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Rivista di letteratura e cultura tedesca


Zeitschrift für deutsche Literatur- und Kulturwissenschaft
Rivista fondata da Mauro Ponzi
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Comitato scientifico
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Wolfgang Braungart (Bielefeld) · Gabriele Dürbeck (Vechta) · Felix Duque (Madrid)
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Bernd Witte (Düsseldorf ) · Irwing Wohlfarth (Paris)
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Rivista di letteratura e cultura tedesca
Zeitschrift für deutsche
Literatur- und Kulturwissenschaft

xx · 2020

PISA · ROMA
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SOMMARIO

Editoriale 9

i. aby warburg : energie und pathos für die kulturwissenschaften /


aby warburg : energia e pathos per le scienze della cultura


Cornelia Zumbusch, Transformations. Aby Warburg and the Force of Art 13


Gabriella Pelloni, Un progetto terapeutico. La « scienza senza nome » di Warburg e
   

l’archeologia filosofica di Agamben 23


Milena Massalongo, La funzione pratica delle immagini. Leggere con Aby Warburg
(e Walter Benjamin) 37
Martin Bartelmus, Warburgs Schlangen. Aby Warburgs Kreuzlinger Vortrag im Dialog
mit den Animal Studies 53
Maria Teresa Costa, Aby Warburgs Übersetzungswissenschaft 65
Amber Moyles, Montage into History. Aby Warburg and the Cinema 79

ii. entgrenzungen / sconfinamenti

Micaela Latini, Das Unsichtbare sichtbar machen. Ästhetik und Politik bei Günther
Anders und John Heartfield 89
Luigi Azzariti Fumaroli, Geisterrede. Per una chiosa della parola in Walter Benjamin 99
Francesca Fabbri, «Von mir selbst sieht man gar nicht viel». Alcune novità su Adele
Schopenhauer (1797-1849) 107

iii. besprechungen / recensioni

Stefan Krammer, Fiktionen des Männlichen. Männlichkeitsforschung in der Literatur-


wissenschaft (Ester Saletta) 123
Thomas Ballhausen, Das Mädchen Parzival. Gedichte (Ester Saletta) 124
Vivere in tempi di crisi. La Repubblica di Weimar : arte, politica, filosofia, a cura di Mau-

ro Ponzi, Gabriele Guerra, Daniela Padularosa (Monica Cioli) 125


Streghe, sciamani, visionari. In margine a Storia notturna di Carlo Ginzburg, a cura di
Cora Presezzi (Gabriele Guerra) 128
Adele Schopenhauer, Unbekanntes aus Goethes Nachlass in Weimar, hrsg. v. Fran-
cesca Fabbri, Claudia Häfner (Gabriella Catalano) 131
Klaus Theweleit, Männerphantasien (Giulia Iannucci) 133
Felicità e tramonto. Sul Frammento teologico-politico di Walter Benjamin, a cura di
Gabriele Guerra, Tamara Tagliacozzo (Stefano Franchini) 135
Horst Bredekamp, Berlino città mediterranea. Il richiamo del Sud (Daniela Padula-
rosa) 138
Giulia Iannucci, La scena alternativa nella Repubblica di Weimar. Una topografia ber-
linese (Giuliano Lozzi) 140
UN PROGETTO TERAPEUTICO.
LA « SCIENZA SENZA NOME » DI WARBURG
   

E L’ARCHEOLOGIA FILOSOFICA DI AGAMBEN


Gabriella Pelloni

Abstract · A therapeutic project. Warburg’s «nameless science» and Agamben’s philosophical archaeol-
ogy · In his De Signatura Rerum, Giorgio Agamben makes an original connection between Aby
Warburg’s historical science of images and Foucault’s “Archaeology of Knowledge”, stating
that his position lies between the two. Warburg’s epistemology prompts Agamben to set out
an approach that he calls “Philosophical Archaeology”. With this concept, Agamben describes
a historical investigation which does not so much delve into a phenomenon’s origin as look at
the “soil” in which it first “arose”. This leads to engaging sources and tradition anew, as well as
their “conscious” and “unconscious” sides. Taking as its starting point Nietzsche’s Second Untimely
Meditation, a direct influence on Warburg’s method, this article (1) establishes Warburg’s legacy
within Agamben’s epistemology, which significantly states that the science of history is a mnemo-
technique ; (2) it then uses his legacy as a foundation to explain the analogies and differences that

separate Agamben’s research approach from Foucault’s genealogical method, which Agamben,
referring to Foucault’s first writings on dreams in his introduction to Ludwig Binswanger’s Traum
und Existenz, attempts to correct by restoring an ontological foundation.
Keywords · Agamben, Warburg, Foucault, Nietzsche, Philosophical Archeology, Genealogy,
Pathosformel, Symbol, Signature, Critical History, Memory.

N el volume Signatura Rerum Giorgio Agamben dedica ai problemi del metodo una
densa trattazione divisa in tre parti, corrispondenti a riflessioni su tre figure concet-
tuali : il paradigma, cui è intrinsecamente legata la dottrina dell’esempio ; la segnatura,
   

che si rivela l’operatore decisivo di ogni teoria dei segni ; e infine l’archeologia nella sua

relazione con la storia. Il contesto per queste considerazioni è un’indagine scrupolosa sul
metodo di Foucault e sulla sua archeologia del sapere. L’originalità della riflessione di
Agamben sta tuttavia principalmente nella connessione stabilita tra l’archeologia foucaul-
tiana e la scienza storica dell’immagine di Aby Warburg. Com’è noto, negli anni Settanta
Agamben dedicò a Warburg mesi di fervidi studi, da cui nacque il saggio Aby Warburg o la
scienza senza nome. 1 In Signatura rerum si legge al riguardo :
   

Mnemosyne è l’atlante delle segnature che l’artista – o lo studioso – devono imparare a conoscere e


maneggiare se vogliono comprendere ed effettuare la rischiosa operazione che è in questione nella
tradizione della memoria storica dell’Occidente. Per questo Warburg, con una terminologia para-
scientifica che è in realtà più vicina a quella della magia che a quella della scienza, può riferirsi alle
Pathosformeln come a « dinamogrammi sconnessi » (abgeschnürte Dynamogramme) che riacquistano
   

ogni volta la loro efficacia nell’incontro con l’artista (o con lo studioso). Malgrado le incertezze di
una terminologia indubbiamente influenzata dalla psicologia del suo tempo, da Vischer a Semon,
le Pathosformeln, gli « engrammi » e i Bilder che egli cerca di afferrare non sono né segni né simboli,
   

ma segnature ; e la « scienza senza nome » che egli non è riuscito a fondare è qualcosa come un su-
     

gabriella.pelloni@univr.it, Università degli Studi di Verona.


1  Giorgio Agamben, Aby Warburg e la scienza senza nome, in Idem, La potenza del pensiero. Saggi e conferenze, Vicenza, Neri
Pozza, 2005, pp. 127-151, di seguito citato nel testo con l’abbreviazione AW e il numero di pagina.

https://doi.org/10.19272/202005301003 · «links» · xx · 2020


24 gabriella pelloni
peramento e un’Auf hebung della magia attraverso il suo stesso strumentario – in questo senso, una
archeologia delle segnature. 1  

Il presente contributo è inteso come un commento puntuale di questo passo, che, se da


un lato sintetizza con straordinaria densità il contenuto del saggio su Warburg del 1975,
rende dall’altro evidente che, accanto all’archeologia di Foucault, è in prima linea l’epi-
stemologia warburghiana a suggerire a Agamben quell’approccio metodologico definito
nella terza parte del trattato come « archeologia filosofica ».
   

A fronte della fase di disincanto in cui erano entrate, alla fine degli anni settanta, l’an-
tropologia e le scienze storiche, il progetto di una scienza generale sull’umano che si
trova formulato nello studio su Warburg del 1975 appare al suo stesso autore, solo pochi
anni più tardi, quasi obsoleto. A distanza di qualche decennio, tuttavia, è proprio la pre-
senza ormai dominante nelle humanities di modelli provenienti dalle scienze cognitive
a rendere non più differibile uno spostamento radicale del paradigma epistemologico.
Per Agamben uno dei garanti di questo auspicato spostamento di paradigma, che, come
si legge nella chiusa di Signatura rerum, torni a considerare l’essere come un campo di
tensioni essenzialmente storiche, è proprio Aby Warburg. 2 Trasformando l’immagine in  

un elemento dinamico e storico Warburg avrebbe aperto l’orizzonte per un tipo di in-
dagine nuovo, che, pur occupandosi di fenomeni visivi, sarebbe in realtà in primo luogo
una scienza della storia e del tempo. In che senso, dunque, si può asserire che Agamben
abbia accolto l’eredità di Warburg nel pensare, sotto il nome di archeologia, un nuovo
approccio metodologico ? E quali sarebbero le principali analogie e differenze rispetto al

metodo di Foucault ?  

i. L’eredità warburghiana nel progetto filosofico di Agamben è ricostruibile a partire da


quel concetto di Pathosformel su cui si concentra il saggio del 1975, e a cui si richiama poi
in modo tanto diretto la teoria delle segnature esposta in Signatura rerum. Notoriamente,
Warburg utilizza per la prima volta il termine nella conferenza su Dürer e l’antichità ita-
liana tenuta il 5 ottobre 1905 ad Amburgo : riferendosi al tema figurativo della morte di Or-

feo, che con « forza vitale » si naturalizza negli ambienti artistici del Rinascimento italiano,
   

Warburg definisce le « formulazioni di pathos » come quelle « formule genuinamente an-


     

tiche di un’intensificata espressione fisica o psichica » che si sforzano di rappresentare « la


   

vita in movimento ». 3 Nonostante la fioritura di studi relativi a Warburg e al Bilderatlas, il


   

concetto di Pathosformel pare sfuggire ancora oggi alle maglie di un’analisi rigorosa che ne
colga la definizione, la valenza euristica e in generale la complessità. Con grande acume
Didi-Huberman ha evidenziato un aspetto centrale del concetto, il fatto, cioè, che nell’i-
dea di Warburg la formula, pur nella sua astrazione, goda per così di una presa diretta e
immediata sul fenomeno che essa non tanto rappresenta, quanto piuttosto accompagna,
trasmette a livello quasi tattile, segna e quindi esprime. 4 Un aspetto altrettanto rilevante

riguarda però anche la categoria di pathos : non si può comprendere appieno il concetto di

Pathosformel se si intende il pathos nel senso banale di una sofferenza fisica o psicologica.
Pathos è per Warburg, sulla scia di Nietzsche, una caratteristica intrinseca e sostanziale
della vita in quanto tale, della vita in sé. Pathos è sostanzialmente passività, è la possibilità

1  Giorgio Agamben, Signatura rerum. Sul metodo, Torino, Bollati Boringhieri, 2008, p. 58 sg., di seguito citato nel testo con
l’abbreviazione SR e il numero di pagina.
2  Cfr. Agamben’s philosophical Lineage, ed. by Adam Kotsko, Carlo Salzani, Edinburgh, Edinburgh University Press, 2017.
3  Aby Warburg, Dürer und die italienische Antike [1905], tr. it. in Idem, La Rinascita del paganesimo antico, a cura di Gertrud
Bing, Firenze, La Nuova Italia, 1966, p. 197.
4  Georges Didi-Huberman, L’immagine insepolta. Aby Warburg, la memoria dei fantasmi e la storia dell’arte, Torino, Bollati
Boringhieri, 2006, p. 135 sg.
un progetto terapeutico 25
di venire colpiti più o meno violentemente, stimolati e plasmati, perfino soggiogati da al-
tra materia vivente. In questo senso ogni Pathosformel è veicolo di un’energia in uno stato
di potenzialità, che viene catturata e governata da un dispositivo artistico. Per Warburg
l’arte origina notoriamente dalla magia primitiva : secondo la celebre esposizione del ri-

tuale degli Indiani Pueblo, la danza tribale con il serpente descritta durante la conferenza
tenuta nel 1923 nella clinica Bellevue di Kreuzlingen, dove si trovava ricoverato, l’arte
avrebbe la facoltà di dominare la forza primitiva e minacciosa della natura, rinforzando al
contempo le capacità umane. 1 In questa prospettiva, ogni forma di espressione umana in

senso enfatico, sia essa un’opera d’arte, un testo, un rituale, può incarnare una Pathosfor-
mel. Intrinseca a questo concetto è l’assenza di una distinzione tra contenuto e forma, tra
cultura e stile : per Agamben essa designa l’« indissolubile intreccio di una carica emotiva
   

e di una formula iconografica » (AW, 128).  

Alla luce di questa definizione Agamben insiste sull’avversione di Warburg per un ap-
proccio puramente formale alle immagini, sulla sua ossessione quasi iconolatrica per la
loro forza, e ricorda il suo disappunto per il fatto che l’estetica non avesse mai messo il
proprio materiale a disposizione di una « psicologia storica dell’espressione umana » (ivi,
   

130). All’archè di ogni indagine si trovava sempre per Warburg la sostanza del pathos.
Agamben sottolinea come il suo interesse, di natura storica e etica ad un tempo, lo avesse
sempre spinto verso quella che egli ebbe una volta a definire « una diagnosi dell’uomo  

occidentale » (ivi, 132) : la storia di un’immagine, l’identificazione di un soggetto e delle sue


   

fonti, era per lui storia di una cultura e allo stesso tempo configurazione di un suo proble-
ma vitale. Tale ricerca si nutriva dell’aspirazione di sanare le contraddizioni dell’uomo oc-
cidentale, nelle parole di Agamben di « trovare, tra il vecchio e il nuovo, la propria dimora

vitale » (ibidem). Perché per Warburg era in gioco proprio questo : il processo di Nachleben,
   

di trasmissione, ricezione e polarizzazione delle immagini nella memoria sociale e collet-


tiva, un processo che identificava con la stessa sopravvivenza della nostra tradizione cultu-
rale, così drammaticamente sospesa tra passato e presente da fare del proprio paradossale
carattere insieme conservatore e progressista la molla del suo stesso sviluppo.
In questo senso l’atlante Mnemosyne non è per Agamben solo un’orchestrazione dei
motivi che guidarono le ricerche di Warburg, bensì una « sorta di gigantesco condensa-  

tore in cui si raccoglievano tutte le correnti energetiche che avevano animato e ancora
continuavano ad animare la memoria dell’Europa » (ivi, 136). Mnemosyne contiene quel  

materiale che agli occhi di Warburg ogni europeo avrebbe dovuto imparare a conoscere
e a maneggiare per acquisire consapevolezza della problematicità della propria tradizio-
ne culturale e apprendere come autoeducarsi. In questo senso Agamben lo definisce un
progetto iniziatico : sicuramente non rappresenta solo un banale tentativo di autoterapia

del singolo individuo Warburg, poiché è « misura della grandezza di un individuo che non

solo le sue idiosincrasie, ma anche i rimedi che egli trova per padroneggiarle corrisponda-
no ai bisogni segreti dello spirito del tempo » (ivi, 137).  

La categoria centrale su cui Agamben costruisce la sua lettura di Warburg è quella di


simbolo. Le immagini warburghiane sono simboli in quanto in esse si cristallizzano una
« carica energetica e una esperienza emotiva » (ivi, 134) che perdurano nel tempo come
   

un’eredità trasmessa dalla memoria collettiva alternando periodi di latenza a fasi di nuo-
va effettività. Il diventare effettivo delle immagini si realizza attraverso quello che Ernst
Gombrich definisce come il contatto con la « volontà selettiva » di un’epoca. 2 Espressione
     

1  Aby Warburg, Il rituale del serpente : una relazione di viaggio, postfazione di Ulrich Raulff, tr. it. di Gianni Carchia, Flavio

Cuniberto, Milano, Adelphi, 1998.


2  Ernst Gombrich, Aby Warburg. Una biografia intellettuale, Milano, Feltrinelli, 1983, p. 242.
26 gabriella pelloni
di tale volontà selettiva è l’attività di artisti e storici, nella quale trovano espressione i
bisogni vitali di tale epoca. Per Warburg l’atteggiamento di artisti e storici di fronte alle
immagini ereditate dalla tradizione era paragonabile ad un confronto serrato con le ener-
gie che in quelle immagini si erano fissate, un confronto drammatico, che a seconda dei
casi avrebbe potuto avere un esito vitale o mortale. Nulla di più lontano quindi, da ciò
che tanta teoria della ricezione artistica ebbe poi a descrivere nei termini di una scelta
meramente estetica, o di uno scambio neutrale. Significativamente, Agamben ricorda un
seminario su Burckhardt tenuto da Warburg nel 1927, di cui sono conservati solo alcuni
appunti di eccezionale intensità. 1 L’opposizione che vi viene stabilita tra Burckhardt e

Nietzsche segnala con ogni probabilità un atteggiamento apotropaico di Warburg, che


nell’interpretazione della figura del filosofo si lasciò forse guidare dalla paura della pro-
pria follia. Ciononostante, queste pagine ci restituiscono in modo insuperato la visione
che Warburg aveva del fenomeno di trasmissione dei simboli, di quelle immagini che,
quali « dinamogrammi sconnessi », potevano riacquisire una loro tensione nel momento
   

della trasmissione. Burckhardt e Nietzsche sarebbero per Warburg, ognuno a suo modo,
potenti « captatori di onde mnemoniche », « sismografi sensibilissimi le cui fondamenta
     

tremano quando devono ricevere e trasmettere le onde ». 2 La diversità sostanziale tra i due   

« necromanti » starebbe nelle rispettive reazioni agli « spettri » che essi avrebbero evocato,
       

ovvero alla carica energetica trasmessa dai simboli : mentre Burckhardt, consapevole dei

rischi insiti nella propria professione, aveva avvertito il tremore delle proprie fondamen-
ta e lavorato per rafforzarle, costruendosi quella che Warburg descrive come una solida
« torre di osservazione », il rimprovero implicito rivolto a Nietzsche concerne il gesto za-
   

rathustriano per eccellenza, l’avere, ossia, trasformato la propria vocazione in un appel-


lo, al punto che l’assenza di una risposta avrebbe finito per minare le fondamenta della
sua persona. (È significativo che Warburg si richiami qui intuitivamente alle osservazioni
di Nietzsche sulla danza, nelle quali è adombrata quella dinamica di trasvalutazione dei
valori di cui si fa carico il linguaggio dello Zarathustra ; un linguaggio che, come precisa 

Nietzsche stesso, sarebbe tornato alla « natura della figurazione »). 3


     

ii. Le riflessioni di Warburg sulla forma simbolica del pensiero ci vengono restituite da
Agamben in funzione di quella « scienza senza nome » che Warburg aveva definito, con
   

riferimento allo statuto dell’immagine, una « iconologia dell’intervallo » (ivi, 135). Tale
   

Zwischenraum designa per Warburg una sfera intermedia tra la funzione distanziatrice
del pensiero e quell’identificazione incondizionata con le immagini tipica della reazione
primitiva ad esse. A tale sfera intermedia apparterrebbe il simbolo con la sua facoltà, se
ben padroneggiato, di fungere da orientamento alla mente umana, e quindi di guarirla. 4  

Il simbolo guarisce in virtù del rapporto con le impressioni che instaura, e che richiede,
proprio come la creazione e la fruizione dell’opera d’arte, la fusione di due atteggiamenti
psichici che solitamente si escludono, nelle parole di Warburg : « un appassionato abban-    

donarsi dell’io fino alla completa identificazione con l’impressione e una fredda e distan-

1  Aby Warburgs Text für die Abschlusssitzung des Seminars über Jacob Burckhardt (27. Juli 1927), in Bernd Roeck, Aby Warburg
Seminarübungen über Jacob Burckhardt im Sommersemester 1927, « Idea. Jahrbuch der Hamburger Kunsthalle », x, 1991, pp. 86-89.
   
2  Cit. in AW 149, che riprende la traduzione in Ernst Gombrich, op. cit., p. 254 sg.
3  Friedrich Nietzsche, Ecce homo, in Idem, Opere di Friedrich Nietzsche, a cura di Giorgio Colli, Mazzino Montinari, Mila-
no, Adelphi, 1970, vol. vi, t. 3, p. 353. Cfr. Walter Busch, Aby Warburg und Friedrich Nietzsche : Pathosformel und Sprachgebärde in

den Dionysos-Dithyramben, in Ekstatische Kunst /Besonnenes Wort. Aby Warburg und die Denkräume der Ekphrasis, hg. von Peter
Kofler, Innsbruck-Bozen, Sturzflüge, 2009, pp. 203-216.
4  Sul simbolo in Warburg cfr. Milena Massalongo, Sintomi e simboli. Aby Warburg a Bellevue, in La malattia tra sintomo e
simbolo. Racconti, immagini e luoghi di cura nella letteratura tedesca, a cura di Walter Busch, Isolde Schiffermüller, Milena Massa-
longo, Verona, CiErre Grafica, 2011, pp. 183-222.
un progetto terapeutico 27
ziata serenità nella contemplazione ordinatrice » (ibidem). Fa parte dello statuto interme-

dio dei simboli il loro non essere né consci né inconsci, ed è questa secondo Agamben la
ragione per cui essi, ben lungi dall’esprimere soltanto l’essenza di una personalità o di una
visione del mondo, offrirebbero « lo spazio ideale per un approccio unitario alla cultura »
   

che va oltre la « contrapposizione fra storia come studio delle « espressioni coscienti » e
     

antropologia come studio delle « condizioni inconsce » (ivi, 142). Il concetto di archeologia
   

filosofica che Agamben sviluppa nella terza parte di Signatura rerum è concepito in prima
istanza come un tale approccio unitario alla tradizione culturale, al di là delle opposizioni
e delle fratture – in primis quella tra arte e scienza – in cui Warburg individuava un aspetto
importante della schizofrenia della civiltà occidentale.
Come descrive Agamben il metodo applicato così fecondamente da Warburg nelle sue
ricerche ? Il cosiddetto « circolo ermeneutico warburghiano » è secondo il filosofo parago-
     

nabile a un movimento a spirale che si svolge su tre piani dalle volute sempre più ampie :  

su ogni piano si scopre una prospettiva più alta in cui aprire un nuovo circolo. Il piano più
stretto, propriamente iconografico, coincide con l’individuazione di un soggetto e di un
tipo iconografico : si prenda come esempio la ninfa, uno dei temi centrali delle ricerche

di Warburg. Il secondo piano allarga l’orizzonte alla storia della cultura : in questo cer-  

chio più ampio, l’apparizione della ninfa diventerebbe il segno di un conflitto intrinseco
alla cultura rinascimentale, tesa a cercare una conciliazione più o meno apparente tra il
cristianesimo e la carica orgiastica delle immagini di un’antichità riscoperta. Infine, nella
voluta estrema della spirale ermeneutica, le immagini diverrebbero le cifre delle polarità
insite nella civiltà occidentale, i sintomi delle tensioni da cui essa ha preso vita e che non
è stata in grado di padroneggiare. Nel confronto con la cupa figura del dio fluviale cui
è spesso accompagnata, la ninfa viene letta nella polarità tra gesto estatico e attitudine
contemplativa, e quindi come un simbolo della scissione tragica che alberga nella cultura
occidentale (ivi, 139).
A tale descrizione sembra richiamarsi quella distinzione tra i tre livelli della critica let-
teraria che introduce il complesso studio su Max Kommerell del 1991. Lì Agamben ricorre
al modello delle sfere concentriche, anch’esso indice dell’intento di ampliare il discorso
critico-letterario tradizionale : oltre al livello filologico-ermeneutico, in cui si svolge l’in-

terpretazione dei testi, e a quello fisiognomico, altrimenti descritto come esemplare e


paradigmatico, in cui il testo viene collocato nell’ordine storico e naturale secondo la
legge della somiglianza e dell’analogia, si trova quello supremo, il livello gestuale, in cui
la cifra singolare di un’opera è colta e risolta nella « verità di un gesto ». 1 Nelle Note sul ge-
     

sto Agamben definisce il gesto come quella sfera dell’umano in cui « non si produce né si  

agisce, ma si assume e sopporta » : 2 il gesto è « la sopportazione e l’esibizione del carattere


       

mediale » di un movimento, è « il render visibile un mezzo come tale ». 3 Anche il terzo e


       

ultimo ambito della critica letteraria, cui è più difficile tendere, è rivestito di un carattere
quasi iniziatico : la sua intenzione di recepire e restituire la cifra più singolare dell’opera

letteraria non è mai formalizzabile a livello metodologico, solo praticabile a livello esem-
plare. In ciò, quindi, non è dissimile dalla warburghiana « scienza senza nome », il circolo
   

1  Giorgio Agamben, Kommerell o del gesto, in Idem, La potenza del pensiero, cit., pp. 244-256. Per un commento puntuale del
saggio di Agamben cfr. Isolde Schiffermüller, Max Kommerell in der Philosophie von Giorgio Agamben. Zur Aufgabe der Litera-
turkritik, in Lektürepraxis und Theoriebildung. Zur Aktualität Max Kommerells, hg. von Christoph König, Isolde Schiffermüller,
Christian Benne, Gabriella Pelloni, Göttingen, Wallstein, 2018, pp. 13-28.
2  Giorgio Agamben, Note sul gesto, in Idem, Mezzi senza fine. Note sulla politica, Torino, Bollati Boringhieri, 1996, p. 51. Sul
gesto nella letteratura e come paradigma della critica letteraria la letteratura è ormai ampia e differenziata. Si segnala in parti-
colare il volume Geste und Gebärde. Beiträge zu Text und Kultur der Klassischen Moderne, hg. von Isolde Schiffermüller, Innsbruck-
Bozen, Sturzflüge, 2001, e alcuni contributi dedicati al gesto nell’opera di Max Kommerell contenuti in Max Kommerell : Leben,  

Werk, Aktualität, hg. von Walter Busch, Gerhardt Pickerodt, Göttingen, Wallstein, 2003. 3  Ivi, p. 51 sg.
28 gabriella pelloni
in cui si rivela il cosiddetto « buon Dio nascosto nei dettagli » (ivi, 140), di quei particolari
   

che, condensando in sé una potenzialità illimitata e mai inesauribile di senso, permettono


di allargare il circolo della spirale e salire al piano superiore. Significativamente, nelle Note
sul gesto Agamben definisce gesti le Pathosformeln di Warburg in quanto « cristall[i] di me-  

moria storica » che hanno finito per « irrigidirsi in un destino ». 1


       

La Pathosformel ritorna in Signatura rerum nella veste concettuale della segnatura. È qua-
si correggendo se stesso che Agamben rifiuta ora di chiamarla simbolo ; tuttavia la rettifica  

è solo poco più che terminologica. Sulla scia di Warburg Agamben insiste a voler colloca-
re le immagini al di fuori dell’estetica tradizionale : la definizione di segnatura è mutuata  

da una costellazione eterogenea, che va da Paracelso agli emblematisti rinascimentali


e all’astrologia magico-medica, da Jakob Böhme a Freud, Benveniste e Foucault. Nella
prospettiva ontologica che caratterizza Signatura rerum le segnature sono definite come
quegli attributi di un’opera che « scalfendo appena l’assolutezza e la semplicità dell’essere

che è soltanto il suo esistere, lo dispongono alla rivelazione e alla conoscibilità » (SR, 69).  

Simbolo, gesto, segnatura : al di là dell’incertezza terminologica ad accomunare tali con-


cetti è palesemente la loro facoltà di eccedere la significazione, di non funzionare come


semplici rappresentazioni. Scrive Agamben : « la segnatura non esprime semplicemente
   

una relazione semiotica fra un signans e un signatum ; essa è, piuttosto, ciò che, insistendo  

in questa relazione, ma senza coincidere con essa, la sposta e disloca in un altro ambito,
inserendola in una nuova rete di relazioni prammatiche e ermeneutiche » (ivi, 42 sg). La  

segnatura non è mai un significante neutrale che rimanda a semplici significati, ma ha


essenzialmente una funzione operativa : essa è ciò che sposta la relazione tra segno e

significato su un altro piano, dove diventa espressione di altri significati, che a loro volta
non ne esauriscono la potenzialità. Si comprende a questo punto il richiamo all’astrolo-
gia, così rilevante per Warburg : la segnatura funziona da dispositivo che agisce quando

la coscienza si allenta, svelando terreni inusitati. A proposito delle immagini contenute


nel trattato arabo tradotto in latino con il titolo Picatrix Agamben cita la definizione dello
storico orientalista David Pingree : « L’immagine si chiama immagine perché le forze degli
   

spiriti vi sono congiunte insieme : l’operazione dell’immaginazione [cogitatio] è inclusa


nella cosa in cui è racchiusa la virtù del pianeta » (ivi, 58).  

iii. La cosiddetta « archeologia delle segnature », formula con cui Agamben caratterizza la
   

scienza warburghiana, comincia ora ad assumere contorni più definiti : la riflessione sul  

metodo intrapresa in Signatura rerum si rivela funzionale ad un progetto terapeutico che si


caratterizza sia per l’approccio alle immagini che propone, sia per il modo in cui è inteso
il gesto a ritroso che si compie con l’archeologia. Entrambi gli aspetti sono esplicitati a
conclusione del capitolo dedicato alle segnature : dopo aver sottolineato anche in Fou-  

cault l’eccesso della segnatura rispetto alla significazione, il testo dà avvio a una riflessione
sull’archeologia foucaultiana, la quale definirebbe « l’insieme della regole che decidono le  

condizioni di esistenza e di esercizio dei segni, del loro far senso e del loro giustapporsi e
succedersi nello spazio e nel tempo » (ivi, 80). Si introduce così la dimensione temporale

storica : come si renderà evidente, Agamben è alla ricerca di ponti che integrino le dimen-

sioni temporali e colleghino il passato al futuro.


A essere chiamato immediatamente in causa è il concetto nietzscheano di genealogia
così come è sviluppato da Foucault nel noto saggio Nietzsche, la généalogie, l’histoire del
1971. 2 Qui Foucault espone la propria concezione della storia e della genealogia come il

1  Ivi, p. 48.
2  Michel Foucault, Nietzsche, la généalogie, l’histoire [1971], tr. it. Nietzsche, la genealogia, la storia, in Idem, Microfisica del
potere, a cura di Alessandro Fontana, Pasquale Pasquino, Torino, Einaudi, 1977, pp. 29-54.
un progetto terapeutico 29
risultato di un’attenta e rigorosa interpretazione degli scritti di Nietzsche. Ma perché è
importante per Agamben il concetto di genealogia ?  

Alla base del saggio di Foucault è l’idea di uno scarto costitutivo essenziale tra l’archè
che la pratica storica indaga e l’origine fattizia. Agamben fa riferimento al rifiuto della
ricerca dell’origine (termine designato da Nietzsche con Ursprung) come di un’indagine
che ha l’obiettivo di cogliere l’essenza della cosa e di svelare quell’identità nascosta che
nel mondo fenomenico sarebbe mascherata dietro a quanto in esso si dà di casuale e con-
tingente. Alla genealogia spetta invece il compito di « reperire la singolarità degli eventi

al di fuori di ogni finalità monotona », contrapponendosi al « dispiegamento metastorico


   

dei significati ideali e di teleologie indefinite ». 1 Il metodo genealogico si allontana nel


   

modo più radicale dalla metafisica, che, riconducendo l’intera realtà ad un unico principio
soprastorico e sopratemporale, legge l’evolversi delle vicende storiche all’insegna della
continuità. In contrapposizione a questa impostazione, l’autentico senso storico consiste
nella presa di coscienza dell’irriducibilità del molteplice sotto categorie astratte.
Ad una filosofia della storia che, riconducendo la realtà ad un’unica origine di cui il
tempo è dispiegamento, rende impossibile l’emergere in esso di mutamenti sostanziali,
Foucault contrappone la discontinuità e l’accidentalità di un divenire privo di senso e di
destinazione, che viene descritto, richiamandosi al costrutto nietzscheano della volontà di
potenza, come un alternarsi di differenti dominazioni di volta in volta avanzanti la pretesa
di costituire la verità. Ciò comporta rilevanti conseguenze di carattere metodologico, in
primis la sostituzione della categoria di origine, troppo legata alla metafisica tradizionale,
con quelle di provenienza (Herkunft) e di punto di insorgenza (Entstehung), che, in riferi-
mento all’uso che Nietzsche fa di questi due termini, designerebbero per Foucault più
propriamente l’oggetto di ricerca del genealogista. Il genealogista deve rendere conto del
punto di insorgenza, ossia dell’irruzione dei fenomeni nel corso della storia, che devono
essere esposti facendo risaltare l’incisione che essi producono. Ciò significa soffermarsi
sul momento in cui un qualsivoglia ordine, insieme di regole, istituzione, viene stabilito
per pacificare il conflitto. La sua ricerca della provenienza, quindi, opponendosi a sintesi
astratte e privilegiando lo sguardo su ciò che sta più vicino, deve insistere sulle fratture,
sugli errori e sulle discontinuità per rendere giustizia alla pluralità delle forze operanti nei
fenomeni. Nell’Archeologia del sapere si legge in questo senso che l’archeologia descrive i
discorsi « come delle pratiche nell’elemento dell’archivio », 2 e così facendo istituisce un
     

quadro di formazioni, funzioni, differenze e regimi di oggetti il cui significato non è mai
dato una volta per tutte, ma è sempre prodotto del gioco degli elementi.
Palesemente, Agamben fa proprio il gesto della genealogia nel suo porsi a difesa di
quel particolare che le grandi costruzioni soprastoriche tendono a destituire. Ciò significa
« mantenere gli eventi nella dispersione che è loro propria, attardarsi nelle infime devia-

zioni e negli errori che ne accompagnano e ne determinano il senso » (ivi, 81). La cen-  

tralità dei concetti di provenienza e di punto di insorgenza è per Agamben indiscutibile,


poiché non è possibile cogliere direttamente l’archè dei fenomeni, ciò che li rende efficaci
e intellegibili. Seguendo Foucault, inoltre, Agamben insiste sulla necessità di sbarazzarsi
del soggetto tradizionale : l’analisi deve rendere conto del costituirsi del soggetto nella tra-

ma storica, del suo emergere come soggetto conoscente con l’emersione del fenomeno,
ossia con quel punto di insorgenza che porta a confrontarsi in modo nuovo con le fonti e
con la tradizione : il punto di insorgenza è « insieme oggettivo e soggettivo e si situa, anzi,
   

in una soglia di indecidibilità fra l’oggetto e il soggetto » (ivi, 90).  

1  Ivi, p. 44.
2 Michel Foucault, L’archeologia del sapere, Milano, Rizzoli, 1980, p. 176.
30 gabriella pelloni

iv. La regressione che l’archeologia propone è un gesto particolare : essa non designa un  

movimento verso un fuori, e non implica nemmeno un regredire verso il passato. Piut-
tosto si tratta di procedere all’interno del proprio dispositivo, verso le premesse oscure,
indicibili e non qualificabili del pensiero. Il suo presupposto è una critica radicale delle
rappresentazioni, che appaiono governate da ben altro che non da criteri di oggettività e
verità. Foucault rese esplicito tale nesso in un noto saggio del 1967, 1 in cui la triade Marx,  

Nietzsche e Freud viene eletta a rappresentante di un’ermeneutica del profondo, instau-


ratrice di discorsività che avrebbero introdotto nel registro umano del senso nuovi ambiti
del sapere.
Anche per Agamben il compito dell’archeologia è totale : la regressione che essa impli-

ca frantuma le rappresentazioni, apre dei varchi per portare alla luce ciò che sono venute
a celare, riformulando così tecniche e pratiche della ricerca storica. In questo contesto
la sua riflessione, in cui tornano a comparire fianco a fianco i nomi di Nietzsche e Freud
quali anticipatori di un metodo archeologico che sonda il sapere penetrando nei suoi
strati sommersi e inconsci, è interessante per il nesso tra archeologia e psicanalisi che
stabilisce : elemento comune a entrambe è la volontà di risalire ad un passato che non è

stato vissuto e non può quindi dirsi passato propriamente, ma che più che il vissuto stesso
dà consistenza alla trama della personalità psichica e della tradizione storica nella forma
di pulsioni, fantasmi, desideri che urgono alla soglia della coscienza.
Con riferimento alla concezione freudiana del trauma e della rimozione Agamben po-
stula che il presente è ciò che resta di « non vissuto in ogni vita, ciò che, per il suo carattere

traumatico o per la sua eccessiva prossimità, rimane inesperito in ogni esperienza » (ivi,  

102). Al contempo, però, egli esplicita la differenza tra il gesto con cui l’archeologia inten-
de accedere al non-vissuto, ad un evento che non si è ancora dato, e le strategie e i fini
della psicanalisi : la regressione archeologica non mira a realizzare il desiderio indistrut-

tibile, come avviene secondo Freud nel sogno, che tende a ripristinare la scena infantile
originaria, né tanto meno a portare alla coscienza i contenuti rimossi nell’inconscio come
nella terapia analitica riuscita, in cui, come riassume Ricœur, si mira a « ridurre l’apparente  

novità alla riemergenza dell’antico : soddisfacimento scambiato, restaurazione dell’ogget-


to arcaico perduto ». 2    

Sarebbe secondo Agamben Enzo Melandri in La linea e il circolo (1968) a descrivere pro-
priamente il gesto che caratterizza la regressione archeologica nel suo netto divario dalla
visione freudiana della regressione, visione pessimistica in quanto incapace di superare la
scena infantile originaria cui sarebbe continuamente condannata a ritornare. L’archeolo-
gia freudiana sarebbe destinata a essere superata da una regressione archeologica capace
di risalire a monte della scissione fra conscio e inconscio, tra storiografia e storia. Melan-
dri ne individua le premesse nella « storia critica » nietzscheana, ossia in un’interrogazione
   

della storia tesa a disseppellire i fatti nascosti sotto il sapere che giunge al presente attra-
verso la tradizione :  

La divisione che si è venuta a creare fra storiografia (historia rerum gestarum) e storia reale (res gestae)
è molto simile a quella che da sempre sussiste fra conscio e inconscio secondo Freud. Perciò la sto-

1  Michel Foucault, Nietzsche, Freud, Marx [1967], tr. it. in Idem, Archivio Foucault. Interventi, colloqui, interviste, 3 voll.,
Milano, Feltrinelli, 1996-1998, vol. 1 : 1961-1970, a cura di Judith Revel, 1996, pp. 137-146.

2 Paul Ricœur, De l’interprétation. Essai sur Freud (1965), tr. it. di Emilio Renzi, Dell’interpretazione. Saggio su Freud, Milano,
Il Saggiatore, 2003, p. 488. È Ricœur a introdurre in Francia la triade dei « maestri del sospetto », o « filosofi dell’interpretazio-
     

ne », che vengono distinti dai cosiddetti « filosofi della coscienza ». Foucault riprende la tesi di Ricœur proponendo, sulla scia
     

di Nietzsche, l’idea di una « interpretazione dominante » contrapposta alla possibilità di una « interpretazione corretta » che
       

Marx e Freud avrebbero invece difeso.


un progetto terapeutico 31
ria critica ha la funzione di una terapia mirante al recupero dell’inconscio inteso come « rimosso »    

storico. Ricœur e Foucault, come si detto, chiamano « archeologico » questo procedimento. Esso
   

consiste nel risalire la genealogia finché non si giunge a monte della biforcazione in conscio e in-
conscio del fenomeno in questione. 1  

Nello sguardo di Melandri Nietzsche avrebbe intuito il potenziale curativo di un movi-


mento di regressione che non si lascia assimilare al tentativo di sondare il passato per raf-
forzare le capacità dell’io di affrontare realisticamente il presente. 2 Al contrario, Nietzsche  

seppe cogliere come un accumulo di sapere cosciente si riveli dannoso per la vita : quando  

la conoscenza asserve la vita a sé, il rapporto tra vita e ricordo si inverte in funzione del
sapere del passato, e il ricordo diviene il compito primario. In ciò si manifesta l’analogia
con la psicanalisi, che per molti versi può essere paragonata ad un’arte della memoria che
si serve di tecniche precise allo scopo di estrarre i ricordi delle esperienze passate dall’ar-
chivio dell’inconscio. 3 Per Nietzsche la vita che si esprime innanzitutto come oggetto

della memoria è una vita defunta : facendone l’oggetto di un sapere se ne offusca la « cieca
   

passione » e se ne rende impotente la « potenza storica ». 4


       

La specificità del progetto nietzscheano pare caratterizzato propriamente da Melandri


quando descrive il movimento che è in gioco con l’archeologia come « l’esatto recipro-  

co della razionalizzazione », come « regressione dionisiaca ». 5 Non si tratta con questo di


       

immaginare uno stato felice originario prima della scissione, una condizione che non
conosce rimozioni, e che si è ad un certo punto divisa. In gioco è piuttosto la capacità di
retrocedere verso qualcosa che non si può né vedere, né apprendere razionalmente. Qui
l’« origine » designa quel campo di forze e correnti che giace sotto il sapere, e che può
   

offrirsi all’infinita interpretazione e riscrittura di una vita che chiede continuamente di


riformarsi e differenziarsi. In questo senso Nietzsche dirà successivamente della genealo-
gia che essa deve sezionare il corpo concettuale della storia per capire se la demolizione
che esercita può dare vita a nuove forme, figure e impulsi di ogni genere. 6 Quando la  

vita regredisce a questo punto, lo fa prendendo avvio da un sintomo, da una frattura che
chiede di riprodursi in una differenza. Lo sguardo genealogico non legge il sintomo come
l’effetto di una causa prima, di una verità iniziale cui si può risalire ripercorrendo all’indie-
tro una sequenza di eventi legati da una relazione di causa ed effetto. Il sintomo chiede di
creare nuove interpretazioni, che misurano il loro valore non sulla base di una corrispon-
denza alla cosa che interpretano, bensì in virtù della loro capacità di potenziare la vita e
riportare la salute. Salute che evidentemente non si ha quando la forza coincide pacifica-
mente con le immagini e i saperi che essa produce, ma nell’oltrepassare continuamente
gli ordini prodotti per trovare un senso in un movimento di continua differenziazione e
metamorfosi. La regressione dionisiaca risale al luogo di una transizione incessante in cui
si manifestano forze eccentriche che offrono alla vita una chance per riattivarsi. 7 Su que-  

1  Enzo Melandri, La linea e il circolo. Studio logico-filosofico sull’analogia, Bologna, il Mulino, 1968, p. 84 sg.
2  Sull’argomento cfr. Kurt Ebeling, « ‘Unterirdische’ an der Arbeit » : Nietzsche, Burckhardt, Freud als Archäologen des kulturellen
Unbewussten, in Nietzsches Philosophie des Unbewussten, hg. von Jutta Georg, Claus Zittel, Berlin, de Gruyter, 2012, pp. 71-88.
L’archeologia freudiana e la genealogia di Nietzsche vengono qui però placidamente accostate, mentre l’argomentazione di
Agamben le distingue in modo sostanziale. Su questo aspetto, con riferimento al concetto nietzscheano di genealogia, cfr.
Gabriella Pelloni, Genealogia della cultura. Costruzione poetica del sé nello Zarathustra di Nietzsche, Milano, Mimesis, 2013,
pp. 65-76.
3  Sul rapporto tra il metodo psicanalitico e la mnemotecnica cfr. P. H. Hutton, The Art of Memory Reconceived. From Rheto-
ric to Psychoanalysis, « Journal of the History of Ideas », 48, 3, 1987, pp. 371-392.
   
4  Friedrich Nietzsche, Sull’utilità e il danno della storia per la vita, in Idem, Opere di Friedrich Nietzsche, cit., 1968, vol. 3, t.
i, p. 271. 5  Enzo Melandri, op. cit., p. 86.
6  Come si legge nella Genealogia della morale il fine della genealogia è scoprire « per il dramma dionisiaco del “destino dell’a-

nima” un nuovo intreccio e una nuova possibilità » (Opere di Friedrich Nietzsche, cit., 1968, vol. 6, t. ii, p. 220).

7  Enzo Melandri, op. cit., p. 85.
32 gabriella pelloni
sta base Agamben precisa che l’archeologia « non vuole ripetere il passato per consentire

a ciò che è stato » : 1 essa « vuole al contrario lasciarlo andare, liberarsene, per accedere, al
       

di là o al di qua di esso, a ciò che non è mai stato, a ciò che non ha mai voluto » (ivi, 103).  

L’archeologia è così intesa come una specie di soteriologia : la liberazione dai complessi

con cui il passato ha ipotecato il futuro implica non tanto una comprensione, quanto un
riscatto, perché così è da intendersi il recupero dell’alienato, dell’escluso e del rimosso.

v. Una rilevanza centrale nella definizione dell’archeologia agambeniana è rivestita infine


dalla lettura dei fenomeni onirici formulata da Foucault nella prefazione a Sogno ed esisten-
za di Ludwig Binswanger : 2 il « movimento della libertà » che Foucault attribuisce al sogno
       

è accostabile, per significativi e obiettivi, al gesto dell’archeologo pensato da Agamben.


La Daseinsanalyse di Binswanger avrebbe il merito di restituire al sogno – recuperando
una tradizione di origine greco-latina che fino all’Ottocento aveva dominato l’orizzonte
del sapere sul sogno – un carattere di esperienza assolutamente specifica irriducibile alle
determinazioni psicologiche nelle quali Freud lo aveva inserito, riuscendo a risalire a quel
linguaggio arcaico, informale e precategoriale in cui follia e ragione non hanno ancora
subito una separazione.
Agamben riprende il nesso centrale della lettura foucaultiana, l’assunto, cioè, che il
sogno non sia il veicolo di un sapere oggettivo che va a risaldare la coscienza dell’io, ma
nemmeno apparenza pura. Foucault vede nel mondo del sogno il luogo in cui gli schemi
dell’oggettività che tanto ammaliano la coscienza si attenuano nella densità del simbolo :  

« [il sogno] si dispiega in un mondo che cela i suoi contenuti opachi, e le forme di una

necessità che non si lascia decifrare. Ma, nel medesimo tempo, esso è libera genesi, rea-
lizzazione di sé, l’emergere di ciò che vi è di più individuale nell’individuo ». 3 Essendo il    

sogno la « scossa ancora segreta di un’esistenza che rientra in possesso di se stessa nell’in-

sieme del suo divenire », 4 esso non può essere ridotto ad una rapsodia di immagini in cui
   

ritrovare un significato oggettivo, poiché il suo senso è sempre al di là dei simboli che la
coscienza nello stato di veglia è in grado di raccogliere. Ciò implica che il ritrovamento
di una soggettività piena può avvenire solo quando ci si allontana dalle pratiche della
significazione e sembra oscurarsi quel senso che ha valore solo sul piano della coscienza,
quando ci si pone là dove i significati si attenuano nella pienezza dell’immagine. Si tratta
quindi di non ammettere con la psicanalisi un’identità immediata tra l’immagine e il sen-
so, ma di trovare una via libera verso i sogni cercando l’essenza dell’espressione oltre la
struttura dell’immagine nella quale essa prende corpo.
Il « movimento di libertà » evidenziato da Agamben riguarda nello specifico il rapporto
   

tra sogno e immaginazione – un nesso implicito nell’analisi di Binswanger che è merito


di Foucault aver sviluppato. Scrive Foucault : « Il sogno non è una modalità dell’immagi-
   

nazione ; ne è la condizione prima di possibilità ». 5 Così inteso il sogno si costituisce come


     

una forza dinamica, un porsi incessantemente al di là di sé e delle proprie immagini. 6  

L’immagine, che riposa nella dimensione del come-se, è una quasi-presenza che, condu-
cendo ad una quasi-soddisfazione, finisce per bloccare il movimento dell’immaginazione
nel suo tendere verso soluzioni da cui dipende la realizzazione dell’esistenza. Sulla base

1  Palese il richiamo alla dottrina nietzscheana dell’eterno ritorno, qui letta però solo nella sua visione nichilistica.
2  Ludwig Binswanger, Traum und Existenz [1930], tr. it. di Lucia Corradini, Carlotta Giussani, Sogno ed esistenza, introdu-
zione di Michel Foucault, Milano, se, 1993, pp. 87-122. 3  Michel Foucault, Introduzione, ivi, p. 50.
4  Ivi, p. 59. 5  Ivi, p. 73.
6  Foucault si richiama al nesso tra sogno e immaginazione stabilito da Bachelard, accentuando però rispetto a quest’ulti-
mo l’aspetto iconoclastico dell’immaginazione. Cfr. Gaston Bachelard, L’air et les songes. Essai sur l’imagination du mouvement
[1943], tr. it. di Marta Cohen Hemsi, Psicanalisi dell’aria. L’ascesa e la caduta, Milano, Red, 2007, p. 13.
un progetto terapeutico 33
delle analisi dei sogni di Binswanger, che svelerebbero il punto decisivo in cui l’esistenza
può alienarsi in una soggettività patologica, esponendola ai fattori patogeni che produ-
cono passività, dissoluzione e frammentazione, e in cui invece essa riesce a realizzarsi in
un’espressione e in una storia oggettiva, Foucault può dire che la terapia, guidata dalla
riflessione e dalla percezione, ha il compito di liberare l’immaginario incatenato nelle
immagini. Immaginare è salute proprio perché consente di percorrere a ritroso le strade
della propria presenza nel mondo per restituire un’immagine come modalità di espressio-
ne che prende forma in uno stile : « dall’altro lato del sogno, il movimento dell’immagina-
   

zione prosegue ; è dunque ripreso nel lavoro dell’espressione che dà un senso nuovo alla

verità e alla libertà ». 1 Il lavoro dell’espressione diviene oggettivazione della libertà : nell’e-
     

spressione l’esistenza si « realizza in una storia oggettiva », 2 il fatto immaginario diventa


     

fatto reale. Il sogno diventa così il luogo di insorgenza di una soggettività che si costituisce
quando si elude il potere del passato che si ripresenta nella forma dell’immagine e, in un
movimento che di quest’ultimo è complementare e segretamente complice, ci si apre
verso un futuro che si dà nel gesto dell’immaginazione.
Si comprende ora come Agamben si serva di questo primo scritto foucaultiano per re-
stituire alla genealogia di Nietzsche (così come verrà ripresa da Foucault stesso) una fon-
dazione ontologica. Per la vita nietzscheana la conoscenza, intrinsecamente conflittuale
e duale, è concepita come un processo di continua distruzione e differenziazione, e come
tale è inconciliabile con l’essere, che determina il proprio rapporto con il reale come non-
modificazione sostanziale. Costitutiva dell’archeologia di Agamben è invece la capacità di
« cogliere i fenomeni al livello della loro insorgenza e del loro puro esserci », effettuando
   

quel passaggio « dall’antropologia all’ontologia » verso il luogo in cui « l’esistenza stessa,


     

nella direzione fondamentale dell’immaginario, indica il suo proprio fondamento onto-


logico » (ivi, 105). Nell’archeologia di Agamben è in gioco un essere ancora da venire, che

il gesto dell’archeologo deve liberare dalle maglie della tradizione e dai fantasmi dell’in-
conscio per condurlo al suo « compimento storico » (ivi, 81). La correzione del gesto del-
   

la genealogia, per cui la volontà di potenza è un aspetto intrascendibile, avviene quindi


postulando l’esistenza di una forza operante nella storia che, senza lasciare i fenomeni ad
una pura dispersione anarchica, colleghi passato e futuro in una prospettiva messianica.

vi. Agamben non compie il tentativo di apprendere direttamente, nella sua significanza,
la forza che opera nella storia assicurando l’efficacia e l’intellegibilità dei fenomeni. Come
si è cercato di rendere evidente, il suo testo ricerca questa stessa forza nelle sue variazioni
strutturali, integrando tra loro, in una costellazione eterogena, alcune elaborazioni di un
pensiero storico accomunate sia dal rifiuto dell’ordine cronologico-lineare dei fenomeni,
sia da un concetto di archè intesa non come un dato o una sostanza, ma come un campo
di forze e correnti storiche.
Andiamo ora a riepilogare i tratti salienti di questa costellazione, per chiarire in conclu-
sione l’apporto di Warburg al pensiero di Agamben :  

1. La correzione ontologica del concetto di genealogia/archeologia avviene nell’ottica


della lettura foucaultiana del sogno, la quale permette inoltre di situare la liberazione
terapeutica da un sapere storico inerte e da teorie scientifiche non produttive nel contesto
di una visione poetica. Nel riconoscere il primato di esperienze quali il sogno e l’imma-
ginazione tale visione integra tra loro le dimensioni temporali aprendo un varco verso il
passato che si proietta al contempo verso un futuro aperto alla singolarità e alla differen-
za. Solo nella dimensione poetica dell’immaginario è possibile riformulare il passato per
1  Michel Foucault, Introduzione, cit., p. 83. 2  Ivi, p. 85.
34 gabriella pelloni
accedere a un presente pieno, presente che Agamben intende, con un richiamo al concet-
to benjaminiamo di Jetztzeit, nel senso di crisi come bivio o punto di svolta, in cui è insita
la necessità di una reazione decisiva. A essere sacrificata è, palesemente, la dimensione
politica della Jetztzeit, sostituita dall’esortazione a ripensare l’ancoraggio ontologico delle
scienze storiche.
2. Nella costellazione evocata Warburg riveste un ruolo centrale quale filosofo dell’e-
spressione umana che ha saputo porre l’accento sul lavoro incessante della memoria so-
ciale, sul suo travaglio per produrre simboli, formule, segnature. Essenziale per Agamben,
e base di tutto il suo discorso, è l’approccio alle immagini, che deve avvenire nel senso
di Warburg : non puramente formale, quindi, ma neppure, come aiuta a comprendere la

critica mossa da Foucault alla psicanalisi, nel segno di una semantizzazione. Guardare alle
immagini come al luogo di un potenziale che eccede il senso, di una intensità che non co-
nosce scissioni, permette di giungere anche a ciò che Agamben, nel saggio del 1975, aveva
definito un « rovesciamento completo » del loro significato (AW, 134).
   

3. È la nietzscheana trasvalutazione dei valori nel mezzo delle immagini a rappre-


sentare appieno un tale rovesciamento, costituendosi come un caso estremo, radicale e
peculiare ad un tempo, di trasmissione dei simboli. 1 Ed è presumibilmente guardando

a Nietzsche che Agamben definisce la « scienza senza nome » di Warburg un tentativo


   

strenuo di affrancare le immagini, attraverso una loro « polarizzazione dinamica », dal de-
   

stino in cui si sono irrigidite. 2 Pur conoscendo il rifiuto istintivo di Nietzsche da parte di

Warburg, rifiuto così straordinariamente catturato dal seminario che lo contrapponeva a


Burckhardt, Agamben sembra postulare un’affinità tra i due alla base della sua archeolo-
gia. A questa affinità si può certamente assentire se, seguendo Didi-Huberman, si consi-
dera che le indagini di Warburg si muovono sul terreno spianato da Nietzsche : il terreno  

di una filologia attiva, capace di pensare la storia contro lo storicismo come una questione
vitale, rendendo così giustizia alla plasticità del divenire. In quest’ottica si comprende
meglio anche il richiamo, mediato da Melandri, al concetto nietzscheano di storia critica :  

dietro l’impulso storico deve sempre essere attivo un impulso plastico, modellante (Bau-
trieb), in altre parole artistico, che funga da correttore e guida, arginando e convogliando
la spinta dell’impulso storico in un agire selettivo, affinché si costruisca qualcosa di nuovo
sul terreno che lo sguardo critico ha liberato. 3  

4. E tuttavia tale costellazione rischia anche di offuscare alcune differenze che riguar-
dano nello specifico quel concetto di terapeutico che Agamben assume come perno della
sua argomentazione in Signatura rerum. A essere estraneo a Warburg (e naturalmente
a Nietzsche) non è solo il ricorso al tempo messianico quale paradigma attraverso cui
intendere e vivere il presente. Se il progetto dell’archeologia filosofica chiama in causa
Warburg quale garante di un’apertura all’immagine che renda possibile la liberazione
dagli schematismi logico-formali del pensiero lineare e causale, la « scienza senza nome »    

era, come ben rilevava il saggio del 1975, in primo luogo un’iconologia dell’intervallo, te-
rapeutica nel suo accentuare la facoltà di astrazione e la contemplazione ordinatrice. I due
progetti procedono, per così dire, in senso inverso : laddove Warburg auspicava un raffor-

zamento della capacità analitica e distanziatrice del pensiero, Agamben insiste affinché

1  Sulla trasvalutazione nell’ambito delle immagini cfr. Lo Zarathustra di Nietzsche. C. G. Jung e lo scandalo dell’inconscio, a
cura di Marco Gay, Isolde Schiffermüller, con la collaborazione di Gabriella Pelloni, Bergamo, Moretti&Vitali, 2013. Sem-
pre attuale su questo aspetto è il volume di Vivetta Vivarelli, L’immagine rovesciata. Le letture di Nietzsche, Genova, Marietti,
1992. 2 Giorgio Agamben, Note sul gesto, cit., p. 48.
3  Per il Nietzsche della Seconda Inattuale è notoriamente l’arte l’ambito dell’esperienza in cui può avvenire, attraverso il
ricordo selettivo, un recupero del passato che permetta di configurare in modo creativo e produttivo il proprio presente e il
proprio futuro.
un progetto terapeutico 35
le scienze storiche ritrovino quell’apertura alle immagini e alla forza dell’immaginario
che al momento sembra essere irrimediabilmente perduto. In questo senso il concetto di
segnatura, che Agamben descrive come un dispositivo capace di favorire l’accesso a strut-
ture labirintiche, ipotetiche, immaginarie, rischia di non focalizzare ciò che per Warburg,
forse ben più drammaticamente, era una necessità vitale, la necessità, cioè, di proteggersi
dalla forza delle immagini che assediavano la sua coscienza.
co m p osto in ca r atte re serr a dant e dalla
fa b rizio se rr a e ditore, pisa · roma.
sta m pato e ril e gato nella
t i po g r a fia di ag na n o, ag nano pisano (pisa).

*
Ottobre 2020
(cz 2 · fg 13)

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