Sei sulla pagina 1di 17

MODULO D- LO STRANIERO, LIBRO IX ODISSEA E BENITO CERENO

Lo straniero-parte 1- tratti generali dello straniero nella storia e in letteratura


Nel suo saggio “Lo straniero”, articolato in due parti, Remo Ceserani sviluppa e delinea i caratteri
principali del tema dello straniero, come viene considerato da alcune culture e il suo valore come
entità antropologica e, secondariamente, letteraria. Ceserani inizia spiegando che la figura dello
straniero è presenta già in opere antiche, come la bibbia, l’odissea o la tragedia “Medea” di
Euripide. Nella bibbia troviamo Mosè, nell’odissea Odisseo e in Medea troviamo una donna che
segue in esilio l’amante a Corinto. Ceserani precisa che lo straniero, ancora prima di essere un
tema letterario, è una proiezione culturale presente nell’immaginario e nella psicologia umana e
svolge un ruolo fondamentale nella costruzione identitaria dei popoli, che caricano lo straniero di
simboli e significati. Spesso questi significati sono negativi, infatti quando una comunità è chiusa o
omogenea o ancora debole e indifesa, lo straniero viene considerato come pericoloso in quanto
rappresenta il diverso, lo sconosciuto. La letteratura può contribuire a formare queste immagini
negative ma ha anche il potere di smontare questa interessante figura, di vedere oltre gli
stereotipi.
Gli imagologi hanno fatto dello straniero il loro oggetto di studio. L’imagologia è un ambito degli
studi letterari e umanistici affine ai cultural studies.
Lo straniero per gli ebrei: Nelle sacre scritture, il popolo ebreo viene rappresentato come un
popolo errante che si ritrova in cattività o in fuga in paesi stranieri, assume quindi il ruolo dello
straniero. Gli ebrei non hanno perciò particolari pregiudizi su questa figura, anzi , al ritorno di
quest’ultimi dalla terra di Canaan essi svilupparono una legislazione riguardante i rapporti di
ospitalità con lo straniero, con annessi diritti civili e politici (dovere di ospitalità verso lo straniero).
Nelle sacre scritture viene detto anche che agli stranieri spetterà la salvezza come a tutti gli altri,
finchè seguiranno le leggi del signore.
Lo straniero per i greci: Un’idea decisamente più negativa avevano i greci dello straniero. I greci
sono il primo popolo a coniare una parola che denoti lo straniero in maniera negativa, la parola
“barbaros” per indicare la lingua di queste popolazioni, incomprensibile ai greci e per questo
considerata “non articolata” (balbutio). Nessun popolo, neanche i più chiusi e conservatori come i
cinesi (i quali costruiscono un muro per separarsi dal resto del mondo, e indica i termini
“straniero” e “cinese” con due ideogrammi qualitativamente diversi, che significano
rispettivamente “semplicità e “cultura”) gli egiziani o i mesopotamici avevano mai fatto qualcosa
del genere. La parola barbaros aveva all’inizio una connotazione priva di significato negativa, è
stata poi caricata di tale significato dopo la sconfitta ad opera dei persiani, ritenuti superiori a loro
dagli stessi greci (sebbene non culturalmente).
Lo straniero ci permette di affermare la nostra identità in rapporto a lui. La creazione di stereotipi
avviene dopo l’incontro con una cultura diversa e quindi una psicologia, ideologia e dei tratti
somatici nuovi e sconosciuti
Nelle comunità dove dominava un tipo di economia autarchica lo straniero viene rappresentato
come negativo, dato che si tratta di comunità chiuse in sé che si sono isolate dal resto del mondo.
Lo straniero viene accolto molto più facilmente dalle comunità aperte al commercio. Secondo
Simmel, nelle società dove il commercio era più sviluppato, lo straniero viene visto come qualcuno
che arriva e resta, e l’incontro è sancito dallo scambio di doni o un simbolismo che indica
comunque un rapporto pacifico tra autoctono e straniero.
Lo straniero-parte 2-alcuni esempi della figura dello straniero in racconti di letterature diverse
Nella seconda parte del saggio Ceserani mostra come venga rappresentato lo straniero in alcuni
racconti della letteratura italiana, americana, tedesca ecc. e quali significati vengono attribuiti alla
sua figura.
1) Boccaccio, decima novella dell’ottava giornata del Decameron, metà trecento: Il
protagonista è Salabetto, un mercante toscano che arriva a Palermo con un prezioso carico
di panni di lana dal valore di 500 fiorini. Viene preso di mira da una donna bellissima,
chiamata madonna Jancofiore. La donna ha l’obiettivo di sedurlo e di irretirlo con le sue
armi femminili in modo da truffarlo. Grazie al suo fascino la siciliana riesce nel suo intento,
questa infatti invita Salabetto ad un appuntamento dove gli offre cibo, vino e si concede a
lui. Salabetto viene quindi inizialmente truffato dalla siciliana ma alla fine della storia,
riuscirà a truffare a sua volta la donna, a riprendersi i suoi soldi con gli interessi e a ritirarsi
poi dal commercio. Il tutto si svolge tra le atmosfere orientali di Palermo, qui lo straniero è
Salabetto e rappresenta quindi l’ingenuità. Madonna Jancofiore incarna invece lo
stereotipo della femme fatale dai caratteri esotici, misteriosi e seducenti , caratteri che
Condivide con Medea o l’Armida di Tasso.
2) T.Hoffmann, l’ospite sinistro („Der unheimliche gast“)1819: In questo racconto la figura
dello straniero assume dei tratti mistici, occulti e perturbanti. La scena si svolge nel salotto
borghese della casa di un colonnello una notte buia e tempestosa d’inverno. I personaggi
sono la giovane Angelica, Dagoberto, la Madre e il misterioso straniero, un conte italiano.
Dagoberto, Angelica e sua madre sono nel salotto e Dagoberto sta raccontando una storia
di fantasmi alla moda inglese e cerca di arricchire la narrazione grazie alla sua fervida
immaginazione. Angelica è affascinata da questi racconti sebbene racconti di essersi spesso
svegliata di soprassalto la notte in preda al terrore. La scena viene interrotta quando il
conte italiano, anzi napoletano, irrompe nella stanza e rivolge la parola alla madre di
Angelica. Quest’ultima risponde in maniera sommaria e balbettando invitando il conte a
sedersi. Lo sguardo del conte viene descritto come magnetico, penetrante, maligno. Tra
l’altro la notizia che porta provoca dolore e preoccupazione nel cuore della giovane. Egli
infatti afferma che l’amato di Angelica, Moritz è morto in guerra (Notizia poi falsa). Gli
occhi del conte ipnotizzano Angelica e gli fanno ricordare di un sogno che fece da
ragazzina, dove questi occhi inquietanti la tormentavano e la voce dell’amato prometteva
di salvarla. Il racconto infatti finisce con la misteriosa morte del conte (che tra l’altro voleva
sposare la giovane e quindi separarla da Moritz) e il ritorno di Moritz. Il conte ha quindi dei
caratteri fantastici, quasi soprannaturali.
3) Straniero nella propria città, l’alienazione di Baudelaire: Charles Baudelaire (1821-67)
scrive nel 1859 una poesia intitolata “il cigno” e appartenente ai Fiori del male. Qui
Baudelaire sviluppa il tema dell’alienazione, della sua alienazione, in quanto lui si sente
straniero nell’ambiente dove è cresciuto, Parigi. Gli elementi principali di questo
componimento sono: un uso particolare della mitologia (dipinge una vista di un quartiere
cancellato da Napoleone attraverso l’Hausmannizzazione per cercare di cancellare anche i
ricordi delle rivolte che sono avvenute lì e paragona la scena ad un episodio dell’Eneide
dove Enea arriva alla città di Butroto e incontra Andromaca che piange e compie sacrifici
sulla tomba vuota di Ettore, dato che lui era sepolto altrove). Il cigno rappresenta il sogno
infranto di una società perfetta ed armoniosa, Baudelaire ha visto la sua vecchia Parigi
infranta dall’instaurazione del secondo impero. La rivolta del poeta si trova nella settima
strofa ed è rappresentata dal gesto allo stesso tempo ridicolo e sublime del cigno,
Baudelaire rifiuta di integrarsi al potere, non si sente rappresentato da esso proprio come
Ovidio, a suo tempo esiliato ed estraniato dalla sua società.
4) Lo straniero nell’immaginario americano-Stephen Crane (THE BLUE HOTEL,1898),Robert
P. Warren (Blackberry winter, l’inverno delle more 1945-46), James Waller (I ponti di
Madison County,1992): Ceserani presenta 3 testi che provengono dall’immaginario
culturale della letteratura americana e che mostrano una tipica situazione narrativa
analizzata dallo studiare Roy R. Male: Un’ improvvisa intrusione da parte di un personaggio
che ha le caratteristiche tipiche dello straniero dentro una comunità o una famiglia. Male
ritiene questo processo un rovesciamento del tipico romanzo d’avventura, infatti il
movimento non è dall’interno verso l’esterno, bensì dall’esterno verso l’interno.
<PAURA DELLO STRANIERO NEI CONFRONTI DELL’OSPITANTE, RECIPROCA CECITà ,
INCOMPRENSIONI> Il primo racconto preso in analisi è The Blue Hotel di Stephen Crane,
dove l’autore mostra l’arrivo di uno straniero in una piccola comunità di frontiera. La scena
si volge in un villaggio nelle praterie del Nebraska. Un irlandese, Pat Scully, gestisce un
albergo caratteristico della città, di colore azzurro. Un giorno arriva uno svedese biondo
che afferma di aver fatto il sarto a new york per 10 anni decide di risiedere nell’albergo
azzurro. Egli è profondamente intimorito dall’atmosfera dell’albergo (“credo che non uscirò
vivo da questa stanza”), anche eccessivamente, e non si calma neanche dopo gli svariati
tentativi dell’albergatore. Tuttavia, dopo la cena, lo svedese, il cowboy e un contadino
decidono di fare una partita a carte e lo svedese accusa uno degli autoctoni di barare. Gli
altri si coalizzano con il loro compagno contro lo straniero e allora Jhonnie (colui accusato
di aver barato) decide di lottare con lo svedese. Jhonnie perde e lo svedese lascia l’hotel
sfidando una bufera di neve. Gli abitanti del villaggio allora si riempiono di rabbia contro lo
straniero ma da una conversazione tra il cowboy e Blanc (i due personaggi oltre a Jhonnie)
si intuisce che Jhonnie avesse davvero barato e gli altri si erano coalizzati contro lo
straniero senza neanche verificare la veridicità della sua accusa. Alla fine lo straniero finisce
accoltellato in un saloon.
<STRANIERO PERTURBANTE, NEGATIVO , VIOLENTO> Nell’ Inverno delle more di
Robert P. Warren troviamo nuovamente la stessa situazione, ma la figura dello straniero è
perturbante e minacciosa. La storia ha un fondamento autobiogafico, l’autore infatti
ricorda la sua infanzia passata in Tennessee tra i boschi. La figura dello straniero qui è
costituita da un uomo misterioso che si dirige minacciosamente verso la casa del giovane
Seth armato di coltello. Il bambino è sorpreso poiché non veniva mai nessuno che non
fosse di casa da quella direzione. Lo straniero qui ha delle connotazioni violente, burbere e
minacciose. Si rivolge agli altri personaggi del racconto in maniera intimidatoria e scontrosa
e addirittura arriva a minacciare il bambino di sgozzarlo al suo primo approccio con lui. La
sua figura si contrappone a quella di altri “diversi” , per esempio la coppia di affittuari neri
con cui comunque la famiglia di Seth intrattiene dei buoni rapporti.
<STRANIERO POSITIVO,ROMANTICO , ATTRAENTE> Nel terzo racconto vi è un totale
rovesciamento di valori rispetto a l’inverno dellle more. Stiamo parlando de I ponti di
Madison County (1992) di Robert J. Waller. Il romanzo viene descritto da Ceserani come
un testo di bassa qualità e dai tratti kitsch ma che è stato trasposto molto bene sul grande
schermo. Il romanzo è la storia d’amore tra due stranieri: Francesca Johnson (napoletana,
dotata di quei tratti caratteriali tipici delle donne del sud-Italia, passionale , vivace,
genuina ; ha sposato un militare dopo la fine della guerra ed è finita a fare la contadina
nell’ Iowa, trascorrendo una vita banale col noioso marito ed i figli) e Robert Kincaid ( eroe
romanzesco e zingaresco , dai tratti affascinanti e misteriosi) . Kincaid arriva a Madison
County per fare un servizio fotografico su dei vecchi ponti che si trovavano in quella zona.
Capita nel vialetto che conduce a casa di Francesca ed è quest’ultima a dargli le indicazioni
sull’ubicazione dei ponti e si offre lei stesa di accompagnarlo lì poiché è attratta dall’uomo.
Robert Kincaid è quindi arricchito dai miti della beat generation , della cultura giovanile
americana, ha un temperamento artistico e un virtù inspiegabile che gli dona un grande
fascino nonostante non sia né particolarmente bello o brutto. Questo romanzo, all’
opposto del racconto di Warren, veicola uno stereotipo dello straniero decisamente
positivo ed attraente.
<CONFRONTO TRA DUE CULTURE E STRANIAMENTO> Ceserani torna sulla letteratura
italiana analizzando una novella dei primi anni del novecento di Pirandello, lontano (1902).
La storia ha per protagonisti un uomo e una donna appartenenti a due culture diverse, la
donna, Venerina, è siciliana e originaria di Porto Empedocle e Lars Cleen, un marinaio
norvegese che sbarca da una nave molto malato di tifo e viene accolto dallo zio di
Venerina, Don Paranza, viceconsole di Norvegia e molto buono e generoso. Il punto di vista
è alternato, vediamo le cose dal lato di Venerina quanto dal lato di Lars Cleen. Lars Cleen è
meravigliato dalla vita del villaggio siciliano, pensa di essere su un altro pianeta e si chiede
se non sia stato il destino a portarlo lì, somiglia quasi all’ albatros o al cigno baudelariano,
strappato dal suo contesto originario e impiantato nel paese siciliano con un effetto che lo
fa sembrare strano e smarrito. Lars vede però anche la miseria del villaggio e i soprusi a cui
i cittadini sono sottoposti per colpa degli imprenditori del paese che non vogliono far
costruire le banchine ed alleviare il lavoro dei lavoratori che scaricano lo zolfo sulla spiaggia
solo perché gli fa comodo economicamente. Per Venerina Lars è il suo futuro sposo, la
possibilità di farsi una famiglia ed avere dei figli ma lei non può evitare di guardarlo con
curiosità mista a stupore vedendo il marinaio stesso stupirsi di fronte alle cose che le sono
banali (ad esempio i fichi d’india). Oltre al confronto tra due culture incarnate da questi
due personaggi, è molto interessante l’uso che viene fatto del punto di vista dello
straniero. Troviamo infatti il punto di vista di un esterno su una società a lui sconosciuta
come è quella del paesello siciliano. Lars è malinconico perché capisce che non si può far
nulla per cambiare quella classe dominante e sfruttatrice.
Questo processo attuato da Pirandello nella sua novella somiglia molto a quello realizzato
de Charles-Louis de Montesquieu (1689-1721) nelle sue lettere persiane (1721). In quell’
opera, infatti, veniva descritta la Parigi settecentesca con gli occhi di due persiani venuti in
visita in Francia. Tale processo si chiama “straniamento” e consente alle opere d’arte di
rappresentare il mondo in modo nuovo , descrivendolo e guardandolo con gli occhi dello
”straniero” , da chi è appunto esterno a quel mondo.
ODISSEA LIBRO IX- POLIFEMO E ODISSEO, LA STORIA DI UNA
RECIPROCA CECITà
/PROF/ Ospitare… La prima parola da cui partire, prima di leggere il testo omerico, primo
oggetto della nostra analisi, è proprio Hospes, ospite. Hospes (come hostis, da cui guest,
gast…) è in latino una vox media; significa infatti tanto ospitante, quanto ospitato, chi
ospita e chi viene ospitato, e questa stessa ambiguità semantica ha mantenuto nella nostra
lingua. Un’antica memoria antropologica è custodita in questa duplicità semantica. Una
memoria culturale che ci ricorda antichi riti di ospitalità; si pensi ai riti di ingresso ed
accoglienza dello straniero descritti da E. J. Leed nel suo La mente del viaggiatore; oppure
da Freud nel suo Totem e tabù…
L'ospitalità, infatti, anche se solo temporaneamente, taglia qualsiasi distanza tra le
persone.
Il termine greco per indicare l'ospite è xénos (xeînos ne è variante fonetica comune in
Omero): lo stesso che designa lo straniero, con un'ambiguità semantica non estranea al
latino (dove si alterna la coppia hostis/hospes) né ad altre lingue indoeuropee.
L'ospitalità greca, la xènia, comprendeva un elenco di regole non scritte che
richiedevano enorme rispetto nei confronti dell'ospite (e viceversa) e prevedevano anche un
regalo d'addio; l'ospite, a sua volta, era tenuto a ricambiare l'ospitalità. ...

Gli antichi riti di ospitalità ci insegnano dunque che ospitante e ospitato devono scambiare
i propri ruoli, devono trovare il luogo metabolico in cui divengano, infine, la stessa cosa. È
questo l’unico modo per disattivare l’inerzia potentissima del conflitto, della guerra, ovvero
della reciproca cecità…

Quello che è di certo uno dei brani più belli della memoria letteraria e culturale del
pianeta, lo straordinario Nono Libro dell’Odissea in cui, nel cuore del ritorno di Odisseo, si
racconta l’incontro con Polifemo, il Ciclope, è infatti la storia di una reciproca cecità: la
cecità dell’ospitante (Polifemo, l’uomo che è cieco di fatto col suo unico occhio, dunque
privo realmente e metaforicamente di prospettiva), ma anche la dolorosa cecità del
migrante, di chi, come Odisseo, vedendosi rifiutato e minacciato, acceca e sceglie la
violenza difensiva. Se l’Odissea, tutta l’Odissea, è insieme il “romanzo”, la parabola, ma
anche la fenomenologia dell’ospitalità, allora questo libro è il cuore del poema stesso; un
cuore antropologico in cui è custodito il dilemma centrale, oggi forse ancor più
drammatico, della nostra civiltà.
In un recente saggio - Polifemo. La cecità dello straniero (2011) - il giurista e scrittore
Mario Ricca ha riletto, con pazienza, acume e ispirazione, il brano forse più bello e
germinativo di tutta la nostra letteratura, facendone l’incunabolo dell’opera omerica e
insieme il codice di una «gigantesca grammatica dell’incontro con l’estraneo», capace di
trasformare l’inospitalità del dominatore nel mito della cecità della relazione col dominato.
Se ospitare è un rituale di conoscenza, esso è allora in grado di commutare lo sguardo
sull’ospite, sullo straniero, in una visione […]. Se l’ospitare è un saper vedere, allora tradire
e infrangere il suo protocollo equivalgono a una forma di cecità. Colui che non sa
conoscere lo straniero, che viola i doveri (poteri) dell’ospite, è cieco. Ed è una cecità
reciproca, bidirezionale. L’ambiguità del genitivo, soggettivo e accusativo, esprime
perfettamente questa condizione. La cecità dello straniero può essere sia una cecità
dell’autoctono circa lo straniero, quanto una cecità che affligge lo straniero nel suo
approcciarsi all’ospite autoctono. In entrambi i casi siamo in presenza di un deficit tragico
nella capacità di anticipazione del futuro.
È difficile dire se Herman Melville mentre scriveva il suo Benito Cereno (1856) - di certo
uno dei racconti più potenti e riusciti dell’autore americano e insieme, per il suo carattere
perturbante, tra quelli meno considerati e di minor successo dopo la sua pubblicazione tra i
Piazza Tales - avesse in mente Omero e l’Odissea, Odisseo-Nessuno quale Altro ospitato e
Polifemo-Ciclope in veste di ospite schiavista dominante. Certo, l’effetto finale, il risultato
di questa parabola dello scontro di culture, rimanda direttamente all’archetipo della cecità
reciproca, della guerra di estinzione senza soluzione alternativa.
A partire da questa consapevolezza possiamo rileggere, in modo originale e avvincente, la
vicenda di Odisseo e Polifemo; ovvero la vicenda del Ciclope, colui che è etimologicamente
affetto da un’incapacità di visione e riconoscimento, da una bulimia coattiva che lo spinge a
masticare e divorare l’Altro da sé, lo straniero; e di quel Nessuno/Odisseo, di quello
straniero cancellato e divorato, che medita la sua nemesi storica, la sua vendetta mortale, il
suo accecamento del dominatore...
Perché il Ciclope non è l’altro, il non civilizzato, il diverso, come i libri di scuola ci ripetono
in modo rassicurante; ma Ciclope è chi risiede e non ospita, chi non ospita e spesso
annienta; come talora noi, noi-Occidente, in questo passaggio drammatico di civiltà che
stiamo vivendo.
Leggete dunque il Libro Nono dell’Odissea, analizzando con attenzione i personaggi
(soprattutto Odisseo e il Ciclope), l’ambiente e l’intreccio, fino al finale…

/MIO/ Il nono libro dell’odissea racconta le peripezie di Odisseo e i suoi compagni dallo
scontro con i ciconi fino alla rocambolesca fuga dal ciclope Polifemo. Odisseo si trova alla
corte dei feaci, è stato condotto lì dalla figlia del re di quest’ultimi, Nausicaa. Odisseo viene
accolto calorosamente dal re Alcinoo , che gli permette di lavarsi, cambiarsi e organizza un
grande banchetto. Nell’ascoltare un aedo che canta le vicende della guerra di Troia Ulisse si
commuove e allora gli viene chiesto “straniero, perché piangi?” . Allora l’eroe rivela la sua
identità , dice il suo nome e da dove viene, dopo di che inizia a raccontare il percorso che
l’ha portato fino a lì. Odisseo inizia col raccontare la storia del suo scontro con i ciconi, i
quali in un primo momento aveva piegato e derubato ma quest’ultimi, chiamati i rinforzi,
avevano ribaltato le sorti dello scontro schiacciando gli achei e costringedoli alla fuga. Una
volta in mare, Odisseo e i suoi compagni sono colpiti dalla furia di Zeus che scaglia venti e
tempeste su di loro. A causa dei venti sfavorevoli e della sorte avversa, Odisseo vaga nel
mare senza riuscire a giungere alla sua metà e ricordando i compagni persi. Dopo vari
giorni arrivano sull’isola dei lotofagi, un popolo particolare che mangiava un fiore che
aveva il potere di far dimenticare agli uomini il passato e la loro patria. Alcuni dei compagni
di Odisseo cadono nella tentazione e mangiano il loto, perdendo ogni volontà di tornare a
casa. Odisseo, tuttavia, riesce a trascinare i compagni sulle navi e lascia l’isola. Allora la
squadra di Odisseo arriva nella terra dei ciclopi, degli uomini giganti e selvaggi, senza leggi
e senso di solidarietà. La terra dei ciclopi è in realtà un luogo ricco di fauna e flora, con un
terreno estremamente fertile ed acque limpide. Dopo aver passato qualche giorno
cacciando e bevendo vino sulla riva, Odisseo decide di andare a trovare di persona i
ciclopi per vedere che tipo di popolo fosse, se fosse accogliente e quindi timoroso degli
dei o invece selvaggio, ingiusto e prepotente. Odisseo si avviò presso i ciclopi con i suoi 12
compagni migliori. Allora arrivò presso la caverna di un ciclope che viveva allevando pecore
e capre, che teneva dentro un grande recinto. Odisseo caratterizza il ciclope come un
essere che viveva solo, isolato dagli altri . Tuttavia egli vuole verificare che tipo di essere è
il ciclope e soprattutto se gli offrirà ospitalità o violenza. Dopo che il ciclope ebbe finito di
mungere le capre nota Odisseo e i suoi compagni e gli domanda chi siano e da dove
vengano in maniera aggressiva e che lascia trasparire maliziosità e sfiducia nei confronti
degli stranieri. Odisseo cerca di fare leva nel timore degli dei che dovrebbe avere il ciclope
se non ospita lui ed i suoi compagni, ma quest’ultimi afferma di non temere gli dei perché
ritiene la sua razza superiore e allora decide di usare la più spietata forma di violenza,
afferra due compagni di Odisseo e li divora. La mattina seguente il ciclope divora altri due
compagni di Odisseo e allora egli comprende che l’unica via di sfuggire a quella situazione è
la violenza. Con i compagni decide di utilizzare un ramo di ulivo vicino ad uno dei recinti di
Polifemo per farne una lancia acuminata che tempra col fuoco, dopo di che la nasconde
sotto il letame per utilizzarlo al momento giusto (all’assopirsi del ciclope). Il ciclope divora
altri due compagni e dopo la sua cena, Odisseo gli offre un vino divino ricevuto in dono
da Marone, un sacerdote di Apollo. Il ciclope promette ad Odisseo di ricompensarlo (con
un dono ospitale) se gliene darà altro e gli chiede anche il suo nome. Odisseo risponde e
afferma di chiamarsi “nessuno”, poi gli offre il vino un altro paio di volte. Allora il ciclope
risponde che il suo “dono ospitale” sarà quello di venire divorato per ultimo. Grazie
all’effetto dell’alcool gli achei riescono a far addormentare il ciclope, e riscaldato il palo fino
a renderlo rovente, lo infilzano nell’occhio del ciclope e girano con forza accecando il
ciclope e provocandogli un dolore immenso. In seguito al grido del ciclope i suoi simili
accorrono chiedendogli cosa sia successo e lui risponde che è stato il vile “nessuno” a fargli
questo. Poi, per evitare che Odisseo fugga toglie il masso dalla caverna e tasta le pecore sul
dorso avendo perso la vista. Ma Odisseo e i suoi compagni riescono a fuggire
nascondendosi sotto il ventre degli animali e ingannano così il ciclope, tornando dai
compagni. Nella loro fuga gli achei subiscono l’ira del ciclope che gli scaglia massi grandi
quanto montagne. Odisseo poi rivela il suo vero nome al ciclope e quest’ultimo gli racconta
di una profezia di un uomo chiamato Telemo Eurimide (dove appunto si narrava di Odisseo
che privava della vista il ciclope) ma dice anche di non aspettarsi che Odisseo fosse così
piccolo e debole, bensì un uomo grande, forte e bello. Polifemo innalza una preghiera a
Poseidone in modo che il suo ritorno sia ancora doloroso e lungo e il dio lo ascolta. Una
volta fuggiti, gli achei si spartiscono il gregge rubato a Polifemo e Odisseo fa un sacrificio a
Zeus, che però viene rifiutato dal dio.

L’odissea viene definita la fenomenologia dell’ospitalità proprio perché quest’ultima è un


tema fondamentale all’interno dei poemi epici greci. I greci prestavano molta attenzione al
tema dell’ospitalità, lo straniero doveva essere accolto perché si pensava che sotto il suo
aspetto potesse celarsi una divinità e ospitandola si potevano ottenere privilegi e
soprattutto non si incappava nella sua ira. Si ospitavano i forestieri quindi per non
ricevere un castigo , per timore della divinità. Allo straniero veniva offerto un bagno caldo,
indumenti e cibo, e in generale, un ambiente accogliente. Per tale motivo, presso i greci il
tema dell’ospitalità era inviolabile e sacro. Nell’ iliade troviamo questa ideologia nella
scena dove Priamo viene a reclamare il cadavere del figlio Ettore e viene accolto da Achille
nonostante egli sia il re di Troia, quindi il nemico principale degli achei. Nell’odissea il tema
è ancora più sviluppato, tra i libri 8 e 9 abbiamo due grandi esempi di ospitalità, in uno il
principio viene rispettato, nell’altro invece non si giunge ad un rapporto pacifico tra
straniero e autoctono e si ricorre alla violenza. L’accoglienza che riceve Odisseo da parte di
Nausicaa e Alcinoo alla corte dei feaci è sicuramente un esempio di quanto fosse
importante la tematica dell’ospitalità, ad Odisseo, come già detto, vengono offerti cibo, la
possibilità di lavarsi e cambiarsi e vino. Inoltre si consuma il pasto, il banchetto insieme,
simbolo dell’inclusione, seppur momentanea, di Odisseo in quella comunità, per un
momento egli diventa un membro effettivo incluso di quella comunità. Ovviamente la
storia che narrerà Odisseo ai feaci, quella di Polifemo, è fortemente in contrasto con
l’accoglienza appena ricevuta dal re. La storia dell’incontro di Polifemo è la storia di una
cecità reciproca, da un lato abbiamo Polifemo, colui che ha dei pregiudizi nei confronti
degli stranieri appena arrivati sulla sua terra e pensa che essi siano venuti per arrecargli
danno e si rifiuta di accoglierli e anzi li uccide divorandoli crudelmente. Dall’altro
abbiamo Odisseo e i suoi compagni, che in realtà tentano di instaurare un rapporto
pacifico col ciclope ma che, vedendo l’estrema violenza di quest’ultimo, si vedono
costretti a difendersi adoperando altra violenza, vedendo appunto infrangersi il sogno di
uno scambio reciproco di doni e una convivenza pacifica. Tra l’altro il ciclope, possedendo
un solo occhio, non possiede neanche il senso della prospettiva e quindi non è capace di
capire i sentimenti altrui e rapportarsi con gli altri ecco perché è definito solo ed
emarginato da Odisseo. Accogliere lo straniero significa anche confrontarsi con lui e con
dei tratti diversi dai propri, cosa che lui non è né capace né disposto a fare. La parola
“ospite” possiede due significati, indica colui che ospita qualcuno nella sua casa o
comunità ma anche chi viene ospitato. In un saggio del 2011, il giurista Mario Ricca ha
analizzato il nono libro dell’odissea sotto una luce nuova, definendolo il fulcro dell’ opera
omerica e una “gigantesca grammatica dell’incontro con l’estraneo” , e se questo incontro,
o meglio riconoscimento ed accettazione reciproca non riesce a realizzarsi (cecità di
entrambe le parti) si sfocia spesso nella violenza, in un fallimento in cui non è possibile
l’accoglienza e la convivenza pacifica (ma dove è possibile la guerra, l’annientamento del
più forte sul più debole e la tragedia).
DICE RICCA:
Se ospitare è un rituale di conoscenza, esso è allora in grado di commutare lo sguardo
sull’ospite, sullo straniero, in una visione […]. Se l’ospitare è un saper vedere, allora tradire e
infrangere il suo protocollo equivalgono a una forma di cecità. Colui che non sa conoscere lo
straniero, che viola i doveri (poteri) dell’ospite, è cieco. Ed è una cecità reciproca, bidirezionale.
L’ambiguità del genitivo, soggettivo e accusativo, esprime perfettamente questa condizione. La
cecità dello straniero può essere sia una cecità dell’autoctono circa lo straniero, quanto una
cecità che affligge lo straniero nel suo approcciarsi all’ospite autoctono. In entrambi i casi siamo
in presenza di un deficit tragico nella capacità di anticipazione del futuro.

/PROF/ Certo, l’effetto finale, il risultato di questa parabola dello scontro di culture, rimanda
direttamente all’archetipo della cecità reciproca, della guerra di estinzione senza soluzione
alternativa.
A partire da questa consapevolezza possiamo rileggere, in modo originale e avvincente, la vicenda
di Odisseo e Polifemo; ovvero la vicenda del Ciclope, colui che è etimologicamente affetto da
un’incapacità di visione e riconoscimento (rappresenta simbolicamente chi ha paura del diverso e
non ospita, razzista o xenofobo) , da una bulimia coattiva (qualcosa che lo spinge a divorare
compulsivamente l’altro) che lo spinge a masticare e divorare l’Altro da sé, lo straniero; e di quel
Nessuno/Odisseo, di quello straniero cancellato e divorato, che medita la sua nemesi storica, la sua
vendetta mortale, il suo accecamento del dominatore... (Benito Cereno rappresenta qualcosa di
molto simile)
Perché il Ciclope non è l’altro, il non civilizzato, il diverso, come i libri di scuola ci ripetono in modo
rassicurante; ma Ciclope è chi risiede e non ospita, chi non ospita e spesso annienta; come talora
noi, noi-Occidente, in questo passaggio drammatico di civiltà che stiamo vivendo (Dramma dei
migranti odierno, paesi che lasciano morire i migranti sui barconi per paura del diverso).

HERMAN MELVILLE-BENITO CERENO

L’ultimo testo che leggiamo insieme è dunque il romanzo breve dell’autore americano
Hermann Melville (1819-1891) dal titolo Benito Cereno (1856). È forse il testo più bello e
complesso del corso; non a caso lo trattiamo per ultimo. È un racconto di viaggio, di mare e
di avventura tratto da una storia realmente accaduta (come è ben spiegato nel saggio
conclusivo di Beniamino Placido, che va letto e studiato insieme alla slide sulla tratta degli
schiavi nella storia); il contesto in cui il testo è nato è quello degli Stati Uniti alla vigilia della
Guerra di secessione (1861-1865) tra Stati antischiavisti del Nord guidati dal presidente
Abraham Lincoln e Stati schiavisti del Sud; siamo dunque in pieno dibattito sulla schiavitù e
la sua abolizione. Ma è soprattutto un grande romanzo sulla psicologia umana, individuale
e di gruppo, ed un esempio mirabile della narrativa moderna occidentale e del suo
trattamento ambiguo del tema dello straniero. Questo testo è infatti infestato da stranieri,
sin dal suo eccezionale incipit…
Vi chiedo di leggere questo testo, con grande attenzione, in originale e nella traduzione,
nell’edizione indicata nel programma e non in altra edizione. Riflettete con attenzione su
tutti gli elementi che abbiamo messo in evidenza a lezione. Ne elenco solo alcuni, certo che
coglierete, anche dagli appunti, tutto il resto…
- Il Plot, la storia, l’intreccio
- L’incipit e il suo gioco di premonizioni, avvertimenti, segnali e indizi (endiadi,
tonalità grigie…)
- La tonalità narrativa del testo e la compresenza costante e inquietante di ironico-
comico e tragico-macabro
- I personaggi principali e quelli secondari e la “dinamica” tra i personaggi, cioè il
sistema di relazioni e rapporti tra loro
- L’ambientazione
- Il punto di vista, ovvero la focalizzazione del testo, e il suo drammatico e inquietante
spostamento nel finale
- Il rapporto tra evento storico reale e trattamento narrativo di Melville e la scelta del
titolo del romanzo
- Il contesto storico e geografico in cui il romanzo nasce
- Il susseguirsi di shock visivi, ipotesi, rimozioni della realtà nello sguardo Amasa
Delano, alternati a similitudini, fantasie e deliri che distanziano l’oggetto misterioso (la
nave, il capitano, Babo…) e le narrazioni-ricostruzioni dell’accaduto che si negano a vicenda
- La riflessione sulla leadership presente nel testo
- Cos’è l’ombra di Babo, di cui abbiamo parlato?
- Lo stile di Melville e il rapporto tra testo originale e traduzione, riprendendo e
scoprendo i punti in cui la traduzione “fallisce”, ma anche quelli in cui completa l’originale,
lo innova rispettandone l’intenzione (rileggete i saggi di Calvino, Eco e Levi sulla traduzione
e analizzate la traduzione utilizzando la loro riflessione…)
- Quale riflessione sullo “straniero” come “proiezione antropologica” (utilizzate
sempre il saggio di Ceserani per la vostra analisi) induce questo testo?
Il testo che avete la possibilità di leggere è una miniera di poesia, acume e “intelligenza del
mondo”; avete tutti gli strumenti per scavare da soli questa miniera, adesso, alla luce di
tutto quello che abbiamo fatto quest’anno.

Per comprendere il romanzo breve Benito Cereno scritto da Herman Melville e


pubblicato nel 1856 è necessario prima avere chiaro il contesto storico nelle quale si
svolgono le vicende e i precedenti della tratta degli schiavi. Il contesto in cui il testo è nato
è quello degli Stati Uniti alla vigilia della Guerra di secessione (1861-1865) tra Stati
antischiavisti del Nord guidati dal presidente Abraham Lincoln e Stati schiavisti del Sud;
siamo dunque in pieno dibattito sulla schiavitù e la sua abolizione. Con il termine “tratta
atlantica degli schiavi africani” ci si riferisce al commercio di schiavi originari dei paesi
africani attraverso l’oceano atlantico, questo fenomeno è iniziato nel XVI secolo ed è
purtroppo perdurato fino al XIX secolo, quando con il 13esimo emendamento (1865), al
termine della guerra di secessione (1861-65), si decide di abolire la schiavitù (almeno
formalmente). La tratta degli schiavi ebbe un ruolo fondamentale nello sviluppo economico
delle colonie e anche dei paesi europei stessi. Olivier Pétré-Grenouilleau, nella sua storia
delle tratte negriere dal titolo , "Les traites negrières. Essai d' histoire globale" , ripercorre i
tratti fondamentali di questo grande triste fenomeno , precisando anche l’importanza delle
altre due tratte degli schiavi (quella africana e quella orientale). L’abolizione della schiavitù
è un processo lento e progressivo, che pone fine ad una delle pagine più buie della nostra
storia da europei ed esseri umani.
Questo fenomeno viene denominato dagli afroamericani e africani “black holocaust” o, in
lingua Swahili, maafa, che significa grande disastro o tragedia.
Il numero di schiavi che hanno attraversato l’oceano per essere impiegati nelle piantagioni
delle colonie è incerto , esistono varie stime ma possiamo affermare che si tratta di un
numero compreso tra i 9 e i 12 milioni. Un numero davvero ingente di schiavi quindi andò a
popolare le colonie causando uno squilibrio tra bianchi e neri (1 bianchi per 20 neri) e
instillando negli americani una costante paura di una rivolta dato che i neri erano
numericamente molto superiori. Le potenze europee che finanziarono e svilupparono
questo commercio sono in Primis la gran Bretagna (che ha trasportato il maggior numero di
schiavi nel diciottesimo secolo), ma troviamo anche la Spagna, il Portogallo, i paesi bassi, la
Francia e alcuni mercanti brasiliani e nordamericani. Il bilancio di perdite umane è
anch’esso spaventoso. Si parla di 2 milioni per la sola traversata e di circa 10 milioni per il
fenomeno intero. La maggior parte di questo numero è attribuibile a guerre tribali o razzie
finalizzate a rifornire di uomini e donne utili al mercante di schiavi.

L’Africa veniva quindi utilizzata come fonte di schiavi mentre gli stati europei
organizzavano e amministravano i trasporti e commerci. Inizialmente a svolgere questo
ruolo amministrativo sono i porti della penisola iberica ma poi, nel XVII secolo si
inseriscono in questo tipo di commercio anche le nazioni del nord Europa (Gran bretagna,
Danimarca , Paesi Bassi , Francia. Si viene a costituire così il cosiddetto commercio
triangolare, trainato dalla domanda di zucchero, cotone e i prodotti coltivati nelle
piantagioni delle colonie. Il commercio triangolare unisce quindi tre continenti, l’europa,
l’africa e l’America. Il cotone prodotto in America veniva quindi trasportato in Inghilterra e
trasformato in tessuto. I commercianti di schiavi dunque, portavano in Africa la stoffa
insieme a perline, collane, alcol e altre merci da scambiare con nuovi schiavi.
Il percorso delle navi negriere e commerciali può essere riassunto così:

/PROF/1. le navi lasciavano i porti dell’Europa alla volta dell’Africa con beni e
mercanzie utili all’acquisto degli schiavi (armi e polvere da sparo – che andarono a
finanziare da subito i sistemi militari locali -, ma anche tessuti, perle, rum);
2. ultimato il carico di schiavi lungo le coste africane, le navi facevano rotta per il Brasile o i
Caraibi, dove gli schiavi finivano a lavorare nelle piantagioni;
3. dall’America le navi salpavano alla volta dell’Europa, riportando prodotti di piantagione
(zucchero, caffè, cotone, tabacco, riso).

Questo commercio presentava non pochi rischi, anche perché durante le traversate erano
piuttosto comuni le epidemie o naufragi. Tuttavia, i profitti ricavati erano enormi ecco perché il
capitalismo spietato ha sfruttato gli africani riducendoli a mera merce di scambio e senza nome.
Come l’ideologia della borghesia, quella del rischio imprenditoriale, bisogna rischiare e
scommettere se si vuole davvero emergere e guadagnare. /PROF/ Come diceva un capitano
negriero francese di Nantes, nel 1826, in una lettera: “Bisogna rischiare, avere coraggio e dirsi: se
riesco tanto meglio, se fallisco tanto peggio. In questo caso, si ricomincerà da un’altra parte.”
Questa frase a quale personaggio incontrato nel romanzo di Melville, quest’anno, vi fa
pensare? /?????/
/PROF/ Infine alcune considerazioni sugli USA. Si può dire che i nascenti Stati Uniti d’America
furono ossessionati e costantemente attraversati dalla paura e dalla “minaccia” delle rivolte di
schiavi (dovuta allo squilibrio numerico bianchi: schiavi, in media 1:20), sin dalla separazione
dalla madrepatria inglese dopo la Guerra d’Indipendenza (1775-1783), e per tutta la prima metà
dell’Ottocento, fino alla Guerra di Secessione (1861-1864) tra Stati del Nord e del Sud. Al centro
della Guerra di Secessione vi fu proprio l’approvazione del tredicesimo Emendamento della
Costituzione degli Stati Uniti d’America (1865), col quale si metteva fine, almeno formalmente, alla
schiavitù. Purtroppo, come sappiamo, anche dopo una Guerra che causò ben oltre un milione di
morti, sin dall’Era della Ricostruzione (1865-1877) e poi fino ai nostri anni, il fenomeno
dell’Apartheid /L'apartheid (italiano: /apar'tajd/; afrikaans: [aˈpartɦɛit]; letteralmente
"separazione", "partizione") era la politica di segregazione razziale istituita nel 1948 dal governo
di etnia bianca del Sudafrica, e rimasta in vigore fino al 1991. I bantu, le popolazioni nere,
dovevano vivere separate dai bianchi e gli venivano imposti numerosi divieti / – ovvero della
Segregazione - è continuato e in parte continua (come i moti del Black Lives Matter purtroppo
testimoniano).
William Snelgrave, XVIII secolo: Era un commerciante di schiavi inglese che, mentre si trova in
Benin, salva un bambino di 18 mesi dall’essere sacrificato e una volta acquistato lo porta sulla nave
dove si ricongiunge con la madre. Egli si vanta di aver fatto questo ma ignora il fatto che dopo aver
venduto madre e figlio come schiavi essi moriranno ugualmente.

ANALISI DI BENITO CERENO


Per la stesura di questo breve romanzo, Melville trae ispirazione da un fatto di cronaca riportato in
una relazione di viaggio intitolata “Narratives of voyages and travels in the northern and southern
hemispheres “ scritta da Amasa Delano nel 1817. Oltre al testo di Delano, Melville deve qualcosa
anche a “The cloister life of the emperor Charles the 5th” e due ammutinamenti avvenuti sulle
navi Amistad (1841) e Creole (1842). La struttura e la dinamica dei fatti rimane sostanzialmente
identica, Melville decide però di cambiare i nomi delle navi e di alcuni personaggi. Il nome della
nave spagnola passa da “Tryal” a “San Dominick” mentre quella del capitano americano passa da
“Perseverance” a “Bachelor’s Delight” (la Gioia dello Scapolo). Il nome di Amasa Delano resta
invariato, quello di “Bonito” passa a “Benito” (indica l’idea del monastero, che permane per tutta
la durata del romanzo ed è anche il luogo dove Benito Cereno trascorrerà i suoi ultimi giorni ,
Benito-> Benedettino). Infine il nome di Muri, lo schiavo nero fedelissimo e sempre presente al
fianco di Bonito diventa “Babo” (che indica la sua ambiguità) .
Beniamino Placido nella postfazione al romanzo di Melville offre un’interessante interpretazione
del romanzo. Melville si è sì ispirato alla narratives of voyages di Delano, ma ha riscritto i fatti con
una tonalità narrativa completamente nuova, la tonalità dell’incubo, onirica. La storia è infatti
quella di un ammutinamento, gli schiavi neri si ribellano contro lo schiavista e trucidano il loro
padrone don Alexandro Aranda, tenendo in pugno Benito Cereno, un ostaggio sempre
fiancheggiato dal suo carnefice più malvagio, il negro Babo. La situazione agli occhi di Amasa
Delano è però completamente diversa, egli non riesce a vedere oltre questa coltre di fumo, di
nebbia grigia che copre la nave nell’incipit del romanzo ma anche la verità dei fatti nel corso del
racconto e si dissolve solo alla fine quando verrà rivelato il malvagio piano dei neri.
Il grigio è il colore dominante del racconto, sono grigi gli uccelli, le nuvole , i fumi ma il grigio è
anche l’espressione dell’enigma della San Dominick. Delano deve attraversare e tagliare in due la
grigia nebbia per salire sulla nave ma dovrà anche lì risolvere il dilemma grigio (e sappiamo che
non ci riuscirà, solo alla fine sotto la più sfrontata evidenza, cioè quando Babo si getta nella
scialuppa tentando di uccidere Benito Cereno). Il grigio è però anche l’espressione dei suoi
componenti, il bianco e il nero, non a caso i colori che si mischiano su quella nave e si confondono.
La situazione è paradossale e insolita, Melville ribalta la classica scena del bianco che schiaccia e
terrorizza il nero poiché qui vediamo il contrario, Il nero che prevale sul bianco.
L’idea del monastero poi, oltre a essere contenuta all’interno del nome del capitano spagnolo è
espressa già nell’incipit del romanzo dove la San Dominick viene paragonata ad un monastero a
causa delle nere figure che si vedono vagare per il ponte e che somigliano a dei frati cappuccini. Il
romanzo è costruito sulla struttura dell’endiadi, cioè Melville dice una cosa attraverso due (Il grigio
attraverso il nero e il bianco; due componenti capaci di ricongiungersi, riconoscersi e scambiarsi ,
come dimostra la rivolta dei neri che da schiavi diventano padroni).
Il romanzo è costellato da una serie di figure simboliche, come ad esempio gli “oakum pickers” (gli
stoppai) e gli “hatchet polishers” (lustratori d’accette). Queste figure non esistevano nel narratives
di Delano, bensì le ha aggiunte Melville per arricchire la sua storia. Gli stoppai neri sono il
correlativo oggettivo (rimandano) ai neri sottomessi e operosi delle piantagioni mentre i lustratori
d’accette rimandano alla figura del nero pericoloso e in rivolta. Due opposti della figura del nero, il
secondo opposto in particolare costituisce una grande paura dei bianchi americani, ossessionati
dalla possibilità di rivolte degli schiavi numericamente superiori. Queste figure riecheggiano gli
ammutinamenti avvenuti sulle navi Amistad e Creole e anche la rivolta dello schiavo Nat Turner in
Virginia.
Il nome della nave spagnola allora possiede tre significati principali:
1) Ricollegandoci all’idea del monastero, richiama l’idea dei dominicani, un famoso ordine
monastico
2) Nel nome Dominick è contenuta la parola “Dominus”, padrone , signore, che è tra l’altro
scritta nell’epigrafe sotto lo scheletro di Aranda “Follow your leader”.
3) Riferimento a San Domingo, un’isola dove si svolse una rivolta nera riuscita, e che
rappresentava per gli americani un simbolo della pericolosità dei neri (e della loro
irrequietezza) e che quindi tormenta i loro pensieri.

Amasa Delano rappresenta il tipico marinaio yankee del nord america e rappresenta quindi i
paesi settentrionali degli stati uniti. Egli nota il disordine della nave di Benito e lo trova
intollerabile per chi come lui, è abituato a organizzare tutto e tenere tutto pulito e al massimo
della sua efficienza. L’americano che ha una costante paura di essere assalito dal nero che ha
tanto martoriato e di perdere anche la sua fonte di sostentamento principale (gli stati del sud
basavano la loro economia interamente sullo schiavismo) .Il romanzo di Melville intende
mostrare la grande paura del negro che possiede la timorosa America e anche come
quest’ultima cerca di allontanare tutti i significati che non vuole attribuire a se stessa
caricandoli invece sul nero. Melville ovviamente non era indifferente alla situazione politica del
suo tempo e al tema della schiavitù. Ma allora, qual è la sua opinione sul negro, sui due gruppi
che ci ha presentato (stoppai e lucidatori)? Secondo Melville i due gruppi si equivalgono, sono
interscambiabili, il nero docile e sottomesso può diventare aggressivo e minaccioso e può
accadere anche il contrario (tralaltro altro esempio di endiadi dato che M. giustappone i due
gruppi). Come sappiamo questo romanzo non ebbe un grande successo, il pubblico lo ignorò o
meglio non riuscì a digerirlo. Come già detto all’americano fa paura il nero misterioso , simile a
una sfinge (sostantivo con cui tralaltro vengono descritti gli schiavi della nave) imprevedibile.
L’idea che quindi gli stoppai potessero diventare lucidatori di accette e quindi che il negro
pacifico si sarebbe improvvisamente rivoltato parve al pubblico di M. paurosamente
indigeribile. Essi volevano un tipo di negro da cui fosse facile prendere le distanze. Essi
volevano il negro buono dello Zio Tom o il nero malvagio in rivolta di Nat Turner/San Domingo.
Melville ritiene che non ha senso porre delle barriere tra il bianco e il nero , prenderne le
distanze poiché la convivenza è comunque strettamente necessaria, soprattutto sul limitato
ponte di una nave (e gli americani non possono separarsi dai neri dato che ci hanno costruito
sopra la loro economia, almeno il sud IMO). Inoltre l’americano vuole anche prende le distanze
dall’Europa vecchia e passata, poiché l’America vuole definirsi in contrapposizione all’Europa,
ritenendosi migliore. Ecco perché Melville utilizza il personaggio di Benito Cereno
(squisitamente europeo, spagnolo e discendenza nobile) e lo collega tralaltro all’idea del
monastero (simbolo della vecchia europa).
I due capitani possiedono lo stesso atteggiamento verso i neri, Delano guarda agli schiavi con
occhio benevolo, è incapace di dubitare di loro, è cieco e vede nella figura delle donne e dei
loro figli un tenero quadro di amore materno ma ignora il fatto che quelle donne siano in realtà
sadiche e avevano proposto di torturare gli spagnoli prima di ucciderli. Per quanto riguarda
Benito, nella fonte originale veniva descritto come crudele e vendicativo tanto da voler
accoltellare un nero a rivolta sedata. Tuttavia Melville ha deciso di assimilarlo all’americano e a
donargli quel carattere benevolo verso i neri. Questi due personaggi come sappiamo si
scambiano delle parole ma non dialogano davvero. Delano è cieco e non vede la rivolta dei neri
mentre Benito non può parlare perché l’ombra di Babo lo tiene col coltello alla gola. Il nome di
Delano rimane invariato in modo da mantenere l’assonanza con “ane” dal frnc. , stupido, stolto
(riferito alla sua cecità) e anche per assimilarlo al nome latino di Benito. Tralaltro Lowell, nella
sua riscrittura drammatica del racconto aggiunge un aiutante a Delano, Perkins, per per
renderlo più simile alla coppia Benito-Babo.

Ma veniamo ora alla figura del negro Babo. Un personaggio ora affettuoso e che scalda il cuore
e ora terribilmente inquietante e minaccioso. Anche questo personaggio è costruito
sull’endiade. Il suo nome richiama il termine baboon (il nero disperato, misero) e Jago (il nero
perfido, machiavellico e che come Babo tace al momento dell’esecuzione). Babo quindi come
la costante duplicità e ambiguità della figura del negro, docile e rivoltoso, pacifico e malvagio.
Anche la figura di Atufal, negro gigantesco e sottomesso ma che mantiene il suo aspetto
regale e possente si può contrappore a quella di Benito Cereno, che è adesso schiavo ed
ostaggio di Babo ma mantiene l’aspetto formale del capitano. Anche Babo e Atufal sono
speculari, Babo che sembra lo schiavo ubbidiente e devoto è il capo della nave, Atufal che
sembra possente e grande è lo schiavo costretto a presentarsi ogni due ore al cospetto di
Benito. La figura del centauro quindi, metà bianco e metà nero ricorre più volte nel racconto e
si basa sempre sul fatto che i ruoli si possono ribaltare e scambiare. A rivolta sedata Benito si
rifiuta di salire sulla nave di Delano se non prima il negro svanisca sotto coperta (below), quasi
come a voler allontanare la sua figura ma come sappiamo, non si può esorcizzare, infatti
questa esperienza lascerà il segno nell’anima dello spagnolo, il segno di questa paura
dell’ombra del negro.
In Benito Cereno, Melville tratta anche la tematica del rapporto nord-sud, il conflitto tra stati
liberi e stati schiavisti. Il nord è rappresentato da Delano (ottimista, ingenuo), il sud dal
capitano Benito (disordinato, trascurato come una casa schiavista del sud). Per Melville
entrambi le ideologie sono sbagliate e impercorribili, Melville fa franare entrambe le
ideologie mostrando la loro inconsistenza e irrealizzabilità, il sud non può avere un rapporto
pacifico con lo schiavo perché la minaccia della sua rivolta è sempre in agguato, il nord non
può cercare di tirarsi fuori allontanando l’altro e negandolo poiché ha bisogno dell’altro
anche per radersi (dice Placido), L’america non ha nulla di divino , è inutile cercare di
allontanare il sud e l’europa con i loro difetti perché anche l’america li ha. ; Il sud basa la sua
vita sull’ideologia antica, europeista fondata sul rapporto rassicurante tra il padrone e lo
schiavo (Stile Crusoe e venerdì), il nord vuole allontanare il sud come un corpo estraneo
perché espressione dell’Europa e di ciò che non vuole vedersi attribuire, la soluzione del
nord è quella della negazione del rapporto con l’altro (La Gioia dello scapolo, nave di Delano,
indica i piaceri della solitudine), del confinamento nel ghetto, della segregazione (apartheid).
In una scena simbolica Amasa Delano incontra sul ponte un vecchio marinaio spagnolo intento
a legare un nodo senza un apparente motivo, in maniera assurda. Lo Yankee chiede al marinaio
perché egli lo stia facendo e lui risponde “perché qualcun altro lo sciolga”. Questo, oltre a essere
uno dei tanti segnali che i marinai spagnoli inviano a Delano ma che non vengono recepiti,
rappresenta il groviglio narrativo, l’enigma della nave spagnola caduta in mano allo schiavi
(situazione che Delano non comprende fino alla fine). Ma un’ implicazione politica e ideologica è
contenuta nella modalità con cui il marinaio spagnolo chiede a Delano di sciogliere il nodo. Lo
chiede con una frase in parte in spagnolo ma col nucleo inglese, in quanto Melville vuole
indicare che il messaggio del testo è rivolto all’America e vuole smontare i loro castelli ideologici
sia del nord e del sud.
Una delle immagini più forti del racconto è sicuramente quella dello shaving time. Considerata il
climax del racconto, in questa scena vediamo Babo intento a radere Benito con un tagliente rasoio
che sfiora minacciosamente la gola dello spagnolo. Come nel resto del racconto, anche qui è
importanti la costante alternanza tra sospetto e rassicurazione, più volte capitan Delano crede che
lo schiavo stia per uccidere il capitano e più volte si rassicura credendo la cosa improbabile (egli
pensa qualcosa del genere: “non seppi vincere la tentazione di vedere nel negro il carnefice e nel
bianco la vittima sul ceppo”). Anche qui il contrasto cromatico bianco/nero è presente, il volto di
Benito è ancora più pallido a causa del sapone e contrasta con lo scuro volto di Babo. Inoltre la
descrizione della stanza di Benito rafforza il suo collegamento all’ Europa perché si riprende l’idea
del monastero, vi sono molti vocaboli come “acquasantiera”, “inquisizione” e “frati poveri”.
Nel dialogo finale si scorgono ulteriori tratti dell’americano yankee del nord Amasa Delano e di
Don Benito. Un vizio attribuito a Delano e all’americano in generale è quello della national
amnesia, l’esperienza traumatica passata da Benito sarebbe scivolata addosso a Delano, che
avrebbe dimenticato. Don Benito è rimasto invece profondamente traumatizzato dalla cosa,
vivrà per sempre con la costante paura dell’ombra del negro, di tutto ciò che è nero ed
alternativo al bianco, il bianco sicuro di sé. Amasa Delano è quindi cieco ad ogni realtà che non
sia la sua, stoltamente fermo sulle sue idee.

Il romanzo viene paragonato da Joyce Adler a una scacchiera in cui il bianco e il nero si
mescolano e si scambiano , i ruoli si ribaltano ,Babo schiavo diventa capo, Atufal re è incatenato,
Benito capitano è ostaggio. Melville scrive un romanzo destinato già in partenza alla censura e
alla rimozione. L’idea che il bianco e il nero possano scambiarsi i ruoli, il ribaltamento
dell’immagine che vede il bianco dominare sul nero, e il tutto rappresentato con le tonalità
dell’incubo, sono per la società americana del tempo inaccettabili . Nel testo Melville
rappresenta la convivenza tra bianchi e neri inevitabile , drammatica, con i tratti dell’incubo.
Ecco il perché dello scarso successo di Benito Cereno.

IDEA DELLO SCHIAVO PER IL NORD


L’ideologia era fondata principalmente su basi morali e cristiane, ma
contribuì anche la componente economica: gli effetti della rivoluzione
industriale sul mercato capitalistico mondiale resero inutili le masse di
schiavi ma indispensabili invece i lavoratori salariati produttori di
ricchezza quindi consumatori di merci.

Potrebbero piacerti anche