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ORAZIO

“CARPE DIEM”

Si tratta di una delle più famose poesie in lingua latina, se non la più famosa
insieme ad “Odi et amo” di Catullo. Carpe diem non è il titolo scelto da Orazio, in
quanto non usava intitolare i testi poetici all'epoca, ma è il nome con cui questa
ode è ricordata.
Si tratta di un'ode del poeta Orazio, un giovane poeta, che scrisse questa ode
nella sua villa sul Mar Tirreno. La scrisse probabilmente in una giornata
invernale, tempestosa e fredda, in cui il mare è agitato e scosso dalle onde.
Orazio si trova in questa villa con la sua amata, con cui è appena stato in
intimità. Nella casa c'è un clima di calore e protezione, che contrasta con la
bufera che sta dirompendo fuori. La donna è chiamata dal poeta Leuconoé, non
nome reale, ma soprannome che indica la sua carnagione bianca. Leuconoé sta
giocando con i dadi (oroscopi con cui si cercava di scrutare il futuro).
La donna, giocando con i dadi, tenta di conoscere il futuro della sua relazione con
Orazio.
Orazio la rimprovera dolcemente invitandola a vivere l'oggi e a non cercare di
scrutare il futuro.
Questo testo poetico è associabile al “Canto notturno” di Leopardi. Orazio
avrebbe detto a Leopardi: vivi l'oggi come se fosse l'ultimo, non guardare a ciò
che sarà in futuro. Orazio consiglia di rinunciare alla propria coscienza, vivendo
solo il presente, così come facevano le pecore del testo poetico di Leopardi.

Tu ne quaesieris, scire nefas, quem mihi, quem tibi Non chiederti, Leuconoé, non è
lecito sapere, quale fine gli dei
finem di dederint, Leuconoe, nec Babylonios
abbiano assegnato a me e a te e non
temptaris numeros. ut melius, quidquid erit, pati. scrutare gli oroscopi babilonesi.
Quanto è meglio accettare quel che
Seu pluris hiemes seu tribuit Iuppiter ultimam,
sarà. Che ti abbia Giove assegnato
quae nunc oppositis debilitat pumicibus mare molti anni (inverni), o che questo
sia l'ultimo, che ora affatica il mar
Tyrrhenum: sapias, vina liques, et spatio brevi
Tirreno contro gli scogli: sii saggia,
spem longam reseces. dum loquimur, fugerit invida mesci vini, e impedisciti di sperare
per il futuro in cambio di un tempo
aetas: carpe diem quam minimum credula postero.
breve. Ora parliamo, e intanto fugge
il tempo invidioso.
Cogli l'attimo, credi al domani
quanto meno puoi.
Tu: Si inizia con un invito, un suggerimento che Orazio fa a Leuconoé. Orazio
inizia con un pronome personale che crea una distanza dal poeta, tu e non io....
tu, che pensi e speri in modo diverso da me.

Ne quaesieris: congiuntivo esortativo, costituito dalla negazione ne + cong.


perfetto di quaero (quaero, -is, quaesivi / quaesii, quaesitum, -ere). Il
congiuntivo esortativo esprime una esortazione o un ordine.

Scire nefas (sottinteso est): gli dei non permettono di saperlo (da ciò deriva la
parola italiana “nefasto”: giorno che gli dei hanno indicato come inadatto a
prendere decisioni buone, non permesso dagli dei).
saperlo è nefas (non lecito) – nefas: sostantivo indeclinabile, composto di ne-
negazione e fas, l’espressione della volontà divina, il precetto divino, ciò che è
lecito sotto il profile religioso, mentre ius è ciò che è giusto e lecito sotto il profilo
giuridico

Quem: iniziano due interrogative indirette. La prima quem mihi ha sottinteso – in


comune con la seconda – soggetto e verbo (di dederint). Quem è aggettivo
dimostrativo che starebbe con finem. Invece Orazio lo isola dal suo sostantivo di
riferimento, per ottenere un effetto si suspance. Enjembement che crea attesa.

Finem: destino, sorte della coppia. Finis, is: sostantivo scelto da Orazio, che vuol
dire “fine” = destino di morte. Orazio avrebbe potuto scegliere sors o fortunam,
termini (media vox) che possono indicare sia una sorte positiva che negativa;
invece sceglie finis, che ha un significato inequivocabile, cioè fine, morte. Forse
Orazio intuisce che sicuramente prima della fine biologica ci sarà la fine del loro
rapporto. C'è come il presentimento di qualcosa che sta per finire.

Dederint: più che perfetto congiuntivo (dederint, da do, das, dedi, datum, dare).

Di: nominativo plurale di deus. È – assieme a «Fortuna, Caso, dio, Giove,


Necessità» – uno dei vari nomi con cui Orazio indica il capriccioso potere cui
sembrano essere subordinati uomini ed eventi.

Mihi: Perché Orazio usa “Mihi” et “tibi”, a me e a te, e non nobis, a noi (dativi di
vantaggio)? Perché ciascuno ha il suo destino, non esiste un destino cumulativo.

Leuconoe: vocativo.

Nec Babylonios temptaris numeros: secondo congiuntivo esortativo coordinato


al primo. Perché Orazio usa il verbo tempto e non video? In questo verbo c'è
l'idea di una sfida agli dei, che hanno già segnato, scritto il tuo destino. Questa
sfida era chiamata dai greci Ybris = sfida, che poi provoca la reazione negativa
degli dei. Non è proprio degli uomini conoscere il proprio destino. Orazio ha
paura che Leuconoé si interroghi sul futuro, un po' per non attirarsi la
maledizione degli dei, un po' perché non è lecito interrogarsi sul futuro, e un po'
per non pensare al futuro. La donna pianifica, l'uomo invece è più portato a
vivere il momento. Per la donna in generale è usuale legare la sessualità
all'affetto, alla dimensione affettiva, e quindi legare il rapporto sessuale ad una
progettazione affettiva di coppia, mentre per l'uomo non è così, l'atto sessuale si
consuma nel presente.

Ut melius, quidquid erit, pati: quanto è meglio accettare qualsiasi cosa sarà.
Sottinteso est.
Quidquid: indefinito relativo (n. di quisquis): introduce la proposizione relativa q.
erit.
Erit: futuro del verbo essere.
Pati: infinito del verbo patior. Patior vuol dire innanzitutto soffrire, provare dolore
(da lui deriva il termine italiano “patire”), ma vuol anche dire farsi carico di un
dolore, sopportare un dolore, e di conseguenza accettarlo. Orazio dunque usa
questo termine per indicare accettazione, sebbene avrebbe potuto usare accipio.
Dunque usa questo verbo per indicare un duplice significato: patire e accettare
(la pazienza: accettare di sopportare qualcosa). Orazio sta dicendo all'amata che
qualsiasi cosa si sta accettando, questo è un dolore. Nel futuro c'è il dolore e
questa è una certezza.

Seu … seu: sia che... sia che. Seu introduce due coordinate disgiuntive. Orazio
vuole indicare che il nostro destino è in mano agli dei.

pluris hiemes: molti inverni. Pluris è acc. pl. (= plures). Inverno (in lat. è parola
femminile) è una figura retorica, una metonimia, si prende una parte per
indicare il tutto. Non è un caso che Orazio per indicare l'anno scelga l'inverno, in
quanto questo è la parte più fredda, dura e triste dell'anno.

seu tribuit: perfetto di tribuo.

Iuppiter: Giove, soggetto di questo periodo.

Ultimam: Orazio mette questa parola a fine verso non a caso. Vuole dare forza a
questa parola. Orazio ci fa finire la lettura e porre l'attenzione su questa parola,
così come precedentemente era stata isolata la parola finem.

quae nunc oppositis debilitat pumicibus mare Tyrrhenum: immagini di fatica, di


durezza, di lotta.

Domande
1. Da cosa deriva il verbo sapio?
2. Riflettere sui due sintagmi spatio breve e spem longa che sono in
enjembement. Perché Orazio anche in questa occasione usa l'enjembement?

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