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ENRICO ROLLA

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Testi: Enrico Rolla (www.iwatson.com; www.enricorollaeducation.com)
Copertina: Cristina Cecconato – acapoagency (TO) (progetto grafico e illustrazione)
Impaginazione: Cristina Cecconato - acapoagency (TO)

Redazione Istituto Watson Edizioni


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Prima edizione: 1987 Torino


© by SEI- Società Editrice internazionale
Seconda Edizione: 2016
©Istituto Watson Edizioni
C.so Vinzaglio 12/bis, Torino, 10121

Tutti i diritti sono riservati, in Italia e all’estero, per tutti i Paesi. Nessuna parte di questo
libro può essere riprodotta, memorizzata o trasmessa con qualsiasi mezzo e in qualsiasi
forma (fotomeccanica, fotocopia, elettronica, chimica, su disco o altro, compresi cinema,
radio, televisione) senza autorizzazione scritta da parte dell’Editore. In ogni caso di ripro-
duzione abusiva si procederà d’ufficio a norma di legge.
Indice

Prefazione 5
Stili di comportamento 9
Il comportamento assertivo
Le strategie manipolative
Le abilità sociali
La comunicazione assertiva 19
La comunicazione non verbale
La funzione espressiva della comunicazione non verbale
La comunicazione verbale
La gestione delle critiche
L’aspettativa 39
Crearsi delle aspettative
L’aspettativa nei rapporti di coppia
Creare false aspettative
L’amicizia
L’autovalutazione e il crearsi delle false aspettative
L’aspettativa nella vita quotidiana 55
Al semaforo
Il treno in ritardo
Siamo incolonnati nel traffico
L’aspettativa e l’interpretazione
L’aspettativa sul lavoro
Il lavoro e il creare false aspettative: come perdere credi-
bilità
Il giudizio 65
Il giudizio e gli amici
Il giudizio e i familiari
Il giudizio e l’autorità
Il giudizio e le situazioni commerciali
Il giudizio e il nostro partner
Il giudizio e la società
Il giudizio e la perfezione
La valutazione del giudizio
La volontà 89
La volontà e il lavoro
La volontà e il controllo del proprio comportamento
Il fratello colpevolizzante
L’orgoglio 99
Un modo errato di iniziare un rapporto
L’orgoglio e il lavoro
L’orgoglio e l’errore

3
L’errore 107
L’errore e i genitori
L’errore e il nostro partner
L’insegnante e l’errore
Il disagio e il farmaco
Il possesso 117
Il possesso e la gelosia
Il possesso e l’orgoglio
Essere posseduti
Il possesso e il passato
Il possesso e i nostri interessi
L’appropriazione indebita
L’egoismo 129

L’invidia 139
L’invidia e il lavoro
L’invidia e l’amica
L’invidia e la macchina
Il rancore 147
Il marito silenzioso
Il rancore e l’amico
Il saluto
L’interpretazione
Il sospetto
Il sacrificio e il piacere 157
Il dovere di dare
Curare il proprio aspetto
L’immagine
Il bisogno
La modificazione del comportamento 167
Iniziamo a modificarci
Individuiamo il nostro stile di comportamento
Individuiamo lo stile di comportamento altrui
L’analisi delle assunzioni 177
Apprendiamo dal nostro passato
Conclusione 185
Esercitiamoci nelle situazioni
Ringraziamenti 189

4
Prefazione

A tutti può succedere di emettere comportamenti non adegua-


ti alle varie situazioni sociali. In una determinata situazione
sociale possiamo subire o aggredire gli altri. Spesso ci doman-
diamo: “Mi sono comportato in modo corretto o avrei potuto
comportarmi diversamente?”. Non sempre è facile individuare
il comportamento che avremmo dovuto emettere in una deter-
minata situazione. Una carenza di abilità sociali e una difficoltà
nel gestire i rapporti interpersonali tendono a generare ansia
sociale. Molti di noi possono avere delle difficoltà nel gestire le
critiche o nel dichiarare al proprio interlocutore i propri senti-
menti e stati d’animo. Queste e altre situazioni possono creare
in noi un elevato stato di tensione e disagio che ci porta a evi-
tare alcune situazioni sociali. Apprendere a emettere adeguati
comportamenti è l’obiettivo che si pone il Training Assertivo.
Ma quali comportamenti possono essere considerati comporta-
menti adeguati?
Subire o aggredire gli altri non sono dei comportamenti
adeguati, perché tendono a generare in noi o negli altri un

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senso di frustrazione o disagio. È quindi necessario apprendere
un diverso comportamento che ci permetta di non subire o ag-
gredire gli altri. Definiremo “assertivo” questo comportamento
maggiormente equilibrato.
Possono essere esempi di comportamento assertivo: il fare
o rifiutare richieste, l’accettare il punto di vista altrui, iniziare
una conversazione o sostenere un punto di vista diverso dal
proprio interlocutore.
Il Training Assertivo è ampiamente usato in terapia cogniti-
vo comportamentale. Questa diffusione del training è dovuta al
fatto che più del 70% delle persone tendono ad avere problemi
di origine sociale e interpersonale.
Salter (1949) è considerato un precursore del Training As-
sertivo, ma si deve a Wolpe (1969) l’introduzione del Training
Assertivo nella Terapia cognitivo comportamentale.
La Terapia Comportamentale è l’insieme di sperimentazio-
ne e tecnologie elaborate sulla base dei risultati della ricerca
psicologica sperimentale sull’apprendimento.
Teoria e sperimentazione a partire da Pavlov fino ai risultati
più recenti di Skinner, Miller, Eysenck e Bandura, hanno indivi-
duato le leggi fondamentali attraverso le quali l’uomo impara,
acquisisce idee e comportamenti. In questo modo è stato possi-
bile proporre indicazioni operative per risalire agli antecedenti
dei comportamenti, sia per estinguerli, sia per modificarli, sia
per instaurare nuovi comportamenti più corretti.
Le caratteristiche della terapia del comportamento sono
l’accuratezza metodologica e il rigore scientifico nell’analisi
del trattamento e nel controllo dei risultati.
Il metodo sperimentale applicato al singolo caso, sia per
quanto riguarda l’indagine clinica sia per quanto riguarda la
terapia, ha permesso di indicare le percentuali di successo che
si ottengono nelle singole aree:

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——fobie monosintomatiche (a esempio paura di animali, pau-
ra dell’altezza) 95%;
——fobie (a esempio agorafobia, paura del male) 85%;
——ossessioni e depressioni 70%;
——ansie sociali 70%;
——obesità 20%;
——alcolismo 5-10%;
——droga irrilevanti.

La percentuale di successo, in tutti i casi trattati, si riferisce


a controlli effettuati a un anno e a tre anni dal termine del
trattamento.
La durata media del trattamento è stata di venti sedute.
Quando il cliente dichiara di voler apprendere a gestire al-
cune situazioni interpersonali che possono essere per lui fonte
di ansia, lo psicologo comportamentista si serve abitualmente
di due procedure:

1)Ripetizione del comportamento;


2)Simulazione.

Nella ripetizione del comportamento lo psicologo imita i


comportamenti delle persone che creano ansia al cliente, men-
tre il cliente rappresenta se stesso. Lo psicologo, individuati
quali sono i comportamenti non verbali e verbali che il clien-
te deve modificare, passa alla fase successiva: la simulazione.
Durante la simulazione il terapeuta assume il ruolo del cliente
e gli dimostra come deve comportarsi nelle varie situazioni; a
esempio, dimostrerà al cliente come affrontare le critiche, fare
richieste o esprimere la propria opinione senza avvertire ansia.
Ovviamente, queste abilità apprese in studio dovranno essere
impiegate nella vita quotidiana.

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Spesso, nella pratica, si può osservare come sia difficile ottene-
re un trasferimento di abilità dallo “studio” alla vita reale. Si può
essere convinti che nei rapporti interpersonali non sia corretto ag-
gredire o subire l’altro. Possiamo aver appreso a padroneggiare al-
cune abilità verbali, ma quando ci troviamo in una situazione che è
per noi aversiva, tendiamo a emettere il nostro abituale ed “errato”
comportamento. Una persona critica il nostro operato, noi riuscia-
mo per un po’ a controllarci, ma poi ci difendiamo aggredendo il
nostro interlocutore.
Siamo a una riunione: una persona sta facendo affermazioni che
non condividiamo; per un po’ rimaniamo calmi ad ascoltare, ma
poi iniziamo a provare tensione e rabbia.
Se proviamo rancore per una determinata persona, come pos-
siamo in sua presenza, emettere un comportamento assertivo?
Se invidiamo un nostro amico per i suoi successi, riusciamo, in
sua presenza, a rimanere tranquilli e rilassati?
Provare rancore o invidia per qualcuno può derivare da un no-
stro errato modo di pensare, o dal possesso di rigide “assunzioni”
che non ci permettono di modificare il nostro comportamento e,
quindi, di emettere un comportamento assertivo.
Nel libro si considerano due repertori di comportamenti che tra
loro interagiscono costantemente:

1) i comportamenti non verbali e verbali, cioè le abilità che sono


richieste per facilitare la comunicazione interpersonale;
2) il comportamento cognitivo, cioè il “bagaglio” dei nostri pen-
sieri o assunzioni che possono incidere in modo rilevante sui
nostri rapporti interpersonali.

Un nostro “fallimento” nei rapporti interpersonali può attivare


dei pensieri disturbanti e negativi, e pensieri disturbanti possono
“rovinare” una nostra futura prestazione.

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Stili di comportamento

Il comportamento assertivo

Un amico ci fa una richiesta, vorremmo rifiutare, ma diciamo


ugualmente di “sì”.
Ci fanno un complimento, proviamo disagio e non siamo in
grado di rispondere.
Al ristorante ci portano del vino cattivo e noi non lo riman-
diamo indietro.
Un conoscente fa un’affermazione che non condividiamo,
vorremmo dire il nostro punto di vista, ma tacciamo.
Un superiore critica il nostro operato, vorremmo avere mag-
giori chiarimenti, ma tacciamo.
Subire gli altri, non essere in grado di dire la propria opi-
nione, avere difficoltà nel prendere decisioni, pensare che gli
altri siano migliori di noi, avere paura del giudizio degli altri
e richiedere la loro approvazione, non essere in grado di dire
“no” a una richiesta; tutto ciò sta a indicare uno stile di com-
portamento “passivo”. Spesso può succedere che la persona

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passiva emetta dei comportamenti “aggressivi”, per sentirsi, su-
bito dopo, colpevole e quindi ritornare al suo comportamento
abituale, quello passivo. Subire gli altri crea un elevato senso di
frustrazione: la persona si sente impotente e tende a isolarsi.
Usiamo spesso frasi del tipo: “È possibile che tu non sia mai
in grado di fare nulla di buono”; “Io mi aspettavo ben altro da
te”; “Se tu mi fossi realmente amico ti comporteresti in un altro
modo”; “Tu sai quanto ti voglia bene e ciò che sto dicendo è solo
per il tuo bene”; “Nel dire queste cose so di essere nel giusto”; “Le
cose non vanno bene sul lavoro e ciò è dovuto al fatto che ho dei
collaboratori inetti”. Fare violenza ai diritti altrui, essere convinti
di non sbagliare, attribuire i propri errori agli altri, iper-valutar-
si, non accettare il punto di vista altrui, non cambiare la propria
opinione anche di fronte all’evidenza dei fatti, colpevolizzare e
inferiorizzare gli altri, arrogarsi il diritto di giudicare; questi sono
i comportamenti tipici della persona “aggressiva”.
La persona “assertiva” si colloca tra l’aggressivo e il passivo.
È colui che non fa violenza sugli altri, ma non permette che
gli altri siano aggressivi nei suoi confronti, non li subisce. L’as-
sertivo accetta il punto di vista altrui, è pronto a modificare
la propria opinione, non pretende che gli altri si comportino
come fa piacere a lui, rispetta gli altri e non è possessivo nei
loro confronti, non giudica.
È un comportamento assertivo usare “l’io”, è aggressivo usare
il “tu”. Possiamo dire “Non mi piace. Non ho voglia. Non mi
trovo a mio agio”; stiamo comunicando delle sensazioni che pro-
viamo noi, e questo è corretto. È aggressivo dire: “Tu mi fai stare
male. Tu non mi capisci”; stiamo attribuendo agli altri il nostro
disagio, quando invece il disagio è “nostro”.
Vi chiederete se esiste realmente una persona “assertiva”.
Penso che vi sarà capitato di trovarvi con qualche persona con
cui potevate parlare liberamente senza avere paura di venir cri-

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ticati o aggrediti. Se avete incontrato questo tipo di persone
allora sapete che, anche se in minima percentuale, il tipo di
persona assertiva esiste.
La distinzione tra i vari tipi di comportamento (passivo, ag-
gressivo, assertivo) è, in se stessa, di natura prevalentemente
teorica. Spesso noi slittiamo tra un comportamento e l’altro.
In una determinata situazione possiamo essere assertivi e in
un’altra aggressivi. Un individuo può essere assertivo sul lavo-
ro, avendo appreso che l’essere aggressivo presenta più spesso
la conseguenza di essergli svantaggioso. Ma, se osserviamo la
stessa persona quando arriva a casa, possiamo vedere che è ag-
gressiva con la moglie e con i figli. Un altro individuo sul lavoro
subisce, ma quando arriva a casa diventa aggressivo. Il nostro
comportamento tende infatti a essere situazionale.

Le strategie manipolative

Si possono individuare prevalentemente tre tipi di comporta-


menti manipolativi. Probabilmente tutti noi ne abbiamo subiti
alcuni o li usiamo. Essi sono:

1) Il comportamento colpevolizzante,
2) Il comportamento inferiorizzante,
3) Il comportamento imprevedibile.

La figlia ormai adulta è uscita con gli amici dopo cena e ar-
riva a casa a un’ora che la madre non approva. Quando la figlia
rincasa la madre dice: “Se non arrivi a casa all’ora stabilita io
non riesco a dormire e sto male”.
Il padre vorrebbe che il figlio sposato andasse a trovarlo più
spesso e quando il figlio telefona il padre gli dice: “Ti rendi

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conto che è da una settimana che non mi telefoni, posso anche
stare male ma nessuno si cura di me”.
Un amico ci chiede un favore, noi rifiutiamo e lui ci dice:
“Non mi aspettavo certo un rifiuto da parte tua, su di me hai
sempre potuto contare, non è certo un comportamento da
amico il tuo”.
Questi sono solo pochi esempi tratti dalle molte possibili fra-
si colpevolizzanti che di frequente usiamo.

Chi usa tale comportamento spera di ottenere:

1. Una eventuale riduzione del proprio disagio. Questo può essere


il caso della madre preoccupata per il ritardo della figlia.
Vediamo infatti il seguente schema:

a) quando la figlia è fuori casa la madre si preoccupa e prova


un intenso disagio;
b) attribuisce il proprio disagio al comportamento della figlia;
c) colpevolizza la figlia dicendole: “mi fai stare male”;
d) la figlia quando è fuori casa avverte disagio pensando alla
madre che la sta aspettando. Guarda frequentemente l’ora
e il disagio aumenta;
e) pone fine al proprio disagio arrivando a casa in tempo;
f) quando si comporta in questo modo è considerata una
“brava” figlia.

2. Ottenere dagli altri ciò che vogliamo. È il caso in cui si cerca


di prevenire il rifiuto di un amico nel farci un favore. In
questa situazione chi usa la colpevolizzazione non neces-
sariamente sta provando disagio. La usa perché prevede di
ottenere ciò che vuole. L’amico, sentendosi colpevole, cede
alle richieste.

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Chi è colpevolizzato può comportarsi nei seguenti modi:

1) provare un elevato disagio e, per ridurlo, subire. Seguirà un


senso di frustrazione e di impotenza, legati a una valutazio-
ne negativa di se stessi;
2) provare disagio, ma saper gestire la manipolazione. Se suc-
cessivamente ci si sente colpevoli, è probabile che nel futu-
ro si recuperi un comportamento passivo;
3) provare disagio e diventare aggressivi con chi colpevolizza.
In tal modo si interrompe il rapporto;
4) non accettare la manipolazione e rimanere sulle proprie
posizioni senza aggredire o sentirsi colpevoli (comporta-
mento assertivo).

Il genitore al figlio che ha delle difficoltà a scuola dice: “È


possibile che tu non riesca in cose così semplici, non vedi che
tutti gli altri ci riescono?”. Il marito dice alla moglie: “Questa
sera dobbiamo andare a trovare dei conoscenti, cerca di non
fare affermazioni stupide, piuttosto sta’ zitta”.
Il figlio lavora con il padre e spesso si sente dire: “Tu non
devi prendere delle decisioni, quando lo fai sbagli sempre”.
Chi inferiorizza può ottenere:

1) una dipendenza: la persona inferiorizzata tende a dipende-


re da altri nel prendere decisioni.

Chi è inferiorizzato tende a sviluppare:

1) una valutazione negativa di se stesso;


2) la paura di sbagliare e, quindi, il bisogno dell’approvazione
altrui;
3) la paura del giudizio altrui.

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Quando i genitori nell’educare il figlio lo inferiorizzano di fre-
quente, creeranno un uomo che sarà sempre insicuro e indeciso.
Questo può essere il caso del signor Luigi, di 50 anni. Mi dice che
non è più in grado di continuare l’attività commerciale che svolge
da circa trent’anni. Mi stupisco di questa sua affermazione. Ma Luigi
aggiunge che l’attività è sempre stata gestita dal padre. Il padre non
ha mai permesso al figlio di decidere, asserendo che il figlio non era
in grado, e che ogni sua decisione era sbagliata. Il padre, all’età di
ottant’anni, si è ritirato dall’attività e si è trasferito al mare. Ora Luigi
nel prendere delle decisioni deve telefonare al padre, pur sapendo
che il padre non è più in grado di dargli dei consigli validi; infatti
ultimamente gli ha fatto prendere decisioni errate. Luigi, pur sapen-
do ciò che deve fare, ha sempre paura di sbagliare; nel prendere
una decisione ci pensa su per molto tempo; prima e dopo averla
presa non è mai convinto della correttezza della decisione.
Spesso chi colpevolizza o inferiorizza auto-giustifica il proprio
comportamento dicendo che lo fa solo per il bene dell’altro; ciò
può anche essere vero, ma in ogni caso è tanto “spiacevole” essere
colpevolizzati o inferiorizzati.
Un’altra fonte di disagio costante si verifica quando le persone
con cui siamo a contatto emettono un comportamento non costan-
te. Questo comportamento può non figurare propriamente come
strategia manipolativa, ma in ogni caso chi lo subisce tende a prova-
re un elevato disagio.
Il padre arriva a casa dal lavoro e si mette a giocare con il figlio di
pochi anni. Il bambino ha appreso, appena vede il padre che rientra
a casa, a corrergli incontro per giocare, il padre lo prende in braccio
e sorride. Oggi il padre ha avuto dei problemi sul lavoro e, appena
arriva a casa e il bambino gli corre incontro, lo allontana. Lo stesso
comportamento del figlio, una volta viene premiato e una volta pu-
nito. Il bambino non sa più come comportarsi, se correre incontro
a suo padre o se rimanere distante, dovrà stare attento ai compor-

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tamenti non verbali del padre, controllare se è allegro, e sorridente
e solo allora valutare se avvicinarsi o no al padre. Questa costante
attenzione genera un permanente stato d’ansia.
Vado a casa di amici, dove sono stato invitato per la cena.
Prima della cena sto parlando con il mio amico e sua moglie,
mentre il loro figlio di sei anni sta disegnando. Dopo circa 15
minuti il bambino porta alla madre il disegno, la madre lo os-
serva e dice al figlio che è stato bravo e lo invita a farne un
altro. La madre va in cucina a terminare di preparare la cena
e, mentre sta cucinando, il bambino le porta a vedere il nuovo
disegno che ha appena fatto. La madre, che non vuole essere
disturbata, dice al figlio: “Non vedi che ho da fare, va via!” Il
bambino ritorna in sala con il suo disegno e ne fa una palla che
scaglia addosso al padre. Il padre dà uno schiaffo al figlio e lo
manda in camera sua.
Dalla camera del figlio arrivano forti rumori: il bambino sta
prendendo a calci i suoi giocattoli. Il padre mi dice: “Guarda
che figlio ho. Basta un nonnulla perché si arrabbi”.
Schematizziamo la sequenza:

1) il bambino porta a vedere il disegno alla madre che sta par-


lando con noi;
2) la madre gratifica il figlio e lo invita a fare un altro disegno;
3) il bambino torna dalla madre con il nuovo disegno;
4) la madre che sta cucinando allontana il figlio (punizione);
5) il bambino è stato premiato e punito per lo stesso compor-
tamento;
6) il bambino si sente frustrato;
7) il bambino scaglia il disegno contro il padre e viene pic-
chiato;
8) il bambino va il camera sua e prende a calci i suoi giochi
(aggressività dislocata).

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Quando lo stesso comportamento che emettiamo una volta
viene premiato e un’altra volta punito, non si è più in grado di
decidere quale comportamento emettere. Questa indecisione
crea un profondo disagio a cui può far seguito un comporta-
mento aggressivo o un comportamento passivo.
Abbiamo visto come il bambino sia giunto a emettere un
comportamento di aggressività dislocata che è abbastanza fre-
quente: sul lavoro siamo stati criticati da un superiore e, appe-
na giunti a casa, ci adiriamo con la moglie o con i figli.

Le abilità sociali

Saper gestire una conversazione, guardare in viso il proprio in-


terlocutore mentre stiamo parlando, dichiarare la nostra simpatia
per qualcuno, prendere la parola al momento giusto in un incon-
tro tra diverse persone, parlare in pubblico; queste sono alcune
delle abilità sociali che ci permettono, se le possediamo, di vivere
meglio le situazioni di interazione sociale che quotidianamente
dobbiamo affrontare. Nell’affrontare una situazione noi emettia-
mo dei comportamenti; ogni comportamento da noi emesso può
essere suddiviso in tre sistemi:

1) il sistema motorio. Quando osserviamo una persona, pos-


siamo vedere se, in una determinata situazione, alza il tono
della voce, aggredisce o si isola;
2) il sistema fisiologico-emozionale. Ognuno di noi, in una
determinata situazione aversiva, attiva le proprie risposte
emozionali. Vi è chi avverte tachicardia, chi sudorazione o
crampi allo stomaco;
3) il sistema cognitivo. È il nostro bagaglio di assunzioni e di
credenze.

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Stiamo per andare a un appuntamento di lavoro, che è per
noi importante. Possiamo emettere due tipi di sequenze di ri-
sposte.

I sequenza:
a) livello cognitivo. Ci diciamo: devo fare una bella figura; è per
me importante avere quel posto; chissà come sarà la persona
con cui devo parlare, speriamo che non sia aggressiva;
b) livello emozionale. Iniziamo ad avvertire sudorazione, an-
cor prima di incontrare il nostro interlocutore. Proviamo
disagio;
c) livello motorio. Alla presenza dell’interlocutore siamo im-
pacciati e non rispondiamo in modo adeguato.

II sequenza:
a) livello cognitivo. Ci diciamo: vado a fargli le mie proposte e
sentirò che cosa ha da dirmi;
b) livello emozionale. Non si attivano risposte fisiologiche;
c) livello motorio. Facciamo le nostre proposte e ascoltiamo
che cosa ci dice il nostro interlocutore. Valutiamo se le ri-
sposte sono quelle che ci aspettavamo.

Spesso l’anticipazione negativa degli eventi attiva in noi risposte


emozionali negative che influiscono sulla nostra prestazione.
Il comportamento sociale di una persona è il risultato di un ap-
prendimento. Può venire appreso per imitazione del compor-
tamento sociale dei genitori, dei coetanei o degli adulti signi-
ficativi. Il bambino può venir “modellato” dall’ambiente in cui
vive e i modelli di comportamento sociale appresi tenderanno
a essere emessi in altre situazioni sociali. Il figlio di un genito-
re aggressivo potrà divenire un individuo passivo o aggressivo,
molto difficilmente un assertivo.

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Abbiamo precedentemente visto come alcune strategie mani-
polative tendano a inibire chi le subisce. Un bambino che è sta-
to sistematicamente inferiorizzato dal padre facilmente orien-
terà il proprio comportamento in senso passivo. Un bambino
che osserva il padre che, emettendo comportamenti aggressivi,
raggiunge determinati obiettivi quali il successo sociale o il “ri-
spetto” dei suoi dipendenti, potrà emettere un comportamen-
to simile.
Più riusciamo a padroneggiare il nostro comportamento, e
quindi a gestire le situazioni in cui veniamo a trovarci senza
provare disagio, meglio possiamo vivere. Dovremmo essere in
grado di non provare disagio quando:

— siamo da soli o in compagnia;


— subiamo critiche o riceviamo complimenti;
— siamo ignorati in un gruppo o ci troviamo al centro dell’at-
tenzione;
— siamo in un ambiente lussuoso o in uno modesto;
— siamo in compagnia di persone “semplici” o di persone “im-
portanti”;
— siamo in compagnia di persone aggressive o passive.

Vi possono essere molte altre situazioni in cui possiamo avverti-


re disagio. Ma lo possiamo superare solo affrontandolo: per affron-
tare il disagio è necessario padroneggiare determinati comporta-
menti. Vedremo nel capitolo successivo le abilità che è necessario
acquisire per raggiungere questo obiettivo. È ovvio che si tenda a
evitare la situazione che ci crea disagio. Ma l’evitamento è un cir-
colo vizioso da cui diventa difficile uscire.

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La comunicazione assertiva

La comunicazione non verbale

Vi sarà successo di parlare con una persona che non vi guarda


negli occhi. Il suo sguardo vaga in diverse direzioni, e voi non riu-
scite a “catturarla”. Il parlare con una persona che non vi guarda
negli occhi vi crea disagio, diventa difficile capire se ciò che state
dicendo interessa al vostro interlocutore. L’abilità a stabilire un
“contatto oculare” con il nostro interlocutore è un’importante
componente del comportamento sociale non verbale.
Le persone tendenzialmente passive presentano una certa
difficoltà nel mantenere il contatto oculare. In loro il “venir
guardati” tende a essere interpretato come un “sono valutato”.
Il pensare di essere valutati crea disagio e per allentare la ten-
sione si interrompe l’interazione non verbale, che in questo
caso è costituita dal contatto oculare. Altre persone evitano di
mantenere contatti oculari prolungati per il timore di essere
giudicati “invadenti”.

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Normalmente, mentre si ascolta, si usa lo sguardo con una
frequenza quasi doppia rispetto a quando si parla.
La persona che è in grado di mantenere un buon contatto
oculare tende ad apparire come una persona aperta e sicura
di ciò che sta dicendo. Attraverso il contatto oculare “si dice”
a una persona che troviamo attraente: “Mi piaci”. Non è as-
solutamente necessario ricorrere alle parole per dimostrare il
proprio interesse per una persona.
Abbiamo visto come può essere importante nella comunica-
zione interpersonale il “contatto oculare”; gli altri comporta-
menti non verbali del comportamento sociale sono:

— espressione del volto;


— gestualità;
— atteggiamento corporeo;
— gestione dello spazio interpersonale;
— tono e volume della voce;
— contatto fisico;
— sincronizzazione.

Espressione del volto

Le espressioni del volto ci forniscono delle informazioni piuttosto


precise su ciò che stiamo pensando o affermando; attraverso la mi-
mica si manifestano le emozioni che un individuo sta provando.
Un buon attore è in grado di fare proprio questo; era sufficiente
che Eduardo De Filippo guardasse il pubblico e atteggiasse il viso in
un certo modo per comunicare immediatamente lo stato d’animo
e le emozioni del personaggio che interpretava.
Gli individui con scarse abilità sociali presentano ridotte espres-
sioni mimiche. Gli individui passivi o aggressivi spesso denotano

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un’espressione statica. Al nostro comportamento verbale deve cor-
rispondere una mimica adeguata.
Tempo fa addestravo un mio cliente a fare dei complimenti: non
aveva mai fatto un complimento alla moglie. Gli consiglio, quando
lo riterrà opportuno, di farne uno. Dopo alcuni giorni lo rivedo e
mi dice: “Fare i complimenti non funziona”. Gli chiedo il perché
di questa affermazione e mi risponde: “Vedo mia moglie che aveva
indossato un vestito con cui stava bene e le dico: ‘Hai proprio un
bel vestito’ e mia moglie mi risponde: ‘piuttosto di farmi un compli-
mento con quel viso è meglio che tu non dica nulla’.”
Ovviamente non vi era molta correlazione tra il complimento e
l’atteggiamento del viso.
L’espressione del volto sottolinea ed enfatizza i nostri pensieri,
sentimenti e sensazioni. Le persone molto autocontrollate man-
tengono un viso “impassibile”, non comunicando mai le loro emo-
zioni.
Di fronte a queste persone si avverte un senso di disagio e ten-
diamo a non fidarci di loro. Questa forma di autocontrollo tende
a essere un evitamento ad aprirsi con gli altri, quindi riduce la co-
municazione.
Una persona con buone abilità sociali è in grado di discriminare
sottili stati emotivi dal viso del proprio interlocutore. I soggetti as-
sertivi devono addestrarsi a osservare i propri interlocutori e prova-
re a decodificare le emozioni espresse dal viso altrui. Gli aggressivi
perché non prestano attenzione agli altri, i passivi perché provano
disagio durante i rapporti interpersonali, evitando di osservare.

Gestualità

Per gestualità intendiamo i movimenti delle mani o di altre par-


ti del corpo.

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Parlando usiamo le mani per sottolineare ciò che stiamo di-
cendo e per meglio chiarire il contenuto del discorso. I gesti
delle mani possono assolvere a due funzioni:

1) descrittiva. Con i gesti si forniscono informazioni sulle azioni,


forme, dimensioni, etc.;
2) enfatica. Chi parla sottolinea e accentua parti del suo discorso.

In situazioni di elevata tensione, la gestualità non è più funzionale


alla comunicazione. Quando un individuo prova disagio può iniziare
a stringere le mani una con l’altra o a giocherellare con gli anelli.
Tale gestualità indica solo la presenza di un’elevata ansia sociale.
I gesti che effettuiamo con il capo hanno un ruolo importante
nella comunicazione. Attraverso i gesti del capo possiamo incorag-
giare chi sta parlando o esprimere approvazione e assenso.

Atteggiamento corporeo

Quando ci sentiamo a nostro agio in una situazione sociale mantenia-


mo tutto il corpo rilassato. Se siamo seduti ci appoggiamo allo schie-
nale, poniamo gli arti in una posizione asimmetrica, le mani e il collo
sono rilassati e il viso è disteso. Al contrario, una postura simmetrica,
rigida sta a indicare uno stato di tensione corporea.
Con l’atteggiamento corporeo possiamo manifestare un compor-
tamento di superiorità o di inferiorità.
Provate a immaginarvi una persona che vuole dimostrare la pro-
pria superiorità. Non è necessario che inizi a parlare: se è seduta si ap-
poggia allo schienale, reclina il capo indietro sollevando il mento, lo
sguardo è fisso e sulle labbra non appare un’ombra di sorriso. Queste
sono tutte strategie di comportamento manipolativo non verbale che
hanno lo scopo di creare disagio nel proprio interlocutore.

22
Gestione dello spazio interpersonale

Vi sarà capitato di trovarvi a parlare con qualcuno che vi parla “ad-


dosso”. Voi siete in piedi di fronte a lui e, quando iniziate a par-
lare, lui vi si avvicina, voi fate un passo indietro e lui continua ad
avvicinarsi. Avvertite disagio e l’unico comportamento che potete
emettere è quello di allontanarvi dal vostro interlocutore, fino a
trovarvi con le spalle al muro. Bene, la persona con cui state par-
lando o è un arabo o è un italiano aggressivo. Nella nostra cultura,
durante la conversazione la distanza ottimale è di circa un metro;
ci avviciniamo a circa 30 cm quando dobbiamo dire qualche cosa
“in confidenza”. In altri paesi, come in Arabia, la distanza durante
la conversazione è molto più ravvicinata.
Le persone passive tendono a mantenersi a una distanza supe-
riore al metro, mentre gli aggressivi tendono ad avvicinarsi.

Tono e volume della voce

Attraverso il tono e il volume della voce possiamo comunicare il


nostro stato d’animo e le nostre emozioni o enfatizzare alcune
parti del discorso. Una persona aggressiva potrà alzare il tono del-
la voce o usare un tono “duro”, se sta criticando qualcuno. Un
soggetto ansioso potrà parlare più velocemente del normale. Una
persona passiva userà un tono di voce basso che non è adeguato a
ciò che sta dicendo, ma esprime il proprio stato d’animo.

Contatto fisico

Il contatto fisico mira generalmente a stabilire un senso di inti-


mità e solidarietà. Lo stringere la mano a un amico o il baciarlo,

23
il prenderlo sotto braccio, mentre si sta passeggiando, tutto ciò
può facilitare la comunicazione o creare disagio al nostro inter-
locutore se è una persona che presenta ansie sociali.
Vi sono inoltre dei contatti fisici non funzionali alla comuni-
cazione, a esempio, mentre parlate con un amico, questi inizia
a toccarvi la cravatta o a “spulciarvi” la giacca.

Sincronizzazione

State parlando con un amico e questo vi interrompe spesso, non


lasciandovi terminare il vostro discorso. Siete a una riunione con
un gruppo di amici, ma non trovate mai il momento o il tempo
giusto per prendere la parola. Questi sono esempi di “timing” er-
rato. Affinché si abbia comunicazione è necessario che vi sia sin-
cronizzazione tra i comportamenti verbali di due o più individui. Il
“timing” è regolato da segnali non verbali che ci avvisano quando
il nostro intervento deve terminare o quando vi è una richiesta di
intervento da parte del nostro interlocutore.
Perché vi sia comunicazione, è importante che si presti costante
attenzione al feedback. La persona passiva trova sempre difficoltà
nell’inserirsi in una conversazione. Quella aggressiva non lascia
“spazio” agli interventi altrui. Per una buona comunicazione è
necessario osservare il volto dell’interlocutore per vedere se com-
prende ciò che stiamo dicendo o se è interessato al nostro discorso.
Questa costante attenzione alle informazioni di ritorno che emette
il nostro interlocutore ci permette di modificare corrispondente-
mente la forma o il contenuto del discorso.

24
La funzione espressiva della comunicazione non
verbale

Alcuni psicologi sociali hanno riscontrato che nel comunicare atteg-


giamenti di superiorità, ostilità o amicizia, l’effetto della comunica-
zione non verbale è superiore di circa quattro volte all’effetto che si
ottiene con il comportamento verbale. Quindi la principale funzione
del comportamento non verbale è quella di esprimere gli stati d’a-
nimo e le emozioni legate all’interazione sociale. Ovviamente, nella
comunicazione, per ottenere una valida interazione è necessario che
il comportamento non verbale sia congruente al comportamento
verbale. Una persona può dichiararci la sua amicizia e, quando la
incontriamo, non ci dimostra il piacere di vederci, non ci sorride e
si mantiene distante da noi evitando ogni forma di contatto fisico.
Oltre ai comportamenti non verbali che abbiamo visto, nel comu-
nicare la nostra immagine possono avere un ruolo importante l’abbi-
gliamento, la pettinatura, il nostro modo di camminare o muoverci,
di sederci, etc.
Le persone in possesso di abilità non verbali sono più pronte di al-
tri nel “discriminare” le informazioni retroattive per utilizzarle nella
situazione interpersonale. Nella percezione delle informazioni non
verbali si possono individuare due principali abilità:

1) decodificare le intenzioni, le emozioni, lo stato d’animo e gli at-


teggiamenti interpersonali;
2) comprendere lo stato sociale e il ruolo del nostro interlocutore.

Come possiamo incrementare le nostre abilità non verbali?

In quasi tutte le persone è presente la “paura dell’estraneo”. Ad


alimentare il disagio che proviamo nei rapporti interpersonali

25
vi può essere la paura del giudizio o l’ansia di voler fare una
“bella figura”. In ogni caso ciò che è importante è ridurre il
nostro disagio, senza ricorrere all’evitamento.
Vediamo i passi che possiamo seguire:

1) apprendere a discriminare gli stili di comportamento. Per


fare ciò iniziamo da situazioni non troppo coinvolgenti a livello
emozionale (in tali situazioni è quasi impossibile discriminare).
Osserviamo attentamente il comportamento non verbale di alcu-
ne persone. Discriminiamo se sono aggressive, passive o assertive.
Individuiamo il loro stile di interazione, osserviamo come guarda-
no gli altri, la loro mimica, etc. individuiamo il loro ruolo e stato
sociale. Spesso può essere utile servirsi della televisione; ad esem-
pio, osservando un “talk show” possiamo individuare dei compor-
tamenti sociali che è preferibile non emettere;
2) individuare le aree del comportamento non verbale in cui
siamo deficitari e iniziare ad addestrarci. Se siamo carenti nel con-
tatto oculare cerchiamo di mantenerlo con quelle persone che ci
creano meno disagio. Successivamente potremo provare a mante-
nerlo con quelle persone che ci disturbano, a esempio gli aggres-
sivi. All’inizio proveremo un disagio che con l’esercizio si ridurrà.
Questo tipo di training dovrà essere intrapreso in modo graduale;
si passa alla situazione successiva solo quando si controlla bene
quella precedente.

Nel nostro training dovrà esserci sempre una costante intera-


zione tra apprendimento discriminativo e incremento di abilità.
Un utile esercizio può essere l’uso dello specchio o, meglio an-
cora, riprendersi con un videoregistratore. Proviamo ad assumere
un’aria arrogante e controlliamo se realmente stiamo comunican-
do questo atteggiamento.
Un mio cliente aveva alcuni problemi con le persone arroganti

26
che, per lavoro, doveva incontrare di frequente. In loro presenza
provava un elevato disagio che non gli permetteva di esprimersi.
Si era addestrato a ben discriminare i comportamenti non verbali
di queste persone, comportamenti che poi riprovava su se stesso.
Lo rivedo dopo alcune settimane e mi dice: “Sono andato a trova-
re una di quelle persone che mi creavano disagio; appena la vedo
dietro alla sua scrivania, questa inizia a emettere tutto il suo “ritua-
le” non verbale. Questa volta mi viene da sorridere: avevo ripro-
vato su di me la stessa sequenza, cioè appoggiarsi allo schienale,
socchiudere gli occhi e reclinare il capo indietro e con voce priva
di tono dire: ‘Cosa ha da propormi questa volta?’”. Quando siamo
in grado di discriminare tutta una sequenza, stiamo già muoven-
do i primi passi verso il controllo del nostro disagio.

La comunicazione verbale

Possedere buone abilità sociali implica una comunicazione ver-


bale di tipo assertivo. Ricordiamo che la persona assertiva non
emette comportamenti aggressivi, ma non subisce gli altri. Il
soggetto assertivo, oltre che emettere comportamenti non ver-
bali adeguati alle varie situazioni, è in grado di:

1) esprimere apertamente la propria opinione;


2) accettare e fare complimenti;
3) fare e rifiutare richieste;
4) gestire le critiche manipolative senza avvertire disagio o
sentirsi in colpa;
5) ascoltare attentamente quando il proprio interlocutore sta
parlando;
6) richiedere critiche costruttive;
7) accettare il punto di vista altrui.

27
Queste abilità possono essere acquisite mediante precisi com-
portamenti verbali di interazione. Le principali tecniche che
tradizionalmente fanno parte del comportamento verbale as-
sertivo sono:

1) tecniche assertive nella conversazione;


2) “espressione positiva”;
3) fare e rifiutare richieste;
4) tecnica del “disco rotto”;
5) “annebbiamento”;
6) “asserzione negativa”;
7) “inchiesta negativa”.

Tecniche assertive nella comunicazione

Osserviamo un dialogo tra due amici:

- Anche quest’anno sei andato in vacanza al mare?


- Sì, come l’altr’anno.
- Hai fatto molta vela?
- Sì.

Come potete vedere, chi risponde dà poche informazioni; in tal


modo diventa difficile gestire una conversazione. Spesso si inizia una
conversazione ponendo delle “domande chiuse”, la risposta alle quali
può essere solo un “sì” o un “no”. Alla domanda: “Anche quest’anno
sei andato in vacanza al mare?” la risposta può essere sì o no. Insiste-
re, ponendo solo domande chiuse, limita la conversazione e tende
a porre fine alla comunicazione. Tali tipi di domande possono solo
essere utili all’inizio della conversazione; è necessario far seguire a
queste delle “domande aperte”. Le domande aperte iniziano con

28
“Perché...?”, “Come...?”, “Cosa...?”. Il solo porre domande non è suffi-
ciente per stabilire un dialogo, sarebbe un’intervista.
Un’ulteriore abilità è quella di dare o ricevere “libere informazio-
ni”; quelle informazioni non richieste nella domanda. La persona as-
sertiva riconosce immediatamente dai semplici indizi forniti dal suo
interlocutore ciò che è importante o interessante per lui e vi presta
immediata attenzione. Attenzione che può anche essere espressa solo
in modo non verbale, guardando in viso il proprio interlocutore e
facendo dei cenni d’assenso con il capo.
Le persone con scarse abilità sociali hanno difficoltà nel cogliere
le libere informazioni. Le persone passive raramente danno libere
informazioni, ritenendo che ciò che possono dire non interessi il loro
interlocutore. In ogni caso, anche quando riconosciamo una libera
informazione ma non vogliamo iniziare una discussione su quel par-
ticolare argomento, la lasciamo cadere.
Oltre a dare libere informazioni, noi possiamo comunicare al no-
stro interlocutore il nostro stile di vita, il nostro modo di pensare,
possiamo parlare di noi stessi e della nostra vita. Questa abilità viene
definita “autoapertura”. Stiamo attenti a non parlare solo in modo
positivo di noi stessi al fine di metterci “in mostra”: non è un compor-
tamento molto assertivo!
Rivediamo il precedente dialogo:

- Anche quest’anno sei andato in vacanza al mare? (Domanda


chiusa).
- Sì, e ho fatto molta vela. (Libera informazione).
- Hai trovato delle buone giornate di vento? (Domanda chiu-
sa, vi è l’aggancio alla precedente libera informazione).
- Un giorno, uscendo in mare, ho trovato un vento veramen-
te forte e ho passato momenti in cui ho avuto paura; poi,
superato il primo momento, ho avvertito quasi uno stato di
eccitazione. (Autoapertura).

29
- Capisco bene la sensazione che hai provato, anch’io ho av-
vertito alcune volte quella sensazione insieme di paura e di
piacere. (Libera informazione e autoapertura).

In questo dialogo i due amici usano sia la libera informa-


zione che l’autoapertura. In tal modo la comunicazione può
procedere in modo fluido e vi è sincronizzazione tra i compor-
tamenti verbali.

Espressione positiva

Esprimere apertamente la simpatia che si prova verso qualcuno, fare


un complimento a una persona dalla quale vi sentite attratti; questi
sono esempi di espressioni positive che alcune persone non riescono
a emettere. In tali persone può anche essere causa di disagio il rice-
vere dei complimenti. Possedere questa abilità tende a migliorare il
contatto sociale e a creare una situazione di interazione piacevole.
Il “buon manager” tende a sottolineare gli aspetti positivi dei
suoi collaboratori: così facendo crea un ambiente non frustrante
in cui è piacevole lavorare. Aumenta quindi la loro produttività. I
“manager aggressivi” hanno la tendenza a usare solo espressioni ne-
gative (critiche) sperando di ottenere dagli altri un incremento di
“produttività”; ottengono invece un incremento di “frustrazione”.
Si instaura così un circolo vizioso: più i collaboratori si sentono fru-
strati, meno lavorano e, meno producono, più vengono aggrediti.

Fare e rifiutare richieste

Le persone non assertive evitano di fare richieste, per paura di


incontrare un rifiuto o per la convinzione che non è “educato” di-

30
sturbare gli altri. Alcuni non sono in grado di accettare un rifiuto.
Spesso vi è l’errata opinione che gli altri debbano capire da soli
ciò di cui si ha bisogno; questo comportamento emerge prevalen-
temente nei rapporti più intimi: tra genitori e figli o nella coppia.
Il fare richieste serve a rafforzare la solidarietà con gli altri, in
quanto ci permette di comunicare i nostri desideri o bisogni.
Il nostro saper rifiutare è esattamente speculare al fare richie-
ste, in quanto rifiutando dichiariamo fino a che punto siamo di-
sponibili. Facendo e rifiutando richieste diamo agli altri chiare
informazioni di noi stessi.

Tecnica del “disco rotto”

Un amico ci ha fatto una richiesta e noi rifiutiamo. L’amico


inizia a colpevolizzarci con frasi del tipo: “Non mi aspettavo
da te un rifiuto…”. In questi casi non è sufficiente rifiutare la
richiesta; è necessario usare “il disco rotto”, cioè ripetere con
calma il proprio punto di vista, usando sempre le stesse parole,
senza farsi coinvolgere dalle strategie manipolative dell’altro.
In queste situazioni è importante “non giustificare il proprio
rifiuto”. La tecnica del disco rotto è in questa situazione una
procedura che ci permette di “proteggerci” dalla manipolazio-
ne altrui.
È importante non dimenticare l’obiettivo che vogliamo rag-
giungere, se non vogliamo farci coinvolgere nella “logica ir-
rilevante” degli altri. L’uso del disco rotto ci permette di non
dimenticare l’obiettivo che vogliamo raggiungere.
Se, come obiettivo, vogliamo liberarci da un venditore insi-
stente, dobbiamo ripetere con calma: “Non sono interessato”,
visto che non vogliamo comperare e non siamo interessati a
ciò che offre il venditore. È una tecnica utile, che ho inizia-

31
to ad adottare dopo aver comperato da studenti-venditori una
quantità notevole di saponette e deodoranti che regolarmente
non usavo. La medesima tecnica può essere usata in contesti
diversi. A esempio, quando facciamo una richiesta di ciò che
è in nostro diritto esigere. Se abbiamo acquistato un oggetto
che si rivela guasto, è un nostro diritto farcelo sostituire. Potrà
succedere che il negoziante cerchi di non cambiarcelo, noi do-
vremmo continuare a insistere con calma.

“Annebbiamento”

Questa abilità consente di accettare la critica che ci viene rivol-


ta ammettendo che vi possa essere del vero. Se chi ci critica è
una persona tendenzialmente aggressiva, contraddirla non fa
che incrementare la sua aggressività, e ciò crea solo uno sterile
prolungamento della discussione. In questi casi è necessario
usare frasi del tipo: “Probabilmente tu hai ragione” oppure
“Capisco il tuo punto di vista”. Può anche essere utile l’uso del-
la “parafrasi” che permette a chi è criticato di prendere tempo
e quindi di ridurre il proprio disagio, mentre chi critica si sente
capito. Vediamo il seguente dialogo:

— È possibile che, quando ho bisogno di te, tu non sia mai di-


sponibile? (Critica manipolativa)
— Tu dici che quando hai bisogno di me non mi trovi mai,
è vero? (Parafrasi, si accetta l’affermazione dell’altro senza
giustificarsi)

Dopo che il nostro interlocutore si è “calmato”, si può inizia-


re un dialogo, per capire ciò che lui si aspetta da noi e chiarirgli
ciò che noi siamo in grado di dargli.

32
“Asserzione negativa”

Con “asserzione negativa” intendiamo quell’affermazione con


cui si ammette il nostro errore, dichiarandoci del tutto d’accor-
do con chi ci critica. Le persone aggressive tendono a non ri-
conoscere i propri errori e a non scusarsi. Un comportamento
assertivo è quello di riconoscere di avere sbagliato e scusarsi. A
esempio:

— Ieri ti sei comportato male con Aldo.


— È vero, ora me ne rendo ben conto, gli telefonerò per scu-
sarmi. (Asserzione negativa)

L’asserzione negativa riduce l’ostilità di chi critica e tende a


estinguere la manipolazione.

“Inchiesta negativa”

Spesso chi critica tende a darci delle informazioni generiche. Ciò


non ci aiuta a comprendere dove abbiamo sbagliato e quindi a
migliorarci. Con l’inchiesta negativa si sollecita una critica più pre-
cisa e dettagliata. Se la critica è manipolativa, l’inchiesta negativa
pone termine alla manipolazione portando l’altro a trasformare la
critica in un discorso costruttivo. Vediamo il seguente dialogo tra
un dirigente e la sua nuova segretaria:

DIRIGENTE. Questa lettera non va bene! (Critica manipolativa)


SEGRETARIA. Per favore, mi può indicare dove non va bene?
(Inchiesta negativa)
DIRIGENTE. È possibile che debba spiegarle cose tanto bana-
li? (Critica manipolativa)

33
SEGRETARIA. Per favore, mi indichi dove ho sbagliato. (In-
chiesta negativa e disco rotto)
DIRIGENTE. (Indicando un punto della lettera) Ha sbagliato
in questa parte. (Critica costruttiva)
SEGRETARIA. Non ci sono altre parti non chiare? (Inchiesta
negativa)
DIRIGENTE. No, il resto va bene.

Spesso, nella normale conversazione, si usano più tecniche in-


sieme.

La gestione delle critiche

Come tendiamo a comportarci quando siamo criticati? Reagia-


mo nello stesso modo a tutti i tipi di critiche? Abbiamo visto
che le critiche possono essere di due tipi: le critiche costruttive
e quelle manipolative.
Sono “critiche costruttive” quelle che contengono infor-
mazioni che ci possono essere utili, favoriscono il dialogo e lo
scambio di opinioni.
Le “critiche manipolative” sono generiche affermazioni su
un nostro comportamento o una nostra prestazione. Non ci
sono di aiuto, in quanto non ci forniscono informazioni utili
per correggere i nostri errori. Tendono a farci sentire colpevoli
o inferiori (vedi: “Le strategie manipolative”).
Quando una persona passiva subisce una critica manipola-
tiva, tende a tacere o a giustificare il proprio comportamento.
In tal modo la critica continua. Se la stessa critica manipolati-
va viene mossa a una persona aggressiva, questa reagirà attac-
cando il proprio interlocutore. Si creerà tra gli interlocutori
uno stato di “conflitto” in cui uno dei due cerca di prevaricare

34
sull’altro. Sarà una comunicazione del tutto sterile che creerà
solo rancore e competizione.
Ma se la critica è costruttiva come reagiranno le persone pas-
sive o aggressive?
Immaginiamo di vedere un nostro amico in difficoltà. Noi
cerchiamo di aiutarlo con consigli operativi del tipo: “Forse po-
tresti provare a fare...”. Il nostro amico reagisce dicendoci: “So
come fare, non ho bisogno del tuo aiuto” (comportamento ag-
gressivo). Oppure può non darci alcuna risposta, né chiederci
ulteriori chiarimenti; avvertiamo che sta provando disagio di
fronte al nostro aiuto, tendendo a sentirsi giudicato e valutato
(comportamento passivo). In entrambi i casi cesseremo di dare
informazioni. Non si continua un dialogo quando si è aggrediti
o si avverte disagio nel nostro interlocutore. Come possiamo ve-
dere gli individui non assertivi non discriminano tra una critica
costruttiva e una manipolativa. La persona assertiva individua
immediatamente il tipo di critica. Vediamo il seguente schema:

Critica Sogg. Risposta Comunicazione

M PASSIVO Fuga Continua


A
N
I AGGRESSIVO Attacco Continua
P
O
L
A
ASSERTIVO Discrimina Estinzione
T
I Tecniche
V verbali
A difensive

35
Critica Sogg. Risposta Comunicazione

C PASSIVO Fuga Estinzione


O
S
T AGGRESSIVO Attacco Estinzione
R
U
T
T ASSERTIVO Discrimina Continua
I Tecniche
V
A
verbali
sollecitative

Come possiamo vedere l’individuo assertivo discrimina il


tipo di critica usato. Se si trova di fronte a una critica mani-
polativa usa tecniche difensive quali: l’annebbiamento, la pa-
rafrasi o l’asserzione negativa. Così facendo, estingue il com-
portamento indesiderato dell’altro. Successivamente richiede
chiare informazioni (inchiesta negativa). Quindi la critica si
trasformerà in una critica costruttiva.
Se la critica che gli viene mossa è costruttiva, l’accetta im-
mediatamente, anzi, richiede ulteriori informazioni (inchiesta
negativa).

Vediamo il seguente dialogo tra due amici che lavorano in-


sieme.

— Ti rendi conto che non sei una persona su cui fare affida-
mento? (Critica manipolativa).
— Tu dici che non si può fare affidamento su di me (parafra-
si). Ma cos’è che non ti va nel mio modo di comportarmi?
(Inchiesta negativa).

36
— Non sei puntuale nei lavori che devi consegnarmi.
— Questo è vero, non sono mai puntuale (asserzione negati-
va). Se vi è qualcos’altro nel mio comportamento che ti di-
sturba dimmelo liberamente (inchiesta negativa), è meglio
chiarire immediatamente gli eventuali problemi.
— No, vi è solo questa mancanza di puntualità.
— Ti ringrazio di avermelo detto. Ti sarei grato per il futuro, se
questo non ti disturba, di sollecitarmi due o tre giorni prima
della data di consegna del lavoro.
— Te lo ricorderò senz’altro.

Riassumiamo le abilità che possiede una persona con un


buon comportamento sociale di tipo assertivo, quando è criti-
cato:

1) discrimina il tipo di critica (costruttiva o manipolativa);


2) usa tecniche verbali per “bloccare” la manipolazione;
3) evita le giustificazioni o le scuse, ma riconosce, quando vi è,
il proprio errore;
4) accetta il “punto di vista” dell’altro;
5) sollecita eventuali critiche, stimolando l’altro a usare un lin-
guaggio chiaro e preciso.

Se dobbiamo pensare a ricostruire interamente il modello


di una persona con buone abilità sociali assertive ci rendiamo
conto che è particolarmente difficile. Padroneggia sia i com-
portamenti verbali che non verbali, non giudica, accetta il pun-
to di vista altrui, gestisce le critiche, etc. Abbiamo descritto la
persona assertiva osservandola anche sotto l’aspetto motorio,
cioè nel suo comportamento osservabile. Ma ciò non è tutto;
come gestisce le proprie risposte emozionali negative o qual è
il suo modo di pensare?

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Spesso, quando vediamo che le nostre aspettative non si rea-
lizzano, proviamo un senso di frustrazione. Quando un amico ha
“successo nella vita” e noi no, possiamo provare rancore nei suoi
confronti.
Alcuni nostri modi di pensare possono attivare risposte
emozionali negative e incidere sul nostro comportamento.
Possiamo dirci: “Con quella persona devo emettere un com-
portamento assertivo e non aggredirlo”. Ma se, prima di in-
contrare “quella persona”, avvertiamo nei suoi confronti del
“rancore”, sarà molto improbabile che si riesca a essere asserti-
vi. Potremo controllare il nostro comportamento verbale, ma
molto difficilmente quello non verbale. Difficilmente avremo
un viso disteso e rilassato, dimostrando con il nostro atteggia-
mento una disponibilità al colloquio. Sarà sufficiente una lieve
aggressività da parte del nostro interlocutore, perché il nostro
presunto autocontrollo “svanisca”.
Ma allora la persona assertiva non si arrabbia mai?
Con l’esercizio diventa sempre più difficile arrabbiarsi. In
ogni caso, se riteniamo che sia necessario arrabbiarci, possia-
mo farlo, ma senza colpevolizzare o inferiorizzare, dichiaran-
do semplicemente ciò che non ci va. Senza provare autentica
rabbia o rancore.
Nei seguenti capitoli prenderemo in considerazione alcu-
ni modi di pensare, che hanno come “obiettivo” di farci star
male, e vedremo gli ostacoli da superare per cercare di star
“meno male”. L’obiettivo: “star bene”, è difficile da raggiunge-
re. Più facile è “star male”.
L’aspettativa

Crearsi delle aspettative

Iniziamo un nuovo lavoro, conosciamo una nuova persona, ed


è naturale crearci delle aspettative. Di fronte a un qualunque
nuovo evento possiamo reagire in due modi:

1)ci creiamo un’elevata aspettativa,


2)ci creiamo una bassa aspettativa.

Nel primo caso partiamo dal presupposto di poter controllare


gli eventi e ci diciamo: tutto deve andare come io voglio. Quando
ciò non succede, nonostante i nostri sforzi, subentra in noi un
senso di frustrazione che può manifestarsi in un comportamento
aggressivo, poiché attribuiamo agli altri il nostro fallimento.
Nel secondo caso, pensiamo di non poter assolutamente
controllare gli eventi e quindi che è inutile impegnarsi. In que-
sto caso ci diciamo: “Qualunque cosa faccia, anche se va bene,
non è dipeso da me, quindi è inutile che mi impegni”. Que-

39
sto modo di pensare porta alla passività, a rimanere in attesa,
dipendendo dagli altri. Questo stato di impotenza induce alla
depressione.
Quando una situazione lavorativa o interpersonale si è nel
tempo consolidata, noi desideriamo che si mantenga così. Ci
siamo abituati a dare sempre la stessa sequenza di risposte a
una determinata situazione, se la situazione si modifica non
abbiamo a disposizione nuove risposte, proviamo disagio e vor-
remmo che la situazione tornasse come era prima. Quando ciò
non è possibile diveniamo aggressivi o ci deprimiamo. Vediamo
alcuni casi in cui errate aspettative, possono creare uno stato di
profondo disagio.

L’aspettativa nei rapporti di coppia

La signora Claudia, di 40 anni, sposata da 15, ha una figlia di 13


anni. Lavora con il marito, che è suo coetaneo. La signora è la tito-
lare dell’agenzia in cui lavora il marito. Ora, il loro rapporto non
va bene. Il marito ha una relazione con una signorina venticin-
quenne, sta a casa solo per il pranzo e la cena. La signora Claudia
non riesce a comprendere questo cambiamento del marito. La
signora dichiara: “È vero che io ho sempre deciso in famiglia e sul
lavoro, ma a mio marito è sempre andato bene così. Non mi ha
mai detto che non gli andasse bene. Quindi è comprensibile che
ora io sia aggressiva con lui”.
Vediamo ora come ha affrontato questo problema. La signora
non riesce a comprendere il marito. Diventa sempre più aggressi-
va e si chiude in un silenzio colpevolizzante, così spera, colpevoliz-
zando il marito, di ottenere ciò che vuole: porre fine alla relazione.
Le chiedo come era il loro rapporto prima di questa relazio-
ne. Mi risponde: “Non vi era dialogo, ma, dopo anni di matri-

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monio, mi ero abituata. Si pranzava o cenava senza parlare, poi
si guardava la televisione. Tra noi non vi sono mai stati momen-
ti di tenerezza, quali carezze e baci”.
La signora Claudia non si sarebbe mai aspettata dal marito il
nuovo comportamento. Il loro rapporto, forse, non era molto
soddisfacente, ma la signora vi si era ormai abituata. Tutto il
suo mondo viene a mancarle, sta male, prende molti ansioli-
tici, soffre di inappetenza e non riesce a dormire. Questo suo
stato di disagio la rende sempre più aggressiva; non possiede
altri mezzi per competere con il marito. Così tutti stanno male,
ma lei chiaramente di più; il marito ha i propri spazi fuori dal
matrimonio.
Abbiamo visto come le strategie usate da Claudia non abbia-
no dato alcun risultato. È necessario NON ASPETTARSI CHE
GLI ALTRI SI COMPORTINO COME NOI VOGLIAMO. La
tendenza di molte persone è quella di voler modificare gli al-
tri. Tutti i nostri sforzi sono rivolti a questa meta. In un primo
momento possiamo essere passivi, facciamo di tutto per soddi-
sfare il nostro partner e speriamo che lui o lei faccia altrettanto.
Quando ciò non avviene subentra in noi uno stato di profon-
da frustrazione. Come conseguenza di questo stato diventiamo
più passivi o slittiamo verso un comportamento aggressivo. I
nostri pensieri e i nostri comportamenti, essendo sempre rivol-
ti verso gli altri, non ci permettono di auto-osservare il nostro
comportamento. La nostra attenzione deve essere rivolta verso
noi stessi. Siamo noi a stare male. L’obiettivo che dobbiamo
cercare di raggiungere è quello di “non stare male”. È com-
prensibile che non si voglia stare male. Ma è assurdo pensare di
non stare male nel tentativo di modificare gli altri. GLI ALTRI
NON SONO DA MODIFICARE. Quando siamo in grado di ac-
cettare quest’affermazione, tutto ciò che ci viene dagli altri è
per noi gradito. Dobbiamo pensare prima di tutto a noi stessi.

41
Ovviamente può apparire egoistico, ma non è forse egoismo
voler stare bene piegando gli altri al nostro volere?
Nel caso della signora Claudia si individuano due errori co-
gnitivi. Questi errori hanno come base le seguenti assunzioni:
mio marito deve cambiare e il mio modo di comportarmi è
quello giusto. Vediamo ora quale dovrebbe essere il suo com-
portamento. Innanzitutto si tratta di evitare comportamenti ag-
gressivi con il marito: il marito deve trovare più gratificante la
presenza della moglie che quella dell’amica. Ora ipotizziamo
che la signora Claudia inizi a modificarsi, sia gentile e presti
attenzione al marito. Vi potrà sembrare molto difficile essere
gentili con una persona che vi “tradisce”. Quando si è in pre-
senza del “trasgressore”, le prime risposte che si danno sono
quelle emozionali. Ci sentiamo tesi e non sappiamo cosa dire,
ed è in questi momenti che recuperiamo il nostro comporta-
mento abituale, in questo caso il comportamento aggressivo.
Quando decidiamo di modificarci incontriamo difficoltà im-
mediate. Cerchiamo di andare incontro al nostro partner. Sia-
mo più gentili e cerchiamo di controllare la nostra aggressività.
Ma iniziamo ad attenderci un rapido cambiamento nel partner
e, se ciò non avviene, ci diciamo: “Io sto modificandomi e mi
costa, mentre il mio partner non fa nulla, quindi tutti i costi li
pago io, non mi sembra giusto”. Forse, a questo punto, è im-
portante fermarsi un momento e chiedersi: voglio realmente
recuperare il rapporto, sono disposto a pagare anche dei costi
elevati senza aspettarmi nulla? È vero, non è molto facile pen-
sare in questo modo, vi sembra?
Se decidiamo di recuperare il rapporto dobbiamo aspettarci
dei costi, forse senza riuscire a ottenere risultati. Mi ricordo di
un' affermazione di una mia cliente, che mi disse: “Farò ciò che
mi è possibile per recuperare il rapporto, se non vi riuscirò potrò
sempre dire che ho dato tutto ciò che ero in grado di dare”.

42
Nel caso in cui valutiamo l’opportunità di separarci dobbia-
mo porci una domanda: sono in grado di vivere da sola/o?
Certe volte, per alcuni, è preferibile vivere male in coppia
che stare da soli. La signora Claudia trascorre con il marito
serate non molto gratificanti. Non comunicano, non vi è intesa
sessuale, ma per lei è sempre meglio vivere male con il marito
che vivere da sola. Paga minori costi. Cosa ha ottenuto la si-
gnora Claudia con il suo comportamento aggressivo? Una mo-
mentanea vittoria; questa è solo una mia ipotesi, non avendo
altre informazioni sullo sviluppo della loro relazione. Il marito
è ritornato dalla moglie dopo aver troncato il rapporto con la
sua giovane amica.
In ogni caso dobbiamo ricordarci che NON DOBBIAMO
STARE MALE.
Ma stiamo attenti a quest’affermazione. Non dobbiamo, per
attenuare il nostro disagio, “buttarci” in un’altra relazione.
È il caso del mio amico Giorgio. Tempo fa pose termine al
primo matrimonio, dopo otto anni di convivenza; matrimonio
che in alcuni momenti era decisamente “caldo”, con frequenti
scoppi di aggressività, durante i quali la coppia riusciva a di-
struggere una certa quantità di piatti (mai meno di quattro o
cinque). “Matrimonio impossibile” mi dichiara l’amico. Non so
a tuttora il parere della moglie. Una volta separato, per Giorgio
iniziano momenti difficili. Dopo anni di matrimonio vive male
la solitudine. Arrivare a casa, non trovare nessuno, sedersi da
solo davanti alla televisione con un bicchiere di whisky. Può
sembrare strano che stesse male da solo, visto che con la moglie
stava malissimo. Non sopportando la solitudine, pensa di aver
bisogno di una compagna. Inizia a uscire con alcune amiche.
Dopo circa un mese dalla sua separazione, mi dice che ha tro-
vato la persona “giusta”. Si trasferisce a casa dell’amica e inizia
così un nuovo rapporto. L’amico Giorgio ha iniziato un nuovo

43
rapporto per sottrarsi al disagio che provava nello stare solo.
Fin qui nulla di male. Vi è solo un particolare importante. Gior-
gio non era in grado di scegliere.
L’ansia che provava lo costringeva a iniziare un nuovo rap-
porto. Giorgio avrebbe dovuto riuscire a stare da solo senza
provare disagio. Solo così la sua scelta non sarebbe stata obbli-
gata. Giorgio si aspetta che questo nuovo rapporto vada bene e
che la sua amica condivida il suo modo di pensare. Per alcuni
mesi non vi sono problemi, vi è una convivenza serena. Ma l’a-
mica inizia ad auto-affermarsi. Vuole recuperare una propria
autonomia. Non è questo ciò che si aspetta Giorgio, per lui il
rapporto deve essere “totale”. Giorgio inizia a emettere lo stes-
so comportamento che aveva creato i contrasti con la moglie,
diventa aggressivo. Dopo altri tre o quattro mesi lascia l’amica.
Tutto si ripete. Sta nuovamente male da solo e inizia un altro
rapporto. Vediamo l’errore cognitivo di Giorgio: “Posso stare
bene solo se ho un rapporto totalmente coinvolgente”. Per ot-
tenere il coinvolgimento tende a sottomettere il partner, così
facendo il coinvolgimento è solo suo.
Sia nel caso della signora Claudia che in quello di Giorgio vi
è un aspetto comune. Partono entrambi dal loro “livello ope-
rante” e non da quello degli altri.
Se un amico è in grado di darci dieci non dobbiamo aspet-
tarci cento. Se noi siamo convinti di dare di più e valutiamo
a cento il nostro livello di prestazioni, è bene non aspettarsi
un’eguale prestazione. Vi è spesso la convinzione di aver dato
molto e ricevuto poco.
Nel crearsi false aspettative, vi è spesso, da parte nostra, la “con-
vinzione” che il nostro partner debba comportarsi sempre nello
stesso modo, anche in situazioni diverse. Una mia cliente mi dice:
“Quando mio marito è con me e siamo da soli, non parla, si isola.
Se gli chiedo cosa c’è che lo disturba mi risponde sempre: «Non c’è

44
nulla», e si richiude nel suo silenzio. Quando arrivano degli amici
cambia immediatamente, diventa allegro, scherza e comunica con
tutti, anche con le persone noiose. Sembra che in mio marito vi sia-
no due persone diverse. Con me è introverso e non comunica, con
gli amici è sempre allegro. Perché non si comporta con me come
con i nostri amici?” Non fa piacere a nessuno vedere il proprio par-
tner che si comporta in un modo così “ambiguo”. È veramente in-
comprensibile vedere un così rapido cambiamento, ci disorienta.
Cosa possiamo fare? Stiamo attenti a non continuare dicendoci:
“Lo vorrei diverso”. Cadremmo immediatamente nella “trappola”
del “lo devo modificare”. Ci dimentichiamo che “gli altri non sono
da modificare”. Ricordiamoci che siamo noi a stare male.
Invece di centrare l’attenzione sul nostro partner, osservia-
mo il nostro comportamento. Ci accorgeremo che anche noi
modifichiamo il nostro comportamento al variare delle situa-
zioni. L’ambiente ha un ruolo importante. Con un amico su-
biamo, con l’altro diveniamo aggressivi. È sufficiente una mi-
nima variazione dell’ambiente e noi modifichiamo il nostro
comportamento. È vero che alcuni danno risposte più eviden-
ti, e in tal modo si notano maggiormente le modificazioni del
comportamento. Ma ricordiamoci che TUTTI SUBIAMO LA
PRESSIONE AMBIENTALE. La mia cliente non ha avuto par-
ticolari difficoltà ad accettare questa affermazione, dopo aver
auto-osservato il proprio comportamento nelle varie situazioni
sociali. E ha compreso che il marito non emetteva quel com-
portamento “ambiguo” per crearle dei problemi. Ha imparato
ad “accettarlo”.
È evidente che si accetta un comportamento quando non
è per noi troppo costoso. In ogni caso, “lamentarsi non ser-
ve”. Ciò che ha importanza sono le operazioni. Anche nelle
situazioni di coppia, rimandare le decisioni non serve. Ci serve
solo a star male. Ricordo, e sempre provando disagio, una mia

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cliente di sessant'anni. Aveva fatto per trent’anni l’insegnante
elementare. È una donna mite, molto gentile. Si sposa trenta-
cinque anni fa. Dopo pochi mesi di matrimonio vorrebbe porre
fine al rapporto. Il marito è un uomo introverso che non presta
la minima attenzione alla moglie. Alcune volte la percuote. Ma
la signora sta aspettando il primo figlio. Spera che con il figlio
il marito cambi. Ma ciò non succede. Anche l’avvento del se-
condo figlio non modifica il marito. Ora, a sessant’anni, fa un
bilancio della propria vita. Mi dice: “Capisco, ora, di aver but-
tato via una vita, mi sono legata a un uomo con cui non avevo
nulla in comune”.

Creare false aspettative

La paura di perdere un amico ci induce a comportarci come


pensiamo faccia piacere a lui. Gli diciamo ciò che vuole sen-
tire. Tutto andrebbe bene se creare false aspettative non si ri-
volgesse negativamente contro di noi. Quando pensiamo che
una persona sia importante per il nostro benessere ci poniamo
in posizione “down”. Dipendiamo, quindi, da questa persona.
Continuando nel rapporto, ci sentiamo oppressi: il rapporto di-
venta così, per noi, una situazione aversiva. Si inizia a incolpare
il partner del nostro stato di disagio. È necessario modificare il
nostro modo di pensare. Dobbiamo accettare la seguente affer-
mazione: SE STIAMO MALE LA COLPA È SOLO NOSTRA.
Molto difficile da accettare, non vi pare?
Questo tipo d’affermazione è per noi positiva. Ci spinge in-
fatti a osservare cosa vi è di errato in noi, e non già negli altri.
Osservare gli altri e individuare i loro aspetti negativi ci fa star
male, perché non possiamo fare nulla per ridurre completa-
mente ciò che ci sembra negativo in loro.

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Questo è il caso di Franco. Ha cinquant’anni ed è separa-
to da circa un anno. Ha due figli di venti e diciotto anni, che
vivono con la moglie. Vivendo con particolare interesse il rap-
porto con l’altro sesso, fin da giovane, ha avuto dei rapporti
extraconiugali. Consideriamo che non si sentiva in colpa per
questo suo comportamento. Il suo problema è quello di non
dare delle corrette informazioni al partner. Tuttora ama avere
più rapporti sentimentali. Ora da circa otto mesi ha un'amica
alla quale ha creato false aspettative, dicendole che, per lui, il
rapporto ha valore solo nella monogamia. Tutto procede bene
per alcuni mesi, sono sempre insieme, trascorrono dei piace-
voli week-end. Ma la “saturazione” è in agguato per Franco. Si
sente oppresso dal rapporto. Quando deve incontrare qualche
amica elabora una serie di scuse più o meno credibili. Mi dice:
“Questa situazione è diventata peggiore del matrimonio, mi
sento sempre controllato, non riesco a capire le donne, sono
tutte uguali, dopo un po’ diventano possessive”. Franco ha
commesso alcuni errori.
Il primo: una errata auto-valutazione, si vede monogamo
quando non lo è.
Il secondo: crea nel partner alcune aspettative che non è in
grado di mantenere.
Questo comportamento non è assertivo, ma passivo-aggres-
sivo. È passivo, in quanto dà quelle errate informazioni “per
non perdere l’amica”. È aggressivo, perché incolpa l’amica del
suo stato di disagio.
Vediamo ora un modo assertivo di comportarsi. Franco
avrebbe dovuto dire, incontrando una persona da cui si sente
attratto: “Ti trovo piacevole e simpatica, ma non mi sento di
legarmi; in ogni caso sappi che ho altre relazioni”. Immediata è
l’obiezione di Franco a questa frase: “Ma in questo modo tutte
le donne scappano, nessuna può accettare queste affermazio-

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ni”. Probabilmente questo è vero per molte persone; ma solo
non dando false informazioni di noi stessi evitiamo di creare
frustrazione nel partner. Quando il partner è frustrato anche noi
stiamo male.
Può succedere che, pur avendo dato informazioni corrette,
sia il partner a crearsi false aspettative. Se il partner non accetta il
nostro punto di vista, allora diventa un “suo problema”.
Un’amica mi racconta: “Da circa due settimane esco con un
uomo che mi interessa molto. Io gli ho detto che ho altri rap-
porti. Non ci vediamo per due o tre giorni e una mattina ricevo
una sua telefonata. È gentile come sempre e organizziamo il we-
ek-end. Lui poi mi chiede dove sono stata ieri sera. Gli rispondo:
‘Sai che l’accordo era di non fare domande; in ogni caso è un tuo
diritto farle, può essere un tuo problema gestire poi la risposta.
Lui insiste, e io rispondo: ‘Bene! Ieri sera ho fatto l’amore con
un mio amico'. Immediata è la sua reazione, ed è aggressiva”. A
questo punto, la mia amica replica all’amico: “Ora stai male e mi
dispiace, questa mia risposta è diventata per te un problema”.
Forse vi direte che un po’ di ipocrisia ogni tanto è neces-
saria. In ogni caso vale 1a regola: NON FARE DOMANDE SE
NON SI SANNO ACCETTARE LE RISPOSTE.
Quando poniamo delle domande, spesso ci creiamo delle
aspettative. Noi possiamo accettare o non accettare le risposte
che ci vengono fornite. Ma vi è utilità nel non accettare le rispo-
ste? Vediamo il seguente schema:

1-a) Domanda
La risposta e quella che ci aspettiamo.
L’accettiamo.
Stiamo bene.

1-b) Domanda

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La risposta è quella che ci aspettiamo.
Non l’accettiamo. Ci si dice: “Ha dato questa risposta solo
per farmi piacere, ma pensa in modo diverso” (Errore co-
gnitivo, del tipo: “Stiamo interpretando”).
Proviamo disagio.
Poniamo altre domande, ma qualsiasi risposta ci venga data,
non l’accettiamo e continuiamo a provare disagio.

2-a) Domanda
La risposta è quella che non ci aspettiamo.
L’accettiamo.
Stiamo bene.

2-b) Domanda
La risposta è quella che non ci aspettiamo.
Non l’accettiamo — Ci diciamo: “Ha un modo di pensare er-
rato!” (Errore cognitivo del tipo: “Solo il mio modo di pen-
sare è quello giusto”).
Proviamo disagio.
Poniamo altre domande. Vogliamo trovare dei “punti” comuni.
Non ci troviamo d’accordo su “tutto”. Non siamo soddisfatti.
Proviamo disagio.

Osserviamo il dialogo che segue la telefonata tra la signora


e il suo amico.

SIGNORA. Mi dispiace che tu sia stato male quando ti ho detto


di come ho trascorso l’altra sera. Ma mi darebbe noia dover
inventare scuse.
AMICO. Non capisco perché tu mi abbia sempre detto che ti
trovi bene con me e poi fai l’amore con un altro. È normale
che io stia male, il tuo è un comportamento ambiguo.

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SIGNORA. È vero che io sto bene con te. Ti trovo un uomo
interessante e piacevole.

L’amico ha dedotto dalla frase della signora “con te mi trovo


bene” che lei può trovarsi bene con lui e “solo” con lui. Ma questo è
solo il “suo” modo di pensare e come abbiamo visto gli crea dei pro-
blemi. La signora ribadisce che con lui sta bene, ma non dice che
sta bene solo con lui. In questo caso può essere difficile venire a un
accordo. Pensano in modo troppo diverso. In casi simili, quando al
contrario uno dei due accetta il punto di vista dell’altro, ciò accade
probabilmente solo per la paura di perdere il partner.

L’amicizia

Tutte le affermazioni che abbiamo impiegato per la descrizione


del rapporto di coppia ci possono essere utili per descrivere il rap-
porto con gli “amici”. Vediamo, anche in questi rapporti, che la
paura di perdere l’amicizia crea e ci fa creare delle false aspettative.
Ritorniamo alla signora Claudia. Questa mi dice: “Ora non ho
più amiche, sono stata delusa troppe volte. A esempio, recente-
mente, ho interrotto il rapporto con un’amica. Mi ero accorta che
mi cercava solo quando aveva bisogno. Ma questa non è amicizia”.
Le chiedo se si trovava bene con l’amica e Claudia mi risponde di
sì. La sua amica è una persona allegra e piacevole. Come nel rap-
porto di coppia, anche qui non si tiene conto del “livello operante”
dell’amica. Ha degli aspetti positivi, è allegra ed estroversa, in sua
compagnia si sta bene. Quelli negativi per Claudia sono: telefona
raramente e solo per chiedere dei favori.
Ricordiamoci sempre che possiamo pretendere dagli altri solo
ciò che possono darci. Con questa amica Claudia sta bene. Tronca
il rapporto perché l’amica non si comporta secondo il concetto

50
che Claudia si è creata dell’amicizia. Uno degli errori di Claudia
è di non saper gestire le richieste dell’amica. Quando l’amica te-
lefona e chiede un favore, Claudia non rifiuta. Non rifiuta anche
quando le “costa” molto. Ovviamente proviamo disagio nel fare
ciò che non vogliamo. Di conseguenza ci arrabbiamo con chi ci fa
richieste. Ma questo è un nostro problema. La nostra assunzione
“a un amico non si può rifiutare” va modificata in: È UN DIRITTO
DEGLI ALTRI FARE RICHIESTE MA È UN DIRITTO NOSTRO
RIFIUTARE. Se non siamo in grado di rifiutare, ci aspetteremo
che gli altri non rifiutino mai. Quando ciò non succede è la fine
dell’amicizia. Spesso si tendono a creare differenze tra gli amici.
Sono “veri amici” quelli su cui si può sempre contare.
Vediamo qual è l’errore cognitivo di quest’affermazione. Ten-
diamo “sempre” ad aspettarci da parte dei “veri amici” un’imme-
diata soddisfazione delle nostre richieste. La tendenza è quella di
ragionare per “tutto o nulla”. Comportamento, questo, che caratte-
rizza l’adolescenza, l’età dei grandi amori e delle grandi delusioni.
Quando le “delusioni” sono costanti, come vediamo nel caso di
Claudia, subentra in noi un’avversione per l’amicizia. Troppe volte
le nostre aspettative si sono frantumate. A questo punto scatta il
meccanismo della “generalizzazione indebita”. Frasi quali: “Non
vi sono veri amici, prima o poi tutti ti deludono”. Anche nel caso
di Franco troviamo generalizzazioni quali: “Le donne sono tutte
uguali, dopo un po’ diventano possessive”. Questo modo di pensa-
re porta irrimediabilmente all’isolamento. Non vi è nulla di male
nell’isolamento. Ma, quando si vive negativamente la solitudine,
bisogna cercare di porvi rimedio. È necessario, come abbiamo vi-
sto, chiedersi: dove ho sbagliato?
È evidente che se per lunghi periodi ci si isola dalla società e si
evitano i rapporti sociali, si perderà l’abitudine a comunicare con
gli altri.
Questo è il caso di un mio cliente. Luciano ha venticinque

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anni, lavora in banca come cassiere. Le sue giornate sono tutte
uguali. Otto ore di lavoro, poi a casa dove si chiude in camera
sua e suona. Non ha né amici né amiche. Anche sul lavoro non
ha stabilito nessun rapporto con i colleghi. Se il lavoro e la mu-
sica gli fossero sufficienti non starebbe male. Mi dichiara: “Mi
manca una ragazza e avrei piacere di avere amici. Non ho ami-
ci, perché i discorsi che fanno non mi interessano e non ho mai
avuto una ragazza, perché si interessano di cose futili”. Luciano
vi sembrerà una persona che si autovaluta in modo eccessivo.
In realtà mi dice che sta aspettando sia gli amici che la ragazza
“giusta”. Ma Luciano manca totalmente di abilità sociali. Non
è in grado di iniziare una conversazione, risponde solo se è in-
terrogato e, se una ragazza gli interessa, dà risposte emozionali
così intense che non riesce a parlare. In questo caso, più che
errori cognitivi, assistiamo a una totale mancanza di abilità. Vi
è sì un evitamento cognitivo, ed è ritenere gli altri non interes-
santi. In ogni caso modificare questa assunzione non gli sarà
sufficiente per acquisire le abilità di cui è carente.

L’autovalutazione e il crearsi delle false aspettative

Sono bella...
Sono ricco...
Sono intelligente...
Sono...

Dove ci conduce una nostra iper-valutazione? Ci porta a formu-


lare la frase “Tutto mi è dovuto”.
Una signora quarantacinquenne, vedova da dieci anni, mi
dice che non è più riuscita a trovare un compagno con cui vi-
vere. Afferma che per lei è molto importante avere una relazio-

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ne “seria”. Mi racconta del suo matrimonio: “Mio marito era
una brava persona (spesso quando si inizia così è perché non
si trovano nel partner degli aspetti più positivi) e penso che mi
volesse realmente bene. Ma devo ammettere che era un uomo
molto diverso da me. I miei genitori mi avevano fatto presente
che questa diversità mi avrebbe potuto creare dei problemi; e
così è successo. Pur non essendo un uomo d’affari aveva volu-
to iniziare delle attività commerciali che sono terminate in un
quasi fallimento. Solo l’intervento economico della mia fami-
glia ha potuto evitare il peggio. Non era realmente un uomo su
cui si potesse fare affidamento”.
Ora vediamo come la signora si valuta. Sa di essere una bel-
la donna, di famiglia ricca. Si considera, inoltre, una persona
“sensibile”, intelligente e con tendenze artistiche. Anche il marito
non era in grado di soddisfare le sue aspettative, che non sono
diminuite con il passare degli anni. Quando conosce una nuova
persona, nel nostro caso un uomo, inizia a osservarlo attentamen-
te. È pronta a cogliere ogni aspetto negativo che sempre, con un
po’ di “buona volontà” si riesce a cogliere negli altri. La signora
dice di ragionare in base al principio del “Tutto o Nulla”.
Vediamo dove ci conduce questo modo di ragionare. La si-
gnora si ipervaluta e cerca quindi un partner che le sia adegua-
to. Quando le sembra di averlo trovato, ed è sempre un uomo
della sua stessa età, intelligente, ricco e di aspetto piacevole,
scopre che il signore in questione non le presta la minima at-
tenzione. “Non capisco - dice la signora - quando un uomo arri-
va sui cinquant’anni, invece di interessarsi a donne della sua età
presta attenzione alla donne con vent’anni di meno, anche se
hanno ben poco da dare. È proprio vero che gli uomini invec-
chiando perdono di dignità. Non è certo un comportamento
corretto quello di frequentare donne di vent’anni più giovani”.
Spesso una non corretta autovalutazione ci porta a crearci delle

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aspettative. Questo atteggiamento può essere così esemplifica-
to: io valgo 100 e mi aspetto un partner che valga 100, questo è
ciò che la signora intende per “Tutto”. Visto che il “Tutto” non
lo ottiene si passa al “Nulla”. Non vi sarebbero problemi se ci
si accontentasse del “Nulla”, ma ciò sembra essere ancora più
difficile.
Come mai una persona non riduce le proprie pretese, visto
che non riesce a ottenere ciò che vuole?
Commette due errori cognitivi:

1) l’attenzione è centrata sugli altri. Sono gli altri che sbaglia-


no. Vedi la frase: “Gli uomini invecchiando perdono di di-
gnità”. Quindi non si modifica la propria autovalutazione;
2) vivere nell’attesa del rapporto “giusto”.

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L’aspettativa nella vita quotidiana

Al semaforo

Siamo in auto, fermi al semaforo, è rosso. Noi abbiamo fretta.


Sembra che non venga mai il verde. Le nostre risposte emozionali
si intensificano. Siamo più tesi e contratti, vi è anche un incremen-
to del battito cardiaco. Il semaforo diventa verde, ci rilassiamo mo-
mentaneamente. Pronti a entrare in tensione una volta giunti al
prossimo semaforo. Se siamo distanti ed è verde, speriamo che
non diventi rosso e così facendo ci agitiamo. Se lo vediamo rosso
ci arrabbiamo, perché abbiamo fretta. Ora il semaforo è diventato
“aversivo”. Partiamo da casa tranquilli, non abbiamo fretta. Salia-
mo in auto e, giunti, al primo semaforo “rosso”, scatta in noi la ri-
sposta condizionata al semaforo: “Semaforo = Tensione”. Riuscia-
mo a rovinarci una giornata che doveva essere tranquilla. Come
nei rapporti interpersonali anche il semaforo dovrebbe funziona-
re secondo i nostri desideri, essere sempre verde.
Dobbiamo apprendere a dare risposte competitive nei confron-
ti della tensione che ci stiamo creando. Questi momenti di “pausa”

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al semaforo dovranno diventare per noi attimi di rilassamento. Ap-
pena ci accorgiamo che stiamo entrando in tensione alla vista del
semaforo rosso, dobbiamo effettuare le seguenti operazioni:

1) stringere con forza il volante; è sufficiente una contrazione


massimale di circa tre secondi;
2) all’inizio della contrazione inspirare dal naso e al termine
della contrazione espirare dalla bocca.

Si rilasseranno rapidamente le braccia e le spalle. Quindi il sema-


foro rosso deve diventare uno stimolo legato al rilassamento. Solo una
costante applicazione ci porterà a indebolire il legame “Semaforo =
Tensione” per giungere al nuovo legame “Semaforo = Rilassamento”.
Ovviamente, all’inizio, se siamo di fretta sarà difficile controllare pen-
sieri negativi quali: “Arriverò in ritardo! Perché non diventa verde?
Perché la macchina che è davanti non parte subito?” Sono tutti pen-
sieri negativi perché non ci danno soluzioni. Incrementano il nostro
stato di disagio (vi è un aumento di adrenalina e noradrenalina).
Si potrebbe cercare di modificare i pensieri negativi in positivi,
quali: “Agitarmi non serve! Debbo rimanere calmo!” In ogni caso la
migliore procedura è il rilassamento. Solo quando saremo in grado
di rilassarci, si potranno usare frasi rassicuranti come: “Agitarmi non
serve”. L’uso di queste frasi, non legate al rilassamento, incrementano
in noi la tensione. Quante volte ci siamo sentiti dire “calmati” e, come
risultato, ci siamo maggiormente agitati. Non ci si può calmare se non
si conoscono le operazioni necessarie per allentare la tensione.

Il treno in ritardo

Quando il treno ritarda o, peggio ancora, vi è uno sciopero


improvviso, entriamo in ansia. Emettiamo un comportamento

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simile a quello “dell’attesa al semaforo”. Ma in questo caso le
risposte emozionali che diamo sono più intense. Al semaforo
siamo noi a guidare l’auto. Non siamo totalmente passivi come
nell’attesa del treno. Il nostro disagio aumenta in funzione del
ritardo. Cerchiamo di comunicare il nostro malcontento a un
altro viaggiatore in attesa. Cerchiamo la sua comprensione e
solidarietà. Questo serve solo a ridurre momentaneamente il
nostro disagio, che poi si riacutizza al successivo annuncio di un
ulteriore ritardo. I nostri processi cognitivi sono molto stimolati.
Tutti i nostri pensieri sono tendenzialmente aggressivi. Come
abbiamo visto, il risultato della nostra aggressività è lo star male.
Difficilmente in queste situazioni si riesce a stare tranquilli solo
dicendosi: “Visto che non posso fare nulla, agitarmi non ser-
ve”. Anche in questo esempio si può osservare come gli eventi
esterni modificano il nostro comportamento. Siamo tranquilli
fin quando non ci avvisano del ritardo del treno. Poi, in pochi
secondi, diveniamo tesi e irascibili. La difficoltà che incontria-
mo è quella di controllare le nostre risposte emozionali.
Rimanere controllati e calmi in una situazione di disagio è
un comportamento “intenzionale”, voluto. Al contrario non vi
è nulla di intenzionale nell’arrabbiarsi. Quindi, se il treno è in
ritardo, proviamo per una volta a dirci: “Debbo stare calmo,
arrabbiarmi non serve”. Se riusciamo a controllarci, anche per
un solo momento abbiamo ottenuto una piccola vittoria. Ab-
biamo rotto lo schema: disagio = rabbia.
Mi sono trovato in stazione ad attendere il treno che era
in ritardo. Vicino a me, vi era un passeggero particolarmente
teso. Mi rivolge la parola per avere una mia conferma sulla inef-
ficienza del servizio. Mi dichiaro, in parte, d’accordo. Spero
così, di attenuare momentaneamente la sua tensione. Veden-
domi tranquillo mi chiede se il ritardo del treno non mi causa
problemi per il lavoro. Gli rispondo di sì, ma non potendo far

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nulla provo a non “agitarmi”. Gli suggerisco di fare altrettanto.
Il passeggero mi risponde: “Vede per lei è facile, è il suo carat-
tere, ma io non sono fatto così”. Quindi ci lasciamo. Ma il pas-
seggero non è più tranquillo. Anzi è maggiormente teso. Oltre
a essere arrabbiato con le ferrovie, è arrabbiato con le persone
che rimangono calme in quelle situazioni. Come avete potuto
vedere, non sono partito dal suo “livello operante”, ma dal mio.

Siamo incolonnati nel traffico

Il signor Claudio è un capoufficio. Ha quarant’anni, è sposato e


ha un figlio di dieci anni. Come tutte le mattine, si alza alle sette
e trenta. È pronto per uscire alle otto e trenta. Scende in garage
e prende la macchina. Alle otto e trentacinque è in strada diretto
all’ufficio. Tutto è programmato, alle otto e cinquanta deve esse-
re in ufficio. I primi cinque minuti di guida procedono bene, il
traffico è scorrevole. Ma ora il traffico rallenta, poi si ferma. Ci
sono dei lavori in corso. Claudio inizia a emettere chiare risposte
“emozionali”. Contrae le mascelle, continua a guardarsi intorno,
guarda l’orologio. I minuti passano e si procede molto lentamen-
te. Claudio diventa sempre più teso. Quando riesce a uscire dal
traffico, sono trascorsi dieci minuti. Arriva in ufficio con dieci mi-
nuti di ritardo. Ma la tensione che ha accumulato non si riduce
rapidamente, anzi, ora si trova nella situazione ottimale per di-
venire aggressivo. Questo comportamento è ciò che si definisce
un’aggressività “dislocata”, e viene indirizzata verso le persone su
cui si può esercitare potere. Si crea rapidamente una situazione di
elevato disagio per tutti. Per Claudio è stato sufficiente un impre-
visto per rovinarsi la giornata.
Molto spesso non possiamo mantenere i nostri programmi.
Organizziamo la giornata, ma un imprevisto ci costringe a ri-

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mandare i successivi impegni. Cosa possiamo fare? Abbiamo
fatto ciò che potevamo e, se non dipende da noi, è inutile star
male. Se dipende da noi, entrare in ansia non serve; cerchiamo
delle soluzioni. Ricordiamoci che nel cercare la soluzione dob-
biamo essere noi gli “attori”. Non dobbiamo lasciare che siano
gli eventi a decidere per noi.

L’aspettativa e l’interpretazione

Abbiamo organizzato una cena. Aspettiamo una coppia di amici


per le venti e trenta. Sono le venti e ci telefonano che non possono
venire. Hanno avuto un guasto alla macchina e sono rimasti blocca-
ti fuori città. Probabilmente, in una situazione come questa, non ci
arrabbiamo. Può dispiacerci, abbiamo preparato una buona cena,
e ci aspettavamo una piacevole serata. Ci diciamo: “Mi dispiace per
gli amici, non è certo piacevole trovarsi, di notte, con la macchina
in panne”. Come vedete, in questo modo di pensare, siamo dispia-
ciuti per gli amici. Proviamo solo un lieve dispiacere per la cena
che abbiamo preparato. Non sarebbe corretto dirci: ho preparato
la cena e non sono venuti, mi hanno rovinato la serata.
Alcuni di noi hanno la “tendenza a leggere dietro” al messaggio
verbale che ci viene dato. La frase: “Siamo rimasti bloccati fuori
città” può essere letta: “È solo una scusa che hanno inventato, in
verità non avevano voglia di venire”. Spesso vogliamo interpretare il
comportamento altrui. Sono frequenti le frasi quali: “Non è arriva-
to solo per farmi un affronto”. “Non parla ed è perché è arrabbiato
con me”. “Mi ha fatto uno sgarbo, solo perché ieri non sono stato
gentile con lei”. “Non mi telefona, è chiaro, è perché non gli inte-
resso”.
La tendenza a “interpretare” ha come immediata conse-
guenza un aumento di aggressività. La frase: “Non mi telefona

59
ed è perché non gli interessa” può avere questo seguito: “Visto
che non gli interesso, mi comporterò di conseguenza. Non gli
telefonerò, voglio vedere cosa succede”. Vediamo cosa potrà
succedere. Dopo alcuni giorni l’amico ci telefona e noi dicia-
mo: “Era ora che telefonassi, è possibile che se non telefono io
tu non ti fai mai sentire”. La risposta corretta: “Sono contento
di sentirti”, non può essere emessa. Non possiamo dare rispo-
ste cortesi quando pensiamo che l’amico si sia comportato in
modo scorretto nei nostri confronti. Ecco un efficace sistema
per rovinare un rapporto. Dobbiamo abituarci a NON INTER-
PRETARE.
Nel caso dell’appuntamento mancato, la tendenza verso il
comportamento aggressivo è dovuta a un errato modo di pen-
sare. Il nostro pensiero ricorrente è: “Tutto deve andare come
io voglio”. Se ciò non succede è giusto arrabbiarsi. Sembra stra-
no che tutti noi si continui a usare un comportamento non fun-
zionale. Cosa vi è di utile nell’arrabbiarsi, quando, come unico
risultato, stiamo male noi? Non possiamo certo avere gli amici
a cena quando sono impossibilitati a venire. È bene porci la
domanda: “Cosa mi serve arrabbiarmi? Risolvo il mio problema
arrabbiandomi?”. Arrabbiarsi in alcune situazioni può esserci
utile, in ogni caso otteniamo risultati solo a breve termine.
Se un nostro amico arriva abitualmente in ritardo agli ap-
puntamenti e noi siamo puntuali, ci possiamo ovviamente ar-
rabbiare e, come risultato, otteniamo delle scuse da parte del
nostro amico. Momentaneamente ci sentiamo soddisfatti, ma
non modifichiamo il suo comportamento. Continuerà ad arri-
vare in ritardo. Non si modifica, perché il suo comportamento
non ha conseguenze dirette.
Alcuni anni fa uscivo spesso con un amico, ci vedevamo
due o tre volte alla settimana. Ci davamo un appuntamento a
un’ora precisa, io ero puntuale e lui ritardava abitualmente di

60
venti o trenta minuti. Mi arrabbiavo ogni volta, lui si scusava e
mi diceva che non sarebbe più successo. Ottenevo un risultato
solo a breve termine e mi dicevo: “Questa volta ha veramente
capito”. Per le due o tre volte successive arrivava puntuale. Ma
presto recuperava il suo comportamento abituale, arrivando in
ritardo. Visto che arrabbiarmi “serviva” solo a me, per star male,
provai altre strategie. Mi dissi: “Se lui arriva in ritardo farò anch’io
lo stesso”. Ma ciò non funzionava. Mi dava noia arrivare in ritardo
e, se lui arrivava all’appuntamento prima di me, mi diceva: “Bene!
Dici che io arrivo sempre tardi, ma anche tu fai la stessa cosa”. Io
rispondevo: “Così ti rendi conto di che cosa voglia dire aspettare.
Vedi che ti dà noia”. Così si riusciva a litigare. Potrete dire che si
poteva interrompere l’amicizia. Ma mi era simpatico e stavo bene
con lui. Questa strategia però non funzionava: ero sempre io a
pagare i “costi maggiori” senza ottenere risultati. Elaborai allora
un altro “programma”. Dissi all’amico: “Se non sei qui per l’ora
dell’appuntamento io ti aspetto per cinque minuti, aspettare oltre
mi dà noia e quindi me ne andrò”. Così, dopo cinque minuti di at-
tesa, andavo via. Da principio l’amico si arrabbiò, ma io continuai
ad aspettarlo solo per cinque minuti. In questo modo pagavo costi
minori; mi dava troppa noia aspettare magari per mezz’ora. Ora
era l’amico a pagare per il suo ritardo, arrivava, non trovava nessu-
no e si rovinava la serata. Per non rovinarsi la serata era costretto
ad arrivare puntuale. Gli avevo aumentato i costi della “risposta”.
Pur continuando a “protestare” per il mio comportamento, ha ap-
preso a essere puntuale.
Ogni comportamento produce conseguenze; se non si hanno
conseguenze negative il comportamento persiste. L’amico con-
tinuava ad arrivare in ritardo perché in ogni caso io aspettavo.
Come vedete sto usando il passato. L’amicizia non si è interrotta
a causa del mio comportamento. Abbiamo solo meno occasioni
di vederci.

61
L’aspettativa sul lavoro

Abbiamo iniziato un nuovo lavoro, ci soddisfa. È trascorso un anno e


ci aspettiamo qualche cosa di nuovo. Il lavoro ormai lo conosciamo
bene, ma non arrivano nuovi stimoli. Tutto procede in modo abi-
tuale. Stiamo annoiandoci. La noia, il lavoro ripetitivo, può essere
per alcuni fonte d’ansia. Per altri, invece, il lavoro ripetitivo è fonte
di tranquillità; entrano in ansia quando si trovano in situazioni lavo-
rative nuove.
Giorgio lavora da circa quindici anni in banca. All’inizio il lavo-
ro lo stimolava. Stava apprendendo nuove abilità, molte cose che
la scuola non gli aveva insegnato. Giorgio apprende rapidamente e
chiede di essere messo alla cassa. Ma trova il lavoro ripetitivo, non
stimolante. Dopo alcuni mesi chiede di essere trasferito a un altro
lavoro. Il trasferimento non gli viene subito concesso. La struttura
organizzativa non prevede per Giorgio un nuovo posto di lavoro.
È necessario attendere. Per Giorgio sono mesi carichi di frustrazio-
ne. Il direttore pensa che vi sia la possibilità di un nuovo posto tra
circa un anno. È evidente che, quando si lavora in una istituzione
(come banche o pubblico impiego), non siamo noi a organizzare il
nostro futuro. Come abbiamo visto, per alcuni tutto ciò può essere
rassicurante, per altri fonte di ansia. Appena ha raggiunto quindici
anni di lavoro in banca, Giorgio cerca un’altra attività. Inizia una
piccola attività commerciale in proprio. Sono trascorsi tre anni, il
nuovo lavoro è stimolante per Giorgio, non si annoia. Non avverte
più la minima ansia. Anche quando facciamo un lavoro in proprio,
non tutte le iniziative si possono realizzare.
Non possiamo sempre controllare tutte le variabili legate alla
situazione. In ogni caso, è meglio operare, che attendere di avere
l’assoluta certezza della riuscita di un nostro progetto. La certezza
non l’avremo mai. Se non raggiungiamo un obiettivo che ci siamo

62
prefissati non è poi così importante come continuiamo a ripeter-
ci. Quindi: TUTTO È IMPORTANTE MA NON LO DEVE ESSERE
TROPPO.

Il lavoro e il creare false aspettative: come perdere


di credibilità

Mi promettono un lavoro che richiede l’intervento di alcuni opera-


tori. Convoco i futuri collaboratori e spiego loro il lavoro che c’è da
svolgere. Tra un mese si dovrà iniziare; questi sono gli accordi presi
con chi ci ha commissionato il lavoro. Il mese è trascorso ma non è
ancora possibile iniziare il lavoro; sono sopraggiunti dei momenta-
nei “intoppi” burocratici che ne impediscono l’avviamento. Passano
i mesi e continuano i problemi burocratici. Chi mi ha commissiona-
to il lavoro dice che è solo questione di poco tempo (il “poco tem-
po” non è una quantità ben definita). È trascorso un anno e il lavoro
non si è fatto. Spiego ai miei futuri collaboratori che il continuo
ritardo non dipende da me, le cause sono di altra natura.
In questo caso ho creato delle aspettative ai collaboratori; aspet-
tative che non sono stato in grado di concretizzare.
Vediamo due casi in cui il creare aspettative può causare frustra-
zione e rabbia.

1. Il datore di lavoro dice ai suoi dipendenti: “Alla fine dell’anno


avrete un premio consistente”. Alla fine dell’anno i dipendenti tro-
vano nella busta paga cinquanta euro in più. Questo è il premio
“consistente” di fine anno. La reazione dei dipendenti è del tipo:
“Potevano fare a meno di dire che ci avrebbero dato un premio, ci
hanno presi in giro”.
In questo caso il datore di lavoro ha dato un messaggio ambi-
guo, non ha ben definito il premio. Il non dare corrette informa-

63
zioni può creare negli altri elevate aspettative.
Vediamo il seguente schema:

A) viene data un’informazione generica;


B) si creano delle aspettative.

A questo punto vi possono essere due possibili sviluppi:


C’) le informazioni date corrispondono alle aspettative, non vi sono
problemi;
C”) le informazioni date non corrispondono alle aspettative, si crea
disagio e frustrazione. Non si ha più “fiducia” in chi ha dato er-
rate informazioni.

2. Il datore di lavoro promette a un dipendente un avanzamento di


carriera. Il datore di lavoro dice al dipendente: “Vedrà che tra sei
mesi circa le farò avere la qualifica di dirigente, lei è veramente una
persona competente sul lavoro”.
In questo caso le informazioni sono precise. Se la promessa vie-
ne mantenuta, non vi saranno problemi. Ma, se trascorsi sei mesi
o un anno dalla promessa, non vi sarà alcun avanzamento nella
carriera, il dipendente si sentirà “preso in giro” e proverà un'elevata
frustrazione.
Può succedere di fare promesse che poi non si è in grado di
mantenere. In questi casi, appena ci si rende conto che sarà impos-
sibile mantenere la promessa, è opportuno dirlo immediatamente
all’interessato. L’interessato proverà frustrazione, ma forse, non a
un livello così elevato come nel caso in cui non si danno informa-
zioni e la promessa non è mantenuta.
Quindi, dare informazioni non chiare, creare aspettative e non
mantenerle o creare elevate aspettative ci fa perdere di credibilità;
si produrrà malcontento, e si otterrà di conseguenza, un probabile
comportamento non partecipativo da parte degli altri.
64
Il giudizio

Vi è una favola che può essere così riassunta. Un vecchio, un


bambino e un asinello arrivano in un villaggio. Gli abitanti del
villaggio dicono: “Guardate quel vecchio, va a piedi quando
invece potrebbe andare sull’asino”. “Hanno ragione” dice il
vecchio e sale sull’asino.
Continuando la strada arriva a un secondo villaggio e gli abi-
tanti vedendolo dicono: “Guardate quel vecchio. Lui va sull’asi-
no, mentre il bambino va a piedi”. “Hanno ragione” dice il vec-
chio, e prende il bambino con sé sull’asino. Arriva a un terzo
villaggio e gli abitanti lo guardano sdegnati e dicono: “Guardate
quel vecchietto. Sono in due sopra l’asinello”.
Questo è un esempio di assunzione secondo la quale, per
fare piacere agli “altri”, dobbiamo modificare costantemente il
nostro comportamento. Seguire il giudizio altrui diventa così
un imperativo.
Questo modo di agire diventa per noi una costante fonte
di ansia. Mentre parliamo scrutiamo attentamente il viso del
nostro interlocutore, cerchiamo dei segni di approvazione.

65
Questo modo di comportarsi è tipico delle persone “passive”.
Gli aggressivi non prestano la minima attenzione al giudizio
altrui. La paura del giudizio è legata al bisogno dell’approva-
zione. Di ciò è responsabile in modo determinante l’educazio-
ne che abbiamo ricevuto. Ricorrenti sono le frasi quali: “Cosa
diranno i parenti? Cosa dirà tuo padre? Cosa diranno…”
Tutti hanno il diritto di giudicare il nostro comportamen-
to. Noi dobbiamo solo subire. Il condizionamento ambientale
gioca un ruolo determinante nel dare forma a un mondo di
“valori” o “assunzioni” cui facciamo sempre costante riferi-
mento. Abbiamo visto che è “un nostro diritto fare richieste
ed è un diritto degli altri rifiutare”.
Molte persone trovano difficoltà nel fare richieste. Sperano
che gli altri capiscano senza aver bisogno di parlare. Ma è mol-
to difficile capire in mancanza di richieste dirette. Per quali
motivi una persona non è in grado di fare richieste?
Osserviamo il comportamento di alcuni genitori. Disappro-
vano i figli quando fanno delle richieste. Frequenti sono le
frasi quali: “Non devi disturbare gli altri. È da persona non
educata fare richieste. Anche se vuoi qualche cosa aspetta che
siano gli altri a dartelo”.
Come potete vedere da queste frasi, l’attenzione è sempre
rivolta agli altri. Questo spostare l’attenzione da noi stessi su-
gli altri ci crea delle “distorsioni cognitive”. Sviluppiamo un
modo di pensare che ci crea un disagio costante. Quando dob-
biamo fare una richiesta possiamo pensare: “L’altro può non
essere in grado di rifiutare. Un suo rifiuto mi darebbe molta
noia. Le mie esigenze non sono poi così importanti. Gli potrò
creare dei problemi”. In realtà i problemi li ha chi non riesce a
fare richieste. Non è detto che ciò sia un problema degli altri.
Pensiamo a risolvere i nostri problemi, solo così potremo
aiutare gli altri. Non andiamo, certo, a chiedere consiglio a

66
una persona che vediamo sempre preoccupata. Come può, chi
non è in grado di gestire i propri problemi, aiutare un altro?
Spesso si usa il termine “sensibile” in modo improprio. Molti
miei clienti si definiscono “sensibili”. Intendiamo con questo
termine definire le persone che danno una risposta spropor-
zionata allo stimolo. Un amico li giudica negativamente e stan-
no male; un conoscente fa loro uno sgarbo e per alcuni giorni
pensano al torto subito. Tutto è centrato sul giudizio. Quando
è negativo stiamo male.
Iniziamo a porci delle domande: “Perché mi ha detto que-
ste cose? Cosa gli ho fatto?”. Ma la persona che non è in grado
di fare richieste non potrà mai avere una risposta alle proprie
domande. Continuerà a pensare senza giungere a una conclu-
sione. Il comportamento più ovvio, chiedere all’amico: “Ciò
che hai detto mi ha dato noia, vediamo di chiarirci”, non potrà
essere emesso. Abbiamo visto come la difficoltà nel fare richie-
ste sia legata alla paura del giudizio. Ma la paura del giudizio
non ci permette di rifiutare. Spesso ci hanno detto: “Non è
educato rifiutare; l’altra persona può avere bisogno di te; se
rifiuti cosa succederà quando avrai bisogno di un aiuto?”
Quindi non rifiutiamo per paura di perdere un amico, il
partner, etc. Diventa nostra l’assunzione “a un amico non si
rifiuta”. Il giudizio è quindi:

1) bisogno di approvazione;
2) paura della critica.

Il giudizio ha un ruolo determinante in tutte le situazioni sociali:


con gli amici, i familiari, l’autorità, con il partner e in situazioni com-
merciali.

67
Il giudizio e gli amici
Un nostro caro amico ci chiede un favore. Noi non abbiamo
voglia di farglielo. Ma non riusciamo a rifiutare o cerchiamo
delle “scuse”. Nel dialogo che segue, Paolo chiede un favore a
Gianni. Gianni vorrebbe rifiutare.

PAOLO. Questo pomeriggio arriva all’aeroporto mia zia da Lon-


dra. So che oggi sei libero, io non posso assolutamente allonta-
narmi dall’ufficio. Ti sarei molto grato se tu andassi a prenderla.
(Questa è una normale richiesta. Gianni non ha voglia di andare a
prendere la zia di Paolo: gli è antipatica; il pensiero di trascorrere
un pomeriggio in sua compagnia lo disturba molto.)
GIANNI. Vedi Paolo, andrei volentieri a prendere tua zia, ma oggi
ho promesso a mio padre di accompagnarlo a fare delle compere.
(Per non essere giudicato negativamente dall’amico, Gianni ela-
bora delle scuse. Non è in grado di dire ciò che pensa.)
PAOLO. Non ti preoccupare, mia zia arriva all’aeroporto alle
quindici, ti rimane tutto il tempo per accompagnare tuo padre, i
negozi chiudono alle diciannove e trenta.
GIANNI. Va bene, andrò a prendere tua zia. (Ovviamente sarà ar-
rabbiato con Paolo. Ma Paolo non ha nessuna colpa, il problema
è di Gianni che non sa rifiutare.)
Gianni commette due errori cognitivi:

1) a un vero amico non si può rifiutare. Cosa penserebbe di


me?
2) Se fosse più “sensibile”, non mi farebbe certe richieste.

Il primo errore pone Gianni in una condizione di passività e


lo conduce al secondo errore: un vero amico capisce senza che
vi sia bisogno di parlare.

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Vi è amicizia quando possiamo parlare liberamente, senza
la paura di essere giudicati. Il rapporto diventa più semplice
quando siamo in grado di dire “no”.
Vi sarà capitato di avere degli amici passivi ed è molto difficile
fare loro delle richieste; perché se dicono “sì” può essere “no”.
Quando si decide di andare a vedere un film o di andare in un
ristorante, siamo sempre noi a decidere, e, questo, può essere co-
modo per noi: otteniamo un risparmio di tempo. Spesso le per-
sone aggressive stabiliscono rapporti con persone passive. Questo
può essere utile per entrambi. Ma ho visto che, spesso, questo tipo
di rapporto tende a incrinarsi. Il soggetto passivo si satura di su-
bire costantemente e diviene aggressivo. In un primo momento
il passivo lascia prendere le decisioni all’amico e poi critica le de-
cisioni prese. Frequenti sono le frasi quali: “Hai voluto andare a
vedere quel film! Era veramente brutto”. Ma continua a lasciar
prendere la decisione all’amico. Ora, una persona aggressiva, di
fronte a un simile comportamento, pone immediatamente fine
al rapporto dicendo: “Visto che tocca sempre a me decidere, ma
le mie decisioni non ti soddisfano e mi critichi costantemente,
mi sono stufato!” Una persona assertiva cerca di giungere a un
compromesso. A esempio può dire: “Questa volta ho deciso io,
per favore, la prossima volta decidi tu”. Emettendo questo com-
portamento, non ci aspettiamo che l’amico cambi rapidamente.
Cerchiamo solo di attenuare la sua critica successiva alla nostra
decisione. In ogni caso è inutile continuare un rapporto che sia
per noi troppo “costoso”.
Si è visto come il giudizio sia legato all’approvazione e alla
critica. La paura del giudizio ci rende quindi dipendenti dagli
altri e non in grado di gestire le critiche. Ricordiamoci quindi
che: SOLO NOI ABBIAMO IL DIRITTO DI GIUDICARE IL
NOSTRO COMPORTAMENTO. Se sbagliamo siamo noi a pa-
garne le conseguenze. Questa affermazione è rivolta alle persone

69
passive. Gli assertivi tengono presente il giudizio altrui, lo valutano
e, se è loro utile, lo accettano. Quindi sono pronti a modificarsi,
ma non per fare piacere agli altri, ma solo a se stessi. L’aggressivo
non presta attenzione al giudizio altrui. Solo il suo modo di com-
portarsi è, per lui, quello giusto; quindi non può modificarsi.
Vediamo un altro esempio riferito alla difficoltà di rifiutare.
La signorina Silvana ha trascorso una serata con l’amico Franco.
Ma Franco vuole stabilire un rapporto più “intimo” con Silva-
na, ed è stato molto insistente. Silvana non ha più intenzione
di vederlo. Quando l’amico telefona per invitarla nuovamente a
cena Silvana risponde: “Questa settimana sono molto impegna-
ta, e non penso di aver tempo di vederti”. Franco ritelefona dopo
alcuni giorni per invitarla e Silvana cerca nuovamente qualche
scusa. Ovviamente, dopo alcune telefonate Franco non cercherà
più Silvana. Ma cosa ha impedito a Silvana di dire chiaramente
che non aveva più intenzione di uscire? Il suo modo di pensare.
Silvana si dice: “Con un rifiuto offendo l’altra persona, penserà
che io sia maleducata”. Questo modo di pensare causa in un pri-
mo momento disagio e successivamente aggressività. Silvana non
dà chiare risposte, ma “pretende” che Franco capisca. Franco
non capisce, almeno subito, e Silvana diventa aggressiva. Dice a
se stessa: “È possibile che non capisca?” Quando Franco capisce,
dice a se stesso: “Poteva dirmelo subito che non aveva intenzione
di uscire, senza inventare tante scuse”. Ricordiamoci che, se gli
altri non capiscono, “la colpa è solo nostra”.

Il giudizio e i familiari

Alcuni dei miei clienti dichiarano che per loro è difficile ge-
stire il giudizio dei familiari. Sono, ovviamente, sempre giu-
dizi negativi, colpevolizzanti.

70
Una mia cliente, la signora Clara, mi racconta: “All’età di ven-
tidue anni decido di sposarmi. I miei genitori non condividono la
mia decisione. Mio padre, come sua abitudine, mi ostacola aper-
tamente. Mia madre, invece, usa frasi quali: “Vedi, Clara, lo dicia-
mo per il tuo bene…” Mi è sempre stato difficile competere con
mia madre. Mi sposo contro il loro parere. Dopo circa due anni di
matrimonio decido di separarmi. I miei genitori giudicano negati-
vamente la mia separazione. Si erano ormai abituati a mio marito
e dicono che la colpa della separazione è solo mia. Hanno anche
sempre criticato il mio lavoro. Sono trascorsi otto anni dalla mia
separazione e trovo un compagno. I miei genitori criticano questo
rapporto, il mio amico ha vent'anni più di me. Ora sono trascorsi
due anni e sto bene con questo mio compagno, è una persona mite
e comprensiva. Ma come posso gestire il rapporto con i miei genito-
ri? Ora hanno accettato il mio amico, ma cercano di intromettersi
sempre nella mia vita. A esempio, tutte le domeniche esigono che
si vada a trovarli. Se dico a mio padre che ho altro da fare, mi fa sen-
tire colpevole. Usa frasi quali: “Tu pensi solo a te stessa, pensi solo a
divertirti. Ma la vita è fatta anche di doveri”.
Nel comportamento dei genitori di Clara individuiamo due
comportamenti manipolativi abituali:

1) il giudizio negativo o critica manipolativa; è facilmente os-


servabile quando gli altri non si comportano secondo le no-
stre aspettative;
2) La “benevolenza”, e cioè: “Per il tuo bene fai come io voglio”.

Vediamo ciò che Clara deve apprendere per riuscire a gesti-


re i genitori:

1) valutare le proprie risposte emozionali quando si sente ag-


gredita;

71
2) discriminare quale comportamento i suoi genitori stanno
attuando: se è o non è manipolativo;
3) programmare risposte competitive nei confronti dei geni-
tori;
4) attendersi dai genitori un incremento di aggressività, che
seguirà al suo comportamento competitivo.

Clara ha trovato particolarmente difficile valutare e gestire


le proprie risposte emozionali. Fortunatamente il disagio che
provava non era così intenso da non permetterle di discrimi-
nare il comportamento dei genitori. Quando si è in grado di
discriminare, si potrà, non in un primo momento ma successi-
vamente, usare risposte competitive. Clara ha iniziato a formu-
lare risposte quali: “Capisco che tu abbia piacere di vedermi,
ma ho già preso altri impegni”. Quando il genitore insisteva
colpevolizzandola, Clara non cedeva. In un primo momento, vi
è stato un incremento di aggressività da parte del genitore; ag-
gressività che si è mantenuta per alcuni mesi. Successivamente
il padre, pur sempre non condividendo il comportamento del-
la figlia, ha iniziato ad accettarlo, le critiche si sono ridotte, ma
non del tutto estinte. Ogni tanto il padre colpevolizza la figlia.
Non sempre sapere ciò che si deve dire può essere sufficiente.
Questo è il caso di una signora di cinquant’anni. Sposata con
due figli, vive con un marito che è spesso fuori casa per lavoro.
Abitano in una villa a due piani. Al piano superiore vi sono i suo-
ceri. La signora è chiaramente passiva. Spesso la suocera va dalla
nuora per controllare cosa sta facendo. A esempio, entra in cuci-
na e dice: “Devi preparare per tuo marito e i figli dei cibi più nu-
trienti, ciò che stai preparando non è adatto per degli uomini”.
Questo comportamento della suocera crea un elevato disagio
alla mia cliente. Ciò le procura risposte emozionali molto inten-
se, quindi tace e fa come vuole la suocera. Si decide insieme che

72
deve diventare più competitiva. Quando la suocera entra in casa
dalla mia cliente e vuole imporsi, la frase da dire è: “Quando vieni
per darmi consigli mi fa piacere, ma in ogni caso sappi che questa è
casa mia e decido io ciò che è bene e ciò che è male”. La mia cliente
è d’accordo, sta a lei decidere in casa sua. Proviamo molte volte la
frase e presto si presenta l’occasione di dirla. La suocera arriva in
cucina, fa le sue critiche e la signora sta, come sempre, zitta. Solo
quando la suocera si allontana, si ricorda di ciò che doveva dire. La
presenza della suocera le attiva risposte emozionali così intense che
non è in grado di ricordare le risposte adeguate. In questo caso è
stato necessario insegnare alla mia cliente il rilassamento. Poi, in
stato di rilassamento, visualizzava a livello mentale la suocera che si
comporta aggressivamente nei suoi confronti. Si è quindi abituata
a rimanere rilassata visualizzando mentalmente la suocera. Succes-
sivamente ho iniziato a criticarla, mentre la mia cliente controllava
le proprie risposte emozionali. Solo quando è stata in grado di con-
trollarsi è riuscita a competere con la suocera.
Ora la sua abilità nel competere si è incrementata, cerca di
far rispettare i propri diritti. Anche se i successi sono solo del
50% circa, riesce a competere quando è direttamente aggredita.
Se, invece, usano nei suoi confronti una manipolazione basata
sulla “benevolenza” continua a cedere. In ogni caso, consideran-
do che la signora non era in grado di competere in nessuna si-
tuazione, ora si sente più sicura e decisa. Il suo processo di modi-
ficazione è lento, ma ora è in grado di ben discriminare quando
è passiva e subisce la manipolazione altrui.

Il giudizio e l’autorità

Stiamo per andare a sostenere un esame. È la mattina dell’e-


same, siamo tesi e agitati. Controlliamo per la decima volta la

73
nostra preparazione, ma non ci è sufficiente per ridurre il no-
stro stato di disagio. Avvertiamo crampi allo stomaco. Arrivia-
mo nell’aula dell’esame, aspettiamo l’appello, dicono il nostro
nome. Non possiamo più fuggire. Inizia l’esame. Sta passando
il primo studente, ma non risponde prontamente alla prima
domanda. Il professore dice: “Non mi sembra molto preparato,
proviamo con un’altra domanda. Se non la sa, sarò costretto a
mandarla via”. Lo studente non risponde, viene respinto. Osser-
viamo il viso del professore e vediamo che non sorride mai, anzi,
dimostra una chiara irritazione per l’impreparazione degli stu-
denti. Tocca ora a noi passare. Proviamo un’ansia molto elevata.
Ci sediamo e, in modo meccanico, rispondiamo alle domande.
Superiamo l’esame. Potrà ancora creare disagio il prossimo
esame? Penso di sì. Prima che vi sia una riduzione dell’ansia, è
necessario superare molti esami. Molti genitori, nell’educare i
figli, dicono loro: “Devi fare una bella figura di fronte alle per-
sone importanti”. Il loro giudizio conta molto. Così, quando ci
troviamo di fronte a una persona che noi investiamo di “autori-
tà”, volendo fare una “buona impressione”, entriamo in ansia.
Le persone che attribuiscono molta importanza al giudizio al-
trui si comportano in due modi. Con coloro che hanno meno
“potere” di loro diventano aggressivi, tendendo a inferiorizzarli e
a sottometterli; con le persone che stimano più “potenti” di loro si
sottomettono divenendo passivi. In questi casi vale l’affermazione
che: TUTTI SONO IMPORTANTI, MA NON TROPPO. Se accet-
tiamo questa affermazione, non variamo il nostro comportamen-
to in funzione del “potere” degli altri.
Abbiamo attribuito molta importanza allo “stile” educativo
dei genitori. Non bisogna però trascurare la scuola. Gli inse-
gnanti, particolarmente nel periodo delle elementari, hanno
un grande potere. Se dovessi affidare un incarico a un inse-
gnante, valuterei prevalentemente le sue abilità sociali. Nel

74
mondo dell’industria si inizia a dare importanza alle abilità so-
ciali. Si cerca di porre nei quadri dirigenziali quelle persone
che interagiscono bene con gli altri. Sembra veramente strano
che, nel mondo della scuola, non si consideri se un insegnante
è in grado di comunicare con la classe. La carenza di tale abilità
da parte dell’insegnante crea, in classe, una situazione di “ten-
sione”. Pochi sono gli studenti che apprendono, gli altri sono
giudicati negativamente. Ma ricordiamoci che, se gli altri non
capiscono, la colpa è nostra. Non siamo partiti dal loro “livel-
lo operante”. Partire dal “livello operante” significa descrivere
un comportamento, e quindi definire le abilità o disabilità che
possiede una persona. Al contrario, il giudizio sia positivo che
negativo, ha sempre un carattere soggettivo. L’uso del giudizio
negativo non serve. Serve solo a chi lo usa, in quanto, usandolo,
si sente deresponsabilizzato (vedi capitolo sull’errore).
La nostra cultura ci ha abituati a usare il giudizio negativo.
È spesso difficile individuare ciò che vi è di positivo negli al-
tri. Ma dobbiamo cercare di farlo; è utile per noi. A esempio,
dobbiamo andare a un incontro di lavoro e valutiamo negativa-
mente la persona che dobbiamo incontrare. Prima dell’incon-
tro siamo tesi e rischiamo di sviluppare aggressività. Vediamo il
seguente schema:

1) giudichiamo negativamente una “persona” (a esempio, rite-


niamo che si sia comportata “male” nei nostri confronti);
2) vediamo o incontriamo la “persona”;
3) attiviamo risposte emozionali negative;
4) tendiamo a evitarla o ad aggredirla.

Ma ciò non ci è utile; noi dobbiamo mantenerci tranquilli


e affabili. Proviamo a vedere ciò che vi è di positivo o “buffo”
nell’altro. Ci servirà per ridurre la nostra tensione o aggressi-

75
vità. Non è “ipocrisia” cercare strategie per ridurre la nostra
tensione, massimizzando i risultati.
L’importanza che attribuiamo al giudizio altrui ci spinge in
uno stato di costante insoddisfazione. Alcuni miei clienti, pur
avendo raggiunto un notevole benessere economico, provano
spesso ansia e insoddisfazione. Nel caso che descriverò non si
individuano particolari problemi con l’autorità. Ma il giudizio
delle persone che valutiamo “importanti” può ugualmente es-
sere una costante fonte d’ansia.
Aldo ha quarantatré anni. È diventato un importante uomo
d’affari. Non avendo genitori benestanti, è il classico uomo che
si è “fatto da solo”. I suoi modelli erano le persone che avevano
raggiunto potere economico. Abile manager, a venticinque anni
ha già raggiunto un notevole benessere economico. È riuscito a
emulare le persone che riteneva “importanti”. Ma non si sente
appagato. Vuole dimostrare di valere. “Ma a chi?”, chiedo io. “A
me stesso”, mi risponde Aldo. Le belle auto che compra, le belle
donne con cui esce, tutto è orientato al voler dimostrare agli al-
tri i propri traguardi raggiunti. Ma tutto ciò è molto costoso per
Aldo. Non in termini economici, ma in termini di “immagine”
che deve mantenere. Gli errori cognitivi di Aldo sono:

1) devo dimostrare agli altri di valere;


2) ho bisogno di destare invidia negli altri.

Come vedete, non appare mai il termine “piacere”. Non vi è nul-


la di male nel comperare una bella automobile. Ma lo dobbiamo
fare solo per noi stessi, per il nostro piacere, e non per dimostrare
agli altri il potere raggiunto. Quindi: NON DOBBIAMO DIMO-
STRARE AGLI ALTRI DI VALERE. Non dobbiamo neanche dirci:
“Lo debbo dimostrare a me stesso”. Il voler dimostrare a se stessi di
valere è un riflesso del giudizio altrui. L’individuo che si autovaluta

76
correttamente usa frasi quali: sono soddisfatto, mi piace, non mi
piace. Tutte le sue affermazioni sono centrate su “se stesso”, non
sugli altri. Il dire: “Voglio dimostrare” è centrato sugli altri.
Chi ha un lavoro dipendente è sempre sottoposto al giudizio dei
suoi superiori. Spesso si crea nell’ambiente di lavoro una situazione
di costante tensione. Il voler “primeggiare” pone un dipendente
contro l’altro. Per fare carriera si ha bisogno di valutazioni positive.
Una strategia spesso usata è quella di “inferiorizzare” il collega per
mettere in evidenza se stessi. Alcune situazioni lavorative facilitano
questo sistema. È il “parlar male di…” Lo possiamo trovare in tutti
i gruppi sociali, anche in famiglia. A cosa ci può servire denigrare
gli altri per acquisire dei meriti? A breve termine ciò può procurare
dei risultati, a lungo termine nulla. I risultati si dimostrano a breve
termine perché creano aspettative in chi ci ascolta. Chi ascolta può
dirsi: “Mi sembra una persona sicura di sé, affidabile”. Ma ciò che
importa sono i risultati, che si vedranno solo a lungo termine.
L’uso di queste strategie inferiorizzanti crea, sia in chi le usa, sia
in chi ascolta, delle aspettative. Chi le usa si dice: “Debbo dimostra-
re ciò che valgo”. Chi ascolta si dirà: “Vediamo cosa vale”. Non è det-
to che chi “inferiorizza” debba star male quando non raggiunge un
obiettivo. Chi inferiorizza è tendenzialmente una persona aggressi-
va che si ipervaluta, e il mancato raggiungimento di un obiettivo, a
suo parere, non dipende da lui, ma dalla incompetenza degli altri.

Il giudizio e le situazioni commerciali

Entriamo in un negozio per comperare una giacca. Abbiamo in


mente un certo tipo di giacca, di un particolare colore. Vedia-
mo il dialogo tra il cliente e il commesso.

CLIENTE. Avevo visto in vetrina, un mese fa, una giacca a qua-

77
dretti con gli spacchi laterali.
COMMESSO. Si, era un modello che avevamo, ma era un model-
lo di fine serie. È un modello ormai superato. Se ricordo bene,
lei ha un cinquanta di taglia. Provi questo nuovo modello, sono
convinto che le starà bene. (Il commesso esprime un giudizio ne-
gativo sulla giacca che il cliente vuole comperare e positivo sulla
giacca che vuole vendere.)
CLIENTE. Non è proprio la giacca che volevo, ma me la faccia
provare ugualmente.
COMMESSO. (Aiuta il cliente a indossare la giacca, si allontana
di un passo e osserva il cliente, dimostrando approvazione). Le
sta molto bene, si guardi allo specchio. (Il commesso continua a
manifestare giudizi positivi. È una strategia manipolativa del tipo:
io sono competente, se la giacca non ti piace è perché non sai
nulla di moda.)
CLIENTE. (Pur non essendo molto convinto). Si è una bella giac-
ca (vorrebbe dire che a lui non piace molto, ma tace e cerca delle
scuse per non comprarla). Ma non me la sento comoda.
COMMESSO. Questo è un problema a cui si può ovviare. L’im-
portante è che le piaccia. Dove sente tirare la giacca?
CLIENTE. Sulla schiena e sul giro maniche. Penso che non mi
vada bene. (Continua a cercare delle scuse. Può essere vero che la
giacca sia leggermente stretta. Ma ciò che il cliente continua a non
dire è che la giacca non gli piace).
COMMESSO. Non si preoccupi. Ora vado a chiamare il sarto. Ve-
drà che risolverà il suo problema.

A questo punto il cliente si sente costretto a comperare la


giacca. Vediamo gli errori commessi dal cliente. Errori cognitivi:

1) il giudizio del commesso è più importante del mio;


2) non debbo dimostrare di essere una persona non competente;

78
3) il commesso è molto gentile, non posso fargli perdere tempo
senza comprare nulla.

In questo caso, la “distorsione” cognitiva non gli permette


di conseguire l’obiettivo che si era prefissato: comprare la giac-
ca che voleva, e se non la trovava in questo negozio, andare
in un altro. A livello di comportamento manifesto l’errore è:
aver comprato la giacca che non si voleva. Ricordiamoci che è
importante il comportamento manifesto. Tutti possiamo avere
più o meno delle “distorsioni” cognitive. Ma ciò che importa
è il conseguire l’obiettivo che ci siamo prefissati. Nel caso del
negozio, dobbiamo essere noi soddisfatti, non il commesso.
Quando raggiungiamo un obiettivo, anche minimo, ci sentia-
mo gratificati. I successi di auto-affermazione che conseguiamo
ci permettono di essere più sicuri nelle successive situazioni.
Il cliente che esce dal negozio, dopo aver comprato la giacca
che non voleva, si sente frustrato. Si dice: “È possibile che non
riesca a impormi, a non dire ciò che voglio”. Verifica così la
propria inabilità a gestire anche semplici situazioni. Si valuta
negativamente. Gestire situazioni commerciali non è partico-
larmente difficile. Non vi è un grande coinvolgimento emo-
zionale. In queste situazioni, è necessario non perdere di vista
l'obiettivo che ci siamo prefissati. Nel caso che abbiamo visto, il
cliente avrebbe dovuto comportarsi nel seguente modo:

1) provare la giacca proposta dal commesso;


2) valutare se gli piaceva o no.

In caso negativo, rispondere assertivamente: “È una bella


giacca, ma non è quella che volevo”. All’insistenza del commes-
so aggiungere: “Capisco ciò che mi sta dicendo, ma non è quel-
la che voglio. Arrivederci”. Si usa come tecnica verbale il “disco

79
rotto”. Ripetere senza adirarsi, ciò che si vuole dire e senza farsi
coinvolgere nelle argomentazioni che non ci interessano.

Il giudizio e il nostro partner

Analizziamo ora la situazione in cui il giudizio del nostro part-


ner ci attiva intense risposte emozionali. La signora Laura è con
il marito a una cena e vi sono altre tre coppie. Si sta discutendo
sugli ultimi sviluppi politici, tutti esprimono la propria opinio-
ne. Laura esprime la propria opinione. La reazione del marito
è immediata, con lo sguardo “dichiara” tutta la sua disappro-
vazione. La signora si sente immediatamente a disagio e non
parla per tutta la serata.
Il sentirsi sempre valutati e osservati crea una costante ten-
sione. Perché uno dei partner usa spesso giudizi negativi? Si in-
dividuano, prevalentemente, due motivazioni:

1) voglio che il mio partner non faccia “brutte figure” (non vo-
glio che gli altri lo giudichino negativamente);
2) senza la mia guida non sa come comportarsi (che possiamo
leggere: deve comportarsi come voglio io).

Se accettiamo l’affermazione: “gli altri non hanno il diritto


di giudicarci”, dobbiamo anche essere in grado di non giudi-
care. Ricordiamoci che è assertivo dire: sto bene con quella
persona; sto male con…; mi piace o non mi piace.
La frase: “Quella persona è antipatica” tende a essere aggres-
siva. Posso solo dire che: “Io non sto bene con quella persona”;
non debbo usare delle generalizzazioni. Quella persona può
essere antipatica a me, ma simpatica a un altro. Quindi: NON
È NOSTRO DIRITTO GIUDICARE GLI ALTRI. Abbiamo già

80
visto, come, nell’amicizia, sia piacevole potersi esprimere senza
dover valutare ogni parola. Ciò vale anche per il rapporto di cop-
pia. Noi dobbiamo essere in grado di esprimerci liberamente, se
ciò non aggrada al nostro partner, discutiamone. Accettiamo le
critiche che ci possono essere d’aiuto, ma opponiamoci alle criti-
che manipolative.
Un mio cliente ha una moglie che lui definisce “insopportabi-
le”. Quando sono insieme, lei non gli lascia mai prendere la pa-
rola. Spesso lo critica di fronte a tutti. Visto che queste erano solo
le su affermazioni, decido di vederli insieme. Inizia a parlare la
signora, la interrompo per sentire ciò che ha da dire il marito.
Appena inizia a parlare, la moglie lo interrompe. Si dimostra re-
almente aggressiva nei confronti del marito. È una donna sicura
di sé e sa ciò che vuole. Mi dice che deve essere lei a prendere le
decisioni importanti, perché suo marito non è in grado di farlo.
Mi dice tutto questo di fronte al marito.
Alla seduta successiva vedo il mio cliente da solo. Mi dice: “Ora
che ha visto mia moglie, si è reso conto che carattere ha”. Vorrebbe
che giudicassi negativamente la moglie. Ma quale può essere l’uti-
lità di un giudizio negativo? Nessuna. Chi sta male è il mio cliente,
non la moglie. È lui che deve apprendere a gestire il proprio disa-
gio in presenza della moglie. Quando la moglie lo aggredisce, lui
avverte dei crampi allo stomaco. È evidente che discutere a lungo
sul “cattivo carattere” della moglie non è di nessuna utilità, visto
che la moglie non ha nessuna intenzione di cambiare; lei sta bene
così. Una volta accettato che la moglie non cambia, si è di fronte a
due strategie per non star più male, dove lo sviluppo della prima
esclude la seconda: o fare ciò che è possibile per gestire il proprio
disagio di fronte all’aggressività della moglie, o, se non si riuscirà
nella prima strategia, valutare la possibilità di una separazione co-
niugale (seconda strategia). Ora, a distanza di due anni, il mio
cliente sta bene. Da un anno e mezzo è separato.

81
Il giudizio e la società

Questa è un’affermazione frequente: “Nella vita è importante avere


dei valori in cui credere”. Ci è molto difficile sapere in quali “va-
lori” credere. Ogni persona è differente, quindi ogni persona ha
i propri valori. Ecco una prima possibile obiezione: “Vi sono dei
valori universali che tutti accettano”. Se siete d’accordo con questa
posizione vi può essere difficile accettare un diverso punto di vista.
Pensate a ciò che ritenete importante, può essere il concetto di ami-
cizia, di famiglia, di religione, di nazione, etc.
Senza difficoltà troverete un “valore” in cui credete. Fin qui tut-
to bene, non vi sono problemi. Ma quando i “Valori” assumono
per noi una notevole importanza, iniziamo a irrigidirci sulle nostre
posizioni, non accettiamo le persone che pensano e si comportano
in modo diverso dal nostro. Iniziano allora i pregiudizi e si formano
i gruppi che espellono il “diverso”. Queste persone sanno chiara-
mente cosa è bene e cosa è male. Il “Valore” in cui credono di-
venta “assoluto”, solo loro possono giudicare. Ovviamente noi non
raggiungiamo questi elevati livelli di “Pensiero assoluto”, ma, se vo-
gliamo provare ad auto osservarci, scopriremo che spesso anche
noi diveniamo intolleranti con chi “viviamo” diverso da noi. Se noi
crediamo nella famiglia e la moglie di un nostro amico lascia il ma-
rito, noi la condanniamo. Per quale motivo noi giudichiamo nega-
tivamente una persona che non ci ha aggredito? Anche se non ha
aggredito noi direttamente, sentiamo che ha attaccato i “Valori” in
cui crediamo. Quindi diventa giusto per noi biasimare una persona
che si comporta in modo “diverso”. Osserviamo il seguente schema:

1) situazione: la persona emette un comportamento;


2) il comportamento emesso non è “accettabile”, è contrario
al nostro “universo di valori”;

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3) ciò ci disturba, proviamo disagio;
4) dobbiamo allontanare il disagio;
5) diveniamo aggressivi: condanniamo;
6) il disagio cessa, siamo soddisfatti del comportamento che
abbiamo emesso, era quello “corretto”.

Vediamo che nella fase 3 noi proviamo disagio e cerchiamo di


evitarlo. Attribuiamo il “nostro” disagio al comportamento dell’altra
persona. Quindi l’altra persona emette un comportamento “erra-
to”. È giusto “condannarla”. Abbiamo visto, nel capitolo sull’aspet-
tativa, come attribuiamo il nostro disagio al comportamento altrui
e vogliamo che gli altri si modifichino di conseguenza. Può darsi
che si riesca a comprendere che a doverci modificare siamo noi.
Troppe volte siamo stati male. Ma una persona che ha un modo di
“pensare assoluto” non si modifica. Il disagio che prova è solo mo-
mentaneo, la risposta aggressiva (il giudizio negativo) è immediata.
Se riteniamo che sia importante poter comunicare con tutte le
persone dobbiamo liberarci da ogni pregiudizio, capire i punti di
vista altrui e individuare le nostre “assunzioni” che non ci permet-
tono di accettare gli altri. Si potrà, quindi, trovare dei punti in co-
mune per stabilire un rapporto. Nei capitoli successivi ci si servirà di
dialoghi che hanno come obiettivo quello di “smantellare” alcune
assunzioni che tendono a “irrigidirci” sulle nostre posizioni e che
quindi non ci permettono di apprendere dagli altri.

Il giudizio e la perfezione

Maria è una giovane donna di 25 anni. Lavora come dipenden-


te in una grande industria. Presenta buone abilità sociali e par-
la alcune lingue. Quando sul lavoro le affidano mansioni per
cui valutano che possieda le specifiche abilità, rifiuta. Ha paura

83
a esporsi e si dichiara sempre non idonea a quel tipo di lavoro.
Osserviamola: è precisa nel parlare e interviene solo quando
è sicurissima di ciò che deve dire; è sempre affabile e gentile con
tutti; veste in modo elegante e il suo comportamento è aggraziato.
Sembrano qualità positive, ma cosa le impedisce di emerge-
re? Dichiara inoltre di non essere particolarmente soddisfatta
del proprio lavoro attuale.
Analizziamo un dialogo tra Maria e un suo amico, Marco.

MARIA. Vorrei cambiare lavoro, fare qualche cosa di più inte-


ressante e maggiormente remunerativo.
MARCO. Hai già qualche idea in proposito? È da circa un anno
che mi dici che vuoi cambiare lavoro.
MARIA. Si è vero, non sono soddisfatta del mio lavoro.
MARCO. Cos’è che non ti soddisfa nel tuo lavoro attuale?
MARIA. Non riesco a emergere, faccio sempre un lavoro ugua-
le e monotono.
MARCO. Mi hai detto che, quando ti richiedono altre presta-
zioni, rifiuti.
MARIA. Si è vero, ho sempre paura di non essere sufficiente-
mente competente.
MARCO. Scusa, ma per cambiare lavoro tu non devi esporti a
situazioni nuove? In ogni caso quale tipo di lavoro vorresti fare?
MARIA. Attualmente non ho nessuna idea.
MARCO. Ma tu hai diverse abilità, e dovresti vedere quali posso-
no essere i lavori in cui sono richieste le tue competenze.

Sono trascorsi circa sei mesi da questo dialogo, e Maria con-


tinua il suo lavoro. Probabilmente continuerà così per molto
altro tempo ancora. Forse si rammaricherà per ciò che avrebbe
potuto fare. La paura del giudizio degli altri, legato all’imma-
gine che deve creare di sé, non le permette di passare al livello

84
operativo. Parlare di ciò che si potrebbe fare serve solo se si
passa al livello operativo; se ci si muove in quella direzione. Nel
suo caso, Maria dovrebbe iniziare a “provarsi” sul lavoro che ha
già, per poter valutare le sue reali abilità ed esporsi al giudizio
degli altri e agli eventuali fallimenti. Non è un'abilità quella di
voler dimostrare di essere “perfetti”, lo è resistere alla frustra-
zione che ci crea il “fallimento”.

La valutazione del giudizio

A trenta dei miei clienti che presentano tutti ansie sociali (venti
donne e dieci uomini, di età compresa tra i ventitré e quaran-
tadue anni) ho chiesto di stabilire l’ordine di importanza di
situazioni di “Giudizio”, in riferimento alle seguenti relazioni:
amici, familiari, autorità, partner, commercio.
Venticinque clienti hanno dato la seguente sequenza: fami-
liari e partner al primo posto; seguono gli amici, l’autorità e le
situazioni commerciali.
Quattro clienti hanno dato una sequenza come la preceden-
te, ponendo solo l’autorità prima degli amici.
Un cliente ha dato la sequenza: autorità, commercio, amici,
familiari e partner all’ultimo posto.
Discutendo con i clienti sulla sequenza che hanno dato, ven-
tinove mi hanno fornito la stessa risposta: “Con i familiari e il
partner debbo vivere, per me, sono le persone più importanti.
Gli amici possono cambiare, oggi ci sono, domani no. Una per-
sona autoritaria può causare disagio, ma non è detto che io
debba sempre vederla. Le situazioni commerciali sono le meno
importanti”.
I quattro clienti che hanno posto l’autorità prima degli ami-
ci fanno un lavoro dipendente e provano disagio alla presenza

85
dei superiori. L’unico cliente che ha dato una sequenza totalmen-
te invertita è un giovane studente universitario di ventitré anni.
All’università va molto bene, non ha mai preso un voto inferiore al
trenta. Mi dice che nella vita vuole primeggiare. Alla mia richiesta
di motivarmi la sequenza che ha dato, mi dice: “L’Autorità per
me è importante. Debbo dipendere dalle persone dotate di au-
torità per andare avanti nella vita. Sono queste le persone che
mi possono aiutare. Ho messo poi le situazioni commerciali,
perché non riesco a gestirle, mi trovo spesso a disagio. Gli amici
mi possono in qualche modo essere utili. All’ultimo posto ho
collocato mia madre, mia nonna (il padre è morto alcuni anni
fa) e la mia fidanzata. Mia madre, qualunque cosa faccia, mi
giudicherà sempre bene, non la perderò. Mia nonna è anziana
e con lei non si può dialogare. La mia fidanzata la conosco da
anni e mi accetta come sono”. In tutte e trenta le valutazioni sul
giudizio, le persone sono collocate in base all’importanza che
hanno per noi. Non vi è una classificazione più o meno giusta.
I ventinove che hanno dato valutazioni simili, hanno problemi
con la famiglia (prevalentemente i genitori), il partner o l’auto-
rità. Sono tendenzialmente passivi. Nel caso del giovane univer-
sitario, il dover costantemente primeggiare lo ha portato a un
tale livello di deperimento fisico che non riesce più a sostenere
esami.
L’importante è non stare male. Quindi quasi tutti dovranno
apprendere a gestire i loro rapporti familiari o d’altro tipo; il
giovane, invece, capire che spesso essere i primi è molto costo-
so.
Quando una persona ha individuato i giudizi o le critiche
che maggiormente la disturbano può preparare una risposta
o meglio una “battuta” di spirito per ogni eventuale critica. È
opportuno:

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1) individuare le critiche alle quali si è maggiormente “vulnera-
bili”;
2) preparare, possibilmente, un elenco scritto delle critiche;
3) predisporre per ogni critica un'eventuale “battuta” di spirito.

In tal modo, non si aggredisce chi critica, ma si pone termine


all'eventuale aggressività dell’altro. Spesso dopo aver subito una
critica ci si pone la domanda: “Avrei dovuto dire così…”; “Avrei
dovuto dare un’altra risposta”. Quindi se non vogliamo rimane-
re solo a livello “d’intenzioni” e vogliamo modificarci realmente,
dobbiamo preparare delle risposte adeguate. Risposte che dovran-
no diventare quasi “automatiche”. A esempio, alla frase “Ti rendi
conto che stai ingrassando troppo?”, una risposta potrebbe essere:
“A me piace mangiare”.

87
La Volontà

La volontà non esiste. Vi sembra impossibile accettare questa


affermazione? Penso di sì. Ma cosa intendiamo per volontà?
Spesso sento la frase: “Non ho volontà. Sono fatto così”. Ma
questa affermazione non ci serve a nulla. Non ci spinge a mo-
dificarci. È un’affermazione totalmente passiva. Una persona
dedica ore di studio al pianoforte; un altro impiega venti ore
a scalare una montagna; un ragazzino sta interi pomeriggi a
programmare il suo computer. Può essere la volontà a spingere
queste persone a impegnarsi?
Provate a chiederglielo. Vi risponderanno: “Mi piace farlo”.
Le difficoltà incontrate, la sofferenza provata in alcuni mo-
menti, la delusione, se sono state accettate, diventano uno sti-
molo per progredire; queste persone hanno appreso a convi-
vere con tutto ciò. Tendiamo a impegnarci nelle attività che
ci gratificano e ci danno dei risultati, sia a breve che a lungo
termine. Quindi una persona può dimostrare “volontà” in un
settore ma non in un altro. Lo scalatore che si impegna per
ore su una difficile parete può non essere in grado di fare un

89
lavoro ripetitivo, monotono; dopo poche ore si satura, non è
motivato. Quindi: NON ATTRIBUIRSI E NON ATTRIBUIRE
AGLI ALTRI LA MANCANZA DI VOLONTÀ.

La volontà e il lavoro

Ricordate il caso di Giorgio? Era impiegato di banca e il lavo-


ro non lo gratificava. Vedo qualche volta la moglie di Giorgio.
Mi dice: “Quando ci siamo sposati Giorgio lavorava in banca
da tre anni. Già allora si lamentava, non era soddisfatto del
lavoro”. Quando le chiedo se lo ha invitato a cambiare lavoro,
mi risponde: “Tutti i suoi colleghi sono soddisfatti, è un lavoro
sicuro e tranquillo. Se Giorgio avesse solo un po' di volontà,
accetterebbe il lavoro”. Quante cose si fanno nella vita che non
si ha voglia di fare! Ma “bisogna farle”.
Quest’ultima frase è ricorrente e può essere così parafrasata:
“La volontà è fare le cose che «dobbiamo» fare, non che «vo-
gliamo» fare; non è volontà fare le cose che ci fanno piacere”.
Ma ciò che “dobbiamo” fare è fatto per gratificarci o per far
piacere a qualcun altro? Spesso lo si fa non per il nostro bene,
ma per il “bene” altrui.
Giorgio aveva difficoltà a cambiare lavoro perché incontrava
due ostacoli:

1) la moglie che non capiva per quale motivo il marito volesse


lasciare un lavoro sicuro per uno insicuro;
2) i genitori di Giorgio vedevano, nel lavoro in banca, il rag-
giungimento di un “buon” livello sociale.

Sia la moglie che i genitori attribuivano a Giorgio scarsa vo-


lontà e adattabilità all’ambiente. Se Giorgio avesse cambiato

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lavoro, sia la moglie che i genitori sarebbero entrati in ansia.
Quindi per il “loro” bene Giorgio doveva continuare a lavorare
in banca. Smise di lavorare in banca solo dopo quindici anni.

La volontà e il controllo del proprio comporta-


mento

La signora Carla pesa centocinque chili. Ha provato molte diete,


ma senza risultati costanti. In due mesi perde trenta chili, per poi
recuperarli in altri due. Ha trentacinque anni, è sposata da dodici
anni e ha due figli. È proprietaria di un negozio che gestisce con
una commessa. Il marito è spesso fuori casa per lavoro. Carla fin
da ragazza è stata obesa, ma il suo peso non era molto al di sopra
della media. Solo da otto anni ha iniziato ad aumentare di peso,
per giungere, quattro anni fa, al suo peso attuale, centocinque
chili. È fermamente decisa a dimagrire. Le consiglio di tenere
un diario dettagliato, dove deve annotare tutto ciò che mangia.
Con particolare attenzione ai cibi che consuma fuori pasto. Vedo
Carla dopo otto giorni. È stata molto scrupolosa nel tenere il dia-
rio. Vi annota: ora in cui ha mangiato, quantità di cibo, ansia che
provava in quel momento, eventuali eventi antecedenti all’assun-
zione del cibo. Si vogliono verificare le seguenti ipotesi:

1) esistono eventi ansiogeni antecedenti all’assunzione del


cibo?
2) esiste una positiva correlazione tra livello d’ansia (valutato
soggettivamente) e assunzioni di cibo?

Prima ipotesi: si individuano degli eventi ansiogeni. Carla non è


in grado di gestire i rapporti interpersonali con i suoceri, con il ma-
rito e con la madre. Con tutte queste persone è passiva-aggressiva.

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Quando, in una situazione interpersonale, emette dei compor-
tamenti non adeguati, prova ansia per alcuni giorni.
Seconda ipotesi: Carla, quando prova ansia elevata, tende ad ali-
mentarsi con maggiore frequenza. Nei giorni in cui è maggior-
mente ansiosa giunge a fare otto-dieci spuntini fuori pasto. Gli
alimenti preferiti sono a base di zucchero. Quindi la risposta alla
seconda ipotesi è “sì”, esiste correlazione tra ansia e cibo.
Quando si alimenta in modo eccessivo si sente colpevole.
Non riuscendo a controllarsi, si dice: “Non riuscirò mai a ri-
durre il mio peso”. Tende quindi verso la depressione, con
incremento dell’ansia. Questo circolo vizioso può essere così
rappresentato:

ANSIA SOCIALE

CIBO

COLPA

DEPRESSIONE

ANSIA SOCIALE

In questo caso non si può dire che la mancanza di volontà sia la


causa della iperalimentazione. Se le ipotesi che abbiamo formula-
to sono corrette, acquisire abilità sociali dovrebbe ridurre il livello
d’ansia in Carla e, quindi, l’assunzione del cibo. In molti casi di ec-
cesso di peso si possono individuare delle situazioni che facilitano
l’assunzione del cibo. Nel caso di Carla è stato necessario insegnar-
le a gestire la propria ansia sociale. Pur prevedendo che acquisire
abilità sociali può non essere sufficiente. Si è creato ormai uno
stretto legame tra vista del cibo e risposta alimentare. L’attenzione

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va centrata sul controllo dello stimolo “cibo”. È necessario allon-
tanare dalla vista di Carla il cibo. A esempio, se è seduta davanti al
televisore, è necessario per lei allontanare i cioccolatini che tiene
vicino. Solo quando si sarà rotto il legame vista del cibo = alimen-
tazione, Carla potrà ridurre il proprio peso.
Spesso emettiamo risposte sproporzionate alle situazioni. Sia-
mo consapevoli della inutilità di queste risposte. Ci dicono che
con un po’ di volontà saremo in grado di controllarci, ma per
noi è molto difficile. Dopo aver emesso il comportamento ina-
deguato, cerchiamo di giustificarci. Abituali sono le frasi: “Mi ha
fatto arrabbiare. Non doveva comportarsi così. È logico che mi
arrabbi”. Vediamo di modificare queste frasi, visto che formulate
in questo modo non ci sono di nessuna utilità. Vediamo quindi di
NON AUTOGIUSTIFICARE IL NOSTRO COMPORTAMENTO.
Il non controllo delle risposte emozionali, unito alla giustifica-
zione, mantiene inalterato il nostro comportamento. Non si può
quindi parlare di non volontà nel controllarsi ma di “disabilità”
nel controllarsi. Il nostro comportamento inadeguato può essere
così schematizzato:

SITUAZIONE STIMOLO

RISPOSTE EMOZIONALI

COMPORTAMENTO INADEGUATO

AUTO-GIUSTIFICAZIONE DEL COMPORTAMENTO


INADEGUATO

L’auto-giustificazione del nostro comportamento non ci


permette di modificarlo; aumenta così la probabilità di emette-
re lo stesso comportamento in una situazione simile.

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Proviamo a modificare le frasi di auto-giustificazione:

1) “Mi ha fatto arrabbiare”. Sono io che mi sono arrabbiato.


Bisogna dire: mi sono arrabbiato.
2) “Non doveva comportarsi così”. Ricordiamoci di non aspet-
tarci che gli altri si comportino così, io sono stato male,
come devo comportarmi per non stare male? Come devo
modificare il mio comportamento?
3) “È logico che mi arrabbi”. Visto che arrabbiarsi non serve,
ci si deve dire: “Se si ripresenterà un'analoga situazione ve-
drò di non arrabbiarmi”.

Il fratello colpevolizzante

Spesso il nostro modo di pensare non ci permette di modifi-


carci.
A esempio, tra due fratelli, Carlo e Sergio, non vi è comuni-
cazione.

CARLO. Per quale motivo sei andato ieri a trovare nostra madre?
Non vai a trovarla che una volta al mese. Mentre io vado due o tre
volte alla settimana. Non essendo più giovane ha bisogno di aiuto
e può contare solo su di me. (Chiaro è il comportamento aggres-
sivo di Carlo: usa la colpevolizzazione.)
SERGIO. (Il comportamento di Carlo gli crea disagio, emette ri-
sposte emozionali. Cerca ugualmente di fare ragionare il fratello.)
Vado a trovare la mamma quando penso abbia bisogno. Andare
a trovarla più frequentemente mi crea dei problemi. Sai come è
la mamma... si lamenta sempre per dei mali che non ha. Ultima-
mente ha fatto tutti i controlli medici possibili e per i suoi set-
tant’anni sta benissimo.

94
Quando vado da lei, per circa due ore mi parla dei suoi problemi
e, quando esco da casa sua, sto male. (Sergio ha comunicato al
fratello il motivo delle sue rare visite alla madre; si “aspetta” che
Carlo capisca.)
CARLO. È comodo da parte tua dire queste cose. Così facendo sca-
richi tutte le responsabilità su di me. Mi sembra troppo comodo.
(Carlo continua ad aggredire colpevolizzando.)
SERGIO. (Il suo voler “fare” ragionare il fratello non ha dato
risultati. Si sente sempre più teso e “l’aspettativa” che Carlo ca-
pisca diventa: “non vuole” capire). Forse ti sei dimenticato di
quando hai avuto l’incidente d’auto. In quella situazione sono
accorso subito all’ospedale, ti ho cercato i migliori medici e ti
ho fatto trasferire in una clinica privata perché tu avessi le mi-
gliori cure. E se ben ricordi ho pagato tutto io, visto che tu di-
cevi di avere delle difficoltà economiche. Ora proprio tu vieni
a dirmi che non mi interesso; quando è necessario, ho sempre
dimostrato di interessarmi. (Sergio ha reagito aggredendo il
fratello, sta colpevolizzandolo, sperando di ridurre l’aggressi-
vità di Carlo).
CARLO. Bene! Ora mi stai ricordando che cosa hai fatto per me.
Chi ti ha aiutato a trovare lavoro? Non fosse stato per le mie co-
noscenze non avresti combinato nulla. (Entrambi i fratelli stanno
recuperando il passato; ecco un’ altra strategia manipolativa, ri-
cordare i favori fatti. Si tratterà più ampiamente questo argomen-
to nel capitolo sul “Sacrificio”.)
SERGIO. Visto che non vuoi intendere ragioni, vado via.

Osserviamo ciò che è successo dal punto di vista di Sergio e ponia-


mogli alcune domande:

Domanda: il comportamento di suo fratello le crea disagio?


Risposta: sì, mi fa stare male.

95
Domanda: è mai riuscito a modificare il comportamento di suo
fratello?
Risposta: no! Non ci sono mai riuscito.
Ci chiediamo: per quale motivo Sergio insiste a emettere
un comportamento che non dà risultati? Vediamo il seguente
schema:

1) situazione stimolo: Carlo aggredisce;


2) risposta emozionale di Sergio;
3) Sergio cerca di far ragionare il fratello;
4) Carlo non capisce (per Sergio, è Carlo che non “vuole” ca-
pire);
5) Sergio aggredisce Carlo;
6) dopo l’aggressione Sergio sta male;
7) Sergio auto-giustifica il proprio comportamento.

In questo caso osserviamo in Sergio alcuni errori cognitivo


comportamentali.

1) L’attenzione di Sergio è rivolta alla situazione stimolo: Car-


lo aggredisce. Visto che questa situazione gli crea disagio
(risposta emozionale), vuole modificarla. Ma Carlo non si è
mai modificato (vedi domande precedenti).
2) Sergio vuole far ragionare il fratello, anche se Carlo non
presta attenzione. Persiste in questo comportamento per-
ché Carlo “deve” capire: è solo questione di “volontà”.

Ora le conclusioni sono ovvie: Sergio non deve voler con-


vincere il fratello, dal momento che è impossibile convincerlo.
Non deve più centrare esclusivamente l’attenzione sul compor-
tamento aggressivo di Carlo.
Vediamo come Sergio avrebbe dovuto comportarsi:
96
CARLO. Per quale motivo sei andato a trovare nostra madre?
Non vai a trovarla che una volta al mese. Mentre io vado due o
tre volte alla settimana. Non essendo più giovane ha bisogno di
aiuto e può contare solo su di me.
SERGIO. (Non accetta la provocazione.) Ti ringrazio molto
per l’attenzione che presti a nostra madre.
CARLO. Ma visto che è anche madre tua, potresti interessarte-
ne di più. (Continua l’aggressione.)
SERGIO. (Continua a non accettare l’aggressione e non giu-
stifica il proprio comportamento.) Capisco che tu ti preoccupi
per la mamma, ma ti prego di non chiedermi di fare altrettanto
(e tronca la conversazione).

Quindi Sergio non aggredisce (comportamento che gli


causava disagio) ma, cosa ancora più importante, non subisce.
Quando Sergio si trova solo si dice: “Capisco che Carlo abbia
dei problemi con la mamma, ciò mi dispiace. Ma questo è un
suo problema non mio. Ben diversa è questa affermazione se la
confrontiamo con l’autogiustificazione che avrebbe fatto segui-
to al suo comportamento aggressivo. La sua auto-giustificazio-
ne sarebbe stata: “Ogni volta mi fa arrabbiare, non vuole pro-
prio capire le mie ragioni; è una persona impossibile”.
Un'affermazione del genere non predispone Sergio a modi-
ficare il proprio comportamento, anzi...!

97
L’orgoglio

Abbiamo già trattato della ipervalutazione contenuta nell’a-


spettativa. Abbiamo visto come un'eccessiva autovalutazione
non ci permette, spesso, di raggiungere gli obiettivi che ci sia-
mo prefissati. L’orgoglio può essere definito come un eccesso
di autovalutazione. Le persone “orgogliose” si attendono che
tutti gli altri li valutino come loro stessi si valutano. L’orgoglio-
so si attribuisce “importanza”, e, quindi, è importante. Gli “altri”
valgono, ovviamente, meno di noi. Gli “altri” ci debbono atten-
zione, debbono approvare ciò che diciamo. Gli “altri debbo-
no”, mentre noi non dobbiamo “nulla” agli altri.

Un modo errato di iniziare un rapporto

Carlo incontra Franca a una cena. Vi è subito una reciproca at-


trazione. Nessuno dei due è timido, quindi la comunicazione è
immediata. Terminano la cena dandosi un appuntamento. Car-
lo sa che domani sera Franca è libera; anche lui non ha nessun

99
impegno, e avrebbe piacere di vederla. Quindi non dovrebbero
esserci ostacoli, ma Carlo rimanda di una settimana l’incontro.
Per quale motivo si comporta così? Sembra assurdo desiderare di
vedere una persona, sapere di poterla vedere e rimandare l’in-
contro. Carlo si dice: “Franca mi interessa molto, ma non voglio
farglielo capire troppo, perderei il vantaggio che ho. Franca mi
ha dichiarato che le interesso. Penso che sia bene non dimostrar-
mi troppo disponibile. Una persona troppo disponibile diventa
meno interessante”. È il loro primo incontro, vanno a cena e poi
a casa di Franca. Trascorrono una serata piacevole e si trovano
bene nel fare l’amore. Franca è una donna estroversa con molti
interessi e amici. È sua abitudine prendere dalla vita ciò che viene,
senza porsi troppe domande, né crearsi inutili dubbi. Carlo vuole
“gestire” i rapporti interpersonali e pensa che una buona strategia
sia creare nel partner un’ansia d’attesa. Quando si lasciano Carlo
dice: “‘Ti telefono, ma penso che non riusciremo a vederci questa
settimana, ho molti impegni”. “Bene! - risponde Franca - Quando
sei libero, telefonami, ho piacere di vederti, sono stata bene con
te, avvisami solo con qualche giorno di anticipo, così non mi pren-
do impegni”.
Franca è abituata a non essere dipendente: se Carlo telefona le
fa piacere, ma, se ciò non succede, non è un grave problema; la
sua vita continua come prima.
Carlo invece si dice: “Ora è più che mai necessario che non mi
faccia vedere troppo interessato: aspetto a telefonarle, così vedrò
l’interesse che ha per me”.
Carlo, pensando di gestire Franca e di non voler apparire “in-
namorato”, aspetta a telefonarle, e nell’attesa sta male.
Franca continua tranquillamente la propria vita.
Nel caso di Carlo non osserviamo una ipervalutazione, ma un
comune errore cognitivo: non si devono dichiarare i propri sen-
timenti. Quindi non si possono usare frasi quali: “Mi trovo mol-

100
to bene con te”, “mi piaci”, “ti voglio bene”. Molte persone mi
hanno detto che trovano queste frasi troppo “compromettenti”;
ci si “espone troppo”. Ci può essere utile tale modo di pensare?
Otteniamo qualche risultato positivo? Se emettiamo un comporta-
mento, lo facciamo per ottenere qualche cosa, anche solo per una
momentanea riduzione del disagio che stiamo provando. A esem-
pio una persona ci critica spesso, quindi noi, quando la vediamo,
cerchiamo di evitarla. Evitare questa persona ci porta a ridurre
momentaneamente il nostro disagio, anche se ciò non ci permet-
te di risolvere a nostro vantaggio la situazione disturbante.
Non usiamo queste frasi “compromettenti” perché abbiamo
spesso paura del rifiuto, della non accettazione e, per questo, ci
rifugiamo nella frase abituale: “Sono troppo orgoglioso per accet-
tare un rifiuto”.
Nel seguente schema si evidenziano le varie fasi:

1) situazione: la persona mi piace;


2) devo farle capire che mi interessa;
3) ho paura della sua risposta negativa;
4) trovo delle autogiustificazioni: non voglio comprometter-
mi;
5) evito di comunicarle il mio interesse;
6) mi dico che sono troppo orgoglioso;
7) non raggiungo l’obiettivo che mi ero prefissato, di frequen-
tare la persona che mi interessa;
8) nuova autogiustificazione: questa persona non mi interessa,
mi ero sbagliato.

Anche se non si ottengono risultati positivi l’autogiustifica-


zione ci permette di non “vedere” l’insuccesso, quindi di non
provare disagio.

101
L’orgoglio e il lavoro

Vediamo il modo di comportarsi del signor Andrea. Andrea fa


il rappresentante di commercio, o meglio, ha iniziato da circa
un anno questa attività. La ditta per cui lavora gli affida una
clientela e richiede un certo fatturato. Dopo un anno di lavo-
ro si vede che il fatturato previsto non è stato raggiunto, anzi,
si sono persi molti clienti. Ovviamente Andrea viene rimosso
dall’incarico. Per capire che cosa è successo osserviamo un dia-
logo tra Andrea e il suo amico, Marco.

ANDREA. Sai che mi hanno licenziato dall’impiego che avevo?


MARCO. Cosa è successo? Era un buon lavoro, mi dispiace
molto.
ANDREA. In questo tipo di lavoro si hanno spesso rapporti con
gente insopportabile, alcuni clienti sono arroganti e trattano
male il rappresentante.
MARCO. Questo lo capisco, ma il tuo compito era vendere e
non preoccuparti della poca gentilezza dei clienti.
ANDREA. È facile parlare così, ma, se una persona ha un po’ di
dignità, non accetta di essere trattato male. Solo perché com-
pra, il cliente non si può permettere delle frasi quali: “adesso
non ho tempo”, “aspetti”, “è nuovamente qui?”
MARCO. Così facendo avrai perso molti clienti, e forse, tra que-
sti, alcuni acquistavano molto.
ANDREA. Non riesco a capirti, tu saresti stato li fermo, davanti
al cliente, mentre lui ti trattava male. No, io non accetto que-
sto, quando un cliente mi tratta male non lo visito più.
MARCO. Sì, io sarei stato fermo davanti al cliente, pensando
che dovevo vendere. La mia gratificazione sarebbe consistita
nel vendere, non nell’andarmene via senza aver concluso nulla.
ANDREA. Tu non hai amor proprio, non hai dignità.
102
MARCO. L’amor proprio lo lascio da parte, se mi è d’ostacolo
nel raggiungere un obiettivo.

In questo caso, “l’orgoglio” di Andrea non gli permette di con-


seguire l’obiettivo che compete al suo lavoro: vendere. Come si può
modificare un tale modo di pensare? È necessario centrare la nostra
attenzione sugli “obiettivi” che ci poniamo. Qualunque sia il compor-
tamento altrui non deve interferire sul nostro obiettivo. Nel caso di
Andrea è irrilevante che i clienti lo trattino “male”; se vuole dimostra-
re a se stesso di valere, lo può dimostrare solo in un modo: vendendo.
Spesso ci si serve del termine “orgoglio” per mascherare un
nostro deficit di abilità. Vediamo un modo semplice di ragionare
quando vogliamo raggiungere un “obiettivo”.
Domanda: penso di avere le abilità necessarie?
Se sì:

1) lo dimostro raggiungendo l’obiettivo;


2) pensavo di essere in grado di raggiungere l’obiettivo, ma ho
fallito. Allora devo domandarmi:

——Dove ho sbagliato e quali sono le abilità che mi mancano?


——Sono in grado di acquisire le abilità mancanti?
——Se sì, quanto tempo penso sia necessario impiegare per ac-
quisirle?
——Posso servirmi dell’aiuto di altre persone per coprire la mia
specifica mancanza di abilità o competenza?

Se no:

3) penso di non essere in grado: modifico l’obiettivo;


4) voglio ugualmente provare: mi pongo tutte le domande del
punto 2.

103
Ricordiamoci che: POSSIAMO PORCI SOLO QUELLE DO-
MANDE A CUI POSSIAMO DARE UNA RISPOSTA,
È semplice ragionare in modo “contorto” con dubbi e incer-
tezze. Difficile è il ragionare in modo “semplice”, cioè, lineare
e operativo. Quindi ne deduciamo che è facile stare “male”.

L’orgoglio e l’errore

Molte persone provano difficoltà nel riconoscere i propri errori.


Hanno sbagliato sul lavoro, ma la colpa non è loro, è del collega. Il
matrimonio si conclude con la separazione, era il partner che non
capiva. Non vi sono rapporti con i figli, è perché: “al giorno d’oggi
non vi è più rispetto per i genitori”. La persona “orgogliosa” non
può riconoscere i propri errori, perché si incrinerebbe l’immagine
che ha di sé. Queste persone sono prive di autoironia, non riescono
a cogliere gli aspetti negativi ma ugualmente divertenti del proprio
comportamento. Che cosa vi è di più vulnerabile di una persona
che si “prende sul serio”, che non è in grado di ridere di sé?
Quando, a esempio, diciamo agli amici che in una determinata
situazione ci troviamo a disagio o ci comportiamo in modo buffo e
siamo goffi e impacciati? Nel parlare delle nostre “debolezze” non
proviamo alcun disagio, anzi ne ridiamo con gli amici. È evidente
che siamo poco vulnerabili a una eventuale critica quando siamo i
primi a essere completamente d’accordo con chi ci critica. Come
tende a comportarsi una persona che vuole o, meglio, cerca di ma-
scherare i propri aspetti “negativi”?
Il suo modo di pensare è del tipo:

——in quella situazione so che provo disagio;


——ma io non accetto di poter provare disagio, né tanto meno
di dimostrarlo;
104
——devo dimostrarmi sicuro e disinvolto;
——ma sarò in grado di controllarmi? In ogni caso devo fare una
bella figura.

Questi pensieri tendono a creare ulteriore disagio, e il disagio


può portare alla “fuga”. Quindi la persona “orgogliosa”, che vuo-
le mantenere elevata l’immagine che ha di sé, non si espone e
quindi non apprende.
Prima abbiamo usato il termine “aspetti negativi”, ma quali
possono essere degli aspetti negativi? Dal nostro punto di vista
è negativo solo il fare “violenza”, comportarsi cioè in modo ag-
gressivo con gli altri, voler imporre le nostre idee. Ma cosa vi è di
negativo nel dire di avere paura, di provare ansia in alcune situa-
zioni o di non sapersi gestire in altre?
Ci può essere utile non dichiarare i nostri errori o le nostre
“debolezze”?
Se emettiamo un comportamento, è perché ci attendiamo
qualche risultato. Non ammettere i propri sbagli serve a mante-
nere intatta l’immagine che abbiamo di noi stessi, quindi ciò ci
gratifica. Diventa un circolo chiuso da cui è difficile uscire. Spes-
so la persona orgogliosa che si ipervaluta, tende a voler “emer-
gere” da ciò che lui considera “massa” e, per raggiungere questo
obiettivo, svaluta gli altri. Vale quindi la regola: NON SVALUTA-
RE GLI ALTRI AL FINE DI APPARIRE I MIGLIORI.

105
L’errore

“Bisogna stare bene attenti a non commettere errori”. “Sta bene at-
tento a come ti comporti”. Queste e altre sono frasi abituali, spesso
le abbiamo sentite e, molte volte, usate. Quando le usiamo, siamo
“in buona fede”, non vogliamo che i nostri figli, parenti e amici com-
mettano degli errori. Noi abbiamo sbagliato, quindi sappiamo ciò
che è bene e ciò che è male. Ma, nel proiettare questo atteggiamen-
to sugli altri, commettiamo un errore: partiamo dalla nostra espe-
rienza e, quindi, dal nostro “livello operante”. Siamo stati male in
una determinata situazione e non siamo stati in grado di gestirla, ma
non è detto che altri non siano in grado di superare delle difficoltà
che per noi sembrano insormontabili. Non è nostro diritto dire: “so
cosa è bene o male per te”, ma “so cosa è bene o male per me”.
Spesso, cerchiamo di non fare commettere “errori” solo per atte-
nuare il nostro livello d’ansia. Abbiamo paura che succeda qualche
cosa di spiacevole a nostro figlio e allora gli proibiamo di compiere
una determinata esperienza. Così facendo stiamo meglio, abbiamo
ridotto il nostro livello d’ansia. È evidente che a ciò si possono
porre alcune obiezioni:

107
1) devo controllare che mio figlio frequenti delle buone com-
pagnie, che non rischi di diventare un drogato;
2) devo controllare che mio figlio non faccia delle attività pe-
ricolose, come andare in moto;
3) devo programmare e organizzare il suo futuro;
4) è giusto preoccuparsi per i figli.

Risponderemo a queste obiezioni servendoci di esempi. Ora


osserviamo il comportamento di due bambine e lo “stile” edu-
cativo dei loro genitori e parenti.

L’errore e i genitori

Le due bambine che osserviamo, Elena e Marina, hanno la


stessa età (sette anni), sono entrambe bambine intelligenti, e
a scuola apprendono senza difficoltà. Ora Elena si sta arrampi-
cando su un albero, mentre il padre la osserva. Quando arriva
a circa un metro dal suolo dichiara d’avere paura; il padre tran-
quillamente calma la figlia e la sprona a continuare la salita.
Spiega alla figlia come ci si deve arrampicare; sta insegnandole
a competere con le proprie risposte “emozionali”, a vincere il
disagio e la paura. Questo genitore, non essendo apprensivo,
può rassicurare la figlia, le infonde sicurezza e le trasferisce del-
le abilità. Elena sta apprendendo che le difficoltà si possono su-
perare e quando avverte disagio è in grado di dirsi: “Devo stare
calma e devo pensare a ciò che devo fare”. Occorre attribuire
una particolare importanza al nostro “dialogo interno”; ciò che
ci diciamo può avere un effetto rassicurante o invece incremen-
tare il nostro stato di disagio. Elena sta sviluppando un “dialogo
interno” che le permette di controllare le proprie emozioni e
quindi di raggiungere l’obiettivo voluto.

108
Per meglio comprendere questa dinamica osserviamo il se-
guente schema:

1) situazione aversiva;
2) risposta emozionale (tensione muscolare, tachicardia);
3) risposta cognitiva: devo controllarmi e pensare a come ri-
solvere la situazione;
4) risposta motoria: si muove nella direzione dell’obiettivo.

L’intervento del padre si colloca a livello dei punti 2 e 3. Al


punto 2: la sola presenza del padre, che è calmo e controllato,
tende a inibire le risposte emozionali di Elena. Inoltre, il parlare
in modo calmo e rassicurante riduce l’ansia. Al punto 3: Elena fa
proprie le verbalizzazioni rassicuranti del padre.
La seconda bambina, Marina, vive con i nonni. La madre, vedo-
va, è spesso fuori casa per lavoro. Ora Marina è in sala da pranzo
con i nonni e si siede sul bracciolo della poltrona. Immediatamen-
te la nonna le dice: “Stai attenta, puoi cadere”; e la fa scendere
dalla poltrona. Osserviamo Marina mentre sta giocando con altri
bambini; tutti hanno più o meno la sua età. I bambini si arram-
picano su uno scivolo alto circa due metri e si lasciano scivolare.
Marina ha un po’ paura, ma dietro la pressione degli altri bam-
bini vuole provare, appena inizia a salire sulla scaletta, la nonna,
sempre attenta, la ferma e la fa scendere. Le proteste di Marina
non danno risultati, la nonna è irremovibile: la bambina non deve
salire sullo scivolo. Successivamente la nonna porterà raramente
Marina a giocare con gli altri bambini.
Osserviamo il seguente schema:

1) Marina sta per salire sullo scivolo;


2) la nonna “vive” la situazione come pericolosa;
3) la nonna dà risposte emozionali (ansia);

109
4) la nonna ferma Marina e la fa scendere;
5) la nonna ha ridotto il proprio livello d’ansia;
6) la nonna non vuole più trovarsi in situazioni per “lei” avver-
sive e non porta più Marina a giocare con gli altri bambini.

Questo stile educativo tende a formare un bambino ansioso,


non in grado di competere con le proprie risposte emozionali.
Questo tipo di bambino tende a evitare le situazioni ancora prima
di affrontarle e, quindi, di vedere se è in grado di superarle.

L’errore e il nostro partner

La paura di sbagliare può inibire l’emissione di comportamen-


ti. Questo tipo di paura è strettamente legato alla paura del
giudizio, argomento che abbiamo già trattato.
Il marito deve andare a una riunione che lui valuta “impor-
tante”. Da alcuni giorni ne parla con la moglie e le dichiara le
sue incertezze e i suoi dubbi. Dovrà prendere la parola, parlare
di fronte a una ventina di persone e sostenere le proprie argo-
mentazioni. Non si è mai trovato in una simile situazione, ha
paura di sbagliare e di non riuscire a esprimersi correttamente.
Ora osserviamo il dialogo tra marito e moglie.

MARITO. Non so se sarò in grado di esprimermi correttamen-


te, commetterò degli errori e farò senz’altro una brutta figura.
MOGLIE. Come fai a dire di fare una brutta figura se non hai
mai provato?
MARITO. Proprio perché non ho mai provato sono sicuro di
non farcela.
MOGLIE. Ma di cosa hai paura?
MARITO. Di commettere degli errori nel parlare, di non esse-

110
re logico in ciò che dico.
MOGLIE. In ogni caso devi andare, mi hai detto che non puoi
farne a meno.
MARITO. Lo so che devo andare, si discutono anche i miei
interessi economici.
MOGLIE. Mi sembra che tu non debba dimostrare a nessuno
di essere un abile oratore, questo non è il tuo compito. Ciò che
devi dire lo sai bene e sul tuo argomento sei più preparato di
altri, non è vero?
MARITO. Sì. Sono ben preparato e lo conosco meglio degli
altri.
MOGLIE. Se ti fanno delle obiezioni sei in grado di controbat-
tere tranquillamente?
MARITO. Penso di essere in grado di controbattere, anche se
non tranquillamente.
MOGLIE. Quindi non mi sembra il caso di preoccuparsi, cono-
sci l’argomento e sei in grado di controbattere.

In quasi tutti gli altri casi abbiamo visto uno dei partner eser-
citare un’azione distruttiva nei confronti dell’altro. In questo,
la moglie spinge il marito a esporsi. Quando possiamo spingere
una persona a esporsi?

1) Quando ha le abilità per affrontare la situazione, ma l’ansia


blocca l’emissione del comportamento.
2) Quando sappiamo che in situazioni più o meno simili è stato
in grado di superare l’ansia.

In questo caso, la moglie valuta correttamente il marito, sa-


pendo che possiede le abilità necessarie per affrontare la situa-
zione; vi è solo la paura del giudizio altrui a impedirgli di espor-
si. È evidente che la moglie stessa non ha paura che il marito

111
faccia una “brutta figura”, in tal caso sarebbe lei per prima a
sconsigliare il marito a esporsi.
In questo caso, il marito sta anticipando negativamente la
propria prestazione. L’anticipazione negativa non è di alcun
aiuto, tende ad attivare in noi delle risposte emozionali nega-
tive con il risultato di incidere sulla nostra prestazione futura.
Centriamo la nostra attenzione solo su ciò che dobbiamo fare
o dire, non andiamo oltre con i nostri pensieri. Quindi: NON
ANTICIPARE NEGATIVAMENTE.

L’insegnante e l’errore

Siamo a un consiglio di classe, l’insegnante di matematica si


lamenta con i colleghi per lo scarso rendimento della classe.
Dichiara che solo cinque ragazzi su trenta sono sufficienti, gli
altri capiscono poco. I suoi colleghi sono stupiti di ciò, non
hanno riscontrato queste grandi carenze nella classe. Ma, se os-
serviamo l’insegnante di matematica mentre fa lezione, allora
possiamo capire.
L’insegnante sta spiegando, è rivolto verso la lavagna. Inizia
a scrivere alla lavagna, è rapido nello scrivere, appena ha ter-
minato un passaggio, senza girarsi in direzione degli studenti
dice: “Tutto chiaro, no?” e immediatamente cancella. Non ab-
biamo dubbi che per lui tutto è chiaro, ma cosa ne pensano gli
studenti? Se uno studente chiede chiarimenti, l’insegnante ri-
pete con la stessa velocità di prima e con le stesse parole. Termi-
nato di rispiegare chiede allo studente se ha capito; lo studen-
te, pur non avendo capito nulla, dice: “Si, ora è tutto chiaro”.
Simili situazioni le riscontriamo quando andiamo all’estero.
Stiamo parlando con un conoscente inglese, gli abbiamo posto
una domanda, la risposta è rapida e per noi incomprensibile.

112
Gli diciamo di non aver capito, lui, sorridendo, ci ridà la stessa
risposta, alla stessa velocità e con le stesse parole. Noi sorridia-
mo, facciamo dei cenni di assenso con il capo e non abbiamo
capito nulla.
In questi due casi, sia l’insegnante che l’amico inglese non
partono dal “livello operante” di chi li ascolta. Come avrebbe
dovuto comportarsi l’insegnante?

1) Individuare qual è la reale conoscenza della materia da par-


te degli studenti;
2) Programmare lezioni ed esercitazioni partendo dalle reali
abilità in possesso degli studenti;
3) Cogliere le difficoltà che incontrano gli studenti e modifi-
care il programma.

La continua attenzione da parte dell’insegnante alle retroin-


formazioni che riceve dagli studenti gli permette di adeguarsi co-
stantemente all’apprendimento degli studenti.
È chiaro che un tale insegnante deve rivedere costantemente
il suo “stile” educativo, accettare le critiche degli studenti, anzi
richiedere delle critiche.
Ritorniamo al nostro insegnante di matematica. Ora sta in-
terrogando uno studente. Lo studente scrive alla lavagna, l’inse-
gnante gli è vicino, pronto a cogliere il primo errore. Lo studen-
te esita, l’insegnante incalza, sia verbalmente con frasi del tipo:
“Non vedi che è semplice, vai avanti”, “se non riesci a fare questi
passaggi, immaginiamo quando dovrai fare quelli più difficili”, sia
non verbalmente, avvicinandosi a pochi centimetri dal viso dello
studente. Ovviamente lo studente inizia a dare risposte emozio-
nali e, se non sapeva molto, ora non ricorda più nulla. Al termine
dell’interrogazione sia l’insegnante che lo studente sono esausti.
Il primo perché è teso a individuare gli errori, e quando li scopre

113
si arrabbia; il secondo perché è sotto continua “pressione”.
L’insegnante che abbiamo appena descritto dichiarava che la
classe non apprendeva, ma molto difficilmente gli verrà il dubbio
che non sono gli studenti a sbagliare, ma lui.

Il disagio e il farmaco

Un ragazzo diciottenne deve andare a una festa. Alla festa, tro-


va una ragazza che gli interessa e vorrebbe iniziare a parlare
con lei, conoscerla. Ma il ragazzo prova disagio e deve cercare
di ridurlo: solo così potrà “affrontare” la ragazza. Prova a bere
del whisky; al secondo bicchiere il disagio è passato, si sente
disteso e sicuro di sé, ora può avvicinare la ragazza. Il ragazzo
ha discrete abilità sociali, che emergono quando non prova di-
sagio. Inizia a parlare con la ragazza e si accorge di controllare
la situazione.
Cosa ha appreso questo ragazzo? Che quando prova disagio
può rapidamente ridurlo bevendo.
Cosa non ha appreso? A controllare le proprie risposte emo-
zionali. Infatti, non è in grado di dire a se stesso: se riesco a
“farcela” bevendo, vuol dire che ho delle abilità, quindi debbo
farcela senza bere.
Spesso lo stesso meccanismo regola l’assunzione di “tran-
quillanti”. Uno studente deve dare un esame, prova prima di-
sagio e prende un ansiolitico; supera l’esame. Sul lavoro vi è
da gestire una difficile situazione, si prende un farmaco e si
gestisce meglio la situazione. Nella vita quotidiana le occasioni
di disagio possono essere molte e quindi può essere elevato
l’uso di ansiolitici.
Abbiamo visto dei casi in cui l’assunzione di farmaci permette
di ridurre il disagio e, quindi, di massimizzare la prestazione. Ma

114
ciò non sempre avviene, può succedere che, anche assumendo
farmaci, non si migliori 1a prestazione e si ottenga una prestazio-
ne negativa. In tal caso, dopo una prestazione negativa ci si sente
depressi, quindi è necessario prendere un altro farmaco.
Vediamo le situazioni che si possono presentare:

1) La situazione è simile ad altre che in passato abbiamo già


affrontato con esito positivo, ma sempre avvertendo disagio
prima della “prestazione”. Ad esempio, si sono superati di-
versi esami, ma sempre provando disagio prima dell’esame;
2) La situazione è simile ad altre che non siamo stati in grado
di superare. Ad esempio, a una riunione sappiamo che è
importante per noi prendere la parola, ma lo abbiamo sem-
pre evitato;
3) La situazione che si presenta è nuova; quindi non sappiamo
se siamo in grado di gestirla.

Nel primo caso, abbiamo le abilità richieste da quella situa-


zione, ma continuiamo a provare ugualmente disagio prima di
affrontarla.
Nel secondo caso, non sappiamo di possedere delle abilità,
perché abbiamo sempre evitato la situazione.
Nel terzo caso, trovandoci a dover affrontare una nuova si-
tuazione, possiamo avvertire disagio.
Quindi noi possiamo avere o non avere delle abilità nell'affron-
tare una situazione. Ricordiamo che, in una determinata situazio-
ne, possiamo dare due tipi di risposte:

1) risposte di tipo cognitivo, cioè il nostro "modo" di pensare;


2) risposte emozionali, quali: incremento di tensione musco-
lare, sudorazione o tachicardia;
3) risposte motorie che sono quelle direttamente osservabili.

115
Se abbiamo alcune abilità e continuiamo a provare disagio,
può essere instaurata le seguente sequenza:

1) Pensieri negativi prima di affrontare la situazione.


2) Attivazione di risposte emozionali.
3) Uso del farmaco per ridurre il disagio.
4) Riduzione momentanea del disagio.
5) Capacità di affrontare la situazione e di superarla positivamente.

In questa sequenza abbiamo appreso a usare il farmaco ogni


qualvolta siamo in presenza di una situazione che ci crea di-
sagio. Non abbiamo appreso, né quindi modificato le nostre
risposte emozionali e cognitive.
Si è instaurato un circolo vizioso in cui si è creato il legame:
disagio = farmaco.
Se non abbiamo alcuna abilità, l'uso del farmaco non ce la
può dare.
Immaginiamo una semplice situazione, quale quella di gui-
dare la macchina. All'inizio si avverte paura e disagio, ma pro-
gressivamente, esercitandoci, iniziamo a padroneggiare il mez-
zo e la paura scompare.
Ovviamente affrontare le innumerevoli situazioni della vita
quotidiana è più complesso che guidare la macchina. Ma ricor-
diamoci che più abilità acquisiamo minore sarà il nostro disa-
gio.
È un'abilità non sfuggire il "disagio", ma affrontarlo.

116
Il possesso

Il possesso e la gelosia

CARLO. Quando si vuole bene a una persona si è gelosi. Mi sem-


bra che sia un comportamento normale.
MARCO. Quindi se vedi che un uomo presta attenzione a Clara,
1a tua fidanzata, stai male.
CARLO. Mi sembra che tutti si comportino così, non siamo mica
macchine senza sentimenti.
MARCO. Il pensiero di perdere la tua fidanzata ti disturba?
CARLO. Mi sembra che questi discorsi siano senza senso. Mi pare
ovvio che, se si vuole bene a una persona, uno non voglia perder-
la.
MARCO. E se questa persona si stufa di te e vuole andare con un
altro?
CARLO. Ci sto male, cerco di convincerla a rimanere con me.
MARCO. Quindi cercheresti in qualche modo di forzare la sua
volontà.
CARLO. Sì, ci conosciamo da anni ed è impensabile per me
che lei se ne vada via per un altro.

117
MARCO. Quindi per te il volere bene equivale a possedere.
CARLO. Se poni le cose in questo modo, allora amore è uguale
a possesso.
MARCO. Noi ci conosciamo da anni e da alcuni anni hai dira-
dato le visite a tua madre, non è vero?
CARLO. Che cosa c’entra mia madre in questo discorso? Non
mi lasciava i miei spazi, mi controllava; queste cose le puoi sop-
portare da ragazzo, ma diventa impossibile da adulti; un uomo
ha diritto di vivere la propria vita.
MARCO. Anch’io 1a penso così. Ma pensi che tua madre ti vo-
glia bene?
CARLO. A modo suo, sì, mi vuole bene.
MARCO. Però è possessiva nei tuoi confronti.
CARLO. Sì, è possessiva e protettiva.
MARCO. Tua madre ti vuole bene ma è possessiva e ciò ti dà
noia, siamo d’accordo?
CARLO. Sì, mi dà noia.
MARCO. Ma forse, anche tua madre, come te, pensa che amo-
re vuol dire possesso. Quindi per te è giusto possedere, ma non
essere posseduto.
Nel seguente schema si evidenziano le fasi inerenti al “possesso”:

1) una persona ci piace, quando siamo con lei o lui stiamo


bene;
2) desideriamo vederla spesso;
3) quando non la vediamo, stiamo male;
4) si sviluppa in noi la paura di perderla;
5) diveniamo possessivi;
6) elaboriamo l’assunzione che amore vuol dire possesso.

Se non accettiamo questa posizione vale l’affermazione:


NON ABBIAMO IL DIRITTO DI POSSEDERE NESSUNO.

118
CARLO. Sono due situazioni diverse, l’amore per una donna non
equivale all’amore per il figlio o la figlia.
MARCO. D’accordo, possono essere diversi. Mi avevi detto che
tua madre vuole vederti spesso, specialmente ora che è vedova.
CARLO. Sì, mia madre dice che ha bisogno di me, ma quando
vado da lei mi getta addosso tutte le sue ansie e poi mi dà dei lavori
da fare.
MARCO. Forse prima era tuo padre a gestire le ansie di tua madre
e a risolverle alcuni problemi quotidiani.
CARLO. Sì, mia madre si è sempre appoggiata a mio padre e ora
si appoggia a me.
MARCO. Quindi ora tua madre conta su di te?
CARLO. Mia madre conta esclusivamente su di me.
MARCO. Scusa se ritorniamo al discorso iniziale, al rapporto con
Clara; cerco solo di capire alcune cose. Quando tu hai dei proble-
mi ne parli con lei e conti sul suo aiuto per gestire alcune attività
quotidiane, non è vero?
CARLO. Si, ma anch’io faccio lo stesso con lei.
MARCO. D’accordo, ma in ogni caso lei soddisfa alcuni tuoi biso-
gni e, se la tua fidanzata ti venisse a mancare, chi soddisferebbe i
tuoi bisogni?
CARLO. Sicuramente starei male, ma poi probabilmente reagirei.
MARCO. Quindi, una persona diventa per noi indispensabile
perché colma delle nostre lacune e, perciò meno siamo auto-
sufficienti più bisogno abbiamo di una persona. Mi ricordo di
un mio conoscente che alla morte della moglie entrò in uno
stato di profonda depressione. Iniziò a non mangiare, e si la-
sciò morire. La gente diceva: «Guarda come vuol bene a sua
moglie». In realtà la moglie gli colmava tutta una serie di caren-
ze, dipendeva dalla moglie e alla sua morte non era in grado di
gestirsi la vita e la gente diceva: «guarda come vivono uno per
l’altro».

119
Il possesso può dipendere da carenze nostre. Vediamo lo
schema:

1) una persona integra le nostre carenze (a esempio, la diffi-


coltà a vivere da soli);
2) la persona diventa per noi indispensabile: è subentrata l’a-
bitudine a essa;
3) è difficile modificare un’abitudine quando non abbiamo
un comportamento alternativo da emettere;
4) la persona ci viene a mancare, entriamo in uno stato di de-
pressione;
5) non siamo in grado di uscirne, perché era l’altro a soddi-
sfare i nostri bisogni.

Se ci aspettiamo che siano gli altri a soddisfare i nostri biso-


gni, se abbiamo bisogno della lode o dell’approvazione degli
altri, non saremo mai in grado di scegliere. La scelta che sorge
da un bisogno non è una scelta, è un obbligo.
È importante: CONTARE SOLO SU SE STESSI.
Nel capitolo relativo all’aspettativa abbiamo visto il caso di
Giorgio. Giorgio provava un elevato disagio nello stare da solo,
e soltanto la presenza di una compagna attenuava il suo disagio.
Non essendo in grado di scegliere tra rimanere solo e iniziare
un rapporto era costretto a iniziare un rapporto. Subentrava,
poi, la paura della perdita e quindi diventava possessivo.

Il possesso e l’orgoglio

Nel dialogo tra Carlo e Marco osserviamo che Carlo dice: “Ci
conosciamo da anni ed è impensabile per me che lei se ne vada
via per un altro”. Carlo, ora, vive da solo e, pur vedendo fre-

120
quentemente Clara, ha una vita propria, ha degli amici e degli
interessi propri.

MARCO. So che tu conduci una vita indipendente e non giusti-


fichi alla tua fidanzata il tuo modo di comportarti.
CARLO. È vero, sono dipeso per troppi anni da mia madre, ora
non voglio più dipendere da nessuno.
MARCO. Capisco questo tuo desiderio di indipendenza, ma ac-
cetti che la tua fidanzata sia indipendente?
CARLO. Cosa intendi per indipendenza di Clara?
MARCO. Ora tu desideri avere i tuoi amici, i tuoi interessi e
non vuoi che nessuno ti controlli. Tu controlli la tua fidanzata,
a esempio, le chiedi dove è andata e chi ha visto.
CARLO. Sì, esercito su di lei un controllo, ma è un controllo
discreto, in ogni caso a lei fa piacere così.
MARCO. Te l’ha detto lei che le fa piacere?
CARLO. Ho capito che le fa piacere; se le desse noia, me lo
direbbe.
MARCO. E se ti dicesse che non vuole essere controllata, come
ti comporteresti?
CARLO. Capirei che ha qualche cosa da nascondere.
MARCO. Quindi tu non ti fidi di lei.
CARLO. Beh, mi fido fino a un certo punto.
MARCO. Questo mi è difficile da capire, o ci si fida o non ci si
fida.
CARLO. Tu fai tutto semplice, la realtà è molto più sfumata.
MARCO. Sai che a me va tutto bene, purché uno stia bene.
L’avere anche dei minimi dubbi ti fa stare bene?
CARLO. Starei peggio se non sapessi; quando so, sto bene.
MARCO. Quindi tu devi “controllare” per stare bene?
CARLO. Ma scusa, ora sono io che non ti capisco. Se una per-
sona ti interessa, è naturale essere gelosi.

121
MARCO. Ma essere geloso ti serve? Se sei geloso stai meglio?
CARLO. Non è che si stia meglio a essere gelosi, ma è naturale, è
impossibile farne a meno.
MARCO. Quindi, per te, gelosia è uguale a non fiducia, è vero?
CARLO. Può essere così.
MARCO. Abbiamo parlato di fiducia. Per te fiducia vuol dire porci
come giudici e valutare se il comportamento dell’altro è o non è
corretto, se cioè la persona si comporta come a noi fa piacere. Ma
noi ci comportiamo sempre come l’altro si aspetta o ci attendiamo
che l’altro accetti il nostro modo di comportarci?
CARLO. Ma allora se poniamo la questione in questo modo non
esiste la fiducia.
MARCO. Penso che sia difficile per noi stessi conoscerci, eviden-
ziare le nostre debolezze e prevedere sempre il nostro compor-
tamento. Iniziamo ad accettarci e ad accettare che l’altro si com-
porti come ritiene giusto. Poi se il comportamento dell’altro non
corrisponde alle nostre aspettative non dobbiamo arrabbiarci,
possiamo provare a parlarne, a trovare un compromesso e qualora
non si trovi un compromesso soddisfacente per entrambi, lasciarci
senza tensioni. La fiducia può essere la sicurezza che ci dà una
persona. Ma, se abbiamo “fiducia” in noi stessi non abbiamo biso-
gno che gli altri ci diano “fiducia”. Se una persona “orgogliosa” sta
male quando l’altro non si comporta secondo le sue aspettative e,
così facendo, intacca i valori in cui “lui” crede come, a esempio, la
fiducia, ciò significa che dipende dagli altri per stare bene o male.

In questo dialogo sono emersi termini quali: la fiducia, la ge-


losia e l’orgoglio. I tre termini possono confluire nel possesso.
Quando perdiamo la fiducia che abbiamo riposto in qualcuno
stiamo male; se il partner presta più attenzione ad altri, siamo
gelosi e stiamo male. Se noi ci ipervalutiamo, siamo cioè orgo-
gliosi, quando una persona preferisce un altro a noi, sentiamo

122
che l’immagine di noi stessi ne può venire intaccata e stiamo
male. Quindi: IL POSSESSO EQUIVALE A STAR MALE.

Essere posseduti

Abbiamo visto che Carlo è possessivo nei confronti della fidan-


zata, ma non accetta che lei lo sia nei suoi confronti; se la situa-
zione va bene così per entrambi non vi sono problemi. Spesso,
però, se il nostro partner non è possessivo nei nostri confronti,
ne deduciamo che non ci vuole bene; questo succede quando
si parte dall’assunzione che amore è uguale a possesso.
Marco esce da circa sei mesi con Anna. Marco si trova bene
con lei, ma non è sua abitudine controllarla ed essere geloso.
Anna ha sempre faticato ad accettare questo punto di vista di
Marco.

ANNA. Sai che prima di conoscerti uscivo con Aldo, l’ho rivisto l’al-
tro ieri. (Anna sta studiando Marco, vuole vedere se lui dimostra
gelosia e se quindi le vuole bene.)
MARCO. Ti ha fatto piacere rivederlo? Penso di sì, visto che, da
quanto mi hai detto, avete avuto un buon rapporto.
ANNA. Sì, mi ha fatto piacere rivederlo e Aldo mi ha detto che mi
vuole sempre bene.
MARCO. Mi fa piacere! Sapere che una persona ci vuole bene è
gratificante per noi.
ANNA. Ma non ti disturba ciò che ti ho detto?
MARCO. Perché mi dovrebbe disturbare una cosa che a te ha fatto
piacere? Anzi, sono contento per te.
ANNA. Questo non lo capisco, come reagiresti allora se ti dicessi
che ho intenzione di rimettermi con Aldo? Questo ti darebbe noia?
MARCO. Se tu volessi rimetterti con Aldo è perché pensi di

123
trovarti meglio con lui che con me. Quindi sarebbe un tuo pro-
blema, non mio. Saresti tu a trovarti di fronte al problema della
scelta. Io sto bene con te, ma non posso farci nulla se tu prendi
una decisione, non è compito mio decidere per te.
ANNA. Se tu mi dicessi che vuoi lasciarmi per un’altra, io farei
il possibile per non perderti.
MARCO. E cosa ci guadagneresti da questo? Staresti solo male.
ANNA. Ma almeno avrei fatto tutto il possibile per trattenerti.
MARCO. Vedi, io la penso diversamente. Quando vuoi bene a
una persona ti fa piacere sapere che questa persona è contenta,
e se va con un altro, e lei è contenta così, non so perché dovrei
arrabbiarmi.

Lo so è difficile accettare questo modo di ragionare, ma ti


aiuta a stare bene. Non sono gli eventi esterni che ci control-
lano ma siamo noi a controllare gli eventi. Quando uno sta
male è gestito. Quindi: DEVI ESSERE CONTENTO DEL BENE
ALTRUI.

Il possesso e il passato

Ora Carlo e Marco stanno nuovamente dialogando; Carlo vuo-


le modificarsi, troppe volte è stato male pretendendo di avere
ciò che gli altri non erano in grado di dare.

CARLO. Sai che quando Clara mi racconta di rapporti che ha


avuto prima di conoscermi, ci sto male. So che è del tutto irra-
zionale, ma mi succede sempre così. Così ho pregato Clara di
non dirmi più nulla.
MARCO. Ti dà noia il sapere che non sei stato l’unico nella vita
di Clara, è questo che intendi?

124
CARLO. Sì, questo mi dà noia, anche se so che è assurdo.
MARCO. Tu vorresti che il passato di Clara non esistesse, ma sai
che non puoi farci nulla. Più rifiutiamo un pensiero, più questo
ci perseguita; perché un pensiero cessi di esistere dobbiamo
accettarlo. Possiamo vedere cos’è che non ci permette di accet-
tare un pensiero. Nel tuo caso, cosa pensi che sia?
CARLO. Forse sono presuntuoso.
MARCO. Cosa intendi per presunzione?
CARLO. Mi attribuisco troppa importanza, vorrei forse avere
il controllo totale su Clara, sul suo presente, passato e futuro.
Ripensandoci, non sono neppure in grado di prevedere il mio
comportamento, come posso essere in grado di prevedere con
sicurezza quello degli altri, e per di più esigere che esso corri-
sponda alle mie aspettative?
MARCO. Quindi, mi stai dicendo che vuoi cercare di accettare
il pensiero che Clara abbia un suo passato?
CARLO. È l’unico modo razionale di affrontare un rapporto,
anche se non mi è molto facile.

Analizziamo uno schema in cui si evidenzia ciò che caratte-


rizza l’esistenza di un pensiero “inaccettabile”.
Se è inaccettabile il pensiero che una persona possa avere
una vita indipendente dalla nostra:

1) il pensiero ci crea disagio;


2) come possiamo ridurre il disagio?
3) controllando la persona che è fonte del nostro disagio;
4) il controllo che effettuiamo sulla persona riduce solo mo-
mentaneamente il nostro disagio;
5) un nuovo pensiero inaccettabile crea un incremento del
disagio;
6) riprendiamo a controllare.

125
Partendo da un pensiero inaccettabile sviluppiamo un com-
portamento circolare tra il pensiero e il controllo della persona.

Il possesso e i nostri interessi

Marco e Anna continuano nel loro rapporto. Come ogni rappor-


to presenta dei momenti di confronto e di chiarimento.

ANNA. Ogni fine settimana vai in montagna. Tu sai che a me


non piace seguirti, se stessi in città potremmo fare delle cose
insieme, invece mi ritrovo sempre sola.
MARCO. Mi dispiace che tu ti annoi in città, ma non riesci a
crearti degli interessi?
ANNA. Vedi, visto che usciamo insieme ormai da alcuni mesi,
mi fa piacere stare con te il fine settimana; abbiamo così poco
tempo di vederci durante la settimana! Un rapporto è bello
quando si fanno molte cose insieme.
MARCO. Quando ci siamo conosciuti ti ho detto dei miei inte-
ressi, questa è un’attività che pratico fin da ragazzo e mi piace
farla, ma capisco che a te possa non piacere.
ANNA. Ma tu ogni momento libero lo dedichi al tuo hobby.
MARCO. Questo è vero, ma se trascorressi con te un fine setti-
mana al mese ti sarebbe sufficiente?
ANNA. Sarebbe meglio di nulla.
MARCO. Per me va bene non andare una volta al mese in mon-
tagna. Ma penso che tu debba ugualmente sviluppare degli in-
teressi per conto tuo, perché, se l’unico tuo interesse sono io,
mi sento caricato di una responsabilità che non sono in grado
gestire.
ANNA. Ma non stai bene con me?
126
MARCO. Sì, sto bene con te, ma sto anche bene quando sono
da solo o con gli amici. Se stessi solo bene con te vorrebbe dire
che non ho altri interessi, e questo non sarebbe vero.

Ora sta ad Anna accettare o non accettare ciò che Marco ha


detto. Non deve essere “gelosa” dell’indipendenza di Marco,
dei suoi interessi e dei suoi amici. In una coppia, alcune cose
possono essere fatte insieme, altre da soli, non è questo che
incrina un rapporto.

L’appropriazione indebita

Uno scrittore fa leggere a un collega alcune novelle che ha scrit-


to. Dopo alcune settimane il collega gliele restituisce dicendo:
“Sono belle e interessanti, ma forse sono un po’ difficili da capi-
re, vedi di farle leggere ad altri per avere ulteriori giudizi”.
Dopo alcuni mesi le novelle sono pubblicate. A inviarle all’e-
ditore è stato il collega che per primo le aveva lette. Le novelle
sono sì pubblicate, ma a nome del collega.
Lo scrittore a cui sono state “rubate” le novelle viene interpel-
lato da un amico che gli dice: “Hai fatto causa a chi si è appro-
priato dei tuoi scritti?” “Perché dovrei?” - risponde lo scrittore
- “Io li ho pensati e scritti, lui li ha solo pubblicati”.
Vedo un amico, proprietario di molti taxi, che esce da un bar
tenendo a braccetto un uomo con cui parla allegramente. Mi
pare di riconoscere quell’uomo: deve essere un suo ex dipen-
dente che di notte rubava la benzina dai taxi. Quando rivedo il
mio amico gli chiedo se quell’uomo, con cui lo avevo visto, fosse
realmente il suo ex dipendente. “Sì - mi risponde - era lui”. “Ma
- gli domando - come fai a rivederlo ancora ed essere allegro in
sua compagnia, visto che ti rubava la benzina?” “Mi è simpatico”.

127
In questi due esempi può apparire che vi sia l’emissione di
un comportamento passivo. Ma non necessariamente dobbiamo
sempre competere, in alcuni casi possiamo anche scegliere la
non competizione.
A esempio, possiamo essere criticati e insultati in pubblico e
rimanere calmi e tranquilli, cioè non accettare la provocazione.
Ma quando possiamo emettere un tale comportamento?
Quando sappiamo di essere in grado di competere, in quanto
abbiamo già emesso tali comportamenti in situazioni simili.

128
L’egoismo

Cerchiamo di definire il termine egoismo. Molte persone in-


tendono l’egoismo come: il fare solo ed esclusivamente i propri
interessi, senza preoccuparsi degli altri. Abituali sono le frasi
del tipo: “Pensa solo a se stesso”; “Quando gli chiedo un favore
spesso rifiuta, è un egoista”; “Sono io che devo preoccuparmi
di tutto”. Queste frasi non ci sono di aiuto nel definire l’egoi-
smo, si dimostrano ambigue e non chiare.
Cosa intendiamo per: “fare i propri interessi e non preoc-
cuparsi degli altri?” Vediamo la prima parte di questa afferma-
zione: fare i propri interessi. Ma cosa vi è di male nel voler
fare i propri interessi? Certo, non possiamo accettare che per
i propri interessi si danneggino gli altri. Ma quando con il no-
stro comportamento non facciamo violenza su altre persone,
l’affermazione “fare i propri interessi” perde la sua connotazio-
ne negativa. Cosa intendiamo per: “Le persone egoiste non si
preoccupano per gli altri”. Ma fare propri i problemi altrui o
soffrire per la sofferenza degli altri può essere realmente d’aiu-
to alle persone che ne hanno bisogno? Ci rendiamo conto che

129
la preoccupazione innesta delle risposte emozionali che non ci
sono d’aiuto nel risolvere una situazione o aiutare un amico.
Quindi non possiamo accettare l’affermazione: l’egoista non si
preoccupa degli altri.
Spesso succede che si incolpino gli altri di egoismo quando
emettono un comportamento a noi non gradito. Così facendo
ci aspettiamo che gli altri si comportino come fa piacere a noi.
Ma quando per il nostro piacere facciamo violenza agli altri,
siamo noi degli “egoisti”. Quindi, chi incolpa gli altri d’essere
egoisti, è lui stesso un egoista. L’egoismo è quindi: il volere modi-
ficare gli altri per il proprio tornaconto.

L’egoismo e il nostro partner

Una coppia è sposata da quattordici anni, con un figlio di tredi-


ci anni. Il marito, quarantenne, è molto impegnato nel lavoro,
avendo un'attività commerciale in continuo sviluppo, inoltre si
interessa attivamente di politica. La moglie, trentacinquenne,
è casalinga.
Siamo all’ora di pranzo; appena seduto a tavola, il marito
inizia a parlare.

MARITO. Questa sera dovranno venire a cena da noi due miei


dipendenti con le loro mogli. Si dovrà parlare di lavoro.
MOGLIE. Perché non mi hai avvisata prima, oggi devo andare
a scuola a una riunione genitori-insegnanti, e ci tengo a essere
presente perché nostro figlio ha delle difficoltà in alcune mate-
rie. Non so se avrò tempo per preparare la cena.
MARITO. È certo che la cena non ho tempo di prepararla io.
È possibile che tu non riesca mai a organizzarti per fare le cose
che devi, invece di dirmi, come sempre, che hai molto da fare?

130
È solo questione di organizzazione.
MOGLIE. È mai possibile che tu sottovaluti sempre il mio lavo-
ro? (Dopo l’aggressione del marito la moglie inizia a dare risposte
emozionali, non si sente capita e tenta di giustificarsi.)
MARITO. Non sei mai stata abituata a lavorare realmente, è colpa
dei tuoi genitori che ti hanno sempre viziata. Non sai cosa è il vero
lavoro. (Il marito si sente in diritto di accusare la moglie.)

Vediamo come tende a pensare il marito:

1) io lavoro molto per la mia famiglia;


2) sono io che garantisco un benessere economico alla fami-
glia;
3) è giusto che abbia qualche cosa in cambio, non devo essere
“sempre” io a occuparmi di tutto;
4) mia moglie si comporta da egoista, quando ce n’è bisogno
non mi aiuta.

MOGLIE. Va bene, vedrò di farcela a preparare la cena. Al mas-


simo non andrò a scuola.

La moglie accetta, ma assume un atteggiamento remissivo;


cerca di colpevolizzare il marito usando la frase: “al massimo
non andrò a scuola”. Questa frase può avere un duplice effetto.
Nel primo caso il marito sentendosi colpevole risponderà: “Va
bene vedrò di spostare la cena a un altro giorno e ti avviserò
per tempo”. Questa risposta è poco probabile in questo caso,
più prevedibile sarà la risposta aggressiva: “Allora non andare
a scuola!”
Vediamo come avrebbe potuto comportarsi la moglie, e con-
sideriamo tre possibili risposte. Nella prima risposta la moglie
non accetta compromessi:

131
MARITO. Questa sera…
MOGLIE. Mi dispiace che tu mi abbia avvisato in ritardo, ho già
preso un impegno con la scuola per questo pomeriggio. Non
sarò in grado di preparare la cena.

Questo tipo di risposta data a una persona aggressiva rischia


di incrementare l’aggressività dell’interlocutore. Quindi la moglie
deve essere in grado di sostenere eventuali “attacchi” da parte del
marito, che può diventare colpevolizzante. A esempio:

MARITO. Raramente ti chiedo qualche cosa, ora che ho biso-


gno di te non mi sei d’aiuto. Pensi solo a te stessa.
MOGLIE. Mi rincresce di doverti creare dei problemi. Ma, per
favore, quando abbiamo degli ospiti a cena avvisami due o tre
giorni prima. Mi dà noia dovere fare tutto “di fretta”.

Molto probabilmente il marito si “arrabbierà” ulteriormen-


te. In questo caso, la moglie non deve cedere e deve mantenere
la propria posizione. Vedremo successivamente altri eventuali
“costi” che potrà pagare la moglie con una simile risposta.
Seconda risposta:

MARITO. Questa sera…


MOGLIE. Capisco che l’impegno che hai preso questa sera con
i tuoi collaboratori è per te importante. Da parte mia, questo
pomeriggio dovevo andare a una riunione a scuola. Per questa
volta vedrò di preparare ugualmente la cena, ma, per il futuro,
avvisami con qualche giorno d’anticipo. Perché mi dà noia fare
tutte le cose di corsa.

In questa seconda risposta la moglie “scende” a un compro-


messo.
132
Terza risposta:

MARITO. Questa sera…


MOGLIE. Mi rendo conto che l’impegno che hai preso per
questa sera è per te importante. Da parte mia, desidero andare
a una riunione a scuola e non so per quanto sarò impegnata.
Ma potremmo risolvere senza difficoltà il problema: ordino in
rosticceria gli antipasti, il secondo e i dolci; per preparare il
primo piatto non ho difficoltà. Ci verrà a costare un po’ caro,
forse come se andassimo al ristorante, ma i cibi saranno certa-
mente ottimi.
La moglie scende a un compromesso, ma il marito deve pa-
gare dei “costi”.
Quali delle tre risposte vi sembra più adeguata?

a) Con la prima risposta la moglie non accetta compromessi.


Abbiamo previsto un incremento di aggressività da parte del
marito. Questo comportamento aggressivo potrà perdurare
per un tempo prolungato e incrementarsi in intensità.
Osserviamo le seguenti fasi:

1) la moglie inizia a “competere” con il marito. Non accetta


più di subire passivamente;
2) il marito si stupisce di questo cambiamento del comporta-
mento della moglie. Non era previsto. Sono sposati da quat-
tordici anni e sua moglie si è sempre dimostrata “remissiva”;
3) il marito non accetta una moglie competitiva. Quindi di-
venta più aggressivo, la colpevolizza e inferiorizza. Spera
con ciò di ottenere dalla moglie un comportamento più
remissivo;
4) la moglie continua a far valere i propri “diritti”;
5) il marito incrementa ulteriormente la propria aggressività;

133
6) siamo in una situazione di stallo. La moglie vuole affermarsi
come “persona”, quindi il marito dovrebbe modificarsi. Il
marito vuole che il loro rapporto rimanga immodificato.

Quali possono essere gli eventuali sviluppi del rapporto?


Si crea nella coppia uno stato di costante tensione. La mo-
glie vuol fare valere i propri diritti, mentre il marito non vuol
perdere i propri “privilegi”. Questa rapida modificazione della
moglie non corrisponde a una modificazione del marito. I due
coniugi stanno parlando due lingue diverse, non si possono
comprendere. Quando, nella coppia, il disagio aumenta e non
si vede una soluzione spesso ci si separa. In questo caso la mo-
glie non è partita dal “livello operante” del marito, ha saltato
dei passaggi. È come insegnare a un bambino l’algebra senza
aver verificato se conosce le basi della matematica.
b) Con la seconda risposta, in cui la moglie scende a un com-
promesso, ma fa presente il proprio disagio, possono indivi-
duarsi queste fasi:

1) la moglie comunica il proprio disagio al marito, ma si com-


porta ugualmente come il marito desidera;
2) il marito paga dei costi personali limitati. Il solo costo che
paga è il sapere che la moglie prova disagio.

Ora in tale situazione il marito può non essere motivato a


modificarsi. La moglie, qualora si ripresentino analoghe situa-
zioni, rimanendo sempre “calma” gli fa presente i propri de-
sideri e non si aspetta che il marito si modifichi rapidamente.
Si accontenta anche di un risultato minimo. La moglie parte
dal livello del marito, la continua persistenza ottiene risultati
positivi, anche se spesso nell’usarla si possono pagare dei costi
elevati. Non è certo piacevole doversi ripetere continuamente.

134
c) La terza risposta anche se è simile alla seconda, tende a cre-
are un maggiore costo al marito. La moglie parte sempre dal
livello del marito, ma, in questo caso, gli crea due costi: il pri-
mo, comunicandogli il proprio disagio di tipo psicologico, e il
secondo, di tipo economico. Questa terza risposta se “giocata”
attentamente, cioè, senza far pagare costi troppo elevati al ma-
rito, può accelerarne il processo di modificazione.

Preoccuparsi per gli altri

CARLO. Le persone altruiste si preoccupano per gli altri. Tu,


mi sembra, non ti interessi molto agli altri.
MARCO. Tu intendi che la persona altruista è contenta nell’a-
iutare gli altri?
CARLO. Sì, intendo questo.
MARCO. Quindi una persona altruista trae un vantaggio nell’a-
iutare gli altri.
CARLO. Mi sembra che questo sia un modo non corretto di
ragionare. La persona altruista lo fa solo per gli altri.
MARCO. Ma se tu vedi una persona che sta male ti preoccupi,
non è vero?
CARLO. È ovvio che mi preoccupi, mi dispiace vedere una per-
sona soffrire.
MARCO. Quindi quando tu aiuti una persona in difficoltà poi
stai bene.
CARLO. Sì, sono contento di ciò che ho fatto.
MARCO. Voglio cercare di capire. Quando vedi una persona
che soffre tu stai male, quindi cerchi di alleviare il disagio di
quella persona. Comportandoti così tu sei soddisfatto e stai me-
glio. Quindi hai posto fine al tuo disagio.
CARLO. In ogni caso io aiuto una persona.

135
MARCO. Sono d’accordo con te. Ma mi sembra anche che, se
tu non aiuti solo quella persona, stai male, non è vero? Quindi
tu non puoi emettere altri comportamenti; aiutare gli altri al-
levia un tuo stato di disagio, perciò sei costretto ad aiutare per
non stare male.
CARLO. Il tuo modo di ragionare è cinico. Tendi a semplifica-
re tutto.
MARCO. Non vedo il problema. Se tu sei soddisfatto così, per
me va bene. A me fa piacere il sapere che tu sei contento di te
stesso.
CARLO. Voglio farti capire che il tuo modo di comportarti non
è corretto, sembra che tu pensi solo a te stesso.
MARCO. Cioè tu intendi dire che non mi preoccupo per gli altri?
CARLO. Sì, è così!
MARCO. Non preoccuparti per me, io sto bene così. Io non
avverto nessun problema, forse il problema è tuo: sei tu che sei
dispiaciuto del mio comportamento e vorresti che io cambiassi.
Ma come posso cambiare, se per me va bene così?

In questo dialogo Carlo parte dall’assunzione che una per-


sona altruista si preoccupa per gli altri. Marco sostiene la posi-
zione che non è altruismo aiutare gli altri per evitare di provare
disagio. Vediamo i seguenti schemi:

I Schema
1) una persona sta male;
2) proviamo disagio;
3) aiutiamo quella persona:
a. la persona sta meglio, noi stiamo meglio;
b. la persona non sta meglio, noi diciamo a noi stessi
che abbiamo fatto ciò che potevamo per aiutarla e
stiamo meglio.

136
II Schema
1) una persona sta male;
2) non proviamo disagio;
3) ci fa piacere aiutarla;
4) non ci attendiamo nulla in cambio.

Per noi questo è “l’altruismo” che non sorge dal disagio, ma


dal piacere.
Se accettiamo questa posizione, allora: NON DOBBIAMO
FARE NOSTRI I PROBLEMI ALTRUI. In una qualunque situa-
zione dobbiamo saper discriminare qual è un problema nostro
e qual è un problema degli altri. Se poi possiamo o ci fa piacere
aiutare gli altri a risolvere i loro problemi, ricordiamoci sempre
che il problema è “loro”.

137
L’invidia

Quando una persona ha successo nel lavoro o nei rapporti


interpersonali proviamo nei suoi confronti un sentimento di
rancore. Probabilmente vorremmo essere al suo posto, avere
raggiunto gli obiettivi che ha conseguito. Pensiamo di avere
delle abilità uguali o superiori alla persona che ha successo, ma
lui solo è fortunato e noi no; lui ha pochi scrupoli e noi invece
ne abbiamo. Possiamo trovare molti argomenti per giustificare
il suo successo e il nostro “fallimento”.

L’invidia e il lavoro

Marco è a cena con Aldo, un amico che non vede da otto anni.
Insieme hanno fatto l’università; dopo l’università, Aldo si è
trasferito, per lavoro, in un’altra città.

MARCO. Mi stavi dicendo che il lavoro non è andato molto bene.


ALDO. Non è andato affatto bene, ma quando si lavora nelle grosse
industrie è spesso così.

139
MARCO. Non ti piaceva il lavoro?
ALDO. Il lavoro mi piaceva, ma è l’ambiente che non mi andava.
MARCO. In che senso non ti andava l’ambiente?
ALDO. Tu non puoi capire, non hai mai lavorato in una grossa in-
dustria.
MARCO. Spiegami ugualmente, sono interessato.
ALDO. Io mi sono impegnato al massimo sul lavoro. Poi vedi che al-
cune persone fanno una rapida carriera pur con un minor impegno.
MARCO. Quindi tu ti sei visto superare nella carriera da persone
che, secondo te, non valevano molto.
ALDO. Sì, è andata così, e ti fa male vedere che c’è chi va avanti nella
vita senza meriti personali.
MARCO. Tu ci tenevi a fare carriera, non è vero?
ALDO. È ovvio che ci tenessi, almeno come ricompensa per il mio
impegno.
MARCO. Noi non ci vediamo da otto anni; da quando hai iniziato a
lavorare sei stato sempre nella stessa azienda?
ALDO. No, ho cambiato, sono stato tre anni nella prima azienda e
cinque nella seconda.
MARCO. Ti sei trovato male in entrambe?
ALDO. Sì, si ripetono sempre le stesse situazioni, ti vedi passare da-
vanti i meno meritevoli.
MARCO. Il vedere che una persona ti passa davanti ti fa stare male,
non è vero?
ALDO. È ovvio che sia così: si lavora per avere dei riconoscimenti. Ti
avevo detto che non avresti capito, non hai mai vissuto nel mondo
dell’industria.
MARCO. In questi otto anni, quante sono le persone che hanno fat-
to più carriera di te?
ALDO. Due nella prima industria e tre nella seconda. Abbiamo ini-
ziato tutti allo stesso livello e poi hanno fatto carriera gli altri
mentre io sono rimasto con la stessa qualifica.
140
MARCO. Tra tutti quei cinque, che ti hanno superato, non
pensi che qualcuno avesse più abilità di te?
ALDO. Se tu intendi come abilità l’essere ipocrita, allora aveva-
no più abilità di me. Io ho sempre fatto il mio lavoro in modo
onesto, ma, se vedevo qualche cosa che non mi andava, lo dice-
vo chiaramente. A essere onesti si paga in prima persona.
MARCO. Quindi tu non sei riuscito a emergere nel tuo lavoro,
e questo ti crea disagio, è vero?
ALDO. Sì, è la struttura industriale che non ti permette di
emergere.
MARCO. Forse è meglio dire che non ha permesso a te di
emergere.
ALDO. Non emergono le persone che lavorano seriamente.

Aldo non è riuscito a raggiungere gli obiettivi che si era pre-


fissato. Questo è per lui fonte di disagio; ma si trova in un circo-
lo chiuso, anche cambiando lavoro gli si ripresentano gli stessi
problemi. Vediamo gli errori che commette Aldo:

1) cognitivi: si valuta un “buon” lavoratore, sono gli altri che


non sanno apprezzare il suo lavoro;
2) emozionali: il non aver raggiunto gli obiettivi che si era pre-
fissato gli crea “rabbia”;
3) comportamentali: tende a criticare l’operato altrui.

Il comportamento di Aldo tende a creargli un ambiente ostile.


Aldo meno riesce a gestire l’ambiente di lavoro e più diventa
aggressivo con i colleghi che fanno “carriera”.
Potremmo prevedere che Aldo non si modificherà: è troppo
centrato sul comportamento degli altri per poter vedere cosa vi
è di errato nel proprio comportamento.
Quali sono i vantaggi che ci derivano dall’invidia? Nessuno. Ri-

141
cordiamoci che: CHI INVIDIA NON SI MODIFICA.
Quando proviamo rabbia, non siamo più in grado di discrimi-
nare, non riusciamo a individuare i comportamenti positivi de-
gli altri e tendiamo a vedere una persona completamente in
“negativo”.

L’invidia e l’amica

Marina e Claudia hanno iniziato le superiori insieme. Marina è


una ragazza estroversa, con buone abilità sociali, si trova a proprio
agio in tutte le situazioni, la invitano sempre a tutte le feste e ha
molti ammiratori. Claudia è una ragazza carina, ma ha notevoli
difficoltà nel comunicare con gli altri e quindi tende ad autoesclu-
dersi dalle situazioni sociali; questo suo comportamento è consi-
derato un “rifiuto” da parte degli amici e quindi più nessuno la
invita o le telefona.
All’inizio delle superiori Marina frequenta spesso Claudia, stu-
diano insieme e si fanno delle “confidenze”. È sempre Marina che
prende l’iniziativa nei dialoghi, ed è lei che si “apre” con l’amica,
mentre Claudia ascolta. Passano gli anni, Claudia si autoemargina
sempre di più, dedica molto tempo allo studio e a scuola è tra le
migliori. La scuola la gratifica, ma solo in parte; vede l’amica che
pur andando bene a scuola ha molti interessi e molti amici. Tra le
due amiche i rapporti si diradano. Marina trova difficoltà a confi-
darsi con Claudia, e quando ci prova l’amica non risponde o ten-
de a evitare il dialogo. La loro conversazione quindi mantiene un
tono puramente formale: parlano di scuola. Claudia prova ranco-
re nei confronti di Marina e si dice: “Fin che le facevo comodo mi
frequentava, ora che ha molti amici ci vediamo raramente, tanto
vale porre termine a questa pseudo amicizia”.
Vediamo un dialogo tra Marina e Claudia.

142
MARINA. Questa mattina sei andata molto bene nell’interroga-
zione di matematica.
CLAUDIA. Sì, avevo studiato molto. (Claudia lascia cadere il
discorso.)
MARINA. Sono convinta che tu abbia studiato molto. Ti impe-
gni sempre molto in tutte le materie.
CLAUDIA. Sai, quando non si ha altro da fare… (Diventa col-
pevolizzante, lasciando intendere: visto che tu mi trascuri etc…)
MARINA. Ma ti ho invitato tante volte con me alle feste; tu non
hai mai voluto venire, sei venuta solo poche volte.
CLAUDIA. Dimmi cosa venivo a fare alle feste. Appena arriva-
vamo, tu ti mettevi a parlare con tutti e io mi ritrovavo da sola.
(Claudia continua nella colpevolizzazione.)
MARINA. Vedi io vado alle feste perché ho piacere di conosce-
re nuove persone e di ritrovare degli amici.
CLAUDIA. Per te è tutto facile. Quando arrivi a una festa tutti
ti vengono incontro e ti salutano, mentre tocca sempre a me
dover andare a salutare gli altri, e questo mi dà noia.
MARINA. Non capisco il problema, se hai piacere di salutare
una persona vai a salutarla.

Tra Marina e Claudia sono frequenti i dialoghi di questo


tipo e, al termine dei dialoghi, Claudia si convince sempre di
più che Marina non è un’amica. Ma, anche in questo caso, è
Claudia che sta male: è disturbata dal successo di Marina, prova
a colpevolizzarla per modificarne il comportamento sociale.
Claudia non presta attenzione alle proprie disabilità, anche
se sono proprio queste a crearle disagio. È solo centrata sui
successi sociali dell’amica. Quindi: CHI PENSA A SE STESSO
NON HA TEMPO DI PREOCCUPARSI PER I SUCCESSI AL-
TRUI.

143
L’invidia e la macchina

Marco sta passeggiando con Aldo e lungo la strada vedono par-


cheggiata una macchina lussuosa.

ALDO. Hai visto quella macchina, è di un negoziante di salumi.


Quel negoziante ha aperto una catena di negozi, ed è diventato
ricco in pochi anni. È una persona totalmente priva di cultura
ed è solo un arricchito.
MARCO. Ma ti disturba che si sia arricchito?
ALDO. Sembra che nella vita chi specula sugli altri, chi è più “fur-
bo” faccia fortuna. Non si prendono in considerazione altri valori.
MARCO. Quali altri valori?
ALDO. L’istruzione, l’intelligenza. Sembra che valga solo chi di-
venta ricco.
MARCO. E questo ti disturba, non è vero?
ALDO. Mi disturba molto, e non capisco come mai tu non ne sia
disturbato; tu fai un lavoro che non ti ha certo reso né ricco né
famoso.
MARCO. Diventare ricco o famoso non è un mio problema. Fac-
cio un lavoro che mi piace e per ora mi va bene così. Può darsi
che in un futuro voglia cambiare per avere nuovi interessi e nuovi
stimoli, ma adesso non mi pongo il problema. Nel tuo caso, qua-
le è il vantaggio che hai nell’arrabbiarti con il salumiere? Penso,
nessuno.
ALDO. No, non ho nessun vantaggio, mi dà solo noia.
MARCO. Probabilmente il salumiere, quando ha iniziato il pro-
prio lavoro, si è prefissato di raggiungere alcuni obiettivi, che nel
suo caso potevano essere quelli di ingrandire la propria attività e,
di conseguenza, di guadagnare di più. Molti sono i commercian-
ti che possono voler raggiungere questi obiettivi, ma non molti

144
ci sono riusciti, devi ammettere che è stato bravo. Quali sono gli
obiettivi che vuoi raggiungere? Anche se per me non è detto che
una persona debba a tutti i costi raggiungere un obiettivo, può
anche accontentarsi di ciò che ha raggiunto e star bene.
ALDO. Dei miei obiettivi abbiamo già parlato: vorrei emergere
sul lavoro, ma eventi esterni non me l’hanno permesso. Ho stu-
diato per anni, e con quali prospettive? Poi, ti capita di vedere che
un salumiere diventa ricco in pochi anni… È proprio un mondo,
questo, che non capisco! Come non capisco quella tua affermazio-
ne che si può star bene con l’accontentarsi. Se così fosse, non vi
sarebbe mai una spinta verso il progresso.
MARCO. Vedi Aldo, alcuni anni fa è morto mio zio Antonio. Fin
da ragazzino andavo a trovarlo con piacere e passavamo interi po-
meriggi a giocare a scacchi insieme. Era una persona con cui sta-
vo veramente bene, era una persona soddisfatta della vita. Come
lavoro faceva il litografo ed era molto bravo. Un suo amico, molto
influente, vedendo i suoi lavori gli propose di trasferirsi in un’al-
tra città a lavorare per una certa industria, dove le sue abilità sa-
rebbero state molto apprezzate; avrebbe inoltre guadagnato mol-
to di più. Lo zio Antonio rispose all’amico: “Io amo la mia città,
mi piace andare a pescare nei fiumi che conosco e cercare funghi
nei boschi, tutto questo mi basta”.

145
Il rancore

Il rancore è un comportamento aggressivo che non si manife-


sta con “attacchi” diretti, è una “rabbia” non espressa. In ogni
caso chi lo prova sta male; inoltre quest’emozione può mante-
nersi per un tempo prolungato.
Quindi, ci possiamo domandare: a cosa serve provare ranco-
re se ci crea solo disagio?
È particolarmente difficile non provare rancore, ma è facile
provarlo quando subiamo una persona, quando abbiamo erro-
neamente riposto la nostra fiducia in qualcuno, quando vor-
remmo che una persona si modificasse, etc.

Il marito silenzioso

Il marito diventava taciturno e scontroso, quando la moglie non si


comportava come lui si sarebbe aspettato. I silenzi potevano anche
durare alcuni giorni. Così facendo, sperava che la moglie si modifi-
casse e comprendesse il proprio errore. Erano sposati da dodici anni.

147
Vediamo una situazione che può scatenare da parte del ma-
rito il silenzio.

MOGLIE. Oggi vorrei spostare quel mobile, vedi di aiutarmi; sono


proprio convinta che questa credenza stia bene sotto la finestra.
MARITO. Ma a me piace dov’è ora e non vedo la necessità di
provare a spostarla.
MOGLIE. Proviamo a spostarla e poi decidiamo se va bene.
MARITO. Finisce sempre che si fa come vuoi tu!

Il marito inizia ad aiutare la moglie, ma è adirato con lei,


perché è convinto di subire un’imposizione. Fa il lavoro senza
interesse e voglia. Il suo comportamento non verbale denuncia
un netto rifiuto. Ha dei movimenti bruschi nello spostare il mo-
bile, sbuffa e si lamenta. La moglie è tranquilla e non dimostra
insofferenza per il comportamento del marito, perché spesso
suo marito si comporta così.

MOGLIE. Ora che abbiamo spostato il mobile come ti pare?


Ora a me sembra che stia molto meglio.
MARITO. Se a te piace va bene.

Dicendo queste parole, il marito si allontana, non ha guar-


dato affatto il mobile. Dopo questa situazione il marito non
parla per circa un giorno con la moglie.
Il rancore del marito si manifesta in un silenzio colpevoliz-
zante. Per tutto il tempo prova rabbia con la moglie e quindi
avverte disagio. La moglie continua a fare tranquillamente i
propri lavori. Il marito ha commesso alcuni errori:

1) ritiene che la moglie debba immediatamente accettare la


sua affermazione: “a me piace dov’è ora”;

148
2) ritiene di subire una “violenza” da parte della moglie;
3) non accetta il “punto di vista” della moglie e quindi non è
disponibile a modificare la propria opinione.

Il marito ritiene che la moglie debba essere “punita” per come si


è comportata. Il marito prova “rancore” nei confronti della moglie
e diventa taciturno, sperando con ciò di “colpevolizzarla” e, quindi,
di modificarla. Sembra assurdo che ci si possa adirare per una situa-
zione di così scarsa rilevanza. Ma spesso una semplice situazione che
riteniamo di aver “subìto”, può innescare in noi “rancore”.
Il marito, pur essendo un individuo tendenzialmente colpevoliz-
zante, è dotato di una certa autoironia e dice: “Alcune volte, dopo
aver iniziato a non parlare a mia moglie, può succedere che, dopo
circa un giorno, mi dimentichi il motivo del rancore. Ma continuo a
non parlarle ugualmente, perché, se ho iniziato a tacere, ci doveva
essere un buon motivo”. Il marito dicendo queste cose ironizza sul
suo stile di comportamento, che ritiene di aver appreso dalla madre.
Da giovane, quando non si comportava come sua madre riteneva
giusto, lui subiva i lunghi silenzi della madre.

Il rancore e l’amico

Abbiamo iniziato un lavoro che ci è stato richiesto. Dopo circa


sei mesi dall’inizio del lavoro, ci rendiamo conto che abbiamo
bisogno di un collaboratore a cui affidarne una parte. Ci rivol-
giamo a un amico che sappiamo competente e in possesso di
una buona esperienza; lo presentiamo a chi ci ha commissiona-
to il lavoro e iniziamo 1a collaborazione. Si dimostra abile sul
lavoro e ci risolve tutta una serie di problemi operativi. Dopo
circa altri sei mesi, la collaborazione si è dimostrata per noi
proficua. Chi ci ha commissionato il lavoro è molto soddisfatto

149
di questo nostro amico e ritiene di poterlo contattare diretta-
mente per un proseguimento dei lavori. Noi veniamo a conoscenza
dell’accordo tra le due parti quando ormai è stato stipulato. Noi,
ovviamente, siamo esclusi dal nuovo accordo.
Ora vediamo due nostre possibili risposte a questa situazione.
Una prima risposta può essere di rancore e rabbia nei confronti
dell’amico.
Una seconda risposta, di non rancore, e in più, per noi la situa-
zione può risultare un’utile occasione di apprendimento.
Vi sembrerà difficile emettere la seconda risposta, quando un
amico ha “tradito” la vostra fiducia. Poniamoci la domanda se la pri-
ma risposta ci può essere di qualche utilità. L’unico risultato che si
ottiene nel provare rancore è stare male; e, quando si prova disagio,
è difficile prendere delle valide decisioni.
Vediamo una sequenza di pensieri che ci porta in questo caso a
provare rancore:

1) sono io che gli ho dato quel lavoro e gli ho fatto conoscere chi
me lo aveva commissionato;
2) l’amico stipula dei contatti diretti con la parte senza consultar-
mi;
3) io non avrei mai attuato un simile comportamento, non è
quello di un amico;
4) non mi sarei mai aspettato un simile comportamento da parte
sua;
5) in futuro non voglio più avere nulla a che fare con questa per-
sona.

Ora osserviamo una nuova sequenza:

1) questo amico è una persona competente sul lavoro;


2) ciò che mi disturba è l’accordo che ha preso senza consultarmi.
150
Ora dobbiamo porci alcune domande:
— come posso evitare che questa situazione si ripeta nel futuro?
— posso avere bisogno di lui o di persone come lui in futuro?

Se per la nostra attività abbiamo bisogno di collaboratori, è


necessario che questa situazione non si ripeta, quindi cosa dob-
biamo fare? Dobbiamo semplicemente stabilire un accordo scrit-
to con il nostro eventuale collaboratore. Accordo in cui si dirà:
che un nostro collaboratore non può prendere accordi diretti
con la parte che ci ha commissionato il lavoro.
Quindi non proviamo né rabbia né rancore con l’amico, con-
tinuiamo a considerarlo sempre una persona abile e competente,
siamo noi che abbiamo sbagliato non stabilendo dei chiari accordi.
Dobbiamo quindi evitare di dirci frasi del tipo:

— io non mi sarei mai comportato così;


— non mi aspettavo questo da un amico.

Come abbiamo già visto in altri casi, l’errore commesso sta


nel centrare l’attenzione sugli altri, attribuendo loro la causa
del nostro disagio.

Il Saluto

CARLO. Ti ho già parlato del mio amico Giorgio, che conosco


da circa due anni. Bene! Dei comuni amici mi hanno riferito che
Giorgio, durante una cena mi ha violentemente criticato, dicendo
che non sono una persona degna di fiducia.
MARCO. Mi dispiace che si sia creata questa situazione. Hai poi
chiarito tutto con Giorgio?
CARLO. Cosa vuoi che ci sia da chiarire? Giorgio si è comportato

151
in un modo poco corretto nei miei confronti. Quindi la nostra
amicizia è finita. Se mi capiterà di incontrarlo per strada, eviterò
di salutarlo.
MARCO. Quindi tu ora sei molto adirato con il tuo amico.
CARLO. Mi sembra ovvio che si provi rabbia verso una persona
che si è comportata in questo modo.
MARCO. Scusa, ma tu ti stai riferendo a ciò che ti hanno detto dei
comuni amici.
CARLO. Mi sembra che questo possa bastare.
MARCO. Ora quando tu ripensi a Giorgio stai male e provi ranco-
re nei suoi confronti, non è vero?
CARLO. Non dire delle cose assurde, avrei voluto vedere come ti
saresti comportato tu al mio posto.
MARCO. A me è successa una situazione simile, ma in quel caso io
ero stato accusato di aver “parlato male” di un comune amico. Un
pomeriggio incontro un’amica e lei mi chiede se frequento ancora
Sandro che è un nostro amico comune. Frequentavo assiduamente
Sandro, in quanto facevamo dell’attività sportiva insieme. Le rispon-
do che, non avendo più interessi comuni, ci vediamo molto raramen-
te. Alcuni giorni dopo vedo Sandro e mi chiede delle spiegazioni:
la nostra comune amica gli ha riferito che io non lo frequento più,
perché non lo trovo interessante. Sono molto sorpreso di ciò che mi
dice, ma poi, ripensandoci, ho capito che la mia frase: “non avendo
più interessi comuni, ci vediamo raramente”, è stata parafrasata in:
“non lo vedo più, perché non mi interessa”.
CARLO. Ma in questo caso è stata la tua amica a fraintendere ciò
che tu avevi detto; il mio caso è diverso.
MARCO. Può darsi, in ogni caso, se Sandro non mi avesse più volu-
to parlare, io non sarei venuto a conoscenza di ciò che era successo.
CARLO. Ma se tu avessi realmente detto alla tua amica che non
frequentavi più Sandro, perché non lo trovavi interessante, cosa sa-
rebbe successo?

152
MARCO. Sandro avrebbe ugualmente parlato con me, e io gli avrei
spiegato perché non lo “trovavo interessante”.

Il rancore può dipendere dalla “paura del giudizio”. Vediamo il


seguente schema:

1) una persona ci critica (la critica nel caso di Carlo è indiretta);


2) quando ci riferiscono delle critiche, proviamo immediatamen-
te disagio;
3) ci adiriamo con chi ci ha indirettamente criticati;
4) proviamo rancore nei suoi confronti ed evitiamo di parlargli.

Ricordiamoci che dobbiamo essere in grado di accettare i giudi-


zi altrui e valutare se possono esserci utili, ma che “siamo solo noi
a giudicare il nostro comportamento”.

L’interpretazione

È particolarmente difficile essere “obiettivi” con se stessi in par-


ticolari situazioni: abbiamo tutti la tendenza a interpretare.
Una coppia, marito e moglie, sono miei clienti e il loro rap-
porto è particolarmente “teso”. La moglie e il marito, mi descri-
vono, separatamente, la stessa situazione.
La moglie mi dice: “Ieri sera sono andata a letto prima di mio
marito, mentre lui continuava a guardare la televisione. Ero nel
dormiveglia, quando mio marito è venuto a letto. Mio marito
mi si avvicina e io involontariamente lo urto con una gamba.
Mio marito si alza con rabbia dal letto e ritorna a guardare la
televisione. Così facendo è riuscito a svegliarmi del tutto”.
Il marito mi riferisce: “Ieri sera mia moglie è andata a letto prima
di me, e poco dopo l’ho raggiunta. Mi rendo conto che non è addor-

153
mentata e mi avvicino a lei. Appena mi avvicino mi dà, di proposito,
un forte calcio. Ho capito chiaramente che non mi voleva vicino e
quindi mi sono alzato e sono ritornato a guardare la televisione”.
I due coniugi non discutono tra loro dell’episodio successo la
sera precedente. Ma, parlandone, emerge chiaramente un reci-
proco rancore. Ognuno dei coniugi dà la propria versione del
fatto; la moglie è adirata con il marito per la sua scarsa “sensibili-
tà”; il marito ritiene che la moglie gli abbia fatto volutamente uno
sgarbo. Se noi vogliamo capire chi dei due ha ragione, rischiamo
di perdere il nostro tempo. Tra i due coniugi si è creata una si-
tuazione di tale tensione, che trovano impossibile comunicare tra
loro. Non comunicando, ognuno tende a “interpretare” il com-
portamento dell’altro; qualunque comportamento emesso dall’al-
tro viene decodificato come una “voluta” aggressione.
Riassumendo, in queste situazioni si individua:

1) attenzione selettiva nel cogliere i comportamenti negativi


dell’altro;
2) interpretazione del comportamento e attivazione di pensieri
del tipo: “Si comporta così solo per farmi star male”;
3) astio nei confronti dell’altro;
4) assenza di dialogo e quindi di eventuali chiarimenti;
5) incremento di attenzione selettiva per gli aspetti negativi
dell’altro;
6) convalida della propria ipotesi, cioè: “Continua a compor-
tarsi così per farmi soffrire”.

Come possiamo vedere, si è instaurato un circolo vizioso:


interpretazione-rancore-interpretazione; e tutto ciò impedisce
che si produca un chiarimento reciproco.
Sulla base del precedente schema, i due coniugi hanno indi-
viduato gli “errori” che non permettevano loro di interagire in

154
modo corretto e quindi hanno appreso:
1) a chiarire immediatamente i loro problemi;
2) a “indirizzare” l’attenzione sugli aspetti positivi dell’altro e
a evitare le critiche manipolative.

Il sospetto

Una persona telefona a una signora sposata dicendo: “So che


suo marito ha un’amante, controlli e vedrà”. La signora chiede
con chi sta parlando e l’altro si definisce un “amico”. Come
possiamo comportarci?
Possiamo comportarci con il nostro partner in diversi modi,
vediamone alcuni:

1) non gli dico nulla;


2) non gli dico nulla, ma cerco di controllarlo;
3) non gli dico nulla, ma incarico qualcuno perché lo controlli;
4) ne parlo con lui per scoprire se ha qualche cosa da “nascon-
dermi”;
5) ne parlo con delle amiche per avere dei consigli;
6) ne parlo con lui solo per informarlo della telefonata che ho
ricevuto;
7) ne parlo con lui, perché mi consigli come rispondere, se even-
tualmente ritelefonano;
8) ne parlo con lui, perché voglio sentirmi dire che non vi è nulla
di vero.

Quale modo di comportarvi scegliereste?


Tra le varie possibilità personalmente sceglierei la n. 6. Pren-
derei in considerazione il consiglio per una eventuale nuova
telefonata (n. 7). Ma facendo una tale scelta è necessario:

155
— non ripensare alla telefonata ricevuta;
— non porsi dei dubbi;
— accettare la risposta del marito.

È anche possibile scegliere il comportamento n. 1, qualora


non si prenda in nessuna considerazione la telefonata.
Se vi sono dei dubbi, si è costretti a scegliere altre soluzioni.
Il dubbio è sempre accompagnato dal disagio, che in questo
caso, può essere indotto dal possesso o dall’orgoglio.

156
Il sacrificio e il piacere

Rinunciare a un nostro progetto per far piacere a un’altra perso-


na. Continuare il lavoro del genitore perché è così che vuole lui.
Rinunciare a un nostro hobby per accontentare il nostro partner.
Questi possono essere alcuni esempi di sacrificio. Il sacrificio è
centrato sugli altri, è rinunciare a qualcosa che per noi è impor-
tante a favore di un altro. Il sacrificarsi può derivare dal dovere:
“dover essere” una buona moglie, un buon figlio o un buon ami-
co. Nel caso di una buona moglie ciò significa: le mie esigenze
vengono dopo quelle dei miei figli e di mio marito.
Ma se il dovere o il sacrificio possono crearci del disagio, per-
ché continuiamo a emettere questi comportamenti?
Il sacrificio può essere per noi un piacere? Ma se il sacrificio
può essere piacere, non dovrebbe crearci disagio.

Il dovere di dare

CARLO. È veramente difficile avere dei veri amici. Spesso,


dopo un po’ di tempo, ti accorgi che non sei stato corrisposto.

157
MARCO. Cosa intendi per “non sono stato corrisposto”?
CARLO. Ti sarà capitato di dare molto a un amico e avere ben
poco in cambio, non sei d’accordo?
MARCO. Sì, può succedere, ma nel tuo caso, cosa ti è successo?
CARLO. Lavoro da alcuni mesi con un collega che io conside-
ravo un amico. Quando vedevo che aveva delle difficoltà sul
lavoro ho sempre cercato di aiutarlo; alcune volte mi fermavo
di più in ufficio per aiutarlo a terminare alcune sue “pratiche”.
Bene, due giorni fa gli chiedo di aiutarmi a terminare un lavo-
ro e lui mi dice che non ha tempo e se ne va via.
MARCO. Era il tuo collega che ti chiedeva di fermarti ad aiu-
tarlo?
CARLO. Alcune volte mi offrivo io, altre volte era lui che mi
chiedeva di aiutarlo.
MARCO. Ti sei anche fermato ad aiutarlo quando non avevi
voglia o avevi qualche impegno più importante?
CARLO. Più di una volta mi sono fermato ad aiutarlo, pur non
avendone voglia. Una volta non stavo bene e mi sono ugual-
mente fermato in ufficio per altre due ore.
MARCO. Ma, se non avevi voglia di aiutarlo, chi ti ha costretto
a farlo?
CARLO. Nessuno, mi sembra un comportamento normale aiu-
tare un amico in difficoltà.
MARCO. Mi stai dicendo che tu consideravi quel tuo collega
un amico e quindi ritenevi tuo dovere aiutarlo, è così?
CARLO. Sì, in un rapporto di amicizia bisogna comportarsi così.
MARCO. Io penso in modo diverso. Prima mi hai chiesto se
mi era capitato di dare molto a un amico; mi è difficile darti
una risposta, non ho mai valutato quanto ho dato a un amico
e non ho mai applicato nei rapporti interpersonali il concetto
costo-beneficio; se ho dato a un amico è perché avevo voglia e
piacere di farlo. Mi è difficile valutare il piacere che ho avuto

158
nel dare. Quindi io non uso mai i termini obbligo o dovere nei
confronti di un amico; se facessi così tenderei ad aspettarmi
qualche cosa in cambio per ciò che ho dato e dare senza avere
nulla in cambio mi farebbe stare male. Quindi se ho “dato” 100
è perché avevo voglia di farlo, e se l’amico mi ha “restituito” 10
io ho “accumulato” 110; invece nella tua ottica io sarei ancora
in “credito” di 90.

Il comportamento di Carlo è frequente, ma tende a creare


delle aspettative. Vediamo alcuni errori di Carlo:

1) l’amicizia implica dei doveri;


2) è un dovere “dare” a un amico;
3) a un amico non si può rifiutare nulla;
4) ci si “aspetta” che lui si comporti nello stesso modo con noi;
5) se ciò non succede, vuol dire che l’altro non ci è amico;
6) in questo caso è un mio diritto porre termine al rapporto.

Quindi nei rapporti interpersonali: NON DIRE: IO TI HO


DATO.

Curare il proprio aspetto

Avete mai provato a seguire una dieta? Può essere difficile. Siete
mai andati in palestra per tenervi in forma? Può essere noioso.
Seguire una dieta o esercitarsi in palestra può costituire un
notevole sacrificio. Ma ciò può trasformarsi in piacere?
Incontro un amico che non vedo da alcuni mesi, lo trovo ulte-
riormente ingrassato e gli dico. “Mi sembra che dovresti perdere
alcuni chili”. L’amico mi risponde: “Hai ragione, sono nuovamen-
te ingrassato. Ti ricordi com’ero alcuni anni fa? Ora ho 20 chili

159
di troppo. Ho già provato alcune diete, perdo alcuni chili che poi
riprendo rapidamente; ho anche provato a fare un po’ di attività
sportiva, ma ciò mi stimola maggiormente l’appetito. Sì, dovrei pro-
prio fare qualcosa per dimagrire”. “Ma – rispondo – ci hai già prova-
to e forse trovi troppo difficile mantenere una qualunque dieta”.
“Sì, è vero – mi risponde – per me è un sacrificio controllarmi,
non trovo una sufficiente motivazione; quando ero scapolo pre-
stavo maggiore attenzione al mio aspetto; è evidente che essere
obeso non è la migliore carta di presentazione con l’altro sesso.
Dovrei trovare qualche stimolo esterno che mi solleciti a mante-
nermi in forma. Hai qualche consiglio da darmi?”
“Vedi – rispondo – tu mi dici che avresti bisogno di stimoli
esterni per mantenerti in forma, ma quali tipi di stimoli intendi?”
“Potrebbe essere un’amica – mi dice – o forse, un lavoro più
attivo del mio; in ogni caso per me non è facile trovare il tempo
per andare in palestra, e fare una dieta mi è difficile perché spesso
sono fuori casa per lavoro”.
Per il mio amico è difficile mantenersi in forma e i motivi
sono i seguenti:

1) fare una dieta è un sacrificio;


2) andare in palestra è un sacrificio;
3) cerca qualche stimolo esterno che lo induca a mantenersi
in forma;
4) tende ad autogiustificare la propria non motivazione.

Non vi sarebbe alcun problema se si accettasse così com’è,


ma non è soddisfatto del proprio aspetto e vorrebbe essere fisi-
camente più efficiente.
Il modo di ragionare dell’amico è il seguente:

1) per me mantenermi in forma è difficile e faticoso;


160
2) la mia fatica dovrebbe essere premiata da gratificazioni che
mi provengono dall’esterno;
3) in mancanza di “stimoli esterni” è inutile che mi mantenga
in forma.

Si instaura così un circolo vizioso da cui è difficile uscire. In


questo caso l’attenzione dovrebbe essere centrata su se stessi e
non sugli altri. Se decidiamo di voler migliorare il nostro aspet-
to fisico lo dobbiamo fare solo per noi stessi. Siamo noi che ci
autogratifichiamo osservando i risultati che progressivamente
otteniamo controllando la dieta e andando in palestra. Quindi
il sacrificio non è più tale, in quanto diventa un piacere osser-
vare i risultati che si ottengono. Quando si raggiunge poi un
buon stato di efficienza fisica diventa quasi automatico mante-
nerlo, si crea la seguente sequenza:

1) ci si sente perfettamente in forma;


2) si desidera mantenere questo “stato”;
3) se ci si trascura fisicamente si prova una sensazione di disagio;
4) si riduce il disagio riprendendo la cura di se stessi.

Nel caso della cura del proprio aspetto, come in ogni situa-
zione della vita, non si possono avere dei risultati senza dover
pagare dei costi, sta a noi decidere se vogliamo pagarli, in ogni
caso non autogiustifichiamo la nostra non operatività.
Dipende da noi sviluppare “il piacere di piacersi”.

L’immagine

Vediamo i casi di due persone: Gianni e Marta.


Gianni è un uomo di 32 anni, veste in modo elegante e ri-

161
cercato, ha una bella macchina e frequenta persone “impor-
tanti”. Tende ad apparire un uomo sicuro di sé. Marta ha 28
anni, è dimessa nel vestire, tende a non “mettersi in mostra” e
risponde solo quando è direttamente interpellata. Il suo viso è
sempre sorridente e pare una persona estremamente dolce e
accondiscendente.
Cosa può legare due persone che appaiono così diverse tra
loro? Entrambi cercano attraverso il modo di vestire o di par-
lare di creare un’immagine di se stesse. Penso che questo com-
portamento sia abituale in tutti noi; ma può diventare fonte di
disagio?
Gianni vuole crearsi un’immagine di un uomo “arrivato” e
per fare ciò studia il comportamento delle persone che ritie-
ne importanti, cercando di farlo proprio. La sua attenzione è
centrata sull’immagine che vuol creare di sé. Gianni divide le
persone in due categorie: quelle “importanti” e quelle “non
importanti”.
Domandiamo a Gianni quali sono per lui le persone impor-
tanti. Questa è la sua risposta: “Considero persone importan-
ti quelle che hanno raggiunto un elevato stato economico e
sociale”. Gianni cerca di frequentare questo tipo di persone,
vuole apprendere da loro e vuole essere da loro accettato. Il
giudizio delle persone che “contano” diventa per Gianni estre-
mamente importante. Gianni non presta la minima attenzione
alle persone che ritiene non importanti, anzi tende a giudicar-
le in modo negativo.
Ma Gianni ha realmente “piacere” di comportarsi in questo
modo? O il piacere gli deriva esclusivamente dall’approvazione
che ottiene dagli altri?
Vediamo il seguente schema:

1) Gianni vuole “apparire”;

162
2) è importante il giudizio delle persone “importanti”;
3) ha bisogno della loro approvazione;
4) ottiene la loro approvazione ed è gratificato.

Nel caso in cui non ottenesse la “loro” approvazione, avver-


tirebbe disagio e quindi dovrebbe creare comportamenti alter-
nativi per “farsi accettare”.
Come vediamo in questo schema, il piacere gli deriva
dall’approvazione che ottiene. É ben diverso dirsi: “Ho piacere
di stare con quelle persone” da “É importante per me stare con
quelle persone”.
Tra il caso di Gianni e quello di Marta vi possono essere delle
analogie. Anche Marta deve “apparire”, deve mantenere la pro-
pria immagine di persona educata, rispettosa e accondiscen-
dente. In famiglia le hanno sempre detto che è bene non “ap-
parire”. Marta è di famiglia ricca e potrebbe permettersi molte
gratificazioni, quali viaggi, bei vestiti, gioielli, etc. Ma Marta non
può concedersi alcuna gratificazione perché il farlo vorrebbe
dire, per lei, mettersi in mostra. La famiglia la ha insegnato a
evitare tutto ciò che può essere considerato “frivolo”. Possiamo
vedere dal seguente schema come il comportamento di Marta
sia simile a quello di Gianni:

1) Marta vuole “non apparire”;


2) è importante il giudizio dei genitori;
3) deve ottenere la loro approvazione;
4) ottiene la loro approvazione ed è gratificata.

Quindi, sia Gianni che Marta “debbono” emettere dei com-


portamenti per ottenere l’altrui approvazione, solo così facen-
do, possono evitare di provar disagio.

163
Il bisogno

Una persona cara ci deve lasciare per alcune settimane e noi


proviamo disagio; siamo da soli a casa e vorremmo essere in
compagnia di amici. Come abbiamo già precedentemente vi-
sto, emettiamo spesso dei comportamenti per sottrarci a una
situazione di disagio.
Vediamo un dialogo tra Marco e il suo amico Carlo. Marco
ora vive con la sua fidanzata Anna. Precedentemente Marco
aveva discusso con Carlo sul possesso e sul bisogno.

CARLO. È da alcuni mesi che non ci vediamo, ho saputo che


ora vivi con Anna. Come mai hai preso questa decisione, non
pensavo che tu volessi legarti così con Anna.
MARCO. Con Anna mi trovo bene. È una donna autonoma e
indipendente, e tra noi si è stabilito un rapporto di reciproco
rispetto e stima. Mi pare che nessuno di noi due cerchi di pre-
varicare sull’altro.
CARLO. Ma tu continui ad avere una vita come prima, cioè ad
avere molti interessi che ti portano fuori casa, anche alla sera?
MARCO. Sì, nulla è cambiato, in modo rilevante, rispetto a pri-
ma.
CARLO. Scusa, ma non capisco. Qual è il motivo che ti ha spin-
to a convivere con Anna, se poi, continui a comportarti come
prima?
MARCO. Non capisco perché dovrei cambiare, se a me va bene
così.
CARLO. Ma ad Anna va bene come ti comporti? Starai a casa,
probabilmente, una o due volte alla settimana.
MARCO. Anna sa come sono fatto e mi accetta così. Ovviamen-
te anch’io rispetto il modo di comportarsi di Anna.

164
CARLO. Anche Anna esce frequentemente da sola alla sera?
MARCO. Esce un po’ meno di me, esce circa due o tre volte
per settimana.
CARLO. Non ti dà noia quando esce da sola?
MARCO. Qualche tempo fa, Anna stava preparandosi per usci-
re e io ho avvertito un disagio. Ho detto ad Anna che trovarmi
a casa da solo mi dava noia. Anna mi ha risposto: Se ti dà noia
rimanere a casa da solo è sufficiente che si programmino le no-
stre uscite, in tal modo, quando tu stai a casa, ci sarò anch’io. Io
chiedo ad Anna se prova disagio quando io sono fuori e Anna
mi risponde che sta bene in casa da sola. Ho capito che iniziavo
ad aver bisogno di Anna, la sua assenza mi creava disagio.
CARLO. Come ti sei comportato?
MARCO. Mi sono detto che il mio rapporto con Anna deve
essere basato sul piacere di stare con lei e non già sul bisogno.
Le sere in cui sapevo che Anna sarebbe uscita, io mi gratificavo
guardando al videoregistratore dei film che mi piacevano parti-
colarmente. Dovevo imparare a stare a casa da solo e star bene.
Successivamente non ho più avuto bisogno di guardare film.
CARLO. Ma non era più semplice dirle di rimanere a casa?
MARCO. Sarebbe stato più facile, ma poi, sarebbe stato difficile
capire se stavo con Anna per il piacere della sua compagnia o
perché non ero in grado di rimanere a casa da solo.

In questo caso Marco ritiene che un rapporto sia maggiormen-


te valido quando è basato sul reciproco piacere e non sui biso-
gni di una delle parti.
Marco si considera una persona “indipendente”, quindi nel-
la sua scelta del partner tiene in considerazione il suo modo di
“essere”. Il partner che preferisce deve essere “autonomo”, cioè,
non dipendere da lui.
Il suo modo di ragionare è il seguente:

165
1) se il mio partner dipende da me, mi crea disagio;
2) potrei evitare il disagio in due modi: o cercando di modifi-
care il partner o cercando di modificare me stesso.

Queste due possibili soluzioni non sono accettate da Marco,


per i seguenti motivi:

1) se cerco di modificare il partner è perché lo voglio diverso.


Se mi impegnerò a modificarlo, si modificherà come voglio
io? È corretto voler modificare una persona?
2) se io provo a modificarmi sarà per me un notevole sacrificio
e impegno. Mi aspetterò, quindi, che il partner capisca che
mi sto “modificando” per lui.

Marco non valuta opportuno né modificare il partner, né


modificare se stesso. Quindi, il partner di Marco non deve ri-
chiedergli alcun impegno.

166
La modificazione del comportamento

Abbiamo già visto come sia possibile modificare il nostro com-


portamento non verbale (vedi la comunicazione assertiva). Ov-
viamente il possedere buone abilità non verbali non è sufficien-
te per stabilire buoni rapporti interpersonali o per non provare
disagio nelle innumerevoli situazioni che quotidianamente
dobbiamo affrontare. Ricordiamoci che in un comportamento
dobbiamo sempre tener presente l’interazione tra i sistemi mo-
torio, fisiologico-emozionale e cognitivo.
Perché si attui una modificazione comportamentale che
tenda a consolidarsi sempre di più è necessario intervenire su
tutti e tre i sistemi.
Possiamo sviluppare alcune abilità non verbali e verbali, ma
continuiamo ugualmente a provare disagio quando ci sentia-
mo giudicati. Usiamo correttamente alcune tecniche verbali,
quali: l’annebbiamento o l’inchiesta negativa, ma quando una
persona critica il nostro operato ci arrabbiamo ugualmente.
Se ci poniamo di fronte a uno specchio e ci osserviamo, in-
dividuiamo rapidamente se siamo aumentati di peso o se la no-

167
stra cravatta è adeguata all’abito che indossiamo. In entrambi
i casi possiamo rimediare. Ma, anche in queste due situazioni,
non è detto che si riesca a riconoscere se vi è stato un aumento
di peso o se la cravatta non è intonata con l’abito. L’essere in
grado di discriminare, cioè di cogliere un particolare dall’in-
sieme, può dipendere in larga misura dalle nostre passate espe-
rienze e, di conseguenza, dall’attenzione selettiva che poniamo
su un preciso particolare.
Se decidiamo di modificare il nostro comportamento, dob-
biamo attentamente osservarci e individuare gli aspetti in cui
siamo particolarmente carenti e quindi intervenire.
Come può essere possibile individuare le nostre carenze?
Nell’affrontare una situazione vi è sempre un prima, un du-
rante e un dopo. Se in uno di questi tre momenti proviamo disa-
gio, abbiamo già individuato un'eventuale area in cui possiamo
provare a modificarci.
Ma non si rischia con ciò di diventare quasi degli automi? Que-
sta può essere un'obiezione a un eventuale programma di modi-
ficazione: si può pensare che nel modificarci si perda in “sponta-
neità”. Penso che si possa essere d’accordo sul fatto che quanto
maggiori sono le abilità o i comportamenti che padroneggiamo,
tanto meglio siamo in grado di gestirci nelle varie situazioni. Se,
inoltre, accettiamo l’assunzione che non “dobbiamo star male”,
ne consegue che a un maggior possesso di abilità corrisponderà
un minore disagio nelle situazioni più varie. Se una persona ha
un ridotto bagaglio comportamentale, avrà a propria disposizio-
ne poche risposte da emettere.
Una persona che, in una determinata situazione, dà sempre
la stessa risposta, perché non è in grado di darne altre, è forse
più “autonoma” di chi, in una medesima situazione, è in grado di
dare risposte differenti? Al contrario, più risposte siamo in grado
di emettere, più siamo spontanei. Ovviamente, per essere total-

168
mente spontanei, sarebbe necessario essere privi di condiziona-
menti, ma, come abbiamo visto, ciò è impossibile.
Gli eventi della vita ci modificano costantemente; spesso quasi
passivamente, ci vediamo cambiare. Un evento drammatico nella
nostra vita, quale può essere la morte di una persona cara, ci può
rapidamente modificare. Ma se pensiamo che modificarci debba
essere un processo attivo, allora dobbiamo essere “noi” a modifi-
carci costantemente ed essere sempre disponibili ad apprendere.

Iniziamo a modificarci

Potremmo anche dire: “Proviamo a modificarci”, ma è meglio


evitare di usare il termine “proviamo”. Se vogliamo imparare a
guidare la macchina, iniziamo ad andare a scuola guida, e si pre-
sume che al termine delle lezioni si sia in grado di guidare una
macchina. Durante la scuola guida stiamo apprendendo a guida-
re: all’inizio sarà difficile, ma successivamente la guida diventerà
automatica. In questo caso non si è provato a guidare la macchi-
na, ma si è appreso a guidare la macchina. Quindi, o emettiamo
dei comportamenti o non li emettiamo; provare a emetterli non
serve. Spesso dirsi: “proverò” rischia di rimanere un’intenzione
che non si è mai concretizzata in comportamenti manifesti.

Individuiamo il nostro stile di comportamento

Abbiamo visto come il comportamento sociale può essere sud-


diviso in:

— comportamento passivo;
— comportamento aggressivo;

169
— comportamento assertivo.

Ricordiamoci che siamo passivi se:


1) subiamo gli altri;
2) abbiamo difficoltà nel fare o rifiutare richieste;
3) abbiamo difficoltà nel fare o accettare complimenti e nel
comunicare agli altri i nostri sentimenti;
4) abbiamo bisogno dell’approvazione altrui;
5) dipendiamo dal giudizio altrui;
6) abbiamo spesso paura di sbagliare;
7) riteniamo che gli altri siano migliori di noi;
8) proviamo disagio alla presenza di persone che non cono-
sciamo bene;
9) abbiamo difficoltà nel prendere decisioni;
10) dopo aver aggredito una persona, ci sentiamo in colpa.

Queste sono solo alcune delle difficoltà che ci si possono


presentare nei rapporti interpersonali. In ogni caso, non è det-
to che, per essere passivi, sia necessario possedere tutti questi
aspetti deficitari. Possiamo accontentarci di possederne tre o
quattro!

Possiamo considerarci aggressivi se:


1) vogliamo che gli altri si comportino come fa piacere a noi;
2) non modifichiamo la nostra opinione su qualcuno o su
qualche cosa;
3) decidiamo per gli altri senza ascoltare il parere dei diretti
interessati;
4) non accettiamo di poter sbagliare;
5) non chiediamo “scusa” per un nostro eventuale errato com-
portamento;
6) non ascoltiamo gli altri mentre parlano;
170
7) interrompiamo frequentemente il nostro interlocutore;
8) giudichiamo gli altri e li critichiamo;
9) usiamo “strategie colpevolizzanti o inferiorizzanti”;
10) ci consideriamo i “migliori”.

Se riteniamo di avere tutte queste caratteristiche, beh, siamo


realmente delle persone non molto amate! Ma anche non esse-
re amati non ci importa, in quanto sono gli altri che sbagliano!
Vediamo, ora, le caratteristiche della persona assertiva:

1) accetta il punto di vista altrui;


2) non giudica;
3) non inferiorizza o colpevolizza gli altri;
4) ascolta gli altri, ma decide in modo autonomo;
5) è pronto a cambiare la propria opinione;
6) non permette che gli altri lo manipolino;
7) non pretende che gli altri si comportino come fa piacere a lui;
8) ricerca l’altrui collaborazione;
9) è in grado di comunicare le proprie emozioni o stati d’animo;
10) si valuta in modo adeguato.

È veramente piacevole vivere con una persona assertiva: pec-


cato che ve ne siano poche!
Non è facile individuare il nostro stile di comportamento:
in alcune situazioni possiamo essere passivi, mentre in altre ag-
gressivi o assertivi. È opportuno, almeno all’inizio di un pro-
gramma di modificazione del comportamento, tenere un dia-
rio in cui annotiamo:

1) situazione in cui mi sono trovato;


2) eventuale disagio che ho provato. Il disagio può essere va-
lutato soggettivamente da 0 a 10, dove 0 indica assenza di

171
disagio e 10 il massimo disagio provato;
3) quale tipo di comportamento ho emesso;
4) quale tipo di comportamento avrei dovuto emettere.

Dopo un breve periodo di auto osservazione, dovremmo es-


sere in grado di individuare il nostro stile di comportamento.
Vediamo alcuni esempi:

1) un amico ci contraddice;
2) avvertiamo disagio (valutato 3);
3a) guardiamo il nostro amico con aria di “sufficienza”, incli-
nando il capo da un lato e atteggiando il viso a lieve sorriso;
3b) stiamo pensando: «Sta dicendo le solite stupidaggini»;
3c) diciamo all’amico in tono ironico: «Sarebbe bene che ti in-
formassi prima di parlare!»

Come avremmo dovuto comportarci?

1) un amico ci contraddice;
2) ci diciamo: “È un suo diritto esprimere la propria opinione”;
3) diciamo all’amico: “Capisco il tuo modo di pensare, ma, il
mio modo di pensare è diverso dal tuo”.

1) siamo invitati a una riunione, in cui vi saranno molte perso-


ne che non conosciamo;
2) giunti alla riunione, cerchiamo le persone che conosciamo,
le troviamo, mentre stanno parlando con persone a noi sco-
nosciute;
3) proviamo disagio (valutato 6);
4) vorremo andare via e ci diciamo: «Vedrò di non trovarmi
più in una situazione simile, andrò a un ricevimento solo se
conosco bene tutte le persone»;

172
5) Ci isoliamo in una parte della sala.

Come avremmo dovuto comportarci?

1) siamo invitati...
2) giunti alla riunione…
3) ci immettiamo nel gruppo, pur avvertendo disagio;
4) prestiamo attenzione ai discorsi che si stanno facendo e os-
serviamo attentamente i visi delle persone del gruppo;
5) quando avvertiamo una riduzione del disagio, iniziamo a
conversare.

Nel primo caso siamo aggressivi e lo dimostriamo con la


mimica facciale e il comportamento verbale; nel secondo caso
abbiamo una carenza di abilità sociali (proprie delle persone
passive) e tendiamo a evitare le situazioni sociali che sono per
noi fonte di disagio.
Quindi, come prima fase, dobbiamo individuare il nostro
stile di comportamento e l’eventuale disagio che determinate
situazioni ci possono creare.

Individuiamo lo stile di comportamento altrui

Osserviamo attentamente le persone con cui interagiamo e ve-


diamo di discriminare il loro stile di comportamento. Abbiamo
già precedentemente trattato dell’importanza dell’apprendi-
mento discriminativo nel paragrafo sulla comunicazione asser-
tiva. Quando individuiamo quali sono i comportamenti altrui,
possiamo iniziare a discriminare attentamente i comportamen-
ti non verbali e verbali che emette il nostro interlocutore. Ri-
cordiamoci che per poter ben discriminare in una situazione

173
sociale è necessario non provare un elevato disagio. Iniziamo,
quindi, a osservare gli altri nelle situazioni che risultano per
noi meno ansiogene.
Vediamo alcuni esempi di comportamenti verbali e cerchia-
mo di individuarne lo stile:

1) un amico arriva in ritardo a un appuntamento e noi dicia-


mo: “Io, per arrivare puntuale all’appuntamento ho inter-
rotto un lavoro importante!”
2) un amico ci restituisce un disco che gli abbiamo imprestato
e quando proviamo ad ascoltarlo ci accorgiamo che è stato
rotto. Non diciamo nulla all’amico;
3) abbiamo un appuntamento, siamo già in ritardo e nostra
moglie deve ancora truccarsi per uscire. Noi diciamo: “Sem-
bra quasi che tu lo faccia apposta, siamo in ritardo e tu devi
ancora truccarti”;
4) stiamo facendo delle manovre per parcheggiare la macchi-
na, quando ne sopraggiunge un’altra che viene a occupare
il nostro posto. Noi diciamo all’altro: “È possibile che non
si sia accorto che io stavo per parcheggiare?”
5) siamo in uno scompartimento del treno in cui è vietato fu-
mare. Un passeggero inizia a fumare; a noi il fumo dà noia,
ma non diciamo nulla e andiamo a cercare un altro scom-
partimento.

Questi sono dei semplici esempi in cui è facile discriminare


i vari tipi di comportamenti. Sono comportamenti aggressivi
quelli corrispondenti ai numeri 1, 3 e 4, mentre sono compor-
tamenti passivi il 2 e il 5. Ora provate a modificarli in com-
portamenti assertivi. Non ho voglia di scrivere qui, le risposte
assertive (sto esercitandomi a emettere dei comportamenti as-
sertivi!).

174
Ora che siamo in grado di discriminare i comportamenti
nostri e altrui, dobbiamo valutare se riteniamo opportuno mo-
dificarci. Ricordiamoci che il processo deve essere lento, ma
continuo.
Per modificarci è sufficiente intervenire sui nostri compor-
tamenti verbali e non verbali?
Quando riteniamo che una persona ci abbia fatto un affron-
to o siamo provocati da un amico, pensiamo di essere in gra-
do di controllare i nostri comportamenti non verbali o verbali,
senza attivare risposte emozionali?
Vediamo il seguente schema:

1) riteniamo che una persona ci abbia fatto un affronto;


2) incontriamo questa persona;
3) attiviamo risposte emozionali negative;
4) ci diciamo che dobbiamo emettere un comportamento assertivo;
5) nell’emettere il comportamento assertivo siamo “tesi”;
6) le frasi che diciamo sono formalmente assertive, ma non
moduliamo bene il tono della voce e non controlliamo la
nostra mimica;
7) le frasi che abbiamo detto non hanno immediato effetto sul no-
stro interlocutore;
8) il nostro interlocutore ci critica;
9) non siamo più in grado di controllare le nostre risposte emo-
zionali;
10) diveniamo aggressivi o passivi.

Come abbiamo visto un comportamento ha un prima, un


durante e un dopo. Nell’esempio precedentemente descritto,
dalla seconda alla decima fase si osserva il comportamento du-
rante l’interazione. In questo caso è importante esaminare “il
prima” dell’interazione. Noi riteniamo che una persona ci ab-

175
bia fatto un affronto e quindi che si sia comportata in modo
poco corretto nei nostri confronti. Questo è un errore cogni-
tivo, che può sviluppare in noi un senso di frustrazione o rab-
bia nei confronti di quella “particolare” persona. Ma, provare
rabbia può esserci di qualche utilità? No, ci serve solo a star
male. Se stiamo male ricordiamoci che la colpa è nostra e quin-
di dobbiamo modificarci. Nella precedente sequenza individu-
iamo alcuni errori cognitivi che non permettono di emettere
un comportamento assertivo. Gli errori sono del tipo:

1) “gli altri debbono comportarsi come noi ci attendiamo”


(Aspettativa);
2) “non dobbiamo mai subire un affronto, è in gioco la nostra
dignità” (Orgoglio);
3) “una persona che non si comporta come ci attendiamo, deve
essere giudicata in modo negativo” (Giudizio).

In questa situazione se vogliamo emettere un comportamen-


to assertivo dobbiamo “smantellare” ciò che vi è di negativo
nel nostro modo di pensare. Quindi non dobbiamo né provare
orgoglio, né giudicare, né crearci delle aspettative.
Ovviamente, è difficile modificare rapidamente alcuni nostri
aspetti cognitivi, ma se decidiamo di modificarci dovremo gra-
dualmente esercitarci a individuare i nostri “errori” cognitivi.

176
Analisi delle assunzioni

Apprendiamo dal nostro passato

Iniziamo a esplorare il nostro comportamento nel passato e ri-


spondiamo alle seguenti domande:

1) Non si sono realizzate alcune aspettative che mi ero creato


e quindi sono stato male? 
2) Mi sono aspettato che l’altro e/o gli altri avrebbero dovuto
comportarsi come io volevo?
3) Mi è successo di adirarmi non avendo accettato l’altrui
comportamento?
4) Sono stato male e ho attribuito il mio disagio al comporta-
mento altrui?
5) Ho accettato l’eventuale “ambiguità” del comportamento
dell’altro (si comporta con noi in un modo “diverso” da
come si comporta con gli altri)?
6) Ho posto all’altro delle domande e non sono stato soddi-
sfatto delle sue risposte?

177
7) Ho creato delle false aspettative ad altri?
8) Mi è stato detto che ho dato delle errate informazioni o che
ho creato delle false aspettative?
9) Non sono stato in grado di rifiutare per paura di “offende-
re” l’altro?
10) Mi sono detto: “Mi sta dicendo queste cose, ma in realtà
pensa diversamente?”
11) Ho attribuito molta importanza a qualcuno o a qualche
cosa, e non avendolo potuto “ottenere” o avendolo “perso”,
sono stato male?

Individuiamo, nel nostro passato, i due tipi di situazioni,


quelle:

1) in cui abbiamo creato ad altri disagio;


2) in cui noi abbiamo avvertito disagio.

Dobbiamo “agganciare” a ogni situazione “l’assunzione” che


riteniamo più adeguata.
Le corrette assunzioni inerenti all’aspettativa possono essere:

1) “Non aspettarsi che gli altri si comportino come noi voglia-


mo”.
2) “Gli altri non sono da modificare”.
3) “Non dobbiamo stare male” e “Se stiamo male la colpa è
solo nostra”. 
4) “Non creare false aspettative”.
5) “Tutti subiamo la pressione ambientale”.
6) “Non fare domande se non si sanno accettare le risposte”.
7) “È un diritto degli altri fare delle richieste, ma è un diritto
nostro rifiutare”. 
8) “Non interpretare”.
178
9) “Tutto è importante ma non lo deve essere troppo”.

 Ora effettuiamo “l’aggancio” tra la situazione e le nuove as-


sunzioni.

Situazione Assunzioni
1 3-9
2 1-2
3 2
4 3-1
5 5
6 6
7 4
8 4
9 7
10 8
11 3-9

Questa è solo una proposta di “aggancio” ed è possibile indivi-


duarne altre; come è del resto possibile elaborare altre assunzioni;
ricordiamoci che non vi è nulla di “assoluto”
Ora esaminiamo altre eventuali situazioni del nostro passato:

1) Sono stato male per un giudizio negativo che mi è stato


dato?
2) Sono stato male trovandomi di fronte a una persona che
reputavo importante?
3) Ho fatto degli apprezzamenti negativi su qualcuno?
4) Ho dato errate informazioni di me per essere giudicato po-
sitivamente dagli altri?
5) Non sono riuscito a raggiungere un obiettivo che mi ero
prefissato e mi sono detto: “Non ho volontà”?

179
6) Mi sono adirato con qualcuno ritenendo che, se si fosse mag-
giormente applicato, avrebbe conseguito migliori risultati?
7) Ho emesso un comportamento non adeguato alla situazio-
ne, a esempio un comportamento aggressivo, ma mi sono
autogiustificato attribuendo la colpa del mio comporta-
mento al comportamento altrui?
8) Mi sono posto delle domande pur sapendo di non essere in
grado di dare delle risposte adeguate?
9) Ho sminuito il “valore” di un altro per apparire il “migliore”?
10) Mi sono attribuito il diritto di giudicare ciò che fosse bene
o male per un altro?
11) Ho anticipato negativamente una mia prestazione futura?
12) Ritengo di dover essere sempre l’unica persona importante
per il mio partner?
13) Sono stato male quando una persona che reputavo “impor-
tante” nella mia vita mi ha lasciato?
14) Provo rancore nei confronti del mio ex partner sapendolo
soddisfatto del suo nuovo rapporto?
15) Ho detto a un altro: “Sei un egoista”, quando non si è com-
portato come io volevo?
16) Mi sono preoccupato esageratamente per un problema al-
trui, pur sapendo di non poter fare nulla per aiutarlo?
17) Mi sono adirato vedendo i “successi” (economici o senti-
mentali) di un mio amico?
18) Ho ritenuto o ritengo che i successi altrui spesso dipenda-
no dalla loro fortuna, o da un loro non “corretto” modo di
comportarsi?
19) Ho provato rancore nei confronti di un amico e mi sono
detto: “Non avrebbe dovuto comportarsi così con me?”
20) Non soddisfatto di un comportamento di un altro, gli ho
mai detto: “Io con te mi sono sempre comportato in modo
ben diverso?”

180
21) Ho mai detto o pensato: “io che mi sono sempre sacrificato
per te cosa ho avuto in cambio”?

Per ogni situazione “agganciamo” le assunzioni corrispon-


denti. Le varie assunzioni sono suddivise in settori, ma tale
settori sono puramente formali, in quanto, alcune assunzioni
possono “passare” da un settore all’altro. Precedentemente ab-
biamo visto nove assunzioni che possono entrare nel settore
“dell’Aspettativa”, tali assunzioni possono anche essere impie-
gate nelle situazioni sopra elencate. Ora vediamo le restanti
assunzioni:

Giudizio
10) “Solo noi abbiamo il diritto di giudicare il nostro comporta-
mento”.
11) “Tutti sono importanti, ma non troppo”.
12) “Non è nostro diritto giudicare gli altri”.
13) “Non dobbiamo dimostrare agli altri di valere”.

Volontà
14) “Non attribuirsi e non attribuire agli altri mancanza di vo-
lontà”.
15) “Non autogiustificare il nostro comportamento”.

Orgoglio
16)“Possiamo porci solo quelle domande a cui possiamo dare
delle risposte”.
17) “Non svalutare gli altri al fine di apparire i migliori”.

Errore
18) Non è nostro diritto dire: “So cosa è bene o male per te”.
19) “Non anticipare negativamente”.

181
Possesso
20)“Non abbiamo il diritto di possedere nessuno”.
21)“Possiamo contare solo su noi stessi”.
22)“Il possesso equivale a stare male”.
23)“Devi essere contento del bene altrui”.

Egoismo
24)“Non dobbiamo fare nostri i problemi altrui”.

Invidia
25) “Chi invidia non si modifica”.
26) “Chi pensa a se stesso non ha tempo di preoccuparsi per i
successi altrui”.

Sacrificio e piacere 
27) Non dire: “Io ti ho dato”.

Accettare queste “assunzioni” può essere difficile per alcuni


di noi, ma le assunzioni che dobbiamo elaborare hanno come
obiettivo di ridurre il nostro disagio. Dobbiamo però ricordar-
ci che per ridurre il disagio dobbiamo affrontarlo. A esempio,
se dobbiamo parlare in pubblico e proviamo disagio, potremo
ridurre il disagio “evitando” la situazione, ma questo è un com-
portamento non adeguato al raggiungimento dell’obiettivo, cioè
il parlare in pubblico. Solo quando non avvertiamo più disagio
in una situazione possiamo “scegliere”. Solo se non avvertiamo
più disagio nel parlare in pubblico possiamo realmente decidere
quale comportamento desideriamo emettere: se parlare in pub-
blico o non parlare; in tal caso siamo noi a decidere e non è il
disagio o l’ansia che decide per noi.
L’accettare queste assunzioni può apparire per alcuni come
un non coinvolgimento nei fatti della vita, un vivere passivamente

182
senza emozioni. Dobbiamo, invece, pensare che questo può esse-
re un punto di partenza per coinvolgersi maggiormente nella vita
e quindi ottenere più elevate gratificazioni.
Come possiamo trascorrere piacevolmente una serata con
gli amici, se abbiamo paura del loro giudizio o dobbiamo dimo-
strare agli altri di valere?
Come possiamo continuare a impegnarci per il raggiungi-
mento di un obiettivo, quando nel passato siamo stati male,
perché ci siamo creati delle elevate aspettative che non si sono
realizzate?
Alla prima domanda possiamo rispondere che, se vogliamo re-
almente trarre piacere da una serata trascorsa con amici, è neces-
sario per noi “smantellare” alcune nostre errate assunzioni, quali:

1) “Debbo dimostrare di essere il più bravo”.


2) “Debbo emettere i comportamenti che gli altri si aspettano
da me, solo così potrò essere accettato”.

Alla seconda domanda possiamo rispondere che se voglia-


mo continuare a fare progetti per il nostro futuro e impegnarci
attivamente per il raggiungimento di un nostro obiettivo, dob-
biamo apprendere a gestire la frustrazione che ci viene dall’in-
successo. Ma per gestire la frustrazione è necessario attribuire
a tutti i fatti della vita una non “troppa” importanza. L’attri-
buire “troppa” importanza al raggiungimento di un obiettivo
può essere fonte di elevata frustrazione, qualora non si riesca
nel nostro intento. Può essere difficile reagire prontamente e
impegnarci in nuove attività, quando un nostro stato di disagio
si mantiene per un tempo prolungato.
Se riteniamo che per noi sia importante la “qualità della
vita” dobbiamo apprendere a non stare male e quindi ottenere
piacere da ciò che facciamo.

183
Conclusione

Come possiamo far sì che le assunzioni che abbiamo razional-


mente accettato diventino realmente “nostre”, cioè che si con-
cretizzino in comportamenti?
Possiamo accettare a livello razionale che non è corretto vo-
lere che gli altri si comportino come noi vogliamo. Ma quando
ci troviamo in una determinata situazione in cui non accettia-
mo l’altrui comportamento possiamo emettere due comporta-
menti:

1) evitare l’altro, in quanto il suo comportamento è per noi


fonte di disagio;
2) cercare di modificare il comportamento dell’altro.

Come vediamo in entrambi i casi tendiamo a essere centrati


sull’altrui comportamento, e non già sul nostro. Per noi non è
di alcuna utilità porci le seguenti domande:
“Per quale motivo devo essere io a dovermi modificare, quando
è l’altro a emettere un comportamento non corretto?”

185
“Perché oltre a provare disagio devo essere io a dovermi mo-
dificare, e quindi sono sempre io a dover pagare tutti i costi”?
È inutile insistere nel porci tali domande, in quanto non
hanno per noi alcuna utilità.

Esercitiamoci nelle situazioni

Se abbiamo accettato alcune assunzioni dobbiamo ora trasformarle


in comportamenti manifesti e, per raggiungere tale obiettivo, è ne-
cessario:
1) aver memorizzato le assunzioni che siamo razionalmente in gra-
do di accettare;
2) aver individuato i comportamenti che desideriamo modificare;
3) iniziare a voler modificare solo uno o due comportamenti per
volta;
4) prestare attenzione ai comportamenti da modificare;
5) non aspettarsi risultati a breve termine.

Quando, per anni, abbiamo emesso una sequenza comporta-


mentale che ora desideriamo modificare, è necessario effettuare su
di noi un “lavoro” continuo e sistematico. Accettare razionalmente
alcune assunzioni è solo il “punto” di partenza del “lavoro” che dob-
biamo fare su noi stessi.
Ricordiamoci che non è di alcuna utilità dirci:
“Non riuscirò mai”.
“Non è possibile modificare il mio comportamento: io sono fatto
così! È il mio carattere”.
“Queste assunzioni sono sola 'pura teoria', in quanto la vita è ben
diversa”.
Se decidiamo di modificarci è opportuno esercitarci in situazio-
ni reali. Dobbiamo cercare di ridurre il “vecchio” comportamento

186
e iniziare a sostituirlo con il “nuovo”.
Vediamo un esempio. Abbiamo individuato che tendiamo a di-
ventare aggressivi quando siamo aggrediti. La nostra sequenza
comportamentale che vogliamo modificare è la seguente:

1) una persona, alla presenza di altre persone, critica in modo


manipolativo il nostro operato;
2) proviamo disagio;
3) ci diciamo: “Ora gli dimostro chi ha ragione” (stiamo diven-
tando aggressivi);
4) iniziamo ad aggredirlo verbalmente;
5) autogiustifichiamo il nostro comportamento.

Per ridurre il nostro comportamento aggressivo dobbia-


mo modificare il punto 3. Quindi, appena avvertiamo disagio
o rabbia dobbiamo dirci: “Non debbo dimostrare agli altri di
valere”. Inoltre dobbiamo ricordarci di non autogiustificare il
nostro comportamento. Solo quando avremo ridotto il disagio
che la situazione ci ha creato, saremo in grado di emettere un
comportamento verbale di tipo assertivo.
Vediamo, ora, una sequenza in cui si evidenzia la tendenza
a “interpretare”:

1) invitiamo a cena una persona;


2) la persona rifiuta gentilmente dicendo: “Uscire alla sera
mi crea dei problemi”;
3) proviamo disagio;
4) ci diciamo: “Se non esce con me è perché non le interesso.
È bene che non continui a porle delle domande perché
potrei metterla in una situazione imbarazzante”;
5) evitiamo di ritelefonare a quella persona pur avendo desi-
derio di rivederla.

187
In questo caso l’intervento che dobbiamo effettuare su noi
stessi è indirizzato al punto 4, e quindi: non dobbiamo inter-
pretare.
Vediamo come possiamo utilizzare il nostro dialogo interno
per modificare il nostro comportamento.
Quando, in una determinata situazione, avvertiamo l’attivar-
si di una risposta emozionale negativa, dobbiamo immediata-
mente intervenire ripetendoci quelle assunzioni che riteniamo
più idonee per gestire la nostra risposta emozionale. Solo una
ripetuta pratica ci permetterà di modificare le “vecchie” assun-
zioni e quindi, sostituirle con le nuove. Solo quando saremo
consapevoli che un nostro nuovo modo di pensare riduce il
nostro disagio, potremmo dire: “Ho accettato una nuova assun-
zione”. La nuova assunzione sarà “nostra” in quanto si deve a essa
la riduzione del nostro disagio.
Ricordiamoci che, se vi è disagio, non vi è possibilità di scelta.
Quindi una sequenza che possiamo porci è la seguente:

1) ridurre il nostro disagio affrontandolo;


2) acquisire nuove abilità comportamentali;
3) decidere l’emissione di un nostro comportamento, cioè
effettuare una scelta tra più comportamenti che padroneg-
giamo.

Forse solo quando saremo in grado di effettuare delle scelte


che non derivano dal disagio potremo essere un po’ più “liberi”.

188
Ringraziamenti

Ringrazio l’amico Joseph Wolpe per avermi stimolato a scrivere


il libro dicendomi: “Visto che ti piace fare il terapeuta compor-
tamentale, scrivi le cose che pensi possano in qualche modo
aiutare gli altri”.
Ringrazio gli amici: Joannis Buras, Adriano Corao, Achille
Delpiano, Aldo Galeazzi, Gianfranco Goldwurm, Fiorenzo Gu-
glieminotti, Paolo Meazzini, Sergio Mottura, Fulvio Richetto,
Roberto Sacco, Ely Schaftari, Piero Simondo, Silvano Zamuner.
Con tutti loro ho trascorso, spesso bevendo, buona parte della
notte, parlando e spesso trattando di argomenti poco “seri”.
Ringrazio l’amico Renato Tomba per avermi aiutato nella
stesura del libro.

189
Corsi on line

Vincere il panico
Nel 2010 è stato realizzato dal dottor Enrico Rolla il corso onli-
ne dal titolo “No Panico”, specifico per il trattamento degli at-
tacchi di panico.
Il corso era suddiviso in 9 Moduli, ognuno dei quali conte-
neva una dispensa, un filmato e una seduta di terapia online.
Nel 2017, il corso è stato riaggiornato. Pur mantenendo la
stessa struttura e la stessa suddivisione in 9 Moduli, sono stati
rinnovati tutti i filmati e la dispensa è stata arricchita con rac-
conti di casi, esercizi e immagini.
“Vincere il panico” è un programma di Terapia Cognitivo
Comportamentale che fornisce le strategie più efficaci per af-
frontare gli attacchi di panico e per imparare a gestirli.
Il dottor Rolla vi seguirà in questo percorso tramite spiega-
zioni ed esercizi e, in poche settimane, sarete in grado di con-
statare un miglioramento della qualità della vostra vita.
Potrete anche avere il supporto di una/uno psicoterapeuta
dell’Istituto Watson tramite sedute di terapia online, acquista-
bili sul sito dell’Istituto.
http//:enricorollaeducation.com/vincere-il-panico/

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Libri

Piacersi non Piacere


1° Edizione – Anno 1987
Pag. 186

Vivere con serenità i nostri rapporti con gli altri significa com-
portarsi con l’equilibrio di chi non subisce e non aggredisce.
Piacersi non piacere aiuta a cercare e a realizzare questo equili-
brio su noi stessi con semplicità nella vita di tutti i giorni, analiz-
zando le piccole difficoltà dei rapporti quotidiani per risolverle
o ridimensionarle. Un libro gradevole e vivace, lontano da ogni
pedanteria. Un aiuto a crescere per i giovani, a emergere in
mezzo agli altri per i timidi, a imparare a sorridere per gli ag-
gressivi.
Piacersi non piacere è stato un libro fortunato, un long seller
che continua a vendersi tuttora, in Italia e all’estero, e questo è
uno dei motivi per cui, a trent’anni dalla sua 1° edizione, uscirà
a breve la versione in lingua inglese.

Ricomincia da te
1° Edizione – Anno 2003
Pag. 168

Sei ansioso, soffri di fobie, hai delle manie? Sai cos’è un attacco
di panico?
Questi sono i malesseri della nostra vita quotidiana. Ognuno

192
di noi li ha provati e, forse, qualcuno, ha già provato a vincere i
propri disagi ma la delusione della sconfitta lo ha sopraffatto…
Questo libro ha lo scopo di aiutarci a eliminarli con il metodo
giusto.
Molti test pratici, numerosi esempi e situazioni, frutto dell’e-
sperienza diretta dell’autore, ne fanno un manuale “pronto
all’uso” semplice e immediato. Con una lettura piacevole e
accessibile, impareremo quali sono gli strumenti e le tecniche
giuste per superare crisi di panico, agorafobia, ansie sociali, os-
sessioni e compulsioni.
Così potremo vivere meglio con noi stessi e, liberi da condi-
zionamenti, il nostro rapporto con gli altri cambierà!

Così non mi piaccio – La terapia dell’umorismo


1° Edizione – Anno 2005
Pag. 190

Perché, rispetto allo stesso problema, io ho paura e tu no?


Perché, dopo un incidente d’auto, tu riprendi subito a gui-
dare e io non riesco più a prendere il volante?
Perché io sono riuscito a superare le mie crisi di panico e tu,
invece, soffri anche di agorafobia?
In questo libro si evidenzia l’importanza dell’umorismo per
affrontare con un atteggiamento positivo situazioni che gene-
rano paura, ansia, fobie, ossessioni e stress. Impareremo a svi-
luppare e mantenere il buonumore, come stare male e come
uscirne, impiegando programmi cognitivo comportamentali di
provata efficacia.
Dunque, partiamo subito, perché oggi, così, non mi piaccio.
Ma domani SI!

193
Il problema non è mio è tuo
1° Edizione – Anno 2006
Pag. 259

Un piccolo classico della psicologia che viene incontro ad al-


cune questioni fondamentali: “È possibile diventare persone
positive?”, “Quali obiettivi mi devo porre e come?”
Grande ironia (e autoironia) e non pochi consigli “pratici”
per stare meglio con sé stessi e con gli altri, rispondendo a do-
mande come: “Per quanto tempo si può star male per la per-
dita del lavoro, del denaro o di un affetto?”, oppure “Perché è
importante ironizzare?”
E sempre in chiave ironica e propositiva: “Come creare pro-
blemi ai figli”, “Come far soffrire il partner”, “Come far soffri-
re i collaboratori” ma, soprattutto, un libro che insegna come
tradurre in pratica, in abitudini e comportamenti, la positività
che possediamo.

Mollo l’osso. Come liberarci dai guinzagli interiori


1° Edizione – Anno 2009 con il titolo: La vita secondo Barry: un cane
ci guida sulla via della serenità
Pag. 202

Perché una storia di cani? Perché da sempre in letteratura sono


stati utilizzati gli animali per rappresentare i comportamenti
umani e perché sono uno stimolo a lavorare su noi stessi e a
migliorarci.
Questo libro, scritto in modo piano, piacevole e divertente,
può sembrare una favola, in cui Barry, un grande e saggio San
Bernardo, raccoglie intorno a sé quattro cani: Ula, un pastore
tedesco irascibile che non riesce a controllare la propria im-

194
pulsività; Tom, un bassotto arrogante e presuntuoso che non
ascolta mai nessuno; Poldo, uno spinone che subisce gli altri e
non si sente all’altezza delle situazioni; Gino, un mastino che
ha sempre paura di sbagliare e si crea mille problemi.
Non sembrano familiari queste caratteristiche? Sono la ri-
produzione dei nostri atteggiamenti abituali e Barry, oltre ad
aiutare i suoi quattro compagni di viaggio, aiuterà anche noi
a superare i tanti ostacoli creati dai nostri comportamenti pro-
blematici, insegnandoci a migliorare le relazioni con gli altri e
a liberarci dal nostro “guinzagli interiori”.

52 Pensieri per volersi bene


1° Edizione – Anno 2009
Pag. 107

Perché 52 pensieri per volersi bene? Perché i nostri pensieri posso-


no diventare nostri nemici o nostri amici: sta a noi indirizzarli
verso la positività. Per muoverci verso questo obiettivo è neces-
sario centrare l’attenzione su noi stessi e i 52 pensieri indicano
le aree su cui dobbiamo esercitarci.
Un meditato e facile strumento per modificare il nostro dia-
logo interno, un esercizio per riuscire a sorridere di noi stessi e
non prenderci troppo sul serio.

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Attacchi di panico. Come uscirne.
La potenza della terapia cognitivo comportamentale
1° Edizione – Anno 2017
Pag. 242

In questo libro, frutto della mia esperienza trentennale, spiego


come passare all’azione, affrontare e superare gli attacchi di
panico.
In ogni capitolo, come se foste in una seduta individuale,
verrete accompagnati nel vostro percorso.
Compilerete i questionari di valutazione, imparerete le tec-
niche per gestire pensieri, comportamenti ed emozioni. Vi rac-
conterò storie di altri pazienti che, come voi, hanno sofferto di
questo disturbo e lo hanno superato. Fornirò ai vostri famiglia-
ri, amici e partner gli strumenti più adatti per esservi d’aiuto.
Il metodo applicato si basa sulla Terapia Cognitivo Compor-
tamentale, riconosciuta in tutto il mondo come trattamento di
elezione per il disturbo da attacchi di panico, la cui efficacia è
stata comprovata scientificamente.
Oltre l’80% delle persone ha ottenuto risultati positivi
nell’immediato e una riduzione delle ricadute a lungo termine.

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