2006), pp. 25-48, in part. p. 41, n. 72.
63
Parm., Fr. 1 D-K = S.E., Math. VIII, 111 (vv. 1-30); Simp., In Cael. 557, 20 (vv. 28-32),
spec. vv. 4-13.
84 Ù Le verità del velo
64
Per il riferimento metaforico alla «testa» come «compimento, fine, conclusione»
di qualcosa (di un argomento, di una discussione) oltre la quale non è possibile andare,
vedi Pl., Grg. 505d: «affinché il discorso abbia una testa» (ἵνα ἡμῖν ὁ λόγος κεφαλὴν λάβῃ)
e Ti. 69b, 1 (καὶ τελευτὴν ἤδη κεφαλήν τε τῷ μύθῳ πειρώμεθα). Cfr. J.-P. Vernant, La mort
dans les yeux, Hachette, Paris 1985, trad. it. Il Mulino, Bologna 1987, p. 69.
65
Si pensi anche al significato del termine Κήρ (etimologicamente connesso con
κάρα) come personificazione divina della morte, con le relative implicazioni ideologico-
culturali. Cfr. G. Scalera McClintock, Il pensiero dell’invisibile nella Grecia arcaica, Tempi
Moderni, Napoli 1989, p. 22.
66
Cfr. TLG, s.v. κρήδεμνον.
67
S. Borutti, Per un’ontologia dell’incompiutezza (Kant, Heidegger, Wittgenstein, Freud),
in F. Affergan et al., Figures de l’humain, cit., p. 396. Se all’idea di morte intesa come
principio ultimo e ultimativo si associa la dimensione di eternità che la morte stessa
dischiude, allora assume un valore pregnante l’associazione stabilita, sul piano lessi-
cale, nella lingua ebraica tra il termine ‘olam, ripetutamente attestato nella Tōrāh per
indicare il principio di «eternità» (nel senso di «tempo lungo, eterno, etc.») e il verbo
‘alam, col significato di «occultare, nascondere, etc.», derivati dalle stesse radicali. In
Introduzione
Giuseppina Paola Viscardi ∙ Verità e rappresentazione Ù 85
particolare, il termine `âlâm è utilizzato nella Bibbia per indicare il silenzio degli uo-
mini, anche se i rabbini lo utilizzeranno per indicare il silenzio di Dio, che nel testo
biblico appare piuttosto evocato dall’espressione haster panîm. Vale la pena osservare
che alla radice di `âlâm è altresì connesso il termine ‘illem, col significato di «muto»:
la chiave di lettura ce la fornisce l’espressione haster panîm, che significa letteralmente
«nascondere il volto» (con un travestimento o una maschera). Cfr. E. Lévinas, Dieu, la
Mort et le Temps, éd. Jacques Rolland, Grasset, Paris 1993, trad. it. Jaca Book, Milano
1996, p. 58. Si noti per inciso come la stessa corrispondenza, stabilita nel testo biblico
a livello lessicale, tra l’atto di occultamento e la dimensione del silenzio si riscontra, a
livello cerimoniale, nei culti misterici a carattere iniziatico (cui si è accennato all’inizio
di questo saggio) diffusi nel mondo greco dall’epoca arcaica all’età ellenistico-romana,
tipicamente fondati sul segreto rituale che è tratto caratterizzante della procedura
tanto a Eleusi che a Samotracia.
68
Sul significato di tekmar, letteralmente indicante la «linea di demarcazione» (di
territorio o regione), inteso come segnalatore della via d’accesso a qualcosa di inac-
cessibile, cfr. M. Detienne, J.-P. Vernant, Les ruses de l’intelligence. La Métis des Grecs,
Flammarion, Paris 1974, trad. it. Laterza, Roma-Bari 1977, pp. 108-110 (dove poros è
metaforicamente inteso in termini di «soluzione abile» in una situazione apparente-
mente priva di via d’uscita).
69
Cfr. E. Fabbro, Lo sguardo e il silenzio, cit., p. 41.
70
A tale proposito va ricordato, per inciso, che nonostante la fortuna letteraria ri-
scossa dal tema della sposa velata —oggetto di una robusta e tenace tradizione di inter-
preti (cfr. J. Kott, The Eating of the Gods, cit., p. 100-133)— nel testo di Euripide non è mai
fatta esplicita menzione al velo di Alcesti (vedi vv. 1061-1158) e l’introduzione di tale
motivo mitico è presumibilmente imputabile ai commenti normalizzatori e forse alla
hypothesis di Dicearco, discepolo di Aristotele del III-II sec. a.C.
86 Ù Le verità del velo
71
Cfr. E. Fabbro, Lo sguardo e il silenzio, cit., p. 38: «Il ravvolgersi nel mantello, compre-
se le braccia e le mani, è uno schema figurativo che codifica l’indisponibilità comunicati-
va anche in altri campi, al di là del mero fatto verbale […] Se l’uomo greco è consapevole
dello sguardo e della sua potenza, alla donna ogni sguardo è interdetto e di riflesso
ella non deve essere toccata dallo sguardo altrui. Persino Afrodite, accompagnandosi ad
Anchise, accosta il velo “distogliendo il volto e abbassando i begli occhi” (Hymn.Hom.Ven.
156). Ma la seduzione femminile ammicca sul liminare tra coprire e dischiudere […] Il
funzionamento dell’opposizione significante coperto/ scoperto ha dunque un ambito
più ampio di quello implicato dalla mera scelta fra silenzio e contatto verbale, marcando
l’interferenza fra aree distinte dello stesso codice di comportamento».
72
Cfr. M. Myerowitz Levine, The Gendered Grammar of the Ancient Mediterranean Hair,
cit., pp. 76-130. Si pensi ad esempio alla particolare importanza riconosciuta sul pia-
no spirituale al hijâb nella tradizione islamica, dove il velo che avvolge simboleggia
la conoscenza non rivelata, il velo sollevato, di contro, la conoscenza comunicata al
discepolo.
Introduzione
Giuseppina Paola Viscardi ∙ Verità e rappresentazione Ù 87
Obnubilatio capitis:
simbologia sacra e profana del velo nell’antica Roma
1. Introduzione
1
Cfr. R.A. Lambin, Le voile des femmes. Un inventaire historique, social et psycologique, P.
Lang, Bern 1999, pp. 45 ss.; Id., Paul et le voile des femmes, in «Clio», 2 (1995), pp. 461-484.
2
A. Van Gennep, I riti di passaggio, Bollati Boringhieri, Torino 1981, pp. 147 ss.
90 Ù Le verità del velo
3
Come si cercherà di chiarire, i Romani velavano la parte del loro corpo cui
attribuivano un significato simbolico, ad esempio la testa come emblema dell’intera
persona o la mano, pegno di fedeltà (cfr. infra).
4
Cfr. Ov. met. 12, 598-599: Delius indulgens nebula velatus in agmen/ pervenit Iliacum
(«Il dio di Delo, acconsentendo, si recò avvolto in una nube nel campo troiano»).
5
Cfr. ivi 2, 23-24: purpurea velatus veste sedebat/ in solio Phoebus claris lucente smaragdis
(«Febo, vestito di un abito purpureo, era assiso su un trono scintillante di smeraldi
luminosi»); Liv. 3, 26, 10: qua (scil.: toga) simul absterso pulvere ac sudore velatus processit
(«Deterso il sudore e la polvere e indossata la toga si fece avanti»).
6
Per le bende che cingono le tempie cfr. Ov. met. 5, 109-110: Phinea cecidere manu
Cererisque sacerdos,/ Amphycus albenti velatus tempora vitta («Caddero per mano di Fineo e
Ampico, sacerdote di Cerere dalle tempie coperte da una bianca benda»); Id. Pont. 3, 2,
75; per la corona cfr. ivi 4, 14, 55: tempora sacrata mea sunt velata corona («Voi avete cinto
le mie tempie di una corona sacra») e Verg. Aen. 5, 72: sic fatus velat materna tempora myrto
(«Detto così vela le tempie di materno mirto»); per le ghirlande ivi 2, 248-249: nos delubra
deum miseri, quibus ultimus esset/ ille dies, festa velamus fronde per urbem («Noi sventurati,
nel nostro ultimo giorno,/ per la città coroniamo i templi degli dei di fastosa fronda»).
7
Rientra in questa tipologia il cosiddetto cinctus Gabinus (Serv. Aen. 7, 612),
un costume che assolveva a funzioni militari e religiose; cfr. a questo proposito L.
Bonfante-Warren, Roman Costumes, in «Aufstieg und Niedergang der römischen Welt»,
I, 4 (1973), pp. 596-597 e G. Cressedi, ‘Caput velatum’ e ‘Cintus Gabinus’, in «Rendiconti
della Accademia dei Lincei», 5 (1950), pp. 450-456.
8
Plut. quaest. Rom. 10, 266c-e.
9
Verg. Aen. 3, 405-409: «Vela le chiome coperto di un manto purpureo, perché tra
i santi fuochi in onore degli dei non compaia un ostile aspetto e turbi i presagi. Tu e i
tuoi compagni serbate questo rituale: in questa devozione rimangano fermi i nipoti».
Per questo episodio cfr. anche ivi 3, 545-546.
Francesca RomanaIntroduzione
Nocchi ∙ Obnubilatio capitis Ù 91
2. Implicazioni apotropaiche
10
La versione di questo aneddoto accettata da Plutarco, secondo la quale il velo
è utilizzato a scopo apotropaico, si trova in Dioniso di Alicarnasso (Ant. Rom. 12, 16,
22). In effetti sembra ne esistesse un’altra (Serv. Aen. 2, 166) in base alla quale Enea
stabilisce preventivamente di sacrificare velato, ed essendosi girato per adempiere
ai propri officia, non vede Diomede: in questa prospettiva diverrebbe prioritaria la
funzione sacra del velo e non vi sarebbe nessun intento scaramantico. In ogni caso
l’ambiguità interpretativa conferma ancora una volta la polisemia attribuita al velo
dalla mentalità comune.
11
Questa interpretazione è condivisa da Festo (430-431 L.) per il quale Enea si vela
il capo per non avere sotto gli occhi la vista nefasta del nemico Ulisse.
12
Riguardo a questa credenza cfr. E.R. Dodds, The Greek and the Irrational, University
of California Press, Berkeley 1959, pp 38-40. Una conferma di questa interpretazione
plutarchea sembrerebbe provenire da Svetonio (Vitell. 2, 5), il quale afferma che Lucio,
padre di Vitellio, si inginocchiava e velava il capo al cospetto di Caligola, assecondando
le tendenze teocratiche dell’imperatore che pretendeva onori divini.
92 Ù Le verità del velo
13
Cic. off. 1, 54.
14
Illuminante, a questo proposito, è la raffigurazione lucreziana della religio (1, 62-
79) che incombe sugli uomini dall’alto, secondo una chiara allusione all’etimologia di
superstitio attraverso la quale l’autore fa coincidere i due concetti.
15
La confarreatio, quale istituto particolarmente solenne, creava fra gli sposi un
legame solido grazie alla tutela sacrale comportata dalla cerimonia e alla sanzione
giuridica del potere maritale sulla sposa. Ciò è confermato dal fatto che il padre della
donna non poteva più rivendicare alcun diritto sulla figlia e che per sciogliere il vincolo
occorreva addirittura un’altra cerimonia, la diffarreatio (Fest. p. 65 L.): non casualmente
Plinio il Vecchio (nat. 18, 110) dice a proposito di questa fattispecie: in sacris nihil
religiosius confarreationis vinculo («Nelle cerimonie sacre non vi è nulla di più solenne del
vincolo creato dalla confarreatio»).
16
Serv. georg. 1, 31: tribus enim modis apud veteres nuptiae fiebant: usu [...] farre, cum
per pontificem maximum et Dialem flaminem per fruges et molam salsam coniungebantur —unde
confarreatio appellabatur— ex quibus nuptiis patrimi et matrimi nascebantur; coemptione vero
atque in manum conventione, cum illa in filiae locum, maritus in patris veniebat («Le nozze
si facevano in tre modi presso gli antichi: con l’usus [...] con il farro, quando tramite il
pontefice massimo e il flamen Dialis si congiungevano per mezzo di cereali e mola salsa
—da cui (la cerimonia) prendeva il nome di confarreatio— dalle quali nozze nascevano
patrimi e matrimi; con la coemptio e la conventio, quando quella [la donna] assumeva la
posizione di figlia, il marito di padre»).
17
Gaius inst. 1, 110: olim itaque tribus modis in manum conveniebat: usu, farreo, coemptione
(«Un tempo si cadeva sotto la potestà [del marito] in tre modi: con l’usucapione, con il
farro, con la compravendita»). Anche se la confarreatio ricadeva nella tipologia giuridica
della conventio essa non era mai disgiunta dalle nuptiae religiose. Per la differenza fra
l’istituto giuridico della conventio e quello delle nuptiae cfr. F.R. Nocchi, Roma antica/1/
Abiti nuziali, Nuova Cultura, Roma 2007, pp. 19-25.
Francesca RomanaIntroduzione
Nocchi ∙ Obnubilatio capitis Ù 93
18
G. Frazer, The Fasti of Ovid, Macmillan and Co., London 1929, in particolare fast.
3, 675-676.
19
Il passo completo contiene anche un’allusione alla flaminica (Fest. p. 79 L.):
flammeo amicitur nubens («Con il flammeum si avvolge la sposa»). Per la citazione completa
del passo cfr. infra.
20
Val. Max. 2, 1, 1: apud antiquos non solum publice sed etiam privatim nihil gerebatur
nisi auspicio prius sumpto; quo ex more nuptiis etiam nunc auspices interponuntur qui, quamvis
auspicia petere desierint, ipso tamen nomine veteris consuetudinis vestigia usurpantur («Presso
gli antichi nessuna azione, non solo pubblica, ma anche privata, veniva compiuta, se
prima non fossero stati presi i relativi auspici. Questa consuetudine ha fatto in modo
che anche oggi gli indovini partecipino delle nozze: e anche se costoro non chiedono
più gli auspici, il loro stesso nome rivendica ad essi le vestigia dell’antica usanza»).
21
In primo luogo il corteo pronunciava a gran voce i versi fescennini, dal contenuto
licenzioso e ironicamente offensivo verso gli sposi, così da allontanare l’invidia dei
malevoli dalla coppia, particolarmente felice.
22
Catull. 61, 166-169: transfer omine cum bono/ limen aureolos pedes/ rasilemque subi
forem («Poggia con felice augurio il tuo piedino d’oro oltre la soglia, supera il gradino
corroso»). Isid. orig. 9, 7, 12 offre un’altra motivazione: nubentes puellae […] ideo
vetabantur limina calcare, quod illic ianuae et coeunt et separantur («Era vietato alle spose
[…] calpestare la soglia perché in tal punto le porte si uniscono, ma si separano anche»).
Secondo un’altra versione, l’usanza è un retaggio dell’antico ratto delle Sabine (Plut.
quaest. Rom. 29, 271d): «Perché alla sposa non è permesso di attraversare la soglia della
sua casa da sola, ma quelli che la stanno scortando la devono sollevare? È perché essi
portarono fuori con la forza le prime spose romane e le donne non entravano di loro
spontanea volontà? O volevano che sembrasse che entravano contro la loro volontà in
un luogo dove stavano per perdere la loro verginità?».
94 Ù Le verità del velo
23
Serv. Aen. 4, 458: moris fuerat ut nubentes puellae simul venissent ad limen mariti,
postes antequam ingrederentur, propter auspicium castitatis, ornarent laneis vittis […] et oleo
et unguerent, unde uxores dictae sunt, quasi unxores. [...] Hi tamen qui de nuptiis scripsisse
dicuntur, cum nova nupta in domum mariti ducitur, solere postes unguine lupino oblini quod
huius ferae et unguen et membra multis rebus remedio sunt («Era proprio del costume che
le spose, non appena fossero giunte alla soglia della casa del marito, prima di entrare,
per auspicio di castità, ornassero gli stipiti di bende […] e li ungessero con olio, da
cui sono dette uxores (mogli) quasi da unxores (untrici). [...] Questi tuttavia, che si dice
abbiano scritto sulle nozze, tramandano che quando la sposa è condotta in casa del
marito, è solita ungere gli stipiti con grasso di lupo, perché il grasso di questo animale
e le sue membra sono di rimedio per molte cose»); Isid. orig. 9, 7, 12: moris erat antiquitus
ut nubentes puellae simul venirent ad limen mariti et postes antequam ingrederentur ornarentur
laneis vittis et oleo unguerentur («Anticamente era costume che non appena le spose
giungevano alla porta dello sposo, prima di entrare ornassero gli stipiti con bende di
lana e li ungessero con olio»).
24
Aug. civ. 6, 9, 3: cum mas et femina coniunguntur, adhibetur deus Iugatinus» («Quando
un maschio ed una femmina si uniscono, viene coinvolto il dio Giogatino»).
25
Ibidem: sed domum est ducenda quae nubit; adhibetur et deus Domiducus; ut in domo sit,
adhibetur deus Domitius; ut maneat cum viro, additur dea Manturna («Ma occorre portare la
sposa a casa e si impiega il dio Domiduco; perché vi si trattenga, il dio Domizio; perché
rimanga con il marito, la dea Manturna»).
26
Fest. p. 55 L.: Cinxiae Iunonis nomen sanctum habebatur in nuptiis quod initio coniugii
solutio erat cinguli quo nova nupta erat cincta («Nelle nozze si considerava Cinzia il nome
sacro di Giunone, perché all’inizio del matrimonio vi era lo scioglimento della cintura
con cui la novella sposa si cingeva»).
27
Aug. civ. 6, 9, 3: et certe si adest Virginensis dea ut virginea zona solvantur, si adest
Subigus ut virgo subigatur, si adest dea Prema ut subacta ne se commoveat comprimatur, dea
Pertunda ibi quid facit? («E se è presente la dea Verginiese perché sia sciolta la cintura
di castità alla vergine, se è presente il dio Subigo perché si assoggetti al marito, se è
presente la dea Prema perché una volta assoggettata non resista e si lasci comprimere,
la dea Pertunda che cosa ci sta a fare?»).
Francesca RomanaIntroduzione
Nocchi ∙ Obnubilatio capitis Ù 95
28
Cfr. J. André, Études sur les termes de couleur dans la langue latine, C. Klincksieck,
Paris 1949, p. 115; N. Boëls-Janssen, La vie religieuse des matrones dans la Rome arcaïque,
École francaise de Rome, Rome 1993, p. 133.
29
Schol. ad Iuv. 6, 225.
30
Lucan. 2, 354-364: festa coronato non pendent limine serta/ infulaque in geminos
discurrit candida postes/ legitimaeque faces gradibusque adclinis eburnis/ stat torus et picto
vestes discriminat auro/ turritaque premens frontem matrona corona/ translata vitat contingere
limina planta;/ non timidum nuptae leviter tectura pudorem/ lutea demissos velarunt flammea
vultus,/ balteus aut fluxos gemmis astrinxit amictus,/ colla monile decens umerisque haerentia
primis/ suppara nudatos cingunt augusta lacertos» («I serti festosi non pendono dalla soglia
incoronata, né la candida benda è distesa sugli stipiti, non ci sono le torce nuziali né il
talamo troneggia su gradini d’avorio né compaiono le vesti screziate d’oro o la matrona
che, con in capo la corona turrita, evita di toccare la soglia alzando il piede; il velo rosso,
destinato a proteggere con delicatezza il timido pudore della sposa, non copre il suo
volto chinato, né la cintura impreziosita di gemme stringe le vesti ondeggianti, né una
bella collana adorna il suo collo, né un piccolo mantello, scendendo dalla sommità delle
spalle, circonda le nude braccia»).
31
Plin. nat. 21, 46: lutei video honorem antiquissimum, in nuptialibus flammeis totum
feminis concessum («Trovo scritto che il luteus era un onore antichissimo, concesso solo
alle donne per i veli nuziali»). Cfr. C. Fayer, L’«ornatus» della sposa romana, in «Studi
Romani», 34 (1986), pp. 7-8.
32
Per questa teoria cfr. N. Boëls-Janssen, La fiancée embrasée, in H. Le Bonniec,
D. Porte, J.-P. Néraudau (a cura di), Res sacrae. Hommages à H. Le Bonniec, Latomus,
Bruxelles 1988, p. 22.
33
Petron. 28, 4: hinc involutus coccina gausapa lecticae impositus est («A questo punto,
avvolto in un accappatoio scarlatto, lo adagiano su una lettiga»).
34
Ivi 32, 2: pallio enim coccineo adrasum excluserat caput, circa oneratas veste cervices
laticlaviam immiserat mappam fimbriis hinc atque illinc pendentibus («Da un mantello
scarlatto lasciava infatti sbucare la testa rapata, e intorno al collo un tovagliolo con liste
di porpora e frange penzolanti qua e là»).
96 Ù Le verità del velo
35
I Romani consideravano sacra la purezza dei fanciulli e per questo ricorrevano a
diversi espedienti per preservarla. Per questo argomento cfr. infra.
36
E.E. Burris, Taboo. Magic, Spirits, a Study of Primitive Elements in Roman Religions,
Mcmillan and Co., New York 1931, pp. 78 ss.; J. Bayet, Croyances et rites dans la Rome
antique, Payot, Paris 1971, pp. 27-32.
37
Questo spiegherebbe, secondo N. Boëls-Janssen (La prêtresse aux trois voiles, in
«Revue des Études Latines», 67 [1989], pp. 117-133, p. 120) per quale motivo sia la sposa
che la flaminica erano le uniche persone insignite dell’onore di questo velo: infatti, se il
migliore augurio per una sposa era che fosse fertile, la flaminica, a sua volta, in virtù del
suo influsso benefico su tutta la città, aveva il potere di renderla prospera.
38
Plut. Rom. 2, 4.
39
Ov. fast. 6, 626-636, ma cfr. anche Plin. nat. 36, 204 e Dion. Hal. 4, 2, 1-3.
40
Verg. Aen. 7, 679-681 e 10, 543.
41
Fest. p. 364 L.
42
Catull. 61, 9-10.
43
Fest. p. 79 L.: «La sposa si avvolge con il flammeo per un augurio favorevole
Francesca RomanaIntroduzione
Nocchi ∙ Obnubilatio capitis Ù 97
(ominis causa), poiché lo usava sempre la flaminica, ovvero la moglie del flamine, a cui
non era lecito divorziare».
44
Il mandato del flamen durava fino a quando era in vita la sua sposa; inoltre gli era
imposto il divieto assoluto di infrangere il matrimonio (per questo tema cfr. infra). Cfr.
N. Boëls-Janssen, Le statut religieux de la flaminica Dialis, in «Revue des Études Latines»,
51 (1974), pp. 77-100; A. Maiuri, Roma antica / 3 / Paramenti Sacri, Nuova Cultura, Roma
2007, pp. 35-45.
45
La Chiesa, però, continuò per un certo periodo, a utilizzare il velo rosso.
Sant’Ambrogio dice che il flammeum nuptiale ricopriva la testa della sposa durante la
cerimonia nuziale (P.L. 16, 5, col. 286.). Questa notizia è molto importante, perché
testimonia la permanenza del flammeum quale elemento distintivo nei riti matrimoniali,
confermandone il ruolo centrale rivestito sin dall’inizio nella cerimonia. Solo nel III-
IV secolo i cristiani adottarono l’uso del velo nuziale bianco, volendo ripudiare tutte
le consuetudini pagane (A. De Gubernatis, Usi nuziali in Italia e presso gli altri popoli
indoeuropei, Milano 1869, p. 145).
46
Serv. Aen. 4, 374: mos enim apud veteres fuit, flamini ac flaminicae, dum per
confarreationem in nuptias convenirent, sellas duas iugatas ovilla pelle superiniecta poni eius
ovis quae hostia fuisset, ut ibi nubentes velatis capitibus in confarreatione flamen ac flaminica
residerent («Fu costume presso gli antichi che i flamini e le flaminiche, sposandosi
secondo il rito della confarreatio, stessero seduti su seggi uniti, sui quali era posta una
pelle di pecora sacrificata e che fossero ricoperti da un velo»).
47
Secondo N. Boëls-Janssen, La vie religieuse des matrones, cit., pp. 154-158, i seggi
riuniti rappresentano il connubio degli sposi. Così anche A. De Gubernatis, Usi nuziali in
Italia e presso gli altri popoli indoeuropei, cit., p. 146, il quale riferisce il medesimo costume
per gli sposi indiani, che sedevano su una pelle rossa di toro; anche i russi solevano
utilizzare allo stesso scopo un tappeto di raso color rosa. La Boëls-Janssen inoltre ritiene
che Servio farebbe riferimento anche ad un’altra usanza che costituiva parte integrante
della cerimonia nuziale, il passaggio sotto il giogo da parte degli sposi (Serv. Aen. 4, 374:
sellas duas iugatas ovilla pelle), una sorta di rito di iniziazione, che purificava l’uomo e la
donna e segnava l’ingresso nella nuova vita. In realtà l’espressione utilizzata da Servio
potrebbe riferirsi semplicemente alla prassi di unire i seggi (sellas iugatas) degli sposi con
una pelle di animale sacrificato. Quest’uso è stato variamente interpretato: forse esso
poneva in diretto contatto con la divinità dal momento che la bestia era stata immolata;
d’altra parte Festo (p. 102 L.) ritiene che la scelta di questa pelle, per di più non ancora
conciata, servisse per ricordare alla donna la sua futura funzione di lanifica o fosse un
retaggio di quando gli uomini si vestivano di pelli animali; più verosimili le supposizioni
di E. Westermarck, Histoire du mariage, IV, Mercure de France, Paris 1935, pp. 217 e 285,
per il quale la pelle aveva lo scopo di proteggere gli sposi dagli influssi nefasti provenienti
dal mondo sotterraneo, oppure serviva per propiziare la fecondità della coppia.
98 Ù Le verità del velo
48
L.A. Muratori, Antichità italiche, dissertazione XX.
49
Fest. p. 174 L.: flammeo caput nubentis obvolvatur, quod antiqui obnubere vocarint («Con
il flammeum si ricopre il capo di chi si sposa, cosa che gli antichi chiamarono obnubere»);
Id. p. 201 L.: obnubit, caput operit; unde et nuptiae dictae a capitis opertione («Obnubit, copre
il capo; da cui anche le nozze sono chiamate dalla copertura del capo»); Non. pp. 208-
209 L.: nubere veteres non solum mulieres, sed etiam viros dicebant, ita ut nunc Itali dicunt («Gli
antichi riferivano il termine nubere non solo alle donne ma anche agli uomini, così come
ora dicono Itali»); Isid. orig. 9, 7, 10-11: nuptae dictae, quod vultus suos velent. Translatum
nomen a nubibus, quibus tegitur caelum. Unde et nuptiae dicuntur, quod ibi primum nubentium
capita velantur. Obnubere enim cooperire est. Cuius contraria innuba, hoc est innupta, quae
adhuc vultum suum non velat («Le nuptae sono chiamate in questo modo perché velano
il proprio volto: è nome figurato, derivato da quello delle nubi che coprono il cielo. Da
qui anche il fatto che si parli di nuptiae, perché in occasione di esse si vela per la prima
volta il capo delle future spose: obnubere, infatti, significa coprire. Il contrario di sposa è
innuba, ossia non sposata: costei non vela ancora il proprio volto»).
50
L. Peppe (L’urnetta n. 2260 di Chiusi ed il matrimonio romano arcaico. Alcuni spunti
sulla formazione del diritto, in S. Romano et al. (a cura di), Nozione formazione e interpreta-
zione del diritto. Dall’età romana alle esperienze moderne. Ricerche dedicate al Professor F. Gallo,
II, Jovene, Napoli 1997, pp. 97-139) sostiene che il collegamento fra il passo di Servio
e la scena dipinta sull’urna di Chiusi sia indizio di una penetrazione nel VI sec. a.C. di
elementi rituali etruschi nel matrimonio romano (p. 108).
Francesca RomanaIntroduzione
Nocchi ∙ Obnubilatio capitis Ù 99
51
Plin. nat. 28, 76.
52
Ivi 28, 78: si nudatae segetem ambiant, urucas et vermiculos scarabaeosque ac noxia alia
decidere […]. Alibi servatur, ut nudis pedibus eant capillo cinctuque dissoluto («Se le donne
indisposte percorrono nude il perimetro di un campo di grano, cadono dalle spighe i
bruchi, i piccoli vermi, gli scarabei e gli altri insetti nocivi […] Altrove vige l’usanza di
andare in giro a piedi nudi coi capelli sciolti e la cintura slacciata»).
53
Varro ling. 7, 44.
54
Plin. nat. 28, 70-71: «I rimedi che si fanno derivare dal corpo della donna
assomigliano a prodigi mostruosi […] l’odore dei capelli bruciati della donna
metterebbe in fuga i serpenti, questa stessa esalazione ridarebbe respiro alle donne
che soffocano per un attacco isterico; la cenere di quei capelli, calcinati in un vaso di
terracotta oppure insieme al letargirio, guarirebbe le granulazioni delle palpebre e il
prurito degli occhi, così pure le verruche e le ulcere dei fanciulli».
55
Petron. 44, 18: «Un tempo le dame dell’aristocrazia ascendevano il colle a piedi
nudi, sparsi i capelli, puro il cuore, e pregavano Iuppiter per la pioggia».
56
Cfr. Liv. 26, 9, 7-8: undique matronae in publicum effusae circa deum delubra discurrunt,
crinibus passis aras verrentes («Ovunque le matrone riversatesi nelle strade corrono di qua
e di là intorno agli altari degli dei sfiorandoli con le chiome sciolte»; Plut. quaest. Rom.
14, 267a-c); J. Gagé, Matronalia. Essai sur les dévotions et les organisations cultuelles des femmes
dans l’ancienne Rome, (“Latomus”, 60), Latomus, Bruxelles 1963, p. 168, n. 2.
100 Ù Le verità del velo
3.1. La consecratio
57
Caes. civ. 3, 9, 3: sed celeriter cives Romani ligneis effectis turribus sese munierunt,
et cum essent infirmi ad resistendum propter paucitatem hominum crebris confecti vulneribus,
ad extremum auxilium descenderunt servosque omnes puberes liberaverunt et praesectis omnium
mulierum crinibus tormenta effecerunt («Ma subito i cittadini romani, costruite delle
torri di legno, provvidero alla propria difesa e poiché la resistenza risultava difficile
per mancanza di uomini, sfiniti dalle ripetute ferite, si ridussero all’estremo rimedio:
liberarono tutti gli schiavi adulti e fecero tagliare le chiome a tutte le donne per
ricavarne corde per le macchine da guerra»).
58
Cfr. Ov. fast. 4, 134.
59
Plut. Numa 10, 12.
60
Isid. orig. 19, 25, 5: amiculum est meretricum pallium lineum. Hunc apud veteres
matronae in adulterio deprehensae induebantur, ut in tali amiculo potius quam in stola polluerent
pudicitiam. Erat enim apud veteres hoc signum meretriciae vestis, nunc in Hispania honestatis
(«L’amiculum è il mantello di lino delle meretrici. Anticamente lo indossavano anche
le matrone sorprese in adulterio perché il loro pudore macchiato non poteva essere
coperto da una stola. L’amiculum infatti era presso gli antichi simbolo di meretricio,
mentre oggi, in Ispania, è segno di onestà»).
61
Schol. ad Iliad. 24, 480.
Francesca RomanaIntroduzione
Nocchi ∙ Obnubilatio capitis Ù 101
62
Plut. quaest. Rom. 10, 266c, ma per questo passo cfr. supra pp. 84-85. Proprio in
virtù del loro ufficio anche i flamini e gli auguri si coprivano con un velo (cfr. Varro
ling. 5, 84; Liv. 1, 18, 7).
63
Varro ling. 5, 130, infra nota 123.
64
Fest. pp. 519-520 L.: «La primavera sacra fu l’usanza tipica dei Romani di offrire
in voto. Infatti, indotti da gravi pericoli promettevano di immolare qualsiasi figlio
fosse nato loro nella primavera successiva. Poiché sembrava crudele uccidere fanciulli e
fanciulle innocenti, una volta giunti ad età matura li velavano e così li spingevano al di
fuori dei loro territori».
65
Liv. 8, 9, 4-5: in hac trepidatione Decius consul M. Valerium magna voce inclamat:
‘Deorum —inquit— ope, M. Valeri opus est: agedum, pontifex publicus populi Romani, praei
verba, quibus me pro legionibus devoveam’. Pontifex eum togam praetextam sumere iussit et
velato capite, manu subter togam ad mentum exserta, super telum subiectum pedibus stantem sic
dicere» («In questa confusione il console Decio gridò a gran voce a Marco Valerio: “O
Valerio, disse, c’è bisogno dell’aiuto degli dei: orsù, dunque, pubblico pontefice del
popolo romano, dettami le parole rituali con cui io devo offrirmi in voto per l’esercito”.
Il pontefice gli ordinò di indossare la toga pretesta e di dire queste cose stando in piedi
su di un giavellotto, col capo velato e con la mano protesa sotto la toga fino a toccare
il mento»).
66
Cic. dom. 47-48.
102 Ù Le verità del velo
67
Serv. Aen. 5, 755: conditores enim civitatis taurum in dexteram, vaccam intrinsecus
iungebant, et incincti ritu Gabino, id est togae parte caput velati […] sulco ducto loca murorum
designabant («Infatti i fondatori della città univano un toro a destra, una mucca
all’interno e dopo essersi coperti secondo il rito Gabino, cioè avendo velato il capo con
una parte della toga, […] tracciato il solco, stabilivano il tracciato delle mura»).
68
Plut. Pomp. 79.
69
Livio (1, 26, 6), a proposito dell’istituzione dei duoviri perduellionis, afferma: lex
horrendi carminis erat: ‘duumuiri perduellionem iudicent; si a duumviris provocarit, provocatione
certato; si vincent, caput obnubito; infelici arbori reste suspendito; verberato vel intra pomerium
vel extra pomerium’» («La formula della legge era terribile: “I duumviri giudichino del
reato di alto tradimento; se il reo ricorrerà contro la sentenza dei duumviri, si appelli al
popolo; se i duumviri prevarranno, gli sia velato il capo e sia appeso con una fune ad un
albero infecondo; sia frustato sia dentro le mura che fuori dalle mura”»). Cfr., inoltre, a
questo proposito, R. Reinach, Cultes, mythes et religions, I, E. Leroux, Paris 1908, p. 304.
70
Plaut. Amph. 1091-1094: postquam parturire hodie uxor occepit tua/ ubi utero exorti
dolores, ut solent puerperae/ invocat deos immortales, ut sibi auxilium ferant,/ manibus puris,
capite operto («Quando oggi tua moglie doveva partorire, appena ha sentito giungere
i dolori delle doglie, come sono solite fare le puerpere, ha invocato gli dei perché la
soccorressero, dopo essersi lavata le mani ed aver velato il capo»).
71
Liv. 1, 21, 4: et soli Fidei sollemne instituit. Ad id sacrarium flamines bigis curru arcuato
vehi iussit manuque ad digitos usque involuta rem divinam facere, significantes fidem tutandam
sedemque eius etiam in dexteris sacratam esse («Istituì anche un apposito culto alla Fides;
prescrisse che i Flamini fossero condotti al suo santuario su di una biga coperta da una
tenda arcuata, e che eseguissero il rito con la mano velata fino alle dita, a significare che
la fede data si deve custodire e proteggere, e che la mano destra deve essere considerata
sua sede sacra»).
72
N. Boëls-Janssen, La vie religieuse des matrones, cit., p. 110 ha ipotizzato che si
tratti di un retaggio di un rito di iniziazione all’età adulta, successivamente inglobato
Francesca RomanaIntroduzione
Nocchi ∙ Obnubilatio capitis Ù 103
nelle cerimonie nuziali. In effetti anche ai fanciulli, in occasione di tali riti, veniva
praticata la medesima tonsio, caratterizzata da un taglio fino alla nuca, secondo
quanto testimoniato delle statue votive a Lavinio; invece a Sparta alle spose venivano
completamente rasati i capelli (M. Torelli, Lavinio e Roma. Riti iniziatici e matrimonio fra
archeologia e storia, Quasar, Roma 1984, pp. 31 ss.). Del resto si potrebbe pensare anche
ad un uso specificamente nuziale tipico dell’area romano-etrusca, che prevedeva un
taglio parziale della capigliatura e non totale come in Laconia. Luciano (dea Syr. 60) ci
informa che a Trezene sia i giovani che le fanciulle offrivano i propri capelli a Ippolito
prima di sposarsi; Plutarco (Lyc. 15, 5) dice che a Sparta la giovane sposa era affidata ad
una donna chiamata nympheutria che la vestiva da uomo, le rasava i capelli e la metteva
sopra un pagliericcio al buio, in attesa che il marito la prendesse e la portasse sul letto
nuziale. Su questi travestimenti maschili o femminili, cfr. M. Delcourt, Hermaphrodite.
Mythes et rites de la bisexualité classique, Presses Universitaires de France, Paris 1958.
73
P.L. 13 coll. 1182-1183.
74
Ivi, 16, 17, col. 332.
75
Hier. epist. 130, 2, 3 e 147, 6, 2.
76
R. Schilling, Vestales et vierges chrétiennes dans la Rome antique, in «Revue des
Sciences Religieuses», 35 (1961), pp. 113-129.
104 Ù Le verità del velo
3.2. Il suffibulum
77
Cfr. R. Schilling, Le flammeum, voile sacré, voile profanum, in «Revue des Études
Latines», 34 (1956), pp. 67-68; Id., Le voile de consécration dans l’ancien rit romain, in
Mélanges en l’honneur de Mons. Michel Andrien, Université de Strasbourg, Strasburg 1956,
pp. 403-414.
78
Cfr. R. Metz, La consécration des vierges dans l’église romaine, Université de Strasbourg,
Paris 1954, p. 203.
79
J.D. Mansi, Sacrorum conciliorum nova et amplissima collectio, Zatta, Venetiae 1757-
1798, XI, 35.
80
Serv. Aen. 3, 134.
81
Liv. 26, 27, 14.
82
Fest. p. 475 L.: «Il suffibulum è un velo quadrangolare, bianco, bordato di porpora,
di forma allungata, che le vergini Vestali sono solite avere sul capo quando sacrificano
ed è fermato da una fibbia».
Francesca RomanaIntroduzione
Nocchi ∙ Obnubilatio capitis Ù 105
83
Cfr. S. Boldrini, Verginità delle Vestali: la prova, in R. Raffaelli (a cura di), Vicende
e figure femminili in Grecia e a Roma, Commissione delle pari opportunità fra uomo e
donna della Regione Marche, Ancona 1995, pp. 295-300; M. C. Martini, Carattere e
struttura del sacerdozio delle Vestali: un approccio storico-religioso, in «Latomus. Revue et
collection d’études latines», 56, 2 (1997), pp. 245-263; M. Salvadore, La Vestale incesta, in
M. Passalacqua, M. De Nonno, A.M. Morelli (a cura di), Venuste noster. Scritti offerti a L.
Gamberale, OLMS, Zürich-New York 2012, pp. 549-612.
84
Liv. 8, 15, 7-8: «In quell’anno la Vestale Minucia, dapprima sospettata per la sua
eccessiva eleganza […] processata e condannata fu sepolta viva presso Porta Collina
accanto alla via lastricata nel campo Scellerato».
85
Liv. 22, 57, 2 e 4: territi etiam super tantas clades cum ceteris prodigis, tum quod duae
Vestales eo anno, Opimia atque Floronia, stupri compertae et altera sub terra, uti mos est, ad
Portam Collinam necata fuerat, altera sibimet ipsa mortem consciverat […] Hoc nefas cum inter
tot, ut fit, clades in prodigium versum esset, decemviri libros adire iussi sunt («Oltre a così
grandi sventure, furono anche atterriti non solo da ogni altro genere di prodigi, ma
anche dal fatto che quell’anno due Vestali, Opimia e Floronia, erano state riconosciute
colpevoli di violazione della castità e l’una era stata sepolta viva, come è costume, presso
la porta Collina, l’altra si era data la morte da sé […] Poiché questo atto di empietà,
in mezzo a tante disgrazie, come succede, era stato interpretato come un prodigio, si
ordinò ai decemviri di consultare i libri»).
86
Fest. p. 277 L.: «Per punire l’oltraggio di una vergine Vestale con la morte, l’uomo
che aveva avuto rapporti sessuali con lei doveva venire ucciso a colpi di verghe: la legge,
affissa nell’atrio della Libertà, andò distrutta nell’incendio insieme a molte altre leggi».
87
Liv. 8, 15, 7-8, supra.
88
Liv. 4, 44, 11-12: Postumia, virgo Vestalis, de incestu causam dixit crimine innoxia, ab
suspicione propter amoeniorem ingeniumque liberius quam virginem decet parum abhorrens. Eam
ampliatam, deinde absolutam pro collegii sententia pontifex maximus abstinere iocis colique sancte
potius quam scite iussit («La Vestale Postumia fu accusata di amore sacrilego, per quanto
innocente, ma davano sospetto la sua eccessiva cura della persona e la sua condotta più
libera di quanto convenisse ad una vergine. La causa fu differita, poi Postumia venne
assolta, ma il Pontefice Massimo, in base al parere del collegio, le ordinò di astenersi da
ogni lusso eccessivo e di ornarsi più di santità che di eleganza»).
106 Ù Le verità del velo
89
Gell. 1, 12, 11-14: sed Papiam legem invenimus qua cavetur ut pontificis maximi arbitratu
virgines e populo viginti legantur sortitioque in contione ex eo numero fiat et, cuius virginis ducta
erit, ut eam pontifex maximus capiat eaque Vestae fiat […] Capi autem virgo dici videtur quia
pontificis maximi manu prensa ab eo parente in cuius potestate est, veluti bello capta abducitur.
In libro primo Fabii Pictoris quae verba pontificem maximum dicere oporteat cum virginem capiat
scriptum est. Ea verba haec sunt: ‘Sacerdotem Vestalem quae sacra faciat quae ius siet sacerdotem
Vestalem facere pro populo Romano Quiritibus, uti quae optima lege fuit, ita te, Amata, capio’
(«Troviamo però la legge Papia, con la quale si dispone che siano scelte tra il popolo
venti vergini a discrezione del pontefice massimo, e poi da questo numero si tragga a
sorte nell’assemblea; e che la vergine estratta a sorte, il pontefice massimo la prenda
ed essa appartenga a Vesta […] La vergine, poi, si dice che viene presa perché viene
afferrata per mano dal pontefice massimo e così portata via, come una preda di guerra,
al genitore che l’ha in potestà. Nel primo libro di Fabio Pittore è documentata la formula
che il pontefice massimo deve pronunciare nell’atto di prendere la vergine. Le parole
sono: “Così ti prendo, o Amata, come sacerdotessa Vestale per celebrare i riti che una
sacerdotessa Vestale è giusto che celebri nell’interesse del popolo Romano e dei Quiriti,
essendo compiutamente idonea secondo la legge”»).
90
D. Porte, Les donneurs de sacré. Le prêtre à Rome, Les Belles Lettres, Paris 1989, p. 121.
91
Cfr. D. Segarra Crespo, L’abito della dea Flora, in Roma antica / 2 / Costumi
tradizionali, Nuova Cultura, Roma 2007, p. 92.
Francesca RomanaIntroduzione
Nocchi ∙ Obnubilatio capitis Ù 107
92
Fest. p. 475 L., cfr. supra p. 98.
93
Iuv. 14, 47.
94
Pers. 5, 30-31: «Non appena la custodia della toga pretesta lasciò libero me ancora
timido e il mio ciondolo d’oro fu appeso come offerta ai succinti Lari».
95
Ps.-Quint. decl. 340, 13: «L’inviolabilità delle preteste […] con cui rendiamo sacra
e venerabile la debolezza».
96
Non è un caso, probabilmente, che Isidoro faccia risalire l’etimologia di puer da
purus (Isid. orig. 11, 2, 10).
97
Per i riti vestimentari in occasione della deposizione della praetexta, cfr. J.P.
Néraudau, La jeunesse dans la littérature et les institutions de la Rome républicaine, Les Belles
Lettres, Paris 1979, p. 156 e F.R. Nocchi, Morte e rinascita simbolica: il cambio d’abito, in S.
Botta (a cura di), Abiti, corpi, identità. Atti del convegno ‘L’abito sì che lo fa il monaco’, Società
Editrice Fiorentina, Firenze 2009, pp. 169-202.
98
P. Chini, La religione, Quasar, Roma 1990, pp. 67-68.
99
Fest. p. 100 L.: infibulati sacrificabant flamines propter usum aeris antiquissimum
aereis fibulis («I flamini sacrificavano infibulati, a causa dell’uso antichissimo del
bronzo attuatosi per mezzo di fibbie realizzate con questo metallo»); Id. p. 475 L.: idque
(suffibulum) fibula comprehendebatur («Questo era fermato da una fibbia»). Per il valore
religioso della fibula cfr. L. Bonfante-Warren, Roman Costumes, cit., p. 588.
108 Ù Le verità del velo
100
Non è, però, del tutto chiaro se con il termine infibulati Festo intendesse, per
l’appunto, l’uso di spille applicate sulla veste del sacerdote o l’impiego di aghi particolari
per la confezione degli abiti, anch’essi chiamati così dalle fonti: sull’argomento cfr. A.
Maiuri, Roma antica / 3 / Paramenti Sacri, cit., p. 70.
101
D. Porte, Les donneurs de sacré, cit., p. 81.
102
C. Fayer, L’«ornatus» della sposa romana, cit., p. 5.
103
Per questa interpretazione cfr. L. Morpurgo, Chiton araphos, tunica recta, in
«Rendiconti della Accademia dei Lincei», 9 (1954), pp. 88-102.
104
Serv. Aen. 10, 538.
105
Fest. p. 100 L.: infulae sunt filamenta lanea, quibus sacerdotes et hostiae templaque
velantur («Le infulae sono fili di lana con cui si velano i sacerdoti, le vittime ed i templi»),
cfr. anche Verg. Aen. 12, 120.
106
Plin. nat. 29, 30-38.
107
M. Torelli, Lavinio e Roma, cit., pp. 33 ss.; C. Fayer, L’«ornatus» della sposa romana,
cit., pp. 10-15.
108
Fest. p. 454 L.: «Le donne in procinto di sposarsi si ornano con sei trecce, poiché
questo ornamento fu antichissimo, o, come dicono alcuni, perché con esso si ornano le
vergini Vestali».
Francesca RomanaIntroduzione
Nocchi ∙ Obnubilatio capitis Ù 109
109
M. Torelli, Lavinio e Roma, cit., p. 40, ma cfr. anche L. Bonfante-Warren, Roman
Costumes, cit., p. 588.
110
Virgilio (Aen. 4, 215-218) definisce semivir l’uomo che ricopre i suoi capelli con
la mitra o li imbeve di profumi.
111
Non. p. 869 L.: «Il flammeus è una veste o un indumento con cui coprono le teste
le matrone».
110 Ù Le verità del velo
Lex enim —inquit— tibi meos tantum praefinit oculos, quibus formam tuam
adprobes. His decoris instrumenta compara, his esto speciosa, horum te certiori
crede notitiae. Ulterior tui conspectus supervacua inritatione arcessitus in suspi-
cione et crimine haereat necesse est.112
112
Val. Max. 6, 3, 10: «La legge stabilisce che le tue forme possano essere giudicate
solo dai miei occhi. Per questi occhi acconcia la tua bellezza, a questi occhi dovrai
apparire bella, all’infallibile commento di questi occhi dovrai affidarti. La circostanza
che ti sia messa in vista in maniera troppo provocante ti rende necessariamente sospetta
e colpevole».
113
Isid. orig. 19, 25, 3: «La stola matronale è una sopravveste, che avvolge la testa e
la spalla destra, ed è fermata sul braccio sinistro: è chiamata stola in greco, perché si
mette sopra».
114
Hor. sat. 1, 2, 94-102: matronae praeter faciem nil cernere possis,/ cetera, ni Catia est,
demissa veste tegentis./ Si interdicta petes, vallo circumdatam nam te,/ hoc facit insanum, multae
tibi tum officient res,/ custodes, lectica, ciniflones, parasitae,/ ad talos stola demissa et circumdata
palla, /plurima, quae invideant pure adparere tibi rem./ Altera, nil obstat: Cois tibi paene videre
est/ ut nudam, ne crure malo, ne sit pede turpi;/ metiri possis oculo latus («Della matrona non
si può vedere nulla se non il viso, a meno che non si tratti di Cazia, dal momento che
copre tutto il resto con lo strascico. Se cerchi le parti proibite (è questo che ti attira) le
trovi difese quasi da un fossato, molte cose costituiranno per te un ostacolo: i guardiani,
la lettiga, gli arricciatori, le inservienti, la stola che pende fino ai talloni, il mantello
avvolto tutto intorno. Per l’altra non c’è alcuna difficoltà: attraverso i veli di Coo puoi
quasi vedere come se fosse nuda che non abbia la gamba malfatta o il piede brutto;
potresti misurarne il fianco con l’occhio»).
Francesca RomanaIntroduzione
Nocchi ∙ Obnubilatio capitis Ù 111
115
Iuv. 3, 65.
116
M. Jastrow, Veiling in ancient Assyria, in «Revue Archéologique», 14 (1921), pp.
209-238.
117
Varro ling. 7, 44: tutulus appellatus ab eo quod matres familias crines convolutos ad
verticem capitis quos habent vitta velatos dicebantur tutuli («Il tutulus è chiamato così perché
i capelli delle madri di famiglia avvolti sulla sommità del capo e cinti da una benda,
erano denominati tutuli»).
118
Cic. top. 3, 14: genus enim est uxor; eius duae formae: una matrum familias (eae sunt,
quae in manum convenerunt); altera earum, quae tantummodo uxores habentur («Il genere è
la donna, di questo esistono due tipologie; una categoria è quella delle matres familias,
si tratta di quelle che sono passate sotto la tutela del marito, l’altra è quella di coloro
che sono solo mogli»). Anche Aulo Gellio (18, 6, 9) sostiene questa distinzione. L’autore
critica le teorie di Elio Melisso, grammatico a suo parere esibizionista. Egli sosteneva
che la “matrona” è colei che ha partorito una volta sola, la mater familias quella che ha
avuto diversi parti. Gellio afferma, rifacendosi ad accreditati esperti del lessico arcaico,
che la “matrona” è propriamente colei che si è unita in matrimonio con un uomo, anche
in mancanza di figli: il nome verrebbe da “madre”, non perché la donna lo sia già,
ma perché è negli auspici che lo diventi. Poi Gellio spiega il termine mater familias:
matrem autem familias appellatam esse eam solam quae in mariti manu mancipioque aut in eius
in cuius maritus manu mancipioque esset, quoniam non in matrimonium tantum sed in familiam
quoque mariti et in sui heredis locum venisset («Mater familias è invece l’appellativo riservato
alla donna che è in potestà e possesso del marito o di chi ha la potestà e il possesso
del marito, dato che essa è entrata non solo nel matrimonio, ma anche nell’ambito
familiare del marito e nella condizione di sua erede»). È evidente che l’espressione non
in matrimonium tantum sed in familiam sottolinea come il matrimonio poneva la donna
nella condizione di moglie, mentre la conventio metteva la donna nello stato di filia
familias, con le conseguenze giuridiche inerenti a tale qualità, compresa quella di heres.
112 Ù Le verità del velo
119
Gaius inst. 1, 110.
120
Val. Max. 2, 1, 4: sed quo matronale decus verecundiae munimento tutius esset, in ius
vocanti matronam corpus eius adtingere non permiserunt, ut inviolata manus alienae tactu stola
relinqueretur («Inoltre, affinché il decoro delle matrone fosse più protetto dal baluardo
della pudicizia, non permisero a chi citava una donna in giudizio di sfiorare il suo
corpo, affinché la stola rimanesse inviolata dal contatto della mano altrui»); a questo
proposito cfr. anche Fest. p. 143 L.
121
Fest. p. 112 L.: matronas appellabant eas fere, quibus stolas habendi ius erat
(«Chiamarono matronae coloro alle quali era concesso l’uso delle stole»).
122
Val. Max. 5, 2, 1: in quarum (scil. Veturiae et Volumniae) honorem senatus matronarum
ordinem benignissimis decretis adornavit: sanxit namque ut feminis semita viri cederent,
confessus plus salutis rei publicae in stola quam in armis fuisse, vetustisque aurium insignibus
novum vittae discrimen adiecit. Permisit quoque his purpurea veste et aureis uti segmentis («In
onore di Veturia e Volumnia il senato fece dono all’ordine delle matrone di generosi
provvedimenti: sancì, infatti, che gli uomini cedessero il passo alle donne, dimostrando
così che la loro stola era stata più salutare per lo Stato delle armi, e all’antico ornamento
degli orecchini aggiunse il nuovo segno di distinzione delle bende. Permise loro anche
l’uso di vesti color porpora e di ornamenti d’oro»).
Francesca RomanaIntroduzione
Nocchi ∙ Obnubilatio capitis Ù 113
123
Varro ling. 5, 130: «La parola rica viene da ritu perché quando le donne compiono
un sacrificio secondo il rito romano velano con esso il capo».
124
Fest. p. 342 L.: «Rica o riculae erano chiamati piccoli ricinia, come foulard per
coprire il capo».
125
Non. p. 869 L.: mulieres in adversis rebus ac luctibus, cum omnem vestitum delicatiorem
ac luxuriosum postea institutum ponunt, ricinia sumunt («Le donne, nelle circostanze avverse
e nei lutti, quando depongono ogni vestito elegante e sfarzoso, indossano il ricinium»).
Il ricinium era, probabilmente, ripiegato così da formare un triangolo da porre a riparo
della testa e avvolgere il collo con le sue estremità: è Varrone che ci fornisce indicazioni
a proposito (ling. 5, 132) e ricostruisce anche un’etimologia chiaramente errata del
termine, facendolo derivare dal verbo reicere. Su questo argomento ed in generale
sull’uso della rica da parte della flaminica cfr. N. Boëls-Janssen, La prêtresse aux trois voiles,
cit., pp. 128 ss. Sulla duplicitas del ricinium in relazione alla laena duplex cfr. A. Maiuri,
Solennità e abbigliamento in Roma antica: toga, trabea e lena, in Roma antica / 2 / Costumi
tradizionali, Nuova Cultura, Roma 2007, pp. 70-73.
126
Gell., 7, 10, 4: tunica longa muliebri indutus et pallio versicolore amictus et caput rica
velatus («Rivestito di una tunica femminile lunga, ricoperto di un pallio variopinto, con
il capo velato dalla rica»).
127
Fest. p. 369 L.: «La rica è un indumento quadrato, dotato di frange, di color
porpora, che le flaminicae usavano come un foulard per coprire il capo. Altri dicono che
114 Ù Le verità del velo
moglie del flamen Dialis, come una sorta di matrona modello, con-
centrando in sé tutte le virtù della femminilità per metterle al servizio
non più di un singolo uomo, ma dell’intera città: lo statuto coniugale,
dunque, era la condizione primaria e la giustificazione del suo ruolo
sacerdotale. Il primo dovere di una moglie verso il marito era la casti-
tà e la fedeltà: per questo era necessario che ella fosse univira, ovvero
doveva aver avuto un solo marito. In questo senso la flaminica costitui-
va un modello esemplare:128 infatti il legame che la univa al flamen era
sacro, in quanto celebrato secondo il rito della confarreatio,129 l’unica
forma di matrimonio religioso esistente a Roma, che non poteva esse-
re sciolto se non dalla morte130 e il flamen non poteva esercitare il suo
mandato se perdeva la sua sposa.131 Inoltre la flaminica era una lanifica
perfetta, in quanto tesseva in prima persona la veste del marito:132
tale prescrizione simboleggiava, probabilmente, l’unione della cop-
pia flaminale, in quanto solo le mani della sposa potevano toccare
l’abito del marito per non contaminarlo. Allo stesso modo era atti-
vità imprescindibile di ogni matrona il lanificium, tanto che nell’a-
trio della casa era posto il telaio con la tela, perché rappresentasse la
virtù di chi vi abitava.133 Nei tempi antichi la matrona fabbricava gli
abiti dell’intera famiglia e la tradizione della flaminica è un retaggio
di questa usanza. Si comprende perfettamente, dunque, per quale
motivo la matrona e la sacerdotessa fossero accomunate dall’uso del-
era fatto di lana bianca grezza, che era lavorato da vergini di nascita libera, con padre e
madre ancora vivi, cittadine, ed era tinto di color ceruleo».
128
Serv. Aen. 4, 29.
129
Gaius inst. 1, 112: Farreo in manum conveniunt per quoddam genus sacrificii, quod Iovi
Farreo fit: in quo farreus panis adhibetur, unde etiam confarreatio dicitur; complura praeterea
huius iuris ordinandi gratia cum certis et sollemnibus verbis, praesentibus decem testibus
aguntur et fiunt. Quod ius etiam nostris temporibus in usu est; nam flamines maiores, id est
Diales, Martiales, Quirinales, item reges sacrorum, nisi ex farreatis nati non leguntur; ac ne ipsi
quidem sine confarreatione sacerdotium habere possunt («Con il farro le donne passano nella
potestà del marito, tramite un certo tipo di sacrificio, che è fatto a Iuppiter Farreus, nel
quale viene usato il pane di farro: da cui la cerimonia prende il nome di confarreatio.
L’adempimento regolare di questo istituto comporta molti riti che si effettuano con
delle formule solenni, in presenza di dieci testimoni. Questo istituto è ancora in
vigore ai nostri giorni, perché i flamini maggiori, cioè quello di Iuppiter, di Mars e di
Quirinus, e anche i re dei sacrifici non possono essere scelti che fra quelli che sono nati
da genitori uniti dalla confarreatio; ed essi stessi non possono esercitare il loro ministero
senza la confarreatio».
130
Questa prescrizione così rigida era valida per la coppia sacerdotale, ma in
generale tutti gli sposi confarreati soggiacevano ad una rigida normativa: un’iscrizione
di Anzio dell’epoca di Commodo parla di un sacerdos confarreationum et diffarreationum
(CIL X, 6662), evidentemente il matrimonio celebrato secondo questo rito poteva essere
sciolto solo attraverso il rito contrario ad esso, la diffarreatio, celebrata dallo stesso
sacerdote.
131
Plut. quaest. Rom. 50, 276e-f; Gell. 10, 15, 22.
132
Serv. Aen. 4, 262: veteri enim religione pontificum praecipiebatur inaugurato flamini
vestem, quae lena dicebatur, a flaminica texi oportere («Secondo l’antico costume religioso
dei pontefici si stabiliva che, dopo aver preso gli auguri, la veste del flamine, che era
chiamata lena, doveva essere tessuta dalla flaminica»).
133
CIL I, 2, 1211: domum servavit, lanam fecit.
Francesca RomanaIntroduzione
Nocchi ∙ Obnubilatio capitis Ù 115
134
Cfr. Fest., p. 369 L.
135
Serv. Aen. 3, 63: caeruleis vittis: Cato ait, deposita veste purpurea, feminas usas caerulea
cum lugerent. Veteres sane ‘caeruleum’ nigrum accipiebant («Con bende cerulee: Catone dice
che, deposta la veste color porpora, le donne usavano la veste color ceruleo quando
erano in lutto. Gli antichi, certamente, intendevano “ceruleo” come nero»).
136
Gell. 10, 15, 28: quod in rica surculum de arbore felici habet («Sulla rica porta un
ramoscello di albero propizio»); Serv. Aen. 4, 137: arculum vero est virga ex malo Punica
incurvata, quae fit quasi corona et ima summaque inter se alligatur vinculo laneo albo («L’arculum
è una bacchetta di melograno incurvata a mo’ di corona, con le sue estremità legate tra
di loro con un filo di lana bianca»).
137
Serv. Aen. 4, 137: praeterea flaminicam habere praecipitur arculum, ricam, venenatum,
fibulam («Inoltre si dice che la flaminica ha l’arculum, la rica, il venenatum, la fibula»).
138
Fest. p. 15 L.
139
Ov. fast. 2, 28-31: nomen idem (scil. februa) ramo, qui caesus ab arbore pura/ casta
sacerdotum tempora fronde tegit./ Ipse ego flaminicam poscentem februa vidi:/ februa poscenti
pinea virga data est («Lo stesso nome di februa va riferito al ramoscello tagliato da una
pianta pura, che con le sue foglie circonda e protegge le sacre tempie dei sacerdoti. Io
stesso ho visto una flaminica chiedere dei februa e vedersi consegnare una bacchettina
di legno di pino»).
140
Cfr. Fest. p. 81 L.
141
Per le valenze dell’arbor felix cfr. A. Maiuri, Roma antica / 3 / Paramenti Sacri, cit.,
pp. 21 ss.
116 Ù Le verità del velo
142
Per N. Boëls-Janssen, La prêtresse aux trois voiles, cit., p. 130, questa caratteristica
era resa necessaria dal fatto che la funzione religiosa di queste assistenti della flaminica
riguardava il benessere dell’intera città.
143
Fest. p. 82 L.: Flaminia dicebatur sacerdotula quae flaminicae Diali praeministrabat:
eaque patrimes et matrimes erat, id est patrem et matrem adhuc vivos habebat («Era detta flaminia
la sacerdotessa che assisteva la flaminica di Giove: questa era patrimes e matrimes, cioè
aveva ancora padre e madre vivi»).
144
Gell. 1, 12, 10.
145
Fest. p. 282 L.: patrimi e matrimi pueri praetextati tres nubentem deducunt: unus qui
facem praefert ex spina alba, quia noctu nubebant, duo qui tenent nubentem («Tre fanciulli con
la pretesta e con padre e madre ancora vivi conducono la sposa: uno che porta la torcia
di biancospino, poiché si sposavano di notte, due che tengono la sposa»).
146
Cfr. Serv. Aen. 12, 120: cum flaminica esset inventa tunicam laneam lino habuisse
consutam, constitisset […] piaculum esse commissum («Qualora si scopra che la flaminica abbia
tessuto la tunica di lana con il lino, si stabilisce […] che è stato commesso un sacrilegio»).
Sulla santità della lana, impiegata soprattutto a scopi religiosi e l’interdizione del lino,
tipico dei riti funerari cfr. A. Maiuri, Roma antica / 3 / Paramenti Sacri, cit., pp. 63-65.
147
Fest. p. 342 L.: Granius quidem ait esse muliebre cingulum capitis quo pro vitta flaminica
redimiatur («Granio dice che è una copertura del capo tipicamente femminile con cui la
flaminica si cingeva come fosse una benda»).
148
Id. p. 368 L.: rica est vestimentum quadratum, fimbriatum, purpureum, quo flaminicae
pro palliolo mitrai existimat. Titius [...] quod ex lana fiat sucida alba vestimentum dici rica,
idque esse triplex quod conficiant virgines ingenuae, patrimae, matrimae, cives […] tum lavetur
aqua perenni […] caeruleum («La rica è un indumento quadrato, dotato di frange, di color
porpora con cui le flaminicae, come con una mitra, si coprivano il capo. Tizio [...] dice
che era fatto di lana bianca grezza, che era triplex, lavorato da vergini di nascita libera,
con padre e madre ancora vivi […] lavato con acqua corrente […] ceruleo»).
149
Fest. p. 368 L.
150
Id. p. 484 L.: tutulum vocari aiunt flaminicarum capitis ornamentum quod fiat
vitta purpurea innexa crinibus et extructum in altitudinem («Dicono che si chiami tutulus
l’ornamento del capo delle flaminicae che si fa con una benda color porpora intrecciata
ai capelli e realizzato in altezza»).
Francesca RomanaIntroduzione
Nocchi ∙ Obnubilatio capitis Ù 117
dal fatto che Festo paragona la rica della flaminica ad una mitra,151 ov-
vero una fascia che si avvolgeva intorno alla testa e che all’inizio veni-
va impiegata per nascondere la capigliatura, poi divenne ornamento
con funzioni puramente estetiche.152
Un’ultima precisazione riguarda la menzione di un velo piutto-
sto misterioso che, a quanto pare, era indossato dalla flaminica: il
venenatum. Le fonti letterarie sono molto parche di informazioni a
questo proposito, ci dicono solo che fra gli obblighi della flaminica
vi era quello di coprirsi con il venenatum (venenato operitur).153 Servio
ribadisce la prescrizione rivolta alla flaminica in base ad un antico
costume: vetere cerimoniarum iure praeceptum est ut flaminica venenato
operta sit,154 ma aggiunge anche che fra gli oggetti sacri della sacer-
dotessa erano inclusi l’arculum, la rica, il venenatum, la fibula.155 Dal
momento che l’arculum veniva posto sopra la rica, la fibula, evidente-
mente, era un accessorio del venenatum. Si può supporre, allora, che
questo velo fosse utilizzato in maniera similare al suffibulum, ovvero
venisse posto intorno alla testa e poi fermato da una spilla sul petto.
Il mistero che avvolge questo ornatus ha dato adito a diverse inter-
pretazioni: Helbig156 lo ha identificato con la vitta, la benda con
cui si avvolgeva il tutulus della flaminica, ma l’uso da parte di Servio
del verbo operire, che propriamente significa “coprire”, sembrereb-
be invalidare questa supposizione, dal momento che la benda era
troppo piccola per coprire il capo. Inoltre, non si può prescindere
dal contesto in cui Servio inserisce la menzione del velo: l’autore
sta commentando il passo in cui Virgilio descrive Didone che parte
con Enea per la caccia e si avvolge con una clamide. Il commenta-
tore vede in Enea e Didone l’emblema della coppia flaminale, per
questo paragona la clamide della donna al venenatum, ma è evidente
che con questo termine vuole intendere un indumento avvolgente e
non semplicemente ornamentale come una benda.
Schilling,157 invece, ha assimilato il venenatum al tutulus che a suo
avviso era originariamente un berretto indossato sopra lo chignon,158
151
Fest. p. 368 L.
152
In latino era detta capital da caput (Varro ling. 5, 130); Tertulliano, lamentandosi
della corruzione femminile, dice che la mitra non era più usata per nascondere la testa,
ma era avvolta intorno all’acconciatura come ornamento (Tert. virg. vel. 17, 1).
153
Gell. 10, 15, 27: «Si copre con il venenatum».
154
Serv. Aen. 4, 137: «In base all’antico diritto delle cerimonie si stabilì che la
flaminica si coprisse con il venenatum».
155
Ibidem.
156
W. Helbig, Über den Pileus der alten Italiken, in «Sitz. Ber. der Bayer Akad. (philol.-
hist. Classe)», 1880, i, p. 515. L’autore, per giustificare la sua teoria, pensa a un’evoluzione
della foggia delle vittae, che nei tempi antichi sarebbero state tanto larghe da poter
coprire il capo e si avvale della testimonianza di Varrone (ling. 7, 44) per comprovare
la sua tesi.
157
R. Schilling, La Religion romaine de Vénus, De Boccard, Paris 1954, p. 44.
158
Lo studioso si basa su un’assimilazione di Venere latina con la dea etrusca
Turan, che nelle rappresentazioni figurate avrebbe il tutulus, equivalente etrusco del
latino venenatum. In effetti Festo (p. 484 L.), dice che il tutulus era anche un cappello
118 Ù Le verità del velo
che indossavano i flamini ed i pontefici: quidam pilleum lanatum forma metali figuratum
quo flamines ac pontifices utantur eodem nomine vocari, e questo farebbe pensare che
originariamente con questo termine si indicasse un oggetto e solo successivamente
la pettinatura della flaminica e delle matrone. Di diversa opinione è N. Boëls-Janssen,
La prêtresse aux trois voiles, cit., p. 123, che rifiuta la tesi di un’evoluzione storica del
termine e ritiene semplicemente che Festo intendesse riferire il diverso significato che
veniva dato al termine tutulus (quidam), che per alcuni indicava un berretto, per altri
l’acconciatura: l’analogia si fondava sulla forma conica similare.
159
L. Sensi, Ornatus e status sociale delle donne romane, in «Annali della Facoltà di
Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Perugia», 18 (1980-81), pp. 53-102, p. 73.
160
N. Boëls-Janssen, La prêtresse aux trois voiles, cit., pp. 121-128.
161
Illuminante, a questo proposito, è la spiegazione offerta dallo stesso Servio
(Aen. 4, 137): vetere caerimoniarum iure praeceptum est ut flaminica venenato operta sit.
Operta, autem, cum dicitur, pallium significatur; venenatum autem, infectum: quod ipse ait in
Bucolicis ‘alba nec Assyrio fucatur lana veneno’. Hic vero cum dicit ‘Sidoniam’, ostendit Tyriam
et purpuream: purpuream declarat infectam («Secondo l’antico diritto cerimoniale è stato
stabilito che la flaminica venga coperta dal venenatum. Quando si dice “coperta” si
intende da un mantello; venenatum, invece, “tinto”: come dice egli stesso nelle Bucoliche:
“né la lana bianca si colora della tintura assira”. Quando afferma “Sidonia” indica di
Tiro, purpurea: purpurea significa tinta»).
162
Cfr. Verg. ecl. 8, 95-98: has herbas atque haec Ponto mihi lecta venena/ ipse dedit Moeris
nascuntur plurima Ponto;/ his ego saepe lupum fieri («Queste erbe e questi veleni raccolti
dal Ponto me li diede Meri, il Ponto ne produce moltissimi; con questi vidi spesso Meri
trasformarsi in lupo»); Hor. epod. 5, 62; Plaut. Pseud. 870.
163
Gell. 20, 9, 3: iam tonsiles tapetes ebrii fuco/ quos concha purpura imbuens venenavit
(«Tappeti di raso, ebbri di fuco, che la conchiglia imbevendo ha tinto di porpora»); Serv.
georg. 2, 465; Hor. epist. 2, 1, 207.
Francesca RomanaIntroduzione
Nocchi ∙ Obnubilatio capitis Ù 119
Cristina Simonelli
1
Tertulliano, L’eleganza delle donne, I, 1, 1-2, trad. di S. Isetta, in Tertulliano, Opere
catechetiche. Gli spettacoli, la preghiera, il battesimo, la pazienza, la penitenza alla moglie,
l’eleganza femminile, a cura di S. Isetta, S. Matteoli, V. Sturli, 2 voll., Città Nuova Editrice,
Roma 2008. Della stessa curatrice è anche l’efficace introduzione (pp. 325-351), che
ripropone le acquisizioni fondamentali dell’edizione curata in precedenza, cfr. Sandra
Isetta (a cura di), L’eleganza delle donne: de cultu feminarum, Firenze, Nardini Editore,
1986. Si veda anche commento in R. Uglione, La donna in Tertulliano, in E. Dal Covolo
(a cura di), Donna e matrimonio alle origini della Chiesa, LAS, Roma 1996, pp. 81-110, in
particolare 81-89.
2
Tra le quale segnalerei, almeno, l’epitalamio composto da Paolino di Nola insieme
alla moglie Terasia, dono per le nozze di Tiziana e Giuliano, futuro vescovo di Eclano e
oppositore di Agostino in merito ad una laus nuptiarum.
3
Tertulliano, ne Il battesimo, 6, 1, si riferisce a «quella vipera della setta di Caino», una
donna che avrebbe fatto parte di un gruppo, forse gnostico, contrario alla materialità
dei riti; invece, in 17, 4-5, presenta le donne di Cartagine che si appoggiavano a Tecla:
«Ma l’insolenza (petulantia) di quella donna che già ha usurpato il diritto di insegnare
(quae usurpavit docere), non giungerà ad arrogarsi anche quello di battezzare, a meno
che non sorgano altre bestie simili alla prima: così, come quella voleva eliminare il
battesimo, un’altra potrebbe pretendere di amministrarlo lei stessa! Ma se queste
donne, basandosi sugli Atti erroneamente attribuiti a Paolo, ricordano l’esempio di
Tecla per difendere il diritto delle donne di insegnare e battezzare, sappiano che in
Asia il presbitero che ha composto questo scritto pensando di aggiungere qualcosa di
suo alla fama di Paolo, una volta scoperto, dichiarò di aver agito per amore di Paolo e fu
comunque deposto dal suo incarico».
4
Tertulliano ha aderito alla Nuova Profezia in una fase successiva alla fondazione
frigia, della quale mantiene la stima per il carisma profetico, l’ansia di rinnovamento e
compimento escatologico (attesa della fine dei tempi), manifestando in particolare un
forte accento rigorista in campo morale e più ampiamente ecclesiale. Oggi si discute
se la sua appartenenza si sia configurata o meno come uno scisma formalizzato. Cfr. C.
Micaelli, Tertulliano e il montanismo in Africa, in M. Marin, Claudio Moreschini (a cura
di), Africa Cristiana. Storia, religione, letteratura, Morcelliana, Brescia 2002, pp. 15-49. Per
un inquadramento più ampio del fenomeno si può inoltre fare riferimento a Giuseppe
Visonà, Il fenomeno profetico nel montanismo, in «Ricerche Storico-Bibliche», 5 (1993), pp.
149-164; Id., Cristianesimo primitivo e profezia, in G. Calabrese (a cura di), Chiesa e Profezia,
Edizioni Dehoniane, Roma 1996, pp. 59-78; E. Norelli, Parole di profeti, parole sui profeti.
La costruzione del montanismo nei frammenti dell’Anonimo antimontanista (Eusebio di Cesarea,
HE V, 16-16), in G. Filoramo (a cura di), Carisma profetico. Fattore di innovazione religiosa,
Morcelliana, Brescia 2003, pp. 107-132; M.G. Mara, Movimenti e figure del cristianesimo
Cristina SimonelliIntroduzione
∙ Tertulliano e l’obbligo del velo Ù 123
antico, in C. Militello (a cura di), Profezia. Modelli e forme nell’esperienza cristiana laicale,
Cedam, Padova 2000, pp. 107-124, in particolare 114-117.
5
Tertulliano, De anima, 9, 4.
6
«Che unione quella di due fedeli, uniti da una stessa speranza, da un unico
desiderio, da un unico modo di vita (disciplina) dallo stesso servizio! Entrambi fratelli,
entrambi compagni di servitù; nessuna distinzione nello spirito o nella carne, ma
veramente due in una carne sola. E dove unica è una carne sola, è uno anche lo spirito:
insieme pregano, insieme meditano, insieme affrontano i digiuni, si ammaestrano
reciprocamente, reciprocamente si esortano, reciprocamente si sostengono. Sono
entrambi pari davanti alla Chiesa (pariter), pari al banchetto di Dio e nelle sofferenze,
nelle persecuzioni, nella consolazione. Nessuno dei due nasconde nulla all’altro,
nessuno vieta nulla all’altro, nessuno è di peso all’altro» (Alla moglie, 2, 8, 7-8, trad. di V.
Sturli, in Tertulliano, Opere catechetiche, cit.).
7
Tertulliano, De anima, 25, 3.
8
G. Bonaccorso, Il corpo di Dio. Vita e senso della vita, Cittadella, Assisi 2006, pp. 48
e 55-56 su Tertulliano.
124 Ù Le verità del velo
Poiché fin dall’inizio ci hai fatto conoscere il tuo odio per la nascita,
adesso mettiti a sproloquiare su questa sozzura che gli elementi genita-
li hanno messo nel ventre, su questi laidi grumi di sangue e di acqua,
su questa carne che deve, per nove mesi, trarre il suo nutrimento da
questo letamaio. Descrivi dunque questo ventre, ogni giorno sempre
più mostruoso, tormentato e mai in riposo, neanche nel sonno […]
tu odi la nascita dell’uomo, e come puoi amare qualcuno? Il Cristo,
almeno, amò quest’uomo, questo grumo formato nel seno tra le im-
mondizie, quest’uomo che viene al mondo attraverso gli organi della
menzogna, quest’uomo nutrito in mezzo a ridicole carezze. E’ per lui
che è disceso dal cielo, per lui che ha predicato, per lui che in tutta
umiltà si è abbassato fino alla morte e la morte di croce.10
9
Senza entrare nella complessa delimitazione del fenomeno gnostico, ricordiamo
qui solo che Tertulliano tende ad interpretare sotto un’unica chiave dualista movimenti
ed autori diversi, Marcione compreso, come appare nella sua cosiddetta “trilogia
antimarcionita”: La carne di Cristo, Contro Marcione (5 libri, composti di diversi momenti),
La resurrezione della carne. Cfr. P. Podolak, Introduzione a Tertulliano, Morcelliana, Brescia
2006, pp. 55-59, ed anche Tertulliano, La resurrezione della carne, a cura di P. Podolak,
Morcelliana, Brescia 2004.
10
Tertulliano, La carne di Cristo, 4, 1-3.
11
Si può infatti confrontare l’affermazione secondo la quale risorgerà et quidem ipsa
et quidem integra (Resurrezione, 61) con quanto appena prima affermato (Resurrezione, 59).
12
Qua inteso in senso ampio, come relazione fra sesso biologico e configurazioni di
ruolo culturalmente e socialmente determinate: «Il concetto di Politics of Location (della
Rich) consiste nel dire che il punto di partenza deve essere il vissuto sessuato femminile
di ognuna di noi e che questo non è identico per noi tutte. La nostra somiglianza è
invece tessuta di differenze: siamo le stesse nella nostra corporalità femminile, ma il
corpo non è pura natura (sex), ma specialmente cultura, cioè punto di intersezione fra
il biologico, il sociale e il simbolico (gender). Il fatto di essere donne resta comunque il
nostro punto di partenza, la nostra collocazione nel mondo, il nostro modo d’inserzione
Cristina SimonelliIntroduzione
∙ Tertulliano e l’obbligo del velo Ù 125
nella realtà: all’inizio c’è il fatto di essere un corpo sessuato femminile che è fonte di
vita e di maternità; questo viene articolato dalla Rich come posizione politica e teorica»
(R. Braidotti, Il paradosso del soggetto “femminile e femminista”. Prospettive tratte dai recenti
dibattiti sulle gender theories, in La differenza non sia un fiore di serra, a cura di Il Filo di
Arianna, Franco Angeli, Milano 1991, p. 23). Pur non ignorando ulteriori sviluppi delle
gender theories, preferisco attenermi a questa prospettiva, cfr. C. Simonelli, Patrologia in
questione, in Non contristate lo Spirito. Prospettive di genere e teologia: qualcosa è cambiato?, a
cura di M. Perroni, Il segno dei Gabrielli Editori, Negarine di S. Pietro in Cariano (VR)
2007, pp. 173-179.
13
Tertulliano, La preghiera 20. All’abbigliamento ed alla cosmesi femminile dedica
in seguito il de cultu, al cui incipit ci siamo sopra riferiti.
14
Tertulliano, La preghiera 21-22. Eva Schulz-Flügel (Tertullien, Le voile des vierges
[“Sources Chrétiennes”, 424], Édition du Cerf, Paris 1997, pp. 26-30) offre un’accurata
sinossi dei due testi, che permette di individuare parallelismi e differenze.
15
Più ampia discussione in E. Schulz-Flügel, Tertullien, Le voile des vierges, cit., pp. 41-46:
anche per il testo si farà riferimento a questa edizione. Esiste anche una traduzione italiana:
Tertulliano, De virginibus velandis. La condizione femminile nelle prima comunità cristiane, a cura
di P.A. Gramaglia, Borla, Roma 1984. Gramaglia opta tuttavia per la traduzione “ragazze”,
ritenendo che la questione anche in partenza non sia unicamente riferita al culto.
126 Ù Le verità del velo
16
«Da qualche parte» (9, 4-6: alicubi). La determinazione vaga del luogo potrebbe
tuttavia indicare anche la comunità di Cartagine stessa, dato che in più di una occasione
Tertulliano allude in questo modo a vescovi molto noti. Il caso più citato è quello di
pudicitia, in cui l’incriminato potrebbe essere il vescovo di Cartagine o quello di Roma.
17
Anche se, in conclusione dell’opusculum, trova modo di redarguire anche queste,
in quanto certi veli sono più ornamenti che reali coperture (17). Un’osservazione simile
è presente anche in Tradizione Apostolica 18.
Cristina SimonelliIntroduzione
∙ Tertulliano e l’obbligo del velo Ù 127
18
Tertulliano, La preghiera 22, 7. Gramaglia (Tertulliano, De virginibus velandis, cit.,
p. 146) si riferisce anche alle prescrizioni matrimoniali riportate in Ketubot 7, 6, secondo
le quali le donne devono uscire di casa a capo coperto.
128 Ù Le verità del velo
4.1. La Scrittura
Ma ogni donna che prega o profetizza senza velo sul capo, manca di
riguardo al proprio capo, poiché è lo stesso che se fosse rasata. Se dun-
que una donna non vuol mettersi il velo, si tagli anche i capelli! Ma se
è vergogna per una donna tagliarsi i capelli o radersi, allora si copra.
L’uomo non deve coprirsi il capo, poiché egli è immagine e gloria di
Dio; la donna invece è gloria dell’uomo. E infatti non l’uomo deriva
dalla donna, ma la donna dall’uomo; né l’uomo fu creato per la donna,
ma la donna per l’uomo. Per questo la donna deve portare sul capo
un segno dell’autorità a motivo degli angeli. Tuttavia, nel Signore, né
la donna è senza l’uomo, né l’uomo è senza la donna; come infatti la
donna deriva dall’uomo, così l’uomo ha vita dalla donna; tutto poi
proviene da Dio. Giudicate voi stessi: è conveniente che una donna
faccia preghiera a Dio col capo scoperto? Non è forse la natura stessa
a insegnarci che è indecoroso per l’uomo lasciarsi crescere i capelli,
mentre è una gloria per la donna lasciarseli crescere? La chioma le è
stata data a guisa di velo (1Corinzi 11, 5-15).
19
T.D. Barnes, Tertullian. A Historical and Literary Study, Oxford University Press,
Oxford 19852, p. 141.
20
Schulz-Flügel indica altre formulazioni parallele, sempre a tre membri e di
simile significato ma non identiche, in altre opere di Tertulliano, cfr. E. Schulz-Flügel,
Tertullien, Le voile des vierges, cit., p. 262.
21
La facile constatazione è confortata dall’opinione di un attento studioso quale
Daniel Marguerat: l’apostolo risponde affastellando argomenti, con una retorica
affrettata ed incoerente, che tradisce imbarazzo. Cfr. D. Marguerat, Statut des femmes
dans les communautés religieuses. L’affaire du voile des femmes à Corinthe, in R. Frei-Stolba,
A. Bielman, O. Bianchi (a cura di), Egypte – Grèce – Rome. Les femmes antiques entre
sphère privée et sphère publique (“Echo”, 2), Peter Lang Verlag, Bern 2003, pp. 237-247, in
particolare 238.
Cristina SimonelliIntroduzione
∙ Tertulliano e l’obbligo del velo Ù 129
4.2. La natura
22
È soprattutto su questo passo che viene sviluppato l’argomento a partire dalla
disciplina, che oltre alla parola interdirebbe, secondo Tertulliano, anche le altre
funzioni “tipicamente maschili” (virg. 9).
23
Larga recensione degli interventi antichi e recenti in G. Biguzzi, Velo e silenzio.
Paolo e la donna in 1Cor 11, 2-16 e 14, 33b-36, EDB, Bologna 2001, pp. 85-152. Acute
osservazioni in E.E. Green, Il vangelo secondo Paolo. Spunti per una lettura al femminile (e
non solo), Claudiana, Torino 2009, pp. 171-191 e M.L. Rigato, Una rilettura di 1Cor 10, 32-
33 + 11, 1-16, in «Rivista Biblica», 53 (2005), pp. 31-70.
24
È opinione di Marguerat (Statut des femmes, cit., p. 247) che le donne di Corinto
avessero compreso l’istanza universalistica del messaggio di Paolo, portandola a
conseguenze “prevedibili”, ma la cui portata aveva destabilizzato l’assetto sociale della
comunità ed anche lo stesso apostolo.
25
«L’espressione “La donna deve avere exousia sulla [sua] testa” significa dunque
probabilmente che essa deve acconciare i suoi capelli in modo da rendere visibile
all’occhio di tutti la sua irrinunciabile identità, per non mettersi fuori dal disegno del
Creatore che, portando all’esistenza uomo e donna in modo diverso, attribuì all’uno e
all’altra un diverso status creaturale» (G. Biguzzi, Velo e silenzio, cit., pp. 46-47 e 70: «In
una parola, in 1Cor 11, 2-16 Paolo si fa inflessibile difensore della differenziazione dei
sessi: l’uomo resta uomo e la donna resta donna anche nell’economia della redenzione e
nelle assemblee corinzie di preghiera e di profezia l’uomo continui dunque a mostrarsi
uomo e la donna continui a mostrarsi donna».
130 Ù Le verità del velo
4.3. Un metodo
ecco i punti sui quali abbiamo basato la difesa del nostro modo di
risolvere questo problema: in conformità alla Scrittura, in conformità
alla natura, in conformità alla disciplina. La Scrittura istituisce la nor-
mativa, la natura ne fornisce la conferma e la disciplina la concretizza.
[…] la Scrittura è di Dio, di Dio è la natura e di Dio è pure la disciplina.
Qualunque cosa si opponga a queste tre realtà non è di Dio.26
26
In his consistit defensio nostrae opinionis secundum scripturam, secundum naturam,
secundum disciplinam. Scriptura legem condit, natura contestatur, disciplina exigit. Cui ex his
consuetudo opinionis prodest vel qui diversae sententiae color? Dei est scriptura, Dei est natura,
Dei est disciplina; quicquid contrarium est istis, Dei non est (virg. 16, 1-2).
Cristina SimonelliIntroduzione
∙ Tertulliano e l’obbligo del velo Ù 131
27
Probabilmente ne sono eredi movimenti, ricorrenti nella storia, di riforma,
all’interno dei quali l’ispirazione evangelica riconfigura anche i ruoli, sia sociali che di
genere. Se ne potrebbe vedere un esempio antico nella crisi messaliana, in cui il tratto
monastico è in modo evidente portatore di istanze di riforma ecclesiale. Le fonti sono
chiaramente di parte avversa, ma permettono quanto meno di individuare modalità
di ridistribuzione dei ruoli avvertite come destabilizzanti. Così osserva Timoteo
di Costantinopoli: «Costoro promuovono a maestre dei loro insegnamenti eretici le
donne consentendo loro di presiedere non soltanto agli uomini, ma perfino ai preti.
E mettendo a loro capo delle donne disonorano il vero capo, Cristo Dio» (De iis qui ad
ecclesiam accedunt 18 – PG 86, 52, trad. L. Cremaschi). Analoghe osservazioni in Epifanio,
Panarion 80, 3 (PG 48, 760-761), cfr. L. Cremaschi, Introduzione, in Pseudo-Macario,
Spirito e fuoco, a cura di L. Cremaschi, Edizioni Qiqajon, Magnano (BI) 1995, p. 14.
132 Ù Le verità del velo
Vergine, non ti reco offesa: hai scelto la continenza per l’urgenza del
tempo presente. Ti è piaciuto esser santa nel corpo e nello spirito: ma
non ti insuperbire, sei parte della stessa Chiesa di cui sono membra an-
che le donne sposate (Gioviniano, in Girolamo, Contro Gioviniano, I, 4).
28
La questione sollevata da Gioviniano è di grande interesse proprio anche in
relazione alla questione “pelagiana” e soprattutto alla declinazione che del tema farà
Giuliano di Eclano, in difesa delle nozze. Appare ancora attuale l’invito di Hunter a
riesaminare la questione, rintracciandola nella fonte più diretta che è rappresentata
proprio dalla confutazione di Girolamo nel Contro Gioviniano, cfr. D.G. Hunter, Resistance
to the Virginal Ideal in Late-Fourth-Century Rome: The Case of Jovinian, in «Theological
Studies», 48, 1 (1987), pp. 45-64. Duval ha in seguito pubblicato i risultati dei suoi studi
sul Contro Gioviniano, iniziati negli anni ’70, in un’importante monografia, cfr. Y.-M.
Duval, L’affaire Jovinien: d’une crise de la société romaine à une crise de la pensée chrétienne à
la fin du IV e tau début du Ve siècle (Studia ephemeridis “Augustinianum”, 83), Institutum
Patristicum Agostinianum, Roma 2003. Per il più ampio contesto che accompagna
questa prospettiva di Agostino, cfr. V. Grossi, Il contesto del De bono coniugali di S.
Agostino. A proposito della sessualità umana in alcuni movimenti cristiani del tardo antico, in
«Rassegna di Teologia», 47, 6 (2006), pp. 873-892.
Cristina SimonelliIntroduzione
∙ Tertulliano e l’obbligo del velo Ù 133
29
I. Trevisani, Il velo e lo specchio. Pratiche di bellezza come forma di resistenza agli
integralismi, Baldini Castoldi Dalai, Trebaseleghe (PD) 2006.
30
A. Djebar, Queste voci che mi assediano. Scrivere nella lingua dell’Altro, Il Saggiatore,
Milano 2004, pp. 83; 13-18 (passim).
134 Ù Le verità del velo
Introduzione Ù 135
C aterina Moro
1
Ricordiamo l’esistenza di almeno due “canoni” biblici, quello dei manoscritti del-
la versione greca della Bibbia, che è più ampio e comprende libri scritti in ebraico ma
non canonici per gli ebrei (come ad es. Siracide) e libri composti direttamente in greco
(come ad es. Sapienza), e quello dei manoscritti ebraici, diviso in Legge, Profeti e Scrit-
ti, la cui fissazione è datata tradizionalmente al II secolo d.C. Sul tema si veda ad es. J.
Trebolle Barrera, La Biblia judía y la Biblia cristiana, Trotta, Madrid 1993.
2
Sul problema si veda G. Garbini, Note di lessicografia ebraica, Morcelliana, Brescia
1998, spec. 9-11. Riguardo all’argomento di questo saggio, il nuovo libro di C. Ben-
136 Ù Le verità del velo
der (Die Sprache des Textilen: Untersuchungen zu Kleidung und Textilen im Alten Testament
[“BWANT”, 177}, W. Kohlhammer, Stuttgart 2008) non prende in esame i termini qui
analizzati, e non ho potuto consultare H.W. Hönig, Die Bekleidung des Hebräers, Brunner,
Zürich 1957.
3
Vedi la voce s‘p in L. Koehler, W. Baumgartner (revisione di W. Baumgartner, J.J.
Stamm), The Hebrew and Aramaic Lexicon of the Old Testament III, E.J. Brill, Leiden 1996,
1042a.
4
Il sostantivo compare come tale, oltre che nei LXX e in Giuseppe e Aseneth, in An-
tologia Palatina 6, 254 (riferito agli indumenti raffinati di un travestito); nella forma
theristrion è usato anche da Teocrito (Le siracusane, 69).
5
La versione greca non è di aiuto in questo caso.
6
L. Koehler, W. Baumgartner, The Hebrew and Aramaic Lexicon of the Old Testament,
cit., III, 1266.
7
Vedi oltre per altre prescrizioni riguardanti il sabato.
8
G. Garbini (a cura di), Cantico dei Cantici, Paideia, Brescia 1992, 70 ss.
9
Il collegamento dei lessicografi con una radice che vuol dire “ripiegare” favorisce
questa ipotesi: si tratterebbe di una parte “ripiegata” del mantello o della sopravveste,
che si può riportare sul capo.
10
R.G. de Vaux, Les Institutions de l’Ancien Testament I, Editions du Cerf, Paris 1958,
59 (secondo questo A. la velatura della sposa è presupposta anche dall’episodio di Gen.
29,23-25, in cui Labano sostituisce Rachele con Lia come sposa di Giacobbe. Tuttavia
nel testo non si parla affatto di copertura o velatura della sposa); D.R. Edwards, Dress
and Ornamentation, cit., 235a.
Introduzione
Caterina Moro · Il velo nel mondo biblico e nel giudaismo Ù 137
11
Il riferimento è al levirato, ovvero all’obbligo per il fratello di un uomo morto sen-
za figli di sposarne la vedova: il primogenito di questa unione risulterà figlio del primo
marito (Deuteronomio 25,5-10; il levirato è anche al centro della narrazione del libro di
Ruth). Tamar resta vedova in successione di due figli di Giuda, e viene rimandata dal
padre in attesa che divenga adulto il terzo figlio. Ma poiché il suocero non vuole co-
munque darglielo come marito, per paura che muoia anche lui, Tamar ricorre allo stra-
tagemma narrato per avere un figlio dal suocero e quindi ottemperare al suo obbligo.
12
V. 14 “(…) e si coprì con lo tsa‘if, si avvolse”. La forma verbale usata per “avvolgersi”
(hitpa‘el di ‘alaf ) con questo senso è un hapax, altrove significa “appassire, venir meno”
(Amos 8,13 e Giona 4,8). Impossibile dire quindi se l’azione si addice a un velo posto sulla
faccia, o piuttosto a un manto che coprisse più o meno tutta la figura.
13
Nel v. in questione Tamar è presa per una zonah “prostituta”, ma oltre è detta
qedaša, generalmente tradotto “prostituta sacra”. Il termine presenta alcuni problemi
perché al di fuori dell’ambito ebraico indicherebbe una donna impiegata nel tempio,
ma non una prostituta (M.I. Gruber, Hebrew Qĕdēšāh and Her Canaanite and Akkadian
Cognates, in «Ugarit Forschungen», 18 [1986], pp. 133-143). K. Van der Toorn è più pos-
sibilista sull’esistenza della prostituzione sacra, ma la considera un servizio prestato per
garantire un’entrata al Tempio o per potersi procurare i mezzi per soddisfare un voto
(vedi Deut. 23,18-19; Female Prostitution in Payment of Vows in Ancient Israel, in «Journal
of Biblical Literature», 108 [1989], pp. 193-205; Ead., s.v. “Cultic Prostitution”, in D.N.
Freedman [a cura di}, The Anchor Bible Dictionary 5, Doubleday, New York 1992).
14
In Genesi 37,31-33 i fratelli di Giuseppe usano un vestito sporco del sangue di un
capretto (e un capretto compare tra i pegni lasciati da Giuda alla presunta prostituta)
per convincere Giacobbe che Giuseppe è morto (sulle corrispondenze narrative tra la
storia di Giuseppe e quella di Giuda, già note all’esegesi antica, vedi R. Alter, The Art of
Biblical Narrative, Basic Books, New York 1981, pp. 3-22).
15
J.A. Soggin, Judah and Tamar, in H.A. McKay, D.J.A: Clines (a cura di), Of Prophets’
Visions and the Wisdom of the Sages, (“JSOT”, Suppl. 162), JSOT Press, Sheffield 1993, pp.
281-287, spec. pp. 284 ss.; Id., Das Buch Genesis, cit., pp. 452 ss.; A. Catastini, Storia di
138 Ù Le verità del velo
Giuseppe, Marsilio, Venezia 1994, pp. 52-58; Id., Le testimonianze di Manetone e la «Storia
di Giuseppe», in «Henoch», 17 (1995), pp. 279-300.
16
Come l’adempimento di un voto, come sostiene K. Van den Toorn, Female Prosti-
tution, cit.
17
Il verbo para‘ è interpretato in questo modo dalla traduzione greca, e di conse-
guenza da Filone Alessandrino e da Flavio Giuseppe (vedi oltre), mentre i lessicografi
in conformità con altri passi gli danno il significato “sciogliere (i capelli)”. All’epoca del
Talmud le due interpretazioni finirono con l’essere considerate due fasi del rito, una in
cui il sacerdote levava la copertura dalla testa, e una seconda in cui scioglieva i capelli
della donna (Sotah 8b).
18
Assieme a Deuteronomio 24,1 «ha trovato in lei qualcosa di vergognoso».
19
Sul romanzo vedi M. Philonenko, Joseph et Aséneth. Introduction, texte critique,
traduction et notes (“Studia post-biblica”, 13), E.J. Brill, Leiden 1968; C. Burchard, Ein
vorläufiger Text von Joseph und Aseneth, in «Dielheimer Blätter zum Alten Testament», 14
(1979), pp. 2-53; Id., Verbesserung zum vorläufigen Text von Joseph und Aseneth, in «Dielhei-
mer Blätter zum Alten Testament», 16 (1982), pp. 37-39; Id., Joseph and Aseneth, in J.H.
Charlesworth (a cura di), Old Testament Pseudoepigrapha II, Doubleday, New York 1985,
pp. 177-247; G. Boek, Joseph and Aseneth and the Jewish Temple in Heliopolis (“SBL Early
Judaism and its Literature”, 10), Scholars Press, Atlanta 1996; D. Maggiorotti, Giuseppe
e Asenet, in P. Sacchi (a cura di), Apocrifi dell’antico testamento, IV, Morcelliana, Brescia
2000, pp. 423-452; vedi anche C. Grottanelli, Sette storie bibliche (“Studi Biblici”, 119),
Morcelliana, Brescia 1998, pp. 54-57 (per l’A. l’uso del tema della purezza e della com-
mensalità inserisce quest’opera nettamente nell’orbita giudaica).
20
Ritengo tali, e quindi non significativi per la condizione della donna nella società
di riferimento, particolari come il fatto che Aseneth viva isolata e sorvegliata a vista
in una torre (su questo concordano M. Philonenko, Joseph et Aséneth, cit., pp. 40-43; G.
Boek, Joseph and Aseneth, cit., pp. 67 ss., 78-74).
Introduzione
Caterina Moro · Il velo nel mondo biblico e nel giudaismo Ù 139
21
Per questo procedimento esegetico in ambito giudeo-ellenistico si vedano ad es. i
frammenti di Demetrio in L. Bombelli, I frammenti degli storici giudaico-ellenistici, DARFI-
CLET, Genova 1986, pp. 23-32, 71-96.
22
Come abbiamo visto, si tratta del termine usato dai traduttori greci per tsa‘if e redid.
23
La precisazione è presente solo nel testo edito da C. Burchard (Ein vorläufiger Text
von Joseph und Aseneth, cit., p. 32), non nel testo più breve edito da Philonenko.
24
Philonenko cita come paralleli la natura androgina della dea egiziana Neith, con
cui Aseneth ha dei punti di contatto (Joseph et Aséneth, cit., p. 76) e l’aspetto androgino
dell’iniziato nei culti misterici (p. 181). Ad es. D. Maggiorotti, Giuseppe e Aseneth, cit., p.
495, circa il “giovane uomo” si limita a respingere la tesi di Philonenko (seguendo C.
Burchard, Joseph and Aseneth, cit., 226b).
25
Nel suo commentario Philonenko (Joseph et Aséneth, cit., p. 181) riconosce che
l’espressione hōs andròs neanìskou è problematica, essendo neanìskos un sostantivo usato
come aggettivo. Non è impossibile che si tratti della conflazione di due letture concor-
renti, una meno connotata ideologicamente che paragona Aseneth a un “giovinetto”
(cioè, secondo il dettato rabbinico, a un minorenne non tenuto a coprirsi), e una che
invece la assimila a un anēr, cioè sospende la differenza di genere.
140 Ù Le verità del velo
26
W.A. Meeks, The Image of Androgyne: Some Uses of a Symbol in Early Christianity, in
«History of Religions», 13 (1974), pp. 165-208, spec. pp. 180-185; M.R. D’Angelo, Tran-
scribing Sexual Politics: Images of the Androgyne in Discourses of Antique Religions, in C. Loca-
telli, G. Covi (a cura di), Descrizioni e iscrizioni: politiche del discorso, Università di Trento,
Dipartimento di scienze filologiche e storiche, Trento 1998, pp. 115-146, spec. pp. 119-
122; L. Fatum, Immagine di Dio e gloria dell’uomo: le donne nelle comunità paoline, in K.E.
Børresen (a cura di), A immagine di Dio: modelli di genere nella tradizione giudaica e cristiana,
Carocci, Roma 2001, pp. 63-144, spec. pp. 64-68, 75-91 (ritengo assai centrato il com-
mento dell’A. sul ruolo che questa affermazione ha nel sistema di pensiero di Paolo, non
come un’affermazione di parità ma come aspirazione a un’abolizione dei ruoli sessuali,
in un generale ripudio della sessualità).
27
Oltre a 1Corinzi 11, di cui parleremo più in dettaglio, vedi anche 1Corinzi 14,34-35.
28
M.L. Rigato, Paolo imita Gesù nella promozione della donna, in J. Murphy-O’Connor,
C. Militello, M.L. Rigato, Paolo e le donne (“Orizzonti biblici”), Cittadella, Assisi 2006,
pp. 110-182, spec. pp. 133 s.
29
Su questa espressione e il modo in cui è tradotta qui vedi C. Moro, Dividere e unire:
la creazione dell’uomo e della donna nell’esegesi giudaica antica e nella critica moderna, in «Studi
e Materiali di Storia delle Religioni», 28 (2004), pp. 123-143, spec. pp. 128-132; Ead., Di-
Introduzione
Caterina Moro · Il velo nel mondo biblico e nel giudaismo Ù 141
Adamo viene plasmato dalla polvere del suolo ed Eva da una sua
costola. Il più antico tentativo di sintesi logica è quello offerto dal
libro dei Giubilei,30 in cui dopo una parafrasi dei due racconti31 si
dice «nella prima settimana fu creato Adamo e anche la costola, sua
moglie, e nella seconda settimana Egli gliela mostrò» (3,8), come a
dire che l’espressione biblica «maschio e femmina» di Genesi 1,27
deve essere intesa come una creazione del maschio che includeva
già la femmina nel suo corpo. Un perfetto parallelo alla protologia
di Paolo in 1Corinzi 11 si ha nel primo libro degli Oracoli Sibillini, un
testo giudeo-ellenistico pervenutoci in una rielaborazione cristiana,
in cui il solo Adamo è creato «a immagine di Dio» (vv. 22-23) e la
donna è creata per lui, dopo che questo è stato posto nell’Eden.32
Ovviamente questa forma di sintesi aveva bisogno di una società in
cui per “uomo” si intenda soprattutto il maschio. A tale motivazione
scritturale Paolo giustappone una sentenza circa la complementarità
della creazione dell’uomo e della donna (1Corinzi 11,11-12): «tutta-
via, né la donna [è] senza l’uomo né l’uomo è senza la donna nel
Signore: come infatti la donna deriva dall’uomo, così l’uomo [nasce] per
mezzo della donna; tutto poi viene da Dio». Tale sentenza si ritrova
citata per ben due volte (senza la parte messa qui in corsivo) nel
commentario ebraico Berešit (Genesi) Rabba, redatto attorno al V sec.
d.C. Nel commentario la frase è posta in bocca a Rabbi Aqiba (attivo
attorno al 135 d.C.) e a Rabbi Simlai (attorno al 250 d.C.) nel conte-
sto dell’interpretazione rispettivamente di Genesi 4,1 e 1,26-27: «nel
passato Adamo fu creato dalla polvere ed Eva fu creata da Adamo;
ma d’ora innanzi sarà A nostra immagine, secondo la nostra somiglianza;
né l’uomo senza donna né la donna senza l’uomo, e nessuno dei due
senza la Presenza Divina».
Si può notare che la frase citata da Paolo ha qualcosa di più,33
ma anche qualcosa di meno, ovvero la citazione biblica: è probabile
che in origine la sentenza non fosse collegata con l’interpretazione
di un passo biblico, ma volesse, come in Paolo, semplicemente con-
viding the Image of God: the Creation of Man and Woman in Genesis, in L. Niesiolowski-Spano,
C. Peri, J. West (a cura di), Finding Myth and History in the Bible: Scholarship, Scholars and
Errors (Essays in Honor of Giovanni Garbini), Equinox, Sheffielf-Bristol 2016, pp. 103-115.
30
L’opera è una narrazione degli eventi della storia sacra fino all’uscita dall’Egitto,
e fu composta in ebraico attorno al II secolo a.C.; si veda J.C. van der Kam, The Book of
Jubilees (“Corpus scriptorum Christianorum orientalium”, 511, “Scriptores Aethiopici”,
88), Peeters, Lovanii 1989, pp. v-xxxviii (introduzione); pp. 11-17 (racconto della crea-
zione dell’uomo).
31
Nella parafrasi del primo racconto non si parla però di creazione a immagine di
Dio. Tale omissione compare anche nella parafrasi di Flavio Giuseppe in Antichità Giu-
daiche I, 32-36, in cui il secondo racconto della creazione è presentato come il modo in
cui si svolse, in concreto, la creazione del maschio e della femmina.
32
Vedi C. Moro, Dividere e unire, cit., pp. 134-137, e la letteratura ivi citata.
33
La parte aggiunta rispetto al detto rabbinico è comunque parte della citazione e
non è un’aggiunta personale di Paolo, in quanto si afferma quanto egli nega al v. 8, ossia
che l’uomo viene ad essere dià tēn gynaika “per mezzo della donna”.
142 Ù Le verità del velo
trapporre alla prima creazione, avvenuta una volta per tutte, la gene-
razione umana nel tempo, come un processo di creazione continua
cui partecipa lo stesso Dio.34 Non c’è quindi alcuna affermazione
di parità tra uomo e donna, né contraddizione con l’affermazione
che la donna deve coprirsi come segno dell’autorità (exousia) che
l’uomo ha su di lei.35 La teologia della creazione è usata come pez-
zo forte di un’argomentazione incentrata sul tema della gerarchia
“naturale”, che si appoggia però sostanzialmente, come dimostrano
i vv. 4-6 e 14-15 che formano un’inclusione, su argomenti di decoro
e di convenienza sociale. Il problema è: ci sarebbe stato bisogno di
un argomentazione così ricca e complessa, se l’apostolo considerasse
scontata un’approvazione su tali temi, perché parte di un patrimo-
nio comune di usi e di convenzioni? La prima obiezione possibile è
che, come più tardi Tertulliano, Paolo aveva delle oppositrici con-
vinte delle loro motivazioni,36 anche se l’apostolo parla di loro ma
non certo a loro.37 Ci sono inoltre degli indizi di un mutamento nel
costume allora in atto, che coinvolse sia il giudaismo che la società
pagana. Cynthia L. Thompson38 ha condotto uno studio su reperti
archeologici provenienti dalla Corinto del I secolo, per fornire una
base documentaria alla ricerca sulle convenzioni dell’epoca di Paolo
riguardo alla copertura del capo: in esso l’autrice mostra come nel
mondo greco-romano e mediterraneo fosse uso comune coprirsi il
capo durante un rito, sia per gli uomini che per le donne. Tuttavia la
maggior parte delle rappresentazioni femminili è a testa scoperta,39
segno che non si trattava di un atteggiamento socialmente disappro-
vato: gli affreschi di Pompei (79 d.C.) mostrano donne sia scoperte
che velate. Questo stato di cose muta nelle testimonianze tardo an-
tiche, che rappresentano più spesso donne velate. Tra il I e il II se-
colo d.C. abbiamo due testimonianze letterarie sull’uso del velo nel
mondo mediterraneo: Dione Crisostomo (33,48), che afferma che
le donne di Tarso si presentano in pubblico completamente velate,
e Plutarco (Moralia 267 A).40 Riguardo ai modi di questa velatura nel
34
Per un’interpretazione di questo “detto” nei vari contesti in cui appare (Berešit
Rabba 8 e 22) vedi C. Moro, Dividere e unire, cit., pp. 139-140; Ead., Dividing the Image of
God, cit.
35
Trovo convincente l’interpretazione del v. 10 in L. Fatum, Immagine di Dio, cit., p.
105 e n. 73, e non quella di M.L. Rigato (Paolo imita Gesù, cit., pp. 148-160).
36
Gli antagonisti di Paolo obiettavano forse che la redenzione operata da Cristo
aveva abolito la disuguaglianza creazionale, accentuata dal peccato (E. Prinzivalli, Lo
studio dell’esegesi dei Padri riguardo la donna / le donne, in «Annali di Studi Religiosi», 9
[2008], pp. 267-277, spec. p. 268; si veda anche il contributo di Cristina Simonelli in
questo stesso volume).
37
L. Fatum, Immagine di Dio, cit., p. 100 e n. 62.
38
C.L Thompson, Hairstyles, Head-covering, and St. Paul. Portraits from Roman Corinth,
in «Biblical Archeologist», 51, 2 (1988), pp. 99-115.
39
Vedi anche R. McMullen, Woman in Public in the Roman Empire, in «Historia», 29
(1980), pp. 208-218, spec. pp. 217 ss.
40
R. McMullen, Woman in Public, cit., pp. 208 ss.
Introduzione
Caterina Moro · Il velo nel mondo biblico e nel giudaismo Ù 143
41
D.R. Edwards, s.v. “Dress and Ornamentation”, in D.N. Freeedman (a cura di), The
Anchor Bible Dictionary II, Doubleday, New York 1992, pp. 232-238, spec. pp. 237a-237b.
42
Antichità Giudaiche 3,270.
43
In generale sulla simbologia dell’abbigliamento a Dura Europos, vedi E.R. Goo-
denough, Jewish Symbols in the Graeco Roman Period, vol. IX: Symbolism in the Dura Sinago-
gue, Pantheon Books, New York 1964, pp. 124-174, in part. pp. 124 ss. sull’abbigliamento
femminile, di cui tratta più in dettaglio nel commento alle illustrazioni.
44
Le tavole cui si fa riferimento sono quelle contenute in E.R. Goodenough, Jewish
Symbols in the Graeco Roman Period, vol. XI: Symbolism in the Dura Sinogogue. Illustrations,
Pantheon Books, New York 1964.
45
Nel Talmud (Sotah 49a) questa corona è tipica delle spose.
46
E.R. Goodenough, Jewish Symbols, cit., vol. IX, pp. 178 ss.
47
La vedova è qui rappresentata due volte, con un himation nero e il figlio morto in
braccio, e con un himation giallo chiaro e il figlio resuscitato (E.R. Goodenough, Jewish
Symbols, cit., vol. IX, p. 228).
48
Secondo Goodenough (Jewish Symbols, cit., vol. IX, p. 199) Miriam e Iochebed
sono qui identificate, come nella tradizione ebraica, con le due levatrici che disobbedi-
scono al faraone in Esodo 1,15-21.
49
Vedi ad es. la moneta col ritratto di Livia (C.L. Thompson, Hairstyles, Head-cove-
ring, and St. Paul. Portraits from Roman Corinth, cit., p. 107).
50
Vedi oltre, n. 55.
144 Ù Le verità del velo
51
H.L. Strack, P. Billerbeck, Kommentar zum neuen Testament aus Talmud und Midrash,
III Band, C.H. Beck, München 1926.
52
La Mišna (Legge orale) e la Gemara, che ne costituisce il commento e l’amplia-
mento, compongono assieme il Talmud Palestinese e quello Babilonese (nella parte
che segue facciamo sempre riferimento a quest’ultimo). Per i titoli dei trattati seguia-
mo la trascrizione di F. Manns, Leggere la Mišnah (“Studi biblici”, 78), Morcelliana,
Brescia 1987.
53
Di più difficile datazione, sebbene alcuni siano ritenuti piuttosto antichi (o al-
meno, contenenti alcuni materiali antichi) dai commentatori. Si veda H.L. Strack-G.
Stemberger, Introduction to the Talmud and Midrash, T&T Clark, Edinburgh 1991 (trad.
ingl. di M. Bockmuehl di Einleitung in Talmud und Midrash, C.H. Beck, München 1982).
54
Si veda la parte riservata ai problemi delle fonti in R.S. Kraemer, Jewish Women and
Women’s Judaism(s) at the Beginning of Christianity, in R.S. Kraemer, M.R. D’Angelo, Women
& Christian Origins, Oxford University Press, New York-Oxford 1999, pp. 50-79, spec. pp.
52 ss.; R.S. Kraemer, Jewish Women and Christian Origins: some Caveats, in ivi, pp. 35-49,
pp. 35-39 della raccolta di studi citata.
55
Sulle acconciature dei capelli e gli accessori di ornamentazione per la testa, che
interessano i legislatori soprattutto per il pericolo che siano rimossi di sabato e portati
in mano per più della distanza permessa, vedi H.L. Strack, P. Billerbeck, Kommentar zum
neuen Testament aus Talmud und Midrash, cit., p. 428.
Introduzione
Caterina Moro · Il velo nel mondo biblico e nel giudaismo Ù 145
una donna andare a testa scoperta è una delle trasgressioni alla pra-
tica ebraica che possono essere causa di divorzio senza indennizzo.
Nella Gemara (B.Ketubbot 72a) il commento a questa norma si incen-
tra sulla possibilità che essa sia già contenuta nella Legge di Mosè,
poiché l’espressione “scoprirà la testa della donna” in Numeri 5,18
viene interpretata da R. Ismael come un ammonimento alle donne a
non andare con la testa scoperta. Tuttavia resta (72b) una differenza
tra “essere a capo coperto” secondo la Legge, per cui basterebbe un
cesto da lavoro posto sulla testa, ed “essere a capo coperto” secondo
la pratica ebraica, per la quale il solo cesto non basta.56 Sempre nel-
la Mišnah scoprire la testa di una donna in pubblico significa farle
un’offesa per la quale è prevista una compensazione in denaro (Baba
Qamma 8,6). Nel complesso, il velo resta una questione di decoro,
ma assume un peso legale e sociale che difficilmente si può ricavare
dalle testimonianze bibliche. Nella Gemara (B.Berakot 24a) ci sono
tracce di una possibile motivazione là dove si afferma che i capelli
di una donna rappresentano un incitamento sessuale. Non manca
nella letteratura una sorta di motivazione protologica, differente da
quella di Paolo ma facilmente rapportabile: tra le dieci maledizioni
della donna che sarebbero state contenute nelle parole di Dio ad
Eva in Genesi 3,16 c’è quella di essere “coperta come chi sta in lutto”
(B.Erubim 100b). La preoccupazione principale delle fonti legali è
la copertura della testa in pubblico, ma nei testi a contenuto morale
compare anche la lode di donne pie dell’antichità come Qimhit, ri-
cordata anche da Flavio Giuseppe,57 che sarebbe stata ricompensata
da Dio con sette figli sommi sacerdoti perché non aveva permesso
nemmeno “alle travi della sua casa” di vedere i suoi capelli:58 si vede
bene come il tema si sia caricato di un forte contenuto ideologico,
che emerge anche da un singolare commento all’episodio di Tamar
nel Talmud (Sotah 10b), secondo il quale Giuda non riconobbe Ta-
mar non perché era velata nelle vesti di prostituta, ma perché si ve-
lava (evidentemente, anche in viso) nella casa del suocero. Benché
il passo prosegue dicendo che Tamar, in quanto nuora ideale, fu
ricompensata con una discendenza di re e profeti, questa interpreta-
zione sembra però portatrice non di una norma sociale, bensì di un
paradosso: a controbilanciare questa affermazione sono citati infat-
ti maestri che sostengono che proprio per questo è necessario che
in famiglia non si porti un velo sulla faccia. Aldilà dello sfoggio di
ingegnosità, abbiamo tutt’al più una conferma dell’esistenza di un
56
Sulla questione delle fonti dell’halakah vedi F. Manns, Leggere la Mišnah, cit., pp.
120-134.
57
Chiamata Kamithos in Antichità Giudaiche 18,2,2, madre di Simone (I sec. d.C.).
58
L’aneddoto è narrato nel Talmud Palestinese (Megilla 1,10; J. Neusner, The Talmud
of the Land of Israel. A Preliminary Translation and Explanation, vol. 19, University of Chica-
go Press, Chicago 1987, p. 68; notare che il nome della pia protagonista non ha meritato
nella traduzione moderna una voce a parte nell’indice analitico, e va cercata sotto il
nome del figlio Simone…).
146 Ù Le verità del velo
Alessandro Vanoli
Qualche passo più in là, una fontana faceva scorrere la sua acqua gor-
gogliante da quattro rubinetti di bronzo; delle donne vestite di lunghe
vesti blu vi portavano dei vasi di forma antica; grandi cammelli getta-
vano sulla folla uno sguardo pacifico, attendendo che i loro conduttori
avessero riempito gli otri in pelle di capra; i cani passavano ringhiando;
dei conduttori di asini spingevano davanti a me i loro animali bardati
di selle rosse; dei militari vestiti di bianco e acconciati con un dei tar-
bouch ornati di piastrine di rame passeggiavano tenendosi per il dito
mignolo. Gli addetti alle merci, mezzi nudi, si precipitavano attorno a
me disputandosi il bagaglio che mi seguiva; qualche ardito piccione si
lanciava in questo tumulto beccando i grani caduti vicino a un muc-
chio di sacchi; dei mercanti gridavano la loro mercanzia: datteri, doura
(mais), confetture, sorbetti, frutta e pezzi di canna da zucchero; sul tet-
to di una caserma, sventolava la bandiera rossa con la croce d’argento;
al di sopra della mia testa il cielo era tutto blu.1
1
M. Du Camp, La Nil. Égypte et Nubie, Hachette, Paris 1889, p. 7.
2
Il riferimento è ovviamente alle note tesi di che nel 1978 Edward Said presentò
in forma compiuta nel suo Orientalism (ultima edizione italiana: E. Said, Orientalismo,
150 Ù Le verità del velo
Feltrinelli, Milano 2005; per alcune note sull’associazione tra Oriente e sessualità in
Flaubert si vedano in particolare pp. 190-192). Per una critica recente (polemica ma so-
stanzialmente condivisibile) alle posizioni di Said riguardo a Flaubert si veda R. Irwin,
Lumi dall’oriente. L’orientalismo e i suoi nemici, Donzelli, Roma 2008 (ed. ingl. Penguin
Books, London 2006), p. 286.
3
Così già É. Scherer, Un roman de M. Flaubert (dic. 1869), in Id., Études sur la littéra-
ture contemporaine, IV, Lévy, Paris 1886, p. 295; si veda inoltre, per un particolare punto
di vista sul problema, C. Ginzburg, Decifrare uno spazio bianco, in Id., Rapporti di forza,
Feltrinelli, Milano 2000, pp. 109-126.
4
Famoso è l’invito rivolto da François Arago, in una celebre allocuzione presso l’A-
cadémie des sciences il 19 agosto 1839, affinché i primi dagherrotipisti partecipassero
alla decifrazione dei geroglifici raccogliendone le «immagini fedeli» grazie alla foto-
grafia «sottomessa alle regole della geometria»: D.F. Arago, Rapport sur le daguerréotype
avec les textes annexes de C. Duchâtel et L.-J. Gay-Lussac, fac-similé, Rumeur des Âges, La
Rochelle 1995, p. 38.
5
M. Du Camp, Souvenirs de l’année 1848, Hachette, Paris 1876, p. 2. Come è stato
giustamente notato, quella «tavola mobile degli ottici» allude con ogni probabilità al
diorama inventato da Daguerre ed antesignano del cinema: C. Ginzburg, Decifrare uno
spazio bianco, cit., p. 120).
6
Questa la stessa scena dello sbarco ad Alessandria, così come riportata negli ap-
punti di Falubert: «Sbarco, caos di grida e di pacchi; sul bordo della banchina, dei
buoni arabi pescano alla linea. La prima imbarcazione che vedo nel porto è un brick di
Saint-Malo, e la prima cosa sulla terra d’Egitto, un cammello. Ero salito sulle sartie e da
lì avevo colto i tetti del serraglio di Mehmet-Ali che brillavano al sole. Cupola nera, in
mezzo a una grande luce d’argento fuso sul mare. Negre, negri, fellah. La scialuppa ci
sbarca; c’è una fontana, i cammellieri vengono a riemprivi le loro otri. Impressione so-
lenne e inquieta quando ho sentito i miei piedi poggiarsi sulla terra d’Egitto» (G. Flau-
bert, Notes de Voyage. Égypte, in Œuvres complètes, Louis Conard, Paris 1910, vol. IV, p. 94.
Introduzione
Alessandro Vanoli ∙ L’invenzione del velo Ù 151
7
M. Du Camp, Le Nil, cit., pp. 42-43.
152 Ù Le verità del velo
8
Un dettagliato elenco dei materiali e delle sostanze chimiche utilizzate è fornito
da Du Camp in una lettera indirizzata a Flaubert nel 1849: M. du Camp, Lettres inédites
à Gustave Flaubert, lettre du 15 octobre 1849, Edizioni Bonaccorso Giovanni, Messina
1978, p. 152.
9
Si veda Kh. Mounira (a cura di), L’Orientalisme. L’Orient des Photographes au XIX
siècle, Union, Paris 1994; C. Bustarret, The journey to Egypt, in M. Frizot (a cura di), A
New History of Photography, Könnemann, Köln 1998; O. Colin, Egypt. Caught in Time, Gar-
net, London 1999; R. Benjamin, Orientalist Aesthetics: Art, Colonialism, and French North
Africa, 1880-1930, University of California Press, Los Angeles 2003; M.B. Vogl, Picturing
the Maghreb: Literature, Photography, (re)presentation, Rowman & Littlefield, Oxford 2003.
10
N. Rosenblum, A World History of Photography, Abbeville Press, New York 1984, pp.
344, 349-351; C. Ginzburg, Oltre l’esotismo: Picasso e Warburg, in Id., Rapporti di forza, cit.,
pp. 134-135. Per quanto riguarda i ritratti di corporazione olandesi si veda A. Rigel,
Das holländische Gruppenporträt, in «Jahrbuch der kunsthistorischen Sammlungen des
Allerhöchsten Kaiserhauses», 23, 3-4 (1902), pp. 71-278; per una più recente puntualiz-
zazione si veda A. von Hülsen-Esch, Gelehrte im Bild: Repräsentation, Darstellung und Wahr-
nehmung einer sozialen Gruppe im Mittelalter, Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen 2006.
11
Fondo fotografico “Mondo arabo” della Cineteca Comunale di Bologna (devo
la conoscenza di tali immagini all’ottimo lavoro di ricerca condotto da D. Mema, Il
fondo fotografico “mondo arabo” della cineteca comunale di Bologna. Problematiche di riordino,
catalogazione e digitalizzazione, Tesi di Laurea, Università di Bologna, anno accademico
2004/2005).
Introduzione
Alessandro Vanoli ∙ L’invenzione del velo Ù 153
12
Sullo sguardo imbarazzato come segnale di una resistenza al modello straniero
imposto in simile ritrattistica, si veda C. Ginzburg, Oltre l’esotismo, cit., p. 135.
154 Ù Le verità del velo
13
M. Du Camp, Les beaux-arts à l’exposition universelle et aux salons de 1863, 1864, 1865,
1866 et 1867, Vve J. Renouard, Paris 1867, p. 40.
14
Ivi, pp. 29-31.
15
Description de l’Égypte, ou Recueil des observations et des recherches qui ont été faites en
Égypte pendant l’expédition de l’armée française, I-XXIII, Impr. impériale, Paris 1809-1828.
16
Si veda a titolo di esempio Description de l’Égypte, XVI, p. 182.
17
Piuttosto nota è la definizione di Said riguardo alla Description de l’Égypte: «gran-
diosa appropriazione collettiva di un paese da parte di un altro»: Orientalismo, cit., p. 89.
Introduzione
Alessandro Vanoli ∙ L’invenzione del velo Ù 155
Dire, come è stato fatto, che queste parole mostrano come l’Egitto
fosse «il più degno palcoscenico per progetti e azioni d’importanza
storica universale»18 è più che altro una tautologia. L’orizzonte classi-
co dell’Egitto rispondeva ad attese più complesse. Lo mostra bene la
testimonianza di Vivant Denon che, al seguito di Napoleone, redasse
una dettagliata cronaca di quella spedizione:
18
E. Said, Orientalismo, cit., p. 90.
19
V. Denon, Voyages dans la Basse et la Haute Égypte pendant les campagnes de Bonaparte
en 1798 et 1799, Ch. Taylor, London 1817, pp. 36-37.
20
Gli obelischi e le piramidi, prima ancora che monumenti del deserto egiziano,
erano parti integranti della memoria storica imperiale, come avevano ricordato, già nel
1756, le Antichità romane di Giambattista Piranesi.
156 Ù Le verità del velo
21
V. Denon, Voyages, cit., pp. 36-37.
22
E. Fromentin, Sahara et Sahel, E. Plon, Paris 1887, p. 204: «Des places ont été
créées, comme autant de centres de fusion pour les deux races: la porte Bab-Azoun,
où l’on suspendait à côté de leurs têtes les corps décapités, a été détruite; les remparts
sont tombés; le marché au savon, où se donnaient rendez-vous tous les mendiants de
la ville, est devenu la place du théâtre; ce théâtre existe, et, pour le construire, nos
ingénieurs ont transformé en terrasse l’énorme rampe qui formait le glacis escarpé
du rempart turc».
23
É. Masqueray, Souvenirs et visions d’Afrique, E. Dentu, Paris 1894, pp. 6-7: «Pays
bien fait pou des ascètes et des voluptueux tout ensemble. […] Si l’on entend bien
son langage, il nous donne à choisir entre deux voies: aspirer au monde invisible, in-
finiment plus beau, plus varié, plus riche, plus vivant que le choses présentes qui ne
changent pas […] Il ne convient bien qu’à deux sortes d’hommes, que le hasard a réu-
nies, il y a deux cents ans, dans Alger même: les marabouts et les corsaires».
24
Bel ami, I, 3.
25
Ibidem.
Introduzione
Alessandro Vanoli ∙ L’invenzione del velo Ù 157
26
Inevitabile ancora il rimando a l’Orientalismo di Said. Per alcuni apporti più
recenti e per una riflessione sul dibattito storiografico si veda però J.M. MacKenzie,
Orientalism. History, theory and the arts, Manchester University Press, Manchester-New
York 1995 (per il dibattito sull’Orientalismo, pp. 1-19).
27
Rimando su questo all’importante lavoro di A. Ottani Cavina, I paesaggi della ra-
gione, Einaudi, Torino 1994, in particolare pp. 26-46. Per un approccio più introduttivo
si veda anche M. Vitta, Il paesaggio. Una storia tra natura e architettura, Einaudi, Torino
2005, in particolare 217-224; inoltre le pagine dedicate a L’arte e la Rivoluzione in C. Sa-
vettieri, Dal neoclassicismo al romanticismo, Carocci, Roma 2006, pp. 221-242.
28
Winkelmanns Werke, a cura di H. Meyer, J. Schulze, Dresden 1811, IV, p. 57.
158 Ù Le verità del velo
29
Desumo tali considerazioni dalla classica —ma ancora importante— opera di A.
Hauser, Storia sociale dell’arte, Einaudi, Torino 1956, II, p. 153.
30
Cit. in H. Honour, Neoclassicismo, Einaudi, Torino 1993 (ed. ingl., Neo-classicism,
Penguin Books, London 1968), p. 49.
31
Cfr. F. Furet, D. Richet, La Révolution Française, Hachette, Paris 1963, pp. 472-473;
inoltre L. Canfora, Ideologie del classicismo, Einaudi, Torino 1980; M. Ozouf, Le Panthéon,
in P. Nora (a cura di), Le lieux de mémoire, Gallimard, Paris 1986, vol. I, La république, pp.
139-166.
32
Il riferimento è ovviamente all’opera di Eugène Haussmann, prefetto della Sen-
na sino al 1870 e al cui nome si legarono le grandi trasformazioni urbane della Parigi
di quegli anni. Su questo e per ulteriori elementi di bibliografia si vedano L. Benevolo,
La città nella storia d’Europa, Laterza, Roma-Bari 1993, pp. 172-191; G. Zucconi, La città
nell’Ottocento, Laterza, Roma-Bari 2004. Per un approccio più specifico rimando a D.H.
Pinkney, Napoleon III and the Rebuilding of Paris, Princeton University Press, Princeton
1958; A. Sutcliffe, The Autumn of Central Paris. The Defeat of Town Planning. 1850-1970,
Edward Arnold, Bath 1970.
33
Si veda come esempio il contributo di Kh. Asfour, The domestication of Knowledge:
Cairo at the turn of the Century, in AA.VV., Muqarnas X: An Annual on Islamic Art and Ar-
chitecture. Essays in honor of Oleg Grabar, Brill, Leiden 1993, pp. 125-137; più in generale
Introduzione
Alessandro Vanoli ∙ L’invenzione del velo Ù 159
rato anche un segno dello status sociale, lo dimostrano bene gli studi
che hanno analizzato l’elemento apparentemente più frivolo di tale
veste: la pluralità delle stoffe impiegate, i disegni preferiti ecc.36 Di
tale fruizione non partecipavano tutte le donne islamiche allo stesso
modo: le contadine, le donne più povere in generale, mostravano
spesso molto di più il viso; si coprivano i capelli, questo sì, ma soven-
te lasciavano trasparire molto del loro corpo. La veste, insomma, e
talvolta l’uso del velo, rimandava a una esplicita distinzione di status
sociale: i recenti studi sul mondo materiale del tardo impero ottoma-
no hanno mostrato bene come le donne dell’alta società fosse per-
sino più attente dei loro mariti a preservare la loro reputazione: sul
piano delle relazioni interpersonali servendosi di una complessa rete
di intermediari (schiavi, servi ecc.); sul piano personale prestando
una particolare attenzione a quei gioielli e quelle vesti che avevano
il compito di marcare tale differenza di status.37 Una differenza che
sul piano istituzionale si proiettava persino all’interno di un esplicito
regolamento relativo alle vesti: già dal secolo XVI, infatti, l’impero
ottomano aveva varato una serie di leggi volte a definire il rango at-
traverso una minuziosa distinzione tra fogge e colori di abiti, scarpe,
cinture e altri accessori.38 È comprensibile, dunque, che all’interno
di un tale sistema, il velo fosse anche un oggetto di ostentazione,
legato al gusto e alla moda,. E in tal senso, esso quasi non esisteva:
in quanto parte delle dinamiche sociali era vissuto come elemento
necessario e dato per scontato, se così si può dire.
Così, fu inevitabilmente il confronto con l’occhio Europeo a crea-
re il velo. I fotografi, come abbiamo visto, cominciarono distinguen-
do: magari sottolineando la grazia e l’eleganza delle giovani contadi-
ne, opponendola, più o meno implicitamente, a quelle donne grasse
(e più ricche) infagottate e nascoste da pesanti tuniche. Spesso, per
giunta, la ricerca di forme “artisticamente belle” andò di pari passo
con la produzione di immagini erotiche:39 giovani donne che mo-
stravano il corpo davanti all’obbiettivo o alla tela, riproducendo nel-
le loro pose i modelli della raffigurazione femminile classica.
36
Mi riferisco in particolare a J. Scarce, Women’s Costume of the Near and Middle
East, Unwin Hyman, London 1987 e al lavoro curato da C.F. El-Solh, J. Mabro, Muslim
Women’s Choices. Religious Belief and Social Reality, Berg, Providence-Oxford 1994, in par-
ticolare pp. 7 ss.
37
L. Peirce, The material world: ideologies and ordinary things, in V.H. Aksan, D. Goff-
man (a cura di), The Early Modern Ottomans. Remapping the Empire, Cambridge University
Press, Cambridge 2007, in particolare pp. 221-223.
38
D. Quataert, L’impero ottomano (1700-1922); Salerno editrice, Roma 2008 (ed. ingl.
Cambridge 2005), pp. 183-185.
39
Molto si è detto riguardo all’immagine erotizzata del colonialismo riguardo alla
donna musulmana. Si vedano, a titolo di esempio, M. Alloula, The Colonial Harem, The
University of Minnesota Press, Minneapolis 1986 (ed. fr. 1981); S. Graham-Brown, Imag-
es of Women: The portrayal of Women in Photography of the Middle East 1860-1950, Columbia
University Press, New York 1988; R. Lewis, Gendering Orientalism: Race, Femininity, and
Representation, Routledge, London 1996.
Introduzione
Alessandro Vanoli ∙ L’invenzione del velo Ù 161
Nella maggior parte delle grandi città della Turchia, a Manissa come a
Costantinopoli, si trovano due sistemi opposti, ognuno dei quali preten-
de, per ciò che lo concerne, di dare il tono, di indirizzare il costume. L’u-
no rappresenta la moda, l’importazione straniera; l’altro che si appog-
gia sulla tradizione, è quello del gusto nazionale. Uno tende a cambiare
in continuazione […] l’altro non ammette che minime modificazioni e
resta immodificabile nel suo insieme.
Meno progredite dei loro mariti, le signore musulmane più progressi-
ste, quelle che indossano stivaletti di Parigi, vesti di tessuto di Lione,
guanti Jouvin e che acquistano i profumi da Lubin, non osano tuttavia
capovolgere da cima a fondo l’edificio della loro toeletta. Ne conservano
sempre l’aspetto generale. Così una certa impronta orientale vi rimane
impressa, e il fossato che separa il costume alla franca dal costume indi-
geno non è altrettanto profondo dalla parte delle dame quanto lo è da
quella degli uomini.42
40
Lo ricordava al-Ṭahṭāwī, nel suo al-A’mal al-kamila (Opere complete), al-Mu‘assasa
al-‘Arabiyya li-l-Dirasāt wa l-Našr, Beirut, 1973, vol. II, p. 387. Sull’Egitto e la colonizza-
zione si veda in particolare T. Mitchell, Colonizing Egypt, University of California Press,
Berkeley-Los Angeles-Oxford 1991.
41
Rifā‘a al-Ṭahṭāwī, Taḫlīṣ al-ibrīz, trad. fr. L’or de Paris, Sindbad, Paris 1988, p. 153.
42
S.E., Hamdy Bey, M. de Launay, Les coutumes populaires de la Turquie en 1873. Ou-
vrage publiée sous le patronage de la Commission impériale ottomane pour l’Exposition universelle
de Vienne, Impr. du «Levant Times and Shipping Gazette», Costantinople 1873, p. 147.
43
Ibidem.
162 Ù Le verità del velo
44
Cfr. G. Butazzi, Incanto e immaginazione per le nuove regole vestimentarie: esotismo e
moda tra Sei e Settecento, in R. Orsi Landini (a cura di), L’abito per il corpo; il corpo per l’abito:
islam e occidente a confronto. Catalogo della mostra, Museo Stibbert di Firenze, Artificio, Firenze
1998, pp. 35-44.
45
Qāsim Amīn, Taḥrīr al-mar’a (L’emancipazione della donna), Egitto 1886; cit. in P.
Branca, Voci dell’islam moderno, Marietti, Genova 1997, p. 155.
46
C. Ginzburg, Oltre l’esotismo, cit., pp. 135-136.
Introduzione
Alessandro Vanoli ∙ L’invenzione del velo Ù 163
Fig. 1. Fig. 2.
Fig. 3. Fig. 4.
164 Ù Le verità del velo
Fig. 5.
Fig. 6.
Fig. 7.
Introduzione
Alessandro Vanoli ∙ L’invenzione del velo Ù 165
Fig. 8.
Fig. 9.
166 Ù Le verità del velo
Sguardi sul mondo cristiano Ù 167
Sara Hejazi
Il velo islamico.
Pratica del passato e re-invenzione del presente
1. Velo e identità
1
Si vedano S. Hall, Introduction: who needs Identity?, in H. Steven, P. du Gay (a cura
di), Questions of cultural Identity, Sage, London 1996 e F. Remotti, Contro l’identità, Laterza
Roma-Bari 2001.
2
Per un approfondimento della teoria della pendolarità, si veda G.L.Bravo, Italiani.
Racconto etnografico, Meltemi, Roma 2001.
Introduzione
Sara Hejazi ∙ Il velo islamico. Pratica del passato e re-invenzione del presente Ù 169
3
«La modernità si fonda sull’idea, elaborata dall’illuminismo del diciassettesimo
secolo, che la chiave del progresso umano e dell’ordine sociale sia una conoscenza
oggettiva del mondo, perseguita attraverso l’indagine scientifica e il pensiero
razionale», in D. Lupton, Il Rischio: percezioni, simboli, culture, il Mulino, Bologna 2003,
pp. 12 ss.
170 Ù Le verità del velo
2. Il velo storico
Delle origini del velo poco si sa: era un’usanza diffusa molto pro-
babilmente in tutta l’area del Mediterraneo in epoca pre-islamica:
già le ancelle che in Persia custodivano il fuoco sacro di Zoroastro
circa duemila anni prima di Cristo indossavano un velo sul capo;6 la
raccomandazione alle donne di coprirsi i capelli con un velo si trova
nell’Antico Testamento,7 mentre è probabile che le donne romane
patrizie lo dovessero indossare nelle rare occasioni in cui uscivano
dalle proprie dimore, come segno distintivo.8
Più in generale l’antica pratica di velarsi aveva a che fare con una
visione molto particolare della donna e del suo corpo, che venne poi
pienamente espressa nelle fedi monoteiste. In esse la concezione del
corpo era infatti caratterizzata da un duplice aspetto, costituito dall’i-
dea di impurità da un lato, legata alle mestruazioni, all’allattamento e
a tutta la prepotente fisicità dell’esperienza femminile della gravidan-
za e del parto; e dall’altro collegata all’idea di sacralità e di potenza
creatrice messo in relazione alla donna, comunemente associata al
mondo della natura, della terra e dei suoi cicli.9
4
Detta anche basiji. Sono donne velate di nero che pattugliano le strade iraniane per
controllare che la morale pubblica venga rispettata: affinché questo avvenga le donne
non devono essere “mal velate”, uomini e donne non sposati né legati da parentela
stretta non possono andare per strada insieme ecc.
5
Riguardo al rapporto tra le giovani generazioni in Iran e il velo si veda S. Hejazi,
L’Iran s-velato. Antropologia dell’intreccio tra identità e velo, Aracne, Roma 2008.
6
E. Phalippou, Aux sources de Shéhérazade: Contes et coutumes des femmes zoroastrienne,
Peeters, Leuven 2003.
7
W. Phipps, Maometto e Gesù. Differenze e affinità tra i fondatori delle due maggiori
religioni mondiali, Mondadori, Milano 2002.
8
N. Keddie, B. Baron, Shifting Boundaries in Sex and Gender, New Haven, London
2002.
9
Si veda a questo proposito P. Dubois, Il corpo come metafora. Rappresentazioni della
donna nella Grecia Antica, Dedalo, Bari 1990.
Introduzione
Sara Hejazi ∙ Il velo islamico. Pratica del passato e re-invenzione del presente Ù 171
10
Corano, sura 33, versetto 53.
11
A proposito della vita di Maometto si veda J. Glubb, The Life and Times of
Muhammad, Stein & Day, New York 1970.
172 Ù Le verità del velo
12
F. Mernissi, Le Harem Politique: Le Prophéte et les femmes, Albin Michel, Paris 1987.
Introduzione
Sara Hejazi ∙ Il velo islamico. Pratica del passato e re-invenzione del presente Ù 173
L’idea della donna velata agli albori dell’Islam ruotava intorno alla
legge del namus, traducibile come “onore”.15 Il namus aveva un valore
sia individuale che comunitario: ogni individuo doveva attenersi in-
fatti alla legge del namus all’interno della propria famiglia, così come
ogni famiglia rispettava il namus all’interno della comunità, e ogni co-
munità all’interno del sistema più amplio di úmma islamica.16 L’onore
era prevalentemente basato sulla disciplina nella pratica sessuale di
ciascun membro della comunità che sottostava alle regole del Corano
e doveva comunque avvenire solo ed esclusivamente all’interno dei
legami matrimoniali. La condotta sessuale della donna era la parte
fondante del namus da cui dipendeva l’onore di tutti i membri del
gruppo; per fare un esempio, la violazione del namus di una donna
appartenente al tal gruppo famigliare non avrebbe coinvolto solo suo
marito, ma anche i fratelli, il padre e i parenti tutti.
In questo senso, la violazione del tabù sessuale rappresentava per
la comunità islamica un’onta e una stigma di vergogna tale che l’u-
nica sua conseguenza era la morte o il definitivo allontanamento e
conseguente isolamento del trasgressore.
Il corpo femminile era concepito come una continua tentazione
sessuale e dunque anche come possibile e costante spinta alla tra-
sgressione del namus. Esso andava dunque limitato, coperto, velato e
comunque tenuto sotto stretta sorveglianza almeno fino al giorno in
cui un matrimonio avrebbe allentato la tensione sessuale che poten-
zialmente poteva essere provocata da un corpo femminile (o maschi-
le) giovane e ancora nubile.
In realtà anche se a prima vista questo tipo di legge sulla morale
sessuale può sembrare costituita da una serie di divieti rigidi, ad
uno sguardo più approfondito appare evidente come l’Islam rap-
presenti anche da questo punto di vista un sistema elastico di ecce-
zioni alla regola dominante; per fare un esempio, il Corano prevede
13
Per l’Islam l’epoca precedente la rivelazione è chiamata appunto jahilliya termine
traducibile come “confusione” o “ignoranza”.
14
La parola Islam infatti, composta dalla radice S-L-M, che è la stessa della parola
Salam, che significa “pace”, può tradursi come “sottomissione attiva”, cioè un atto di
fede consapevole il cui risultato è il riconoscimento dell’unicità e del potere di Dio, che
genera, appunto uno stato di pace interiore.
15
In realtà la traduzione riduce il significato di namus che ha a che fare proprio
con l’idea di una legge che regola il comportamento i ogni individuo nella comunità.
16
L’idea utopica di umma intende trascendere i confini geografici ed etnici per
accomunare ogni popolo sotto un’unica grande fede che è quella musulmana.
174 Ù Le verità del velo
17
A proposito del matrimonio temporaneo nell’Islam si veda il brillante saggio
dell’antropologa americana S. Haeri, Law of desire: Temporary marriage in Iran, Tauris,
London 1998.
Introduzione
Sara Hejazi ∙ Il velo islamico. Pratica del passato e re-invenzione del presente Ù 175
18
A. Najmabadi, Women with mustaches and men without Beard. Gender and Ssexual
Anxieties in iranian Modernity, University of California Press, Berkley 2005.
19
V. Maher, Potere e purezza: la religiosità femminile nel Maghreb, in L. Cabria Ajmar, M.
Calloni, L’altra metà della luna. Capire l’islam contemporaneo, Marietti, Genova 1993.
Introduzione
Sara Hejazi ∙ Il velo islamico. Pratica del passato e re-invenzione del presente Ù 177
Until our tribe is tied up in the veil / This very queerness is bound to
prevail / The draping of the girl with her throat divine / Will make the
little boy our concubine //.21
20
F.B. Bradley-Birt, Through Persia: from the Gulf to the Caspian, Smith Elder & Co.,
London 1909, p. 42.
21
«Finché il nostro popolo è serrato nel velo / Questa devianza dovrà prevalere /
Il mantello della ragazza con un gola divina / Farà del ragazzino la nostra concubina».
Introduzione
Sara Hejazi ∙ Il velo islamico. Pratica del passato e re-invenzione del presente Ù 179
22
Termine persiano che significa “europeo” con un’accezione negativa e dispre-
giativa.
180 Ù Le verità del velo
23
F. Eickelman Dale., Muslim Politics, Princeton University Press, Princeton 1996.
24
E. Black, The Dynamics of Modernizations: A Study in Comparative History, Row, New
York 1966.
182 Ù Le verità del velo
25
Per esempio L’Haram Reza di Mashad, luogo di culto e pellegrinaggio, ziyara, per
tutti gli sciiti, il mausoleo dell’Imam Khomeini a Teheran, e la tomba Hazrat-e-Fatema-ye
Ma’suma, sorella dell’Imam Reza a Qom, e tutti gli altri vari luoghi di pellegrinaggio o
emamzade.
26
H. Lammens, Fatima et les filles de Mohammad, Scripta Pontificii Instituti Biblici,
Rome 1912.
27
la prima a convertirsi fu Khadija, la moglie più anziana di Maometto, tuttavia
Fatima è stata la prima a credere e professare.
28
Y. Richards, Shi’ite Islam, Blackwell, Cambridge 1995.
Introduzione
Sara Hejazi ∙ Il velo islamico. Pratica del passato e re-invenzione del presente Ù 183
Con la fine degli anni Settanta del Novecento l’Islam politico rag-
giunse la maturità come movimento di opposizione e contestazione,
184 Ù Le verità del velo
29
Si veda S.Allievi l’Occidente di fronte all’Islam, Franco Angeli, Milano 1996; F.
Dassetto, L’Islam in Europa, Edizioni della Fondazione Giovanni Agnelli, Torino 2000;
C. Saint-Blancat, L’Islam della diaspora, Edizioni Lavoro, Roma 1995.
30
Z. Bauman, Intervista sull’identità, a cura di B. Vecchi, Laterza, Roma-Bari 2003.
Introduzione
Sara Hejazi ∙ Il velo islamico. Pratica del passato e re-invenzione del presente Ù 185
Il velo risonante.
Una lettura critica della rappresentazione del burqa
in un film di Samira Makhmalbaf
1
L’aggettivo “islamico” è arbitrariamente riportato tra virgolette perché uno degli
argomenti di questo lavoro sarà la non necessaria corrispondenza tra religione (Islam)
e capo d’abbigliamento (velo).
2
Il burqa è un modello particolare di velo che copre la testa della donna, il suo viso
(all’altezza degli occhi è posta una grata che permette a chi lo indossa di vedere senza
che gli occhi siano scoperti) e tutto il suo corpo.
188 Ù Le verità del velo
3
Cfr. M. Herzfeld, Intimità culturale, L'Ancora del Mediterraneo, Napoli 2003.
4
Françoise Héritier (n. 1933) è un’antropologa francese (africanista e specialista
di rapporti di parentela) allieva di Claude Lévi-Strauss. Dal 1998 è professore onorario
presso il Collège de France.
5
F. Héritier, Maschile e femminile, Laterza, Roma-Bari 2002, p. 6.
6
Alle cinque della sera (2003) prende il titolo da un verso della poesia Lamento per
Ignacio Sànchez Mejìas (1935) di Federico Garcìa Lorca. Il film rappresenta la Kabul
post-regime talebano in cui una ragazza (Noqreh, la protagonista) sogna di diventare
presidente dell’Afghanistan. Le scene si susseguono tra ex talebani disorientati, ragazze
che aspirano alle pari opportunità, profughi che lottano per la sopravvivenza, soldati
ignoranti, fotografi tradizionalisti e un poeta che aiuterà Noqreh nella sua impresa e le
farà conoscere la poesia di Garcìa Lorca.
7
Samira Makhmalbaf nasce a Teheran nel 1980. È la figlia del noto regista iraniano
Introduzione
Claudia Porretto · Il velo risonante Ù 189
2. Il metodo
13
Ibidem. Per “autoimmagine” Faeta intende l’oggetto, nel caso specifico del saggio
il fuso, che una volta musealizzato diviene immagine di se stesso prima di divenire
“somiglianza”, ossia immagine di tutti i fusi presenti all’interno di una determinata
cultura del filare. Cfr. ivi, in particolar modo, p. 63.
14
Si sta parlando in questo caso esclusivamente di musei storici e antropologici. A
questo proposito si tenga presente che non sempre gli oggetti esposti sono realmente
sottratti alla quotidianità: in certi casi vengono utilizzate delle copie o comunque
degli oggetti costruiti ad hoc per il contesto museale (ne sono un esempio lo Jüdisches
Museum di Berlino all’interno del quale i pochissimi originali sono circondati da copie).
Il dibattito sulla correttezza o meno di adoperare oggetti “non originali” è tutt’ora in
corso, ma non è questa la sede per approfondire tale tematica.
15
Cfr. Aristotele, Poetica, trad. di M. Valgimigli, Laterza, Roma-Bari 1997.
16
Cfr. S. Vincent, Beyond the words, in «The guardian», 3 aprile 2004; R.C. L’avenir par
le femmes, in «Le quotidien du medecin», 20 maggio 2003; G. Macnab, A woman’s place,
in «The guardian», 19 maggio 2003; D. Borde, Le fantôme de la liberté, in «Le Figaro», 17
maggio 2003; E. Frois, Samira Makhmalbaf, tèmoin persan, in «La Figaro», 16 maggio 2003.
17
<www.makhmalbaf.com> (12/16). Usualmente si preferisce evitare l’utilizzo di
Introduzione
Claudia Porretto · Il velo risonante Ù 191
3. Il burqa risonante
siti internet a causa della presenza in rete di numerose informazioni errate. Tuttavia,
in questa sede, il sito della casa di produzione cinematografica Makhmalbaf è stato
ritenuto attendibile in quanto sito ufficiale e, dunque, mezzo di autorappresentazione
della produzione cinematografica dei Makhmalbaf.
18
Poiché ho curato io stessa la traduzione di questa citazione (come di tutte quelle
che seguiranno) di volta in volta riporterò per completezza il testo originale: «My film
tries to correct the false information generated by the frenetic vortex of politics and
mass media. Radio and television constitute the official voice of power, while cinema is
the only broadcast medium where the author can voice the spirit of nations and denied
a platform».
19
Le interviste sono raccolte nel documentario The joy of madness girato da Hana (la
sorella minore di Samira) e incentrato sulle riprese di Alle cinque della sera.
20
Cfr. A. Saggioro, Simbologia del vestire, Nuova Cultura, Roma 2007.
192 Ù Le verità del velo
21
Scuola esclusivamente femminile istituita sicuramente dopo la caduta del regime
talebano con lo scopo di recuperare l’analfabetismo e l’ignoranza della maggior parte
delle giovani donne afghane.
22
La scuola di Galè nel film ha messo in atto un esercizio di democrazia: tre
ragazze si sono proposte come candidate e, sotto la supervisione della maestra, hanno
dibattuto sui loro progetti per l’Afghanistan. Alla fine del dibattito l’insegnante spiega
che si sarebbe tenuta una votazione che avrebbe coinvolto tutte le allieve della scuola e
avrebbe decretato una vincitrice che sarebbe stata segnalata al Ministero dell’Interno.
Introduzione
Claudia Porretto · Il velo risonante Ù 193
23
Ho ritenuto opportuno descrivere la funzione come religiosa poiché nel film
il padre di Noqreh adduce la convinzione che le donne debbano coprirsi il volto a
motivazioni religiose. Tuttavia il termine è stato incluso tra virgolette sia per scongiurare
il rischio essenzialista sopra esposto, sia perché non è assolutamente intento del film
presentare il burqa come concernente le prescrizioni dell’Islam.
194 Ù Le verità del velo
24
Nell’intervista rilasciata a Sally Vincent per il quotidiano «The guardian» del
3 aprile 2004 Samira Makhmalbaf afferma: «Forse soffrire non è male. Dobbiamo
provare tristezza e dolore perché siamo vivi. Dobbiamo sopportare le difficoltà. Questo
è il meglio che c’è. Sapere che sei molto piccolo e che la vita è molto difficile e che è
tutto bello, bello, bello…perché sei vivo…». Testo originale: «And maybe to suffer is not
bad. We must have sadness and grief because we are alive. We must endure hardness.
That is the best there is. To know you are very small and life is very difficult and it is
all beautiful, beautiful, beautiful... because you are alive...». Cfr. S. Vincent, Beyond the
words, cit.
Introduzione
Claudia Porretto · Il velo risonante Ù 195
25
È la stessa Samira Makhmalbaf che, intervistata da Sally Vincent, dichiara che
«avendo deciso di fare un film su di un Paese che si trova nel mezzo del processo di
trasformazione verso la democrazia, sapeva che avrebbe dovuto provare a descrivere
cosa la democrazia fosse». Testo originale: «Having decided to make a film about a
country in the process of turning itself into a democracy, she knows she must try to
describe what democracy is». Cfr. ibidem.
26
È doveroso segnalare come tra i numerosissimi punti di vista messi in campo ne
manchi uno molto significativo: quello delle donne che desiderano indossare il burqa e
non lo vedono come costrizione.
196 Ù Le verità del velo
27
Minà, durante il primo dibattito nella scuola di Galè, afferma che se fosse
Presidente si comporterebbe con i cittadini «come una madre affettuosa si comporta
con i propri figli».
28
Cfr. G. Galeotti, Storia del voto alle donne in Italia, Biblink, Roma 2006. In particolar
modo, pp. 69-114.
Introduzione
Claudia Porretto · Il velo risonante Ù 197
4. Specchi incrinati
Noqreh: “Hello Mister! How are you? My name is Noqreh. What is…
What is you name?”
Soldato: “Pardon?”
Noqreh: “What is you name?”
Soldato: “Gerom.”
Noqreh: “What?”
Soldato: “Gerom.”
Noqreh: “Gerom. Yes…I’m from Afghanistan. Where are you…Where
are…Where are you from?”
Soldato: “I came from France.”
Noqreh: “France…What is president…What is president…president’s
name?”
Soldato: “Pardon?”
Noqreh: “Come si…yes, president’s name.”
Soldato: “My president’s name?”
Noqreh: “Appunto, yes.”
Soldato: “My president name is Mr. Chirac.”
Noqreh: “What?”
Soldato: “Mr. Chirac.”
Noqreh: “Mr. Chirac. Thank you.”
(arriva il poeta in sella alla sua bicicletta)
Soldato: “Stop! What do you want?”
Poeta: “Hi. I am her friend.”
Solado: “Go back!”
Noqreh: “Mi aiuti per favore? Gli volevo chiedere qualcosa sul suo pres-
idente.”
Poeta: “Can I be her translator?”
Soldato: “Please.”
Noqreh: “Gli potresti domandare quali parole ha usato il presidente nei
29
Si ricordi che nessun attore è professionista, neppure il soldato. A tal proposito,
durante l’intervista rilasciata a Sally Vincent, la regista dichiara di aver incontrato il soldato
per caso, averci scambiato qualche parola e avergli chiesto di recitare nel film. In più
Samira Makhmalbaf afferma: «Non ho pianificato di mostrarlo come un ignorante. Non
sapevo che non sarebbe stato in grado di rispondere alle domande. Volevo semplicemente
che fosse se stesso, e lui fu molto felice di questo». Testo originale: «I did not plan to show
him as ignorant. I didn’t know he wouldn’t be able to answer the questions. I wanted him
to just be himself and he was happy with that». Cfr. S. Vincent, Beyond the words, cit.
198 Ù Le verità del velo
comizi elettorali per convincere gli elettori che dovevano votare per lui?”
Poeta: “What was your president lecture which made him president?”
Soldato: “I don’t know.”
Poeta: “Capito? Dice che non lo sa.”
Noqreh: “Non lo sa? Allora domandagli se sa per quale ragione il popolo
del suo paese ha deciso di eleggere questo presidente.”
Poeta: “So why did you vote for him?”
Soldato: “I can’t say that. I’m a soldier. I don’t interfere in politics.”
Noqreh: “Che cos’ha detto?”
Poeta: “Che non ti può rispondere. Un soldato non si occupa di politica.
Ma se vuoi la risposta alla tua domanda la so io. Ai francesi non piaceva
il candidato rivale di Chirac e sono stati costretti a scegliere lui.”
È chiaro come questo dialogo metta a nudo ciò che viene velato
dal discorso reificante delle istituzioni e che invece emerge all’inter-
no dell’“intimità culturale” francese: nella quotidianità i significati
sono costantemente rielaborati e negoziati dagli individui, per cui
anche la forma di governo democratica (che dalla Francia è dipinta
come espressione “naturale” dell’esprit nazionale) può tradursi nella
vittoria di un candidato scelto non per convinzione, ma per avversio-
ne nei confronti del suo rivale.
Inoltre anche gli ideali (come la religione) possono essere usati
in modo situazionale. Samira Makhmalbaf critica aspramente le per-
sone che «vengono con le loro pistole in un paese per portare la de-
mocrazia, e quando gli chiedi di descrivere la democrazia, non sono
in grado di farlo».30
Ad ogni modo la regista non disapprova la Francia in particolare,
ma tutti coloro che considerano la forma di governo democratica
non come un processo, ma come merce da esportazione. In questo
senso è il sistema occidentale nella sua interezza ad essere chiamato in
causa. Infatti un’altra delle tecniche ricorrenti nei film di Makhmal-
baf è l’utilizzo di figure stereotipiche del “benessere occidentale” (il
progresso, l’uguaglianza, le pari opportunità) mediante l’addizione,
alla rappresentazione convenzionale di tali prototipi, di una venatura
oscura che fende la visione coerente e senza macchia dell’auto-rap-
presentazione occidentale. Così facendo gli specchi attraverso i quali
l’occidente riflette se stesso vengono incrinati e compaiono, nell’im-
magine che ne risulta, le distorsioni del quotidiano.
Volendo addurre un esempio: nel cortometraggio God, construction
and distruction, parte del film 11 settembre 2001, una classe di bambini
afghani rifugiati in Iran viene esortata dalla maestra a osservare un
minuto di silenzio per i morti delle torri gemelle. Poiché i bambini
non si rendono conto di cosa possa essere un grattacielo, la maestra
li porta sotto una ciminiera e commemora in quel luogo le vittime
30
Testo originale: «These people come with their guns to a country to bring
democracy, and when you ask them to describe what democracy is, they don’t know».
Cfr. ibidem.
Introduzione
Claudia Porretto · Il velo risonante Ù 199
Nel terzo paragrafo ho asserito che, in Alle cinque della sera, il di-
scorso sulle pari opportunità si basa sull’accesso delle donne all’i-
200 Ù Le verità del velo
31
Cfr. F. Héritier, Maschile e femminile, cit., pp. 193-204.
32
Il diritto di voto alle donne in Francia è stato riconosciuto nel 1944: 26 anni dopo
rispetto all’Inghilterra, 23 rispetto all’India e 10 rispetto alla Turchia; ma 2 anni prima
rispetto all’Italia.
33
Cfr. F. Héritier, Le donne sono individui?, in Ead., Maschile e femminile, cit., pp.
195-196. Notiamo come anche in questo caso, parimenti rispetto al discorso reificante
dello Stato-Nazione, costruzione politica (cultura) e dato fisiologico (biologia) vengano
accostati creando un gioco metaforico volto alla legittimazione di un determinato
discorso: se le donne sono naturalmente diverse sul piano biologico, allora è naturale
che ad esse venga negato un diritto detenuto dagli uomini.
34
Giuseppe Cimbali (1858-1924) giurista, altro funzionario del Ministero dei
Lavori pubblici, scrittore e filosofo, insegnò Filosofia del diritto all’Università di Roma
“La Sapienza”.
Introduzione
Claudia Porretto · Il velo risonante Ù 201
35
Giuseppe Cimbali, cit. in G. Galeotti, Storia del voto alle donne in Italia, cit., p. 69.
36
Purtroppo non è stato possibile approfondire oltre il tema della condizione della
donna occidentale, le osservazioni riportare sono frutto di deduzioni elementari che
andrebbero approfondite e passate al setaccio di un’analisi con un livello di scientificità
maggiore. Tuttavia, per una lettura divulgativa ma affidabile, si rimanda al libro di L.
Lipperini, Ancora dalla parte delle bambine, Feltrinelli, Milano 2007.
202 Ù Le verità del velo
37
Testo originale: «dans le deux cas, il y a toujours des hommes oubliés qui ne
comprennent pas», in D. Borde, Le fantôme de la liberté, cit.
38
Testo originale: «refuses to demonise the religious fundamentalists who rendered
women almost invisible in Afghanistan. Instead, it strives to understand them», in G.
Macnab, A woman’s place, cit.
Introduzione
Claudia Porretto · Il velo risonante Ù 203
Ah mio mansueto Bashir, ti ho condotto fin qui per aprirti il mio cuo-
re. Tu non capisci cos’ho passato. Non so più nemmeno sospirare. Ora
che devo nascondere a mia nuora che suo marito è morto, suo figlio
adesso è orfano. La tua mente non arriva a tanto, perché tu non co-
nosci che la biada. Nell’ora in cui morì la tua compagna anche tu so-
spirasti. Come hai fatto? Non affliggerti oltre dal dolore, da un dolore
immenso. Non essere più in grado nemmeno di sospirare. Tuttavia,
anche sospirare dà gran pena. C’è una cosa che non mi spiego, come
lo capisti quando morì la tua compagna?
1
In Turchia, il laicismo (lâiklik) più che alla separazione tra religione e stato, si
riferisce al controllo da parte dello stato delle istituzioni e delle pratiche religiose. Cfr.
N. Berkez, The Development of Secularism in Turkey, Hurst & Co, London 1998.
206 Ù Le verità del velo
2
Ringrazio Lorenzo D’Orsi per i preziosi commenti sulla versione che questo testo
ha assunto. Il capitolo è stato ultimato all’inizio del 2016. Non rende conseguentemente
conto dei successivi e preoccupanti sviluppi della politica di Erdoğan.
3
Per una discussione del velo come “nodo” mediorientale si veda U. Fabietti, Cul-
ture in bilico. Antropologia del Medio Oriente, Paravia Bruno Mondadori, Milano 2002, pp.
139-166.
4
Come ricordano Nancy Lindisfarne-Trapper e Bruce Ingham, l’analisi dell’abbi-
gliamento come linguaggio richiede che si presti attenzione ai termini locali impiegati
per designare i capi di vestiario. Cfr. N. Lindisfarne-Tapper, B. Ingham, Approaches to the
study of Dress in the Middle east, in Idd. (a cura di), Languages of Dress in The Middle East,
Curzon, London 1997, pp. 1-39.
5
In Turchia il çarşaf è utilizzato da una minoranza di donne. Secondo un’inchie-
sta effettuata nel 2007 su commissione del gruppo editoriale Doğan, era utilizzato
dall’1.3% della popolazione femminile. Secondo la stessa inchiesta il 30.6% non si co-
Claudia Mattalucci ∙ Modernità e Introduzione
politiche dell’abbigliamento femminile in Turchia Ù 207
priva, il 51.9% usava un foulard (başörtü) e il 16.2% indossava il türban. Secondo il rap-
porto la distribuzione varia considerevolmente in relazione all’età e al livello di istru-
zione. Cfr. Religion, Secularism and the Veil in Daily Life Survey, URL: <http://www.konda.
com.tr/> (12/16).
6
La letteratura sulla Turchia, generalmente, utilizza l’aggettivo “musulmano” per
esprimere l’identità religiosa; l’aggettivo “islamista” viene invece impiegato in riferi-
mento a movimenti sociali o partiti per i quali l’identità musulmana rappresenta la base
di un progetto sociale e politico altro rispetto al laicismo ufficiale. “Laicista”, di contro,
si riferisce a una posizione, ugualmente militante, opposta al progetto islamista.
7
Questo modo di coprirsi viene anche designato come yarım tesettür, ovvero mezzo
tesettür.
8
Riprendo qui il titolo di un saggio di Franz Fanon sull’Algeria coloniale che resta
una delle critiche più lucide alle battaglie contro il velo condotte nel secolo scorso. Cfr.
F. Fanon, L’Algeria si toglie il velo, in Fanon 1. Opere scelte, a cura di Giovanni Pirelli, Einau-
di, Torino 1971 (ed. orig. 1959), pp. 149-177.
9
Mustafa Kemal non arrivò a interdire formalmente il velo come fece nel 1925 con il
fez. Sull’abolizione del fez si veda C. Mattalucci, “Ecco il nostro cappello”. Rivestire la Turchia
moderna, in S. Botta (a cura di), Abiti, corpi, identità. Atti del convegno “L’abito sì che lo fa il
monaco”, Società Editrice Fiorentina, Firenze 2009, pp. 335-358. L’uso del velo fu scorag-
giato dal governo ma, per evitare insurrezioni, non fu mai vietato; il velo che copriva
208 Ù Le verità del velo
il volto venne tuttavia proibito da alcune autorità locali. Cfr. O. Lewis, The Emergence of
Modern Turkey, Oxford University Press, New York-Oxford 2002 (I ed. 1961), p. 271, n. 62.
10
Tanzimat, letteralmente “riforme”, designa il periodo della storia turca inaugu-
rato dall’editto di Gülhane (1839). Le riforme introdotte in quest’epoca riguardarono
l’esercito, la leva, la burocrazia, l’esazione delle tasse, il sistema giuridico, l’educazione.
Nel 1876 fu inoltre emanata la prima costituzione. Tali cambiamenti miravano a mo-
dernizzare l’impero migliorandone l’amministrazione e il funzionamento ma dipesero
ugualmente dalle pressioni delle potenze europee. Cfr. O. Lewis, The Emergence of Mod-
ern Turkey, cit., pp. 74-129; E. Zürcher, Turkey. A Modern History, I.B. Tauris, London-New
York 2004, (I ed. 1997), p. 50-70.
11
N. Göle, Musulmanes et modernes. Voile et civilisation en Turquie, La Découverte, Paris
1993 (ed. orig. 1991), p. 21. Nora Şeni ha analizzato i dibattiti sull’abbigliamento fem-
minile sulla stampa satirica di Istanbul alla fine del XIX sec. Cfr. N. Şeni, Fashion and
Women’s Clothing in the Satirical Press of Istanbul at the End of the 19th Century, in Ş. Tekeli (a
cura di), Women in Modern Turkish Society, Zed Books, London-New Jersey, 1995 (ed. orig.
1990), pp. 25-45. Sullo stesso tema, per il periodo compreso tra il 1908 e il 1911, si veda
invece P. Brummett, Dressing for the Revolution: Mother, Nation, Citizen and Subversive in the
Ottoman Satirical Press, in Z. Arat (a cura di), Deconstructing Images of “The Turkish Woman”,
Palgrave, New York 2000, pp. 37-63.
12
D. Kandiyoti, End of the Empire: Islam, Nationalism and Women in Turkey, in D. Kandi-
yoti (a cura di), Women, Islam and the State, Macmillan, London 1991, pp. 22-47.
13
La guerra dei Balcani e successivamente la prima guerra mondiale.
14
Niyazi Berkez parla di “scuole di pensiero” e mette in evidenza che le denomina-
zioni oggi comunemente utilizzate per designarle si diffusero in seguito all’affermarsi
dei turchisti i quali, influenzati dai russi che utilizzavano l’espressione “occidentalisti”,
presero a designare i due gruppi avversari occidentalisti ed islamisti. Cfr. N. Berkez, The
Development of Secularism in Turkey, cit., pp. 337-338.
Claudia Mattalucci ∙ Modernità e Introduzione
politiche dell’abbigliamento femminile in Turchia Ù 209
15
N. Göle, Musulmanes et modernes, cit., p. 28.
16
Ziya Gökalp (1876-1924) è riconosciuto come il primo sociologo turco; i suoi lavo-
ri s’ispirarono alle analisi di Emile Durkheim. Fu ugualmente attivo sulla scena politica
divenendo una delle figure chiave del CUP (Comitato Unione e Progresso). Prendendo
le distanze dai progetti di modernizzazione ispirati al modello europeo, Gökalp so-
stenne che occorreva guardare al passato della nazione e rivitalizzarlo. Sebbene morì
soltanto un anno dopo la nascita della repubblica turca, ma il suo pensiero esercitò
un’influenza profonda sul kemalismo. Cfr. Z. Gökalp, Turkish Nationalism and Western
Civilisation, George Allen and Unwin, London-New York 1959; T. Parla, The Social and
Political Thought of Ziya Gökalp, E.J. Brill, Leiden 1985.
17
Gökalp distinse tra cultura e civiltà. Mentre la cultura era l’elemento autentico di
ogni nazione e, in quanto tale, doveva essere preservata, la civiltà era invece una sola e
derivava dalle tradizioni di differenti gruppi etnici. I turchi avrebbero dovuto, al tempo
stesso, preservare la propria cultura e adottare la civiltà occidentale.
18
Si tratta evidentemente di un passato fantasiosamente ricostruito attraverso l’a-
210 Ù Le verità del velo
dre dei soldati che avevano dato la vita per salvare la patria dagli in-
vasori. Forti, virtuose e infaticabili le donne avevano preso parte alla
guerra d’indipendenza trasportando le munizioni, portando cibo ai
soldati, curando i feriti.21 Mustafa Kemal non celebrò soltanto le don-
ne del popolo, fu anche un acceso sostenitore della partecipazione
delle donne alla vita moderna che, come abbiamo visto, era già stata
invocata da occidentalisti e turchisti. A differenza di questi ultimi,
tuttavia, Mustafa Kemal osò adottare misure radicali per circoscrivere
l’influenza dall’islam e sottrarre il diritto e le istituzioni della repub-
blica alla sua influenza.22 Mustafa Kemal voleva che le donne smet-
tessero il velo, avessero accesso all’istruzione (che dal 1928 fu laica
e unificata),23 lavorassero fuori casa e ottenessero il diritto di voto
(cosa che avvenne molto prima che lo stesso diritto fosse accordato
a diverse donne occidentali).24 Si sarebbe allora nuovamente istituita
quell’antica uguaglianza tra i sessi che, come Gökalp aveva sostenuto,
era stata in vigore presso gli antichi popoli nomadi turchi e che ap-
parteneva all’ethos nazionale.
Sono molte le fotografie di questo periodo che ritraggono donne
eleganti, senza veli che partecipano insieme agli uomini alle attività
che contraddistinguono la vita moderna. Sebbene queste donne si-
ano a lungo restate una minoranza, le loro immagini giocarono un
ruolo di primo piano nella strategia politica di Mustafa Kemal: erano
la prova della liberazione dal giogo dell’islam,25 dell’emancipazione
femminile e del progresso dell’intera nazione. La figura della donna
istruita, emancipata, forte, attiva, in compagnia dell’uomo in pubbli-
co come in casa fu assunta come simbolo della Turchia moderna.26 La
21
Le donne del popolo sono un elemento costante delle rappresentazioni artistiche
(scultoree o pitturali) che celebrano la guerra di indipendenza.
22
Il 3 marzo 1923, fu abolito il califfato; il 4 ottobre 1926 fu abolito il codice civile
islamico (Mecelle) e ne venne adottato uno modellato su quello svizzero; il 10 aprile
1928, fu eliminata l’articolo della costituzione che dichiarava l’islam religione di Stato;
infine, il 5 febbraio 1937, il principio di laicità acquisì valore costituzionale.
23
Zehra Arat ha analizzato le politiche educative tra gli anni Venti e gli anni Trenta
mettendo in evidenza che, a dispetto dell’enfasi posta sulla necessità di unificare l’e-
ducazione e formare classi miste, di fatto, soprattutto a livello della scuola secondaria,
furono mantenute differenze significative tra curricula maschili e femminili. Le carriere
scolastiche delle donne che l’autrice ha intervistato mostrano inoltre, sempre a livello
di scuola secondaria e università, una maggiore resistenza da parte delle famiglie al
proseguimento della loro educazione in strutture miste, soprattutto laddove questa ri-
chiedeva il trasferimento in contesti urbani nei quali non vi erano parenti che potessero
assumerne la tutela. Cfr. Z. Arat, Educating the Daughters of the Republic, in Ead. (a cura
di), Deconstructing Images of “The Turkish Woman”, cit., pp. 157-179.
24
In Turchia le donne ottennero il diritto di voto nel corso degli anni Trenta: nel
1930 votarono per le elezioni comunali e nel 1934 per quelle politiche; nel 1937 18 don-
ne furono elette in parlamento. Nessun governo successivo ebbe una rappresentanza
femminile altrettanto cospicua.
25
Dopo la costituzione della Repubblica turca, il laicismo divenne l’ideologia di
stato e le istituzioni e le organizzazioni islamiche vennero progressivamente abolite.
26
Cfr. A. Durakbaşa, Kemalism as Identity Politics in Turkey, in Z. Arat, Deconstructing
Images of “The Turkish Woman”, cit., pp. 139-155. L’autrice afferma che sebbene nel perio-
212 Ù Le verità del velo
titolo di Miss Mondo che si tenne in Belgio nel 1932.32 Keriman Halis
fu presentata dai media occidentali come la nipote di uno seyhülislam
(la massima autorità per l’islam) che osò sfilare in costume da bagno
di fronte ad un pubblico internazionale. Come fa notare Alev Çınar
«Mostrare il corpo di Halis… allo sguardo europeo era un gesto parti-
colarmente significativo perché questo sguardo era considerato come
il supremo arbitro della modernità e dell’occidentalizzazione».33 Era
uno sguardo profondamente imbevuto di orientalismo e si attendeva
che le donne turche fossero tutte coperte dal velo o celate dalle mura
dell’harem.
Benché simbolicamente potenti, le trasformazioni prodotte dal
“femminismo di Stato”34 sul corpo e sulla vita delle donne ebbero
dei limiti, che gli studi femministi35 pubblicati tra la fine degli anni
Ottanta e gli anni Novanta36 hanno reso evidenti. Le riforme a favore
delle donne ebbero, infatti, un carattere strumentale: i loro autori
non si chiesero che cosa volessero le cittadine della nazione, ma ac-
32
Sul ruolo dei concorsi di bellezza nazionali e internazionali nel pubblicizzare la
modernizzazione della nuova Turchia si veda A.H. Shissler, Beauty Is Nothing to Be Ashamed
Of: Beauty Contests As Tools of Women’s Liberation in Early Republican Turkey, in «Comparative
Studies of South Asia Africa and the Middle East», 24, 1 (2004), pp. 109-126.
33
A. Çınar, Modernity, Islam, and Secularism in Turkey. Bodies, Places, and Time, Univer-
sity of Minnesota Press, Minneapolis-London 2005, p. 72.
34
Riferendosi alla colonizzazione inglese dell’Egitto, Leila Ahmed ha parlato di
“femminismo coloniale” per designare la preoccupazione selettiva dei colonizzatori per
l’oppressione delle donne (per liberare le egiziane si accanirono contro il velo, ma non
si applicarono con una determinazione analoga a diffondere la scolarizzazione). Cfr. L.
Ahmed, Women, Gender and Islam, Yale University Press, New Haven 1992. In riferimento
alla Turchia, l’espressione “femminismo di stato” è stata impiegata per designare la
preoccupazione dell’élite al governo di emancipare le donne della nazione utilizzando
una strategia analogamente selettiva.
35
Sulla storia del femminismo (laico) in Turchia si vedano: N. Sirman, Feminism
in Turkey: A Short History, in «New Perspectives on Turkey», 3, 1 (1989), pp. 259-288;
M. Grünell, A. Voeten, State of the Art Feminism in Plural: Women’s Studies in Turkey, in
«European Journal of Women’s Studies», 4 (1997), pp. 219-233. Sul contrasto tra il fem-
minismo derivante dall’adesione all’ideologia kemalista e il femminismo più radicale
emerso negli anni Ottanta per iniziativa delle donne, si veda: Y. Arat, The Project of Mo-
dernity and Women in Turkey, cit. Sul femminismo islamico emerso negli anni Novanta
si veda, infine, Y. Arat, Feminists, Islamists, and Political Change in Turkey, in «Political
Psychology», 19, 1 (1998), pp. 117-131.
36
Si vedano per esempio: Y. Arat, The Patriarchal Paradox: Women Politicians in Tur-
key, Fairleigh Dickinson University Press, Rutherford 1989; D. Kandiyoti, Women and the
Turkish State: Political Actors or Symbolic Pawns, in N. Yuval-Davis, F. Anthias (a cura di),
Women-Nation-State, Macmillan, London 1988, pp. 126-50; D. Kandiyoti, End of the Em-
pire: Islam, Nationalism and Women in Turkey, in Id., Women, Islam ad the State, MacMillan,
London 1991, pp. 22-47; N. Göle, Musulmanes et modernes, cit.; Z. Arat, Turkish Women
and the Republican Reconstruction of Tradition, in F.M. Göçek, S. Balaghi (a cura di), Re-
constructing Gender in the Middle East: Power, Identity, Tradition, Columbia University Press,
New York 1994, pp. 57-81; Ş. Tekeli (a cura di), Women in Modern Turkish Society, cit.; D.
Kandiyoti, Gendering the Modern. On Missing Dimensions in the Study of Turkish Modernity,
in S. Bozdoğan, R. Kasaba (a cura di), Rethinking Modernity and National Identity in Turkey,
cit., pp. 113-132; D. Kandiyoti, Afterword: some awkward questions on women and modernity
in Turkey, in L. Abu-Lughod (a cura di), Remaking women: feminism and modernity in the
Middle East, Princeton University Press, Princeton 1998, pp. 270-287.
214 Ù Le verità del velo
37
Y. Ertürk, Rural Woman and Modernization in Southeastern Anatolia, in Ş. Tekeli (a
cura di), Women in Modern Turkish Society, cit., pp. 141-152.
38
Ş. Tekeli, The Meaning and Limits of Feminist Ideology in Turkey, in F. Özbay (a cura
di), Women, Family and Social Change in Turkey, UNESCO, Bangkok 1990, pp. 139-159.
Claudia Mattalucci ∙ Modernità e Introduzione
politiche dell’abbigliamento femminile in Turchia Ù 215
39
D. Kandiyoti, Gendering the Modern, cit., p. 126.
40
Dopo la morte di Atatürk il malcontento per un regime sempre più reazionario fu
alimentato da una grave crisi economica. Il partito di opposizione vinse così le elezioni
del 1950. Per ottenere consensi il Partito democratico legittimò nuovamente l’islam e i
valori tradizionali.
41
Il 27 maggio 1960, i militari intervennero con un violento colpo di stato in difesa
dei valori kemalisti della laicità, dell’unità e del prestigio dello stato nazione turco.
Dopo aver rovesciato quello di Adnan Menderes, formarono un governo provvisorio.
Il 9 luglio 1961 fu promulgata una nuova Costituzione. Ebbe così inizio l’epoca della
seconda Repubblica.
42
La violenza tra formazioni politiche radicali d’orientamento opposto e gli scontri
tra maggioranza turca e sunnita e minoranze etniche e religiose (in particolare curdi
e aleviti) si intensificarono, sino a che, all’inizio degli anni Settanta, i militari rispose-
ro dichiarando lo stato d’assedio (1971-1973). Le violenze, tuttavia, ripresero e furono
all’origine di un nuovo intervento militare nel 1980.
216 Ù Le verità del velo
43
Qui di seguito presento alcune informazioni che consentono di contestualizzare
l’emergere della questione del velo sulla scena politica turca degli anni Ottanta e No-
vanta. In questa sede non mi è possibile affrontare la complessa evoluzione dell’islam
politico in Turchia. A questo proposito si vedano: J. White, Islamist Mobilization in Turkey,
University of Washington Press, Seattle 2002; H. Yavuz, Islamic Political Identity in Turkey,
Oxford University Press, New York 2003, H. Gülalp, Whatever Happened to Secularization:
The Multiple Islam in Turkey, in «South Atlantic Quarterly», 102 (2003), nn. 2/3, pp. 381-
396; Q. Mecham, From the Ashes of Virtue, A Promise of Light: The Transformation of Political
Islam in Turkey, in «Third World Quarterly», 25 (2004), pp. 339-358.
44
In Turchia le confraternite sufi (tarikat) sono sempre state un elemento centrale
della religiosità popolare. Formalmente interdette nel 1925, riuscirono a sopravvivere
clandestinamente fino al secondo dopoguerra quando il clima politico si ammorbidì e
la loro presenza fu nuovamente autorizzata. L’ordine dei nakşbendi è stato, insieme con
quelli dei mevlevi e degli alevi-bektaşi, tra i più popolari e influenti. Mentre diversi membri
del partito di Erbakan e lo stesso Turgut Özal (che fu al governo dal 1983 al 1991, prima
come primo ministro e poi come presidente della repubblica) erano legati all’ordine
nakşbendi, molti membri del partito di Erdoğan si sono legati al movimento fondato da
Fethüllah Gülen (cfr. H. Yavuz, Islamic Political Identity in Turkey, cit.). Nel tempo le rela-
zioni tra il movimento e AKP si sono logorate fino ad arrivare a una completa rottura.
45
Il Partito dell’ordine nazionale (MNP) fu sciolto dai militari nel 1971 e venne
rifondato nel 1972 come Partito della salvezza nazionale (MSP). Da allora i partiti isla-
misti sono stati ripetutamente chiusi e riaperti sotto nuovo nome. Dopo che il colpo di
stato del 1980 aveva interrotto ogni attività politica, il partito fu rifondato nel 1983 come
Partito della prosperità (RP). A questo sono poi succeduti il Partito della virtù (FP) e il
Partito della felicità (SP). Dalla separazione della componente “modernista” del partito
islamista è nato il Partito della giustizia e dello sviluppo (AKP) di Recep Tayyip Erdoğan.
Claudia Mattalucci ∙ Modernità e Introduzione
politiche dell’abbigliamento femminile in Turchia Ù 217
46
J. Norton, Faith and Fashion in Turkey, in N. Lindisfarne-Tapper, B. Ingham (a cura
di), Languages of Dress in The Middle East, cit., pp. 149-177.
47
L’ordine fu ristabilito a prezzo di enormi costi umani e sociali. Nell’anno succes-
sivo al colpo di stato vennero effettuati 122.600 arresti; nel settembre del 1982, 80.000
persone erano ancora in carcere, 30.000 attendevano il processo. Sia durante gli inter-
rogatori precedenti all’arresto che durante la detenzione fu fatto un ampio uso della
tortura. Cfr. E.J. Zürker, Turkey. A Modern History, I.B. Tauris, London-New York 2004 (I
ed. 1993), pp. 278-280.
48
Come quello del 1960, anche il colpo di stato del 1980 inaugurò una nuova era.
La soppressione di tutte le attività politiche da parte dei militari, aveva creato un vuoto
che spinse la parte più impegnata della popolazione a concentrarsi su questioni diverse
rispetto a quelle che erano state al centro dell’attenzione nei due decenni precedenti
come la democrazia, i diritti umani, i diritti delle minoranze e i diritti delle donne.
218 Ù Le verità del velo
49
Una legge del 1972 ha permesso alle scuole religiose (imam-hatîp), sino a allora
esclusivamente destinate alla formazione dei predicatori, di assumere il valore dei licei e
di poter quindi garantire l’accesso agli esami d’ammissione all’università a coloro che le
frequentavano. Al momento della riforma erano soltanto 29, ma il loro numero crebbe
rapidamente. Questi istituti furono quindi aperti anche alle ragazze. Generalmente le
scuole religiose sono scelte dalle famiglie che desiderano che le proprie figlie ricevano
un’educazione conforme ai precetti dell’islam e preferiscono che le ragazze non siano
inserite in classi miste. Cfr. F. Acar, A. Ayata, Discipline, Success and Stability: The Repro-
duction of Gender and Class in Turkish secondary Education, in D. Kandiyoti, A. Saktanber
(a cura di), Fragments of Culture. The Everyday of Modern Turkey, I.B. Tauris & Co, London
2002, pp. 90-111.
50
E. J. Zürker, Turkey. A Modern History, cit., p. 289.
51
Per un’analisi degli articoli pubblicati da queste tre riviste tra febbraio 1985 e
maggio 1988 si veda: F. Acar Women and Islam in Turkey, in S. Tekeli (a cura di), Women
in Modern Turkish Society, cit., pp. 46-65. Si veda inoltre Y. Arat, Feminism and Islam: Con-
siderations on the Journal Kadin ve Aile, in S. Tekeli (a cura di), Women in Modern Turkish
Society, cit., pp. 66-78.
52
Sulla storia della questione del velo si veda E. Özdalga, The Veiling Issue: Official
Secularism and Popular Islam in Modern Turkey, Curzon Press, Surrey, UK, 1998.
Claudia Mattalucci ∙ Modernità e Introduzione
politiche dell’abbigliamento femminile in Turchia Ù 219
come simbolo del loro progetto di società. Nel giugno del 1984,
quattro studentesse della facoltà di medicina dell’Università Uludağ
di Bursa furono sospese per essersi presentate agli esami indossando
un foulard. A pochi giorni di distanza una ricercatrice d’ingegneria
chimica dell’Università Ege di Izmir rivendicò il diritto di coprirsi
il capo affermando che la sua negazione da parte dell’istituzione
per cui lavorava costituiva una violazione dei diritti umani. Il rettore
rispose che avrebbe dovuto togliersi il foulard e che se proprio vo-
leva coprirsi il capo avrebbe potuto farlo con un turbante (türban).
Pressappoco nello stesso periodo, due studentesse che indossavano
il foulard vennero allontanate dalla biblioteca dell’assemblea nazio-
nale. A una studentessa della facoltà di medicina dell’Università di
Ankara venne negato il privilegio di pronunciare il discorso pubbli-
co riservato al miglior studente in occasione delle lauree, nonostan-
te i suoi brillanti risultati scolastici, perché aveva il capo coperto.53
Questi eventi e le reazioni che generarono da parte dei parla-
mentari vennero riportati dalla stampa. Il mese precedente, infatti,
il consiglio dell’educazione superiore (YÖK) aveva stabilito che, seb-
bene secondo il regolamento sull’abbigliamento emanato durante
il regime militare non fosse lecito velarsi, era però possibile entra-
re in università con un türban, vale a dire con un piccolo foulard
portato seguendo la moda, poiché questo era un indumento “mo-
derno”. Come ha osservato Alev Çınar, una sottile strategia retorica
trasformava il foulard autorizzato da simbolo religioso in accessorio
alla moda, compatibile con la laicità delle istituzioni all’interno del-
le quali avrebbe fatto la sua comparsa.54 I giornali pubblicarono il-
lustrazioni che mostravano al pubblico come annodare il türban. Il
consiglio dell’educazione superiore cercava in questo modo di argi-
nare un problema che allora aveva dimensioni circoscritte. Ma la sua
strategia risultò inefficace. Il termine türban, che era stato introdotto
per neutralizzare le valenze religiose e politiche del foulard, divenne
infatti sinonimo di velo islamico. Nonostante i tentativi di addomesti-
camento messi in atto dallo stato e dalla stampa kemalista, il foulard
continuò a essere indossato per coprire interamente il capo e il collo.
Tra il 1984 e il 1987, il numero delle studentesse che lo portavano re-
gistrò un notevole incremento. Il consiglio dell’educazione superiore
emanò allora un nuovo decreto che annullava il precedente poiché,
come recitava il testo, il türban era diventato simbolo di una certa
ideologia. Il decreto stabiliva che all’interno dei campus e durante le
lezioni gli studenti dovevano indossare un abbigliamento moderno
(çağdaş kiyafet) e che spettava alle singole università stabilire che cosa
fosse conforme a questa dicitura.
53
Cfr. E.A. Olson, Muslim Identity and Secularism in Contemporary Turkey: “The Head-
scarf Dispute”, in «Anthropological Quarterly», 58, 4 (1985), pp. 161-169; J. Norton, Faith
and Fashion in Turkey, cit., pp. 186-170.
54
A. Çınar, Modernity, Islam, and Secularism in Turkey, cit., pp. 78-83.
220 Ù Le verità del velo
55
Come ha osservato Navaro-Yashin, nozioni quali “società civile” (sivil toplum),
“popolo” o “società” non vanno intese come realtà empiriche ma come effetti di speci-
fici discorsi. Nel corso degli anni Ottanta e Novanta, islamisti e laicisti si sono alterna-
tivamente presentati come rappresentanti della società civile; i primi per contrapporsi
al potere dello stato; i secondi per contestare a un governo che, dal loro punto di vista,
metteva a rischio la laicità, intesa come aspirazione della società civile anziché come
imposizione dello stato. Cfr. Y. Navaro-Yashin, Faces of the State. Secularism and Public Life
in Turkey, Princeton University Press, Princeton-Oxford 2002. L’identificazione con la
società civile è stata ugualmente, come vedremo, un elemento importante della presen-
tazione di sé dei soggetti coinvolti nelle proteste di Gezi Park.
56
N. Göle, Musulmanes et modernes, cit.
Claudia Mattalucci ∙ Modernità e Introduzione
politiche dell’abbigliamento femminile in Turchia Ù 221
57
I principi fondatori della repubblica turca sono il populismo, il riformismo, il
repubblicanesimo, il laicismo, lo statalismo e il nazionalismo. Per un’analisi critica cfr.
R. Kasaba, Kemalist certainties and modern ambiguities, in S. Bozdoğan, R. Kasaba (a cura
di), Rethinking Modernity and National Identity in Turkey, cit., pp. 15-36.
58
In Turchia il kemalismo è l’ideologia di stato. È difficile darne una definizione
perché ha assunto significati diversi a seconda delle epoche e dei soggetti che vi hanno
aderito. Quelli che qui identifico come kemalisti sono coloro che, soprattutto a par-
tire dagli anni Novanta, hanno utilizzato Atatürk e i suoi principi come antidoto alla
crescente presenza dell’islam nello spazio pubblico. In questa accezione, il termine si
sovrappone a laicismo.
222 Ù Le verità del velo
59
Il Partito della prosperità utilizzò immagini di donne velate durante la campagna
elettorale ma non presentò nessuna candidata, né alle elezioni municipali del 1994, né
a quelle politiche del 1995. Cfr. A. Çınar, Modernity, Islam, and Secularism in Turkey, cit.,
pp. 83-87.
60
Professoressa di economia formatasi negli Stati Uniti, Tansu Çiller succedette
alla guida del partito quando Süleyman Demirel divenne presidente della repubblica.
Come sottolinea Y. Arat, alcuni membri del suo partito, composto al 99,8% da uomini,
erano stati critici rispetto alla candidatura di una donna alla carica di primo ministro.
Çiller riuscì a rassicurare l’elettorato confermando che in casa era suo marito
a esercitare le funzioni di capofamiglia e, al tempo stesso, mostrandosi in pubblico
come una donna di ferro e agendo come un uomo. Cfr. Y. Arat, On Gender and Citizenship
in Turkey, in «Middle East Report», 198 (1996), pp. 28-31.
61
Nella sua descrizione della manifestazione che ebbe luogo ad Istanbul il 25 febbra-
io 1998, Ayşe Saktanber, ha sottolineato che questa fu probabilmente la prima occasione
nella recente storia turca in cui studenti di orientamento ideologico diametralmente
opposto (islamisti, nazionalisti, di destra, di sinistra, liberal-democratici) si riunirono
intorno ad un’unica causa. A. Saktanber, “We Pray Like you Have Fun”: New Islam Youth in
Turkey between Intellectualism and Popular Culture, in D. Kandiyoti, A. Saktanber (a cura
di), Fragments of Culture, cit., pp. 254-276.
Claudia Mattalucci ∙ Modernità e Introduzione
politiche dell’abbigliamento femminile in Turchia Ù 223
3. La Turchia rivelata
62
M. Kavakçı, Headscarf Heresy. For one Muslim woman the headscarf is a matter of choice
and dignity, in «Foreign Politics», 142 (2004), pp. 66-67.
63
Mentre nell’articolo citato alla nota precedente Kavakçı implicitamente suggeri-
sce che ciò sia avvenuto come conseguenza del suo gesto, in una lettera di risposta com-
parsa sullo stesso periodico Aytul Özbakir Goral afferma che Kavakçı aveva ottenuto
la cittadinanza statunitense senza informare le autorità turche, mentre in accordo con
una legge del 1981 i cittadini che desiderano acquisire un’altra cittadinanza, per non
perdere quella turca debbono preventivamente essere autorizzati dallo Stato. A. Özba-
kir Goral, Liberty and the Headscarf, in «Foreign Politics», 144 (2004), p. 4.
224 Ù Le verità del velo
64
In Turchia lo stato è rappresentato in primo luogo dall’esercito, ma ugualmente
da altre istituzioni come la corte costituzionale, la magistratura, l’accademia, ecc. Per
un’etnografia dello stato si veda J. Navaro-Yashin, Faces of the State, cit.
65
<www.dirittiuomo.it/News/News2005/sahinduplocasa7.pdf> (12/16).
66
Cit. in B. Gökarıksel, K. Mitchell, Veiling, secularism and the neoliberal subject, in
«Global Networks», 5, 2 (2005), pp. 147-165.
, Sul doppio standard applicato alla questio-
ne del velo si veda A. Piatti-Crocker, L. Tasch, Unveiling the Veil Ban Dilemma: Turkey and
Beyond, in «Journal of International Women’s Studies», 13, 3 (2012), pp. 17-32.
Claudia Mattalucci ∙ Modernità e Introduzione
politiche dell’abbigliamento femminile in Turchia Ù 225
67
In quest’occasione Erdoğan era stato eletto sindaco di Istanbul. L’esercizio della
carica di primo cittadino della più importante e più popolata città della Turchia gli ha
consentito di conseguire un’enorme popolarità. Diversamente da Erbakan che, pur te-
nendo un discorso populista, amava portare abiti costosi (corredati dalle sue ben note
cravatte Versace) e all’occasione indire ricevimenti sfarzosi, Erdoğan si è sempre pre-
sentato come un uomo del popolo fedele alle sue umili origini. Cfr. J. White, The Islamist
Paradox, in D. Kandiyoti, A. Saktanber (a cura di), Fragments of Culture, cit., pp. 191-217;
H. Gülalp, Whatever Happened to Secularization, cit.
68
Sull’islamizzazione della sfera pubblica durante il governo di AKP si veda A.
Kaya, Islamisation of Turkey under the AKP Rule: Empowering Family, Faith and Charity, in
«South European Society and Politics», 20, 1 (2014), pp. 1-23.
69
Hayrünnisa Gül è stata una delle donne che si erano rivolte al tribunale di Stra-
sburgo per essere stata sospesa dall’università in seguito al suo rifiuto di smettere il
226 Ù Le verità del velo
ha visto opporsi coloro che pensavano che la first lady non rappre-
sentasse un paese moderno ed occidentalizzato quale la Turchia e
coloro che, di contro, hanno visto nel suo ingresso al palazzo presi-
denziale un’occasione di riscatto per le donne con il capo coperto.70
Dopo l’elezione di Gül alla presidenza della repubblica, grazie ad
un abbassamento dell’età del pensionamento, AKP ha potuto inse-
rire diversi suoi sostenitori nel sistema giudiziario, nella burocrazia,
nella sicurezza, nell’istruzione superiore e in altre istituzioni statali.
Come ho ricordato all’inizio di questo capitolo, il 28 febbraio
2008 il parlamento ha votato una modifica alla costituzione per con-
sentire l’uso del velo nelle università e negli uffici pubblici. Al voto
hanno fatto seguito imponenti manifestazioni di piazza. Nei giorni
successivi all’approvazione dell’emendamento, il consiglio dell’edu-
cazione superiore e numerose università hanno contestato la legge.
Alla ripresa delle lezioni, la maggior parte delle università ha deciso
di non ammettere le studentesse velate all’interno dei campus. In
contrasto con la decisione dei rettori e dei presidi di facoltà, miglia-
ia di professori hanno firmato petizioni in supporto del diritto di
portare il foulard nelle università, nella speranza che queste dive-
nissero luoghi in cui diverse credenze, idee e stili di vita potessero
trovare espressione. Il principale partito all’opposizione (CHP) ha
quindi fatto appello alla corte costituzionale affinché bloccasse la
nuova legge. All’inizio di giugno, in effetti, la corte ha annullato
l’emendamento voluto dal governo sulla base della sua incompati-
bilità con il laicismo ufficiale. Benché la decisione della corte fosse
appoggiata da una minoranza della popolazione, i parlamentari di
AKP, consapevoli dei rischi di uno scontro diretto con le istituzio-
ni, non hanno fatto resistenza. Nel 2010, tuttavia, il partito, che ha
nuovamente vinto le elezioni politiche, ha introdotto un pacchetto
di emendamenti alla costituzione del 1982. Forte del consenso po-
polare, della presenza nelle istituzioni statali e delle tutele garantite
dalle modifiche apportate alla carta costituzionale,71 ha poi attutato
una graduale erosione del veto di portare il foulard nelle università
e negli uffici pubblici. Il consiglio dell’istruzione superiore ha invia-
to all’Università di Istanbul un memorandum in cui dichiarava che,
foulard. Ritirò la causa all’indomani della vittoria alle elezioni politiche del partito di
Erdoğan, in cui militava il marito.
70
I media hanno dato voce a queste due rappresentazioni contrapposte. Come ha
osservato Meral Uğur Cinar, tuttavia, se dalle descrizioni delle first ladies presentate
da giornali di orientamento opposto emergono interpretazioni divergenti dell’identità
nazionale e dell’accettabilità dei simboli religiosi sulla scena globale, emergono ugual-
mente interpretazioni molto simili delle norme di genere che assegnano le donne al
ruolo domestico. M. Cinar, Construction of Gender and National Identity in Turkey: Images
of the First Lady in the Turkish Media (2002–7), in «Middle Eastern Studies», 50, 3 (2014),
pp. 482-492.
71
Le riforme hanno aumentato il numero dei membri della corte costituzionale,
hanno garantito al parlamento la facoltà di nominare dei giudici e ridotto il potere dei
tribunali militari.
Claudia Mattalucci ∙ Modernità e Introduzione
politiche dell’abbigliamento femminile in Turchia Ù 227
72
Sulle proteste di Gezi Park si vedano Y. Arat, Violence, Resistance, and Gezi Park, in
«Journal of Middle East Studies», 45 (2013), pp. 807-809; AA.VV., Protest and Politics. Tur-
key after Gezi Park, in «Insight Turkey», 15, 3 (2013), pp. 27-38; U. Yıldırım, Y. Navaro-Yash-
in, An Impromptu Uprising: Ethnographic Reflections on the Gezi Park Protests in Turkey, Cultural
Anthropology Online, 2013, URL: <http://www.culanth.org/fieldsights/391-an-impromp-
tu-uprising-ethnographic-reflections-on-the-gezi-park-protests-in-turkey> (12/16); G.
Koç, H. Aksu (a cura di), Another brick in the wall: Gezi Resistance and its aftermath, Wiener
Verlag für Sozialforschung, Wien 2015.
73
Il 10 agosto 2014 i cittadini hanno eletto Recep Tayyip Erdoğan Presidente della
repubblica. Nello stesso anno il suo partito ha nuovamente vinto le elezioni politiche.
74
In Turchia al mattino i bambini delle scuole elementari dovevano ripetere il
giuramento (and): “Sono turco, onesto e lavoratore. Sono turco, retto, lavoratore, il mio
principio è di difendere i più piccoli e rispettare gli anziani, amare il mio paese e la mia
nazione più di me stesso; la mia legge è crescere e andare avanti. O supremo Atatürk,
creatore del nostro quotidiano, io giuro che camminerò ininterrottamente sulla via che
tu hai tracciato, verso l’obbiettivo che hai definito e gli ideali che hai fondato. Fa che
la mia esistenza sia subordinata all’esistenza turca. Felice è colui che può dirsi turco”.
228 Ù Le verità del velo
4. Modernità plurali
75
A. Saktanber, Women and the Iconography of Fear: Islamization in Post-Islamist Turkey,
in «Signs: Journal of Women in Culture and Society», 31 (2006), pp. 21-31, p. 27.
76
Si vedano tra gli altri N. Göle, Musulmanes et modernes, cit.; E. Özdalga, The Veiling
Issue, cit.; F. Acar, Women and Islam in Turkey, cit.; A. İlyasoğlu, Islamist women in Turkey:
Their identity and self-image, in Z. Arat, Deconstructing Images of “The Turkish Woman”, cit.,
pp. 241-261; A. Saktanber, Living Islam. Women, Religion and the Politicization of Culture in
Turkey, I.B. Tauris, London-New York 2002; A. Secor, Islamism, Democracy, and the Political
Production of the Headscarf Issue in Turkey, in G.-W. Falah, C. Nagel (a cura di), Geographies
of Muslim Women, The Guilford Press, New-York-London 2005, pp. 203-225.
Claudia Mattalucci ∙ Modernità e Introduzione
politiche dell’abbigliamento femminile in Turchia Ù 229
77
In Turchia l’accesso all’università è vincolato al superamento di un esame na-
zionale estremamente selettivo. Gli studenti possono indicare alcune preferenze, ma
l’assegnazione della sede universitaria e della facoltà dipendono dai risultati ottenuti.
78
Nonostante tra le studentesse che si coprono il capo siano esistite ed esistano dif-
ferenze di punti di vista, esperienze e posizione sociale, il loro discorso, come quello dei
laicisti, rivela una certa stereotipia riconducibile, tra l’altro, al ruolo dei media nell’o-
rientare opinioni e foggiare linguaggi e agli effetti omologanti che la partecipazione a
forme di attivismo produce sulla retorica.
230 Ù Le verità del velo
79
A. İlyasoğlu, Islamist women in Turkey, cit., p. 250.
80
Y. Navaro-Yashin, The Market for Identities: Secularism, Islamism, Commodities, in D.
Kandiyoti, A. Saktanber (a cura di), Fragments of Culture, cit., pp. 221-253. Sull’islamicità
della moda musulmana si veda B. Gökarıksel, A. Secor, Islamic-ness in the life of a commod-
ity: Veiling-fashion in Turkey, in «Transactions», 35, 3 (2010), pp. 313-333.
81
Tradizionalmente le formazioni politiche islamiste hanno reclutato buona parte
del loro elettorato tra le fasce più povere della popolazione. Tra le loro fila, tuttavia,
hanno ugualmente raccolto numerosi imprenditori dell’Anatolia. Nonostante il loro
discorso populista tenda a minimizzare le differenze, anche tra gli islamisti esistono
di fatto delle distinzioni. Naturalmente, come già aveva messo in evidenza Bourdieu,
non sempre le distinzioni di classe, educazione e, in questo caso, consapevolezza reli-
giosa coincidono. L’élite cui le studentesse universitarie rivendicano di appartenere è
principalmente definita dall’educazione e dalla profondità della loro fede. Tuttavia, la
distinzione perseguita attraverso l’abbigliamento ha anche un’innegabile dimensione
economica. Cfr. P. Bourdieu, La distinzione. Critica sociale del gusto, il Mulino, Bologna
Claudia Mattalucci ∙ Modernità e Introduzione
politiche dell’abbigliamento femminile in Turchia Ù 231
2001 (ed. orig. 1979). Si vedano ugualmente J. White, The Islamist Paradox, cit.; Ead.,
Islamic Chic, in Ç. Keyder (a cura di), Istanbul. Between the Global and the Local, Rowman
& Littlefield Publishers, Lanham 1999, pp. 77-91; B. Kılıçbay, M. Binark, Veiling in Con-
temporary Turkey Consumer Culture, Islam and the Politics of Lifestyle: Fashion for Veiling in
Contemporary Turkey, in «European Journal of Communication», 17 (2002), pp. 495-511.
82
B. Gökarıksel, A. Secor New transnational geographies of Islamism, capitalism and
subjectivity: the veiling-fashion industry in Turkey, in «Area», 41, 1 (2009), pp. 6-18.
83
La moda islamica ha spesso attirato le critiche dei laicisti così come dei musul-
mani più conservatori. Il velo, infatti, con i suoi significati religiosi, culturali e politici
sembra, da diversi punti di vista, difficilmente conciliabile con un sistema futile, auto-
referenziale e mutevole come quello della moda, legato al capitalismo e alla società dei
consumi.
232 Ù Le verità del velo
84
N. Göle, Interpénétrations. L’Islam et l’Europe, Galaade Éditions, Paris 2005, p. 87.
Claudia Mattalucci ∙ Modernità e Introduzione
politiche dell’abbigliamento femminile in Turchia Ù 233
85
Per una discussione del rapporto tra questione del velo e immaginari sociali
dominanti nel contesto turco si veda N. Göle, “Islam in Public”. New Visibilities and New
Imaginaries, in «Public Culture», 14, 1 (2002), pp. 173-190.
86
Cfr. Y. Navaro-Yashin, Faces of the State, cit.; E. Özyürek, Nostalgia for the Modern:
State Secularism and Everyday Politics in Turkey, Duke University Press, Durham 2006.
87
N. Göle, Interpénétrations. L’Islam et l’Europe, cit., pp. 87-88.
234 Ù Le verità del velo
88
Cfr. J. White, The Islamist Paradox, cit. e N. Göle, Interpénétrations. L’Islam et l’Eu-
rope, cit.
89
M. Kavakçı, Headscarf Heresy, cit.
90
A. Özbakir Goral, Liberty and the Headscarf, cit.
91
Secondo un paradigma a lungo dominante la modernità veniva misurata in
rapporto al modello europeo. Erano moderne le società che erano meglio riuscite
a imitare la modernizzazione occidentale, un processo iniziato nell’età dei Lumi e
culminato con la creazione dello stato-nazione. Diversi studi, condotti nell’ambito
dell’antropologia culturale e degli studi post-coloniali, hanno messo in discussione
questo paradigma. Una volta dissociata dal modello europeo, la modernizzazione si
è rivelata essere la realizzazione di progetti sociali, politici e culturali di volta in volta
differenti. A questo proposito si vedano i lavori ormai classici di J.L. Comaroff e A. Ap-
Claudia Mattalucci ∙ Modernità e Introduzione
politiche dell’abbigliamento femminile in Turchia Ù 235
Conclusioni
95
Cfr. nota 4. Si veda inoltre K.S. Akoglu, Piecemeal Freedom: Why the Headscarf Ban
Remains in Place in Turkey, in «Boston College International & Comparative Law Re-
view», 38, 2 (2015), pp. 277-304.
96
Cfr. I. Karademir-Hazır, How bodies are classed: An analysis of clothing and bodily tastes
in Turkey, in «Poetics», 44 (2014), pp. 1-21.
Claudia Mattalucci ∙ Modernità e Introduzione
politiche dell’abbigliamento femminile in Turchia Ù 237
97
L. Abu-Lughod, Do Muslim Women Need Saving?, Harvard University Press, Cam-
bridge (MA) 2013.
238 Ù Le verità del velo
98
Cfr. A. Alemdaroğlu, Escaping femininity, claiming respectability: Culture, class and
young women in Turkey, in «Women’s Studies International Forum», 53 (2015), pp. 53-62.
Sguardi sul mondo cristiano Ù 239
Emilia Lazzarini
La questione del velo islamico tra Francia e Italia:
profili giuridici
1. Premessa
1
Così la relazione alla proposta di legge dei deputati Gibelli e Cota n. 1246 della
XVI Legislatura. A tal proposito vedere N. Colaianni, Come la xenofobia si traduce in
legge: in tema di edifici di culto, in «Osservatorio delle libertà ed istituzioni religiose»,
giugno 2004, URL: <http://www.olir.it/areetematiche/73/documents/Colaianni_edi-
ficidiculto.pdf> (12/16).
240 Ù Le verità del velo
2
La riforma approvata dalla Regione Lombardia (L.r. 3 febbraio 2015, n. 2 di modi-
fica alla L. r. n. 12/2005) ha subito il ricorso da parte della Presidenza del Consiglio dei
Ministri depositato il 9 aprile 2015 alla Corte Costituzionale la quale, il 24 marzo 2016
ha emesso la sentenza n. 63, dichiarando l’illegittimità costituzionale di buona parte
delle modifiche regionali; la proposta della Regione Veneto (l. r. n. 12/2016 di modifica
alla L.r. 11/2004) è stata anch’essa oggetto di impugnativa da parte del Presidente del
Consiglio, con ricorso depositato il 21 giugno 2016. La proposta della Regione Liguria
(di modifica alla L. R. n.4/1985 sulla disciplina urbanistica dei servizi religiosi) invece, è
stata approvata a maggioranza dalla Commissione Territorio e Ambiente il 20 settembre
scorso, e attende la prosecuzione del proprio iter. Per approfondimenti: N. Marchei, La
normativa della Regione Lombardia sui servizi religiosi: alcuni profili di incostituzionalità alla
luce della recente novella introdotta dalla legge «anti-culto», in «Quaderni di diritto e politi-
ca ecclesiastica», 2 (2015), pp. 411-424, spec. pp. 419-420, Corte Costituzionale, sent. n.
63/2016. Si veda A. Licastro, La Corte Costituzionale torna protagonista dei processi di transizio-
ne della politica ecclesiastica italiana?, in «Stato, chiese, pluralismo confessionale», (2016),
pp. 1-34, spec. pp. 18-19; G. Monaco, Confessioni religiose: uguaglianza e governo del territorio
(brevi osservazioni a margine della sentenza della Corte Costituzionale n. 63/2016), in «Forum
costituzionale», (2016), pp. 1-8, p. 3; E. Lazzarini, Governo del territorio, edilizia di culto,
ordine pubblico e libertà religiosa: l’arduo bilanciamento, in Atti del Convegno ADEC, Caserta, 6-7
ottobre 2016, in c.d.p.
3
Art. 31 ter comma 3 L.r. 12/2016 di modifica alla L. 11/2004.
4
Si rimanda alla sentenza del 15 gennaio 2010, n. 19, con cui il Tar Lombardia ha
annullato, per motivi di incompetenza, l’ordinanza del Sindaco di Trenzano (BS) n. 312
del 5 dicembre 2009 relativa all’uso della lingua italiana nelle riunioni pubbliche, e la
successiva ordinanza del 29 gennaio 2010, n. 71, con cui il Tribunale di Brescia è entrato
nel merito delle libertà costituzionalmente garantite, individuando nell’imposizione
dell’uso della lingua italiana un’illegittima disparità di trattamento.
Introduzione
Emilia Lazzarini ∙ La questione del velo islamico tra Francia e Italia Ù 241
2. Le fonti
Voglio però che sappiate che di ogni uomo il capo è Cristo, e capo della
donna è l’uomo, e capo di Cristo è Dio. Ogni uomo che prega o profe-
tizza con il capo coperto, manca di riguardo al proprio capo. Ma ogni
donna che prega o profetizza senza velo sul capo, manca di riguardo
al proprio capo, poiché è lo stesso che se fosse rasata. Se dunque una
donna non vuol mettersi il velo, si tagli anche i capelli! Ma se è vergogna
per una donna tagliarsi i capelli o radersi, allora si copra. L’uomo non
deve coprirsi il capo, poiché egli è immagine e gloria di Dio; la donna
invece è gloria dell’uomo. E infatti non l’uomo deriva dalla donna, ma
la donna dall’uomo; né l’uomo fu creato per la donna, ma la donna per
l’uomo. Per questo la donna deve portare sul capo un segno della sua
dipendenza a motivo degli angeli.[...]Giudicate voi stessi: è conveniente
che una donna faccia preghiera a Dio col capo scoperto? Non è forse la
natura stessa a insegnarci che è indecoroso per l’uomo lasciarsi crescere
i capelli, mentre è una gloria per la donna lasciarseli crescere? La chio-
ma le è stata data a guisa di velo. 5
Gli uomini devono assistere alla messa, sia in chiesa che fuori, a testa
nuda, a meno che costumi locali o circostanze speciali non vi si oppongo-
no. Le donne invece, devono portare un velo sulla testa ed essere vestite
con modestia, specialmente quando si avvicinano alla mensa del Signore.
5
Nella versione della Bibbia CEI, consultabile sul sito internet della Santa Sede
<http://www.vatican.va/archive/ITA0001/__PXO.HTM> (12/16).
242 Ù Le verità del velo
O Profeta! Di’ alle tue spose e alle tue figlie e alle donne dei credenti
che si ricoprano dei loro mantelli —jalabib—: questo sarà più atto a di-
stinguerle dalle altre e a che non vengano offese.8
6
Trad. it. in A. Bausani (a cura di), Il Corano, Rizzoli, Milano 2010, p. 255.
7
I dizionari arabi più conosciuti così traducono il versetto. Cfr. ad esempio, Al-
Munjid (Daru ’l-Mashriq, Beirut 1986), p. 195; at-Turayhi, Majma‘u ’l-Bahrayn, vol.1
(Daftar Nashr, Tehran 1408 AH), p. 700. Cfr. at-Tusi, at-Tibyan, vol. 7 (Maktabatu ’l-
l‘lam al-Islami, Qum 1409 AH), p. 428; at-Tabrasi, Majma’u ’l-Bayan, vol. 7 (Dar Ihyai
’t-Turathi ’l-‘Arabi, Beirut 1379AH), p. 138
8
A. Bausani (a cura di), Il Corano, cit., p. 311
9
Cfr., tra i dizionari arabi, ad esempio, al-Munjid, p. 96; at-Turayhi, Majma‘u ’l-
Bahrayn, vol. 1, p. 384.
Introduzione
Emilia Lazzarini ∙ La questione del velo islamico tra Francia e Italia Ù 243
.10
Sito internet dedicato al pensiero di Gamal al-Banna <http://www.islamiccall.
org/L%27Enseignement%20de%20Gamal%20al-Banna%20%281%29.htm> (01/16).
11
<http://www.aton-ra.com/egitto/notizie-egitto/attualita-politica-egiziana/185-
imam-anti-velo-al-azhar.html> (12/16). Si veda inoltre <http://www.thenational.ae/
news/world/africa/egyptian-cleric-praises-frances-ban-on-niqab> (12/16).
12
<http://ilblogdibarbara.ilcannocchiale.it/2011/02/27/il_salafismo_in_dieci_do-
mande.html> (12/16).
244 Ù Le verità del velo
13
<http://www.ilfattoquotidiano.it/2017/01/11/marocco-vietata-la-produzione-
e-la-vendita-del-burqa-messo-al-bando-perche-criminali-lhanno-usato-per-mascherar-
Introduzione
Emilia Lazzarini ∙ La questione del velo islamico tra Francia e Italia Ù 245
5. Il velo in Francia
21
<http://www.independent.co.uk/news/world/europe/dutch-burqa-veil-ban-
holland-votes-for-partial-restrictions-some-public-places-a7445656.html> (12/16).
22
Cfr le tabelle di A.-S. Lamine fornite nel suo Les formes actuelles du retour du
religieux, in La laïcité à l’épreuve du voile intégral, in «Regards sur l’actualité», 364 (2010),
pp. 21-34. Dati più recenti sono consultabili on line alla pagina <http://www.worldatlas.
com/articles/religious-demographics-of-france.html> (12/16) ed evidenziano un
lieve aumento dei fedeli musulmani (tra il 7 e il 9%), e <http://www.lemonde.fr/les-
decodeurs/article/2015/05/07/une-grande-majorite-de-francais-ne-se-reclament-d-
aucune-religion_4629612_4355770.html> (12/16) che segnala la grande diffusione in
Francia dell’ateismo.
23
P. Portier, Les mutations du religieux dans la France contemporaine, in «Social
Compass», 59, 2 (2012), pp. 193-207, p. 200.
24
Pubblicato, tra gli altri, anche da Le Monde nell’edizione del 30 luglio 2009
<http://w w w.lemonde.fr/cgi-bin/ACH ATS/acheter.cgi?offre=A RCHI V ES&type_
item=ART_ARCH_30J&objet_id=1092641&xtmc=burqa&xtcr=545> (12/16).
25
<www.droitdesreligions.net/rddr/burqa_mission.htm> (12/16).
Introduzione
Emilia Lazzarini ∙ La questione del velo islamico tra Francia e Italia Ù 247
26
Si ricorda, tra gli altri, la proposta di legge n. 1121 presentata a settembre 2008
dal deputato Jacques Myrad (UMP), rubricata Invito a lottare contro gli attacchi alla dignità
della donna, determinati da certe pratiche religiose, il cui testo integrale è consultabile on
line alla pagina <http://www.assemblee-nationale.fr/13/propositions/pion1121.asp>
(12/16); o ancora, <http://www.assemblee-nationale.fr/13/propositions/pion2272.asp>
(12/16).
27
A. Levade, Épilogue d’un débat juridique: l’interdiction de la dissimulation du visage
dans l’espace public validée!, in «La Semaine Juridique Edition Générale», 43, 25 (2010),
pp. 1977-1981.
28
J.P. Feldman, Burqa: une loi dangereuse et inutile, in «Recueil Dalloz», 2010, p. 387, URL:
<http://w w w.dalloz.fr/documentation/lien?famille=revues&dochype=RECUEIL/
CHRON/2010/0065> (12/16): «trois députés, dont […] Jean-François Copé et François
Baroin, ont proposé eux aussi une résolution sur l’attachement au respect des valeurs
républicaines qui, dans son point 2, affirme que l’exercice de la liberté d’expression,
d’opinion ou de croyance, ne saurait être revendiqué par quiconque afin de s’affranchir
des règles communes au mépris des valeurs, des droits et des devoirs qui fondent la
société. Bref, pas de liberté pour le ennemis de la liberté! Surtout, nos trois députés ont
déposé une brève proposition de loi dont l’article 1er est ainsi libellé: Nul ne peut, dans
les lieux ouverts au public, et sur la voie publique, porter une tenue ou un accessoire ayant pour
effet de dissimuler son visage, sauf motifs légitimes, précisés par décret en Conseil d’État. L’exposé
des motifs nous apprend qu’il s’agirait d’une loi de libération et non d’interdiction. Nicole
Ameline, qui a corédigé cette proposition, indique dans une tribune écrite avec treize
autres députées UMP, que certaines décisions individuelles sont une insulte à la fraternité, et
que la loi d’interdiction doit être générale ou ne pas être».
29
Si legge infatti nel Rapporto, interamente consultabile a questo indirizzo <http://
www.assemblee-nationale.fr/13/rap-info/i2262.asp#P371_45277> (12/16): «Mais par-
delà la diversité de ces tenues vestimentaires, l’étude de leur histoire semble indiquer que
leurs origines remontent à une époque antérieure à la conversion à l’islam des sociétés ou
248 Ù Le verità del velo
groupes au sein desquels elles sont portées. Il en va ainsi de la burqa, tenue des femmes
appartenant au groupe des Pachtounes, tribu qui vit de part et d’autre des frontières de
l’Afghanistan et du Pakistan. Lors de son audition, M. Dalil Boubakeur, recteur de la
Grande Mosquée de Paris, a affirmé avec force que “le terme existe bien dans la littérature
antéislamique arabe (Antar Ibn Shahad) mais c’est un archaïsme qui n’a rien à voir avec l’islam”.
De même, le niqab, principalement porté aujourd’hui par les femmes des pays du Golfe
arabo-persique, peut se présenter comme une tenue ayant des origines plus historiques
que religieuses. M. Dalil Boubakeur a ainsi fait observer aux membres de la mission que le
terme arabe de niqab, devenu n’gueb chez les Touaregs, désigne également un voile couvrant
le visage (sauf les yeux) et destiné à se protéger des ardeurs du soleil ou des vents du sable.
Cette explication rejoint la thèse défendue par Mme Dounia Bouzar, anthropologue du
fait religieux, suivant laquelle “la burqa […] existait avant l’islam [...]. Comme la burqa, le
niqab était d’abord un vêtement traditionnel. Mais certains savants ont réussi à l’imposer au début
du XXe siècle en Arabie saoudite”».
30
<http://www.assemblee-nationale.fr/13/propositions/pion2283.asp> (12/16).
31
<http://www.assemblee-nationale.fr/13/ta/ta0459.asp> (12/16).
32
<http://www.conseil-constitutionnel.fr/conseil-constitutionnel/francais/les-
decisions/acces-par-date/decisions-depuis-1959/2010/2010-613-dc/decision-n-2010-
613-dc-du-07-octobre-2010.49711.html> (12/16).
33
«Eu égard aux objectifs qu’il s’est assignés et compte tenu de la nature de la peine
instituée […], le législateur a adopté des dispositions qui assurent, entre la sauvegarde de
l’ordre public et la garantie des droits constitutionnellement protégés, une conciliation
qui n’est pas manifestement disproportionnée» (Cons. Const., déc. n. 2010-613 DC).
La libertà di manifestare opinioni religiose, per esempio, può essere ristretta solo se
Introduzione
Emilia Lazzarini ∙ La questione del velo islamico tra Francia e Italia Ù 249
39
Sull’elemento soggettivo della condotta, in particolare M. Lacaze, La contravention
de port d’une tenue destinée à dissimuler le visage dans l’espace public: incertitude des fondements
juridiques, inchoérence des catégories pénales, in «Droit Pénal», 2 (2012), pp. 7-13.
40
c.d. “Obligation d’accomplir le stage de citoyenneté mentionné au 8° de l’article
131-16 du code pénal”.
41
Ministère de la Ville, Ministère des Solidarités et de la cohésion sociale, Ministère
de l’Interieur.
42
Ad es. Centre d’information sur les droits des femmes (CDIFF).
43
Art. 225-4-10 c.p., “De la dissimulation forcée du visage”.
44
La Circolare applicativa della legge, dopo averne precisato il campo di
applicazione, regolamenta la condotta da tenere in occasione di pubblici servizi, in
particolare quella del caposervizio: egli è responsabile, nell’insieme dei poteri che
detiene per assicurare il buon funzionamento dell’amministrazione, circa l’attuazione
dei regolamenti interni. Egli ha il dovere di illustrare lo spirito e l’economia della
legge agli agenti sottoposti alla sua autorità, affinché questi ultimi si conformino alle
disposizioni e possano garantirne il rispetto fra gli utenti del servizio pubblico. È
previsto un controllo all’accesso dei luoghi in cui viene svolto un pubblico servizio: a
partire dall’11 aprile 2011, un agente incaricato di servizio pubblico sarà autorizzato
a impedire l’accesso a soggetti con il volto coperto, ma senza disporre di alcun
potere per costringere una persona a scoprirsi o a uscire. Nel caso in cui l’agente
Introduzione
Emilia Lazzarini ∙ La questione del velo islamico tra Francia e Italia Ù 251
6. Il velo in Italia
ricevesse un rifiuto di ottemperare alla regola, egli dovrà fare appello alle Forze di
Polizia o della Gendarmeria Nazionale. La Circolare applicativa si conclude con un
importante capoverso sull’informazione al pubblico circa la nuova legge nel periodo
precedente la sua entrata in vigore: un’informazione generale, compiuta attraverso
manifesti informativi, recanti lo slogan “la Repubblica si vive a viso scoperto”, cartacei
o elettronici, da porsi nei luoghi pubblici o destinati a pubblico servizio, in modo
visibile. Al manifesto possono essere accompagnati anche depliant informativi, volti a
precisare meglio il contenuto della legge, disponibili anche in lingua inglese e araba,
oltre che francese.
45
<http://www.gouvernement.fr/la-laicite-aujourd-hui-note-d-orientation-de-l-
observatoire-de-la-laicite> (12/16).
46
Per approfondimenti, D. Ferrari, “I sindaci francesi contro il “burkini”: la laicità a
ferragosto? A prima lettura di alcuni recenti orientamenti giurisprudenziali”, in «Stato, Chiese
e pluralismo confessionale», (2016), pp. 1-24.
47
Sintesi del XXV Rapporto Caritas/Migrantes, consultabile all'indirizzo
<http://s2ew.caritasitaliana.it/materiali/dossier_immigrazione/Sintesi_Rapporto_
Immigrazione_2015.pdf> (12/16).
252 Ù Le verità del velo
48
Dato contenuto nel XXII dossier statistico sull'immigrazione di Caritas/
Migrantes, riportato da K. Rhazzali e M. Equizi, I musulmani e i loro luoghi di culto, in E.
Pace (a cura di), Le religioni nell’ Italia che cambia: mappe e bussole, Carocci, Roma 2013,
pp. 47-72, p. 52.
49
Proposta di legge n. 627, d’iniziativa dei deputati Binetti e altri, “Modifica
all’articolo 5 della legge 22 maggio 1975, n. 152, in materia di utilizzo di mezzi, anche
aventi connotazione religiosa, atti a rendere irriconoscibile la persona”, presentata il 30
aprile 2008.
50
Vedi infra pp. 264 ss.
51
Così S. Carmignani Caridi, Libertà di abbigliamento e velo islamico, in S. Ferrari (a
cura di), Musulmani in Italia: la condizione giuridica delle comunità islamiche, il Mulino,
Bologna 2000, pp. 223-234, pp. 223 ss.
52
Così il Consiglio di Stato si pronuncia il 27 novembre 1989.
53
S. Carmignani Caridi, Libertà di abbigliamento e velo islamico, cit.
Introduzione
Emilia Lazzarini ∙ La questione del velo islamico tra Francia e Italia Ù 253
54
Così N. Colaianni, Eguaglianza e diversità culturali e religiose: un percorso costituzionale,
il Mulino, Bologna 2006, pp. 164 e ss.
55
V. Pacillo, J. Pasquali Cerioli, I simboli religiosi: profili di diritto ecclesiastico italiano e
comparato, Giappichelli, Torino 2005, p. 29.
56
L. 28 aprile 2014, n. 67.
57
Così S. Carmignani Caridi, Libertà di abbigliamento e velo islamico, cit., pp. 223 e ss.
La giurisprudenza ha avuto modo di riferirsi a tal proposito al “senso di riprovazione,
di disgusto o disagio” e al rispetto dei minimi “criteri di convivenza, di decoro e di
costumatezza”: a tal proposito si veda: Cassazione penale sez. III 22 settembre 2011
n. 40012; Cassazione penale sez. III 22 maggio 2012 n. 23234; Cassazione penale sez.
III 04 ottobre 2012 n. 47868; Cassazione penale sez. III 05 dicembre 2013 n. 5478;
Cassazione penale sez. III 23 aprile 2014 n. 39860.
254 Ù Le verità del velo
58
Cassazione Penale, III sezione, sentenza n. 3557/2000.
59
S. Carmignani Caridi, Libertà di abbigliamento e velo islamico, cit.
60
«[...] è vietato prendere parte a pubbliche manifestazioni, svolgentisi in luogo
pubblico o aperto al pubblico, facendo uso di caschi protettivi o con il volto in tutto o
in parte coperto mediante l’impiego di qualunque mezzo atto a rendere difficoltoso
il riconoscimento della persona. Il contravventore è punito con l’arresto da uno a sei
mesi e con l’ammenda da lire cinquantamila a lire duecentomila» (art. 572 della L. n.
152 del 1975).
Introduzione
Emilia Lazzarini ∙ La questione del velo islamico tra Francia e Italia Ù 255
61
Ad esempio con il pacchetto antiterrorismo varato alla fine del Luglio 2005.
62
Trib. Cremona, 27 novembre 2008, M., in «Corriere del Merito», 2009, p. 294 s.,
con nota di N. Folla, L’uso del burqa non integra reato, in assenza di una previsione normativa
espressa (pp. 295-302).
256 Ù Le verità del velo
63
Sentenza depositata il 27 novembre 2008.
64
V. Pacillo, La discriminazione nei rapporti tra Stato e confessioni religiose, in T. Casadei
(a cura di), Lessico delle discriminazioni tra società, diritto e istituzioni, Diabasis, Reggio
Emilia 2008, pp. 95-108, p. 98.
65
Fra gli altri, E Raffiotta, La Francia approva il divieto del burqa: e l’Italia?, in
«Quaderni costituzionali», 4 (2010), pp. 846-848.
66
A. Lorenzetti, “Il divieto di indossare “burqa” e “burqini”. Che genere di ordinanze”, in
«Le Regioni», (2010), pp. 349-366, pp. 352 e ss.
67
Ord. 24/2004 “Ordinanza generale in materia di pubblica sicurezza”.
Introduzione
Emilia Lazzarini ∙ La questione del velo islamico tra Francia e Italia Ù 257
68
Il caso di Azzano Decimo non fu isolato: altri comuni emanarono ordinanze sul
tema. Si ricorda, a titolo esemplificativo, il Comune di Drezzo (CO), ord 8/2004, annullato
dal Prefetto di Como, e il Sindaco ha riapprovato l’ordinanza nel 2009; nell’anno 2009 i
Comuni di Fermignano (PU), Varallo (VC), Brugherio (MB), Montegrotto (PD).
69
TAR Lombardia, I Sez, n. 10/2001. A ciò va aggiunta la considerazione che l’atto
prefettizio impugnato richiama espressamente anche l’art. 2 del R.D. n. 773/1931, nel
cui generale potere di assumere ordinanze d’urgenza ben può rientrare anche un atto
di annullamento di altre ordinanze d’urgenza assunte da soggetti incompetenti.
70
Sent. TAR, n. 645/2006: <http://www.fvgsolidale.regione.fvg.it/infocms/
repositPubbl/table12/5/allegati/41-2006-1610tarfvg.pdf> (12/16).
258 Ù Le verità del velo
71
Proposta di legge n. 2422, d’iniziativa dei deputati Sbai, Contento, “Modifica
all’articolo 5 della legge 22 maggio 1975, n. 152, concernente il divieto di indossare gli
indumenti denominati burqa e niqab”, presentata il 6 maggio 2009.
72
Proposta di legge n. 2769, d’iniziativa dei deputati Cota e altri, “Modifica
dell’articolo 5 della legge 22 maggio 1975, n. 152, in materia di tutela dell’ordine
pubblico e di identificabilità delle persone”, Presentata il 2 ottobre 2009.
73
Proposta di legge n. 3018, d’iniziativa dei deputati Mantini, Tassone, “Modifica
dell’articolo 5 della legge 22 maggio 1975, n. 152, concernente il divieto di indossare gli
indumenti denominati burqa e niqab”, Presentata il 3 dicembre 2009.
Introduzione
Emilia Lazzarini ∙ La questione del velo islamico tra Francia e Italia Ù 259
74
Proposta di legge n. 3020, d’iniziativa dei deputati Amici e altri, “Modifica
dell’articolo 5 della legge 22 maggio 1975, n. 152, in materia di tutela dell’ordine pubblico
e di uso di indumenti indossati per ragioni di natura religiosa, etnica o culturale”,
presentata il 4 dicembre 2009.
75
Proposta di legge n. 3205, d’iniziativa dei deputati Vassallo e altri, “Modifica
dell’articolo 5 della legge 22 maggio 1975, n. 152, in materia di tutela dell’ordine
pubblico e di uso di indumenti indossati per ragioni di natura religiosa o etnico-
culturale”, presentata l’11 febbraio 2010.
260 Ù Le verità del velo
76
La parola “volontariamente” è stata aggiunta in seguito all’approvazione
dell’emendamento 1.8 Flavia, Donadi, 2 agosto 2011.
77
Da “Costituiscono” a “partecipazione”: periodo aggiunto in seguito all’approvazione
dell’emendamento 1.16 Zaccaria, Amici, Pollastrini, Vassallo, Naccarato, 2 agosto 2011.
78
Da “autorizzate” a “sicurezza”: periodo aggiunto in seguito all’approvazione
dell’emendamento 1.18 Flavia, Donati 2 agosto 2011.
262 Ù Le verità del velo
79
Sent. 16 marzo 1962 n. 19.
80
Tra gli altri si veda anche la proposta di legge Vaccaro del 21 marzo 2013 “Modifica
dell’articolo 5 della legge 22 maggio 1975, n. 152, concernente il divieto dell’uso di
indumenti o altri oggetti che impediscano l’identificazione nei luoghi pubblici o aperti
al pubblico”, consultabile on line, URL: <http://www.camera.it/_dati/leg17/lavori/
schedela/apriTelecomando_wai.asp?codice=17PDL0003500> (12/16).
81
Molteni, Allasia, Attaguile, Borghesi, Matteo Bragantini, Buonanno, Busin,
Caparini, Grimoldi, Guidesi, Invernizzi, Marcolin, Gianluca Pini, Prataviera, Rondini.
Introduzione
Emilia Lazzarini ∙ La questione del velo islamico tra Francia e Italia Ù 263
82
Consultabile on line, URL: <http://www.camera.it/_dati/leg17/lavori/stampati/
pdf/17PDL0013520.pdf> (12/16).
264 Ù Le verità del velo
Prosegue Rodotà:
[q]uando parlo di laicità intendo dire che la Chiesa non può fare poli-
tica attiva, cioè non influire nelle cose concrete dei partiti. Ma ritengo
83
La legge n. 121 del 1985, che come si ricorderà, contiene parziali modifiche
ai Patti Lateranensi, fra le quali l’abbandono di una religione di Stato e dell’obbligo
dell’insegnamento della religione cattolica nelle scuole, all’art. 9 recita «La Repubblica
italiana, riconoscendo il valore della cultura religiosa e tenendo conto che i princìpi del
cattolicesimo fanno parte del patrimonio storico del popolo italiano, continuerà ad assicurare
[...] l’insegnamento della religione cattolica nelle scuole […]. Nel rispetto della libertà di
coscienza […] è garantito a ciascuno il diritto di scegliere se avvalersi o non avvalersi di detto
insegnamento».
84
La legge Turco-Napolitano (<http://www.camera.it/parlam/leggi/98040l.
htm> (12/16)) su immigrazione e condizione dello straniero, all’art. 36 c.3 recita «La
comunità scolastica accoglie le differenze linguistiche e culturali come valore da porre a fondamento
del rispetto reciproco, dello scambio tra le culture e della tolleranza; a tale fine promuove e favorisce
iniziative volte alla accoglienza, alla tutela della cultura e della lingua d’origine e alla realizzazione
di attività interculturali comuni»; nel DPR 24 giugno 1998, n. 249 “Regolamento recante lo
Statuto delle studentesse e degli studenti della scuola secondaria”, al quarto comma del
primo articolo si legge «La vita della comunità scolastica si basa sulla libertà di espressione,
di pensiero, di coscienza e di religione, sul rispetto reciproco di tutte le persone che la compongono,
quale che sia la loro età e condizione, nel ripudio di ogni barriera ideologica, sociale e culturale».
Emerge dunque con chiarezza la necessità del rispetto di ogni forma di abbigliamento,
come conseguenza naturale del carattere interculturale che l’educazione scolastica in
particolare è tenuta a rispettare e far rispettare; non dunque uno spazio laico che, per il
solo fatto che deve rimanere tale, viene svuotato di ogni possibile richiamo alla religione,
al culto, ma laicità come rispetto di ogni manifestazione religiosa-tradizionale, di ogni
specificità culturale.
85
Intervista a S. Rodotà, realizzata da B. Volpe <http://www.pontifex.roma.it/index.
php/interviste/varie/1306 -il-concetto-di-laicita-non-significa-ostilita-preconcetta-
alla-chiesa-la-fede-non-puo-rimanere-nelle-sacrestie-ed-ha-una-valenza-pubblica-nel-
rispetto-delle-diversita-laicita-non-e-laicismo> (12/16).
Introduzione
Emilia Lazzarini ∙ La questione del velo islamico tra Francia e Italia Ù 267
9. Quale dignità?
86
Si veda in particolare i Preamboli alle Costituzioni del 1958 e del 1946.
87
I. Berlin, Due concetti di libertà (1958), in Id., Quattro Saggi sulla Libertà, Feltrinelli,
Milano 1989, pp. 185-241.
Introduzione
Emilia Lazzarini ∙ La questione del velo islamico tra Francia e Italia Ù 269
Conclusioni
88
Philippe Portier, Direttore del Groupe sociétés, religions et laïcité (GSRL-
Introduzione
Emilia Lazzarini ∙ La questione del velo islamico tra Francia e Italia Ù 271
Carmela Mastrangelo
La donna s-velata. Nudi femminili nel Veda
Nel sanscrito classico uno dei termini più usati per tradurre la pa-
rola “velo” è paṭa, che nella sua variante, derivata a mezzo di un suffis-
so secondario, paṭala (o paṭara) ricorre sovente a indicare qualunque
tipo di copertura o schermo, quali le coltri di nubi che si addensa-
no nel cielo come veli blu (nīlapaṭala).1 Vale la pena di notare che
la forma paṭa si presenta di fatto come un nome d’azione/d’agente
costruito a partire dalla radice verbale paṭ, “spaccare, strappare”.2 Il
velo viene a essere, in tal modo, il risultato di uno strappo;3 oppu-
1
Il composto è frequentemente attestato nella favolistica: si veda per esempio la
raccolta di hitopadeśa (“novelle”) edita da M.R. Kale, Hitopadeśa of Nārāyaṇa, Motilal
Banarsidass, Delhi 1967 (6 a ed.), in particolare pp. 72-73.
2
Come nome d’azione è attestata la forma pāṭa “estensione, intersezione”, con vo-
cale lunga. La quantità vocalica può essere spiegata col fatto che queste formazioni ri-
chiedevano originariamente il grado o della radice, che in sanscrito, secondo la legge di
Brugmann, è reso a mezzo di ā in sillaba aperta. Anche la variante paṭa con vocale breve
è tuttavia ammissibile, se si considera che la ṭ retroflessa può essere l’esito, per la legge
di Fortunatov, di un originario gruppo *lt (cfr. gr. πέλτη “scudo”): la vocale radicale
veniva in tal modo a trovarsi in sillaba chiusa, bloccando perciò la legge di Brugmann.
Anche la cronologia relativa supporta questa ricostruzione, dal momento che la legge
di Fortunatov agisce molto più tardi rispetto a quella di Brugmann; cfr. A. Lubotsky, La
loi de Brugmann et *H3e-, in (s.e.) La reconstruction des laryngales, Société d’Edition «Les
Belles Lettres», Liège-Paris 1990, pp. 129-136.
3
Il passaggio semantico da nomen actionis a oggetto dell’azione è frequentemente
attestato in diversi contesti linguistici. Si veda per esempio il latino sulcus “solco” dalla
radice *selk- (gr. ἕλκω) “tirare, trascinare”, oppure l’ittita parša- “briciola” da paršiya-
“rompere”; cfr. M. Weiss, Outline of the Historical and Comparative Grammar of Latin, Beech
Stave Press, Ann Arbor-New York 2009, p. 271. In ambito non indoeuropeo, si può con-
frontare l’ungherese lakás “casa, appartamento”, originariamente “l’atto di abitare (una
casa)”, dal verbo lakni “abitare”. In sanscrito, in particolare, i nomi d’azione in -a, indica-
ti con il termine tecnico ghañ-anta, si specializzano nel denotare il risultato dell’azione,
rispetto ai nomi in -ana, ossia lyuḍ-anta, che designano piuttosto il processo, lo svolgi-
mento dell’azione, e si distinguono in quanto di genere neutro; cfr. i sūtra 3.3.114-115
276 Ù Le verità del velo
della grammatica Aṣṭādhyāyī di Pāṇini (ed. S.M. Katre, Motilal Banarsidass, Delhi 1989;
d’ora in avanti A) napuṁsake bhāve ktaḥ, lyuṭ ca, “i suffissi -ta e -ana indicano un nome
d’azione al neutro”.
4
Il sostantivo vastra è formato a mezzo del suffisso -tra, che indica appunto lo stru-
mento dell’azione (cfr. lat. aratrum, letteralmente “lo strumento con cui si ara”, dal ver-
bo aro “arare”), a partire dalla radice vas “vestire, indossare” (cfr. ingl. wear “indossare”,
gr. ἕννυμαι med. sig., e il sostantivo latino ves-tis “veste”).
5
D’ora in avanti R˳ V; si veda come edizione di riferimento quella di B.A. van Nooten
e G.B. Holland, Rig Veda: a metrically restored text with an introduction and notes, Harvard
University Press, Cambridge (MA) 1994.
6
S. Lévi, La dottrina del sacrificio nei Brāhmaṇa, Adelphi, Milano 2009 (ed. orig. Paris
1898); si vedano in particolare le pp. 103-167. Sulla nozione di yajña, cfr. M. Ferrara,
One yajña, many rituals. How the Brahmanical ritual practices became the “Vedic sacrifice”, in
«AIΩN, Sezione Orientale» 76 (2016), pp. 166-198.
7
D’ora in avanti ŚB; si veda come edizione di riferimento quella di A. Weber, The
Çatapatha-Brāmaṇa in the Mādhyandina-Çākhā with extracts from the commentaries of Sāyaṇa,
Harisvāmin and Dvivedagaṅga, Ferd. Dümmler’s Verlagsbuchhandlung, Berlin 1849-1855
(rist. Varanasi 1964).
Carmela Mastrangelo ∙ La donna Introduzione
s-velata. I nudi delle divinità femminili nel Veda Ù 277
lari del Veda, che forniscono le regole per i rituali domestici), nella
maggior parte delle occorrenze accompagnato dalla specificazione
pumān nel senso di “persona di sesso maschile”. È pur vero tuttavia
che tanto la parola puruṣa quanto il sacrificante (e quindi il sacrificio
stesso) finiscono con l’essere identificati con l’elemento maschile, al-
trimenti si avrebbe un mondo viparīta, “alla rovescia”, come rimarca
Charles Malamoud illustrando l’uso peculiare dell’aggettivo nell’Ero-
tica indiana.8 Il sacrificio deve però essere “fecondo” per risultare ef-
ficace, e tale fecondità è data dai mithuna, “accoppiamenti”, dei suoi
vari componenti in base alla distinzione del genere sessuale oppure
grammaticale:9 il maschile (puṁliṅga), al quale viene associato anche
il genere grammaticale neutro (napuṁsaka), si deve accoppiare con il
femminile (strīliṅga). La donna fa la sua comparsa nel rito in quanto
patnī (“moglie”) dello yajamāna (“sacrificante”, inteso come devoto
che onora gli dèi a mezzo dello yajña), formando con questo un pri-
mo mithuna. Un altro mithuna è costituito dagli indumenti che l’uo-
mo e la donna devono portare per entrare nella scena del sacrificio:
il sacrificante indossa una cintura di fili d’erba detta, a mezzo di un
sostantivo femminile, mekhalā, la moglie invece si cinge di un cordo-
ne chiamato, con termine neutro, yoktra. È proprio sulla funzione di
questo yoktra e sul vestiario della donna all’interno del sacrificio che
vale la pena di soffermarsi.10 Lo ŚB (1.3.1.13), innanzitutto, mette
in relazione il cordone con lo strumento con il quale si aggiogano
gli animali da tiro (yógyaṁ yuñjánti);11 quanto alla sua funzione, esso
servirebbe primariamente a coprire, velare appunto, la parte al di
sotto dell’ombelico considerata non idonea al sacrificio (amedhyáṁ
yádavācīˊnaṁ nāˊbheḥ). L’aggettivo usato per indicare l’inidoneità al
sacrificio è amedhya; spesso tradotto come “impuro”, questo rappre-
senta di fatto un derivato di medha, nome d’azione da midh/mith “al-
ternarsi, combinarsi”. Dalla forma mith è stato costruito il sostantivo
mithuna, a mezzo del suffisso primario -una: la parte della donna al di
sotto dell’ombelico non può costituire una coppia rituale, e l’indu-
mento che la cinge serve quindi a creare un velo, uno schermo, ossia
8
C. Malamoud, La danza delle pietre, Adelphi, Milano 2005 (ed. orig. Paris 2005),
pp. 93-94. Nell’accezione erotica il termine ricorre sovente sia nella letteratura epica sia
nella poesia kāvya.
9
Si consideri, tuttavia, che i grammatici indiani tradizionalmente non associano il
genere grammaticale a quello sessuale; cfr. il commento di Patañjali ad A 2.1.36 (S.D.
Joshi, J.A.F. Roodbergen [a cura di], Patañjali’s Vyākaraṇa-Mahābhāṣya, The Poona Uni-
versity Press, Poona 1968-1986): liṅgam aśiṣyaṁ lokāśrayatvāt liṅgasya, “il genere (gram-
maticale) non è determinabile sulla base del genere reale”.
10
Sulla funzione della mekhalā, cfr. C. Malamoud, La danza delle pietre, cit., pp. 100-
101.
11
La relazione tra i termini è, di fatto, etimologica: tutti derivano dalla radice
yuj “unire, aggiogare”, yoktra a mezzo del suffisso di strumento -tra, yogya (“animale
da tiro”) a mezzo del suffisso secondario -ya sulla base del nome d’azione yoga (cfr. A
5.1.102), e yuñjanti essendo la forma verbale coniugata alla terza persona plurale attiva
del presente indicativo (laṭ).
278 Ù Le verità del velo
12
Questa è la funzione dello yoktra, ossia del laccio di Varuṇa: si consideri, a tale
proposito, che lo stesso nome di Varuṇa contiene la nozione di “coprire, proteggere”,
derivando dalla radice vr˳ (PIE *wer-) costruita con il suffisso primario -una.
13
Analogamente, il vāsa, la “veste”, grammaticalmente maschile, si interpone e
blocca il mithuna tra la donna e lo yoktra, il “cordone”, grammaticalmente neutro —la
parte del corpo femminile al di sotto dell’ombelico è, si ricordi, “non ritualmente ac-
coppiabile” (amedhya).
14
S.W. Jamison, Sacrificed Wife/Sacrificer’s Wife. Women, ritual, and hospitality in ancient
India, Oxford University Press, New York-Oxford 1996; si vedano in particolare le pp.
42-48.
Carmela Mastrangelo ∙ La donna Introduzione
s-velata. I nudi delle divinità femminili nel Veda Ù 279
15
C. Malamoud, Il gemello solare, Adelphi, Milano 2007 (ed. orig. Paris 2002), pp.
49 e ss.
16
Cfr. S. Lévi, La dottruna del sacrificio, cit., pp. 45 e ss.
17
Si veda A. Bergaigne, Quelques observations sur les figures de rhétorique dans le Ṛig-
Veda, in «Mémoires de la Société de linguistique de Paris» 4 (1881), p. 96; cfr. Id., La
religion védique, F. Vieweg, Paris 1878.
18
Cfr. C. Malamoud, Il gemello solare, cit., pp. 50-51.
19
Cfr. C. Malamoud, La danza delle pietre, cit., pp. 106-107.
20
Cfr. S. Lévi, La dottrina del sacrificio, cit., pp. 52-53. Vale la pena di notare che il
senso primo della radice verbale tap da cui tapas “austerità, ardore ascetico” è quello di
“ardere, bruciare” (cfr. lat. tepeo, tepesco): l’attività ascetica quindi, associata con l’accen-
sione del fuoco rituale, genera calore creatore.
21
L’epiteto è formulare per entrambe nel R˳ V; si veda per esempio il verso 6a dell’in-
no 5.80 nel quale ricorrono molti dei τόποι relativi all’Aurora e al quale si fa riferimento
infra.
22
L’aggettivo, insieme con l’intero passo, è riferito a Vāc, la Parola, in R˳ V 10.71.4d;
280 Ù Le verità del velo
cfr. D. Maggi, Noterella stravagante su un bersaglio della passione: Il nudo di Aurora nella
R˳ gvedasaṁhitā, in «Rivista italiana di linguistica e di dialettologia» 8 (2007), pp. 27-40,
in particolare p. 39. La Parola è la divinità femminile predominante nel mondo vedico,
in quanto connessa e con la poesia e con le formule del rito: tutte le dèe sono in qualche
modo associate a lei; cfr. C. Malamoud, Femminilità della parola. Miti e simboli dell’India
antica, Appunti di Viaggio - La parola, Roma 2008 (ed. orig. Paris 2005).
23
Cfr. D. Maggi, Noterella stravagante su un bersaglio della passione, cit., p. 31 nota 4.
24
Il cielo, del resto, è spesso associato all’idea dello “scorrere”, del “lavare via”; si
veda per esempio una delle possibili etimologie del gr. οὐρανός, connesso con la radice
sanscrita vr˳ ṣ, da cui varṣa “pioggia”; cfr. R.S.P. Beekes, Etymological Dictionary of Greek, vol.
2, Brill, Leiden 2009, pp. 1128-1129.
25
Si veda l’interpretazione di ní riṇīte in D. Maggi, Noterella stravagante su un bersaglio
della passione, cit., p. 30. La formula ní riṇīte ápsaḥ, “libera il petto”, di R˳ V 1.124.7d ricorre
identica in R˳ V 5.80.6b; cfr. l’espressione āvírvákṣāṁsi kr˳ ṇuṣe, “tu mostri il seno”, sempre
riferita all’Aurora in R˳ V 1.123.10d.
26
Si vedano per esempio le espressioni tanvāˋ śāˊśadānā (R˳ V 1.123.10a) “trionfante
per il suo corpo” e tanvò vidānāˊ (R˳ V 5.80.5a) “conscia del suo corpo”; cfr. D. Maggi, No-
terella stravagante su un bersaglio della passione, cit., pp. 29-30.
Carmela Mastrangelo ∙ La donna Introduzione
s-velata. I nudi delle divinità femminili nel Veda Ù 281
27
H. Zimmer, J. Campbell (a cura di), Philosophies of India, Pantheon books, New
York 1951, pp. 74-83.
28
Si veda, non di meno, M. Mayrhofer, Etymologisches Wörterbuch des Altindoarischen
(EWAia) II, Universitätsverlag C. Winter, Heidelberg 1996, pp. 212-213, 232-233, 236-
238, che riporta le diverse ipotesi di derivazione indoeuropea di queste tre basi. In
particolare, br˳h (da cui barhas) deriva da PIE *bherǵh - con deaspirazione dell’aspirata
iniziale per effetto della legge di Grassmann, laddove brahman è variamente spiegato
—tra le varie ricostruzioni vi è anche quella che connette il tema con gr. μορφή “forma”
(via *mrég wh -men-), la quale, pur se difficilmente sostenibile, suggerisce un parallelo fra
il senso di “potenza” attribuito da Zimmer e le forme femminili nascoste dal velo di
Aurora.
29
Con la poesia —e quindi con Vāc— sono state connesse anche le apsaras (divinità
femminili assimilate alle ninfe) di R˳ V 10.95, ossia dell’inno dialogato (saṁvāda) tra la
ninfa Urvaśī e il suo amante mortale Purūravas; cfr. R. Lazzeroni, RV, X, 95, 1: Invito al
dialogo o esortazione alla poesia?, in «Studi e saggi linguistici» 18 (1978), pp. 172-178. Ana-
logamente, in R. Lazzeroni, Analisi di un testo vedico. Rappresentazione e evocazione in RV, X,
95, in «AIΩN, Sezione Linguistica» 7 (1985), pp. 211-220, le apsaras sono connesse con
le Aurore sulla base della suggestione evocata dall’espressione formulare añjayo ’ruṇayo
(“rossi unguenti”, v. 6c), che ricorre al caso strumentale in R˳ V 2.34.13 riferita ai Marut (i
Venti) paragonati alle Uṣas. Un’analisi della significativa e caratteristica attribuzione ad
Aurora dell’uso di unguenti e belletti è presente in D. Maggi, Noterella stravagante su un
bersaglio della passione, cit., pp. 36-40, il quale rileva anche il valore simbolico dell’impie-
go nelle diverse occorrenze della radice per “ungere” añj, che nella sua forma composta
con preverbio, vy-añj “manifestare”, è chiaro riferimento alla valenza manifestatrice e
significante del linguaggio —cfr. il termine tecnico sanscrito per le consonanti (“ma-
nifestatrici” del significato della radice), ossia vyañjana nome d’azione/d’agente da añj.
Relativamente a R˳ V 10.95, vale la pena di notare infine che il dis-velamento della nudità
è attribuito nel saṁvāda e nel mito che vi fa da sfondo (cfr. ŚB 11.5.1 ss.) non già alle
femminee forme delle apsaras, bensì al corpo maschile del mortale Purūravas, reo di
essersi integralmente mostrato alla sua amante Urvaśī —cfr. V. Pisani, L’inno X 95 del
Rigveda e un mito indo-greco, in «Indologica Taurinensia» 5 (1977), pp. 127-137, che rileva
le connessioni di questo e altri elementi della narrazione con il mondo greco orientale.
282 Ù Le verità del velo
30
Sul concetto di energia associato al femminile e sulle pratiche rituali tantriche
atte a captare tale energia, si veda in particolare l’edizione italiana curata da R. Torella
di A. Padoux, Tantra, Einaudi, Torino 2011 (ed. orig. Paris 2010).
Introduzione
Mara Matta ∙ Nudo di donna: ri(s)coprire la Devi Ù 283
Mara Matta
Nudo di donna: ri(s)coprire la Devi
1
Cfr. A. Roy, Con gli insorti naxaliti nel cuore della foresta indiana, (Reportage) Centro
di documentazione “Porfido”, Torino 2010 (enfasi aggiunta).
284 Ù Le verità del velo
1. Introduzione
2
R. Barcan, The Moral Bath of Bodily Unconsciousness: Female Nudism, Bodily Exposure
and the Gaze, in «Continuum: Journal of Media and Cultural Studies», 15, 3 (2001), pp.
303-317, in particolare p. 303.
Introduzione
Mara Matta ∙ Nudo di donna: ri(s)coprire la Devi Ù 285
3
J. Butler, L’alleanza dei corpi, Nottetempo, Milano 2017 [Edizione Kindle E-book]
(ed. orig. 2015).
4
Ivi, posizione 162.
5
Ivi, posizione 859.
6
Ibidem.
7
Il “caso” di Jyoti Singh Pandey, la giovane studentessa indiana di 23 anni stupra-
ta il 16 dicembre 2012 da sei uomini su un autobus in corsa a Delhi mentre tornava a
casa con un amico dopo una serata al cinema, suscitò grandissimo scalpore e rabbia
sia in India sia tra le comunità indiane all’estero. La notizia rimbalzò subito dai media
nazionali su quelli internazionali, assumendo una portata globale. Oltre allo sdegno
espresso da alcuni intellettuali e da gruppi di femministe, anche la comunità artistica si
mobilitò: scrittori, registi, artisti teatrali si impegnarono nella produzione di opere di
denuncia dello stupro e della violenza sulle donne, riecheggiando l’indignazione pub-
blica di migliaia di persone che si erano riversate sulle strade di Delhi per protestare lo
stato di assedio del corpo delle donne e lo stupro come vile e obbrobriosa arma di “puni-
286 Ù Le verità del velo
zione”. Per approfondire il “caso” di Jyoti e la letteratura ad esso relativa, si vedano, tra
altri: D. Dutta e O. Sircar, India’s Winter of Discontent: Some Feminist Dilemmas in the Wake
of a Rape, in «Feminist Studies» 39, 1 (2013), pp. 293-306; B.Q. Man, The Damini Rape
Case: Addressing Sexual Violence and Women’s Rights in Indian Society, in «Asian Journal of
Research in Social Sciences and Humanities» 4, 7 (2014), pp. 223-242; B. Madhavi, Gang
Rapes on Women in India: Nampally Road by Meena Alexander, in «International Journal of
English: Literature, Language & Skills», 5, 2 (2016), pp. 63-66; M. Inchley, Theatre as
Advocacy: Asking for It and the Audibility of Women in Nirbhaya, the Fearless One, in «Theatre
Research International» 40, 3 (2015), pp. 272-287; A. Datta, The Genderscapes of Hate:
On Violence Against Women in India, in «Dialogues in Human Geography» 6, 2 (2016),
pp. 178-181; T.P. Lapsia, Impact of the “Nirbhaya” Rape Case: Isolated Phenomenon or Social
Change? (Honors Scholar Theses 453), 2015, URL: <http://digitalcommons.uconn.edu/
srhonors_theses/453> (12/16); R. K. Gautam e S. Nargunde, The Delhi Gang Rape: The
Role of Media in Justice, in «International Journal of Research», 1, 8 (2014), pp. 869-881;
S. Mayer, Demanding a New Story: Visual Pleasure at Forty and Narratives of Non-Violence, in
«Feminist Media Studies», 15, 5 (2015), pp. 888-892.
8
Il caso dello stupro di Delhi del 2012 suscitò forti critiche nei confronti del Codice
Penale, nel quale i giuristi della Justice Verma Committee riscontrarono un anacronistico e
patriarcale linguaggio dello “stigma” e del “disonore” in relazione alla “vittima”, da un
lato, e l’incapacità di fornire adeguate risposte sociali e misure legali nei casi di stupro,
dall’altra. Si veda, tra altri, S. Sharmila, From “Living Corpse” to India’s Daughter: Exploring
the Social, Political and Legal Landscape of the 2012 Delhi Gang Rape, in «Women’s Studies
International Forum», 50 (2015), pp. 89-101; K. Singh, Violence Against Women and the
Indian Law, in S. Goonesekere (a cura di), Violence, Law, and Women’s Rights in South Asia,
Sage Publications, New Delhi 2004, pp. 77-147.
9
K. Shandilya, Nirbhaya’s Body: The Politics of Protest in the Aftermath of the 2012 Delhi
Gang Rape, in «Gender & History», 27, 2 (2015), pp. 465-486.
10
«According to Section 228 A of the Indian Penal Code, revealing the identity
of rape victims is a crime punishable by imprisonment. This law was passed to protect
victims of sexual assault from social stigma.12 Thus, the victim of the Delhi gang rape
was unknown to the press until her father gave permission for her name to be known on
5 January 2013». Cfr. K. Shandilya, Nirbhaya’s Body, cit., p. 468.
Introduzione
Mara Matta ∙ Nudo di donna: ri(s)coprire la Devi Ù 287
dello stupro, nomi che, pur non rivelando molto della sua storia indi-
viduale, avevano contribuito a restituire alla gente riunita in protesta
l’effige di un’eroina mitica:
11
Ivi, p. 469.
12
U. Butalia, Let’s Ask How We Contribute to Rape, in «The Hindu», 26 December
2012, <http://www.thehindu.com/opinion/op-ed/lets-ask-how-we-contribute-to-rape/
article4235902.ece> (12/16).
288 Ù Le verità del velo
13
S. Alaimo, The Naked Word: The Trans-Corporeal Ethics of the Protesting Body, in
«Women & Performance: A Journal of Feminist Theory», 20, 1 (2010), pp. 15-36, in
particolare p. 31 (corsivo mio).
14
Ivi, p. 32.
Introduzione
Mara Matta ∙ Nudo di donna: ri(s)coprire la Devi Ù 289
Occorre giungere a questo sapere per il quale il mistero nudo non pos-
siede nulla della tensione nascosta, sotterranea, che si suppone nel mi-
stero. È mistero in quanto è nudo, è mistero anche a fior di pelle, non
sotto la pelle. Non è nel corpo, è il corpo: è la manifestazione del corpo
in quanto corpo, vale a dire in quanto è qui. Non il mistero di una verità
da rivelare, ma la rivelazione stessa: che ci sia qualcosa da rivelare e che
ce ne sia infinitamente.15
15
J.L. Nancy, À la nue accablante..., in Nudità. Emergenze, in «Kainos», 8 (2008), URL:
<http://www.kainos.it/numero8/emergenze/nancy.html> (12/16).
16
S. Piromalli, Nudità: sottrazione del senso, sovversione del pensiero, in «Epekeina», 3,
2 (2013), pp. 191-200, p. 197.
290 Ù Le verità del velo
loro stesso corpo. Tali norme, come ha ben illustrato Judith Butler,
«informano le modalità vissute di incorporazione che acquisiamo nel
corso del tempo; e queste forme di incorporazione possono rivelarsi
modi per contestare o sovvertire le norme stesse».17 Nello spiegare
come si può anche fallire nella messa in atto del proprio genere, si
apre una possibilità di scelta deviante che è importante per compren-
dere in che modo la nudità performata, il corpo che agisce come corpo
nudo, fornisca uno spazio interstiziale di scelta e di rivolta contro la
normatività del genere.
Rendendo quella possibilità di “fallire” come condizione non solo
possibile ma necessaria a far affiorare la consapevolezza del divario
profondo tra l’idealità e la realtà delle situazioni di genere, la per-
formatività del nudo di donna può assumere un peso simbolico e un
risvolto politico di grande portata rivoluzionaria. Vedremo dunque
come, nel rivendicare i propri diritti, alcune donne in India abbiano
deciso di attuare un’intenzionale performance “deviata” del proprio ge-
nere, scegliendo l’espressività del corpo nudo come palinsesto dove
respingere la normativizzazione di uno «stato di eccezione» che ri-
duce gli individui appartenenti alle classi subalterne a «nuda vita».18
La nudità come espressione del dissenso e il corpo nudo delle
donne come luogo di un processo di riaffermazione della dignità e
17
J. Butler, L’alleanza dei corpi, cit., [Kindle E-book, posizione 507].
18
Come ha sostenuto Giorgio Agamben, «[l]o stato di eccezione si presenta [...]
come una soglia di indeterminazione fra democrazia e assolutismo», una sospensione
della legge e dei diritti costituzionali che «tende sempre più a presentarsi come il pa-
radigma di governo dominante nella politica contemporanea». Nel descrivere questa
«terra di nessuno fra il diritto pubblico e il fatto politico, e fra l’ordine giuridico e la
vita […]», Agamben utilizza la metafora del velo da rimuovere per poter rispondere alla
domanda «che cosa significa agire politicamente?»: «Solo se il velo che copre questa
zona incerta verrà rimosso potremo avvicinarci a comprendere la posta in gioco nella
differenza —o nella supposta differenza— fra il politico e il giuridico e fra il diritto
e il vivente». Il “vivente”, spogliato dei suoi diritti costituzionali, viene ridotto a «nuda
vita», un concetto complesso che Agamben riprende in diversi suoi saggi ma di cui
non dà mai una definizione completa e definitiva. In Homo Sacer, egli scrive: «“Nuda”,
nel sintagma “nuda vita”, corrisponde qui al termine greco haplōs, con cui la filosofia
prima definisce l’essere puro. L’isolamento della sfera dell’essere puro, che costituisce
la prestazione fondamentale della metafisica dell’occidente, non è, infatti, senza analo-
gie con l’isolamento della nuda vita nell’ambito della sua politica. A ciò che costituisce,
da una parte, l’uomo come animale pensante, fa riscontro puntualmente, dall’altra,
ciò che lo costituisce come animale politico. In un caso, si tratta di isolare dai molte-
plici significati del termine “essere” (che, secondo Aristotele, “si dice in molti modi”),
l’essere puro (on haplōs); nell’altro, la posta in gioco è la separazione della nuda vita
dalle molteplici forme di vita concrete. L’essere puro, la nuda vita —che cos’é contenu-
to in questi due concetti, perché tanto la metafisica che la politica occidentale trovino
in essi e in essi soltanto il loro fondamento e il loro senso? Qual è il nesso tra questi
due processi costitutivi, in cui metafisica e politica, isolando il loro elemento proprio,
sembrano, insieme, urtarsi a un limite impensabile? Poiché, certo, la nuda vita è altret-
tanto indeterminata e impenetrabile dell’essere haplōs e, come di quest’ultimo, così si
potrebbe dire di essa che la ragione non può pensarla se non nello stupore e nell’atto-
nimento». Per un approfondimento dei concetti di Agamben e della sua biopolitica, si
vedano in particolare i suoi saggi: G. Agamben, Homo Sacer, Einaudi, Torino 1995; Id.,
Stato di eccezione, Bollati Boringhieri, Torino 2003.
Introduzione
Mara Matta ∙ Nudo di donna: ri(s)coprire la Devi Ù 291
Stando a tali affermazioni, si gioca sul filo del rasoio: le donne che
si spogliano per protesta sono dunque nude o no? Forse potremmo
dire che sono “loro stesse”, nel loro essere spogliate, ovvero denuda-
te della maschera del ruolo sociale. E tuttavia, rifiutando con forza
espressiva lo sguardo egemone e regolatore che tenta di velarle di
senso, hanno assunto un’altra maschera, quella forma d’abito che
è la nudità esibita come modalità di protesta. In questo processo di
messa a nudo delle pratiche di potere che opprimono le donne, alcu-
19
Cfr. M.B. Gale, Resolute Presence, Fugitive Moments, and the Body in Women’s Protest
Performance, in «Contemporary Theatre Review», 25, 3 (2015), pp. 313-326; si veda an-
che T. O’Keefe, Flaunting Our Way to Freedom? Slut Walks, Gendered Protest and Feminist
Futures, in «New Agendas in Social Movement Studies», National University of Ireland
Maynooth, November 2011, URL: <http://eprints.nuim.ie/3569/> (12/16).
20
Cfr. J.M. Lotman, La cultura e l’esplosione: prevedibilità e imprevedibilità, Feltrinelli,
Milano 1993.
21
J. Berger, Questione di sguardi. Sette inviti al vedere fra storia dell’arte e quotidianità, Il
Saggiatore, Milano 2009, p. 56 (ed. orig. 1972).
292 Ù Le verità del velo
ne hanno trovato nella nudità una forma d’abito che permette loro di
comunicare la propria presa di posizione dissidente nei confronti del
potere coercitivo e oppressivo dello stato patriarcale fallocentrico. È
quanto si tentava di delucidare con l’uso della parola “scostumatezza”
in rapporto alla percezione della nudità: la donna che utilizza il suo
corpo nudo come strumento di protesta, a seconda della modalità
performativa che adotta, riesce a sovvertire questa stessa percezione
della nudità come “scostumata” e a renderla “costumata”, ovvero che
veste, non senza una certa grazia, il costume del nudo per esprimere
un forte messaggio di denuncia. La “scostumatezza” è di chi guarda,
la “vergogna” —parola chiave per comprendere alcuni passaggi del
processo di nudità come manifesto di dissenso— è nello sguardo di
chi osserva, scruta e vorrebbe riconfigurare il corpo nudo di donna in
una certa performance normativa. Nello spazio della rinegoziazione di
cosa sia, prima di che cosa significhi, un corpo nudo, si innesca una
possibilità di «esplosione di senso» che parte proprio dall’immagine
del corpo. Come ha sostenuto Gail Weiss, infatti, l’immagine del cor-
po non è data come fissa, ma è prodotta nello scambio continuo tra
i corpi e le relative immagini: «A body image is neither an individual
construction, nor the result of a series of conscious choices, but rath-
er, an active agency that has its own memory, habits, and horizons of
significance».22
Nell’ambito di tali «orizzonti di significato», si comprende lo scan-
dalo del ritratto di Olympia di Manet che guarda, altera e nuda, il suo
potenziale osservatore smascherandone derisoriamente il desiderio
erotico e causandone l’imbarazzo pubblico. Spesso citata come opera
che sancisce l’inizio dell’arte moderna, l’Olympia di Manet ben illustra
quella delicata negoziazione tra il corpo e il corpo-immagine, tra ciò
che il corpo è come soggetto e ciò che il corpo è in quanto rappresen-
tazione, non tanto di sé, ma di quelle stesse negoziazioni che fissano
un’immagine come accettabile e rappresentativa. L’Olympia di Manet,
come scrive Rebecca Schneider, non creò scandalo per la sua nudità,
quanto per il suo modo di essere nuda, per il suo sguardo che interro-
gava la pruriginosa borghesia parigina e ne smascherava le ipocrisie:
22
G. Weiss, Body Images: Embodiment as Intercorporeality, Routledge, New York 1999,
p. 3.
23
R. Schneider, The Explicit Body in Performance, Routledge, London-New York 1997,
p. 25.
Introduzione
Mara Matta ∙ Nudo di donna: ri(s)coprire la Devi Ù 293
L’Olympia di Manet, pur nella sua nudità che si offriva allo sguar-
do dello spettatore, al contempo lo respingeva quasi con disprezzo,
interrogandolo con un contro-sguardo che neutralizzava il potere
fagocitante e reificante del voyeurismo erotico. È questa capacità
di indossare la nudità, di portarla in scena e, attraverso una perfor-
mance dove la corporeità femminile è utilizzata come uno specchio,
sovvertire lo sguardo perverso e pervertito dello spettatore, che pos-
siamo leggere alcune delle manifestazioni di protesta in India. Al-
cune donne, da sole o in gruppo, hanno deciso di utilizzare il pro-
prio corpo come arma di protesta e strumento di “messa a nudo”
della violenza e dell’ipocrisia dello stato patriarcale e delle sue lo-
giche fallocentriche. La letteratura, il teatro e il cinema, di volta
in volta, hanno ispirato o si sono ispirati a fatti reali, amplificando
la risonanza di tali proteste e impedendo all’apparato del potere
di farle scomparire nell’ombra. Il nudo di donna, in tali contesti,
interroga l’ipocrisia dello stato patriarcale, ne denuncia la violenza
e smaschera il perbenismo osceno dei suoi gendarmi: nel racconto
Draupadi (1978) di Mahasweta Devi, prima, e nell’opera teatrale di
Heisnam Kanhailal (2000; 2014), dopo, queste richieste di giustizia
sono portate sulla scena letteraria e artistica per rendere il pubblico
consapevole del perverso sguardo egemonico dello stato e dell’o-
scenità dei suoi meccanismi di coercizione e punizione.
Quello che va sottolineato è il modo in cui la letteratura e il tea-
tro, partendo dalla vita reale, abbiano poi restituito allo spettatore
la scena e un canovaccio su cu preparare una messinscena nel teatro
pubblico. Nel breve spazio di questo saggio, dunque, tenteremo di
mettere in relazione la memoria della performance teatrale portata
in scena nel 2000 a Imphal, nello stato di Manipur, dalla compa-
gnia teatrale Kalakshetra Manipur —dove l’attrice Heisnam Sabitri
si denudò come la Draupadi dell’omonimo racconto di Mahasweta
Devi— con un evento della vita reale accaduto nel 2004, quando
un gruppo di dodici donne manipuri si spogliò di fronte al Kangla
Fort di Imphal per denunciare lo stupro e la morte violenta, per
mano dell’esercito, di una giovane donna, Tanjam Manorama. Che
relazione può esistere tra la messa in scena di un nudo di donna a
teatro e l’esibizione dei corpi nudi di un gruppo di donne mani-
puri? Come l’Olympia di Manet, questa nudità sembrava porre un
problema di ontologia etica: operando una castrazione simbolica
e smascherando la vergogna e l’ipocrisia dei soldati e degli ufficia-
li dell’Esercito indiano, al contempo faceva emergere la subdola e
perversa strategia oppressiva dello Stato. Le donne manipuri, come
le Draupadi sovversive dell’arte, sembravano esporre un corpo de-
nudato dove la nudità in senso letterale non accadeva: ciò che si
esponeva, nell’esibizione del nudo di donna, era lo sguardo dell’Al-
tro, del colonizzatore e del voyeur, a cui si legava anche il sentimen-
to della vergogna, liberando così il corpo delle donne dalla vulne-
rabilità e dalla nudità.
294 Ù Le verità del velo
24
Il nome della protagonista del racconto, come sottolinea anche la Spivak nel-
la sua Prefazione, è significativo non soltanto perché richiama l’eroina del Mahābhārata,
Draupadi —di cui Dopdi è forse la forma tribale oppure una storpiatura dovuta al fatto
che Dopdi non riesce a pronunciare bene il nome che le fu dato dalla sua padrona al
momento della nascita— ma è un nome che gioca anche un ruolo importante nella strut-
tura diegetica del racconto. La Spivak scrive: «Dopdi è (tanto eroica quanto) Draupadi.
È anche quel che Draupadi —scritta all’interno del sacro testo, patriarcale e autoritario,
in quanto prova del potere maschile— non può essere. Dopdi è allo stesso tempo un
palinsesto e una contraddizione». E aggiunge: «Nel momento in cui, varcando la so-
glia del differenziale sessuale, passa nel campo di ciò che può capitare solo a una donna,
Dopdi emerge come il “soggetto” più potente […]». Lo slash / che si usa nel presente
saggio demarca quello spazio —semiotico e simbolico— tra la Dopdi tribale, che parla
la lingua della foresta e ululando lancia segnali ai suoi compagni e agli uccelli che si
alzano in volo, e la Draupadi mitica, che emerge dall’immaginario di Senanayak come
il suo peggiore incubo, poiché egli non riesce a segnarne la completa disfatta. La linea
obliqua che separa i due nomi, al contempo congiungendoli in una specularità che li
rende l’uno il riflesso dell’altro, indica anche il percorso emotivo e di coscienza della
Draupadi letteraria e teatrale. Dopdi muore nel momento della cattura, quando cade
preda dei soldati di Senanayak. L’ultimo atto del racconto, infatti, comincia con le paro-
le: «Draupadi Mejhen è stata catturata alle 6 e 53 del pomeriggio». Nella foresta, Dopdi
abbandona anche la sua identità tribale: i soldati trascinano Draupadi nel campo, «“Cat-
turata Draupadi Mejhen, eccetera”, Draupadi Mejhen viene portata dentro […]», «Drau-
padi fissa la tenda», «Draupadi nuda che cammina», «Draupadi è di fronte a lui, nuda»,
«Draupadi gli viene più vicina», fino alla scena finale in cui «Con i suoi seni maciullati,
Draupadi dà una spinta a Senanayak, e per la prima volta Senanayak ha paura […]”».
Nell’atto finale, Mahasweta Devi non utilizza più il nome “Dopdi”: quella maschera non
serve più. L’uso dello slash ci aiuta a ricordare che Dopdi/Draupadi è un’individuali-
tà soggettivata, ma è anche un doppio significante, perché rimanda continuamente a
ciò che lei è (la donna tribale Dopdi) e a ciò che gli altri vedono semplicemente come
un’alterità da assimilare (chiamandola con il nome nobile di Draupadi). Lo scivolone
semantico e simbolico che Senanayak, e con lui tutti noi, compiamo è dovuto all’errore
di sguardi, alla ottusità di non vedere che Dopdi ha la fierezza nobile di Draupadi, ma
questa Draupadi ha mantenuto l’irriverente libertà della donna tribale che non ha tra-
dito la legge dei suoi avi per piegarsi a quella fallocentrica dei padri del Mahābhārata.
Lo slash occupa, in questo saggio, quello che per Roland Barthes era lo spazio “ottuso”,
ovvero —nella spiegazione che ne dà Andrea Velardi— «lo spazio in cui il significante si
trova a stare senza significato, nella sua sola tensione di significante preso per se stesso,
nudo o meglio spogliato del suo rivestimento ideologico». Cfr. A. Velardi, La semiotica
“bucata”. Il ritmo della semiosi nella prospettiva della significanza, in A. Ponzio, P. Calefato,
S. Petrilli (a cura di), Con Roland Barthes alle sorgenti del senso, Meltemi, Roma 2006, pp.
162-183, specialmente p. 167. Per la traduzione e l’interpretazione del racconto Draupadi
a cura della Spivak, si veda Cfr. M. Devi, Draupadi, in M Devi, La trilogia del seno (prefa-
zione e traduzione in italiano a cura di Ambra Pirri), Filema, Napoli 2005, pp. 35-53.
25
I Santal sono uno dei gruppi tribali dell’India che rientrano nella categoria della
Scheduled Tribes (ST). Sono tra le comunità più numerose, e la loro presenza è attestata in
diversi stati dell’India (Bengala Occidentale, Bihar, Jharkhand, Tripura, Orissa) e in al-
Introduzione
Mara Matta ∙ Nudo di donna: ri(s)coprire la Devi Ù 295
cune zone di confine tra India e Bangladesh. Per una definizione del termine Scheduled
Tribes si rimanda a quella, sintetica ma esaustiva, del Dizionario Treccani (Online) <http://
www.treccani.it/enciclopedia/scheduled-tribes_(Dizionario-di-Storia)/> (12/16). Sia in
epoca coloniale, sia in epoca post-coloniale, i Santal sono stati protagonisti di rivolte e
insurrezioni contro l’oppressione dello Stato. Alla fine degli anni Sessanta, quando scop-
piò il Movimento Naxalita, diversi gruppi tribali aderirono alla guerriglia armata che si
poneva come scopo principale quello di combattere forme di imperialismo economico e
di oppressione politica. Il Movimento Naxalita, detto anche movimento maoista per l’i-
spirazione che traeva, all’inizio della sua formazione in India negli anni 1967-1971, dalle
teorie politiche di Mao Zedong, è tra le voci sulla storia moderna dell’India contempora-
nea riportate anche nel Dizionario Treccani, ove così è descritto: «Rivolta contadina india-
na avvenuta nel 1967, nel villaggio Naxalbari (nel distretto di Darjeeling), a causa della
mancata attuazione dell’abolizione del latifondo in India; a essa parteciparono anche
studenti universitari ed elementi della sinistra intellettuale rivoluzionaria. La violenta
repressione della rivolta attuata dalle forze di polizia del West Bengal (allora agli ordini
di un governo comunista) spinse gli aderenti a migrare verso altre regioni dell’India,
segnatamente in un’area detta “corridoio rosso” fra Bihar, Jharkhand, Chhattisgarh e
Andhra Pradesh, dove si sviluppò, nei decenni seguenti, un movimento di resistenza
all’establishment, detto appunto n., o maoista, che sommò la questione contadina a quella
delle locali comunità tribali. Agli inizi del 21° sec. il movimento n. entrò in una nuova
fase di attività, anche sul piano militare, in opposizione alle politiche neoliberiste del
governo, costituendo un’organizzazione di controllo del territorio capace di sfidare le
autorità e sostituirsi alle istituzioni dello Stato». Resta, oltre che sul piano politico per il
governo indiano, anche uno degli argomenti più complessi da un punto di visto storico e
socio-antropologico, a cui sono stati dedicati articoli, libri e monografie di studio e ricer-
ca. Per un approfondimento, oltre al bellissimo reportage di Arundhati Roy con il quale
abbiamo scelto di aprire questo saggio, si vedano anche: P. Singh, The Naxalite Movement
in India, Rupa & Co., New Delhi 1995; M. Mohanty, Challenges of Revolutionary Violence: The
Naxalite Movement in Perspective, in «Economic and Political Weekly», 22 July (2006), pp.
3163-3168; B. Chakrabarty, R.K. Kujur, Maoism in India: Reincarnation of Ultra-Left Wing
Extremism in the Twenty-First Century, Routledge, New York 2010. Per la questione naxalita
in rapporto alla guerriglia armata dei Santal, si veda E. Duyker, Tribal Guerrillas: The
Santals of West Bengal and the Naxalite Movement, Oxford University Press, New York 1987.
Invece, per un excursus storico-antropologico e socio-letterario delle questioni legate
alla definizione e politicizzazione della indigeneity, si vedano R. Ciocca, S. Das Gupta,
Out of Hidden India. Adivasi Histories, Stories, Visual Arts and Performances, Anglistica 19,
1 (2015), URL: <https://www.anglistica-aion-unior.org/copia-di-18-2-1> (12/16); S. Das
Gupta - R.S. Basu (a cura di), Narratives from the Margins: Aspects of Adivasi History in India,
Primus Books-Ratna Sagar, New Delhi 2015; D.J. Rycroft - S. Dasgupta (a cura di), The
Politics of Belonging in India: Becoming Adivasi, Routledge, Abingdon-New York 2011.
296 Ù Le verità del velo
26
Nel saggio della Spivak che introduce il racconto Draupadi di Mahasweta Devi,
la studiosa scrive: «Ho tradotto questo racconto breve dal bengali all’inglese tanto per
il cattivo, Senanayak, quanto per il personaggio che dà il titolo alla storia, Draupadi (o
Dopdi). Poiché Senanayak è colui che maggiormente si approssima allo studioso del
Primo Mondo che va in cerca del Terzo Mondo, parlerò di costui per prima cosa». La
Spivak dedica un’ampia riflessione al “cattivo” della storia, e giunge ad analizzarne il
nome, che significa semplicemente “ufficiale dell’esercito”, un appellativo comune che
ne chiarisce (forse?) l’identità. Aggiunge ancora la Spivak: «Questa potrebbe essere
una critica all’identità dell’uomo, una identità apparentemente adeguata a sé, e che dà
sostegno ai suoi giochi di destrezza tra teoria e pratica. Se è così, ciò fa parte di quello
che io vedo come il progetto della storia: spezzare le catene di questa identità usando il
cuneo di una paura irragionevole». Cfr. G.C. Spivak, Prefazione a Draupadi, in M. Devi, La
trilogia del seno, Filema, Napoli 2005, pp. 17-34.
27
Cfr. M. Devi, Draupadi, in Ead., La trilogia del seno (prefazione e traduzione in
italiano a cura di Ambra Pirri), Filema, Napoli 2005, pp. 35-53. La pubblicazione in
italiano contiene anche la traduzione di alcuni saggi della Spivak, tra cui uno di Prefa-
zione al racconto Draupadi, a cui si è già fatto riferimento. Cfr. G.C.Spivak, Prefazione a
Draupadi, cit.
28
M. Devi, Draupadi, cit., p. 51. L’uso del corsivo nella traduzione italiana rende
quelle parole che, nel testo originale in lingua bangla, erano in inglese.
29
Ibidem.
Introduzione
Mara Matta ∙ Nudo di donna: ri(s)coprire la Devi Ù 297
30
La parola Legge è qui utilizzata nel triplice senso di: 1. Legge come Codice Le-
gale, insieme di atti giuridici ai quali Draupadi si rifiuta di aderire, essendo tali norme
applicate attraverso una paradossale sospensione della legalità stessa. 2. Legge come
costume sociale, come prassi e norma culturale che detta il normale comportamento
di una donna. 3. Legge come Dharma, al quale Draupadi non fa alcun appello. Contra-
riamente alla Draupadi del Mahābhārata, che invoca l’intervento salvifico di Krishna
(Kṛṣṇa) come sostenitore della Legge Suprema, del Dharma, il quale compie il miracolo
della “infinita vestizione” della sua devota, nel racconto di Mahasweta Devi, Draupadi
non solo non chiede l’intervento divino, bensì essa stessa rifiuta la veste e si ammanta di
un corpo di metamorfosi, un corpo “transustanziato” e quasi sovrumano.
31
L’encounter è divenuta una delle modalità più frequenti con cui la polizia o le forze
militari e paramilitari dello Stato dispongono —attraverso l’assassinio del “criminale”
con la giustificazione della “legittima difesa”— del corpo di un individuo “pericoloso”.
La prassi dell’encounter è divenuta tale da giustificare diversi studi sul fenomeno di que-
sti “extrajudicial killings”. Come ha evidenziato l’antropologa Beatrice Jauregui: «The
encounter killing has become such a widespread and well-known practice across South
Asia that it even has its own Wikipedia entry, which as of August 2010 defines encounter
killings by police as “a euphemism used in India, Pakistan and Bangladesh to describe
extrajudicial killings in which police shoot down alleged gangsters and terrorists in gun
battles” (emphasis added). As this description indicates, people generally assume that
most reported encounters are in fact “fake encounters,” not an instance of self-defense
but rather a premeditated and often elaborately staged form of state-sponsored murder».
Nel racconto, la Devi distorce la parola encounter, che Dopdi pronuncia quindi come
kounter, senza tuttavia modificarne il senso convenuto, chiaro a entrambe le parti in cau-
sa. Pur nella sua versione scorretta, la parola non perde il suo significato. Lo slittamento
di senso è prodotto semmai dal modo in cui Dopdi/Draupadi la utilizza: rivendicando la
libertà di azione, invita Senanayak a (in)kontrarla, costringendolo a uscire allo scoperto
e agire alla luce del sole, contrariamente alla tipica modalità dell’encounter che avviene
quasi sempre lontano dagli occhi di possibili testimoni. Cfr. B. Jauregui, Law and Order:
Police Encounter Killings and Routinized Political Violence, in I. Clark-Decès (a cura di), A
Companion to the Anthropology of India, Wiley-Blackwell, Oxford 2011, pp. 371-388, p. 379.
298 Ù Le verità del velo
Le bon joueur, qui est en quelque sorte le jeu fait homme, fait à chaque
instant ce qui est à faire, ce que demande et exige le jeu. Cela suppose
une invention permanente, indispensable pour s’adapter à des situa-
tions indéfiniment variées, jamais parfaitement identiques. Cela n’assu-
re pas l’obéissance mécanique à la règle explicite, codifiée (quand elle
existe) [...]. Le sens du jeu n’est pas infaillible; il est inégalement réparti,
dans une société comme dans une équipe. Il est parfois en défaut, no-
tamment dans le situations tragiques [...]. Mais cette liberté d’invention,
32
M. Devi, Draupadi, cit., p. 52.
33
Ibidem.
34
P. Bourdieu, Habitus, code et codification, in «Actes de la recherche en sciences
sociales» 64, 1 (1986). pp. 40-44.
Introduzione
Mara Matta ∙ Nudo di donna: ri(s)coprire la Devi Ù 299
Senanayak esce dalla sua tenda sorpreso, e vede Draupadi nuda che
cammina verso di lui nell’accecante luce del sole, la testa alta. Dietro di
lei arranca nervosa la guardia.
Cos’è questa cosa? Sta per urlare, ma si ferma.
Adesso Draupadi è di fronte a lui, nuda. Sulle cosce e sul pube, il sangue
raggrumato. I suoi seni, due ferite aperte.
Cos’è questa cosa? Sta per abbaiare.
Draupadi gli viene più vicina. È in piedi con le mani sui fianchi, ride e
dice, - L’oggetto della tua ricerca, Dopdi Mejhen. Gli hai detto, fatevela!
Non vuoi vedere cosa mi hanno fatto?
35
P. Bourdieu, Choses dites, Éd. de Minuit, Paris 1987, p. 79.
36
M. Devi, Draupadi, cit., p. 52 (corsivo mio).
37
J.P. Sartre, L’Être e le Néant. Essai d’ontologie phénoménologique, Gallimard, Paris
2000, cit. in G. Agamben, Nudità, Nottetempo, Milano 2009, p. 111.
300 Ù Le verità del velo
38
G. Agamben, Nudità, cit., p. 111.
39
Come commenta la Spivak nella sua Prefazione a Draupadi: «Nel momento in cui,
varcando la soglia del differenziale sessuale, passa nel campo di ciò che può capitare solo a
una donna, Dopdi emerge come il “soggetto” più potente; lei che, pur continuando a uti-
lizzare il linguaggio dell’“onore” sessuale, è capace di chiamare se stessa, derisoriamente,
l’“oggetto della vostra ricerca”, lei che può essere descritta come un superoggetto terrifi-
cante —“un obiettivo disarmato”». Cfr. G.C. Spivak, Prefazione a Draupadi, cit., pp. 28-29.
40
C. Tarditi, Al di là della vittima. Cristianesimo e fine della storia, Marcovalerio, Tori-
no 2004, pp. 57-58.
41
Ivi, p. 58.
42
Ibidem.
Introduzione
Mara Matta ∙ Nudo di donna: ri(s)coprire la Devi Ù 301
43
M. Devi, Drauapadi, cit., pp. 52-53.
44
Ivi, p. 50.
45
G. Agamben, Nudità, cit., p. 115.
302 Ù Le verità del velo
46
J.L. Nancy, À la nue accablante..., in Nudità. Emergenze, «Kainos», 8 (2008), URL:
<http://www.kainos.it/numero8/emergenze/nancy.html> (12/16).
47
Come scrive Agamben: «La sfacciataggine (la perdita del viso) è ora la contro-
parte necessaria della nudità senza veli. Il volto, divenuto complice della nudità, guar-
dando nell’obiettivo o ammiccando allo spettatore, dà a vedere un’assenza di segreto,
esprime soltanto un darsi a vedere, una pura esposizione». Cfr. G. Agamben, Nudità,
cit., p. 126.
Introduzione
Mara Matta ∙ Nudo di donna: ri(s)coprire la Devi Ù 303
48
Informazioni e dettagli sulla compagnia teatrale Kalakshetra Manipur e sulle sue
numerose produzioni teatrali si trovano online sul sito web: <http://kalakshetramani-
pur.org> (12/16).
49
Manipur è uno degli otto stati che, insieme a Tripura, Assam, Arunachal Pra-
desh, Meghalaya, Mizoram, Nagaland e Sikkim, costituiscono quella che è generalmente
identificata come la “regione del Nordest”. Nonostante la stessa definizione di North East
rimanga problematica e sia utilizzata più che altro in maniera funzionale, senza voler
accorpare in un’unica entità geografica e geopolitica le migliaia di etnie, lingue e culture
che la compongono, l’area condivide (nell’eccezione, forse, degli stati del Mizoram e del
Sikkim) una storia comune di scontri, violenze e lotte etno-nazionaliste. Manipur è lo
stato del Nordest che registra uno dei più alti tassi di violenza, sia per i conflitti inter-
etnici sia per la lotta indipendentista contro lo Stato indiano. Si veda, tra gli altri, M.S.
Hassan, Explaining Manipur’s Breakdown and Mizoram’s Peace: The State and Identities in North
East India (“Crisis States Programme. Working Paper”, 79), Development Studies Institute,
LSE London 2006, URL: <http://eprints.lse.ac.uk/28150/1/wp79.pdf> (12/16). Per una
preliminare bibliografia sulla storia di Manipur e la situazione geopolitica del Nordest
in generale, si vedano anche: N. Sanajaoba, Manipur Past and Present, Mittal Publications,
New Delhi 1988; S. Baruah, Durable Disorder: Understanding the Politics of Northeast India,
Oxford University Press, New Delhi 2005; Id., India Against Itself: Assam and the Politics
of Nationality, Oxford University Press, Delhi 1999; Id., A New Politics of Race: India and
Its Northeast, «IIC Quarterly», (New Delhi: India International Centre), 32, 2/3 (2005),
pp. 165-176; Id., Postfrontier Blues: Toward A New Policy Framework for Northeast India, East-
West Center, Washington D.C. 2007, URL: <http://www.eastwestcenter.org/publications/
postfrontier-blues-toward-new-policy-framework-northeast-india> (12/16); L.E. Cline, In-
surgency Environment in Northeast India, «Small Wars and Insurgencies», 17, 2 (2006), pp.
126-147; D. McDuie-Ra, Civil Society, Democratization and the Search for Human Security. The
Politics of the Environment, Gender, and Identity in Northeast India, Nova Science Publishers,
New York 2009a; D. McDuie-Ra, Fifty-Year Disturbance: the Armed Forces Special Powers Act and
Exceptionalism in a South Asian Periphery, «Contemporary South Asia», 17, 3 (2009), pp. 255-
270; M. Khan, State and Ethnic Violence in Manipur: A Multilateral Federation of Territories and
Cultures for Peace, in «The Indian Journal of Political Science», 67, 3 (2006), pp. 429-442; L.
Arambam, Language, Identities and Crisis in Manipur’s Civilization, in «Imphal Free Press»,
(Special Edition: Selected Writings on Issues of Identity), 2003 (pagine non riportate).
50
Nell’editoriale della rivista STQ (Seagull Theatre Quarterly) del giugno-settembre
1997, interamente dedicato al teatro di Manipur, Anjum Katyal spende alcune parole su
Heisnam Sabitri (chiamata anche Sabitri Devi), la moglie di Kanhailal, il cui talento è
stato spesso celebrato come ineguagliabile tra le attrici di Manipur: «Sabitri is one of this
country’s most sensitive and powerful actresses, speaks only Manipuri, though, once she
is performing, she needs no language other than her talent. Married to H. Kanhailal and
an integral part of his theatre, she has been a gifted medium for his theories and meth-
ods, demonstrating in practice what he wishes to communicate, and at the same time
infusing it with her own genius». Parlare del teatro di Kanhailal senza parlare di Sabitri
non avrebbe dunque senso alcuno, poiché è sempre stato attraverso il corpo e l’azione
scenica di Sabitri che le teorie e le visioni del teatro di Heisnam Kanhailal hanno preso
forma. Cfr. Anjum Katyal, Editorial, in «Seagull Theatre Quarterly», 14-15 (1997), p. 8.
Tra le principali pubblicazioni sul teatro di Heisnam Kanhailal e sulla scena artistica e
teatrale di Manipur, si vedano tra altri: Y. N. Devi & Ramthai, Growth of Modern Manipuri
Theatre and Its Importance in Manipuri Society, in «Asian Journal of Multidisciplinary Stud-
ies», 4, 6 (2016), pp. 62-66; R. Bharucha, Politics of Indigenous Theatre: Kanhailal in Mani-
pur, in «Economic and Political Weekly», 26, 11/12 (1991), pp. 747-754; Id., The Indigenous
Theatre of Kanhailal, in «New Theatre Quarterly», 8 (1992), pp. 10-22; Id., The Theatre of
304 Ù Le verità del velo
[F]or me theatre […] is essentially about the intimate nuances, the raw
earthy immediacy of experiences. This is what “Theatre of Earth” is all
about. I strongly believe that theatre is essentially grounded with ideolo-
gy and a deep rooted social commitment. 52
Kanhailal: Pebet and Memoirs of Africa, Seagull Books, Calcutta 1992; H. Kanhailal, Ritual
Theatre: Theatre of Transition (2004), in D. Krasner (a cura di), Theatre in Theory 1900-2000:
An Anthology, Blackwell, Oxford 2008; A.A. Theatre of the Earth: The Works of Heisnam Kan-
hailal, Seagull Books, Calcutta 2016. Tutta l’edizione a cura di Anjum Katyal del «Seagull
Theatre Quarterly», 14-15 (1997), è interamente dedicata al teatro sperimentale di Mani-
pur, con una particolare attenzione al lavoro di Heisnam Kanhailal.
51
La citazione è tratta da una recente intervista che il regista Heisnam Kanhailal
ha rilasciato durante una delle sue ultime apparizioni pubbliche, a Kolkata, dove era
ospite di Prabir Guha, direttore artistico dell’Indian Alternative Theatre. Per il video
completo si veda: < https://www.youtube.com/watch?v=KaQsBN8p1Yo&t=54s> (12/16).
52
J. Prodhani, “I call my theatre as the Theatre of the Earth”- Heisnam Kanhailal, [inter-
vista rilasciata alcuni mesi prima della morte del regista e pubblicata online in data
Introduzione
Mara Matta ∙ Nudo di donna: ri(s)coprire la Devi Ù 305
lo che chiamerà un “teatro povero”, alla ricerca dell’essenza dell’esperienza teatrale. Nel
1968, Grotowski pubblica una raccolta di saggi intitolata Per un teatro povero (pubblicato
in Italia da Bulzoni, Roma 1970), a cui si rimanda per una visione più approfondita del
lavoro del regista polacco.
58
In uno dei documenti pubblicati online sul sito del gruppo Kalakshetra Manipur,
Kanhailal scrive a proposito della sua esperienza con Badal Sircar: «Later on we realized
the unequilibrium between his system and our vision of a new aesthetic. What we could
really benefit from our contact with Badal is the clues that guide us towards objective re-
search and history of oppression and resistance». Cfr. H. Kanhailal, Clarifying New Trajecto-
ry, Imphal 2015 [Online sul sito della compagnia Kalakshetra], URL: <http://kalakshetra-
manipur.org/wp-content/uploads/2015/10/clarifying-new-trajectory.pdf> (12/16).
59
«Kanhailal-Sabitri combination is a new phenomenon in Manipuri theatre. This
eminent theatre personality of India, Kanhailal, since his early association with Badal Sir-
car of Calcutta, goes on evolving with his new theatrical language from “physical theatre”
to “intimate theatre” and now to “theatre of transcendence”. Indian critics call it “alternate
theatre”. This is a new theatre language with an accent on silence and gesture and integrat-
ed expression of dance, music and body expression. […] Sabitri’s performance-amazing-
ly energetic, brilliantly précised [sic] and moving. She hardly speaks, but looks, shouts,
groans and moans and keeps the audience spell bound. Her acting is a complete language
as expressed in her body and voice, her gestures, tones, looks of the eye, tilts of the head,
music and emotion of vocal levels. This is great acting by any standard». Manal Abdul
Azir, Extract from Experimental Theatre, (Friday 6 September 1991, Ministry of Culture,
The 3rd Cairo International Festival), citato in H. Kanhailal, Clarifying New Trajectory, cit.
60
Paradossalmente, Heisnam Kanhailal diventerà poi uno dei visiting professors della
NSD di Delhi. Una volta divenuto famoso e riconosciuto come una delle personalità più
influenti e interessanti del teatro contemporaneo in India, Kanhailal ricorderà quasi
con ironia la sua espulsione dalla scuola d’arte drammatica, che segnò un momento
di grande sconforto per il giovane artista, ma anche il punto di inizio di una presa di
coscienza attraverso il teatro. Espulso perché non padroneggiava la lingua hindī, pri-
vilegiata nel contesto urbano di Delhi ed eletta a lingua ufficiale dalla NSD, Kanhailal
ritorna a Manipur e crea il suo teatro. Altri artisti e registi teatrali del Nordest, negli anni
a seguire, frequenteranno la NSD. Il regista manipuri Ratan Thiyam, tra le personalità
più importanti della scena teatrale contemporanea, ne diventò per un breve periodo
persino direttore. Tuttavia, a detta di alcuni, la sua appartenenza etnica non mancò di
creare problemi all’establishment. Come ha sottolineato Samik Bandyopadhyay, vice-di-
rettore della NSD: «I feel the opposition had to do with Thiyam’s “ethnicity”. A Manipuri
couldn’t be accepted in a predominantly Hindi set-up. Wasn’t Heisnam Kanhaiyalal, one
of the greatest theatre directors of India today, kicked out of the NSD as a student?». Il
problema dell’appartenenza a un gruppo etnico, religioso o linguistico “minoritario”,
Introduzione
Mara Matta ∙ Nudo di donna: ri(s)coprire la Devi Ù 307
dunque, sancisce ancora oggi i confini della discriminazione, non solo nella sfera politi-
ca ma anche, evidentemente, sulla scena artistica. Ciò non fa che accrescere il merito e
l’importanza del teatro di Heisnam Kanhailal, la cui vita, in scena e non, è stata anche
una rivalsa e uno smacco contro quelle istituzioni “culturali” che lo avevano respinto per
la sua incapacità di esprimersi nelle lingue del potere e dello stato egemonico. Cfr. G.
Ramnarayan, 50 Years of Drama. The debate on the National School of Drama gains topicality
as the premier institution begins its golden jubilee celebrations, in «Frontline», 25, 5 (2008),
URL: <http://www.frontline.in/static/html/fl2505/stories/20080314250508400.htm>
(12/16).
61
R. Bharucha, The Indigenous Theatre of Kanhailal, cit., p. 10.
62
Le “Sette Sorelle” (Seven Sisters) è un altro nome per indicare i sette Stati del
Nordest (ad esclusione del Sikkim).
63
Per alcuni riferimenti bibliografici a studi sulle popolazioni indigene, si veda
supra nota 25.
64
AFSPA 1958 (Armed Forces Special Powers Act, 1958) è una legge in vigore in alcuni
stati dell’India (in particolare nella regione del Nordest e in Kashmir), che prevede una
sospensione dello stato di diritto come specificato nella sezione “Objects and Reasons”
che dichiara: «Keeping in view the duty of the Union under Article 355 of the Constitu-
tion, inter alia, to protect every State against internal disturbance, it is considered desir-
able that the Central government should also have power to declare areas as “disturbed”,
to enable its armed forces to exercise the special powers». Sotto la protezione di questa
legge speciale, le forze armate possono prelevare, interrogare, detenere e persino ucci-
dere sospetti “terroristi” e “ribelli”. Si veda Institute for Defense Studies and Analysis,
Manipur and Armed Forces (Special Powers) Act 1958 [Online]; J. Sandeep, Court-appointed
panel highlights misuse of AFSPA in Manipur, in «The Hindu», 17 July 2013.
308 Ù Le verità del velo
Women’s bodies have become the territory on which this culture of violence is
marked. […] Race and gender intersect in harassment and violence di-
rected toward tribal women, particularly by nontribal members of the
armed forces. Thus, tribal women are not just “women of the enemy,”
but also perceived to be less bound by moral codes that apply to women
in other parts of India.66
65
Cfr. D. McDuie-Ra, Violence Against Women in the Militarized Indian Frontier, in «Vi-
olence Against Women», 18, 3 (2012), pp. 322-345.
66
Ivi, p. 332.
Introduzione
Mara Matta ∙ Nudo di donna: ri(s)coprire la Devi Ù 309
67
Cfr. D. McDuie-Ra, Fifty-year Disturbance: The Armed Forces Special Powers Act and
Exceptionalism in a South Asian Periphery, in «Contemporary South Asia», 17 (2009), pp.
255-270. Dello stesso autore, si vedano anche Searching for Human Security in “Disturbed”
Areas: Women as Agents for Change in Manipur, India, in «Australasian Journal of Human
Security», 1, 2 (2005), pp. 49-64; Gender, Ethnicity, and Civil Society: Exploring the Links Be-
tween Women’s Movements and Identity Politics in Northeast India, in J.H. Ulrich, B.T. Cosell
(a cura di), Handbook on Gender Roles: Conflicts, Behavior and Attitudes, Nova Science, New
York 2009, pp. 123-146.
68
I termini “senso”, “significato” e “significatività” sono utilizzati nell’accezione
in cui li aveva elaborati Victoria Welby nel suo saggio del 1903 What is Meaning? Stu-
dies in the Development of Significance, che Susan Petrilli ha curato e tradotto in italiano.
Nel primo capitolo, la Welby scriveva a proposito della sua teoria della Significs —che si
muoveva nella direzione dell’etosemiotica e poneva in stretta relazione il segno e il suo
310 Ù Le verità del velo
Nel 2000, sebbene forti reazioni alla scena della nudità di Sabitri
avessero prevenuto la messinscena del dramma a Imphal, l’opera
venne portata in giro per le metropoli dell’India: il potere perfor-
mativo del corpo dell’attrice guadagnò a Kanhailal e Sabitri il plau-
so della critica, ma non riuscì a placare le critiche e le accuse volte
contro l’attrice da parte di diversi gruppi, tra cui molte associazioni
di donne manipuri. Come ha ricordato lo stesso Kanhailal in suo
saggio:
[A]fter two shows at Imphal on 14th and 20th April, 2000 we faced a con-
troversy. A group of known feminists, writers, intellectuals, critics and
even the ordinary women of Imphal were complaining against the nu-
dity in the last scene. They treated Sabitri as notorious, as a shameless
woman who hurt the sentiments and ideal image of Manipuri women
in particular. Another group mainly of men jumped in on defence of
nudity in justifying the need if such theatre in the interface of the pres-
ent crisis of attack on the female sex by the Indian army in Manipur.
The attack and counter-attack continued in the daily papers for about
three months. Since then we stopped showing Draupadi in Manipur
categorically denying the suggestion of dropping the nude scene.69
valore: «Si sosteneva che spetta all’educazione dare il “nuovo avvio” di cui si ha bisogno.
Ma soltanto coloro che sono stati addestrati fin dal principio a distinguere 1) il senso
(sense), 2) il significato (meaning), e 3) la significatività (significance), —cioè la tendenza,
l’intenzione e l’interesse essenziale di ciò che si presenta alla loro attenzione— possono
sperare di superare i limiti attuali […]». E aggiunge più avanti: «Io spero di dimostrare
che il “senso” di qualsiasi forma di espressione non è stato ancora differenziato dal “si-
gnificato” e dalla “significatività” di essa; e che questa omissione è letale. Spesso cerchia-
mo un significato dove, per la natura del caso in questione, un significato, nel senso che
qui lo intendiamo, non è possibile: cercare il senso. Invece spesso rinunciamo al signi-
ficato quando invece potremmo scoprire non soltanto il senso, ma anche qualcos’altro
che lo ingloba e lo trasforma, —cioè la significatività». Cfr. V. Welby, Senso, significato,
significatività, in «Idee»13 (1990), pp. 145-154 (trad. S. Petrilli); si vedano anche: S.
Petrilli, Signifying and Understanding: Reading the Works of Victoria Welby and the Signific
Movement, De Gruyter Mouton, Berlin 2009; A. Ponzio, S. Petrilli (a cura di), Semioetica,
Meltemi, Roma 2003.
69
Kanhailal Heisnam, Draupadi: A Performance of Twists and Turns [saggio non pub-
blicato], citato in T.N. Banerjee, The Loss of Wor(l)ds: Theatre in Manipur and Heisnam Kan-
hailal, in «Humanities Underground», December 20 (2013), URL: <http://humanitiesun-
derground.org/the-loss-of-worlds-theatre-in-manipur-and-heisnam-kanhailal/> (12/16).
Introduzione
Mara Matta ∙ Nudo di donna: ri(s)coprire la Devi Ù 311
Figg. 3 e 4. Scene tratte dalla performance di Draupadi. Foto per gentile concessione del
Kalakshetra Manipur Archives.
70
Ibidem.
71
Cfr. J. Prodhani, “I call my theatre as the Theatre of the Earth”- Heisnam Kanhailal, cit.,
URL: <http://www.nezine.com/info/“I%20call%20my%20theatre%20as%20the%20
Theatre%20of%20the%20Earth”-%20Heisnam%20Kanhailal> (12/16).
72
Cfr. G. Hariharan, When Bodies Speak, in «World Literature Today», 91, 2 (2017),
pp. 16-20; A.R. Baishya, “Counter Me, Rape Us”: Bare Life And The Mimicry of the Sovereign,
in A. De, A. Ghosh, U. Jana (a cura di), Subaltern Vision: A Study in Indian English Postcolo-
nial, Cambridge Scholars Publishing, Newcastle Upon Tune 2012, pp. 134-181.
312 Ù Le verità del velo
[He] may be similarly understood as the eager agent of the state’s pan-
optical desires. Senanayak’s chosen method of getting rid of the young
revolutionaries is by “apprehension and elimination”—the English word
“apprehension” in the story referring at once to his efforts to physically
capture the revolutionaries and to know and understand their modes of
organization […]. For the rebels, then, an important strategy of resist-
ance is to frustrate legibility by becoming suddenly unknowable.73
73
Cfr. D. Misri, “Are you a man?”: Performing Naked Protest in India, in «Signs», 36, 3
(2011), pp. 603-625, in particolare p. 607. La Misri, riferendosi all’interessante libro di
James C. Scott Seeing Like a State (1998), illustra il meccanismo della decodificazione che
sostiene il panopticon benthaniano degli apparati di potere: «In his book Seeing Like a State,
James C. Scott (1998) demonstrates how modern states assert power over their subjects by
attempting to make them legible in the codes of the state. This explains, for instance, the
state’s quest to settle its itinerant populations so that it can see where they are and thus
include them within the purview of its control: by including them in census counts or sub-
jecting them to taxes, for instance». Si veda anche J.C. Scott, Seeing Like a State: How Certain
Schemes to Improve the Human Condition Have Failed, Yale University Press, New Haven 1998.
Introduzione
Mara Matta ∙ Nudo di donna: ri(s)coprire la Devi Ù 313
74
Cfr. J.L. Nancy, F. Ferrari, La pelle delle immagini, Bollati Boringhieri, Torino
2003.
75
Cfr. U. Artioli, Carmelo Bene, Un dio assente. Monologo a due voci sul teatro, Medusa,
Milano 2006, p. 97.
314 Ù Le verità del velo
76
Cfr. #KaahonPerformingArts - Heisnam Kanhailal | Manipur | Indian Theatre,
<https://www.youtube.com/watch?v=KaQsBN8p1Yo&t=54s> (12/16).
77
E. Alkazi, citato un’intervista con G. Ramnarayan, “Theatre is Revelation”. A Con-
versation with the Multifaceted Ebrahim Alkazi, «The Hindu», 24 February (2008), URL:
<line: http://www.thehindu.com/todays-paper/tp-features/tp-sundaymagazine/The-
atre-is-revelation/article15401453.ece> (12/16).
78
Ibidem. Alla domanda su che tipo di estetica il teatro possa forgiare per se stesso,
Alkazi risponde: «Go beyond inanities. Educate audiences, not with sermons, but with a
dramatically powerful presence. My open air-theatre posed challenges, but drew nour-
ishment from mother earth, created a living environment with the vigour of the pipal
tree, its branches through wind, rain and the flight of birds».
Introduzione
Mara Matta ∙ Nudo di donna: ri(s)coprire la Devi Ù 315
un attore nudo non è un attore senza costume, perché quella nudità im-
plica comunque una scelta esplicita e cosciente, che diviene per questo
significante. Significa ad esempio, la volontà di trasgredire le regole, di
stupire o di provocare. O quanto meno il rifiuto di ogni costume che
contestualizzi storicamente e socialmente l’azione. Questo ci porta a un
primo punto fermo, che deve accompagnare ogni riflessione e ogni di-
scorso sul teatro: sulla scena il grado zero della significazione non esiste,
ogni segno (o anche ogni mancanza di segno) è significante, ogni gesto
o ogni immobilità lo è, ogni parola, ogni suono, ogni silenzio.80
79
J.-P. Sartre cit. in G. Agamben, Nudità, cit., p. 108.
80
L. Allegri, Prima lezione sul teatro, Laterza, Bari-Roma 2012, pp. 7-8.
316 Ù Le verità del velo
81
E. Grosz, Volatile Bodies. Towards a Corporeal Feminism, Indiana University Press,
Bloomington-Indianapolis 1994, p. xi.
82
J. Butler, La vita psichica del potere, Meltemi, Roma 2005, p. 32.
318 Ù Le verità del velo
83
J. Butler, La disfatta del genere, Meltemi, Roma 2006, p. 251 (ed. orig. 2003).
84
Cfr. J.L. Nancy, Tre saggi sull’immagine, Cronopio, Napoli 2002.
85
La poesia, scritta originariamente in lingua bangla, è stata tradotta in inglese
dallo stesso Subodh Sarkar (insieme a Christopher Merrill) in occasione di un simposio
sulla Giustizia tenutosi a Paros nel 2007. L’articolo in cui la poesia appare è un pezzo
di denuncia, dal titolo significativo: Manorama is dead but speaks through the mothers of
Manipur, pubblicato online all’URL: <https://iwp.uiowa.edu/programs/international-
conferences/the-new-symposium/2007/sarkar> (12/16). Il testo originale in lingua
bangla è disponibile alla pagina: <http://www.milansagar.com/kobi/subodh_sarkar/
kobi-subodhsarkar_kobita1.html> (12/16). Cfr. S. Sarkar, Manipurer Ma, Ananda Pub-
lishers, Kolkata 2013.
Introduzione
Mara Matta ∙ Nudo di donna: ri(s)coprire la Devi Ù 319
86
Per un’interessante analisi della parola lajja nel contesto indiano, si vedano U. Me-
non, R.A. Shweder, Kali’s Tongue: Cultural Psychology and the Power of Shame in Orissa, In-
dia, in S. Kitayama, H.R. Markus (a cura di), Emotion and Culture: Empirical Studies of Mu-
tual Influence, American Psychological Association, Washington, DC 1994, pp. 241-284,
Introduzione
Mara Matta ∙ Nudo di donna: ri(s)coprire la Devi Ù 321
URL: <https://pdfs.semanticscholar.org/bf99/d85ba3f6ce02a224d6022cca1589657a-
edbe.pdf> (12/16). Si vedano inoltre: J. Kripal, Kali’s tongue: Shame and disgust in a Tan-
tric world. Unpublished manuscript, 1993; S.N. Kurtz, All the mothers are one: Hindu India
and the cultural reshaping of psychoanalysis, Columbia University Press, New York 1992.
87
In Interpretazione di culture, Geertz parla della scena sociale di Bali come di un
elaborato «spettacolo teatrale» dove bisogna saper recitare, attraverso forme di auto-
controllo e l’applicazione di norme precise. Nel processo di messinscena sociale, però,
la paura di sbagliare può dar luogo a un vero e proprio terrore, un timore di non saper
recitare bene il proprio ruolo. Per Geertz, il lek era questa «paura del palcoscenico», un
termine balinese che traduce un’emozione che ha poco a che fare con il nostro normale
senso della “vergogna”. La parola lajjā, in questo contesto del dramma sociale indiano,
è come il lek balinese: la “paura da palcoscenico” appartiene ai soldati che si trovano co-
stretti a improvvisare ma non sanno recitare senza copione. Cfr. C. Geertz, Interpretazione
di culture, il Mulino, Bologna 1987.
322 Ù Le verità del velo
Conclusioni
88
L. Allegri, Prima lezione sul teatro, cit., pp. 7-8.
89
S. Alaimo, The Naked Word: The Trans-Corporeal Ethics of the Protesting Body, cit., pp.
31-32.
90
Cfr. I. Souweine, Naked Protest and the Politics of Personalism, in M. Narulka et al.
(a cura di), Sarai Reader 05: Bare Acts, Sarai Programme, Delhi 2005, pp. 526-536. Si
veda anche M.L. Veneracion-Rallonza, Women’s Naked Body Protests and the Performance
of Resistance: Femen and Meira Paibi Protests Against Rape, in «Philippine Political Science
Journal», 35, 2 (2014), pp. 251-268.
91
Cfr. J.C. Strauss, D.B.C. O’ Brien, Staging Politics: Power and Performance in Asia and
Africa, I.B. Tauris & Co Ltd., Londra 2007.
Introduzione
Mara Matta ∙ Nudo di donna: ri(s)coprire la Devi Ù 323
senso pieno nel contesto della sfera pubblica, Strauss e O’Brien han-
no infatti affermato:
In questo gioco delle parti dove chi è invisibile si denuda della sua
veste sociale e costringe lo sguardo del potere egemone (vestito di
un’invisibilità diversa, tipica del potere latente ma non assente) pri-
ma ad osservare la corporeità resa visibile, poi a prendere coscienza
della possibilità del suo potere, l’emozione gioca un ruolo cruciale.
Attraverso una psicologia culturale delle emozioni, possiamo forse
comprendere il senso, il significato e la significatività del “nudo di
donna” in India. Se Mahasweta Devi e Heisnam Kanhailal hanno sa-
puto magistralmente utilizzare nella loro arte l’immagine del corpo
femminile nudo senza cadere nella trappola del voyeurismo o nella
semplicistica strumentalizzazione della sessualità femminile tipica di
un certo femminismo militante, le Madri di Manipur e altre donne
dell’India contemporanea hanno scelto di “vestire il nudo” come
un costume di scena, per smascherare le ipocrisie e le violenze del-
lo stato patriarcale e le logiche sessiste e fallocentriche che vedono
ancora oggi le donne vittime di violenza. Il corpo nudo, da simbolo
degenerato e/o insignificante, acquista sulla scena artistico-letterario
e politica-pubblica una forza emotiva rigenerante, che lo risigni-
fica in corpo simbolico, al contempo svelato e (ri)velato in scena.
Esso acquista una dimensione simbolica attraverso la sospensione
di senso comune della parola-segno a favore dell’immagine-corpo
come “carne sensata”: il corpo femminile, nell’accezione di un’ef-
fige terrifica, trascende la propria immanenza di corpo umano per
stagliarsi nella sua raffigurazione di corpo sovrumano, trascendente
il linguaggio fallocentrico e il sistema della legge dei padri. Sebbene
il corpo straziato e privo di vita di Tanjam Manorama, anche dopo
l’eco nazionale e internazionale della protesta delle “Madri”, non sia
divenuto simbolico come quello di Jyoti Singh, e nonostante il fatto
che di morti violente come la sua Manipur ne abbia registrate molte
ancora, quello che è significativo è il modo in cui la protesta delle
Madri e l’azione scenica di Sabitri abbiano saputo riportare l’atten-
zione della Nazione su temi delicati e importanti, senza tuttavia tra-
sformare i loro corpi in nudi oggetti dello sguardo, esibiti, reificati
e feticizzati. La vulnerabilità dei loro corpi spogliati si è rivestita di
92
Ivi, p. 11.
324 Ù Le verità del velo
If you have loved and revered the mothers who bore you
and gave you suck, if the honour of wife or sister or
daughter has been dear to you, if you believe in God and
Dharma, forsake me not in this horror more cruel than death!93
Riecheggiano le parole del poeta Sarkar, dove una madre «sta bru-
ciando, sta bruciando/ una madre dentro ogni madre», ma le urla
strazianti di Draupadi ci ricordano forse anche la domanda, nuda
e disarmante come «quella cosa» davanti a Senanayak, che Pasolini
aveva affidato alla sua Ballata delle madri:
93
Mahābhārata, 93 citato in E.S. Latha, Political Suppression in Mahasweta Devi’s
Draupadi, in «The Indian Review of World Literature in English», 9, 2 (2013), pp. 1-5.
94
P. Pasolini, La ballata delle madri, in Poesia in forma di rosa (1961-1964), Garzanti,
Milano 1964.