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LE FORME DELLA POLITICA _______________ I parte. Miseria del presente (alias Delle nostre insufficienze e sventure)
Dalla Repubblica dei partiti ai partiti senza Res-Publica Un tempo si sarebbe detto veniamo da lontano e andiamo lontano. E indubbio che la formula abbia perso, da gran tempo, la sua popolarit: pensare che fu pronunciato la prima volta da Togliatti nel 1947 in un discorso a quell'Assemblea costituente che non si chiamava ancora Camera dei deputati. Era il tempo dei partiti di massa. Il tempo dei due Partiti (il PCI e la DC) che potevano mobilitare, nel loro complesso, 5 milioni di iscritti e raccogliere, insieme a messo che abbia un senso dire insieme , e da pi di un punto di vista un senso ce lha - quasi l'80% dei voti, anche se solamente a uno dei due il sistema della guerra fredda avrebbe garantito la possibilit di governare il Paese, impedendolo allaltro, per cos dire a qualunque costo . Se poi agli iscritti e ai votanti aggiungiamo i militanti nei sindacati, nelle organizzazioni del dopo-lavoro, nelle associazioni giovanili, nelle parrocchie e nelle case del popolo, possiamo intuire quale fosse l'increbibile capacit di mobilitazione di questi corpi intermedi . A tenere insieme i partiti era il cemento delle ideologie : una cosa assai nobile, bench un po fuori moda, ai nostri tempi. Prodotti della sedimentazione del pensiero moderno, le ideologie si distinguevano dalla propoganda per la loro tendenza ad assurgere al ruolo di grande narrazione ; erano capaci di produrre identificazione con unidea, una storia, un progetto di societ, muovendo le corde pi profonde dell'animo civile. Cos si presentavano le forme della politica nell'Italia del dopoguerra, il Paese uscito dal fascismo e tenuto insieme dal riscatto della Resistenza e da quel patto costituzionale che ne suggell la vittoria. Le cose sarebbero per cambiate rapidamente gi a partire dagli anni Sessanta, quando nuove forme di partecipazione (il movimento studentesco, quello femminista, ecc) proposero sulla scena pubblica immaginari e forme politiche alternative al bipartitismo imperfetto e pi rispondenti alla domande di una societ che stava rapidamenta diventando dei consumi. Istanze che interrogavano governi deboli nel loro tentativo di governare la modernizzazione, ma che nondimeno risultarono vincenti nel traghettare l'Italia verso un livello di democrazia pi avanzata con il divorzio, la legge Basaglia e l'istruzione per tutti. Non fu per il 68' della contestazione globale, n il 69 del tentato (e mai cos vicino) controllo operaio sulla produzione, e neppure il lungo decennio che li segu, a segnare la fine della Repubblica dei partiti. Dopo il piombo, le stragi di Stato e la morte di Moro che soffocarono nel sangue ogni tentativo di aprire un sistema bloccato, arrivarono, infatti, gli anni del riflusso che spazzarono via l'assalto al cielo per sostituirlo con l'Italia da bere. Il welfare,
faticosamente costruito in decenni di lotte e di buona politica, i diritti collettivi dentro e fuori dai luoghi diu lavoro e la democrazia partecipata lasciarono spazio al nuovo dogma del libero mercato e del self-made-man, mentre i partiti perdevano consenso e diventavano d'amministrazione, piuttosto che di governo. Matura l, nel cuore degli anni 80, vissuti allombra del cesarismo regressivo di Bettino Craxi, il ventre molle di un paese disposto a digerire qualunque cosa. il Il patto costituzionale di cui i partiti erano chiamati a farsi carico era, insomma, gi malato quando arrivarono la caduta del Muro di Berlino e Tangentopoli. Cominci a morire nel 1994, dopo l'abbandono del sistema proporzionale, con la discesa in campo dell'anti-partito televisivo di Silvio Berlusconi, che chiedeva voti in cambio di privilegi individuali e di classe, che sostituiva la partecipazione con pratiche plebiscitare, che sdoganava i suoi alleati mentre cavalcavano la nuova paura delle migrazioni di massa. Sullo sfondo, la lenta e progressiva metamorfosi del PCI (Pds-Ds-PD) : dalla storia di una grande partita giocata dalla politica contro la Storia, alla piccola cronaca di una partita tutta giocata alle regole dellavversario e nel suo campo da gioco. Certo, con la fine dei partiti tradizionali l'Italia si trovata pi libera dai condizionamenti di un sistema rigido che ne aveva bloccato l'alternanza e condizionato la trasformazione. Ma non pi democratica. N tantomeno pi ricca, quanto a cultura politica ed assetto istituzionale. Tuttaltro. Veniamo da lontano ma, di questo passo, non andiamo proprio da nessuna parte. La memoria appare un fantasma, piuttoso che un ingranaggio collettivo da cui trarre linfa e ragione sociale. Eppure, innovazione politica dovrebbe voler dire lucido dinamismo e capacit di mutare forma, articolazione, organizzazione senza rinunciare alle ragioni della propria esistenza. Se ci vero, il primo problema che abbiamo davanti capire cosa, del Novecento, vada portato oltre il Novecento : come riuscire a dire, oggi, che siamo nuovi, ma siamo quelli di sempre . Il lavoro e la democrazia Ecco che, schiacciato dentro un ingranaggio collettivo, ci troviamo il lavoro. Quel lavoro delle mani e delle menti, come avrebbero detto i Padri costituenti che da fondamento della Repubblica democratica, stato ridotto a variabile dipendente della competitivit, da linfa vitale dei partiti di massa si ritrovato oggetto emarginato dall'agenda politica, quasi fosse un mobilio vecchio del Novecento. Il primato dell'economia sulla politica, e dell'impresa nella societ, a sinistra ha spezzato la tensione tra democrazia e lavoro, proprio mentre si andava dissolvendo il nesso tra libert politiche e diritti sociali su cui si era voluto fondare la Repubblica nel secondo dopoguerra, subordinando questi ultimi alle libert economiche, cio agli spiriti liberi del mercato. La sinistra rappresentativa, quercia rotta e margherita secca e ulivo senza tronco (per dirla con
l'ultimo Pintor), ormai non pi di massa e incapace di comprendere le trasformazioni del lavoro, ha perso la capacit di ascoltarne le ragioni e lo ha abbandonato a soggetto orfano di rappresentanza, proprio mentre veniva massacrato socialmente e con la cultura da bere si rimuoveva il suo protagonismo politico dall'immaginario collettivo. La politica che conosciamo ha smarrito la capacit di rappresentare il lavoro nella sua complessit e, peggio, ha rinunciato all'ambizione di provarci. E cos chi ogni giorno trasforma i propri sforzi individuali, con fatica e intelligenza, in ricchezza sociale, volendo modificare la propria condizione ha in mano lo strumento della rivolta collettiva ma sempre meno quello della rappresentanza. Il sindacato cerca di nascondere la propria debolezza con patti sociali dal colore pre-costituzionale, tende verso una deriva aziendalista dove solidariet assume nuova forma e diventa quella tra lavoratori/soldati di un esercito/azienda contro altri lavoratori/soldati di un'altro esercito/azienda - e progressivamente perde contatto sia con la parte pi viva ed attiva del mondo del lavoro che con quella pi precaria e povera di tutele. E intanto ''la politica'' resta a guardare. A volte con passiva indifferenza, altre volte facendo il tifo per un soggetto o il suo avversario, ma sempre senza un punto di vista autonomo, priva com' di una cultura politica autonoma innervata nella conoscenza della realt sociale proiettata alla sua trasformazione. una politica piccola piccola, senza occhi sull'evoluzione della realt sociale, senza spina dorsale davanti ai poteri forti, senza cuore e senza sistema nervoso, che nulla pu realmente cambiare se non rimette il prprio baricentro nel lavoro; e forse, in questo anno zero della politica italiana, sarebbe sufficente ispirarsi alla Costituzione, che nei suoi principi fondamentali ci dice quello che la Repubblica deve essere, ma anche quello che deve e pu diventare. La rappresentanza politica del lavoro non si declama, ma si pratica, aggiornandone le forme e le prassi democratiche. Ma dov' il luogo in cui il lavoro, atomizzato dall'economia e manganellato dalle leggi, pu trovare lo spazio comune per agire il proprio riscatto? Pu forse essere nel sindacato, di sicuro non nelle attuali forme della politica. Forse ce lo dobbiamo reinventare, di certo non dobbiamo dimenticarne l'esigenza vitale. I partiti tra leaderismo e comitati elettorali Negli ultimi anni, le strutture partitiche si sono talmente trasformate da perdere la loro fisionomia originaria. L'avvento del sistema maggioritario (in tutte le varianti che si sono susseguite dal 1993), il berlusconismo e in campo opposto e speculare lindigeribile parentesi veltroniana, hanno determinato un'accelerazione verso uno schema bipolare dove tutti si somigliano e dove sembra non
esservi posto per laffermazione delle ragioni di una parte. Fotografando la situazione odierna, se il centrodestra accusa i limiti del partito personalistico tout court e, perduta la credibilit del capo, sembra avviarsi inesorabilmente verso una nuova e definitiva diaspora, dall'altra il centrosinistra paga il prezzo, mai tanto salato come in tempo di crisi, di un Partito democratico sprovvisto didentit, programma e punti di riferimento sociali. Nato con la fascinazione di poter rappresentare tutti (padroni e lavoratori, produttori e consumatori, ricchi e poveri), il Pd si trova oggi a fare i conti con la propria ambiguit e di fronte alla concreta possibilit di un nuovo rassemblement neo-centrista: esso pare aver rinunciato, insomma, ad un pensiero riformista forte, riuscendo ad immaginarsi solo come una componente moderata dello scacchiere politico. Volendo usare le categorie della prima repubblica, come se il Pd avesse ereditato solo i limiti dei due grandi partiti di un tempo: il sistema correntizio della Dc e, bene che vada, le percentuali di voto del Pci, ben al di sotto della pretesa vocazione maggioritaria: questultima, del resto, somiglia pi che altro al vecchio vizio di liquidare ogni cosa alla propria sinistra, vizio tanto pi grave e incomprensibile se si pensa al progressivo movimento che il PD ha compiuto verso il centro. Rimangono, invece, sin troppo forti nell'area del centrosinistra l'Idv e il movimento 5 stelle di Beppe Grillo. Sorti entrambi dal ceppo dell'antipolitica giustizialista, i due soggetti hanno preso nel tempo strade diverse e, per vero, decisamente confuse. Mentre il primo oscilla di continuo tra il centrismo-liberale e il giacobinismo anti-berlusconiano, il secondo vagheggia nuove utopie di societ verde e depurata dai conflitti sociali, a met strada tra la citt del sole di Campanella e un incubo orwelliano. Talvolta si dice, dei giovani grillini che popolano i social network, raccolgono le firme sui progetti di legge, ed animano tra gli altri le campagne referendarie ecc. che, prima o poi, ce li troveremo accanto. Eppure se il rossi e neri: tutti uguali diverte e convince assai meno della battuta di un film di Moretti, lidea di sostituire la Tekn alla politica davvero il peggiore tra i segni dei tempi. Si tratta di unidea che deve, anzi, essere avversata e combattuta da tutti coloro che non credono alla neutralit dei problemi ed ancor meno credono alla neutralit delle loro soluzioni. Giacch la politica innanzitutto questo: scelta di un punto di osservazione, esercizio di un punto di vista e presa di parola pubblica di una parzialit. Ma sul punto torneremo ancora molte volte. C', infine, Sinistra Ecologia e Libert, il quasi-partito guidato da Nichi Vendola. Diciamo subito che, assai pi del partito, il suo segretario ad aver catturato l'attenzione e l'interesse dei media e del popolo del centrosinistra in vista della costituzione della nuova coalizione antiberlusconiana e della sua leadership. Ebbene, se per certo non basta Nichi e, si badi, serenamente lo dice chi ha scelto discrivere la sua figura nel proprio dna, a partire dal nome ancor meno pu bastare Sel,
che fa i conti, di continuo, con la propria insufficienza e inadeguatezza rispetto al cantiere aperto della sinistra che pure si propone di costruire. Pi in generale, e in maniera trasversale a entrambi gli schieramenti, i partiti tendono a diventare contenitori confusi, la cui forma determinata, volta a volta, dalla mera contingenza o dal timbro di voce del capo, oppure assumono le vesti di comitati elettorali capaci di svolgere, nella migliore delle ipotesi, la propria funzione nei soli momenti di mobilitazione elettorale, come catalizzatori di consensi. Salvo mantenere, assai gelosamente, il monopolio della decisione politica. Mentre il Pd sta smantellando, pezzo a pezzo, la preziosa struttura ereditata dal Pci, unanomalia sembra esser costituita dalla Lega, il cui livore rancoroso e razzista conserva il raro privilegio di abitare territori, quartieri, sezioni e feste popolari, rendendola, soprattutto al Nord, un avversario insidioso. Il modello largamente prevalente, alle pi diverse latitudini, comunque quello leaderistico, solo in parte spiegabile col funzionamento del sistema elettorale. Tale modello, oggi al potere nella sua variante demagogica e populista, trova infatti pi profonde ragioni. Esse albergano per un verso nel meccanismo di funzionamento della democrazia mediatica che c toccato di vivere, per laltro nel vuoto didee che lascia spazio al personaggio e nel sistema dimmedesimazione che soppianta il senso dappartenenza. Quanto a noi, si tratta forse dirrobustire un leader? O piuttosto di mettere a valore le sue doti per riaprire un discorso, una partita, per lappunto, fatta di idee e gambe sulle quali marciare? Detto in termini espliciti, il populismo dolce di Nichi (non voti ma volti) la nostra condanna o pu essere una risorsa per impegnare teste e corpi nella costruzione di una nuova casa comune? Movimenti, comitati e Fabbriche di Nichi Si conviene comunemente sull'idea che la caduta del Muro di Berlino abbia sancito il declino della forza lavoro globale, l'avvento dell'era post-mercato e il collasso della vita civica. Citando una serie di casi di declino del capitale sociale (ci sono sempre pi giocatori di bowling ma sempre meno associazioni di giocatori di bowling), Robert Putnam ipotizzava qualche tempo fa che la liquida societ postmoderna si stava sempre pi individualizzando a causa delle nuove tecnologie della conoscenza, ineluttabilmente divenute tecnologie della solitudine. Eppure, a distanza di qualche anno da quelle catastrofiche previsioni, si assiste oggi ad una nuova e straordinaria stagione di partecipazione collettiva. I tratti comuni dei nuovi movimenti apparsi sulla scena politica italiana sono la critica al decisionismo e alla delega politica, nonch la richiesta di democrazia partecipativa e la battaglia per i beni comuni. Lo era il voi G8 noi 6 miliardi di Genova, lo sono oggi i movimenti studenteschi anti-Gelmini, i No Tav, i precari de il nostro tempo adesso, i comitati referendari, le donne del se non ora, quando?. Lo siamo noi, delle Fabbriche di Nichi che abbiamo, non per caso, attraversato queste esperienze. Storie e vicende molto diverse luna
dallaltra, ma tutte caratterizzate da una forte capacit di mobilitazione che si nutre della necessit di riempire il vuoto politico lasciato dai partiti. Delle Fabbriche ci tocca dire, bon gr mal gr, qualcosa in pi. Ebbene, pensiamo abbiano giocato un ruolo importante, a tratti persino strategico, nella presa di contatto con una nuova generazione post-ideologica e forse, almeno in certa misura, post-politica. Inutile dire che ci costituisce, ad un tempo, il loro principale punto di forza ed il loro limite pi grande. Nate come casse di amplificazione della narrazione vendoliana, le Fabbriche hanno mosso i primi passi sul terreno delle conteste elettorali, senza mai accettare, peraltro giustamente, il ruolo di semplici comitati. Ciononostante, esse non hanno mai sciolto il nodo relativo alla propria natura attuale, e sopratutto, potenziale. Sicch, talvolta accaduto che implodessero una volta esaurita la spinta iniziale; talaltra, invece, quando la Primavera pugliese stata digerita e declinata sui diversi territori, tributando la giusta attenzione agli statuti di luogo, il discorso vendoliano ha funzionato, sia come immaginario condiviso che come cassetta degli attrezzi per nuove pratiche e nuovi discorsi. Negli ultimi tempi le Fabbriche sono state oggetto di aspre critiche. Si parlato di antipolitica di sinistra, di berlusconismo al contrario e di azzeramento della pratiche di democrazia. Sono osservazioni da prendere sul serio, anche se spesso facile scorgervi il tentativo di delegittimare il mondo che si muove attorno a Nichi in un momento politico particolarmente incerto. Per parte nostra, riteniamo che le Fabbriche abbiano rappresentato ed ancora rappresentino un esperimento prezioso, se non altro in ragione della loro capacit dintercettare, in alcuni frangenti, quella domanda di cambiamento che non vuole, o non ha voluto, esprimersi nella forma del partito politico, ritenendo quello strumento profondamente inadeguato, almeno nella sua odierna fisionomia. Allo stesso tempo, chiunque scambi o abbia scambiato laltrui limite per la propria salvifica virt pecca dingenuit o di protervia: le Fabbriche non sono la nuova politica, n potrebbero esserlo, peraltro vincolate come sono al nome del leader. Il problema, semmai, capire quale pressione eserciteranno su Vendola affinch promuova un superamento di tutte le articolazioni e le strutture che gli sono prossime e quale ruolo giocheranno nel processo di costruzione di qualcosa di nuovo che ancora non c. Del resto, nel loro insieme, i movimenti che si sono affacciati, anche prepotentemente, sulla sfera pubblica in tempi recenti, si sono dimostrati insufficienti nellopera di ricomposizione e, ci che pi conta, orfani delle prerogative della decisione; laddove questa era invece possibile come nella felice vicenda referendaria il rischio che corrono i comitati quello di essere rapidamente riassorbiti e normalizzati, anche in ragione della natura di comitati di scopo. Un'ulteriore caratteristica di queste esperienze poi la mancanza di una forma che permetta di coniugare informalit organizzativa, rapidit nellassunzione delle decisioni e democrazia interna. Il privilegio dellinformalit espone spesso a derive leaderistiche ed oligarchiche che sottendono un problema di
rappresentanza, ancorch sottaciuto o buypassato. In conclusione, anche se abbiamo vissuto con convinzione la nostra esperienza di Fabbrica e soprattutto il contesto di mobilitazione e di lotta in cui si inserita, crediamo che non si possa postulare come salvifico un principio di autonomia del sociale. Qual futuro, dunque, per i comitati referendari? Quale sorte, per il coacervo di energie e saperi che hanno sostenuto Pisapia a Milano, Zedda a Cagliari, Amelia Frascaroli a Bologna? Cosa fare, oggi, delle Fabbriche di Nichi? Soprattutto, e pi in generale: dopo lanno che abbiamo alle spalle, come coniugare e in che forma, qui e ora, il terreno del sociale alla sfera del politico? _______________ II parte. Ricchezza del possibile (alias del partito nuovo e del suo profilo) Il bisogno di un nuovo corpo intermedio Abbiamo parlato delle insufficienze dei partiti, ma anche dei limiti che accusano movimenti, comitati ed altre forme di aggregazione politica come ad esempio le Fabbriche. Convinti che oggi pi che mai ci sia bisogno di coniugare sociale e politico, vorremmo qui tentare un esperimento azzardato: sforzarci di alludere, per una volta, ad alcune delle caratteristiche del nuovo soggetto che vogliono in molti, ma il cui profilo e i cui contorni nessuno si azzarda a disegnare. Cos, insomma, ci cui alludiamo quando precisiamo che non vogliamo fondare un partito, bens aprire una partita? Quando ci diciamo che non vogliamo un nuovo partito, semmai un partito nuovo? Abbiamo preso le mosse dalla costatazione che viviamo in una societ in cui il bisogno di rispecchiarsi nelle dichiarazioni dei leader ha sostituito la militanza ed il senso di appartenenza ad una comunit didee. Abbiamo visto, per, che nell'Italia del berlusconismo e della pseudodemocrazia mediatica i nuovi movimenti hanno introdotto significativi elementi di rottura anche sul terreno della produzione di egemonia. Lo dimostrano le rivoluzioni arabe e la vittoria ai referendum, che hanno viaggiato quanto mai sulla rete e sui social network , aprendo nuovi orizzonti di partecipazione e socializzazione, necessari e preziosi quanto la piazza. Oggi, a valle di queste esperienze, nel cuore della crisi economica che rischia di vederci soffocare in un clima mefitico dunit nazionale ed alla vigilia di una radicale e duratura ristrutturazione del quadro politico post-berlusconiano, dobbiamo chiederci come dare senso, corpo e continuit alle pratiche, ai saperi ed agli strumenti che abbiamo utilizzato. Resta da chiederci a quale soggetto non delegare la decisione politica, ovvero in quale soggetto incarnare il protagonismo sociale di una stagione viva, affinch la nostra parte possa riprendere forma politica, cambiando lordine delle cose. Definiamo questo problema come ricerca di un nuovo corpo intermedio, qualcosa che ancora non esiste, perch nessuna delle esperienze che abbiamo vissuto o attraversato assomma
tutte le caratteristiche e le qualit di un soggetto che si ponga, qui ed ora, allaltezza dei tempi e della sfida. La forma del corpo intermedio come insieme di vasi comunicanti Prima di immaginare la forma di nuovo soggetto iscritto nella sfera del politico, bene ricordare insieme a Zygmunt Bauman che una caratteristica del mondo liquido-moderno la ricerca di un enunciatore collettivo credibile. Se ci vero, un corpo intermedio adeguato alla fase deve probabilmente strutturarsi come insieme di vasi comunicanti, tale per cui quando un contenitore (comitati, associazioni, circoli, collettivi...) si riempie ed acquista valore, tutti gli altri vedono contemporaneamente crescere il proprio contenuto. L'allegoria serve a tratteggiare un soggetto multiforme, frutto di articolazioni e declinazioni plurali, e tuttavia capace, alloccorrenza quando lo scontro si accende di rovesciare allunisono, sulla scena pubblica, lintera energia di cui capace. Per far questo non basta con ogni evidenza un prezioso e necessario lavoro di collegamento tra ci che gi c. Occorre anche un grado zero per avviare una nuova ed imponente sfida comune. Nulla di pi difficile al tempo dellantipolitica di massa, laddove ciascuno edifica frammenti della propria identit sul terreno della diffidenza nei confronti di una forma della politica diversa, o apparentemente diversa, da quella che ha prescelto. Per superare questa diffidenza e ingaggiare il tema dellidentit ad un livello pi elevato occorrono combinazioni dure e felici che si guardano in faccia: da un lato la nuda vita alla catena di montaggio, con le pause che si riducono e lo straordinario comandato nel diciottesimo turno del sabato, dallaltro il Marx dei Grundrisse; lesproprio dellacqua pubblica misurato sulla vita dei propri figli e un nuovo discorso sul comune, oltre le categorie del privato e del pubblico statuale; esperienze di governo esemplari, come devono apprestarsi a divenire quelle dei nostri municipi, a partire da Milano e Cagliari, e dure ed esemplari lotte dopposizione, come spesso sono quelle che si affacciano nei territori in cui le mafie dettano legge; esperienze di sindacato territoriale che si pongono il problema di risolvere un problema, a partire da emergenza drammatiche come quella della casa, e progettazione urbanistica, approfondimento demografico, studio delle migrazioni, antropologia culturale dei nuovi municipi. C insomma bisogno di incontri e intersezioni virtuose tra biografie, bisogni, lotte, saperi, abilit e professionalit, raccolte, alimentate e proiettate in avanti da un ambizioso progetto di trasformazione radicale della vita e del mondo che la ospita. Bisogna, al tempo stesso, evitare come la peste ogni scorciatoia riduzionista: mettere allopera, piuttosto, una molteplicit di format, ambiti, contenitori, luoghi, tempi e approcci diversi, affinch sia possibile ingaggiare i pi e coinvolgere al meglio energie, idee, ragionamenti e progetti. Solo cos sar possibile, lentamente ma progressivamente, mettere a tema la questione della produzione di una nuova classe dirigente a
sinistra. Solo cos sar possibile coniugare la velocit operativa e la concretezza, con il progetto di lungo corso cui non abbiamo intenzione di rinunciare: non il progetto di tutti, ma il progetto di una parte, quella che crede ancora che un altro mondo sia possibile. Venendo alle domande che pesano come macigni, si pu, insomma, immaginare qualcosa di diverso dalla forma partito che abbiamo conosciuto, senza rinunciare alla forma politica che organizza una parte, gettandola a guerreggiare, nella storia, contro il proprio destino? possibile pensare ai centri sociali, ai centri studi, alle scuole di citt, a porzioni di camere del lavoro, a comitati di lotta e di quartiere, a social network, alle Fabbriche di Nichi e, auspicabilmente, alle Fabbriche di citt come sezioni parigrado di un partito nuovo? possibile, in parole povere, declinare la propria militanza sul terreno del politico, senza vergognarsi dimpiegare la forma nobile del partito? Il corpo intermedio come voce narrante In una raccolta di contributi pi o meno recenti datata 2011, Mario Tronti insiste sulla futilit della discussione sulle forme della politica se a questa non si accompagna un immaginario di trasformazione radicale della societ. Ecco: una delle grandi sfide di un corpo intermedio allaltezza dei tempi non pu che essere quella di declinare una nuova narrazione, non come contesa sul piano della dialettica politica, dellaffabulazione o, peggio, della demagogia, bens come costruzione di egemonia, appartenenza e spinta alla trasformazione della societ. Del resto, la narrazione immaginario collettivo della tradizione declinato al presente. Senza la parole non si possono scrivere gli obiettivi e oggi pi che mai forte la domanda di un nuovo vocabolario condiviso ed egemonico in cui far confluire il lessico della politica contemporanea: globalizzazione dei diritti, sostenibilit ambientale, cittadinanza e beni comuni. Un'operazione linguistica, la cui performativit risiede nella capacit di dare forma e tangibilit al percorso attraverso la parola pronunciata e messa in atto, in forma, in pratica, in lotta; un discorso che non descrive, perch racconta e quindi rende emotivamente partecipi, e che non deforma i contorni del reale, magari cavalcando la paura. Appartengono a questa seconda categoria le retoriche dell'individualismo o delle piccole patrie che hanno caratterizzato la politica italiana dell'ultimo decennio: leghismo, antipolitica e supermachismo berlusconiano. Narrazione e populismi divergono quindi, in ultima analisi, sul banco della volont e dalla capacit della prima non dei secondi di essere motore di conflitto sociale per la trasformazione collettiva della realt, in nome di un modello di sviluppo, oltre che di un modello culturale, alternativo. Le domande non sono mai indiscrete. Le risposte, talvolta lo sono. Giungiamo cos al termine di un itinerario di ragionamento collettivo che ci ha portati a lambire le
forme della politica italiana di oggi e a chiederci se sia possibile immaginare una via d'uscita plurale e, al contempo, congiunta. La ragione che ci ha spinto a intraprendere una riflessione durata alcuni mesi (e qui proposto in forma ridotta), al fondo un senso di generale insufficienza: dei partiti e di Sel, in particolare, l'organizzazione fondata e diretta da Nichi Vendola, delle Fabbriche di Nichi e degli altri movimenti e corpi intermedi. Ebbene, a Sel, alle Fabbriche, alla Fiom-Cgil, ai movimenti in lotta per i beni comuni, siano essi lacqua, la terra, il sapere o il municipio, chiediamo di esprimersi, per una volta, sulla forma politica, non sul contenuto, ammesso che una distinzione debba o possa esservi, al fondo. Perch sui contenuti, per dritta o per storta, ci siamo trovati molte volte, sulla forma mai : n prima n, tantomeno, dopo il crollo del muro, n prima n dopo Genova, n prima n dopo le primavere pugliesi, arabe e italiane. Che fare, oggi, di tutti noi ? Come riaprire la partita, perch non si gi persa in partenza ?