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Coordinamento scientifico-editoriale
Elio Matassi - Ivana Bartoletti - Carmelo Meazza

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Bruno ACCARINO (Univ. di Firenze), Massimo ADINOLFI (Univ. di Cassino), Claudia BARACCHI (The New
School for Social Research, New York); Massimo BARALE (Univ. di Pisa), Giuseppe BEDESCHI (Univ. La Sapien-
za, Roma), Luigi BERLINGUER (Univ. di Siena), Enrico BERTI (Univ. di Padova, Accademia dei Lincei), Franco
BIASUTTI (Univ. di Padova), Remo BODEI (University of California (Los Angeles)), Almut Sh. BRUCKSTEIN
(Ha’atelier, Berlino/Gerusalemme), Massimo CACCIARI (Sindaco di Venezia, Univ. San Raffaele, Milano), Giusep-
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(Univ. di Cagliari), Umberto CURI (Univ. di Padova), Antonio DA RE (Univ. di Padova), Roberta DE MONTICELLI
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(Univ. di Venezia), Mauro VISENTIN (Univ. di Sassari), Franco VOLPI (Univ. di Padova).

Idee per un nuovo orizzonte della laicità. Filosofie per una riforma della politica
Http://www.Inschibboleth.org - Mensile on line (con aggiornamenti settimanali), Luglio-Settembre 2008, n° 10.
(Numero 11, 30 Settembre 2008) - Registrazione presso il Tribunale di Sassari. Redazione principale: via Nazionale 75, 00184 Roma. Redazione
virtuale on line su Skype. Ufficio stampa, Enrica Sanna. E-Mail: infotiscali@inschibboleth.org Direttore responsabile: Aldo Maria Morace.
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I N D I C E
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Il Partito Democratico tra partecipazione e spettatorialità


di ELIO MATASSI p. 3

Gelmini e l’economia
di UMBERTO CURI p. 7

Il maestro unico e la riforma Gelmini


di EUGENIO MAZZARELLA p. 9

��� La ragione filosofica e la fede cristiana


di MARCO IVALDO P. 12

Intervista a Giovanni Ferretti


A CURA DELLA REDAZIONE p. 18

Il consumo consuma. Globalizzazione e principio di unicità


di SILVANO PETROSINO P. 25

Rileggendo Il Senso del fondamento di Aldo Masullo


di ARMANDO RIGOBELLO P. 29

Memoria e politica. Attualità di Antigone


di CARLA CANULLO P. 33

Il rapporto medico-paziente: il modello deliberativo alla prova


di CORRADO VIAFORA P. 37

La difficile prova del progetto “nazionale”


DI ALFREDO REICHLIN P. 48

A cento anni dalla “voce”. L’eredità culturale del primo Novecento


DI UMBERTO CARPI P. 52

Analisi di un partito in cerca di identità


DI IVANA BARTOLETTI P. 58
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Il Partito Demo-
cratico tra
partecipazione e
spettatorialità
di Elio Matassi

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La minaccia estrema che nella contemporaneità ipoteca la politica, limitan-


done potenzialità e sviluppi, sta nella crescita esponenziale di quella che può
essere definita, con un neologismo non molto elegante, ‘espertocrazia’. In
una società la cui complessità interna aumenta costantemente e lo Stato, pa-
rallelamente e specularmente, si frantuma in una molteplicità di istanze po-
litico-amministrative che operano a più livelli, il ruolo dei tecnocrati cresce
inesorabilmente. I politici, per parte loro, si trincerano dietro i pareri degli
esperti, in modo che, alla fine, nessuno risulta responsabile né tantomeno
colpevole di nulla.
Andando ancora più a fondo, la depoliticizzazione nasce in questo caso dal-
l’idea che per ogni problema politico o sociale vi sia alla fine un’unica solu-
zione tecnica possibile che spetta agli ‘esperti’ trovare. La conseguenza sta
in un esercizio sempre più razionalizzato e burocratico del potere e i politici
dimenticano che sta a loro decidere le finalità dell’azione pubblica; questo
atteggiamento presume che la democrazia sia una cosa troppo fragile per
essere affidata al popolo e che, per restare “governabile”, essa debba essere il
più possibile sottratta alla partecipazione e alla deliberazione pubblica. Così
come l’ideologia economicistica tende a mettere sullo stesso piano il governo
degli uomini e l’amministrazione delle cose, nella stessa misura l’‘esperto-
crazia’ realizza la politica in quanto attività fittizia che scaturisce dalla sola
autorità della ragione. L’ideologia economicistica è l’erede di quei teorici
che credevano, sul modello delle scienze esatte, di poter trasformare l’azione
politica in una scienza applicata fondata sulle norme della fisica o della ma-
thesis. L’obiettivo è quello, sopprimendo la pluralità delle scelte, di eliminare
l’indeterminatezza ed anche il conflitto, per definizione fonte di incertezza.
La speranza, certamente sempre frustrata, sta nel far coincidere razionale
e reale lavorando per un futuro ‘scientificamente’ prevedibile. Ricondurre
la politica ad un’attività di valutazione tecnica porta, dunque, a privare il
cittadino delle sue prerogative, riducendo il gioco politico all’esercizio di
una razionalità universale. Aristotele, quando richiama la nozione di saggez-
za pratica, mostra bene la differenza che esiste tra razionale e ragionevole,
mettendo in discussione con forza l’idea che la politica possa mai coincidere
��������� con una scienza; il pensatore greco mette in guardia contro la congettura
che si possa applicare allo stesso grado di rigore e di precisione delle scienze
matematiche anche l’ordine delle cose umane, variabili e soggette alla scelta.
La conclusione che se ne può desumere è che gli esperti possano avere un
ruolo che non sia subordinato. La competenza politica non dipende dalla
perizia tecnica, perché non è agli esperti che compete determinare le finalità
dell’azione pubblica. Il popolo associato, nella sua diversità, riunisce com-
petenze di cui nessun individuo può disporre separatamente. Il cittadino
non ha bisogno di essere un esperto per partecipare alla deliberazione ed
esprimere le sue preferenze o le sue scelte. In ultima analisi si può plausibil-
mente affermare che lo sviluppo tecnologico, nell’arco di alcuni decenni, ha
trasformato la vita delle società più in profondità di quanto non abbia mai
fatto qualsiasi governo. E’ proprio in questo senso che possiamo affermare,
con Massimo Cacciari, che “l’imposizione dell’immanenza tecnica significa
depoliticizzazione globale”. ‘Governo degli esperti’, così come ‘governo dei
giudici’ o ‘governo dei mercati finanziari’, sono solo formule che sottolinea-
no come lo spazio del politico sembri oggi essersi ristretto. La questio sta nel
comprendere come questo spazio sappia o possa ritrovare le sue prerogative
ed, in modo particolare, essere rimodellato.
E’, dunque, necessario rafforzare l’idea stessa di ‘democrazia’ e, a questo
fine, è indispensabile, per così dire, un ritorno alle origini. In Europa, la
politica appare in Grecia contemporaneamente alla democrazia. O meglio,
appare in quanto democrazia. Non si tratta affatto di un caso. Se si ammette
che la partecipazione alla vita pubblica è il mezzo migliore per l’uomo di
realizzare se stesso e di esercitare la sua libertà – così come afferma una
tradizione che va da Aristotele a Hannah Arendt – allora bisogna anche ri-
conoscere che la democrazia non è il meno cattivo dei sistemi politici, come
sostengono sdegnosamente coloro che vi vedono solo il male minore, ma
è proprio il migliore – ed anche, forse, il solo che possa essere considerato
come veramente politico, essendo anche il solo il cui principio poggia sulla
partecipazione del maggior numero di persone agli affari pubblici. In ulti-
ma analisi, la democrazia prima di essere rappresentativa è partecipativa.
Quest’ultima è una delle forme di riconoscimento reciproco all’interno di
una data comunità. In seno a questa comunità, la democrazia partecipativa
ottiene ciò che l’antico diritto delle genti riusciva ad ottenere solo con la
guerra: ridurre le ostilità. Essa permette di regolare pacificamente i conflitti e
di scegliere tra i contendenti senza criminalizzarli né annientarli. Ogni forma
di dispotismo, al contrario, essendo riconducibile ad un semplice gioco di
potere, tradisce lo spirito del politico poiché poggia su una espropriazione.
Oggi la politica è per lo più concepita in maniera impolitica, non solo perché
la natura vera del politico non è più percepita, ma anche perché essa si trova
sempre più minacciata dalle tendenze egemoniche dell’economia, del diritto
e della tecnologia. Dominio del mercato e dei valori mercantilistici, giuridi-
smo ipertrofico, espertocrazia: queste sono le grandi figure contemporanee
le cui pretese crescenti si affermano a scapito del politico accelerandone la
sua desimbolizzazione.
Il Partito Democratico, ben al di là delle sue difficoltà tattico-strategiche,
è nato proprio in vista del superamento di tale empasse della democrazia
rappresentativa, un superamento che parte da una riflessione a tutto campo
di una nuova forma di partito che inglobi in sé l’istituzionalizzazione delle
‘primarie’ a vari livelli, che sole possono consentire il pieno recupero della
dimensione più originaria della democrazia, quella partecipativa.
Una svolta che si propone di assimilare alcune delle suggestioni più significa-
tive, prospettate dal dibattito etico contemporaneo, in particolare dall’etica
delle capacità (soprattutto nella declinazione di A. Sen), dall’etica della cura
(con particolare riferimento alla prospettiva di J. Tronto, argomentata in
Confini morali) e dall’idea di etica planetaria elaborata da E. Morin. L’esito
��������� di tale percorso etico-concettuale è rappresentato dalla proposta di un con-
tratto sociale planetario che, nell’accogliere la sfida della globalizzazione, sia
in grado si tener conto dei bisogni ed emergenze di nuovi soggetti contrat-
tuali ben al di là degli Stati-Nazione.
Contro le tesi radicali degli anarcocapitalisti – penso in particolare a M.N.
Rothbard e H. Hoppe – A. Sen, per esempio, prospetta un’interpretazione
più fondata di A. Smith che presenta, tra l’altro, anche il merito di riconside-
rare l’evoluzione storica della dimensione economica. E’necessario ricordare
che tale disciplina nasce e si sviluppa all’interno della filosofia morale. Il
recupero delle prerogative etiche dell’economia consente di comprendere
come solo una visione angusta e riduttivistica possa presumere che all’eco-
nomia siano estranee domande quali: come bisogna vivere? Quali esiti hanno
prodottole mie scelte a livello sociale? Non bisogna in alcun modo stravol-
gere la teoria dei sentimenti morali confondendo il dominio di sé e l’amore
per se stessi, di cui parla Smith, con l’interesse personale. E’ la ‘simpatia’ il
sentimento morale più profondo che deve essere correlato con quell’auto-
disciplina che egli mutuava dagli stoici. Nella Teoria dei sentimenti morali si
può leggere, infatti, un’affermazione come la seguente, “l’uomo dovrebbe
considerare se stesso non come qualcosa di separato, distaccato, ma come
cittadino del mondo, un membro della vasta comunità della natura. Nell’in-
teresse di questa grande comunità egli dovrebbe sempre essere disposto a
sacrificare il proprio piccolo interesse”. A Smith, teorico del liberismo, su
queste basi etiche, non era assolutamente contrario, a differenza di Malthus,
alla Poor law, alla legge che consentiva il sostegno dello Stato ai poveri. Sen,
inoltre, osserva come Smith abbia esaminato “anche l possibilità che le ca-
restie nascessero da un processo economico comportante un meccanismo
di mercato, e non fossero causate da una reale scarsità generata da un calo
della produzione di cibo”. Nella valutazione della cause del sottosviluppo,
dovremo dunque prestare grande attenzione alle dinamiche di mercato ed
alle politiche economiche.
Quanto acquisito finora diventa importante anche per l’analisi del fenomeno
della globalizzazione per l’individuazione di proposte alternative sia sul pia-
no della teoria, sia su quello pratico, al liberismo incentrato sul self interest
ed all’anarco-capitalismo.
La realtà effettuale del mondo globalizzato pone il Partito Democratico di
fronte ad alcuni aspetti da cui non è possibile prescindere: in primo luogo,
l’ottanta per cento della popolazione mondiale vive in condizione di indi-
genza e povertà, mentre il restante venti per cento si trova in condizioni di
opulenza tale da configurare un vero e proprio spreco di risorse. La globaliz-
zazione può costituire la grande occasione per ridurre tale scarto. Perché ciò
avvenga è, però, necessario affrontar la sfida della costruzione del consenso
intorno a principi etici che non possono non essere globali. Pensatori come
A. Sen ed E. Morin parlano a tale proposito della necessità di un’etica glo-
bale o planetaria.
Sono questi due piani sui quali il Partito Democratico dovrà cercare di co-
struire una nuova ‘egemonia’: ripudiare la filosofia della spettatorialità (il
cittadino ridotto a spettatore) che governa il codice genetico del PdL e che
sembra lambire anche quello del PD, per abbracciare fino in fondo la parte-
cipazione con l’adozione conseguente di una forma-partito ad hoc.
Lo spostamento dal piano nazionale a quello internazionale della dimensio-
ne etica e di quella contrattuale, rovesciando in tal modo il mediocre pro-
tezionismo di breve respiro che sembra caratterizzare la politica etica ed
��������� economica del PdL.
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Gelmini e
l’economia
di Umberto Curi

In visita sabato scorso a Venezia, il ministro Mariastella Gelmini si è det-


ta scandalizzata per essere stata accolta da una manifestazione ostile di
alcune centinaia di insegnanti, allievi e genitori. “Mai avrei pensato che”
– ha affermato – “facendo il ministro della Pubblica Istruzione. Mi sarei
dovuta avvalere della collaborazione delle forze dell’ordine”. Ha ragione. Il
��������� titolare di un dicastero al tempo stesso delicato e strategico, come quello da
lei ricoperto, non dovrebbe essere né protetto né condizionato da “poteri”
esterni. Dovrebbe agire in piena autonomia, guidato esclusivamente da una
considerazione di ciò che si debba fare per organizzare nel modo migliore
i processi di formazione a tutti i livelli. Non dovrebbe perciò dipendere dal
ministro degli Interni e dalla sue forze dell’ordine. Per la stessa logica, in
sé ineccepibile, se ritiene doverosa la tutela della propria autonomia, non
dovrebbe neppure prendere ordini dal ministro dell’Economia. Ma la coe-
renza, al giorno d’oggi, è virtù sempre più rara, in modo particolare tra i po-
litici. Dovrebbe infatti spiegare, la ministra, come mai le uniche motivazioni
addotte per giustificare i provvedimenti assunti, per la scuola elementare e
per l’Università, rimandino ai tagli di spesa imposti da Tremonti. E’ questo,
infatti, il vero nodo della controversia, sorprendentemente eluso nelle molte
discussioni di queste ultime settimane. Un ministro che decida di ritornare
al maestro unico, non sulla base di argomentate ragioni di carattere cultu-
rale, pedagogico e psicologico, ma esclusivamente per tagliare i costi del-
l’istruzione, è un personaggio che rinuncia in partenza ad ogni autonomia, è
letteralmente uno che ha tradito la missione che gli è stata affidata. Un mini-
stro che, d’imperio, senza nessun’altra giustificazione, cancella dall’organico
delle università 4 posti su 5, sia fra i docenti, che nel personale tecnico-
amministrativo, senza fare alcuna distinzione fra aree disciplinari, facoltà e
atenei, senza curarsi di verificare quali squilibri, inefficienze o vere e proprie
paralisi tutto ciò possa produrre, il tutto nel nome dell’inderogabile risana-
mento economico del paese, è un incompetente, indegno di occupare quella
poltrona. Di più: è evidentemente una vittima della pseudocultura generata
e messa in circolazione dal berlusconismo - prima dalle sue televisioni, e poi
dalla sua politica. Una mentalità miope e angusta, interessata esclusivamen-
te alla partita doppia, incapace di concepire altri obbiettivi, che non siano
quelli del profitto, impossibilitata a capire la differenza che passa fra la real-
tà e i reality show, fra la cultura e il gossip, fra la ricerca scientifica e le chiac-
chiere televisive di Zichichi e Odifreddi. Una mentalità secondo la quale
conta solo la quantità, in tutte le sue declinazioni, soprattutto monetarie,
mentre la qualità è un optional del quale si può serenamente fare a meno. E
dunque, che importa se, ripristinando il docente unico, si rischia di compro-
mettere il livello qualitativo di una scuola, quale è la nostra elementare, che è
miracolosamente ai primi posti delle classifiche internazionali? Che importa
se il taglio indiscriminato degli organici universitari aggraverà ulteriormen-
te il fenomeno della fuga dei cervelli, produrrà un generale abbassamento
della didattica, metterà in pericolo la sopravvivenza stessa di dipartimenti e
centri di ricerca? Quello che conta – l’unica cosa che conta – è poter sban-
dierare le cifre dei risparmi fatti, delle spese tagliate, dei costi ridotti. Senza
però dire con quale contropartita queste “economie” siano state realizzate,
senza essere sfiorati dal dubbio che, per il futuro di un paese, e per il suo
stesso sviluppo economico, il taglio dei fondi per la ricerca non è la stessa
cosa del taglio delle auto blu, delle scorte dei politici o della cancelleria per
gli uffici. Anche nella prospettiva economicistica scelta dalla Gelmini, non
tutte le spese sono uguali, non ogni risparmio è equivalente. Tagliare sulla
sanità è incivile. Tagliare sull’assistenza è barbaro. Tagliare sulla scuola è
miope. Intervenire così pesantemente, e in maniera così indiscriminata, sulla
��������� scuola e sull’università, vuol dire compromettere le prospettive a venire di
questo paese, equivale a segare l’albero sul quale si è seduti. E’ vero che le
sciagure non vengono mai sole. Ma chi poteva immaginare che, assieme alla
Carfagna e a La Russa, ci toccasse anche la Gelmini?
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Il maestro unico
e la riforma
Gelmini
di Eugenio Mazzarella

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La ripresa legislativa per la scuola italiana è stata amara in Commissione
Cultura e Istruzione della Camera con l’arrivo della conversione in legge del
decreto Berlusconi-Gelmini sul maestro unico nella scuola primaria. Sostan-
zialmente il piatto forte del decreto, con il contorno scenico del ritorno del
voto in decimi, della valutazione della condotta, e del libro di testo adotta-
bile per un quinquennio. Questo piatto forte del decreto è stato presentato
dal Governo e, con qualche dissimulata sofferenza dalla maggioranza, come
la panacea di tutti i mali della scuola primaria italiana, affetta da bulimia di
spese (lo stipendificio per lo più rivolto a pessimi docenti meridionali con
cui ci ha deliziato la Gelmini quest’estate) e anoressia di risultati di qualità.
Eppure la scuola primaria è l’unico segmento formativo italiano collocato
nelle prime posizioni di tutte le classifiche del settore, anche quelle richia-
mate dal governo. Ma l’argomento per il Governo è debole, a fronte del-
l’esigenza di ridurre il rapporto studenti-docenti, troppo alto rispetto alla
media europea, e di dare alle famiglie più libertà formativa per i loro figlioli,
liberandoli da un tempo in classe troppo prolungato, che gli consenta qual-
che ora quotidiana in più per attività formative extrascolastiche. Il maestro
unico e l’orario obbligatorio di fatto ridotto saranno più efficienti per le
casse dello Stato e per la formazione dei bambini. Questa è la tesi del Gover-
no. Il cui idealtipo educativo, su cui concentrare gli sforzi, è un bambino di
buona famiglia, ben seguito da genitori attenti, che abbiano la disponibilità
economica, e a discendere organizzativa familiare, per attingere liberamente
fuori della scuola, in modo magari più creativo, quel quanto di formazione
extracurriculare che gli viene tolto in classe. In buona sostanza, per strappa-
re un sorriso, la filosofia ‘creativa’ di Linus: “meglio ricchi e felici, che poveri
e malati”. Facendo grazia al Governo dell’obiezione che il rapporto docen-
ti-allievi, per il Governo da abbassare portandolo a medie europee, è incre-
mentato da dati non depurati (ad esempio i docenti di sostegno e di religio-
ne), l’antitesi a questa boutade didattica e formativa è nel realtipo educativo
italiano presente in vaste fasce sociali, soprattutto quelle più deboli, che si
ampliano sempre di più, cominciando ovviamente dal Sud, ai cui peggiori
risultati scolastici medi il Governo pure dice di voler porre riparo. E questo
realtipo parla di famiglie nient’affatto in grado di sostenere costi aggiuntivi
extrascolastici per la formazione dei loro ragazzi, tanto più che non saranno
certamente i Comuni, a loro volta messi in difficoltà dall’abolizione dell’Ici a
poter fornire ai ceti medio-bassi, che sono la maggioranza del Paese, gratis o
a prezzi “popolari” le opportunità formative extracurriculari portate fuori
della scuola. In sostanza il progetto del Governo è una formazione flessibi-
le in una società flessibile, dove chi può irrobustirà la sua formazione con
mezzi propri, e chi non può starà a guardare. Alla società flessibile serve una
formazione “di classe”, questa sembra essere lo spot del Governo, nel senso
che la qualità formativa, un mix tra quello che lo Stato offrirà nella scuola, e
quello che dovrai procurarti a tue spese fuori della scuola, sarà appannaggio
privilegiato di chi se la potrà permettere in termini di censo, cioè appunto di
classe. Né a dire che i risparmi previsti dall’introduzione del maestro unico
e dalla riduzione dell’orario scolastico saranno investiti sulla scuola secon-
daria o sull’università, dove il confronto con l’Europa mano a mano che si
sale nella filiera della formazione ci imporrebbe investimenti maggiori. Anzi,
anche qui Gelmini taglia. Nei tagli alla scuola e all’università nient’altro c’è
che una strategia per fare cassa. Magari per finanziare la scellerata soluzione
per l’Alitalia, dove la bad company che si accollerà i debiti alla fine la paghe-
ranno le 87.000 maestre in meno e i 42.000 esuberi del personale ATA. Bel
���������� modo di far volare l’Italia. Ma anche a voler tenere in conto la franchezza di
Tremonti, che l’ha fatta breve dichiarando a Ballarò che la scuola primaria
italiana sarà pure di qualità, ma non ce la possiamo permettere, anche come
mera manovra di cassa per il Paese il decreto è una manovra sbagliata. Se
si guarda ai costi sociali allargati del decreto – per le famiglie che dovranno
integrare di tasca propria, se lo potranno, il deficit i formazione extracurri-
culare prodotto dal combinato disposto maestro unico-riduzione a 24 ore
settimanali del tempo curriculare obbligatorio; per gli enti locali, se potran-
no e vorranno sostituirsi, ricorrendo a nuova imposizione, agli impegni for-
mativi cui lo Stato viene meno; per la spesa sociale, ovviamente sollecitata
da 130.000 disoccupati in più – il decreto rischia di essere a somma zero
per il sistema Paese. Inspiegabile resta, su una materia così delicata, su cui
ci sarebbe stato bisogno un ampio confronto in Parlamento e con le parti
sociali, nella quasi totalità – come risulta dalle audizioni in Commissione
Cultura – contrarie al maestro unico e all’orario ridotto, il ricorso al decreto,
se l’urgenza di fare cassa per sostenere i costi di qualche promessa elettorale
del premier, a cominciare dall’Alitalia. E, per restare in tema, se qualche
perverso risparmio avanzerà, molto probabilmente sarà usato per costituire
un tesoretto cui far ricorso a fine legislatura per finanziare in extremis qual-
che meschino ed elettoralistico taglio dell’Irpef da vendere agli elettori e
recuperare il consenso perso strada con gli infortuni sociali prevedibili con
l’approccio di Tremonti alla finanza pubblica, impegnato con una cura di
magra per lo Stato. Però a Tremonti andrebbe ricordato che lo Stato e la sua
spesa pubblica sono un po’ come la pecora famosa del capitalismo, la puoi
tosare non oltre lo spellamento; dopo l’ammazzi e basta.

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La ragione
filosofica e
la fede cristiana.
Riflessioni a partire
dal discorso di
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Regensburg

di Marco Ivaldo

La ben nota lectio magistralis tenuta da Benedetto XVI all’università di


Regensburg nel 2006 avanzava alcune idee sul rapporto fra ragione filosofica
e fede cristiana che non ribadivano semplicemente tesi già divulgate - ad
esempio nella linea di una tradizionale neoscolastica, ma anche di una ‘post-
moderna’ teologia ‘narrativa’ -, ma avevano per certi aspetti un carattere
fecondamene provocatorio, e che perciò mi sollecitano a provare a pensare
a mia volta l’antica, ma sempre attuale (oggi di nuovo attuale) questione.
Riassumo le tesi che più mi hanno colpito.
L’idea centrale di quel discorso è che “agire contro la ragione è in
contraddizione con la natura di Dio”. Qui si manifesterebbe una profonda
concordanza tra ciò che è greco nel senso migliore del termine e ciò che è
fede in Dio sul fondamento delle Scritture. Una concordanza che si palesa
in modo decisivo nel prologo dell’evangelista Giovanni, che modificando
il primo versetto del Genesi inizia con: in principio era il Logos e il Logos
è Dio. Questo avvicinamento fra la fede biblica e il pensiero greco aveva
comunque già avuto antecedenti nell’Antico testamento, o nella Bibbia
ebraica. La nuova conoscenza di Dio va di pari passo, nell’esperienza
di Israele, con una specie di illuminismo, che si esprime nel rifiuto delle
divinità che sarebbero soltanto opera dell’uomo, insomma si manifesta in
una tendenza monoteista e anti-idolatrica. La “sintesi” fra “spirito greco e
spirito cristiano” sarebbe però stata successivamente spezzata, ad esempio
nell’”impostazione volontaristica” di Duns Scoto, che nelle sue conseguenze
(perciò non in Duns Scoto stesso) avrebbe portato all’affermazione che noi
di Dio conosceremmo soltanto la voluntas ordinata, e che al di là di essa
esisterebbe la libertà di Dio in virtù della quale egli avrebbe potuto creare
e fare anche il contrario di ciò che ha fatto. In questo modo però, secondo
Benedetto XVI, la trascendenza e la diversità di Dio verrebbero accentuate
in una maniera esagerata, sicché risulterebbe spezzata la convinzione che tra
lo Spirito creatore e la nostra ragione creata esista una vera analogia.
Vengono in particolare richiamati tre momenti successivi in cui questa sintesi
fra spirito greco e spirito cristiano sarebbe stata contestata in modo deciso,
designati come “ondate” di una “de-ellenizzazione del cristianesimo”.
Il primo momento viene individuato nel rifiuto della mediazione metafisica
(scolastica) da parte della Riforma. Certamente Benedetto XVI non
misconosce affatto alla Riforma il merito d’aver respinto una determinazione
della fede dell’”esterno”, in forza di un modo di pensare che non derivava da
essa, e d’aver ricercato, con il sola Scriptura, la pura forma primordiale della
fede, come essa è presente nella parola biblica. La mediazione metafisica
della scolastica appariva però ai Riformatori un presupposto derivante
da altre fonti, da cui occorreva liberare la fede, perché questa tornasse
totalmente se stessa.
���������� Il secondo momento viene riconosciuto nella teologia liberale del XIX e del
XX secolo, nella quale campeggia la figura di Adolf von Harnack. Al fondo
di questa teologia vi sarebbe la auto-limitazione moderna della ragione,
espressa in modo classico nelle tre Critiche di Kant (Kant viene, purtroppo
– aggiungo io - , inteso secondo canoni ermeneutici di derivazione grosso
modo neo-kantiana, che mettono in secondo piano il fondamentale momento
sistematico e – a suo modo - ‘metafisico’ della sua filosofia trascendentale). In
particolare Harnack voleva tornare al semplice uomo Gesù e al suo messaggio
prima di tutte le teologizzazioni ed ellenizzazioni. Questo messaggio
rappresenterebbe il vero culmine dello sviluppo religioso dell’umanità, e
attraverso il suo attingimento si pensava di portare il cristianesimo in armonia
con la ragione moderna. Quest’ultima si fonda su una sintesi fra platonismo
(cartesianesimo) ed empirismo. L’elemento platonico nel moderno concetto
della natura consiste nella struttura matematica della materia, che rende
possibile comprenderla e usarla. L’elemento empirico è fornito dal fatto che
solo la possibilità di controllare verità e falsità mediante esperimento fornisce
la certezza decisiva a proposito della conoscenza della natura. Soltanto il
tipo di certezza che deriva dalla sinergia di matematica ed empiria consente
di parlare di scientificità. Ma questo tipo di scientificità – obietta l’oratore
– esclude come tale il problema di Dio dall’ambito della conoscenza. D’altra
parte se la scienza è soltanto questa, l’uomo stesso subisce una riduzione: gli
interrogativi propriamente umani – relativi al ‘da dove’ e al ‘verso dove’ -,
gli interrogativi della religione e dell’ethos non possono trovare posto nello
spazio della ragione comune descritto dalla “scienza” così intesa, e vengono
spostati nel campo del soggettivo e della discrezionalità personale.
La terza ondata della de-ellenizzazione si affermerebbe per parte sua con
l’idea, sollecitata dall’incontro con la molteplicità delle culture, che la
sintesi con l’ellenismo compiutasi nella chiesa antica sarebbe soltanto una
prima inculturazione della fede, una inculturazione che non vincola le
altre culture, le quali dovrebbero avere il diritto di tornare al punto che
precedeva quella prima inculturazione stessa, per riscoprire il messaggio del
Nuovo testamento nella sua sorgività e inculturarlo di nuovo nei rispettivi
ambienti. A questo programma Benedetto XVI obietta però che il Nuovo
testamento è stato scritto in lingua greca e porta in sé stesso il contatto con
lo spirito greco, e che alcune decisioni di fondo, che riguardano il rapporto
della fede con la ricerca della ragione umana, fanno parte della fede stessa
e ne sono gli sviluppi conformi alla sua natura. Non posso soffermarmi qui
più ampiamente su quest’ultima posizione, che afferma una intrinsechezza
dello “spirito greco” alla determinazione della fede nel suo rapporto con
la ragione, posizione che non riesco a vedere bene come si concilia con
quella che chiamerei la differenza universalistica del messaggio cristiano
rispetto alle culture e con il fatto che la ragione potrebbe aver conosciuto
– come credo abbia conosciuto – auto-attuazioni determinanti di sé al di
là dell’orizzonte segnato dallo “spirito greco”. La questione mi pare però
degna di riflessione.
Orbene, di fronte a questa “critica della ragione moderna” l’oratore non
postula affatto un ritorno a prima dell’illuminismo, rigettando le convinzioni
dell’età moderna. Occorre invece per lui “allargare” il concetto di ragione
e l’uso di essa; bisogna superare la auto-limitazione della ragione a ciò che
è verificabile nell’esperimento e dischiudere a essa tutta la sua “ampiezza”;
è necessario ritrovare unite in modo nuovo la ragione e la fede. La stessa
ragione moderna propria delle scienze naturali, con il suo intrinseco
elemento platonico, porta in sé un interrogativo che la trascende con le sue
possibilità metodiche. Questo interrogativo verte sul perché del dato di fatto
di una corrispondenza fra il nostro spirito e le strutture razionali operanti
nella natura, interrogativo che deve essere lasciato dalle scienze naturali alla
���������� filosofia e alla teologia.

Vorrei interloquire con questo complesso impianto teorico in merito a tre


punti, relativi alla fede, alla ragione moderna, al rapporto fra la fede e la
ragione.
Prendo le mosse dalla critica agli sviluppi del “volontarismo”, dalla critica
cioè a una accentuazione esagerata della trascendenza e della diversità di Dio,
che andrebbe insieme con la rottura della analogia fra creatore e creatura.
Vorrei valorizzare il diverso modo in cui Anselmo d’Aosta richiama l’assoluta
trascendenza di Dio rispetto al nostro pensare: “O Signore, leggiamo nel
Proslogion, tu non solo sei ciò di cui non si può pensare nulla di più grande
(non solum es quo maius cogitari nequit), ma sei più grande di tutto ciò che
si possa pensare (quiddam maius quam cogitari possit)”. Qui incontriamo
una affermazione della trascendenza di Dio che non va nella direzione di
un arbitrarismo divino, ma in quella del riconoscimento della maestà, della
elevatezza qualitativa di Dio, più grande di quanto si possa pensare. Penso che
proprio questa trascendenza qualitativa di Dio sia la figura di trascendenza che
dischiude lo spazio della fede religiosa, e sia allora, come tale, una dimensione
che anche la fede in senso cristiano deve mantenere in se stessa. Ciò sollecita
a una chiarificazione semantica e concettuale sulla fede, termine che non
può essere preso come ovvio e scontato, come accade in numerosi dibattiti
attuali. Nella Introduzione al cristianesimo dell’allora docente Ratzinger la
fede veniva designata come una “trasvolata, un balzo spiccato su un abisso
infinito, cioè fuori dal mondo afferrabile che si presenta all’uomo”. Inoltre
- rinviando a Isaia, 7,9: “Se non crederete, non avrete stabilità” – l’autore
caratterizzava la fede come uno “stare”, un mantenersi uniti a Dio, tramite
cui l’uomo acquista un solido appoggio nella vita. Un salto sull’abisso, uno
stare in Dio: così viene vista la fede nella sua forma pura e paradossale.
Ora, anche se può apparire singolare quanto affermo, Kierkegaard non era
lontano da questi pensieri quando nel Diario 1852 scriveva: “Pistis come è
usata nel buon greco […] è preso per indicare qualcosa di molto inferiore a
episteme: pistis si rapporta infatti al verosimile […]. Ora, viene il cristianesimo
ed eleva il concetto di fede a tutt’altro senso, fede intesa appunto come
rapportantesi al paradosso (quindi all’inverosimile) e poi indicante a sua
volta la certezza più alta”, della quale parla la Lettera agli ebrei (cfr. 11, 1:
“La fede è sostanza (hypostasis) delle cose che si sperano; prova delle cose
che non si vedono”). Fede è pertanto lo ‘stare dopo un salto’; è certezza
attraverso il paradosso, coscienza concreta del Dio trascendente e vicino.
La fede deve venire intesa allora come una attuazione originale dell’io, né
superiore né inferiore alla scientificità (episteme), ma distinta da essa. Questo
implica la conseguenza che, nonostante il suo impulso verso il comprendere
(fides quaerens intellectum), la fede religiosa non coincide con il logos anche
quando essa è riconoscimento esistentivo del Logos (precisamente: del Logos
nel suo presentarsi in una specifica “carne”). La fede è un conferimento di
fiducia che nasce da un incontro fattuale (interpersonale), il logos è l’agire
auto-consapevole della riflessione. Il logos ha certamente rapporto con la
fattualità, ma nella forma dell’astrazione e della riflessione su di essa. La
fede ha invece con la fattualità un nesso concreto, si afferma e di accredita
nell’incontro tra persone.
Quanto alla interpretazione della ragione moderna come pensiero calcolante
e finalizzato a computare il fattibile in vista del dominio tecnico, questa è
soltanto una – non l’unica - interpretazione della ragione moderna, nella
quale è percepibile una certa ispirazione ‘heideggeriana’ o ‘francofortese’
���������� (uso questi termini in senso grezzo e generico). Nella storia della cosiddetta
ragione moderna esiste però anche, ad esempio, la presenza della figura
trascendentale della ragione, che trae origine dalla tradizione socratica del
logon didonai, vale a dire dall’idea di filosofia come interrogazione e come
sforzo del “dare ragione”, come impegno a giustificare, argomentandone
nella discussione i fondamenti e i motivi, le proprie affermazioni e le proprie
azioni. Descartes, che è in definitiva il fondatore ante nomen della figura
trascendentale della ragione filosofante, muove dal cogito, che non significa
cognosco, ma pondero: pondero un punto di inizio scelto, una asserzione,
rispetto al compito, cui sono sollecitato, di cogliere ciò che è vero e reale.
Se la filosofia è amore della sapienza (determinazione che mi sembra restare
valida), questa non è data come fatta e compiuta, bensì vuole essere anzitutto
rinvenuta come tale, vuole essere ricercata come uno scopo e soltanto nella
sua forza convalidante può essere trovata come appagante. Ora, proprio
perché non siamo già dall’inizio nella sapienza (nella conoscenza vera e
reale), la filosofia – che per questo diviene filosofia trascendentale – prende
inizio con lo sforzo verso questa conoscenza, cioè inizia dal cogito, dall’atto
del ponderare e dalla sua auto-comprensione. Noi non siamo ipso facto nel
retto sapere e nel retto tendere, ma ci sforziamo verso di essi, vale a dire
ponderiamo, pratichiamo il riflettere. E’ nell’atto del ponderare – in quello
che Kant chiamava “io penso”, che è insieme un “io voglio” – e a partire da
esso che, lasciando via via cadere tutto ciò che è insufficiente, ci imbattiamo
in ciò che è supremo e ultimo, in ciò che si convalida (logon didonai!) a
partire da sé.
Qui, nella figura trascendentale della ragione, abbiamo una sintesi fra
elemento platonico ed elemento empirico diversa da quella che si esprime
in una scienza orientata al dominio tecnico. L’atto del ponderare, del
riflettere sul nostro agire, conoscere, sentire, volere, è infatti primariamente
orientato non alla disposizione tecnica, ma al conoscere e al fare ciò che
è vero e consistente; anzi è atto conoscitivo perché è in radice attuazione
pratica, è cioè volere (voler cercare, riconoscere, realizzare) ciò che è vero
e reale. A Bacon aveva in questo senso già risposto Descartes, solo che il
pensiero cattolico - nonostante poche eccezioni, tra cui rammento, tra le
recenti, colui che ha aperto un accesso completamente nuovo al pensiero di
Fichte, cioè Reinhard Lauth – non ha saputo coglierne la lezione e continua
a voler battere altre vie, che o ritornano alla metafisica tradizionale (che
tratta solo il lato “realistico” dell’intero), oppure saltano, abbandonata ogni
metafisica, in una ermeneutica della fattualità separata dalla giustificazione
riflessiva, che è la forma di giustificazione specifica della ragione filosofante.
Non posso qui argomentare come questa forma di giustificazione riflessiva
mantenga la sua consistenza anche di fronte alle obiezioni della figura post-
moderna del pensare.
Quanto al rapporto fra la fede e la ragione, nel Discorso preliminare ai suoi
Saggi di teodicea – “Sulla conformità della fede con la ragione”, un testo di
profondo spessore – Leibniz sostiene che i “misteri” non sono contro la
ragione, intesa come la “connessione delle verità” che l’intelligenza umana
può naturalmente raggiungere, bensì sono al di sopra della ragione, in quanto
la nostra mente non li può comprendere. Al di sopra, non contro la ragione:
questa è la condizione epistemologica delle verità che la fede comunica,
ovvero di ciò che Leibniz chiama: i misteri. Orbene, Leibniz argomenta
che i misteri si lasciano spiegare (expliquer) dalla nostra ragione, ma non
���������� comprendere (comprendre), e che essi si possono grazie a essa sostenere
(soutenir), ma non provare (prouver). Le verità della fede possono perciò
venire spiegate, approfondendone il senso e adducendo motivi di credibilità,
anche se non si può comprendere il come del loro prodursi. D’altro lato non
è possibile dimostrare i misteri, che sono al di sopra della nostra ragione,
ma resta possibile sostenerli, cioè difenderli contro le obiezioni. La pratica
della ragione è perciò indispensabile per spiegare e sostenere le verità della
fede, ovvero – potremmo dire con un altro linguaggio – per evidenziarne
l’intrinseca ragionevolezza (o forse anche: la ‘sensatezza’ ultima), e ciò senza
cadere in un razionalismo religioso che riuscirebbe altrettanto sbagliato che
un fideismo fondamentalistico.
Tuttavia può essere fatto valere anche il rapporto inverso. Luigi Pareyson,
prolungando nella sua ontologia della libertà le meditazioni di Schelling,
ha sostenuto che la filosofia, per poter adeguatamente pensare questioni
che nessun uomo può ignorare, come il rapporto fra Dio, la presenza del
male, la libertà – le tre questioni della teodicea leibniziana! – deve farsi
ermeneutica dell’esperienza religiosa. Non che la filosofia debba divenire
filosofia religiosa, o che essa debba produrre una religione filosofica, ibridi che
Pareyson respingeva. La filosofia deve farsi interrogazione e interpretazione
dell’esperienza religiosa, volta a chiarirne il senso e a metterne in luce
l’universabilità, vale a dire quei significati che sono in grado di illuminare
la vita umana nella sua dialettica radicale e che come tali sono capaci di
suscitare se non il consenso, almeno l’interesse di ogni uomo, credente o non
credente. In questo senso la religione, e l’esperienza religiosa, non andrebbe
affatto considerata come una soluzione ‘pacificante’ ai dilemmi della ragione
filosofante, ma come una esperienza concreta e incarnata, che conferisce
nuovi impulsi, suscita nuovi interrogativi, apre impensate e vertiginose
prospettive per la filosofia. La ricerca dell’”armonia” fra fede e ragione,
che oggi attira rinnovate attenzioni delle quali il discorso di Regensburg è
significativo documento, non dovrebbe portare a sottovalutare la fecondità
di una prospettiva che valorizzi e approfondisca la “dialettica” che esiste fra
di esse.

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Intervista a
Giovanni Ferretti
a cura della Redazione

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1) Quali sono attualmente i temi su cui a Suo avviso la ricerca filosofica
dovrebbe insistere di più per essere influente sul proprio tempo?

La risposta dipende ovviamente dalla diagnosi e dalle valutazioni che si


danno della situazione culturale del nostro tempo. Io la vedrei soprattutto
caratterizzata da una nuova forma di appiattimento dell’uomo; per un verso
alla sua dimensione “oggettivabile” da parte delle scienze e delle tecniche
– oggi soprattutto le scienze cognitive e neurologiche, le biotecnologiche, in
base alle quali si ritiene ormai possibile transitare verso il post-umano, cioè
oltre la visione dell’uomo libero e responsabile del suo destino; - e, per altro
verso, alla sua dimensione individuale, libertariamente intesa, cioè scissa da
vincoli di relazioni e responsabilità sociali; di fatto, però, ridotto al ruolo di
individuo “consumatore” all’interno di una società mercantile globale; con
una singolare “dialettica del libertarismo” che sfocia in un ribaltamento dei
fini non dissimile da quello denunciato dai francofortesi quando parlavano di
“dialettica dell’illuminismo”.
In controtendenza si assiste ad una crescita, almeno nelle coscienze e nella
pubblica opinione, del senso della dignità umana, di ogni uomo e donna del
pianeta, con il divulgato riconoscimento – almeno teoricamente proclama-
to– dei fondamentali diritti umani, pur variamente interpretati nelle diverse
culture. Ed è proprio questa diversa interpretazione – anche a prescindere dal-
le più evidenti e riconosciute violazioni – che sta innescando quei processi
di difesa o ricerca identitarie, che hanno fatto emergere forme inedite di
fondamentalismo intollerante e aggressivo; tra gli aspetti più preoccupanti
dell’odierno pluralismo culturale.
In riferimento a questa diagnosi, mi pare che la filosofia dovrebbe partico-
larmente insistere sul problema dell’uomo, rivendicandone in modi e for-
me nuove la sua “trascendenza” o “profondità”, irriducibile a quanto ne
possono indagare le scienze, ma anche in grado di modificare o indirizzare,
in virtù della sua natura razionale, una sua presunta “natura” solo biologi-
camente intesa. Ho letto in questi giorni, in una recentissima traduzione
italiana delle lezioni tenute da Heidegger nel semestre estivo 1934, dedicate
alla “Logica come problema del linguaggio” (a cura di Ugo Ugazio, presso
Marinotti, Milano 2008), quest’affermazione: “La filosofia cerca un sapere
che sia nel contempo prima di tutta la scienza e vada oltre tutta la scienza,
cerca un sapere che non sia legato necessariamente alle scienze” (Ivi, p.
25). Questo sapere riguarda in primo luogo lo studio dell’uomo, della sua
“essenza” – dice Heidegger – intimamente connessa con il linguaggio, ossia
con la sua capacità di comunicare, di essere in relazione con gli altri. Libero,
certamente, ma con una libertà già da sempre “investita” di responsabilità
nei loro confronti, quindi originariamente etica, come Levinas ha evidenzia-
to con particolare efficacia nei suoi lavori.
Mi pare che la filosofia debba oggi impegnarsi anzitutto in questo campo,
antropologico ed etico, se vuole contribuire alla salvezza dell’uomo, alla di-
fesa della sua dignità. E può far questo solo rivendicando una razionalità
che non si riduca alla razionalità scientifica e che sia in grado di instaurare
un dialogo interculturale effettivo, ricercando e favorendo quella conver-
genza delle varie antropologie filosofiche o filosofico-religiose (non in tutte
le culture v’è quella distinzione tra sapienza filosofica e sapienza religiosa,
che abbiamo elaborato in occidente) su un comune senso dell’umano, che
tutte debbono poter arricchire ed in cui tutte debbono potersi riconoscere.

���������� 2) Considerate le polemiche che frequentemente si accendono in Italia in-


torno alla delicata questione dei rapporti tra potere politico e gerarchie
ecclesiastiche, quali declinazioni del concetto di “laicità” sarebbero più
auspicabili oggi?
Le polemiche italiane che a quessto proposito spesso divampano nella stam-
pa e nel dibattito politico, si comprendono solo sullo sfondo della nostra
storia, segnata dal sorgere dello stato unitario contro il potere temporale
dei papi, dal laicismo di stampo anticlericale di fine ottocento ed inizio no-
vecento, dal prolungato statuto della religione cattolica come religione di
stato o con privilegi concordatari, dall’appoggio esplicito dato nel recente
passato dalla chiesa gerarchica ad alcuni partiti politici contro altri, dal per-
sistente ed ancora attuale tentativo di utilizzo del magistero della chiesa e
delle convinzioni dei cattolici in funzione politica di parte, con il corrispet-
tivo timore, da parte di se ne ritiene svantaggiato, che ciò si verifichi, dal
progressivo allontanarsi della nostra cultura secolarizzata e libertaria dal-
l’ethos cristiano-cattolico, con un pressante desiderio e/o pretesa che esso
non abbia più alcun influsso nella legislazione civile ecc.
In linea teorica mi pare che si dovrebbe essere ormai giunti ad un sufficiente
chiarimento del concetto politico e religioso di “laicità”, soprattutto alla
luce del profondo mutamento della situazione italiana che si è avuto con
l’avvento, da un lato, della costituzione repubblicana “democratica” – pen-
so, in particolare, ai diritti fondamentali dell’uomo che essa sancisce, tra
cui l’uguaglianza tra singoli cittadini senza discriminazione di razza, sesso,
religione, il diritto alla libera manifestazione del proprio pensiero, il diritto
alla libera professione della propria fede religiosa, compreso il diritto a far-
ne propaganda – e, d’altro lato, con la svolta costituita dal Concilio Vaticano
II – che ha riconosciuto la legittima autonomia delle realtà terrene (tra cui
la politica) dalla sfera religiosa, ha riservato ai “laici” cristiani il compito
di mediare tra i principi etici cristiani e la loro concretizzazione nella vita
politica, ha ribadito che la chiesa come tale non intende né può intervenire
direttamente nel campo della vita politica, non avendo ricevuto da Cristo
alcun potere politico; secondo il detto “date a Cesare quel che è di Cesare
e a Dio quel che è di Dio”; chiesa che ha, infine, ufficialmente accettato lo
stato democratico come quello che meglio risponde ai diritti delle persone
umane.
Dal punto di vista dello stato democratico, la “laicità” che ne deriva non im-
plica un’esclusione delle convinzioni religiose dal dibattito pubblico, bensì
la salvaguardia della loro libera, democratica e pluralistica espressione; e ciò
anche in riferimento alle convinzioni che esprimono le gerarchie ecclesiasti-
che cattoliche, sia su principi etici generali sia sulla valenza etica di singole
leggi dello stato – cosa che deve essere riconosciuta come un diritto costitu-
zionale ad ogni singolo cittadino e ad ogni singola associazione di cittadini,
ovviamente in forme che non violino le leggi dello stato (altro è criticarle, al-
tro violarle!) e non siano contrarie ai principi costituzionali. Da questo pun-
to di vista, mi pare in contrasto con un vero concetto democratico di laicità
il tacciare d’illegittima interferenza in campo politico ogni intervento delle
gerarchie ecclesiastiche cattoliche volto a richiamare principi etici propri
della tradizione cristiana, ritenuti di valore umano e razionale universale, ed
anche ad applicarli alla concreta discussione di processi legislativi in corso.
Esponendo il proprio pensiero la chiesa non impone politicamente alcun-
���������� ché – né ha il potere concreto di farlo nel nostro stato democratico, dato
che i singoli cittadini, credenti o no, hanno piena libertà di aderirvi o meno,
come i celebri referendum sul divorzio e l’aborto hanno ben mostrato nei
fatti. Essa mette semplicemente in atto argomenti, punti di vista, convin-
zioni profonde, che ritiene condivisibili razionalmente anche da chi non ha
fede, avendo fiducia di poter essere convincente. Poiché pienamente accetta
il metodo democratico, anche la Chiesa gerarchica non può che sottoporre
i suoi giudizi e le sue argomentazioni alla libera accoglienza e discussione,
come contributo alla formazione delle coscienze e indirettamente al costi-
tuirsi di quelle maggioranze popolari e parlamentari che sfoceranno nelle
decisioni legislative democratiche. E ciascuno può e deve, in democrazia,
accettare o rifiutare tali pronunciamenti, discuterli o contraddirli secondo
scienza e coscienza, senza però tentare di squalificarli a priori – a mio avviso
poco laicamente - come “illegittimi”.
Mentre dal punto di vista dello stato laico così inteso non si dovrebbe nep-
pure considerare illegittima l’organizzarsi di una comunità religiosa in parti-
to politico, che lotta per il potere (nel laico e democratico Israele ciò avviene
– a quanto ne so - in modo pienamente legittimo) – fatto salvo il rispetto dei
principi costituzionali, tra cui l’uguaglianza di tutti i cittadini senza discri-
minazioni di razza o religione – dal punto di vista della Chiesa cattolica (e
in genere delle chiese cristiane, sia pur con diverse accentuazioni), l’orga-
nizzarsi della comunità cristiana come tale in partito politico o in forme di
collateralismo politico in funzione del raggiungimento dei propri fini etico-
religiosi, è chiaramente da escludere; non tanto perché in contrasto con la
“laicità” dello stato quanto perché in contrasto con la propria stessa auto-
coscienza religiosa, nel cui DNA originario v’è quella distinzione di ruoli
di cui sopra si diceva con il richiamo al “Date a Cesare…”, implicante la
rinuncia all’uso diretto del potere politico e il conseguente riconoscimento
ai laici cristiani del compito di mediare tra i principi etici cristiani e la con-
cretezza della vita politica. Dato poi che tale mediazione implica una serie
di valutazioni e decisioni spesso molto opinabili o comunque da demandarsi
alla libera inventiva umana in relazioni alle diverse condizioni socio-cultu-
rali, tale mediazione potrà e per lo più dovrà essere pluralistica. Donde la
necessità di evitare da parte della Chiesa gerarchica, in relazione alla propria
funzione pastorale di salvaguardia dell’unità di fede e, per quanto possibile,
anche di “ethos” dei credenti, quegli interventi che siano uno schierarsi
o anche solo diano l’impressione di schierarsi per una determinata parte
politica o comunque di favorirla, creando inevitabile e improprie divisioni
nella comunità cristiana. Da questo punto di vista, questa specifica “laicità
cristiana” – originale e originaria rispetto ad altre concezioni religiose, tra
cui oggi emerge l’Islam per la sua persistente differenza al riguardo – sem-
bra essere in particolare sintonia, almeno in linea teorica, con il principio
costituzionale della laicità dello stato democratico. Da un punto di vista
storico è stato peraltro con buone ragioni sostenuto che essa è stata anche
all’origine della laicità dello stato democratico moderno, di fatto nato non
senza motivo anzitutto in paesi di cultura cristiana.
Stante quanto sopra detto, mi paiono fuorvianti quelle coniugazioni della
“laicità” con il rifiuto di ogni principio o valore “assoluto”, quasi che solo
chi ha posizioni che ritiene relative o rivedibili possa essere un buon laico
democratico. Ciò che è essenziale alla laicità, non è, infatti, la debolezza o
meno delle proprie convinzioni, quanto proprio la convinzione “assoluta”
che non le si possano in alcun modo imporre agli altri con la forza, ma solo
proporre con argomentazioni razionali, nel rispetto delle posizioni sostenu-
���������� te in buona fede dagli altri, nel clima di un libero ed effettivo dialogo. Tanto
meno mi pare contribuisca al chiarimento del concetto di “laicità” il tenta-
tivo di farlo coincidere con un determinato tipo di ethos individualistico-
libertario o addirittura con la non-credenza religiosa o con l’ateismo teorico
o pratico. La frontiera tra chi è democraticamente laico o no non discrimina
tra credenti o non credenti ma attraversa gli uni e gli altri, distinguendo in
questi e in quelli i tolleranti e gli intolleranti, i dialoganti e i dogmatici, chi
vuol convincere e chi vuol vincere e costringere a tutti i costi, chi è pronto
ad ascoltare le ragioni degli altri e chi non fa che ribadire il suo punto di
vista, chi è interessato alla verità e chi è interessato al potere, ecc.

3) Per una riflessione sulla origine della vita e sulla dignità della vita uma-
na, a partire dalla equazione che Berti propone [nell’articolo Che cos’è
l’anima?, in Bollettino, sett-dic.2007, pp.5-17] tra DNA ed anima, quale
dovrebbe essere la posizione da assumersi riguardo alla questione del-
l’aborto e della eutanasia? Se fosse lecito modificare la legge 194 sull’inter-
ruzione della gravidanza, su quali punti dovrebbero essere apportate delle
correzioni? O in che termini dovrebbe essere riaperta la riflessione sulla
legge 40 sulla fecondazione assistita?
L’equazione proposta da Berti tra anima e sequenza del DNA umano – per
quanto ne so sulla base delle sue risposte all’intervista omologa fattagli da
Schibboleth - è certamente un intelligente modo moderno di interpretare il
concetto aristotelico di anima come forma del corpo; con una conseguenza
particolarmente nuova, sia rispetto ad Aristotele che a San Tommaso, e cioè
che essendo il DNA chiaramente umano fin dal concepimento, ne segue che
ci troviamo di fronte ad un essere umano fin dall’inizio, e non all’emergere
di successive anime: vegetativa, animale e intellettiva nel corso del formarsi
dell’embrione, come invece sostenuto da Aristotele e San Tommaso e come
ritenuto anche dalla Chiesa cattolica per molto tempo. Cosa che non l’ha
mai portata però a giustificare moralmente l’aborto, perché in esso si trat-
tava pur sempre di impedire un processo di nascita umana già in atto, an-
che se lo si valutava moralmente e giuridicamente in modo diverso, e meno
grave, dell’infanticidio e dell’omicidio (cfr. l’esaustiva storia dell’evolversi
del pensiero cattolico al riguardo nell’opera ben documentata del teologo
moralista Paolo Sardi, L’aborto ieri e oggi, Paideia, Brescia 1975). E si deve
certamente anche alle nuove scoperte scientifiche, come quella del DNA, se
la Chiesa cattolica oggi ritiene che si debba considerare “persona umana”
il frutto del concepimento fin dall’inizio; e a giudicare come moralmente
negativo l’aborto anche se permanessero delle incertezze circa la qualifica-
zione di persona umana fin dal momento del concepimento. Come ebbe ad
esprimersi Paolo VI, «anche se ci fosse un dubbio concernente il fatto che
il frutto del concepimento sia già una persona umana, è oggettivamente un
grave peccato osare di assumersi il rischio di un omicidio» (così Paolo VI
nella Dichiarazione sull’aborto procurato della Congregazione della dottrina
della fede, del 28 giugno 1974, cit. in Paolo Sardi, L’aborto ieri e oggi, cit.,
p. 247). Posizione che mi sento di condividere non tanto e non solo come
cattolico, per l’autorità magisteriale che la enuncia, ma anche in quanto fi-
losofo, per le buone argomentazioni razionali su cui tale posizione si fonda,
come riconosciuto anche da Berti: il rispetto della dignità di ogni essere
umano, che implica per lo meno il dovere di non uccidere l’innocente.
Circa l’equazione posta da Berti tra DNA e anima come forma del corpo mi
rimangono però delle serie perplessità teoretiche, che cercherò di sintetizza-
re come contributo alla discussione della sua posizione, per quel tanto che
ho compreso. L’anima propriamente umana, infatti, cioè l’anima intellettiva
e spirituale, che San Tommaso riteneva essere l’unica forma del corpo – con
quella sua particolare interpretazione dell’aristotelismo, in contrasto con le
posizioni di stile agostiniano più tradizionali – non mi pare che possa ridursi
����������
alla pura e semplice struttura della dimensione biologica dell’uomo attestata
dal DNA. Essa è attestata, infatti, non semplicemente da tale struttura ma
da esperienze irriducibili a quanto scientificamente sperimentabile, come,
ad esempio, dall’esperienza dell’autocoscienza, della libertà, della trascen-
denza del pensiero, dell’incondizionatezza dell’appello morale. Temo quin-
di che l’equazione di Berti, anche se conduce ad individuare la presenza di
un essere biologicamente umano fin dal primo momento del concepimen-
to, rischi proprio quell’appiattimento dell’uomo sul piano dell’oggettività
scientifico-biologica che paventavo all’inizio di questa intervista.
Le conclusione poi che Berti trae da tale equazione contro la posizione della
chiesa cattolica che ritiene l’anima umana creata “direttamente” da Dio, cui
contrappone il suo sorgere per semplice incontro dei cromosomi maschili
e femminili dei genitori, mi pare frutto sia di tale appiattimento sia di una
interpretazione letterale della espressione usata dal magistero della chiesa,
avulsa dal suo contesto teologico – così anche nel libro di Mancuso condi-
viso da Berti su questo punto. La chiesa cattolica, infatti, non sostiene che
l’anima umana sia creata “direttamente” da Dio nel senso che venga escluso,
per il suo sorgere, il concorso biologico determinante dei genitori o nel sen-
so che Dio crei una sostanza-anima umana che poi infonderebbe in un cor-
po generato dai genitori. Secondo quanto la teologia cattolica più avvertita
interpreta (cfr. anche solo la voce “anima” nel Piccolo dizionario teologico
di K. Rahner e H. Vorgrimler, o nel Dizionario teologico interdisciplinare
della Marietti), tale espressione significa che il normale concorso divino,
indispensabile per ogni attività delle creature, è presente in modo del tutto
particolare in quell’atto umano che è la generazione di un figlio, dato che il
risultato di quell’atto (che è atto generativo di un uomo, con la sua anima
umana, altrimenti non si potrebbe parlare di generazione di un uomo da
parte dei genitori! Con le conseguenze teologiche che se ne traggono anche
per la misteriosissima trasmissione del “peccato originale”) trascende il pia-
no puramente biologico della fusione dei cromosomi maschili e femminili,
dato che termina ad una creatura che ha nel creato un posto del tutto parti-
colare in quanto “creata ad immagine di Dio”.
Quanto alla legge 194 sull’interruzione della gravidanza, diversamente da
Berti continuo a ritenere che sia una cattiva legge, per lo più applicata nel
modo peggiore. Una cattiva legge perché volta a legalizzare e non solo a
depenalizzare l’aborto entro i primi 90 giorni, considerandolo come un in-
tervento sanitario unicamente a salvaguardia della salute della donna, senza
tener in debito conto quella “tutela della vita umana dal suo inizio” di cui
pur dice di farsi carico in premessa. La genericità del dettato circa i motivi
che giustificano l’intervento abortivo, cioè il “serio pericolo per la salute
fisica e psichica della donna” o le “malformazioni del nascituro”, hanno di
fatto condotto ad una legalizzazione dell’aborto in ogni caso di richiesta, an-
che quando esso si presentava come un puro e semplice mezzo di controllo
delle nascite; nonostante la esplicita dichiarazione, nel testo della legge, che
esso non dovesse essere usato a tal fine. Quanto alla parte della legge che
riguarda la “tutela sociale della maternità” e prescrive un fattivo intervento
da parte dei consultori per superare le cause che possono indurre la donna a
richiedere l’interruzione della gravidanza, soprattutto nei casi in cui l’aborto
viene richiesto per motivi economici, essa è risultata – a quanto ne so, ma
confesso la mia poca competenza a riguardo - quasi del tutto disattesa, so-
prattutto nei consultori pubblici.
Non penso che si possa oggi ipotizzare in Italia un’abrogazione o anche solo
una modifica della legge 194: non vi sono né le condizione politiche né le
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condizioni di ethos diffuso che lo consentono. E il legislatore, anche catto-
lico, deve tener conto, nel legiferare in un paese democratico, anche del-
l’ethos diffuso, e quindi delle convinzioni altrui; nel caso, delle convinzioni
che altri hanno sull’inizio della vita umana, e sull’insieme dei valori in gioco
in una legislazione concernente l’aborto. Tra questi valori c’è stato e c’è
tuttora l’intento di contrastare la piaga dell’aborto clandestino ed anche di
diminuire il numero degli aborti. Valori che in gran parte si sarebbero con-
seguiti (circa la diminuzione del numero degli aborti non mi consta però che
sia veramente attestato), tanto da portare ad un giudizio complessivamente
positivo sulla legge attuale anche in chi ne era contrario all’inizio, come nel
caso di Berti, il cui cambiamento di parere rispetto pur non condividendolo.
Ciò che condivido è invece il principio, che egli ricorda, secondo cui il le-
gislatore, soprattutto tenendo presente il contesto di pluralismo etico in cui
ci troviamo, deve legiferare anche tenendo presente il criterio del “minor
male” nel complesso intreccio, spesso conflittuale, dei valori in gioco. Ciò
che invece ritengo possibile e doveroso sarebbe oggi un impegno comune,
senza opposizione tra “cattolici” e “laici” e secondo lo stesso spirito dichia-
rato nella legge, per mettere effettivamente in atto quella parte relativa alla
tutela sociale della maternità, contribuendo a superare le cause che induco-
no spesso le donne, non senza grave sofferenza fisica e psichica, a ricorrere
all’aborto. Se anche solo l’equivalente del 50% dei fondi che oggi sono spesi
nelle strutture sanitarie pubbliche per praticare l’aborto alle donne che lo
richiedono, fossero spesi per sostenere economicamente le donne che sono
portate ad abortire per difficoltà economiche, forse saremmo un paese più
civile, nonostante la permanenza di opinioni diverse sulla gravità etica e giu-
ridica dell’aborto volontario.
Anche alla luce di quanto sostenuto da Berti circa l’inizio della vita umana
non vedo la necessità di rivedere la legge 40 sulla fecondazione assistita. Una
pratica in cui s’intrecciano una molteplicità di considerazioni scientifiche e
tecniche, oltre che filosofiche ed etiche; esse, mi pare, hanno raggiunto un
primo equilibrio legislativo in tale legge, confermata da un referendum; per
qual poco che riesco a capire e “salvo meliore iudicio”, non mi pare che sia
opportuno modificare tale equilibrio senza averlo prima messo alla prova
del tempo. Né mi pare che la questione del momento dell’origine della vita
umana incida sul problema dell’eutanasia, almeno dal punto di vista filosofi-
co e giuridico. Dal un punto di vista religioso cristiano, che vede la vita come
un “dono di Dio”, non mi pare che dovrebbe seguirne, come dice Berti, che
tale dono, una volta fatto, rimane nella piena disponibilità della persona a
cui è stato fatto, per cui questi può liberamente rinunciarvi, qualora gli di-
venisse gravoso. Bisognerebbe, infatti, considerare, come le stesse riflessioni
sul dono oggi mettono in luce, che il dono, e direi soprattutto il dono della
vita, è l’instaurarsi di una relazione tra Dio e l’uomo, che vincola donatore e
donatario ad una responsabilità reciproca; da parte divina la responsabilità
di una promessa di assistenza amorosa; da parte umana la responsabilità di
una cura premurosa della propria vita (oltre della vita altrui) come unico
modo di stare nella relazione con Dio; con quella piena fiducia di aver ri-
cevuto un bene che rimane tale nonostante tutte le difficoltà che il vivere,
in certi casi, uò comportare. Che la propria vita biologica non sia il bene
supremo, tanto da poterla e talora doverla non direi “sacrificare” (nessuno
���������� dovrebbe lecitamente uccidersi e tanto meno essere ucciso per un qualsiasi
fine più alto!) ma subordinare a beni più importanti, come l’amore del pros-
simo, la difesa della verità o simili, anche secondo il detto evangelico: “non
c’è amore più grande di dare la vita per i propri amici”, non comporta che
essa possa essere direttamente soppressa, in vista di fini superiori, né dal
soggetto stesso della vita umana né tanto meno da altri. Ma la problematica
dell’eutanasia, con le doverose e non semplici facili distinzioni– anche in
seguito ai progressi della medicina - dalla sospensione dell’accanimento te-
rapeutico e le sue connessioni con il delicato problema etico e giuridico del
testamento biologico, vanno ben al di là di una possibile presa di posizione
in questa sede.
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Il consumo
consuma.
Globalizzazione
e principio di
unicità.
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di Silvano Petrosino1

(...) a me sembra che il motore che governa l’attuale globalizzazione sia


da individuare essenzialmente nella spinta al consumo: la società di oggi2
è plurale proprio perché governata dalla logica del consumo, o per essere
più precisi: la spinta al consumo si fonda su quella logica delle differenze
– come si cercherà di chiarire in seguito, su una certa logica delle differenze
– che è ad un tempo causa ed effetto della nostra società plurale. E’ questo
un aspetto della questione che non bisogna in alcun modo sottovalutare: il
consumo, più che gestire o sfruttare o adeguarsi alle differenze, in verità le
individua e sollecita, configurandosi così come il principale fattore della loro
stessa istituzione e valorizzazione; in tal senso – un senso che dovrà essere
qui di seguito subito precisato (...) – il consumo è per sua natura «fecondo»,
«vitale», e non è un caso che esso venga con insistenza configurato con
l’immagine della «spinta». Volendo raccogliere in uno slogan queste iniziali
considerazioni si potrebbe così affermare che la nostra è una società plurale
proprio perché dominata dalla spinta al consumo e dall’imperativo che la
governa: «Si deve vendere tutto, si deve vendere a tutti».
(...) Riconosciuta la sollecitazione delle differenze prodotta dalla spinta
al consumo è necessario però comprendere meglio la natura dell’apertura
prodotta dall’imperativo «Si deve vendere tutto, si deve vendere a tutti».
Innanzitutto «si deve vendere tutto»; si assiste a tale riguardo ad una
continua estensione della categoria del «vendibile»: ogni aspetto della
vita in generale e della persona umana in particolare viene indagato, senza
alcuna esitazione e senza alcun senso della misura, al fine di riconoscere un
suo possibile sfruttamento in funzione della vendibilità. Da questo punto
di vista, di fronte a quello che appare come un radicale ridimensionamento
della sfera del pudore (per vendere e far consumare non ci si ferma quasi di
fronte a nulla), non è affatto vero che «oggi» non ci sono più valori, poiché
quest’ultimi sono sempre affermati ed anzi altri nuovi di continuo vengono
istituiti sebbene solo nella misura in cui tutti si trovano ricondotti all’interno
di un unico valore, all’interno di quella autentica pulsione a consumare che
rappresenta il vero motore dell’attuale società.
In secondo luogo bisogna «vendere a tutti», cercando di continuo
nuovi mercati, imponendo, se necessario, il mercato a tutti, interessandosi
a ciascuno in quanto ciascuno è un potenziale consumatore. In tal senso
la spinta al consumo è astrattamente «democratica»: non c’è uomo che,
adeguatamente accostato e preparato, cioè formato/educato, non possa
diventare un grande consumatore. Tutti possono consumare, e questo spesso
ha significato, e ancor più spesso, penso, presto significherà: tutti dovranno
consumare.
���������� In terzo luogo, prendendo atto che in verità non proprio tutto è vendibile
e non proprio a tutti si può vendere, è necessario isolare, neutralizzare se non
proprio eliminare, rinchiudere il «non vendibile/consumabile» all’interno
di luoghi il più possibile marginali; è questo il destino, ad esempio, di alcuni
sentimenti, delle più profonde convinzioni morali e religiose, degli affetti
se si vuole più imbarazzanti, del dolore inconsolabile di alcuni soggetti
«sfortunati»: tutto ciò viene relegato nel privato, nel «cuore», nell’ambito
notturno e nella marginalità. Il non vendibile/consumabile – nessuno nega
la sua esistenza – subisce così ciò che propongo di chiamare un «processo
di incistamento»: esso non può essere del tutto espulso dalla vita del singolo
e dal corpo sociale, e così rimane al suo interno, ma sempre e solo come
separato, reso inattivo, come una ciste isolata dal resto dell’organismo da
una membrana che precisamente è una forma di difesa.
All’interno di una simile prospettiva si potrebbe così arrivare a pensare
– come talvolta si è anche esplicitamente affermato – che l’educazione più
realista e meno ideologica alla differenza, al confronto tra le differenze, è
proprio quella relativa al consumo: bisogna educare soprattutto al consumo,
bisogna insegnare e imparare a consumare, tutto il resto verrà di seguito.
Eppure – ecco l’altra evidenza che contraddistingue l’attuale società
«plurale» – è necessario riconoscere che la spinta al consumo apre
inevitabilmente solo a quel tipo di differenza che è conforme alla logica
stessa del consumo. Quest’ultimo senza dubbio sollecita l’inter-esse del
soggetto, spinge ad entrare in relazione con il diverso, ma solo nella misura
in cui quest’ultimo viene pre-visto o pre-figurato (identificato) come conforme
alla legge che il consumo impone. In altre parole, il consumo si interessa
solo al consumabile, e in tal senso esso senza alcun dubbio apre all’altro
ma solo in quanto questi viene «immaginato» come sensibile al consumare;
il consumo si inter-essa all’altro solo nella misura in cui quest’ultimo viene
identificato come il corrispondente alla logica stessa del consumo: all’interno
di una simile logica, dunque, l’altro è sempre e solo – ecco un’evidenza che
non ha nulla di naturale ed ovvio – un consumatore (venditore/cliente).
Di conseguenza se da una parte la spinta al consumo favorisce quella che
può essere definita una forma di «attenzione» o di «acutezza» – dovendo
vendere e far consumare ci si sforza di individuare sempre nuovi clienti,
così come con insistenza si fa di tutto per prendersi cura delle esigenze di
ogni singolo cliente – ,dall’altra parte questa stessa spinta condanna a quella
che può essere definita una forma di «distrazione» o di «cecità»: non si vede
altro, dell’altro non si vede altro che la sua capacità di consumo, per questo
ci si interessa all’altro ma dell’altro non interessa null’altro. In conclusione,
la spinta al consumo – la stessa che apre all’altro, che va con insistenza verso
l’altro – finisce per coincidere con la consumazione stessa dell’altro nel
consumo.
(...) La nostra società globale risulta così contemporaneamente plurale
ed omologata, ed anzi si potrebbe arrivare a pensare ch’essa si presenta come
plurale proprio perché al fondo è essenzialmente omologata. Riprendendo
la concettualità biblica, si può forse riconoscere in un simile processo di
differenziazione/omologazione l’antica ed inquietante modalità dell’abitare
babelico: tutti insieme, ma sempre e solo perché mossi da un’unica pulsione,
da quell’ «attività macchinale», per dirla con Nietzsche, che spinge ciecamente
verso un’unica città, una sola torre, un’unica lingua, all’insistente ricerca di
un solo nome. Forma dell’abitare che Dio viene a scompaginare3.
Se dunque non bisogna mai cedere a quella tentazione apocalittica che
tende a criminalizzare il concetto stesso di consumo, non bisogna neppure
���������� essere così colpevolmente ingenui da credere nelle proprietà «salvifiche»
di ogni spinta al consumo; in tal senso, senza cadere in contraddizione con
quanto precedentemente affermato, non si può fare ameno di affermare che
la nostra non è affatto una società plurale, e che di conseguenza è ancora
necessaria, è con ogni probabilità non cesserà mai di esserlo, un’autentica
educazione/formazione al dialogo tra autentiche differenze (...) In tal senso
si deve opporre all’imperativo più sopra individuato («Si deve vendere tutto,
si deve vendere a tutti») l’antica sollecitazione «Andate e moltiplicatevi»,
riconoscendo in essa non solo l’invito ad aprirsi a tutti, ma anche, e a mio
modesto avviso soprattutto, ad aprirsi al tutto che ciascuna singolarità è4. In
termini minimamente rigorosi non si può nemmeno porre la questione di
un’educazione al convivio delle differenze al di fuori di questa concezione
forte o densa, senz’altro drammatica, della differenza che deve essere
pensata fino al culmine dell’unicità: sforzati di aprirti a tutti (evitando ogni
esclusione), ma al tempo stesso sforzati di aprirti al tutto, all’unicità, di ogni
ciascuno (evitando ogni censura).

(Footnotes)
1
La conferenza, dal titolo «Il fenomeno della società plurale: identità e differenze oggi», è stata
tenuta l’11 gennaio 2007 nell’ambito del Convegno Internazionale «Nel convivio delle differenze.
Il dialogo nelle società del terzo millennio» che si è svolto nei giorni 11-12 gennaio 2007 presso la
Pontificia Università Urbaniana in Vaticano. Il testo della conferenza è ora pubblicato in AA.VV., Nel
Convivio delle differenze. Il dialogo nelle società del terzo millennio, Urbaniana University Press, Città
del Vaticano 2007, pp. 25-33.
2
Mi riferirò esclusivamente all’ «oggi» di quel tipo di società che caratterizza ciò che si è soliti
definire il «primo mondo», vale a dire una società ad alta industrializzazione ed informatizzazione,
con un’economia di libero mercato e con un’elevata capacità di consumo pro-capite.
3
Per un’analisi più approfondita del grande racconto biblico relativo alla costruzione della
Torre di Babele (Genesi, 11, 1-9) rinvio a S. Petrosino, Babele. Architettura, filosofia e linguaggio di un
delirio, il melangolo, Genova 2003.
4
P. Beauchamp, commentando l’episodio biblico della costruzione della Torre di Babele
all’interno di ciò che definisce il «regime di senso» creaturale, afferma: «(…) la separazione delle
lingue è tuttavia associata a un insieme (Gn, 10) di disposizioni separatrici inauguarate dal regime
imposto ai viventi, uomini e animali, a partire dai figli di Noè. Tutte hanno un’efficacia positiva,
benché non possano ancora introdurre alla salvezza (…)» (P. Beauchamp, L’un et l’autre Testament.
2. Accomplir les Ecritures, Seuil, Paris 1990, trad. it. di M. Milazzo, L’uno e l’altro Testamento. 2.
Compiere le Scritture, Glossa, Milano 2001, p. 256).

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Rileggendo Il senso
del fondamento di
Aldo Masullo
di Armando Rigobello

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E’ stato recentemente riproposto il saggio di Ado Masullo Il senso del fon-


damento, a cura di Giuseppe Cantillo, che ne ha redatto la prefazione, e di
Chiara de Luzenberger, cui si deve l’introduzione. Il testo è edito dall’Edi-
toriale Scientifica, Napoli, dicembre 2007. Si tratta di un saggio che risale
alla fine degli anni sessanta ma le cui incisive argomentazioni, come osser-
va Cantillo nella prefazione, sono esemplari nel caratterizzare il contributo
speculativo del prestigioso maestro dell’Università di Napoli “Federico II”.
Il titolo stesso indica l’orientamento del discorso: la centralità del tema del
fondamento e insieme in quale senso possa essere proposto in dürftiger Zeit,
un tempo di privazione come il nostro, ma anche nella condizione umana
di ogni tempo: la ineludibile domanda sul senso globale che accompagna il
sorgere stesso del pensiero filosofico di fronte all’insuperabile limite della
morte individuale.

Le argomentazioni di Masullo partono dai limiti fenomenici della kantiana


conoscenza trascendentale. Kant supera il dramma attraverso il sentimento
morale e il conseguente primato della ragione pratica, ma se non si accetta il
dualismo sembra che non rimanga che l’angoscia esistenziale, l’irrazionalità.
Masullo invita a superare il dualismo kantiano concependo il trascenden-
tale come il luogo della intersoggettività. E’ la comunicazione con l’altro,
anzi con gli altri, che in questo rapporto ridisegna la fecondità dell’agire nel
presente e l’apertura sul futuro attraverso la dinamica storica dello stesso
processo intersoggettivo. Non si tratta di non riconoscere il limite, né di
superarlo postulando un trascendimento in un diverso piano di realtà, ma
di immergersi nella fecondità della comunicazione, dell’agire nella trama
dialettica sempre aperta del divenire storico. Il trascendimento della sogget-
tività singola avviene sul piano trascendentale della comunicazione e della
progettualità intersoggettiva. Si potrebbe dire con Spinoza che la filosofia è
“meditatio vitae” e non “meditatio mortis”.

Le difficoltà del dualismo kantiano sono, secondo Masullo, «superabili sol-


tanto se si tiene ben fermo che la filosofia progetta di ricercare un fonda-
mento il quale non possa essere trovato nella sua immediata effettività, ma
nella sua dialettica negazione e assenza, trovato nella “memoria” e al tempo
stesso nella “speranza”, e in ogni caso come “limite” dell’umana possibilità»
(p. 12). Il fondamento colto “nella sua immediata effettività” è quello della
metafisica ed insieme della via kantiana del postulato della ragione prati-
ca. L’esperienza fenomenicamente rilevante non è quella dell’empirismo, né
quella della sintesi a priori della kantiana estetica trascendentale, ma quella
di Diltey e di Yorck von Wartenburg. Il fondamento quindi è compiutamen-
te immanente e dinamico, un orizzontalismo attivo che agisce alimentato dal
“ricordo” e sostenuto dalla “speranza”. Potremmo dire che siamo di fronte
ad un pensiero che si situa oltre Kant verso Hegel, ove però la dialettica
hegeliana perde la sua compiuta necessità logica e si svolge nella concretez-
za di una dinamica esistenziale, tra continuità (ricordo) e programmazione
(speranza). La tragicità della fine viene esorcizzata in una specie di comu-
���������� nione nella soggettività collettiva e nel tempo storico. Il marxismo rimane
come sfondo utopico e come questione di metodo.

Un efficace sintesi del nucleo centrale del discorso la possiamo cogliere nelle
ultime pagine del saggio. « L’ angoscia – osserva Masullo – non scaturisce in-
vero dall’anticipazione della possibilità della morte, se non quando l’uomo
ha perduto il suo fondamento. Il “sicuro fondamento originario dell’uma-
nità “ è la comunicazione, la comunità vivente che ne fonda e delimita le
possibilità» (p. 168). L’eredità della dialettica hegeliana si intreccia con la
fondazione dell’intersoggettività della V Meditazione cartesiana di Husserl.
Ricoeur ha acutamente osservato che Husserl attribuisce all’intersoggettivi-
tà quel ruolo che Cartesio attribuisce alla garanzia divina, ma mentre tutta
la ricerca fenomenologica ha per Husserl un prevalente valore propedeuti-
co, il carattere dialettico dell’argomentazione di Masullo si presenta come
affermazione costitutiva.

La prospettiva di Masullo si situa al centro dei dibattiti sulla situazione


culturale, etico-politica contemporanea, il testo risale alla fine degli anni
sessanta, a ridosso della grande contestazione. Il discorso di Aldo Masullo
sottende particolari situazioni, apre però ad orizzonti più ampi e finisce per
delineare quelle prospettive che, per usare una espressione di Sartre, po-
trebbero essere indicate come “prolegomeni ad ogni futura antropologia”.
Nel testo di Masullo il senso del fondamento si oppone alla schizofrenia,
la vita umana è riscattata dall’angoscia attraverso l’immersione nel vissuto
comunitario. Sono proposte certamente lontane dalla radicalizzazione esi-
stenzialistica del Sartre di Etre et neant, l’uomo di Masullo non è certo una
“inutile passione”. Nonostante le apparenze la comparazione è forse più
agevole con un altro pensatore francese, Gabriel Marcel. Non si tratta di
una convergenza, ma di livelli di discorso che permettono un confronto. Il
testo di Marcel in proposito è Abbozzo di una fenomenologia e di una me-
tafisica della speranza (1942). Il nucleo speculativo del discorso di Marcel è
condensato nella frase finale del saggio: «Potremmo dire che la speranza è
essenzialmente la disponibilità di un’anima così intimamente impegnata in
un’esperienza di comunione da compiere l’atto trascendente in contrasto
con il volere ed il conoscere mediante il quale essa afferma la perennità vi-
vente di cui questa esperienza offre insieme il pegno e le primizie». Ricordo
(memoria), intersoggetività e speranza sono presenti nelle due prospettive,
quella di Masullo e quella di Marcel, sebbene l’intersoggettività in Marcel,
si radicalizzi come comunione, la speranza venga indicata come “memoria
del futuro”, la dialettica si attui attraverso “lo scacco del conoscere e del
volere”, accompagnato da anticipazioni e da “primizie”.

La chiave di lettura di questo confronto sta nella differenza tra intersoggetti-


vità e comunione: la prima indica un costitutivo rapporto di riconoscimento
reciproco, la seconda si richiama ad una esperienza esistenziale al limite
della fusione. Per chiarire il senso della comunione possiamo ancora fare
riferimento ad una espressione di Sartre, questa volte tratta dalla Critica
della ragione dialettica, quella di “gruppo in fusione”, ma la comunione di
Marcel non è esposta alla “rocciosa” necessità di una “dialettica costituita”
che dissolve, attraverso l’emergere del “pratico inerte”, il gruppo in fusione
nella “fraternità terrore”. La intersoggettività e la comunione sono entram-
bi dei trascendimenti della singolarità personale, ma la prima si concreta
nella sfera dei rapporti pubblici e il suo spazio è la società civile, la seconda
allude al “corpo mistico”, al “Reich der Gnade” di Leibniz e in qualche
���������� modo può anche richiamare il “Reich der Zwecke” di Kant. L’azione cui la
comunione dà luogo non è rilevante soltanto sul terreno storico, temporale
ma trae la sua forza e la sua giustificazione in un eschaton che trascende “la
curva dei giorni”. Anche nella intersoggettività comunicativa di Masullo è
presente un coinvolgimento esistenziale, quello dell’eros, forza creativa ove
la soggettività personale e il rapporto interpersonale si intrecciano, ma nella
comunione di Marcel una trascendentale speranza metastorica accompagna
l’impegno: la “poetica dell’agape” e “l’economia del dono”. Sono espressio-
ni di Ricoeur.

La differenza tra un agire intersoggettivo alimentato dal reciproco ricono-


scimento e dall’etica della comunicazione e l’agire nell’esperienza di una co-
munione che la morte non può interrompere sono certamente notevoli, ma
non mancano convergenze se prendiamo in considerazione l’eros cui allude
Masullo, che muove dall’interno la comunicazione ed il suo esercizio etico, e
la comunione di Marcel, che fonde le anime in una trascendentale speranza
e comporta un esercizio di fraternità. La differenza fondamentale è sul pia-
no religioso più che su quello dell’azione, delle conseguenze operative, per
lo meno nelle loro linee più generali. Si può anche richiamare la distinzione
che Ricoeur pone tra la fede religiosa, che è la risposta ad un appello, e la fi-
losofia, che è autonoma ricerca. Ma è in uno dei punti più problematici della
ricerca filosofica, quello del male nel mondo, che le due posizioni illustrate
si differenziano radicalmente.

Nel testo di Aldo Masullo lo spazio del male sembra configurarsi come limi-
te. La “perdita del fondamento”, che finisce per determinare la schizofrenia,
è il vero aspetto negativo della condizione umana. Accettare la naturalità del
limite (e quindi della morte), immergersi nella terapia della comunicazione,
nel fervore del vissuto, è esercizio di etica civile, liberatrice. La speranza è la
controfigura della schizofrenia, essa si conquista nel superare la malattia psi-
chica con l’impegno nel tessuto intersoggettivo del mondo umano, delle sue
dinamiche. Questo impegno ha un nome antico, è l’eros, inteso nel contesto
di una interpretazione immanentistica dell’eros platonico. Il fondamento
ritrovato è la dinamica comunicativa, la sua fecondità sociale ed insieme un
coinvolgimento erotico nell’azione pubblica.

Con tutta l’ammirazione per l’impegno con cui Masullo ha saputo affron-
tare il dramma filosofico, e non solo filosofico, del nostro tempo, ci pare
opportuno osservare come il problema del male non si possa risolvere dia-
letticamente, anche perché il male non è solo il timore della morte. “Que-
st’atomo opaco del male” purtroppo è enormemente più esteso. Il “dolore
invendicato”, di cui parla Dostoevskij, è dilagante. L’esperienza di comunio-
ne, pur nel pericolo di retoriche evasive, allarga l’orizzonte di riferimento
oltre i limiti di paure esistenziali e di cedimenti psichici fino ad abbracciare
tutto il dolore del mondo. Questa esperienza di comunione è così intensa da
divenire “pegno” e “primizia” di una “perennità vivente”. Questa perennità
è il fondamento che “ci precede ed insieme ci fonda”. Marcel generalmente
evita di fare esplicito riferimento alla rivelazione cristiana, ma la derivazione
dal linguaggio di san Paolo è evidente.

Siamo di fronte al “credo ut intelligam” e all’ “intelligo ut credam” di Ago-


stino? Affrontare la questione nell’ambito di questa recensione sarebbe
fuori luogo, dà comunque a pensare l’affinità ed insieme la distanza tra la
“perennità vivente” di Marcel, che emerge da una esaltante intensità di co-
munione, e il fervore della comunicazione che, secondo Masullo, si attua
���������� nella puntualità temporale dell’agire. Il ritrovato fondamento si fonde con
l’attualità del presente.

La differenza tra le due posizioni si delinea chiaramente se si considera il


rapporto della speranza con la temporalità. Per Masullo sia il fondamento
che la speranza si coagulano nella creativa pienezza dell’azione, per Marcel
la speranza è “memoria del futuro”. Il “ricordo” è presente anche nell’agire
attuale, secondo Masullo, ma non né essenza del futuro. La speranza “come
memoria del futuro”invece inverte il corso della temporalità naturale, introduce
nel tempo l’avvertimento di una metatemporealità che, come dicevamo poco
fa, “ci precede e ci supera”. La differenza tra le due pozioni speculative è
radicale, ma ad entrambe è utile il confronto a partire dall’analisi della domanda
di senso, tipica della condizione umana, e da una puntuale comparazione in
sede etica del loro concreto esercizio.
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Memoria e politica.
Attualità di
Antigone
di Carla Canullo

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Antigone, figura consegnataci dalla tragedia di Sofocle e amata da filosofi e


scrittori, narrando del contrasto tra stato e individuo, tra particolare e uni-
versale, narrando della difficile obbedienza ad una legge “non giusta”, mette
a nudo le contraddizioni delle umane vicende, della storia e della tradizione
cui si appartiene. Figura straordinaria è quindi la figlia di Edipo, ma anche
strana e inquietante, come l’uomo.
Nella “sua” tragedia, opponendosi a Creonte (tiranno di Tebe), muo-
re per aver dato degna sepoltura al fratello Polinice, traditore della patria e
morto nella guerra contro la sua stessa patria, Tebe. Ma, soprattutto, la ve-
diamo morire per quel fratello – Polinice, appunto – che nell’altra tragedia
che la vede protagonista, Edipo a Colono, è maledetto dal padre. Antigone
assiste inerme e in silenzio a quella maledizione, pronunciata contro Poli-
nice che, primogenito di Edipo e Giocasta, è reo di aver esiliato il padre
da Tebe costringendolo, con le sorelle Antigone ed Ismene, ad una vita di
mendicanza ed erranza. Costringendolo, però, anche a compiere il proprio
destino e destinandolo, a sua volta, a quella sacra ospitalità di Teseo che, a
Colono, gli permetterà di trovare finalmente la pace, concedendogli di ascol-
tare il “tuono del dio”. Anche il destino di Antigone è compiuto dal gesto di
Polinice. Non soltanto, allora, assistiamo ad uno scontro tra legittimità del
potere e dell’ordine e fedeltà ad una legge che non appartiene a tale ordine
ma lo sopravanza, essendo più antica; e ancora, non soltanto assistiamo alla
dissidenza di Antigone e allo scontro tra stato ed individuo: noi assistiamo
anche ad un compimento che passa attraverso un deviare. Antigone, infatti,
compiendo il proprio destino, fa accadere il compimento di un altro perso-
naggio, Creonte; compimento che il tiranno, tuttavia, riconoscerà soltanto
alla fine, o meglio, che conosceremo dalle parole del Corifeo: «È di felicità
primo elemento l’esser savi» (v. 1348). Compimento, del quale Creonte verrà
a conoscenza soltanto dopo esser passato attraverso le sciagure vaticinate da
Tiresia.
La fedeltà e il compimento passano, dunque, attraverso un deviare,
una memoria che è paradossale non memoria, o addirittura tradimento della
memoria. Il che rivela che la memoria è carica anche del suo contrario; anzi,
spesso nel tradimento della memoria accade il compimento che si accompa-
gna una nuova conoscenza, secondo verità. Ma da che cosa devia Antigone
mostrandosi inadatta ed insofferente nei riguardi della situazione politica di
Tebe? Il suo gesto non è, forse, equivoco? La protagonista, infatti, devia dal-
lo stato e dalle sue leggi, da un ordine legittimo. Di più, difende Polinice che
muore per aver mosso contro la sua città, e ciò nonostante egli abbia com-
messo un atto sommamente ingiusto contro suo padre e contro la sua patria.
Questo deviare sembrerebbe essere un gesto più “negativo” che “positivo”
ed ogni legittima “simpatia” nei riguardi di Antigone, ogni “entusiasmo”
per questa figura non legittimano il fatto che la sua “strada” possa esser
definita “giusta”. Eppure proprio Creonte è colui che, alla fine, la riconosce
tale, quando finalmente apprende e comprende.
���������� L’intreccio degli elementi evocati (stato vs individuo, particolare vs
universale, la difficile obbedienza ad una legge “non giusta”…) non cessa,
allora, di provocare, di darsi come complessione vivente che interroga ancor
oggi la politica e il giusto, questionando anche il significato del deviare. In
quest’interrogazione mi pare che un ruolo non marginale sia quello che può
svolgere la philia. La quale non taglia né risolve le questioni sollevate da e
attorno ad Antigone, ma ne illumina la scelta e, soprattutto, ne dis-piega il
suo ingresso nella politica, nella vita della polis; o meglio, dis-piega il signifi-
cato politico del suo gesto. Antigone, infatti, entra nella polis non esaltando
le leggi ma, anzi, opponendosi ad esse. Vi entra, cioè, scegliendo di essere
apolis, “fuori dalla città”. Entra nella città deviando, ma – ecco il paradosso
– deviando compie, porta a conoscenza, apre l’effettiva possibilità che la vera
strada sia, alla fine, conosciuta.
Contro le leggi, Antigone entra nella città affermando «nacqui a lega-
mi d’amore, non di odio» (v. 523), dove l’amore, con il “gesto” compiuto
esemplarmente e “per tutti” da Antigone, si fa capace di entrare nella poli-
tica, nella vita della polis grazie ad una disobbedienza (al tiranno, a Creonte)
ed un’obbedienza (alle leggi della tradizione). Obbedienza che nasce da una
philia tanto diversa e lontana sia dall’azione violenta, sia dal pio gesto di una
bontà “privata”.
Antigone devia dall’atteggiamento violento di Creonte, inserendosi
nella polis ed inaugurando una nuova politica: in questo sta la specificità
del suo atto. Essa, tuttavia, non devia dalla legge opponendo al pubblico il
privato, ma inaugurando una nuova politica capace di inaugurare una nuova
città, fondata su rapporti diversi di amicizia e amore. Amore che non ha nulla
a che vedere con la bontà ma che viene dalla (e si nutre della) memoria.
Il suo è, infatti, un gesto di amore perché scegliendo di seguire le “leggi
non scritte”, incrollabili, degli dèi (leggi che «non da oggi né da ieri, ma da
sempre sono in vita, né alcuno sa quando vennero alla luce» (vv. 454-457))
decide di dare la vita perché Polinice abbia degna sepoltura. O meglio: perché
il fratello nemico della sua patria e, soprattutto, del padre Edipo, che egli aveva
condannato all’esilio e che lo aveva maledetto, sia sepolto. Di nuovo, allora, e
proprio mentre ci interroghiamo sull’originalità del gesto di Antigone e sul
suo ingresso nella polis, la tragedia sofoclea ripresenta il proprio crogiolo di
contraddizioni e non di soluzioni pacificanti. La philia non rende piane le
situazioni controverse ma nasce da una deviazione che si fa capace di esplo-
rare sentieri nuovi. Primo fra tutti, il difficile tema della cittadinanza, tema
che chiama direttamente in causa la philía.
Ha ragione, in tal senso Francesca Brezzi a dire che da Antigone vie-
ne inaugurata «una nuova idea di cittadinanza, cittadinanza negoziata, retta
da rapporti flessibili e malleabili, non edificata su identità etniche rigide ma
interculturale» (BREZZI 2004, 297). Ecco, allora, il significato politico della
philía di Antigone: essa inaugura un nuovo modo di intendere la cittadinan-
za, aprendo nuove modalità di rapporti; inaugura un universale non “fuori
contesto” ma “in contesto”; un universale, cioè, capace di dare conto delle
differenze che, nel tempo, si sono affermate (differenze politiche, sessuali,
etniche… ); un universale, infine, che si traduce in quella nuova idea di
“cittadinanza negoziata”. Il gesto di Antigone, compiuto nella fedeltà alle
leggi non scritte ci interroga ancora rivelandosi come punto sorgivo di novi-
tà inaugurante nuovi rapporti. Fedeltà alle “leggi non scritte”, allora, come
paradigma di ogni altra fedeltà. Quale fedeltà è in gioco, tuttavia?
Antigone è fedele al proprio genos, naturalmente, e dunque a Polinice,
e per lo stesso motivo ed in un caso analogo, lo sarebbe probabilmente stata
���������� anche all’altro fratello, che ha combattuto per la patria, Eteocle. È, però, in-
fedele al padre Edipo, e dunque e paradossalmente, anche al proprio genos.
Le contraddizioni iniziali (pubblico-privato, individuo-stato…) risuonano
ancora e di nuovo nel gesto di Antigone. Un’impasse questa che, ogni qual-
volta il nome dell’eroina ritorna, sembra essere sempre e inevitabilmente
data in sorte. Sembra, tuttavia, perché interrogarsi sul significato della sua
fedeltà può offrire una via di uscita. Non la fedeltà della coerenza brilla dalla
philia di Antigone, né la stabilità dell’immutabile da essa traluce. Recipro-
camente, la philia pur partendolo - nel fondare legami - da fonti diverse da
quelle cui ricorrono il tiranno o il legislatore, non è per questo destinata
ad inaugurare rapporti di cittadinanza precari o instabili, contrari (se non
addirittura contraddittori) rispetto a quelli stabiliti dall’ordine delle leggi.
Essa è destinata a generare una stabilità diversa, la cui dismisura è data dalla
fedeltà.
Questa possiede e genera una sua stabilità, diversa da quella che ca-
ratterizza la coerenza o il perseverare nella propria opinione: se la fedeltà fosse
“volontà di non cambiare” od ostinazione, chi più di Creonte potrebbe esse-
re detto fedele al suo editto che vietava di dare sepoltura a tutti i nemici della
patria, e a Polinice innanzitutto, e chi meno di Antigone potrebbe meritare
questo aggettivo? Ma la fedeltà di Antigone non è riconducibile alla coeren-
za affermata con un atto (quasi disperato e folle) di volontà. Lei stessa dubita
della giustezza della propria azione, e piange e lamenta ciò cui questa stessa
la destina, condannandola a morte e privandola della gioia di essere sposa e
madre. Il suo gesto sembrerebbe piuttosto un ostinato contrapporsi al tiran-
no, al potere, destinato a sfociare nell’auto-annientamento di se stessi. Ma la
fedeltà di Antigone non è astratta e vuota coerenza destinata ad esaurirsi nel
singolo atto compiuto in uno stato prossimo alla follia. La “sua” fedeltà, lun-
gi dall’essere l’ostinato arroccamento di una volontà che non vuole cedere, è
risposta. Antigone risponde a leggi la cui origine si perde nel tempo, afferma
un amore che eccede ogni fatto e circostanza storica.
Antigone risponde ad un appello che non appartiene al tempo ma che
continua a convocare nel tempo perché, se non convocasse, sarebbe destina-
to all’oblio. Risponde ad un appello non cancellabile dalla memoria perché di
esso vivono gli atti di pietà, amicizia ed amore capaci di fondare un nuovo ordi-
ne, capaci di insegnare, di dare da comprendere anche il senso della polis, della
politica. Ecco il senso del suo far memoria (e, dunque, della memoria) quale
capacità di generare un nuovo ordine. Una memoria che nasce dal felice pa-
radosso di una disobbedienza esito dell’obbedienza ad un appello. Antigone,
infatti, obbedisce a “leggi non scritte” che vincolano l’arbitrio dell’assoluta
onnipotenza del tiranno. Queste leggi e la loro memoria si palesano nell’atto
del far memoria svelando in esso ciò che, accadendo nel tempo, non appar-
tiene al tempo e che, con la philía, può entrare anche nello spazio della polis,
costringendone le leggi verso l’altrove da cui sono generate. Costringendo
oltre lo spazio segnato dalla città e dalla cittadinanza per tornare alla città
stessa in modo diverso. Fedeltà, dunque, come risposta a ciò che si svela nella
legge come sua radice eterna e fondata in “altro”; “altro” che permette di ri-
disegnare i rapporti della città alla luce dell’atto compiuto come e in quanto
philía. “Altro” che convoca ad una risposta ma che, anche, chiede di essere
custodito.
Il gesto del memorare, della memoria, è allora sempre ed anche un
custodire, un serbare per mantenere desto, per istituire una continuità diver-
sa dalla coerenza o dall’ostinato perseverare. Memorare e custodire, dunque,
come gesti e verbi della fedeltà, come gesti di una fides che non vincola al
“non dover mai cambiare”, che non teme gli inevitabili mutamenti cui il
tempo destina le vicende umane. Antigone stessa dubita, trema, teme, esita
quando “agisce contro”. Entra nella polis con un gesto nuovo, mostrando
come la cittadinanza inaugurata dalla philía sia piuttosto compito (far me-
moria delle leggi) e non pacificazione; sia, in definitiva, relazionalità capace
���������� di creare un nuovo spazio. Ma relazionalità, appunto, come compito da co-
struire, apprendere ed insegnare. Quale stabilità, allora, è introdotta da una
fedeltà che nasce dal convergere di due azioni, da un memorare che è rispon-
dere all’appello di leggi che convocano nel tempo pur non appartenendo
al tempo ma che in questo appello si palesano e svelano, e da un custodire
che coincide con il rispondere e che fa sì che ciò che convoca sia mantenuto
vivo nel tempo? Non si tratta della stabilità del perseverare a prescindere da
ciò che si rivela, ma di un perdurare nel tempo dell’atto stesso che rievoca e
convoca. Detto altrimenti, il perdurare che caratterizza la fedeltà è posto e
reso effettivamente possibile da ciò stesso di cui si fa memoria e che è custo-
dito. La fedeltà di Antigone non è ostinazione, ma è un deviare dalle leggi
non giuste (e alla fine della tragedia riconosciute tali anche da Creonte) reso
possibile dalla risposta all’appello di ciò che precede il tempo e procede da un
passato immemoriale. Ancora, il perdurare di Antigone non è un atto di forza
ma è un cedere a ciò che da sempre è e che, essendo da sempre, svelandosi e
palesandosi genera continuità e stabilità ridisegnando e consegnando nuovi
spazi di convivenza.
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Riconcettualizzare
il rapporto medico-
paziente: il model-
lo deliberativo alla
����������
prova
di Corrado Viafora

Il modello di relazione medico-paziente che la bioetica ha finora pro-


mosso è quello espresso dal “consenso informato”, assunto come vero e
proprio nuovo paradigma dell’etica in sanità. Il profilo applicativo di tale
modello, come si sa, prescrive al medico l’obbligo di informare il paziente,
proporgli percorsi alternativi di cura, aiutare infine il paziente a pervenire
autonomamente alla “sua” decisione, mantenendo un atteggiamento neu-
trale da un punto di vista valoriale. La tesi che intendo sostenere, sulla base
dell’analisi del più ampio contesto culturale entro cui il rapporto medico-
paziente oggi si colloca, è che tale modello di relazione, così come è stato
concettualizzato, non sembra in grado di affrontare le sfide con cui tale rap-
porto è chiamato a confrontarsi. Sia chiaro: non si tratta di abbandonare il
modello del “consenso informato”, quanto piuttosto di rinforzarlo, supe-
rando alcuni limiti connessi con la concettualizzazione dominante ispirata
alla tradizione “liberale”.

1. Premessa: l’ “emancipazione del paziente”


Punto di partenza della riflessione che intendo svolgere è l’analisi di un
fenomeno che per certi versi si colloca all’origine stessa della bioetica e che
comunque costituisce un fattore discriminante nell’evoluzione del rapporto
medico-paziente: è il fenomeno che D. Gracia, con un evidente riferimento
all’interpretazione della modernità data da Kant, chiama “emancipazione
del paziente”. Per Kant la modernità consiste nell’uscita dell’uomo dallo
stato di minorità e avere il coraggio di pensare e agire autonomamente,
emancipandosi appunto dalla tutela rassicurante di ogni autorità. Applicato
allo specifico campo delle relazioni sanitarie, in cosa consiste il fenomeno
dell’emancipazione? Qual è il suo impatto sul rapporto medico-paziente?
L’etica medica tradizionale si basava sul principio che la malattia non solo
altera l’equilibrio fisico dell’individuo, ma anche quello psichico e morale.
La malattia, diceva già Aristotele, altera a tal punto la capacità di giudizio
che impedisce al paziente di decidere con saggezza. Per questo la virtù pri-
maria richiesta al paziente è l’obbedienza: funzione del medico è di coman-
dare; funzione del paziente di obbedire. La categoria dell’emancipazione
usata per indicare la progressiva presa di distanza da questo approccio pa-
ternalistico dà bene il senso della nuova attitudine che si afferma a partire
dalla fine degli anni ’60: la ricerca di un rapporto più adulto con il medico
che, superando la tendenza a infantilizzare il paziente, potesse avviare an-
che nel campo medico-assistenziale rapporti più alla pari e partecipativi.
Di questa nuova attitudine si danno spesso letture ideologiche, volte alcu-
ne a “mitizzarla”, altre a “demonizzarla”. Mi sembra invece che si diano
buone ragioni per sostenere che tale fenomeno comporti una sostanziale
ambivalenza: può rendere il rapporto medico-paziente più adulto e cioè più
consapevole e responsabile, così come può renderlo più conflittuale e cioè
litigioso e rivendicativo.
La questione che vorrei porre al centro della mia riflessione è perciò
la seguente: quali sono le condizioni per promuovere e rinforzare gli aspetti
positivi connessi con l’emancipazione del paziente e contenerne e minimiz-
zarne gli aspetti negativi? Quali sono in sostanza le condizioni per favorire
la costruzione di un rapporto medico-paziente più maturo (anche se più
���������� conflittuale) e di conseguenza anche terapeuticamente più efficace?

2. I fattori che più incidono nell’evoluzione del rapporto medico-pa-


ziente
Tra i fattori che maggiormente incidono sull’evoluzione in atto del
rapporto medico-paziente ne segnalo tre. Sono quelli da cui deve partire,
in risposta al processo di emancipazione del paziente, la ricerca di relazioni
medico-assistenziali più adulte.

2.1. L’irruzione del “linguaggio dei diritti” nel campo delle relazioni
medico-assistenziali
Il primo fattore che incide in maniera rilevante sull’attuale configura-
zione del rapporto medico-paziente è dato dall’irruzione nel campo delle
relazioni medico-assistenziali del linguaggio tipico della modernità: il “lin-
guaggio dei diritti”. Da un punto di vista culturale, la sensibilità che ha più
contribuito a esprimere e insieme a legittimare l’emancipazione del paziente
è quella a cui si è ispirata a partire dal contesto nord-americano la crescente
rivendicazione dei valori di individualità, di libertà e di autonomia, conflui-
ta poi nei movimenti dei diritti delle minoranze, dei diritti delle donne e,
in particolare, dei diritti dei pazienti. Con l’introduzione del linguaggio dei
diritti (anche) la medicina si può dire sia definitivamente entrata nella mo-
dernità. Risale al 1973 il primo documento che applica in maniera esplicita
il linguaggio dei diritti al campo della medicina e dell’assistenza sanitaria in
genere: è il “Codice dei diritti dei pazienti” emanato dall’Associazione degli
Ospedali Americani. Un’attenta lettura del Codice è estremamente istruttiva
in quanto mette in luce come i dodici punti di cui si compone non siano altro
che specificazioni del diritto generale al “consenso informato”. Sulla novità
di questo documento così si esprimono nella loro “storia e teoria del consen-
so informato” R. Faden e T. Beauchamp: “Questo documento implicava un
distacco quasi rivoluzionario dall’approccio paternalistico tradizionale. Per
la prima volta il medico era obbligato a coinvolgere il paziente nel processo
decisionale e riconoscergli il diritto di prendere la decisione ultima”.
Quanto fossero forti le resistenze di fronte a questa novità può esse-
re testimoniato dal giudizio che sul “consenso informato” dà qualche anno
dopo sull’autorevole rivista dei medici americani G. Laforet: “Il consenso
informato è un mito legalista, che mette in questione la qualità delle cure
prestate al paziente e paralizza il medico coscienzioso. Erige barriere insupe-
rabili alla ricerca e non è realisticamente applicabile ad una buona porzione
della popolazione. Questo termine non ha alcun posto nel lessico medico”.
Precauzione e invito al discernimento si possono ancora cogliere, dieci anni
dopo la stroncatura di G. Laforet, in queste parole di F. Isambert: “Grande
���������� è il rischio che nella prassi medica il consenso venga fondato su un contratto
esteriore spogliandosi di ogni dimensione simbolica e cercando la solidità
oggettiva di atti giuridici a loro volta garantiti da altri atti e da altre assicura-
zioni”. Le considerazioni di F. Isambert hanno il merito di evidenziare con
chiarezza la posta in gioco del dibattito sul consenso informato e cioè la qua-
lità del rapporto medico-paziente. Qual è la connotazione di tale rapporto?
E’ il “contratto” o la “fiducia”? Dipende dall’una o dall’altra immagine che
si ha del rapporto se il consenso verrà considerato “un contratto di garanzia
reciproca” o “un rapporto di reciproco coinvolgimento”. Quello comunque
che si deve assolutamente evitare, così conclude il sociologo francese, è che
il rapporto medico-paziente si carichi di elementi burocratici e legalistici che
ne snaturano la fisionomia. Passando ad un’ analisi più specificamente etico-
normativa, la valutazione che nel più ampio quadro della nascente riflessione
bioetica si dà dell’assunzione del linguaggio dei diritti è in genere concorde
nell’individuarne le risorse e insieme nel segnalarne i limiti. Esemplare al
riguardo la posizione di T. Beauchamp e J. Childress. Pur riconoscendo la
forza del linguaggio “liberale” dei diritti, essi non tralasciano tuttavia di se-
gnalarne molto onestamente alcuni limiti intrinseci. Sulla forza: “Abbiamo
l’impressione che nessuna parte del lessico morale sia servita più del linguag-
gio dei diritti a proteggere gli interessi legittimi dei cittadini nelle varie situa-
zioni politiche. La condizione di essere un detentore di diritti in una società
che li faccia valere è fonte di tutela personale, di dignità e di stima di sé. Al
contrario, sostenere che qualcuno abbia l’obbligo di tutelare gli interessi di
qualche altro può mantenere il beneficiario in una situazione di dipendenza
dall’altrui volontà di ottemperare l’obbligo”. Quanto ai limiti del linguaggio
dei diritti, essi segnalano in particolare quelli connessi con il carattere “anta-
gonistico” dei diritti. Questo aspetto rischia, secondo gli autori di Principles
of biomedical ethics di impoverire gravemente la comprensione della nostra
esperienza morale, dal momento che le esigenze di relazioni significative,
come la relazione genitoriale o la relazione terapeutica stessa, difficilmente
potranno trovare adeguata espressione con il linguaggio dei diritti.
Sui limiti connessi al moderno linguaggio dei diritti, a partire da una
sua collocazione all’interno del quadro più ampio della costruzione del sog-
getto moderno, insiste anche M. Ignatieff. Nella sua “storia dei bisogni”, il
sociologo canadese distingue tra bisogni che si esprimono nel linguaggio dei
diritti (diritti politici, diritti sociali) e altri bisogni che invece non riescono
a farsi esprimere con il linguaggio dei diritti. Partendo da questa distinzio-
ne egli arriva a formulare la seguente interpretazione: la modernità, che ha
espresso una concezione del soggetto modellata prevalentemente dalla figura
dell’individualità, ha sviluppato una risposta imponente ai bisogni collegati
con l’autonomia del soggetto, ma ha invece dimenticato fino a cancellarli
quei bisogni non dicibili dal linguaggio dei diritti. Attrezzato per esprimere
le richieste che un individuo può fare alla collettività o contro di essa, tale
linguaggio è relativamente povero come mezzo per esprimere i bisogni di
collettività degli individui stessi. Infine - aggiunge M. Ignatieff - il linguag-
gio dei diritti può esprimere il rispetto della dignità umana come rispetto
dei diritti reciproci e sostenere la richiesta di essere trattati con dignità alla
luce della nostra comune identità di soggetti portatori di uguali diritti, ma
- conclude - noi siamo qualcosa di più di soggetti portatori di diritti e in una
persona c’è qualcosa di più da rispettare che i suoi diritti.

2.2. La mitizzazione della salute e la medicalizzazione della vita


Un secondo fattore che incide in maniera rilevante sull’evoluzione del
rapporto medico-paziente è dato da un fenomeno che si viene configurando
come il fulcro attorno a cui ruota sempre più l’interesse individuale e collet-
tivo della post-modernità: la crescente attenzione nei confronti della salute.
���������� L’onnipresente preoccupazione per la salute con la tendenza ad ampliare la
medicalizzazione della vita è il fattore che in maniera sempre più evidente
connota l’attuale atteggiamento verso la salute e la malattia. E’ quanto rileva
l’antropologo francese F. Laplantine a conclusione della sua ricerca “sulle
forme elementari del normale e del patologico”, e cioè sui diversi modi in
cui, oggi, uomini e donne della nostra società si rappresentano malattia e
salute. Ciò che caratterizza la nostra cultura, secondo F. Laplantine, non è
tanto la ricerca della sicurezza. Questa ricerca non è più intensa oggi che un
tempo, in qualsiasi altro luogo. La novità consiste piuttosto nella forma sani-
taria che essa ha assunto nella nostra cultura. Espressione di questo fenome-
no è l’ossessiva preoccupazione per la salute, considerata talmente impor-
tante da trasformarsi in obiettivo, fine e valore dell’esistenza. Conseguenza
di questa interpretazione sanitaria della sicurezza sono altri due fattori che
entrano a determinare l’attuale atteggiamento verso la salute: la crescente
medicalizzazione della vita, unita alla tendenza a costruire, nel vuoto lasciato
dal disinteresse nei confronti della visione religiosa della vita e dal discredi-
to nei confronti delle ideologie, una nuova morale su base medica. Le sue
tracce sono evidenti nell’immagine che noi abbiamo della medicina: è lei (la
sola ormai rimasta) che ordina, prescrive, notifica; è lei che minaccia, pro-
vocando angoscia in tutti coloro che si rendono conto di non obbedire alle
regole della salute e gestendo il terrore di quanto è vissuto come il flagello
che sovrasta l’immaginario collettivo: il cancro. La funzione della medicina
di oggi, ricorda F. Laplantine, non è solo quella di curare le malattie, ma di
spingere il più lontano possibile l’assillo della conservazione di sé. Essa non
è più soltanto una parte, anche se molto importante della nostra cultura, ma
l’elemento dominante, quasi al punto di rappresentare da sola tutta la cultu-
ra. In qualsiasi società, per dare una spiegazione globale dell’individuo e del
sociale si mettono in gioco raffigurazioni, ma mentre quelle spiegazioni sono
il più delle volte religiose, a volte politiche, a volte economiche, per la prima
volta nella storia dell’umanità tendono, secondo Laplantine, a diventare sa-
nitarie e più specificamente biomediche.
Come interpretare questa crescente attenzione verso la salute? Una
drastica valutazione negativa proviene da chi considera questa crescente at-
tenzione alla salute espressione di mediocrità, maschera più o meno sedu-
cente dell’impoverimento dell’uomo, la maschera che Nietzsche riferiva all’
“ultimo uomo”: “una vogliuzza per il giorno, una vogliuzza per la notte,
salvo restando la salute”. Esprime una valutazione positiva chi, pur consa-
pevole della deriva consumistica a cui in un sistema di mercato è esposta
anche questa attenzione, vede tuttavia in essa l’espressione della ricerca di
un nuovo rapporto con il corpo, destinata a segnare una svolta antropologica
duratura. Personalmente propendo a considerarne le ambiguità.
La prima ambiguità da chiarire: salute o felicità? L’ambiguità nasce per
il fatto che in questa nuova cultura della salute il bene salute non corrispon-
de più semplicemente all’assenza di malattia, ma tende invece a identificarsi
con uno stato di completo benessere, sinonimo in sostanza di felicità. Ma per
quanto valido sia il tentativo di mirare a un concetto globale di salute, è giu-
sto identificare la salute con la felicità? E’ possibile? Gli interrogativi riman-
dano alla discussione aperta dal 1948 in avanti, a partire dalla definizione
proposta dall’Organizzazione mondiale della sanità: “La salute dell’uomo è
una condizione di completo benessere fisico, mentale e sociale e non signi-
fica solo assenza di malattia”. Il merito indubbio di questa definizione sta
nel fatto che include nel concetto di salute, accanto a quello fisico, anche
quello mentale e sociale, evitando di operare una rigida dicotomia tra corpo,
���������� mente e società. Le critiche comunque non sono mancate. Alcune tra quelle
più significative. (a) Questa definizione non riesce a distinguere in maniera
adeguata tra campo medico (medical goal) e campo della salute (health goal).
Una definizione di salute in termini così ampi, ricorda D. Callahan, rende
molto difficile determinare quali aspetti della salute siano strettamente medi-
ci e quindi a quali compiti deve rispondere una politica sanitaria. Se, infatti
scopo delle istituzioni sanitarie è realizzare il nostro completo benessere, ci
si mette in condizioni di chiedere troppo alla medicina e di esporre il rappor-
to medico-paziente ad una inevitabile frustrazione; (b) Questa definizione
porta ad un’arbitraria medicalizzazione della vita. Enfatizzando il comple-
to benessere, questa definizione, secondo F. Anschuetz, legittima atteggia-
menti errati nei confronti di quelle condizioni umane che non realizzano
le indicazioni di un tale completo benessere e quindi vengono facilmente
patologizzate: la vecchiaia ad esempio, così come particolari condizioni di
disabilità. Con questa definizione non si ha modo di definire “sana” una
vecchiaia. Non si ha modo di definire “sana” una condizione di menoma-
zione. (c) L’approccio alla salute come completo benessere porta, infine, a
confondere salute con felicità. In effetti, nella misura in cui la salute venga
considerata ad un tempo come mezzo per il raggiungimento di ulteriori fini e
insieme la sintesi di questi fini, si arriva inevitabilmente a confondere salute
con felicità. Non si esce da questa confusione, sostiene R. Mordacci, se non
distinguendo a quale specifico livello si situa la salute rispetto all’orizzonte di
senso della vita nella sua totalità. Questo è possibile solo se si dia una forte
capacità di rimando simbolico che renda capace il soggetto di andare oltre
il livello puramente fisico, per attingere una dimensione di senso ulteriore.
Solo a questa condizione il riferimento alla salute potrebbe costituire l’uni-
tario simbolo capace di abbracciare ed esprimere l’orizzonte umano nella
sua interezza, capace cioè di esprimere insieme un sano stile di vita, un sano
modo di far fronte alla sofferenza e alla malattia, un sano modo di pensare
alla morte, un sano modo di vivere anche nella menomazione fisica. Fuori da
questa prospettiva, c’è il rischio che l’enfasi posta sulla salute porti a rinfor-
zarne una concezione “anestetica”.
La seconda ambiguità: è la medicina che tende a gestire in termini to-
talizzanti i bisogni di salute degli individui o sono gli individui a delegare
la gestione dei loro bisogni di salute all’istituzione medica? L’interrogativo
rimanda alle tesi provocatorie di I. Illich e all’ ondata di scalpore che susci-
tarono a metà degli anni ’70. Illich era fermo sostenitore della prima tesi: è la
medicina che tende ad appropriarsi della salute degli individui, esproprian-
doli della capacità potenziale di far fronte in maniera personale ai propri bi-
sogni di salute. La medicina organizzata professionalmente, secondo Illich,
è venuta assumendo la funzione di un’impresa morale dispotica tutta tesa
a programmare la sua espansione in nome della lotta contro ogni sofferen-
za. Al di là del tomo provocatorio e della quota di pregiudizi di cui queste
tesi si alimentano, c’è in esse un aspetto che merita di essere attentamente
valutato. E’ il forte richiamo a considerare la salute come “virtù”, compito
personale da assumere personalmente, più che aspettarsela dal medico e dai
farmaci. E’ questo il contributo costruttivo presente nella denuncia di Illich.
E tuttavia è proprio la considerazione di questo aspetto che rende evidente
il superamento delle sue tesi. Analisi storiche, come quelle proposte dalla
“tormentata storia del rapporto medico-paziente” del canadese E. Shorter,
hanno evidenziato in maniera sempre più convincente che le resistenze a
intendere la salute come un compito affidato innanzitutto alla responsabilità
personale non vengono solo dai medici. La resistenza dei medici è solo una
���������� parte di verità. L’altra parte di verità di cui bisogna prendere atto è che sono
i pazienti stessi ad andare dal medico semplicemente per liberarsi dal sinto-
mo, evitando di scendere alla radice della malattia per assumersi la parte di
responsabilità del processo che ha portato alla malattia. Perciò, se è vero che
l’incapacità di integrare la dimensione personale nel rapporto clinico ha in-
debolito secondo alcuni la mano guaritrice del medico, bisogna aggiungere
che l’impersonalità diventa seducente anche per il paziente, per il quale un
rapporto personale con il medico, con l’invito ad appropriarsi della propria
malattia, potrebbe comportare un insostenibile confronto con il proprio stile
di vita.

2.3. La radicalità assunta dalla dimensione etica in sanità


Un ulteriore fattore che interviene a influenzare l’evoluzione del rap-
porto medico-paziente si riferisce alla radicalità assunta dalla dimensione
etica in sanità. La radicalità in questione è evidente qualora si faccia atten-
zione ai seguenti fenomeni.
L’emergenza della questione antropologica. Sempre più le decisioni
in campo sanitario coinvolgono questioni che sorpassano le competenze
strettamente medico-professionali e fanno di questo campo il nuovo “locus
antropologicus”, il luogo cioè dove più direttamente oggi si decide della
dimensione umana dell’uomo. Le scoperte scientifiche più importanti - af-
ferma D. Roy, fondatori di uno dei primi centri di bioetica, presso l’ Institut
de recherche clinique di Montréal - hanno sempre aperto nuove direzioni
di ricerca non solo in senso scientifico. Esse hanno anche generato nuove
questioni fondamentali sul destino globale dell’uomo. La rivoluzione coper-
nicana, l’evoluzione darwiniana, la scoperta freudiana dell’inconscio hanno
trasformato profondamente la nostra comprensione della natura umana.
Ognuna di queste scoperte ha messo in moto una serie di domande e di nuo-
ve intuizioni. Ognuna in sostanza è servita come “locus antropologicus”.
Oggi è la biomedicina - conclude D. Roy - ad acquisire un ruolo particolare
nell’elaborazione di una nuova rappresentazione della natura umana e per-
ciò destinata ad occupare un posto sempre più centrale a livello culturale.
La medicina procreativa, ad esempio, rendendo possibile con la diagnosi pre-
natale il controllo della qualità delle nascite, coinvolge e mette in questione
lo specifico della responsabilità genitoriale. L’innalzarsi dell’aspettativa di
vita, frutto anche delle potenzialità diagnostiche e terapeutiche della medicina
di oggi, porta a sviluppare nuove idee sull’età anziana e insieme a pensare
diversamente i cicli di vita e il rapporto tra le generazioni. La genetica e le
scienze neurologiche pongono questioni inedite relative ai limiti dell’identità
umana, coinvolgono e mettono in questione il “futuro della natura umana”. È
questo il motivo di fondo per cui il campo sanitario, e più in generale il campo
biomedico, è diventato oggi il luogo dove più immediatamente si scontrano le
diverse impostazioni morali presenti nella nostra società.
L’ampliamento delle potenzialità della medicina. Se l’emergenza
della “questione antropologica” è il primo fattore che spiega la radicalità
assunta dalla dimensione etica in sanità, ce ne sono altri che interessano
più specificamente l’area sanitaria. Si tratta di situazioni problematiche
strettamente legate all’evoluzione del sistema sanitario e della relazione di
cura, non sempre interpretate con un adeguato senso critico. Ne segnalo due
in particolare. Innanzitutto l’ampliamento delle potenzialità della medicina.
La disponibilità di nuove potenzialità, frutto in gran parte dell’applicazione
anche alla medicina del progresso tecnologico, può rinforzarne le risorse, così
���������� come può indurre un’arbitraria medicalizzazione. In questione come si vede
è, anche in questo caso un aspetto radicale: la natura stessa della medicina. La
medicina, in sostanza, è una mera tecnica assiologicamente neutra e quindi
a disposizione di qualunque desiderio e di qualunque potere, o invece una
“pratica normativa” nel senso forte del termine con suoi fini interni? Se è
così, quali sono le condizioni da rispettare perché la medicina possa gestire
le nuove potenzialità in coerenza con i suoi fini costitutivi, evitando che
prevalga l’attitudine puramente tecnica per cui tutto ciò che si può fare si
legittima di per sé? E d’altra parte, come risignificarli questi fini di fronte alla
“inevidenza” che attualmente sembra li abbia investiti. Se finora era evidente
che fine della medicina fosse di fare tutto il possibile per prolungare la vita,
tale evidenza sembra messa in questione (paradossalmente) dall’ampliamento
delle potenzialità stesse della medicina. Se, in linea di principio, è giusto nel
caso di un neonato gravemente prematuro attivare alla nascita tutti i trattamenti
medico-assistenziali che si dimostrino efficaci per la sopravvivenza, nella
misura in cui il suo miglior interesse, a cui la medicina è tenuta, coincide
con la difesa del bene fondamentale che è la vita; nel caso tuttavia in cui
pesanti complicanze, come un’emorragia endocranica di quarto grado,
offrano ad un certo punto del decorso clinico dati prognostici estremamente
gravi, che, se si fossero dati al momento della nascita, avrebbero senz’altro
giustificato l’astensione dal trattamento intensivo, sospenderlo, una volta
attivato, può essere eticamente non diverso dell’astensione. Questo vuol dire
forse arrogarsi il potere di sottoporre l’inclusione nella comunità morale al
“controllo della qualità”? O non vuol dire piuttosto sottrarre le scelte cliniche
alla logica dell’“irreversibile concatenamento” tipico della tecnica, per gestire
responsabilmente quello che tecnicamente si può fare?
La strutturale scarsità delle risorse. Un’ulteriore situazione che
evidenzia la radicalità assunta dalla dimensione etica in sanità è costituita
dall’attuale riordino dei sistemi sanitari di fronte alla strutturale scarsità delle
risorse. Quanto più, di fronte a tale scarsità, si voglia impostare il riordino
sulla base della determinazione di “priorità” piuttosto che sulla base di “tagli”
indiscriminati di servizi e prestazioni, tanto più diventa urgente il confronto sui
criteri in base a cui fissare le priorità e quindi sulle diverse prospettive etiche
su cui basare questi criteri. A conferma del carattere strutturale della scarsità
delle risorse si richiamano fenomeni come: l’aumento della popolazione
anziana e la conseguente crescita della richiesta di assistenza; l’introduzione
nel sistema sanitario di tecnologie biomediche a ritmi sempre più accelerati e
costosi; l’aumento di malattie legate a stili di vita e contesti a rischio così come
a nuovi tipi di disagio sociale. E tuttavia proprio in rapporto a questi fenomeni
si richiede un’interpretazione più critica del concetto di “scarsità delle risorse”:
Quanto incide sulla scarsità delle risorse l’invecchiamento della popolazione
(in sé) e quanto incide invece il modo in cui gli anziani vengono trattati
all’interno delle nostre società in genere e del sistema sanitario in particolare?
Quanto incide sull’introduzione delle tecnologie biomediche una logica di
aumento dei profitti e quanto invece l’obiettivo di un’effettiva promozione
della salute? Quanto incide sulla scarsità delle risorse sanitarie l’utilizzazione
distorta dei servizi e delle tecnologie sanitarie per far fronte a bisogni di salute
che dovrebbero essere affrontati in altro modo e non medicalizzati?

3. La centralità del dialogo per riconcettualizzare il rapporto medico-


paziente
Nella ricerca di una nuova concettualizzazione del rapporto medico-
paziente, le posizioni in campo continuano a oscillare tra approcci contrapposti:
la riproposizione da una parte del tradizionale modello paternalistico o,
all’estremo opposto, la proposta di chi, interpretando la relazione medico-
paziente in chiave radicalmente contrattualistica, concepisce tale relazione
come interazione basata esclusivamente sulla logica della prestazione tecnica,
nel totale disimpegno del coinvolgimento personale. Tra queste due opposte
posizioni, c’è chi cerca di delineare un approccio alternativo basato sulla
���������� reciproca interazione medico-paziente. Un approccio esemplare al riguardo è
quello proposto da E. Emanuel e L. Emanuel. Tale approccio è esplicitamente
indirizzato a superare i limiti sia del modello “paternalistico” tradizionale,
che del modello “informativo” moderno. Così i coniugi Emanuel sintetizzano
rispettivamente il primo e il secondo modello. Il modello paternalistico
(“the paternalistic model”) si basa sul presupposto che, per la sua specifica
competenza, è il medico che può meglio valutare la condizione del paziente
e indicare i trattamenti più appropriati a guarire o a curare. Quando il medico
è giunto ad una certa conclusione, potrà sia incoraggiare il paziente ad
acconsentire ai trattamenti che, egli, in quanto medico, giudica migliori, sia, in
alcuni casi, informare il paziente sul trattamento che, di autorità, sarà attivato.
Il modello paternalistico presume che si diano criteri oggettivi per determinare
qual sia il migliore trattamento e, di conseguenza in che cosa consista il
miglior interesse del paziente, a prescindere dalla diretta determinazione da
parte del paziente. In questo modello, il medico agisce come tutore, protettore
(“guardian”) del paziente, nella considerazione prioritaria dell’interesse del
paziente e rivolgendosi ad altri colleghi qualora si accorgesse di non avere
le conoscenze specifiche che il caso richiede.Nel modello informativo (“the
informative model”) invece l’interazione medico-paziente è finalizzata a
dare al paziente tutte le informazioni rilevanti perché il paziente stesso
possa autonomamente scegliere il trattamento che desidera e che il medico,
successivamente eseguirà. Questo modello presuppone una netta distinzione
tra fatti e valori. Si presume che i valori del paziente siano da questi ben
definiti e conosciuti. Ciò che il paziente non conosce sono i fatti. Al contrario
il medico conosce i fatti ed è tenuto a comunicarli al paziente, mentre i valori
del medico non hanno alcun ruolo così come non hanno alcun valore né la
sua comprensione dei valori del paziente, né il suo giudizio su questi valori.
Il medico è un esperto, fornitore di competenze tecniche. Come tale egli è
tenuto a dare informazioni corrette e a tenersi aggiornato nel campo delle sue
competenze. Al paziente compete il diritto di controllare le decisioni mediche.
Cercando di concettualizzare un modello di rapporto medico-paziente che,
superando il modello paternalistico e (soprattutto) il modello informativo, miri
ad una reciproca interazione, gli Emanuel riconoscono che ci sono situazioni
della pratica medica dove questi due modelli possono essere del tutto adeguati:
il rapporto medico-paziente nel corso di una diagnosi specialistica, o il
rapporto medico-paziente nel caso di una situazione di emergenza. Il rapporto
duraturo tra medico e paziente deve comunque potersi sviluppare in altre due
ulteriori direzioni: il modello interpretativo (“the interpretive model”) e il
modello deliberativo (“the deliberative model”). Nel modello interpretativo
l’interazione medico-paziente è finalizzata a chiarire i valori al paziente stesso
e ad aiutarlo a fare la scelta migliore, quella cioè che realizza al massimo questi
valori. In sostanza il medico aiuta il paziente a interpretare i valori del paziente
stesso. Alla base di questo ruolo del medico c’è la convinzione che i valori del
paziente non siano necessariamente chiari al paziente stesso e, in particolare,
che non sia evidente al paziente stesso che cosa questi valori richiedano nella
specifica situazione in cui si viene a trovare. Di conseguenza l’interazione
medico-paziente ha il compito di aiutare il paziente a chiarire i suoi valori e
a usarli in maniera coerente nella situazione medica. Al medico è richiesta la
funzione di accompagnamento e di counselling. I suoi obblighi richiedono
non solo un’adeguata situazione ma anche di coinvolgersi nel processo di
interpretazione insieme al paziente. Il concetto di autonomia che in questo
modello viene valorizzato è quello dell’autonomia come comprensione di sé e
dei valori su cui si basa la propria identità. Un ulteriore passaggio si ha con il
modello “deliberativo”. Questo modello si basa sul presupposto che i valori del
���������� paziente non debbano solo essere interpretati, ma che debbano anche essere
discussi. Il medico è visto come amico e come maestro con cui il paziente
apre un dialogo per confrontarsi su quella che è la decisione migliore. Scopo
dell’interazione medico-paziente, in questo modello, è di aiutare il paziente
a determinare e a scegliere i migliori valori di ordine medico che si possono
realizzare nella particolare situazione clinica del paziente. Il medico riconosce
che ci sono altri valori di ordine non medico che il paziente può ritenere più
importanti di quelli su cui si concentra il medico. Medico e paziente discutono
tra loro sul significato di questi valori. Il medico non soltanto indica quello che
il paziente può fare, ma anche quello che dovrebbe fare sulla base dei valori
in discussione. Il medico incoraggia il paziente a seguire la scelta migliore
facendo opera di persuasione. A differenza, però, del modello paternalistico,
quello che si dovrebbe fare diventa chiaro attraverso il dialogo.

Una duplice conclusione


Quali sono dunque le condizioni di un rapporto medico-paziente più adulto
di fronte al fenomeno da cui la riflessione ha preso avvio: e cioè il processo
dell’emancipazione del paziente? La conclusione che le considerazioni svolte
prospettano è duplice: in “negativo” la prima; in “positivo” la seconda.
Quanto alla conclusione “in positivo”, è senz’altro da accogliere la
centralità data al “dialogo” nella riconcettualizzazione del rapporto medico-
paziente proposta dagli Emanuel. Alla luce di un’interpretazione del rispetto
che ne sottolinei la dimensione “attiva” e “interattiva” (e non riduttivamente
“negativa” come quando si dice di “rispettare le aiuole”), il principio
dell’autonomia risulta effettivamente garantito nella misura in cui si offra nel
rapporto medico-paziente la possibilità di un reale dialogo. Nel contesto di una
relazione di aiuto, la qualità del dialogo è fonte e insieme segno di autentico
rispetto. È nel dialogo che ci si riconosce reciprocamente interlocutori adulti,
degni di stima e di fiducia. Naturalmente più si valorizza il principio di
autonomia, più forte diventa l’obbligo di provare l’autenticità della volontà
del paziente, in ordine sia al consenso che al rifiuto. Che significa ad esempio
il rifiuto del trattamento (o, prima ancora, dello stesso cibo) da parte di un
paziente anziano non autosufficiente, che viva il ricovero in casa di riposo
come una situazione di immeritato abbandono da parte dei suoi familiari? Che
significa l’ostilità e la diffidenza di un paziente oncologico che vive nel dubbio
e nell’incertezza? Non può essere che determinate richieste siano indotte da
una certa immagine che anche implicitamente si proietta sul paziente? Certo
il senso della propria dignità, del suo mantenimento come della sua perdita,
è affidato a quanto ci possa essere di più soggettivo e tuttavia l’esperienza
clinica, specialmente in alcuni particolari contesti, dimostra quanto reale sia
la forza dello sguardo dell’altro sia nel “confermare” il senso della propria
dignità, sia nel metterla in dubbio. Tanto basti, da una parte, per mostrare
l’ingenuità di chi pensa che l’informazione sia sempre e solo un qualcosa di
neutro; dall’altra, per evidenziare che se è importante informare, altrettanto lo è
il confermare; e, in termini più generali, per evidenziare che, se la tradizionale
interpretazione liberale del principio di autonomia riesce a dare un fondamento
all’informare, ha poco da offrire per quanto riguarda la necessità di confermare
l’altro. La cosa non deve far meraviglia. Se il bisogno di informazione è del
tutto coerente con questa concezione, essa risulta del tutto sprovveduta di
fronte ad un bisogno di natura specificamente intersoggettiva, come è appunto
il bisogno di trovare conferma della propria dignità nello sguardo dell’altro.
Anche da questo versante passa il superamento della (tuttora) dominante
concettualizzazione liberale del rapporto medico-paziente e in particolare del
���������� “consenso informato”.
Sfide altrettanto impegnative comunque si situano a livello culturale.
E’ quanto sostengono autori come D. Callahan, che da una prospettiva
globalmente comunitaristica, evidenziano i limiti della “bioetica minima”
di ispirazione liberale. Tale bioetica, basata per rispetto del pluralismo delle
società democratiche sulla costruzione di procedure di accordo tra individui
“sgombri” di ogni appartenenza, si rivela del tutto insufficiente a intercettare
la radicalità assunta oggi dalla dimensione etica in sanità. La sfida può essere
adeguatamente affrontata - sostiene D. Callahan - da una bioetica che miri a
costruire il consenso su una base non solo procedurale, ma anche espressamente
sostanziale. Contro questa prospettiva si obbietterà che accordi di sostanza
di una certa “densità”, soprattutto nelle “questioni di vita”, sono impossibili
in società pluralistiche come la nostra; e che gli approcci liberali si rivelano
vincenti proprio perche, assumendo come indiscusso punto di partenza il
pluralismo, danno sistematica priorità al “giusto” sul “bene”. Questo può essere
(banalmente) vero. E tuttavia la valutazione di D. Callahan può essere del tutto
valida, nella misura in cui non si tratta di negare le acquisizioni e i valori della
tradizione liberale. Sono parte della nostra cultura. Ciò che di questa tradizione
va però criticato è, da una parte, la pretesa di ritenere assiologicamente “neutre”
le relazioni di cura, la relazione medico-paziente in questo caso, e, dall’altra,
la “resistenza”, in nome della connotazione “privata” delle opzioni morali,
nei confronti della stessa discussione pubblica sui valori che potrebbero dar
senso alla sofferenza, alla procreazione, al declino della vita, alla morte. Non
è questa la sede per analizzare con più attenzione l’interessante dibattito che
in questi ultimi anni si è sviluppato, in particolare nell’ambito della filosofia
politica, tra prospettive “liberali” e prospettive “comunitarie”. E tuttavia la
posta in gioco di tale dibattito non interessa solo l’evoluzione della società
in generale; interessa e molto da vicino anche l’evoluzione delle particolari
relazioni che si stabiliscono in ambito medico-assistenziale.
Due domande per portare la riflessione su un piano di maggiore
concretezza, in relazione a due aree dove è crescente il coinvolgimento della
medicina generale: l’area della presa in cura del paziente anziano, da una parte,
e l’area dell’accompagnamento del paziente terminale, dall’altra. Nell’uno e
nell’altro caso si fa sempre più evidente quanto il “vuoto culturale” o per lo
meno la “resistenza” alla discussione pubblica sui valori incidano sulla relazione
medico-paziente. Prima domanda. Dove trovare la capacità “terapeutica” di
“confermare” una persona anziana, malata cronica e dipendente, sul senso del
suo valore e della sua dignità umana, se l’allungamento degli anni di vecchiaia
si scontra oggi con la totale mancanza di un senso condiviso di questa fase
della vita? Seconda domanda. Dove trovare le parole per comunicare con
il paziente oncologico in fase terminale e strapparlo dall’isolamento o dalla
confusione, se nel più ampio contesto culturale in cui il rapporto medico-
paziente oggi si colloca ha fatto della “negazione” della morte la sua strategia
prevalente?
Nella riconcettualizzazione del rapporto medico-paziente, domande
come queste non possono essere ignorate da una riflessione sufficientemente
critica e spre-giudicata.

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Riferimenti bibliografici

VIAFORA C., Etica della malattia e ossessione della salute. Bioetica e crisi
del soggetto, in AA.VV. La bioetica. Questione civile e problemi teorici sottesi,
Glossa , Milano 1998.
GRACIA D., Orientamenti e tendenze della bioetica nell’area linguistica
spagnola, in VIAFORA C. ( a cura di ), Vent’anni di Bioetica. Idee, protagonisti,
istituzioni, Gregoriana Libreria Editrice, Padova 1990, p. 274.
GRACIA D., History of Medical Ethics, in TEN HAVE H., GORDIJN B. (eds.)
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La difficile
prova del progetto
“nazionale”
di Alfredo Reichlin*

Se misuriamo bene la novità e la grandezza dei problemi che incombono


sulla ripresa politica autunnale, c’è nella situazione del Partito democratico
qualcosa di paradossale. Da un lato, insieme a segni di vitalità e di ripresa,
���������� permane un senso diffuso di sfiducia e si succedono manifestazioni di riva-
lità personali veramente insopportabili. Sembra che tutti si credano Napo-
leone. Dall’altro lato però, le prospettive, ma direi di più: la ragion d’essere,
la funzione politica nella vicenda nazionale di un nuovo soggetto politico
come abbiamo cercato di definirlo (anche in un programma fondamentale
del quale però si è persa traccia) a me sembrano più che mai aperte.
Perché la distanza tra il dire e il fare è così grande? So che la risposta non
è semplice. Ma dirò una cosa che può sembrare (ed è) troppo vaga, ma
che prego di non confondere col populismo. Penso che noi in questi anni
ci siamo distaccati non dalla cosiddetta opinione pubblica, ma dal popolo
italiano. Il quale non è una somma di individui, ma una soggettività in con-
tinuo divenire. Noi non siamo riusciti a leggere lo straordinario travaglio
di questo popolo italiano. Ecco la verità. Se ripensiamo a questi anni alla
luce della vittoria della destra davvero non si capisce come un riformismo
dall’alto, tecnocratico, appunto «senza popolo», poteva fornire una guida a
quella sorta di ‘riformismo reale’, spontaneo e perverso ma profondo, che
consisteva nella risposta difensiva e selvaggia che Nord e Sud, operai e com-
mercianti, imprenditori esposti alla concorrenza mondiale e roditori delle ri-
sorse pubbliche davano, ciascuno a suo modo, a uno straordinario processo
di trasformazione dell’economia mondiale e degli assetti politici dell’Europa
e del mondo che ci investiva in pieno. Ma ancora oggi: dov’è la guida? Se la
politica non si colloca a questo livello io credo che continueremo a giocare
di rimessa e temo che l’attuale confronto tra noi (che è importante e al quale
partecipo) non vedrà né vincitori né vinti. È dal basso che bisognerebbe
ripartire, dallo sforzo di fronteggiare la scissione sempre più profonda tra
dirigenti e diretti (anche nel nostro popolo) tra i territori e soprattutto (mi
pare che solo la Chiesa se ne sia resa conto) della vera e propria cesura che si
è creata tra le generazioni. D’altra parte per quale ragione si fonda un partito
nuovo? Solo per conquistare il premio di maggioranza e tornare al governo?
Io credo che siamo entrati in una fase nuova, nel senso che non sarà facile
tornare al governo se non alziamo la posta del gioco. Non dice nulla il fatto
che i democratici americani propongono un uomo di colore alla presidenza
del Paese più potente del mondo?
Certi dibattiti estivi mi sono apparsi fuorvianti. Si è discusso sulla «scompar-
sa dell’opinione pubblica» (il solito cinismo e opportunismo degli italiani?
La loro solita mancanza di senso dello Stato?) mentre in realtà era la classe
dirigente che bisticciava intorno ai temi imposti da Berlusconi, ma non aveva
nulla da dire di fronte al fatto che l’inevitabile avvio del federalismo rimette
in discussione, in un Paese come il nostro, tutto. Tutto, cioè l’insieme delle
strutture profonde dello Stato: dal rapporto tra i poteri alla funzione della
scuola pubblica, al destino del Mezzogiorno. La stessa figura storica, cultu-
rale ed etica dell’Italia quale si era configurata dopo Porta Pia e poi ridefinita
dopo il fascismo come repubblica democratica. Sbaglierò, ma io vivo così
questo passaggio. Se non ora, quando il Partito democratico si deciderà ad
alzare il tono del suo discorso e a mettere sul tavolo tutta la sua ambizione?
Si è creato un vuoto anche morale ma soprattutto di guida in conseguenza
soprattutto del fatto che il processo di internazionalizzazione che è in atto
rende sempre più difficile il vecchio modo di stare insieme degli italiani.
Siamo già arrivati al punto che medie statistiche non sono più applicabili a
quelli che ormai sono due Paesi. Il Nord la cui ricchezza è giunta al livello
massimo europeo (Amburgo e la regione parigina); il Mezzogiorno che arre-
tra ed è già sotto il livello della Polonia e del Portogallo. Con in più la mafia
���������� e la camorra. Il federalismo diventa obbligatorio. Ma quale? Non si tratta
evidentemente di un problema amministrativo, ma del cruciale dilemma tra
costruire un nuovo Stato (federale ma unitario) oppure subire un processo
di frammentazione della compagine nazionale.
Perciò il tema che mi assilla è il distacco della sinistra dal popolo. Che po-
polo di ‘italianieuropei’ si va formando? E noi come stiamo incidendo? Il
tema è questo. Ricordiamoci che l’Italia moderna sarebbe incomprensibile
se i padri del socialismo prima ancora di organizzarsi in un partito non aves-
sero fatto quella predicazione intellettuale e morale e quella trasformazione
delle plebi in comunità che sappiamo. È lì che sta il codice genetico del
riformismo italiano, e quindi anche – io penso – del Partito democratico.
Sta in quell’epoca tra Ottocento e Novecento quando nella Valle Padana,
ma anche in vaste regioni del Centro e del Mezzogiorno, socialisti, cattolici e
repubblicani produssero una critica radicale dello Stato sabaudo e dell’Ita-
lietta liberale. E non in astratto, ma organizzando le forze sociali emergenti e
trasformando le menti. Può sembrare strano per un certo professionismo po-
litico ma il realismo di quei movimenti, ciò che fondava la loro concretezza,
stava nel fatto che la politica non si vergognava di produrre senso e visione
del mondo, giacché il mondo anche allora viveva un grandioso mutamento
e apriva grandi interrogativi. La politica non aveva paura di parlare del de-
stino dell’umanità intera ma lo faceva – questo è il punto – organizzando le
leghe e cercando la gente nelle stalle e nelle osterie. Il latino dei vescovi era
traducibile nel volgare dei parroci. La politica vera, la sostanza della nostra
storia, la forza della sinistra è stata questa: la formazione del popolo italiano.
Senza di che noi non saremmo niente.
Ecco perché quando io cerco di capire le ragioni di uno smarrimento e di
una sfiducia così grande, che non si spiega solo con la perdita dei voti ma con
la sensazione di non avere più certezze, orgoglio, convinzioni, io mi chiedo
se insieme alle grandi ragioni che derivano dal cambiamento epocale delle
strutture del mondo non ci sia un fatto italiano molto grave. Il fatto che da
alcuni anni sembra essere entrato in crisi (o perlomeno in una fase nuova
molto travagliata dati i fenomeni di interdipendenza col mondo) quello che
chiamerei il processo di sviluppo del popolo italiano. Dopotutto è per que-
sta ragione che ho molto creduto nell’idea di una sinistra che esce dai suoi
vecchi confini per dare vita a un nuovo grande partito «nazionale». E resto
sempre più convinto del fatto che questa oggi è la base di un riformismo
vero, che possa rappresentare una alternativa maggioritaria a una destra eu-
ropea che è uno strano miscuglio di paure, di leghismo, di egoismi sociali e
di posizioni neoprotezioniste. Gli italiani di oggi sono inconoscibili se non
si parte dal fatto che essi, a cominciare dagli operai, stanno dentro le sfide,
i pericoli ma anche le nuove occasioni di un sistema mondiale interdipen-
dente. Ripensare la presenza degli italiani nel mondo è oggi il compito dei
riformisti. Per affrontarlo dobbiamo impedire la divisione del Paese (perciò
il Mezzogiorno è il problema principale) e contrastare questa sorta di «se-
cessione delle élites» che sempre più si isolano dagli strati popolari più pro-
fondi. Basta vedere come la classe politica, anche a livello locale, si configura
ormai come un notabilato dal quale, di fatto, gli strati del Paese che stanno
in basso sono esclusi. Apparentemente la piazza mediatica è aperta a tutti.
Di fatto, solo le classi in possesso di certi codici culturali sono in grado di
servirsene come mezzo di partecipazione attiva alla vita politica.
E così siamo arrivati al dunque. Il progetto del Pd adesso è alla prova. Una
difficile prova perché non siamo di fronte a un problema amministrativo,
da delegare ai sindaci e agli addetti ai lavori. Noi finiremo a rimorchio della
���������� Lega se non abbiamo una idea nostra su come sia possibile in uno Stato
federale garantire lo stare insieme degli italiani. È una partita che riguarda
la tenuta anche culturale e civile del Paese. E dobbiamo comunicarla questa
idea non solo a Calderoli, ma al Paese, il quale deve ritrovare nel Partito
democratico la speranza che c’è un futuro nel mondo nuovo per tutti gli
italiani, del Nord come del Sud.
Ecco perché io davvero non capisco una disputa politologica del tutto astrat-
ta tra il «partito a vocazione maggioritaria» che starebbe in Largo Nazzareno
e coloro che tramerebbero per un ritorno alle vecchie alleanze tra vecchi
partiti. Ma che cos’è il partito a vocazione maggioritaria? È una formula
magica? Al contrario, io penso che sia un contenuto. È la capacità di rispon-
dere a problemi come quelli accennati. Non è il rifiuto delle alleanze, è la più
larga delle alleanze, è una nuova idea nazionale ed europea. È la possibilità
di mettere in campo una proposta federalista che non subisca una scissione
silenziosa, ma fondi una nuova articolazione dell’unità nazionale in coerenza
con un progetto di europeizzazione dell’Italia. Solo così lo sviluppo del Mez-
zogiorno può diventare realistico, in quanto diventi funzionale agli interessi
del Nord come dell’Europa continentale. E ciò nella misura in cui nessun
luogo come il Mezzogiorno sarebbe adatto a diventare la piattaforma medi-
terranea di una Europa che vuole parlare al mondo.
Si dirà che i problemi sono anche altri. Certo, anche. Ma diventa difficile
difendere la centralità di una democrazia parlamentare se i deputati vengo-
no nominati dall’alto e se la risposta al partito ‘leghista’ del Nord (che non
è solo Bossi) diventa quella del partito che il governatore della Sicilia sta già
creando e che consiste in una santa alleanza sicilianista, con relativa rimozio-
ne dei ritratti di Garibaldi. Altro che seminari sulla democrazia dei partiti e
discussione sulle alleanze del Pd.
C’è un grande bisogno di pensare il Pd in una prospettiva più ampia. La
missione del partito riformista è integrare tutti gli italiani in una Europa che
parla al mondo in prima persona e accoglie i diversi. Forse non è abbastanza
concreto quello che dico. Ma a volte di concretezza si può anche morire.

* In collaborazione con la rivista “Argomenti Umani” diretta da


Andrea Margheri

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A cento anni
dalla “voce”.
L’eredità
culturale del
primo Novecento
���������� di Umberto Carpi*

«La Voce» cominciò a uscire, direttore Giuseppe Prezzolini, a Firenze nel


dicembre del 1908: Carducci – quasi il Risorgimento che tramontava – era
morto l’anno prima, Croce aveva già pubblicato, dopo l’estetica, anche la
logica e la pratica, dando un sistema e per così dire un ordine (con «La
Critica» anche una rivista semiufficiale, mentre con il disegno dei Classi-
ci Italiani per Laterza un canone della letteratura nazionale) alla rinascita
idealistica e neoromantica che stava disordinatamente investendo l’Italia fra
reiezione di quel pensiero ‘positivo’, non necessariamente positivista, di cui
si erano in buona sostanza nutrite le correnti di democrazia laica e lo stesso
movimento socialista, irruzione delle mitologie ‘violente’ del pansindacali-
smo alla Sorel ovvero ‘aristocratiche’ dell’elitarismo alla Pareto e alla Mosca,
magico-pragmatiste alla Papini, imperialiste alla Morasso, neo-nazionaliste
alla Action française o catto-agrarie alla Péguy, variamente razziste alla Wei-
ninger con qualche nostalgia per Gobineau. La base politica di questa cul-
tura intuizionistica e volontaristica era una critica violenta del giolittismo
come sistema di governo fondato sulla corruzione parlamentare, del par-
lamentarismo stesso come luogo dell’inefficienza e del burocratismo, della
democrazia come, si diceva, mediocrazia: invocazione delle élites, rifiuto dei
partiti come elemento disgregatore (Croce scrisse in proposito un saggio
famoso), liquidazione del socialismo (il medesimo Croce lo dichiarò morto
in una non meno celebre intervista), critica radicale alla Oriani del processo
unitario risorgimentale.
E non dimentichiamo che, praticamente negli stessi giorni in cui usciva «La
Voce», nasceva anche il movimento futurista di Marinetti, del quale pure,
dunque, stiamo per registrare il centenario: una strana avanguardia, mol-
to diversa dalle altre europee tutte radicalmente critiche del primato della
macchina sull’uomo, della intrinseca bruttezza etica ed estetica della produ-
zione di serie e dell’individuo a sua volta serializzato, antibelliciste e inter-
nazionaliste; il futurismo marinettiano, invece, fu apologetico della velocità,
del record, della macchina-violenza, fu nazionalista e bellicista. Diversissimo
Marinetti, si badi bene, da Prezzolini, e i futuristi dai vociani (quando Papini
e Soffici con «Lacerba» si fecero per una breve stagione futuristi diedero
luogo ad un curioso futurismo di sensibilità estetica molto agraria e toscana,
estranea al marinettismo industrialista e milanese): diversi, Prezzolini e Ma-
rinetti, per formazione culturale, diversi politicamente, diversi come editori
e organizzatori di cultura. Però, ed è un punto di grande significato, una
cosa in comune la ebbero: entrambi accarezzarono l’ambizione di sfociare
con la loro iniziativa in un Partito politico. Il Partito Intellettuale di Prez-
zolini, il Partito Politico Futurista di Marinetti. Croce si muoveva in modo
più discreto e prudente, tendeva piuttosto a permeare e a formare che a
mobilitare, ma l’obiettivo di dare una direzione alla società attribuendo alla
cultura una funzione di supplenza della politica era il medesimo. Interven-
tismo insomma della cultura e degli intellettuali nella politica, l’organizza-
zione politica degli intellettuali intorno a una rivista o ad una sigla come
���������� gruppo elitario: fu un fenomeno dirompente, un modello essenziale, negli
anni successivi, per la formazione delle riviste e dei gruppi gobettiani (Go-
betti considerò sempre Prezzolini, a prescindere dai dissensi politici, quale
proprio ispiratore), essenziale per lo stesso avvio dell’«Ordine Nuovo» come
gruppo, aggregato intorno a un giornale, di iniziativa interna e insieme au-
tonoma e scissionistica rispetto al Partito Socialista. Ma fu un proliferare
diffuso su tutto il territorio nazionale: e si badi che il fenomeno esplodeva in
concomitanza con una novità sociale e istituzionale altrettanto dirompente,
l’introduzione (d’altronde avversatissima da Croce) del suffragio universale,
anche se noi oggi fatichiamo a considerar tale un provvedimento riguardante
solo i maschi. Soggettività politica dirigente degli intellettuali in quanto ceto
e inserimento delle masse nella dinamica politica: il Novecento italiano che
cominciava.
Nella iconoclastia della «Voce», prudente anche per l’eclettismo del suo di-
rettore abile fino all’opportunismo, trovarono inizialmente posto le perso-
nalità più diverse, con i giovanissimi Slataper e Boine, con Soffici e Papini, i
Croce e i Mussolini, gli Amendola e i Salvemini, giovani ‘rivoluzionari’ e più
anziani oppositori, tutti uniti chiaramente nel segno dell’antigiolittismo e
dell’antiriformismo, più confusamente in una domanda di modernizzazione
che riguardava insieme la cultura, la politica, le istituzioni (molto meno l’ap-
parato industriale, perché i vociani sentirono la provincia agraria e la città
degli impieghi e della burocrazia, non la città della fabbrica, e la loro stessa
Milano fu quella degli agrari Casati e Jacini non la metropoli della crescita
industriale): ma le convergenze finirono presto, ognuno prese la sua strada,
cominciò quella suddivisione all’infinito tipica dei gruppi intellettuali-rivista,
e un documento affascinante di quei rapporti di odi et amo con «La Voce» è
la raccolta di saggi e noterelle Cultura e vita morale, uno dei libri ‘minori’ di
Croce e però tra i suoi più appassionati e politicamente significativi.
Ricordo questo libro perché fu proprio attraverso le sue pagine che mi ac-
costai, tra il 1960 e il 1961, alla «Voce»: ne faceva allora oggetto delle sue
lezioni uno storico della filosofia marxista e storicista molto ‘illuminista’,
Nicola Badaloni. Fu quello il mio approccio al primo Novecento, insieme
alla lettura delle ancora recenti Cronache di filosofia italiana di Garin, in
cui al movimento vociano veniva sì dedicata larga attenzione, però entro
un’alba del Novecento sentenziata ‘irrazionalista, pragmatista, mistica’: un
segno storicistico ed anti-irrazionalista, quello di Badaloni e Garin (non a
caso con Paolo Rossi i due maggiori storici della nostra tradizione filosofica
rinascimentale e illuministica), che per me rimane determinante. Ma, mentre
ascoltavamo Badaloni e leggevamo Garin, da fuori cominciavano a giungere
gli echi dissonanti del Gruppo 63 e dei «Quaderni rossi», dell’Asor Rosa an-
tigramsciano di Scrittori e popolo e del Timpanaro materialista leopardiano
ed engelsiano. Negli anni del centro-sinistra i giovani di sinistra avvertivano
una confusa e torbida insoddisfazione, cominciavano a cercare nuovi oriz-
zonti, nuovi modelli, una nuova identità: uno dei segni distintivi del clima
culturale fra 1955 e 1968 fu proprio l’attenzione verso le riviste primono-
vecentesche e in particolare verso il foglio e movimento vociano, via via as-
sunto e da diversi punti di vista, da «Ragionamenti» e «Officina» a «Nuovo
Impegno», come modello di auto-organizzazione politica degli intellettuali.
Da un lato ci fu l’interpretazione dell’antologia vociana curata per Einaudi da
Angelo Romanò, che isolava e privilegiava una prima fase della rivista molto
caratterizzata da Salvemini, da Amendola, dal forte impegno sui problemi
���������� concreti della vita nazionale: era insomma una «Voce» posta all’origine della
successiva cultura democratica ed antifascista. Veniva suggerita una lettura
della rivista fiorentina come suscitatrice di problemi politici e culturali, di
indagini ed inchieste sociali ed amministrative, di dibattiti etici ed estetici.
Esattamente l’opposto di quella «Voce» a tinta teppista e antiborghese poi
voluta dal Sessantotto, d’altronde complementare alla coeva apologia di Ma-
rinetti rivoluzionario: che entrambi si prestassero particolarmente bene ad
una lettura di tipo estremista, neosoreliano, non c’è dubbio. In buona sinte-
si, «La Voce» di Romanò fu salveminiana e preludeva all’«Ordine Nuovo»
curato da Spriano per la medesima collana Einaudi, quella del Sessantotto
fu anarco-sindacalista e preludente ad un Gramsci consiliare contrapposto
a quello del Pcd’I e dei Quaderni. Ma l’insoddisfazione ‘di sinistra’ per il
quadro ‘democratico-progressivo’ einaudiano (e anche per il panorama fi-
losofico disegnato da Garin, che dieci anni prima non a caso aveva ricevuto
al suo apparire un memorabile avallo su «Rinascita» da parte di Togliatti)
si agganciava ad una lunga fase di impazienze verso la politica culturale del
Pci, per molti versi analoghe a quelle dei giovani vociani di cinquant’anni
prima verso il socialismo riformista, che prepararono il ’68.
Ennesimo e forse ultimo episodio di quel fenomeno ricorrente nel secolo che
era stato il ‘vocianesimo’, la ricorrente assunzione cioè della rivista di Prez-
zolini come pietra di paragone, se non come modello, per definire metodo e
fini, le ragioni medesime dell’interventismo politico degli intellettuali. Ciò,
ripeto, si era verificato con il Gobetti di «Energie nuove» e di «Rivoluzione
liberale», con lo stesso primo Gramsci (che in effetti guardò con interesse a
questi fenomeni di sovversivismo culturale – non solo alla «Voce» ma anche
al movimento futurista-ardito e poi allo stesso fiumanesimo dannunziano
– come espressioni della crisi borghese egemonizzabili, comunque non tra-
scurabili dalla sinistra, in ciò molto diverso da Togliatti, più tetragono fin
dall’inizio a queste zone torbide della critica della democrazia e incline a ve-
dervi tout court una cultura reazionaria), e si sarebbe ripetuto alla fine degli
anni Trenta anche nella fronda fascista delle riviste di Bottai. Il tentativo po-
stresistenziale compiuto da Romanò di definitiva sistemazione storica della
«Voce» entro un primo Novecento in cui a fronte degli innegabili germi di
fascismo stesse anche la radice della cultura democratica venne insomma
accantonato, reso quasi inattuale dall’irrompere di questa nuova interpre-
tazione, anzi partecipazione ideologica, che fu il sovversivismo neovociano
degli anni Settanta.
Ricordo con immutata avversione tutto quel che mi crebbe intorno di estre-
mismo massimalistico, di spontaneismo anarchicheggiante, di negativismo
irrazionalistico, di disprezzo per le istituzioni democratiche, di dileggio per
le forme organizzate della sinistra e per la loro storia: con quali risultati
devastanti per la sinistra e per la democrazia si è visto e si continua a ve-
derlo. Faccio fatica ancora oggi (tanto più oggi, che molto di quelle idee
lo ritrovo nell’attrezzatura ideologica della destra attuale) a formulare un
giudizio storico sulla «Voce» senza farmi condizionare dal fastidio per quel
neovocianesimo. Del resto, va tenuto conto che la divergenza era di fondo,
storiografica e politica insieme, e perpetuava lo scontro – serpeggiante già
negli anni Quaranta di «Quarto Stato» e del «Politecnico» poi esplosa negli
anni Cinquanta (ma già prima del fatale ’56) – sulla politica culturale del
Pci togliattiano. Nella fattispecie si trattava della nuova luce in cui il primo
Novecento era stato collocato da Togliatti in un celebre discorso del 1950,
Giolitti e la democrazia italiana, uno di quelli in cui, con l’aria di svolgere
a margine della politica una pacata riflessione storica, il segretario del Pci
attraverso la puntualizzazione storiografica si proponeva di definire la linea
politica stessa inserendola in un’idea generale della storia d’Italia. Il metodo
���������� di Gramsci, con contenuti assai diversi dai gramsciani.
Le pagine di Togliatti si chiudevano sul riconoscimento di Giolitti come
l’uomo politico della borghesia spintosi «più innanzi sia nella comprensione
dei bisogni delle masse popolari, sia nel tentativo di dar vita a un ordine
politico di democrazia, sia nella formulazione di un programma nel quale
si scorge, anche se in germe, la speranza di un rinnovamento»: ma si erano
aperte con una condanna senza appello – esplicita e sprezzante la citazione
di Prezzolini – dei giovani antigiolittiani, «studenti e intellettuali inesperti
che proprio nel primo decennio del secolo, rotte le precedenti simpatie col
movimento operaio e col socialismo, andavano in cerca di nuove guide ‘ge-
niali’ e queste trovavano in dilettanti di sistemi filosofici e di idee generali
volgarizzate, hegeliani per le dame, poeti del superuomo, vati della nazione
e cose simili». Fatta naturalmente salva la sostanziale differenza dei punti di
vista fra questa valorizzazione togliattiana delle aperture di Giolitti verso i
socialisti in polemica contro la politica antioperaia degli attuali governi bor-
ghesi e l’apologia crociana del liberalismo del medesimo Giolitti contrappo-
sta all’illiberalismo fascista, si trattava di un giudizio per molti versi analogo
a quello a suo tempo sentenziato da Benedetto Croce nella Storia d’Italia in
sostanziale palinodia – di fronte alla dittatura fascista che si affermava – del
proprio stesso antigiolittismo degli anni vociani e soprattutto dei passati ci-
vettamenti non solo coi vociani ma perfino – in funzione antisocialista – coi
futuristi e coi fascisti (non dimentichiamo che il senatore Croce giunse a vo-
tar la fiducia a Mussolini financo nella crisi Matteotti): anzi, nell’avversione
di Togliatti per i geniali io ho sempre avvertito un’eco diretta della mede-
sima insofferenza argomentata da Croce contro i creatori già in un lontano
saggio di Cultura e vita morale.
Ma nella «Voce» c’era stato anche altro, ben diverso dai ‘geniali’, per esem-
pio due storici-politici come Salvemini e Anzilotti. La critica del giolittismo
svolta sulla «Voce» da Salvemini era legata all’analisi del processo di massifi-
cazione terziario-intellettuale – la piccola borghesia impiegatizia – che stava
connotando lo sviluppo, anzi il mancato sviluppo della società meridionale;
Anzilotti per parte sua svolgeva una critica ‘nazionalista’ della democrazia,
cioè del rapporto Stato-popolo venutosi a determinare nell’Italia postrisor-
gimentale, e lo faceva sì con orecchio attento alle voci del nazionalismo fran-
cese, ma soprattutto puntando sulla revisione della lettura del Risorgimen-
to: non dimentichiamo che il primo veniva dalla grande reinterpretazione
‘classista’ dello sviluppo dell’Italia comunale e della Rivoluzione francese e
che il secondo stava diventando protagonista della storiografia revisionista
dell’Italia unitaria sulla base d’una particolare idea della nostra tradizione
liberale come sviluppatasi fra Settecento riformista e Risorgimento, poi in-
terrottasi con lo Stato unitario.
Salvemini, Anzilotti, ma anche Slataper e Amendola, Boine, Jahier, Rebora, i
cosiddetti ‘moralisti’ o ‘religiosi’, il meglio della «Voce»: evitando di porre al
centro, ideologicamente parlando, il peggio, a cominciare da quel Prezzolini
giornalista di genio ma da sempre intimamente – come poi volle autodefirsi
– ‘apota’, di quella furba genia che non la beve. Non i lacerbiani Papini e
Soffici (anche se a Soffici si devono alcune iniziative nel settore delle arti
figurative, impressionismo cubismo Rodin, di grande apertura europea), re-
sponsabili – l’uno con l’omo salvatico o finito che fosse, con il Lemmonio
Boreo l’altro – di quei toni teppistici che cercavano i propri valori nella più
���������� fonda, conservatrice Toscana agrario-mezzadrile, alle origini del cattolicesi-
mo integralista alla Giuliotti, del resto già germogliante nella senese «Tor-
re», o del futuro fascismo ‘selvaggio’.
Certo la questione vociana, se come discussione ancora militante su un mo-
dello di intellettuale-politico auto-organizzato si è chiusa trent’anni fa (e
infatti da allora della «Voce» si è parlato e studiato pochissimo), interesse
come problema storico non lo ha perso affatto. Da questo punto di vista,
anzi, la rivista di Prezzolini chiede nuove indagini nell’ambito di una ricon-
siderazione complessiva della crisi primonovecentesca dello Stato liberale
sfociata nel fascismo, crisi di cui fu effettivamente tra le manifestazioni cru-
ciali: ma non può più venir assunta, se non a un rischio del grottesco già
sfiorato dalla cultura sessantottesca, come riproducibile modello di attualità
militante.
Adesso la perdita d’identità intellettuale non si verifica più nella massa bu-
rocratica del terziario bensì nella solitaria virtualità eterodiretta di Internet e
il problema della democrazia, nell’Europa della moneta senza costituzione,
non si pone tanto come equilibrio tra individuo, partiti e Stato, ovvero come
rapporto fra politica e cultura, quanto come questione, appunto, di un bru-
tale primato dell’economico sul politico. La questione stessa del riformismo
è diventata tutt’altra cosa da come se la poneva Prezzolini sulla «Voce», da
come a Togliatti conveniva riprenderla nel 1950 ovvero dal criterio con cui
la si poteva ancora discutere negli anni Settanta/Ottanta: del riformismo
sono cambiati i soggetti e gli oggetti, gli strumenti, direi la stessa nozione.
È perciò che riproporre oggi le marce di Slataper sul Carso come plausi-
bili percorsi della coscienza rischierebbe di trasformarsi in un esercizio di
jogging, la vecchia casa fra gli ulivi di Boine non è più luogo di abbandono
dell’agricoltura ma ristrutturato rifugio per week-end, gli opprimenti regi-
stri dell’ufficio ferroviario di Jahier sono condensati in un leggero cd-rom:
Prezzolini andrebbe in rete, «La Voce» non uscirebbe settimanalmente per
la revanche di intellettuali-massa, bensì fluirebbe on line tra folle di intellet-
tuali-precari.
Ci stiamo avvicinando al 2011, anno centocinquantenario dell’Unità, mentre
la tenuta unitaria del Paese e la sua Costituzione sono poste pesantemente in
discussione nelle loro stesse premesse di movimento storico, il Risorgimen-
to e la Resistenza: più che di celebrazioni quella data avrà dunque bisogno
– bisogno innanzi tutto politico – di un forte impegno storiografico, di una
riflessione sullo sviluppo della società italiana e dei suoi snodi cruciali fino
a questa crisi della Repubblica. Uno di tali snodi, per l’appunto, va certa-
mente individuato negli anni della «Voce», che di quel periodo e di quella
generazione divenne in certo senso la rivista eponima: serva perciò que-
sto anniversario vociano ad avviare il prossimo e più complessivo proprio a
partire dall’analisi – quasi metaforica – di un momento nazionale di crisi di
sistema, di declino di una classe dirigente, di profondo ricambio culturale
in un contesto prebellico internazionalmente già attraversato e scosso da
tensioni e ricomposizioni globali.

* In collaborazione con la rivista “Argomenti Umani” diretta da


Andrea Margheri

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Analisi di un
partito in cerca
di identità

di Ivana Bartoletti

Si discute molto, in queste settimane, di crisi del New Labour. Il leitmotiv


e’ sempre lo stesso: l’inconsistenza di Gordon Brown, la crisi economia,
elezioni anticipate.
Un dibattito sui nomi e le persone, con un leader Tory – Cameron – ormai
tronfio e sicuro di vincere il prossimo turno elettorale.
Giorni di analisi su una lettera che David Miliband ha scritto a The Guardian:
���������� una lettera intelligente e pacata, un ”vorrei ma non posso” pronunciato a
bassa voce, un invito apprezzabile a “parlare di noi”, di cosa il New Labour
ha da offrire alla nazione.
Gia’, bella domanda.
Vivo qui oramai da mesi, e divoro le notizie di politica interna ed
internazionale, leggo libri di storia piu’ o meno recente e saggi di autorevoli
esponenti del progressismo in salsa british. Frequento dibattiti alla London
School of Economics cercando, nel cenacolo che invento’ il New Labour
e la terza via, delle risposte, delle indicazioni su come la sinistra inglese
puo’ costuire se stessa. E invece, del cenacolo che diede via alla “Terza via”
meglio non parlarne: l’eredita’ lasciata da Tony Blair e’ un vero fardello.
Gordon Brown, affermatosi senza contesa (che errore per David Miliband!
Ricorda qualcuno in salsa italiana?) ne ha portato avanti idee e fatti, e i
risultati – non tutti – non sono stati all’altezza delle aspettative.
Per questo consiglio vivamente a chi in Italia pensa ancora che la politica
inglese abbia avuto quel quid di liberta’ e democrazia da Tony Blair di non
pronunciarlo troppo ad alta voce.
Purtroppo. Perche’ davvero l’Inghilterra di quell mix ha creato quell’identita’
che mescola allargamento delle opportunita’ e crescita economica e che ne
ha fatto un faro ineguagliabile per quasi un decennio.
La guerra, certo. Ma non solo. E’ strano vivere in un paese che consegna
quotidianamente il suo tributo in vite umane agli Stati Uniti d’America.
Ma non solo la guerra: Education, degrado sociale, sicurezza... sono tanti
i terreni in cui il New Labour ha dimostrato di mettere in campo delle
politiche senza rinnovare la sua “Politica”.
Vorrei qui analizzarne alcuni.
Quello piu’ lampante e’ l’Education. Il sistema scolastico e’ al centro del
dibattito quotidiano. La vocazione maniacale a fare test ha il pregio di avere
a che fare con dati inoppugnabili. Ofsted, l’ente che valuta le scuole, fa un
lavoro certosino. E quindi scopriamo c’e’ un nesso diretto tra qualita’ della
scuola e studenti che non pagano i pasti, quartiere, comunita’ e profilo etnico
della zona. E mentre nelle aree depresse le scuole non preparano i giovani,
il motto di questi anni del New Labour e’ stato una sorta di “Study. Success.
Achieve”. Orde di genitori temono con angoscia l’arrivo della primary
school, spulciano i report di Ofsted, trasferiscono residenza, comprano un
altra casa pur di mandare il figlio nella scuola giusta. E come dare loro torto?
Sbagliare e’ drammatico, visto che, come le cronache mostrano ogni giorno,
errori possono essere drammatici.
Il divario sociale inglese e’ altissimo. Alta privacy e presenza di centinaia di
aziende dell’alta finanza, fanno di Londra il posto giusto per godersi stipendi
d’oro. I divari salariali sono spaventosi.
Ma la vera scoperta dell’Inghilterra recente e’ la seguente: il motto labour
“Education per tutti” non basta per scatenare mobilita’ sociale. La genuine
���������� convinzione di permettere a tutti di studiare a prescindere dalle condizioni
socio – economiche di partenza in realta’ non ha fatto altro che permettere
ai ricchi di tutelare i propri pargoli mandandoli in selezionate scuole private
lasciando ai meno abbienti le scuole povere di fondi, di saperi e di insegnanti
qualificati.
Di questi tempi il Regno Unito guarda molto alla Svezia: in generale nei
paesi nordici la mobilita’ sociale non e’ mai stata perseguita come fine, ma e’
arrivata come conseguenza di una politica volta ad abbassare le diseguaglianze
salariali. Cosi’ in Svezia, il figlio del professionista va tranquillamente a fare
l’operaio, e viceversa. Ma quel che conta e’ che in Svezia – e in generale
nel modello nordico – I divari salariali non sono cosi’ elevate, quasi fosse
una questione morale. L’opposto del modello british che va avanti senza
troppi danni quando l’economia va bene, ma crolla in momenti di crisi
economica. E questo e’ uno di quei momenti: il Regno Unito attraversa una
crisi mostruosa e l’OCSE ha appena detto che tra tutte le economie forti,
quella UK sara’ l’unica a non dare nell’immediato alcun segno di ripresa. In
questo contesto, il Ministero dell’Interno ha rivelato quanto drammatica la
crisi possa essere per la coesione sociale, e quanto possa acuirne il conflitto
e la violenza urbana.
Dunque, il nesso tra education e motore sociale dovra’ essere ridiscusso.
Tra le alter, Cameron ha una ricotta semplice semplice, quella di permettere
alle famiglie di organizzare scuola per i propri figli in casa.
Piu’ recentemente ho notato Cameron ha assunto i tratti di Margaret
Thatcher, continuando ad affermare che chi viene da un quartire degradato
deve impegnarsi, studiare di piu’ e otterra’ di piu’. Perche’ l’Inghilterra
dara’ le opportunita’ a tutti a prescindere dalle condizioni di partenza. Con
un messaggio subliminale che suona piu’ o meno cosi’ (ed e’ cosi’, nella
semplificazione anglosassone): se un povero non ce la fa, la responsabilita’
e’ sua di non essersi impegnato abbastanza.
Piu’ di un decennio di Labour dimostra invece che non ci sia nulla di
piu’ lontano dal vero. Lo sforzo immane e apprezzabile dei Governi Blair
e Brown di diminuire il peso delle provenienze economiche e sociali, ha
dimostrato che le premesse sono sbagliate: non basta garantire le possibilita’
a tutti perche’,in una societa’ cosi’ frammentata dai divari salariali, dietro
uno che riesce ce ne sono mille altri che guadagnano poche sterline al giorno
per pulire le scale o vendere giornali. La pretesa immaginifica di creare
uguaglianza sociale senza ripartire il peso della societa’ e, soprattutto, senza
investirci denaro e’ pura utopia.
Io credo davvero che su questo terreno si misuri la forza vera di un partito
progressista, e non solo in Gran Bretagna.
Cito qualche esempio.
L’era di Blair dette vita ad alcuni programmi di riqualificazione di complessi
abitativi. Sto parlando di ghetti, con alto tasso di violenza e criminalita’.
Questi programmi hanno permesso agli inquilini di organizzarsi e gestire
la comunita’, di finanziare scuole e centri di aggregazione. Molte donne e
uomini di quelle aree hanno acquisito una formazione professionale e la
violenza e’ nettamente diminuita.
Dopo poco tempo pero’ e’ accaduto che chi ha acquisito gli strumenti
per andarsene l’ha fatto, lasciando il posto a nuova poverta’, a nuove
criminalita’.
Questo dimostra che senza un patto tra cittadini, senza una vera Politica
capace di generare politiche sociali innovative, le migliori intenzioni non
bastano.
���������� Education, mobilita’ sociale e divari salariali saranno temi centrali della
campagna elettorale, nonche’ tre grandi questioni identitarie del Labour
che si presentera’ all’appuntamento elettorale (sul quando questo accadra’,
ci sono varie idée): la conferenza di Manchester di fine settembre ci dira’
qualcosa di piu’.
Oltre a questo, pero’, trovo che una moderna identita’ progressista non
possa prescindere dalla collocazione internazionale.
Ora, io non sono un economista ma non posso fare a meno di pensare che
l’interdipendenza con gli Stati Uniti sia uno dei motivi principali dell’acutezza
di questa crisi economica in terra British. Il credit crunch qui si e’ abbattutto
con una forza mostruosa.
Il prezzo delle case precipita a vista d’occhio mettendo in ginocchio il mercato
immobiliare. Su questo terreno peraltro trovo ci sia poca responsabilita’
collettiva da parte di media e politica e troppo abuso di informazioni
(insomma, il crollo dei prezzi dei prezzi delle case non puo’ essere additato
come l’unico responsabile della minacccia della recessione, e’ un errore
grossolano).
L’OCSE ha detto ieri che l’economia inglese sta scivolando nella recessione
mentre David Blanchflower della commissione sulla politica monetaria della
Bank of England ha appena detto che 2 milioni di Britannici potrebbero
essere disoccupati entro Natale.
Ora, e’ chiaro che la crisi e’ ovunque e attraversa il mondo e l’Europa. Negli
Stati Uniti la preoccupazione economica ha preso il posto della Guerra
nell’elenco delle priorita’ dei cittadini.
Il punto che vorrei sollevare qui non e’ solo di natura economica. La
questione che mi pare dirimente e’ la collocazione della Gran Bretagna tra
oltre – oceano e oltre – Manica. Non e’ un punto secondario.
Anche la crisi Georgiana ha visto lo straordinario spettacolo dei distinguo
britannici. E senza dimenticarci che la Guerra in Iraq e’ realta’ quotidiana,
tributo di vite umane ma anche sperpero di denaro che potrebbe essere
utilizzato altrove.
Insomma, credo che una riflessione sulla collocazione internazionale del
Regno Unito sia essenziale.
Tra poche settimane si svolgera’ il Congresso del Labour Party a Manchester:
vedremo li’ quali risposte e quale futuro. Come e’ normale, si tentera’ di
imputare a Gordon Brown la crisi economica e tutto il resto. Non so se un
Labour rinnovato e capace di parlare alla Nazione ce la possa fare ancora
una volta. Tony Blair tocco’ corde profonde, ma erano piu’ di dieci anni fa e
il paese era reduce dal fallimento dei conservatori. Ora il Regno Unito e’ un
paese in crisi, ma ha la forza di aver attratto le migliori energie e i migliori
talenti. Sopratutto, non mi pare – il Labour Party – un partito incapace di
affrontare riflessioni serie, e vere, di rinnovare idée e politiche, di sedersi
intorno ad un tavolo, decidere una linea, una nuova leadership e marciare
compatti.

*** ***

Si sta svolgendo in queste ore la conferenza dei Conservatori a Birmingham,


e l’altra settimana si e’ tenuta quella Labour a Manchester.

Le ho guardate e studiate entrambe, e ne scrivero’ nel prossimo numero


���������� della rivista.
Alcune riflessioni pero’, mi sembrano immediate:

1. Cameron, il leader dei Tory e’ veramente migliorato, ed e’ un pericolo


temibile per il Labour. Due anni fa stava per perdere il partito ora ne
e’ il leader indiscusso;
2. Gli slogan dei due congressi segnano la differenza e l’identita’. Il
congresso conservatore punta su “change”, il congresso Labour
puntava sull’esperienza e Gordon Brown stesso ha affermato nella sua
relazione: “This is no time for novice”. Forse, in tempi di crisi davvero
non e’ il momento delle novita’ e, forse, di questo Gordon Brown
potra’ approfittare;
3. La confusione politica regna sovrana: il Labour e’ accusato di non
aver governato gli speculatori finanziari, Cameron propone invece
controllo ed etica in ambito finanziario;
4. Da quell che ho visto fino a qui del congresso dei conservatori, ho
notato una retorica incredibile, demagogica e populista, ma certamente
ho anche visto un partito certo tra pochi mesi di governare il paese. I
cosidetti “fringe events”, organizzati dai vari think thanks sono luoghi
di piu’ approfondita analisi e riflessione culturale e politica. Mentre
in quelli del Labour ho notato una certa spinta all’elaborazione,
nei documenti dei Tory ho invece trovato una grande confusione
intellettuale e politica.

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