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DELLA CONDIZIONE APOLIDE DEL CRISTIANO SOTTO L’IMPERO

Gioele Bianchi, Lingue e civiltà dell’Oriente Antico e Moderno, LM36. M.7086226

Questo saggio ha l’obiettivo di informare sui motivi della persecuzione verso i cristiani da parte
dell’Impero romano durante i primi due secoli dalla nascita del Cristianesimo in Palestina, e in
particolare sullo statuto giuridico riservato ai primi convertiti di questa religione, dei rapporti dei
suoi aderenti con il Potere imperiale e della percezione dell’impero rispetto agli aderenti a tale
culto fino all’epoca di Costantino.

Cercheremo di rendere conto dei motivi di conflitto dei cristiani con l’impero, nonché
marginalmente, dei conflitti irrisolti del cristianesimo con la sua matrice ebraica. Questi conflitti
condurranno all’emergere progressivo di due identità religiose distinte già nel corso del I-II secolo
d.C. Infine, la nascita di una forma di Cristianesimo di massa all’epoca di Costantino, contrapposta
ad una cristianità minoritaria (donatismo, montanismo e cristianesimo africano in genere) che
sopravvivrà ancora per qualche tempo, prima di esaurirsi definitivamente nel corso del II secolo
d.C, anche a causa della preminenza che verrà ad assumere l’episcopato di Roma nel dirimere
residue questioni liturgiche e sacramentali.

Prima di abbordare questi due temi occorre situare la questione generale dell’influenza del
costume greco-romano sulle popolazioni di Palestina dall’epoca dei Seleucidi fino alla conquista di
Pompeo della Giudea e della Samaria. Questa influenza è testimoniata in particolare da Giuseppe
Flavio, che ci riferisce, nelle Antichità Giudaiche dell’uso di cercare di nascondere la circoncisione
da parte di alcuni ebrei che desideravano una migliore integrazione nell’ambiente socio-culturale
greco-ellenista, questa pratica viene da lui condannata, in quanto segno di ipocrisia e, e anzi vi si
ravvisano i semi di una pericolosa assimilazione, molto dannosa per l’indipendenza della nazione
ebraica.

Per quanto concerne gli aspetti più propriamente religiosi è l’epoca dei Maccabei a rappresentare
il rischio più grande di dissoluzione della religione ebraica in un culto pagano. L’emblema di questa
situazione è rappresentato dal tentativo di profanare il tempio di Gerusalemme con l’offerta di
animali impuri da parte del sacerdote Antioco IV, tentativo sventato dal coraggioso Giuda
Maccabeo, il quale diviene da quel momento il simbolo della resistenza ebraica all’egemonia
pagana fino ai giorni nostri, che sia essa culturale nel caso dei greci, o politica nel caso dei romani.
Fu solo con la definitiva sconfitta della resistenza ebraica in Palestina nel 70 d.C che questa
sostituzione potrà realizzarsi, con la distruzione del Tempio da parte dei romani e con il tentativo
di istituire il culto di Giove in quella che non sarà più chiamata Gerusalemme, ma Aelia Capitolina
nel 132 d.C scatenando quindi l’ultima rivolta giudaica guidata dal pretendente messia Bar
Kokhba.

Quale che fosse l’opinione dei romani nei confronti dei giudei di Palestina essa non era totalmente
positiva. Anche se non si può utilizzare come fonte, è significativo, che Marguerite Yourcenar nel
suo romanzo “le memorie di Adriano”, trasmetta l’idea che l’imperatore romano fosse molto
infastidito dalla loro intransigenza in materia religiosa, dato l’insistere di questi sul culto esclusivo
verso un’unica divinità che escludesse tutte le altre. Al contrario sappiamo che i romani
inglobavano facilmente gli altri culti ed erano tolleranti con tutte le religioni. Solo in tempi più tardi
si fecero strada anche a Roma i culti misterici ed anche certe forme di monoteismo. Comunque sia,
gli ebrei furono considerati dei superstiziosi o dei fanatici? Non è possibile rispondere nettamente,
quel che è certo è sicuramente il rispetto che i romani nutrivano per l’antichità della tradizione
religiosa ebraica al netto delle loro riserve. Consideriamo anche che il Nuovo Testamento dà
notizie sulla fascinazione di alcuni romani nei confronti del culto al Dio di Israele, probabilmente
anche perché in epoca imperiale il culto tradizionale romano si trovava già in una fase decadente e
molti sudditi dell’impero preferivano a questo altre forme di religiosità, che spesso avevano
origine orientale (Osiride, Serapide e poi Mitra), sicuramente però, nel complesso, la religione
rimaneva considerata un affare privato di secondaria importanza, a differenza della tradizione, dei
costumi dei padri e dei valori politici, tutto ciò che distingueva molto più di una credenza religiosa
la vera appartenenza alla civiltà romana, tutto ciò che insomma caratterizzava un cittadino romano
rispetto a un barbaro era la sua capacità e la sua attitudine a incidere sulla vita politica e sugli affari
pubblici, molto più che le credenze religiose o la verità di un credo (Pilato chiede infatti al Gesù
raccontato da Giovanni: Che cos’è la verità?). papiro di ossirinco p. 52 ox

I valori del cittadino romano sono dunque da intendersi come valori laici, la moralità scaturisce più
da una certa educazione filosofica e dall’etica pubblica o militare dello Stato che non da una
rivelazione o da un insieme codificato di norme morali di origine soprannaturale. Tutto questo
situa evidentemente ebrei e romani su due piani molto differenti, con due modalità radicalmente
distinte di vedere e giudicare gli uomini e la storia. Vedremo che lo stesso discorso vale anche per
l’ebreo convertito al cristianesimo, ma in misura diversa anche per il pagano-romano convertito.
Tornando per un momento agli ebrei che vivevano sotto il dominio di Roma, abbiamo ancora una
testimonianza sul carattere che essi dovevano avere e, implicitamente, sull’opinione che ne
dovevano avere i romani; la troviamo in Giovenale, che riferisce essere gli ebrei a Roma dotati di
un carattere di fiera superiorità e di riservatezza, tanto che essi non erano soliti nemmeno
rivolgere la parola ai non-ebrei o addirittura ai membri di un’altra conventicola.

Fatto salvo il carattere impenetrabile degli ebrei e il loro scarso desiderio di assimilarsi, per il
timore di perdere la loro identità, avendo vissuto gran parte della loro storia sotto il tallone di
grandi potenze imperiali (egiziani, sasanidi, babilonesi e romani) è pur vero anche, però, che gli
ebrei vantavano una lunga storia di convivenza all’interno dei confini dell’Impero romano e che la
loro religione e cultura erano conosciute e riconosciute, forse esercitavano anche un certo fascino
in certi strati della popolazione, come testimonia anche Giuseppe Flavio, che riferisce
dell’ammirazione che i costumi ebraici destavano nei romani, particolarmente per la serietà della
loro legislazione e per il carattere fiero e ostinato della loro gente. Data appunto, la lunga storia di
relazioni fra ebrei e romani, che seguiva ad un’ altrettanto lunga frequentazione degli ebrei con i
greci, particolarmente nella diaspora ebraica delle colonie greche di Alessandria ed Elefantina,
l’ebraismo era una religione riconosciuta che godeva di particolari diritti ed esenzioni, tra cui il
rispetto del riposo sabatico e delle regole alimentari, l’esenzione dai giuramenti e dal servizio
militare, nonché una vera e propria libertà di culto autorizzata da una tassa specifica, il fiscus
iudaicus. Gli ebrei in Palestina avevano già sovranità totale sullo spazio del Tempio e il Sinedrio
conservava una certa autonomia legislativa per le questioni che riguardavano l’applicazione della
legge ebraica, anche se è noto che esso non poteva emanare condanne a morte, almeno sulla
carta. Specifica che la condanna veniva eseguita dalle autorità romane

Con il sorgere del cristianesimo, molti ebrei riconoscono in Gesù il Messia. Se ciò in un primo
momento non costituisce motivo di rottura definitiva con il Tempio o la sinagoga, in un secondo
momento, con il diffondersi del messaggio di Cristo anche al di fuori della Palestina e la
progressiva aderenza alla fede cristiana anche di persone provenienti dal mondo pagano, la
frattura si fa più netta. Soprattutto a causa della decisione del Concilio di Gerusalemme di non
imporre ai convertiti di origine pagana, l’osservanza della circoncisione e delle norme alimentari
più rigide che caratterizzavano l’appartenenza religiosa all’ebraismo. Periodo da rivedere L’opera
missionaria e gli scritti di Paolo di Tarso, forniranno in breve tempo, anche una cornice teorica
coerente per giustificare l’irrilevanza, se non la licenziosità, di tali norme ai fini della salvezza, per
tutte quelle persone che avevano creduto in Cristo, ebrei compresi. Questa rivedere il lessico o lo
stile, è un panegirico questione apre la strada a due sorti di conflitto: uno all’interno della sinagoga
e uno con le autorità romane, in quanto a questo punto sono gli stessi ebrei ad espellere e ad
allontanare dalla sinagoga quegli elementi che in nome di Cristo rifiutano l’osservanza delle norme
della Torah, sulla scia della precedente opposizione ai costumi ellenizzanti da parte delle frange
ebraiche più intransigenti. È un panegirico.

Non facendo più parte della nazione ebraica, ma non essendo ancora riconosciuti come popolo
cristiano, questi uomini e donne si trovano rivedere le fonti a camminare su un margine di
insicurezza: particolarmente esposti nei riguardi delle autorità giudaiche, soprattutto se non aventi
cittadinanza romana, ma anche verso le autorità imperiali, particolarmente se legati ad esse da
obblighi o da legami di riconoscenza, pensiamo ad esempio ai liberti od agli schiavi.

Se è vero che ai suoi inizi il cristianesimo fece breccia soprattutto nelle classi basse degli abitanti
dell’Impero, esso comincia in seguito anche a toccare i membri delle classi alte, questo soprattutto
grazie alla predicazione di Paolo, come è noto dagli Atti degli Apostoli, cresciuto a cavallo fra le due
culture e versato nelle lingue della cultura e della comunicazione dell’epoca, nonché anche
cittadino romano dalla nascita.

Quale dunque il nodo da sciogliere nei rapporti tra pagani e cristiani convertiti dal paganesimo?
Per molti motivi il sospetto nei riguardi del cristianesimo riguarderà in un primo momento la
scarsità di notizie sulle sue pratiche e sulle sue credenze. Certamente le autorità fecero fatica a
distinguerlo dal giudaismo, visto che i dissidi e i dissensi anche violenti in seno ai giudei erano
sempre stati abbondanti, in un primo momento non fu chiara alle autorità la natura di queste
ennesime turbolenze. Infatti in tutto l’impero nacquero dispute, contese e tumulti in seguito alla
predicazioni di Cristo. Le autorità in alcuni casi (come a Roma), provvidero ad espellere ebrei e
cristiani insieme, a dimostrazione che non era ancora chiara la differenza fra i due. In tempi più
tardi, tuttavia, forse anche a causa della abituale polemica dei farisei contro il movimento
cristiano, si diffuse anche la diceria che gli aderenti alla setta dei nazareni non onorassero
l’autorità e rifiutassero l’imperatore. Anche se non ci sono notizie di persecuzioni di massa verso i
cristiani per questo motivo, a parte l’episodio dell’incendio di Roma ad opera di Nerone, un
episodio comunque poco chiaro che andrebbe indagato approfonditamente, possiamo presumere
che i singoli cristiani non muniti di cittadinanza romana si trovassero in grave pericolo non essendo
di fatto adoratori di una vera e propria divinità riconosciuta nel Pantheon romano, né aderenti al
culto di Israele, essi si esponevano a persecuzioni arbitrarie, anche in forza del sospetto dell’accusa
di ateismo, che nella società antica significava non riconoscere gli dei nel senso di propagare
immoralità e disordine. In particolare una fonte di Cassio Dione, confermata da Eusebio di Cesarea
riferisce del motivo di esilio di Giulia a Ponza e del precedente assassinio di Clemente a causa della
loro inertia. Sembrerebbe questo il motivo per cui i cristiani (ma anche i giudei o i giudaizzanti)
fossero giudicati negativamente dall’Impero, inertia qui significa propriamente il disinteresse per
le questioni pubbliche e di governo, un’altra accusa sarebbe appunto quella di ateismo, infine c’è
anche l’asebeia, ossia il rifiuto di prestare un culto all’imperatore, come avveniva appunto in Asia
minore, laddove i culti orientali erano stati fortemente assorbiti dall’ideologia imperiale romana.
Ricordiamo inoltre, che almeno fino all’epoca dell’Imperatore Vespasiano, esisteva la credenza che
Cristo fosse uno dei tanti pretendenti al governo terreno della Giudea e quindi egli intraprese alla
sua epoca una ricerca dei discendenti di Davide proprio perché temeva che ci fossero ancora in
vita dei pretendenti al Regno di Giudea. Le fonti riportano che questa ricerca si concluse con una
pace giudaica proprio perché i discendenti di Davide in questione, tra cui alcuni parenti di Gesù
non erano altro che contadini illetterati, oltretutto portatori di un concetto di Regno totalmente
spirituale.

Cosa significava nel mondo pagano antico onorare e rispettare gli dei?

Questa dimostrazione di probità che affonda le sue radici nel culto degli ideali romani di prudenza,
virtù e moderazione esemplificati nella narrazione delle virtù morali del Divo Augusto nelle sue Res
Gestae, assumerà varie forme come per esempio la partecipazione a feste in onore
dell’imperatore, celebrazioni, parate militari od anche, in tempi successivi, la disponibilità o meno
da parte del cristiano di giurare fedeltà all’immagine dell’imperatore in seguito ad un sommario
processo tramite l’offerta di aromi o incensi all’effige dell’imperatore stesso, il rifiuto di tale atto
simbolico, diverrà una prova di apostasia ai valori dello stato romano e potrà concludersi con una
condanna a morte.

La tesi sovraesposta è quella del prof. Eric Noffke nel suo libro: “Cristo contro Cesare”, suffragata
anche, a suo avviso, dalla testimonianza archeologica della penetrazione di questo culto imperiale
in Palestina con l’edificazione di templi dedicati all’imperatore, in particolare in alcune città
costiere del nord della Palestina e nell’allora Samaria, oltre all’insediamento da parte dei romani di
sovrani-fantoccio in Giudea, che le autorità religiose ebraiche non riconoscevano, ad esempio la
dinastia degli Erodiani il cui capostipite, Erode il Grande, come il suo successore Antipa, erano
idumei e dunque non perfettamente ebrei in quanto alla legge per quanto etnicamente tali da un
punto di vista romano.

La mia personale opinione tende piuttosto a seguire Marta Sordi nel suo libro: “I cristiani e
l’impero romano”, in cui la studiosa, pur confermando la pratica del sacrificio all’imperatore e la
diffusione di un culto imperiale in Palestina, tende a relegare questa pratica nel contesto più
ristretto dei convertiti al cristianesimo all’interno delle famiglie di importanti membri
dell’aristocrazia romana. Questo non esclude che questa pratica si sia ritrovata anche al di fuori
dell’aristocrazia nei secoli II e III come prova della fedeltà ai valori dello stato, ma sembrerebbe
che delle vere e proprie persecuzioni con questa modalità siano avvenute più in Asia Minore che a
Roma per diversi motivi. Possiamo indicare le seguenti ragioni:

1) Nel I secolo a Roma la confusione da parte delle autorità su cosa sia un cristiano è ancora
grande, basti pensare a Svetonio che attribuisce agli ebrei la rivolta di Alessandria del 89 d.
C invece che ai cristiani di origine ebraica, come più probabile, dato anche il motivo della
disputa “attorno a un certo Cresto”, che è quasi sicuramente una trascrizione errata del
nome Cristo.
2) In un primo momento il cristianesimo poté effettivamente godere del beneficio di essere
confuso con il giudaismo o anche con la filosofia stoica. Tanto è vero che un filosofo stoico,
Epitteto, dovette precisare di essere contrario al cristianesimo, proprio in quanto opposto
alla dottrina stoica sul comportamento di fronte alla morte, dottrina che insegnava
moderazione e distacco dalle passioni, nonché serenità suprema al momento del trapasso.
Al contrario del cristianesimo che, secondo lui, incoraggia passioni disordinate e immoralità
e costituisce una pericolosa e futile superstizione a causa del suo atteggiamento esaltato
nei confronti del morire. Questo atteggiamento sarebbe molto distante da quello di un
filosofo stoico, perché il cristiano non solo e non tanto è sereno di fronte alla morte, ma
egli desidera attivamente il morire, dimostrando disprezzo verso la vita terrena, perché ad
essa preferisce la gloria dell’aldilà e considera il morire una sorta di vanto.
3) Se è vero che il culto dell’imperatore trovò terreno fertile in Oriente, dove esso aveva dei
precedenti, ad esempio nel culto tributato ai sovrani egizi o babilonesi, esso non pare aver
avuto molto seguito a Roma, laddove la religione civile era comunque rispettata e
percepita come un fatto distinto dal credere religioso privato vero e proprio. Come
ricordato, ebbero più diffusione i culti misterici orientali perché questi ultimi offrivano un
percorso religioso individualizzato, come si direbbe in termini moderni, anche in questo
caso il cristianesimo risulterebbe avere un vantaggio sulla religione civile invece che uno
svantaggio oltre a beneficiare della somiglianza con questi culti, data la natura riservata e
discreta della sua pratica cultuale.

Tutto ciò non significa che l’opinione dell’impero sul cristianesimo fosse positiva, tutt’altro, ma
soltanto che le ragioni della persecuzione a Roma, dovevano essere differenti da quelle in
Oriente e in Asia Minore. Da notare che vere e proprie persecuzioni di massa non avvennero
comunque fino al II secolo d.C, se si eccettua l’episodio di Nerone.

Tornando alla somiglianza fra cristianesimo e stoicismo è da ricordare che anche l’imperatore
Marco Aurelio scriverà sulla superstizione cristiana in rapporto alla morte aggiungendo,
rispetto ad Epitteto, che il comportamento dei cristiani di fronte a questa è caratterizzato da
una teatralità che non si addice alla serietà del momento, in particolare perché il cristiano, a
differenza del filosofo stoico e dell’uomo politico, non solo ricerca la morte invece di attenderla
serenamente, ma anche la mette in scena, divenendone un attore, cioè scadendo dal pensiero
che la morte faccia parte della vita e, forse anche dia un senso alla vita e alle gesta di qualcuno,
ma coltivando la fantasia che la morte individuale abbia un senso per il cosmo (il morire come
Cristo è morto) ed è questo elemento che fa pensare ad una drammatizzazione e ad una
esagerazione dell’atto del morire, che per Marco Aurelio pone il martirio cristiano sul piano di
una pantomima, un pessimo esempio per la morale pubblica del cittadino romano. Per quanto
riguarda il giudizio di Marco Aurelio sul cristianesimo noi possiamo comprendere comunque
che l’imperatore conoscesse molto poco della fede cristiana per il fatto che egli elabora il suo
giudizio nel contesto di una riflessione filosofica sull’atteggiamento di fronte alla morte e cita
subito come esempio negativo il comportamento dei martiri cristiani non dicendo però nulla in
merito alla loro fede o alla loro dottrina. In questa fase, pertanto, è ancora il comportamento
dei cristiani ad essere chiamato in causa piuttosto che il contenuto della fede che è ancora
avvolto nel mistero. Sul piano politico in ogni caso continua a preoccupare il fatto che il
cristianesimo sia ancora causa di rivolte e sommosse in seguito al suo allontanamento
dall’ebraismo di cui rappresenta uno scisma.

Come già ricordato, la credenza che Gesù fosse un pretendente al governo non solo della
Palestina, ma anche dell’impero era alimentato dalla diffusa ignoranza sulla natura spirituale di
questo Regno, ma sicuramente i convertiti alla fede cristiana nel I secolo d.C, particolarmente
se provenienti dagli strati popolari, alimentavano questa confusione; probabilmente, essendo
pienamente convinti della preminenza della realtà spirituale su quella terrena, ribadivano che
il loro tributo di sudditi era solo nei riguardi della signoria di Cristo, indipendentemente da chi
fosse in quel momento il signore terreno costituito in autorità dagli uomini.

La persecuzione dei singoli cristiani, sul piano giuridico, era perciò perfettamente possibile,
indipendentemente dalle credenze dei giudici al riguardo, significativamente perché il cristiano
rifiutava l’autorità posta in essere ed era pronto, anzi desideroso per questa sua ostinazione, a
subire anche il martirio. Ecco dunque un altro elemento negativo individuato dai romani nei
riguardi del carattere ostinato dei cristiani: la loro pertinacia, ossia la loro testarda ostinazione
nel ribadire la propria alterità rispetto alle leggi ed alle signorie terrene.

La prima e forse unica persecuzione di massa dei cristiani si è potuta giustificare infatti solo in
questo senso come ribellione dei cittadini ai loro doveri civici e propriamente con la ragione
che essi, in una certa misura, rifiutavano i doveri imposti dalla loro cittadinanza sostenendosi,
invece: “cittadini dei cielo”. La giustificazione dottrinale di questa asserzione la troviamo
proprio negli scritti di Paolo di Tarso. Colui che utilizza questa espressione è, in qualche modo,
il geniale artefice di questa nuovo concetto di cittadinanza ed è anche l’ideologo di una nuova
identità etnica e popolare che si situa a cavallo tra quella ebraica e quella pagana,
involontariamente finisce per fornire lui stesso l’identikit del perseguitato ai suoi potenziali
persecutori.

Esistono testimonianze che provano la pertinacia dei cristiani nell’affermare di non essere
sudditi dell’impero e di non dovere nessun tributo all’imperatore; testimonianze ad esempio di
Policarpo, raccolte da Eusebio di Cesarea, in cui l’interrogato al processo rifiutava di fornire la
propria cittadinanza ribadendo invece ossessivamente: “Christianus Sum!”, a dimostrazione
che questa professione di fede costituisse per lui l’unica vera e reale cittadinanza. Si configura
quindi una fede cristiana che si oppone frontalmente al potere, indipendentemente dalle
considerazioni morali o dottrinali che potrebbero essere formulate da un fedele cristiano di
oggi. Questa situazione perdura almeno fino all’epoca di Giustino, il quale tenterà, nella sua
Apologia, di chiarire la situazione, di fatto inventando una supposta filiazione del cristianesimo
dalla filosofia e dal pensiero greco-pagano, ma anche cercando di dimostrare la moralità e
l’esemplarità dei costumi e dei riti cristiani, per smentire le numerose credenze che si erano
diffuse in ambito pagano su di essi, come la diceria secondo cui i riti cristiani comprendessero
atti di cannibalismo od orge (questo si credevano essere l’eucarestia e l’agape fraterna
praticate dei cristiani), oltre ad evidenziare il carattere pacifico della fede cristiana ed il suo
rispetto della legge e della sovranità terrena, data la natura mansueta e semplice dei suoi
aderenti.

Con l’opera di Giustino ha finalmente inizio l’accettazione del cristianesimo nelle zone
occidentali dell’impero, processo che culminerà con la conversione di Costantino e con
l’introduzione ufficiale del Cristianesimo nell’impero, eppure il rifiuto del potere da parte di
alcuni cristiani ed anzi l’identificazione del potere con l’Anticristo continuerà in altre zone
dell’impero come in nord africa (montanisti) e in Asia Minore, dove esso andrà ad innestarsi
sull’antico retroterra del rifiuto dell’idolatria pagana nel contesto di una della sensibilità
ebraico-cristiana all’egemonia del potere pagano sul mondo, matrice religiosa questa che fa
capo alla tradizione testuale apocalittica, di cui l’Apocalisse di Giovanni costituisce il più noto
rappresentante.

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