Sei sulla pagina 1di 87

Letterature Nordiche 1

Prof.ssa Anna Wegener - Appunti delle lezioni a.a. 2021/2022

25.10.21
Programma didattico:
● Le radici della letteratura scandinava;
● La saga di Njáll (1270-1290);
● Il Medioevo cristiano e il Rinascimento;
● Memorie dalla Torre Blu di Leonora Christina Ulfeldt;
● Il Settecento;
● Le fiabe di H. C. Andersen;
● La breccia moderna (“Det moderne gjennombrudd”);
● Casa di bambola (1879) di Henrik Ibsen;
● Spettri (1881) di Henrik Ibsen;
● La contessina Julie (1888) di August Strindberg;
● “Karens Jul” (1885) di Amalie Skram;
● Lungo la strada (1886) di Herman Bang;
● Niels Lyhne (1880) di J. P. Jacobsen ;
● Fame (1890) di Knut Hamsun ;
● L’imperatore di Portugallia (1914) di Selma Lagerlöf;
‹‹I due termini (e i rispettivi aggettivi “scandinavo” e “nordico”) coincidono e si sovrappongono solo
in parte. La Scandinavia (n. Skandinavia) è “il Nord” (n./s./d. Norden), ma non tutto il Nord è
incluso nella Scandinavia propriamente detta. Nel suo significato più ristretto, la Scandinavia è una
penisola percorsa da nord a sud da una dorsale alpina che da sempre divide la popolazione
norvegese, a ovest, dalla svedese a est. Ma la “Skandinavia” va normalmente intesa oltre questo
primo significato strettamente geografico, ed include la Danimarca sulla base della forte parentela
sul piano della lingua, dell’organizzazione sociale e di tutta la cultura materiale e spirituale – che
almeno dall’epoca vichinga ha legato questi tre paesi (il che non esclude una serie di differenze e
sfasamenti tra loro: sono strettamente legati ma non identici.) Agli eventi storici dell’epoca vichinga
e del medioevo cristiano, come vedremo, risale l’ingresso di Islanda e Finlandia in questa specifica
sfera di influenza scandinava. […] Definiamo allora come “Nord” tutta quest’area geografica e
culturale allargata, che ha al suo centro la Scandinavia, ma che va oltre la Scandinavia
propriamente detta.›› (M. Ciaravolo, dalla dispensa, p. 1)
‹‹[…] Ma poiché in quest’area geografica vanno incluse anche Svezia e Norvegia, per affinità sia
geografiche che di lingua, anche di queste ricorderò, come per la Danimarca, le regioni in cui sono
suddivise e il loro clima.›› (Saxo Grammaticus, dal Prologo, p. 14)
Studieremo anche la genesi, la provenienza delle letterature nordiche, e questa genesi ha luogo
non in area scandinava, quanto in area nordica. Per quanto riguarda la poesia scaldica, la
conosciamo soprattutto dai manoscritti islandesi, ma non sappiamo dove essa sia esattamente
nata (può essere nata in Norvegia, ma anche in Islanda).
Studiamo soprattutto testi scritti in danese, svedese e norvegese, e questo significa che la nostra
definizione di storia letteraria è principalmente una definizione linguistica. Tuttavia, la “letteratura
scandinava” possiamo definirla anche in altro modo, e questo perché fissarsi sul criterio linguistico

1
che definisce una letteratura può risultare controproducente: ci sono anche fattori di ordine
geografico, culturale, sociale ecc. di cui bisogna assolutamente tener conto per riuscire a lavorare
con la letteratura. Un altro esempio, in letteratura scandinava, può essere quello molto comune di
uno scrittore o una scrittrice scandinava, nato/a in un contesto x, che scrive in una lingua che non
è la sua, o perlomeno non la sua lingua materna (in ambito scandinavo può essere il tedesco,
l’inglese); oppure, si potrebbe parlare di un o una autore/autrice che vive in Scandinavia ma che
non è scandinavo/a.
‹‹Alcuni esempi mostreranno i problemi e allo stesso tempo riveleranno che in pratica esiste una
tradizione storica letteraria per le definizioni miste. Gesta Danorum di Saxo viene considerata
letteratura danese, sebbene sia scritta in latino. Ibsen è considerato un autore norvegese, sebbene
abbia scritto in danese. Holberg è considerato un autore danese, nonostante fosse norvegese. Ci
sono anche sfumature all’interno della singola definizione. “Lingua danese” può ad es. significare
scritto originariamente in danese o tradotto in danese. C’è una tradizione del primo significato, ma
non viene sempre rispettato, ad es. Hexaëmeron di Anders Arrebo è considerato letteratura
danese, sebbene sia una traduzione. Si potrebbe andare avanti. Gli esempi mostrano quanto sia
difficile essere coerenti. Tuttavia, manterrò la definizione principale che la letteratura danese è
letteratura scritta in lingua danese.›› (Pil Dahlerup, 2004, Om litteraturhistorie)
Anche in questo brano di articolo, la studiosa Pil Dahlerup imposta la sua ricerca e la sua analisi
letteraria utilizzando come criterio la lingua in cui è scritta una data opera o un dato testo. Però,
dobbiamo sempre comunque ricordarci che una realtà di tipo letterario è sempre più complessa,
così come se ne rende conto anche la Dahlerup ("in pratica esiste una tradizione storica letteraria
per le definizioni miste”).
I testi scelti per il corso fanno parte di quello che sarebbe il “canone” letterario scandinavo. Il
‘Canone’, propriamente detto, concerne quelle opere fondamentali per una cultura; si tratta però di
un’entità che non è immutabile, cambia nel tempo, perché il nostro stesso modo di vedere il mondo
cambia nel tempo. Un esempio è il femminismo del anni Sessanta-Settanta, movimento grazie al
quale abbiamo scoperto tantissime scrittrici che prima avevamo dimenticato o messo da parte, ma
che adesso fanno invece parte del canone. Quindi, il canone è anche un riflesso di noi stessi, dei
nostri valori. Nel concreto, ad es., Virginia Woolf è un esempio di scrittrice che, fino all’avvento del
femminismo, veniva considerata una scrittrice minore; l’autrice è stata poi riscoperta, insieme alla
sua enorme produzione, così come è stata riconsiderata come una degli autori modernisti più
importanti. Fra le sue opere, ritroviamo A Room of One’s Own, del 1928, un classico della
letteratura femminista, in cui la Woolf scriveva che il canone letterario si basa sui valori più o meno
espliciti:
‹‹[…] It is obvious that the values of women differ very often from the values which have been
made by the other sex; naturally, this is so. Yet it is the masculine values that prevail. Speaking
crudely, football and sport are “important”; the worship of fashion, the buying of clothes “trivial”. And
these values are inevitably transferred from life to fiction. This is an important book, the critic
assumes, because it deals with war. This is an insignificant book because it deals with the feelings
of women in a drawing room. A scene from a battlefield is more important than a scene in a shop –
everywhere and much more subtly the difference of value persists.›› (Virginia Woolf, 1928, A Room
of One’s Own)
Con questo spezzone dal saggio della Woolf, si deduce che il canone non è qualcosa di
esattamente oggettivo, ma cambia da generazione a generazione, nel tempo, è instabile. Ciò
nonostante, ad es., si può immaginare la letteratura italiana senza Dante? Chiaramente no.

2
Questo perché ci sono alcuni autori che non possono essere lasciati fuori dal canone. Per citare
nuovamente Pil Dahlerup:
‹‹[…] La mia visione del canone è la seguente: alcuni scrittori sono incondizionatamente grandi,
proprio come le Alpi e l’Oceano Pacifico sono incondizionatamente grandi. Non puoi ignorarli, H.
C. Andersen, ad es. […] La scelta degli “scrittori intermedi” in un canone è spesso condizionata da
una serie di condizioni storiche o ideologiche. È tra l’altro il compito degli storici della letteratura di
indicare eventuali squilibri del canone.›› (Pil Dahlerup, 2004, Om litteraturhistorie)
In questo corso, in teoria, dovremmo leggere i testi non in lingua originale ma in traduzione
(italiana o inglese). Cosa significa leggere un testo in traduzione? Rispondiamo a questa domanda
basandoci sulle elaborazioni di due teorici: David Damrosch con Reading in Translation e
Lawrence Venuti con How to read a Translation. Quest’ultimo è un traduttore molto conosciuto,
soprattutto per le sue idee su ciò che lui chiama “invisibilità del traduttore”, quel principio per cui è
come se il lettore non dovesse poter capire che il testo che sta leggendo sia una traduzione, come
se il traduttore si nascondesse, appunto:
‹‹Publishers, copy editors, reviewers have all trained us, in effect, to value translations with the
utmost fluency, an easy readability that makes them appear untranslated, given the illusionary
impression that we are reading the original. We typically become aware of the translation only
when we run across a bump on its surface, an unfamiliar word, an error in usage, a confused
meaning that may seem unintentionally comical.›› (Lawrence Venuti, 2006, How to Read a
Translation, p. 1)
Questa pretesa di Venuti è negativa, sia per il rischio di non prendere sul serio il lavoro del
traduttore, che dovrebbe così nascondersi dietro al testo a cui lavora, e anche perché in quel modo
non c’è un vero scambio culturale. Per Venuti, la prassi di tradurre (lui parla soprattutto della
situazione degli U.S.A. e dell’U.K.) va impostata in modo etnocentrico.
Parlando di David Damrosch, invece, lui è autore del volume What Is World Literature. “World
Literature” è un concetto che proviene da Goethe (Weltliteratur) che oggi si è sviluppato in un
concetto critico che ha a che fare con la globalizzazione, la quale ha chiaramente sia effetti
negativi che effetti positivi. Uno degli effetti positivi potrebbe essere che noi abbiamo a
disposizione testi da tutto il mondo che vengono tradotti, ai quali chiunque può perciò accedere:
così, ad es., un italiano può leggere nella sua lingua poesie della letteratura cinese.
‹‹[…] I take world literature to encompass all literary works that circulate beyond their culture of
origin, either in translation or in their original language (Virgil was long read in Latin in Europe). In
its most expansive sense, world literature could include any work that has ever reached beyond its
home base, but Guillén’s cautionary focus on actual readers makes good sense: a work has an
effective life as world literature whenever and wherever it is actively present within a literary system
beyond that of its original culture.›› (David Damrosch, What Is World Literature?, p. 4)
Questa letteratura scandinava che noi leggiamo in lingua italiana è in realtà per noi letteratura
mondiale, perché arrivata nel nostro paese non facendo parte del nostro sistema letterario italiano,
ma ha viaggiato grazie alla sua traduzione. Ad es., l’opera di Ibsen non sarebbe diventata così
famosa senza la sua traduzione in lingua tedesca. Quindi, secondo il concetto di World Literature,
la traduzione è importante, perché senza di essa la letteratura non può viaggiare:
‹‹[The] importance of translation is even more pronounced for works in lesser widely spoken
languages. Without translation, the novelist Orhan Pamuk would be unknown outside his native
Turkey; thanks to translations, his haunting novel Kar can be found in the Mexico City airport under

3
the title Nieve, bought in Berlin bookshops as Schnee, and ordered from Amazon.com in its
English version, Snow.›› (David Damrosch, Reading in Translation, p. 83)
Anche per tornare a quanto dicevamo prima, sul discorso della definizione della letteratura
scandinava, possiamo utilizzare questo tipo di criterio, della traduzione. Ad es., la scrittrice danese
Karen Michaelis, era cosciente che la sua opera non avrebbe tanto circolato in danese, perciò la
ha redatta anche in tedesco.
Nonostante tutto, sia Venuti che Damrosch vogliono focalizzarsi sugli aspetti positivi della
traduzione; infatti, Damrosch parla di un “guadagno”, a gain in translation:
‹‹[…] This chapter will discuss the potentials and pitfalls of translation, outlining issues we should
be aware of as we read translated works. By attending to the choices, a translator has made, we
can better appreciate the results and correct for the translator’s biases. When it is read intelligently,
an excellent translation can be seen as an expansive transformation of the original, a concrete
manifestation of cultural exchange, and a new stage in a work’s life as it moves from its first home
out into the world.›› (David Damrosch, Reading in Translation, p. 84)
‹‹[…] the greater freedom of translation gives current English language readers a real advantage
over readers of the original in understanding Voltaire’s meaning.›› (David Damrosch, Reading in
Translation, p. 92)
Damrosch avanza anche l’idea dell’utilità di servirsi di più di una sola traduzione (lui parla proprio
di “comparing translations”). Damrosch fa l’esempio di quattro traduzione di Candide in inglese
(una del 1759, una del periodo vittoriano, una del 1991 e una del 1998), e scrive:
‹‹[…] If a comparison across versions can reveal significant patterns of difference among
translations, the use of two or three translations can also aid us in getting a better sense of the
original work. Even if we cannot read the source language ourselves, we can use translations to
triangulate our way toward a better sense of the original than any one version can give us just on
its own.›› (David Damrosch, Reading in Translation, p. 92)
Facciamo un esempio pratico, con la saga di Njáll:
Da sagde Mård til sin datter: "Sig mig nu alt hvad der er i vejen mellem Eder, og nær ingen
angst for at sige det!". "Så får det da være," sagde hun og fortalte ham om hele deres
misforhold, og tilstod ham, hvorledes Hrut og hun ikke kunne have ægteskabelig omgang
med hinanden, hvilket vist måtte være ham påført ved trolddom; hun ønskede derfor at
skilles fra ham." (Traduzione danese di N. M. Petersen, metà dell’Ottocento)
Italiano: “che Hrut e lei non riuscivano ad avere rapporti coniugali l’uno con l’altra, cosa che doveva
essergli stata inflitta tramite stregoneria; voleva quindi divorziare da lui.”
„Hvad skal det betyde?" spørger Mård. "Prøv at være lidt tydeligere. "Hun svarer: "Når han
nærmer sig mig, er hans lem så stort, at han ikke kan stille sig begær med mig, selvom vi
begge to på alle måder har lyst til at være sammen med hinanden. Men det kan ikke lade
sig gøre. Men inden vi skilles, viser han dog selv, at han fra naturens side er fuldstændig
som andre er mænd." (Traduzione danese di Kim Lembek, 2017)
Italiano: “Quando si avvicina a me, il suo pene è così grande che non può soddisfare il suo
desiderio con me, anche se abbiamo tutti e due voglia di stare assieme. Tuttavia non è possibile.
Ma prima che ci separiamo, mostra comunque di essere dal lato della natura esattamente come
altri uomini”.

4
La traduzione dell’Ottocento omette il vero motivo sessuale per cui Hrut non riesce a soddisfare
sua moglie. Inoltre, aggiunge un’altra spiegazione dei motivi per i loro problemi coniugali, cioè che
Hrut sia sotto l’influsso di una stregoneria.
I punti da estrapolare da questi articoli per il nostro lavoro sulla traduzione sono:
⮚ Bisogna essere consapevoli che stiamo leggendo una traduzione e non il testo originale.
una traduzione è l’opera di un traduttore che ha lavorato in un determinato contesto
culturale e sociale; Damrosch dice “it soon becomes apparent that the translator’s choices
are at once linguistic and social”;
⮚ Se non riusciamo a leggere il testo letterario in lingua originale sarebbe utile fare un
confronto fra le diverse traduzioni, sia per capire meglio il testo originale, sia per mettere in
luce le scelte dei diversi traduttori;
⮚ È meglio leggere una traduzione più recente che una storica, anche se Damrosch dimostra
nella propria analisi sulle traduzioni inglesi di Candide che “older versions can often be
helpful in correcting the errors or excesses of more recent translators”.
Alcuni dei testi che studieremo sono testi tradotti indirettamente. Ad esempio, il romanzo Fame di
Knut Hamsun è opera di un traduttore molto famoso, Ervin Pocar, che lavorava con il tedesco
come lingua di partenza (e non il norvegese, in questo caso).
In più, Lawrence Venuti fa un elenco di cinque regole per leggere una traduzione:
1. Non leggere solo per il significato, ma anche per il linguaggio; apprezzare le
caratteristiche formali della traduzione.
2. Non aspettarti traduzioni scritte solo nell'attuale dialetto standard; essere aperti alla
variazione linguistica.
3. Non trascurare connotazioni e riferimenti culturali; leggili come un altro livello pertinente
di significato.
4. Non saltare un saggio introduttivo scritto da un traduttore; leggilo prima, come
enunciato dell'interpretazione che guida la traduzione e contribuisce a ciò che è unico in
essa.
5. Non prendere una traduzione come rappresentativa di un'intera letteratura straniera;
confrontalo con le traduzioni di altre opere della stessa lingua.
C’è un altro punto che dobbiamo far risaltare, e stavolta torniamo al discorso sul canone. Bisogna
essere coscienti che, ad es., il canone italiano di letteratura scandinava non è identico a quello dei
paesi scandinavi. C’è ad esempio una traduzione di Kongens Fald di Johannes V. Jensen, “La
caduta del re”, che viene considerato il più bel romanzo mai scritto in danese. Tuttavia, il libro, del
1901, è stato tradotto in italiano solamente nel 2019. Quindi, non c’è una vera e propria
sovrapposizione dei diversi canoni, ma possono essere sfaldati tra di loro.

26.10.21
Risalendo alle origini delle letterature nordiche, dobbiamo anche introdurre la lingua in cui le prime
opere in Scandinavia venivano “redatte”, e questa lingua è il cosiddetto “Urnordisk”, in italiano
Proto-nordico o Proto-norreno, precedente al norreno. L’Urnordisk è la fase linguistica delle lingue
scandinave nel lasso temporale che va dal 200 al 500 d.C., ed è la lingua scritta che reperiamo

5
dalle iscrizioni runiche tra il 200 e il 700 d.C. Queste iscrizioni runiche sono monumenti letterari più
antichi delle iscrizioni in lingua germanica, e sono espressi nel comune alfabeto runico germanico,
chiamato anche fuþark o futhark (dalle prime sei “lettere” dell’alfabeto).
Alcuni studiosi hanno affermato che si possono identificare delle somiglianze tra il futhark e il
comune alfabeto latino che è sopravvissuto sino ai giorni nostri. Ad esempio, Anders Winroth dice,
per sottolineare le similitudini tra l’alfabeto runico e quello latino:
‹‹Even a quick glance at the futhark (the runic alphabet) suggests that it derives from
Mediterranean scripts, most likely the Latin script that Westerners still use today. The first rune in
the futhark stands for the sound [f]. it clearly derives from a capital F; the two cross strokes have
simply been turned diagonally, suggesting that the runes were originally designed to be inscribed in
wood where it is hard to cut straight lines across the grain.›› (A. Winroth, p. 216)
Un altro studioso che si è occupato di Urnordisk è Lars Vikør, linguista scandinavista. Nel suo The
Nordic Languages Vikør scrive:
‹‹Fragments of this language are known to us through a number of inscriptions in the runic
alphabet, and from them we see that it was a synthetic language, i.e. a language with a highly
developed inflectional morphology – like all ancient Indo-European languages. It also seems that
the language was remarkably uniform throughout the vast – and very sparsely populated – area
where it was spoken and written (although this impression may be false, due to the paucity of
surviving texts.).›› (Lars Vikør, The Nordic Languages, p. 30)
Le iscrizioni più famose in futhark antico sono riportate su due corni d’oro, risalenti all’anno 400.
Questi corni ci interessano in questo contesto di letterature nordiche perché una delle poesie più
famose della letteratura danese romantica, ma anche quella norvegese, del 1802 si chiama
appunto I corni d’oro, di Adam Gottlob Oehlenschläger. Questa poesia dà anche il via allo
svilupparsi dell’interesse nel XIX secolo verso il passato nazionale nei paesi scandinavi. Inoltre, la
poesia di Oehlenschläger non è un caso a sé stante, chiaramente; la letteratura scandinava tra
Settecento e Ottocento è piena di riferimenti alla mitologia norrena; ad esempio, ci sono tanti
riferimenti al testo conosciuto con il titolo di La profezia della veggente. La Völuspá (ita. La profezia
della veggente), come scrive Helga Kress in “What a Woman Speaks”, è stato tradizionalmente
interpretato come un poema sull’apocalisse nella cultura pagana – o sulla fine del mondo
genericamente. Tuttavia, ricopre anche un tipo di storia un po’ specifica che, in modo interessante,
è raccontata con la stessa struttura del mito della völva (= donna saggia, veggente) in altre storie:
quella dell’apocalisse della cultura pagana femminile. Ciò che la Kress intende dire è che con
l’introduzione del Cristianesimo le veggenti persero lentamente la loro funzione nella cultura e
società nordica. Nel Medioevo la parola danese per veggente, vølve, significava strega. I loro
rituali erano ormai ritenuti magie pericolose e dannose. Cosa facevano le völur? Questo
personaggio è una figura anche “storica”, se vogliamo, aveva un posto nel mondo nordico
pre-medievale. Il concetto di völva, così come quello di seid (= magia) si ritrova sin dalle saghe
islandesi, e la sua esistenza è anche stata confermata dai ritrovamenti archeologici. Specialmente
le tombe femminili, ma anche alcune maschili, contenevano oggetti inusuali e strani, non
prettamente tipici delle sepolture vichinghe. La seid era una tecnica estatica che permetteva
all’anima di viaggiare attraverso altri mondi alla ricerca di informazioni. Questa pratica è legata allo
sciamanismo, durante la quale chi esercitava la seid si trovava in una trance. La veggente
praticava la seid per sé stessa e per gli altri, da sola o con l’aiuto di assistenti. Le veggenti
avevano uno status molto alto nella società del tempo, erano trattate con grande rispetto nel
momento in cui si trovavano ad aiutare chi ne aveva bisogno. Nella Saga di Erik il Rosso è
descritta una veggente che pratica la seid in favore di un intero insediamento, accompagnata da

6
un entourage di giovani donne – le sue assistenti. Queste cantano e invocano gli spiriti con cui la
veggente deve entrare in contatto.
Come tutte le lingue dell’inizio dei tempi, anche l’Urnordisk, col passare dei secoli, comincia ad
essere soggetto a dei peculiari cambiamenti. Questi cambiamenti avvengono nel cosiddetto
periodo della sincope, 500-600 d.C. Il nome del periodo viene dal nome del fenomeno che lo
contraddistingue, la sincope, secondo il quale scompaiono suoni o sillabe all’interno di parole, che
diventano così più brevi.

Es.
Urnordisk AnulaibaR HarjawaldaR
Norreno Óláfr Haraldr
Lingue scandinave Olav/Olov/Ole Harald
moderne

Anche in questo caso, lingua e letteratura vanno in un certo senso di pari passo. C’è un forte
legame tra questi cambiamenti linguistici e un evento che viene narrato sia nell’Edda in prosa che
nell’Edda poetica; stiamo trattando del Fimbulvetr o Fimbulvinter, uno dei segni, secondo la
mitologia norrena, che annunciano la venuta del Ragnarǫk, ossia la fine del mondo. La parola in sé
significa “terribile inverno”, e indica una lunga e rigidissima stagione fredda al termine della quale
avviene la destabilizzazione di tutti i rapporti sociali e la fine del mondo. Il Fimbulvetr, in realtà,
sarebbe stato provocato da un’eruzione vulcanica o all’arrivo di un meteorite abbattutosi sulla
terra, alzando così un polverone che avrebbe oscurato il sole per tre anni. L’interpretazione di
questo evento secondo il canone mitologico delle popolazioni nordiche del tempo è che dietro a
tutto ciò ci sarebbe in verità stato Fenrir, che avrebbe inghiottito il sole. Il cambiamento linguistico
entra in contatto con la vicenda nel momento in cui le popolazioni che soffrivano questo repentino
e durissimo cambiamento climatico cercarono di spostarsi verso territori meno ostili per carenza di
risorse primarie.
Sappiamo inoltre che, avvicinandosi all’epoca vichinga (c. 800-1050), l’Urnordisk inizia a cambiare
drasticamente carattere. È in questo periodo, che comincia con l’attacco da parte dei vichinghi al
monastero di Lindisfarne (793) e finisce con la perdita del controllo dell’Inghilterra da parte dei
danesi e con l’introduzione del Cristianesimo (in Islanda dal 1000), che nascono due rami delle
lingue nordiche: lingue nordiche occidentali (Vestnordisk) e orientali (Østnordisk). Ne parla Vikør,
che scrive al riguardo:
‹‹Although the origin of Ancient Scandinavian (URNORDISK) is uncertain, we have a clearer
picture of how this stage ended. We know that the language underwent a drastic upheaval (=
sconvolgimento) during the sixth and seventh century (THE SYNCOPE PERIOD), affecting all its
dialects and resulting in a new stage which we now call Old Scandinavian. This Old Scandinavian
was still relative uniform, but a split between different varieties was already apparent. Language
historians speak of two branches: West Scandinavian and East Scandinavian.›› (Lars Vikør, The
Nordic Languages, p. 31)
Lo stesso Vikør, però, ci tiene a fare una puntualizzazione; non è che si trattasse di lingue
incomprensibili tra di loro, esisteva ancora un continuum dialettale. Non a caso, Vikør sottolinea
che “i parlanti di queste lingua non facevano poi tanta distinzione: il famoso storico islandese
Snorri Sturluson (1179-1241) includeva la totalità del Germanico Settentrionale sotto il
termine-ombrello ‘lingua danese’”. A proposito di Snorri Sturluson, è bene ricordare che egli fu

7
l’autore dell’Edda in prosa (redatta presumibilmente intorno all’anno 1220), un manuale per poeti
composto nel XIII secolo. Composta da tre parti, la parte più importante per noi studiosi di
letteratura è la “Gylfaginnig”, che riguarda la mitologia norrena. Snorri compose l’Edda in prosa
con lo scopo di scrivere una sorta di ars poetica, una sorta di formulario per la composizione della
poesia scaldica. Questo tipo di poesia, per noi studiosi dell’età contemporanea, o comunque del
XXI secolo, può risultare a tratti oscura, sia per il lessico che per le costruzioni artistiche applicate
durante la composizione. Di questa difficoltà ha scritto anche lo studioso Robert Kellogg, il quale ci
fa vedere nel suo testo come mai sia così difficile per noi capire la poesia scaldica. Prendiamo un
esempio dall’Edda poetica:
Si pasce della vita d’uomini prossimi alla morte,
Arrossa le case degli dèi di sangue vermiglio;
S’estingue la luce del sole sulle prossime estati,
La natura tutta è nemica. E voi, riuscite a seguire?
(strofa 41)

Da questo esempio si evince subito che i termini sono più astratti rispetto a quelli utilizzati in una
lirica più tarda, sostanzialmente; inoltre, ritroviamo qua riferimenti ad una imminente catastrofe
naturale che preannuncia l’arrivo della fine del mondo.
Abbiamo già detto che, dell’Edda in prosa, la Gylfaginning è la parte centrale, quella più
importante, se trattiamo di mitologia norrena e nordica. Questa sezione del testo provvede a
fornire al lettore informazioni sull’universo che dà forma a tale mitologia, alla sua cosmogonia e
alle leggi di funzionamento di quel mondo, per cui l’Edda in prosa è un’ottima guida, anche
indiziaria di come pensavano, riflettevano e immaginavano le popolazioni nordiche del Medioevo
(Snorri, poi, cita anche uno dei testi che abbiamo menzionato prima, La profezia della veggente).
Tornando al nostro discorso di tipo linguistico-descrittivo, è nell’epoca vichinga che le lingue
scandinave iniziano a viaggiare, grazie ai lunghi viaggi che i vichinghi compievano. È durante
l’epoca vichinga che si sviluppa la lingua nordica della letteratura medioevale, la lingua che
suggerisce il legame linguistico tra le popolazioni “norvegesi”, “islandesi” e “feroesi”, essendo

all’origine dello sviluppo delle lingue nordiche moderne occidentali: la lingua norrena, usata dagli
abitanti della Scandinavia e delle loro colonie oltremare (Islanda, Isole Faroe ecc.) durante tutta
l’era vichinga. La lingua norrena – norrønt språk (Old Norse o Old West Norse) – è la lingua che si
parlava in Norvegia, Islanda, Isole Faroe e nelle altre colonie norvegesi. Piccolo appunto: anche se
parliamo di ‘colonie’, l’Islanda non era una colonia, ma una libera repubblica, e tornò in possesso
della Norvegia solo nel 1262.

8
Dell’epoca vichinga abbiamo come reperto scritto, fra i vari esempi, l’iscrizione runica di Halvdan (o
Halftan) ➞ scoperta nel 1964 su un parapetto all’ultimo piano della galleria sud nella basilica di
Santa Sofia, ad Istanbul; sulla pietra, l’autore dell’iscrizione ha inciso il suo nome, oltre ad altre
stringhe di testo che non siamo ancora in grado di decifrare; Winroth parla dell’iscrizione, e dice
che “Halvdan era in grado di leggere e scrivere il caratteristico sistema di scritture altomedievali del
nord Europa che chiamiamo rune scandinave. Questo era uno sviluppo delle scritture alfabetiche
mediterranee che erano state adattate per essere incise soprattutto nel legno ma anche nella
pietra. Migliaia di iscrizioni runiche sono state conservate in tutta la Scandinavia, soprattutto sulle
migliaia di pietre incise che punteggiano la campagna nordica”.
L’iscrizione di Halvdan è un’iscrizione sulla pietra, ma in realtà, le rune venivano usate soprattutto
su oggetti di legno, anche per messaggi che sono più prosaici. Winroth nomina un tesoro
archeologico che è localizzato a Bergen, dove sono stati ritrovati nel sito di Bryggen (Bergen)
tantissimi piccoli oggetti di legno su cui sono iscritte rune usate per trascrivere messaggi come
Unn þú mér, ann ek þPr, Gunnhildr! Kyss mik, kann ek þik!, ‘Amami, io ti amo, Gunnhild!, Baciami,
io ti conosco (bene)!’.
Se sugli oggetti di legno i messaggi codificati con il fuþark sono di genere anche amoroso, o
perlomeno confidenziale, personale, sulle iscrizioni in pietra, invece, assumono un carattere
assertivo, come per un monumento, per capirci, in ricordo di un morto, ad esempio. Le funzioni che
potevano assumere le iscrizioni runiche su pietra potevano essere la commemorazione di un
defunto, di un evento storico come una guerra, del trasferimento di un’eredità o addirittura la
performance per iscritto di maledizioni; ciò che ci interessa da un punto di vista di genesi letteraria
è che queste iscrizioni potevano anche contenere tracce di poesia scaldica.
La conoscenza delle rune è sopravvissuta per molto tempo anche in seguito alla caduta in disuso
del fuþark, mantenendosi attiva in qualche modo in Svezia. Sottolinea Winroth che nel 1898 un
immigrato svedese di nome Olof Ohman, negli Stati Uniti, trovò una pietra runica a Kensington, in
Minnesota. L’iscrizione riportava una descrizione di una battaglia tra i vichinghi e gli indiani
americani. La pietra runica, però, come evidenzia Winroth, non è autentica, ma è molto
probabilmente stata fatta da un amico svedese di Ohman. Questo dimostra come le rune, almeno
per come sono arrivate al giorno d’oggi secondo una data percezione di chi le adopera o le
conosce, non hanno per forza un significato legato alla mitologia norrena, ma sono utilizzate ed
erano utilizzate per gli scopi più vari e diversi; di fatto, si trattava di un sistema alfabetico utilizzato
per comunicare messaggi di un tipo o di un altro, privo perciò di una connotazione che
distinguesse troppo le rune e il loro valore.
Ma chi erano i vichinghi? Di per sé, la parola ‘vichingo’ ha un’etimologia non poco incerta.
Seguendo Winroth, i vichinghi, in realtà, erano più i pirati che l’etimo per indicare una certa
popolazione di una certa area d’Europa o del mondo; si trattava di saccheggiatori, oltre ad essere,
almeno la maggior parte di loro, contadini semplici, che vivevano tranquillamente in Scandinavia o
che oppure erano emigrati per trovare nuova vita altrove. A puntualizzare c’è Heather
O’Donoghue, studiosa inglese, che parla del termine ‘vichingo’, dicendo che “a rigor di termini,
denota bande di predoni di pirati scandinavi, ma poiché un'intera epoca della storia europea è
stata intitolata a loro, il termine è stato applicato vagamente a molti aspetti della cultura del
periodo. Ma la parola non denota nazionalità, e la ‘coloni vichinghi’ è vista da molti storici come
una semplice contraddizione in termini”. Winroth, inoltre, asserisce che:
‹‹Nonetheless, what survives of poetry, representational and decorative art, and stories teaches us
that the Viking Age was not only about raiding, plunder, and warfare. Scandinavians had a sense

9
of beauty and an ear for poetry, and they developed idiosyncratic styles of both art and literature
without any close counterparts in the rest of Europe.›› (A. Winroth, p. 240)
Questo dobbiamo ricordare: per quanto l’epoca vichinga rimanga connotata per le forti
ripercussioni a livello sociale, politico ed economico che ebbero le loro azioni di saccheggio e di
invasione di territori attaccati dai vichinghi, rimane di valore la vena artistica e compositiva che
caratterizzava e caratterizzò in seguito gli abitanti della Scandinavia, conosciuti nel mondo intero
soprattutto per quella fase della storia della letteratura che comprende le saghe, la poesia scaldica
ecc., originata da un passato precedente di pochi secoli di riflessione sulle forme di espressione
orali e scritte che non può non coincidere, almeno in parte, con l’epoca vichinga.
Anche nella Saga di Njáll, più precisamente nel trentesimo capitolo, ritroviamo la parola ‘vichingo’,
che viene applicata secondo due accezioni, ossia per indicare pirati, criminali, oppure anche per
definire in senso più generale persone malvage, “difficili”, non di buon cuore:
«The following summer they [Gunnar and Kollskeg] went to Reval and ran into Vikings there and
quickly fought and defeated them.»
«After that the Vikings begged for peace, and Gunnar granted it.»
Abbiamo detto che le pietre runiche possono contenere tracce di poesia scaldica. Winroth analizza
una pietra runica ritrovata sull’Isola di Öland, sulla parte orientale della Svezia; si tratta della pietra
runica di Karlevi, datata intorno all’anno 1000. L’iscrizione runica in questione riporta un’intera
strofa di una poesia scaldica, composta in una forma metrica chiamata dróttkvætt, una delle forme
metriche più complesse che ci siano, una forma metrica compatta, grazie alla quale si possono
dire molte cose in uno spazio grafico molto limitato, molto utile, quindi, per chi doveva incidere
delle rune. Questo dróttkvætt, in lingua norrena, risulta complesso da comprendere per alcuni
fattori; tuttavia, è molto utile per capire certi principi di funzionamento e di composizione della
poesia scaldica. L’iscrizione riporta:

Folginn liggr, hinn’s ● Otto righe, ciascuna con sei sillabe;


fylgðu, ● Struttura sintattica molto complessa, tipica della poesia scaldica,
(flestr vissi þat) mestar ad esempio: Folginn liggr … i þeimsi haugi (giace … in questo
dæðir, dolga Þruðar tumulo);
draugr i þeimsi haugi: ● Uso di kenningar (= una frase poetica che sostituisce,
munat reið-Viðurr rimpiazzandolo con una perifrasi, il nome di una persona o di una
raðda cosa; il mare nel Beowulf ➞ hronrāde “strada delle balene”; le
rogstarkr i Danmǫrku kenningar contengono spesso riferimenti alla mitologia nordica);
Endils jǫrmungrundar ● Ritmi articolati;
øgrandari landi. ● Estetica degli “Understatements” (ironia), applicati anche con
ironia (riguarda il contenuto, non la forma).
Le kenningar sono forse l’elemento più distintivo della poesia scaldica. Nell’Edda di Snorri sono
conservate queste kenningar, spiegate e illustrate grazie ai miti a cui queste fanno riferimento. In
relazione a come vengono costruite, Robert Kellogg ci dice che consistono di due parti: una che
chiama una cosa con il nome di qualcosa che non è, una sorta di paragone o similitudine, unita a
una seconda parte che modifica la prima in maniera tale da renderla poeticamente appropriata (es.
Heather O’Donoghue fa l’esempio del cammello come “nave del deserto”). Il problema principale
delle kenningar è quello che è definito come “principio della regressione infinita”; lo spiega Heather
O’Donoghue, dicendo che se la frase "cavallo dell'oceano" può denotare "nave", a sua volta "casa
della balena" può denotare "balena". Una kenning per un marinaio potrebbe quindi essere "il

10
girovago del cavallo della casa della balena". Dato il fatto che l'ordine delle parole nelle strofe
scaldiche è solitamente radicalmente interrotto e inoltre, che molte kenningar si basano su
riferimenti mitologici, il significato delle strofe scaldiche è spesso contestato e spesso
semplicemente sfuggente a un pubblico moderno. Il riconoscimento dei significati delle kenningar,
e in generale delle scene di mitologia nordica e cultura letteraria norrena, è stato sicuramente utile
agli studiosi per riuscire a comprendere un’altra parte rilevante delle scritture runiche sulla pietra:
le scene grafiche rappresentate sulle pietre.
Un’altra caratteristica della poesia scaldica sono i ritmi complessi, creati da assonanze,
allitterazioni e altri ritmi interni; un esempio con la pietra runica di Karlevi possono essere le
allitterazioni di Folginn liggr, hinn’s fylgðu, (flestr vissi þat) mestar dæðir, dolga Þruðar draugr […].
Non è invece tipico per la poesia scaldica l’uso delle rime finali.
Ci rendiamo ben conto, perciò, di quanto la poesia scaldica avesse delle convenzioni di scrittura
piuttosto complicate. La studiosa Roberta Frank nel suo New Literary History (2019) lo ammette,
dicendo che “non c’è certezza nei dróttkvæði fino a che l’ultima sillaba non è stata trascritta.
L’attrazione di una grammatica invisibile determina il significato di una strofa, le parole sono spinte
al loro posto, riunite in una struttura logica […] Spesso un pensiero cominciato nella prima riga non
viene completato fino alla quarta”.
La poesia scaldica e la poesia eddica presentano delle differenze tra di loro. La profezia della
veggente, ad esempio, è una poesia eddica, mentre il dróttkvætt è un metro tipico della poesia
scaldica. Ancora una volta, ci viene in aiuto la ricerca di Heather O’Donoghue:
‹‹In brief, Eddaic verse – which takes its name from the medieval anthology in which it is mostly
preserved, the Edda – is stanzaic, alliterative poetry on mythological and heroic subjects. Eddaic
poetry is anonymous and virtually undatable, and concerns itself with the distant past, whether
mythic or legendary, typically framing its material in dramatic, even theatrical monologues or
exchanges: its speakers are gods, or giants, or heroes. Skaldic poetry (some of which is also
mythological in theme) derives its name from the Old Norse word for poet, skáld, and many
stanzas are preserved in narratives which attribute individual strophes to named poets, ninth-,
tenth- and eleventh-century Icelanders and Norwegians who often feature elsewhere in Old
Norse-Icelandic historical and literary traditions.›› (H. O’Donoghue, Old Norse-Icelandic Literature,
p. 62)
Inoltre, Massimiliano Bambi nel volume di Storia delle letterature scandinave, aggiunge sulla
poesia scaldica che il suo contesto di appartenenza sono le corti, l’ambiente regio e dei capi, dove
i poeti scaldi avevano il compito di lodare tutte le gesta dei leader della società del tempo. Anche
Winroth è dello stesso avviso: “Skalds composed for kings and chieftains. Their poetry belongs, in
the first place, to the great halls of northern Europe, where kings and chieftains inspired their
warriors by means of great feasts, with food and mead and recitals of poetry”. La citazione di
Winroth, con la scelta lessicale dei termini che utilizza, ci permette di fare luce anche su un altro
aspetto della poesia scaldica: gli scaldi erano soprattutto uomini, non donne, anche se alcune
poesie scaldiche sono state attribuite per composizione alla mano di donne. Tra queste, abbiamo
un dróttkvætt che è attribuita a una donna, Steinunn Refsdóttir, bibliograficamente contenuta nella
Saga di Njáll. Ne parla Helga Kress:
‹‹The sagas of the Icelanders contain many isolated stanzas attributed to women. In literary history
all these women, with a single exception, have been considered fictious, whereas most of the male
poets who feature in the sagas – Egil, Tormod, Kormak, Hallfred and so on – have been registered
as historical persons. The only female poet thought to have actually existed is Steinunn Refsdóttir,

11
best known as mother of the skald Hofgarða-Refr Gestsson, and it might well be by virtue of this
role that she has attained her status of historical figure .›› (H. Kress, “What a Woman Speaks”, in
The History of Nordic Women’s Literature, 2011)
Sull’Edda poetica, invece scrive Terry Gunnel, che intende puntualizzare di cosa effettivamente si
tratti e quali siano le sue origini:
‹‹It must always be remembered that when scholars refer to eddic poetry, or the Poetic Edda, they
usually mean the contents of a single, fairly insignificant looking medieval manuscript known as the
Codex Regius of the Elder Edda, rather than a genre defined on the basis of a particular school of
authorship or literary style. The manuscript in question, written c . 1270, contains body of 29 poetic
works in Old Norse-Icelandic, 10 dealing with mythological material, and 19 with Scandinavian and
Germanic heroes of ancient times.›› (Terry Gunnel, 2005, “Eddic Poetry”)
Il Codex Regius è un manoscritto estremamente celebre che fu restituito dalla Danimarca
all’Islanda. Prende il nome, infatti, dal suo precedente possessore: il manoscritto era stato in
possesso del re danese, Federico III, che aveva ricevuto il Codex in dono dal vescovo islandese
Brynjólfur Sveinsson nel 1662. È stato, perciò, in territorio danese per un centinaio di anni, finché
nel 1971 non è stato riportato in Islanda, da dove proveniva. L’Edda in prosa, invece:
‹‹Many of the poems in this manuscript [Codex Regius] are quoted in the work of Snorri Sturluson ,
a thirteenth-century Icelandic historian, mythographer, literary critic and saga author. One of
Snorri's works is a three-part ars poetica, which has remained our primary source for Icelandic
mythology and its poetic traditions. This work came to be known as Snorri's Edda because it is so
described in one of its manuscripts [ ... ] The poems of the Codex Regius were believed to be the
ancient source of Snorri's text, and so it happened that two seminal texts in Icelandic literary
tradition share the same name: the Poetic Edda [ ... ] and the Prose Edda, Snorri's treatise which
quotes some of the poems in it.›› (Heather O’Donoghue, Old Norse-Icelandic Literature, p. 67)
Perché si chiama “Edda”? Non ne abbiamo la certezza, ma ci sono diverse proposte di
interpretazione al riguardo. La maggior parte di queste converge nell’affermare che la parola
significhi ‘nonna’, o ancora meglio, come spiega anche Helga Kress, che faccia riferimento a
“women as the carriers of tradition or the old material in the book, coming from
great-grandmother’s day” – ancora una volta, abbiamo un legame tra la composizione letteraria e il
genere femminile. Secondo un’altra interpretazione, il nome “Edda” proverrebbe dalla parola æði
(‘estasi’) e si riferirebbe sia alla trance del poeta nell’atto di scrittura e all’ispirazione che lo
pervade. In ultimo luogo, il nome potrebbe anche originare da óður (‘ode’), significando e
riportando l’opera al campo semantico di ‘poesia’.

27.10.21
All’inizio di questa lezione riprendiamo la Profezia della veggente. Il testo, presente nell’Edda
poetica, riporta una serie di visioni pronunciate dalla völva. La Vǫluspá è giunta a noi conservata in
due manoscritti: il Codex Regius [R] (XIII sec.), testo di origine cristiana che è il manoscritto più
importante della Ljóða Edda, e l'Hauksbók [H] di Hauk Erlendsson (prima metà del XIV secolo). Le
due versioni divergono in alcuni dettagli e nell'organizzazione delle strofe (62 contro 59). In questa
seconda fonte, ad esempio, nella strofa 65 viene preannunciato l’arrivo del dio supremo, inteso
come una specie di “messia”; questa parte non è invece presente nella versione del testo
contenuta nel Codex Regius. Ciò che è interessante di tutta la poesia norrena è che testi che
riportano il mondo pagano descritto da un punto di vista cristiano, solo un testo come quelli incisi

12
sulle pietre runiche è un testo che non ha questo genere di filtro di mediazione. Terza importante
fonte della Vǫluspá è la Edda in prosa, che Snorri scrisse ispirandosi in buona parte al poema,
riportando integralmente 30 strofe e citandone indirettamente altre 16; anche qui vi sono delle
interessantissime varianti. Sembra che Snorri avesse sottomano una versione della Vǫluspá più
precisa di quelle a nostra disposizione, ragion per cui le varianti del testo che egli fornisce sono
preziosissime. Studiosi della poesia eddica ritengono che il testo risalga all’anno 1000 circa, in
quanto suppongono che, intorno a quegli anni, nel mondo cristiano si stavano diffondendo idee
sulla fine del mondo, le quali sono anche parte integrante delle tematiche della Profezia della
veggente. Proprio per questo, non si può definire la Profezia della veggente un testo epico, come
invece alcuni possono pensare – più un testo di “visioni”. Inoltre, uno dei motivi per cui leggere il
testo è alquanto complicato è che la mitologia che viene rappresentata non viene presentata in
modo uniforme; ad esempio, leggiamo di un gigante che viene ucciso, anche se non vengono rese
note le circostanze della sua morte, che possono essere recuperate solo attraverso la lettura di
altre opere nordiche coeve o l’Edda di Snorri – ciò significa che, in realtà, per poter leggere e
comprendere a fondo la Profezia della veggente si deve già avere una buona conoscenza della
mitologia nordica.
Di cosa parla la Profezia della veggente? Il testo comincia con un incontro tra Odino e la veggente,
che avviene perché Odino vuole sapere quale sarà il destino del mondo; ma la veggente reclama il
suo silenzio e quello di tutti gli uomini che sono designati nel testo come ‘figli di Heimdallr’
(Heimdallr è il dio che sorveglia il Bifrǫst, il ponte che secondo la mitologia norrena collega la terra,
Miðgardðr, alla dimora degli dei, Ásgarðr):
Silenzio chiedo a tutte le divine genti,
Piccole e grandi, progenie di Heimdallr!
Tu vuoi che io, o Valfodhr, narri compiutamente
Le antiche storie delle creature, le cose che prime ricordo.
(1a strofa della Völuspá)
Può sembrare strano, a prima vista, che nel testo la veggente parli sia in prima persona che in
terza persona. In alcune traduzioni inglesi è stato sostituito il ‘lei’ con l’Io, ma in realtà questo
cambio repentino di pronomi è indicatore del fatto che la veggente sia in estasi, è fuori di sé.
Quando sta per enunciare la sua profezia, la veggente riceve anche dei doni da parte di Odino, i
che ci dimostra quanto sia una figura rispettata e venerata nell’universo nordico, perlomeno quello
narrativo. Un esempio è riportato nella strofa 29 del testo:
Donò a lei Herfodr [Odino] anelli e monili
E ricevette fondati veri e divinazioni.
Ella spingeva lo sguardo avanti, oltre le future generazioni.
Nella Profezia della veggente sono presenti tre livelli temporali su cui è costruita la vicenda
raccontata: c’è una cornice che rappresenta il presente del testo (l’incontro tra la veggente e
Odino), c’è il livello temporale che ci riporta al passato della creazione del mondo e infine un ultimo
livello che invece si riferisce al futuro. Prima della creazione del mondo, c’era solo il gigante Ymir –
lo menziona Snorri nella sua Edda, assieme ad una mucca di nome Auðhumla, dalle cui mammelle
scorrevano quattro fiumi di latte di cui si nutriva Ymer. Il gigante venne poi ucciso da tre dei, Odino

13
e due dei suoi fratelli, Vili e Vé, e con il corpo smembrato di Ymer crearono appunto il mondo. Di
questo non c’è traccia nell’Edda poetica, ma, ancora una volta, Snorri ne parla nel suo testo:
Essi presero Ymir e lo posero in mezzo al Ginnungagap [l’abisso primordiale] e fecero di lui la terra
del suo sangue il mare e le acque; la terra fu tratta dalla carne e i monti dalle ossa, pietre e sassi li
cavarono dai denti anteriori e da quelli posteriori e da quelle ossa che furono spezzate.

Edda in prosa, cap. 8

A seguito della creazione del mondo, i tre dei stabiliscono un certo ordine, ad esempio con
l’istituzione del ciclo giorno-notte, e fanno tutto ciò come se fossero al thing, un’assemblea tipica
dei popoli germanici descritta dai latini con funzione legislativa e giudiziaria:
Andarono allora gli dèi tutti alle sedie del giudizio,
divinità santissime e su questo deliberarono:
alla notte e alle fasi lunari nome imposero;
Al mattino dettero un nome e al mezzogiorno,
al pomeriggio e sera per contare gli anni.
Questo primo periodo che segue la creazione del mondo è definito nella Völuspá come “un’età
d’oro”; ma questa età d’oro finisce con l’arrivo di tre gigantesse. Non è chiaro a cosa si riferisca
esattamente l’autore del testo, in quanto non è presente in nessun’altra fonte, ma sembra che una
conseguenza di questo evento sia stata la creazione dei Nani. A questo punto, la profezia della
veggente contiene sei strofe che riporta un elenco di nomi di Nani, una sezione tra la decima e la
sessantaseiesima stanza conosciuta come Dvergatal (‘catalogo dei nani’). A questa sezione ne
segue un’altra che racconta la creazione dell’uomo, dove abbiamo una prima descrizione
dell’albero della vita, Yggdrasil. I primi esseri umani nella mitologia nordica hanno nomi che fanno
pensare ad alberi, Askr ed Embla, a cui sono donati vita, intelletto e bell’aspetto. Una cosa sola
manca agli uomini, il destino, introdotto in seguito dalle Norne, forze femminili del destino che
decidono il corso della vita e la longevità di una persona; queste si presentano alla nascita di un
bambino, dove, come su un telaio, misurano quanto sarà lungo il filo della vita di ogni singolo
individuo. La presenza di queste tre figure ci offre uno spaccato su un aspetto che ci è chiaro
anche dalla lettura delle saghe, ossia il principio fatalista presente nella levatura, nella cultura di
quel mondo – la vita del singolo, per come era presupposta dalla nascita, era già stata decisa nelle
sue forme e nei suoi sviluppi, e risultava impossibile cambiarne il corso; un esempio lo ritroviamo
nella saga di Njáll, dove la vicenda di Helgi e dell’attrazione che Glum nutre verso di lei (13°
capitolo), un’attrazione a cui l’uomo non riesce a resistere e che vuole realizzare, nonostante il
destino sia diverso per Glum.
Seguendo con la lettura della Völuspá, la veggente ricorda poi gli eventi che condussero alla prima
guerra di tutti i tempi e come si svolse la lotta tra gli Æsir e i Vanir. La veggente rivela ad Odino di
conoscere alcuni dei suoi segreti, e sa che cosa egli abbia sacrificato per ricercare il sapere. Gli
dice che sa di Mímir e dove sia finito il suo occhio, e come lui l'abbia ceduto in cambio
dell'onniscienza. Continuamente gli chiede se voglia ascoltare oltre. Lo avverte quindi che seguirà
la narrazione di terribili avvenimenti: l'assassinio di Baldr, il migliore e il più giusto degli dèi, la
ribellione di Loki, e di altri, come infine tutti gli dèi periranno quando il fuoco e la violenza delle
acque travolgeranno il cielo e la terra, mentre gli dèi combatteranno l'ultima battaglia contro i loro
nemici. Questa è la sua profezia, questo è il destino degli dèi: il Ragnarǫk, la battaglia finale tra le
forze del male, i giganti, e quelle del bene, gli dèi; la morte degli dèi, nel testo, è raccontata come

14
provocata da molti degli esseri mitologici dell’universo norreno (ad es. Fenrir, lupo figlio di Loki, che
uccide Odino, mentre Thor viene ucciso da Jörmungandr, l’enorme serpente di Miðgardðr in grado
di avvolgere tutto il mondo grazie alla sua lunghezza, anch’esso figlio di Loki). Il Ragnarǫk ha il
suo termine, nel testo, con la strofa 57:
Si vede il sole oscurarsi, sprofonda la terra in mare,
precipitano dal cielo le luminose stelle,
infuriano fumo e fuoco;
lambiscono le altre fiamme perfino il cielo.
È così che la völva narra la tragica fine di molti degli dèi e come Odino stesso venga ucciso. Alla
fine, dalle ceneri dei morti e dalla distruzione, risorgerà un mondo meraviglioso dove Baldr vivrà
nuovamente, un mondo nuovo nel quale la terra darà messi in abbondanza senza nemmeno
bisogno di essere seminata.
Nell’ultima strofa, la veggente vede poi l’arrivo di un terribile drago, le piume delle cui ali sono fatte
di corpi morti:
Þar kømr enn dimmi E viene di tenebra,
dreki fliúgandi, il drago che vola,
naðr fránn neðan il serpe scintillante
frá Niðafiöllum; da sotto Niðafiöll.
berr sér í fiöðrum Porta tra le sue ali,
flýgr völl yfir sulla pianura vola,
Níðhöggr nái; Níðhöggr, i morti.
nú mun hon sökkvask. Ora lei si inabissa.

Si può discutere su quale sia il livello temporale va collegato questo arrivo, se al presente storico
della poesia o al futuro narrato dalla völva. Se si riferisse ancora una volta al futuro significherebbe
che la concezione generale del tempo in questo tempo è ciclica: il mondo (ri)nasce per poi essere
distrutto; ma se si riferisse al presente, può essere un’allusione alla cornice della narrazione, il
tempo della veggente, e quindi, in realtà, il Ragnarǫk si starebbe verificando in quel momento.

La saga come genere letterario e la Saga di Njáll


La Saga di Njáll è la saga islandese più famosa che sia arrivata sino ai giorni nostri, la più lunga e
probabilmente anche la più complessa. Heather O’Donoghue scrive che ‹‹la saga di Njáll è
ampiamente riconosciuta come uno dei migliori esempi del genere delle saghe, non solo per la sua
lunghezza e respiro, così come per l'enorme portata narrativa che la saga rappresenta, ma anche
per la sua vasta gamma di forti personaggi individuali - donne così come uomini - e la profondità e
il naturalismo con cui sono raffigurati›› (“Foreword” in Why is your axe bloody, 2014).
La saga è eccellente in sé stessa per tre ragioni principali:
● Per i suoi personaggi forti;
● Per la sua composizione narrativa elegante e complessa (come se fosse un grande
arazzo);
● Per le sue scene indimenticabili.
Di contro, la Saga di Njáll mostra anche un non indifferente livello di complessità, in primis dato
dalla varietà e molteplicità del numero dei personaggi in essa presentati. William Ian Miller, citato

15
nel testo della O’Donoghue, ci dice che all’interno della saga sono nominate 649 figure, e solo la
metà di queste svolgono un ruolo nell'azione (il resto è genealogia); in più, circa 170 di queste si
pronunciano, a cui possiamo aggiungere un’altra ventina di interlocutori senza nome. Il risultato è
una non facile lettura dell’opera, da effettuare con attenzione, pena il rischio di tralasciare
informazioni che potrebbero essere utili o meno alla comprensione della stessa. Un esempio
eclatante sono le presentazioni dei personaggi:
‹‹ […] Now the saga shifts west to the valleys of Breidajord. A man named Hoskuld lived there, the
son of Dala-Koll. His mother was Thorgerd, the daughter of Thorstein the Red, who was the son of
Olof the White, the son of Ingjald, the son of Helgi. Ingjald’s mother was Thora, the daughter of
Sigurd Snake-in-the-eye, who was the son of Ragnar Shaggy-breeches [Ragnarr Loðbrók]. Thorstein
the Red’s mother was Unn the Deep-minded, she was the daughter of Ketil Flat-nose [Kjetil
Flatnese], the son of Bjorn Buna.››
Saga di Njáll, capitolo 1
Da questo primo brano del testo possiamo dedurre che la saga è caratterizzata da un modo
impersonale di raccontare, uno stile asciutto e impassibile. È anche rilevante notare che, per
l’autore della saga, la genealogia comprendeva anche la discendenza femminile: la presenza
femminile nelle genealogie indica che gli islandesi osservavano le relazioni di parentela in modo
bilaterale, attraverso la menzione di personaggi di entrambi i sessi. Sotto certi aspetti, la posizione
delle donne nella società nordica medievale era anche migliore rispetto alla posizione che le donne
avranno dopo il Medioevo: ad esempio, potevano divorziare, avere delle proprie eredità ecc.
Inoltre, vediamo anche che i personaggi discendono da personaggi storicamente testimoniati e
conosciuti oppure da figure leggendarie (di cui l’esempio è Ragnarr Loðbrók, un re vichingo
semi-reale). È chiaro come, già dall’inizio della narrazione, la saga si collochi tra realtà storica e
finzione. Questa è la tecnica narrativa principale delle saghe, trattata da Véstein Ólason,
specialmente in riferimento alle Saghe degli Islandesi, nel suo saggio Family sagas:
‹‹The main characteristic of the narrative technique of the ĺslendingasögur is that the
stories are narrated as if they were history. The characters are often known from other
sources, and place names and descriptions of local conditions correspond to reality, at
least when the locations involved are those that Icelanders know well, either from their own
experience or by report. […] That said, it is clear that notions of what society was like in the
Viking Age became less and less clear as time passed. […] Thus, the sagas express the
view held at their time of writing by their authors and others, of the past they describe.››

Le Saghe degli Islandesi, ambientata a metà del 900, sono state redatte negli ultimi decenni del
XIII secolo (trecento anni dopo gli eventi di cui si raccontano in queste saghe). Questo significa
che ciò che viene descritto, anche se si basa su un racconto che fu tramandata oralmente,
rispecchia comunque le idee degli autori del Medioevo cristiano, e di nuovo abbiamo questa
sovrapposizione tra il mondo pagano e il mondo cristiano. Poi, un altro tratto caratteristico delle
Saghe degli Islandesi è questo sguardo impassibile con cui il narratore guarda agli eventi: anche
quelli più drammatici e crudeli vengono riportati nel testo come se niente fosse – un tratto stilistico
che caratterizza il genere narrativo delle saghe nel loro complesso.
È anche importante osservare lo stile impersonale che l’autore sceglie di adottare nella sua
redazione della materia: è come se il narratore non prendesse assolutamente parte negli eventi
raccontati, non esprime alcuna opinione in merito (Ólason: ‹‹risparmiandosi un uso del linguaggio
retorico, il narratore è più incline all’eufemismo piuttosto che all’esagerazione. Adotta lo stesso
tono di voce, siano gli eventi descritti importanti o più triviali, sia che stia scegliendo di focalizzarsi

16
sulla trama o che stia invece facendo digressioni››, Family sagas). Dobbiamo, inoltre, ricordare che
le saghe non offrono al lettore alcun accesso ai pensieri dei personaggi parte della narrazione; ciò
porta inevitabilmente l’interprete che sta leggendo a dover attuare una riflessione sui motivi che
muovono le azioni dei personaggi, o tramite i dialoghi, o tramite le loro azioni stesse.
La colonizzazione dell’Islanda ➞ il motivo dell’emigrazione di massa di famiglie norvegesi verso
l’isola praticamente vergine dell’Islanda […] non fu propriamente una spedizione vichinga, ma
piuttosto la risposta all’accentramento del potere da parte del re Harald Hárfagri (Araldo
Bellachioma), il quale ambiva a governare su tutta la Norvegia. La battaglia decisiva, vinta da
Harald, avvenne nell’874. Nel XX secolo, abbiamo scoperto che i vichinghi norvegesi che
scapparono verso l’Islanda, avevano tantissimi schiavi provenienti dalle isole britanniche,
soprattutto donne ➞ la popolazione islandese del tempo era una popolazione estremamente mista
in fatto di provenienza. Infatti, nella stessa Saga di Njáll abbiamo la menzione di questo schiavo
nel capitolo 47 che viene dall’Irlanda.
Altro fatto importante ➞ l’Islanda, a differenza della Norvegia di Harald Hárfagri, era una
repubblica. Ce lo testimonia la presenza sull’isola dell’istituzione dell’Alþingi (930), il consiglio dove
si riunivano annualmente tutti i capi per decidere le sorti dell’Islanda. Esistevano divere assemblee
locali nella prima fase della colonizzazione dell’Islanda, ma attorno al 930 avvenne la fondazione di
un’assemblea nazionale, l’Alþingi appunto, che in sostanza, nel suo funzionamento, non differiva
molto da un’assemblea regionale norvegese o svedese. L’Alþingi è anche una specie di
protagonista nella Saga di Njáll, in quanto una parte cospicua della narrazione si svolge in
quell’occasione. All’Alþingi ci si incontra per stabilire o dissolvere matrimoni, arbitrare conglitti tra
persone, ma alla fine della saga si lotta anche fisicamente in quanto la saga dimostra come la
legge non riesca a controllare la violenza. Durante il corso della saga il principio della vendetta di
sangue diventa predominante.
Il rapporto tra l’Islanda e la Norvegia è complesso, ambivalente, non c’è questo distacco netto fra i
due paesi. È vero che gli islandesi rifiutavano la stessa struttura politica della Norvegia, la
monarchia, ma nella saga sentiamo spesso parlare di personaggi che hanno dei legami con
questa “madrepatria”, come Gunnar (uno dei due protagonisti maschili della Saga di Njáll), che
compie un viaggio in Scandinavia per accrescere il proprio status sociale nella terra di origine,
l’Islanda – una pratica storicamente accertata e usuale (che, peraltro, si mantiene anche nel
tempo; basti pensare alla vicenda di Þuriþur e Rannveig e del loro viaggio in Danimarca, esempio
storico di costumi islandesi riportati da Laxness nell’Onore della casa). Un altro esempio di come i
rapporti tra l’Islanda e la Norvegia siano complessi ma vivi ➞ la conversione al Cristianesimo ha
luogo con l’arrivo in Islanda di missionari provenienti dalla Norvegia (l’Islanda si converte al
Cristianesimo intorno all’anno 1000); anche nella Saga di Njáll avviene la stessa cosa. La Saga di
Njáll è anche una saga sulla conversione al Cristianesimo: viene riportata la descrizione di una
cerimonia di conversione, ad esempio, nel capitolo 105. Questo capitolo è probabilmente basati sul
Libro degli Islandesi di Ari Þorgilsson, una breve storia dell’Islanda redatto tra il 1122 e il 1132. Nel
capitolo 105 della saga si osserva un uomo pronunciarsi, il cosiddetto Lögsögumaðr (il
“Lawspeaker”, che ci rende chiaro come non ci fossero leggi scritte ma orali), la cui principale
responsabilità era di recitare un terzo della legge ogni anno all’ Alþingi; il Lögsögumaðr annuncia il
cambiamento di paradigma religioso con il rifiuto del paganesimo e l’introduzione dell’unico Dio
cristiano. Con l’arrivo del Cristianesimo si inizia a scrivere anche in latino, non più incidendo su
pietra ma scrivendo su vello. Delle pratiche di scritture parla Ross in What is an Old
Norse-Icelandic Saga:

17
‹‹Vernacularity is a phenomenon that distinguishes medieval Icelandic from medieval Norwegian
writing to a large extent, as well as from medieval Swedish and Danish. Although some vernacular
Norwegian texts from the Middle Ages exist, they are relatively few by comparison with the output of
vernacular writing from Iceland […].››

Saga di Njáll ➞ testimone storico di come in Islanda, con il sistema politico che si era andato
creando, mancava il potere esecutivo; si avevano il potere legislativo, quello giudiziario, ma erano
assenti quelle che sarebbero oggi le forze dell’ordine:
‹‹In spite of the complex machinery of the law, the Icelandic Commonwealth1 had no executive arm.
There was no one to implement the rulings of courts except the person or persons in whose favor
they had been handled down. This meant that in most cases individuals and groups had to resort to
violence or some other form of coercion in order to achieve the outcomes the courts said they should
have.›› (Margaret Clunies Ross, 2010, The Old Norse-Icelandic Saga, p. 7)

Tutto ciò significa che poi, quando passa il tempo, per attenersi a ciò che era stato declamato
durante l’Alþingi, si doveva agire per conto proprio. Questo porterà a una situazione in cui, durante
il XIII secolo, il potere si concentra in mano di poche famiglie che crearono veri e propri eserciti,
che condusse a un periodo di instabilità in Islanda conosciuto come epoca degli Sturlungar, in
riferimento a una delle famiglie più potenti. L’Islanda si indebolisce e cede alla pressione del re
norvegese Hákon Hákonarson, che annesse così l’Islanda al proprio regno nel 1262.
Cosa significa il termine “saga”? il termine norreno saga deriva dalla stessa radice del verbo segja,
‘dire, e significa ‘cosa detta’, ‘narrazione’. In realtà, questo non ci dice grandi cose, perché
all’epoca anche altri tipi di testi venivano chiamati “saghe”, come le vite dei santi o le traduzioni di
chansons de geste, ad esempio; sicuramente, ci indica le origini orali di queste narrazioni. Ross ci
dice nel suo testo che ‹‹la saga antico norrena-islandese era una forma testuale che era
principalmente una narrativa in volgare, che probabilmente assumeva una stile formale (sebbene
non necessariamente invariante) nella trasmissione orale almeno all’inizio del XII secolo; parlava di
persone, perlopiù norrene, e le loro azioni, siano esse individui o gruppi; conteneva spesso poesie,
alcune delle quali potevano talvolta essere inventate dal compositore della saga, il cui nome
veniva trasmesso solo raramente insieme alla saga stessa; occupava una zona d’ombra tra i fatti e
la finzione, scaturita in parte da eventi noti, ma anche plasmata dall’immaginazione creatrice di chi
la redigeva››. Per quanto riguarda le tracce di poesia, la Saga di Njáll ne contiene molte; ad
esempio, una delle poche poetesse scaldiche conosciute, ricordiamolo, è menzionata nella stessa.
In quanto a indicatori stilistici e formali, la saga come genere letterario presenta spesso queste
caratteristiche:
● È scritta in lingua norrena;
● Il punto di vista è indiretto (“self-effacing impersonal stance”).
● Ci sono pochi riferimenti a testi scritti;
● Sono presenti nelle saghe sia dialoghi che narrazione propria.
Ci sono diversi tipi di saghe, categorizzate con i criteri di contenuto e cronologia (ossia, il momento
storico in cui la saga venne redatta):
I. Saghe dei Re (la più famosa è la Heimskringla2 di Snorri Sturluson, c. 1241)

1
“Icelandic Commonwealth” si riferisce al periodo in cui l’Islanda era una repubblica indipendente.
2
La Heimskringla contiene le saghe dei re norvegesi dai tempi preistorici fino al 1177 (quando sale al potere il re Sverre
Sigurdsson). La parte centrale dell’opera è dedicata al re norvegese Olav il Santo. Come fonti, Snorri ha usato le poesie
scaldiche, che sono contemporanee a ciò di cui parlano, sebbene, come scrive Winroth, la poesia non sia quasi mai una
fonte per la redazione delle saghe.

18
II. Saghe degli Islandesi (di cui fa parte la Saga di Njáll);
III. Saghe dell’età contemporanea;
IV. Saghe del tempo antico (fornaldarsögur).

Saghe degli Islandesi


Si tratta di un sottogenere delle saghe, il più noto, composto da un congiunto di quaranta testi. La
Saga di Njáll occupa circa un 10% dell’intero corpus del sottogenere. Le Saghe degli Islandesi
riportano le azioni e i fatti che concernono le famiglie islandesi durante il periodo dall'insediamento
dell'Islanda fino al momento della conversione degli islandesi al Cristianesimo, circa anno 1000, o
poco dopo. Hanno come protagonisti i colonizzatori dell’Islanda o i loro primi discendenti, e si
svolgono almeno in parte in Islanda. La Saga di Njáll rispecchia perfettamente questa definizione
da un punto di vista temporale; nella saga ci sono diverse indicazioni di ordine cronologico:
● Nel capitolo 3, il personaggio Hrut va in Norvegia per recuperare un’eredità. Lì incontra
Harald II Eiríksson, che fu re di Norvegia dal 961 fino al 970;
● Nel capitolo 100, si racconta l’arrivo del missionario Tangbrand in Islanda. Tangbrand era
stato mandato dal re norvegese Olaf I Tryggvason per convertire gli islandesi al
Cristianesimo;
● Nel capitolo 105, si racconta della conversione al Cristianesimo dell’Islanda;
● Nel capitolo 155-57, viene menzionata la battaglia di Clontarf, combattuta nel 1014.
Le Saghe degli Islandesi sono narrazioni di una certa lunghezza, testi in prosa, spesso spezzata
da intere poesie o frammenti di poesie, come le drottkvätt. Uno dei motivi dell’inserimento di
questo grande numero di poesie è che tramite di esse i personaggi esprimono sentimenti che non
riescono a esprimere parlando normalmente, come dimostra l’esempio di Unn, che vuole
divorziare da suo marito per causa dell’abuso sessuale subito, ma che inizialmente non osa
spiegare al proprio padre il perché di questa decisione, tentando perciò di parlarne tramite l’uso
della poesia.
Le Saghe degli Islandesi furono redatte nel XIV secolo, o forse ancora dopo. Perlomeno, i primi
manoscritti di cui disponiamo risalgono al XIII secolo, ma si tratta solo di frammenti di testi. Ciò
significa che tutti questi testi sono copie, e che alcune volte rappresentano diverse rimozioni da un
primo archetipo testuale. Ad oggi, non possiamo dire di avere alcun testo originale di alcuna saga.
Questo gruppo di saghe, come spiega Véstein Ólason in Family sagas, ‹‹hanno al centro delle
trame che costituiscono il loro nucleo le faide familiari in cui sono in gioco l’onore e persino la vita
stessa. Qualsiasi siano le origini di queste faide, giungono ad esercitare un’influenza fondamentale
sull’onore e lo status dei personaggi della società rappresentata. Le faide sorgono invariabilmente
a causa di qualche incidente o evento che si ritiene abbia compromesso l’onore della vittima,
indipendentemente dal fatto che questa fosse stata o meno l’intenzione dell’autore. I tentativi della
vittima o della sua famiglia di rivendicare il proprio onore, così come le conseguenti ripercussioni,
costituiscono gli elementi principali della trama››. Da ciò evinciamo che la cultura letteraria
protagonista di queste saghe è una cultura che ha tra i perni motori attorno a cui le cose si
muovono l’onore.

02.11.21
Chi ha scritto le saghe? Non lo sappiamo; a differenza della poesia scaldica, le saghe islandesi
sono opera di autori rimasti anonimi. La questione del “chi” può essere applicata anche ai

19
personaggi: per quanto riguarda le Saghe degli Islandesi, i personaggi sono le famiglie più
importanti dell’Islanda medievale, i loro capi (i goðar) e i contadini più ricchi della società islandese
– quindi, le classi più abbienti e riconosciute. Vésteinn Ólason dice infatti che “è interessante
sottolineare che i personaggi principali nelle saghe biografiche sono frequentemente poeti o
fuorilegge (o entrambi), mentre i protagonisti del gruppo delle Saghe degli Islandesi sono capi,
figure sociali rispettate e coloro coinvolti nella lotta per il potere”; invece di concentrarsi sulla vita di
un personaggio specifico, focalizzano l’attenzione sui conflitti fra famiglie.
Cerchiamo adesso di capire come vengono descritti i personaggi della saga (particolarmente
salienti sono la descrizione di Gunnar e di Njáll nella Saga di Njáll, nel capitolo 19 e 20
rispettivamente; I due grandi protagonisti della Saga di Njáll sono Gunnar, il grande guerriero, e
Njáll, l’uomo della legge, i quali condividono un’amicizia molto forte che nessuno riesce a rompere,
nemmeno le loro mogli). Vésteinn Ólason ci viene ancora una volta in aiuto, e ci spiega che tramite
la descrizione dei personaggi della saga comprendiamo che “le figure importanti sono solite a
essere introdotte da affermazioni e dichiarazioni che definiscono i personaggi nei loro caratteri
esteriori, abilità e natura sottostante”. Inoltre, “gli scrittori di saghe raramente cercano di
rappresentare personaggi perfetti, e in ogni caso l'eccellenza di un uomo non è garanzia di
successo o addirittura di sopravvivenza nel mondo della saga”; Gunner, ad esempio, è un
rappresentato come un uomo straordinario, ma ciò nonostante sarà ucciso.
Per comprendere bene l’azione che si svolge nella Saga di Njáll bisogna conoscere il contesto
storico-sociale dell’Islanda medievale:
«Il gruppo sociale dominante del Commonwealth islandese erano i capi o goðar, e singoli maschi
con mezzi sufficienti stipulavano un contratto personale con un singolo goði per la protezione e il
sostegno per se stessi e le loro famiglie, un contratto che entrambe le parti avrebbero potuto
modificare se lo desideravano. I goðar avrebbero dovuto rappresentare gli interessi dei loro
Þingmenn, o sostenitori, alle assemblee locali e in alcuni casi all'assemblea generale annuale
dell'intero paese, l'Althing. […] La struttura costituzionale del Commonwealth islandese era molto
complessa, con il paese diviso in quattro Quartieri (questa divisione avvenne intorno al 960),
ciascuno con il proprio goði. I goðar a loro volta nominavano i giudici di ciascuno dei quattro tribunali
di quarto, che deliberavano su casi legali. Successivamente (dopo il 1004) alla struttura si aggiunse
una Quinta Corte del Riesame. La conservazione e l'interpretazione della legge era affidata in gran
parte a un Lögsögumaðr che presiedeva il consiglio di legge e lo stesso Althing».

Margaret Clunies Ross, The Old Norse-Icelandic Saga, p. 9.

Ad esempio, nella Saga di Njáll, questa invenzione di una nuova struttura giudiziaria fa parte
anche dell’azione narrativa della saga, in quanto la Saga di Njáll tratta altri due grandi temi oltre al
grande filo narrativo delle faide familiari. In primis, la legge che dovrebbe essere in grado
controllare la violenza e la sete per la vendetta di sangue, non riuscendo a farlo. Quindi, in qualche
modo, questa saga ci illustra anche l’impotenza che l’Alþing mostra nell’efficacia che la
caratterizza. In secondo luogo, il Cristianesimo e la sua introduzione in Islanda è l’altro grande
tema esplorato nella Saga di Njáll (la saga descrive l’arrivo del primo missionario in Islanda e la
scelta di conversione del paese al Cristianesimo presa all’Alþing). Una possibile interpretazione
della faccenda è che ci sia l’idea che solo con l’arrivo del Cristianesimo si riesce a portare la pace
sul suolo di Islanda, dove le faide familiari sono interminabili. Esistono, però, altre interpretazioni
sostenute da altri studiosi, come indicare l’assenza di uomini da uccidere al termine della faida
come ragione della fine della stessa, momento in cui si è esaurita l’energia della violenza. La saga
è una specie di piccola storia dell’Islanda, e ci illustra in realtà molte delle cose che abbiamo già
appreso tramite i testi critici menzionati in precedenza.

20
La Saga di Njáll è stata composta nell’ultima parte del XIII secolo. È bene ricordare che i testi delle
saghe che ci sono pervenuti sono tutte copie, e nessun originale è arrivato fino ai giorni nostri, o
perlomeno è un’affermazione che ancora non possiamo fare. Siamo sempre distanti da ciò che
dovrebbe essere stato il testo originale, anche considerata la provenienza dalla tradizione orale
delle saghe islandesi. La Saga di Njáll può essere suddivisa in tre parti:
1) La storia di Gunnarr;
2) La storia di Njáll, che muore bruciato nella propria casa insieme alla sua famiglia;
3) Il tentativo di ristabilimento dell’ordine a seguito dell’uccisione di Njáll (un atto considerato
vigliacco) ➞ ricerca di un nuovo ordine.

Dove si svolge l’azione? L’azione si svolge principalmente in Islanda, ma i personaggi, durante la


narrazione, si recano anche in Norvegia e negli altri paesi scandinavi al fine di recuperare eredità
perdute o per aumentare il proprio status sociale nella terra d’origine, l’Islanda, appunto; ad
esempio, all’inizio della Saga di Njáll, Hrut compie un viaggio in Norvegia, dove comincia una
relazione amorosa con la regina della Norvegia, Gunhild. In quanto al tempo dell’azione narrativa,
si possono individuare nella Saga di Njáll questi determinati momenti “storici”:
● Capitolo 3: il personaggio Hrut va in Norvegia per recuperare un’eredità. Lì incontra
Harald II Eiríksson  – Harald Gråfell – che fu re di Norvegia dal 961 al 970. Diventa
l‘amante della madre di Harald II, Gunnhild.
● Capitolo 100: si racconta l‘arrivo del missionario Thangbrand (Þangbrandr) in
Islanda. Tangbrand era stato mandato dal re norvegese Olaf I Tryggvason per
convertire gli islandesi al cristianesimo.
● Capitolo 105: l’Islanda diventa cristiana; siamo quindi nell’anno 1000.
● Capitoli 154-157: si nomina la battaglia di Clontarf del 1014.
Il tema dell’onore della Saga di Njáll: Nella saga è uno dei filoni tematici più salienti. Facciamo
l’esempio dell’Hávamál (brano all’interno dell’Edda poetica, 76), la canzone di Harr l’eccelso:
Deyr fé, Muoiono le greggi,
deyja frændr, muoiono i congiunti
deyr sjalfr it sama, E tu stesso, del pari,
en orðstírr morirai;
deyr aldregi Ma la fama mai muore
hveim er sér góðan getr. Per chi se ne fa una buona.

Il possesso d’onore dell’individuo, come ci spiega Margaret Clunies Ross, era il suo più importante
attributo sociale nell’Islanda medievale. L’onore poteva esse definito dalle azioni o meno degli altri,
particolarmente coloro che facevano parte della famiglia del suddetto individuo. Ogni affronto
all’onore dei componenti femminili della famiglia, così come un incontro sessuale non autorizzato,
rifletteva direttamente sull’onore degli uomini della famiglia, e ci sono esempi nella letteratura delle
saghe di faide cominciate a causa di donne. I conflitti che risultavano in ferite o omicidi
comportavano che avvenisse un risarcimento della parte offesa o i suoi rappresentanti per
restaurare l’onore e evitare la vergogna che normalmente era conseguente al non agire. Come,
allora recuperare l’onore perduto? La Saga di Njáll, nel capitolo 116, ci illustra i tre modi per poterlo
fare. Qui parla la moglie di Höskuldr, figlio adottivo di Njáll, in riferimento all’uccisione del proprio
marito mentre stava seminando la terra, indifeso perciò:
‹‹ […] “Quale riparazione o aiuto devo aspettarmi da parte tua?” chiese la donna (Hildigunnr,
moglie di Höskuldr). “Promuoverò una causa” rispose Flos (lo zio) “perché ti sia resa completa

21
giustizia secondo la legge, oppure cercherò di ottenere una pacificazione che possa soddisfare,
secondo il giudizio di uomini autorevoli, sotto ogni aspetto il nostro onore”. “Höskuldr avrebbe
tratto,” ribatté la donna, “una vendetta di sangue, avesse dovuto perseguire la tua morte!” […] ››
Hildigunnr cerca di avere una vendetta di sangue, mentre lo zio propone di rivolgersi ai tribunali o
di cercare di trovare una qualche forma di pacificazione, e ciò significava ottenere una ammenda in
denaro, in quanto nella legge islandese ogni persona aveva un valore monetario (il wergeld del
diritto germanico). Ecco quindi come si ritrova l’onore:
1. Rivolgendosi ai tribunali;
2. Cercando di arbitrare la causa con un compenso da pagare alla parte offesa;
3. Attuando una vendetta di sangue.
A proposito di Hildigunnr, parliamo del ruolo della donna nel genere letterario della saga. Nelle
saghe islandesi, le donne non sono le figure principali, ma sono gli uomini, perché sono loro che
agiscono nella sfera politica. Tuttavia, come dice Ólason, le donne possono avere quattro funzioni
all’interno dell’azione narrativa: guerriera, maga, vendicatrice e istigatrice. Per quanto riguarda il
personaggio di Hallgerd, questa ha due funzioni ➞ vuole vendicarsi e cerca anche di stimolare la
violenza; anche in questo caso, così come in quello di Hildigunnr, le donne non si intendono di
legge, ma cercano la vendetta di sangue. Sono in qualche modo più primitive degli uomini, che
comunque cercano di scendere a compromessi pacifici. Le donne, inoltre, forse proprio per questa
caratteristica di squilibrio che le rende differenti dagli uomini, sono sempre subalterne al dominio
familiare degli uomini di casa. Anche qua, è il caso di Hallgerd, che nel capitolo 10 della saga
viene promessa in sposa per la prima volta:
«It was perfectly plain that she considered herself ill-matched.
Hoskuld spoke: ’I don’t rate your pride high enough to let it stand in the way of my plans and it’s my
word that counts when we disagree, not yours.’
‘You kinsmen have plenty of pride,’ she said, ‘and it is not surprising if I’ve inherited some of it’ –
and she walked away. She went to her foster-father [il suo tutore]3 Thjostolf and told him what had
been arranged; she was upset.
Thjostolf said, ‘Pick up your spirits. You will be married a second time, and then you will be
consulted, for I’ll carry out your every wish – unless it touches your father or Hrut.»
Hallgerd ➞ personaggio molto forte e ben delineato; viene descritta come una donna bellissima e
fierissima, che viene da una famiglia molto benestante. In lei sono rilevanti due specifiche e
diverse caratteristiche: una caratteristica fisica (e abbiamo visto che una saga introduce sempre i
personaggi descrivendo il loro aspetto fisico e le loro caratteristiche umane), i suoi capelli bellissimi
e lunghissimi, che giocano un ruolo fondamentale nella saga. Nella saga Hallgerd si sposa ben tre
volte, e tutti e tre i mariti muoiono (l’ultimo a morire sarà Gunnarr).
Successione degli eventi decisa dal destino: nella Saga di Njáll viene menzionato un evento che
inizialmente non comprendiamo, ma in seguito viene menzionato una seconda volta ➞ fili narrativi
che collegano gli eventi della saga. Facciamo un esempio: la figura di Hallgerd viene introdotta già
nel primo capitolo, dove suo padre, Höskuldr, si trova insieme al fratello di lei, Hrut. Höskuldr è
talmente fiero della bellezza di Hallgerd che chiede a Hrut cosa ne pensa in merito, e Hrut
3
Tutore: “l’uso di mandare figli di famiglie nobili da congiunti o altri nobili per esservi educati era diffuso in tutta l’area
germanica.”

22
risponde: "La ragazza [Hallgerd] è piuttosto bella, e molti pagheranno per questa bellezza, ma
quello che non so è come gli occhi di un ladro siano entrati nella nostra famiglia”. Questa
menzione del ladro ha ragioni sconosciute nel primo capitolo, ragioni che si comprenderanno
solamente più in là con la lettura. Hallgerd sposa poi Gunnarr, guerriero e contadino molto ricco
con un forte senso di giustizia, e a un certo punto, durante l’inverno (che in Islanda è molto duro,
trasforma il paese in una terra desolata), le riserve di Gunnarr si estinguono, anche a causa della
generosità di quest’ultimo nei confronti dei più sfortunati. Gunnarr si reca quindi da un altro
contadino a chiedere un prestito, che gli viene rifiutato. Durante l’estate seguente (capitolo 48 della
saga), Hallgerd decide di vendicarsi, e manda lo schiavo irlandese a rubare dei prodotti alimentari
a casa del contadino che aveva rifiutato la richiesta di un prestito da parte di Gunnarr, ordinandogli
di bruciare poi la cassetta dove era contenuto il cibo in modo da non lasciare tracce. Per sfortuna,
però, lo schiavo dimentica una cintura e un coltello sul luogo del misfatto, e tutti capiscono così
che a rubare sia stato lo schiavo di Gunnarr. Quando Gunnar ritorna dall’Alþing, Hallgerd ha
messo in tavola per il pasto i cibi che erano stati rubati dallo schiavo, e il primo le chiede da dove
viene tutto quel cibo; la donna gli risponde che non è compito degli uomini preoccuparsi di cosa si
mangia. Gunnar, però, capisce che il cibo è stato rubato, e dà così uno schiaffo ad Hallgerd:
«Gunnar si arrabbiò e disse: 'È una brutta cosa se sono il partner di un ladro' – e le diede uno
schiaffo in faccia». Lo schiaffo è importante ai fini della narrazione, perché sarà la rovina di
Gunnarr: a causa del furto, Gunnarr sarà coinvolto in diverse faide, e Njáll gli dice che la legge
sarà con lui, ma che non può uccidere due volte nella stessa famiglia, sia padre che figlia;
purtroppo, è ciò che Gunnarr fa, e succede così che dopo essere stata schiaffeggiata Hallgerd dice
che si sarebbe ricordata dello schiaffo e che lo avrebbe ripagato. Perché ha ucciso due volte nella
stessa famiglia, Gunnarr sarà condannato a un esilio dall’Islanda di tre anni. Gunnarr si prepara
per il viaggio con suo fratello, avviandosi poi verso il mare e la barca che li porterà via dall’Islanda.
Durante il viaggio su cavallo, però, Gunnarr cade a terra a causa del suo cavallo, con lo sguardo
rivolto verso il luogo che ha appena lasciato, dove è nato ed ha vissuto – Hildarendi. Segue quindi
un brano, nel capitolo 74, molto famoso della letteratura nordica e islandese, in cui Gunnarr parla
della fattoria di Hildarendi:
«Cavalcarono verso il fiume Markarfljot, poi il cavallo di Gunnar scivolò e lui balzò di sella. Si
trovava di fronte al pendio e alla fattoria di Hlidarendi, e disse: 'Bello è il pendio - non mi è mai
sembrato così bello come adesso, con i suoi campi pallidi e i prati falciati, e tornerò a casa e non me
ne andrò .»
Gunnarr quindi non lascia casa sua. Dopo una seconda condanna al full outlawry islandese (tutti
possono ucciderlo senza essere condannati), i suoi nemici vanno a cercarlo; viene descritta la
scena di una battaglia che Gunnarr sta combattendo, in cui riesce a difendersi, ma a un certo
punto le corde del suo arco si spezzano (Capitolo 77). Gunnar ha, così, bisogno dell’aiuto di
Hallgerd, a cui chiede i suoi capelli. La donna, però, si ricorda in quel momento dello schiaffo
ricevuto da Gunnarr:
«Parlò con Hallgerd: 'Dammi due ciocche dei tuoi capelli, e tu e mia madre fate una corda d’arco per
me.'
'Qualcosa dipende da ciò?' chiese la donna.
‘La mia vita dipende da questo’, rispose Gunnarr, ‘perché non saranno mai in grado di prendermi
finché posso usare il mio arco’.
'Allora mi ricorderò,' disse, 'lo schiaffo che mi hai dato, e non mi interesserà se resisterai a lungo o
per breve tempo.'»

23
Vediamo, così, tutti i piccoli dettagli e i fili narrativi riunirsi in questa scena. Con la Saga di Njáll si
ha a che fare con un’opera letteraria che è intessuta in un intreccio narrativo ben organizzato e che
mai si perde del tutto. Finisce, così, che Gunnarr muore, e uno dei personaggi che è dietro a
questo omicidio, Gizur, dice che è stato abbattuto “un grande guerriero, ed è stata dura per noi, e
la sua difesa sarà ricordata finché questa terra sarà abitata” ➞ la fama di Gunnarr in Islanda sarà
eterna.
Morte di Njáll: Njáll muore sul rogo con sua moglie con un santo, perché il corpo di lei e anche di
un nipote non vengono toccati dalle fiamme ➞ traccia del Cristianesimo ➞ filtro del Cristianesimo
nella visione del mondo pagano.
Perché sono state scritte le saghe islandesi? Il XIII secolo è un periodo di forte transizione in
Islanda, che passa da essere una repubblica libera a far parte della corona norvegese. C’è quindi
questa volontà di capire, di rielaborare e di salvare il mondo del passato che stava scomparendo
con questo grande passaggio. In alcune delle saghe c’è un senso di continuità con il passato,
mentre in altre, come nella Saga di Njáll, il sentimento di un mondo verso il quale non c’era
possibilità di ritorno.

Il Medioevo e il Rinascimento
Quando parliamo di Medioevo scandinavo, parliamo di un periodo compreso tra il 1050 e il 1520
circa, quest’ultimo l’anno che fa riferimento alla Riforma protestante, allo scioglimento dell’Unione
di Kalmar e all’ascesa al potere di Gustavo Vasa in Svezia. Tra il XII e il XIV secolo i tre regni
raggiunsero fasi di particolare coesione e forza: con la dinastia dei re Valdemar in Danimarca (ca.
1150-1240), con il lungo regno di Håkon Håkonsson (1217-1263) in Norvegia e con l’inizio della
nuova dinastia dei Folkungar in Svezia (1250-1364). Questi tre grandi regni, non a caso proprio
durante il Medioevo, richiedevano storie nazionali; i rappresentanti di queste storie nazionali
furono:
● Norvegia: Historia de Antiquitate Regum Norwagiensium di Teodorico il Monaco, ca. 1180;
si tratta di una storia in latino dei re norvegesi da Araldo Bellachioma a Sigurðr Magnússon,
conosciuto anche come Sigurðr il Crociato, che morì nel 1130.
● Danimarca: Gesta Danorum di Saxo Grammaticus, ca. 1210 (scritta intorno all’anno 1200);
si tratta di un capolavoro della letteratura medioevale danese ed europea; è una storia della
Danimarca in 16 libri che si basa sui re danesi dal fondatore mitico della Danimarca, Dan,
fino a re Canuto VI (morto nel 1202). L’opera si divide in una parte leggendaria (1-9) e una
parte storica (10-16), dall’ Araldo Dente Blu fino a Canuto VI. Il re più famoso della parte
leggendaria è Amleto la cui storia Saxo racconta dettagliatamente. Cosa sappiamo di Saxo
Grammaticus? Non molto, ma sappiamo che lavorava per Absalon4, l’arcivescovo di Lund e
committente delle Gesta Danorum, l’ambiente letterario più importante della Danimarca;
molto probabilmente Saxo studiò a Parigi (usava un latino classico, cercava di imitare gli
autori romani, motivo per cui è considerato un rappresentante del Rinascimento del XII
secolo). Sappiamo inoltre che Saxo proveniva da una famiglia nobile;
● Svezia: Erikskrönikan (La cronaca di Erik), 1320-1335; Quest‘opera descrive il destino della
dinastia Folkung dalla crociata di Birger Jarl in Finlandia e la fondazione di Stoccolma a

4
Absalon nasce nel 1128 e muore nel 1201. Proveniva da una potente famiglia nobile (la famiglia Hvide) che aveva forti
legami con la famiglia reale (la dinastia dei Valdemar). Divenne vescovo prima a Roskilde e poi arcivescovo a Lund. È
anche noto come guerriero; partecipò alle crociate e difese Copenaghen. Viene riconosciuto come fondatore di
Copenaghen. Nel 1160 ricevette la città di Havn come dono dal re Valdemaro il Grande (1131-1182).

24
metà del XIII secolo, attraverso la nuova vita di corte feudale alla fine di quel secolo, fino
alle fatali liti fraterne tra i figli del re all'inizio del XIV secolo.
Con l’inizio del Medioevo in Scandinavia, l’influenza del Cristianesimo in tutti gli aspetti della
società, della politica e della cultura era forte e affermata, stabile. All’inizio del XII secolo risalgono
le prime sedi arcivescovili della Scandinavia: Lund (oggi in Svezia, ma allora in Danimarca; città
dove lavorava Saxo Grammaticus) nel 1104, Trondheim in Norvegia (l’ambiente letterario più
importante del paese all’epoca) nel 1152 e infine Uppsala in Svezia nel 1164. In precedenza tutto il
Nord faceva capo all’arcivescovado di Amburgo-Brema, fino ad allora il più settentrionale della
cristianità.
La Svezia, tra i paesi scandinavi, fu la più restia ad accettare la fede cristiana. Non a caso è il
paese scandinavo dove più a lungo sopravvive la conoscenza dell’alfabeto runico. Ingemar Algulin
ci offre uno spaccato della questione medievale sull’accettazione del Cristianesimo, con particolare
riferimento alla Svezia:
«La cultura pagana è sopravvissuta più a lungo nella periferia dell'Europa. La nuova cultura cristiana
continentale prese piede in Svezia solo molto tardi. Durante il lungo periodo in cui il cristianesimo si
stava assicurando la sua posizione, il regno si trovò in un evidente ristagno culturale, non solo in
relazione ai paesi del continente, ma anche in relazione ai vicini scandinavi Danimarca, Norvegia e
Islanda.»

Ingemar Algulin, A History of Swedish Literature, p. 18

Da un lato, Saxo ammette nel prologo delle Gesta Danorum che la Danimarca e tutto il Nord si
trova nella periferia del mondo e della cultura, a causa dell’arrivo tardio del Cristianesimo nel Nord
Europa. Dall’altro lato, afferma comunque l’esistenza di una storia antichissima della Danimarca.
Pernille Hermann scrive:
«In linea con la geografia mentale del tempo, Saxo considerava il mondo circolare e circondato
dall'oceano, e la parte settentrionale dell'Europa era posta vicino ai confini del mondo. Tuttavia, in
senso culturale, questa posizione di periferia è stata contestata; Il progetto di Saxo ha negoziato il
centro e la periferia, sostenendo che il mondo nordico poteva eguagliare il mondo di cui è diventato
parte con la cristianizzazione.»

25
Pernille Hermann, History of the Danes: Saxo the Grammarian and Saxo the Rune Master, p. 14

Già nel prologo si può riscontrare che Saxo fosse stato un uomo di grande ambizione:
«Obbligato, dunque, a caricare le mie povere spalle con un fardello mai sperimentato da scrittori
dell’età passata, e senza il coraggio di sottrarmi al compito che mi era stato assegnato, ho obbedito
con più temerarietà che efficacia, e ho ricevuto dal mio nobile patrono quella fiducia che mi negava
la debolezza del mio ingegno.»
Prologo, I, I, p. 7.
Saxo non è stato il primo a scrivere una storia della Danimarca; ma il “fardello” di cui parla è mai
sperimentato perché Saxo fu molto più ambizioso dei suoi predecessori, e queste ambizioni si
riconoscono, tra l’altro, dal suo uso della lingua latino e di parole latine presenti solo nella
letteratura classica romana. Inoltre, Saxo Grammaticus si considerava un traduttore, non un
autore; un traduttore che seguiva le espressioni dell'antichità a sua disposizione:
”Mi sono sforzato di seguire dappresso la loro testimonianza come se si trattasse di antichi libri e ho
cercato di riprodurre le storie di cui trattano con una traduzione fedele, prestando molta attenzione
nel rendere i versi con altri versi.”
Saxo, I, 3.
Saxo tradusse la poesia norrena in latino. Non riusciamo più a fare un confronto fra le fonti di Saxo
e le sue traduzioni, in quanto le fonti non sono più a nostra disposizione, ma in alcuni casi abbiamo
la versione di Snorri, e vediamo che in effetti Saxo stava traducendo dal norreno al latino,
cambiando enormemente il modo in cui la poesia norrena era stata composta (considerando che
Saxo seguiva la poesia classica latina).

03.11.21
Che tipo di testo sono le Gesta Danorum di Saxo Grammaticus? È storia o letteratura?
In passato si pensava che Saxo fosse una fonte affidabile per la conoscenza sulla storia della
Danimarca. Ovviamente non è così, in quanto la versione della storia danese che riporta Saxo è
quella della élite della Danimarca, di Absalon, vescovo di Copenaghen, della dinastia dei
Valdemari. Tuttavia, rimane un’ottima fonte per uno spaccato sul modo di pensare dell’élite e della
nobiltà danesi del XIII secolo. Oggi, le Gesta Danorum sono considerati più che altro un testo
letterario; ciò che è veramente interessante del testo sono i suoi aspetti linguistici e letterari.
Si possono operare diverse suddivisioni dell’opera, ad esempio:
● Libri 1-4: epoca pagana;
● Libri 5-8: l’arrivo del cristianesimo in Danimarca;
● Libri 9-12: l’introduzione del cristianesimo;
● Libri 13-16: i primi arcivescovi danesi.
Nella prima parte del testo i dèi pagani prendono parte nell’azione; Saxo, però, non li considera
dèi, piuttosto li vede come personaggi dotati di poteri magici.
Secondo il traduttore delle Gesta Danorum in danese, Peter Zeeberg, l’opera in questione si basa
sull’Eneide di Virgilio: a metà dell’opera si presenta il personaggio Thorkillo, il quale si reca dal
gigante supremo; per far ciò, Thorkillo deve scendere negli Inferi, così come Enea dovette

26
scendere nell’Ade nella narrazione del sesto libro dell’Eneide. Dopo questo evento, a metà
dell’opera, si ha l’arrivo del cristianesimo, e la conseguente conversione di Thorkillo:
«Poi, mentre tutti gli altri scongiuravano senza frutto i loro dèi perché gli fossero propizi, Thorkillo
rivolse le sue suppliche al Signore dell’Universo e insieme alle preghiere versò delle libagioni in suo
onore. […] E oramai gli sembrava di poter distinguere un altro mondo e addirittura il passaggio alla
terra degli uomini. Infine approdò in Germania, allora appena iniziata alla religione cristiana, e
presso i suoi abitanti apprese i primi principi del culto di Dio.»
Saxo Grammaticus, Gesta Danorum, Libro III, VI, 4-25)
Tutto questo per illustrare che ci sono moltissimi strati intertestuali all’interno delle Gesta Danorum
che dirigono la nostra attenzione più sul lavoro di matrice letteraria compiuto da Saxo, piuttosto
che sul suo lavoro storico.
Nel Prologo, Saxo discute le sue fonti:
1. Le pietre runiche;
2. La tradizione islandese, orale e scritta;
3. Le testimonianze di Absalon.
Nel suo tentativo di mostrare che la vecchia cultura nordica si può paragonare con la tradizione
romana, Saxo dice di aver tradotto delle poesie riportate su pietre runiche. Sebbene si sappia che
le pietre runiche siano in primo luogo monumenti funebri, abbiamo comunque visto l’esempio di
una pietra runica che riporta versi scaldici, testimone quindi della probabile veridicità di quanto
affermato da Saxo. Secondo Saxo, gli antichi nordici usavano queste pietre runiche come libri:
«Voglio che si sappia che gli antichi Danesi erano pervasi dal desiderio di ripagare con la fama gli
atti di straordinario coraggio. Non soltanto hanno fatto accenno, al modo dei Romani, alle gloriose
imprese da loro brillantemente portate a termine in composizioni ricercatate di carattere poetico,
ma si sono anche preoccupati di far incidere su pietre e su rocce, nell’alfabeto della loro lingua, le
gesta dei loro antenati, che circolavano in poemi nella lingua natia. Mi sono sforzato di seguire
dappresso la loro testimonianze come se si trattasse di antichi libri, e ho cercato di riprodurre le
storie di cui trattano con una traduzione fedele, prestando molta attenzione nel rendere i versi con
altri versi. […] E poi, quante opere di carattere storico, avrebbero scritto uomini di tale ingegno se
avessero saputo il latino, e avessero così potuto spegnere la loro sete di scrittura? Infatti, sebbene
non avessero conoscenza della lingua di Roma, avevano un tale desiderio di conservare per i posteri
il ricordo delle loro gesta che ricorsero a rocce di grandi dimensioni, facendosi libro del granito.» (I,
3, pp. 9-10)

Saxo, poi, nomina anche la tradizione islandese:


«Dopo aver esaminato con grande attenzione i loro forzieri ricolmi di un patrimonio di notizie
storiche, ho composto una parte considerevole del presente lavoro riportando la loro narrazione, e
non ho disdegnato di citare come testimonianze gente che, come ho potuto constatare, conosce
talmente bene i tempi antichi.» (I, 4, p. 10).

Leggendo il Prologo delle Gesta Danorum, interessante anche per la rappresentazione del mondo
nordico nel XIII secolo, osserviamo che Saxo Grammaticus afferma di aver studiato le
testimonianze islandesi, nonostante rimanga molto vago su questo punto (non sappiamo se sia
vero o meno); tuttavia Lund, il centro letterario dove Saxo operava, era un via vai di personalità di
diverse aree del Nord, ed è quindi probabile che l’autore abbia incontrato sia islandesi che
norvegesi.

27
Il testo delle Gesta Danorum, infine, si colloca in una zona grigia, tra mito e realtà: Saxo aveva
questa idea secondo la quale al nord della Norvegia si trova questo territorio particolare popolato
ancora da giganti; inoltre, come testimonianza della presenza sul territorio di questi giganti, cita i
tumuli di pietra presenti in questa area:
«A nord [la Norvegia] fronteggia un territorio dalle caratteristiche sconosciute e di cui si ignora il
nome, privo di coltivazioni fatte dall’uomo, ma ricco di popolazioni non umane di cui molto poco si
sa.» (II, 8. p.16)

«Che un tempo il suolo della Danimarca fosse abitato da una razza di giganti lo testimoniano gli
immensi macigni in prossimità dei sepolcri e dei tumuli dei nostri antenati. […] Esseri di questo
genere, nell’opinione dei nostri compatrioti, abitano ancora oggi quel deserto roccioso e
inaccessibile di cui abbiamo parlato prima; e la loro natura mobile e mutevole dei loro corpi gli
consentirebbe di comparire istantaneamente e prodigiosamente, oppure di scomparire, e di
alternare apparizioni e sparizioni.» (III, p. 17-18).

Le Gesta Danorum non incontrarono il favore del pubblico durante il Medioevo, per diversi motivi:
si tratta, in primo luogo, di un testo molto complicato; le Gesta Danorum si rivolgevano all’élite
letteraria europea dell’Alto Medioevo, e le ambizioni classiciste di Saxo Grammaticus erano più
proprie di un periodo letterario come il Rinascimento, quando l’opera cominciò ad essere
apprezzata in modo più importante. Menzioniamo anche che dell’originale si conservò solamente
un frammento, il cosiddetto “frammento Angers”, ritrovato nel 1863 in Francia. Fu grazie all’azione
dell’umanista danese e canonico della cattedrale di Lund Christiern Pedersen, il quale nel 1514
fece stampare per la prima volta le Gesta Danorum a Parigi, che il testo di Saxo cominciò ad
essere apprezzato veramente. Più avanti, l’opera venne pubblicata anche nella sua traduzione in
danese, nel 1575, dallo storico Anders Sørensen Vedel, tra l’altro, uno tra i primi in Scandinavia a
operare una raccolta di ballate popolari. Da quel momento, il testo fu oggetto di molte traduzioni.
La diffusione e ricezione, seppur ritardata, delle Gesta Danorum in Europa durante Cinquecento e
Seicento ebbe l’effetto di far nascere in Norvegia l’interesse per i manoscritti medievali islandesi,
tradotti e stampati per la prima volta a Bergen (es. Heimskringla di Snorri).
La figura di Amleto: è nell’opera di Saxo che ritroviamo per la prima volta il personaggio di Amleto,
presente in primis nel III libro delle Gesta. Saxo non fu un’ispirazione diretta per Shakespeare, che
molto probabilmente lesse la storia di Amleto in un testo francese:
«With regard to the Amleth-story, it is likely that François de Belleforest’s Tragedic histories (Histories
tragiques) (ca. 1570), which included a French translation of the Amleth-narrative, was decisive for
the reception in England and for inspiring Shakespeare’s Hamlet. If so, the Amleth-story’s travel
across time and space depended on changing media (oral, manuscript, print), changing languages
(Old Norse, Latin, French, English) and changing genres (poetry, prose and drama).»

Pernille Hermann, «‘History of the Danes‘: Saxo the Grammarian and Saxo the Rune Master», pp.
24-25.

La versione di Shakespeare presenta delle somiglianze con l’originale di Saxo Grammaticus:


anche nel testo di Saxo abbiamo a che fare con due fratelli, di cui uno dei due è un re, ucciso dal
fratello, che poi sposa la moglie del defunto fratello, madre di Amleto. Amleto, per proteggere sé
stesso, finge di essere pazzo. Il nuovo re pianifica in tre modi per smascherare Amleto, tra cui far
entrare un uomo nella stanza da letto della regina, con il compito di spiare Amleto. La vicenda
termina con la morte del re, con la grande differenza che nelle versione di Saxo si ha
l’incoronazione di Amleto, che invece muore nella versione di Shakespeare. Inoltre, sono assenti
anche le tribolazioni esistenziali proprie dell’Amleto di Shakespeare.

28
Le ballate medievali
Il termine nordico per le ballate medievali è folkeviser (in danese e norvegese, mentre in svedese è
folkevisor), termine che viene dal tedesco Volkslied, concetto messo a punto da Herder a fine
Settecento: questa idea di folkeviser è un’idea molto propria dello spirito romantico, per il quale
queste ballate erano un’espressione e un’invenzione del popolo. Folkeviser, tuttavia, è un termine
fuorviante, perché il genere letterario appartiene all’ambiente cavalleresco. Molto probabilmente si
tratta dell’opera di musicisti professionisti che, come nomadi, si sono spostati da una parte
dell’Europa all’altra; non sono perciò creazioni spontanee del popolo.
«Sulla base degli studi successivi, oggi si ritiene invece che questo genere si sia affermato dapprima
nell’ambito della corte e dell’aristocrazia, per poi diffondersi fra gli altri strati della popolazione; si
preferisce quindi parlare di ballade (ballata)».

Storie delle letterature scandinave, p. 87.

«[H]owever, we know little about its earliest existence on Swedish soil. Only fragments of ballads are
preserved from the Middle Ages. Not until the sixteenth and seventeenth centuries can you find song
books with complete ballads. Once part of an aristocratic culture, the ballads came increasingly over
the centuries to live on in a popular culture. During the nineteenth century, after the arrival of
Romanticism, a more systematic effort to collect ballads and songs was begun, an effort which
continues into our own days.»

Ingemar Algulin, A History of Swedish Literature, pp. 19-20.

Che cos’è una ballata?


«These ballads are without exception anonymous and had a concrete social function as cultivated
entertainment. The word ballad itself means dance song, and it was as song and dance that they
were presented. A lead singer recited the verses of the text, while the dancers, who performed in a
circle, sang in chorus the characteristic refrains that are usually repeated after every verse. It is
generally thought that modern Christmas dance games of various types are survivals of medieval
dance songs. Only in one place in Scandinavia has the balled been preserved as a dance song in a
more original form with clear roots in the Middle Ages, namely in the Faroe Islands, where it lives on
as a native tradition.»

Ingemar Algulin, A History of Swedish Literature, p. 20.

Per riassumere, lo scopo originale delle ballate era di intrattenere la gente in occasioni di incontro,
come ai matrimoni. Era presente in queste occasioni un cantante che eseguiva la ballata, molto
probabilmente senza accompagnamento strumentale. Gli spettatori si tenevano per mano,
ballando una semplice danza e cantando il ritornello.
Le ballate sono originarie del territorio francese, e arrivano in Scandinavia tramite trovatori francesi
nel XIII secolo. Di fatto, le ballate nascono nella fase medievale, ma non sottostanno ad alcuna
messa per iscritto prima del Cinquecento. Nell’Ottocento, l’interesse per le ballate medievali
raggiunge il culmine. In Norvegia si pubblicò la prima grande raccolta di ballate tradizionali nel
1853, grazie a Magnus Brostrup Landstad. Un altro testimone dell’interesse ottocentesco per le
ballate è l’opera di Adam Oehlenschläger (1779-1850), autore di diverse poesie scritte utilizzando
lo stile compositivo delle ballate.
Hjiertebogen (1550-55) ➞ la prima raccolta di ballate danesi; il “Libro del cuore” ne raccoglie 83,
raccolte da quattro nobili, tre uomini e una donna, presso la corte danese.

29
Nel 1591, il già citato Anders Sørensen Vedel – che tradusse Saxo in danese – pubblicò Et
Hundrede udvalgte Danske Viser, una selezione di 100 ballate danesi. Sulla scia di Vedel,
tantissimi nobili, sia uomini che donne, soprattutto queste ultime, raccolgono le ballate che
conoscono.
In Svezia, la prima ballata conservata in forma scritta – Sankt Göran och draken (San Giorgio e il
drago) – risale alla metà del Cinquecento; all’epoca, questa ballata era considerata la canzone
nazionale della Svezia.
Quali sono i tratti formali delle ballate?
● Consistono di strofe di 2 o 4 righe, che narrano la storia oggetto della ballata, con un
ritornello, che dimostrano un carattere più lirico;
● Il ritornello prevede come andrà a finire la storia narrata, promuovendo pertanto una visione
deterministica – fatalista – del mondo;
● Si usano rime finali, allitterazioni ed espressioni fisse, stereotipate (“formulaic diction”); ad
esempio, per parlare di una bella donna: den brune mjød, den klare vin, den væne mår;
● I personaggi delle ballate sono tipi, non individui.
Ci sono diversi tipi di ballate in tutta l’area nordica, dove sono state registrate 873 ballate:
1. Naturmystike ballader (Ballate del soprannaturale, o Ballate magiche) ➞ presentano esseri
soprannaturali come elfi, troll, sirene o persone che subiscono una metamorfosi; la “trama”
di queste ballate riguarda spesso fasi di transizioni nella vita di un personaggio oggetto
della ballata (es. l’evento del matrimonio); esempi di ballate: Elverskud;
2. Legendeballader (Ballate leggendarie);
3. Historiske ballader (Ballate storiche);
4. Ridderballader (Ballate cavalleresche) ➞ il gruppo di ballate più numeroso; descrivono
conflitti tra la famiglia e il singolo individuo, l’amore tra due giovani, faide familiare, relazioni
illegittime; esempi di ballate: Ebbe Skammelsen, Torbens Datter og Hendes Faderbane,
Lave og Jon;
5. Troll- og kjempeballader (Ballate eroiche);
6. Skjemteballader (Ballate giollaresche).
In termini di struttura, una ballata può essere divisa in tre fasi liriche-narrative:
I. Situazione iniziale della ballata;
II. Fase del conflitto, cambiamento della situazione iniziale;
III. Conclusione della ballata.
Elverskud
Nota in lingua norvegese sotto il titolo di Olav Liljekrans, "Elveskud" o "Elverskud" (pronunciato
[ˈelvɐskuð]; danese per "Elf-shot") è il nome danese e più utilizzato di una delle ballate più popolari
in Scandinavia ( The Types of the Scandinavian Medieval Ballad A 63 'Elveskud — La fanciulla
elfica causa la malattia e la morte dell'uomo'; Danmarks gamle Folkeviser 47; Sveriges Medeltida
Ballader 29; NMB 36; CCF 154; IFkv 1).
Si concorda che le origini della ballata siano considerevolmente precedenti ai primi manoscritti, nel
Medioevo, ma al di là di questo c'è poco consenso. Molti studiosi suggeriscono un'origine bretone
o francese, ma non si conoscono le vie attraverso le quali è arrivato e si è diffuso nel Nord Europa.

30
La ballata ha stretti parallelismi in tutta Europa (il parallelo più vicino in lingua inglese è "Clerk
Colvill"). Il primo manoscritto sopravvissuto è Karen Brahes Folio, un manoscritto danese del 1570;
la prima versione svedese sopravvissuta risale al 1670. Sono note almeno settanta varianti
scandinave; oltre quaranta provengono dalla Danimarca e diciassette dalla Svezia.
La ballata, conosciuta in tutta Europa, può essere suddivisa nel suo svolgimento d’azione narrativa
in tre parti:
a) Introduzione (la prima strofa)
b) L’incontro tra Oluf e gli elfi (2-15)
c) Le conseguenze dell’incontro tra Oluf e gli elfi (16-29)
L’ultima parte può essere ulteriormente suddivisa in altre tre parti:
c1) Oluf e la madre (16-20) - NASCITA
c2) L’arrivo della sposa (21-25) - VITA
c3) La morte di Oluf, della sposa e della madre (26-29) - MORTE
Nel riassunto di The Types of the Scandinavian Medieval Ballad (la designazione per un sistema di
catalogazione delle ballate scandinave),
Olav esce all'alba e incontra gli elfi che danzano nei boschi. Una delle cameriere elfiche lo invita a
ballare con lei, ma lui rifiuta e le dice che si sposerà il giorno dopo. Gli mette una malattia mortale.
Quando torna a casa sta morendo. Esprime le sue ultime volontà.

Non tutte le versioni corrispondono esattamente a questo sommario. Ad esempio, in molte versioni
danesi, Olav balla con gli elfi, a volte fino alla morte; in alcune versioni in Danimarca, Norvegia e
Svezia la morte di Olav è dapprima nascosta alla sua sposa, ma alla fine lei lo scopre; nelle
versioni islandesi la sposa non è affatto menzionata e il rifiuto di Olav di ballare deriva dalla sua
fede cristiana. In una variante faroese, è implicito che Olav sia stato coinvolto sentimentalmente
con la donna elfo per qualche tempo; inizia anche con sua madre che predice la sua morte.
Il riassunto di Vésteinn Ólason delle varianti islandesi della ballata, generalmente noto come
"Kvæði af Ólafi liljurós", è
Ólafur che cavalca lungo un pendio roccioso, incontra quattro fanciulle elfiche che lo accolgono e lo
invitano a bere (o vivere) con loro. Si rifiuta di vivere con gli elfi e preferisce credere in Dio (Cristo).
Una delle fanciulle elfiche gli chiede di aspettare e va a prendere una spada che nasconde sotto i
vestiti mentre gli chiede un bacio. Quando Ólafur si china per baciarla, lei gli infila la spada sotto la
scapola nel cuore. Ólafur sprona il suo cavallo e torna a casa da sua madre; chiede perché è così
pallido; (all'inizio si protegge); dice la verità; chiede alla madre di rifare il letto e alla sorella di
medicare le ferite. Quindi muore (e viene sepolto insieme a sua madre e sua sorella (?)).

In relazione alla questione della comprensione di questa ballata e dei suoi contenuti, parla Sven
Hakon Rossel, che scrive:
«Right away this drama can be understood on two levels: 1) as an exciting and in the final
account tragic story of the encounter of a human being with demonic forces or 2) as a
projection of a person’s basic fear of the unknown. On the first level the text is read as a
realistic account – in other words as a ‘good story’ – in which the realistic component, the
human being, clashes with supernatural and demonic forces. On the second level the text is
understood as a symbolic account, an anthropomorphic projection – the events solely

31
taking place in the protagonist’s – and the audience’s – mind or imagination. However,
neither a strictly realistic nor strictly psychological or ‘fantastic’ approach pays proper tribute
to this superb ballad, which through Johann Gottfried Herder’s translation became the
model for Johann Wolfgang Goethe’s wellknown poem Der Erlkönig (1782).»
Sven Hakon Rossel, «Reality and Fantasy: A Foray into Scandinavian Literature from the
Middle Ages to the Conclusion of the 20th Century».
Torbens Datter og Hendes Faderbane
Questa ballata, la figlia di Torben e l’assassino di suo padre, è una ballata cavalleresca che
racconta una faida familiare; ci troviamo nuovamente, quindi, nel mondo cavalleresco raccontato
dalle saghe. La storia è quella di un gruppo di uomini “furenti”, recitando dalla ballata, che
domenica sera affilano le loro spade, per andare poi la mattina seguente ad uccidere una persona.
Questa persona è Herr Torben, un nobile, perciò, che coltiva in maniera pacifica la sua terra. C’è
uno scambio di parole fra gli uccisori e Torben, dal quale si capisce che Herr Torben ha ucciso il
padre di uno di loro – ecco qua la dinamica della vendetta di sangue. Torben cerca di offrire al
gruppo in questione tutti i suoi beni, tra cui anche sua figlia, descritta come una bellissima
giovinetta. Gli uomini, però, non lo ascoltano nemmeno, e lo uccidono in modo estremamente
crudele, riducendolo in pezzi talmente piccoli, “come foglie che cadono nel bosco”. Si recano
quindi a casa di Herr Torben, per raccontare ciò che hanno fatto alla famiglia dell’uomo; a casa si
trova anche la figlia di Torben, che offre da bere agli uomini. A quel punto, l’assassino di Torben
dichiara che, se avesse saputo che la figlia di Torben era così bella, non avrebbe ucciso suo
padre. L’uomo prende poi la giovinetta con sé, e se la porta in sella via; e così, la figlia non rivide
mai più suo padre.

Ciò che abbiamo capito dalla presentazione del gruppo di uomini responsabili della morte di
Torben è che questi non sono affatto dei buoni personaggi: dalla volontà di uccidere in sé,
all’azione di affilare le proprie spade in una domenica, giorno in cui il lavoro è proibito; si aggiunge
il loro essere “furenti”, che si collega al peccato cardinale dell’ira secondo la logica cristiana dei
sette peccati capitali, e in più uccidono un uomo disarmato che lavora la sua terra. Quindi, questo
gruppo di uomini non promette niente di buono sin dall’inizio della ballata.
Il finale della ballata è stato interpretato come un lieto fine sulla base dell’attrazione erotica che
nasce tra la figlia dell’uomo che è stato ucciso e il suo assassino; tuttavia, non è per niente certo
che questa storia di faide avrà un lieto fine come il matrimonio, sembra invece che la figlia di
Torben venga rapita. A questo fatto si aggiunge che i due vengano visti partire per “la landa nera”,
che rinforza l’idea di un finale tragico della ballata: non c’è il ristabilimento di un ordine positivo
delle cose; dà invece l’idea di percezione del destino come inevitabile e del dolore della giovinetta
per la perdita del padre. Tutti questi dati ci danno l’idea della complessità sottostante alla trama
della ballata: non si riesce a dare un’interpretazione netta e decisa, ci sono molti fattori di cui
tenere conto nella lettura della “moralità” presentata in questa ballata.

32
Rimane l’idea, comunque, che la volontà crudele del destino sia inevitabile. È il ritornello della
ballata che ci fornisce questa interpretazione:
La rugiada menzionata nel ritornello può essere interpretata metaforicamente anche come lacrima,
elemento che nel testo si ritrova spesso.

Leonora Christina
Leonora Christina Ulfeldt (1621-1698), contessa dello Slesvig-Holsten, era la figlia del re Cristiano
IV, autrice di un libro dal titolo Jammers Minde.
Per parlare della figura di Leonora Christina Ulfeldt, bisogna fare riferimento a un quadro storico
che recuperiamo dal Cinquecento scandinavo, arrivando poi al secolo successivo, il Seicento. In
questo lasso temporale si verifica uno degli eventi più rivoluzionari della storia europea e non, che
incisero inevitabilmente e profondamente sullo sviluppo della cultura, della religione e della
letteratura: la Riforma Protestante, operata da Martin Lutero, considerata uno degli eventi che
marcano nella storia europea la fine del Medioevo e l’inizio dell’età moderna. La Riforma fu
introdotta in Svezia nel 1527, mentre in Danimarca/Norvegia nel 1536; con la sua introduzione nel
Nord, si avviò anche la pratica di traduzione della Bibbia nelle varie lingue volgari: la Bibbia in
svedese venne stampata per la prima volta nel 1541, la versione in danese nel 1550 e, in ultimo
loco, quella in islandese nel 1584 (non venne prodotta alcuna Bibbia in norvegese in quegli anni; a
differenza della Norvegia, l’Islanda aveva già una tradizione letteraria molto forte sulla quale
basarsi per scrivere la propria Bibbia, quella delle saghe e della poesia in lingua norrena).
Cristiano IV di Danimarca (1577-1648) ➞ descritto come uno dei padri della nazione danese:
«Cristiano IV è un’altra figura di padre fondatore della nazione, un monarca che segna un’epoca.
Nelle guerre contro la Svezia egli è sempre destinato a perdere. […] Ma ciò nonostante, nella
coscienza danese Cristiano IV occupa un posto tutto particolare. La sua epoca è vista soprattutto
per la lunga prosperità, per l’ambizione di fare della Danimarca uno splendido regno del Nord; per il
grande dinamismo e la modernizzazione del paese. Da vero principe rinascimentale, Cristiano dà un
enorme impulso allo sviluppo urbano nel suo regno e tutti i progetti che partono in quest’epoca
portano il suo nome […].»

Dispensa del Prof. Ciaravolo, p. 17.

Cristiano IV era un principe rinascimentale, amava la letteratura e l’arte, la musica, ed era noto
soprattutto come il costruttore di Copenaghen e di Oslo, che per tanti secoli ebbe il nome di
Kristiania. Un altro lato della sua personalità pubblica, però, è collegato anche all’essere il
monarca che portò la Danimarca alla rovina, perché sopravvalutò sé stesso e la sua nazione nei
conflitti con la Svezia, contro la quale perse più e più volte. Dei rapporti tra Danimarca e Svezia
parla il prof. Massimo Ciaravolo:
«Fatta eccezione per qualche periodo di pace più o meno lungo, sarà la guerra a caratterizzare la
storia del Nord Europa tra gli ultimi decenni del Cinquecento, per tutto il Seicento e fino ai primi due
decenni del Settecento. […] La rivalità tra Danimarca e Svezia riguarda la supremazia economica e
commerciale nell’area baltica.»

Dispensa del Prof. Ciaravolo, p. 15.

33
Questa fase della storia della Scandinavia si contraddistingue per questi rapporti tesi tra Svezia e
Danimarca. Il Nord, al tempo, era diviso in due “Imperi”: l’Impero baltico, di Svezia e Finlandia, e
l’Impero atlantico, di Danimarca e Norvegia.
Un altro importante aspetto storico è che, anche in Scandinavia, si sviluppa l’assolutismo. In
Danimarca è introdotto da Federico III nel 1660, mentre in Svezia si ha con Karl XI, tra il 1680 e il
1682. Questo cambiamento istituzionale significa che la monarchia diventa ereditaria e riduce (ma
non per molto) il potere dei nobili e del råd, senza peraltro accrescere quello del Riksdag. Di fatto,
questa riforma vuol anche dire la fine del Riksdag (in Danimarca), non più convocato per quasi due
secoli. Il re diventa così, come si dice nelle lingue scandinave, eneveldig (nor.), ossia diventa
l’unico regnante. Questo è anche un fatto pericoloso; l’assolutismo viene discusso, tra l’altro,
anche di Leonora Christina nelle sue Memorie:
«Il Conte Rantzov ripeté quello che aveva già detto: che i documenti c’erano, e che della Corte [Råd]
che l’aveva giudicato facevano parte anche nostri amici, eppure tutti erano stati d’accordo e non si
era levata una sola voce contro quel verdetto.

Non osai dire quel che pensavo. Sapevo troppo bene come si svolgono queste vicende nei governi
assoluti. Nessuno osa opporsi. Ti dicono: ‘Firma, perché il Re vuole così; non chiedere perché, se
non vuoi subire la stessa sorte’» (pp. 51-52).

Leonora Christina fu anche vittima del sistema assolutistico della Danimarca. Di fatto, trascorse
quasi 22 anni nelle prigioni danesi. Quando vi fece ingresso, dovette affrontare anche diversi
interrogatori, dei quali riporta testimonianza nelle sue Memorie.
Biografia di Leonora Christina Ulfeldt: figlia di Kirsten Munk, sposata da Cristiano IV per “mano
sinistra”, ossia, era sua moglie ma non la regina, soltanto una donna nobile. Dal matrimonio tra
Kirsten Munk e Cristiano IV nacquero 12 figli. Kirsten Munk venne in seguito allontanata dalla
corte, e da quel momento in poi fu il padre a prendersi cura dei figli, tra cui Leonora Christina. Di
quest’ultima, come era usanza, il padre decise anche il futuro sposo, Corfitz Ulfeldt, primo ministro
e ministro delle finanze, sposato da Leonora Christina all’età di 15 anni. Anche se Corfitz era solo
un nobile, era un uomo molto colto: aveva trascorso tanti anni all’estero, sapeva parlare tante
lingue, aveva un buonissimo livello di cultura. Dopo il matrimonio con Leonora fece una carriera
brillante e divenne presto una personalità di spicco nel Råd danese. Corfitz Ulfeldt, però, era un
anche un fraudolento e corrotto, in quanto prendeva molti soldi dalle casse statali.
Non essendo Kirsten Munk mai stata regina, fu Leonora Christina ad avere il titolo di first lady
danese. La situazione, tuttavia, cambiò alla morte di Cristiano IV, nel 1648. In quella circostanza,
salì al trono il fratellastro, Federico III. Leonora Christina e Corfitz fuggirono in Svezia, presso la
regina Christina dei Vasa, la regina che abbandonò il trono per trasferirsi a Roma, dove si convertì
al cattolicesimo.
Nel 1656, con il nuovo re svedese salito al trono dopo Christina, Carlo X Gustavo, la Danimarca
attacca la Svezia, ma la prima sottovalutò le forze svedese. Corfitz, di fronte a questo conflitto, si
unì all’esercito svedese, arrivando con l’esercito fino a Copenaghen. Era presente anche quando
nel 1658 con il Trattato di Roskilde si stabilì una pace tra le due monarchie molto umiliante per la
Danimarca; difatti, la Danimarca-Norvegia fu costretta a rinunciare a un terzo del proprio territorio
per salvare il resto del paese. Corfitz Ulfeldt, che nel frattempo era entrato al servizio del re
svedese, e fu uno dei principali negoziatori da parte degli svedesi quando Skåne, Halland e
Blekinge passarono alla Svezia nel 1658.

34
08.11.21
• Corfitz Ulfeldt fu arrestato dagli svedesi nel 1659, accusato di tradimento.
• Fuggì con Leonora Christina in Danimarca dove furono arrestati e tenuti prigionieri nella
Fortezza di Hammershus (all’isola di Bornholm). Nel 1662 i due coniugi uscirono dalla
Fortezza.
• Presto la coppia andò di nuovo all’estero. Ulfeldt offrì al Gran Duca del Brandeburgo la
corona danese e nel 1663 fu accusato di alto tradimento.
• Fu giustiziato in effigie e si eresse in seguito una stele a sua infamia a Copenaghen: «A
onta, vergogna ed esecrazione del traditore Corfitz Ulfeldt.»
• Morì in fuga su una barca sul fiume Reno nel 1664.

Jammers Minde (Memorie della torre blu o Memorie di Lamento)


Jammers Minde viene definita un’autobiografia, un diario di carcere. Leonora Christina iniziò a
scrivere il testo nel 1674, quando aveva già trascorso undici anni in prigione. Il manoscritto si trovò
all’estero per molti anni e non fu pubblicato prima del 1869.
Il manoscritto consiste di tre parti.
La prima parte è stata composta in carcere, probabilmente intorno al 1674 (la prefazione è datata
11 giugno 1674), le ultime due dopo l’uscita di Leonora dalla prigione.
La prima parte riguarda le prime tre settimane in prigione.
La seconda parte riguarda invece la vita di ogni giorno nella Torre, mentre la terza si focalizza
sull’ultimo periodo della carcerazione.
Le fasi della prigionia:
1. Gli interrogatori (quattro in tutto).
2. La vita di ogni giorno in prigione.
3. L’ultimo periodo della reclusione.

Lo stile cambia per ogni parte.


La prima parte: La storia di come lei, come Giobbe, accetti il suo destino come espressione della
volontà di Dio.
Seconda parte: L’identificazione con Giobbe non è più importante e generalmente l’interpretazione
religiosa passa in secondo piano a favore della rappresentazione della piccola comunità nella
Torre Blu.
Terza parte: la terza parte è simile alla seconda, ma ha maggiormente carattere di ‘appunti’. Lo
stile narrativo è un po’ affannato e ci dà l'impressione che Leonora Christina cerchi di arrivare
velocemente all’evento più importante: l’uscita dal carcere.
Leonora sostiene di aver terminato il testo a Husum (che si trova oggi nella periferia di
Copenaghen) il 2 giugno 1685. In seguito, Leonora ha raccolto appunti di vario genere:

35
osservazioni di insetti, ovvero pulci e bruchi; poesie e un’aggiunta alla prefazione originale in cui
ricorda le persone che le hanno fatto del bene: in tutto 12 righe.
Più lunghe sono invece le storie di come una serie di nemici muoiano in circostanze angosciose
che corrispondono al loro comportamento malvagio nei suoi confronti. Dio è con lei anche nella
vendetta.
Alcune parti del testo sono state scritte dopo che Leonora Christina fu rilasciata dalla prigione –
ovvero dopo 21 anni, 9 mesi e 11 giorni. Tuttavia, l’autrice cerca di creare l’impressione che l’opera
per intero sia stata scritta in prigione. In questo modo alle situazioni e alle battute viene data
un’aura di autenticità. I miglioramenti linguistici dimostrano che probabilmente aveva in mente un
pubblico piu vasto.

36
37
38
Opera completa di Leonora Christina:
• Ritratti di eroine storiche: Hæltinners Pryd (pubblicato nel 1977)
• Un’autobiografia francese (ritrovato nel 1952)
• Jammers Minde (ritrovato nel 1869)
Hæltinners Pryd (In lode delle eroine): Oggi è conservata solo la prima parte dell’opera. Le altre
due sono andate perse. Leonora Christina fornisce ritratti di 27 donne, tra l’altro delle regine Thyra,
Magrethe I, Elisabetta I d’Inghilterra e Semiramide.
«Il 12 agosto di quell’anno [1684] finii l’opera che avevo intrapreso. Poiché le mie note trattavano di
una grande varietà di donne celebrate per vigore d’animo, per il valore dimostrato nel governo delle
cose, per fedeltà, castità, timore di Dio, celebrate come virtuose o come infelici, per la loro grande
dottrina o la loro tenacia, mi parve rileggendo che non per tutte fosse appropriata la voce ‘eroine’.
Così ne stralciai alcune e il resto del lavoro lo divisi in tre parti sotto il titolo ‘In lode delle eroine’.
Nella prima parte si celebrano le eroine del vigore d’animo. Nella seconda parte le eroine della
fedeltà e della castità. Nella terza le eroine celebri per la loro tenacia e costanza.» (p. 218).

«Gynaeceum is Greek and means ‘women’s chamber’. The word was originally applied to the
section in an ancient Greek private residence that was reserved for women, had a number of
domestic functions and, according to some sources, was possibly used as separate living quarters.
In the Renaissance the word was used as a genre designation for a literary historical category: a
catalogue of women who were notable by virtue of their writings or some other form of artistic or
intellectual activity. The genre emerged as a development of, among other things, a work by the
ancient Greek writer Plutarch, who had described women’s heroic deeds in historical events.
Plutarch’s case studies were often those of collective and anonymous female endeavors, but they
were nonetheless actions he thought should be remembered because of their crucial historical
significance. […] The gynaeceum genre is normally a male preserve. It would be immodest to write
a eulogy to one’s own sex. The mere act of replying to a male scholar’s enquiries about
qualifications for use in a gynaeceum struck some women as too self-assertive by far. It is thus of
even greater interest that the collection of Danish gynaecea includes one written by a woman: the
daughter of King Christian IV, Leonora Christina Ulfeldt’s Hæltinners Pryd (Adornment of Heroines)
[…] With pious indignation, Leonora describes the infantile teasing her heroine Queen Margrethe
had to endure when she prepared for defense against King Albrecht of Sweden’s military offensive:
‘When King Albrecht learned that Queen Margrethe, with her loyal men, was preparing to receive
him, he became scornful and let fall many an invective. He called her Queen Trouserless,
Margrethe Monk’s Mistress, because she was generous towards the Church and the clergy, sent
her a long whetstone with which to sharpen her scissors and her sewing needle, showed her over
to the spinning wheel […]. But Margrethe was immune to this; she was far too noble to allow her
regal dignity be sullied by invectives and slanderous gossip […]’».
Marianne Alenius (2011), “On every kind of laudable female person”.
Leonora Christina è forse la prima femminista della letteratura danese:
«Huoroffte seer man quindactige Hierter i Mands «How often do we not see womanish hearts in
Legemer, oc der imod igien mandelige Kræffter i men’s bodies and, on the contrary, masculine
suage Karr: Ded er Vbilligt, att man maaler strength in weak vessels. It is unreasonable to
Gierningen effter Persohnen, oc skatter icke measure deeds by the person and not
Persohnen effter Gierningen» (tratto dal proemio). appreciate the person by the deed.»

39
(trad. di Marianne Alenius)

L’autobiografia francese: L’autobiografia francese è stata scritta prima di Jammers Minde (nel
1673, dopo la morte di Federico III). Il suo scopo era quello di influenzare negativamente l’opinione
pubblica europea nei confronti della corona danese. Il manoscritto fu segretamente portato fuori
dalla Torre Blu e sebbene non adempisse al proprio scopo primario, divenne abbastanza noto. Alla
fine del Seicento circolavano varie copie del testo in francese e in traduzione danese e latino.
Il tema dell’autobiografia francese è l’eroina perseguitata (Leonora parla di se in terza persona);
volta dopo volta Leonora diventa vittima di intrighi, persecuzioni e umiliazioni che le danno
l’opportunità di dimostrare quanto sia coraggiosa, tenace e dotata di una calma interiore lodevole.
L’eroina trae forza dalla fede nella mano di Dio e dalla consapevolezza di essere la figlia prediletta
del re.
Leonora non menziona la propria madre [Kirsten Munk, moglie morganatica di Cristiano IV],
focalizza invece l’attenzione sul rapporto con il padre. La morte di Cristiano IV rappresenta la
svolta negativa nella vita: «L’an 1648 la Fortune abandonnà nostre femme, car le 28 de Fev. la
Mort luy arrachá le Roy».

40
Paragone tra Leonora Christina e la figura biblica di Giobbe: «By the time Leonora Christina wrote
the preface to Jammers Minde – in 1674, after eleven years of imprisonment – she had reached a
clear picture of how she should understand the series of dramatic events and misfortunes into
which she had been led by her loyalty to Ulfeldt. Degradation, shame and misery in the dungeon
become meaningful when she starts seeing herself as a “Cristi Korsdragerske” (a bearer of the
cross of Christ), a female Job (= Giobbe), chastised and loved by the Lord God. She can make her
balance sheet of suffering tally exactly with that of tried-and-tested Job, and so she writes
triumphantly in the preface: “Verily, He has freed me from six calamities; rest assured that He will
not leave me to perish in the seventh».
Anne-Marie Mai (2011), “Fidelity, suffering and passion”.
Conseguenze di questo paragone:
• Se Leonora è Giobbe le dure prove finiranno senz’altro prima o poi.
• La relazione a Dio garantisce che vi sia un ordine nel caos.
• La vita al fondo della società contiene una dimensione cosmica, la realtà sporca della
prigione fa parte delle prove mandate da Dio.
• A livello testuale la tragedia incontra la farsa, lo stile alto quello basso.
Per sopravvivere in carcere Leonora deve inventarsi dei passatempi.
«Ero sempre in cerca di qualcosa che mi distraesse, e quando seppi che il vasaio che aveva messo
su la stufa di terracotta, aveva lasciato un grosso pezzo di creta sul pavimento della stanza accanto,
pregai la donna di portarmelo. Lei andò a prenderlo, l’Intendente la vide ma non fece domande. Io
preparai la creta impastandola con la birra e feci varie figure; un ritratto dell’Intendente, un altro della
donna, vasi e scodelle. Mi venne in mente di fare qualcosa su cui scrivere al Re poche parole che
l’Intendente non potesse notare. (La donna non sapeva star zitta ed ero certa che un giorno gli
avrebbe raccontato che cosa stavo facendo). Così modellai un boccale, grande all’incirca la metà di
quello nel quale mi servivano il vino, la basa era tonda e poggiava su tre piedini. Su un lato scrisse il
nome del Re, sotto il boccale scrissi queste parole: S'il y a un Sinna, soyez un Auguste» (p. 100).

41
Quattro volte nel testo originale Leonora racconta come trovi/inventi gli attrezzi necessari per
scrivere. In italiano, invece, solo uno di questi brani è stato conservato e tradotto, gli altri sono stati
omessi.
«Lo zucchero arrivava in una carta bianca che poi adoperavo per scrivere poesie e annotazioni.
Trascrissi su quella carta che mi arrivava con lo zucchero, diversi versetti della Bibbia. Il mio
calamaio era fatto con quel pezzo di metallo che la donna aveva trovato, l’inchiostro era il nerofumo
di candela raccolto con un cucchiaio, e la penna era una penna di gallina che avevo rifinito in forma
di pennino usando il pezzo di vetro che avevo. Sono tutte cose che ancora conservo.» (pp. 98-99)

Nel momento in cui lei scrive diventa più di una persona. C’è la persona che scrive e c’è la
persona che viene descritta. Leonora può capire quello che fa perché scrive. Il lettore intuisce che
Leonora abbia bisogno di scrivere per padroneggiare e interpretare la realtà in cui si trova.
Leonora descrive l’ultimo periodo di reclusione attraverso le reazioni delle persone che la
circondano. La loro tristezza le dimostra che il suo rilascio è imminente.
«Era [Jonatha] emozionata, ma non avvilita, e ringraziava con me il Signore. Quando a mezzogiorno
aprirono e io mi misi a mangiare, Jonatha rideva di Ole che era molto addolorato: aveva ragione di
sospirare perché era caduto un bel pezzo di pancetta dal suo piatto di cavoli.» (p. 230)

Leonora esce di sera dal carcere perché non vuole essere vista dalla folla; può anche darsi che
provi ansia nell’essere libera dopo così tanti anni in carcere.
«Quando decise che era ora, le bastò mettersi un velo sul viso per rivestirsi da principessa.»
(Tratto dalla prefazione di Angela Zucconi).
«Appena l’Intendente se ne andò, accompagnata da mia nipote, uscii dalla Torre. La Regina non
volle mancare di vedere la mia sortita. Si era messa a un balcone. Ma era molto buio e inoltre avevo
un velo sul viso. Lungo la piazza del Castello fino al ponte e oltre si era adunata una folla tale che
faticammo a farci strada per arrivare alla carrozza. Avevo passato in prigione ventun anni, nove mesi
e dieci giorni. Il Re Federico III mi aveva fatto imprigionare l’8 agosto 1663, Re Cristiano V mi liberò il
18 maggio 1685. […] Fin qui le mie memorie scritte nel carcere. […] Cari figli, eccovi quasi tutti gli
eventi che valeva la pena rievocare, vissuti tra le quattro mura del carcere. Ora la mia speranza è
che piaccia a Dio e al Re che questo scritto giunga nelle vostre mani. Da Husum il 2 giugno, mentre
sto aspettando il ritorno del Re dalla Norvegia» (pp. 230-231).

09.11.20
Jammers Minde appartiene al genere della letteratura al femminile, ossia quella letteratura che
racconta di esperienze proprie delle donne che devono entrare in qualche modo nel canone di
rappresentazione letteraria. Ciò che Leonora Christina racconta è che faceva amicizia con alcune
delle donne che erano le serve (non era una prigioniera “normale”); Leonora Christina si interessa
molto della vita di queste donne. Qua sotto riportiamo la citazione di un dialogo tra l’autrice e una
di queste donne:
«Anche lei era stata a servizio da un prete prima di sposarsi. Era andata a nozze due volte, sempre
con contadini. […] Dal primo marito aveva avuto un bambino che era morto piccolo e, stando a quel
che lei raccontava, si poteva concepire il sospetto che lei non fosse del tutto estranea a questa
morte precoce. Infatti un giorno parlando di vedove che si risposano, le uscì detto: ‘La vedova che
passa a seconde nozze non deve avere bambini, altrimenti non ci sarà mai accordo col marito’. Io
non ero dello stesso avviso e le domandai che cosa bisognava fare se la donna aveva un bambino.
Rispose senza esitazione: ‘Mettergli un cuscino sulla faccia.’ Le dissi che non mi pareva ben fatto,

42
anzi che era un grave peccato. ‘Ma che peccato!’ disse ‘mettiamo il caso che il bambino stia male e il
marito sia sempre arrabbiato per questo motivo!’ Io le risposi come si doveva e lei non fu certo
contenta della risposta.» (p. 85)

Qua abbiamo l’opportunità, grazie alla narrazione di Leonora Christina, di avere uno spaccato sui
pensieri di una donna che non sono rintracciabili in molti altri documenti letterari del Seicento. Non
è così evidente nel testo in italiano, ma sono presenti tanti livelli stilistici nell’opera, e quindi
abbiamo così la possibilità di capire come parlava una donna delle classi più povere della
Danimarca del Seicento.

Il Settecento
Il Settecento in Scandinavia è un lungo periodo di pace: la Grande Guerra del Nord (1700-1721) –
menzionata in Jeppe della Montagna di Ludvig Holberg – finisce alla fine del secondo ventennio
del secolo. Fino all’inizio delle guerre napoleoniche le relazioni tra i paesi scandinavi sono
pacifiche, non caratterizzate da conflittualità.
Svezia:
● Periodo della libertà (frihettid): 1718 – 1772;
Durante il frihettid il re svedese aveva poco potere; invece, governavano due partiti
all’interno del Riksdag. Era nel Riksdag che Il governo – il Råd – veniva nominato. Durante
il frihettid, nacquero i primi due partiti politici, mössor (berretti) e hattar (cappelli); ciò
rappresenta un primo esperimento parlamentare molto precoce in Europa, in motore già dal
Settecento. I “cappelli” erano principalmente il partito della nobiltà, mentre i “berretti”
rappresentavano le classi inferiori.
Una delle figure centrali di questo periodo della storia svedese è Olof Dalin (1708 – 1763),
fondatore della rivista Den svenska Argus, con la quale ha inizio la fase moderna della
lingua svedese (yngre nysvenska), caratterizzata secondo Ingemar Algulin da realismo,
forma chiara e mezzi di espressione efficaci:

«In 1732, the linguistically influential and culturally important journal Then Swenska Argus (The
Swedish Argus) began to appear (influenced by The Tatler and The Spectator in England). It
introduced a period when new media […] were to influence culture and society to an increasing
degree, and it introduced a new and more oral and direct style of language, less Latinized than the
conventional style of the time.»
Lars Vikør, p. 50.

43
● Regno di Gustavo III: 1772 – 1792;
Con Gustavo III termina il frihettid. È sotto il suo regno che la cultura fiorisce in maniera
straordinaria in Svezia: Gustavo III fonda l’Accademia Svedese nel 1786 (che oggi
consegna il Nobel), crea il Teatro Reale dell’Opera nel 1782 e anche il Teatro Reale
Drammatico nel 1788.

«Just as Kristina created a cultural upswing in the seventeenth century, Gustav III stands at the
center of this new high point in the development of Swedish culture. Through his literary interests,
and through the active cultural policy he pursued after his coup d’état in 1772 […] he gave Swedish
cultural life a much-needed injection which produced lasting results.»
Ingemar Algulin, A History of Swedish Literature, p. 51.

Danimarca:
● Continuazione dell’assolutismo;
1699 – 1730 ➞ regno di Federico IV;

«Dal 1660 è l’assolutismo, invece, a caratterizzare la storia politica danese. Dopo Cristiano V, che
riforma i codici delle leggi, l’epoca di Federico IV conosce, attorno agli anni Venti del Settecento,
l’inizio di una tradizione teatrale nazionale a Copenaghen e la diffusione delle idee illuministe grazie
a Ludvig Holberg, commediografo, storico e filosofo – il maggiore scrittore scandinavo
dell’Illuminismo. Con Dalin in Svezia e Holberg in Danimarca-Norvegia comincia tra l’altro anche la
fase contemporanea delle lingue svedese e danese. Il successivo re Cristiano VI reagisce invece
alle idee con il pietismo religioso e con una nuova chiusura […]» (Dispensa del prof. Ciaravolo);

● 1768 – 1772: Johann Friedrich Struensee, medico personale del re Cristiano VII di
Danimarca (1766 – 1808), si sostituisce al re e introduce una serie di riforme importanti (ad
es. libertà di stampa e di espressione) talmente radicali che il filosofo illuminista francese
scrisse una lettera pubblica al Cristiano VII in cui elogiava la monarchia danese come la più
liberale d’Europa; Struensee venne poi giustiziato, sia a causa delle riforme da lui
applicate, sia per la relazione adultera che aveva con la regina.
Il Settecento è per antonomasia, anche in diverse culture europee, il secolo dell’Illuminismo. In
cosa consistevano i principi dell’Illuminismo? Questi principi si possono vedere riassunti nell’opera
di Kant, il filosofo tedesco con cui nasce la corrente di pensiero illuminista, del quale riportiamo un
brano di Über Pädagogik:
“Man may be either broken in, trained, and mechanically taught, or he may be really enlightened.
Horses and dogs are broken in; and man, too, may be broken in. It is, however, not enough that
children should be merely broken in; for it is of greater importance that they shall learn to think.” 

Immanuel Kant, Über Pädagogik (1803).

Stando a quanto scrive Kant, se il bambino impara ad usare la propria ragione, ciò renderà sia il
singolo che la comunità più felice. Tramite la lettura di questo brano, preso come esempio che
comunica i valori dell’Illuminismo, comprendiamo quale è il progetto ideologico che lo connota:
usare la propria ragione e costruire una società con le sue istituzioni che funzionano grazie alla
valorizzazione della facoltà di pensiero umano data dalla ragione.
La corrente di pensiero illuminista include tra i suoi esponenti l’autore danese Ludvig Holberg
(1684-1754). Holberg era uno scrittore poliedrico: compose commedie, saggi (circa 500), poesie,

44
un romanzo in latino, scritti autobiografici in latino, opere storiche e giuridiche, dedicate alla storia
della Danimarca, dell’istituzione della Chiesa, della comunità ebraica e di eroi ed eroine.
Holberg nacque a Bergen, ma studiò in Danimarca. Dopo il completamento dei suoi studi in
teologia a Copenaghen, durante i quali studiò diritto, storia e lingue straniere da autodidatta, prese
servizio come accademico e professore presso l’università di Copenaghen. Allo stesso tempo,
Holberg iniziò la sua carriera di autore di commedie.
A Parigi, Holberg incontrò lo scienziato francese di origine danese Jacob Winsløw, che era
cattolico. Winsløw cercò di convertire Holberg, senza successo. Holberg apprezzò molto il dibattito
che aveva avuto con Winsløw, ma a Copenaghen cominciò a girare la voce che Holberg si fosse
convertito al cattolicesimo come aveva fatto Winsløw, e di conseguenza ritenne necessario negarlo
al pubblico danese, dando voce a opinioni anticattoliche in diverse occasioni.
Holberg ha criticato le dottrine scolastiche nel cristianesimo, sostenendo che "i bambini devono
essere trasformati in uomini, prima che possano diventare cristiani" e "Se si impara la teologia,
prima di imparare a diventare un uomo, non si diventerà mai un uomo”.
Holberg credeva nella luce divina interiore della ragione delle persone, e per lui era importante che
il primo obiettivo dell'educazione fosse insegnare agli studenti a usare i loro sensi e l'intelletto,
invece di memorizzare inutilmente i libri di scuola. Questa era una nuova, moderna comprensione
della questione della religione, e mostra che era un uomo dell'età dell'Illuminismo. Holberg era
interessato all'intelletto perché sentiva che questo è ciò che unisce la società. Si chiedeva anche
perché ci fosse così tanto male nel mondo, specialmente quando si poteva lasciare che la ragione
facesse strada. Si potrebbe dire che si sia allontanato da una spiegazione religiosa del male verso
un ragionamento razionale/empirico, e questo è importante per il suo status di autore; sia nel suo
tempo che nel nostro.
Holberg era anche un sostenitore dell’assolutismo illuminato, un progetto ideale e politico e una
vera e propria forma di governo, secondo cui il monarca – come padre della patria – deve
promuovere il bene comune e servire i propri sudditi. Nella storiografia danese, il periodo di
Struensee e delle grandi riforme agrarie viene considerato il periodo dell’assolutismo illuminato.
Nella sua commedia Jeppe, infatti, il personaggio del barone rappresenta l’assolutismo illuminato.
Si interessa delle cose pratiche e al bene dei contadini.
La sua prima battuta, nel I atto (scena VIII) è:
BARONE: Sembra che avremo una buona annata, guardate come è fitto l’orzo […]
I contadini se la passano sempre meglio nelle annate buone.
Le intenzioni dichiarate di Holberg con la sua opera erano di illuminare le persone a una società
migliore. Ciò si adatta anche all'immagine di Holberg nell'era dell'Illuminismo. Vale la pena notare
che Holberg amava le città più grandi con una cultura profonda: le piccole città e la natura non lo
interessavano.
Come molti studiosi del suo tempo, anche Holberg influenzò la scienza. Il concetto di Holberg per
la scienza era che dovrebbe essere induttivo (attraverso l'esperienza costruita sulle osservazioni) e
pratico da usare. Un esempio è il suo Betænkning over den nu regierende Qvæg-Syge
(Memorandum sulla prevalente malattia del bestiame) del 1745, dove sostiene che la malattia sia
causata da microrganismi.

45
Le commedie di Holberg: l’autore redasse 27 commedie tra il 1722 e il 1727, commedie che
fanno parte di ciò che lui stesso chiamò poetiske raptus (“mania poetica”), in riferimento all’estasi
poetica, al fervore poetico. L’opera di Holberg può essere suddivisa cronologicamente in tre
periodi:
1. 1711-1718 ➞ principalmente produzione storiografica;
2. 1719–1731 ➞ produzione di poesia satirica e commedie teatrali;
3. 1731–1750 ➞ produzione di trattazione filosofica.

La sua ricca produzione di commedie durante il periodo intermedio è stata plasmata dal suo ruolo
di commediografo e drammaturgo nel primo teatro pubblico della Danimarca, aperto a
Copenaghen nel 1721.
Holberg ha sottolineato di essere costantemente alla ricerca di moralismo, ma l'accoglienza ha
anche sottolineato un atteggiamento ironico e una distanza satirica che possono avvicinarsi alla
misantropia e al pessimismo. Non da ultimo questa dualità tra moralità e ironia fa vivere ancora le
sue commedie, che spesso hanno elementi tragici. La stessa ambiguità è evidente in molti dei suoi
saggi.

Store Norske Leksikon

Le fonti di ispirazione di Holberg ➞ Molière, il teatro dell’antichità (Plauto) e la commedia dell’arte


(sorta per la prima volta in Italia). Difatti, Holberg fu anche un grande viaggiatore, nonostante la
sua povertà; soggiornò infatti in Inghilterra, in Olanda, arrivando poi a Roma, dove vide uno
spettacolo di commedia dell’arte. I viaggi di Holberg furono un'ispirazione principale nei suoi scritti
successivi: queste esperienze lo fecero maturare sia artisticamente che moralmente. Holberg si è
lasciato ispirare dalle vecchie commedie latine e dalle nuove commedie francesi che aveva visto a
Parigi e dai teatri di strada a Roma.
Dal 1730 a 1746 il teatro fu proibito in Danimarca. In questo periodo Holberg si dedicò al campo
filosofico-storico e morale, producendo un romanzo sci-fi in lingua latina intitolato Nicolai Klimii iter
subterraneium (1741). Con la riapertura dei teatri in Danimarca Holberg tornò a scrivere commedie
(sei, per la precisione), comunque meno brillanti di quelle realizzate nel suo periodo di poetiske
raptus.
Con Holberg, soprattutto, nacque il primo teatro moderno in Scandinavia. Anteriormente al XVIII
secolo il teatro aveva certamente posto in Scandinavia; tuttavia, le messe in scene erano ben
lontane dall’essere proprie e caratteristiche del territorio del Nord: tra le rappresentazioni teatrali
dell’epoca ritroviamo quelle in francese dell’attore Montaigu, quelle del teatro itinerante tedesco, e
persino quelle di argomento religioso messe in piedi dagli studenti grazie al supporto della Chiesa.
In un suo articolo, lo studioso Bent Holm ci parla di questa problematica:
«Un teatro in senso moderno, cioè laico, professionale e in lingua nazionale, fu creato […]
nel 1722 dal professore Ludvig Holberg e dall’attore, ex direttore della troupe francese della
corte, René Montaigu, figlio di un drammaturgo collega di Molière. […] L’ambizione era di
creare un teatro civile, nazionale e morale, un teatro contemporaneo nel senso voluto dai
riformatori del diciottesimo secolo: un teatro non visto primariamente come divertimento
spettacolare, ma piuttosto come istituzione culturale e morale rispettabile.»

Bent Holm (2007), «Teatro tra illusionismo e illuminismo», p. 8.

Vediamo adesso in che situazione vengono messe in scena le prime pièces del teatro moderno
scandinavo. Alla corte di Danimarca di Cristiano V di fine Seicento erano già presenti attori

46
francesi. Nel 1686, re Cristiano V assunse infatti René Montaigu, il figlio di un collega di Molière.
Montaigu rimase a capo del gruppo di attori francesi anche alla corte di Federico IV tra il 1701 e il
1721. Tuttavia, Federico IV decise poi di allontanare questi attori in favore dell’assunzione di una
compagnia di cantanti d’opera di Amburgo. Montaigu, che era senza lavoro, chiese quindi al re di
poter fondare un teatro che rappresentasse drammi in lingua danese. Federico IV acconsentì; fu in
quella circostanza che Holberg entrò “in scena”: infatti, fu scelto come commediografo perché
aveva scritto un divertente epos comico di nome Peder Paars (1719), una specie di parodia delle
avventure di Enea. Il teatro aprì il 23 settembre 1722 con L’avaro di Molière. Un paio di giorni più
tardi si rappresentò Den politiske kandestøber (Lo Stagnaio politico) di Ludvig Holberg.
Si trattava di un teatro in cui militavano gli ex membri del gruppo di attori reali e studenti
universitari, studenti che si stavano preparando alla carriera ecclesiastica. Alcuni di questi studenti
furono in seguito allontanati dall’Università e non potevano più sostenere gli esami. Gli studenti
che recitavano a teatro costituivano un problema per l’Università; il loro «destino» fu discusso nel
collegio dei professori di cui anche Holberg faceva parte. Holberg, che era anche professore
all’università, votò a favore della pena severa nel caso dello studente-attore; un chiaro esempio del
rischio che Holberg correva nell’essere coinvolto nel progetto teatrale. La soluzione che Holberg
trovò a questo problema fu la creazione di pseudonimi: Holberg non ha pubblicò mai le sue
commedie con il proprio nome. Già a partire da Peder Paars, il frontespizio del testo portava la
firma di un certo Hans Michelsen. Come professore universitario Holberg temeva di essere
criticato per la sua produzione teatrale. Il compito dell’Università era quello di formare i futuri
sacerdoti e, secondo il giudizio degli ecclesiastici, le commedie potevano facilmente essere
considerate come una minaccia alla serietà che dovrebbe connotare la fede cristiana. Molto
probabilmente, si sapeva chi fosse in realtà l’autore di queste commedie, ma lo pseudonimo
funzionò comunque come una specie di “scudo” dietro cui l’autore poteva nascondersi. Holberg
utilizzò anche altri pseudonimi: Just Justesen, ad esempio, autore e critico fittizio che commentava
nella prefazione alle prime sei commedie il loro contenuto.
“Just Justensen” ➞ il nome indicava che doveva trattarsi di una persona particolarmente adatta a
dare un giudizio equilibrato.
Questo nuovo teatro danese, nonostante gli sforzi, non riscosse alcun successo finanziario, e
dovette chiudere i battenti prima dell’incendio di Copenaghen del 1728. Il teatro, sebbene non
fosse andato in fuoco e fiamme, non fu comunque riaperto.
Durante il regno del successore di Federico IV – Cristiano VI (1730-46) – il pietismo diventò la
nuova versione dominante del cristianesimo danese. Il pietismo era una corrente di pensiero del
Cristianesimo sorta nel 1700, secondo la quale la fede era un fatto personale e il pentimento
personale era decisivo; secondo il pietismo, si doveva vivere con il timore di Dio.
«Il pietismo è un movimento radicale di origine tedesca, dominato da una fede intensa, personale ed
emozionale, da un forte senso del peccato, del rimorso, del pentimento, da un rifiuto radicale del
corpo, tranne che nel suo valore di metafora del rapporto quasi erotico col divino, con il Redentore.
Ovviamente commedie, balli, mascherate furono condannati in modo totale. Durante l’epoca del
pietismo il teatro fu proibito mediante una legislazione che de facto impediva attività teatrali.»

Bent Holm (2007), «Teatro tra illusionismo e illuminismo», p. 11.

Pertanto, durante il regno di Cristiano VI il teatro come forma di espressione artistica e culturale
viene messo a tacere.

47
Ma com’era intesa formalmente la commedia nel XVIII secolo scandinavo? Quali erano le sue
caratteristiche? Possiamo riconoscere che erano in voga diversi tipi di commedie nella
Scandinavia del Settecento:
● Karakterkomedie: Commedia di carattere
● Intrigekomedie: Commedia d’intrigo
● Forvekslingskomedie: La commedia degli equivoci 
Concentriamoci sulle Karakterkomedier, che si focalizzano su un singolo personaggio che ha
qualche vizio (avidità, ipocondria, frivolezza, ecc.). Il personaggio viene punito per questo vizio, tra
l’altro deriso dal pubblico e dagli altri personaggi per questo stesso vizio; in questo modo,
idealmente, il personaggio rientra a far parte della comunità, dalla quale era anteriormente
ostracizzato. La risata – o meglio, la derisione – di questo personaggio nel suo vizio è un elemento
fondamentale delle Karakterkomedier, di cui parla Bergson in un suo saggio:
«Ma a questa domanda abbiamo già risposto implicitamente. Il comico, dicevamo, si rivolge
all’intelligenza pura; il riso è incompatibile con l’emozione. Dipingetemi un difetto leggero quando
vorrete: se me lo presentate in modo da commuovere la mia simpatia, o la mia paura, o la mia pietà,
è finita, non posso più riderne. Scegliete al contrario un vizio profondo e anche, in generale, odioso:
potrete renderlo comico se riuscite prima, con artifici appropriati, a far sì che mi lasci insensibile. Non
dico che allora il vizio sarà comico; dico che da allora in poi potrà diventarlo. BISOGNA CHE NON
MI COMMUOVA, ecco la sola condizione realmente necessaria, sebbene non sia sicuramente
sufficiente.»

Henri Bergson, Il riso. Saggio sul significato del comico (1900)

Bergson ci dice perciò che non si può nutrire empatia verso la comicità suscitata dal personaggio
“affetto” dal vizio, perché la risata dev’essere fredda, niente più. Bergson afferma che il riso è un
castigo, e quindi la persona ridicola, in realtà, deve imparare qualcosa.

Jeppe på Bjerget eller Den forvandlede bonde (1722)


Come nasce Jeppe på Bjerget eller Den forvandlede bonde? Per capirlo, dobbiamo risalire al
lavoro di un gesuita tedesco vissuto tra fine Cinquecento e inizio Seicento, Jakob Biedermann.
Biedermann scrisse un romanzo di viaggio, Utopia (1644). Questa è la fonte che Holberg utilizza
come ispirazione per la redazione di Jeppe, così come ci racconta il suo pseudonimo Just
Justensens nel 1723:
La quarta commedia si chiama Jeppe della Montagna o Il contadino trasformato, uno dei vecchi
racconti di Biedermann che l’autore ha presentato in forma di commedia. Questo è l’unico
argomento che l’autore non abbia inventato di sana pianta per cui non pretenda di diventare famoso,
sebbene le idee divertenti che sono messe in bocca al contadino e che spingono tutti i tipi di
spettatori a risate infinite siano sue.

È inoltre curioso come nel titolo appaia una “montagna”, considerando che in Danimarca non ci
siano montagne. La “montagna” del titolo è, difatti, un riferimento al paese da cui Jeppe proviene,
probabilmente dell’area di Sjælland del territorio danese, dove Holberg esercitò potere come
barone quando fu eletto a tale dal 1747; in Danimarca si trovano tanti paesini con il nome di
Bjerget, appunto ‘montagna’ in danese.
Quale è la differenza sostanziale tra il testo di Biedermann e quello di Holberg? Ce lo dice Bent
Holm, che scrive:

48
«The peasant in Holberg’s source material – Bidermann’s novel Utopia – is seen entirely from the
aristocratic point of view. He is unequivocally made a fool of. Jeppe, on the other hand, is seen
simultaneously from within and from the outside.»

Bent Holm, Ludvig Holberg, p. 124.

Trama: Jeppe è un contadino, che vive su una collina Zelanda, che spende tutti i suoi soldi in
bevande ed è maltrattato dalla moglie Nille, che lo malmena abitualmente. Nel villaggio abita un
barone che decide di mettere alla prova questo falso buono a nulla. Quando Jeppe è di nuovo
ubriaco nella fogna, il barone lo porta a casa sua e lo fa portare a letto per dormire, lontano dalla
sua condizione di intossicato. Quando Jeppe si sveglia, non sa dove e chi sia. Si chiede se sia in
paradiso o ancora vivo. Il personale è stato incaricato dal barone di trattare Jeppe come se fosse il
barone, ruolo che Jeppe perciò ricopre da quel momento, abituandosi abbastanza in fretta alla sua
nuova condizione di nobile. Tuttavia, piuttosto che tornare al suo carattere di umile alcolista, si
trasforma in una figura tirannica che abbatte e opprime tutti (es. vuole uccidere tutti, impiccare
tutti). Dopo un po 'si addormenta di nuovo, e nel frattempo viene istituito un cosiddetto tribunale,
che condanna Jeppe all'impiccagione per il suo comportamento; anche in questo caso, non si
capisce bene se pure il processo sia una messa in scena architettata dal vero barone o se sia
invece reale nel suo svolgimento. Non si arriverà a questo, e Jeppe viene risparmiato, ma viene
comunque rimandato da dove è venuto. Sembra che la morale che se ne trae è che non si devono
mettere al potere gli immeritevoli. Presto ritorna alle sue vecchie abitudini nel bere. Che ne abbia
imparato qualcosa è dubbio, ma si vergogna. Nille, sua moglie, viene scacciata perché è andata
troppo oltre contro Jeppe. Rimane dubbio anche il ritorno della moglie di Jeppe.
Nell’opera holberghiana Jeppe på Bjerget eller Den forvandlede bonde, che si incasella nel genere
della Karakterkomedie, il personaggio di Jeppe è un ottimo esempio di personaggio vizioso tipico
delle Karakterkomedier. Quale è il vizio di Jeppe?
«Just like other Holbergian fools, the central character here also suffers from a flaw: his ineffectual
recognition of reality. Instead of useful labour, he indulges in far-fetched fancies fuelled by alcohol.
His character flaw renders him an incompetent – unproductive – citizen. In this respect, it is vital to
remember that Holberg considered the peasantry as such in its capacity of its productivity to be
categorically one of the most important social classes. Conventional wisdom saw the peasantry as
contemptible, virtually bestial, whereas Holberg held the rural community in respect. And it was a
quite exceptional move on his part to make one of these people – who in the theatre were otherwise
reduced to peripheral clowning roles – the very protagonist of the play, and, what is more, provide a
very thorough depiction of his mind and the conditions of his life, actually taking him seriously.»

Bent Holm, Ludvig Holberg, p. 114.

Quindi, la mossa originale di Holberg è che Jeppe, un contadino protagonista della sua commedia,
non sia rappresentato solo come un clown, ma che descriva invece dettagliatamente come pensa,
come vive e cosa ha vissuto nella sua vita; Jeppe è un personaggio preso seriamente. Nel 1723
circa l’80% della popolazione danese era formata da contadini. Negli stessi anni stava crescendo
la mobilità sociale nelle città per il ceto borghese; Jeppe e i suoi simili, invece, non potevano
muoversi socialmente. Non c’era un singolo contadinno tra il pubblico nel teatro di Holberg e
Montaigu nel 1723.
Servitù della gleba ➞ introdotta nel 1723.

Ci verrebbe adesso da chiederci, in linea con i principi della Karakterkomedie, se Jeppe impara
qualcosa durante lo svolgimento della trama teatrale. Di fatto, non lo sappiamo: nel V atto, Jeppe
esce di scena vergognandosi, “si libera e scappa via”. Bent Holm si pronuncia al riguardo della

49
questione, e scrive che la commedia «manifests the necessity of a prosaic recognition of reality in
the depiction of the central character, a man who is brutally humiliated for having let himself be
fooled.»
Analizziamo adesso il contenuto della commedia di Holberg con le sue forme di espressione e i
significati e simbolismi a cui sono correlate.
Jeppe è certamente un personaggio presentato in maniera comica. Questo lo vediamo già a
partire dall’Atto I, e lo capiamo attraverso le parole della moglie Nille e gli aneddoti che racconta il
barone Erich:
ATTO I, scena I

[…]

Nille: «E’ difficile che in tutto il circondario ci sia una canaglia pigra come mio marito: riesco appena a
svegliarlo tirandolo giù dal letto per i capelli. […] Se per un anno io lasciassi comandare mio marito, i padroni
non riceverebbero il loro canone e il pastore non avrebbe la sua decima, perché nel frattempo egli si berrebbe
tutto quello che c’è in casa; dovrei lasciare comandare un uomo pronto a vendersi bestie, moglie e figlie e
persino se stesso per l’acquavite?»

[…]

ATTO I, scena VIII

[…]

Erich: «[…] Jeppe della montagna è uno dei più grandi dormiglioni di tutto il circondario. L’anno scorso
provarono a legargli un razzo dietro la schiena, ma il razzo scoppiò senza che lui si destasse per questo dal
sonno.»

Ma Jeppe non è soltanto un personaggio comico. Nell’Atto I anche Jeppe prende la parola, e
racconta del suo passato travagliato, in particolare facendo riferimento al rapporto che ha con la
moglie, una donna violenta:
ATTO I, scena III

[…]

Jeppe: «La gente dice che Jeppe beve, ma nessuno dice perché Jeppe beve: non mi sono preso tante bastonate
nei dieci anni di ‘malizia’ (= i suoi anni da soldato) quante ne ricevo in un giorno da quella cattiva donna.
Lei mi picchia, l’intendente mi fa lavorare come una bestia e il sagrestano mi mette le corna. E io non devo
bere?»

Nel suo saggio L’umorismo, Pirandello parla della differenza tra comicità e umorismo, dicendo che
questa si ritrova e si verifica nel momento in cui subentra l’atto della riflessione da parte dello
spettatore, quando, dopo aver conosciuto la comicità di un personaggio, ci chiediamo perché sia
effettivamente comicità. Quando riflettiamo sul perché Jeppe beva, non ridiamo più con leggerezza
come rideremmo senza aver operato la riflessione.
Con Jeppe på Bjerget abbiamo anche un testo che è pieno di comicità che riguarda il corpo. Un
esempio è nella scena V del I Atto, dove le gambe del corpo litigano con la pancia di Jeppe, che si
chiede se debba continuare a bere oppure se debba andare in città per comprare del sapone
verde come la moglie gli ordina di fare all’inizio della commedia:
Jeppe: «Oh, se avessi il coraggio di bere ancor per un soldo! La mia pancia dice che devo farlo, e la mia
schiena mi dice di no; chi devo scontentare? […] Avanti, gambe mie! Il diavolo vi faccia a pezzi se non

50
camminate! Per Dio, quelle canaglie non vogliono muoversi. Vogliono tornare all’osteria. Le parti del mio
corpo sono in guerra tra loro: la pancia e le gambe desiderano andare all’osteria, e la schiena in città!»

Il barone Erich è invece è un personaggio dotato di moralità, l’opposto di Jeppe. Questa sua
moralità viene presentata due volte nel testo, alla fine del III Atto e alla fine del V; nel primo caso
veniamo introdotti al modo in cui questi pensa e ragiona, una linea di pensiero che viene
confermata nel secondo caso:
ATTO III, scena IV

[…]

Erich: «Ora abbiamo partita vinta, ma quasi quasi andava a finire che i presi in giro eravamo noi; egli aveva
infatti l’intenzione di tiranneggiarci tutti quanti, e a noi non sarebbe rimasto che o mandar a monte lo scherzo o
lasciarci maltrattare da quel rozzo contadino, dal comportamento del quale si può bene vedere quanto
tiranniche e superbe diventino quelle persone che dalla strada giungano improvvisamente a grandi onori e
dignità.»

[…]

ATTO V, scena VI

[…]

Il Barone: «Se il governo daremo ai contadini,

agli operai, alla gente di niente

non ne faremo che degli assassini.

Avran tutti i villaggi il lor Nerone

vedrem dovunque tiranni al timone.»

Un altro fattore che rende Jeppe på Bjerget un testo complesso è il fatto che Jeppe riesca a
svelare diversi soprusi del sistema sociale danese del Settecento. Quando recita il ruolo del
barone, Jeppe ha dietro di sé tutta la sua esperienza di contadino; tuttavia, ripete i soprusi che ha
subito come contadino, adesso in qualità di governatore che ne infligge. È esemplare la vicenda
sessuale avvenuta tra il sagrestano Mads e la moglie, quando forza l’intendente ad accettare che
Jeppe dorma con sua moglie (anche se, di fatto, poi non succede, perché Jeppe si addormenta
ubriaco):
ATTO I, scena III

Jeppe: «Al diavolo le tue corna, sagrestano Mads! – Ma sapete cosa successe? Il maestro Erich fu fatto subito
saltar fuori per mettere fine alla questione, e la mia schiena si ebbe tante carezze da mia moglie che io fui
costretto a chieder scusa al sagrestano, e a ringraziarlo dell’onore che aveva voluto fare alla mia casa, lui che è
un uomo istruito.»

[…]

ATTO III, scena III

[…]

Jeppe: «Tu permetti che io dorma con tua moglie questa notte?»

Jeppe: «Ringrazio Vostra Signoria, che intende rendere un simile onore alla mia modesta casa.»

51
Jeppe, però, non dev’essere ridotto alla sagoma di cui ci si beffa nello svolgersi della trama della
commedia, ma è anche un personaggio commovente, se vogliamo. Quando viene condannato alla
morte nel IV Atto, per poi essere condannato a vivere nel V, dice addio a tutte le cose che lui ama,
facendo un discorso commovente in merito al suo amore per tutti i suoi animali:
ATTO IV, scena VI

[…]

Jeppe: «Addio, mio caro cavallo pezzato, grazie per ogni volta che ti son montato in groppa: dopo i miei figli
non c’è bestia che abbia amato più di te. Addio Feierfax, cane fedele, custode della mia casa, addio Moens, mio
caro gattino nero, addio miei cari buoi, mie care pecore, miei porci, grazie per la buona compagnia che mi
avete fatto, per ogni giorno che sono stato con voi. Addio, ahimè! Ora non ce la faccio più, mi sento così
pesante e debole …»

Vediamo quindi come la complessità caratterizzi la commedia in diversi aspetti, a partire


dall’intento che ne caratterizza la nascita, arrivando all’intreccio non banale, alla costituzione
psicologica dei personaggi. Nel suo lavoro su Ludvig Holberg, Bent Holm parla della struttura
classica della commedia e della tragedia secondo i drammaturghi francesi, che affermavano sui
principi aristotelici della tragedia greca che la commedia dovesse essere composta di cinque atti,
ognuno corrispondente a una fase dello sviluppo della trama:
1. Esposizione;
2. Complicazione;
3. Confrontazione;
4. Disperazione;
5. Risoluzione.

«The French dramaturgic construction has […] a rather mechanical clockwork quality, in which each
individual component is subordinated to the overall objective, the destination point, the concluding
realisation, which stems from the unravelling of the knot generating the conflict, with attendant comic
or tragic resolution. […] All transitions must thus be logically motivated; the stage must never stand
empty between two episodes; structure should chiefly be the five-act model, moving from 1.
exposition, i.e. presentation of thematics and characters, via 2. a complication of the central conflict,
3. confrontation of the principal contradictory forces, and 4. desperation on the part of the protagonist
with regard to his or her fundamental project, resulting in 5. the concluding dénouement – resolution
of the central conflict, the key dramatic knot, which has the added twist of containing the thematic
clarification.»
Bent Holm, Ludvig Holberg, pp. 33-34.

Vediamo quindi se questa suddivisione in fasi dello sviluppo della trama si può applicare a Jeppe
på Bjerget:
1. Esposizione: Nel caso di Jeppe, il protagonista non sembra avere un progetto. Jeppe viene
mandato in città per comprare del sapone. Il suo dilemma è: devo spendere i soldi
comprando il sapone oppure comprando da bere? Solo dopo che Jeppe si addormenta
entra in scena il barone e il tema principale del testo viene introdotto: far credere a Jeppe

che sia il barone. Non è però il progetto del protagonista. Come protagonista Jeppe non ha
un progetto, è passivo. Jeppe vuole fuggire nel mondo dei sogni, dell’ubriachezza;
2. Complicazione: Visto che non sappiamo bene cosa sia il conflitto principale, è difficile dire
se questo conflitto venga sviluppato ulteriormente o meno. Il dilemma di Jeppe è: è un

52
contadino oppure un barone? I dottori gli fanno credere di essere un barone. Il problema di
distinguere la realtà dalla finizione non è il tema principale del dramma;
3. Confrontazione: Qui abbiamo in effetti una confrontazione, ma riguarda principalmente la
confrontazione tra realtà e illusione – l’illusione prende il sopravvento – e non tra diverse
concezioni del concetto di potere. Il discorso finale del Barone contiene già la morale del
testo;
4. Disperazione: Il progetto del protagonista dovrebbe essere in difficoltà – ma Jeppe ha un
progetto al di fuori di quello di evitare casini e tornare allo stato beato di prima? La scena
del tribunale rappresenta un nuovo progetto. Il tribunale era un ‘vero’ tribunale.
Bent Holm dice al riguardo che la «first edition of the play makes it clear that the judge is a
separate role, and not the Baron or one of his men in disguise»;
5. Risoluzione: Nel quinto atto il conflitto principale dovrebbe essere risolto. Invece Jeppe è
condannato a vivere, continua a bere e viene umiliato da Magnus, un personaggio che non
abbiamo visto prima. Il Barone ripete la morale della commedia, presentata già nel terzo
atto. Il testo di Jeppe på Bjerget non ha una tipica struttura drammaturgica.
Inoltre, continuando sulla linea strutturale indicata da Aristotele, la tragedia doveva essere
caratterizzata da una sola trama, dove tutto doveva convergere verso la risoluzione di questa
trama, un tipo di struttura che caratterizza anche l’opera di Holberg in questione, che trova la
risoluzione del conflitto presentato con le parole pronunciate dal barone alla fine della commedia.
La Poetica di Aristotele, però, non può essere utilizzata in maniera univoca per una comprensione
di Jeppe på Bjerget; se ricordiamo le tre unità (azione, tempo e luogo) secondo cui si osserva la
messa in scena teatrale dettate da Aristotele, vediamo subito che la commedia di Holberg non le
rispetta (sono compromesse le unità di azione e di luogo).
Dobbiamo, pertanto, introdurre un altro modello di interpretazione. I principi teorici dei francesi
possono aiutarci a capire che ci sono delle lacune in Jeppe på Bjerget; qui, è fondamentale
sottolineare che Holberg trae ispirazione per la scrittura del suo testo anche dalla commedia
dell’arte.
«Episodes involving the peasant [in Bidermann] follow the ritual structure of carnival happenings,
which also feature in various versions in commedia dell’arte where the sequence is typically acted
out by Harlequin the clown.»

Bent Holm, Ludvig Holberg, p. 115.

Con “Harlequin the clown”, Bent Holm sta facendo riferimento a quello che si definisce “rito
carnevalesco”, una categoria di lettura che era stata messa a punto da un altro teorico, il russo
Bachtin, che lo menziona per analizzare la poetica di Dostojevsky:
”The primary carnivalistic act is the mock crowning and subsequent decrowning of the carnival king.
[…] Crowning/decrowning is a dualistic ambivalent ritual, expressing the inevitability and at the same
time the creative power of the shift-and-renewal, the joyful relativity of all structure and order, of all
authority and all (hierachical) position. Crowning already contains the idea of immanent decrowning:
it is ambivalent from the very start. And he who is crowned is the antipode of a real king, a slave or a
jester; this act, as it were, opens and sanctifies the inside-out world of carnival.”

M.B. Bachtin, Problems of Dostoevsky‘s Poetics, p. 124.

16.11.21

53
Il principio carnevalesco teorizzato da Bachtin osservato la scorsa volta guida il testo di Jeppe på
Bjerget. Bent Holm spiega nel suo articolo questo principio connotato da ritualità, che ha come
perno rotatorio le caratteristiche parodico-satiriche volte a capovolgere l’ordine iniziale/giusto delle
cose presentato all’inizio dell’azione narrativa; al centro del rito carnevalesco, nel caso di Jeppe på
Bjerget, si colloca la figura del signore del malgoverno, un “re buffone”, Jeppe, che è di natura una
figura ambigua e sfaccettata.
La figura del buffone che diventa re esiste anche nel mondo delle fiabe; basti pensare alla fiaba
Klods-Hans (Gianbabbeo) di Andersen, del 1885, che si basa sulla stessa struttura contenutistica.
Il rito carnevalesco come categoria analitica può essere suddiviso in vari momenti, che
corrispondono molto meglio alla struttura narrativa di Jeppe på Bjerget più di quanto riescano a
fare i principi della struttura drammaturgica francese:
● Entrata;
● Caos;
● Giustizia;
● Svelamento;
● Eliminazione.
Pensiamo anche solo a una citazione direttamente dal testo teatrale, che è come se rinforzasse
questa struttura carnevalesca particolare:
«E’ una maledetta storia, a ripensarci bene: una volta contadino ubriaco, una volta barone, poi ancora
contadino; una volta morto, una volta risuscitato sulla forca, che è poi la cosa più strana di tutte.»

V atto, scena III

Quale è la conseguenza del fatto che i principi francesi non reggano nell’analisi di Jeppe på
Bjerget? È che Jeppe diventa la figura con cui noi spettatori ci identifichiamo, per la quale
proviamo simpatia; il pubblico, che Jeppe chiama “testimoni”, vede la storia attraverso i suoi occhi,
le sue parole e le sue azioni, sebbene il punto di vista morale di Holberg coincidesse con quello del
Barone Erich. Il tema della trama è: cosa succede se un uomo non istruito viene messo
improvvisamente al governo? Secondo il Barone Erich finisce male, ribadendo questo punto di
vista ben due volte, alla fine del terzo e del quinto atto. La composizione, analizzata dal punto di
vista delle regole classiche del dramma, non riesce a sviluppare questo tema in modo congruo.
Tuttavia, è bene notare anche un’altra cosa: Jeppe non è solo preso in giro, è anche lo stupido che
prende in giro gli altri. Con le sue battute spiritose e la sua imprevedibilità, ottiene il voto di
simpatia nei confronti delle autorità e finisce per smascherare la natura scenica dell'ordine
regolamentato.

L’Ottocento in Scandinavia
Abbiamo visto che il Settecento è stato un secolo tranquillo per la Scandinavia, soprattutto per la
Danimarca. L’Ottocento, invece, fu un periodo più turbolento per il Nord. Le guerre napoleoniche
(1803-1815), in parte estensione delle guerre rivoluzionarie innescate dalla Rivoluzione francese e
perduranti poi durante tutto il Primo Impero francese, dettero un nuovo assetto geopolitico alla
Scandinavia: l’Ottocento è il secolo della fine dei due imperi svedese-finlandese, che perse la
Finlandia nel 1808-09, e danese-norvegese, che cedette invece la Norvegia alla Svezia nel 1814.
L’Ottocento fu anche il secolo delle prime costituzioni democratiche:
● Svezia ➞ 1809;
● Norvegia ➞ 1814;

54
● Danimarca ➞ 1849.

È in questo secolo, più precisamente verso la fine seconda metà dell’Ottocento, che le letterature
scandinave diventano una “letteratura guida” per l’Europa; finisce per il Nord la fase delle imitazioni
e delle relazioni di dipendenza dal punto di vista artistico, mentre comincia quella in cui la
Scandinavia detta l’agenda letteraria. Da un punto di vista storico-letterario, si può suddividere
l’Ottocento in quattro fasi principali:
1. Romanticismo (1800-1850): questo fu un periodo dominato letterariamente dalla figura di
Adam Oehlenschläger, poeta romantico per eccellenza;
2. Romanticismo e Realismo (1850-1870): di questo periodo si distaccano le opere di H. C.
Andersen e Bjørnstjerne Bjørnson, che fa parte anche della fase successiva;
3. Naturalismo (1870-1890): il tempo di Georg Brandes, August Strindberg, Henrik Ibsen,
Amalie Skram e Herman Bang;
4. Post-naturalismo (1890-1900), in cui, cronologicamente, inseriamo Knut Hamsun e Selma
Lagerlöf.
Vediamo in questo specchietto che l’Ottocento fu il secolo per eccellenza del Romanticismo,
sviluppatosi in territorio tedesco durante il secolo precedente, che raggiunse anche la Scandinavia
cento anni dopo, trovandovi radici fertili e sviluppandosi:
«Irradiatosi dalla Germania, il movimento romantico coinvolse arte, letteratura e filosofia di tutta
Europa, e in generale comportò un deciso cambio di orizzonti culturali rispetto all’Illuminismo. Il
Romanticismo mette in risalto il sentimento e la fantasia; eccezione, originalità e ‘genio’ esprimono
l’opposizione all’idea di regola universale e ‘giusto mezzo’. Ciò vale tanto per l’individuo quanto per
la società: i concetti forti di patria e nazione si contrappongono al cosmopolitismo del Settecento, e
uno dei maggiori contributi del Romanticismo è proprio il senso della specificità storica e nazionale
che viene dal rifiuto di principi ‘universali’.»

Massimo Ciaravolo, Storia delle letterature scandinave, p. 210.

Ciaravolo mette l’accento anche sul fatto che il Romanticismo ottocentesco si riconduce anche allo
spirito nazionalista tipico della corrente di pensiero estetica, che nel caso del Nord fu forse più forte
in Norvegia che negli altri due paesi scandinavi, considerando che nel paese si ebbe un arrivo dei
principi romantici coincidente con la nascita della Norvegia come paese libero dal dominio danese
dopo “quattro secoli di buio”. Non è un caso che è nell’Ottocento che nacquero gli inni nazionali dei
paesi scandinavi:
● Danimarca ➞ Der er et yndigt land (1819) di Adam Oehlenschläger; / Danmark er jeg født
(1850) di H. C. Andersen;
● Svezia ➞ Du gamla, du fria (1844) di Richard Dybeck;
● Norvegia ➞ Ja vi elsker dette landet (1864) di Bjørnstjerne Bjørnson.

Il Romanticismo è un fronte estetico che presenta anche altre caratteristiche ad esso peculiari. Ad
esempio, alcune manifestazioni romantiche mettono in chiaro come fosse diffusa tra gli intellettuali
e artisti romantici l’idea che il corpo sia un ostacolo nel raggiungimento della vera realtà delle idee.
Toril Moi spiega che
Because it is (literally) the incarnation of human finitude (separation and death), the romantic thinks
of the body as an obstacle, as that which prevents us from knowing other human beings. True
human communication, the romantic believes, must overcome finitude; thus we get fantasies of souls
commingling, of perfect communication without words, and of twin souls destined for each other from
all eternity.

55
T. Moi, Ibsen’s Modernisms, p. 238-239

Come arrivò il Romanticismo in Scandinavia? Grazie all’azione del danese Henrik Steffens
(1773-1845), una figura già “ibrida” in senso di origini (era figlio di madre danese e padre tedesco,
e nacque in Norvegia, a Stavanger). Steffens era un filosofo che si formò a Copenaghen prima e
poi a Berlino, dove conobbe anche Goethe; la Germania, poi, gli fu propizia per più di una ragione:
durante i suoi viaggi nel paese, entrò in contatto con il Circolo romantico di Jena (ca. 1796-1801),
di cui facevano parte personalità del calibro degli Schlegel (autori della rivista Athenäum, la quale
diffuse le nuove idee romantiche e fu una sorta di manifesto del Circolo di Jena), circolo che ebbe
l’importanza storica di essere stato la culla del Frühromantik. Fu così che Steffens, una volta
ritornato in patria, introdusse in Scandinavia i principi fondamentali del romanticismo tedesco
attraverso le sue “Lezioni di filosofia”, tenute nel 1801. L’importanza del filosofo fu immensa per lo
svilupparsi del Romanticismo in territorio nordico: è infatti sulla scorta dell’azione culturale-artistica
di Steffens che Oehlenschläger, dopo aver conosciuto il primo, scrisse I corni d’oro.

H. C. Andersen
Hans Christian Andersen nacque a Odense, sull’isola di Fyn, in una famiglia molto povera (suo
padre era ciabattino e sua madre lavandaia). Ciononostante, nella casa di famiglia era presente
una biblioteca fornita di tutte le opere di Holberg, che Andersen conosceva a memoria; perciò,
sebbene la sua famiglia fosse povera, sia suo padre che lui stesso erano cittadini danesi colti.
Andersen spesso parlava della propria vita come una fiaba: l’autore scrisse diverse autobiografie,
la prima delle quali aveva titolo Mit livs eventyr (“La fiaba della mia vita”, 1855). Le sue stesse
fiabe, in certa misura, rispecchiano la sua vita; un esempio è Den grimme ælling (“Il brutto
anatroccolo”), in cui Andersen riporta la massima “Non importa essere nati nel cortile delle anatre
quando si è usciti da un uovo di cigno”. Le sue origini e il suo background di povertà sono un
elemento importante nella lettura delle sue fiabe. Difatti, la simpatia di Andersen nelle sue
narrazioni è sempre rivolta verso gli strati più bassi della società.
Andersen è conosciuto in primis come scrittore di fiabe, ma la sua produzione letteraria non si
limita all’ambito del fiabesco: fu anche autore di poesie, libretti, testi teatrali, autobiografie (come
abbiamo da poco visto) e romanzi. Il romanzo più famoso di Andersen, L’improvvisatore, è del
1835, anno di pubblicazione anche delle sue fiabe, ed è considerato il suo romanzo “italiano” per
antonomasia (già dall’ambientazione italiana del romanzo è comprensibile, ma è anche rilevante
che Andersen abbia trascorso un soggiorno di un anno a Roma durante nove anni di viaggio per
l’Europa).
Georg Brandes, il critico dell’importantissima Breccia moderna o nordica, si pronunciò nei riguardi
di Andersen nel 1869 e descrisse come l’autore si rivolgeva ai bambini nella produzione di
letteratura infantile:
«The construction, the position of the words in individual sentences, the entire arrangement, is at
variance with the simplest rules of syntax. ‘This is not the way people write’. That is true; but it is the
way they speak. To grown people? No, but to children; and why should it not be proper to commit the
words to writing in the same order in which they are spoken to children? In such a case the usual
form is simply exchanged for another; not the rules of abstract written language, but the power of
comprehension of the child is the determining factor; there is method in this disorder, as there is
method in the grammatical blunders of the child […] To replace the accepted written language with
free, unrestrained language of familiar conversation, to exchange the more rigid form of expression
of grown people for such as a child uses and understands, becomes the true goal of the author as
soon as he embraces the resolution to tell nursery stories for children. The written word is poor and
insufficient, the oral has a host of allies in the expression of the mouth that imitates the object to

56
which the discourse relates, in the movement of the hand that describes it, in the length or shortness
of the tone of the voice […] in the entire play of the features, and in the whole bearing.»

Georg Brandes, Creative Spirits of the Nineteenth Century, p. 2

Quindi, per Brandes, ciò che conta quando si scrive letteratura infantile è ciò che il bambino possa
capire o meno. In realtà, Brandes formula una poetica per la letteratura per l’infanzia in cui il
compito dello scrittore è adattare il testo al bambino, alle sue capacità intellettuali ed emotive.
In che modo Andersen scrisse letteratura infantile? Quali sono gli estremi formali entro cui
lavorava? Nei suoi testi il narratore si rivolge spesso direttamente al bambino, e da un punto di
vista narratologico possiamo quindi definire il bambino come narratee:
«Hai mai visto un armadio di legno davvero vecchio, tutto nero per l’età e intagliato con arabeschi e
foglie?»

da La pastorella e lo spazzacamino (1845)

Dall’esempio ci è subito chiaro come Andersen puntava a stabilire un contatto tra chi narra e chi
ascolta già dalle prime righe della narrazione.
A proposito delle “prime righe della narrazione”, è rilevante sottolineare che le fiabe di Andersen
presentano un inizio in medias res, ossia il lettore viene subito introdotto alla storia che sta per
essere raccontata, si arriva subito al punto.
«Il povero Johannes era così triste perché suo padre era molto malato e non sarebbe vissuto a
lungo.»

da Il compagno di viaggio (1835)

«’I miei poveri fiori sono proprio morti!’ disse la piccola Ida.»

da I fiori della piccola Ida (1835)

Inoltre, è importante notare che Andersen mirava a rendere il mondo narrato nelle fiabe familiare al
bambino che le leggeva; il mondo descritto e presentato nella fiaba viene visto con occhi infantili.
Un esempio è la sua prima fiaba, L’acciarino: all’inizio del testo ci sono tre cani che hanno occhi
enormi, e il cane più grande ha occhi grandi come la “torre rotonda” (una torre che si trova a
Copenaghen). I cani non hanno occhi rotondi, ovviamente, ma già dietro a questa descrizione c’è il
mondo di giocattoli del bambino con cui è familiare, che conosce e con il quale può stabilire un
legame comunicativo. Questo vale anche in riferimento a quello che è lo “spazio sociale” dei
bambini; sempre ne L’acciarino, viene presentata una scena mattutina in una famiglia borghese: lo
spazio sociale della fiaba, quindi, diventa borghese, e pertanto ordinario per Andersen e i suoi
lettori.
L’ambito sociale non è estraneo al lavoro di Andersen, anzi, le implicazioni e il ruolo che l’opera
dell’autore ricopre sono, in certa parte, ben importanti. La questione si capirà meglio facendo
riferimento a una fiaba, I fiori della piccola Ida. Nella fiaba, Ida, bambina poetica e piena di
fantasia, è a contatto con un giovane studente, nel quale possiamo rivedere la figura di Andersen
stesso e la sua poetica nei comportamenti dello studente, che le insegna a osservare il mondo
sotto una luce più “vivace”; nella stessa fiaba, mentre Ida e lo studente rappresentano “il nuovo”, è
presente il personaggio di un consigliere, che con il suo disprezzo per la fantasia rappresenta il
mondo vecchio che deve cedere il posto al nuovo. In questo senso, Andersen può essere letto
anche secondo l’approccio per cui l’autore di fiabe rappresenta una sorta di eroe romantico che
libera la letteratura per bambini dagli educatori moralisti; Andersen ricopre il ruolo dell’autore che

57
trasforma i testi danesi per bambini in arte, liberandoli dalla loro connotazione pedagogica. I fiori
della piccola Ida è una specie di manifesta della letteratura per l’infanzia di Andersen, una
letteratura per l’infanzia che non è didattica, che mette al centro la fantasia e che parla al bambino
come un essere poetico che somiglia allo scrittore stesso, a differenza del consigliere del racconto,
che rappresenta invece la vecchia letteratura dell’infanzia.
Tuttavia, c’è disaccordo riguardo alla natura di letteratura infantile di Andersen (lo stesso
Andersen, in più tarda età, si era posto lo stesso dubbio). Una storia come Skyggen (“L’ombra”,
1847), che parla in forma metaforica della lotta tra Idealismo e Materialismo, presenta un
contenuto troppo cifrato perché i bambini possano comprenderlo. Altre fiabe, poi, sono considerate
da alcuni critici troppo crudeli in termini di contenuto; in questo caso l’esempio è Historien om en
moder (“La storia di una madre”, 1847), che parla di una madre il cui bambino sta morendo:
quando il figlio muore, la morte lo prende con sé, e la madre li segue per vedere dove la morte sta
portando il bambino. Un ultimo aspetto considerato problematico da alcuni critici è l’ironia di
Andersen, secondo loro non di immediata comprensione: ironia, assurdità, una
strumentalizzazione per lettori adulti mentre sembra che l’autore stia raccontando una storia per
bambini.
Il pubblico infantile non è poi mai stato l’unico e solo obiettivo della produzione letteraria di
Andersen. Già da una lettura della corrispondenza con B. S. Ingemann si capisce come le prime
fiabe scritte da Andersen venissero dalla sua propria infanzia, mentre in seguito cominciò a
“ricreare alla sua maniera”, raccontando storie “direttamente dal suo cuore”. In più, i primi sei
fascicoli di fiabe di Andersen si chiamavano Eventyr, fortalte for Børn (“Fiabe, raccontate per
bambini”, 1835-1841), in opposto ai fascicoli prodotti tra il 1852 e il 1853, che portano solo il titolo
di Historier (“Storie”), rimuovendo addirittura anche il sottotitolo che indicava i bambini come
destinatari di queste fiabe: i bambini non erano già più il pubblico primario a cui erano dirette le sue
fiabe.
Ma che cos’è una fiaba?
«Short narratives, set in the distant past, of events that would be impossible in the real world.
Traditional fairy tales are a subset of folk tales which also includes fables and legends. They are
‘wonder tales’, characterized by magical happenings and may include fairies, but do not need them.
The heroes and heroines are usually mortal human beings, though with no psychological complexity.
Such creatures as giants, dwarfs, witches and ogres frequently play a part, as well as talking
animals.»

Tratto da Oxford Encyclopedia of Children’s Literature

Esistono diverse categorie di fiabe (trylleeventyr, skæmteeventyr, etc.), divisione tipologica che,
per motivi di economia, ignoreremo in questo contesto. La fiaba è un genere letterario universale,
diffuso in tutto il mondo. Le fiabe sono state trasmesse oralmente per secoli, ma la grande
stagione per la raccolta di fiabe è l’Ottocento (sulla scorta dell’operazione di raccolta iniziata dai
Fratelli Grimm in Germania). In Scandinavia si hanno tre raccolte:
● Norvegia ➞ Norske folkeeventyr (1841-1844) di Peter Christen Asbjørnsen e Jørgen Moe;
● Svezia ➞ Svenska folksagor och äventyr (1844-1849) di Gunnar Olof Hyltén Cavallius e
George Stephens;
● Danimarca ➞ Danske Folkeæventyr (1876-1884) di Svend Grundtvig.

Forse la raccolta più importante fu Norske folkeeventyr (1841-1844) di Asbjørnsen e Moe,


considerato il ruolo che questa operazione di raccolta giocò nello sviluppo dell’identità nazionale

58
norvegese. Le quattro raccolte di questo blocco fiabesco furono fonti d’ispirazione anche per autori
norvegesi del calibro di Henrik Ibsen e Bjørnstjerne Bjørnson; furono anche fondamentali per la
nascita del bokmål: quando iniziarono a raccogliere le fiabe del territorio norvegese, Asbjørnsen e
Moe provarono a redigere queste fiabe in danese, ma le persone che i due intellettuali
interrogavano si esprimevano di fatto in norvegese (a volte parlando anche dialetto), e il risultato fu
una messa per iscritto della fiaba comunicata proprio in norvegese. In questo modo, Asbjørnsen e
Moe contribuirono a rendere il bokmål “più norvegese” – in termini di sintassi, lessico ecc. –
promuovendo lo sviluppo del bokmål.
La raccolta di fiabe svedesi venne realizzata da Cavallius e Stephens ispirandosi direttamente a
quanto avevano fatto i Fratelli Grimm (ai quali fu dedicato il primo volume), prendendo la loro
operazione di raccolta come modello. Hyltén Cavallius riscrisse le fiabe raccolte utilizzando una
lingua arcaica nella loro messa per iscritto, cambiando di fatto la lingua delle fiabe, scegliendo “lo
stile”, una scelta che gli fu in seguito molto criticata.
Ritornando alla suddivisione delle fiabe in tipi, ce n’è una che non può essere dimenticata o
assecondata, che è la distinzione tra fiabe popolari e fiabe d’autore: da un lato abbiamo la
produzione orale del popolo, trasmessa nei secoli, e dall’altro si ha un autore che invece inventa la
fiaba. La fiaba popolare affonda le sue radici nella tradizione della narrazione orale, mentre le fiabe
d’autore sono create da un poeta con ambizioni artistiche. Anche se questa divisione può
sembrare inequivocabile e inconfondibile, non lo è in realtà, in quanto le fiabe popolari cambiano il
loro proprio carattere non appena vengono redatte per iscritto.
Nella prima parte della sua produzione letteraria, Andersen usava le fiabe popolari come base per
le sue stesse fiabe:
«In my way I have told them, allowing myself any change, which I found suitable, letting phantasy
freshen up the fainted colours in the pictures. That is the origin of four tales: The Tinderbox
[L’acciarino], Little Claus and big Claus, The Princess on the Pea, and The Travelling Companion.
[…] Entirely my own invention are three: Little Ida’s flowers, Thumbelina, The little mermaid.»

Citazione tratta da: Johan de Mylius, p. 22

Ciò che dobbiamo comunque capire che in Andersen il genere delle fiabe è molto “elastico”: in
realtà, solo sette delle fiabe di Andersen provengono dalla tradizione orale danese, mentre altre
fanno riferimento a fiabe popolari dei Fratelli Grimm, come L’Acciarino, che trova una propria
corrispondenza “tedesca” in Das blaue Licht dei Grimm. Bisogna ricordare è che Andersen, sin
dall’inizio, modernizza il genere narrativo delle fiabe, lo rimodella, trasformando l’originale
storytelling in qualcosa di mai letto, visto o sentito prima (de Mylius, p. 24).
Rispetto alla fiaba popolare, Andersen:
● Aggiunge molti elementi pittoreschi – le descrizioni creano un ulteriore livello di lettura del
testo;
● Aggiunge molti aggettivi: «In ginocchio accanto al letto baciò la mano del padre morto e
versò tante lacrime amare, ma infine i suoi occhi si chiusero e si addormentò con il capo
sulle dure assi del letto.» (Il compagno, p. 35)
● Inserisce storie dentro storie, ad esempio quella del marionettista con il teatrino di
marionette ne Il compagno;
● Adatta la fiaba a una “prosa drammatizzata” (Mylius p. 28), includendo molti dialoghi
all’interno delle sue fiabe.

59
● Ambienta le proprie fiabe in un mondo più o meno simile a quello reale; ad es., L’acciarino
è ambientato a Copenaghen.
È importante evidenziare il ruolo che ricopre la modernità nelle fiabe di Andersen. L’autore danese
amava la modernità e tutte le innovazioni tecnologiche che con essa portava nella quotidianità,
aspetto dello scrittore che si esalta in molti suoi testi; si possono fare vari esempi tra le fiabe di
Andersen: in La goccia d’acqua (1848) è rilevante la descrizione di un microscopio, in Fra migliaia
d’anni (1853) è presente la descrizione di un gruppo di turisti americano che visitano l’Europa in
un’aeronave, mentre in Il grande serpente di mare (1872) si parla anche di cavi telegrafici
sottomarini.

La sirenetta (Den lille Havfrue)


● Fiaba del 1837;
● Scultura di Edvard Eriksen del 1913 ➞ simbolo della Danimarca.

Già dal titolo, possiamo vedere che non si sta parlando di una sirena della tradizione, una creatura
pericolosa di per sé per i marinai, ma è una lille havfrue, “la piccola sirena”, un nome con un
aggettivo che detrae la caratteristica di pericolosità dal personaggio della sirenetta. La sirenetta
non assomiglia alle sorelle, che sono delle sirene più “tradizionali”, ma è particolare (non ha la loro
caratteristica di erotismo fatale). La sua particolarità viene messa in risalto sin dall’inizio della fiaba:
Era una strana bambina, silenziosa e riflessiva, e mentre le altre sorelle decoravano le aiuole con le
cose più singolari che avevano preso dalle navi naufragate, oltre ai fiori rossi come le rose che
somigliavano al sole, lei volle solo una bella statua di marmo, un bel fanciullo scolpito nella pietra
bianca e luminosa finita per naufragio sul fondo del mare.

Possiamo dire che l’amore della sirenetta per il principe ha anch’esso inizio proprio al cominciare
della narrazione, grazie all’entrata in scena di questa “statua di marmo” di “bel fanciullo”. Il modo in
cui viene introdotto il principe, però, ci fa anche intuire già a questa altezza del racconto che la
storia d’amore fra i due personaggi non avrà lieto fine, perché il principe, in qualche modo, deve
confrontarsi con questa statua, che è comunque solo una rappresentazione idealistica, e non un
qualcosa di vero.
La sirenetta proviene dalla tradizione popolare, precisamente da una ballata del tipo
magico/mistico diffusa in tutta l’area nordica (l’esempio svedese è Agneta och havsmannen,
“Agnete e il tritone”).
Mermaids were favoured figures by the romantics and Andersen would have known La Motte
Fouqué’s Undine and Johan Wolfgang Goethe’s and Walter Scott’s respective versions of Mélusine.

Sanders, p. 103

La sirenetta di Andersen non ha un lieto fino, al contrario della versione animata della fiaba
prodotta dalla Disney; è assente in quest’ultima versione la parte in cui la sirenetta diventa una
delle figlie dell’aria.
La sirenetta è un testo estremamente complesso. Innanzitutto, la critica ha individuato nella
struttura formale della fiaba le caratteristiche tipiche di un romanzo di formazione (Bildungsroman),
sia in termini di inquadratura che di narrazione: la fiaba comincia dall’infanzia familiare della
sirenetta, prosegue per la fase dei dilemmi giovanili, finendo con la realizzazione matura di sé
(Mortensen, The Little Mermaid, p. 445). Dopodiché, bisogna osservare che il personaggio della
sirenetta ha tre progetti, il che già di per sé rende la fiaba assai complicata nella sua struttura:

60
1. Vuole diventare umana;
2. Vuole sposare il principe;
3. Vuole avere un’anima immortale.
Per raggiungere questi scopi, la sirenetta ha bisogno dell’aiuto della strega del mare, ma il prezzo
che deve pagare è molto alto: soffrirà per tutta la vita e non potrà mai più parlare. Il principe non la
sposerà, per cui non diventerà umana, ma diventerà invece una delle figlie dell’aria.

17.11.21
La sirenetta, al contrario di quello che si direbbe della maggior parte della letteratura infantile di
Andersen, è un testo che presenta una morale. Il testo è stato oggetto di moltissime interpretazioni
improntate sulla biografia di Andersen stesso, che come la sirenetta vuole lasciare la propria
condizione sociale originaria e arrivare ai vertici della società (e, infatti, La sirenetta è una fiaba
strutturata secondo un movimento verticale diretto verso l’altro, verso il cielo). Il problema di questa
interpretazione biografica è che la sirenetta, a differenza di Andersen, è figlia di un re, e non
proviene dalla stessa classe sociale da cui originava l’autore danese. Ma non è l’unico genere di
lettura che si è fatta della fiaba: un’altra interpretazione che è stata data del testo è di tipo
psicoanalitico, così come anche interpretazioni di stampo femminista ecc.
Questo testo è il racconto di una storia d’amore abbastanza strana, perché tutto si svolge nella
testa della sirenetta. Il principe, in realtà, è ignaro dei sentimenti della sirenetta, e questo perché lei
non può parlare.
Andersen ci racconta che la sirenetta ha incontrato il principe all’età di 15 anni (vige la regola tra le
sirene che, al compimento dei 15 anni di età, queste possano uscire dall’acqua e vedere il mondo
terreno). Andersen è molto insistente sul numero “15” nei riguardi dell’età delle sirene, e quindi
sulla transizione da essere una bambina a diventare una giovane donna, sul fatto che la sirenetta
possa, potenzialmente, diventare una personalità erotica.
La sirenetta desidera sacrificare tutto e andare dalla strega del mare, con la quale stringe un patto
irreversibile - brano della fiaba a tratti spaventoso nel racconto: la strega taglia la lingua della
sirenetta, che quindi diventa muta. Questa è la rappresentazione di una sorta di castrazione
femminile: con il dono delle gambe, la sirenetta entra nel mondo sessuale, ma con il patto che
stringe con la strega la sirenetta entra anche nel mondo delle donne sottomesse, non avendo più
la possibilità di esprimere sé stessa. Da un punto di vista femminista, la sirenetta è l’esempio di
figura femminile che le lettrici non devono prendere: dà tutta sé stessa, sacrifica tutto ciò che ha e
si svuota in cambio di questo piccolo grande amore che nutre verso il principe.
“‘Ma devi anche pagarmi!’ disse la strega. ‘E non è poco ciò che chiedo. Tu hai la voce più bella
quaggiù sil fondo del mare, credi di poterlo incantare [il principe] con quella, ma la voce devi
darmela. Voglio la cosa migliore che possiedi in cambio della mia preziosa bevanda! Devo metterci
dentro il mio sangue perché la bevanda possa essere affilata come una spada a doppio taglio!” (p.
61)

Tuttavia, presto il principe si rivela trattare la principessa come un cane. Quest’ultima dorme
davanti alla sua porta, su un cuscino, rivelandone le caratteristiche di donna sottomessa. In più, il
principe non ama la sirenetta, ma ama “la sua sposa”, ovvero la ragazza che ha trovato il principe
in spiaggia dopo il suo naufragio. Chiaramente, è stata la sirenetta a portarlo in salvo, ma si è
nascosta subito dopo dietro una roccia; in quel momento, una ragazza che proviene da un tempio
trova anch’ella il principe in spiaggia, una donna che poi il principe prende in sposa. Tutto ciò

61
potrebbe suggerire un’interpretazione di stampo femminista della fiaba. Ma attenzione: quando,
verso la fine del racconto, la sirenetta diventa una delle figlie dell’aria, però, porta con sé la forza di
poter sacrificare sé stessa come “biglietto d’entrata” tra le figlie dell’aria, il che potrebbe condurre a
una problematizzazione di una lettura femminista della fiaba.
La fine della fiaba è alquanto strana, che termina con l'immagine di bambini. Qui è come se
Andersen si rivolgesse ai bambini che stanno ascoltando il racconto della fiaba. Loro,
comportandosi bene (e qui abbiamo l’Andersen moralista), possono aiutare le figlie dell’aria a
raggiungere la vita eterna. Se la storia ha una morale, è che la vita della sirenetta è in mano a
questi stessi bambini (Wegener 2021): questa fiaba ha un messaggio etico, in qualche modo, che
riguarda il come comportarsi nei confronti dell’altro.
Andersen come scrittore va molto a fondo nella questione di genere in letteratura. Molte delle sue
figure femminili sono sfaccettate e variegate strutturalmente, mentre le figure maschili risultano a
tratti blande.

La Breccia nordica
L’idea principale che si diffonde nelle comunità degli intellettuali in Scandinavia, condensatasi nel
concetto di “Breccia nordica” o “Breccia moderna” intorno al 1870, viene formulata da Georg
Brandes, il critico nordico per antonomasia. Brandes scrisse sul ruolo della letteratura del suo
tempo, sintetizzando il suo compito all’interno del “credo” della Breccia moderna:
Det, at en Litteratur i vore Dage lever, viser sig i, at den sætter Problemer under Debat.

(G. Brandes, Introduzione a Hovedstrømninger i det 19de Aarhundredes Litteratur, 1872)

Le parole di Brandes ci permettono di evidenziare il tipo di ricerca estetica che contraddistingue la


letteratura in Scandinavia del tempo: una ricerca di ordine non più solo puramente artistico (o
romantico, se vogliamo), ma che si inserisce anche nell’ambito sociale e politico che la letteratura
porta alla luce, espone e analizza - i “problemi” del mondo che si vive e si esperisce. È chiaro che
questo “risveglio” in Scandinavia abbia preso le mosse, anche Brandes lo afferma e lo conferma,
dagli esempi “d’Oltremare”, quindi tutta la letteratura europea (inglese, francese, tedesca ecc.) che
aveva già cominciato a suo tempo a lavorare a questo tipo di letteratura che trattava di collocare i
Problemer under Debat:
[...] for example, Sand opened up a debate on marriage; Voltaire, Byron and Ludwig Feuerbach on
religion; Pierr-Joseph Proudhon on property; Alexandre Dumas the younger on the relationship
between the sexes; and Emile Augier on social conditions. A literature that fails to debate problems
is one that is in the process of losing all significance.

(G. Brandes, p. 700-01)

Questi problemi riguardavano in primo luogo, come si evince dal testo di Brandes, le istituzioni
statali, sociali e religiose come il matrimonio (un esempio perfetto è Et dukkehjem), la religione
stessa (Gjengangere), la proprietà privata, il rapporto fra i generi (Fröken Julie), le ineguaglianze
sociali (Karens Jul) e altri.

Henrik Ibsen (1828-1906)


Ibsen nacque nel 1828 a Skien, nella parte centro-meridionale della Norvegia. La sua famiglia era
inizialmente molto benestante e poteva godere di una buona entrata economica grazie al
commercio del padre. Tuttavia, quando Henrik aveva circa 6 anni, l’azienda del padre va in
bancarotta. Perciò, la famiglia di Ibsen dovette lasciare la propria proprietà per trasferirsi nella loro

62
fattoria a Venstøp, trasandata e malmessa, vivendo in povertà. Questa disgrazia fu fuggita dalla
famiglia di Ibsen più volte di fronte agli occhi di terzi; l’idea di avere un segreto in famiglia,
perlomeno la volontà da parte dei suoi familiare di voler nascondere questa parte della loro vita è
un tema ricorrente nella produzione di Ibsen.
Ibsen maturò un precoce interesse per la medicina, ma al termine delle elementari (probabilmente
per mancanza di fondi familiari) seguì per un paio d’anni una scuola privata retta da due giovani
teologi, dove studiò il latino e il tedesco, dimostrando particolare interesse per la storia antica e gli
studi biblici. Questo fino al ‘43, quando la famiglia Ibsen fece ritorno a Skien, ma già nel dicembre,
in seguito al dichiarato fallimento dell’attività del padre, Henrik dovette trovare un modo per
sostenere la famiglia economicamente. Così, dal 1844 al 1850 lavorò a Grimstad come garzone di
farmacia, non avendo reali possibilità di poter concretizzare il suo talento nella scrittura
drammaturgica e letteraria in generale. La fine del suo contratto in farmacia, però, coincide con la
redazione del suo primo dramma, Catilina (scritto tra il 1848 e il ‘49, pubblicato nel 1850 e
mandato in scena per la prima volta solo nel 1881 a Stoccolma), di ambientazione romana. Del ‘50
è anche il suo Kjæmpehøjen, ‘Il tumulo del guerriero’, atto unico in versi che presenta una vicenda
ambientata all’epoca vichinga, in cui Ibsen prende in esame la contrapposizione tra lo spirito
vendicativo dei vichinghi e il perdono cristiano.
La situazione monetaria del futuro drammaturgo, però, non andava migliorando: il denaro
scarseggiava, doveva mantenere gli studi liceali a cui si era applicato nel 1848, e a seguito del
rapporto avuto con un impiegata nella farmacia dove lavorava era nato un figlio, al quale doveva
provvedere. E così Ibsen decise finalmente, sempre nel 1850, di lasciare Grimstad e dirigersi a
Christiania (vecchio nome danese della città di Oslo), per cominciare l’università e cercare
maggiore fortuna. A Christiania entrò in contatto con le Associazioni operaie, dove tenne alcune
lezioni domenicali, di Marcus Thrane, il nucleo vitale umano del socialismo norvegese; a
Christiania seguiva anche i corsi dell’istituto Heltberg, al fine di prepararsi all’examen artium, il
superamento del quale costituiva un prerequisito per l’ammissione all’università (è qui che
conobbe i futuri autori Aasmund Vinje e Bjørnstjerne Bjørnson). Ibsen non superò l’esame, ma
ebbe comunque i primi successi come drammaturgo, rielaborando il Kjæmpehøjen e proponendolo
al Teatro di Christiania, che lo accettò e lo fece rappresentare a settembre del 1850.
Kjæmpehøjen diventò, così, il suo biglietto d’ingresso nel mondo della drammaturgia coeva;
quando aveva 23 anni, Ibsen fu chiamato a ricoprire il ruolo di direttore di scena presso il Norske
Teatret di Bergen, dove prestò servizio per 6 anni e dove fu responsabile per più di 100 produzioni
teatrali. Molte di queste erano opere straniere in traduzione, il modo in cui Ibsen ebbe la possibilità
di conoscere i grandi della letteratura teatrale europea. Anche a Christiania, poi, svolse la
mansione di direttore di scena dal 1857 per altri 6-7 anni; purtroppo, però, il Teatro di Christiania
chiuse i battenti per bancarotta. Fu nel 1864 che Ibsen si trasferì a Roma (fino al 1868 e dal 1878
fino al 1885), rimanendo fuori dalla patria per 27 anni. A Roma fece parte del Circolo Scandinavo,
ancora oggi attivo.
Per quanto riguarda la produzione teatrale di Ibsen, l’autore norvegese scrisse 25 drammi in tutto
tra il 1850 e il 1899. Solitamente, si opera una distinzione nella sua opera tra drammi storici, scritti
in versi, e drammi di ambientazione borghese (12 in tutto), dalla fase della produzione ibseniana
cominciata con la Breccia moderna.
Ci occuperemo di due delle opere teatrali di quest'ultima fase della produzione teatrale di Ibsen, in
particolare dei drammi Et dukkehjem (1879) e Gjengangere (1881), spesso letti insieme e concepiti
come una coppia di testi. Questo perché molti hanno visto in questo binomio letterario la
trattazione dello stesso tema in due versioni: se in Et dukkehjem la situazione presentata è quella

63
di una donna che si emancipa dalla gabbia dorata che è diventata il suo matrimonio, si dice che in
Gjengangere Ibsen ritragga cosa succede a una donna che non riesce invece a lasciare il proprio
matrimonio fallimentare. Volendo continuare a proseguire la linea delle analogie-differenze tra i
due testi, possiamo osservare che Gjengangere sia un dramma molto più cupo di Et dukkehjem (è
un dramma "senza speranza"): nell'ultima scena di Et dukkehjem Nora esce dalla casa di famiglia
sbattendo la porta, una porta che potrebbe, però, riaprirsi (infatti, esistono messinscene del
dramma in cui quest'ultimo ha un lieto fine, con Nora che sceglie di non andarsene per amore dei
suoi figli):
Helmer: Nora, - potrò mai diventare qualcosa di più di un estraneo per te?

Nora: (prende la sua valigia) Ah, Thorvald, dovrebbe accadere allora la cosa più meravigliosa [det
vidunderligste]. -

Helmer: Dimmi che nome ha questa cosa più meravigliosa!

Nora: Dovremmo proprio, sia tu che io, trasformare noi in modo che -, Oh. Thorvald, non credo più alla cosa
meravigliosa.

Helmer: Ma io voglio crederci. Dimmi che nome ha! Trasformare noi in modo che -?

Nora: Che la vita in comune fra noi possa diventare un matrimonio. Addio.

(Et dukkehjem, III Atto, p. 229)

Nessuna porta, invece, si aprirà mai in Gjengangere: il segreto di Nora viene subito allo scoperto,
cosa che non accade per il segreto della signora Alving, e la realtà drammatica costruisce così su
delle premesse già instabili che portano inevitabilmente a, da un lato, un tardo svelamento dello
stesso segreto e una distruzione completa della realtà conosciuta dai personaggi, dall'altro
l'impossibilità di tornare indietro qualora si volesse mantenere una sorta di equilibrio creatosi,
seppur fittizio (?). Ciò ha a che vedere anche con l'età delle donne dei due drammi: se Nora è
ancora giovane, la signora Alving è una signora ormai quasi anziana.
Et dukkehjem, “Una casa di bambola”, con l’articolo indeterminativo et, significa che è “una casa di
bambola fra le tante”; vuol dire che il corpus di dinamiche sociali borghesi preso in esame nel
dramma è l’exemplum di una vasta fenomenologia di vita famigliare a fine Ottocento (prefazione
alla traduzione di Una casa di bambola, R. Alonge). La stesura del testo cominciò circa nel mese di
ottobre del 1878, quando Ibsen si trovava a Roma; i suoi appunti riportano in una nota
«Optegnelser til nutidstragedien», ‘appunti per una tragedia moderna’, rimarcando l’ambito al
drammaturgo coevo in cui si sviluppa la trama del dramma. La definizione data da Ibsen della sua
opera come nutidstragedie non si adatta bene tanto a Et dukkehjem in riferimento alla sua struttura
formale, quanto al gruppo di personaggi che vi partecipano; l’innovazione ibseniana sta
nell’appartenenza dei personaggi del dramma al ceto borghese della società norvegese e nella
somiglianza dei dialoghi del dramma a conversazioni del tutto banali, banalità dietro alla quale si
individua il problema di fondo del dramma; quando Nora incontra dopo tanti anni la sua amica
Linde nell’appartamento freddo di suo marito, Thorvald Helmer, usa della legna per accendere il
focolare, ed è qui comincia “l’incendio” della sua bella casa borghese, che va in fiamme e viene
bruciata fino alle fondamenta con lo sviluppo della trama, un calore che diventa una simbologia
ricorrente nell’opera:
Nora: Con molti bambini. Ecco; ora c’è fuoco. [I Atto, p. 151]

[...]

Nora: Com’è caldo qui [varmt]. E io ho così tanto da fare. [I Atto, p. 169]

64
[...]

Helmer: Puh, fa caldo qui dentro [III Atto, p. 205]

La pièce fu rappresentata per la prima volta a Copenaghen nel 1879; già nel 1880, un osservatore
norvegese, tale Johan Paulsen, aveva osservato che, sebbene Ibsen rispettasse le tre unità
aristoteliche che reggevano il dramma ancor fino a Holberg, da un punto di vista strutturale del
dramma:
«La pièce è [...] in contrasto con l’intera teoria e pratica dell’arte drammatica, poiché invece di finire
con un ritmo sempre più serrato sul piano dell’azione e una soluzione soddisfacente dopo la
tensione, si conclude con un’ampia deduzione psicologica. Il problema della pièce rimane irrisolto.
[...] l’autore non ci offrirà la soluzione che manca alla realtà.»

Rispetto alla tipica struttura classica della tragedia, il dramma di Ibsen va in controtendenza ed è
avulso al ritrovamento di una soluzione al problema protagonista dell’opera. Quella di Et
dukkehjem non è una lezione, non è un’istruzione indirizzata alla risoluzione di un problema; Ibsen
era ben consapevole che le soluzioni nette non esistono. È come se Ibsen mancasse di portare a
compimento i propositi enunciati da Brandes e a cui si dovevano secondo questi appellare tutti gli
autori che intendevano fare letteratura - in Et dukkehjem è assente una risoluzione definitiva del
problema che dà vita alla trama. Quanto alle tre unità aristoteliche, dovessimo individuare dei punti
di riferimento nello svolgimento dell’azione, questi sarebbero:
● Luogo: un appartamento borghese in una grande città norvegese non meglio precisata;
● Tempo: tre giorni (intorno a Natale, come ci ricorda il personaggio di Thorvald);
● Azione: Le conseguenze della scelta di Nora (attuata otto anni prima) di falsificare la firma
di suo padre moribondo e prendere in prestito una somma notevole di denaro dall’avvocato
Krogstad, per poter avere i soldi necessari per portare in viaggio in Italia il marito malato di
stress.

65
Appunti dalle lezioni: Letterature Nordiche - dall’Ottocento al giorno d’oggi

Ibsen, Et dukkehjem

Et dukkehjem è un testo molto più ottimistico di Gjengangere.

nutidstragedien ➞ “tragedia contemporanea/del mondo contemporaneo”; la protagonista è una


donna del mondo borghese.

‘nutidstragedien’ ha a che fare con la protagonista del dramma, Nora, e il suo destino.

Già nel 1880 (quasi subito dopo la prima del dramma) i critici hanno notato che il dramma è in
contrasto con la teoria e la prassi drammatica ➞ il dramma finisce con una resa dei conti: un lungo
discorso tra i personaggi principali.

Likevel har stykket mye til felles med den Tuttavia, l'opera ha molto in comune con il
klassiske tragediegenren ved at det vise ren genere della tragedia classica in quanto
personlighetskonflikt der Nora gjennem en mostra un puro conflitto di personalità in cui
moralsk krise dekonstruerer et falskt selvbilde Nora, attraverso una crisi morale, decostruisce
og må gjenskape seg selv som ‘another una falsa immagine di sé e deve ricrearsi
human being’, et andet menneske […]. Hun come "un altro essere umano" [...]. In altre
må med andre ord velge et nytt selv. Når hun parole, deve scegliere un nuovo sé. Quando si
frir seg fra konvesjonelle samfundsroller som libera dai suoi ruoli sociali convenzionali di
hustru og mor, overlates hun til en smertefull moglie e madre, si trova a subire un processo
prosess nært i slekt med den de klassiske doloroso strettamente legato a quello degli eroi
tragedieheltene gjennemgikk, kjennetegnet av tragici classici, caratterizzato da
oppløsning, kaos og sammenbrud. Til disintegrazione, caos e collasso. In compenso,
gjengjeld opplever hun også – som sine sperimenta - come i suoi predecessori letterari
litterære forgjengere – ‘recovery, self-ordering - "il recupero, l'ordinamento di sé e la
and restauration … Little by little the doll dies, restaurazione... A poco a poco la bambola
and the walls of the dolls’ house begin to muore, e le pareti della casa delle bambole
crack. cominciano a creparsi".

Da: Henrik Ibsens Skrifter. Indledning til Et dukkehjem. Bakgrund, p. 10

Ibsen cominciò a scrivere la tragedia a Roma nel 1878 (primo soggiorno a Roma) e la concluse ad
Amalfi l’anno seguente.

Il testo fu pubblicato il 4 dicembre 1879.

66
Et dukkehjem fu messa in scena per la prima volta a Copenaghen il 21 dicembre 1879; negli anni
successivi anche in molti teatri in Scandinavia e in Germania.

Il finale in cui Nora lascia Thorvald Helmer fu considerato scandaloso per tanti spettatori,
specialmente nei teatri tedeschi ➞ Ibsen dovette scrivere un altro finale dove Nora non lasciava il
marito per amore dei figli:

HELMER: Go then! (Seizes her arm.) But first you shall see your children for the last time!

NORA: Let me go! I will not see them! I cannot!

HELMER: (draws her over to the door, left) You shall see them [...] Look, there they are asleep,
peaceful and carefree. Tomorrow, when they wake up and call for their mother, they will be -
motherless.

NORA (trembling): Motherless…!

HELMER: As you once were.

NORA: Motherless! [...] Oh, this is a sin against myself, but I cannot leave them (Half sinks down by
the door)

La cosa più scandalosa del testo è forse non tanto l’abbandono del marito da parte di Nora, quanto
l’abbandono dei figli ➞ Nora sarebbe una madre “innaturale”. Già all’inizio del testo Ibsen ci fa
capire quanto Nora sia una madre premurosa (Es. Nora: Nascondi bene l’albero di Natale, Helene.
I bambini non devono assolutamente vederlo prima di sera, quando sarà decorato). Alla fine del
testo, però, nello scontro finale fra Thorvald e Nora del III atto, Nora nega di poter svolgere bene il
compito di madre; questo perché deve ritrovare sé stessa prima di essere madre.

NORA: Oh, lasciamela tenere un po’, Anne-Marie. Mia dolce, piccola bambina-bambola
[dukkebarn] (I Atto, p. 156) ➞ così come Thorvald ha giocato con Nora come se sua moglie fosse
una bambola (quindi come se fosse un oggetto), così anche Nora ha ripetuto i gesti del marito nei
confronti dei figli.

Il testo di Et dukkehjem fa parte del programma dell’UNESCO per il salvataggio del patrimonio
scritto culturale mondiale (Memory of the World Programme).

Bisogna fare attenzione alle parole di Ibsen. Ci sono quasi sempre dei “doppi sensi”, dei significati
laterali. Tramite questi doppi sensi, Ibsen può collegare i suoi protagonisti con
circostanze/condizioni di cui non sono consapevoli (o parzialmente)

I Atto: Nora incontra la sua amica Linde > a un certo punto, dopo averle raccontato la verità sul
viaggio in Italia con suo marito > Nora va a accendere il camino ➞ qualcosa inizia a bruciare, il
teatrino borghese comincia ad andare “in fumo”, e la casa di bambola cadrà nelle fiamme (NB:
Nora utilizza l’aggettivo varmt).

Dottor Rank ➞ un amico della famiglia Helmer; una figura nell’ombra di Ibsen (la riprende nel testo
di Gjengangere); è gravemente malato; Rank osserva che casa Helmer è calorosa, ma lo dice in

67
un modo interessante: Ak ja; disse kære kendte tomter. I har det lunt og hyggeligt inde hos jer, I to
= Che ambiente caldo e accogliente avete voi due in questo vostro interno, voi due).

Contrapposizione: lunt vs. varmt, che invece viene usato per la casa di bambola che brucia.

Un altro esempio di doppio significato ➞ scena chiave: Nora si rende conto di aver vissuto una
bugia, una menzogna; è vestita con un costume italiano, e va a toglierselo:

HELMER: No resta -, Cosa vuoi là, nell’alcova?

NORA: Gettare l’abbigliamento da mascherata [Kaste maskeradedragten]

(III Atto, p. 218)

Verbo norv. å kaste ➞ è un verbo equivoco; significa:

● sia mettere altri vestiti, cambiare vestiti;


● sia buttare via l’abito, l’abbigliamento da mascherata.

Tecnica retrospettiva di Ibsen: riguarda l’emergere del passato dei personaggi, svelato
gradualmente la trama delle opere teatrali; il passato è svelato tramite i dialoghi, e non i
monologhi. Ibsen applica questa tecnica per spiegare le azioni nel presente compiute dai
personaggi tramite il loro passato. La tecnica retrospettiva non l’ha inventata Ibsen; è stata
inventata dai drammaturghi greci (Sofocle, Euripide) nel 400 a.C., ed è stata riscoperta dai francesi
(Pierre Corneille, Jean Racine). È una tecnica importante soprattutto in Gjengangere (in Et
dukkehjem il graduale emergere del passato è meno frequente).

Il futuro di Nora

Bergman ➞ Ibsen is closing doors leaving no other alternatives, compared to Strindberg, who
doesn’t limit interpretation of his texts:

“With Ibsen, you always have the feeling of limits - because Ibsen placed them there himself. He
was an architect, and he built. He always built his plays, and he knew exactly: I want this and I
want that. He points the audience in the direction he wants it to go, closing doors, leaving no other
alternatives. With Strindberg - as with Shakespeare - you always have the feeling that there are no
such limits.”

(in F. Marker & L.L. Marker (1982): Ingmar Bergman. Four Decades in Theater)

Questo è un giudizio un po’ duro, perché se leggiamo il testo di Et dukkehjem possiamo chiederci
se la fine è tragica o lieta. Cosa farà Nora, dopo aver lasciato la propria famiglia? La sua scelta è
una scelta a lei lieta, perché Nora sceglie sé stessa, di dedicarsi a trovare la propria identità; da un
altro punto di vista, però, possiamo anche dire che la fine di Et dukkehjem è tragica. Come sarà la
vita di Nora dopo aver lasciato la casa di Thorvald. Nel testo sono presenti delle figure di donne
che possono essere considerate come dei modelli per il futuro che Nora (forse) avrà; la figura più
importante è la signora Linde, l’amica di Nora vedova da tre anni, povera e senza figli, che da
giovane ha avuto una relazione con Krogstad. Linde descrive la propria vita negli ultimi anni “come

68
un unico lungo giorno di lavoro senza riposo” (I Atto, p. 145) e il proprio matrimonio come un
affare, in quanto è stata costretta a vendere sé stessa a un uomo che sembrava ricco, perché
doveva sostenere economicamente sua madre e i suoi fratelli più giovani. Un’altra figura femminile
del testo è la bambinaia, Anne-Marie, che da giovane aveva lasciato i figli come Nora fa alla fine
del dramma, e ha vissuto tutta la sua vita senza avere quasi contatto con i propri figli; tramite
questa figura Ibsen ci dimostra il destino crudele di queste donne, le serve e le domestiche, che
avevano figli da relazioni con i propri padroni.

Lu Hsun ➞ scrittore cinese degli anni ‘20 che ha tradotto Et dukkehjem in cinese, scrivendo anche
un’interpretazione del testo; in una parte della sua interpretazione ci fa capire che ciò che aspetta
Nora dopo l’abbandono della casa di bambola non è necessariamente positivo: “The most painful
thing in life is to wake from a dream and find there is no way out”. La donna ha il diritto di essere e
diventare un essere umano, di trasgredire le norme sociali e morali che regolano il ‘giusto’
comportamento femminile. Ma come deve farlo? Quali sono i limiti che la società pone a questo
progetto di Nora a seguito della sua uscita dal matrimonio con Thorvald?

Le donne di Ibsen

Le donne di Ibsen non sono tipi idealizzati; non sono versioni della tipica donna oppressa che lotta
per essere libera. Sono personaggi “tondi”, che hanno pregi e difetti. Questo è uno dei motivi per
cui i drammi di Ibsen possono ancora interessarci. In più, gli uomini non sono “cattivi”: Thorvald
tratta sì Nora come una bambina e come la sua bambola, ma non è un mostro; anzi, alla fine del
testo quasi si ha compassione per Thorvald, che è imprigionato nell’idea dell’onore maschile.
Inoltre, sappiamo anche che Thorvald è stato malato di stress, per aver lavorato troppo (è quindi
schiavo del suo lavoro). Eroll Durbach mette in evidenza in Ibsen and the Theatre che Nora, in
realtà, non è una donna perfetta, ma ha anche le sue debolezze: è stata molto viziata sia durante
la sua infanzia che durante il matrimonio, e ciò l'ha resa “egocentrica e indifferente alle sofferenze
altrui”. Vediamo l’egocentrismo di Nora nell’incontro che ha con la signora Linde, povera e senza
figli, con la quale Nora, tuttavia, parla subito della propria felicità:

NORA: Lui [Thorvald] entrerà in carica nella banca già con il nuovo anno, e allora riceverà un grande
stipendio e molte percentuali. [...] Oh, Kristine, come mi sento leggera e felice! Sì, perché è
comunque delizioso avere grandi quantità di denaro e non aver bisogno di darsi pensiero. Non è
vero?

LINDE: Sì, dev’essere proprio delizioso avere il necessario.

NORA: No, non solo il necessario, ma grandi, grandi quantità di denaro!

(I Atto, p. 143)

Sebbene i drammi di Ibsen si svolgano in ambienti borghesi con salotti ben curati e impreziositi, si
ha sempre la sensazione che dietro alla superficie ci sia qualcosa di brutto che sta per venire a
galla - una catastrofe imminente. Questa bruttezza si vede, tra l’altro, in un dialogo in cui Nora
parla con Krogstad: lei minaccia di togliersi la vita se il suo segreto verrà fuori, mentre Krogstad
direttamente descrive come verrà ritrovato il corpo di Nora se la donna commetterà un suicidio
(Under isen kanske? Ned i det kolde, kulsorte vand? Og så til våren flyde op, styg , ukendelig, med
affaldet hår?). Io aggiungerei anche che, se si parte dall’ipotesi secondo cui le donne nei testi di

69
Ibsen non sono solo un ideale ma dei personaggi completi in sé stesse, l’esempio appena fatto può
esserci utile per evidenziare che Nora, di fronte al rischio dello svelamento del suo segreto, non
risponde con onestà e verità personale, ma minaccia di tentare il suicidio, passando perciò al
contrattacco contro Krogstad. Nora vuole difendere il proprio onore (lo stesso onore borghese che
connota il marito di lei nelle sue azioni e nelle strutture sociali che lo caratterizzano) e la propria
persona sociale; arriverà solamente dopo alla realizzazione che all’interno della “casa di bambola”
lei non è sé stessa, la veritiera sé, mentre la sua prima reazione alla messa di fronte a ciò che ha
compiuto non è prendersi la responsabilità dei suoi atti, ma raggiungere un fine con ogni mezzo
possibile - evitando l’ostracismo dalla borghesia che Ibsen tanto critica. In che modo, perciò, Nora
sarebbe l’eroina della libertà, se non solamente nell’ultimo atto?

Commenti metatestuali ➞ il testo ne è pieno (es. Thorvald nel I Atto: Nå, behold du dine små
julehemmeligheder for dig selv, min velsignede Nora. De kommer vel for lyset i aften, når juletræet
er tændt, kan jeg tro ➞ NON riguardano i regali, ma il passato che emergerà).

La posizione della donna nella società

Il tema principale di Et dukkehjem è la posizione della donna nella società borghese. Abbiamo già
detto che Ibsen definisce il dramma come nutidstragedien; sempre Ibsen, in una nota al testo,
parla delle due leggi che regolano la vita degli uomini e delle donne nell’Ottocento, secondo le
quali la donna, nonostante abbia delle regole proprie del genere femminile, debba comunque
vivere all’ombra di leggi prettamente “maschili”. Ibsen scrive: En kvinde kan ikke være sig selv i
nutidens samfund, der er et udelukkende mandligt samfund, med love skrevne af mænd og med
anklagere og dommere, der dømmer den kvindelige færd fra mandligt standpunkt (Nota di Ibsen,
19 ottobre 1878). Una traccia di questa prima ispirazione di Ibsen la si trova anche a fine dramma,
dove Nora parla delle leggi che hanno regolato il suo comportamento e delle leggi di Thorvald e
della società maschile. Le leggi che hanno regolato il comportamento di Nora sono il suo desiderio
di proteggere suo padre moribondo e salvare la vita di Thorvald; il punto è che Nora ha agito
secondo la legge degli uomini. Un brano del testo recita:

Nora: Sento anche dire, ora, che le leggi sono differenti da quello che pensavo, ma che queste leggi
siano giuste, è impossibile farmelo entrare in testa. Una donna dunque non avrebbe il diritto di
risparmiare il suo vecchio padre moribondo oppure di salvare la vita del proprio marito! Non credo a
cose simili.

Thorvald: Tu parli come una bambina. Non capisci la società nella quale vivi.

Nora: No, non la capisco. Ma ora voglio mettermi al corrente. Devo cercare di scoprire chi ha
ragione, se la società oppure io.

(III Atto, p. 225)

La posizione di sottomissione della donna è evidenziata da Ibsen anche tramite il commento della
signora Linde nel I Atto (No, una moglie, certo, non può prendere in prestito senza l’autorizzazione
di suo marito), ma ce lo fa notare anche il fatto che solo Thorvald possa accedere alla casella
postale, in quanto solo Thorvald ha la chiave della casella. Molto importante è ricordare che, nel
testo, Ibsen usa un verbo, å vejle (nor. bokmål å veilede) ‘guidare’, che Nora utilizza spesso, sia in

70
relazione a Thorvald (es. episodio della danza, in cui Nora dovrebbe ballare seguendo dei passi
che non ricorda, e quindi chiede al marito di guidarla), sia in relazione al padre (qua è importante il
III Atto, dove Nora parla della sua infanzia e dice di suo padre che giocava con lei e la chiamava
“la sua bambola”, finendo con l’affermare che dalle mani di suo padre è passata alle mani di
Thorvald; pesante è l’accusa di Nora: Tu e papà avete commesso un grande peccato contro di me.
La colpa è vostra, se di me non ho fatto nulla [...] ho vissuto [...] giusto alla giornata). Il nesso
Thorvald-padre di Nora esiste insieme al nesso Nora-suo padre, spiegato più apertamente durante
lo svolgimento della trama. Ad esempio, Thorvald ribadisce molto spesso che Nora assomiglia al
padre, tra l’altro, per ciò che riguarda il suo rapporto con i soldi. Durante la scena finale, Thorvald
si arrabbia moltissimo con Nora quando scopre ciò che ha fatto, e dice: Avrei dovuto sospettare
che qualcosa del genere sarebbe accaduto. Nora ha preso tutti i principi sventati del proprio padre:
nessuna morale, nessun sentimento di dovere. L’aspetto dell’eredità/ereditario in Et dukkehjem, un
aspetto naturalistico, viene fatto risaltare ancora di più in Gjengangere. In Et dukkehjem, riguarda
soprattutto il Dottor Rank, innamorato follemente di Nora (che apprezza molto il tempo trascorso
con lui); Nora spiega a Linde che Rank ha una tisi al midollo spinale, che gli è stato trasmesso
proprio dal padre. Questa è una delle filosofie di Ibsen: se un uomo aveva vissuto una vita “piena
di donne” e aveva anche bevuto un po’ troppo, le sue colpe e i suoi problemi fisici si sarebbero
trasmessi ai propri figli (è così che Ibsen anticipa la figura di Osvald in Gjengangere).

La religione

Chiaramente, Et dukkehjem è un testo che critica non solo l’istituzione del matrimonio, ma anche
quella della religione, una critica che, di nuovo, si intensifica in Gjengangere. Si riporta da Et
dukkehjem:

Thorvald: Tu sei prima e soprattutto moglie e madre.

Nora: Questo non lo credo più. Io credo di essere prima di tutto una persona, io, esattamente come
te, - o, almeno, quale devo provare a diventare.

[...]

Thorvald: Non potresti venire in chiaro stando a casa tua? Non hai tu, in questioni del genere, una
guida sicura? Non hai la religione?

Nora: Ah, Thorvald, non so affatto cosa sia con esattezza la religione.

Thorvald: Che cos’è che dici!

Nora: Io non sono altro che ciò che il reverendo Hansen diceva quando ebbi la conferma. Lui
raccontava che la religione era questo e quello. Quando avrò lasciato tutto ciò che è qui e sarò sola,
esaminerò anche questa questione. Vedrò se era esatto ciò che diceva il reverendo Hansen, o
almeno se è esatto per me.

(III Atto, p. 224)

Qua Thorvald afferma che Nora non deve andarsene e che deve rimanere a casa, in quanto ha
degli obblighi come moglie e madre, i classici ruoli della donna sposata nella società borghese
ottocentesca. Questi sono obblighi, peraltro, regolati dalla religione di Lutero e nel suo Der kleine

71
Katechismus (1529) che riguarda i ruoli dei membri della famiglia e i comportamenti da tenersi in
tale ambito. Nora, però, ribatte: Jeg tror, at jeg er først og fremst et menneske, jeg, ligesåvel som
du. La sua identità, perciò, non ha niente a che vedere con il suo ruolo di madre e moglie. Thorvald
è contento dei due ruoli che la società ha assegnato a Nora, come se non la considerasse come
un essere umano, e lo dice anche nel III Atto tramite la metafora dell’allodola (Nu taler lærkefuglen,
som om den var et menneske), uno dei tantissimi nomi che Thorvald dà a Nora (es. l’allodola, lo
scoiattolo, la piccola sprecona, la ghiottona, la piccola cosina senza aiuto ecc.), che durante lo
sviluppo del dramma sembra contenta di recitare il ruolo che Thorvald le conferisce, chiaramente
prima di capire che Thorvald non la comprende e che la guarda dall’alto verso il basso.

Ibsen, Gjengangere

Il testo di Gjengangere, come quello di Et dukkehjem, è stato scritto in Italia, tra Roma e Sorrento
nel 1881, per essere pubblicato a Copenaghen l’anno successivo. La sua prima messa in scena
venne fatta negli Stati Uniti nel 1882, mentre Ibsen dovette aspettare qualche anno per vedere
Gjengangere rappresentato in Norvegia. Questo perché Gjengangere è considerato il testo più
scandaloso mai composto da Ibsen. Perché?

Mottagelsen av Gjengangere, både som bok La ricezione di Ghosts, sia come libro che
og teateroppsetning, er emne for en come produzione teatrale, è oggetto di una
avhandling av Grete Odland [Det kanoniserte dissertazione di Grete Odland [Det kanoniserte
spøkelse]. Odland analyserer spøkelse]. Odland analizza i criteri di
vurderingskriteriene og systematiserer valutazione e sistematizza le recensioni e le
anmeldelsene og kritikken i relasjon til critiche in relazione alle posizioni ideologiche
ideologiske og estetiske posisjoner. Hun ed estetiche. L'autrice sottolinea che la critica
peker på at tidens litteraturkritikk fremdeles letteraria dell'epoca era ancora dominata da
var dominert av en idealistisk estetikk (1990, un'estetica idealista (1990, 15), in cui l'armonia
15), der harmoni og forsoning var sentrale e la riconciliazione erano valori centrali. In
verdier. I pakt med dette inneholdt over linea con ciò, più della metà degli attacchi
halvdelen av angrepene på stykket moralske all’opera conteneva giudizi morali, con l'accusa
vurderinger, med anklager om at verket che l'opera rifiutasse qualsiasi punto di vista
avskrev ethvert verdistandpunkt og derfor sui valori e che quindi esprimesse una
uttrykte en farlig, samfunnsoppløsende tendenza pericolosa e socialmente
tendens. Ikke få gikk så langt at de anklaget dissolvente. Non pochi si sono spinti fino ad
stykket for å uttrykke nihilisme. accusare l'opera di esprimere nichilismo.

Tratto da: Vigdis Ystad, “Innledning til Gjengangere”.

72
In opposizione alle forti critiche che vennero rivolte ad Ibsen al tempo e al suo dramma, oggigiorno
Gjengangere è osservato per la sua struttura e la sua forma, considerate come le più perfette
realizzate da Ibsen, le più vicine a quelle tipiche della tragedia greca; infatti, l’azione del dramma si
svolge in meno di 24 ore, tutta nella tenuta di campagna della sig.ra Alving a Rosenvold (presso un
grande fiordo norvegese nel Vestlandet). La pièce in senso di azione, di trama, riguarda il tentativo
della sig.ra Alving, la protagonista, di liberarsi dal passato, senza poi riuscirci; anzi, il passato
invece ritorna a galla, distruggendola. La sig.ra Alving può essere paragonata a Nora, perché
anche lei in passato ha lasciato suo marito, tuttavia poi tornando da lui e riaccogliendolo.
Gjengangere mostra le conseguenze nefaste della scelta della sig.ra Alving, alle quale la donna
non riuscirà a sottrarsi. Anche in questo senso si può dire che Gjengangere sia un dramma molto
più cupo di Et dukkehjem, dove l’uscita di scena di Nora può essere letta in chiave ottimistica, dove
forse un giorno Thorvald e Nora torneranno insieme. L’importante è comprendere che dietro
all’azione, che si svolge in meno di un giorno, viene esplorato un lasso temporale molto più ampio
di sole 24 ore.

Nell’Ottocento, si parlava del fatto che Gjengangere rappresentasse “la fogna del mondo” per i
temi che vi venivano discussi. Questi temi sono:

● Infedeltà
● Malattie sessualmente trasmissibili
● Prostituzione
● Eutanasia
● Incesto
● Matrimonio come una menzogna
● Emancipazione della donna
● Ipocrisia borghese e clericale

Quindi, stiamo trattando un testo che presenta molti più aspetti problematici rispetto a quanti
venivano esposti in Et dukkehjem.

L’azione riporta i seguenti avvenimenti:

● La signora Alving ha lasciato il marito dopo un anno di matrimonio, ma il personaggio del


Pastore Manders l’ha spinta a tornare da lui - questo lo scopriamo tramite le conversazioni
fra la stessa signora Alving e Manders e nei dialoghi tra la donna e suo figlio Osvald,
ventottenne nel dramma;
● La signora Alving è stata sposata per 19 anni con il capitano e in seguito ciambellano
Alving (kaptajn og kammerherre), morto prima dello svolgimento della trama di
Gjengangere; la signora Alving ha usato dei soldi per costruire un convitto (asylet), una
specie di orfanotrofio, che sarà inaugurato in occasione del primo decennio dalla morte del
capitano ➞ capiamo che il lasso temporale che viene discusso nel dramma è di 29 anni;
● Il Pastore Manders, che rappresenta la voce dell’ipocrisia clericale, non vede la signora
Alving da 18 anni prima di andarla a trovare alla sua tenuta per sistemare delle questioni
burocratiche (è Manders che si è occupato dei finanziamenti e dell’assicurazione) e per
tenere un discorso per l’inaugurazione del convitto.

73
Tutto ciò significa che il passato in Gjengangere è molto profondo e molto pesante dietro all’azione
che viene rappresentata. È questa la tecnica retrospettiva usata da Ibsen: considerata la premessa
di rispettare le tre unità aristoteliche, Ibsen deve far emergere il passato dei personaggi attraverso i
loro dialoghi. In realtà, succede ben poco nel presente di Gjengangere - è come se succedesse
tutto nel passato:

“Senere har den retrospektive teknikken ofte vært fremhevet som et karakteristisk kjennetegn ved
Ibsens samtidsdramatikk. Metoden blir da gjerne karakterisert som at Ibsen strekker ‘espoisjonen’ ut
over hele stykket, slik at handlingens forutsetninger ikke er klarlagt før hele spliiet er over.” (Vigdis
Ystad, “Innledning til Gjengangere”, p. 9)

“In seguito, la tecnica retrospettiva è stata spesso enfatizzata come una caratteristica del dramma
contemporaneo di Ibsen. Il metodo è spesso caratterizzato dal fatto che Ibsen estende
“l'esposizione" [intesa come presentazione delle tematiche e dei personaggi] all'intera opera teatrale,
in modo che i prerequisiti dell'azione non siano chiariti fino alla fine dell'opera stessa.”

Sappiamo che, nel testo, si ritrovano due tentativi di emancipazione da parte della sig.ra Alving:

1) Dopo un anno di matrimonio, la signora Alving ha lasciato il marito cercando l’appoggio del
Pastore Manders di cui era innamorata; Manders, però, l’ha spinta a tornare dal marito. Nel
testo, Manders rappresenta la voce della morale convenzionale che ricorda alla sig.ra
Alving i suoi doveri come madre e moglie:

MANDERS: Sì, ringrazi il suo Signore Iddio, che ho mostrato la giusta fermezza, - che l’ho
distolta dai suoi propositi esaltati e che mi è stato concesso di ricondurla sulla strada del
dovere e al focolare del suo legittimo capofamiglia.

(Atto I, p. 256)

2) Dopo l’apertura del convitto - che è stato costruito con il patrimonio del marito defunto - la
sig.ra Alving vorrebbe vivere una vita senza ipocrisie, senza menzogne. Il suo desiderio di
emancipazione dal passato si rivela attraverso i libri che legge, il cui contenuto viene
aspramente criticato dal Pastore Manders (Manders: Lei legge questo genere di scritti? -
Atto I, p. 243).

La sig.ra Alving vuole la verità assoluta. In fondo, è anche questa la sua colpa: non aver mai
inseguito la propria verità, di non aver sempre cercato di vivere secondo la propria verità. Questo
si capisce anche da alcune frasi e scambi dialogati chiave di Gjengangere:

FRU ALVING: Ja men sandheden da? SIGNORA ALVING: Sì ma la verità allora?

PASTOR MANDERS: Ja men idealerne da? PASTORE MANDERS: Sì ma gli ideali allora?

FRU ALVING: Å - idealer, idealer! Hvis jeg bare SIGNORA ALVING: Oh - gli ideali, gli ideali! Se solo
ikke var så feig, som jeg er! non fossi tanto vile, come sono!

ATTO II, p. 267

74
La sig.ra Alving ha invece sempre cercato di nascondere al figlio Osvald che il marito fosse un
ubriacone e un dongiovanni. Infatti, nel testo, il marito viene definito come “un uomo depravato”. La
donna ha mandato Osvald via da casa all’età di 6/7 anni (anche Osvald, dopo essere diventato un
artista, come Manders torna dalla madre in occasione dell’inaugurazione del convitto), e nelle
lettere che gli scriveva, ha creato un’immagine buona del padre, un benefattore generoso - è stato
proprio il Pastore Manders la sprona a non derubare il proprio figlio di questi ideali.

Titolo intero del dramma: Gjengangere. Et familjedrama i tre akter

⬋ ⬊

Gjengangere << da gå igjen, che ha più significati: Et familjedrama ➞ il sottotitolo del


dramma non corrisponde ad alcun
1) vise seg etter sin død ‘apparire come uno spettro’; genere letterario noto; è un’invenzione
di Ibsen;
es. en død kvinne som går igjen i et gammelt hus.
Roberto Alonge (traduttore): “Et
2) vise seg i noe(n) ‘presentarsi in qualcosa o familjedrama, ‘un dramma familiare’,
qualcuno’, ‘prendere da qualcuno’ ➞ tematica con l’articolo indeterminativo, come già
dell’ereditarietà; nel titolo Una casa di bambola: anche
qui a sottolineare un singolo esempio,
es. morens musikalitet går igjen i datteren.
fra tanti possibili, della generale
3) ricorrere, ripresentarsi; fenomenologia della famiglia
ottocentesca.”
es. inspirasjonen fra Ibsen går igjen i Jon Fosse.

Il significato del titolo, “Gjengangere”, si lega molto bene anche all’aspetto tematico del ritorno nel
presente dei fantasmi del passato:

“The dramatic process which constitutes much of the three acts of Ghosts is filled with Mrs. Alving’s
growing awareness regarding the impossibility of escaping from the past. This is the meaning of the
title in the originale, not ‘ghosts’, or Gespenster, or Spettri, but Gjengangere, that is ‘people or things
that return from the past’; appearances, acts, even physical conditions which tend to haunt the
garden room of the Rosenvold mansion, where Mrs. Alving used to feel sage and in complete
control. This is the tragic irony of the drama. Sending Osvald away has not had the intended effect. It
may have increased his health risk, and he returns seriously ill”.

Asbjørn Aarseth, Ibsen’s two most tragic plays, p. 103

In più, nel II Atto (p. 269) ➞ Sig.ra Alving: Quando ho sentito Regine e Osvald là dentro, è stato
come vede degli spettri davanti a me. Ma io credo quasi, che noi tutti siamo spettri, pastore
Manders. Non è solo ciò che abbiamo ereditato da padre e madre, che ritorna in noi. È in ogni
specie di opinioni vecchie e morte e ogni genere di vecchie credenze morte e cose simili. Esse non
vivono in noi; ma intanto sussistono e non riusciamo a sbarazzarcene. [...] Devono esistere spettri
per tutto il paese. ➞ I “Gjengangere” sono anche le idee, i pensieri che abbiamo ereditato dal
passato, non più utili a noi, ma che rimangono e persistono dentro di noi.

75
Il sottotitolo “Et familjedrama” rispecchia anche un aspetto chiave del testo: i personaggi del
dramma sono tutti - tranne forse il Pastore Manders - in un modo o in un altro in famiglia l’uno con
l’altro. Questo riguarda principalmente Oslvad e sua madre, ma anche Regine che è sia la
sorellastra (halvsøster) di Osvald di cui lui è innamorato senza sapere del legame familiare, sia la
figlia adottiva del falegname Snekkers (padre adottivo di Regine). C’è anche da dire che, a una
certa altezza del testo, Ibsen addirittura sembra volerci suggerire che Manders sia il padre di
Osvald tramite le parole della sig.ra Alving:

PASTOR MANDERS: Ja; men der er et drag ved PASTORE MANDERS: Sì, ma c’è un tratto all’angolo
mundvigerne, noget ved læberne, som minder della bocca, qualcosa vicino alle labbra, che ricorda
så grangiveligt om Alving - ialfald nu han røger. esattamente Alving - almeno adesso che sta
fumando.
FRU ALVING: Aldeles ikke. Osvald har snarere
noget presteligt ved munden, synes jeg. SIGNORA ALVING: Per niente. Osvald ha semmai
qualcosa di sacerdotale intorno alla bocca, mi pare.
ATTO I, p. 250

Il fatto che tutti i personaggi del dramma abbiano, in qualche modo, legami familiari ➞ è così che
Ibsen introduce così il tema e la problematica dell’incesto. Infine, il sottotitolo Et familjedrama può
anche indicare semplicemente il tema principale del dramma: i conflitti di famiglia.

Il riferimento chiave alla tragedia greca

Il riferimento intertestuale più importante per Gjengangere è L’Edipo di Sofocle. Abbiamo già
evidenziato l’importanza della scelta che Ibsen fa delle parole nei suoi drammI; la parola che la
sig.ra Alving usa per parlare del fatto che abbia mandato Osvald via da casa a un’età molto
precoce è satte ham ud (SIG.RA ALVING: Derfor var det jeg satte ham ud. Og nu skønner De
også, hvorfor han aldrig fik sætte sin fod her hjemme, så længe hans far leved. / Ecco perché l’ho
allontanato. E adesso comprende anche perché non ha più rimesso piede qui in casa, finché è
vissuto suo padre; Atto I, p. 260), un termine molto forte, che si usava nelle saghe islandesi per
parlare dei genitori che lasciavano i figli agli animali selvatici, usato anche per ciò che fanno il re
Laios e sua moglie nel testo di Sofocle. Aarseth si esprime a tal proposito:

“The parallel to the tragic development in the myth of Oedipus, clearly intended by Ibsen, can be
illustrated by the choice of words for the act of Osvald’s mother when she decided to remove him
from his father: she satte ham ud - literally: she ‘sat him out’, put him out, exposed him. This was
what King Laios and Queen decided to do with their newborn son on hearing the message of the
Oracle about his future acts [...]. Mrs. Alving’s (and Pastor Manders’) choice of words at this point is
conspicuous, since they are merely talking about the little boy being sent to foster parents, not at all
intending to let him die.” (Ibsen’s two most tragic dramas, p. 103)

La differenza fra la tragedia greca e il dramma familiare è che il protagonista di Ibsen non è Osvald
che torna a uccidere il padre e poi sposare sua madre, sebbene in alcune rappresentazioni viene
messo molto in evidenza un eventuale rapporto di incesto fra la madre e il figlio. Il vero
protagonista tragico è la sig.ra Alving, perché è lei che è cieca e non riesce a vedere le
conseguenze di ciò che ha fatto.

I vari “Gjengangere” del testo

76
Gli “spettri” del testo sono fortemente connotati dall’azione di riemersione dal passato nel presente
narrato, spettri che vengono individuati dagli stessi personaggi attraverso il processo
dell’anagnorisis, greco per ‘riconoscimento’, che loro stessi mettono in atto. Anagnorisis è un
termine usato da Aristotele nella sua Poetica per descrivere “il momento di riconoscimento (o
verità) dopo che l’ignorare lascia spazio alla conoscenza”; secondo Aristotele, “il momento ideale
dell’anagnorisis coincide con peripeteia, o ‘rovescio di fortuna’” (The Penguin Dictionary of Literary
Terms, a cura di Cuddon). In Gjengangere ci sono diverse scene di (auto)riconoscimento:

1) Il Pastore Manders riconosce Osvald come il figlio del capitano Alving;


2) La sig.ra Alving, vedendo Osvald e Regine, riconosce che il figlio sta ripetendo gli errori del
padre = il Pastore Manders ha ragione nella sua osservazione (era come vedere suo padre
in carne e ossa);
3) Regine e Osvald, nel III Atto, capiscono di essere strettamente in famiglia;
4) La sig.ra Alving capisce che lei, con la sua morale, ha contribuito agli eccessi del marito in
passato.

Vediamo adesso degli esempi di “spettri” all’interno del testo.

“Gjenganger” 1:

PASTOR MANDERS: Da Osvald kom, der i PASTORE MANDERS: Quando Osvald è apparso là
døren med piben i munden, var det som jeg så sulla porta, con la pipa in bocca, era come vedere
hans far lyslevende. suo padre in carne e ossa.

OSVALD: Nej virkelig? OSVALD: No, davvero?

FRU ALVING: Å, hvor kan De dog sige det! SIGNORA ALVING: Oh, come può dire questo!
Osvald slægter jo mig på. Osvald ha preso da me.

ATTO I, p. 250

La prima manifestazione di un “Gjenganger” nel testo di Ibsen è quando Manders vede Osvald per
la prima volta dopo tanto tempo. Osvald, nell’occasione, ha una pipa in bocca, e Manders dice alla
sig.ra Alving che per lui è come rivedere il padre del ragazzo, che si manifesta quindi in Osvald.
Tuttavia, la sig.ra Alving protesta, affermando che invece il figlio ha preso da lei. Più avanti si
capirà come, di fatto, l’eredità di Osvald da parte del padre è molto presente e persistente: ha
ereditato la malattia del padre, la sifilide, fatto che ha scoperto durante la sua permanenza a
Parigi, dove un medico gli aveva detto che aveva “dalla nascita qualche cosa di bacato” e che “i
peccati dei padri ricadono sui figli” (II Atto, p. 281) ➞ Ibsen pensava, così come tanti al suo tempo,
pensava che i figli potessero ereditare la sifilide dai propri padri, così come si pensava che i figli
contraessero la forma più grave di sifilide, asintomatica fino a un certo momento, per poi entrare
nella sua fase finale e manifestarsi gravemente, fase in cui gli organi interni, e particolarmente il
cervello, sarebbero stati attaccati brutalmente dalla malattia (si finiva per diventare idioti).
Gjengangere termina con Osvald che entra pienamente nella fase finale della malattia, ma già
nello svolgimento della pièce vediamo diversi segni di una pazzia che avanza. Rilevante in questa
sede è il pensiero di fondo che sottostà alla corrente del Naturalismo, il cui testo chiave è L’origine
della specie di Darwin (1859). In un saggio sul Naturalismo, Furst e Skrine scrivono che “la visione
dell'uomo da parte dei naturalisti dipende direttamente dall'immagine darwiniana della sua

77
discendenza dagli animali inferiori. In contrasto con l'idealizzazione dell'uomo da parte dei
Romantici, i Naturalisti lo riducono deliberatamente al livello animale, privandolo delle aspirazioni
superiori. [...] I naturalisti sembrano addirittura invertire il processo evolutivo mostrando la
degenerazione dell'uomo in uno stato subumano” ➞ Gjengangere testimonia con la figura di
Osvald che entra in una fase di demenza, di idiozia, di blocco mentale totale.

Come ha fatto Ibsen a conoscere il Naturalismo? Grazie alle traduzioni dei libri di Darwin in
danese, realizzate dall’autore danese J. P. Jacobsen. Ibsen e Jacobsen si conoscevano e
trascorrevano tempo insieme a Roma, nel 1878. L’eredità trasmessa dai propri genitori, però, non
è da intendersi solo in senso materiale; è chiaro con Gjengangere che si possono anche ereditare
tratti che rispecchiano le azioni dei genitori. Già al tempo, ci si ponevano delle domande
sull’ereditarietà delle caratteristiche: si ereditano solo le caratteristiche fisiologiche, o anche quelle
che riguardano i sentimenti, i pensieri, la morale? C’è l’idea che, in questa sede, viga un
determinismo assoluto sulla trasmissibilità delle caratteristiche umane.

Il problema dell’ereditarietà è affrontato dagli stessi personaggi di Gjengangere. La stessa sig.ra


Alving fa costruire l’orfanotrofio/il convitto proprio perché non vuole che Osvald riceva qualcosa
dell’ “eredità” di suo padre: così si spiega la decisione della Alving di spendere tutto il patrimonio
del marito per il progetto del convitto (SIG.RA ALVING: [...] così, anche questa lunga sporca
commedia finisce. Da dopodomani sarà, per me, come se il morto non fosse mai vissuto in questa
casa. Qui non ci saranno altri che il mio ragazzo e sua madre) e cercare di cancellare il passato.
Questo è chiaramente anche un riferimento a Edipo di Sofocle, che ispira Ibsen nella stesura di
Gjengangere, perché vediamo venire a galla il tema dell’incesto. Inoltre, è da sottolineare che la
sig.ra Alving specifica che ha usato una cifra di denaro che all’epoca faceva di Alving un buon
partito (la somma d’acquisto) per il matrimonio con una donna. In Gjengangere, così come in Et
dukkehjem, esiste la critica alla società borghese che effettua una “compravendita” delle donne. Il
convitto, poi, andrà in fiamme alla fine del II Atto; le premesse si vedono già all’inizio del dramma -
il falegname Jakob Engstrand che ha costruito il convitto, padre adottivo di Regine, usa i fiammiferi
con molta leggerezza:

PASTOR MANDERS: Jeg har tid tænkt at PASTORE MANDERS: Ho pensato spesso di
spørgte Dem om det- chiederle in merito -

FRU ALVING: -for igår havde vi sånær fåt en SIGNORA ALVING: Perché ieri per poco non è
ildebrand dernede. scoppiato un incendio laggiù.

PASTOR MANDERS: Hvad for noget! PASTORE MANDERS: Che cosa?

FRU ALVING: Nå, det havde forresten ingenting SIGNORA ALVING: Be’, in fondo non è successo
på sig. Der var gåt ild i noget høvlflis i niente. Avevano preso fuoco dei trucioli nella
snedkerværkstedet. falegnameria.

ATTO I, p. 247

“Gjenganger” 2:

78
PASTOR MANDERS oprørt: Men hvad er dog PASTORE MANDERS (turbato): Ma che roba è
dette for noget! Hvad er det, fru Alving? questa? Che è, signora Alving?

FRU ALVING hæst: Gengangere. Parret fra SIGNORA ALVING (rauca): Spettri. La coppia della
blomsterværelset - gå igen. serra - ritorna.

PASTOR MANDERS: Hvad siger De! Regine-? PASTORE MANDERS: Che dice! Regine-? È lei-?
Er hun-?
SIGNORA ALVING: Sì. Venga. Non una parola-!
FRU ALVING: Ja. Kom. Ikke et ord-!

ATTO I, p. 263

La seconda manifestazione, invece, si trova alla fine del I Atto, quando Manders e la sig.ra Alving
sentono Osvald “giocare” in modo erotico con la serva Regine, che scopriremo più avanti nella
trama essere sua sorellastra. I due anziani vedono questa giovane coppia, e la madre di Osvald
dice: “Gjengangere”. Questo accade perché la sig.ra Alving, tanti anni prima, vide suo marito nello
stesso luogo abbracciare la madre di Regine.

“Gjenganger” 3:

FRU ALVING: Det var som et søndagsvejr bare SIGNORA ALVING: Era una festa solo guardarlo. E
at se på ham. Og så den ustyrlige og livsfylde, che forza indomabile e pienezza di vita, c’era in lui!
som var i ham!
OSVALD: E poi-?
OSVALD: Og så-?
SIGNORA ALVING: E poi quella creatura della gioia
FRU ALVING: Og så måtte sligt et livsglædens di vivere, - perché era come una creatura, allora, -
barn, - for han var som et barn, dengang, - han doveva muoversi qui da noi in questa cittadina, che
måtte gå herhjemme i en halvstor by, som ingen non aveva gioie da offrire, ma solo distrazioni.
glæde havde at byde på, men bare fornøjelser. Dovette starsene qui senza uno scopo nella vita, solo
Måtte gå her uden at ha’ noget livsformål; han con un impiego. Non un lavoro, sul quale potersi
havde bare et embede. Ikke hele sit sind; - han buttare con tutta l’anima, - aveva solo degli affari. Non
havde bare forretninger. Ikke eje en eneste un amico, che fosse all’altezza di sentire che cosa sia
kammerat, som var mægtig at føle hvad la gioia di vivere, solo scioperati e crapuloni -
livsglæde er for noget; bare dagdrivere og
svirebrødre -

[...] [...]

FRU ALVING: Din stakkers far fandt aldrig noget SIGNORA ALVING: Il tuo povero papà non trovò mai
afløb for den overmægtige livsglæde, som var i uno sfogo per quella esuberante gioia di vivere, che
ham.Jeg bragte heller ikke søndagsvejr ind i c’era in lui. Neanch’io ho portato un’aria di festa in
hans hjem. casa sua.

OSVALD: Ikke du heller? OSVALD: Neanche tu?

FRU ALVING: De havde lært mig noget om SIGNORA ALVING: Mi avevano impartito certi
pligter og sligt noget, som jeg har gåt her og insegnamenti sul dovere e cose simili, nei quali ho
troet på så længe. Alting så munded det ud i continuato a credere a lungo. Tutto finiva in dovere, -

79
pligterne, - i mine pligter og i hans pligter og-. nei miei doveri e nei suoi doveri e-. Ho paura di aver
Jeg er ræd, jeg har gjort hjemmet uudholdeligt reso questa casa insopportabile per il tuo povero
for din stakkers far, Osvald. papà, Osvald.

ATTO III, p. 298

Scena chiave del III Atto, dove la sig.ra Alving si rende conto che suo marito, prima definito
“depravato”, era in realtà pieno di livsglede, ‘gioia di vivere’ (SIG.RA ALVING: Det var som et
søndagsvejr bare at se på ham. / Era una festa solo guardarlo.). La donna riconosce che per il
marito andare a vivere in provincia era stato difficile, anche considerato il suo lavoro che non
apprezzava, e perciò si era lasciato andare; la sig.ra Alving aveva contribuito al processo di
degrado del marito, in quanto lei concepiva un’idea della vita dominata dallo schema del dovere,
unico perno attorno al quale ruotava la sua esistenza e quella della casa.

“Gjenganger” 4:

La fine di Osvald ➞ In un dialogo in cui Osvald prevede come sarà il suo futuro: o può rimanere a
letto in uno stato pietoso, come un vegetale, o togliersi la vita; non avrà la forza di farlo da solo, e
questo aiuto lo deve dare la madre. Cosa fa quindi la sig.ra Alving? Il dilemma è: ucciderlo con la
polvere di morfina che Osvald stesso le ha dato oppure accudirlo a casa come un neonato in
forma di uomo? Alla fine del testo, in realtà, non si ha una fine come quella della Signorina Julie;
non sappiamo cosa farà, quale decisione prenderà.

FRU ALVING (springer fortvivlet op, river med SIGNORA ALVING (scatta in piedi disperata, si
begge hænder i sit hår og skriger): Dette bæres tormenta i capelli verso le mani e grida) Non ce la
ikke! (hvisker ligesom stivnet) Dette bæres ikke! faccio! (Sussurra come agghiacciata) Non ce la farò!
Aldrig! (pludseligt) Hvor har han dem henne? Mai! (Improvvisamente). Dove l’ha messa? (Gli fruga
(famler plisnart over hans bryst) Her! (viger et freneticamente in petto) Qui! (Indietreggia di due o tre
par skrift tilbage og skriger) Nej; nej; nej! - Jo! - passi e grida) No, no, no! - Sì! - No, no!
Nej; nej!

ATTO III, p. 306

Lo si ritrova nel III Atto, che riguarda la sig.ra Alving che capisce pienamente che la malattia di
Osvald avrà gravissime conseguenze sia per lui che per la madre; lei ne soffre e non riesce né a
parlare né ad agire. Addirittura, poco prima (p. 305) Osvald dice fermamente a sua madre di non
volere la vita che sta vivendo (OSVALD: Non te l’ho chiesta la vita. E che vita è, questa che tu
m’hai dato? Io non la voglio! Riprenditela!). La tragicità della situazione che sta vivendo la sig.ra
Alving si può notare dall’indecisione che connota le parole Nej; nej; nej; - Jo! - Nej; nej!

Jakob Engstrand ➞ Jakob Engstrand è un personaggio che suscita una certa ironia del testo; a
un certo punto, viene fuori i soldi che sono stati stanziati per il convitto finanzieranno il bordello del
falegname, che vive in città. Engstrand è un personaggio diabolico; ha sposato la mamma di
Regine per avere i suoi soldi; ha un piede storto (pied de mouton); sa usare tutti i termini della
Bibbia e si finge pio, ma il suo linguaggio svela il suo carattere diabolico. Dice che la casa per i
marinai che costruirà in città sarà condotta secondo i suoi principi, degni dell’anima del
ciambellano (che era un Dongiovanni, un “depravato”).

80
Georg Brandes (1842-1927)

● Nato in una famiglia ebrea;


● Ispirato da C. A. Saint-Beuve e Hippolyte Taine (race, milieu, moment);
● Brandes fu tra i primi a occuparsi della questione delle donne; nel 1869 tradusse in danese
On the Subjection of Women di J. S. Mill;
● Nel 1870-71 viaggiò in Europa, a Dresda incontrò Ibsen con cui era stato regolarmente in
contatto via lettere;
● Ibsen avrebbe detto a Brandes al momento di addio: “Ærg De de danske, så skal jeg ærgre
de norske.” [Infastidisca Lei i danesi, così io infastidisco i norvegesi.];

81
● Dal 1888 diventò il promulgatore di Nietzsche in Scandinavia; con il suo interesse per
Nietzsche, Brandes diventò un “individualista aristocratico”;
● Il suo genere preferito era il saggio, soprattutto il ritratto, letterario e biografico.

“He [...] influenced a number of high-ranking “Brandes was taken with Nietzsche’s concept of
Scandinavian authors, such as Bjørnson, the great personality as the source of culture,
Hamsun, Ibsen and Strindberg, and made and he introduced the German thinker, to the
them known in Europe, not least through his Scandinavians with the article ‘Aristokratisk
extensive correspondence and his personal Radikalisme’ (1889) [...] The title clearly denotes
contact with such well-known writers as his wish to being seen as a radical, in spite of his
Paul Bourget, Anatole France, André Gide, loss of belief in the potential of democracy and in
Paul Heyse and Romain Rolland. Brandes the masses. His later career was devoted to the
also discovered several great figures of studies of great minds - for example William
European cultural life: He was the first to Shakespeare (1895-96); Wolfgang Goethe
call attention to Paul Claude, Henrik Ibsen, (1914-15), and Caius Julius Cæsar (1918) [...].”
and Friedrich Nietzsche.”
A History of Danish Literature (1992), a cura di
Sven Hakon Rossel, Scandinavian Sven Hakon Rossel, p. 267
Literature 1870-1980, p. 8

Georg Brandes ➞ “Det, at en Litteratur i vore Dage lever, viser sig i, at den sætter Problemer
under Debat”. (L’unica letteratura viva oggi è quella che mette i problemi in discussione) ➞
Introduzione a Hovedstrømninger i det 19de Aarhundredes Litteratur di Brandes.

Cos’è “det moderne gjennombrudd”?

● Periodo della storia della letteratura scandinava che va dal 1870 al 1890;
● Brandes: la letteratura deve occuparsi del mondo contemporaneo;
● Gjennombrudd / dan. Gennembrud ➞ indica una svolta, una “breccia”;
● Per Brandes c’era un “prima” e un “dopo” - se gli autori avessero seguito il suo consiglio
avrebbero cambiato la letteratura per sempre con questa divisione tra prima e dopo;

Principio di base = La letteratura non è qualcosa da contemplare e di cui godere passivamente, ma


dovrebbe portare il lettore all’azione, al cambiamento. La letteratura deve svegliare il lettore. Ad
es.: in Et dukkehjem, Ibsen desiderava che l’ambiente, l’abbigliamento e il modo di parlare dei suoi
personaggi fossero tipici della borghesia ➞ la letteratura deve trasmettere la sensazione che stia
rispecchiando la realtà e la verità; il pubblico - che era di estrazione borghese - doveva avere la
sensazione di vedere la propria vita rappresentata sulla scena, doveva capire che il dramma
stesse parlando di loro, e comprendere la necessità di agire.

Il termine Det moderne gjennombrudd si usa non solo in senso letterario, ma anche per indicare
una svolta generale che portò a cambiamenti che mettono in discussione la base della società
borghese, la base della monarchia e della Chiesa. Perché si ebbero tanti cambiamenti? Perché:

a) La ricerca di Darwin portò a una nuova visione dell’evoluzione e ad una critica feroce della
religione, ricerca diffusa in Scandinavia grazie all’opera di Brandes e di Jacobsen;

82
b) Le nuove classi sociali emergenti - i contadini e gli operai - chiedono di partecipare alla vita
politica, non accettano più l’autorità della Chiesa o del monarca (in Danimarca e in
Norvegia il partito politico che rappresentò questo cambiamento fu il partito “Venstre”).
Marco Ciaravolo scrive: “la Scandinavia è ancora prevalentemente contadina, l’industria sta
muovendo i primi passi, specialmente in Svezia, ma la vera rivoluzione industriale arriverà
qui attorno al 1870, come in Germania e in Italia. A metà del secolo le classi in ascesa,
anche dal punto di vista politico, sono i contadini proprietari e in generale le classi medie:
amministratori e funzionari, ceti intellettuali e insegnanti, in parte il ceto urbano
imprenditoriale” (Dispensa, p. 28);
c) Il movimento di emancipazione femminile che emerse negli Stati Uniti e si espanse in tutto
il mondo portò a una discussione delle strutture sociali, della prostituzione, dei diritti delle
donne a possere dei propri soldi e a votare.

Brandes era uno scrittore brillante. La sua conferenza [Hovedstrømninger i det 19de Aarhundredes
Litteratur di Brandes] era piena di passione - quella passione che voleva promuovere anche dal
punto di vista del contenuto della letteratura.

Per Brandes l’Illuminismo e la Rivoluzione francese erano per lui i fari della storia umana e della
letteratura. Spera che la letteratura possa rispecchiare la verità, l’uguaglianza e la libertà, che sono
quasi i principi della Rivoluzione francese. Brandes dice che la letteratura dovrebbe anche parlare
della felicità nell’amore; Brandes e la sua generazione erano sostenitori dell’amore libero, anche
per le donne, che dovevano, secondo loro, dovevano avere la stessa libertà degli uomini.

Sven Hakon Rossel scrive in A History of Danish Literature: “A homology between the Modern
Breakthrough and the Age of Reason emerges: both ages scorned metaphysics, both saw a moral
need to improve society, both questioned authority, and both deemed human beings to be
reasonable and capable of taking charge of their destinies.”

Brandes si considerava una sorta di illuminista: “I consider it a duty and an honour to uphold these
principles, which are my credo: the belief in the right to free enquiry [den frie Forsknings Ret] and
in the eventual victory of free thought [den frie Tankes endelige Seir]” (da Introduzione a
Hovedstrømninger i det 19de Aarhundredes Litteratur di Brandes, p. 698)

Hovedstrømninger i det 19de Aarhundredes Litteratur

Il 3 novembre 1871, Brandes tenne la conferenza introduttiva alla serie di conferenze intitolata Le
principali correnti della letteratura del XIX secolo (Hovedstrømninger i det 19de Aarhundredes
Litteratur) presso l’Università di Copenaghen. La conferenza segna l’inizio di quel periodo della
storia della letteratura dei paesi scandinavi conosciuto come “Breccia moderna”, che va dal 1870
al 1890 circa.

Durante la conferenza introduttiva, Brandes definiva la letteratura danese e norvegese (non parla
di quella svedese) come reazionaria rispetto alla situazione letteraria europea. Secondo Brandes,
questa letteratura era arretrata di circa 40 anni rispetto allo sviluppo europeo generale. Con le sue
conferenze, Brandes intendeva “allineare” la letteratura scandinava a quella europea:

83
“I believe that we can draw a lesson for ourselves from this great drama. We are now, as
usual, forty years behind Europe. It has been a long time since the revolutionary current in the
literatures of France, England, and Germany has absorbed the minor streams and burst the dikes
thrown up in its way to find its way into thousands of channels. We are still working to stop it and
keep it in the swamp of reaction. But we have managed only to bring our literature to a standstill.”
(dall’Introduzione di Brandes, p. 700)

L’opera di Brandes ha forma di un dramma in sei atti (tenne infatti sei conferenze), il cui filo
conduttore era la storia del liberalismo:

● La letteratura francese intorno all’anno 1800 (“emigré literature”);


● Il romanticismo in Germania;
● Gli scrittori francesi del 1830;
● Il naturalismo inglese (Lord Byron);
● La scuola francese romantica (Balzac);
● Gli scrittori tedeschi rivoluzionari (Börne, Heine).

Brandes era molto ispirato dai principi di Hegel, dove si ha prima una tesi che viene poi
contraddetta da una antitesi, e alla fine una sintesi. Per Brandes, la tesi principale erano i principi
della Rivoluzione francese; dopo questi principi veniva una reazione conservatrice nel 1815, con la
sconfitta di Napoleone, e secondo Brandes la letteratura danese era ancora ferma in questa
reazione antiprogressista del 1815; Branes voleva svegliare la letteratura da questa reazione, che
era stata superata in Europa, ma in un paese piccolo come la Danimarca non si era ancora riusciti.

La reazione in quanto tale è ben lungi dall'essere la stessa cosa della regressione. Tutt'altro!
Una reazione vera, appropriata e correttiva è un progresso. Ma tale reazione è potente e di breve
durata e non ristagna. Dopo aver combattuto per un certo periodo gli eccessi di un periodo
precedente, dopo aver portato alla luce ciò che aveva soppresso, il nuovo periodo riprende il
contenuto del periodo precedente e ne continua il movimento.

Brandes pensava che la letteratura danese e norvegese fosse escapista ➞ la letteratura doveva
parlare della vita contemporanea.

Il termine “Breccia moderna” non si ritrova nelle trascrizioni di queste conferenze, ma in un altro
testo di Brandes ➞ Det moderne gjennembruds mænd, ‘Gli uomini della breccia moderna’ (1883),
un libro composto da una serie di saggi sui principali autori che Brandes ritiene abbiano rispettato i
principi della Breccia moderna e che abbiano scritto dei testi che ne rispecchiano il credo.

Cento anni dopo, nel 1983 ➞ Pil Dahlerup: Det moderne gjennembruds kvinder, ‘Le donne della
breccia moderna’ ➞ presentava le opere di settanta scrittrici che erano state ignorate da Brandes,
tra cui Amalie Skram, Adda Ravnkilde, Massi Bruhn, Emma Gand ecc.

84
Bjørnstjerne Bjørnson (1832-1910)

● Uno scrittore estremamente prolifico: realizzò racconti, romanzi, poesie, drammi teatrali e
numerosi testi giornalistici - non esistevano argomenti troppo grandi o troppo piccoli per la
penna di Bjørnson;
● Vinse il premio Nobel nel 1903;
● Quando era in vita, Bjørnson era conosciuto e apprezzato come Ibsen; oggi, tuttavia, la sua
produzione molto vasta e la sua qualità viene messa in discussione a causa del suo
impegno in questioni politiche e nel mondo contemporaneo, come se non avesse
abbastanza tempo per limare e rifinire i suoi prodotti letterari;
● La sua pièce più importante ➞ trilogia su Sigurd Siembe (1862), ambientato nel Medioevo;

Bjørnson, Faderen

Faderen (Il padre) è un racconto pubblicato nel 1860 nella raccolta di Bjørnson Smaastykker
(Piccoli pezzi). È una delle sue storie del genere dei bondefortellinger, i racconti di contadini. Il
racconto è suddiviso in quattro parti, quattro segmenti narrativi.

Il tema è legato al lidelsens høgskole/høyskole, ‘la scuola della passione’, un concetto che
Bjørnson sviluppò leggendo i testi del predicatore tedesco Ludwig Hofacker nell'estate del 1859. Il
protagonista Thord Øveraas passa dalla prosperità e dall'orgoglio all'umiltà attraverso una
profonda disperazione e attraverso la sofferenza ➞ lidelsens høgskole.

Trama breve dei quattro segmenti narrativi:

1. Thord Øveraas è un ricco e prospero agricoltore, uno degli uomini più potenti della sua
comunità. Un giorno si presenta nell'ufficio del sacerdote della comunità e dice che vuole
far battezzare suo figlio. Il battesimo è fissato per il sabato successivo alle dodici.

2. Sedici anni dopo, Thord si presenta nel salotto del sacerdote e chiede che suo figlio
venga cresimato. Non pagherà il sacerdote finché non si sarà assicurato che suo figlio sia il
primo della fila.

3. Passano otto anni e Thord si trova nell'ufficio del sacerdote insieme a molti altri uomini
del villaggio. Il figlio deve sposare Karen Storlien, la ragazza più ricca del villaggio. Paga tre
dollari, anche se il prete dice che dovrebbe riceverne solo uno. Tutte le volte che Thord ha
parlato con il prete, questi ha sempre chiesto "C'è altro?", e ogni volta Thord risponde
"Altrimenti non c'è niente". Quattordici giorni dopo, a Thord accade l'impensabile. Un giorno
sono fuori a remare e parlano del matrimonio, ma il figlio cade dalla barca, si irrigidisce e
annega. Il padre cerca per tre giorni e tre notti il figlio morto. La mattina del terzo giorno
trova il corpo del figlio e lo porta su per i pendii fino alla sua fattoria.

4. Passa un anno intero. Una sera d'autunno, il sacerdote sente qualcuno che cammina
fuori dalla stanza, ed ecco Thord. Dice di aver venduto la sua fattoria e di voler donare
metà del ricavato per una borsa di studio a nome del figlio. Il sacerdote dice: "Ora penso
che tuo figlio ti abbia finalmente benedetto". "Sì, ora lo penso anch'io", risponde Thord.

Distacco tra le prime tre parti del racconto e l’ultima ➞ evoluzione di Thord; nelle prime tre scene
ci viene mostrato come una persona piena di sé; questo lo capiamo attraverso le battute del

85
sacerdote; es. quando il sacerdote dice “C’è altro?” ➞ è come se fosse Thord a decidere tutto. Lo
vediamo anche nel segmento narrativo del matrimonio del figlio di Thord, quando Thord paga più
del dovuto perché il suo è figlio unico e vuole che la cerimonia venga fatta come si deve. Nella
quarta parte si vede Thord completamente cambiato; c’è un rimando alla prima scena, quando il
sacerdote dice a Thord che spera che suo figlio lo cambi: infatti, nella quarta parte lo stesso
sacerdote afferma che questo cambiamento è avvenuto secondo lui.

Stile di Bjørnson in Faderen ➞ “show, not tell”, non è dato sapere cosa pensano i personaggi, ma
li conosciamo attraverso le loro battute e le loro azioni ➞ riferimento allo stile delle saghe islandesi
che Bjørnson usa.

Ci sono anche degli aspetti in Faderen che sono ispirati alle fiabe di Asbjørnsen e Moe: incertezza
nelle coordinate temporali e spaziali che connotano il racconto; Ripetizione del numero ‘3’ (es.
viene ripetuto tre volte “C’è altro?”) ➞ il ‘3’ è un numero magico nelle fiabe.

Lidelsens høyskole ➞ fa riferimento al percorso di “formazione” che Thord compie; attraverso la


sofferenza, Thord impara quali sono i veri valori da seguire; si pente molto tardi (“Kommer du så
sent?” sa presten og stod stille foran ham. “Å ja, jeg kommer sent,” sa Tord, han satte sig ned.).
Thord subisce un cambiamento radicale, diventa una persona umile che vive una vita cristiana, e
trova i veri valori della vita, i principi morali cristiani.

Bondefortellinger: Il termine bondefortelling fu inventato da Brandes in un articolo dedicato a


Bjørnson; questi racconti, alcuni dei quali contengono poesie (es. Ingerid Sletten; mescolare prosa
e poesia è una caratteristica anche delle saghe islandesi), presentano la Norvegia come un paese
di fieri contadini. Bjørnson ha scritto una serie di racconti sui contadini norvegesi, un tratto del
romanticismo nazionale ➞ idea della Norvegia nel suo ideale di vita contadina, autentica, intoccata
dai danesi; tuttavia, in Faderen vediamo un contadino, Thord, che non è un granché come persona
(anche in altri suoi bondefortellinger Bjørnson parla di alcolismo, violenza ecc.) ➞ intenzione di
Bjørnson di rappresentare i contadini e la loro vita nella maniera più realistica possibile ➞ prende il
nome di “poetisk realismen”: da un lato, si ha un idealismo, per il quale Bjørnson voleva educare i
norvegesi, tra cui i contadini, ai veri valori della vita, e dall’altro lato un realismo, secondo cui
Bjørnson presenta questi contadini sotto una luce meno romantica dei suoi predecessori (come
Henrik Steffens).

Cosa vuole comunicare Faderen? L’ideale della morale, sicuramente, una morale prettamente
cristiana da seguire e da rispettare, sebbene Bjørnson avesse avuto un rapporto molto complicato
con il Cristianesimo (suo padre era pastore). Faderen appartiene a una fase dell’opera di Bjørnson
dove la sua fede cristiana non è ancora entrata in crisi (la fase della cosiddetta barnetro).

Titolo del racconto “Faderen” ➞ non è solamente il padre di un figlio, in senso concreto, ma anche
il padre nel senso di pastore (anche se c’è da sottolineare che nei paesi protestanti non si chiama
il pastore “padre”), e soprattutto Padre come Dio Creatore.

86
Amalie Skram, Karens Jul

● Amalie Skram era una scrittrice naturalista;


● Nata a Bergen e morta in Danimarca, perché sposata a uno scrittore danese, Enrik Skram
(presente nel libro di Brandes Det moderne gjennembruds mænd);
● Tre strade presenti nella sua opera:
1. I romanzi dedicati ai matrimoni (come il suo romanzo d’esordio, Constance Ring),
che parlano di giovanissime donne che si sposano con uomini più grandi senza
sapere niente della vita sessuale, e perciò si spaventano;
2. I due romanzi autobiografici che riguardano il suo soggiorno in un ospedale
psichiatrico a Copenaghen;
3. I quattro romanzi del ciclo Hellemyrsfolket (da Hellemyr, una località vicina a
Bergen), che raccontano la storia di una famiglia povera in quattro generazione.

Karens Jul (Il Natale di Karen) è un racconto pubblicato nel numero di Natale del giornale danese
Politiken nel 1885.

Trama di Karens Jul: La storia inizia con il racconto della casa di un traghettatore. La
protagonista, Karen, viene trovata nella casa del traghettatore da un poliziotto. Ha un bambino
appena nato e ha cercato rifugio dal freddo nella casa perché la signora Olsen, ostetrica sua
datrice di lavoro e protettrice, si è allontanata ed è malata in campagna. Karen convince il poliziotto
a permetterle di rimanere in casa per altri tre giorni, anche se lui preferiva che si presentasse
all'ufficio della legge sui poveri. Trascorsi i tre giorni, il poliziotto trovò Karen e il bambino morti di
freddo. Il primo giorno lavorativo dopo le vacanze di Natale, la baracca dove erano restati Karen e
suo figlio fu demolita per evitare che diventasse un rifugio per "vagabondi di ogni tipo".

Il primo tratto naturalistico di questo testo è che sia ambientato nel mondo contemporaneo, a
Christiania. La Skram dimostra una attenzione estrema nel descrivere il porto di Christiania, ad
esempio. L’autrice conosceva così bene i porti perché, prima di sposare Erik Skram, era stata
moglie di un capitano, con il quale aveva viaggiato il mondo. Il mondo in cui è ritratta Karen è un
mondo che la Skram dipinge anche nella sua povertà, già a partire dalle condizioni sociali proprie
della protagonista.

Un altro tratto naturalistico ➞ l’uso del discorso diretto nel testo; ci sono moltissime battute che
servono a caratterizzare i personaggi. La versione del testo in lingua originale mostra chiaramente
che Karen parla un dialetto, che servono a connotare la sua posizione sociale; anche il poliziotto
utilizza delle espressioni dialettali, ma non nella stessa misura in cui le usa Karen.

Obiettivo del testo ➞ Amalie Skram vuole parlare del trattamento delle serve e delle domestiche
che finiscono in disgrazia, che non sono sposate, oltre che della vergogna che accompagna
questo status sociale. Karen si vergogna talmente tanto della propria povertà che non vuole
nessun aiuto; avrebbe anche la possibilità di lasciare la campagna, tanto che rifiuta l’aiuto il
poliziotto le propone. Karen non riesce a liberarsi dalle strutture sociali in cui è costretta, come ha
fatto invece Nora in Et dukkehjem.

“[...] Skam si fa interprete, in maniera più incisiva dei vari Ibsen, Garborg e Kielland, di un
Naturalismo di stampa zoliano, in cui gli aspetti più crudeli e sordidi della natura umana vengnono
dipinti senza censure e senza interventi da parte della voce narrante.” (Storia delle letterature
scandinave, p. 320)

87

Potrebbero piacerti anche