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Autori Prima Parte Esame di

Letteratura Italiana per


l'Editoria e i Media Digitali
Letteratura Italiana
Università degli Studi di Verona
9 pag.

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LUDOVICO ANTONIO MURATORI (Vignola, Modena 1672 – Modena 1750)
Ludovico Antonio Muratori nacque a Vignola (Modena) nel 1672 da una famiglia di contadini ed analfabeti, egli
studiò a Modena grammatica e umanità presso il collegio dei gesuiti e si laureò in Filosofia e Diritto
all’Università, fu ordinato sacerdote nel 1695 e si trasferì a Milano dove fu nominato dottore della Biblioteca
Ambrosiana di Milano, iniziando così la sua attività di ricercatore ed editore di documenti storici.
Come sacerdote, egli si sente libero di osteggiare la Santa Sede sul terreno giurisdizionale: in questo ambito, i
diritti della Chiesa sono per lui esattamente equivalenti a quelli di qualunque altro stato.
Nominato responsabile della biblioteca estense di Modena nella quale spetta il compito di rinvenire i
documenti che giustificano la sovranità degli Estensi sulla città e di organizzare la difesa anticuriale; dalla
consultazione di numerosi archivi in giro per l’Italia pubblica Attività Estensi.
Il successo di questa sua pubblicazione lo induce a concepire un progetto più ambizioso: la raccolta di tutti i
documenti reperibili negli archivi italiani che permettano di ricostruire la storia politica e civile dell’Italia dal
500 al 1500. Nel processo di raccolta di materiali fu aiutato da vari collaboratori, mentre la parte editoriale
(catalogazione, revisione e la stampa) lo impegnarono fino alla morte, avvenuta a Modena nel 1750.

DEL GOVERNO DELLA PESTE E DELLE MANIERE DI GUARDARSENE


Composto sotto l’urgenza della minaccia per l’Italia di un’epidemia proveniente dall’Ungheria e dall’Austria,
“Del governo della peste e delle maniere di guardarsene” affronta con estrema concretezza il problema del
governo politico, medico ed ecclesiastico della peste: il nodo cruciale del coordinamento legale e organizzativo
dei provvedimenti medici. Il trattato, pubblicato per la prima volta nel 1714 a Modena presso Bartolomeo
Soliani stampatore ducale, è deliberatamente redatto in chiave divulgativa, elemento che favorì una larghissima
ed immediata diffusione, assicurando a Muratori un successo autenticamente “popolare”.
Muratori cerca di dare un obbiettivo punto di vista sulla prevenzione all’epidemia proveniente da Est,
dimostrando come vada affrontata l’interpretazione di una realtà controversa nel caso in cui le scorrettezze di
pensiero siano causa di danni irreparabili, il primo pericolo nel quale, infatti si può incorrere, contravvenendo
alla logica razionale, è quello di fomentare paure immotivate in un momento in cui l’unica possibilità di
salvezza consiste nel mantenere il controllo e appellarsi alla ragione.

DELLA PERFETTA POESIA ITALIANA


“Della Perfetta Poesia Italiana” è un trattato letterario di Ludovico Antonio Muratori, composto nel 1706 e
pubblicato per la prima volta nello stesso anno a Modena, presso la stamperia dello stampatore ducale
Bartolomeo Soliani.
In “Della Perfetta Poesia Italiana”, come in “Primi disegni della repubblica letteraria d'Italia”, Muratori progetta
di dar vita ad un'accademia nazionale che raduni i maggiori intelletti della cultura italiana e promuova il
progresso letterario dell'intera penisola.
Il testo, in tre volumi, delinea e analizza lo sviluppo della storia letteraria dal Petrarca in poi, cercando di
chiarire gli scopi educativi e morali ai quali la poesia dovrebbe tendere. Riguardo alla poesia, è interessante
ricordare che il Muratori le affida un posto di rilievo nella formazione dell'individuo, a patto che non sia
considerata più importante della conoscenza storica e filosofica. La poesia, insomma, può essere uno strumento
per istruire attraverso il piacevole; ma, in quanto frutto della fantasia, avrà pur sempre un ruolo meno rilevante
rispetto alla ricerca guidata dalla ragione.

BIBLIOGRAFIA:
-Il Piacere Dei Testi vol.3: Dal Barocco all’Illuminismo di Silvia Giusso, Guido Baldi, Mario Razetti Giuseppe
Zaccaria – Pearson, 2012
- https://doc.studenti.it/appunti/letteratura/ludovico-antonio-muratori.html

SCIPIONE MAFFEI (Verona 1675 – Verona 1755)


Maffei Scipione nasce a Verona nel giugno 1675, a partire dal 1698 studiò al collegio dei nobili di Parma;
viaggiò poi a Firenze, Roma e Napoli. Nel 1698 fu accolto in Arcadia dove fu molto apprezzato come autore.

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All’inizio del 1704 raggiunse un fratello in Germania dove combatté per un anno nell’armata franco-bavarese.
Rimpatriato nel 1705 fu fra i fondatori della colonia arcadica di Verona. Fra il 1708 e il 1709 progettò il
Giornale de’ letterati d’Italia, pubblicato fino al 1740 con diverse interruzioni.
Tra il 1716 e il 1720 pose le basi per la grande collezione epigrafica allestita presso il teatro Filarmonico di
Verona che tuttora è la più visibile testimonianza veronese di Maffei, essa giunse a compimento intorno al
1745. Fra 1728 e 1732 il Maffei lavorò alla sua opera più famosa, la “Verona Illustrata”, che riprendeva e
intrecciava i fili di molte ricerche storiche e antiquarie avviate nei decenni precedenti, l’opera era volta a
dimostrare la piena autonomia di Verona fin dall’età romana; le motivazioni sono in parte false ma dettero
l’occasione di ripercorrere le vicende storiche della città dalle origini all’età moderna.
Alla fine del 1732, Maffei lascia Verona per un viaggio in Europa della durata di 4 anni volto a raccogliere e
trascrivere il maggior numero di epigrafi per realizzare l’ambizioso progetto di pubblicare in una decina di
volumi il corpus di tutte le antiche iscrizioni d’Europa.
Tornato in patria sosta a Venezia e nel 1737 curò, rielaborò e pubblicò a Verona le Memorie postume del
fratello Alessandro. Sempre in quell’anno intraprese un nuovo viaggio per l’Italia alla ricerca di epigrafi e
antichità.
Nel 1747 tornò a teatro con la commedia “Il Raguet”. Nel 1753 pubblicò a Verona il trattato De’ teatri antichi e
moderni, a difesa degli spettacoli teatrali contro le censure dei rigoristi. Morì dopo nel 1755.

MEROPE
Merope è una tragedia in versi sciolti in lingua italiana e suddivisa in 5 atti, che venne rappresentata per la
prima volta a Modena nel 1713. Ottenne un vasto successo in tutta Europa. Sui palcoscenici ottenne un
successo senza precedenti ed esercitò una forte influenza sullo sviluppo del teatro italiano. Il soggetto della
trama è tratto dalla mitologia greca. Ritenuta per molto tempo il miglior esempio di tragedia italiana prima di
Alfieri e un modello da studiare ed imitare, questa tragedia ha il merito di equilibrare le esigenze di decoro
classico con quelle di una azione e di un linguaggio scorrevoli, secondo il gusto arcadico. Maffei è stato il primo
drammaturgo moderno a gestire il materiale e rivelare le sue possibilità superbe. Egli distribuisce l'elemento
amoroso così prevalente in quel momento nel teatro francese e dimostra che senza di esso un lavoro teatrale
non è in grado di conservare l'attenzione dello spettatore. La sua idea è che si deve rappresentare, però, una
sola passione, in questo caso l'amore di una madre per suo figlio. Voltaire e Alfieri si ispirarono all'opera
maffeiana per le loro omonime tragedie.
Il libretto di Merope fu edito e stampato a Venezia nel 1714, presso Giacomo Tommasini.

LA FIDA NINFA
La fida ninfa è un dramma per musica in tre atti di Antonio Vivaldi su libretto di Scipione Maffei, venne
rappresentata in occasione dell'apertura del Teatro Filarmonico di Verona.
L'opera una volta composta non venne subito messa in atto, grandi concentrazioni di truppe tedesche erano
allora ai confini della Repubblica e gli ufficiali di questi eserciti avevano richiesto l'autorizzazione per andare a
Verona per assistere alla prima rappresentazione dell'opera. Ma i dirigenti veneziani erano preoccupati di
mostrare loro le debolezze difensive della Repubblica.
Vivaldi e Maffei, l'autore del libretto, che aveva finanziato e si era speso per l'organizzazione dell'opera con un
importo molto elevato, dovettero aspettare il 1732 per vedere messo in scena il loro lavoro. Fu in seguito
dimenticato e non più rappresentato fino al 1958.
La Ninfa è un'allegoria sul matrimonio, l'amore e gli impegni di fedeltà sentimentale. Il libretto è pieno di cliché,
personaggi con caratteri sensibili, barbarici o neutri, ed errori di identità. Ma è opinione che la musica sublime
di Vivaldi superi i limiti del testo.
Il libretto venne editato e stampato a Verona nel 1730, presso Alberto Tumermani, libraio.

BIBLIOGRAFIA:
-Dizionario biografico degli Italiani, Treccani, versione online
-Dizionari Più, Zanichelli, versione online

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PIETRO TRAPASSI – METASTASIO (Roma 1698 – Vienna 1787)
Pietro Trapassi nasce a Roma nel 1698 da modesta famiglia, ad appena 9 anni fu preso sotto l’ala protettiva del
filosofo e letterato Gian Vincenzo Gravina, profondamente colpito dalla dote innata di Pietro d’improvvisazione
poetica; Gravina si occupò della sua educazione che ebbe principalmente un’impronta cartesiana.
Nel 1717, Pietro entra a far parte dell’Arcadia e assunse il nome Metastasio; dopo la morte di Gravina si trasferì
a Napoli dove entrò in contatto con i salotti mondani e con il mondo musicale. Quest’ultimo lo fece avvicinare al
dramma per musica. La sua prima opera teatrale Didone Abbandonata, ottenne un successo clamoroso e lo
resero conosciuto anche nella scena teatrale veneziana e romana.
Nel 1730 fu chiamato a Vienna per ricoprire il ruolo di poeta ufficiale della corte imperiale, nella quale restò per
il resto della sua vita, nei successivi 10 anni diede alle scene 11 melodrammi. A questo periodo altamente
creativo seguì un periodo di declino, le opere successive, infatti, stemperano in parte l’intensità sentimentale
delle precedenti a favore di accenti più eroici.
Durante gli ultimi anni della sua vita si occupò di alcuni scritti teorici dove dimostra come la naturalezza e
l’apparente semplicità dell’opera nascano in realtà da una costante riflessione sui meccanismi psicologici e
formali che presiedono alla composizione poetica.
Visse circondato dall’ammirazione dell’Europa intera fino alla sua morte, avvenuta a Vienna nel 1782.

DIDONE ABBANDONATA
La Didone abbandonata, rappresentata per la prima volta a Napoli nel 1724 con dedica al viceré di Napoli
Michele Federico d'Althann, fu l'opera con la quale Metastasio si affermò sulla scena teatrale italiana.
Il melodramma inaugura la prima fase (dal 1724 al 1730, anno della partenza per Vienna) della produzione
melodrammatica metastasiana e corona un periodo di intensa attività poetica e teatrale, durante il quale
Metastasio aveva sperimentato diverse modalità di scrittura alla ricerca di un suo specifico linguaggio poetico.
Il successo dell'opera fu determinante nella vita di Metastasio che abbandonò la pratica forense e si dedicò
definitivamente al teatro. La storia fu tratta dal quarto libro dell'Eneide di Virgilio.
La Didone abbandonata fu interpretata da alcuni critici come un primo esempio di libretto che contiene già
alcuni elementi del dramma metastasiano maturo come l'accordo recitativo-aria, il conflitto amore/passione, il
modello dell'eroe indeterminato, altri critici interpretarono la Didone come il risultato di un momento di
straordinaria creatività artistica mai più ripetuto da Metastasio.
Il successo dell'opera fu immediato e notevolissimo; la Didone fu il libretto più utilizzato di tutti i tempi e
numerosissimi sono i compositori che lo hanno musicato.
Il libretto della “Didone Abbandonata” venne stampato a Venezia presso Marino Rossetti nel 1724.

L’OLIMPIADE
Rappresentata a Vienna il 28 agosto del 1733, l’Olimpiade, fu considerata fin dalla sua apparizione il capolavoro
del poeta; essa presenta una sintesi perfetta degli elementi tipici dei drammi metastasiani: il conflitto
amore/dovere, complicato dai risvolti affettivi dell'amicizia; la struttura della doppia coppia di innamorati che
funziona come un meccanismo perfetto, con i protagonisti maschili legati da un profondo legame di amicizia
messo in crisi dall'amore per la stessa donna, e le protagoniste femminili animate dalla accorata difesa delle
proprie inclinazioni contro le convenzioni sociali e gli impedimenti esterni; il giusto equilibrio tra scene in cui
prevale un linguaggio idillico patetico e concitati momenti narrativi di progressione dell'azione. L'articolazione
tra aria, momento lirico, e recitativo, momento narrativo, raggiunge nell'Olimpiade un equilibrio perfetto e
compone un ingranaggio drammaturgico estremamente funzionale allo svolgimento del dramma. Il linguaggio
patetico-sentimentale dell'Olimpiade colpì il suo stesso autore che si commosse di fronte a una scena che stava
scrivendo e compose, per esprimere la sua reazione, il sonetto Sogni e favole io fingo, in cui analizza il potere
fatico del linguaggio letterario, documento fondamentale per la comprensione della poetica di Metastasio e per
l'immagine del teatro come sogno, illusione. Il libretto venne pubblicato nel 1733 a Vienna e Roma.

BIBLIOGRAFIA:
-Il Piacere Dei Testi vol.3: Dal Barocco all’Illuminismo di Silvia Giusso, Guido Baldi, Mario Razetti Giuseppe
Zaccaria – Pearson, 2012

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-Schede testi Metastasio - Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Roma 1

CARLO GOLDONI (Venezia 1707 – Parigi 1793)


Carlo Goldoni nasce a Venezia nel 1707 da una famiglia borghese. Si forma inizialmente presso i gesuiti di
Perugia, continuando, poi, i suoi studi a Rimini. Frequenta il Collegio dei Ghislieri di Pavia dove inizia la facoltà
di legge poi, interrompe i suoi studi per lavorare presso le Cancellerie criminali di Chioggia e Feltre. La morte
del padre, nel 1731, lo spinge a riprendere gli studi in legge, si laurea a Padova e inizia una carriera da avvocato
principalmente per sostenere economicamente la madre.
Nonostante ciò la sua vocazione per il teatro è troppo forte e, dopo aver conosciuto a Verona nel 1734 Giuseppe
Imer, inizia a scrivere testi teatrali per il teatro veneziano San Samuele, dove, inizialmente, si occupa della
scrittura di melodrammi, tragicommedie e intermezzi, avvicinandosi, poi, al genere comico, entra in contrasto
con le idee della Commedia dell’arte, avviando, quindi, la graduale “riforma” del teatro comico.
Il solo teatro, però, non gli consentiva di essere economicamente stabile, a causa dei suoi debiti, fugge da
Venezia e si rifugia a Pisa, dove, riprende l’attività forense; in Toscana conosce Girolamo Medebac, che gli offrì
l'incarico di poeta della sua compagnia, che aveva sede presso il Teatro Sant'Angelo di Venezia, Goldoni riesce,
così a trasformare la scrittura teatrale nella sua professione principale; ciò rende Goldoni una figura unica nel
panorama teatrale ed intellettuale italiano del Settecento, in quanto è lo scrittore che vive dei proventi della sua
professione intellettuale, di ciò che guadagna scrivendo, anticipando così la figura dello scrittore che si imporrà
nella società borghese a partire dall’Ottocento.
Entrato in conflitto con la compagnia di Medebac, Goldoni inizia a lavorare per la compagnia del Teatro di San
Luca, periodo nel quale, a causa della sua rivalità con Pietro Chiari tenta di intraprendere vie diverse dalla
classica commedia realistica, sperimentando, invece, tematiche esotiche ed avventurose. Scoraggiato anche
dalle dure critiche di Carlo Gozzi, ancora fortemente ancorato alla Commedia Dell’Arte, Goldoni si rifugia a
Parigi, dove inizio a dirigere la Comédie Italienne, egli però trova ancora in piena voga lo stile della Commedia
Dell’Arte, trovandosi a dover ricominciare dal principio la sua riforma, che non fu ben accetta dal pubblico
francese e portando, di conseguenza, Goldoni a tornare agli scenari che da tempo aveva abbandonato. Grazie al
successo ottenuto dalla sua opera Le Bourru bienfaisant, entrò nelle grazie della corte reale, dalla quale fu
assunto come maestro di italiano; scoppiata la Rivoluzione, però, la sua pensione fu sospesa e la miseria lo
condusse alla morte nel 1793.

LA LOCANDIERA
La locandiera è il capolavoro di Goldoni, è considerata lo stendardo del nuovo teatro di Goldoni che soppianta
gli schemi logori dell'obsoleta commedia dell'arte. Le maschere che gli attori usavano in precedenza per
interpretare personaggi fissi vengono soppiantate dal volto stesso dei commedianti, che impersonano il ruolo
di personaggi quotidiani e reali. Lo svolgimento della vicenda, prima affidato attraverso un sommario
canovaccio all'inventiva degli attori, viene sostituito dall'ordinata sequenza di eventi mirabilmente pianificata
da Goldoni, che diventa così il poeta di teatro.
La commedia goldoniana non si limita però a delineare psicologie individuali in tutta la ricchezza delle loro
sfaccettature: le colloca anche in un preciso contesto sociale. La Locandiera offre, infatti, uno spaccato della
società contemporanea, colta in tutte le sue articolazioni. Questo campione di società che si muove tra le scene
della commedia, ristretto ma esauriente, testimonia come il teatro goldoniano punti alla fedele riproduzione
della realtà sociale contemporanea e tragga il suo alimento vitale soprattutto dall’osservazione diretta e attenta
della realtà vissuta.
La commedia fu rappresentata per la prima volta nel Carnevale del 1753 al Teatro Sant’Angelo di Venezia, il suo
libretto venne incluso nella raccolta delle commedie di Carlo Goldoni stampata a Venezia nel 1761 presso
Giambattista Pasquali.

MÉMOIRES/MEMORIE
Scritta durante gli anni della vecchiaia, Mémoires, è un’autobiografia teatrale, scritta e pubblicata prima in
francese (1787) e poi in italiano (1788). L’opera consiste nella ricostruzione delle tappe della vocazione e della
carriera teatrale dell’autore. Il teatro per Goldoni era l’interesse e la passione dominante, che riempiva quasi

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interamente la sua vita: era naturale perciò che la ricapitolazione della propria esistenza si risolvesse
principalmente nella ricostruzione dei suoi rapporti con il teatro. Goldoni segue minutamente l’affermazione
della sua vocazione di scrittore comico, dalle avide e appassionate letture infantili al primo incontro con il
mondo teatrale.
La prima edizione francese viene stampata a Parigi nel 1787 presso la Veuve Duchesne, mentre la prima
edizione italiana viene stampata a Venezia nel 1788 presso Antonio Zatta e Figli.

BIBLIOGRAFIA:
-Il Piacere Dei Testi vol.3: Dal Barocco all’Illuminismo di Silvia Giusso, Guido Baldi, Mario Razetti Giuseppe
Zaccaria – Pearson, 2012

GASPARO GOZZI (Venezia, 4 dicembre 1713 – Padova, 26 dicembre 1786)


Gasparo Gozzi nasce a Venezia nel dicembre del 1713. Dopo i primi studi con precettori, entra nel collegio
Somasco di Murano dove si applica negli studi umanistici.
Nel luglio 1738 sposò Luisa Bergalli con la quale ebbe, nel corso degli anni, 5 figli che costrinsero il
trasferimento della famiglia a Visinale (Pordenone, Friuli).
Nel 1742 tornano per un breve periodo a Venezia per far sì che il Gozzi si potesse dedicare al lavoro di editore e
per lavorare alle sue opere; l’anno successivo esordì con la tragedia Elettra a cui seguì la Medea.
Nel 1747 Gozzi e i fratelli fondarono l'Accademia letteraria tradizionalista dei Granelleschi continuando intanto
la sua attività di traduttore e adattatore, non tralasciando la traduzione di commedie.
Nel 1760 gli venne l’idea di aprire un giornale modellato sull’inglese Spectator a Venezia, chiamato la Gazzetta
che per 3 anni pubblicò due copie a settimane. La seconda impresa giornalistica, Il Mondo Morale, venne iniziata
in parallelo con la Gazzetta e uscì per nove mesi fino al maggio 1760. Esso era una sorta di romanzo a puntate
che comprendeva traduzioni di alcune tragedie.
Fondendo la Gazzetta e il Mondo morale, nacque il periodico L’Osservatore veneto. Quest’ultimo era più
un’opera letteraria che giornalistica.
Nel 1762 ricevette il primo incarico pubblico di rilievo: la nomina da parte dei Riformatori dello studio di
Padova a sovrintendere alle stampe e alle materie letterarie. Nel frattempo proseguiva numerose
collaborazioni editoriali.
A fine 1776, Gozzi cadde in una pesante depressione e ipocondria, morì 10 anni dopo nel 1786.

LA GAZZETTA VENETA
La gazzetta veneta è una rivista modellata su esemplari inglesi; contiene articoli di costume e resoconti vivaci
delle cronache veneziane, ma anche informazioni pratiche, destinate a incrementare la vendita del giornale,
come prezzi delle merci, annunci economici, orari di utilità pubblica e così via. Gli articoli, scritti in lingua agile
e scorrevole, raccontano gli episodi di cronaca e di costume in modo spesso pittoresco; la trovata più curiosa è
quella di presentare gli annunci economici sotto forma di brevi novelle. Il Gozzi si rivela critico letterario e
teatrale attento, misurato e acuto; una testimonianza significativa sono, ad esempio, le recensioni
sull'allestimento dei Rusteghi e della Casa nova del Goldoni o su altri eventi culturali di un qualche rilievo.
La Gazzetta Veneta fu edita e stampata a Venezia dal 1760 al 1763.

SEGRETARIO MODERNO
Segretario moderno è una raccolta di modelli di lettere, per corrispondenza diretta a vari tipi di personalità e
per varie occasioni, con introduzione istruttiva su come elaborare la corrispondenza, sui principi da tenere
presente nel preparare una lettera, tenendo conto del destinatario e dell’oggetto stesso della lettera, Gozzi dà
consigli utili ed errori da evitare. A questi consigli seguono facsimili di lettere inviate a persone di vario ceto e
nobiltà, di diverse città italiane.
Se in passato questo tipo di scritti servivano solo ai segretari, come specificato, infatti nel titolo, adesso, questo
tipo di scritti funge da manuale per chiunque voglia scrivere una lettera, di qualsiasi tipo, ad una persona
lontana.
L’edizione e la stampa del Segretario Moderno è affidata a Giacomo Carcani nel 1789, a Venezia.

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BIBLIOGRAFIA:
-Dizionario Bibliografico degli Italiani, Treccani, versione online
-https://memoriestoriche.it/G/gozzi-segretario-moderno-esempi-di-corrispondenza-1809

GIUSEPPE PARINI (Bosisio, Brianza 1729 – Milano 1799)


Giuseppe Parini nasce a Bosisio, in Brianza, nel 1729, da una famiglia di modeste condizioni. Dopo i primi studi
fu mandato a Milano presso la prozia Anna Maria Lattuada, che morendo, gli lasciò una piccola reddita mensile
a patto che prendesse i voti, così, nel 1754, pur senza vocazione, fu ordinato sacerdote.
Dopo la pubblicazione, sotto il nome di Ripano Eupilino (il primo, anagramma del suo nome, il secondo nome
latino della zona originaria del poeta), di una raccolta di liriche, Parini iniziò ad essere conosciuto presso gli
ambienti letterari di Milano, riuscendo ad entrare nell’Accademia dei Trasformati, uno dei centri più importanti
della cultura milanese; essi vennero identificati come fautori di una conciliazione tra le esigenze di una cultura
moderna e la tradizione classica.
Entrando, nel 1754, a servizio del Duca Gabrio Serbelloni, come precettore dei figli, Parini, di umili origini,
entra, in un qualche modo a far parte dell’ambiente nobiliare; grazie a questa possibilità inizia a conoscere
dall’interno il mondo aristocratico milanese, che di lì a poco avrebbe presentato satiricamente nel Giorno.
A seguito del licenziamento da Casa Serbelloni, dovuto ad una lite con la duchessa, Parini diventa precettore di
Carlo Imbonati, conservando l’incarico fino al 1768.
La pubblicazione dei due poemetti il Mattino e il Mezzogiorno, seppur pubblicati in anonimato, gli valsero
grande prestigio, portando il governo austriaco della Lombardia, che vedeva con favore gli intellettuali, ad
affidargli la direzione della semiufficiale “Gazzetta di Milano”, chiamandolo, poi, l’anno successivo, alla cattedra
di “belle lettere” alle Scuole Palatine, che, nel frattempo, si traferirono presso il palazzo di Brera.
Nel 1791 fu nominato sovrintendente nelle scuole di Brera. Parini viene, dunque, a coincidere con la figura
tipica dell’intellettuale illuminista milanese, che era direttamente al servizio dello stato riformatore ed
assumeva incarichi ufficiali nell’amministrazione.
Nel 1789 scoppia la Rivoluzione francese e Parini reagisce in modo ambivalente agli eventi: da una parte
confida nella realizzazione più sana dei principi sociali illuministici, dall’altra è preoccupato dai possibili eccessi
del movimento rivoluzionario, preoccupazione che prevale alle notizie delle repressioni e delle stragi che
accompagnano gli scontri. Nonostante ciò, l’autore accetta gli incarichi che i francesi gli affidano quando
occupano Milano nel 1796, salvo poi essere allontanato a causa del suo moderatismo e dalla volontà di
difendere l’autonomia della città a dispetto del nuovo dominio.
Morì il 15 Agosto 1799, pochi mesi dopo il rientro degli Austriaci in Italia, per i quali, poco prima di morire
scrisse il sonetto “Predaro i Filistei l’arca di Dio”.

IL GIORNO
Il Giorno è un poemetto satirico-didascalico in endecasillabi sciolti di Giuseppe Parini diviso, inizialmente in tre
parti (Mattino, Mezzogiorno e Sera) e poi in quattro parti (Mattino, Mezzogiorno, Vespro e Notte).
L’opera, incompiuta, descrive la giornata tipica di un giovane signore che è guidato da un servile precettore
(incarnato da Parini), e che finge di essere in accordo con l’ideologia nobiliare. Ma nel descrivere le parti della
giornata, Parini mette in risalto il vuoto che in realtà caratterizza la giornata, e lo fa con ironia e allegria, che
nascondono però un duro sarcasmo, nei confronti anche dei privilegi dei nobili, che non hanno senso a
paragone con la vita del popolo.
L’impianto del poema, quindi, più che narrativo è descrittivo: non viene individuata una particolare vicenda, ma
viene descritto una giornata tipo dell’aristocrazia, presentando tutte le varie possibilità che al giovane si
offrono per occupare il suo tempo.
Nel corso della narrazione Parini prova a trasmettere al lettore quel senso di monotonia e di oppressione che
riempie la vita dei nobili anche attraverso i luoghi: si tratta sempre di posti stretti, chiusi tanto quanto la mente
dei personaggi che li frequentano.

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Il Mattino fu pubblicato nel 1763, mentre il Mezzogiorno fu pubblicato nel 1765 entrambi furono stampati
presso la stamperia di Antonio Agnelli, Parini continuò a lavorare sul Vespro e sulla Notte sino ai suoi ultimi
anni, senza però portarle a compimento, quindi furono pubblicate postume.

DIALOGO SOPRA LA NOBILTÀ


Nel 1757, Parini pubblica il Dialogo sopra la nobiltà con il quale egli aderisce alle tesi egalitarie del movimento
illuminista. Egli immagina che un nobile ed un poeta, morti da poco, si trovino casualmente sepolti uno accanto
all’altro e che tale vicinanza fornisca loro l’occasione di un dibattito sull’uguaglianza di tutti gli uomini e
sull’inutilità dei privilegi della classe aristocratica.
Critica alla nobiltà, fra Cristianesimo e Illuminismo
I contenuti ideologici del Dialogo sopra la nobiltà – alla base poi anche del Mattino e del Mezzogiorno – sono
affidati al personaggio del poeta, portavoce dell’autore e del suo pensiero. Da un lato egli critica la nobiltà per
mancanza di moralità e parassitismo sociale; dall’altro sente il dovere di educarla affinché possa riappropriarsi
dei valori che l’hanno contraddistinta in passato. La polemica pariniana si fonda su presupposti cristiani e
illuministici: l’idea dell’universale uguaglianza degli uomini, la tesi dell’assurdità della suddivisione in classi
sociali rigidamente distinte, il giudizio di immoralità contro lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo in nome di
vane pretese di superiorità.
Si può notare come il tema centrale che ritorna in tutte le opere, dal Giorno alle Odi, sia quello dell’uguaglianza,
tema che viene documentato per la prima volta proprio nel Dialogo.
Il testo comparve a stampa per la prima volta ai primi dell’Ottocento nell’edizione Reina e non venne mai
pubblicata in vita dall’autore, che ne lasciò due diverse stesura, nessuna delle quali è da considerarsi definitiva.

BIBLIOGRAFIA
- Il Piacere Dei Testi vol.3: Dal Barocco all’Illuminismo di Silvia Giusso, Guido Baldi, Mario Razetti Giuseppe
Zaccaria – Pearson, 2012
- https://www.studenti.it/giuseppe-parini-biografia-opere-pensiero.html
-La falsa e la vera nobiltà, documento PDF – https://www.edatlas.it/
- https://www.skuola.net/settecento-letteratura/700-autori-opere/parini-dialogo-sopra-nobilta.html

CESARE BECCARIA (Milano 1738 – Milano 1794)


Cesare Beccaria nasce a Milano nel 1738 da un’influente e nobile famiglia, istruitosi a Parma presso i gesuiti, si
laureò in legge a Pavia, dove ha cominciato a dimostrare la sua lucida e precoce intelligenza, sia nelle
matematiche, sia nelle lingue.
Nel 1760 Cesare sposò Teresa Blasco contro la volontà del padre, che lo costrinse a rinunciare ai diritti di
primogenitura, mantenendo, però, il titolo di marchese; da questo matrimonio ebbe quattro figli. Il padre lo
cacciò anche da casa dopo il matrimonio, così dovette essere ospitato da Pietro Verri, che lo mantenne anche
economicamente per un periodo.
Nel frattempo legge le "Lettere persiane" di Montesquieu, che lo portano ad avvicinarsi all'Illuminismo. Dopo
avere fatto parte del cenacolo dei fratelli Verri, scrive per la rivista "Il Caffè" ed è tra i creatori, nel 1761,
dell'Accademia dei Pugni, ambiente nel quale gli parve d'aver raggiunto il tanto desiderato equilibrio con sé
stesso e con gli altri.
La pubblicazione anonima del trattato “Dei Delitti e Delle Pene”, lo porta a ricevere parecchie reazioni di
condanna, soprattutto da parte della Chiesa Cattolica, tuttavia, in Italia fu strenuamente difeso dai fratelli Verri
sul Café, mentre in Francia, i philosophes più prestigiosi lo tradussero e fu considerato un vero e proprio
capolavoro, guadagnando la stima soprattutto di Voltaire. Questo gli fruttò l’invito di andare a Parigi in
compagnia di Alessandro Verri, ma il suo carattere schivo e riservato gli rese sgradevole la calorosa accoglienza
parigina, ciò lo fece tornare in patria prima del previsto, facendo così vacillare i suoi rapporti con i fratelli Verri.
Negli anni successivi insegnò Economia Civile alle scuole palatine di Milano, per poi dedicarsi, negli ultimi anni
della sua vita alla carriera amministrativa, dando il suo apporto alla politica riformista della monarchia
asburgica che regnava su Milano, dove muore all’età di 56 anni, nel 1794 a causa di un ictus.

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DEI DELITTI E DELLE PENE
Dei delitti e delle pene è un trattato sul diritto penale e contro la pena di morte.
In un'età come quella illuminista Beccaria sente l'esigenza di creare un'armonia precisa e chiara all'interno dei
diversi ordinamenti condannando l'ingiustizia del sistema giuridico vigente all'epoca.
Beccaria è contrario alla pena di morte e formula alcune argomentazioni. La prima è sull'illegittimità: la vita
dell'uomo appartiene solo a Dio, e un giudice non può certamente decidere le sorti di un altro uomo. L'uomo,
stipulando un contratto sociale, non accetterà mai una condizione che permetta allo Stato di ucciderlo perché
andrebbe contro il fine stesso per cui è nato lo Stato: la protezione e la difesa dei propri consociati. La pena di
morte è contraria al diritto naturale e la sua applicazione significherebbe una contraddizione dello stato
sociale, sorto per difendere i diritti naturali dei contraenti.
Beccaria afferma che le pene debbano svolgere una funzione rieducativa e non repressiva in modo da favorire
una sicurezza sociale e un'integrazione sociale del criminale pentito. Il fine delle pene è quello di provocare una
forma di coazione psicologica nella mente degli uomini in modo da dissuaderli dal commettere i reati
assicurando così una pace sociale. L’autore critica aspramente anche la pratica della tortura perché infligge
atroci sofferenze sia ai criminali sia agli innocenti - che per sfuggire a tale supplizio si professano ingiustamente
colpevoli - con l'intento di sottoporre il presunto reo a parlare. Beccaria condanna questa assurda pratica
perché l'innocente occupa una posizione disagiata rispetto al reo: l'innocente, una volta assolto, avrà subito
un'ingiustizia, mentre se il reo, non confessando, sarà assolto.
Il saggio fu pubblicato per la prima volta nel 1764 a Livorno, presso la tipografia Coltellini.

BIBLIOGRAFIA:
- Il Piacere Dei Testi vol.3: Dal Barocco all’Illuminismo di Silvia Giusso, Guido Baldi, Mario Razetti Giuseppe
Zaccaria – Pearson, 2012
- https://biografieonline.it/biografia-cesare-beccaria
- https://cronologia.leonardo.it/storia/biografie/beccari.htm
- Dizionario Biografico degli Italiani Treccani – versione online
- http://www.sintesidialettica.it/leggi_articolo.php?AUTH=242&ID=547
- http://www.diritto24.ilsole24ore.com/art/guidaAlDiritto/dirittoPenale/2014-03-13/delitti-pene-livorno-
espone-145706.php?refresh_ce=1

VITTORIO ALFIERI (Asti, 16 gennaio 1749 – Firenze, 8 ottobre 1803)


Vittorio Alfieri nasce ad Asti nel 1749 da una nobile e ricca famiglia. Nella tipologia dell’intellettuale del
Settecento rappresenta dunque la figura dello scrittore che, grazie alle cospicue rendite, può dedicare tutto il
suo tempo libero alla letteratura.
Nel 1758, a nove anni, fu mandato a compiere gli studi alla Reale Accademia di Torino, che aveva radicate
tradizioni militari. Uscito dall’Accademia compì numerosi viaggi per l’Italia e per l’Europa; visito prima le
principali città italiane e poi le principali capitali europee.
Il giovane Alfieri non si spostava indotto dalla curiosità di vedere, di conoscere luoghi, costumi, linguaggi,
mentalità, di accumulare esperienze, ma come spinto da una smania febbrile di movimento, da un’irrequietezza
continua, inappagabile, che non gli consentiva di fermarsi in alcun luogo. Egli stesso narra che, non appena era
giunto alla meta verso la quale si era proteso con ansia, aveva il bisogno irresistibile di fuggire verso un altro
luogo e, giunto alla nuova meta, si abbandonava allo stesso impulso di fuga senza fine: era come se il giovane
inseguisse qualcosa di ignoto e di inafferrabile che gli sfuggisse continuamente dinanzi, più tardi Alfieri stesso
definirà questa scontentezza come il bisogno di trovare un fine sublime intorno cui ordinare tutta l’esistenza,
identificato, poi, con l’ispirazione poetica.
Questi viaggi gli hanno permesso di accumulare una concreta esperienza delle condizioni politiche e sociali
dell’Europa di quel tempo, trovando un’Europa principalmente assolutista, condizione che, nel giovane Alfieri,
provoca reazioni espressamente negative, quasi nulla di ciò che vede gli piace, riuscendo a provare solo
insofferenza, sdegno e repulsione.
Ritornato a Torino, conduce una vita oziosa di un “giovin signore”, chiuso in una solitudine inerte che
ingigantisce la sua scontentezza, l’unica attività che gli si offre è quella letteraria.

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Nel 1775 Alfieri colloca la svolta fondamentale, l’illuminazione desinata a dare un senso alla sua vita, cioè la sua
conversione alla poetica tragica, attraverso l’opera “Antonio e Cleopatra”, messa in scena nel 1775 al teatro
Carignano di Torino; l’opera ottenne molto successo, facendo così capire, ad Alfieri la sua vera vocazione, che,
da quel momento, asserisce di aver trovato lo scopo capace di riempire la sua vita vuota e di darle un senso,
placando la sua oscura inquietudine.
Per meglio scrivere le sue opere, decide di approfondire i suoi studi di lingua italiana, trasferendosi in Toscana,
dove conosce la contessa di Albany Louise Stolberg, nella quale trova “degno amore” che, insieme con la poesia,
può dare equilibrio alla sua vita. Nel 1778, per “spiemontizzarsi”, decide di rinunciare a tutti i suoi beni in
favore della sorella, in cambio di una rendita vitalizia.
Questo è il momento più fruttuoso della sua vita letteraria, inizia a pubblicare le sue tragedie a Siena e continua
poi a Parigi –presso la prestigiosa stamperia dei f.lli Didot- dove si era stabilito insieme alla Contessa Stolberg;
lo scoppio della Rivoluzione Francese fa riemergere il suo spirito antitirannico, mostrandosi, quindi,
inizialmente, a favore di essa, ma con gli sviluppi del processo rivoluzionario provocano in lui riprovazione e
disgusto, per quella che lui ritiene falsa libertà che maschera una nuova tirannide borghese. Nel 1792 fugge da
Parigi e si stabilisce a Firenze, dove vive i suoi ultimi anni in una sdegnosa solitudine, animato sa un odio
sempre più feroce contro i francesi, che si sono ormai impadroniti dell’Italia attraverso le campagne
napoleoniche. Muore a Firenze nel 1803.

DEL PRINCIPE E DELLE LETTERE


I tre libri Del Principe e Delle Lettere, compiuti nel 1786 sono dedicati ad esaminare il rapporto tra lo scrittore
ed il potere assoluto. Mentre nella Tirannide, Alfieri celebrava la superiorità dell’agire sullo scrivere e
presentava la letteratura come ripiego, ora invece proclama la superiorità assoluta dello scrivere su ogni altra
forma di attività.
Lo scrivere sostituisce totalmente il fare. Il poeta incarna l’ideale di un’assoluta indipendenza, si sottrae ad ogni
funzione sociale e si dedica esclusivamente alla poesia, che è la suprema realizzazione dell’essenza umana. Solo
nelle lettere si manifesta quindi la libertà, la dignità eroica dell’individuo. La poesia è superiore all’azione
perché “il dire altamente alte cose, è un farle in gran parte”. Maggiore grandezza si richiede a inventare e a
descrivere una cosa che non ad eseguirla.
Alfieri recupera di fatto la figura tradizionale dell’intellettuale quale era stata fissata dalla civiltà umanistica, il
letterato separato dalla realtà e chiuso nella dimensione esclusiva del pensare e dello scrivere. È vero che
Alfieri assegna pur sempre al letterato una funzione di guida e di illuminazione, ma è un’azione destinata alle
generazioni future, in forma di profezia, non rivolta immediatamente ai contemporanei, per esortarli e
sollecitarne le coscienze.

VITA SCRITTA DA ESSO


La concentrazione sull’”io”, il soggettivismo, il culto dell’intensa passionalità, del “forte sentire”, spingono
inevitabilmente Alfieri alla scrittura autobiografica: così nasce l’idea di “Vita Scritta Da Esso”.
Quest’opera è universalmente considerata un capolavoro letterario, se non il più importante, sicuramente il più
conosciuto. In quest'opera analizza la sua vita come per analizzare la vita dell'uomo in generale, si prende come
esempio. A differenza di altre autobiografie (come ad esempio le Mémoires di Goldoni) Alfieri risulta molto
autocritico. In maniera cruda e razionale, egli non si risparmia neppure quando deve accusare il suo modo di
fare, il suo carattere eccentrico e soprattutto il suo passato; tuttavia, Alfieri non ha né rimorsi né rimpianti per
quest'ultimo.
La prima parte fu scritta tra il 3 aprile ed il 27 maggio 1790 e giunge fino a quell'anno, la seconda fu scritta tra il
4 maggio ed il 14 maggio 1803. L'opera rimase incompiuta e venne pubblicata postuma nel 1806, con una
datazione falsa ("Londra, 1804").

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