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A Gobekli Tepe La Piu Antica Forma Di SC
A Gobekli Tepe La Piu Antica Forma Di SC
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identica, in una misura che a noi appare sospetta, a quella che marca la ine
del Dryas III, la fase climatica (arida e fredda) che aveva messo in crisi le
popolazioni costiere del Levante, costringendole a spostarsi in altre terre. In
merito alle sedi di successiva occupazione, nel Cap.10 avanziamo qualche
ipotesi. Per ora, ci limiteremo ad osservare che quella di Gobekli era una
comunità protoanatolica, con una lingua propria non indoeuropea. “In Ana-
tolia ci sono state lingue e popoli non i.ei., e non collegabili con altra lingua
nota...” (Carruba, 2009). Non sono state rinvenute strutture di tipo abitativo;
ma, nei limitroi ‘insediamenti di valle’ (Nevali Cori, Gurkutepe), resti di
abitazioni testimoniano di abitudini stanziali (i primi villaggi) in genti che
sostanzialmente restavano ancora dei cacciatori-raccoglitori. L’assenza di
sepolture o di un qualsivoglia contesto funerario, farebbe escludere una fre-
quentazione del sito di Gobekli a carattere stabile, suggerendo una utilizza-
zione a scopo cultuale. Il ritrovamento di resti scheletrici umani, con l’ausilio
della genetica, sarebbe stato, comunque, determinante per l’individuazione
dell’etnia locale.
Non conosciamo, in Anatolia nè altrove, nulla di simile intorno al 10.000 a.C.
Questa cultura precede di oltre 4000 anni quella europea, conosciuta come ‘ci-
viltà danubiana’, e di 6000 quella sumera e quella egizia. E la ‘cultura natuia-
na’, apparsa nel Levante (dalla Siria ino alla Giordania), non risulta altrettanto
evoluta, se non per quanto attiene a particolari pratiche agricole (raccolta di
cereali selvatici) e creative (statuine in pietra e in terracotta). Gobekli Tepe
anticipa di vari millenni alcune conquiste sinora attribuite a culture molto più
recenti: l’architettura monumentale, un probabile sistema comunicativo di
tipo graico, una particolare concezione mistica, a chiara connotazione teo-
gonico-cosmogonica (che costituirà - a nostro avviso - la base per la religio-
sità mesopotamica), un’organizzazione sociale sicuramente più avanzata di
quanto la condizione di cacciatori-raccoglitori dei suoi arteici non lascerebbe
supporre. Riteniamo, pertanto, che l’afiorare improvviso di una tale cultura
fra le impervie regioni dell’Anatolia sud-orientale, che oltretutto non era stata
ancora attinta dalla ‘rivoluzione neolitica’, sia un fenomeno d’importazione,
ancora tutto da chiarire.
L’abbandono del sito, intorno all’8.000 a.C., secondo lo Schmidt (ma non solo)
sarebbe da collegare con l’avvento dell’agricoltura, e con l’opportunità di con-
dizioni diverse di vita che questa offriva. “Con l’affermarsi della nuova econo-
mia e del nuovo modo di abitare, gli uomini abbandonarono il vecchio luogo
di culto (...) e si trasferirono nei promettenti insediamenti nelle immediate vi-
cinanze, e divennero agricoltori” (Schmidt, op. cit.).
Pur logica, comunque, questa ricostruzione non ci convince molto. Appare,
infatti, improbabile che la ‘rivoluzione neolitica’ abbia soffocato le istanze mi-
stiche di questa popolazione anatolica. Istanze che avevano generato un fe-
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Una cosa è certa: queste immagini, dalla inedita cifra stilistica, rivelano una
tecnica smaliziata che viene da lontano, da un crogiuolo artistico ancora inef-
fabile. Se proprio dovessimo proporre, per Gobekli Tepe, possibili afinità
igurative, laddove le coeve (e limitrofe) ‘sculturine’ natuiane sono decisa-
mente più grossolane ed approssimative, potremmo indicare certi grafiti del
Maddaleniano francese.
Analoghe suggestioni estetiche ci suscita il famoso grafito del ‘toro di Pa-
pasidero’(Grotta del Romito), la più importante igura parietale scoperta in
Italia, coeva alle sculture di Gobekli Tepe (X millennio a.C.). Potenti imma-
gini, in cui cogliamo delle afinità stilistiche con alcuni grafiti del Messak e
del Tadrart Acacus libici. Anche se non è semplice stabilire dei confronti tra
immagini grafite e scolpite a rilievo.
Taluni esegeti interpretano queste igure come segni zodiacali, simboli delle
varie costellazioni. Ma l’ipotesi, ancorchè interessante, è tutta da dimostrare.
Una motivazione molto plausibile per queste sculture la fornisce Klaus Sch-
midt: “di certo erano un mezzo mnemotecnico per tramandare nel tempo
temi e circostanze considerati di grande importanza”. Come il Diluvio Uni-
versale?- vien fatto di chiedere. Gli animali rafigurati, per taluni, sarebbero
da collegare con il Diluvio biblico. Sulla sommità del pilastro n. 43, nella
struttura D (che presenta i più inquietanti e ‘misteriosi’ rilievi in assoluto),
sono visibili quelli che lo Schmidt deinisce “tre singolari oggetti a forma di
scatola, dotati di manico”. Questi oggetti meritano sicuramente una maggio-
re attenzione: si tratta, chiaramente, di contenitori da trasporto, ovvero di
canestri, dai quali sembrano uscire alcuni animali (Fig. 50). Una stupefacente
composizione, che costituisce una fra le rarissime rafigurazioni di oggetti
nell’arte igurativa dei primordi. Una ‘scena’ che celebra, a nostro avviso, la
funzione salviica dell’Arca, il contenitore per eccellenza. Un richiamo sim-
bolico al noto evento diluviale appare plausibile; anche se la rappresentazio-
ne (o celebrazione) di un mito non implica necessariamente una corrispon-
denza ad un evento reale.
Secondo testimonianze non più controllabili, nel 1916 una spedizione russa
sull’Ararat, voluta dallo zar Nicola II°, avrebbe individuato i resti di un enor-
me manufatto in forma di scatola. I fascicoli della relazione uficiale, però,
sono andati distrutti durante la rivoluzione del 1917. Numerose dichiarazio-
ni di piloti e soldati, russi ed americani -che hanno visto (e talora fotogra-
fato), anche in tempi recenti, i presunti resti dell’Arca- la descrivono come
una struttura rettangolare, o ‘a forma di scatola’. Il fatto che sul monolite di
Gobekli Tepe siano rafigurati tre contenitori, invece di uno, potrebbe signi-
icare che, già all’epoca, l’Arca si potesse presentare spezzata in tre tronconi.
Proprio come, secondo alcune testimonianze, apparirebbe attualmente. In
ogni caso, un dato è incontestabile: sul pilastro n.43 di Gobekli afiora una
scena, inquietante nella sua originalità, la cui decifrazione è afidata alla
discrezionalità dell’esegeta di turno. A noi appare come la narrazione pit-
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Sui pilastri, ma anche su tavolette di pietra, oltre alle igure animali, compa-
iono vari segni che Schmidt deinisce “astratti”, disposti talora in sequenze
lineari (orizzontali o verticali), ma per lo più isolati: il segno ad H (e la sua
variante girata di 90°), il cerchio, la mezzaluna ‘in piedi o coricata’, il ‘palo
orizzontale’. Possiamo anche concordare sulla deinizione di “gerogliici ne-
olitici, nel senso di segni sacri” fornita dallo Schmidt. Dissentiamo, invece,
quando l’Autore afferma, in linea con l’opinione prevalente in ambito pa-
leolinguistico: “La scrittura non fu inventata come mezzo di comunicazio-
ne, ma come mezzo di archiviazione”. Questo forse è vero per culture più
recenti (sumera, assira etc.). Ma qui, a Gobekli Tepe, non si vogliono sigilla-
re i contenitori di derrate alimentari (come, per es., con le cretule di Arslan-
tepe, c. 3500 a.C.), ma si intende comunicare con il divino! Non c’è (ancora)
nulla da archiviare, ma si cerca un contatto con la dimensione ultraterre-
na .Siamo, forse, di fronte ad una tappa cruciale della spiritualità umana, e
non a strategie di approvvigionamento. Non è di certo in senso materialisti-
co(o in ogni caso utilitaristico) che vanno intesi i messaggi incisi sui pilastri.
Eppure lo Schmidt ammette che “nel X e nel IX millennio a.C. esisteva tra il
Tigri e l’Eufrate un sistema di simboli ampiamente conosciuto. Quali ne fos-
sero i contenuti non lo sappiamo, ma questi segni servivano all’umanità di
quell’epoca lontana come uno strumento che poteva anche fungere da archi-
vio della memoria culturale”. Salvo poi chiosare, lapidario come la materia in
esame: “a Gobekli Tepe non siamo certo in presenza di una scrittura”. E perché
mai? Il fatto stesso che questi segni siano rappresentati e replicati li qualiica
come ‘scritti’, ovvero espressi in modalità graica: l’esigenza di comunicazione
come fondamento della scrittura . E proprio questo ci stimola, spingendoci
ad osare, laddove lo Schmidt mostra la cautela propria dello scienziato, ed
ammette onestamente l’inesplicabilità del messaggio. Ma se il messaggio non
viene compreso è perché esso costituisce una novità troppo dirompente per la
nostra approssimativa conoscenza del mondo antico.
Il punto nodale della questione è che noi ignoriamo cosa realmente gli artisti
di Gobekli intendessero comunicare con quei petroglii. E se non compiamo
un atto di umiltà, smettendo per un momento i panni di razionalisti del XXI°
secolo, infarciti di scientismo, non potremo entrare mai in sintonia con i ‘primi
costruttori di templi’. Primo atto di contrizione: riscrivere la nota ‘favola’ (an-
cor oggi spacciata per verità indiscussa) che la scrittura sarebbe nata intorno al
3300-3200 a.C., in Mesopotamia o in Egitto. “I più antichi documenti rinviano
a quella data”, affermano i sostenitori della ‘favola’, cavalcando una logica che
fa acqua da tutte le parti. Esistono numerosissimi documenti ‘non uficiali’
che provano l’esistenza di una forma di scrittura molto più antica. Nonostante
l’evidenza delle prove (centinaia di reperti paleo-linguistici rinvenuti in tutto
il mondo), l’establishment accademico, però, continua ad ignorare queste stra-
ordinarie - ma scomode – scoperte.
Alcuni studiosi, comunque, hanno affrontato autorevolmente il fenomeno dei
segni, grafiti e dipinti, risalenti al Paleolitico inale. Tra i pionieri, H.Breu-
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Sulla parte frontale della cintura, al di sotto delle dita, è presente una sorta di
ibbia insieme ad altre lettere, disposte nel seguente modo:
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Abbiamo notato una singolare tendenza alla manipolazione dei segni da par-
te degli scribi-scultori dei templi: essi usano per lo più le stesse lettere, facendo
ruotare di 90° la H ( ), e intorno all’asse verticale la C ( ), che viene anche
rappresentata ‘coricata’ ( ). Una caratteristica che si ritrova nella scrittura
libico-sahariana. Non avendo preoccupazioni mercantilistiche, non dovendo
‘far di conto’, né catalogare e siglare le derrate, gli uomini di Gobekli non
avevano ancora inventato un sistema graico inalizzato a queste esigenze.
La loro unica preoccupazione era quella di onorare ed invocare (o placare) la
divinità. Ed avevano scelto un modo molto eficace per farlo. Le lettere sono
grandi e visibili anche da una certa distanza. Esse tradiscono una maestria
graica che è l’esito di un processo sicuramente molto antico, per la prima
volta documentabile.
E’ su queste scritte che occorre indagare, per sciogliere il mistero di Gobekli
Tepe. La loro corretta interpretazione potrebbe agevolare la conoscenza di
questa ineffabile élite preistorica. Solo che noi, analfabeti dell’Era spaziale,
non sappiamo leggere; e rischiamo di scambiare un’invocazione mistica per
un manifesto elettorale….
Gli uomini di Gobekli Tepe adottavano strategie di sopravvivenza di tipo
predatorio, basate sulla caccia e sulla raccolta. Non conoscevano ancora i
metalli, la ceramica, l’agricoltura, la domesticazione animale e delle piante,
l’allevamento. Eppure, costruirono i primi templi, ed elaborarono un siste-
ma complesso di comunicazione scritta. Religiosità, abilità architettonica e
scultorea, indizi di pensiero speculativo: un po’ troppo per dei rozzi caccia-
tori-raccoglitori! Qualcosa non quadra, evidentemente.
Da Cronache frammentarie del IV sec. a.C. (Beroso, Storia di Babilonia), la
cui attendibilità viene confermata da documenti cuneiformi, apprendiamo
che il gigante Sisitro (il Noè della tradizione caldea; ma sono noti almeno
altri tre Noè mesopotamici), dopo il famoso naufragio, era rimasto a vivere
in Armenia. Le genti locali, dopo averlo acclamato loro sovrano, gli attri-
buirono una natura divina, al punto da soprannominarlo ‘cielo’ (Olybama).
Simili onori tributarono alla moglie Tidèa, soprannominata ‘terra’ (Arezia).
C’è anche chi (Furci, 2000) identiica il personaggio Noè con il dio Urano,
ritenuto nella tradizione mitica greca il padre dei Titani, e anch’egli denomi-
nato ‘cielo’ (ouranòs). Una tesi che ci sembra oltremodo intrigante. Suggestio-
ni astrali, quindi, o invocazioni mistiche? Siamo consapevoli che la seconda
opzione potrebbe apparire provocatoria. Ma a noi non interessa tanto stabilire
se Noè-Sisitro-Urano fosse un personaggio reale o mitico, quanto piuttosto
accertare se fosse oggetto di culto presso le genti di Gobekli Tepe. Perché, se
queste nutrivano per lui la stessa venerazione dei limitroi Armeni, allora le
probabilità che potessero ediicare un tempio in suo onore sarebbero molto
alte. Se le strutture presenti a Gobekli Tepe sono luoghi di culto (e lo sono),
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allora ogni santuario, ogni pilastro potrebbe essere stato dedicato ad una di-
vinità, ad un eroe o ad una costellazione.
Riteniamo che la pratica religiosa dei ‘costruttori di templi’ fosse fortemente
intrisa dell’elemento cosmico. Se ciò corrispondesse a verità, le nostre cono-
scenze sulle origini del sacro e della spiritualità dovrebbero essere radicalmen-
te rivedute e corrette. E Gobekli Tepe si rivelerebbe un ‘crocevia della storia
dell’umanità’ di incredibile portata. Non dovremmo meravigliarci se, a ricer-
che ultimate, il sito dovesse conigurarsi come la rappresentazione in terra del
mondo celeste.
Nella cosmogonia sumera, la parola usata comunemente per ‘dio’ è ‘cielo’. E
l’accoppiamento del cielo e della terra costituisce un elemento fondamentale
della mitologia primitiva. Il binomio An-Ki, due divinità primigenie, viene
letto come ‘cielo e terra’ e simboleggia la ‘montagna cosmica’. Lo Schmidt ri-
ferisce di una ‘montagna sacra’, Du-Ku, menzionata dalle fonti sumere, sede
degli dei Anuna. E si chiede se questa non sia identiicabile con Gobekli Tepe;
e gli dei Anuna con i pilastri antropomori di questo sito. Poi, frena: “pare,
tuttavia, ancora troppo presto poter rispondere a queste domande….l’archeo-
logia corre il rischio di valutare in modo sbagliato l’interpretabilità e la portata
delle fonti letterarie….ed il ilologo corre il medesimo pericolo”.
Come dire: la prudenza della tradizione difronte al rischio della novità. Noi,
pur comprendendo gli scrupoli dello Schmidt, intendiamo procedere proprio
in quest’ultima direzione.
L’Anatolia orientale, con le sue montagne, è stata teatro di attività cultuali
molto intense e durature, sin da età preistorica: Gobekli Tepe, i monti Ara-
rat, Cudi e Du-Ku ne rendono testimonianza. Nel poema sumero Il bestiame
e il grano si legge: “Sulla Montagna del Cielo e della Terra, An diede vita agli
Anunnaki... non c’erano ancora pecore, nè capre...i piccoli chicchi, il seme del-
la montagna, non esisteva ancora”. Ovvero, non esistevano ancora le piante
e gli animali domestici. Una situazione che ricorda molto quella del sito ana-
tolico. A noi, per le sue straordinarie peculiarità, Gobekli, montagna anch’es-
sa (ad onta del toponimo Tepe )sembra meritare il titolo di ‘montagna degli
dei’, ovvero di pantheon dell’età della pietra. Un fenomeno dirompente di
carattere mistico, qui a Gobekli, potrebbe aver preceduto quello più materiale
dell’agricoltura. Una rivoluzione spirituale che precede “la rivoluzione” per
antonomasia. Chissà cosa ne penserebbe G. V. Childe…. Che una parte della
pre-historia debba essere riveduta e corretta? Che il Neolitico sia stato tenuto
a battesimo da un fenomeno di tipo religioso, piuttosto che materiale come
ci è stato sinora raccontato? Ci assale il dubbio che questo sia il reale motivo
della reticenza di un certo ambiente uficiale nei confronti delle straordinarie
emergenze anatoliche, “per paura di perdere la tranquillità conservatrice delle
dottrine note” (Villar, op. cit.).
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Questo grafema, quasi certamente mutuato da una scrittura più antica, vie-
ne comunemente letto come KI, sillabogramma con il signiicato di ‘terra’.
Il segno sulla sinistra, che nell’alfabeto ugaritico identiica la lettera C,
potrebbe costituire l’evoluzione graica della C presente a Gobekli. La lettera
potrebbe rappresentare la ‘complicazione’ della H primitiva, la cui storia
evolutiva meriterebbe un’indagine particolare. In alcuni siti del ‘Natuiano’
e del ‘Neolitico preceramico A’ del Vicino Oriente, sono state rinvenute in-
cisioni con “disegni simili ad una scala”, che farebbero pensare ad un codice
simbolico, secondo l’opinione - illuminata, ancorchè isolata – di Steven Mi-
then (2002). Reiterando il condizionale, in conclusione, la lettera H presente
a Gobekli potrebbe essere l’ideogramma per ‘terra’, la C per ‘cielo’ o ‘Signo-
re’.
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Sempre sui pilastri della struttura D, il n.18 presenta in alto, come abbiamo
visto, tre segni ( H, sole, luna) e, sulla cintura, una serie di lettere (H, C, I);
l’omologo pilastro n.31 non presenta alcun segno sulla cintura, mentre in
alto reca scolpito quello che sembra un bucranio (una testa di toro). Sembra
proilarsi una netta differenziazione dei ruoli o dei generi. Una diversiica-
zione che viene ulteriormente ribadita dalle igure che adornano i basamenti
dei due pilastri. Mentre sul pilastro n.18 compare la leggiadra sequenza di
anatre danzanti, sull’altro pilastro è visibile un bassorilievo che, secondo lo
Schmidt, è “senza dubbio identiicabile come un toro”. Il bucranio e il toro
erano ritenuti identiicativi del dio sumero Enki; ma anche altri dei mesopo-
tamici appaiono rafigurati con siffatto aspetto.
La splendida letteratura sumera è ricca di notizie, di particolari (talora mol-
to intriganti) relativi alle varie divinità locali. Essa privilegia un linguaggio
simbolico, ma non sono rari i passi dal contenuto esplicitamente erotico.
Qualche dato relativo al panteon sumerico potrebbe servire alla nostra cau-
sa. Il dio Enki, iglio di An, è denominato ‘Signore della Terra’ (EN sovrano
+ KI terra). Sua sposa è la sorellastra Ninhursanga, detta anche Nintu o Ki
(Terra), considerata la Dea Madre che aveva ‘creato’ l’Uomo.
Gli animali scolpiti sul pilastro n.18 potrebbero contribuire al riconoscimen-
to del personaggio cui il pilastro è dedicato. In merito alle anatre visibili sul
podio del pilastro, questa scena, per la sua levità ed eleganza, ci sembra più
consona ad un personaggio femminile, ed in netto contrasto con i tori raf-
igurati sul pilastro n. 31. C’è, poi, una volpe che il personaggio misterioso
stringe al corpo con il braccio destro. Lo Schmidt evidenzia che la volpe,
nell’iconograia dell’antico Oriente, “è totalmente priva di importanza”; e,
quindi, la sua presenza a Gobekli risulta “sorprendente”. Noi pensiamo che,
proprio per questo, essa costituisca un riferimento simbolico. Il mito, infatti,
ci informa che una volpe aveva giocato un ruolo importante nella vita di
Ninhursanga: era riuscita, con uno stratagemma, a ricondurla presso Enki,
dal quale ella si era allontanata. Una coincidenza? A nostro avviso, il ‘Signo-
re della Terra’ e la Dea Madre potevano ben meritare un santuario a loro
dedicato.
Ma anche altri personaggi possedevano titoli per identiicarsi con il pilastro
n.18. Il più titolato è An, ‘Signore del Cielo’, Capo supremo e padre di Enki
ed Enlil. Egli fornirebbe, a nostro avviso, per il ‘cartiglio di pietra’ sull’alto
del pilastro, una possibile chiave di lettura: T (il pilastro n.18, ovvero An)
è il ‘Signore della Terra, del Sole e della Luna’. Segni sacri, gerogliici ante
litteram, come già sostenuto dallo Schmidt. Se questa lettura è verosimile, la
sacralità dei cartigli egizi trova, a Gobekli Tepe, la sua matrice archetipica.
L’altro pilastro(n.31) potrebbe identiicarsi con il dio Enki, iglio di An. En-
trambi, nella cosmogonia mesopotamica, simboleggiavano i pianeti gemelli
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*Parole, queste, che oggi suonano tristemente profetiche: apprendiamo, durante la stesura di
queste note, della prematura scomparsa del prof. K. Schmidt, avvenuta nel luglio 2014. Il suo
straordinario lavoro gli garantirà un posto di rilievo fra i ‘grandi’ della ricerca archeologica.
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E ciò testimonia che anche gli antichi abitatori di un Sahara un tempo fertile
grafivano sulla roccia delle lettere alfabetiche simili ai segni presenti nei pri-
mi santuari della storia. Una coincidenza? Forse. Ma potrebbe anche essere
la prova che una élite della preistoria sahariana (Protoberberi? Tardo-ateria-
ni?) avesse un rapporto molto stretto con i misteriosi frequentatori della col-
lina di Gobekli Tepe. Il legame fra queste popolazioni, pur così lontane fra
loro, a noi appare sempre più evidente. L’alfabeto sahariano antico è stato
rinvenuto anche nelle Isole Canarie (Galand,1994). Ma questo dilata troppo
il discorso, ed evoca scomodi fantasmi …atlantidei.
Théodore Monod (1993), il grande ricercatore francese, aveva individuato
una serie di iscrizioni sahariane che giudicava“non riferibili alla scrittura
araba, né all’alfabeto tiinagh (la scrittura dei tuareg)” . Ma già precedente-
mente Mark Milburn (1986) aveva segnalato vari siti sahariani con iscrizioni
enigmatiche. Alfred Muzzolini (1995) precisa: “le iscrizioni libiche antiche,
quelle che i Touareg non sanno leggere, e che sono - ricordiamolo - non de-
cifrate, sono altra cosa dal tiinagh moderno, che i Touareg sanno leggere.
Le iscrizioni arcaiche utilizzano un alfabeto la cui origine resta misteriosa”
. E, sin qui, siamo d’accordo. La sua visione, però, non collima con la nostra
quando egli data questo alfabeto arcaico al 7°- 6° sec.a.C. Non riusciamo
a comprendere come un alfabeto ‘misterioso’ ed ‘arcaico’ per deinizione,
possa essersi sviluppato in età storica. E perché mai le stesse popolazioni
autoctone del Sahara non riescano a comprenderlo. Non molto lontana dal-
le posizioni di Muzzolini è Malika Hachid (2000), l’esperta di Preistoria e
Protostoria sahariana. A suo giudizio, la più antica forma di ‘scrittura libica’
sarebbe apparsa intorno al 1300-1200 a.C. .Ci reca conforto, comunque, il
parere del grande africanista e storico della cultura berbera, Gabriel Camps
(1996), che considera il tiinagh “molto più antico di quanto sinora ritenuto;
anche se non è facile stabilire l’origine della scrittura libica”. Non diversa-
mente M. Aghali-Zakara (2001) che, al riguardo, parla di “segni enigmatici
non identiicati. Segni che celano un messaggio che gli epigraisti si sforzano
di decifrare”. Conidiamo che la linguistica un giorno possa chiarire questo
enigma. A nostro avviso, l’alfabeto sahariano arcaico ha svolto un ruolo di
trait d’union, di veicolo culturale tra l’età neolitica e quella protostorica.
D. Raso e S. Ravenda (2008), in un loro articolo, hanno pubblicato un’imma-
gine grafita del Tadrart Acacus libico (uadi Imha), nella quale compaiono
delle lettere che vengono deinite “segnature di prescrittura pelasgica”. Pur
concordando con gli Autori, ci sembra doveroso precisare che alcuni esegeti
considerano questi grafemi di tipo ‘tiinagh recente’. Un particolare, però, ci
convince del contrario: quella specie di punto esclamativo ( ! ), che compare
al centro della prima riga, è un carattere esclusivo del ‘sahariano antico’. E,
nella seconda riga, ritroviamo con lieto stupore due delle lettere presenti sui
pilastri di Gobekli Tepe: la H e la C in sequenza.
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PAUSA DI RIFLESSIONE
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menti e i segni di Gobekli narrano una storia antica che è quasi iaba. Ma in
archeologia, si sa, la parola ‘favola’ è bandita.Ed ogni proposta di tipo non
tradizionale inisce accantonata nel territorio della fantasia, nella ‘grande
riserva della fantasia’, accessibile a pochi adepti. E noi, ossessionati dalla
razionalità a tutti i costi, che ci fa riiutare tutto ciò che non si vede e non si
tocca, non riusciamo a cogliere il senso di un messaggio che ci viene dalla
notte dei tempi.