Oltre all’intervista di Lukács che pubblichiamo, il dibattito culturale ed ideologico in Ungheria ha
registrato nelle ultime settimane una importante relazione di György Aczél, segretario del CC del POSU, davanti all’accademia politica del Partito. Ne diamo qui di seguito un resoconto delle parti più significative. «La tesi della coesistenza pacifica — afferma tra l’altro Aczél — rappresenta una categoria politica e non una categoria ideologica che rispecchi una visione generale del mondo. Occorre dire e ribadire chiaramente — e far prevalere nella pratica — questo concetto fondamentale: fra l’ideologia del proletariato e l’ideologia della borghesia non esiste e non vi potrà mai essere coesistenza pacifica; fra marxismo ed antimarxismo non esiste e non vi potrà mai essere coesistenza pacifica». Aczél affronta poi i problemi della cultura e della democrazia socialista. «In questi campi — egli sostiene — si notano tendenze che sono volte a togliere al concetto di democrazia socialista il contenuto socialista, riducendo così il tutto ad una democrazia di carattere indefinito, vicina alle espressioni della democrazia borghese. Sforzi di questo genere si sono manifestati nel passato e si manifestano anche oggi. Questa, ad esempio, è la posizione del revisionismo. Per noi si tratta, invece, di rinforzare il socialismo con la democrazia e non di rinforzare la democrazia di tipo borghese a scapito del socialismo. D’altra parte respingiamo la posizione di coloro che considerano, nelle circostanze attuali, che la democrazia socialista significhi un allentamento della dittatura del proletariato. Tutto questo discorso deve riflettersi sul campo culturale nel senso che noi vogliamo che gli artisti si rendano consapevoli del fatto che la libertà e la responsabilità sono elementi inseparabili. Per questo motivo dobbiamo definire in modo più chiaro le caratteristiche del nostro stile di lavoro culturale. Stabilire cioè i princìpi di direzione, di trasmissione, di critica, dibattito, appoggio, tolleranza, divieto». «Nella vita culturale — prosegue Aczél — la critica marxista rappresenta un elemento indispensabile della democrazia socialista. E noi siamo per le discussioni e per il libero scambio delle idee; ma non desideriamo appoggiare i battibecchi o le invettive; non siamo per gli sfoghi o per gli pseudodibattiti che suscitano sensazioni di poco valore. Vogliamo, in primo luogo, che i marxisti sollevino i problemi centrali della nostra epoca, che prendano posizione nei dibattiti più importanti. E a tal proposito noi consideriamo tema di discussione certe vedute del compagno György Lukács». Aczél ricorda come nell’estate scorsa il POSU abbia riammesso Lukács fra i membri del Partito. «Su alcune questioni però — prosegue Aczél — noi non siamo d’accordo con il compagno Lukács. Del resto è stato lui stesso a ricordarci che come ideologo ritengo mio dovere esporre decisamente le mie vedute. E se poi queste suscitano discussioni, tanto meglio». Tali affermazioni erano contenute nell’intervista di Lukács all’organo del Partito Népszabadság del 25 dicembre 1967. «Questa intervista — ricorda Aczél — suscitò alcune polemiche: alcuni hanno detto che il giornale non aveva formulato in maniera decisa le domande e non aveva poi offerto dettagliate considerazioni; altri, invece, hanno criticato il tono polemico dell’intervista». Ma secondo Aczél non è questo il problema. Una discussione con Lukács — egli afferma — è desiderabile ed inevitabile. E prospetta i seguenti punti concreti: 1) «In quella intervista, Lukács parla della necessità di una rottura fra il periodo attuale e quello anteriore al 1956; fra l’attuale stato della nostra struttura economica e la struttura precedente. Egli mette l’accento unilateralmente sulla rottura e non mette sufficientemente in luce la continuità. Dobbiamo dire a tal proposito — afferma Aczél — che fra il culto della personalità (e le deformazioni che ne derivano) e il movimento odierno che funziona con il ritorno delle norme leniniste non c’è nessuna continuità. Noi, infatti, cerchiamo di fare in modo che attualmente non vi sia alcuna continuazione o continuità delle illegalità. Ma dobbiamo pur dire che negli anni in cui il culto della personalità si affermava causando perdite tragiche, è nato e si è sviluppato con grande forza un nuovo sistema sociale nel nostro paese: il socialismo. E per il socialismo milioni e milioni di persone hanno lavorato con impegno ed abnegazione. Ed allorché le deformazioni derivanti dal culto si sono accentuate, il socialismo non si è fermato, ma è andato avanti. Perché, e su che base, dovremmo ora dire alla generazione che ha portato il non piccolo peso di quegli anni (che ha costruito e realizzato grandi cose, che ha creato le basi sulle quali poggia il nostro lavoro odierno) che il lavoro onesto di quei periodi è tutto sbagliato e deve essere buttato via? Perché dovremmo parlare con paura, e solo in secondo piano, dei risultati di quei tempi, quando è chiaro a tutti che abbiamo messo da parte e superato tutto quello che era sbagliato? E lo stesso discorso vale per i mutamenti previsti con il nuovo meccanismo di direzione economica. Anche la storia dell’Unione Sovietica — prosegue Aczél — è una dimostrazione di continuità e del suo sviluppo ha parlato bene anche il compagno Lukács. Questa continuità ha reso possibile anche la discontinuità, ovverosia l’eliminazione dei vecchi errori presenti nel socialismo. Il compagno Lukács, ad esempio, polemizzando con i commentatori borghesi sul “culto della personalità” ha scritto, in un suo libro, che “per noi quello che conta è la prospettiva dello sviluppo generale e, visto da questo punto, l’arrestarsi oggettivo e soggettivo dei decenni staliniani, in definitiva, non è decisivo. Perché nonostante tutto ciò la linea principale era il rafforzamento ed il consolidamento del socialismo”. L’espressione di Lukács “non decisivo”, qui, naturalmente, va interpretata nella prospettiva della storia mondiale; e noi giudichiamo positiva questa considerazione. Certamente il compagno Lukács contribuirebbe al giusto orientamento dell’opinione pubblica nazionale e internazionale se le conseguenze della considerazione da noi citata egli le concordasse con la posizione sulla continuità e sulla rottura». 2) Lukács ha più volte affermato che «uno dei compiti centrali dell’arte odierna sarebbe quello di fare i conti, in modo conseguente, con l’epoca stalinista». «Noi — afferma Aczél — non riteniamo che le espressioni epoca stalinista e stalinismo siano formulazioni giuste. Perché quell’epoca stalinista (come la definisce il compagno Lukács) era anche l’epoca della edificazione del socialismo, della difesa della causa dell’uomo. Dovremmo, accettando la definizione di Lukács, supporre che le grandiose opere di edificazione e il disinteressato entusiasmo e sacrificio di decine di milioni di uomini siano identificabili con le deformazioni del periodo del culto. Lo stesso Lukács nell’intervista al Népszabadság dichiara che: “In qualsiasi paese socialista è impossibile scrivere un vero romanzo sull’uomo d’oggi senza far presente l’aspirazione a farla finita con l’epoca stalinista...”. Alle cose dette prima — prosegue Aczél — io aggiungo che è impossibile scrivere un vero romanzo, un romanzo socialista sull’epoca precedente e sulle deformazioni di allora, senza la profonda comprensione degli sforzi del presente, dell’insieme dell’epoca, dei conflitti dell’uomo del presente e del presente stesso. Conflitti, aggiungo, che non sono comprensibili solo sulla base del culto della personalità. La raffigurazione del presente richiede, come condizione indispensabile, quella di interpretare in modo giusto e di cogliere, nel suo insieme, il passato. L’illustrazione reale del passato, invece, ha come condizione indispensabile quella di interpretare e cogliere, in modo giusto, il presente. Questi sono dei compiti correlativi la cui sottolineatura unilaterale lede la verità dialettica dell’insieme. Non si tratta, quindi, di voler sconsigliare gli artisti a trattare le deformazioni, gli errori del passato o del presente. Al contrario: li vogliamo persuadere a raffigurare la completa verità. Sotto questo aspetto siamo pienamente d’accordo con quanto ha già detto Lukács e cioè che la vera missione della letteratura e dell’arte è quella di capire e far capire i grandi problemi umani di un’epoca». La relazione di György Aczél dedica tutta la parte conclusiva agli aspetti della politica culturale. «Nel corso del lavoro teorico e pratico è risultato chiaramente che il marxismo non fruisce in Ungheria di una posizione di monopolio nel campo della ideologia e della cultura. Il nostro obiettivo, del resto non è quello di creare una condizione di monopolio, ma quello di rafforzare il carattere di guida e il ruolo dominante dell’ideologia marxista. È stato così profondamente errato, in passato, cercare di creare condizioni di monopolio. E a tal proposito è bene ricordare che noi crediamo al dibattito, allo scontro delle idee. Alle parole risponderemo con le parole, alla discussione con la discussione, al pensiero con il pensiero, alle opinioni con le opinioni. Ma se qualcuno, con il pretesto del dibattito dovesse organizzare la violenza, allora noi opporremo la violenza. Al lancio di sassi non risponderemo con il lancio del pane». «Nel passato — prosegue il dirigente del POSU — ci siamo trovati di fronte ad una situazione di monopolio forzato del marxismo. È sorto così uno pseudo-marxismo. E i rappresentanti di ideologie borghesi o piccolo-borghesi ritenevano opportuno mascherare le loro posizioni con l’uso della terminologia marxista e con citazioni di testi marxisti. Ed infine la situazione di monopolio ha ostacolato il vero sviluppo del marxismo; la mancanza di concorrenza ideologica ha disarmato i pensatori». Aczél si sofferma su due fenomeni estremi dell’attività artistica: sulle opere troppo cariche di elementi di politica quotidiana e su quelle totalmente apolitiche, che non tengono cioè conto degli interessi politici comuni di tutta la società. «La vecchia interpretazione dogmatica del carattere comunista dell’arte socialista — afferma Aczél — concepiva l’esigenza politica solo come una esigenza politica giornaliera. Noi invece siamo del parere che l’arte sulla base dei fatti della vita (compresa la vita artistica) deve essere in armonia, in primo luogo, con le tendenze generali del partito e non immancabilmente, con l’attualità giornaliera. In altre parole: nei rapporti fra la politica socialista e l’arte socialista, la politica è presente, in modo decisivo, come concezione strategica e non come concezione tattica. Questo non significa che per l’artista sia un fattore indifferente l’andamento tattico della politica socialista, ma decisivo è quello strategico. Tra politica quotidiana e strategia non deve esserci un abisso: i loro rapporti sono dialettici, la loro esistenza non è indipendente, la loro influenza è reciproca». «Il falso estremo della eccessiva attualizzazione e della eccessiva politicizzazione non può essere sostituito dal falso estremo della indifferenza politica». «L’attività letteraria ed artistica non può essere giudicata solo secondo le leggi della politica. Ma — aggiunge Aczél — occorre rompere con l’estetismo aristocratico ancora esistente in molte persone. E proprio per entrare in polemica con certe tendenze poetiche e letterarie Aczél cita alcuni versi di Attila József carichi di significato politico, di spirito di ribellione. «Questa poesia — commenta — sprigiona contemporaneamente amore e politica. E per questo perde forse il suo valore estetico? No. Sono degli esteti sordi coloro che si rifiutano di comprendere la verità di tali questioni. E si badi bene: noi non diciamo che nella letteratura deve dominare lo stile che si collega alla politica giornaliera. Chiediamo però ai nostri artisti di far prevalere con i propri mezzi quel minimo spirito di partito determinato dalla condanna dell’imperialismo, dello sfruttamento, dell’oppressione nazionale, del vecchio fascismo genocida e del neofascismo. Chiediamo una precisa presa di posizione in favore della vita dell’uomo». Concludendo, Aczél prende posizione sul problema dello «stile» e del «gusto» sottolineando che su tali questioni non può essere espresso né un parere di partito né di governo. Occorre pertanto giudicare le opere di volta in volta. «Nessuno può essere tacciato di settarismo, revisionismo, nazionalismo eccetera, per il semplice fatto di aver preso posizione in favore o contro una certa opera. Del gusto individuale non facciamo una questione politica. Ma teniamo presente che il gusto, sotto l’aspetto sociale è già un problema comune: dobbiamo influenzarlo e, se possibile, formarlo».