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Modulo D
Modulo D
Gli antichi riti di ospitalità ci insegnano dunque che ospitante e ospitato devono scambiare
i propri ruoli, devono trovare il luogo metabolico in cui divengano, infine, la stessa cosa. È
questo l’unico modo per disattivare l’inerzia potentissima del conflitto, della guerra, ovvero
della reciproca cecità…
Quello che è di certo uno dei brani più belli della memoria letteraria e culturale del
pianeta, lo straordinario Nono Libro dell’Odissea in cui, nel cuore del ritorno di Odisseo, si
racconta l’incontro con Polifemo, il Ciclope, è infatti la storia di una reciproca cecità: la
cecità dell’ospitante (Polifemo, l’uomo che è cieco di fatto col suo unico occhio, dunque
privo realmente e metaforicamente di prospettiva), ma anche la dolorosa cecità del
migrante, di chi, come Odisseo, vedendosi rifiutato e minacciato, acceca e sceglie la
violenza difensiva. Se l’Odissea, tutta l’Odissea, è insieme il “romanzo”, la parabola, ma
anche la fenomenologia dell’ospitalità, allora questo libro è il cuore del poema stesso; un
cuore antropologico in cui è custodito il dilemma centrale, oggi forse ancor più
drammatico, della nostra civiltà.
In un recente saggio - Polifemo. La cecità dello straniero (2011) - il giurista e scrittore
Mario Ricca ha riletto, con pazienza, acume e ispirazione, il brano forse più bello e
germinativo di tutta la nostra letteratura, facendone l’incunabolo dell’opera omerica e
insieme il codice di una «gigantesca grammatica dell’incontro con l’estraneo», capace di
trasformare l’inospitalità del dominatore nel mito della cecità della relazione col dominato.
Se ospitare è un rituale di conoscenza, esso è allora in grado di commutare lo sguardo
sull’ospite, sullo straniero, in una visione […]. Se l’ospitare è un saper vedere, allora tradire
e infrangere il suo protocollo equivalgono a una forma di cecità. Colui che non sa
conoscere lo straniero, che viola i doveri (poteri) dell’ospite, è cieco. Ed è una cecità
reciproca, bidirezionale. L’ambiguità del genitivo, soggettivo e accusativo, esprime
perfettamente questa condizione. La cecità dello straniero può essere sia una cecità
dell’autoctono circa lo straniero, quanto una cecità che affligge lo straniero nel suo
approcciarsi all’ospite autoctono. In entrambi i casi siamo in presenza di un deficit tragico
nella capacità di anticipazione del futuro.
È difficile dire se Herman Melville mentre scriveva il suo Benito Cereno (1856) - di certo
uno dei racconti più potenti e riusciti dell’autore americano e insieme, per il suo carattere
perturbante, tra quelli meno considerati e di minor successo dopo la sua pubblicazione tra i
Piazza Tales - avesse in mente Omero e l’Odissea, Odisseo-Nessuno quale Altro ospitato e
Polifemo-Ciclope in veste di ospite schiavista dominante. Certo, l’effetto finale, il risultato
di questa parabola dello scontro di culture, rimanda direttamente all’archetipo della cecità
reciproca, della guerra di estinzione senza soluzione alternativa.
A partire da questa consapevolezza possiamo rileggere, in modo originale e avvincente, la
vicenda di Odisseo e Polifemo; ovvero la vicenda del Ciclope, colui che è etimologicamente
affetto da un’incapacità di visione e riconoscimento, da una bulimia coattiva che lo spinge a
masticare e divorare l’Altro da sé, lo straniero; e di quel Nessuno/Odisseo, di quello
straniero cancellato e divorato, che medita la sua nemesi storica, la sua vendetta mortale, il
suo accecamento del dominatore...
Perché il Ciclope non è l’altro, il non civilizzato, il diverso, come i libri di scuola ci ripetono
in modo rassicurante; ma Ciclope è chi risiede e non ospita, chi non ospita e spesso
annienta; come talora noi, noi-Occidente, in questo passaggio drammatico di civiltà che
stiamo vivendo.
Leggete dunque il Libro Nono dell’Odissea, analizzando con attenzione i personaggi
(soprattutto Odisseo e il Ciclope), l’ambiente e l’intreccio, fino al finale…
/MIO/ Il nono libro dell’odissea racconta le peripezie di Odisseo e i suoi compagni dallo
scontro con i ciconi fino alla rocambolesca fuga dal ciclope Polifemo. Odisseo si trova alla
corte dei feaci, è stato condotto lì dalla figlia del re di quest’ultimi, Nausicaa. Odisseo viene
accolto calorosamente dal re Alcinoo , che gli permette di lavarsi, cambiarsi e organizza un
grande banchetto. Nell’ascoltare un aedo che canta le vicende della guerra di Troia Ulisse si
commuove e allora gli viene chiesto “straniero, perché piangi?” . Allora l’eroe rivela la sua
identità , dice il suo nome e da dove viene, dopo di che inizia a raccontare il percorso che
l’ha portato fino a lì. Odisseo inizia col raccontare la storia del suo scontro con i ciconi, i
quali in un primo momento aveva piegato e derubato ma quest’ultimi, chiamati i rinforzi,
avevano ribaltato le sorti dello scontro schiacciando gli achei e costringedoli alla fuga. Una
volta in mare, Odisseo e i suoi compagni sono colpiti dalla furia di Zeus che scaglia venti e
tempeste su di loro. A causa dei venti sfavorevoli e della sorte avversa, Odisseo vaga nel
mare senza riuscire a giungere alla sua metà e ricordando i compagni persi. Dopo vari
giorni arrivano sull’isola dei lotofagi, un popolo particolare che mangiava un fiore che
aveva il potere di far dimenticare agli uomini il passato e la loro patria. Alcuni dei compagni
di Odisseo cadono nella tentazione e mangiano il loto, perdendo ogni volontà di tornare a
casa. Odisseo, tuttavia, riesce a trascinare i compagni sulle navi e lascia l’isola. Allora la
squadra di Odisseo arriva nella terra dei ciclopi, degli uomini giganti e selvaggi, senza leggi
e senso di solidarietà. La terra dei ciclopi è in realtà un luogo ricco di fauna e flora, con un
terreno estremamente fertile ed acque limpide. Dopo aver passato qualche giorno
cacciando e bevendo vino sulla riva, Odisseo decide di andare a trovare di persona i
ciclopi per vedere che tipo di popolo fosse, se fosse accogliente e quindi timoroso degli
dei o invece selvaggio, ingiusto e prepotente. Odisseo si avviò presso i ciclopi con i suoi 12
compagni migliori. Allora arrivò presso la caverna di un ciclope che viveva allevando pecore
e capre, che teneva dentro un grande recinto. Odisseo caratterizza il ciclope come un
essere che viveva solo, isolato dagli altri . Tuttavia egli vuole verificare che tipo di essere è
il ciclope e soprattutto se gli offrirà ospitalità o violenza. Dopo che il ciclope ebbe finito di
mungere le capre nota Odisseo e i suoi compagni e gli domanda chi siano e da dove
vengano in maniera aggressiva e che lascia trasparire maliziosità e sfiducia nei confronti
degli stranieri. Odisseo cerca di fare leva nel timore degli dei che dovrebbe avere il ciclope
se non ospita lui ed i suoi compagni, ma quest’ultimi afferma di non temere gli dei perché
ritiene la sua razza superiore e allora decide di usare la più spietata forma di violenza,
afferra due compagni di Odisseo e li divora. La mattina seguente il ciclope divora altri due
compagni di Odisseo e allora egli comprende che l’unica via di sfuggire a quella situazione è
la violenza. Con i compagni decide di utilizzare un ramo di ulivo vicino ad uno dei recinti di
Polifemo per farne una lancia acuminata che tempra col fuoco, dopo di che la nasconde
sotto il letame per utilizzarlo al momento giusto (all’assopirsi del ciclope). Il ciclope divora
altri due compagni e dopo la sua cena, Odisseo gli offre un vino divino ricevuto in dono
da Marone, un sacerdote di Apollo. Il ciclope promette ad Odisseo di ricompensarlo (con
un dono ospitale) se gliene darà altro e gli chiede anche il suo nome. Odisseo risponde e
afferma di chiamarsi “nessuno”, poi gli offre il vino un altro paio di volte. Allora il ciclope
risponde che il suo “dono ospitale” sarà quello di venire divorato per ultimo. Grazie
all’effetto dell’alcool gli achei riescono a far addormentare il ciclope, e riscaldato il palo fino
a renderlo rovente, lo infilzano nell’occhio del ciclope e girano con forza accecando il
ciclope e provocandogli un dolore immenso. In seguito al grido del ciclope i suoi simili
accorrono chiedendogli cosa sia successo e lui risponde che è stato il vile “nessuno” a fargli
questo. Poi, per evitare che Odisseo fugga toglie il masso dalla caverna e tasta le pecore sul
dorso avendo perso la vista. Ma Odisseo e i suoi compagni riescono a fuggire
nascondendosi sotto il ventre degli animali e ingannano così il ciclope, tornando dai
compagni. Nella loro fuga gli achei subiscono l’ira del ciclope che gli scaglia massi grandi
quanto montagne. Odisseo poi rivela il suo vero nome al ciclope e quest’ultimo gli racconta
di una profezia di un uomo chiamato Telemo Eurimide (dove appunto si narrava di Odisseo
che privava della vista il ciclope) ma dice anche di non aspettarsi che Odisseo fosse così
piccolo e debole, bensì un uomo grande, forte e bello. Polifemo innalza una preghiera a
Poseidone in modo che il suo ritorno sia ancora doloroso e lungo e il dio lo ascolta. Una
volta fuggiti, gli achei si spartiscono il gregge rubato a Polifemo e Odisseo fa un sacrificio a
Zeus, che però viene rifiutato dal dio.
/PROF/ Certo, l’effetto finale, il risultato di questa parabola dello scontro di culture, rimanda
direttamente all’archetipo della cecità reciproca, della guerra di estinzione senza soluzione
alternativa.
A partire da questa consapevolezza possiamo rileggere, in modo originale e avvincente, la vicenda
di Odisseo e Polifemo; ovvero la vicenda del Ciclope, colui che è etimologicamente affetto da
un’incapacità di visione e riconoscimento (rappresenta simbolicamente chi ha paura del diverso e
non ospita, razzista o xenofobo) , da una bulimia coattiva (qualcosa che lo spinge a divorare
compulsivamente l’altro) che lo spinge a masticare e divorare l’Altro da sé, lo straniero; e di quel
Nessuno/Odisseo, di quello straniero cancellato e divorato, che medita la sua nemesi storica, la sua
vendetta mortale, il suo accecamento del dominatore... (Benito Cereno rappresenta qualcosa di
molto simile)
Perché il Ciclope non è l’altro, il non civilizzato, il diverso, come i libri di scuola ci ripetono in modo
rassicurante; ma Ciclope è chi risiede e non ospita, chi non ospita e spesso annienta; come talora
noi, noi-Occidente, in questo passaggio drammatico di civiltà che stiamo vivendo (Dramma dei
migranti odierno, paesi che lasciano morire i migranti sui barconi per paura del diverso).
L’ultimo testo che leggiamo insieme è dunque il romanzo breve dell’autore americano
Hermann Melville (1819-1891) dal titolo Benito Cereno (1856). È forse il testo più bello e
complesso del corso; non a caso lo trattiamo per ultimo. È un racconto di viaggio, di mare e
di avventura tratto da una storia realmente accaduta (come è ben spiegato nel saggio
conclusivo di Beniamino Placido, che va letto e studiato insieme alla slide sulla tratta degli
schiavi nella storia); il contesto in cui il testo è nato è quello degli Stati Uniti alla vigilia della
Guerra di secessione (1861-1865) tra Stati antischiavisti del Nord guidati dal presidente
Abraham Lincoln e Stati schiavisti del Sud; siamo dunque in pieno dibattito sulla schiavitù e
la sua abolizione. Ma è soprattutto un grande romanzo sulla psicologia umana, individuale
e di gruppo, ed un esempio mirabile della narrativa moderna occidentale e del suo
trattamento ambiguo del tema dello straniero. Questo testo è infatti infestato da stranieri,
sin dal suo eccezionale incipit…
Vi chiedo di leggere questo testo, con grande attenzione, in originale e nella traduzione,
nell’edizione indicata nel programma e non in altra edizione. Riflettete con attenzione su
tutti gli elementi che abbiamo messo in evidenza a lezione. Ne elenco solo alcuni, certo che
coglierete, anche dagli appunti, tutto il resto…
- Il Plot, la storia, l’intreccio
- L’incipit e il suo gioco di premonizioni, avvertimenti, segnali e indizi (endiadi,
tonalità grigie…)
- La tonalità narrativa del testo e la compresenza costante e inquietante di ironico-
comico e tragico-macabro
- I personaggi principali e quelli secondari e la “dinamica” tra i personaggi, cioè il
sistema di relazioni e rapporti tra loro
- L’ambientazione
- Il punto di vista, ovvero la focalizzazione del testo, e il suo drammatico e inquietante
spostamento nel finale
- Il rapporto tra evento storico reale e trattamento narrativo di Melville e la scelta del
titolo del romanzo
- Il contesto storico e geografico in cui il romanzo nasce
- Il susseguirsi di shock visivi, ipotesi, rimozioni della realtà nello sguardo Amasa
Delano, alternati a similitudini, fantasie e deliri che distanziano l’oggetto misterioso (la
nave, il capitano, Babo…) e le narrazioni-ricostruzioni dell’accaduto che si negano a vicenda
- La riflessione sulla leadership presente nel testo
- Cos’è l’ombra di Babo, di cui abbiamo parlato?
- Lo stile di Melville e il rapporto tra testo originale e traduzione, riprendendo e
scoprendo i punti in cui la traduzione “fallisce”, ma anche quelli in cui completa l’originale,
lo innova rispettandone l’intenzione (rileggete i saggi di Calvino, Eco e Levi sulla traduzione
e analizzate la traduzione utilizzando la loro riflessione…)
- Quale riflessione sullo “straniero” come “proiezione antropologica” (utilizzate
sempre il saggio di Ceserani per la vostra analisi) induce questo testo?
Il testo che avete la possibilità di leggere è una miniera di poesia, acume e “intelligenza del
mondo”; avete tutti gli strumenti per scavare da soli questa miniera, adesso, alla luce di
tutto quello che abbiamo fatto quest’anno.
L’Africa veniva quindi utilizzata come fonte di schiavi mentre gli stati europei
organizzavano e amministravano i trasporti e commerci. Inizialmente a svolgere questo
ruolo amministrativo sono i porti della penisola iberica ma poi, nel XVII secolo si
inseriscono in questo tipo di commercio anche le nazioni del nord Europa (Gran bretagna,
Danimarca , Paesi Bassi , Francia. Si viene a costituire così il cosiddetto commercio
triangolare, trainato dalla domanda di zucchero, cotone e i prodotti coltivati nelle
piantagioni delle colonie. Il commercio triangolare unisce quindi tre continenti, l’europa,
l’africa e l’America. Il cotone prodotto in America veniva quindi trasportato in Inghilterra e
trasformato in tessuto. I commercianti di schiavi dunque, portavano in Africa la stoffa
insieme a perline, collane, alcol e altre merci da scambiare con nuovi schiavi.
Il percorso delle navi negriere e commerciali può essere riassunto così:
/PROF/1. le navi lasciavano i porti dell’Europa alla volta dell’Africa con beni e
mercanzie utili all’acquisto degli schiavi (armi e polvere da sparo – che andarono a
finanziare da subito i sistemi militari locali -, ma anche tessuti, perle, rum);
2. ultimato il carico di schiavi lungo le coste africane, le navi facevano rotta per il Brasile o i
Caraibi, dove gli schiavi finivano a lavorare nelle piantagioni;
3. dall’America le navi salpavano alla volta dell’Europa, riportando prodotti di piantagione
(zucchero, caffè, cotone, tabacco, riso).
Questo commercio presentava non pochi rischi, anche perché durante le traversate erano
piuttosto comuni le epidemie o naufragi. Tuttavia, i profitti ricavati erano enormi ecco perché il
capitalismo spietato ha sfruttato gli africani riducendoli a mera merce di scambio e senza nome.
Come l’ideologia della borghesia, quella del rischio imprenditoriale, bisogna rischiare e
scommettere se si vuole davvero emergere e guadagnare. /PROF/ Come diceva un capitano
negriero francese di Nantes, nel 1826, in una lettera: “Bisogna rischiare, avere coraggio e dirsi: se
riesco tanto meglio, se fallisco tanto peggio. In questo caso, si ricomincerà da un’altra parte.”
Questa frase a quale personaggio incontrato nel romanzo di Melville, quest’anno, vi fa
pensare? /?????/
/PROF/ Infine alcune considerazioni sugli USA. Si può dire che i nascenti Stati Uniti d’America
furono ossessionati e costantemente attraversati dalla paura e dalla “minaccia” delle rivolte di
schiavi (dovuta allo squilibrio numerico bianchi: schiavi, in media 1:20), sin dalla separazione
dalla madrepatria inglese dopo la Guerra d’Indipendenza (1775-1783), e per tutta la prima metà
dell’Ottocento, fino alla Guerra di Secessione (1861-1864) tra Stati del Nord e del Sud. Al centro
della Guerra di Secessione vi fu proprio l’approvazione del tredicesimo Emendamento della
Costituzione degli Stati Uniti d’America (1865), col quale si metteva fine, almeno formalmente, alla
schiavitù. Purtroppo, come sappiamo, anche dopo una Guerra che causò ben oltre un milione di
morti, sin dall’Era della Ricostruzione (1865-1877) e poi fino ai nostri anni, il fenomeno
dell’Apartheid /L'apartheid (italiano: /apar'tajd/; afrikaans: [aˈpartɦɛit]; letteralmente
"separazione", "partizione") era la politica di segregazione razziale istituita nel 1948 dal governo
di etnia bianca del Sudafrica, e rimasta in vigore fino al 1991. I bantu, le popolazioni nere,
dovevano vivere separate dai bianchi e gli venivano imposti numerosi divieti / – ovvero della
Segregazione - è continuato e in parte continua (come i moti del Black Lives Matter purtroppo
testimoniano).
William Snelgrave, XVIII secolo: Era un commerciante di schiavi inglese che, mentre si trova in
Benin, salva un bambino di 18 mesi dall’essere sacrificato e una volta acquistato lo porta sulla nave
dove si ricongiunge con la madre. Egli si vanta di aver fatto questo ma ignora il fatto che dopo aver
venduto madre e figlio come schiavi essi moriranno ugualmente.
Amasa Delano rappresenta il tipico marinaio yankee del nord america e rappresenta quindi i
paesi settentrionali degli stati uniti. Egli nota il disordine della nave di Benito e lo trova
intollerabile per chi come lui, è abituato a organizzare tutto e tenere tutto pulito e al massimo
della sua efficienza. L’americano che ha una costante paura di essere assalito dal nero che ha
tanto martoriato e di perdere anche la sua fonte di sostentamento principale (gli stati del sud
basavano la loro economia interamente sullo schiavismo) .Il romanzo di Melville intende
mostrare la grande paura del negro che possiede la timorosa America e anche come
quest’ultima cerca di allontanare tutti i significati che non vuole attribuire a se stessa
caricandoli invece sul nero. Melville ovviamente non era indifferente alla situazione politica del
suo tempo e al tema della schiavitù. Ma allora, qual è la sua opinione sul negro, sui due gruppi
che ci ha presentato (stoppai e lucidatori)? Secondo Melville i due gruppi si equivalgono, sono
interscambiabili, il nero docile e sottomesso può diventare aggressivo e minaccioso e può
accadere anche il contrario (tralaltro altro esempio di endiadi dato che M. giustappone i due
gruppi). Come sappiamo questo romanzo non ebbe un grande successo, il pubblico lo ignorò o
meglio non riuscì a digerirlo. Come già detto all’americano fa paura il nero misterioso , simile a
una sfinge (sostantivo con cui tralaltro vengono descritti gli schiavi della nave) imprevedibile.
L’idea che quindi gli stoppai potessero diventare lucidatori di accette e quindi che il negro
pacifico si sarebbe improvvisamente rivoltato parve al pubblico di M. paurosamente
indigeribile. Essi volevano un tipo di negro da cui fosse facile prendere le distanze. Essi
volevano il negro buono dello Zio Tom o il nero malvagio in rivolta di Nat Turner/San Domingo.
Melville ritiene che non ha senso porre delle barriere tra il bianco e il nero , prenderne le
distanze poiché la convivenza è comunque strettamente necessaria, soprattutto sul limitato
ponte di una nave (e gli americani non possono separarsi dai neri dato che ci hanno costruito
sopra la loro economia, almeno il sud IMO). Inoltre l’americano vuole anche prende le distanze
dall’Europa vecchia e passata, poiché l’America vuole definirsi in contrapposizione all’Europa,
ritenendosi migliore. Ecco perché Melville utilizza il personaggio di Benito Cereno
(squisitamente europeo, spagnolo e discendenza nobile) e lo collega tralaltro all’idea del
monastero (simbolo della vecchia europa).
I due capitani possiedono lo stesso atteggiamento verso i neri, Delano guarda agli schiavi con
occhio benevolo, è incapace di dubitare di loro, è cieco e vede nella figura delle donne e dei
loro figli un tenero quadro di amore materno ma ignora il fatto che quelle donne siano in realtà
sadiche e avevano proposto di torturare gli spagnoli prima di ucciderli. Per quanto riguarda
Benito, nella fonte originale veniva descritto come crudele e vendicativo tanto da voler
accoltellare un nero a rivolta sedata. Tuttavia Melville ha deciso di assimilarlo all’americano e a
donargli quel carattere benevolo verso i neri. Questi due personaggi come sappiamo si
scambiano delle parole ma non dialogano davvero. Delano è cieco e non vede la rivolta dei neri
mentre Benito non può parlare perché l’ombra di Babo lo tiene col coltello alla gola. Il nome di
Delano rimane invariato in modo da mantenere l’assonanza con “ane” dal frnc. , stupido, stolto
(riferito alla sua cecità) e anche per assimilarlo al nome latino di Benito. Tralaltro Lowell, nella
sua riscrittura drammatica del racconto aggiunge un aiutante a Delano, Perkins, per per
renderlo più simile alla coppia Benito-Babo.
Ma veniamo ora alla figura del negro Babo. Un personaggio ora affettuoso e che scalda il cuore
e ora terribilmente inquietante e minaccioso. Anche questo personaggio è costruito
sull’endiade. Il suo nome richiama il termine baboon (il nero disperato, misero) e Jago (il nero
perfido, machiavellico e che come Babo tace al momento dell’esecuzione). Babo quindi come
la costante duplicità e ambiguità della figura del negro, docile e rivoltoso, pacifico e malvagio.
Anche la figura di Atufal, negro gigantesco e sottomesso ma che mantiene il suo aspetto
regale e possente si può contrappore a quella di Benito Cereno, che è adesso schiavo ed
ostaggio di Babo ma mantiene l’aspetto formale del capitano. Anche Babo e Atufal sono
speculari, Babo che sembra lo schiavo ubbidiente e devoto è il capo della nave, Atufal che
sembra possente e grande è lo schiavo costretto a presentarsi ogni due ore al cospetto di
Benito. La figura del centauro quindi, metà bianco e metà nero ricorre più volte nel racconto e
si basa sempre sul fatto che i ruoli si possono ribaltare e scambiare. A rivolta sedata Benito si
rifiuta di salire sulla nave di Delano se non prima il negro svanisca sotto coperta (below), quasi
come a voler allontanare la sua figura ma come sappiamo, non si può esorcizzare, infatti
questa esperienza lascerà il segno nell’anima dello spagnolo, il segno di questa paura
dell’ombra del negro.
In Benito Cereno, Melville tratta anche la tematica del rapporto nord-sud, il conflitto tra stati
liberi e stati schiavisti. Il nord è rappresentato da Delano (ottimista, ingenuo), il sud dal
capitano Benito (disordinato, trascurato come una casa schiavista del sud). Per Melville
entrambi le ideologie sono sbagliate e impercorribili, Melville fa franare entrambe le
ideologie mostrando la loro inconsistenza e irrealizzabilità, il sud non può avere un rapporto
pacifico con lo schiavo perché la minaccia della sua rivolta è sempre in agguato, il nord non
può cercare di tirarsi fuori allontanando l’altro e negandolo poiché ha bisogno dell’altro
anche per radersi (dice Placido), L’america non ha nulla di divino , è inutile cercare di
allontanare il sud e l’europa con i loro difetti perché anche l’america li ha. ; Il sud basa la sua
vita sull’ideologia antica, europeista fondata sul rapporto rassicurante tra il padrone e lo
schiavo (Stile Crusoe e venerdì), il nord vuole allontanare il sud come un corpo estraneo
perché espressione dell’Europa e di ciò che non vuole vedersi attribuire, la soluzione del
nord è quella della negazione del rapporto con l’altro (La Gioia dello scapolo, nave di Delano,
indica i piaceri della solitudine), del confinamento nel ghetto, della segregazione (apartheid).
In una scena simbolica Amasa Delano incontra sul ponte un vecchio marinaio spagnolo intento
a legare un nodo senza un apparente motivo, in maniera assurda. Lo Yankee chiede al marinaio
perché egli lo stia facendo e lui risponde “perché qualcun altro lo sciolga”. Questo, oltre a essere
uno dei tanti segnali che i marinai spagnoli inviano a Delano ma che non vengono recepiti,
rappresenta il groviglio narrativo, l’enigma della nave spagnola caduta in mano allo schiavi
(situazione che Delano non comprende fino alla fine). Ma un’ implicazione politica e ideologica è
contenuta nella modalità con cui il marinaio spagnolo chiede a Delano di sciogliere il nodo. Lo
chiede con una frase in parte in spagnolo ma col nucleo inglese, in quanto Melville vuole
indicare che il messaggio del testo è rivolto all’America e vuole smontare i loro castelli ideologici
sia del nord e del sud.
Una delle immagini più forti del racconto è sicuramente quella dello shaving time. Considerata il
climax del racconto, in questa scena vediamo Babo intento a radere Benito con un tagliente rasoio
che sfiora minacciosamente la gola dello spagnolo. Come nel resto del racconto, anche qui è
importanti la costante alternanza tra sospetto e rassicurazione, più volte capitan Delano crede che
lo schiavo stia per uccidere il capitano e più volte si rassicura credendo la cosa improbabile (egli
pensa qualcosa del genere: “non seppi vincere la tentazione di vedere nel negro il carnefice e nel
bianco la vittima sul ceppo”). Anche qui il contrasto cromatico bianco/nero è presente, il volto di
Benito è ancora più pallido a causa del sapone e contrasta con lo scuro volto di Babo. Inoltre la
descrizione della stanza di Benito rafforza il suo collegamento all’ Europa perché si riprende l’idea
del monastero, vi sono molti vocaboli come “acquasantiera”, “inquisizione” e “frati poveri”.
Nel dialogo finale si scorgono ulteriori tratti dell’americano yankee del nord Amasa Delano e di
Don Benito. Un vizio attribuito a Delano e all’americano in generale è quello della national
amnesia, l’esperienza traumatica passata da Benito sarebbe scivolata addosso a Delano, che
avrebbe dimenticato. Don Benito è rimasto invece profondamente traumatizzato dalla cosa,
vivrà per sempre con la costante paura dell’ombra del negro, di tutto ciò che è nero ed
alternativo al bianco, il bianco sicuro di sé. Amasa Delano è quindi cieco ad ogni realtà che non
sia la sua, stoltamente fermo sulle sue idee.
Il romanzo viene paragonato da Joyce Adler a una scacchiera in cui il bianco e il nero si
mescolano e si scambiano , i ruoli si ribaltano ,Babo schiavo diventa capo, Atufal re è incatenato,
Benito capitano è ostaggio. Melville scrive un romanzo destinato già in partenza alla censura e
alla rimozione. L’idea che il bianco e il nero possano scambiarsi i ruoli, il ribaltamento
dell’immagine che vede il bianco dominare sul nero, e il tutto rappresentato con le tonalità
dell’incubo, sono per la società americana del tempo inaccettabili . Nel testo Melville
rappresenta la convivenza tra bianchi e neri inevitabile , drammatica, con i tratti dell’incubo.
Ecco il perché dello scarso successo di Benito Cereno.