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La biochimica è la branca della chimica che studia le reazioni chimiche complesse che danno

origine alla vita. Il suo oggetto di studio sono la struttura e le trasformazioni chimiche dei componenti
delle cellule, come proteine, carboidrati, lipidi e acidi nucleici.

Lo studio della biochimica nasce nel 1833, con la scoperta da parte di Anselme Payen del primo enzima,
la diastasi, isolata dal glucosio e capace di catalizzare la reazione dell’amido in glucosio. Da quel
momento in poi ha fatto enormi passi avanti, specialmente a partire dalla metà del XX secolo, con lo
sviluppo di numerose tecniche di indagine. Le scoperte della biochimica vengono applicate in molte aree,
dalla genetica alla biologia molecolare, dall’agricoltura alla medicina.

Nel corso dell’evoluzione gli organismi viventi hanno sviluppato meccanismi in base agli stimoli che
ricevono dall’ambiente esterno. Per esempio, il fatto che il rinoceronte abbia dimensioni considerevoli e un
grosso corno cheratinico dipende dagli stimoli ambientali e servono per garantire la sopravvivenza
dell’organismo. Tutti i processi biologici, inoltre, sono tesi verso il dispendio energico minore: minima
spesa, massimo risultato.

Un semplice esempio di reazione chimica è quella che permette di convertire il lattato in piruvato:
questa reazione prevede la perdita di un atomo di idrogeno (deidrogenazione), e l’enzima che catalizza
questa reazione è chiamato lattato deidrogenasi. Questa reazione comporta la perdita di due elettroni
nel passaggio da lattato a piruvato, e quindi si parla di reazione di ossidazione del lattato.

L’organizzazione cellulare è estremamente complessa, in quanto composta da sistemi molecolari composti


a loro volta da determinate componenti con specifici sistemi di regolazione. Dai monomeri molecolari si
passa alle macromolecole, da questi si passa poi ai complessi sopramolecolari e quindi, tramite
l’aggregazione di questi, alla cellula.

Tra le molecole più importanti in biochimica ricordiamo gli amminoacidi, che possono formare proteine,
ormoni peptidici, neurotrasmettitori e alcaloidi tossici; il glucosio, che può costituire cellulosa, mannosio,
lattosio o saccarosio. Una certa molecola può costituire macromolecole molto differenti tra di loro, con
struttura diversa e con funzioni differenti.

Le proteine sono di due tipologie principali in base alla composizione: le proteine semplici, costituite da
soli amminoacidi, e le proteine complesse, che contengono oltre a monomeri amminoacidici anche altre
tipologie di molecole, come il gruppo eme, lipidi, glucidi e cosi via.

Dal punto di vista della struttura, che dipende dall’organizzazione degli amminoacidi, si possono
individuare due tipi di proteine: le proteine fibrose, caratterizzate dalla struttura secondaria a figlietto
beta, e le proteine globulari, caratterizzate dalla struttura secondaria ad alfa elica.

Un amminoacido è costituito da un carbonio centrale, legato ad un gruppo carbossilico, un gruppo


amminico, un atomo di idrogeno e una catena laterale R, variabile. Il carbonio alfa è quello
immediatamente legato al gruppo carbossilico, mentre gli altri atomi di carbonio prendono denominazione
in base alle successive lettere dell’alfabeto greco antico. Nel caso in cui il carbonio alfa sia asimmetrico,
come nella maggior parte dei casi, gli amminoacidi si presentano sotto forma di due forme
enantiomeriche, D e L. Gli amminoacidi presenti nell’organismo umano sono tutti del tipo L.

Gli amminoacidi sono in grado in soluzione di presentarsi nella loro forma di Zwitterione, in cui
l’amminaocido si presenta contemporaneamente con carica netta positiva e con carica netta negativa, e
quindi con carica netta nulla. Vi sono alcuni casi in cui però gli amminoacidi presentano gruppi in grado di
dissociarsi fornendo ulteriori cariche positive o negative, che forniscono invece all’amminoacido una carica
netta e quindi modificheranno il pH della soluzione contenente quello specifico amminoacido.
Un amminoacido si presenta sotto forma di zwitterione quando esso si trova ad un valore del pH detto punto
isoelettrico, definito precisamente dome il valore del pH per cui l’amminoacido ha carica netta nulla. Vi saranno
poi dei punti in cui prevale la forma dell’amminoacido a carica negativa e la forma dell’amminoacido a carica
positiva.

Il legame tra il gruppo carbossilico di un amminoacido e il gruppo amminico di un altro amminoacido viene
definito peptidico, e prevede la perdita di una molecola d’acqua, che deriva dall’OH del gruppo carbossilico del
primo amminoacido e di un’idrogeno da parte del gruppo amminico del secondo amminoacido.

La funzione delle proteine dipende dalla loro struttura quaternaria. L’unica eccezione è rappresentata dalla
mioglobina, che risulta funzionale pur arrestandosi allo stadio organizzativo di struttura terziaria.

Affinchè le strutture secondarie si possano riarrangiare nello spazio per poter dare le strutture terziarie è
necessario che le strutture secondarie costituiscano le cosiddette strutture supersecondarie o motivi,
raggruppamenti regolari di elementi di struttura secondaria e dei segmenti che li connettono presenti in molte
proteine globulari. Sono responsabili di alcune proprietà delle proteine, avenfo quindi ruoli strutturali e
funzionali. I più comuni sono rappresentati da: il motivo beta-alfa-beta, o cappio; il motivo alfa-forcina (o
meandro Beta); il motivo alfa-alfa (eliche anfipatiche frequentemente); il motivo di Rossman; il motivo elica-
ripiegamento-elica.

I motivi possono essere definitivi:

Motivi di sequenza: sequenza specifica di amminoacidi caratteristica di una particolare sequenza proteica

Motivi funzionali: combinazione di elementi di struttura secondaria che hanno significato funzionale

Motivi strutturali: combinaziine di elementi che definiscono un certo dominio

I motivi danno informazioni sulla funzione del dominio di cui fanno parte, e sono importanti perchè di solito la
funzionalità delle proteine non dipende mai da una solo segmento, bensì da diverse porzioni con funzioni
diverse. Le proteine transmembrana, per esempio, sono in grado di esporre il gruppo amminico e il gruppo
carbossilico terminali in due porzioni differenti della cellula, e questi svolgono funzioni diverse.

In alcuni casi possono essere presenti gruppi metallici che costituiscono un ponte tra porzioni proteiche
differenti grazie al fatto che questi gruppi possiedono cariche che interagiscono con quelle degli amminoacidi.

Alcune catene alfa possono avvolgersi tra di loro a dare una la coiled coil structure, osai una struttura simile ad
una corda formata da due alfa eliche arrotolate, che possono essere della stessa proteina o di proteine
differenti. La coiled coil structure nasconde gli amminoacidi idrofobici, ed è caratterizzata da un’epta-ripetizione
di amminoacidi. La leucine zipper è una struttura coiled coil che si stabilisce tra due leucine, poste ogni 7
amminoacidi su ciascuna catena. solitamente intervengoni nel complesso 3-4 leucine per ogni catena.

Le proteine globulari sono spessi costituiti da più domini strutturali, ossia quelle regioni di una proteina capaci di
assumere autonomamente una conformazione tridimensionale sufficientemente stabile, rispetto sl resto della
proteina. Formano stfutture compatte collegate da brevi segmenti di catema. I domini strutturali rappresentani
domini funzionali: ossia entità funzionali autonome con funzioni specifiche. Proteine che hanno in comune una
funzione possono avere domini funzionali uguali. Per esempio, le deidrogenasi NAD-dipendenti hanno domini
steutturali simili, per legare il NADH e codificati dagli stessi tratti di DNA, e domini diversi per differenti substrati

Le tasche idrofobiche sono fessure o cavità ricche di residui apolari. Esempi di tasche idrofobiche sono i siti
catalitici di numerosi enzimi, oppure il sito di legame per il gruppo eme nell’emoglobina.

La struttura terziaria non dev’essere considerato come una struttura rigida e fissa. Molte proteine devono
possedere per svolgere al meglio la propria funzione di flessibilità conformazionale. Molte proteine globulari
subiscono piccole variazioni conformazionali nel corso della loro funzione (si dicono che respirano). La tecnica
che permette di individuare i cambiamenti conformazionali è detta NMR. Ad esempio, l’emoglobina cambia
conformazione legando e cedendo l’ossigeno; oppure questo fenomeno avviene per gli enzimi quando legano il
substrato (adattamento indotto)
LEZIONE II - MIOGLOBINA ED EMOGLOBINA

Gli scienziati che studiarono per primi le caratteristiche strutturali della mioglobina furono Peruts e
Kendrew. In particolar modo essi compresero la struttura terziaria di questa proteina, e la localizzazione
del gruppo eme nella molecola. Per queste scoperte si aggiudicarono il premio Nobel.

Il gruppo eme è un gruppo prostetico, e quindi non proteico, presente sia nella mioglobina che
nell’emoglobina, di fondamentale importanza per il legame con l’ossigeno. Il gruppo eme è formato da
una struttura organica ad anello, la protoporfirina IX. Il ferro si trova nel cuore centrale dell’anello
porfirinico e presenta 6 legami di coordinazione: quattro sono impegnati sul piano dell’anello e sono
con atomi di azoto, mentre gli altri due sono perpendicolari e garantiscono l’interazione del gruppo eme
con l’ossigeno, e quindi la variazione dello stato di ossidazione del Ferro. Gli atomi di azoto coordinati
impediscono la conversione del ferro dell’eme nello stato ferrico, incapace di legare l’ossigeno. Il ferro si
trova nel core centrale della mioglobina, e i legami di coordinazione perpendicolari che permettono
l’interazione con l’ossigeno devono trovarsi vicino ad istidine, presenti in altre subunità della
mioglobina. Dei legami di coordinazione uno serve per bloccare il gruppo prostetico eme in una
determinata posizione attraverso il legame con un residuo di istidina, mentre l’altro interagisce con
l’ossigeno, pur trovandosi anch’esso presso una molecola di istidina. L’istidina 93, detta istidina
prossimale, mantiene il gruppo eme legato al resto della struttura molecolare della mioglobina, mentre
l’istidina 64 si occupa di mediare e garantire il legame del gruppo eme con l’ossigeno. Quando si lega
l’ossigeno, le proprietà elettroniche del ferro cambiano: questo spiega il diverso colore del sangue
venoso rispetto al sangue arterioso. Affinché l’ossigeno possa legarsi al ferro dev’essere garantito uno
specifico angolo di legame, mentre l’anidride carbonica si lega senza questa necessità al gruppo eme.
Infatti la mioglobina presenta un’affinità maggiore per l’anidride carbonica piuttosto che per l’ossigeno, e
questo fatto nell’emoglobina è molto importante, per poter trasportare rapidamente la CO2 lontana dai
tessuti periferici.

Passando alla struttura quaternaria, questa è caratteristica delle proteine oligomeriche, formate da due
fino a due dozzine di catene polipeptidiche, che sono organizzate in maniera ben precisa nello spazio.
L’emoglobina, con struttura quaternaria, è una proteina tetramerica contenente quattro gruppi
prostetici eme, uno per ciascuna subunità; la mioglobina, invece, è una proteina monomerica con un
solo gruppo eme. Le subunità dell’emoglobina sono uguali a due a due, e presentano una struttura
tridimensionale molto simile alla mioglobina: si potrebbe immaginare l’emoglobina come l’insieme di
quattro unità di mioglobina. La struttura quaternaria dell’emoglobina è caratterizzata da interazioni
molto forti tra le quattro subunità, tanto che essa è in grado di resistere a blandi trattamenti
denaturanti. L’emoglobina A (emoglobina adulta) è formata da due subunità alfa e da due subunità
beta. Nella vita embrionale l’emoglobina è formata da due subunità alfa e due subunità gamma. Al
momento della nascita tuttavia la produzione delle subunità gamma viene ridotta e l’organismo shifta
rapidamente verso la sintesi di subunità beta al loro posto, anche se la sintesi delle subunità gamma non
viene mai del tutto interrotta. L’emoglobina, per poter svolgere la propria funzione, dev’essere sensibile
alla concentrazione in circolo dell’ossigeno e dell’anidride carbonica. Ma com’é possibile?

L’emoglobina presenta una certa motilità strutturale: individuiamo due stadi: lo stadio T e lo stadio R.
Nello stadio T o teso, in cui l’istidina e il metile vicino al sito di legame dell’ossigeno sono molto
ravvicinati, l’ossigeno non è legato all’emoglobina; in questa situazione l’emoglobina prende il
nome di deossiemoglobina. Quando una delle subunità allo stato teso lega una molecola di
ossigeno, provoca un cambiamento conformazionale delle altre subunità globiniche, e permette
all’emoglobina di passare dallo stadio teso allo stadio R o rilassato. Durante questo processo
alcuni legami che stabilizzano lo stato T si spezzano e se ne formano altri. In particolar modo, la
transizione avverrebbe per i cambiamenti di posizione dei residui amminoacidici che circondano l’eme.
Nello stato T la porfirina ha una forma a cupola e pertanto il ferro protude dal lato dell’istidina
prossimale.
Il legame con l’ossigeno costringe l’eme ad assumere una conformazione più planare.

Nei polmoni, dove la pressione parziale dell’ossigeno è molto alta, l’emoglobina deve legare efficacemente
questa molecola, ma dev’essere altrettanto efficacemente in grado di rilasciarla nei tessuti, dove la sua
pressione parziale è molto più bassa. L’emoglobina è per questo in grado di passare da uno stato a
bassa affinità per l’ossigeno (stato T) ad uno stato ad alta affinità per l’ossigeno (stato R): in
pratica, si comporta come una proteina in uno stato di transizione, perché non si comporta
specificamente come una proteina ad alta affinità, ma neanche come una proteina a bassa
affinità, potendo variare le sue proprietà. La mioglobina o qualsiasi proteina che leghi l’ossigeno con
andamento iperbolico funzionerebbe bene da serbatoio di questo gas, ma non come trasportatore. La
capacità di transizione da uno stato all’altro dell’emoglobina, dovuto a sua volta al fatto che essa sia
composta da più subunità ognuna capace di legare la molecola bersaglio fa si che la curva di legame con
l’ossigeno abbia un andamento sinusoide.

L’emoglobina è una proteina allosterica, ossia una proteina in cui il legame di un ligando ad un sito
modifica le proprietà di un altro sito nella stessa molecola. Le proteine allosteriche possono avere forme o
conformazioni differenti, indotte dal legame di ligandi chiamati modulatori, che possono avere effetti
attivatori o inibitori. Quando il normale ligando è anche un modulatore della proteina allosterica,
l’interazione è omotipica: si tratta dell’interazione dell’ossigeno con l’emoglobina. Se invece il modulatore è
una molecola diversa dal ligando normale, l’interazione è eterotipica.

L’organismo produce normalmente una molecola chiamata 2,3-Bifosfoglicerato (BPG), un inibitore


allosterico eterotipico delle subunità beta dell’emoglobina. Il BPG si lega in un sito distante da
quello dell’ossigeno e regola l’affinità di legame per l’ossigeno in base alla pressione parziale dell’ossigeno
nei polmoni. La sintesi di questa molecola viene indotta quando si abbassa la disponibilità di ossigeno,
ergo la sua pressione parziale si abbassa. A livello del mare abbiamo una sintesi endogena del BPG ad
una certa intensità, ma se una persona venisse portata in montagna, dove la pressione parziale
dell’ossigeno nei polmoni è molto più bassa, accade che nel corso delle successive ore la produzione di
BPG aumenta, esso si lega all’emoglobina e viene ridotta la sua affinità per l’ossigeno, cosicché il rilascio di
ossigeno, all’inizio ridotto dalla diversa pressione parziale del gas ritorni a valori normali. In sostanza
l’emoglobina viene “adattata” a diverse disponibilità di ossigeno. La concentrazione di BPG aumenta
anche nei soggetti che soffrono di ipossia, per minore ossigenazione dei tessuti periferici.

Tra i distretti del corpo e i polmoni vi sono piccole variazioni di pH per l’idratazione dell’anidride carbonica
nel torrente circolatorio, a cui l’emoglobina è sensibile per la sua natura proteica. Dunque
l’emoglobina deve adattarsi anche a queste variazioni. A livello polmonare, in cui il pH del sangue è più
alto l’emoglobina presenta un’alta affinità di legame, mentre nei tessuti, dove il pH del sangue è
più basso per la ridotta presenza di ossigeno e l’alta presenza di anidride carbonica l’affinità
dell’emoglobina per l’ossigeno diminuisce. Questo effetto del pH e delle concentrazioni di CO2 ed
ossigeno sull’emoglobina assume il nome di effetto Bohr.

La mioglobina e l’emoglobina derivano da un precursore comune detta leghemoglobina. Durante


l’evoluzione poi mioglobina ed emoglobina hanno subito modifiche strutturali, motivo per cui l’emoglobina
ha assunto funzione di trasporto, mentre la mioglobina, data la sua scarsa versatilità nel trasporto
dell’ossigeno ha assunto funzione di accumulo di questo gas. Tra mioglobina ed emoglobina, a dimostrare
la loro origine comune, sono presenti 27 sequenze identiche fra loro, intercalate a sequenze differenti
che giustificano invece la loro diversità. Inoltre sia la mioglobina che le subunità dell’emoglobina sono
proteine globiniche.
Le emoglobine normalmente presenti nel sangue sono rappresentate dall’emoglobina α2β2 o HbA, che
rappresenta circa il 97% dell’emoglobina circolante, dall’emoglobina α2δ2 o HbA2, che rappresenta
invece circa il 2% dell’emoglobina circolante, ma è più abbondante nei soggetti beta talassemici.
L’emoglobina fetale α2γ2 è presente in minima percentuale negli eritrociti adulti (1%), ma la sua
sintesi viene indotta con farmaci nei soggetti beta talassemici, per aumentare il trasporto di ossigeno da
parte del sangue. La subunità gamma viene principalmente prodotta a livello fetale, ma verso la fine della
gravidanza comincia ad essere prodotta al suo posto la subunità beta, caratteristica dell’emoglobina
adulta, e progressivamente scende la quantità di subunità gamma prodotta, pur non fermandosi del tutto
la sintesi anche in età adulta.

Il motivo per cui viene sintetizzata durante la vita fetale un emoglobina diversa da quella adulta è che
questa, avendo una maggiore affinità per l’ossigeno rispetto a quella adulta, consente al
sangue fetale di sequestrare più facilmente l’ossigeno dal sangue materno a livello della
placenta. Questo può portare a stati di asma o apnea nella madre. La subunità gamma è più efficiente
nel catturare l’ossigeno anche perché non subisce l’effetto dell’inibitore allosterico eterotipico BPG,
contrariamente alla subunità beta. Per cui l’emoglobina fetale si comporta come una proteina ad alta
affinità.

L’emoglobina trasporta, oltre all’ossigeno, anidride carbonica e idrogenioni. Di tutta la CO2


prodotta durante il metabolismo ossidativo il 7% viene disciolta nel plasma; il 70% viene idratata
producendo idrogenioni e ioni bicarbonato grazie all’anidrasi carbonica; il 23% è legata
all’emoglobina. Gli idrogenioni sono trasportati al 40% dall’emoglobina, mentre la parte restante
è assorbita dal tampone acido carbonico/ione bicarbonato. L’affinità dell’emoglobina per l’anidride
carbonica risulta massima nei tessuti periferici, mentre diminuisce quella per l’ossigeno, perchè il pH é più
basso e la concentrazione dell’anidride carbonica più alta; viceversa nei polmoni l’affinità per l’ossigeno
aumenta e quella per la CO2 diminuisce, oltre ad aumentare il pH. L’effetto del pH e della concentrazione
dei soluti sull’emoglobina è detto effetto Bohr. Consideriamo inoltre che il gruppo dell’anidride
carbonica si lega senza uno specifico angolo di legame all’emoglobina, al contrario
dell’ossigeno.

Il monossido di carbonio è un gas incolore e inodore che si lega allo stesso sito di legame dell’ossigeno
sull’emoglobina e ha un’affinità 250 volte più elevata rispetto ad esso. Il complesso CO-emoglobina
é detto carbossiemoglobina. La carbossiemoglobina lega molto bene l’ossigeno nei polmoni ma
lo rilascia molto poco efficacemente a livello dei tessuti; la mancanza di ossigeno nei tessuti
diventa rapidamente grave, ed essendo la CO molto più affine dell’ossigeno all’emoglobina, una volta
legata non viene più rilasciata. Tra l’altro la CO interagisce anche con altre proteine con gruppo eme e
metalloproteine.
Gli enzimi sono una particolare classe di molecole specializzata nella catalisi delle reazioni, dove per
catalisi si intende il fenomeno attraverso il quale una reazione chimica subisce variazioni per l’intervento
di una sostanza, detta catalizzatore, che non viene consumata dal procedere della reazione stessa. Gli
enzimi, a eccezione di un piccolo gruppo di molecole di RNA catalitico, sono tutte proteine, la cui attività
dipende dall’integrità della loro conformazione nativa. Gli enzimi aumentano la velocità delle reazioni
biologiche perché possiedono elevato potere catalitico, ossia un’alta capacità di abbassare l’energia
di attivazione delle reazioni; hanno elevata specificità per il substrato; si presentano regolabili, grazie
a specifici siti di regolazione per certe molecole.

Alcuni enzimi per funzionare non hanno bisogno di nient’altro che delle catene laterali degli amminoacidi
di cui sono composti, mentre altri hanno bisogno di componenti chimiche addizionali detti cofattori.
Questi possono essere rappresentati da cationi metallici, mentre in altri casi si tratta di complesse
molecole organiche dette coenzimi, che agiscono da trasportatori transitori di gruppi funzionali; la
maggior parte dei coenzimi deriva da vitamine. Alcuni enzimi per poter funzionare correttamente hanno
bisogno sia di un coenzima sia di ioni metallici. Un coenzima o ione metallico legato covalentemente
all’enzima è chiamato gruppo prostetico. L’insieme di un’enzima, dei suoi coenzimi e ioni metallici che
lavorano assieme è detto oloenzima, mentre la parte proteica prende il nome di apoenzima.

I gruppi funzionali catalitici dell’enzima interagiscono con i substrati: si forma quindi un complesso
enzima-substrato. Gli enzimi abbassano l’energia di attivazione della reazione, ossia la quantità minima
di energia necessaria affinché la reazione possa avvenire, consentendo la conservazione di una certa
quantità di energia del sistema. Gli enzimi sono però in grado di non alterare l’equilibrio delle reazioni:
infatti semplicemente riducono il tempo necessario per raggiungere l’equilibrio.

Gli enzimi possono essere catalogati in diverse classi. I loro nomi derivano da quello dei loro substrati o
da una parola, o frase che descrive la loro attività, a cui viene aggiunto il suffisso -asi. Per esempio, per
quanto riguarda la conversione del glucosio in glucosio-6-fosfato, l’enzima che catalizza tale reazione è
chiamato ATP-glucosio-fosfotrasferasi: esso prende il nome sia dal suo substrato che dal cofattore
enzimatico, ma presenta anche un nome comune, ossia esochinasi. Gli enzimi vengono classificati
anche grazie a delle sequenze numeriche, che rappresentano il Numero di commissione dell’enzima:
nel caso dell’esochinasi questa sequenza è 2.7.1.1. Il primo numero indica la classe dell’enzima
(trasferasi); il secondo numero indica la sottoclasse (fosfotrasferasi); il terzo numero indica
l’accettore dell’enzima (il gruppo ossidrile); l’ultimo numero indica la molecola accettore del fosfato
(glucosio). Questa numerazione, per quanto risulti apparentemente più complessa rispetto al nome
comune, in realtà permette di capire facilmente di che tipologia di enzima si stia parlando.
La catalisi enzimatica delle reazioni è un processo essenziale per gli organismi viventi: infatti in
condizioni biologiche le reazioni non catalizzate risultano essere troppo lente: sia perché nelle condizioni
cellulari la maggior parte delle molecole è abbastanza stabile, sia perché spesso le reazioni biochimiche
risultano dei processi che avverrebbero spontaneamente in maniera improbabile. La funzione catalitica di
un’enzima dipende dal fatto che questo è dotato di siti specifici che gli permettono di interagire con il
substrato, detti siti attivi. La superficie di un sito attivo è dotata di amminoacidi i cui gruppi funzionali si
legano al substrato e catalizzano la reazione chimica. Quando si pensa all’interazione enzima/substrato
potremmo impiegare impropriamente un principio “chiave-serratura”: per poter interagire, enzima e
substrato devono risultare perfettamente affini. Diciamo “impropriamente” perché quest’idea è stata
poi superata con altre osservazioni, che hanno messo in evidenza il fatto che il meccanismo di catalisi
enzimatica visto in questo modo non risulti appropriato. Per esempio molti enzimi sono dotati di tasche
idrofobiche che favoriscono l’interazione con il substrato, evitando eventuali interazioni idrofiliche che
potrebbero rendere più complessa quest’interazione.

Una semplice reazione enzimatica può essere scritta:

E+S——>Es——>EP——>E+P

Dove E, S e P rappresentano rispettivamente l’enzima, il substrato e il prodotto. ES ed EP


rappresentano i complessi transitori dell’enzima/substrato ed enzima/prodotto. Per comprendere i
meccanismi di catalisi dobbiamo distinguere tra equilibrio chimico e velocità di reazione. L’obiettivo di
un’enzima è quello di aumentare la velocità di reazione. Un catalizzatore è in grado di aumentare la
velocità di una reazione senza però modificarne l’equilibrio, che è la condizione in cui non ci sono
variazioni nette nella concentrazione dei reagenti e nei prodotti. Qualunque reazione, come S<——
>P, può essere descritta dal grafico di coordinata della reazione, che analizza le variazioni energetiche
che avvengono nel corso della reazione. Nel grafico della coordinata, l’energia libera di un sistema viene
analizzata in funzione del procedere della reazione. Il punto di partenza di una reazione in un senso o in
quello opposto è definito stato basale, e corrisponde al contributo di energia libera fornito al sistema da
una molecola in ben definite condizioni.
L’equilibrio tra Substrato e Prodotto dipende dalla differenza tra i livelli di energia libera dei due composti
nei loro stati basali. Supponiamo che l’energia libera nello stato basale di P sia inferiore rispetto ad S; in tal
caso la variazione di energia libera standard nella reazione diretta è negativa, e all’equilibrio c’è più P
rispetto ad S; la reazione si dice esoergonica, cioè spontanea; ma questo non significa che la reazione
avvenga rapidamente. Un catalizzatore aumenterebbe la velocità della reazione, ma non ne modificherebbe
l’equilibrio.

La velocità della reazione, escludendo l’intervento di un catalizzatore, dipende dalla barriera energetica
tra S e P, che corrisponde all’energia libera necessaria che serve a produrre le trasformazioni che
permettono alla reazione di muoversi in un verso o nell’altro. Perché la reazione possa avvenire le molecole
devono superare questa barriera e raggiungere un livello energetico più alto di quello basale. Questo punto
viene definito stato di transizione: corrisponde alla vetta della curva del grafico della coordinata di
reazione, e la molecola, che non è una specie chimica con stabilità significativa, ha la stessa possibilità
di decadere verso S o verso P. La differenza tra i livelli di energia dello stato basale e dello stato di
transizione è detto energia di attivazione. La velocità di reazione dipende proprio dall’energia di
attivazione: più questa è alta più la reazione sarà lenta, e viceversa. Il catalizzatore, ossia l’enzima,
aumenta la velocità di reazione proprio abbassando l’energia di attivazione. L’enzima non viene
consumato nel processo e l’equilibrio resta inalterato. La reazione, in presenza dell’enzima,
raggiunge però l’equilibrio molto più rapidamente, perchè la velocità è molto maggiore rispetto al normale.
Ogni reazione è costituita da diverse tappe, in cui si ha la formazione e la scomparsa di specie chimiche
chiamate intermedi di reazione, ossia una qualunque specie chimica che si forma durante una reazione e
che ha un tempo di vita finito ed estremamente breve. Quando in una reazione sono presenti più tappe, la
velocità complessiva di una reazione dipende dalla tappa con l’energia di attivazione più elevata,
chiamata tappa limitante, che corrisponde al punto più alto della curva nel grafico che descrive la
conversione di S in P.

Gli equilibri delle reazioni sono strettamente correlati alla variazione di energia libera standard della
reazione stessa, ossia ΔG; la velocità è invece correlata all’energia di attivazione. Un equilibrio come S<
——>P è descritto dalla sua costante di equilibrio, Keq, o semplicemente K. La costante di equilibrio è
uguale al rapporto tra la concentrazione dei prodotti e dei substrati. La relazione tra ΔG e la Keq
mette in evidenza come siano direttamente proporzionali fra loro: un ΔG negativo riflette un equilibrio di
reazione molto favorevole, cioè per cui la concentrazione del prodotto è molto maggiore a quella del
substrato, ma non ci dice niente sulla velocità: questa dipende dal prodotto delle concentrazioni dei
substrati con K, una costante di probabilità.

Gli enzimi funzionano in maniera estremamente sensibile, e per questo sono attivi in piccolissime
quantità, e non vengono consumati durante la reazione. Infatti essi non solo sono dotati di alta
specificità di interazione riuscendo a distinguere molecole che si assomigliano moltissimo, ma sono anche
in grado di compiere cambiamenti conformazionali per liberare i prodotti dal sito attivo e rendere
quest’ultimo nuovamente disponibile per un nuovo substrato. Com’è possibile spiegare l’enorme aumento
di velocità che viene introdotto dagli enzimi? La prima motivazione risiede nel riarrangiamento di legami
covalenti durante la catalisi enzimatica: le interazioni covalenti tra enzimi e substrato (che si
stabiliscono in particolare a livello delle catene laterali amminoacidiche, ioni metallici e coenzimi) sono in
grado di abbassare l’energia di attivazione generando una via alternativa a bassa energia per la reazione.
In secondo luogo, l’aumento di velocità dipende dalle interazioni non covalenti che si instaurano tra
substrato ed enzima: molta dell’energia che serve per abbassare l’energia di attivazione deriva dalle
interazioni deboli e non covalenti tra substrato ed enzima. La formazione di ogni interazione debole,
che stabilizza il complesso ES, è accompagnata dal rilascio di una piccola quantità di energia:
l’energia rilasciata dalle interazioni enzima-substrato è chiamata energia di legame, e questa rappresenta
la principale via attraverso cui l’enzima abbassa l’energia di attivazione.

Quindi: il potere catalitico degli enzimi dipende essenzialmente da legami forti e interazioni deboli che si
stabiliscono tra substrato ed enzima, e che definiscono la specificità di quest’ultimo; le interazioni deboli si
stabiliscono tra enzima e substrato soprattutto a livello dello stato di transizione.
In che modo l’enzima utilizza l’energia di legame per abbassare l’energia di attivazione di una reazione?
Affinchè gli enzimi possano agire in maniera efficace essi devono interagire in maniera specifica con il loro
substrato. I primi studi condotti sulla specificità enzimatica da Emil Fischer gli consentirono di ipotizzare
che gli enzimi fossero strutturalmente complementari al loro substrato e che quindi essi si adattassero
perfettamente l’uno all’altro come una chiave e una serratura: nonostante si tratti di una spiegazione
attendibile per molti processi biochimici, potrebbe risultare non corretta se applicata alla catalisi
enzimatica. Supponiamo di voler rompere una barretta di metallo, e che poter fare ciò sia necessario
raggiungere uno stato di transizione, cioè “piegare la barretta”. Per fare ciò abbiamo a disposizione due
“enzimi”, di cui il primo ha la sua “tasca catalitica” rivestita da magneti e perfettamente complementare
alla barretta di metallo da piegare. La barretta di metallo si adatta cosi bene all’enzima che viene
addirittura stabilizzata, e la reazione non è favorita, ma sfavorita. Un enzima di questo tipo
impedirebbe di fatto che avvenga la reazione, in quanto si ha una stabilizzazione del substrato;
risulterebbe quindi assolutamente inutile.

Per poter svolgere al meglio la propria funzione di catalizzatore, l’enzima in realtà dev’essere quanto
più affine possibile non al substrato in sé, ma allo stato di transizione della reazione. Ciò significa
che le interazioni enzima-substrato diventano ottimali solo quando quest’ultimo raggiunge lo stato di
transizione.
Il secondo enzima a disposizione per piegare la barretta di metallo interagisce con questa, ma solo
attraverso poche interazioni magnetiche; il substrato deve andare incontro ad un aumento della sua
energia libera per raggiungere lo stato di transizione; questo aumento viene “pagato” dalle nuove
interazioni che si stabiliscono tra enzima e substrato quando la barretta raggiunge uno stato prossimo alla
rottura.

L’energia fornita dalle interazioni deboli che si stabiliscono soprattutto tra enzima e stato di transizione
permettono un rilascio di energia libera che contribilancia almeno in parte l’energia necessaria per
raggiungere lo stato di transizione: la somma dell’energia di attivazione e dell’energia di legame porta ad
un abbassamento netto dell’energia di legame. In summa, le interazioni deboli tra enzima e substrato
rappresentano la principale forza che traina la catalisi. L’interazione e la specificità di legame nella
catalisi enzimatica non dev’essere quindi intesa come legame forte, ma piuttosto come l’insieme di una
serie di legami deboli che porta ad un rilascio di energia. La necessità di numerose interazioni deboli è una
delle ragioni per cui gli enzimi risultano cosi grandi. L’enzima deve fornire gruppi funzionali per le
interazioni ioniche o di altro tipo e i legami idrogeno, e inoltre deve stabilire la loro giusta posizione, in
modo che l’energia diventi ottimale durante lo stato di transizione. L’inserimento corretto viene raggiunto
grazie al posizionamento del substrato in una cavità (sito attivo) dove questo è allontanato dall’acqua.

L’energia di legame, oltre ad essere la principale responsabile dell’enorme accelerazione della velocità delle
reazioni prodotta dagli enzimi determina anche la specificità dell’enzima. Se il sito attivo di un enzima
possiede gruppi funzionali disposti in modo da formare diverse interazioni ottimali con un dato substrato,
l’enzima non sarà in grado di interagire altrettanto bene con un’altra molecola. I fattori fisici e
termodinamici di una reazione che contribuiscono a determinare l’energia libera, che rallenta la reazione,
sono: l’entropia delle molecole in soluzione che si oppone all’interazione delle stesse l’una con l’altra;
le molecole d’acqua che per il fenomeno della solvatazione con legami idrogeno circondano e
stabilizzano le biomolecole in soluzione; distorsione del substrato; la necessità di garantire un
corretto allineamento tra i gruppi funzionali dell’enzima. La notevole riduzione dei moti relativi dei
due substrati che devono reagire, ossia la riduzione entropica, è uno degli aspetti vantaggiosi dei
legami dei substrati con l’enzima. L’energia di legame mantiene i substrati nella posizione e
orientamento corretti, grazie alle numerose interazioni deboli tra substrato ed enzima; la formazione dei
legami deboli tra enzima e substrato consente la desolvatazione di quest’ultimo; l’energia di legame dovuta
alle interazioni substrato-enzima permette di compensare termodinamicamente qualunque distorsione del
substrato; infine, quando un enzima lega il substrato, può andare incontro a modificazioni conformazionali
che interessano una piccola porzione dell’enzima o un intero dominio. Tale fenomeno è chiamato
adattamento indotto. Esso permette di stabilire ulteriori interazioni deboli, e quindi aumenta il potere
catalitico dell’enzima. Una volta che il substrato si è legato, un’enzima può utilizzare diversi tipi di
catalisi per facilitare la rottura o la formazione di un legame. Tra i meccanismi più comuni vi sono la
catalisi acido-base, la catalisi covalente e la catalisi da ioni metallici.
Uno dei fattori chiave che modificano la velocità di una reazione catalizzata da un enzima è la
concentrazione del substrato. La concentrazione del substrato però varia nel corso della reazione,
man mano che il substrato viene convertito in prodotto. Per eliminare questo problema si può valutare la
velocità iniziale. A concentrazioni basse di substrato, la velocita iniziale aumenta in maniera
lineare con l’aumento della concentrazione del substrato. Man mano che la concentrazione
aumenta, l’aumento della velocità iniziale sarà sempre più ridotto, fino a che non si raggiunge
una velocità massima. Il complesso enzima-substrato è la chiave di comprensione della cinetica
enzimatica. Secondo Michaelis e Menten l’enzima si combina in maniera reversibile con il substrato,
formando il complesso ES in una tappa relativamente veloce e reversibile; Il complesso ES si decompone
poi in una seconda tappa più lenta, che produce enzima libero E e il prodotto della reazione P. In qualsiasi
istante di una reazione catalizzata da un’enzima questo è presente in due forme, quella libera e quella
combinata con il substrato. Quando la concentrazione del substrato è bassa, la maggior parte
dell’enzima è nella forma libera. La velocità è proporzionale alla concentrazione del substrato.
Le velocità iniziale massima della reazione catalizzata si osserva quando praticamente tutto
l’enzima è presente legato al substrato. La reazione raggiunge rapidamente lo stadio stazionario,
in cui la concentrazione del complesso enzima-substrato rimane costante. Il complesso ES si decompone
poi in una seconda tappa più lenta, che produce enzima libero E e il prodotto della reazione P. La seconda
fase della reazione limita la velocità della reazione complessiva, che quindi è proporzionale alla
concentrazione delle specie chimiche che reagiscono nella seconda tappa, cioè E ed S.

In qualunque istante della reazione l’enzima è presente in due forme, quella libera E e quella legata al
substrato, ES. quando la concentrazione del substrato è bassa la maggior parte dell’enzima sarà nella
forma libera E. Quindi la velocità è proporzionale alla concentrazione del substrato dal momento che,
aumentando questa concentrazione, viene favorita la formazione del complesso ES. La velocità iniziale
massima viene raggiunta quando la concentrazione di E libero è trascurabile e praticamente
tutto l’enzima si trova nella forma legata al substrato. In questa condizione l’enzima è “saturato”
dal substrato e ulteriori aggiunte di questo non avranno effetti sulla reazione. Questa condizione si può
ottenere semplicemente avendo concentrazioni di substrato sufficienti a mantenere sempre impegnato
l’enzima. Quando l’enzima viene mescolato con un grande eccesso di substrato, vi è un periodo iniziale,
chiamato stato pre-stazionario, durante il quale avviene la formazione del complesso ES. La reazione
raggiunge rapidamente lo stadio stazionario in cui [ES] rimane sostanzialmente costante. Una volta che lo
stato pre-stazionario viene superato, viene generato P alla stessa velocità con la quale si consuma S solo
se la concentrazione del complesso ES rimane costante.
La curva che esprime la relazione tra [S] (concentrazione del substrato) e V0 (velocità iniziale) ha lo
stesso andamento per la maggior parte degli enzimi ed è espressa algebricamente dall’equazione di
Michaelis-Menten. L’equazione si basa sull’ipotesi che la tappa limitante di una reazione sia la
demolizione del complesso enzima-substrato per formare l’enzima libero e il prodotto:

Si tratta dell’equazione della velocità di una reazione a singolo substrato catalizzata da un


enzima. Esprime la relazione quantitativa tra la velocità iniziale, la velocità massima e la
concentrazione iniziale del substrato, termini tra loro correlati dalla costante di Michaelis. La
costante di Michaelis-Menten o Km può essere definita come la concentrazione di substrato a cui V0
è pari alla metà della velocità massima. L’equazione descrive il comportamento di molti enzimi: in
particolare, tutti gli enzimi che presentano una relazione iperbolica tra la velocità della reazione catalizzata
e la concentrazione del substrato seguono la cinetica di Michaelis-Menten. Tuttavia, molti enzimi che
seguono la cinetica di Michaelis-Menten presentano il comportamento tipico dello stato stazionario.

L’equazione di Michaelis-Menten può essere trasformata algebricamente in una forma più utile per
analizzare i dati sperimentali. Una delle trasformazioni più comuni è ricavata facendo il reciproco di
entrambi i termini dell’equazione. Separando i termini del numeratore nel termine di destra e
semplificando otteniamo l’equazione di Lineweaver-Burk. Per gli enzimi che obbediscono alla
relazione di Michaelis-Menten, mettendo nel grafico il valore del reciproco della velocità iniziale in funzione
del reciproco della concentrazione del substrato otteniamo una retta. Questo grafico, detto “dei doppi
reciproci” ha il vantaggio di consentire un’accurata determinazione della velocità massima.

Il valore di Km può variare notevolmente da un enzima all’altro e anche per substrati diversi
dello stesso enzima. Talvolta Km viene utilizzata come indicatore dell’affinità dell’enzima per il suo
substrato, ma questo non è sempre vero. Abbiamo anche detto che la velocità massima cambia
notevolmente da un enzima all’altro. Quando un enzima catalizza una reazione a diverse tappe, è
necessario introdurre Kcat, che descrive la tappa limitante di una reazione catalizzata da un enzima in
condizioni di saturazione, definita anche numero di Turnover: equivale al numero di molecole di
substrato che vengono convertite in prodotto nell’unità di tempo da parte di una singola
molecola enzimatica quando l’enzima è saturo con il substrato. Maggiore è il potere catalitico
maggiore è la capacità di liberare il substrato rapidamente. L’ATP presenta un numero di turnover molto
alto, permettendo di liberare subito l’enzima e questo spiega perchè è la molecola energetica preferita dal
nostro organismo. I parametri cinetici sono spesso utilizzati per lo studio e il confronto di enzimi diversi,
indipendentemente dalla complessità del loro meccanismo di reazione, ma anche per valutare l’efficienza
catalitica degli enzimi. Il modo migliore per confrontare l’efficienza catalitica degli enzimi è attraverso il
rapporto tra il numero di Turnover e la costante di Michaelis, ossia la costante di specificità.
Molti enzimi (circa 2/3) catalizzano reazioni a due o più substrati: Prendiamo in considerazione
l’enzima esochinasi, presente in tutte le cellule dell’organismo. Per esempio, nella reazione catalizzata
dall’esochinasi l’ATP e il glucosio sono i substrati mentre l’ADP e il glucosio 6-fosfato sono i prodotti: un
gruppo fosforico viene trasferito dall’ATP al glucosio. L’esochinasi presenta una specifica Km per ognuno dei
suoi substrati.
Se l’organismo si trova in una condizione di digiuno, la concentrazione di glucosio nel sangue si riduce, ma
le cellule devono continuare a svolgere il proprio lavoro. Per questo, gli enzimi devono poter lavorare a
concentrazioni molto basse del substrato. A livello epatico però l’esochinasi è presente come isoforma
con una costante di Michaelis più alta, perché il fegato è il primo organo che percepisce le variazioni di
glucosio nel sangue. Essendo un organo centrale nella distribuzione dei nutrienti, il fegato mantiene le
proprie funzioni di base ma le sue attività superiori vengono attivate solo in certe situazioni. Qual è l’effetto
fisiologico della variazione dei valori di Km di un enzima? Negli individui di etnia cinese, l’alcol deidrogenasi,
che converte l’etanolo in acetaldeide ha subito una mutazione a livello di un solo amminoacido, la lisina,
che è stata sostituita con il glutammato. Dunque l’alcol deidrogenasi ha un’efficienza molto più bassa, dato
che la Km per il NAD è aumentata da 30 a 7000 micromolare. Questo spiega perché gli individui di etnia
cinese giungono molto facilmente ad una condizione di intossicazione acuta da etanolo (in parole povere, si
ubriacano molto facilmente).
L’attività degli enzimi può essere regolata finemente. Essa può essere rappresentata da regolazione di tipo
allosterico, covalente reversibile, covalente irreversibile, o da sintesi e degradazione dell’enzima.
Inoltre si consideri che tutti gli enzimi presentano un pH ottimale a cui la loro attività è massima; a
valori di pH più alti o più bassi l’attività enzimatica tende a diminuire: e questo non sorprende, dato che le
catene laterali degli amminoacidi possono fungere da acidi o basi deboli solo se mantengono uno specifico
grado di ionizzazione.

Gli enzimi possono essere soggetti a inibizione reversibile o irreversibile. Gli inibitori enzimatici sono
molecole che interferiscono con la catalisi, rallentando o bloccando le reazioni enzimatiche. Non sorprende
quindi che gli inibitori enzimatici siano tra i più importanti farmaci conosciuti: si pensi all’aspirina, che
blocca la sintesi delle prostaglandine.

Una tipologia comune di inibizione reversibile è detta inibizione competitiva. Un inibitore competitivo
compete con il substrato per il sito attivo dell’enzima. Occupando il sito attivo, l’inibitore impedisce al
substrato di legarsi all’enzima, e quindi impedisce la catalisi enzimatica. Solitamente gli inibitori competitivi
sono strutturalmente simili al substrato. L’inibitore competitivo però non inattiva l’enzima, e quando
si dissocia da quest’ultimo il substrato può nuovamente legarsi e reagire. La competizione può essere
superata semplicemente aumentando la concentrazione del substrato, perchè in questo modo la
probabilità che l’inibitore si leghi all’enzima a scapito del substrato è più bassa. Vi sono altri due tipi di
inibizione reversibile, rappresentati dall’inibizione non competitiva e da quella mista. Nell’inibizione non
competitiva l’inibitore si lega all’enzima in una porzione diversa dal sito attivo, e solo al complesso
enzima-substrato. Anche un inibitore misto si lega all’enzima su un sito diverso da quello attivo, ma
può legarsi sia all’enzima sia al complesso enzima-substrato. Queste ultime due forme di inibizione
reversibile si osservano solo per enzimi con due o più substrati.

Gli inibitori irreversibili si legano covalentemente all’enzima, eliminando cosi gruppi funzionali
essenziali per l’attività dello stesso, o formano associazioni non covalenti molto stabili. Una classe speciale
di inibitori irreversibili sono gli inattivatori suicidi. Questi sono abbastanza stabili finché non si legano
all’enzima. Quindi l’inattivatore suicida va incontro ad una serie di trasformazioni chimiche che fanno parte
della normale attività dell’enzima, ma che producono un composto molto reattivo che si lega
irreversibilmente con l’enzima. Un inibitore irreversibile non ha bisogno di legarsi covalentemente con
l’enzima: le interazioni non covalenti sono sufficienti se l’inibitore si dissocierà molto
difficilmente dall’enzima.

Supponiamo ora di avere, per esempio, una struttura quaternaria enzimatica. Questa può presentare un
sito di legame per il substrato e un sito di legame di regolazione. Attraverso il legame con un modulatore
allosterico nel sito di regolazione si verifica un cambiamento conformazionale che porta alla modificazione
della porzione di regolazione, e conseguentemente della regione che costituisce il sito attivo per il
substrato. Il regolatore allosterico dell’enzima può essere diverso dal ligando dell’enzima, e in
questo caso si dice che è eterotipico, oppure può essere lo stesso ligando a fare da modulatore
allosterico, e si dice quindi omotipico. Per esempio, per poter giungere dalla treonina all’isoleucina, il
regolatore degli enzimi che coinvolgono questa catena di reazione è l’isoleucina stessa. Solitamente la
regolazione allosterica avviene a livello del primo o secondo passaggio della cascata di reazioni
che portano ad un certo prodotto, sia per evitare di sprecare energia, sia per evitare di formare
intermedi di reazione che non servirebbero poi all’organismo.

La presenza di un modulatore allosterico positivo permette alla reazione di avvenire ancor più
efficientemente, mentre nel caso in cui venga messa in atto una regolazione allosterica negativa l’enzima
avrà bisogno di grandi quantità di substrato per poter funzionare correttamente.
La regolazione dell’attività enzimatica può avvenire talvolta per formazione di un legame covalente, e ciò
comporta la modifica temporanea della struttura proteica dell’enzima. Un esempio di regolazione
covalente è quello della fosforilazione del glucosio, in cui l’ATP si lega covalentemente al glucosio mediante
il gruppo fosfato per poterlo poi trasferire al glucosio. Molto spesso l’attività degli enzimi è attivata
per fosforilazione e disattivata per defosforilazione, o viceversa. Questo tipo di regolazione è
covalente reversibile. Affinchè un’enzima venga fosforilato non soltanto deve avere un sito consenso per
la fosforilazione, ma è necessario anche che questo sito consenso sia rivolto verso l’esterno.

Un altro tipo di regolazione è quello mediante proteolisi. Un esempio è rappresentato dalla conversione
del chimotripsinigeno in tripsina. Questo è possibile mediante un altro enzima, l’enteropeptidasi,
che effettua una serie di tagli enzimatici per arrivare alla forma finale della proteina enzimatica. Un altro
esempio di attivazione a cascata mediante proteolisi è quello che permette di attivare la protrombina; o
ancora le reazioni che portano all’attivazione dell’insulina.
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REGOLAZIONE DELL’ATTIVITÀ ENZIMATICA


Gli enzimi sono i catalizzatori delle reazioni biochimiche, vale a dire molecole proteiche in grado di accelerare
reazioni biochimiche, esistono catalizzatori di diversa natura come quelli inorganici utilizzati nella sintesi
inorganica.

Le differenze tra enzimi e catalizzatori inorganici:

-elevato potere catalitico: l'enzima è in grado di accelerare una reazione biochimica molto più velocemente
di quanto possa fare un catalizzatore inorganico

-alto grado di specificità

-se il prodotto di una reazione è un metabolita otticamente attivo, è possibile ottenere generalmente diverse
conformazioni, ad esempio stereoisomi D o L, mentre l'enzima è in grado di produrre uno stereoisomero D o
L, un catalizzatore inorganico produrrà una miscela racemica (50% D e 50% L)

-condizioni di lavoro: un catalizzatore inorganico necessita elevate temperature mentre l'enzima opera a
temperature piuttosto blande

Gli enzimi possono presentare anche natura diversa da quella proteica, fanno eccezione per le molecole a
RNA (proteine e acido nucleico).

Molte volte, per funzionare, gli enzimi hanno bisogno di cofattori o coenzimi.

I cofattori sono molecole inorganiche, ad esempio gli ioni metallici, mentre i coenzimi sono molecole
organiche come NAD e FAD. L'enzima insieme al suo coenzima o cofattore, costituisce l'oloenzima, costituito
dall'apoenzima che è la parte proteica e il gruppo prostetico che può essere il coenzima o il cofattore.

‡ = Stato di transizione: momento della reazione corrispondente al punto più alto della campana, in questo
momento la reazione può procedere verso la formazione dei prodotti o verso la ri-formazione dei substrati.

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ΔG‡ = Differenza di energia libera tra lo stato basale dei substrati e lo stato di transizione, rappresenta
l’energia di attivazione.

G = energia libera di Gibbs, asse y.

Coordinata di reazione = asse x.

Una reazione volta a trasformare un certo quantitativo di substrato in prodotto, deve superare una barriera
energetica, cioè l'energia di attivazione, che ha il suo massimo nel punto della campana chiamato stato di
transizione, successivamente si può procedere verso la formazione dei prodotti o retrocedere a formare il
substrato. L'enzima abbassa l'energia di attivazione della reazione aumentando la velocità di reazione.

1.COME LAVORANO GLI ENZIMI

L'enzima (E) si combina col substrato (S), a formare il complesso ES, enzima-substrato, il quale evolverà nel
complesso EP, enzima-prodotto, nell'ultimo step avverrà il rilascio del prodotto (P) cosicché l'enzima (E)
ritorni nella sua forma iniziale.

L'enzima non si consuma e può essere riutilizzato, a differenza del catalizzatore inorganico che si consuma.

Gli intermedi di reazione sono il complesso enzima-substrato ed il complesso enzima-prodotto, la variazione


di energia libera della reazione catalizzata (in azzurro nel grafico) è notevolmente inferiore rispetto alla
variazione di energia libera della reazione non catalizzata (in nero nel grafico). L'asterisco ‡ rappresenta il
nuovo stato di transizione. I complessi ES e EP non sono isolabili in alcun modo strumentale, si può solo
isolare l'enzima o il prodotto nella forma libera.

Sebbene gli enzimi riescano a ridurre l'energia della reazione, essi non spostano gli equilibri. L'energia libera
dei substrati è maggiore di quella dei prodotti, quindi il ΔG di una reazione catalizzata o non catalizzata sarà
negativo. La reazione è spostata verso destra con formazione spontanea di prodotti e l'enzima aiuta la
reazione ad avvenire più velocemente, ad esempio nell'ossidazione del glucosio a piruvato (ΔG<0) sarebbero
necessari anni senza l'utilizzo di un enzima.

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Se invece l'energia libera dei substrati è minore di quella dei prodotti, il ΔG sarà positivo e la reazione spostata
verso sinistra, dunque non spontanea.

Gli enzimi riducono l'energia di attivazione grazie all’energia di legame; l'energia che l'enzima recupera
formando legami di natura debole (idrofobi, Van der Waals, idrogeno) o covalenti transitori, tali che l'energia
liberata dal legame col substrato sarà la stessa energia che l'enzima utilizza per abbassare l'energia di
attivazione.

1.1MECCANISMO DI ADATTAMENTO INDOTTO O MODELLO CHIAVE SERRATURA

In una reazione non catalizzata da un enzima, in cui bisogna piegare una bacchetta di metallo (substrato),
viene impressa della forza agli estremi della bacchetta per abbattere la barriera di energia di attivazione. Una
volta piegata, la barretta si rompe e dà i prodotti.

Il modello chiave-serratura prevede la massima complementarietà di un enzima col suo substrato, se


l'enzima fosse un involucro in cui il sito attivo è occupato da piccoli magneti, ci si aspetterebbe una massima
complementarietà.

Nel grafico (c) si può vedere che il complesso ES ha un'energia ancora più bassa di quella dei substrati iniziali,
dunque la soglia di energia di attivazione aumenta. E' impensabile che il modello chiave-serratura sia il
modello giusto a spiegare il funzionamento degli enzimi, perché produce un complesso ES altamente stabile
che necessiterebbe di energia ancora maggiore, proprio perché il complesso ES avrebbe una stabilità
maggiore rispetto a quella dei substrati.

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Il meccanismo di adattamento indotto prevede che la massima complementarietà ES non sia all'inizio, cioè
enzima-substrato sono perfettamente complementari, ma che essa si realizzi solo quando si forma il
complesso ES. All'inizio la bacchetta entra ma non è perfettamente complementare, quando invece essa si
piega formandosi lo stato di transizione, si forma il complesso ES e, al contempo, si raggiunge la massima
complementarietà.

Questo meccanismo prevede anche processi di recupero energetico che derivano dal processo di
desolvatazione del substrato; quando il substrato viene liberato dalle molecole di acqua, la rottura dei legami
a idrogeno diviene energia che l'enzima può utilizzare per abbassare l'energia di attivazione. Si ha anche una
riduzione trofica in quanto il substrato viene quasi immobilizzato nel sito attivo e un'ulteriore fonte di
recupero energetico per l'enzima.

Esempio di adattamento indotto:

Nell'immagine sovrastante è rappresentato l'adattamento indotto dell'enzima esochinasi, il cui substrato è il


glucosio e l'ATP. Nell'immagine a sinistra l'enzima in forma libera, il cui sito attivo ha forma di U, a destra
l'enzima ormai legato al sito attivo e dunque la U si richiude con massimo recupero energetico da parte
dell'esochinasi.

2.I TIPI DI CATALISI ADOPERATI DAGLI ENZIMI

Classificazione della catalisi enzimatica:

-catalisi acido-base: si verifica l’acquisto o la cessione di H+ da parte dei substrati per la rottura di un loro
legame utile alla trasformazione chimica e può essere:

- catalisi acido base specifica: quando è l’acqua a cedere protoni o acquistare H+ .

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- catalisi acido base generale: la più diffusa poiché sono i gruppi R del sito attivo dell’enzima a cedere
o acquistare protoni.

- catalisi covalente: si forma un legame covalente transitorio tra enzima e substrato. Soprattutto quando nel
sito attivo vi è un nucleofilo (specie con doppietto libero condivisibile a formare un nuovo legame).

- catalisi da ioni metallici: (ex esochinasi che richiede Mg, infatti il vero substrato non è l’ATP bensì ATP-Mg).

3.LA CINETICA ENZIMATICA

La cinetica enzimatica è lo studio della velocità con cui un enzima catalizza una reazione enzimatica.

Sulla sinistra, è rappresentata una reazione chimica non catalizzata in cui il substrato A viene trasformato in
B e la velocità di reazione avrà la dipendenza lineare. Sulla destra, la reazione enzimatica non segue la stessa
linearità, la sua velocità di reazione è rappresentata infatti da un'iperbole rettangolare.

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In una reazione biochimica catalizzata da un enzima sono distinguibili tre fasi:

1. Stato prestazionario: formazione del complesso ES

La concentrazione dell'enzima è sempre maggiore rispetto alla concentrazione del complesso ES, tuttavia nel
tempo la concentrazione dell'enzima diminuirà col conseguente aumento della concentrazione del
complesso ES.

2. Stato stazionario: concentrazione ES costante

3. Il substrato viene trasformato in prodotto e la concentrazione del complesso ES diminuisce nel tempo

L'andamento a iperbole rettangolare è dovuto allo stato stazionario e dalla velocità iniziale; velocità
misurata per quell'enzima nei primi istanti di reazione, in cui la concentrazione del substrato è ancora molto
grande rispetto a quella dell'enzima. Per basse concentrazioni di substrato, la velocità aumenta linearmente,
con andamento simile a una reazione non catalizzata da un enzima, ciò che differisce è l'appiattimento, la
saturazione in cui la velocità diviene costante, anche per infinite concentrazioni di substrato è dovuta alla
cinetica di saturazione o dello stato stazionario in cui i siti attivi delle molecole enzimatiche sono stati
completamente saturati dalle molecole del substrato e non vi è più enzima libero da poter accogliere altro
substrato.

3.1EQUAZIONE DI MICHAELIS E MENTEN

La cinetica enzimatica fu ben descritta da Michaelis e Menten che descrissero l'andamento di una reazione
enzimatica con un'equazione:

La prima reazione è reversibile (equilibrio dinamico) e abbastanza veloce, governata da K1 e K-1. Nella
seconda reazione, il complesso ES evolve in una reazione unidirezionale governata da K2, in cui si libera
l'enzima e si forma il prodotto, essa risulta molto lenta.

A governare la velocità globale della reazione è sempre la reazione più lenta.

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Vmax e Km (costante di Michaelis Menten) sono i parametri cinetici di ogni enzima, riferiti ad ogni loro
substrato specifico e sono valori tabulati.

Da un punto di vista grafico, che mette in relazione la V0, misurata in micromolare/minuto, oppure in
funzione alla concentrazione del substrato, la velocità massima (Vm) sarà la velocità misurata per infinite
concentrazioni di substrato. La Vm è un valore costante, leggibile sull'asse y. La Km, costante di Michaelis-
Menten, è il valore di concentrazione di substrato che permette di far lavorare l'enzima esattamente alla
metà della velocità massima, l'unità di misura di Km è millimolare, equivalente alla concentrazione del
substrato.

Da un punto di vista empirico, la Km di un enzima per un determinato substrato è la misura dell'affinità che
l'enzima ha per il substrato.

Esempio: se esiste un enzima A per un substrato C e un substrato D, se l'enzima ha una Km per C di 10


millimolare e per D 100 millimolare, sarà più affine il substrato a cui corrisponde Km minore, perché servirà
minore concentrazione di quel substrato per far lavorare l'enzima a metà della velocità massima.

3.2NUMERO DI TURNOVER DEGLI ENZIMI

Il numero di turnover degli enzimi è un altro modo di esprimere la velocità massima e corrisponde al numero
di molecole di substrato trasformate da una molecola di enzima nell'unità di tempo.

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3.3EQUAZIONE DI LINEWEAVER-BURK

Un altro modo per esprimere l'equazione è trasformarla nei rispettivi reciproci, così da ottenere l'equazione
di Lineweaver-Burk.

3.4FATTORI CHE INFLUENZANO LA VELOCITÀ INIZIALE

I fattori che influenzano la velocità iniziale sono:

-Temperatura: un eccessivo aumento porta a denaturazione e perdita di funzione

-pH: alcuni enzimi sono in grado di lavorare a pH estremi, quali gli enzimi dei succhi gastrici che lavorano
intorno a 2 o 3. La maggior parte, tuttavia, lavora intorno ad un pH fisiologico di 7.2 e 7.4. Un pH estremo
può far venir meno l'interazione enzima-substrato, un amminoacido acido col suo ossidrile, in condizione di
pH estremo, si ritroverà nella sua forma deprotonata COO- e non potrà cedere alcun H per formare legami a
idrogeno.

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-Concentrazione del substrato:

- Si è visto che per concentrazioni basse di substrato, molto più basse di Km; si ha dipendenza lineare
con una cinetica di reazione di primo ordine, in cui la velocità è direttamente proporzionale alla
concentrazione del substrato.

V= K [S]
(Se nell'equazione di Michaelis-Mentel, inserisco una [S] molto piccola, al denominatore si trascura
la concentrazione del substrato, quindi Vo=Vmax/ S Km, che graficamente è rappresentata da una
tangente ai punti nel tratto lineare dell'iperbole rettangolare.)

- Se la concentrazione aumenta di 10 o 20 volte rispetto a Km, la velocità dipenderà solo dalla


concentrazione dell'enzima con una cinetica di ordine zero.

V= K [E]
(Se nell'equazione di Michaelis-Mentel, inserisco una [S] molto grande, la Km al denominatore risulta
trascurabile, dunque semplificando numeratore e denominatore per S, Vo=Vmax.)

Esempio: in biochimica clinica per misurare le transaminasi, enzimi del fegato, si utilizza la velocità di reazione
dell'enzima in condizione di cinetica di primo ordine, in quanto non è possibile determinarne le quantità, si
utilizza una soluzione saturante di substrato cosicché la velocità misurata è funzione della quantità di enzima
presente. La velocità sarà maggiore nel paziente in cui l'enzima è presente maggiormente.

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-Concentrazione dell'enzima

Nel grafico, sono rappresentati tre esperimenti condotti con lo stesso enzima e con le stesse condizioni, ma
con quantità differenti di esso. La differenza tra le tre iperboli risiede nella velocità massima, direttamente
proporzionale alla quantità di enzima. La quantità di enzima modifica uno solo dei parametri cinetici Km o
Vmax, in questo caso si fa riferimento a Vmax. La Km è uguale in tutte le curve perché l'enzima ed il substrato
sono sempre uguali.

3.5DOSAGGIO ATTIVITÀ ENZIMATICA NEI CAMPIONI BIOLOGICI, PERCHÉ È UTILE

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- Transferasi: l'attività normale corrisponde a 3-17 Unità enzimatica/L, la cui unità misura la velocità
dell'enzima.
- Lattato deidrogenasi: enzima che sintetizza lattato nei muscoli scheletrici in seguito a sforzo
eccessivo o mancanza d’ossigeno, l'attività normale corrisponde a 100-350 WU/mL e se il suo livello
sfora questo valore vi è il rischio di attacco cardiaco. La lattato deidrogenasi (LDH) presenta isoenzimi
smistati in diversi organi e dunque si controlla, in tal caso, il valore di isoenzima nella sua
localizzazione specifica.

3.6UNITÀ DI MISURA DELL'ATTIVITÀ ENZIMATICA

- Unità di attività enzimatica (U o U.E.): attività che catalizza la trasformazione di una micromole di substrato
in un minuto, 1U = micromoli/minuto.

-Attività specifica: attività totale dell’enzima diviso il contenuto proteico totale del campione biologico,
micromoli di substrato trasformate/ minuto x mg proteine.

-Attività enzimatica: viene di solito espressa in unità che indicano le micromoli di substrato trasformate in
un minuti in determinate condizioni di dosaggio.

Esempio: quando si vuole isolare un mitocondrio da un tessuto post mortem; si prepara un omogenato
tissutale da cui, attraverso tecniche di centrifugazione differenziale, si isola il mitocondrio. Per verificare la
purezza di quanto isolato, possiamo misurare l'attività specifica di un enzima presente solo nel mitocondrio
come la citratosintasi, si misura, poi, la velocità dell'enzima e lo si rapporta al totale di mg di proteine presenti
nel frammento. Se la purificazione è stata svolta correttamente, nei vari step di purificazione l'attività
specifica deve aumentare perché durante la purificazione il campione si dovrebbe arricchire sempre più
dell'enzima esclusivo per i mitocondri.

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SPETTROSCOPIA
La spettroscopia è lo studio della materia analizzando il suo comportamento quando colpita da una
radiazione elettromagnetica.

Esempio: un bicchiere d'acqua contenente un pigmento se colpito da una radiazione elettromagnetica,


manifesta dei fenomeni fisici, quali la luce incidente e la luce riflessa dalla superficie, parte della radiazione
riuscirà ad attraversare il solvente e colpire il pigmento. A questo punto, possono subentrare alcuni fattori
dipendenti dalla natura intrinseca del pigmento; il fenomeno dell'assorbimento, cioè quando il pigmento
assorbe una quota di energia della radiazione. L'assorbimento può essere parziale quando vi è una quota di
radiazione trasmessa, totale quando non vi è alcuna radiazione trasmessa.

1.1CLASSIFICAZIONE DEI METODI SPETTROSCOPICI

1. In base al fenomeno prodotto dopo che gli analiti vengono irradiati:

- Metodi di emissione

- Metodi di fluorescenza

- Metodi di assorbimento: se una quota di quella radiazione viene assorbita dal nostro spettrometro

2. In base al tipo di radiazione elettromagnetica utilizzata:

- Raggi X e radiazioni comprese nella lunghezza d'onda UV e del visibile VIS

2.SPETTROFOTOMETRIA

La spettrofotometria è una tecnica di spettroscopia basata sull’assorbimento che utilizza una radiazione
elettromagnetica, la cui lunghezza d'onda è compresa tra UV e VIS.

In passato, si associava la radiazione elettromagnetica solo ad un'onda che si propagava nello spazio, teoria
ondulatoria. Questa teoria era in grado di spiegare solo alcuni fenomeni fisici, quali la diffrazione; quando
due onde in fase, cioè dallo stesso valore massimo si incontrano, la risultante è un fenomeno costruttivo in

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cui l'onda risultante ha un'ampiezza doppia. Se invece le due onde che si incontrano non sono in fase, ovvero
il massimo di un'onda corrisponde al minimo di un'altra, esse si annullano e non producono alcuna
radiazione. Questi fenomeni, ben descritti dalla teoria ondulatoria, non riuscivano a descrivere altri fenomeni
come l'effetto fotoelettrico, cioè quando alcuni metalli, colpiti da una radiazione elettromagnetica, rilasciano
elettroni, teoria corpuscolare. La radiazione elettromagnetica viene spiegata sia dalla teoria corpuscolare
che dalla teoria ondulatoria.

La radiazione elettromagnetica viene definita come una formula d'energia che si propaga nello spazio ad alta
velocità. È costituita da campi elettrici e magnetici oscillanti nello spazio e nel tempo. Da un punto di vista
grafico, il campo elettrico e il campo magnetico sono perpendicolari tra loro ed alla direzione di propagazione
dell’onda.

Le caratteristiche di una radiazione elettromagnetica:

-lunghezza d'onda (λ): distanza spaziale tra due massimi dell’onda

-frequenza (ν): numero di onde in un secondo

La frequenza e la lunghezza d'onda sono inversamente proporzionali:

c=ν/λ
-ampiezza (A): distanza tra il massimo dell’onda e la direzione di propagazione

2.1ENERGIA DELLA RADIAZIONE ELETTROMAGNETICA

La teoria corpuscolare descriveva la radiazione come un pacchetto di fotoni, di cui ogni fotone è dotato di
una certa energia e radiazioni con lunghezza d'onda minori hanno radiazioni maggiori, per esempio i raggi
UV hanno lunghezza d'onda minore della luce visibile e dunque un'energia maggiore.

Esiste una relazione tra la frequenza di una radiazione elettromagnetica e la sua energia:

- Maggiore è la lunghezza d’onda (λ) di una radiazione elettromagnetica e minore è la sua energia,
quindi l’energia e la lunghezza d’onda sono inversamente proporzionali

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- Maggiore è la frequenza (v) di una radiazione elettromagnetica e maggiore è la sua energia, quindi
l’energia e la frequenza sono direttamente proporzionali

2.2SPETTRO ELETTROMAGNETICO

Lo spettro elettromagnetico è l'insieme di tutte le radiazioni elettromagnetiche. Il nervo ottico umano è in


grado di percepire le sole radiazioni dello spettro elettromagnetico con lunghezza d’onda (λ) comprese tra
380-780 nm.

Quando una molecola viene colpita da una radiazione elettromagnetica, avviene il fenomeno
dell'assorbimento; una quota energetica viene assorbita dall'analita e l'altra parte rilasciata o assorbita solo
in caso di assorbimento totale. Gli elettroni di valenza, colpiti da questa radiazione, passano ad uno stato di
energia maggiore. Una molecola è in grado di assorbire una radiazione elettromagnetica, se e solo se l'energia
della radiazione elettromagnetica che colpisce la molecola è uguale alla differenza d'energia tra lo stato
fondamentale (stato a minima energia) e quello eccitato (stato ad energia più alta dello stato fondamentale).
Se si colpisce la molecola con una radiazione dotata di energia minore o maggiore rispetto alla differenza
d'energia, non avverrà alcun fenomeno d'assorbimento.

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L'autostrumentale di un atomo in grado di assorbire una radiazione elettromagnetica è lo spettro a righe.

Nel grafico, è rappresentata l'intensità del segnale in funzione della lunghezza d'onda. Quando una lunghezza
d'onda colpisce un atomo in grado di assorbire questa radiazione, si ha lo spettro a righe, diverso dallo
spettro a bande a campana, tipico delle molecole. Lo spettro a righe dipende solo dalla transizione
elettronica degli elettroni di valenza dallo stato fondamentale a quello eccitato, invece quando si ha una
molecola in grado di assorbire, la sua energia complessiva è dovuta anche ai contributi rotazionali e
vibrazionali associati a ciascuno stato energetico che la molecola può compiere rispetto ad un atomo.

2.3INTENSITÀ DELLA RADIAZIONE ELETTROMAGNETICA DA PARTE DI UN ANALITA

Immettendo un analita in un contenitore cuvette, di un materiale particolare, se quest'ultima viene fatta


attraversare da una radiazione d'intensità I0 incidente, si avrà che parte di questa radiazione attraverserà
l'analita colpendolo, se invece l'analita la assorbe completamente non si avrà luce trasmessa, in caso opposto,
se una quota di energia non viene assorbita verrà rilasciata luce trasmessa.

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L = cammino ottico rappresenta la sezione di soluzione attraversata dalla luce; di solito le uvette hanno
spessore di 1cm quindi l è costante 1 cm.

T = trasmittanza, rapporto tra I e I0.

L'assorbanza si può misurare e rapportare alla concentrazione dell'analita mediante la legge di Lambert-
Beer, secondo cui l'assorbanza di un analita è funzione della sua concentrazione.

L'assorbanza è direttamente proporzionale alla concentrazione, misurando l'assorbanza di un analita a


diverse concentrazioni, si ottiene una retta.

E' possibile osservare lo spettro di assorbimento a bande di una molecola in grado di assorbire una sola
lunghezza d'onda intorno ai 500 nm, in cui all'aumentare della concentrazione della soluzione aumenta
l'assorbanza.

Limitazioni della legge di Lambert-Beer:

- Questa legge è valida solo per soluzioni molto diluite aventi tra reagenti e prodotti una specie in
grado di assorbire radiazioni elettromagnetiche, < 10-2 M.
- Ci sono inoltre limiti strumentali e interferenze, quali pH estremi che limitano l'applicazione della
legge.

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2.4 SPETTROFOTOMETRO

Lo strumento utile a misurare l'assorbanza è lo spettrofotometro, di cui è visibile la composizione a blocchi:

La sorgente di una radiazione elettromagnetica può essere una lampadina che produrrà una radiazione con
diverse lunghezze d'onda: radiazione policromatica. Il fascio policromatico viene linearizzato mediante una
fenditura d'ingresso che isola un piccolo fascio di radiazione policromatica. La radiazione policromatica
giunge in uno strumento interno, chiamato monocromatore che permette di scomporre la radiazione
policromatica nelle singole radiazioni monocromatiche e dunque dalla fenditura d'uscita dello strumento
uscirà solo la radiazione selezionata e scelta dalla persona che sta utilizzando lo spettrofotometro. La
radiazione monocromatica attraversa la cuvette in cui è stato immerso l'analita da cui analizzare la
concentrazione. Qui vale la legge di Lambert: il coefficiente ε è tabulato, il cammino ottico vale 1 cm e
l'assorbanza viene rilevata dallo strumento. Una quota della radiazione, che attraversa e colpisce l'analita,
può essere trasmessa e raccolta dal rilevatore, il cui algoritmo trasforma il valore elettrico in valore
d'assorbanza.

Esempio:

Lo spettro di assorbimento del coenzima NAD in forma ossidata NAD+ e ridotta NADH: NADH è una molecola
in grado di assorbire 2 lunghezze d'onda di 340 nm e 260 nm, mentre NAD+ ha solo 1 picco di assorbimento
che è di 260 nm.

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2.5 APPLICAZIONI DELLA SPETTROFOTOMETRIA

Con la spettrofotometria, è possibile operare un’analisi qualitativa per verificare se per un campione vi è una
molecola che assorbe una certa lunghezza d'onda o meno, o un’analisi quantitativa per misurare la
concentrazione di proteine, si può anche misurare l’attività enzimatica e quindi la velocità di un enzima.

Esempio:

Si imagini di possedere un campione di siero, di cui dosare l'attività enzimatica LDH, marker di un presunto
attacco cardiaco. La deidrogenasi catalizza la trasformazione del piruvato in lattato usando NADH che ossida
in NAD+.

Si consideri la variazione di concentrazione della specie assorbente NADH usando legge di Lambert-Beer. Si
tratta di una cinetica di ordine zero in cui vengono utilizzate concentrazioni saturanti di substrato per
ricondurre la velocità alla concentrazione, la quale sarà 10 20 volte la Km. Si inserisca una piccola aliquota
del campione biologico di cui misuro l'attività dell’LDH: in base allo spettro di assorbimento, al tempo 0, senza
aggiunta di campione biologico l'assorbanza ha un valore positivo perché NADH assorbe 340 nm circa.
L'assorbanza, finché non aggiungo l’enzima, resta costante per poi diminuire nel tempo in quanto il NADH si
consuma nel tempo.

Le condizioni necessarie per dosare l’attività enzimatica attraverso lo spettrofotometro è che ci deve essere
una specie in grado di assorbire una radiazione elettromagnetica oltre ai reagenti e ai prodotti.

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Graficamente l'assorbanza in funzione del tempo di LDH.

Si prenda ΔA relativo a Δt, tale che si abbia la velocità nei primi istanti della reazione e si scelgano due punti
dal tratto lineare della curva.

In conclusione, nel campione malato, se la velocità è maggiore, la concentrazione dell'enzima in analisi è


maggiore e si sospetta un attacco cardiaco.

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LEZIONE V - MECCANISMI DI CATALISI
ENZIMATICA; ADENOSINA TRIFOSFATO
Per la maggior parte degli enzimi l’energia di legame che si ottiene dalla formazione del complesso
enzima-substrato è solo uno dei diversi elementi che partecipano al meccanismo catalitico. Una volta che il
substrato si è legato, un enzima può utilizzare diversi tipi di catalisi per facilitare la rottura o la
formazione di un legame, sfruttando i suoi gruppi funzionali opportunamente disposti. Tra i meccanismi
meglio conosciuti vi sono: la catalisi acido-base generale, la catalisi covalente e la catalisi da ioni
metallici. Questi processi sono distinti dall’energia di legame, perché coinvolgono in genere legami
covalenti transitori con il substrato o il trasferimento di gruppi dal o al substrato.

Il trasferimento di protoni è la reazione più comune in biochimica. Molte reazioni biochimiche


comprendono la formazione di intermedi carichi instabili che tendono a degradarsi rapidamente,
impedendo alla reazione di arrivare a compimento. Gli intermedi possono essere stabilizzati
mediante trasferimento di un protone. I protoni si trasferiscono dall’enzima al substrato a un
intermedio. La catalisi a cui partecipano i protoni o gli ioni ossidrile dell’acqua è definita catalisi
acido-base specifica. Se i protoni sono trasferiti tra un’intermedio e l’acqua più velocemente di quanto
l’intermedio si degradi, quest’ultimo viene stabilizzato; se invece l’acqua non fosse sufficiente potrebbero
intervenire acidi deboli e basi deboli per accelerare la reazione. In queste condizioni, acidi deboli
possono comportarsi da donatori di protoni, mentre le basi deboli da accettori di protoni. Il
termine catalisi acido-base generale si riferisce al trasferimento di protoni mediato da specie
chimiche diverse dall’acqua. La catalisi acido-base generale diventa fondamentale nel sito attivo di
un enzima, dove l’acqua può non essere disponibile come donatore o accettore di elettroni, funzione che
viene invece svolta dalle catene laterali di certi amminoacidi.

Nella catalisi covalente si forma un legame covalente transitorio tra enzima e substrato. Un certo
numero di catene laterali amminoacidiche e i gruppi funzionali di alcuni cofattori enzimatici possono
fungere da nucleofili nella formazione di legami covalenti con i substrati. Questi complessi vanno
sempre incontro ad altre trasformazioni che rigenerano l’enzima libero. Il legame covalente tra
enzima e substrato in particolar modo “attivare” il substrato, permettendi che possa avvenire un’altra
reazione.

I metalli, sia legati covalentemente all’enzima, sia presenti in soluzione, partecipano alla catalisi
enzimatica in diversi modi. Le interazioni tra un metallo legato all’enzima e il substrato possono
contribuire ad orientare il substrato e favorire la reazione o stabilizzare uno stato di transizione
con cariche elettriche. I metalli possono anche mediare reazioni redox attraverso variazione
del loro numero di ossidazione. Circa un terzo degli enzimi noti richiede per lavorare uno o più ioni
metallici.
Tra le molecole che trasportano energia chimica nell’organismo dobbiamo primariamente ricordare l’ATP
(Adenosina 5’ TriFosfato), una molecola che presenta una struttura piuttosto semplice, costituita da
un’adenina, un ribosio e tre gruppi fosfato (nucleoside trifosfato). Nella sua forma attiva l’ATP possiede
quattro cariche negative che provengono dagli atomi di ossigeno dei gruppi fosfato, ma in realtà la
carica netta della molecola è -2, perché stabilizzata da ioni metallici magnesio. Le cellule
eterotrofe utilizzano l’energia ottenuta mediante il metabolismo delle molecole per produrre ATP a
partire da ADP e fosfato inorganico. La reazione di idrolisi di un legame fosfoanidridico dell’ATP per
fornire energia alle reazioni endoergoniche ha una variazione di energia libera standard molto
negativa, pari a -30,5 kJ/mol, anche se in condizioni reali la situazione è ben diversa.

Anche il fosfoenolpiruvato può subire una reazione di idrolisi, in questo caso di un legame estere,
con perdita di fosfato e generando la forma enolica del piruvato: quest’ultima tautomerizza
immediatamente nella forma chetonica. Essendo che il reagente presenta una forma, mentre il prodotto
due, quest’ultimo risulta più stabile del reagente. Questo dà ragione dell’elevata energia standard di
idrolisi del piruvato (-61,9 kJ/mol). Un’altra molecola che presenta un’energia libera di idrolisi molto
negativa è la fosfocreatina, che per idrolisi genera creatina e fosfato inorganico.

A dire il vero, l’ATP non fornisce energia mediante semplice idrolisi, ma per trasferimento di
gruppi. L’idrolisi dell’ATP di per sé libera solo calore, che però non potrebbe essere impiegato
in alcun processo chimico. Abbiamo sempre un processo a due tappe, in cui un gruppo fosforico,
pirofosforico o l’adenilato vengono trasferiti prima ad una molecola di substrato oppure al residuo
amminoacidico di un enzima; nella seconda fase l’unità contenente il gruppo fosforico viene rilasciata
generando Fosfato inorganico, pirofosfato oppure AMP come gruppi uscenti. Quindi l’ATP partecipa
covalentemente alla reazione di catalisi enzimatica a cui deve fornire energia libera. Comunque,
alcuni processi sfruttano direttamente l’energia di idrolisi dell’ATP, come alcuni riarrangiamenti di
proteine nella contrazione muscolare.

Per quale motivo il corpo impiega come molecola energetica preferita l’ATP e non piuttosto il PEP, che
presenta un’energia libera di idrolisi addirittura doppia? il fatto che sopra all’ATP vi sia un composto con
energia libera di idrolisi più negativa come il fosfoenolpiruvato garantisce la rigenerazione dell’ATP
mediante cessione del gruppo fosfato dal PEP: la sintesi di un composto fosforilato può
avvenire SOLO mediante idrolisi di un altro composto fosforilato che presenta una variazione di
energia libera standard più negativa: se la moneta energetica fosse il fosfoenolpiruvato questo,
avendo un’energia libera di idrolisi più alta rispetto a tutti gli altri composti fosforilati, non avrebbe modo
per essere rigenerato. La fosfocreatina invece ha un’energia libera di idrolisi intermedia tra PEP e ATP,
ma la sua sintesi non risulterebbe efficiente come quella della seconda molecola citata.

>P P
=
Ct2

-
-
LEZIONE VI/VII - GLICOLISI; FERMENTAZIONI
LATTICA E ALCOLICA
Il glucosio occupa una posizione centrale nel metabolismo di moltissimi organismi. Questo perchè
è un ottimo combustibile e può essere stoccato sotto forma di polimeri ad elevato peso
molecolare, mantenendo però bassa l’osmolarità del citosol. Inoltre, il glucosio è un precursore
versatile, che può essere convertito in un grande quantitativo di intermedi per la biosintesi.

Nella glicolisi, una molecola di glucosio viene degradata mediante una serie di reazioni catalizzate da
enzimi che producono due molecole di piruvato, un composto a tre atomi di carbonio. Durante la
glicolisi, parte dell’energia rilasciata dal glucosio viene recuperata sotto forma di ATP e NADH. La glicolisi
è una via centrale per il catabolismo del glucosio: in alcuni tessuti e cellule animali è addirittura
l’unica fonte per ricavare energia. Anche molti microorganismi anaerobici dipendono
interamente dalla glicolisi.

La demolizione del glucosio in due molecole di piruvato avviene in 10 tappe, delle quali le prime cinque
costituiscono la fase preparatoria: durante quest’ultima vengono consumate molecole di ATP per
scindere il glucosio in due molecole a tre atomi di carbonio, e ciò aumenta il contenuto di energia
libera degli intermedi della via metabolica. Il guadagno energetico inizia nella fase di recupero: il
guadagno avviene precisamente quando viene sintetizzato, nell’ultima tappa, il piruvato; l’energia è
stoccata per fosforilazione di 4 molecole di ADP in ATP e per riduzione di due molecole di NAD+
in NADH.

L’equazione generale della glicolisi è la seguente:

Glucosio + NAD+ + 2 ADP + 2 Pi ——> 2 piruvato + 2 NADH +2 H+ + 2 ATP +2 H20

Per ogni molecola di glucosio degradata a piruvato si generano due molecole di ATP da ADP e fosfato e
due molecole di NADH per riduzione di NAD+. Possiamo dividere l’equazione della glicolisi in due fasi: La
conversione esoergonica del glucosio in piruvato ha una Delta G di -146 kj/mol, mentre la formazione
endoergonica dell’ATP da ADP e Pi ha una deltaG di +61 kj/mol. La somma delle due equazioni fornisce la
variazione di energia libera standard per la Glicolisi, pari a -85kJ/mol. La glicolisi è un processo
essenzialmente irreversibile, spinto a completamento da un’elevata diminuzione dell’energia libera.

La glicolisi, comunque, rilascia solo una piccola parte dell’energia totale disponibile nella molecola di
glucosio: il piruvato conserva ancora un grande quantitativo di energia. Questa energia può essere
estratta dalle reazioni del ciclo di Krebs e dalla fosforilazione ossidativa, entrambi processi aerobici. In
condizioni anaerobiche, invece, il piruvato può essere ridotto a lattato o ad etanolo.

Vediamo nel dettaglio la glicolisi.

Nella prima tappa il glucosio viene attivato per sua fosforilazione all’atomo di carbonio 6 per formare il
glucosio-6-fosfato; il donatore del gruppo fosfato è l’ATP. Questa reazione è catalizzata dall’esochinasi,
che fa parte della classe delle fosfotrasferasi. L’esochinasi necessita di ioni magnesio per la sua attività
catalitica: infatti il vero substrato dell’esochinasi non è l’ATP di per sè ma il complesso MgATP2-. Gli ioni
magnesio rendono l’atomo di fosforo terminale un bersaglio più accessibile per un attacco nucleofilo da
parte dell’OH del glucosio in posizione C6.

CH2-0H ADD CH2 -0PO


ATP
2t

I
- -

H
W
H
My H

HO 0H HO Or

H OH H Or
Nella seconda tappa l’enzima fosfoesoso isomerasi catalizza l’isomerizzazione reversibile del glucosio-6-
fosfato, che è un aldoso, nel fruttosio-6-fosfato, un chetoso:

CH20PO, CH20PO,
H H
My2t
-

I ~ XCH2OH
HO OH H OH

H OH !H H
Nella terza tappa si ha la fosforilazione del fruttosio-6-fosfato a fruttosio 1,6-bifosfato; la reazione è
catalizzata dalla fosfofruttochinasi-1. La reazione è irreversibile, e viene considerata la prima tappa di
comando della glicolisi, perché ciò che viene prodotto da questa reazione è un intermedio esclusivo della
glicolisi. La fosfofruttochinasi-1 è soggetto a regolazione allosterica: aumenta la sua attività quando la
concentrazione di ATP diminuisce o i prodotti della demolizione dell’ATP, ADP, e AMP si accumulano.

CH20PO CH20PO

I H2-04OY
APPX
CH2-0H
- - ATP
My2+
H HO
OH H
0H
H

OH H
OH H

Nella quarta tappa il fruttosio 1,6-bifosfato viene scisso, ad opera dell’enzima 1,6-bifosfato aldolasi, in
due diversi triosi fosforilati, la gliceraldeide 3-fosfato, un aldoso, e il diidrossiacetone fosfato, un
chetoso:

CH20PO,CH2OPOZ
CH20P85-H
4
- C 0
I
=

+ CHOH
H
H
↑ HO OH CHcOH CH20PO
I I

OH H
Nella quinta tappa, si ha la conversione, reversibile, del diidrossiacetone fosfato in gliceraldeide-3-
fosfato dall’enzima trioso fosfato isomerasi. Il motivo di ciò è che solo la gliceraldeide-3-fosfato può
procedere nelle tappe successive della glicolisi. Questa reazione completa la fase preparatoria della
glicolisi.

CH20H * -
H

10
=
I
HCOH

C'H20PO5 CH20PO
La fase di recupero della glicolisi prevede la conversione delle due molecole di gliceraldeide-3-
fosfato in due molecole di piruvato, con formazione di 4 molecole di ATP da ADP.

Nella sesta tappa della glicolisi, la gliceraldeide-3-fosfato viene ossidata a 1,3-bifosfoglicerato


dall’enzima gliceraldeide-3-fosfato-deidrogenasi. Il gruppo aldeidico della molecola di partenza viene
ossidato a gruppo carbossilico impegnato in un legame con l’acido fosforico. Questa tappa è la prima delle
due della glicolisi in cui viene recuperata energia per formare ATP, attraverso riduzione del NAD:

o
NAP+ NAPHAH

* -
H
0

I
Il
HCOH THO-P-O-

C'H20PO ↓- CH20P
Nella settima tappa, il gruppo fosfato viene trasferito dall’1,3-bifosfoglicerato all’ATP dall’enzima
fosfoglicerato chinasi; in particolar modo, il gruppo fosfato viene trasferito dal gruppo carbossilico
dell’1,3-bifosfoglicerato all’ADP, con formazione di ATP e 3-fosfoglicerato. Le tappe 6 e 7 costituiscono
un processo di accoppiamento energetico in cui l’1,3-bifosfoglicerato è l’intermedio comune:
nella prima reazione questa molecola si forma, nella seconda viene fosforilata per produrre ATP; la
formazione di ATP da un substrato, come in questo caso, è detta fosforilazione a livello del substrato.

90 - - Ox, o 2t

I d+ADP HOH
HC0H -
+
ATP

H20PO,
I
CH20PO3
Nell’ottava tappa, il 3-fosfoglicerato è convertito in 2-fosfoglicerato dall’enzima fosfoglicerato
mutasi; la reazione enzimatica prevede due sotto-tappe: nella prima, un gruppo fosfato legato ad un
residuo di His dell’enzima viene trasferito all’ossidrile C2 del 3-fosfoglicerato, con formazione del 2,3-
bifosfoglicerato, in seguito il gruppo fosfato in C3 del substrato viene ceduto alla stessa istidina.

0
Il co
C
Mg2t
te
io a
C

CH2 PO,
Nella nona tappa della glicolisi, l’enolasi promuove la rimozione reversibile di una molecola di acqua
dal 2-fosfoglicerato, con generazione di fosfoenolpiruvato o PEP.

0 O
Q -H +20
i ~
C
C

H -
k op-
1 -

OPO
HO- kHz ↓'Hz
Nella decima tappa della glicolisi il fosfato del PEP viene trasferito all’ADP, attraverso l’enzima
piruvato chinasi, che richiede ioni potassio e magnesio. In questa fosforilazione a livello del
substrato il piruvato compare prima nella sua forma enolica, e poi viene tautomerizzato
rapidamente e non enzimaticamente nella forma chetonica. La reazione ha una variazione di
energia libera standard fortemente negativa.

0 0 0 O
- N ~
C C
Tautomerizzazione
k
i
-
OH
-

-
O

H2
!H3
Nel processo glicolitico complessivo, una molecola di glucosio viene convertita in due
molecole di piruvato. Due molecole di ADP e due di Pi sono convertite in due molecole di
ATP. Quattro elettroni, sotto forma di due ioni idruro, vengono trasferiti da due molecole di
gliceraldeide 3-fosfato a due molecole di NAD+.
Gli eventi di ricavo energetico da parte della cellula avvengono attraverso le reazioni del catabolismo,
che parte da molecole complesse e via via, grazie ad una serie di reazioni, permettono di ottenere da
queste monomeri più semplici mediante eventi che si interconnettono tra di loro. Questi eventi
interconnessi naturalmente produrranno una serie di prodotti di scarto, molto semplici e molto facili da
allontanare, come l’acqua, l’anidride carbonica o gli ioni ammonio, scartati attraverso il ciclo dell’urea.
L’anabolismo comprende invece quelle reazioni che permettono l’impiego dell’energia
dell’organismo per andare a sintetizzare macromolecole a seconda delle necessità. I meccanismi
dell’anabolismo si verificano sia in condizioni di digiuno prolungato e stress, sia in condizioni di stato
nutrizionale soddisfacente.

Abbiamo visto che una serie di reazioni portano dal glucosio al piruvato: quest’intermedio metabolico fa
parte di tutta un’altra serie di reazioni, che non avvengono nel citosol come la glicolisi. Il piruvato infatti
può entrare nei mitocondri ed essere eventualmente modificato ed ossidato per produrre energia.
Se volessimo riassumere la glicolisi, potremmo dire che le sue dieci tappe comprendono reazioni di
ossidoriduzione accoppiate alla sintesi di ATP. Alcuni passaggi necessitano inoltre di consumo
di ATP per poter avvenire. Dal glucosio, attraverso l’intervento del coenzima NAD+ e di fosfati
provenienti dall’ATP, si ottengono piruvato, NADH, ATP, idrogenioni e molecole d’acqua. L’ATP
risulta fondamentale nella glicolisi, perchè permette alle reazioni endoergoniche, cioè con un energia
libera standard positiva, di avvenire comunque, trasformando la loro variazione di energia libera standard
in un valore negativo. L’equilibrio tra ATP ed ADP risulta di notevolissima importanza per la regolazione
della glicolisi. In condizioni standard il potenziale dell’equilibrio tra ATP ed ADP si presenta molto negativo,
pari a -30,5 kJ/mol.

Esistono in maniera ubiquitaria nell’organismo una serie di trasportatori specifici del glucosio, esistenti
in 14 isoforme. Ognuno risulta presente in maniera selettiva in alcuni tessuti. Ciascuno di questi
trasportatori presenta una costante di Michaelis diversa per il glucosio; quindi, alcuni funzionano
con concentrazioni di glucosio più basse, mentre altri entrano in attività solo quando le
concentrazioni di glucosio nel sangue raggiungono determinati valori. Alcuni trasportatori di
glucosio vengono regolati dall’insulina prodotta dalle cellule B delle isole di Langherans del pancreas, come
GLUT 4, che si occupa dal trasporto di glucosio nel muscolo e nel tessuto adiposo.
La prima tappa della glicolisi, come sappiamo, è la fosforilazione del glucosio in glucosio 6-fosfato ad opera
dell’enzima esochinasi. La molecola di glucosio 6-fosfato presenta carica negativa, a differenza del glucosio
che presenta una carica neutra. Questo intermedio risulta fondamentale per procedere con la glicolisi. In
realtà, la reazione di fosforilazione del glucosio ha una variazione di energia libera positiva; coordinando
però questa reazione all’idrolisi dell’ATP essa può avvenire, perchè la somma della variazioni di energia
libera standard è un valore negativo. Il glucosio 6-fosfato inoltre, a differenza del normale glucosio, non
è in grado di uscire dalla cellula attraverso i trasportatori: in altre parole, il glucosio viene
sequestrato nella cellula, e non ha più possibilità di uscire a meno che non venga defosforilato.
Le prime cinque tappe della glicolisi sono di preparazione, con innalzamento del livello energetico della via
metabolica attraverso il dispendio di 2 molecole di ATP. Le ultime 5 tappe, di recupero energetico, sono
utilizzate invece per sintetizzare ATP. La prima, la terza, la settima e la decima tappa della glicolisi
sono quelle in cui è coinvolto ATP: nell’ultima reazione il fosfoenolpiruvato è convertito in piruvato, e
questa conversione viene sfruttata per rigenerare ATP. Stesso discorso vale per la settima tappa della
glicolisi, dove la variazione di energia libera standard per la defosforilazione dell’1,3-bifosfoglicerato in 3-
fosfoglicerato è sempre molto bassa, e viene anch’essa impiegata per rigenerare ATP.

Se volessimo calcolare la variazione di energia libera somma della glicolisi avremo per ogni tappa un DeltaG
negativo, e questo giustifica la direzione complessiva del processo. Nella fase iniziale abbiamo
investimento di ATP: ciò verrà sfruttato per giungere alla fase di recupero, in cui produciamo il
doppio dell’ATP consumato. Tali reazioni sono di ossidoriduzione, e quindi avremo bisogno di un
cofattore, rappresentato dal NAD+, per il trasporto delle cariche. Una volta che il NAD+ viene ridotto,
dovrà però essere riossidato. Questo è possibile perché passa, in condizioni di aerobiosi, nella
catena di trasporto degli elettroni e quindi sarà nuovamente disponibile per successive reazioni.
Dalla glicolisi produciamo in maniera netta due molecole di piruvato, due NADH e due molecole di ATP.

Bisogna sapere se la glicolisi avvenga in condizioni di aerobiosi o anaerobiosi. La rigenerazione per


ossidazione del NAD+ avviene grazie alla catena di trasporto degli elettroni, ma solo se l’ossigeno è
presente come accettore finale di questi elettroni; l’ossidazione del NADH avviene dopo che il
piruvato viene completamente ossidato in CO2 nel ciclo dell’acido citrico. In assenza di ossigeno o in
condizioni di ipossia il piruvato verrà trasformato in maniera diversa. Per esempio, nella
fermentazione lattica il piruvato accetta gli elettroni dal NADH ed è convertito in lattato. Qualora
la catena di trasporto degli elettroni non sia funzionante, il NADH non potrà essere ossidato a NAD+
attraverso questo meccanismo; quindi il piruvato viene convertito in lattato o in etanolo, e otteniamo un
guadagno energetico minimo. Il piruvato, quindi, può subire sia la fermentazione (lattica o alcolica)
sia costituire il substrato per la respirazione cellulare.
Il motivo per cui il NAD dev’essere riossidato è dovuto anche al fatto che la sua concentrazione è
nettamente inferiore rispetto a quella del glucosio in condizioni nutrizionali ottimali, e se non fosse
rigenerato la glicolisi si arresterebbe.

La fermentazione lattica è un processo metabolico anaerobico che produce energia senza alcun
cambiamento netto nello stato di ossidazione dei prodotti rispetto ai substrati. Il piruvato viene
ridotto a lattato, e in questo modo il NAD+ viene rigenerato. La riduzione del piruvato è catalizzata dalla
lattato deidrogenasi. La fermentazione lattica viene preferita alla respirazione cellulare anche in
condizioni di aerobiosi da alcune cellule, come gli eritrociti.
Il lattato che si forma nel muscolo che si contrae può essere riciclato. Esso viene trasportato dal
torrente circolatorio fino al fegato, dove viene convertito in glucosio durante la fase di recupero dopo
un’attività muscolare intensa. Quando il lattato viene prodotto in grande quantità durante una contrazione
muscolare violenta, l’acidificazione conseguente alla ionizzazione dell’acido lattico nel muscolo
limita la durata della contrazione muscolare.

Nella fermentazione alcolica il piruvato è convertito in etanolo e in anidride carbonica attraverso


due fasi: nella prima fase, il piruvato viene decarbossilato dall’enzima piruvato decarbossillasi e
convertito in acetaldeide. In una seconda tappa l’acetaldeide viene ridotta ad etanolo dall’enzima alcol
deidrogenasi, con l’intervento del NADH. Etanolo e CO2 sono quindi i prodotti finali della fermentazione
alcolica.

L’effetto Pasteur è quella situazione per cui sia la velocità della glicolisi che la quantià di glucosio
consumato sono molto più alte in condizioni anaerobiche che in quelle aerobiche: questo
perchè, a parità di ATP prodotto, la glicolisi anaerobia necessità di consumare 15 volte il
quantitativo di glucosio necessario invece allo stesso processo in presenza di ossigeno.

Naturalmente il glucosio può essere ottenuto anche a partire dai suoi polimeri, come l’amilosio,
l’amilopectina o il glicogeno. Vi sono reazioni che sono in grado di rompere questi polimeri e di ottenere
conseguentemente il monomero. Lo scompattamento di queste macromolecole non avviene mai nelle
cellule, ma a livello della membrana cellulare sono presenti recettori accoppiati ad enzimi, che spezzettano i
polimeri ottenendo cosi il glucosio. Questo viene fatto entrare nella cellula attraverso dei trasportatori
specifici. I trasportatori possono far entrare il glucosio nella cellula anche in simporto con altre molecole,
come con il sodio a livello renale.
A livello intestinale, trasportatori nel dominio basolaterale fanno poi passare il glucosio nel torrente
circolatorio; naturalmente una parte del glucosio introdotta nella cellula viene impiegata da
quest’ultima.

Nei mammiferi esiste un enzima, chiamato lattasi, che scinde il lattosio in glucosio e galattosio, vale a dire
nei suoi monomeri costituenti, i quali vengono poi assorbiti a livello intestinale e metabolizzati entrambi
attraverso la glicolisi. Circa i due terzi della popolazione mondiale manifesta l’intolleranza al lattosio,
dovuta alla scomparsa parziale o totale, in età adulta, della lattasi. In questo caso il lattosio non viene
assorbito e passa nel colon, dove i batteri qui presenti lo convertono in prodotti tossici che causano crampi
addominali e diarrea. Il problema si complica quando il lattosio indigerito e i suoi metaboliti aumentano
l’osmolarità nell’intestino, favorendo la ritenzione d’acqua nell’organo.

L’energia può essere ricavata dalle cellule anche attraverso il fruttosio. Il fruttosio, presente in forma libera
nella frutta o prodotto per idrolisi del saccarosio viene, nel muscolo e nel rene, fosforilato dall’esochinasi
producendo fruttosio 6-fosfato ed entra nella glicolisi. Nel fegato il fruttosio segue un destino diverso.
Il fegato infatti è dotato di un’enzima che è in grado di fosforilare il fruttosio al C-1, ottenendo fruttosio 1-
fosfato, da cui si ottengono gliceraldeide e diidrossiacetone fosfato. La gliceraldeide viene fosforilata a
dare la gliceraldeide 3-fosfato, mentre il diidrossiacetone fosfato viene convertito in quest’ultima
molecola. Quindi la gliceraldeide 3-fosfato entra nella glicolisi.

Altra fonte di energia è il mannosio. Questo è fosforilato dall’esochinasi in mannosio 6-fosfato, che viene poi
convertito dalla fosfomannosio isomerasi in fruttosio 6-fosfato, che entra nella glicolisi.

Nel caso del galattosio questo viene fosforilato in galattosio 1-fosfato, ma affinchè possa essere
metabolizzato dev’essere legato all’UDP glucosio, ossia una molecola di glucosio legata a due gruppi fosfato
e ad un’uridina. Per formare l’UDP-glucosio bisogna isomerizzare il glucosio 6-fosfato in glucosio 1-fosfato.
Dopodiché si aggiunge un pirofosfato. Il pirofosfato rappresenta il gruppo uscente della reazione di unione del
glucosio e del galattosio.

Anche attraverso la lipolisi otteniamo glucosio. I trigliceridi sono composti da una molecola di glicerolo e
da tre acidi grassi legati ad essa. Attraverso una lipasi possiamo scindere i trigliceridi nelle subunità
costitutenti. Il glicerolo attraverso l’opera della glicerolo chinasi è convertibile in glicerolo 3-fosfato, e quindi
in diidrossiacetone fosfato, che può entrare nella glicolisi.

La regolazione della glicolisi avviene a livello della prima, della terza e della nona tappa. Questi
passaggi sono irreversibili, cioè possono procedere in una sola direzione. Ciò che regola la prima tappa della
glicolisi è la concentrazione del glucosio 6-fosfato: quando ce n’è molto esso funge da inibitore allosterico
dell’esochinasi e quindi la reazione che quest’enzima catalizza viene inibita. Se invece vi sono alte
concentrazioni di fosfato, gruppo chiave per rigenerare l’ATP dall’ADP, maggiore sarà la richiesta che
si attivi la glicolisi. Stesso discorso per l’AMP ciclico, che regola la seconda tappa della glicolisi. L’AMPc
avvisa la cellula che non c’è ATP; se invece non ci fosse, insieme al citrato proveniente dal ciclo di Krebs, la
cellula saprebbe che la respirazione è avvenuta e che quindi non è necessario effettuare la glicolisi.

Solitamente la glicolisi viene bloccata al primo intermedio (glucosio 6-fosfato) per evitare di perdere
energia. Se formassimo invece altri intermedi della glicolisi avremmo perso energia e avremmo metaboliti
superflui.

Un caso interessante di glicolisi si osserva nei tumori. In quasi tutti i tipi di tumori la velocità della glicolisi
risulta più elevata, anche quando è disponibile l’ossigeno (effetto Warburg). La maggior parte delle
cellule tumorali cresce in condizioni ipossiche in quanto, almeno inizialmente, non possiede una rete
capillare sufficiente ad un apporto di ossigeno ottimale. Quindi, dipendono totalmente dalla glicolisi
anaerobia per produrre energia, ma la quantità di glucosio che dev’essere consumata in questo caso è molto
superiore a quella necessaria per la glicolisi aerobia per produrre la stessa quantità di ATP. L’elevata velocità
della glicolisi nelle cellule tumorali può essere impiegata a fini diagnostici. Nella tomografia ed emissiome di
positroni (PET) viene iniettato un analogo del glucosio marcato ed innocuo, che viene captato ma non
metabolizzato dai tessuti. Si tratta dell’FdG, in cui l’ossidrile in C-2 del glucosio è sostituito da Fluoro
18. Questa molecola entra nella cellula attraverso trasportatori ed è un buon substrato per l’esochinasi, ma non
può essere metabolizzato. La quantità con cui questo analogo viene assorbito e fosforilato è in genere 10 o più
volte maggiore nelle cellule tumorali rispetto alle cellule normali. Il decadimento del Fluoro 18 genera
positroni che possono essere messi in risalto da rilevatori posizionati su tutto il corpo.
LEZIONE VIII - DECARBOSSILLAZIONE
OSSIDATIVA; CICLO DI KREBS

Uno dei destini del piruvato è di essere trasformato in Acetil CoA, che viene poi ossidato attraverso una
serie di reazioni che prendono complessivamente il nome di ciclo di Krebs o ciclo dell’acido citrico, e che
inizia con la condensazione dell’acetil CoA e dell’ossalacetato per produrre, per l’appunto, acido citrico: per
questo viene detto anche ciclo degli acidi tricarbossilici. In questa serie di reazioni si producono enzimi
ridotti utilizzati per la produzione di ATP nell’ambito della decarbossilazione ossidativa. L’acetil coenzima A
può essere prodotto anche da amminoacidi o acidi grassi.

La conversione del piruvato in Acetil coenzima A è catalizzata da un complesso enzimatico con tre domini
catalitici, chiamati E1, E2 e E3. L’enzima piruvato deidrogenasi o PDH ossida il piruvato per produrre Acetil
coA e una molecola di anidride carbonica. Il piruvato si ossida, cioè cede elettroni, e la specie che si riduce,
cioè che acquisisce elettroni è l’enzima NAD+, che viene convertito in NADH. Alla reazione partecipa anche
il FAD, che assieme al NAD interviene nelle reazioni di ossidoruduzione. Entrambi sono dinucleotidi. Oltre a
questi coenzimi intervengono nel processo anche il TPP (tiammina pirofosfato) e il lipoato o acido lipoico.
Tra i substrati oltre al piruvato è necessario per la formazione dell’acetil CoA anche il Coenzima A, un altro
nucleotide. Il coenzima per definizione è una molecola di natura non peptidica fondamentale per la catalisi
enzimatica. Alcuni di questi coenzimi sono diffusibili, cioè si legano temporaneamente all’enzima per poi
allontanarsi dalla tasca catalitica. Altri sono invece legati covalentemente o stabilmente, e prendono anche
il nome di gruppi prostetici. In generale il NAD è un coenzima diffusibile, mentre il FAD è un gruppo
prostetico.
Il deltaG dell’ossidazione del piruvato in condizioni standard biochimiche è di circa -30kJ/mol: si tratta di
una reazione fortemente esoergonica, il che la rende irreversbile.

L’enzima piruvato deidrogenasi può essere regolato attraverso la fisforilazione di alcuni domini catalitici.

Il Coenzima A è un nucleotide, formato da un ribosio legato al C-3 ad un gruppo fosfato (ribosio 3-fosfato);
inoltre, è presente un’adenina legata al carbonio C-1. Inoltre come in tutti i nucleotidi al C-5 del ribosio
sono legati gruppi fosfato, in questo caso due. L’acido pantotenico è legato a questa struttura a livello del
pirofosfato, ed è suddivisibile in due parti; una presenta un carbonio quaternario con due metili e un’altro
con un gruppo ossidrilico, ed è la parte che si lega al pirofosfato; quella a sinistra presenta un carbonio
legato ad un carbossile, un gruppo carbonilico e un gruppo amminico. L’acido pantotenico è una vitamina,
che come molte altre vengono trasformate in coenzimi: nel caso specifico dell’acido pantotenico esso viene
trasformato in Coenzima A. All’acido pantotenico a livello del carbossile è legata una Beta mercapto-
etilammina: abbiamo qui un gruppo amminico e un gruppo sulfidrilico. Nonostante la molecola sia molto
complessa, ciò che effettivamente interagisce nel Coenzima A è il gruppo sulfidrilico.

B-mercapto adernina

=
etilammina

0
<
-

o


HS-CH,

gartoteco-
CHI
-

I -

I 3 fosfo
-

Gruggotiolico Ribosio adenosina


-

reattivo 3 fosfato difosfato


3
L’acetil CoA è un estere: per l’esattezza si tratta di un tioestere, che si produce dalla reazione dell’acido
acetico con il Coenzima A attraverso il gruppo sulfidrilico di quest’ultimo.

Vediamo adesso la struttura del NAD. Si tratta di un dinucleotide: il primo nucleotide è costituito da
adenina, ribosio e fosfato (nucleotide adeninico, come quello del coenzima A); il secondo nucleotide è
composto da fosfato, ribosio e da nicotinammide, una base azotata che non si trova solitamente nei
nucleotidi. Anche la nicotinammide come le basi azotate più comuni è una struttura aromatica
eterociclica: nel suo anello troviamo un atomo di azoto. Il termine -ammide della nicotinammide
dipende dalla struttura ammidica che è legata all’anello. La nicotina e la nicotinammide sono legate
strutturalmente. Il NAD viene ottenuto dalla niacina o vitamina B3. In NAD, N sta per nicotinammide, A
sta per adenina e D sta per dinucleotide. Solitamente quest’acronimo è accompagnato da un “+” che
indica la carica positiva sull’atomo di azoto nell’anello della nicotinammide. Il NAD+ può ricevere
elettroni e quindi può essere ridotto: il NAD riceve sempre due elettroni per volta, e questo lo porta a
legarsi ad un atomo di idrogeno, prendendo il nome di NADH. L’atomo di idrogeno si può legare da una
parte o dall’altra, ma indipendentemente dalla regioselettività la reazione è assolutamente identica. Il
ruolo biologico del NAD è legato alla nicotinammide, mentre il resto della struttura non reagisce, ma è
solo responsabile del legame di questa molecola con gli enzimi con i quali collabora.

Facendo un esempio di reazione a cui collabora il NAD, l’enzima lattato deidrogenasi riduce il piruvato a
lattato, e contemporaneamente una molecola di NADH passa dallo stato ridotto allo stato ossidato. Le
reazioni catalizzate dalle deidrogenasi spesso sono reversibili, come in questo caso. Per alcune
deidrogenasi al posto del NAD è presente il FAD: anch’esso è un dinucleotide, identico al NAD per il
nucleotide adeninico. L’altra base azotata del FAD è composta da un ribosio in forma linearizzata e non
ciclica, da due gruppi fosfato legati tra di loro e da un anello isoallossanizinico. Il FAD è un acronimo
che sta per Flavina Adenina Dinucleotide. Il FAD può essere ridotto come il NAD, ma in questo caso le
reazioni di trasferimento elettronico avvengono per trasferimento di un singolo elettrone per volta:
prima si ottiene con un elettrone la forma semiridotta, e con un altro elettrone si raggiunge la forma
completamente ridotta, che viene indicata con la sigla FADH2.

C’è un altro coenzima redox che rappresenta una versione semplificata del FAD, in cui il nucleotide con
adenina viene a mancare: l’FMN o Flavin Mono Nucleotide. La porzione reattiva è sempre rappresentata
dalla base azotata, ossia dall’anello isoallossazinuco.

Il NAD e l’NADP (Nicotinammide Adenina Dinucleotide Fosfato) sono identici tranne che per la presenza
di un gruppo fosfato. Dal punto di vista della reattività sono identidici, ma siccome cambia la struttura
essi si legano ad enzimi differenti che hanno significati metabolici distinti: in genere il NAD si lega ad
enzimi coinvolti nel catabolismo, mentre il NADP si lega ad enzimi coinvolti nell’anabolismo.

L’acido lipoico, che partecipa all’ossidazione del piruvato per ottenere l’acetil CoA, esiste in una forma
ossidata e in una ridotta. L’acido lipoico è dotato di due gruppi sulfidrilici. Nella forma ossidata i due
gruppi sulfidrilici sono legati tra di loro, a dare una struttura simil-ponte disolfuro, mentre nella forma
ridotta i gruppi sulfidrilici sono liberi: per questo la forma ridotta dell’acido lipoico viene anche definita
acido diidrolipoico. L’acido lipoico è legato alla piruvato deidrogenasi in modo covalente (gruppo
prostetico) e in particolare è legato al dominio catalitico E2 attraverso un residuo di lisina che reagisce
con il suo gruppo carbossilico. Si viene a formare un legame ammidico, e la struttura che ne deriva
viene chiamata lipoammide. Durante il ciclo catalitico la forma ossidata dell’acido lipoico viene ridotta,
per cui otterremo la diidrolipoammide. Una porzione del piruvato si lega covalentemente all’acido
lipoico: si tratta della struttura acetilica; si forma cosi l’acetil-lipoammide. La caratteristica di usare i
residui di lisina per legare i coenzimi in modo covalente non è esclusiva dell’acido lipoico; ci sono altri
coenzimi come la biotina che sono legati con lo stesso stratagemma ad un residuo di lisina in altri
enzimi, come la piruvato carbossillasi, responsabile della formazione dell’acetaldeide da cui poi si ricava
l’etanolo nella fermentazione alcolica, sfruttata da alcuni microorganismi per produrre energia, e alla
base della fermentazione di alcuni alimenti.
H

2 2

- -
CForma
ossidata) Nicotinammide
R

0H
7 (ridotto)

- =>Il Adenina

--

nel
qquie
NAOP
7

Is s'
-

orma ossidata

11 Forma violotta
SH SH
Tornando all’enzima piruvato deidrogenasi, i suoi siti catalitici vengono indicati come veri e propri enzimi,
ma si tratta semplicemente di differenti domini catalitici dello stesso enzima; allo stesso modo, le subunità
di una struttura quaternaria vengono definite proteine. Il primo dominio catalitico viene chiamato piruvato
deidrogenasi; il secondo, che lega il lipoato, è definito diidrolipoin-transacetilasi e il terzo è chiamato
diidrolipoin-deidrogenasi. Al primo dominio catalitico si lega la tiammina pirofosfato o TPP, mentre al terzo è
legata covalentemente una molecola di FAD. Alla reazione partecipano anche Conzima A e il NAD.

La tiammina pirofosfato è caratterizzata da una porzione rappresentata da una vitamina: la tiammina o


vitamina B1. La nicotinammide, invece, è indicata come vitamina B3. Le vitamine vengono classificate in
base alle loro caratteristiche chimico fisiche in vitamine del gruppo A, B, C eccetera. Anche la vitamina B1
viene in genere assunta con la dieta e trasformata in un coenzima, attraverso il legame ad essa di due
gruppi fosfato o gruppo pirofosfato. La porzione reattiva del TPP è data da un carbonio, che contrariamente
ad una situazione normale è acido. Infatti il carbonio si trova in un anello eterociclico accanto allo zolfo e
all’azoto e assume caratteristiche acide, e l’idrogeno legato al carbonio si può staccare: il carbonio assume
carica negativa e si costituisce un carbanione. Il carbanione è in grado di effettuare un attacco nucleofilico,
legandosi potenzialmente ad un altro atomo di carbonio.

Pirofosfato
- t

c -
-S
/
7

mina
(vitamina BI)

La prima reazione avviene attraverso il dominio E1, quindi il primo coenzima a reagire è la tiammina-
pirofosfato. Attraverso la struttura carbanionica viene effettuato un attacco nucleofilo: all’attacco
nucleofilico del TPP corrisponde il distacco di un gruppo uscente, rappresentato dal gruppo carbossilico del
piruvato, che si stacca formando una molecola di anidride carbonica; ciò che rimane del piruvato è legato al
TPP. Non siamo ancora arrivati alla struttura dell’acetil-lipoammide, perché abbiamo una struttura che porta
un gruppo -OH, ossia ridotta: questa dev’essere ossidata per essere trasformata in una struttura acetilica.
La reazione n.2 è infatti una reazione di ossidazione del carbonio acetilico, con riduzione dell’acido lipoico o
lipoato. Uno dei due gruppi sulfidrilici ora libera lega l’acetile. Il terzo step è una reazione di trans-tio-
esterificazione: abbiamo l’acetile legato come tioestere alla struttura dell’acido lipoico ridotto, e al posto di
questa entra il gruppo sulfidrilico del Coenzima A, e si viene a formare un tioestere dell’acetile con l’enzima
A, cioè appunto l’acetil CoA. L’acido lipoico rimane nella forma ridotta dopo la terza reazione. Lo step n.4
vede l’intervento del dominio catalitico E3: l’acido lipoico torna nella forma ossidata e il FAD viene ridotto.
Nel quinto ed ultimo step, per tornare alla forma originale dell’enzima, dev’essere ossidato il FADH2, e per
questo gli elettroni vengono trasferiti al coenzima diffusibile NAD+, che viene ridotto in NADH, mentre il
FADH2 viene riossidato in FAD.

L’acido lipoico è legato al dominio E2 attraverso un residuo di lisina, nella cui catena laterale sono presenti
quattro atomi di carbonio e un atomo di azoto ammidico: dalla loro interazione si costituisce una struttura
allungata, che come una sorta di braccio oscilla tra il dominio E1 al diminio E3: dal dominio E1 prende
l’intermedio ottenuto attraverso la reazione con la TPP e poi lo passa l’intermedio al Coenzima A. La forma
ridotta di questa struttura viene ossidata dal dominio E3, quindi si deve spostare dal dominio E1 dove ha
preso l’acetile al dominio E3 dove la struttura dell’acido lipoico verrà riossidata attraverso il FAD.
CoA-SH
CHICY
4- S-CoA

.
CH, S
-

SH

CO2 SH

NAPH Ht+

·FAPHz
NAO
Er Ez
Es
Piruvato deidrogenasi Pidroligoil transacetilasi
Diidrolipoil deidrogenasi
Queste reazioni avvengono nei mammiferi nella matrice mitocondriale. L’enzima piruvato deidrogenasi
è infatti un enzima mitocondriale. Perchè il piruvato possa essere trasformato in Acetil CoA dovrà
passare attraverso la membrana mitocondriale esterna e la membrana mitocondriale interna. Per
passare nella membrana mitocondriale interna il piruvato dovrà essere importato legandosi ad una
proteina, il trasportatore del piruvato. Sempre nella matrice l’acetil CoA prodotto reagisce in una serie
di reazioni dette ciclo dell’acido citrico. Nei procarioti il ciclo di Krebs avviene nel citoplasma, non
essendo questi organismi dotati di mitocondri e più in generale di organuli.

Il ciclo comincia con la condensazione tra acetil Coenzima A e ossalacetato, che è un chetoacido
dicarbossilico, costituito da quattro atomi di carbonio. L’acetile contiene invece due atomi di carbonio:
in totale, nella struttura dell’acido citrico, abbiamo sei atomi di carbonio. Attraverso le reazioni del ciclo
di Krebs si ritorna all’ossalacetato, a quattro atomi di carbonio, e quindi due atomi di carbonio nel ciclo
di Krebs si perdono, sotto forma di anidride carbonica.

Dal citrato a sei atomi di carbonio passiamo all’isocitrato, con una struttura molto simile a quella del
citrato, infatti contiene lo stesso numero di atomi di carbonio. Perdendo un atomo di carbonio nella
trasformazione dell’isocitrato si ottiene chetoglutarato, il chetoacido in cui il gruppo carbonilico è in alfa
rispetto ad uno dei due gruppi carbossilici che caratterizzano la struttura dell’acido glutarico, a cinque
atomi di carbonio. Dal chetoglutarato si ottiene un derivato del succinato, il succinil coenzima A: l’acido
succinico o succinato è un acido dicarbossilico a quattro atomi di carbonio. Da qui in poi si conservano
quattro atomi di carbonio, passando al fumarato o acido fumarico, al malato e infine all’ossalacetato.
L’ossalacetato è un intermedio del metabolismo glucidico, che può essere utilizzato anche per
rigenerare glucosio, principalmente a livello del fegato, che durante il digiuno produce zucchero che
viene immesso nel torrente circolatorio, per evitare l’ipoglicemia.
Lo zucchero è l’unico elemento insieme agli amminoacidi di cui il cervello si serve dal punto di vista
energetico, perchè gli acidi grassi, che anche sono in grado di produrre Acetil-CoA, circolano nel sangue
legati alle lipoproteine, che non in grado di attraversare la barriera ematoencefalica. Per questo quando ci si
trova in una condizione di ipoglicemia si sragiona.

Attraverso le reazioni del ciclo di Krebs si formano diversi coenzimi ridotti. Abbiamo tre deidrogenasi che
utilizzano NAD formando NADH. La prima deidrogenasi utilizza come substrato l’isocitrato (isocitrato
deidrogenasi); la seconda deidrogenasi il chetoglutarato (chetoglutarato deidrogenasi); la terza
deidrogenasi produce l’ossalacetato a partire dalla malato (malato deidrogenasi). Un’altra deidrogenasi usa
invece il FAD per ossidare il fumarato in malato (malato deidrogenasi). L’enzima che catalizza la sintesi del
citrato prende il nome di citrato sintasi. Ricordiamo che gli enzimi sintasi sono quelli che non impiegano i
nucleotidi trifosfato, mentre gli enzimi sintetasi impiegano i nucleotidi trifosfato. Il nucleotide trifosfato
coinvolto nel ciclo di Krebs nei mammiferi è il GTP. L’enzima che catalizza la produzione di succinato a
partire dal succinil coenzima A prende il nome dalla reazione opposta, e si parla quindi di succinil coenzima
A sintetasi.

Le deidrogenasi che producono NADH sono l’isocitrato deidrogenasi, la chetoglutarato deidrogenasi e la


malato deidrogenasi; la deidrogenasi che produce FADH2 è invece la succinato deidrogenasi.

L’acetil coenzima A reagisce con l’ossalacetato. L’ossalacetato è un acido dicarbossilico a quattro atomi di
carbonio con gruppo cheto in alfa (legato ad un carbonio adiacente al gruppo carbossilico). Ossalacetato e
acetil CoA vanno a formare un acido a sei atomi di carbonio, che è l’acido citrico, un acido tricarbossilico.

SH

CH2-c
/
C d I

Is-CoA
C. sinta si

CH2-COO
Acetil-CoA Ossalacetato Citrato

La successiva reazione trasforma il citrato in isocitrato, ed è catalizzata dall’enzima aconitasi, poichè


l’intermedio della reazione prende il nome di aconitato, in particolare nella forma cis. Avviene una reazione
di deidratazione con formazione del doppio legame, e poi una reazione di idratazione: si lega di nuovo una
molecola d’acqua, però il gruppo OH non ritorna più nella stessa posizione, con ottenimento di una
molecola diversa. La struttura del citrato è simmetrica, nel senso che il gruppo ossidrile è legato al carbonio
centrale della molecola.
20
CH2
I CHz C CH2

(-200 H CCOO
P
-
C

i
I
--LOO-
E
C 10 C H

COO
Citrato cis-acomitato I socitrato
Dall’isocitrato si forma il chetoglutarato e da questo si forma il succinil CoA, e da questo poi il succinato
attraverso l’enzima succinil CoA sintetasi. Dall’ossidazione del succinato si ottiene il fumarato (si forma un
doppio legame) e la specie riducente è il coenzima FAD. Una volta formato il doppio legame abbiamo poi
una reazione di idratazione e si forma il malato o acido malico; infine il gruppo -OH della molecola ottenuto
per idratazione viene ossidato per formare il carbonile, tipico della struttura dell’ossalacetato.

Ricapitolando: L’acetil CoA assieme all’ossalacetato dà una reazione di condensazione: il coenzima A potrà
reagire liberandosi con un’altra molecola di piruvato per riformare l’acetil coA; in questa maniera la
concentrazione del coenzima A nella matrice mitocondriale rimane costante. Stesso discorso vale tra l’altro
per la reazione che dal Succinil CoA porta al succinato. Si tratta di una reazione fortemente esoergonica,
quindi l’enzima citrato sintasi nel corso dell’evoluzione è divenuto un enzima regolatorio del ciclo di Krebs.

Se non c’è necessità di ossidare l’acetil coA, questo può essere utilizzato in altri modi, come per la
formazione dei corpi chetonici; quindi l’enzima citrato sintasi può essere regolato in funzione della
presenza di alcuni effettori allosterici che segnalano lo stato metabolico dell’organismo.

La terza reazione, catalizzata dall’isocitrato deidrogenasi è una reazioni fortemente esoergonica: l’isocitrato
viene ossidato producendo chetoglutarato e una molecola di anidride carbonica. Di isocitrato deidrogenasi
ce n’è più di una: alcuni di questi enzimi utilizzano il NADP al posto del NAD, ma non ci sono enzimi che
possano utilizzare l’uno o l’altro. La capacità catalitica comunque è la stessa. Si dicono isoenzimi due
enzimi che catalizzano la stessa reazione, ma catalizzandola in maniera diversa; la reattività è identica. Gli
isoenzimi presentano lo stesso nome, ma possono essere distinti attraverso lettere maiuscole dell’alfabeto.
Una delle caratteristiche che può differenziare gli isoenzimi è la loro localizzazione subcellulare: per
esempio l’isocitrato deidrogenasi del ciclo ci Krebs è un’isoforma che trova nella matrice mitocondriale,
mentre ce n’è una nel citoplasma che usa solo NADP. In alcuni organismi c’è una isocitrato deidrogenasi
che si trova nei mitocondri e che si trovano solo NADP.

H COz
C- CHz -

c -

4 -
c C CHz-C -C

Isocitrato NAOP
NAOPH
a -

Chetoglutarato
Dopo la formazione del chetoglutarato, questo viene convertito per ossidazione da un complesso
enzimatico molto simile alla piruvato deidrogenasi in Succinil CoA. Se prendessimo la molecola del
chetoglutarato e staccassimo due atomi di carbonio otterremo un chetoacido: il piruvato, che è un acido
chetocarbossilico, ma presenta 2 atomi di carbonio in meno del chetoglutarato. Nel complesso enzimatico
dell’alfa chetoglutarato deidrogenasi il substrato non è il piruvato, ma la reazione è del tutto identica. Nel
caso della piruvato deidrogenasi si forma l’acetil CoA, mentre qui si perde un gruppo carbossilico con
formazione di una molecola di anidride carbonica. Fanno parte di questo complesso l’acido lipoico, il FAD e
il TPP. Cosi come avveniva per il complesso della piruvato deidrogenasi anche qui si riduce una molecola di
NADH per riossidare poi il FAD. Dal succinil CoA abbiamo il succinato attraverso l’enzima succinil coenzima
A sintetasi: nonostante in questa reazione intervenga il GTP, in realtà è come se stessimo producendo ATP,
perchè poi il GTP cede un suo gruppo fosfato all’ADP. Una volta formato il succinato questo si ossida per
dare il fumarato; questo viene idratato a dare malato e infine viene deidrogenato in ossalacetato, e si
torna al punto di partenza del ciclo di Krebs.
CA-SH
CH2-C
CH2C

sitirestato
I

vicee a

CHz
C LOO-

cinil-Lot
ToA-SH,
-

CH2 CH2

c S-CoA iz
COO
Succinil -CoA Succinato

FA FAPHz H 200

HC
COO-

-
H
- C

C
H -
C H -

Succinato H
COO- deidrogenasi C

Succinato Fumarato
H
H 200 H COO C
C H C

I
C FumarasiCOH Fumarasi L

003
-

C H

Fumarato Malato

NAtt NAPH +
Ht

C C

H C H C
deidrogenasi
C C
2

C C

Malato salacetato
Gli intermedi del ciclo di Krebs sono anche il punto di partenza per la sintesi. Quindi il ciclo di Krebs non
è solo importante perché ci consente di ossidare l’acetil CoA e quindi di produrre coenzimi ridotti, ma
anche perchè gli intermedi del ciclo di Krebs sono il punto di partenza per numerose vie anaboliche;
l’ossalacetato è il punto di partenza per la gluconeogenesi; il citrato è invece il punto di partenza per la
sintesi dei lipidi, sia degli acidi grassi sia dei lipidi di tipo steroideo, come il colesterolo. A partire dal
chetoglutarato per transamminazione si forma il glutammato, da cui si possono ottenere numerosi altri
amminoacidi, come l’arginina, o anche le basi azotate puriniche. Il gruppo eme si viene a formare a
partire dal succinil CoA. Dall’ossalacetato si formano alcuni amminoacidi per transamminazione, glucosio
e fosfoenolpiruvato, precursore di ulteriori amminoacidi.

Se gli intermedi del ciclo di Krebs vengono continuamente utilizzati per l’anabolismo arriverà un
momento in cui non ci saranno più e quindi l’acetil CoA non potrà più essere ossidato. Per questo vi sono
delle vie anaplerotiche che riforniscono il ciclo di krebs. Dal piruvato per esempio si può ottenere
l’ossalacetato o il malato. Dal glutammato si possono ottenere altri intermedi. Questo è il motivo per cui
in carenza di zucchero o digiuno prolungato vengono utilizzati gli amminoacidi per produrre intermedi del
ciclo di Krebs, che poi serviranno come punto di partenza per la sintesi di glucosio per le funzioni
cellulari. Il fosfoenolpiruvato può essere impiegato per ottenere ossalacetato. Le reazioni anaplerotiche
hanno sempre origine dallo zucchero glucosio o da amminoacidi, ma mai dai lipidi: perchè dal
catabolismo dei grassi si ottiene acetil CoA, ma con quest’ultimo non si possono ottenere intermedi del
ciclo di krebs, potendo essere solo ossidato.

Se volessi consumare grassi attivo la fibra muscolare per esempio, che consuma grassi, produco acetil
CoA: ma se questo non trova sufficiente ossalacetato non può essere ossidato. Ergo, senza carboidrati
non ci sono intermedi del ciclo di krebs, e quindi l’acetil coenzima A non può essere ossidato, e gli acidi
grassi rimangono dove stanno.
LEZIONE IX - FOSFORILAZIONE OSSIDATIVA

Per ogni molecola di AcetilCoA che viene impiegata nelle reazioni del ciclo di Krebs si producono tre
molecole di NADH e una molecola di FADH2; i coenzimi vengono riossidati attraverso un processo,
chiamato respirazione, che avviene nei mitocondri a livello della membrana mitocondriale interna,
semipermeabile e che non consente il libero passaggio degli ioni attraverso di essa. In questa membrana
sono presenti diversi elementi che permettono di trasferire gli elettroni dai coenzimi ridotti all’ossigeno,
che rappresenta l’accettore finale di questi elettroni. Uno di questi elementi di trasferimento elettronico è
l’ubichinone, che ha la struttura ciclica con due carbonilici in posizione para e una catena idrofobica
determinata dalla ripetizione di un elemento a cinque atomi di carbonio, che si ripete per ben 10 volte; si
tratta di una catena idrofobica molto lunga, che consente all’ubichinone di localizzarsi nel bilayer lipidico
della membrana mitocondriale interna. Questa molecola, come altre che si trovano nella catena di
trasporto degli elettroni non fanno altro che ricevere elettroni riducendosi e cedere elettroni, ossidandosi,
in una catena che prende complessivamente il nome di catena di trasporto degli elettroni. Le reazioni di
riduzione dell’ubiquinone prevedono l’ottenimento prima di una forma semiridotta della molecola, per poi
giungere a quella completamente ridotta, rappresentata dall’ubichinolo.

Altri elementi di trasferimento degli elettroni sono rappresentati dai centri eme, caratteristico per esempio
dell’emoglobina o della mioglobina, nei quali è presente uno ione ferro. Nell’eme dell’emoglobina la carica
dello ione ferro è +2, mentre nelle proteine della catena di trasporto degli elettroni che li possiedono,
chiamate citocromi, il ferro dell’eme può essere ridotto oppure ossidato: quando si ossida passa allo stato
redox +2 a +3, mentre quando si riduce passa dallo stato +3 a +2: quindi questi gruppi possono
trasferire un elettrone per volta, mentre l’ubichinone può trasferire due elettroni. A seconda dei gruppi
costituenti che caratterizzano la struttura di ogni eme questi vengono classificati in diverse categorie,
come gruppi Eme A, B e C e cosi via; questi hanno caratteristiche chimiche redox simili ma proprietà
spettrali differenti perché il livello di coniugazione dei doppi legami dell’anello protoporfirinico tende a
variare in base ai gruppi sostituenti. Al di là di ciò la reattività è la stessa, e gli Eme rappresentano i
gruppi prostetici dei citocromi, che forniscono il nome a questi ultimi (es. citocromo A, citocromo B)
In queste categorie abbiamo poi dei sottogruppi, come il citocromo C1, C2 eccetera.

Un altro elemento di trasferimento degli elettroni è il gruppo ferro-zolfo, la cui nomenclatura dipende dagli
atomi che li costituiscono; il ferro è legato mediante un legame di coordinazione allo zolfo, che a sua volta
fa parte della struttura di residui di cisteina della proteina che contiene il centro ferro-zolfo. La capacità
dei centri ferro-zolfo di trasferire elettroni dipende sempre dalla capacità del ferro di ridursi o di ossidarsi.
Il potenziale redox indica la maggiore o minore propensione di una semicoppia redox di cedere o
accettare elettroni; quando il potenziale redox è basso la semicoppia tende a ossidarsi, cioè cedere
elettroni, mentre quando il potenziale redox è alto la coppia tende ad accettare gli elettroni: la coppia
con il potenziale redox più alto è quella ossigeno-acqua, che tende ad accettare elettroni e quindi è
una coppia ossidante; durante il trasferimento degli elettroni questi passano ad una serie di macchinari
per poi arrivare all’ossigeno, e questa è la base della respirazione cellulare: il nostro organismo
consuma continuamente ossigeno e la maggior parte di quest’ultimo viene impiegato per trasferire gli
elettroni che si formano a seguito delle reazioni del ciclo di Krebs; questi elettroni riducono i coenzimi
e i coenzimi ridotti attraverso una catena di trasporto elettronica mitocondriale giungono all’ossigeno;
per cui noi consumiamo continuamente ossigeno e produciamo continuamente acqua, per riduzione
dell’ossigeno. Il secondo sottoprodotto dell’ossidazione dei substrati a cominciare dal glucosio è
l’anidride carbonica: nelle reazioni del ciclo di Krebs si formano due molecole di anidride carbonica per
ogni molecola di Acetil CoA che si consuma; e prima ancora nell’ossidazione del piruvato si forma una
molecola di anidride carbonica per ogni molecola di Acetil CoA che si produce. Quindi se mettiamo
insieme la glicolisi, l’enzima piruvato deidrogenasi e il ciclo di krebs gli atomi di carbonio del glucosio
sono completamente ossidati a produrre 6 molecole di anidride carbonica. Nella fase di espirazione
polmonare noi emettiamo nell’ambiente le molecole di anidride carbonica che si formano durante
questi processi, mentre nell’ inspirazione assumiamo ossigeno per l’ossidazione dei coenzimi che
vengono continuamente ridotti nelle reazioni del ciclo di Krebs.

La coppia NAD-NADH ha un potenziale redox molto basso, quindi tende ad ossidarsi funzionando da
riducente: gli elettroni vengono ceduti dal NADH per riossidarsi in NAD, in modo da intervenire
nuovamente nel ciclo di Krebs. Se non fosse possibile riossidare il NAD, il ciclo di Krebs, ma non solo,
non potrebbe avvenire. Il motivo per cui la respirazione avviene è proprio quello di riossidare i
coenzimi. Stesso discorso vale per il FAD e per l’FMN; questi presentano un potenziale superiore
rispetto a quello NAD-NADH e inferiore alla coppia ossigeno/acqua, e in questo intervallo troviamo
anche diverse tipogie di citocromi. Gli elettroni passano dalla coppia redox a più basso potenziale a
quella con potenziale più alto. Quindi gli elettroni anziché passare direttamente dal NADH all’ossigeno
passano attraverso una serie di intermedi, che fanno parte di complessi macromolecolari di strutture
proteiche quaternarie chiamati complessi della catena respiratoria.
Il primo complesso è definito complesso 1, perché è il primo che riceve elettroni dal NADH, e infatti è
anche definito NADH deidrogenasi. Il sito catalitico di questo enzima è rivolto verso la matrice
mitocondriale; infatti nella matrice il NAD viene ridotto in NADH e questo poi cedera gli elettroni agli
intermedi presenti nella struttura del complesso 1, che li trasferirà all’ubichinone o coenzima Q. A partire
dall’ubichinolo, forma ridotta dell’ubichinone gli elettroni vengono trasferiti ad un altro complesso,
chiamato complesso III; da questo gli elettroni vengono portati al citocromo C, che non fa parte della
membrana mitocondriale ma fa da spola per spostare gli elettroni dal complesso III al complesso IV e
infine gli elettroni, attraverso gli elementi di trasferimento elettronico del complesso IV giungono
all’ossigeno che è ridotto in acqua.

Abbiamo saltato il complesso II, perché questo, piuttosto che essere sequenziale e trovarsi in posizione
intermedia fra complesso I e III risulta alternativo al complesso I: il complesso I riceve elettroni dal NADH,
mentre il complesso II riceve gli elettroni dal FADH2; in entrambi i casi gli elettroni giungono poi
all’ubichinone. In realtà il complesso II non è altro che l’enzima succinato deidrogenasi del ciclo di Krebs,
cioè quell’enzima che ossida il succinato in fumarato. Di questo enzima il gruppo prostetico è il FAD:
mentre il succinato viene ossidato a fumarato, il FAD si riduce a FADH2 e poi gli elettroni attraverso
elementi di trasferimento elettronico via via arriveranno all’ossigeno. Quindi la respirazione cellulare
mitocondriale ha due punti di ingresso per gli elettroni; una per il NAD e una per il FAD.

Questi complessi risultano altamente organizzati: basti pensare che il complesso I è costituito nell’uomo da
42 subunità che vengono assemblate ordinatamente per svolgere il compito di ossidare il NADH. Fanno
parte della struttura del complesso I due gruppi prostetici in grado di trasferire elettroni: uno è l’FMN,
l’altro è un centro ferro-zolfo. Di 42 subunità 14 sono codificate dal genoma mitocondriale. La sequenza del
DNA mitocondriale esprime anche alcuni tRNA, importanti nel processo di traduzione. Il cromosoma
mitocondriale non è lineare come quelli del nucleo, ma è un cromosoma circolare, e questa caratteristica è
tipica dei batteri, rappresentando dunque una delle caratteristiche che avvalorano la teoria dell’origine
endosimbiontica di questi organuli. Ciò che rimane del DNA originale del batterio è il cromosoma
mitocondriale, e alcune delle subunità dei complessi della catena respiratoria, in particolar modo del
complesso I e del complesso IV sono codificati da esso. Avendo due genomi che codificano per componenti
dello stesso complesso, l’attività di quest’ultimo può essere regolata in maniera più fine.

Considerando il complesso I, ricordiamo che quest’ultimo è dotato di un FMN e di un centro ferro-zolfo,


oltre che di altri elementi di trasporto degli elettroni fin quando questi non giungono all’ubichinone, ridotto
in ubichinolo. Mentre gli elettroni passano da un intermedio all’altro, a partire dal NADH fino all’ubichinone
alcuni protoni vengono spinti dalla matrice allo spazio intermembrana: per ogni coppia di elettroni legati
all’ossidazione della molecola di NADH vengono spinti alla matrice allo spazio intermembrana 4 protoni.
Questo produce un gradiente elettrico; il lato della matrice viene per questo definito lato N o negativo,
mentre invece lo spazio intermembrana è carico positivamente; ma si tratta anche di un gradiente chimico,
perché ci saranno meno elettroni nella matrice e più protoni nello spazio intermembrana. Questo gradiente
che si viene costituire per i complessi della catena respiratoria viene definito gradiente elettrochimico
protonico; protonico perché è costituito da protoni, elettrico perché si spostano cariche elettriche e chimico
perchè, se cambia la concentrazione degli ioni idrogeno avremo un diverso pH, ossia lo spazio
intermembrana è più acido rispetto alla matrice.

Il complesso III della catena respiratoria, che riceve elettroni dall’ubichinolo presenta centri ferro-zolfo, un
citocromo di tipo C1; il complesso III si lega ad una molecola di citocromo C, che lega l’elettrone e lo
sposta al complesso IV. L’elettrone passa attraverso il complesso IV in cui ci sono degli ioni rame che si
possono ridurre e poi ossidare, dei centri Eme A e A3 e infine gli elettroni giungono all’ossigeno per
formare acqua. Anche in questo caso vengono pompati protoni contro gradiente, dalla matrice verso lo
spazio intermembrana. Per ogni coppia di elettroni che passa attraverso la catena respiratoria e quindi per
ogni molecola di NADH ossidata vengono pompati 4 protoni dal complesso I, 4 protoni dal complesso III e
due protoni dal complesso IV: in totale 10 protoni. Se invece il coenzima ridotto è il FADH2 questo passa al
complesso II, e in questo caso per ogni coppia di elettroni verranno pompati 6 protoni contro gradiente,
dato che il complesso II non pompa alcun protone. Questi protoni una volta formatosi il gradiente
elettrochimico vengono impiegati in una macchina molecolare per produrre ATP. Questa macchina viene
chiamata ATP sintasi.
I protoni rientrano nella matrice, quindi attraversano la membrana mitocondriale interna attraverso il
dominio dell’ATPasi presente nella membrana stessa. Questo dominio viene indicato come FO, perché un
antibiotico, l’oligomicina, è in grado di legare questo dominio inibendo la respirazione batterica.
L’oligomicina si lega infatti a basse concentrazioni nell’ATPasi presente nei batteri, dove i mitocondri non ci
sono e la respirazione avviene nella membrana plasmatica.

La sintesi dell’ATP avviene nella matrice, attraverso una porzione dell’ATPasi detta F1, che sporge nella
matrice. Il dominio integrale di membrana è costituito da un anello di subunità di tipo C. Il dominio F1 che
sporge nella matrice, è costituito da subunità che prendono il nome dalle lettere greche. I protoni passano
dallo spazio intermembrana allo spazio della matrice, passando da una subunità all’ altra di tipo C, che
formano una sorta di anello; una volta completato il giro il protone passa nella matrice, e mentre passa da
una subunità C all’altra una subunità epsilon si muove seguendo le modificazioni conformazionali che
derivano dal legame con il protone dell subunità C: in pratica il protone si lega al residuo di glutammato di
ognuna delle subunità C dell’anello e legando il protone le subunità modificano la loro conformazione,
legando epsilon. Quindi quando il protone gira epsilon tende a ruotare. Legata ad epsilon c’è la subunità
gamma, che rappresenta l’asse; se gira epsilon gira anche gamma, e girando impone un cambiamento
conformazionale ciclico alla struttura formata da subunità alfa beta, simile alla parte superiore di un
ombrello, di cui gamma è il bastone. All’interno della struttura Alfa/Beta abbiamo 3 siti di legame: ogni sito
è l’interfaccia tra una subunità Alfa e una subunità Beta: in totale abbiamo tre subunità Alfa e tre subunità
Beta. Ad ogni interfaccia tra Alfa e Beta corrisponde un sito di legame, che in totale sono tre.

Questi tre siti di legame cambiano conformazione, per cui uno di questi lega ATP, che è il prodotto; uno lega
ADP e fosfato che sono i substrati della sintesi dell’ATP e il terzo è vuoto. Man mano che Gamma gira,
cambia la conformazione di questi siti, per cui il sito che prima legava l’ATP si apre e la molecola esce, e il
sito rimane vuoto; il sito che legava ADP e fosfato si chiude e sintetizza ATP; quello che era vuoto accetta
ADP e fosfato riempiendosi. E cosi il ciclo continua. Ad ogni ciclo i tre siti catalitici cambiano conformazione
ciclicamente: non si muovono, anche se sembra che girino. In realtà ogni elemento rimane al suo posto,
mentre la parte che gira è Gamma. In questa maniera per ogni 4 protoni che passano dallo spazio
intermembrana alla matrice si forma una molecola di ATP. Questa stechiometria varia un po’ da organismo
ad organismo e in base alle condizioni di polarizzazione della membrana.

Affinché questa struttura funzioni, è necessaria però un’altra struttura che collega FO, il dominio
intermembrana con F1: questa struttura è detta statore, e tiene ancorato F1 alla membrana, in modo tale
da evitare che quando gamma gira, ruota anche F1.


Fl

F
Lo stesso meccanismo dell’ATP sintasi viene sfruttato dai batteri per la locomozione mediante flagello. Nella
membrana batterica è presente una struttura molto simile all’anello di subunità C dell’ATPasi; qui i protoni
passano dall’ambiente esterno al citoplasma, e contemporaneamente fanno ruotare una proteina a cui è
legato il flagello: ruotando la proteina ruoterà anche il flagello, comportandosi similmente all’elica che
impartisce movimento ad un’imbarcazione.

Perchè si possa formare ATP nella matrice non è sufficiente l’ATPasi, ma bisogna continuamente rifornire la
matrice di fosfato e ATP. Per l’ingresso nella matrice di fosfato c’è un trasportatore che è in realtà è un
trasportatore del tipo simporto: assieme alla molecola di fosfato entra anche un protone. Uno ione fosfato
ha carica negativa, ma la membrana mitocondriale interna è polarizzata, e sappiamo che il lato negativo è
quello esterno. Uno ione negativo non potrebbe mai muoversi spontaneamente nella matrice, e quindi per
il trasporto del fosfato si impiega il trasporto contemporaneo di uno ione carico positivamente,
rappresentato da ioni idrogeno, abbondanti nello spazio intermembrana per il gradiente elettrochimico
costituitosi.

Questo stesso meccanismo è sfruttato dai batteri per far entrare certe molecole, come il glucosio. I batteri
utilizzano il gradiente elettrochimico costituitosi a seguito della respirazione per far entrare il glucosio.
Essendoci un gradiente elettrochimico di protoni il glucosio tende ad essere accumulato nella cellula, anche
se la concentrazione della molecola all’esterno dovesse essere bassa. L’ATP che si forma poi viene fatto
uscire attraverso il sistema del carrier dell’ATP o traslocatore degli adenin-nucleotidi che scambia in modo
equimolare ATP e ADP: quindi esce il prodotto, l’ATP ed entra il substrato, l’ADP, per la sintesi di una nuova
molecola di ATP. L’ATP ha più cariche negative dell’ADP, quindi nello scambio equimolare tra queste due
molecole c’è una carica negativa netta che si sposta dall’interno all’esterno, a favore del potenziale
elettrico. Quindi la formazione del potenziale elettrochimico non serve solo a produrre ATP, ma serve anche
a sostenere tutti i processi di trasporto indispensabili perché avvenga la fosforilazione ossidativa.

Vediamo adesso il calcolo del DeltaG nel trasporto di molecole attraverso la membrana. Il DeltaG si calcola
come somma di due fattori: uno è il DeltaG standard, e l’altro è un fattore che tiene conto della differenza
di concentrazione tra substrati e prodotti, dove i prodotti sono al numeratore di un’espressione logaritmica
e i substrati sono al denominatore. Non stiamo parlando di una reazione chimica vera e propria, ma
parliamo più che altro di uno spostamento da un luogo ad un altro. Il DeltaG zero non c’è perché in
condizioni standard la concentrazione è la stessa da una parte e dall’altra. Se quindi abbiamo una reazione
di trasporto in condizioni standard da una parte all’altra la concentrazione è la stessa, cosi come la natura
chimica, perché non c’è stata alcuna trasformazione. Quindi lo stato del soluto a sinistra e a destra dal
punto di vista energetico sono uguali: il DeltaG è zero. Il valore del DeltaG dipende dalla concentrazione,
perché in genere la concentrazione da una parte all’altra dello stesso soluto non è la stessa. Quando il
DeltaG è negativo il rapporto logaritmico è negativo, cioè laddove il denominatore è maggiore del
numeratore, e quindi la concentrazione dei substrati e maggiore della concentrazione dei prodotti. Ergo, il
passaggio attraverso membrana di un soluto secondo il suo gradiente è un fenomeno spontaneo, tanto che
talvolta viene definito come un processo che non ha bisogno di meccanismi particolari, ma si parla di
diffusione. In realtà la diffusione per membrana non esiste: infatti quando andiamo a vedere nello specifico
come avvengono le cose troveremo una proteina di trasporto. Se la concentrazione al denominatore è
minore di quella al numeratore il logaritmo sarà positivo: in questo caso il DeltaG sarà positivo, e quindi è
una reazione di trasporto che non può avvenire spontaneamente; potrà avvenire solo se accoppiata ad un
processo esoergonico. Questo è ciò che avviene nella catena respiratoria. Nei complessi della catena
respiratoria mentre i protoni vengono pompati contro gradiente (DeltaG positivo) avviene assieme ad un
fenomeno esoergonico o spontaneo (DeltaG negativo), ossia il passaggio degli elettroni da una specie con
un potenziale redox più basso ad una specie con potenziale redox più alto. Questi due fenomeni non
possono avvenire separatamente, perché il processo con DeltaG positivo non può avvenire in maniera
spontanea, ma noi li possiamo separare per le proprietà della funzione di stato G.
Si può calcolare quanto è grande DeltaG per il trasporto se il gradiente di concentrazione è 10 volte: se
uno ione passa da uno spazio in cui è 10 volte più concentrato rispetto all’altro quando passa attraverso la
membrana avremo un DeltaG negativo: se il soluto è carico non dobbiamo tener conto solo della differenza
di concentrazione ma anche della differenza di carica, e in questo caso viene introdotto un nuovo termine
che tiene conto della carica degli elettroni, Z. Andiamo ad applicare questo discorso ai protoni e alla
membrana mitocondriale interna. Al numeratore abbiamo la concentrazione dei protoni nello spazio
intermembrana, mentre al denominatore la concentrazione protonica nel luogo di partenza, ossia la
matrice. Semplicemente utilizzando la definizione di pH noi possiamo trasformare l’espressione del
logaritmo naturale in un logaritmo decimale, per cui possiamo esprimere il logaritmo naturale del rapporto
della concentrazione dei protoni come differenza del valore del pH tra matrice e spazio intermembrama;
quando abbiamo a che fare con i protoni la carica Z vale +1. Se mettiamo al posto dei membri dei numeri
reali in condizioni fisiologiche la differenza di pH tra spazio intermembrana e matrice, che è poco meno di
0,75 unità di differenza, il potenziale elettrico è di circa 0,2-0,15 kJ. Si verifica sommando i termini che per
trasferire una mole di protoni contro gradiente nei mitocondri occorre spendere circa 20 kJ/mol; il numero
di protoni spinti contro gradiente dipenderà dall’energia a disposizione. L’energia a disposizione deriva
dall’ossidazione del NADH, e potrò calcolare il DeltaG tra la coppia NAD-NADH e ossigeno/acqua. Quasi
tutta l’energia prodotta viene utilizzata per spingere protoni, perché poi questi protoni potranno essere
impiegati per sintetizzare ATP, molecola alla quale è legata la funzione cellulare.

Ma perché passare da un intermedio all’altro? Tanti più sono i passaggi intermedi nel trasferimento, tanto
più è efficiente il trasferimento di energia. Facendo un esempio, supponiamo di voler salire su una collina,
attraverso una rampa di scale; sicuramente lo sforzo risulterà inferiore rispetto a se avessimo raggiunto la
vetta della stessa collina con un pendio molto ripido. La catena respiratoria funziona allo stesso modo.

Consideriamo adesso il FAD. Se gli elettroni nella catena di trasporto sono presi dal NAD guadagno 10
protoni, mentre se i due elettroni sono presi dal FAD i protoni sono 6. Ma perché? Mentre il potenziale
redox della coppia NAD-NADH è 0,3, mentre il potenziale della coppia redox FAD-FADH2 è zero, quindi la
differenza di potenziale rispetto all’ossigeno è inferiore, ergo l’energia necessaria per pompare i protoni è
sempre la stessa, ma l’energia liberata dall’ossidazione del FADH2 è inferiore. Questo è anche la ragione
del vantaggio dell’ossigeno rispetto al carbonio: quanto più sono distanti il substrato che si ossida e
l’accettore degli elettroni, tanto più sarà l’ATP prodotto e le funzioni che si possono mantenere.

Tutte le reazioni di ossidazione generano coenzimi ridotti: per esempio l’ossidazione del glucosio a piruvato
durante la glicolisi genera NADH; queste reazioni non avvengono nella matrice mitocondriale ma nel
citosol; ma se nel citosol tutto il NAD viene convertito a NADH la glicolisi si arresta. Il NADH si viene a
formare dalla reazione catalizzata dalla gliceraldeide 3-fosfato deidrogenasi: per ogni molecola di
gliceraldeide 3-fosfato che si ossida produciamo un NADH. Qui siamo nel citoplasma, non nella matrice; il
sito I ha il dominio catalitico verso la matrice, quindi il NADH non può essere direttamente ossidato, ma
dovrebbe entrare nel mitocondrio; tuttavia non può passare attraverso la membrana mitocondriale interna.
Ci sono quindi dei sistemi che permettono di far si che gli elettroni del NADH passino dal citoplasma alla
matrice.

Ci sono però anche meccanismi che non contemplano affatto la catena di trasporto degli elettroni per
ossidare il NADH, uno di questi è l’ossidazione del piruvato in etanolo, alla base della fermentazione di
molti alimenti: il piruvato prodotto per glicolisi viene trasformato prima in acetaldeide e poi in etanolo: nel
passaggio di conversione dell’acetaldeide in etanolo il NADH viene ossidato. Quello che avviene invece nei
mammiferi è un altro sistema, ossia la riossidazione del NADH per formazione di acido lattico: questa
reazione viene catalizzata dalla lattato deidrogenasi, che nell’uomo è particolarmente abbondante nel
muscolo. Durante uno sforzo acuto il muscolo consuma zuccheri, presenti nel sangue e sotto forma di
glicogeno nel muscolo; se la capacità respiratoria è insufficiente a sostenere questo sforzo si forma acido
lattico, perché il muscolo converte rapidamente il piruvato in acido lattico per riossidare il NADH e produrre
energia.
Tornando ai meccanismi che permettono di trasferire gli elettroni dal NADH citoplasmatico alla matrice,
ricordiamo anzitutto che essendo la membrana mitocondriale esterna estremamente permeabile, ciò che
si dice in merito al citoplasma vale allo stesso modo per lo spazio intermembrana. Il primo enzima che
entra in gioco è la malato deidrogenasi, che converte l’ossalacetato a malato, e contemporaneamente gli
elettroni del NADH passano al malato, permettendo al primo di ossidarsi. Gli elettroni però poi devono
andare alla catena respiratoria, grazie al trasporto del malato attraverso la membrana mitocondriale
interna ad opera di una proteina di trasporto chiamata scambiatore chetoglutarato/malato, perché per
ogni molecola di malato che entra c’è una molecola di chetoglutarato che esce. Il malato entrato nella
matrice incontra l’isoenzima malato deidrogenasi che riforma il NADH, che però è in matrice: quindi
potrà essere ossidato dal complesso I della catena respiratoria. Dal malato ho ottenuto l’ossalacetato, e
per transamminazione dall’ossalacetato si ottiene l’aspartato, che esce attraverso il trasportatore
scambiatore aspartato/glutammato. L’aspartato nel citoplasma per transamminazione torna a dare
l’ossalacetato. Questi due processi sono legati da reazioni di transamminazione, per cui è necessario il
glutammato come donatore di gruppo amminico e il chetoglutarato come accettore del gruppo amminico.
Una reazione di transamminazione del gruppo amminico è una reazione di scambio di quest’ultimo,
catalizzata dalle transaminasi o ammino-transferasi. Chetoglutarato e glutammato sono coinvolti nelle
reazioni di transaminazione e ciascuno compensa il trasporto del malato in ingresso e dell’ossalacetato in
uscita. Questo insieme di reazioni per trasferire gli elettroni viene chiamato sistema shuttle, che è il
nome che viene dato ad un sistema di trasporto indiretto: infatti il NADH non viene trasportato
direttamente. Lo shuttle del malato-aspartato è fondamentale per eliminare il NADH della glicolisi.

L’alternativa a questo shuttle è far passare il NADH attraverso il glicerolo 3-fosfato, che si ottiene dal
diidrossiacetone. In questo caso gli elettroni passano attraverso il complesso III direttamente per mezzo
dell’ubichinone, ma lo svantaggio è che si hanno meno protoni. A seconda del fatto che gli elettroni
passino nello shuttle malato-aspartato o attraverso lo shuttle del glicerolo 3-fosfato il numero di
molecole di ATP sarà diverso, perchè diverso è il numero di protoni che si portano contro gradiente. Da
una molecola di glucosio quindi, si potranno ottenere 32 o 30 molecole di ATP, a seconda che i due
elettroni della molecola di NADH che si forma nel citosol vengano fatti passare in uno shuttle o nell’altro,
o da sistemi di fermentazione come la sintesi dell’acido lattico.
LEZIONE X - GLUCONEOGENESI
Nei mammiferi, alcuni tessuti dipendono quasi completamente dal glucosio per l’approvigionamento energetico
Il glucosio è immagazzinato sotto forma di glicogeno dal fegato e dalla muscolatura, ma non sempre queste
riserve risultano sufficienti. Per questo entra in gioco la gluconeogenesi, che è quel processo metabolico che
prevede la sintesi del glucosio, e che si attiva nel momento in cui vi siano livelli insufficienti di glucosio per
digiuno o sforzo fisico prolungato. La gluconeogenesi parte da precursori non glucidici con catena carboniosa a
tre o quattro atomi di carbonio. Mentre la glicolisi avviene in tutti i tessuti dell’organismo umano, la
gluconeogenesi avviene principalmente a livello epatico.

Si potrebbe credere che la gluconeogenesi l’esatto inverso della glicolisi, ma in realtà non è cosi. Sette delle
dieci tappe della gluconeogenesi sono reazioni della glicolisi che però avvengono in direzione opposta; tuttavia
la prima, la terza e la decima reazione della glicolisi sono irreversibili, e sono perciò necessarie vie alternative
per bypassare queste reazioni.

Il primo bypass o reazione di deviazione della glicolisi è la conversione del piruvato a fosfoenolpiruvato. Il
processo inverso fortemente esoergonico e dunque irreversibile nelle condizioni intracellulari: per questo fa
fosforilazione del piruvato negli eucarioti avviene attraverso un complesso sistema che contempla sia enzimi
citosolici che mitocondriali. Il piruvato viene prima trasferito dal citosol ai mitocondri, oppure viene
direttamente ottenuto nel mitocondrio per transamminazione dall’alanina: nella reazione il gruppo amminico
dell’amminoacido, che viene convertito in piruvato, passa ad un chetoacido. Quindi la piruvato carbossillasi,
assieme al coenzima Biotina (vitamina B8) converte il piruvato in ossalacetato. La biotina è coinvolta nella
reazione come trasportatore del bicarbonato. Il bicarbonato si forma per ionizzazione dell’acido carbonico; in
seguito viene fosforilato dall’ATP con formazione di un carbossifosfato. Quindi la biotina rimuove il fosfato,
formando la carbossibiotina.

Il cofattore biotina è legato covalentemente all’enzima tramite legame ammidico. La reazione avviene in due
fasi e in due siti diversi dell’enzima. Nel sito catalitico I lo ione bicarbonato viene convertito in CO2 a spese
dell’ATP. Quindi la CO2 reagisce con la biotina, formando un intermedio; in seguiro il lungo braccio formato dall
biotina e dalla catena laterale della lisina a cui è legata trasferisce la CO2 dalla biotina al sito catalitico II, dove
viene rilasciata e regisce con il piruvato formando ossalacetato e rigenerando il coenzima.

--
- ↑ N
CO3 I ~
&

↳ -S
I I
P
ADP

Sito I Sito I
YS
Piruvato carbossilla si
c c CH c c CH2 C

Piruvato Ossalacetato

La piruvato carbossillasi è il primo enzima regolatore della gluconeogenesi e l’Acetil CoA è un suo effettore
allosterico positivo, infatti quest’ultimo è prodotto per ossidazione degli acidi grassi e segnala la
disponibilità di questi ultimi come combustibile.

Il piruvato impiegato come primo substrato della gluconeogenesi non proviene dalla glicolisi: e questo è
naturale, perché se provenisse da questa via catabolica significherebbe che il glucosio è presente! invece,
il piruvato viene ottenuto dagli amminoacidi, perché queste molecole sono soggetti a reazioni di
transamminazione, in cui il gruppo amminico dell’amminoacido viene trasferito ad un chetoacido.

Dall’alanina per transamminazione otteniamo il piruvato. Nel caso in cui il piruvato sia ottenuto dall’alanina
esso è già presente nei mitocondri, mentre nel caso in cui si trovi nel citosol può essere trasferito nel
mitocondrio mediante il trasportatore del piruvato; una volta nel mitocondrio il piruvato è convertito in
ossalacetato, questo convertito in malato e questo può uscire dal mitocondrio, e poi riconvertito in
ossalacetato.

Infatti poiché la membrana mitocondriale interna non ha trasportatori per l’ossalacetato, prima di essere
esportato nel citosol l’ossolacetato dev’essere ridotto a malato dall’enzima malato deidrogenasi
mitocondriale, a spese del NADH. La malato deidrogenasi mitocondriale funziona sia nella gluconeogenesi
che nel ciclo dell’acido citrico, anche se in maniera opposta.

Il malato esce dal mitocondrio mediante un trasportatore specifico localizzato sulla membrana
mitocondriale interna, e nel citosol viene riossidato ad ossalacetato dalla malato deidrogenasi citosolica,
con produzione di NADH citosolico. L’ossalacetato è poi convertito in PEP dalla fosfoenolpiruvato
carbossichinasi citosolica. Se il piruvato è ottenuto dal lattato, viene convertito in ossalacetato e questo in
PEP nel mitocondrio da una PEP carbossichinasi mitocondriale. L’enzima sfrutta come cofattore lo ione
Magnesio e richiede GTP come donatore del gruppo fosforico. La formazione di un composto ad alto
contenuto energetico come il PEP è bilanciata dall’idrolisi di un altro composto ad alta energia, il GTP.

Nel complesso, per fosforilare una molecola di piruvato a PEP sono necessari due gruppi fosfato, uno
proveniente dall’ATP e uno dal GTP. La molecola di CO2 che viene persa nella conversione dell’ossalacetato
a PEP per è la stessa che era stata aggiunta al piruvato dalla piruvato carbossillasi. Il fatto che alcune delle
reazioni viste avvengano nel mitocondrio non è casuale: il rapporto delle concentrazione della coppia
NADH/ NAD nei mitocondri è molto più basso di quello nei mitocondri: la biosintesi del glucosio non può
procedere se non è disponibile NADH. Il trasporto del malato dai mitocondri al citosol e la sua
riconversione in ossalacetato hanno come effetto anche lo spostamento di equivalenti riducenti nel citosol
sotto forma di NADH, cioè dove tende a scarseggiare.
Lattato
Lattato
deidrogenasi
CTr
Piruva to Piruvato


Piruvato Piruvato
ATP

""irrita"e
mitocondriale

alato

Messicaidrogenasi
alato

INATI
-NADH
Ossalacetato
I
I

Erosessione CO
PEP
Il secondo bypass o seconda deviazione riguarda la terza tappa della glicolisi, che permette l’ottenimento
dal fruttosio 6-fosfato di fruttosio 1,6-bifosfato. Dato che questa reazione è irreversibile nelle condizioni
intracellulari, la conversione del fruttosio 1,6-bifosfato in fruttosio 6-fosfato è catalizzata da un enzima
magnesio-dipendente, la fruttosio 1,6-bisfosfatasi, che promuove l’idrolisi del gruppo fosfato legato a C-1.

P P P

HO
BPasi
-
-
H HO H HO
oN
H OH

OH H
OH H

Il terzo bypass o terza deviazione è la reazione finale della gluconeogenesi, la defosforilazione del glucosio
6-fosfato a glucosio libero. La reazione inversa dell’esochinasi richiederebbe il trasferimento del fosfato
all’ADP, che dal punto di vista energetico è sfavorevole. Invece la reazione catalizzata dall’enzima glucosio
6-fosfatasi non richiede sintesi di ATP, ma idrolizza semplicemente l’estere fosforico (glucosio 6-fosfato).
Questo enzima, la cui attività dipende dalla presenza dello ione Magnesio, si trova principalmente a livello
del fegato.

4H20PO CH2OH
H H
Glucosio 8-
fosfata si

Per ogni molecola di glucosio che si forma dal piruvato vengono consumati 6 legami fosforici ad alto livello
energetico, quattro molecole di ATP e due di GTP. Sono inoltre necessarie due molecole di NADH per la
riduzione delle due molecole di 1,3 bifosfoglicerato. Questo bilancio implica che l’equazione complessiva
della gluconeogenesi non è semplicemente l’inverso di quella della glicolisi, che richiede solo due molecole
di ATP. Si comprende come la sintesi di glucosio a partire dal piruvato è un processo piuttosto dispendioso.

La gluconeogenesi consente una sintesi netta di glucosio non solo dal piruvato, ma anche da alcuni
intermedi del ciclo di Krebs: citrato, isocitrato, chetoglutarato, succinil-CoA, succinato, fumarato e malato
vengono tutti ossidati nel ciclo di Krebs per produrre ossalacetato. Inoltre, quasi tutti gli amminoacidi
possono essere catabolizzati a piruvato o ad intermedi del ciclo di Krebs. Gli amminoacidi che possono
essere utilizzati per la produzione di glucosio sono detti glucogenici. L’alanina e la glutammina sono nei
mammiferi gli amminoacidi glucogenici più importanti, in particolar modo l’alanina perché per
transamminazione può essere convertita direttamente in piruvato.
La gluconeogenesi utilizza diversi enzimi che fanno parte della via glicolitica, ma non è l’inverso della
glicolisi. Sette delle reazioni della glicolisi sono reversibili e gli enzimi che catalizzano queste tappe
intervengono anche nella gluconeogenesi. Le altre tre reazioni della glicolisi sono invece sostanzialmente
irreversibili: la gluconeogenesi utilizza bypass che aggirano queste reazioni irreversibili. Se le due vie
procedessero contemporaneamente in ciascuno dei tre punti in cui sono presenti i bypass della
gluconeogenesi, si avrebbe un consumo di ATP senza svolgere alcun lavoro. Un processo metabolico di
questo tipo viene chiamato ciclo futile. Vediamo quindi i meccanismi regolatori dei due processi.

L’esochinasi che introduce il glucosio nella via glicolitica è un enzima altamente regolato, presente in
quattro isoforme. La forma predominante nel muscolo (esochinasi II) ha un’elevata affinità per il glucosio,
tanto che in condizioni normali lavora alla sua massità possibilità. Le esochinasi I e II sono inibite
allostericamente dal loro stesso prodotto, il glucosio 6-fosfato. Quando la concentrazione di questa molecola
aumenta, i due enzimi visti prima vengono temporaneamente inibiti, in maniera tale da ristabilire equilibrio
tra la velocità di produzione e consumo del loro prodotto. L’enzima predominante nel fegato è invece
l’esochinasi IV, che differisce dalle altre isoforme dell’enzima perché la sua Km è maggiore della
concentrazione del glucosio nel sangue. Quando la concentrazione di glucosio nel sangue è elevata,
l’eccesso di zucchero è trasportato negli epatociti, dove l’esochinasi IV lo converte in glucosio 6-fosfato.
Quando c’è scarsa disponibilità di glucosio la sua concentrazione degli epatociti è bassa, e il glucosio
generato per gluconeogenesi lascia le cellule prima di essere fosforilato. Inoltre l’esochinasi IV non è inibita
dal glucosio 6-fosfato, ma da una proteina allosterica specifica del fegato che interagisce con essa in
maniera molto forte, quando è presente glucosio 6-fosfato. Dopo un pasto ricco di carboidrati il glucosio
entra nel fegato, compete con il glucosio 6-fosfato per legarsi all’esochinasi IV e produce il distacco della
proteina regolatrice attivando l’enzima. Durante il digiuno il fruttosio 6-fosfato va ad inibire l’esochinasi IV
associandosi alla proteina regolatrice.

L’esochinasi IV viene regolata anche a livello della sintesi proteica. Le condizioni che richiedono un’elevata
produzione di energia o un elevato consumo di glucosio causano un’elevata trascrizione del gene per
l’esochinasi IV. La glucosio 6-fosfatasi, che catalizza nella gluconeogenesi il terzo bypass, viene regolata a
livello trascrizionale da fattori che inducono una maggiore produzione di glucosio.

La fosfofruttochinasi-1, che converte il fruttosio 6-fosfato in fruttosio 1,6-bifosfato, presenta siti a cui si
legano attivatori ed inibitori. L’ATP non è solo un substrato della fosfofruttochinasi-1 ma è anche un
prodotto della glicolisi. Quando la concentrazione di ATP aumenta, esso si lega al PFK-1 fungendo da
inibitore allosterico. L’ADP e l’AMP, la cui concentrazione aumenta quando è alto il consumo di ATP, agiscono
su PFK-1 rimuovendo l’inibizione esercitata dall’ATP. Anche il citrato è un effettore allosterico di questo
enzima: elevate concentrazioni di citrato aumentano l’effetto inibitorio dell’ATP, downregolando la glicolisi.

Il passaggio corrispondente nella gluconeogenesi è la conversione del fruttosio 1,6-bifosfato in fruttosio 6-


fosfato. La FBPasi che catalizza questa reazione è allostericamente inibita dall’AMP. Quindi, le tappe della
glicolisi e della gluconeogenesi catalizzate rispettivamente da PFK-1 e dalla FBPasi-1 sono reciprocamente
regolate in modo coordinato. In generale, quando le concentrazioni del citrato sono elevate o i nucleotidi
dell’adenina sono prevalentemente sotto forma di ATP la gluconeogenesi è favorita. L’aumento della
concentrazione dell’AMP promuove la glicolisi, stimolando PFK-1.

Quando il livello di glucosio nel sangue è basso, l’ormone glucagone segnala al fegato di produrre e
rilasciare più glucosio nel sangue. Una fonte per produrre questo glucosio è il glicogeno; un’altra è la
gluconeogenesi. La rapida regolazione ormonale di glicolisi e gluconeogenesi è mediata dal fruttosio 2,6-
bifosfato, effettore allosterico della PFK-1 e della FBPasi-1: quando si lega a PFK-1 l’affinità dell’enzima per
il proprio substrato aumenta, mentre diminuisce l’affinità per gli inibitori allosterici; riguardo la FBPasi-1,
riduce la sua affinità per il substrato rallentando la gluconeogenesi. La concentrazione cellulare del
regolatore fruttosio 2,6-bifosfato è mantenuta dalle velocità di formazione e demolizione ad opera
rispettivamente degli enzimi fosfofruttochinasi-2 e fruttosio 2,6-bifosfatasi, che in realtà rappresentano
distinti domini catalitici della stessa proteina. Il glucagone abbassa i livelli di fruttosio 2,6-bifosfato,
stimolando la gluconeogenesi, in quanto attraverso una serie di passaggi trasferisce un gruppo fosforico alla
proteina bifunzionale PFK-2/FBPasi-2; l’insulina ha effetto opposto, perché catalizza l’attività di una fosfatasi
che rimuove il gruppo fosfato dalla proteina PFK-2/FBPasi-2
La piruvato chinasi è inibita allostericamente dall’ATP, oltre che da acidi grassi e dall’Acetil-CoA. L’isoforma
del fegato è poi soggetta ad un ulteriore regolazione per fosforilazione. Quando le concentrazioni di glucosio
sono basse, la proteina chinasi cAMP-dipendente fosforila la piruvato chinasi epatica inattivandola.

Nella via che converte il piruvato in glucosio, il primo punto di controllo è a livello del destino metabolico del
piruvato, cioè la sua conversione in Acetil-CoA, combustibile del ciclo di Krebs, o in ossalacetato per rifornire
la gluconeogenesi. L’Acetil CoA è un modulatore allosterico positivo della piruvato carbossillasi e negativo
della piruvato deidrogenasi. Una volta soddisfatto il fabbisogno energetico della cellula, la fosforilazione
ossidativa rallenta, il NADH aumenta rispetto al NAD inibendo il ciclo di Krebs e si accumula Acetil CoA.
Questo aumento inibisce la piruvato deidrogenasi, rallentando la formazione di Acetil CoA dal piruvato, e
stimola la gluconeogenesi attivando la piruvato carbossillasi. Il piruvato in eccesso viene cosi convertito in
ossalacetato. Dall’ossalacetato viene poi prodotto PEP grazie alla PEP carbossichinasi, la chi regolazione
avviene principalmente a livello della sua sintesi e demolizione.

Un altro insieme di processi regolatori è basato sulla variazione del numero di molecole di enzima presenti
nella cellula, attraverso la modificazione del rapporto tra la loro sintesi e la loro demolizione. L’insulina
regola più di 150 geni, stimolando la trascrizione delle esochinasi II e IV, della PFK-1, della piruvato chinasi
e della PFK-2/FBPasi-2; l’insulina però rallenta anche la sintesi di due enzimi della gluconeogenesi, la PEP
carbossichinasi e la glucosio 6-fosfatasi.
LEZIONE XI - GLICOGENO; GLICOGENOLISI E
GLICOGENOSINTESI

Cosa succede quando ci troviamo con eccessi di glucosio nel sangue, e quindi ci troviamo in una situazione
opposta rispetto a quella che innesca la gluconeogenesi? Nell’ultima tappa della gluconeogenesi, che
permette l’ottenimento del glucosio 6-fosfato a partire dal glucosio, esiste una via collaterale che consente
la sintesi del glicogeno. In condizioni di ipoglicemia, fin quando l’omeostasi del sangue non viene ristabilita,
il glucosio continua ad essere prodotto attraverso la gluconeogenesi: quando si comincia ad avere un
eccesso di glucosio questo viene prima convertito in glucosio 6-fosfato, intermedio della via
gluconeogenetica, e poi in glucosio 1-fosfato, per sintetizzare glicogeno.

Il glicogeno è osservabile nelle cellule ben nutrite con microscopia elettronica sotto forma di granuli,
chiamati granuli beta, che variano per localizzazione, struttura e dimensione a seconda del tipo di cellula.
Tutti i granuli di glicogeno contengono nella loro parte più interna un dimero della proteina glicogenina,
che serve da primer per il glicogeno. I granuli presentano macchie elettrondense proteiche, rappresentate
dagli enzimi deputati alla lisi o alla sintesi di glicogeno. Il vantaggio che deriva da questi enzimi è quello di
sequestrare importanti riserve energetiche rapidamente, ma anche di poterle impiegare in maniera
rapida quando necessario. Inoltre la riorganizzazione strutturale del glucosio in glicogeno permette di
immagazzinare un quantitativo di molecole di glucosio molto maggiore rispetto a quelle che potrebbero
essere accumulate in forma libera, perché il glucosio in forma libera andrebbe a sbilanciare l’equilibrio
osmotico cellulare, portando alla lisi della cellula. Nel glicogeno invece soltanto i monomeri esterni del
complesso polimerico contribuiscono all’osmolarità cellulare, perché sono gli unici che interagiscono con
l’acqua.

I principali organi che accumulano il glicogeno sono rappresentati dal fegato e dal muscolo scheletrico: il
10% del peso dell’organo è costituito da riserve di glicogeno, e infatti si tratta del più importante organo di
stoccaggio del glucosio. Nel muscolo invece il glicogeno costituisce l’1-2% del peso totale: essendo però la
massa del tessuto muscolare scheletrico complessivamente molto maggiore rispetto a quella epatica,
l’organo che accumula più glicogeno è il primo (400 g circa contro 100 g).
Se entrambi i tessuti possono immagazzinnare il glicogeno, si differenziano per la loro funzione nei
confronti di questa molecola: il fegato è in grado di immagazzinare glicogeno per lunghi periodi, mentre le
riserve del muscolo non durano più di 12-24 ore, e seppure il glicogeno rappresenti una forma di accumulo
energetico come i trigliceridi, il contributo energetico del glicogeno in confronto ai primi è davvero minimo
(circa l’1%), ma ha il vantaggio di poter essere impiegato molto più rapidamente.

Negli organismi vegetali vale quanto detto con l’amido, un altro tipo di polimero del glucosio: mentre nei
mammiferi il glucosio viene stoccato nei granuli di glicogeno, i vegetali lo accumulano sotto forma di amido.
L’amido di fatto è molto simile al glicogeno, e rappresenta un’importante fonte energetica nella dieta degli
animali che consumano organismi vegetali.

Da un punto di vista strutturale il glicogeno è costituito da monomeri di glucosio legati tra di loro in due
maniere differenti: solitamente i monomeri di glucosio sono legati da legami α 1-4 glicosidici, ma alcuni
monomeri si legano ad altri mediante legami α 1-6 glicosidici, il che permette il ramificarsi del polimero.
Nella catena del glicogeno è presente sempre un’estremità non riducente.

Il glicogeno oltre a provenire da fonte endogena, cioè essere prodotto dallo stesso organismo, potrebbe
anche provenire dalla dieta, e quindi esistono degli enzimi, chiamate alfa amilasi, che agiscono soprattutto
a livello del cavo orale e dell’intestino, degradando la macromolecola del glicogeno nei monomeri di
glucosio. A seconda che venga sintetizzato dall’organismo stesso o introdotto con la dieta, il destino del
glicogeno è lo stesso, vale a dire la sua degradazione. Esistono tre principali enzimi che utilizzano il glucosio
proveniente dal glicogeno: la glicogeno fosforilasi, l’enzima deramificante e la fosfoglucomutasi.
Il primo enzima chiave è la glicogeno fosforilasi: quest’enzima catalizza una reazione nella quale il
legame alfa 1-4 glicosidico tra due monomeri di glucosio all’estremità non riducente della catena viene
fosforilato mediante fosfato inorganico, con distacco del monomero fosforilato (Glucosio 1-fosfato).
Per svolgere la sua attività l’enzima coopera con il Piridossal fosfato, che presenta un gruppo fosfato
che agisce da catalizzatore acido generale, attaccando il legame glicosidico e staccando il monomero dalla
catena. In particolare, il piridossal fosfato cede il suo gruppo fosfato, che fosforila il glucosio al C-1: in
questo modo si rompe il legame glicosidico con il resto della catena e si forma glucosio 1-fosfato.

A questo punto il glucosio 1-fosfato per entrare nelle via glicolitica necessita dell’enzima
fosfoglucomutasi, che può trasferire il gruppo fosfato da una posizione all’altra: in questo modo il
glucosio 1-fosfato viene convertito in glucosio 6-fosfato. La fosfoglucomutasi presenta una tasca catalitica
con un residuo di serina legato ad un gruppo fosfato, in grado effettuare un attacco nucleofilo al C-6,
con formazione di un intermedio, chiamato glucosio 1,6-bifosfato; in seguito la serina che ha perso il suo
gruppo fosfato lo recupera strappando dal glucosio quello legato al C-1. In questo modo il glucosio 6-
fosfato viene ottenuto.

↑ ↑
Sex 28,PO Ser

- I
COPO,

I
POS

GlucosioI-fosfato Glucosio 18-bisfosfato Glucosio n-fosfato

Gli enzimi mutasi in generale catalizzano reazioni a basso livello energetico, cioé la variazione di energia
libera standard della reazione è molto bassa. Se la reazione procede dal glucosio 1-fosfato al glucosio 6-
fosfato stiamo attuando glicogenolisi, se invece la reazione procede dal glucosio 6-fosfato al glucosio 1-
fosfato stiamo mettendo in atto la glicogenosintesi.

Sorge però un problema: La glicogeno fosforilasi funziona solo nella porzione lineare del glicogeno, cioè
non è in grado di svolgere il proprio lavoro in corrispondenza dei punti di ramificazione. La glucosio
fosforilasi lavora fino a quattro residui prima del punto di ramificazione, e quindi interviene
l’enzima deramificante, in grado di ricondurre i residui della ramificazione sulla catena monomerica.
L’attività trans-esterasica dell’enzima deramificante non fa altro che spostare 3 dei 4 monomeri
rimasti della ramificazione trasferendoli sulla sequenza principale. Il singolo residuo di glucosio
rimasto nel punto di ramificazione viene scisso semplicemente per idrolisi. A questo punto la glicogeno
fosforilasi può ricominciare a lavorare. Quindi, se volessimo stabilire un’ordine abbiamo di azione abbiamo
la glicogeno fosforilasi, l’enzima deramificante, e infine la fosfoglucomutasi.

Una volta che abbiamo generato il glucosio 6-fosfato questo può entrare nella via glicolitica in caso sia
necessario utilizzarlo per ottenere immediatamente energia, ma più spesso il glucosio viene ottenuto dal
glicogeno per ristabilire la concentrazione normale di questa molecola nel sangue: soprattutto a livello
epatico la glucosio 6-fosfatasi converte il glucosio 6-fosfato in glucosio e lo immette nel torrente
sanguigno. Nel RE degli epatociti è presente un trasportatore specifico per il glucosio 6-fosfato, grazie al
quale può passare nel lume del reticolo endoplasmatico, dove si trova la glucosio 6-fosfatasi, che elimina
il gruppo fosfato e attraverso poi trasportatori specifici della membrana cellulare (GLUT-2) immette il
glucosio nel sangue.
Diverso il destino del glucosio a livello muscolare: nel momento in cui il muscolo ottiene glucosio 6-fosfato
questo viene immesso immediatamente nella via glicolitica. In presenza di abbondante glucosio il muscolo
sintetizza glicogeno. Il processo di glicogenosintesi parte con la conversione del glucosio in
glucosio 6-fosfato. La fosfoglucomutasi poi converte quest’ultimo in glucosio 1-fosfato, che
attraverso la reazione catalizzata dall’UDP-glucosio pirofosforilasi viene convertito in UDP glucosio,
ossia una molecola di glucosio legata ad un pirofosfato e attraverso quest’ultimo ad un nucleoside di
uridina. I gruppi fosfato sono buoni gruppi uscenti, in grado di innescare la reazione catalizzata dalla
glicogeno sintasi.

Vi sono vari motivi per cui nelle reazioni biosintetiche, come nella glicogenosintesi, sono coinvolti zuccheri-
nucleotidi: la loro formazione è metabolicamente irreversibile, per cui rende irreversibili i processi in
cui sono coinvolti; nonostante la parte che reagisce di queste molecole è rappresentata dallo zucchero
stesso e basta, la molecola nucleotidica nel suo complesso può dare origine ad interazioni non
covalenti con gli enzimi, rendendo più efficiente la catalisi enzimatica; i gruppi nucleotidilici, come i
fosfati, sono eccellenti gruppi uscenti; il nucleotide funge da “etichetta” molecolare come il fosfato,
permettendo alle cellule di accumulare queste specie chimiche per vari usi.

COH r-glucosio

b P
- -

CH2

--
WOPG CS
Uridina
H
L’ossigeno del glucosio 1-fosfato carico negativamente effettua un attacco nucleofilo sull’atomo di fosforo
legato alla struttura nucleotidica, che perde un pirofosfato; si forma cosi l’UDP glucosio. La sintesi
dell’UDP- glucosio è la prima tappa fondamentale per la glicogenosintesi. Analogamente alla perdita del
pirofosfato nella sintesi di UDP-glucosio nella polimerizzazione del glicogeno non possiamo semplicemente
attaccare il glucosio 1-fosfato ad un altro residuo, ma legandolo ad un nucleotide quest’ultimo fungerà
nella reazione di polimerizzazione da gruppo uscente. Il nucleotide di uridina esce, mentre il glucosio va
ad unirsi con legame alfa 1-4 glicosidico all’estremità non riducente di una molecola ramificata di
glicogeno.

La glicogeno sintasi non può formare legami alfa 1-6 presenti nei punti di ramificazione della
molecola di glicogeno: questi sono prodotti dall’enzima ramificante, che catalizza il trasferimento di un
segmento terminale di 6 o 7 residui dall’estremità non riducente di una catena lineare di glicogeno al C-6
di un residuo della stessa o di un’altra catena. La glicogeno sintasi può ora aggiungere altri residui
glicosidici slla nuova ramificazione.

La glicogeno sintasi non può dare origine ex novo al glicogeno. L’enzima infatti richiede un primer,
rappresentato dalla glicogenina, che funge anche da enzima di assemblaggio delle catene. La prima
tappa nella sintesi di una nuova molecola di glicogeno è il trasferimento di un residuo di glucosio
dall’UDP glucosio all’ossidrile di una tirosina della glicogenina. Ciascuna subunità
dell’omodimero della glicogenina glicosila la tirosina dell’altra subunità. Le catene nascenti si
estendono per aggiunta successiva di altri 7 residui di glucosio, derivanti sempre dall’UDP-glucosio. Questo
allungamento viene sempre catalizzato dalla glicogenina. In seguito entra in gioco la glicogeno sintasi, che
estende ulteriormente la catena del glicogeno. Ciascuna catena lineare è composta al massimo da 12-14
monomeri di glucosio; abbiamo poi bisogno di creare la ramificazioni per poter espandere la molecola.
L’enzima ramificante catalizza la formazione del legame alfa 1-6 glicosidico e permette la ramificazione
della molecola.

L’UDP glucosio perde il glucosio e rilascia UDP, e avremo attaccato il primo monomero. Il glicogeno si
allunga, fin quando non raggiunge una lunghezza sufficiente: a questo punto viene introdotto la glicogeno
sintasi branching enzyme che stacca il glicogeno dalla glicogenina e la molecola è pronta.

Qual è il vantaggio di avere un sistema complesso di stoccaggio del glucosio e non avere
semplicemente le singole molecole di glucosio? Anche a scapito dell’impiego di un certo quantitativo di
energia e substrati nel momento in cui abbiamo sintetizzato il glicogeno, fosforilando un singolo
monomero vengono staccati dal glicogeno numerosi residui. Inoltre si consideri la già citata questione
osmolarità: se stoccassimo lo stesso quantitativo di glucosio libero immagazzinato normalmente nella
cellulasotto forma di glicogeno la cellula andrebbe incontro a lisi, o dovrebbe contenere 4 volte l’acqua
normalmente presente in essa.

Il glucosio 6-fosfato rappresenta un intermedio centrale sia della via glicolitica sia per
sintetizzare glucosio, mediante la glucosio 6-fosfatasi, sia il glucosio 1-fosfato necessario per la
glicogenosintesi. Inoltre il glucosio 6-fosfato interviente nella via del pentoso fosfato.

La regolazione del glicogeno nel muscolo scheletrico dipende dalle fosforilasi A e B, forme
interconvertibili della stessa molecola. La fosforilasi B risulta meno attiva rispetto alla fosforilasi A, e
presenta dei residui di serina liberi, che possono essere fosforilati; l’adrenalina o il glucagone danno
inizio alla cascata che attiva la fosforilasi B, in quanto aumentano entrambi la concentrazione di AMPc,
che a sua volta attiva la proteina chinasi A: questa poi attiva la fosforilasi B chinasi che attiva la
fosforilasi B trasferendo sul residuo di serina di ciascuna delle subunità un fosfato. In questo modo la
fosforilasi B viene convertita in fosforilasi A. Vi sono naturalmente meccanismi di controllo
allosterico: nel muscolo il calcio attiva la fosforilasi B chinasi, che converte a sua volta la fosforilasi B in
fosforilasi A. Nel muscolo a riposo la fosfoproteina fosfatasi 1 rimuove i gruppi fosfato dalla fosforilasi A,
convertendola in fosforilasi B.

Nel fegato, se la glicemia è troppo bassa, attiva la fosforilasi B chinasi, che a sua volta converte la
fosforilasi B nella sua forma A attiva, innescando il rilascio di glucosio nel sangue. Quando la glicemia
torna normale, il glucosio si lega ad un sito allosterico inibitore sulla fosforilasi A: questa espone i residui
di serina, che vengono defosforilati dalla fosfoproteina fosfatasi 1.
L’insulina stimola la sintesi del glicogeno attraverso la PP1, che rimuove i gruppi fosforilici alla fosforilasi
aggiunti sia in risposta al glucagone (fegato) che all’adrenalina (fegato e muscolo). La PP1 viene inattivata
per fosforilazione da parte della PKA e inattivata allostericamente dal glucosio 6-fosfato.

Esiste anche un meccanismo di regolazione della glicogeno sintasi. Nella forma attiva, la glicogeno sintasi
A non è fosforilata. La glicogeno sintasi chinasi 3 (GSK3) aggiunge gruppi fosfato a tre residui di serina
della glicogeno sintasi A, convertendola nella forma B, che è del tutto inattiva. L’insulina blocca GSK3 e
attiva la PP1. Nel muscolo l’adrenalina attiva la PKA, che blocca la PP1. Nel fegato la conversione della
glicogeno sintasi B nella forma attiva è promossa dalla PP1. La PP1 defosforila la GSK3. Il glucosio 6-
fosfato si lega ad un sito allosterico sulla glicogeno sintasi B e poi l’enzima viene defosforilato e attivato
dalla PP1.

L’insulina provoca alcuni cambiamenti intracellulari attivando la proteina chinasi B, che fosforila e inattiva
la GSK3. Inattivandosi questa proteina il bilancio si sposta in favore della defosforilazione della glicogeno
sintasi da parte della PP1. In sostanza l’insulina stimola la sintesi del glicogeno attivando la PP1 e
inattivando la GSK3. La PP1 può rimuovere i fosfati da tutti e tre gli enzimi fosforilati in risposta al
glucagone e all’adrenalina: fosforilasi chinasi, glicogeno fosforilasi e glicogeno sintasi. La PP1 è soggetta a
regolazione covalente e allosterica: viene inattivata quando è fosforilata dalla PKA e attivata
allostericamente dal glucosio 6-fosfato.
LEZIONE XII - TRACILGLICEROLI: DEMOLIZIONE;
β-OSSIDAZIONE DEGLI ACIDI GRASSI
In molti organismi e tessuti l’ossidazione degli acidi grassi a catena lunga ad Acetil-CoA è una via essenziale
per produrre energia. Gli elettroni liberati durante l’ossidazione degli acidi grassi consentono la sintesi di
ATP attraverso la catena respiratoria dei mitocondri; mentre l’acetil-CoA viene ossidato completamente a
CO2 nel ciclo di Krebs.

I triacilgliceroli o trigliceridi rappresentano una riserva energetica particolarmente efficiente: per


ossidazione completa degli acidi grassi che li costituiscono è possibile ottenere più del doppio dell’energia
che si ricaverebbe da proteine o carboidrati di pari peso. I trigliceridi sono costituiti da tre acidi grassi legati
attraverso legame estere ai gruppi ossidrilici di una molecola di glicerolo. Essi possono essere distinti in
trigliceridi semplici se i tre acidi grassi legati al glicerolo sono uguali, mentre si parla di trigliceridi
complessi o misti qualora gli acidi grassi siano differenti fra loro. Nell’essere umano l’assorbimento dei
trigliceridi avviene nell’intestino tenue, ma non prima che questi vengano emulsionati dai sali biliari. La
solubilizzazione dei grassi li rende più suscettibili all’attacco delle lipasi, che li scindono in monigliceridi,
digliceridi, acidi grassi e glicerolo liberi; questi prodotti entrano nelle cellule della mucosa intestinale,
dove vengono riconvertiti in trigliceridi che, uniti a specifiche apolipoproteine formano i chilomicroni, che
attraverso il sistema linfatico entrano nel torrente ematico e raggiungono i tessuti bersaglio.

Come si formano i trigliceridi? Il meccanismo molecolare è il seguente: per formare il trigliceride a partire
da una molecola di glicerolo è necessario l’enzima glicerolo chinasi, che produce glicerolo 3-fosfato
impiegando una molecola di ATP. L’attacco del fosfato al glicerolo può essere definita come reazione di
attivazione, grazie alla quale saranno poi possibili i successivi passaggi del processo di sintesi. Il glicerolo 3-
fosfato può essere ottenuto non solo per fosforilazione del glicerolo, ma anche dal diidrossiacetone fosfato
ad opera dell’enzima glicerolo 3-fosfato deidrogenasi. Gli altri precursori dei trigliceridi sono gli acil-CoA, che
si formano a partire dagli acidi grassi grazie all’acil-CoA sintetasi. La prima fase della biosintesi dei
trigliceridi vera e propria è l’acilazione dei due gruppi ossidrilici liberi del glicerolo 3-fosfato con due
molecole di acil-CoA per generare diacil-glicerolo 3-fosfato, meglio noto come acido fosfatidico. L’acido
fosfatidico viene idrolizzato dalla fosfatidato fosfatasi con ottenimento di 1,2-diacilglicerolo, che poi
può essere convertito in un trigliceride o triacilglicerolo per transesterificazione con una terza molecola di
acil-CoA.

Per quanto riguarda la demolizione dei trigliceridi, una volta trasportati nelle cellule per ricavare energia
essi vengono demoliti nelle molecole costituenti.

Per quanto riguarda il glicerolo, questo viene convertito dalla glicerolo chinasi in glicerolo 3-fosfato,
ossidato poi a diidrossiacetone fosfato dalla glicerolo 3-fosfato deidrogenasi; in seguito, il
diidrossiacetone fosfato, ad opera dell’enzima trioso fosfato isomerasi, viene isomerizzato a
gliceraldeide 3-fosfato, che viene ossidata nella via glicolitica.

Ora vediamo il catabolismo degli acidi grassi, dai quali si ottiene il 95% dell’energia conservata nei
trigliceridi: tutti gli acidi grassi sono molecole altamente ridotte, e il fatto di essere molto ridotte significa
che possiedono nella loro struttura una serie di doppi legami o comunque doppietti elettronici, che
rappresentano un importante potenziale per l’ottenimento di energia. Per poter essere degradato, un acido
grasso dev’essere attivato per mezzo di un’isoforma dell’acil-CoA sintetasi specifica per gli acidi grassi a
lunga catena. Questo enzima catalizza la formazione di un legame tioestere tra il gruppo carbossilico
dell’acido grasso e il gruppo tiolico del coenzima A, formando un acil-CoA; contemporaneamente l’ATP
viene scisso in AMP e pirofosfato. La reazione avviene in due tappe e prevede la formazione di un
intermedio acil-adenilato.

La formazione degli acil-CoA è resa favorevole dall’idrolisi di due legami ad alta energia dell’ATP; infatti l’ATP
viene idrolizzato ad AMP e pirofosfato, e in seguito il pirofosfato viene immediatamente idrolizzato da una
pirofosfatasi inorganica; il tutto trascina la reazione nella direzione di formazione dell’Acil-CoA. Gli acil-CoA
sintetizzati sul lato citosolico della membrana mitocondriale esterna possono essere trasportati nel
mitondrio per essere ossidati e produrre ATP.
Quindi adesso abbiamo il nostro acido grasso a cui è stato attaccata una porzione di riconoscimento, il
coenzima A. A questo punto l’acido grasso con il target viene idrolizzato, con perdita del Coenzima A.
Quando rimuoviamo questa vitamina si forma acido acetico, che grazie a ionizzazione per risonanza sposta
un doppietto elettronico e si converte in acetato. La reazione di conversione dell’acetil-CoA in acetato e
coenzima A libero ha DeltaG negativo. Che senso ha utilizzare la molecola di ATP per attaccare il coenzima
A e poi staccarlo al momento del trasferimento dell’acido grasso nella matrice mitocondriale? Un tioestere
ha un’energia di attivazione più alta rispetto a quella di un estere dell’ossigeno, e quindi questo processo ci
serve per spostare la formazione dell’estere dal gruppo carbossilico all’ossigeno legato al carbonio, in modo
tale da permettere una risonanza che altrimenti non sarebbe possibile.

Negli animali, gli enzimi coinvolti nell’ossidazione degli acidi grassi si trovano nella matrice
mitocondriale. Gli acidi grassi con catena carboniosa fino a 12 atomi di carbonio possono attraversare la
membrana mitocondriale interna senza l’aiuto di trasportatori; quelli a più di 12 atomi atomi di
carbonio, che tra l’altro costituiscono la maggioranza degli acidi grassi impiegati per produrre energia,
devono essere trasportati nella matrice attraverso il sistema navetta, o shuttle, della carnitina. La
prima reazione dello shuttle è catalizzata dall’acil-CoA sintetasi, presente nella membrana mitocondriale
esterna: quest’enzima catalizza la formazione di un legame tioestere tra il gruppo carbossilico dell’acido
grasso e il gruppo tiolico del Coenzima A, formando Acil-CoA; contemporaneamente l’ATP viene scisso in
AMP e pirofosfato, e quest’ultimo sottoposto ad ulteriore idrolisi. Gli acidi grassi destinati all’ossidazione nel
mitocondrio devono legarsi al gruppo ossidrilico della carnitina per poter essere trasportati nella membrana
mitocondriale interna. In una reazione di transesterificazione catalizzata dalla carnitina acil-trasferasi 1
presente sulla membrana mitocondriale esterna, l’acil CoA viene temporaneamente legato
all’ossidrile della carnitina per formare un estere acido grasso-carnitina, con rilascio del
Coenzima A. L’acil-carnitina diffonde poi attraverso la membrana mitocondriale interna ed entra
nella matrice per mezzo di un cotrasportatore acil-carnitina/carnitina. Questo cotrasportatore
sposta una molecola di carnitina dalla matrice allo spazio intermembrana mentre una molecola di acil-
carnitina viene portata nella matrice (antiporto). Una volta nella matrice il gruppo acilico dell’acido
grasso viene trasferito dalla carnitina al Coenzima A della matrice mediante la carnitina
aciltrasferasi 2. Questo enzima quindi rigenera l’acil-CoA e la carnitina libera nella matrice; la
carnitina viene poi riportata indietro nello spazio intermembrana dal trasportatore acil-carnitina/carnitina
per far attraversare un altro acido grasso. Una volta nella matrice, l’acil-CoA viene processato da una serie
di enzimi presenti nella matrice.

Vediamo la prima fase dell’ossidazione degli acidi grassi nel mitocondrio (beta-ossidazione):

Prendiamo come esempio l’acido palmitico o palmitato; l’acido palmitico ha una catena a 16 atomi di
carbonio. La beta ossidazione è formata da quattro reazioni enzimatiche.

La prima reazione è una deidrogenazione che produce un doppio legame tra gli atomi di carbonio alfa e
beta, formando trans-delta2-enoil-CoA: l’enzima che catalizza la reazione è l’acil-CoA deidrogenasi,
che esiste in tre isoforme in base alla lunghezza della catena dell’acido grasso che sta venendo ossidato.
Tutti e tre gli isoenzimi usano il gruppo prostetico FAD, che viene ridotto, salvo donare subito gli
elettroni ad una serie di trasportatori che li trasferiranno alla catena respiratoria.

Nella seconda tappa della beta ossidazione, catalizzata dall’enzima enoil-CoA idratasi, viene aggiunta una
molecola d’acqua al trans-delta2-enoil-CoA, formando beta-idrossiacil-CoA.

Nella terza tappa il beta-idrossiacil-CoA viene deidrogenato a Beta-chetoacil-CoA per mezzo dell’enzima
beta-idrossiacil-CoA deidrogenasi; il NAD è l’accettore degli elettroni, e riducendosi li trasferirà al
complesso della catena respiratoria.

La quarta ed ultima tappa è catalizzata dall’acil-CoA acetiltrasferasi o tiolasi: il beta-chetoacil-CoA


reagisce con una molecola di Coenzima A libero, staccando un frammento a due atomi di carbonio
sotto forma di Acetil-CoA dall’estremità carbossilica dell’acido grasso originario. L’altro prodotto è
l’acido grasso legato al Coenzima A, ora con due atomi di carbonio in meno.
Palmitoil -CoA β-OSSIDAZIONE -
KR-CH2-cz ci S-CoA
LE QUATTRO TAPPE
-
- -

acil -loA
deidrogenasi Trans-A-Enoil-CoA

R CHz c c c S (oA
FAD

FADHz
enoil-CoA
B-idrossiacil CoA
-

idrata si
H20
2 CHz ( CH2 C S CoA

B-idrossiacil CoA-

deidrogenasi - chetoacil
B -
CoA

R CHz ( CH2 C S-LoA


NAOt

So
NAOH + Ht

Acil-CoA - LOA-SH
acetil trasfera si

(C,n) Acil-CoA I Acetil-CoA

(C,n)R CH2 ( S-CoA S coA


CH5Y
Attraverso la sequenza di reazioni della beta ossidazione la catena dell’acil-CoA si accorcia di due
atomi di carbonio. Dopo la rimozione della prima unità di Acetil-CoA dal palmitil-CoA la catena presenta
14 atomi di carbonio, e subisce nuovamente il ciclo delle 4 reazioni della beta ossidazione. Nel complesso
per poter ossidare completamente una molecola di palmitil-CoA sono necessari 7 passaggi, con
generazione di 8 molecole di Acetil-CoA. Inoltre, si consideri che per ogni ciclo di beta ossidazione
vengono trasportati elettroni alla catena respiratoria dai coenzimi ridotti NADH e FADH2, sufficienti per
produrre 4 molecole di ATP, oltre ad una molecola d’acqua, detta metabolica.

Quanto detto vale in maniera precisa se l’acido grasso che dev’essere catabolizzato presenta un
numero di atomi di carbonio pari, e solo se abbiamo a che fare con un acido grasso saturo. Nel
caso in cui invece la catena sia composta da un numero dispari di atomi di carbonio richiede altre tre
reazioni, mentre nel caso in cui gli acidi grassi siano insaturi saranno necessarie altre due reazioni.

Molti animali utilizzano le loro scorte di grasso per produrre energia durante il letargo, le migrazioni o in
situazioni in cui si verificano cambiamenti metabolici radicali. Un esempio è l’orso: infatti quest’animale
durante il letargo rimane in uno stato di dormiveglia per circa 7 mesi. A differenza della maggior parte
degli organismi che vanno in letargo, durante questo periodo l’orso mantiene la propria temperatura
corporea piuttosto alta, ma non mangia, non beve, e non espleta i propri bisogni corporali. L’orso utilizza
come unica fonte di energia durante il letargo il grasso corporeo: l’ossidazione del grasso è sufficiente a
mantenere costante la temperatura corporea, a permettere la sintesi di amminoacidi e proteine e
mantenere diversi processi fisiologici attivi. Sappiamo inoltre che l’ossidazione degli acidi grassi produce
anche grandi quanità d’acqua; infine, dal metabolismo dei tracilgliceroli si ottiene gli glicerolo, che viene
convertito in glucosio attraverso la gluconeogenesi.
LEZIONE XIII - OSSIDAZIONE DEGLI ACIDI GRASSI
INSATURI E A CATENA DISPARI; REGOLAZIONE DEL
PROCESSO; FORMAZIONE DEI CORPI CHETONICI
Molti degli acidi grassi dei tracilgliceroli e dei fosfolipidi animali e vegetali sono insaturi, cioè possiedono
uno o più doppi legami. Questi legami sono in configurazione cis e sono resistenti all’azione dell’enoil-
CoA-idratasi, che come si è visto catalizza l’aggiunta di una molecola d’acqua al doppio legame
trans del Delta2-enoil-CoA, il primo intermedio della beta ossidazione. Per l’ossidazione degli acidi grassi
insaturi, sono necessari ulteriori due enzimi: un’isomerasi e una reduttasi.

È necessario però distinguere due situazioni differenti: quando l’acido grasso è monoinsaturo, e quando è
polinsaturo.

Per quanto riguarda la prima situazione vediamo l’oleato, o acido oleico. L’oleato o acido oleico è un acido
grasso abbondante in natura, a 18 atomi di carbonio con il doppio legame cis tra C-9 e C-10. Nella
prima tappa del processo di ossidazione l’oleato viene convertito in oleil-CoA e in questo modo può
entrare nella matrice mitocondriale attraverso lo shuttle della carnitina. L’oleil-CoA va incontro poi a tre
cicli della β-ossidazione con ottenimento di tre molecole di acetil-CoA e di un tioestere dell’acido
grasso a 12 atomi di carbonio Δ3 insaturo, il cis-Δ3-dodecenil-CoA. Questo composto non può subire
un altro ciclo di β-ossidazione, perché l’enoi-CoA idratasi riconosce solo doppi legami in trans. Perciò
l’enzima ausiliario Δ3, Δ2-enoil-CoA isomerasi converte il cis-Δ3-enoil-CoA nell’isomero trans-Δ2-
enoil-CoA: questo intermedio può ora proseguire nel ciclo della β-ossidazione, producendo Coenzima A e
un tioestere del coenzima A a 10 atomi di carbonio (decanil-CoA), il quale potrò essere degradato
completamente ad Acetil-CoA mediante altri quattro cicli di β-ossidazione. In totale, dall’ossidazione
completa dell’oleato otterremo 9 molecole di acetil-CoA
18 0

C

ossidazione
B
3 acetil-CoA
S-loA
(3 cicli) 0
Oleil-CoA
12

_enoil-lotisomerrasi S-Cos-1-dodecemil -loA


-
12
S-CoA
ossidazione
B
trans--dodecenil -CoA
(5 cicli)
S acetil -oA
Per l’ossidazione degli acidi grassi poliinsaturi, come l’acido linoleico o linoleato, a 18 atomi di carbonio e
che presenta due doppi legami in configurazione cis in posizione 9 e 12, è necessario un enzima
ausiliario, ossia una reduttasi. Il linoleil-CoA va incontro a tre cicli di β-ossidazione formando tre
molecole di acetil-CoA e un tioestere dell’acido grasso insaturo a 12 atomi di carbonio, con doppi legami
in configurazione cis. Ora, il problema è che quest’ultimo presenta i doppi legami nella posizione e nella
configurazione sbagliata. Su di esso agiscono quindi sia l’enoil-CoA isomerasi vista in precedenza che la
2,4-dienoil-CoA reduttasi, che consentono a questo intermedio di rientrare nella via della β-ossidazione,
e di ottenere dal tioestere dell’acido grasso insaturo 6 molecole di Acetil-CoA. In totale dall’acido linoleico
otteniamo 9 molecole di Acetil-CoA.

2 9
0

-C
18
ossidazione
B S-CoA
(3 cicli) 3 acetil-Cot
Linoleoil-CoA
I 4 3(B) Cis-AP, cis-A
C

12 5
2(a) S-COA

enoil-CoAisomevasi
3

cis-,cis-1
I 4 2(x)

&
5
12 3(B)
S-CoA
Bossidazionesee Acetil-CoA
trans-2,cis-
docico)
S 4 2


10 3
NAOPH S-CoA
2,4-dienoil-CoA Trans-,cis-
reduttasi
NAPP =
S 3
I

10 4 2 S-CoA Trans-
enoil-loA
isomexasi
I
3 I

S-CoA
10 E 2 Trans-A
3 ossidazione

(4 cicli)
5 acetil-CoA

La maggior parte dei lipidi presenti in natura contiene acidi grassi con un numero pari di atomi di
carbonio, mentre gli acidi grassi a catena dispari si incontrano spesso nel mondo vegetale. Per la
maggior parte, gli acidi grassi con catena dispari vengono ossidati allo stesso modo di quelli con atomi
di carbonio pari, iniziando dall’estremità carbossilica della catena. Il substrato che però entra nell’ultimo
ciclo della β-ossidazione è un acido grasso a cinque atomi di carbonio. Quando viene ossidato
otteniamo due molecole, una di Acetil-CoA e una di Propionil-CoA. L’acetil-CoA può entrare nel ciclo
di Krebs, mentre invece il Propionil-CoA subisce tre reazioni. Il propionil CoA viene carbossilato
dalla propionil-CoA carbossillasi, che usa come cofattore la biotina, con ottenimento del
metilmalonil-CoA. In questa reazione come in quella della piruvato carbossillasi della gluconeogenesi
la CO2 viene attivata dal legame alla biotina e trasferita poi al substrato, in questo caso il propionato. La
reazione richiede consumo di ATP. Il metilmalonil-CoA, nella forma D viene poi epimerizzato nella
forma L dalla metilmalonil-CoA epimerasi. Infine, il metilmalnil-CoA viene convertito in
Succinil-CoA ad opera della metilmalonil CoA mutasi, che richiede come coenzima 5’-
deossiadenosilcobalammina, o coenzima B12.

Poiché l’ossidazione degli acidi grassi consuma nutrienti molto importanti, questo processo è sottoposto
ad importante regolazione per evitare che vada persa energia. Nel fegato gli acil-CoA sintetizzati a
livello citosolico possono andare incontro a due destini: il primo, andare incontro a β-ossidazione; il
secondo, la conversione a triacilgliceroli o fosfolipidi nel citosol. La via metabolica imboccata
dipende essenzialmente dalla velocità di trasferimento degli acil-CoA nella matrice
mitocondriale: questo significa che lo shuttle della carnitina rappresenta un’importante punto di
regolazione. Una volta entrato nella matrice l’acido grasso è destinato ad essere ossidato ad acetil-
CoA.

Inoltre, la concentrazione del malonil-CoA, che è il primo intermedio della sintesi citosolica degli
acidi grassi a catena lunga a partire dall’Acetil-CoA, aumenta quando l’animale è ben rifornito di
carboidrati: infatti l’eccesso di glucosio, che non può essere tutto convertito in glicogeno, viene
convertito in acidi grassi che sono poi convertiti a loro volta in triacilgliceroli. L’inibizione della
carnitina aciltrasferasi 1 da parte del malonil-CoA assicura che l’ossidazione degli acidi grassi
sia inibita quando si dispone di molto glucosio e stanno venendo sintetizzati triacilgliceroli a
partire dallo zucchero in eccesso.

Quando il rapporto [NADH]/[NAD] è elevato, la β-idrossiacil-CoA deidrogenasi viene inibita;


inoltre concentrazioni elevate di Acetil-CoA inibiscono la tiolasi; entrambi gli enzimi sono coinvolti
nella β-ossidazione.

Durante l’esercizio fisico intenso o in caso di digiuno prolungato la diminuzione di [ATP] e


l’aumento di quella di [AMP] attivano la proteina chinasi attivata dall’AMP. Questo enzima
fosforila molti enzimi bersaglio, fra cui l’acetil-CoA carbossillasi che sintetizza malonil-CoA:
quindi quest’ultima molecola diminuisce, rimuovendo l’inibizione dello shuttle della carnitina e
promuovendo l’ossidazione degli acidi grassi.
Nella reazione della metilmalonil-CoA mutasi il gruppo –CO—S—CoA sull’atomo C-2 della molecola del
propionato originale scambia la sua posizione con un atomo di idrogeno sull’atomo C-3 della stessa
molecola. Il coenzima B12 è il cofattore di questa reazione: le reazioni che dipendono da questo
coenzima prevedono lo scambio di un gruppo alchilico con un atomo di idrogeno su un carbonio
adiacente, senza che si verifichi il mescolamento dell’atomo di idrogeno trasferito con quelli del
solvente.
Il coenzima B12 è la forma coenzimatica della vitamina B12, l’unica vitamina che contiene il gruppo
Cobalto. Il sistema dell’anello corrinico della vitamina B12 a cui è coordinato uno ione cobalto (Co3+)
è chimicamente correlato all’anello porfirinico dell’eme, presente nelle cosiddette emoproteine. La quinta
posizione di coordinazione è occupata da un ribonucleotide che ha cime base il dimetilbenzimidazolo,
legato covalentemente con il suo gruppo fosfato ad una catena laterale dell’anello corrinico, grazie ad un
gruppo amminoisopropanolico.

La vitamina B12 isolata viene detta cianocobalammina, in quanto contenente un gruppo cianidrico legato
alla sesta posizione di coordinazione del cobalto, quando la vitamina viene purificata. Nella 5’-
deossiadenosilcobalammina il gruppo cianidrico viene sostituito da un gruppo 5’-deossiadenosilico.

La capacità del coenzima B12 di catalizzare lo scambio di idrogeno sta nelle proprietà del legame
covalente tra il cobalto e l’atomo C-5 del gruppo deossiadenosilico. Questo legame è particolarmente
debole e la sua energia è inferiore rispetto a un legame C—C o di un legame C—H. La semplice
illuminazione di questo composto è sufficiente per rompere il legame Cobalto—C. Questa estrema
fotolabilità spiega il motivo per il quale le piante non producono vitamina B12. La rottura del legame
produce un radicale 5’-deossiadenosilico e una forma della vitamina con il cobalto bivalente
(Co2+). La funzione chimica della 5’-deossiadenosilcobalammina (cofattore della metilmalonil-CoA
mutasi) è quella di generare radicali liberi.
S'deossi-
adenosinc

Sistema dell'anello
corvinico

Ammino
-isoprogando

Dimetil
benzimidazdo
ribonucleotide
L’immagine che segue è un esempio di reazione catalizzata da 5’-deossiadenosilcobalammina.

La carenza di vitamina B12 provoca gravi malattie. Essa non viene sintetizzata né dalle piante né dagli
animali, ma solo da un limitato numero di microrganismi: l’incapacità di assorbire questa vitamina da
batteri intestinali oppure dalla digestione della carne porta all’anemia perniciosa. Nei soggetti colpiti non
viene prodotta in quantità appropriate una glicoproteina chiamata fattore intrinseco, essenziale per
l’assorbimento della vitamina B12. L’anemia perniciosa causa riduzione del numero di eritrociti, bassi livelli
di emoglobina e progressive disfunzioni del sistema nervoso centrale.
Nell’uomo l’acetil-CoA formato nel fegato durante l’ossidazione degli acidi grassi può entrare nel ciclo
dell’acido citrico oppure può essere trasformato in corpi chetonici quali acetone, acetoacetato e D-β-
butirrato. L’acetone, prodotto in piccole quantità, viene eliminato con la respirazione. L’acetoacetato e
il D-beta-idrossibutirrato sono trasportati dal sangue ai tessuti extraepatici dove vengono ossidati dal ciclo
dell’acido citrico per soddisfare la richiesta energetica di organi quali il muscolo scheletrico, il cuore e la
corteccia renale. Il cervello preferisce di norma il glucosio ma, in condizioni di digiuno prolungato, quando il
glucosio è meno disponibile, può adattarsi a usare acetoacetato e D-β-idrossibutirrato.
La produzione e l’esportazione dei corpi chetonici dal fegato ai tessuti extraepatici consente di continuare
l’ossidazione degli acidi grassi nel fegato quando l’acetil-CoA non viene ossidato dal ciclo
dell’acido citrico.

La prima tappa della formazione dell’acetoacetato nel fegato è la condensazione di due molecole di
acetil CoA, catalizzata dalla tiolasi. L’acetoacetil CoA condensa poi con un’altra molecola di Acetil-
CoA formando β-idrossi-β-metilglutaril-CoA che si scinde in acetoacetato e acetil-CoA.
L’acetoacetato libero cosi prodotto viene convertito in D-β-idrossibutirrato dalla D-β-idrossibutirrato
deidrogenasi.

Nelle persone sane, l’acetone si forma solo in piccolissime quantità dall’acetoacetato, mediante perdita del
suo gruppo carbossilico. L’acetoacetato si decarbossila spontaneamente ma anche ad opera
dell’acetoacetato decarbossillasi.

Dato che i diabetici non trattati producono grandi quantità di acetoacetato, il loro sangue contiene acetone
che a livelli elevati può diventare tossico. Nei tessuti extraepatici, il D-β-idrossibutirrato viene ossidato
ad acetoacetato dalla D-β-idrossibutirrato deidrogenasi. L’acetoacetato è attivato mediante la
formazione del tioestere con il coenzima A in una reazione catalizzata dalla β-chetoacil-CoA-
trasferasi (o tiolasi), in cui l’enzima A viene donato dal succinil-CoA.
L’acetoacetil-CoA è poi scisso dalla tiolasi in due molecole di acetil-CoA che entrano nel ciclo dell’acido
citrico. Quindi i corpi chetonici sono usati come fonte di energia in tutti i tessuti ad eccezione del
fegato che non ha β-chetoacil-CoA-trasferasi. Il fegato produce quindi corpi chetonici per gli altri
tessuti, ma non li utilizza.
La produzione e l'esportazione di corpi chetonici del fegato consentono una continua ossidazione
di acidi grassi con solo una minima ossidazione di acetil-CoA. Per esempio, quando gli intermedi del
ciclo dell'acido citrico sono utilizzati per la sintesi del glucosio attraverso la gluconeogenesi, l'ossidazione
dell'unità acetile nel ciclo si riduce. ll fegato ha una quantità limitata di coenzima A e, quando la maggior
parte del coenzima è impegnata nel legame con l’unità acetile, la beta ossidazione degli acidi grassi tende a
diminuire per la scarsità di coenzima A libero.
Il digiuno prolungato e il diabete mellito non trattato portano alla sovrapproduzione di corpi
chetonici, che generano a loro volta alcuni problemi medici. Durante il digiuno la gluconeogenesi sottrae
intermedi al ciclo dell'acido citrico, indirizzando l'acetil-CoA verso la produzione di corpi chetonici.

Nel diabete non trattato l’insulina è presente in quantità insufficienti e i tessuti extraepatici non possono
assumere il glucosio dal sangue per usarlo come combustibile o per convertirlo in grassi di riserva. In
queste condizioni, il malonil-CoA (il materiale di partenza per la sintesi degli acidi grassi) non si forma e
quindi la carnitina aciltrasferasi I non viene inibita. Gli acidi grassi entrano quindi nei mitocondri per
essere degradati ad acetil-CoA, che però non può essere ossidato attraverso il ciclo dell'acido citrico, in
quanto alcuni intermedi del ciclo stesso sono stati sottratti per la gluconeogenesi. L’accumulo di acetil-CoA
provoca una produzione di corpi chetonici in quantità superiori alle capacità degli organi extraepatici di
utilizzarli. L’aumento di acetoacetato e di D-β-idrossibutirrato abbassa il pH del sangue, generando
una condizione nota con il nome di acidosi, che in casi estremi può portare al coma o alla morte. I corpi
chetonici possono raggiungere concentrazioni molto elevate nel sangue e nelle urine dei soggetti diabetici
non trattati, in particolare: una concentrazione nel sangue di 90 mg/mL (rispetto al livello normale, inferiore
a 3 mg/100 mL); un'escrezione urinaria di 5000 mg/24 h (rispetto alla quantità normale uguale o inferiore
a 125
mg/24 h).Questa condizione viene detta chetosi, o quando combinata con l’acidosi, chetoacidosi.

Negli individui che seguono diete ipocaloriche, gli acidi grassi del tessuto adiposo diventano la
principale fonte di energia. In questi casi bisogna controllare il livello di corpi chetonici nel sangue e nelle
urine, per evitare chetosi o chetoacidosi.
LEZIONE XIV - BIOSINTESI DEGLI ACIDI GRASSI

Si potrebbe pensare che la biosintesi degli acidi grassi sia semplicemente l’inverso della loro demolizione:
in realtà, la biosintesi degli acidi grassi e la degradazione degli stessi sono processi marcatamente
differenti. La degradazione degli acidi grassi avviene a livello dei mitocondri, mentre la loro sintesi si
verifica nel citosol. Inoltre, mentre l’ossidazione degli acidi grassi richiede la coppia di cofattori NAD+/
NADH, la loro biosintesi richiede la coppia NADP+/NADPH; infine, il precursore per la biosintesi degli acidi
grassi non è l’acetil-CoA, bensì il malonil-CoA.

La formazione del Malonil-CoA a partire dall’acetil-CoA è un processo irreversibile, catalizzato dall’Acetil-


CoA carbossillasi. L’enzima presenta come gruppo prostetico la biotina, legata ad un residuo di lisina di
uno dei tre domini della molecola enzimatica. La reazione avviene in due tappe:

Il gruppo carbossilico, che deriva dallo ione bicarbonato, viene prima trasferito alla biotina in una
reazione che richiede ATP. La biotina funge da trasportatore temporaneo della CO2, che nella seconda
tappa viene trasferita all’acetil-CoA, producendo Malonil-CoA.

In tutti gli organismi le lunghe catene carboniose degli acidi grassi vengono sintetizzate mediante una
sequenza di quattro tappe che si ripetono, catalizzate dal complesso multienzimatico dell’acido grasso
sintasi. Sia il trasportatore degli elettroni sia i gruppi attivi impegnati nella sequenza delle reazioni
anaboliche differiscono da quelli del processo di demolizione degli acidi grassi: infatti nella β ossidazione si
aveva che gli accettori di elettroni fossero il NAD+ e il FAD e il gruppo attivatore fosse il tiolo del coenzima
A: l’agente riducente nella biosintesi è invece il NADPH e i gruppi attivatori sono due differenti gruppi
tiolici dell’acido grasso sintasi.

Nei vertebrati l’acido grasso sintasi (FAS I) consiste di una singola catena polipeptidica. In particolare
questa presenta 7 differenti domini, ognuno con un sito attivo per sette reazioni separate. Il polipeptide
dei mammiferi funziona come un omodimero, e sembra che le subunità agiscano in maniera indipendente.
Una FAS I differente si ritrova nel lievito, ed è costituita da da due polipeptidi multifunzionali che
formano una struttura un po’ diversa rispetto a quella della FAS I classica. La FAS II di piante e batteri è
invece costituita da proteine distinte: ciascuna tappa della biosintesi è catalizzata da un enzima libero e
diffusibile.

I domini multipli della FAS I nei mammiferi agiscono in maniera distinta, pur essendo tutti sulla stessa
catena polipeptidica, legati l’uno all’altro in sequenza. Attraverso il processo di sintesi degli acidi grassi, gli
intermedi rimangono legati covalentemente come tioesteri ai due gruppi tiolici di cui il complesso è dotato.
Uno è il gruppo -SH di un residuo di cisteina del dominio KS (β-chetoacil-ACP sintasi); l’altro è il
gruppo -SH della proteina trasportatrice di acili. L’idrolisi del tioestere è molto esoergonica, e l’energia
rilasciata serve a rendere termodinamicamente favoriti i due passaggi di condensazione della sintesi degli
acidi grassi.

La proteina trasportatrice degli acili (ACP) è la “navetta” che mantiene unito il sistema. Si tratta di
una piccola proteina che contiene il gruppo prostetico 4’-fosfopanteteina: si pensa che funzioni da
braccio flessibile, avendo quindi una funzione simile alla biotina. Esso trattiene le catene di acido grasso
in allungamento sulla superficie dell’acido grasso sintasi, mentre trasferisce gli intermedi delle varie
reazioni da un sito attivo all’altro.
Negli eucarioti non fotosintetici, tutto l’Acetil-CoA usato per la sintesi degli acidi grassi viene
prodotto nei mitocondri dal piruvato e dal catabolismo degli amminoacidi. L’acetil-CoA che deriva
dall’ossidazione degli acidi grassi non è una fonte significativa di atomi di carbonio per la sintesi delle stesse
molecole, perché le due vie sono regolate in modo coordinato e complementare.

Poichè la membrana mitocondriale interna è impermeabile all’Acetil-CoA, il gruppo acetilico viene


trasportato all’esterno mediante un sistema navetta indiretto. L’Acetil-CoA nei mitocondri reagisce con
l’ossalacetato grazie alla citrato sintasi, producendo acido citrico (prima reazione del ciclo di Krebs). Il
citrato passa poi nel citosol attraverso il trasportatore del citrato della membrana mitocondriale
interna. Nel citosol il citrato viene scisso dalla citrato liasi, che rigenera acetil-CoA. L’ossalacetato
non può rientrare direttamente nei mitocondri: quindi nel citosol esso viene ridotto a malato dalla
malato deidrogenasi, e il malato può rientrare nella matrice mitocondriale mediante il cotrasportatore
malato/α-chetoglutarato in cambio di citrato e viene poi riossidato ad ossalacetato, completando il
processo. Tuttavia, la maggior parte del malato che si trova nel citosol viene utilizzato per generare
NADPH grazie all’enzima malico; il piruvato cosi prodotto entra nel mitocondrio grazie al trasportatore
del piruvato e riconvertito in ossalacetato dalla piruvato carbossillasi della matrice.
Prima che abbiano inizio le reazioni di sintesi dell’acido grasso, i due gruppi tiolici del complesso
multienzimatico devono essere caricati con i gruppi acilici corretti. Dapprima il gruppo acetilico
dell’acetil-CoA viene trasferito all’ACP in una reazione catalizzata dal dominio malonil/acetil-CoA-
ACP trasferasi; il gruppo acilico viene quindi trasferito al gruppo -SH della β-chetoacil-ACP
sintasi (KS). In secondo luogo il malonil-CoA è trasferito al gruppo -SH dell’ACP, sempre ad opera
della malonil/acetil-CoA-ACP trasferasi.

La prima reazione della biosintesi degli acidi grassi è una condensazione che coinvolge i gruppi
acetilico e malonilico attivati grazie al legame con i gruppi tiolici del complesso multifunzionale
dell’acido grasso sintasi, con formazione dell’acetoacetil-ACP, un gruppo acetoacetilico legato all’ACP
mediante il gruppo sulfidrilico della fosfopanteteina; nel contempo si libera una molecola di CO2. In
questa reazione, catalizzata dalla β-chetoacil-ACP sintasi (KS) il gruppo acetilico viene trasferito
dal gruppo -SH dell’enzima al gruppo -SH dell’ACP. L’atomo di carbonio nella CO2 che si libera in
questa condensazione è lo stesso che era stato aggiunto all’acetil-CoA per ottenere malonil-CoA nella
reazione catalizzata dall’acetil-CoA carbossillasi. Ma perché le cellule legano la CO2 all’acetil-CoA formando
malonil-CoA se poi la liberano durante la formazione dell’acetoacetato? L’accoppiamento della
condensazione con la decarbossilazione del gruppo malonilico rende nel suo complesso la prima tappa
della biosintesi degli acidi grassi molto esoergonica.

L’acetoacetil-ACP formato nella tappa di condensazione subisce la riduzione del gruppo carbonilico
al C-3, trasformandosi in D-β-idrossibutirril-ACP reduttasi (KR) e il donatore di elettroni è il NADPH.

Nella terza tappa, dagli atomi di carbonio C-2 e C-3 del D-β-idrossibutirril-ACP viene rimossa una
molecola d’acqua (disidratazione) per formare un doppio legame nel prodotto, il trans-Δ2-butenoil-
ACP. L’enzima che catalizza la reazione è la β-idrossiacil-ACP deidratasi (DH).

Nella quarta tappa, il doppio legame del trans-Δ2-butenoil-ACP viene ridotto (o saturato)
producendo butirril-ACP, grazie all’enoil-ACP reduttasi (ER). Anche in questa reazione il donatore di
elettroni è il NADPH.

La formazione dell’acil-ACP a quattro atomi di carbonio completa il primo passaggio attraverso il


complesso dell’acido grasso sintasi. Nella quinta tappa del processo, il gruppo butirrico viene trasferito
dal gruppo -SH della fosfopanteteina a quello della β-chetoacil-ACP sintasi, che era inizialmente
occupato dal gruppo acetilico. Per cominciare un nuovo ciclo di quattro reazioni, necessario per allungare
la catena di altri due atomi di carbonio, un nuovo gruppo malonile viene legato all’-SH della
fosfopanteteina sull’ACP ora libero. La condensazione avviene tra il gruppo butirrilico, che si
comporta esattamente come l’acetile, e due degli atomi di carbonio del malonile legato all’ACP;
l’altro è perso sotto forma di CO2 (condensazione). Il prodotto della reazione è un acile a 6 atomi di
carbonio, legato covalentemente al gruppo -SH della fosfopanteteina. Il suo gruppo chetonico verrà ridotto
nelle tappe successive formando un acile saturo.
Per produrre palmitato (o acido palmitico) saturo a 16 atomi di carbonio sono necessari 7 cicli di
reazione. Per ragioni che non conosciamo, in genere l’allungamento della catena termina al palmitato e
quest’ultimo viene staccato dall’ACP per azione idrolitica (tioesterasi, TE)

La reazione complessiva della sintesi del palmitato a partire dall’acetil-CoA può essere suddivisa in due
parti. Nella prima vi è la formazione di 7 molecole di Malonil-CoA; in seguito avvengono i 7 cicli
di condensazione e riduzione. In questi ultimi le molecole d’acqua prodotte sono 6 e non 7 perché
una è usata per idrolizzare il legame tioestere tra palmitato ed enzima. La reazione complessiva è
la seguente:

Quindi, la biosintesi del palmitato richiede acetil-CoA e un rifornimento di energia chimica in due forme:
l’ATP e il NADPH. L’ATP è necessario per legare la CO2 all’acetil-CoA per produrre Malonil-CoA; il NADPH
è necessario invece per ridurre il gruppo chetonico β e i doppi legami. Negli eucarioti non fotosintetici la
sintesi degli acidi grassi comporta un costo energetico aggiuntivo, perché l’acetil-CoA prodotto nei
mitocondri dev’essere trasportato nel citosol. Ciò richiede 2 ATP per ogni molecola di Acetil-CoA
trasportata.

Quando una cellula ha una quantità di sostanze nutrienti sufficienti al proprio sostentamento, l’eccesso
viene convertito in acidi grassi e conservato sotto forma di lipidi, come i tracilgliceroli. La reazione
catalizzata dall’acetil-CoA carbossillasi è la tappa che limita la velocità della biosintesi degli acidi
grassi, quindi questo enzima è un importante sito di regolazione metabolica. Nei vertebrati il palmitil-
CoA, il principale prodotto di sintesi degli acidi grassi, si comporta da inibitore dell’enzima, mentre il
citrato è un suo attivatore allosterico. Proprio il citrato svolge un ruolo fondamentale nell’invertire la
direzione del metabolismo cellulare dal consumo di nutrienti alla loro conservazione sotto forma di acidi
grassi. Quando nei mitocondri Acetil-CoA e ATP aumentano, il citrato viene esportato nel
citosol, dove diventa il precursore dell’Acetil-CoA citosolico e il segnale allosterico per attivare
l’Acetil-CoA carbossillasi. Allo stesso tempo il citrato inibisce l’attività della fosfofruttochinasi 1,
inibendo conseguentemente la glicolisi. L’acetil-CoA carbossillasi viene regolata anche mediante
modificazione covalente. La sua fosforilazione per azione di adrenalina e glucagone inattiva
l’enzima e arresta la sintesi degli acidi grassi. Oltre alla regolazione enzimatica a breve termine,
queste vie sono regolate anche a livello dell’espressione genica. Per esempio, in animali con una
dieta ricca di acidi grassi poliinsaturi viene soppressa l’espressione di geni che codificano per una vasta
gamma di enzimi lipogenici.

Se la β ossidazione e la sintesi degli acidi grassi avvenissero contemporaneamente si genererebbe un


ciclo futile, disperdendo energia. Sappiamo però che il malonil-CoA, primo intermedio della
biosintesi degli acidi grassi, blocca la β ossidazione inibendo la carnitina aciltrasferasi 1. Quindi
durante la sintesi degli acidi grassi la β ossidazione è inibita a livello dello shuttle carnitina/acil-carnitina,
impedendo che il processo possa proseguire.

Il palmitato è il principale prodotto del complesso dell’acido grasso sintasi ed è il precursore degli altri
acidi grassi a catena lunga. Questo acido grasso può essere allungato per formare stearato (18:0) o
acidi grassi a catena ancora più lunga mediante l’aggiunta di successive unità aciliche, catalizzata dal
sistema di allungamento degli acidi grassi presente a livello mitocondriale e del reticolo
endoplasmatico liscio. Il sistema di allungamento è comunque più attivo nel reticolo
endoplasmatico, che allunga di due atomi di carbonio la catena del palmitil-CoA, formando Stearil-CoA.
Anche se in questa reazione sono coinvolti enzimi diversi e il trasportatore di acili non è l’ACP ma l’acetil-
CoA, il meccanismo di reazione è del tutto identico. Due prodotti chiave del processo di allungamento
sono il linoleato, un acido grasso omega 6, e l’α-linoleato, un acido grasso omega-3. Questi sono i
precursori di due grandi famiglie di acidi grassi insaturi, le famiglie degli omega-6 ed omega-3. Gli
esseri umani non sono in grado di sintetizzare linoleato e α-linoleato e devono assumerli con la dieta.
Il palmitato e lo stearato sono anche i precursori dei più comuni acidi grassi insaturi: il palmitoleato
(16:1 Δ9) e l’oleato (18:1 Δ9). Entrambi presentano un solo doppio legame, introdotto nella catena
dell’acido grasso da una reazione catalizzata dall’acil-CoA desaturasi. I due substrati dell’enzima, l’acido
grasso e il NADH o NADPH, vanno incontro simultaneamente ad ossidazioni che coinvolgono due elettroni:
gli elettroni fluiscono in una via costituita dal citocromo b5 e dalla citocromo b5 reduttasi, entrambi
presenti, come l’acil-CoA desaturasi, nel reticolo endoplasmatico liscio. Nel processo intervengono per
il citocromo b5 uno ione ferro, che varia il proprio stato di ossidazione; per la citocromo b5 reduttasi il
gruppo prostetico FAD, che infine viene riossidato e trasferisce i propri elettroni al NADP+, che si riduce in
NADPH.

Approfondimento

Gli eicosanoidi sono una famiglia di molecole segnale molto potenti che agiscono come messaggeri a
corto raggio.

In risposta ad uno stimolo una specifica fosfolipasi A2 agisce sui fosfolipidi di membrana, e rilascia acido
arachidonico dal glicerolo. Nel reticolo endoplasmatico liscio l’acido arachidonico viene convertito nelle
prostaglandine. Il processo comincia con la sintesi della prostaglandina H2, precursore di molte altre
prostaglandine e trombossani. Le due reazioni per la sintesi sono catalizzate da un enzima bifunzionale, la
ciclossigenasi (COX) o prostaglandina H2 sintasi. Le prostaglandine prodotte da questo complesso
hanno un’importante funzione nella risposta immediata allo stress o alle ferite, inclusa l’infiammazione, il
dolore, il gonfiore e la vasodilatazione. I mammiferi hanno due isoforme della ciclossigenasi, definite
COX-1 e COX-2. COX-1 è responsabile della sintesi della prostaglandine che regolano la secrezione della
mucina gastrica, mentre COX-2 è responsabile della sintesi delle prostaglandine che mediano
l’infiammazione, il dolore e la febbre: ne deriva che inibendola si può alleviare il dolore. Il primo
farmaco reso disponibile sul mercato a questo scopo è stato l’acido acetilsalicilico o Aspirina, un
antinfiammatorio non-steroideo. L’aspirina blocca irreversibilmente l’attività di tutte e due le
isoforme di COX, e inibendo la sintesi di prostaglandine e trombossani. Tuttavia, l’inibizione di
COX-1 può produrre effetti indesiderati, come irritazione gastrica. Nel corso dei decenni quindi sono
stati messi a punto nuovi farmaci dotati di maggiore specificità per COX-2, come l’ibuprofene. In alcuni
casi gli effetti collaterali di certi farmaci possono essere correlati non solo alla loro mancata specificità, ma
anche alla capacità di indurre (molto più spesso) o inibire i sistemi dei citocromi, incrementando la loro
attività. L’effetto del farmaco può essere impiegato proprio per accelerare i processi metabolici legati ai
citocromi, permettendo di metabolizzare più rapidamente una certa sostanza. Questo però potrebbe avere
anche effetti collaterali: per esempio un farmaco potrebbe aumentare notevolmente la degradazione
dell’etanolo in acetaldeide, un composto tossico che accumulandosi potrebbe causare pesanti danni
all’organismo.

La trombossano sintasi converte la prostaglandina H2 in trombossano A2, da cui derivano gli altri
trombossani, che inducono costrizione dei vasi sanguigni e stimolano l’aggregazione piastrinica.

Dall’arachidonato vengono prodotti anche i leucotrieni, un’altra classe di eicosanoidi, sintetizzate per
mezzo delle lipossigenasi.
LEZIONE XV - BIOSINTESI DEI LIPIDI E DEL
COLESTEROLO

La maggior parte degli acidi grassi sintetizzati o ingeriti da un organismo vengono utilizzati per produrre o
triacilgliceroli con funzione di conservazione energetica oppure fosfolipidi, i principali componenti delle
membrane cellulari. Entrambe le vie, comunque, partono dallo stesso punto: la formazione di esteri del
glicerolo con acidi grassi. La scelta tra i due diversi destini a cui possono andare incontro gli acidi grassi
dipende dalle necessità dell’organismo: durante la crescita la sintesi di nuove membrane genera una
notevole richiesta di fosfolipidi; in età adulta, dove non c’è un processo di crescita particolarmente
attivo, gli acidi grassi sono destinati alla conservazione sotto forma di triacilgliceroli.

Le fonti di riserva energetica dell’organismo sono rappresentate dai depositi di tracilgliceroli e di glicogeno.
Per quanto riguarda il glicogeno accumulato a livello epatico e muscolare, questo è sufficiente a soddisfare
la richiesta energetica dell’organismo per sole 12 ore circa. Invece la quantità di triacilgliceroli che è
possibile accumulare in essere umano adulto di 70 kg (ben 15kg in condizioni normali) è sufficiente per
soddisfare il fabbisogno basale dell’organismo per un periodo di circa tre mesi. Inoltre il glicerolo,
essendo una molecola idrofilica, avrebbe bisogno di uno spazio enorme per essere accumulato nelle
quantità dei tracilgliceroli, che sono idrofobici. I triacilgliceroli e i glicerofosfolipidi vengono prodotti nei
tessuti animali a partire da due precursori: gli acil-CoA e il glicerolo 3-fosfato. Il glicerolo 3-fosfato si
forma per la maggior parte nel citosol a partire dal diidrossiacetone fosfato, grazie all’enzima glicerolo
3-fosfato deidrogenasi, NAD-dipendente. Nel fegato e nel rene una piccola quantità di glicerolo 3-
fosfato si forma a partire dal glicerolo ad opera dell’enzima glicerolo chinasi. Gli altri precursori dei
triacilgliceroli, vale a dire gli Acil-CoA si formano a partire dagli acidi grassi in una reazione
catalizzata dall’Acil-CoA sintetasi, ossia lo stesso enzima che attiva gli acidi grassi per farli entrare
nella β ossidazione.

La prima fase della biosintesi dei tracilgliceroli è l’acilazione dei due gruppi ossidrilici liberi del
glicerolo 3-fosfato con due molecole di Acil-CoA: l’acetilazione con l’acil-CoA avviene quindi due
volte, consumando due molecole di ATP, attraverso l’enzima aciltrasferasi; in questo modo viene
generato diacilglicerolo 3-fosfato, meglio conosciuto come acido fosfatidico o fosfatidato. Esso può
essere convertito in triacilglicerolo o glicerofosfolipide. Nella via che porta alla sintesi dei
triacilgliceroli, l’acido fosfatidico viene idrolizzato dalla fosfatidato fosfatasi per formare 1,2
diacilglicerolo; questo può essere convertito in triacilglicerolo mediante transesterificazione con una
terza molecola di Acil-CoA.
Pidrossiacetone fosfato
Glicerdo
H2COH
2

H2 P

Glicerolo Glicerolo 3 -fosfato ATP


3 fosfato
-
C
Clicerolo chinasi
deidrogenasi C
/APP

NATA
R -

2)
CoA-SH

I
~
ATP
NAAt
R C

S-CoA
3 AMP
t
PP;
acil trasferasi R -

CoA-SH CoA-SH
~
ATP

R 3A
C
C

aciltrasferasi S-CoA

CoA-SH

21
H2
= C Acido fosfatidico

C >
La mobilitazione delle riserve di grassi in un essere umano adulto è molto bassa: le concentrazioni di
grasso corporeo restano sostanzialmente invariate. Questo è giustificato dal fatto che una volta che si sono
formati, i triacilgliceroli vengono mobilitati solo quando il corpo si trova in condizioni ipocaloriche per un
tempo prolungato. Tra l’altro se l’organismo si abitua a queste condizioni perché costretto a lavorare a
bassi livelli energetici, nel momento in cui vengono acquisiti nuovamente nutrienti ad un livello
appropriato, esso continuerà a lavorare per un certo periodo a bassi livelli energetici, mentre “l’eccesso”
viene immagazzinato sotto forma di grassi. Il metabolismo dei lipidi è strettamente correlato a quello
del glucosio e degli amminoacidi. Il componente chiave che collega le tre vie metaboliche è l’acetil-
CoA, che può provenire sia dalla glicolisi, a partire dal piruvato, oppure dagli amminoacidi.

La biosintesi e la degradazione dei triacilgliceroli sono regolate in modo coordinato e complementare.


La velocità di biosintesi dei tracilgliceroli è controllata dall’azione di diversi ormoni: l’insulina facilita la
conversione dei carboidrati in triacilgliceroli.

Un altro fattore da cui dipende l’equilibrio tra biosintesi e degradazione dei tracilgliceroli è dato dal fatto
che circa il 75% degli acidi grassi rilasciati dalla lipolisi viene esterificato nuovamente a
triacilgliceroli e non utilizzato come combustibile. Questo riciclaggio si mantiene anche in condizioni
di digiuno. Parte del riciclaggio degli acidi grassi si ha nel tessuto adiposo, dove la riesterificazione
impedisce il rilascio degli acidi grassi il loro rilascio nel torrente ematico; un’altra parte del riciclaggio
avviene in un ciclo sistemico nel quale gli acidi grassi liberi sono trasferiti nel fegato, riclicati a
triacilglicerolo, esportati nuovamente nel sangue, e riacquisiti nel tessuto adiposo. Il flusso
attraverso questo ciclo del triacilglicerolo tra tessuto adiposo e fegato può essere molto contenuto se
sono presenti altri nutrienti e il rilascio di acidi grassi da parte dell’adipe è limitato. La quantità degli
acidi grassi liberi nel sangue riflette sia la velocità di rilascio degli acidi grassi, sia l’equilibrio
tra la sintesi e la demolizione dei tracilgliceroli tra adipe e fegato.

Quando la mobilizzazione degli acidi grassi diventa necessaria per soddisfare le necessità energetiche
dell’organismo, il loro rilascio da parte del tessuto adiposo viene stimolato dagli ormoni adrenalina e
glucagone; al tempo stesso questi ormoni rallentano la velocità della glicolisi e aumentano la
velocità della gluconeogenesi. Gli acidi grassi vengono assorbiti da tessuti come il muscolo scheletrico,
nei quali sono ossidati per produrre energia. Gli acidi grassi che si portano al fegato non vengono
ossidati, ma sono nuovamente convertiti in triacilgliceroli e riportati al tessuto adiposo. La
funzione del ciclo del triacilglicerolo, apparentemente un ciclo futile, non è ben nota. Il ciclo del
triacilglicerolo si verifica anche a digiuno, e questo porta a chiedersi da dove provenga il glicerolo 3-fosfato
richiesto dal processo. Infatti la glicolisi viene inibita da adrenalina e glucagone, quindi il diidrossiacetone
fosfato è scarso, e tra l’altro il glicerolo ottenuto dalla lipolisi non può direttamente essere convertito in
glicerolo 3-fosfato negli adipociti, perché questi sono mancanti di glicerolo chinasi.
A livello del tessuto adiposo esiste però un pathway metabolico alternativo che consente di sintetizzare
nuove molecole di glicerolo: la gliceroneogenesi. Si tratta di una versione accorciata della
gluconeogenesi, che dal piruvato ottiene diidrossiacetone fosfato, poi convertito in glicerolo 3-
fosfato grazie alla glicerolo 3-fosfato deidrogenasi citosolica, dipendente dal NAD. Il glicerolo 3-
fosfato viene poi utilizzato nella sintesi dei triacilgliceroli. La gliceroneogenesi ha diversi ruoli. Nel tessuto
adiposo dov’è accoppiata con la riesterificazione degli acidi grassi controlla la velocità di rilascio
nel sangue degli acidi grassi. Nel tessuto adiposo bruno, la stessa via può controllare la velocità
con cui gli acidi grassi liberi sono importati nei mitocondri per essere impiegati per produrre
calore.

Il flusso del ciclo del triacilglicerolo tra fegato e tessuto adiposo è controllato in larga parte dalla PEP
carbossichinasi, che limita la velocità sia della gluconeogenesi che della gliceroneogenesi. Gli
ormoni glucocorticoidi come il cortisolo regolano i livelli di PEP carbossichinasi nel fegato e nel
tessuto adiposo; infatti questi ormoni agiscono a livello dell’espressione genica della PEP
carbossichinasi nel fegato che viene aumentata, upregolando la gluconeogenesi e la
gliceroneogenesi nell’organo. La stimolazione della gliceroneogenesi incrementa la sintesi di molecole di
triacilglicerolo nel fegato e il loro rilascio nel sangue. Contemporaneamente i glucocorticoidi sopprimono
la gliceroneogenesi nel tessuto adiposo; quindi il riciclaggio degli acidi grassi è ridotto e
aumenta la concentrazione di acidi grassi liberi nel sangue. La gliceroneogenesi è regolata in
modo reciproco nel fegato e nell’adipe influenzando il metabolismo dei lipidi in maniera
simmetricamente opposta: una ridotta velocità del processo nel tessuto adiposo aumenta la
concentrazione di acidi grassi nel torrente e ematico e la velocità di sintesi ed esportazione di triacilgliceroli
nel fegato. Quando i glucocorticoidi non sono più presenti il flusso attraverso il ciclo diminuisce per effetto
dell’aumento dell’espressione della PEP carbossichinasi nell’adipe e della sua diminuzione nel fegato.
Sintesi dei glicerofosfolipidi

La prima tappa della sintesi dei glicerofosfolipidi è la stessa della sintesi dei triacilgliceroli, cioè la
formazione del glicerolo 3-fosfato. Nella seconda tappa, due gruppi acilici vengono esterificati al C-1 e
al C-2 del glicerolo 3-fosfato, per formare acido fosfatidico. Una seconda via che porta all’acido
fosfatidico è la fosforilazione di un diacilglicerolo da parte di una specifica chinasi. Nella terza e
nella quarta tappa, la testa polare dei glicerofosfolipidi viene legata tramite un legame
fosfodiestere, in cui ciascuno dei due ossidrili alcolici (uno sulla testa polare e uno al C-3 del glicerolo)
forma un estere dell’acido fosforico. Nel processo biosintetico, uno degli ossidrili viene prima
attivato legandosi ad un nucleotide, il citidina difosfato (CDP); il citidina monofosfato (CMP) viene
poi rilasciato in seguito a un attacco nucleofilo da parte dell’altro ossidrile.
I mammiferi utilizzano due possibili strategie:

Nella prima strategia, il CDP si lega al diacilglicerolo, generando una forma attivata dell’acido
fosfatidico, il CDP-diacilglicerolo.

Nella seconda strategia, invece, il CDP si lega al gruppo ossidrilico della testa polare.

21
Strategia Strategia 2
H2C 0 C
H2C 0 C 21

HC 0 2 HC0 2

Ha P
te I Hz -

I
Testa
P
golare
>

>

Rib
Rib
Citosinc
Citosinc

H2C 0 32
CMP CMP

HC 0 2

Ha Te I
Biosintesi del colesterolo

Il colesterolo è tra i lipidi più importanti nel controllo dell’omeostasi lipidica dell’organismo, ed è anche il
riferimento per i valori circolanti di acidi grassi e lipoproteine. Si tratta di una molecola essenziale
per molti animali, compresi gli esseri umani, ma non è richiesto nella dieta perché tutte le cellule
possono sintetizzarlo a partire da precursori semplici. La struttura di questo composto a 27 atomi di
carbonio sottintende una complessa via di sintesi, che però parte da un unico precursore: l’acetato. Le
unità isopreniche, intermedi essenziali nella via che dall’acetato porta al colesterolo, sono precursori anche
di altri lipidi naturali.

La sintesi del colesterolo si svolge in quattro tappe: 1) condensazione di tre unità di acetato per
formare un intermedio a sei atomi di carbonio, il mevalonato; 2) conversione del mevalonato in unità
isopreniche attivate; 3) polimerizzazione di unità isopreniche a 5 atomi di carbonio per formare lo
squalene, composto lineare a 30 atomi di carbonio; 4) ciclizzazione dello squalene per formare il
nucleo steroideo a quattro anelli, da cui, attraverso una serie di altre modifiche si forma il colesterolo.
Vediamo nel dettaglio ogni tappa.

Nella prima tappa, due molecole di acetil-CoA condensano a formare acetoacetil-CoA, grazie
all’enzima acetil-CoA acetiltrasferasi. L’acetoacetil-CoA reagisce poi con un altro gruppo acetilico, il che
genera un composto a 6 atomi di carbonio, il β-idrossi-β-metilglutaril-CoA (HMG-CoA) grazie
all’enzima HMG-CoA sintasi, una cui isoforma è impiegata per la formazione dei corpi chetonici nel
mitocondrio: quella coinvolta invece nella sintesi del colesterolo è una forma citosolica.
La terza reazione è la tappa di comando, e prevede la conversione di HMG-CoA in mevalonato, in cui
due molecole di NADPH donano due elettroni ciascuna. L’enzima che catalizza la reazione è l’HMG-CoA
reduttasi.

Nella tappa successiva tre gruppi fosfato vengono trasferiti da tre molecole di ATP al mevalonato.
Il gruppo fosfato legato all’ossidrile sul C-3 del mevalonato nell’intermedio 3-fosfo-5-
pirofosfomevalonato è un buon gruppo uscente. Nella tappa successiva sia il gruppo fosfato al C-5 che il
gruppo carbossilico vicino vengono liberati generando un doppio legame nel prodotto a 5 atomi di carbonio,
il Δ3-isopentenil pirofosfato, che può convertirsi spontaneamente in dimetilallil pirofosfato.

Nella terza tappa l’isopentenil pirofosfato e il dimetillallil pirofosfato vanno incontro ad una condensazione
con liberazione di pirofosfato e ottenimento di un intermedio a 10 atomi di carbonio: il geranil
pirofosfato. Il geranil pirofosfato subisce poi un’altra condensazione in cui viene prodotto il farnesil-
pirofosfato, a 15 atomi di carbonio. Infine, due molecole di farnesil pirofosfato si uniscono con
eliminazione da parte di ciascuna di un gruppo fosfato, formando lo squalene, composto a 30
atomi di carbonio.

I nomi dei composti citati derivano dalle fonti dalle quali sono stati isolati per la prima volta: il geraniolo, un
componente dell’olio di rosa ha l’odore tipico del geranio, mentre il farnesolo è l’essenza prodotta dai fiori
dell’albero Acacia farnesiana.
Lo squalene non possiede il nucleo steroideo, cioè una struttura a quattro anelli con doppi legami
coniugati. Per arrivare al colesterolo deve verificarsi quindi un complesso di reazioni. La squalene
monossigenasi aggiunge un atomo di ossigeno prelevandolo dall’O2 all’estremità della molecola dello
squalene, formando un epossido. Nella reazione l’altro atomo di ossigeno viene ridotto ad acqua mediante
il NADPH. I doppi legami del prodotto, vale a dire lo squalene 2,3-epossido, sono posizionati in modo
tale che grazie all’enzima ciclasi (negli animali) lo squalene 2,3 epossido venga convertito in
lanosterolo, dotato del nucleo steroideo: la struttura della molecola da lineare diventa ciclica. Il
lanosterolo viene convertito quindi in colesterolo attraverso una serie di altre 20 reazioni circa, che
prevedono l’aggiunta e la rimozione di gruppi metile. Il colesterolo è lo sterolo caratteristico delle
cellule animali, mentre le piante producono stigmasterolo e i funghi ergosterolo.

La sintesi del colesterolo è un processo finemente regolato, perché l’eccesso di questa molecola non
può essere impiegato come combustile, ma deve essere escreto. Nei mammiferi la sintesi del
colesterolo viene regolata dalla concentrazione intracellulare del colesterolo stesso, dalla
disponibilità di ATP e dagli ormoni insulina e glucagone. La tappa di comando della via di
biosintesi del colesterolo è la conversione dell’idrossi-metilglutaril-CoA in mevalonato, reazione
catalizzata dall’HMG-CoA reduttasi.
La regolazione a breve termine dell’HMG-CoA reduttasi è operata da fosforilazione reversibile
eseguita dalla proteina chinasi attivata da AMP. Quando l’AMP aumenta e l’ATP scende la sintesi del
colesterolo rallenta. Il glucagone stimola l’inattivazione (fosforilazione) dell’enzima, mentre
l’insulina la sua attivazione (defosforilazione).
La regolazione a lungo termine dell’HMG-CoA reduttasi è rappresentata da un controllo del numero
di molecole di HMG-CoA reduttasi a seconda delle concentrazioni intracellulari di colesterolo.
La regolazione è mediata da un complesso sistema di controllo della trascrizione del gene che
codifica per l’HMG-CoA reduttasi. Il livello dell’HMG-CoA reduttasi viene regolato anche per
degradazione proteolitica: elevati livelli di colesterolo cellulare vengono percepiti e l’enzima ubiquitinato,
per essere degradato nei proteasomi.

Nei vertebrati, la sintesi del colesterolo avviene principalmente nel fegato. Una piccola quota viene
incorporata nelle membrane degli epatociti, mentre la parte più rilevante viene esportata in tre
possibili forme: acidi biliari, colesterolo biliare o esteri del colesterolo. Nei tessuti il colesterolo
viene convertito in ormoni steroidei, come il testosterone. Questi ormoni sono segnali biologici
estremamente potenti che agiscono mediante recettori nucleari. Gli acidi biliari sono i principali
componenti della bile, escreta nell’intestino tenue per aiutare la digestione dei grassi: infatti questa
emulsiona le grandi gocce lipidiche, frammentandole e rendendole più suscettibili all’attacco delle lipasi e
favorendo la digestione dei lipidi; inoltre, aiuta ad eliminare dall’intestino l’eccesso di colesterolo,
facilitandone l’escrezione.

Gli esteri del colesterolo si formano nel fegato grazie all’azione dell’acil-CoA colesterolo
aciltrasferasi. Questo enzima catalizza il trasferimento di un acido grasso dal coenzima A al gruppo
ossidrilico del colesterolo. Gli esteri del colesterolo sono trasportati in particelle lipoproteiche ai
tessuti, o sono conservati nel fegato sotto forma di gocce lipidiche.
acetil trasfexasi
Acetil-CoA
2 CH -
-coA
Acetil-loA COA-SH

CH
-

s-CoA
CHIC -CH 2
- 8
LoA-SH
is-CoA
C R Acetoacetil-loA

CH2

te
HMG-CoA
sintasi


2 NADPH + Ht
S-CoA

HMG-CoA
LCNAPA CoA-SH
HMG-CoA COO-
reduttas;
C'H2
CHI -

CH2
CH2OH
Mevalonato
CH3

-CHICHE CHE H ATP

Mevalonato S-fosfotrasferasi
Mevalonato
AOP -

-OL-CH-CHz-CH-p-o
Il -

ATP be
fosfomevalonato S-fosfomevalonato
chindesi
APP
-

Pirofosfornevalonato
9
O
decarbossillasi

-OC-CH-CHz-CH-P-o-o-Po
Il -

be be
S-pinofosformevalorato ATP

CO2, Pi APP

3-fosto-S-girofosformevalonato -

9
O
CH3
Il
-OOC-CHz -

-CH2-CH -0 -

P -
0 -
0 -

P -
0
-

Pirofosforevalonato
be be
O
decarbossillasi Il
0 -
P -
O

↓-
isogenteil pirofosfato
isolnetas;

I
I

Dimetilallil
girofosfato

PPi
Trenil trasferasi
I_isogentenil girofosfato
P >

Prehil trasferasi
Geranil girofosfato ↑
PPi

P >

Farnesil girofosfato
Il colesterolo e i suoi esteri sono insolubili in acqua. Per questo motivo, sono in grado di passare da un
tessuto all’altro attraverso il plasma solo sotto forma di lipoproteine plasmatiche, complessi
macromolecolari costituiti da specifiche proteine trasportatrici, chiamate apolipoproteine, a
cui si associano fosfolipidi, colesterolo, esteri del colesterolo e triacilgliceroli. Le apolipoproteine
si associano ai lipidi a formare particelle lipoproteiche contenenti all’interno un nucleo idrofobo di lipidi
e all’esterno le catene laterali degli amminoacidi idrofili delle apolipoproteine. Le diverse
combinazioni tra le componenti generano particelle di diversa densità. Ogni classe di lipoproteine ha
una sua specifica funzione determinata dal sito di sintesi, dalla sua composizione lipidica e dal contenuto
di apolipoproteine.

I chilomicroni si occupano del trasporto dei tracilgliceroli della dieta dall’intestino tenue ai tessuti. I
chilomicroni sono le lipoproteine più grandi e meno dense, e sono sintetizzati nel REL degli
enterociti a partire dai grassi introdotti con la dieta. I chilomicroni si spostano quindi attraverso il
sistema linfatico ed entrano nel torrente ematico a livello della vena succlavia sinistra. Le rimanenze dei
chilomicroni arrivano al fegato attraverso il sangue, entrano negli epatociti per endocitosi, e al
loro interno rilasciano il colesterolo, venendo poi degradati nei lisosomi.

Le lipoproteine a densità molto bassa (VLDL, Very Low Density Lipoproteins) si formano
quando attraverso la dieta vengono assunti più acidi grassi e colesterolo rispetto alle
necessità dell’organismo; essi vengono quindi convertiti in tracilgliceroli o esteri del colesterolo
nel fegato, e poi trasferiti a specifiche apolipoproteine formando le VLDL. Anche l’eccesso di
carboidrati provenienti dalla dieta può essere convertito in tracilgliceroli, e questi ultimi
trasportati in forma di VLDL. Queste lipoproteine sono poi trasportate al tessuto adiposo, dove
vengono conservate in forma di goccioline di grasso, e al muscolo, dove i grassi sono ossidati
per produrre energia.

Le lipoproteine a bassa densità (LDL, Low density lipoproteins) sono essenzialmente il prodotto
della rimozione di grassi dalla rimanenza delle VLDL. Le LDL sono ricche di colesterolo e dei suoi
esteri. Esse hanno la funzione di trasportare il colesterolo ai tessuti periferici, dotati di specifici
recettori per le LDL. Le LDL non utilizzate dai tessuti e dalle cellule periferiche ritornano al
fegato.

Le lipoproteine ad alta densità (HDL, high density lipoproteins) hanno origine nel fegato e
nell’intestino tenue sotto forma di piccole particelle ricche di proteine, contenenti solo piccole
quantità di colesterolo. Contengono anche l’enzima lecitina-colesterolo aciltrasferasi, che catalizza
la formazione di esteri del colesterolo a partire appunto da lecitina e colesterolo. L’enzima lavora
utilizzando le rimanenze dei chilomicroni e delle VLDL incontrate nel torrente ematico e le converte in
esteri del colesterolo. Le HDL mature ritornano poi al fegato dove il colesterolo viene scaricato.
Alcuni esteri del colesterolo possono essere anche trasferiti alle LDL. Il circuito delle HDL costituisce il
sistema di trasporto inverso del colesterolo: la maggior parte del colesterolo recuperato viene
convertito nel fegato in sali biliari. A differenza di quanto accade per le LDL, che entrano fisicamente
nelle cellule, le HDL si legano a recettori di membrana e trasferiscono il proprio carico alla
cellula con la quale interagiscono, per poi tornare libere nel torrente ematico.

Ogni particella di LDL contiene una specifica apolipoproteina, che viene riconosciuta dai recettori per le
LDL, localizzati sulla superficie delle cellule che devono assumere il colesterolo. Questi recettori
vengono sintetizzati nel RE, modificati dall’apparato di Golgi e trasportati presso la membrana cellulare; il
legame di questi recettori con l’apolipoproteina innesca il processo di endocitosi, che
trasferisce recettore e LDL nella cellula attraverso un endosoma. Le porzioni della membrana
dell’endosoma che contengono i recettori si staccano e ritornano sulla superficie della cellula per
captare nuove LDL; in seguito l’endosoma si fonde con un lisosoma, che contiene enzimi che
idrolizzano gli esteri del colesterolo, rilasciando colesterolo e acidi grassi nel citosol.
L’apolipoproteina delle LDL viene degradata invece ad amminoacidi, anch’essi rilasciati nel
citosol.
LEZIONE XVI - ANAPLEROSI E CATAPLEROSI; CICLO
DEL GLIOSSILATO E VIA DEL PENTOSIO FOSFATO

Negli organismi aerobici, il ciclo dell’acido citrico è una via anfibolica, cioè serve sia ai processi
catabolici che ai processi anabolici. Per esempio, nel ruolo anabolico del ciclo l’α-chetoglutarato e
l’ossalacetato vengono sottratti per essere impiegati come precursori degli amminoacidi aspartato e
glutammato; il succinil-CoA è un intermedio fondamentale per costituire l’anello porfirinico del gruppo eme;
l’ossalacetato nella gluconeogenesi viene convertito a glucosio. Le vie che sottraggono al ciclo di Krebs
intermedi per poter funzionare prendono il nome di vie cataplerotiche.

Un unico processo biosintetico non è possibile per gli animali: la conversione dell’acetato o dell’acetil-
CoA in glucosio. Dato che gli atomi di carbonio delle molecole di acetato che entrano nel ciclo di Krebs
compaiono nell’ossalacetato dopo 8 reazioni, potrebbe sembrare che il ciclo produca ossalacetato
dall’acetato, e che poi questo possa essere utilizzato per sintetizzare glucosio. Tuttavia la stechiometria del
ciclo mostra che non c’è una conversione netta dell’acetato in ossalacetato. Nelle piante esiste
un’altra sequenza di reazioni, il ciclo del gliossilato, che permette di convertire l’acetato in
carboidrati. Il ciclo del gliossilato converte due molecole di acetato in una di ossalacetato, in una
variante del ciclo di Krebs in cui vengono evitate le due tappe di decarbossilazione. Quindi le
piante possono sintetizzare glucosio a partire dagli acidi grassi, mentre non possono farlo i vertebrati.

Molte piante immagazzinano nei loro semi proteine e lipidi da utilizzare come fonte di energia e come
precursori biosintetici durante la germinazione, cioè quando non si è ancora sviluppata la capacità
fotosintetica. Questi componenti immagazzinati sono convertiti in carboidrati mediante diverse vie. Per
quanto riguarda i triacilgliceroli, essi vengono idrolizzati ad acidi grassi liberi, che vanno incontro a β
ossidazione formando Acetil-CoA in perossisomi specializzati chiamati gliossisomi. L’acetil-CoA entra
quindi nel ciclo del gliossilato in cui l’acetato è convertito in succinato o altri intermedi del ciclo
di Krebs:

L’acetil-CoA condensa con l’ossalacetato a citrato, che viene convertito ad isocitrato. Quest’ultimo
però non viene ossidato come nel ciclo di Krebs, ma scisso dall’isocitrato liasi in succinato e gliossilato.
Il gliossilato poi condensa con una seconda molecola di Acetil-CoA per produrre malato, grazie alla
malato sintasi. Il malato viene poi ossidato ad ossalacetato, che può condensare con una
molecola di Acetil-CoA e far ripartire il ciclo.

Il succinato passa nella matrice mitocondriale e viene trasformato in ossalacetato dal ciclo di
Krebs, e poi si sposta nel citosol e può essere convertito prima in fosfoenolpiruvato grazie alla
PEP carbossichinasi, e in seguito in fruttosio 6-fosfato. Quindi, le sequenze di reazioni condotte in tre
compartimenti subcellulari (gliossisomi, mitocondri e citosol) sono integrate per produrre fruttosio 6-
fosfato a partire dalle riserve lipidiche.

Gli enzimi che prendono parte al ciclo di Krebs e a quello del gliossilato sono presenti in due isoforme, una
nei mitocondri e una nei gliossisomi. La separazione degli enzimi del ciclo del gliossilato e della β-
ossidazione da quelli mitocondriali del ciclo di Krebs impedisce l’ossidazione dell’acetil CoA a CO2. Per
ogni giro del ciclo del gliossilato si consumano due molecole di Acetil-CoA e si produce una molecola di
succinato, pronta per processi biosintetici. L’idrolisi dei triacilgliceroli di deposito produce anche
glicerolo 3-fosfato, che può entrare nella gluconeogenesi.
Tornando a noi, esiste di solito uno stato stazionario dinamico tra i processi che privano il ciclo di
Krebs dei suoi intermedi e che invece lo riforniscono. Quando la sottrazione degli intermedi al ciclo è tale
da produrre un rallentamento del ciclo stesso, essi possono essere rimpiazzati da reazioni
anaplerotiche. La più importante è quella che avviene nel rene o nel fegato, catalizzata dalla piruvato
carbossillasi, che trasforma il piruvato mediante utilizzo di una molecola di CO2 e ATP in
ossalacetato. Altre reazioni anaplerotiche sono l’ottenimento dell’ossalacetato a partire da
fosfoenolpiruvato, CO2 e GDP ad opera della PEP carbossichinasi; sempre l’ottenimento dell’ossalacetato
a partire da fosfoenolpiruvato e CO2 grazie alla PEP carbossillasi; infine, l’ottenimento di malato dal
piruvato e CO2 ad opera dell’enzima malico, che collabora con il NAD. Da notare come le reazioni di
anaplerosi utilizzino tutte intermedi della glicolisi.
In molti tessuti animali il destino catabolico del glucosio 6-fosfato è la sua demolizione glicolitica a piruvato,
che verrà poi ossidato nel ciclo di Krebs per formare ATP. Ma il glucosio 6-fosfato può anche essere
metabolizzato in altri modi, per produrre composti necessari alla cellula. Particolarmente importante in
alcuni tessuti è l’ossidazione del glucosio 6-fosfato a pentosio fosfato mediante la via del pentosio
fosfato, detta anche via del fosfogluconato o via dell’esosio monofosfato. In questa via di
ossidazione l’accettore elettronico è il NADP+ e viene prodotto NADPH. Le cellule che si dividono
rapidamente, come le cellule del midollo osseo, della pelle, della mucosa intestinale nonché le cellule
tumorali impiegano la via del pentosio fosfato per costruire gli acidi nucleici e coenzimi. In altri tessuti
invece la via del pentosio fosfato viene impiegata principalmente per ottenere NADPH, necessario
non solo per le biosintesi riduttive ma anche per contrastare gli effetti dannosi dei radicali liberi
dell’ossigeno.

I tessuti che sintetizzano attivamente gli acidi grassi (es. tessuto adiposo, ghiandola mammaria) o il
colesterolo e gli ormoni steroidei (fegato, gonadi) necessitano del NADPH prodotto dalla via del
pentosio fosfato. Gli eritrociti e le cellule del cristallino e della cornea entrano direttamente in rapporto
con l’ossigeno e quindi con i radicali liberi dannosi che si possono formare da questo gas: per questo
mantengono al loro interno sempre un atmosfera riducente per evitare danni di molecole sensibili da parte
dei radicali. Negli eritrociti il NADPH è particolarmente importante per prevenire il danno ossidativo.

La via del pentosio fosfato viene suddivisa in una fase ossidativa e in una fase non ossidativa. La prima
parte del pathway del pentosio-fosfato è la fase ossidativa, che di seguito si descrive in dettaglio:

La prima reazione della via del pentosio fosfato è l’ossidazione del glucosio 6-fosfato a 6-
fosfogluconato-δ-lattone catalizzata dalla glucosio 6-fosfato deidrogenasi; l’accettore degli elettroni
è il NADP+, che cosi si riduce. Il lattone viene idrolizzato poi da una specifica lattonasi a gluconato
libero.

Il 6-fosfogluconato va poi incontro ad una reazione di decarbossilazione ossidativa, catalizzata dalla 6-


fosfogluconato deidrogenasi formando il ribulosio 5-fosfato, uno zucchero chetopentoso; anche
questa reazione genera NADPH.

La fosfopentosio isomerasi converte il ribulosio 5-fosfato nel suo isomero aldoso, il ribosio 5-fosfato. In
alcuni tessuti la via del pentosio fosfato termina qui, e in tal caso la reazione complessiva è la seguente:

Si ha quindi produzione netta di NADPH, impiegato nelle reazioni biosintetiche, e di ribosio 5-fosfato,
uno zucchero fosforilato precursore dei nucleotidi.
Nei tessuti che richiedono principalmente NADPH, il pentosio fosfato prodotto nella fase ossidativa della via
viene riciclicato in glucosio 6-fosfato. In questa fase, detta non ossidativa, il ribulosio 5-fosfato non
subisce l’azione della fosfopentosio isomerasi, bensì della ribulosio 5-fosfato epimerasi, che lo converte
in un suo epimero, lo xilulosio 5-fosfato.

Poi, con una serie di riarrangiamenti degli scheletri carboniosi, sei molecole di zucchero fosforilato a 5
atomi di carbonio sono convertite in 5 molecole di zucchero fosforilato a 6 atomi di carbonio,
completando il ciclo e consentendo di continuare ad ossidare il glucosio 6-fosfato con produzione di NADPH.
Il ripetersi continuato di sei cicli porta alla fine alla conversione di una molecola di glucosio 6-fosfato
in 6 molecole di CO2. Nell’interconversione di questi zuccheri agiscono due enzimi specifici della via del
pentosio-fosfato: la transchetolasi e la transaldolasi.

La transchetolasi catalizza il trasferimento di un frammento a due atomi di carbonio da un


chetosio donatore ad un aldosio accettore. Nel suo primo intervento nella via del pentosio fosfato,
trasferisce gli atomi C-1 e C-2 dello xilulosio 5-fosfato al ribosio 5-fosfato, formando un prodotto a
7 atomi di carbonio, il sedoeptulosio 7-fosfato; i restanti tre atomi di carbonio dello xilulosio vengono
liberati sotto forma di gliceraldeide 3-fosfato. Questo enzima impiega come fattore tiammina pirofosfato
(TTP).

La transaldolasi catalizza invece la rimozione dal sedoeptulosio 7-fosfato di un frammento a 3


atomi di carbonio, che poi è condensato con la gliceraldeide 3-fosfato, formando fruttosio 6-fosfato
ed eritrosio 4-fosfato.

A questo punto, la transchetolasi agisce ancora formando fruttosio 6-fosfato e gliceraldeide 3-


fosfato a partire dall’eritrosio 4-fosfato e dallo xilulosio 5-fosfato.

Le due molecole di gliceraldeide 3-fosfato che si formano da due cicli di queste reazioni possono
essere convertite in una molecola di fruttosio 1,6-bisfosfato, come accade nella gluconeogenesi, e infine
la FBPasi-1 e la fosfoesoso isomerasi convertiranno la molecola in glucosio 6-fosfato. Il ciclo è
completo: Sei molecole di pentosio fosfato sono state convertite in cinque molecole di esosio
fosfato.

La prima e la terza tappa della fase ossidativa della via del pentosio fosfato hanno variazione di energia
standard molto negativa, e sono quindi sostanzialmente irreversibili. Le reazioni della fase non ossidativa
della via del pentosio fosfato sono invece facilmente reversibili e rappresentano un mezzo per la
conversione di esosio fosfato in pentosio fosfato: questa via, detta via riduttiva del pentosio fosfato,
avviene nelle piante ed è fondamentale per la fissazione dell’anidride carbonica.

Tutti gli enzimi della via del pentosio fosfato sono enzimi citosolici, cosi come quelli della glicolisi e la
maggior parte di quello della gluconeogenesi. Infatti sono interconnesse per la condivisione di
diversi intermedi ed enzimi. La gliceraldeide 3-fosfato che si forma grazie alla transchetolasi è
rapidamente convertita in diidrossiacetone fosfato dalla trioso fosfato isomerasi glicolitica, e poi può essere
convertito in fruttosio 1,6 bisfosfato dalla aldolasi della gluconeogenesi; in alternativa il triosio fosfato può
essere ossidato a piruvato nella glicolisi. Il destino del triosio dipende dal fabbisogno relativo di
pentosio fosfato, NADPH e ATP da parte della cellula.

Il fatto che il glucosio 6-fosfato entri nella glicolisi oppure nella via del pentosio fosfato dipende dal
fabbisogno momentaneo nella cellula e dalla concentrazione di NADP+ nel citosol. In assenza di
questo accettore di elettroni, la prima reazione della via del pentosio fosfato non può procedere,
perché ha bisogno di questo coenzima. Quando la cellula converte rapidamente il NADPH in NADP+
nelle biosintesi riduttive (anaboliche) e il livello di NADP+ aumenta, la glucosio 6-fosfato deidrogenasi
viene stimolata allostericamente e il flusso del glucosio 6-fosfato attraverso la via del pentosio fosfato
tende per conseguenza ad aumentare. Quando l’utilizzo del NADPH si riduce, il livello del NADP+
diminuisce, la via del pentosio fosfato rallenta e il glucosio 6-fosfato viene utilizzato invece per
rifornire la glicolisi.
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LEZIONE XVII - STRESS OSSIDATIVO
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LEZIONE XVIII - COMPOSTI ANTIOSSIDANTI

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In teoria questa lezione avrebbe una seconda parte, che però la professoressa non
chiederà all’esame
LEZIONE XIX - CATABOLISMO DEGLI AMMINOACIDI
Gli amminoacidi attraverso la degradazione ossidativa contribuiscono significativamente alla generazione di
energia metabolica. La frazione di quest’ultima varia però notevolmente a seconda del tipo di tessuto e
delle condizioni metaboliche dell’organismo. I carnivori consumano prevalentemente proteine, quindi
devono ottenere la maggior parte dell’energia di cui hanno bisogno dagli amminoacidi, mentre gli erbivori
ne ricavano solo una piccola percentuale. La maggior parte dei microrganismi può procurarsi gli
amminoacidi dall’ambiente circostante e utilizzarli come combustibile a seconda delle necessità. Le piante
invece, salvo rarissime occasioni, non utilizzano mai gli amminoacidi per ottenere energia.

Le numerose vie del catabolismo degli amminoacidi consistono di due parti generali, una che riguarda i
gruppi amminici e l’altra che riguarda gli scheletri carboniosi. Tutte le vie di degradazione degli
amminoacidi comprendono una tappa fondamentale, che impiega come cofattore il piridossal fosfato,
nella quale il gruppo amminico viene rimosso e indirizzato verso le vie metaboliche predisposte per esso.
Gli scheletri carboniosi sono invece degradati ad intermedi del ciclo di Krebs (amminoacidi glucogenici).

Quattro amminoacidi, cioè l’alanina, il glutammato, la glutammina e l’aspartato svolgono ruoli


fondamentali nel trasporto e nella distribuzione dei gruppi amminici. Tutti e quattro questi
amminoacidi sono presenti nel corpo a concentrazioni piuttosto elevate e possono essere facilmente
convertiti in intermedi del ciclo di Krebs.

Le varie vie del catabolismo degli amminoacidi sono strettamente e finemente interconnesse con
numerose altre vie anaboliche e cataboliche.

L’ammoniaca libera è tossica, quindi i gruppi amminici in eccesso devono essere escreti in modo sicuro.

Ciascun amminoacido ha un diverso destino catabolico. I diversi scheletri carboniosi degli amminoacidi
sono demoliti in vie metaboliche tutte molto variegate. Possono essere utilizzati per generare ATP o
contribuire alla gluconeogenesi quando necessario.

I gruppi amminici, se non vengono riutilizzati per la sintesi di nuovi amminoacidi o di altri componenti
azotati, vengono convertiti tutti in un unico prodotto finale di escrezione. Gli animali eliminano l’azoto
amminico sotto forma di ammoniaca, urea o acido urico. Nelle piante se non in condizioni straordinarie
non vi è escrezione di azoto.
Nei vertebrati la glutammina, il glutammato e l’alanina svolgono i ruoli più importanti. Gli
amminoacidi che derivano dalle proteine della dieta sono la principale fonte di gruppi amminici. La maggior
parte degli amminoacidi viene metabolizzata nel fegato. Una parte dello ione ammonio generato in questi
processi viene riciclato e utilizzato in una serie di vie biosintetiche, dove il ruolo principale è svolto da
glutammina, glutammato e aspartato. I gruppi amminici vengono escreti direttamente oppure convertiti a
seconda degli organismi in urea o acido urico.
Nei mammiferi, compreso l’uomo, l’eccesso di ammoniaca generato in altri tessuti giunge al fegato per
essere trasformato in urea. L’importante ruolo svolto dal glutammato, dalla glutammina, dall’alanina e
dall’aspartato nel metabolismo dell’azoto non è casuale, ma dipende dal fatto che questi amminoacidi
sono gli unici che possono essere facilmente convertiti in intermedi del ciclo di Krebs: glutammato
e glutammina in α-chetoglutarato, l’alanina in piruvato e l’aspartato in ossalacetato. Glutammato e
glutammina sono particolarmente importanti perché fungono da punto di raccolta dei gruppi amminici.
Nel citosol delle cellule epatiche i gruppi amminici della maggior parte degli amminoacidi vengono trasferiti
all’α-chetoglutarato formando glutammato. In gran parte degli altri tessuti l’eccesso di ammoniaca viene
convertito in glutammina, che viene portata poi al fegato. Per questo motivo, glutammina e glutammato
sono presenti nei tessuti a concentrazioni più alte degli altri amminoacidi. Nel muscolo scheletrico i
gruppi amminici in eccesso vengono trasferiti al piruvato formando alanina, altro amminoacido che può
trasferire i gruppi amminici al fegato.

Nel corpo umano, le proteine ingerite con la dieta vengono degradate ad amminoacidi liberi nel tratto
gastrointestinale. L’ingresso delle proteine nello stomaco stimola la mucosa gastrica a secernere l’ormone
gastrina, che stimola a sua volta la secrezione di acido cloridrico. Quest’ultimo denatura le proteine
globulari e le rende più suscettibili all’idrolisi enzimatica. Il pepsinogeno, enzima inattivo, viene
convertito in pepsina a pH bassi. Nello stomaco la pepsina idrolizza le lunghe catene polipeptidiche in
una miscela di peptidi più piccoli. Quando il contenuto acido dello stomaco passa nell’intestino il suo basso
pH provoca la secrezione nel sangue dell’ormone secretina, che stimola il pancreas a secernere
bicarbonato per neutralizzare l’acido cloridrico dello stomaco. Contestualmente viene rilasciato
anche l’ormone colecistochinina, che stimola il pancreas a rilasciare le forme inattive di tripsina,
chimotripsina e carbossipeptidasi A e B. La tripsina e la chimotripsina idrolizzano ulteriormente i peptidi
prodotti dalla pepsina nello stomaco. La miscela di amminoacidi liberi che ne risulta viene trasportata alle
cellule epiteliali dell’intestino tenue, attraverso le quali entra nel torrente ematico per giungere al fegato.
Perché gli enzimi proteolitici di stomaco e intestino vengono secreti nella loro forma inattiva, attivandosi in
seguito? La sintesi degli enzimi come precursori inattivi protegge le cellule che li producono
dall’attacco proteolitico. Si ricordi infine che gli amminoacidi sono distinti in essenziali e non
essenziali: quelli essenziali devono necessariamente essere introdotti con la dieta, mente quelli non
essenziali posso essere sintetizzati dall’organismo.

La rimozione del gruppo amminico, la prima tappa del catabolismo della maggior parte degli amminoacidi
una volta che hanno raggiunto il fegato, è promosso da enzimi chiamati amminotrasferasi oppure
transamminasi. In queste reazioni di transamminazione il gruppo amminico viene trasferito all’atomo
di carbonio α dell’α-chetoglutarato, generando contemporaneamente il chetoacido del
corrispondente amminoacido. In queste reazioni non c’è perdita netta di gruppi amminici, perché si ha
contemporaneamente un’amminazione dell’a-chetoglutarato e una deamminazione
dell’amminoacido. Mediante le reazioni di transamminazione i gruppi amminici di diversi amminoacidi
sono raccolti su un unico composto, il glutammato.
Le cellule contengono diverse amminotrasferasi, molte delle quali specifiche per l’a-chetoglutarato quale
accettore del gruppo amminico, ma differiscono nella specificità per l’altro substrato, ossia l’amminoacido.
Questi enzimi prendono il nome proprio dall’amminoacido donatore (es. alanina amminotrasferasi). Le
reazioni catalizzate dalle amminotrasferasi sono facilmente reversibili.

Tutte le amminotrasferasi impiegano come gruppo prostetico il piridossal fosfato, la forma coenzimatica
della piridossina, o vitamina B6. Il piridossal fosfato agisce come trasportatore di gruppi amminici nel
sito attivo dell’amminotrasferasi. Il piridossal fosfato si converte tra la sua forma aldeidica, in cui può
accettare un gruppo amminico, e quella amminata, la piridossina fosfato, che può donare il suo gruppo
amminico a un chetoacido. Il piridossal fosfato è in genere legato covalentemente al sito attivo dell’enzima
mediante un legame aldimmidico (base di Schiff) con il gruppo amminico di un residuo di lisina. Il
piridossal fosfato è coinvolto in diversi tipi di reazioni del metabolismo amminoacidico. Le amminotrasferasi
sono classici esempi di enzimi che catalizzano reazioni biomolecolari “a ping-pong”. In questo tipo di
reazioni il primo substrato deve lasciare il sito attivo perchè si possa legare il secondo substrato. Quindi il
primo substrato, l’amminoacido, si lega al sito attivo, dona il suo gruppo amminico al piridossal fosfato e si
allontana sotto forma di chetoacido. Il secondo substrato, il chetoacido, si lega poi al sito attivo e accetta il
gruppo amminico della piridossammina fosfato, uscendo sotto forma di amminoacido.
Il ciclo dell’urea comincia con l’ammoniaca libera nei mitocondri degli epatociti. Il trasferimento nei
mitocondri dell’ammoniaca è reso più efficiente raccogliendo i gruppi amminici di molti amminoacidi diversi
in due sole forme: il gruppo amminico del glutammato oppure l’azoto ammidico della glutammina.

Essendo il prodotto di molte reazioni di transamminazione, il glutammato riveste un ruolo centrale. Negli
epatociti il glutammato viene trasferito dal citosol ai mitocondri dove va incontro ad una deamminazione
ossidativa catalizzata dalla glutammato deidrogenasi, che produce ione ammonio e α-
chetoglutarato. Nei mammiferi questo enzima è presente nella matrice mitocondriale ed è il solo che
possa utilizzare indifferentemente NAD o NADP. L’azione combinata di un’amminotrasferasi e della
glutammato deidrogenasi prende complessivamente il nome di transdeamminazione. La glutammato
deidrogenasi agisce in un importante punto di intersezione del metabolismo del carbonio e dell’azoto. L’α-
chetoglutarato cosi prodotto può essere ossidato come fonte di energia nel ciclo di Krebs oppure servire da
precursore del glucosio nella gluconeogenesi. Nonostante non si sappia esattamente come funzioni la
regolazione di questo enzima, si sa che l’ADP è un suo modulatore positivo e il GTP un modulatore
negativo. L’ADP può segnalare bassi livelli di glucosio, mentre il GTP è un prodotto del ciclo di Krebs.

La glutammina è la seconda principale fonte di ammoniaca nei mitocondri degli epatociti. L’ammoniaca,
come sappiamo, è molto tossica: ciononostante è presente in quantità significative nel sangue, ma i suoi
livelli sono altamente regolati. In molti tessuti, come il cervello, alcuni processi come la degradazione dei
nucleotidi possono generare ammoniaca libera. Nella maggior parte degli animali l’ammoniaca libera prima
di essere trasportata nel sangue dai tessuti extraepatici al fegato o al rene viene convertita in un composto
non tossico. Per questa funzione il glutammato, essenziale per il metabolismo intracellulare dei gruppi
amminici, viene sostituito dalla glutammina. L’ammoniaca libera prodotta nei tessuti si combina con il
glutammato formando glutammina, grazie all’enzima glutammina sintetasi. La reazione richiede ATP ed
è composta da due tappe. Dapprima il glutammato e l’ATP reagiscono, formando ADP e l’intermedio γ-
glutammil fosfato; quest’ultimo reagisce poi con l’ammoniaca, generando glutammina e fosfato
inorganico.

La glutammina in eccesso rispetto a quella richiesta dalla biosintesi viene trasportata dal sangue
all’intestino, al fegato e ai reni, dove viene metabolizzata. L’azoto ammidico viene rilasciato sotto forma di
ione ammonio nei mitocondri, dove l’enzima glutamminasi converte la glutammina in glutammato e
ione ammonio. Quest’ultimo dall’intestino e dai reni viene trasportato al fegato, dove viene trasformato in
urea. Una certa quantità del glutammato prodotto dalla glutamminasi può essere ulteriormente
metabolizzata nel fegato dalla glutammato deidrogenasi, che libera altro ione ammonio e rende
disponibili gli scheletri carboniosi come combustibile metabolico.

Nell’acidosi metabolica vi è un aumento regolato dell’utilizzo della glutammina da parte dei reni:
la maggior parte dell’NH4+ prodotto in eccesso non viene riversato nel sangue o trasformato in urea;
invece, viene escreto direttamente con le urine, dove forma sali con gli acidi metabolici. La
demolizione della glutammina, quindi, favorisce la rimozione di questi acidi con le urine. Il
bicarbonato prodotto per decarbossilazione dell’a-chetoglutarato nel ciclo di Krebs può anche servire come
tampone nel plasma. L’insieme di questi effetti della glutammina sul metabolismo nel rene tende a
contrastare la condizione di acidosi.

I muscoli scheletrici, quando si contraggono vigorosamente operano in condizioni anaerobiche e quindi


producono grandi quantitativi di piruvato e lattato dalla glicolisi, oltre che di ammoniaca dalla
demolizione delle proteine. Questi prodotti devono raggiungere il fegato, dove piruvato e lattato sono
incorporati nel glucosio, che poi torna ai muscoli, mentre l’ammoniaca viene convertita in urea ed escreta.
Il piruvato e l’alanina sono facilmente interconvertiti mediante transamminazione con il
glutammato, grazie all’enzima alanina amminotrasferasi. Quindi, l’alanina sostituisce in larga parte
la glutammina nel trasporto di gruppi amminici dal muscolo al fegato, e porta l’ammoniaca del
glutammato ai mitocondri degli epatociti, in una via metabolica chiamata ciclo del glucosio-alanina. Nel
citosol degli epatociti l’alanina amminotrasferasi trasferisce il gruppo amminico dell’alanina all’a-
chetoglutarato, formando piruvato e glutammato; quest’ultimo può entrare nel mitocondrio, dove grazie
alla glutammato deidrogenasi rilascia ione ammonio, oppure va incontro a transamminazione con
l’ossalacetato per formare aspartato, un altro donatore di azoto nella sintesi dell’urea.
L’utilizzo dell’alanina come trasportatore dello ione ammonio dal muscolo scheletrico al fegato è un modo
per economizzare l’energia. Il carico energetico della gluconeogenesi ricade sul fegato invece che sul
muscolo, e quindi tutto l’ATP del muscolo è utilizzabile per la contrazione muscolare. Il ciclo del glucosio-
alanina svolge questo ruolo assieme al ciclo di Cori.
LEZIONE XX - CICLO DELL’UREA

Perché è necessario per l’organismo eliminare l’azoto in eccesso? Perché questo, sotto forma di
ammoniaca, risulta tossico. Il cervello è particolarmente sensibile a questa molecola, e i danni causati
dall’ammoniaca comprendono problemi cognitivi, atassia e crisi epilettiche. Nei casi più estremi si può
avere rigonfiamento del cervello, che può causare la morte. Vediamone le cause. Nel sangue quasi tutta
l’ammoniaca si trova sotto forma di ione ammonio, che non attraversa le membrane cellulari. La
rimozione dell’eccesso di ammoniaca dal citosol richiede l’amminazione dell’α-chetoglutarato a
glutammato, grazie alla glutammato deidrogenasi, e la successiva conversione del glutammato in
glutammina grazie alla glutammina sintetasi. Nel cervello solo gli astrociti (cellule della neuroglia)
esprimono la glutammina sintetasi. Il glutammato e il suo derivato γ-ammino-butirrato (GABA) sono
importanti neurotrasmettitori; parte della sensibilità cerebrale all’ammoniaca deriva dal consumo di
glutammato per produrre glutammina, ma non dipende solo da ciò. Infatti l’aumento di ione ammonio
altera le capacità degli astrociti di mantenere l’omeostasi del potassio attraverso la membrana. Lo ione
ammonio compete con il potassio per il trasporto nella cellula, e ciò provoca un aumento del potassio
extracellulare. Questo può entrare nella cellula attraverso un trasportatore del tipo simporto, che però
importa assieme al potassio anche ioni cloruro, che vanno ad interferire nell’interazione di GABA con il
suo recettore, causando depolarizzazione anomala e aumento dell’attività neuronale, presumibilmente
causa delle crisi dovute ad avvelenamento da ammoniaca. Inoltre se la concentrazione di ammoniaca
rimane elevata, l’alterazione dei canali ionici e delle acquaporine causa rigonfiamento delle cellule, con
disfunzioni sinaptiche ed edema cerebrale fatale.
La tossicità dell’ammoniaca dipende anche e soprattutto dal fatto che questa molecola è in grado di
passare attraverso la barriera ematoencefalica. La tossicità dell’ammoniaca nei confronti dell’encefalo è
pericolosa soprattutto nei bambini: non che negli adulti non lo sia, ma mentre in questi ultimi le strutture
cerebrali sono già ben sviluppate, nei bambini l’ammoniaca potrebbe causare alterazioni nello sviluppo
cognitivo.

Queste le motivazioni per cui nel corso dell’evoluzione si sono sviluppati diversi meccanismi attraverso i
quali gli esseri viventi riescono ad allontanare l’ammonio. Possiamo distinguere gli animali, in base alla
modalità di escrezione dello ione ammonio, in tre grossi gruppi:

Gli organismi ammoniotelici, principalmente pesci e specie acquatiche, in grado di liberare lo ione
ammonio sotto forma di ammoniaca attraverso le branchie;

Gli organismi ureotelici, ovvero i vertebrati terrestri (incluso l’uomo), per i quali l’eliminazione dell’azoto
avviene sotto forma di urea, che viene eliminata tramite l’urina.

Gli organismi uricotelici, ossia uccelli e rettili, che trasformano l’ammonio in un composto molto più
tossico, ossia l’acido urico, sostanza altamente acida e poco solubile, che viene eliminata tramite le feci.
Questo spiega perché le feci dei volatili sono in grado di rovinare la carrozzeria delle automobili.
Il ciclo dell’urea è costituito da 4 reazioni, di cui 3 sono citosoliche, mentre 1 avviene nella matrice
mitocondriale. Questo meccanismo può avere luogo sia nel fegato sia, in misura minore, nei reni.
Ammettendo che il ciclo dell’urea avvenga nel fegato, la prima tappa avviene all’interno dei mitocondri degli
epatociti, mentre le tre tappe successive nel citosol. Il primo gruppo amminico a entrare nel ciclo dell’urea
deriva dall’ammoniaca presente nei mitocondri, prodotta attraverso la deamminazione di glutammato,
glutammina ed alanina, oppure che proviene dalla vena porta.

Quale che sia la sua fonte, lo ione ammonio viene immediatamente utilizzato assieme alla CO2 (sotto forma
di ione bicarbonato, HCO3-) che proviene dalla respirazione per formare carbammil fosfato. Si tratta di una
reazione ATP-dipendente, catalizzata dall’enzima carbammil fosfato sintetasi I. Il bicarbonato, che ha un
elettrone spaiato sull’ossigeno, fa un attacco nucleofilo sul fosforo (elettrofilo) e in questo modo lega l’ATP.
Il bicarbonato viene quindi fosforilato. L’ADP esce dalla reazione, e il gruppo fosfato legato al bicarbonato
forma un’anidride mista, il carbossifosfato, dove il gruppo amminico, che dobbiamo eliminare, fa attacco
nucleofilo sul carbonio carbonilico. Dunque il legame si rompe, il fosfato si comporta da gruppo uscente e si
forma carbammato. Il carbammato viene fosforilato da una seconda molecola di ATP e si forma Carbammil
fosfato. Con la formazione di questa molecola il ciclo dell’urea può cominciare.

Prima tappa: il carbammil fosfato dona il suo gruppo carbammilico all’ornitina per formare citrullina, con
rilascio di fosfato inorganico. La reazione è catalizzata dall’ornitina transcarbammillasi. L’ornitina viene
sintetizzata a partire dal glutammato in una via a cinque tappe, e svolge un ruolo simile a quello
dell’ossalacetato nel ciclo di Krebs, accettando un’unità di carbammile ad ogni ciclo dell’urea. La citrullina
prodotta da questa reazione esce dal mitocondrio e il ciclo continua nel citosol: questo grazie al carrier
ornitina-citrullina, che per ogni molecola di citrullina che esce dal mitocondrio importa una molecola di
ornitina. Lo scambio è in proporzione 1:1.

Le due tappe successive forniscono il secondo gruppo amminico. La terza reazione può avvenire grazie
all’aspartato, prodotto nei mitocondri per transamminazione tra il glutammato e l’ossalacetato, e
trasportato poi nel citosol.

Seconda tappa: la citrullina si lega ad un’altra molecola di ATP: esce il pirofosfato e si forma citrullil-AMP. A
questo punto avviene una reazione di condensazione: il gruppo amminico dell’aspartato fa un attacco
nucleofilo al gruppo carbonilico della citrullina, generando argininosuccinato; l’AMP esce. Questa reazione
avviene nel citosol ed è catalizzata dall’enzima argininosuccinato sintetasi; richiede dunque ATP e procede
attraverso la formazione di un intermedio citrullil-ATP.

Terza tappa: L’argininosuccinato viene scisso reversibilmente dall’argininosuccinasi, che produce arginina e
fumarato; quest’ultimo entra nei mitocondri e si aggiunge agli altri intermedi del ciclo dell’acido citrico.
Questa è l’unica reazione reversibile del ciclo dell’urea.

Nella reazione finale del ciclo l’enzima citosolico arginasi scinde l’arginina in urea e ornitina. L’orinitina è
stata dunque rigenerata, ed entra nei mitocondri per iniziare un altro giro del ciclo dell’urea.
Il fumarato prodotto nella reazione dell’argininosuccinasi è anche un intermedio del ciclo di Krebs. Di
conseguenza, i due cicli sono almeno in teoria collegati in un processo detto “biciclo di Krebs”. Tuttavia
ciascun ciclo può operare indipendentemente dall’altro, e la loro comunicazione è dovuta al passaggio di
intermedi fra i mitocondri e il citosol. Diversi enzimi del ciclo di Krebs sono presenti anche come isoforme
nel citosol, ma non vi sono trasportatori che possano trasferire di nuovo nella matrice mitocondriale il
fumarato prodotto durante la sintesi di arginina nel citosol. Il fumarato generato nel citosol dal processo di
sintesi dell’arginina può essere convertito in malato; questo può essere ulteriormente metabolizzato nel
citosol oppure trasportato nei mitocondri, dove viene utilizzato nel ciclo dell’acido citrico. L’aspartato,
formato nei mitocondri mediante transamminazione dell’ossalacetato ad opera del glutammato, può essere
trasportato nel citosol dove agisce da donatore di azoto nella reazione del ciclo dell’urea catalizzata
dall’argininosuccinato sintetasi. Queste reazioni, che costituiscono lo shunt dell’aspartato-
argininosuccinato, generano collegamenti metabolici tra due vie separate che processano gruppi amminici
e scheletri carboniosi degli amminoacidi.

L’utilizzo dell’aspartato come donatore di azoto nel ciclo dell’urea potrebbe apparire come una via
relativamente complicata per introdurre il secondo gruppo amminico nell’urea, ma in realtà è una strada
usata comunemente per introdurre gruppi amminici nelle biomolecole. L’interconnessione del ciclo dell’urea
con altre vie può aiutare a spiegare l’uso dell’aspartato come donatore di azoto. I cicli dell’urea e di Krebs
sono strettamente correlati da un processo che genera equivalenti riducenti sotto forma di NADH nel
mitocondrio: il NADH prodotto dalla glicolisi, dall’ossidazione degli acidi grassi e da altri processi che
avvengono nel citosol non può attraversare la membrana mitocondriale interna. Quindi gli equivalenti
riducenti vengono trasportati nei mitocondri convertendo l’aspartato in ossalacetato nel citosol, riducendo
l’ossalacetato a malato mediante il NADH e trasportando il malato nella matrice mitocondriale attraverso il
trasportatore malato/α-chetoglutarato. Una volta dentro il mitocondrio il malato può essere riconvertito in
ossalacetato, rigenerando al tempo stesso il NADH. L’ossalacetato viene convertito in aspartato e poi
trasportato fuori dal mitocondrio mediante il trasportatore aspartato-glutammato. Il sistema navetta
malato-aspartato fa parte di un ciclo che assicura costante rifornimento di NADH al mitocondrio.

In un animale, il flusso dell’azoto attraverso il ciclo dell’urea varia con la dieta. Quando l’apporto dietetico è
principalmente proteico, gli scheletri carboniosi degli amminoacidi vengono usati come combustibile e
l’urea viene prodotta in eccesso per l’aumentata disponibilità di gruppi amminici. Durante un digiuno
prolungato la degradazione delle proteine muscolari diventa la fonte principale di energia metabolica per
l’organismo, e aumenta considerevolmente la produzione di urea. La regolazione della velocità del ciclo
dell’urea è di due tipi:

Regolazione a lungo termine: regolazione dell’espressione dei geni, nel fegato o nel rene, per i quattro
enzimi del ciclo dell’urea e per la carbammil fosfato sintetasi I. Durante i periodi di digiuno o se si consuma
una dieta ricca di proteine tutti e 5 gli enzimi sono prodotti ad una velocità molto più elevata rispetto a
quando la dieta è composta principalmente da carboidrati oppure lipidi.

Regolazione a breve termine: Su una scala temporale più breve, la regolazione allosterica di almeno un
enzima chiave regola il flusso di materiale attraverso il ciclo dell’urea. Il primo enzima del ciclo dell’urea, la
carbammil fosfato sintetasi I, è attivato allostericamente dall’N-acetilglutammato, sintetizzato dall’acetil-
CoA e glutammato grazie all’enzima N-acetilglutammato sintasi. Com’è chiaro, questa molecola non è un
intermedio del ciclo dell’urea.

Se il ciclo dell’urea venisse considerato come una via metabolica isolata, la sintesi di una sola molecola di
urea richiederebbe 4 gruppi fosfato ad alta energia. Occorrono due molecole di ATP per formare il
carbammil fosfato e serve un’altra molecola di ATP per produrre arginonosuccinato; quest’ultimo ATP viene
scisso in AMP e pirofosfato, e il pirofosfato ulteriormente idrolizzato. Tuttavia, questo costo esoso viene
compensato dall’interconnesione tra vie metaboliche: il fumarato generato dal ciclo dell’urea è convertito in
malato, trasportato nel mitocondrio; nella matrice mitocondriale si produce NADH nella reazione catalizzata
dalla malato deidrogenasi. Ciascuna molecola di NADH può generare fino a 2,5 ATP, “tamponando” quindi il
costo per la sintesi dell’urea.
Lo scheletro carbonioso degli amminoacidi viene spesso utilizzato per sintetizzare altri tipi di composti,
che vengono definiti biomolecole o molecole attive, come ad esempio:
-Gruppo eme
-Neurotrasmettitori
-Ormoni peptidici
-GSH (il glutatione, che si sintetizza a partire da 3 aa)

Lo scheletro carbonioso degli amminoacidi che vengono impiegati per sintetizzare il glutatione molto
probabilmente deriva dal catabolismo dei peptidi, in cui vengono rilasciati alcuni amminoacidi, e una
volta liberato dallo ione ammonio lo scheletro carbonioso può essere rigenerato nell'amminoacido
corrispondente ed essere utilizzato per sintetizzare varie molecole.

Gli scheletri carboniosi degli amminoacidi vengono anche utilizzati per sintetizzare l’anello porfirinico del
gruppo eme, ossia il gruppo prostetico che fornisce all’emoglobina le sue proprietà. Le tappe di sintesi di
questa struttura sono numerosissime e non è necessario conoscerle; è sufficiente sapere che derivano
dal processing dello scheletro carbonioso degli amminoacidi.

Dal glutammato è possibile sintetizzare il neurotrasmettitore GABA (γ-amminobutirrato) tramite una


reazione catalizzata dalla glutammato decarbossillasi.

Anche le catecolamine possono essere sintetizzate a partire dagli amminoacidi, cosi come la serotonina,
implicata nel ciclo sonno-veglia. La serotonina, in assenza di luce e quindi di stimoli luminosi provenienti
dalla retina, a livello della ghiandola pineale o epifisi viene convertita in melatonina, che stimola il sonno.
Chi soffre d’insonnia può avere carenza di melatonina, che è una diretta conseguenza della carenza di
serotonina: il problema può essere risolto attraverso una dieta ricca di amminoacidi.

Ancora, alcuni amminoacidi, come la metionina, possono essere precursori della sintesi di alcuni ormoni,
tra cui le spermidime e le spermine, presenti nel liquido seminale maschile.
LEZIONI XXI - UBIQUITINAZIONE E PROTEASOMA

Buona parte delle proteine e degli enzimi visti fino ad ora all’interno dei processi metabolici vengono, dopo
un certo periodo, degradati. L’efficienza di una via metabolica dipende dalla disponibilità di determinati
enzimi e dalla loro funzionalità: quando un enzima comincia ad invecchiare dev’essere sostituito. Il
turnover è regolato da strutture complesse che facilitano la degradazione di enzimi e proteine endogene
non più funzionanti e permettono il riutilizzo dei residui amminoacidici derivanti dal processo catabolico.
Uno dei principali sistemi deputati alla degradazione delle proteine endogene sono quei complessi proteici
chiamati proteasomi. Ora, nella cellula esistono diversi sistemi di degradazione proteica, ma due sono
quelli più rilevanti: il primo è quello dei lisosomi, e garantisce la degradazione delle proteine extracellulari,
delle proteine di membrana e degli organuli danneggiati; il secondo è quello dei proteasomi, citosolico, che
permette di degradare proteine citosoliche, regolatorie e quelle difettose.
In tutte le cellule le proteine sono costantemente degradate per impedire l’accumulo di quelle anomale,
non necessarie e per facilitare il riciclaggio degli amminoacidi.

I proteasomi hanno una struttura complicata e sono complessi enzimatici tutti ATP-dipendenti. Nonostante
sia necessaria energia per degradare le proteine, questa può essere recuperata tramite il catabolismo degli
amminoacidi. Questi sistemi sono importanti non tanto per produrre amminoacidi, quanto per un
fenomeno chiamato turnover delle proteine. In alcuni casi possono verificarsi delle condizioni per cui
alcune proteine possono subire delle modifiche che possono essere di tipo strutturale e di conseguenza
anche funzionale. Quindi si sono sviluppati i meccanismi di turnover (ricambio) proteico, al fine di
stimolare la sintesi di proteine sempre funzionali ed eliminare quelle disfunzionali; si tratta di un
meccanismo di sintesi proteica abbinato a proteolisi. Una proteina che dev’essere degradata, deve essere
prima riconosciuta dal proteasoma (subendo un’alterazione) e solo in seguito subisce la proteolisi.

Sia la struttura che la funzione del proteasoma è conservata soprattutto nelle specie eucariotiche, poiché
questi organismi hanno diversi sistemi metabolici per ottenere energia: a differenza dei procarioti sono
avvantaggiati dall’avere una maggiore quantità di energia disponibile per far funzionare i proteasomi.

I tre scienziati che hanno studiato la struttura e la funzione dei proteasomi sono stati insigniti del premio
Nobel per la chimica nel 2004. Infatti sono stati in grado di identificare il meccanismo di degradazione
delle proteine attraverso l’ubiquitinazione.

Recentemente si è notato come questo processo utilizzato per il turnover fisiologico, quindi per degradare
le proteine, possa rappresentare un nuovo target farmacologico per le terapie antitumorali.
Le cellule tumorali sfruttano i meccanismi fisiologici delle altre cellule a loro vantaggio, convogliando tutta
l’energia prodotta nel loro processo di proliferazione.
Il proteasoma è il sistema che la cellula sfrutta normalmente per smaltire i rifiuti proteici e per rinnovare le
proteine. Questo apparato molecolare è cruciale per la sopravvivenza delle cellule e neppure la cellula
tumorale può farne a meno per continuare a moltiplicarsi, per far fronte agli stress ai quali è sottoposta e
per liberarsi di molte delle molecole che agiscono da freno alla trasformazione maligna.
Il proteasoma ha dunque un ruolo complesso e duplice in questi meccanismi ed è vantaggioso per la
proliferazione tumorale:
- il processo di degradazione iper-attivo favorisce la degradazione delle proteine, ma il suo obiettivo non è
la sottrazione di proteine al tumore, bensì fare in modo che esso abbia un turnover accelerato e quindi ne
debba generare di nuove con la possibilità di poter sfruttare anche peptidi generati dall’ubiquitinazione
delle proteine;
- il processo di degradazione è down-regolato per enzimi coinvolti nel rallentamento della crescita tumorale
o in alcuni pathway cellulari che potrebbero bloccare o rallentare la proliferazione delle cellule tumorali.

Da ciò si evince che riuscendo ad identificare lo specifico meccanismo con cui il proteasoma agisce su una
proteina specifica, essendo l’ubiquitinazione molto specifica per ogni proteina, si potrebbe rallentare la
degradazione di quell’enzima o quella proteina evitando sostanzialmente la degradazione di agenti
oncosoppressori nell’ambiente tumorale.
IL PROTEASOMA È IN UNO STATO DINAMICO
I processi di degradazione sono processi dinamici descrivibili come una sequenza di eventi che però
in realtà non avvengono tutti allo stesso modo e con stessa localizzazione. Si tratta di più complessi che
agiscono in maniera sinergica.
Nessuna proteina è sottratta a questo tipo di processo di degradazione da parte del proteasoma che
interessa quindi sia le proteine extracellulari, che quelle intracellulari della membrana plasmatica, del RE,
del nucleo o del citosol. Si tratta di un processo molto specifico, selettivo e che quindi richiede ATP o altre
monete energetiche cellulari.
Il processo durante il quale si ha il legame dell'ubiquitina ad una proteina prende il nome di attivazione.
È necessario attaccare l’ubiquitina perché questa rende la proteina substrato riconoscibile ai sistemi
deputati alla sua degradazione.
Quindi quando attacchiamo l’ubiquitina ad una proteina, a prescindere dal sito a livello del quale questo
legame avviene, si sta rendendo la proteina visibile e quindi facilmente riconoscibile dal proteasoma. Dal
momento in cui la proteina è stata “etichettata”, non potrà più essere funzionale, ma è già stata destinata
ad essere degradata.
La proteina non esisterà più sotto questa forma, ma gli amminoacidi derivanti dalla sua degradazione
potranno essere riutilizzati per risintetizzare la stessa proteina de novo, che sarà di nuovo funzionante.
Nella maggior parte dei casi questo turnover proteico ha una finestra di tempo che varia dalle 24 alle 48
ore. Le proteine con un turnover largo fino a 24 ore sono enzimi la cui funzionalità deve essere
necessariamente sempre al massimo dell’efficienza, invece quelle con un turnover che arriva fino alle 48
ore sono quelle proteine la cui attività non è richiesta ad alte dosi e quindi la loro funzionalità riesce a
mantenersi più a lungo.
Il nostro organismo è un sistema pro-ossidante quindi tutto quello che si trova al suo interno subisce esso
stesso l’effetto dell’ambiente in cui si trova.
Ciò giustifica la necessità di sintetizzare nuove proteine ed enzimi affinché possano essere sempre
funzionali al 100%.
Inoltre ciò giustifica il rallentamento del metabolismo che si verifica con l’avanzare dell’età: quando si
presenta un danno a livello dei processi metabolici, il ripristino della funzione dipende dalla capacità di
riparare i sistemi. Con l’avanzare dell’età si riduce la capacità di rigenerare gli enzimi danneggiati con la
stessa velocità di turnover di quando si era giovani. Quindi una causa del rallentamento del metabolismo è
legata alla capacità di rigenerare la nuova proteina funzionale in tempi rapidi.

L’ubiquitina è una proteina dalla struttura semplice; affinché le proteine possano essere degradate dal
proteasoma devono legare l’ubiquitina. Si tratta di una molecola tetramerica, di circa 76-77 amminoacidi
ed è una di quelle proteine che nell’evoluzione, anche grazie alle sue dimensioni esigue, ha mantenuto la
sua struttura. Questa proteina viene legata in maniera reversibile alle proteine attraverso un legame di
tipo covalente: questo avviene soprattutto nel sito carbossi-terminale, e in particolare si pensa che il
legame del residuo che forma il legame carbossi-terminale sia la Lys. Il polipeptide con l’ubiquitina
rappresenta il primo passaggio, obbligatorio, affinchè la proteina possa essere degradata: si parla di
attivazione, anche se non c’è un attivazione vera e propria: per attivazione si intende solamente il legame
covalente tra la proteina e l’ubiquitina.

Il proteasoma è una struttura molto complessa, caratterizzato da due anelli esterni, chiamati anelli α, e
due interni, chiamati anelli β, che costituiscono nel complesso la subunità 20S. Ciascun anello è costituito
da 7 subunità. La subunità 20S può legare ad una o entrambe le estremità delle subunità regolatrici, le
19S (PA700). Quindi, il complesso 20S + le subunità regolatrici 19S (PA700) costituiscono il proteasoma
26S. Ogni subunità serve a regolare l’attività del proteasoma; anche la loro localizzazione serve per legare
la proteina in un certo modo. Prima di arrivare al proteasoma, la proteina dev’essere ubiquitinata, grazie
all’intervento dei tre complessi enzimatici E1, E2 ed E3.
L’ubiquitina viene attivata mediante l’agente XPOMIX con il consumo di una molecola di ATP, con
formazione di un legame tioestere tra il carbossile della glicina terminale dell’ubiquitina e un residuo di
cisteina presente sull’enzima E1. In seguito, l’ubiquitina viene trasferita su un’altra cisteina presente nel
sito attivo di un enzima E2 mediante una reazione di transtioesterificazione. L’ultima reazione prevede
l’intervento dell’enzima ubiquitina-proteina ligasi (E3) in grado di interagire con E2 e con il substrato da
degradare. Cicli ulteriori portano all’attacco di un’altra ubiquitina, producendo la poli-ubiquitina, un
polimero di più ubiquitine legate fra loro covalentemente.

Alcune proteine coinvolte in specifiche funzioni cellulari subiscono ubiquitinazione e ciascuna di queste ha
una specificità di riconoscimento, quindi avrà una lunghezza della catena di ubiquitina specifica. Quello che
fa l’ubiquitina è permettere l’ingresso della proteina all’interno del proteasoma, che in seguito la denatura.
Siccome l’ubiquitina in seguito viene riciclata, maggiore sarà il numero di ubiquitine attaccate alla
proteina, maggiore sarà il tempo che la proteina che dev’essere degradata passerà vicino al proteasoma.
Una volta che tutte le ubiquitine saranno state staccate, il processo di degradazione termina.
Nella subunità regolatoria 19S del proteasoma è presente una tasca in cui si inserisce la proteina
ubiquitinata, e l’inserimento avviene in un certo modo grazie al pattern di ubiquitinazione: è questo che
garantisce la specificità della degradazione, perché le ubiquitine hanno un sito di riconoscimento a livello
della subunità 19S e faranno sì che la proteina target assuma una particolare conformazione orientata
affinché possa subire facilmente la proteolisi e i peptidi possano essere rilasciati dall’altra parte del
proteasoma.
In questo modo, man mano che la proteina viene degradata in piccoli peptidi, le ubiquitine vengono
sganciate dalla subunità 19S e vengono rilasciate per poter essere riutilizzate. Le ubiquitine dunque non
devono essere continuamente sintetizzate perché vengono riciclate.

I principali processi cellulari in cui è fondamentale il ruolo dell’ubiquitina sono: la trascrizione genica; il ciclo
cellulare; l’organogenesi; la risposta infiammatoria; il metabolismo del colesterolo; la soppressione
tumorale; il processing degli antigeni. Si comprende dunque come il proteasoma è il più importante
meccanismo che interviene nell’organismo per la degradazione delle proteine.

La struttura dell’ubiquitina è tetramerica e globulare.


Essa possiede sia un dominio C terminale sia una lisina in posizione 48, e sembra che sia proprio
quest’ultima, attraverso il suo gruppo -SH, a subire l’attacco nucleofilo da parte della proteina target; quindi
non è l’ubiquitina che si attacca alla proteina target, ma è la proteina target che riesce a legarsi
all’ubiquitina. Nel momento in cui incontriamo un’ubiquitina legata ad una proteina è perché questa proteina
è stata trasferita dal nucleo al citoplasma e dunque vuol dire anche che adesso non può più svolgere la sua
funzione.
La fusione delle varie ubiquitine per formare una catena è caratterizzata dall’intervento di specifici enzimi,
in modo tale che dopo aver creato una coda di poliU ad almeno tre subunità si possa formare poi la catena.

Nella prima fase, in cui agisce l’enzima E1, vi è la formazione di un legame tioestere ad alta energia tra la
glicina C-terminale dell’ubiquitina e una cisteina nel sito attivo di E1 (la reazione è ATP-dipendente).
Nel secondo complesso enzimatico E2, l’ubiquitina è trasferita ad una cisteina di E2 formando un altro
legame tioestere.
A questo punto si passa al complesso enzimatico E3, dove si forma un legame tra la glicina C-terminale
dell’ubiquitina e l’amminogruppo della lisina della proteina target da degradare. Mentre il complesso
enzimatico E1 è a sè stante poiché è il primo che attacca, il complesso enzimatico E2 una volta che si è
legata l’ubiquitina passa al complesso E3 che è costituito da un’enorme tasca che accoglie sia E2 legato
all’ubiquitina sia la proteina target.
È vero che il meccanismo principale vuole l’attacco dell’ubiquitina al sito C-terminale o N-terminale, ma in
realtà non è detto che se ci sono più elementi di questo tipo sulla proteina target questi non possano essere
anch’essi attaccati; o ancora il legame dell’ubiquitina potrebbe avvenire in siti diversi. Questo rende il
sistema ancora più complesso, perché alcune proteine hanno un’elevata specificità per essere attaccate
all’ubiquitina non solo al sito carbossiterminale, ma possono subire ulteriori legami dell’ubiquitina in altri
siti.

Questo fenomeno è soprattutto diffuso nelle proteine che hanno un turnover più elevato, ovvero quelle
devono essere più facilmente rigenerate.
Il fatto di avere più siti di riconoscimento all’interno della struttura, dà loro il vantaggio di subire più
velocemente il processo di ubiquitinazione e rigenerazione della proteina.
Affinché una proteina possa essere legata a una catena di poliubiquitina è fondamentale la presenza della
prima ubiquitina che fungerà da innesco.
Il processo è così finemente regolato che una volta che la proteina entra nell’enzima E1 deve completare
tutto il processo.
L’ubiquitinazione serve a degradare, ma in alcuni casi, specialmente la mono-ubiquitinazione può svolgere
anche altre funzioni nella cellula:

1) nel caso dell’endocitosi delle proteine di membrana, serve per captare alcune proteine di membrana e
internalizzarle nel citoplasma, non per etichettarle nella degradazione. Questo meccanismo serve per
captare la proteina e farla giungere al complesso enzimatico per subire successivamente degradazione.

2) interviene nella regolazione degli istoni H2A e H2B, che promuovono la metilazione dell’istone H3. Si
tratta di un processo che ha un ruolo fondamentale soprattutto nelle prime fasi dello sviluppo
dell’organismo e nel controllo genico: la metilazione degli istoni è uno dei principali meccanismi di controllo
nello sviluppo embrionale ed esso viene controllato dall’ubiquitinazione. La presenza del gruppo metile
generalmente blocca la trascrizione, ed è fondamentale perché nel momento in cui il feto è in via di
sviluppo, è necessario che vengano bloccati dei sistemi (attraverso metilazione) e ne vengano attivati altri.
L’acido folico e alcune altre vitamine hanno il vantaggio di disporre di gruppi metilici e di trasferirli: proprio
per questo l’acido folico è consigliato durante la gravidanza, in particolar modo nel primo trimestre.

3) Alcuni fattori di trascrizione hanno bisogno della mono-ubiquitinazione come quelli coinvolti nella catena
respiratoria; molti fattori di trascrizione si trovano già, a livello della membrana, in forma attiva, legati
all’inibitore TIP-1, che è orientato in prossimità del proteasoma, e che può essere ubiquitinato e degradato.
Per cui i fattori di trascrizione vengono continuamente generati e immessi nel citoplasma, con un’emivita di
circa 24/48h. La presenza del proteasoma è fondamentale per una proteina affinché si rigeneri in
continuazione, per essere sempre nella sua forma ottimale.

4) è importante anche nella riparazione del DNA.

Alcuni fattori trascrizionali subiscono regolazioni non da una singola ubiquitinazione ma da una poli-
ubiquitinazione; quindi, a seconda del fattore trascrizionale, può essere necessaria o una mono-
ubiquitinazione o una poli-ubiquitinazione.

Il processo di poli-ubiquitinazione avviene molto spesso quando si parla di riparazione del DNA post-
replicativa. Il sistema è molto complesso e si formano, all’interno delle proteine, dei sistemi complessi di
legame tra le porzioni proteiche, chiamati Ring Domains, ovvero domini ad anello. Per queste proteine è
necessario avere un tipo di riconoscimento dell’ubiquitinazione molto più specifico rispetto a quello visto
precedentemente per le altre proteine, che possono avere la porzione terminale o altri siti già esposti.
In questo caso, anche se ci fosse la presenza di gruppi già esposti, per la maggior parte delle volte sono
già impegnati e costretti in una struttura più complessa.

Nel caso di una struttura ad anello si ha una particolarità a livello dell’ultimo complesso enzimatico (E3)
che interagisce con la proteina e l’enzima del complesso precedente: il substrato porta con sé una
struttura più complessa che serve a riconoscere il substrato stesso, dunque il dominio E3 presenta una
struttura più complessa nel caso di proteine che presentano Ring Finger Domain.
MDM2
La sindrome di Rett è una patologia neurodegenerativa. È causata da un difetto del gene Mdm2 che porta a
sviluppare una serie di deficienze che interessano il sistema psicomotorio (incapacità di deambulazione,
ritardo mentale ecc...).
Nell’eziopatogenesi è coinvolta l’eventuale degradazione o rigenerazione della proteina che codifica il gene,
e si rientra nel particolare meccanismo visto in precedenza.
Quindi un eccessiva degradazione di proteine, come nel caso specifico di p53, regolatore dell’espressione di
Mdm2, può portare a patologie dovute alla mancata espressione di un gene.

SITI DI RICONOSCIMENTO DEI SUBSTRATI


- N terminale: proteine vanno incontro al processo spontaneamente
- Fosforilazione del substrato o di E3: caso in cui le proteine sono state fosforilate e non è possibile
defosforilarle e poi fosforilarle di nuovo. Questo processo è sfruttato per perdere un gruppo funzionale.
Oppure proteine che subiscono fosforilazione per essere attivate subiscono poi il processo di
ubiquitinazione.
- Anormalità del folding: proteine con strutture anomale riconosciute grazie a dei residui di riconoscimento.
In questo caso infatti intervengono le proteine chaperon che riconoscono le proteine non funzionanti e ne
favoriscono la degradazione.

PROCESSO DI FOSFORILAZIONE IkB


IkB è un inibitore citosolico del fattore trascrizionale di NFKb, che è un fattore redox-sensibile che può
essere attivato sia quando aumenta lo stato redox cellulare sia quando aumentano le citochine pro
infiammatorie.
Ciò favorisce il distacco della subunità p65 dall’inibitore citoplasmatico IkB e, una volta che p65 fosforilata
trasloca nel nucleo, codifica per l’attivazione e il rilascio di citochine pro-infiammatorie.
Con questo processo si ha dunque un aumento della risposta pro-infiammatoria e vengono richiamati nel
tessuto una serie di sensori chemiotattici che portano componenti cellulari che possono avere un ruolo nel
liberare la zona dall’agente patogeno. Una volta che p65 è traslocato nel nucleo, la porzione citosolica di
IkB subisce una serie di fosforilazioni che possono essere utilizzate per far riconoscere la porzione citosolica
all’ubiquitina, favorendone la degradazione.

APC, CONTROLLO UBIQUITINAZIONE MEDIANTE CONTROLLO DEGLI ENZIMI E3


L’attivazione della porzione APC avviene nel momento in cui si va a legare al substrato. La sua attivazione
ha un ruolo chiave per quanto riguarda i passaggi del ciclo cellulare G1, metafase e anafase dove la
degradazione tramite ubiquitinazione di una componente proteica, la securina, porta all’attivazione
dell’enzima separasi che ha una funzione chiave nell’innesco dell’anafase agendo sulla coesina.
Quindi in alcuni casi la degradazione di una porzione di substrato rende libera la porzione di proteina.
Quindi le degradazioni non solo regolano la funzionalità di proteine deputate in attività nel turnover, ma in
alcuni casi come nello specifico, la degradazione di una porzione di substrato rende libera la porzione di
proteina che così facendo si attiva.

PORZIONE N-TERMINALE
Nel caso in cui l’ubiquitinazione avviene in una porzione N-terminale, i residui che vengono stabilizzati o
legati sono Arg, Lys, Phe, Leu, Trp, Tyr + His, mentre quelli che sono soggetti a ubiquitinazione
secondariamente o terziariamente sono legati ad altri residui amminoacidici.
A livello della ligasi dell’enzima E3 ci sono due particolari siti di legame indipendenti tra loro e Arg, Lys, His
sono i principali 3 residui di amminoacidi che possiamo riscontrare nella porzione.
Nel caso in cui la porzione E3 non riconosca una porzione N-terminale della proteina, i residui amminoacidi
che vengono riconosciuti da E3 sono Phe, Leu, Trp, Tyr.

PROCESSI GOVERNATI DA SISTEMI FISIOLOGICI INDOTTI

In alcuni casi, i processi possono essere governati da sistemi fisiologici indotti: essendo in uno stato pro-
ossidante, qualora i livelli di ossigeno presenti aumentino fino ad un livello tale da provocare danno o mal
funzionamento, viene indotta la degradazione da parte del proteasoma.
L’eventuale eccesso di uno stato redox potrebbe indurre i processi di attivazione del proteasoma.
Qual è lo step principale che ha la massima importanza regolatoria per la degradazione delle proteine
attraverso il complesso del proteasoma? Il complesso E1 apparentemente esiste in una sola isoforma; il
complesso enzimatico E2 ha invece tra i 10 e i 12 omologhi di famiglie enzimatiche; il complesso E3
presenta numerose proteine appartenenti alla sua famiglia, forse un migliaio, tutte diverse fra loro, ed è
l’enzima che in assoluto fornisce al processo di degradazione mediante proteasoma la maggiore specificità.
È ovvio che il primo step sia quello limitante, poiché è quello in cui è necessario l’intervento di ATP e in
assenza di esso la reazione non può avvenire. Tuttavia anche gli altri complessi che non subiscono
regolazione dall’ATP, pur non costituendo tappe limitanti, in realtà partecipano alla regolazione di specificità.
Il complesso E3 infatti sostanzialmente fa affidamento al sistema E2 ed E1.
La specificità che ha la ligasi è di attaccare l’E3 alla porzione N- terminale. Questo legame può avvenire o
meno.

Per quanto riguarda l’anormalità del folding: quando un peptide viene sintetizzato, ad un certo punto deve
passare per un processo che prende il nome di folding (ripiegamento); se durante questo processo qualcosa
va storto, la cellula attua dei meccanismi di difesa e riparatori che in questo caso prevedono l’attacco
dell’ubiquitina e quindi la degradazione della proteina: in altre parole il peptide viene nuovamente
sintetizzato per favorire un folding corretto. In questi casi l’unica possibilità che il sistema ha è di rompere
totalmente la proteina, degradarla, riutilizzare gli amminoacidi, nonostante sia un disperdio non indifferente
di energia sintetizzare da capo la proteina che si stava riavvolgendo. Il proteasoma stesso subisce una
regolazione da parte dell’ossigeno: a seconda se ci sia più o meno ossigeno si attiveranno una serie di
fattori trascrizionali che a loro volta potrebbero accelerare il turnover cellulare aumentando l’attività del
proteosoma e favorendo la degradazione di proteine.
I nucleotidi vengono usati raramente per trarre energia, e tra tutte le molecole viste in precedenza sono
quelle che impattano meno sulla produzione energetica del nostro organismo. Uno degli obiettivi della
via dei pentosi è quello di produrre zuccheri a 5 atomi di carbonio, che sono utili per la sintesi dei
nucleotidi. Quindi, nel momento in cui nell’organismo si ha danneggiamento del materiale genetico o si
ha la necessità di formarne di nuovo per la divisione cellulare i precursori dei nucleotidi derivano proprio
dalla via dei pentosi.

STRUTTURA DEI NUCLEOTIDI

I nucleotidi sono formati da una base purinica o pirimidinica, uno zucchero pentoso (con un -OH in
posizione C-2 per l’RNA, nel caso del DNA è assente) e un gruppo fosfato. Inoltre tra le principali
differenze a livello di nucleotidi tra DNA e RNA è che nell’RNA al posto della timina vi è l’uracile.
Il motivo per cui alcuni nucleotidi possono svolgere un ruolo energetico non è da ricercarsi nelle basi
puriniche e pirimidiniche, queste basi sono importanti, invece, quando formano nucleotidi monofosfato,
difosfato e trifosfato che possono entrare a far parte del metabolismo energetico (L’ATP, adenosin
trifosfato, non è altro che un nucleotide dove sono attaccati dei gruppi fosfato). In alcune tappe
metaboliche i nucleotidi difosfato e trifosfato vengono utilizzati come cofattori o come catalizzatori di
molte reazioni enzimatiche.
In generale, un nucleotide monofosfato ha solo un gruppo fosfato legato al carbonio α, un nucleotide
difosfato ne ha due (il secondo fosfato viene definito β, proprio perché si trova in posizione beta rispetto
al carbonio legato all’anello dello zucchero) e infine vi è il nucleotide trifosfato, con il terzo gruppo
fosfato legato in posizione γ rispetto al carbonio legato all’anello dello zucchero.

La base azotata con lo zucchero e il gruppo fosfato rappresenta un nucleotide, mentre il nucleoside è
composto solamente dalla base e dallo zucchero. Ci sono diversi nucleotidi che si possono formare
durante i processi fisiologici, come il GTP nel ciclo di Krebs, o che si produce anche in alcune risposte di
segnale, per esempio quella accoppiata a proteine G; molte risposte a stimoli sono poi legate all’AMP
ciclico.
I deossinucleotidi si distinguono con la lettera d (dAMP, dGTP...).
Nel caso dell’AMP, non è detto che tutti nucleotidi che possono avere un ruolo energetico debbano
essere necessariamente trifosfato, perché ci sono delle eccezioni, come l’adenosina 3,5 ciclica
monofosfato che ha solo un gruppo fosfato legato al carbonio in posizione 5 ma, non avendo altri gruppi
fosfato a seguire, l’adenosina forma un ponte ciclico anche in posizione 3, formando un legame estereo,
generando una struttura ciclica. Stessa cosa avviene per la guanina con la guanosina 3,5 ciclica
monofosfato.

In altri casi, anziché avere una forma ciclica o una forma trifosfato, è possibile avere una forma tetra
fosfato ma in questo caso le parti della molecola che riescono a interagire non sono distribuite solo in
posizione 5 ma anche in posizione 3, con l’ossigeno che lega altri due gruppi fosfato.

Per quanto riguarda la formazione di uno zucchero ciclico, l’ossigeno del carbonio in posizione 4 fa
l’attacco nucleofilo al gruppo carbossilico in posizione uno, qui il doppio legame tra il carbonio e
l’ossigeno viene trasferito, l’ossigeno si carica negativamente e si forma l’anello e, per stabilizzazione
per risonanza, il doppietto di elettroni dell’ossigeno viene rimosso attraverso la formazione del legame
con l’altro carbonio.
Per quanto riguarda la formazione del legame β-N-glicosidico dei nucleosidi purinici (nel DNA sono legami
Beta-N9), si tratta di legami che provocano la fuoriuscita di una molecola di acqua.
Nelle pirimidine la differenza è che il legame, anziché essere β-N9, è un legame β-N1, quindi avviene tra
la posizione 1 della base e la posizione 1 dello zucchero.
Sia nell’RNA che nel DNA, nella formazione della struttura primaria la posizione 3 è quella che favorisce
l’elongazione della catena nucleotidica grazie al ponte del gruppo fosfato, e la direzionalità
dell’elongazione della catena avviene sempre in direzione 5’——>3’. Questo è importante perché quando
c’è un danneggiamento ad un filamento di DNA, essendo il nostro DNA a doppia elica sarà possibile
riparare il filamento danneggiato grazie all’elica complementare utilizzando delle sequenze di primer per
sintetizzare i nucleotidi persi (questo è alla base della PCR). La struttura complementare del DNA quindi
risulta molto più stabile rispetto all’RNA.

L’adenosina-3,5 ciclico monofosfato deriva dall’ATP, grazie all’adenilato ciclasi, viene fatto uscire il gruppo
pirofosfato e l’-OH in posizione 3 dell’ATP è in grado di chiudere l’anello con il gruppo fosfato rimasto
attaccato.
Le basi complementari nel DNA sono mantenute nella struttura secondaria (alfa elica) da interazioni
deboli rappresentate dai legami idrogeno. Tra la citosina e la guanina abbiamo 3 legami idrogeno mentre
tra adenina e timina ce ne sono 2. Questa scoperta fu fatta da Watson e Crick che, oltre ad identificare il
numero di interazioni deboli della struttura, scoprirono anche la direzionalità dei filamenti. La larghezza
della struttura secondaria è di circa 20 Armstrong e ogni base è separata dalle altre per circa 3-4
Armstrong, mentre un giro dell’elica si forma ogni 4 nucleotidi. La struttura a doppia elica è utile anche
per la resistenza ad alte temperature (è capace di reggere fino ad una gempratura di 80 gradi). La
temperatura di melting rappresenta la temperatura con cui una molecola di DNA può amplificare; nel
momento in cui si deve amplificare una sequenza di DNA è possibile calcolare il contributo in termini di
energia termica che deve essere superata affinché i due primer copiati facciano sì che la polimerasi sia
quanto più possibile specifica.
Con l’idrolisi di una catena di nucleotidi (RNA) si ha la liberazione di una molecola d’acqua con la rottura
della struttura primaria della catena e con il gruppo fosfato che si lega all’ossigeno in posizione due

Il motivo per cui nel nostro DNA non c’è uracile ma vi è la timina è data dal fatto che alcuni nucleotidi
possono essere presenti nella loro forma tautomerica, passando da una forma aldeidica ad una chetonica
a seconda delle condizioni dell’ambiente in cui si trovano. La citosina potrebbe andare incontro, in alcune
condizioni, ad un processo di deamminazione spontanea andando a costituire l’uracile. Questo
comporterebbe che, se nel nostro DNA l’uracile fosse una base costitutiva, una citosina andando incontro
ad una deaminazione spontanea potrebbe trasformarsi in uracile e non si avrebbe la possibilità di
distinguere se quell’uracile sia un uracile costitutivo oppure sia un uracile che deriva da una citosina,
quindi la probabilità di commettere errori durante la sintesi di DNA sarebbe notevolmente superiore.
L’UTP è un nucleotide che può essere sintetizzato dal nostro organismo e può essere utilizzato per produrre
nucleotidi o per produrre zuccheri. Dal punto di vista strutturale è analogo all’ATP, cambia soltanto la base,
ma non viene utilizzato per produrre energia bensì è accoppiato alla sintesi di alcuni componenti del nostro
organismo.

SINTESI DEI NUCLEOTIDI PIRIMIDINICI

La formazione dell’anello pirimidinico deriva innanzitutto da una reazione tra bicarbonato e un gruppo
amminico, consumando due molecole di ATP, che vanno a formare il carbamil fosfato, grazie alla carbamil
fosfato sintetasi 2. Da questo composto derivano un carbonio e un azoto dell’anello, mentre gli altri 3
carboni e il rimanente atomo di azoto derivano dall’aspartato.
Avendo formato la base, per formare tutto il nucleotide sono necessarie una serie di reazioni in cui
interviene il PRPP così come l’UTP (nel caso dell’RNA) che viene convertito in CTP, o il TTP (nel caso del
DNA) che viene convertito in dCTP.
Quando avviene la sintesi dei nucleotidi possono esserci due condizioni:

Via di recupero: si recuperano le basi dei nucleotidi attaccandoci lo zucchero formatosi nella via dei
pentosi, formando il nucleotide;

Via de novo: si parte dagli amminoacidi, dallo zucchero e mediante ATP, CO2 e altre reazioni si arriva
alla formazione del nucleotide.

L’energia necessaria per le due vie è diversa.

Il PRPP, denominato 5-fosforibosil-1-pirofosfato, ha una struttura simile all’ATP, dove l’ossigeno in posizione
1 è sostituito da un gruppo pirofosfato. Questa molecola si può generare dal ribosio + ATP con rilascio di
AMP ciclico.

Avendo un amminoacido, un bicarbonato e due molecole di ATP è possibile formare il carbamil fosfato
attraverso la reazione che sfrutta la carbamil-fosfato sintetasi 2, generando un gruppo amminico dalla
glutammina, con conseguente formazione di glutammato, 2 molecole ADP e un gruppo fosfato. La
carbamil-fosfato sintetasi 2 è un’isoforma presente a livello citosolico, nel ciclo dell’urea la carbamil fosfato
sintetasi 1, che porta alla sintesi del carbamil fosfato (prima tappa della sintesi dell’urea), si trova nei
mitocondri e agisce con un meccanismo analogo.

1) L’aspartato transcarbamilasi è il primo enzima che porta alla formazione del primo anello della
pirimidina, unendo il carbamil fosfato con l’aspartato per formare N-carbamil aspartato. Questo enzima
subisce una regolazione di tipo allosterico da parte della citidina trifosfato, un nucleotide con una base che
presenta delle somiglianze con la N-carbamil aspartato, per questo funge da regolatore allosterico.

2) Nella seconda tappa, quella che porta dal N-carbamil aspartato a diidroorotato, l’enzima diidroorotasi
favorisce la chiusura dell’anello dal momento che, quando si forma l’N-carbamil aspartato l’anello rimane
aperto perché il doppietto elettronico dell’ossigeno è ancora spaiato. Esso verrà utilizzato dalla diidroorotasi
per formare il legame con il gruppo amminico per ciclizzare l’anello, con la fuoriuscita di una molecola
d’acqua.

3) Una volta formato il diidroorotato, l’enzima deidroorotato deidrogenasi opera una reazione
ossidoriduttiva, utilizzando come cofattore il NAD ossidato, per formare la forma ossidata del deidroorotato,
l’orotato, e generando NADH.
4) Formatosi l’orotato, entra in gioco il PRPP attaccando lo zucchero ribosio, per costituire lo zucchero a 5
atomi del nucleotide. L’enzima definito orotato fosfocarbossil transferasi trasferisce il gruppo carbonico e
viene a formarsi la struttura intermedia dell’uridilato, cioè l’UMP. Successivamente saranno necessarie due
molecole di ATP per far funzionare una chinasi che forma l’uridina-5-trifosfato. Questo primo nucleotide
sintetizzato può andare a generare un nucleotide vero e proprio, cioè la citidina-5-trifosfato (CTP). Per far
questo è necessario l’enzima CTP sintasi e una molecola di ATP.

Le tappe in cui è utilizzato ATP rappresentano le tappe limitanti. Nella quarta tappa, quando l’uridina-5-
trifosfato genera la citidina-5-trifosfato, si vengono a formare tutti i tipi di acidi nucleici. Una molecola
importante che entra in gioco è la glutammina che viene convertita in glutammato, e questo serve per
rifornire eventuali gruppi amminici necessari per la formazione dei nucleotidi. Questo è il passaggio inverso
della sintesi della glutammina e di quelle reazioni di passaggio dei gruppi amminici dai vari amminoacidi,
tipiche del metabolismo degli amminoacidi dove si allontanano i gruppi amminici. In questo caso i gruppi
amminici vengono utilizzati per i loro atomi di azoto, necessari per la formazione dei nucleotidi.

SINTESI DEI DEOSSIRIBONUCLEOTIDI

Una differenza fondamentale tra la sintesi dei nucleotidi dell’RNA e quelli del DNA è che questi ultimi
mancano di un gruppo -OH: è necessario dunque che ci sia una molecola che prenda il gruppo-OH in
posizione 2 per eliminarlo dallo zucchero. Quello che accade è che, grazie a un sistema di ossidoriduzione
che sfrutta la glutatione reduttasi e la tirodossina reduttasi si rigenera il glutatione intracellulare. Arrivati al
livello della ribonucleotide reduttasi, nel passaggio dal nucleotide non deossi al nucleotide deossi, subisce
una riduzione, cioè i gruppi tiolici di questa reduttasi formano un ponte disolfuro con i gruppi cisteinici
presenti nella struttura. E’ importante quindi ripristinare l’attività dell’enzima che altrimenti non sarebbe più
in grado di trasferire i gruppi deossi in posizione due. Una volta formato il deossinucleotide, con la
nucleoside difosfato chinasi si crea il nucleotide finale. Il CTP è il primo nucleotide che si viene a formare,
dal quale attraverso una serie di reazioni sarà possibile formare tutti gli altri nucleotidi.
In alcune condizioni patologiche, come nelle malattie neoplastiche, il metabolismo nucleotidico viene
sfruttato dalle cellule tumorali a loro vantaggio per incrementare il tasso di proliferazione cellulare, con
conseguente crescita del tumore. Questo è possibile perché a livello citosolico la sintesi dei nucleotidi
avviene attraverso tre passaggi ciclici: dal 7,8-diidrofolato si forma il tetraidrofolato per azione della
diidrofolato reduttasi; il tetraidrofolato a sua volta, in presenza dell’amminoacido serina, può essere
convertito in N5,N10-Metilen-tetraidofolato grazie all’enzima serina idrossimetil-trasferasi e al cofattore
PLP, mentre la serina viene convertita in glicina. Questo ciclo, partendo dal dUMP forma dTMP: la sintesi
nucleotidica viene inibita dai prodotti del ciclo stesso.
L’uracile che si trova nel dUMP presenta una struttura estremamente simile a quella di un farmaco
impiegato nella terapia oncologica, chiamato 5-fluorouracile, in particolare nel trattamento dei tumori che
colpiscono il colon. Da un punto di vista strutturale il 5-fluorouracile non è altro che un uracile che in
posizione 5 ha legato un atomo di fluoro. Essendo praticamente uguali l’organismo può confondere
facilmente le due strutture molecolari e il 5-fluorouracile, interagendo con l’enzima timidilato sintasi
blocca la via. Questo è un esempio di come una via di metabolica conosciuta viene trasformata in target
terapeutico grazie a farmaci dalla struttura molto simile a quella degli intermedi della via stessa.

Questo tipo di approccio è molto utilizzato nella ricerca di nuovi farmaci, soprattutto antitumorali, dato
che è noto che molecole con analogie strutturali possono essere impiegate per bloccare recettori, vie di
segnalazione o processi metabolici. Un altro farmaco molto utilizzato per la terapia oncologica è il
metotrexato, che agisce sempre nel ciclo visto in precedenza, ma a livello della diidrofolato reduttasi: in
questo caso però la molecola non ha analogie strutturali con intermedi della reazione, ma i suoi gruppi
funzionali gli permettono di bloccare l’enzima.

CATABOLISMO DELLE PIRIMIDINE

Il catabolismo delle pirimidine porta alla formazione di bicarbonato, ammoniaca ed anidride carbonica,
che rappresentano al tempo stesso i substrati per l’inizio della biosintesi dei nucleotidi.
Partendo da una sequenza nucleotidica di DNA, potremmo spezzettare la catena per ottenere i nucleotidi,
oppure il ribosio, ossia lo zucchero il cui scheletro carbonioso può essere impiegato per fare
gluconeogenesi. Quando si degradano i nucleotidi si affronta una situazione analoga a quella del
metabolismo dei peptidi; i gruppi amminici vengono eliminati sotto forma di ammoniaca. Pertanto,
l'ammoniaca non proviene solo dal catabolismo degli amminoacidi, ma si viene a formare anche durante il
catabolismo dei nucleotidi. La molecola viene poi escreta, come sappiamo, sotto forma di urea.

Partendo dalla reazione della timina, gli enzimi che entrano in gioco sono:

1. la diidrouracile deidrogenasi, che utilizza un cofattore ridotto che viene ossidato (da NADPH a NADP+):
si ottiene la dirotimina;

2. La diidropirimidinasi, che con l'ausilio di una molecola di acqua, porta all'apertura dell'anello della
diidrotimina, cioè avviene il meccanismo contrario a quello della sintesi. Si forma B-ureidoisobutirrato.

3.Una volta che la catena è lineare, li B-ureidobutirrato mediante l'enzima β-ureidopropionasi e una
molecola d'acqua, produce l'ammoniaca e il glutammato, oltre la formazione del β-amminoisobutirrato.

4.L'intermedio β-amminoisobutirrato subisce un'ultima reazione in cui, mediante l'enzima


amminotransferasi una molecola di α-chetoglutarato è convertita in glutammato e si forma la
metilmalonil-semialdeide. Questa reazione è molto simile ad una di transamminazione, ossia al
trasferimento di un gruppo amminico; l'enzima infatti è un'amminotransferasi. Il gruppo amminico si
trasferisce dal β-amminoisobutirrato al glutammato. Quindi grazie alla presenza del chetoacido (l’α-
chetoglutarato è il chetoacido del glutammato), l'amminotransferasi trasferisce il gruppo amminico dal β-
amminoisobutirrato al substrato che è l’α-chetoglutarato, formando li glutammato e la metilmalonil-
semialdeide. In questo modo è stato eliminato il gruppo amminico: i gruppi amminici vengono eliminati
attraverso glutammato e glutammina; quindi, è meglio che tali gruppi non siano dispersi in altre forme.
Questo è uno dei meccanismi per eliminare gli eventuali gruppi amminici rimasti che si vengono a
formare nel catabolismo.
La via di recupero per la sintesi degli nucleotidi è molto più semplice, perché partiamo da nucleotidi che
dobbiamo riciclare, oppure abbiamo a disposizione basi o gli zuccheri. Difficilmente le basi vengono
riciclate, quasi sempre devono essere sintetizzate de novo. Tuttavia qualora fossero presenti la base e lo
zucchero un nucleoside può essere facilmente convertito dalla sua forma non deossi- alla sua forma
deossi- o eventualmente alcuni nucleosidi possono essere fosforilati da alcune chinasi ATP-dipendenti.

Per quanto riguarda la sintesi di nucleotidi purinici la situazione è più complessa. In essa entrano in gioco
diversi attori, alcuni dei quali non coinvolti nella sintesi dei nucleotidi pirimidinici, come il formiato.

Ciò che però accomuna la sintesi dei nucleotidi purinici e di quelli pirimidinici è il punto di partenza,
rappresentato sempre dal 5-fosforibosil 1-pirofosfato (PRPP). Partendo da questa molecola, in presenza
di glutammina l’enzima glutammina-PRPP amminotrasferasi trasferisce il gruppo amminico
dell’amminoacido glutammina sul nostro substrato (PRPP). Questo genera glutammato e uscita di
pirofosfato. Il prodotto della reazione è la 5-fosfo-β-D-ribosilammina. Avvengono poi numerose altre
reazioni che portano alla formazione di un intermedio non ancora ciclico, ma che è la base di partenza
per l’ottenimento delle purine.

Nella decima reazione di questa via interviene un enzima che favorisce infine la chiusura del ciclo, con la
fuoriuscita di una molecola d’acqua. L’anello che si viene a formare viene chiamato ipoxantina o
inositato.

L’inositato può andare incontro a due diversi destini.

Primo destino; il primo passaggio avviene ad opera dell’enzima adenilosuccinato sintetasi, grazie
all’impiego di aspartato e consumo di GTP; si ottiene adenilsuccinato, che poi mediante
l’adenilosuccinato liasi viene convertito in adenilato, e avviene la fuoriuscita del fumarato. In sostanza,
dell’aspartato che entra nella reazione viene mantenuto solo il gruppo amminico.

Secondo destino; l’inositato subisce una deidrogenazione mediante l’enzima IMP deidrogenasi, e si forma
xantilato, con consumo di una molecola d’acqua e riduzione di una molecola di NAD. Lo xantilato,
mediante una molecola di ATP, di glutammina e dell’enzima GMP sintetasi costituisce il guanilato.

Dall’adeninato è possibile ottenere l’adenina, mentre dal guanilato possiamo ottenere la guanina. I
nucleotidi di questo tipo spesso intervengono nel corso di segnalazioni a cascata. Nella sintesi
dell’adenilato (AMP) bisogna idrolizzare ben 8 legami fosfoanidridici, cioè è necessario impiegare 8
molecole tra ATP e GTP; nella sintesi del guanilato (GMP) vengono consumate 9 molecole energetiche, e
quindi dobbiamo rompere 9 legami fosfoanidridici.
La regolazione di questa via metabolica può partire dall’inositato. Si tratta dell’ultima tappa limitante, che
può portare alla sintesi di due nucleotidi, l’AMP e il GMP, entrambi inibitori allosterici delle loro stesse
reazioni di sintesi. Le altre tappe possono anch’esse essere regolate in quanto l’inositato può bloccare con
un meccanismo a feedback negativo la formazione degli enzimi che stanno a monte. Di fatto, tutti i prodotti
di reazione sono inibitori allosterici degli enzimi dai quali sono prodotti.

Ciascun nucleotide da monofosfato diventa difosfato; ognuno di questi nucleotidi può generare il
successivo.
Se c'è qualcosa che va a bloccare la sintesi di uno solo di questi enzimi, di conseguenza, a cascata, verrà
bloccata la sintesi di tutti gli altri. Questo perché la sede enzimatica di regolazione della sintesi dei
nucleotidi è rappresentata da dei sistemi enzimatici molto complessi. Il sito attivo dell'enzima è quello che
svolge l'attività enzimatica; tuttavia, ci sono altri siti attivi, detti allosterici, e alcuni di questi si avvalgono
di una certa specificità; in altri casi invece questa regolazione può avvenire anche in assenza di un'elevata
specificità: questi inibitori possono legarsi ad un sito allosterico di attività e possono avere un effetto a
cascata su tutta l'attività enzimatica.

CATABOLISMO DELLE PURINE

Il catabolismo delle purine comprende una serie di reazioni enzimatiche da cui si viene a formare l'acido
urico. (Nel catabolismo delle pirimidine si formava l'ammoniaca come composto tossico).
Questo potrebbe portare all’accumulo di acido urico a livello degli arti, soprattutto nelle persone anziane. A
differenza dell'ammoniaca che può essere allontanata nel ciclo dell'urea, l'acido urico è una sostanza acida
molto tossica che ha la capacità di danneggiare i tessuti circostanti; è inoltre poco solubile, per cui tende
ad accumularsi. L'accumulo di acido urico si manifesta con formazioni di depositi a livello degli arti,
causando una patologia, che riguarda soprattutto le persone anziane, ma che in generale si può
manifestare nei soggetti che hanno un'alterata funzionalità nel catabolismo dei nucleotidi, per diverse
cause:

• per qualche farmaco che può avere effetto sugli enzimi visti, il che non è raro in quanto questi enzimi
sono numerosi;

• per una carenza di qualche cofattore enzimatico;

• per alcuni enzimi che potrebbero subire una regolazione per cui si ha un difetto che comporta o
un'eccessiva sintesi o un eccessivo catabolismo, causando l'accumulo di acido urico, che il nostro
organismo non è in grado di allontanare.

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