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Piacersi Non Piacere - Enrico Rolla
Piacersi Non Piacere - Enrico Rolla
Piacersi
non piacere
Testi: Enrico Rolla (www.iwatson.com; www.enricorollaeducation.com)
Copertina: Cristina Cecconato – acapoagency (TO) (progetto grafico e illustrazione)
Impaginazione: Cristina Cecconato - acapoagency (TO)
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Tutti i diritti sono riservati, in Italia e all’estero, per tutti i Paesi. Nessuna parte di questo
libro può essere riprodotta, memorizzata o trasmessa con qualsiasi mezzo e in qualsiasi
forma (fotomeccanica, fotocopia, elettronica, chimica, su disco o altro, compresi cinema,
radio, televisione) senza autorizzazione scritta da parte dell’Editore. In ogni caso di ripro-
duzione abusiva si procederà d’ufficio a norma di legge.
Indice
Prefazione 5
Stili di comportamento 9
Il comportamento assertivo
Le strategie manipolative
Le abilità sociali
La comunicazione assertiva 19
La comunicazione non verbale
La funzione espressiva della comunicazione non verbale
La comunicazione verbale
La gestione delle critiche
L’aspettativa 39
Crearsi delle aspettative
L’aspettativa nei rapporti di coppia
Creare false aspettative
L’amicizia
L’autovalutazione e il crearsi delle false aspettative
L’aspettativa nella vita quotidiana 55
Al semaforo
Il treno in ritardo
Siamo incolonnati nel traffico
L’aspettativa e l’interpretazione
L’aspettativa sul lavoro
Il lavoro e il creare false aspettative: come perdere credi-
bilità
Il giudizio 65
Il giudizio e gli amici
Il giudizio e i familiari
Il giudizio e l’autorità
Il giudizio e le situazioni commerciali
Il giudizio e il nostro partner
Il giudizio e la società
Il giudizio e la perfezione
La valutazione del giudizio
La volontà 89
La volontà e il lavoro
La volontà e il controllo del proprio comportamento
Il fratello colpevolizzante
L’orgoglio 99
Un modo errato di iniziare un rapporto
L’orgoglio e il lavoro
L’orgoglio e l’errore
3
L’errore 107
L’errore e i genitori
L’errore e il nostro partner
L’insegnante e l’errore
Il disagio e il farmaco
Il possesso 117
Il possesso e la gelosia
Il possesso e l’orgoglio
Essere posseduti
Il possesso e il passato
Il possesso e i nostri interessi
L’appropriazione indebita
L’egoismo 129
L’invidia 139
L’invidia e il lavoro
L’invidia e l’amica
L’invidia e la macchina
Il rancore 147
Il marito silenzioso
Il rancore e l’amico
Il saluto
L’interpretazione
Il sospetto
Il sacrificio e il piacere 157
Il dovere di dare
Curare il proprio aspetto
L’immagine
Il bisogno
La modificazione del comportamento 167
Iniziamo a modificarci
Individuiamo il nostro stile di comportamento
Individuiamo lo stile di comportamento altrui
L’analisi delle assunzioni 177
Apprendiamo dal nostro passato
Conclusione 185
Esercitiamoci nelle situazioni
Ringraziamenti 189
4
Prefazione
5
senso di frustrazione o disagio. È quindi necessario apprendere
un diverso comportamento che ci permetta di non subire o ag-
gredire gli altri. Definiremo “assertivo” questo comportamento
maggiormente equilibrato.
Possono essere esempi di comportamento assertivo: il fare
o rifiutare richieste, l’accettare il punto di vista altrui, iniziare
una conversazione o sostenere un punto di vista diverso dal
proprio interlocutore.
Il Training Assertivo è ampiamente usato in terapia cogniti-
vo comportamentale. Questa diffusione del training è dovuta al
fatto che più del 70% delle persone tendono ad avere problemi
di origine sociale e interpersonale.
Salter (1949) è considerato un precursore del Training As-
sertivo, ma si deve a Wolpe (1969) l’introduzione del Training
Assertivo nella Terapia cognitivo comportamentale.
La Terapia Comportamentale è l’insieme di sperimentazio-
ne e tecnologie elaborate sulla base dei risultati della ricerca
psicologica sperimentale sull’apprendimento.
Teoria e sperimentazione a partire da Pavlov fino ai risultati
più recenti di Skinner, Miller, Eysenck e Bandura, hanno indivi-
duato le leggi fondamentali attraverso le quali l’uomo impara,
acquisisce idee e comportamenti. In questo modo è stato possi-
bile proporre indicazioni operative per risalire agli antecedenti
dei comportamenti, sia per estinguerli, sia per modificarli, sia
per instaurare nuovi comportamenti più corretti.
Le caratteristiche della terapia del comportamento sono
l’accuratezza metodologica e il rigore scientifico nell’analisi
del trattamento e nel controllo dei risultati.
Il metodo sperimentale applicato al singolo caso, sia per
quanto riguarda l’indagine clinica sia per quanto riguarda la
terapia, ha permesso di indicare le percentuali di successo che
si ottengono nelle singole aree:
6
——fobie monosintomatiche (a esempio paura di animali, pau-
ra dell’altezza) 95%;
——fobie (a esempio agorafobia, paura del male) 85%;
——ossessioni e depressioni 70%;
——ansie sociali 70%;
——obesità 20%;
——alcolismo 5-10%;
——droga irrilevanti.
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Spesso, nella pratica, si può osservare come sia difficile ottene-
re un trasferimento di abilità dallo “studio” alla vita reale. Si può
essere convinti che nei rapporti interpersonali non sia corretto ag-
gredire o subire l’altro. Possiamo aver appreso a padroneggiare al-
cune abilità verbali, ma quando ci troviamo in una situazione che è
per noi aversiva, tendiamo a emettere il nostro abituale ed “errato”
comportamento. Una persona critica il nostro operato, noi riuscia-
mo per un po’ a controllarci, ma poi ci difendiamo aggredendo il
nostro interlocutore.
Siamo a una riunione: una persona sta facendo affermazioni che
non condividiamo; per un po’ rimaniamo calmi ad ascoltare, ma
poi iniziamo a provare tensione e rabbia.
Se proviamo rancore per una determinata persona, come pos-
siamo in sua presenza, emettere un comportamento assertivo?
Se invidiamo un nostro amico per i suoi successi, riusciamo, in
sua presenza, a rimanere tranquilli e rilassati?
Provare rancore o invidia per qualcuno può derivare da un no-
stro errato modo di pensare, o dal possesso di rigide “assunzioni”
che non ci permettono di modificare il nostro comportamento e,
quindi, di emettere un comportamento assertivo.
Nel libro si considerano due repertori di comportamenti che tra
loro interagiscono costantemente:
8
Stili di comportamento
Il comportamento assertivo
9
passiva emetta dei comportamenti “aggressivi”, per sentirsi, su-
bito dopo, colpevole e quindi ritornare al suo comportamento
abituale, quello passivo. Subire gli altri crea un elevato senso di
frustrazione: la persona si sente impotente e tende a isolarsi.
Usiamo spesso frasi del tipo: “È possibile che tu non sia mai
in grado di fare nulla di buono”; “Io mi aspettavo ben altro da
te”; “Se tu mi fossi realmente amico ti comporteresti in un altro
modo”; “Tu sai quanto ti voglia bene e ciò che sto dicendo è solo
per il tuo bene”; “Nel dire queste cose so di essere nel giusto”; “Le
cose non vanno bene sul lavoro e ciò è dovuto al fatto che ho dei
collaboratori inetti”. Fare violenza ai diritti altrui, essere convinti
di non sbagliare, attribuire i propri errori agli altri, iper-valutar-
si, non accettare il punto di vista altrui, non cambiare la propria
opinione anche di fronte all’evidenza dei fatti, colpevolizzare e
inferiorizzare gli altri, arrogarsi il diritto di giudicare; questi sono
i comportamenti tipici della persona “aggressiva”.
La persona “assertiva” si colloca tra l’aggressivo e il passivo.
È colui che non fa violenza sugli altri, ma non permette che
gli altri siano aggressivi nei suoi confronti, non li subisce. L’as-
sertivo accetta il punto di vista altrui, è pronto a modificare
la propria opinione, non pretende che gli altri si comportino
come fa piacere a lui, rispetta gli altri e non è possessivo nei
loro confronti, non giudica.
È un comportamento assertivo usare “l’io”, è aggressivo usare
il “tu”. Possiamo dire “Non mi piace. Non ho voglia. Non mi
trovo a mio agio”; stiamo comunicando delle sensazioni che pro-
viamo noi, e questo è corretto. È aggressivo dire: “Tu mi fai stare
male. Tu non mi capisci”; stiamo attribuendo agli altri il nostro
disagio, quando invece il disagio è “nostro”.
Vi chiederete se esiste realmente una persona “assertiva”.
Penso che vi sarà capitato di trovarvi con qualche persona con
cui potevate parlare liberamente senza avere paura di venir cri-
10
ticati o aggrediti. Se avete incontrato questo tipo di persone
allora sapete che, anche se in minima percentuale, il tipo di
persona assertiva esiste.
La distinzione tra i vari tipi di comportamento (passivo, ag-
gressivo, assertivo) è, in se stessa, di natura prevalentemente
teorica. Spesso noi slittiamo tra un comportamento e l’altro.
In una determinata situazione possiamo essere assertivi e in
un’altra aggressivi. Un individuo può essere assertivo sul lavo-
ro, avendo appreso che l’essere aggressivo presenta più spesso
la conseguenza di essergli svantaggioso. Ma, se osserviamo la
stessa persona quando arriva a casa, possiamo vedere che è ag-
gressiva con la moglie e con i figli. Un altro individuo sul lavoro
subisce, ma quando arriva a casa diventa aggressivo. Il nostro
comportamento tende infatti a essere situazionale.
Le strategie manipolative
1) Il comportamento colpevolizzante,
2) Il comportamento inferiorizzante,
3) Il comportamento imprevedibile.
La figlia ormai adulta è uscita con gli amici dopo cena e ar-
riva a casa a un’ora che la madre non approva. Quando la figlia
rincasa la madre dice: “Se non arrivi a casa all’ora stabilita io
non riesco a dormire e sto male”.
Il padre vorrebbe che il figlio sposato andasse a trovarlo più
spesso e quando il figlio telefona il padre gli dice: “Ti rendi
11
conto che è da una settimana che non mi telefoni, posso anche
stare male ma nessuno si cura di me”.
Un amico ci chiede un favore, noi rifiutiamo e lui ci dice:
“Non mi aspettavo certo un rifiuto da parte tua, su di me hai
sempre potuto contare, non è certo un comportamento da
amico il tuo”.
Questi sono solo pochi esempi tratti dalle molte possibili fra-
si colpevolizzanti che di frequente usiamo.
12
Chi è colpevolizzato può comportarsi nei seguenti modi:
13
Quando i genitori nell’educare il figlio lo inferiorizzano di fre-
quente, creeranno un uomo che sarà sempre insicuro e indeciso.
Questo può essere il caso del signor Luigi, di 50 anni. Mi dice che
non è più in grado di continuare l’attività commerciale che svolge
da circa trent’anni. Mi stupisco di questa sua affermazione. Ma Luigi
aggiunge che l’attività è sempre stata gestita dal padre. Il padre non
ha mai permesso al figlio di decidere, asserendo che il figlio non era
in grado, e che ogni sua decisione era sbagliata. Il padre, all’età di
ottant’anni, si è ritirato dall’attività e si è trasferito al mare. Ora Luigi
nel prendere delle decisioni deve telefonare al padre, pur sapendo
che il padre non è più in grado di dargli dei consigli validi; infatti
ultimamente gli ha fatto prendere decisioni errate. Luigi, pur sapen-
do ciò che deve fare, ha sempre paura di sbagliare; nel prendere
una decisione ci pensa su per molto tempo; prima e dopo averla
presa non è mai convinto della correttezza della decisione.
Spesso chi colpevolizza o inferiorizza auto-giustifica il proprio
comportamento dicendo che lo fa solo per il bene dell’altro; ciò
può anche essere vero, ma in ogni caso è tanto “spiacevole” essere
colpevolizzati o inferiorizzati.
Un’altra fonte di disagio costante si verifica quando le persone
con cui siamo a contatto emettono un comportamento non costan-
te. Questo comportamento può non figurare propriamente come
strategia manipolativa, ma in ogni caso chi lo subisce tende a prova-
re un elevato disagio.
Il padre arriva a casa dal lavoro e si mette a giocare con il figlio di
pochi anni. Il bambino ha appreso, appena vede il padre che rientra
a casa, a corrergli incontro per giocare, il padre lo prende in braccio
e sorride. Oggi il padre ha avuto dei problemi sul lavoro e, appena
arriva a casa e il bambino gli corre incontro, lo allontana. Lo stesso
comportamento del figlio, una volta viene premiato e una volta pu-
nito. Il bambino non sa più come comportarsi, se correre incontro
a suo padre o se rimanere distante, dovrà stare attento ai compor-
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tamenti non verbali del padre, controllare se è allegro, e sorridente
e solo allora valutare se avvicinarsi o no al padre. Questa costante
attenzione genera un permanente stato d’ansia.
Vado a casa di amici, dove sono stato invitato per la cena.
Prima della cena sto parlando con il mio amico e sua moglie,
mentre il loro figlio di sei anni sta disegnando. Dopo circa 15
minuti il bambino porta alla madre il disegno, la madre lo os-
serva e dice al figlio che è stato bravo e lo invita a farne un
altro. La madre va in cucina a terminare di preparare la cena
e, mentre sta cucinando, il bambino le porta a vedere il nuovo
disegno che ha appena fatto. La madre, che non vuole essere
disturbata, dice al figlio: “Non vedi che ho da fare, va via!” Il
bambino ritorna in sala con il suo disegno e ne fa una palla che
scaglia addosso al padre. Il padre dà uno schiaffo al figlio e lo
manda in camera sua.
Dalla camera del figlio arrivano forti rumori: il bambino sta
prendendo a calci i suoi giocattoli. Il padre mi dice: “Guarda
che figlio ho. Basta un nonnulla perché si arrabbi”.
Schematizziamo la sequenza:
15
Quando lo stesso comportamento che emettiamo una volta
viene premiato e un’altra volta punito, non si è più in grado di
decidere quale comportamento emettere. Questa indecisione
crea un profondo disagio a cui può far seguito un comporta-
mento aggressivo o un comportamento passivo.
Abbiamo visto come il bambino sia giunto a emettere un
comportamento di aggressività dislocata che è abbastanza fre-
quente: sul lavoro siamo stati criticati da un superiore e, appe-
na giunti a casa, ci adiriamo con la moglie o con i figli.
Le abilità sociali
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Stiamo per andare a un appuntamento di lavoro, che è per
noi importante. Possiamo emettere due tipi di sequenze di ri-
sposte.
I sequenza:
a) livello cognitivo. Ci diciamo: devo fare una bella figura; è per
me importante avere quel posto; chissà come sarà la persona
con cui devo parlare, speriamo che non sia aggressiva;
b) livello emozionale. Iniziamo ad avvertire sudorazione, an-
cor prima di incontrare il nostro interlocutore. Proviamo
disagio;
c) livello motorio. Alla presenza dell’interlocutore siamo im-
pacciati e non rispondiamo in modo adeguato.
II sequenza:
a) livello cognitivo. Ci diciamo: vado a fargli le mie proposte e
sentirò che cosa ha da dirmi;
b) livello emozionale. Non si attivano risposte fisiologiche;
c) livello motorio. Facciamo le nostre proposte e ascoltiamo
che cosa ci dice il nostro interlocutore. Valutiamo se le ri-
sposte sono quelle che ci aspettavamo.
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Abbiamo precedentemente visto come alcune strategie mani-
polative tendano a inibire chi le subisce. Un bambino che è sta-
to sistematicamente inferiorizzato dal padre facilmente orien-
terà il proprio comportamento in senso passivo. Un bambino
che osserva il padre che, emettendo comportamenti aggressivi,
raggiunge determinati obiettivi quali il successo sociale o il “ri-
spetto” dei suoi dipendenti, potrà emettere un comportamen-
to simile.
Più riusciamo a padroneggiare il nostro comportamento, e
quindi a gestire le situazioni in cui veniamo a trovarci senza
provare disagio, meglio possiamo vivere. Dovremmo essere in
grado di non provare disagio quando:
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La comunicazione assertiva
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Normalmente, mentre si ascolta, si usa lo sguardo con una
frequenza quasi doppia rispetto a quando si parla.
La persona che è in grado di mantenere un buon contatto
oculare tende ad apparire come una persona aperta e sicura
di ciò che sta dicendo. Attraverso il contatto oculare “si dice”
a una persona che troviamo attraente: “Mi piaci”. Non è as-
solutamente necessario ricorrere alle parole per dimostrare il
proprio interesse per una persona.
Abbiamo visto come può essere importante nella comunica-
zione interpersonale il “contatto oculare”; gli altri comporta-
menti non verbali del comportamento sociale sono:
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un’espressione statica. Al nostro comportamento verbale deve cor-
rispondere una mimica adeguata.
Tempo fa addestravo un mio cliente a fare dei complimenti: non
aveva mai fatto un complimento alla moglie. Gli consiglio, quando
lo riterrà opportuno, di farne uno. Dopo alcuni giorni lo rivedo e
mi dice: “Fare i complimenti non funziona”. Gli chiedo il perché
di questa affermazione e mi risponde: “Vedo mia moglie che aveva
indossato un vestito con cui stava bene e le dico: ‘Hai proprio un
bel vestito’ e mia moglie mi risponde: ‘piuttosto di farmi un compli-
mento con quel viso è meglio che tu non dica nulla’.”
Ovviamente non vi era molta correlazione tra il complimento e
l’atteggiamento del viso.
L’espressione del volto sottolinea ed enfatizza i nostri pensieri,
sentimenti e sensazioni. Le persone molto autocontrollate man-
tengono un viso “impassibile”, non comunicando mai le loro emo-
zioni.
Di fronte a queste persone si avverte un senso di disagio e ten-
diamo a non fidarci di loro. Questa forma di autocontrollo tende
a essere un evitamento ad aprirsi con gli altri, quindi riduce la co-
municazione.
Una persona con buone abilità sociali è in grado di discriminare
sottili stati emotivi dal viso del proprio interlocutore. I soggetti as-
sertivi devono addestrarsi a osservare i propri interlocutori e prova-
re a decodificare le emozioni espresse dal viso altrui. Gli aggressivi
perché non prestano attenzione agli altri, i passivi perché provano
disagio durante i rapporti interpersonali, evitando di osservare.
Gestualità
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Parlando usiamo le mani per sottolineare ciò che stiamo di-
cendo e per meglio chiarire il contenuto del discorso. I gesti
delle mani possono assolvere a due funzioni:
Atteggiamento corporeo
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Gestione dello spazio interpersonale
Contatto fisico
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il prenderlo sotto braccio, mentre si sta passeggiando, tutto ciò
può facilitare la comunicazione o creare disagio al nostro inter-
locutore se è una persona che presenta ansie sociali.
Vi sono inoltre dei contatti fisici non funzionali alla comuni-
cazione, a esempio, mentre parlate con un amico, questi inizia
a toccarvi la cravatta o a “spulciarvi” la giacca.
Sincronizzazione
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La funzione espressiva della comunicazione non
verbale
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vi può essere la paura del giudizio o l’ansia di voler fare una
“bella figura”. In ogni caso ciò che è importante è ridurre il
nostro disagio, senza ricorrere all’evitamento.
Vediamo i passi che possiamo seguire:
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che, per lavoro, doveva incontrare di frequente. In loro presenza
provava un elevato disagio che non gli permetteva di esprimersi.
Si era addestrato a ben discriminare i comportamenti non verbali
di queste persone, comportamenti che poi riprovava su se stesso.
Lo rivedo dopo alcune settimane e mi dice: “Sono andato a trova-
re una di quelle persone che mi creavano disagio; appena la vedo
dietro alla sua scrivania, questa inizia a emettere tutto il suo “ritua-
le” non verbale. Questa volta mi viene da sorridere: avevo ripro-
vato su di me la stessa sequenza, cioè appoggiarsi allo schienale,
socchiudere gli occhi e reclinare il capo indietro e con voce priva
di tono dire: ‘Cosa ha da propormi questa volta?’”. Quando siamo
in grado di discriminare tutta una sequenza, stiamo già muoven-
do i primi passi verso il controllo del nostro disagio.
La comunicazione verbale
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Queste abilità possono essere acquisite mediante precisi com-
portamenti verbali di interazione. Le principali tecniche che
tradizionalmente fanno parte del comportamento verbale as-
sertivo sono:
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“Perché...?”, “Come...?”, “Cosa...?”. Il solo porre domande non è suffi-
ciente per stabilire un dialogo, sarebbe un’intervista.
Un’ulteriore abilità è quella di dare o ricevere “libere informazio-
ni”; quelle informazioni non richieste nella domanda. La persona as-
sertiva riconosce immediatamente dai semplici indizi forniti dal suo
interlocutore ciò che è importante o interessante per lui e vi presta
immediata attenzione. Attenzione che può anche essere espressa solo
in modo non verbale, guardando in viso il proprio interlocutore e
facendo dei cenni d’assenso con il capo.
Le persone con scarse abilità sociali hanno difficoltà nel cogliere
le libere informazioni. Le persone passive raramente danno libere
informazioni, ritenendo che ciò che possono dire non interessi il loro
interlocutore. In ogni caso, anche quando riconosciamo una libera
informazione ma non vogliamo iniziare una discussione su quel par-
ticolare argomento, la lasciamo cadere.
Oltre a dare libere informazioni, noi possiamo comunicare al no-
stro interlocutore il nostro stile di vita, il nostro modo di pensare,
possiamo parlare di noi stessi e della nostra vita. Questa abilità viene
definita “autoapertura”. Stiamo attenti a non parlare solo in modo
positivo di noi stessi al fine di metterci “in mostra”: non è un compor-
tamento molto assertivo!
Rivediamo il precedente dialogo:
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- Capisco bene la sensazione che hai provato, anch’io ho av-
vertito alcune volte quella sensazione insieme di paura e di
piacere. (Libera informazione e autoapertura).
Espressione positiva
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sturbare gli altri. Alcuni non sono in grado di accettare un rifiuto.
Spesso vi è l’errata opinione che gli altri debbano capire da soli
ciò di cui si ha bisogno; questo comportamento emerge prevalen-
temente nei rapporti più intimi: tra genitori e figli o nella coppia.
Il fare richieste serve a rafforzare la solidarietà con gli altri, in
quanto ci permette di comunicare i nostri desideri o bisogni.
Il nostro saper rifiutare è esattamente speculare al fare richie-
ste, in quanto rifiutando dichiariamo fino a che punto siamo di-
sponibili. Facendo e rifiutando richieste diamo agli altri chiare
informazioni di noi stessi.
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to ad adottare dopo aver comperato da studenti-venditori una
quantità notevole di saponette e deodoranti che regolarmente
non usavo. La medesima tecnica può essere usata in contesti
diversi. A esempio, quando facciamo una richiesta di ciò che
è in nostro diritto esigere. Se abbiamo acquistato un oggetto
che si rivela guasto, è un nostro diritto farcelo sostituire. Potrà
succedere che il negoziante cerchi di non cambiarcelo, noi do-
vremmo continuare a insistere con calma.
“Annebbiamento”
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“Asserzione negativa”
“Inchiesta negativa”
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SEGRETARIA. Per favore, mi indichi dove ho sbagliato. (In-
chiesta negativa e disco rotto)
DIRIGENTE. (Indicando un punto della lettera) Ha sbagliato
in questa parte. (Critica costruttiva)
SEGRETARIA. Non ci sono altre parti non chiare? (Inchiesta
negativa)
DIRIGENTE. No, il resto va bene.
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sull’altro. Sarà una comunicazione del tutto sterile che creerà
solo rancore e competizione.
Ma se la critica è costruttiva come reagiranno le persone pas-
sive o aggressive?
Immaginiamo di vedere un nostro amico in difficoltà. Noi
cerchiamo di aiutarlo con consigli operativi del tipo: “Forse po-
tresti provare a fare...”. Il nostro amico reagisce dicendoci: “So
come fare, non ho bisogno del tuo aiuto” (comportamento ag-
gressivo). Oppure può non darci alcuna risposta, né chiederci
ulteriori chiarimenti; avvertiamo che sta provando disagio di
fronte al nostro aiuto, tendendo a sentirsi giudicato e valutato
(comportamento passivo). In entrambi i casi cesseremo di dare
informazioni. Non si continua un dialogo quando si è aggrediti
o si avverte disagio nel nostro interlocutore. Come possiamo ve-
dere gli individui non assertivi non discriminano tra una critica
costruttiva e una manipolativa. La persona assertiva individua
immediatamente il tipo di critica. Vediamo il seguente schema:
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Critica Sogg. Risposta Comunicazione
— Ti rendi conto che non sei una persona su cui fare affida-
mento? (Critica manipolativa).
— Tu dici che non si può fare affidamento su di me (parafra-
si). Ma cos’è che non ti va nel mio modo di comportarmi?
(Inchiesta negativa).
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— Non sei puntuale nei lavori che devi consegnarmi.
— Questo è vero, non sono mai puntuale (asserzione negati-
va). Se vi è qualcos’altro nel mio comportamento che ti di-
sturba dimmelo liberamente (inchiesta negativa), è meglio
chiarire immediatamente gli eventuali problemi.
— No, vi è solo questa mancanza di puntualità.
— Ti ringrazio di avermelo detto. Ti sarei grato per il futuro, se
questo non ti disturba, di sollecitarmi due o tre giorni prima
della data di consegna del lavoro.
— Te lo ricorderò senz’altro.
37
Spesso, quando vediamo che le nostre aspettative non si rea-
lizzano, proviamo un senso di frustrazione. Quando un amico ha
“successo nella vita” e noi no, possiamo provare rancore nei suoi
confronti.
Alcuni nostri modi di pensare possono attivare risposte
emozionali negative e incidere sul nostro comportamento.
Possiamo dirci: “Con quella persona devo emettere un com-
portamento assertivo e non aggredirlo”. Ma se, prima di in-
contrare “quella persona”, avvertiamo nei suoi confronti del
“rancore”, sarà molto improbabile che si riesca a essere asserti-
vi. Potremo controllare il nostro comportamento verbale, ma
molto difficilmente quello non verbale. Difficilmente avremo
un viso disteso e rilassato, dimostrando con il nostro atteggia-
mento una disponibilità al colloquio. Sarà sufficiente una lieve
aggressività da parte del nostro interlocutore, perché il nostro
presunto autocontrollo “svanisca”.
Ma allora la persona assertiva non si arrabbia mai?
Con l’esercizio diventa sempre più difficile arrabbiarsi. In
ogni caso, se riteniamo che sia necessario arrabbiarci, possia-
mo farlo, ma senza colpevolizzare o inferiorizzare, dichiaran-
do semplicemente ciò che non ci va. Senza provare autentica
rabbia o rancore.
Nei seguenti capitoli prenderemo in considerazione alcu-
ni modi di pensare, che hanno come “obiettivo” di farci star
male, e vedremo gli ostacoli da superare per cercare di star
“meno male”. L’obiettivo: “star bene”, è difficile da raggiunge-
re. Più facile è “star male”.
L’aspettativa
39
sto modo di pensare porta alla passività, a rimanere in attesa,
dipendendo dagli altri. Questo stato di impotenza induce alla
depressione.
Quando una situazione lavorativa o interpersonale si è nel
tempo consolidata, noi desideriamo che si mantenga così. Ci
siamo abituati a dare sempre la stessa sequenza di risposte a
una determinata situazione, se la situazione si modifica non
abbiamo a disposizione nuove risposte, proviamo disagio e vor-
remmo che la situazione tornasse come era prima. Quando ciò
non è possibile diveniamo aggressivi o ci deprimiamo. Vediamo
alcuni casi in cui errate aspettative, possono creare uno stato di
profondo disagio.
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monio, mi ero abituata. Si pranzava o cenava senza parlare, poi
si guardava la televisione. Tra noi non vi sono mai stati momen-
ti di tenerezza, quali carezze e baci”.
La signora Claudia non si sarebbe mai aspettata dal marito il
nuovo comportamento. Il loro rapporto, forse, non era molto
soddisfacente, ma la signora vi si era ormai abituata. Tutto il
suo mondo viene a mancarle, sta male, prende molti ansioli-
tici, soffre di inappetenza e non riesce a dormire. Questo suo
stato di disagio la rende sempre più aggressiva; non possiede
altri mezzi per competere con il marito. Così tutti stanno male,
ma lei chiaramente di più; il marito ha i propri spazi fuori dal
matrimonio.
Abbiamo visto come le strategie usate da Claudia non abbia-
no dato alcun risultato. È necessario NON ASPETTARSI CHE
GLI ALTRI SI COMPORTINO COME NOI VOGLIAMO. La
tendenza di molte persone è quella di voler modificare gli al-
tri. Tutti i nostri sforzi sono rivolti a questa meta. In un primo
momento possiamo essere passivi, facciamo di tutto per soddi-
sfare il nostro partner e speriamo che lui o lei faccia altrettanto.
Quando ciò non avviene subentra in noi uno stato di profon-
da frustrazione. Come conseguenza di questo stato diventiamo
più passivi o slittiamo verso un comportamento aggressivo. I
nostri pensieri e i nostri comportamenti, essendo sempre rivol-
ti verso gli altri, non ci permettono di auto-osservare il nostro
comportamento. La nostra attenzione deve essere rivolta verso
noi stessi. Siamo noi a stare male. L’obiettivo che dobbiamo
cercare di raggiungere è quello di “non stare male”. È com-
prensibile che non si voglia stare male. Ma è assurdo pensare di
non stare male nel tentativo di modificare gli altri. GLI ALTRI
NON SONO DA MODIFICARE. Quando siamo in grado di ac-
cettare quest’affermazione, tutto ciò che ci viene dagli altri è
per noi gradito. Dobbiamo pensare prima di tutto a noi stessi.
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Ovviamente può apparire egoistico, ma non è forse egoismo
voler stare bene piegando gli altri al nostro volere?
Nel caso della signora Claudia si individuano due errori co-
gnitivi. Questi errori hanno come base le seguenti assunzioni:
mio marito deve cambiare e il mio modo di comportarmi è
quello giusto. Vediamo ora quale dovrebbe essere il suo com-
portamento. Innanzitutto si tratta di evitare comportamenti ag-
gressivi con il marito: il marito deve trovare più gratificante la
presenza della moglie che quella dell’amica. Ora ipotizziamo
che la signora Claudia inizi a modificarsi, sia gentile e presti
attenzione al marito. Vi potrà sembrare molto difficile essere
gentili con una persona che vi “tradisce”. Quando si è in pre-
senza del “trasgressore”, le prime risposte che si danno sono
quelle emozionali. Ci sentiamo tesi e non sappiamo cosa dire,
ed è in questi momenti che recuperiamo il nostro comporta-
mento abituale, in questo caso il comportamento aggressivo.
Quando decidiamo di modificarci incontriamo difficoltà im-
mediate. Cerchiamo di andare incontro al nostro partner. Sia-
mo più gentili e cerchiamo di controllare la nostra aggressività.
Ma iniziamo ad attenderci un rapido cambiamento nel partner
e, se ciò non avviene, ci diciamo: “Io sto modificandomi e mi
costa, mentre il mio partner non fa nulla, quindi tutti i costi li
pago io, non mi sembra giusto”. Forse, a questo punto, è im-
portante fermarsi un momento e chiedersi: voglio realmente
recuperare il rapporto, sono disposto a pagare anche dei costi
elevati senza aspettarmi nulla? È vero, non è molto facile pen-
sare in questo modo, vi sembra?
Se decidiamo di recuperare il rapporto dobbiamo aspettarci
dei costi, forse senza riuscire a ottenere risultati. Mi ricordo di
un' affermazione di una mia cliente, che mi disse: “Farò ciò che
mi è possibile per recuperare il rapporto, se non vi riuscirò potrò
sempre dire che ho dato tutto ciò che ero in grado di dare”.
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Nel caso in cui valutiamo l’opportunità di separarci dobbia-
mo porci una domanda: sono in grado di vivere da sola/o?
Certe volte, per alcuni, è preferibile vivere male in coppia
che stare da soli. La signora Claudia trascorre con il marito
serate non molto gratificanti. Non comunicano, non vi è intesa
sessuale, ma per lei è sempre meglio vivere male con il marito
che vivere da sola. Paga minori costi. Cosa ha ottenuto la si-
gnora Claudia con il suo comportamento aggressivo? Una mo-
mentanea vittoria; questa è solo una mia ipotesi, non avendo
altre informazioni sullo sviluppo della loro relazione. Il marito
è ritornato dalla moglie dopo aver troncato il rapporto con la
sua giovane amica.
In ogni caso dobbiamo ricordarci che NON DOBBIAMO
STARE MALE.
Ma stiamo attenti a quest’affermazione. Non dobbiamo, per
attenuare il nostro disagio, “buttarci” in un’altra relazione.
È il caso del mio amico Giorgio. Tempo fa pose termine al
primo matrimonio, dopo otto anni di convivenza; matrimonio
che in alcuni momenti era decisamente “caldo”, con frequenti
scoppi di aggressività, durante i quali la coppia riusciva a di-
struggere una certa quantità di piatti (mai meno di quattro o
cinque). “Matrimonio impossibile” mi dichiara l’amico. Non so
a tuttora il parere della moglie. Una volta separato, per Giorgio
iniziano momenti difficili. Dopo anni di matrimonio vive male
la solitudine. Arrivare a casa, non trovare nessuno, sedersi da
solo davanti alla televisione con un bicchiere di whisky. Può
sembrare strano che stesse male da solo, visto che con la moglie
stava malissimo. Non sopportando la solitudine, pensa di aver
bisogno di una compagna. Inizia a uscire con alcune amiche.
Dopo circa un mese dalla sua separazione, mi dice che ha tro-
vato la persona “giusta”. Si trasferisce a casa dell’amica e inizia
così un nuovo rapporto. L’amico Giorgio ha iniziato un nuovo
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rapporto per sottrarsi al disagio che provava nello stare solo.
Fin qui nulla di male. Vi è solo un particolare importante. Gior-
gio non era in grado di scegliere.
L’ansia che provava lo costringeva a iniziare un nuovo rap-
porto. Giorgio avrebbe dovuto riuscire a stare da solo senza
provare disagio. Solo così la sua scelta non sarebbe stata obbli-
gata. Giorgio si aspetta che questo nuovo rapporto vada bene e
che la sua amica condivida il suo modo di pensare. Per alcuni
mesi non vi sono problemi, vi è una convivenza serena. Ma l’a-
mica inizia ad auto-affermarsi. Vuole recuperare una propria
autonomia. Non è questo ciò che si aspetta Giorgio, per lui il
rapporto deve essere “totale”. Giorgio inizia a emettere lo stes-
so comportamento che aveva creato i contrasti con la moglie,
diventa aggressivo. Dopo altri tre o quattro mesi lascia l’amica.
Tutto si ripete. Sta nuovamente male da solo e inizia un altro
rapporto. Vediamo l’errore cognitivo di Giorgio: “Posso stare
bene solo se ho un rapporto totalmente coinvolgente”. Per ot-
tenere il coinvolgimento tende a sottomettere il partner, così
facendo il coinvolgimento è solo suo.
Sia nel caso della signora Claudia che in quello di Giorgio vi
è un aspetto comune. Partono entrambi dal loro “livello ope-
rante” e non da quello degli altri.
Se un amico è in grado di darci dieci non dobbiamo aspet-
tarci cento. Se noi siamo convinti di dare di più e valutiamo
a cento il nostro livello di prestazioni, è bene non aspettarsi
un’eguale prestazione. Vi è spesso la convinzione di aver dato
molto e ricevuto poco.
Nel crearsi false aspettative, vi è spesso, da parte nostra, la “con-
vinzione” che il nostro partner debba comportarsi sempre nello
stesso modo, anche in situazioni diverse. Una mia cliente mi dice:
“Quando mio marito è con me e siamo da soli, non parla, si isola.
Se gli chiedo cosa c’è che lo disturba mi risponde sempre: «Non c’è
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nulla», e si richiude nel suo silenzio. Quando arrivano degli amici
cambia immediatamente, diventa allegro, scherza e comunica con
tutti, anche con le persone noiose. Sembra che in mio marito vi sia-
no due persone diverse. Con me è introverso e non comunica, con
gli amici è sempre allegro. Perché non si comporta con me come
con i nostri amici?” Non fa piacere a nessuno vedere il proprio par-
tner che si comporta in un modo così “ambiguo”. È veramente in-
comprensibile vedere un così rapido cambiamento, ci disorienta.
Cosa possiamo fare? Stiamo attenti a non continuare dicendoci:
“Lo vorrei diverso”. Cadremmo immediatamente nella “trappola”
del “lo devo modificare”. Ci dimentichiamo che “gli altri non sono
da modificare”. Ricordiamoci che siamo noi a stare male.
Invece di centrare l’attenzione sul nostro partner, osservia-
mo il nostro comportamento. Ci accorgeremo che anche noi
modifichiamo il nostro comportamento al variare delle situa-
zioni. L’ambiente ha un ruolo importante. Con un amico su-
biamo, con l’altro diveniamo aggressivi. È sufficiente una mi-
nima variazione dell’ambiente e noi modifichiamo il nostro
comportamento. È vero che alcuni danno risposte più eviden-
ti, e in tal modo si notano maggiormente le modificazioni del
comportamento. Ma ricordiamoci che TUTTI SUBIAMO LA
PRESSIONE AMBIENTALE. La mia cliente non ha avuto par-
ticolari difficoltà ad accettare questa affermazione, dopo aver
auto-osservato il proprio comportamento nelle varie situazioni
sociali. E ha compreso che il marito non emetteva quel com-
portamento “ambiguo” per crearle dei problemi. Ha imparato
ad “accettarlo”.
È evidente che si accetta un comportamento quando non
è per noi troppo costoso. In ogni caso, “lamentarsi non ser-
ve”. Ciò che ha importanza sono le operazioni. Anche nelle
situazioni di coppia, rimandare le decisioni non serve. Ci serve
solo a star male. Ricordo, e sempre provando disagio, una mia
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cliente di sessant'anni. Aveva fatto per trent’anni l’insegnante
elementare. È una donna mite, molto gentile. Si sposa trenta-
cinque anni fa. Dopo pochi mesi di matrimonio vorrebbe porre
fine al rapporto. Il marito è un uomo introverso che non presta
la minima attenzione alla moglie. Alcune volte la percuote. Ma
la signora sta aspettando il primo figlio. Spera che con il figlio
il marito cambi. Ma ciò non succede. Anche l’avvento del se-
condo figlio non modifica il marito. Ora, a sessant’anni, fa un
bilancio della propria vita. Mi dice: “Capisco, ora, di aver but-
tato via una vita, mi sono legata a un uomo con cui non avevo
nulla in comune”.
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Questo è il caso di Franco. Ha cinquant’anni ed è separa-
to da circa un anno. Ha due figli di venti e diciotto anni, che
vivono con la moglie. Vivendo con particolare interesse il rap-
porto con l’altro sesso, fin da giovane, ha avuto dei rapporti
extraconiugali. Consideriamo che non si sentiva in colpa per
questo suo comportamento. Il suo problema è quello di non
dare delle corrette informazioni al partner. Tuttora ama avere
più rapporti sentimentali. Ora da circa otto mesi ha un'amica
alla quale ha creato false aspettative, dicendole che, per lui, il
rapporto ha valore solo nella monogamia. Tutto procede bene
per alcuni mesi, sono sempre insieme, trascorrono dei piace-
voli week-end. Ma la “saturazione” è in agguato per Franco. Si
sente oppresso dal rapporto. Quando deve incontrare qualche
amica elabora una serie di scuse più o meno credibili. Mi dice:
“Questa situazione è diventata peggiore del matrimonio, mi
sento sempre controllato, non riesco a capire le donne, sono
tutte uguali, dopo un po’ diventano possessive”. Franco ha
commesso alcuni errori.
Il primo: una errata auto-valutazione, si vede monogamo
quando non lo è.
Il secondo: crea nel partner alcune aspettative che non è in
grado di mantenere.
Questo comportamento non è assertivo, ma passivo-aggres-
sivo. È passivo, in quanto dà quelle errate informazioni “per
non perdere l’amica”. È aggressivo, perché incolpa l’amica del
suo stato di disagio.
Vediamo ora un modo assertivo di comportarsi. Franco
avrebbe dovuto dire, incontrando una persona da cui si sente
attratto: “Ti trovo piacevole e simpatica, ma non mi sento di
legarmi; in ogni caso sappi che ho altre relazioni”. Immediata è
l’obiezione di Franco a questa frase: “Ma in questo modo tutte
le donne scappano, nessuna può accettare queste affermazio-
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ni”. Probabilmente questo è vero per molte persone; ma solo
non dando false informazioni di noi stessi evitiamo di creare
frustrazione nel partner. Quando il partner è frustrato anche noi
stiamo male.
Può succedere che, pur avendo dato informazioni corrette,
sia il partner a crearsi false aspettative. Se il partner non accetta il
nostro punto di vista, allora diventa un “suo problema”.
Un’amica mi racconta: “Da circa due settimane esco con un
uomo che mi interessa molto. Io gli ho detto che ho altri rap-
porti. Non ci vediamo per due o tre giorni e una mattina ricevo
una sua telefonata. È gentile come sempre e organizziamo il we-
ek-end. Lui poi mi chiede dove sono stata ieri sera. Gli rispondo:
‘Sai che l’accordo era di non fare domande; in ogni caso è un tuo
diritto farle, può essere un tuo problema gestire poi la risposta.
Lui insiste, e io rispondo: ‘Bene! Ieri sera ho fatto l’amore con
un mio amico'. Immediata è la sua reazione, ed è aggressiva”. A
questo punto, la mia amica replica all’amico: “Ora stai male e mi
dispiace, questa mia risposta è diventata per te un problema”.
Forse vi direte che un po’ di ipocrisia ogni tanto è neces-
saria. In ogni caso vale 1a regola: NON FARE DOMANDE SE
NON SI SANNO ACCETTARE LE RISPOSTE.
Quando poniamo delle domande, spesso ci creiamo delle
aspettative. Noi possiamo accettare o non accettare le risposte
che ci vengono fornite. Ma vi è utilità nel non accettare le rispo-
ste? Vediamo il seguente schema:
1-a) Domanda
La risposta e quella che ci aspettiamo.
L’accettiamo.
Stiamo bene.
1-b) Domanda
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La risposta è quella che ci aspettiamo.
Non l’accettiamo. Ci si dice: “Ha dato questa risposta solo
per farmi piacere, ma pensa in modo diverso” (Errore co-
gnitivo, del tipo: “Stiamo interpretando”).
Proviamo disagio.
Poniamo altre domande, ma qualsiasi risposta ci venga data,
non l’accettiamo e continuiamo a provare disagio.
2-a) Domanda
La risposta è quella che non ci aspettiamo.
L’accettiamo.
Stiamo bene.
2-b) Domanda
La risposta è quella che non ci aspettiamo.
Non l’accettiamo — Ci diciamo: “Ha un modo di pensare er-
rato!” (Errore cognitivo del tipo: “Solo il mio modo di pen-
sare è quello giusto”).
Proviamo disagio.
Poniamo altre domande. Vogliamo trovare dei “punti” comuni.
Non ci troviamo d’accordo su “tutto”. Non siamo soddisfatti.
Proviamo disagio.
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SIGNORA. È vero che io sto bene con te. Ti trovo un uomo
interessante e piacevole.
L’amicizia
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che Claudia si è creata dell’amicizia. Uno degli errori di Claudia
è di non saper gestire le richieste dell’amica. Quando l’amica te-
lefona e chiede un favore, Claudia non rifiuta. Non rifiuta anche
quando le “costa” molto. Ovviamente proviamo disagio nel fare
ciò che non vogliamo. Di conseguenza ci arrabbiamo con chi ci fa
richieste. Ma questo è un nostro problema. La nostra assunzione
“a un amico non si può rifiutare” va modificata in: È UN DIRITTO
DEGLI ALTRI FARE RICHIESTE MA È UN DIRITTO NOSTRO
RIFIUTARE. Se non siamo in grado di rifiutare, ci aspetteremo
che gli altri non rifiutino mai. Quando ciò non succede è la fine
dell’amicizia. Spesso si tendono a creare differenze tra gli amici.
Sono “veri amici” quelli su cui si può sempre contare.
Vediamo qual è l’errore cognitivo di quest’affermazione. Ten-
diamo “sempre” ad aspettarci da parte dei “veri amici” un’imme-
diata soddisfazione delle nostre richieste. La tendenza è quella di
ragionare per “tutto o nulla”. Comportamento, questo, che caratte-
rizza l’adolescenza, l’età dei grandi amori e delle grandi delusioni.
Quando le “delusioni” sono costanti, come vediamo nel caso di
Claudia, subentra in noi un’avversione per l’amicizia. Troppe volte
le nostre aspettative si sono frantumate. A questo punto scatta il
meccanismo della “generalizzazione indebita”. Frasi quali: “Non
vi sono veri amici, prima o poi tutti ti deludono”. Anche nel caso
di Franco troviamo generalizzazioni quali: “Le donne sono tutte
uguali, dopo un po’ diventano possessive”. Questo modo di pensa-
re porta irrimediabilmente all’isolamento. Non vi è nulla di male
nell’isolamento. Ma, quando si vive negativamente la solitudine,
bisogna cercare di porvi rimedio. È necessario, come abbiamo vi-
sto, chiedersi: dove ho sbagliato?
È evidente che se per lunghi periodi ci si isola dalla società e si
evitano i rapporti sociali, si perderà l’abitudine a comunicare con
gli altri.
Questo è il caso di un mio cliente. Luciano ha venticinque
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anni, lavora in banca come cassiere. Le sue giornate sono tutte
uguali. Otto ore di lavoro, poi a casa dove si chiude in camera
sua e suona. Non ha né amici né amiche. Anche sul lavoro non
ha stabilito nessun rapporto con i colleghi. Se il lavoro e la mu-
sica gli fossero sufficienti non starebbe male. Mi dichiara: “Mi
manca una ragazza e avrei piacere di avere amici. Non ho ami-
ci, perché i discorsi che fanno non mi interessano e non ho mai
avuto una ragazza, perché si interessano di cose futili”. Luciano
vi sembrerà una persona che si autovaluta in modo eccessivo.
In realtà mi dice che sta aspettando sia gli amici che la ragazza
“giusta”. Ma Luciano manca totalmente di abilità sociali. Non
è in grado di iniziare una conversazione, risponde solo se è in-
terrogato e, se una ragazza gli interessa, dà risposte emozionali
così intense che non riesce a parlare. In questo caso, più che
errori cognitivi, assistiamo a una totale mancanza di abilità. Vi
è sì un evitamento cognitivo, ed è ritenere gli altri non interes-
santi. In ogni caso modificare questa assunzione non gli sarà
sufficiente per acquisire le abilità di cui è carente.
Sono bella...
Sono ricco...
Sono intelligente...
Sono...
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ne “seria”. Mi racconta del suo matrimonio: “Mio marito era
una brava persona (spesso quando si inizia così è perché non
si trovano nel partner degli aspetti più positivi) e penso che mi
volesse realmente bene. Ma devo ammettere che era un uomo
molto diverso da me. I miei genitori mi avevano fatto presente
che questa diversità mi avrebbe potuto creare dei problemi; e
così è successo. Pur non essendo un uomo d’affari aveva volu-
to iniziare delle attività commerciali che sono terminate in un
quasi fallimento. Solo l’intervento economico della mia fami-
glia ha potuto evitare il peggio. Non era realmente un uomo su
cui si potesse fare affidamento”.
Ora vediamo come la signora si valuta. Sa di essere una bel-
la donna, di famiglia ricca. Si considera, inoltre, una persona
“sensibile”, intelligente e con tendenze artistiche. Anche il marito
non era in grado di soddisfare le sue aspettative, che non sono
diminuite con il passare degli anni. Quando conosce una nuova
persona, nel nostro caso un uomo, inizia a osservarlo attentamen-
te. È pronta a cogliere ogni aspetto negativo che sempre, con un
po’ di “buona volontà” si riesce a cogliere negli altri. La signora
dice di ragionare in base al principio del “Tutto o Nulla”.
Vediamo dove ci conduce questo modo di ragionare. La si-
gnora si ipervaluta e cerca quindi un partner che le sia adegua-
to. Quando le sembra di averlo trovato, ed è sempre un uomo
della sua stessa età, intelligente, ricco e di aspetto piacevole,
scopre che il signore in questione non le presta la minima at-
tenzione. “Non capisco - dice la signora - quando un uomo arri-
va sui cinquant’anni, invece di interessarsi a donne della sua età
presta attenzione alla donne con vent’anni di meno, anche se
hanno ben poco da dare. È proprio vero che gli uomini invec-
chiando perdono di dignità. Non è certo un comportamento
corretto quello di frequentare donne di vent’anni più giovani”.
Spesso una non corretta autovalutazione ci porta a crearci delle
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aspettative. Questo atteggiamento può essere così esemplifica-
to: io valgo 100 e mi aspetto un partner che valga 100, questo è
ciò che la signora intende per “Tutto”. Visto che il “Tutto” non
lo ottiene si passa al “Nulla”. Non vi sarebbero problemi se ci
si accontentasse del “Nulla”, ma ciò sembra essere ancora più
difficile.
Come mai una persona non riduce le proprie pretese, visto
che non riesce a ottenere ciò che vuole?
Commette due errori cognitivi:
54
L’aspettativa nella vita quotidiana
Al semaforo
55
al semaforo dovranno diventare per noi attimi di rilassamento. Ap-
pena ci accorgiamo che stiamo entrando in tensione alla vista del
semaforo rosso, dobbiamo effettuare le seguenti operazioni:
Il treno in ritardo
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simile a quello “dell’attesa al semaforo”. Ma in questo caso le
risposte emozionali che diamo sono più intense. Al semaforo
siamo noi a guidare l’auto. Non siamo totalmente passivi come
nell’attesa del treno. Il nostro disagio aumenta in funzione del
ritardo. Cerchiamo di comunicare il nostro malcontento a un
altro viaggiatore in attesa. Cerchiamo la sua comprensione e
solidarietà. Questo serve solo a ridurre momentaneamente il
nostro disagio, che poi si riacutizza al successivo annuncio di un
ulteriore ritardo. I nostri processi cognitivi sono molto stimolati.
Tutti i nostri pensieri sono tendenzialmente aggressivi. Come
abbiamo visto, il risultato della nostra aggressività è lo star male.
Difficilmente in queste situazioni si riesce a stare tranquilli solo
dicendosi: “Visto che non posso fare nulla, agitarmi non ser-
ve”. Anche in questo esempio si può osservare come gli eventi
esterni modificano il nostro comportamento. Siamo tranquilli
fin quando non ci avvisano del ritardo del treno. Poi, in pochi
secondi, diveniamo tesi e irascibili. La difficoltà che incontria-
mo è quella di controllare le nostre risposte emozionali.
Rimanere controllati e calmi in una situazione di disagio è
un comportamento “intenzionale”, voluto. Al contrario non vi
è nulla di intenzionale nell’arrabbiarsi. Quindi, se il treno è in
ritardo, proviamo per una volta a dirci: “Debbo stare calmo,
arrabbiarmi non serve”. Se riusciamo a controllarci, anche per
un solo momento abbiamo ottenuto una piccola vittoria. Ab-
biamo rotto lo schema: disagio = rabbia.
Mi sono trovato in stazione ad attendere il treno che era
in ritardo. Vicino a me, vi era un passeggero particolarmente
teso. Mi rivolge la parola per avere una mia conferma sulla inef-
ficienza del servizio. Mi dichiaro, in parte, d’accordo. Spero
così, di attenuare momentaneamente la sua tensione. Veden-
domi tranquillo mi chiede se il ritardo del treno non mi causa
problemi per il lavoro. Gli rispondo di sì, ma non potendo far
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nulla provo a non “agitarmi”. Gli suggerisco di fare altrettanto.
Il passeggero mi risponde: “Vede per lei è facile, è il suo carat-
tere, ma io non sono fatto così”. Quindi ci lasciamo. Ma il pas-
seggero non è più tranquillo. Anzi è maggiormente teso. Oltre
a essere arrabbiato con le ferrovie, è arrabbiato con le persone
che rimangono calme in quelle situazioni. Come avete potuto
vedere, non sono partito dal suo “livello operante”, ma dal mio.
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mandare i successivi impegni. Cosa possiamo fare? Abbiamo
fatto ciò che potevamo e, se non dipende da noi, è inutile star
male. Se dipende da noi, entrare in ansia non serve; cerchiamo
delle soluzioni. Ricordiamoci che nel cercare la soluzione dob-
biamo essere noi gli “attori”. Non dobbiamo lasciare che siano
gli eventi a decidere per noi.
L’aspettativa e l’interpretazione
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ed è perché non gli interessa” può avere questo seguito: “Visto
che non gli interesso, mi comporterò di conseguenza. Non gli
telefonerò, voglio vedere cosa succede”. Vediamo cosa potrà
succedere. Dopo alcuni giorni l’amico ci telefona e noi dicia-
mo: “Era ora che telefonassi, è possibile che se non telefono io
tu non ti fai mai sentire”. La risposta corretta: “Sono contento
di sentirti”, non può essere emessa. Non possiamo dare rispo-
ste cortesi quando pensiamo che l’amico si sia comportato in
modo scorretto nei nostri confronti. Ecco un efficace sistema
per rovinare un rapporto. Dobbiamo abituarci a NON INTER-
PRETARE.
Nel caso dell’appuntamento mancato, la tendenza verso il
comportamento aggressivo è dovuta a un errato modo di pen-
sare. Il nostro pensiero ricorrente è: “Tutto deve andare come
io voglio”. Se ciò non succede è giusto arrabbiarsi. Sembra stra-
no che tutti noi si continui a usare un comportamento non fun-
zionale. Cosa vi è di utile nell’arrabbiarsi, quando, come unico
risultato, stiamo male noi? Non possiamo certo avere gli amici
a cena quando sono impossibilitati a venire. È bene porci la
domanda: “Cosa mi serve arrabbiarmi? Risolvo il mio problema
arrabbiandomi?”. Arrabbiarsi in alcune situazioni può esserci
utile, in ogni caso otteniamo risultati solo a breve termine.
Se un nostro amico arriva abitualmente in ritardo agli ap-
puntamenti e noi siamo puntuali, ci possiamo ovviamente ar-
rabbiare e, come risultato, otteniamo delle scuse da parte del
nostro amico. Momentaneamente ci sentiamo soddisfatti, ma
non modifichiamo il suo comportamento. Continuerà ad arri-
vare in ritardo. Non si modifica, perché il suo comportamento
non ha conseguenze dirette.
Alcuni anni fa uscivo spesso con un amico, ci vedevamo
due o tre volte alla settimana. Ci davamo un appuntamento a
un’ora precisa, io ero puntuale e lui ritardava abitualmente di
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venti o trenta minuti. Mi arrabbiavo ogni volta, lui si scusava e
mi diceva che non sarebbe più successo. Ottenevo un risultato
solo a breve termine e mi dicevo: “Questa volta ha veramente
capito”. Per le due o tre volte successive arrivava puntuale. Ma
presto recuperava il suo comportamento abituale, arrivando in
ritardo. Visto che arrabbiarmi “serviva” solo a me, per star male,
provai altre strategie. Mi dissi: “Se lui arriva in ritardo farò anch’io
lo stesso”. Ma ciò non funzionava. Mi dava noia arrivare in ritardo
e, se lui arrivava all’appuntamento prima di me, mi diceva: “Bene!
Dici che io arrivo sempre tardi, ma anche tu fai la stessa cosa”. Io
rispondevo: “Così ti rendi conto di che cosa voglia dire aspettare.
Vedi che ti dà noia”. Così si riusciva a litigare. Potrete dire che si
poteva interrompere l’amicizia. Ma mi era simpatico e stavo bene
con lui. Questa strategia però non funzionava: ero sempre io a
pagare i “costi maggiori” senza ottenere risultati. Elaborai allora
un altro “programma”. Dissi all’amico: “Se non sei qui per l’ora
dell’appuntamento io ti aspetto per cinque minuti, aspettare oltre
mi dà noia e quindi me ne andrò”. Così, dopo cinque minuti di at-
tesa, andavo via. Da principio l’amico si arrabbiò, ma io continuai
ad aspettarlo solo per cinque minuti. In questo modo pagavo costi
minori; mi dava troppa noia aspettare magari per mezz’ora. Ora
era l’amico a pagare per il suo ritardo, arrivava, non trovava nessu-
no e si rovinava la serata. Per non rovinarsi la serata era costretto
ad arrivare puntuale. Gli avevo aumentato i costi della “risposta”.
Pur continuando a “protestare” per il mio comportamento, ha ap-
preso a essere puntuale.
Ogni comportamento produce conseguenze; se non si hanno
conseguenze negative il comportamento persiste. L’amico con-
tinuava ad arrivare in ritardo perché in ogni caso io aspettavo.
Come vedete sto usando il passato. L’amicizia non si è interrotta
a causa del mio comportamento. Abbiamo solo meno occasioni
di vederci.
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L’aspettativa sul lavoro
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prefissati non è poi così importante come continuiamo a ripeter-
ci. Quindi: TUTTO È IMPORTANTE MA NON LO DEVE ESSERE
TROPPO.
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zioni può creare negli altri elevate aspettative.
Vediamo il seguente schema:
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Questo modo di comportarsi è tipico delle persone “passive”.
Gli aggressivi non prestano la minima attenzione al giudizio
altrui. La paura del giudizio è legata al bisogno dell’approva-
zione. Di ciò è responsabile in modo determinante l’educazio-
ne che abbiamo ricevuto. Ricorrenti sono le frasi quali: “Cosa
diranno i parenti? Cosa dirà tuo padre? Cosa diranno…”
Tutti hanno il diritto di giudicare il nostro comportamen-
to. Noi dobbiamo solo subire. Il condizionamento ambientale
gioca un ruolo determinante nel dare forma a un mondo di
“valori” o “assunzioni” cui facciamo sempre costante riferi-
mento. Abbiamo visto che è “un nostro diritto fare richieste
ed è un diritto degli altri rifiutare”.
Molte persone trovano difficoltà nel fare richieste. Sperano
che gli altri capiscano senza aver bisogno di parlare. Ma è mol-
to difficile capire in mancanza di richieste dirette. Per quali
motivi una persona non è in grado di fare richieste?
Osserviamo il comportamento di alcuni genitori. Disappro-
vano i figli quando fanno delle richieste. Frequenti sono le
frasi quali: “Non devi disturbare gli altri. È da persona non
educata fare richieste. Anche se vuoi qualche cosa aspetta che
siano gli altri a dartelo”.
Come potete vedere da queste frasi, l’attenzione è sempre
rivolta agli altri. Questo spostare l’attenzione da noi stessi su-
gli altri ci crea delle “distorsioni cognitive”. Sviluppiamo un
modo di pensare che ci crea un disagio costante. Quando dob-
biamo fare una richiesta possiamo pensare: “L’altro può non
essere in grado di rifiutare. Un suo rifiuto mi darebbe molta
noia. Le mie esigenze non sono poi così importanti. Gli potrò
creare dei problemi”. In realtà i problemi li ha chi non riesce a
fare richieste. Non è detto che ciò sia un problema degli altri.
Pensiamo a risolvere i nostri problemi, solo così potremo
aiutare gli altri. Non andiamo, certo, a chiedere consiglio a
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una persona che vediamo sempre preoccupata. Come può, chi
non è in grado di gestire i propri problemi, aiutare un altro?
Spesso si usa il termine “sensibile” in modo improprio. Molti
miei clienti si definiscono “sensibili”. Intendiamo con questo
termine definire le persone che danno una risposta spropor-
zionata allo stimolo. Un amico li giudica negativamente e stan-
no male; un conoscente fa loro uno sgarbo e per alcuni giorni
pensano al torto subito. Tutto è centrato sul giudizio. Quando
è negativo stiamo male.
Iniziamo a porci delle domande: “Perché mi ha detto que-
ste cose? Cosa gli ho fatto?”. Ma la persona che non è in grado
di fare richieste non potrà mai avere una risposta alle proprie
domande. Continuerà a pensare senza giungere a una conclu-
sione. Il comportamento più ovvio, chiedere all’amico: “Ciò
che hai detto mi ha dato noia, vediamo di chiarirci”, non potrà
essere emesso. Abbiamo visto come la difficoltà nel fare richie-
ste sia legata alla paura del giudizio. Ma la paura del giudizio
non ci permette di rifiutare. Spesso ci hanno detto: “Non è
educato rifiutare; l’altra persona può avere bisogno di te; se
rifiuti cosa succederà quando avrai bisogno di un aiuto?”
Quindi non rifiutiamo per paura di perdere un amico, il
partner, etc. Diventa nostra l’assunzione “a un amico non si
rifiuta”. Il giudizio è quindi:
1) bisogno di approvazione;
2) paura della critica.
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Il giudizio e gli amici
Un nostro caro amico ci chiede un favore. Noi non abbiamo
voglia di farglielo. Ma non riusciamo a rifiutare o cerchiamo
delle “scuse”. Nel dialogo che segue, Paolo chiede un favore a
Gianni. Gianni vorrebbe rifiutare.
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Vi è amicizia quando possiamo parlare liberamente, senza
la paura di essere giudicati. Il rapporto diventa più semplice
quando siamo in grado di dire “no”.
Vi sarà capitato di avere degli amici passivi ed è molto difficile
fare loro delle richieste; perché se dicono “sì” può essere “no”.
Quando si decide di andare a vedere un film o di andare in un
ristorante, siamo sempre noi a decidere, e, questo, può essere co-
modo per noi: otteniamo un risparmio di tempo. Spesso le per-
sone aggressive stabiliscono rapporti con persone passive. Questo
può essere utile per entrambi. Ma ho visto che, spesso, questo tipo
di rapporto tende a incrinarsi. Il soggetto passivo si satura di su-
bire costantemente e diviene aggressivo. In un primo momento
il passivo lascia prendere le decisioni all’amico e poi critica le de-
cisioni prese. Frequenti sono le frasi quali: “Hai voluto andare a
vedere quel film! Era veramente brutto”. Ma continua a lasciar
prendere la decisione all’amico. Ora, una persona aggressiva, di
fronte a un simile comportamento, pone immediatamente fine
al rapporto dicendo: “Visto che tocca sempre a me decidere, ma
le mie decisioni non ti soddisfano e mi critichi costantemente,
mi sono stufato!” Una persona assertiva cerca di giungere a un
compromesso. A esempio può dire: “Questa volta ho deciso io,
per favore, la prossima volta decidi tu”. Emettendo questo com-
portamento, non ci aspettiamo che l’amico cambi rapidamente.
Cerchiamo solo di attenuare la sua critica successiva alla nostra
decisione. In ogni caso è inutile continuare un rapporto che sia
per noi troppo “costoso”.
Si è visto come il giudizio sia legato all’approvazione e alla
critica. La paura del giudizio ci rende quindi dipendenti dagli
altri e non in grado di gestire le critiche. Ricordiamoci quindi
che: SOLO NOI ABBIAMO IL DIRITTO DI GIUDICARE IL
NOSTRO COMPORTAMENTO. Se sbagliamo siamo noi a pa-
garne le conseguenze. Questa affermazione è rivolta alle persone
69
passive. Gli assertivi tengono presente il giudizio altrui, lo valutano
e, se è loro utile, lo accettano. Quindi sono pronti a modificarsi,
ma non per fare piacere agli altri, ma solo a se stessi. L’aggressivo
non presta attenzione al giudizio altrui. Solo il suo modo di com-
portarsi è, per lui, quello giusto; quindi non può modificarsi.
Vediamo un altro esempio riferito alla difficoltà di rifiutare.
La signorina Silvana ha trascorso una serata con l’amico Franco.
Ma Franco vuole stabilire un rapporto più “intimo” con Silva-
na, ed è stato molto insistente. Silvana non ha più intenzione
di vederlo. Quando l’amico telefona per invitarla nuovamente a
cena Silvana risponde: “Questa settimana sono molto impegna-
ta, e non penso di aver tempo di vederti”. Franco ritelefona dopo
alcuni giorni per invitarla e Silvana cerca nuovamente qualche
scusa. Ovviamente, dopo alcune telefonate Franco non cercherà
più Silvana. Ma cosa ha impedito a Silvana di dire chiaramente
che non aveva più intenzione di uscire? Il suo modo di pensare.
Silvana si dice: “Con un rifiuto offendo l’altra persona, penserà
che io sia maleducata”. Questo modo di pensare causa in un pri-
mo momento disagio e successivamente aggressività. Silvana non
dà chiare risposte, ma “pretende” che Franco capisca. Franco
non capisce, almeno subito, e Silvana diventa aggressiva. Dice a
se stessa: “È possibile che non capisca?” Quando Franco capisce,
dice a se stesso: “Poteva dirmelo subito che non aveva intenzione
di uscire, senza inventare tante scuse”. Ricordiamoci che, se gli
altri non capiscono, “la colpa è solo nostra”.
Il giudizio e i familiari
Alcuni dei miei clienti dichiarano che per loro è difficile ge-
stire il giudizio dei familiari. Sono, ovviamente, sempre giu-
dizi negativi, colpevolizzanti.
70
Una mia cliente, la signora Clara, mi racconta: “All’età di ven-
tidue anni decido di sposarmi. I miei genitori non condividono la
mia decisione. Mio padre, come sua abitudine, mi ostacola aper-
tamente. Mia madre, invece, usa frasi quali: “Vedi, Clara, lo dicia-
mo per il tuo bene…” Mi è sempre stato difficile competere con
mia madre. Mi sposo contro il loro parere. Dopo circa due anni di
matrimonio decido di separarmi. I miei genitori giudicano negati-
vamente la mia separazione. Si erano ormai abituati a mio marito
e dicono che la colpa della separazione è solo mia. Hanno anche
sempre criticato il mio lavoro. Sono trascorsi otto anni dalla mia
separazione e trovo un compagno. I miei genitori criticano questo
rapporto, il mio amico ha vent'anni più di me. Ora sono trascorsi
due anni e sto bene con questo mio compagno, è una persona mite
e comprensiva. Ma come posso gestire il rapporto con i miei genito-
ri? Ora hanno accettato il mio amico, ma cercano di intromettersi
sempre nella mia vita. A esempio, tutte le domeniche esigono che
si vada a trovarli. Se dico a mio padre che ho altro da fare, mi fa sen-
tire colpevole. Usa frasi quali: “Tu pensi solo a te stessa, pensi solo a
divertirti. Ma la vita è fatta anche di doveri”.
Nel comportamento dei genitori di Clara individuiamo due
comportamenti manipolativi abituali:
71
2) discriminare quale comportamento i suoi genitori stanno
attuando: se è o non è manipolativo;
3) programmare risposte competitive nei confronti dei geni-
tori;
4) attendersi dai genitori un incremento di aggressività, che
seguirà al suo comportamento competitivo.
72
deve diventare più competitiva. Quando la suocera entra in casa
dalla mia cliente e vuole imporsi, la frase da dire è: “Quando vieni
per darmi consigli mi fa piacere, ma in ogni caso sappi che questa è
casa mia e decido io ciò che è bene e ciò che è male”. La mia cliente
è d’accordo, sta a lei decidere in casa sua. Proviamo molte volte la
frase e presto si presenta l’occasione di dirla. La suocera arriva in
cucina, fa le sue critiche e la signora sta, come sempre, zitta. Solo
quando la suocera si allontana, si ricorda di ciò che doveva dire. La
presenza della suocera le attiva risposte emozionali così intense che
non è in grado di ricordare le risposte adeguate. In questo caso è
stato necessario insegnare alla mia cliente il rilassamento. Poi, in
stato di rilassamento, visualizzava a livello mentale la suocera che si
comporta aggressivamente nei suoi confronti. Si è quindi abituata
a rimanere rilassata visualizzando mentalmente la suocera. Succes-
sivamente ho iniziato a criticarla, mentre la mia cliente controllava
le proprie risposte emozionali. Solo quando è stata in grado di con-
trollarsi è riuscita a competere con la suocera.
Ora la sua abilità nel competere si è incrementata, cerca di
far rispettare i propri diritti. Anche se i successi sono solo del
50% circa, riesce a competere quando è direttamente aggredita.
Se, invece, usano nei suoi confronti una manipolazione basata
sulla “benevolenza” continua a cedere. In ogni caso, consideran-
do che la signora non era in grado di competere in nessuna si-
tuazione, ora si sente più sicura e decisa. Il suo processo di modi-
ficazione è lento, ma ora è in grado di ben discriminare quando
è passiva e subisce la manipolazione altrui.
Il giudizio e l’autorità
73
nostra preparazione, ma non ci è sufficiente per ridurre il no-
stro stato di disagio. Avvertiamo crampi allo stomaco. Arrivia-
mo nell’aula dell’esame, aspettiamo l’appello, dicono il nostro
nome. Non possiamo più fuggire. Inizia l’esame. Sta passando
il primo studente, ma non risponde prontamente alla prima
domanda. Il professore dice: “Non mi sembra molto preparato,
proviamo con un’altra domanda. Se non la sa, sarò costretto a
mandarla via”. Lo studente non risponde, viene respinto. Osser-
viamo il viso del professore e vediamo che non sorride mai, anzi,
dimostra una chiara irritazione per l’impreparazione degli stu-
denti. Tocca ora a noi passare. Proviamo un’ansia molto elevata.
Ci sediamo e, in modo meccanico, rispondiamo alle domande.
Superiamo l’esame. Potrà ancora creare disagio il prossimo
esame? Penso di sì. Prima che vi sia una riduzione dell’ansia, è
necessario superare molti esami. Molti genitori, nell’educare i
figli, dicono loro: “Devi fare una bella figura di fronte alle per-
sone importanti”. Il loro giudizio conta molto. Così, quando ci
troviamo di fronte a una persona che noi investiamo di “autori-
tà”, volendo fare una “buona impressione”, entriamo in ansia.
Le persone che attribuiscono molta importanza al giudizio al-
trui si comportano in due modi. Con coloro che hanno meno
“potere” di loro diventano aggressivi, tendendo a inferiorizzarli e
a sottometterli; con le persone che stimano più “potenti” di loro si
sottomettono divenendo passivi. In questi casi vale l’affermazione
che: TUTTI SONO IMPORTANTI, MA NON TROPPO. Se accet-
tiamo questa affermazione, non variamo il nostro comportamen-
to in funzione del “potere” degli altri.
Abbiamo attribuito molta importanza allo “stile” educativo
dei genitori. Non bisogna però trascurare la scuola. Gli inse-
gnanti, particolarmente nel periodo delle elementari, hanno
un grande potere. Se dovessi affidare un incarico a un inse-
gnante, valuterei prevalentemente le sue abilità sociali. Nel
74
mondo dell’industria si inizia a dare importanza alle abilità so-
ciali. Si cerca di porre nei quadri dirigenziali quelle persone
che interagiscono bene con gli altri. Sembra veramente strano
che, nel mondo della scuola, non si consideri se un insegnante
è in grado di comunicare con la classe. La carenza di tale abilità
da parte dell’insegnante crea, in classe, una situazione di “ten-
sione”. Pochi sono gli studenti che apprendono, gli altri sono
giudicati negativamente. Ma ricordiamoci che, se gli altri non
capiscono, la colpa è nostra. Non siamo partiti dal loro “livel-
lo operante”. Partire dal “livello operante” significa descrivere
un comportamento, e quindi definire le abilità o disabilità che
possiede una persona. Al contrario, il giudizio sia positivo che
negativo, ha sempre un carattere soggettivo. L’uso del giudizio
negativo non serve. Serve solo a chi lo usa, in quanto, usandolo,
si sente deresponsabilizzato (vedi capitolo sull’errore).
La nostra cultura ci ha abituati a usare il giudizio negativo.
È spesso difficile individuare ciò che vi è di positivo negli al-
tri. Ma dobbiamo cercare di farlo; è utile per noi. A esempio,
dobbiamo andare a un incontro di lavoro e valutiamo negativa-
mente la persona che dobbiamo incontrare. Prima dell’incon-
tro siamo tesi e rischiamo di sviluppare aggressività. Vediamo il
seguente schema:
75
vità. Non è “ipocrisia” cercare strategie per ridurre la nostra
tensione, massimizzando i risultati.
L’importanza che attribuiamo al giudizio altrui ci spinge in
uno stato di costante insoddisfazione. Alcuni miei clienti, pur
avendo raggiunto un notevole benessere economico, provano
spesso ansia e insoddisfazione. Nel caso che descriverò non si
individuano particolari problemi con l’autorità. Ma il giudizio
delle persone che valutiamo “importanti” può ugualmente es-
sere una costante fonte d’ansia.
Aldo ha quarantatré anni. È diventato un importante uomo
d’affari. Non avendo genitori benestanti, è il classico uomo che
si è “fatto da solo”. I suoi modelli erano le persone che avevano
raggiunto potere economico. Abile manager, a venticinque anni
ha già raggiunto un notevole benessere economico. È riuscito a
emulare le persone che riteneva “importanti”. Ma non si sente
appagato. Vuole dimostrare di valere. “Ma a chi?”, chiedo io. “A
me stesso”, mi risponde Aldo. Le belle auto che compra, le belle
donne con cui esce, tutto è orientato al voler dimostrare agli al-
tri i propri traguardi raggiunti. Ma tutto ciò è molto costoso per
Aldo. Non in termini economici, ma in termini di “immagine”
che deve mantenere. Gli errori cognitivi di Aldo sono:
76
correttamente usa frasi quali: sono soddisfatto, mi piace, non mi
piace. Tutte le sue affermazioni sono centrate su “se stesso”, non
sugli altri. Il dire: “Voglio dimostrare” è centrato sugli altri.
Chi ha un lavoro dipendente è sempre sottoposto al giudizio dei
suoi superiori. Spesso si crea nell’ambiente di lavoro una situazione
di costante tensione. Il voler “primeggiare” pone un dipendente
contro l’altro. Per fare carriera si ha bisogno di valutazioni positive.
Una strategia spesso usata è quella di “inferiorizzare” il collega per
mettere in evidenza se stessi. Alcune situazioni lavorative facilitano
questo sistema. È il “parlar male di…” Lo possiamo trovare in tutti
i gruppi sociali, anche in famiglia. A cosa ci può servire denigrare
gli altri per acquisire dei meriti? A breve termine ciò può procurare
dei risultati, a lungo termine nulla. I risultati si dimostrano a breve
termine perché creano aspettative in chi ci ascolta. Chi ascolta può
dirsi: “Mi sembra una persona sicura di sé, affidabile”. Ma ciò che
importa sono i risultati, che si vedranno solo a lungo termine.
L’uso di queste strategie inferiorizzanti crea, sia in chi le usa, sia
in chi ascolta, delle aspettative. Chi le usa si dice: “Debbo dimostra-
re ciò che valgo”. Chi ascolta si dirà: “Vediamo cosa vale”. Non è det-
to che chi “inferiorizza” debba star male quando non raggiunge un
obiettivo. Chi inferiorizza è tendenzialmente una persona aggressi-
va che si ipervaluta, e il mancato raggiungimento di un obiettivo, a
suo parere, non dipende da lui, ma dalla incompetenza degli altri.
77
dretti con gli spacchi laterali.
COMMESSO. Si, era un modello che avevamo, ma era un model-
lo di fine serie. È un modello ormai superato. Se ricordo bene,
lei ha un cinquanta di taglia. Provi questo nuovo modello, sono
convinto che le starà bene. (Il commesso esprime un giudizio ne-
gativo sulla giacca che il cliente vuole comperare e positivo sulla
giacca che vuole vendere.)
CLIENTE. Non è proprio la giacca che volevo, ma me la faccia
provare ugualmente.
COMMESSO. (Aiuta il cliente a indossare la giacca, si allontana
di un passo e osserva il cliente, dimostrando approvazione). Le
sta molto bene, si guardi allo specchio. (Il commesso continua a
manifestare giudizi positivi. È una strategia manipolativa del tipo:
io sono competente, se la giacca non ti piace è perché non sai
nulla di moda.)
CLIENTE. (Pur non essendo molto convinto). Si è una bella giac-
ca (vorrebbe dire che a lui non piace molto, ma tace e cerca delle
scuse per non comprarla). Ma non me la sento comoda.
COMMESSO. Questo è un problema a cui si può ovviare. L’im-
portante è che le piaccia. Dove sente tirare la giacca?
CLIENTE. Sulla schiena e sul giro maniche. Penso che non mi
vada bene. (Continua a cercare delle scuse. Può essere vero che la
giacca sia leggermente stretta. Ma ciò che il cliente continua a non
dire è che la giacca non gli piace).
COMMESSO. Non si preoccupi. Ora vado a chiamare il sarto. Ve-
drà che risolverà il suo problema.
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3) il commesso è molto gentile, non posso fargli perdere tempo
senza comprare nulla.
79
rotto”. Ripetere senza adirarsi, ciò che si vuole dire e senza farsi
coinvolgere nelle argomentazioni che non ci interessano.
1) voglio che il mio partner non faccia “brutte figure” (non vo-
glio che gli altri lo giudichino negativamente);
2) senza la mia guida non sa come comportarsi (che possiamo
leggere: deve comportarsi come voglio io).
80
visto, come, nell’amicizia, sia piacevole potersi esprimere senza
dover valutare ogni parola. Ciò vale anche per il rapporto di cop-
pia. Noi dobbiamo essere in grado di esprimerci liberamente, se
ciò non aggrada al nostro partner, discutiamone. Accettiamo le
critiche che ci possono essere d’aiuto, ma opponiamoci alle criti-
che manipolative.
Un mio cliente ha una moglie che lui definisce “insopportabi-
le”. Quando sono insieme, lei non gli lascia mai prendere la pa-
rola. Spesso lo critica di fronte a tutti. Visto che queste erano solo
le su affermazioni, decido di vederli insieme. Inizia a parlare la
signora, la interrompo per sentire ciò che ha da dire il marito.
Appena inizia a parlare, la moglie lo interrompe. Si dimostra re-
almente aggressiva nei confronti del marito. È una donna sicura
di sé e sa ciò che vuole. Mi dice che deve essere lei a prendere le
decisioni importanti, perché suo marito non è in grado di farlo.
Mi dice tutto questo di fronte al marito.
Alla seduta successiva vedo il mio cliente da solo. Mi dice: “Ora
che ha visto mia moglie, si è reso conto che carattere ha”. Vorrebbe
che giudicassi negativamente la moglie. Ma quale può essere l’uti-
lità di un giudizio negativo? Nessuna. Chi sta male è il mio cliente,
non la moglie. È lui che deve apprendere a gestire il proprio disa-
gio in presenza della moglie. Quando la moglie lo aggredisce, lui
avverte dei crampi allo stomaco. È evidente che discutere a lungo
sul “cattivo carattere” della moglie non è di nessuna utilità, visto
che la moglie non ha nessuna intenzione di cambiare; lei sta bene
così. Una volta accettato che la moglie non cambia, si è di fronte a
due strategie per non star più male, dove lo sviluppo della prima
esclude la seconda: o fare ciò che è possibile per gestire il proprio
disagio di fronte all’aggressività della moglie, o, se non si riuscirà
nella prima strategia, valutare la possibilità di una separazione co-
niugale (seconda strategia). Ora, a distanza di due anni, il mio
cliente sta bene. Da un anno e mezzo è separato.
81
Il giudizio e la società
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3) ciò ci disturba, proviamo disagio;
4) dobbiamo allontanare il disagio;
5) diveniamo aggressivi: condanniamo;
6) il disagio cessa, siamo soddisfatti del comportamento che
abbiamo emesso, era quello “corretto”.
Il giudizio e la perfezione
83
a esporsi e si dichiara sempre non idonea a quel tipo di lavoro.
Osserviamola: è precisa nel parlare e interviene solo quando
è sicurissima di ciò che deve dire; è sempre affabile e gentile con
tutti; veste in modo elegante e il suo comportamento è aggraziato.
Sembrano qualità positive, ma cosa le impedisce di emerge-
re? Dichiara inoltre di non essere particolarmente soddisfatta
del proprio lavoro attuale.
Analizziamo un dialogo tra Maria e un suo amico, Marco.
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operativo. Parlare di ciò che si potrebbe fare serve solo se si
passa al livello operativo; se ci si muove in quella direzione. Nel
suo caso, Maria dovrebbe iniziare a “provarsi” sul lavoro che ha
già, per poter valutare le sue reali abilità ed esporsi al giudizio
degli altri e agli eventuali fallimenti. Non è un'abilità quella di
voler dimostrare di essere “perfetti”, lo è resistere alla frustra-
zione che ci crea il “fallimento”.
A trenta dei miei clienti che presentano tutti ansie sociali (venti
donne e dieci uomini, di età compresa tra i ventitré e quaran-
tadue anni) ho chiesto di stabilire l’ordine di importanza di
situazioni di “Giudizio”, in riferimento alle seguenti relazioni:
amici, familiari, autorità, partner, commercio.
Venticinque clienti hanno dato la seguente sequenza: fami-
liari e partner al primo posto; seguono gli amici, l’autorità e le
situazioni commerciali.
Quattro clienti hanno dato una sequenza come la preceden-
te, ponendo solo l’autorità prima degli amici.
Un cliente ha dato la sequenza: autorità, commercio, amici,
familiari e partner all’ultimo posto.
Discutendo con i clienti sulla sequenza che hanno dato, ven-
tinove mi hanno fornito la stessa risposta: “Con i familiari e il
partner debbo vivere, per me, sono le persone più importanti.
Gli amici possono cambiare, oggi ci sono, domani no. Una per-
sona autoritaria può causare disagio, ma non è detto che io
debba sempre vederla. Le situazioni commerciali sono le meno
importanti”.
I quattro clienti che hanno posto l’autorità prima degli ami-
ci fanno un lavoro dipendente e provano disagio alla presenza
85
dei superiori. L’unico cliente che ha dato una sequenza totalmen-
te invertita è un giovane studente universitario di ventitré anni.
All’università va molto bene, non ha mai preso un voto inferiore al
trenta. Mi dice che nella vita vuole primeggiare. Alla mia richiesta
di motivarmi la sequenza che ha dato, mi dice: “L’Autorità per
me è importante. Debbo dipendere dalle persone dotate di au-
torità per andare avanti nella vita. Sono queste le persone che
mi possono aiutare. Ho messo poi le situazioni commerciali,
perché non riesco a gestirle, mi trovo spesso a disagio. Gli amici
mi possono in qualche modo essere utili. All’ultimo posto ho
collocato mia madre, mia nonna (il padre è morto alcuni anni
fa) e la mia fidanzata. Mia madre, qualunque cosa faccia, mi
giudicherà sempre bene, non la perderò. Mia nonna è anziana
e con lei non si può dialogare. La mia fidanzata la conosco da
anni e mi accetta come sono”. In tutte e trenta le valutazioni sul
giudizio, le persone sono collocate in base all’importanza che
hanno per noi. Non vi è una classificazione più o meno giusta.
I ventinove che hanno dato valutazioni simili, hanno problemi
con la famiglia (prevalentemente i genitori), il partner o l’auto-
rità. Sono tendenzialmente passivi. Nel caso del giovane univer-
sitario, il dover costantemente primeggiare lo ha portato a un
tale livello di deperimento fisico che non riesce più a sostenere
esami.
L’importante è non stare male. Quindi quasi tutti dovranno
apprendere a gestire i loro rapporti familiari o d’altro tipo; il
giovane, invece, capire che spesso essere i primi è molto costo-
so.
Quando una persona ha individuato i giudizi o le critiche
che maggiormente la disturbano può preparare una risposta
o meglio una “battuta” di spirito per ogni eventuale critica. È
opportuno:
86
1) individuare le critiche alle quali si è maggiormente “vulnera-
bili”;
2) preparare, possibilmente, un elenco scritto delle critiche;
3) predisporre per ogni critica un'eventuale “battuta” di spirito.
87
La Volontà
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lavoro ripetitivo, monotono; dopo poche ore si satura, non è
motivato. Quindi: NON ATTRIBUIRSI E NON ATTRIBUIRE
AGLI ALTRI LA MANCANZA DI VOLONTÀ.
La volontà e il lavoro
90
lavoro, sia la moglie che i genitori sarebbero entrati in ansia.
Quindi per il “loro” bene Giorgio doveva continuare a lavorare
in banca. Smise di lavorare in banca solo dopo quindici anni.
91
Quando, in una situazione interpersonale, emette dei compor-
tamenti non adeguati, prova ansia per alcuni giorni.
Seconda ipotesi: Carla, quando prova ansia elevata, tende ad ali-
mentarsi con maggiore frequenza. Nei giorni in cui è maggior-
mente ansiosa giunge a fare otto-dieci spuntini fuori pasto. Gli
alimenti preferiti sono a base di zucchero. Quindi la risposta alla
seconda ipotesi è “sì”, esiste correlazione tra ansia e cibo.
Quando si alimenta in modo eccessivo si sente colpevole.
Non riuscendo a controllarsi, si dice: “Non riuscirò mai a ri-
durre il mio peso”. Tende quindi verso la depressione, con
incremento dell’ansia. Questo circolo vizioso può essere così
rappresentato:
ANSIA SOCIALE
CIBO
COLPA
DEPRESSIONE
ANSIA SOCIALE
92
va centrata sul controllo dello stimolo “cibo”. È necessario allon-
tanare dalla vista di Carla il cibo. A esempio, se è seduta davanti al
televisore, è necessario per lei allontanare i cioccolatini che tiene
vicino. Solo quando si sarà rotto il legame vista del cibo = alimen-
tazione, Carla potrà ridurre il proprio peso.
Spesso emettiamo risposte sproporzionate alle situazioni. Sia-
mo consapevoli della inutilità di queste risposte. Ci dicono che
con un po’ di volontà saremo in grado di controllarci, ma per
noi è molto difficile. Dopo aver emesso il comportamento ina-
deguato, cerchiamo di giustificarci. Abituali sono le frasi: “Mi ha
fatto arrabbiare. Non doveva comportarsi così. È logico che mi
arrabbi”. Vediamo di modificare queste frasi, visto che formulate
in questo modo non ci sono di nessuna utilità. Vediamo quindi di
NON AUTOGIUSTIFICARE IL NOSTRO COMPORTAMENTO.
Il non controllo delle risposte emozionali, unito alla giustifica-
zione, mantiene inalterato il nostro comportamento. Non si può
quindi parlare di non volontà nel controllarsi ma di “disabilità”
nel controllarsi. Il nostro comportamento inadeguato può essere
così schematizzato:
SITUAZIONE STIMOLO
RISPOSTE EMOZIONALI
COMPORTAMENTO INADEGUATO
93
Proviamo a modificare le frasi di auto-giustificazione:
Il fratello colpevolizzante
CARLO. Per quale motivo sei andato ieri a trovare nostra madre?
Non vai a trovarla che una volta al mese. Mentre io vado due o tre
volte alla settimana. Non essendo più giovane ha bisogno di aiuto
e può contare solo su di me. (Chiaro è il comportamento aggres-
sivo di Carlo: usa la colpevolizzazione.)
SERGIO. (Il comportamento di Carlo gli crea disagio, emette ri-
sposte emozionali. Cerca ugualmente di fare ragionare il fratello.)
Vado a trovare la mamma quando penso abbia bisogno. Andare
a trovarla più frequentemente mi crea dei problemi. Sai come è
la mamma... si lamenta sempre per dei mali che non ha. Ultima-
mente ha fatto tutti i controlli medici possibili e per i suoi set-
tant’anni sta benissimo.
94
Quando vado da lei, per circa due ore mi parla dei suoi problemi
e, quando esco da casa sua, sto male. (Sergio ha comunicato al
fratello il motivo delle sue rare visite alla madre; si “aspetta” che
Carlo capisca.)
CARLO. È comodo da parte tua dire queste cose. Così facendo sca-
richi tutte le responsabilità su di me. Mi sembra troppo comodo.
(Carlo continua ad aggredire colpevolizzando.)
SERGIO. (Il suo voler “fare” ragionare il fratello non ha dato
risultati. Si sente sempre più teso e “l’aspettativa” che Carlo ca-
pisca diventa: “non vuole” capire). Forse ti sei dimenticato di
quando hai avuto l’incidente d’auto. In quella situazione sono
accorso subito all’ospedale, ti ho cercato i migliori medici e ti
ho fatto trasferire in una clinica privata perché tu avessi le mi-
gliori cure. E se ben ricordi ho pagato tutto io, visto che tu di-
cevi di avere delle difficoltà economiche. Ora proprio tu vieni
a dirmi che non mi interesso; quando è necessario, ho sempre
dimostrato di interessarmi. (Sergio ha reagito aggredendo il
fratello, sta colpevolizzandolo, sperando di ridurre l’aggressi-
vità di Carlo).
CARLO. Bene! Ora mi stai ricordando che cosa hai fatto per me.
Chi ti ha aiutato a trovare lavoro? Non fosse stato per le mie co-
noscenze non avresti combinato nulla. (Entrambi i fratelli stanno
recuperando il passato; ecco un’ altra strategia manipolativa, ri-
cordare i favori fatti. Si tratterà più ampiamente questo argomen-
to nel capitolo sul “Sacrificio”.)
SERGIO. Visto che non vuoi intendere ragioni, vado via.
95
Domanda: è mai riuscito a modificare il comportamento di suo
fratello?
Risposta: no! Non ci sono mai riuscito.
Ci chiediamo: per quale motivo Sergio insiste a emettere
un comportamento che non dà risultati? Vediamo il seguente
schema:
97
L’orgoglio
99
impegno, e avrebbe piacere di vederla. Quindi non dovrebbero
esserci ostacoli, ma Carlo rimanda di una settimana l’incontro.
Per quale motivo si comporta così? Sembra assurdo desiderare di
vedere una persona, sapere di poterla vedere e rimandare l’in-
contro. Carlo si dice: “Franca mi interessa molto, ma non voglio
farglielo capire troppo, perderei il vantaggio che ho. Franca mi
ha dichiarato che le interesso. Penso che sia bene non dimostrar-
mi troppo disponibile. Una persona troppo disponibile diventa
meno interessante”. È il loro primo incontro, vanno a cena e poi
a casa di Franca. Trascorrono una serata piacevole e si trovano
bene nel fare l’amore. Franca è una donna estroversa con molti
interessi e amici. È sua abitudine prendere dalla vita ciò che viene,
senza porsi troppe domande, né crearsi inutili dubbi. Carlo vuole
“gestire” i rapporti interpersonali e pensa che una buona strategia
sia creare nel partner un’ansia d’attesa. Quando si lasciano Carlo
dice: “‘Ti telefono, ma penso che non riusciremo a vederci questa
settimana, ho molti impegni”. “Bene! - risponde Franca - Quando
sei libero, telefonami, ho piacere di vederti, sono stata bene con
te, avvisami solo con qualche giorno di anticipo, così non mi pren-
do impegni”.
Franca è abituata a non essere dipendente: se Carlo telefona le
fa piacere, ma, se ciò non succede, non è un grave problema; la
sua vita continua come prima.
Carlo invece si dice: “Ora è più che mai necessario che non mi
faccia vedere troppo interessato: aspetto a telefonarle, così vedrò
l’interesse che ha per me”.
Carlo, pensando di gestire Franca e di non voler apparire “in-
namorato”, aspetta a telefonarle, e nell’attesa sta male.
Franca continua tranquillamente la propria vita.
Nel caso di Carlo non osserviamo una ipervalutazione, ma un
comune errore cognitivo: non si devono dichiarare i propri sen-
timenti. Quindi non si possono usare frasi quali: “Mi trovo mol-
100
to bene con te”, “mi piaci”, “ti voglio bene”. Molte persone mi
hanno detto che trovano queste frasi troppo “compromettenti”;
ci si “espone troppo”. Ci può essere utile tale modo di pensare?
Otteniamo qualche risultato positivo? Se emettiamo un comporta-
mento, lo facciamo per ottenere qualche cosa, anche solo per una
momentanea riduzione del disagio che stiamo provando. A esem-
pio una persona ci critica spesso, quindi noi, quando la vediamo,
cerchiamo di evitarla. Evitare questa persona ci porta a ridurre
momentaneamente il nostro disagio, anche se ciò non ci permet-
te di risolvere a nostro vantaggio la situazione disturbante.
Non usiamo queste frasi “compromettenti” perché abbiamo
spesso paura del rifiuto, della non accettazione e, per questo, ci
rifugiamo nella frase abituale: “Sono troppo orgoglioso per accet-
tare un rifiuto”.
Nel seguente schema si evidenziano le varie fasi:
101
L’orgoglio e il lavoro
Se no:
103
Ricordiamoci che: POSSIAMO PORCI SOLO QUELLE DO-
MANDE A CUI POSSIAMO DARE UNA RISPOSTA,
È semplice ragionare in modo “contorto” con dubbi e incer-
tezze. Difficile è il ragionare in modo “semplice”, cioè, lineare
e operativo. Quindi ne deduciamo che è facile stare “male”.
L’orgoglio e l’errore
105
L’errore
“Bisogna stare bene attenti a non commettere errori”. “Sta bene at-
tento a come ti comporti”. Queste e altre sono frasi abituali, spesso
le abbiamo sentite e, molte volte, usate. Quando le usiamo, siamo
“in buona fede”, non vogliamo che i nostri figli, parenti e amici com-
mettano degli errori. Noi abbiamo sbagliato, quindi sappiamo ciò
che è bene e ciò che è male. Ma, nel proiettare questo atteggiamen-
to sugli altri, commettiamo un errore: partiamo dalla nostra espe-
rienza e, quindi, dal nostro “livello operante”. Siamo stati male in
una determinata situazione e non siamo stati in grado di gestirla, ma
non è detto che altri non siano in grado di superare delle difficoltà
che per noi sembrano insormontabili. Non è nostro diritto dire: “so
cosa è bene o male per te”, ma “so cosa è bene o male per me”.
Spesso, cerchiamo di non fare commettere “errori” solo per atte-
nuare il nostro livello d’ansia. Abbiamo paura che succeda qualche
cosa di spiacevole a nostro figlio e allora gli proibiamo di compiere
una determinata esperienza. Così facendo stiamo meglio, abbiamo
ridotto il nostro livello d’ansia. È evidente che a ciò si possono
porre alcune obiezioni:
107
1) devo controllare che mio figlio frequenti delle buone com-
pagnie, che non rischi di diventare un drogato;
2) devo controllare che mio figlio non faccia delle attività pe-
ricolose, come andare in moto;
3) devo programmare e organizzare il suo futuro;
4) è giusto preoccuparsi per i figli.
L’errore e i genitori
108
Per meglio comprendere questa dinamica osserviamo il se-
guente schema:
1) situazione aversiva;
2) risposta emozionale (tensione muscolare, tachicardia);
3) risposta cognitiva: devo controllarmi e pensare a come ri-
solvere la situazione;
4) risposta motoria: si muove nella direzione dell’obiettivo.
109
4) la nonna ferma Marina e la fa scendere;
5) la nonna ha ridotto il proprio livello d’ansia;
6) la nonna non vuole più trovarsi in situazioni per “lei” avver-
sive e non porta più Marina a giocare con gli altri bambini.
110
re logico in ciò che dico.
MOGLIE. In ogni caso devi andare, mi hai detto che non puoi
farne a meno.
MARITO. Lo so che devo andare, si discutono anche i miei
interessi economici.
MOGLIE. Mi sembra che tu non debba dimostrare a nessuno
di essere un abile oratore, questo non è il tuo compito. Ciò che
devi dire lo sai bene e sul tuo argomento sei più preparato di
altri, non è vero?
MARITO. Sì. Sono ben preparato e lo conosco meglio degli
altri.
MOGLIE. Se ti fanno delle obiezioni sei in grado di controbat-
tere tranquillamente?
MARITO. Penso di essere in grado di controbattere, anche se
non tranquillamente.
MOGLIE. Quindi non mi sembra il caso di preoccuparsi, cono-
sci l’argomento e sei in grado di controbattere.
In quasi tutti gli altri casi abbiamo visto uno dei partner eser-
citare un’azione distruttiva nei confronti dell’altro. In questo,
la moglie spinge il marito a esporsi. Quando possiamo spingere
una persona a esporsi?
111
faccia una “brutta figura”, in tal caso sarebbe lei per prima a
sconsigliare il marito a esporsi.
In questo caso, il marito sta anticipando negativamente la
propria prestazione. L’anticipazione negativa non è di alcun
aiuto, tende ad attivare in noi delle risposte emozionali nega-
tive con il risultato di incidere sulla nostra prestazione futura.
Centriamo la nostra attenzione solo su ciò che dobbiamo fare
o dire, non andiamo oltre con i nostri pensieri. Quindi: NON
ANTICIPARE NEGATIVAMENTE.
L’insegnante e l’errore
112
Gli diciamo di non aver capito, lui, sorridendo, ci ridà la stessa
risposta, alla stessa velocità e con le stesse parole. Noi sorridia-
mo, facciamo dei cenni di assenso con il capo e non abbiamo
capito nulla.
In questi due casi, sia l’insegnante che l’amico inglese non
partono dal “livello operante” di chi li ascolta. Come avrebbe
dovuto comportarsi l’insegnante?
113
si arrabbia; il secondo perché è sotto continua “pressione”.
L’insegnante che abbiamo appena descritto dichiarava che la
classe non apprendeva, ma molto difficilmente gli verrà il dubbio
che non sono gli studenti a sbagliare, ma lui.
Il disagio e il farmaco
114
ciò non sempre avviene, può succedere che, anche assumendo
farmaci, non si migliori 1a prestazione e si ottenga una prestazio-
ne negativa. In tal caso, dopo una prestazione negativa ci si sente
depressi, quindi è necessario prendere un altro farmaco.
Vediamo le situazioni che si possono presentare:
115
Se abbiamo alcune abilità e continuiamo a provare disagio,
può essere instaurata le seguente sequenza:
116
Il possesso
Il possesso e la gelosia
117
MARCO. Quindi per te il volere bene equivale a possedere.
CARLO. Se poni le cose in questo modo, allora amore è uguale
a possesso.
MARCO. Noi ci conosciamo da anni e da alcuni anni hai dira-
dato le visite a tua madre, non è vero?
CARLO. Che cosa c’entra mia madre in questo discorso? Non
mi lasciava i miei spazi, mi controllava; queste cose le puoi sop-
portare da ragazzo, ma diventa impossibile da adulti; un uomo
ha diritto di vivere la propria vita.
MARCO. Anch’io 1a penso così. Ma pensi che tua madre ti vo-
glia bene?
CARLO. A modo suo, sì, mi vuole bene.
MARCO. Però è possessiva nei tuoi confronti.
CARLO. Sì, è possessiva e protettiva.
MARCO. Tua madre ti vuole bene ma è possessiva e ciò ti dà
noia, siamo d’accordo?
CARLO. Sì, mi dà noia.
MARCO. Ma forse, anche tua madre, come te, pensa che amo-
re vuol dire possesso. Quindi per te è giusto possedere, ma non
essere posseduto.
Nel seguente schema si evidenziano le fasi inerenti al “possesso”:
118
CARLO. Sono due situazioni diverse, l’amore per una donna non
equivale all’amore per il figlio o la figlia.
MARCO. D’accordo, possono essere diversi. Mi avevi detto che
tua madre vuole vederti spesso, specialmente ora che è vedova.
CARLO. Sì, mia madre dice che ha bisogno di me, ma quando
vado da lei mi getta addosso tutte le sue ansie e poi mi dà dei lavori
da fare.
MARCO. Forse prima era tuo padre a gestire le ansie di tua madre
e a risolverle alcuni problemi quotidiani.
CARLO. Sì, mia madre si è sempre appoggiata a mio padre e ora
si appoggia a me.
MARCO. Quindi ora tua madre conta su di te?
CARLO. Mia madre conta esclusivamente su di me.
MARCO. Scusa se ritorniamo al discorso iniziale, al rapporto con
Clara; cerco solo di capire alcune cose. Quando tu hai dei proble-
mi ne parli con lei e conti sul suo aiuto per gestire alcune attività
quotidiane, non è vero?
CARLO. Si, ma anch’io faccio lo stesso con lei.
MARCO. D’accordo, ma in ogni caso lei soddisfa alcuni tuoi biso-
gni e, se la tua fidanzata ti venisse a mancare, chi soddisferebbe i
tuoi bisogni?
CARLO. Sicuramente starei male, ma poi probabilmente reagirei.
MARCO. Quindi, una persona diventa per noi indispensabile
perché colma delle nostre lacune e, perciò meno siamo auto-
sufficienti più bisogno abbiamo di una persona. Mi ricordo di
un mio conoscente che alla morte della moglie entrò in uno
stato di profonda depressione. Iniziò a non mangiare, e si la-
sciò morire. La gente diceva: «Guarda come vuol bene a sua
moglie». In realtà la moglie gli colmava tutta una serie di caren-
ze, dipendeva dalla moglie e alla sua morte non era in grado di
gestirsi la vita e la gente diceva: «guarda come vivono uno per
l’altro».
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Il possesso può dipendere da carenze nostre. Vediamo lo
schema:
Il possesso e l’orgoglio
Nel dialogo tra Carlo e Marco osserviamo che Carlo dice: “Ci
conosciamo da anni ed è impensabile per me che lei se ne vada
via per un altro”. Carlo, ora, vive da solo e, pur vedendo fre-
120
quentemente Clara, ha una vita propria, ha degli amici e degli
interessi propri.
121
MARCO. Ma essere geloso ti serve? Se sei geloso stai meglio?
CARLO. Non è che si stia meglio a essere gelosi, ma è naturale, è
impossibile farne a meno.
MARCO. Quindi, per te, gelosia è uguale a non fiducia, è vero?
CARLO. Può essere così.
MARCO. Abbiamo parlato di fiducia. Per te fiducia vuol dire porci
come giudici e valutare se il comportamento dell’altro è o non è
corretto, se cioè la persona si comporta come a noi fa piacere. Ma
noi ci comportiamo sempre come l’altro si aspetta o ci attendiamo
che l’altro accetti il nostro modo di comportarci?
CARLO. Ma allora se poniamo la questione in questo modo non
esiste la fiducia.
MARCO. Penso che sia difficile per noi stessi conoscerci, eviden-
ziare le nostre debolezze e prevedere sempre il nostro compor-
tamento. Iniziamo ad accettarci e ad accettare che l’altro si com-
porti come ritiene giusto. Poi se il comportamento dell’altro non
corrisponde alle nostre aspettative non dobbiamo arrabbiarci,
possiamo provare a parlarne, a trovare un compromesso e qualora
non si trovi un compromesso soddisfacente per entrambi, lasciarci
senza tensioni. La fiducia può essere la sicurezza che ci dà una
persona. Ma, se abbiamo “fiducia” in noi stessi non abbiamo biso-
gno che gli altri ci diano “fiducia”. Se una persona “orgogliosa” sta
male quando l’altro non si comporta secondo le sue aspettative e,
così facendo, intacca i valori in cui “lui” crede come, a esempio, la
fiducia, ciò significa che dipende dagli altri per stare bene o male.
122
che l’immagine di noi stessi ne può venire intaccata e stiamo
male. Quindi: IL POSSESSO EQUIVALE A STAR MALE.
Essere posseduti
ANNA. Sai che prima di conoscerti uscivo con Aldo, l’ho rivisto l’al-
tro ieri. (Anna sta studiando Marco, vuole vedere se lui dimostra
gelosia e se quindi le vuole bene.)
MARCO. Ti ha fatto piacere rivederlo? Penso di sì, visto che, da
quanto mi hai detto, avete avuto un buon rapporto.
ANNA. Sì, mi ha fatto piacere rivederlo e Aldo mi ha detto che mi
vuole sempre bene.
MARCO. Mi fa piacere! Sapere che una persona ci vuole bene è
gratificante per noi.
ANNA. Ma non ti disturba ciò che ti ho detto?
MARCO. Perché mi dovrebbe disturbare una cosa che a te ha fatto
piacere? Anzi, sono contento per te.
ANNA. Questo non lo capisco, come reagiresti allora se ti dicessi
che ho intenzione di rimettermi con Aldo? Questo ti darebbe noia?
MARCO. Se tu volessi rimetterti con Aldo è perché pensi di
123
trovarti meglio con lui che con me. Quindi sarebbe un tuo pro-
blema, non mio. Saresti tu a trovarti di fronte al problema della
scelta. Io sto bene con te, ma non posso farci nulla se tu prendi
una decisione, non è compito mio decidere per te.
ANNA. Se tu mi dicessi che vuoi lasciarmi per un’altra, io farei
il possibile per non perderti.
MARCO. E cosa ci guadagneresti da questo? Staresti solo male.
ANNA. Ma almeno avrei fatto tutto il possibile per trattenerti.
MARCO. Vedi, io la penso diversamente. Quando vuoi bene a
una persona ti fa piacere sapere che questa persona è contenta,
e se va con un altro, e lei è contenta così, non so perché dovrei
arrabbiarmi.
Il possesso e il passato
124
CARLO. Sì, questo mi dà noia, anche se so che è assurdo.
MARCO. Tu vorresti che il passato di Clara non esistesse, ma sai
che non puoi farci nulla. Più rifiutiamo un pensiero, più questo
ci perseguita; perché un pensiero cessi di esistere dobbiamo
accettarlo. Possiamo vedere cos’è che non ci permette di accet-
tare un pensiero. Nel tuo caso, cosa pensi che sia?
CARLO. Forse sono presuntuoso.
MARCO. Cosa intendi per presunzione?
CARLO. Mi attribuisco troppa importanza, vorrei forse avere
il controllo totale su Clara, sul suo presente, passato e futuro.
Ripensandoci, non sono neppure in grado di prevedere il mio
comportamento, come posso essere in grado di prevedere con
sicurezza quello degli altri, e per di più esigere che esso corri-
sponda alle mie aspettative?
MARCO. Quindi, mi stai dicendo che vuoi cercare di accettare
il pensiero che Clara abbia un suo passato?
CARLO. È l’unico modo razionale di affrontare un rapporto,
anche se non mi è molto facile.
125
Partendo da un pensiero inaccettabile sviluppiamo un com-
portamento circolare tra il pensiero e il controllo della persona.
L’appropriazione indebita
127
In questi due esempi può apparire che vi sia l’emissione di
un comportamento passivo. Ma non necessariamente dobbiamo
sempre competere, in alcuni casi possiamo anche scegliere la
non competizione.
A esempio, possiamo essere criticati e insultati in pubblico e
rimanere calmi e tranquilli, cioè non accettare la provocazione.
Ma quando possiamo emettere un tale comportamento?
Quando sappiamo di essere in grado di competere, in quanto
abbiamo già emesso tali comportamenti in situazioni simili.
128
L’egoismo
129
la preoccupazione innesta delle risposte emozionali che non ci
sono d’aiuto nel risolvere una situazione o aiutare un amico.
Quindi non possiamo accettare l’affermazione: l’egoista non si
preoccupa degli altri.
Spesso succede che si incolpino gli altri di egoismo quando
emettono un comportamento a noi non gradito. Così facendo
ci aspettiamo che gli altri si comportino come fa piacere a noi.
Ma quando per il nostro piacere facciamo violenza agli altri,
siamo noi degli “egoisti”. Quindi, chi incolpa gli altri d’essere
egoisti, è lui stesso un egoista. L’egoismo è quindi: il volere modi-
ficare gli altri per il proprio tornaconto.
130
È solo questione di organizzazione.
MOGLIE. È mai possibile che tu sottovaluti sempre il mio lavo-
ro? (Dopo l’aggressione del marito la moglie inizia a dare risposte
emozionali, non si sente capita e tenta di giustificarsi.)
MARITO. Non sei mai stata abituata a lavorare realmente, è colpa
dei tuoi genitori che ti hanno sempre viziata. Non sai cosa è il vero
lavoro. (Il marito si sente in diritto di accusare la moglie.)
131
MARITO. Questa sera…
MOGLIE. Mi dispiace che tu mi abbia avvisato in ritardo, ho già
preso un impegno con la scuola per questo pomeriggio. Non
sarò in grado di preparare la cena.
133
6) siamo in una situazione di stallo. La moglie vuole affermarsi
come “persona”, quindi il marito dovrebbe modificarsi. Il
marito vuole che il loro rapporto rimanga immodificato.
134
c) La terza risposta anche se è simile alla seconda, tende a cre-
are un maggiore costo al marito. La moglie parte sempre dal
livello del marito, ma, in questo caso, gli crea due costi: il pri-
mo, comunicandogli il proprio disagio di tipo psicologico, e il
secondo, di tipo economico. Questa terza risposta se “giocata”
attentamente, cioè, senza far pagare costi troppo elevati al ma-
rito, può accelerarne il processo di modificazione.
135
MARCO. Sono d’accordo con te. Ma mi sembra anche che, se
tu non aiuti solo quella persona, stai male, non è vero? Quindi
tu non puoi emettere altri comportamenti; aiutare gli altri al-
levia un tuo stato di disagio, perciò sei costretto ad aiutare per
non stare male.
CARLO. Il tuo modo di ragionare è cinico. Tendi a semplifica-
re tutto.
MARCO. Non vedo il problema. Se tu sei soddisfatto così, per
me va bene. A me fa piacere il sapere che tu sei contento di te
stesso.
CARLO. Voglio farti capire che il tuo modo di comportarti non
è corretto, sembra che tu pensi solo a te stesso.
MARCO. Cioè tu intendi dire che non mi preoccupo per gli altri?
CARLO. Sì, è così!
MARCO. Non preoccuparti per me, io sto bene così. Io non
avverto nessun problema, forse il problema è tuo: sei tu che sei
dispiaciuto del mio comportamento e vorresti che io cambiassi.
Ma come posso cambiare, se per me va bene così?
I Schema
1) una persona sta male;
2) proviamo disagio;
3) aiutiamo quella persona:
a. la persona sta meglio, noi stiamo meglio;
b. la persona non sta meglio, noi diciamo a noi stessi
che abbiamo fatto ciò che potevamo per aiutarla e
stiamo meglio.
136
II Schema
1) una persona sta male;
2) non proviamo disagio;
3) ci fa piacere aiutarla;
4) non ci attendiamo nulla in cambio.
137
L’invidia
L’invidia e il lavoro
Marco è a cena con Aldo, un amico che non vede da otto anni.
Insieme hanno fatto l’università; dopo l’università, Aldo si è
trasferito, per lavoro, in un’altra città.
139
MARCO. Non ti piaceva il lavoro?
ALDO. Il lavoro mi piaceva, ma è l’ambiente che non mi andava.
MARCO. In che senso non ti andava l’ambiente?
ALDO. Tu non puoi capire, non hai mai lavorato in una grossa in-
dustria.
MARCO. Spiegami ugualmente, sono interessato.
ALDO. Io mi sono impegnato al massimo sul lavoro. Poi vedi che al-
cune persone fanno una rapida carriera pur con un minor impegno.
MARCO. Quindi tu ti sei visto superare nella carriera da persone
che, secondo te, non valevano molto.
ALDO. Sì, è andata così, e ti fa male vedere che c’è chi va avanti nella
vita senza meriti personali.
MARCO. Tu ci tenevi a fare carriera, non è vero?
ALDO. È ovvio che ci tenessi, almeno come ricompensa per il mio
impegno.
MARCO. Noi non ci vediamo da otto anni; da quando hai iniziato a
lavorare sei stato sempre nella stessa azienda?
ALDO. No, ho cambiato, sono stato tre anni nella prima azienda e
cinque nella seconda.
MARCO. Ti sei trovato male in entrambe?
ALDO. Sì, si ripetono sempre le stesse situazioni, ti vedi passare da-
vanti i meno meritevoli.
MARCO. Il vedere che una persona ti passa davanti ti fa stare male,
non è vero?
ALDO. È ovvio che sia così: si lavora per avere dei riconoscimenti. Ti
avevo detto che non avresti capito, non hai mai vissuto nel mondo
dell’industria.
MARCO. In questi otto anni, quante sono le persone che hanno fat-
to più carriera di te?
ALDO. Due nella prima industria e tre nella seconda. Abbiamo ini-
ziato tutti allo stesso livello e poi hanno fatto carriera gli altri
mentre io sono rimasto con la stessa qualifica.
140
MARCO. Tra tutti quei cinque, che ti hanno superato, non
pensi che qualcuno avesse più abilità di te?
ALDO. Se tu intendi come abilità l’essere ipocrita, allora aveva-
no più abilità di me. Io ho sempre fatto il mio lavoro in modo
onesto, ma, se vedevo qualche cosa che non mi andava, lo dice-
vo chiaramente. A essere onesti si paga in prima persona.
MARCO. Quindi tu non sei riuscito a emergere nel tuo lavoro,
e questo ti crea disagio, è vero?
ALDO. Sì, è la struttura industriale che non ti permette di
emergere.
MARCO. Forse è meglio dire che non ha permesso a te di
emergere.
ALDO. Non emergono le persone che lavorano seriamente.
141
cordiamoci che: CHI INVIDIA NON SI MODIFICA.
Quando proviamo rabbia, non siamo più in grado di discrimi-
nare, non riusciamo a individuare i comportamenti positivi de-
gli altri e tendiamo a vedere una persona completamente in
“negativo”.
L’invidia e l’amica
142
MARINA. Questa mattina sei andata molto bene nell’interroga-
zione di matematica.
CLAUDIA. Sì, avevo studiato molto. (Claudia lascia cadere il
discorso.)
MARINA. Sono convinta che tu abbia studiato molto. Ti impe-
gni sempre molto in tutte le materie.
CLAUDIA. Sai, quando non si ha altro da fare… (Diventa col-
pevolizzante, lasciando intendere: visto che tu mi trascuri etc…)
MARINA. Ma ti ho invitato tante volte con me alle feste; tu non
hai mai voluto venire, sei venuta solo poche volte.
CLAUDIA. Dimmi cosa venivo a fare alle feste. Appena arriva-
vamo, tu ti mettevi a parlare con tutti e io mi ritrovavo da sola.
(Claudia continua nella colpevolizzazione.)
MARINA. Vedi io vado alle feste perché ho piacere di conosce-
re nuove persone e di ritrovare degli amici.
CLAUDIA. Per te è tutto facile. Quando arrivi a una festa tutti
ti vengono incontro e ti salutano, mentre tocca sempre a me
dover andare a salutare gli altri, e questo mi dà noia.
MARINA. Non capisco il problema, se hai piacere di salutare
una persona vai a salutarla.
143
L’invidia e la macchina
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ci sono riusciti, devi ammettere che è stato bravo. Quali sono gli
obiettivi che vuoi raggiungere? Anche se per me non è detto che
una persona debba a tutti i costi raggiungere un obiettivo, può
anche accontentarsi di ciò che ha raggiunto e star bene.
ALDO. Dei miei obiettivi abbiamo già parlato: vorrei emergere
sul lavoro, ma eventi esterni non me l’hanno permesso. Ho stu-
diato per anni, e con quali prospettive? Poi, ti capita di vedere che
un salumiere diventa ricco in pochi anni… È proprio un mondo,
questo, che non capisco! Come non capisco quella tua affermazio-
ne che si può star bene con l’accontentarsi. Se così fosse, non vi
sarebbe mai una spinta verso il progresso.
MARCO. Vedi Aldo, alcuni anni fa è morto mio zio Antonio. Fin
da ragazzino andavo a trovarlo con piacere e passavamo interi po-
meriggi a giocare a scacchi insieme. Era una persona con cui sta-
vo veramente bene, era una persona soddisfatta della vita. Come
lavoro faceva il litografo ed era molto bravo. Un suo amico, molto
influente, vedendo i suoi lavori gli propose di trasferirsi in un’al-
tra città a lavorare per una certa industria, dove le sue abilità sa-
rebbero state molto apprezzate; avrebbe inoltre guadagnato mol-
to di più. Lo zio Antonio rispose all’amico: “Io amo la mia città,
mi piace andare a pescare nei fiumi che conosco e cercare funghi
nei boschi, tutto questo mi basta”.
145
Il rancore
Il marito silenzioso
147
Vediamo una situazione che può scatenare da parte del ma-
rito il silenzio.
148
2) ritiene di subire una “violenza” da parte della moglie;
3) non accetta il “punto di vista” della moglie e quindi non è
disponibile a modificare la propria opinione.
Il rancore e l’amico
149
di questo nostro amico e ritiene di poterlo contattare diretta-
mente per un proseguimento dei lavori. Noi veniamo a conoscenza
dell’accordo tra le due parti quando ormai è stato stipulato. Noi,
ovviamente, siamo esclusi dal nuovo accordo.
Ora vediamo due nostre possibili risposte a questa situazione.
Una prima risposta può essere di rancore e rabbia nei confronti
dell’amico.
Una seconda risposta, di non rancore, e in più, per noi la situa-
zione può risultare un’utile occasione di apprendimento.
Vi sembrerà difficile emettere la seconda risposta, quando un
amico ha “tradito” la vostra fiducia. Poniamoci la domanda se la pri-
ma risposta ci può essere di qualche utilità. L’unico risultato che si
ottiene nel provare rancore è stare male; e, quando si prova disagio,
è difficile prendere delle valide decisioni.
Vediamo una sequenza di pensieri che ci porta in questo caso a
provare rancore:
1) sono io che gli ho dato quel lavoro e gli ho fatto conoscere chi
me lo aveva commissionato;
2) l’amico stipula dei contatti diretti con la parte senza consultar-
mi;
3) io non avrei mai attuato un simile comportamento, non è
quello di un amico;
4) non mi sarei mai aspettato un simile comportamento da parte
sua;
5) in futuro non voglio più avere nulla a che fare con questa per-
sona.
Il Saluto
151
in un modo poco corretto nei miei confronti. Quindi la nostra
amicizia è finita. Se mi capiterà di incontrarlo per strada, eviterò
di salutarlo.
MARCO. Quindi tu ora sei molto adirato con il tuo amico.
CARLO. Mi sembra ovvio che si provi rabbia verso una persona
che si è comportata in questo modo.
MARCO. Scusa, ma tu ti stai riferendo a ciò che ti hanno detto dei
comuni amici.
CARLO. Mi sembra che questo possa bastare.
MARCO. Ora quando tu ripensi a Giorgio stai male e provi ranco-
re nei suoi confronti, non è vero?
CARLO. Non dire delle cose assurde, avrei voluto vedere come ti
saresti comportato tu al mio posto.
MARCO. A me è successa una situazione simile, ma in quel caso io
ero stato accusato di aver “parlato male” di un comune amico. Un
pomeriggio incontro un’amica e lei mi chiede se frequento ancora
Sandro che è un nostro amico comune. Frequentavo assiduamente
Sandro, in quanto facevamo dell’attività sportiva insieme. Le rispon-
do che, non avendo più interessi comuni, ci vediamo molto raramen-
te. Alcuni giorni dopo vedo Sandro e mi chiede delle spiegazioni:
la nostra comune amica gli ha riferito che io non lo frequento più,
perché non lo trovo interessante. Sono molto sorpreso di ciò che mi
dice, ma poi, ripensandoci, ho capito che la mia frase: “non avendo
più interessi comuni, ci vediamo raramente”, è stata parafrasata in:
“non lo vedo più, perché non mi interessa”.
CARLO. Ma in questo caso è stata la tua amica a fraintendere ciò
che tu avevi detto; il mio caso è diverso.
MARCO. Può darsi, in ogni caso, se Sandro non mi avesse più volu-
to parlare, io non sarei venuto a conoscenza di ciò che era successo.
CARLO. Ma se tu avessi realmente detto alla tua amica che non
frequentavi più Sandro, perché non lo trovavi interessante, cosa sa-
rebbe successo?
152
MARCO. Sandro avrebbe ugualmente parlato con me, e io gli avrei
spiegato perché non lo “trovavo interessante”.
L’interpretazione
153
mentata e mi avvicino a lei. Appena mi avvicino mi dà, di proposito,
un forte calcio. Ho capito chiaramente che non mi voleva vicino e
quindi mi sono alzato e sono ritornato a guardare la televisione”.
I due coniugi non discutono tra loro dell’episodio successo la
sera precedente. Ma, parlandone, emerge chiaramente un reci-
proco rancore. Ognuno dei coniugi dà la propria versione del
fatto; la moglie è adirata con il marito per la sua scarsa “sensibili-
tà”; il marito ritiene che la moglie gli abbia fatto volutamente uno
sgarbo. Se noi vogliamo capire chi dei due ha ragione, rischiamo
di perdere il nostro tempo. Tra i due coniugi si è creata una si-
tuazione di tale tensione, che trovano impossibile comunicare tra
loro. Non comunicando, ognuno tende a “interpretare” il com-
portamento dell’altro; qualunque comportamento emesso dall’al-
tro viene decodificato come una “voluta” aggressione.
Riassumendo, in queste situazioni si individua:
154
modo corretto e quindi hanno appreso:
1) a chiarire immediatamente i loro problemi;
2) a “indirizzare” l’attenzione sugli aspetti positivi dell’altro e
a evitare le critiche manipolative.
Il sospetto
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— non ripensare alla telefonata ricevuta;
— non porsi dei dubbi;
— accettare la risposta del marito.
156
Il sacrificio e il piacere
Il dovere di dare
157
MARCO. Cosa intendi per “non sono stato corrisposto”?
CARLO. Ti sarà capitato di dare molto a un amico e avere ben
poco in cambio, non sei d’accordo?
MARCO. Sì, può succedere, ma nel tuo caso, cosa ti è successo?
CARLO. Lavoro da alcuni mesi con un collega che io conside-
ravo un amico. Quando vedevo che aveva delle difficoltà sul
lavoro ho sempre cercato di aiutarlo; alcune volte mi fermavo
di più in ufficio per aiutarlo a terminare alcune sue “pratiche”.
Bene, due giorni fa gli chiedo di aiutarmi a terminare un lavo-
ro e lui mi dice che non ha tempo e se ne va via.
MARCO. Era il tuo collega che ti chiedeva di fermarti ad aiu-
tarlo?
CARLO. Alcune volte mi offrivo io, altre volte era lui che mi
chiedeva di aiutarlo.
MARCO. Ti sei anche fermato ad aiutarlo quando non avevi
voglia o avevi qualche impegno più importante?
CARLO. Più di una volta mi sono fermato ad aiutarlo, pur non
avendone voglia. Una volta non stavo bene e mi sono ugual-
mente fermato in ufficio per altre due ore.
MARCO. Ma, se non avevi voglia di aiutarlo, chi ti ha costretto
a farlo?
CARLO. Nessuno, mi sembra un comportamento normale aiu-
tare un amico in difficoltà.
MARCO. Mi stai dicendo che tu consideravi quel tuo collega
un amico e quindi ritenevi tuo dovere aiutarlo, è così?
CARLO. Sì, in un rapporto di amicizia bisogna comportarsi così.
MARCO. Io penso in modo diverso. Prima mi hai chiesto se
mi era capitato di dare molto a un amico; mi è difficile darti
una risposta, non ho mai valutato quanto ho dato a un amico
e non ho mai applicato nei rapporti interpersonali il concetto
costo-beneficio; se ho dato a un amico è perché avevo voglia e
piacere di farlo. Mi è difficile valutare il piacere che ho avuto
158
nel dare. Quindi io non uso mai i termini obbligo o dovere nei
confronti di un amico; se facessi così tenderei ad aspettarmi
qualche cosa in cambio per ciò che ho dato e dare senza avere
nulla in cambio mi farebbe stare male. Quindi se ho “dato” 100
è perché avevo voglia di farlo, e se l’amico mi ha “restituito” 10
io ho “accumulato” 110; invece nella tua ottica io sarei ancora
in “credito” di 90.
Avete mai provato a seguire una dieta? Può essere difficile. Siete
mai andati in palestra per tenervi in forma? Può essere noioso.
Seguire una dieta o esercitarsi in palestra può costituire un
notevole sacrificio. Ma ciò può trasformarsi in piacere?
Incontro un amico che non vedo da alcuni mesi, lo trovo ulte-
riormente ingrassato e gli dico. “Mi sembra che dovresti perdere
alcuni chili”. L’amico mi risponde: “Hai ragione, sono nuovamen-
te ingrassato. Ti ricordi com’ero alcuni anni fa? Ora ho 20 chili
159
di troppo. Ho già provato alcune diete, perdo alcuni chili che poi
riprendo rapidamente; ho anche provato a fare un po’ di attività
sportiva, ma ciò mi stimola maggiormente l’appetito. Sì, dovrei pro-
prio fare qualcosa per dimagrire”. “Ma – rispondo – ci hai già prova-
to e forse trovi troppo difficile mantenere una qualunque dieta”.
“Sì, è vero – mi risponde – per me è un sacrificio controllarmi,
non trovo una sufficiente motivazione; quando ero scapolo pre-
stavo maggiore attenzione al mio aspetto; è evidente che essere
obeso non è la migliore carta di presentazione con l’altro sesso.
Dovrei trovare qualche stimolo esterno che mi solleciti a mante-
nermi in forma. Hai qualche consiglio da darmi?”
“Vedi – rispondo – tu mi dici che avresti bisogno di stimoli
esterni per mantenerti in forma, ma quali tipi di stimoli intendi?”
“Potrebbe essere un’amica – mi dice – o forse, un lavoro più
attivo del mio; in ogni caso per me non è facile trovare il tempo
per andare in palestra, e fare una dieta mi è difficile perché spesso
sono fuori casa per lavoro”.
Per il mio amico è difficile mantenersi in forma e i motivi
sono i seguenti:
Nel caso della cura del proprio aspetto, come in ogni situa-
zione della vita, non si possono avere dei risultati senza dover
pagare dei costi, sta a noi decidere se vogliamo pagarli, in ogni
caso non autogiustifichiamo la nostra non operatività.
Dipende da noi sviluppare “il piacere di piacersi”.
L’immagine
161
cercato, ha una bella macchina e frequenta persone “impor-
tanti”. Tende ad apparire un uomo sicuro di sé. Marta ha 28
anni, è dimessa nel vestire, tende a non “mettersi in mostra” e
risponde solo quando è direttamente interpellata. Il suo viso è
sempre sorridente e pare una persona estremamente dolce e
accondiscendente.
Cosa può legare due persone che appaiono così diverse tra
loro? Entrambi cercano attraverso il modo di vestire o di par-
lare di creare un’immagine di se stesse. Penso che questo com-
portamento sia abituale in tutti noi; ma può diventare fonte di
disagio?
Gianni vuole crearsi un’immagine di un uomo “arrivato” e
per fare ciò studia il comportamento delle persone che ritie-
ne importanti, cercando di farlo proprio. La sua attenzione è
centrata sull’immagine che vuol creare di sé. Gianni divide le
persone in due categorie: quelle “importanti” e quelle “non
importanti”.
Domandiamo a Gianni quali sono per lui le persone impor-
tanti. Questa è la sua risposta: “Considero persone importan-
ti quelle che hanno raggiunto un elevato stato economico e
sociale”. Gianni cerca di frequentare questo tipo di persone,
vuole apprendere da loro e vuole essere da loro accettato. Il
giudizio delle persone che “contano” diventa per Gianni estre-
mamente importante. Gianni non presta la minima attenzione
alle persone che ritiene non importanti, anzi tende a giudicar-
le in modo negativo.
Ma Gianni ha realmente “piacere” di comportarsi in questo
modo? O il piacere gli deriva esclusivamente dall’approvazione
che ottiene dagli altri?
Vediamo il seguente schema:
162
2) è importante il giudizio delle persone “importanti”;
3) ha bisogno della loro approvazione;
4) ottiene la loro approvazione ed è gratificato.
163
Il bisogno
164
CARLO. Anche Anna esce frequentemente da sola alla sera?
MARCO. Esce un po’ meno di me, esce circa due o tre volte
per settimana.
CARLO. Non ti dà noia quando esce da sola?
MARCO. Qualche tempo fa, Anna stava preparandosi per usci-
re e io ho avvertito un disagio. Ho detto ad Anna che trovarmi
a casa da solo mi dava noia. Anna mi ha risposto: Se ti dà noia
rimanere a casa da solo è sufficiente che si programmino le no-
stre uscite, in tal modo, quando tu stai a casa, ci sarò anch’io. Io
chiedo ad Anna se prova disagio quando io sono fuori e Anna
mi risponde che sta bene in casa da sola. Ho capito che iniziavo
ad aver bisogno di Anna, la sua assenza mi creava disagio.
CARLO. Come ti sei comportato?
MARCO. Mi sono detto che il mio rapporto con Anna deve
essere basato sul piacere di stare con lei e non già sul bisogno.
Le sere in cui sapevo che Anna sarebbe uscita, io mi gratificavo
guardando al videoregistratore dei film che mi piacevano parti-
colarmente. Dovevo imparare a stare a casa da solo e star bene.
Successivamente non ho più avuto bisogno di guardare film.
CARLO. Ma non era più semplice dirle di rimanere a casa?
MARCO. Sarebbe stato più facile, ma poi, sarebbe stato difficile
capire se stavo con Anna per il piacere della sua compagnia o
perché non ero in grado di rimanere a casa da solo.
165
1) se il mio partner dipende da me, mi crea disagio;
2) potrei evitare il disagio in due modi: o cercando di modifi-
care il partner o cercando di modificare me stesso.
166
La modificazione del comportamento
167
stra cravatta è adeguata all’abito che indossiamo. In entrambi
i casi possiamo rimediare. Ma, anche in queste due situazioni,
non è detto che si riesca a riconoscere se vi è stato un aumento
di peso o se la cravatta non è intonata con l’abito. L’essere in
grado di discriminare, cioè di cogliere un particolare dall’in-
sieme, può dipendere in larga misura dalle nostre passate espe-
rienze e, di conseguenza, dall’attenzione selettiva che poniamo
su un preciso particolare.
Se decidiamo di modificare il nostro comportamento, dob-
biamo attentamente osservarci e individuare gli aspetti in cui
siamo particolarmente carenti e quindi intervenire.
Come può essere possibile individuare le nostre carenze?
Nell’affrontare una situazione vi è sempre un prima, un du-
rante e un dopo. Se in uno di questi tre momenti proviamo disa-
gio, abbiamo già individuato un'eventuale area in cui possiamo
provare a modificarci.
Ma non si rischia con ciò di diventare quasi degli automi? Que-
sta può essere un'obiezione a un eventuale programma di modi-
ficazione: si può pensare che nel modificarci si perda in “sponta-
neità”. Penso che si possa essere d’accordo sul fatto che quanto
maggiori sono le abilità o i comportamenti che padroneggiamo,
tanto meglio siamo in grado di gestirci nelle varie situazioni. Se,
inoltre, accettiamo l’assunzione che non “dobbiamo star male”,
ne consegue che a un maggior possesso di abilità corrisponderà
un minore disagio nelle situazioni più varie. Se una persona ha
un ridotto bagaglio comportamentale, avrà a propria disposizio-
ne poche risposte da emettere.
Una persona che, in una determinata situazione, dà sempre
la stessa risposta, perché non è in grado di darne altre, è forse
più “autonoma” di chi, in una medesima situazione, è in grado di
dare risposte differenti? Al contrario, più risposte siamo in grado
di emettere, più siamo spontanei. Ovviamente, per essere total-
168
mente spontanei, sarebbe necessario essere privi di condiziona-
menti, ma, come abbiamo visto, ciò è impossibile.
Gli eventi della vita ci modificano costantemente; spesso quasi
passivamente, ci vediamo cambiare. Un evento drammatico nella
nostra vita, quale può essere la morte di una persona cara, ci può
rapidamente modificare. Ma se pensiamo che modificarci debba
essere un processo attivo, allora dobbiamo essere “noi” a modifi-
carci costantemente ed essere sempre disponibili ad apprendere.
Iniziamo a modificarci
— comportamento passivo;
— comportamento aggressivo;
169
— comportamento assertivo.
171
disagio e 10 il massimo disagio provato;
3) quale tipo di comportamento ho emesso;
4) quale tipo di comportamento avrei dovuto emettere.
1) un amico ci contraddice;
2) avvertiamo disagio (valutato 3);
3a) guardiamo il nostro amico con aria di “sufficienza”, incli-
nando il capo da un lato e atteggiando il viso a lieve sorriso;
3b) stiamo pensando: «Sta dicendo le solite stupidaggini»;
3c) diciamo all’amico in tono ironico: «Sarebbe bene che ti in-
formassi prima di parlare!»
1) un amico ci contraddice;
2) ci diciamo: “È un suo diritto esprimere la propria opinione”;
3) diciamo all’amico: “Capisco il tuo modo di pensare, ma, il
mio modo di pensare è diverso dal tuo”.
172
5) Ci isoliamo in una parte della sala.
1) siamo invitati...
2) giunti alla riunione…
3) ci immettiamo nel gruppo, pur avvertendo disagio;
4) prestiamo attenzione ai discorsi che si stanno facendo e os-
serviamo attentamente i visi delle persone del gruppo;
5) quando avvertiamo una riduzione del disagio, iniziamo a
conversare.
173
sociale è necessario non provare un elevato disagio. Iniziamo,
quindi, a osservare gli altri nelle situazioni che risultano per
noi meno ansiogene.
Vediamo alcuni esempi di comportamenti verbali e cerchia-
mo di individuarne lo stile:
174
Ora che siamo in grado di discriminare i comportamenti
nostri e altrui, dobbiamo valutare se riteniamo opportuno mo-
dificarci. Ricordiamoci che il processo deve essere lento, ma
continuo.
Per modificarci è sufficiente intervenire sui nostri compor-
tamenti verbali e non verbali?
Quando riteniamo che una persona ci abbia fatto un affron-
to o siamo provocati da un amico, pensiamo di essere in gra-
do di controllare i nostri comportamenti non verbali o verbali,
senza attivare risposte emozionali?
Vediamo il seguente schema:
175
bia fatto un affronto e quindi che si sia comportata in modo
poco corretto nei nostri confronti. Questo è un errore cogni-
tivo, che può sviluppare in noi un senso di frustrazione o rab-
bia nei confronti di quella “particolare” persona. Ma, provare
rabbia può esserci di qualche utilità? No, ci serve solo a star
male. Se stiamo male ricordiamoci che la colpa è nostra e quin-
di dobbiamo modificarci. Nella precedente sequenza individu-
iamo alcuni errori cognitivi che non permettono di emettere
un comportamento assertivo. Gli errori sono del tipo:
176
Analisi delle assunzioni
177
7) Ho creato delle false aspettative ad altri?
8) Mi è stato detto che ho dato delle errate informazioni o che
ho creato delle false aspettative?
9) Non sono stato in grado di rifiutare per paura di “offende-
re” l’altro?
10) Mi sono detto: “Mi sta dicendo queste cose, ma in realtà
pensa diversamente?”
11) Ho attribuito molta importanza a qualcuno o a qualche
cosa, e non avendolo potuto “ottenere” o avendolo “perso”,
sono stato male?
Situazione Assunzioni
1 3-9
2 1-2
3 2
4 3-1
5 5
6 6
7 4
8 4
9 7
10 8
11 3-9
179
6) Mi sono adirato con qualcuno ritenendo che, se si fosse mag-
giormente applicato, avrebbe conseguito migliori risultati?
7) Ho emesso un comportamento non adeguato alla situazio-
ne, a esempio un comportamento aggressivo, ma mi sono
autogiustificato attribuendo la colpa del mio comporta-
mento al comportamento altrui?
8) Mi sono posto delle domande pur sapendo di non essere in
grado di dare delle risposte adeguate?
9) Ho sminuito il “valore” di un altro per apparire il “migliore”?
10) Mi sono attribuito il diritto di giudicare ciò che fosse bene
o male per un altro?
11) Ho anticipato negativamente una mia prestazione futura?
12) Ritengo di dover essere sempre l’unica persona importante
per il mio partner?
13) Sono stato male quando una persona che reputavo “impor-
tante” nella mia vita mi ha lasciato?
14) Provo rancore nei confronti del mio ex partner sapendolo
soddisfatto del suo nuovo rapporto?
15) Ho detto a un altro: “Sei un egoista”, quando non si è com-
portato come io volevo?
16) Mi sono preoccupato esageratamente per un problema al-
trui, pur sapendo di non poter fare nulla per aiutarlo?
17) Mi sono adirato vedendo i “successi” (economici o senti-
mentali) di un mio amico?
18) Ho ritenuto o ritengo che i successi altrui spesso dipenda-
no dalla loro fortuna, o da un loro non “corretto” modo di
comportarsi?
19) Ho provato rancore nei confronti di un amico e mi sono
detto: “Non avrebbe dovuto comportarsi così con me?”
20) Non soddisfatto di un comportamento di un altro, gli ho
mai detto: “Io con te mi sono sempre comportato in modo
ben diverso?”
180
21) Ho mai detto o pensato: “io che mi sono sempre sacrificato
per te cosa ho avuto in cambio”?
Giudizio
10) “Solo noi abbiamo il diritto di giudicare il nostro comporta-
mento”.
11) “Tutti sono importanti, ma non troppo”.
12) “Non è nostro diritto giudicare gli altri”.
13) “Non dobbiamo dimostrare agli altri di valere”.
Volontà
14) “Non attribuirsi e non attribuire agli altri mancanza di vo-
lontà”.
15) “Non autogiustificare il nostro comportamento”.
Orgoglio
16)“Possiamo porci solo quelle domande a cui possiamo dare
delle risposte”.
17) “Non svalutare gli altri al fine di apparire i migliori”.
Errore
18) Non è nostro diritto dire: “So cosa è bene o male per te”.
19) “Non anticipare negativamente”.
181
Possesso
20)“Non abbiamo il diritto di possedere nessuno”.
21)“Possiamo contare solo su noi stessi”.
22)“Il possesso equivale a stare male”.
23)“Devi essere contento del bene altrui”.
Egoismo
24)“Non dobbiamo fare nostri i problemi altrui”.
Invidia
25) “Chi invidia non si modifica”.
26) “Chi pensa a se stesso non ha tempo di preoccuparsi per i
successi altrui”.
Sacrificio e piacere
27) Non dire: “Io ti ho dato”.
182
senza emozioni. Dobbiamo, invece, pensare che questo può esse-
re un punto di partenza per coinvolgersi maggiormente nella vita
e quindi ottenere più elevate gratificazioni.
Come possiamo trascorrere piacevolmente una serata con
gli amici, se abbiamo paura del loro giudizio o dobbiamo dimo-
strare agli altri di valere?
Come possiamo continuare a impegnarci per il raggiungi-
mento di un obiettivo, quando nel passato siamo stati male,
perché ci siamo creati delle elevate aspettative che non si sono
realizzate?
Alla prima domanda possiamo rispondere che, se vogliamo re-
almente trarre piacere da una serata trascorsa con amici, è neces-
sario per noi “smantellare” alcune nostre errate assunzioni, quali:
183
Conclusione
185
“Perché oltre a provare disagio devo essere io a dovermi mo-
dificare, e quindi sono sempre io a dover pagare tutti i costi”?
È inutile insistere nel porci tali domande, in quanto non
hanno per noi alcuna utilità.
186
e iniziare a sostituirlo con il “nuovo”.
Vediamo un esempio. Abbiamo individuato che tendiamo a di-
ventare aggressivi quando siamo aggrediti. La nostra sequenza
comportamentale che vogliamo modificare è la seguente:
187
In questo caso l’intervento che dobbiamo effettuare su noi
stessi è indirizzato al punto 4, e quindi: non dobbiamo inter-
pretare.
Vediamo come possiamo utilizzare il nostro dialogo interno
per modificare il nostro comportamento.
Quando, in una determinata situazione, avvertiamo l’attivar-
si di una risposta emozionale negativa, dobbiamo immediata-
mente intervenire ripetendoci quelle assunzioni che riteniamo
più idonee per gestire la nostra risposta emozionale. Solo una
ripetuta pratica ci permetterà di modificare le “vecchie” assun-
zioni e quindi, sostituirle con le nuove. Solo quando saremo
consapevoli che un nostro nuovo modo di pensare riduce il
nostro disagio, potremmo dire: “Ho accettato una nuova assun-
zione”. La nuova assunzione sarà “nostra” in quanto si deve a essa
la riduzione del nostro disagio.
Ricordiamoci che, se vi è disagio, non vi è possibilità di scelta.
Quindi una sequenza che possiamo porci è la seguente:
188
Ringraziamenti
189
Corsi on line
Vincere il panico
Nel 2010 è stato realizzato dal dottor Enrico Rolla il corso onli-
ne dal titolo “No Panico”, specifico per il trattamento degli at-
tacchi di panico.
Il corso era suddiviso in 9 Moduli, ognuno dei quali conte-
neva una dispensa, un filmato e una seduta di terapia online.
Nel 2017, il corso è stato riaggiornato. Pur mantenendo la
stessa struttura e la stessa suddivisione in 9 Moduli, sono stati
rinnovati tutti i filmati e la dispensa è stata arricchita con rac-
conti di casi, esercizi e immagini.
“Vincere il panico” è un programma di Terapia Cognitivo
Comportamentale che fornisce le strategie più efficaci per af-
frontare gli attacchi di panico e per imparare a gestirli.
Il dottor Rolla vi seguirà in questo percorso tramite spiega-
zioni ed esercizi e, in poche settimane, sarete in grado di con-
statare un miglioramento della qualità della vostra vita.
Potrete anche avere il supporto di una/uno psicoterapeuta
dell’Istituto Watson tramite sedute di terapia online, acquista-
bili sul sito dell’Istituto.
http//:enricorollaeducation.com/vincere-il-panico/
191
Libri
Vivere con serenità i nostri rapporti con gli altri significa com-
portarsi con l’equilibrio di chi non subisce e non aggredisce.
Piacersi non piacere aiuta a cercare e a realizzare questo equili-
brio su noi stessi con semplicità nella vita di tutti i giorni, analiz-
zando le piccole difficoltà dei rapporti quotidiani per risolverle
o ridimensionarle. Un libro gradevole e vivace, lontano da ogni
pedanteria. Un aiuto a crescere per i giovani, a emergere in
mezzo agli altri per i timidi, a imparare a sorridere per gli ag-
gressivi.
Piacersi non piacere è stato un libro fortunato, un long seller
che continua a vendersi tuttora, in Italia e all’estero, e questo è
uno dei motivi per cui, a trent’anni dalla sua 1° edizione, uscirà
a breve la versione in lingua inglese.
Ricomincia da te
1° Edizione – Anno 2003
Pag. 168
Sei ansioso, soffri di fobie, hai delle manie? Sai cos’è un attacco
di panico?
Questi sono i malesseri della nostra vita quotidiana. Ognuno
192
di noi li ha provati e, forse, qualcuno, ha già provato a vincere i
propri disagi ma la delusione della sconfitta lo ha sopraffatto…
Questo libro ha lo scopo di aiutarci a eliminarli con il metodo
giusto.
Molti test pratici, numerosi esempi e situazioni, frutto dell’e-
sperienza diretta dell’autore, ne fanno un manuale “pronto
all’uso” semplice e immediato. Con una lettura piacevole e
accessibile, impareremo quali sono gli strumenti e le tecniche
giuste per superare crisi di panico, agorafobia, ansie sociali, os-
sessioni e compulsioni.
Così potremo vivere meglio con noi stessi e, liberi da condi-
zionamenti, il nostro rapporto con gli altri cambierà!
193
Il problema non è mio è tuo
1° Edizione – Anno 2006
Pag. 259
194
pulsività; Tom, un bassotto arrogante e presuntuoso che non
ascolta mai nessuno; Poldo, uno spinone che subisce gli altri e
non si sente all’altezza delle situazioni; Gino, un mastino che
ha sempre paura di sbagliare e si crea mille problemi.
Non sembrano familiari queste caratteristiche? Sono la ri-
produzione dei nostri atteggiamenti abituali e Barry, oltre ad
aiutare i suoi quattro compagni di viaggio, aiuterà anche noi
a superare i tanti ostacoli creati dai nostri comportamenti pro-
blematici, insegnandoci a migliorare le relazioni con gli altri e
a liberarci dal nostro “guinzagli interiori”.
195
Attacchi di panico. Come uscirne.
La potenza della terapia cognitivo comportamentale
1° Edizione – Anno 2017
Pag. 242
196