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Economia e gestione delle

imprese Giulio maggiore


Economia e Gestione Delle Imprese
Università telematica UNITELMA Sapienza
104 pag.

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L’IMPRESA E IL SUO RUOLO ECONOMICO E SOCIALE:

L’impresa quale sistema socio tecnico:


I termini impresa ed azienda sono spesso usati come sinonimo, vengono usati diversamente non solo dai giuristi per i
quali l’azienda è il complesso di beni organizzati dall’imprenditore per l’esercizio dell’impresa. (art 2555 c.c), e
l’impresa è l’attività economica organizzata al fine della produzione e dello scambio di beni e servizi, ma anche dagli
aziendalisti che attribuiscono al concetto di azienda un contenuto più ampio rispetto a quello di impresa, intesa
come impresa di produzione.
L’impresa viene tradizionalmente definita come un’organizzazione di persone e di beni rivolta ad uno scopo
produttivo.
Più preciso: “l’organizzazione economica che, mediante l’impiego di un complesso differenziato di risorse, svolge
processi di acquisizione e di produzione di beni o servizi, da scambiare con entità esterne al fine di conseguire un
reddito.
Da questa definizione si possono ricavare i 4 elementi distintivi comuni alle imprese:
1)La presenza di un’organizzazione
2)Lo svolgimento di processi di produzione
3)Le relazioni di scambio con entità esterne
4)la finalità imprenditoriale di produzione del reddito.
-Il concetto di azienda quale sistema operante in stretto collegamento con sistemi più ampi (mercato e ambiente).
Il carattere fondamentale di un sistema è quello di essere costituito da un complesso interrelato di parti, che sono
tali in quanto interdipendenti rispetto ad un obiettivo comune da raggiungere. I sistemi di carattere economico
operano in relazione con un ambiente esterno. L’impresa è un sistema dinamico che muta nella dimensione e
combinazione delle sue risorse.
Un’impresa può essere classificata come un sistema sociale di tipo aperto, poiché per operare deve intrattenere
continue relazioni di scambio con altri sistemi o entità esterne: tali relazioni sono del tipo input (ingresso) cioè di
approvvigionamento di risorse necessarie e del tipo output (uscita), ossia di cessione a terzi del risultato del suo
funzionamento (beni e servizi).
>Tenendo conto che all’interno di essa operano risorse umane e tecniche, si può classificare come sistema aperto di
tipo socio-tecnico. Ciò evidenzia non solo un’organizzazione del lavoro relativa all’impiego del fattore umano, ma
anche un’organizzazione tecnica costituita da impianti, attrezzature e tecnologie produttive. L’aspetto di maggiore
rilievo è comunque quello sociale, poiché il funzionamento dell’impresa è legato all’operare coordinato di una
molteplicità di gruppi interni ed esterni all’organizzazione.

La visione sociale dell’impresa:


Il concetto economico d’impresa non può essere disgiunto da quello sociale. Le imprese, infatti, sono rette da
uomini, operano per soddisfare bisogni umani, partecipano alla vita dell’ambiente circostante, la loro funzione non
può quindi limitarsi a produrre beni e servizi ma deve estendersi al miglioramento della qualità della vita nel
contesto in cui operano. Si parla perciò di responsabilità sociale aziendale: corporale social responsibility, fondata sul
contratto sociale che ogni impresa stipula con il contesto esterno per definire obblighi e diritti connessi con il proprio
funzionamento.
L’impresa va considera un’istituzione sociale a finalità plurime, il cui compito è di creare valore, non solo economico,
ma anche sociale.

Le molteplici funzioni dell’impresa:


Qualsiasi impresa vive mediante una rete di rapporti interpersonali perché è mossa da uomini che fanno parte della
sua organizzazione e che pongono in essere relazioni con altri uomini (clienti, fornitori, finanziatori).Per capire il
funzionamento dell’impresa occorre conoscere come si sviluppano queste relazioni.
Ogni azienda può essere vista come:
a) Organizzazione economica: il suo scopo è il soddisfacimento di bisogni umani mediante la messa a disposizione di
risorse. Mediante l’organizzazione e il funzionamento delle imprese si generano delle maggiori utilità per la
collettività, in virtù del principio di specializzazione del lavoro.
b) Sistema sociale; sotto tale aspetto l’impresa va vista come distributrice di ricchezza creata, rappresentando uno
strumento per il soddisfacimento delle necessità soprattutto di coloro che operano al suo interno.
c) Struttura patrimoniale; ossia quale complesso di beni organizzato e retto per lo svolgimento di processi produttivi.
Entrano in gioco due elementi dell’azienda: il capitale e la capacità imprenditoriale.

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>Le tre funzioni indicate sono complementari, necessarie l’una all’espletamento dell’altra e quindi per la continuità
della stessa vita aziendale. Tra di esse intercorrono però anche dei rapporti antagonistici, nel senso che il privilegiare
una, comporta necessariamente una subordinazione delle altre.
Un’azienda che non è in grado di inserirsi positivamente dell’ambiente e di soddisfare i bisogni della collettività è un
organizzazione inutile, che non risponde a finalità economiche e che non acquisisce alcuna legittimazione a
sopravvivere. È quindi destinata a disgregarsi. Infine, un’azienda che non è in grado di generare un profitto di
gestione, non può riuscire ad alimentare i suoi processi di rinnovamento e sviluppo e vede fuggire il capitale in essa
investito.

Una visione dinamica: l’impresa quale sistema cognitivo


Negli ultimi decenni si è inquadrato il concetto di impresa in una nuova ottica, intesa a privilegiare l’aspetto tangibile
delle immobilizzazioni presenti nell’organizzazione dell’impresa.
La vera ricchezza dell’impresa non sarebbe quindi costituita soltanto dal suo patrimonio materiale o tangibile, ma
anche e soprattutto dalle sue risorse immateriali o intangibili, connesse con l’immagine positiva nei confronti
dell’ambiente, l’avviamento di mercato e la capacità di produrre innovazioni. La vera ricchezza di un’impresa è quindi
il sapere condiviso e quello degli individui che per essa lavorano: da questi elementi scaturisce il percorso di sviluppo
dell’attività aziendale. (produzione di conoscenza)
In conclusione, l’impresa è definibile come un sistema complesso all’interno del quale si intrecciano elementi
tangibili e intangibile, immobilizzazioni materiali e immateriali, mezzi tecnici ed intelligenze, risorse finanziare ed
umane secondo un disegno finalizzato, in ogni caso, alla produzione e diffusione di valore.

Le caratteristiche tipiche dell’impresa:


1)L’impresa è un sistema aperto perché vive in simbiosi con un ambiente esterno
2)L’impresa è allo stesso tempo un’organizzazione economica e sociale
3)L’impresa deve svolgere una triplice funzione in rapporto al suo essere organizzazione economica, sistema sociale
e struttura patrimoniale.
4)L’impresa in quanto sistema cognitivo deve produrre conoscenza per promuovere l’innovazione
5)L’impresa, quale sistema cooperativo-conflittuale, dev’essere gestita migliorando i rapporti di collaborazione e
riducendo le occasioni di conflitto con i suoi interlocutori

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Viene analizzato l’aspetto funzionale dell’impresa: è un’organizzazione (insieme coordinato di organi) che deve
svolgere mediante processi di acquisizione e di trasformazione processi di produzione e quindi di creazione di valore.
Questa creazione di valore è diretta allo scambio con la finalità di produrre un reddito, cioè un divario positivo tra
ricavi e costi. Questa definizione è una definizione tradizionale che vede quindi l’impresa come un sistema socio-
tecnico di tipo aperto. È costituito da un complesso di parti che forma un sistema, che ha una particolarità ovvero
quella di essere un sistema aperto ( sistema che riceve risorse da altre imprese, le trasforma e le cede sottoforma di
bene o servizi ai consumatori). Questo sistema si deve collegare con l’ambiente (con il contesto generale di
riferimento) e poi in particolare con il mercato (o microambiente ed è parte dell’ambiente che contiene potenziali
consumatori e imprese concorrenti).
Definiamo il sistema socio- tecnico in quanto l’impresa risulta essere formata da due parti:
-aspetto sociale: formata dal gruppo di persone.
-aspetto tecnico: mezzi tecnici mediante i quali l’impresa svolge la sua attività di produzione.

Questa definizione però è un po' datata, era classica della produzione di massa ovvero di beni in larga scala con dei
costi che diventavano via via decrescenti al crescere della dimensione e che rispondeva ad un principio di un
allargamento del mercato che si basava proprio sull’abbassamento dei costi e quindi sull’abbassamento dei prezzi.
Questa classificazione di impresa doveva vivere in un ambiente abbastanza in cui i fenomeni innovativi erano
abbastanza contenuti. Il contesto in cui ci troviamo oggi invece è molto dinamico e cioè chiede all’impresa una
prevalenza del fenomeno innovativo o comunque una continuità del fenomeno innovativo.
Piuttosto che la parte impiantistica allora risultano essere importanti le parti riguardanti le risorse immateriali cioè le
risorse di conoscenza. Si dice che l’impresa opera secondo un sistema di conoscenze e operando attraverso queste
conoscenze crea altra conoscenza. C’è un nuovo profilo quindi dell’impresa, c’è un’impresa con un profilo cognitivo.
La parte materiale finisce per essere meno prevalente della parte materiale, la parte immateriale (risorse intangibili)
assume maggiore importanza.

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Nella prima definizione di impresa, quella socio-tecnica parliamo di reddito mentre nella seconda definizione, quella
cognitiva, parliamo di produzione di valore. Questo è un punto importante poiché vi è una netta distinzione tra
questi due aspetti.

Nella vita delle società evolute l’impresa rappresenta un fatto universale. Rappresentano la forma più efficace di
organizzazione del lavoro degli uomini e si ordinano secondo una tipologia abbastanza ampia. Prevale un principio di
specializzazione per cui ogni impresa si specializza a fare un certo tipo di attività in modo tale da raggiungere il livello
massimo di efficienza in quell’attività lasciando alle altre imprese di fare altre cose. Le imprese si ordinano in
un’organizzazione abbastanza ampia in funzione di vari elementi. Questi vari elementi sono l’attività che svolge
l’impresa. Abbiamo quindi imprese industriali che svolgono attività manufatturiera, impresa artigianali etc….
Le imprese non si organizzano solamente in base all’attività ma anche in funzione della forma giuridica. Possiamo
fare una distinzione in tre gruppi:
-Ditte individuali: classica azienda artigianale o commerciale è un’azienda che si impersona in un individuo.
-Società di persone: nella quale il principio della responsabilità è un principio illimitato. Sono le società nelle prime
fasi.
-Società di capitale e per azioni.

Analizziamo adesso il profilo della natura della proprietà e delle dimensioni. Ciò è molto importante per capire il
governo dell’impresa.
Possiamo avere diversi tipi di soggetto imprenditoriale. Ci può essere il piccolo imprenditore (persone fisica che è il
proprietario e gestisce l’impresa), l’impresa famigliare (c’è un gruppo famigliare, non c’è più una sola persona fisica.
Le solite persone sono proprietari e gestori dell’impresa), public company (una società con una proprietà così
frazionata che non può partecipare alla gestione dell’impresa, sono finanziatori dell’impresa ma non gestori. In
questo caso, quindi, c’è una dissociazione tra proprietà e governo dell’impresa).
A seconda di chi possiede il capitale possiamo avere un’altra distinzione tra imprese private, pubbliche e miste.
-Private: quelle in cui il capitale viene posseduto da privati. La gestione è privata.
-Pubbliche: la maggioranza del capitale è nelle mani di enti pubblici o locali. Ci sono manager delegati che gestiscono.
-Miste: partecipazione equilibrata tra privato e pubblico.

All’aspetto dimensionale dell’impresa va data una certa importanza sia sotto un profilo teorico che sotto un profilo
pratico.
-Profilo teorico: la gestione di un’impresa piccola ha minori problematica rispetto alla gestione di un’impresa grande.
-Profilo pratico: certe agevolazioni di carattere finanziario e fiscale fanno distinzione tra le imprese piccole, medie e
grandi.
Come viene misurata la dimensione dell’impresa? Qui possiamo avere una serie di indici che possono aiutare nella
ricerca della dimensione.
-indice volumi vendite/ricavi
-indice di risultato: la produzione che viene venduta. Il fatturato è un indice di risultato, è la produzione che viene
venduta ma non è detto che l’impresa sfrutti per intero la sua capacità di produzione. Fatturato massimo è quello
che corrisponde ad una capacità produttiva massima. Il valore aggiunto è quello che si aggiunge mediante la
produzione ed è quindi la differenza tra il valore finale di un prodotto e tutto quello che è stato acquistato per
produrlo.
-indice produttivo: è la capacità dell’impianto di produzione.
-indici patrimoniali: il capitale dell’impresa.
-parametri di carattere organizzativo: numero di addetti. Per effetto dell’automazione però è un concetto che ha
perso valore.

La distinzione tra piccola, media e grande impresa per l’Istat è fatta in basa al numero di addetti. È una classificazione
che ha dei limiti che va in base anche all’aspetto dell’automazione.
L’unione europea combina invece tre elementi patrimonio, fatturato e numero di dipendenti. questa classificazione è
più attinente ad oggi.
Questi sono distinzioni quantitative dell’impresa.
Si preferisce fare una distinzione qualitativa dell’impresa cioè in base al potere di mercato. Per potere di mercato
significa che l’azienda è in grado di stabilire la quantità di produzione, i prezzi di produzione e anche in alcuni casi di
imporre al mercato il proprio potere/controllo (grande impresa).

L’INTERDIPENDENZA TRA L’IMPRESA E IL CONTESTO SOCIO-ECONOMICO: MICRO E MACRO-AMBIENTE

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I concetti di ambiente, settore e mercato:
L’impresa vive all’interno di un ambiente più vasto con il quale scambia risorse, e soprattutto crea ricchezza.
È possibile distinguere l’ambiente in due contesti:
- un micro- ambiente, definito dai mercati con cui l’impresa attiva lo scambio delle risorse,
- un macro-ambiente da cui derivano le opportunità ed i vincoli entro cui questo scambio può verificarsi.
Il micro-ambiente può a sua volta essere convenzionalmente scomposto in due parti:
1. L’ambiente transazionale (scambi in entrata): Ogni impresa avrà bisogno di attingere certe risorse dall’esterno,
dovrà collegarsi quindi con vari mercati di approvvigionamento mediante un insieme di transazioni o atti di scambio.
Il tipo di risorse per le quali ricorrerà al mercato, dipenderà dalle comparazioni di convenienza tra il produrre
all’interno i materiali, le componenti ed i servizi da utilizzare per la produzione dei beni e il procedere al loro acquisto
esterno. Più queste decisioni si orienteranno verso la prima soluzione, e più si dilateranno i confini
dell’organizzazione dell’azienda, facendo così crescere il suo grado di autonomia dal mercato delle forniture.
Viceversa, più si fa ricorso al mercato, più si amplierà l’ambiente transazionale. (Teoria dei costi di transazione
Coase-Williamson, base teorica per la determinazione dei confini dell’impresa)
2. L’ambiente competitivo (scambi in uscita):Esso dipenderà dalla scelta dei mercato di collocamento e delle
specifiche porzioni di mercato a cui cedere beni e servizi prodotti. Anche in questo caso è l’impresa a definire, con le
sue decisioni strategiche, l’ambiente competitivo di riferimento.
All’interno del MICRO-AMBIENTE vi sono dei contraenti con cui l’impresa dovrà rivolgersi per attingere delle risorse o
per cedere dei prodotti. Questi soggetti si raggruppano in delle categorie originando dei “mercati”. In termini
economici, si ha un mercato in tutti i casi in cui vi siano due o più contraenti disposti a scambiare fra di loro beni
rispettivamente posseduti. Ogni impresa di collegherà con:
a) il mercato del lavoro, costituito dall’offerta di risorse umane (manodopera specializzata e non specializzata)
b) il mercato della produzione, costituito dai produttori di materie prime, semilavorati, impianti, macchinari ecc..
c) il mercato finanziario, ossia il mercato mobiliare, gli intermediari finanziari e gli altri prestatori di capitale.
d) il mercato di vendita, costituito dai potenziali acquirenti dei beni o servizi prodotti.

L’ambiente quale contesto generale di riferimento per l’impresa:


Sotto il profilo economico-sociale, l’ambiente può essere inteso come il contesto socio- economico-politico
all’interno del quale l’impresa è chiamata a svolgere le sue funzioni. Questo contesto è regolato da una serie di
condizioni politiche, legislative, sociali, culturali ed economiche, che determinano il sistema di vincoli-opportunità
entro cui dovrà trovare sviluppo l’attività aziendale.
Questo ambiente sul piano teorico può essere scomposto in 4 sub-sistemi generali, ai quali si collegano dei sotto-
sistemi di grado via via inferiore:
1)Il sistema o ambiente politico-istituzionale; è rappresentato dalla forma di governo e dall’ordinamento
legislativo prevalenti nel territorio considerato. Esso esercita delle influenze di primaria importanza sulla vita
dell’impresa, il cui ruolo può essere vincolato da leggi, interventi e controlli dei poteri pubblici. Oltre a
queste influenze, vi sono poi quelle indirette relative al rapporto fra sistema politico ed economico. Inoltre,
le forme diverse di governo si riflettono sui rapporti internazionali contribuendo ad ampliare o restringere i
mercati, con effetti sullo sviluppo e la sopravvivenza delle imprese. Inoltre, la regolamentazione pubblica
disciplina l’imposizione fiscale e le norme a tutela del lavoro.

2)Il sistema culturale-tecnologico; può essere inteso sotto il profilo culturale, come il contesto entro cui si
affermano le manifestazioni tradizionali della vita materiali, sociale e spirituale di una collettività organizzata.
Può rinvenirsi ad esempio nei modi di vivere e pensare che caratterizzano un popolo. Esso si compone di una
serie di elementi che concorrono a comporre il sistema di valori di un singolo individuo e della società nel
suo complesso. Questo ambiente influenza anche coloro che operano all’interno dell’impresa. I suoi effetti si
hanno anche sull’avanzamento delle conoscenze e sul migliore uso delle risorse disponibili; scienza e
tecnologia rappresentano un prodotto della cultura infatti. Si può asserire che la tecnologia influenza
prevalentemente l’impiego delle risorse, mentre la cultura si riflette anche sul loro consumo sotto forma di
beni e servizi.
3)Il sistema demografico-sociale; è definito dalla struttura della popolazione residente e dalle relazioni fra gli
individui e i gruppi che la compongono. La ripartizione per razza, religione, classi di età, livello
socioeconomico, professione, i caratteri di cristallizzazione e di fluidità tra e all’interno dei singoli strati,
costituiscono i principali aspetti socio-demografici dell’ambiente in cui opera l’impresa. Il minor tasso di
natalità e l’allungamento della vita mediano hanno mutato la struttura della popolazione, nella quale
tendono a pesare di più classi degli anziani nei confronti di quelle dei giovani. È molto importante la

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stratificazione sociale per le modalità di sviluppo dell’impresa. Essa determina i modelli di riferimento per i
singoli, sulle cui scelte incide non solo l’aspetto psicologico ma anche quello sociologico. Spesso l’individuo
detto il sistema di valori del gruppo cui ritiene appartenere e finisce per maturare, dai leader riconosciuti del
gruppo, i comportamenti, ossia sia le abitudini che le motivazioni. Il rapporto tra il singolo ed il gruppo
sociale finisce per esercitare un ruolo determinante nelle scelte e può creare o opportunità o minacce per
l’impresa.

4)Il sistema economico; esso deve essere inteso come il sistema generale dell’economia che regola la
collettività. Fra i molteplici profili dell’aspetto economico, alcuni fra i più importanti sono quelli che
concernono:
 Il meccanismo di regolazione della vita economica. In esso si distingue fra le forme dell’economia di mercato
e di piano.
o Per economia di mercato si intende un sistema di decisioni decentrate, regolato cioè da leggi di
mercato. In questa economia opera il principio della libera iniziativa e quello della proprietà privata
dei mezzi di produzione, per cui si parla in questo caso di economie liberiste.
o -Per economia di piano ci si riferisce invece ad un sistema in cui le decisioni sono prese
prevalentemente al centro mediante l’elaborazione di piani governativi nazionali. In questo tipo di
economia tutto è regolato dal piano, anche l’uso dei mezzi di produzione, che sono prevalentemente
di proprietà della collettività. Per tale motivo si adoperano in maniera intercambiabile economia di
piano o economia collettivista.

 Lla proprietà dei mezzi di produzione, in relazione al quale si distingue tra economie liberiste e collettiviste.
In un’economia collettivista l’impresa opera come un organo dello stato, e vi è limitata autonomia decisione
per quanto concerne le strategie da perseguire. Vi è una pressoché immedesimazione fra lo Stato e
l’imprenditore. Nell’ipotesi di un economia di mercato le imprese dispongono di un’ampia discrezionalità,
potendo perseguire qualsiasi comportamento con i vincoli generali imposti dalla regolamentazione pubblica.

Nella realtà rispetto ai modelli teorici di economie completamente di mercato o totalmente di piano, le economie
effettivamente operanti erano quelle d’intervento o miste, all’interno delle quali la presenza del pubblico e del
privato si intrecciavano con varie modalità. Dallo scenario post bellico, nei paesi occidentali vi è stato uno
spostamento verso un’economia di piano, nella quale vi era un più decisivo e diffuso intervento del potere pubblico
nella sfera economica. Per ragioni volontarie od obbligato, la figura dello stato imprenditore attraverso i gruppi
pubblici era divenuta pertanto centrale nell’ambito delle economia occidentali. Tutto ciò fino a quando una serie di
fenomeni, come il mutamento delle ideologie politiche prevalenti, si è convenuto sul lasciare più spazio all’iniziativa
privata, fenomeno detto delle “privatizzazioni”, che ha rappresentato una delle risposte alla crisi dello Stato
imprenditore. Anche nel nostro paese molti servizi pubblici sono stati privatizzati e da tempo sono esercitati in
regime di concorrenza (telecomunicazioni, energia elettrica, acqua, autostrade).
Dalla privatizzazione si fanno discendere tre possibili benefici:
1. Il miglioramento dell’efficienza nella prestazione del servizio.
2.l’accentuazione della concorrenza con conseguente riduzione delle tariffe
3. L’ottenimento mediante la fiscalità, di risorse finanziare per lo Stato e gli Enti locali.

I rapporti tra l’impresa, il micro- ambiente e il macro ambiente:


L’impresa si trova al centro di un micro-ambiente, convenzionalmente suddiviso in ambiente transazionale ed
ambiente competitivo, che a sua volta è inserito in un macro- ambiente. Si genera così un sistema di relazioni che si
compone, innanzitutto di rapporti tra macro-variabili e micro-variabili e successivamente, tra queste le
caratteristiche di gestione e di struttura dell’impresa. Questa dovrà adottare i comportamenti più idonei per volgere
a suo vantaggio l’evoluzione dei mercati di fornitura, finanziario, del lavoro e di vendita, tale evoluzione dipenderà
dal movimento delle variabili generali di tipo politico, socio-demografico, culturale tecnologico ed economico.
L’impresa non può scegliere il macro-ambiente, mentre può scegliere l’ambiente transazionale e competitivo entro il
quale operare. Per alcune aziende più grandi, dotate di potere economico tale da incidere sul potere politico, si può
affermare che anche l’ambiente macro-economici può rappresentare una variabile e non un vincolo da rispettare.
.L’ambiente (in senso generale) determina il sistema di vincoli-opportunità entro cui si dipana la gestione aziendale.
I vincoli possono dipendere da leggi e provvedimenti amministrativi, dal modello di cultura prevalente, dalla
composizione e dalla mobilità delle classi sociali, dal tipo di governo dell’economia e dal grado di benessere della
popolazione. Da ciò vi sono dei condizionamenti che incidono restringendo l’area di manovra dell’imprenditore.

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Non sono comunque di secondario effetto, le influenze che le imprese possono esercitare nei confronti
dell’ambiente in cui vivono. Infatti, i centri di potere economico (gruppi ed imprese “giganti”) detengono un rilevante
potere politico, possono agire sulla sfera culturale, assumono un ruolo preminente nello sviluppo delle tecnologie e
influenzano le forme e l’intensità del controllo pubblico sull’economia.
Nell’interpretazione dei rapporti impresa-ambiente sono due i principali fili conduttori:
1. Il progresso tecnologico: Influenza in modo considerevole la struttura di un settore industriale e la posizione
competitiva delle imprese. Le innovazioni concorrono a modificare il sistema di barriere sia di entrata sia di
uscita e possono creare difficoltà o nuove opportunità per coloro che sono presenti nel settore o che
aspirerebbero ad entrarvi. A mano a mano che si diffonde il progresso tecnologico, si modificano il tipo, il
modo e l’organizzazione delle produzioni; mentre a misura che procede lo sviluppo economico, migliora il
livello di vita della società, aumenta il reddito pro-capite. Il progresso tecnologico contribuisce non solo ad
appagare nuovi bisogni, ma anche ad aprire a nuove classi di consumatori bisogni già avvertiti, mediante una
sostanziale riduzione del prezzo dei beni.

2. l’equilibrio economico e politico sul piano internazionale: Si osserva infatti che gli eventi di politica
economica internazionale, che hanno contrassegnato l’ultimo ventennio, hanno radicalmente modificato le
caratteristiche dell’ambiente socioeconomico. Per effetto dell’apertura dei mercati, dell’affermarsi di nuovi
importanti competitori (Cina ed India), dell’intrecciarsi di lotte sul controllo delle risorse energetiche
mondiali, dei tassi molto differenziati di sviluppo delle economie nazionali, l’ambiente è divenuto più
turbolento, quindi meno prevedibile, più ostile alle imprese, più eterogeneo e complesso, più insicuro a
causa dei fatti terroristici. Le imprese devono perciò imparare ad affrontare i seguenti connotati ambientali;
turbolenza, ostilità, diversità, complessità ed insicurezza.

Gli effetti dell’internalizzazione e della globalizzazione:


Le modificazioni avvenute negli ultimi anni hanno toccato tutti gli aspetti della vita sociale economica e politica. Il filo
conduttore di questa evoluzione è stato senz’altro “compressione” del tempo e dello spazio: diffusione di mezzi più
veloci di trasporto di persone, informazioni e cose ed inoltre il superamento dei confini nazionali, che ha creato un
complesso di aree di libero scambio.
La complessità dell’ambiente deriva dal mutamento dei valori e dalla velocità dei cambiamenti strutturali improvvisi.
Questa “turbolenza ambientale” richiede un nuovo tipo di impresa contraddistinta dalla combinazione delle
caratteristiche di efficienza e flessibilità. La maggiore complessità non deriva solo dai fenomeni di turbolenza, ma
anche da quello dell’internazionalizzazione dell’economia e della globalizzazione dei mercati.
- L’internalizzazione è stata favorita dallo sviluppo mondiale degli scambi, la diffusione sul piano
internazionale delle informazioni, l’interdipendenza delle economie o di blocchi di economie di più paesi. Un
fattore importante per piccole medie imprese per la concorrenza straniera.
- La globalizzazione (in senso ampio): è il processo di convergenza, a livello mondiale, degli aspetti culturali,
politici ed economici e come superamento del controllo sociale degli Stati nazionali sull’economia.

Sotto il profilo dell’economia d’impresa tale concetto riguarda due aspetti: quello dell’interrelazione su scala
mondiale di certi mercati, che amplia la concorrenza a livello internazionale e quello dell’omogeneità della domanda,
su questo vi sono però opinioni differenti, in quanto può essere presente in determinati settori ma non è prevalente
rispetto a quello dell’interrelazione su scala mondiale delle strategie aziendali.
In sostanza la globalizzazione si riferisce ad un mercato senza confini geografici, piuttosto che ad un mercato
mondiale omogeneo. È il dilatarsi della concorrenza in senso territoriale che fa crescere le dimensioni della
concorrenza stessa.

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Viviamo in un sistema dinamico e dobbiamo distinguere il concetto di ambiente da quello di mercato.
Ambiente: inteso come ambiente socioeconomico, cioè l’insieme di quelle variabili che influenzano il
comportamento delle imprese e dei mercati. L’ambiente determina le condizioni che vanno ad influenzare i singoli
mercati che riflettono le loro condizioni sulle imprese. L’impresa è la cellula economica, i mercati sono l’ambiente
immediatamente circostante all’impresa e poi il macroambiente come ambiente generale nel quale si determinano
alcuni elementi che sono molti importanti.

Quali sono le condizioni che influenzano la vita delle imprese e l’andamento dei mercati? Che cosa interessa la vita
dei mercati e delle imprese?

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Queste condizioni si possono dividere in quattro gruppi:
-ambiente politico-istituzionale: l’impresa vive all’interno di un territorio o anche in più territori e ciascuno è
governato da leggi, disposizioni che sono emanazione del potere legislativo ed esecutivo che governa questo
territorio. Ogni concetto in cui le imprese vivono vede una presenza polita ed istituzionale. Dal contesto politico
istituzionale ne derivano le leggi quindi quello che l’azienda può fare e non fare, le norme, le disposizioni agevolative
o degli disincentivi (limitando o agevolando le imprese ad esempio limiti riguardo all’inquinamento aziendale). Dal
contesto politico istituzionale nascono quindi degli elementi di guida per le imprese che ovviamente vanno
rispettate. Il governo rappresenta il primo agente di questo sistema economico generale che deve governare e che
riflette sul mondo delle imprese degli effetti molto importanti.

-ambiente economico: In un’economia di tipo chiuso (come una volta erano le economia dei paesi orientali) lo stato
è l’unico imprenditore, organizza le imprese, demanda ai propri funzionari la guida delle imprese, stabilisce i bisogni
da soddisfare e decide i prodotti da porre in essere con un sistema che si dice “a decisioni accentrate” dove la libertà
di iniziativa dell’impresa e la proprietà privata non esistono. Dall’altra parte forme di governo liberali sono forme “a
decisioni decentrate” in cui ciascun gruppo può avere libertà di iniziativa e organizzare la propria attività economica
come preferisce assumendo anche il rischio del fallimento con il rischio di uscire dal mercato. La libertà di iniziativa
non può essere di tipo assoluto in quanto deve rispettare interessi di carattere generale e quindi vi è un problema di
mediazione tra il controllo assoluto dell’economia e l’assoluta libertà. C’è un problema che viene definito della
combinazione tra stato (regolatore dell’economia) e mercato (organizzatore spontaneo dell’economia) che configura
poi nei sistemi economici che sono di fatto esistenti. Lo stato può pur lasciando libertà di iniziativa agli imprenditori
può porre dei vincoli.

-ambiente sociodemografico: intendiamo struttura della popolazione e la struttura della popolazione (ogni paese
risulta caratterizzata da una quantità di persone e da come questa quantità si distribuisce al proprio interno) e sono
due fattori che pesano sulla produzione delle imprese che a seconda del tipo di pubblico che servono possono avere
svantaggi e vantaggi. L’aspetto sociale riguarda come risulta organizzata la popolazione cioè se è socialmente
omogenea o eterogenea. È sicuramente eterogenea in quanto in ogni paese esistono le classi sociali che creano una
stratificazione sociale che genera determinate conseguenze per le imprese, in quanto questa stratificazione pesa sui
modelli di consumo che risultano essere influenzati da determinate classi sociali (esempio nella moda).

-ambiente tecnologico culturale: l’aspetto culturale è importante perché la cultura rappresenta il modo di esprimersi
di una popolazione in quanto risulta essere formata dagli usi, le consuetudini, le tradizioni e i modi di comportarsi. La
cultura influenza i modelli di consumo. Nel momento in cui si afferma un certo tipo di cultura essa può modificare il
livello di consumo dei consumatori e ciò ovviamente ha conseguenze sulla produzione delle imprese. La cultura è alla
base dell’evoluzione della tecnologia in quanto sono due concetti che vanno di pari passo.

Mercato: è un microambiente, è inteso come complesso di venditori e compratori di certi beni. È la struttura più
vicina all’impresa in quanto è la struttura per la quale l’impresa vive. È l’impresa che sceglie il mercato. L’economia è
fortemente specializzata cioè per arrivare alla produzione di un prodotto finale occorre fare tante cose da parte di
imprese diverse. Ogni impresa opera quindi in una pluralità di mercati (mercati di acquisto e collocamento) Possiamo
dividere questi mercati in due sub ambienti:
-ambiente transazionale: dove l’azienda fa le transazioni in ingresso dove si approvvigiona di ciò che ha bisogno.
Questo ambiente transazionale viene costituito a sua volta da altri tipi di mercato
-mercato di produzione: dove ci acquista ciò di cu si approvvigiona di materie prime
-mercato del lavoro: dove si approvvigiona di lavoratori
-mercato finanziario: si approvvigiona di capitale
-ambiente competitivo: dove vende i beni e i servizi che produce. È composto da due elementi
-clienti: chi vuole comprare i prodotti
-concorrenti: la concorrenza

Le caratteristiche del mercato

Dobbiamo sapere la presenza di concorrenza di mercato e come si presenta.


Dobbiamo conoscere la concentrazione della produzione e la differenziazione dei prodotti. Per differenziazione di
prodotti intendiamo l’elemento di vantaggio che ha un produttore rispetto ad un altro produttore. In un mercato le
due variabili sono l’offerta e la domanda, e dobbiamo conoscere anche il concetto di elasticità della domanda. Le
condizioni in cui si presenta la domanda finisco per essere molto importanti per definire la struttura di un mercato e

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come si comporta questo mercato. Colui che quindi vuole entrare nel mercato deve scegliere gli elementi per
entrare per avere maggiori possibilità di successo.
Abbiamo due regimi di mercato:
-Concorrenza monopolista
-oligopolio: governo dei pochi, esistono pochi produttori che governano la maggioranza del mercato e ne
determinano le condizioni di mercato (alleandosi tra di loro). L’oligopolio può essere di tre casi in base al fatto che
nella concentrazione della produzione ci accompagna la differenziazione dei prodotti, in certi casi questo accade in
altri no (industria siderurgica e petrochimica non c’è differenziazione).

Abbiamo una concorrenza perfetta quando alla base ci sono alcuni elementi di fondo, ovvero:
-libertà di uscita e di entrata nel mercato
-omogeneità dei prodotti e dei produttori
-trasparenza nel mercato

Altro elemento importante che definisce la struttura di un mercato sono le barriere di mercato. Per barriere di
mercato intendiamo le barriere all’entrata cioè intendiamo capire se per entrare in un determinato mercato ci sono
degli elementi di ostacolo che non ci consentono di entrare nel mercato, o che ci consentono di entrare ma con
sforzi rilevanti. Dobbiamo concepire il mercato come un’area limitate al cui interno ci sono i produttori che si
sentono minacciati da chi vuole entrare nel mercato, per “isolarsi” rispetto agli altri produttori mediante le barriere.
Queste barriere potranno essere più o meno scalabili. Il discorso quindi della concorrenza gira intorno alla esistenza
e alla entità di queste barriere. Ci possono essere due gruppi di barriere:
-assolute: non c’è nessun modo per superare queste barriere (es: un brevetto, dal momento che un produttore ha un
brevetto gli altri non possono imitarlo).
-relative: sono quelle che definiamo come economia di scala.

Barriere di mobilità: sono quelle che consentono ad un produttore che è già presente in un mercato definito
merceologicamente di muoversi da un segmento all’altro di mercato. La concorrenza non è soltanto di tipo esterno
ma anche interno.

Vediamo ora come funziona un mercato in rapporto alle caratteristiche della domanda e dell’offerta osservate
insieme. In ogni mercato ci può essere una situazione di squilibrio o di equilibrio (c’è equilibrio quando domanda e
offerta tendono a bilanciarsi, ma ciò è molto difficile).
Possiamo avere due situazioni diverse:
1)La domanda è inferiore all’offerta (offerta superiore alla domanda): i produttori sono in concorrenza tra di loro per
acquisire compratori perché non tutta la loro capacità di produzione può essere soddisfatta da coloro che sono in
grado di compare il servizio/prodotto. La concorrenza è tra chi produce e di conseguenza chi governa quel mercato è
il compratore che decide da chi comprare. La domanda in questo caso è privilegiata rispetto all’offerta perché può
decidere il successo del produttore. In questo caso si parla di mercato del compratore.
2)La domanda è superiore all’offerta: si parla di mercato del venditore. Tutto ciò che il produttore produce vende.

C’è stata un’evoluzione dell’ambiente esterno all’impresa che dobbiamo analizzare per vedere le caratteristiche
interne di un’impresa che dovrebbe assumere a seguito di questa evoluzione ambientale. L’ambiente si è fortemente
evoluto per due fattori:
-progresso tecnologico: elemento che è di progresso ma allo stesso tempo è un elemento di instabilità, mano a mano
che va avanti richiese innovazione e cambiamenti. Più accelerato è il ritmo del processo tecnologico più crescono le
condizioni di dinamismo, di cambiamento, di complessità dell’ambiente.
-equilibrio politico internazionale: l’equilibrio politico internazionale ha un certo peso poiché a seconda di quello che
accade a livello mondiale si hanno dei riflessi sui rapporti tra i paesi (in un’economia così aperta importazioni ed
esportazioni finiscono per essere un elemento sistematico).
Questi due fattori hanno accelerato quindi questo dinamismo ambientale. Questo dinamismo ha portato quindi alla
definizione di tre caratteristiche dell’economia:
-la complessità: quella di oggi è sicuramente un’economia complessa. È un’economia in cui la variabilità e la varietà
sono cresciute poiché gli elementi di innovazione sono fortemente presenti in tutti i fattori. Più cresce la variabilità e
la varietà degli elementi che compongono l’economia più è difficile prevedere come si evolve il sistema e quindi
diventa più difficile per le imprese seguire questa evoluzione.
-la globalizzazione: c’è da fare una distinzione tra economia globalizzata e internazionalizzata.
-internazionalizzata: sotto il profilo degli scambi tutte le imprese sono in concorrenza

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-globalizzata: in questa lettura dei mercati il termine globalizzazione significa omogeneità. In molti casi la
globalizzazione viene intesa come omogeneizzazione di certi consumi (certe classi sociali tendono a consumare le
stesse cose in più parti del mondo e quindi si parla di globalizzazione della domanda).
Le conseguenze della globalizzazione sull’ambiente è che lo hanno reso turbolento, imprevedibile, soggetto quindi a
perturbazioni che sono di carattere immediato, che sono di grande impatto e che giungono quando non c’è nessun
sintomo che le faccia prevedere. E lo hanno reso ostile; un’ostilità ambientale derivante sempre dal fatto che questo
estremo dinamismo compromette le cose in stato di funzionamento, lo compromette perché ne richiede l’evoluzione
(quindi forme di adattamento sempre più costose e difficili). Vi è anche la presenza di insicurezza che lascia dei rischi
a carico dell’imprenditore.

In conseguenza a questo dinamismo ambientale l’impresa deve assumere determinate caratteristiche: deve essere
flessibile (adattarsi alle tipologie di cambiamento) e innovativa e reattiva (deve reagire alle forme di evoluzione).
Dato questo dinamismo ambientale dobbiamo analizzare i paradigmi che possono regolare i rapporti tra impresa e
ambiente. Abbiamo due modi di analizzare questi comportamenti:
1)paradigma strutturalista: ruota intorno ai termini di struttura condotta performance (scp). Questo paradigma
afferma che a struttura dell’ambiente esterno e del mercato in particolare influenza la condotta dell’impresa. Quindi
il risultato (performance) è quello che risulta dalla condotta dell’impresa che però dipende direttamente dalla
struttura dell’ambiente esterno.
2)paradigma comportamentista: la condotta dell’impresa finisce per influenzare la struttura del mercato e di riflesso
anche le condizioni ambientali, e quindi la performance/ il risultato non è altro che l’effetto di condotte aziendali che
determinano le condizioni strutturali che portano al successo dell’impresa. In questo caso quindi l’impresa influenza
l’ambiente esterno a propria convenienza ottenendo risultati favorevoli.
Questo tipo di paradigma oggi è meno ricorrente. Oggi difficilmente le aziende riescono ad influenzare l’ambiente
esterno perché questo ambiente non è più nazione, cioè limitato, ma è internazionale. L’impresa oggi è sempre più
soggetta ad una capacità di dover prevedere questi fenomeni perché chi ha maggior capacità previsionale riesce ad
avere maggiori vantaggi in termini di competizione.
Alcuni concetti in ordini all’organizzazione di impresa si vanno modificando, ad esempio oggi alcuni elementi
riguardanti l’organizzazione dell’impresa vanno in contrasto con quelli del passato. Vediamo perché.
In passato abbiamo avuto la rivoluzione industriale che ha portato ad una crescita delle dimensioni di produzione.
Questo aumento ha portato ad un forte abbassamento dei costi di produzione sempre per effetto dell’economia di
scala. Ciò ha portato ad un’economia del benessere in cui venivano quindi soddisfatti anche bisogni secondari.
L’innovazione, quindi, risulta essere un fattore dominante. Allo stesso tempo innovazione e flessibilità vanno in
conflitto con la grande dimensione, che porta alla rigidità. Il conflitto che si avverte ad oggi nelle imprese è questa
contrapposizione tra la dimensione che è fattore di economicità e l’innovazione che diventa fattore di rigidità.
Vediamo come trovare allora un equilibrio.
Trovare un equilibrio significa trovare quello che è definito come il confine efficiente di impresa, quello che
rappresenta la configurazione dell’impresa che deve rispondere alle mutazioni dell’ambiente esterno. Vediamo
allora due concetti fondamentali:
-costo di transazione: è un concetto mutuato dall’economia. Non deve essere confuso con il costo di acquisto. Lo
scambio richiede uno sforzo (attingere alle informazioni necessarie, recarsi dal produttore, accordarsi con il
produttore). Nella vita dell’impresa esse sono soggette a sostenere dei costi di transazione, e ciò si verifica quando
devono comprare all’esterno quello che non producono all’interno. Quindi ogni azienda si pone poi il problema su
cosa produrre all’interno e cosa acquistare dall’esterno. Questa decisione deriva da una comparazione tra il costo di
transizione e il costo di produzione. Se il costo di transazione (il costo del bene scambiato) è inferiore al costo di
produzione allora è chiaro che all’impresa ricorrerà ad un mercato per comprare certi beni. Questa comparazione tra
i due costi definisce il confine efficiente dell’impresa.

L’efficienza è il modo ottimale di fare le cose. Deve essere intesa in modo corretto. Abbiamo un concetto di efficienza
statica: combinazione ottimale delle risorse disponibili. La condizione di stabilità però non permane a lungo nella vita
delle imprese. L’efficienza deve essere inquadrata anche sulla capacità di creare nel tempo combinazioni diverse
sulla base di competenze che nel fare si arricchiscono e si potenziano.
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I PARTECIPANTI ALLA VITA DELL’IMPRESA: L’IMPRENDITORE E GLI STAKEHOLDER

Gli organi di governo nell’impresa: imprenditorialità e managerialità

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Per definire l’impresa si parte dal ruolo dell’imprenditore: L’imprenditore è quel soggetto economico che decide di
rischiare i propri capitali e di dedicare le sue capacità professionali alla produzione di beni e servizi da cedere a terzi.
Secondo Schumpeter, il focus dell’imprenditorialità è da rinvenire nella promozione dell’innovazione. Secondo egli
l’innovazione nasce solo nel laboratorio della grande impresa, in un periodo successivo concluse che l’innovazione
può essere intesa anche in un accezione più allargata, allora può avvenire attraverso una nuova idea, un nuovo modo
di operare e porsi sul mercato, da parte del prenditore, da qui nasce il legame tra imprenditorialità ed innovazione.
Le qualità fondamentali dell’imprenditore sono:
1. capacità di previsione, intuito.
2. spirito di iniziativa, forte volontà, libertà intellettuale
3. autorevolezza, capacità di” leadership” nei confronti dei collaboratori.
In sostanza l’imprenditore deve essere in grado di formulare valutazione e prendere decisioni differenti da quelle che
altri individui possono assumere, questo perché dispone di un migliore accesso alle informazioni e perché è in grado
di interpretarle meglio.
Differenza tra imprenditorialità e managerialità:
- Imprenditorialità: è l’attitudine ad assumere decisioni rischiose finalizzate all’innovazione dei comportamenti
aziendali. Ha l’efficacia: ossia il valore proprio dell’imprenditorialità e tiene alla bontà delle decisioni. Può
essere intesa quale abilità decisionale di chi governa a livello più elevato il sistema aziendale
- Managerialità: è la capacità di sviluppare le decisioni imprenditoriali e di attuarle in modo razionale. Ha
l’efficienza: è il valore proprio della managerialità, intesa quale attitudine a realizzare il massimo rendimento
nella fase di attuazione delle scelte aziendali.

I requisiti per l’esercizio del potere decisionale:


Il potere decisorio viene a concentrarsi massimamente nelle mani di un gruppo ristretto di organi, ossia un numero
relativamente ridotto di soggetti ai quali è demandato il compito di deliberare sulle finalità e sulle politiche generali
da seguire. Vi è poi una schiera molto più folta di altri organi la cui funzione, sempre sotto il profilo decisionale, è
quella di realizzare un’attività decisoria complementare o meramente applicativa della prima.
>Laddove non sia possibile operare una distinzione tra organizzi aziendali deliberanti e non, è possibile suddividere
gli organi d’impresa in:
- Organi deliberati: esercitano prevalentemente attività decisionale. Si differenziano per l’ampio potere discrezionale
esercitato nel compimento della loro attività.
Gli organi deliberanti in una struttura societaria di grandi dimensioni, si possono dividere in tre gruppi: organi di
proprietà (azionisti) organi di amministrazione ed organi di direzione.
- Organi di controllo: preposti al controllo dell’attività aziendale
- Organi esecutivi: hanno il compito di dare attuazione alle disposizioni provenienti dagli organi deliberanti.
Per l’esercizio dei poteri decisori ed organizzativi è necessaria non solo l’autorità formale (collegata alla carica
ricoperta nell’organizzazione), ma anche l’autorità sostanziale che deriva da:
a. abilità professionale
b. disponibilità delle informazioni
c. capacità di controlla delle decisioni assunte

la pluralità dei soggetti in relazione con l’impresa: la teoria degli stakeholder


Oltre agli organi interni facenti parte della struttura dell’impresa, altri protagonisti sono quelli esterni, nei confronti
dei quali essa sviluppa relazioni d’interesse e di influenza.
L’impresa si pone al centro di una serie di rapporti con differenti gruppi sociali, rispetto ai quali attiva relazioni di
scambio, di informazione, di rappresentanza Questi gruppi costituiscono dei veri e propri interlocutori dell’impresa o
stakeholder, ossia portatori di interesse, che influenzano (le decisioni aziendali) e sono influenzati dall’attività
dell’impresa.
Il concetto di stakeholder si è ampliato, in quanto prima comprendeva solo coloro che avevano interessi diretti
nell’impresa (lavoratori, finanziatori, fornitori), attualmente si comprendono anche coloro che sono in grado di
esercitare un’influenza sulle decisioni aziendali o che pur non partecipando alla vita dell’azienda possono essere
influenzata da essa (istituzioni, ambientalisti).
Da ciò la divisione tra gli stakeholder primari, che hanno un interesse diretto nella vita dell’impresa e sono collegati
alla stessa mediante rapporti giuridici (contratti), gli stakeholder secondari possono incidere soprattutto sul clima
sociale delle relazioni aziendali (interne ed esterne) e influenzare i comportamenti di lungo termine.
Il governo dei rapporti con tutti gli stakeholder rappresenta una responsabilità primaria per l’imprenditore, poiché
influenza direttamente i risultati della gestione aziendale: individuare gli stakeholder, stabilirne il peso relativo,

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valutarne gli interessi ed orientare la mission aziendale tenendo conto anche di questi ultimi sono passaggi
fondamentali per la definizione del progetto strategico.
E’ possibile fornire quindi un’ulteriore definizione di impresa alla luce della Teoria degli Stakeholder: “l’impresa è una
organizzazione economica, legata ad un complesso d’interlocutori interni ed esterni, che, mediante la combinazione
di risorse differenziate, svolge processi d’acquisizione e di produzione di beni e servizi allo scopo di creare e
distribuire valore tra di essi.”

L’importanza, nel governo dell’impresa, dell’individuazione e classificazione degli stakeholder:


Non in tutte le imprese la composizione e il ruolo degli stakeholder è uguale. A seconda dell’attività esercitata,
dell’organizzazione e della natura della proprietà, della dimensione della struttura, delle condizioni dell’ambiente in
senso generale, alcuni interlocutori possono acquisire una maggiore o minore rilevanza. Tale situazione è destinata
anche a variare nel tempo a causa sia del mutamento del contesto entro cui opera l’impresa sia delle stesse vicende
aziendali.
Suggerito dalla dottrina, l’individuazione degli stakeholder e soprattutto la valutazione del grado di importanza e
d’influenza esercitabile sulla gestione dell’impresa può essere guidata da alcuni criteri:
- la forza ovvero il potere da essi detenuto in virtù del ruolo ricoperto
- La legittimazione ossia il riconoscimento ufficiale della loro funzione di rappresentanza di particolari interessi
o soggetti economici, sociali e politici
- L’attualità dell’interesse difeso ovvero l’urgenza della risposta da parte aziendale e la criticità che tale
risposta assume nel particolare momento di vita dell’impresa.

La classificazione degli stakeholder è continuamente mutevole, perché, da tempo a tempo, possono variare
l’attualità degli interessi, la forza dei singoli interlocutori ed il loro grado di legittimazione.
Per quanto concerne l’individuazione degli stakeholder, deve consentire di stabilire come gestire i relativi rapporti,
valutando se da ciascuno di essi potrà derivare un atteggiamento collaborativo, oppure un ostacolo se non
addirittura una minaccia per la sopravvivenza stessa dell’impresa. Sotto questo profilo gli stakeholder si possono
classificare in 4 categorie:
1 Stakeholder amichevoli (supportive) dai quali si può ottenere un sostegno decisivo per l’attività
dell’impresa. Strategia dell’impresa per amministrare efficacemente la relazione: la via del
coinvolgimento
2 Stakeholder avversari (non supportive) dai quali potrebbero invece generarsi difficoltà sostanziali per la
gestione aziendale; la strategia è la difesa.
3 Stakeholder non orientati (mixed blessing) da cui si potrà avere, a seconda delle circostanza un sostegno
o un atteggiamento negativo; strategia:ricerca di collaborazione
4 Stakeholder marginali, il cui peso nei confronti dell’impresa nel particolare momento risulterà del tutto
modesto. La strategia che risulta utile è il monitoraggio
Posizioni di contrasto o marginali non dovrebbero essere attribuibili agli interlocutori primari, questi ultimi infatti
dovrebbero inquadrarsi sempre tra gli stakeholder supportive. Nel caso di rapporti in contrasto con lavoratori,
fornitori denota uno stato patologico pericoloso per la vita aziendale.
Nella teoria degli stakeholder un punto problematico concerne il ruolo della proprietà. Può accadere che
quest’ultima, detenga nelle sue mani il governo dell’impresa oppure che si vengano a costituire due soggetti distinti:
la proprietà investitrice e il management.
-Nel primo caso l’imprenditore, rappresentando l’impresa è colui che deve curare il rapporto con gli stakeholder e
quindi non ne fa parte di questi ultimi.
-Nel secondo invece, l’imprenditore è rappresentato dal management a cui è stata confidata l’amministrazione
dell’impresa, ma la proprietà risulta giustamente ricompresa tra gli stakeholder. Se non si dovesse presentare la
dissociazione tra proprietà e governo dell’impresa, gli stakeholder primari dell’imprenditore si ridurrebbero
fondamentalmente ai lavoratori, ai fornitori e alla clientela.
L’esistenza di investitori distinti dai gestori pone un problema centrale. In questa ipotesi il rapporto tra l’impresa e
l’investitore si risolve nel conferimento di capitali e nella corrispondente attribuzione di dividendi.
Accade quindi che rispetto all’impresa vi siano stakeholder la cui remunerazione è fissata da un contratto, e
stakeholder (ossia gli azionisti) la cui ricompensa è residuale, vale a dire che sarà riconosciuta nella misura e se (dopo
aver corrisposto tutte le remunerazioni contrattuali) dovesse rimanere un residuo di ricchezza.

LA TEORIA DELL’AGENZIA: Questa particolare condizione rientra in quella che è definita come la teoria dell’agenzia,
tipica di tutti i casi in cui si ha dissociazione tra proprietà e governo dell’impresa.

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Tale teoria si riferisce alla situazione in cui il potere di amministrazione aziendale è esercitato da un agente (agent)
su mandato ricevuto dalla proprietà (principal). Per effetto del mandato fiduciario, in base al quale il delegato
amministra per conto del delegante, si viene creare una relazione che tende a ridurre e se non annullare il carattere
residuale della remunerazione della proprietà. Quest’ultima, infatti, incentiverà l’agente a massimizzare la
ricompensa per la proprietà sotto forma di dividenti azionari e valorizzazione della quotazione delle azioni, pena
l’uscita dalla società o la rimozione dell’agente dal suo incarico.
Una situazione del genere indurrà quindi l’agente ad assicurare comunque una congrua remunerazione alla
proprietà, dopo aver ugualmente soddisfatto gli altri stakeholder, giungendo a distribuire perfino la ricchezza
accumulata (patrimonio) anziché quella creata (reddito). Vi è però da osserva che la presenza di un manager a capo
di imprese appartenenti a gruppi famigliari si sta diffondendo tra le società quotate in Borsa e anche in quelle
aziende in cui l’imprenditore fondatore non ha potuto trovare l’erede all’interno della famiglia. In questi casi
l’orientamento da conferire alla gestione viene di fatto condiviso dalla proprietà di riferimento e dal manager
professionista. L’internazionalizzazione poi è certa una delle cause della crescente managerialità delle strutture
organizzative.

La gestione degli stakeholder e le economie di relazione:


Godere di un clima favorevole nei confronti sia dell’ambiente interno sia di quello esterno rappresenta un vantaggio
spesso decisivo per i risultati el a sopravvivenza dell’impresa. Da ciò la rilevanza assunta dalle “economie relazionali”
ossia le economie legate alla gestione dei rapporti con gli stakeholder. Queste economie spingono dunque a favorire
forme di collaborazione, che a volte possono essere istituzionalizzate a livello organizzativo mediante la creazione di
reti d’imprese che ricomprendono appunto più interlocutori.
A prescindere da questo tipo di organizzazione, appare chiaro che sull’abilità a gestire efficacemente il rapporto con i
vari interlocutori si può fondare in misura decisiva il vantaggio competitivo di un’azienda nell’ottica in sostanza della
creazione di un valore di “sistema”,superiore a quello ottenibile singolarmente dalle imprese raggruppate nella rete .

LA CRISI AZIENDALE: PONTE MORANDI


“Un evento improvviso e inaspettato il cui accadimento e la cui visibilità, all’interno ed all’esterno, minacciano di
produrre un effetto negativo sulla reputazione dell’organizzazione, di interferire con le normali attività di business e
di danneggiare i risultati economico-finanziari (Invernizzi 2012)”.
Il ponte Morandi fu costruito tra il 1963 e il 1967, dalla Società Italiana per Condotte d’Acqua S.p.A. su progetto
dell’ingegnere Riccardo Morandi.
Aveva lo scopo di connettere la nuova A10 con la A7, scavalcando un vasto parco ferroviario, case e industrie. Il
capitale di Autostrade per l'Italia è così ripartito: Atlantia: 88,06%; Appia Investments Srl: 6,94%; Silk Road Fund: 5%.
Nel 14 agosto del 2018 il ponte crolla, 43 vittime. Apprese notizie sul possibile avviso della procedura di revoca della
concessione autostradale, la società mette da parte lutti e interventi d’emergenza per porre in sicurezza la zona, e
tenta di rivolgersi alle istituzioni tramite i Social, quasi a voler “difendere il proprio portafoglio”.
>4 giorni dopo il disastro dalla conferenza stampa si apprende che:
– Autostrade è corsa ai ripari incaricando esperti di Comunicazione Strategica,
– Autostrade si concentra molto sulla ricostruzione
– Autostrade si scusa solo per la mancata percezione della vicinanza alle vittime e alla città. La grave incapacità
decisionale nella crisi ha ormai trasformato il disastro in una crisi mediatica, comunicativa e d’immagine.
Nello stesso momento i parenti delle vittime lamentano di aver dovuto pagare il pedaggio autostradale per poter
raggiungere Genova e ricongiungersi ai propri familiari o essere presenti ai funerali di stato.
ELEMENTI RICORRENTI DELLA CRISI:
*Un fatto;
*L’informazione (o conoscenza) relativa al fatto;
*Le relazioni tra gli individui e l’azienda/entità al quale è riconducibile l’accadimento.
*La «golden hour» e la credibilità: 60 i minuti decisivi in cui l’impresa può minimizzare le conseguenze della crisi.
*I social media riducono anche a 15 minuti il termine di reattività entro il quale deve manifestarsi la prima
comunicazione

CONSEGUENZE DI UNA CRISI:


*A breve termine: misurabili dopo poche ore/giorni in base ai danni materiali, vittime, cause legali, caduta del titolo
azionario (effetto valanga)
*A lungo termine: misurabili nell’arco dell’annualità successiva in base alla consumer loyalty, perdita delle quote di
mercato, mancato recupero della perdita del valore azionario del titolo, riduzione della qualità dei rapporti tra i
lavoratori in azienda, modifica dei metodi di produzione e/o distribuzione (revoca delle concessioni)

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CRISIS MANAGEMENT: E’ una funzione strutturale del processo di direzione di un’organizzazione che analizza,
predispone e coordina la gestione di situazioni di crisi (Muzi Falconi, 2003). Si intende un processo che comprende
tutte le attività da porre in essere prima, durante e dopo un evento critico, al fine di proteggere l’organizzazione
dalle minacce e di ridurne l’impatto.
>Scopo del CM: il superamento della crisi e l’apprendimento dalla crisi al fine di evitare il reiterarsi dell’evento.
>FASI DEL CM:
*Research (fase pre-crisi) Analisi delle aree di vulnerabilità dell’azienda e monitoraggio dei segnali. Redazione dei
documenti formali ed elaborazione dei piani di crisi/di intervento programmato apprestando procedure, strumenti,
risorse e responsabili della comunicazione
*Response (fase di crisi). Il cm team prende le decisioni sui messaggi da rivolgere ai pubblici di riferimento e
stabilisce contenuti e tempi. Obiettivo rassicurare e informare, ridurre l’impatto sulla reputazione, contemperare il
rischio legale collegato alle esternazioni.
*Recovery (fase di recupero) Comunicazione fine della crisi, si propone un rilancio. Si apprende
CRISIS COMMUNICATION: “L’insieme delle attività di comunicazione di un'organizzazione al momento in cui la crisi si
manifesta” (Muzi Falconi, 2003). *Processo che coinvolge non solo i fatti ma anche opinioni e valori.
*In altri termini, deve affrontare sia il lato razionale e tecnico- scientifico dell’evento negativo, sia il lato emotivo
della reazione degli interlocutori e provare a creare un rapporto di fiducia, nonché interattivo fra chi gestisce
l’evento e chi vi è esposto. Si pensi all’impatto dei social media (monitoraggio dei social network). Necessario
Assumere la leadership e la posizione di riferimento nell’informazione di emergenza che coinvolga l’azienda).Per tutti
i pubblici, i social media forniscono supporto emotivo dopo le crisi, consentendo ai cittadini di riunirsi virtualmente,
condividere informazioni e rispondere alle domande: Aspetti positivi: i social media sono in grado di promuovere
l’informazione e il dialogo in tempo reale tra gruppi. Danno la possibilità alle aziende di assumere una voce umana e
colloquiale. Si tratta di uno strumento in più per la gestione della reputazione e per la valorizzazione del brand.
Aspetti negativi: i social riducono la capacità di controllo delle organizzazioni sull’informazione. Questa mancanza
organizzativa di controllo ha aumentato la vulnerabilità delle organizzazioni e di conseguenza la frequenza e la
gravità delle crisi aziendali.

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Abbiamo visto fino finora che l'impresa può essere considerata come sistema sociotecnico ossia composto di risorse
umane, materiale che immateriale soprattutto, risorse di conoscenza, risorse tecniche quindi macchinari e strutture.
Abbiamo detto anche che l'impresa è vista come un sistema aperto in costante relazione nei confronti dell'esterno.
Abbiamo inteso anche l’impresa come sistema cognitivo che si sviluppa tramite processi di creazione e diffusione
della conoscenza. Tramite l’analisi dei fini imprenditoriali abbiamo visto che l’azienda come sistema sociale perché
ha un’importantissima ricaduta nell’ambito del contesto in cui opera. L’impresa è in costante e continuo
collegamento nei confronti dell’esterno; è costituita da gruppi interni e ha continue relazioni con i gruppi sociali che
si trovano all’esterno che hanno diverse caratteristiche. L’impresa si caratterizza come il centro di un sistema di
relazioni. La visione sociale dell’impresa ha a che fare con la logica del sistema economico e sociale. L’impresa si dice
essere un sistema economico e sociale a cui prende parte una pluralità di attori che devono essere guidati tra un
giusto equilibrio tra obiettivi di carattere economico e responsabilità sociali.

Stakeholder: portatore di interessi.


L’impresa è al centro di una serie di rapporti con differenti gruppi sociali. I gruppi sono portatori di interessi che
influenzano direttamente e indirettamente la vita decisionale dell’impresa.
Ci possono essere diversi gruppi di portatori di interessi (gruppi politici, i dipendenti, i clienti, i proprietari, i gruppi di
opinione, istituzioni finanziare etc). Tutti questi gruppi generano delle influenze.
L’impresa secondo la teoria degli stakeholder diviene una organizzazione economica che è legata al complesso di
interlocutori esterni ed interni i quali mediante una combinazione di risorse svolge processi di acquisizione e
produzione di beni e servizi allo scopo di creare e distribuire valore tra tutti i partecipanti.
La composizione e il ruolo che possono gli stakeholder assumere dipenda da una moltitudine di fattori dell’impresa.
Si deve cercare di comprendere chi sono questi gruppi portatori di interesse (individuazione degli stakeholder), la
conoscenza dell’interesse degli stakeholder e quali opportunità questi portatori di interesse creano per
l’imprenditore, quale responsabilità ha l’impresa verso questi portatori di interesse e quali strategie l’impresa
dovrebbe adottare in merito agli stakeholder.

-individuazione dei gruppi di interesse: ci sono tre fattori fondamentali che permettono di individuare in maniera più
precisa quali sono gli stakeholder con cui confrontarsi:

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 il potere: il ruolo che lo stakeholder ricopre all’interno della società. Ad esempio gli
ambientalisti.
 Legittimazione: è molto importante capire qual è il riconoscimento della funzione di
rappresentanza che quel gruppo di portatore di interesse ha.
 Attualità/qualità ? dell’interesse

Gli stakeholder vengono classificate in funzione delle reazioni che possono avere nei confronti dell’impresa. Abbiamo
quattro classificazioni
1. Stakeholder amichevoli: alta collaborazione
2. Stakeholder avversari: bassa collaborazione
3. Stakeholder non orientati
4. Stakeholder marginali: non hanno peso nei confronti dell’impresa.
Questi sono stakeholder che non sono legati da relazioni dirette con le imprese (stakeholder di tipo secondario). Tra
gli stakeholder di tipo primario non vi possono essere stakeholder marginali o non orientati.
In questi quattro gruppi possiamo evidenziare anche i tipi di minaccia, alta o bassa, che possono avere questi
stakeholder nei confronti dell’impresa:
1. Non orientati: minacce alte, l’impresa deve cercare di collaborare con loro
2. Amichevoli: minacce basse, l’impresa deve attuare maggiore coinvolgimento nei confronti di questi gruppi.
3. Avversari: minaccia elevata, la strategia deve essere quella di difesa.
4. Marginali: minaccia massa, la strategia deve essere quella di monitorare i gruppi.

Esiste un rapporto particolare relazione tra chi governa l’impresa e chi è proprietario. Questa relazione si basa su un
rapporto fiduciario che può trovare un momento di interruzione nel momento in cui il manager non risponde agli
interessi della proprietà.

La teoria dell’agenzia:
Richiama la situazione in cui il potere di amministrazione aziendale è esercitato da un agente. Questo ruolo fiduciario
genera un rapporto di delega. Si viene a creare una situazione singolare che tende a ridurre il carattere residuale
della remunerazione della proprietà.

LE FINALITA’ IMPRENDITORIALI E LA TEORIA DEL SUCCESSO SOCIALE:


Una figura centrale per la conduzione dell’impresa è l’imprenditore, perché le finalità che persegue non possono non
condizionare quelle degli altri soggetti interni ed esterni. Sulle finalità del soggetto economico si può condividere una
diversità di interpretazioni, le distinzioni di maggior rilievo sono due, le finalità dell’imprenditore di tipo “classico” e
quelle dell’imprenditore delegato (manager professionista) che detiene il potere di gestione senza la proprietà.
Esistono 6 teorie riguardo alle finalità imprenditoriali:
1)Teoria della massimizzazione del profitto

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2)Teoria dello sviluppo e della sopravvivenza
3)Teoria della creazione e della diffusione del valore
4)Teoria manageriale dello sviluppo dimensionale
5)Teoria dei limiti sociali alla massimizzazione del profitto
6)Teoria del successo sociale
7)Teoria della mobilità

1)La teoria della massimizzazione del profitto


Il profitto è un’entità composita in cui rientrano quattro differenti visioni:
-Una prima elaborazione teorica considerai l reddito quale corrispettivo che spetta a colui che coordina l’impiego dei
vari fattori di produzione (categoria economica affine al salario, rendita e all’interessi, che rappresentano i compensi
destinati al lavoro, terra e capitale.
-Un’altra teoria pone in evidenza che il profitto va considerato come la quota destinata a ripagare il rischio corso
nell’attività aziendale, cioè come un vero e proprio premio di assicurazione per l’investimento del capitale.
-Secondo l’impostazione Schumpeteriana, il profitto è si un premio, ma un premio che spetta a colui che promuove
l’innovazione. Schumpeter parte da una distinzione dei ruoli dell’investitore e dell’imprenditore, il profitto non
rappresentava per egli una categoria stabile nella vita aziendale, ma si legava a particolari circostanze di mutamento
dei prodotti, delle strutture, delle procedure tecnologiche ecc..
-Un’ultima impostazione dottrinale tende a spiegare l’origine del profitto in funzione dell’imperfezione del mercato,
cioè quale risultato dell’acquisizione di posizioni monopolistiche rispetto agli altri produttori.
Queste 4 visioni sono complementari più che alternative, il profitto può essere considerato un’entità composita, in
cui rientrano il compenso per il lavoro imprenditoriale, il premio per il rischio, la contropartita dell’innovazione e la
rendita connessa con la posizione monopolistica.
Si può dire che il profitto poi, non è suscettibile di essere messo in dubbio, né perde di ragione la sua esistenza in
rapporto alla natura giuridica della proprietà (profit, no profit) o al tipo di economia. Quello che si può invece
mettere in discussione è la misura secondo cui dovrebbe essere lucrato e soprattutto, la sua destinazione.
Secondo la costruzione teorica classica i comportamenti del gruppo imprenditoriale
sono difatti orientati al conseguimento del maggior divario positivo fra i ricavi ed i costi di gestione. La logica delle
scelte assunte dagli organi di governo, sarebbe quella di massimizzare il risultato reddituale ottenibile dall’attività
aziendale, cioè di adottare sempre la scelta suscettibile di produrre il maggior reddito.
Questa teoria, convincente in astratto, incontra però dei limiti sul piano pratico:
-innanzitutto la sua applicazione richiede precisazione di alcune condizioni di tempo e di rischio: quale profitto?
Quello di un esercizio, di due, di una specifica operazione o di un complesso di operazioni?
Da ciò deriva che per conferire un valore operativo alla teoria è necessario introdurre un fattore tempo: time-
preference ed il fattore di rischiosità uncertainty condition.
Se ad esempio ciò che l’imprenditore vuole massimizzare è il risultato della gestione nel lungo andare, al limite della
gestione durante tutta la vita dell’impresa, allora tale obbiettivo potrebbe essere sacrificato nel breve termine ad
altri scopi, ma con l’intento di raggiungerlo nel tempo lungo. In quest’ottica si potrebbe giustificare una politica di
vendita di beni o servizi prodotti a prezzi di costo inferiori al costo, intesa a far conquistare un’ampia porzione di
mercato e a far recuperare successivamente le quote sacrificate. Comportamenti che, dunque, possono sembrare
contrari al perseguimento del massimo profitto, visti in un’ottica più ampia, risultano invece aderire a tale
motivazione. Le principali obiezioni della teoria non riguardano solo il fattore incertezza, ma anche la necessità di
rispondere alle esigenze di tutti i gruppi sociali con cui l’impresa viene in contatto. Il profitto è sicuramente un
obiettivo di fondo se si vuole assicurare la sopravvivenza e lo sviluppo dell’impresa, ma può in realtà essere
considerato solo come, uno degli elementi rientranti nelle finalità imprenditoriali.

2) La teoria dello sviluppo e della sopravvivenza aziendale


il punto più consistente di critica alla teoria della massimizzazione è stato avanzato dagli economisti sociali, i quali
hanno rilevato che essa non regge più a causa della dissociazione fra livello di proprietà e di governo dell’impresa.
Mentre i proprietari potevano essere interessati ad ottenere il massimo profitto dell’impresa, i dirigenti sono
preoccupati in primo luogo della sopravvivenza dell’organizzazione.
Secondo la teoria Il fine del gruppo imprenditoriale è quello di assicurare la continuità dell’organismo aziendale: il
profitto è il mezzo per irrobustire la struttura patrimoniale dell’impresa. Questa teoria, cui si collega quella della

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“massima sicurezza” di Marris, ha trovato uno dei principali sostenitori nel Drucker, il quale ha proposto di misurare
il raggiungimento di tale finalità mediante 5 aspetti fondamentali:
1)Posizione occupata nel mercato; cioè il rapporto di forza o di debolezza nei confronti della concorrenza
2)Innovazioni; cioè la capacità di adeguare costantemente le tecnologie utilizzate e i prodotti realizzati
3)Risorse umane; in base quindi alla professionalità del personale
4)Risorse finanziarie; la disponibilità di mezzi da impiegare nel finanziamento degli investimenti e del capitale
circolante
5)Redditività, fonte dello sviluppo e dell’incremento di patrimoniali dell’impresa.
>Nella teoria l’esigenza primaria è quella di realizzare un livello stabile di profitto che consenta all’impresa di non
incorrere in rischi eccessivi e di destinare risorse sufficienti all’autofinanziamento. All’accrescersi di quest’ultimo si
riduce infatti la dipendenza da fonti esterne di finanziamento, e si amplia conseguentemente l’autonomia del gruppo
manageriale.

3)La teoria della creazione e diffusione del valore


Con questa teoria si è compiuto un salto sostanziale nella teoria dell’impresa, perché la finalità della creazione del
valore risponde agli obiettivi di tutti i partecipanti dell’impresa.
La teoria del valore sostiene, che la finalità da assegnare alla gestione è quella di far crescere il valore economico
dell’impresa. Con essa la visione dei risultati aziendali è orientata al futuro, non conta quindi il differenziale positivo
tra ricavi e costi (ossia i profitti) ma la potenzialità di produrre sempre risultati migliori.
Chi gestisce l’impresa dovrebbe pensare a creare valore e a diffonderlo nel mercato attraverso le quote azionarie.
Nel contesto italiano la teoria si riferisce opportunamente alla massimizzazione del valore economico del capitale.
Nella pratica nordamericana, questa teoria, riferita alle public company, postula la massimizzazione del valore del
capitale azionario (capitalizzazione in base al corso dell’azione)

4) Teoria manageriale dello sviluppo dimensionale:


Secondo questa teoria, i manager sono più interessati all’espansione dell’impresa perché quest’ultima si traduce in
un irrobustimento dell’organizzazione (garanzia di sopravvivenza) e nell’assunzione di una maggiore forza nei
confronti della concorrenza e nell’incremento delle retribuzioni ai livelli più elevati di direzione. Di conseguenza, con
lo sviluppo dimensionale si riuscirebbero ad ottenere simultaneamente obiettivi di stabilità, di prestigio e di
miglioramento economico. Quindi, al posto della crescita del profitto si sostituisce quella del fatturato quale
obiettivo primario della conduzione aziendale. Questa è la tesi di Baumol, secondo il quale massimizzare le vendite
significa massimizzare il fatturato e non necessariamente le quantità fisiche del venduto. Questo vuol dire che
l’obiettivo da raggiungere si concreta nella combinazione, tra quantità da vendere e prezzi di vendita, che massimizzi
il volume d’affari dell’azienda. Vi è poi un legame con l’autofinanziamento: l’impresa per crescere deve promuovere
processi d’investimento di risorse addizionali, è più realistico collegare questi processi alla creazione di
autofinanziamento mediante il reinvestimento del profitto. Per i sostenitori della teoria della massimizzazione del
profitto lo sviluppo delle vendite dovrebbe essere un mezzo per ottenere il massimo profitto, per quelli della teoria
dello sviluppo dimensionale la crescita sarebbe l fine, mentre la massimizzazione del profitto costituirebbe il mezzo
per conseguirla.

5) Teoria dei limiti sociali al massimo profitto:


In ogni impresa possono esserci situazioni potenziali di conflitto di interesse. Le contrapposizioni possono avvenire
nei confronti di forze esterne (fornitori, produttori, finanziatori e tra gruppo interni (proprietari, dirigenti). Rispetto
all’esterno i conflitti possono sorgere per vari motivi: prezzo e modalità di vendita, politiche concorrenziali nei
confronti degli altri venditori ecc.. Per quanto riguarda l’interno le modalità di distribuzione dei ricavi fra le varie
categorie sociali legate alle aziende.
La situazione cooperativa-conflittuale è strumentali ai fini della dimostrazione dei limiti della teoria della
massimizzazione del profitto. La contrapposizione d’interessi può essere interpretata in termini di costi e di ricavi,
cioè analizzando l’equazione del profitto e rilevando quali sono i condizionamenti sociali che si oppongono
all’ottenimento, da parte dell’imprenditore, del massimo reddito.
I gruppi sociali in relazione diretto con l’impresa possono essere così individuati:
G.1) consumatori o utilizzatori dei beni o dei servizi prodotti
G.2) concorrenti
G.3) forzo di lavoro occupate nell’impresa
G.4) fornitori di bene e di servizi (compresi impianti e macchinari)
G.5) finanziatori
G.6) distributori commerciali

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G.7) organi della pubblica amministrazione
G.8) conferenti il capitale di proprietà dell’azienda.

I gruppi indicati svolgono un ruolo attivo nei confronti dell’impresa e ciascuno genera influenze sulla misura del
profitto.
L’imprenditore tenta di massimizzare il risultato economico di gestione: per fare ciò deve ampliare i ricavi e/o ridurre
i costi in modo da far crescere il profitto. A tale scopo, egli può promuovere delle innovazioni nei prodotti, nelle
tecnologie e nei mercati, oppure può tentare di modificare l’equilibrio esistente senza adottare processi innovativi.
Per questo ragionamento dobbiamo fare tre ipotesi:a
1. Dobbiamo essere in una situazione di stabilità dei rapporti prodotti/mercato
2. Dobbiamo ipotizzare che l’impresa tratti un unico prodotto, diversamente bisognerebbe estendere il
ragionamento costi/ricavi con un’altra incognita rappresentata dalla variazione della composizione interna
del mix di prodotti.
3. Dobbiamo escludere l’ipotesi che l’azienda debba obbligatoriamente distribuire un dividendo agli azionisti.

Partendo da queste ipotesi (molto semplificatrici della realtà) possiamo osservare che l’imprenditore, se vuole
aumentare i ricavi, deve tentare di influire su due variabili: il prezzo e la quantità dei beni venduti.
Ma un rialzo del prezzo incontra l’opposizione dei compratori, i quali possono rinunciare all’acquisto del bene
rivolgendosi ad altro fornitore, oppure ridurre la quantità domandata e far contrarre il volume globale dei ricavi
quindi questa possibilità risulta limitata.
Rimane la strada dell’incremento delle quantità da far assorbire al mercato. questa via però, crea reazioni da parte
dei concorrenti, le cui azioni potrebbero portare ad una compressione dei ricavi complessivi dell’impresa, quindi
anche questa via risulta limitata.
Volendo operare sui costi, una variazione può essere ottenuta per due vie: l’abbassamento del costo unitario o
l’impiego di una minore quantità di risorse. Sotto al primo aspetto, si tratta di ridurre la remunerazione del lavoro, i
prezzi pagati ai fornitori, gli interessi corrisposti ai finanziatori etc..ma nessuna variazione è possibile per le aliquote
impositive fissate dalle pubbliche autorità. Per quanto riguarda il costo unitario, l’imprenditore trova delle naturali
opposizioni nei gruppi sociali dei lavoratori, dei finanziatori e dei distributori.
Ci sono altre possibilità di incremento del profitto senza scatenare reazioni da parte di gruppi sociali? la risposta può
essere positiva se cade una delle condizioni poste a base del ragionamento, cioè della ripetitività degli stessi
comportamenti nel tempo. E’ intuibile che solo mediante l’innovazione l’imprenditore può aspirare a migliorare o
almeno difendere la propria posizione reddituale. Dobbiamo esaminare quindi 2 voci di costo: i costi organizzativi e i
costi di ricerca e sviluppo. I primi si riferiscono all’analisi, progettazione e controllo e adattamento delle strutture,
procedure e tecniche di lavoro e direzione; mentre i secondi sono relativi all’individuazione di nuove opportunità
tecnologiche o di mercato, alla creazione dell’immagine, all’avviamento commerciale. In corrispondenza di questi
costi non vi è un particolare e forte gruppo sociale. Le due voci vanno considerate sotto due aspetti:
1. Quali costi sganciati da un vero e proprio gruppo sociale, e in quanto tali, non comprimibili con minore
difficoltà da parte dell’impresa.
2. Quali fattori di economicità e di maggior ricavo per l’impresa, e in quanto tali, non comprimibili se non a
pregiudizio della produttività e della redditività aziendale di lungo periodo. Accade di fatto che nei periodi di
crisi sono gli unici costi ad essere tagliati in quanto ritenuti non strettamente necessari.
Da tale ragionamento si possono trarre tre conclusioni:
1)L’equilibrio tra costi e ricavi aziendali è difficilmente modificabile in assenza di innovazioni nella gestione.
2)Le innovazioni richiedono il sostenimento di costi che sono solitamente tagliati in periodo di crisi aziendali
3)Il profitto è una quantità residuale che risente delle situazioni di crisi, data la rigidità delle altre grandezze
economiche e l’assenza di processi innovativi.
E’ possibile concludere che il reddito è un risultato che deriva da accordi di cooperazione o dalla composizione di
conflitti interni ed esterni e che la sua misura non è mai liberamente determinabile dall’imprenditore. Il fine del
massimo profitto diviene così, il fine del massimo profitto condizionato.
La teoria dei limiti sociali al massimo profitto pone così meglio in rilievo l’aspetto conflittuale dell’organizzazione
aziendale, che è una coalizione di tipo particolare poiché fra i suoi componenti intercorre un duplice rapporto di
collaborazione-contrapposizione.
IMPORTANTE: la massimizzazione del profitto incontra due vincoli: i primi sono quelli sociali, i secondi sono i limiti di
conoscenza in ordine all’evoluzione dell’ambiente e dei mercati (ragion per cui l’obiettivo nelle singole scelte e
quindi della gestione intera, sarebbe quello di individuare, per ciascun problema, le alternative soddisfacenti
piuttosto che quelle ottimali)

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6) La teoria del successo sociale
Il concetto di valore necessita di avere un contenuto più ampio e di non essere confinato solo al campo economico:
l’imprenditore è mosso soltanto da interessi economici, oppure come tutti gli altri individui, tende a raggiungere
anche traguardi appartenenti alla sfera sociale? Se così fosse è possibile raggiungere una condizione ottimale tra
questi due ordini di finalità?
Le finalità che spingono un individuo, da solo o con altri soggetti, a promuovere la costituzione di un’impresa e a
svilupparne nel tempo l’attività possono essere comprese richiamando alla scala dei bisogni di Maslow (1.bisogni di
sopravvivenza 2.di sicurezza 3.di socialità 4.di affermazione 5.di autorealizzazione)
Secondo questa impostazione le finalità dell’imprenditore appaiono, in ordine crescente d’importanza, quelle di
assicurare la sopravvivenza dell’impresa, di affermarsi nell’ambito della classe sociale di appartenenza e di assumere
posizioni di preminenza nella comunità. L’imprenditore secondo tale teoria tenderebbe al successo, il quale sarebbe
rappresentato dai risultati raggiunti dall’impresa e dal ruolo che, con essi, si riuscirebbe a conquistare rispetto ai
concorrenti e più in generale all’interno della comunità. Pertanto, il fine economico può divenire anche n mezzo per
il raggiungimento di obiettivi morali e sociali. È ipotizzabile che l’imprenditore abbia come obiettivo fondamentale
quello di avere un’impresa forte, in grado di svilupparsi e di assicurargli il rispetto e l’ammirazione nella cerchia
ristretta in cui opera e in quella più ampia della collettività nella quale l’impresa attua la sua specifica operatività.
Si possono quindi individuare e ordinare le finalità imprenditoriali, con la combinazione delle 3 “P”, PROFITTO,
POTERE, PRESTIGIO, rappresentativa del successo sociale:
PRESTIGIO: è il traguardo di più elevato valore, ossia il punto di arrivo dell’attività imprenditoriale.
Il POTERE di mercato è in posizione strumentale, insieme al PROFITTO, che consente all’impresa di svilupparsi
rispetto alla concorrenza con il fondamentale equilibrio economico. Il mix tra valori economici ed etici tende a
modificarsi in rapporto all’orizzonte delle scelte aziendali e quindi all’elevarsi di grado delle finalità da raggiungere.

Recap finalità imprendotoriali:


Vi sono tre situazioni che sono le più rilevanti per la caratterizzazione di una moderna teoria sulle finalità
imprenditoriali:
a) L'imprenditore visibile e strettamente integrato nell'impresa, al quale sembrerebbe potersi applicare la teoria del
"successo sociale"

b)L'imprenditore meno visibile e meno integrato, a cui apparirebbe meglio riferibile la teoria della massimizzazione
del valore economico dell'impresa nel tempo lungo.

c) L'imprenditore delegato (manager) al quale sarebbe applicabile quella che potrebbe essere definita come la teoria
della mobilità, in quanto spesso il successo dell'impresa dovrebbe, attraverso la mobilità, consentirgli di accrescere
l'affermazione sociale.

La conclusione è che la soluzione di dilemmi morali, sono propri di sistemi di interessi differenziati, sulla base di
principi che attingono anche al campo dell'etica aziendale, si rivela, oggi, quale fattore caratteristico di una superiore
interpretazione della funzione imprenditoriale. Infatti, dalla teoria del successo sociale, si giunge alla conclusione che
la conduzione aziendale dev'essere qualificata in senso etico, perché il prestigio nella società si acquista mediamente
un comportamento corretto moralmente, quindi introducendo l'etica nell'impresa.

APP: LA STORIA DI ADRIANO OLIVETTI ED IL SUO MODELLO DI FABBRICA


Figlio di Camillo, ingegnere elettrotecnico che, nel 1908, fondò a Ivrea la prima fabbrica nazionale di macchine per
scrivere, Adriano si laurea in chimica industriale al Politecnico di Torino e, nel 1924, inizia l'apprendistato come
operaio nell'azienda di famiglia. Al ritorno da un viaggio negli stati Uniti dove studia i metodi produttivi e
l'organizzazione aziendale delle fabbriche americane, l'imprenditore piemontese decide di impegnarsi in un processo
di internazionalizzazione e modernizzazione della ditta del padre, ripensandone la struttura organizzativa alla luce di
un modello di impresa «che persegua in modo integrato elevate performance economiche e sociali, che agisca
concretamente per proteggere e sviluppare l'integrità degli stakeholder e dell'ambiente fisico, economico e sociale,
che abbia condotte eticamente Integre»
Il modello Olivetti nasce dalla lungimiranza di Adriano e dalla sua scelta di investire nei talenti e nei giovani laureati -
capaci di garantire creatività, nuove energie e persino quella ventata di incoscienza necessaria per la costruzione di
progetti di natura sperimentale. Le attività di formazione consentivano ai dipendenti più meritevoli di progredire
nella carriera interna. E senza dimenticare che Olivetti, assieme ad ENI, è stata la più grande scuola di management
in Italia. Poi accadde che un geniale operaio, Natale Capellaro, inventò la "Divisumma 24", calcolatrice rivoluzionaria,
capace di conquistare il mondo e assicurare i profitti necessari per finanziare le diverse attività dell'azienda. Il sapere

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scientifico e tecnologico, nella visione di Adriano Olivetti, richiedeva il sostegno di altre discipline, che avrebbero
migliorato la funzionalità e l'estetica dei prodotti e dei luoghi di lavoro, nonché le condizioni di vita dei lavoratori:
design, architettura, grafica, logistica, sociologia, medicina del lavoro cultura in senso estesa azienda pubblicava libri
e riviste scientifiche e culturali di alto valore finanziava periodici culturali, ospitava dibattiti e mostre d'arte. Olivetti è
stato non soltanto un manager innovatore, ma un finissimo intellettuale che guardava ben oltre la sua epoca, in un
approccio complesso, multidimensionale; aveva compreso come il mondo del lavoro andasse inquadrato senz’altro
in un ruolo forte, ma in un contesto più organico. Aveva, ad esempio, capito fino a che punto la vivibilità del contesto
lavorativo dovesse giocare una parte fondamentale di quanto oggi la comunità scientifica identifica nel più ampio
concetto di qualità della vita. E aveva compreso appieno la valenza politica del suo approccio

_______________________________________________________________________________________________
LE FUNZIONI DELL’IMPRESA E LE FINALITA’ IMPRENDITORIALI:
l’impresa può essere vista come fenomeno secondo diverse prospettive:
-prospettiva che considera l’impresa una organizzazione economica in quanto tale è un’organizzazione che deve
soddisfare i bisogni umani mediante la messa a frutto di risorse che sono rinvenibili in natura in misura limitata.
Ciascuna impresa deve soddisfare i bisogni della propria clientela e secondo un principio economico sociale generale
di divisone e frazionamento del lavoro ciascuna impresa si specializza in un determinato ruolo lasciando alle altre
imprese di specializzarsi a loro volta.
-prospettiva che considera l’impresa come sistema sociale. In quanto tale il punto di riferimento sono tutti i gruppi di
interesse che all’interno dell’impresa devono trovare una remunerazione attraverso la capacità della stessa impresa
di creare valore e distribuirlo tra i partecipanti. Tramite questo processo di creazione e distribuzione l’impresa
rimane come organismo vivente.
-prospettiva che vede l’impresa come struttura patrimoniale. La prospettiva di riferimento è quella dell’imprenditore
ossia di chi apporta il capitale e la propria capacità imprenditoriale. L’impresa viene quindi considerata come un
complesso di beni chi è organizzato nello svolgimento di processi produttivi finalizzati alla produzione di reddito. La
capacità di remunerare il capitale e la capacità imprenditoriale diventa un elemento preminente.
Queste diverse prospettive non sempre sono alternative tra di loro ma presentano elementi di complementarità,
anche se a seconda di una serie di condizioni una prospettiva rispetto alle altre potrebbe essere preminente. Ci
dovrebbe essere tuttavia un ordine di priorità che tiene conto della ampiezza dell’interesse di riferimento.

Un altro aspetto importante è quello della definizione delle finalità di questa organizzazione imprenditoriale. Perché
un’azienda si crea? Perché esiste? Perché si organizzano i fattori di produzione e poi si passa al governo
dell’organizzazione?
Un’impresa di per se non ha un sistema di fini. L’impresa in quanto sistema sociale non ha dei propri fini se non nella
misura in cui si analizzano le prospettive differenti delle finalità dei singoli individui, cioè di coloro che apportano
capitale e governano l’impresa.

Le caratteristiche dell’imprenditore.
A seconda di determinate condizioni l’imprenditore assume caratteristiche differenti. Dobbiamo quindi analizzare al
problema della dissociazione tra proprietà e governo dell’impresa:
- Imprenditore delegato (imprese a conduzione manageriale): il Management risponde alla funzione
imprenditoriale e la proprietà del capitale resta diffusa tra gli azionisti.
- Imprenditore classico (impresa piccola e medie dimensioni a conduzione familiare): proprietario del capitale
imprenditoriale e allo stesso tempo è anche colui che governa l’impresa.

Teoria della massimizzazione del profitto:


Secondo la teoria economica classica il profitto viene considerato come il compenso che spetta all’imprenditore per
l’organizzazione dei fattori di produzione. Questo premio può essere definito in maniera differente. Può essere
definito come premio per il rischio (in situazione di investimenti), viene considerato come premio per l’innovazione
(si fa riferimento all’impostazione schumpeteriana, da Schumpeter, che mette in evidenza come il profitto possa
essere caratterizzato come quella particolare forma di remunerazione nei confronti della capacità dell’imprenditore
di rinnovare continuamente i prodotti, le strutture, le procedure tecnologiche.
Il profitto può essere considerato come il corrispettivo dell’imprenditore per la messa a frutto di quelli che sono i
fattori produttivi.
La quarta prospettiva fa derivare il profitto dalle imperfezioni del mercato, cioè nel caso di assunzioni monopoliste da
parte dell’impresa.
La posizione più diffusa è quella che vede il profitto come la remunerazione del rischio da parte dell’imprenditore.

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Dobbiamo mettere in evidenza poi altri aspetti del profitto. Il profitto, che altro non è che la differenza tra flusso di
ricavi e flusso di costi, va definito anche facendo riferimento a due elementi: fattore tempo e fattore rischio. Con
quale riferimento di tempo si analizza questo profitto? In riferimento al rischio l’imprenditore può decidere di
investire in certe attività in funzione della capacità di reddito tenendo conto dei rischi a cui può andare in contro. Il
profitto che quindi può essere massimizzato è quello che tiene conto delle caratteristiche di tempo (breve, medio o a
lungo termine) e di rischio (basso o alto).

Teoria comportamentistica o dei limiti sociali alla massimizzazione del profitto:


Va fatta una premessa: l’impresa vista come organismo sociale (si caratterizza per la presenza di gruppi all’interno e
all’esterno) e che si caratterizza per un problema gestionale (governare le diverse aspirazioni dei gruppi interni ed
esterni all’impresa). Se la massimizzazione del profitto non è altro che l’orientamento verso un incremento del
divario tra ricavi e costi, per incrementare questo profitto si deve operare sulle due diverse leve, ovvero o quella dei
ricavi o quella dei costi. La massimizzazione del profitto incontra quindi dei limiti sociali, dovuti al conflitto di interessi
che esistono tra i diversi interlocutori dell’impresa (in questo caso si parla di massimo profitto condizionato) e limiti
di conoscenza (la conoscenza non può mai essere tale da poter spingere verso una massimizzazione effettiva del
profitto).
Se facciamo leva sui ricavi l’imprenditore potrebbe cercare di aumentare il profitto facendo leva sull’incremento
delle vendite con riferimento alle quantità vendute o ai prezzi di vendita. La possibilità di spingere sulla leva del
prezzo si scontra da una parte con la disponibilità a pagare del consumatore, cioè la tendenza della domanda
rispetto alle modifiche di prezzo. In particolare, si fa riferimento al principio di elasticità della domanda. I clienti
potrebbero quindi trovare un prodotto alternativo. Ma anche i concorrenti in confronto ad una modifica dei prezzi
potrebbero adottare a loro volta delle scelte che potrebbero ripercuotersi su un decremento della domanda da parte
dell’impresa. Quindi quando si fa leva sul prezzo ci si trova davanti alle resistenze da parte dei consumatori e dei
concorrenti. La stessa cosa vale per le quantità. Un incremento delle quantità vendute a parità di prezzo si tratta di
sottrarre delle quote di mercato ai propri concorrenti. Le aziende concorrenti potrebbero abbassare a loro volta le
quantità/ il prezzo (battaglia del prezzo).

Le componenti di costo:
Il costo del lavoro trova una tutela molto forte, quindi, è molto difficile aumentare il profitto facendo leva su un
taglio del costo del lavoro (ciò è verificabile solo in situazioni di crisi ma non per far crescere il profitto).
I costi di approvvigionamento sono tutelati in maniera molto forte dai fornitori. Chi si occupa della gestione
dell’impresa potrebbe aumentare il profitto cercando di diminuire i costi di approvvigionamento riducendo le
risorse, ma ciò comporterebbe una riduzione della quantità di produzione e ciò porterebbe ad una diminuzione dei
ricavi. Si può cercare di ridurne il costo unitario, in questo caso la resistenza è da parte dei fornitori che non hanno
interesse a ridurre i prezzi di vendita.
-I costi di organizzazione: sono quei costi che l’azienda sostiene per rinnovare, modificare il modello organizzativo. Le
imprese che vogliono evolvere devono innovarsi a livello organizzativo continuamente. Per fare ciò sono sempre
sottoposti a continui processi di ristrutturazione continua del modello organizzativo che genera dei costi. In questo
caso non c’è un gruppo di riferimento che tutela questo aspetto e che quindi si oppone. Ovviamente una
compressione dei costi di organizzazione limita i costi di organizzazione.
-I costi di sviluppo: si rivolgono invece allo sviluppo tecnologico. Anche qua non esiste un gruppo di riferimento che si
oppone ma anche qua una compressione dei costi di sviluppo pregiudica, nel medio e nel lungo termine, la
possibilità per l’impresa di garantirsi determinati livelli di sviluppo nel tempo.

Il profitto, quindi, è un profitto quindi limitato dall’impossibilità di poter manovrare liberamente i ricavi e i costi.
Quindi è una quota residuale che rimane alla fine e che serve a remunerare la proprietà.

Conclusioni:
-l’equilibrio tra costi e ricavi è difficilmente modificabile in assenza di modificazione della gestione. Per far crescere il
ricavo dobbiamo attuare processi di continue innovazioni.
-le innovazioni nell’organizzazione richiedono il sostenimento di costi che tuttavia sono ridotti in situazioni di crisi
aziendale.
-il reddito è un risultato che deriva da accordi di cooperazione interni o esterni la cui misura non è mai determinabile
dall’imprenditore.

Teoria del successo sociale:


Siamo sicuri che l’imprenditore sia mosso solo dall’interesse economico?

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Ciascuno di noi ha come riferimento una serie di determinati interessi che possono essere rapportati tradi loro
secondo un ordine scalare.
-Scala dei bisogni di Maslow: a livello più basso abbiamo dei bisogni di sopravvivenza, sicurezza, socialità, di
affermazione e di autorealizzazione.
L’obiettivo di fondo di un imprenditore è sicuramente il profitto. Ma potremo vedere che ne troveremo anche altri in
quando l’individuo tende al successo. L’imprenditore tende al successo e le sue finalità in ordine crescente sarebbero
quelle di assicurare ovviamente l’equilibrio economico, di affermarsi della classe sociale di appartenenza dell’azienda
e poi assumere posizione di preminenza nell’ambito della comunità. Parliamo quindi di leadership competitiva.
Esistono dei valori etici che si combinano con valori economici, questo in funzione della scalata che l’imprenditore
intende attuare. Questo aspetto non tocca solo l’imprenditore capitalistico ma anche quello manageriale. In questo
caso l’aspirazione del Management è quello di acquisire maggiore potere e prestigio, per rifletterlo anche su se
stesso (possibilità cosi di scalare i propri obiettivi). Le motivazioni dell’imprenditore tendono a variare. La
combinazione tra valori economici e etici dipende da diversi fattori:
-stadio di crescita dell’impresa
-dal grado di interazione che esiste
-visibilità del ruolo esercitato
-posizione morale dell’impresa

Teoria della sopravvivenza aziendale


Essa nasce all’interno di un contesto, quello degli economisti sociali, che mettono in evidenza come il massimo
profitto sia verificabile per una forte dissociazione tra proprietà e governo dell’impresa. L’impresa ha come fine
quello di garantire la continuità dell’organo aziendale. Cambia la relazione tra profitto e funzionamento dell’impresa.
Il profitto assume un ruolo strumentale rispetto alla continuità del funzionamento dell’impresa. Secondo questa
impostazione il management aziendale effettuerebbe le scelte con minor rischio per evitare di mettere a rischio la
sopravvivenza dell’impresa. Questo aspetto di massima sicurezza trova uno dei massimi sostenitore il quale ha
proposto di misurare il raggiungimento delle finalità sulla base di obiettivi. Con questo vogliamo quindi intendere che
la sopravvivenza dell’impresa è legata alla posizione che riesce ad occupare nel mercato, alla capacità di innovazione,
alle caratteristiche delle risorse umane e finanziarie dell’impresa e alla capacità dell’impresa di produrre redditività.
Galbraith tocca lo stesso problema e mette in evidenza come la sopravvivenza garantisca l’autonomia della struttura.
Ciò avviene tramite il meccanismo dell’autofinanziamento: il profitto (che viene investito per l’azienda) diventa
l’elemento fondamentale per alimentare e finanziare i percorsi di crescita. Nella misura in cui l’azienda riduce il
livello di indebitamento e reinveste il profitto sottoforma di autofinanziamento riesce a garantire la propria
autonomia all’interno dei mercati.

Teoria sullo sviluppo dimensionale:


Secondo questa teoria la finalità principale è quella di far espandere l’impresa, far crescere il fatturato. L’espansione
dell’impresa diventa una garanzia di irrobustimento dell’impresa. Acquisisce maggiore forza rispetto alla
concorrenza. Secondo questa interpretazione le imprese mirano a realizzare il flusso di profitti che consente di
finanziare il massimo sviluppo. È il fatturato che diventa l’elemento di riferimento e il profitto, quindi, assume un
ruolo strumentare rispetto alla crescita. Il profitto garantisce alla impresa di autofinanziarsi e alimentare i percorsi di
sviluppo. Questa teoria si sviluppo all’interno di finanza aziendale e fa riferimento alla “teoria di crescita sostenibile”
che mette in evidenza come l’obiettivo si massimizzare la crescita in funzione della sostenibilità che è data dalle
caratteristiche della struttura finanziaria.
L’orientamento alla crescita non è divergente rispetto all’orientamento al profitto. L’orientamento alla crescita dei
ricavi è strumentale al raggiungimento di ottenere profitti maggiori. Una critica che può essere fatta a questa teoria
sta nel concetto di massimizzazione: i processi decisionali che vengono presi all’interno del sistema dell’impresa si
verificano in situazione di incertezza, non si può parlare allora di massimizzazione ma di profitto soddisfacente.

Teoria di diffusione e creazione di valore:


La finalità di creazione di valore risponde agli obiettivi di tutti i partecipanti. Tutti vogliono fa crescere il valore
economico dell’azienda. Per valore economico si intende la potenzialità di raggiungere risultati sempre maggiori.
Questa teoria, quindi, fa riferimento alla capacità ci creare valore economico e di diffonderlo. Un riferimento
fondamentale è quello che tiene conto della qualità totale ( total quality management). L’orientamento quindi verso
sistemi controllati, massima qualità dei livelli di servizio e massima soddisfazione della clientela. La logica della
qualità totale risponde all’esigenza di far crescere il sistema di risorse immateriali dell’impresa, è orientato verso il
miglioramento dell’immagine aziendale. Questa teoria è più accettabile della massimizzazione del profitto perché ha
come riferimento tutti gli interlocutori dell’impresa non solo l’imprenditore.

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Teoria della creazione del valore azionario:
Il contesto è quello delle public company in cui il management è volto a massimizzare la creazione di valore
azionario. Il risultato è quello di ottenere comportamenti che sarebbero finalizzati da parte del management alla
distribuzione dei dividendi e a far crescere il costo delle azioni commerciali. questa teoria si riferisce ad un contesto
specifico, quindi, non è traducibile a livello universale.

Quindi i comportamenti imprenditoriali fanno riferimento ad un sistema di finalità. Molto spesso l’immedesimazione
tra impresa e imprenditore spinge quest’ultimo a scelte che non sono prettamente economiche.

Precisazione: differenza tra fini e obiettivi:


-fini o finalità: sono generalizzabili e diversi contesti e hanno caratteri di permanenza nel tempo. Un fine può essere
comune a tutte le organizzazioni. Sta dietro i comportamenti.
-obiettivi: meta particolare che va definita in certe circostanze in relazione a determinati periodi di tempo.

CENNI INTRODUTTIVI SUI PROFILI DI GESTIONE SUI RUOLI DI GOVERNO NELL’IMPRESA:


Gestione: significa governo, si deve amministrare i vari fattori di produzione. Si deve assicurare lo sviluppo
dell’impresa attraverso le creazioni di equilibrio economico (tra costi e ricavi), equilibrio patrimoniale (rendimento
del capitale investito in azienda) ed equilibrio finanziario (l’impiego di capitale tra entrate e uscite). La gestione è un
complesso di attività svolte dall’impresa per raggiungere le finalità dei soggetti.

Bisogna distinguere all’interno della gestione dell’impresa un sistema di governo e un sistema operativo.
-sistema di governo: sistema per il quale è fondamentale stabilire le norme comuni di funzionamento di un sistema
di risorse umane, tecniche e finanziare.

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-sistema operativo: riguarda le modalità di esecuzione di tutte quelle operazioni mediante le quali l’impresa viene
costituita.

La gestione comporta un serie di decisioni che possono essere caratterizzate in modo diverse tra di loro: decisioni di
breve, medio e lungo periodo. Di lungo periodo, ad esempio, abbiamo le decisioni strategiche, le quali hanno un
rilevante impatto sul raggiungimento degli obbiettivi imprenditoriali, le scelte tattiche invece concernono le modalità
d’impiego delle risorse e le decisioni operative necessarie per dare corso all’attività produttiva. In ogni impresa
bisognerà decidere in quali mercati/settori operare, quali investimenti tecnologici compiere, su quali competenze
contare e quali funzioni attivare. L’imprenditore, quindi, è chiamato a definire una gerarchia della strategia secondo
un approccio sistematico, senza quindi sottovalutare la loro interrelazione interna e la stretta correlazione con
l’evoluzione dell’ambiente.
Le decisioni poi possono essere divise a seconda della possibilità di modifica nel tempo. Ci sono decisioni che non
possono essere modificate o revocate. Le decisioni possono essere distinte in funzione del livello organizzativo alle
quali saranno demandate. Si fa riferimento al processo di formulazione della decisione aziendale che è distinto da
due fasi diverse:
- Formulazione: parte dall’analisi per arrivare alla definizione tra diverse alternative di una possibile decisione.
- Implementazione: Traduzione della formulazione in azione.

La gestione dell’impresa si può configurare come un sistema di scelte di livello diverso.


Il sistema di scelte si configura secondo una gerarchia:
1. La scelta delle aree d’affari: è l’ambito competitivo di riferimento. L’area strategica all’interno di cui si opera.
La scelta è quella di definire il confine della strategia d’affari. (dove competere)
2. Le scelte delle modalità di competizione: la strategia competitiva. Una volta definito il confine dobbiamo
stabilire come acquisire vantaggi competitivi all’interno di quell’area d’affari. Scelte strategiche di business.
3. Le scelte relative alla produzione, al marketing, allo sviluppo, alla finanza, al personale, alla ricerca e
sviluppo: sono quelle scelte relative all’ambito funzionale e operativo.

Abbiamo poi una distinzione tra gestione strategica e operativa.


-Gestione strategica: secondo una definizione sintetica, che ha trovato ampio consenso in dottrina, la strategia è
destinata, in sostanza, a regolare i rapporti tra l’impresa e l’ambiente e a rispondere, di conseguenza, all’evoluzione
che si verifica nel macro e nel micro ambiente di riferimento. Scegliere una strategia significa stabilire come
affrontare le problematiche del mercato, su quali risorse poter contare, quali investimenti programmare, quali corsi
di azioni promuovere. Una strategia dovrebbe essere il frutto di un processo elaborato con la partecipazione degli
organi aziendali e tradotto in un disegno formalizzato e condiviso all’interno della struttura, ma ciò non accade in
tutti i casi.
-Gestione operativa: si occupa della scelta del sistema transazionale e del sistema di trasformazione. Per sistema
transazionale intendiamo tutte le funzioni coinvolte nello scambio di risorse con entità esterne. Per sistema di
trasformazione intendiamo le funzioni necessarie per ottenere la trasformazione delle risorse in prodotti idonei al
soddisfacimento di un determinato bisogno.

I soggetti decisori:
L’imprenditore: soggetto economico che decide di rischiare i suoi capitali e di dedicare le sue capacità professionali
alla produzione di beni e servizi da cedere a terzi. L’imprenditore secondo Schumpeter deve caratterizzarsi per una
serie di qualità:
- Capacità previsionale: capacità di anticipare gli andamenti di fenomeni nel futuro.
- Razionalità consapevole: consapevole dei limiti che la razionalità ha. La razionalità non può essere assoluta in
quanto i processi decisionali avvengono in ambienti fortemente incerti. Ciò nonostante, un buon
imprenditore fa approfondimento successivi. Combina quindi un processo di analisi e di intuito.
- Intuito:
- Spirito di iniziativa
- Forte impegno (“commitment” = impegno)
- Libertà intellettuale: capacità di modificare le regole del gioco, specialmente per il imprese che operano in
ambiti molto competitivo.
- Autorevole: grossa capacità di leadership

Un problema rilevante è la differenza tra imprenditorialità e managerialità.


- Imprenditore: colui che prende le decisioni perché rischia direttamente nell’impresa

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- Manager: traduce (in termini operativi) in realtà quelle che sono le decisioni con riferimenti relativi
all’impresa.
Il concetto dell’imprenditorialità è più legato al principio dell’efficacia mentre quello della managerialità ha a che
fare con il principio di efficienza.
Efficacia= capacità di realizzare obiettivi sempre maggiori. Un indicatore di efficacia è la quota di mercato (la
parte di mercato che viene governata dall’impresa rispetto al valore complessivo del mercato) mette in evidenza
lo stato massimo raggiungibile.
Efficienza= mette in relazione tra di loro gli obiettivi raggiungibili rispetto alle risorse che vengono investite per
raggiungere gli obiettivi.
Gli organi che prendono parte al processo decisionale sono:
- Organi di proprietà: azionisti
- Organi di amministrazione: consiglio di amministrazione
- Organi direzione: Management e dirigenti
Quello che è importante da mettere in evidenza è che l’analisi di questi organi deve essere fatta sulla base di
determinate caratteristiche. Da un lato esiste un’autorità formale rappresentato dall’organigramma ossia la carica
che ciascun organo ricopre sulla base dei compiti che sono stati assegnati sulla carta. Tuttavia, il processo decisorio
vede la partecipazione effettiva al sistema delle decisioni aziendale, dai diversi soggetti che partecipano, in funzione
di una serie di elementi che possono essere diversi rispetto a quello che risulta dall’organigramma aziendale. Un
organigramma è una rappresentazione statica di un sistema di organi che secondo una serie di poteri e
responsabilità dovrebbero partecipare al processo decisionale aziendale secondo quelli che sono i loro livelli
nell’organizzazione. Nella realtà dei fatti i soggetti partecipano al processo decisionale in maniera diversa, e ciò va in
base all’autorevolezza che i soggetti possono avere e che può essere molto differente dall’autorità formalizzata
all’interno di un organigramma. Gli elementi che caratterizzano questa autorità sostanziale sono:
- L’abilità professionale
- Effettiva disponibilità di informazioni
- Capacità degli individui di poter controllare le decisioni

LA GESTIONE STRATEGICA DELL’IMPRESA:

I profili della gestione aziendale:


Gestire l’impresa corrisponde a governarla, significa cioè amministrare i vari fattori di produzione e significa
assicurarle la sopravvivenza e lo sviluppo mediante la creazione di equilibri economici, patrimoniali e finanziari.
Una definizione più oggettiva di gestione è: complesso di decisioni e di attività svolte dall’impresa per raggiungere le
finalità dei soggetti coinvolti.

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Gli obiettivi fondamentali di governo sono da una parte l’efficienza produttiva dell’organizzazione, dall’altra la
promozione delle innovazioni. In sostanza la vita di qualsiasi impresa è caratterizzata da attività operative
prevalentemente ripetitive, fino a che non si dicesi di cambiare strategia.
La vita dell’impresa si sviluppa secondo un complesso di decisioni, da quelle che l’imprenditore assume all’atto della
costituzione quelle che debbono essere prese giorno per giorno per conferire l’impulso necessario all’attività di
gestione.
Al vertice del sistema ci sono le scelte di lungo termine, che possono essere definite strategiche, per distinguerle da
quelle tattiche, concernenti le modalità d’impiego delle risorse, e da quelle operative, necessarie per procedere
materialmente alla loro attuazione. In ogni impresa si viene così a delineare una gerarchia di scelte, che vedrà in
posizione prioritaria la scelta delle aree d’affari (strategia complessiva o corporate), in posizione intermedia la scelta
delle modalità di competizione in ciascuna area d’affari (strategia competitiva), e alla base della piramide le scelte
relative alla produzione, marketing, finanzia, personale, ricerca e sviluppo (strategie funzionali).

La gestione strategica e operativa:


La strategia definisce i rapporti con l’ambiente, ossia con il contesto generale in cui opera l’impresa, che comprende
il sistema politico-istituzionale, economico, culturale, sociale-demografico. La strategia poi, risponde all’obiettivo più
specifico di “scegliere” l’ambiente transazionale e competitivo di riferimento dell’azienda. L’ambiente transazionale
e competitivo può essere definito come il contesto dei rapporti di scambio che lega l’azienda ai gruppi con i quali
intreccia il suo sistema di contratti e che è formato da transazioni di ordini acquisitivo e di ordine realizzativo.
La gestione strategica è dunque la gestione tipicamente imprenditoriale, impostata su scelte di fondo riguardanti gli
obiettivi e l’impiego delle risorse aziendali. (ce ne occuperemo in questo capitolo).

La strategia e le politiche di gestione:


Durante la vita dell’impresa non sempre viene definito un quadro di sviluppo a lungo termine; non di rado infatti, la
gestione è orientata su periodi brevi di tempo (esercizio annuale) e si concentra sempre di più sulla ripetizione dei
comportamenti abituali che sull’innovazione. In tal modo si finisce per decidere guardando più alle condizioni interne
all’azienda che a quelle esterne di natura economica, politica e sociale. Un orientamento simile presenta un elevato
grado di rischio perché l’impresa, proprio per il modificarsi del quadro esterno, può trovarsi fuori o senza mercato.
Nei confronti dell’evoluzione dell’ambiente esterno, l’imprenditore può adottare 3 diversi atteggiamenti:

- 1)Atteggiamento di ATTESA, che consiste nell’aspettare che si verifichino i fenomeni evolutivi nel mercato o
nel più vasto contesto i cui questo è compreso per promuove, solo dopo che si sono chiaramente affermati,
gli opportuni adattamenti della gestione. Questo modello gestionale configura uno schema di
comportamento quasi esclusivamente ripetitivo, le azioni sono conseguenza di variazioni ambientali.
- 2)Atteggiamento ANTICIPATORIO, consiste nell’attuazione di uno sforzo constante di previsione di
mutamenti ambientali, allo scopo di prerealizzare in modo tempestivo e le necessarie modifiche nei
comportamenti di gestione. In questo modello di gestione il comportamento è razionale in cui le decisioni di
mutamento sono anticipate rispetto alle modificazioni.
- 3)Atteggiamento PROATTIVO, che si concreta nella promozione di azioni tendenti ad influenzare l’ambiente
nella direzione più favorevole allo sviluppo aziendale. Questo invece, si caratterizza come un modello di
sviluppo fondato sull’innovazione quale sforzo autonomo.
La distinzione più importante è quella tra il modello definito di attesa, qualificabile come “passivo” e gli altri due:
l’adozione di un atteggiamento del primo tipo denota la mancanza di un qualsiasi quadro strategico di sviluppo e
lascia intendere un orientamento scarsamente innovativo delle politiche di gestione.
Quindi l’elemento che denota il grado di avanzamento del processo di gestione aziendale è rappresentato
dall’intento o orientamento strategico delle decisioni imprenditoriali.
Il concetto di strategia, possiamo definirlo come: un comportamento imprenditoriale di tempo lungo finalizzato al
raggiungimento di obiettivi primari della gestione. La strategia in altri termini è il mezzo per conseguire traguardi di
tempo non breve, definiti in funzione dell’evoluzione del rapporto tra l’impresa e l’ambiente nel quale essa opera. La
strategia si caratterizza per tre elementi fondamentali: formulazione a livello alto- direzionale, la proiezione a lunga
scadenza e la priorità dei traguardi fissati. Ciò denota che i comportamenti di tipo strategico non si qualificano solo
per l’orientamento a lungo termine, ma anche per lo scopo di modificare il preesistente equilibrio aziendale
mediante la ricombinazione delle risorse.
>Le strategie aziendali si ordinano secondo una scala gerarchica:
1)Le strategie complessive o corporale sono al vertice: riguardano il fatto che gli organi di governo devono scegliere
(scelta in chiave tecnologico-produttiva) i campi o le aree di affari in cui operare.

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2)Le strategie competitive (o di business) che sono al centro: le strategie competitive definiscono le politiche e gli
obbiettivi da adottare per fronteggiare
3)Le strategie funzionali che stanno alla base:Al livello sottostante si pongono le strategie funzionali (di produzione,
di vendita, di finanza) che debbono essere strumentali rispetto alle strategie competitive prescelte. Una strategia di
successo è caratterizzata da: obiettivi semplici, coerenti, a lungo termine; deve essere effettuata una comprensione
minuziosa dell'ambiente competitivo e una valutazione obiettiva delle risorse.

Differenza tra strategia e politiche: il concetto di strategia implica un disegno generale globale di tempo lungo che
individua le direttrici da seguire per raggiungere determinate mete (obiettivi primari della gestione).
Le politiche sono invece scelte funzionali in rapporto al disegno strategico e vincolanti per le decisioni da assumere
nel corso della gestione.

LE STRATEGIE COMPETITIVE ED I MODELLI DI ANALISI DEL MERCATO

Il rapporto tra strategia complessiva e competitiva:


Il disegno strategico aziendale si fonda sulla capacità dell'impresa di poter competere con successo nel
mercato/mercati in cui decide di entrare. La ricerca del vantaggio competitivo è alla base delle scelte imprenditoriali
che vanno a definire la strategia complessiva perseguita nella gestione.

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Da ciò appare chiaro che vi è la formulazione della strategia corporate in funzione delle strategie competitive
attuabili nelle aree di mercato prescelte. Pur sussistendo un rapporto gerarchico tra le strategie complessive e quelle
competitive, saranno sempre queste ultime che influenzeranno le prime. La strategia complessiva verrà così a
configurarsi come risultato ultimo delle strategie competitive applicabili con successo in più settori merceologici, in
più zone geografiche, in più segmenti o porzioni di mercato.

I paradigmi teorici per la definizione della strategia competitiva:


La decisione di ingresso in un mercato è dunque legata allo studio delle sue caratteristiche e alle possibilità di
entrarvi, di rimanervi e di poter competere con efficacia. Più in particolare, sono i rapporti tra l'impresa e il mercato
di riferimento che assumono una posizione centrale nella determinazione delle strategie aziendali.

1) PARADIGMA STRUTTURALISTA S-C-P (struttura-condotta-performance)


Secondo gli studiosi strutturalisti, è la struttura del mercato che incide sul comportamento delle imprese ed è
quest'ultimo che, a sua volta, determina il risultato della gestione aziendale. Questo paradigma classico "Struttura-
Condotta-Performance" SCP.

2)PARADIGMA COMPORTAMENTALISTA CSP (condotta,struttura,performance)


Viene però criticato da coloro che ritengono che sia invece il comportamento delle imprese a influire sulla struttura
del mercato e che sostengono che dovrebbe sostituirsi al vecchio paradigma il nuovo: Condotta-Struttura-
Performance CSP. Secondo tale impostazione concettuale, sono in effetti le condotte aziendali che influiscono sulle
strutture (ambiente) e producono i loro risultati. Inoltre, le condotte aziendali sono orientate a creare rapporti di
dominanza nei confronti dell'ambiente esterno, facendo così prevalere il concetto dei cambiamenti di mercato e
ambientali prodotti dalle innovazioni aziendali. In pratica si viene a creare un rapporto di interdipendenza perché è
raro potere rinvenire un'impresa del tutto libera da condizionamenti esterni nella formulazione dei suoi
comportamenti di mercato. Nella versione comportamentistica CSP, il ruolo dell'impresa si trasforma tuttavia, da
passivo in attivo perché non subisce più il condizionamento della struttura ma reagisce alla situazione in essere e si
propone di modificarla a proprio vantaggio.

3)PARADIGMA FONDATO SULLE RISORSE RCP (risorse, condotta,performance) Al paradigma SCP (cui si riallaccia il
noto modello della concorrenza allargata di Porter), tende a sostituirsi un nuovo paradigma fondato sulle capacità
(risorse) dell'impresa di poter influenzare i risultati gestionali, detto paradigma RCP (risorse, condotta, performance).
Tale paradigma pone in relazione la performance con la condotta e quest'ultima con le risorse proprie dell'impresa,
riducendo l'influenza del settore e accrescendo il peso dei fattori endogeni nella formulazione delle scelte
strategiche.

Sono le risorse specifiche possedute dall'impresa che sostengono le condotte suscettibili di generare cambiamenti
settoriali che, modificando le regole del gioco, migliorano le probabilità di successo competitivo. Tra i due paradigmi
SCP e RCP non esiste comunque incompatibilità, ma vi sono condizioni di integrazione e di complementarità.

4) PARADIGMA FONDATO SULLA CONOSCENZA KCP:


Vi è poi un altro modello il KCP, Knowledge-Capabilities-Performance, secondo il quale sono le conoscenze (prodotte
dall'interazione sociale che si accumulano nell'impresa a produrre capacità in grado di ispirare condotte suscettibili di
generare successo competitivo. Tale paradigma trae spunto dalla teoria di Nonaka sull'impresa che crea e utilizza
conoscenza e dalla considerazione che le capacità sono in grado di ispirare condotte atte a generare il successo
competitivo.

L’analisi di settore secondo lo schema della concorrenza allargata:


Un noto schema di analisi del settore è quello delle 5 forze o della concorrenza allargata di Porter, il quale fa
riferimento al paradigma SCP, perché in esso si tende ad attribuire un peso prevalente alla struttura rispetto alle
risorse (si considerano prevalenti i fattori esogeni). Secondo Porter, la scelta di un mercato è guidata dalla relativa
attrattività, cioè dalle tendenze espansive della domanda, e dai margini lucrabili, ma anche dalla posizione
competitiva che l’azienda potrà assumere, cioè dalle situazioni di vantaggio che sarà in grado di acquisire rispetto alla
concorrenza e che le assicureranno la conquista di una soddisfacente quota di mercato. L’attrattività di un settore
può essere valutata analizzando 5 forze:
1)rivalità trai concorrenti presenti
2)entrata di nuovi concorrenti

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3)minaccia di prodotti sostitutivi
4)potere contrattuale dei clienti
5)potere contrattuale dei fornitori
Il concetto di fondo è che in qualsiasi mercato i costi e margini sono funzione non solo della forza della clientela e dei
fornitori, ma anche della pressione concorrenziale. Nel modello di Porter un ruolo centrale è attribuito alle barriere
di mercato, ossia agli ostacoli che si frappongono all’ingresso in un particolare spazio di mercato (barriere
all’entrata), all’allargamento di questo spazio (barriere di mobilità) e anche all’uscita dallo spazio occupato (barriere
all’uscita).

Le barriere alla concorrenza:


>Per quanto riguarda le barriere all’entrata: possono essere definite come da Stigler come “un costo che dev’essere
sopportato da un’impresa che vorrebbe entrare in un certo settore industriale, ma che non p sopportato dalle
imprese già operanti nel settore”. Tali barriere possono essere poi esterne o interne: esterne quando impediscono
l’ingresso di nuovi competitori; interne quando tutelano la posizione di ciascun produttore nei confronti delle azioni
espansive degli altri produttori già presenti nel mercato. Per valutare la possibilità di superare tali barriere, occorre
conoscere se esse si colleghino:
a) alle economie ottenibili nelle funzioni di gestione;
b) alla disponibilità di brevetti o know-how (identifica le conoscenze e le abilità operative necessarie per svolgere una
determinata attività lavorativa)
c)alla scarsa disponibilità di fattori produttivi essenziali;
d) alla differenziazione dei prodotti

a) Le economie conseguibili nella gestione si distinguono in economie di scala, di apprendimento, di scopo e di


relazioni.
Le economie di scala, cioè il fenomeno per cui più cresce la produzione più tendono a ridursi i costi, sono ottenibili
non solo nella fase tecnica, ma anche in quella di approvvigionamento delle materie e dei servizi e di
commercializzazione delle produzioni finali. Per tale motivo in determinati mercati la dimensione minima necessaria
è abbastanza elevata, perché se non si raggiungono certi volumi produttivi, non è possibile avere dei costi
competitivi ed assumere la forza indispensabile per acquisire una sufficiente quotati mercato.

E' utile la distinzione tra economie di scala d'impianto e d'impresa. Quelle di impianto si riferiscono al processo di
produzione dei beni e sono funzione della dimensione globale assunta dall'azienda e riguardano non solo il processo
di produzione ma anche quelli di commercializzazione e di amministrazione aziendale. Inoltre, le economie di
produzione possono accrescersi in base al processo di apprendimento maturato attraverso l'esperienza acquisita. Il
concetto di economia di scala va evolvendo verso le economie di interrelazione o "di scopo". Quest'ultime si dilatano
per effetto dell'inserimento dell'azienda in reti pluriaziendali, dando origine all'economia "di relazione", la quale è
divenuta un fattore importante di vantaggio competitivo, in quanto consente di instaurare rapporti di fiducia con
clienti e fornitori, che contribuiscono a migliorare le posizioni di mercato e il conto economico aziendale. In certi
mercati dunque, la vera barriera all'ingresso può essere rappresentata proprio dalle sinergie derivanti dalle allenare
strategiche tra le imprese già esistenti.

b)le barriere possono esistere in altre situazioni quando ad esempio il patrimonio tecnologico si concentra nelle mani
di uno o di pochi imprenditori. Il possesso di brevetti o di know-how impedisce l'entrata di concorrenti.

d)un altro tipo di barriera, che è più interno, si collega alla differenziazione dei prodotti. Questo tipo di barriera
consente a ciascun produttore di isolarsi rispetto agli altri concorrenti: più spinta sarà la differenziazione del
prodotto, più profondo e meno accessibile risulterà il fossato entro cui si sarà protetti dalla concorrenza.

Per quanto riguarda le barriere all'uscita, queste vincolano le imprese a permanere nel mercato, finiscono per
irrigidire e spesso turbare i comportamenti concorrenziali, se le aziende che vogliono uscire dal mercato trovano
difficoltà, sarà turbato il funzionamento del mercato stesso. Possono essere create da vincoli economici (difficoltà di
disinvestimento) sociali (continuare l'attività per preservare l'occupazione), ma spesso comunque penalizzano tutte
le imprese presenti.

Lo schema tridimensionale di abell

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È un modello di analisi del mercato rappresentato dalla definizione del business, ossia della porzione di mercato in
cui l'azienda intende oprare. La definizione di business può avvenire secondo lo schema di Abell, sulla base di tre
elementi principali:
- i gruppi di consumatori a cui rivolgersi
- le funzioni d'uso da soddisfare
- le modalità(tecnologie) secondo cui tali funzioni sono assolte.
Secondo lo schema di Abell quindi l'impresa può servire più gruppi di clienti e soddisfare differenti funzioni d'uso del
prodotto venduto con l'applicazione di diverse tecnologie produttive, superando la definizione di settore
merceologico ed introducendo quella di business.

Le fonti del vantaggio competitivo: la catena del valore


La formulazione della strategia competitiva, partendo ancora dallo schema della concorrenza allargata, può fondarsi
(secondo Porter) sulla catena del valore. Secondo Porter, l'azienda, con la sua attività crea un valore per il cliente,
valore che è misurato dal prezzo che questi paga o sarebbe disposto a pagare per il prodotto. Il valore creato si
distingue in due parti: i costi sopportati per la prestazione delle attività necessarie a progettare, produrre, vendere e
il margine che rimane all'azienda. Il margine è il valore che residua all'azienda dopo aver coperto i costi associati allo
svolgimento di tutte le attività necessarie per progettare, produrre, promuovere e commercializzare il prodotto
Il concetto di catena del valore aiuta a comprendere quali sono le fonti del vantaggio competitivo, pervenendo ad
una distinzione delle funzioni di gestione in due gruppi:
- Attività primarie: funzioni di produzione di vendita, ossia riguardano il ciclo produzione-vendita
Logistica in entrata: fornitori che pensano al rifornimento delle materie prime
Produzione: trasformazione del mix delle risorse
Logistica in uscita: far arrivare gli output sul mercato ( trasporto)
Marketing e vendite : arrivare sul mercato facendo conoscere il prodotto
Servizi after-sales: dare importanza al cliente, offrire servizi post-vendita

- Attività di supporto: sono classificate con criteri di maggiore elasticità). Le attività di supporto sono chiamate
così perché forniscono le basi per la concreta realizzazione delle attività primarie.

Infrastruttura dell'impresa: edificio in cui svolgere l'attività


Gestione risorse umane: gestione dell'impresa e dei dipendenti
Sviluppo tecnologie: tecnologie per la produzione
Approvvigionamento: sistema delle scorte
Il concetto teorico di catena del valore consente di identificare specificamente le cause del vantaggio competitivo,
che in base ai casi possono essere rinvenute nelle progettazione (differenziazione) del prodotto, nell'efficienza del
sistema di produzione, nell'economicità delle funzioni di approvvigionamento e nell'efficacia del marketing.

La formulazione della strategia competitiva


L'impresa può costruire il suo vantaggio competitivo o perché realizza con maggiore efficienza le attività inserite
nella catena del valore o perché riesce a differenziare la sua offerta.
LA DIFFERENZIAZIONE: tale concetto dagli anni 30' è alla base delle teorie di mercato.
L'affermazione della differenziazione dei prodotti ha fatto cadere uno dei presupposti essenziali della concorrenza
perfetta, la quale aveva come caratteristica quella dell'omogeneità dei prodotti offerti sul mercato. Secondo la teoria
economica, infatti, solo quando tutti i prodotti appaiono uguali agli occhi dei compratori, l'elemento determinante
della scelta è il prezzo, che se il mercato è in equilibrio si colloca nel punto di incontro delle curve di domanda e
offerta.
L'esistenza di prodotti differenziati comporta, in realtà, il frazionamento del mercato in tanti sub-mercati, ciascuno
dei quali è in certi limiti separato dagli altri. Il grado di isolamento e di indipendenza crescerà all'aumentare della
differenziazione del prodotto. L'obiettivo dell'impresa sarà quello di disporre di un proprio spazio di mercato nel
quale potersi muovere in posizione quasi monopolistica.
Secondo Porter l'impresa può conseguire un vantaggio competitivo se è in grado di:
realizzare le attività descritte dalla catena del valore ad un costo complessivamente inferiore rispetto a quello
sostenuto dalla concorrenza (leadership di costo);
differenziare l'offerta rispetto a quella dei competitor, così da giustificare un ricarico sul prezzo (premium price)
Le possibili strategie competitive che l'impresa può scegliere sono:

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Leadership di costo: offerta di prodotti e servizi con minimo costo (concorrenza basata sul prezzo)
Leadership di servizio: offerta ricca di servizi ai clienti (concorrenza basata sulla completezza dell'offerta)
Leadership di differenziazione: offerta di prodotti differenti e innovativi
(concorrenza basata sul prodotto e sulla marca)
Leadership di specializzazione: offerta confezionata su nicchie di mercato
(concorrenza basata sulla focalizzazione di mercato).
In funzione delle strategie competitive prescelte, si formeranno gruppi di concorrenti, che si isoleranno tra di loro
pur operando all'interno dello stesso mercato. Questo concetto di "raggruppamento strategico", come insieme di
imprese che perseguono strategie simili e che quindi sono in diretta concorrenza, comporta la possibilità di svolgere
un'azione attiva sulla struttura del mercato e di conseguenza, si riflette sull'attenuazione del paradigma struttura-
condotta-performance.

Ulteriore osservazione: le barriere all'entrata, dipendono anche dalle condizioni soggettive dell'impresa, ossia in base
alle risorse specifiche di cui questa è dotata, certe barriere appariranno più o meno elevate o addirittura potrebbero
annullarsi. Ciò riguarda la resource based theory, che ha posto al centro dell'analisi competitiva la specificità di
ciascuna impresa in termini di risorse, capacità e competenze.
LE RISORSE AZIENDALI sono definite come "tutte le attività, capacità, competenze, caratteristiche aziendali,
informazioni che permettono all'azienda di formulare e implementare strategie che ne migliorino l'efficacia e
l'efficienza".
Un aspetto importante delle risorse, è che non tutte pesano nella stessa misura in termini competitivi e
bisognerebbe puntare quindi, su quelle che potranno assicurare effettivamente un vantaggio durevole. Sotto questo
aspetto è utile il modello VRIO, idealizzato da Jay Barney, individuando le caratteristiche che possono conferire
significatività ed importanza alle risorse possedute dall'impresa. Le risorse si possono quindi classificare in base:

Al loro valore: contributo che riescono a conferire all'azienda competitiva


Alla loro rarità: situazione di scarsa diffusione presso le altre imprese concorrenti
c)Alla loro inimitabilità da parte dei concorrenti
d)Alla loro durevolezza: persistere del loro valore nell'ambito dell'organizzazione (organicità)
Attraverso questo tipo di analisi, l'impresa sarà in grado di pervenire efficacemente alla formulazione della proprio
strategia competitiva, che potrà distinguersi da quella dei concorrenti per gli obiettivi specifici, per le linee generali in
cui s'inquadra e per le politiche assunte a base dei comportamenti di mercato.
Vi sono alcune condizioni preesistenti al vantaggio competitivo rilevanti: l'innovazione che è il mutamento dei
prodotti,processi,impianti pratiche manageriali, strutture distributive, e consente di avvantaggiarsi rispetto alla
concorrenza. Inoltre ogni impresa dispone di un diverso capitale umano, strutturale sociale e finanziario che
determina la sua posizione competitiva.

LE STRATEGIE COMPETITIVE E L'EQUILIBRIO TRA DOMANDA E OFFERTA: il mercato del venditore e del
compratore.
Per comprendere a pieno il funzionamento di un dato mercato e le politiche adottate dalle imprese che in esso
operano, è necessario valutare congiuntamente la domanda e l'offerta, allo scopo di desumere la posizione relativa
di forza dei produttori e dei consumatori. Il grado di controllo del mercato è legato non solo al peso esercitato dai
produttori ed i consumatori, ma anche alla situazione di equilibrio, o meglio di squilibrio che può crearsi fra la
domanda e l'offerta in un certo ambito territoriale e in una certa epoca.

Una situazione di perfetto equilibrio di domanda ed offerta non è realistica. Ma ai fini del funzionamento del
mercato, non è importante l'equilibrio in termini di risultati fra domanda e offerta, quanto quello fra potenzialità di
produzione e capacità di assorbimento. Se la domanda tenderà a superare la capacità di produzione esistente nel
mercato, i produttori assumeranno una chiara posizione di vantaggio, in quanto non sopporteranno rischi di vendita
dei loro prodotti, ma potranno avvantaggiarsi di una situazione di concorrenza fra gli acquirenti, che dovranno
competere l'uno con l'antro per entrare in possesso della limitata quantità di beni disponibili (mercato del
venditore).

La situazione opposta è nel caso di un'eccedenza dell'offerta, i produttori dovranno competere fra di loro per
acquisire la domanda disponibile. Il venditore deve attuare una gestione in chiave di marketing per fronteggiare In
modo adeguato i bisogni ed i gusti dei consumatori. L'ipotesi di mercato del compratore è la più diffusa, dato che il
progresso tecnologico e l'evoluzione dei sistemi di produzione portano a creare risorse potenziali quasi sempre
esuberanti rispetto alle capacità di assorbimento della domanda

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L'analisi s.w.o.t
È un ulteriore modello di analisi: Strenght,Weakness, Opportunity, Threat
Esso suggerisce di prendere in considerazione i punti di forza e di debolezza dell'impresa in rapporto alla possibile
evoluzione del marco e dell'ambiente, da cui potranno derivare opportunità favorevoli o minacce. Sarà proprio tale
evoluzione che, se correttamente prevista, consentirà di valorizzare i punti di forza e di attenuare l'impatto negativo
dei punti di Weakness.
L'analisi SWOT si configura come uno strumento, che considerando le relazioni di scambio con l'ambiente esterno e
l'influenza che può derivarne, può supportare il management nella formulazione delle decisioni strategiche. Il
modello si prefigge di individuare tutte le variabili esterne ed interne, suscettibili di influenzare la performance le
scelte strategiche dell'impresa, raggruppandole in una matrice. Punti di forza e di debolezza sono fattori endogeni,
quindi prendono in considerazione elementi sui quali l'impresa può agire direttamente, mentre in relazione alle
opportunità e alle minacce, ossia i fattori esogeni, l'impresa ha un potere di azione decisamente più limitato.
A livello operativo lo svolgimento dell’analisi SWOT richiede:
1)individuazione delle forze/debolezze che caratterizzano l’azienda
2)l’analisi ambientale, per individuare minacce ed opportunità
3)l’analisi combinata di fattori di origine esterna ed interna per determinare gli elementi di maggiore criticità
4)l’individuazione delle più opportune alternative di intervento.

L’individuazione delle forze e delle debolezze e l’analisi ambientale


I fattori di ordine interna possono essere ricondotti alle risorse e competenze dell’impresa e si distinguono in:
-risorse tangibili; risorse fisiche (avanzamento tecnico degli impianti) e quelle finanziarie (liquidità)
-risorse immateriali interne (brevetti, proprietà intellettuali) ed esterne (reputazione dell’impresa nei confronti dei
fornitori, dei clienti, immagine del brand).
-risorse umane; livello di addestramento ed esperienza dei dipendenti, le competenze
-competenze aziendali; (tecnologie, di marketing, organizzative) in particola le c.d competenze distintive, che
l’impresa svolge con particolare abilità rispetto ai concorrenti.
L’analisi di queste variabili va condotta considerando la situazione concorrenziali e i fattori critici di successo per la
specifica area strategica di affari. Un punto di debolezza, si configura come tale, ad esempio, se l’impresa ne
presenta una minore dotazione rispetto ai competitor.
Con riferimento ai punti d forza, si distinguono quelli reali (maggiore dotazione rispetto ai concorrenti, e sono
apprezzate dal mercato di riferimento) da quelli apparenti, ossia le false forze derivanti da migliore performance
dell’impresa in attività che non sono rilevanti per competere e generare maggior valore per i clienti. Le forze e le
debolezze devono quindi essere analizzate anche dal punto di vista del cliente.
Si possono classificare le variabili interne attraverso una matrice Importanza- Performance. La performance esprime
la capacità dell’impresa con riferimento ad una specifica, con il variare del livello di tale performance, una debolezza
si trasforma in una forza. L’importanza invece, indica quanto il possesso di una specifica risorsa è rilevante e dunque
critico per generare valore per il cliente e per l’acquisizione di un vantaggio competitivo nello specifico ambito di
operatività.
Oltre alla conoscenza del comportamento e delle attese dei consumatori, l’impresa deve individuare i competitor,
attività molto complessa. L’azienda analizzando i suoi concorrenti non deve avere un approccio miope, che possa
impedire di cogliere i pericoli derivanti dall’ingresso di nuovi competitor, anche se provenienti da altri settori.
Per individuare opportunità e minacce è opportuno svolgere l’analisi dell’ambiente
micro e macro. Analizzare il macro-ambiente significa considerare il contesto politico, economico, sociale) di
riferimento non soltanto per come si presenta attualmente, ma anche per come potrà modificarsi in prospettiva,
bisogna cogliere anticipatamente la configurazione dell’ambiente futuro, ma anche questa è un’attività complessa, in
quanto soggettiva. In tal senso l’analisi dell’ambiente risente inevitabilmente della soggettività con cui il
management percepisce ed interpreta la realtà circostante. È necessaria quindi una visione condivisa, che si può
creare con la costituzione di un team di lavoro inter-funzionali e l’utilizzo di tecniche partecipate, che prevedano
anche il coinvolgimento di esperti e stakeholder aziendali.
L’analisi del micro ambiente dovrà ugualmente condurre ad una visione condivisa sullo stato attuale e sulle
prospettive di cambiamento del mercato e della situazione concorrenziale.
le opportunità sono fattori che se opportunamente sfruttati, possono contribuire a generare un vantaggio
competitivo, mentre le minacce sono variabili ambientali suscettibili di determinare un deterioramento delle
prestazioni aziendali.

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Anche in questo caso una variabile può costituire un’opportunità per un’impresa e una minaccia per un’altra. Anche
per quanto riguarda le minacce e le opportunità è possibile compilare un’elencazione esaustiva attraverso la figura 2
pg98:
>In sintesi nel complesso svolgimento delle prime due fasi operative dell’analisi SWOT, bisogna evitare che interessi
personali o meccanismi psicologici, interessi di funzione possano alterare la valutazione dei diversi elementi
producendo così un’analisi falsata della realtà.
L’analisi SWOT non si conclude con le prime due fasi (individuazione delle variabili endogene ed analisi
dell’ambiente). Ma vi sono una fase 3 relativa alle considerazioni
che derivano dall’analisi incrociata delle variabili; la fase 4 attraverso cui i decisori aziendali dovrebbero individuare
le azioni da intraprendere secondo una scala di priorità. L’utilità della SWOT è quella di indurre il management a
decidere quali soluzioni strategiche intraprendere allo scopo di:
-cogliere le opportunità e difendersi dalle minacce ambientali
-valorizzare il potenziale di valore insito nei punti di forza aziendali (senza farsi troppo vincolare da essi) e al tempo
stesso sopperire ai più rilevanti punti di debolezza.

LE STRATEGIE DI SVILUPPO DIMENSIONALE

Le opzioni strategiche

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Nell’esaminare lo sviluppo dimensionale dell’impresa si è considerato il peso delle risorse. Tenendo conto che in ogni
caso le risorse sono limitate, appare intuibile che la gestione aziendale debba svolgersi secondo un continuo sistema
di arbitraggi, i quali sono necessari sia a causa dell’ammontare di risorse disponibili, sia a causa dell’incompatibilità
tra progetti.
L’arbitraggio di fondo si esercita in funzione dell’orizzonte temporale da privilegiare, che può essere di tempo lungo
(investimento) o di tempo breve (preferenza per la liquidità).
Ai fini delle scelte strategiche da assumere è fondamentale il requisito delle capacità distintive, ossia gli elementi
propri di ciascuna impresa che ne determinano l’eccellenza e quindi il successo. È stato inoltre osservato che le
risorse fondamentali dell’impresa sono sempre più spesso rappresentate dalle risorse immateriali, che si individuano
nella fiducia, ovvero nell’immagine favorevole che l’azienda si è creata nell’ambiente in cui opera e nelle
competenze, intese come conoscenze accumulatesi nel corso della vita aziendale.
In situazioni normali di vita aziendale l’obiettivo della strategia complessiva dovrebbe essere quello dello sviluppo
dimensionale perché la crescita, mediante il reinvestimento del reddito, risponde alle finalità di sopravvivenza
dell’impresa. Tale obiettivo di sviluppo dimensionale potrà essere subordinato ad alcune condizioni.

Una tipologia semplificata delle strategie complessive


La strategia complessiva o “corporate” dipende, dunque dagli obiettivi che l’impresa si pone in base alla situazione in
cui si trova e in base alle opzioni strategiche disponibili. In linea teorica si può ipotizzare una serie di combinazioni tra
l’andamento del mercato e lo stato di equilibrio o squilibrio aziendale, rispetto al quale si verranno a configurare
distinti obiettivi di carattere strategico complessivo. Ad esempio, un’impresa in buona salute potrà puntare alla
crescita, anche se i mercati in cui opera appaiono in declino. Un’impresa in crisi dovrà preoccuparsi soprattutto di
sopravvivere.
Si è in grado quindi di distinguere tre le strategie complessive, tre percorsi alternativi:
a) Percorso di sviluppo dimensionale: in teoria dovrebbe essere comune a tutte le imprese perché caratteristico di
una gestione fisiologica protesa all’espansione delle attività aziendali
b) Percorso del risanamento: tipico di organismi caratterizzati da squilibri strutturali su cui intervenire con rapidità ed
efficienza
c) Percorso del rafforzamento o assestamento: improntato a maggiore prudenza nella gestione delle risorse e alla
difesa, in periodi non favorevoli, delle posizioni occupate.

Il processo di sviluppo dimensionale


Chi governa l’impresa può puntare al max profitto oppure può puntare a massimizzare le vendite, mirando in questo
caso allo sviluppo dimensionale. Si è però osservato che, nel tempo lungo, queste due finalità convergono allo stesso
punto. Una conclusione importante è la coincidenza tra i concetti di sviluppo e di crescita del sistema aziendale.
Spesso, per sviluppo, s’intende lo sviluppo dimensionale, cioè un fatto prevalentemente quantitativo (variazione del
volume corrente di attività). Esso può essere definito come un processo soprattutto qualitativo, ovvero di evoluzione
dei rapporti tra l’impresa e l’ambiente a cui di solito si accompagna un ampliamento della struttura organizzativa. Se
il concetto è accolto in questi termini, allora vi è una giustificazione circa la propensione generale dell’impresa verso
lo sviluppo.
Non è detto però che tutte le aziende perseguano la crescita (esempio piccola impresa avrebbe problemi gestionali
ed organizzativo se si aumenta la dimensione operativa). In conclusione, la crescita dovrebbe comportare lo
sviluppo, mentre non è sempre vero il contrario.
Inoltre, è importante il concetto di "curva di apprendimento": si è già osservato che più aumenta il volume delle
vendite, più migliora, per effetto dell'esperienza, il livello di efficienza della produzione, e quindi, più decrescono i
costi unitari di prodotto. Il vantaggio della curva di apprendimento può sommarsi a quello delle economie di scala.
Quando si estende il concetto della curva di apprendimento oltre la sola funzione produttiva, per coinvolgere anche
effetti positivi riscontrati nelle altre aree di gestione si preferisce parlare di "curva di esperienza". Gli effetti di questa
curva si annullano quando qualsiasi ulteriore incremento della produzione non modifica il livello di efficienza e
conseguentemente, l'altezza dei costi unitari.
Ci sono 2 obiettivi di fondo dello sviluppo dimensionale: ottimizzazione dell'uso delle risorse aziendali e l'acquisizione
di un peso contrattuale crescente nei confronti di consumatori, concorrenti, fornitori, etc.. La grande dimensione
conferisce un più ampio potere nei riguardi delle varie componenti ambientali, e rappresenta anche un mezzo per il
successo sociale dell'imprenditore, perché alla crescita spesse volte si accompagna l'aumento di potere e prestigio
per chi governa l'impresa. Però vi è una condizione sottostante, ossia che il processo di crescita deve essere
correttamente effettuato
Nel processo di sviluppo dimensionale si verificano vantaggi e svantaggi, per cui le dimensioni di crescita dovrebbero
correttamente scaturire dalla valutazione di entrambi.

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I percorsi di sviluppo: la formulazione della strategia complessiva
Le strategie si differenziano soprattutto rispetto al rapporto prodotto/mercato, cioè alla permanenza, al
superamento o all'allargamento delle relazioni fra i prodotti fabbricati e i mercati serviti.
Le alternative sono rappresentate dalla concentrazione o diversificazione delle attività, cioè dalla preferenza per
percorsi di sviluppo che aumentino il peso delle attività già esercitate o che, invece, estendono il portafoglio
prodotti/mercati.
Nel primo caso si punta a sfruttare al meglio il bagaglio di competenze e di esperienze già possedute dell'impresa;
nel secondo, la diversificazione in nuovi business mira a valorizzare positivamente le interrelazioni tra vecchie e
nuove aree di affari (diversificazione correlata) oppure si propone di ridurre il rischio globale di gestione
(diversificazione conglomerale). La crescita può essere perseguita allargando l'area di mercato, quindi
introducendosi in nuove zone di vendita. Questo tipo di sviluppo può essere accompagnato anche con un processo di
diversificazione internazionale.
Si possono quindi individuare tre strategie fondamentali di sviluppo dimensionale:
1-Monosettoriale: si realizza mediante processi di integrazione orizzontale (stesso mercato) e verticale (ascendente
a monte, discendente a valle)
2-Polisettoriale: assume le forme della diversificazione laterale e della diversificazione conglomerale
3-Internazionale: si concreta o con un processo di espansione internazionale del mercato o di espansione
multinazionale della gestione.

La strategia di sviluppo monosettoriale


Ha lo scopo di rafforzare la posizione dell’impresa soprattutto nell’ambito del mercato in cui opera con lo scopo di
creare migliori condizioni di svolgimento della gestione sotto il duplice profilo del collocamento delle produzioni
finali e dell’approvvigionamento delle risorse di base. Lo sviluppo monosettoriale conduce ad un processo di
concentrazione, che può aver luogo nello stesso stadio in cui agisce l’impresa ( sviluppo orizzontale) o in stadi
immediatamente adiacenti ( integrazione verticale)

Lo sviluppo orrizontale
La strategia di sviluppo orizzontale dell’attività aziendale può essere attuata mediante; un’espansione interna
dell’organizzazione, oppure con un processo esterno di acquisizione di imprese similari, in questo caso si parla di
integrazione orizzontale, si ha il raggruppamento di più aziende operanti nello stesso mercato. n proposito bisogna
svolgere 2 considerazioni:
-Solo nel secondo caso lo sviluppo porterà ad una corrispondente variazione della quota di mercato dell’impresa
-Per “stesso mercato” deve intendersi un complesso di produzioni legate appunto da stretti vincoli di domanda e di
offerta. Ci si trova in presenza di uno sviluppo orizzontale quando fra le produzioni integrate sussistono vincoli
tecnologici e di mercato. I primi si collegano ai cicli di produzione, alla presenza di fasi comuni di lavorazione, al know
how similari; mentre i secondi derivano da una comune impostazione dei problemi e delle politiche di mercato.
L’integrazione orizzontale ha lo scopo di far crescere la quota di mercato detenuta dall’impresa. Ciò si ottiene
ampliando la gamma di prodotti trattati, ampliando il numero dei segmenti di mercato serviti o allargando l’area
geografica di vendita. Perciò le operazioni di acquisizione si rivolgeranno alle aziende concorrenti che trattino
prodotti assenti nella gamma della società acquirente.
VANTAGGI: -Le crescita orizzontale rispetto ad altre forme di sviluppo richiede meno tempo per essere attuata e
consente di sfruttare tutte le risorse disponibili, implicando rischi meglio valutabili.
-Il principale vantaggio dello sviluppo orizzontale si dovrebbe avere sotto il profilo delle economie di costo, che si
possono distinguere in economie di dimensione (o scala) o di espansione: le prime sono collegate alla più economica
utilizzazione di certi fattori produttivi, per effetto di una maggiore scala di operazioni; le seconde sono relative alla
minore onerosità dello stesso processo d’espansione.

Integrazione verticale e teoria dei costi di transazione


Lo sviluppo verticale si ha quando un’impresa assume il controllo di uno stadio di produzione o di distribuzione
collegato a quello in cui già opera. Essa può verificarsi “a monte” dello stadio occupato (integrazione ascendente) o
“a valle” (integrazione discendente). Nello stesso settore produttivo si ritrovano imprese che hanno maggiormente
internalizzato la produzione di beni e servizi che invece hanno preferito ricorrere al mercato per procurarsi le altre
risorse di cui hanno bisogno.
Una spiegazione a questo differente comportamento si trova nella TEORIA DEI COSTI DI TRANSAZIONE: l’impresa
compara il costo di transazione, collegato al processo esterno di approvvigionamento, a quello di produzione da
sostenere per produrre al suo interno gli stessi beni e servizi. Il costo del bene scambiato è uguale non soltanto al

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prezzo pagato per il suo acquisto, ma anche allo sforzo sostenuto. I costi di transazione comprendono, quindi, tutti i
costi necessari per progettare, negoziare e tutelare un accordo di scambio. Rappresentano, dunque, i costi d’uso del
mercato da porre a confronto con quello di produzione da sostenere all’interno dell’organizzazione dell’impresa.
La definizione del “confine efficiente” dell’organizzazione, ossia delle attività da svolgere all’interno per ottenere il
massimo livello di efficienza operativa, dipende da due tipologie di valutazioni:

1)ECONOMICITA’ si ottiene comparando i costi d’uso del mercato con quelli da sostenere all’interno
dell’organizzazione di impresa (e svolgendo all’interno le attività che sarebbero più costose se delegate all’esterno)

2)RISCHIOSITA’ DELLA TRANSAZIONE Il controllo delle condizioni d’acquisizione di beni o servizi è maggiore
nell’ipotesi di produzione interna rispetto a quelle di un rapporto contrattuale di scambio

Sulla base di questo duplice aspetto si è ipotizzato che il ricorso al mercato divenga meno conveniente al crescere
della complessità della transazione sulla quale influiscono: la ricorrenza, l’incertezza e la specificità degli atti di
acquisizione da compiere all’esterno. In conclusione, la teoria dei costi di transazione pur aiutando la logica dei
comportamenti imprenditoriali, non riesce da sola, a fornire tutti gli elementi interpretativi per le decisioni di
internalizzazione o esternalizzazione delle attività aziendali.
Lo sviluppo verticale si caratterizza perché ha per oggetto mercati legati a rapporti di fornitori o di collocamento.
L’integrazione verticale si traduce in uno spostamento a monte o a valle del mercato di acquisto o di vendita di certi
prodotti aziendali. Con la verticalizzazione ascendente l’azienda inserisce nel suo ciclo produzioni di base o
intermedie; con quella discendente cambia il suo mercato di sbocco, rivolgendosi ad uno stadio più vicino alla
fabbricazione di prodotti finali.
OBIETTIVO INTEGRAZIONE VERTICALE: ampliamento della gamma di produzioni intermedie comprese nello stesso
ciclo tecnico-economico.
SUB-OBIETTIVI:
-In ogni caso si ha l’aumento del valore aggiunto, perché cresce la differenza tra il valore dei prodotti finiti ed il costo
delle materie e dei servizi acquisiti. Più crescerà il valore aggiunto più aumenterà il controllo sui costi di produzione.
(l valore aggiunto si calcola sottraendo dal valore del prodotto finito (ricavi) tutti i costi di acquisizione di beni e
servizi)
-Minori rischi: Nell’integrazione a monte ci si assicurerà una continuità dei processi di approvvigionamento,
nell’integrazione a valle ci si avvantaggerà un maggiore controllo dei mercati di sbocco.
VANTAGGI:
-Vi è una riduzione dei costi di transazione, perché l’impresa producendo all’interno ciò che acquistava da fornitori
esterni, non è più costretta a sopportare dei costi per la ricerca delle informazioni, stipula del contratto e il controllo
della sua esecuzione
-Maggiore forza contrattuale
-Innalzamento delle barriere all’entrata, perché chi aspira ad entrare sarà generalmente costretto ad operare in più
stadi di produzione ad un livello dimensionale superiore.
SVANTAGGI:
-Può comportare anche innalzamento delle barriere all’uscita, per un’impresa integrata verticalmente, quindi più
rigida, i processi di disinvestimento assumeranno maggiore complessità e difficoltà.

Altri tipi di integrazione


Vengono individuati altri due tipi di integrazione denominati “laterale e “diagonale”. La prima si ha nell’ipotesi di un
inserimento, nella gamma di prodotti aziendali, di beni correlati sotto il profilo delle tecnologie adoperate o del
mercato di sbocco; la seconda si verifica invece nel caso d’introduzione, nell’organizzazione di produzioni ausiliarie.

La strategia di diversificazione produttiva


Con questa strategia l’azienda si espande in mercati nuovi, compresi in settori o comparti produttivi differenti da
quelli in cui già opera, attuando un processo di diversificazione produttiva. Questa si contrappone alle strategie di
integrazione perché, non punta ad obiettivi di concentrazione e rafforzamento, ma porta l’azienda ad occupare
posizioni in mercati nuovi.
La diversificazione si definisce laterale, se sussiste un collegamento, in termini tecnologici oppure di marketing, tra
produzioni vecchie e nuove; è invece definita conglomerale, nel caso in cui non sussista alcun tipo di legame tra

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attività preesistenti e nuove. A tal proposito le relazioni tra i prodotti aziendali posso ricondursi a 4 situazioni
differenti:
a)prodotti affini sotto il profilo tecnologico e di marketing (integrazione orizzontale)
b)Prodotti affini in termini tecnologici ma non di marketing (diversificazione laterale)
c)Prodotti affini in termini di marketing, ma non in termini tecnologici (div.laterale)
d)Prodotti senza affinità tecnologica e di marketing (diversificazione conglomerale)
La strategia di diversificazione è spesso attuata per l’impossibilita di espandersi soddisfacentemente in un settore
ormai ritenuto saturo.
VANTAGGI:
-Stabilizzazione dei redditi
-riduzione del rischio globale di gestione, attraverso la diversificazione dei rischi di mercato, in quanto ciascuna
produzione sarà assoggettata alle incognite correnti nel particolare mercato cui sarà destinata.
ATTUAZIONE DELLA STRATEGIA: per quanto riguarda la diversificazione laterale si fa mediante un’espansione interna
dell’organizzazione. Per quanto riguarda la diversificazione conglomerare è esterna mediante acquisizioni aziendale
e conseguente formazione di una struttura “holding”.

La strategia di sviluppo internazionale


Da tempo la strategia di espansione internazionale può essere considerata alternativa rispetto ai tipi di strategie
esaminate in precedenza, è divenuta un’esigenza sia per l’ampliamento dei mercati di sbocco, sia per le opportunità
di delocalizzazione produttiva.
Per perseguire una crescita equilibrata è necessario puntare ad una politica di compensazione dei risultati attraverso
un processo di diversificazione delle attività aziendali. Sotto tale aspetto la diversificazione delle produzioni e
l’espansione internazionale rappresentano delle strategie fondamentali. La prima consente di diversificare
merceologicamente i rischi d’impresa, legando le sorti di quest’ultima alle vicende di una molteplicità di settori di
attività. Ma anche l’espansione internazionale permette di bilanciare i contrapposti fenomeni che dovessero
verificarsi nei vari contesti, in modo da conferire una maggiore costanza ai risultati gestionali. La differenza sta nel
fatto che la compensazione avverrebbe, nel primo caso fra produzioni diverse e nel secondo, tra Paesi diversi.
Le fasi principali del processo di espansione internazionale sono (ordinate in ordine di rischiosità crescente):
1)Esportazione : vendita di prodotti all’estero
2)Produzione indiretta: concessione di licenze di fabbricazione a produttori esteri
3)Vendita diretta: creazione di reti di vendita all’estero
4)Produzione e vendita diretta: allestimento di impianti di produzione all’estero
5)Costituzione di un’impresa all’estero: fondazione di una società all’estero
6)Organizzazione multinazionale: coordinamento della gestione sul piano multinazionale.
Si può asserire che lo sviluppo dell’attività internazionale segue un ciclo che comprende l’esportazione, la produzione
indiretta, la produzione e la vendita diretta, l’organizzazione di unità aziendali integrate.

Per quanto concerne lo sviluppo multinazionale, esso può essere considerato come l’epilogo di una strategia
sistemata di espansione internazionale. L’impresa multinazionale è infatti, non solo un’organizzazione che dispone di
impianti di produzione e di reti di distribuzione in più paesi del mondo, ma anche e soprattutto una società che
persegue una gestione integrata delle attività domestiche estere. Fattori importanti ai fini di un’espansione
multinazionale della gestione, sono il management aziendale e la disponibilità di capitali.

Le modalità di realizzazione delle strategie di sviluppo: il ruolo degli accordi strategici tra imprese
Può accadere che un’impresa tenti dapprima di rafforzare la propria posizione nel mercato tradizionale (sviluppo
orizzontale), e solo in un secondo momento voglia perseguire politiche di integrazione verticale, e specie di
diversificazione. Le varie strategie possono essere viste come delle fasi; nel percorso di sviluppo i momenti principali
sono costituiti generalmente da due passaggi: quello da una politica di produzione unica ad una di produzioni
multiple e quello dell’ingresso in più aree d’affari. Può esserci un altro tipo di comportamento strategico, quello della
crescita interrelata, spesso di tipo interaziendale. È una strategia che sfrutta le possibilità di collaborazione tra
imprese, puntando ad un ampliamento del volume di affari o del valore aggiunto creato, senza corrispondente
espansione delle strutture organizzative interne. Bisogna distinguere due casi di integrazione interaziendale; quello
della c.d “impresa rete” e quello della “rete di imprese”. Il primo è rappresentato dall’aggregazione promossa dalla
grande impresa nei confronti dei suoi stakeholder per struttura le economie di relazione; il secondo è quello delle
aggregazioni interaziendale specie di piccolo medie imprese, per avere un maggior peso dimensionale e competitivo.
Vi è un aspetto innovativo nell’organizzazione degli accordi tra imprese ossia quello della rete (network) è un
modello più elastico che si regge su rapporti d’integrazione ed interdipendenza fra i partner.

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Le alleanze strategiche con le altre imprese permetto di sfruttare vantaggi della crescita senza perdere quelli della
flessibilità. Lo scambio di partecipazioni azionarie, le joint venture, gli accordi commerciali, la creazione di reti
interaziendali, consentono di fatti di crescere senza dover affrontare da soli, gli sforzi ed i rischi di un processo
complesso e difficoltoso.

L’esigenza di un cambiamento strategico e l’inerzia organizzativa


L’attività di qualsiasi tipo d’impresa si svolge prevalentemente mediante la ripetizione di decisioni e azioni di
gestione. Questo avviene perché la replica di comportamenti già sperimentati con esisti che hanno assicurato la
sopravvivenza dell’impresa non induce al mutamento. Però nessuna impresa può sopravvivere a lungo senza
cambiamenti a volte radicali, perché è l’ambiente, che mutando incessantemente e velocemente, esige
un’evoluzione strategica. L’imprenditore potrà e dovrà decidere se; è necessario un mutamento radicale dei
comportamenti di gestione, se tale mutamento è urgente, se il disegno inizialmente immaginato appare
complessivamente ancora sostenibile, se le risorse risultano compatibili, se i rischi sono ritenuti tollerabili, se
l’organizzazione può essere positivamente coinvolta in un programma strategico di forte impatto sulle logiche
aziendali. Occorre in sostanza una forte capacità imprenditoriale per avvertire tempestivamente l’esigenza del nuovo
paradigma e superare “l’inerzia organizzativa”. La necessità di sfuggire alla trappola delle “competenze”, intesa come
naturale resistenza al cambiamento dovuta alla convinzione di potere continuare ad operare con successo, è
divenuta fondamentale in un’economia con maggiore dinamismo turbolenza e imprevedibilità.
_____________________________________________________________________________________________
L’ORIENTAMENTO STRATEGICO DELLA GESTIONE:
Le decisioni che caratterizzano il processo di scelta di una strategia hanno a che fare con la selezione dell’ambiente.
L’ambiente abbiamo detto essere costituito da molte componenti (macro e micro ambiente) in continua evoluzione
dinamica. All’interno di questa dinamica l’impresa può adottare comportamenti diversi:
- Atteggiamento di attesa: l’impresa aspetta l’evolvere dei fenomeni e promuove gli opportuni adattamenti
solo quando i fenomeni si sono verificati. Questo schema di comportamento è di tipo ripetitivo e le variazioni
di adattamento sono una conseguenza delle variazioni ambientali.
- Atteggiamento anticipatorio: previsione di mutamenti ambientali al fine di poter realizzare anticipatamente
delle modifiche ai comportamenti di gestione. È uno schema difensivo. Lo sforzo che chi governa l’impresa
adotta è un grosso sforzo previsionale in quanto cerca di anticipare quello che sarà l’andamento dei
fenomeni rilevanti in modo tale da essere tempestivi nell’adattamento.
- Atteggiamento attivo: promozione di azioni che tendono ad influenzare l’ambiente in modo più favorevole a
quelle che sono le prospettive di sviluppo ambientale. Si basa sull’innovazione. Queste imprese di maggiori
dimensioni sono quelle che modificano gli standard (passaggio da videocassette a dvd).

Queste tre tipologie di atteggiamenti danno già un’idea dei comportamento strategici dell’ambiente definendo
ancora meglio il concetto di strategia. Il concetto di strategia è molto complesso. Immediatamente lo si immagina
come concetto proiettato verso il futuro. Il concetto di strategia diventa anche un mezzo per conseguire traguardi di
tempo non breve. Quando si fa riferimento al concetto di strategia si può analizzare anche a posteriori e quindi come
comportamento, può essere la risultante di una serie di decisioni che hanno portato l’impresa a posizionarsi
all’interno del proprio scenario competitivo.
Ci sono altri elementi che definiscono il concetto di strategia come scelta. Il concetto di strategia si definisce per tre
elementi essenziali:
- La formulazione a livello autodirezionale: le scelte strategiche vengono formulate a livello di gruppo
decisionale, e sono le scelte che definiscono le politiche di investimento e gli scenari competitivi.
- Hanno una proiezione a lungo termine.
- La priorità dei traguardi da raggiungere: si definiscono gli obbiettivi di carattere prioritario.

La strategia può essere distinta secondo tre livelli: (piramide gerarchica del processo decisionale strategico)
1) Strategia complessiva: (strategia di corporate o strategia di portafoglio) scegliere i campi o le aree di
affari in cui operare seconda una strategia complessiva che può essere di sviluppo o di mantenimento
delle posizioni. La scelta può riguardare uno o più campi di affari. È la scelta di portafoglio dell’attività di
impresa cioè dei diversi business in cui l’impresa vuole essere presente. Scelte di portafoglio possono
essere anche rivolte al disinvestimento.
2) Strategia competitiva: si tratta di tracciare i comportamenti da assumere nei confronti della concorrenza
all’interno delle specifiche aree di affari scelte (nella parte delle strategia complessiva). Si devono
determinare le leve fondamentali per assumere un vantaggio competitivo nei confronti dei concorrenti.

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3) Strategia funzionale: sono la traduzione a livello delle singole funzioni organiche di quello che è stato
deciso ai livelli superiori. Sono scelte strumentali. Riguardano la modalità di attuazione delle funzioni di
gestione.
Queste tre strategie si collegano in un momento di analisi; quindi, vi è una forte interazione tra i tre livelli.
Relazione tra strategia complessiva e competitiva: saranno sempre le strategie competitive che influenzeranno le
strategie complessive. Altre parole, la decisione di essere presenti in certi mercati o aree d’affari non potrà che
essere fondata sulle probabilità di competere efficacemente in quei mercati o in
quelle aree d’affari.

Decisioni tattiche e strategiche:


Quando parliamo di una decisione di carattere strategico vuol dire che ci stiamo riferendo ad un disegno globale,
sono decisioni che si riflettono sugli obiettivi prioritari dell’azienda e sono difficilmente modificabili (se venissero
modificati potrebbero causare contraccolpi importanti).
Per quando riguarda le decisioni tattiche, che si collegano sempre alle decisioni strategiche, ma hanno un riferimento
più preciso. Sono scelte funzionali e toccano quindi le problematiche all’interno di ogni funzione di gestione (scelte
produttive, marketing etc.). Sono scelte a breve termine, si riferiscono ad obbiettivi gerarchicamente inferiori, sono
modificabili e non hanno ripercussioni importati come le decisioni strategiche.
Relazione tra decisioni tattiche e strategiche: le decisioni tattiche sono la traduzione operativa della scelte
strategiche.

I comportamenti imprenditoriale di lungo tempo si caratterizzano per un percorso che segue quattro momenti
distintivi queste fasi sono collegate tra di loro e molte volte devono avvenire in tempi molto brevi):

1) Formulazione delle previsioni: fase di analisi. L’analisi è un elemento fondamentale che si combina con le
capacità intuitive che il decisore deve adottare per effettuare scelte strategiche.
2)
3) Individuazione degli obiettivi: il posizionamento dell’impresa, gli investimenti, il modo di relazionarsi con
la clientela. Gli obiettivi strategici che generalmente le imprese definiscono e che possono essere
differenti in base al periodo storico, alle caratteristiche dimensionali dell’impresa etc., sono:
 Lo sviluppo dimensionale: un obiettivo di fondo si lega alla finalità di crescita e di sviluppo
dell’impresa. Crescita nel volume di affari, del fatturato. Esistono diverse alternative per poter
portare avanti il processi di sviluppo e di crescita dell’impresa. L’obbiettivo della crescita del
volume d’affari è un obbiettivo primario dell’impresa.
 Riequilibrio gestionale: obiettivo prioritario nel momento in cui le imprese si confrontano con
momento di crisi. Si vedono ristabilire gli equilibri per ripartire con l’attività dell’azienda. È il
riordino dei conti aziendali (equilibrio tra costi e ricavi).
 Riduzione del rischio: teoria della sopravvivenza. L’obbiettivo prioritario è quello di garantire la
continuità aziendale. Molto spesso quindi si cercano di adottare decisioni che possano
presentare un minor livello di rischio per la vita dell’impresa.
 Mantenimento delle posizioni: strategie di difesa della posizione. Sono operazioni che fanno
aumentare le barriere all’ingresso. Ciò porta come conseguenza una riduzione dei risultati.
 Disinvestimento parziale: un’impresa può decidere di eliminare alcune attività (considerate non
più profittevoli o comunque a cui vi può rinunciare perché non ritenute strategiche)
 Uscita dal mercato:
4) La definizione della strategia
5) L’adattamento della struttura organizzativa: l’organizzazione si adatta modificando le proprie strutture
per adattarsi.

Lo sviluppo dimensionale: è un obbiettivo prioritario. Ci troviamo all’interno delle strategie di sviluppo, quindi di
corporate.
Esempio: Barilla anni 75, leader nel settore della pasta. Il consumo è giornaliero, è rivolto al target familiare. Il
mercato della pasta in quegli anni è un mercato di maturo. Lo sviluppo del prodotto non era un’alternativa per la
crescita e lo sviluppo dell’impresa. Trovare slide.

Il caso Barilla ci permette di tracciare elementi importanti. Da un lato abbiamo visto che le diverse alternative di
sviluppo dell’impresa possono essere quelle di penetrare nel mercato, ampliare i mercati con gli stessi prodotti,
sviluppare diversi prodotti con riferimento agli stessi mercato oppure di diversificare. La diversificazione all’interno di

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un settore che presenta analogie con il settore di provenienza, viene definita diversificazione laterale. Una
diversificazione conglomerale avviene quando non si ha un legame tra le due attività. Questa analisi ci permette
come si sviluppa un processo di analisi strategica e come una scelta di sviluppo dimensionale, come quella della
diversificazione, non può che tener conto di quelli che sono da un lato, l’orientamento competitivo dell’azienda, e
dall’altro lato la traduzione di queto tipo di scelta in tanti aspetti tecnici che definiscono poi l’offerta.
Il caso Barilla, nello specifico i frollini della mulino bianco, ci da definizioni più chiare su quelle che sono le diverse
alternative di strategia di sviluppo dimensionale.
Classificazione delle alternative di sviluppo:
 Sviluppo mono settoriale: realizzato mediante processi di integrazione orizzontale e verticale.
 Lo sviluppo orizzontale: porta ad un ampliamento del volume d’affari mantenendo lo
stesso mercato. Si ha un’espansione interna dell’organizzazione, si ampliano le
potenzialità degli impianti oppure si acquistano ex-novo altre unità produttive, oppure si
acquistano imprese similari. L’obiettivo è l’aumento della quota di mercato aumentando
la gamma dei prodotti, ampliano il numero di segmenti di mercato e allargandosi anche
geograficamente. I fattori chiave per l’attuazione di strategie di sviluppo orizzontale sono
le capacità di marketing, che consentono di realizzare una politica di spinta nel mercato
e quelle finanziarie che forniscono le risorse di capitale necessario per l’espansione.
 Lo sviluppo verticale: si traduce in un’espansione delle operazioni nell’ambito di stadi
posti a monte o a valle del processo produttivo. Si ha infatti quando un’azienda assume il
controllo di uno stadio di produzione o di distribuzione immediatamente collegato a
quello in cui già opera.
Nello stesso settore produttivo si ritrovano imprese più integrate (ovvero che hanno
maggiormente internalizzato la produzione di beni e servizi da impiegare nel ciclo
produttivo) e imprese che hanno invece preferito concentrarsi sul processo base per
ricorrere poi al mercato per procurarsi le altre risorse di cui hanno bisogno. La
spiegazione a questo comportamento si basa sulla formulazione della teoria dei costi di
transazione: l’impresa deve quindi, per decidere se produrre o acquistare beni e servizi
di cui necessita, comprare il costo di transazione che è collegato al processo esterno di
approvvigionamento (in aggiunta ai costi per ricercare le informazioni, reperire il
fornitore, stipulare contratti etc.) con il costo di produzione che deve sostenere per
realizzare al suo interno gli stessi beni o servizi. Ovviamente più i costi di transizione si
complicano e più sarà poco conveniente per l’impresa rivolgersi al mercato per le risorse
necessarie al processo produttivo, perché bisogna considerare anche la disponibilità e
precisione di consegna da parte dei fornitori, i trasporti etc. Inoltre, se si considerano
magari risorse speciali, si avrà un maggior rischio per l’impresa che dovrà legarsi per
forza di cose a uno o magari pochi fornitori (make it or buy it).

 Sviluppo poli settoriale: che assume le forme della diversificazione laterale (basata sull’esistenza
di un collegamento in termini tecnologici o di marketing tra produzioni vecchie e nuove) e
conglomerate dove invece le nuove produzioni che non presentano affinità con quelle
precedenti né in termini tecnologici ne in termini di marketing. Abbiamo quattro situazioni
differenti di prodotto:
 Affini sotto il profilo tecnologico e di marketing (es macchine lavabiancheria e
lavastoviglie)
 Affini in termini tecnologici ma non in termini di marketing (carta da imballaggio e carta
da parati)
 Affini in termini di marketing ma non in termini tecnici (prodotti alimentari e prodotti per
la pulizia della casa
 Senza alcuna affinità (materie plastiche e prodotti dolciari)
 Sviluppo internazionale: che si concretizza in un processo di espansione internazionale del
mercato o di indirizzo multinazionale della gestione. La strategia di espansione è divenuta quasi
un’esigenza sia per il necessario ampliamento dei mercati di sbocco sia per trasferire l’attività
produttiva in contesti più favorevoli. Quest’espansione si realizza per tappe successive con gradi
di rischiosità crescenti perché è difficile ovviamente muoversi in un ambiente che non si conosce
e non è familiare soprattutto per prevedere uno sviluppo delle vendite; quindi, bisogna
cominciare a fare esperienza nel modo meno rischioso iniziando magari dalle esportazioni e poi
passare a forme più stabili di presenza all’estero.

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Se analizziamo il processi di sviluppo dimensionale possiamo esaminare quali sono effetti, i limiti e la cause.
-I vantaggi: l’aumento dei ricavi che si può tradurre in maggiori volumi o prezzi più favorevoli o entrambi. Riduzione
dei costi di gestione e di produzione.
-gli svantaggi: diseconomie di scala, ovvero l’aumento delle dimensione aziendale provoca un aumento del costo
marginale dell’output e quindi il costo medio della produzione. Un’impresa che cresce può perdere il controllo
dell’attività (specialmente quando la crescita è molto rapida). Aumenta la visibilità sul mercato scatenando reazioni
maggiori da parte dei concorrenti.
-i limiti: l’insieme di risorse che un’impresa ha. Per poter alimentare il percorso di crescita le risorse fondamentali
sono quelle manageriali, organizzative e risorse di capitale. Ci sono dei limiti esterni dati dallo sviluppo della
domanda e il clima competitivo in cui l’impresa opera.
- le cause: interne (risorse aziendali maggiormente fruttabili), esterne (si crea un’opportunità e le imprese vogliono
sfruttarla).

Il caso Barilla ci mostra come gli elementi di fondo delle scelte riguardanti lo sviluppo dimensionale si siano proiettati
verso una scelta differenziazione dell’offerta. Differenziazione significa rendere il proprio prodotto/servizio
differenze rispetto agli altri alla percezione del cliente. Questo è una scelta di strategia competitiva. Questa è una
delle alternative competitive finalizzate al raggiungimento di un vantaggio competitivo.

Caso Disney: situato in un certo momento storico, 1984. Disney prima dell’arrivo di Michael Eisner (presidente
Disney). Disney aveva un forte vantaggio competitivo sul mercato. Fino al 1984 generava profitti tramite il 77% dai
parchi a tema e l’1% incassi cinematografici. Michael E. capì una serie di cose. Poteva puntare il vantaggio
competitivo Disney sulla capacità di produrre personaggi che diventavano miti. L’elemento di fondo era quello di
realizzare personaggi o sfruttare meglio i personaggi presenti. Altro elemento principale, oltre ai parchi a tema, era
quello di creare nuovi lungometraggi ogni anno. Tutto ciò ha portato ad aumento dei prezzi dei parchi a tema. Non
c’era concorrenza e c’era un alta fidelizzazione della clientela, la domanda quindi era poco sensibile alla variazione
del prezzo. Solo tramite questa decisione aumenta altamente il fatturato nel giro di 4 anni. Lo sviluppo di prodotti poi
era fondamentale, film, programmi televisivi e merchandising e l’utilizzo di personaggi anche per altri attività. Ciò ha
permesso a Disney di ampliarsi. Dall’analisi di Disney emerge che la capacità di realizzare nuovi personaggi, elemento
base di Disney. La fortissima differenziazione che può rappresentare un vantaggio competitivo è la capacità di creare
nuovi prodotti. Da questa analisi possiamo concludere quale sia una delle diverse alternative di strategie
competitive. Secondo Micheal Porter le alternative di strategie competitive sono tre:
 Leadership di costo: l’obbiettivo di creare un vantaggio competitivo avviene tramite una
diminuzione di costo rispetto a quello dei concorrenti mantenendo alto però il livello dei ricavi.
 Orientamento di differenziazione: non è tanto la diminuzione dei costi ma la possibilità di
aumentare i ricavi attraverso investimenti volti ad aumentare i valori percepiti dei prodotti o dei
servizi spingendo ad un amento dei ricavi molto consistente.
 Strategia di nicchia: quando le imprese tendono a concentrarsi in posizioni poco attrattive per gli
altri concorrenti.

-Caso settore compagnie aeree: sono entrate nuove compagnie che hanno avuto consistenti vantaggi competitivi, le
compagnie low cost. Esse puntano su una leadership di costo. Hanno un’offerta sui servizi di base. Alitalia attua la
differenziazione produttiva per contrastare le compagnie low cost. altre compagnie aeree voli di nicchia.
L’impresa può portare avanti le strategie di sviluppo dimensionale attraverso:
 Sviluppo interno: nuovi impianti, investimenti etc.
 Acquisizioni aziendali
 Interno sistema di accordi realizzati tra le imprese: alleanze strategiche.
 Creazione di aggregazioni tra le imprese (nel caso di piccole imprese, si aggregano tra di loro)
Esempio: Luxottica. In cinquant’anni diventa leader mondiale in questo campo.

Modelli di analisi strategica


Secondo questi diversi modelli possiamo distinguere tra:
-modello razionale: la strategia è vista come processo razionale.
-modello processuale: processo continuo di apprendimento (learn by doing).
-modello imprenditoriale: modello di strategia dove la strategia viene collocata all’interno della mente.

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IL PROCESSO DI GOVERNO DELL’IMPRESA

Dirigere: dare ordini e controllare l’esecuzione successiva degli ordini. Questa visione oramai superata da una visione
completamente diversa. La direzione aziendale si concentra nel processo di formulazione della strategia e della
politica di gestione. Facciamo riferimento all’attività manageriale. La gestione d’impresa, orientata alle strategie
definite dal vertice imprenditoriale, richiede un’attività manageriale, richiede un’attività manageriale non solo per
completare le sequenze decisionali sul piano operativo, ma anche e soprattutto per disciplinare l’uso delle risorse
disponibili. A chi dirige compete la responsabilità dell’efficienza nell’impiego del fattore umani, dei mezzi tecnici e
finanziari, delle competenze tecnologiche e commerciali. Tra il momento strategico e quello dell’esecuzione

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s’interpone il processo o <<ciclo>> di direzione, rivolto a coordinare le azioni previste a livello imprenditoriale
nell’ottica del raggiungimento degli obbiettivi di gestione.
Il processo è ciclico chi dirige l’impresa svolge continuamente attività di programmazione, organizzazione,
conduzione e controllo. La funzione di direzione richiede in sostanza l’assunzione simultanea di atti di decisione, di
impiego delle risorse, di conduzione degli uomini e di valutazione delle prestazioni. Ogni attività di gestione va infatti
programmata, stabilendo in anticipo gli obbiettivi da raggiungere, le decisioni e le modalità di svolgimento da
rispettare e le risorse da impiegare; organizzata, individuando chi e con quali poteri e responsabilità dovrà curarne la
realizzazione; guidata, fornendo le direttive e motivando gli organi operativi; e, infine, controllata, valutando i
risultati raggiunti rispetto a quelli programmati. Da ciò scaturisce il concetto di un vero e proprio processo o <<ciclo
di direzione>> le cui fasi sono la programmazione, l’organizzazione, la conduzione e il controllo. Ogni ciclo si svolge,
nelle sue varie fasi, mediante le informazioni che fluiscono all’interno dell’impresa e che debbono essere completate
con quelle proveniente dall’ambiente esterno. Sotto questo profilo si attiva anche un ciclo informativo, perché il
controllo produce informazioni, la programmazione richiede dei dati così ottenuti con quelli relativi al contesto
esterno, la conduzione comporta il trasferimento di informazioni da chi dirige a chi esegue e, infine, chi esegue deve
trasmettere i risultati della propria attività agli organi di controllo. Qualsiasi attività di decisione si basa su un
continuo susseguirsi di processi informativi.

Funzione organizzativa:
organizzare: ordinare un sistema di parti interdipendenti e correlate. In senso aziendale, le parti sono gli organi
dell’impresa e l’organizzazione si rivolge a disciplinare i compiti, i poteri e le responsabilità che ciascuno di questi
dovrà assumere nel corso della gestione. La concezione che viene utilizzata è una concezione ristretta del termine e
che attribuisce all’organizzazione lo scopo prevalente di ordinare compiti, responsabilità e relazioni delle forze
personali presenti nell’impresa. La funzione organizzativa ha l’obbiettivo di definire:
 I criteri decisionali, di controllo ed esecutivi da istituire nell’impresa e, di conseguenza, l’organico
di personale necessario.
 L’autorità e la responsabilità da attribuire a ciascuna unità organizzativa.
 Le relazioni formali da attivare fra i vari centri
 Le procedure di decisione, di informazione e di esecuzione, necessarie per l’attuazione
coordinata delle funzioni di gestione.
Il fine fondamentale della funzione organizzativa è l’ottenimento di condizioni di massima efficienza operativa
mediante la suddivisione e specializzazione delle attività e l’opportuna loro coordinazione in un sistema integrato di
obbiettivi, poteri e responsabilità. L’obbiettivo è quindi quello di far raggiungere un miglior risultato a parità di sforzo
sostenuto, oppure identico risultato con sforzo minore. In base a questo ragionamento il risultato dell’attività di un
gruppo di persone dev’essere superiore alla somma dei risultati ottenibili da ciascuno dei membri del gruppo stesso,
operanti isolatamente.

Esempio: fabbricazione spilli proposto da Adam Smith. L’economista osservò che il processo di fabbricazione di uno
spillo poteva essere scisso in 18 operazioni distinte da affidare a persone diverse in modo tale da farle specializzare
nell’esecuzione di una fase soltanto. Egli rilevò, in una fabbrica che occupava solo 10 uomini, che la specializzazione
consentiva di raggiungere una produzione giornaliera di 48000 spilli, cioè 4800 a persona, mentre un operaio isolato,
incaricato di attuare tutte le operazioni, non avrebbe potuto produrre più di 20 spilli al giorno. Da questo esempio
possiamo affermare che la specializzazione e la coordinazione del lavoro si prestano a far conseguire dei risultati
maggiori di quelli ottenibili sommando le prestazioni individuali, realizzate in assenza del supporto organizzativo.

Il primo problema che tocca la funzione organizzativa è quello della progettazione, scelta del modello e della
progettazione dell’intero sistema organizzativo.
La progettazione deve tener conto che la struttura può essere pianificata ma può essere anche spontanea. Le
strutture pianificate sono quelle definite dal management a fine di preservare un coordinamento generale
dell’organizzazione. La struttura spontanea è fondata sui rapporti interpersonali dell’impresa. Nelle strutture più
semplici la definizione dei ruoli è più flessibile.
Come si sviluppa il processo di progettazione. Progettazione significa individuare una serie di obiettivi e le funzioni
organiche (funzioni di gestione che si caratterizzano per una esigenza di forte specializzazione interna). Il secondo
passaggio è la definizione del sistema di poteri e responsabilità (attribuzione dei compiti etc.). Altro passaggio è
quello di definire il sistema di relazione tra i vari organi.
L’obbiettivo è quello di passare da una struttura spontanea a una codificata.

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Uno degli elementi base nella fase della progettazione è quello riguardante l’individuazione dei modelli di struttura
organizzativa.
-modello organizzativo di tipo semplice: è comune ad aziende di piccole dimensioni a conduzione familiare,
caratterizzate dal prevalere di rapporti interpersonali in assenza di un piano organizzativo.
-modello funzionale
-modello divisionale
-modello a matrice/progetto

Modello funzionale: si caratterizza per la suddivisione delle aree di responsabilità in termini di funzioni primarie
della gestione. Queste ultime possono variare da impresa a impresa, in rapporto al carattere di essenzialità rivestito
nell’attuazione del processo decisionale. Con il termine funzione intendiamo un insieme di compiti o mansioni
complementari e interdipendenti rispetto ad un fine. Nell’azienda le funzioni si collegano secondo un sistema
articolato su più livelli. Al primo si collocano le funzioni organiche, cioè quelle che assicurano l’operatività del sistema
e che si caratterizzano in base a quattro criteri:
1. L’universalità, cioè la presenza in tutti i sistemi dello stesso tipo
2. L’essenzialità rispetto al conseguimento delle finalità primarie del sistema
3. La possibilità di suddivisione o articolazione per linee gerarchiche
4. L’impossibilità di aggregazione con altra funzione
Il modello funzionale è diffuso nelle aziende poco diversificate per tecnologie, prodotti, e mercati e abbastanza
stabili sotto il profilo strategico ed operativo, ovvero in tutti quei casi in cui la ripetitività delle procedure gestionali
rappresenta un elemento prevalente della gestione stessa. Il punto di debolezza che però si riscontra è il mino
coordinamento tra le diverse aree di responsabilità e una minor spinta all’innovazione.
Modello divisionale: comporta il frazionamento dell’organizzazione aziendale in più parti, ciascuna delle quali
potrebbe rappresentare un’impresa a sé stante e costituire, quindi, un centro di profitto affidato alle cure di un
diverso capo. Grazie alla sua capacità di separare settori di business abbastanza vasti, così da facilitarne la gestione,
la struttura organizzativa divisionale risulta essere adatta alle grosse aziende. Il criterio centrale è quello di
decentrare le funzioni che possono ritrarre i maggiori benefici dalla specializzazione e di accentrare quelle che
richiedono un più elevato coordinamento sul piano aziendale. Meno frequente il criterio divisionale è applicato in
senso territoriale (parliamo quindi di modello multi-divisionale). Il disegno multi-divisionale può anche evolvere
verso un modello di organizzazione a gruppo: un gruppo composto da una società madre (capo-gruppo) e da società
figlie (aziende controllate). I gruppi si possono distinguere in finanziari o industriali a seconda della tipologia della
società capo-gruppo. Gli svantaggi del modello decisionale sono: stimola situazioni di conflitto e competizione tra i
dirigenti; genera più elevati costi direzionali ed esige maggiore attenzione al rapporto autonomia/coordinamento tra
la direzione generale e le divisioni.

Modello per matrice:


Il modello per matrice prevede due livelli di coordinamento. Possiamo individuare questi due livelli in campi di
responsabilità orizzontali e campi di specializzazione verticali. La costruzione di questa struttura organizzativa deve
essere completata mediante la definizione dell’ampiezza e dei limiti della delega dei poteri direzionali. Vi è una
preferenza verso strutture appiattite o corte (lean organization) in cui vengono accorciati i canali di comunicazione,
creando così un miglior rapporto tra organi direttivi ed esecutivi, e all’interno di queste strutture i processi di
informazione e decisioni vengono svolti senza il vincolo di troppi filtri gerarchici istituzionali. La scelta dell’ampiezza,
che è semplicemente legata alla determinazione delle dimensioni verticali e orizzontali, ci permette di definire le
dimensioni del gruppo che può essere guidato da un unico dirigente prendendo in considerazione l’insieme di fattori
specifici e generali che deve controllare.
-condizioni che limitano l’ampiezza del controllo direttivo: poca o nessuna formazione del personale, interazione
carente tra superiore e subordinati, compiti complessi da seguire etc.
-condizioni che estendono l’ampiezza del controllo direttivo: formazione completa dei subordinati, interazione
efficace tra superiore e subordinati, dirigenti competenti e ben addestrati etc.
I vantaggi di questo modello organizzativo sono legati all’innovazione mentre gli svantaggi sono rappresentati dai
problemi inerenti il coordinamento dati i due livelli.

Definizione delle procedure decisionali e operative:


Una volta scelto il modello ci dobbiamo occupare della definizione delle procedure o <<routine organizzative>>.
Queste procedure vengono programmate in fase di avviamento dell’impresa e si arricchiscono poi durante il tempo.
Per il funzionamento dell’organizzazione si possono distinguere quattro differenti tipi di procedure:
a) Procedure operative: disciplinano lo svolgimento di attività esecutive

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b) Procedure di controllo: dirette a seguire gli andamenti di gestione
c) Procedure di informazione: per alimentare i flussi di conoscenza all’interno dell’organizzazione
d) Procedure decisionali: servono per definire la sequenza degli interventi e i ruoli rivestiti nell’assunzione delle
decisioni.
Le procedure, quindi, stabiliscono le norme di comportamento adottabili in modo ricorrente nel tempo per la
soluzione di problemi similari o analoghi. La regolamentazione dettagliata della successione di decisioni si traduce in
una serie di norme, può essere rappresentata graficamente da un diagramma di flusso (flow-chart) oppure definita in
forma descrittiva, ciò va in base alla complessità delle decisioni.

Rapporto tra scelte organizzative ed efficienza aziendale:


La funzionalità organizzativa è uno dei presupposti fondamentali dell’efficienza gestionale. La componente
organizzativa assume un valore rilevante a prescindere dalla dimensione dell’impresa, perché è lo strumento
essenziale per un aumento di produttività del lavoro e un miglior impiego di tutte le risorse disponibili. Un impresa
meglio organizzata riesce a conseguire vantaggi maggiori in termini di produttività e di economicità della gestione
rispetto ai concorrenti.

La funzione strategica e operativa della gestione:


La funzione di programmazione aziendale:
Premessa: programmazione diverso da previsione = c’è un rapporto strumentale, sono collegati ma non sono
sinonimi. Il processo di programmazione deve essere collegato ad un processo di controllo (sono due facce della
stessa medaglia). La funzione di programmazione assume un ruolo centrale nel ciclo di direzione aziendale perché si
propone di predefinire e, soprattutto, coordinare il corso futuro della gestione. La programmazione è un processo di
predeterminazione degli obbiettivi, delle politiche e delle attività da compiere entro un determinato periodo di tempo.
La programmazione si basa su previsioni che mirano ad anticipare l’evoluzione del macro e microambiente (variabili
economiche, competitive, sociali, etc.) in modo da guidare i comportamenti e le scelte aziendali future. La differenza
quindi sostanziale tra prevedere e programmare è che la prima si milita a prefigurare l’andamento di fenomeni che
possono interessare la vita dell’impresa, mentre la seconda porta all’assunzione di decisioni gestionali che
richiedono l’impiego di risorse.

Le caratteristiche essenziali della programmazione:


Le caratteristiche essenziali della programmazione sono:
 La formalizzazione: finalizzata alla redazione di programmi scritti, sistema formalizzato di piani
 La quantificazione: quantificazione degli obbiettivi e delle risorse
 L’integrazione: in relazione alla gestione del piano (commerciale etc.)
 La pluriennalità: riferita ad un opportuno arco temporale.
Altre caratteristiche che rendono il processo di programmazione efficace sono l’iteratività e l’interattività poiché
avviene per tentativi e per aggiustamenti, sulla base di ripetute valutazioni dei vincoli aziendali interni ed esterni, dei
comportamenti assumibili nei principali campi della gestione, delle influenze e delle reazioni degli stessi organi
coinvolti nella loro attuazione.
La costruzione del budget: Un piano per essere completo ed efficace, deve infatti prevedere non soltanto delle
prestazioni fisiche ma anche valutare l’impatto sul bilancio aziendale. È necessario quindi comporre un bilancio
preventivo o budget che permetta di stimare il probabile esito della gestione. Il budget rappresenta uno strumento
indispensabile per l’attuazione del controllo di gestione ovvero per valutare le performance dei vari organi
dell’impresa. Dovrà essere quindi redatto un budget finanziario (documento di programmazione degli usi e delle
fonti di capitale) a cui va affiancato un budget o piano di cassa (governa il flusso monetario di entrate e di uscite).

Il processo di costruzione dei piani:


Il processo di programmazione, per essere veramente efficace, si deve tradurre in un sistema di piani che si
differenziano secondo:
 Contenuti (piani strategici o innovativi e piani operativi o di adattamento)
 L’ambito gestionale (piani globali, piani di aree di affari e piani di funzioni)
 L’orizzonte temporale (piani di lungo o breve termine)
 Il grado di analisi (piani-progetto, ovvero progetti di massima, e piani programma o piani
esecutivi)

I due tipi fondamentali di piani sono:

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 Piano strategico: elemento di riferimento di tutto il sistema in quanto sia il piano operativo sia i
singoli piani di funzione dovranno essere elaborati in vista del perseguimento degli obbiettivi di
lungo termine. La formulazione del piano strategico richiede la predisposizione di:
 Piano di sviluppo
 Piano di investimenti
 Piano organizzativo
Il piano strategico potrà poi essere articolato in piani di breve termine (piano operativo)
 Piano operativo: piani di breve termine che configureranno la programmazione di esercizio.
Al piano strategico, quindi, deve essere affiancato un piano operativo e verrà applicata la tecnica dello scorrimento.
In pratica, il piano di lungo termine verrà fatto <<scorrere>> nel tempo, in modo da coprire sempre un uguale
periodo di gestione. La tecnica dello scorrimento consisterà nell’aggiungere, anno per anno, un nuovo segmento
annuale, dopo aver eventualmente rettificato i valori dei segmenti precedenti in rapporto ai risultati conseguiti.
Altro punto da analizzare nell’ambito della programmazione strategica e operativa è che lo sviluppo dell’impresa può
presentare dei vincoli esterni ed interni:
 Vincoli interni: potenzialità produttiva, organizzativa, finanziaria ed economico-strutturale
(rapporto tra ricavi, costi fissi e costi variabili).
 Vincoli esterni: sono quelli connessi al mercato (domanda e offerta), con il progresso tecnologico
e con la regolamentazione pubblica.
La programmazione strategica ha la finalità di modificare il sistema di vincoli entro cui opera l’impresa e viene
impostata principalmente sulla base degli obbiettivi da raggiungere (programmazione a lungo termine). La
programmazione operativa ha lo scopo di adattare l’attività corrente ai vincoli esterni ed interni alla gestione
aziendale e parte dall’analisi e valutazione delle risorse disponibili.
Oggi l’orizzonte previsionale di un’impresa non tende ad andare al di la dei cinque anni e viene scelta una
programmazione triennale se non biennale e la programmazione a lungo termine tende infatti ad assumere sempre
più il significato di “programmazione degli imprevisti”.

Elementi del piano di gestione:


Un piano risulta essere costituito da quattro elementi:
1. Obbiettivi: traguardi cui dovrà tendere l’organizzazione. Gli obbiettivi sono il risultato di un compromesso tra
le attese del gruppo imprenditoriale e le realtà da fronteggiare.
2. Politiche: le linee generali di azione. Le politiche rappresentano la struttura portante del processo di gestione
in quando stabiliscono delle guide per decisioni future.
3. Operazioni: attività da attuare durante la gestione
4. Risorse: servono a capire quali opportunità-vincoli da rispettare nello svolgimento di tali operazioni.
Questi elementi fanno parte di un sistema circolare in cui tra ogni elemento sussiste una stretta interrelazioni perché
la fissazione definitiva degli obbiettivi non potrà prescindere dalle politiche effettivamente attuabili e, soprattutto,
dalle risorse disponibili. In effetti l’impresa è naturalmente protesa a massimizzare i risultati di gestione entro i limiti
posti dall’ambiente esterno (analizzati medianti studi di mercato) e dalla struttura interna (risorse); per fare ciò
dovrà definire un insieme di politiche che, tenuto conto dei vincoli predetti, potranno consentire di ottenere gli
obbiettivi di periodo.
Un programma decisionale può essere costruito a livello alto direzionale e imposto al resto della struttura (top-
down), o altrimenti a livello basso (bottom-up). In entrambi i casi si verificherà un problema di contrattazione
all’interno dell’organizzazione perché dall’alto si tenderà a proporre e fare accettare obiettivi elevati e dal basso si
richiederanno sempre più risorse.

Si può avere una diversa impostazione della programmazione (rispetto a quella analizzata fino ad ora che
comprendeva la fissazione di obbiettivi sulla base delle previsioni di mercato) di tipo più aggressivo nei confronti del
mercato. Questa procedura si basa sull’analisi del divario (gap analysis) e parte dalla fissazione degli obbiettivi che
l’azienda intende raggiungere. Il procedimento si sviluppa nel valutare i modi di eliminazione dell’eventuale divario
rispetto alla tendenza del mercato. I punti fondamentali di questo procedimento sono:
 La fissazione degli obbiettivi di piano senza tenere conto in partenza dei prevedibili andamenti di
mercato.
 La previsione degli obbietti raggiungibili invece nell’ipotesi di una prosecuzione delle tendenze di
mercato e della ripetizione delle azioni di gestione già attuate in passato
 La determinazione del divario tra gli obbiettivi soggettivamente desiderati e quelli realizzabili in
assenza di innovazioni nella gestione

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 Individuazione delle modalità di eliminazione di questo divario, cioè definizione della strategia e
delle politiche necessarie per rendere compatibili le aspirazioni imprenditoriali con previsti
andamenti di mercato.
 La determinazione definitiva degli obbiettivi di piano.
Secondo questa tipologia di programmazione a seconda dell’entità del divario emergente l’azienda dovrà decidere se
e in quale misura tentare di eliminare il divario mediante innovazioni nei segmenti fondamentali della gestione
(immissioni di nuovi prodotti, ricerca nuove zone di vendita etc.) oppure se risulterà più conveniente fissare
obbiettivi più in linea con le tendenze di mercato.

Le premesse previsionali e la flessibilità dei piani:


I piani di gestione non possono essere rigidi ovvero immodificabili ma devono avere la capacità di poter essere
adattati ai mutamenti che presenta il mercato. I programmi sono sempre definiti in rapporto ad un insieme di
premesse, legate all’andamento dei fenomeni interessanti l’impresa. Le premesse possono essere di tre tipologie:
a) Premesse non controllabili: sono variabili che l’azienda non può controllare in nessun modo (inflazione)
b) Premesse semi-controllabili: pur non essendo totalmente controllabili si prestano ad essere influenzate
dall’azienda in misura più o meno rilevante (politica di prezzo)
c) Premesse controllabili: l’azienda su di esse può esercitare un controllo perché dipendenti dal suo
comportamento (ampliamento della gamma di vendita, adozione di un programma impegnativo etc).
in riguardo alle premesse la teoria da seguire è che i piani, date le premesse, non dovrebbero mai assumere un
carattere vincolante poiché, a causa dell’evoluzione di continua di condizioni esterne ed interne, potrebbero risultare
in parte o del tutto superati.
NB: il processo di programmazione richiede sempre una sequenza che si compone di quattro stadi: previsione,
pianificazione, controllo e revisione del piano.

Il business plan: contenuti e finalità:


Business plan= (o piano d’impresa) documento che descrive contenuti e caratteristiche di un progetto
imprenditoriale allo scopo di valutarne anticipatamente la flessibilità tecnica, economica e finanziaria. Il piano deve
delineare il futuro disegno di gestione per giungere a formulare una stima attendibile del risultato economico.
Finalità del business plan: il business plan svolge tre funzioni
 Strumento di pianificazione e controllo: fornisce la base di confronto per valutare la bontà dei
risultati conseguiti. È uno strumento di comunicazione interna che indica ai diversi componenti
aziendali il senso di marcia comune, definisce le responsabilità individuali, compiti specifici e
tempi di realizzazione degli obbiettivi.
 Rappresenta un’occasione di riflessione strategica per l’imprenditore. Un tratto distintivo
dell’imprenditore abbiamo detto essere la “prontezza imprenditoriale. Egli deve avere una
maggiore capacità di visione che gli consente di cogliere opportunità imprenditoriali che per altri
rimangono celate. Il business plan impone una riflessione anticipata sulle difficoltà di ciascuna
scelta, consentendo di individuare anticipatamente i possibili errori associati alla
sottovalutazione degli aspetti problematici celati dietro l’iniziativa imprenditoriale.
 Strumento di comunicazione esterna: con cui l’imprenditore può presentare la sua idea a
potenziali finanziatori nel caso ci sia la necessità di colmare un gap iniziale di risorse.
Contenuti del business plan:
Sommario: L’elemento più critico per conquistare fin da subito l’interesse e l’attenzione di chi legge il business plan è
condensato nelle prime due o tre pagine con cui esso si apre. È il cosiddetto sommario (executive summary); non è
solo una semplice introduzione ma costituisce un vero e proprio documento di riepilogo in cui si presentano
brevemente natura e finalità del progetto, fornendo gli elementi necessari per la sua valutazione.
Business idea: i business plan deve poi piegare i connotati di unicità della “business idea” (idea imprenditoriale)
fornendo gli elementi utili a valutarne anticipatamente la validità e la fattibilità. La business idea è composta da tre
elementi:
 Il sistema di prodotto che identifica l’offerta rivolta al mercato
 Il segmento di mercato, ossia la tipologia di clienti cui l’impresa si rivolge
 Le risorse interne attraverso le quali realizza l’idea imprenditoriale.
Quando questi tre elementi sono coerenti tra di loro si può formare un sistema di dominanza competitiva, in cui
l’impresa ottiene un vantaggio competitivo mediante l’articolazione di un sistema di offerta che abbia maggior valore
per il mercato e che sia differente rispetto alle alternative offerte dai concorrenti.

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Piani operativi: sono la rappresentazione delle scelte strategiche. I piani operativi forniscono indicazioni dettagliate
sulle azioni da realizzare e i risultati da conseguire:
 Piano marketing: si descrivono le scelte compiute a livello di marketing. Vanno ipotizzate le
scelte di prezzo, il piano di comunicazione, i canali distributivi prescelti, la struttura della forza-
vendita e i costi di commercializzazione.
 Piano di produzione e piano di approvvigionamento: viene presentata la struttura tecnico-
industriale dell’impresa, macchinari attrezzature, determinare le scelte di male it or buy , costi di
produzione, tecniche di controllo e i processi di ricerca e sviluppo.
 Piano degli investimenti: serve a quantificare il capitale necessario per la costituzione
dell’impresa e per il suo funzionamento.
 Piano economico finanziario: redazione di bilanci previsionali (3-5 anni).
Uno dei passaggi più critici è quello relativo alla previsione delle vendite. Stimare in maniera attendibile la natura e
l’entità della domanda che un’impresa potrà ragionevolmente aspettarsi di ricevere dal mercato in un determinato
arco di tempo è sempre un esercizio molto difficile (specialmente nell’ambito di una nuova costituzione in cui vi è la
mancanza di dati storici). Un’errata formulazione della previsione dei volumi di vendita può condizionare
l’attendibilità e l’utilità del business plan. Dalla previsione delle vendite dipende la costruzione del piano di
produzione, del piano degli investimenti, del piano di approvvigionamenti e del piano economico-finanziario.

Il sistema di controllo direzionale:


Per controllo viene inteso un mezzo guida del lavoro e delle funzioni svolte a qualsiasi piano della struttura. Il
termine controllo, quindi, non è più inteso come forma di valutazione dell’efficienza, dell’onestà e della diligenza dei
dipendenti ma viene concepito in senso attivo come mezzo per individuare le eventuali insufficienze dell’azione, allo
scopo di stimolare autonomamente gli interventi di correzione e favorire lo spirito di iniziativa del personale. Il
controllo si interpone tra il processo decisionale e quello operativo.
Il processo di controllo è distinto da quattro fasi:
1. Controllo antecedente: controllo fatto rispetto alle decisioni strategiche da assumere. È un controllo
preventivo.
2. Controllo concomitante: ha lo scopo di seguire lo sviluppo della gestione e di garantire il rispetto degli
obbiettivi fissati in sede di costruzione dei piani. Questa procedura è costituita da 4 fasi:
 Determinazione degli obbiettivi da raggiungere entro un certo tempo
 Rilevazione periodica dei risultati via via ottenuti
 Analisi delle cause di eventuali scostamenti
 Interventi di correzione per riportare i risultati in linea con il piano o per modificare quest’ultimo.
Gli interventi potranno essere di tre tipi: di natura organizzativa, promozionale o di modifica degli obbiettivi
programmati. L’attuazione della programmazione e del controllo operativo consente di realizzare il tipo più efficace
di conduzione dell’attività aziendale: la direzione per obbiettivi e il controllo per risultati, più nota come M.B.O
(Menagement by objectives). La possibilità di attribuire a ciascun responsabili un obbiettivo da raggiungere e di
sorvegliarne l’ottenimento mediante un controllo di tipo concomitante renderà più agevole il processo di
conduzione, richiedendo l’intervento degli organi superiori solo nell’ipotesi di eccezioni rispetto alle misure stabilite.
3. Controllo susseguente: determinazione di valori e di indici di efficienza aziendale. L’efficienza viene definita
come capacità di rendimento o attitudine a svolgere un certa funzione. L’efficienza può riguardare un’ottica
interna (organizzativa) ed esterna (commerciale):
4. Controllo prospettico: verifica l’idoneità della strategia in essere e dell’assetto dell’organizzazione rispetto
all’evoluzione del contesto esterno. Questo tipo di controllo “strategico” deve porsi come obbiettivo il
controllo globale della gestione aziendale e rivolgersi alla verifica della:
 Congruenza esterna del comportamento strategico adottato
 Congruenza organizzativa tra strategia e struttura aziendale
 Efficienza e qualità del management.
Il controllo strategico, dato che risulta essere proiettato al futuro, deve permettere di valutare se le scelte di
tempo lungo conservano ancora la loro validità, tenendo presente che nell’ambiente e nei mercati si possono
presentare fenomeni imprevisti. Il controllo strategico dovrebbe permettere di valutare l’efficienza del sistema di
direzione e la qualificazione del management. Questo obbiettivo di controllo richiede una trasformazione del
controllo strategico da procedura interna a procedura esterna realizzata da organizzazioni di consulenza. Se dunque
ai controlli di congruenza (esterna ed interna) della strategia si aggiungono indagini relative alla qualità dei sistemi e
delle risorse manageriali, il controllo strategico si amplia e diviene un tipo di controllo eccezionale ed esterno. In
questo senso esso si può tradurre in un vero e proprio check-up aziendale ovvero, un controllo approfondito e
sistematico delle condizioni di struttura e di funzionamento dell’organismo aziendale. Il check-up si pone come

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processo periodico di analisi e valutazione del sistema aziendale nella sua globalità per individuare in modo precoce
le cause di certe disfunzioni o stati di malessere che non si siano ancora manifestate in modo evidente e che, quindi,
possano essere eliminate o attenuate per evitare situazioni di crisi. Questo metodo consente anche di valutare le
potenzialità non sfruttate o sfruttate soltanto parzialmente, in modo da orientare il sistema stesso verso condizioni
di equilibrio superiori a quelle preesistenti.

Obbiettivi di un efficace sistema di controllo/ caratteristiche del processo di controllo:


 Equilibrare le esigenze di creatività e conformità nel funzionamento dell’organizzazione: si
devono far svolgere le attività secondo norme rigidamente prestabilite ma va comunque lasciato
uno spazio sufficiente alla creatività e allo spirito di iniziativa individuale.
 Evitare l’eccessiva proliferazione dei controlli: ciò potrebbe tradursi in un pericoloso
rallentamento dell’attività operativa e in un notevole aggravio dei costi. I controlli ovviamente
devono essere funzionali e quindi rivolti gli aspetti di maggiore importanza e finalizzati ad una
tempestiva individuazione delle inefficienze interne del mercato.
 Impiegare tecniche e strumenti adeguati e in linea con le risorse professionali e finanziarie
dell’impresa.

La funzione di direzione delle risorse umane e la leadership


La conduzione del personale:
La gestione delle risorse umane rappresenta il pilastro fondamentale dell’intera gestione aziendale e si configura
come una delle responsabilità più delicate per chi dirige un’impresa. Si tratta di dotare un organismo aziendale delle
professionalità necessarie e di assicurarsi che gli obbiettivi inseriti nell’organizzazione siano motivati al
raggiungimento degli obbiettivi gestionali.

Le diverse visioni del rapporto con il lavoratore:


 L’uomo-automa nella organizzazione scientifica del lavoro: l’uomo veniva visto come strumento
o meccanismo da inserire all’interno della macchina aziendale.
 L’uomo da motivare nella scuola delle relazioni umane: l’uomo veniva visto come individuo da
motivare
 L’uomo da far partecipare alle decisioni nella teoria sistemica.
La motivazione del personale:
il problema motivazionale può essere scomposto in due parti:
 Motivazione a partecipare: induce l’individuo ad accettare l’inserimento in azienda. Dipende
dall’attrattività dell’azienda in termini economici e di carriera.
 Motivazione a produrre: spinge ad assicurare la produttività richiesta dall’organizzazione.
I problemi della motivazione presentano aspetti soprattutto psico-sociologici, perché riguardano l’indirizzo del
comportamento organizzativo sia sotto il profilo individuale sia sotto quello dei gruppi che si formano all’interno
della struttura.

La gerarchia (o scala) dei bisogno di Maslow:


Secondo la teoria psicologica di Maslow l’individuo punterebbe alla soddisfazione di una serie di bisogni, ordinati
lungo una scala crescente di desiderabilità.
1. Bisogni primari o di sussistenza: necessità fondamentali da soddisfare per sopravvivere (nutrizione,
abbigliamento, abitazione)
2. Bisogni di sicurezza: esigenze di protezione della persona, del patrimonio, della posizione lavorativa.
3. Bisogno di socialità (affetto, appartenenza): necessità di sentirsi parte di un gruppo.
4. Bisogni di stima (reputazione o prestigio): aspirazione a riscuotere il consenso di altri
5. Bisogni di auto-realizzazione: rappresentati dalla convinzione di aver realizzato a pieno le proprie capacità
professionali e morali.
Secondo questa impostazione ogni individuo aspirerebbe a salire la scalinata dei bisogni soddisfacendo dapprima le
necessità più elementari per poi andare via via fino all’ultimo gradino. Si suppone dunque che appena raggiunto un
grado soddisfacente di appagamento di una classe di bisogni, l’individuo si porrebbe l’imperativo di soddisfare quella
successiva. Per i primi gradini conterebbero di più incentivi economici mentre per quelli successivi stimoli psicologici
o gratificazioni morali.
La teoria di Maslow ha dei punti critici:
 La scalata verso i bisogni superiori non presuppone obbligatoriamente il soddisfacimento al
100% del bisogno inferiore.

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 La separazione tra le varie categorie di bisogni è un fatto teorico perché nella realtà tra di essi vi
sono rapporti di interdipendenza
 L’ordinamento dei bisogni lungo la scala non può essere sempre lo stesso per tutti gli individui. I
bisogni sono presenti per qualsiasi individuo quello che varia è la loro importanza.
 La scala dei bisogni risente anche delle condizioni ambientali.

La distinzione dei bisogni secondo la teoria di Herzberg:


ha distinto in due grandi categorie i bisogni del lavoratore:
a) Bisogni soddisfattivi: sono quelli che una volta appagati producono gratificazione e quindi stimolano
all’azione. Fanno parte di questa categoria i fattori motivazionali ( il successo e il suo riconoscimento,
l’interesse verso il lavoro svolto e le responsabilità assunte, possibilità di promozione e avanzamento).
b) Bisogni insoddisfattivi: se non soddisfatti generano frustrazione e determinano l’inazione. Fanno parte di
questa classificazione i fattori igienici legati alla politica dell’azienda e alla sua organizzazione.

Tecniche di incentivazione del personale:


Alla luce di questi approcci teorici per un efficace motivazione bisognerebbe utilizzare incentivi sia economici che
morali. Per quanto riguarda l’incentivazione economica piuttosto che forme di gratificazione individuale
bisognerebbe attuare il principio di una ricompensa mista, formata in parte da una retribuzione fissa e in un’altra
parte da un corrispettivo legato all’esito della gestione. Ciò ha come risultato una migliore integrazione tra obbiettivi
aziendali e individuali.
L’incentivazione può assumere diverse forme e produrre diversi effetti in funzione sia dell’orientamento all’individuo
o al gruppo sia della proiezione nel breve o lungo periodo. In base a questi due elementi si può costruire una
matrice, i cui quadranti sono rappresentati da aumenti salariali, grafiche, piano di incentivi e stock option. La stock
option costituisce un accordo finanziario in base al quale ai dirigenti viene offerto il diritto di acquistare delle azioni
delle società in cui lavorano a una data futura e ad un prezzo concordato nel momento in cui viene fornita l’opzione.

Gli stili di direzione:


Lo stile di direzione può essere definito come il modello di governo dei rapporti di lavoro nell’organizzazione.
Esistono vari modelli di direzione e l’adozione di un modello rispetto ad un altro è legato al sistema dei valori
posseduto da chi dirige, alle capacità dei subordinati e alle caratteristiche della situazione entro cui deve esercitarsi il
processo di direzione. Lo stile di direzione è sempre il risultato dell’interazione di questi tre fattori. Possiamo
distinguere due stili di direzione che hanno una diversa concezione dell’uomo e del suo lavoro:
 Stile autoritario: il principio di fondo è l’esistenza di un rapporto gerarchico in base al quale il
superiore può imporre al subordinato le sue decisioni. Il rispetto di tali decisioni sarà assicurato
mediante il controllo e la minaccia di sanzioni. McClelland opera una distinzione sulle tipologie di
manager: individua un manager <<istituzionale>>, che fonda sul potere la sua conduzione
aziendale, e un manager <<affiliativo>>, che ricerca invece il consenso quale elemento di
motivazione del personale.
 Stile partecipativo o democratico: in questo stile di direzione vengono applicati i principi della
delega e dell’autocontrollo. In questo modo si crea il coinvolgimento dei subordinati nel
processo di decisione. Il capo esercita un ruolo di impulso e di coordinamento piuttosto che di
controllo
Lo studioso di organizzazione aziendale McGregor afferma che alla base di questi due differenti stili direzionali vi
sono due diverse visioni del comportamento dell’individuo rispetto al lavoro. Secondo McGregor gli uomini si
dividono in due categorie:
 Teoria X: l’uomo in generale non ama il lavoro e quindi lo svolge con sacrificio. Gli unici messi per
ottenere ch’egli lavori sono i controlli e la minaccia di punizioni. L’obbiettivo primario che egli si
pone è quello della sicurezza, evita quindi il rischio di accollarsi responsabilità e preferisce essere
diretto piuttosto che assumere ruoli di leadership.
 Teoria Y: il lavoro è accettato dall’uomo come un fatto naturale, necessario e utile quanto lo
svago e il riposo. Non vi è quindi la necessità che il lavoratore subisca minacce e controlli. Vi è la
volontà di ottenere maggiori responsabilità per salire nella scala dei bisogni. In questa tipologia
di lavoratore emerge le capacità creativa, l’immaginazione e la fantasia.

Risulta quindi chiaro che l’obbiettivo e gli sforzi di chi ricopre ruoli dirigenziali dovrebbero essere tesi all’applicazione
della teoria partecipativa, in modo tale da sfruttare le motivazioni individuali a vantaggio dell’efficienza produttiva.
Risulta poi strategica la capacità del dirigente di far nascere e consolidare stretti legami di gruppo nel contesto

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aziendale. Se tra i componenti di gruppo (clan) nascono valori comuni di impegno nei confronti degli obbiettivi
assegnati al gruppo stesso dal superiore gerarchico la supervisione del comportamento e delle prestazioni finisce per
essere assicurata da forme interne di controllo di gruppo. William Ouchi ha introdotto il concetto del clan. La forma
del clan è adatta a governare specialmente in caso di equilibrio a lungo termine: la profonda socializzazione che lega
le persone appartenenti al clan favorisce il formarsi della fiducia reciproca.

L’adozione di uno stile direzionale partecipativo è legata all’accettazione della leadership del capo. La leadership
consente di indurre modificazioni nel comportamento di altri individui, senza far ricorso ai meccanismo dell’autorità
formale, ma sfruttando l’autorevolezza per ottenere dagli altri l’adesione a progetti e programmi organizzativi.
Solo un’adeguata motivazione ed un costruttivo esercizio della leadership possono contribuire a tenere elevate le
performance dei singoli e dell’organizzazione nel suo complesso.
La leadership si basa su valori innati nella persona ovvero sulle sue doti carismatiche. Essere un leader significa saper
creare spirito di corpo, ottenere il consenso e la collaborazione volontaria delle persone e fa chiaramente
comprendere i valori di fondo da porre a base dell’adozione collettiva.

Il ruolo delle mansioni nella motivazione del personale:


La motivazione del personale si basa, oltre all’incentivazione e sulla buona leadership, anche sull’efficace gestione
delle mansioni. Il ruolo di chi dirige deve essere non solo quello di creare la massima armonia, ma anche di
valorizzare al meglio le caratteristiche delle risorse umane a disposizione, effettuando al meglio l’assegnazione del
personale nelle varie posizioni organizzative (staffing). Ai fini dell’obbiettivo motivazione (motivazione a produrre)
appare dunque importante l’analisi delle mansioni (job-analysis), cioè lo studio approfondito e sistematico delle
singole posizioni organizzative, diretto a valutare le caratteristiche delle operazioni e dei compiti ad esse connesse, le
conoscenze e le capacità richieste all’esecutore ele responsabilità nei confronti di altre unità amministrative. La job-
analysis indirizza proficuamente l’opera di selezione e di addestramento del personale e può agevolare il compito di
assegnazione, trasferimento e promozione degli uomini già operanti nella struttura.
Per migliorare il rendimento del fattore umano, oltre alla corretta assegnazione del personal alle varie posizioni, si
può far ricorso a tecniche di variazione e di ampliamento delle mansioni attribuite. Queste tecniche sono:
 Job rotation: l’individuo ruota in mansioni diverse, anche se comprese nello stesso ciclo di
lavoro. L’obbiettivo è quello di rendere meno monotona la prestazione lavorativa e portare ad
un accrescimento delle conoscenze e della preparazione professionale del lavoratore.
 Job enlargement: ampliamento della mansione. Comporta l’affidamento di cicli integrati di
operazioni attribuendo maggiore responsabilità all’esecutore di un’attività completa.
 Job enrichment: ampliamento verticale di una mansione mediante il coinvolgimento del
subordinato nella fase decisionale oltre che operativa. Questa tecnica di arricchimento della
mansione risponde perfettamente alla teoria partecipativa.

IL SISTEMA INFORMATIVO AZIENDALE E IL “KNOWLEDGE MANAGEMENT”

Il sistema organizzativo nell’organizzazione aziendale


Le informazioni sono la materia prima che alimenta il processo decisorio di ogni azienda, descritto come il processo
attraverso il quale le informazioni sono convertite in azioni. Prima di assumere una scelta, tanto più se rischiosa, il
decision maker avverte la necessità di (ri)costruire un quadro informativo il più possibile completo, integrando dati
interni e feedback derivanti dai processi di gestione con quelli che descrivono l’evoluzione del contesto esterno
(micro e macroambiente).
La carenza di informazioni può pregiudicare non solo la capacità di individuare tempestivamente problemi
emergenti, sui quali focalizzare l’attenzione, ma anche l’attitudine manageriale nel fissare obiettivi inerenti, ricercare
opportuni corsi d’azione.

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Il Sistema Informativo (SI) può quindi fornire sostegno a tutti i processi gestionali, rendendo disponibile, in tempo
utile, le informazioni che supportano sia nei processi di assunzione che in quelle di esecuzione delle decisioni.

Sistema direzionale e operativo


Il SI può essere scomposto in 2 sistemi interagenti: il sistema informativo direzionale (SID) e il sistema operativo. Il
primo elabora le informazioni che sostengono il management aziendale nell’assunzione di più decisioni più o meno
complesse e nel controllo della relativa attuazione; il secondo, invece, identifica una serie di sottosistemi eterogenei
(produzione, marketing, personale) che forniscono il supporto informativo per programmare lo sviluppo delle attività
esecutive e per il loro controllo operativo.
Un efficace sistema informativo, oltre a garantire informazioni accurate e selettive, deve rispettare anche il principio
della “selettività”. Essa esprime la capacità del sistema di fornire a ciascuna tipologia di utilizzatori solo le
informazioni rilevanti realmente utili ai fini decisionali, scongiurando così il rischio associato alle cosiddette situazioni
di information overload (sovraccarico cognitivo), che si verifica quando si ricevono troppe informazioni per riuscire a
prendere una decisione o sceglierne una specifica sulla quale focalizzare l'attenzione.
Per evitare tale rischio, il Sistema Informativo va progettato a partire da una quantità di informazioni specifiche a
seconda delle diverse categorie di utilizzatori. Le informazioni di cui necessita l’alta direzione sono differenti da
quelle che servono a chi è chiamato a svolgere compiti esecutivi.
AL VERTICE della piramide organizzativa è avvertita la necessità di informazioni aggregate, generalmente espresse
attraverso pochi indicatori chiave. Tali informazioni devono essere dunque sintetiche per consentire all’ALTA
DIREZIONE di cogliere in modo rapido l’andamento complessivo della gestione aziendale (INFORMAZIONI INTERNE,
come, ad es., disponibilità di risorse) e delle principali variabili relative al contesto esterno (INFORMAZIONI ESTERNE,
come ad es., analisi di mercato e concorrenza). La richiesta delle tali può avvenire anche in modo del tutto
imprevedibile e non ripetitivo (frequenza non prefissata).
Al contrario, a chi deve svolgere le attività ALLA BASE della piramide, serviranno informazioni dettagliate e analitiche,
acquisite in tempo reale (frequenza continua) e maggiormente focalizzate sul proprio specifico ambito di operatività.
Normalmente, il processo di produzione delle informazioni si realizza, quindi, mediante elaborazioni successive man
mano che dalla base della struttura ci sposta verso il vertice. La sintesi consente di rispondere più velocemente di
rispondere al bisogno informativo che il management andrà ad esprimere, rispettando il requisito della selettività e
scongiurando il rischio di information overload.

Gli elementi costitutivi di un sistema informativo


Un sistema informativo è costruito da un insieme di elementi interdipendenti, relativi alla raccolta, archiviazione,
elaborazione di dati, allo scopo di produrre e distribuire le informazioni necessarie alla pianificazione e all’attuazione
dei processi aziendali. In particolare, i principali elementi costitutivi di tale sistema sono:
1) I DATI: i dati rappresentano la materia prima “grezza” impiegata nel processo di produzione e di informazioni. Un
dato può essere definito come la rappresentazione dello stato di un fenomeno (esterno/interno). L’informazione è,
invece, un dato cui viene attribuita una forma, a cui cioè è associato un significato utile dal punto di vista del
soggetto. I dati, dunque, costituiscono la base di partenza, l’input del processo di produzione delle informazioni; per
tale ragione l’impresa deve porre particolare cura nel predisporre i processi di acquisizione dei dati elementari,
decidendo, in funzione del fabbisogno informativo da soddisfare, quali dati rilevare/archiviare, presso quale fonte
reperirli
e con quali frequenza aggiornarli, dovendo costantemente bilanciare la necessità di ottenere informazioni con il
costo dell’attività di raccolta, elaborazione e diffusione dei dati.
Per costruire una buona base di dati, i dati interni, provenienti dai sistemi contabili (dati del costo di prodotto, dati di
vendita) e extra-contabili (che registrano eventi gestionali di natura diversa, come, ad es., il prelievo di un prezzo dal
magazzino, l’inserimento di un nuovo prodotto a catalogo...) devono essere integrati con i dati esterni, relativi
all’ambiente competitivo e transazionale (clienti, consumatori, fornitori) e, più in generale, al macroambiente. Negli
ultimi anni, la rete Internet si è rivelata prezioso strumento di acquisizione di dati di origine esterna, relativi non solo
al sistema ambientale generale, ma anche e soprattutto al comportamento dei clienti, attuali/potenziali, e dei
fornitori, partner e concorrenti.
2) LE PROCEDURE: esse sono intese come il complesso di norme e regole da seguire per l’acquisizione e
l’elaborazione dei dati e la successiva diffusione delle informazioni ottenute. Il processo di produzione delle
informazioni può essere concettualmente distinto in tre fasi: a) l’acquisizione dei dati; b) la loro elaborazione; c) la
comunicazione dell’informazione che deve raggiungere i differenti destinatari.
La definizione di norme e regole è fondamentale per definire i tempi e le modalità di comunicazione
dell’informazione ottenuta.

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Tempi: l’obiettivo è quello di sincronizzare i tempi di trasmissione delle informazioni con quelli di decisione,
bilanciando l’esigenza di tempestività con il rischio di produrre una situazione di overload.
Modalità di comunicazione: le informazioni devono essere precise, chiare e complete anche se possono essere
recepite in maniera diversa a seconda degli schemi mentali, delle esperienze e dei valori di ciascun destinatario.
3) I MEZZI TECNICI: I mezzi tecnici sono gli strumenti adoperati per l’elaborazione, la raccolta e l’archiviazione delle
informazioni. In passato venivano adoperate delle procedure di registrazione dei dati su supporti cartacei, che
richiedevano tempi più lunghi. Oggi, invece, l’avvento del computer, assieme ad altre tecnologie informatiche, ha
contributo a velocizzare, razionalizzare e automatizzare l’esecuzione di molte attività del sistema informativo.
Per quanto, infatti, all’interno dell’azienda una parte delle informazioni è generata/trattata a livello manuale, il
sistema informativo è ormai ampiamente automatizzato e la produzione di informazioni si realizza grazie ad un
sistema complesso, costituito di MEZZI HARDWARE (la parte materiale del sistema, ossia tutti gli strumenti e le
apparecchiature) e MEZZI SOFTWARE (la parte intangibile del sistema, ossia tutti i programmi che consentono lo
svolgimento delle procedure elaborative).
4) LE PERSONE: Le persone rappresentano un altro elemento costitutivo perché il processo di produzione delle
informazioni taglia trasversalmente tutta l’organizzazione e coinvolge tutti gli utenti che si rapportano con l’impresa,
sia in veste “attiva” che “passiva”, ossia come centro di produzione dell’informazione ma anche come centro di
ricezione della stessa. Mentre nelle prime fasi dell’informazione aziendale la raccolta e l’elaborazione dei dati erano
eseguite da personale specialistico e si realizzavano nei centri EDP (Electronic Data Processing), oggi tutto il
personale aziendale è attivo nell’utilizzo delle tecnologie informatiche e, grazie alla diffusione di procedure online e
real time, i dati possono essere acquisiti direttamente alla fonte.

Sistema informativo direzionale e “business intelligence”


Il Sistema Informativo Direzionale (S.I.D) identifica quella porzione del Sistema Informativo che elabora informazioni
che supportano il processo decisionale e di controllo attuati dal management aziendale. Esso si alimenta con i dati
elementari provenienti dai sistemi informativi operativi. Da tale definizione si capisce che il S.I.D:
1) Supporta tutti i soggetti che, anche se a diversi livelli organizzativi, collaborano al ciclo di direzione assumendo
decisioni;
2) Produce informazioni di tipo push (per rispondere a fabbisogni informativi predeterminati) e/o su richiesta
dell’utente, cioè di tipo pull; le prime sono informazioni standard, offerte con frequenza predeterminata, a supporto
di processi decisionali di tipo routinario. La decisione relativa alla quantità e alla qualità di informazioni da erogare in
modalità push viene assunta a partire dall’analisi del sistema decisionale dell’impresa, preliminarmente condotta allo
scopo di capire “chi assume le decisioni” e “quali informazioni necessita per svolgere il processo decisorio”. Tuttavia,
poiché non sempre il fabbisogno informativo dei decisori aziendali si può prevedere ex-ante, un efficace Sistema
Informativo Direzionale deve essere in grado di consentire anche la produzione di informazioni in modalità pull, ossia
generate direttamente dagli utenti, on de mand, in base a specifiche esigenze conoscitive espresse dal management
in maniera estemporanea e, quindi, non definibili a priori.
Poiché il punto di partenza per la produzione di informazioni è il dato, alla base del S.I.D vi sono i sistemi che
contengono i dati elementari, i cosiddetti “sistemi alimentanti”. I dati, interni ed esterni, vengono poi elaborati. I
primi sono ottenuti dai sistemi informativi operativi, che sono generalmente integrati, come gli ERP, o dedicati alla
relazione con il cliente, come il CRM o da varia applicazione delle tecnologie Web.
I sistemi ERP (Enterprise Resource Planning) sono “sistemi informativi integrati”, costituiti da moduli (o sottoinsiemi)
che integrano tutti i processi di business rilevanti di un'azienda (vendite, acquisti, gestione magazzino, contabilità...).
Anche se ciascun modulo è indipendente, può interagire con altri, condividendo la stessa base di dati. A differenza
dei tradizionali Sistemi Informativi di tipo operativo, sviluppati in modo autonomo per ciascuna funzione aziendale,
gli ERP consentono di promuovere lo sviluppo di flussi informativi internazionali, supportando il management nella
gestione delle interdipendenze organizzative, in ottica di processo.
Con l’ERP il dato è inserito una sola volta e gestito univocamente da tutto il sistema informativo, venendo ad essere
“condiviso” da tutte le funzioni azienda coinvolte nel processo.
Altre fonti interne di dati elementari, oltre all’ERP, possono essere i sistemi che gestiscono le funzioni di interfaccia
con il mercato (Customer Service e Customer Relationship Management), i sistemi Web e altri sistemi informativi e/o
transazionali.
I dati elementari che vengono estratti da questi sistemi (ERP, CRM, web) vengono poi caricati nel datawarehouse dal
quale possono essere trattati con varie applicazioni e software, per poter elaborare informazioni a supporto di
processi routinari o per rispondere a particolari esigenze del management.
L’ultimo livello di architettura del S.I.D corrisponde, appunto, ai sistemi di BUSINESS INTELLIGENCE, intesi come
insieme di processi, applicazioni e sistemi tecnologici mediante il quale si producono e analizzano informazioni
relative al business aziendale, riuscendo sia a valutare il passato/presente e capirne i fenomeni (cause dei problemi o

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determinanti delle prestazioni ottenute), sia a predire i valori futuri di alcuni variabili, simulando e/o creando scenari
con possibilità di manifestazioni differenti.
Questi sistemi supportano i processi di produzione e analisi di informazioni, operando sia in modalità push che pull:
consentono cioè non solo di elaborare informazioni utili a supportare processi di controllo routinari, ad es. con la
generazione di report direzionali e tableau de bord, ma anche di arrivare a informazioni maggiormente
destrutturate, che rispondano a necessità informative estemporanee e discrezionali dei decisori aziendali. Il
management può, in un preciso momento, essere interessato a conoscere quali segmenti di clientela acquistano un
determinato prodotto (attività di marketing) o valutare la sussistenza di correlazioni tra le vendite di due prodotti
inclusi nella gamma (cross selling). Questa quantità di informazioni “emergente” essere soddisfatto grazie a sistemi
per l’analisi quantità di varia natura (analisi multidimensionale, query libere su basi dati,), ai sistemi di sistemi di
simulazione (es. what if analysis), ai sistemi di Knowledge Discovery (es. data mining), e così via.
Tali sistemi consentono, dunque, di rispondere anche a fabbisogni informativi non predeterminati, e supportano il
management nella ricerca di informazioni utili a determinare le cause che determinano i fenomeni d’interesse
dell’impresa.

Principali funzionalità dei sistemi business intelligence:


1) REPORTING DIREZIONALE: insieme coordinato di documenti e prospetti, destinati ai manager a capo dei singoli
centri di responsabilità, che forniscono informazioni sintetiche sui fenomeni cui questi sono più direttamente
interessati; 2) TABLEAU DE BORD: fornisce una visione d’insieme sull’andamento dei processi aziendali critici e dei
principali indicatori-chiave di risultato, i Key Performance Indicator (es. redditività, costi d’acquisto...);
3) ANALISI MULTIDIMENSIONALE: consente di analizzare e esplorare i dati interattivamente sulla base di un modello
multidimensionale, in cui ogni dimensione rappresenta una delle variabili del fenomeno cui l’utente è interessato.
Egli può dunque analizzare il fenomeno d’interesse utilizzando le dimensioni di volta in volta a lui più congeniali (es.
volumi di vendita di un prodotto, articolati in funzione dell’area geografica e/o del tempo);
4) QUERY AD HOC: interrogazioni “libere” e ricerche ad hoc che il manager può condurre, senza conoscere e usare il
linguaggio informatico, all’interno del database direzionale, individuando dati di interesse, correlandoli e
sintetizzandoli secondo propri criteri personali;
5) WHAT IF ANALYSIS: a partire da differenti ipotesi circa i possibili cambiamenti del contesto aziendale e dello
scenario competitivo, consentono di determinare, ex ante, le conseguenze di determinate azioni;
6) DATA MINING: insieme di tecniche statistico-matematiche per esplorare grandi masse di dati al fine di scoprire
relazioni, comportamenti o associazioni “nascoste” tra gli stessi, rendendoli visibili.
5) Dall’elaborazione delle informazioni alla gestione delle conoscenze: IL KNOWLEDGE MANAGEMENT
Con la diffusione di nuovi strumenti e nuove tecnologie, in primis le tecnologie web-based, i sistemi informativi, una
volta utilizzati solo ed esclusivamente per automatizzare i processi di generazione delle informazioni, oggi rivestono
un ruolo fondamentale nella gestione della conoscenza organizzativa o Knowledge Management (K.M). Prima di
definirne i suoi contenuti, individuandone le principali criticità, è opportuno chiarire il significato da attribuire alle
parole “informazione” e “conoscenza”:
1) L’informazione deriva dall’interpretazione dei dati a cui viene associato un significato dal punto di vista del
soggetto; 2) La conoscenza può essere generata dall’assimilazione dell’informazione, ossia dall’integrazione delle
informazioni con le informazioni precedentemente ottenute dal soggetto e costituite in un sistema.
Alla generazione di nuova conoscenza non si arriva attraverso la passiva acquisizione di nozioni astratte, ma
attraverso il coinvolgimento attivo di un individuo che realizza uno sforzo cognitivo, basato sulla capacità di pensare,
mettere a frutto le esperienze pregresse e comprendere il senso di ogni esperienza vissuta: in questi termini, la
conoscenza è informazione combinata con l’esperienza, il contesto, l’interpretazione e la riflessione.
Pertanto, Il Knowledge Management è «l’insieme delle attività e dei processi di generazione, mappatura, selezione,
memorizzazione, diffusione della conoscenza». Si tratta di un approccio strategico che identifica nella conoscenza
una risorsa da gestire per migliorare le capacità di azione di una persona e di tutta l’organizzazione aziendale.
L’obiettivo è quello di riuscire a far circolare/condividere la conoscenza che viene a crearsi all’interno
dell’organizzazione aziendale, evitando di relegarla a semplice abilità personale. In altre parole, il processo di
apprendimento dell’organizzazione si alimenta di conoscenza e dunque è attraverso i sistemi informativi che si cerca
di rendere le conoscenze disponibili ed accessibili a tutti.
Tale processo può essere reso vischioso dalla natura stessa della conoscenza. L’apprendimento organizzativo deriva
infatti dall’interazione continua di due forme di conoscenza:
1) La CONOSCENZA TACITA, una forma di conoscenza radicata nell’azione, nell’impegno e “situata” in uno specifico
contesto. Essa può essere acquisita ed esercitata solo con la pratica, ma non può essere descritta verbalmente né
tantomeno spiegata. Proprio per tale caratteristica questa è essenziale per le imprese perché è fondamentale per la
creazione di competenze difficilmente imitabili.

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2) La CONOSCENZA ESPLICITA, che invece può essere codificata e trasmessa attraverso un linguaggio formale con
manuali, norme, codici...
L’accesso alla conoscenza tacita risulta molto difficile, tant’è che molto spesso non si riesce a sintetizzare,
confrontare con quella esplicita per arricchire il patrimonio cognitivo dell’organizzazione.
La creazione della conoscenza richiede un processo dinamico di conversione che deve realizzarsi su due livelli:
INDIVIDUO e ORGANIZZAZIONE. Tale processo, descritto con il noto modello della “spirale della conoscenza” postula
quattro differenti modalità di conversione della conoscenza:
1) Da tacita a tacita, attraverso la socializzazione: la conoscenza tacita non può essere trasferita attraverso le parole,
ma può essere acquisita attraverso l’osservazione del comportamento. Questa prima modalità di conversione può
essere incentivata dall’impresa attraverso opportuni interventi sulla struttura organizzativa tesi a facilitare la
creazione di campi di interazione (interaction fields), come quelli associati agli interventi di formazione sul campo o
alla creazione di team di lavoro interfunzionali, dove un individuo, anche senza l’uso del linguaggio, può acquisire
conoscenza dalla relazione diretta con altri, attraverso l’osservazione e l’imitazione dei comportamenti;
2) Da tacita ad esplicita, con il processo di esteriorizzazione: si da un’espressione linguistico-comunicativa alle
conoscenze comuni che gli individui hanno sviluppato, attraverso l’uso del dialogo e delle riflessioni collettive
(discussioni nei circoli di qualità);
3) Da esplicita ad esplicita, con il processo di combinazione: attraverso la comunicazione interpersonale, lo scambio,
il confronto tra individui portatori di idee differenti l’uno dall’altro, accresce la base di conoscenze pregresse, di
ricombinare i sapere esistenti in nuove forme. La conoscenza prodotta in tal modo si cristallizza a livello
organizzativo, diventando routine, tecnica, procedura.
4) Da esplicita a tacita, attraverso l’interiorizzazione: ogni soggetto, sperimentando (attraverso prove ed errori)
queste nuove routine e procedure, le interiorizza generando nuova conoscenza, che è più ampia di quella originaria
perché arricchita del sapere di altri individui/gruppi.
Se nell’economia contemporanea la conoscenza è la risorsa per eccellenza, quella cioè che consente alle imprese di
assumere una posizione di vantaggio maggiormente difendibile, la sfida a cui le imprese sono chiamate è, riuscirà a
capitalizzare la conoscenza presente al proprio interno per migliorare la gestione dei processi aziendali, a partire al
patrimonio di conoscenze tacite accumulate dagli individui che operano nell’organizzazione.
Un’impresa, infatti, che “gestisce” correttamente la sua conoscenza è in grado di identificare, catturare, recuperare,
condividere e capitalizzare tutto il patrimonio informativo, non solo quello contenuto nei database, documenti e
procedure aziendali (conoscenza esplicita) ma anche quello presente, nella forma di esperienze e competenze, nella
mente di ciascun lavoratore (conoscenza tacita).
I Knowledge Management System (KMS) sono sistemi basati sulle tecnologie dell’informazione e della
comunicazione, che supportano i processi di organizzazione, generazione e codifica della conoscenza creando non
solo archivi delle conoscenze (mappe illustrative delle conoscenze presenti in azienda fondamentali per
comprendere «chi sa cosa») ma sono particolarmente utili per:
1) La conversione di esplicitazione delle conoscenze tacite: ne sono un esempio i cosiddetti progetti di lessons
learned, implementati da diverse aziende al fine di raccogliere e codificare conoscenze tacite derivanti da esperienze
precedenti, al fine di favorirne la diffusione interna;
2) I processi di condivisione (e combinazione) delle conoscenze: i progetti più sofisticati di knowledge management
mirano ad usare le nuove tecnologie attraverso la creazione di contesti di interazione che favoriscono la
socializzazione, lo scambio di conoscenze. Questi hanno l’obiettivo di far giungere l’individuo a maturare una diversa
percezione della realtà, facendogli attribuire nuovi e diversi significati agli eventi. Gestire, dunque, in maniera
corretta la conoscenza significa non solo riconoscere l’importanza dell’esperienza individuale nei processi di
apprendimento (learning by doing), ma anche e soprattutto valorizzare il ruolo del tessuto sociale e relazionale, che
consente di rielaborare e attribuire un senso all’esperienza maturata, permettendo di giungere ad una visione della
realtà (learning by interacting).
Le moderne tecnologie dell’informazione possono, dunque, essere utilizzate per sistematizzare, migliorare e
facilitare su larga scala i processi di gestione della conoscenza a livello inter e iter-organizzativo. Tuttavia, nonostante
un maggior livello di attenzione, questi progetti non sempre hanno prodotto i risultati attesi.
Le più rilevanti criticità sono le resistenze non di tipo tecnologico, bensì di tipo culturale: affinché le nuove soluzioni
tecnologiche garantiscano risultati positivi, l’impresa deve saper creare e diffondere al suo interno una cultura
partecipativa finalizza al knowledge sharing. L’impresa dovrà quindi innanzitutto esplicitare chiaramente la sua
visione strategica e fare in modo che tutti comprendano gli obiettivi che intende perseguire e dovrà utilizzare una
struttura organizzativa adeguata in linea con l’architettura del sistema informativo adottato.

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MARKETING STRATEGICO E POLITICHE DI PRODOTTO:

Le funzioni operative di gestione:


Sussiste uno stretto legame tra strategia competitiva e tutte le strategie funzionali, dato che ogni scelta aziendale
dovrà inserirsi in un sistema di scelte che ricomprenderà i molteplici aspetti della gestione.
La gestione operativa si svolge con caratteristiche e problematiche differenti da azienda ad azienda. Le funzioni
operative di gestione sono inquadrabili in tre distinti gruppi:
a) Funzioni primarie od organiche: sono comuni a tutti i tipi di azienda, ma anche normalmente specializzate
all’interno dell’organizzazione (vendita, produzione, finanza e la logistica)
b) Funzioni operative complementari o di supporto: sono di minore importanza e affidabili anche a centri
esterni di servizio (ricerca, sviluppo, amministrazione del personale e contabilità.
c) Funzioni ausiliarie: sono delegate all’esterno per ragioni di economicità o per mancanza di competenze
idonee nell’organizzazione (distribuzione commerciale, la pubblicità, i trasporti e la manutenzione).

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L’estrema differenziazione dei processi operativi può portare ad una classificazione diversa delle funzioni.

L’orientamento al prodotto, al mercato e al business:


Nel tempo l’orientamento dell’impresa si è modificato. Si tendeva a distinguere due tipi di comportamento
dell’impresa nei confronti del mercato:
 Orientamento al prodotto: nasce l’esigenza di aumentare la capacità produttiva
 Orientamento al mercato: il problema in questo caso non è quello di aumentare la capacità
produttiva in quanto il mercato potrebbe non assorbire. L’importante in questo caso risulta
essere la valutazione della domanda
L’orientamento al prodotto o al mercato al giorno d’oggi appare molto limitativo e superato perché l’impresa
competitiva dev’essere orientata al “business”. L’orientamento al business si orienta nella ricerca costante e
sistematica di nuove occasioni di affari da aggiungere eventualmente a quelle già sfruttate. L’attenzione di chi
governa l’azienda è rivolta all’individuazione di bisogni e desideri dei consumatori. Il punto centrale della differenza
tra orientamento al mercato e al business è dato dall’ampiezza dell’area di osservazione: nel primo caso le
opportunità vengono ricercare nel mercato in cui si è già presenti, mentre nel secondo caso la ricerca si estende a
tutti i mercati. L’orientamento al business viene considerato come un orientamento al cliente perché l’impresa punta
ad ampliare la propria offerta commerciale nella ricerca di nuove opportunità di affari. Il rapporto con la clientela
rappresenta la conclusione del ciclo di vendita ed anche l’avvio di nuovi processi valutativi di mercato.
Questo orientamento al business è fondato sul concetto di marketing. Il termine marketing indica il processo
mediante cui l’azienda studia il mercato, analizza le tendenze della domanda e la situazione della concorrenza,
individua l’esistenza di opportunità di business, orienta la produzione in funzione dei potenziali acquirenti da
conquistare, crea la domanda per i nuovi prodotti e provvede a collocare questi ultimi presso gli sbocchi prescelti.

Le politiche di marketing (o marketing mix o 4 P):


La strategia competitiva si deve tradurre sotto l’aspetto tattico nella fissazione di obbiettivi di periodo e nella
definizione delle politiche da attuare nei confronti della clientela. Si crea quindi un collegamento tra strategia
funzionale, competitiva e le politiche di marketing o marketing mix. Le politiche di marketing, o mix di marketing,
compongono la combinazione di strumenti rivolti all’ottenimento degli obbiettivi di mercato fissati di periodo in
periodo. Queste scelte possono essere ristrette a quattro politiche fondamentali, note anche come quattro P
(product/prodotto, price/prezzo, promotion/promozione and place/canali). Il fine di queste politiche è di avvicinare
l’offerta dell’azienda alla domanda del mercato.

Il comportamento del consumatore, la segmentazione del mercato e i modelli di strategie di marketing:


Se vogliamo analizzare il comportamento del consumatore dobbiamo prendere in considerazione un aspetto
importante: il reddito. Il reddito di ciascuna unità consumatrice si fraziona in due parti: la prima impegnata per il
soddisfacimento dei bisogni essenziali o di prima necessità (alimentazione, abitazione, ecc) e la seconda disponibile
per il risparmio o per l’appagamento di bisogni non essenziali (bisogni cosiddetti voluttuari). Per la spendita del
reddito discrezionale (destinato ad essere speso) il consumatore attua un processo di scelta a tre stadi (bisogni, beni
e marca) e di conseguenza il produttore si trova a fronteggiare una concorrenza tra beni (primaria), tra beni
alternativi (allargata) e una concorrenza tra marche (diretta). L’obiettivo del produttore non si limita ad orientare il
consumo verso la propria marca, ma si estende alla creazione del bisogno ed alla scelta del tipo di prodotto che
tratta. Il consumatore a sua volta attua il processo di acquisto mediante un complesso di scelte che si differenziano
per quanto concerne il luogo, il tempo, la quantità e la modalità di acquisizione del bene o del servizio richiesto.
Queste scelte configurano le abitudini di acquisto circa i punti di vendita, le epoche, l’entità e le condizioni che
caratterizzano gli atti di spesa. La conoscenza di tali abitudini, rilevabili mediante l’osservazione diretta, permette
all’azienda di orientare le sue politiche di marketing.
Le motivazioni d’acquisto si possono dividere in tre gruppi:
a. Motivazioni razionali: incentrate sul calcolo economico e orientate dalla valutazione del rapporto prezzo-
qualità.
b. Motivazioni emotive: collegate alla sfera dei sentimenti e derivanti da fattori di gusto, di estetica, di
personalità.
c. Motivazioni di patrocinio: correlata alla fiducia nel produttore o nel distributore di modo tale che a sua volta
il consumatore diventi promotore della marca.
Principalmente possiamo notare che è il rapporto tra il prezzo del bene e il reddito disponibile che influenza le
modalità e le motivazioni dell’acquisto. Più questo rapporto è elevato più tendono a prevalere motivi razionali e di
patrocinio rispetto a quelli emotivi.

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Sempre nell’ambito delle motivazioni all’acquisto dobbiamo analizzare altre condizioni del consumatore, ovvero,
dobbiamo introdurre il concetto di segmentazione. Ogni mercato si può frazionare in sub-mercati o segmenti di
mercato e ciascuno comprende un particolare gruppo di acquirenti. Vanno quindi identificati i fattori principali che
distinguono strati differenti di mercato. I parametri utilizzati più frequentemente sono:
 Parametri demografici: (età, sesso, ampiezza della famiglia, ecc)
 Parametri socio-economici: (reddito, professione, livello d’istruzione)
 Parametri culturali (razza, etnia, credo religioso)
 Parametri ubicazionali: (residenza urbana, suburbana, ecc)
 Parametri psicografici (personalità, autonomia decisionale)
 Parametri comportamentali (disposizione all’acquisto, grado di fedeltà, caratteristiche di
innovatività, benefici desiderati).
Con la segmentazione del mercato si può analizzare quanto si differenzia l’elasticità della domanda dei vari segmenti
rispetto alle politiche di marketing. Ciò significa che le proposte in termini di acquisto dell’azienda dovrebbero essere
diverse per ogni classe di acquirenti.

Le strategie di marketing:
Gli atteggiamenti che può adottare l’impresa rispetto ad un mercato segmentabili sono tre:
1. Marketing indifferenziato: Rivolgersi al mercato come se fosse omogeneo, a prescindere cioè dalla sua
segmentabilità (esistenza di un solo programma di marketing)
2. Marketing differenziato: Indirizzarsi a più segmenti mediante la formulazione di diversi programmi di
marketing (programmi differenziati di marketing per diversi segmenti)
3. Marketing concentrato: Mirare ad un solo o, al massimo, a pochi segmenti di mercato con un’offerta
specializzata (l’offerta è specializzata ad un solo segmento di mercato)

La politica del prodotto e della marca:


il successo di un’impresa dipende in primis dal grado di accettazione dei beni che pone sul mercato. La politica del
prodotto risulta essere caratterizzata da un alto tasso di strategicità. gli aspetti strategici della politica del prodotto e
della marca risultano essere quattro:
a. Ampiezza dell’offerta: la maggiore o minore estensione della gamma di vendita
b. La differenziazione degli assortimenti: la distinzione interna alla gamma ed esterna rispetto alla concorrenza
c. L’innovatività delle produzioni, ossia il tasso di rinnovamento e di ricambio dei prodotti posti in vendita.
d. La riconoscibilità dei prodotti: la scelta della marca e della confezione.

Ampiezza della gamma di vendita:


La gamma di vendita si può caratterizzare in ampiezza (tipologia produttiva), profondità (assortimento) e coerenza
(riguarda il grado di interrelazione tra i differenti tipi di prodotto). Maggiore è l’affinità tecnologica e di mercato, più
marcato è il grado di coerenza della gamma. C’è da tener conto quindi anche dei rapporti di complementarità e
sostituibilità tra prodotti diversi. Possiamo infatti individuare i prodotti da reddito (destinati a generare i maggiori
flussi di cassa) e strategici (essenziali per consentire il collocamento dei primi) e prodotti da richiamo (richiamano
l’attenzione dell’acquirente sull’intera gamma).

La profondità degli assortimenti:


Riguarda il fatto che vi sono più modelli, versioni o formati. Quasi sempre, infatti, ogni prodotto viene portato al
mercato in una varietà di modelli per diverse ragioni;
-per le caratteristiche intrinseche del prodotto
-per la segmentazione della domanda e il posizionamento dell’offerta
-per l’invecchiamento dei modelli e la differente capacità di contribuzione al reddito dell’impresa.

Differenziazione dei modelli e posizionamento di mercato:


La differenziazione si collega al tipo di strategia di marketing e alle posizioni di mercato da occupare. Una decisione
fondamentale concerna il posizionamento dell’offerta nei confronti della concorrenza. Per posizionamento si intende
l’insieme di iniziative volte a definire le caratteristiche del prodotto dell’impresa e ad impostare il marketing mix più
adatto per attribuire una certa posizione al prodotto della mente del consumatore. Il posizionamento di mercato può
essere ricalibrato e si può quindi modificare rispetto ad una posizione di partenza. Quando si vuole posizionare un
prodotto sul mercato su può far leva su una serie di caratteristiche del prodotto che variano per classi di prodotti e
sono molteplici: attributi fisici del prodotto, attributi simbolici, benefici offerti, associazione ad una classe di
consumatori, identificazione con una classe di utilizzatori, contrapposizione ad una persona famosa ecc..

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Il problema del posizionamento si collega a quello della segmentazione. A seguito di essa l’azienda può scegliere la
strategia di marketing da attuare (indifferenziata, differenziata o concentrata) ma quest’ultima dev’essere orientata
in funzione delle fasce più particolari di consumatori da servire.
Una buona strategia competitiva può essere tuttavia riferita ad una buona assistenza fornita alla clientela. Per
questo motivo molte imprese sono orientate ad aggiungere un miglior servizio al consumatore e a ridurre i tempi di
messa a disposizione dei nuovi prodotti (time-based competition). Obbiettivi primari quindi dell’adozione di
marketing sono la customer satisfaction e la customer retention (fidelizzazione della clientela).

Ciclo di vita del prodotto:


Ciascun prodotto ha un suo ciclo di vita che si svolge in varie fasi:
1) Introduzione: nella quale inizia a diffondersi con una crescita molto lenta
2) Sviluppo: nella quale l’espansione delle vendite ha luogo ad un ritmo molto rapido a seguito
dell’affermazione del prodotto nel mercato.
3) Maturità: nella quale le vendite continuano a svilupparsi ma ad un tasso più sostenuto
4) Declino: fase nella quale il volume delle vendite comincia a ridursi più o meno rapidamente per
l’obsolescenza del prodotto, per l’immissione di un prodotto sostitutivo o per la saturazione della domanda
Per quanto riguarda l’ampiezza temporale delle varie fasi possiamo dire che su di esse influiscono le condizioni
concorrenziali e le scelte assunte dalla stessa impresa venditrice, la quale può attuare politiche di invecchiamento o
di ringiovanimento del prodotto. Ciascuna fase poi è caratterizzata da una diversa redditività e da un differente peso
delle politiche di marketing. Nella fase di introduzione del prodotto, anche se viene venduto ad un prezzo elevato,
genera perdite a causa della limitatezza della quantità collocata e dagli alti costi distributivi e promozionali da
supportare per la sua immissione nel mercato; durante il periodo di sviluppo il rapido aumento del volume delle
vendite consente l’ottenimento di margini crescenti, data la riduzione dei costi unitari. Nella fase di maturità il saggio
di incremento delle vendite è più contenuto, il progetto genera profitti elevati, ma la situazione è più difficile per la
concorrenza e la stazionarietà della domanda. Nella fase di declino i consumatori perdono interesse per il prodotto
ed i margini di profitto si riducono e di conseguenza la vita del prodotto ha fine. L’impresa può decidere di
selezionare il suo marketing-mix in maniera differente in base allo stadio di vita in cui si trova il prodotto.

La matrice del portafoglio prodotti (Matrice BCG): questa matrice suddivide i prodotti in quattro classi in funzione del
cash-flow generato, intendendo con questo termine il divario tra investimenti e ritorni relativi a ciascun tipo di
prodotto. Secondo la matrice esiste un rapporto diretto tra flusso di cassa e condizioni interne ad esterne. Si inizia a
fare una divisione in base a due parametri:
-tasso di variazione della domanda globale.
-quota di mercato detenuta dall’impresa.
In base a questi due parametri può essere costruita una matrice in cui i prodotti sono suddivisi in quattro classi in
base al livello di cash- flow che possono generare:
1) Prodotti con bassa quota di mercato e lento sviluppo della domanda (prodotti marginali o dogs). Il prodotto
marginale presenta un flusso di cassa insoddisfacente a causa del costo elevato da sostenere per mantenere
una posizione competitiva debole.
2) Prodotti con bassa quota di mercato e rapido sviluppo della domanda (prodotti rischiosi o question marks). Il
prodotti rischiosi generano il cash-flow peggiore perché richiedono elevati investimenti per fronteggiare un
mercato in rapido sviluppo.
3) Prodotti con alta quota e rapido sviluppo della domanda (prodotti di successo o stars). Il prodotto di successo
dovrebbe presentare un cash-flow positivo anche se, per contrastare la concorrenza sul mercato, sarà
necessario continuare ad investire in risorse.
4) Prodotti con alta quota e lento sviluppo (prodotti da reddito o cash cows). Il prodotto reddito è quello che
darà i ritorni più soddisfacenti perché l’azienda potrà sfruttare la sua posizione di forza in un mercato poco
interessante per la concorrenza.
La matrice del portafoglio prodotti aiuta la direzione aziendale a valutare la potenzialità economico-finanziaria dei
prodotti compresi nella gamma di vendita.

Esiste un’altra matrice fondata sull’attrattività del mercato e sulla posizione competitiva, la matrice delle posizioni di
mercato (general eletric e mc kinsey). L’attrattività di un settore è indicata dal tasso di crescita della domanda
relativa ad esso. In base alle aree più attrattive indirizzerò il mio investimento. Con questa matrice aumento il
numero dei quadranti. È un sistema multifattoriale che richiede una preventiva analisi dei fattori tipici di ciascun
settore e può indurre a valutazioni che si adattano meglio ai singoli casi.

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La politica della marca e le altre scelte che rientrano nella politica di prodotto:
Un prodotto è visto come un fascio di utilità, ovvero un insieme di attributi tangibili e intangibili che rispondono a
esigenze di vario ordine. Quando acquisto un prodotto però non tengo conto solo del bisogno che soddisfa ma anche
una serie di altri fattori (voglio affermare ad esempio un certo status). Nella politica del prodotto esiste quindi una
componente promozionale relativa alla costruzione dell’immagine della marca. Importanti aspetti della politica del
prodotto sono quindi:
 La politica della marca: la marca ha un ruolo di primo piano nel mix marketing perché è la
garanzia di qualità del prodotto e, una volta costruita in modo forte, può essere sfruttata per una
strategia di brand extension ovvero d’inserimento nella gamma originaria di prodotti ad altri
beni a volte complementari e, altre volte, molto lontani da quelli abitualmente trattati.
Dobbiamo fare una differenza tra marca industriale e commerciale. Quella industriale è la marca
del produttore (Barilla, Lavazza) quella commerciale è data da un intermediario. Quest’ultimo
sfruttando il suo potere contrattuale ottiene la possibilità di marchiare autonomamente dei
prodotti non prodotti da lui.
 Confezionamento: (packaging) può avere molte funzioni: uso, protezione, economia, comodità e
promozione. Il processo di confezionamento avviene tramite un processo di sviluppo il cui ruolo
principale è quello di garantire la visibilità e la trasportabilità del prodotto (dimensione, forma,
testo, marchio di fabbrica.
 Servizio post-vendita: è una garanzia di qualità nel proprio marchio, è tipica dei marchi di qualità.

La politica di prezzo:
Il prezzo è l’aspetto su cui si basano le comparazioni finali del consumatore, e influisce in modo rilevante sul
marketing. Bisogna formulare un sistema di prezzi. Per alcune produzioni è lo stato a stabilire il prezzo. In generale la
fissazione del prezzo è regolata dai mercati oligopolistici, il prezzo è frutto di intese tra diversi produttori.
La fissazione del prezzo avviene in due fasi: prima a livello specifico e poi in funzione dell’intera gamma trattata. La
determinazione dei prezzi passa per un processo di approssimazioni successive in cui elementi di conoscenza, di
esperienza e di politica generale dell’impresa contribuiscono ad arrivare alla soluzione finale da adottare. Il problema
quindi si concentra sull’individuazione del possibile margine di manovra del prezzo e nella determinazione di una
quotazione compatibile con gli obbiettivi di mercato da raggiungere. L’area di manovra del prezzo è definita da tre
elementi:
-il costo di prodotto
-l’elasticità della domanda
-pressione della concorrenza

Il metodo più comunemente adottato è quello del costo: si basa il prezzo sul costo (definizione del markup, in base al
costo del prodotto si aggiunge una quota per permettere all’impresa di mantenere il profitto). È il metodo più
semplice ma anche quello più discutibile perché non considera le condizioni di mercato. Per far ciò si deve tenere
conto dell’elasticità della domanda e dei prezzi praticati dalla concorrenza. La possibile escursione del prezzo
dipende da molti fattori, fra i quali assumono un maggior peso:
-la concorrenza reale: cioè la presenza nel mercato di prodotti con caratteristiche più o meno similari a quelle del
prodotto considerato.
-la concorrenza potenziale: ossia la possibile entrata di altri produttori, una volta superate certe soglie di prezzo. (far
crescere il prezzo può rendere più attrattivo per le concorrenze)
-la concorrenza indiretta: cioè la minaccia di prodotti sostitutivi (produttore di lenti per occhiali->chirurgia plastica)
-il grado di differenziazione del prodotto rispetto alla concorrenza (la marca può favorire una forte differenziazione)
-la qualità del servizio fornito insieme al prodotto

Il concetto di fondo a cui si lega quindi la politica del prezzo è quello della differenziazione del prodotto, dato che i
gradi di libertà nella fissazione del prezzo dipendono dai vantaggi differenziali di cui il prodotto gode nei confronti
della concorrenza. Questa differenziazione permette di ricavare il premium price, cioè un differenziale favorevole di
prezzo nella vendita del prodotto. Più questo è differenziato rispetto alla concorrenza più potrà essere collocato con
margini crescenti.

Gli orientamenti della politica di prezzo possono essere verso la scrematura o la penetrazione del mercato. Ossia
l’impresa può voler conquistare la quota più elevata di mercato nel minor tempo possibile oppure sfruttare al meglio
la differente capacità di spesa del consumatore.

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La determinazione della politica prezzo fissa i limiti entro cui vanno assunte le scelte relative ai singoli prodotti.
Queste devono tener conto, oltre che del ruolo di ciascun prodotto all’interno della gamma di vendita, dell’eventuale
collegamento tra di essi.
Per valutare l’interrelazione fra i prezzi dei prodotti venduti si può ricorrere all’indice di elasticità incrociata, cioè
nell’ipotesi di due beni A e B calcolare il rapporto fra la variazione percentuale della domanda del bene A rispetto a
quella del prezzo del bene B.

 Se l’elasticità è positiva: i beni sono intersostituibili. All’aumentare del prezzo del bene B
aumenta la domanda di A.
 Se l’elasticità è negativa: i beni sono complementari. Al crescere del bene B diminuiscono le
domande di tutti e due i beni
 Se nulla i beni non sono correlati.
Amministrazione dei prezzi di vendita: l’impresa ha convenienza, per il medesimo prodotto, di determinare una scala
di prezzi per rendere l’offerta più omogenea e elastica a seconda della domanda. L’amministrazione dei prezzi di
vendita va vista differentemente a seconda se l’offerta sia rivolta al consumatore, al distributore e al dettagliante.
Nel primo caso il produttore può decidere autonomamente il prezzo da praticare al cliente, nell’ipotesi di vendita alla
grande distribuzione è frequente l’attribuzione di un’ampia libertà di scelta. Nel caso della vendita al piccolo
dettaglio il produttore può cedere il proprio prodotto ad un prezzo fisso consigliato o del tutto libero.

La politica di comunicazione:
La promozione e la pubblicità rivestono un ruolo centrale nel processo di vendita e si pongono tra i più importanti
strumenti della gestione commerciale. La promozione può essere definita come il complesso di azione poste in
essere per indurre, preservare o modificare i modelli di comportamento degli operatori di mercato allo scopo di
ritrarre un vantaggio competitivo. Lo scopo ultimo è di creare delle preferenze e di persuadere ad acquistare i beni
prodotti dall’impresa. In via mediata l’obbiettivo può essere anche l’incremento delle vendite, ma non sempre.
Nel processo di decisione di acquisto (studio psico-sociologico) si individuano tre momenti, al fine di capire il modello
di comportamento del consumatore da parte dell’impresa: (modello AIDA)
1. Momento cognitivo: (stadio conoscitivo) nel quale si acquisisce la consapevolezza del bisogno da soddisfare
e si inizia a rivolgere l’attenzione ai prodotti.
2. Momento emotivo: (stadio affettivo) quando l’attenzione si trasforma prima in interesse e poi nel desiderio
di disporre del prodotto.
3. Momento attivo (stadio comportamentale), in cui si passa alla fase materiale dell’acquisto mediante una
comparazione delle varie offerte di mercato.
L’impresa, quindi, orienta la sua attività promozionale e invia una serie di messaggi e di stimoli che devono spingere
a preferire il proprio prodotto. Le scelte dei beni di consumo non sono effettuate fra tutte le marche presenti nel
mercato ma solamente tra quelle conosciute o meglio ricordate al momento dell’acquisto. Scopo della promozione è
dunque quello di far conoscere e ricordare favorevolmente il nome del prodotto.

La politica di comunicazione può essere realizzata mediante:


 Attività di relazioni pubbliche
 La pubblicità
 La promozione in senso stretto
 L’attività persuasiva dei venditori
Queste attività sono ordinate in grado di persuasione crescente e nelle untile vi un contatto diretto con il venditore.
Questi strumenti di collocano in posizioni differenti in quello che può essere definito come l’imbuto promozionale,
utilizzato per sottolineare le diverse risorse che si utilizzano dell’attività promozionale. Dentro l’imbuto promozionale
le imprese gestiscono i loro strumenti che sono quelli che costituiscono poi il promotion mix.
All’inizio dell’imbuto troviamo le pubbliche relazioni che hanno come scopo quello di raggiungere il più vasto
pubblico possibile (massimo effetto orizzontale o di contatto) senza tuttavia mirare immediatamente a risultati di
vendita (minimo effetto verticale o persuasivo).

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Dopo le pubbliche relazioni troviamo la pubblicità. Per pubblicità s’intende qualsiasi forma di messaggio impersonale
inviato a pagamento da un promotore individuato a coloro che sono o possono essere interessati al prodotto. È
realizzata mediante i media, campagne, propaganda, siti, campagne speciali di vendita. Le campagne pubblicitarie
possono essere necessarie per propagandare un nuovo prodotto (campagna di lancio), per rivitalizzare un prodotto
(campagne di urto), per rafforzare l’affermazione della marca (campagne di prestigio) e per sottolineare la continuità
di presenza del prodotto nel mercato (campagne di ricordo).
Accanto alla via pubblicitaria, le imprese possono attuare delle azioni di promozione in senso stretto. Questa si
concreta nel creare, solitamente per periodi limitati di tempo, particolari incentivi per l’acquisto dei prodotti
aziendali. Qualsiasi forma di promozione commerciale ha un’elevata carica persuasiva perché si concreta nella
fissazioni di speciali condizioni di acquisto o nella premessa di benefici futuri per i consumatore. Nell’ultimo livello
dell’imbuto troviamo l’attività persuasiva dei venditori.

Le politiche di distribuzione commerciale:


Per l’impresa industriale, la distribuzione dei prodotti comporta, in realtà, scelte relative (per portare il prodotto al
consumatore finale):
1. Alla determinazione del livello di contatto (fino allo stadio del commercio all’ingrosso, del dettaglio o del
consumo finale)
2. All’intensità della distribuzione (vendita estensiva, selettiva o esclusiva)
3. Al tipo di operatori cui affidare il collocamento del o dei prodotti aziendali (venditori aziendali, commercianti,
ausiliari mercantili).
Le scelte distributive riguardano quindi la tipologia degli sbocchi attraverso cui far defluire i beni posti in vendita, il
loro numero e il modo di collegamento. Per stabilire le vie di deflusso è necessario conoscere la struttura della
distribuzione prevalente nel mercato. Bisogna accertare se ad esempio gli acquirenti prediligano una forma di
vendita diretta al consumo o se propendano per l’acquisto presso unità dettaglianti di piccole dimensioni o di grandi
dimensioni; in questo secondo caso se preferiscano trovare il prodotto presso centri commerciali ecc..
Il passo successivo poi concerne la scelta del numero di sbocchi attraverso cui avviare i prodotti sul mercato. Questa
opzione riguarda la decisione tra una vendita estensiva (con la massima copertura dei punti finali di vendita) o
selettiva attraverso un numero limitato o selezionato di sbocchi. La scelta viene orientata dalle abitudini di acquisto
dei compratori e da fattori di politica aziendale. Diverse infatti possono essere le decisioni adottate se il produttore
vuole perseguire obiettivi di massimizzazione delle vendite e dei profitti , se vorrà ottenere la massima esposizione
del prodotto oppure la maggiore aggressività dell’azione di vendita.

(grado di controllo) Per quanto riguarda gli stadi per cui passa il prodotto per giungere al mercato ultimo di deflusso
la scelta è tra l’uso di:
 Canali diretti (produttore consumatore)
 Canali brevi (produttore dettagliante consumatore)
 Canali lunghi (produttore grossista dettagliante consumatore)

Per quanto riguarda il grado di copertura del mercato esso è in funzione non solo del numero dei punti vendita ma
anche del loro peso relativo, per cui la copertura distributiva va misurata in base a due indici:
1. La quota numerica dei punti vendita (rapporti tra punti vendita aziendali e punti vendita totali)
2. La quota ponderata (rapporto tra il volume di affari realizzato dai punti vendita toccato dall’azienda e quello
ottenuto da tutti i punti vendita). La scelta del tipo di distribuzione si collega all’orientamento dell’azione di
vendita da attuare. Se l’impresa intende attuare una strategia di marketing di spinta deve far ricorso a forme
distributive incisive e penetranti nei confronti del mercato ultimo da raggiungere. Se invece vuole adottare
una strategia di marketing di attrazione deve sfruttare lo strumento pubblicitario

La qualità del marketing: il marketing relazionale e il customer relationship management (CRM).


La qualità del marketing attuato dall’azienda può essere valutata in base a due parametri:
- Il grado di soddisfazione della clientela servita
- E la fidelizzazione del portafoglio clienti
Più migliora il rapporto con quelli che sono già i clienti dell’impresa, più valido si sarà dimostrato il piano marketing.
Parliamo quindi dell’importanza del marketing relazionale(customer relationship management, CRM) il quale ha
come scopo quello di costruire relazioni durevoli nel lungo termine, con soddisfazione di tutte le parti in causa.

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L’incremento della customer retention, ovvero la difesa del portafoglio genera anche effetti significativi sulla
profittabilità dell’impresa perché:
1. Acquisire un nuovo cliente è un’attività che ha un costo che potrebbe non essere ammortizzato sulla singola
transazione, per cui i profitti derivanti dal singolo cliente aumentano dopo che i costi di acquisizione sono stati
totalmente coperti.
2. Se i clienti restano fedeli all’azienda e continuano a comprare i suoi prodotti (anche tramite attività di cross
selling) il relativo flusso di ricavi aumenta nel corso del tempo mentre i costi correlati possono ridursi.
3. I consumatori fidelizzati attivano un processo di passa-parola che può raggiungere nuovi potenziali clienti
attirandoli verso l’azienda.
4. I consumatori fidelizzati diventano sempre meno sensibili nei confronti di offerte alternative, anche se
economicamente più vantaggiose.

L’obiettivo finale del marketing relazionale è il miglioramento della profittabilità della clientela nel lungo termine e la
massimizzazione del customer lifetime value. Il termine CLV definisce il valore che un cliente può generare per una
determinata impresa. In termini di ricavi può essere calcolato moltiplicando il valore medio della transizione per la
frequenza di acquisto.
Per concludere quindi i clienti devono essere gestiti in un’ottica di lungo termine. La profittabilità dei clienti varia e
non tutti i clienti sono ugualmente desiderabili e che conoscendo meglio i bisogni, le preferenze, o comportamenti
d’acquisto dei consumatori, le imprese possono costruire un’offerta a misura di ciascun cliente.
La soddisfazione del cliente, da sola, non basta a creare una relazione solida e duratura con la clientela. Assieme alla
soddisfazione dobbiamo inserire il concetto di fidelizzazione. La fidelizzazione è un processo complesso che pur
basandosi sulla soddisfazione della clientela, per essere attuato necessita di un piano di incentivi che invoglino il
cliente a tornare per ripetere ed aumentare i suoi acquisti ignorando le proposte della concorrenza (fidelity card,
tessere sconto, servizi di assistenza privilegiati).

Dal marketing tradizionale al digital marketing:


Il marketing digitale è nato come uno strumento addizionale dell’impresa per presentare ad esempio un sito vetrina
(per presentare i prodotti), e poi per gestire l’e-commerce (permettere di acquistare i prodotti direttamente dal sito).
La logica push dell’impresa si è trasformata in una logica pull: il cliente mano mano va verso l’impresa cercando
informazioni tramite il social network. Sono cambiate le logiche, i processi e le dinamiche rispetto a quelle del
marketing tradizionale.
Definizione: il marketing digitale nell’impresa è quell’insieme di attività di sviluppo di campagne di marketing e
comunicazione integrate, targettizzate e capaci di generare risultati misurabili che aiutino l’organizzazione a:
-conoscere e monitorare costantemente i bisogni della domanda
-supportare la domanda nello scambio
-sviluppare relazioni interattive che generano valore nel tempo.
Sono quindi attività che aiutano l’impresa a conoscere il cliente e misurare di conseguenza le sue azioni rispetto al
cliente. È possibile quindi osservare ogni movimento del cliente e bisogna incentivarlo finché egli non si avvicinerà
all’impresa. La logica quindi da seguire pe quella del passaggio dalla comunicazione one to many alla one to one e
dalla comunicazione push a quella pull.
Bisogna attuare poi due processi chiave:
-processo valutativo: tramire il quale si può monitorare tutto attraverso gli strumenti di analisi dei dati (motori di
ricerca, siti, cosulenti)
-processo di valorizzazione: è un processo continuo diretto ad ottimizzare le azioni e le conversioni. È possibile
ottimizzare la nostra azione rispetto a quello che i dati comunicano rispetto al comportamento del consumatore nel
nostro sito, verranno fatti dei piccoli aggiustamenti nella politica di marketing.

Il processo di marketing digitale:


Analisi esterna:
- È la mappatura dei concorrenti diretti allargati, valutati cercando di capire il loro posizionamento nei risultati
di ricerca dei siti e quali sono le key words utilizzate da loro.
- Analisi delle keywords ricercate dagli utenti per la ricerca di prodotti e servizi
- Analisi delle conversazioni online per argomenti e parole chiave coerenti con il business aziendale.
L’analisi esterna del digital marketing è simile a quella del marketing tradizionale ma si basa su dati, posizionamenti,
motori di ricerca e keywords.

Analisi interna:

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Riguarda l’impresa, come viene percepita e come si struttura.
- Off-SITE misurazione ed analisi (indipendentemente dal fatto che il committente abbia un sito web) su
internet nel suo complesso in un determinato arco di tempo. Include la valutazione di un
sito/brand/azienda/istituzione in termini di: potenziale audience, share of voice (visibilità), buzz (commenti).
- ON-SITE misura il comportamento di un visitatore una volta sul sito. Comprende i dati base e le conversioni.
Questi dati vengono generalmente confrontati con indicatori chiave di performance per migliorare le prestazioni di
un sito web, o la risposta del pubblico a campagne marketing. Un sito web è usabile quando riesce a consentire una
navigazione friendly presso l’utente.

Non è tutto il sito web: i nostri clienti si trovano su più canali e vanno intercettati: Google, Facebook, YouTube ecc.
sono le pagine più connesse al mondo e rappresentano le nostre opportunità di business da sfruttare con attenzione.
Molto importante è decidere l’obbiettivo che deve essere sempre misurabile e non sempre di lungo periodo.
>Come farsi trovare? Per agevolare la ricerca del proprio sito web su Google ci sono due strade:
1. Gratuita con la SEO: Search Engine Optimization, attività di ottimizzazione del proprio sito per migliorare il
posizionamento organico. Con il termine ottimizzazione si intendono tutte quelle attività finalizzate ad ottenere la
migliore rilevazione, analisi e lettura del sito web da parte dei motori di ricerca attraverso i loro spider, grazie ad un
migliore posizionamento.
2. A pagamento con la SEM: Search Engine Marketing; annunci sponsorizzati o keyword advertisign facendo una
ricerca la query (domanda) si saranno le ricerche non sponsorizzate (non hanno pagato ma hanno guadagnato grazie
al SEO) e poi ci sarà la parte superiore della SEM dove ci sono le aziende sponsorizzate.

La SERP (Search Engine Result Page) è la pagina complessiva, la landing page è quella che clicchiamo quando
abbiamo scelto dove andare. Nella SERP bisogna fare un’attività editoriale, è importante come appare l’URL, la
descrizione.
> KEYWORD: Per individuare le keyword giuste è necessario mettersi nei panni degli utenti e capire che ricerche
fanno per trovare il proprio sito. Possono essere utili due strumenti come Google Trend e Google Adwords.
> Si passa dal Communication mix al Funnel Marketing, ovvero dal viaggio dell’impresa al viaggio che compie il
cliente. Dal Communication Mix si arriva al concetto del Funnel Marketing.
La comunicazione digital è stata dirompente :
- Perché ha inserito un nuovo canale di comunicazione caratterizzato da regole diverse
- Perché ha ridotto l’efficacia e la discriminazione delle leve del communication mix sui canali istituzionali
- perché ha creato un nuovo processo di comunicazione in grado di impattare sull’impostazione di tutte le
politiche di marketing
Digital Marketing Funnel: come le aziende attraggono e mantengono clienti grazie al web.
1. ESPOSIZIONE: esistono vari tipi di modalità per far conoscere i nostri prodotti e sevizi; approccio inbound,
che stimola l’interesse senza spingere il prodotto, attività di tipo pull. L’inbound mrketing concerne lo sviluppo di
tutti quegli strumenti che permettono al cliente di fare ricerca organica, di conoscere l’azienda attraverso i social
media. L’outbound invece utilizza video, display e affiliazioni.
2. SCOPERTA: le prime visite al sito dell’impresa sono focalizzate sui contenuti e sull’apprendere info sui
prodotti/servizi
3. CONSIDERAZIONE: ad un certo punto il visitatore diventa un potenziale cliente, quando egli considera che il
prodotto possa soddisfare la sua necessità.
4. CONVERSIONE: il compimento di un’azione sul sito web converte i visitatori in clienti
5. CUSTOMER RELATIONSHIP
6. FIDELIZZAZIONE
Dal digital marketing si passa la growth hacking, che è un processo ancora più focalizzato rispetto ad obbiettivi
specifici di marketing. Punta in particolare su modelli:
-acquisizione
-attivazione
-retention: mantenere i clienti
-referral: trasformare i clienti in promotori dell’impresa
-revenue

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IL PROCESSO DI PRODUZIONE E L’IMPIANTO

Il ruolo della funzione di produzione nella gestione aziendale


La funzione di produzione riguarda il processo di trasformazione dei beni ossia l’insieme di operazioni mediante il
quale le risorse acquistate dall’impresa sono tramutate in prodotti finiti da collocare nel mercato. Il ciclo produttivo
si pone al centro del processo di gestione ed è preceduto dalla fase degli approvvigionamenti e seguito da quella
delle vendite.
Le scelte di produzione sono collegate a tutte le altre funzioni aziendali. Il coordinamento con la funzione di
approvvigionamento è necessario per la corretta e tempestiva alimentazione delle linee di lavorazione; quello con la
funzione commerciale è di duplice ordine, sia per la necessità d’indirizzare la produzione secondo le tendenze di
mercato sia per porre in fase il ciclo di produzione con quello di vendita; il rapporto con la funzione finanziaria è
molto stretto sotto il profilo della programmazione del fabbisogno di capitale fisso e circolante.

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Le scelte di produzione sono di carattere strategico perché impiegano le risorse finanziarie e umane disponibili.
Accanto al profilo strategico va considerato anche quello più strettamente operativo, incentrato sui problemi di
logistica industriale. La produzione si svolge infatti secondo cicli che devono essere coordinati nelle fasi di
predisposizione degli input, di trasformazione e di ottenimento degli output. La logistica in entrata riguardante
l’approvvigionamento e la gestione delle scorte materiali e la logistica in uscita si legano in un sistema operativo che
diviene il sistema centrale di gestione.
Il punto cardine d’efficienza è rappresentato dal coordinamento tra processi di approvvigionamento, di produzione e
di vendita. Infatti, l’efficienza è il criterio principale che si adotta quando si parla di funzione di produzione. Come
risultato di tale coordinamento vi è:
-miglioramento del time to market (ossia il tempo che intercorre tra la progettazione del prodotto fino al suo arrivo
nella disponibilità del consumatore finale, i lead time invece fa riferimento all’attraversamento del prodotto nella
linea di trasformazione fino al consumatore)
-riduzione degli immobilizzi in scorte (così si crea un incremento dei costi per la loro manutenzione
-compressione dei tempi d’ozio dei fattori produttivi (sono quei tempi di fermo dei fattori in attesa di un processo di
lavorazione. Dipende dal layout, dalla natura del fattore).

Le scelte di produzione possono essere distinte in tre gruppi:


a. Scelte strategiche: il cui obbiettivo è quello di concorrere alla creazione del vantaggio competitivo e si va
attraverso la pianificazione strategica (sono ad esempio dimensione degli impianti, tipo prodotto, gamma)
b. Scelte strutturali: il cui obbiettivo è di costruire il sistema operativo necessario per coordinare. Gli strumenti
sono il piano di produzione coordinando i fattori della produzione (sono ad esempio scelte sul grado di
utilizzo dell’impianto, layout impianti)
c. Scelte di gestione operativa: la cui finalità è di razionalizzare l’operatività del processo produttivo mediante
la programmazione e il controllo della produzione. Si coordina con il programma operativo, ossia
programmazione e controllo della produzione in senso stretto.

I rapporti tra strategia di produzione e strategia competitiva:


La funzione di produzione è correlata con la strategia competitiva perché o contente di perseguire l’obiettivo dei
bassi costi necessari per una strategia di price competition (bassi costi) n o concorre a garantire la qualità (strategia
di differenziazione del prodotto. Le priorità strategiche possono essere rappresentate dalla qualità delle operazioni
di lavorazione, dalla flessibilità del ciclo produttivo, dal basso costo di produzione e dal servizio da rendere alla
clientela.
Alla produzione può essere affidato un ruolo:
-neutro rispetto alla concorrenza (deve essere allineata al progresso dei competitori e non deve generare effetti
sfavorevoli)
-o attivo, ovvero, tramite la produzione l’azienda deve poter conseguire un vantaggio rispetto alle altre imprese.
La tecnologia produttiva deve essere intesa come l’abilità a rinnovare, in funzione dei mutamenti del contesto, le
caratteristiche qualitative e quantitative della funzione di produzione.
Sul piano strategico le principali scelte riguardano:
1. La determinazione del mix e delle quantità di produzione in funzione delle tendenze di mercato.
2. La progettazione dell’impianto (dimensione, tecnologia e servizi di supporto)
3. La logistica (movimentazione del magazzino)

La tipologia dei sistemi produttivi:


Il ciclo produttivo può essere organizzato secondo differenti modelli:
a. Produzione di beni per unità distinte
b. Produzione di massa differenziata
c. Produzione di massa standardizzata
d. Produzione omogenea continua
Questi tipi di produzione si ordinano secondo il grado di ripetitività e di uniformità dei prodotti.

Il primo caso è quello di produzione che si differenzia per caratteristiche sostanziali in rapporto ad indicazioni
specifiche del committente. La produzione su commessa comporta una elevata capacità di adattamento alle richieste
della clientela, attrezzature meno complesse e personale più versatile. Ogni commessa richiede l’apposita
programmazione dell’intero ciclo di lavoro. Una commessa può essere:
-singola (progetto): l’output di processo è unico e spesso caratterizzato da tempi lunghi di realizzazione (grande
nave)

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-o ripetitiva (job): l’output ha generalmente dimensioni inferiori e può essere rappresentato da più unità simili tra
loro e prodotte in numero limitato.

All’altro estremo si colloca la produzione continua che è caratterizzata dalla continuità dei prodotti attraverso
processi continui.

In posizione intermedia si situa la produzione di massa che può assumere degli orientamenti diversi in funzione delle
esigenze di mercato. L’organizzazione di una produzione di massa standardizzata è comune delle situazioni in cui è
possibile sfruttare a fondo il principio delle economie di scala. Questo quando l’omogeneità del mercato consente di
fornire agli acquirenti il medesimo tipo di prodotto. La produzione assume allora il carattere della lavorazione di
massa differenziata, basata su un’elevata standardizzazione delle parti componenti e sulla creazione della
differenziazione in fase di montaggio finale. Questo tipo di produzione si definisce per lotti, in quanto di sviluppa
nell’allestimento di particolari serie di prodotti, caratterizzate da alcune differenze estetiche o funzionali.
Dal mercato, infatti, è richiesta una sempre più spinta personalizzazione del prodotto che esige un elevato
coordinamento nella fase dell’allestimento finale secondo, appunto, le indicazioni raccolte dalla rete di vendita. In
questi casi ogni modello risulta già assegnato allo specifico cliente. Tuttavia, la variabilità dei gusti e delle tendenze di
consumo possono far crescere il rischio dell’invenduto. Per questo motivo le imprese tendono a spostare il più
possibile l’avvio del processo produttivo rispetto al ricevimento dell’ordine del cliente. Questa pratica viene definita
come “postponement” e dipende tuttavia dall’ampiezza del tempo di attesa tollerato dal cliente (lead time rispetto
all’ordine). Quando possibile quindi si cerca di iniziare la produzione dopo il ricevimento dell’ordine oppure a
completare l’allestimento di un prodotto, realizzato e tenuto in magazzino nella versione base, solo dopo aver
ricevuto le richieste di personalizzazione dell’ordinante. Il rischio che in questo caso corre il produttore è
rappresentato dalla rinuncia all’acquisto del prodotto qualora il lead time dovesse superare il tempo
contrattualmente assicurato ed accettato per la consegna.
Sotto l’aspetto dell’organizzazione dei cicli di lavorazione è necessario per l’impresa decidere se produrre in proprio
o l’acquisto all’esterno di componenti. Nelle strategie di decentramento produttivo si può riconoscere una
distinzione fondamentale tra Outsourcing e deintegrazione, attribuendo alla prima il carattere di opzione revocabile
di ricorso al mercato per certe forniture (è quindi una modalità di approvvigionamento) e alla seconda il carattere di
opzione strategica di rinuncia a certe fasi di lavorazione (è quindi una scelta organizzativa).
Esistono poi aziende multiplant che hanno un organizzazione di cicli produttivi che si amplia fino a comprendere un
modello di rete di impianti differentemente articolato da caso a caso. In questo caso si tratta di scegliere un
determinato modello di suddivisione dei cicli o delle linee di produzione. Le soluzioni adottabili sono:
1. Un modello di ripetizione deli impianti, quando ogni centro produttivo lavora fondamentalmente gli stessi
prodotti
2. Un modello di parcellizzazione del ciclo di produzione, allorché ciascun impianto svolge una certa parte del
processo di fabbricazione, producendo parti o semilavorati da avviare ad alcuni stabilimenti centrali di
montaggio.
3. Un modello di specializzazione, quando ogni impianto produce un particolare tipo o modello di prodotto
inserito nella gamma aziendale.

Un prodotto si definisce finito quando esce dal ciclo di lavorazione di un’azienda (concetto che si attiene cioè
all’impresa produttrice), mentre diventa finale quando non richiede ulteriori trasformazioni per essere destinato ad
un particolare uso (concetto che si riferisce al suo utilizzo diretto per il consumo).

L’esigenza di flessibilità nella progettazione dell’impianto:


Con il termine lay-out si intende la disposizione delle strutture edilizie, delle macchine, delle attrezzature e dei posti
di lavoro all’interno della fabbrica. La progettazione del lay-out è elemento fondamentale dell’allestimento
dell’impianto perché incide sull’ampiezza e sull’utilizzazione degli spazi coperti dallo stabilimento. Con la scelta del
lay-out si definiscono soprattutto la collocazione dei posti di lavoro nella sequenza ottimale. Una disposizione
ottimale delle macchine e della forza lavoro deve contribuire ad ottimizzare l’impiego delle quattro M (men,
materials, machines, money). Il lay-out è legato alla programmazione del ciclo di produzione. La sistemazione dei
macchinari all’interno dello stabilimento può seguire determinati criteri. Possiamo distinguere quattro tipologie di
lay-out:
1. Funzionale: macchine raggruppate per tipo di lavorazione svolta
2. Per prodotto: macchine raggruppate per prodotto lavorato
3. A postazioni fisse: macchine che sono spostate intorno al prodotto
4. A celle: macchine raggruppate per gruppi di lavoratori

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In relazione invece alle modalità di svolgimento dei cicli di lavorazione l’impresa è libera di scegliere tra diverse
alternative:
 Processo di lavorazione a ciclo continuo: questi possono essere imposti per ragioni di
economicità e si caratterizza per il fatto che la lavorazione si svolge ininterrottamente
dall’ingresso in ciclo dei materiali fino all’uscita del prodotto finito. Il processo di lavorazione è
suddiviso in stazioni (tappe di lavoro) presso cui si svolgono operazioni secondo procedure e
tempi stabiliti.
 Processo di lavorazione a ciclo intermittente: viene suddiviso il processo in fasi e ciascuna di
queste fasi viene assegnata ad un particolare reparto o centro operativo. viene scelto per cicli di
produzione meno automatizzabili.
 Processo di lavorazione a ciclo misto: organizzato in parte in modo continui ed in parte in modo
intermittente. Viene adottato quando ci sono determinate fasi che si prestano ad essere
automatizzate mentre altre richiedono operazioni più complesse.
L’esigenza di fondo diviene quella di assicurare flessibilità al sistema di produzione senza rinunciare ai principi
essenziali della produttività e dell’economicità. Dobbiamo quindi distinguere:
 Il grado di flessibilità economica ovvero la capacità dell’impianto di rimanere competitivo anche
in condizioni parziali di utilizzazione
 Il grado di flessibilità tecnica ossia l’idoneità dell’impianto ad adattarsi a produrre beni differenti
senza incorrere in una maggiorazione di costi penalizzati sotto il profilo competitivo.
Il concetto di flessibilità dell’impianto può essere visto sotto una profilo tecnico (opportunità di variare il mix
produttivo) e un profilo economico (capacità di assorbire la riduzione del volume di produzione). Un impianto,
quindi, è tanto più flessibile quanto minore è l’incremento dei costi unitari di produzione al ridursi del grado di
utilizzazione dell’impianto stesso.
Rendere compatibili i concetti di specializzazione e versatilità di un impianto non è sicuramente facile. Questo è stato
possibile anche grazie ai progressi che si sono verificati nelle fabbriche, che sono stati straordinari sotto due profili:
-automazione: ha raggiunto il suo punto ottimale mediante l’informatica e la robotica. L’informatica ha consentito il
governo dell’interno ciclo mediante computer, mentre la robotica ha permesso di sottrarre all’uomo i lavori più
pericolosi e faticosi.
-flessibilità: il governo computerizzato del processo ha reso possibili variazioni complesse nelle fasi di lavorazione
con tempi di preparazione ed attrezzaggio molto rapidi.

Il dimensionamento della produzione e dell’impianto:


Uno dei problemi più seri dell’organizzazione della produzione è rappresentato dal dimensionamento da conferire
all’impianto. Un impianto utilizzato al meglio della sua potenzialità produttiva genera minori costi di esercizio perché
riduce i cosiddetti tempi d’ozio. L’obbiettivo è quindi quello di trovare la dimensione ottimale, definibile come quella
idonea a minimizzare il costo unitario di produzione. Sotto il profilo dimensionale è opportuno fare tre scelte:
 La determinazione della capacità produttiva massima dell’impresa (stabilire il numero di fattori
che voglio idealmente ottenere con l’impianto)
 La determinazione della potenzialità ottimale degli impianti (espressa in numero di ore
uomo/macchina lavorabili)
 Il grado di utilizzo (quanto l’impianto sarà effettivamente utilizzato)
Un impianto è un sistema complesso costituito da una serie di macchine, ciascuna macchina rappresenta un fattore
quanto, cioè un bene a flusso rigido di servizi, il cui costo è in funzione prevalentemente del fluire del tempo più che
della sua effettiva utilizzazione. L’impresa tende allo sfruttamento integrale dei fattori quanti, in modo da ridurre al
minimo il costo unitario di produzione.
Il dimensionamento dell’impianto deve rispondere anche alla minimizzazione del rischio e non solo a quella del costo
unitario di produzione. ai fini del rischio assume un’importanza fondamentale il concetto del margine di sicurezza.
Più è elevata l’incidenza dei costi fissi sul costo totale, più aumenta il rischio, ma più cresce il vantaggio generato
dall’espansione dell’attività produttiva. In qualsiasi struttura di costo ci sono dei costi indipendenti dal volume di
produzione e di vendita che variano in rapporto ai movimenti di tale volume, è sempre necessario raggiungere un
volume minimo di attività per recuperare i costi fissi e variabili. Questo volume per il quale i ricavi eguagliano i costi
complessivi, è quello corrispondente al punto di pareggio o break even point perché in quella condizione per
l’impresa dovrebbe essere indifferente produrre o rimanere inattiva. Il punto di pareggio si ricava graficamente con
la costruzione del diagramma della redditività che riproduce l’andamento dei costi fissi dei costi variabili e dei ricavi
al variare della quantità prodotta. Al concetto di pareggio se lega quello del margine di sicurezza rappresentato dalla
differenza tra il volume di utilizzo dell’impianto e quello a cui corrisponde il punto di pareggio.

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La programmazione delle operazioni di produzione:
Nella programmazione della funzione di produzione bisogna tenere distinte l’ottica di lungo termine (ovvero la
capacità produttiva dell’impianto) da quella di breve termine (dalla programmazione delle operazioni correnti
durante l’esercizio). La programmazione di breve od operativa riguarda la decisione circa l’assortimento e i volumi
prodotti da realizzare durante l’anno. Un’efficace programmazione deve articolarsi:
a. Nel medio-lungo termine per precostituire la capacità produttiva necessaria in rapporto agli obiettivi
strategici dell’impresa.
b. Nel breve periodo per allocare le risorse disponibili in modo da raggiungere i traguardi di produzione posti
dal programma annuale di vendite.
c. Nel brevissimo termine per organizzare il lavoro dei centri di produzione in funzione delle quote settimanali
o mensili da realizzare.

Il controllo di efficienza della produzione: fattori statici e dinamici


Gli obiettivi dell’efficienza economica e della customer satisfaction sono centrali nell’organizzazione e nello
svolgimento della funzione di produzione. Il controllo di produzione ha l’obiettivo di prevenire anomalie del ciclo
operativo e nei prodotti e ha lo scopo di evitare di sopportare costi a vuoto. Il controllo dovrebbe quindi articolarsi
nel:
 Controllo dei risultati di produzione: questo tipo di controllo di manifesta nel calcolo e
nell’analisi degli indici di produttività
 Controllo di qualità dei prodotti: si tratta di un controllo operato su campioni di materiali,
utilizzando tecniche di tipo statico
 Controllo economico: per individuare le aree di risparmio di costi nella funzione produttiva.
Gli obiettivi da perseguire nell’efficienza organizzativa sono:
1. Sfruttamento ottimale dell’impianto
2. Razionalizzazione dei consumi di materie prime
3. Produttività dei gruppi di lavoro
4. Idoneità dei servizi di supporto alla produzione
Altro obiettivo è quello della riduzione degli scarti dovuti a difetti di materiali o di lavorazione. Se la difettosità viene
accertata prima che il prodotto lasci la fabbrica essa può essere associata ai costi di rilavorazione, se la difettosità
viene accertata dopo l’invio del prodotto al cliente si subiscono anche danni d’immagine spesso più gravi dei danni
economici. Il total quality management riguarda la garanzia del servizio ottimale del cliente e i tempi di consegna,
l’assistenza primaria durante e dopo l’acquisto.

GLI APPROVVIGIONAMENTI E IL PROCESSO LOGISTICO:

La logistica quale processo (supply chain):


All’interno della gestione aziendale risulta molto importante l’aspetto assunto dalla logistica, ovvero dal sistema di
connessione tra l’approvvigionamento di materiali (logistica in entrata), la trasformazione produttiva e il
collocamento dei prodotti realizzati (logistica in uscita).
Il processo logistico di attua mediante due flussi:
1. Un flusso fisico di materiali: che ha inizio dal momento dell’evasione dell’ordine da parte del fornitore e si
conclude con il ricevimento della merce.
2. Un flusso di informazioni: che attraversa in senso bidirezionale l’intero processo.
L’obbiettivo da raggiungere è il miglio equilibrio tra costo della logistica e standard di servizio reso ai clienti interni
(organi di produzione) ed esterni (consumatori). Si deve minimizzare i livelli delle scorte e massimizzare il livello di
servizio alla clientela (creazione di un trade-off positivo).

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La velocità del ciclo di evasione dell’ordine del cliente, il rispetto dei tempi di consegna e la salvaguardia delle
caratteristiche di sanità del prodotto contribuiscono alla customer satisfaction e quindi alla fidelizzazione del cliente.
L’efficienza della logistica (supply chain management) si pine quale elemento non secondario della strategia
competitiva sia perché riesce a contenere i costi sia perché contribuisce ad elevare la qualità dell’offerta. All’interno
del processo logistico i due sotto-processi sono quelli di approvvigionamento e di distribuzione.
-La logistica dell’ultimo miglio: rappresenta l’ultima fase del processo logistico. Inizia nel momento in cui la merce
lascia l’ultimo livello del network distributivo e si conclude con la merce ordinata che arriva alla destinazione finale.
Si stima che questa rappresenti tra il 13% e il 75% del costo totale della catena di approvvigionamento a seconda:
della densità dei consumatori, della frammentazione delle consegne, delle dimensioni de dell’omogeneità della
spedizione.

La funzione di approvvigionamento: aspetti strategici e tattici


La funzione di approvvigionamento ha l’obbiettivo di assicurare il rifornimento delle materie prime, ausiliarie, servizi,
componenti ed accessori da utilizzare nell’attività di gestione. Questa funzione a livello operativo si lega al processo
di produzione e in particolar modo all’acquisto e gestione dei materiali diretti all’alimentazione dei cicli di
lavorazione.
Gli obbiettivi da raggiungere sono quelli di assicurare l’economicità della gestione degli acquisti e di preservare la
continuità dei cicli di lavorazione. Se ad esempio l’azienda usa il metodo just-in-time (che tende all’azzeramento
delle scorte), la direzione dell’approvvigionamento dovrebbe creare una rete di fornitori in grado di assicurare la
continuità dei rifornimenti nel volume e nel mix richiesto dalla funzione di produzione. L’efficienza produttiva
dell’impresa sarebbe così influenzata da quella del fornitore e il nesso tenderebbe a diventare sempre più stretto al
consolidarsi di rapporti di collaborazione o di formali accordi commerciali.
Nell’organizzazione della funzione di approvvigionamento bisogna fare una distinzione tra aspetti strategici e
tattici/operativi.
La decisione sul make or buy, cioè sul grado di integrazione verticale, costituisce la base su cui si definiranno i
contenuti della funzione. Sulle decisioni da assumere peseranno non solo le caratteristiche dell’impresa, ma anche
quelle del mercato di fornitura (soggetto a forti oscillazioni di prezzo e a crisi di produzione), cresce infatti per
l’azienda l’interesse di assicurarsi una propria autonomia mediante operazioni di integrazione verticale.
Il ruolo della funzione di approvvigionamento assume contenuti che potremmo definire strategici sia per l’incidenza
sul conto economico aziendale sia per i riflessi sualla qualità e, quindi, sul volume dei prodotti venduti.
L’impostazione del processo di approvvigionamento è in effetti legata a due elementi:
a. La criticità dei materiali da acquistare (complessità del mercato di approvvigionamento): L’azienda in questo
caso deve puntare sulla garanzia di tempestivo rifornimento per quei materiali, componenti, parti o
accessori che potrebbero creare delle strozzature nel ciclo di lavorazione, bloccando fasi importanti o
impedendo l’allestimento del prodotto finito.
b. L’impatto economico dei vari materiali sul costo totale del prodotto: se l’azienda lavora con un basso valore
aggiunto, l’economicità degli approvvigionamento riveste un ruolo essenziale ai fini della competitività
aziendale (specialmente nell’attuazione della strategia di price-competition).

Matrice degli acquisti: incrociando questi due elementi (criticità ed impatto economico) è stata cotruita matrice
(Matrice di Kraljic o matrice degli acquisti), che contente di distinguere i vari tipi di acquisti e, di conseguenza,
suggerisce i modelli organizzativi per gestire il relativo processo di approvvigionamento. I materiali si possono
dividere in:
 Materiali leva o chiave: il loro peso economico incide significativamente sul profitto finale
dell’impresa. Tuttavia, presentano un basso rischio di reperimento per l’esistenza di un ampio
mercato di fornitura.
 Materiali strategici/ critici: hanno un ruolo critico perché sono sia di difficile reperimento e
hanno un elevato impatto sulla redditività.
 Materiali colli di bottiglia: sono caratterizzati da una difficile reperibilità ma hanno un peso
economico contenuto
 Materiali non critici e di routine: facilmente reperibili nel mercato e hanno una modesta
incidenza in rapporto al bene da produrre.
Per quanto riguarda la gestione delle varie tipologie di materiali per alcuni ( prodotti leva e critici) sarà opportuno
stringere accordi durevoli con i fornitori assicurandosi, in anticipo, le migliori condizioni di approvvigionamento
(prezzo e celerità della consegna); per altri (colli di bottiglia) sarà soprattutto necessario garantirsi la tempestività e
la precisione dell’esecuzione degli ordini selezionando i fornitori di più alta affidabilità; per altri ancora (prodotti non

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critici) converrà disporre di un albo dei fornitori in modo da poter usufruire di una pluralità di offerte tra cui operare
le scelte più vantaggiose.

L’organizzazione della funzione acquisti:


la gestione della funzione di acquisto comporta la definizione di politiche commerciali nei confronti di fornitori e di
piazze diverse, di quantità e tempi di rifornimento, di condizioni di pagamento e di ricevimento dei beni acquistati.
Al vertice della funzione si collocano degli approvvigionatori (buyer) professionali in grado di operare sui mercati
mondiali e di prendere le decisioni più convenienti e nel momento opportuno. È chiaro che l’abilità previsionale
sull’andamento dei prezzi gioca un ruolo di grande rilievo.
Ciascun approvvigionatore dovrà:
1. Crearsi una rete ampia e differenziata di fornitori ( è buona regola che per ciascun materiale critico l’azienda
disponga di almeno tre diversi fornitori)
2. Prevedere l’andamento congiunturale del mercato per quanto attiene alle quantità disponibili ai relativi
prezzi di acquisto
3. Ricorrere a formule contrattuali che riducano i rischi di acquisto (prezzi prefissati o indicizzati)
4. Sapere applicare l’analisi del valore per tutti i materiali da acquistare (essere in grado di compiere in senso
economico una revisione critica della tipologia di forniture)
5. Partecipare alla gestione attiva degli stock
Inoltre, il responsabile dell’approvvigionamento deve agire con altri responsabili, in particolare con:
 Direttore della produzione: per garantire la continuità dei processi di rifornimento e per
concordare le caratteristiche di affidabilità tecnica dei materiali.
 Direttore del marketing per valutare i riflessi dell’approvvigionamento sulla politica di prodotto e
sulla politica di prezzo.
 Direttore finanziario per determinare il fabbisogno di capitale circolante potendo influire sulle
quantità e sulle dilazioni di pagamento
 Direttore della ricerca e dello sviluppo per valutare la possibilità d’impiego di nuovi materiali.
I criteri oggettivi di scelta sono costo, qualità e puntualità del fornitore. In certi settori (ad esempio agroalimentare e
dolciario) la selezione di fornitori si traduce nella richiesta della certificazione di qualità e nella costruzione di un Albo
dei fornitori certificati ai quali fare ricorso per gli approvvigionamenti.
In materia di acquisti un aspetto importante è il business to business, ovvero il ricorso ad internet per gli acquisti
industriali. La contrattazione in questi casi è favorita dalla professionalità degli interlocutori sia nell’uso delle nuove
tecnologie informatiche sia nella conoscenza delle specifiche tecniche dei prodotti, diffuse attraverso materiali
scaricabili e consultabili in modo semplice e veloce. La possibilità di visionare i prodotti disponibili in tempo reale e
procedere all’ordine in maniera autonoma rappresenta il vero punto di forza del B2B.
Un altro aspetto rilevante nella funzione di approvvigionamento è la necessità di tenere conto del rilievo crescente
dei problemi di sostenibilità. A riguardo si parla di reverse logistic ovvero la logistica del riciclo fondata sulla
restituzione e riutilizzo dei materiali di scarto per favorire quella che è stata definita come economia circolare.

La gestione delle scorte:


Le scorte di materie e di prodotti sono indispensabili in qualsiasi tipo di impresa. Il fenomeno delle scorte genera di
solito oneri e rischi rilevanti nell’economia generale della gestione.
Il problema delle scorte d’inquadra in quello più vasto degli approvvigionamenti, per tutti i materiali che devono
essere acquistati sul mercato, e in quello delle vendite, per i beni prodotti all’interno dell’impresa. In un quadro del
genere è chiara l’importanza della programmazione e del controllo delle scorte al fine di migliorare l’efficienza
aziendale.

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LA GESTIONE DELLA FINANZA: ASPETTI STRATEGICI E OPERATIVI

La gestione finanziaria:
Nell’impresa industriale la gestione della finanza si concreta in una serie di scelte riguardanti la determinazione del
fabbisogno di fondi necessario per gli approvvigionamenti programmati e per l’esercizio, nell’individuazione delle
possibili fonti di finanziamento e nella costruzione del documento di programmazione. Nella funzione finanziaria si
comprende il complesso di decisioni e di operazioni volte a reperire e ad impiegare i fondi aziendali. La gestione
finanziaria deve essere inquadrata non solo sotto il profilo strategico ma anche sotto il profilo tattico (si considerano
le decisioni finanziarie di lungo periodo come la programmazione degli investimenti e reperimento di fondi) ed
operativo (si includono i compiti di attuazione e di controllo delle decisioni prese).
La funzione di gestione deve rispettare tre tipi di equilibri:
 Equilibrio economico tra ricavi e costi. Equilibrio finalizzato all’ottenimento di un divario positivo
per la formazione del profitto.
 Equilibrio finanziario: bilanciamento tra impieghi di capitale e fonti di provvista

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 Equilibrio monetario tra entrate e uscite di cassa (liquidità)
Le interrelazioni tra i tre equilibri dipendono dal fatto che il ciclo di formazione dei costi e ricavi incide sull’altezza del
fabbisogno di capitale e sul ciclo di movimenti monetari.
I compiti fondamentali della funzione finanziaria sono:
 Programmazione finanziaria a lungo, breve e brevissimo periodo
 Gestione del piano finanziario
 Il governo della liquidità
Il processo finanziario prevede quindi: un’analisi del fabbisogno finanziario, la selezione della struttura finanziaria
ottimale, le scelte delle fonti di finanziamento più opportune.

Le opzioni strategiche e i progetti di investimento:


I problemi di fondo delle gestione finanziaria sono quelli di programmazione degli investimenti e delle fonti di
copertura. Nell’assunzione delle scelte d’investimento la risorsa finanziaria può rappresentare un vincolo:
- assoluto: si incontra quando è impossibile reperire ulteriori mezzi per dare attuazione
all’investimento. Non è possibile espandere la struttura finanziaria (quando nessuno concede
finanziamenti)
- o relativo: si configura per un divario sfavorevole tra redditività dell’investimento e costosità
del capitale.
Nella programmazione degli investimenti dobbiamo fare poi un’altra distinzione tra:
 Investimento in natura strategica: si tratta di valutazioni complesse che devono tener conto di
numerose difficili variabili, come ad esempio la decisione sul lancio di un nuovo prodotto (se
investire)
 Investimento di tipo operativo: si tratta di decisioni di minore rilevanza, la scelta tra due modelli
di macchine operatrici con caratteristiche analoghe.
La determinazione del piano degli investimenti si ottiene mediante un’apposita procedura (capital budgeting)
fondata su tecniche decisionali avanzate. Per condurre queste valutazioni si ricorre all’applicazione di carattere
economico finanziario atte a:
 Stabilire l’accettabilità di un progetto rispetto a valori standard prefissati.
 Comparare progetti alternativi, cioè determinare una lista di priorità tra più proposte
d’investimento.
La procedura di capital budgeting è basata sul profilo di rischio-rendimento dei progetti (criterio fondamentale che
forma le scelte di valutazione di un progetto).
Due metodi a cui si far ricorso per l’analisi della redditività sono:
 TIR (INTERNAL RATE OF RETURN/TASSO INTERNO DI RENDIMENTO): valuta l’accettabilità di un
progetto rispetto a standard prefissati. Viene individuato il tasso di redditività attualizzato che
rende uguali il flusso di introiti e di esborsi. Si deve trovare quel tasso che rende il progetto
valido. Il tir deve essere maggiore del capitale. Il TIR è quel tasso che rende il VAN uguale a zero.

 VAN (VALORE ATTUALE NETTO): confronta performance di progetti di investimenti alternativi. Si


opera assumendo un tasso di attualizzazione pari a quello del costo del capitale, in modo da
determinare il valore attuale del progetto. Attualizzare il valore di un investimento aiuta a
comprendere se il reddito che otterremmo in un dato futuro, calcolato al suo valore attuale,
risulti superiore al reddito che matureremmo nel caso in cui non effettuassimo tale
investimento, ovvero ne sostenessimo uno alternativo. Nel caso di risposta positiva, il VAN
trovato ci autorizzerebbe a propendere per l’investimento, altrimenti no.

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La previsione del fabbisogno finanziario:
L’impresa ha bisogno di capitali per finanziare sia i processi di investimento sia le gestione corrente. Il fabbisogni
finanziario aziendale è uguale alla somma del capitale fisso necessario per acquisire le immobilizzazioni immateriali e
materiali e del capitale circolante occorrente per alimentare il ciclo acquisti-produzione-vendite. L’ammontare del
fabbisogno varia a seconda se ci si trova in fase di costituzione o funzionamento dell’impresa. Nel prima caso vi sarà
la necessità di un fondo di capitali indispensabile per creare la struttura iniziale e per coprire le esigenze di
finanziamento della fase di avviamento (start-up). Nel secondo caso il problema si concretizzerà nell’individuazione
del fabbisogno differenziale necessario per alimentare il processo di investimento e per ulteriori esigenze poste
dall’esercizio.
Il fabbisogno di capitale fisso è legato al grado di capitalizzazione dei processi operativi, più cresce la consistenza
degli impianti e delle attrezzature più aumenta il fabbisogno di capitale fisso.
Il fabbisogno di capitale circolante è correlato al ciclo di reintegro dei ricavi, detto anche ciclo di reintegro del
circolante. Esso sarà tanto minore quanto più breve sarà questo ciclo, vale a dire quanto più rapidi sono i processi di
acquisto-produzione-vendita e quanto più veloce è il corrispondente ciclo monetario che intercorre dal
sostenimento dei costi e l’incasso dei ricavi.
La gestione aziendale e’ un intreccio di cicli economici finanziari monetari, che sono legati tra loro e possono
accavallarsi o meno.

 Il ciclo aziendale economico inizia con il sorgere dei costi per le operazioni di investimento
(acquisto), termina con l’ottenimento dei ricavi per effetto delle operazioni di disinvestimento
(vendita), i beni e servizi si ritrasformano poi in mezzi finanziari.
 Il ciclo aziendale finanziario inizia con il sorgere dei debiti relativi alle operazioni d’acquisto di
materie, merci, servizi da fornitori, e termina con la generazione dei crediti relativi alle
operazioni di vendita verso i clienti.
 Il ciclo aziendale monetario inizia con esborso del denaro per effetto del pagamento degli
acquisti e si conclude con introito di denaro connesso alla riscossione delle vendite.

Per quanto si attiene alle relazioni tra ciclo economico e finanziario, esse saranno in funzione del ciclo monetario
dell’impresa e, in particolare, delle dilazioni medie concesse ai clienti ed ottenute dai fornitori.
Il ciclo economico e il ciclo monetario coincidono nei casi in cui i pagamenti e gli incassi avvengono per consegna
pronta cassa. Non coincidono invece quando i pagamenti avvengono anticipatamente (es. acconto di fornitura)
oppure nel caso ci sia un pagamento posticipato alla scadenza. I debiti o crediti in questo caso rimangono aperti in
bilancio finche’ non saranno saldati. Nel caso di acquisto e pagamento prima della fornitura cosi’ come nell’incasso di
una vendita prima della consegna dei beni, il ciclo economico e’ sfasato rispetto ai cicli monetario e finanziario che
coincidono.

Lo sfasamento tra i differenti cicli di gestione comporta, in ogni caso, l’esigenza di capitale circolante. I principali
componenti del capitale circolante sono:
 Le scorte necessarie per l’alimentazione dei processi di produzione e di vendita
 I crediti commerciali verso i clienti
 I debiti commerciali verso i fornitori
 Le attività finanziarie occorrenti per assicurare la liquidità aziendale
 Le altre attività e passività correnti.

Il capitale circolante netto è pari alla differenza tra attività e passività correnti. Ha una posizione quindi di rilievo il
capitale circolante commerciale, rappresentato dalla somma del valore delle scorte di magazzino, dei crediti
commerciali e dei debiti verso fornitori.
Obbiettivo quindi della gestione finanziaria è quello di preservare la solvibilità (equilibrio finanziario) dell’impresa e la
sua liquidità (equilibrio monetario): da ciò l’esigenza di compiere la duplice analisi dei flussi di circolante e dei flussi
monetari (o di cassa).

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Le scelte di struttura finanziaria: minimizzazione degli oneri e del rischio finanziario
La struttura finanziaria è rappresentata dal complesso delle fonti di copertura del fabbisogno aziendale. Le variabili
più incidenti sul fabbisogno finanziario dell’impresa sono:
 Le operazioni di investimento e di alienazione dei beni impiegati nella gestione corrente e
patrimoniale
 L’altezza delle scorte di magazzino
 Le condizioni di pagamento applicate ai clienti
 Le condizioni di pagamento stabilite con i fornitori
 Il livello di liquidità
Per quando riguarda la copertura del fabbisogno globale esso può essere coperto da:
 Dalla dotazione di mezzi propri
 Dal risultato economico della gestione
 Dal finanziamento dei soci
 Dal funzionamento presso risparmiatori e banche
La scelta delle possibili vie di copertura del fabbisogno dovrebbe essere orientata dal rispetto di alcuni principi
fondamentali:
1. L’omogeneità tra fonti e impieghi: possibilità di modificare le scelte riguardanti i mezzi finanziari a breve o a
lungo termine in base alla necessità.
2. La flessibilità della struttura: cioè la possibilità di modificare la struttura finanziaria in rapporto all’evoluzione
del fabbisogno. Questa possibilità di modificare la struttura si traduce nell’opportunità di migliorare il
risultato finanziario.
3. L’elasticità della struttura: opportunità di dilatare l’area di manovra delle scelte finanziarie. Una struttura è
tanto più elastica quanto maggiori sono le possibilità quali-quantitative di espanderla. L’incremento
dell’elasticità finanziaria fa crescere la riserva finanziaria ossia, la capacità di poter accedere rapidamente al
finanziamento qualora si presentassero buone opportunità di investimento.
NB: flessibilità ed elasticità potrebbero apparire simili ma non lo sono. La flessibilità riguarda la capacità di
riprodurre un costante equilibrio tra fonti e impieghi di capitale, mentre l’elasticità si riferisce alla possibilità
di incrementare le risorse finanziarie. Una struttura finanziaria è tanto più flessibile quanto è più in grado di
modellarsi in rapporto alle esigenze della gestione; ed è tanto più elastica quanto più facilmente può essere
espansa.
4. L’economicità nel bilanciamento di fonti e impieghi: cioè si intende la massimizzazione del divario tra
rendimento e costo dei capitali.

La gestione finanziaria dovrebbe avere come obiettivi strategici la minimizzazione degli oneri e del rischio. In merito
al rischio, rappresentato dall’incapacità di alimentare i processi di gestione caratteristica, bisogna capire sei sia di
carattere:
 Strutturale: si traduce nel rischio di insolvenza, ovvero nell’incapacità di sostenere i processi di
investimento e le esigenze di capitale circolante; quindi, vi è uno squilibrio tra fonti e impieghi.
 Congiunturale: si traduce nel rischio di illiquidità, ovvero in un momentaneo deficit di cassa
durante lo svolgersi della gestione; quindi, siamo in uno stato di carenza di cassa.
Questi rischi possono creare delle situazioni di difficoltà della gestione aziendale. L’impresa dovrebbe disporre di
riserve finanziarie (mezzi propri) in caso di questi rischi, mentre sotto il profilo degli oneri finanziari potrebbe fari
ricorso a formule di copertura contro il rischio di variazione dei tassi di interesse.
Quindi, la minimizzazione del rischio finanziario non può che rappresentare un obiettivo primario della gestione
industriale.

L’articolazione del fabbisogno e la leva finanziaria:


Il processo di scelta delle fonti di finanziamento deve poggiare sull’analisi del fabbisogno di capitali e sulla
conoscenza del mercato dell’offerta dei capitali stessi. Nella realtà aziendale il fabbisogno globale è la risultante di
quattro differenti tipi di esigenze:
1. Un fabbisogno strutturale: permanente nel tempo perché legato alle caratteristiche di struttura dell’impresa;
2. Un fabbisogno corrente: correlato al volume di attività di gestione corrente;
3. Un fabbisogno straordinario: legato ad esigenze di lungo periodo relative alla gestione extra-caratteristica;
4. Un fabbisogno occasionale: collegato a fenomeni congiunturali ed imprevedibili, con effetti destinati ad
esaurirsi comunque nel breve periodo.

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A seconda quindi delle caratteristiche del fabbisogno l’azienda deve reperire capitali a diversa scadenza e con
differenti modalità di vincolo. Inoltre, deve valutare se la copertura finanziaria deve essere considerata una variabile
dipendente e quindi subordinata alle scelte di programma compiute dall’impresa, oppure una variabile
interdipendente e quindi modificabile all’atto della fissazione del piano aziendale di gestione.
Nell’individuazione delle possibili fonti di copertura del fabbisogno una delle scelte fondamentali è quella relativa al
livello di indebitamento da accettare per l’impresa. Questa scelta deve essere orientata dal presumibile effetto leva
finanziaria che può migliorare o peggiorare l’attività aziendale.
 Migliora se la redditività sarà maggiore del costo di indebitamento
 Peggiora se gli oneri finanziari non saranno compensati da ritorno economico dell’investimento.
Per leva finanziaria si intende infatti la possibilità, in determinate condizioni, di ampliare l’attività aziendale mediante
l’indebitamento. L’indebitamento in certe condizioni può garantire un miglioramento della redditività del capitale.
Questo però avviene solamente quando il rendimento dell’investimento collegato all’indebitamento è maggiore del
capitale preso a prestito. La redditività del capitale proprio (ROE) può essere migliorata o peggiorata dal fattore leva.
-migliora se ROI> i, l’effetto quindi è di aumentare il ROE
-peggiora se ROI< i, l’effetto quindi è di diminuzione del ROE
La leva finanziaria misura quindi la capacità dell’indebitamento di ampliare la redditività (degli azionisti) aziendale.
NB: se quindi il ROI è maggiore del tasso di interesse e quindi del costo del capitale preso a prestito il ricorso a
capitale di terzi funge da moltiplicatore delle opportunità di investimento.
L’effetto del valore leva dipende dal divario tra il rendimento netto del capitale investito e il costo reale del capitale
preso a prestito. Per valutare il costo effettivo dell’indebitamento occorre determinare il TAEG (tasso annuo effettivo
globale) che comprende il tasso annuo nominale (tasso base) e gli oneri accessori (commissioni e spese).

Le principali fonti di finanziamento:


La determinazione della struttura del capitale è legata a fattori previsionali e di vincolo, per quanto riguarda il fattore
rischio si possono avere conseguenze differenti in base al tipo di fonte per l’acquisizione dei capitali, visto che il
ricorso a certe fonti crea impegni più o meno lunghi nel tempo. Possiamo classificare le fonti di finanziamento in
base alla scadenza e al tipo di fabbisogno prevalentemente coperto:
 Capitali propri: rappresenta un fonte di finanziamento a lungo termine perché i mezzi immessi
nella gestione sono destinati a permanervi durevolmente. (scadenza lunghissima, fabbisogno
coperto di tipo strutturale)
 Autofinanziamento: cioè il reinvestimento di profitti conseguiti nell’attività aziendale (scadenza
lunghissima, fabbisogno coperto strutturale-ordinario)
 Mercato mobiliare: attraverso la quotazione in borsa riescono a collocare parte del capitale
sociale direttamente presso i risparmiatori. (scadenza lunghissima, fabbisogno coperto
strutturale
 Fonti esterne- credito bancario: che può assumere diverse forme temporali (tempi brevi o
lunghi) e diverse tecniche. Si possono distinguere le operazioni autoliquidantesi (o finalizzate),
rappresentate da anticipi concessi dalla banca su crediti vantati dall’impresa verso terzi che si
estingueranno automaticamente all’incasso dei crediti ceduti, e operazioni non autoliquidantesi,
che si configureranno come forme di concessione di fido allo scoperto per le quali l’istituto
bancario normalmente chiede delle garanzie reali o personali (come ad esempio nell’ambito del
finanziamento di opere pubbliche il project-financing basato sulla restituzione del prestito
mediante flussi di cassa che deriveranno dall’uso dell’opera pubblica come parcheggi ,
autostrade ecc.)
 Leasing: l’impresa non è costretta a sopportare subito il peso dell’investimento perché ottiene il
bene di cui ha bisogno mediante un contratto di locazione con diritto di riscatto del bene dopo
un certo periodo e ad un certo prezzo prefissato. Una forma particolare di leasing è il lease-back,
che consiste nel vendere ad una società di leasing un bene posseduto, richiedendolo
contestualmente in locazione alla stessa società acquirente. L’azienda venditrice, in questo
modo, ha due vantaggi: avere un’entrata a fronte dell’alienazione di un bene di proprietà di cui
però non perde l’uso e sfruttare l’effetto fiscale delle operazioni di leasing. (scadenza media, tipo
di fabbisogno straordinario)
 Factoring: si traduce nello sconto di fatture o titoli di credito imperfetti e può avere luogo con la
formula pro solvendo (dove il rischio di insolvenza è condiviso tra debitore e cedente del credito
stesso) e pro soluto (quando il rischio è assunto dalla banca)

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 Forfaiting: cioè vendita pro-soluto di effetti cambiari che in rapporto alla loro scadenza e al grado
di rischio di incasso, vengono ceduti in base al loro valore facciale decurtato in ragione di uno
sconto a forfait.
 Credito mercantile: cioè il credito diretto collegato a operazioni di scambio.

LA FUNZIONE DI RICERCA E SVILUPPO: IL PROCESSO DI INNOVAZIONE DEL PRDOTTO

La funzione di ricerca e sviluppo


La funzione di ricerca e sviluppo (Research & Development), istituita per lo studio e la promozione delle innovazioni
di gestione, può assumere un’importanza molto diversa da impresa a impresa. Questo dipende dal settore in cui si
colloca l’attività produttiva, dal carattere strategico attribuito all’innovazione tecnologica e dalle dimensioni
aziendali. Non tutte le innovazioni hanno lo stesso peso e presentano le medesime difficoltà attuative.
L’imprenditore, quale autore primo del processo innovativo, deve compiere sempre un difficile arbitraggio tra
ripetitività e cambiamento; di fatto ripetere gli stessi comportamenti comporta una crescita della specializzazione
con un miglioramento della produttività; tuttavia, non si è in grado di rispondere a nuove esigenze tecnologiche e di
mercato idonee a far acquisire una maggiore forza competitiva dall’azienda.

Il ruolo dell’innovazione nella gestione aziendale:

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la produzione di innovazioni è lo strumento fondamentale per costruire il vantaggio competitivo sia migliorando
l’efficienza dei processi operativi sia producendo la differenziazione dell’offerta rispetto alla concorrenza.
L’innovazione va però intesa quale comportamento sistemico che riguarda tutti gli aspetti della gestione e non solo
quelli della tecnologia produttiva.

Le fasi del processo innovativo:


Il processo parte dal concepimento di un nuovo prodotto, che potrebbe configurarsi come modifica di un prodotto
già esistente (innovazione incrementale) o come messa a punto di un prodotto totalmente nuovo (radicale). Facendo
prevalentemente riferimento alla seconda ipotesi è normale pensare che l’imprenditore voglia prima valutare la
probabilità di successo e la possibilità di realizzare l’innovazione. Per far ciò deve attuare una procedura di controllo
articolata in 4 passaggi:
1)Misurazione della vendibilità del nuovo prodotto, ovvero nella stima della quantità e dei prezzi di assorbimento da
parte del mercato (verifica commerciale)
2)Verifica tecnologica ovvero la capacità tecnica di realizzare il nuovo prodotto con costi compatibili con i prezzi
spuntabili nel mercato (verifica produttiva)
3)Accertamento della possibilità di reperimento delle risorse finanziarie necessarie per la realizzazione e il lancio del
nuovo prodotto (verifica finanziaria)
4) Valutare la convenienza finale dell’operazione, ovvero la positività del risultato ottenibile con il lancio del nuovo
prodotto (verifica economica)
>Questo processo è complicato perché si basa su previsioni e sull’intuito imprenditoriale. La sua attuazione è frutto
di un vero e proprio business plan, nel quale programmare la strategia produttiva e commerciale per introdurre il
new prodotto.

Il rapporto tra innovazione e tecnologia:


L’innovazione può presentarsi nell’impresa secondo un’ampia gamma di modalità:
*Cambiamento di una routine organizzativa
*Messa a punto di nuove macchine o impianti
*Nuovo processo produttivo ( know how)
*Modifiche nel processo direttivo
*Modifica dei prodotti esistenti
*Ideazione di un nuovo prodotto per lo stesso mercato
*Realizzazione prodotti per nuovi mercati
È possibile ipotizzare che, al succedersi delle precedenti ipotesi innovative, si verifichino due fenomeni:
1) l’investimento in risorse finanziare e umane aumenti
2) la probabilità di insuccesso e, quindi il rischio tenda a diventare più elevato.
L’entità del rischio è legata alle possibilità di modificare il progetto iniziale, differirlo nel tempo, annullarlo senza
conseguenze pericolose per la sopravvivenza aziendale.
>Una distinzione va fatta tra tecnologia in senso stretto e in senso lato. Nel primo caso
si parla di un processo o insieme di processi che consentono di applicare un complesso di tecniche, di competenze
ingegneristiche e conoscenze scientifiche alla produzione industriale, limitando così l’innovazione, alla sola area della
produzione industriale (visione industriale). Nel secondo caso si parla di applicazione di conoscenze tecniche e
strumenti alla risoluzione del problema (visione post-industriale). In quest’ultimo caso, non conta solo la tecnologia
di produzione, ma anche la tecnologia applicata ad altre aree funzionali come, ad esempio, tecnologie di
programmazione e controllo e di pianificazione strategica. La produzione di innovazioni, da fatto discontinuo e
collegato a particolari centri organizzativi diviene così fatto continuo e diffuso a tutti i livelli e fra tutte le posizioni
gerarchiche. Insieme ai processi spontanei di innovazione, è necessario creare centri specifici di produzione
dell’innovazione stessa, soprattutto dove è necessario un lavoro di gruppo. Un altro aspetto importante riguarda la
genesi dell’innovazione, che si può collegare alla produzione autonoma di idee originali, alla raccolta di informazioni
e alla rielaborazione di idee messe a punto da altri.

La classificazione delle innovazioni:


Per poter comprendere al meglio le modalità di organizzazione del processo innovativo è utile operare una
classificazione delle innovazioni:
1)sotto il PROFILO STRATEGICO possono essere distinte in offensive (dirette ad acquisire un nuovo vantaggio
competitivo), neutrali (se sono rivolte ad annullare ritardi sotto il profilo dell’efficienza funzionale) o difensive (se
sono orientate a ridurre il gap tecnologico in limiti che non lascino svantaggi competitivi)

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2)Secondo l’aspetto della PORTATA o l’effetto dell’innovazione, può tradursi in una novità assoluta (innovazione
radicale), nella modifica di innovazioni già sperimentate (innovazione incrementale) oppure in cambiamenti non
essenziali di innovazioni già in essere (innovazione marginale).
3)Altro aspetto è quello del GRADO DI PROTEZIONE dell’innova. Si classificano in innovazioni protette se vi sono
strumenti giuridici di difesa tipo brevetti; proteggibili quando la protezione è legata investimenti
promozionali/tecnici in grado di scoraggiare il processo imitativo; e in non protette nei casi in cui l’imitazione appare
facilmente attuabile dai competitors.
4)Sotto il profilo ECONOMICO, si caratterizzano per la velocità di recupero dell’investimento vi sono innovazioni; a
redditività immediata (se il recupero avviene in tempi brevi) a redditività diffusa e futura (quando i tempi sono più
lunghi)
5)Sotto il profilo OPERTATIVO si distinguono tre macrogruppi: quelle manageriali, quelle commerciali e quelle
TECNOLOGICHE che a loro volta possono essere di prodotto (rivolte ad apportare variazioni alla gamma di vendita),
di processo (volte a migliorare l’efficienza dei cicli di lavorazione) e di impianto (concernenti la messa a punto di
mezzi tecnici con più elevati coefficienti di rendimento)
6)Sempre in riferimento alle innovazioni tecnologiche vi è una distinzione in base al GRADO DI IMPATTO
ORGANIZZATIVO, tra innovazioni autonome (possono essere attuate indipendentemente da altre innovazioni) ed
innovazioni sistematiche (che debbono inserirsi in un sistema di innovazioni, possono produrre vantaggi solo se
accompagnate da altre inno.)

I modelli organizzativi per la produzione delle innovazioni:


L’idea di un cambiamento nei processi e nelle pratiche aziendali può essere frutto della mente di un solo individuo,
mentre l’innovazione è sempre il risultato di un lavoro di un gruppo di persone all’interno o all’esterno dell’impresa.
Realizzare un’innovazione richiede un progetto che è frutto dell’opera di un team.
È possibile individuare varie modalità organizzative secondo la seguente scala crescente di impegno:
*La costituzione di un osservatorio per seguire le innovazioni di mercato e di processo prodotte all’esterno
*La creazione occasionale di un team interno di ricerca
*L’istituzione di un gruppo permanente di ricerca
*L’organizzazione di laboratori e più team di ricerca, sempre interni
*La costruzione di una rete di ricerca internazionale

Il finanziamento del processo produttivo:


Lo sviluppo di una innovazione comporta quasi sempre rilevanti investimenti e grandi rischi. Questo significa che
l’impresa deve prima sostenere i costi, poi potrà ottenere ricavi se l’innovazione ha successo. Non appare pertanto
agevole reperire i fondi necessari sia per la loro consistenza sia per l’elemento di rischio del progetto. Questo vale
soprattutto per le forme tradizionali di finanziamento come ad esempio quello bancario che richiede di solito
garanzie che, per progetti di innovazione, non sono insite nel progetto stesso. Da ciò il ruolo di speciali finanziatori
(venture capitalist e business angel), disponibili ad accollarsi il rischio del progetto innovativo.
Gli elementi di valutazione finanziaria nell’ambito delle scelte innovative sono molteplici e complessi. La prima
componente da analizzare è IL RISCHIO INTRINSECO, che è funzione dell’incertezza circa i ritorni economici previsti
dai programmi di investimento innovativi. Un secondo elemento è IL TEMPO DI RECUPERO. Infatti, gli investimenti in
innovazione richiedono generalmente grandi impieghi di risorse non compensati da sufficienti flussi di cassa in
entrata per tempi più o meno lunghi. Infine, è necessario valutare la STRUTTURA FINANZIARIA. Il superamento di
queste condizioni passa attraverso l’adozione di soluzioni di finanziamento innovative che facciano ricorso al capitale
di rischio. Questa fonte di finanziamento è ormai diffusamente riconosciuta come una componente irrinunciabile
delle strutture finanziarie più evolute, sul piano qualitativo e quantitativo, per il sostegno dell’innovazione.

La politica e i tempi dell’innovazione: il pioniere (first mover) e l’imitatore (follower).


Nel lancio di un’innovazione appare decisiva la strategia dei tempi d’immissione nel mercato. Se si vuole essere
innovatori nel vero senso del termine e quindi proporsi per primo con il nuovo prodotto, oppure si preferisce
attendere prima che l’innovazione, promossa da altri, si affermi nel mercato.
Le due opzioni sono differenti perché comportano vantaggi e svantaggi completamente differenti il first mover
conquista per primo una posizione di mercato acquisendo un vantaggio rispetto alla concorrenza ma assumendo
maggiori rischi d’insuccesso; al contrario il follower s’inserisce in un mercato che si è dimostrato favorevole, ma deve
essere capace di sottrarre spazio a chi già lo occupa. (vantaggi del first mover: occupazione immediata del mercato,
creazione di fedeltà alla marca, acquisizione di leadership tecnologica) (svantaggi: maggiori rischi di insuccesso, costi
più elevati di R&S, inadeguatezza professionale di fornitori e distributori).

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Il ruolo dell’innovazione nella strategia aziendale:
Si è quindi visto che l’innovazione di prodotto, di processo e d’impianto sono al centro della gestione aziendale. In
questo ambito un ruolo importante è assunto dalla capacità di ricerca e di sperimentazione. I sistemi economici più
avanzati e competitivi si caratterizzano infatti proprio per la maggiore intensità degli investimenti in attività di ricerca
e sviluppo. Nell’impresa la R&S tende ad essere finalizzata. Essa deve concorrere alla composizione del ventaglio di
opportunità e fonti per l’innovazione dei processi operativi e dei prodotti. Inoltre, il peso specifico che tale funzione
può assumere dipenderà dal settore entro il quale opera l’azienda e dalla posizione che l’impresa intende occupare
rispetto alla frontiera tecnologica. In linea generale si può ribadire che l’ampiezza e la costosità dei compiti di R&S
fanno sì che solo le aziende più grandi dispongano di strutture complete ed in grado di promuovere autonomamente
il processo innovativo. Molto diversi sono i problemi e i rischi che caratterizzano i progetti di ricerca pura o di base, i
progetti di ricerca applicata e quelli di sviluppo. I primi si caratterizzano per l’elevato grado di incertezza tecnica
derivante dall’insufficiente grado di conoscenze inizialmente disponibili sull’oggetto dell’indagine. Nel caso poi della
ricerca applicata, gli sforzi vengono condotti verso la formalizzazione ed il consolidamento delle conoscenze acquisite
durante la fase della ricerca di base, al fine di valutarne le concrete possibilità di applicazione a livello di prodotto o
processo
produttivo innovativo.

LA GESTIONE AMMINISTRATIVA DEL PERSONALE:

I vari aspetti della gestione del personale:


La gestione del personale è particolarmente complessa e richiede l’impiego di competenze manageriali e
psicologiche per l’organizzazione, programmazione, conduzione e controllo delle risorse umane presenti
nell’impresa. La complessità è legata alla varietà degli aspetti da considerare visto che possiamo analizzare i
problemi relativi al fattore umano sotto quattro diversi profili:
1. Un profilo strettamente strategico riguardante le scelte per la formazione dell’organico e per la sua crescita
professionale.
2. Un profilo organizzativo riguardante la definizione delle mansioni (job description), allo scopo di utilizzare al
meglio le capacità del personale da inserire nella struttura aziendale.

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3. Un profilo direzionale o di conduzione correlato ai problemi della motivazione e guida dei lavoratori occupati
nell’impresa.
4. Un profilo amministrativo-contabile relativo alla regolamentazione del rapporto contrattuale e alla sua
gestione negli aspetti giuridici e finanziari.

La procedura di reclutamento e selezione del personale:


Alla direzione amministrativa del personale è affidata l’esecuzione delle procedure di reclutamento, selezione e
inquadramento delle figure professionali. La scelta finale del personale, specie per quanto riguarda le figure al
vertice, spetta all’alta direzione.
Nella selezione del personale occorre tenere conto non solo delle competenze richieste per ciascuna posizione da
ricoprire, ma anche dell’attitudine dei singoli ad inserirsi in un contesto organizzativo caratterizzato da una storia e
da valori che debbono essere compresi e condivisi. Una volta assunti i lavoratori devono essere addestrati e curati
con processi di formazione permanente.
Gli elementi da valutare sono:
 Qualità attitudinali e requisiti caratteriali
 Esperienze pregresse in settori o in posizione di particolare interesse in rapporto alle mansioni
da ricoprire in azienda
 Titolo di studi posseduti
 Risultato di prestigio ottenuti in ambito lavorativo
 Disponibilità alla mobilità e ai trasferimenti in sede
 Aspettative e bisogni da soddisfare
Il risultato da raggiungere è quello di avere l’uomo giusto al posto giusto.

Il mercato del lavoro in Italia:


L’individuazione delle risorse umane da inserire in azienda è una responsabilità molto delicata perché scelte
sbagliate non possono essere facilmente corrette. Questo a causa della rigidità del mercato del lavoro e per garanzie
di tutela del posto di lavoro. Il mercato del lavoro viene detto flessibile se le parti sono libere di contrattare salari e
qualità di lavoro; rigido se il sistema è caratterizzato da limitazioni all’autonomia contrattuale delle parti ed in
particolare alla imprese è impedito di licenziare e al lavoratore di contrattare un salario individuale inferiore a quello
di mercato.
Particolare importanza ha la flessibilità inerente al mercato: un mercato più flessibile permette di ricorrere a forme
di inserimento non definitive (contratti a tempo determinato, tirocini ecc) con l’obbiettivo imprenditoriale di
consentire una migliore conoscenza delle capacità e delle attitudini della persona si fini di un definitivo inserimento
all’interno dell’azienda.
Il tema della flessibilità del mercato è di rilevanza generale ed è stato affrontato con molte polemiche anche nel
nostro Paese. La tendenza a ridurre la rigidità del rapporto di lavoro è stata avviata alcuni anni fa con l’approvazione
del Jobs Act (2014-2015).
Secondo la normativa vigente le forme di impiego atipico più recenti sono:
 Part-time: occupazione regolare e volontaria con orario giornaliero o settimanale sensibilmente
ridotto rispetto a quello considerato normale. Questa forma di lavoro si presta anche ad essere
utilizzata in combinazione con lo smart working, consentendo di trovare un punto di incontro tra
le esigenze dell’impresa e quelle dei lavoratori.
 Il lavoro interinale: o in affitto, è una forma di lavoro temporaneo svolto mediante
l’intermediazione di un’azienda specializzata, che risulta l’unica titolare del contratto di lavoro, in
virtù del quale il lavoratore si obbliga a svolgere la propria attività lavorativa sotto la direzione di
quella che sarà l’impresa utilizzatrice. Si genera quindi una relazione tra tre soggetti.
 Il lavoro a tempo determinato:
 Il job sharing: con questa modalità due lavoratori si dividono un’unica postazione di lavoro di cui
sono entrambi responsabili. I lavoratori riescono così a conciliare gli impegni lavorativi con quelli
personali e l’impresa ottiene un minore assenteismo.
 Il lavoro intermittente (a chiamata)
 Staff leasing: è relativo ad un gruppo di lavoro che è affidato a tempo determinato o
indeterminato da un’impresa utilizzatrice. È destinato a soddisfare l’esigenza di gestire delle
attività esterne lasciando agli addetti interni le attività cosiddette core.

La struttura della retribuzione del personale:

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Le condizioni contrattuali assumono particolare rilievo per l’aspetto retributivo e sotto l’aspetto dell’incentivazione.
Si parla di contrattazione integrativa quando vi è la possibilità di disciplinare le forme di incentivazione e la fornitura
di fringe benefit, vale a dire servizi concessi ai dipendenti in aggiunta al salario o allo stipendio.
Il problema della retribuzione è particolarmente avvertito nel nostro paese per l’incongrua struttura del salario
dovuta all’eccessiva incidenza degli oneri contributivi, problema che viene definito come cuneo fiscale.

Gli aspetti della sicurezza e della relazioni industriali:


In ogni azienda la sicurezza deve essere garantita sotto due profili:
 Quello del contesto lavorativo nel suo complesso
 Quello dello specifico posto di lavoro
Nell’impresa deve essere nominato un responsabile della sicurezza e redatto un piano di valutazione dei rischi in
grado di garantirne la prevenzione. Sotto il profilo organizzativo le aziende di non piccole dimensioni fanno
frequente ricorso ad istituti di certificazione della qualità aziendale. Ciò sia per disporre di un riscontro interno sia
per offrire all’esterno l’immagine di un’azienda rispettosa delle prescrizioni in tema di ambiente e lavoro.
I problemi relativi alla gestione del personal assumono una diversa complessità nelle imprese di piccola e grande
dimensione.
 Piccole: non vi è la creazione di una Direzione o Reparto ma prevedono l’affidamento all’esterno
del calcolo delle paghe e dei contributi previdenziali
 Grandi: la gestione dei rapporti con i dipendenti è a carico di proprie strutture specializzate per il
governo del fattore umano.

La funzione contabile:
La funzione amministrativa contabile è indispensabile oltre che per rispondere agli obblighi di legge in tema di
contabilità e bilancio anche sotto l’aspetto civilistico e fiscale per fornire, con continuità e sistematicità, molti dati di
base per l’assunzione delle decisioni.
I compiti della funzione contabile sono:
-contabilità generale e IVA
-analisi dei costi
-emissione e pagamento delle fatture
-ruolo paga del personale
-controllo delle entrate e delle uscite finanziarie
I compiti di natura contabile costituiscono un supporto essenziale per il funzionamento dell’organizzazione, si pensi
ad esempio alla costruzione di un budget. La possibilità di disporre tempestivamente di figure di costo, di rapporti di
rendimento, di indici di prestazione offre non solo l’opportunità di controllare lo svolgimento dell’attività aziendale,
ma anche di correggerne l’andamento e riprogrammarne gli sviluppi futuri.

LA PROGRAMMAZIONE, IL CONTROLLO FINANZIARIO, E LA VALUTAZIONE DEGLI INVESTIMENTI

Sotto il profilo pratico nella gestione dell’impresa si ricorre all’utilizzo di alcune tecniche rivolte ad orientare le
decisioni di programmazione e gli interventi di controllo.

Gli strumenti di programmazione e di controllo della gestione finanziaria:


Nella conduzione aziendale occorre programmare efficacemente la gestione finanziaria per evitare rischi di
insolvenza e illiquidità derivanti da squilibri tra impieghi e fonti, entrate ed uscite. Per tenere sotto controllo la
situazione finanziaria e monetaria due sono gli strumenti fondamentali a cui fare ricorso:
1. Il prospetto di fonti e impieghi
2. Il piano cassa
A questi due documenti poi è utili affiancare il quadro dei flussi monetari delle operazioni di esercizio e il prospetto
generale dei movimenti monetari.

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Il prospetto delle fonti e degli impieghi:
Costruito solitamente per periodi biennali o triennali, riporta le previsione dei flussi finanziari con l’indicazione
specifica degli usi e delle fonti di capitale. Serve a valutare l’equilibrio tra il fabbisogno finanziario e le possibili fonti
di finanziamento attivabili dall’impresa e a controllare l’applicazione del principio dell’omogeneità (possibilità di
modificare le scelte riguardanti i mezzi finanziari a breve o a lungo termine in base alla necessità). Per questo motivo
il prospetto si divide in due parti:
 Superiore: rivolta a valutare l’equilibrio e l’omogeneità tra le fonti e gli usi non correnti.
 Inferiore: rivolta a valutare l’equilibrio e l’omogeneità tra le fonti e gli usi correnti.
Le fonti sono distinte in tre gruppi:
 Fonti della gestione: che rappresentano il cash-flow aziendale, ovvero il surplus dei mezzi
finanziari previsto a chiusura dell’esercizio.
 Fonti correnti: tra cui si fa rientrare l’aumenti dei debiti a breve
 Fonti non correnti: in cui si comprendoni i debiti a medio-lungo, l’aumento di capitale, le
alienazioni patrimoniali ecc.
Gli usi sono distinti in due gruppi:
 Usi correnti: relativi al finanziamento dell’esercizio
 Usi non correnti: inerenti a processi di investimento di rimborso dei debiti a medio-lungo
termine e distribuzione di dividendi.
Il prospetto consente così di determinare tre saldi:
 Saldo finanziario: che deriva dalla contrapposizione di usi e fonti non correnti e che riguarda la
modificazione della struttura finanziaria dell’azienda.
 Il saldo corrente: che riviene dalla contrapposizione tra fonti e usi correnti e si attiene ai tre cicli
(produzione, economico e finanziario)
 Saldo complessivo: somma algebrica del saldo finanziario e corrente.
Con la redazione del prospetto è dunque possibile ipotizzare anticipatamente le alternative per la copertura dei flussi
finanziari previsti per gli usi al fine di preservare l’equilibrio finanziario nel rispetto del principio dell’omogeneità.
La situazione ottimale sia avrebbe con i tre saldi tendenti a zero: in questo caso oltre a non esservi risorse in eccesso
o deficit finanziari da coprire (saldo complessivo tendente a zero) vi sarebbe anche l’equilibrio tra fonti e usi correnti
(saldo corrente tendente a zero) e tra fonti e usi non correnti (saldo finanziario tendente a zero) sempre con il
rispetto del principio dell’omogeneità. Tuttavia, è buona norma chiudere la programmazione finanziaria con saldi
positivi.
 Se il saldo complessivo risultasse molto positivo di dovrebbero individuare le migliori alternative
di investimento per evitare di detenere liquidità scarsamente redditizia.
 Se il saldo complessivo risultasse negativo occorrerebbe anticipatamente provvedere alla sua
copertura o al ridimensionamento degli impieghi programmati.
Il prospetto delle fonti e degli impieghi, in una programmazione pluriennale, potrebbe anche presentare in certi anni
saldi negativi che però potrebbero essere bilanciati da saldi positivi precedenti e tradotti poi in accumulo di liquidità.

La costruzione del prospetto delle fonti e degli impieghi avviene per tentativi successivi tenendo comunque presente
le tipologie di impieghi di capitale che possono essere:
 Obbligati: (ad esempio rimborso delle rate di debiti a medio-lungo periodo)
 Non obbligati: pur non essendo obbligati lo divengono per conservare le condizioni di continuità
e di efficienza del processo produttivo
 Discrezionali: (manutenzioni straordinarie ecc).
La composizione dell’equilibrio tra usi e fonti non correnti comporta l’analisi di ogni singola voce e la valutazione
dell’effettivo grado di discrezionalità e convenienza delle scelte da assumere.

Prospetto finanziario delle fonti e degli impieghi

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Insieme alla programmazione e al controllo della solvibilità deve essere attuato il controllo monetario diretto a
preservare le condizioni di liquidità aziendale. A questo fine risultano molto efficaci tre strumenti di
programmazione:

1) il prospetto di flussi monetari delle operazioni di esercizio: per ogni partita l’entrata o l’uscita effettiva è
data dalla somma algebrica tra l’ammontare dei crediti/debiti alla fine dell’esercizio. Il prospetto può
chiudere con un saldo negativo, vale a dire un fabbisogno di esercizio per il quale occorrerà trovare
un’adeguata copertura, oppure un saldo positivo, ossia delle disponibilità della gestione. Questo saldo sarà
successivamente riportato nel quadro generale dei movimenti monetari.

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2) il quadro generale dei movimenti monetari: viene riportato il saldo del prospetto dei flussi monetari e
all’interno di questo quadro vengono indicate tutte le uscite e tutte le possibili fonti di entrata.

3) Il Piano cassa: consente lo sviluppo analitico dei prospetti monetari in quanto considera, su base mensile, il
flusso delle entrate e delle uscite di gestione. Mediante il piano cassa si può determinare il saldo monetario
previsto e valutare gli effetti prodotti sulla consistenza dei mezzi liquidi presenti all’inizio del periodo. Tutto
questo per controllare la possibilità di coprire con i mezzi liquidi disponibili gli eventuali saldi monetari

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negativi, sia per valutare nell’ipotesi di un loro incremento, più favorevoli opportunità di impiego a
brevissimo termine. Una funzione centrale è rappresentata dalla situazione di liquidità cassa e banca ad
inizio e alla fine del periodo. È chiaro che quest’ultima rappresenterà il saldo da riportare quale <<cassa e
banche>> nel periodo successivo. Nella costruzione del piano cassa bisogna comprendere le entrate e le
uscite previste, tenendo conto che, per quanto riguarda le entrate, potrebbero essere certi, molto probabili
e probabili, mentre per le uscite bisognerà fare attenzione alle uscite fisse di carattere mensile o di
periodicità più lunga e alle uscite straordinarie di difficile prevedibilità. È chiaro, infatti, che il piano di cassa
dovrà essere tenuto costantemente sotto controllo. Relativamente alle uscite è buona norma distinguerle in
uscite fisse mensili (stipendi ecc), uscite periodiche (premi assicurazioni), uscite straordinarie (indennità di
licenziamento, manutenzioni impreviste). La situazione monetaria diverrebbe preoccupante se il saldo
banche stimato alla fine di certi periodi superasse gli affidamenti ricevuti dalle banche stesse. Il responsabile
della finanza dovrà preoccuparsi di rendere più veloce il ritmo delle entrate e rallentare quello delle uscite,
oppure dovrà ottenere dei mezzi necessari per superare probabili periodi di illiquidità. L’elemento quindi
finale da considerare è la consistenza degli affidamenti bancari. Dalla differenza tra il saldo cassa e le banche
alla fine del periodo e questo valore risulterà la capacità di riserva finanziaria oppure la situazione di
illiquidità.

Classificazione degli investimenti aziendali: Possiamo suddividere gli investimento in basa a:


 Lo scopo: distinguere gli investimento in base al proprio impianto (start up). Un’impresa di
nuova costituzione ha problematiche diverse.
 La destinazione: si fa una distinzione in base alle aree di gestione.
>investimenti tecnici
>investimenti commerciali
>investimenti distributivi
>investimenti amministrativi.
- La natura:
>materiali: impianti, attrezzature
>immateriali: marchi, brevetti, pubblicità

La valutazione strategica dei progetti di investimento:

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Nel quadro della programmazione un ruolo centrale spetta alle decisioni di investimento. Fondamentale e complesso
appare il problema della valutazione dei progetti di investimento.
Per condurre queste valutazioni si possono utilizzare apposite tecniche atte a:
a. Stabilire l’accettabilità di un progetto rispetto a valori standard prefissati
b. Comparare progetti alternativi cioè determinare una lista di priorità tra più iniziative di investimento.
L’efficacia dell’investimento, essendo correlata ai suoi ritorni diretti e indiretti, tangibili e intangibili, andrebbe
stimata in rapporto:
1. Al suo ritorno economico (differenza tra ricavi e costi attualizzati)
2. Vantaggi economici prodotti in altre aree dell’organizzazione aziendale
3. Ai ritorni non economici o di qualità, in grado di accrescere soprattutto le risorse intangibili dell’impresa
(immagine e reputazione)

Le tecniche di valutazione utilizzate sono due:


 Il metodo del periodo di recupero
 Il metodo del tasso di redditività attualizzato
Metodo del periodo di recupero:
È un metodo che tende a valutare il grado di esposizione al rischio di un investimento, in quanto misura il lasso di
tempo entro cui gli incassi attualizzati (inflow) ottenibili si prevede riescano a reintegrare totalmente il capitale
impiegato. L’impresa può stabilire di prendere in considerazione progetti che non vadano al di la di un certo tempo
massimo di recupero, in modo da fissare una soglia di accettazione delle singole proposte. La misurazione del
periodo di rientro può essere anche utilizzata per la comparazione di più progetti.
Appare significativa la determinazione del pay-back period attualizzato. In questo caso l’elemento determinante è il
tempo di esposizione al rischio e non il rischio in sé: di conseguenza il fattore principale di comparazione è
rappresentato dalla velocità di recupero dell’investimento e dal periodo necessario per ottenere da esso un reddito
accettabile. I limiti di questo metodo sono:
-da uguale peso a tutti i flussi di cassa precedenti la data di recupero.
-non dà alcun peso ai flussi successivi la data di recupero
-non fornisce informazioni sulla redditività del progetto. Cutoff period: tempo prefissato per il recupero di un
progetto (soglia di accettazione o rinuncia del progetto).

Metodo del tasso di redditività attualizzato:


Questo metodo inserisce nelle misurazioni il valore del denaro. Il valore del denaro è stabilito oggettivamente dal
mercato sottoforma del tasso corrente di interesse e soggettivamente dall’investitore in rapporto alla sua preferenza
verso disponibilità liquide. Il valore del denaro è tanto minore quanto la sua disponibilità si allontana nel tempo (un

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euro disponibile oggi vale di più di un ero disponibile tra un anno), in quanto il valore del denaro cambia in funzione
del tempo.
Con questo metodo si attualizzano (cioè si riduce ad un unico momento temporale) i flussi di cassa futuri derivanti
dall’investimento, in modo da permettere una migliore comparazione di progetti alternativi. Con esso si può valutare
più correttamente l’economicità di ciascun progetto, cioè stabilire se la sua redditività attualizzata possa risultare
superiore al costo del capitale. Nella valutazione bisogno tenere presente il ritmo degli esborsi e degli introiti perché
il ritorno dell’investimento si traduce in una serie di entrate monetarie, che si diffondono nell’ambito del periodo di
durata dell’investimento stesso, mentre l’erogazione dei fondi per realizzare il progetto può concentrarsi anche in un
solo esborso iniziale o comunque restringersi in un periodo certamente più breve rispetto a quello di vita del
progetto. Una volta previsti i flussi di cassa generabili dal progetto, i metodi a cui si fa comunemente ricorso per
l’analisi della redditività attualizzata sono due:
 Tasso interno di rendimento (internal rate of retourn) o TIR
 Valore attuale netto (net present value) o VAN
TIR:
Con questo primo metodo si individua il tasso di redditività attualizzato che rende uguali il flusso di introiti e di
esborsi. Ei= flusso di introiti, Ui= flusso di esborsi e X è il tasso di attualizzazione da ricercare.

Una volta trovato questo tasso, la convenienza dell’investimento potrà essere valutata in funzione della differenza
tra questo tasso e quello da corrispondere per il reperimento dei fondi necessari. Si deve trovare quel tasso che
rende il progetto valido (ovvero quando il TIR è maggiore del capitale).

VAN:
Tramite questo metodo si opera assumendo un tasso di attualizzazione pari a quello del costo del capitale ( c ), in
modo da determinare il valore attuale del progetto. In formula si ha:

Il progetto risulterà tanto più conveniente quanto più elevato sarà il suo valore attuale netto. Dalla formula possiamo
notare che il TIR è il tasso che rende il Van uguale a zero (andando avanti per tentativi)

La valutazione sulla base di parametri economico-finanziari non risolve il problema della scelta ma da indicazioni di
priorità. Un rapporto di investimento va ponderato anche in rapporto alla sua flessibilità strategica (ovvero la
possibilità di modificare l’attuazione, dopo averlo avviato. Si parla allora di opzioni reali per intendere le opportunità
di modificazione di un progetto d’investimento in corso di realizzazione. Le opzioni strategiche possono essere
ricondotte a quattro ipotesi:

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1. Opzioni di sviluppo: la possibilità, con flussi di cassa crescenti prodotti dall’investimento, di alimentare
ulteriori percorsi di espansione aziendale.
2. Opzioni di abbandono: legate alla possibilità di interrompere senza insostenibili penalità il progetto
d’investimento allorché ci si renda conto che il ritorno non è né potrà essere conveniente rispetto
all’immobilizzo di risorse.
3. Opzioni di differimento: correlate alla possibilità di regolare i tempi dell’investimento, fermandone o
accelerandone l’avanzamento in funzione delle condizioni esterne all’impresa.
4. Opzioni di flessibilità: legate all’effettiva possibilità di modificare obiettivi e tempi dell’investimento a seguito
del mutare delle condizioni del contesto.

LA MISURAZIONE DELLA POTENZIALITA’ ECONOMICO-STRUTTURALE:


L’analisi della struttura è necessaria per riuscire a comprendere la sua potenzialità. Per struttura si intende l’insieme
dei caratteri quali-quantitativi (elementi inseriti della mia organizzazione aziendale) e delle relazioni tra di essi
intercorrenti, che costituiscono per ciascuna impresa la sua specifica fisionomia nel tempo (struttura specifica).
Per governare la struttura vi sono due tipiche azioni:

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 Una concerne l’innovazione e la trasformazione, inserendo all’interno della struttura elementi di
novità (investimento) si fa un procedimento di trasformazione (traslazione curva dei costi).
 Si possono attuare processi di stabilizzazione: fare in modo che l’innovazione precedente già
disposta in essere, sia efficiente lungo la mia struttura aziendale. Si crea un processo di
ottimizzazione delle risorse.
A parità di condizioni di mercato e di tecnologia, la vita dell’impresa appare come un alternarsi di fasi di sviluppo e di
stabilizzazione strutturale. Ad ogni fase di sviluppo segue un processo di perfezionamento strutturale, quindi di
stabilizzazione. Tanto è più grande la carica innovativa che inserisco nella mia struttura aziendale, con un’azione di
innovazione, tanto più lungo sarà necessario far durare il processo di stabilizzazione strutturale (logica funzionante
quando le condizioni di mercato e tecnologia sono lasciate ferme).
Il concetto di struttura è dunque un concetto dinamico che presuppone la variabilità di stati strutturali nel tempo.

La misurazione delle potenzialità economico-strutturale mediante il diagramma di redditività:


Le analisi condotte sui vari aspetto e problemi della gestione aziendale hanno aiutato a capire che la minore o
maggiore capacità di reddito di un’impresa deriva, oltre che dai comportamenti ch’essa attua nei confronti del
mercato, dai vincoli entro cui si svolge la sua attività. Questi vincoli si collegano alla sua stessa struttura e alla
caratteristiche dell’ambiente esterno. Tra le condizioni vincolanti interne vi sono: la capacità di produzione, la
capacità finanziaria, quella organizzativa e la potenzialità economico-strutturale. Quest’ultima dipende dalla
struttura dei costi e dei ricavi aziendali e si attiene in particolar modo al rapporto tra costi fissi, costi variabili e ricavi.
Lo strumento utilizzato per misurare la potenzialità economico strutturale è il diagramma di reddittività che
permette di valutare gli effetti delle scelte aziendali sulla relazione costi-volumi-risultati.
Per costruire il grafico le azioni necessarie sono di rilevazione o di stima, in quanto la sua costruzione può avvenire in
base a dati storici o a dati stimati, a seconda dello scopo di controllo sa effettuare.
Prima di vedere la formazione del diagramma va fatta una distinzione tra:
 Costi fissi: si qualificano per la loro rigidità e si assume che non varino in base alla quantità
prodotta.
 Costi variabili: si qualificano per una maggiore capacità di adattamento e variazione nel breve
periodo. Variano in relazione alla quantità (curva crescente),

Costruzione del diagramma di redditività: (elementi)


1) Una volta rilevati o stimati i ricavi complessivi di vendita al livello massimo di produzione, i costi fissi totale e
i costi variabili totali, è possibile procedere alla costruzione del grafico. Questo avviene su di un diagramma
cartesiano ponendo sull’asse delle ordinate i costi e i ricavi, espressi in termini monetari o percentuale del
volume massimo di fatturato, e sull’asse delle ascisse la base di riferimento di tali costi (più frequentemente
si utilizza la quantità fisica di prodotto).

2) Costi fissi (complessivi), costi variabili e ricavi: occorre riportare nel diagramma i costi fissi complessivi (linea
parallela all’asse delle ascisse posta ad una distanza pari all’ammontare complessivo di tali costi, FF’). I costi
variabili che essendo ipotizzati proporzionali al variare del volume produttivo o di vendita si rappresentano
con una linea OV’ (parte dall’origine), l’inclinazione di questa retta è data dal coefficiente di proporzionalità
di questi costi rispetto al volume. La linea dei costi variabili complessivi parte dall’altezza dei costi fissi

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complessivi (CC’). I ricavi si rappresentano con una line OR che esce dall’origine degli assi, anch’essa con una
certa inclinazione, ipotizzando ricavi variabili proporzionali al variare del volume di vendita.

3) Punto critico o punto di pareggio: le linee dei ricavi complessivi e dei costi complessivi si incontrano in un
punto indicato nel grafico con la lettera P. Questo punto è chiamato punto di pareggio o punto critico (break
even point) e segnala la grandezza del volume produttivo e di vendita per la quale costi e ricavi aziendali
dovrebbero uguagliarsi, cioè il profitto risulterebbe uguale a zero. Il punto P definisce due triangoli che
rappresentano rispettivamente l’area delle perdite, cioè l’insieme dei volumi produttivi e di vendita per i
quali si sostengono costi superiori ai ricavi (triangolo OCP, in cui la linea dei costi complessivi CC’ è superiore
a quella dei ricavi OR); e l’area dei profitti, cioè l’insieme dei volumi produttivi e di vendita per i quali si
conseguono dei ricavi superiori ai costi complessivi (triangolo PRC’, in cui la linea CC’ procede al di sotto della
linea OR)

Se dunque l’azienda dovesse produrre e vendere un volume uguale a q’, subirebbe una perdita pari al
segmento LL’. Se invece dovesse produrre e vendere un volume uguale a q’’, conseguirebbe un profitto pari
a GG’. Questi segmenti rappresentano quindi la differenza, per quei volumi di produzione e di vendita, tra
costi e ricavi complessivi.

4) Margine di sicurezza e margine di deficit: il divario tra volume realmente prodotto e venduto e volume
necessario ad ottenere il pareggio economico viene definito in due modi qualora esso risulti positivo o
negativo.
 Positivo: margine di sicurezza. Rappresentato nel grafico dal segmento q’’-q, indica la
contrazione massima che può subire il volume di produzione/vendita prima che l’impresa rischi
di entrare nell’area delle perdite.

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 Negativo: margine di deficit. Rappresentato nel grafico dal segmento q’-q determina
l’espansione del fatturato che sarebbe necessaria per ottenere il pareggio tra ricavi e costi
complessivi.

Conclusione sul punto di pareggio: dalla posizione del punto di pareggio di può dedurre il grado di potenzialità
economico-strutturale dell’azienda. Esso delimita l’ampiezza dimensionale dell’area delle perdite e dei profitti:
 Il punto di pareggio si sposta verso destra per un incremento dei costi o per una riduzione dei
ricavi. In questo modo si verifica un ampliamento dell’area delle perdite e una riduzione
dell’area dei profitti. (minore risulterà la potenzialità economico strutturale)
 Il punto di pareggio si sposta verso sinistra per una diminuzione dei costi o per un aumento dei
ricavi. In questo modo si verifica un ampliamento dell’area dei profitti e una diminuzione
dell’area delle perdite. (migliora la potenzialità economico strutturale)
Il punto di pareggio può essere determinato anche in via analitica: (eguagliando i costi ai ricavi)

y= __k_ k=costi fissi


1-a a= coefficiente angolare della linea dei costi variabili (rapporto tra costi variabili totali e ricavi
Complessivi.
(1-a) = margine di contribuzione ed indica in quale misura i ricavi di vendita, sottratti ai costi
variabili, contribuiscono alla copertura dei costi fissi prima dell’ottenimento del
pareggio economico o alla generazione del profitto una volta oltrepassato il punto
di pareggio.
Il punto di pareggio si trovare anche tramite l’equazione del profitto (si fa sulla base di valori totali e s’esprime
ponendo i ricavi complessivi pari ai costi fisso complessivi più il profitto lucrato):

RQx= Cf+CvQx+PQx

Dove:
Qx= volume di produzione o di vendita
R= ricavo per unità di prodotto
Cf= costi fissi complessivi
Cv= costi variabili per unità di prodotto
P= profitto per unità di prodotto.

Il punto di pareggio si ha quando PQx è uguale a zero; l’equazione quindi diventa:

RQx= Cf+CvQx

Da cui si ottiene:

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Qx= __Cf___
R-Cv

Punto di pareggio: volume che si ottiene dal rapporto tra i costi fissi complessivi e la differenza tra ricavi e costi
variabili unitari. Il calcolo del b.e.p fornisce soltanto uno degli elementi per valutare il processo decisionale.

Al punto di pareggio è legato il concetto di leva operativa intesa come il rapporto tra la variazione percentuale del
reddito operativo e quella delle unità vendute, definibile quindi come la misura secondo cui vengono sfruttati i costi
fissi nell’attività operativa. A livello grafico la leva si evince dall’ampiezza dell’angolo dell’area dei profitti RPC’.

Leva operativa= variazione percentuale del reddito operativo


variazione percentuale del volume delle vendite

il concetto di leva operativa misura, dunque, le conseguenze di un migliore sfruttamento dei costi fissi sul risultato
operativo aziendale. Un’impresa con alti costi fissi sopporta un rischio più elevato rispetto ad un’impresa con una
minore incidenza di tali costi.

I limiti applicativi del diagramma di reddittività:


l’elaborazione del diagramma di redditività si fonda sull’assunzione di quattro ipotesi semplificatrici:
1. La costanza dei ricavi unitari di vendita: questa ipotesi può anche riscontrarsi nella realtà qualora l’azienda
rimanga ferma nelle sue decisioni di prezzo, sconti e abbuoni per qualsiasi volume di vendita. In questo caso
il ricavo resta lo stesso per ciascuna unità di prodotto e la proporzionalità dei ricavi complessivi rispetto al
volume venduto risponde ad un dato di fatto. Tuttavia, se l’impresa modifica queste sue scelte la linea dei
ricavi tracciata nel grafico non corrisponde alla realtà ma se ne discosta tanto più quanto è marcata questa
modificazione.
2. Invariabilità della composizione quali-quantitativa della gamma di produzione presa a base: una variazione
della gamma, dovuta alla necessità di rispondere tempestivamente a nuove richieste di mercato, si riflette
sui ricavi e sui costi, potendo provocare una modificazione del ricavo medio unitario e un’alterazione del
rapporto tra costi fissi e variabili.
3. La proporzionalità dei costi variabili, cioè l’assunzione di un loro andamento direttamente proporzionale al
variare del volume di produzione o di vendita. Si commette l’arbitrio di considerare inesistenti, tra i costi
variabili, quelli che mutano in misura più o meno proporzionale al variare di una certa unità di misura. Risulta
quindi semplificativo riportare nel grafico, al posto di una curva dei costi variabili complessivi, una linea di
costi variabili totali facendo risultare in questo modo il costo variabile complessivo effettivamente
proporzionale al volume produttivo o di vendita.
4. La staticità dell’ambiente di riferimento: questo limite si collega alla possibilità di utilizzare il diagramma di
redditività solo nel tempo breve perché è difficile che le grandezze che sono alla base della sua costruzione si
mantengano invariate nel medio-lungo termine, ovvero che il contesto esterno di riferimento rimanga
immutato.

il diagramma di redditività deve essere utilizzato per aiutare a decidere e non per configurare da solo.

LA PROGRAMMAZIONE E IL CONTROLLO DELLE SCORTE DI MAGAZZINO:


Un’altra area operativa che assume una particolare rilevanza in termini strategici ed economici è quella della
logistica, al cui interno si collocano i problemi di gestione del magazzino e delle scorte. Dobbiamo innanzitutto
distinguere le scorte di materie ( legate al problema di alimentazione del processo di produzione) da quelle dei
prodotti finiti (collegate con il processo di vendita).
Con riferimento alla scorte possiamo analizzare due differenti impostazioni di gestione:

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 Stock control: si controlla il livello della scorta a prescindere dall’andamento dei processi di
produzione e di vendita. Le tecniche più note collegate allo stock control sono la tecnica delle
scorte separate e quella del ciclo di ordinazione.
 Flow control: le scorte sono determinate in funzione del flusso di ordini di vendita da evadere. Le
tecniche collegate alle procedure di flow control ricadono nel Material requiremets planning
(MRP) e del Just in time (JIT).

Materia requiremets planing (MRP)


Si basa sul concetto di far coincidere le scorte con i fabbisogni di breve periodo in modo da ridurre al minimo
l’accumulo di giacenze.

Just in time (JIT)


Si propone l’azzeramento dei livelli di giacenza del ciclo produttivo per generare vantaggi economici (risparmi di
costo) più consistenti ed eliminare il rischio connesso all’immobilizzo. Per poter attuare il just in time è necessario
collegarsi in modo immediato con la rete dei fornitori in quanto questa tecnica esige l’assoluta puntualità e
rispondenza quali-quantitativa dei materiali ordinati, garanzia ottenibile con un elevato grado di controllo dei
fornitori.

Tecnica delle scorte separate (two by system):


Con queste tecnica si definisce quanto ordinare in funzione de livello di scorta rilevato. In questo metodo il primo
problema da risolvere è rappresentato dalla determinazione del livello di riordino, cioè dalla quantità al
raggiungimento della quale bisogna far partire la procedura di riapprovvigionamento. Quando ordinare? Quando la
giacenza dei prodotti arriva al livello di riordino. Il livello di riordino, oltre che dall’assorbimento, dipende dal tempo
guida (lead time), cioè dal periodo occorrente per poter ricevere e utilizzare la merce ordinata e deriva dalla somma
di tre temp.
1. Tempi necessario per spiccare l’ordine
2. Tempo occorrente per l’arrivo della merce
3. Il tempo necessario per la messa a disposizione.
Il livello di riordino è dunque fissato moltiplicando le unità di tempo occorrenti per l’approvvigionamento per il
consumo delle stesse unità di tempo. Quando emettere l’ordine? Quando la giacenza dei prodotti arriva al livello di
riordino. L’impresa che decide di gestire le scorte a livello di riordino è tenuta ad attuare un controllo assiduo. Per
l’applicazione del metodo delle scorte separate, e quindi per determinare la quantità, va effettuato il calcolo del lotto
economico d’acquisto che ha come obiettivo la ricerca della quantità ottimale da riacquistare nel tempo. Per
quantità ottimale è inteso il lotto che consente di minimizzare il costo complessivo di gestione della scorta. Questo
costo è dato da due costi parziali:
 Costo di mantenimento: legato al costo di funzionamento del magazzino ed è un costo crescente
al crescere della quantità contenuta in magazzino. Comprende: l’interesse sui capitali
immobilizzati, costo di funzionamento e servizio del magazzino, ammontare delle perdite per
deterioramenti o furti, incidenze per le spese di trasporto, costo dell’obsolescenza.
È dato da Cm= c Qa
2
 Costo di ordinazione: riguarda le spese necessarie per procedere all’ordinazione della merce ed
è decrescente al crescere delle quantità e comprende: costo di funzionamento dei servizi
d’acquisto, spese di comunicazione, spese di trasferta degli agenti d’acquisto, costo di
ricevimento controllo e analisi dei materiali.
E’ dato da: Co= K F
Q

Dove:
F= fabbisogno complessivo di merce nell’unità di tempo
Q= quantità da acquistare di volta in volta
a= costo di acquisto di un’unità di merce
c= costo unitario di conservazione
K= costo di un’ordinazione

Il costo complessivo Ct sarà dato da:

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Ct= Cm+Co = c Qa + K F
2 Q
Il lotto economico è la quantità che minimizza il costo totale C (derivata =0), o eguaglianza tra i
due costi.

Si otterrà che: Q= 2FK


ac

Tecnica del ciclo di ordinazione:


Con questa tecnica parli amo di scorta ottimale poiché la quantità di volta in volta acquistata varia mentre rimane
ferma la quantità massima da tenere in stock all’inizio di ogni periodo. Tale quantità è data dalla somma di tre
componenti:
 Assorbimento previsto per l’intero periodo
 Assorbimento previsto nel tempo guida
 La scorta di sicurezza

Per un’efficiente gestione del magazzino bisogna però considerare che, di solito i prodotti da tenere in scorta sono
numerosi e non dello stesso valore e che, di conseguenza, converrà procedere in modo selettivo, adottando metodi
di programmazione più efficaci per i materiali più costosi e procedure più semplici per gli altri. Viene utilizzato come
metodo in questo caso quello dell’ABC secondo il quale gli articoli vengono divisi in tre classi:
A. I materiali che pesano di più sul valore complessivo delle scorte e che pertanto rendono opportuno un
controllo assiduo e penetrante.
B. Articoli che pur incidendo di meno necessitano di un controllo periodico
C. Quelli che possono essere gestiti con procedure più semplici.

La gestione delle scorte di prodotti finiti:


La carenza di scorte prodotti può far saltare occasioni di vendita e in casi estremi far perdere il cliente. Questo
accade tutte le volte che il cliente non è disposto ad attendere per ricevere il prodotto e si può rivolgere per i suoi
acquisti a prodotti della concorrenza. Il tempo di attesa è ovviamente tanto più sopportabile quanto più è sviluppata
la brand-loyalty nel potenziale acquirente.
Mentre per le scorte di materie si tenta di ricorrere a tecniche di gestione che minimizzino costi e rischi, per le scorte
di prodotti l’obbiettivo è quello di avvicinarsi il più possibile ad una lavorazione su commessa. Si passa quindi da una
lavorazione per il magazzino ad una lavorazione su ordini riuscendo così a produrre solo il pre-venduto, evitando il
formarsi di scorte lungo il canale distributivo.

Valutazione dell’efficienza della gestione delle scorte e del magazzino:


L’indice che consente di operare delle valutazioni di efficienza sulle scorte è il tasso di rotazione. Questo è dato dal
rapporto fra il materiale uscito dal magazzino in una certa unità di tempo e la giacenza media presente in magazzino
nella stessa unità di tempo.

Ir= Ut
Gm

Più elevato è questo indice maggiore è l’efficienza della gestione delle scorte, perché l’aumento del rapporto è
dovuto ad un più vantaggioso equilibrio tra ciclo di uscita dei materiali dal magazzino e ciclo di permanenza degli
stessi in deposito. Il calcolo del tasso di rotazione assume una particolare importanza nel caso dei prodotti finiti,
perché consente di valutate la velocità di assorbimento dei vari articoli posti sul mercato.

Oltre alle valutazioni di efficienza concernenti la gestione delle scorte può essere utile procedere a delle misurazioni
che riguardino l’efficienza del servizio di magazzino. A tal proposito, due indici significativi sono:
a. Costi di magazzino mostra l’incidenza dei costi di gestione del magazzino sul costo di produzione
Costo di produzione

b. Costi di magazzino mostra l’incidenza dei costi su ogni unità o euro tenuto in scorta
Giacenza media

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Tecniche applicabili per ridurre i rischi operativi:

Tipo di rischio Criteri di valutazione


Insolvenza Prospetto fonti e impieghi
Illiquidità Piano cassa
Rigidità produttiva Punto di pareggio b.e.p
Crisi di mercato Margine di sicurezza
Immobilizzo scorte Tasso di rotazione
Reintegro investimenti Tempo di recupero e opzioni reali

VALUTAZIONE DELL’EFFICIENZA NELLA GESTIONE AZIENDALE:

le tecniche di valutazione della performance economica:


La valutazione della performance in termini di efficienza aziendale consente di apprezzare lo stato di salute
dell’impresa nel suo complesso o in rapporto a parti significative della sua struttura. La valutazione dell’efficienza si

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fonda sulla rilevazione dei risultati conseguiti in un certo periodo. Di solito questa valutazione si concentra
maggiormente sulle prestazioni annuali; ciò non esclude tuttavia che possa essere effettuata con riferimento a
periodi più breve nel caso in cui occorre intervenire prontamente per migliorare il livello di performance aziendali.

Il cash flow, il margine operativo e il valore economico aggiunto (EVA) quali valori sintetici dell’efficienza
aziendale:
l’efficienza economica si presta ad essere valutata mediante elementi che si desumono prevalentemente dal bilancio
di esercizio.
 Cash Flow: (flusso di cassa) rappresenta la quantità di risorse finanziarie generate nell’esercizio e
risulta uguale all’utile netto prodotto dalla gestione più il complesso di costi, caricati sempre
dall’esercizio, ma non seguiti da uscite di cassa.
-Cash flow finanziario= risultato di esercizio+ ammortamenti netti+ accantonamenti netti
-Cash flow reddituale= risultato di esercizio+ accantonamenti netti.
Le risorse finanziarie nette sono eguali all’utile netto di esercizio più la somma dei costi non
soggetti ad erogazioni finanziarie. In questo s’includono anche le quote di ammortamento e ci
accantonamento.
-ammortamento: procedimento contabile mediante il quale si ripartisce l’entità di un
investimento in quote rapportate al periodo di utilizzo del bene acquistato
-accantonamento: anticipazione economica di oneri che maturano o possono maturare in
periodi futuri e per i quali ogni esercizio dev’essere gravato della parte di competenza.
La misura del cash-flow sconta due effetti che vanno messi in rilievo:
- criteri di valutazione applicati nella formazione del bilancio d’esercizio
- incidenza dei comportamenti estranei alle gestione tipica o caratteristica
In riferimento a quest’ultimo aspetto all’interno di ogni impresa si possono separare quattro tipo
di attività o fenomeni di differente matrice gestionale:
1. Gestione tipica o caratteristica: costituita da tutte le operazioni destinate a raggiungere
l’obbiettivo fondamentale per cui l’impresa stessa è stata creata.
2. La gestione finanziaria: rappresentata dalle operazioni di reperimento e d’impiego dei fondi
occorrenti o prodotti dall’attività aziendale
3. La gestione patrimoniale: detta anche accessoria, che è costituita dall’amministrazione dei
beni non strumentali per l’esercizio della gestione tipica
4. La gestione straordinaria: composta dagli eventi imprevedibili, nel loro verificarsi o nella
misura degli effetti prodotti, destinati ad alterare la situazione reddituale e patrimoniale
dell’impresa.
Ciascun tipo di gestione può produrre dei risultati economici che andranno a comporre il
risultato globale dell’attività aziendale. Il valore da ritenersi più significativo è il risultato
collegato alla gestione operativa, cioè quello relativo all’attività tipica o propria dell’impresa.
È quindi molto importante determinare quanta parte del risultato di esercizio scaturisca
dalla gestione caratteristica e quant’altra da quella finanziaria, straordinaria e accessoria.
Il cash-flow è determinabile sommando al risultato netto dell’esercizio tutte le quote di
ammortamento e tutte le quote di accantonamento. Lo stesso valore è ottenibile detraendo
dai ricavi di esercizio tutti i costi per i quali si dovrà procedere all’erogazione di mezzi
finanziari.

 Margine o reddito operativo: rappresenta il risultato della gestione caratteristica dell’impresa


ed è uguale alla differenza tra i ricavi e i costi dell’attività tipica aziendale. La conoscenza del
reddito operativo può avvenire a livello di margine operativo lordo o MOL, definito anche
EBITDA, che non tiene conto degli ammortamenti e di eventuali svalutazioni, oppure di margine
operativo netto, anche detto EBIT, che invece tiene conto di ammortamenti e svalutazioni.
 EVA: Altro parametro per valutare la performance economica è l’Economic Value Added (valore
economico aggiunto), ovvero il rendimento economico al netto del costo del finanziamento.
Questo indicatore intende offrire una misura del valore creato dall’impresa e si ottiene mettendo
a confronto il reddito operativo e il costo delle risorse finanziarie impiegate per produrre quel
reddito. L’EVA misurerebbe l’effettivo rendimento economico dell’attività aziendale che non
sarebbe più misurato da un valore assoluto ma da un valore differenziale.

Valutazione dell’efficienza organizzativa e commerciale:

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L’efficienza organizzativa riguarda la struttura, le procedure e gli uomini impegnati nel sistema aziendale. La
valutazione di questo tipo di efficienza va condotta sia mediante la misurazione del rendimento del personale, sia per
mezzo di appropriate analisi organizzative.
La misurazione del rendimento del personale è valutata sulla base di indici quantitativi e qualitativi, di cui il più
importante è l’indice di produttività che si costruisce mettendo a confronto il risultato conseguito e lo sforzo
sostenuto e serve a misurare l’efficienza del lavoro sia umano che meccanico. La produttività è un indice quantitativo
di rendimento e non qualitativo delle prestazioni rese.
Per le analisi organizzative non è possibile costruire degli indici quantitativi e qualitativi ma bisogna condurre delle
analisi molto complesse mediante interviste ai responsabili dei servizi o delle divisioni amministrative. Queste analisi
richiedono l’impiego di specialisti in organizzazione aziendale, con particolare riguardo al corretto impiego delle
capacità personali presenti nell’azienda.

L’efficienza esterna o di mercato si concreta nel miglioramento della posizione dell’azienda nei confronti della
concorrenza e nell’ampliamento delle opportunità di ricavo. L’indice che meglio si presta a fornire valutazioni
sintetiche è rappresentato dal rapporto tra le vendite aziendali e le vendite complessivamente effettuate nel
particolare mercato servito ed è detto quota di mercato. L’efficienza esterna è determinabile sulla conoscenza di dati
esterni che spesso richiedono apposite indagini di mercato. Le imprese, tuttavia, preferiscono rinunciare ad utilizzare
questo indice e si limitano a valutare l’efficienza esterna in rapporto a dati prevalentemente interni tramite indicatori
come: tasso di sviluppo del fatturato, indici di penetrazione distributiva, indici di ampliamento della clientela, anche
se così facendo si ha un minore grado di significatività.

L’efficienza economica si traduce in un equilibrato rapporto strutturale tra costi e ricavi. Può essere misurata con
riferimento a tre parametri fondamentali: costi, ricavi e reddito. Due sono i tipi di indici quantitativi più
frequentemente utilizzati:
a. Gli indici di economicità: costruiti ponendo al numeratore i costi afferenti a singole funzioni o all’intera
attività aziendale e al denominatore i ricavi della gestione. Gli indici di economicità esprimono il rapporto tra
costi e ricavi aziendali e consentono di valutare la situazione di equilibrio o di squilibrio esistente nel conto
economico dell’azienda.
b. Gli indici di redditività: costruiti ponendo al numeratore grandezze espressive del reddito lucrato
dall’impresa nelle sue varie configurazioni e al denominatore valori rappresentativi del capitale a vario titolo
impiegato nell’impresa.

Gli indici di redditività ed economicità (ratio)


Le misurazioni di efficienza economica della gestione possono trarre elementi preziosi di valutazione dal bilancio di
esercizio. Da questo documento si può ricavare un insieme di dati espressivi di condizioni parziali o generali di
efficienza aziendale. Tra i procedimenti di analisi basati su dati interni aziendali, un posto di rilievo deve essere
attribuito alla costruzione di indicatori economico-finanziari sulla base del bilancio oppure su situazioni contabili
appositamente predisposte. Con queste analisi si costruiscono vari rapporti tra le poste dello stato patrimoniale e/o
del conto economico, che prendono il nome di ratio.
I ratio sono uno strumento per l’interpretazione del bilancio di esercizio e costituiscono una base per le valutazioni
della situazione patrimoniale, finanziaria ed economica di un’azienda. Il calcolo dei ratio può essere incluso nella
procedura di lettura del bilancio, attuata all’esterno dell’impresa, per valutare la sua struttura economico-
patrimoniale. La determinazione dei ratio può anche sganciarsi dal bilancio ufficiale per riferirsi a periodiche
situazioni contabili redatte ad hoc. Lo scopo dell’analisi è di valutare l’andamento della redditività e dell’economicità
dell’attività aziendale. La costruzione degli indici di bilancio presenta un’ampia varietà di impostazioni sia per il
numero e il tipo di indici calcolati sia per le modalità di calcolo dei singoli indici.
La redditività si misura rapportando valori espressivi del reddito aziendale a misure del capitale impiegato. La
redditività della gestione operativa è solitamente valutata facendo ricorso al ROI (return on investment) che si
costruisce mettendo a rapporto il reddito operativo e il capitale investito nella gestione caratteristica o tipica. Il ROI
rappresenta il saggio di redditività della gestione caratteristica, che fisiologicamente dovrebbe essere sempre
superiore al tassi rappresentativo del costo medio del denaro. Il valore minimo accettabile del ROI, quindi, dovrebbe
essere pari al costo medio del denaro.

ROI= ___________reddito operativo____________


Capitale investito nella gestione caratteristica

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L’indice ROS (return on sale) si costituisce ponendo al numeratore l’utile operativo e al denominatore il volume dei
ricavi di vendita. Esso misura il margine operativo su ciascuna unità monetaria ed è particolarmente utile per
valutare l’efficienza di segmenti diversi di vendita. Il ROS consente anche di scomporre il ROI nel prodotto tra il ROS
stesso e il tasso di rigiro del capitale. Quest’ultimo rappresenta un importante indicatore di efficienza in quanto
esprime la capacità del capitale investito di convertirsi in ricavi di vendita. La scomposizione del ROI nelle sue
determinanti permette di valutare se le variazioni di tale indice sono dovute ad una modificazione dl tassi di
redditività sul venduto oppure ad un aumento del tasso di rigiro (turnover) del capitale e lega le due grandezze di
questi rapporti alle relative voci di bilancio.

ROS (redditività del venduto) = _______Reddito operativo______


Ricavi di vendita

Un terzo indice costruito per misurare il ritorno del capitale proprio investito in azienda è il ROE (return on equity)
calcolato rapportando l’utile netto d’esercizio al patrimonio netto dell’impresa. Esso dovrebbe essere almeno pari al
tassi di rendimento free risk maggiorato del premio per il rischio, in considerazione del livello di rischio operativo e
finanziario che si assume l’imprenditore. Il ROE si lega al concetto di costo opportunità del capitale, ossia al
rendimento massimo ottenibile da un altro investimento contrassegnato dal medesimo profilo di rischio e al quale
l’imprenditore rinuncia per investire nell’impresa. È possibile scomporre anche il ROE in più rapporti relativi alla
gestione operativa ed extra operativa.

ROE= _____utile netto____


Patrimonio netto

Il ROI, ROS e ROE sono i principali indici di redditività, misurano aspetti diversi e complementari della redditività
aziendale. Il più importante è il ROI perché consente di valutare il risultato della gestione caratteristica e si collega
direttamente al ROS. Il ROE costituisce un riferimento fondamentale per l’impiego di capitale proprio rispetto a
possibili usi alternativi.

Un secondo gruppo di ratio è quello che permette di valutate l’economicità mediante il rapporto tra ricavi e i costi di
gestione. Questi gruppi di ratio, denotano valori sempre più positivi al loro decrescere, dato che un’eventuale
diminuzione testimonia una minore incidenza di certe voci e del costo complessivo rispetto ai ricavi aziendali. In un
impresa industriale è necessario tenere sotto controllo l’incidenza del costo di lavoro, degli approvvigionamento,
degli ammortamenti e della gestione finanziaria.

Gli indici di valutazione della situazione finanziaria:


La valutazione dell’efficienza aziendale non può escludere l’aspetto finanziario per quanto riguarda la stima della
solvibilità, della solidità patrimoniale e della liquidità. Un indicatore di particolare valore è il margine di struttura.
Questo è un valore differenziale, perché è dato dalla differenza tra i mezzi propri aziendali e gli impieghi fissi. Il
margine di struttura rivela, se positivo, un’eccedenza delle fonti di finanziamento non soggette ad obblighi di
rimborso, nei confronti del capitale investito in impieghi fissi. Questo margine, che è determinato anche sottraendo
dal patrimonio netto le immobilizzazioni nette, se negativo indica una ridotta attitudine dell’impresa a modificare e
riconvertire l’apparato produttivo per carenza di fonti finanziarie specifiche.

Margine di struttura= mezzi propri – impieghi fissi

Vi è inoltre al fine di valutare la solidità patrimoniale e la liquidità l’indice di solidità patrimoniale. Un’impresa si
dovrebbe definire solida allorquando questo indice assume un valore almeno pari all’unità. Il valore dell0indice
tenderà a ridursi al crescere dell’indebitamento.

Indice di solidità patrimoniale= __________capitale netto_________


Debiti a breve- medio- lungo termine

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Indicativo è anche il rapporto tra il totale dei debiti a lungo termine ed il totale dei debiti aziendali, che esprime il
grado di consolidamento della situazione debitoria dell’impresa. Una maggiore incidenza dei debiti a medio-lungo
termine dovrebbe essere apprezzabile sotto due profili:
- Il costo generalmente più basso di capitali presi a prestito per scadenze medio-lunghe;
- La possibilità di programmare il rimborso di tali debiti secondo prestabiliti piani di ammortamento.

Grado di consolidamento della debitoria= ____debiti a medio/lungo termine___


Debitoria totale

Ai fini della valutazione dell’equilibrio finanziario assume una particolare rilevanza la determinazione del grado di
liquidità. Il margine di liquidità si costruisce sottraendo dalle attività correnti le passività correnti. Tra le attività
correnti si rivengono tre tipi di valori, caratterizzate da un diverso grado di liquidità:
- Attività liquide: cassa, banche e titoli
- Attività a liquidità differita: crediti a breve
- Attività liquidabili: scorte di magazzino
Considerando separatamente questi differenti tipi di attività correnti, si costruiscono i diversi indici di liquidità:
- Indice di liquidità immediata= cassa + attività finanziarie facilmente liquidabili
Passività correnti

- Indice di liquidità differita= cassa + attività finanziaria facilmente liquidabili + crediti commerciali
Passività correnti

- Indice di liquidità corrente= ___attività correnti___


Passività correnti

Sempre ai fini della liquidità è particolarmente importante sorvegliare costantemente il cosiddetto margine di
tesoreria, uguale alla differenza tra la somma delle attività liquide e a liquidità differita e le passività correnti.

Margine di tesoreria= attività liquide + attività a liquidità differita – passività correnti


Le valutazioni di efficienza vanno dunque sempre condotte in senso temporale e spaziale. Le prime non presentano
eccessive difficoltà, in quanto si fondano sulla comparazione di dati rilevati dalla stessa fonte in epoche successive,
cioè su dati abbastanza omogenei; le seconde invece comportano numerosi problemi che riguardano la stessa
disponibilità dei dati di raffronto, l’omogeneità delle imprese comparate e dei dati considerati.

L’analisi dei costi di distribuzione:


l’analisi dei costi di distribuzione serve soprattutto a stimare i margini di contribuzione o i tassi di redditività dei
prodotti, zone di vendita, canali di distribuzione e gruppi di clienti. Chi gestisce non riesce a conoscere le
performance economiche dei differenti segmenti di vendita, a meno che non sia in grado di pervenire a tanti conti
economici distinti per quanti sono i prodotti, le aree o i clienti trattati. L’analisi dei costi di distribuzione intende
rispondere a questo scopo consentendo di conoscere i margini attribuibili a ciascun segmento di vendita. Il costo di
distribuzione è inteso come il complesso degli oneri che l’impresa sostiene per far defluire le sue produzioni al
mercato di sbocco. Tale costo, contiene una serie svariata di oneri e di riferisce allo sforzo sopportato per collocare i
prodotti nelle diverse zone di mercato e presso le differenti classi di clienti. L’impresa potrebbe essere interessata a
conoscere l’altezza dei costi sostenuti per le sub funzioni in cui si articola la funzione commerciale, oppure per le voci
principali di spesa o anche per i singoli elementi che compongono il mix di vendita. L’analisi dei costi di distribuzione
può essere pertanto sviluppata secondo tre procedure:
- L’analisi funzionale o per attività specifiche di vendita
- L’analisi oggettiva o per oggetto di spesa
- L’analisi soggettiva o per segmenti di vendita
L’analisi a livello di singole voci di costo consente di segnalare i punti di debolezza dell’azione distributiva, in modo da
far convergere su di essi gli interventi diretti a rimuoverne le cause.
La procedura seguita è abbastanza complessa, in quanto si compone di diverse fasi e comporta l’adozione di tecniche
raffinate per l’imputazione dei costi. Essa richiede infatti:
-la ricerca di tutti i conti accesi a costi che rientrano nel processo distributivo;
-la riclassificazione di tali costi per funzioni, in modo da determinare le spese sostenute per l’esecuzione delle
vendite, la promozione, il magazzinaggio dei prodotti ed altro;

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-la suddivisione dei costi, sopportati nell’ambito di ogni raggruppamento funzionale di spesa, in costi diretti e costi
indiretti;
-l’individuazione dei costi semidiretti, cioè di spese che possono essere attribuite in modo appropriato all’elemento
oggetto di analisi;
-la determinazione del costo di distribuzione relativo a ogni elemento analizzato;
-il calcolo del tasso percentuale di redditività di ogni segmento;
-l’analisi comparativa della composizione percentuale del costo di distribuzione, ai fini della rilevazione dei punti di
inefficienza su cui concentrare l’attenzione;
-l’interpretazione delle cause di inefficienza e la programmazione degli interventi correttivi.
Nell’ipotesi di un’analisi per zone di vendita il procedimento attuato dovrà rilevare quanta parte del reddito
complessivo è prodotta da ogni zona. Dalla comparazione di tali tassi potrà emergere una diversa efficienza, con la
necessità di adottare provvedimenti per le zone meno redditizie. Si rileva che il tasso di redditività aziendale è il
risultato della media di tassi differenti nelle varie aree di vendita. La procedura viene definita del costo pieno (full
cost), in quanto l’analisi comprende tutti i costi sostenuti per la distribuzione dei prodotti. Poiché lo scopo dell’analisi
è quello di valutare l’efficienza di certe funzioni o segmenti di vendita, si suggerisce di attribuire solo i costi diretti,
applicando la procedura del direct costing. Seguendo tale procedura si imputano solo i costi sostenuti per il
segmento oggetto di analisi.

L’analisi del rendimento della rete di vendita:


L’analisi dei rendimenti serve a misurare l’efficienza della rete di vendita e dei singoli venditori. Essa si basa sulla
costruzione di indici di produttività. La produttività, nel caso delle forze di vendita, si calcola però in modo diverso da
quanto si è visto in generale. Il rendimento viene comunemente valutato sulla base delle quote di vendita ovvero del
potenziale assegnato al singolo segmento organizzativo. Esso è cioè misurato dal rapporto tra il volume di affari
prodotto (quota effettiva) e quello attribuito in sede di programmazione dell’attività di vendita (quota assegnata).
Questo indice rappresenta un classico rapporto di efficacia più che di efficienza in senso stretto, poiché pone a
raffronto il risultato conseguito a quello conseguibile. Ma il rendimento dell’attività di vendita non va valutato solo in
base ad indici di questo tipo, dato che è importante considerare l’aspetto qualitativo delle prestazioni realizzate.
Quest’ultimo può essere misurato da altri rapporti tra i quali:
-economicità della prestazione: costi di vendita e ricavi di vendita;
-sviluppo della clientela: vendite a nuovi clienti e vendite complessive;
-sviluppo nuovi prodotti: vendite di prodotti nuovi e vendite complessive;
-liquidità delle vendite: vendite con pagamento in contanti e vendite complessive;
-indice di regolarità del venditore: numero di visite effettuate alla clientela e numero di visite programmate;
-indice di persuasione del venditore: numero di contratti stipulati e numero di visite effettuate.
Questi indici di rendimento misurano l’efficienza economica della prestazione, la capacità di sviluppo del mercato, la
rischiosità del venduto, l’abilità a gestire il portafoglio clienti. Un altro indice molto significativo è rappresentato dal
coefficiente di fedeltà della clientela (retention), misurato dal rapporto tra i clienti rimasti in portafoglio nel periodo
e quelli presenti in portafoglio all’inizio del periodo stesso. Questo indice esprime la capacità di mantenere la
clientela, ovvero di evitare che essa si rivolga alla concorrenza.

L’analisi quali-quantitativa della performance: la balanced scorecard


Per un giudizio prospettico sull’efficienza aziendale occorre inserire nella valutazione anche indicatori di tempo più
lungo che consentano di proiettare nel futuro la performance aziendale. Al riguardo uno strumento utilizzato è
quello della tabella bilanciata di efficienza o balanced scorecard. Questa tabella è costruita mediante un insieme di
indicatori, quantitativi e non quantitativi, sulle prospettive future legate fondamentalmente al grado di soddisfazione
della clientela, all’aggiornamento dei processi organizzativi e più in generale agli attributi di innovatività della
gestione aziendale. Il termine balanced suggerisce la necessità di trovare un equilibrio tra i vari fattori di misurazione
della performance aziendale e di fare in modo che essi siano opportunamente ponderati al fine di prevenire alla
valutazione dell’efficienza aziendale nell’ottica di perseguimento di obbiettivi di lungo periodo. La scheda dovrebbe,
in sostanza, consentire l’individuazione dei driver più importanti per la performance competitiva a lungo termine.

NB: in conclusione la valutazione dell’efficienza è possibile esclusivamente in termini relativi e non assoluti, cioè solo
ricorrendo a comparazioni nel tempo e nello spazio. Con le prime si valutano i risultati ottenuti rispetto a quelli
relativi ad anni precedenti, mentre con le seconde gli stessi risultati sono confrontati con quelle di aziende similari.
Quest’ultima procedura che, se finalizzata allo studio di risultati e politiche della concorrenza, è nota come
benchmarking, è diffusamente applicata nella pratica aziendale, anche se non è facile scegliere i competitori diretti
ca comparare.

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LA MISURAZIONE DELLA PERFORMANCE SOCIALE NELLA PROSPETTIVA DEL VALORE ALLARGATO:

Il valore allargato e la performance sociale:


Il compito dell’impresa è quello di creare valore in senso allagato, quindi sia in ambito economico che sociale: in
sostanza la dimensione economica deve integrarsi con quella sociale ed ambientale. La sostenibilità di un’impresa,
infatti, si configura come l’intreccio di tre profili, che devono essere compatibili e sinergici: economico, sociale ed

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ambientale. Il management, quindi, deve contemporaneamente rispettare i fondamenti dell’equilibrio economico,
produrre un impatto sociale positivo sugli stakeholder e sulla comunità e puntare a minimizzare l’impatto ambientale
sul territorio. Nella valutazione degli investimenti si deve inserire la valutazione dell’impatto sociale e ambientale. Si
parla a tal proposito di paradigma ESG (Environmental, Social, Governance) nei modelli di valutazione ed analisi,
proprio per integrare indicatori delle tre dimensioni della sostenibilità. Si stanno diffondendo quindi strumenti e
pratiche di social rating volte alla classificazione e alla misurazione delle imprese o dei loro investimenti e basate su
criteri di impatto sociale e ambientale.

La rendicontazione sociale: bilancio sociale e o di sostenibilità


L’analisi della componente non finanziaria della performance richiede lo sviluppo di nuove metodologie di
misurazione. In questo caso diviene essenziale la social accountability, ossia la rendicontazione della performance
nella sua triplice dimensione economica, sociale e ambientale. Questa metodologia è divenuta prima una prassi
diffusa e poi, in alcuni casi, anche un obbligo (d.lgs. n 254/2016). Questo orientamento ad integrare l’informazione
economico-finanziaria con quella di natura sociale ed ambientale si è tradotto nello sviluppo di modelli di
rappresentazione come il bilancio sociale o di sostenibilità e anche di forme ibride di rendicontazione come il
reporting integrato.
 Bilancio sociale: è il principale strumento di rendicontazione e viene definito come un documento di sintesi,
esito e strumento di rendicontazione sociale, che rende conto in una prospettiva sia consuntiva sia
programmatica della missione e delle strategie formulate, delle attività realizzate, dei risultati prodotti e
degli effetti determinanti, considerando congiuntamente l’insieme degli stakeholder dell’organizzazione e la
pluralità (economica, sociale e ambientale) delle dimensioni.
Il bilancio sociale è strettamente collegato al bilancio di esercizio ma se ne differenzia perché racconta dei
fatti e non delle cifre, si rivolge a tutta la platea degli stakeholder. La rendicontazione del bilancio sociale
segue determinate linee guida che hanno l’obbiettivo di standardizzare i modelli e rendere confrontabili le
strutture dei report, i processi di rendicontazione e gli indicatori utilizzati per rappresentare la performance.
In alcuni casi questi standard forniscono delle indicazioni precise sull’aspetto procedurale delle singole fasi
del processo di rendicontazione sociale. Questi documenti e linee guida sono stati oggetto di continue
modifiche ed aggiornamenti.

Tra i molteplici standard di contenuto realizzati da enti ed organizzazioni di matrice professionale, imprenditoriale
e accademica ne vanno segnalati due:

- Global Reporting Iniziative (GRI): che nel 2000 ha pubblicato le linee guida per la rendicontazione del bilancio
di sostenibilità. Il GRI è articolato su più livelli: alcuni standard sono universali, mentre altri sono specifici e
relativi alle diverse dimensioni della sostenibilità. All’interno di ciascuno di questi documenti illustrativi
vengono fornite istruzioni obbligatorie, raccomandazioni e linee guida per la redazione del bilancio di
sostenibilità. Le imprese possono adottare anche parzialmente queste indicazioni, ma devono sempre
esplicitare nel documento quale scelta sia stata adottata nella redazione.
- Gruppo di studio per la statuizione dei principi di redazione del Bilancio Sociale (GBS): meno complesse sono
le linee guida per la redazione del bilancio sociale. Secondo il GBS il bilancio sociale è uno strumento di
rendicontazione che consente alle aziende di realizzare una strategia di comunicazione diffusa e trasparente,
in grado di perseguire il consenso e la legittimazione sociale che sono la premessa per il raggiungimento di
qualunque altro obbiettivo, compresi quelli di tipo reddituale e competitivo. Secondo il GBS, il bilancio
sociale va strutturato in tre parti:
1. L’identità aziendale: deve fornire un quadro di sintesi della storia dell’impresa, del sistema di governance
e dei valori etici di riferimento, del disegno strategico e delle principali finalità che l’azienda intende
perseguire in campo economico, ambientale e sociale.
2. La riclassificazione dei dati contabili e il calcolo del Valore Aggiunto: che rappresenta l’anello di
congiunzione con il bilancio di esercizio, in cui si illustra come il valore aggiunto sia stato distribuito tra i
diversi stakeholder.
3. La relazione socio-ambientale: in cui si rendicontano, attraverso indicatori quantitativi e qualitativi, i
risultati realizzati, gli effetti prodotti, sotto il profilo sociale ed ambientale, rispetto agli impieghi assunti
dai diversi stakeholder.

 Reporting integrato: viene definito come una comunicazione sintetica che illustra la strategia, la governance,
la performance e le prospettive di un’organizzazione consentono di creare valore nel breve, medio e lungo

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periodo nel contesto in cui essa opera. In questo documento vengono definiti i principi guida ed il framework
proposto per la stesura del documento.

Un indice di misurazione: Social Return On Investment (SROI)


Uno dei principali indici di misurazione maggiormente riconosciuti consiste nell’analisi del Social Return On
Investment (SROI) che prevede due fasi distinte:
- Una prima fase qualitativa di analisi e identificazione dell’impatto
- Una seconda fase quantitativa di misurazione basata sull’evidenza empirica di una chiara strategia iniziale.
Questo nuovo indicatore aziendale stabilisce una correlazione tra identificazione, quantificazione e monetizzazione
dell’impatto sociale di una strategia, rappresentandone la redditività economica rispetto ai capitali che sono stati
impiegati per raggiungerlo. L’elemento centrale dell’analisi SROI è il modello d’impatto ovvero, una rappresentazione
grafica e logica di come funziona la programmazione delle attività di un’impresa, nonché l’impatto che essa crea.
-Il modello parte con una ricognizione delle condizioni economiche, politiche e sociali del contesto in cui opera
un’impresa.
-Successivamente si identificano le caratteristiche di ogni singolo gruppo di stakeholder, sulla base delle loro
attitudini, conoscenze e bisogni.
-Questa fase iniziale si conclude con le definizione del budget finanziario da impiegare e delle risorse umane da
coinvolgere, nonché con l’inquadramento giuridico-economico del progetto che si intende avviare. La definizione del
modello di impatto necessita della definizione dell’ammontare del budget espresso in valuta locale e del numero di
lavoratori full-time da destinare alla realizzazione del progetto. Il programma deve essere identificato con una
denominazione che ne rispecchi l’intento e che ne consenta una gestione separata rispetto alla contabilità generale
dell’impresa.
-Un’altra fase importante del modello di impatto riguarda la pianificazione delle attività di un programma, che in
termini operativi significa associarne gli obiettivi iniziali dei target ben specifici.
-Una volta definito il piano, bisogna implementare una serie di attività operative volte a soddisfarei target
individuati. È importante in questa fase programmare le attività per le categorie individuali di stakeholder, alla fine di
associare una classe di beneficiari ad un obbiettivo sociale ben chiaro. L’individuazione di una tipologia di
stakeholder non deve avvenire in modo unidirezionale, ma deve far leva su un graduale processo di coinvolgimento.
-L’ultimo stadio del modello di impatto concerne la misurazione finale della performance sociale d’impresa e si pone
una netta distinzione tra la misurazione del risultato raggiunto da un programma di attività (output), rispetto alla
valutazione dell’impatto di medio-lungo termine che tale programma ha generato (outcome).
L’impresa inoltre dovrebbe stimare l’effetto di un progetto sulla collettività al netto di quelle conseguenze positive
che si sarebbero verificate ugualmente esplicando la causalità degli effetti sociali di un progetto in relazione ad uno
specifico programma di interventi.
Il momento della conversione monetaria dell’impatto sociale rappresenta il compito più arduo e complesso dello
SROI, dovendo esprimere economicamente le conseguenze di un’attività il cui unico fine si basava sulla creazione di
un impatto sociale. L’analisi costi- benefici rimane dunque l’approccio più ricorrente, che identifica due parametri di
costo in grado di monetizzare l’impatto sociale di un’organizzazione, ovvero i costi indotti e i costi evitati. In termini
analitici questo approccio si ottiene rapportando il valore economico degli impatti sociali all’ammontare dei capitali
finanziari che hanno contribuito a realizzarli.
In sostanza lo strumento dello SROI potrebbe fornire agli stakeholder una triplice analisi:
a. Prospettica: in relazione alla stima del valore sociale indotto da un progetto imprenditoriale
b. Concomitante: consentendo ad uno stakeholder di monitorare nel tempo l’evoluzione di una iniziativa a
vocazione sociale
c. Retrospettiva: misurando le evidenze empiriche del valore sociale creato che saranno poi comunicate in
forma sintetica dallo SROI nella fase di rendicontazione sociale.

La Social Balanced Scorecard:


La balanced scorecard, se opportunamente riadattata, può divenire uno strumento utile per la definizione di una
strategia aziendale in grado di contemperare obiettivi di carattere economico-finanziario con altri di natura
puramente sociale ed ambientale. La social balaced scorecard reinterpreta le quattro prospettive della balanced
scorecard (economico- finanziaria, soddisfazione del cliente, processi aziendali, innovazione e apprendimento) in un
ottica socio-ambientale. Oltre a queste quattro prospettive aggiunge due nuove dimensioni relative
all’approvvigionamento e alla concorrenza.

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- Approvvigionamento: gli obiettivi riguardano il consolidamento dei rapporti di collaborazione con i fornitori,
il miglioramento delle condizioni contrattuali e l’ottimizzazione della performance della catena di fornitura.
- Concorrenza: in cui gli obbiettivi sono riferibili alle relazioni di coopetition e alla diffusione di pratiche
concorrenziali, sia al rispetto dei rapporti di concorrenza, in particolare alle norme antitrust, evitando
l’imitazione dei prodotti o l’utilizzo di cartelli e altre politiche collusive.
Si tratta di uno strumento che consente di mettere a sistema la vision e la mission dell’impresa, le relative strategie
attuate per il loro raggiungimento e gli indicatori volti a misurare le perfomance realizzate nelle diverse aree di
creazione del valore. Essa si dimostra in grado di considerare congiuntamente tutte le operazioni aziendali che
comportano una ricaduta più o meno diretta sulle diverse perfomance dell’azienda.
Tuttavia presenta il limite di non conferire centralità alle istanze di tutti gli stakeholder in un ottica dinamica e
contingente, ovvero limitandosi ad includere nel modello di volta in volta gli interlocutori più rilevanti in relazione a
fenomeni emergenti e contestuali.

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