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Dispensa Storia Delle Relazioni Internazionali
Dispensa Storia Delle Relazioni Internazionali
La guerra di Libia:
Un mese prima al giorno in cui venne firmato l’accordo franco-tedesco che chiudeva
formalmente la crisi di Agadir, l’Italia inviò alla Turchia un ultimatum, seguito
immediatamente da una dichiarazione di guerra: il problema concreto era
rappresentato a Tripoli e alla Cirenaica, nel quale l’Italia lamentava che i suoi
interessi erano costantemente danneggiati dai turchi. Ciò che spinse l’Italia ad agire
in quel modo fu il nazionalismo interno sempre più aggressivo; invece, dal punto di
vista internazionale, la Tripolitania costituiva l’ultimo territorio non accaparrato dalle
potenze imperialistiche dell’Africa settentrionale mediterranea. I crescenti interessi
tedeschi a Tripoli spinsero l’Italia ad agire preventivamente: vi fu la prevalenza
dell’esercito italiano e l’annessione della Tripolitania e della Cirenaica il 5 novembre
1911.
L’attrito maggiore per tale azione militare dell’Italia fu con i suoi alleati ufficiali: la
Germania provò un forte disappunto e l’Austria adoperò i termini formali
dell’alleanza per impedire all’Italia di intraprendere un’azione nei Balcani.
Le guerre balcaniche:
La guerra italo-turca, sebbene fosse in sé una questione di importanza alquanto
secondaria, fu universalmente impopolare fra le potenze europee perché toccava il
settore sensibile dell’impero ottomano. La guerra in Libia e le guerre balcaniche del
1912-13 furono intimamente connesse.
La Russia in tale periodo non si preoccupava di estendere la sua influenza nei
Balcani, quanto perlopiù di provocare una mutazione nella situazione degli Stretti.
Gli sforzi della Russia vennero ripagati nel momento in cui venne conclusa
un’alleanza serbo-bulgara – l’intento evidente dell’alleanza fu quella di soddisfare
l’irredentismo dei due Paesi a spese della Turchia. Venne convenuta una spartizione
della Macedonia in una zona serba a Nord e una zona bulgara a Sud, qualsiasi zona
contestata sarebbe stata assegnata in seguito a una decisione arbitrale dello zar.
Tuttavia, la Russia non si rese conto delle implicazioni che avrebbe potuto avere
quell’alleanza: infatti, l’accordo iniziale venne sostituito da un’intesa militare più
precisa e successivamente si andò a costituire la Lega balcanica con la conclusione di
un accordo greco-bulgaro. Il malcontento nel settore ottomano dei Balcani, risultato
della politica nazionalistica dei Giovani Turchi, nonché il fatto che la Turchia era
impegnata nella guerra con l’Italia, rese i Balcani maturi a un’esplosione.
L’Austria si rivolse alle potenze nell’intento di svolgere una comune azione a
Costantinopoli. I negoziati proseguirono per l’estate, finché non venne formulata una
proposta francese secondo cui le potenze si sarebbero opposte a qualsiasi
mutamento dello status quo della Turchia europea. La Russia e l’Austria, le due
grandi potenze più interessate alle questioni balcaniche, ebbero l’incarico di far
intendere la volontà comune dell’Europa agli Stati balcanici – tuttavia, la nota austro-
russa non giunse in tempo per impedire la dichiarazione di guerra del Montenegro
alla Turchia, seguita poco dopo da quella della Lega Balcanica.
Poco dopo un mese, la Turchia venne ovunque sconfitta sul campo. L’Europa non era
preparata a quest’esito della guerra: successivamente alla sconfitta degli eserciti
turchi, venne riunita a Londra una conferenza della pace per giungere a un’intesa tra
i turchi e gli alleati balcanici. Tale conferenza venne sospesa da ciò che può essere
definita come la seconda guerra balcanica, una futile ripresa della resistenza turca, i
quali infine dovettero cedere tutto il territorio turco in Europa.
Nonostante la pace successivamente firmata con la Turchia a Londra nel 1913,
l’equilibrio nei Balcani non era stato ristabilito: l’Austria, la quale per le prime fasi del
conflitto era rimasta inattiva, si oppose all’accesso della Serbia al mare sollecitando la
creazione di uno Stato albanese che lo impedisse, proposta per il quale l’Austria
aveva ottenuto l’appoggio dall’Italia, contraria a sua volta
dell’espansione degli slavi meridionali lungo l’Adriatico. La pressione austriaca sulla
Serbia abbia l’effetto di indurre quest’ultima a rivolgersi altrove per ottenere
compensi: ciò riaprì la questione della Macedonia e, trovandosi anche in contrasto
con la Grecia riguardo al possesso di Salonicco, la Bulgaria diede inizio nello stesso
anno alla terza guerra balcanica. Cogliendo l’occasione, i turchi si gettarono nella
contesa riconquistando Adrianopoli; anche la Romania si mosse contro la Bulgaria,
preoccupata dagli ingrandimenti di tutti gli altri Stati e bisognosa di ottenere
compensi. Entro tre settimane dall’inizio del conflitto la Bulgaria venne schiacciata da
una combinazione di forze ostili.
L’aspetto balcanico della Questione d’Oriente venne definitivamente risolto: l’impero
ottomano non era più uno Stato europeo, sebbene continuasse a esercitare il pieno
controllo sugli Stretti. La Romania ottenne la Dobrugia, la Bulgaria fu cacciata dalla
Macedonia, la quale fu divisa tra serbi e greci. La conferenza degli ambasciatori di
Londra aveva deciso di creare uno Stato albanese e per stabilire le frontiere di tale
Stato vennero istituite due commissioni: tuttavia, a causa di disordini locali, i serbi
ritornarono in Albania nello stesso settembre del 1913 e ciò spinse l’Austria
all’azione. Nonostante ciò, non vi fu alcun conflitto dal momento che i serbi si
ritirarono nel momento in cui fu presentato l’ultimatum austriaco.
L’esplosione balcanica del 1912-13 aveva provocato attriti assai modesti, una crisi
meno grave rispetto a quella prodotta dall’annessione della Bosnia-Erzegovina.
Tuttavia, al preludio della Prima guerra mondiale gli equilibri erano estremamente
fragili e un esempio era dato dalla stessa Italia: quest’ultima aveva aiutato l’Austria a
ottenere la costituzione dell’Albania, divenuto successivamente territorio di contesa
tra le due Potenze. Nel giugno 1913 vi fu un accordo navale nel quale fu stabilita la
collaborazione delle flotte austriaca e italiana, quasi contemporaneamente alla
conclusione degli accordi fra gli Stati Maggiori della Triplice Alleanza; ma, allo stesso
tempo a dimostrazione dell’ambivalenza italiana, essa era impegnata in negoziati sia
con la Francia che con la Gran Bretagna quanto alla situazione del Mediterraneo.
La stessa situazione in Oriente era delicata e gravida di pericoli: nella Turchia
propriamente detta i tedeschi erano ansiosi di mantenere la loro influenza e la
richiesta turca del 1913 di una missione militare tedesca volta a riorganizzare
l’esercito turco venne accolta assai favorevolmente dalla Germania. Ciò provocò
tuttavia una reazione della Russia, la quale era richiese un intervento dell’Intesa in
quanto sospettosa dell’influenza di qualsiasi altra grande Potenza in Turchia. Tale
situazione dimostrò che al preludio della Prima guerra mondiale l’antico rapporto di
amicizia tra la Russia e la Germania era ormai privo di sostanza, bensì anche in
quell’occasione vi fu un rafforzamento franco-russo.
• Nel 1929 il ministro francese degli esteri Briand affermò l’idea della
costruzione di un’Unione europea federale, ispirandosi al modello americano;
• Il piano Dawes aveva una durata limitata, esso venne sostituito nel 1930 dal
Piano Young. Quest’ultimo non aveva una scadenza, bensì era caratterizzato da
una condizione risolutiva per il quale si sarebbe estinto nel momento in cui
sarebbe stato ripagato completamente il debito delle riparazioni da parte della
Germania. Vennero create delle istituzioni ad hoc a tal proposito e inoltre
venne istituito che, nel caso in cui la Germania non avesse pagato la Francia, la
Francia avrebbe potuto interrompere il pagamento dei debiti americani e
l’America non avrebbe più finanziato la Germania; Per la prima volta venne
introdotto un collegamento tra il pagamento delle riparazioni e il debito degli
Alleati;
Il Paese che rimase maggiormente danneggiato fu l’Italia: non era caratterizzata dalla
potenza necessaria per riuscire a imporsi, non riuscì ad ottenere la revisione dei
Trattati di pace successivi al Primo conflitto mondiale e, quanto alla politica coloniale,
non riuscì a ottenere i risultati sperati.
La fase del 1929-1933, la quale inizia con la crisi di Wall Street e termina con la presa
del potere di Hitler, rappresenta la prima crisi del Sistema di Versailles: i presupposti di
tale sistema furono messi in discussione e si ritenne che non potessero condurre alla
stabilità.
Si verificò di conseguenza una revisione negoziata, tuttavia si dimostrò anch’essa un
fallimento: il clima internazionale cambiò drammaticamente a seguito della crisi del
’29, si verificò un peggioramento dell’economia e della condizione di vita dei popoli e
venne meno l’unica potenza fino a quel momento in grado di svolgere un ruolo di
mediazione, gli Stati Uniti.
Inoltre, la negoziazione diplomatica tra le varie Potenze non era possibile in quanto
non vi era una comune prospettiva relativamente al futuro dell’ordinamento
internazionale.
La presa al potere di Adolf Hitler rese impossibile una possibile convergenza con gli
altri Paesi: egli non vuole revisionare i principi della pace di Parigi, bensì vuole
distruggerli e realizzare un nuovo ordinamento internazionale con al centro la
Germania.
A seguito della grande depressione, Stati Uniti si ritirarono dall’opera di assistenza
verso l’economia tedesca che aveva svolto nel periodo del piano Dawes; infatti, la
grande finanza americana non era più nelle condizioni di intervenire e garantire la
stabilizzazione dell’economia tedesca, non si poté concretizzare il piano Young. Il
mancato afflusso dei capitali americani determinò una recessione economica, sia per
quei Paesi che fino a quel momento avevano registrato segni di ripresa (come l’Austria)
ma soprattutto per la Germania.
La recessione nell’economia tedesca provocò anche una destabilizzazione istituzionale
e politica: la Repubblica tedesca, la quale aveva sostituito l’impero tedesco alla fine
della Primo guerra mondiale, aveva dimostrato debolezza e poca efficienza. Le
istituzioni democratiche non erano riuscite a determinare la stabilità economica di cui
la Germania aveva bisogno, si iniziò a ritenere che la democrazia non fosse adeguata.
Dal 1929 al 1933 si cercò di stabilizzare il Sistema di Versailles, cercando di evitare che
la crisi di Wall Street e conseguentemente europea conducesse a un collasso
dell’ordinamento internazionale.
La Francia voleva mantenere la propria posizione di centralità e la Gran Bretagna era
soprattutto preoccupata per le conseguenze economiche conseguenti al
peggioramento generale del clima politico. Quanto all’Unione Sovietica, essa si
trovava ancora in una posizione ancora isolata; Stalin si stava occupando di rafforzare
l’economia e solidificare le fragili istituzioni sovietiche.
In questo periodo il Giappone era assente dalla politica internazionale, di conseguenza
l’unico Paese in grado di stabilizzare la situazione erano gli Stati Uniti d’America con la
presidenza Hoover.
Tuttavia vi erano due difficoltà principali affinché si creasse il sistema desiderato dagli
Stati Uniti d’America: la prima difficoltà era rappresentata dalla Francia, la quale
desiderava la ricostruzione del precedente sistema con l’assunzione del ruolo
egemonico; l’altra questione riguardava il rapporto con la Gran Bretagna, la quale non
era disposta ad accettare la nascita di un sistema economico aperto e allo stesso
modo avrebbe visto un ridimensionamento della sua superiorità economica-
commerciale.
Nella Conferenza di Parigi del 1919 emersero tre fronti divisi tra loro: il primo fronte
faceva riferimento alla Francia per la riproposizione del precedente sistema
internazionale; il secondo fronte era sostenuto dalla Gran Bretagna che, pur non
negando il ruolo egemonico europeo della Francia, partiva dal presupposto che fosse
necessario bilanciare questa potenza con l’attribuzione di un ruolo alla Germania (non
era possibile costruire un sistema post-bellico estromettendo la Germania); La terza
posizione era quella americana e finalizzata alla costruzione di un nuovo sistema
internazionale alla cui base vi erano i 14 punti di Wilson.
Si aggiungevano inoltre posizioni limitate finalizzate a giungere a un loro
rafforzamento: l’Italia puntava a rafforzare il suo ruolo sul Mediterraneo; invece, il
Giappone, combattendo al fianco della Triplice intesa, puntava a rafforzare la sua
posizione in Estremo Oriente.
Le Potenze sconfitte non furono invitate a partecipare alla Conferenza della pace: i
lavori di quest’ultima si articolarono in una discussione tra Francia, Gran Bretagna,
Stati Uniti, Italia e Giappone.
I termini decisi dalla Conferenza furono imposti ai Paesi che avevano combattuto al
fianco degli Imperi Centrali. Quindi un altro problema di base delle trattative di pace,
oltre all’idea del ruolo da attribuire alla Germania, fu l’imposizione delle condizioni alle
Potenze sconfitte.
La Germania fu costretta a un ridimensionamento militare, economico, politico e
territoriale: non solo perse l’Alsazia e la Lorena ma anche dei territori al confine con il
Belgio, con la Danimarca, con la Polonia e Cecoslovacchia, da sempre parte della
Germania – ciò andava a introdurre degli elementi di permanente tensione.
Dal punto di vista militare la Germania fu costretta alla demilitarizzazione.; quanto
alle clausole politiche, essa non era parte della Società delle Nazioni ed era lasciata ai
margini del sistema internazionale.
La Germania era riconosciuta come la responsabile morale del conflitto nel trattato di
Versailles, motivo per il quale le venne imposto il pagamento di una cifra enorme per il
danno; inoltre, essa non venne aiutata nei suoi primi passi nella democrazia e con il
sorgere dei nazionalismi contrari alle istituzioni democratiche della Repubblica di
Weimar.
Tra l’autunno del 1919 e l’estate del 1920, a seguito del trattato di Versailles, vennero
firmati i trattati con le altre potenze sconfitte: il 10 settembre quello di
• In primo luogo, vi era l’etnia germanica, la quale era ritenuta superiore e pura.
Le etnie scandinave e anglosassoni, seppure non completamente pure, erano
considerate alla stessa stregua in quanto esisteva in vincolo razziale forte con
l’etnia germanica. L’etnia germanica e popoli affini dovevano combattere la
contaminazione europea operata dall’Unione sovietica e dagli Stati Uniti
d’America.
La crisi del Congo ci dimostrò che il clima positivo sviluppatosi tra le due
superpotenze nel periodo compreso tra il Summit di Ginevra e la visita di Chruscev
negli Stati Uniti stava per essere sostituito da un periodo di tensioni.
Nel 1960 e negli anni successivi si verificarono una serie di fallimenti diplomatici, il
primo si ebbe al vertice di Parigi del 1961.
La rinascita economica della Repubblica federale tedesca aveva coinvolto anche
la parte occidentale dell’ex capitale, dimostrando sempre un maggior divario di
libertà e benessere con la Repubblica democratica.
Tutto ciò favorì un esodo di popolazione dalla Repubblica democratica tedesca verso
l’Occidente; inoltre, il governo di Bonn continuava a rivendicare la propria sovranità
su tutto il territorio della Germania e la propria costituzione si rivolgeva a tutto il
popolo tedesco.
Infine, la Germania Ovest aveva elaborato la cosiddetta dottrina Hallstein, dal nome
di uno dei più stretti collaboratori di Adenauer, in base alla quale Bonn avrebbe rotto
i rapporti diplomatici con ogni nazione che avesse riconosciuto ufficialmente la
Repubblica democratica.
Il vertice di Parigi fu il risultato delle tensioni riguardanti Berlino e a cui
parteciparono i quattro grandi del sistema internazionale nelle figure del presidente
Eisenhower, il francese de Gaulle, l’inglese Macmillan e infine Chruscev.
Il vertice di Parigi del 1961 fu un fallimento, soprattutto dal momento che
quest’ultimo ebbe luogo a seguito dell’abbattimento dell’aereo U2 nei cieli sovietici:
il presidente Eisenhower autorizzava missioni di spionaggio mediante l’U-2, un aereo
in grado di volare a grandi altezze in modo da non essere intercettato da velivoli da
caccia e dalla contraerea russa, nonché di conseguenza in grado di compiere
ricognizioni sul territorio sovietico. Chruscev richiese che gli americani non
inviassero più aero-spie e le scuse formali del presidente. Tuttavia, gli americani
rifiutarono e ciò condusse alla conclusione fallimentare del vertice di Parigi. Da quel
momento i rapporti vennero progressivamente a peggiorare.
La seconda crisi tra Stati Uniti e Unione Sovietica si verificò nel medesimo anno: i
sovietici decisero di costruire un muro per dividere la propria sfera di influenza
berlinese da quella Occidentale. I tedeschi dell’Est, su ordine dei sovietici, procedono
alla costruzione.
Il muro di Berlino divenne il simbolo materiale del dualismo del sistema
internazionale e della guerra fredda.
Mediante il muro di Berlino, l’Unione Sovietica cercò di far comprendere agli
americani che la competizione deve spostarsi in altri continenti e altri ambiti: la
divisione fisica del muro rappresenta concretamente una situazione che esiste già
di fatto. Gli americani non reagirono alla costruzione del muro di Berlino, non vi fu
l’idea di assumere una posizione ostile dal momento che non furono avanzate
minacce sul piano militare, nonostante non fosse una soluzione piacevole.
Il nuovo presidente J.F. Kennedy fu il primo presidente a non appartenere al gruppo
white anglosaxon protestant: egli è di origine irlandese e non è protestante, bensì
cattolico.
Egli si preoccupò soprattutto di mutare i caratteri della politica estera americana:
comprese che gli Stati Uniti avevano sofferto la propaganda di Krusciov, il quale era
riuscito a dipingere un cambiamento radicale della politica estera sovietica e
spingere in cattiva luce gli Stati Uniti, sebbene in realtà non fosse così.
La finalità di Kennedy era quella di far comprendere nuovamente all’ordine
internazionale che gli Stati Uniti d’America erano dalla parte della libertà, a
differenza dell’Unione Sovietica e della loro politica estera di immagine. Tuttavia, egli
nella prima parte del suo mandato incappò in un fallimento che avrebbe avuto
conseguenze di lungo periodo per la politica americana e nel conflitto con Mosca.
L’America centrale e i Caraibi erano considerati in dall’Ottocento un’area di influenza
statunitense nel quale Washington era spesso intervenuta per preservare i propri
interessi politici, economici e strategici.
In questo contesto Cuba era un caso emblematico: il sostegno americano alle
aspirazioni indipendentiste dei cubani nei confronti della dominazione spagnola era
stato uno dei pretesti del conflitto ispano- americano del 1898. Liberata dal
dominio di Madrid, Cuba fu sottoposta a un protettorato statunitense. Nel 1902,
nonostante avesse raggiunto formalmente l’indipendenza, l’isola caraibica restò
sotto una forte influenza americana.
Nell’ottobre del 1962 si scoprì della costruzione di basi missilistiche all’interno del
territorio di Cuba da parte dei sovietici.
Cuba, dopo il colpo di stato di Fidel Castro, giovane intellettuale di un’agiata famiglia
di proprietari terrieri che si mise a capo di un esiguo gruppo di oppositori al regime
corrotto di Batista, si avvicinò all’Unione Sovietica per evitare che gli americani
ripristinassero il governo precedente.
L’Unione Sovietica rappresentava una garanzia economica e di sicurezza per il regime
di Fidel Castro.
La costruzione di basi missilistiche creò profonde tensioni e con la possibilità di un
confronto nucleare. Il presidente Kennedy si trovò dinanzi a scelte difficili da
compiere: invadere Cuba e bombardare l’installazione missilistiche sovietiche
sull’isola probabilmente avrebbero condotto a un conflitto, rischiando di dare
un’impressione negativa all’immagine internazionale. Egli decise quindi di agire
applicando un blocco navale a Cuba, dando ai sovietici la responsabilità eventuale di
rompere tale blocco e di iniziare le ostilità. Successivamente le due superpotenze
raggiunsero un’intesa: l’Unione Sovietica disinstallò le basi missilistiche sull’isola, ma
al tempo stesso gli americani si impegnarono a disinstallare alcune loro installazioni
in Turchia e Italia. Inoltre, gli americani dichiararono che non avrebbero più
organizzato iniziative per sovvertire il regime di Fidel Castro.
La crisi del Congo, il muro di Berlino e la crisi di Cuba terminarono la seconda fase
della guerra fredda.
A partire dagli anni ’60 con la fine della Prima distensione, si sviluppò l’idea era che
le due superpotenze potessero pacificamente convivere in un contesto competitivo.
Seppure la competizione non esulasse i contrasti, venne meno la possibilità di un
eventuale conflitto bellico.
La sopravvivenza in un contesto competitivo aveva un costo molto elevato per
l’Unione Sovietica: infatti, L’Unione Sovietica aveva iniziato ad appoggiare diversi
Paesi nella conversione al comunismo e ciò determinò un costo sempre maggiore –
inoltre, insieme a tali costi si deve considerare la non crescita dell’economia
sovietica dalla metà degli anni ’60. Invece, gli Stati Uniti d’America furono
sottoposti soprattutto a rischi politici, piuttosto che di problemi economici. La
grande paura degli Stati Uniti era che l’Unione Sovietica si espandesse oltre il
proprio tradizionale complesso euroasiatico.
Il timore americano trovò riscontro nel conflitto vietnamita.
La Conferenza di Ginevra del 1954 pose fine alla prima guerra indocinese,
venne adottato il medesimo modello della Germania e della Corea anche per il
Vietnam: quest’ultimo venne diviso territorialmente con un Vietnam del Nord
filocomunista di Ho Chi Minh e il Vietnam del Sud filooccidentale.
L’amministrazione Eisenhower decise di non siglare gli accordi di Ginevra
sull’Indocina, considerandoli un cedimento nei confronti del comunismo.
Inoltre, le autorità americane avevano ritrovato nella persona di Diem, politico
sudvietnamita nazionalista, un interlocutore fidato, fortemente antifrancese
quanto contrario al comunismo.
Tuttavia, a differenza del profondo rafforzamento del Vietnam filocomunista, nel
Vietnam del Sud vennero scelti alcuni leaders di religione cattolica e poco amati da
un popolo di maggioranza buddista. La leadership nordvietnamita, convinta che la
strada del negoziato sarebbe stato infruttuoso, decise di riunificare il Paese mediante
l’utilizzo della fora, avviando un’azione di guerriglia nel Vietnam del Sud che contava
sugli elementi comunisti presenti sul territorio, noti come Viet Cong. L’anno
successivo si costituì in clandestinità il Fronte di liberazione nazionale, organismo
politico che, sebbene egemonizzato dai comunisti, raccoglieva le simpatie di un
crescente numero di oppositori del regime autoritario di Diem.
Nel 1964 si verificò un misterioso incidente per cui le navi americane furono
attaccate dal Vietnam del Nord, motivo per il quale gli Stati Uniti d’America
dichiararono guerra. La guerra e la situazione vietnamita vennero affrontate dal
presidente Johnson, precedente vicepresidente subentrato in carica a seguito
dell’assassinio di Kennedy, le cui circostanze sono tuttora oggetto di polemica.
L’idea americana era di ripercorrere gli avvenimenti coreana ma ciò non poteva
avvenire: non solo il contesto internazionale era cambiato, bensì non si era verificata
alcuna occupazione per giustificare un intervento armato americano.
Gli Stati Uniti si ritrovarono in un vicolo cieco: militarmente, pur non potendo essere
sconfitti dai guerriglieri del Vietnam del Nord, non potevano vincere la guerra perché
avrebbe richiesto un impegno e una brutalità che la società americana e dell’Europa
Occidentale non erano disponibili ad accettare. A ciò si aggiungeva la difficoltà
politica dal momento che non si era riusciti a far passare la guerra del Vietnam come
un conflitto motivato, essa era apparsa come un’operazione imperialista e
neocoloniale che aveva pregiudicato la convivenza pacifica con l’Unione Sovietica e il
comunismo. Al contrario, la posizione di Hanoi venne percepita come eroica
resistenza di un Paese all’invadente potenza americana, finalità principale era la
riunificazione del Vietnam in regime comunista.
Inoltre, gli Stati Uniti sono politicamente isolati: molti dei loro alleati assunsero una
posizione contraria all’impegno militare degli americani in Vietnam; specificamente,
gli alleati europei auspicavano il termine del conflitto affinché gli Stati Uniti non
trascurassero le vicende europee, o il loro sensibile impegno nell’alleanza atlantica.
La situazione venne risolta dal presidente repubblicano Nixon, il quale vinse le
elezioni nel 1968, elezioni alle quali il presidente Johnson non aveva preso parte,
consapevole dell’impopolarità che il conflitto vietnamita gli aveva provocato. Nixon
si rese conto che la strategia da seguire era terminare la guerra del Vietnam e
ricostruire l’America politicamente, economicamente e socialmente; quindi, era
necessario andare incontro alle richieste dell’opinione pubblica e dare la possibilità
ai vietnamiti di esercitare il principio di autodeterminazione.
Inoltre, Nixon si rese conto che esisteva una profonda dialettica comunista, vi erano
diverse ideologie e non un unico comunismo: un esempio è quello della Cina, che
dopo aver usufruito degli aiuti dell’Unione Sovietica, aveva completamente cambiato
la proprio politica rispetto a quella dei sovietici, arrivando persino a diversi scontri
con quest’ultimi.
Le scelte economiche e l’evidente desiderio di conquistare un ruolo di grande
potenza spinsero Chruscev tra il 1959 e il 1960 a interrompere progressivamente i
progetti sovietici di sviluppo economico e scientifico della Cina, soprattutto quando
oramai era chiaro che quest’ultima non avesse intenzione di agire subordinatamente
all’Unione Sovietica.
L’inimicizia tra le due realtà comuniste non venne meno neppure quando Chruscev
venne sostituito dal proprio incarico da Breznev, nuovo segretario del Partito
comunista sovietico.
Gli americani che fino a quel momento avevano considerato la Cina un nemico,
appoggiando persino il Taiwan contro quest’ultimi, iniziarono a portare avanti una
politica di riavvicinamento alla Cina.
La finalità americana era di potersi porre come ago della bilancia nel sempre più
forte contrasto sino-sovietico, ottenendo da ognuno concessioni grazie alla minaccia
di più stretti rapporti con l’altro. Inoltre, prospettiva importante era l’apertura a un
immenso mercato di quasi un miliardo di persone.
Dopo il fallimento del grande balzo, progetto economico finalizzato
all’urbanizzazione cinese, e un parziale indebolimento della sua leadership
all’interno del partito, tra il 1965-66 Mao favorì una campagna di dure critiche nei
confronti di una parte dei vertici del Partico comunista cinese al fine di riconquistare
la guida incontrastata del Paese, sfruttando la contestazione a opera di masse di
giovani studenti che diedero avvio a una rivoluzione culturale, la quale si sarebbe
protratta sino alla fine del decennio.
Tale situazione lasciò per alcuni anni la Cina in una situazione caotica e condusse
all’eliminazione di gran parte della classe dirigente del PCC, nonché di migliaia di
intellettuali, dirigenti nel settore economico e nella burocrazia. Fu solo nel 1969 che
Mao, dopo aver visto scomparire i propri nemici all’interno del partito, riprese in
mano la situazione; dopo aver stabilizzato la situazione interna, egli si concentrò
sulla politica estera e sul rapporto con gli americani – infatti, Mao era ben
consapevole che l’eventuale riconoscimento statunitense avrebbe fatto uscire
Pechino dall’isolamento, consentendo alla Cina di recuperare il seggio permanente al
Consiglio di sicurezza nell’Organizzazione delle Nazioni Unite, emarginando di
conseguenza il Taiwan. La partita di ping-pong in Cina contro la nazionale americana
nel 1971 era un chiaro esempio dello scongelamento dei rapporti con gli Stati Uniti.
Nel 1972 Nixon annunciò ufficialmente la propria visita nella Repubblica popolare
cinese. Successivamente, nel volgere di qualche mese, l’Organizzazione delle Nazioni
Unite decretarono l’espulsione del Taiwan e l’ingresso di Pechino come quinto
membro permanente del Consiglio di sicurezza. Ciò dipinse Nixon e Kissinger,
dapprima consigliere del presidente per la sicurezza nazionale e successivamente
segretario di Stato, come alfieri della pace.
Quanto alla guerra del Vietnam, Nixon portò avanti la politica della
vietnamizzazione del conflitto, in altri termini la progressiva responsabilità sul piano
militare dell’esercito del Vietnam del Sud: egli promise di ritirare le forze americane
entro il 1973, lasciando il Vietnam a sé stesso con le prospettive che esso risolvesse
da solo le proprie problematiche interne.
L’obbiettivo della vietnamizzazione mirava a impedire la sconfitta americana in
Indocina e a consentire al governo di Saigon di sopravvivere e fronteggiare
autonomamente la minaccia comunista.
Nel 1970 il generale cambogiano lon Nol, probabilmente su ispirazione americana,
rovesciò il governo neutralista della Cambogia e schierò il Paese accanto agli
americani; inoltre, nei primi mesi del 1971 le forze sudvietnamite lanciavano
un’operazione in Laos, coinvolgendo l’intera Indocina. In realtà le operazioni militari
erano meri strumenti del gioco diplomatico che si stava verificando a Parigi e che si
concluse con gli accordi di Parigi del 1973.
Essi rappresentavano la fine del Vietnam del Sud: infatti, nonostante fosse stato
lasciato in vita il governo di Saigon e al Vietnam del Nord fosse stato concesso
solamente il controllo di determinate aree strategiche, da lì a due anni esso fu
annesso al territorio del Vietnam del Nord.
Nixon abbandonò il Vietnam al suo destino poiché ritenne che non fosse possibile
concludere positivamente questo conflitto. Inoltre, la Cina avrebbe rappresentato un
nuovo alleato mediante cui rimediare le perdite per la guerra del Vietnam.
In tutta questa situazione, soprattutto per la quantità sensibile di uomini e materiale
bellico adoperato gli Stati Uniti d’America si trovano in una condizione di difficoltà: la
guerra aveva provocato effetti economici, politici e sociali.
Nixon capì che era necessario avviare una politica estera conservativa: quest’ultima
consentì agli Stati Uniti di porre i presupposti per una ripresa della loro grande
politica internazionale.
Nixon operò delle iniziative economiche che finiranno per porre in difficoltà i
problemi di nuovo sviluppo e di blocco comunista.
Egli sospese la convertibilità in oro del dollaro: fino a quel momento ogni valuta
poteva essere convertita in dollari e il dollaro in oro. L’impossibilità di convertire il
dollaro in oro rallentò la conversione delle valute straniere in dollari. Ciò causò gravi
problemi alle valute straniere.
Egli ordinò alla Federal Reserve di aumentare il tasso di sconto, ossia il costo del
denaro. Quando il costo del denaro è più alto, se qualcuno ha contratto il debito sarà
più costoso ripagare i debiti e in quel periodo numerosi Paesi, nonché la stessa
Unione Sovietica, avevano contratto debiti che sarebbero stati difficili ripagare. Negli
anni ’80 la trappola del debito che Nixon tese ai Paesi dell’Est condusse alla crisi e al
crollo di molte economie.
Le misure economiche vennero accompagnate da misure politiche: gli Stati Uniti
d’America non credevano più all’Organizzazione delle Nazioni Unite.
Nixon voleva privare le Nazioni Unite del loro ruolo di governo del mondo, motivo
per il quale delineò un cosiddetto G5, successivamente divenuto G7, forum dei Paesi
economicamente e politicamente più forti: Stati Uniti, Giappone, Germania Ovest,
Italia, Gran Bretagna, Francia e Canada. Queste iniziative non solo erano volte a
mettere in difficoltà l’Unione Sovietica e i Paesi del blocco comunista, ma anche una
risposta all’offensiva dei Paesi non allineati e che si erano riuniti nella Conferenza di
Algeri che avevano cercato di proporre un nuovo ordine economico internazionale
prescindendo dal modello comunista sovietico e capitalistico americano. Tali Paesi
volevano adoperare le loro materie prime come arma politica, cercando di
determinare un nuovo sistema internazionale economico.
Se da un lato gli Stati Uniti continuavano a portare avanti una politica non
particolarmente propositiva, d’altro canto si verificò comunque a una certa
distensione con l’Unione Sovietica. Il periodo della Seconda distensione, o anche
denominata come Grande distensione, si fa coincidere ufficialmente con il 1972,
anno in cui Nixon si recò a Mosca per la firmò di diversi accordi, i più importanti
riguardanti la riduzione degli armamenti tra le due superpotenze, e definiti Strategic
Arms Limitation Talks (SALT).
Si verificò un momento di tensione tra Washington e Mosca dal momento che
quest’ultima minacciò gravi ritorsioni se gli americani avessero continuato il loro
sostegno militare. Fu centrale l’azione di Kissinger che, grazie a un’instancabile opera
di mediazione fra la capitale egiziana e israeliana, anche denominata come shuttle
diplomacy, favorì il cessate il fuoco.
A rendere ancora più complessa la situazione internazionale, contemporaneamente
alla rivoluzione iraniana vi fu l’invasione dell’Afghanistan a opera dell’Unione
Sovietica.
Sino al 1973 l’Afghanistan fu una monarchia che sul piano internazionale aveva
compiuto la scelta del non allineamento, successivamente in quell’anno la monarchia
fu rovesciata dal primo ministro Daud.
Cinque anni più tardi Daud venne assassinato e il potere venne assunto dal Partito
democratico del popolo afghano, movimento di sinistra di stampo pro-sovietico. Il
tentativo di imporre un sistema politico laico aveva suscitato l’opposizione armata di
gruppi conservatori islamici, spingendo il governo a rafforzare di conseguenza i
legami con Mosca. L’Unione Sovietica decise di intervenire militarmente sia per
evitare che lil fondamentalismo islamico potesse diffondersi nelle repubbliche
asiatiche dell’Unione Sovietica confinanti con l’Afghanistan e l’Iran, ma anche per
stabilizzare il Paese a causa della divisione interna del partito democratico del
popolo afghano.
Il 25 dicembre 1979 ebbe inizio l’invasione da parte dell’Armata rossa e in pochi
giorni i principali centri del Paese passarono sotto il controllo sovietico.
La reazione dell’amministrazione Carter fu la sospensione della ratifica del trattato
SALT II, una serie di sanzioni di natura economica e il boicottaggio delle Olimpiadi
che si sarebbero tenute a Mosca.
La seconda distensione si concluse con la presidenza del repubblicano Reagan e un
contesto internazionale sempre più teso.
Il mandato del presidente Reagan iniziò nel gennaio del 1981 e terminò nel gennaio
del 1989: il presidente Reagan riteneva che fosse necessario continuare sulla
direzione di Nixon – smantellare lo stato sociale in America, sviluppo del commercio
internazionale, liberare il capitalismo da quei vincoli che gli erano stati posti dagli
anni ’50 agli anni ’70.
Era necessario eseguire delle riforme in chiave ultraliberale.
Quanto all’ambito politico, Reagan non era più disposto ad accettare l’Unione
Sovietica: egli riteneva che essa rappresentasse un elemento di costrizione per lo
sviluppo del contesto internazionale e uno Stato con cui era impossibile giungere alla
definizione di accordi che potessero portare a un’effettiva distensione del sistema. Il
presidente Reagan riteneva che gli Stati Uniti, oramai usciti dalla crisi economica,
fossero in grado di assumere una posizione di completo monopolio sul piano
economico, tecnologico e militare: era possibile isolare l’Unione Sovietica,
soprattutto considerando la quantità di debiti contratta da quest’ultima,
ridimensionandola fortemente. Era possibile trasformare il sistema internazionale
recuperando una piena centralità degli Stati Uniti d’America.
Egli adottò una politica fortemente ostile all’Organizzazione delle Nazioni Unite:
Reagan accusava le Nazioni Unite di essere caratterizzata da un’ipertrofia burocratica
tale da non essere in grado di amministrare i Paesi del mondo.
Solamente alla fine degli anni ‘80 con un programma di riforme delle Nazioni Unite e
un’intermediazione giapponese si verificò un riavvicinamento degli americani alle
Nazioni Unite, seppure ritrovandosi ridimensionata nelle sue funzioni e nel suo ruolo
politico.
Uno dei suoi maggiori alleati politici fu la Lady di ferro, Margareth Thatcher, primo
ministro della Gran Bretagna. Le trasformazioni che ella operò all’interno del sistema
economico e produttivo britannico nella prima metà degli anni ’80 furono radicali:
egli ridimensiona lo stato sociale britannico, liberalizzando l’economia e cercando di
dare nuovamente un ruolo alla Gran Bretagna, fortemente ridimensionato dopo
l’episodio del Canale di Suez.
Esattamente come Reagan criticava le Nazioni Unite, Margaret Thatcher provava una
forte ostilità della Comunità europea: i Paesi della comunità perseguivano
fortemente l’idea di migliorare il processo di integrazione, a differenza della Gran
Bretagna.
Nel 1986 si giunse alla firma dell’Atto unico europeo con il quale fu possibile porre
i presupposti per uno sviluppo della comunità.
Varie furono le ragioni dell’aggravarsi della tensione fra le due superpotenze e che
condussero a quella che sarebbe stata definita come seconda o nuova guerra fredda.
Un fattore di rilievo fu sicuramente la dura retorica anticomunista
adoperata, interpretate da una leadership sempre più incerta come un’evidente
volontà aggressiva statunitense.
Inoltre, centrale fu nell’incremento della tensione della decisione presa nel 1979
dalla NATO per l’installazione dei missili di breve e medio raggio: a tal proposito, nel
1981 vennero aperte le trattative sulla riduzione delle forze nucleari intermedie,
nel quale gli Stati Uniti avanzò la cosiddetta proposta opzione zero – la
contemporanea eliminazione degli SS/20 sovietici e la rinuncia americana
all’installazione dei Pershing e dei Cruise. Tuttavia, i negoziati non sortirono alcun
risultato concreto e si scontrarono con il clima di crescente sospetto reciproco,
soprattutto per le scelte di riarmo americano e a cui l’Unione Sovietica rispose con
decisioni analoghe, innescando una corsa agli armamenti.
Nel 1982 morì Breznev, il quale aveva governato l’Unione Sovietica in maniera cauta
e ragionevole. Egli venne sostituito da Andropov, ex capo dei servizi segreti: l’Unione
Sovietica era in una condizione di profonda crisi e quindi occorreva al vertice del
Paese un uomo che fosse in grado di mantenere la stabilità politica e la calma
sociale. Il problema fondamentale dell’Unione Sovietica fu la sclerotizzazione del
regime sovietico: nonostante il trascorrere del tempo, il funzionamento delle
strutture burocratiche, economiche e politiche sovietiche si caratterizzarono per la
loro immobilità, per procedure e usi ripetitivi quanto inefficienti, legate a
un’interpretazione tradizionale, ma al contempo meccanica e rozza, di alcuni precetti
fondamentali del marxismo-leninismo. Questo atteggiamento e la mancanza di
riforme cominciarono a far sentire i propri effetti deleteri in particolare nel contesto
economico: la produzione agricola restava deficitaria in settori importanti e quella
industriale entrò anch’essa in una fase di stagnazione. Inoltre, erano sempre più
diffusi fenomeni di evidente alienazione, come l’alcolismo e il decremento
demografico.
Tuttavia, Andropov non riuscì a incidere sull’Unione Sovietica: egli era un uomo
anziano e malato, fu un leader di transizione e rimase al potere solamente per un
anno e mezzo – non riuscì a portare avanti alcuna riforma. Il suo posto venne preso
da un ancora più anziano leader, Cernenko, il quale rimase al potere solamente per
pochi mesi. Le sue condizioni erano estremamente precarie: egli governò il Paese dal
letto. L’Unione Sovietica necessitava fortemente di una riforma strutturale di grande
respiro, sia relativamente all’apparato produttivo-economico che politico e
burocratico. A differenza dell’Unione Sovietica, i cinesi avevano già dal 1979, sotto la
leadership di Deng Xiaoping, posto in essere quattro grandi riforme rispetto
all’agricoltura, l’industria, la tecnologia e l’educazione. Vennero create le prime zone
economiche speciali, vennero gettate le premesse per quella trasformazione
economica che la Cina ha poi successivamente conosciuto negli anni ’90 e nell’ultimo
ventennio.
Quando salì al potere il sovietico Gorbacev, nell’Unione Sovietica si verificò
finalmente un elemento di innovazione: egli era perfettamente consapevole della
profonda crisi del Paese, motivo per cui lanciò immediatamente il suo programma di
riforme.
La cosiddetta Perestroika, la trasformazione istituzionale, amministrativa ed
economica, avrebbe dovuto essere accompagnata dalla Glasnost, ossia dalla libertà
di culto e di pensiero, l’abolizione della censura – Gorbacev aveva inteso che
all’interno della cultura sovietica non vi era più entusiasmo nei confronti del
marxismo e del leninismo, era quindi necessario rivoluzionare il piano culturale,
un’ideologia dal volto più umano.
Nel 1983 il presidente americano Reagan lanciò il progetto di Strategic Defense
Initiative, che sarebbe divenuto noto come Star Wars in chiaro intento ironico
dall’omonima serie cinematografica: esso era un progetto per la creazione di stazioni
orbitanti nello spazio dotate di armi laser che avrebbero dovuto eliminare in volo i
missili strategici sovietici, impedendo loro di colpire gli Stati Uniti. Gorbacev cercò
subito un contatto con gli Stati Uniti d’America, rendendosi conto che l’Unione
Sovietica in quel momento non aveva le risorse per un’ulteriore corsa al riamo e che
solo una nuova distensione avrebbe permesso all’Unione Sovietica di diminuire il
peso dei costi della difesa e puntare sulla ristrutturazione del sistema economico.
Reagan adottò ciò che può essere denominato come la politica del bastone e della
carota: accettò di vedere più volte il leader sovietico, tuttavia i Vertici furono
inconcludenti.
Reagan si rese conto della crisi sovietica, motivo per cui mantenne un atteggiamento
di forte rigidità nei suoi confronti – più che favorire un Gorbacev in grande difficoltà,
egli manifestò poca disponibilità. Tale atteggiamento cambiò solamente a partire dal
1987, quando il presidente americano si rese conto della
necessità di avvicinarsi all’Unione Sovietica perché un suo tracollo improvviso
avrebbe potuto avere un effetto drammatico sul sistema internazionale e un possibile
ritorno all’oscurantismo dell’Unione Sovietica.
Nel 1987 si tenne a Washington un summit sovietico-americano nel corso del quale
venne firmato il trattato INF mediante il quale vennero eliminati tutti i missili di
raggio intermedio presenti in Europa, i cosiddetti euromissili.
Per Reagan ciò rappresentò il coronamento e la conclusione della sua carriera
politica; infatti, il retaggio dei suoi due mandati si tradussero ancora una volta nella
vittoria del candidato repubblicano George Bush. Sebbene si trattasse soltanto di
circa il 4% dell’arsenale atomico delle due superpotenze, si trattava di un
sostanziale passo in avanti sulla strada del riarmo, anche perché a esso Gorbacev
aggiunse una serie di dichiarazioni destinate a preparare il disimpegno militare
dell’Unione Sovietica in Afghanistan.
Nonostante la fine dell’esperienza afgana, sul piano interno Gorbacev stava
incontrando crescenti difficoltà: i tentativi di riforma economica, spesso mal
concepiti da riformatori inesperti, si scontravano con le resistenze e incompetenze.
Al rapido deteriorarsi della situazione economica, la parziale liberalizzazione politica
consentì la manifestazione di aspirazioni autonomistiche da parte di alcune
nazionalità, le due aree maggiori furono il Caucaso e le repubbliche baltiche.
Nel primo caso si riaccesero contrasti etnici e religiosi che il regime aveva sopito ma
non eliminato: si riaccesero le rivendicazioni per l’indipendenza da parte
dell’Azerbaigian, nonché i primi scontri con la confinante Armenia, e anche in
Georgia si registrarono i primi ferventi. Quanto alle repubbliche baltiche, la
repressione staliniana nei confronti delle popolazioni di Lituania, Lettonia ed Estonia
era stata particolarmente brutale; tuttavia, non fu dimenticato da quest’ultimi il
breve periodo di indipendenza. Tra il 1988-89 le manifestazioni, sempre più
numerose, assunsero un carattere ostile al potere centrale.
Il processo riformatore avviato da Gorbacev in Unione Sovietica non poteva non avere
riflessi anche sui rapporti tra Mosca e le nazioni satelliti dell’Europa centro- orientale,
nonché sugli equilibri politici all’interno di tali Paesi.
Sul piano economico le nazioni del blocco comunista vivevano un periodo di crisi non
molto dissimile da quello sperimentato dall’Unione Sovietica e rappresentavano per
il Paese un crescente onere finanziario. Inoltre, i gruppi dirigenti dei vari partiti
comunisti si dimostravano incapaci di offrire qualsiasi soluzione pratica ai problemi
economici e apparivano timorosi nei riguardi delle politiche riformatrici proposte da
Gorbacev, sino al punto di impedire la diffusione di pubblicazioni ufficiali provenienti
dall’Unione Sovietica.
Appariva chiaro che l’Unione Sovietica, desumibile da numerose dichiarazioni di
Gorbacev, non si sentisse più in dovere di applicare la dottrina Breznev fondata
sull’intervento dell’Armata Rossa nel caso di crisi dei regimi comunisti al potere,
bensì si ebbe il passaggio a ciò che è denominata ironicamente come dottrina Sinatra
dal nome dell’omonimo cantante e della canzone “On my way” – si riteneva quindi
che ogni Paese del blocco comunista dovesse individuare la sua strada, Gorbacev
probabilmente pensava a delle vie nazionali del comunismo sul modello fallito della
primavera praghese.
Il processo che condusse alla fine del comunismo in Europa e alla conclusione della
guerra fredda si ebbe in Polonia: in tale Paese la crisi economica si era aggravata e nel
1988 dinanzi a una situazione di deficit insostenibile il governo decise di incrementare
i prezzi dei beni di prima necessità, provocando una serie di scioperi che si tradussero
nella ricostruzione di Solidarnosc, a dispetto della condizione di illegalità.
A fronte di tale situazione di tensione, si decise di convocare una tavola rotonda tra
governo e opposizione, proposta che venne accettata dall’altra parte con la
speranza che si potesse ottenere nuovamente la legalizzazione del sindacato
indipendente. Venne concluso un accordo sulla base del quale si sarebbero tenute
elezioni parzialmente libere nel quale il 35% dei 100 seggi della Camera bassa
sarebbero stati assegnati liberamente, il resto invece sarebbe stato riservato al
Partito comunista e alle formazioni politiche alleate. A seguito delle elezioni,
Solidarnosc riuscì a ottenere tutti i seggi della camera alta e 33 dei 35 seggi liberi di
quella bassa, era una completa disfatta per il Partita comunista. Dopo numerose
incertezze, il governo centrale finì per accettare il verdetto delle urne e si formò un
governo composto in ampia misura da ex dissidenti – iniziò così lo smantellamento
del sistema comunista in Polonia.
In Ungheria, dopo la fallita insurrezione del 1956 e un periodo di dura repressione, fu
istituito un regime autoritario sul piano politico, ma con significative aperture nella
dimensione economica, dando origine negli anni Sessanta al cosiddetto comunismo
al gulasch. Questo tacito compromesso tra la leadership comunista e parte della
popolazione aveva retto per lungo tempo, ma nel corso degli anni ’80 anche
l’Ungheria andò incontro a una serie di difficoltà economiche e ciò, insieme alle
posizioni riformiste di Gorbacev, diedero l’impulso allo sviluppo di una nuova
generazione di esponenti comunisti che credevano fortemente che si potesse avviare
un processo di democratizzazione al termine del quale il Partito comunista si sarebbe
trasformato in una formazione socialista e pluripartitica.
Il governo di Budapest, sempre più caratterizzato da elementi riformatori, riuscì a
ottenere l’evacuazione dal territorio nazionale delle truppe nel 1988 e l’anno
successivo venne presa la decisione di smantellare la cortina di ferro lungo il confine
con l’Austria. Ciò avrebbe avuto conseguenze fondamentali sugli equilibri della
Repubblica democratica tedesca, caratterizzata dall’immobilismo di governo del
partito SED e allo stesso tempo da sentimenti di insoddisfazione sempre più radicati
tra la popolazione, soprattutto per il confronto con le prospere condizioni della
Germania Ovest.
Nell’agosto del 1987 migliaia di cittadini della Germania dell’Est, a seguito dello
smantellamento in Ungheria della cortina di ferro, si diedero alla fuga nella vicina
repubblica austriaca, rifugiandosi nelle ambasciate occidentali. La Repubblica
democratica tedesca cercò di reagire chiudendo le frontiere ma, dinanzi
all’incertezza delle autorità, il dissenso interno iniziò a organizzare manifestazioni i
cui slogan passarono molto velocemente da “noi siamo il popolo” a “noi siamo un
popolo” – da un richiamo al governo affinché venissero prese in considerazione le
istanze riformatrici avanzate alla richiesta di una riunificazione tedesca. Nonostante
si verificò un cambio al governo con elementi riformatori, ciò si era verificato troppo
tardi: dalla decisione di applicare una nuova normativa alla libertà di viaggio tra le
due Germanie nel giro di poco tempo si arrivò allo smantellamento del muro,
simbolo più evidente della guerra fredda.
Gli eventi di Berlino ebbero immediata ripercussione negli altri Paesi del blocco
comunista. Si verificarono manifestazioni di massa a Praga e, dopo un’iniziale azione
repressiva, i rappresentanti del Partito comunista decisero di abbandonare il potere
consegnandolo pacificamente ai leader del dissenso e ciò passò alla storia come
rivoluzione di velluto. In Ungheria i comunisti locali, prima ancora della caduta del
muro, accelerarono il processo di trasformazione del Partito comunista in socialista,
accettando la nascita di altre formazioni politiche ed eliminando con una riforma
costituzionale il carattere di democrazia popolare e nel 1990 le elezioni furono vince
da partiti anticomunisti.
Anche in Bulgaria, uno dei Paesi il cui regime comunista era considerato tra i più
fedeli all’Unione Sovietica, vennero indette elezioni libere e scomparì in breve tempo
e senza spargimento di sangue il regime comunista.
La situazione in Romania fu differente: la dittatura di Ceausescu impedì che vi fosse
una caduta pacifica del regime comunista e per giorni vi furono confusi
combattimenti nella capitale tra gli insorti e la polizia di Stato. Successivamente,
Ceausescu e sua moglie Elena vennero catturati e giustiziati. Le elezioni dell’anno
successivo avrebbero dato al Fronte di salvezza nazionale il potere. Quanto alla
Jugoslavia, il rigetto del comunismo si intrecciò con le tradizionali tensioni fra le
nazionalità che componevano la Repubblica: specificamente, dopo la morte di Tito
nel 1980 si iniziarono a sviluppare sentimenti di autonomia, soprattutto nelle due
repubbliche del nord, Slovenia e Croazia. Allo stesso modo, in Serbia si sviluppò un
movimento caratterizzato da rivendicazioni territoriali, rivolte soprattutto al Kosovo
e ad alcune aree della Croazia, rispettivamente caratterizzate da una maggioranza
albanese e serba.
L’imperativo più pressante appariva quello relativo al futuro della Germania: infatti,
dopo la caduta del muro di Berlino era necessario determinare una nuova
organizzazione del sistema internazionale, soprattutto dinanzi alla prospettiva che si
profilò fin da subito dell’annessione della Germania Est alla Germania Ovest. Per ciò
che concerne gli esponenti europei occidentali, l’ipotesi di una Germania
nuovamente unita provocata timore, soprattutto relativamente alla possibilità che
potesse ripresentarsi un’egemonia tedesca sull’Europa. Più favorevole alla
riunificazione fu invece l’amministrazione Bush, il quale riteneva che essa potesse
rappresentare la vittoria americana sul blocco comunista. Inoltre, vi erano anche le
preoccupazioni di Varsavia e Praga circa la possibilità che la nuova Germania potesse
avanzare rivendicazioni territoriali ed economiche.
Quanto al cancelliere tedesco Helmut Kohl, egli credeva che la riunificazione tedesca
fosse storicamente inevitabile: la popolazione tedesca, partecipando alla caduta del
muro, aveva inviato un chiaro messaggio alla Comunità internazionale. L’ostacolo
maggiore era rappresentato dall’Unione Sovietica, la quale riteneva pericolosa la
riunificazione tedesca, sia sul piano ideologico che militare in quanto avrebbe
allargato l’alleanza atlantica. Tuttavia, Gorbacev comprese di trovarsi in una
posizione molto debole e finì per accettare la prospettiva di una Germania
riunificata, salvo che non vi fossero truppe e armamenti atomici della NATO
stazionati nel territorio della ex Repubblica democratica tedesca e che la Germania si
accollasse l’onere dello smantellamento delle basi dell’Armata Rossa e della
sistemazione in Unione Sovietica dei militari trasferiti. Vennero indette elezioni liberi
e gli strumenti del potere della SED si trasformarono in veri competitori – il voto si
trasformò sostanzialmente in un referendum circa la riunificazione della Germania e
i cittadini si mostrarono a favore dell’annessione al governo di Bonn. Il 3 ottobre
1990, in meno di un anno dalla caduta del muro, i tedeschi poterono festeggiare la
rinascita di una Germania unita.