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Diritto privato 

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(Lezione 28/02/22)

Le norme giuridiche
Le norme giuridiche secondo il diritto pubblico sono caratterizzate da regole coattive, ma
in realtà non tutte le norme sono coattive cioè non tutte le norme formulano dei comandi
che portano a sanzioni. Esistono per l’appunto norme prescrittive che non presuppongono
comandi (imposizioni o preclusioni) bensì che mirano a regolare i rapporti che possono
sorgere tra soggetti diversi (es: art.810.cc “sono beni le cose che possono formare oggetto
di diritti”).
Dunque le norme definitorie esistono e sono giuridiche: pur senza comandare regole esse
prescrivono. 
Non ogni norma giuridica è sanzionatoria ma fa parte di un ordinamento che nel suo
complesso è coattivo. 
Le sanzioni hanno connotati differenti, possono essere a tecniche e contenere misure
afflittive predisposte a carico della persona responsabile della violazione di taluna norma o
possono essere tecniche ed avere la funzione di reintegrazione della sfera giuridica del
soggetto leso, la sanzione dunque assume la forma di un mezzo di tutela o rimedio. 
Un’altra caratteristica della norma giuridica tipica del diritto pubblico è che la norma sia
generale ed astratta, ma non tutte le norme lo sono, talune sono individuali e concrete
come le clausole contrattuali o il vincolo matrimoniale. Il contratto di compravendita ad
esempio disciplina i rapporti tra le parti e i possibili terzi ed assume forma di legge per le
parti in questione.
La generalità e l’astrattezza riguardano l’atto di applicazione nel senso più ampio, non si
rivolgono dunque a destinatari precisi, ma ad una platea indeterminata. 
Anche la norma speciale, che deve essere preferita dal giudice nella sua applicazione
rispetto quella generale, possiede le caratteristiche di generalità ed astrattezza. 
Differenti da esse sono le norme eccezionali che sono rivolte ad una platea determinata di
soggetti, essendo dunque individuali e concrete. Sono norme eccezionali in quanto esse
esauriscono la loro efficacia una volta che viene meno l’evento che ha portato
all’introduzione della norma stessa, es: pandemia, terremoto...
Avendo tale caratteristica la norma eccezionale non è suscettibile ad applicazione
analogica. 
Dunque è norma ogni proposizione prescrittiva introdotta, nel rispetto di una determinata
procedura, in un determinato ordinamento coattivo nel suo complesso.
Norma cogente, di norma imperativa ossia quelle norme che non ammettono deroghe
ossia i destinatari non possono mutare il contenuto della disposizione.
Sono norme dispositive le norme che ammettono la possibilità che i destinatari della
norma regolino diversamente tramite contratto i loro rapporti (è A deve essere A salvo che
le parti non dispongano diversamente).
Le norme suppletive che introducono le regole di default, che si applicheranno solo in
mancanza di accordi tra le parti per regolare quella materia interverrà la norma di legge.

(Lezione 01/03/22)
Norme analitiche, principi e clausole generali
Lo schema di norma più diffuso è quello chiamato sillogismo giudiziario: la norma è
strutturata con una premessa maggiore, cioè un’ipotesi di fatto, a cui si collegano delle
conseguenze che si produrranno quando si verificherà la premessa minore, cioè il fatto
della vita concreto, che rientra nella fattispecie astratta che la norma ha previsto. Questo è
lo schema di norma più diffuso che viene chiamato norma ad impianto analitico, questa
struttura condizionalista è dunque formata dalle condizioni di applicabilità della norma e
dalle conseguenze che discendono dall’ipotesi.
Nonostante il contenuto analitico di queste norme il giudice gode di una certa libertà di
apprezzamento. Nessun testo normativo si presta ad un singolo significato, è sempre
suscettibile a più significati e il giudice dovrà optare per quello più attinente. 
L’ interpretazione non è una scienza cognitiva, ma bensì ha un ampio raggio di
discrezionalità.  

Non tutte le norme però sono analitiche, così come i principi che sono norme di contenuto
indeterminato che enunciano (fissano) dei valori morali. Nell’attribuire un significato
concreto a queste norme il giudice gode di una discrezionalità maggiore rispetto alle
norme analitiche.

Ad esempio l’art. 1182.cc che tratta l’adempimento dell’obbligazione ha un impianto


analitico, è una norma che nonostante sembri inequivocabile è sempre soggetta ad
interpretazione anche se minima.
Mentre l’art. 2.cost parla anche di solidarietà sociale, tale enunciato può essere oggetto di
numerose interpretazioni diverse in base alle idee e ai valori, è un contenuto che da
all’interprete una maggiore libertà di movimento rispetto le norme ad impianto analitico.
Quando il giudice deve interpretare un principio l’apporto costruttivo dell’interprete diventa
rilevante ugualmente al testo, mentre ovviamente nell’impianto analitico il testo prevale.

Al pari dei principi come norme indeterminate troviamo le clausole generali. Esse a
differenza dei principi non enunciano fini ultimi, obiettivi, ideali definitivi ma sono
formulazioni indeterminate che fanno riferimento a valori ed anche in questo caso l’apporto
costruttivo del giudice è sensibilmente maggiore.
Es: la buonafede caratterizza la disciplina delle obbligazioni e la disciplina del contratto
(art.1375.cc: il contratto deve essere eseguito secondo buonafede).

Ma quali comportamenti sono di buonafede? 


Il legislatore ha intenzionalmente non specificato quando un comportamento rientra o
meno nella buonafede. Questo perché vi è la necessità di rendere elastico quel
determinato istituto. Si dice che il diritto è vecchio nel momento stesso che viene disposto,
una regola viene data sull’esperienza pregressa ma ambisce a regolare al futuro che
ovviamente può essere cambiato. Il diritto insegue la storia, la società che progredisce più
velocemente, quindi le norme devono avere una certa elasticità (per antonomasia le
clausole) per adattarsi alle condizioni della società nonostante i suoi mutamenti.
L’elasticità è data dalle potenzialità del linguaggio, grazie anche a queste norme
indeterminate. 

Fino alla metà degli anni ‘60 i principi e le clausole generali venivano visti come delle
affermazioni generali rivolte esclusivamente al legislatore futuro, vi era la tendenza a
sterilizzare queste norme, venivano intese come programmatiche cioè norme alle quali
doveva attenersi solo il legislatore e non norme oggetto di interpretazione ed applicazione
da parte del giudice. Ad oggi i principi e le clausole generali non sono esclusivamente
diretti al legislatore ma possono essere interpretati dai giudici e vanno a disciplinare i
rapporti tra privati. 

Quando il giudice deve decidere la giurisprudenza si dice che diventa fonte del diritto, ma
questo non è esatto. La giurisprudenza non è né formalmente né sostanzialmente
produttrice del diritto, il giudice svolge un’attività applicativa che implica un certo margine
di scelte che si può ampliare ma rimane pur sempre un’attività applicativa. Il criterio di
giudizio viene posto dal legislatore, il giudice svolge l’attività applicativa non creativa,
ovviamente non è una tecnica automatica, è una valutazione che implica di scegliere tra
soluzioni alternative, il cosiddetto margine di apprezzamento del giudice. La norma va
sempre ricavata, essa solleva problemi, questioni, non vi è un’unicità che consente di
trovare soluzioni “preconfezionate”.

Le norme ad impianto analitico sono regole che si applicano se in una determinata


situazione concreta si sono delineate le condizioni sottolineate dalle regole astratte e
vengono applicate se presenti nella loro interezza (o tutto o niente).

I principi invece si bilanciano, ciò perché il principio enuncia un valore che raramente è
privo di altri valori correlati di sensi diametralmente opposti. Bilanciare i principi
contrapposti serve dunque ad applicarne uno senza comprimere il diritto opposto. Ad
esempio la libertà di informazione incontra dei limiti quali che l’informazione debba essere
di interesse pubblico, che sia verosimile e verificata che vada a tutelare l’onore e la
riservatezza dei soggetti in questione.

Dunque l’attività dell’interprete è un’attività non cognitiva ma valutativa, non tale da


rendere la giurisprudenza vera fonte del diritto in quanto il criterio di giudizio viene
predeterminato dal legislatore.   

Diritto nazionale e diritto UE


Rivedi in diritto pubblico i trattati, diritto convenzionale e diritto derivato, regolamenti,
direttive e decisioni. 

Regolamenti: crea uniformazione, crea diritto unitario.

Direttive: vincolano allo scopo, lo stato sceglie come realizzare la finalità. In alcuni Stati più
arretrati possono portare a profonde variazioni, mentre negli stati più all’avanguardia solo
minime. Es: direttiva 93. Sulle clausole abusive, disegnata sul diritto tedesco (più
all’avanguardia) ha portato a variazioni minimali, mentre in Italia ha portato alla creazione
di un nuovo istituto.
Le direttive operano per il diritto privato, creano armonizzazione regolando la materia in
un’unica visione. Per evitare l’attuazione infedele o ritardi se la direttiva è sufficientemente
precisa ed incondizionata, lo stato membro non deve compiere alcuna scelta, sono
direttive self-executing, per vincere la resistenza alle direttive. Qualora mancassero le
condizioni per il self-executing il cittadino può far valere il suo diritto davanti la corte di
giustizia. 

Una svolta per l’equilibrio tra ordinamento interno e ordinamento dell’UE è stato dato dalla
sentenza 170/1984 della Corte Costituzionale.
Dapprima vi erano due linee interpretative.
La prima ipotesi secondo cui con l’adesione dell’Italia all’UE l’ordinamento comunitario
entra di pieno diritto nell’ordinamento interno.
La seconda ipotesi secondo cui l’ordinamento nazionale e quello comunitario sono distinti
e autonomi l’uno dall’altro seppur coordinati fra di loro. 

Con la sentenza dell’84, il caso “Granital” il giudice La Pergola solleva la questione di


legittimità costituzionale per violazione indiretta dell’art.11.2.cost. 
La corte costituzionale in questo caso non è competente, deve essere il singolo giudice a
disapplicare la norma precedente (italiana) o non applicarla se sopravvenuta. Compete al
singolo giudice perché l’UE non ha giudici di merito, lo sono i singoli giudici nazionali, che
quando applicano il diritto dell’UE sono giudici europei. 
Inoltre un atto normativo che introduce una norma di cui si contesta la legittimità può
essere espunto solo se la norma che fa sollevare la questione appartiene a fonti di diritto
nazionale. 
Qualora dunque sopraggiungano dei conflitti tra norme comunitarie e nazionali devono
essere risolte tramite il criterio della competenza. Tra di esse non voi è un rapporto
gerarchico, quindi l’Italia non emana una legge invalida se tratta una materia di
competenza europea, semplicemente diventa non applicabile.   

I motivi per cui prevale il diritto comunitario sul diritto nazionale sono innanzitutto
l’applicabilità e la non applicabilità delle norme interne.
In secondo luogo anche per il canone interpretativo, il giudice nell’atto dell’interpretazione
delle norme nazionali deve privilegiare il significato che più si avvicina non solo al diritto
nazionale ma anche al diritto europeo. 
E infine per la questione pregiudiziale europea (art.267.tfue) che evita le disparità, cioè
che taluna norma possa essere interpretata in maniera diversa da stati diversi.

Procedimento interpretativo
L’enunciato è la base da cui si ricava la norma che è data dal significato che l’enunciato
può dare. 
L’interpretazione giuridica è regolata dal diritto, stabilire i canoni per un risultato
interpretativo è imprescindibile e la norma è l’esito delle attività interpretative. 

L’art.12 Preleggi enuncia i primi tre canoni dell’interpretazione:


 Letterale
 Sintattico
 Teleologico (o finalistico)

Secondo il criterio letterale l’attività interpretativa non è un’attività semplicemente


cognitiva, non si limita a conoscere la norma, è un’attività valutativa. Ma tale attività non si
può spingere oltre l’attribuzione del testo ad una delle plausibili varianti che essa può dare,
quindi il giudice non può attribuire alla norma un senso al di fuori del vincolo del lessico. 

Secondo il criterio sintattico l’attività interpretativa non deve guardare ai singoli termini ma
vanno letti nel loro contesto sintattico quindi il giudice deve avere cura di collegare i termini
secondo i nessi sintattici e inoltre si deve tener conto dell’intenzione del legislatore. Si
allude quindi alla ratio legis che a sua volta è oggetto di interpretazione.

Secondo il criterio teleologico o finalistico è scorretta quell’interpretazione che non si


chiede quale sia la finalità che l’enunciato normativo vuole perseguire. 
Oltre i canoni distinti dal precitato art.12 si deve anche considerare che la norma va calata
in un contesto, si deve tener conto che essa si inserisce in un ambito normativo (istituto,
materia). Quindi abbiamo anche il criterio sistematico, cioè che la norma debba essere
interpretata nel suo contesto. 

Il diritto non nasce ordinato perché si crea nel tempo, la fase di produzione non segue
ordine e coerenza, esso va reso coerente. L’obiettivo da perseguire è un fine, il diritto deve
creare ordine nella società per ambire alla pacifica convivenza quindi necessariamente
deve avere un ordine. 
Durante l’attività interpretativa vi è la necessità di privilegiare tra i diversi significati quello
che crea maggiore armonia all’interno dell’ordinamento giuridico, ottenendo un risultato
complessivo omogeneo e coerente. Ogni singolo enunciato va letto con gli altri,
coordinandolo con le norme indeterminate, sovraordinate a livello europeo che fissano i
presupposti a cui la norma inferiore deve ispirarsi.

Si deve valutare anche il criterio storico, il diritto deve essere affrontato con un senso
storico. 
Un enunciato che viene introdotto in un determinato contesto ma con il mutare della
società pur mantenendo invariato l’enunciato, con il cambiamento della collettiva muta
anche l’interpretazione di esso. Lì dove la norma non si può rendere attuale con
l’interpretazione si deve necessariamente cambiare la norma. 

L’analogia
L’art.12.2 Preleggi detta un altro istituto, un’ulteriore attività intellettiva oltre
all’interpretazione, ossia l’analogia legis e l’analogia iuris. L’ipotesi è che ove vi sia una
lacuna legislativa e si vada a creare una controversia relativa a fatti dove non vi sia
un’apposita normativa il giudice deve ricorrere all’analogia.

L’analogia legis: attingere ad un enunciato, in cui il fatto da decidere non rientra in alcuna
norma, ma è simile all’obiettivo regolativo di una norma che regola un caso differente ma
solleva un caso analogo. Es: la normativa inerente ai documenti cartacei può estendersi ai
documenti informatici in quanto la casistica che sollevano è similare. 

L’analogia iuris: il giudice risale prima al principio che poi verrà applicato al fatto non
disciplinato da una norma e per cui non esistono norme che regolino fatti similari.

Dunque le norme pensate per un determinato fatto possono essere estese a fatti similari
non disciplinati, qualora non vi sia alcun testo normativo analogo si può ricorrere ai
principi, essendo norme a carattere indeterminato hanno un’ampiezza enorme di
significato. 

L’analogia non è interpretazione in senso tecnico, nell’interpretazione il materiale


normativo è dato dal legislatore (scelta non discrezionale) mentre nell’analogia il materiale
normativo che regola casi analoghi viene scelto dal giudice. Inoltre l’analogia è un’attività
in cui vi è un apporto creativo maggiore del giudice di una norma individuale e concreta,
quindi un altro giudice per il medesimo fatto può disporre diversamente in quanto non vige
il vincolo di precedente.

(Lezione 02/03/22)
Situazioni giuridiche soggettive attive e passive
Non tutte le norme sono suscettibili di estensione analogica (quando in due casi vale la
stessa ratio legis, ossia la somiglianza tra i casi), come le leggi penali incriminatrici o le
norme eccezionali. Le leggi penali che non incriminano invece possono essere estese
analogicamente.
Ne è un esempio l’art.14.Preleggi per cui per i reati penali vige il principio di stretta legalità,
il reato deve essere espressamente previsto dalla norma, nessuno può essere perseguito
penalmente se non vi è una norma che lo richiama.

Come detto precedentemente le norme hanno la struttura di sillogismo giudiziario, per cui
se è A allora è B. Vi è una premessa maggiore (caso astratto), a cui si collegano delle
conseguenze che si produrranno quando si verificherà la premessa minore (caso
concreto).
Le conseguenze sono gli effetti che determinano le situazioni giuridiche soggettive,
possono essere situazioni di vantaggio (attive), ossia la possibilità di far prevalere il
proprio interesse su terzi, o di svantaggio (passive) ossia imporre una determinata
condotta che limiti la libertà del soggetto, riconosciute dall’ordinamento giuridico. Una
situazione giuridica soggettiva, in diritto, indica la posizione che un soggetto di diritto
assume nell'ambito di un rapporto giuridico.

Più ampia è la posizione attiva maggiore è il riconoscimento individuale che appunto


riconosce ad alcuni tipi di interesse una prevalenza sui suoi contrapposti. Sono le
situazioni relazionali quelle che implicano ad un terzo una situazione passiva. Esistono
anche delle situazioni attive che non impongono di addossare ad altro soggetto una
situazione passiva, così come esistono situazioni passive che non conferiscono ad alcuno
un diritto attivo, es: il dovere di contribuire al bilancio di stato con le tasse/ il dovere di non
guidare a più di 50 km/h.
Quando l’ordinamento vuole vietare introduce un divieto mentre quando vuole imporre
introduce un dovere.

Gli effetti non si esauriscono nell’attribuzione di situazioni attive o nell’imposizione di


situazioni passive, possono essere anche solo qualificazioni che vadano ad indicare quali
fatti sono giuridicamente significativi e quali no. Ne sono un esempio:
- l’Art.810.cc che seleziona quali entità corporali o incorporali possono essere
considerate o meno un bene.
- L’Art.2043.cc riguardante la responsabilità aquiliana, ossia quando due soggetti non
legati da un precedente rapporto (responsabilità del passante) si ritrovano entrambi
danneggiati, non tutti i danni sono rilevanti quindi non tutti i danni sono risarcibili, lo
saranno solo quelli per cui l’ordinamento giuridico ha previsto una determinata
qualificazione (ingiustizia)
I danni che non sono considerati ingiusti non potranno essere rimossi tramite il
risarcimento del danno.

Rimedi e mezzi di tutela


L’ordinamento giuridico predispone degli strumenti, quali i rimedi e i mezzi di tutela, come
forma di reazione al soggetto il cui interesse è stato leso o il cui interesse doveva essere
soddisfatto ma non lo è stato. Sono volti ad eliminare la lesione oppure ad attuare interessi
che dovrebbero dovuto essere attuati e che non sono stati. Un esempio di rimedio oltre il
risarcimento del danno è dato dall’Art.948.cc che va a rafforzare il diritto di proprietà, per
cui il proprietario può rivendicare il bene che gli è stato sottratto ottenendone la
restituzione o nel caso di perdita il risarcimento del valore economico del bene stesso.

Il diritto soggettivo nella storia


Nella storia si sono susseguite diverse definizioni di diritto soggettivo.
Le radici del diritto soggettivo affondano nel diritto romano, un tipo di diritto casistico per
cui le regole venivano congeniate su casi specifici mediante l’interpellanza di giudici,
quindi un diritto di matrice culta. Il diritto romano è pervenuto fino a noi per un’egregia
opera di codificazione scritta del Corpus Iuris Civilis, formato da diversi libri divisi in
diverse parti detto Digesto o Pandette, che raccoglievano i responsi dei “Giure Cosulti”
precedenti.
Nel corso dell’800 in Germania veniva applicato oltre il diritto dei singoli stati anche il diritto
romano attualizzato. I giuristi tedeschi hanno applicato al diritto romano la logica generale
e astratta per garantire il principio di eguaglianza, partendo dai singoli casi ed
elaborandone tutte le categorie tecniche e astratte.
La prima definizione di diritto soggettivo ci viene data nell’800 dal giurista tedesco
Savigny. È un periodo in cui dominano le ideologie illuministe, in cui vi è il culto
dell’individuo ed una concezione dell’uomo come dominatore della realtà.
Tale teoria viene messa in discussione e smentita dalla natura stessa, l’uomo non ha il
controllo della realtà in quanto non può controllare la natura. Perdendo anche di valore la
definizione di diritto soggettivo fornita da Savigny “potere della volontà”, l’uomo ha una
forza interiore e creatrice capace di cambiare con la volontà la realtà. È una definizione
incompleta e non del tutto corretta come abbiamo visto ma questa definizione evidenzia la
posizione di supremazia che il diritto soggettivo riconosce.
A metà dell’800 abbandonate le ideologie illuministe, il giurista Jhering fornisce una nuova
definizione di diritto soggettivo in contrapposizione a quella di Savigny, si tratta di “un
interesse giuridicamente protetto” che consente la sua realizzazione a discapito di
interessi altrui.
Entrambe le definizioni isolano i due elementi che compongono il diritto soggettivo
dovendo coesistere. Il diritto soggettivo è definito come una sfera di libertà di creazione
conferita affinché possa essere realizzato o protetto uno specifico interesse.

Facoltà e potere
Il diritto soggettivo è quella sfera d’azione in cui il titolare ha facoltà di compiere
comportamenti materiali o il potere di compiere atti per realizzare lo specifico interesse per
il quale il diritto soggettivo è stato costruito.
Per facoltà si intende quel comportamento materiale o quell’insieme di condotte tese a
ricavare dall’oggetto del diritto le utilità che esse può fornire (valore d’uso).
Per potere di compiere un atto si intende sempre un comportamento ma finalizzato a
modificare il diritto: cedendolo, modificandolo o restringendone il contenuto o
rinunziandovi.

Nel diritto soggettivo si devono distinguere per il potere di disposizione in diritti patrimoniali
e diritti non patrimoniali. Mentre per la distinzione strutturale in diritti assoluti (diritti non
relazionali) e diritti relativi (diritti relazionali).

Diritti patrimoniali e non patrimoniali


I diritti patrimoniali hanno un contenuto economicamente valutabile come la proprietà e il
diritto di credito e non godono del margine di apprezzabilità, mentre ai diritti non
patrimoniali non è possibile attribuire un valore economico. Il valore oggettivo del bene
viene dato dalla formazione del prezzo nel mercato che converte beni e servizi in valore
monetario, ma vi sono dei beni rispetto ai quali non si può generare un valore. Ai diritti non
patrimoniali non è possibile attribuire all’origine un valore economico, come la calunnia
che lede la reputazione, ma la loro violazione può produrre un danno economicamente
valutabile che deve essere dato caso per caso e gode di un certo margine di
apprezzabilità.
Inoltre i diritti patrimoniali sono trasmissibili e disponibili cioè il proprietario ne può disporre
a proprio piacimento, mentre i diritti non patrimoniali sono teoricamente indisponibili e
intrasmissibili. Ad esempio i diritti della personalità non sono del tutto indisponibili, un
personaggio famoso può cedere il proprio diritto all’immagine, ma questa disponibilità è
significativamente inferiore rispetto ai diritti patrimoniali.

Diritti assoluti e diritti relativi


Le caratteristiche di assolutezza e relatività dipendono dai soggetti nei confronti dei quali si
può richiedere la loro tutela. Tutti quei diritti che si possono far valere nei confronti di
chiunque (erga omnes) sono diritti assoluti.
Il diritto assoluto per antonomasia è il diritto di proprietà, l’Art.832.cc sancisce che “il
proprietario ha il diritto di godere e disporre delle cose”, è un vincolo assoluto, su chiunque
grava l’obbligo di non interferire con il diritto altrui e qualora succeda ne dovrà rispondere,
è un generale dovere di astensione che si definisce comportamento negativo.
Il diritto relativo si delinea in un ambito circoscritto, è un diritto relazionale che vede
contrapposto titolare e controparte (rapporto tra soggetto attivo e passivo). È una pretesa
di far valere quel diritto nei confronti di un soggetto ben identificato, predefinito e
preidentificato, lo è per antonomasia il diritto di credito. Si delinea in un comportamento
positivo della controparte di dare/fare o non fare/non dare qualcosa.

Nel passato si è cercato di delineare il diritto assoluto come un rapporto che dal lato attivo
trova il titolare e dal lato passivo tutti i consociati. Questa configurazione è stata ripudiata
in via di due considerazioni.
La plausibilità: non è plausibile perché non dà indicazioni sufficienti per indirizzare la
condotta.
L’indeterminatezza: non dà un contenuto determinato dei destinatari.
Perciò ad oggi alla base dei rapporti sociali non relazionali vi è la responsabilità aquiliana.

La tutela garantita nel caso di violazione dei diritti assoluti si rivolge nei confronti di
chiunque mentre la tutela del diritto relativo si esaurisce nel rapporto fra le controparti.
Anche i diritti relativi però hanno una rilevanza esterna qualora terzi vadano a vanificare il
suo diritto ledendolo irrimediabilmente, ed è il caso della lesione aquiliana.

Es: nel 1954 a seguito della perdita dei propri giocatori per l’incidente aereo a Superga il
Torino Calcio ha agito in giudizio per richiedere il risarcimento del danno alla compagnia
aerea. La Corte di Cassazione si è pronunciata contraria al risarcimento perché il danno è
stato provocato da terzi e non dai calciatori.
Nel 1971 sempre il Torino Calcio ha agito nei confronti di un privato a seguito di un
incidente stradale che ha visto la dipartita di uno dei giocatori più forti della squadra, il
cosiddetto “caso Meroni” richiedendo il risarcimento del danno per la perdita del diritto di
credito. In questo caso la Corte di Cassazione si è riunita a sezioni unite (per decidere di
questioni particolarmente rilevanti, composta dai presidenti delle sezioni semplici e dal
presidente) abbandonando la direzione precedente per cui il credito è tutelato solo dalla
controparte, se l’interesse del creditore venga irrimediabilmente leso da terzi, essi in via
extracontrattuale dovranno risarcire il danno (cessione del credito). La Corte di
Cassazione nega il danno al Torino calcio ma riconosce che il credito può essere tutelato
da parte di eventi dannosi del terzo.

Nonostante il diritto di credito abbia una rilevanza esterna essa non è una specificità del
diritto assoluto.
Il diritto assoluto non è un diritto relazionale, è un diritto di auto appagamento, un diritto
autarchico, il proprietario non ha bisogno di nessuno per godere del suo bene, esso
attribuisce facoltà e potere di autorealizzazione.

Il diritto relativo ha facoltà e poteri per sollecitare la controparte ad adempiere, esige


dunque la cooperazione della controparte per godere del proprio diritto (inter partes).
Entrambi hanno rilevanza anche nei confronti di terzi, per i diritti assoluti la tutela ha una
natura specifica e generalizzata a chiunque, per i diritti relativi vi è una tutela specifica ma
indirizzata nei confronti di uno o più soggetti ed è una tutela per equivalente, cioè
risarcitoria.

(Lezione 07/03/22)

Diritti reali minori


Del diritto soggettivo fanno parte anche i diritti reali minori che si dividono in diritti reali di
godimento e diritti reali di garanzia.
I diritti reali di godimento attribuiscono un potere su una cosa altrui limitando le facoltà del
proprietario che rinunzia al godimento del suo bene e non è necessaria la cooperazione di
quest’ultimo. Essi si dividono in: usufrutto, superficie, enfiteusi, servitù, uso e abitazione.
(I diritti reali di godimento possono essere definiti esclusivamente dal legislatore, ciò
perché in seguito alla rivoluzione francese si voleva limitare un’eccessiva compressione
del diritto di proprietà).

Diritti potestativi
I diritti potestativi sono una figura intermedia tra i diritti assoluti e quelli relativi. Accade,
infatti, che il diritto si può realizzare senza la collaborazione di altri soggetti (come accade
per i diritti assoluti), ma, d'altro canto, può esistere solo tra soggetti determinati (come
accade per i diritti relativi); quest'ultima caratteristica colloca i diritti potestativi nell'ambito
dei diritti relativi, anche se ne costituisce una figura autonoma.
In sostanza accade che una parte ha il pieno potere di realizzare una modificazione
giuridica, mentre l'altra non può far altro che subire detta modificazione.
I diritti soggettivi potestativi attribuiscono al titolare facoltà e poteri di modificare l’altrui
sfera giuridica, la controparte versa in stato di mera soggezione (tollerare tale
modificazione senza poter fare alcunché). Nell’ambito della disciplina della proprietà il
legislatore detta leggi molto significative. Es: l’Art.874.cc Comunione forzosa del muro sul
confine: “Il proprietario di un fondo contiguo al muro altrui può chiederne la comunione, per
tutta l'altezza o per parte di essa, purché lo faccia per tutta l'estensione della sua
proprietà. Per ottenere la comunione deve pagare la metà del valore del muro, o della
parte di muro resa comune, e la metà del valore del suolo su cui il muro è costruito. Deve
inoltre eseguire le opere che occorrono per non danneggiare il vicino”.
Il diritto potestativo è destinato a modificare la sfera giuridica di chi costruisce il muro, il
soggetto passivo può solo tollerare tale condizione.

Potestà
Dal diritto potestativo si deve distinguere la potestà. La potestà è un ufficio che attribuisce
competenze e poteri ad un soggetto privato a servizio dell’interesse di terzi.
Ne è un esempio la responsabilità genitoriale (dapprima definita potestà patriarcale per
sottolineare la superiorità del padre, modificata nel 1975 in potestà genitoriale e infine
nuovamente modificata con il regolamento Europeo n. 2201/2003 che ha introdotto il
termine di responsabilità genitoriale, in sostituzione di “potestà genitoriale”, termine che
meglio privilegia l’aspetto degli obblighi dei genitori verso i figli).
La potestà conferisce dei poteri affinché siano esercitati, infatti si ha l’obbligo di esercitarli.
Altri esempi di potestà possono essere il tutore rispetto l’interdetto, il curatore rispetto
l’inabilitato, l’amministratore rispetto l’ente e così via.

Delle situazioni giuridiche attive fanno parte l’interesse legittimo, l’interesse collettivo e
l’interesse diffuso.

Interesse legittimo
L’interesse legittimo è quello del cittadino rispetto la pubblica amministrazione, il quale
aspira ad acquisire un’utilità che non fa parte del suo patrimonio (pretensivi) o aspira a
conservare un’utilità che fa già parte del suo patrimonio (oppositivi). L’utilità finale può
essere conseguita dopo una valutazione da parte della pubblica amministrazione, qualora
l’interesse privato non contrasti con l’interesse pubblico.
Ad esempio lo Ius Aedificandi per cui il cittadino ha la facoltà di costruire sulla proprietà
ma tale facoltà è limitata da un piano regolatore onde evitare uno sfruttamento eccesivo
del territorio che causi un disordine edilizio al fine di ottenere uniformità architettonica.
Un altro esempio di atto oppositivo può essere l’opposizione da parte di un cittadino
all’espropriazione di un proprio bene ad esempio una villa per opere di interesse pubblico.
Un esempio di interesse pretensivo può essere la partecipazione ad un concorso pubblico:
nel caso in cui la P.A. violi le disposizioni che regolano l'esercizio del potere attribuendo
un punteggio inferiore ad un concorrente che non verrà quindi inserito nella graduatoria,
questo soggetto può ricorrere al giudice amministrativo per avere l'annullamento dell'atto
illegittimo. Dall'eliminazione dell'atto illegittimo consegue l'utilità che avrà il candidato una
volta che, annullato l'atto illegittimo, verrà inserito nella graduatoria.
Qualora la discrezionalità amministrativa si sia già esaurita una volta che venga annullato
il provvedimento, ossia non sia più possibile entrare in graduatoria in quanto i posti siano
già stati assegnati si può richiedere il risarcimento del danno.
Con la sentenza 500/1999 la Corte di Cassazione ha ribaltato completamente
l’orientamento giurisprudenziale in materia di risarcibilità del danno in ambito
amministrativo, attenuando quella differenza netta che distingueva i diritti soggettivi dagli
interessi legittimi. Il risarcimento del danno è commisurato alla perdita di chance, intesa
come concreta ed effettiva occasione di conseguire un determinato bene o risultato.
Commisurare in valore monetario la perdita di tale possibilità spetta al giudice che ha un
ampio potere di apprezzamento (forma di tutela risarcitoria).

Interesse collettivo
L’interesse collettivo è un interesse seriale, comune ad un gruppo sociale caratterizzato da
omogeneità, es: lavoratori subordinati riuniti nei sindacati (art.30.cost.).
Il contratto di lavoro è un contratto squilibrato in quanto il datore di lavoro trova nel
mercato una grande offerta avendo dunque una vasta scelta, a meno che non si tratti di un
lavoro per cui si richieda una determinata specializzazione. Questo squilibrio di potere
porta il lavoratore che desidera appagare il suo interesse economico ed esistenziale ad
accettare lavori miseri e mal retribuiti pur di ottenerlo (come ad esempio avviene in Cina).
Per evitare ciò vi sono i sindacati che a livello collettivo negoziano con maggiore autorità
contrattuale, per raggiungere l’interesse collettivo di ottenere condizioni di lavoro
proporzionate alla qualità e alla quantità di lavoro profuso.
Un altro esempio possono essere i consumatori, quando un gruppo di imprese creano
intese che abbiano per oggetto un accordo di cartello che vada a restringere la
concorrenza fissando un prezzo minimo sotto il quale non si può scendere.
Un caso clamoroso di intesa si è avuto nel campo delle RCA in cui i consumatori hanno
subito un danno, che per i singoli individui poteva essere di qualche decina di euro ma che
per le società sommando tutti i propri clienti erano un enorme introito. È stato quindi
introdotto in Italia un istituto tipico del Nord America e della Gran Bretagna, la cosiddetta
“class action” o azione popolare, a tutela dell’interesse collettivo, rendendo così un’azione
che esercitata in modo individuale risulta diseconomica, collettivamente conveniente.
È una tutela in forma aggregata, meta individuale che investe trasversalmente una
pluralità di individui.

Interesse diffuso
L’interesse diffuso è un interesse seriale e meta individuale che si riferisce ad un gruppo
sociale eterogeneo. Ad esempio l’interesse alla salubrità dell’ambiente accomuna un
gruppo meno facilmente identificabile, collettivo, senza una coesione del gruppo.
La tutela è affidata ad associazioni, enti meta individuali, che possono sollecitare
l’intervento da parte del ministero e costituirsi in giudizio.
Un esempio può essere dato da un’impresa che riversa liquami tossici nelle acque che
vadano ad intaccare la provincia di Palermo e zone limitrofe, in quel caso l’interesse sarà
diffuso perché riguarda un gruppo eterogeneo di persone non ben identificabili, spetterà
poi al giudice verificare se quel singolo individuo rientra o meno nel caso di interesse.

Situazioni passive
Le situazioni passive si devono leggere in contrapposizione a quelle attive e si distinguono
in: dovere, obbligo, onere e soggezione.
Sono posizioni di svantaggio, il destinatario di una situazione giuridica passiva è tenuto ad
una condotta necessaria.

Il dovere: va tenuto nell’interesse altrui, il più delle volte riguarda un interesse pubblico
rivolto ad una platea indeterminata di soggetti come ad esempio il dovere di pagare le
imposte proporzionalmente al reddito prodotto, il dovere prevede un indeterminazione dei
destinatari ma non del contenuto.

L’obbligo: sia il contenuto che il destinatario sono determinati, va tenuta una condotta
necessaria al soddisfacimento dell’interesse altrui, solitamente individuale come ad
esempio il credito o l’obbligo dei genitori al mantenimento della prole oppure la necessità
di essere fedele, coabitare e assistenza materiale e immateriale del codice.

L’onere: è quella condotta necessaria nell’interesse dello stesso destinatario dell’onere, ad


esempio l’assicurato ha l’onere di comunicare all’agenzia assicurativa il danno per essere
risarcito.

Mera soggezione: consiste nel tollerare, il destinatario deve subire la modificazione della
propria sfera giuridica come nel caso dell’Art.874.cc

(Lezione 08/03/22)
Obbligo e dovere
Obbligo e dovere hanno la caratteristica di essere condotte necessarie nell’interesse di
terzi, interesse che può essere generale (dovere) o individuale (obbligo).
Esempio: ogni attività nel corso della pubblicità del proprio prodotto deve rendere note
all’intero mercato informazioni relative ad una determinata offerta economica (dovere) che
sono informazioni di carattere generale. La stessa attività deve fornire informazioni più
specifiche (obbligo) che sono dovute alla sola controparte quando si entra in trattativa. 
La differenza dunque tra dovere e obbligo viene data dalla determinatezza o
indeterminatezza dei destinatari ma non del contenuto che deve essere ben definito. 

Onere
L’onere è una condotta necessaria nell’interesse dello stesso destinatario, un esempio di
onere è costituito dalla decadenza. La decadenza è un istituto che impone al titolare del
diritto il compimento di un’attività preliminare all’esercizio del diritto ad esempio
l’art.1495.cc (Termini e condizioni per l'azione). “Il compratore decade dal diritto alla
garanzia, se non denunzia i vizi al venditore entro otto giorni dalla scoperta, salvo il
diverso termine stabilito dalle parti o dalla legge”.

Status
Il libro indica lo status come una situazione soggettiva attiva ma in realtà non lo è, è una
qualificazione soggettiva, ossia indica il posizionamento che un soggetto ha all’interno
dell’ordinamento giuridico, es: il minore d’età o il maggiore d’età.
Ad ogni status si associa una disciplina giuridica di se e come tali diritti devono essere fatti
valere, ad esempio il minore non può esercitare i propri diritti patrimoniali o i coniugi che
hanno obblighi che incombono sul coniuge a favore dell’altro coniuge.

Aspettativa
Un’ulteriore situazione soggettiva attiva è l’aspettativa, è una situazione di mera
protezione ossia una tutela di un interesse in formazione.
Es: al concepito è possibile destinare diritti patrimoniali per testamento o donazione. Il
concepito è un’entità in formazione quindi non è soggetto di diritto ma può essere
destinatario di diritti che si acquisiscono solo al momento della nascita.
L’ordinamento giuridico si preoccupa di proteggere il concepito da tutti quei comportamenti
che potrebbero impedire l’acquisto di quel diritto.
L’aspettativa può nascere anche dal contratto per una disposizione sospensiva nell’attesa
che si configuri una determinata situazione. Ad esempio se tizio e caio stipulano un
contratto per la compravendita di una casa e inseriscono una clausola sospensiva affinché
il contratto si concluda nel momento in cui a tizio venga accettato il mutuo, caio è tenuto
ad attendere e non vendere ad un terzo soggetto perché vi è un’aspettativa per tizio.

L’arco vitale dei diritti soggettivi


Una situazione giuridica attiva o passiva che sia ha un determinato arco vitale, i diritti
soggettivi sorgono, hanno vita e si estinguono. L’atto da cui scaturisce il diritto si chiama
titolo e può essere un fatto, un atto o un negozio giuridico.

Il fatto è un evento naturale a cui l’ordinamento giuridico collega un effetto ad esempio la


nascita è un evento naturale che potrebbe far scaturire acquisto di diritto come l’esempio
precedente. Anche la morte può far scaturire l’acquisto di diritto patrimoniale a favore degli
eredi ossia la successione per mortis causa.
La successione in diritto significa trasferimento può avvenire o inter vivos con ad esempio
il contratto o mortis causa tramite il testamento o tramite la legge. Se un soggetto muore
ab intestato (cioè non avendo fatto testamento) allora i diritti patrimoniali del morto
verranno trasferiti dalla legge secondo le norme della cosiddetta successione legittima, ma
la legge entra in campo anche quando un testamento c’è ma non dispone dell’intero
patrimonio del de cuius.

L’atto è il comportamento umano al quale la legge collega determinati effetti e non tutti gli
atti conducono all’acquisto dei diritti, come ad esempio la consegna, spesso gli atti giuridici
sono comportamenti di esercizi di diritti già acquisiti solitamente tramite contratto.

Il negozio giuridico è un comportamento che si caratterizza per la volontarietà infatti gli


effetti sono stabiliti dalle parti. Il negozio giuridico per antonomasia è il contratto, quali
effetti discendono da esso non vengono disciplinati dalla legge che da solo le regole per
giungere ad un contratto valido, il contenuto e gli effetti sono stabiliti dalle parti.

Oltre che acquistato un diritto può essere esercitato, l’atto di esercizio del diritto si può
tradurre o nell’esercizio delle facoltà o in atti dispositivi per l’esercizio del potere. Rientra
nella categoria della disposizione il trasferimento del diritto (inter vivos o mortis causa)
anche quando su di esso si costituisce un diritto reale minore che temporaneamente ne
comprima il contenuto o rinunziandovi. Tutti i diritti patrimoniali possono essere persi per
rinunzia anche la proprietà.

Un diritto si può estinguere o per morte del titolare, come i diritti della personalità (esistono
eccezioni come ad esempio per l’eredità digitale, i parenti del defunto possono rivendicare
ciò che è stato lasciato sui social, sui cloud o nelle mail e non si estinguono con la morte
del titolare). Anche alcuni diritti patrimoniali si estinguono come per esempio l’usufrutto
(godere del bene messo a disposizione dal nudo proprietario) che si estingue con la morte
dell’usufruttuario.

Prescrizione
Un'altra causa di estinzione del diritto è la prescrizione per mancato esercizio del diritto
per un certo lasso di tempo (art.2934), al compiersi dell’arco temporale il diritto si estingue
per prescrizione.
Le ragioni per cui il legislatore ha voluto contenere nel tempo la pendenza di un diritto
risiedono in due esigenze.
La prima è la certezza dei rapporti giuridici cioè il sistema delle norme deve creare le
condizioni affinché i privati conoscano anticipatamente quali saranno le conseguenze
giuridiche delle loro azioni. Se un rapporto giuridico rimane pendente troppo a lungo crea
incertezza per cui si deve circoscrivere in un lasso di tempo che non sia né troppo breve
per poterlo esercitare né troppo lungo da poter creare incertezza. L’Art.2946.cc indica il
termine ordinario di prescrizione a meno che una norma non indichi un arco temporale
differente per la prescrizione, come per la responsabilità aquiliana che è pari a 5 anni.
Il dies a quo (il giorno a partire dal quale) della prescrizione come stabilito dall’art. 2935.cc
parte non da quando si è acquisito il diritto ma da quando si può esercitare tale diritto.
La seconda è l’esigenza di acquisizione di prove cioè procurarsi i mezzi di prova da
presentare in corso di giudizio. Quando tra due individui sorge una controversia si ci
rivolge al giudice per dirimerla, non conta ciò a cui un individuo ha diritto bensì ciò che
esso è in grado di provare. Il giudizio del diritto privato è un giudizio tra pari in cui l’attore
introduce giudizio con azione nei confronti del convenuto ed entrambi con parità di armi
propongono le proprie ragioni al giudice che dovrà decidere in base agli elementi di
conoscenza ossia le prove (testimonianze, documenti, giuramento, confessione). Quanto
più un rapporto si protrae nel tempo tanto più sarà difficile procacciarsi delle prove.
Ricorda l’Art. 2697.cc (Onere della prova):
Chi vuol far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il
fondamento.
Chi eccepisce l'inefficacia di tali fatti ovvero eccepisce che il diritto si è modificato o estinto
deve provare i fatti su cui l'eccezione si fonda.

Gli art.2934.cc e seguenti disciplinano la prescrizione. Secondo l’art.2936.cc la


prescrizione è inderogabile e questo è un esempio di norma cogente, di norma imperativa
ossia quelle norme che non ammettono deroghe ossia i destinatari non possono mutare il
contenuto della disposizione.
Sono norme dispositive le norme che ammettono la possibilità che i destinatari della
norma regolino diversamente tramite contratto i loro rapporti (è A deve essere A salvo che
le parti non dispongano diversamente).
Le norme suppletive che introducono le regole di default, che si applicheranno solo in
mancanza di accordi tra le parti per regolare quella materia interverrà la norma di legge.
La prescrizione è inderogabile ciò significa che le parti non possono modificarla proprio
perché gli interessi che la prescrizione intende disciplinare sono indisponibili, ossia la
certezza e l’acquisizione delle prove.
Ogni accordo che abbia ad oggetto la deroga della disciplina della prescrizione è nullo.
L’art.2937.cc stabilisce che le parti non possono rinunziare anticipatamente alla
prescrizione, proprio per la sua indisponibilità. Si può rinunciare alla prescrizione solo
dopo che essa si sia compiuta.
Il giudizio civile è dominato da diversi principi il primo fra tutti è la domanda, il giudice deve
decidere solo in base a ciò che le parti chiedono e in base alle prove che presentano.
(Art.2697.cc l’onere della prova) L’attore deve provare l’atto di formazione del diritto, cioè
deve provare l’esistenza di quest’ultimo mentre il convenuto deve provare l’avvenuta
estinzione o la modificazione del diritto. Il giudice può dichiarare la prescrizione solo se
viene invocata direttamente dal debitore secondo l’art.2938.cc il giudice non può rilevare
d’ufficio la prescrizione non opposta.
L’art.2940 sancisce che non è ammessa la ripetizione (restituzione) del pagamento del
debito prescritto. Questo perché si è estinta l’obbligazione civile quindi si esaurisce il
vincolo giuridico ma non viene meno l’obbligo morale.
Per l’adempimento di un’obbligazione naturale parliamo di soluti retentio come ad esempio
i debiti di gioco per cui non può essere richiesta la restituzione né tanto meno si può agire
in giudizio.
La proprietà è un diritto imprescrittibile, nel diritto odierno sono permeati i valori liberali
della prima e della seconda metà dell’800 questo perché nel pensiero giuridico la
tradizione è molto forte, le soluzioni tecniche si basano su principi radicati. La priorità è
precondizione della libertà, così come non si può perdere la libertà non si può perdere la
proprietà.
Ma il diritto vuole premiare chi utilizza il bene rendendolo produttivo così come avviene
con l’usucapione che scatta quando decorrono, dal primo atto di «interversione del
possesso» (ossia dal primo comportamento tipico da proprietari), 20 anni.

Il termine di prescrizione non è inesorabile non si compie senza la possibilità di arrestarlo


o interromperlo.
La sospensione è un istituto disciplinato dagli art.2941.cc e 2942.cc.
L’art.2941 (Sospensione per rapporti tra le parti) sancisce che la prescrizione rimane
sospesa:
1) tra i coniugi;
2) tra chi esercita la responsabilità genitoriale di cui all'articolo 316 o i poteri a essa
inerenti e le persone che vi sono sottoposte;
3) tra il tutore e il minore o l'interdetto soggetti alla tutela, finchè non sia stato reso e
approvato il conto finale, salvo quanto è disposto dall'art. 387 per le azioni relative alla
tutela;
4) tra il curatore e il minore emancipato o l'inabilitato;
5) tra l'erede e l'eredità accettata con beneficio d'inventario;
6) tra le persone i cui beni sono sottoposti per legge o per provvedimento del giudice
all'amministrazione altrui e quelle da cui l'amministrazione è esercitata, finchè non sia
stato reso e approvato definitivamente il conto;
7) tra le persone giuridiche e i loro amministratori, finchè sono in carica, per le azioni di
responsabilità contro di essi;
8) tra il debitore che ha dolosamente occultato l'esistenza del debito e il creditore, finchè il
dolo non sia stato scoperto.

L’art.2942.cc (Sospensione per la condizione del titolare) sancisce che:


La prescrizione rimane sospesa:
1) contro i minori non emancipati e gli interdetti per infermità di mente, per il tempo in cui
non hanno rappresentante legale e per sei mesi successivi alla nomina del medesimo o
alla cessazione dell'incapacità;
2) in tempo di guerra, contro i militari in servizio e gli appartenenti alle forze armate dello
Stato e contro coloro che si trovano per ragioni di servizio al seguito delle forze stesse, per
il tempo indicato dalle disposizioni delle leggi di guerra.
Venuta meno la causa di sospensione il termine ricomincia a decorrere da quando si era
arrestato.
L’interruzione è un istituto formale che si fonda su atti di esercizi formali (documento
scritto) giudiziali o stragiudiziali ed è disciplinato dagli art.2943.cc, 2944.cc e 2945.cc.
L’art.2943.cc (Interruzione da parte del titolare) sancisce che:
1) La prescrizione è interrotta dalla notificazione dell'atto con il quale si inizia un giudizio,
sia questo di cognizione ovvero conservativo o esecutivo.
2) E' pure interrotta dalla domanda proposta nel corso di un giudizio.
3) L'interruzione si verifica anche se il giudice adito è incompetente.
4) La prescrizione è inoltre interrotta da ogni altro atto che valga a costituire in mora il
debitore e dall'atto notificato con il quale una parte, in presenza di compromesso o
clausola compromissoria, dichiara la propria intenzione di promuovere il procedimento
arbitrale, propone la domanda e procede, per quanto le spetta, alla nomina degli arbitri.

Esistono tre tipi di giudizio, di cognizione, conservativo o esecutivo.


Il giudizio di cognizione è rivolto all’accertamento del rapporto giuridico controverso ed a
stabilire chi abbia torto e chi ragione. Le sentenze possono essere di mero accertamento,
di condanna della parte che ha leso il diritto altrui o costitutive, se si costituisce una nuova
situazione giuridica.
Il giudizio esecutivo è rivolto alla soddisfazione dell'interesse del creditore, che deve
ottenere ciò che gli è dovuto nel quadro e con le garanzie dell'ordinamento giuridico, nei
limiti di quanto la legge o il giudice stabilisce. Ciò può avvenire mediante l’atto
dell'espropriazione forzata cioè il pignoramento, dopodiché si procede alla vendita
forzata o all'assegnazione dei beni pignorati ed, infine, alla distribuzione della somma
ricavata in favore del creditore.
Il giudizio conservativo tende a garantire l’efficacia dello svolgimento e la convenienza del
risultato sia della procedura di cognizione sia quella di esecuzione, un esempio di questo
tipo è il sequestro conservativo.
In un processo civile il giudizio si può articolare in tre gradi.
Il primo grado si svolge davanti al tribunale oppure al giudice di pace, a seconda del valore
e della materia della controversia. Il giudice di pace è competente solamente delle
controversie di minor valore (in genere, fino a 5.200 euro); tutte le altre sono devolute alla
competenza del tribunale.
Il secondo grado di giudizio si svolge davanti alla corte d’appello o al tribunale a seconda
del giudice del primo grado. Per la precisione:
- se il primo grado di giudizio si è svolto innanzi al giudice di pace, allora il giudice
competente per il secondo grado sarà il tribunale;
- se il primo grado di giudizio si è svolto innanzi al tribunale, allora il secondo grado si
svolgerà davanti alla corte d’appello.
Il terzo grado di giudizio è uguale per tutti e si tiene in Cassazione. 
Le controversie possono essere risolte anche tramite l’arbitrato ossia un compromesso
contenuto nelle clausole compromissorie dei contratti (solitamente per contratti
multimilionari) che consiste nell’affidare le controversie a terzi che godono della fiducia
delle parti, un collegio di arbitri. Le parti decidono di rinunziare alla giustizia ordinaria
rivolgendosi agli aritri avendo un costo più elevato. Si ci ricorre perché è più celere e
perché in alcune tematiche complesse (come ad esempio le controversie in materia
petrolifera) le parti vogliono la garanzia della qualificazione massima dei giudici.

L’art.2944.cc (Interruzione per effetto di riconoscimento) sancisce che:


La prescrizione è interrotta dal riconoscimento del diritto da parte di colui contro il quale il
diritto stesso può essere fatto valere.
L’art.2945.cc (Effetti e durata dell'interruzione) sancisce che:
1) Per effetto dell'interruzione s'inizia un nuovo periodo di prescrizione.
2) Se l'interruzione è avvenuta mediante uno degli atti indicati dai primi due commi dell'art.
2943, la prescrizione non corre fino al momento in cui passa in giudicato la sentenza che
definisce il giudizio.
3) Se il processo si estingue, rimane fermo l'effetto interruttivo e il nuovo periodo di
prescrizione comincia dalla data dell'atto interruttivo.
4) Nel caso di arbitrato la prescrizione non corre dal momento della notificazione dell'atto
contenente la domanda di arbitrato sino al momento in cui il lodo che definisce il giudizio
non è più impugnabile o passa in giudicato la sentenza resa sull'impugnazione.

Le tempistiche della prescrizione sono disciplinate dagli art.2946.cc, 2947.cc e 2948.cc.


L’art.2946.cc (Prescrizione ordinaria) sancisce che:
Salvi i casi in cui la legge dispone diversamente, i diritti si estinguono per prescrizione con
il decorso di dieci anni.
L’art.2947.cc (Prescrizione del diritto al risarcimento del danno) sancisce che:
1) Il diritto al risarcimento del danno derivante da fatto illecito si prescrive in cinque anni
dal giorno in cui il fatto si è verificato.
2) Per il risarcimento del danno prodotto dalla circolazione dei veicoli di ogni specie il
diritto si prescrive in due anni.
3) In ogni caso, se il fatto è considerato dalla legge come reato e per il reato è stabilita una
prescrizione più lunga, questa si applica anche all'azione civile. Tuttavia, se il reato è
estinto per causa diversa dalla prescrizione o è intervenuta sentenza irrevocabile nel
giudizio penale, il diritto al risarcimento del danno si prescrive nei termini indicati dai primi
due commi, con decorrenza dalla data di estinzione del reato o dalla data in cui la
sentenza è divenuta irrevocabile.
L’art.2948.cc (Prescrizione di cinque anni) sancisce che:
Si prescrivono in cinque anni:
1) le annualità delle rendite perpetue o vitalizie;
1-bis) il capitale nominale dei titoli di Stato emessi al portatore;
2) le annualità delle pensioni alimentari;
3) le pigioni delle case, i fitti dei beni rustici e ogni altro corrispettivo di locazioni;
4) gli interessi e, in generale, tutto ciò che deve pagarsi periodicamente ad anno o in
termini più brevi;
5) le indennità spettanti per la cessazione del rapporto di lavoro.

(Lezione 09/03/22)

Prescrizioni presuntive
Le cosiddette prescrizioni presuntive sono disciplinate dagli art.2954 e seguenti, non sono
delle prescrizioni ma dei mezzi di prova ossia presunzioni.
I mezzi di prova sono di diversi tipi, la prova documentale che si divide in atto pubblico o
scrittura privata oppure presentazioni fotografiche o iconografiche e quant’altro, le
testimonianze, le presunzioni regolate dagli art.2727.cc, 2728.cc, 2729.cc, la confessione
regolata dagli art.2730.cc e seguenti e il giuramento regolato dagli art.2736.cc e seguenti.
Le presunzioni sono quelle che i profani chiamano indizi, sono mezzi di prova critica o
indiretta. Con la presunzione si prova un fatto ignoto, che non può essere provato in via
diretta ossia mediante documento, testimonianza o confessione, ma tramite la prova di un
fatto diverso che può essere considerato dalla legge o dal giudice talmente strettamente
correlato al fatto da provare che provato A deve essersi considerato provato anche B.
Ad esempio ciò può avvenire se un contratto viene stipulato tra Tizio e Caio in un
momento di non lucidità di Tizio, tale contratto può essere annullato se si dimostra che
Caio fosse in malafede. La malafede è uno stato soggettivo (mentale) che consiste nel
fatto che Caio fosse consapevole che Tizio al momento della stipula del contratto non
fosse lucido.
Un fatto mentale come la malafede può essere provato mediante la confessione o soltanto
tramite presunzione per via deduttiva ossia indiziaria.
Le presunzioni sono legali o semplici. Quelle legali stabilite dall’art.2728.cc sono previste
dal legislatore e sono di due tipi: relative o iuris tantum – assolute iure et de iure.
La presunzione relativa ammette prova contraria cioè la parte che si avvale della
presunzione non è certa che quel fatto venga dimostrato perché controparte può con
qualunque mezzo di prova dimostrare che quel fatto provato in via indiretta non sia
verificato, quindi è vincibile.
La presunzione assoluta non ammette prova contraria e non può essere vinta, la
controparte non può provare che quel fatto non si sia verificato.
Le presunzioni semplici sono quelle che non sono previste dal legislatore e l’art.2729.cc
stabilisce che
1. Le presunzioni non stabilite dalla legge sono lasciate alla prudenza del giudice, il quale
non deve ammettere che presunzioni gravi, precise e concordanti.
2. Le presunzioni non si possono ammettere nei casi in cui la legge esclude la prova per
testimoni.
Il giudice può decidere sulla base delle presunzioni semplici solo nel caso in cui siano più
di una, gravi ossia qualora vi sia una stretta correlazione tra il fatto provato e quello che si
intende provare, precise ossia fornire indicazioni specifiche e concordanti cioè non devono
essere elementi contraddittori ma andare verso la stessa direzione.

Le prescrizioni presuntive (art.2954 e seguenti) sono presunzioni legali relative e


rafforzate.
Introducono una prescrizione di estinzione del diritto per soddisfacimento dell’interesse del
creditore ossia si presume che il debito sia già stato pagato. Il legislatore individua una
serie di diritti che sono caratterizzati da due elementi: il titolare del diritto chiede
l’adempimento immediato del credito e per prassi sociale o economica quei pagamenti
non sono documentati o se lo sono il debitore non conserva a lungo quella
documentazione. Giacché è improbabile che il creditore non abbia domandato subito la
prestazione dopo un certo lasso di tempo la legge presume che il credito sia stato pagato
perché dopo quell’arco temporale è irrealistico che il debitore qualora abbia pagato
conservi ancora i documenti dell’avvenuto pagamento, se non scattasse la prescrizione il
creditore spregiudicato potrebbe richiedere il pagamento due volte.
Esempio art.2954.cc (Prescrizione di sei mesi):
Si prescrive in sei mesi il diritto degli albergatori e degli osti per l'alloggio e il vitto che
somministrano, e si prescrive nello stesso termine il diritto di tutti coloro che danno
alloggio con o senza pensione.
Art.2955.cc (Prescrizione di un anno):
Si prescrive in un anno il diritto:
1) degli insegnanti, per la retribuzione delle lezioni che impartiscono a mesi o a giorni o a
ore;
2) dei prestatori di lavoro, per le retribuzioni corrisposte a periodi non superiori al mese;
3) di coloro che tengono convitto o casa di educazione e d'istruzione, per il prezzo della
pensione e dell'istruzione;
4) degli ufficiali giudiziari, per il compenso degli atti compiuti nella loro qualità;
5) dei commercianti, per il prezzo delle merci vendute a chi non ne fa commercio;
6) dei farmacisti, per il prezzo dei medicinali.
Art.2956.cc (Prescrizione di tre anni):
Si prescrive in tre anni il diritto:
1) dei prestatori di lavoro, per le retribuzioni corrisposte a periodi superiori al mese;
2) dei professionisti, per il compenso dell'opera prestata e per il rimborso delle spese
correlative;
3) dei notai, per gli atti del loro ministero;
4) degli insegnanti, per la retribuzione delle lezioni impartite a tempo più lungo di un mese.

Tali presunzioni si dicono di adempimento rafforzate perché gli art.2959.cc e 2960.cc


prevedono che possano essere vinte solo tramite due mezzi di prova, ossia la confessione
giudiziale (il debitore che ammette di non aver adempiuto davanti al giudice) o il
giuramento decisorio art.2960.cc.
Il giuramento è un mezzo di prova che deriva da un’altra epoca infatti è usato molto
raramente, poggia sul rigore etico della parte in giudizio, è regolato dagli art.2736.cc e
seguenti. Si divide in decisorio e suppletorio.

Decadenza
La prescrizione è causa di estinzione del diritto.
La decadenza è un altro arco temporale entro il quale il titolare del diritto deve compiere
un’attività preliminare all’esercizio del diritto (oggetto di un onere) stabilito o dalla legge o
dalle parti. I tempi della decadenza sono spesso molto brevi o pochi giorni, o qualche
settimana al limite un mese. L’esigenza non è quella di non far rimanere pendete un diritto
non esercitato per un arco di tempo eccessivamente lungo come nella prescrizione bensì
quella di imporre a chi voglia esercitare il diritto di compiere un’attività preliminare in breve
tempo, si colloca dunque ovviamente prima della prescrizione.
La prescrizione riguarda tutti i diritti mentre la decadenza riguarda solo alcuni diritti che per
legge o per volontà delle parti sono assoggettati a volontà decadenziale.
La prescrizione è disciplinata esclusivamente dalla legge mentre la decadenza può essere
prevista o dalla legge (fonte legale) o dalle parti (fonte convenzionale).
Quando sono le parti ad introdurre un termine decadenziale devono rispettare due limiti
posti dagli art.2965.cc (Decadenze stabilite contrattualmente):
1) È nullo il patto con cui si stabiliscono termini di decadenza che rendono
eccessivamente difficile a una delle parti l'esercizio del diritto;
2) Le parti possono introdurre termini di decadenza solo in materia disponibile ossia
quelle aree dei rapporti sociali o economici che possono essere disciplinate tramite
contratto
Il termine di decadenza è un termine perentorio, inesorabile, non può essere sospeso, non
può essere interrotto può solo essere impedito facendo quell’atto preliminare all’esercizio
del diritto (avvisare, comunicare, informare, consegnare). Un esempio di decadenza legale
è sempre l’art.1495.cc. (Il compratore decade dal diritto alla garanzia, se non denunzia i
vizi al venditore entro otto giorni dalla scoperta, salvo il diverso termine stabilito dalle parti
o dalla legge).
Al pari della prescrizione la decadenza non può essere rilevata d’ufficio, è sempre il
debitore che deve contestare in via d’eccezione che il titolare è decaduto. L’ art.2969.cc
(Rilievo d’ufficio) stabilisce che l’unica ipotesi in cui la decadenza può essere rilevata
d’ufficio dal giudice è quando riguarda materie indisponibile (rapporti di famiglia,
successioni, diritti reali).
La prescrizione e la decadenza sono due istituti legati alla durata del tempo, un tempo che
si protrae. I termini possono essere fissati anche in giorni di calendario, quando vengono
fissati dalla durata essi sono disciplinati dagli art.2962.cc e 2963.cc.
Art.2962.cc (Compimento della prescrizione):
In tutti i casi contemplati dal presente codice e dalle altre leggi, la prescrizione si verifica
quando è compiuto l'ultimo giorno del termine.
Art. 2963.cc. (Computo dei termini di prescrizione):
1. I termini di prescrizione contemplati dal presente codice e dalle altre leggi si computano
secondo il calendario comune.
2. (Dies a quo non computatur in termino) Non si computa il giorno nel corso del quale
cade il momento iniziale del termine e la prescrizione si verifica con lo spirare dell'ultimo
istante del giorno finale.
3. Se il termine scade in giorno festivo, è prorogato di diritto al giorno seguente non
festivo.
4. La prescrizione a mesi si verifica nel mese di scadenza e nel giorno di questo
corrispondente al giorno del mese iniziale.
5. Se nel mese di scadenza manca tale giorno, il termine si compie con l'ultimo giorno
dello stesso mese.

Soggetti titolari di situazioni giuridiche attive e destinatari di situazioni giuridiche passive


La divisione tradizionale vuole dividere i soggetti giuridici in persone fisiche e persone
giuridiche, questa è una concezione inadeguata ed esprime un vecchio modo di
distinguere i soggetti. Questa lettura fa sì che la qualità di soggetto viene conferita
dall’ordinamento giuridico ma la qualità di soggetto è una qualità connaturata all’uomo, il
diritto nasce per servire l’uomo, il diritto non è fonte ma strumento per appagare i bisogni
umani.
Per una concezione più moderna si può parlare di soggetti individui che si identificano con
l’essere umano e soggetti che consistono in entità meta individuali che possono essere
aggregazioni di individui o patrimoni vincolati ad una specifica finalità.

Soggetti individuali
L’art.1.cc (capacità giuridica) decreta che è soggetto di diritto qualunque essere umano sin
dal momento della nascita. La soggettività è connaturata alla nascita dell’individuo:
1. La capacità giuridica si acquista dal momento della nascita.
2. I diritti che la legge riconosce a favore del concepito sono subordinati all'evento della
nascita.
La capacità giuridica è l’astratta idoneità a divenire titolare di diritti o destinatario di
situazioni giuridiche soggettive passive.
Al momento della nascita si acquisiscono subito i diritti della persona (alla vita, alla salute,
al nome). Un neonato può acquisire anche diritti patrimoniali quando egli sia stato
destinatario di diritti per successione o donazione, prima della nascita vi è solo
l’aspettativa.
La successione è disciplinata dall’art.462.cc (capacità delle persone fisiche):
1. Sono capaci di succedere tutti coloro che sono nati o concepiti al tempo dell'apertura
della successione.
2. Salvo prova contraria, si presume concepito al tempo dell'apertura della successione
chi è nato entro i trecento giorni dalla morte della persona della cui successione si tratta.
3. Possono inoltre ricevere per testamento i figli di una determinata persona vivente al
tempo della morte del testatore, benché non ancora concepiti.
La donazione non è un contratto, è un atto bilaterale con il quale un soggetto chiamato
donante trasferisce gratuitamente un proprio diritto o assume gratuitamente un obbligo
con l’unico intento di arricchire l’altra parte chiamata donatario. Per la donazione il
legislatore pretende che venga fatta per iscritto con la forma di atto pubblico ossia di fronte
al notaio ed esige la presenza di due testimoni che attestino che l’intento di chi dispone
fosse autenticamente liberale.
(L’ordinamento giuridico collega la nascita con il respiro e la morte con la morte cerebrale).

Sentenza 25767/2015
Sentenza della corte di cassazione del dicembre del 2015 resa a sezioni unite.
Se il concepito subisce una condotta dannosa posta in essere prima della nascita, tale
condotta genera un danno di cui una volta nato, il nato tramite i genitori può lamentarsi
domandando il risarcimento del danno? Il caso del medico analista, ginecologo, medico
che commetta un errore diagnostico in fase prenatale determinando un danno alla salute
del neonato. In passato si riteneva che tali danni non potevano essere risarciti perché tali
condotte dannose erano poste in essere in una fase precedente all’acquisto della capacità
giuridica.
Dall’inizio degli anni’90 la giurisprudenza ha stabilito che nonostante il concepito non sia
soggetto di diritto, è un centro di interessi giuridicamente rilevante cioè un entità materiale
già bisognosa e meritevole di protezione giuridica.
Ne è un esempio la celeberrima legge 194/1978 (22 maggio) sull’interruzione di
gravidanza.
La legge ha compiuto un bilanciamento degli interessi, da un lato ha voluto garantire
l’autodeterminazione della gestante, dall’altro il diritto alla vita del concepito.
Entro 90 giorni dal concepimento l’interruzione di gravidanza è possibile sulla base di
presupposti piuttosto ampi. Dopo i 90 giorni lo spazio per interrompere la gravidanza si
riduce drasticamente in soli due casi: la gravidanza o il parto possa mettere a rischio la
vita della gestante; la gravidanza o il parto anche a causa di malformazione del feto
possano creare un danno alla salute o alla psiche della gestante.
L’art.1 stabilisce che lo stato garantisce il diritto alla procreazione cosciente e
responsabile, riconosce il valore sociale della maternità e tutela la vita umana dal suo
inizio, la norma dichiara che gli interessi in bilanciamento sono gli interessi della gestante
ad una scelta libera e la tutela della vita del concepito.
L’art.4 stabilisce i presupposti, più ampi, entro il termine di 90 giorni per l’interruzione della
gravidanza. L’art. 6 stabilisce i presupposti, più ristretti, oltre il termine di 90 giorni per
l’interruzione della gravidanza.
Un altro esempio che si può affiancare è la legge 40/2004 (nella formazione originaria era
sbilanciata limitando la fecondazione assistita, riscritta in seguito dalla corte
costituzionale), che riconosce e tutela la condizione del concepito.
Il concepito dunque può essere protetto ogni qual volta venga posta in essere una
condotta dannosa prima che il concepito diventi soggetto di diritto.
Il caso della sentenza è l’ipotesi in cui l’handicap o la malformazione siano genetiche. In
questo caso il medico che non diagnostichi la futura presenza dell’handicap o della
malformazione incorre in responsabilità. Alla madre e al padre viene riconosciuta la
possibilità di risarcimento del danno per lesione della loro autodeterminazione in sede di
generalità, il danno che viene risarcito è il danno da nascita indesiderata. Per avere diritto
al risarcimento del danno i genitori devono dimostrare di non essere stati informati e che
ove informati avrebbero verosimilmente interrotto la gravidanza. Questo è un classico
giudizio controfattuale, che si caratterizza dal fatto che la premessa di questo giudizio
sappiamo essere falsa. Non si può dare una prova diretta l’unica prova possibile è la
presunzione, ad esempio dei testimoni che abbiano sentito dire alla gestante “nel caso di
malformazioni preferisco interrompere la gravidanza”.
Se la malformazione non è legata ad una causa di errore medico ma è legata a fattori
genetici è possibile richiedere il risarcimento del danno?
La cassazione nel 2004 e nel 2009 si è espressa contraria, non si può riconoscere il
danno da vita indesiderata perché questo danno sarebbe lesione di un presunto diritto a
non nascere se non sano (diritto che invece è stato riconosciuto da una sentenza della
corte di cassazione francese all’inizio degli anni 2000, sentenza Perruche).
Nel 2012 il diritto al risarcimento del danno per vita indesiderata era stato ammesso dando
alle cose un nome differente, la vita più grama meno appagante che l’handicap genetico
determina. Le sezioni unite poi hanno sconfessato la posizione del 2012 ribadendo il fatto
che un danno da vita indesiderata non si può configurare innanzitutto perché nascere con
malformazioni è meglio che non nascere ed un danno è sempre una situazione
peggiorativa, inoltre non dipende dal medico semplicemente non è stato diagnosticato.
Il diritto elimina le ingiustizie prodotte dagli uomini non può eliminare quelle prodotte dalla
sorte. Nel caso di malformazioni causate da errori medici la cassazione si pronuncia che il
danno si ha quando emerge ossia dopo la nascita quindi il danno non deve essere
considerato centro di protezione ma bensì soggetto.

Capacità d’agire
La capacità d’agire è l’astratta idoneità a compiere atti giuridici di natura perlopiù
patrimoniali. La capacità d’agire però riguarda anche atti non patrimoniali come convolare
a nozze. Si tratta di idoneità a compiere in prima persona atti giuridici idonei a compiere un
atto dispositivo che ha come effetto modificare la conformazione dei diritti che fanno parte
del patrimonio del soggetto. Per poter compiere validamente e personalmente atti giuridici
si deve acquisire la capacità d’agire che si acquisisce al diciottesimo anno d’età, in quanto
per convenzione si ritiene che un individuo abbia sviluppato una maturità fisica e psichica
tale da poter operare nel mercato. L’ordinamento giuridico riconosce che pur minori di età
si possa avere un ruolo.
Il minore ultra dodicenne ha il diritto di essere udito nei processi di divorzio dei propri
genitori, perché si ritiene che abbia raggiunto una sensibilità sufficiente per avere voce in
capitolo.
Vi sono dei casi di acquisto anticipato della capacità d’agire ma con capacità di tipo
speciale, il legislatore riconosce una limitata capacità d’agire ad esempio il minore che ha
compiuto 15 anni di età può stipulare un contratto lavorativo.
Un’altra ipotesi di capacità speciale che riguarda il matrimonio la si ha per il minore che
abbia compito 16 anni cui l’art.84.2.cc stabilisce che egli possa fare istanza al tribunale
affinché venga accertata la sua maturità psicofisica e la fondatezza delle ragioni per cui
vuole celebrare il matrimonio, sentito il pubblico ministero, il genitore o il tutore, il giudice
può autorizzare il matrimonio, se il minore si sposa diventa emancipato. Il minore
emancipato può svolgere tutti gli atti di ordinaria amministrazione che sono quelli che non
alterano in modo significativo il patrimonio del soggetto come fare la spesa, pagare le
bollette, amministrare i propri beni ecc. Per gli atti eccedenti l’ordinaria amministrazione
dovrà compierli con l’ausilio di un curatore (ufficiale che può essere parente avvocato) che
ha l’ufficio di acconsentire e in seguito ottenere l’autorizzazione dal giudice.
Lo status in cui si versa dalla nascita al diciottesimo anno d’età è quello di minore d’età
che non può compiere atti né di ordinaria amministrazione ne atti eccedenti l’ordinaria
amministrazione, quindi è incapace d’agire. Nel caso in cui il minore abbia dei beni
pervenuti da successioni e donazioni vengono amministrati dai genitori che hanno un
ufficio che si traduce in una serie di obblighi e anche potere di rappresentanza ossia agire
in nome e per conto del minore d’età. Gli effetti di tali atti giuridici si produrranno
direttamente nella sfera giuridica del minore e sono disciplinati dagli art.315.cc e seguenti,
riformati nel 2012 con la legge 2019.

(Lezione 14/03/22)

Lo status di minore d’età


Lo status di minore d’età si caratterizza per la totale incapacità d’agire salve quelle
capacità speciali che possono essere acquisite anticipatamente (es il caso
dell’emancipazione come già visto che è conseguenza dell’atto del matrimonio e non
dell’autorizzazione del giudice).
La responsabilità genitoriale conferisce ai genitori quella potestà che attribuisce diritti e
doveri sanciti dall’art.315-bis.cc (Diritti e doveri del figlio):

1.Il figlio ha diritto di essere mantenuto, educato, istruito e assistito moralmente dai
genitori, nel rispetto delle sue capacità, delle sue inclinazioni e delle sue aspirazioni.
2.Il figlio ha diritto di crescere in famiglia e di mantenere rapporti significativi con i parenti.
3.Il figlio minore che abbia compiuto gli anni dodici, e anche di età inferiore ove capace di
discernimento, ha diritto di essere ascoltato in tutte le questioni e le procedure che lo
riguardano.
4.Il figlio deve rispettare i genitori e deve contribuire, in relazione alle proprie capacità, alle
proprie sostanze e al proprio reddito, al mantenimento della famiglia finché convive con
essa.

Responsabilità genitoriale e rappresentanza legale


Nell’ambito della responsabilità genitoriale rientra anche l’ambito della rappresentanza
legale del minore, i genitori possono agire in nome e per conto del rappresentato.
Agire in nome (con contemplatio domini) vuol dire che l’atto compiuto dal rappresentante
produce i suoi effetti direttamente nella sfera giuridica del rappresentato. È necessario
spendere il nome per produrre gli effetti nella sfera del destinatario.
Agire per conto vuol dire agire nell’interesse esclusivo del rappresentato, il rappresentante
non deve perseguire un interesse proprio o di terzi altrimenti potrebbe sorgere conflitto di
interesse che è causa di annullamento del contratto.
Annullamento e nullità sono le due cause di invalidamento del contratto, l’annullamento è
una forma meno radicale che rende inefficace il contratto con effetti ex tunc (sin dall’inizio).
Tutto questo è previsto dall’art.320.cc. (Rappresentanza e amministrazione):
1. I genitori congiuntamente, o quello di essi che esercita in via esclusiva la responsabilità
genitoriale, rappresentano i figli nati e nascituri, fino alla maggiore età o all'emancipazione,
in tutti gli atti civili e ne amministrano i beni. Gli atti di ordinaria amministrazione, esclusi i
contratti con i quali si concedono o si acquistano diritti personali di godimento, possono
essere compiuti disgiuntamente da ciascun genitore.
2. Si applicano, in caso di disaccordo o di esercizio difforme dalle decisioni concordate, le
disposizioni dello articolo 316.
3. I genitori non possono alienare (trasferire), ipotecare o dare in pegno i beni pervenuti al
figlio a qualsiasi titolo, anche a causa di morte, accettare o rinunziare ad eredità o legati,
accettare donazioni, procedere allo scioglimento di comunioni, contrarre mutui o locazioni
ultra novennali o compiere altri atti eccedenti la ordinaria amministrazione nè promuovere,
transigere o compromettere in arbitri giudizi relativi a tali atti, se non per necessità o utilità
evidente del figlio dopo autorizzazione del giudice tutelare.
4. I capitali non possono essere riscossi senza autorizzazione del giudice tutelare, il quale
ne determina l'impiego.
5. L'esercizio di una impresa commerciale non può essere continuato se non con
l'autorizzazione del tribunale su parere del giudice tutelare. Questi può consentire
l'esercizio provvisorio dell'impresa, fino a quando il tribunale abbia deliberato sulla istanza.
6. Se sorge conflitto di interessi patrimoniali tra i figli soggetti alla stessa responsabilità
genitoriale, o tra essi e i genitori o quello di essi che esercita in via esclusiva la
responsabilità genitoriale, il giudice tutelare nomina ai figli un curatore speciale. Se il
conflitto sorge tra i figli e uno solo dei genitori esercenti la responsabilità genitoriale, la
rappresentanza dei figli spetta esclusivamente all'altro genitore.

Atti di ordinaria amministrazione ed atti eccedenti l’ordinaria amministrazione


Gli atti di ordinaria amministrazione sono gli atti che incidono meno sul patrimonio del
rappresentato perché hanno un minore impatto, come gli atti di amministrazione del
patrimonio come il pagamento delle imposte, il mantenimento del bene per evitare che
vada in disfacimento ma lo sono anche quelli relativi al compimento degli atti della
quotidianità, acquisto di cibo, acquisto di beni per l’istruzione e così via.
L’art.320.1.cc sancisce che per gli atti di ordinaria amministrazione i genitori possono agire
anche disgiuntamente, ogni genitore può compiere l’atto autonomamente senza il
concorso dell’altro salvo che si tratti di contratti con i quali si concedono o si acquistano
diritti personali di godimento (le dotazioni o i comodati).
Gli atti eccedenti l’ordinaria amministrazione hanno una consistenza economica maggiore
incidendo con un impatto maggiore sul patrimonio del minore.
L’art.320.3.cc elenca tutti gli atti che vengono considerati eccedenti l’ordinaria
amministrazione ed è una classificazione cosiddetta meramente indicativa e non esaustiva
cioè il legislatore elenca solo per trasmettere il senso della categoria senza esaurirla, a
meno che il legislatore non specifichi che quella indicazione sia tassativa.
I genitori non hanno il potere di manipolare, utilizzare e decidere del patrimonio del
minore, per le categorie elencate dal comma.3 oltre a decidere congiuntamente, i genitori
devono ottenere il consenso da parte del giudice tutelare che lo darà solo se ritiene che
quell’atto presenti un utilità evidente o sia necessarie per il minore.
L’art.320.4.cc stabilisce che per quanto riguarda le somme di denaro queste non sono
liberamente utilizzabili, prelevabili dai genitori, i quali devono ottenere l’autorizzazione dal
giudice tutelare specificandone l’impiego nell’interesse del minore. In caso contrario l’atto
verrebbe dichiarato nullo e il genitore potrebbe incorrere nella decadenza della
responsabilità genitoriale.
L’art.324.cc.(usufrutto legale):
1.I genitori esercenti la responsabilità genitoriale hanno in comune l'usufrutto dei beni del
figlio, fino alla maggiore età o all'emancipazione.
2. I frutti percepiti sono destinati al mantenimento della famiglia e all'istruzione ed
educazione dei figli.
3. Non sono soggetti ad usufrutto legale:
1) i beni acquistati dal figlio con i proventi del proprio lavoro;
2) i beni lasciati o donati al figlio per intraprendere una carriera, un'arte o una professione;
3) i beni lasciati o donati con la condizione che i genitori esercenti la responsabilità
genitoriale o uno di essi non ne abbiano l'usufrutto: la condizione però non ha effetto per i
beni spettanti al figlio a titolo di legittima;
4) i beni pervenuti al figlio per eredità, legato o donazione e accettati nell'interesse del
figlio contro la volontà dei genitori esercenti la responsabilità genitoriale. Se uno solo di
essi era favorevole all'accettazione, l'usufrutto legale spetta esclusivamente a lui.

Altro diritto patrimoniale è l’usufrutto legale dei beni del minore descritto dall’art.324.cc.
L’usufrutto è un diritto reale minore che attribuisce all’usufruttuario il potere di godere del
bene e di ricavarne i frutti. Questo è un usufrutto attribuito dalla legge per amministrare
quei beni rendendoli produttivi, i frutti (qualunque utilità patrimoniale generata dal
godimento di un altro bene es: interessi, canone) dovranno essere destinati ai bisogni
della famiglia e all’istruzione dei minori.
L’usufrutto è legato all’ufficio del genitore rendendolo in questo caso inalienabile
(incedibile) cosi come dispone l’art.326.cc. (Inalienabilità dell'usufrutto legale. Esecuzione
sui frutti):
1. L'usufrutto legale non può essere oggetto di alienazione, di pegno o di ipoteca nè di
esecuzione da parte dei creditori.
2. L'esecuzione sui frutti dei beni del figlio da parte dei creditori dei genitori o di quello di
essi che ne è titolare esclusivo non può aver luogo per debiti che il creditore conosceva
essere stati contratti per scopi estranei ai bisogni della famiglia.

L’art.330.cc. (Decadenza dalla responsabilità genitoriale sui figli):


1. Il giudice può pronunziare la decadenza dalla responsabilità genitoriale quando il
genitore viola o trascura i doveri ad essa inerenti o abusa dei relativi poteri con grave
pregiudizio del figlio.
2. In tale caso, per gravi motivi, il giudice può ordinare l'allontanamento del figlio dalla
residenza familiare ovvero l'allontanamento del genitore o convivente che maltratta o
abusa del minore.
Qualora i genitori abbiano violato o non abbiano adempiuto ai doveri su di loro gravanti
oppure abbiano ecceduto all’esercizio dei poteri a loro conferiti decade la responsabilità
genitoriale.

Disciplina della tutela


Altri due articoli che delineano la differenza tra atti di ordinaria amministrazione e atti
eccedenti l’ordinaria amministrazione sono gli art.374.cc e 375.cc. che vengono dettati
nell’ambito della disciplina della tutela.
La tutela è un ufficio al quale è necessario ricorrere quando un minore non ha genitori o
esse sono decaduti dalla responsabilità genitoriale.
Il tutore ha il potere/dovere di amministrare il patrimonio e curare il minore, al tutore è
conferito il medesimo potere di rappresentanza conferito ai genitori.
Le norme che regolano la tutela sono disposti dagli art.357.cc e seguenti.

Art.357.cc (funzioni del tutore):


Il tutore ha la cura della persona del minore, lo rappresenta in tutti gli atti civili e ne
amministra i beni.
Art.371.cc (Provvedimenti circa l'educazione e l'amministrazione):
1. Compiuto l'inventario, il giudice tutelare, su proposta del tutore e sentito il protutore,
delibera:
1) sul luogo dove il minore deve essere cresciuto e sul suo avviamento agli studi o
all'esercizio di un'arte, mestiere o professione, disposto l'ascolto dello stesso minore che
abbia compiuto gli anni dieci e anche di età inferiore ove capace di discernimento e
richiesto, quando opportuno, l'avviso dei parenti prossimi;
2) sulla spesa annua occorrente per il mantenimento e l'istruzione del minore e per
l'amministrazione del patrimonio, fissando i modi d'impiego del reddito eccedente;
3) sulla convenienza di continuare ovvero alienare o liquidare le aziende commerciali, che
si trovano nel patrimonio del minore, e sulle relative modalità e cautele.
2. Nel caso in cui il giudice stimi evidentemente utile per il minore la continuazione
dell'esercizio dell'impresa, il tutore deve domandare l'autorizzazione del tribunale. In
pendenza della deliberazione del tribunale il giudice tutelare può consentire l'esercizio
provvisorio dell'impresa.
Il tutore a differenza del genitore ha l’obbligo di fare l’inventario (indica e descrive) dei beni
del minore.

Atti di straordinaria amministrazione


Gli art.374.cc e 375.cc sono due norme in cui con la medesima tecnica dell’elencazione
meramente indicativa e non esaustiva il legislatore dà ulteriori indicazioni circa la categoria
degli atti di ordinaria amministrazione e degli atti eccedenti l’ordinaria amministrazione.
All’interno della categoria degli atti eccedenti l’ordinaria amministrazione il codice individua
due sottocategorie.
La prima sono gli atti di straordinaria amministrazione (art.374.cc), ossia quegli atti che
hanno la capacità di modificare, alterare il patrimonio ma con effetti meno rilevanti, in
questo caso il tutore dovrà chiedere l’autorizzazione al giudice tutelare (giudice
monocratico ossia un singolo magistrato, decide individualmente).
Art. 374 - Autorizzazione del giudice tutelare:
Il tutore non può senza l'autorizzazione del giudice tutelare:
1) acquistare beni, eccettuati i mobili necessari per l'uso del minore, per l'economia
domestica e per l'amministrazione del patrimonio;
2) riscuotere capitali, consentire alla cancellazione di ipoteche o allo svincolo di pegni,
assumere obbligazioni, salvo che queste riguardino le spese necessarie per il
mantenimento del minore e per l'ordinaria amministrazione del suo patrimonio;
3) accettare eredità o rinunciarvi, accettare donazioni o legati soggetti a pesi o a
condizioni;
4) fare contratti di locazione d'immobili oltre il novennio o che in ogni caso si prolunghino
oltre un anno dopo il raggiungimento della maggiore età;
5) promuovere giudizi, salvo che si tratti di denunzie di nuova opera o di danno temuto, di
azioni possessorie o di sfratto e di azioni per riscuotere frutti o per ottenere provvedimenti
conservativi.
(Eredità: può essere anche dannoso per il destinatario e può decidere di rinunziarvi.
Legato: si acquista automaticamente il legatario risponde dei debiti fino al limite del valore
dei diritti che sono stati attribuiti
Donazioni: inter vivos vengono ceduti beni per l’unico intento di far arricchire, fare una
liberalità).

Atti di disposizione
La seconda sottocategoria è rappresentata dagli atti di disposizione (art.375.cc) ossi
quegli atti che hanno la capacità di alterare il patrimonio giuridico del minore con maggiore
impatto, per i quali il tutore per l’autorizzazione si deve rivolgere al tribunale (tipologia di
giudice: ordine collegiale composto da 3 o 5 membri).
Art.375.cc. (Autorizzazione del tribunale):
1. Il tutore non può senza l'autorizzazione del tribunale:
1) alienare beni, eccettuati i frutti e i mobili soggetti a facile deterioramento;
2) costituire pegni o ipoteche;
3) procedere a divisioni o promuovere i relativi giudizi;
4) fare compromessi e transazioni o accettare concordati.
2. L'autorizzazione è data su parere del giudice tutelare.
(Compromesso=arbitrato pag.16)
(Transazione è un contratto di risoluzione delle controversie quando si vuole concludere
un conflitto trovando un accordo stragiudiziale ed impone che entrambe le parti rinuncino a
qualcosa).

Emancipazione
Il minore può acquistare anticipatamente la capacità d’agire tramite l’emancipazione così
come enunciato dall’art.84.2:
Il tribunale, su istanza dell'interessato, accertata la sua maturità psico-fisica e la
fondatezza delle ragioni addotte, sentito il pubblico ministero, i genitori o il tutore, può con
decreto emesso in camera di consiglio ammettere per gravi motivi al matrimonio chi abbia
compiuto i sedici anni.
Una volta autorizzato se il minore effettivamente si unisce nel vincolo di coniugio viene
emancipato.
Ciò comporta un acquisto anticipato di una limitata capacità d’agire regolato dagli
art.390.cc. e seguenti.
L’art.390.cc (emancipazione di diritto):
Il minore è di diritto emancipato col matrimonio.
Il minore può compiere in autonomia tutti gli atti di ordinaria amministrazione, per gli atti
eccedenti l’ordinaria amministrazione deve essere affiancato da un curatore che non è un
rappresentante, non si sostituisce al minore emancipato, il suo compito è di acconsentire
all’atto eccedente l’ordinaria amministrazione. Per gli atti di straordinaria amministrazione
dovrà essere chiesta l’autorizzazione al giudice tutelare, per gli atti di disposizione dovrà
essere chiesta l’autorizzazione del tribunale.
Secondo l’art.396.cc se il minore emancipato compie da sé gli atti eccedenti l’ordinaria
amministrazione o li compie solo con il consenso del curatore tali atti sono annullabili. La
domanda di annullamento può essere richiesta dal minore raggiunta la maggiore età, dagli
eredi o dagli aventi causa.
Gli eredi sono coloro i quali sono chiamati a succedere a titolo universali dell’intero
patrimonio o di una sua quota o perché cosi previsto da un testamento o perché ove non
ci sia così decreta la legge (ab intestato).
In questo caso la legge opera per categorie, la presenza di alcune esclude la successione
delle altre che sono secondarie o terziarie. Ad esempio se vi sono coniugi e figli non
subentrano gli ascendenti (genitori), si può succedere fino al sesto grado. Qualora non
venga fatto testamento e non vi siano parenti entro il sesto grado subentra come
successore lo Stato.
Gli aventi causa sono una categoria generale che indica chiunque abbia un rapporto
giuridico rilevante con il soggetto, tutti coloro che vantino un diritto patrimoniale nei
confronti del soggetto, ad esempio la controparte di un contratto di vendita, il titolare di un
diritto reale minore, un garante.

L’art.392.cc indica chi può essere il curatore dell’emancipato:


1. Curatore del minore sposato con persona maggiore di età è il coniuge.
2. Se entrambi i coniugi sono minori di età, il giudice tutelare può nominare un unico
curatore, scelto preferibilmente fra i genitori.
3. Se interviene l'annullamento per una causa diversa dall'età, o lo scioglimento o la
cessazione degli effetti civili del matrimonio o la separazione personale, il giudice tutelare
nomina curatore uno dei genitori, se idoneo all'ufficio, o, in mancanza, altra persona. Nel
caso in cui il minore contrae successivamente matrimonio, il curatore lo assiste altresì
negli atti previsti nell'articolo 165.

L’art.394.cc (capacità dell’emancipato):


1.L'emancipazione conferisce al minore la capacità di compiere gli atti che non eccedono
l'ordinaria amministrazione.
2. Il minore emancipato può con l'assistenza del curatore riscuotere i capitali sotto la
condizione di un idoneo impiego e può stare in giudizio sia come attore sia come
convenuto.
3. Per gli altri atti eccedenti l'ordinaria amministrazione, oltre il consenso del curatore, è
necessaria l'autorizzazione del giudice tutelare. Per gli atti indicati nell'art. 375
l'autorizzazione, se curatore non è il genitore, deve essere data dal tribunale su parere del
giudice tutelare.
4. Qualora nasca conflitto di interessi fra il minore e il curatore, è nominato un curatore
speciale a norma dell'ultimo comma dell'art. 320.

L’art.395.cc (Rifiuto del consenso da parte del curatore):


Nel caso in cui il curatore rifiuta il suo consenso, il minore può ricorrere al giudice tutelare,
il quale, se stima ingiustificato il rifiuto, nomina un curatore speciale per assistere il minore
nel compimento dell'atto, salva, se occorre, l'autorizzazione del tribunale.

L’art.397.cc (Emancipato autorizzato all'esercizio di un'impresa commerciale):


1. Il minore emancipato può esercitare un'impresa commerciale senza l'assistenza del
curatore, se è autorizzato dal tribunale, previo parere del giudice tutelare e sentito il
curatore.
2. L'autorizzazione può essere revocata dal tribunale su istanza del curatore o d'ufficio,
previo, in entrambi i casi, il parere del giudice tutelare e sentito il minore emancipato.
3. Il minore emancipato, che è autorizzato all'esercizio di un'impresa commerciale, può
compiere da solo gli atti che eccedono l'ordinaria amministrazione, anche se estranei
all'esercizio dell'impresa.
Atti giuridici validi compiuti dal minore
I minori di età nonostante incapaci di agire compiono atti giuridici validi, gli atti sono
preservati se si tratta di atti di limitato importo che attenuano alla vita quotidiana del
minore (fare la spesa, shopping, acquisto prodotti informatici, ecc..). Vengono considerati
validi grazie ad una norma introdotta nell’ambito della disciplina dei contratti in particolare
contenuta nella disciplina della rappresentanza volontaria (conferita o dalla legge al
genitore, o dal giudice al tutore, o volontariamente ciascun individuo può nominare un
terzo quanto suo rappresentante conferendogli il potere di agire per suo conto).
La rappresentanza volontaria è disciplinata dagli art.1387.cc e seguenti.
L’art.1389.cc prevede:
1. Quando la rappresentanza è conferita dall'interessato, per la validità del contratto
concluso dal rappresentante basta che questi abbia la capacità di intendere e di volere,
avuto riguardo alla natura e al contenuto del contratto stesso, sempre che sia legalmente
capace il rappresentato.
2. In ogni caso, per la validità del contratto concluso dal rappresentante è necessario che il
contratto non sia vietato al rappresentato.
Questa norma salva gli atti di vita quotidiana che il minore compie agendo in virtù di una
procura implicita conferita dai genitori che nominano i figli rappresentati rispetto ai genitori.
Tali diritti entravano nella sfera dei genitori rendendo tali atti validi.
Quindi non tutti atti giuridici contratti da un minore di età sono annullabili, vengono
preservati quelli di vita quotidiana e di limitato importo quando operano come
rappresentanti volontari, per nome e conto dei genitori.

Incapacità di intendere e di volere momentanea


Alla maggiore età si acquista la prima capacità di agire ma potrebbe capitare che il
soggetto sia affetto da qualche infermità che lo priva in tutto o in parte della capacità di
intendere e di volere oppure che tale infermità sopravvenga nel corso della vita.
Per questo il legislatore prevede i due istituti dell’interdizione e dell’inabilitazione regolati
dagli art.414.cc e seguenti.
Questi istituti possono essere adoperati quando il maggiore d’età o l’emancipato abbia una
causa stabile che inficia le sue capacità cognitive, di raziocinio e comprensione.
Per cause contingenti e non prodotte dal soggetto maggiore d’età capace d’agire si ci può
ritrovare in situazioni passeggere di incapacità di intendere e di volere ossia trovarsi in una
condizione di scarsa lucidità che impedisce al soggetto di comprendere il significato
giuridico di quel determinato atto es: causa ischemia.
In questo caso il soggetto deve essere protetto, tale protezione non può avvenire
modificandogli lo status perché deve valere per il passato rispetto a quell’atto e non per il
futuro. Tale protezione è regolata dall’art.428.cc (Atti compiuti da persona incapace
d'intendere o di volere):
1. Gli atti compiuti da persona che, sebbene non interdetta, si provi essere stata per
qualsiasi causa, anche transitoria, incapace d'intendere o di volere al momento in cui gli
atti sono stati compiuti, possono essere annullati su istanza della persona medesima o dei
suoi eredi o aventi causa, se ne risulta un grave pregiudizio all'autore.
2. L'annullamento dei contratti non può essere pronunziato se non quando, per il
pregiudizio che sia derivato o possa derivare alla persona incapace d'intendere o di volere
o per la qualità del contratto o altrimenti, risulta la malafede dell'altro contraente.
3. L'azione si prescrive nel termine di cinque anni dal giorno in cui l'atto o il contratto è
stato compiuto.
4. Resta salva ogni diversa disposizione di legge.
La tutela si traduce nella possibilità di annullare l’atto o il contratto concluso in stato di
incapacità di intendere e di volere passeggera, purché la causa dell’incapacità non sia
imputabile per dolo (assunzioni sostanze stupefacenti) o per colpa (stato di ubriachezza
per negligenza) al soggetto che vi si trovi.
L’art.428 indica anche le differenze tra atto e contratto.
Se l’atto compiuto in un momento in cui il soggetto è incapace di intendere e di volere, è
unilaterale potrà essere annullato dimostrando di averlo compiuto in stato di incapacità e
solo se dall’atto sia derivato o possa derivare un grave pregiudizio economico.
I legittimati attivi ad agire sono l’incapace, gli eredi e gli aventi causa.
Se l’atto è un contratto ossia l’atto bilaterale per antonomasia (art.1321.cc. Nozione: Il
contratto è l'accordo di due o più parti per costituire, regolare o estinguere tra loro un
rapporto giuridico patrimoniale) qui l’ordinamento deve bilanciare gli interessi, da una parte
l’interesse dell’incapace di non restare vincolato in un contratto stipulato in un momento di
incapacità, dall’altra parte la necessità di tutelare il legittimo affidamento di controparte
(fiducia di controparte di aver stipulato un contratto valido). Per poter annullare il contratto
concluso in condizioni di capacità di intendere o di volere non imputabile al soggetto
richiede la malafede di controparte. La malafede è lo stato soggettivo di conoscenza che
controparte ha dello stato di incapacità dell’altro soggetto. La malafede può essere provato
tramite confessione giudiziale o stragiudiziale, non può essere in altri modi provato in via
diretta, per questo si deve ricorrere alla presunzione come vediamo nell’art.428.2.cc.

Interdizione
Se la causa dell’infermità non sia passeggera ma stabile, come ad esempio una patologia,
si deve agire sullo status del soggetto, per proteggere lui contro il rischio di dilapidare il
patrimonio e per proteggere i terzi che devono avere la certezza che gli atti che
concludono siano stabili. Vi è un esigenza individuale e pubblica di rendere incapace chi
versa in una situazione stabile di infermità perciò si ricorre agli istituti dell’interdizione e
dell’inabilitazione.
L’interdizione comporta la perdita totale della capacità d’agire (salvo una possibilità
riconosciuta dall’art.427.1.cc cosi come notificato dalla legge n.6/2004:
1. Nella sentenza che pronuncia l'interdizione o l'inabilitazione, o in successivi
provvedimenti dell'autorità giudiziaria, può stabilirsi che taluni atti di ordinaria
amministrazione possano essere compiuti dall'interdetto senza l'intervento ovvero con
l'assistenza del tutore, o che taluni atti eccedenti l'ordinaria amministrazione possano
essere compiuti dall'inabilitato senza l'assistenza del curatore).
Gli atti compiuti dall’interdetto o dall’inabilitato da sè possono essere annullati e i soggetti
legittimati attivi a proporre la domanda di annullamento sono stabiliti dall’art.427.2.cc:
2. Gli atti compiuti dall'interdetto dopo la sentenza di interdizione possono essere annullati
su istanza del tutore, dell'interdetto o dei suoi eredi o aventi causa. Sono del pari
annullabili gli atti compiuti dall'interdetto dopo la nomina del tutore provvisorio, qualora alla
nomina segua la sentenza d'interdizione.
Ai sensi dell’art.414.cc (persone che possono essere interdette):
Il maggiore di età e il minore emancipato, i quali si trovano in condizioni di abituale
infermità di mente che li rende incapaci di provvedere ai propri interessi, sono interdetti
quando ciò è necessario per assicurare la loro adeguata protezione.
La protezione consiste nel revocargli la capacità d’agire, è deputato a verificare i
presupposti degli effetti di legge il giudice. Per richiedere l’interdizione si ci deve rivolgere
al giudice tutelare per accertare se esistono i presupposti per interdire il soggetto e se
sussistono il giudice emette un provvedimento costitutivo che muta lo status del soggetto
rendendolo totalmente incapace di agire.
I soggetti legittimati attivi ad agire a far richiesta di interdizione sono indicati dall’art.417.cc
(istanza di interdizione o inabilitazione):
1. L'interdizione e l'inabilitazione possono essere promosse dalle persone indicate negli
articoli 414 e 415, dal coniuge, dalla persona stabilmente convivente, dai parenti entro il
quarto grado, dagli affini entro il secondo grado, dal tutore o curatore ovvero dal pubblico
ministero.
2. Se l'interdicendo o l'inabilitando si trova sotto la patria potestà o ha per curatore uno dei
genitori, l'interdizione o l'inabilitazione non può essere promossa che su istanza del
genitore medesimo o del pubblico ministero.
Il pubblico ministero è quel magistrato che opera in campo penale ma in questo caso ha
un ruolo in un giudizio civile perché il pubblico ministero rappresenta le ragioni generali
dell’ordinamento giuridico, è interesse non solo dell’infermo ma anche interesse generale
che quel soggetto venga interdetto perché non ha i presupposti mentali e fisici per poter
operare singolarmente, viene meno il principio di razionalità su cui si basano tutti i rapporti
giuridici.
Il coniuge a cui deve essere equiparato il partner delle unioni civili e stabile convivente.
I parenti in linea retta discendono gli uni dagli altri, parenti in linea collaterale sono coloro
che sono accomunati da una comune discendenza.
All’interdetto va nominato un tutore che ha gli stessi poteri del tutore rispetto al minore
d’età in mancanza dei genitori, deve prendersi cura dell’interdetto, ne deve amministrare il
patrimonio, ne ha il potere di rappresentanza che consente al tutore di compiere
autonomamente gli atti di ordinaria amministrazione. Per gli atti eccedenti l’ordinaria
amministrazione il tutore deve rivolgersi al giudice tutelare per gli atti di straordinaria
amministrazione o al tribunale per gli atti di disposizione.

(Lezione 15/03/22)

Inabilità
La legge n°6/2004 ha modificato la disciplina dell’art.427.1.cc per evitarne l’illegittimità
costituzionale riconoscendo al giudice che pronunzia l’interdizione di POTER prevedere
una serie di atti di ordinaria amministrazione che l’interdetto può compiere da sé,
riconoscendo dunque all’interdetto una limitata capacità d’agire.
Questa modifica è stata necessaria in quanto dapprima era un rimedio radicale che non
faceva distinzioni, ma si deve tener conto del fatto che vi siano deficit mentali, anche gravi,
che consentono comunque all’individuo di fare piccoli atti di ordinaria amministrazione,
come fare la spesa dei generi di prima necessità. Tale modifica è servita a rendere
leggermente più duttile un istituto che era stato concepito con la logica del tutto o niente.
L’art.429.cc stabilisce che lo stato di interdizione cessa nello stesso modo in cui è stato
istituito, è necessario un provvedimento del giudice che attesti il miglioramento dello stato
di salute dell’interdetto e la riacquistata capacità d’agire e revochi l’interdizione.
Il giudice potrebbe anche pronunciare l’inabilitazione e quindi riconoscere all’interdetto una
parziale riacquisizione della capacità d’agire.
L’inabilitazione a differenza dell’interdizione è una causa di inabilità parziale, conserva la
capacità d’agire inerente agli atti di ordinaria amministrazione, per gli atti eccedenti
l’ordinaria amministrazione l’atto viene compiuto dall’inabilitato affiancato dal curatore che
deve prestare il consenso ed è necessario ottenere anche l’autorizzazione del giudice
tutelare (374.cc) o del tribunale (375.cc).
Le cause che legittimano il ricorso all’inabilitazione sono previste dall’art.415.cc (persone
che possono essere inabilitate):
1. Il maggiore di età infermo di mente, lo stato del quale non è talmente grave da far luogo
all'interdizione, può essere inabilitato.
2. Possono anche essere inabilitati coloro che, per prodigalità o per abuso abituale di
bevande alcooliche o di stupefacenti, espongono sè o la loro famiglia a gravi pregiudizi
economici.
3. Possono infine essere inabilitati il sordomuto e il cieco dalla nascita o dalla prima
infanzia, se non hanno ricevuto un'educazione sufficiente, salva l'applicazione dell'art. 414
quando risulta che essi sono del tutto incapaci di provvedere ai propri interessi.
(Comma 2 stato di dipendenza).
Con la sussistenza di tali presupposti il giudice tutelare può disporre con sentenza
l’inabilitazione rendendoli da pienamente capaci di agire a parzialmente capaci di agire e
nominerà un curatore.
La domanda di inabilitazione può essere proposta dagli stessi soggetti dell’interdizione.
Gli atti eccedenti l’ordinaria amministrazione senza il consenso del curatore o in mancanza
di autorizzazione del giudice tutelare o del tribunale possono essere annullati così come
all’art.427.3:
3. Possono essere annullati su istanza dell'inabilitato o dei suoi eredi o aventi causa gli atti
eccedenti l'ordinaria amministrazione fatti dall'inabilitato, senza l'osservanza delle
prescritte formalità, dopo la sentenza di inabilitazione o dopo la nomina del curatore
provvisorio, qualora alla nomina sia seguita l'inabilitazione.
Inoltre l’art.427.1.cc prevede sempre a seguito della modifica da parte della legge
n°6/2004 che il giudice possa riconoscere all’inabilitato la possibilità di compiere taluni atti
eccedenti l’ordinaria amministrazione senza l’assistenza del curatore.
L’inabilitazione può essere revocata tramite un provvedimento dal giudice su richiesta dei
soggetti legittimati attivi a fare istanza che con sentenza restituisce al soggetto la piena
capacità d’agire.

L’amministrazione di sostegno
In Italia si ricorre poco a questi istituti perché percepiti come umilianti o fonte di discredito.
Il legislatore ha preso atto della scarsa efficacia di questi istituti così nel 2004 ha ritenuto di
introdurre, l’istituto ricavato dell’esperienza francese ossia l’amministrazione di sostegno,
disciplinata dagli art.404.cc e seguenti.
L’amministrazione poggia su una filosofia opposta rispetto all’interdizione e inabilitazione.
Interdizione e inabilitazione con previsione radicale toccano lo status dell’individuo ed
escludono totalmente o parzialmente la capacità d’agire.
L’amministrazione di sostegno preserva la capacità d’agire, tale capacità viene limitata in
funzione del tipo di patologia, infermità o danno fisico che giustifica il ricorso a questo
istituto.
I presupposti dell’amministrazione di sostegno sono più ampi dell’interdizione e
dell’inabilitazione “una sorta di abito tagliato su misura” del soggetto debole.
I presupposti per ricorrere all’amministrazione di sostegno li troviamo nell’art.404.cc
(amministrazione di sostegno):
La persona che, per effetto di una infermità ovvero di una menomazione fisica o psichica
(danno), si trova nella impossibilità, anche parziale o temporanea, di provvedere ai propri
interessi, può essere assistita da un amministratore di sostegno, nominato dal giudice
tutelare del luogo in cui questa ha la residenza o il domicilio.
L’ampiezza dei poteri dell’amministratore di sostegno non è stabilita dalla legge come nel
caso del tutore o del curatore ma viene calibrata dal giudice sulla base del tipo di infermità
o menomazione fisica o psichica da cui è affetto il beneficiario e alla luce del grado di
bisogno del beneficiario.
I poteri dell’amministratore sono sanciti dall’art.409.cc (effetti dell’amministrazione di
sostegno):
1. Il beneficiario conserva la capacità di agire per tutti gli atti che non richiedono la
rappresentanza esclusiva o l'assistenza necessaria dell'amministratore di sostegno.
2. Il beneficiario dell'amministrazione di sostegno può in ogni caso compiere gli atti
necessari a soddisfare le esigenze della propria vita quotidiana.
L’amministrazione di sostegno può essere domandata dagli stessi soggetti legittimati attivi
a domandare l’interdizione e l’inabilitazione e anche dallo stesso interessato.
Nella nomina dell’amministratore di sostegno il beneficiario può dare indicazioni tramite un
documento privato o in un atto pubblico (documento redatto di fronte al notaio), inerenti
alle preferenze su chi debba essere nominato amministratore di sostegno. Nel caso in cui
questa indicazione non sia stata data precedentemente il beneficiario dell’amministrazione
di sostegno al momento della nomina essere interpellato del giudice e indicare il soggetto
da lui preferito. Se non vi sia capacità cognitiva del beneficiario e in mancanza di
indicazioni precedenti il giudice tutelare nominerà l’amministratore scegliendo dapprima
all’interno del nucleo familiare e se nessuno risulti adeguato potrà scegliere all’infuori di
esso.
Alla stessa stregua dell’interdizione e dell’inabilitazione anche l’amministrazione di
sostegno può essere revocata cosi come stabilito dall’art.413.cc.
Qualche anno fa l’art.404.cc è stato sottoposto ad una questione di legittimità costituzione
risolto con la sentenza del 9 dicembre 2005 n°440.
Il giudice a quo ha sollevato il dubbio di legittimità costituzionale riguardava un rischio di
irragionevolezza derivante dal fatto che l’amministrazione di sostegno rischiava di essere
un doppione di interdizione ed inabilitazione in quanto i presupposti potrebbero coincidere,
decretando secondo il giudice una violazione del principio di eguaglianza.
(Il principio di eguaglianza formale impone di trattare in maniera differente casi differenti e
in maniera eguale casi eguali).
La corte costituzione ha respinto il giudizio riconoscendo che nonostante sia vero che i tre
istituti potrebbero avere gli stessi presupposti, ma ciò non viola la forma di tutela garantita
dall’amministrazione di sostegno che è differente da quella garantita da interdizione ed
inabilitazione, in quanto l’amministrazione di sostegno tutela il soggetto debole
conservandogli la capacità d’agire e limitandola nella misura strettamente necessaria.
Si potrebbe presentare l’irragionevolezza qualora a parità di presupposti ci fossero
trattamenti differenziali ma qui vi sono solo forme di tutela differenti.

Prime domande: interpretazione, situazioni giuridiche soggettive, persona fisica (capacità


e incapacità) enti!!!!!

Condizione di incertezza dell’individuo


I segni identificativi dell’individuo sono soggettivi come il nome che consente di individuare
un soggetto e di attribuire atti o contratti a quell’individuo, o segni identificativi geografici
ossia quel luogo dove un individuo può essere legalmente cercato. Il domicilio è inteso
come luogo elettivo (electio: scelta) per lo svolgimento principale dei suoi affari e la
residenza è intesa come dimora abituale.
La condizione di incertezza che può riguardare l’individuo circa le sue sorti che sono
regolate dal codice con gli istituti della scomparsa, assenza e morte.
Vi è l’esigenza di non lasciare scoperti i rapporti giuridici del soggetto la cui sorte sia
incerta non possono esistere diritti o rapporti che non abbiano un titolare.
Lo stato d’incertezza è più o meno grave, in base alla gravità vengono riconosciuti degli
effetti.

Scomparsa
La prima forma di incertezza è legata alla scomparsa che si ha quando non si hanno più
notizie dell’individuo nel luogo del suo ultimo domicilio o nel luogo della sua ultima
residenza. In questo caso i successori legittimi o testamentari e chiunque ritenga di avere
un diritto nei confronti dello scomparso può rivolgersi al giudice tutelare per la nomina di
un curatore che ne amministri il patrimonio, ne mantenga beni e diritti in attesa che lo
scomparso riappaia. La nomina di un curatore è un rimedio temporaneo. Se lo stato di
mancanza di notizie del soggetto di protrae nel tempo per oltre due anni si ricorre ad una
misura più sostanziosa.
La prescrizione continua a correre.

L’assenza
Gli stessi soggetti legittimati a chiedere la nomina del curatore può domandare al giudice
di nominare una sentenza di assenza che determina degli effetti più sostanziosi, si aprono
i testamenti o nel caso di ab intestato si ricorre alle norme di legge e i successori vengono
immessi temporaneamente nel possesso del beni dell’assente. Gli eredi legittimi potranno
utilizzare i beni che sarebbero stati a loro destinati e i legatari e donatari potranno godere
temporaneamente dei beni dell’assente ma non potranno disporne.
I debitori saranno temporaneamente liberati, art.50.4.cc la prescrizione viene sospesa.
Qualora l’assente ritorni i beni dovranno essere restituiti, i diritti verranno riacquistati, le
obbligazioni torneranno a vincolare.
Se invece dovesse essere provata la morte dell’assente gli effetti da temporanei
diventeranno definitivi.
Tale disciplina la troviamo negli art.50.cc (Immissione nel possesso temporaneo dei beni),
art.56.cc (Ritorno dell'assente o prova della sua esistenza), art.57.cc (Prova della morte
dell'assente).

Morte presunta
La situazione di incertezza potrebbe protrarsi talmente a lungo da non poter più
giustificare gli effetti temporanei, quali quelli dell’assenza. Dunque se dopo 10 anni dal
giorno a cui risale l’ultima notizia dello scomparso è possibile effettuare la richiesta di
dichiarazione di morte presunta, da parte degli stessi soggetti legittimati ad effettuare
richiesta di assenza.
Per ricorrere alla dichiarazione di morte presunta non è necessaria che prima venga
dichiarata l’assenza, non sono istituti consecutivi. Se la dichiarazione di morte presunta è
preceduta dalla dichiarazione di assenza gli effetti provvisorio dell’assenza diventeranno
definitivi, ast.63.cc.
Gli eredi immessi nel possesso temporaneo saranno in via definitiva i nuovi titolari di quei
beni, i legittimati legatari ed i donatari diventeranno titolari dei diritti a loro attribuiti i debitori
saranno liberati dalle obbligazioni.
Se non vi è stata dichiarazione di assenza sarà necessario aprire i testamenti o in caso di
ab intestato si dovrà far ricorso alle norme di successione legittima, e gli effetti saranno
immediatamente definitivi.
Se il soggetto di cui è stata dichiarata la morte presunta dovesse tornare, la disciplina è
contenuta nell’art.66.cc (Prova dell'esistenza della persona di cui è stata dichiarata la
morte presunta):
1. La persona di cui è stata dichiarata la morte presunta, se ritorna o ne è provata
l'esistenza, ricupera i beni nello stato in cui si trovano e ha diritto di conseguire il prezzo di
quelli alienati, quando esso sia tuttora dovuto, o i beni nei quali sia stato investito.
2. Essa ha altresì diritto di pretendere l'adempimento delle obbligazioni considerate estinte
ai sensi del secondo comma dell'art. 63.
3. Se è provata la data della sua morte, il diritto previsto nel primo comma di questo
articolo compete a coloro che a quella data sarebbero stati suoi eredi o legatari. Questi
possono inoltre pretendere l'adempimento delle obbligazioni considerate estinte ai sensi
del secondo comma dell'art. 63 per il tempo anteriore alla data della morte.
4. Sono salvi in ogni caso gli effetti delle prescrizioni e delle usucapioni.
La dichiarazione di morte presunta scioglie anche il vincolo di coniugio, se si dovesse
provare l’esistenza del soggetto di cui era stata dichiarata la morte presunta il secondo
vincolo matrimoniale diventa nullo fatti salvi tutti gli effetti fino a quel momento prodotti,
tutti i figli saranno legittimi anche se la norma ha perso di importanza con l’art.315.cc che
non distingue più i figli in legittimi e naturali.

Diritti della personalità


Vengono annoverati tra i diritti assoluti, non sono diritti di cooperazione ma di
autorealizzazione e godono di una tutela in natura contro chiunque li violi (i diritti relativi
godono di una tutela in natura nei confronti della controparte, nei confronti dei terzi invece
per equivalente). C’è una differenza sostanziale all’interno della categoria dei diritti
assoluti, mentre i diritti reali attribuiscono diritti di appropriazione su utilità che si trovano
all’esterno dell’individuo, l’interesse consiste di poter ricavare dai beni tutte quelle utilità
che possono essere ricavate o tramite l’utilizzo degli stessi (funzione attributiva), invece i
diritti della personalità non hanno una funzione attributiva, i diritti della personalità
proteggono quei profili dell’identità fisica psichica spirituale sociale che rischiano di essere
compromessi o violati dagli altri consociati.
Non tutti i diritti della personalità sono rilevanti in quanto sono rilevanti più eleviamo la
protezione di questi ultimi tanto più riduciamo la libertà individuale degli altri.
I profili della personalità umana che vanno protetti sono quelli dotati di una certa
oggettività.
In ogni epoca c’è un modello antropologico di riferimento che viene preso come modello
dalla società e da tutte le scienze sociali. Quei tratti che rientrano nel modello
antropologico di riferimento perché sono interessi condivisi dalla stragrande maggioranza
sono quelli che saranno ritenuti oggettivamente rilevanti. La loro identificazione muta di
epoca in epoca con la mutazione della società.

Teoria pluralistica e monistica


L’individuazione di nuovi interessi della persona dotati di oggettività tanto da doverne
proteggere l’integrità rispetto all’invasione dei terzi, può essere affidata solo al legislatore o
anche al giudice? A questo problema si è dato risposta con due teorie che nel corso del
tempo si sono contrapposte: teoria pluralistica e teoria monistica.
La teoria pluralistica ritiene che i diritti della personalità siano tipici, sono solo quelli
individuati espressamente dal legislatore, spetta soltanto ad esso di epoca in epoca
individuare quegli interessi della persona che hanno rilevanza per l’ordinamento giuridico.
Questa è la visione tipica del legislatore del ’42 che riconosce solamente come diritti della
personalità: l’integrità fisica art.5.cc (riconosciuta anche rispetto a scelte individuali,
neanche l’individuo è libero di rinunciare all’integrità fisica per evitare di mercificare il
proprio corpo), il diritto al nome art.6.cc, il diritto allo pseudonimo, il diritto all’immagine
art.10.cc e il diritto d’autore (legge del 1941 modificata diverse volte). Gli art.20.cc e
seguenti riconoscono all’autore di un opera creativa (visive, letterarie, cinematografiche,
sonore, banca dati) diritti patrimoniali ossia il diritto di sfruttamento economico che può
essere ceduto (artista che cede la propria discografia) e diritto non patrimoniale morale
d’autore, l’autore ha diritto ad essere riconosciuto come artefice di quell’opera anche se
rappresentata da altri.
Oltre questi diritti altri non vengono riconosciuti, l’approccio del legislatore del ’42 è un
approccio poco sensibile e piuttosto casistico.
In contrapposizione la teoria monistica ritiene che i diritti della personalità possono essere
riconosciuti anche dal giudice alla luce del mutamento sociale. In questi casi viene
invocato dall’art.2.cost (La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo,
sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede
l'adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale) che
essendo una norma volutamente indeterminata consente al giudice di leggere la società,
valutare se nuovi interessi soggettivi della persona siano emersi ed in caso positivo
riconoscere nuovi diritti della personalità.
Entrambe le tesi hanno un limite:
1. (Teoria pluralistica) la legislazione non evolve come la società, come ad esempio
per il diritto all’eutanasia, essendo dunque una teoria restrittiva;
2. (Teoria monistica) conferisce al giudice un potere normativo ed il potere del giudice
deve essere esclusivamente esecutivo, il giudice deve scegliere in base di criteri
non scelti da lui.
La soluzione a questo quesito è stata adottata dalla corte di cassazione alla metà degli
anni’70 quando venne chiamata a decidere di una controversia che riguardava la
principessa Soraya fotografata in intimità mentre si trovava in una casa privata in
Sardegna. La principessa agì contro la casa editrice per lesione del proprio diritto alla
riservatezza che era già riconosciuto in altri ordinamenti ma non nell’ordinamento italiano.
(Il diritto alla riservatezza fu riconosciuto in Italia con la legge 675/96 prima legge sulla
disciplina del trattamento dei dati personali, introdotta in recepimento della direttiva 46/95
dell’Unione Europea. Il diritto alla riservatezza è tutelato dalla carta dei diritti fondamentali
dell’Unione Europea all’art.7:
Ogni persona ha diritto al rispetto della propria vita privata e familiare, del proprio domicilio
e delle proprie comunicazioni).
La cassazione ha operato ricorrendo agli strumenti dell’interpretazione estensiva, evolutiva
e sistematica. La cassazione ha verificato se esistessero norme che pur disciplinando
espressamente altro implicitamente concordassero il riconoscimento al diritto alla
riservatezza, ad esempio ha menzionato la norma sull’inviolabilità del domicilio,
implicitamente si vuole proteggere tutto ciò che si compie all’interno del proprio domicilio.
È questa la vera soluzione per il riconoscimento di nuovi diritti della personalità,
l’interpretazione da elasticità al diritto senza dare al giudice la facoltà della creazione della
nuova norma.
I diritti della personalità non sono solo quelli esplicitamente espressi dal legislatore (dalla
Costituzione, dalla carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea) ma anche quelli che
hanno ad oggetto tutti quegli interessi della persona che risultino rilevanti anche
indirettamente alla luce di una lettura estensiva evolutiva e sistematica delle norme
esistenti.

I diritti della personalità sono:


 Il diritto alla vita (non viene espressamente indicato dalla nostra Costituzione);
 Il diritto alla salute;
 Il diritto alla protezione dei segni distintivi
 I diritti che tutelano l’integrità morale del soggetto;
 Il diritto all’onore onere (percezione della dignità morale che ognuno di noi ha di se
stesso, prima esisteva un reato per chiunque ledesse l’altrui onore ossia l’ingiuria,
successivamente abolito;
 Il diritto alla reputazione (percezione che la società ha degli individui);
 Il diritto al decoro.
Sono la base del danno non patrimoniale regolato dall’art.2059.cc:
Il danno non patrimoniale deve essere risarcito solo nei casi determinati dalla legge.

Il diritto alla vita


Il diritto alla vita è il diritto alla personalità massimo (in riferimento anche alla tutela del
concepito). La vita non può essere tutelata in via risarcitoria se privata, la corte di
cassazione in una sentenza a sezioni unite ha decretato che un danno essendo una
perdita e ciò presuppone che ci sia un soggetto. La perdita della vita elimina il soggetto e
quindi il compito del risarcimento del danno non è quello di sanzionare la condotta
gravissima ma di rimuovere una perdita. La perdita presuppone la sopravvivenza di chi
subisce tale perdita, la morte istantanea eliminando il soggetto fa venire meno i
presupposti del rimedio risarcitorio. I parenti non possono agire per richiedere il
risarcimento per la perdita della vita, ma per perdita di rapporto parentale. La vita è un
bene che può essere tutelato solo in natura e non in via risarcitoria.
La vita non può essere tutelata in via risarcitoria di per sé se perduta in quanto agisce la
tutela penale. Qualora la vittima sopravvive per un certo lasso di tempo (qualche giorno)
ha diritto alla tutela risarcitoria per lesioni massime della salute talmente gravi da condurre
alla morte. Nei casi di condotte dannose che determinino la morte del danneggiato, se la
morte è istantanea o avviene nelle immediate prossimità dell’evento dannoso alla vittima
primaria non può essere riconosciuto alcun diritto al risarcimento del danno, se la vittima
primaria sopravvive un lasso di tempo ragionevole allora ci sono i presupposti per poter
riconoscere alla vittima il diritto al risarcimento del danno per perdita di integrità fisica
talmente grave da condurre la vittima alla morte.
Un'altra questione relativa al diritto alla vita è l’eutanasia, la vita può essere soppressa per
volontà esplicita del titolare di questo diritto solo nel caso che la morte sopravvenga
naturalmente e non se debba essere indotta in via farmacologica.
La disciplina del consenso informato contenuta nella legge 219/17 all’art.2 prevede che
chiunque possa revocare il consenso al trattamento sanitario. Ciò significa che se il
soggetto è sottoposto ad un trattamento salvavita che lo tiene artificialmente in vita, con il
termine di quelle cure il soggetto morirà.
La legge prevede anche la dichiarazione anticipata di trattamento, ciascun individuo può
redigere con scrittura privata consegnata ad l’ufficiale di stato civile del comune o con
l’atto pubblico o rilasciando un audio nel quale dichiari la propria volontà di essere o meno
sottoposto ad interventi di sostentamento artificiale della vita in quei casi in cui abbia perso
coscienza.
Se non ci sono disposizioni anticipate di trattamento il consenso lo forniscono il coniuge, il
partner o i familiari e in seguito alla legge 76/16 Cirinnà anche i conviventi possono fornire
il consenso.
Attualmente il dibattito verte sul fatto se sia o meno possibile consentire un’eutanasia
attiva ossia somministrare dei medicinali che inducano alla morte tutti quei pazienti che
abbiano patologie irreversibili ma che non conducano naturalmente alla morte.
La Corte Costituzione è intervenuta nella vicenda dell’aiuto al suicidio nel cosiddetto caso
Cappato. Cappato è stato penalmente perseguito per aver accompagnato dj Fabo in
Svizzera dove ha potuto porre fine alla sua vita. La procura ha dovuto esercitare un’azione
penale (che va obbligatoriamente esercitata) nei suoi confronti per aver materialmente
guidato l’auto per raggiungere la Svizzera.
La corte costituzionale ha dapprima sospeso il giudizio intimando il legislatore ad
intervenire, dal momento che il legislatore non è intervenuto ha riassunto il giudizio ed ha
stabilito che è costituzionalmente illegittima la norma che persegue l’aiuto al suicidio se
sussistono determinate condizioni:
 se il soggetto che è stato aiutato a morire si trovi in una condizione di irreversibilità
patologica;
 se vengono rispettate le procedure previste della legge 219/17, quando si attua la
volontà di chi voglia che venga sospeso l’accanimento terapeutico.
Ha creato la norma l’laddove non c’era, sconfinando i poteri che la Costituzione gli
attribuisce.

Il diritto alla salute


Il diritto alla salute non è tutelato solo nel caso sopracitato in cui una condotta dannosa
possa portare ad una lesione dell’integrità fisica talmente grave da condurre alla morte.
Il diritto alla salute è riconosciuto come diritto sociale all’art.32.Cost:
La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell'individuo e interesse della
collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti. Nessuno può essere obbligato a un
determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge.
La natura di diritto sociale garantisce livelli sanitari eguali su tutto il territorio nazionale e
cura la cura gratuita degli indigenti.
Come diritto individuale la sua lesione può dar luogo al risarcimento del danno. È proprio
l’art.32.Cost che ha dato il via alla rilettura dell’art.2059.cc che ha una formulazione
stringente (che ha portato alla sentenza della corte di cassazione a sezioni unite nel
2008).
Inoltre la salute è tutelata sotto il profilo dell’autodeterminazione cioè la libertà di affrontare
il percorso di cura con consapevolezza e come esito di libera scelta protetto dall’istituto del
consenso informato.
Il danno alla salute è un danno accertabile in termini oggettivi grazie alla scienza medica
che consente di valutare quanto quella lesione incida sulla complessiva integrità della
persona. In materia di circolazione dei veicoli nel codice delle assicurazioni private nel
decreto legislativo del 2005 gli art.318 e art.319 disciplinano i danni alla salute da
circolazione di autoveicoli dalle più lievi alle più gravi lesioni.
L’incidenza all’integrità fisica è calcolata in termini percentuali e ad ogni punto viene
collegata una cifra per un adeguato risarcimento del danno, ciò consente al sistema
nazionale di avere una certa coerenza. Il legislatore deve produrre una tabella che
disciplini questi risarcimenti per evitare disparità di trattamento. In assenza di queste
tabelle ancora non approvate abbiamo le tabelle giudiziarie del tribunale di Milano, Roma
e Venezia.
(A questa domanda si ci può arrivare tramite: la domanda sui diritti della personalità, la
domanda sul concepito e la tutela della gestante, danno da nascita indesiderata, danno
non patrimoniale).

Il diritto a tutela dei segni distintivi


Il codice disciplina il nome e lo pseudonimo contro l’usurpazione e l’abuso. I
comportamenti altrui che possono violare il diritto al nome, sono quelli che si traducono
nell’esercizio che terzi possano fare del nome per compiere attività o esprimere opinioni
che verranno attribuite al soggetto in questione. La tutela dell’ordinamento affronta è
duplice, l’art.7.cc:
1. La persona, alla quale si contesti il diritto all'uso del proprio nome o che possa risentire
pregiudizio dall'uso che altri indebitamente ne faccia, può chiedere giudizialmente la
cessazione del fatto lesivo, salvo il risarcimento dei danni.
2. L'autorità giudiziaria può ordinare che la sentenza sia pubblicata in uno o più giornali.
Esso prevede che in caso di violazione al diritto al nome il titolare possa chiedere l’azione
inibitoria (rimedio tipico, un rimedio fortemente limitativo dell’altrui libertà), chi teme di aver
subito la lesione può domandare al giudice di domandare all’offensore di non porre in
essere quella condotta. È una tutela che precede il danno.
Se la violazione del diritto al nome ha già provocato un danno può essere richiesto il
risarcimento del danno.
Allo stesso modo può essere tutelato lo pseudonimo come ad esempio il nome d’arte, quel
nome scelto dall’individuo che lo identifica univocamente (Fiorello).
Secondo molti la tutela dello pseudonimo si estende anche al profilo virtuale di chi abbia
un profilo univocamente riconducibile alla persona fisica fungendo da pseudonimo.
Infine vi è la tutela dell’immagine, fotografie e video, del titolare o dei familiari.
L’immagine può essere utilizzata da terzi solo previo consenso (liberatoria) da parte
dell’interessato a meno che non si ci trovi in un luogo pubblico.

(Lezione 16/03/2022)

Diritto alla riservatezza e alla circolazione delle informazioni di carattere personale


Sulla riservatezza rivedere il caso della principessa Soraya. Nel 1975 la giurisprudenza
ritenne sussistente in Italia il diritto alla riservatezza anche in assenza di una norma di
legge che esplicitamente lo riconoscesse.
La prima legge che disciplinava la circolazione di dati di carattere personale è la legge
n°675/2016, successivamente modificata dal codice della privacy con decreto legislativo
del 2003, ora ulteriormente modificato con l’introduzione del regolamento generale sulla
protezione dei dati personali del regolamento europeo, il 679 del 2016, il cosiddetto GDPR
(General Data Protection Regulation).

La riservatezza è riconosciuta dall’art.7 della carta dei diritti fondamentali dell’UE:


Ogni persona ha diritto al rispetto della propria vita privata e familiare, del proprio domicilio
e delle proprie comunicazioni.
La riservatezza è un concetto statico, designa l’interesse di ciascuno di noi a conservare la
segretezza o ad impedire ai terzi di acquisire informazioni relative alla nostra vita
personale privata e alla nostra vita privata familiare.
La società è mutata, in passato era possibile immaginare che ciascuno di noi fosse
“padrone” / "proprietario" in senso figurato (poiché lo si è solo di beni economici) delle
informazioni sul proprio conto, ma ad oggi la società è talmente tecnologizzata da aver
creato le condizioni per forme diffuse di controllo sociale dell’individuo. Oggi, le
informazioni sul nostro conto che si chiamano tecnicamente dati personali contengono
informazioni che identificano direttamente l’individuo (nome, account di posta elettronica,
l’identificativo online per accedere ad un sito) o informazioni che isolatamente considerate
non sono identificative, ma che possono portare alla identificazione di un individuo se
combinate con altre informazioni.

Esempio: il servizio di geo localizzazione ci permette di identificare che il titolare di un


telefonino ora si trovi in un determinato luogo; il servizio di geo localizzazione non ci
permette di individuare chi sia quell’individuo, ma associato all’identificativo del titolare di
quell’utenza telefonica e unendo le 2 informazioni, possiamo stabilire che l’individuo
identificabile con prenome e cognome si troverà ad una certa ora in un determinato luogo.

L’UE ha preso atto che le informazioni sul nostro conto circolano anche a nostra insaputa,
anche contro la nostra volontà, perciò l'ordinamento giuridico non è in grado di garantire
che saremo i controllori assoluti delle nostre informazioni e che potremo quindi decidere
chi e come acceda alle informazioni sul nostro conto.
L'ordinamento giuridico può assicurare l’attribuzione di poteri di controllo sulla circolazione
dei dati personali che ci competono e anche poteri di indirizzamento, di utilizzo e di
riacquisto dei dati medesimi; che viene regolato nel GDPR il quale si occupa proprio della
disciplina delle operazioni di trattamento dei dati personali.
Per trattamento dei dati personali si intende un’ampia categoria definita dall’art.4.2 del
GDPR:
2) «trattamento»: qualsiasi operazione o insieme di operazioni, compiute con o senza
l'ausilio di processi automatizzati e applicate a dati personali o insiemi di dati
personali, come la raccolta, la registrazione, l'organizzazione, la strutturazione, la
conservazione, l'adattamento o la modifica, l'estrazione, la consultazione, l'uso, la
comunicazione mediante trasmissione, diffusione o qualsiasi altra forma di messa a
disposizione, il raffronto o l'interconnessione, la limitazione, la cancellazione o la
distruzione;

Il GDPR fissa delle basi giuridiche del trattamento, senza le quali il trattamento è illecito
dunque può essere bloccato da qualunque interessato, le informazioni possono essere
cancellate e distrutte e il trattamento illecito costituisce anche un reato.
La prima base giuridica è il consenso dell’interessato che deve essere reso per un’attività
di trattamento di cui il titolare deve avere dichiarato la finalità o le finalità. Oltre al
consenso vi sono altre basi giuridiche ad esempio lo svolgimento dell'esercizio di un
pubblico potere, una pubblica funzione o una funzione di interesse pubblico comporta
l’utilizzazione di dati personali.
Ad esempio: la polizia che deve contrastare i crimini, ha un'autorizzazione pubblica al
trattamento dei dati personali.
O anche lo svolgimento di attività economica, la stipulazione di contratti autorizza ad
acquisire le informazioni di carattere personale su controparte.

Se invece il trattamento dei dati personali fosse lecito valgono altri poteri, chiamati diritti
dell’interessato che rientrano nel diritto alla protezione dei dati personali.
Ad esempio l’interessato ha diritto a chiedere l'aggiornamento o la rettifica delle
informazioni qualora i dati in possesso del titolare del trattamento siano antiquati, oppure
potrebbe se abbia legittimo interesse (cioè fondato) decidere di opporsi alla prosecuzione
del trattamento ad anche se valido o la trasformazione in forma anonima.
Ad esempio: Tizio ha acconsentito ad un trattamento di dati personali relativi a prodotti per
la caccia, dopo un periodo ha smesso di cacciare, non essendo più interessato dichiara di
non voler proseguire il trattamento dei dati personali sul proprio conto.

Diritto all’identità personale


L’ultimo profilo è il diritto all’identità personale che ha subito un'evoluzione enorme, nel ‘42
era considerata solo l’identità anagrafica: nome, luogo di nascita, discendenza e la data
della nascita; quindi per identità si intendeva tutto ciò che contiene il documento d’identità;
tutelava dunque solo il furto di identità.
L’identità, ad oggi, indica la rappresentazione che l’individuo ha all’interno della società
che dipende anche dall’evoluzione, dalla maturazione dell’individuo stesso.
Ogni individuo ha di sé stesso un’opinione superiore rispetto quella che hanno gli altri
quindi la rappresentazione soggettiva di un individuo non sempre coincide con quella
altrui.
Ma è possibile imporre agli altri la nostra soggettiva rappresentazione di noi stessi?
Le percezioni soggettive hanno iniziato ad animare il dibattito pubblico, come nel caso in
cui la sessualità percepita sia differente dal dato biologico.
In quasi tutti gli ordinamenti occidentali sono previste le norme sul cambiamento di sesso,
consentite dall’ordinamento giuridico ogni qual volta che il dato biologico non collima con
la percezione del genere dell’individuo.
Oggi il problema che sta animando il dibattito pubblico è se prevalga la percezione della
sessualità che l’individuo ha o il dato biologico.
Esistono i movimenti di gender che vogliono abolire come elemento identificativo
dell’individuo il genere sessuale ritenendo che la percezione soggettiva sia prevalente
rispetto al dato biologico.
Ma si ci deve porre la domanda, deve prevalere il dato oggettivo o deve prevalere la
percezione soggettiva??

Soggetti meta-individuali
L’altra categoria di soggetti sono i soggetti meta-individuali (persone giuridiche).
Sono tutti quei soggetti la cui soggettività travalica la vita degli individui che vi partecipino
o che operino all’interno dell’ente.
Gli enti possono essere di due tipi:

1) Enti a base prevalentemente personale ossia enti di natura associativa, le


cosiddette corporazioni, che comprendono
 Le associazioni e i comitati con scopo non economico (enti del libro I)
 Le società che perseguono finalità economiche (enti del libro V).
2) Enti a base prevalentemente patrimoniale, ossia le istituzioni come le fondazioni
(patrimoni destinati ad uno scopo).

Le società si dividono in tre grandi categorie:


1) Società di persone: semplice, in nome collettivo e in accomandita semplice;
2) Società di capitali: per azioni, in accomandita per azioni e a responsabilità limitata;
3) Società cooperative: che hanno uno statuto a parte.

Anche quando l’ente ha una base prevalentemente personale nasce dall’aggregazione di


più individui.
L’ordinamento riconosce la possibilità di concepire una soggettività che è destinata a
travalicare la soggettività delle persone che hanno operato per costituire perché il centro di
interessi permane anche se i soggetti che l’hanno costituito dovessero nel tempo mutare.
Ogni ente, corporazione o istituzione che sia si compone di 3 elementi:

 Un elemento personale ossia gli individui


 Un elemento patrimoniale ossia i beni
 Un elemento teleologico ossia lo scopo

Questi tre elementi sono imprescindibili in ogni ente ma si dosano in maniera differente a
seconda della tipologia dell’ente (nell’ente corporazione l’elemento personale è prevalente;
nell'ente istituzione l’elemento patrimoniale è prevalente).
Elemento di particolare importanza è lo scopo che consente di distinguere gli enti
economici del libro V dagli enti non economici del libro I.
Gli enti economici perseguono uno scopo economico che il più delle volte è anche
lucrativo.
Lo scopo economico consiste nello svolgimento dell’attività economica cioè nella
produzione di beni e servizi da immettere nel mercato, lo scopo lucrativo consiste nella
distribuzione degli utili scaturiti dall’attività economica.
Non tutte le attività economiche sono finalizzate allo scopo lucrativo o non lo perseguono
in maniera prevalente come le società cooperative che produce beni e servizi non per il
mercato, ma, per metterle a disposizione dei soci cooperatori a condizioni vantaggiose:
come le cooperative edili che venivano costituite mettendo insieme le forze e che
ripartivano gli appartamenti di un edificio.
Gli enti del libro I come comitati e fondazioni possono svolgere attività economica correlate
all’attività principale con l’unica finalità di autofinanziarsi. L’attività economica non può
essere la finalità principale. Non si può porre il divieto assoluto di svolgere attività
economica agli enti del l libro perché negherebbe loro la possibilità di autofinanziarsi in
modo da almeno far pareggiare i costi con gli attivi.
Ad esempio un’associazione che vuole preservare la letteratura folcloristica siciliana
tramite mostre a pagamento potrà conseguire dei ricavi per il suo scopo di preservazione,
non per uno scopo economico.

Enti riconosciuti ed enti di fatto


L’ente è soggetto del diritto anche se non è persona giuridica; esistono gli enti personificati
cioè enti che sono persone giuridiche ed enti non personificati.
Un ente diventa persona giuridica tramite il riconoscimento, che può avvenire tramite
l’autorità prefettizia, la pubblica amministrazione ed il prefetto del luogo in cui ha sede
l’ente.
Esistono due tipi di riconoscimento:
 Il riconoscimento "concessorio" (per gli enti del libro I) rilasciato dalla prefettura che
autorizza l’ente all’iscrizione nel registro delle persone giuridiche a seguito di una
valutazione formale sulla liceità dello scopo che l’associazione vuole perseguire.
 Il riconoscimento “legale” (per gli enti del libro V) avviene con l’iscrizione nel libro
delle imprese che comporta l’acquisto della personalità giuridica.
Il conservatore del registro delle imprese si limita a verificare che il contratto di
società abbia tutti i requisiti che la legge impone che esso abbia, cioè: un certo
capitale, un capitale nominale, un capitale versato, la sede, lo scopo, ecc…

Gli enti non riconosciuti, i cosiddetti enti di fatto sono comunque soggetti del diritto perché
esprimono un centro di interessi unitario.
Da un analisi del codice civile sembrerebbe che la soggettività venisse riconosciuta solo
alla persone giuridiche in quanto esso affianca all’ individuo (persona fisica) le persone
giuridiche, e rilascia una rilevanza marginale agli enti di fatto. In realtà molti enti rilevanti
nella nostra vita sociale ed economica sono enti non riconosciuti come i partiti politici o i
sindacati, che sono rilevanti per l'ordinamento.
Ad esempio i sindacati hanno un ruolo fondamentale per il nostro paese, perché
negoziano il contratto collettivo con le controparti datoriali, privati ma anche con lo Stato.
Hanno un ruolo riconosciuto a livello costituzionale dall’articolo 39 della costituzione.

Autonomia patrimoniale perfetta e imperfetta


La differenza che intercorre tra un ente riconosciuto e un ente di fatto risiede nel
trattamento giuridico della cosiddetta “responsabilità patrimoniale”. Le persone giuridiche
godono dell’autonomia patrimoniale perfetta mentre gli enti non riconosciuti sono
assoggettati all’autonomia patrimoniale imperfetta.
Il concetto di autonomia patrimoniale richiama una norma che esprime una regola capitale
del concetto privatistico di natura patrimoniale, sancita dall’art.2740.cc (responsabilità
patrimoniale):
1. Il debitore risponde dell'adempimento delle obbligazioni con tutti i suoi beni presenti e
futuri.
2. Le limitazioni della responsabilità non sono ammesse se non nei casi stabiliti dalla
legge.
Nel diritto romano il creditore poteva vendere il debitore in quanto lo schiavo era un bene.
Se il debitore non veniva comprato il creditore poteva squartava il debitore come monito
per gli altri che non pagare era pericoloso. Il vincolo giuridico era considerato parareligioso
ed entrava in campo la “Fides”, gli dei erano testimoni di quel contratto.
Ancora fino alla fine dell’800 i debitori inadempienti potevano essere arrestati.
Ad oggi il diritto privato si è secolarizzato arrivando alla conseguenza che nessun vincolo
di natura economica può intaccare la libertà o l’incolumità fisica, la tutela della persona,
della sua dignità prevale sui valori economici ed il debitore inadempiente rischierà solo
tutto il proprio patrimonio.
Il creditore insoddisfatto può soddisfarsi con la forza regolata dalla legge sul patrimonio del
debitore. Avviando il procedimento di pignoramento sui diritti che compongono il
patrimonio del debitore, su cui scatta il vincolo di indisponibilità, il creditore potrà far
vendere forzatamente quei diritti e dal ricavato soddisfarsi. Se il creditore è privilegiato si
potrà soddisfare con preferenza su tutti gli altri, se è un creditore chirografario dovrà
condividere il ricavato con gli altri creditori di pari grado.
Se l’ente è persona giuridica acquista l’autonomia patrimoniale perfetta che consente
all’ente di rispondere dei propri debiti, assunti dagli amministratori in nome e per conto
dell’ente, solo con il proprio patrimonio (netta separazione).
Invece l’ente di fatto, non personificato, assoggettato dall’autonomia patrimoniale
imperfetta, risponde dei propri debiti non solo con il proprio patrimonio ma espone anche
gli amministratori e/o i partecipanti all'ente (gli associati).
Esistono diversi regimi di autonomia patrimoniale imperfetta a seconda se si tratti di enti
del libro I o enti del libro V.
Il primo riguarda il regime delle associazioni non riconosciute (partiti politici e sindacati) a
cui si applica l’art.38.cc (Obbligazioni):
Per le obbligazioni assunte dalle persone che rappresentano l'associazione i terzi possono
far valere i loro diritti sul fondo comune. Delle obbligazioni stesse rispondono anche
personalmente e solidalmente le persone che hanno agito in nome e per conto
dell'associazione.

Solidalmente = cioè con regime di solidarietà, le obbligazioni solidali, sono regolate dagli
art.1292.cc e seguenti, sono un particolare regime per cui quando più debitori sono tenuti
in solido il creditore può domandare l’intera prestazione indifferentemente all’uno o
all’altro. Chi adempie libera tutti gli altri rivolgendosi poi si coobbligati per recuperare la
parte spettante. Nel caso dell’ente l’amministratore Tizio potrà essere chiamato a
rispondere del debito dell’ente e dovrà pagare tutto ma poi dovrà recuperare tutto dall’ente
se ci sono beni, se invece sono insufficienti l’amministratore non recupera i soldi.

Esiste anche il regime di autonomia patrimoniale imperfetta degli enti del libro V, non tutte
le società sono dotate di personalità giuridica, ossia le società di persone.
Le società di persone non sono soggette a riconoscimento tramite iscrizione nel registro
delle imprese e quindi non sono hanno personalità e a loro si applica il regime di
autonomia patrimoniale imperfetta.
 Per quanto riguarda le società semplici dei debiti rispondono l’ente con il suo
patrimonio e tutti i soci. Il socio chiamato ad estinguere il debito al posto dell’ente
perché obbligato in solido, può sollevare il beneficio di escussione, cioè può
chiedere al creditore di cercare di trovare soddisfacimento nel patrimonio della
società indicando su quali beni potrà trovare soddisfacimento e se non soddisfatto a
sufficienza il socio risponderà della parte restante.
 Nel caso di società in nome collettivo dei debiti rispondono la società e tutti i soci. Il
vincolo del socio è solo sussidiario cioè il creditore può rivolgersi al socio solo se
non ha trovato beni a sufficienza nel patrimonio della società.
 Per la società in accomandita semplice vi sono due diverse tipologie di soci: gli
accomandatari e gli accomandanti.
Gli accomandanti sono solo soci finanziatori e possono solo perdere il capitale
investito. Invece gli accomandatari rispondono come i soci della società in nome
collettivo, quindi personalmente e solidalmente. Se il creditore della società in
accomandita semplice non trova beni sufficienti per soddisfarsi nel patrimonio
societario potrà rivolgersi ai soci accomandatari.

Per la società semplice le norme da ricordare sono gli art.2267.cc e art.2268.cc.


Art.2267.cc (Responsabilità per le obbligazioni sociali):
1. I creditori della società possono far valere i loro diritti sul patrimonio sociale. Per le
obbligazioni sociali rispondono inoltre personalmente e solidalmente i soci che hanno agito
in nome e per conto della società e, salvo patto contrario, gli altri soci.
2. Il patto deve essere portato a conoscenza dei terzi con mezzi idonei; in mancanza, la
limitazione della responsabilità o l'esclusione della solidarietà non è opponibile a coloro
che non ne hanno avuto conoscenza.
Art.2268.cc (Escussione preventiva del patrimonio sociale):
Il socio richiesto del pagamento di debiti sociali può domandare, anche se la società è in
liquidazione, la preventiva escussione del patrimonio sociale, indicando i beni sui quali il
creditore possa agevolmente soddisfarsi.
Per la società in nome collettivo le norme da ricordare sono gli art. 2291.cc e art.2304.cc.
Art.2291.cc (Nozione):
1. Nella società in nome collettivo tutti i soci rispondono solidalmente e illimitatamente per
le obbligazioni sociali.
2. Il patto contrario non ha effetto nei confronti dei terzi.
Art.2304.cc. (Responsabilità dei soci):
I creditori sociali, anche se la società è in liquidazione, non possono pretendere il
pagamento dai singoli soci, se non dopo l'escussione del patrimonio sociale.
Per la società in accomandita semplice la norma da ricordare è l’art.2313.cc.
Art.2313.cc (Nozione):
1. Nella società in accomandita semplice i soci accomandatari rispondono solidalmente e
illimitatamente per le obbligazioni sociali, e i soci accomandanti rispondono limitatamente
alla quota conferita.
2. Le quote di partecipazione dei soci non possono essere rappresentate da azioni.

Per gli enti del libro I il riconoscimento concessorio è frutto di un procedimento, perché
prima di potersi iscrivere al registro delle persone giuridiche (tenuto presso ogni tribunale
della Repubblica) è necessario che l’autorità della pubblica amministrazione faccia una
valutazione preliminare, che è una mera verifica di liceità dell’atto costitutivo.
Alcuni enti preferiscono non assoggettarsi al riconoscimento come i sindacati che nascono
come un contropotere del potere datoriale. Il primo datore di lavoro è lo Stato, quindi non
hanno mai voluto assoggettarsi al controllo statale.
Questo nonostante il fatto che l'art.39.cc della costituzione attribuisca ai sindacati
riconosciuti e in Italia non ce ne sono, di poter stipulare contratti collettivi con validità erga
omnes. I contratti collettivi non hanno un valore vincolante giuridico erga omnes, ma
l’hanno di fatto perché per accordo tra Stato e sindacati e associazioni rappresentativi tra
datori di lavoro e sindacati i contratti collettivi vengono spontaneamente rispettati.
Al consenso della P.A segue l’iscrizione al registro delle persone giuridiche che è una
pubblicità-notizia.

Pubblicità
La pubblicità è l’insieme dei dispositivi tecnici che consentono, tramite l’annotazione in
pubblici registri, albi, elenchi e documenti, di portare alla conoscenza legalmente
riconosciuta di terzi fatti, atti, negozi e contratti.
La pubblicità può essere notizia, come la nascita di un nuovo soggetto o come l’iscrizione
nel registro delle persone giuridiche che ha come unica finalità di rendere noto ai terzi che
nell'ambito territoriale è stato costituito un nuovo soggetto meta-individuale.
La pubblicità potrebbe avere anche una funzione dichiarativa, come nel caso, della
trascrizione o dell’iscrizione. In questo caso alla pubblicità viene affidato il compito di
dirimere i conflitti di attribuzione tra aventi causa dello stesso avente causa; cioè quando
due soggetti affermino di aver acquisito lo stesso diritto dal medesimo soggetto a
prevalere è chi per primo ha compiuto l’adempimento pubblicitario.
La pubblicità può essere costitutiva ossia quando l’atto pubblicitario fa sorgere una qualità
nuova. L’esempio più noto è l’iscrizione dell’ipoteca che è un diritto reale di garanzia che
sorge solo dopo che l’avente diritto ottiene la registrazione nel registro immobiliare. Un
altro esempio importante di pubblicità costitutiva è dato dalle società di capitali (SPA o
SRL o in accomandita per azioni) che acquistano la personalità giuridica e quindi il regime
di autonomia patrimoniale perfetta, con l’iscrizione al registro delle imprese.

La prima norma delle società per azioni ossia l’art.2325.cc (Responsabilità):


1. Nella società per azioni per le obbligazioni sociali risponde soltanto la società con il suo
patrimonio.
2. In caso di insolvenza della società, per le obbligazioni sociali sorte nel periodo in cui le
azioni sono appartenute ad una sola persona, questa risponde illimitatamente quando i
conferimenti non siano stati effettuati secondo quanto previsto dall'articolo 2342 o fin
quando non sia stata attuata la pubblicità prescritta dall'articolo 2362.

Per eseguire l’iscrizione al registro delle imprese, il conservatore del registro delle imprese
deve constatare se nell’atto costitutivo vi siano tutti gli elementi prescritti dall’art.2328.cc
(Atto costitutivo):
1. La società può essere costituita per contratto o per atto unilaterale.
2. L'atto costitutivo deve essere redatto per atto pubblico e deve indicare:
1) il cognome e il nome o la denominazione, la data e il luogo di nascita o lo Stato di
costituzione, il domicilio o la sede, la cittadinanza dei soci e degli eventuali promotori,
nonché il numero delle azioni assegnate a ciascuno di essi;
2) la denominazione e il comune ove sono poste la sede della società e le eventuali sedi
secondarie;
3) l'attività che costituisce l'oggetto sociale;
4) l'ammontare del capitale sottoscritto e di quello versato;
5) il numero e l'eventuale valore nominale delle azioni, le loro caratteristiche e le modalità
di emissione e circolazione;
6) il valore attribuito ai crediti e beni conferiti in natura;
7) le norme secondo le quali gli utili devono essere ripartiti;
8) i benefici eventualmente accordati ai promotori o ai soci fondatori;
9) il sistema di amministrazione adottato, il numero degli amministratori e i loro poteri,
indicando quali tra essi hanno la rappresentanza della società;
10) il numero dei componenti il collegio sindacale;
11) la nomina dei primi amministratori e sindaci ovvero dei componenti del consiglio di
sorveglianza e, quando previsto, del soggetto incaricato di effettuare la revisione legale dei
conti;
12) l'importo globale, almeno approssimativo, delle spese per la costituzione poste a
carico della società;
13) la durata della società ovvero, se la società è costituita a tempo indeterminato, il
periodo di tempo, comunque non superiore ad un anno, decorso il quale il socio potrà
recedere.
3. Lo statuto contenente le norme relative al funzionamento della società, anche se forma
oggetto di atto separato, costituisce parte integrante dell'atto costitutivo. In caso di
contrasto tra le clausole dell'atto costitutivo e quelle dello statuto prevalgono le seconde.

(Lezione 21/03/2022)

Associazioni, comitati e fondazioni


Associazioni e comitati (corporazioni) sono a base prevalentemente personale e le
fondazioni sono a base prevalentemente patrimoniale.
L’atto costitutivo degli atti costituisce l’ente stesso, creando il suo centro di interessi, la
natura giuridica dell’atto muta a seconda del tipo di ente che si vuole costituire.
Se è una corporazione l’atto sarà un contratto plurilaterale con comunione di scopi che si
chiamerà contratto di associazione o di società se stiamo costituendo una società di
persone, di capitali o cooperative.

Associazioni
Le associazioni sono enti a base prevalentemente personale ossia le corporazioni e sono
regolate dal libro primo agli art.11.cc e seguenti.
Per costituire un’associazione si deve ricorrere ad un contratto solenne come stabilito
dall’art.14.cc:
1. Le associazioni e le fondazioni devono essere costituite con atto pubblico.
2. La fondazione può essere disposta anche con testamento.

La forma dell’atto
Quando le legge prescrive la forma è necessario che l’atto sia un atto scritto, sia atto
pubblico che scrittura privata. In questo caso non basta che sia formale, ma deve essere
solenne ossia deve avere la forma di atto pubblico, a pena di nullità.
Il codice regola le diverse varianti della forma nel libro VI perché i documenti sono mezzi di
prova oltre ad essere requisiti di forma.
La disciplina di atto pubblico e scrittura privata si trova nella cosiddetta disciplina di prova
documentale negli art.2699.cc e seguenti.
Atto pubblico
L’atto pubblico è il documento redatto, con le dovute formalità, da un notaio o un altro
pubblico ufficiale che sia abilitato ad attribuirgli pubblica fede (non tutti i pubblici ufficiali
possono, sono limitati a quello che svolgono).
L’efficacia probatoria che ha un atto pubblico (cosa tramite l’atto si può provare) è stabilità
dall’art.2700.cc (Efficacia dell'atto pubblico):
L'atto pubblico fa piena prova, fino a querela di falso, della provenienza del documento dal
pubblico ufficiale che lo ha formato, nonché delle dichiarazioni delle parti e degli altri fatti
che il pubblico ufficiale attesta avvenuti in sua presenza o da lui compiuti.
L’atto pubblico attesta che le cose siano avvenute, quale sia il vero significato delle cose
spetta al giudice stabilirlo.
Scrittura privata
La scrittura privata è regolata dall’art.2702.cc e seguenti ed è il documento redatto
direttamente dalle parti.
L’art.2702.cc (Efficacia della scrittura privata) stabilisce che:
La scrittura privata fa piena prova, fino a querela di falso, della provenienza delle
dichiarazioni da chi l'ha sottoscritta, se colui contro il quale la scrittura è prodotta ne
riconosce la sottoscrizione, ovvero se questa è legalmente considerata come riconosciuta.
Se controparte disconosce la propria sottoscrizione priva la scrittura privata del valore di
prova e possiamo agire per falso, se risulta tramite perizia calligrafica che il soggetto ha
disconosciuto di proposito incorrerà in sanzioni penali.
Per evitare che la sottoscrizione possa essere disconosciuta è stabilito dll’art.2703.cc
(sottoscrizione autenticata):
.1. Si ha per riconosciuta la sottoscrizione autenticata dal notaio o da altro pubblico
ufficiale a ciò autorizzato.
2. L'autenticazione consiste nell'attestazione da parte del pubblico ufficiale che la
sottoscrizione è stata apposta in sua presenza. Il pubblico ufficiale deve previamente
accertare l'identità della persona che sottoscrive.
Per concludere un contratto formale è sufficiente la scrittura privata ma se la legge
richiede la forma solenne bisogna recarsi dal notaio e redigere l’atto pubblico come l’art
14.

La natura dell’atto costitutivo delle associazioni è un contratto plurilaterale con comunione


di scopo che ha la caratteristica di avere la struttura di contratto aperto all’ingresso di
nuovi associati, come per il contratto di società. Vengono chiamati contratti con ponti
girevoli e sono contratti per adesione ed è fisiologico che alle parti originali, che nel corso
del tempo possono uscire dall’associazione, senza che la struttura contrattuale venga
meno, se ne affianchino di nuove o che le sostituiscano.
È stabilito dall’art.1332.cc (Adesione di altre parti al contratto):
Se ad un contratto possono aderire altre parti e non sono determinate le modalità
dell'adesione, questa deve essere diretta all'organo che sia stato costituito per l'attuazione
del contratto o, in mancanza di esso, a tutti i contraenti originari.
L’atto pubblico che costituisce l’associazione deve contenere alcune informazioni che
sono indicate nell’art.16.cc (Atto costitutivo e statuto. Modificazioni):
1. L'atto costitutivo e lo statuto devono contenere la denominazione dell'ente, l'indicazione
dello scopo, del patrimonio e della sede, nonché le norme sull'ordinamento e
sull'amministrazione. Devono anche determinare, quando trattasi di associazioni, i diritti e
gli obblighi degli associati e le condizioni della loro ammissione; e, quando trattasi di
fondazioni, i criteri e le modalità di erogazione delle rendite.
2. L'atto costitutivo e lo statuto possono inoltre contenere le norme relative alla estinzione
dell'ente e alla devoluzione del patrimonio, e, per le fondazioni, anche quelle relative alla
loro trasformazione.
3. abrogato (d.p.r. 10 febbraio 2000, n. 361)
Inerente all’art.16.1.cc vengono indicate anche le modalità e le condizioni di ammissione
degli associati ad esempio ci sono delle associazioni nelle quali non si può aderire senza
essere stati presentati da altri soci; oppure vi sono organizzazioni di tendenze cioè
associazioni che hanno un carattere ideologico come associazioni di natura confessionale,
di natura politica o di ispirazione economica.
Il contratto dell’associazione conferisce agli associati diritti e obblighi, come il diritto al voto
in assemblea, l’obbligo di conferimento solo all’atto dell’adesione all’associazione oppure
molte associazioni, prevedono una quota annuale che l’associato deve versare per
rimpinguare il fondo comune, vi sono anche una serie di regole di condotta che l’associato
deve rispettare. Tutte queste indicazioni possono contenute in un unico atto costitutivo,
cioè l’atto costitutivo e lo statuto che contiene tutte le regole di funzionamento
dell’associazione oppure è possibile redigere per atto pubblico solo l’atto costitutivo, il
quale riporterà solo le indicazioni essenziali previste dall’art.16.cc e poi invece tutte le
norme di dettaglio, norme specifiche sulla distribuzione degli organi, le loro competenze e
le regole di funzionamento degli organi saranno contenute in un atto separato, lo statuto
allegato all’atto costitutivo.
Il nostro codice civile offre un articolazione minima delle associazioni, ritiene sufficiente la
presenza di soli due organi:
 Un organo deliberativo, l’assemblea, che assolve anche una funzione di controllo
degli operatori e degli amministratori;
 Un organo esecutivo costituito dall’amministratore o dagli amministratori.
I privati in sede di realizzazione di atti costituivi delle associazioni possono creare una
struttura interna più articolata, con organi come il presidente che può avere una funzione
di rappresentazione esterna, oppure organi di controllo specifici sul modello del collegio
sindacale.
L’amministratore o gli amministratori possono o essere associati, oppure possono essere
scelti all’esterno dell’associazione qualora vi sia la necessità di avere particolari
competenze manageriali.
Il rapporto che lega amministratori e associazione è il mandato ossia un contratto che
costituisce il modello dell’intera categoria dei contratti di cooperazione (contratti di
agenzia, di mediazione).
Il mandato è regolato dagli art.1703.cc e seguenti.
La definizione viene data dall’art.1703.cc (Nozione):
Il mandato è il contratto col quale una parte (mandatario) si obbliga a compiere uno o più
atti giuridici per conto dell'altra (mandante).
Il mandato è un contratto oneroso, prevede una controprestazione (compenso) a favore
del mandatario. Di regola al mandatario viene conferito anche il potere di rappresentanza,
questo potere non discende dal mandato ma dalla procura, che è un atto unilaterale
recettizio che affianca il mandato.
Nel caso degli amministratori il mandato implica anche poteri di rappresentanza perché gli
amministratori oltre che agire per conto dell’ente, agiscono anche in nome di quest’ultimo.
Questo potere di rappresentanza è detto rappresentanza organica in quanto non è frutto di
una specifica procura, ma è correlato all’ufficio di amministratore.
Nel rapporto di rappresentanza ordinario vi sono tre soggetti: il rappresentante, il
rappresentato e il terzo con il quale il rappresentante entra in rapporto compiendo atti e gli
effetti si produrranno direttamente nella sfera giuridica del rappresentato (interdetto, tutore,
terzo, oppure minore, genitore, curatore).
Nella rappresentanza organica il rapporto non è trilatere ma bilaterale, perché
amministratore ed ente sono un unico organo.
Gli amministratori
Negli enti complessi si individuano delle funzioni a cui sono correlati poteri, che vengono
attribuite ad una persona fisica (organo mono personale) o ad una pluralità di soggetti
(organo collettivo). Agli amministratori viene attribuita la funzione amministrativa (di
gestione del patrimonio), esecutiva (cioè di attuazione della volontà dell’assemblea) e di
perseguimento dello scopo per il quale l’associazione è stata costituita.
Agli amministratori sono attribuiti una serie di diritti, poteri e obblighi, tipici dell’ufficio, e tra
questi poteri quello di rappresentanza.
Gli amministratori rispondono quindi nei confronti dell’associazione sotto due diversi profili:
1.Se violano la legge, l’atto costituivo, lo statuto, una delibera assembleare e recano
danno all’associazione, l’associazione potrà agire con un’azione di responsabilità
contrattuale per risarcimento dei danni;
2.L’azione per malagestio, legata sostanzialmente ad errori macroscopici di tipo
manageriale, amministrativi che hanno determinato un danno per l’ente. L’andamento
dell’associazione non dipende però soltanto dalle scelte dell’amministratore ma anche
dal contento, quindi gli amministratori hanno una certa area di discrezionalità all’interno
della quale la loro azione non può essere sindacata come forma di responsabilità nei
confronti dell’ente stesso.
L’azione di responsabilità nei confronti di amministratori è deliberata dall’assemblea, che
funge anche da organo di controllo dell’operato degli amministratori dell’ente.
L’atto costitutivo prevede che l’amministrazione possa essere disgiuntiva o congiuntiva.
L’amministrazione disgiuntiva solitamente opera per gli atti di ordinaria amministrazione,
mentre per gli atti eccedenti l’ordinaria amministrazione è necessario che la decisione sia
di comune accordo dagli amministratori, quindi in deliberazione congiunta.
Quando l’amministrazione è disgiuntiva non risponde dell’eventuale danno che sia
derivato all’associazione l’amministratore che era ignaro dell’atto dannoso, mentre se
l’amministratore era a conoscenza ma non ha prestato il proprio consenso comunque
risponde del danno a meno che non manifesti esplicitamente il suo dissenso, questo è
sancito dall’art.18.cc (Responsabilità degli amministratori):
Gli amministratori sono responsabili verso l'ente secondo le norme del mandato. E' però
esente da responsabilità quello degli amministratori il quale non abbia partecipato all'atto
che ha causato il danno, salvo il caso in cui, essendo a cognizione che l'atto si stava per
compiere, egli non abbia fatto constare del proprio dissenso.
Un ulteriore compito degli amministratori è anche quello di convocare l’assemblea e di
redigere il bilancio preventivo e consuntivo.

L’assemblea
L’assemblea va convocata almeno una volta l’anno proprio per approvare il bilancio e può
essere convocata ogni qualvolta ve ne sia la necessità, come indicato dall’art.20.2, o
quando ne faccia richiesta almeno un decimo degli associati.
Nel caso in cui la convocazione in assemblea sia stata richiesta dagli associati e gli
amministratori non vi provvedano allora gli associati potranno rivolgersi al tribunale.
L’assemblea è un organo deliberativo e di controllo (qualora non vi sia un apposito organo
di controllo), ed è un organo collettivo. Nell’organo collegiale per formare una volontà
collettiva è necessaria l’applicazione del principio maggioritario.
Il principio maggioritario ha diverse gradazioni:
 La maggioranza relativa cioè il voto favorevole della metà più uno dei presenti;
 La maggioranza assoluta, cioè il voto favorevole della metà più uno degli aventi
diritto al voto;
 La maggioranza qualificata, cioè ogni maggioranza più elevata di quella assoluta,
potrebbe essere dei 2/3 dei 3/4 e così via.
Nel disciplinare l’assemblea l’art.21.cc cerca di contemperare 2 interessi contrapposti:
1. il primo interesse è quello di garantire la più ampia partecipazione possibile degli
associati e questo interesse è perseguito prevedendo dei quorum costituiti, cioè la
previsione della necessità che partecipino all’assemblea un certo numero di associati
affinché l’assemblea possa validamente deliberare.
2. l’altro interesse contrapposto è quello dell’efficacia e della speditezza dell’azione
amministrativa dell’ente, per fornire gli indirizzi politici, cioè indicare quali azioni
intraprendere per perseguire nella maniera più efficiente possibile lo scopo.

Per contemperare questi due interessi l’art.21.cc prevede che per le deliberazioni per le
assemblee ordinarie vi sia una prima ed una seconda chiamata denominate prima e
seconda convocazione.
Un’assemblea viene comunicata convocando gli associati, indicando giorno, ora, luogo e
indicando anche gli argomenti dei quali si tratterà e sui quali si delibererà, ossia l’ordine
del giorno. Nessuno può essere chiamato a decidere su argomenti di cui non si è avuto il
tempo di riflettere, di studiare, quindi non è possibile introdurre nuovi argomenti, a meno
che tutta l’assemblea unanimemente lo acconsente.
L’art.21.cc sancisce:
1. Le deliberazioni dell'assemblea sono prese a maggioranza di voti e con la presenza di
almeno la metà degli associati. In seconda convocazione la deliberazione è valida
qualunque sia il numero degli intervenuti. Nelle deliberazioni di approvazione del bilancio e
in quelle che riguardano la loro responsabilità gli amministratori non hanno voto.
2. Per modificare l'atto costitutivo e lo statuto, se in essi non è altrimenti disposto,
occorrono la presenza di almeno tre quarti degli associati e il voto favorevole della
maggioranza dei presenti.
3. Per deliberare lo scioglimento dell'associazione e la devoluzione del patrimonio occorre
il voto favorevole di almeno tre quarti degli associati.
La norma è una norma dispositiva, prevede la regola, ma ammette la deroga, quindi
nell’atto costitutivo si possono indicare dei quorum differenti.
Le delibere assembleari potrebbero essere invalide, perché contrarie a norme imperative o
all’atto costitutivo o allo statuto e in questo caso possono essere annullate su istanza degli
amministratori medesimi o di qualunque associato o del pubblico ministero.
L’annullamento è una delle due forme di invalidità dell’atto o del contratto, al pari della
nullità, l’annullamento retroagisce, cioè travolge l’atto, privandolo degli affetti sin
dall’origine e di conseguenza travolge tutti gli atti consequenziali.
Nel caso delle delibere assembleari art.23.2.cc stabilisce che l’annullamento della delibera
assembleare non travolge gli acquisti di terzi in buona fede, quindi anche se a titolo
gratuito.
L’annullamento delle delibere assembleari prevede il contemperamento di interessi e la
tutela del legittimo affidamento dei terzi ma in buona fede (ignaro, inconsapevole del fatto).

Gli associati
I singoli associati non sono considerati un organo, perché compongono quell’organo
collegiale che è l’assemblea.
L’art.24.cc (norma dispositiva) ne disciplina lo status (Recesso ed esclusione degli
associati):
1. La qualità di associato non è trasmissibile, salvo che la trasmissione sia consentita
dall'atto costitutivo o dallo statuto.
2. L'associato può sempre recedere dall'associazione se non ha assunto l'obbligo di farne
parte per un tempo determinato. La dichiarazione di recesso deve essere comunicata per
iscritto agli amministratori e ha effetto con lo scadere dell'anno in corso, purchè sia fatta
almeno tre mesi prima.
3. L'esclusione d'un associato non può essere deliberata dall'assemblea che per gravi
motivi: l'associato può ricorrere all'autorità giudiziaria entro sei mesi dal giorno in cui gli è
stata notificata la deliberazione.
4. Gli associati, che abbiano receduto o siano stati esclusi o che comunque abbiano
cessato di appartenere all'associazione, non possono ripetere i contributi versati, nè
hanno alcun diritto sul patrimonio dell'associazione.

Cause di estinzione dell’associazione


Le cause di estinzione dell’associazione sono disciplinate negli art.27.cc e seguenti.
Il codice prevede che le cause di scioglimento dell’associazione possano essere
contenute nell’atto costitutivo, ad esempio una volta raggiunto lo scopo l’associazione
essa si estingue. Un’altra causa di scioglimento dell’associazione può essere la delibera
dell’assemblea, potrebbe essere una libera scelta degli associati, infine l’art.27.cc prevede
come causa di scioglimento dell’associazione il venir meno di tutti gli associati.
Questa è una regola che innova rispetto al diritto romano, dove si diceva che tres faciunt
collegium, cioè per mantenere in vita un’associazione, un’attività fossero necessario
almeno tre associati, perché tre è il numero minimo per applicare il principio maggioritario,
quindi ridottosi il numero degli associati a due l’associazione si estingue.
Il diritto contemporaneo invece prevede che l’associazione possa sopravvivere anche con
un solo associato ma è una fase transitoria, un’associazione non può rimanere in vita con
un solo associato per un tempo indefinito, l’unico associato deve cercare di ripristinare la
pluralità altrimenti deve decretare lo scioglimento dell’associazione.
Deliberato lo scioglimento scatta per gli amministratori il divieto di nuove operazioni
sancito nell’art.29.cc, gli amministratori dovranno limitarsi a compiere atti di ordinaria
amministrazione, cioè di conservazione e di amministrazione del patrimonio e qualora
trasgrediscano a questo divieto risponderanno personalmente e solidalmente degli atti che
hanno compiuto anche se c’è regime di autonomia patrimoniale perfetta.
Infine si apre la fase della liquidazione, vengono nominati uno o più liquidatori che sono
soggetti terzi che con neutralità e indipendenza dovranno liquidare, cioè monetizzare
l’intero patrimonio, vendendo tutti i beni mobili e immobili di cui l’ente è titolare per
costituirsi le liquidità necessarie per estinguere le obbligazioni.
Nel caso di autonomia patrimoniale perfetta se i debiti sono più del patrimonio i creditori
rimarranno parzialmente insoddisfatti se invece ci dovesse essere autonomia patrimoniale
imperfetta gli amministratori dovranno soddisfare i creditori con il proprio patrimonio.
Se il patrimonio dovesse essere superiore rispetto ai debiti sociali si apre la fase della
devoluzione, cioè il trasferimento del patrimonio ad un altro ente, non può essere
distribuito tra gli associati in quanto ente non economico.
La devoluzione è regolata dall’art.31.cc:
1. I beni della persona giuridica, che restano dopo esaurita la liquidazione, sono devoluti in
conformità dell'atto costitutivo o dello statuto.
2. Qualora questi non dispongano, se trattasi di fondazione, provvede l'autorità
governativa, attribuendo i beni ad altri enti che hanno fini analoghi; se trattasi di
associazione, si osservano le deliberazioni dell'assemblea che ha stabilito lo scioglimento
e, quando anche queste mancano, provvede nello stesso modo l'autorità governativa.
(Norma suppletiva, opera solo qualora non vi sia una norma stabilità dalle parti nel
contratto).
3. I creditori che durante la liquidazione non hanno fatto valere il loro credito possono
chiedere il pagamento a coloro ai quali i beni sono stati devoluti, entro l'anno dalla
chiusura della liquidazione, in proporzione e nei limiti di ciò che hanno ricevuto.
L’autorità governativa può essere il ministero delle attività produttive di concerto con il
ministero dell’economia e delle finanze, sono questi i ministeri che hanno competenza
sugli enti, anche enti del libro I del codice civile.

Comitati
I comitati sono un altro ente a base personale quindi a struttura corporativa.
Come le associazioni sono a base associativa, ma hanno.
I comitati sono un’aggregazione di individui che si uniscono per perseguire uno scopo non
economico di natura congiunturale, cioè circoscritto nel tempo anche per un’ attività che si
esaurisce brevemente. Ad esempio il comitato che organizza le olimpiadi, dei mondiali di
calcio, della festa patronale. Una volta completata quella manifestazione, quindi una volta
raggiunto lo scopo, il comitato si scioglie.
L’art.39.cc trasmette questa natura contingente tramite la tecnica dell’elencazione
meramente indicativa, ma non esaustiva.
Art. 39. (Comitati):
I comitati di soccorso o di beneficenza e i comitati promotori di opere pubbliche,
monumenti, esposizioni, mostre, festeggiamenti e simili sono regolati dalle disposizioni
seguenti, salvo quanto è stabilito nelle leggi speciali.
I comitati possono essere riconosciuti o meno alla pari delle associazioni.
All’interno della categoria del comitato distinguiamo 3 tipi di soggetti:
- Promotori: coloro i quali assumono l’iniziativa della costituzione del comitato.
- Oblatori/Sottoscrittori: coloro i quali finanziano le attività del comitato.
- Componenti/Amministratori: coloro i quali amministrano il patrimonio, si assumono
l’incarico di amministrare i fondi raccolti e di impiegarli per la finalità prestabilita.
Gli amministratori ed i promotori del comitato sono assoggettati a una forma di
responsabilità decretata dall’art.40.cc, cioè gli organizzatori del comitato hanno l’obbligo di
preservare, custodire i fondi raccolti e assicurarne la destinazione allo scopo per il quale il
comitato è stato costituito. I promotori rispondono personalmente e solidalmente della
conservazione dei fondi e della loro non distrazione, distrarre un fondo significa utilizzarlo
per una finalità differente rispetto a quello per il quale è stato raccolto.
La responsabilità dei componenti del comitato che sono al pari degli amministratori, coloro
che lo gestiscono, l’art.41.cc la distingue a seconda che vi sia autonomia patrimoniale
perfetta o meno. Se il comitato è riconosciuto delle obbligazioni contratte in nome e per
conto del comitato risponde soltanto il comitato stesso con il suo fondo, se invece il
comitato non è riconosciuto di quelle obbligazioni rispondono oltre che il comitato, anche i
suoi componenti con il loro patrimonio personale i quali dispongono personalmente e
solidalmente, come le associazioni non riconosciute (art.38.cc).
Mentre i sottoscrittori chiamati anche oblati rispondono solo limitatamente a quanto hanno
versato cioè al proprio finanziamento.

Fondazioni
Le fondazioni a differenza delle associazioni e dei comitati sono enti a base
prevalentemente patrimoniale, cioè sono un’istituzione.
La fondazione è un patrimonio destinato ad uno scopo non economico ma di utilità sociale,
ciò significa che lo scopo non solo non deve essere economico ma finalizzato ad offrire
benefici alla collettività o a una parte di essa come ad esempio una fondazione che ha
finalità di promozione culturale.
La base istituzionale si riflette sia sulla disciplina sia sulla natura dell’atto costitutivo.
Al pari delle associazioni l’atto costitutivo delle fondazioni deve avere la forma solenne
(art.14.cc) e ad esse si applica l’art.16.cc che indica tutto ciò che l’atto costitutivo deve
contenere.
Nel caso delle fondazione non ci sono diritti e obblighi per gli associati visto che non ve ne
sono. L’art.16.cc sancisce che l’atto costitutivo della fondazione deve specificare i criteri e
le modalità di elargizione delle somme, perché per il nostro codice la fondazione è soltanto
la fondazione di elargizione.
Nel 1942 le fondazioni erano concepite unicamente come enti non economici destinati a
finanziare le attività di altri soggetti che rientrassero nell’atto costitutivo della fondazione,
quindi la funzione della fondazione non era lo svolgimento di una attività autonoma come
le associazioni ma nel finanziario le attività altrui (ovviamente non qualunque attività ma
solo quelle attività che rientravano nell’atto costitutivo).
Per evitare che la scelta di quale attività finanziare sia messa alla discrezionalità pura degli
amministratori nell’atto costitutivo dovranno anche specificati i criteri ai quali gli
amministratori si devono attenere.
La fondazione negli ultimi decenni ha subito nella realtà socioeconomica un’autentica
trasformazione, passando da ente finalizzato soltanto a finanziare attività altrui ad ente
che svolge direttamente attività non economica necessaria per il perseguimento del fine di
pubblica utilità. Trasformandosi da fondazione in elargizione a fondazione in attività.
La disciplina del nostro codice è una disciplina minimale che è inadeguata in quanto
individua come unici organi delle fondazioni gli amministratori per i quali valgono tutte le
considerazioni degli amministratori dell’associazione. Infatti le fondazioni hanno la loro
normativa speciale che prevede un’articolazione interna molto più complessa che impone
la separazione tra organi di indirizzo politico e organi di gestore (amministrazione e
controllo), chi amministra non può controllare e chi dà l’indirizzo politico non può essere
organo esecutivo.

Costituzione della fondazione


La fondazione trattandosi di un ente/istituzione a base prevalentemente personale si può
costituire o con un atto unilaterale inter vivos o con atto mortis causa e ad assumere
l’iniziativa è il fondatore che segrega una parte del suo patrimonio e lo destina alla
creazione della fondazione.
Segregare vuol dire che quei beni vengono sottratti al patrimonio del fondatore e ai suoi
creditori e vengono vincolati al perseguimento dello scopo per il quale la fondazione è
stata costituita, quando a questa segregazione si associa l’atto costitutivo e il
riconoscimento (necessario il riconoscimento giuridico in quanto la fondazione è un
patrimonio da destinare e ciò che caratterizza un patrimonio è la sua autonomia), sorge il
nuovo soggetto di diritto, il quale poi verrà amministrato dagli amministratori, i quali
avranno il compito di perseguire il fine di utilità sociale, rispettando quei criteri indicati
dall’atto costitutivo per evitare che gli amministratori godano di una discrezionalità
massima.

Organo di controllo
Nelle fondazioni non c’è un’assemblea, che nelle associazioni oltre che alla funzione di
indirizzo politico svolge anche una funzione di controllo. L’art.25.cc ha affidato il controllo
delle fondazioni all’esterno, che è attribuito all’autorità governativa, al ministero delle
attività produttive e al ministero dell’economia e delle finanze.
Art.25.cc (Controllo sull'amministrazione delle fondazioni):
1. L'autorità governativa esercita il controllo e la vigilanza sull'amministrazione delle
fondazioni; provvede alla nomina e alla sostituzione degli amministratori o dei
rappresentanti, quando le disposizioni contenute nell'atto di fondazione non possono
attuarsi; annulla, sentiti gli amministratori, con provvedimento definitivo, le deliberazioni
contrarie a norme imperative, all'atto di fondazione, all'ordine pubblico o al buon costume;
può sciogliere l'amministrazione e nominare un commissario straordinario, qualora gli
amministratori non agiscano in conformità dello statuto o dello scopo della fondazione o
della legge.
2. L'annullamento della deliberazione non pregiudica i diritti acquistati dai terzi di buona
fede in base ad atti compiuti in esecuzione della deliberazione medesima.
3. Le azioni contro gli amministratori per fatti riguardanti la loro responsabilità devono
essere autorizzate dall'autorità governativa e sono esercitate dal commissario
straordinario, dai liquidatori o dai nuovi amministratori.

Estinzione delle fondazioni


Per quanto riguarda l’estinzione delle fondazioni, l’articolo 27 stabilisce che le fondazioni si
estinguono per le cause previste dall’atto costitutivo. L’estinzione viene deliberata
dall’autorità amministrativa che prende atto che una delle cause di estinzione previste
nell’atto costitutivo si sia verificata.
L’alternativa è prevista dall’art.28.cc che prevede l’istituto della trasformazione, quando lo
scopo istituzionale della fondazione è stato raggiunto o quando è divenuto impossibile da
raggiungere o quando è divenuto di scarsa utilità oppure quando il patrimonio si è ridotto
tanto da non essere più adeguato al perseguimento di quel determinato scopo, in tutte
queste ipotesi l’autorità governativa può trasformare la fondazione in un ente differente
sempre di natura istituzionale che si allontani il meno possibile dalla volontà del fondatore.
La trasformazione non è possibile se il raggiungimento dello scopo, l’impossibilità di
raggiungerlo, la scarsa verità, l’insufficienza del patrimonio sono state individuate dal
fondatore come specifiche cause di estinzione della fondazione nell’atto costitutivo.
Una volta estinto l’ente accade ciò che accade con l’associazione, l’art.29.cc pone il
divieto di nuove operazioni da parte degli amministratori, solo atti di ordinaria
amministrazione, se compiono degli atti eccedenti L’ordinaria amministrazione quegli atti
espongono gli amministratori a responsabilità personale e solidale.
Si nomina un liquidatore o più liquidatori i quali dovranno monetizzare l’intero patrimonio,
tradurre in denaro ed estinguere i debiti sociali, se perdura un patrimonio, cioè se
sopravvive una parte del patrimonio all’estinzione del debiti della fondazione quel
patrimonio residuo va devoluto secondo le indicazioni contenute nell’atto costitutivo, se
l’atto costitutivo non prevede nulla qui non c’è un’assemblea che può deliberare, quindi
sarà l’autorità governativa a decidere che potrà devolvere il patrimonio a un ente che operi
nello stesso ambito nel quale operava la fondazione estinta.

Trasformazione, fusione, scissione


Nel 2017 il libro I del codice civile è stato modificato con l’introduzione dell’art42-bis, che
disciplina la trasformazione, la fusione, e la scissione degli enti del libro primo.
Il codice nella sua formulazione originaria non prevedeva questi tre fenomeni che invece
sono regolati nell’ambito del diritto societario; fusione: unione di due società distinte in
un’unica società, scissione: separazione di una società che si scorpora in due società
differenti.
Nel caso degli enti l’art.42-bis prevede che se non è espressamente escluso dall’atto
costitutivo o dallo statuto le associazioni riconosciute e non riconosciute e le fondazioni
possono operare reciproche trasformazioni, fusioni e scissioni, in questo caso si applicano
tutte le norme pubblicitarie che si applicano per le società, richiamate dall’art.42-bis del
codice civile. In più la norma prevede espressamente la possibilità molto discussa delle
trasformazioni eteronome, ossia quella trasformazione che determina la modifica della
natura dell’ente da ente del libro I a ente proprio V.
(Lezione 22/03/2022)

Fondazione di origine bancaria


La disciplina del nostro codice civile certe volte risulta insufficiente come nel caso delle
fondazioni quindi è necessario analizzare qualche esempio di normazione speciale come
quella inerente le fondazioni di origine bancaria.
Le fondazioni di origine bancaria nascono dalla privatizzazione delle casse di risparmio e
sono frutto dello scorporo della banca di diritto pubblico in: SPA che svolge l’attività
bancaria e della fondazione che invece è titolare di tutto il patrimonio mobiliare e
immobiliare.
Nei primi anni dell’entrata in vigore della normativa la fondazione era anche titolare del
pacchetto azionario di maggioranza delle SPA in seguito venduto nel mercato del credito
proprio perché si tratta di società per azioni quotate in borsa e la destinazione finale era il
mercato del credito.
La normativa di riferimento è il d.lgs. del 17 maggio 1999 n°153 che regola le fondazioni di
origine bancaria. (Sono norme da vedere e ricordare sinteticamente).
In questa legge bisogna tener conto dell’art.2 che è la norma che specifica che le
fondazioni di origine bancaria sono persone giuridiche di diritto privato senza fine di lucro.
L’art.1.c-bis individua gli ambiti di attività in cui le fondazioni bancarie possono operare.
Settori ammessi:
1) famiglia e valori connessi; crescita e formazione giovanile; educazione, istruzione e
formazione, incluso l'acquisto di prodotti editoriali per la scuola; volontariato, filantropia e
beneficenza; religione e sviluppo spirituale; assistenza agli anziani; diritti civili;
2) prevenzione della criminalità e sicurezza pubblica; sicurezza alimentare e agricoltura di
qualità; sviluppo locale ed edilizia popolare locale; protezione dei consumatori;
protezione civile; salute pubblica, medicina preventiva e riabilitativa; attività sportiva
prevenzione e recupero delle tossicodipendenze; patologia e disturbi psichici e mentali;
3) ricerca scientifica e tecnologica; protezione e qualità ambientale;
4) arte, attività e beni culturali.
Il d.lgs. prevede che nell’atto costitutivo di ogni fondazione bancaria devono essere
individuati non più di 5 settori rilevanti, che potranno essere modificate ogni triennio.
L’art.4 prevede che negli atti costitutivi delle fondazioni bancarie in quanto fondazioni di
attività debbano essere individuate tre diverse tipologie di organi:
- Un organo di indirizzo politico;
- Un organo di amministrazione;
- Un organo di controllo.
L’art.5 stabilisce che il patrimonio della fondazione è totalmente vincolato al
perseguimento di scopi statutari ed è gestito in modo coerente con la natura delle
fondazioni quali enti senza scopo di lucro che operano secondo principi di trasparenza e
moralità.

Terzo settore
Il d.lgs. 3 luglio 2017 n° 117 ha introdotto il codice del terzo settore.
Il terzo settore è un ambito di cooperazione privata per finalità di utilità generale e di
solidarietà sociale, di cooperazione, associazionismo con finalità non solo non
economiche ma soprattutto non lucrative, che è terzo rispetto al settore privato profit e al
settore pubblico.
L’art.4 sancisce:
1. Sono enti del Terzo settore le organizzazioni di volontariato, le associazioni di
promozione sociale, gli enti filantropici, le imprese sociali, incluse le cooperative sociali, le
reti associative, le società di mutuo soccorso, le associazioni, riconosciute o non
riconosciute, le fondazioni e gli altri enti di carattere privato diversi dalle società costituiti
per il perseguimento, senza scopo di lucro, di finalità civiche, solidaristiche e di utilità
sociale mediante lo svolgimento, in via esclusiva o principale, di una o più attività di
interesse generale in forma di azione volontaria o di erogazione gratuita di denaro, beni o
servizi, o di mutualità o di produzione o scambio di beni o servizi, ed iscritti nel registro
unico nazionale del Terzo settore.
Le attività di interesse generale le specifica l’art.5 del codice del terzo settore (ricordane
solo qualcuna, quelle che ritieni più importanti):
 Interventi e servizi sociali;
 Interventi e prestazioni sanitarie;
 Prestazioni socio-sanitarie;
 Educazione, istruzione e formazione professionale;
 Interventi e servizi finalizzati alla salvaguardia e al miglioramento delle condizioni
dell'ambiente;
 Interventi di tutela e valorizzazione del patrimonio culturale e del paesaggio;
 Formazione universitaria e post-universitaria;
 Ricerca scientifica di particolare interesse sociale;
 Organizzazione e gestione di attività culturali, artistiche o ricreative di interesse
sociale;
 Radiodiffusione sonora a carattere comunitario;
 Accoglienza umanitaria ed integrazione sociale dei migranti; ecc…
Se una associazione riconosciuta o non riconosciuta o una fondazione vogliono ottenere il
riconoscimento della qualità di ente di terzo settore devono introdurre nell’atto costitutivo
gli elementi e devono organizzare l‘ente secondo quando previsto dagli art.21 e seguenti
del codice del terzo settore.
Il vantaggio di essere un ente del terzo settore è di ordine fiscale, quindi è interesse
dell’ente, associazione o fondazione ottenere questa qualificazione.
L’art.21 stabilisce:
 L'atto costitutivo deve indicare la denominazione dell’ente;
 L’assenza di scopo di lucro e le finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale
perseguite;
 L’attività di interesse generale che costituisce l'oggetto sociale;
 La sede legale il patrimonio iniziale ai fini dell'eventuale riconoscimento della
personalità giuridica;
 Le norme sull'ordinamento, l'amministrazione e la rappresentanza dell'ente;
 I diritti e gli obblighi degli associati, ove presenti;
 I requisiti per l'ammissione di nuovi associati, ove presenti, e la relativa procedura,
secondo criteri non discriminatori, coerenti con le finalità perseguite e l’attività di
interesse generale svolta;
 La nomina dei primi componenti degli organi sociali obbligatori e, quando previsto,
del soggetto incaricato della revisione legale dei conti;
 Le norme sulla devoluzione del patrimonio residuo in caso di scioglimento o di
estinzione;
 La durata dell'ente, se prevista.
L’art.22 prevede che se un’associazione o una fondazione sono enti del terzo settore
perché rispettano le norme, la struttura contenuta negli art.21 e seguenti il riconoscimento
della personalità giuridica avverrà con un regime speciale di natura legale che quindi
deroga al procedimento concessorio.
L’art22.1 sancisce:
Le associazioni e le fondazioni del Terzo settore possono, in deroga alle norme sul
procedimento concessorio, acquistare la personalità giuridica mediante l'iscrizione nel
registro unico nazionale del Terzo settore ai sensi del presente articolo.

Esattamente come per le società di capitali è sufficiente l’iscrizione nel registro delle
imprese, il riconoscimento avviene semplicemente con l’iscrizione dell’atto costitutivo nel
registro nazionale degli enti del terzo settore.
Il notaio verificherà che l’atto costitutivo abbia tutte le caratteristiche richieste dal codice
del terzo settore.
Il codice del terzo settore prevende che gli enti del terzo settore in particolar modo le
associazioni si debbano caratterizzare per un’assemblea (che ovviamente non ci sarà
nelle fondazioni) che ha la funzione di organo di indirizzo politico che abbia le competenze
prescritte dall’art.25:
Nomina e revoca i componenti degli organi sociali;
Nomina e revoca, quando previsto, il soggetto incaricato della revisione legale dei conti;
Approva il bilancio;
Delibera sulla responsabilità dei componenti degli organi sociali e promuove azione di
responsabilità nei loro confronti;
Delibera sull'esclusione degli associati, se l'atto costitutivo o lo statuto non attribuiscono la
relativa competenza ad altro organo eletto dalla medesima;
Delibera sulle modificazioni dell'atto costitutivo o dello statuto;
L’art.26 prevede un organo di amministrazione, quindi l’amministratore o gli amministratori.
L’art.30 prevede che tutti gli enti del Terzo settore, anche le fondazioni, si debbano dotare
di un organo di controllo, quindi in deroga all’art.25.cc, le fondazioni che siano enti del
terzo settore devono dotarsi di un organo di controllo interno che potrà essere collegiale o
anche monocratico.
L’art.31 prevede che tanto le associazioni quanto le fondazioni siano assoggettate
all’obbligo legale di revisione contabile (devono nominare un revisore dei conti) se
superino per due esercizi consecutivi uno dei seguenti requisiti:
Totale dell'attivo dello stato patrimoniale: 1.100.000,00 euro;
Ricavi, rendite, proventi, entrate comunque denominate: 2.200.000,00 euro;
Dipendenti occupati in media durante l'esercizio: 12 unità.
2. L'obbligo di cui al comma 1 cessa se, per due esercizi consecutivi, i predetti limiti non
vengono superati.
Uno di questi requisiti per due esercizi consecutivi obbliga l’associazione o la fondazione
del terzo settore a sottoporsi a revisione dei conti, nominare un revisore dei conti che
debba redigere la sua relazione annuale.

Il rapporto che intercorre tra le norme degli enti del terzo settore e quelle del cc è la stessa
che c’è abitualmente tra una norma speciale e una norma generale, cioè quando
l’associazione e la fondazione non opera nel terzo settore si applicano le regole del cc
mentre se l’associazione o la fondazione opera nel terzo settore le norme del cc verranno
applicare solo limitatamente a quanto non previsto dalla norma speciale.
Ad esempio il codice del terzo settore non disciplina le maggioranze assembleari, i
quorum costitutivi e deliberativi e per quelli se l’atto costitutivo non prevede qualche cosa
di specifico si applicheranno le norme degli art.21.cc e art.22.cc.

(Nel manuale saltiamo tutti i capitoli sulla famiglia, sulle successioni, si fanno limitatamente
alle cose dette dal professore. Delle successioni ricordare la distinzione tra vocazione
legale e vocazione testamentaria, successioni legittimi e testamentari e la differenza tra
l’acquisto a titolo di eredità e l’acquisto a titolo di legatari).
Beni
La nozione economica di bene è una nozione molto più ampia rispetto quella giuridica.
L’economia individua nel bene qualunque fonte di utilità, e ne fanno parte anche i servizi,
come il servizio sanitario, il servizio di sicurezza ed ordine pubblico, il servizio di difesa
nazionale e così via. In diritto invece i servizi non sono beni, essi assumono la forma
giuridica dell’obbligazione o più in generale del contratto.
Il bene in diritto è qualcosa di più circoscritto. La grande distinzione tra diritti reali e diritti di
credito è proprio la distinzione che intercorre tra diritti che hanno ad oggetto beni in senso
giuridico e diritti che hanno ad oggetto attività, quindi servizi. In economia possono essere
equiparati perché tanto i diritti sui beni quanto i diritti sulle attività producono utilità ma in
diritto la struttura giuridica che queste situazioni giuridiche soggettive assumono è
completamente differente. I diritti reali, i diritti sui beni sono diritti assoluti mentre i diritti
che hanno ad oggetto attività hanno la forma di diritti relativi e già questo serve a
distinguere nettamente due ambiti della patrimonialità.
La definizione di bene che viene fornita dal nostro cc presenta qualche segno del tempo
legato al fatto che il contesto socioeconomico del ’42 è profondamente differente da quello
attuale. L’art810.cc (Nozione) sancisce che:
Sono beni le cose che possono formare oggetto di diritti.
La prima cosa che emerge è che i beni sono necessariamente cose ma non tutte le cose
sono beni. Sono beni solo quelle cose che il cc prevede che possano essere oggetto di
diritto. Ad esempio: pianeti e astri dell’universo, corpi celesti, il nucleo della terra sono
indiscutibilmente cose ma non sono beni perché l’ordinamento giuridico non consente che
siano oggetto di appropriazione da parte dei privati o dello stato.
È necessario che la norma preveda la possibilità per i privati o per lo stato di servirsi di
quella cosa affinché la cosa possa essere reificata (latino res = cosa) cioè trasformata in
un bene.
Il tema dei beni può toccare anche argomenti molto delicati come il caso delle cellule
staminali. Di per sé esse sono cose, ma sono materiale corporale dunque si è incerti se
considerarle attributo dell’individuo e come tale non considerabile come bene (la massima
kantiana se qualcosa è soggetto non può al contempo essere oggetto), oppure se, una
volta distaccati dall’individuo a cui si riferiscono, possono essere oggetto di appropriazione
e di sfruttamento.
Tutto dipende dalla scelta del legislatore, nel momento in cui l’ordinamento autorizzasse la
possibilità di realizzare prodotti da immettere nel mercato tramite la manipolazione e
l’impiego di cellule staminali, per realizzare medicinali o altre cose, si autorizzerebbe ad
affermare che questo patrimonio genetico umano ha cessato di essere “essere” e si è
trasformato in oggetto (res).
Un altro tema delicato è quello delle informazioni di carattere personale. I dati personali
sono entità non corporali che nascono dall’individuo e intorno ad esse si è già sviluppato
un mercato, ma il legislatore non ha ancora riconosciuto che i dati personali possano
essere trattati come merce, cioè siano in titolarità esclusiva di chi li ha legittimamente
acquisisti.
Il GDPR consente all’interessato, anche in presenza di un trattamento lecito e corretto di
opporsi per motivi legittimi tramite il bilanciamento di interessi tra l’interesse economico del
titolare del trattamento e l’interesse dell’interessato. Se l’interesse dell’interessato dovesse
prevalere il trattamento va interrotto, quei dati vanno cancellati e resi anonimi anche se il
trattamento è lecito. Questo potere riappropriativo indica che il bene non è pienamente
reificato perché è oggetto di riappropriazione, a differenza di qualsiasi altro bene.
Attualmente nel mondo è in atto un processo che tenta di reificare i dati personali.
Due direttive europee del 2019, la 770 che riguarda la vendita di contenuti e servizi digitali
e 771 sulla vendita di beni di consumo materiali, soprattutto la 770 prevede che la
controprestazione del servizio di contenuto digitale possano essere i dati personali.
Questa direttiva è stata già recepita in Italia, quindi nel nostro ordinamento esiste almeno
una norma che espressamente dona al dato personale il dato di merce, di
controprestazione.
L’unico modo per cercare di evitare la reificazioni dei dati personali beni è enfatizzare due
strumenti:
 Il primo strumento è il consenso come base giuridica primaria del trattamento dei
dati personali, tranne nei casi espressamente indicati dalla legge come per
l’esercizio di pubblici poteri;
 Il secondo strumento è quello dell’opposizione al trattamento dei dati personali,
bisogna interpretare la norma sull’opposizione al trattamento in senso estensivo,
ritenendo che siano pochi i casi nei quali l’interesse dell’interessato a riappropriarsi
delle proprie informazioni di carattere personale lecitamente adottate siano
destinate a soccombere rispetto all’interesse del titolare del trattamento conseguito.
Si pone il problema quando il consenso al trattamento dei dati si applica nelle condizioni
della stipulazione di un contratto, ogni qual volta l’interessato cambia idea e decide di
revocare il consenso reso, il contratto si scioglie perché viene meno una condizione
contrattuale necessaria affinché quel contratto rimanga in vita. Ciò avviene nei contratti di
cloud o nei contratti di social media e così via.
L’elemento di vetustà dell’art 810 che risiede nella circostanza la norma si riferisce
esclusivamente alle cose. Nel ’42 la realtà era prevalentemente materiale mentre oggila
realtà si dispiega anche nel virtuale, nell’immateriale.
Il cc del ‘42 si occupava delle energie e le considerava cose, ad oggi gli elementi di
immaterialità che sono parte della realtà si sono moltiplicati, dalle informazioni di carattere
personale, ai profili virtuali, alle idee creative o di natura artistica, economica industriale di
applicazione economica.
Queste entità incorporali sono disciplinate dalla legge del ’41 sul diritto d’autore, più volte
modificata, anche a seguito di direttive europee che attribuiscono all’autore dell’opera di
natura artistica, creativa, il diritto di sfruttamento economico in esclusiva (monopolio).
Il titolare del diritto d’autore ha diritto di sfruttare economicamente quell’entità immateriale
che è un’idea in esclusiva. Esempio: pensate a “L’urlo di Munch”, non è stato realizzato
dall’artista in un unico esemplare ve ne sono diversi, quello che viene protetto è l’idea che
poi si è tradotta in più esemplari. La stessa cosa si può dire per le idee destinate ad
applicazioni industriale, economiche produttive e li abbiamo il diritto di brevetto, il diritto di
marchio, il diritto sui disegni industriali, questi diritti attribuiscono sempre il potere di
sfruttare economicamente in esclusiva quell’idea.
Tutto ciò è rilevante ai fini della corretta definizione di bene:
Sono beni tutte le entità corporali o incorporali, materiali o immateriali, che l’ordinamento
giuridico prevede possano essere oggetto di diritti di attribuzione in esclusiva del soggetto
privato o pubblico. Questo quando l’ordinamento giuridico prevede che un’entità corporale
o incorporale possa diventare oggetto di un diritto che attribuisce al titolare la possibilità di
godere e disporre in esclusiva o di sfruttare economicamente in esclusiva quell’entità,
ecco che allora quell’entità diventa bene.
Il titolare di un bene può essere sia un privato quanto lo Stato, alcuni beni quali le acque, i
laghi, i fiumi, le spiaggia, i lidi, devono necessariamente essere nella titolarità dello Stato.
Sono beni perché l’ordinamento prevede che queste entità corporali possano essere
oggetto di un’attribuzione in esclusiva a favore dello stato e degli altri enti pubblici.
Quindi l’art.810.cc non definisce l’intera area dei beni, si limita a definire solo i beni
corporali ma accanto all’identificazione dell’art.810.cc dobbiamo indicare anche tutte
quelle entità incorporali che l’ordinamento giuridico prevede possano essere oggetto di
diritti di attribuzione in esclusiva.
L’attribuzione in esclusiva è finalizzata ad appagare la tensione appropriativa degli
individui. In altre parole la categoria del bene indica su quali entità corporali (cose) o su
quali entità incorporali i privati possano estendere la loro tensione appropriativa, cioè
acquisire per ricavare da quell’entità tutte le utilità che grazie alle sue caratteristiche
intrinseche è in grado di fornire.
La proprietà può riguardare solo beni corporali, materiali perché uno degli elementi
caratterizzanti e imprescindibili della proprietà è la facoltà di godimento ossia il suo valore
d’uso.
Le entità incorporali potrebbero anche avere un valore d’uso, ma non è giuridicamente
rilevante (ad esempio ammirare un opera d’arte).
L’ordinamento giuridico prende in considerazione le entità incorporali in particolar modo le
idee creative solo sotto il profilo dello sfruttamento economico che significa potere di
disposizione. Di un entità si dispone compiendo atti di disposizione che possono
consistere nella cessione del diritto, nel dare il diritto in godimento a terzi verso il
pagamento di un corrispettivo. Quindi rispetto alle entità immateriali l’ordinamento giuridico
ha preso in considerazione solo il valore di scambio e infatti il diritto di autore, il diritto di
brevetto, il diritto di marchio, il diritto sui disegni industriali attribuiscono il potere di
sfruttare economicamente in esclusiva quelle entità. Quindi i beni immateriali non avendo
quella caratteristica del valore d’uso soltanto metaforicamente possono essere chiamate
proprietà intellettuali.
La proprietà e i diritti reali minori riguardano soltanto le entità corporali perché si
caratterizzano non solo per il potere d’uso ma anche per la facoltà di godimento. La facoltà
di godimento presuppone che l’entità possa esprimere un valore d’uso, l’ordinamento
questo valore d’uso lo riconosce soltanto per le cose corporali. I beni incorporali sono
rilevanti sul piano giuridico solo sotto il profilo del loro sfruttamento economico, soltanto
sotto il profilo del valore di scambio cioè sotto il profilo del potere di disporre dei relativi
diritti di esclusiva.
Del denaro non si può parlare di proprietà perché non se ne può godere, nel senso di
trarne utilità, del denaro si è titolari.
Il denaro è giuridicamente rilevante soltanto come mezzo di scambio (strumento attraverso
il quale è possibile acquisire beni o servizi), unità di conto (per stabilire il valore
economico, per dare un prezzo a beni e servizi) e di riserva di valore (chi ha danaro ha
una provvista grazie alla quale può procurarsi ciò che gli è necessario).

Beni in titolarità diffusa


È in atto nelle università di tutto il mondo un tema oggetto di dibattito ossia se esistano dei
beni che sono in titolarità diffusa e non in titolarità esclusiva.
Non si tratta dei diritti di proprietà in comunione (contitolarità), che riguardano un numero
limitato di soggetti, ma si ci domanda se esistano beni che appartengono ad intere
collettività. Secondo questa corrente di pensiero quando un bene è indispensabile,
necessario, imprescindibile (come gli elementi naturali necessari alla vita, l’aria, l’acqua, o
la cultura) per l’esercizio dei diritti fondamentali, quel bene non dovrebbe essere attribuito
in esclusivo, in monopolio ad alcun soggetto pubblico o privato ma dovrebbe essere di
appartenenza diffusa, o dell’intera umanità o della comunità locale di riferimento.
In Italia il dibattito pubblico sui beni comuni si è aperto in seguito all’’approvazione di un
testo normativo che privatizza il servizio idrico, nel senso che attribuiva ai privati la
titolarità del servizio di distribuzione dell’acqua.
Questa norma è stata sottoposta a referendum abrogativo con esito positivo, la norma è
stata espunta e i promotori della campagna referendaria hanno argomento qualificando
l’acqua come bene comune che quindi dovrebbe essere in titolarità diffusa.
Il problema della titolarità diffusa è legata a chi ne abbia la gestione, perché i beni anche le
risorse naturali vanno gestite, vanno amministrate, preservate, sfruttate. Questo è il vero
difetto della teoria dei beni comuni ed è la ragione per la quale una commissione di studi è
stata istituita per modificare il libro terzo del codice civile ed era stata affidata alla sapienza
del professor Stefano Rodotà che è stato un pioniere i tantissimi ambiti del diritto privato
questa riforma prevedeva l’introduzione dei beni comuni, quindi l’introduzione di una
nuova forma di proprietà, ma non è mai stata approvata.
L’ordinamento civile italiano, europeo o per meglio dire occidentale prevede che la
proprietà privata o pubblica sia attribuzione in esclusiva ossia ad un solo soggetto.
Esistono poi regimi economici differenti dal nostro che si ispirano a dottrine socialiste e
che prevedono la proprietà collettiva dei beni produttivi ma attenzione collettiva vuol dire
pubblica non diffusa. I beni produttivi ossia i beni necessari per lo svolgimento di attività
economica sono di proprietà dello stato che effettua piani di programmazione economica,
indicando ai privato che ne ha il godimento, dietro pagamento di corrispettivo, quali attività
privilegiare.
Nei sistemi come il nostro ispirati al modello di libero mercato i beni produttivi sono tanto di
proprietà pubblica quanto in proprietà privata e i piani di programmazione non esistono.

Regimi di circolazione
La qualificazione di bene non è solo funzionale ad appagare quella che abbiamo chiamato
la tensione appropriativa.
La qualificazione di un entità come bene serve anche per disciplinare i regimi di
circolazione della ricchezza.
La circolazione della ricchezza allude a tutte quelle norme che disciplinano il trasferimento
o gli atti di disposizione dei diritti sui beni.
A seconda della qualificazione del bene abbiamo un diverso regime circolatorio quindi le
distinzioni che andremo a fare sono finalizzate ad mettere a punto regole di circolazioni
differenti.
Noi distinguiamo all’art.812.cc, che ricorre alla tecnica dell’elencazione meramente
indicativa e non esaustiva, i beni in mobili e immobili.
L’art.812.cc (Distinzione dei beni):
1. Sono beni immobili il suolo, le sorgenti e i corsi d'acqua, gli alberi, gli edifici e le altre
costruzioni, anche se unite al suolo a scopo transitorio, e in genere tutto ciò che
naturalmente o artificialmente è incorporato al suolo.
2. Sono reputati immobili i mulini, i bagni (stabilimenti balneari) e gli altri edifici galleggianti
quando sono saldamente assicurati alla riva (barconi convertiti in locali, ristoranti, ancorati
al suolo) o all'alveo o sono destinati ad esserlo in modo permanente per la loro
utilizzazione.
3. Sono mobili tutti gli altri beni.
L’art813.cc (Distinzione dei beni):
Salvo che dalla legge risulti diversamente, le disposizioni concernenti i beni immobili si
applicano anche ai diritti reali che hanno per oggetto beni immobili e alle azioni relative; le
disposizioni concernenti i beni mobili si applicano a tutti gli altri diritti. (Vanno considerati
immobili anche tutti i diritti diversi dalla proprietà sopra beni immobili).
L’art.814.cc (Energie):
Si considerano beni mobili le energie naturali che hanno valore economico.
La terza categoria sono i beni mobili registrati ossia i beni mobili che sono iscritti nei
pubblici registri come autovetture, natanti (imbarcazioni) e aeromobili.
Sono beni strutturalmente mobili ma sono una categoria a parte in quanto hanno un
regime circolatorio ricarcato sui beni immobili.

Circolazione dei diritti su beni immobili e beni mobili registrati


La circolazione dei diritti sui beni immobili è una circolazione formale perché i contratti che
hanno ad oggetto il trasferimento della proprietà, la costituzione o il trasferimento di altri
diritti reali su beni immobili devono essere redatti per iscritto, sono contratti formali come
sancito dall’art.1350.cc.
La formalità è richiesta per due ragioni:
 La prima esigenza è quella di sollecitare una maggiore riflessione, ponderazione,
attenzione quando si decide di compiere atti dispositivi su diritti aventi ad oggetto
bei immobili e beni immobili registrati.
 La seconda è che la forma è funzionale a attuare il regime di pubblicità dichiarativa
al quale gli atti traslativi, gli atti dispositivi di diritti su beni immobili e beni immobili
registrati sono assoggettatati.

Pubblicità
È pubblicità qualunque dispositivo che consente di portare a conoscenza di terzi un fatto,
un atto o un negozio. Sono dispositivi tecnici di conoscenza legale e si traducono
nell’iscrizione o registrazione in un registro, albo, in un documento liberamente accessibile
ossia pubblico.
Abbiamo tre forme di pubblicità:
 Pubblicità notizia: che ha come effetto quello di rendere noto ufficialmente a terzi un
atto, un fatto, un negozio. Una volta compiuto l’adempimento, l’onere pubblicitario, i
terzi non sono abilitati a dichiarare di non conoscere quell’atto, quel fatto o quel
negozio in quanto reso pubblico quindi conoscibile. Se il privato non ne ha avuto
conoscenza è per sua negligenza perché non ha avuto cura di consultare lo
strumento di conoscenza legale.
 Pubblicità costitutiva: che ha come effetto quello di creare il diritto o attribuire una
particolare qualità (come nel caso della personalità giuridica nelle società attraverso
l’iscrizione nel registro delle persone giuridiche; o come nel caso degli enti del terzo
settore con l’iscrizione nel registro unico nazionale dei diritti del terzo settore; o
come nel caso dell’ipoteca in cui un diritto reale sorge a seguito l’iscrizione
dell’ipoteca stessa nel registro immobiliare).
 Pubblicità dichiarativa: è quella che ha come finalità quella di dirimere (risolvere) i
conflitti di attribuzione tra aventi causa di uno stesso dante causa. Quando più
soggetti dischiarano di aver acquistato lo stesso diritto o diritti tra di loro
incompatibili sullo stesso bene questo conflitto di attribuzione non è risolto
dall’ordinamento tramite la regola della priorità dell’acquisto ma è risolto tramite la
regola della priorità dell’adempimento pubblicitario. A prevalere non è chi ha
acquistato per primo ma chi per primo ha provveduto a rendere pubblico il suo atto
di acquisto.
Nel caso dei beni immobili e beni mobili registrati si utilizza la pubblicità dichiarativa.
La pubblicità dà garanzie di certezza superiori rispetto alla forma scritta che può essere
retrodatata se è una scrittura privata, oppure se si tratta di atto pubblico, il notaio
compiacente può retrodatare l’atto (anche se commette reato falso ideologico).
Le garanzie sono date dal fatto che:
 In primo luogo tutti registri sono progressivi quindi attribuiscono ad ogni singolo atto
una determinata posizione, non è possibile trascrivere prima un atto fatto dopo
perché non c’è spazio, la trascrizione progressiva è stata dunque occupata da atti
precedenti.
 In secondo luogo i registri sono tenuti da un pubblico ufficiale quindi avremo due
pubblici ufficiali, chi confeziona l’atto (notaio o il giudice tramite sentenza), e il
pubblico ufficiale che tiene i registri immobiliari.
Questo perché per trascrivere un atto è necessario che l’atto abbia una determinata forma.
La domanda che io vi porrò è: Quali sono i titoli che possono essere trascritti? Che forma
devono avere gli atti per poter essere trascritti?
La trascrizione è regolata nel libro sesto agli art.2643.cc e seguenti.
L’Art.2657.cc (Titolo per la trascrizione):
1. La trascrizione non si può eseguire se non in forza di sentenza, di atto pubblico
(documento redatto da notaio o da altro pubblico ufficiale che sia autorizzato) o di scrittura
privata con sottoscrizione autenticata (dal notaio o altro pubblico ufficiale) o accertata
giudizialmente.
2. Le sentenze e gli atti seguiti in paese estero devono essere legalizzati.
La pubblicità assicura una maggiore certezza rispetto alla semplice data dell’atto quindi
quando due soggetti hanno acquistato il medesimo diritto reale sullo stesso bene (vendita
immobile) o hanno acquistato diritti incompatibili fra di loro (vendita e usufrutto) prevale chi
per primo trascrive.
Il rapporto tra forma e pubblicità si ricava analizzando l’art.1350.cc (Atti che devono farsi
per iscritto) mettendolo a confronto con l’art.2643.cc (Atti soggetti a trascrizione):Sono
uguali.
Gli stessi contratti che trasferiscono la proprietà su beni immobili o che costituiscono o
trasferiscono diritti reali su beni mobili registrati sono gli stessi contratti che vanno redatti
per iscritti e poi trascritti. Trascrivere è un onere!
Art.2643.cc (Atti soggetti a trascrizione):
Si devono rendere pubblici col mezzo della trascrizione:
1) i contratti che trasferiscono la proprietà di beni immobili;
2) i contratti che costituiscono, trasferiscono o modificano il diritto di usufrutto su beni
immobili, il diritto di superficie, i diritti del concedente e dell'enfiteuta;
2-bis) i contratti che trasferiscono, costituiscono o modificano i diritti edificatori comunque
denominati, previsti da normative statali o regionali, ovvero da strumenti di pianificazione
territoriale;
3) i contratti che costituiscono la comunione dei diritti menzionati nei numeri precedenti;
4) i contratti che costituiscono o modificano servitù prediali, il diritto di uso sopra beni
immobili, il diritto di abitazione;
5) gli atti tra vivi di rinunzia ai diritti menzionati nei numeri precedenti;
6) i provvedimenti con i quali nell'esecuzione forzata si trasferiscono la proprietà di beni
immobili o altri diritti reali immobiliari, eccettuato il caso di vendita seguita nel processo di
liberazione degli immobili dalle ipoteche a favore del terzo acquirente;
7) gli atti e le sentenze di affrancazione del fondo enfiteutico;
8) i contratti di locazione di beni immobili che hanno durata superiore a nove anni;
9) gli atti e le sentenze da cui risulta liberazione o cessione di pigioni o di fitti non ancora
scaduti, per un termine maggiore di tre anni;
10) i contratti di società e di associazione con i quali si conferisce il godimento di beni
immobili o di altri diritti reali immobiliari, quando la durata della società o dell'associazione
eccede i nove anni o è indeterminata;
11) gli atti di costituzione dei consorzi che hanno l'effetto indicato dal numero precedente;
12) i contratti di anticresi;
12-bis) gli accordi di mediazione che accertano l'usucapione con la sottoscrizione del
processo verbale autenticata da un pubblico ufficiale a ciò autorizzato.
13) le transazioni che hanno per oggetto controversie sui diritti menzionati nei numeri
precedenti;
14) le sentenze che operano la costituzione, il trasferimento o la modificazione di uno dei
diritti menzionati nei numeri precedenti.
Questa elencazione contenuta integrata dall’art.2645.cc (Altri atti soggetti a trascrizione):
Deve del pari rendersi pubblico, agli effetti previsti dall'articolo precedente, ogni altro atto o
provvedimento che produce in relazione a beni immobili o a diritti immobiliari taluno degli
effetti dei contratti menzionati nell'art. 2643, salvo che dalla legge risulti che la trascrizione
non è richiesta o è richiesta a effetti diversi.
Cioè la norma dice che il mercato evolve se si dovessero creare nuovi contratti che
producono effetti analoghi a quelli dei contratti previsti dall’art.2643 vanno trascritti anche
quelli pure se non sono menzionati.
L’effetto di pubblicità dichiarativa è contenuto nell’art.2644:
1. Gli atti enunciati nell'articolo precedente non hanno effetto riguardo ai terzi che a
qualunque titolo hanno acquistato diritti sugli immobili in base a un atto trascritto o iscritto
anteriormente alla trascrizione degli atti medesimi.
2. Seguita la trascrizione, non può avere effetto contro colui che ha trascritto alcuna
trascrizione o iscrizione di diritti acquistati verso il suo autore, quantunque l'acquisto
risalga a data anteriore.
Comma 1: La prima cosa che si deve fare dal notaio quando si vuole acquistare la
proprietà di un immobile è chiedere una visura catastale per verificare se sul bene vi siano
trascrizioni ostili, l’ultima trascrizione deve essere a nome di chi mi sta trasmettendo il
diritto.
Comma 2. Una volta che abbiamo trascritto se venissimo a conoscenza che quello stesso
diritto è stato acquistato da un terzo prima di noi, andremmo noi a prevalere.
Il nostro cc prevede che il sistema di trascrizione debba essere caratterizzato da continuità
cioè non vi devono essere buchi che causino difetto di informazione, chi consulta i registri
immobiliari deve essere in grado di ricostruire l’intera vicenda circolatoria del diritto su quel
bene immobile o su quel bene mobile registrato.
Questo principio chiamato principio di continuità è sancito dall’art.2650.cc (Continuità delle
trascrizioni):
1. Nei casi in cui, per le disposizioni precedenti, un atto di acquisto è soggetto a
trascrizione, le successive trascrizioni o iscrizioni a carico dell'acquirente non producono
effetto, se non è stato trascritto l'atto anteriore di acquisto.
2. Quando l'atto anteriore di acquisto è stato trascritto, le successive trascrizioni o
iscrizioni producono effetto secondo il loro ordine rispettivo, salvo il disposto dell'art. 2644.
3. L'ipoteca legale a favore dell'alienante e quella a favore del condividente, iscritte
contemporaneamente alla trascrizione del titolo di acquisto o della divisione, prevalgono
sulle trascrizioni o iscrizioni eseguite anteriormente contro l'acquirente o il condividente
tenuto al conguaglio.
Significa che se stiamo trascrivendo il nostro atto di acquisto e constatate che l’atto di
acquisto del nostro dante causa, o l’atto di acquisto del dante causa del nostro dante
causa non sia stato trascritto abbiamo l’onere di completare la catena delle trascrizioni
perché altrimenti la nostra trascrizione avrà soltanto un effetto prenotativo.
Vale a dire che la nostra trascrizione produrrà effetti di pubblicità dichiarativa soltanto
quando noi avremo assolto all’onere di completare la catena delle trascrizioni.
Quindi mi dovrò procurare il suo atto di acquisto, lo dovrò trascrivere, nel momento in cui
andrò a trascrivere il suo atto di acquisto, il mio produrrà effetti di pubblicità dichiarativa
non dal giorno in cui ho completato la catena delle trascrizioni ma dal giorno in cui io ho
trascritto il mio atto. Cioè la trascrizione del mio atto prenota, blocca, il momento a partire
dal quale la mia trascrizione produrrà effetti. Ma affinché essa produca effetti devo avere
cura di completare la catena delle trascrizioni.
La legge onera l’ultimo trascrivente del compito di completare il quadro delle trascrizioni,
nel caso in cui qualche precedente avente causa non abbia avuto cura a trascrivere il suo
atto.
È una mossa molto intelligente perché l’ultimo trascrivente è quello che ha più interesse
ad ottenere gli effetti di pubblicità dichiarativa e sarà disposto a fare tutti gli sforzi
necessari per completare la catena ininterrotta della circolazione.

Circolazione dei diritti su beni mobili


La circolazione di diritti reali sui beni mobili è deformalizzata, il contratto di trasferimento
della proprietà o di costituzione di trasferimento di altri diritti reali su beni mobili può essere
concluso tanto oralmente quanto per iscritto.
È libertà delle parti decidere se ricorrere o meno alla forma.
La circolazione è deformalizzata perché i beni mobili sono:
- Numerosi
- Di consumo
Quindi il cc vuole favorire la facilità della circolazione dei diritti sui beni mobili, di regola
sono i beni di minor importo e non prevedono un sistema pubblicitario.
In questo caso il cc all’art.1155 affida la soluzione dei conflitti di attribuzione tra aventi
causa dello stesso dante causa all’istituto del possesso di buonafede, prevale chi ha il
bene presso di se purché sia ignaro che il diritto su quel bene sia stato ceduto anche ad
un terzo.
Se invece l’acquirente possessore è in malafede, sa che lo stesso diritto è stato già ceduto
ad altri a prevalere è invece l’altro acquirente.
I conflitti di attribuzione vengono risolti tramite l’istituto del possesso di buonafede.

Universalità, pertinenze e frutti


Beni mobili, immobili, mobili registrati, sono le tre categorie di beni generali.
Esistono altre qualificazioni che sono sempre funzionali a dettare regole di circolazioni
particolari, delle qualificazioni che sono soltanto congiunturali vuol dire che dipendono da
particolari circostanze di fatto che ci potrebbero essere o meno.
Sono le qualificazioni di:
 Universalità;
 Pertinenze;
 Frutti.

Universalità
Universalità riguarda beni sostanzialmente collettivi, l’art.816.cc (Universalità di mobili)
stabilisce che:
1. E' considerata universalità di mobili la pluralità di cose che appartengono alla stessa
persona e hanno una destinazione unitaria.
2. Le singole cose componenti l'universalità possono formare oggetto di separati atti e
rapporti giuridici.
Una pluralità di beni mobili sono un’universalità se appartengono allo stesso titolare e se
hanno una destinazione unitaria, esempio: una pinacoteca, una biblioteca, una raccolta di
file, un gregge, una mandria.
Il vantaggio di considerarla un’universalità è che i singoli esemplari dell’universalità
possono essere oggetto di atti di disposizione, il proprietario può cedere la totalità di tutti
gli esemplari o singoli esemplari. Se viene ceduta la totalità è necessario un unico atto di
disposizione.
Si discute se la universalità riguardi solo beni corporali o possa riguardare anche beni
incorporali. In particolar modo ci si interroga se l’azienda sia una universalità.
Il concetto giuridica di azienda è profondamente differente da quello economico. L’azienda
in economia è sinonimo di impresa, in diritto è il compendio dei beni strumentali per lo
svolgimento dell’attività di impresa. L’impresa è l’attività e l’azienda sono i beni strumentali,
immobili, mobili, denaro, diritti di proprietà intellettuali grazie ai quali l’imprenditore svolge
l’attività di impresa.
Ma questa domanda è del tutto superflua, perché l’azienda ha un suo regime circolatorio
che è regolato dagli art.2555.cc e seguenti che quindi non richiedono l’applicazione
dell’art.816.cc.
L’azienda può essere ceduta con un unico atto e quando si cede l’azienda si cedono
anche tutti i contratti in essere.

Pertinenze
La pertinenza è regolata dagli art.817.cc art.818.cc art.819.cc
In particolar modo l’art.817.cc (Pertinenze) stabilisce che:
1. Sono pertinenze le cose destinate in modo durevole a servizio o ad ornamento di
un'altra cosa.
2. La destinazione può essere effettuata dal proprietario della cosa principale o da chi ha
un diritto reale sulla medesima.
La pertinenza può essere sia un bene mobile sia un bene immobile, ad esempio la fontana
di un giardino è un bene immobile, ma è una pertinenza, orna un giardino, oppure un vaso
o una statua incastonate nella facciata di un palazzo sono una pertinenza ma sono beni
mobili.
Il vantaggio è che, se non viene disposto diversamente dalle parti, con l’atto di cessione o
disposizione del diritto sulla cosa principale vengono trasferiti anche i diritti sulle
pertinenze.
Si può cedere la proprietà della pertinenza senza cedere la proprietà della cosa principale.
Tutto questo è stabilito dall’art.818.cc (Regime delle pertinenze):
1. Gli atti e i rapporti giuridici che hanno per oggetto la cosa principale comprendono
anche le pertinenze, se non è diversamente disposto.
2. Le pertinenze possono formare oggetto di separati atti o rapporti giuridici.
3. La cessazione della qualità di pertinenza non è opponibile ai terzi i quali abbiano
anteriormente acquistato diritti sulla cosa principale.

Frutti
Ultima qualificazione è quella di frutti che sono di due tipi: naturali e civili.
Sancito dall’art.820.cc (Frutti naturali e frutti civili):
1. Sono frutti naturali quelli che provengono direttamente dalla cosa, vi concorra o no
l'opera dell'uomo, come i prodotti agricoli, la legna, i parti degli animali, i prodotti delle
miniere, cave e torbiere.
2. Finché non avviene la separazione, i frutti formano parte della cosa. Si può tuttavia
disporre di essi come di cosa mobile futura.
3. Sono frutti civili quelli che si ritraggono dalla cosa come corrispettivo del godimento che
altri ne abbia. Tali sono gli interessi dei capitali, i canoni enfiteutici, le rendite vitalizie e
ogni altra rendita, il corrispettivo delle locazioni.
Sono frutti naturali quelli che provengono direttamente da un’altra cosa, tanto che siano
frutto di un processo naturale, tanto che siano frutto di un processo umano (OGM) e il
codice elenca sempre con elencazione indicativa e non esaustiva.
Il frutto finché non avviene la separazione è parte integrante della cosa principale quindi
ciò che una cosa principale produce diviene frutto solo dopo la separazione.
I frutti civili sono il corrispettivo che il titolare della proprietà di un bene ricava dall’aver dato
il godimento di quel bene a terzi, tutto ciò che è rendita.
Gli interessi sui capitali, sulle somme date in prestito a terzi, i canoni di locazioni, i canoni
enfiteusi, le rendite vitalizie, sono frutti civili.
Il regime che si applica ai frutti delineato all’art.821.cc (Acquisto dei frutti):
1. I frutti naturali appartengono al proprietario della cosa che li produce, salvo che la loro
proprietà sia attribuita ad altri. In quest'ultimo caso la proprietà si acquista con la
separazione.
2. Chi fa propri i frutti deve, nei limiti del loro valore, rimborsare colui che abbia fatto spese
per la produzione e il raccolto.
3. I frutti civili si acquistano giorno per giorno, in ragione della durata del diritto.
Comma 1: è possibile cedere il raccolto della vostra azienda agricola senza ovviamente
cedere l’azienda agricola, quei beni sono acquisiti automaticamente dal proprietario della
cosa che produce.
Comma 3: I frutti civili sorgono di giorno in giorno, de die in diem.
Quando si prende una somma in prestito quella somma produce interessi che sorgono in
ragione del tempo, quanto più lungo è il periodo che il vostro finanziatore vi concede per
restituire le somme, tanto maggiore sarà l’entità degli interessi.
Che gli interessi si producano di giorno in giorno, ossia che siano in ragione del tempo non
significa maturano di giorno in giorno.
C’è una scissione dal momento in cui gli interessi sorgono e il momento in cui gli interessi
maturano, cioè possano essere pretesi. Un piano di ammortamento di un mutuo si
costituisce di rate mensili, bimestrali, semestrali che prevedono il pagamento di una quota
del capitale integrato dagli interessi. Il pagamento deve essere effettuato in una data di
calendario, in quel giorno matura l’obbligo di restituzione del capitale e anche l’obbligo di
pagare gli interessi. Gli interessi si caratterizzano per il fatto che sorgano giornalmente ma
che possano essere pretesi dal creditore soltanto alla data prestabilita. Gli interessi
possono maturare mensilmente, bimestralmente, trimestralmente, semestralmente e a
seconda del giorno di maturazione abbiamo una disciplina molto diversa soprattutto per
quanto concerne il fenomeno dell’anatocismo (che studieremo quando parleremo delle
obbligazioni naturali ed è un fenomeno regolato dall’art.1283.cc).

(Lezione 23/03/2022)

Beni di specie e beni generici


Beni immobili, beni mobili e beni mobili registrati sono le 3 categorie onnicomprensive dei
beni, non esistono beni che sono sottratti a questa ripartizione.
I beni possono avere altre qualificazioni:
La qualificazione di beni detti congiunturali ossia universalità di mobili, pertinenze e frutti;
La qualificazione di beni di specie o specifici e beni di genere o generici, questa
distinzione incide sul regime circolatorio.
 Un bene è di specie quando può essere indentificato sulla base delle sue
caratteristiche intrinseche, strutturali o anche pubblicitarie tali da consentirci di
distinguerlo per queste sue specifiche qualità.
I beni immobili sono beni di specie in quanto vengono identificati per le loro
caratteristiche: il luogo in cui il bene si trova e i suoi riferimenti di tipo catastale (la
propria particella).
Anche i beni mobili registrati sono beni di specie, nonostante molti di questi beni
siano prodotti in serie (le autovetture, le motociclette, le imbarcazioni) ciascuno di
essi ha un numero di matricola e una targa che consente la specifica
individuazione.
Ai beni di specie o specifici si applica una regola di trasferimento nota come
principio consensualistico, regolato dall’art.1376.cc.
Art.1376.cc (Contratto con effetti reali):
Nei contratti che hanno per oggetto il trasferimento della proprietà di una cosa
determinata, la costituzione o il trasferimento di un diritto reale ovvero il
trasferimento di un altro diritto, la proprietà o il diritto si trasmettono e si acquistano
per effetto del consenso delle parti legittimamente manifestato.
Quindi i contratti che hanno per oggetto il trasferimento della proprietà o di altri diritti
reali su beni di specie sono contratti direttamente traslativi, il trasferimento del diritto
avviene per effetto automatico del contratto (consensualistico, basta il consenso
delle parti).

 Un bene è di genere quando per indentificarlo si fa riferimento all’appartenenza ad


una categoria merceologica, perché quel bene non ha delle caratteristiche
intrinseche che consentono la sua individuazione sulla base dei suoi elementi
strutturali o di contenuto.
I contratti che hanno per oggetto il trasferimento della proprietà o di altri diritti reali
su beni di genere non sono contratti direttamente traslativi, il trasferimento non è
effetto automatico del contratto ma è conseguenza o della individuazione
(operazione che il venditore e compratore fanno di comune accordo e consiste nello
scegliere all’interno del genere gli elementi su quali si produrrà l’effetto traslativo)
oppure dalla consegna.
Ad esempio per l’acquisto online dello smartphone, l’acquisto della proprietà
avviene non quando si conclude la vendita ma quando lo smartphone viene
consegnato a casa.

I beni immobili e mobili registrati sono beni di specie, i beni mobili sono di regola beni di
genere ma vi sono casi in cui possono essere beni di specie come l’abito fatto su misura
oppure un’edizione limitata del nuovo disco di un artista.

Beni divisibili e beni indivisibili


Un’altra qualificazione meno rilevante è la distinzione tra beni divisibili e beni indivisibili.
È divisibile quel bene che è suscettibile di essere suddiviso in parti senza che esse
perdano l’originale funzione quindi la parte in cui il bene può essere diviso deve assolvere
la stessa funzione del bene non diviso. Ad esempio un appezzamento di terreno molto
grande può essere suddiviso in lotti più piccoli, i quali hanno la stessa funzione del bene
non diviso.
Distinguere i beni divisibili dai beni indivisibili è particolarmente rilevante nell’ambito della
disciplina delle obbligazioni perché le obbligazioni che hanno per oggetto la consegna dei
beni indivisibili si chiamano obbligazioni indivisibili.

Beni consumabili e beni inconsumabili


Un’ultima qualificazione è quella tra beni consumabili e beni inconsumabili. Questa
distinzione indica o isola quella categoria di beni che con l’uso sono destinati a ridursi o ad
estinguersi (esempio: il cibo che viene utilizzato scompare nel momento in cui viene
ingurgitato e digerito).
La distinzione tra beni consumabili e inconsumabili è rilevante sempre in materia di
obbligazioni con particolare riferimento alle obbligazioni restitutorie, perché un bene
inconsumabile può essere restituito in natura (ad esempio un immobile che dato in
locazione si può restituire), mentre quando l’obbligazione restitutoria riguarda un bene
consumabile, la restituzione non può riguardare un bene in natura o perché quel bene è
ancora esistente ma si è diminuito o si è addirittura estinto, in questo caso la restituzione
riguarda l’equivalente del suo valore (ad esempio quando si riceve in prestito del denaro si
restituisce altrettanto denaro più gli interessi ma il denaro non sarà lo stesso).

Beni pubblici
I beni pubblici sono tutti quei beni che sono in proprietà dello Stato e degli Enti territoriali.
Con il termine beni pubblici non si indicando quella categoria di beni pubblici soggettivi,
cioè quei beni che sono pubblici perché sono di proprietà dello Stato.
Il bene pubblico oggettivo è quel bene che deve essere necessariamente di proprietà dello
Stato o degli enti territoriali oppure quei beni che se di proprietà dello Stato, sono
assoggettati ad un regime di contenuto e circolatorio differente rispetto a tutti quegli altri
beni che prendono nome di beni privati.

I beni pubblici oggettivi si distinguono in:


 Beni demaniali;
 Beni del patrimonio indisponibile dello Stato.

Beni demaniali
I beni demaniali sono regolati nell’art.832.cc e si distinguono a loro volta in:
 Beni del demanio necessario;
 Beni del demanio occasionale.
I beni del demanio necessario sono quei beni che devono essere necessariamente in
titolarità dello Stato o degli enti pubblici territoriali. Sono tutti quei beni che per previsione
di legge non possono essere in proprietà dei privati perché vengono considerati
imprescindibili per il trasferimento degli interessi generali e per l’assorbimento delle
pubbliche funzioni o dei pubblici servizi.
I beni del demanio occasionale sono beni che potrebbero essere sia in titolarità privati sia
in titolarità pubblica, e in questo caso assoggettati ad un regime demaniale molto rigoroso.

I beni del demanio necessario sono regolati dall’art.822.1.cc (Demanio pubblico):


1. Appartengono allo Stato e fanno parte del demanio pubblico il lido del mare, la spiaggia,
le rade e i porti; i fiumi, i torrenti, i laghi e le altre acque definite pubbliche dalle leggi in
materia; le opere destinate alla difesa nazionale.
I beni del demanio occasionale sono regolati dall’art.822.2.cc:
2. Fanno parimenti parte del demanio pubblico, se appartengono allo Stato, le strade, le
autostrade e le strade ferrate; gli aerodromi; gli acquedotti; gli immobili riconosciuti
d'interesse storico, archeologico e artistico a norma delle leggi in materia; le raccolte dei
musei, delle pinacoteche, degli archivi, delle biblioteche; e infine gli altri beni che sono
dalla legge assoggettati al regime proprio del demanio pubblico.

I beni di proprietà privata che hanno rilevanza artistica, storica, archeologica, sono
qualificati come beni culturali ed il titolare ha degli obblighi di preservazione e
mantenimento.
I beni culturali possono tranquillamente circolare, se un privato decide di cedere la
proprietà di un bene culturale lo Stato ha diritto di prelazione. Il diritto di prelazione è un
diritto potestativo, ed è il diritto ad essere preferito nella conclusione del contratto a parità
di condizione.
Se un bene è demaniale lo Stato non lo può cedere, li può dare in godimento a terzi solo
nei limiti e con le procedure previste dalla legge e il privato dovrà pagare degli oneri
concessori al titolare dell’ente pubblico (il marciapiede che viene utilizzato dai locali per
mettere i tavoli).
Tutto ciò è sancito dall’art.823.cc (Condizione giuridica del demanio pubblico):
1. I beni che fanno parte del demanio pubblico sono inalienabili e non possono formare
oggetto di diritti a favore di terzi, se non nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi che li
riguardano.
2. Spetta all'autorità amministrativa la tutela dei beni che fanno parte del demanio
pubblico. Essa ha facoltà sia di procedere in via amministrativa, sia di valersi dei mezzi
ordinari a difesa della proprietà e del possesso regolati dal presente codice.

Beni del patrimonio indisponibile dello Stato


I beni del patrimonio indisponibile dello Stato sono regolati dall’art.826.cc (Patrimonio dello
Stato, delle provincie e dei comuni):
1. I beni appartenenti allo Stato, alle provincie e ai comuni, i quali non siano della specie di
quelli indicati dagli articoli precedenti, costituiscono il patrimonio dello Stato o,
rispettivamente, delle provincie e dei comuni.
2. Fanno parte del patrimonio indisponibile dello Stato le foreste che a norma delle leggi in
materia costituiscono il demanio forestale dello Stato, le miniere, le cave e torbiere quando
la disponibilità ne è sottratta al proprietario del fondo, le cose d'interesse storico,
archeologico, paletnologico, paleontologico e artistico, da chiunque e in qualunque modo
ritrovate nel sottosuolo, i beni costituenti la dotazione della Corona, le caserme, gli
armamenti, gli aeromobili militari e le navi da guerra.
3. Fanno parte del patrimonio indisponibile dello Stato o, rispettivamente, delle provincie e
dei comuni, secondo la loro appartenenza, gli edifici destinati a sede di uffici pubblici, con i
loro arredi, e gli altri beni destinati a un pubblico servizio.
Il secondo comma ricorre sempre all’elencazione meramente indicativa e non esaustiva.
I beni di questo tipo appartengono ad un regime simile a quello demaniali, infatti la
distinzione è una distinzione storica, i beni demaniali sono stati i primi beni pubblici regolati
e poi ad essi si sono aggiunti i beni del patrimonio indisponibile dello Stato.
Il regime di questi beni è regolato dall’art.828.cc (Condizione giuridica dei beni
patrimoniali):
1. I beni che costituiscono il patrimonio dello Stato, delle provincie e dei comuni sono
soggetti alle regole particolari che li concernono e, in quanto non è diversamente disposto,
alle regole del presente codice.
2. I beni che fanno parte del patrimonio indisponibile non possono essere sottratti alla loro
destinazione, se non nei modi stabiliti dalle leggi che li riguardano.

Beni del patrimonio disponibile dello Stato


I beni del patrimonio disponibile sono tutti quei beni mobili e immobili diversi da quelli
elencati nell’art.826.cc che non sono destinati all’esercizio di un pubblico servizio o di una
pubblica funzione (se un privato dona al comune se io dono al comune un immobile, il
comune può decidere se utilizzarlo per una finalità pubblica o se disporne come un privato
ad esempio vendendolo o dandolo in locazione).
I beni del demanio occasionale o i beni del patrimonio indisponibile possono essere
sdemanializzati o sottratti al regime del patrimonio indisponibile tramite un provvedimento
amministrativo pubblicato nella Gazzetta Ufficiale, che sottrae il bene demaniale al regime
del demanio trasferendolo al regime del patrimonio indisponibile.
Beni vacanti
L’art.827.cc (beni immobili vacanti) sancisce:
I beni immobili che non sono in proprietà di alcuno spettano al patrimonio dello Stato.
Per tutti quei beni di cui non è possibile rintracciare il titolare o la famiglia quell’immobile
diventa vacante e lo Stato non potendo tollerare che vi siano beni privi di un soggetto e
acquisisce quei beni che diventano patrimonio dello Stato.
Se questi beni immobili vengono destinati ad esercizio di un pubblico servizio o di una
pubblica funzione diventeranno beni del patrimonio indisponibile, se non vengono destinati
a questo tipo di svolgimento faranno parte del patrimonio disponibile e quindi lo Stato li
potrà cedere a privati attraverso un pagamento di un corrispettivo.
L’ordinamento tollera invece beni mobili che non hanno un titolare o di cui non si sia in
grado di risalire al titolare e quei beni sono oggetto di acquisto di proprietà a titolo
originario, ossia occupazione (esempio i pesci, il lago, l’energia solare).

Limiti della proprietà


La concezione tradizionale concepisce la proprietà come un diritto fondamentale e quindi
come un diritto che deve essere limitato nella misura strettamente necessaria a garantire o
interessi di ordini generale o la pacifica convivenza.
I limiti tradizionali della proprietà sono limiti alla proprietà nell’interesse della proprietà,
perché consentono agli altri proprietari di potere con pienezza godere e disporre dei propri
beni, come ad esempio: i rapporti di vicinato.
Il più noto esempio di limite alla proprietà nell’interesse alla proprietà altrui è costituito dai
divieti di atti emulativi (aemulatio = molestia) sancito dall’art.833.cc. (Atti emulativi):
Il proprietario non può fare atti i quali non abbiano altro scopo che quello di nuocere o
recare molestia ad altri.
Tale limite è posto al proprietario per evitare che altri proprietari vengano danneggiati
oppure vengano ostacolati nel godimento del diritto.
Il divieto di atti emulativi dell’articolo 833 insieme alle norme sulla buona fede in senso
oggettivo sono il fondamento normativo del divieto di abuso del diritto.
Il diritto soggettivo può essere oggetto di abuso quando il titolare lo esercita con modalità
inutilmente dannose o inutilmente nocive per il terzo, il titolare potrebbe ottenere la
medesima utilità con modalità meno invasive della altrui sfera giuridica.
Gli atti emulativi sono un esempio che attengono per lo più ai rapporti di vicinato. Ad
esempio Tizio decide di innalzare una palizzata di 10 metri nel proprio giardino che ha
come unica funzione quella di impedire a Caio la vista del mare, questo è un atto di
emulazione non avendo utilità alcuna se non quella di recare un danno al vicino. Questo
atto di esercizio è abuso di proprietà e quindi può essere contrastato condannando il
proprietario ad eliminare gli effetti di questo atto, se eliminabile nel caso della palizzata, o
condannandolo al risarcimento del danno.
La nostra giurisprudenza interpreta l’art.833.cc in maniera molto restrittiva ritenendo che
l’atto sia emulativo non solo quando è privo di utilità per il proprietario ma quando si provi
l’intento specifico del proprietario di nuocere o di molestare il vicino. Sostanzialmente l’atto
emulativo è un atto doloso e provare il dolo cioè l’intenzionalità è complicato perché è uno
stato soggettivo e come tutti gli stati soggettivi sono di complessa prova.

Limiti di diritto pubblico


La proprietà incontra anche i limiti di diritto pubblico.
Lo Stato e gli altri enti territoriali sono i rappresentanti degli interessi generali ossia degli
interessi pubblici che sono sempre destinati a prevalere sugli interessi privati, cioè del
singolo, tale esigenza può determinare anche limitazioni del diritto di proprietà. Classico
esempio sono gli istituti di espropriazione per pubblica utilità e la requisizione.

Requisizione
La requisizione è regolata dall’art.835.cc è un altro strumento di acquisto della proprietà
privata da parte dello Stato che prevede sempre il pagamento di un’indennità, ma è più
celere rispetto a quella di espropriazione, infatti si giustifica solo in casi gravi e urgenti di
necessità pubbliche militari o civili.
Il codice è stato approvato nel ‘42 in piena seconda guerra mondiale, quindi l’esigenza
dello Stato era quella di requisire terreni o anche capannoni industriali per convertirli alla
produzione di materiale bellico.
Ad esempio per problemi idrologici le condizioni climatiche hanno determinato il rischio del
crollo di un’intera parete di una collina o montagna, se quei terreni sono di proprietà
privata, il Comune o lo Stato li requisisce con procedura accelerata al fine di metterli in
sicurezza.

Limiti della Costituzione: la funzione sociale


Anche la nostra Costituzione regola l’istituto della proprietà. La Costituzione è un prodotto
normativo più avanzato del cc, ispirato ai codici dell’800, perché è frutto di un modello di
società differente maturata a seguito delle tragedie della II guerra mondiale. In materia di
proprietà ha introdotto una clausola che ha rivoluzionato l’istituto nota come clausola della
funzione sociale.
L’art.42.cost sancisce:
La proprietà è pubblica o privata. I beni economici appartengono allo Stato, ad enti o a
privati.
La proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge, che ne determina i modi di
acquisto, di godimento e i limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla
accessibile a tutti.
La proprietà privata può essere, nei casi preveduti dalla legge, e salvo indennizzo,
espropriata per motivi d'interesse generale.
La legge stabilisce le norme ed i limiti della successione legittima e testamentaria e i diritti
dello Stato sulle eredità.
Il primo comma sostanzialmente impedisce di produrre in Italia un regime economico
socialista. I beni produttori sono anche dei privati e non solo dello Stato come nelle
economie comuniste e socialiste c.
Il terzo comma parla di motivi d'interesse generale ad oggi si parla addirittura di pubblica
utilità, significa che non c’è solo interesse generale ma c’è un vantaggio diretto dell’intera
collettività.
Il quarto comma stabilisce che quando muore un soggetto che non ha parenti entro il
sesto grado, i suoi beni vengono acquisiti dallo Stato.
Il secondo comma introduce la clausola della funzione sociale che è l’autentico
stravolgimento dell’istituto proprietario.
Per il codice civile la proprietà è espressione di libertà salvo i limiti previsti ed è il diritto
individualistico per antonomasia.
Per la Costituzione la proprietà è libertà e solidarietà, significa che il diritto di proprietà è
riletto anche in senso solidaristico.
Se per il codice civile la proprietà è del titolare che va inteso uti singulus come individuo
portatore di libertà del proprio utile personale, per la nostra Costituzione la proprietà è
nella titolarità del soggetto uti socius come appartenente alla comunità sociale in quanto
parte di un gruppo, il proprietario può esercitare la proprietà perseguendo il proprio utile
personale ma deve tollerare i limiti più stringenti di quelli tradizionali ossia quelli codicistici
per l’interesse della collettività.
Un altro limite di diritto pubblico è il limite Ius aedificandi. Ogni comune ha il compito di
dividere il territorio comunale ossia zonizzare tramite lo strumento amministrativo del piano
regolatore. Il comune deve individuare quali aree del suo territorio siano destinate ad
attività agricola, al verde pubblico, quali siano le aree edificabili per finalità commerciali e
quali per finalità residenziali. Inoltre il comune nelle zone edificabili indica anche un
regolamento edilizio che regola il rapporto tra estensione del terreno e volumetria a cui i
titolari degli immobili sono assoggettati (lo ius aedificandi ossia potere di costruire non è
un potere libero).
Questo ulteriore limite è finalizzato:
- Per evitare la consumazione del territorio in quanto interesse generale sia per
ragioni ambientali sia per ragioni estetiche.
- Per evitare la disomogeneità, ossia che i centri urbani siano un insieme di edifici
con stili e caratteristiche architettoniche differenti, serve a garantire e garantire
un’edificazione ordinata, coerente e omogenea.
Chiunque intenda costruire deve presentare un progetto dell’edificio che rispetti le
indicazioni date dal comune nel regolamento edilizio ed ottenere un provvedimento
amministrativo autorizzatorio ossia il permesso di costruire (prima chiamato concessione
di edilizia).
C’è un interesse generale a regolare l’attività edificatoria e non lasciarla al libero arbitrio.
Questo potere che ciascun proprietario di immobili in zone edificabili ha, perché intrinseco
il suo diritto e però compresso con un limite di diritto pubblico, deve essere eliminato con il
permesso di costruire e poi essere libero di esplicarsi.
Quando un provvedimento amministrativo elimina un limite ad un potere che un privato ha
già si chiama provvedimento autorizzatorio.
Quando un provvedimento amministrativo amplia la sfera del privato, conferendogli poteri
che non aveva si chiama provvedimento concessorio (il porto d’armi).
Il permesso di costruire che elimina il limite ad un potere che il proprietario già ha (il potere
di costruire) è oneroso, questa è una limitazione ulteriore che si giustifica nell’ottica
solidaristica in quanto serve a contenere la spesa pubblica e a redistribuire la ricchezza,
questa è funzione sociale della proprietà.
Quando si costruisce in zone periferiche possibilmente ancora non servite, il Comune
deve sostenere un costo pubblico per portare i servizi di luce, acqua, gas, deve allungare
la tratta dei mezzi pubblici e fare l’urbanizzazione.
Solitamente è la fascia meno agiata della popolazione che acquista nelle zone periferiche
e i costi di urbanizzazione non possono riguardare soltanto una parte della popolazione
ma sono costi vanno sopportati dalla collettività.
L’onerosità del permesso di costruire è proprio legata alla redistribuzione della ricchezza.
La costituzione pone un limite alla proprietà più stringente dei limiti tradizionali, è un limite
che non protegge l’altrui proprietà o l’interesse pubblico bensì è un limite che risponde a
ragioni di tipo solidaristico cioè di redistribuzione della ricchezza, di contenimento dei costi
pubblici ed evita l’aumento delle tasse. L’art.42.2.cost quindi rende legittima la legge
Bucalossi del 1997 che è la legge che stabilisce tutte le normative e gli obblighi riguardanti
l'edificabilità dei suoli, gli oneri di urbanizzazione cioè i corrispettivi dovuti per interventi di
nuova costruzione, ampliamento di edifici esistenti e ristrutturazioni edilizie.
Questo limite ulteriore introdotto dalla Costituzione, ha giustificato nel corso del 900
interventi normativi che altrimenti sarebbero stati considerati costituzionalmente illegittimi o
addirittura non sarebbero stati mai approvati.
Ad esempio la legge sull’equo canone introdotta nel 1978, che limitava l’ammontare dei
canoni di locazioni, stabilendo tramite un algoritmo un tetto massimo.
Limitazione che è stata introdotta per attuare il principio costituzionale di funzione sociale
per ragioni solidaristiche. Legge che è stata in seguito abrogata in quanto portava i
proprietari a preferire di non dar in locazione il bene.

Norme sulla proprietà fondiaria.


La proprietà fondiaria è la proprietà dei terreni.
L’art.840.cc esprime quella che è nota come proiezione verticale del diritto di proprietà, la
proprietà del suolo si estende alla colonna d’aria che sovrasta e a terreni sottostanti, ma
non si estende ad altezze e profondità tali da non poter essere sfruttati dal proprietario.
Art.840.cc (Sottosuolo e spazio sovrastante al suolo):
1. La proprietà del suolo si estende al sottosuolo, con tutto ciò che vi si contiene, e il
proprietario può fare qualsiasi escavazione od opera che non rechi danno al vicino.
Questa disposizione non si applica a quanto forma oggetto delle leggi sulle miniere, cave
e torbiere. Sono del pari salve le limitazioni derivanti dalle leggi sulle antichità e belle arti,
sulle acque, sulle opere idrauliche e da altre leggi speciali.
2. Il proprietario del suolo non può opporsi ad attività di terzi che si svolgano a tale
profondità nel sottosuolo o a tale altezza nello spazio sovrastante, che egli non abbia
interesse ad escluderle.
Sul carattere dell’estensione verticale della proprietà si fonda il principio di accessione,
che è uno dei modi di acquisto della proprietà a titolo originario. L’accessione è la regola
per la quale il proprietario è titolare di tutto ciò che viene costruito sopra e sotto il fondo.
L’art.841.cc (Chiusura del fondo) è espressione del “Ius excludendi alios” - Diritto di
escludere tutti gli altri:
Il proprietario può chiudere in qualunque tempo il fondo.
Anche le chiusure del fondo sono regolate dal piano della regola generale, il Comune
stabilisce quale sia la tipologia di chiusura ammessa, muri di cinta, palizzate, rete
metalliche ecc.
L’art.842.cc (Caccia e pesca) sancisce:
1. Il proprietario di un fondo non può impedire che vi si entri per l'esercizio della caccia, a
meno che il fondo sia chiuso nei modi stabiliti dalla legge sulla caccia o vi siano colture in
atto suscettibili di danno.
2. Egli può sempre opporsi a chi non è munito della licenza rilasciata dall'autorità.
3. Per l'esercizio della pesca occorre il consenso del proprietario del fondo.
L’art.843.cc (Accesso al fondo) prevede che:
1. Il proprietario deve permettere l'accesso e il passaggio nel suo fondo, sempre che ne
venga riconosciuta la necessità, al fine di costruire o riparare un muro o altra opera propria
del vicino oppure comune.
2. Se l'accesso cagiona danno, è dovuta un'adeguata indennità. (Il risarcimento si chiede
quando il danno è conseguenza di un’attività vietata, l’indennità si ottiene quando
un’attività seppur lecita causa un danno)
3. Il proprietario deve parimenti permettere l'accesso a chi vuole riprendere la cosa sua
che vi si trovi accidentalmente o l'animale che vi si sia riparato sfuggendo alla custodia. Il
proprietario può impedire l'accesso consegnando la cosa o l'animale.
Il limite più significato della proprietà fondiaria che si applica anche soprattutto alla
proprietà edilizia è il limite delle immissioni regolato dall’art.844.cc (Immissioni):
1. Il proprietario di un fondo non può impedire le immissioni di fumo o di calore, le
esalazioni, i rumori, gli scuotimenti e simili propagazioni derivanti dal fondo del vicino, se
non superano la normale tollerabilità, avuto anche riguardo alla condizione dei luoghi.
2. Nell'applicare questa norma l'autorità giudiziaria deve contemperare le esigenze della
produzione con le ragioni della proprietà. Può tener conto della priorità di un determinato
uso.
Le immissioni sono propagazioni di qualunque natura di rumore, calore, fumo, odori,
sostanze nocive, che sono conseguenza dell’uso che il proprietario fa del proprio bene,
utilizzare il bene potrebbe produrre delle diffusioni. Le immissioni non possono essere
vietate a meno che non superino il limite della normale tollerabilità.
Questo è un parametro indeterminato per dare alla norma elasticità affidando al giudice la
possibilità di decidere quando una propagazione sia o meno superiore alla normale
tollerabilità. Il giudice deve tener conto del luogo, deve contestualizzare la tollerabilità, ad
esempio nei centri urbani non si ci può lamentare del traffico così come nelle zone
industriali si ha una maggiore tollerabilità per i rumori causati dall’attività d’impresa o al
contrario nelle zone prettamente residenziali si può agire contro un nuovo pub che metta
la musica troppo alta.
L’art.844.cc è stato invocato molte volte dagli abitanti dei piani sovrastanti attività di
ristorazione o panificazione ciò ha portato il legislatore ad intervenire in materia passando
dalla norma generale alla norma speciale, introducendo una normativa apposita che oggi
fa obbligo a chi fa parte di queste attività di dotarsi di canne fumarie che devono svezzare
al di sopra della sommità dell’immobile in cui si trova l’esercizio commerciale. La
legislazione speciale però non può prevedere tutto allora rimane la norma generale, in cui
il giudice dovrà valutare la tollerabilità. Nel caso venga superato il limite di tollerabilità il
giudice può decidere se il rimedio debba essere l’azione inibitoria o il risarcimento del
danno.
Spesso le immissioni provengono dallo svolgimento delle attività economiche.
Il giudice nell’ottemperare alla sua scelta dovrà effettuare un bilanciamento di interessi tra
la tutela della proprietà e la tutela di chi svolge attività economica in quanto svolge attività
di interesse generale. In questi casi piuttosto che vietare lo svolgimento dell’attività che
reca un danno sia al lavoratore che all’economia del territorio, potrebbe concedere il
risarcimento del danno.

Norme sulla proprietà degli edifici


La proprietà degli edifici è regolata dagli art.869-870-871-872.cc.
L’art.869.cc (Piani regolatori) sancisce:
I proprietari d'immobili nei comuni dove sono formati piani regolatori devono osservare le
prescrizioni dei piani stessi nelle costruzioni e nelle riedificazioni o modificazioni delle
costruzioni esistenti
Il permesso di costruire va domandato per costruire ex novo, per riedificare e per
modificare perché il Comune deve verificare se la costruzione, la riedificazione o la
modificazione sia conforme al piano regolatore generale.
Il piano regolatore è un documento che ha una lunga durata anche di 30-40-50 anni,
indica la suddivisione del territorio comunale in zone verificate, individua la destinazione
delle singole aree del territorio e poi contiene le prescrizioni generali edilizie. Il piano
regolatore va cambiato qualora le modifiche da fare siano sostanziose se invece siano
limitate può essere modificato tramite lo strumento delle varianti, ad esempio per
consentire la riqualificazione di un’area prima considerata immodificabile.
Delle violazioni delle norme di edilizie se ne occupa l’art.872.cc (Violazione delle norme di
edilizia):
1. Le conseguenze di carattere amministrativo della violazione delle norme indicate
dall'articolo precedente sono stabilite da leggi speciali.
2. Colui che per effetto della violazione ha subito danno deve esserne risarcito, salva la
facoltà di chiedere la riduzione in pristino quando si tratta della violazione delle norme
contenute nella sezione seguente o da questa richiamate.
Le conseguenze alla violazione sono:
- L’abbattimento;
- La sanzione amministrativa.
Chi edifica abusivamente perché costruisce, riedifica o modifica in assenza di permessi di
costruire realizza un immobile abusivo che è incommerciabile, il contratto di un bene in
vendita abusivo è nulla.
Un abuso edilizio comporta l’abbattimento dell’immobile con il ripristino dello status quo
ante e poi una sanzione amministrativa. Un abuso che viola le prescrizioni del piano
regolatore generale non può essere sanato, ma può aspettare le leggi speciali, chiamate
condoni a cui lo Stato ricorre per fare cassa, dando la possibilità di sanare l’immobile
abusivo anche se esso secondo le norme generali è insanabile, a costi spesso alti, però in
questo modo l’immobile condonato è nuovamente commerciabile.

(Lezione 28/03/2022)

La materia edilizia
La materia edilizia è regolata dal D.P.R. del 6 giugno 2001 numero 380 “Testo unico delle
disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia”
L’art.6 indica le attività edilizie libere, elenca tutti quegli interventi edificatori o di
escavazione che possono essere compiuti senza la richiesta del permesso di costruire
ossia:
a) gli interventi di manutenzione ordinaria
a-bis) gli interventi di installazione delle pompe di calore aria-aria di potenza termica utile
nominale inferiore a 12 Kw;
b) gli interventi volti all’eliminazione di barriere architettoniche che non comportino la
realizzazione di ascensori esterni, ovvero di manufatti che alterino la sagoma dell’edificio;
c) le opere temporanee per attività di ricerca nel sottosuolo che abbiano carattere
geognostico, ad esclusione di attività di ricerca di idrocarburi, e che siano eseguite in aree
esterne al centro edificato;
d) i movimenti di terra strettamente pertinenti all’esercizio dell’attività agricola e le pratiche
agro-silvo-pastorali, compresi gli interventi su impianti idraulici agrari;
e) le serre mobili stagionali, sprovviste di strutture in muratura, funzionali allo svolgimento
dell’attività agricola;
e-bis) le opere stagionali e quelle dirette a soddisfare obiettive esigenze, contingenti e
temporanee, purché destinate ad essere immediatamente rimosse al cessare della
temporanea necessità e, comunque, entro un termine non superiore a centottanta giorni
comprensivo dei tempi di allestimento e smontaggio del manufatto, previa comunicazione
di avvio dei lavori all’amministrazione comunale;
e-ter) le opere di pavimentazione e di finitura di spazi esterni, anche per aree di sosta, che
siano contenute entro l'indice di permeabilità, ove stabilito dallo strumento urbanistico
comunale, ivi compresa la realizzazione di intercapedini interamente interrate e non
accessibili, vasche di raccolta delle acque, locali tombati;
e-quater) i pannelli solari, fotovoltaici, a servizio degli edifici.
L’art.10 indica le attività per le quali è richiesto il permesso di costruire, quindi sottoposte
ad un limite di diritto pubblico ossia:
1. Costituiscono interventi di trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio e sono
subordinati a permesso di costruire:
a) gli interventi di nuova costruzione;
b) gli interventi di ristrutturazione urbanistica;
c) gli interventi di ristrutturazione edilizia che portino ad un organismo edilizio in tutto o in
parte diverso dal precedente, nei casi in cui comportino anche modifiche della volumetria
complessiva degli edifici ovvero che, limitatamente agli immobili compresi nelle zone
omogenee A, comportino mutamenti della destinazione d’uso, nonché gli interventi che
comportino modificazioni della sagoma o della volumetria complessiva degli edifici o dei
prospetti di immobili sottoposti a tutela ai sensi del Codice dei beni culturali e del
paesaggio di cui al decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42.
2. Le regioni stabiliscono con legge quali mutamenti, connessi o non connessi a
trasformazioni fisiche, dell’uso di immobili o di loro parti, sono subordinate a permesso di
costruire o a segnalazione certificata di inizio attività.
3. Le regioni possono altresì individuare con legge ulteriori interventi che, in relazione
all’incidenza sul territorio e sul carico urbanistico, sono sottoposti al preventivo rilascio del
permesso di costruire. La violazione delle disposizioni regionali emanate ai sensi del
presente comma non comporta l’applicazione delle sanzioni di cui all’articolo 44.
Il secondo comma lascia alla competenza concorrente delle regioni la possibilità di
individuare ulteriori interventi edificatori che sono subordinati al permesso di costruire.
Gli art.11 e seguenti disciplinano il permesso di costruire e il procedimento per il suo
rilascio.
Il permesso di costruire è concesso se il progetto edilizio di nuova costruzione e di
ristrutturazione urbanistica o di ristrutturazione edilizia rispetta i regolamenti edilizi del
comune.
Ogni comune ha il suo regolamento con delle specifiche che dipendono da scelte di
politica bandistica o da scelte dettate dal da motivi idrogeologici o da motivi sismici quindi
chi edifica deve rispettare quelle prescrizioni oltre ovviamente alle prescrizioni di
volumetria: infatti ogni piano regolatore generale fissa un rapporto che varia da aria ad aria
tra superficie e volumetria realizzabile.

Indennità per espropriazione di pubblica utilità


I limiti di nuova generazione ispirati a ragioni solidaristiche non si esauriscono nel
permesso di costruire oneroso o nella legge sull’equo canone del ‘78 (in seguito abolita),
oggi la materia è regolata dal d.lgs. del ‘98 che ha riportato la determinazione del canone
di locazione al mercato, cioè al libero incontro di domanda e offerta.
Un’ altra applicazione della funzione sociale della proprietà riguarda il tema della
determinazione dell’indennità di espropriazione per pubblica utilità.
L’espropriazione per pubblica utilità poggia su un limite tradizionale del diritto di proprietà
cioè quello che fa prevalere l’interesse generale sull’interesse del soggetto individuale,
quindi la funzione sociale non ha alcun ruolo.
La materia dell’espropriazione per pubblica utilità e la funzione sociale si intersecano
proprio sul tema della determinazione dell’indennità di espropriazione, sia l’art.42.3.cost,
sia l’art834.cc prevedono che l’espropriazione per pubblica utilità sia corredata dal
riconoscimento al privato di una indennità di espropriazione.
Secondo l’impostazione liberal-liberista questa indennità dovrebbe essere pari al valore
venale del bene, cioè il suo valore di mercato, per consentire al proprietario che perde il
suo bene la possibilità di colmare la sua perdita, se lo desidera con un bene analogo o con
altro, senza alcun vincolo. Il compito dell’indennità è quella di mettere il proprietario dal
punto di vista patrimoniale in una condizione equivalente a quella precedente.

Prima regolamentazione 2359/1865


La prima regolamentazione della materia di espropriazione per pubblica utilità nel nostro
paese è data dalla legge del 25 giugno 1865 n° 2359 che prevedeva che l’indennità di
espropriazione per gli immobili edificabili o edificati dovesse essere pari al valore venale
del bene, quindi il valore di mercato.
Vent’anni dopo la città di Napoli venne colpita da una gravissima pestilenza, a causa di
zone acquitrinose in cui si formarono sacche malariche.
Per poter bonificare la città di Napoli fu necessario espropriare. Essendo un evento
massiccio fu necessario ridurre i costi pubblici dato che i soldi per l’indennità provengono
dal bilancio dello Stato. Così venne approvata una legge eccezionale che è la legge del 15
gennaio del 1885 numero 2891, nota come “Legge speciale sulla città di Napoli” che
prevedeva che limitatamente a tutti i procedimenti di espropriazione relativi alla città di
Napoli l’indennità si dovesse calcolare in misura pari alla media tra valore venale e reddito
dominicale (il reddito dominicale è costituito dalla rendita ipotetica di un immobile tramite il
sistema degli estimi catastali). Questa riduzione sensibile dell’ammontare dell’indennità di
espropriazione si giustificava sulla base di un intervento straordinario volto a risolvere
un’emergenza sanitaria, quale quella delle epidemie che si erano scatenate nella città di
Napoli, per tutte le altre espropriazioni ordinarie si continuava ad applicare il criterio
generale del valore venale sancito nel testo unico dell’edilizia del 1865.

Legge 865/1971
La legge del 22 ottobre del 1971 n° 865 introduce come criterio di determinazione
dell’indennità di espropriazione degli immobili edificabili o edificati il reddito agricolo.
Ma applicare ad un terreno edificato o edificabile che ha un reddito dominicale differente, il
reddito agricolo che è molto più basso è irragionevole in quanto va ad equiparare beni
differenti. Ogni norma si deve basare sul principio di ragionevolezza cioè si devono
bilanciare i diritti contrapposti in maniera adeguata. In questo caso si doveva bilanciare la
tutela della proprietà privata e il contenimento della spesa pubblica e la norma realizzava
un bilanciamento tutto a favore del contenimento dei costi pubblici. La Corte costituzionale
fu quindi chiamata a pronunciarsi sulla norma dichiarandola costituzionalmente illegittima,
con la sentenza n° 5 del 30 gennaio del 1980 che ha portato alla reviviscenza della
precedente norma abrogata, il testo unico sulle espropriazioni del 1865.

Art.5-bis legge 359/92


La legge dell’8 agosto 1992 n° 359 introduce con l’articolo 5-bis un nuovo criterio di
determinazione dell’indennità di espropriazione per pubblica utilità degli immobili edificabili
o edificati.
Tale criterio viene individuato nella media tra valore di mercato e reddito dominicale
abbattuto del 40%, nel caso di mancato accordo tra pubblica amministrazione e cittadino.
La norma voleva disincentivare le impugnazioni pretestuose da parte dei cittadini anche
quando non vi erano i presupposti per contestare la legittimità dell’atto.
Se l’espropriazione che si sta subendo è illegittima in quanto mancano i presupposti di
pubblica utilità, oppure qualche fase del procedimento di espropriazione non è stata
attuata, oppure l’indennità che è stata riconosciuta e mal calcolata bisogna impugnarla di
fronte al TAR per l’annullamento del decreto di esproprio illegittimo.
Un giudice sollevò la questione di legittimità costituzionale anche in questa nuova norma e
quindi la Corte Costituzione è stata chiamata a pronunciarsi. Con la sentenza del 16
giugno del 1993 n° 283 la Corte costituzionale ha respinto la questione di legittimità
costituzionale reputando quindi l’articolo 5-bis della legge del ‘92 costituzionalmente
legittimo. In questo caso la Corte ha ritenuto che il legislatore aveva fatto un
bilanciamento. Il sacrificio del proprietario espropriato di ottenere una somma inferiore non
sarebbe legittimo se non vi fosse il principio della funzione sociale. L’esigenza solidaristica
rende questa limitazione tollerabile anche perché l’indennità di espropriazione, come
affermato dalla Corte Costituzionale, non deve essere una riparazione, cioè non deve
eliminare integralmente o in misura quasi integrale il pregiudizio economico che il cittadino
ha subito, ma deve essere un equo ristoro ossia la sua funzione è quella di ridurre il
sacrificio.

Sentenza Scordino
Tuttavia un cittadino italiano, Scordino decise di agire nei confronti della Repubblica
italiana di fronte a un tribunale internazionale, la Corte Europea dei diritti dell’uomo, la
cosiddetta CEDU.
La norma invocata da Scordino era l’art.1 (Protezione della proprietà) del protocollo
addizionale 1 (Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà
fondamentali).
Art.1: Ogni persona fisica o giuridica ha diritto al rispetto dei suoi beni. Nessuno può
essere privato della sua proprietà se non per causa di utilità pubblica e nelle condizioni
previste dalla legge e dai principi generali del diritto internazionale.
La Convenzione europea dei diritti dell’uomo qualifica la proprietà come un diritto
fondamentale dell’individuo; a differenza dell’art.42.cost che essendo introdotto nell’ambito
dei rapporti economici qualifica la proprietà come un diritto di rango costituzionale ma non
come un diritto fondamentale o inviolabile.
La Corte europea dei diritti dell’uomo con sentenza resa dalla grande camera (che
sarebbe l’equivalente delle sezioni unite, diciamo della Cassazione italiana) del 29 Marzo
2006 nel caso “Scordino contro Italia” condannò l’Italia per violazione dell’articolo,
ritenendo che le norme italiane sul criterio di determinazione dell’indennità di
espropriazione per pubblica utilità fossero contrarie all’articolo 1 del protocollo aggiuntivo 1
della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e quindi sanzionò l’Italia con una sanzione
pecuniaria.
Ciò ha sollevato la questione di legittimità costituzionale della norma, in quanto
l’art.117.cost prevede che la potestà legislativa debba essere esercitata dallo Stato e dalle
Regioni nel rispetto non solo delle norme costituzionali, ma anche delle norme europee e
delle norme dei trattati internazionali (cosiddetti parametri interposti di costituzionalità).
La Corte costituzionale con sentenza del 24 ottobre del 2007 n°348, nota come sentenza
Zagrebelsky (dal nome del giudice estensore cioè il professor Gustavo Zagrebelsky)
dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 5-bis del d.lgs. del 1992.
Nel frattempo la norma era stata riprodotta nel nuovo testo unico dell’espropriazione per
pubblica utilità con il D.P.R. dell’8 giugno 2001 n°327.
La sentenza Scordino del 2006 che riguardava l’art.5-bis allora in vigore, ha travolto la
norma che ne ha preso le veci nel 2001 dichiarandone l’illegittimità costituzionale.

Art.37/2007
Il legislatore è dovuto intervenire con una legge del Dicembre 2007 che ha modificato la
disciplina italiana dell’indennità di espropriazione per pubblica utilità dei terreni edificabili o
edificati introducendo l’attuale norma che è l’art.37 del testo unico (Determinazione
dell'indennità nel caso di esproprio di un'area edificabile):
L’indennità di espropriazione di un’area edificabile (o parzialmente edificabile) è
determinata nella misura pari al valore venale del bene; quando l’espropriazione è
finalizzata ad attuare interventi di riforma economico sociale l’indennità è ridotta del 25%.
Torna dunque il criterio del valore venale, perché è quello che meglio tutela la proprietà
intesa in senso tradizionale come un diritto fondamentale. Si prevede la possibilità di
ridurre l’indennità del 25% ma solo quando l’opera pubblica rientra in un intervento di
riforma economico-sociale come ad esempio se dovessimo riconvertire il polo siderurgico
di Taranto da area industriale ad area residenziale; oppure il caso della riunificazione delle
due Germanie.
Questa pagina della storia del diritto di proprietà vi può essere chiesto:
Se vi domandiamo la proprietà.
Se vi domandiamo direttamente le espropriazioni per pubblica utilità.
O se vi poniamo la domanda sul possibile conflitto tra norme costituzionali e non di trattati
europei o di trattati internazionali.

Occupazione acquisitiva
All’inizio degli anni ‘80 la Corte di Cassazione ha creato un nuovo istituto di origine
pretoria, quindi giurisprudenziale (in quanto è nato dalla creatività dei giudici): è l’istituto
dell’occupazione acquisitiva.
Per occupazione acquisitiva si intende la condotta della P.A che prima di aver emesso il
decreto di esproprio per pubblica utilità, occupa il bene del privato e lo modifica.
La Corte di Cassazione riconosce l’atto illecito e quindi lo Stato deve risarcire al privato
cittadino il danno ma al contempo acquista la proprietà del bene in applicazione della
logica dell’istituto di accessione invertita regolata dall’art.938.cc:
Se nella costruzione di un edificio si occupa in buona fede una porzione del fondo attiguo,
e il proprietario di questo non fa opposizione entro tre mesi dal giorno in cui ebbe inizio la
costruzione, l'autorità giudiziaria, tenuto conto delle circostanze, può attribuire al
costruttore la proprietà dell'edificio e del suolo occupato. Il costruttore è tenuto a pagare al
proprietario del suolo il doppio del valore della superficie occupata, oltre il risarcimento dei
danni.
Una delle condizioni per l’acquisizione della proprietà dell’art.938 è la buonafede ma la
P.A che occupa e modifica un bene altrui non può essere in buonafede in quanto essa
conosce lo stato di tutti i luoghi, quindi questa è stata una forzatura da parte della
giurisprudenza italiana.
Nel ’92 il legislatore ha introdotto nel testo unico per l’espropriazione per pubblica utilità in
caso di occupazione acquisitiva, la norma di “Occupazione senza titolo di bene” che
prevedeva l’acquisizione del bene da parte della P.A e per il privato il risarcimento pari alla
media tra il valore venale e dominicale, sempre nell’ottica del contenimento del dei costi
pubblici.
La Sentenza Scordino si è scagliata anche contro questa norma in quanto contraria
all’art.1 del protocollo addizionale 1 ritenendo l’istituto dell’occupazione acquisitiva
contraria alle norme del trattato, affermando che da un fatto illecito non può derivare mai
un vantaggio per l’autore dell’illecito. La P.A è chiamata a risarcire il danno, ma acquista la
proprietà del bene occupato e questo vantaggio derivato da un atto illecito non può essere
avallato dall’ordinamento italiano.
Quindi la Corte Costituzionale è intervenuta abrogando la norma del testo unico che
stabiliva un criterio unico di risarcimento del danno per occupazione acquisitiva.
Oggi la norma modificata e l’art.42-bis (Utilizzazione senza titolo di un bene per scopi di
interesse pubblico):
1. Valutati gli interessi in conflitto, l'autorità che utilizza un bene immobile per scopi di
interesse pubblico, modificato in assenza di un valido ed efficace provvedimento di
esproprio o dichiarativo della pubblica utilità, può disporre che esso sia acquisito, non
retroattivamente, al suo patrimonio indisponibile e che al proprietario sia corrisposto un
indennizzo per il pregiudizio patrimoniale e non patrimoniale, quest'ultimo forfetariamente
liquidato nella misura del dieci per cento del valore venale del bene.
Quindi quando la pubblica amministrazione occupa illegittimamente un bene altrui non lo
acquista per effetto degli illeciti, ma deve emanare un apposito provvedimento
amministrativo che produce l’acquisto non retroattivamente ma per il futuro e in più deve
risarcire il danno economico e il danno non economico (10% del danno economico).
Quindi la sentenza Scordino ha inciso su due tasselli molto importanti della proprietà
fondiaria ed edilizia, cioè il criterio di determinazione dell’indennizzo di espropriazione e la
censura integrale dell’istituto di occupazione perché da un fatto illecito non può derivare
alcun vantaggio.

Fasi del procedimento di espropriazione


Le fasi del procedimento espropriativo sono sancite dall’art.8 del testo unico sulle
espropriazioni per pubblica utilità (Le fasi del procedimento espropriativo):
1. Il decreto di esproprio può essere emanato qualora:
a) l'opera da realizzare sia prevista nello strumento urbanistico generale, o in un atto di
natura ed efficacia equivalente, e sul bene da espropriare sia stato apposto il vincolo
preordinato all'esproprio;
b) vi sia stata la dichiarazione di pubblica utilità;
c) sia stata determinata, anche se in via provvisoria, l'indennità di esproprio. (Il cittadino
deve verificare se l’indennità è stata calcolata correttamente qualora non fosse anche
quella è causa di impugnazione di legittimità del procedimento).
I passaggi che il professore richiede di ricordare:
1865; l’articolo 5 bis della legge del ‘92 quindi la semisomma tra valore venale e valore
dominicale abbattuta del 40%; la sentenza scordino con l’attuale formulazione dell’articolo
37.
Limiti tradizionali alla proprietà
Esistono altri limiti tradizionali alla proprietà Fondiaria ed edilizia.
Sono quei limiti posti alla proprietà nell’interesse dell’altrui proprietà oppure per perseguire
interessi generali, soprattutto pubblici.

Distanza tra edifici


Il codice pone delle regole sulla distanza tra edifici per esigenze in parte di ordine
generale, se non addirittura al pubblico, in parte di ordine individuale.
Il primo interesse generale è legato alla salubrità dei luoghi. Se due edifici sono troppo
vicini tra loro si creano degli spazi non raggiungibili dalla luce e dal calore in cui si
potrebbero creare degli acquitrini o delle zone insalubri da cui possono derivare malattie
contagiose.
Vi è un’esigenza generale a distanziare gli edifici tra loro perciò il codice prevede che gli
edifici vengano costruiti in aderenza o con una determinata distanza tra loro.
L’interesse individuale è dato dal salvaguardare la propria privatezza, di tutelare la
riservatezza dall’estrema vicinanza sul proprio fondo da parte di altrui proprietà che
potrebbero ledere l’intimità del proprietario.
Tutto ciò è disciplinato dagli art.873.cc e seguenti.
L’art.873.cc (Distanze nelle costruzioni):
Le costruzioni su fondi finitimi (confinanti), se non sono unite o aderenti, devono essere
tenute a distanza non minore di tre metri. Nei regolamenti locali può essere stabilita una
distanza maggiore.
L’art.874.cc (Comunione forzosa del muro sul confine):
Il proprietario di un fondo contiguo al muro altrui può chiederne la comunione per tutta
l'altezza o per parte di essa, purché lo faccia per tutta l'estensione della sua proprietà. Per
ottenere la comunione deve pagare la metà del valore del muro, o della parte di muro resa
comune, e la metà del valore del suolo su cui il muro è costruito. Deve inoltre eseguire le
opere che occorrono per non danneggiare il vicino.
L’art.877.cc (Costruzioni in aderenza):
1. Il vicino, senza chiedere la comunione del muro posto sul confine, può costruire sul
confine stesso in aderenza, ma senza appoggiare la sua fabbrica a quella preesistente.
2. Questa norma si applica anche nel caso previsto dall'art. 875; il vicino in tal caso deve
pagare soltanto il valore del suolo.
L’art.878.cc (Muro di cinta):
1. Il muro di cinta e ogni altro muro isolato che non abbia un'altezza superiore ai tre metri
non è considerato per il computo della distanza indicata dall'articolo 873.
2. Esso, quando è posto sul confine, può essere reso comune anche a scopo d'appoggio,
purché non preesista al di là un edificio a distanza inferiore ai tre metri.

Luci e vedute
Esattamente come nel caso delle distanze tra edifici, la disciplina delle luci e delle vedute
si districa nei cosiddetti rapporti di vicinato. I questo caso i limiti del diritto di proprietà sono
sempre nell’interesse dell’altrui diritto di proprietà.
Le luci e le vedute sono 2 tipi di apertura su un muro.
Esse sono disciplinate dagli art.900.cc e seguenti.
L’art.900.cc (Specie di finestre):
Le finestre o altre aperture sul fondo del vicino sono di due specie: luci, quando danno
passaggio alla luce e all'aria, ma non permettono di affacciarsi sul fondo del vicino
(feritoie, finestrelle alte); vedute o prospetti, quando permettono di affacciarsi e di guardare
di fronte, obliquamente o lateralmente (finestre, balconi, lastrici solari).
Art.901.cc (Luci):
Le luci che si aprono sul fondo del vicino devono:
1) essere munite di un'inferriata idonea a garantire la sicurezza del vicino e di una grata
fissa in metallo le cui maglie non siano maggiori di tre centimetri quadrati;
2) avere il lato inferiore a un'altezza non minore di due metri e mezzo dal pavimento o dal
suolo del luogo al quale si vuole dare luce e aria, se esse sono al piano terreno, e non
minore di due metri, se sono ai piani superiori;
3) avere il lato inferiore a un'altezza non minore di due metri e mezzo dal suolo del fondo
vicino, a meno che si tratti di locale che sia in tutto o in parte a livello inferiore al suolo del
vicino e la condizione dei luoghi non consenta di osservare l'altezza stessa.
Art.904.cc (Diritto di chiudere le luci):
1. La presenza di luci in un muro non impedisce al vicino di acquistare la comunione del
muro medesimo né di costruire in aderenza.
2. Chi acquista la comunione del muro non può chiudere le luci se ad esso non appoggia il
suo edificio.
Art.905.cc (Distanza per l'apertura di vedute dirette e balconi):
1. Non si possono aprire vedute dirette verso il fondo chiuso o non chiuso e neppure sopra
il tetto del vicino, se tra il fondo di questo e la faccia esteriore del muro in cui si aprono le
vedute dirette non vi è la distanza di un metro e mezzo.
2. Non si possono parimenti costruire balconi o altri sporti, terrazze, lastrici solari (tetti) e
simili, muniti di parapetto che permetta di affacciarsi sul fondo del vicino, se non vi è la
distanza di un metro e mezzo tra questo fondo e la linea esteriore di dette opere.
3. Il divieto cessa allorquando tra i due fondi vicini vi è una via pubblica.
L’art.907 – (Distanza delle costruzioni dalle vedute):
1. Quando si è acquistato il diritto di avere vedute dirette verso il fondo vicino, il
proprietario di questo non può fabbricare a distanza minore di tre metri, misurata a norma
dell'art. 905.
2. Se la veduta diretta forma anche veduta obliqua, la distanza di tre metri deve pure
osservarsi dai lati della finestra da cui la veduta obliqua si esercita.
3. Se si vuole appoggiare la nuova costruzione al muro in cui sono le dette vedute dirette
od oblique, essa deve arrestarsi almeno a tre metri sotto la loro soglia.

Azioni petitorie
Le azioni a tutela della proprietà sono dette anche azioni petitorie e sono regolate negli
art.948-949-950-951.cc.
Esse sono:
 Azione di rivendicazione (dal diritto romano: Rei vindicatio) all’art.948.cc;
 Azione negatoria all’art.949.cc;
 Azione di regolamento di confini all’art.950.cc;
 Azione di apposizione di termini all’art.951.cc.

L’azione di rivendicazione
La rivendicazione è la principale azione a difesa della proprietà ed è l’azione con il quale il
proprietario recupera il proprio bene quando ne abbia perso il possesso o la detenzione.
Questa è una tutela in forma specifica perché mira a ricreare la condizione materiale con
la quale il proprietario potrà tornare a soddisfare l’interesse dato dal godimento del proprio
diritto di proprietà. Se il proprietario non ha il bene ne potrà solo disporre ma non ne potrà
trarre godimento. Quindi il proprietario affinché possa tornare ad esercitare nella sua
pienezza il diritto di proprietà e quindi a realizzare integralmente il suo interesse è
necessario che recuperi il bene.
L’azione di rivendicazione è lo strumento per recuperare.
La disciplina è sancita dall’art.948.cc (Azione di rivendicazione):
1. Il proprietario può rivendicare la cosa da chiunque la possiede o detiene e può
proseguire l'esercizio dell'azione anche se costui, dopo la domanda, ha cessato, per fatto
proprio, di possedere o detenere la cosa. In tal caso il convenuto è obbligato a ricuperarla
per l'attore a proprie spese, o, in mancanza, a corrispondergliene il valore, oltre a
risarcirgli il danno.
2. Il proprietario, se consegue direttamente dal nuovo possessore o detentore la
restituzione della cosa, è tenuto a restituire al precedente possessore o detentore la
somma ricevuta in luogo di essa.
3. L'azione di rivendicazione non si prescrive (in quanto la proprietà stessa è
imprescrittibile), salvi gli effetti dell'acquisto della proprietà da parte di altri per usucapione.
La norma non chiarisce quale sia l’onere della prova che grava sul proprietario che agisce
in rivendicazione. Chi agisce in rivendicazione, pone a fondamento della sua domanda il
fatto di essere proprietario, e come sancito dall’art.2697.cc chiunque agisca in giudizio
deve provare i fatti che stanno fondamento della sua domanda.
Provare di essere proprietario non è semplice perché non basta esibire il titolo di acquisto
della proprietà perché non è detto che il dante causa fosse il legittimo proprietario del
bene, quindi si dovrebbero ricostruire tutti i passaggi di proprietà sino ad arrivare
all’acquisto a titolo originario (prova talmente complessa che i giuristi medievali parlavano
di probatio diabolica). Ecco perché chi agisce in rivendicazione spesso preferisce provare
di aver acquistato la proprietà a titolo originale per usucapione
Chi possiede un bene immobile da 10 anni in maniera continuativa, ha un titolo
astrattamente idoneo al trasferimento della proprietà (titolo che ha tutti i requisiti di
sostanza e di forma per trasferire la proprietà), è in buona fede ed ha trascritto il titolo,
usucapisce il bene in misura più breve pari a 10 anni. In questo caso chi agisce preferisce
dimostrare di essere diventato proprietario a titolo originario così da evitare questa
complessa operazione probatoria.
Non tutti però hanno il possesso protratto nel tempo così tanto a lungo da poter invocare
l’usucapione, ma esistono dei modi in caso di acquisti per mortis causa per semplificare la
prova della durata del possesso.
Ad esempio chi acquista a titolo di eredità, somma automaticamente al proprio possesso
quello del suo de cuius; mentre chi acquista a titolo di legato questo effetto non lo ottiene
automaticamente ma deve chiedere al giudice di unire al suo possesso quello del de
cuius.
Chi non può fornire tali prove perché in possesso del bene da pochi anni sarà costretto a
dimostrare tutti i passaggi di proprietà precedenti fino ad arrivare all’acquisto a titolo
originario.
La trascrizione potrebbe aiutare in quanto consente di ricostruire i passaggi del diritto.
Il conservatore dei registri immobiliari si limita a verificare che il titolo presentato per
essere trascritto abbia la forma di legge, cioè sia un atto pubblico, sia una scrittura privata
con trascrizione autenticata o sia una sentenza. Il contratto però potrebbe essere
annullabile, nullo o potrebbe essere simulato. Provare la validità e l’efficacia di tali atti è
competenza del giudice. Per questo la trascrizione non è valida a fini probatori in quanto
non dà la garanzia che il titolo trascritto sia valido ed efficace.

(Lezione 29/03/2022)

L’azione negatoria
L’azione negatoria è regolata dall’art.949.cc (Azione negatoria):
1. Il proprietario può agire per far dichiarare l'inesistenza di diritti affermati da altri sulla
cosa, quando ha motivo di temerne pregiudizio.
2. Se sussistono anche turbative o molestie, il proprietario può chiedere che se ne ordini la
cessazione, oltre la condanna al risarcimento del danno.
Alla base dell’azione negatoria c’è la contestazione della titolarità dei diritti.
Il proprietario agisce in negatoria quando un terzo rivendica per sé quel bene, quindi se ne
proclama proprietario oppure rivendica un diritto che è incompatibile con la piena
proprietà.
L’azione negatoria mira infatti ad ottenere una sentenza dichiarativa, quella con la quale il
giudice accerta lo stato dei diritti cioè accerta chi sia tra i contendenti il titolare della
proprietà di quel bene.
Il terzo che rivendica quel bene per sé perché ritiene di esserne proprietario, oppure che
invoca un diritto reale minore su quel bene potrebbe compiere molestie. Le molestie sono
quei comportamenti che ostacolano il pacifico godimento del bene da parte del
proprietario. In questo caso l’azione negatoria potrebbe includere anche la condanna del
terzo a cessare quegli atti di molestie e a ripristinare lo status quo ante. L’onere della
prova in negatoria è molto prossimo a quello della rivendicazione, anche in questo caso
chi agisce in negatoria invoca in essere proprietario, dovrà provare di esserlo o
ricostruendo i passaggi del diritto di proprietà, fino a risalire all’acquisto originario oppure
dovrà provare nel frattempo di aver usucapito il bene acquisendone la proprietà a titolo
originario.

L’azione di regolamento di confine


Alla base dell’azione di regolamento dei confini vi è un conflitto che sorge quando il
confine tra i 2 fondi è diventato incerto e non si sa più dove corra. Spesso il confine è
segnato da un avvallamento, da un torrente, da un filare di alberi, e nel corso degli anni tali
riferimenti possono mutare, come un fiume che si può seccare. Se i proprietari del suolo
non sono più in grado di individuare dove il confine si situa, l’unica possibilità è agire in
giudizio e chiedere al giudice di determinare dove porre il confine.
L’azione di regolamento dei confini è disciplinata dall’art.950.cc:
1. Quando il confine tra due fondi è incerto, ciascuno dei proprietari può chiedere che sia
stabilito giudizialmente.
2. Ogni mezzo di prova è ammesso.
3. In mancanza di altri elementi, il giudice si attiene al confine delineato dalle mappe
catastali.
Il codice ammette il ricorso alle mappe catastali solo nel caso in cui non ci siano altri
strumenti più idonei per poter risolvere questa controversia. Questo perché le mappe
catastali sono documenti molto imprecisi che fotografano uno stato di luoghi risalente a
decenni prima, per mancanza di aggiornamenti.

L’azione per apposizione di termini


L’azione per apposizione di termini è regolata dall’art.951.cc:
Se i termini tra fondi contigui mancano o sono diventati irriconoscibili, ciascuno dei
proprietari ha diritto di chiedere che essi siano apposti o ristabiliti a spese comuni.
Qualora i proprietari siano di comune accordo su dove corre il confine risistemeranno il
segnale concordemente, ma se invece nascesse confitto la ricollocazione del segnale del
confine si ci potrà rivolgere al giudice che tramite i suoi ausiliari verificherà le terre e
ripristinerà i termini, cioè il segnale di confine.

Risarcimento del danno


Oltre che le azioni petitorie, che sono una tutela in forma specifica, il proprietario che ha
subito un danno ingiusto può sempre ricorrere all’azione di risarcimento del danno ai sensi
dell’art2043.cc. Il proprietario che dimostri di aver subito la perdita collegata alla lesione
del suo diritto di proprietà otterrà il risarcimento dei danni, sia dei danni emergenti sia dei
cosiddetti lucri cessanti (mancato guadagno). Ad esempio se Tizio è in trattativa per
cedere la proprietà del proprio immobile e Caio contesta la proprietà del bene facendo
perdere l’affare a Tizio, nel momento in cui il giudice accerta che il diritto è di Tizio, Caio
sarà tenuto al risarcimento del danno costituito dal lucro cessante.

Modi di acquisto della proprietà


I modi di acquisto della proprietà sono o a titolo derivativo o a titolo originario. Sono a titolo
derivato quando l’acquisto avviene per trasferimento, ossia per successione del diritto da
un precedente dante causa all’avente causa, ed è un modo più incerto. Si ha, invece,
l’acquisto a titolo originario quando non avviene per successione ed è un acquisto più
solido perché non presuppone la legittimazione di un precedente titolare.
Acquisti a titolo originario
Gli acquisti a titolo originario sono: l’occupazione, l’invenzione, l’accessione, l’unione e
commissione, la specificazione e l’usucapione.

Occupazione
L’occupazione (appropriazione) è regolata dagli art.923.cc e seguenti.
Art.923.cc (Cose suscettibili di occupazione)
1. Le cose mobili che non sono proprietà di alcuno si acquistano con l'occupazione.
2. Tali sono le cose abbandonate e gli animali che formano oggetto di caccia o di pesca.
L’occupazione è il modo di acquisto a titolo originario che si verifica quando un soggetto si
appropria o di res communis omnium o di res derelictae
Le res communis omnium cioè cose esistenti in natura in quantità tali da poter essere
oggetto di libera appropriazione che in precedenza non erano state acquisite da nessuno
come l’energia solare, l’energia eolica, gli animali selvatici, i pesci. Quando la risorsa
diventa scarsa, anche l’accesso alla risorsa non è più libero come ad esempio il petrolio.
Qui abbiamo un acquisto a titolo originario che è un primo atto di acquisto, perché si tratta
di acquisto di cose comuni a tutti che quindi liberamente appropriabili che in precedenza e
quindi non erano state ancora acquisite da alcun chi.
I res derelictae sono i beni abbandonati con un atto inequivocabile di abdicazione, di
rinuncia a quel bene.
Ad esempio se una persona abbandona una poltrona vicino ad un cassonetto quello è un
atto che ha socialmente il significato di volersi disfare, di aver rinunciato alla proprietà di
quel bene, così chiunque voglia potrà impadronirsene. Il bene in precedenza era nella
titolarità altrui senza dubbi ma l’atto di abdicazione crea una netta separazione tra il prima
e la situazione attuale, quindi la titolarità precedente diventa irrilevante e chi occupa
diventa proprietario a titolo originario.
L’art.924.cc (Sciami di api):
Il proprietario di sciami di api ha diritto d'inseguirli sul fondo altrui, ma deve indennità per il
danno cagionato al fondo; se non li ha inseguiti entro due giorni o ha cessato durante due
giorni d'inseguirli, può prenderli e ritenerli il proprietario del fondo.
L’art.925.cc (Animali mansuefatti):
1. Gli animali mansuefatti possono essere inseguiti dal proprietario nel fondo altrui, salvo il
diritto del proprietario del fondo a indennità per il danno.
2. Essi appartengono a chi se ne è impossessato, se non sono reclamati entro venti giorni
da quando il proprietario ha avuto conoscenza del luogo dove si trovano.
L’art.926.cc (Migrazione di colombi, conigli e pesci)
1. I conigli o pesci che passano ad un'altra conigliera o peschiera si acquistano dal
proprietario di queste, purché non vi siano stati attirati con arte o con frode.
2. La stessa norma si osserva per i colombi che passano ad altra colombaia, salve le
diverse disposizioni di legge sui colombi viaggiatori.
Questi articoli regolano la fattispecie dell’ipotesi di perdita di diversi animali che
stabiliscono che se il proprietario li dovesse perdere potrà inseguirli nel fondo del vicino e
se produrrà danno dovrà indennizzare. Nel momento che il proprietario rinuncia alla
ricerca, dopo un certo lasso di tempo quelle cose diventano cose abbandonate e quindi
chi le ritrovale acquisisce per appropriazione.

Invenzione
L’invenzione (ritrovamento) è regolata dagli art.927.cc e seguenti.
L’art.927.cc (Cose ritrovate):
Chi trova una cosa mobile deve restituirla al proprietario, e, se non lo conosce, deve
consegnarla senza ritardo al podestà del luogo in cui l'ha trovata, indicando le circostanze
del ritrovamento.
Se chi ritrova la cosa smarrita conosce il proprietario dovrà restituirlo se invece la cosa
smarrita appartiene ad un soggetto non identificabile il ritrovatore dovrà consegnarlo
senza ritardo presso la casa comunale del luogo di cui è avvenuto il ritrovamento. La casa
comunale provvederà a pubblicare sull’albo pretorio un avviso che deve rimanere
pubblicato per 3 giorni consecutivi e per 2 domeniche consecutive affinché il proprietario
sia messo in condizione di rivendicare il suo bene. Se dopo un anno dall’ultimo giorno di
pubblicazione nessuno ha rivendicato quel bene viene riacquistato a titolo originario per
invenzione dal ritrovatore, come stabilito dall’art.929.cc (Acquisto di proprietà della cosa
ritrovata).
Nel caso in cui il proprietario entro l’anno rivendichi il bene smarrito, l’art.930.cc prevede
che il ritrovatore abbia diritto se lo chiede ad un premio che è pari a 1/10 del valore del
bene o della somma di denaro sino alla cifra di 5.16€, oltre i 5.16€ il premio è invece di
1/20.
Una norma molto importante è l’invenzione del tesoro perché in un paese con un
patrimonio artistico, archeologico, come l’Italia era necessario stroncare il fenomeno dei
ricercatori di tesori che si introducevano illegittimamente nei fondi altrui alla ricerca di beni
di interesse storico e artistico. L’art.932.2.cc (Tesoro) decreta:
2. Il tesoro appartiene al proprietario del fondo in cui si trova. Se il tesoro è trovato nel
fondo altrui, purché sia stato scoperto per solo effetto del caso, spetta per metà al
proprietario del fondo e per metà al ritrovatore. La stessa disposizione si applica se il
tesoro è scoperto in una cosa mobile altrui.
La regola quindi è che la proprietà della cosa ritrovata, spetta al proprietario del suolo a
meno che il ritrovamento non sia stato casuale. In questo caso il bene cade in
comproprietà, ed è quindi acquistato in comunione dal proprietario e dal ritrovatore.

Accessione
L’accessione è regolata dagli art.934.cc e seguenti e questo modo di acquisto poggia sul
principio di estensione verticale della proprietà consacrato nell’art.840.cc secondo cui il
proprietario del fondo è proprietario della colonna d’aria che sovrasta e del terreno, del
sottosuolo, ovviamente sino all’altezza che e sino alla profondità che giustifichi il suo
interesse. La regola dell’accessione è fissata in generale dall’art.934.cc (Opere fatte sopra
o sotto il suolo):
Qualunque piantagione, costruzione od opera esistente sopra o sotto il suolo appartiene al
proprietario di questo, salvo quanto è disposto dagli articoli 935, 936, 937 e 938 e salvo
che risulti diversamente dal titolo o dalla legge.
L’ipotesi del proprietario del fondo che costruisce con materiale altrui è regolata
dall’art.935.cc (Opere fatte dal proprietario del suolo con materiali altrui):
1. Il proprietario del suolo che ha fatto costruzioni, piantagioni od opere con materiali altrui
deve pagarne il valore, se la separazione non è chiesta dal proprietario dei materiali,
ovvero non può farsi senza che si rechi grave danno all'opera costruita o senza che
perisca la piantagione. Deve inoltre, anche nel caso che si faccia la separazione, il
risarcimento dei danni, se è in colpa grave.
2. In ogni caso la rivendicazione dei materiali non è ammessa trascorsi sei mesi dal giorno
in cui il proprietario ha avuto notizia dell'incorporazione.
Il codice attribuisce la scelta al proprietario dei beni materiali il quale, entro 6 mesi, può
richiederne la separazione, se ciò non rechi un grave danno all’opera costruita, o può
richiedere il controvalore oltre in ogni caso il risarcimento del danno. Se non viene chiesta
la separazione, il proprietario del suolo che ha costruito diventerà proprietario
dell’accessione dei materiali altrui utilizzati.
L’art.936.cc (Opere fatte da un terzo con materiali propri):
1. Quando le piantagioni, costruzioni od opere sono state fatte da un terzo con suoi
materiali, il proprietario del fondo ha diritto di ritenerle o di obbligare colui che le ha fatte a
levarle.
2. Se il proprietario preferisce di ritenerle, deve pagare a sua scelta il valore dei materiali e
il prezzo della mano d'opera oppure l'aumento di valore recato al fondo.
3. Se il proprietario del fondo domanda che siano tolte, esse devono togliersi a spese di
colui che le ha fatte. Questi può inoltre essere condannato al risarcimento dei danni.
4. Il proprietario non può obbligare il terzo a togliere le piantagioni, costruzioni od opere,
quando sono state fatte a sua scienza e senza opposizione o quando sono state fatte dal
terzo in buona fede.
5. La rimozione non può essere domandata trascorsi sei mesi dal giorno in cui il
proprietario ha avuto notizia dell'incorporazione.
In questo caso si possono delineare due ipotesi, la prima è uno sconfinamento fatto per
errore dal vicino, la seconda è il possessore che costruisce su di un bene altrui. Il codice
attribuisce al proprietario del fondo la possibilità di decidere se chiedere l’eliminazione
della costruzione dal suo terreno oppure trattenerla.
Se chiede l’eliminazione deve farlo entro 6 mesi dal giorno in cui ha avuto notizia
dell’avvenuta della costruzione e la rimozione avviene a spese del costruttore che dovrà
anche risarcire l’eventuale danno. Se invece il proprietario del fondo ha interesse a
trattenere l’opera, ne acquista la proprietà a titolo originario per occupazione e allora dovrà
pagare al costruttore, proprietario dei materiali, non solo il valore dei materiali ma anche il
valore della manodopera.
L’art.937.cc (Opere fatte da un terzo con materiali altrui):
1. Se le piantagioni, costruzioni o altre opere sono state fatte da un terzo con materiali
altrui, il proprietario di questi può rivendicarli, previa separazione a spese del terzo, se la
separazione può ottenersi senza grave danno delle opere e del fondo.
2. La rivendicazione non è ammessa trascorsi sei mesi dal giorno in cui proprietario ha
avuto notizia dell'incorporazione.
3. Nel caso che la separazione dei materiali non sia richiesta o che i materiali siano
inseparabili, il terzo che ne ha fatto uso e il proprietario del suolo che sia stato in mala fede
sono tenuti in solido al pagamento di un'indennità pari al valore dei materiali stessi. Il
proprietario dei materiali può anche esigere tale indennità dal proprietario del suolo,
ancorché in buona fede, limitatamente al prezzo che da questo fosse ancora dovuto. Può
altresì chiedere il risarcimento dei danni, tanto nei confronti del terzo che ne abbia fatto
uso senza il suo consenso, quanto nei confronti del proprietario del suolo che in mala fede
abbia autorizzato l'uso.
Questa ipotesi tratta ad esempio un appaltatore che sta costruendo una villa nel terreno di
Tizio, utilizzando in tutto o in parte i materiali che non gli appartengono. In questo caso
l’art.937.cc rimette la decisione al proprietario dei materiali può decidere se chiedere la
separazione se ciò non crea danno alla costruzione oppure può domandarne il valore,
oltre il risarcimento dei danni. Anche in questo caso la domanda di separazione
dev’essere avanzata entro 6 mesi dal giorno in cui il proprietario dei materiali ha avuto
notizia dell’utilizzo dei suoi beni materiali. La domanda del risarcimento e del pagamento
dei materiali va al costruttore, chi li ha utilizzati, se il proprietario del fondo è in buona fede.
Se invece il proprietario del fondo è in malafede, o comunque è a conoscenza del fatto in
quel caso il costruttore e il proprietario del fondo saranno obbligati al pagamento del
materiale. Il proprietario del fondo in caso di mancata richiesta di separazione acquisterà a
titolo originario per accessione la costruzione.
L’art.938.cc (Occupazione di porzione di fondo attiguo):
Se nella costruzione di un edificio si occupa in buona fede una porzione del fondo attiguo,
e il proprietario di questo non fa opposizione entro tre mesi dal giorno in cui ebbe inizio la
costruzione, l'autorità giudiziaria, tenuto conto delle circostanze, può attribuire al
costruttore la proprietà dell'edificio e del suolo occupato. Il costruttore è tenuto a pagare al
proprietario del suolo il doppio del valore della superficie occupata, oltre il risarcimento dei
danni.
Questa fattispecie è la cosiddetta accessione invertita in quanto non è il proprietario del
fondo ad acquistare la titolarità di quello che è stato costruito sul suo fondo, ma è il
costruttore ad acquistare la proprietà del fondo altrui sul quale ha edificato, se vigono
alcuni presupposti.
Questa fattispecie presuppone:
 La buonafede del soggetto che ignori di aver sconfinato sul fondo del vicino
occupandone una porzione durante l’edificazione sul proprio suolo;
 Che il proprietario del fondo contiguo non contesti tutto ciò entro 3 mesi dall’inizio
dei lavori;
 Che lo sconfinante sia disposto a pagare il doppio del valore del suolo occupato
oltre al risarcimento dei danni;
 Che il giudice emetta una sentenza costitutiva di attribuzione. Il giudice a seconda
della propria discrezionalità e a seconda delle circostanze potrebbe o ordinare
l’abbattimento oppure decretare che lo sconfinante abbia acquistato a titolo
originario la porzione di suolo occupato e quanto su di essa costruito.

Superficie
Il diritto di superficie è una deroga al principio di accessione regolata dagli art.952.cc e
seguenti che consiste nella scissione tra titolarità della costruzione e titolarità del suolo. Ad
esempio il gestore di una stazione di servizio è titolare della costruzione, dei distributori di
carburante ma non del suolo che è di titolarità delle compagnie petrolifere.

Unione o commistione
L’unione e la commistione sono regolati dall’art.939.cc:
1. Quando più cose appartenenti a diversi proprietari sono state unite o mescolate in guisa
(così da) da formare un sol tutto, ma sono separabili senza notevole deterioramento,
ciascuno conserva la proprietà della cosa sua e ha diritto di ottenerne la separazione. In
caso diverso, la proprietà ne diventa comune in proporzione del valore delle cose spettanti
a ciascuno.
2. Quando però una delle cose si può riguardare come principale o è di molto superiore
per valore, ancorché serva all'altra di ornamento, il proprietario della cosa principale
acquista la proprietà del tutto. Egli ha l'obbligo di pagare all'altro il valore della cosa che vi
è unita o mescolata; ma se l'unione o la mescolanza è avvenuta senza il suo consenso ad
opera del proprietario della cosa accessoria, egli non è obbligato a corrispondere che la
somma minore tra l'aumento di valore apportato alla cosa principale e il valore della cosa
accessoria.
3. E' inoltre dovuto il risarcimento dei danni in caso di colpa grave.

Specificazione
La specificazione (manipolazione) è regolata dall’art 940.cc:
Se taluno ha adoperato una materia che non gli apparteneva per formare una nuova cosa,
possa o non possa la materia riprendere la sua prima forma, ne acquista la proprietà
pagando al proprietario il prezzo della materia, salvo che il valore della materia sorpassi
notevolmente quello della mano d'opera. In quest'ultimo caso la cosa spetta al proprietario
della materia, il quale deve pagare il prezzo della mano d'opera.
Ad esempio un falegname che utilizza il legno di Tizio per realizzare una credenza, il bene
che ne è derivato ha un valore maggiore rispetto alla materia prima, in questo caso il
codice vuole premiare il lavoro conferendo la proprietà della credenza al falegname che
dovrà pagare il valore di mercato del legno a Tizio.
Se invece ad esempio Caio si reca da un sarto per aver confezionato un abito su misura
portando una stoffa molto pregiata e costosa, la proprietà del vestito finito sarà conferita a
Caio che dovrà corrispondere al sarto il costo della manodopera.

Fenomeni naturali:

Alluvione
L’alluvione è regolata dall’art.941.cc:
Le unioni di terra e gli incrementi, che si formano successivamente e impercettibilmente
nei fondi posti lungo le rive dei fiumi o torrenti, appartengono al proprietario del fondo,
salvo quanto è disposto dalle leggi speciali.
Quindi l’alluvione è un fenomeno naturale che consiste nel progressivo e impercettibile
distacco di terra, per forza delle acque di un fiume, da terreni messi più a monte, e
trasporta in terreni messi più a valle. Questi incrementi di terreno che lentamente si vanno
a creare cadono in proprietà a titolo originario del titolare del fondo posto più a valle.

Avulsione
L’altro fenomeno naturale che può portare all’acquisto a titolo originario è l’avulsione
regolata dall’art.944.cc:
Se un fiume o torrente stacca per forza istantanea una parte considerevole e riconoscibile
di un fondo contiguo al suo corso e la trasporta verso un fondo inferiore o verso l'opposta
riva, il proprietario del fondo al quale si è unita la parte staccata ne acquista la proprietà.
Deve però pagare all'altro proprietario un'indennità nei limiti del maggior valore recato al
fondo dall'avulsione.
L’avulsione è un fenomeno naturale legato alla forza delle acque che determina
l’istantaneo distacco di un’intera porzione di terreno (o zolla) che è pari a incrementare il
fondo posto più a valle o posto sull’altra riva. Anche in questo caso l’incremento di terreno
cade di proprietà a titolo originario del proprietario del fondo incrementato. Quella porzione
di terreno che invece ricade in un fondo che non è in titolarità di nessun privato ricade nel
demanio dello Stato diventando così un bene pubblico.

Possesso e detenzione
Il possesso è regolato dagli art.1140.cc e seguenti.
La definizione di possesso viene data dall’art.1140.cc (Possesso):
1. Il possesso è il potere sulla cosa che si manifesta in un'attività corrispondente
all'esercizio della proprietà o di altro diritto reale.
2. Si può possedere direttamente o per mezzo di altra persona, che ha la detenzione della
cosa.
Il possesso è quella situazione di fatto che consiste nel detenere ed utilizzare un bene
nelle stesse modalità di pienezza ed esclusività del proprietario o del titolare di un diritto
reale.
Questo potere è giuridicamente rilevante chiunque lo esplichi, il possesso può essere
esercitato dal proprietario e dal non proprietario (ladro, usurpatore).
La situazione di possesso va protetta di per sé, sia che chi utilizza il bene sia il legittimo
titolare (possesso titolato) sia che utilizzi il bene non sia il legittimo proprietario o non abbia
il titolo da poter esibire, perché il possesso è più semplice da provare rispetto alla
proprietà.
Ad esempio se Tizio ruba il cellulare a Caio, egli nell’immediatezza potrà reagire per
legittima difesa. Ma se Caio venisse a sapere dopo giorni che è stato Tizio a rubargli il
cellulare e cercasse di riprenderselo con la forza, Tizio in questo caso sarebbe tutelato, in
quanto possessore del bene. Quindi inizialmente verrebbe ripristinata la situazione più
semplice da provare e in seguito ed indagini e tramite un giudizio Caio potrà riottenere il
possesso del bene.
Distinta dal possesso è la detenzione, menzionata nell’art.1140.2.cc.
La detenzione è il contatto diretto con il bene, mentre il possesso non implica che si abbia
il contatto diretto con il bene. Ad esempio il proprietario che dà il locazione un immobile
rimane sempre possessore, mentre il locatario è il detentore del bene, in quanto ne può
godere ma non ne può disporre.
Secondo la spiegazione classica la distinzione tra possesso e detenzione è data anche
dallo stato soggettivo psicologico del soggetto. Il possessore impiega quel bene con
pienezza ed esclusività come se ne fosse proprietario, mentre il detentore ha un contatto
diretto con il bene e lo utilizza ma riconosce che quel bene appartiene ad un altro
soggetto. Questa spiegazione però non è corretta in quanto la distinzione tra possesso e
detenzione non può essere affidata ad un elemento soggettivo e indimostrabile, quale lo
stato d’animo. Questa distinzione è fondamentale perché possedere un bene per un certo
lasso di tempo permette di acquistarne la proprietà mentre detenere un bene, anche per
100 anni, non comporta l’acquisto di nessun diritto. Tutte le forme di utilizzazione dei beni
vanno considerate possesso a meno che il controinteressato, cioè il proprietario, non sia in
grado di dimostrare che quel potere è invece esercitato a titolo di detenzione. Tutto ciò è
sancito dall’art.1141.cc (Mutamento della detenzione in possesso):
1. Si presume il possesso in colui che esercita il potere di fatto, quando non si prova che
ha cominciato a esercitarlo semplicemente come detenzione.
2. Se alcuno ha cominciato ad avere la detenzione, non può acquistare il possesso finché
il titolo non venga a essere mutato per causa proveniente da un terzo o in forza di
opposizione da lui fatta contro il possessore. Ciò vale anche per i successori a titolo
universale.
Si può dimostrare che l’utilizzo di quel bene sia detenzione e non possesso provando
l’esistenza di un titolo documentale, ma anche non documentale, in virtù del quale
l’utilizzatore del bene se ne serve a titolo di credito o per ragioni di ospitalità o per ragioni
di servizio.
Come al comma 2 è possibile mutare la detenzione in possesso solo per atto del terzo. Ad
esempio se Tizio dà in locazione il suo immobile a Caio, il quale un giorno decide di non
pagare più il canone, se Tizio non agisce in giudizio nei confronti di Caio dopo un certo
lasso di tempo questa opposizione muta la detenzione in possesso. Oppure se Tizio
decidesse di vendere l’immobile, Caio non sarebbe più detentore ma possessore perché
Tizio ha trasferito la titolarità del bene, immettendo Caio nel possesso. Il fenomeno del
detentore che acquistando la proprietà muta la sua detenzione in possesso si chiama, dal
diritto romano, traditio brevi manu.
Il possesso è il potere sulla cosa che può essere titolato cioè fondato sulla proprietà o un
altro diritto reale, o non titolato se il possesso è dovuto ad un furto o ad un ritrovamento
del bene.
La detenzione consiste in un potere su una cosa sempre giustificata da un titolo che o
attribuisce un diritto personale di godimento, che è un diritto di credito oppure per ragioni
di servizio o di ospitalità.

(Lezione 30/03/2022)

Onere della prova del possesso


Esistono alcune regole per alleggerire l’onere della prova del possesso, la dimostrazione
del potere di fatto, il possesso o meno di buonafede e la durata del possesso da cui
dipende l’istituto dell’usucapione.
L’art.1142.cc introduce la presunzione di possesso intermedio:
Il possessore attuale che ha posseduto in tempo più remoto si presume che abbia
posseduto anche nel tempo intermedio.
Quindi la prova del possesso attuale e la prova del possesso regresso fa scattare a favore
del possessore una presunzione legale e relativa di possesso anche nel tempo intermedio.
L’art.1143.cc introduce la presunzione di possesso anteriore:
Il possesso attuale non fa presumere il possesso anteriore, salvo che il possessore abbia
un titolo a fondamento del suo possesso; in questo caso si presume che egli abbia
posseduto dalla data del titolo.
Quindi se il possesso è titolato scatta una presunzione di possesso dalla data del titolo
idoneo al trasferimento di proprietà.
L’art.1144.cc stabilisce gli atti di tolleranza:
Gli atti compiuti con l'altrui tolleranza non possono servire di fondamento all'acquisto del
possesso.
Non vale il possesso ai fini di usucapione il possesso dei beni extra commercium, ossia i
beni che cadono o nel demanio o nelle materie indisponibili dello stato e di altri enti
pubblici. I diritti reali su quei beni non sono alienabili e quindi il possesso di quei beni non
può portare all’acquisto per usucapione.
La regola fondamentale che semplifica la prova del possesso è data dall’art.1146.cc
Successione nel possesso; Accessione del possesso, chi acquista a titolo di eredità
somma automaticamente il possesso a quello del de cuius, mentre chi acquista a titolo di
legato può richiedere espressamente al giudice di unire al proprio possesso quello del de
cuius.
L’art.1147.cc stabilisce cosa deve intendersi per possesso di buona fede:
1. E' possessore di buona fede chi possiede ignorando di ledere l'altrui diritto.
2. La buona fede non giova se l'ignoranza dipende da colpa grave.
3. La buona fede è presunta e basta che vi sia stata al tempo dell'acquisto.
L’ignoranza che è idonea a dar luogo a buona fede è soltanto quella che non deriva da
colpa grave, ossia quando un soggetto ha trasgredito le regole minime di diligenza ossia
uno sforzo medio per essere informati e consapevoli.

Restituzione del bene


La disciplina del possesso si completa con gli art.1148.cc e seguenti, che dettano alcune
regole molto importanti relative soprattutto alla restituzione.
L’art.1148.cc stabilisce che se il possessore è in buona fede dovrà restituire il bene ma
non i frutti percepiti, ma dal giorno della domanda dovrà restituire i frutti percepiti e quelli
che avrebbe dovuto percepire se fosse stato diligente. Questo per evitare che il
possessore abbandoni il bene che invece dovrà operare nell’interesse del proprietario,
continuando a curarsi del bene con lo stesso scrupolo che ha adoperato precedentemente
quando riteneva di esercitare il proprio legittimo diritto.
L’art.1149.cc stabilisce che il possessore di mala fede debba restituire il bene e i frutti che
ha prodotto però ha diritto al rimborso delle spese che sono state necessarie per produrre
i frutti.
L’art.1150.cc stabilisce che al possessore anche se in mala fede spetti il rimborso delle
spese straordinarie che abbia sostenuto per il bene, ossia tutte quelle spese necessarie
per conservare il bene integro, come ad esempio il rifacimento delle tubature o
dell’impianto elettrico, le spese ordinarie invece non sono rimborsabili.
Anche gli interventi che aumentino il valore del bene sono rimborsabili, l’entità del
rimborso muta a seconda che il possessore sia in buona fede o in mala fede.
Il possessore in buona fede può chiedere il rimborso dell’intero incremento del valore del
bene, mentre se il possessore è in malafede potrà ottenere il rimborso della minor somma
tra le spese sostenute e l’incremento di valore del fondo.
Per le addizioni si applica l’art.936.cc ossia si rimette alla volontà del proprietario se
trattenere le addizioni restituendo al terzo il valore dei materiali e il costo della
manodopera o richiederne l’eliminazione a spese del possessore.

Possesso vale titolo


La regola possesso vale titolo, sancita nell’art.1153.cc, riguarda il mercato dei beni mobili,
ossia quello soggetto al maggior numero di transazioni. La necessità di fornire certezza e
stabilità ai traffici si è tradotta nell’art.1153.cc che è una norma radicale che tutela
l’acquirente al massimo grado.
La regola del possesso vale titolo stabilisce che chi acquista un bene da parte di chi non è
il proprietario, ne acquista la proprietà mediante il possesso, purchè sia in buona fede al
momento della consegna e sussista un titolo astrattamente idoneo al trasferimento della
proprietà.
Se l’alienante è il proprietario legittimo il bene viene acquistato a titolo derivativo, se
invece l’alienante non è il proprietario chi acquista viene immesso nel possesso del diritto
a titolo originario.
Il proprietario legittimo viene tutelato solo sotto il profilo del risarcimento del danno da
parte di chi ha sottratto il bene, ma non può pretendere la restituzione del bene, perché chi
l’ha acquistato è stato immesso nel possesso a titolo originario e il codice tutela
l’acquirente.
L’art.1154.cc stabilisce che se colui che acquista nonostante sia in buona fede se sia a
conoscenza dell'illegittima provenienza della cosa non può invocare la regola del
possesso vale titolo, ad esempio un estimatore dell’arte che sia consapevole che
quell’opera nell’’800 è stata trafugata, nonostante acquisti da una casa d’aste che abbia
tutti i documenti che attestino la titolarità di quel bene, non potrà in caso di rivendicazione
appellarsi all’art.1153.cc.
L’art.1156.cc stabilisce che la regola del possesso vale titolo non si applica all’universalità
dei beni mobili, ai beni mobili registrati e ovviamente anche ai beni immobili.
L’art.1155.cc affida la soluzione dei conflitti di attribuzione tra aventi causa dello stesso
dante causa all’istituto del possesso di buonafede, prevale chi ha il bene presso di se
purché sia ignaro che il diritto su quel bene sia stato ceduto anche ad un terzo.
Se invece l’acquirente possessore è in malafede, sa che lo stesso diritto è stato già ceduto
ad altri a prevalere è invece l’altro acquirente.
I conflitti di attribuzione vengono risolti tramite l’istituto del possesso di buonafede.

Usucapione
In materia di beni immobili e i beni mobili registrati, opera la regola dell’usucapione.
L’art.1158.cc stabilisce che la proprietà dei beni immobili e gli altri diritti reali di godimento
sui beni medesimi si acquistano in virtù del possesso continuato per venti anni.
L’acquisto della proprietà a titolo originario per usucapione avviene se il possesso di un
bene immobile è avvenuto in maniera continuativa, ininterrotta, pubblica e non violenta per
20 anni.
L’usucapione avviene in quanto questo possesso protratto nel tempo ha generato nei terzi
la fiducia fondata, l’affidamento legittimo, che il possessore sia anche proprietario.
Creatosi questo affidamento legittimo il diritto si adegua al fatto e quindi il possessore
diviene proprietario del bene a titolo originario. Inoltre c’è anche una giustificazione di tipo
economico, l’ordinamento premia chi ha utilizzato il bene, chi l’ha quindi impiegato in usi
produttivi, piuttosto che il proprietario che ha lasciato il bene inutilizzato.
Gli art.1163.cc e seguenti disciplinano i requisiti per usucapire.
Il possesso deve essere pubblico perché il possesso clandestino non permette di creare
quel rapporto di fiducia con i terzi circa il fatto che il possessore sia anche il proprietario.
Allo stesso modo il possesso violento, quindi contro la volontà del titolare, che non ha
possibilità di reagire non permette che si verifichi l’usucapione.
L’altro requisito è che il possesso deve essere continuativo ossia non deve essere
interrotto da un atto di esercizio formale della proprietà da parte del titolare. Ai sensi
dell’art.1165.cc gli atti idonei a interrompere il possesso sono gli stessi atti idonei a
interrompere il termine prescrizionale, cioè gli atti formali di esercizio del diritto, sono l’atto
giudiziario con il quale si incardina un giudizio di cognizione, l’atto giudiziario con il quale si
incardina un giudizio cautelare, un atto con il quale si incardina un giudizio esecutivo, l’atto
con il quale si dà avvio all’arbitrato, una costituzione in mora, oppure il riconoscimento di
diritto da parte di controparte.
Vi sono inoltre delle regole che diminuiscono il lasso di tempo per usucapire.
L’acquirente quando acquista un bene immobile ha gli strumenti per conoscere quale sia
la posizione del dante causa ossia la trascrizione.
La trascrizione però non dà garanzia che chi stia trasferendo il diritto sia il legittimo titolare,
in quanto il contratto o il testamento o la sentenza che lo qualifica come proprietario,
potrebbero essere stati trascritti nonostante il contratto fosse nullo, annullabile, o se il
testamento dovesse rivelarsi inefficace perché se ne scopre uno di data successiva o
dovesse essere invalido.
L’art.1159.cc stabilisce che quando un soggetto conclude un contratto o un atto
astrattamente idoneo al trasferimento della proprietà relativo a un bene e lo concluda in
buona fede, e questo atto sia stato trascritto, allora il possessore ne acquisterà la proprietà
a titolo originario dopo 10 anni di possesso.
Questo è il punto di equilibrio per la tutela sia dell’acquirente sia del proprietario che avrà
sempre un lasso di tempo significativo per rivendicare il bene.
L’usucapione viene invocata anche per semplificare la prova di essere proprietari, che
altrimenti dovrebbe essere provata con la complessa ricostruzione di tutti i passaggi della
proprietà fino ad arrivare all’acquisto a titolo originario del bene.
Quindi è una regola fondamentale perché:
1. Riduce l’incertezza nei trasferimenti immobiliari;
2. Semplifica la prova di essere proprietario.
Gli art.159-bis e seguenti introducono una serie di regole per l’usucapione di altri beni ad
esempio, la piccola proprietà rurale con annessi fondi rustici collocata in località balneare
si usucapisce nel termine ordinario di 15 anni.

Azioni possessorie
Gli art.159-bis e seguenti introducono una serie di regole per l’usucapione di altri beni ad
esempio, la piccola proprietà rurale con annessi fondi rustici collocata in località balneare
si usucapisce nel termine ordinario di 15 anni.
Le azioni possessorie sono 2 e sono: l’azione di reintegrazione o spoglio regolata
dall’art.1168.cc e l’azione di manutenzione regolata dall’art.1170.cc.

L’azione di reintegrazione
L’azione di reintegrazione è l’azione a cui il possessore può ricorrere se perde il bene, se il
bene gli è stato sottratto o non restituito in maniera violenta (contro la volontà del
soggetto) o clandestina (ad insaputa del soggetto).
Il possessore può agire in giudizio chiedendo che lo spogliante restituisca il bene quindi
l’azione di reintegrazione è finalizzata a ottenere una sentenza di condanna e quindi
l’azione di reintegrazione al pari dell’azione di rivendicazione è un’azione restitutoria.
Il possesso è protetto anche contro gli spogli del proprietario, quindi, il possessore può
agire per reintegrazione anche se lo spoglio clandestino l’ha compiuto anche chi rivendica
il bene in quanto ritiene di essere proprietario per evitare che la gente si faccia giustizia da
sola.
L’art.1168.cc stabilisce che l’azione di reintegrazione va spedita entro 1 anno dallo
spoglio, o nel caso clandestino, entro 1 anno da quando il possessore ha scoperto che
qualcuno gli ha sottratto il bene.
L’azione di reintegrazione o spoglio è concessa anche al detentore, ma solo al detentore
qualificato. È detenzione qualificata quella dell’interesse proprio, quindi la detenzione del
conduttore, del comodatario, dell’utilizzatore del leasing; non è detenzione qualificata
quella nell’interesse altrui, ossia la detenzione per ragioni di ospitalità o di servizio.
La prova del possesso può avvenire tramite documenti, ma si può ricorrere anche a
qualunque altro mezzo di prova, anche la testimonianza. L’art.1168.4.cc stabilisce che il
giudice in via del tutto eccezionale possa decidere tramite il cosiddetto fatto notorio che
consente a chi è stato chiamato a testimoniare di riferire una conoscenza non diretta.

L’azione di manutenzione
L’azione di manutenzione è il rimedio che viene accordato al possessore quando è
molestato nel possesso, ossia un terzo che ostacola l’altrui godimento.
L’art.1170.cc stabilisce che sono suscettibili di molestie il possesso di beni immobili e le
universalità di beni, il possesso può essere ostacolato anche senza privare del bene il
possessore.
L’azione di manutenzione avviene quando il possessore domanda al giudice di
condannare il molestatore a cessare gli atti che ostacolano il godimento. L’art.1170.cc
stabilisce che chi ha subito la molestia deve agire entro 1 anno dalla molestia e inoltre per
poter agire in manutenzione il possessore di beni immobili e di universalità di beni mobili
deve avere il possesso da almeno 1 anno in maniera continuativa e ininterrotta. Può agire
in manutenzione anche il possessore di beni mobili che abbia subito uno spoglio non
violento e non clandestino. Ad esempio Tizio che ha prestato volontariamente il prprio PC
a Caio che si rifiuta di restituirlo.

Le azioni di enunciazione
Le azioni di enunciazione (o azioni enunciative) sono azioni regolate negli art.1171.cc e
art.1172.cc, e sono rimedi cautelari, perché possono essere espediti dal proprietario, dal
titolare del diritto reale o dal possessore non a seguito della violazione del diritto o del
possesso, ma anche soltanto sulla base di un rischio di violazione o di danneggiamento.
Sono due fattispecie: l’azione di nuova opera (art.1171.cc) e l’azione di danno tenuto
(art.1172.cc).
L’azione di nuova opera è quell’azione che il proprietario, il titolare del diritto reale minore
o il possessore di un bene, può estendere nei confronti del vicino che stia costruendo sul
proprio fondo se questi ritengano che dall’opera in via di costruzione stia per derivare un
danno alla cosa che forma oggetto del suo diritto del suo possesso. In questo caso la
legge consente al proprietario o al possessore di agire in giudizio affinché l’autorità
giudiziaria vieti il completamento dell’opera, quest’azione però dev’essere inserita prima
che l’opera sia stata terminata e non oltre 1 anno dal suo inizio. Essendo un’azione in via
cautelare la decisione del giudice viene presa con urgenza sulla base della cosiddetta
sommaria cognizione, ossia sulla base di elementi di conoscenza che sono molto inferiore
rispetto a quelli che decidono un giudizio di cognizione. Il giudice può ordinare
l’interruzione della costruzione dell’opera e imporrà all’attore il versamento di una cauzione
nel caso in cui ad un’analisi più attenta risulti che il rischio si riveli inesistente, su cui il
costruttore si potrà rifare chiedendo il risarcimento del danno. Tutto al contrario, se il
giudice dovesse ritenere che il pericolo non è così concreto, potrebbe dar torto all’attore,
quindi consentire al costruttore di completare l’opera, però anche in quel caso dovrà
imporre al costruttore il versamento della somma di denaro a titolo di cauzione per
l’eventualità che quel rischio che in sede cautelare è sembrato inesistente, poi in verità si
riveli esistente e quindi il danno temuto si realizzi, e che pertanto il proprietario o il
possessore debba ottenere un risarcimento del danno che è derivato.
Lo stesso identico meccanismo opera nell’eventualità in cui il pericolo non derivi da
un’opera che è già stata completata. L’attore dovrà dimostrare che dalla cosa già
esistente, o dall’albero o dalla struttura, stia derivando un danno grave e prossimo. Quindi
lì il criterio è più severo, però la logica è la stessa. Se il giudice riterrà che in effetti
dall’opera, dall’albero, dalla costruzione stia per derivare un danno grave e prossimo, o
avviene un abbattimento della cosa però impone all’attore vittorioso la dazione di una
cauzione, per l’eventualità successivamente si accuri che quel rischio appariva grave ma
non era esistente, e quindi per garantire al vicino una somma per doversi soddisfare per
ottenere il risarcimento del danno subito, se invece, il giudice in sede cautelare ritiene che
dalla cosa già esistente non stia per derivare un danno grave e prossimo, allora imporrà a
controparte la cauzione per l’eventualità che invece successivamente si verifica che quel
rischio era effettivo, e che in effetti da una cosa già esistente sia verificato un danno.

Comunione
La comunione o la contitolarità riguarda tutti i diritti reali.
Il titolare unico ha un’assoluta pienezza della facoltà di godimento e un’assoluta pienezza
del potere di disposizione. La contitolarità incide sul godimento del bene tanto sul potere di
disposizione.
Le norme che regolano la comunione sono norme dispositive e le ritroviamo negli
art.1100.cc e seguenti.
I casi di comunione sono casi di diritti unitari, il diritto è uno ma è suddiviso in quote.
L’art.1101.cc stabilisce che se il titolo non specifica diversamente, le quote della
comunione si presumono eguali.
L’art.1102.cc stabilisce che ciascun titolare o comunista (comunista è il contitolare di una
comunione) può servirsi della cosa purché non ne alteri la destinazione economica e non
impedisca agli altri partecipanti di farne uso secondo il loro diritto, quindi è un godimento
limitato.
L’art.1103.cc stabilisce che il potere di disposizione del contitolare, del comunista, riguarda
solo la sua quota.
L’art.1104.cc stabilisce che i comunisti devono partecipare alle spese di mantenimento, di
conservazione del bene in proporzione della propria quota.
L’art.1105.cc stabilisce:
1. Tutti i partecipanti hanno diritto di concorrere nell'amministrazione della cosa comune.
2. Per gli atti di ordinaria amministrazione le deliberazioni della maggioranza dei
partecipanti, calcolata secondo il valore delle loro quote, sono obbligatorie per la
minoranza dissenziente.
3. Per la validità delle deliberazioni della maggioranza si richiede che tutti i partecipanti
siano stati preventivamente informati dell'oggetto della deliberazione.
4. Se non si prendono i provvedimenti necessari per l'amministrazione della cosa comune
o non si forma una maggioranza, ovvero se la deliberazione adottata non viene eseguita,
ciascun partecipante può ricorrere all'autorità giudiziaria. Questa provvede in camera di
consiglio e può anche nominare un amministratore.
L’art.1106.cc stabilisce che i contitolari possano approvare un regolamento della
comunione e nomina di amministratore:
1. Con la maggioranza calcolata nel modo indicato dall'articolo precedente, può essere
formato un regolamento per l'ordinaria amministrazione e per il miglior godimento della
cosa comune.
2. Nello stesso modo l'amministrazione può essere delegata ad uno o più partecipanti, o
anche a un estraneo, determinandosi i poteri e gli obblighi dell'amministratore.
Per gli atti eccedenti l’ordinaria amministrazione si deve far riferimento all’art.1108.cc che
stabilisce:
Con deliberazione della maggioranza dei partecipanti che rappresenti almeno due terzi del
valore complessivo della cosa comune, si possono disporre tutte le innovazioni dirette al
miglioramento della cosa o a renderne più comodo o redditizio il godimento, purchè esse
non pregiudichino il godimento di alcuno dei partecipanti e non importino una spesa
eccessivamente gravosa.
Quindi se il bene dev’essere reso più produttivo, più godibile, più efficace, di maggior
valore, di maggior pregio, tutte queste deliberazioni vanno assunte a maggioranza di 2/3.
È necessario il consenso di tutti i partecipanti per gli atti di alienazione, cioè per cedere
l’intero diritto o per la costituzione di diritti reali su fondo, o per costituire locazioni ultra
novennali, superiori a 9 anni. Anche l’ipoteca va deliberata all’unanimità a meno che non si
tratti di un’ipoteca concessa a una banca o a un privato per ottenere un finanziamento
necessario per la ricostruzione, per il miglioramento, per l’innovazione.
L’art.1109.cc sancisce:
1. Ciascuno dei componenti la minoranza dissenziente può impugnare davanti all'autorità
giudiziaria le deliberazioni della maggioranza:
1) nel caso previsto dal secondo comma dell'articolo 1105, se la deliberazione è
gravemente pregiudizievole alla cosa comune;
2) se non è stata osservata la disposizione del terzo comma dell'art. 1105;
3) se la deliberazione relativa a innovazioni o ad altri atti eccedenti l'ordinaria
amministrazione è in contrasto con le norme del primo e del secondo comma dell'art.
1108.
2. L'impugnazione deve essere proposta, sotto pena di decadenza, entro trenta giorni
dalla deliberazione. Per gli assenti il termine decorre dal giorno in cui è stata loro
comunicata la deliberazione. In pendenza del giudizio, l'autorità giudiziaria può ordinare la
sospensione del provvedimento deliberato.
L’art.1111.cc stabilisce che la comunione si scioglie su richiesta di ciascuno dei
partecipanti. Ciascuno dei partecipanti può domandare lo scioglimento della comunione,
tuttavia, l’autorità giudiziaria potrebbe stabilire una sospensione dello scioglimento, se lo
scioglimento della comunione immediata possa pregiudicare gli interessi degli altri.
Al momento dello scioglimento se il bene è divisibile verrà porzionato, verrà suddiviso in
tante parti in misura proporzionale che verranno attribuite in titolarità esclusiva ai singoli.
Ma se il bene non è divisibile la suddivisione avviene per equivalenti, cioè il bene
dev’essere ceduto, venduto e il ricavato verrà suddiviso fra tutti i contitolari in denaro. È
quello che accade molto spesso nelle divisioni ereditarie, ereditiamo un appartamento, un
immobile che non è divisibile, lo si dovrà cedere nel mercato, e dal ricavato della vendita
ciascun comunista potrà ottenere la porzione di prezzo proporzionale alla sua quota.
L’art.1111.cc inoltre stabilisce che i contitolari possano siglare un patto che imponga loro
di rimanere in comunione per un certo lasso di tempo, però questo patto non può avere
durata superiore a 10 anni. Se tale patto eccede la durata dei 10 anni, l’atto è
parzialmente nullo.
Art.1112.cc stabilisce:
Lo scioglimento della comunione non può essere chiesto quando si tratta di cose che, se
divise, cesserebbero di servire all'uso a cui sono destinate.
Ad esempio un’impresa non è divisibile perché verrebbe disgregata. La destinazione del
bene ha una funzione che non potrebbe essere assolta, se quella comunione fosse sciolta
preclude lo scioglimento, a meno che voi non decidiate di sottrarre quel bene a quella
destinazione, cessiamo di svolgere attività di impresa e allora quell’immobile ce lo
possiamo suddividere.
La comunione che regola il codice è una comunione in cui i contitolari sono individuati da
una quota, ma si può essere contitolari anche dell’unità di tempo, ed è la multiproprietà.

Lezione dal libro

A difesa del proprio diritto, il titolare della servitù può esercitare la azione confessoria: si
tratta di azione tendente all’accertamento del diritto di servitù contro chiunque ne contesti
l’esercizio o ponga in essere turbative/impedimenti.
L’azione confessoria può determinare il mero accertamento della servitù o la condanna del
convenuto a cessare eventuali impedimenti e turbative che non determinino alterazione
dello stato dei luoghi e alla rimessione delle cose in pristino se vi sia stata alterazione dello
stato dei luoghi, può richiedere inoltre il risarcimento del danno.
Vi è anche azione di reintegrazione (Art.1168.CC): è ammessa la tutela del possesso delle
servitù apparenti e no, continue e discontinue. Vi è anche azione di manutenzione
(Art.1170.CC).

(Lezione 04/04/2022)

Le obbligazioni
La disciplina delle obbligazioni è contenuta nel libro IV del CC e vanno dall’Art.1173
all’Art.1320 a cui vanno integrate le norme specifiche legate alle diverse fonti delle
obbligazioni.

Le obbligazioni dal punto di vista economico


Dal punto di vista economico l'obbligazione rappresenta la forma giuridica dell’attività
ossia la componente dinamica del patrimonio, sostanzialmente tutte le fonti di reddito,
rendita o comunque di incrementi patrimoniali.
L’obbligazione può essere anche preordinata a soddisfare interessi non economici del
creditore, interessi personali, di carattere culturale, di carattere fisico del creditore però
sempre tramite l'impiego di mezzi economici, perché questo caratterizza l’obbligazione.
Dunque l’obbligazione è la forma giuridica che assume l’attività finalizzata ad incrementare
il patrimonio del creditore oppure la forma giuridica che assume un'attività economica
destinata ad appagare un bisogno personale, un bisogno non economico del titolare, ad
esempio sottoporsi ad un trattamento sanitario.
Disciplina generale
In Italia la disciplina delle obbligazioni è stata congeniata dal legislatore del ’42 sul modello
tedesco.
Il codice civile introduce una disciplina generale delle obbligazioni massimamente
generale e astratta, dunque una disciplina che si applica all'obbligazione, quale che sia la
fonte da cui essa scaturisce, dal momento che esistono delle regole che sono comuni a
qualunque rapporto obbligatorio.
Il vantaggio di questa scelta, oltre che per ragioni logiche, di razionalizzazione e di
eleganza formale, presenta anche una ragione pratica non indifferente.
Ad oggi esistono un certo numero di fonti dell’obbligazione ma con l’evoluzione dei
rapporti economico-sociali non si può stabilire se sorgeranno nuove fonti dell’obbligazione
a cui dover dare una disciplina apposita. In questo modo il legislatore dovrà solo
annoverare i nuovi atti o fatti idonei a produrre obbligazioni applicando la disciplina
generale delle obbligazioni.
Il codice esordisce con l’art.1173.cc che sancisce:
Le obbligazioni derivano da contratto, da fatto illecito, o da ogni altro atto o fatto idoneo a
produrle in conformità dell'ordinamento giuridico.
L’espressione fatto illecito è un’espressione fallace del nostro legislatore in quanto non
tutte le condotte che generano responsabilità extra-contrattuale sono condotte illecite, e
per questo è più corretto dire che si tratta di ogni condotta che genera responsabilità
aquiliana.
RICORDA:
Il fatto è un evento naturale a cui l’ordinamento giuridico collega un effetto ad esempio la
nascita è un evento naturale che potrebbe far scaturire acquisto di diritto come l’esempio
precedente. Anche la morte può far scaturire l’acquisto di diritto patrimoniale a favore degli
eredi ossia la successione per mortis causa.
Il fatto è anche ogni comportamento umano dannoso contrastato dall’ordinamento
giuridico, (ad esempio una scazzottata tra colleghi).
L’atto è il comportamento umano al quale la legge collega determinati effetti e non tutti gli
atti conducono all’acquisto dei diritti, come ad esempio la consegna, spesso gli atti giuridici
sono comportamenti di esercizi di diritti già acquisiti solitamente tramite contratto.
Il negozio giuridico è un comportamento che si caratterizza per la volontarietà infatti gli
effetti sono stabiliti dalle parti. Il negozio giuridico per antonomasia è il contratto, quali
effetti discendono da esso non vengono disciplinati dalla legge che da solo le regole per
giungere ad un contratto valido, il contenuto e gli effetti sono stabiliti dalle parti.

Tipicità e atipicità delle altre fonti delle obbligazioni


L’impostazione tradizionale che ha prevalso per quasi tutto il ‘900 sostiene che le altre
fonti delle obbligazioni (altre rispetto alle due principali ossia contratto e responsabilità
aquiliana) siano a numero chiuso ossia solo quelle che il codice espressamente indica
come idonee a produrre obbligazioni.
Sono: le promesse unilaterali (art.1987.ss.cc), i titoli di credito (art.1992.ss.cc), la gestione
di affari altrui (art.2028.ss.cc), l'indebito (art.2033.ss.cc) diviso in oggettivo e soggettivo e
l’arricchimento senza giusta causa (art.2041.cc e art.2042.cc).
Dietro il principio di tipicità delle altre fonti delle obbligazioni risiede l’istanza liberale di
tutela della libertà individuale perché l’introduzione di nuove fonti delle obbligazioni
comporterebbe un restringimento della sfera di libertà del cittadino.
Secondo un’altra concezione che negli ultimi anni è diventata prevalente le altre fonti delle
obbligazioni sarebbero atipiche.
Dunque oltre le cinque altre fonti minori delle obbligazioni espressamente previste dal
codice, l’interprete accademico o il giudice possono individuare ulteriori fatti o atti idonei a
produrre obbligazioni, purché sussista il vincolo ultimo dell’interpretazione e la coerenza
sistematica, cioè la conclusione non può essere contraddetta da una valutazione
complessiva del sistema.
Ne è un esempio il cosiddetto affidamento legittimo, cioè uno stato di fiducia circa un
determinato assetto della situazione di fatto o di diritto suscitato sa elementi oggettivi
rilevanti. L’ipotesi che viene presa in considerazione dal codice è quel tipo di fiducia che
scaturisce nel corso delle trattative in vista di una conclusione del contratto e che può far
sorgere la responsabilità precontrattuale.
Un'altra ipotesi di affidamento legittimo è il cosiddetto contratto sociale, cioè quel tipo di
affidamento legittimo che viene suscitato al di fuori di un rapporto contrattuale dallo status
professionale di controparte. Ad esempio uno studente durante una gita scolastica si
procura un danno, con l’istituto scolastico vi è un rapporto contrattuale che genera
responsabilità contrattuale, mentre nei confronti del docente accompagnatore in funzione
del rapporto para-contrattuale che vige si genere una responsabilità para-contrattuale che
trova il suo fondamento proprio nell’affidamento legittimo legato al livello di professionalità
del professore.
Il principio dunque che soggiace alla tesi delle atipicità delle altre fonti delle obbligazioni è
il rafforzamento della tutela degli individui e degli enti, che l’interprete potrebbe ricavare
dall’evoluzione dei rapporti sociali sempre nel rispetto del vincolo del testo, teleologico,
sistematico e di coerenza con i principi apicali.

Cos’è l’obbligazione?
L’obbligazione è sinonimo di rapporto giuridico cioè quella relazione che intercorre tra
creditore e debitore.
Il creditore è titolare del lato attivo il cui oggetto consiste nell’esigere una determinata
prestazione finalizzata a realizzare il proprio interesse mediante il conseguimento di
un’utilità patrimoniale o non patrimoniale.
Il debitore è destinatario del lato passivo e per il quale sorge l’obbligo di porre in essere
quella attività volta al soddisfacimento dell’interesse del creditore.
Nel ’42 il legislatore si è astenuto dall’inserire espressamente nel codice una definizione di
obbligazione ma nell’art.1174.cc ha introdotto una definizione camuffata di rapporto
obbligatorio: “La prestazione che forma oggetto dell'obbligazione deve essere suscettibile
di valutazione economica e deve corrispondere a un interesse, anche non patrimoniale,
del creditore”.
L’obbligazione deriva dal diritto romano da cui sono pervenute delle mere descrizioni di
obbligazione e non delle vere e proprie definizioni.
Quasi tutti i manuali riportano la descrizione contenuta nelle istituzioni di Gaio pervenuto a
noi nella sua quasi totalità tramite dei manoscritti ritrovati a Verona. In esso troviamo la
definizione classica di obbligazione: “obligatio est iuris vinculum quo, necessitate,
adstringimur alicuius solvendae rei, secundum nostrae civitatis iura.”
Ovvero: Obbligazione è un vincolo giuridico, in forza del quale si può costringere taluno
all'adempimento di una prestazione, secondo le leggi del nostro Stato.
Un’altra definizione che ci perviene dal diritto romano è la definizione di Paolo: L’essenza
delle obbligazioni non consiste in ciò, che essa renda nostra una qualche cosa materiale o
un diritto reale minore, ma nel fatto di vincolare un altro nei nostri confronti a dare, fare,
estinguere una prestazione.
Quini Paolo specifica che questa prestazione può consistere in un dare cioè consegnare
un bene, in un fare cioè erogare un servizio o in un non fare cioè astenersi da una
determinata attività.

Teoria personalistica e patrimonialistica


La concezione di come intendere il vincolo giuridico nel corso della storia
giurisprudenziale ha dato luogo alla contrapposizione di due concezioni, quella
personalistica e quella patrimonialistica (fondamentali ma entrambe errate).
La concezione personalistica è quella ricavata direttamente dal diritto romano.
L’obbligazione nasce come vincolo di assoggettamento personale, chi si obbligava, nel
diritto romano, metteva sul piatto tutto se stesso: reputazione o onore.
A conferma di ciò, bisogna ricordare che se il debitore non realizzava l’obbligazione, il
diritto romano arcaico consentiva di vendere il debitore al mercato, degradando il debitore
a “servus” (cioè come un bene) e laddove il debitore non avesse avuto mercato, il
creditore poteva ottenere soddisfazione squartandolo e inviando i resti della carcassa nei
quattro angoli di Roma come monito a tutti gli altri debitori.
Nel corso del tempo questa concezione è stata abbandonata infatti l’obbligazione si è
patrimonializzata (o laicizzata) e quindi da vincolo di assoggettamento personale è
diventato vincolo di assoggettamento del patrimonio. Il debitore inadempiente espone il
proprio patrimonio nel senso che il creditore ha la possibilità di soddisfarsi su di esso
forzatamente e questa regola è transitata sino al diritto contemporaneo.
All’inizio del 900, quando nonostante la laicizzazione, o patrimonializzazione
dell’obbligazione, il nostro ordinamento conosceva l’arresto per debiti: il nostro codice
penale prevedeva la possibilità di arrestare il debitore che si fosse reso inadempiente e
non avesse soddisfatto le ragione del debitore. E’ un retaggio dell’idea dell’obbligazione
intesa come assoggettamento di carattere personale del diritto romano arcaico.
Per quanto siano seri gli impegni patrimoniali, dal punto di vista assiologico sono sempre
collocati su un gradino inferiore rispetto alla tutela della persona e della libertà individuale.
E ciò significa che la violazione di un credito non deve portare a forme di perdita di
limitazione della libertà individuale perché sono due interessi incomparabili.
Il debitore si vincola a porre in essere un determinato comportamento ma non può essere
costretto dall’ordinamento ad adempiere se non ha la volontà di farlo. In questo caso la
tutela del creditore si traduce nel risarcimento del danno.
Dunque, l’ordinamento giuridico accorda al creditore il diritto pari ad una porzione del
patrimonio del debitore pari al valore del credito insoddisfatto, per la concezione
patrimoniale, l’oggetto del diritto di credito va identificato con ciò che l’ordinamento può
assicurare al creditore.
Entrambe le teorie sono però fallacee in quanto la teoria personalistica non considera che
il creditore ha interesse a ricevere la prestazione non in se è per se ma ha interessa a
ricevere la prestazione in quanto mezzo per ottenere un’ulteriore utilità economica o non
economica. Il grande errore di tale concezione è ritenere che il diritto di credito e il debito
siano due facce della stessa medaglia, abbiano lo stesso contenuto.
Mentre la teoria patrimonialistica incentra il contenuto delle obbligazioni assumendo la
prospettiva dell’inadempimento quindi della sua violazione. Il creditore non attende un
risarcimento, ma attende l’utilità che il debitore gli procura tramite la prestazione. L’oggetto
del diritto credito non deve essere individuato nella prospettiva in cui viene violato il
credito, ma l’oggetto del diritto credito va interpretato assumendo come prospettiva la
realizzazione del credito, che avviene quando il debitore effettua la sua prestazione e
produce l’utilità che soddisfa l’interesse del creditore.
La concezione odierna di obbligazione è un vincolo di mezzi costituito dalla condotta del
debitore che si è impegnato a porre in essere, da cui scaturisce il risultato volto a
soddisfare l’interesse del creditore nell’ottenere un’utilità economica o non economica,
quindi l’obbligazione è sinonimo di rapporto obbligatorio.
Per questo motivo il legislatore nel redigere la disciplina delle obbligazioni ha preso come
punto di vista non quello del creditore ma quello del rapporto, appunto perché riguardano
diritti di cooperazione. Soltanto il debitore, tramite la sua prestazione (condotta dovuta)
sarà in grado di creare i presupposti per soddisfare gli interessi del creditore. Tuttavia la
cooperazione del debitore non è la parte prevalente nel soddisfacimento degli interessi del
creditori. La soddisfazione non può realizzarsi senza la cooperazione, è condizione
necessaria ma non sufficiente perchè ci vuole un minimo di cooperazione del creditore.

Obbligazione di mezzi e di risultato


Ogni vincolo obbligatorio è sintesi di mezzi in vista di un risultato, questo significa che
entrambi i termini condizionano l'altro, il risultato è quello che si può conseguire tramite il
mezzo e il mezzo non può andare oltre al risultato che esso si prefigge, i mezzi e il
risultato si condizionano vicendevolmente perché i mezzi sono in misura tale da realizzare
quel risultato e il risultato è solo quello che si può conseguire tramite quei determinati
mezzi.
Per questo è errata la distinzione tra obbligazione di mezzi e obbligazioni di risultato che è
stata realizzata in Francia dal giurista Renèe Demogue nella prima metà del ‘900.
Secondo tale distinzione le obbligazioni di mezzi vincolano il debitore ad una determinata
condotta senza vincolarsi ad un determinato risultato, mentre nelle obbligazioni di risultato
il debitore è vincolato a realizzare un determinato risultato in assenza del quale egli sia
inadempiente.
In realtà la distinzione risiede nel fatto che nelle obbligazioni di mezzi il risultato non è
determinabile ex-ante come nel caso del medico che cura il paziente, il risultato sarà
determinabile solo dopo che la condotta è stata posta in essere e alla luce di tutti gli
elementi di contesto; nelle obbligazioni di risultato il debitore si obbliga a far prevenire al
creditore uno specifico bene o una specifica utilità, quindi il risultato è predeterminabile.
Nel 1954 Luigi Mengoni dimostra l’inconsistenza della distinzione tra obbligazioni di mezzi
e obbligazioni di risultato, dimostrando come in tutti i rapporti obbligatori (anche quelli di
mezzi) un risultato c’è, e questo risultato:
a) non sempre coincide con le aspettative del creditore;
b) non sempre è predeterminabile perché nelle prestazioni di fare, il risultato dipende
anche da circostanze concrete che quindi variano tra rapporto obbligatorio e rapporto
obbligatorio. Quindi nelle cosiddette obbligazioni di mezzi il risultato c’è, ma è un risultato
che va valutato ex post.

(Lezione 05/04/2022)

Carattere patrimoniale della prestazione


Gli elementi che definiscono la struttura dell’obbligazione di diritto sono:
 Il debito, ossia il dovere di adempiere ad una determinata prestazione.
 Il credito, ossia la pretesa ad ottenere la prestazione.
 La prestazione, ossia il comportamento cui è tenuto il debitore per soddisfare un
interesse del creditore.

L’art.1174.cc fornisce una cripto definizione di obbligazione: La prestazione che forma


oggetto dell'obbligazione deve essere suscettibile di valutazione economica e deve
corrispondere a un interesse, anche non patrimoniale, del creditore.
Questa norma è dedicata al carattere patrimoniale della prestazione e stabilisce che la
prestazione che forma oggetto dell’obbligazione deve essere suscettibile di valutazione
economica e deve corrispondere a un interesse, anche non patrimoniale, del creditore.
Questa norma decreta che un requisito imprescindibile dell’obbligazione è il carattere
patrimoniale della prestazione ovvero la sua valutabilità in denaro.
L’obbligazione è uno strumento del diritto patrimoniale perchè la prestazione consiste
nell’impiego di mezzi economici per realizzare interessi economici e non economici.
Ma il fatto che il risultato (interesse creditore) non abbia natura economica, non rende
l’obbligazione uno strumento non patrimoniale.
Se la prestazione non è suscettibile di valutazione economica, non sarà obbligazione ad
esempio l’obbligo del coniuge di assistenza morale.

Oggetto dell’obbligazione
L’art.1174.cc contiene un passaggio impreciso ossia “La prestazione che forma oggetto
della obbligazione” in quanto retaggio della concezione personalistica identifica l’oggetto
della obbligazione nella prestazione.
L’oggetto dell’obbligazione non è singolarmente la prestazione, ma è la prestazione
insieme all’interesse creditorio, cioè i mezzi (condotta dovuta) e i risultati (soddisfacimento
dell’interesse).
Sempre la concezione personalistica, errando identificava l’oggetto del diritto di credito
con la prestazione. Secondo tale concezione debito e credito sono due facce della stessa
medaglia, ma in realtà non è cosi, diritto di credito e debito hanno oggetti differenti.
Il debito ha ad oggetto la condotta dovuta (mezzi) che dovrà essere esatta, deve rispettare
i requisiti qualitativi e quantitativi prescritti dal titolo e deve essere corretta cioè conforme a
buonafede.
Il diritto di credito ha ad oggetto l’utilità finale, ovvero il risultato del rapporto obbligatorio,
il creditore non ha interesse all’attività del debitore di per sé, ma ha interesse all'attività del
debitore nella misura in cui è in grado di produrre l’utilità economica o non economica
volta al soddisfacimento del proprio interesse.
Nonostante abbiano oggetti differenti debito e credito sono collegate da un nesso di
interdipendenza, non esiste debito senza credito e viceversa, si dice che debito e credito
“simul stabunt simul cadent” (o sopravvivono entrambe contestualmente o se viene
meno una delle due inevitabilmente viene meno anche l’altra).
L’oggetto dell’obbligazione è dunque il connubio di mezzi (prestazione: oggetto del debito)
e di risultati (utilità finale economica o non: oggetto del credito).
Se si guarda alla correlazione tra l’oggetto del credito e l’oggetto del debito si potrebbe
pensare che queste due situazioni non abbiano degli oggetti differenti.
Si può affermare credito e debito abbiano contenuti differenti solo se il credito si possa
realizzare anche senza l’attuazione del debito, o che il debito si attui senza realizzare il
credito.

Il secondo comma stabilisce che il creditore potrà agire nei confronti del creditore
apparente per ottenere la consegna di quanto ha ricevuto il creditore apparente. Il
creditore effettivo è tutelato accordandogli un diritto nei confronti del creditore apparente
alla restituzione di tutto ciò che il debitore gli abbia consegnato: bene, somme di denaro
ecc…
Il debito si attua ma il credito non si realizza.
Il debito si estingue, e di conseguenza si estingue il diritto di credito: simul stabunt simul
cadent, e quindi l’obbligazione si estingue. In capo al creditore nasce un diritto nuovo che
è il diritto ad ottenere dal creditore apparente la prestazione che ha ottenuto dal debitore.
La forma giuridica di tale diritto è di “condictio indebiti” (ossia un azione di
restituzione/ripetizione del debito), che è un’applicazione speciale della disciplina
dell’indebito oggettivo.
L’indebito può essere oggettivo o soggettivo.
L’art.2033 regola l’indebito oggettivo:
Chi ha eseguito un pagamento non dovuto ha diritto di ripetere ciò che ha pagato. Ha
inoltre diritto ai frutti e agli interessi dal giorno del pagamento, se chi lo ha ricevuto era in
mala fede, oppure, se questi era in buona fede, dal giorno della domanda.
Il soggetto che presta senza esservi tenuto si chiama solvens, il soggetto che riceve tale
prestazione è l’accipiens. L’accipiens deve restituire al solvens quanto ha ottenuto.
L’art.2036 regola l’indebito soggettivo: ipotesi in cui un soggetto abbia pagato un debito
altrui credendosi erroneamente, ma sulla base di un errore scusabile, obbligato a farlo.
Potrà ripetere quanto ha pagato. E’ soggettivo perchè l’accipiens riceve ciò che ha diritto
di ricevere, ma il solvens non è colui il quale è tenuto a prestare. Chi riceve ottiene quello
che ha diritto di ottenere, ma chi gliel’ha fatto ottenere non era tenuto a farlo.

La conditio indebiti è una forma di indebito speciale perché l’indebito ha carattere


personale e di regola spetta solo ed esclusivamente al solvens nei confronti dell’accipiens,
quindi l’azione vera e propria dovrebbe essere quella dell’arricchimento ingiustificato, ma
l’azione di arricchimento consente all’impoverito di ottenere la minor somma tra
impoverimento e arricchimento, in questo caso la legge ha ritenuto ingiusto che il creditore
sia costretto a recuperare la minor somma tra l’impoverimento che ha subito, cioè la
prestazione che avrebbe dovuto ottenere, e l’arricchimento che ha ottenuto il creditore
apparente.
Allora il legislatore in deroga all’art.2033 dà al creditore vero e proprio un’azione di
ripetizione del tutto speciale nei confronti del creditore apparente.
Gli elementi costitutivi di questa fattispecie sono:
Elementi oggettivi univoci che generano un’apparenza di titolarità del credito in capo al
soggetto che creditore che in realtà non è.
La buonafede soggettiva del debitore, il debitore deve essere convinto di pagare nelle
mani del vero creditore.

La struttura del rapporto obbligatorio


Il rapporto obbligatorio non si esaurisce nella relazione lineare debito-credito, perché
accanto all’obbligo principale di prestazione si affiancano altri obblighi secondari di
carattere strumentale o accessori (detti anche di protezione).
Questi obblighi ulteriori scaturiscono o da espresse disposizioni di legge ma la fonte
principale è la buonafede in senso oggettivo: art.1175 Il debitore e il creditore devono
comportarsi secondo le regole della correttezza. (Correttezza e buonafede endiadi).
La buona fede in senso oggettivo va distinta dalla buona fede in senso soggettivo.
La buonafede in senso soggettivo è uno stato psicologico ovvero quella condizione di
ignoranza scusabile, cioè che non dipende da colpa grave del soggetto, un’ignoranza circa
il fatto che il comportamento del soggetto è lesivo di alcune prerogative nei confronti di un
diritto altrui (es: contratto concluso con incapacità di agire, controparte deve essere in
buona fede;, il possessore è in buona fede se utilizza il bene ignaro del fatto che quel
bene in realtà appartenga ad un soggetto differente)
La buonafede in senso oggettivo invece è una regola di condotta indeterminata che
costella il rapporto obbligatorio e tutte le fasi del contratto. Tutte le norme che fanno
riferimento alla correttezza o buona fede in senso oggettivo, si definiscono clausole
generali, norme di contenuto indeterminato e che rinviano a giudizi di valore che non può
essere confutato ma solo ritenuto più o meno persuasivo.
La buona fede in senso oggettivo è una regola che può imporre ai soggetti di
un’obbligazione o alle parti di un contratto, anche regole ulteriori rispetto a quello che sono
state sancite dalle legge o espressamente concordate nel contratto. La buona fede
dunque, è fonte di regole ulteriori non specificate.
La buonafede assolve a due funzioni:
 Valutativa: pone dei limiti inespressi ai diritti soggettivi, ai poteri individuali o alle
libertà per evitare l’abuso del diritto che si ha quando il titolare di un diritto
soggettivo, o di un potere o di una libertà esercita il suo diritto, il suo potere e la sua
libertà secondo modalità inutilmente gravose per controparte;
 Integrativa: cioè la buonafede comporta che il debitore e il creditore devono
comportarsi secondo correttezza. La funzione integrativa arricchisce il contenuto
dell’obbligazione di obblighi inespressi, strumentali e accessori e impone a creditore
e debitore un sacrificio ulteriore rispetto a quello espressamente pattuito o attribuito
dalla legge.
Gli obblighi strumentali vanno nella stessa direzione dell’obbligo principale della
prestazione, perché hanno come funzione unicamente quella di far pervenire il risultato al
creditore nella sua forma più piena.
Gli obblighi accessori o di protezione sono quelle condotte necessarie a salvaguardare
l’incolumità fisica e l’integralità patrimoniale di controparte e si orienta in una direzione
differente rispetto alla prestazione principale. I danni che potrebbero scaturire sono
conseguenza del rapporto obbligatorio esistente quindi nel caso di danni la tutela sarebbe
quella della responsabilità contrattuale che è un regime più favorevole per il danneggiato.

(Lezione 06/05/2022)

Adempimento
L’adempimento è regolato dagli art.1176 e ss.cc.
L’adempimento è l’esatta (corrispondete al contenuto del debito) e corretta
(corrispondente anche alla buonafede) prestazione.
“L’esattezza” fa ottenere al creditore il risultato atteso con le caratteristiche quantitative e
caratteristiche qualitative prescritte dal titolo dell'obbligazione, quale che sia il titolo
dell’obbligazione, rispettando le prescrizioni modali e temporali.
“La correttezza” si ha quando il debitore rispetta tutti gli obblighi ulteriori che scaturiscono
dalla legge o da buonafede.
La prestazione deve essere esatta dal punto di vista oggettivo e soggettivo.

Art.1176.cc
La disciplina dell’adempimento si apre con l’art.1176.cc “Diligenza nell'adempimento” che
sancisce:
1. Nell'adempiere l'obbligazione il debitore deve usare la diligenza del buon padre di
famiglia.
2. Nell'adempimento delle obbligazioni inerenti all'esercizio di un'attività professionale, la
diligenza deve valutarsi con riguardo alla natura dell'attività esercitata.
Al comma uno il legislatore con la locuzione “la diligenza del buon padre di famiglia”
intende indicare un parametro che fissa come l’uomo munito di qualità, esperienze,
conoscenze, competenze e capacità medie.
Nel secondo comma la norma stabilisce che nell'adempimento delle obbligazioni inerenti
l'esercizio di un'attività professionale, quindi quando la prestazione è una prestazione di
dare o fare professionale, la diligenza si valuta con riguardo alla natura dell'attività
esercitata quindi il parametro sarà il professionista medio che opera in quel determinato
settore di mercato.
In realtà la giusta interpretazione di questa norma ci è stata fornita nel 1954 dal professor
Luigi Mengoni il quale ritiene che l’art.1176 enunci due norme differenti.
Il primo comma enuncia la cosiddetta "diligenza conservativa", il secondo comma
enuncia la "diligenza perizia".
La diligenza è una regola generica di condotta indeterminata che impone al debitore di
adottare tutte quelle condotte, misure, cautele necessaria per effettuare la propria
prestazione e prevenendo ed evitando fatti sopravvenuti che potrebbero rendere la
prestazione impossibile (adozione di prudenza).
Il secondo comma dell'art.1176 riguardante le obbligazioni di tipo professionale introduce
un parametro differente che si chiama "perizia”. La perizia è il rinvio alle regole non
giuridiche che governano il tipo di attività professionale che Il debitore si è impegnato ad
adoperare (se Il debitore è economista rinvia alle regole dell'economia).
La perizia fa riferimento alle cosiddette leges artis cioè al sapere specialistico, teorico,
pratico, esperienziale che si applica il tipo di attività professionale svolta, fa riferimento al
bagaglio culturale di chi opera in una determinata branca.
Il primo comma riguarda tutti i debitori professionisti o non professionisti che sono tenuti
ad evitare che la prestazione diventi impossibile se è prevedibile l'inevitabile.
Il comma due indica quelle regole di sapere extra giuridiche che Il debitore deve rispettare
per realizzare l'interesse del creditore e sono quindi l'oggetto dell'obbligazione.

Art.1177.cc
L’art.1177.cc “obbligo di custodire” sancisce:
L'obbligazione di consegnare una cosa determinata include quella di custodirla fino alla
consegna.
Quando l’obbligazione è in dare (consegnare) essa implica anche l’obbligo di custodire il
bene da consegnare fino al momento in cui la consegna viene effettuata. E’ una delle
poche norme del codice che prevede espressamente un obbligo strumentale. Chi si
impegna a consegnare delle merci, si impegna anche come obbligo strumentale a
custodirle, fin tanto che il bene non sia stato consegnato.

Art.1178.cc
L’art.1178.cc “obbligazione generica” sancisce:
Quando l'obbligazione ha per oggetto la prestazione di cose determinate soltanto nel
genere, il debitore deve prestare cose di qualità non inferiore alla media.
Quando l’obbligazione ha ad oggetto la consegna di beni di genere, essa è adempiuta
(esatta) se il debitore ha consegnato cose, appartenenti a quel genere, di qualità media.
Creditore e debitore possono pattuire che la qualità del bene che il debitore deve fornire,
debba essere medio-alta, o alta. In quel caso non si applicherà il 1178 ma sarà il titolo
dell’obbligazione a definire la qualità.
Il debitore sarà quindi inadempiente se consegna beni di qualità media.

Art.1179.cc
L’art.1179.cc riguarda l’obbligo di prestare garanzia, si devono distinguere due concezioni
di garanzia.
La garanzia pura è una forma di assunzione del rischio da parte del venditore che
garantisce che il bene sia immune da vizi e che qualora il bene dovesse rivelarsi viziato si
risolve il contratto e il compratore otterrà la restituzione dell'intero prezzo, è una
GARANZIA.
L’art.1179.cc fa riferimento alla garanzia del credito, quell'insieme di istituti che hanno
come funzione quella di rafforzare la posizione del creditore assicurando il
soddisfacimento anche forzoso del proprio interesse.
L’art.1179.cc “obbligo di garanzia” sancisce:
Chi è tenuto a dare una garanzia, senza che ne siano determinati il modo e la forma, può
prestare a sua scelta un'idonea garanzia reale o personale, ovvero altra sufficiente
cautela.
Il debitore si può impegnare a prestare garanzia, e quando lo fa l’Art.1179 lo lascia libero
di scegliere una garanzia reale o una garanzia personale purché il bene o il soggetto
scelto, si rivelino idonei ad assicurare al creditore il soddisfacimento del proprio interesse.
Nelle garanzie personali, cioè la fideiussione o il contratto autonomo di garanzia, il
creditore è garantito in quanto il garante assume la stessa obbligazione a cui è tenuto il
debitore. Quindi la garanzia è rappresentata da fatto che il credito potrà trovare
soddisfacimento non sul solo patrimonio del debitore originario ma anche sul patrimonio
del garante personale. Nelle garanzie reali, cioè pegno su beni mobili e crediti, e ipoteca
su beni immobili e beni mobili registrati, il creditore pignoratizio o ipotecario acquista una
causa legittima di prelazione che in deroga alla regola generale della par condicio
creditorum (art.2741: tutti i creditori del debitore hanno pari diritto a soddisfarsi sul suo
patrimonio) consente al creditore di soddisfarsi con preferenza, cioè potrà aggredire quel
bene, pignorare, venderlo forzatamente, sul ricavato si potrà soddisfare prioritariamente e
la differenza la restituirà al debitore e su quella tutti gli altri creditori potranno concorrere. Il
creditore diventa privilegiato rispetto tutti gli altri creditori detti chirografari.
Art.1180.cc
L'art.1180.cc “adempimento del terzo” non è una regola di adempimento (viene meno il
requisito soggettivo) ma è un'ipotesi di scissione tra la realizzazione del credito è
l'attuazione del debito.

Art.1181.cc
L’art.1181.cc “Adempimento parziale” sancisce:
Il creditore può rifiutare un adempimento parziale anche se la prestazione è divisibile,
salvo che la legge o gli usi dispongano diversamente.
Una prestazione è divisibile quando può essere porzionata, tipicamente nelle obbligazioni
pecuniarie la somma può essere restituita in un'unica soluzione o in pagamenti parziali.
Il beneficio dell'adempimento parziale deve essere o concesso dal creditore che autorizza
la rateizzazione oppure deve essere autorizzato dalla legge o dagli usi cioè le prassi di
mercato. L’adempimento parziale se non accordato dal creditore è adempimento inesatto,
ed è rifiutabile.

Modalità di adempimento
L’esattezza della prestazione presuppone che il debitore rispetti anche le modalità ossia le
regole che riguardano le coordinate di luogo e di tempo concordate nell’oggetto
dell’obbligazione.
Il legislatore prevede che la scelta delle modalità sia frutto di autonomia privata, cioè
spetta alle parti scegliere dove e quando la prestazione debba essere eseguita. Il
legislatore introduce negli art.1182 e ss.cc delle norme suppletive che lasciano la
regolazione di quella materia alle parti e nell’eventualità in cui le parti non abbiano previsto
nulla la norma colmerà la lacuna.

Art.1182.cc
L’art.1182.cc “Luogo dell'adempimento” prevede che se il luogo non è specificato nel titolo
dell’obbligazione, se non si ricava dagli usi (le prassi mercantili) e se non si possa ricavare
dalla natura della prestazione, si osservano le seguenti regole:
 La prestazione di dare una cosa specifica (bene di specie) deve essere adempiuta
nel luogo in cui la cosa si trova al tempo in cui l’obbligazione è sorta.
 Se l’obbligazione ha ad oggetto una somma di denaro deve essere adempiuta nel
domicilio del creditore. Tuttavia se il domicilio del creditore è mutato rispetto al
giorno in cui l’obbligazione è sorta, e ciò rende particolarmente più complesso e
oneroso per il debitore adempiere, il debitore può pretendere di adempiere al
proprio domicilio.
 In tutti gli altri casi l’obbligazione deve essere adempiuta al domicilio che il debitore
ha al momento della scadenza dell’obbligazione.
Ovviamente questa norma non si applica in caso di obbligazioni di rilevante importo che
vengo quindi estinte tramite la moneta bancaria o scritturale (bonifico), ma la
dematerializzazione della moneta ha reso questa norma non più necessaria.
Le obbligazioni pecuniarie sono, proprio perché da estinguere al domicilio del creditore
"portables", mentre le obbligazioni da estinguere al domicilio del debitore sono
“querables”.

Il tempo dell’adempimento
Il tempo dell'adempimento è regolato dagli articoli 1183-84-85-86-87.
Il termine dell'adempimento è quel momento specifico a partire dal quale la prestazione è
esigibile cioè richiedibile dal creditore o è eseguibile cioè può essere attuata dal debitore,
la prestazione è inesigibile se il termine è nell'interesse del debito, il termine è stato posto
per dare tempo al debitore per riuscire a procacciarsi il denaro o gli altri strumenti per
poter realizzare la prestazione.
Art.1183.cc
L’art.1183.cc “Tempo dell'adempimento” stabilisce che se il tempo dell’adempimento non
è previsto nel titolo in questo caso la prestazione verrà considerata esigibile in qualunque
istante, cioè il creditore può esigerla immediatamente. Qualora tuttavia, in virtù degli usi o
per natura della prestazione, ovvero per il modo o il luogo dell’adempimento, sia
necessario un termine, questo in mancanza di accordo è stabilito dal giudice.
Il comma due prevede che se il termine per l'adempimento è rimesso alla volontà del
debitore, spetta ugualmente al giudice di stabilirlo secondo le circostanze, se è rimesso
alla volontà del creditore, il termine può essere fissato su istanza del debitore che intende
liberarsi.

Art.1184.cc
L’art.1184.cc “Termine” stabilisce che:
Se per l'adempimento è fissato un termine, questo si presume a favore del debitore,
qualora non risulti stabilito a favore del creditore o di entrambi.
Se le parti vogliono che sia nell'interesse del creditore o di entrambe le parti lo devono
espressamente prevedere.

Art.1185.cc
L’art.1185.cc “pendenza del termine” stabilisce che e il termine è nell’interesse del
debitore, il creditore non può pretendere la prestazione prima che il termine si compia, ma
se il debitore desidera, potrà adempiere ante-tempus, prima che il termine si compia. La
prestazione dunque è inesigibile.
Se invece il termine è nell’interesse del creditore, significa che fino al compimento del
termine il debitore è libero di non eseguire la prestazione; ma nulla impedisce al creditore
di pretendere la prestazione prima che il tempo si compia. La prestazione è ineseguibile.

Art.1186.cc
L’art.1186.cc “decadenza del termine” è la norma che prevede la decadenza dal beneficio
del termine che si presume essere nell'interesse del debitore.
Il termine può cessare e si decade dal beneficio del termine ogni qualvolta il debitore sia
insolvente o abbia ridotto le garanzie date o non abbia dato le garanzie, se il termine è
nell’interesse del debitore.
Insolvente: quando un soggetto non è in grado di adempiere tempestivamente le proprie
obbligazioni, con riferimento all’intera esposizione debitoria, è in ritardo nell’adempiere nei
confronti di tutti i suoi creditori. L’insolvenza in quanto sintomo di crisi può giustificare la
decadenza del beneficio del termine. Dunque, quando il termine è stabilito nell’interesse
del debitore, se durante la pendenza del termine, le condizioni patrimoniali del debitore
mutano in senso peggiorativo per fatto proprio, al punto tale che il debitore è divenuto
insolvente, o ha ridotto le garanzie che aveva prestato o non ha prestato le garanzie che
aveva promesso di prestare, allora in tutti questi casi il debitore decade dal beneficio del
termine e il creditore può esigere immediatamente la prestazione

Art.1187.cc
L’art.1187.cc rinvia per il calcolo del termine alle norme sulle prescrizioni.
Il termine può consistere o nella data del calendario o in una determinata misura di tempo
stabilita a ore, a giorni, a mesi o ad anni.
Qualora non si trattasse di una data del calendario, ma di una misura temporale stabilita in
ore, giorni, mesi, anni, si applicano le regole dettate in materia di prescrizione: vale a dire
si applica il calendario comune, il giorno iniziale del termine non si calcola, e il termine
invece si completa nell’ultima ora dell’ultimo giorno previsto.
Art.1188.cc
L’art.1188.cc “Destinatario del pagamento” stabilisce che affinché vi sia l’adempimento
una prestazione oltre ad essere oggettivamente esatta necessita anche l’esattezza
soggettiva quindi è necessario che sia eseguita nelle mani del creditore, di un suo
rappresentante (legale o volontario, che agisce in nome e per conto), o di un indicatario di
pagamento (soggetto non rappresentante che è stato nominato dallo stesso creditore, o
dal giudice, come il soggetto nelle mani del quale si può validamente prestare).
Il comma due stabilisce che se la prestazione è effettuata nelle mani di un soggetto non
legittimato, non si ha adempimento per inesattezza soggettiva. Dunque, il debitore non si
libera e la prestazione non è adempimento. Il debitore dovrà recuperare la prestazione dal
soggetto nelle mani di cui l’ha fatto, e dovrà eseguire nuovamente la prestazione nelle
mani del creditore, a meno che il creditore non ratifichi la prestazione o non ne abbia
approfittato.
La ratifica è un atto unilaterale recettizio che rende efficace un atto che per sua natura non
sarebbe efficace, in questo caso la ratifica del creditore rende efficace la prestazione
soggettivamente inesatta del debitore rendendola quindi liberatoria.

Art.1189.cc
L’art.1189.cc “pagamento al creditore apparente” non è una norma sull’adempimento: è un
ipotesi di attuazione del debito senza realizzazione del credito, un modo di estinzione
dell’obbligazione diverso dall’adempimento.

PRENDI DA QUA
Art.1190.cc e art.1191.cc
L’art.1190.cc riguarda il pagamento effettuato al creditore incapace mentre l’art.1191.cc
riguarda il pagamento fatto da un debitore incapace.
Se Il debitore effettua la prestazione nelle mani di un creditore incapace quella prestazione
non è liberatoria (non si libera dall’obbligazione) perché se il creditore è incapace
dobbiamo presumere che non sia in grado di provvedere ai propri interessi e potrebbe
sperperare la prestazione, quindi dovrà recuperare la prestazione ed eseguirla nelle mani
del legale rappresentante (tutore, curatore, amministratore di sostegno) quindi del
soggetto legittimato a riceverla, a meno che Il debitore non provi che la prestazione sia
stata incamerata dal creditore incapace e non sperperata, fatto proprio e rivolto a suo
vantaggio/correttamente utilizzata.

Nel caso in cui l'incapacità riguarda Il debitore, il debitore che ha eseguito la prestazione
dovuta non può impugnare il pagamento (e chiederne la restituzione) a causa della propria
incapacità/facendo leva sulla sua incapacità perché l’adempimento è un atto dovuto e non
un atto libero (sono impugnabili per incapacità solo gli atti liberi).
Quindi il debitore non può contestarlo invocando la sua incapacità perché l’esito sarebbe
stato lo stesso a prescindere dall’incapacità o capacità di agire.

Fino a qua

Art.1192.cc
L’art. 1192 “Pagamento eseguito con cose altrui” sancisce:
1. Il debitore non può impugnare il pagamento eseguito con cose di cui non poteva
disporre, salvo che offra di eseguire la prestazione dovuta con cose di cui può disporre.
2. Il creditore che ha ricevuto il pagamento in buona fede può impugnarlo, salvo il diritto al
risarcimento del danno.

Art.1193.cc
L’art.1193.cc “Imputazione del pagamento” riguarda l'ipotesi che lo stesso soggetto abbia
debiti della stessa specie nei confronti dello stesso creditore. È una norma che di consueto
si applica alle obbligazioni pecuniarie. Il debitore deve dichiarare quale tra le diverse
obbligazioni a cui egli è legato nei confronti di quel creditore stia realizzando.
Questa dichiarazione si chiama “imputazione di pagamento”, e di regola viene contenuta
nella quietanza (ricevuta di pagamento). Se non vi è tale imputazione si applica
l’Art.1193.2, ovvero in mancanza di una dichiarazione il pagamento va imputato al debito
che è già scaduto; tra più debiti scaduti, a quello meno garantito; tra più debiti egualmente
garantiti, al più oneroso; tra debiti egualmente onerosi a quello più antico.
Se nessuno di questi criteri aiuta perchè sono tutti debiti scaduti, non garantiti del
medesimo importo della medesima data, la prestazione allora deve essere ripartita
proporzionalmente su tutte le obbligazioni.

Art.1194.cc
L’art.1194.cc “Imputazione del pagamento agli interessi” riguarda le obbligazioni
pecuniarie.
Il debitore pecuniario non può pretendere di estinguere il debito di capitale prima di aver
estinto il debito a titolo di interesse, perchè se questo si riduce, si riducono anche gli
interessi. Nelle obbligazioni pecuniarie prima si soddisfano gli interessi e poi si potrà
imputare il pagamento alla sorte; questo perché gli interessi futuri si calcolano sulla sorte
capitale, quindi se noi consentissimo al debitore di imputare il pagamento al capitale prima
che agli interessi gli consentiremmo di ridurre la base di calcolo dei futuri interessi.
Art.1197.cc e art.1198.cc
Gli art.1197 e 1198.cc anche in questi casi non ci troviamo di fronte a delle regole
sull’adempimento.
L’art.1197.cc “la prestazione in luogo di adempimento” è quella fattispecie nel quale Il
debitore offre al creditore di effettuare una prestazione diversa di valore uguale o anche
superiore alla prestazione originaria e il creditore può legittimamente rifiutare o
acconsentire, se il creditore acconsente significa che Il debitore e il creditore si sono
accordati per rendere liberatoria la prestazione differente.
Questo atto non è modificativo dell’oggetto dell’obbligazione, l'obbligazione rimane quella
originaria ma creditore e debitore si accordano per attribuire efficacia liberatoria ad una
prestazione che proprio perché diversa non avrebbe effetto liberatorio e soddisfattivo.
Ecco perché la prestazione in luogo di adempimento andrebbe annoverata tra i modi di
estinzione dell'obbligazione diversi dall'adempimento. L’obbligazione si estingue nel
momento in cui la prestazione diversa viene eseguita.
L’art.1198.cc “Cessione di un credito in luogo dell'adempimento” prevede che la
prestazione diversa possa essere una cessione del credito. Quando si cede un credito il
creditore si cede un diritto con sorte incerta, quindi l’obbligazione si estingue non quando il
credito è ceduto, cioè quando la prestazione differente è stata eseguita, ma quando il
debitore ceduto adempie l’obbligazione e quindi soddisfa il credito che è stato trasferito al
creditore in luogo dell’adempimento.

Art.1199.cc
L’art.1199.cc è la norma relativa alla quietanza (ricevuta) è il documento che attesta
l'avvenuto pagamento, l'avvenuto adempimento da parte del debitore. Il debitore ha diritto
ad ottenere la quietanza a sue spese e il creditore non può rifiutarsi perché p solo grazie
alla quietanza che si può dimostrare l’avvenuto pagamento.

(Lezione 26 e 27 aprile 2022)


Surrogazione
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I fenomeni collegati all’adempimento sono la surrogazione e la mora del creditore. La
surrogazione è un fenomeno di modificazione del lato attivo e del rapporto obbligatorio.
non è una cessione del credito quindi un trasferimento del credito stesso è un sub-
ingresso ovvero il credito viene modificato sostituendo al creditore originario il nuovo
creditore. Infatti con la surrogazione il credito non si estingue. Le regole sulla surrogazione
sono contenuti negli articoli dal 1201 al 1205.

Articolo 1201 del codice civile surrogazione per volontà del creditore: il creditore,
ricevendo il pagamento da un terzo, può surrogarlo nei propri diritti.la surrogazione deve
essere fatta in modo espresso e contemporaneamente al pagamento.
L’articolo 1201 propone due requisiti per la surrogazione per volontà del creditore:
contestualità ed espressa volontà.
Quindi il creditore per surrogare il terzo nel proprio diritto, deve manifestare
espressamente e contestualmente al pagamento, la volontà di surrogarlo; non può essere
fatto in un secondo momento.

L’articolo 1202 disciplina la surrogazione per volontà del debitore.


La fattispecie della surrogazione per volontà del debitore, avviene quando il debitore
prende a mutuo una somma di denaro per soddisfare un determinato debito.
Suddetto mutuo è tecnicamente chiamato mutuo di scopo e si tratta di un finanziamento
finalizzato a realizzare specifici obiettivi e/o progetti.
Nel momento in cui il debitore salda il proprio debito, può surrogare il mutuante nei diritti
del creditore anche senza il consenso di quest’ultimo.
Affinché questa surrogazione avvenga è necessario che vi siano tre requisiti.
1. Il mutuo e la quietanza devono risultare da atti aventi data certa (art.2704); è valida
anche una scrittura privata non autenticata purché iscritta in un pubblico registro.
2. Nell’atto del mutuo deve essere espressamente specificata la destinazione della
somma mutuata.
3. Nella quietanza il debitore deve menzionare la provenienza delle somme utilizzate
per adempiere e il creditore non si può opporre.
Il vantaggio per il finanziatore è che avrà due canali per recuperare le somme prestate al
debitore ovvero il contratto del finanziamento e il credito originario, cioè quel credito per
cui è stato richiesto il mutuo.
Inoltre potrebbe esserci, per il finanziatore, un ulteriore vantaggio ed è nel caso in cui il
creditore originario sia un creditore privilegiato, poiché in tale ipotesi verranno attribuite al
finanziatore surrogato le medesime garanzie quali pegno o ipoteca.
Il vantaggio per il debitore è quello di recuperare tempo.

La terza ipotesi è prevista dall’articolo 1203 surrogazione legale, in questo caso il


Subingresso è decretato dalla legge e quindi non è una scelta nè del debitore né del
creditore.
La prima fattispecie prevista dall’articolo 1203 è il caso in cui la surrogazione avviene a
vantaggio del creditore chirografario che paga un altro creditore che ha diritto ad essere
preferito in virtù di uno dei suoi privilegi, pegno o ipoteca.
In questo caso se Tizio e Caio sono entrambi creditori di Sempronio e Tizio è un creditore
privilegiato, Caio potrà saldare il debito di Sempronio e grazie alla surrogazione legale
subentrerà nel diritto di tizio; divenendo così creditore privilegiato potrà richiedere
l’estensione dell’ipoteca per l’ammontare totale del credito vantato.
La seconda fattispecie prevista dall’articolo 1203 è il caso della surrogazione a vantaggio
dell’acquirente di un immobile su cui grava ipoteca. L'acquirente, convinto di concludere
l'affare, pagherà i creditori subentrando nel loro diritto. In questo modo la quota pagata per
estinguere i debiti del venditore verrà detratta dal prezzo del corrispettivo per l'acquisto
dell'immobile e l'acquirente, surrogato nel diritto, potrà a questo punto cancellare l'ipoteca.
Questo meccanismo è utile a eliminare la compressione del diritto di proprietà causata
dall'ipoteca, perché solo il creditore privilegiato può cancellarla. Inoltre, in questo modo,
mediante la surrogazione, chi acquista, sarà sicuro di non poter più rischiare di perdere il
bene; perché se l'acquirente pagasse semplicemente l'intera somma al venditore/debitore,
idonea a estinguere l'obbligazione, niente gli assicurerebbe che quest'ultimo avrebbe con
la cifra adempiuto. Se così fosse il povero acquirente ormai proprietario, rischierebbe di
perdere il bene a causa dell'aggressione dei creditori con garanzia di ipoteca.
La legge invece tutela e in tal modo incoraggia, l'acquirente interessato a un bene gravato
di ipoteca, stabilendo che, chi vuole acquistare un bene ipotecato, può pagare i creditori,
acquistare il bene a un prezzo inferiore, ed eliminare, essendo per legge così surrogato
nel diritto di credito, l'ipoteca. Come la cancella? Richiedendo la cancellazione dell’ipoteca
dai registri immobiliari.
La terza fattispecie di surrogazione legale si rivela a vantaggio di colui il quale, tenuto, con
altri o per altri, al pagamento di un debito, paga l'intera somma o parte della somma da lui
dovuta, al creditore. È il caso delle obbligazioni solidali e degli obbligati in solido. Colui che
paga il debito è surrogato nel credito che soddisfa per recuperare la quota degli altri o
l’intera somma nel caso si sia obbligato in solido nell’interesse esclusivo degli altri.
Ipotesi: il creditore di un’associazione non riconosciuta (che gode di autonomia
patrimoniale imperfetta) chiede ad uno degli amministratori di adempiere per l’intero del
suo credito (assunto dagli amministratori in nome e per conto dell’associazione);
l’amministratore che pagherà, verrà surrogato per legge nel diritto di credito e potrà
pretendere, dai coobbligati, la restituzione delle somme versate per adempiere meno che
la sua quota.

Oltre la surrogazione, l’altro istituto che si può abbinare all’adempimento è l’istituto della
mora del creditore.

Mora del creditore o Mora Accipiendi


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L’adempimento non dipende esclusivamente dal debitore è necessaria un minimo di
cooperazione anche da parte del creditore.
Il creditore, per quanto può sembrare assurdo, potrebbe non cooperare impedendo in tal
modo al debitore di adempiere. Il debitore allora rimarrebbe ingiustamente vincolato.
L'ordinamento non può ammettere che il creditore possa protrarre all'infinito la durata del
rapporto obbligatorio. Significherebbe non permettere al debitore di liberarsi e tornare alla
logica dell'assoggettamento personale.
In virtù di questa estrema ratio il legislatore prevede la possibilità per il debitore, di
costituire in mora il creditore.
Questa, detta anche Mora Accipiendi (accipiens: colui che prende/creditore) è disciplinata
dall'art. 1206 all'art.1217.
L’articolo 1206 stabilisce che il debitore può ricorrere alla mora del creditore quando
quest’ultimo si rifiuta senza motivo legittimo di cooperare, affinché possa liberarsi e/o
adempiere alla prestazione.
Se il debitore si presta ad effettuare la prestazione esatta e il creditore si rifiuta di riceverla
questo è un rifiuto illegittimo.
Il creditore ha diritto a rifiutare solo per motivi legittimi ossia qualora la prestazione si
mostrasse inesatta o diversa (1197 se accetta prestazione in luogo di adempimento) o
parziale (1181).
Il legislatore ha dunque fornito al debitore uno strumento che serve ad esercitare una
pressione psicologica sul creditore per indurlo a ricevere quella prestazione che sta
illegittimamente rifiutando.
La costituzione in mora produce delle conseguenze negative a carico del creditore
affinché smetta di rifiutare in modo persistente, la prestazione esatta del debitore.
Questi disincentivi o effetti negativi sono sanciti dall’articolo 1207 del codice civile.
Primo effetto negativo: l'eventuale impossibilità di effettuare la prestazione, sopravvenuta
per causa non imputabile al debitore, è a carico del creditore costituito in mora.
Per comprendere la fattispecie bisogna guardare non a una singola obbligazione ma
all'insieme delle obbligazioni nascenti da contratto con prestazioni corrispettive, in cui
debitore è anche creditore e creditore è anche debitore.
È l'ipotesi della compravendita: devo venderti il bene x e tu ti rifiuti più e più volte di
riceverlo, dopo tot volte io ti costituisco in mora;
sopravviene a un certo punto un’impossibilità non a me imputabile: Cosa succede? Qual'è
l'effetto negativo della costituzione in mora?
L'impossibilità non imputabile è anche senza mora un evento negativo per il creditore,
quindi qual'è il di più della mora? È il seguente (previsto al comma 1): tu rimani vincolato a
pagarmi mentre io sono liberato dall'effettuare la mia prestazione.
Dovevo darti il quadro, tu lo hai rifiutato più volte, io allora ti ho costituito, è sopravvenuta
un’impossibilità a me non imputabile, io sono liberato e tu mi devi comunque pagare. Se
non fossi stato costituito, anche tu ti saresti liberato dal pagarmi. Ancora: se tu avessi
accettato, quando era giusto, la mia prestazione, tu avresti pagato e in cambio avresti
ottenuto la tua controprestazione ovvero il quadro, tu hai senza motivo legittimo rifiutato e
allora (vista la non imputabilità) paghi lo stesso ma non ricevi nulla. Questa è la logica
della norma: disincentivare e questo l'effetto più disincentivante di tutti.
Il secondo effetto è il seguente: il debitore non deve più al creditore gli interessi né i frutti
sul bene oggetto della prestazione, salvo quelli che siano stati percepiti dal debitore.
Il terzo effetto consiste nel fatto che il debitore potrà pretendere, nei confronti del creditore
costituito in mora, il risarcimento dei danni provocati dalla mora ossia dal ritardo
nell’adempimento, come ad esempio le spese di custodia e di conservazione del bene che
siano state sostenute dal debitore.
Infine l'articolo 1207, all'ultimo comma, stabilisce che tali effetti si producono dal giorno
dell'offerta se questa è successivamente dichiarata valida con sentenza passata in
giudicato o se è accettata dal creditore.
L'offerta è regolata dall'articolo successivo: il 1208.
Il debitore non deve esclusivamente offrire la prestazione: "Creditore accetti la mia
prestazione" Ma deve ricorrere ad un’offerta formale che deve avere determinati requisiti
specificati nell’articolo 1208.
L’articolo 1208 stabilisce che affinché l’offerta formale sia valida è necessario che:
1. Sia fatta al creditore capace di ricevere o ad un rappresentante legittimo o a chi è
da lui indicato.
2. Sia fatta dal debitore o da una persona che possa adempiere, quindi il
rappresentante o il delegato di pagamento.
3. L’offerta deve comprendere la totalità di somme o beni dovuti, quindi anche i frutti,
interessi, spese liquide e una somma per le spese non liquide.
4. Deve essere scaduto il termine se stipulato nell’interesse del creditore.
5. Che l’offerta sia stata fatta al domicilio del creditore.
6. L’offerta sia fatta da un ufficiale giudiziario.
7. Questi effetti iniziano a prodursi dal giorno dell’offerta formale a condizione che
questa sia stata accettata dal creditore o dichiarata valida con sentenza passata in
giudicato che retroagisce (Cioè il caso in cui il creditore ha rifiutato l’offerta e il debitore
abbia agito in giudizio affinché il giudice accerti con sentenza che l’offerta formale a tutti
requisiti previsti dall’articolo 1208).
L’offerta formale può essere di due tipi ed è sancita dall’articolo 1209:
Al comma primo troviamo l’offerta reale, al comma secondo troviamo l’offerta per
intimazione. L'offerta reale riguarda le obbligazioni pecuniarie e tutte le obbligazioni che
hanno per oggetto beni che devono essere consegnati al domicilio del creditore e quindi
riguardano le obbligazioni portables.
L'offerta per intimazione riguarda obbligazioni aventi ad oggetto beni mobili da consegnare
al domicilio del debitore o altrove, o beni immobili, in questo caso l’offerta avviene per
intimazione.
Viene notificato al creditore, da parte dell’ufficiale giudiziario, un avviso nel quale il
creditore viene invitato a presentarsi in un determinato luogo, in un determinato giorno e
ad una determinata ora, per ricevere quella prestazione.
L’ordinamento giuridico mette a disposizione del debitore un ulteriore strumento per
liberarsi dall’obbligazione forzosamente, cioè l’istituto del deposito liberatorio che riguarda
beni mobili e somme di denaro e del sequestro liberatorio che riguarda i beni immobili. Sia
il deposito che il sequestro non presuppongono la previa costituzione in mora del
creditore, quindi una volta eseguita l’offerta formale non accettata dal creditore, il debitore
può proseguire con la costituzione in mora o ricorrere al deposito.
Il deposito liberatorio è un contratto con il quale un soggetto depositante, ovvero il
debitore, consegna un bene mobile al depositario indicato dal giudice, che ha l’obbligo di
vederlo e di costruirlo per consegnarlo in natura al creditore.
L’articolo 1211 stabilisce che se le cose non possono essere conservate o sono
deteriorabili oppure se la loro custodia abbia delle spese eccessive, il debitore dopo
l’offerta reale o l’intimazione di ritirarle, può farsi autorizzare dal giudice di pace a venderle
nei modi stabiliti per le cose pignorate e depositarne il prezzo.
Se a seguito dell’offerta formale, il debitore effettua il deposito, questo deve rispettare i
requisiti stabiliti dall’articolo 1212.
Il deposito è valido se preceduto da un ulteriore intimazione notificata al creditore,
contenente l’indicazione del giorno, dell’ora e del luogo in cui la cosa sarà depositata.
Il debitore deve aver consegnato la cosa con gli interessi ai frutti, dovuti sino al giorno
dell’offerta, nel luogo indicato dalla legge o in mancanza, dal giudice.
Deve essere redatto dall’ufficiale giudiziario sotto forma di processo verbale (è un
documento scritto che riporta un fatto, processo è inteso come procedura non
procedimento, è un verbale), da cui risulti la natura delle cose offerte, il rifiuto del creditore
di prenderle, o la mancata comparizione.
Se il deposito viene accettato dal creditore o viene dichiarato valido con sentenza passata
in giudicato, il debitore è liberato dal giorno stesso in cui ha effettuato il deposito
nonostante l’interesse del creditore non sia stato realizzato, non è realizzato perché
nonostante sia stato depositato, non è ancora pervenuto nella disponibilità del creditore.
Questa è una scissione del debito: il debito si attua ma il credito non si realizza.
L’articolo 1214 regola "l’offerta secondo gli usi e deposito" la quale non è un’offerta
formale ma è un’offerta conforme alle prassi di mercato, non è idonea a costituire in mora
il creditore ma se è seguita dal deposito effettuato secondo i requisiti dell’articolo 1212, il
creditore è costituito in mora.
Non vi è liberazione del debitore perché il deposito deve essere preceduto da un’offerta
formale. In entrambi i casi le spese del deposito sono a carico del creditore come disposto
dall’articolo 1215.
Un altro tipo di offerta è previsto dall’articolo 1220, cioè l’offerta non formale, che non è
idonea a costituire in mora il creditore perché in questo caso il debitore offre la prestazione
in maniera non formale, ma grazie ad essa impedisce al creditore di addebitargli un
consequenziale ritardo, evitando quindi il rischio che poi lui stesso (debitore) venga
costituito in mora dal creditore.
L’art. 1216 regola il caso di consegna di beni immobili per cui non si può ricorrere al
deposito, infatti si parla di sequestro liberatorio: il debitore può domandare al giudice di
nominare un sequestratario, chiamato anche custode giudiziario, e dal momento in cui il
sequestratario prende il possesso del bene immobile, il debitore è liberato.
Tutte queste formalità riguardano le obbligazioni di dare in quanto sorge la necessità di
collocare un bene nella sfera giuridica di qualcuno, mentre nelle obbligazioni di fare, in cui
è necessaria una maggiore cooperazione da parte del creditore, la costituzione in mora è
più semplice.
L’articolo 1217 prevede che nelle obbligazioni di fare il creditore è costituito in mora
mediante intimazione di ricevere la prestazione o di compiere gli atti che sono da parte
sua necessari per renderla possibile. In questo caso l’intimazione può essere fatta anche
secondo gli usi.

Inadempimento
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Il rapporto obbligatorio si può estinguere con l’adempimento, con i modi di estinzione
dell’obbligazione diversi dall’adempimento (novazione, remissione, compensazione,
confusione, impossib. non imputabile) e anche con l’inadempimento, ossia la fase
patologica rapporto obbligatorio.
L’inadempimento è quella condotta del debitore che viola l’oggetto della prestazione.
Esistono tre tipologie di inadempimento:
Inadempimento assoluto si ha quando il debitore non pone in essere alcuna condotta,
Tizio deve consegnare il bene X e non lo consegna, Caio deve pagare la somma di
denaro e non la paga.
L’adempimento inesatto si ha quando il debitore effettua la prestazione ma l’effettua
violando il contenuto dell’obbligazione sotto il profilo qualitativo o quantitativo o delle
modalità di adempimento. Ad esempio Tizio deve redigere un documento contabile ma il
documento consegnato al creditore non tiene conto di alcuni aspetti ed è un documento
lacunoso.
La terza tipologia di inadempimento è costituita dal ritardo ossia quando il debitore non
rispetta i termini dell’adempimento. Si potrebbe pensare che il ritardo sia una forma di
adempimento inesatto, ma non è così perché il ritardo causa degli esiti incerti, il ritardo
potrebbe trasformarsi in un inadempimento assoluto o potrebbe dar luogo ad un
adempimento inesatto.
Queste tre forme di inadempimento determinano il medesimo effetto cioè la responsabilità
che consiste nell’insorgere di una nuova obbligazione: quella del risarcimento del danno.
Tutto ciò è sancito in una delle norme più importanti del nostro codice civile ossia l’articolo
1218: “Il debitore che non esegue esattamente la prestazione dovuta è tenuto al
risarcimento del danno, se non prova che l’inadempimento o il ritardo è stato determinato
da impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile”. A memoria!!!
Da questa norma ricaviamo il fatto che l’inadempimento, il ritardo e l’adempimento inesatto
sono equivalenti in quanto da essi scaturisce l’obbligo del risarcimento del danno. Il caso
di impossibilità non imputabile al debitore è causa di estinzione della prestazione originaria
e quindi impedisce l’insorgere dell’obbligazione risarcitoria, quindi l’obbligazione si
estingue nella sua totalità. In ogni rapporto obbligatorio è contenuto il vincolo di
responsabilità, l’obbligazione nasce con una prestazione principale al di sotto della quale
vi è il vincolo inespresso di responsabilità; se quella prestazione verrà violata o diventerà
impossibile per causa imputabile al debitore, la prestazione originaria verrà sostituita dalla
prestazione di risarcimento del danno. Questa è la caratteristica della cosiddetta
responsabilità contrattuale.
Parlando di responsabilità contrattuale non ci riferiamo soltanto a quel tipo di
responsabilità che scaturisce dal contratto ma quel tipo di responsabilità che scaturisce
dall’inadempimento di qualunque obbligazione e questo perché il vincolo di responsabilità
è conseguenza del fallimento di un precedente rapporto obbligatorio. L’obbligazione
rimane la stessa, cambia soltanto la prestazione, che non sarà più la prestazione di dare,
fare o di non fare ma sarà la prestazione pecuniaria di pagare la somma di denaro
necessaria per rimuovere i danni che quella violazione ha determinato.
Questa è la differenza sostanziale con la responsabilità aquiliana, perché essa non
scaturisce dal fallimento di un precedente rapporto obbligatorio; danneggiante e
danneggiato non sono legati preventivamente da alcun rapporto, quindi gli elementi
costitutivi della responsabilità aquiliana sono più complessi rispetto agli elementi costitutivi
della responsabilità contrattuale, perché la responsabilità aquiliana sorge per l’esercizio di
un’attività libera da parte del danneggiante che ha provocato al terzo, danneggiato, un
danno, mentre la responsabilità contrattuale sorge da un precedente rapporto che é stato
violato e quindi il regime di responsabilità deve tutelare maggiormente il danneggiato
creditore.
Per questo motivo la prescrizione del risarcimento del danno contrattuale è decennale
mentre la prescrizione del risarcimento del danno aquiliano quinquennale (o ridotto in base
alle casistiche). Inoltre l’onere della prova gravante sul creditore è molto più leggero
dell’onere della prova gravante sul danneggiato in sede aquiliana, perché al creditore
basta dimostrare di essere tale, di essere creditore (contrattuale), mentre al danneggiato
(aquiliana) spetta provare che il danno sia ingiusto e che derivi da una condotta
censurabile del soggetto.
Tornando all’articolo 1218 vediamo come il legislatore del 42 abbia introdotto una norma
che però presenta un grave difetto, ovvero quello di alimentare la convinzione che l’unico
rimedio previsto al creditore in caso di inadempimento sia il risarcimento del danno, questo
è uno strascico che risale alla concezione di rapporto obbligatorio del diritto romano, per
cui l’unico rimedio concesso al creditore è proprio quest’ultimo. L’obbligazione nel corso
del 900 ha sempre di più acquisito la fisionomia di un rapporto finalizzato a realizzare un
determinato risultato atteso e questo ha indotto ad affiancare al risarcimento del danno un
ulteriore rimedio contro l’inadempimento: il cosiddetto adempimento in natura. Quando il
debitore si rende inadempiente, il creditore, se ancora interessato a ricevere la
prestazione e se la prestazione è ancora possibile, può ottenere dal giudice una sentenza
di condanna con la quale venga imposto al debitore di fare quanto egli avrebbe dovuto
fare spontaneamente oppure che imponga a quest’ultimo di correggere la prestazione se
inesatta.
Nel nostro codice non c’è una norma che espressamente riconosca l’adempimento in
natura come rimedio, ma esistono diverse disposizioni disseminate nel codice che
presuppongono l’adempimento in natura. Nell’articolo 1453, in materia di contratti, con
prestazioni corrispettive, il legislatore dice espressamente che quando in un contratto con
prestazioni corrispettive, una delle due parti non adempie, l’altra può domandare a sua
scelta: o l’adempimento o la risoluzione del contratto, salvo in ogni caso il risarcimento del
danno.
Il combinato disposto dagli articoli 1218 e 1256 indicano chiaramente che finché la
prestazione é possibile il debitore è tenuto a eseguirla, soltanto quando la prestazione
diventa impossibile per cause a lui non imputabili è liberato dall’effettuare la prestazione
originaria. Se l’impossibilità è a lui imputabile dovrà risarcire il danno, se l’impossibilità non
è imputabile al debitore l'obbligazione si estingue. Quindi da ciò possiamo dedurre che
l’obbligazione essendo sintesi di mezzi e risultato fintanto che la prestazione è attuabile e
fintanto che il risultato è realizzabile, il debitore, inadempiente, è tenuto a correggere la
propria condotta e realizzare l’interesse del creditore.
L'adempimento in natura e il risarcimento del danno sono due rimedi alternativi ma
limitatamente al cosiddetto risarcimento sostitutivo, cioè quella parte del risarcimento del
danno che consiste nel valore del risultato atteso e non conseguito. Il risarcimento del
danno include oltre il valore del risultato atteso, anche tutti i danni cosiddetti
consequenziali cioè ulteriori, che consistono o nella perdita del mancato conseguimento
del risultato o i mancati guadagni generati, che anche nel caso del risarcimento in natura
devono comunque essere risarciti.
Ad esempio se Tizio deve consegnare un bene a Caio; Caio si è impegnato a rivendere il
bene a un prezzo maggiorato a Sempronio entro un determinato termine. Tizio ritarda la
consegna facendo perdere a Caio l’affare con Sempronio.
Tizio effettuerà il risarcimento in natura, in quanto consegnerà a Caio il bene, e dovrà
anche risarcirlo per il mancato guadagno della vendita che doveva effettuare a Sempronio.
Nell’area del risarcimento contrattuale si devono distinguere: il risarcimento sostitutivo, che
appunto é la somma di denaro pari al valore di mercato del risultato che il creditore
attende e che non ha conseguito o che ha conseguito in maniera inesatta; e il risarcimento
dei danni consequenziali: cioè le perdite o danni che sono stati provocati dal mancato
ottenimento del risultato atteso.

Inadempimento definitivo: riguarda la prestazione diventata impossibile per causa


imputabile al debitore; l’altra ipotesi che concerne l’inadempimento definitivo é quella in cui
il creditore abbia perduto in termini oggettivi l’interesse alla prestazione (superamento del
termine essenziale, es: Erasmus, fotografo). Inoltre esiste anche un ulteriore strumento
per rendere definitivo l’inadempimento nonostante la prestazione sia ancora possibile ed è
la concessione di un termine di grazia (ovvero quando il creditore concede al debitore un
ennesimo termine entro il quale egli dovrà adempiere). Tizio deve effettuare una visita
medica a Caio e questo si rifiuta di effettuarla a tempo debito. Tizio può sollecitare allora
Caio concedendogli un termine di grazia; se allo spirare del termine Caio non ha ancora
adempiuto, è inutile che Tizio richieda una sentenza di condanna per ottenere
l’adempimento in natura, perché si presuppone che Caio in qualsiasi circostanza non
voglia adempiere. Questo ci permette di comprendere come l’adempimento in natura sia sì
un rimedio prioritario ma che non vada inteso nel senso che il creditore sia costretto a
ricorrere all’adempimento in natura; soprattutto quando non vi sono concrete possibilità di
ottenere il risultato atteso.
Sei il debitore inadempiente, non effettua la prestazione di fare e si tratta di una
prestazione infungibile, cioè non sostituibile (come la prestazione del medico specialista o
della cantante Caia), questo, seppur sollecitato, non manifesta la volontà di adempiere,
non può essere costretto con la forza ad attuare la prestazione. In tali circostanze la
sentenza di condanna non può garantire un rimedio in forma specifica. Si può domandare
la condanna solo quando ci sono adeguati strumenti di esecuzione forzata in forma
specifica, come l’articolo 2930 consegna di beni determinati, articolo 2931 una prestazione
di fare fungibile cioè sostituibile in quanto il lavoro può essere effettuato da un terzo a
spese del debitore, oppure nel caso delle obbligazioni di non fare 2933, come nel caso di
abuso edilizio sarà il Comune ad abbattere il piano costruito illecitamente.
L’articolo 614 bis del codice di procedura civile (c.p.c) consente al giudice, laddove la
condanna non possa essere eseguita in forma specifica in via diretta, perché non sono
applicabili gli articoli 2930, 2931, 2933, di ricorrere a una misura di coercizione, di
esecuzione indiretta, inserendo nella sentenza di condanna la previsione dell’obbligo di
pagamento di una somma di denaro per ogni giorno di ritardo e per ogni successiva
violazione dell’ordine del giudice.
La condanna pecuniaria: 614 bis, non è un risarcimento del danno ma è una sanzione,
una vera e propria misura di coercizione indiretta che mira ad esercitare una pressione
psicologica sul debitore di una prestazione infungibile, per indurlo a compiere quell’attività
dovuta che egli si rifiuta di compiere ripetutamente. Quindi l’introduzione nel 2009
dell’articolo 614 bis c.p.c ha cambiato la concezione secondo cui l’adempimento in natura
fosse un rimedio riconosciuto al creditore soltanto nel caso di obbligazioni di dare, di fare
prestazioni fungibili o di non fare. Nel caso di prestazioni di dare cose di specie o di fare
infungibile possono essere oggetto di sentenza di condanna in cui il creditore può invocare
l’adempimento in natura, anche se la condanna non può essere eseguita in forma diretta
ma potrà essere eseguito in forma indiretta tramite lo strumento dell’articolo 614 bis.

Il ritardo è una forma di inadempimento dagli esiti incerti che può causare
dell’inadempimento assoluto o inesatto, nel tentativo di introdurre uno strumento per
eliminare questa condizione di incertezza, il legislatore ha introdotto l’istituto della mora
debendi ossia la mora del debitore.

Mora del debitore o Mora Debendi


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La mora del debitore è un mezzo di coercizione indiretta che mira ad esercitare sul
debitore una pressione psicologica per indurlo ad adempiere anche se in ritardo.
La mora del debitore è regolata dagli articoli 1219 e seguenti del codice civile. Il debitore
può essere costituito in mora in due diversi modi: la mora ex persona e la mora ex re.
Mora ex persona: è la regola generale e il debitore viene costituito in mora tramite
un’intimazione o richiesta fatta per iscritto dal creditore, in cui lo intima ad adempiere
concedendogli anche, se vuole, un termine di grazia, allo scadere del quale il debitore
cade in inadempimento, il quale sarà definitivo. In questo modo il creditore sarà messo
nelle condizioni di abbandonare la via dell’adempimento in natura (anche se il risultato è
ancora possibile) e potrà richiedere direttamente il risarcimento del danno.
Il secondo modo è la mora ex re che è una mora automatica, la quale non esige alcuna
richiesta per iscritto e si può configurare in tre ipotesi previste dal comma due dell’articolo
1219:
1. Nel caso in cui il debito derivi da un danno extracontrattuale (il codice lo definisce
erroneamente ‘fatto illecito’). Risarcire è un’obbligazione che va adempiuta
immediatamente, altrimenti scatta (appunto) la mora.
2. Quando il debitore ha dichiarato per iscritto di non voler adempiere; esempio: nel
caso in cui Caio mandi una mail al proprio debitore Tizio, lamentando la mancata
consegna di una parte dei prodotti richiesti e Tizio risponda “io veramente gli ho
consegnato tutto, non ho intenzione di adempiere ulteriormente”. Qualora il creditore abbia
ragione, la mora scatta automaticamente.
3. Nel caso in cui la prestazione debba essere eseguita al domicilio del creditore,
quindi nel caso di obbligazioni pecuniarie o portables. Il debitore in ritardo, è costituito in
mora dal giorno del ritardo e sarà tenuto a restituire il capitale e gli interessi maturati su di
esso; questi sono chiamati interessi moratori.

L’effetto svantaggioso della mora è delineato dall’articolo 1221 per cui il debitore, dopo
che è stato costituito in mora, dovrà rispondere anche dell’inadempimento dovuto per
impossibilità sopravvenuta della prestazione derivante da causa a lui non imputabile.
Questo è un fortissimo incentivo ad adempiere: si tratta del cosiddetto aggravamento del
rischio.
L’articolo 1221 delinea anche una causa di esonero del debitore difficilissima da provare,
questa può prodursi nel caso in cui il debitore non adempie tempestivamente e prova che
la cosa sarebbe perita ugualmente nelle mani del creditore.
Caso di scuola: Caio deve consegnare 10 kg di banane ma è in ritardo nella consegna, un
incendio divampa e coinvolge il magazzino di Tizio. Le proporzioni dell’incendio quindi
hanno coinvolto anche il magazzino del creditore Tizio per cui, in questo caso, Caio può
dimostrare che le cose sarebbero perite ugualmente, anche se egli avesse adempiuto
tempestivamente. Questo è l’unico caso in cui il debitore non è tenuto a risarcire il danno.
Ovviamente è un caso limite.
Una norma molto importante l’articolo 1220 offerta non formale, secondo cui se il debitore
offre in maniera informale la propria prestazione, senza quindi ricorrere all’offerta formale
o agli usi, in tal modo non costituisce in mora il creditore ma si tutela contro il rischio di
essere costituito in mora.
Quindi il debitore non può essere costituito in mora se ha offerto informalmente la
prestazione dovuta, a meno che il creditore non abbia rifiutato per un motivo legittimo.
L’articolo 1222 stabilisce che le disposizioni sulla mora non si applicano alle obbligazioni di
non fare (negative) perché a differenza delle altre (fare o dare) nascono già realizzate fare
costituisce di per sé già inadempimento definitivo.
Il ritardo riguarda solo le obbligazioni positive di fare o di dare, in quelle di non fare il
creditore si è già soddisfatto, è sufficiente che il debitore non faccia nulla, di conseguenza
la violazione di un’obbligazione di non fare (che consiste in fare) rende già definitivo
l’inadempimento. Si perde in questo tipo di obbligazioni, la funzione della costituzione in
mora. Di conseguenza, sottolineiamo, le norme sulla mora non si applicano.

Lezione 2 maggio

Vincolo responsabilità contrattuale


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Una descrizione del vincolo di responsabilità contrattuale ci viene fornita da Carlo
Castronovo uno dei massimi studiosi della responsabilità civile, contrattuale e aquiliana,
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Carlo Castronovo
Laureatosi con Luigi Mengoni nel 1968, nel 1974 riceve l'incarico dell'insegnamento di
Istituzioni di diritto privato nella Facoltà di economia e commercio presso l'Università degli
studi di Trento. Nel 1976 è incaricato del medesimo insegnamento nella Facoltà di
giurisprudenza dell'Università degli studi di Parma. Nell'anno accademico 1977-78
consegue il titolo di Master of Laws presso la Law School della Yale University(...). Nel
1982 è trasferito alla cattedra di Istituzioni di diritto privato della Facoltà di giurisprudenza
dell'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, dove l'anno seguente diviene
professore ordinario della medesima materia. Dal 1991, sempre nella Facoltà di
Giurisprudenza dell'Università Cattolica, assume l'insegnamento di Diritto civile, passando
poi su tale cattedra nel 1993. Nella medesima Facoltà ha tenuto altresì l’insegnamento di
Diritto privato comparato. È autore di Problema e sistema nel danno da prodotti (1979),
Danno biologico. Un itinerario di diritto giurisprudenziale (1998), La nuova responsabilità
civile (III ed., 2006), Eclissi del diritto civile (2015), Responsabilità civile (2018). e di
numerosi saggi in materia di diritto civile e di diritto privato europeo. Ha condotto
l’edizione italiana dei Principi di diritto europeo dei contratti (Parte I e II, 2001; Parte III,
2005) ed è stato membro del Gruppo di studio per un codice europeo, dalla sua
formazione fino alla conclusione del Draft common frame of reference. Ha curato, con
Salvatore Mazzamuto, il Manuale di diritto privato europeo (3 vol., 2007) ed è condirettore
della Rivista Europa e diritto privato e Membro della direzione della Rivista critica di diritto
privato.
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secondo cui il vincolo di responsabilità contrattuale è come una forma di stato allotropico
dell’obbligazione. Responsabilità contrattuale non è una nuova obbligazione che si
sostituisce all’obbligazione inadempiuta, é lo stesso rapporto obbligatorio, il quale é insito
nell’ obbligazione; come la prestazione di dare, di fare o non fare, il risarcimento é una
prestazione che emerge e si concretizza in obbligazione di risarcire l’equivalente
monetario bei casi di inadempimento analizzati. Questo di cui parliamo però è quello che
riguarda solo il danno primario e non i danni consequenziali. Dunque il risarcimento del
danno sostitutivo, cioè del danno primario scaturito dalla mancata realizzazione della
prestazione oggetto dell’obbligazione; é ciò che si sostituisce all’adempimento in natura.
L’adempimento in natura non può essere cumulato con il risarcimento dei danni, perché
ciò produrrebbe un doppio arricchimento immotivato del creditore.
L’adempimento in natura offre una tutela in forma specifica mentre il risarcimento
sostitutivo offre una tutela per equivalente: queste sono lo stesso tipo di tutela ma con
modalità differenti.
Quindi esistono: il danno primario e i danni consequenziali. Quest’ultimi sono previsti
dall’articolo 1223. Erroneamente i manuali dicono che tale norma disciplina tutto il
risarcimento del danno contrattuale ma in realtà non è così, è un errore grossolano.
L’articolo 1223: “Il risarcimento del danno per l’inadempimento o per il ritardo deve
comprendere così la perdita subita dal creditore come il mancato guadagno, in quanto ne
siano conseguenza immediata e diretta”.
Dell’enunciato normativo sottolineiamo:
Perdita subita come conseguenza immediata e diretta dell’inadempimento e/o ritardo!
Perdita subita: il danno emergente.
Mancato guadagno: il lucro cessante.
L’inadempimento prima di produrre danni consequenziali immediati e diretti produce il fatto
che il creditore non ottiene ciò che ha diritto ad ottenere, cioè produce il danno primario
dovuto alla mancata prestazione, il quale viene risarcito tramite il cosiddetto risarcimento
sostitutivo. Rispetto al danno primario non ci si può porre il problema delle conseguenze,
perché questo danno è semplicemente la trasformazione in denaro del valore di quanto il
creditore aveva diritto di conseguire. Il 1223 viene inteso dalla maggior parte della
giurisprudenza come una norma sulla causalità, in particolar modo sulla cosiddetta
causalità giuridica.
La causalità viene distinta in: causalità materiale e causalità giuridica.
La causalità materiale è quella che intercorre tra la condotta del danneggiante e il danno,
ossia la lesione. Queste teorizzazioni sul nesso causale sono state elaborate nell’ambito
del diritto penale, perché è quel ramo del diritto che ragionevolmente più di quello civile,
deve valutare il giudizio di responsabilità in modo minuzioso.
Molte di queste conclusioni sono state un po’ importate nel diritto civile, infatti all’interno
del codice civile non si trova nessuna disciplina sul nesso causale, tale disciplina è
contenuta negli articoli 40 e 41 del codice penale (c.p).

Articolo 40 del codice penale “rapporto di causalità”:


1. Nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come reato, se
l’evento dannoso o pericoloso, da cui dipende l’esistenza del reato, non è conseguenza
della sua azione od omissione.
2. Non impedire un evento, che sia l’obbligo giuridico di impedire, equivale a
cagionarlo.
Articolo 41 del codice penale “concorso di cause”:
1. Il concorso di cause preesistenti o simultanee o sopravvenute, anche se
indipendenti dall’azione od omissione del colpevole, non esclude il rapporto di causalità fra
l’azione od omissione e l’evento.
2. Le cause sopravvenute escludono il rapporto di causalità quando sono state da sole
sufficienti a determinare l’evento. In tal caso, se l’azione od omissione precedente
commessa costituisce per se è un reato, si applica la pena per questo stabilita.
3. Le disposizioni precedenti si applicano anche quando la causa preesistente o
simultanea o sopravvenuta consiste nel fatto illecito altrui.

Gran parte della giurisprudenza si è persuasa che oltre ad esservi la causalità materiale vi
sia anche un secondo nesso causale chiamato nesso di causalità giuridica che intercorre
tra il primo danno (danno primario) e i danni consequenziali. La mia conclusione è
differente ossia l’unica causalità è la causalità materiale detta anche causalità del fatto; la
cosiddetta causalità giuridica non è invece causalità. La causalità materiale si ha quando
non si può stabilire che quel pregiudizio è derivato dalla condotta del danneggiante, quindi
da controparte. Il diritto non essendo una scienza empirica, più precisamente causalistica,
non può determinare in base a delle leggi precostruite se la condotta del danneggiante
costituisca conditio sine qua non dell’evento (dal lat. trad. condizione necessaria).
Quest’operazione è possibile grazie a un’operazione di finzione mentale da parte del
giudice che deve mentalmente ipotizzare che la condotta del convenuto non vi sia stata, e
se pur eliminando mentalmente tale condotta, il danno si sarebbe comunque provocato
non vi é nesso di causalità; se invece eliminando la condotta del convenuto il danno non si
sarebbe provocato o si sarebbe verificato ma in termini più lievi, allora c’é nesso di
causalità.
Per compiere quest’operazione il giudice deve applicare leggi scientifiche che si ricavano
dalla branca del sapere a cui si riferisce l’evento dannoso di cui si tratta: se è un evento
sanitario si farà riferimento alla scienza medica, se si tratta di un incidente stradale si farà
riferimento alla cinetica e così via.
L’articolo 1223 non detta regole causali, non determina il rapporto di derivazione dei danni
consequenziali dal danno primario. Questa norma intende dire che i danni consequenziali
sono risarcibili se legati al danno primario da una base giuridica giustificativa, ovvero
quando si presuppone che la causalità sia legata a un comportamento umano, a un
evento sotto il controllo dell'uomo. Ciò significa che non sono risarcibili tutti quei danni che
si producono a seguito dell’inadempimento, ma soltanto quelli che sono collegati da un
rapporto di verosimiglianza, di probabilità.
[Criterio di giudizio civile: più probabile che non; criterio penale: oltre ogni ragionevole
dubbio]
L’articolo 1223 dunque é suscettibile di due letture: una tradizionale, secondo cui la norma
regola un nesso di causalità detta giuridica, che intercorre tra il primo danno e il danno
consequenziale; l’altra lettura (quella corretta secondo Piraino) ritiene che la norma
nonostante usi un linguaggio causalistico, non è una regola sulla causalità, perché l’unica
causalità è quella che intercorre tra condotta e danno, non quella che intercorre nei
rapporti tra danni.
Esempio - Se il mio datore di lavoro mi licenzia per un grave errore professionale che in
realtà io non ho commesso e a seguito del mio licenziamento il mio compagno decide di
divorziare da me: provato che l’errore non è a me imputabile, io avrò diritto a ricevere il
risarcimento del danno per il licenziamento ma non potrò pretendere il risarcimento
consequenziale per le spese del mio divorzio -
Quindi il nesso di causalità che deve intercorrere tra il danno primario e i danni
consequenziali, è quello del più probabile che non.
Il 1223 si deve leggere con il 1225 “Prevedibilità del danno“: “Se l’inadempimento o il
ritardo non dipende da dolo del debitore, il risarcimento è limitato al danno che poteva
prevedersi nel tempo in cui è sorta l’obbligazione”.
Quindi tale norma stabilisce che è risarcibile soltanto il danno prevedibile al momento in
cui è sorta l’obbligazione; la prevedibilità evoca l’idea che quel danno debba essere
coerente con l’oggetto dell’obbligazione. Soltanto nel caso di dolo sarà possibile
domandare anche il risarcimento dei danni imprevedibili. La norma viene letta da qualcuno
come una norma sanzionatoria ma il diritto privato, per regola generale, non sanziona, la
verità è che quando il debitore volontariamente non adempie essendo evidente che sta
perseguendo una strategia che va oltre gli interessi dell’oggetto dell’obbligazione, allora é
ragionevole che anche il risarcimento deve andare oltre gli interessi dell’oggetto
dell’obbligazione ed estendersi al danno imprevedibile.
La causalità materiale è utile per individuare il soggetto nei confronti dei quale agire in
responsabilità, quindi serve a stabilire chi sia l’autore di quel danno. Ovviamente nella
responsabilità contrattuale non è necessario individuare chi sia il danneggiante perché
ovviamente è il debitore inadempiente, in quanto la responsabilità contrattuale nasce dal
fallimento di un preesistente rapporto che intercorre tra il creditore danneggiato e il
debitore danneggiante. Nella responsabilità contrattuale non vi è il problema di individuare
l’autore del danno perché ovviamente è preindicato, mentre è necessario nella
responsabilità aquiliana o ‘la responsabilità del passante’ o ‘la responsabilità del quisque
de populo’. Un ulteriore differenza è che, per l’appunto, nel caso di responsabilità
contrattuale il regime di responsabilità è più agevole, con un onere probatorio meno
gravoso rispetto alla responsabilità aquiliana.
Il confine tra responsabilità contrattuale e responsabilità extracontrattuale è molto incerto,
esempio: i danni all’interno della famiglia, come un coniuge che malmena o vessa l’altro
coniuge; il giudice sarà più incline a codificarli come aquiliani ma riflettendoci bene sono
tutti danni di natura contrattuale, perché sono dei danni nati dal fallimento del rapporto
preesistente di coniugio. Quindi possiamo parlare di responsabilità contrattuale nonostante
tra i coniugi non vi siano obbligazioni ma solo obblighi poiché la formula responsabilità
contrattuale è un sineddoche [figura retorica, il termine dal gr. συνεκδοχή (synecdŏche)
der. di συνεκδέχομαι significa «comprendere più cose insieme»] che non riguarda
l’obbligazione che scaturisce da un contratto ma quell’obbligazione che scaturisce da un
qualsiasi obbligo preesistente.
Vi sono delle importanti differenze tra responsabilità aquiliana e responsabilità
contrattuale:
1. Innanzitutto vi è una differenza prescrizionale, l’azione di risarcimento del danno
aquiliano si prescrive in 5 anni, in alcuni casi come nel caso di danni procurati dalla
circolazione di autoveicoli la prescrizione si riduce a 2; mentre la responsabilità
contrattuale si prescrive nel termine ordinario di 10 anni (v. art. 2946).
2. In sede di responsabilità contrattuale non deve essere provata la causalità
materiale come deve essere provata in caso di responsabilità aquiliana. Il danneggiato da
responsabilità aquiliana deve provare di aver subito un danno ingiusto, è l’ingiustizia un
criterio selettivo che non consente di risarcire tutti i pregiudizi.
3. In quella acquigiana inoltre deve essere provato il nesso causale tra il danno e la
condotta del convenuto.
4. Sempre in quella extracontrattuale deve essere provato il dolo o la colpa mentre
nella responsabilità contrattuale no; il thema probandum é alleggerito perché non deve
essere provata la causalità materiale. L’onere della prova gravante sul creditore è stato
ulteriormente alleggerito dall’articolo 2697, la regola generale sulla prova, dice che l’attore
deve provare i fatti posti a fondamento della sua domanda, cioè i fatti positivi, i quali
cambiano da fattispecie a fattispecie.
5. In responsabilità contrattuale il creditore deve solo provare di essere tale, cioè
dimostrare di avere il diritto di credito; per fornire questa prova è necessario e sufficiente
mostrare il titolo del contratto, testamento o quello che sia. Inoltre deve provare che la
prestazione è esigibile, ovvero deve provare che non c’era un termine per adempiere o
che il termine sia spirato. Se si agisce con l’azione di risarcimento del danno si deve
provare il danno.
In passato per quasi cinquant’anni, l’opinione prevalente della dottrina giurisprudenziale
era che il creditore doveva provare inadempimento del debitore nelle obbligazioni di mezzi
non invece nell’obbligazioni di risultato, quindi doveva provarlo attraverso i mezzi di prova
legale: testimonianza, documenti, presunzione eccetera.
A partire dagli inizi degli anni 50 invece, la giurisprudenza si è allineata alla dottrina,
formata in Italia, secondo cui il creditore si deve limitare semplicemente ad allegare
l’inadempimento cioè descrivere in maniera circostanziata la condotta l’inadempimento di
controparte.
Perché si è passati da un onere già leggero a carico del creditore rispetto al danneggiato
quiliano ad un onere ancora più leggero in sede di responsabilità contrattuale.
In passato si riteneva che il creditore quando agiva per ottenere il risarcimento del danno
contrattuale, dovesse provare l'inadempimento del debitore; con il tempo questa regola è
stata attenuata grazie alla distinzione tra obbligazioni di mezzi e obbligazioni di risultato.
In base a questa distinzione se l'obbligazione è qualificata come di risultato, il creditore
può limitarsi ad allegare che aveva diritto ad ottenere un risultato e che non l'ha ottenuto,
perché appunto l'obbligazione é finalizzata a produrre uno specifico e ben individuato
risultato, non è quindi necessario per il creditore provare quale sia l'errore del debitore e
perché il risultato x non sia stato conseguito.
Nelle obbligazioni di mezzi invece, il debitore si obbliga a porre in essere una determinata
condotta improntata sul leges artis ossia sul sapere scientifico, tecnologico, tecnico o
comunque esperienziale, di quel determinato settore. Come ad esempio il caso del
medico, dell'avvocato, dell'amministratore, del manager: provare che vi sia stata mala
gestio da parte di quest'ultimi è particolarmente complesso perché si devono dimostrare
errori abbastanza marchiani di plain industriale che debbano prescindere da altri fattori
economici esterni.
Questa distinzione tra obbligazioni di mezzi e obbligazioni di risultato, è stata messa in
discussione poiché basata su un presupposto fallace ovvero quello che vi siano
obbligazioni in cui prevalga l’uno o l’altro, mentre sappiamo che in tutte le obbligazioni il
risultato è necessario e dovuto; soltanto che nelle obbligazioni dette di risultato
quest'ultimo è predeterminato e nelle obbligazioni dette di mezzi il risultato non può
essere stabilito ex ante, perché dipende da una serie di fattori non tutti determinabili dal
debitore. Quindi è possibile che nelle obbligazioni di mezzi, il risultato finale non coincida
con la piena realizzazione dell'interesse per il quale il creditore ha acquistato il credito.
Questa distinzione si basava sul leggero onere della prova in capo al creditore di risultato
e sul più complesso onere della prova a carico del creditore di mezzi in quanto controparte
sono professionisti intellettuali. Alla base di ciò vi sono due giustificazioni: una benevola e
una malevola. Quella malevola e non del tutto vera, é che i codici civili sono prodotto del
ceto borghese, che fino alla prima metà del 900 era difatto il ceto che componeva il
governo e il parlamento. La politica era composta da professionisti, intellettuali, ricchi
possidenti, ragion per cui tale malevola giustificazione si basa sull’idea che si tratti di una
legge ad personam, fatta da coloro a cui questa si riferiva e quindi una norma ad hoc, con
un onere probatorio che andasse a loro beneficio.
La ragione benevola invece, nonché quella più veritiera, è che il professionista intellettuale
adempiendo alle sue obbligazioni concorre all'avanzamento delle conoscenze. Il
professionista che si obbliga ad applicare il sapere scientifico non sempre deve o può
applicare il sapere certo, il sapere pregresso. Per progredire, per ampliare il sapere futuro
sfruttando il sapere acquisito, passato, il professionista necessita di una certa area di
“discrezionalità” o meglio quell’area in cui possa utilizzare il sapere tecnico per individuare
mezzi nuovi, migliori, che ampliano la conoscenza. Ciò é un fatto che nasce, non dalla
vena narcisista della classe intellettuale ma appunto da ragioni di fatto.
Il professionista/ intellettuale spesso é chiamato a risolvere problemi non conosciuti,
ragion per cui é indotto ad applicare un sapere incerto che ricava da quello pregresso e
dall’esperienza tecnica. Questa, che potremmo chiamare sperimentazione intellettuale,
permette di produrre un utilità sociale più che rilevante, che determina l'avanzamento della
conoscenza, oltre che realizzare, nei migliori dei casi, un risultato per il debitore, più che
soddisfacente e corretto. Se le regole di responsabilità fossero troppo rigorose il medico
sarebbe disincentivato dal tentare interventi all’avanguardia.
Questa è la vera giustificazione razionale. Nel nostro ordinamento la regola finalizzata ad
attenuare il rigore del regime di responsabilità, quando il debitore-intellettuale deve
applicare un sapere incerto é sancita dall'articolo 2236: “Se la prestazione implica la
soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà, il prestatore d'opera non risponde dei
danni, se non in caso di dolo o di colpa grave”.
Ciò significa che quando il debitore professionista/ intellettuale, deve applicare sapere
incerto, è altamente probabile che possa lasciare insoddisfatto il creditore o addirittura
provocargli dai danni, ma proprio perché applica sapere incerto, non è chiamato a
risponderne; tranne che il danno ovviamente non derivi da dolo, cioè da un
comportamento volontario o da colpa grave. Il debitore che abbia sbagliato quel
segmento di prestazione che è coperto da sapere certo, risponde per quel segmento.
Un esempio è il caso del dottore che deve effettuare un intervento chirurgico sperimentale
e sbaglia ad effettuare l'anestesia. Avendo sbagliato l'unico frammento di prestazione
coperto da sapere certo, sarà tenuto al risarcimento del danno perché è in colpa grave.
Quindi applicando l'articolo 2236, in Italia non era necessario importare dalla dottrina
francese teorizzata da René de Mog, la distinzione tra obbligazioni di mezzi e di risultati.
In Italia tutte le obbligazioni svolte da professionisti intellettuali, come tutte le altre
obbligazioni, sono governate dall'articolo 1218; quindi il debitore risponde se il creditore è
insoddisfatto a meno che, in applicazione del 2236, quella singola obbligazione non sia
caratterizzata dall'applicazione di sapere incerto. L'errore di fondo che si annida tra la
distinzione di obbligazioni di mezzi e obbligazioni di risultato è quella di pretendere che la
categoria di obbligazioni di fare professionale siano tutte caratterizzate dall'assenza di un
risultato specifico. Questa è la teorizzazione che Mengoni ha fornito nel suo saggio
Obbligazioni di mezzi e obbligazioni dei risultati studio critico del 1954.
Tale concezione è stata riconosciuta dalla Corte di Cassazione nel 2008 tramite la
Sentenza celeberrima della Corte di Cassazione Civile a Sezioni Unite dell’11 gennaio del
2008, numero 567.
Caso: Tizio si reca presso una struttura sanitaria per essere sottoposto ad una trasfusione.
La trasfusione viene eseguita e dopo qualche mese emergono i sintomi dell'epatite. Il
creditore paziente quindi agisce nei confronti della struttura e dei medici che l'avevano
curato per inadempimento contrattuale, in quanto aveva subito una trasfusione di sangue
infetto. I medici si difendono invocando il fatto che la loro obbligazione fosse una
obbligazioni di mezzi e che probabilmente alla data del ricovero Tizio aveva già, seppur in
stato di incubazione, la malattia. Inoltre specificano che anche se gli esami ematici non
avevano dato valori dai quali si poteva diagnosticare la malattia, non era detto appunto,
che il paziente avesse già contratto l'epatite. Gli esami non erano dunque indice certo in
quanto esista un periodo in cui l'epatite é del tutto asintomatica. In questo caso è difficile
tabilire quale sia la causa del danno e se il danno è preesistente o se è dovuto
all'inadempimento dei medici. Qui tutto dipende dal soggetto su cui grava l'onere della
prova dell'inadempimento, se sul creditore paziente o se sul debitore professionista. Se
l'onere della prova grava sul creditore paziente, egli deve dimostrare l'inadempimento del
debitore; se invece il creditore deve semplicemente limitarsi a descrivere, cioè ad allegare
l'inadempimento, é onere del debitore convenuto provare di avere adempiuto o provare
l'impossibilità sopravvenuta della prestazione e che quindi l'onere della prova si ripercuota
a carico del creditore. In questo caso la Cassazione sovverte il giudizio del giudice
d'appello che aveva respinto la domanda del risarcimento del danno, affermando che la
distinzione tra obbligazioni di mezzi e di risultato va accantonata.
Tutte le obbligazioni sono caratterizzate da un risultato e da una condotta strumentale per
realizzarlo ossia dai mezzi, questo si traduce col fatto che spetterà al debitore provare di
aver adempiuto e il creditore potrà limitarsi soltanto ad allegare. Questa è la sentenza che
ha archiviato per la nostra giurisprudenza, la distinzione tra obbligazioni di mezzi e di
risultati. La Cassazione arriva a questa conclusione perché fa applicazione di una
precedente sentenza del 30 ottobre 2001 numero 13.533, è la famosa sentenza sulla
distribuzione dei temi di prova nei giudizi fondati sull inadempimento.

Sentenza 30 ottobre 2001 n. 13.533


Caso: un'associazione culturale americana stipula un contratto con un albergo, con il
quale si impegna ad insonorizzare la parete divisoria per evitare che l'attività del centro
culturale possa disturbare i clienti dell'albergo. Il contratto prevedeva anche una penale
nel caso in cui l'associazione culturale si fosse rivelata inadempiente, queste clausole
penali sono regolate dagli articoli 1382 e seguenti, le quali determinano l'ammontare del
risarcimento qualora il contratto venga violato.
L'albergo agisce nei confronti dell'associazione culturale ritenendo che quest'ultima fosse
stata inadempiente e i giudici di merito danno torto all'albergo, affermando che non fosse
stato provato l'inadempimento, perché la struttura alberghiera si era limitato soltanto ad
allegarlo non fornendo nessuna prova della mancata realizzazione dell’insonorizzazione.
La Cassazione sovverte questo esito affermando che in tutti i giudizi fondati sull
inadempimento, il creditore debba limitarsi a provare il titolo, cioè l'esistenza del diritto, la
scadenza del termine o l'assenza del termine quindi la sua esigibilità e limitarsi ad allegare
l'inadempimento.
Precedentemente si riteneva che i mezzi di prova si distinguessero in base alle richieste,
ovvero se il creditore richiedeva l'adempimento in natura o la risoluzione del contratto,
salvo sempre il risarcimento del danno. Nel caso di richiesta di adempimento in natura il
creditore doveva solo provare il titolo e l'esigibilità, allegando l'inadempimento, mentre nel
caso di risoluzione il creditore doveva anche fornire la prova dell'inadempimento.
Con questa sentenza il creditore viene esonerato, tanto che agisca per l'adempimento in
natura, tanto che agisca per risoluzione, senza così dover fornire la prova
dell'inadempimento.
La ratio decidendi cu cui si fonda questa sentenza si articola in tre ratio:
1. Principio negativa non sunt probanda: ciò significa che sei fatti negativi, cioè gli eventi
che non si sono verificati, non devono essere provati perché sono complessi da provare;
deve essere il debitore a provare il fatto positivo, quindi l'adempimento o l'impossibilità
sopravvenuta della prestazione derivante da causa a lui non imputabile.
2. Seconda ratio: la presunzione di persistenza del diritto legata alla prova del credito. Una
volta che il creditore prova il titolo, ossia il diritto ad ottenere un incremento patrimoniale o
il soddisfacimento di un interesse non patrimoniale, si presume la sussistenza del diritto,
volendo essere specifici, si presume che il creditore stia ancora aspettando; spetterà al
debitore provare di aver soddisfatto l’interesse, anche per questo il debitore si fa rilasciare
la quietanza.
3. La vera ratio decidendi, secondo Piraino, è il principio di vicinanza della prova, un
principio di economia giuridica, per cui la prova di determinati fatti vada addossata al
soggetto che con più facilità la può fornire.
Di norma il creditore per provare che il debitore non ha adempiuto, incontra ostacoli più
consistenti, perché deve entrare nella sua sfera giuridica mentre si rivela più facile per il
debitore provare di avere adempiuto, perché tale prova si esaurisce nella propria sfera
giuridica.
Gli argomenti a cui la Corte adduce sono l'articolo 1218, per cui se il debitore non esegue
esattamente la prestazione è tenuto al risarcimento del danno, e il 1453:
“Nei contratti con prestazioni corrispettive, quando uno dei contraenti non adempie le sue
obbligazioni, l'altro può, a sua scelta, chiedere l'adempimento o la risoluzione del
contratto, salvo, in ogni caso, il risarcimento del danno”.
Secondo quanto disposto dall'articolo 1453 la risoluzione può essere domandata anche
quando il giudizio è stato promosso per ottenere l'adempimento, ma non può chiedersi
l'adempimento quando è stata domandata la risoluzione.
L'articolo 1453 non distingue i rimedi qualora venga chiesto adempimento, risoluzione o
risarcimento del danno, quindi viene accantonata quella concezione secondo cui l'onere
probatorio, nel caso di richiesta di risoluzione, debba essere più gravoso nei confronti del
creditore; quindi per lui sarà necessario soltanto provare il titolo, l'esigibilità e allegare
l'inadempimento. Quindi secondo la Cassazione l'onere della prova è il medesimo in tutti i
giudizi fondati sull’inadempimento (sia che si chieda adempimento in natura, risoluzione
del contratto che risarcimento del danno) e va parametrato a quello più leggero per il
creditore dato che tutti i rimedi contro l’inadempimento presuppongono la preesistenza del
rapporto obbligatorio tra danneggiato e danneggiante.

L'articolo 1226 sancisce: “Se il danno non può essere provato nel suo preciso ammontare,
è liquidato dal giudice con valutazione equitativa”.
Cio vuol dire che al creditore spetta l’an del danno non il quantum, Quindi il creditore
assolve al proprio onere probatorio dimostrando che ha subito il danno ma non è tenuto a
dimostrare l'entità del danno stesso cioè il suo ammontare. Il danno non patrimoniale è un
danno non oggettivo che riguarda la persona, in tal caso la valutazione del risarcimento è
rimessa al giudice tramite una valutazione equitativa.
Dai manuali viene descritta equità come la giustizia nel caso concreto. Il giudice può
decidere secondo equità soltanto quando la legge lo autorizza, cioè il giudice può decidere
senza indicare una norma specifica, analitica o più norme, sulla quale ha fondato la sua
decisione.
Nella regola generale il giudice è soggetto soltanto alla legge, ciò significa che non può
essere condizionato dal potere politico e che il giudice deve fondare le proprie decisioni su
regole preesistenti, quindi su base normativa, su disposizioni iscritte onde evitare un
potere incontrollato.
Quando il giudice è utorizzato a decidere secondo equità, non decide secondo il proprio
gusto. Le sue decisioni saranno sganciate da un fondamento normativo specifico. Il
giudice fonderà la sua decisione sulle caratteristiche della controversia tenendo conto
dell'ordinamento nel suo complesso, dei principi e dell'ordine pubblico, senza dover porre
a fondamento delle norme. Per ribadire, é chiaro che per la sua decisione, il giudice pur
sempre dall’ordinamento attingerà, da principi esistenti. ( È il caso ad esempio del
risarcimento del danno legato alla lesione della dignità e dell'onore (semplicemente non
cita gli articoli, quindi non si basa su norme specifiche).

Lezione 3 maggio
Art. 1227 Concorso del fatto colposo
Art.1228 Responsabilità per fatto degli ausiliari
________________________________________
Allora per completare la disciplina della responsabilità contrattuale si devono analizzare tre
importanti disposizioni.
L’articolo 1227 “Concorso del fatto colposo” sancisce:
“1. Se il fatto colposo del creditore ha concorso a cagionare il danno, il risarcimento è
diminuito secondo la gravità della colpa e l'entità delle conseguenze che ne sono derivate.
2. Il risarcimento non è dovuto per i danni che il creditore avrebbe potuto evitare usando
l'ordinaria diligenza.”

Questa disposizione contiene due norme differenti al primo e al secondo comma.


La norma del primo comma afferma che il risarcimento del danno va ridotto se il danno
deriva, oltre che dall'inadempimento del debitore, anche dal concorso colposo del
creditore. Questo è un fenomeno di concorso della causazione del danno dovuta al
comportamento sbagliato del creditore, che quindi comporterà la riduzione del
risarcimento in base a quanto grave sia stata la sua negligenza, imprudenza, imperizia.
Il secondo comma invece e non enuncia una regola differente, legata al contrasto del
comportamento contraddittorio.
Il debitore inadempiente ha sì causato un danno, ma questo danno poteva essere evitato
dal creditore se avesse adottato la diligenza media. Non sempre gli inadempimenti sono
dannosi, come ad esempio il caso del Corriere che consegna un bene con tre giorni di
ritardo, questo non causa nessun danno. Se ad esempio il debitore consegna dei materiali
acidi in contenitori non sigillati adeguatamente e il creditore non pone in essere nessuna
condotta per evitare le fuoriuscite di questi materiali, con il conseguente danneggiamento
degli altri materiali presenti nel magazzino, il creditore non potrà richiedere il risarcimento
del danno. La ratio di questa norma è quella di censurare il comportamento contraddittorio
del creditore che prima si mostra totalmente disinteressato alla prestazione, al punto di
non adottare nemmeno gli accorgimenti minimi e poi però si lamenta del conseguente
danno e della prestazione inesatta chiedendo il risarcimento del danno.

Altra importante norma é l'articolo 1228.


Art.1228. Responsabilità per fatto degli ausiliari: “Salva diversa volontà delle parti, il
debitore che nell'adempimento dell'obbligazione si vale dell'opera di terzi, risponde anche
dei fatti dolosi o colposi di costoro”.
Questa norma disciplina le conseguenze che derivano dal ricorso agli ausiliari. Il termine
ausiliare è generico e va ad indicare qualsiasi collaboratore del debitore legato da
qualsiasi forma giuridica, può essere un lavoratore subordinato, o libero professionista,
l'organizzazione d'impresa e così via. Quando il debitore si avvale di ausiliari egli risponde
di tutte le forme di inadempimento e di danno che derivano dalla condotta dolosa o
colposa dell'ausiliare. Risponde anche qualora il debitore abbia impartito tutte le istruzioni
più corrette, volte ad evitare un qualsiasi errore del ausiliario. Il debitore sarà assoggettato
all'adempimento in natura e dovrà risarcire il danno. Solo dopo potrà eventualmente
rivalersi nei confronti del suo ausiliario invocando la sua responsabilità dovuta al
precedente rapporto che lega debitore e ausiliario.

Entrambi questi articoli valgono sia per la sentenza del nascituro 25.767/2015, sia per la
sentenza 577 del 2008. Nel primo caso il paziente/creditore ossia il nascituro, nel secondo
caso il paziente sottoposto a trasfusione. In questi casi il creditore ha agito nei confronti
dell'azienda ospedaliera, perché un errore medico è inadempimento della struttura
ospedaliera, quindi il paziente ha agito ai sensi dell'articolo 1218 ‘Responsabilità del
debitore’ e dell’art.1228 ‘Responsabilità per fatto degli ausiliari’; a sua volta la struttura
aggira nei confronti del medico.
In questi casi i pazienti hanno inoltre agito anche nei confronti dei medici dipendenti per
responsabilità a titolo personale dell'ausiliario. In passato questo tipo di azione si sarebbe
configurata come un'azione di responsabilità extracontrattuale, perché non vi è un
rapporto contrattuale che lega medico e paziente ma lega il medico con la struttura di
lavoro e la struttura di lavoro con il paziente creditore. Dagli anni 90 però la giurisprudenza
recependo la costruzione teorica di Carlo Castronovo, ha qualificato quest’azione diretta
nei confronti del medico dipendente, come un'azione di natura contrattuale in virtù di quel
contratto sociale che si instaura tra paziente e medico. Castronovo dice che nonostante
non vi sia un rapporto contrattuale tra medico e paziente, vi é una relazione socialmente
rilevante che si basa sull'affidamento legittimo che nasce in capo al creditore nei confronti
del medico debitore per il suo alto livello di professionalità. Questo affidamento è rilevante!
in quanto fa scattare buona fede in senso oggettivo. La giurisprudenza é un pò meno
sofisticata rispetto alla spiegazione di Castronovo, il rapporto tra medico/dipendente e
paziente/creditore basato sul contratto sociale per la Cassazione costituisce un'altro atto o
fatto idoneo a far sorgere obbligazione. Quindi nel momento in cui si stipula un contratto
con la struttura sanitaria il paziente diventa creditore nei confronti dell'azienda ospedaliera
sulla base del contratto e nei confronti del singolo medico sulla base del contratto sociale.
Da un punto di vista concettuale la ricostruzione di Castronovo (affidamento legittimo-
contratto sociale) è più corretta rispetto a quello della giurisprudenza {dice il nostro
carissimo Fabrizio}. Si tratta di un tipo di responsabilità però, che viene spesso sollevata
nei confronti del medici e non di altri dipendenti, perché la classe dei medici è una classe
abbiente; è in azione legata solo a un fatto di Deep Pocket ossia vasca profonda, nel
senso che il medico rispetto ad altri lavoratori dipendenti ha un patrimonio su cui il
creditore si può soddisfare.

L’art. 1229. ‘Clausole di esonero da responsabilità’ sancisce:


1. E' nullo qualsiasi patto che esclude o limita preventivamente la responsabilità del
debitore per dolo o per colpa grave.
2. E' nullo altresì qualsiasi patto preventivo di esonero o di limitazione di responsabilità per
i casi in cui il fatto del debitore o dei suoi ausiliari costituisca violazione di obblighi derivanti
da norme di ordine pubblico.

L'articolo 1229 regola i patti o le clausole di esonero totale o parziale della responsabilità
del debitore, escludendo i casi di responsabilità dovuti a dolo o colpa grave. Un esempio è
il cartello che troviamo negli spogliatoi delle palestre: “la palestra non è responsabile di ciò
che viene lasciato all'interno degli armadietti dello spogliatoio”. Questo è un accordo di
esonero della responsabilità ma ovviamente non lo é se il furto sia perpetrato da uno dei
dipendenti della palestra. I patti che escludono del tutto o limitano la responsabilità, sono
validi ma diventano nulli se si estendono anche agli inadempimenti dolosi oppure
gravemente colposi. Inoltre sono nulli tutti quei patti per cui il fatto del debitore o dei suoi
ausiliari costituisca violazione di obblighi derivanti da norme di ordine pubblico.

Le modificazioni del lato attivo del rapporto obbligatorio


Surrogazione e Cessione.
Cessione:
________________________________________
Le modificazioni del lato attivo del rapporto obbligatorio sono la surrogazione e la cessione
del credito. La cessione del credito è un trasferimento del diritto da parte del titolare
chiamato cedente a favore di un nuovo soggetto che viene chiamato cessionario che
acquisterà il diritto. il diritto di credito come tutti i diritti soggettivi è disponibile e quindi può
essere ceduto: questo è un atto di disposizione. La cessione del credito è regolata dagli
articoli 1260 e seguenti. Questi articoli non disciplinano l'atto di cessione in sé, non si
pongono il problema di quale sia la ragione della cessione (un credito può essere ceduto a
titolo oneroso, a titolo di donazione, ceduto per estinguere un precedente credito, come la
dazio solutum). Ma disciplina le conseguenza che questo atto di trasferimento determina
sull’ obbligazione. L'atto di cessione è un atto esclusivo del creditore ma essendo un
diritto relativo e quindi coinvolgendo anche la sfera giuridica del debitore, deve regolarsi
sotto questo profilo relazionale.

La disciplina della cessione del credito esordisce con l'articolo 1260:

“1. Il creditore può trasferire a titolo oneroso o gratuito il suo credito, anche senza il
consenso del debitore, purchè il credito non abbia carattere strettamente personale o il
trasferimento non sia vietato dalla legge.
2. Le parti possono escludere la cedibilità del credito; ma il patto non è opponibile al
cessionario, se non si prova che egli lo conosceva al tempo della cessione.”

Quindi questo articolo regola la fattispecie per cui il creditore cedente, cede ad un terzo
cessionario il proprio credito senza il consenso da parte del debitore.

I crediti non cedibili sono quelli di natura strettamente personale e i crediti dichiarati
impignorabili cioè indisponibili. I crediti impignorabili come lo stipendio o la pensione da cui
dipende il sostentamento dell'individuo, sono pignorabili solo nella misura di 1/5 e quindi
solo in base a questa misura possono essere ceduti. Non possono essere ceduti i crediti
di carattere strettamente personale in quanto tali crediti sono finalizzati a realizzare un
interesse specifico del creditore di natura fondamentalmente esistenziale.
Un esempio è dato dall'articolo 433 cc che stabilisce che quando un individuo versa in uno
stato di bisogno, cioè uno stato di indigenza, per cui non ha le risorse per appagare i
propri bisogni esistenziali, vengono individuati una serie di soggetti che sono obbligati a
prestare alimenti.

Il secondo comma stabilisce che creditore e debitore possono pattuire la non cedibilità del
credito, questo accordo si chiama pactum de non cedendo. Questo accordo può essere
stipulato perché il debitore ha interesse ad essere debitore proprio di quel creditore;
esempio fornitore pneumatici della Ferrari che ha interesse a rimanere debitore della
Ferrari. Tale accordo però non inibisce la possibilità al creditore di cedere il proprio credito,
la cessione sarà efficace ma il creditore incorrerà in responsabilità contrattuale perché ha
violato un proprio obbligo di non fare nei confronti del debitore.

L'articolo 1261 “Divieti di cessione”: i divieti di cessione riguardano alcuni soggetti che non
possono rendersi cessionari di taluni crediti; tutti i soggetti elencati nell'articolo sono
perlopiù pubblici ufficiali, magistrati, cancellieri, segretari di cancelleria, avvocati, notai, i
quali non posso rendersi cessionari di un credito litigioso, ossia un credito controverso
perché si dubita del fatto che esso esista o che esso sia stato adempiuto. Tali soggetti
prestando servizio presso la Corte d'appello, dinanzi alla quale pende la controversia
relativa a quel credito, potrebbero influenzare l'esito del giudizio.
L'articolo 1262 “Documenti probatori del credito” decreta che il creditore che cede il
proprio credito, deve trasferire anche i documenti probatori a sostegno dell'esistenza di
quel credito.
L'articolo 1263 “Accessori del credito” stabilisce che il credito si trasferisce con tutti i suoi
privilegi se munito di pegno o ipoteca e si trasferiscono anche le garanzie personali.

L'articolo 1264 “Efficacia della cessione” riguarda il debitore ceduto e chiarisce quale sia la
posizione del debitore:
“1. La cessione ha effetto nei confronti del debitore ceduto quando questi l'ha accettata o
quando gli è stata notificata.
2. Tuttavia, anche prima della notificazione, il debitore che paga al cedente non è liberato,
se il cessionario prova che il debitore medesimo era a conoscenza dell'avvenuta
cessione.”

La cessione del credito diventa efficace nel momento in cui è stata notificata al debitore
ceduto, cioè è venuto a conoscenza del debitore tramite quella forma di comunicazione
ufficiale che avviene tramite la notifica per ufficiale giudiziario, oppure quando il debitore lo
accetta. L'opponibilità è una forma di efficacia particolare in quanto alcuni atti anche se già
di per sé efficaci, diventano efficaci nei confronti di alcuni soggetti solo dopo che sono stati
assolti e determinati gli oneri. Ciò significa che finché la cessione non sia stata notificata al
debitore o non vi sia stata fatta accettare, il debitore ceduto si può liberare pagando nelle
mani del cedente, anche se non è più creditore (ipotesi di pagamento al creditore
apparente). Nell'ipotesi in cui la cessione non sia stata notificata e non sia stata fatta
accettare al debitore, quest'ultimo non è comunque venuto a conoscenza, il debitore
ceduto non potrà liberarsi pagando al cedente. Se dovesse pagare al cedente risulterebbe
un indebito e quindi dovrà recuperare la prestazione per effettuarla nei confronti del
cessionario. Questo istituto dell'opponibilità, insieme a quello della trascrizione, esige che
un atto per essere efficace nei confronti di una determinata categoria di soggetti, debba
essere soggetto ad un onere aggiuntivo. L'opponibilità é un'efficacia rafforzata e per
ottenerla è necessario un adempimento ulteriore, che in questo caso è ottenere
l'accettazione del ceduto o la notificazione.

L'articolo 1265 “Efficacia della cessione” riguardo ai terzi regola la fattispecie in cui il
cedente trasferisca il credito a più cessionari, l'articolo 1265 sancisce che a prevalere è il
creditore che per primo ha assolto all'onere di notificare o fare accettare la cessione al
debitore ceduto, dato che non vi è un sistema pubblicitario i conflitti tra due o più aventi
causa dello stesso dante causa, si dirimono stabilendo che non prevale colui il quale ha
acquistato il credito per primo, ma il creditore che per primo abbia fatto accettare o abbia
notificato la cessione al debitore ceduto, con atto avente data certa anche se egli abbia
acquistato il credito in epoca successiva.

Art. 1266, Garanzia pro-soluto: (legale, automatica) il cedente assicura al cessionario


unicamente che il credito esista e la garanzia scatta nell’eventualità in cui il credito viene
meno a causa di motivi che, ad esempio, rendono il contratto nullo. Il cedente dovrà
restituire al cessionario quanto ha pagato per ottenere il credito. La garanzia ha una
portata minore nel caso in cui la cessione avvenga a titolo gratuito.

Art. 1267, Garanzia pro-solvendo: (aggiuntiva, che va concordata) il cedente oltre ad


assicurare al cessionario che il credito esista, ma addirittura garantisce che il debitore sia
solvibile, non che adempia (il che dipende dalla volontà del debitore) ma che il debitore
abbia un patrimonio sufficiente con cui il cessionario possa soddisfarsi forzosamente.

Tutte le cessioni bancarie, sono pro-solvendo. E se la banca non riesce a ottenere, dal
debitore ceduto, la somma, nemmeno agendo esecutivamente (esecutivamente:
esecuzione forzata) allora addebiterà la somma al cedente. Dunque, in questo caso la
garanzia si traduce nel fatto che il cedente, nel caso in cui il cessionario abbia sottoposto
inutilmente a esecuzione forzata il patrimonio del debitore ceduto, risponde nei limiti di
quanto ha ricevuto (deve restituire il corrispettivo in tutto o in parte).

Inoltre, la garanzia pro-solvendo, consente al cessionario di recuperare: il corrispettivo, gli


interessi, le spese della cessione e le spese per escutere il debitore ceduto.
Art. 1267, comma 2: si decade da tale garanzia, quando il cedente ha garantito la
solvenza, la garanzia cessa (si decade) se la mancata realizzazione del credito per
insolvenza del debitore, è dipesa dalla negligenza con il quale il cedente ha agito nei
confronti del debitore ceduto, consentendo a tutti gli altri creditori di spolpare il patrimonio
del debitore, di ciò non ne può rispondere il cedente.

MODIFICAZIONI DEL LATO PASSIVO DEL RAPPORTO OBBLIGATORIO


Delegazione. Espromissione. Accollo.

Delegazione:
________________________________________
Si ha quando il debitore originario (delegante) assegna al suo nuovo creditore
(delegatario) un nuovo debitore (delegato) il quale si obbliga nei confronti del creditore
delegatario alla medesima prestazione a cui è tenuto il debitore originario delegante.
L’impegno è una ipotesi di promessa unilaterale, fonti tipiche delle obbligazioni. Il delegato
promette al delegatario, su sollecitazione del delegante, ad adempiere la stessa
prestazione che deve fare il delegante nei confronti del delegatario. L’obbligazione
originaria, a seguito della delegazione, diventa solidale. La modificazione che si realizza è
collegata al fatto che delegante e delegato sono obbligati in solido nei confronti del
delegatario, ad effettuare la medesima prestazione. L’obbligazione da semplice si
trasforma in obbligazione solidale: il credito quando si è obbligati in solido significa che il
creditore può rivolgersi a una pluralità di soggetti ai quali può chiedere l’intera prestazione
con effetti liberatori nei confronti di tutti. Per il creditore vi è un vantaggio: una doppia
garanzia perché in tal caso ha due creditori. Art.1268, delegazione cumulativa: il creditore
delegatario all’atto dell’assunzione del debito da parte del delegato, può liberare il debitore
delegante, dichiarandolo espressamente, e in questo caso avremo la delegazione
cosiddetta liberatoria.
Art.1268 comma 2: il creditore non è tenuto ad accettare, ma se il creditore accetta
l’impegno da parte del delegato, non può rivolgersi al delegante se prima non abbia
chiesto il pagamento al delegato. Beneficio di prima richiesta: il delegatario non potrà
rivolgere al delegante, se prima non ha chiesto la prestazione al delegato-> chiesto non
escusso!
Se il delegatario accetta l’impegno del delegato, deve prima rivolgersi al delegato e se non
lo fa potrà rivolgersi al delegante. Ma se non accetta, il delegatario si rivolge al delegato o
al delegato indifferentemente.
Il comma 1 dell’art 1268, volendo il delegatario può liberare il delegante, e se cioè avviene
l’obbligazione prosegue con un nuovo debitore-> questa sarebbe una cosiddetta
novazione soggettiva, a cui allude l’art. 1235, ma è inutile creare una figura nuova se
questa figura coincide con un istituto che ha una sua struttura e disciplina autonoma.
Abbiamo 3 scenari possibili di delegazione:
1) il delegato si impegna nei confronti del delegatario ad effettuare la stessa prestazione
del delegante, in questo caso si ha delegazione cumulativa;
2) il creditore delegatario accetta l’impegno del delegato, e scatta il beneficio di prima
richiesta. Il delegatario ha due obbligati in solido, ma prima si rivolge il delegato.
3) il creditore, nel momento in cui il delegato si impegna ad effettuare la prestazione
dovuta dal delegante, dichiara espressamente di liberare il delegante; in questo caso
avremo delegazione liberatoria. produce un effetto novativo, l’obbligazione rimane identica
con un debitore differente.
Delegatio promittendi -> Delegazione di debito, vista nell’art. 1268.
Delegatio solvendi, delegazione di pagamento all’Art. 1269, che non è una modificazione
del lato passivo del rapporto obbligatorio. Il delegante incarica il delegato di effettuare la
prestazione al suo posto, ma il delegato è soltanto un ausiliario, un intermediario, che
effettua la prestazione al posto del debitore: non si obbliga, semplicemente sostituisce il
debitore, ma la prestazione rimane del debitore.
-> Non è un adempimento del terzo che interviene spontaneamente, la delegazione di
pagamento, il delegato è stato sollecitato dal delegante! Non è un intervento spontaneo
(adempimento del terzo), intervento sollecitato da delegante (delegazione di pagamento)
Art. 1269, Il delegato all’adempimento, può obbligarsi verso il creditore, salvo che il
debitore delegante l’abbia vietato.
Dunque, la delegazione di pagamento può trasformarsi in una delegazione di debito:
l’unica possibilità che ciò non avvenga, è che il delegante abbia vietato al delegato di
obbligarsi ad eseguirla. Comma 2, quando il delegante incarica il delegato di sostituirsi a
sé nella prestazione, il terzo non è obbligato ad accettare neppure nel caso in cui abbia a
sua volta un debito nei confronti del delegante. Ma se lo fa, potrebbe decidere di obbligarsi
a prestare e l’obbligazione di pagamento di trasforma in obbligazione di debito, salvo che il
delegante si opponga. Art. 1270, estinzione della delegazione: il delegante può revocare la
delegazione fino a quando il delegato non abbia assunto l’obbligazione nei confronti del
delegatario o fintanto che non abbia eseguito la prestazione. Nella delegazione di debito,
la delegazione non è più revocabile una volta che il delegato assume l’obbligazione nei
confronti del delegatario. Nella delegazione di pagamento, la delegazione non è più
revocabile una volta che il delegato effettua la prestazione.
Art. 1271, eccezioni opponibili dal delegato: in una delegazione di debito, se il delegatario
chiede al delegato la prestazione, il delegato quali eccezioni ha per non adempiere?
Bisogna chiarire: Questo rapporto trilaterale presuppone due rapporti:
- il rapporto di provvista (rapporto tra delegante e delegato).
- il rapporto di valuta (rapporto tra debitore originario delegante e creditore delegatario).
1) Il delegato può sempre opporre al delegatario tutte le eccezioni fondate sul rapporto che
intercorre tra loro due. Se l’atto con il quale il delegato si è obbligato per qualche motivo è
annullabile o nullo, il delegato chiamato a pagare potrà invocare questi fatti.
2) Il delegato non può opporre al delegatario le eccezioni che avrebbe potuto opporre al
delegante, salvo che sia nullo il rapporto il rapporto di valuta. Il delegato non può quindi
sollevare le eccezioni fondate sul rapporto di provvista, a meno che non sia nullo il
rapporto di valuta. Questo perché il delegato si impegna per rafforzare il vincolo
obbligatorio tra delegante e delegatario, cioè per offrire al delegatario una garanzia, in
quanto esso si troverà un altro debitore, vincolato in solido, sul quale potere agire. Se si
scopre essere nullo il rapporto di valuta, il delegato che si è obbligato verso il delegatario,
si ritrova vincolato per nulla. Inoltre le parti possono accordarsi affinché il delegato possa
difendersi sollevando le eccezioni fondate sul rapporto di provvista, ma ciò deve essere
espressamente previsto.
3) Il delegato non può opporre al delegatario le eccezioni fondate sul rapporto di valuta
(che può opporre il delegante), salvo che la delegazione sia titolata. La delegazione è
titolata quando il delegato, si impegna nei confronti del delegatario facendo espresso
riferimento al rapporto di valuta.
3 ordine di eccezioni che il delegato può sollevare al delegatario. La prima eccezione si
fonda sul rapporto delegato-delegatario, ed è sempre possibile. La seconda eccezione si
fonda sul rapporto di provvista, queste eccezioni possono essere sollevate dal delegato
nei confronti del delegatario, in due ipotesi: o se il delegato l’ha concordato, oppure se il
rapporto di valuta è invalido. La terza eccezione su fonda sul rapporto di valuta, e che il
delegato può opporre al delegatario solo se la delegazione è titolata.

ESPROMISSIONE
________________________________________
Art. 1272, un terzo (espromittente), senza delegazione da parte del debitore originario
(espromesso), si obbliga verso il creditore (espromissario) alla medesima prestazione
dell’espromesso. La conseguenza di questo impegno (promessa unilaterale). L’effetto è
che l’obbligazione diventa in solido a meno che il creditore non abbia dichiarato
espressamente di voler liberare il debitore originario espromesso. Anche in questo caso
l’effetto naturale della espromissione consiste nella trasformazione della obbligazione da
semplice in obbligazione solidale.
Art.1272 comma 2: se non si è convenuto diversamente, il terzo non può opporre al
creditore le eccezioni legate ai suoi rapporti con il debitore originario. Questo perché a
differenza delle delegazione, nell’espromissione il terzo opera in autonomia, cioè senza
incarico da parte del debitore, e quindi è giusto che esso non possa invocare le eccezioni
fondate sul rapporto di provvista, a meno che le parti non vi abbiano espressamente fatto
riferimento.
Art.1272 comma 3: il terzo espromittente può opporre al creditore espromissario le
eccezioni che al creditore avrebbe potuto opporre il debitore originario, se non sono
personali a quest’ultimo e non derivano da fatti successivi all’espromissione. Non può
opporgli la compensazione che avrebbe potuto opporre il debitore originario, quantunque
si sia verificata prima dell’espromissione. Tutti le eccezioni fondati sul rapporto di valuta
sono invece opponibile all’espromissario: non si può trascurare il fatto che il terzo ha agito
spontaneamente, trattamento differente da chi è stato incaricato, e tale terzo si vuole
tutelare dandogli la possibilità di opporre anche le eccezioni …

Le eccezioni che possono essere sollevate dall’ espromittente sono quelle fondate
sul rapporto di provvista solo se così pattuito dalle parti.
Le eccezioni fondate sul rapporto di valuta possono essere sollevate
dall’espromittente solo se non riguardano eccezioni personali o successive
all’espromissione.
ACCOLLO
________________________________________
Art. 1273: l’iniziativa non è del terzo (espromissione), nemmeno del debitore
(delegazione), ma di debitore e terzo (terzo accollante e debitorio originario accollato),
l’accollante si obbliga alla medesima prestazione nei confronti del creditore accollatario.
Dunque, è una modificazione del lato passivo del rapporto obbligatorio che nasce sulla
base di un accordo tra il terzo (accollante) e il debitore originario (accollato). Questo
accordo è destinato a produrre effetti nella sfera giuridica di un terzo, ovvero il creditore
(accollatario), il quale non partecipa all’accordo. L’accollo, tecnicamente, è un contratto a
favore di terzi. Nel contratto a favore di terzi, gli effetti nella sfera giuridica del terzo si
producono a prescindere dalla sua accettazione, ma l’accettazione del terzo non è priva di
effetti giuridici. Il terzo, se decide di ricevere gli effetti che il contratto prevede nei suoi
confronti, può sempre modificarlo.
-> L’accollatario acquista una nuovo debitore senza proferire parola, ma se vuole può
rifiutare il beneficio e conservare l’obbligazione originale. Ma se accetta, rende l’accordo
tra debitore originario accollato e nuovo debitore accollante definitivo: immodificabile e
irrevocabile, le due parti non possono né sciogliere né modificare l’accordo. L’accettazione
rende la stipulazione irrevocabile, libera il debitore originario, solo se è espressamente
detto.

Nell’accettare l’accollatario può decidere di liberare il debitore originario: accollo


liberatorio, avremo un accollo al termine del quale avremo non una obbligazione solidale,
ma una stessa obbligazione originaria con un debitore nuovo. Gli effetti vantaggiosi per
l’accollatario consistono nel fatto che si ritrova un nuovo debitore che si affianca a quello
originario; questa trasformazione dell’obbligazione da semplice in complessa si verifica
automaticamente per effetto dell’accordo tra nuovo debitore accollante e debitore
originario accollato. Il creditore accollatario dunque può:
a) non pronunciarsi, e in questo caso si verifica la modificazione; b) accettare e rendere
quindi l’accordo irrevocabile e immodificabile; c) quando accetta può dichiarare
espressamente di liberare il debitore originario accollato.
Le uniche eccezioni che il terzo accollante può sollevare al creditore accollatario sono le
eccezioni fondate sull’accollo, ovvero sul contratto in virtù del quale egli, accordandosi con
il debitore originario, ha determinato la modificazione dell’obbligazione. Esiste un accollo
interno, questo era esterno ed è l’unico accordo. Tali norme riguardano tutte e 3 le figure.
Art.1274 – Insolvenza del nuovo debitore: il creditore che in seguito a delegazione (questa
norma può essere applicata anche all’espromissione e all’accollo), ha liberato il debitore
originario, non ha azione contro di lui se il delegato diviene insolvente, salvo che ne abbia
fatto espressa richiesta.
Art.1274 comma 2: se il delegato era insolvente già al tempo in cui ha assunto il debito nei
confronti del creditore, il debitore originario non è liberato.
Art.1275 – Estinzione delle garanzie: in tutti i casi in cui il creditore libera il debitore
originario, si estinguono anche tutte le garanzie che erano annesse al credito, salvo che
colui il quale le abbia prestate non dichiari espressamente di volerle conservare a garanzia
del nuovo debito.
Art.1276 – Invalidità della nuova obbligazione: se l’obbligazione assunta dal nuovo
debitore si rivela nulla o è annullata, e il creditore aveva liberato il debitore originario,
l’obbligazione del debitore originario rivive, ma il creditore non può avvalersi delle garanzie
prestate dai terzi. Si ha dunque reviviscenza dell'obbligazione originaria ma le garanzie
originarie sono perdute e il creditore non può avvalersene.

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