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Imbruglia
Imbruglia
Come si sviluppò l’intreccio tra progetti ideali e volontà politica di trasformare la realtà?
L’intreccio di Moro con Machiavelli, di realismo politico e progetto ideale, a prima vista un
paradosso, sta al fondo di tutta la riflessione utopista: lo troviamo in Campanella, Harrington,
Spinoza, Rousseau, lì dove l’utopista ha seriamente pensato di trasformare la realtà. Per
rispondere a questa domanda, occorre considerare come la politica abbia a sua volta influenzato
l’utopismo. La fine dell’assetto politico del Medio Evo dominato dal rapporto tra papato e impero, la
nascita dei nuovi stati nazionali (e regionali, in Italia), la scoperta dei nuovi mondi extra-europei,
l’espansione coloniale determinarono il sorgere di paure e speranze nuove. Il millenarismo nel
corso del ‘500 si indebolì e i conflitti religiosi e politici tra i vari stati europei spinsero a trovare
soluzioni non universali ma nelle strutture nazionali. Fu in questo contesto che si pensò a come
poter garantire felicità e sicurezza ai cittadini. Poi nel ‘600, con le rivoluzioni inglesi e con la cupa
fine del regno di Luigi XIV cominciò a emergere, in particolare con Spinoza e Locke, una nuova
riflessione sulla libertà e sulle sue forme. Fu dunque non nel fantastico pensiero di un intellettuale
isolato, ma nel contatto diretto e drammatico con la politica che si è sviluppato l’utopismo: e del
resto basta pensare alle vite tragiche di Savonarola e Campanella, di Moro e Babeuf per avere la
percezione di questo nesso.
Quali caratteri assunse, nell’umanesimo, l’utopia?
Possiamo ben dire che il pensiero utopista sia nato con l’Umanesimo, perché Moro fu amico di
Erasmo e di altri esponenti dell’umanesimo del Nord. La sua Utopia esprime con vigore i caratteri
della rivoluzione rinascimentale. La società utopista è il capovolgimento del mondo attuale, così
come Erasmo nell’Elogio della follia aveva capovolto il cristianesimo dominante per farne risaltare
l’autentica verità. L’Utopia esprime i valori morali dell’umanesimo e li mette in azione nella vita
sociale: le leggi e la comunità dei beni tengono a freno l’aggressività umana e trasformano gli
individui in cittadini buoni e felici, laboriosi, e dediti al bene comune; i magistrati sono onesti; il
Senato amministra con equità e dirige le funzioni governative ispirato soltanto dal principio del
bene pubblico. Il cemento della vita sociale sta nella religione civile che anima la vita pubblica;
ciascun cittadino ha il culto suo proprio, che può essere monoteista o politeista. La società era
tollerante ma la maggior parte degli utopiani condivideva il monoteismo della religione naturale,
molto vicino al cristianesimo. Tuttavia Raffaele Itlodeo, il protagonista della narrazione di Utopia,
che avrebbe potuto evangelizzare gli utopiani, portava con sé molti libri di storici e filosofi greci ma,
cosa singolare!, non aveva la Bibbia. La società ideale del primo rinascimento è dunque una
comunità che si basa su norme razionali pensate da un uomo e rispettose della natura, tramandate
senza alterazione da tempo immemoriale. Accanto a questo modello nella cultura cinquecentesca
comparve anche un’altra immagine di utopia la cui perfetta descrizione si legge nei Saggi di
Montaigne: è la società di natura, la società selvaggia che viaggiatori e missionari avevano visto
nell’America del sud. Una società ideale, perché gli uomini vi erano buoni e felici per natura e non
per le leggi. Entrambe queste società rappresentavano l’impensabile: entrambe non trovavano
spazio nella Politica di Aristotele e chiedevano di essere pensate con nuove categorie. Il pensiero
utopista rinascimentale riuscì in tal modo sia a difendere l’identità profonda della cultura europea,
che stava nella razionalità, sia a sottolineare l’alterità che il progetto dell’utopia aveva nei confronti
dell’ordine esistente.
Come si evolve nel Seicento l’utopismo?
Due furono le trasformazioni più rilevanti del discorso utopista nel ‘600. La prima consiste nella
rinuncia alla localizzazione geografica fantastica dell’utopia, e nel suo radicamento nel tempo
storico. Questo passaggio è testimoniato dalla Città del Sole, che Campanella colloca in un’isola
dell’oceano indiano, ma che è al tempo stesso espressione del suo millenarismo e della sua
credenza nell’astrologia. Ma se in Campanella, lettore di Moro e di Machiavelli, l’utopia ha ancora il
tono della profezia, nel XVII secolo questo aspetto si perde. Il tempo in cui si pensa l’utopia non è il
futuro, ma il presente della Ginevra di Calvino, dell’Inghilterra di Cromwell, dell’America dei puritani
o delle missioni gesuitiche, tutti luoghi nei quali l’utopia è stata costruita ed è in atto. L’altra
trasformazione consiste nel fatto che l’utopia ha una più precisa cornice istituzionale. Tutte quelle
realtà ancora si reggono sulla religione, che ne costituisce il fondamento ideologico e la struttura
politica, ma il problema della sovranità affiora: sono variazioni della teocrazia biblica. Ritenuto
l’esempio di Roma impossibile nel mondo cristiano, il modello teocratico nella sua forma
repubblicana divenne il sistema politico ideale che parve assicurare la stabilità sociale secondo le
regole della tradizione apostolica. Ma la sua forza durò il tempo della vampata dell’entusiasmo
della sua formazione; poi nella seconda metà del ‘600 ci si chiese se la fondazione religiosa della
politica invece di creare libertà non producesse fanatismo e violenza. Sia Spinoza sia Locke
criticarono questo modello. Attraverso queste due trasformazioni l’utopia cominciò a interrogarsi
sul problema della sovranità politica sul quale aveva taciuto.
Montesquieu aveva indicato le condizioni alle quali si sarebbe potuta realizzare la società ideale.
Ma quando e come? L’utopia divenne la speranza del futuro. Nell’età dell’illuminismo l’opinione
pubblica giudicò dispotico e corrotto il governo assolutista e le due vie per uscire dalla crisi furono
le riforme e l’utopia. In questa nuova articolazione della vita politica l’utopia era l’enjeu della
rivoluzione. Rousseau, Helvétius, Morelly pensarono il progetto utopistico in vari modi, ma gli
illuministi, con l’eccezione di Diderot, non credettero possibile realizzarlo. L’illuminismo pensò
l’utopia, non la rivoluzione.
In che modo la condanna a morte di Babeuf segna la fine della parabola dell’utopia
politica moderna?
Adesso, dopo la seconda guerra mondiale e la crisi di entrambe queste ideologie, pensare di
nuovo l’utopia fa tornare attuale la storia di quell’esperienza.