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Andrea Zito

Fenomenologia del non-luogo


Verso un’estetica del paesaggio contemporaneo attraverso le
opere di Michael Wolf, Sofia Coppola e Luigi Ghirri

Estetica - Corso di graphic design and art direction - NABA -


Nuova Accademia di Belle Arti - Milano -
A.A 2017/2018
Indice

Introduzione 03

Cosa si intende per fenomenologia


del non-luogo 04

Il non-luogo come percezione 06

Tre stadi di rappresentazione 07

La moltitudine. Michael Wolf -


“Architecture of density” 09

La solitudine. Sofia Coppola -


“Lost in Translation” 12

Il vuoto. Luigi Ghirri - Paesaggi


italiani e altri progetti 15

Conclusioni 21

Bibliografia 22

02
Introduzione

Ancor prima dare una spiegazione dell’oggetto di indagine,


ritengo che sia utile porre un presupposto teorico. “Viviamo
in un mondo che non abbiamo ancora imparato ad
osservare”, dice Marc Augé nel 1992, con la celeberrima
pubblicazione “Non luoghi. Introduzione a un’ antropologia
della surmodernità”. Quando ci poniamo di avere una
Prendere
le distanze percezione del mondo, soprattutto quello contemporaneo,
caratterizzato da inesattezza e prossimità, dobbiamo
innanzitutto stabilire una distanza con esso. Si tratta di
cogliere l’alterità di un presente sempre più difficile e
insidioso da analizzare. Per riuscire in quest’impresa, ci
avvaliamo dello studio di filosofi, antropologi, sociologi,
linguisti ecc. Nel particolare tenteremo, invece, di cogliere
un’estetica del paesaggio contemporaneo, attraverso alcune
delle produzioni artistiche più o meno recenti. Ma se la
distanza, e quindi la manifestazione dell’alterità del presente,
si genera solo in riferimento alla teoria, come può la pratica
artistica suscitare medesime riflessioni su una realtà in cui
tutto ciò che appare solido e statico, come direbbe Bauman,
si discioglie rapidamente e diventa intangibile?
È assolutamente scontato asserire che l’arte, nel corso della
storia, è riuscita a cogliere delle sfumature del mondo e delle
L’arte come strumento
d’indagine sue articolazioni, con più efficacia di una costruzione di tipo
filosofico-concettuale. Ma la problematica contemporanea
sta nella credibilità di una o dell’altra forma linguistica, presa
singolarmente. Affinché si possa avere una percezione,
generale o locale che sia, del mondo e sopratutto della post-
modernità, bisogna necessariamente affidarsi ad entrambe.

03
Cosa si intende per
fenomenologia del non-luogo

Prima di tutto bisogna dare una specificazione di ordine linguistico.


Il periodo in cui si colloca l’oggetto d’analisi non è la modernità e
neppure la surmodernità, di cui parla Augè, ma il presente, quello
che gli studiosi tendono a chiamare post-modernità.
Il concetto di modernità come rappresentazione, come sappiamo,
nasce con Charles Baudelaire. “La modernità è il transitorio,
Modernità, il fuggitivo, il contingente, la metà dell’arte, di cui l’altra metà è
surmodernità e
post-modernità l’eterno e l’immutabile”, dice C. Baudelaire in “Il pittore della vita
moderna” (1863).
Marc Augè, con il termine surmodernità, invece, si poneva di
definire quel periodo storico che rappresenta in qualche modo
l’esagerazione o la degenerazione della modernità ( Il prefisso sur
indica un eccesso ). Lo studioso della surmodernità deve quindi
confrontarsi con una serie di eccessi, abbondanze, che risultano
fortemente paradossali.
Innanzitutto l’eccesso di tempo : la storia subisce un’accelerazione;
gli eventi e i dati si moltiplicano a tal punto che non troviamo il
tempo di assimilarli, tantomeno capirli.
In seguito l’eccesso di spazio : l’accelerazione dei mezzi di trasporto,
le innumerevoli immagini che ci investono continuamente e ci
Gli eccessi
danno un’impressione falsamente familiare di luoghi, eventi e
persone, provocano un restringimento spaziale globalizzato.
Per ultimo l’eccesso di ego: Il moltiplicarsi delle connessioni
interpersonali, che culmina con il diffondersi dei social network,
ha paradossalmente prodotto un’individualismo esasperato.
Per Augè la surmodernità trova la sua manifestazione massima
nei non-luoghi.
Dunque la realtà del presente, della post-modernità, può essere
percepita solamente comprendendo che essa si fonda su tali

04
paradossi: l’eccesso di spazio provoca il vuoto, l’eccesso di
tempo provoca l’effimero, l’eccesso di ego provoca l’anonimato,
la realtà si nega nel momento stesso in cui si manifesta.
Se dunque il luogo è inteso come identitario, storico e
relazionale, il non-luogo diventa l’espressione riassuntiva di
quest’epoca non identitaria, non storica e non relazionale.
Espressione multiforme, sempre più utilizzata con accezioni
e riferimenti diversi, occorre in primis definire l’area di
significazione che del “non-luogo” più ci interessa.
Già nell’invenzione del termine, Marc Augè, poneva due strade
di significazione complementari, ma distinte: da una parte
quegli spazi costruiti per un fine ben specifico (solitamente di
trasporto, transito, commercio, tempo libero ecc.) e dall’altra
il rapporto che viene a crearsi fra gli individui e quelli stessi Definire il
non-luogo
spazi.
Non possiamo però più pensare al luogo come spazio
circoscritto nel tempo, in cui l’individuo vive, transita o abita,
perchè tale concetto si è dilatato in modo esponenziale e la
sua modalità essenziale è sempre più labile e diversificata
( pensiamo ai luoghi virtuali, ai social network ecc. ).
Non rimane che affrontare un’indagine sulla percezione che
l’individuo appartenente alla post-modernità ha di questi non-
luoghi. Il termine “fenomenologia del non-luogo” sottolinea il
carattere ossimorico e paradossale di questa percezione
(fenomenologia=manifestazione; non-luogo=assenza) e con
esso intendo proprio il manifestarsi del vuoto, dell’assenza,
che sembra essere uno dei pochissimi punti fermi di questo
presente oscuro ed intricato.

05
Il non-luogo come percezione

Per dare una definizione più o meno definitiva di non-luogo


nell’era post-moderna, occorre mettere in luce ancora un’altra
problematica, strettamente legata all’eccesso di ego. Se dunque
il non-luogo è un concetto che implica una percezione, fisica e
metafisica, dello spazio e del tempo, sarà necessario soffermarsi
brevemente sull’identità del soggetto senziente.
Dopo Freud non possiamo più far coincidere l’ego con l’intero
soggetto; l’ego, o Io, è solo una parte di un individuo la cui identità
è frammentata e mutevole.
L’eccesso di ego, nella società postmoderna, ha come presupposto
determinante l’eccesso di rappresentazione. Con quest’ultimo mi
Identità ed riferisco banalmente alla diffusione di immagini “pubblicitarie”
eccesso di ego
e/o rappresentative di qualcosa; all’arte stessa che esaspera la
sue modalità di rappresentazione diventando ridondante; ma
intendo soprattutto l’eccesso di narrativa. Film e serie TV sono
la causa principale della proliferazione di storie. Pensiamo alla
case history di Netflix che, con la sua campagna di lancio nelle
metropolitane, è andata a raccogliere, proprio nella quotidianità
del non-luogo augéiano, le identità dei passanti, rappresentando,
attraverso brevi video/gif, personaggi di film e serie tv che
simulassero i diversi e possibili stati d’animo di ognuno.
Dunque una zona del nostro “Io”, che Freud definisce Io ideale,
è costantemente chiamata ad identificarsi con qualcos’altro,
mutando forma in modo frenetico.
Data questa breve premessa, possiamo infine capire che il
concetto di non-luogo contemporaneo deve necessariamente
tenere conto dell’insieme di percezioni e di processi identificativi
che l’individuo, o meglio l’Io ideale, subisce quando si relaziona
con lo spazio e con il tempo.

06
Tre stadi di rappresentazione

Avendo definito i paradossi su cui si fonda l’epoca post-moderna


e le differenze che permettono un’indagine diversa rispetto a
quella fatta da Augè sul non-luogo della surmodernità, possiamo
finalmente parlare di come queste percezioni si manifestano,
quindi della fenomenologia.
La manifestazione artistica di questo complesso flusso di
L’arte come identità, che chiameremo arte contemporanea, non può essere
condizione
storico-ontologica presa in analisi come un particolare periodo artistico, in ragione
dell’impossibilità di definirne il contesto spazio-temporale.
Un tentativo interessante di definizione, però, lo si può attribuire
a Peter Osborne, che parla di arte contemporanea come arte
“post-concettuale”.
“L’arte post-concettuale’ non è il nome di un particolare tipo di
arte, quanto la condizione storico-ontologica per la produzione
dell’arte contemporanea in generale”.
Anche se l’espressione “fenomenologia del non-luogo”, potrebbe
caratterizzare l’intera pratica artistica contemporanea, ho deciso
di focalizzarmi su tre fenomeni che sembrano problematicizzare
esplicitamente ciò che fin ora è stato descritto.
Ho scelto di selezionare tre esempi, che coincidono con le opere
di tre differenti artisti e con tre modalità di rappresentazione che
ho voluto chiamare “stadi”.

Il primo stadio è quello della moltitudine: è la fase in cui


l’individuo si rende conto degli eccessi di spazio e di tempo in
cui si trova. La riflessione si focalizza sulla quantità. L’individuo
comincia ad avere consapevolezza della propria incapacità di
gestire e metabolizzare tali numeri e inizia a percepire la perdita
del proprio spazio nel mondo.

07
Andremo ad indagare questo primo stadio attraverso la
modalità fotografica, in particolare la fotografia architettonica,
con la quale opera Michael Wolf.

Il secondo stadio è quello della solitudine: é il processo in cui


l’individuo perde la capacità di comunicare e relazionarsi con
altri individui, a causa dell’eccesso di ego. La percezione che l’Io
ha dello spazio è carica di assenza e produce una riflessione
narrativa che si risolve drammaticamente nella consapevolezza
di galleggiare su una realtà lontana ed effimera. Ci affideremo
alla narrazione cinematografica di Sofia Coppola in “Lost in
translation” del 2009.

Il terzo ed ultimo stadio è quello del vuoto: Il vuoto che


si genera consiste nel fluire indifferente della percezione,
nella negazione dell’Io che lo fa arretrare piacevolmente di
qualche passo rispetto alla soglia in cui diventerà o tornerà ad
essere un’identità frammentata e profondamente riflessiva.
Rappresenta anche il confine del non-luogo come è stato
inteso fin’ ora, oltre il quale vi è l’immaginazione.

Apparentemente suddetti stadi potrebbero essere intesi in


termini cronologici e sequenziali. In realtà essi convivono Alcune
precisazioni
simultaneamente nella percezione del soggetto e la loro
natura “narrativa” ( da questo la scelta del termine “stadio” ) è
puramente concettuale.
Concettualmente i tre stadi, presi nell’insieme, costituiscono
una sorta breakpoints nel processo generale di “svuotamento
del luogo” e quindi dell’identità. Ma, nella pratica, nulla esclude
il fatto che il soggetto possa percepire solamente uno dei
tre stadi, o tutti simultaneamente. Senza una suddivisione
concettuale di questo tipo, sarebbe stato impossibile
comprendere l’opera di ogni singolo artista.

08
Michael Wolf. “Architecture of density”

Siamo nello stadio della moltitudine. I già approfonditi paradossi


della contemporaneità acquistano una forma visibile, grazie
agli strumenti ( tecnici e concettuali ) utilizzati dagli artisti. Uno
di questi strumenti, largamente sfruttato fin dalla pop art, è la
serialità.
Le lattine Campbells di Warhol rispecchiavano il consumismo
e la sovrapproduzione dell’epoca. Con Sol LeWitt il concetto di
serialità si sposta sull’idea: ”l’Idea diventa una macchina che crea
l’arte”. La natura seriale dell’arte contemporanea, nello specifico
della fotografia, si fonda sull’impossibilità dell’immagine singola
La serialità
si essere autoreferenziale.
L’aurea di cui parlava Walter Benjamin non può più essere
ricercata nell’immagine in sè, per cui l’opera contemporanea
acquisisce senso di esistere solo in relazione al suo progetto
esteso. Da qui la necessità di utilizzare la serialità come modalità
potenzialmente infinita di riproduzione di un concetto.

Michael Wolf,
Architecture of density,
2011

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Nell’osservare le immagini della più nota serie fotografica
di Michael Wolf, “Architecture of density”, è facilmente
riconoscibile la necessità dell’artista di figurare l’estensione.
I grattaceli di Hong Kong sono catturati frontalmente e
l’eliminazione della linea del cielo e dell’orizzonte, oltre a
sollevare gli edifici dallo spazio reale, soffoca la percezione
dell’altezza e della profondità, producendo un effetto di
inquietudine rispetto alla grandezza ( valore enfatizzato anche
dai grossi formati ).
La lettura dell’opera di Wolf può essere condotta sotto molteplici
aspetti: si può riflettere sulle contraddizioni soggiacenti ad un
inquadratura rigida e formale, ma si può anche godere della
potenza visiva di tutta la serie nell’insieme.
In questo modo l’estensione viene ulteriormente potenziata
nello sguardo, da un livello sincronico, interno all’immagine,
ad un livello diacronico globale.

Quando ci poniamo di fronte ad uno scatto di Wolf, è


sicuramente la contraddizione l’aspetto che possiamo cogliere
con più immediatezza. Una potente contraddizione sta nelle
motivazioni stesse dell’artista, che stanno a cavallo fra la critica
sociale e il formalismo. La rigidità dell’immagine e la ricerca
di un’ armonia geometrica nelle forme, reprime l’aspetto
puramente critico ( il problema della spersonalizzazione, della
sovrappopolazione ecc. ). Non si cerca di risolvere o approfondire Tra critica sociale
e fromalismo
un problema, ma lo si segnala sotto forma di constatazione.
La staticità formale degli edifici diventa dunque metafora di
un’immobilismo sociale e politico che sembra sempre di più
dilaniare lo spirito dell’uomo contemporaneo. Ci sono masse
di centinaia di migliaia di persone che si spostano da un
paese all’altro, da un continente all’altro, ma paradossalmente
nessuno si muove. Dal punto di vista prettamente artistico, la
distanza dal problema può essere dovuta alla consapevolezza
che l’armonia e l’ordine sono qualcosa di ormai anacronistico,
e che è possibile trovarne ancora qualche traccia nella realtà
solamente pagando il prezzo di un allontanamento da essa.
Di seguito altri scatti della serie
“Architecture of density”

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Sofia Coppola. Lost in Translation

Lost in Translation è un modo di dire, una formula idiomatica,


un’espediente linguistico la cui interpretazione strettamente
legata ad una cultura di riferimento.
È una frase intraducibile, titolo di un famoso film di Sofia Coppola
del 2009, con Bill Murray e Scarlett Johansson. Bill è un creativo
scontento della “traduzione” che gli attori fanno delle sue parole,
Scarlett cerca una “traduzione” alla sua solitudine, perdendosi
in lunghissime telefonate. Sostano in quella zona di passaggio
che intercorre tra ciò che pensiamo di dire e ciò che gli altri
comprendono di quello che abbiamo detto (tendenzialmente

La solitudine
poco, molto poco, anche quando parliamo la stessa lingua).
Entrambi alloggiano per un breve periodo a Tokyo, una città che
non è la loro, e nelle stanze d’albergo in cui cercano qualcosa di
familiare.
La contraddizione in questo caso, a differenza dell’opera di
Michael Wolf, si sposta sul soggetto.
“In un presente dove la “connessione” sembra rappresentare
la priorità assoluta, non ci si è mai sentiti più soli.” Due anni
dopo l’uscita del film, nel 2011, la psicologa sociale Sherry
Turkle , spiega questo concetto all’interno del suo nuovo libro
intitolato “Alone Together”. L’autrice si concentra su come la
tecnologia si stia configurando come strumento di alienazione
dalla realtà e soprattutto dagli altri. L’iperconnessione e la
costruzione di realtà virtuali hanno causato negli ultimi anni delle
problematiche psicologiche importante, dice la Turkle. In primo
luogo una customizzazione e un rigido controllo del quotidiano (
decido io cosa vedere, chi vedere, con chi parlare.. ) che ci ha reso
vulnerabili rispetto all’inatteso, all’imprevedibile. In secondo

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luogo la connessione come strumento sociale ( Facebook,
Instagram, Twitter ecc. ) ci ha reso incapaci di stare da soli.
Vogliamo sempre la connessione perchè questa ci conforta,
e vogliamo comunicare sui social perchè siamo più sicuri e
possiamo controllare i contenuti. Per ora abbiamo ancora la
possibilità di scegliere cosa è effettivamente reale.
Nella realtà rappresentata dal film, tutte queste degenerazioni
relazionali si risolvono nell’incapacità di comunicare. Siamo
persi in quella costante linea di buio che esiste tra noi e l’altro,
ma persi anche tra noi e le nostre contraddizioni.

La piscina dell’albergo
Frame del film “Lost in
Translation”

Bob e Charlotte nel bar


dell’albergo
Frame del film “Lost in
Translation”

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Charlotte nella sua camera d’albergo
Frame del film “Lost in Translation”

Bob e Charlotte al ristorante


Frame del film “Lost in Translation”

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Luigi Ghirri. Paesaggi italiani e Il profilo delle nuvole

Parliamo nuovamente di fotografia.


In quest’ultimo stadio, che ho voluto chiamare “vuoto”, ci
confronteremo con l’indagine artistica avanzata da Luigi Ghirri
intorno agli anni ’70. Prima di capire il perchè di questo artista
come termine ultimo di una fenomenologia del non-luogo,
bisogna anzitutto spiegare, seppur brevemente, la spinta che,
specificatamente in fotografia, ha portato artisti come Ghirri a
modificare il senso del paesaggio contemporaneo.
Le modalità di ricerca dell’artista italiano sono strettamene legate
al fenomeno che contemporaneamente stava modificando la
visione del paesaggio in America.
I nuovi topografi Nel 1975 a Rochester fu organizzata la mostra “New Topographics,
Photographs of a Man-Altered Landscape.” Gli artisti che
parteciparono a questa mostra (Baltz, Egglestone, Gossage, Balz,
Robert Adams, Meyerowitz, Nixon) erano fortemente convinti che
la fotografia del paesaggio non dovesse avere necessariamente
pretese artistiche, ma che dovesse dare una registrazione
adeguata della realtà. Nella pretesa di essere “neutrali”, il loro
approccio alla rappresentazione finì per assumere un taglio più
antropologico che critico, più “scientifico” che “artistico”. Nicholas
Nixon dichiarò che: “Il Mondo è infinitamente più interessante di
qualsiasi opinione io possa avere su di lui ”.
Robert Adams, nel suo saggio Alla ricerca di un silenzio adeguato,
dedica alcune pagine al commento dei paesaggi di Timothy O’
Sullivan e di altri fotografi dell’Ottocento americano, cercando di
recuperare le condizioni con le quali operavano questi fotografi.
Una qualità che Adams individua è il silenzio: “Lo spazio dell’Ovest
era perlopiù quieto: ce lo suggerisce metaforicamente la pacatezza

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visiva delle immagini, caratteristica sia del soggetto che della
composizione della fotografia. L’unico suono che cent’anni fa
poteva prodursi davanti all’apparecchio fotografico era quello del
vento”. Più avanti individua un nesso preciso tra la qualità dello
spazio e quella dell’operazione fotografica: “Un’altra qualità
dello spazio che ritrovo nelle vecchie fotografie è il ritmo semplice
della vita: lo spazio sembra spesso pressoché immobile – un ritmo
e un tempo appropriati per chiunque speri di fare l’esperienza
dello spazio”. È da citare anche l’opera di Edward Ruscha,
autore slegato dalla corrente, che però, già nel ’62, pubblicò un
volumetto dal titolo Twenty six gasoline station, in cui venivano
esplorati, attraverso la città americana, i concetti di ripetizione
e monotonia.
In definitiva, i nuovi topografi rincorrevano la desolazione, Le influenze

l’indifferente passare del tempo nella periferia americana.


Nell’Italia di fine secolo, questo flusso di ricerca paesaggistica
ha influenzato l’opera di diversi artisti oltre Ghirri, che si sono
dedicati alla rappresentazione del territorio ( pensiamo ad
esempio a Giovanni Chiaramonte, Carlo Garzia, Guido Guidi ).
Nell’esperienza descritta da Adams, e da tanti altri paesaggisti
contemporanei, sembra di scorgere come una tensione ad
interiorizzare ciò che è fuori e ad esteriorizzare ciò che è dentro
per giungere ad una sorta di fusione contemplativa con lo
spazio. Vengono in mente le epigrafiche parole con cui Guido
Guidi commenta le proprie immagini di porto Marghera: “Amo
pensare a un paesaggio non come a un posto predeterminato,
ma come a un sentiero che si apre man mano davanti ai miei
occhi e sotto i miei passi. Vedere e conoscere un posto è un
atto contemplativo, significa svuotare la mente e lasciare che
vi entri ciò che esiste in quel posto in tutta la sua molteplicità
e infinita varietà”.

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Luigi Ghirri era un filosofo per immagini. Questo è uno dei
tanti epiteti che i suoi colleghi, i suoi amici, gli assegnarono.
In effetti oltre ad essere un fotografo Ghirri era soprattutto
un profondo pensatore. Molte delle cose che ha scritto sono
fortemente esplicative della sua opera:

”Fotografare, per me, è come osservare il mondo in uno stato


adolescenziale, rinnova quotidianamente lo stupore; è una pratica
che ribalta il motto dell’Ecclesiaste: niente di nuovo sotto il sole. La
fotografia sembra ricordarci che ‘non c’è niente di antico sotto il
sole’”. Luigi Ghirri.

Gianni Celati, scrittore emiliano amico di Ghirri, racconta il


perdersi dell’artista nella banalità delle cose: “Fotografava le
cose a cui nessuno bada, fotografava la strada che percorreva per
andare a lavoro, i suoi libri, gli atlanti. Per lui la foto doveva ridare
dignità alle cose, doveva sottrarle ai giudizi sbrigativi di chi non
guarda mai niente.
Diceva che il mondo alla rovescia, cioè quel riflesso ribaltato che
si vede all’interno dell’obiettivo fotografico, era parte del comune
I paesaggi di
Ghirri modo di vedere della vita di campagna. Era come la luna riflessa
in un pozzo; come una figura che vediamo nelle nuvole; era l’altro
mondo che era con noi ed è sempre con noi, nelle ombre e nella
visione della mente.”

Credo che l’intuizione di Ghirri sia estremamente attuale. La


scelta di soggetti banali, il processo di desaturazione, unito
alla sovraesposizione dell’immagine, non ricordano forse le
caratteristiche di alcuni profili Instagram? Agli albori di del
famosissimo social network, l’idea che questo potesse ridare
dignità alle immagini era largamente diffusa.
Così l’angolo di un palazzo, una strada, una porta, soggetti
appartenenti alla quotidianità, grazie ad un filtro predefinito,
acquistano un valore e una bellezza particolari.
L’attualità del fotografo emiliano, però, non è da giustificare
tanto nella forma, nella plasticità delle immagini, quanto

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piuttosto nel meccanismo di scelta dei soggetti da fotografare.
Personalmente credo che si possa guardare l’opera di Ghirri
come si guarda fuori dal finestrino di un treno o di un’auto.
All’ingenuità di uno sguardo che non può prevedere, si mostra
un fluire indifferente di pianure, deserti, campagne, spazi vuoti
di significato, che non cercano di essere interpretati, che non
vogliono significare.

Paesaggio italiano -
Marina di ravenna, 1986

Il profilo delle nuvole -


Verso Lagosanto, 1989

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Paesaggio italiano -
Formigine, 1985

Paesaggio italiano -
Marina di ravenna, 1986

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Paesaggio italiano -
Fidenza, 1985

Il profilo delle nuvole -


Argine Agosta,
Comacchio, 1989

Il profilo delle nuvole -


Rho Ferrarese 1989

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Conclusioni

Le conclusioni di questa indagine dovranno purtroppo tenere


conto di alcune difficoltà: in primis l’impossibilità di definire
e classificare una manifestazione artistica così complessa e
in continuo mutamento; in seguito l’incapacità di dare una
risposta a domande che, parlando di arte contemporanea,
dovrebbero fare affidamento alla competenza antropologica
e psicologica.
La prima conclusione generale alla quale possiamo giungere,
è che l’arte, oggi più che mai, si fonda su una dialettica di tipo
esistenziale, una perenne e irrisolvibile contaddizione: tra
uomo e spazio, tra spazio e tempo, tra identità e non-luogo.
La seconda conclusione, che si presenta anch’essa sotto forma
di paradosso, è che tanto più il paesaggio contemporaneo si
svuota di significato, tanto più quest’ultimo si presta ad una
contemplazione da parte dell’uomo.

La società post-concettuale non può più accettare come vera la


pura riflessione creativa di un’artista ( un cubo bianco, una tela
vuota o rovesciata, un cesso firmato ecc. ) ma può accettare
come vera una realtà fatta di non-luoghi, sui quali l’uomo post-
concettuale può avanzare delle riflessioni artistiche.

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Bibliografia

1) M. Augé, Non-lieux, 1992 (trad. it. Non luoghi, Eléuthera, Milano, 1993, p. 37).
2) Sul problema della distanza ermeneutica, cfr. H.G. Gadamer, Verità e metodo, 1960.
3) S. Freud, Psicologia delle masse e analisi dell'Io, 1921, cap. XI (trad. it. Boringhieri).
4) “I nonluoghi in letteratura” (Stefano Calabrese e Maria Amalia D’Aronco), 2005.
5) Walter Benjamin - L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica (E.2011)
6) C. Baudelaire in Il pittore della vita moderna (1863).
7) Giacomo Daniele Fragapane - Lo sguardo inattuale. Fotografia di territorio di fine ’900.
8) Sherry Turkle - Alone Together ( 2011)
9) Peter Osborne - Contemporary art is post-conceptual art.

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