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ISOLAMENTO - Kiran Millwood Hargrave

Scrivo questo racconto come una testimonianza resa davanti a Dio, una preghiera
riversata negli orecchi degli angeli, perchè ormai posso fidarmi solo di me stessa: del
mio cuore, della mia penna. Non ho l’abitudine di tenere un diario, quindi confesso
che ciò che segue è una ricostruzione ma giuro sulla mia anima che riporta o fatti per
come sono accaduti. Per come stanno accadendo.
è bene che si comprenda con estrema chiarezza che io, Catherine Elizabeth Mary
Blake, in data odierna, il 24 dicembre del 1898, sono in pieno possesso delle mie
facoltà mentali, indipendentemente da ciò che si dirà.
Per quanto il mio fisico sia debole e la mia mente molto provata, non sono pazza.

INTERMEZZO MUSICALE

Fui isolata nella stanza carminio. Pronta da quando smisi di avere il ciclo. Un posto
scialbo era, che portava i segni del tempo, con la carta da parti di seta gialla devastata
dalle tarme e le tende di pesante velluto verde che ospitavano le loro uova, e che mi
facevano starnutire ogni volta che le scostavo. Ma l’amavo comunque, quella stanza,
per il panorama.
Blake Manor, dove vivo, sorge nell’intersezione tra la foresta e il fiume, in cima a
una collina che offre una veduta dolce e piacevole di entrambi.
A dispetto della sua attrattiva, la mia casa, come una bambina sgarbata, volta le spalle
alla vallata. L’accesso, i bei cancelli e la facciata danno su un giardino all’italiano
piuttosto banale, disposto come una scacchiera su cui non i gioca, fatta di riquadrati
di rose in estate e di altre rose in autunno. Questa composizione, profumata ancorché
fredda, è gelosamente custodita da Noakes, che, a quanto mi ha raccontato Richard, è
nella casa da sempre. Come accade nelle vecchie tenute, lui e la moglie, la signora
Noakes, cioè la governante, fanno parte di Blake Manor come il pianoforte a coda di
famiglia.
Forse è per questo che la natura selvaggia e il retro della casa sono stati lasciati a se
stessi, privilegiando invece i fiori ordinati di Noakes. Quel terreno non appartiene ai
Blake malgrado i ripetuti tentativi di rilevarlo. Il proprietario è un agricoltore, il
vedovo Bright, che non intende coltivarlo né venderlo. Per ora, però, importa parlare
della stanza, della veduta che mi portò qui, e della mia insistenza affinché venisse
dipinta di rosso.
ATTENDERE CHE LA MELODIA VENGA RIPETUTA IN FA MINORE

Il Dottor Harman si dichiarò contrario sin dal primo momento. Gli era stato insegnato
che la stanza del travaglio deve essere bianca, o comunque di un colore tenue:
azzurrina come neve sciolta, verde come il muschio. Ma insistetti con Richard
affinché fosse rossa, perchè quello era il colore della stanza del travaglio di mia
madre a Bombay, dove ero nata. Mi agitai molto, perchè mamma era morta da
neanche due anni e mi pareva importante he fosse con me in qualche modo. Richard
mi baciò la fronte, un gesto che mi tranquillizza sempre, e mi chiese solo se preferivo
il rosso sala di lettura o il carminio. Scelsi il secondo, perchè sulle labbra aveva un
sapore migliore, come il cilindro pastoso del mio rossetto preferito.
Ne inviarono un grande mastello da Hull.
Il colore non somigliava affatto a quello che mi aveva descritto mamma, caldo,
speziato e riposante, come un sorso di latte di cardamomo.

INIZIA DA SOLA - CAMBIO TEMA

Ma la signora Noakes era lì, con l’espressione di biasimo stampata sul volto
grigiastro, così mi produssi in un gran sorriso e dissi di sì.
Sotto lo sguardo della signora Noakes ho fatto spesso il contrario di ciò che pensavo.
Nei primi cinque mesi ero esausta, con le caviglie gonfie e il corsetto che pareva
stringersi sempre di più quando lo indossavo, ma non le diedi aa vedere quanto
desiderassi riposare, quanto a disagio mi sentissi. Era una sorta di competizione tra
noi, perchè lei è una donna spiccia, mentre io amo le attenzioni. Ma ero scioccamente
orgogliosa e desideravo solo stupirla. Perchè? una governante con la faccia allungata
e ottusa simile a una cazzuola o a un terrier. Il pensiero mi farebbe ridere, se non
avvertissi il forte desiderio di urlare.
Avrei dovuto dire no il giorno in cui mi mostrarono il colore, di sicuro mescolato
sotto l’occhio vigile del diavolo. Un colore che mi faceva pensare alle ferite, alle
viscere dei maiali sventrati. Pensai che non avrebbe avuto importanza, che in fin dei
conti avevo il panorama. Persino quando arrivarono con le tende di velluto di un
rosso purpureo più cupe e pesanti di quelle verdi, non compresi fino in fondo ciò che
mi aspettava. Neanche quando aggiustarono il bottone collegato a una campanella in
cucina. Nè quando la serratura d’ottone più spessa del mio pollice fu montata sulla
pesante porta di quercia, e la chiave, massiccia, elaborata e in copia unica, comparve
sull’anello che la signora Noakes portava appeso alla vita sottile.

SUONO

Chiunque abbia cognizione di queste cose, capirà perchè detesti condividere i dettagli
della nascita, o meglio, quelli che ricordo. Ma le circostanze in cui il travaglio ebbe
inizio sono, a mio avviso, di rilievo.
Da queste parti è costume andare in chiesa ogni giorno dell’Avvento. È anche
costume che nevichi per quasi tutto l’inverno.
Vedere la neve coprire il mondo nel giro di una notte, sentirla attutire i tuoi passi,
strisciarti sugli stivali e inondarti le calze con il suo morso gelido. Il modo in cui
gioca con il suono sballottandolo in giro come fa il gatto con il topo, e il suo
spaventoso scricchiolio, come di ossicini sotto i piedi.
Ero già traballante, con il ventre talmente grande da non poterlo abbracciare, che mi
intralciava le ore di sonno e anche quelle di veglia. Ma la tradizione voleva che si
compisse a piedi il miglio fino alla chiesa, noncuranti del tempo, precisò la signora
Noakes, e in qualità di nuova signora Blake, o quasi, ero costretta a mantenerla.
Richard insistette affinché prendessimo la scorciatoia dal retro della casa sulla neve
fresca. La signora noakes tentò di obiettare, ma fu ridotta al silenzio da una risposta
brusca si mio marito. Gongolai per la sua rabbia, mentre venivo adeguatamente
avvolta in diversi strati di calze di lana e in una sciarpa disdicevole che odorava di
naftalina.
Uscimmo dalle porte della serra, nella neve che arrivava ai polpacci. La lana che mi
copriva le gambe servì solo a inzupparsi di fanghiglia gelida, ma la signora Noakes
mi seguiva da vicino ed evitai di lamentarmene. Richard mi offrì il braccio cui mi
aggrappai, godendomi il suo calore, la sua solidità, mentre le gambe si facevano
pesanti e più ingombranti di quanto non fossero già.
La neve era cartilagine sotto gli stivali mentre percorrevamo la discesa lieve che ci
avrebbe portati alla strada principale strappata a fatica alla fattoria di Bright, che
correva tra la loro terra e la nostra fino alla chiesa.
Ora mi chiedo se non avessi immaginato l’esitazione di mio marito davanti al
cancello che proteggeva la proprietà del vedovo Bright. È sicuro che qualcosa
successe: un respiro brusco, o un tremito sull’avambraccio teso di Richard. Tanto
bastò a distrarmi dall’attenzione feroce sui miei piedi zuppi e a farmi sollevare lo
sguardo sul suo volto. È un bel viso, forse con il mento un poco sfuggente, che lui
camuffa alla perfezione con i baffi. Gli occhi, normalmente sgranati e allegri come
quelli di un cherubino, erano socchiusi. I baffi vibrarono. Sembrava una volpe che
subodori un cacciatore. Sembrava spaventato.
Ma poi percepì il mio sguardo e aprì il cancello, attraversandolo deciso e tenendolo
aperto per me e per i Noakes, che ci seguivano. Ciò che so con certezza di non aver
immaginato è che, prima di oltrepassare il cancello, si fecero entrambi il segno della
croce.

SILENZIO

Richard lasciò che ci precedessero, curvi - persino la singola Noakes, in genere dritta
come un fuso - e lesti come non credevo fosse possibile per due persone della loro
età.
“Cosa gli prende?” chiesi a Richard.
Lui ridacchiò, un tantino troppo stridulo.
“Sai quanto sono superstiziosi i campagnoli”.
Già, Richard si dà arie da cittadino.
“Superstiziosi?” chiesi, intanto che impedivo ai denti di battere, ormai del tutto
distratta dalle gambe intorpidite e malferme.
Richard gesticolò con il braccio libero. Seguii il punto che indicava tra gli alberi
scintillanti e il fine avvolto dalle colline candide.
“Il maleficio di Bright”.
“Un maleficio? Il vedovo è uno stregone?”
“No, la strega è la moglie”.
“Ma è morta!”
“E questo fa di lui un vedovo”.
“Ma perchè la temono?”
“Non è opportuno raccontare una storia simile a una donna nelle tue condizioni. Anzi,
non lo è mai.”
“In tal caso, tanto vale che tu lo faccia” insistetti.
“Come vuoi”.
Ostentò noncuranza, ma accelerò lievemente il passo, costringendomi a caracollare
per stargli dietro.
“Circolano diverse voci sul suo conto. Ma tutte concordano sul fatto che il marito, un
tempo forte e virile, sia stato fiaccato dal matrimonio”.
“Non è ciò di cui si lamentano tutti gli uomini?” lo stuzzicai, ma Richard non
accennò neanche a sorridere della mia arguzia.
“Intendo letteralmente. Io personalmente non l’ho mai visto, ma la signora Noakes
dice che l’ultima volta che lo ha incontrato era… non è una bella parola”.
“Non ti preoccupare”.
“Avvizzito, mi pare abbia detto. Il corpo rattrappito e le guance scavate, le gambe
emaciate. E ancora oggi è così”.
“Sembrerebbe polio. A Bombay abbiamo visto diversi casi.”
“Non si tratta di polio né di altre cose di questo mondo”.
Avrei voluto stuzzicarlo facendogli notare quanto anche lui sembrasse superstiziosi,
ma a quel punto avevo il fiato corto ed ero ben lieta che mi intrattenesse fino alla
chiesa.
“Uno degli effetti deleteri fu che il suo declino lo privò della possibilità di procreare.
Mio padre stesso gli offrì l’aiuto del nostro medico di famiglia, ma lui rifiutò”.
Confesso di non esserne affatto stupita. Il dottor Harman è un uomo brusco, con le
mani gelate.
“O meglio” aggiunse Richard, abbassando la voce anche se i Noakes ci precedevano
di molto e nessuno poteva sentirci, tranne gli alberi “fu la signora Bright a
imporglielo. Noi… loro credono che lei lo tenesse in pugno. Non per amore o per
un’infatuazione. Catturato e dominato, corpo e anima. Posseduto.”
Sbuffai, un suono che non si addiceva a una dama, e Richard sussultò. Trovai fiato a
sufficienza per scusarmi e lui mi batte sul guanto.
“Tutto a posto, mia cara. Il Dottor Harman aveva previsto questi eccessi. In ogni
caso, decisero di crescere, cioè di prendere in custodia, dei bambini”.
La mia mente fu subito invasa da una visione di testoline paffute allineate come rape
su un campo increspato.
“Hai presente? Comprare dei bambini da individui indegni che non sono neanche
capaci di trovare ricetto in un ospizio per poveri. All’inizio non se ne accorse
nessuno, la fattoria è molto isolata, ma presto la polizia venne a sapere che i Bright
avevano comprato una dozzina di bambini”.
“Un atto di misericordia” commentai, massaggiandomi delicatamente il ventre.
Lui ebbe un fremito.
“Non fosse che quando un investigatore condusse un’indagine, non trovò traccia dei
piccoli in casa”.
La gola mi si serrò subito per la nausea.
Avrei voluto impedirgli di proseguire, ma, come quando si è nelle grinfie di un
incubo, non riuscii a fermarlo.
“Li aveva uccisi lei, e li aveva sepolti nel bosco, li ritrovarono quasi tutti. Fu
impiccata per omicidio, ma molti la credono una strega, perchè il signor Bright,
costretto a letto, non sapeva nulla dei bambini. E dopo aver visto la sua fotografia sui
giornali, tenderei ad avere la stessa impressione. Aveva gli occhi neri, come il cuore”.
Volsi nuovamente lo sguardo verso il bosco alla mia detersa, vicino e brulicante.
Notai che Richard mi aveva messo tra sé e la terra dei bright. La neve sul sentiero era
candida, ma i rami del bosco erano talmente fitti che la nevicata si fermava
repentinamente sul loro limitare, come se fosse stato tracciato un margine e i colori
fossero stati divisi tra bianco e nero.
Ho sempre amato l’odore delle foreste. Nei nostri viaggi in India c’erano gli aromi
dolci e pungenti di caucciù e fiori, e tutto era affumicato nel caldo, con le tigri in
agguato. Sapevo che le foreste inglesi avevano un altro sentore, e che la gravidanza
mi aveva modificato l’olfatto, trasformando le mele in marciume e il carbone in
dolcetti appena sfornati.
Ma questo bosco, al di sopra dell’esalazione di naftalina della sciarpa che mi
avvolgeva il collo, aveva un odore profondo e opaco. Terra, certo, ma anche aria,
l’aria notturna rarefatta sulle creste delle montagne, qualcosa di metallico, di fresco,
emanato dalle nuvole o dalle pietre. Odorava, mi imbarazza dirlo, come me, nel posto
da cui sanguinavo e da cui presto avrei generato la vita, dove Richard entrava e da
dove sarebbe uscito il mio bambino. Un afrore familiare e al contempo selvatico che
mi fece rimescolare il sangue.
Le ombre sotto gli alberi sembravano dense e spesse. gli occhi vacillarono, incapaci
di posarsi su un oggetto in particolare, l’oscurità che scavava gallerie tra le cose
vicine e lontane: affaticati dalla neve, presero a dolermi.
Li chiusi per un istante, girandomi verso la casa. Eccola lì, nella sua sacca perfetta
sulla collina. Ecco la serra filtrata attraverso la neve e la brina che scintillava sulle
tegole del tetto. E lì, alla finestra della stanza carminio, le pesanti tende color porpora
si mossero.
“Tutto bene?”
Aguzzai la vista. Le tende erano tornate immobili. Era stato un movimento lieve,
come se qualcuno le avesse scostate un secondo per vedere che tempo facesse. Un
gesto abituale. Ma nella stanza carminio non c’era nessuno. Lo sapevo bene, perchè
la signora Noakes la chiudeva sempre a chiave per tenere lontano terra e polvere, così
quando il travaglio fosse comincia avrebbe dovuto solo scostare il copriletto. E
lasciava la finestra socchiusa, per far entrare l’aria fresca. A increspare il tessuto
doveva essere stata la brezza.
Una conclusione sensata, che mi confortò a sufficienza e mi permise di ignorare la
sua parente più silenziosa. Per appendere ognuna di quelle tende c’erano voluti due
uomini, e nuovi bastoni di ferro fissati con le staffe alla parete. Erano talmente
pesanti che dovevo usare entrare le mani per scostarle. Scrutai gli alberi. Non un alito
di vento ad agitare la spolverata di neve in cima ai rami più alti.
Poi, sotto, nelle ombre alla mia destra, un movimento.
Mi fermai, e Richard mi si rivolse con impazienza.
“Non avrei dovuto raccontarti dei Bright. Sei turbata?”
Non trovai il fiato per rispondergli. Il terrore mi aveva afferrato alla gola.
C’era qualcuno nella foresta. Qualcuno che ci stava osservando.
Il bianco di due occhi. Lo scintillio di una bocca aperta e poi chiusa. Lo schiocco
umido della deglutizione.
Le narici mi si riempirono immediatamente dell’odore selvatico, misto a
qualcos’altro, un fiato tiepido, anche se nessuno mi stava tanto vicino da alitarmi in
faccia.
“Catherine?”
La voce di Richard era lontanissima, come il braccio che mi sosteneva. Era come se il
mio corpo cose svanito, e io avessi solo gli occhi, fissi sulla foresta ombrosa, e un
cuore che batteva tanto forte da farmi vacillare la vista. Nella foresta, la bocca si
spalancò di nuovo, e ora riuscii a scorgere la faccia intorno a quella bocca come se
fosse illuminata dall’interno, le ossa scure contro la pelle.
Dal fondo della gola salì, improvviso e affilato, un verso simile a quello di una volpe
in trappola. Era la mia voce, la mia faccia.
Poi Richard mi stava scuotendo, e avvertii un rilassamento. Tornai di colpo nel mio
corpo, e il mio corpo era in fiamme, il ventre contratto in una morsa. “Signora
Noakes! Ci siamo! Signora Noakes!”
Riaffondai nella neve, e mentre Richard si chiamava su di me, l’odore selvatico mi
riempì il naso, la gola. Le fitte al ventre si fecero più violente, e ne fui travolta. Non
riuscii neanche ad avvertire Richard, a dirgli di girarsi per vederla, in piedi alle sue
spalle. Una donna, con gli occhi neri.

IL PRIMO GIORNO
Mi risvegliai annaspando e gridando in preda a un’ondata di dolore. Avevo le
mandibole strette tra due dita fredde, e sentii del metallo in bocca, poi il sapore
bianco e aspro dell’amla, ma sapevo che non era amla, bensì làudano, e sapevo che se
lo avessi ingoiato sarei nuovamente affondata senza poterli avvertire. Ma la mano
fredda, la mano del dottor Harman, mi chiuse le labbra, e io quasi soffocai e non potei
più oppormi.
Il làudano mi ustionò la gola, e il corpo si appesantì come velluto porpora, percosso
da invisibili ondate di un dolore talmente lontano che riuscivo a percepirlo solo a
tratti. C’erano delle dita che mi strisciavano nel cranio, che tastavano la parte
inferiore della mia mente. In quel momento di confusione abbagliante, lei era entrata,
occhi neri, cuore nero.
La sentivo, ne avvertivo l’odore. Subito dopo le dita frugarono dentro e intorno, sopra
il cranio, tirandomi forte i capelli. Tentati di sottrarmi, ma le dita erano insistenti.
“Avanti, signora Blake. Dobbiamo tenerli in ordine, o i nodi non si scioglieranno
più”.
La signora Noakes. Le mani che mi sistemavano l’acconciatura da parto. In uno stile
che avevo scelto io stessa, due trecce ben fatte, da avvolgere intorno al capo. Ma
erano strette, e le forcine tanto aguzze da trafiggermi la pelle. Avevo la testa pesante
come un’àncora in fondo all’inutile catena del mio collo, ma riuscii a girarmi verso la
sua voce. No, pensai, l’orrore enorme e devastante come un macigno. No.
Gli occhi della signora Noakes erano due buchi neri.
Lottai come chi sta affogando, ormai più acqua che fiato.
Di nuovo, l’amaro dell’amla sulla lingua, e la seconda dose di làudano mi fece
sprofondare negli abissi.
A Bombay il caldo era una coltre, la lecata di una lingua tiepida. Il latrato dei cani ci
svegliava ogni mattina, il tuc-tuc dei ventilatori ci faceva addormentare. La mia
bambinaia scaldava il latte e lo zuccherava. Zuccherava anche l’amla, addolcendo
ogni cosa. Se stavo male cantava per me, anche se mamma e papà pensavano che
fossi troppo grande per cose del genere. Quando ebbi la varicella mi fece il bagno
nello yogurt. E ora volevo la sua tenerezza, il suo calore, il suo latte e i rimedi a base
di dahi.
Sentivo la pelle della testa strapparsi, e anche tra le gambe mi stavo strappando. Le
mani del dottor Harman erano fredde come la neve. Gridavo incessantemente senza
emettere suoni, e alla fine il grido usciì, acuto e penetrante.
Un pianto ininterrotto. Ma non dalla mia bocca.

IL TERZO GIORNO
La stanza era rossa e cupa come l’interno delle palpebre. Giacevo immobile e tutto
era avvolto nel silenzio. Per un lungo istante faticai a capire se fossi sveglia o
addormentata. Il làudano mi stava lentamente rilassando le membra, la lingua, e
provai dolore ovunque appena mi mossi. Poi arrivò il male tra le gambe, e ancor più
la pressione sul cranio, e capii che non stavo dormendo, e che il mondo era cambiato.
Ero diventata madre.
“Vi siete svegliata!” La signora Noakes sedeva sulla poltrona acanto al letto,
illuminata dalla lampada a gas.
Gli occhi erano i suoi, e teneva tra le braccia un fagotto di tessuto bianco e crespo.
“Avete dormito per due giorni interi. Il dottor Harman ha ritenuto meglio così”.
“Il mio bambino?” Avevo la gola talmente secca che gracchiai.
“È una bambina”. Avvertii le lacrime agli occhi, e tesi le braccia per accoglierla.
La signora Noakes si alzò e mi consegnò il fagotto. Un viso roseo, un nasino all’insù,
palpebre di madreperla, labbra disegnate e rosa come un bocciolo, un odore di pane
fresco e lavanda. E l’amore, tanto acuto e ardente da bruciare. Mia figlia. La gioia e il
turbamento mi tolsero il respiro.
“Avanti, signora” disse la signora Noakes, con voce più dolce del solito, il latrato da
terriér ammansito. “Non possiamo permettere che vi agitiate”.
Mi prese la bambina dalle braccia e io tentai di riafferrarla.
“Ma…”
“C’è tutto il tempo” disse. “È stato un parto difficile, e voi lo sapete meglio di
chiunque altro. Il dottor Harman ha prescritto riposo assoluto per tutto l’isolamento”.
La signora Noakes schioccò la lingua davanti alla mia espressione confusa.
“È l’usanza, e il dottor Harman concorda sul fatto che sia la cosa migliore”.
“Non ne ho mai…”
“Venite da fuori, non potete sapere. Ma è una pratica abbastanza diffusa” disse lei,
curvandosi per deporre la mia bambina nella culla che Richard aveva ordinato in
città.
“Nove giorni di riposo”.
“Nove’”
“Dovete bere questo”. Sollevò una tazza fumante dal comodino. Ingoiai il brodo
tiepido.
“Bene. Niente agitazione, nessuna conversazione. Tranquillità assoluta”.
“Richard…”
“Tra qualche giorno. Voi e la bambina dovete riposare fin a quando il dottore vi
dichiarerà guarita”.
Tirò fuori una camicia da notte nuova dalla cassettiera. Sollevai le bracci, obbediente
come una bambina, e lei mi tolse quella vecchia, imbevuta di sudore e sangue, e mi
infilò il cotone pulito da sopra la testa.
“Le trecce hanno retto splendidamente” disse, soddisfatta.
“Le terremo per tutto il periodo. Nel frattempo, dovete suonare il campanello se
desiderate allattarla, o usare il pitale”.
Indicò il pulsante che era stato riparato durante la ristrutturazione.
“Pitale?” ripetei debolmente.
“E per fronteggiare il dolore c’è il làudano”. Diede dei colpetti su un flacone di vetro
sopra la cassettiera.
“È l’ora della vostra razione”.
“Vi prego, posso solo tenerla…”
“Dorme” tagliò corto la signora Noakes. “E se dorme lei dovete farlo anche voi.
Sdraiatevi”.
Scossi il capo. “Vi prego, posso parlare con Richard?”.
“No signora. Ordini del dottore. Se desiderate, lo faccio venire e vi spiega tutto lui
direttamente”.
Ma io desideravo solo vedere la mia bambina e Richard.
Sconfitta dalla risolutezza della signora Noakes, mi adagiai sui guanciali. Lei aprì il
flacone e versò la medicina su un cucchiaio poco incavato. La mandai giù senza un
fiato, accogliendo la spossatezza, l’immediata rilassatezza che il làaudano mi
diffondeva in corpo. Lamia bambina era nata, e io ero viva. Ero più fortunata di tante
altre donne.
La signora Noakes sistemò le tende pesanti con un rumore simile a un fruscio di
foglie. Un brivido di paura mi salì lungo il collo, ma era troppo tardi. Ormai ero in
balia del làudano. La chiave girò nella toppa. Mentre sprofondavo in un oblio attutito,
ricordai le tende che si agitavano per una brezza inesistente, il fiato caldo sul viso. Gli
occhi neri nelle ombre scure. Lo scatto umido di una bocca che si spalancava.

IL QUARTO GIORNO
Mi sollevai a sedere, il ventre e le gambe molli come nodi allentati. Ai piedi del letto,
un essere stava acquattato sopra la culla. Mi mancò il respiro. L’essere era curvo e
basso, come inginocchiato, e io cercai un oggetto appuntito con cui trafiggerlo,
pungergli – pungerle – la schiena inarcata.
Muovendomi piano, mi portai la mano ai capelli e sfilai una forcina dalle trecce
strette raccolte dalla signora Noakes.
La tensione tra le gambe mi disse che la sutura tirava, confermando i timori del dottor
Harman, e fui costretta a strisciare come un bambino fino in fondo al letto. Sollevai la
forcina al di sopra della donna accovacciata.
Sull’arco della schiena le si spalancarono due occhi.
Mi ritrassi, gridando, e di colpo la stanza si riempì di una luce talmente intensa che
parve vibrarmi intorno.
“Catherine!”
Braccia che mi avvolgevano, che mi riportavano al centro del letto. Richard.
“Catherine, non ti devi alzare”.
“Signore, non dovreste essere qui”.
Il dottor Harman prese il post di mio marito, mi posò le mani fredde sulle spalle, mi
sollevò le palpebre. Avvicinò la faccia baffuta alla mia, mentre dietro di lui Richard
misurava la stanza a lenti passi.
“Signora Blake, calmatevi. È il dolore?”
“No!” gridai, indicando i piedi del letto. “Lì!”
I due uomini si girarono a guardare, e Richard scoppiò a ridere. Si spostò sull’altro
lato del letto, si sedette con il candore che adoravo, e mi prese la mano tremante.
“È la nostra bambina, Catherine. O non te la ricordi?”
“Non la bambina” scattai. Mi bruciavano gli occhi per la troppa luce, come tra la
neve e le ombre.
“Lei! È qui!”
“La signora Noakes è di sotto. Basta premere il campanello…”
“Lì!” insistetti, ma stavolta non fu necessario che Richard mi interrompesse. Nella
luce intensa che si riversava all’interno dalla porta aperta vedevo, vedevo
chiaramente.
Non c’era nessuna donna curva sulla culla della mia bambina. Era solo l’ombra della
cappottina, sollevata per proteggerle il viso. La signora Noakes doveva averla tirata
su per farla dormire. E gli occhi, quindi, erano gli occhi della nostra bambina.
Fremetti per quel poco che per poco non era accaduto, e lasciai cadere la forcina.
Un debole vagito si levò dalla culla, e Richard si alzò, prese nostra figlia e me la
portò.
“Signore, non è…”
“Solo per un attimo” ribattè lui, impaziente. “Non vedete che è angosciata?”
“Ecco perché la stanza deve essere mantenuta al buio, signore” ribattè il dottor
Harman. Presero a battibeccare, ma non me ne curai, perché lei era tra le mie braccia,
e io ero ubriaca d’amore. Si accoccolò subito, muovendo appena i piccoli gusci delle
palpebre.
Richard sbuffò, uscendo palesemente sconfitto dalla discussione.
“Forza, Catherine”.
Mi stampò un bacio baffuto sulla fronte e mi tolse dolcemente la bambina dalle
braccia.
“Ancora una settimana e sarà Natale e tu starai bene”.
“Potresti avvicinarmela di più?”
Richard guardò il dottro Harman, che socchiuse gli occhi.
“Questo vi impedirà di alzarvi per guardarla?”
“Certamente” risposi. “Desidero solo averla accanto a me”.
Il dottor Harman annuì, contrariato. Richard sollevò la culla e la sistemò con
delicatezza vicino al letto. Io mi ridistesi con un sospiro e il dottor Harman si fece
avanti con lo spaventoso cucchiaio.
Inghiottii, rievocando la mia ayah e le bacche di amla, la guancia della mia bambina
appena visibile, il torace che si sollevava e abbassava lieve mentre la porta veniva
nuovamente chiusa e la stanza ripiombava nell’oscurità rossa e nera.

IL QUINTO GIORNO
Nella stanza carminio non si aveva la percezione del giorno e della notte. Le tende
porpora erano bordate di un tessuto impenetrabile, e fu solo il quinto giorno,
risvegliata dalla vescica piena, che raccolsi le forze necessarie per andare alla
finestra.
Mi girai con cautela su un fianco, per guardare la piccola.
Dormiva, come pareva fare sempre, fasciata talmente stretta che si vedeva solo la
testa, perfettamente rotonda, le ciglia che le sfioravano la guancia.
Dominai l’impulso di portarmela al seno e mi sollevai a fatica. Ero stata costretta a
suonare il campanello e a ricorrere alla signora Noakes per ogni piccola esigenza, ma
quel giorno il dolore era un poco diminuito, e non volevo ancora riaffondare nella
nebbia del làudano.
Mi accucciai sul pitale, sorreggendomi alla struttura del letto, soffiando per le suture
che tiravano e la pelle che bruciava. Era troppo buio per vedere i contenuto del vaso,
ma ultimamente le mie urine erano tinte di sangue, cosa normale secondo il dottor
Harman.
Spinsi nuovamente il pitale sotto il letto, per nasconderlo alla vista, e mi raddrizzai a
forza. Era la prima volta che mi alzavo da giorni, e quasi svenni, la testa leggera per il
làudano e i brodini. Un effetto collaterale della medicina era la perdita dell’appetito,
ulteriore motivo per sentire le mancanze della mia ayah che mi curava con paratha
fritta nel ghee e dahl talmente denso da incollarsi alla gola, condito con l’aglio.
Qui invece era come se venissi punita, ridotta quasi alla fame e drogata, senza
nessuna compagnia e al buio. A questo punto però potevo porre rimedio.
Sentivo le gambe gonfie e rigide e camminavo come se stessi avanzando nella neve
che mi aveva indotto le doglie, facendomi strada alla cieca nell’oscurità torbida, fino
a quando avvertì il tessuto soffice delle tende contro i palmi.
Le afferrai e avvicinai il corpo, premendolo contro la loro lunghezza e ansimando
lievemente per lo sforzo di quella breve traversata.
Dietro di me, mia figlia sospirò e succhiò nel sonno.
Sospirai in risposta, la lancia affilata dell’amore che mi trafiggeva il petto mentre
scostavo un drappo pesante, l’anello di ferro che strideva contro il bastone.
Dall’apertura filtrò un chiarore incerto, fioco l’inequivocabile tenue luce del primo
mattino, e io mi inserii nello spazio tra la finestra e la tenda, per impedire alla luce di
colpire il viso di mia figlia. Mantenni gli occhi socchiusi per dar loro il tempo di
adattarsi e allungai i palmi, appoggiandoli contro il vetro. Dalle lastre sottili giunse
immediatamente la spinta del freddo, i telai pitturati di fresco incapaci di opporre
resistenza all’inverno inglese.
Scostai ancora un poco le palpebre, e scoprii una nebbia grigia che premeva forte
contro il vetro. La notte indugiava sul limitare del giorno e appoggiai la fronte sulla
superficie gelida, che si appannò con il mio respiro.
Mi vidi riflessa nello specchio fatto di vetro e nebbia. Oltre non scorgevo nulla, e mi
sforzai di rievocare l’amato panorama: il fiume, le colline, la foresta…
Il mio viso si offuscò. Sollevai la mano per ripulire il vetro del mio fiato, ma il
riflesso a quel punto si divise, si separò. Posai nuovamente la mano sulla finestra, per
sostenermi, temendo di essere sul punto di svenire, ma il corpo era fermo, immobile e
intrappolato, come se mani e testa fossero legate. Davanti a me, il mio viso si ritrasse
sempre più, anche se avevo ancora la fronte premuta contro il vetro.
Non ero più padrona di me.
I capelli erano sciolti e arruffati anche se avvertivo la presa salda delle trecce della
signora Noakes.
Gli occhi erano enormi e senza cornea. Sotto le mani, oltre il vetro sottile, avvertii
l’improvviso risucchio di un calore feroce.
C’era un’altra mano, schiacciata contro la parte esterna della finestra. Cominciò a
premere con una lentezza insostenibile. Sentii il vetro scricchiolare, e la faccia con i
capelli sciolti e gli occhi neri che si era staccata dalla mia si aprì in un grande sorriso.
I denti erano bianchi e regolari, e l’espressione talmente malvagia che il cuore quasi
si fermò in petto. Era lì per farmi del male, per fare del male alla mia bambina.
Premetti il palmo a mia volta, e il suo sorriso si allargò.
Protese la fronte per farla combaciare con la mia: era calda e febbricitante. Avvertii
l’odore selvatico che avevo sentito nella foresta, di metallo e pacciame, e sotto le
mani il vetro cominciò a rompersi, fratture sottili che si diramavano in ragnatele.
Stava per entrare. Stava per prendere mia figlia.
Ero debole per il parto e i giorni passati a letto, soffocata da un terrore assoluto che
quasi mi toglieva il respiro, ma spinsi, contrastando la sua forza. Il suo sorriso si
allargò all’inverosimile, come sul punto di ingoiarmi tutta intera, gli occhi due pozzi
profondi, il suo olezzo soffocante, e io spingevo e spingevo, e urlavo per lo sforzo.
Incontrai il suo sguardo e caricai tutto il peso sulle mani.
La finestra andò in frantumi, e lei rinculò all’indietro, dissolvendosi nel grigio. La
nebbia inondò la stanza e io barcollai, i piedi aggrovigliati nelle tende, il bastone di
ferro che si staccava dalla parete e rovinava sule assi di legno al mio fianco. Ma non
me ne curai, volevo solo raggiungere la mia bambina che ora piangeva nella culla.
A malapena mi accorsi della porta che veniva spalancata, dall’urlo allarmato della
signora Noakes; a malapena sentii la stanza riempirsi di un freddo gelido; a malapena
notai che i miei palmi erano tagliati e sforacchiati dal vetro. Avvicinai mia figlia al
petto, strappando la camicia da notte per sentire la sua pelle contro la mia, e ci vollero
il dottor Harman e Richard insieme per togliermela dalle braccia.

IL SESTO GIORNO

“Impossibile” sentenziò il dottor Harman, sollevando la voce in risposta al sibilo di


Richard. “Nel migliore dei casi è dissenato, nel peggiore pericoloso per madre e
figlia”.
“Non permetterò che vengano separate” ribatté Richard, usando lo stesso tono.
“Perché poi? Per un incidente?”
“Ritenete che si sia trattato di un incidente, signore?”
“E’ quello che afferma lei, e io le credo”.

“Questa per voi è una novità, signore. Il matrimonio, i figli. Io invece vi ho assistito

infinite volte. E’ un’esperienza che cambia una donna, che altera irreparabilmente il

suo stato mentale. Vostra moglie mostra i segni di un disturbo grave”.

“E come intendere porvi rimedio, voi?” urlò Richard, tanto forte da permettermi di

staccare l’orecchio dalla parete. “Ancora laudano? Altro buio?”

“E’ provato scientificamente” rispose il dottor Harman.

“E lo sostiene la tradizione. Anche vostra madre…”

“Separare una madre dal proprio figlio: è scienza, questa?”

La voce del dottore si ridusse nuovamente a un sussurro indistinto. Io mi girai per

tornare a adagiarmi sui cuscini.

Avevo le mani in grembo, rese irriconoscibili della fasciature, la tintura di iodio con

cui il dottor Harman le aveva disinfettate che macchiava di giallo il tessuto, e che

bruciava più dei tagli.


Ero oppressa dal senso di colpa, mentre ascoltavo Richard che mi difendeva in quel

modo. Ma non c’era verso di dirgli la verità. Sapevo cosa sarebbe sembrato, sapevo

che mi avrebbero tolto la bambina e mi avrebbero imbottita di laudano o, peggio

ancora, mi avrebbero allontanata, come mia madre.

Ma sapevo anche ciò che avevo visto, percepito, odorato.

E la verità, per quanto improbabile, era che la strega Bright era venuta a prendere mia

figlia, e che a impedirglielo era stata io. Avevo ingaggiato una battaglia per salvare

l’anima stessa della mia bambina. La guardai giacere satolla di latte nella culla,e la

garantii per l’ennesima volta che con me sarebbe stata al sicuro. Era fondamentale

che rimanessimo unite.

Così propinai a Richard una spiegazione che apparisse sensata. Mi ero svegliata

confusa per il laudano, e avevo cercato di aprire la finestra, urtandola con tanto forza

da rompere il vetro.

La signora Noakes raccolse i frammenti caduti a terra, il suono tintinnante che mi

dava ai nervi, e Noakes inchiodò delle assi spesse sull’intelaiatura. Si parlò di

spostarci dalla stanza carminio, ma si ritenne che sarebbe servito solo ad aumentare la

mia afflizione. E ora il caro Richard aveva alzato la voce affinché non fossimo

separate e perché la cura avrei sopportato il dolore, ma avevo bisogno di mantenere la

lucidità in caso la strega Bright fosse tornata alla finestra.

Il dottor Harman fu allontanato da casa con disonore, ma Richard concordarono sul

fatto che l’isolamento dovesse continuare. Richard mi concesse un’altra lampada a

gas, e quando mi lamentai della noia accettò di portarmi carta e penna in modo da

registrare i fatti con tutta la chiarezza possibile.


L’unico cambiento che non chiesi fu che si smettesse di chiudere a chiave la porta. Il

terrore mi confondeva la mente. Mi pareva che la serratura fosse una protezione

valida dagli assalti della strega Bright. Ora so che fu un errore fatale. Non esiste altra

difesa dal male se non il bene.

Nessuno può resistere al diavolo, tranne Dio.

IL SETTIMO GIORNO

Per impedirmi di dormire mi spostai sul ciglio del dolore. Ritrovai tra le lenzuola la

forcina che avevo scartato e me la incastrai alla base della schiena, così se avessi

cominciato a adagiarmi tra i guanciali mi avrebbe punta, svegliandomi. Tenevo le

lampade a gas al massimo e non suonavo mai il campanello: preferivo il disagio

quando dovevo allattare la bambina o quando dovevo usare il pitale, per impedire alla

signora Noakes di aprire la porta.

Non so se vi sia mai capitato di non dormire per tutto un giorno, ma è la cosa più

vicina alla tortura cui io possa pensare. La testa si fece presto febbricitante, mentre

l’urina continuava a essere calda, pungente e rossastra. Scovai dei vecchi Sali nella

cassettiera e mi misi ad annusarli fino a farmi sanguinare il naso, macchiando le

fasciature. La signora Noakes, quando venne a portarmi il brodo, pensò che il sangue

provenisse dai tagli e mi medicò con delle garze pulite. Stavo imparando che una

donna è fatta di sangue, dal mestruo al parto, senza posa. La mia ayah me lo aveva

spiegato, ma fino a quel momento non le avevo dato credito.


Tuttavia, l’incontro con la strega Bright aveva rafforzato anche me. L’avevo respinta.

Ero arrivato al settimo giorno di isolamento e, se fossi riuscita a restare sveglia per

altri due giorni, io e la mia bambina saremmo state benedette, salve e al sicuro.

Ovviamente, rimanere svegli non è cosa facile.

Soprattutto quando si è indeboliti dalla perdita di sangue, dal sostentamento a base di

brodo e dal buio… si tende ad appassire come un fiore deperito. Quindi, la forcina, i

Sali, la determinazione e la cognizione di registrare gli eventi, di ricordare a me

stessa che non si tratta di un sogno spaventoso, ma della mia spaventosa realtà.

L’OTTAVO GIORNO

Erano quasi le sei e Richard mi aveva appena spiegato da dietro la porta chiusa a

chiave che lui e il signor Noakes erano costretti ad andare in chiesa, visto che erano

mancati a diverse funzioni dell’Avvento. Gli chiesi per l’ennesima volta se non

potessi accompagnarlo, ma rispose che era fuori discussione, e che la signora Noakes

era in cucina, se avevo bisogno. Mi appoggiai lievemente alla forcina, e dissi con

voce ssicura che ero a posto. Nostra figlia guardava la luce della lampada da gas

tremolare sul soffitto, e io guardavo lei, lo scintillio umido dei suoi occhi, le lunghe

ciglia, quando di colpo le lampade si spensero.

Tra l’ora tarda, la porta serrata e la finestra chiusa con le assi, l’oscurità era assoluta.

Mia figlia piagnucolò e io la sollevai delicatamente, trovando con sollievo la guancia

tenera, il profumo di lavanda delle sue fasce. Me la poggiai sul morbido

rigonfiamento del ventre, cullandola piano con una mano, mentre con l’altra cercavo

la lampada.
Mi accorsi di un sibilo, e fui immediatamente travolta dalla paura. Un soffio lungo,

costante e forte, tra i denti serrati.

Piroettai su me stessa, alla cieca.

“C’è qualcuno?”.

Nessuno risposta. Solo quel sibilo orribile e innaturale.

Tastai le lenzuola a caccia della forcina, senza trovarla. Spalancai gli occhi, per

cogliere anche solo un briciolo di luce, sicura che avrei visto la faccia terribile della

strega Bright, i suoi capelli lisci, gli occhi neri… poi sentii un odore. Non l’afrore

della foresta, non il mio sudore pungente o la pelle fresca della mia bambina. Era

aspro e familiare.

Gas, rilasciato dalle lampade spente.

Quasi piansi per il sollievo, tenendo ancora mia figlia stretta al petto, e girai piano

intorno al letto fino al comodino dove si trovano le lampade. Persino attraverso le

bende percepii il caloro residuo, mentre il vetro diffondeva tepore nell’aria. Mi

ricordò i suoi palmi contro i miei alla finestra e ritrassi la mano con un sussulto,

stringendo la bambina tra le braccia. L’odore di gas era sempre più forte, e sapevo di

dover spegnere le lampade per impedirgli di riempirci i polmoni.

Ancora quasi cieca, deposi mia figlia sul letto e con le mani impacciate cercai a

tentoni le viti di metallo. Ne trovai una e le girai, sollevata: il sibilo si attenuò.

Cominciava a girarmi la testa, e mi costrinsi a non cedere al panico. Tastando l’altro

lampada e le mie dita urtarono il vetro bollente, la pelle sfrigolò, ma sentii la mente

annebbiarsi e cercai la vite.

La trovai, la girai bruscamente e il sibilo cessò.


“Ecco” dissi per placare il cuore impazzito. “Ecco”.

Mentre mi giravo per sollevare la bambina, sentii un altro suono.

Un respiro. Proveniva dall’angolo opposto della stanza, accanto alla finestra sbarrata.

Mi irrigidii,, curva sulla mia bambina, e il respiro si avvicinò.

Cominciai a battere i denti. L’odore di terra soppiantò quello del gas, e il respiro

avanzò ancora. Niente passi, nessun altro suono eccetto quell’ansito, pesante e cauto,

inconfondibile, spaventoso.

Poi avvertii un tepore sul collo, la mia bambina piagnucolò e io mi riebbi. Sollevai

mia figlia e la tenni stretta.

“Vattene!” gridai. “Vattene!”

Con l’altra mano premetti il campanello, ripetutamente. Il suono del respiro, il tanfo

di cose sepolte da tempo mi riempirono orecchie e bocca, e io indietreggiai verso

l’uscio, scalciando. Battei con la schiena e i piedi contro la porta chiusa a chiave,

gridando e piangendo. La strega Bright mi si parò davanti, invisibile al buio, e

appoggiò la fronte contro la mia, la bambina schiacciata tra di noi.

La porta si aprì e io quasi caddi all’indietro. La signora Noakes gridò e mi raddrizzò,

ma io mi ritrassi.

“Signora?”

Sembrava provare lo stesso mio terrore, con gli occhi sgranati, la bocca spalancata

per il turbamento. Tese le mani per prendere la bambina, ma alle sue spalle, nella

stanza carminio in penombra, le tende si agitarono. La strega Bright stava arrivando.

Scansai la signora Noakes e chiusi di schianto la porta.

“Serratela!” urlai al di sopra delle grida della bambina.


“Serratela!”

“Datemi la piccola” disse lei, con voce scossa.

La strinsi più forte. “Per l’amor di Dio, serrate la porta!”

Mi allungai verso le chiavi che la signora Noakes teneva legate in vita, e lui urlò e si

ritrasse urtendo l’uscio. I cardini cadettero e la porta rimbalzò contro la cornice,

spalancandosi, nera come una bocca.

La strega Bright era uscita.

Corsi.

Avevo i seni pesanti e indolenziti per il latte. Tra le gambe avvertivo il bruciore e la

tensione. I piedi erano gonfi, intorpiditi per l’immobilità, ma corsi con la bambina tra

le braccia perché da quello dipendevano entrambe le nostre vite e le nostre anime.

“Signora Blake!”

Alle mie spalle, la signora Noakes si stava rialzando, ma era piegata in due e contusa,

mentre io, per quanto debole, ero ancora giovane. Ero impazzita per la paura e la

furia: nessuno avrebbe fatto del male alla mia bambina fintanto che avessi avuto fiato

nei polmoni.

Mi precipitai giù per le scale, i piedi nudi che risuonavano sul legno, e mi lanciai

fuori di casa, verso la serra. Vidi che Noakes e Richard erano passati da lì: le orme

erano ancora impresse sulla neve fresca.

Non c’era tempo per prendere un cappotto, da sopra arrivava un rumore di passi

troppo attenti e rapidi per essere della signora Noakes. La mente mi vorticava. E se

fosse stata posseduta? E se in quel momento fosse nelle grinfie della strega di Bright?

C’era un solo posto dove saremmo state al sicuro.


Avanzai barcollando nella notte fredda e bianca. I piedi mi bruciavano mentre

attraversavo il fuoco e mi catapultavo nel breve tratto fino al cancello.

“Signora Blake, fermatevi!”

La sagoma della signora Noakes si stagliò sulla soglia. Sembrava enorme, i capelli

sciolti intorno al viso, e con una velocità inverosimile mi inseguì nella notte.

Mi precipitai oltre il cancello. Le orme di mio marito brillavano alla luce delle stelle:

il sentiero verso la salvezza.

Continuai ad arrancare, senza il fiato per tranquillizzare mia figlia, senza riuscire a

farle capire che era per lei che correvo nella notte gelida, così dovetti sopportare le

sue grida, i suoi lamenti, che mi straziavano il cuore.

“Ferma!”

La strega Bright non si preoccupava neanche più di camuffare la sua voce. Era una

voce profonda e orribile un muggito. Ma non intendevo obbedire, fermarmi; avrei

salvato l’anima di mia figlia, a costo di ridurre il mio corpo a un rottame. Osai

guardarmi indietro, e lei era vicinissima. Alla mia destra, la foresta era increspata di

malvagità, le ombre piene di anime sepolte, perdute e vaganti.

“Non l’avrai!” gridai. “Non la prenderai!”

Davanti a me, l’ultimo tratto fino alla chiesa era bordeggiato di candele. Un albero di

Natale carico di neve e con in cima una stella argentata sovrastava la struttura di

pietra.

Ma eccola: la croce. La salvezza. Il santuario.


La messa era finita, la porta spalancata riversava luce dorata sulla neve. Le ombre

rasentavano i gradini, ma io le respinsi, mandandole gambe all’aria, e mi precipitai

oltre la soglia.

Affannata, caddi in ginocchio davanti all’altare. Vidi il volto del prete paralizzato dla

turbamento, sentii Richard che mi chiamava, avvertii il tepore di due mani

spaventosamente roventi sulla mia pelle congelata, che cercavano di strapparmi la

bambina.

“Vi prego” dissi, resistendo con la forza che mi restava.

“Beneditela. Vi prego”.

Il prete mi si inginocchiò davanti, il volto segnato e gentile. Tutto il mio corpo fu

scosso da un brivido di sollievo e di freddo. Posò la mano sulla testa della bambina e

mormorò una benedizione.

Le grida della piccola si attutirono e il visino contratto si rilassò. Le asciugai le

lacrime sulle guance tenere e la baciai sul naso.

“Salva, finalmente” sussurrai. “Salva”.

Sollevò le palpebre perfette e rosate. Nella luce consacrata, gli occhi della mia

bambina scintillarono, neri.

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