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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI GENOVA

FACOLTÀ DI MAGISTERO

Corso di Laurea in Pedagogia

IL LINGUAGGIO DELLA BELLEZZA

UNITÀ, RELAZIONE, MISTERO


NELL'ESTETICA DI AGOSTINO

Tesi di laurea di: Relatore:

FILIPPO MESSINA Prof. ETTORE BONESSIO DI TERZET

ANNO ACCADEMICO 1993-1994


SOMMARIO:

AVVERTENZA 3

PREMESSA 6

PARTE PRIMA: IL PROBLEMA DELLA BELLEZZA

Capitolo I: La bellezza di Dio 9

Capitolo II: La bellezza del mondo 29

Capitolo III: La bellezza dell'uomo 42

PARTE SECONDA: LA TEORIA DELLA SENSAZIONE E IL


PROBLEMA DELL'ARTE

Capitolo IV: Il senso come strumento 57

Capitolo V: La concezione del sentire come atto


estetico 70

Capitolo VI: Il giudizio estetico 76

Capitolo VII: Il concetto dell'arte e la sua funzione 86

PARTE TERZA: SIGNIFICATO DELLA PROBLEMATICA


ESTETICA IN AGOSTINO

Capitolo VIII: Il linguaggio della Bellezza 99

2
BIBLIOGRAFIA 119

AVVERTENZA

Per le opere di Agostino si sono adottate le seguenti edizioni:

Confessioni, a cura di Roberta De Monticelli, GARZANTI, Milano, 1990.

La città di Dio, a cura di L. Alici, RUSCONI, Milano, 1984.

Il Maestro, a cura di E. Riverso, EDIZIONI BORLA, Roma, 1990.

De musica, De ordine, De moribus ecclesiae catholicae et de moribus


Manichaeorum, Retractationes, opere raccolte in Ordine, musica, bellezza, a
cura di M. Bettetini, RUSCONI, Milano, 1992.

De vera religione, in Agostino, Il filosofo e la fede, a cura di O. Grassi, RUSCONI,


Milano, 1989.

Contra academicos, Soliloquia, De immortalitate animae, in Opere di Sant'Agostino,


Vol. III, Nuova Biblioteca Agostiniana, CITTÀ NUOVA EDITRICE, Roma,
1970.

De libero arbitrio, De quantitate animae, in Opere di Sant'Agostino, Vol. III/2,


Nuova Biblioteca Agostiniana, CITTÀ NUOVA EDITRICE, Roma, 1976.

De Trinitate, in Opere di Sant'Agostino, Vol. IV, Nuova Biblioteca Agostiniana,


CITTÀ NUOVA EDITRICE, Roma, 1973.

De Doctrina christiana, in Opere di Sant'Agostino, Vol. VIII, Nuova Biblioteca


Agostiniana, CITTÀ NUOVA EDITRICE, Roma, 1992.

De genesi adversus manichaeos, in Opere di Sant'Agostino, Voll. IX/1-2, Nuova


Biblioteca Agostiniana, CITTÀ NUOVA EDITRICE, Roma, 1988.

Epistola 3, in Opere di Sant'Agostino, Vol. XXI, Nuova Biblioteca Agostiniana,


CITTÀ NUOVA EDITRICE, Roma, 1969.

Epistola 166, in Opere di Sant'Agostino, Vol. XXII, Nuova Biblioteca Agostiniana,


CITTÀ NUOVA EDITRICE, Roma, 1971.

3
In Iohannis evangelium Tractatus, In Iohannis epistolam ad Parthos, in Opere di
Sant'Agostino, Vol. XXIV, Nuova Biblioteca Agostiniana, CITTÀ NUOVA
EDITRICE, Roma, 1968.

Enarrationes in Psalmos 4,44, in Opere di Sant'Agostino, Vol. XXV, Nuova


Biblioteca Agostiniana, CITTÀ NUOVA EDITRICE, Roma, 1967.

Enarrationes in Psalmos 103, in Opere di Sant'Agostino, Vol. XXVII, Nuova


Biblioteca Agostiniana, CITTÀ NUOVA EDITRICE, Roma, 1976.

Enarrationes in Psalmos 144, in Opere di Sant'Agostino, Vol. XXVIII, Nuova


Biblioteca Agostiniana, CITTÀ NUOVA EDITRICE, Roma, 1977.

Sermo 103, in Opere di Sant'Agostino, Vol. XXX/2, Nuova Biblioteca Agostiniana,


CITTÀ NUOVA EDITRICE, Roma, 1983.

Sermo 241, in Opere di Sant'Agostino, Vol. XXXII/2, Nuova Biblioteca Agostiniana,


CITTÀ NUOVA EDITRICE, Roma, 1984.

Sermo 293, in Opere di Sant'Agostino, Vol. XXXIII, Nuova Biblioteca Agostiniana,


CITTÀ NUOVA EDITRICE, Roma, 1986.

Per le opere di Platone:

Dialoghi Filosofici, I, II, a cura di G. Cambiano, UTET, Torino, 1987.

Dialoghi Politici, I, a cura di F. Adorno, UTET, Torino, 1988.

Per le Enneadi di Plotino:

Enneadi, a cura di V. Cilento, LATERZA, Bari, 1947-1949.

Per i riferimenti biblici si è utilizzata:

LA BIBBIA DI GERUSALEMME, Edizioni Dehoniane, Bologna, 199110.

4
Dio ha fatto bella ogni cosa
a suo tempo,
ma Egli ha messo
la nozione dell'eternità
nel loro cuore,
senza però che gli uomini possano capire
l'opera compiuta da Dio
dal principio alla fine.

(Qoèlet 3, 11)

5
PREMESSA:

Ponendomi l'intento di avvicinarmi ad Agostino per cercare di mettere in


luce, nel suo pensiero, gli elementi che ne caratterizzano la problematica
estetica, sapevo che avrei dovuto tener conto di alcuni punti fermi. Questi, che
in alcuni casi mi si son presentati apparentemente solo come ostacoli da
superare, generalmente testimoniano, in realtà, la presenza sempre viva
dell'uomo-Agostino dietro gli scritti del filosofo-Agostino. Essi sono
l'orientamento teologico, che domina tutto il suo pensiero in tutte le sue
dimensioni e articolazioni; la non sistematicità, che prevale nella trattazione
degli argomenti estetici; l'intensità evolutiva del suo pensiero, che segue a volte
di pari passo, a volte con ritmo sfasato, il suo itinerario di conversione
interiore; la vastità della sua produzione, sia come numero di scritti, sia come
profondità dello scritto, per cui risulta veramente difficile poter affermare di
conoscere in modo esauriente il suo pensiero. Tenendo ben presenti questi
elementi e considerandoli come costanti del problema, è necessario precisare
che cosa si può intendere con il termine di "estetica" nel caso di Agostino. Egli
infatti non lo utilizzò mai, visto che all'epoca poteva al massimo indicare
qualcosa intorno alla dottrina delle sensazioni. I temi fondamentali da lui
trattati, che possono essere ricondotti all'estetica, sono il problema della

6
bellezza, che include sia le definizioni generali, sia le distinzioni tra Dio,
l'universo e l'uomo, la teoria della sensazione e del giudizio estetico, il
problema dell'arte.
Questa ricerca vuol essere non soltanto una esposizione della riflessione
agostiniana su queste tematiche, ma intende tentare di individuare quelli che,
secondo noi, possono rappresentare le linee e i denominatori comuni alle
diverse risposte che Egli si dà, interrogandosi su ciò che la bellezza rappresenta
per l'uomo, proponendo anche una chiave di lettura capace di avvicinarsi il più
possibile alla originale sensibilità estetica del santo d'Ippona.

7
PARTE PRIMA

IL PROBLEMA DELLA BELLEZZA

8
Capitolo I:

La bellezza di Dio.

"Noi non amiamo che le cose belle. Ma che cos'è bello? E che cos'è la
bellezza? Cos'è che ci seduce e ci attrae, nelle cose che amiamo? Perché se non
avessero qualche fascino e splendore non ci attirerebbero affatto"(1): con questi
interrogativi, che nella sua giovinezza Agostino pone a se stesso e ai suoi
amici, come ci racconta in questo brano delle Confessioni, egli ci confida uno
dei lati più forti e caratterizzanti la sua personalità: l'attrazione verso ciò che è
bello. Il riconoscersi appassionato della bellezza, tanto da affermare che,
oggetto del nostro amare, non è mai altro che ciò che è bello, lo induce a
chiedersi che cosa fa di una cosa una cosa bella, che cosa è la bellezza stessa e
che cosa c'è, insomma, dietro a ciò che amo perché bello. Leggendo le sue
opere, infatti, e in special modo le Confessioni, risulta evidente che egli deve
aver sempre portato dentro di sé, la consapevolezza di non potersi aspettare di
trovare delle risposte alle sue domande, che incatenassero la bellezza alle cose
____________________
(1) Confessioni, IV, 13.20, p. 117.

9
inanimate di questa terra o alle creature di questo nostro mondo. Egli deve aver
sempre sentito con certezza che ogni bellezza rimandava a qualcosa che era
altro da sé e non deve aver mai dubitato, quindi, nell'identificare la Bellezza
con Dio: "... mi sforzavo di intendere perfino te, Dio mio, meravigliosamente
semplice e immutabile, mediante quei dieci predicamenti, nella convinzione
che essi comprendessero assolutamente tutto ciò che esiste, quasi fossi tu pure
soggetto alla tua grandezza e bellezza, quasi queste fossero in te come in un
soggetto, al modo in cui ineriscono ai corpi. E invece tu sei la tua grandezza e
bellezza, mentre un corpo non è grande e bello per il semplice fatto d'essere un
corpo"(2). Se, dunque, non ha senso cercare la bellezza in sé come se una cosa
fosse Dio, una cosa il mondo e una cosa la bellezza, ma trovare Dio significa
trovare la bellezza e cercare la bellezza significa cercare Dio, solo una via
appare come via maestra all'orizzonte agostiniano: chiedersi come sia questo
Dio, da cui tutto trae origine e forma, chiedersi come fare esperienza di Lui.
"Ciò di cui in coscienza io non dubito, Signore, è che amo te. La tua parola mi
ha colpito in cuore, e io ti ho amato. Ma anche il cielo e la terra e tutto quello
che contengono mi dicono di amarti, e non cessano di dirlo a ogni uomo,
perché non ci sia scusa per nessuno. Anche se più profonda sarà la tua pietà
verso chi ne godrà, più sollecito il tuo perdono per chi vorrai perdonare:
altrimenti cielo e terra cantano le tue lodi ai sordi. Ma cosa amo, amando te?
Non la grazia di un corpo, non il fascino del mondo, non la candida luce amica
di questi occhi, non la carezza melodiosa dei canti, non il profumo dei fiori o di
balsami e aromi, non la manna e il miele degli abbracci e dei desideri carnali.
Non è questo che amo, quando amo il mio Dio. Eppure amo una sorta di luce,
una sorta di voce e di profumo e di cibo e una sorta di abbraccio dell'uomo
interiore, dove ogni cosa splende e risuona e profuma per l'anima, e da lei sola
si fa assaporare e stringere. Dove c'è luce non diffusa nello spazio, e musica
____________________
(2) Ibidem, IV, 16.29, p. 127.

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non rapita dal tempo e profumo che il vento non disperde e sapore che la
nausea non scema - e un abbraccio che la sazietà non scioglie. Questo è quello
che amo, quando amo il mio Dio"(3). Ecco che, contemporaneamente alla
consapevolezza che quello con Dio è un incontro intimo, che nasce e vive
dentro di noi, al momento di esprimere e di raccontare l'esperienza personale
di questa bellezza, le parole, i ragionamenti, le descrizioni lasciano
decisamente il campo alle immagini, come avviene ogni volta che un uomo
tenta di comunicare ciò che abita le profondità del suo essere, la sua interiorità.
E nonostante anche le immagini risultino inadeguate, Agostino vi si affida
frequentemente, sia per comunicare impressioni dirette di esperienze mistiche,
sia adoperando i metodi tradizionali della teologia negativa e positiva, la
negazione e l'analogia. Con questi strumenti si pongono delle immagini di
oggetti conosciuti, li si paragona a Dio o ad attributi di Dio, per affermare,
infine, la sua incomparabile superiorità su qualsiasi cosa o immagine sensibile.
Così avviene, ad esempio, nel caso di questa descrizione tratta dal Commento
all'Epistola di S. Giovanni: "Godremo dunque di una visione, fratelli, mai
contemplata dagli occhi, mai udita dalle orecchie, mai immaginata dalla
fantasia: una visione che supererà tutte le bellezze terrene, quella dell'oro,
dell'argento, dei boschi e dei campi, del mare e del cielo, del sole e della luna,
delle stelle e degli angeli; perché è a causa di questa bellezza che son belle tutte
le cose"(4). Si può convenire allora con quanto afferma Bettetini nella
introduzione alla sua raccolta di passi agostiniani sulla bellezza: "... la grande
sfida di Agostino forse è proprio in questo, nel tentativo di rendere attraverso le
immagini sensibili una bellezza ultrasensibile, oltrepassando l'analogia..."(5).
Dunque Agostino identifica Dio e bellezza, testimonia che per godere della
____________________
(3) Ibidem, X, 6.8, p. 351.
(4) In Iohannis epistolam ad Parthos, 4.5, p 299.
(5) M. Bettetini, Agostino, Ordine, musica, bellezza, Milano, 1992, p. XLIII.

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bellezza, l'uomo deve amare Dio, ma, nel suo sforzo di comunicare agli altri il
proprio incontro personale con essa, rimarrà sempre, almeno in parte,
insoddisfatto, perché nell'esprimerlo incontrerà l'inesprimibile. A questo punto,
però, è lecito chiedersi come Agostino possa sostenere proprio il primo
passaggio, che risulta essere il cardine di tutta la sua filosofia del bello. Non è
certamente accettabile, infatti, credere che egli affermi l'identità di Dio e
bellezza, basandosi solo su di un fondamento soggettivo di natura
sentimentalistico-emotiva. Ritenere questo vorrebbe dire, per lo meno, non
avere ben chiari i termini del problema estetico e misconoscere di conseguenza
la vera natura del sentimento. E' di fondamentale importanza operare una netta
distinzione tra quello che è l'atto essenziale del sentire da quello che ne
rappresenta il suo aspetto funzionale. Avendone una concezione solo
funzionale, o lo si subordina all'attività conoscitiva, come momento di essa e
tramite di recezione dei dati empirici, o lo si ancora all'organizzazione
biologica del corpo umano e al compito di soddisfacimento dei bisogni vitali.
Sosteniamo, invece, con Manferdini, che il sentire sia, nella sua essenza, "l'atto
originario di apprensione dell'essere nella sua tangibile realtà"(6). Questo
significa che il sentimento estetico, così inteso, è una forma dell'attività
spirituale dell'uomo, con cui si ritiene egli possa apprendere direttamente
l'essere, a partire dalla realtà che cade sotto i sensi. Considerato come attività
dello spirito, esso è sullo stesso piano dell'intelletto e della volontà, non
subordinabile o inferiore , ma, anzi, intimamente e saldamente connesso ad
essi, in modo che ogni forma implica in sé le altre due. Questo nucleo
indivisibile, da parte del soggetto, corrisponde, nell'oggetto, cioè nell'essere, al
sintetismo delle sue qualificazioni originarie: verità, bontà e bellezza. Così,
come l'intendere ha fondamento nel vero e il volere nel bene, il sentire si
intende oggettivamente fondato dal valore della bellezza. Per questi motivi,
____________________
(6) T. Manferdini, L'estetica in S. Agostino, Bologna, 1966, p. 6.

12
Agostino concepisce l'attività estetica di percezione sensitiva del bello sempre
connessa all'apprensione intellettiva del vero e alla coscienza morale del bene,
in un nucleo attivo che costituisce il centro della persona. Con questi
presupposti, sia von Balthasar(7) che Manferdini hanno parlato, a proposito di
Agostino, di "estetica teologica". Essi si riferiscono, con questa
denominazione, all'attività estetica nell'essenza sopra specificata,
considerandola elemento inscindibile e compartecipante della coscienza
religiosa, tesa all'apprensione della Realtà stessa di Dio. Poter sostenere questo,
della dottrina del sentire di Agostino, non appare per nulla scontato. Infatti, nel
suo pensiero, sono compresenti due opposte tendenze, che sembrano almeno in
parte inconciliabili e che fanno capo a due precise tradizioni diverse: il filone
neoplatonico ed il pensiero giudaico-cristiano. Il primo considera il senso come
gradino più basso della scala di ascensione dell'anima, che quindi, per giungere
a contemplare l'essere, tramite l'intuizione intelligibile , deve distaccarsi dal
senso e dalla sensibilità, per procedere nel suo cammino di ascesi all'Uno.
Questa posizione rende impossibile parlare di una vera e propria estetica,
poiché svaluta l'attività del sentire e non lo considera in grado di attingere
direttamente l'essere. L'altro filone, invece, quello giudaico-cristiano,
concepisce il sentire come appartenente alla coscienza e modalità di
partecipazione dell'io alla realtà sensibile del mondo: "Per il cristianesimo il
mondo sensibile, di cui l'io fa parte, non è il risultato di una degradazione
ontologica, di una caduta verso il non essere, ma è opera diretta dell'atto
creativo di Dio che, essendo assoluta bellezza, crea le cose e gli esseri
imprimendo in essi il suo invisibile contrassegno, che è la qualità della bellezza
partecipata. Il mondo sensibile, in quanto creato per la Parola di Dio, trae da
____________________
(7) H. U. von Balthasar, Herrlichkeit. Eine theologische Ästhetik. Band II: Fächer der Stile, Einsiedeln,
1962, traduzione italiana di M. Fiorillo: Gloria. Una estetica teologica. Vol. II: Stili ecclesiastici,
Milano, 1978.

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questa genesi verbale la sua capacità di significazione, per la quale esprime e
manifesta, sia pure in modo incompleto indiretto, l'essere stesso del Principio
creatore. Ciò implica che l'incontro dell'io personale con Dio non si attua
prescindendo dalla realtà sensibile dal sentire, ma si attua entro e attraverso la
stessa realtà sensibile, impegnando l'unità della persona nella concretezza del
suo sentimento, oltre che del suo intelletto e della sua volontà"(8). Mentre per i
"platonici" Dio coincide con l'essere e il mondo sensibile con il non-essere, per
cui l'anima, che tende a Dio, deve lottare con il corpo, principio materiale e
quindi negativo, per i "cristiani" tutto ciò che proviene da Dio è positivo, la
materia, il mondo, il corpo. La lotta, quindi, muta i suoi termini. Non sono più
l'anima ed il corpo a contendersi il destino dell'uomo, ma é egli stesso, che,
nella sua unità sostanziale di persona, è chiamato a scegliere e a combattere per
vivere secondo la modalità della carne o secondo quella dello spirito: la prima
lo allontana da Dio, la seconda lo orienta a Lui.
Per cercare di comprendere come entrambe le tradizioni di pensiero
confluiscono e vivono in Agostino, è necessario almeno un breve accenno alla
questione della sua conversione, senza entrare in profondità nell'analisi di
questo problema, in quanto ciò esulerebbe dall'intento di questa ricerca.
L'argomento è sempre stato oggetto di molti studi ed in particolare, a
partire dagli ultimi anni del secolo scorso, si sviluppò una vera e propria
diatriba intorno all'importanza degli influssi che neoplatonismo e cristianesimo
ebbero su Agostino nel periodo della sua conversione. Il tono acceso di certe
discussioni rivela che, sotto quello che apparentemente potrebbe sembrare
anche solo un problema storiografico, si cela in realtà il grande tema del
rapporto tra filosofia e religione. In seno alla teologia liberale protestante, von
Harnack(9) riconosce come "vero" Agostino non il filosofo, ma quello che
____________________
(8) T. Manferdini, L'estetica...., pp. 7-8.
(9) A. von Harnack, Augustins Confessionem, Giessen, 1888, pp. 51-79.

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afferma l'esclusivo giocarsi del cristianesimo solo nella sfera dell'esperienza di
fede. Alfaric(10), respingendo come inattendibile il racconto delle Confessioni e
basandosi solo sui dati autobiografici ricavati dai primi scritti, sostiene che
Agostino si convertì in realtà, sia moralmente che intellettualmente, al
neoplatonismo piuttosto che al Vangelo. Molti, naturalmente, reagirono con
fermezza a questa posizione, ritenuta, dalla stragrande maggioranza degli
autori, inaccettabile e insostenibile. Tra questi ricordiamo Gilson(11), Boyer(12),
Henry(13) e, soprattutto, Courcelle(14), il quale ha dimostrato che l'ambiente della
Chiesa milanese, all'epoca in cui Agostino lo frequentò, era caratterizzato dalla
compresenza e dalla intima connessione di cristianesimo e neoplatonismo.
Anche Sciacca(15) si occupa di questo argomento e mette in evidenza come
Agostino effettui molte volte una trasposizione di temi neoplatonici in chiave
cristiana, senza curarsi o senza avvedersi delle sostanziali differenze che
corrono tra quei temi e quelli cristiani. Alla luce di questi studi, si può in
definitiva concludere che il neoplatonismo degli intellettuali milanesi fornì ad
Agostino degli strumenti filosofici, che egli utilizzò per avvicinarsi al Dio dei
cristiani anche da un punto di vista dottrinale, in modo da giustificare ed
elaborare in senso filosofico la sua scelta cristiana, già in atto come esperienza
concreta e vissuta. Per un certo tempo, allora, convivono in lui una sensibilità e
____________________
(10) P. Alfaric, L' évolution intellectuelle de Saint Augustin, Paris, 1918, pp. 379-381.
(11) E. Gilson, Compte rendu de P. Alfaric, in "Revue Philosophique", n° 88 (1919), pp. 501-505.
(12) C. Boyer, Christianisme et néo-platonisme dans la formation de Saint Augustin, Paris, 1920, p.
194.
(13) P. Henry, Plotin et l'Occident, Louvain, 1934.
(14) P. Courcelle, Recherches sur les Confessions de Saint Augustin, Paris, 1950, 1968, pp. 252-253.
(15) M. F. Sciacca, S. Agostino: La vita e l'opera. Itinerario della mente, Brescia, 1949, pp. 44-54 e
Saint Augustin et le néoplatonisme - La possibilité d'une philosophie chrétienne, Louvain-Paris, 1956,
pp. 52-53.
A proposito dell'incontro tra cristianesimo e platonismo è fondamentale il testo di Endre von Ivánka,
Platonismo cristiano. Recezione e trasformazione del Platonismo nella Patristica, Milano, 1992. Cfr.
in particolare il capitolo V sul platonismo in Agostino, pp. 143-171.
15
una coscienza immediata cristiane con una coscienza filosofica impregnata di
elementi incompatibili con esse. Ciò non sta a significare che egli credette di
convertirsi al cristianesimo, mentre in realtà era diventato un seguace di Plotino
o di Porfirio, ma solamente che le sue conoscenze della dottrina cristiana erano
certamente in dietro rispetto alla sua realtà interiore, già moralmente convertita.
Soprattutto richiese molto tempo la comprensione e la maturazione della
coscienza teologica per quanto riguarda la realtà ed il significato
dell'Incarnazione, nucleo centrale della fede in Cristo. Si comprende, allora,
come anche temi diversi, trattati da Agostino in quel periodo, risentano, per
forza di cose, del suo cammino interiore e dell'evoluzione del suo pensiero.
Così, anche in tema di estetica, ci aspettiamo di trovare molti elementi
neoplatonici che non andranno negati, ma interpretati e compresi in una
prospettiva storico-evolutiva. Risulta chiaro, infatti, come, per un pensatore
cristiano che si occupi di estetica, sia fondamentale il concetto di Incarnazione,
reale e sensibile manifestazione di Dio nel Verbo. Proprio nella figura del
Cristo, "lo sposo infinitamente buono e bello"(16), trova fondamento
l'affermazione della possibilità di una estetica teologica, che ripudi ogni
valutazione negativa del sensibile e ogni visione riduttiva del senso.
Abbiamo visto, dunque, che l'identificazione tra Dio e bellezza è
possibile sulla base di una antropologia personalista, quale quella cristiana, che
vede l'uomo-persona, cioè l'uomo nella sua unità di intelletto, sentimento e
volontà, in un libero rapporto di amore con il Dio-persona, unità e identità di
Verità, Bellezza e Bontà. Abbiamo anche notato che la possibilità di una vera e
propria estetica, che consideri cioè il sentimento come via diretta all'essere,
non è scontata in Agostino, soprattutto per la presenza importantissima di
elementi neoplatonici, ereditati da Plotino o da Porfirio o da entrambi, che
indicano proprio la via opposta, cioè la negazione della realtà sensibile. Ma
____________________
(16) De Ordine, I, 8.24, p. 27.

16
abbiamo detto anche come questi elementi vanno letti e ne parleremo ancora
approfonditamente quando tratteremo della teoria della sensazione. Possiamo
allora riprendere il discorso sulla bellezza di Dio, per vedere che cosa significhi
dire che Dio è bello e quali vie ha seguito Agostino per arrivare a determinare
le qualificazioni fondamentali e l'essenza della Bellezza.
Prima della conversione la sua tensione è tutta nel cercare di raggiungere
un idea di Dio non solo filosoficamente adeguata, ma capace anche di
soddisfare il suo desiderio di bellezza. Da questa passione era nata la sua prima
opera, De pulchro et apto, che egli stesso smarrì, a proposito della quale nelle
Confessioni dice: "... la mente percorreva le forme dei corpi, e bello io definivo
ciò che ha in sé la sua grazia, conveniente ciò che la trova adattandosi ad altro,
e questa distinzione argomentavo con esempi dal mondo dei corpi. E mi rivolsi
alla natura del mentale, e la falsa opinione che avevo delle cose spirituali mi
impediva di distinguere il vero. La verità mi balzava agli occhi con tutta la sua
forza: ma distoglievo la mente palpitante dalla realtà incorporea per rivolgerla
alle linee, ai colori, ai volumi, e non potendoli vedere nell'anima, ritenevo mi
fosse impossibile vedere l'anima stessa"(17). Agostino che cerca Dio è un
Agostino che ama i corpi, gli oggetti, le linee, i colori, i suoni, ama l'esperienza
diretta delle cose e si tormenta d'amore per un Dio, che gli sfugge, di cui si
scopre innamorato, per una bellezza vivente che si fa inseguire e mai
possedere. "Ed ero meravigliato di amarti già, te e non un fantasma. Eppure
non pervenivo a un possesso stabile del mio Dio: il tuo fascino mi rapiva a te e
subito mi strappava da te il mio peso, e ripiombavo quaggiù, piangendo. E
questo peso era fatto di consuetudini della carne. Ma in me viveva la memoria
di te, e non avevo alcun dubbio che ci fosse un essere che richiedeva la mia più
profonda adesione: ma ancora non c'ero io, per aderirvi.(...) Nell'indagare la
ragione per cui apprezzavo la bellezza dei corpi, celesti o terrestri, e la regola
____________________
(17) Confessioni, IV, 15.24, pp. 121-123.

17
in base a cui senza esitare emettevo giudizi sulle cose soggette a mutamento:
"Questo deve essere così, quello no", nell'indagare dunque la regola di questi
apprezzamenti e giudizi, avevo trovato l'immutabile e vera eternità del vero al
di sopra della mia mente mutevole. Così salivo di grado in grado, dai corpi
all'anima che del corpo si serve per sentire e di lì al senso interno, che i sensi
del corpo informano del mondo esterno - il massimo cui giungono le bestie, e
di lì ancora alla facoltà razionale, al cui giudizio si propone il contenuto delle
percezioni sensoriali; e quando in me anche questa si scoprì mutevole, si
sollevò all'intelligenza di sé e distolse il pensiero dalle sue abitudini,
sottraendosi a una folla di immagini fantastiche e contraddittorie. E ritrovò la
luce che l'aveva inondata quando senza esitare aveva dichiarato l'immutabile
migliore di ciò che muta: la luce in cui l'aveva conosciuto, l'immutabile -
perché se non ne aveva alcuna idea non poteva essere così certa di preferirlo al
mutevole. E giunse infine a ciò che è, nel lampo in cui la vista si smarrisce: e
allora sì, vidi la tua invisibile potenza attraverso le tue opere, e compresi ... ma
non riuscii a fissarvi lo sguardo e ricaddi spossato nei soliti giorni, senz'altro
portare con me che la memoria innamorata e struggente: come di un profumo
di cose che ancora non potevo gustare"(18). Sconfitto ripetutamente nei suoi
tentativi di amare le cose e le creature come fossero Dio, Agostino cerca di
arrivare a Lui, risalendo, sempre a partire dall'esperienza, i gradini delle
bellezze sensibili e particolari, confidando, in tal modo, di giungere al principio
stesso della bellezza, al bello in sé. Quella che tenta di percorrere è la
cosiddetta via assiologica della bellezza, cioè un processo a posteriori che
consiste nell'astrazione di contenuti, qualificati come belli, fino al limite ideale
dell'infinito e della totalità, e nell'associazione di questi a determinare
induttivamente l'oggettività della bellezza. Questo procedimento è assurdo in
quanto, se il criterio oggettivo della bellezza ci permette di riconoscere ciò che
____________________
(18) Ibidem, VII, 17.23, pp. 241-243.

18
è bello, non possiamo considerare nulla bello se non abbiamo prima questo
criterio e tanto meno possiamo farlo per determinare proprio il criterio stesso.
Seguire questa strada vorrebbe dire veramente affidarsi al sentimento snaturato
in una indipendenza artificiosa dalle altre facoltà dello spirito, cadere nel
soggettivismo estetico. L'oggettività dell'essere come bellezza deve precedere
ontologicamente ogni considerazione sulla bellezza stessa. Ma la riflessione
filosofica, da sola, si ritrova incapace di elaborare un adeguato concetto
dell'essenza divina, in quanto costretta a ricercare materiali sul terreno
dell'esperienza, dove non può assolutamente trovarli. Se questi vi sono,
possono derivare solamente dall'essere divino stesso, che si rivela nei suoi
attributi essenziali alla mente che aspira alla sua conoscenza. Agostino
abbandona così il tentativo assiologico e, a testimonianza di ciò, nel De Musica
troviamo l'introduzione del concetto delle armonie intelligibili, in base alle
quali la ragione giudica della validità estetica delle percezioni. Queste ultime
giungono solamente a una consapevolezza diretta di fatti che hanno in sé certe
caratteristiche, per le quali si può o meno provare piacere, ma sono incapaci di
valutarne il valore estetico. Questa è infatti una operazione di giudizio a cui è
deputata la ragione, che disponendo in sé di queste armonie, può raffrontarle di
volta in volta con le armonie dei dati sensibili e giudicare il grado di effettiva
uguaglianza con quelle. Ma questa uguaglianza, nella sua perfezione, non si
potrà mai trovare nelle armonie sensibili, nelle quali ve ne è solo un'impronta;
eppure l'anima la desidera ardentemente e la avverte come esistente di certo in
qualche luogo: "Lo spirito non desidererebbe quell'uguaglianza che non
trovavamo stabile e sicura nei ritmi sensibili, ma riconoscevamo, anche se
adombrata e in divenire, se non fosse conosciuta in qualche luogo. Ma questo
luogo non è nelle lunghezze dello spazio e del tempo, perché quelle sono solide
e queste divengono"(19). Un luogo metafisico, dunque, che si esclude possa
____________________
(19) De musica, VI, 12.34, p. 251.

19
essere identificato nell'anima, per nulla eterna e immutabile. L'uguaglianza
armonica assoluta e perfetta non può che appartenere a Dio, Essere assoluto e
perfetto, che si rivela e si comunica all'anima e che introduce nella ragione le
armonie intelligibili, metri trascendentali di giudizio del sensibile. Anche la
ragione, quindi, non può rappresentare il fondamento ontologico del bello, ma
è preceduta anch'essa da una realtà assoluta fondante tutto l'esistente. E' chiaro,
a questo punto, che la ragione stessa non può neanche aver la presunzione di
comprendere e giudicare proprio ciò da cui è compresa e giudicata, di rendere
prova dell'esistenza e della sussistenza dell'unica realtà che può donare
esistenza e sussistenza. Dio va prima creduto che capito(20). L'uomo è chiamato
ad una scelta gratuita di fede, non secondo la sua ragione, ma non contro la sua
ragione, non spinto alla cieca dai suoi sensi, ma non contro la sua sensibilità. E'
evidente che Agostino si muove, allora, già all'interno di una coscienza
religiosa, per la quale la rivelazione di Dio alla mente risulta un assioma. Dio è
colto come pienezza e perfezione di valore attraverso un atto di intuizione
immediata e originaria: a partire da qui si può, poi, iniziare e organizzare la
riflessione filosofica su Dio stesso, sul mondo, sull'uomo. Il punto di contatto
tra Dio e l'uomo, la rivelazione alla mente, e la scelta di questo di credere
all'amore di Dio, rappresentano il limite della ragione. Essa è veramente
potente sulla terra ferma, costruisce per gli uomini larghe strade, spiana
montagne, argina fiumi, edifica ponti e anche là, dove l'avanzare è più difficile,
apre almeno qualche stretto e ripido sentiero, che non tutti sono in grado di
percorrere. Ma quando arriva al mare conosce il suo confine e si ritrova su di
un'alta scogliera: nessun ulteriore passo è a lei possibile. Può allora tornare
indietro o anche decidere, come un moscone dietro a un vetro, di finire i suoi
giorni elucubrando e impazzendo per escogitare il modo di camminare nell'aria.
La ragione, da sola, non salterà mai nel vuoto: solo se avrà come amica e
____________________
(20) Isaia, VII, 9, p. 1566: "Ma se non crederete non avrete stabilità".

20
compagna la fede potrà tuffarsi nel mare e avvertire il mistero. Ma essa deve
imparare l'umiltà, per sapersi mettere da parte al momento giusto e
abbandonarsi nelle braccia della fede(21).
Questo discorso non vuole dire che la riflessione filosofica in ambito
religioso sia inutile, ma solo che essa non può rappresentare il punto di
partenza e il fondamento della fede. Così si possono capire anche i discorsi che
Agostino svolge intorno all'armonia e alla bellezza, senza interpretarli come
procedimenti assiologici aventi la pretesa di dimostrare l'esistenza di Dio. La
spiegazione razionale è uno strumento in più, non sufficiente né indispensabile
all'esperienza religiosa dell'uomo, ma comunque molto utile, in funzione
secondaria e subordinata, per colmare le distanze tra la coscienza religiosa e
quella specificamente filosofica. In questa prospettiva, allora, anche la
riflessione sopra la bellezza trova i giusti binari per condurci a comprenderne
l'essenza e interpretarne le determinazioni particolari nelle forme del mondo
sensibile.
Al centro di tutto il pensiero di Agostino vi è, dunque, il Dio cristiano,
concepito, mediante la Rivelazione, come unità di Verità, Bene e Bellezza.
Proprio l'idea dell'unità risulta determinante nel discorso che ci interessa. Nella
Lettera 18, indirizzata al futuro pontefice Celestino, si trova infatti
un'affermazione fondamentale: "L'unità è forma di ogni bellezza". L'unità è
l'essenza e il principio di qualsiasi bellezza, proprio perché Dio, che è bellezza,
è Uno. Così nel De Genesi adversus Manichaeos si legge: "Ogni forma si
dispone secondo la regola dell'unità"(22). L'universo è bello perché segue questa
regola, perché tende all'unità. In esso si riscontra armonia, perché l'armonia è
costituita, nella sua essenza, dall'uguaglianza, che trova il suo fondamento
____________________
(21) A proposito del discorso sui limiti della ragione si veda M.F. Sciacca, L'oscuramento
dell'intelligenza, Milano, 1970, in particolare i primi tre capitoli.
(22) De Genesi adversus Manichaeos I, 12.18, p. 82.

21
proprio nell'unità. Nel De quantitate animae si afferma che, la figura che
possiede la perfetta uguaglianza, il cerchio, è più perfetta e più bella delle altre,
perché, in essa, la similitudine è così forte da avvicinarsi all'identità. Nessuna
figura, infatti, è così conforme a se stessa come il cerchio, "la cui estremità è
ovunque omogenea, poiché nessun angolo ne turba l'uguaglianza, e dal suo
centro si possono tracciare linee uguali verso ogni punto del perimetro"(23). Dio
è quindi l'Unità, la perfetta Identità, l'Armonia, la Proporzione. Per Lui ogni
cosa è, nella propria essenza, unità, armonia, proporzione. Per Lui tutte le cose
sono buone e belle(24).
Dire che Dio è la Bellezza significa affermare che l'essenza della
bellezza si identifica pienamente con l'essenza di Dio. Ora, visto che proprio
all'essenza di Dio attiene il mistero fondamentale della religione cristiana, la
Trinità(25), riguardo al nostro problema non si potranno che registrare due
conseguenze. La prima è che l'essenza della bellezza è sì unità, ma anche
relazione, poiché Dio è uno nella sostanza ma trino nelle persone del Padre, del
Figlio, dello Spirito Santo, legate tra loro da una relazione d'amore; la seconda,
che essa è "mistero", nel senso di una verità a cui non ci si può avvicinare che
con la fede e davanti alla quale le parole si scoprono estremamente inadeguate
ad esprimerla. Soprattutto nelle opere della maturità l'Uno, principio di essere,
ordine, bellezza delle cose, è presentato, quasi sempre in modo evidente, come
____________________
(23) De quantitate animae, 11.17, p. 41.
(24) In Soliloquia, I, 1.3, p. 384, si legge: "Deus bonum et pulchrum, in quo et a quo et per quem bona
et pulchra sunt, quae bona et pulchra sunt omnia".
(25) Le fonti bibliche fondamentali riguardo al mistero della Trinità sono neotestamentarie: nel Vangelo
di Matteo (28, 19, p. 2156) Gesù comanda ai discepoli di andare a battezzare "nel nome del Padre e
del Figlio e dello Spirito Santo"; nel Prologo del Vangelo di Giovanni (p. 2265) si trova, invece, il
tema fondamentale del rapporto tra il Padre e il Figlio, la cui intimità amorosa costituisce il
fondamento del loro essere uniti e insieme distinti nella diversità delle relazioni che li uniscono.
Ancora in Giovanni (14, 16, p. 2302) lo Spirito viene più volte presentato come persona distinta dal
Padre e dal Figlio in quanto spirito di verità che procede dal Padre.

22
il Dio uno e trino: "Una sola cosa è necessaria, quell'uno supremo, l'uno per cui
Padre e Figlio e Spirito Santo sono uno(26). Vedete che ci viene raccomandata
l'unità. Certamente il nostro Dio è Trinità. Il Padre non è il Figlio, il Figlio non
è il Padre, lo Spirito Santo non è il Padre né il Figlio ma lo Spirito di entrambi;
e tuttavia questi non sono tre dèi, non tre onnipotenti, ma un solo Dio
onnipotente, la stessa Trinità un solo Dio; perché una sola cosa è necessaria.
Ma a questo non si giunge se, pur in molti, non abbiamo un cuore solo"(27). E'
un concetto di unità, quello cristiano, che non nega le diversità, ma dà loro
misura e senso, in quanto nell'Uno ogni ente trova la sua propria identità. A
proposito della bellezza nella Trinità(28), in particolare nel rapporto Padre -
Figlio, Agostino dice nel De Trinitate: "Se l'immagine riproduce perfettamente
ciò di cui è immagine, questa si eguaglia a quello, non quello alla sua
immagine. In questa immagine egli(29) lo chiama forma, credo, a causa della
bellezza, in essa si trova una così grande proporzione e suprema uguaglianza e
suprema somiglianza, in nulla differente e in nessun modo ineguale e dissimile
in nessuna parte, ma corrispondente fino all'identità a colui del quale è
immagine (...) Il verbo perfetto, al quale non manca nulla, una sorta di arte del
Dio sapiente e onnipotente, piena di tutte le ragioni immutabili degli esseri
viventi: tutte in essa sono una sola cosa, come essa è un uno dall'uno, con il
quale è uno"(30). La bellezza è nel Figlio, immagine del Padre bello, e bella è la
____________________
(26) Come in Matteo 28, 19, la congiunzione "e", ripetuta, è da interpretare come affermazione della
parità ontologica delle tre persone.
(27) Sermo 103.3, 4, p. 264.
(28) J. Tscholl, in Gott und das Schönen beim hl. Augustinus, Heverlee-Leuven, 1967, ha studiato in
particolare anche il carattere estetico delle tre persone della Trinità. Il Padre è visto come essere,
origine, unità, misura; il Figlio come proporzione, immagine, parola, luce, uguaglianza, somiglianza,
modello; lo Spirito Santo come piacere e ordine.
(29) Agostino sta parlando di Ilario, di cui poco prima ha citato un passo del De Trinitate (2, 11): "
Aeternitas in Patre, species in Imagine, usus in Munere ".
(30) De Trinitate, VI, 10.11, p. 284.

23
relazione d'amore che li fa uno: "é nella Trinità infatti che si trova la fonte
suprema di tutte le cose, la bellezza perfettissima e la gioia più elevata"(31).
Unità, relazione e mistero appaiono, allora come le qualificazioni essenziali
della bellezza di Dio.
Bisogna qui sottolineare il deciso distacco di Agostino dalla visione
platonica e da quella neoplatonica di Plotino e quindi la sua libertà da quelle
tradizioni di pensiero a cui pure doveva molto della sua formazione. Platone,
infatti, non identifica il bene, trascendente rispetto ad ogni altra idea e ad ogni
essere, né con l'Uno (almeno attenendosi alle dottrine scritte(32), né con la
divinità, né con il bello, che, nonostante tenda ad esso(33), è secondo nella sua
scala di valori(34). La divinità poi, non è una, ma è partecipata da molti dèi, dei
quali il demiurgo è capo gerarchico, artefice delle cose naturali, ma non già
delle idee né del bene(35). L'uno è invece l'idea, ma rispetto ai molti oggetti di
cui essa è l'unità(36). Il bene e le idee, di cui esso è la causa, sono indipendenti
dalla divinità, rappresentandone i criteri di direzione nella creazione del mondo
naturale e i limiti stessi della sua azione. In Plotino Dio è l'Uno, ma questa
identità non esprime una visione monoteista, in quanto egli stesso afferma nelle
Enneadi: "Non restringere la divinità ad un unico essere, farla vedere così
molteplice come essa stessa si manifesta, ecco ciò che significa conoscere la
____________________
(31) Ibidem, VI, 10.12, p. 286.
(32) La tesi dell' identificazione, in Platone, del Bene assoluto con l' Uno assoluto, testimoniata dalla
tradizione indiretta, è sostenuta da G. Reale, che ha studiato e rivalutato le "Dottrine non scritte", cioè
gli insegnamenti impartiti ai discepoli nelle sue lezioni orali. Vedi G. Reale, L' estremo messaggio
spirituale del mondo antico nel pensiero metafisico e teurgico di Proclo, saggio introduttivo a Proclo, I
Manuali, I testi magico-teurgici, Milano, 1985; Per una nuova interpretazione di Platone. Rilettura
10
della metafisica dei grandi dialoghi alla luce delle "Dottrine non scritte", Milano, 1991 .
(33) Il problema centrale dell' Ippia maggiore è proprio la definizione del bello, che, pur essendo
distinto, tende a unificarsi nel concetto del bene come tutte le altre virtù.
(34) Nel Filebo e nel Sofista Platone esprime l'ordine gerarchico dei valori dell'uomo.
(35) Nel Timeo troviamo presentato il carattere politeistico del concetto di divinità.
(36) Vedi Parmenide, 135 c, pp. 341-342; 142 a, pp. 353-354; 155 d-c, p. 377.
24
potenza della divinità, capace, pur restando quella che è, di creare una
molteplicità di dèi che si connettono con essa, esistono per essa e vengono da
essa"(37). In linea con tutta la tradizione greca, egli è decisamente politeista e
quindi ben lontano da Agostino. L'Uno è poi sì identificato con il bene, ma non
con il bello, rispetto al quale è assolutamente trascendente. Anche se in alcuni
punti egli li presenta coincidenti(38), la supremazia del buono sul bello si fa poi
costante nel corso della sua opera. Sempre nelle Enneadi, ad esempio, si legge:
"Ma sulla bellezza, presente che sia, Eros si avventa e desta le doglie del
parto, poiché noi, al solo vederla, fatalmente l'agogniamo. Avendo il secondo
posto, l'Eros della bellezza ed appartenendo a chi è già bene esperto di
conoscenza, egli accenna così che la bellezza ha un valore di secondo grado;
ma l'aspirazione al bene essendo più antica e inconscia, attesta che anche il
Bene è più antico e che precede il Bello"(39). C'è una sorta di sospetto
nell'atteggiamento di Plotino verso il bello, perché avverte la potenza e
l'influenza che ha sull'uomo e ne teme, quindi, la pericolosità. Anche Agostino
conosce queste insidie, ma esse non gli fanno dubitare un solo istante del suo
Dio, né lo fanno esitare nel chiamarlo Bellezza . Una delle pagine più famose
delle Confessioni, contiene proprio la preghiera che scaturisce insieme dal
dispiacere per il tempo perduto lontano da Dio e dal desiderio di saziarsi della
Sua pace e della Sua bellezza, aspirazione irrefrenabile e infinita nella sua
profondità: "Tardi ti ho amato, bellezza tanto antica e tanto nuova, tardi ti ho
amato. Ecco, eri dentro di me tu, e io fuori: fuori di me ti cercavo, e informe
nella mia irruenza mi gettavo su queste belle forme che tu hai dato alle cose.
Eri con me, io non ero con te. Le cose mi tenevano lontano, le cose che non ci
sarebbero se non fossero in te. Mi hai chiamato e il tuo grido ha lacerato la mia
____________________
(37) Vedi Plotino, Enneadi, II, 9, 9, p. 236.
(38) Ibidem, I, 6, 6 / I, 6, 9, pp. 104-109.
(39) Ibidem, V, 5, 12, p. 74.

25
sordità; hai lanciato segnali di luce e il tuo splendore ha fugato la mia cecità, ti
sei effuso in essenza fragrante e ti ho aspirato e mi manca il respiro se mi
manchi, ho conosciuto il tuo sapore e ora ho fame e sete, mi hai sfiorato e mi
sono incendiato per la tua pace"(40). Ritornano decisamente le immagini a
presentarci un Dio che certamente non se ne sta solamente nei suoi cieli,
lontano dall'uomo, bellezza iperuranica fredda e muta.
L'incontro con Dio è veramente la scoperta di una presenza antica dentro
di noi, che ci fa nuovi in tutta la nostra persona, perché è con la totalità di noi
stessi che la cogliamo: le nostre orecchie si aprono al suo grido, i nostri occhi
alla sua luce, il nostro respiro al suo respiro.
Dalla lettura dei passi sulla bellezza, anche solo da quelli finora
considerati, sembra esservi sempre un Agostino quasi lirico nel tessere lodi al
suo Dio, poeta innamorato che vive per cantare a una bellezza che si fa appena
sfiorare e mai possedere, e un Agostino dotto, più distaccato, anche se mai
freddo, che ragiona da pitagorico sul numero, le armonie, le proporzioni(41). Il
problema di stabilire quali dei due sia il vero Agostino davvero non sussiste.
Sarebbe ozioso, e non certo in linea con la personalità del Vescovo d'Ippona,
sforzarsi in una tale ricerca, che egli stesso non esiterebbe ad attribuire ad una
curiositas perversa che fa disperdere nel molteplice. Agostino è sia
l'intellettuale dotto, sia il poeta appassionato, perché è filosofo e quindi uomo,
o meglio è uomo e quindi filosofo. Anche lo stabilire se egli propenda più per
una intellettualizzazione della percezione estetica o per una enfatizzazione del
sentire, perde d'interesse, nel momento in cui lo vediamo porsi davanti a Cristo,
il Verbo incarnato, concreto dono di bellezza all'umanità. Incontro a Lui l'uomo
non può andarvi con la sola ragione o con il sentimento soltanto, ma deve
____________________
(40) Confessioni, X, 27.38, p. 387.
(41) Il carattere pitagorizzante dell'estetica agostiniana è messo bene in evidenza da Svoboda, L'
esthétique de Saint Augustin et ses sources, Paris, 1933.

26
rispondere con tutto il suo essere, con tutta la sua vita. L'assurdità
dell'Incarnazione e la follia della croce diventano, sul piano estetico, il
paradosso della bellezza: "Ecco come colui che è bello, magnifico di aspetto tra
i figli degli uomini, nel venire verso colei che è brutta (non esito a dirlo, poiché
lo trovo scritto nella scrittura), si è fatto brutto per renderla bella"(42). L'uomo
può godere direttamente della bellezza divina, cioè dell'unica bellezza, proprio
attraverso colui che appare brutto, senza bellezza né splendore(43), perché brutta
è la croce. Eppure, anche sulla croce, Dio dona bellezza e splendore: "Perché
dunque non ebbe né bellezza né decoro? Perché Cristo crocefisso per i Giudei
fu scandalo, stoltezza per i Gentili. Ma perché anche sulla croce aveva
bellezza? Perché la follia di Dio è più sapiente degli uomini, la debolezza di
Dio più forte degli uomini. A noi, dunque, che crediamo, lo Sposo si presenti
sempre bello. Bello è Dio, Verbo presso Dio; bello nel seno della Vergine,
dove non perdette la divinità e assunse l'umanità; bello il Verbo nato fanciullo
perché mentre era fanciullo e succhiava il latte, mentre era portato in braccio, i
cieli hanno parlato, gli angeli hanno cantato le lodi (...). E' bello dunque in
cielo, bello in terra; bello nel seno, bello nelle braccia dei genitori, bello nei
miracoli, bello nelle torture, bello nell'invitare alla vita, bello nel non curarsi
della morte, bello nell'abbandonare la vita e bello nel riprenderla, bello nel
sepolcro e bello sulla croce, bello in cielo"(44).
Cristo è il Figlio, immagine consustanziale del Padre, bello perché Dio e
bello perché figlio. Egli si è fatto brutto perché anche noi potessimo con lui
diventare belli. Infatti, pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro
geloso la sua uguaglianza con Dio; ma spogliò se stesso, assumendo la
condizione di servo e divenendo simile agli uomini; apparso in forma umana,
____________________
(42) Enarrationes in Psalmos, 103.1, 4-5, pp. 638-640.
(43) Isaia, LIII, 2, p. 1658.
(44) Enarrationes in Psalmos, 44.3, p. 1080.

27
umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce(45).
La bellezza di Dio, in Gesù Cristo, è la bellezza della Verità nel rivelarsi
all'uomo; la bellezza dell'uomo, in Gesù Cristo, è la bellezza del figlio che si fa
conforme al Padre e ricomponendo l'unità, compie la Sua volontà. L'amore per
la bellezza, che Agostino ha nutrito fin dalla giovinezza e che scopre essere
l'amore per Dio, si offre a lui pienamente nella persona di Cristo. E' Lui che
indica la via, anzi, Egli stesso è la Via Bella alla Bellezza. Non c'è uomo che
davanti ad essa non sia povero, non creatura che sappia possederla o
esprimerla. Nessuno, però, deve sentirsi escluso da quel godimento e smettere
di cercare, perché a tutti è già stato donato: "Non temere di stancarti: il
godimento di quella bellezza sarà tale, che sempre ti sarà davanti e non ne sarai
saziato, anzi ti sazierai sempre e non ti sazierai mai. Se dicessi: perché non ti
sazierai mai, avresti fame; se dicessi: ti sazierai, temo la noia; non so che cosa
dire, là non ci sarà noia né fame, ma Dio ha che cosa offrire a coloro che non
riescono a esprimersi e tuttavia credono a ciò che possono ricevere"(46).
____________________
(45) Lettera ai Filippesi, 2, 6-8, p. 2522.
A proposito della lettera ai Filippesi in Agostino vedi: In Iohannis epistolam ad Parthos, 9.9, pp. 1826-
1830.
(46) In Iohannis evangelium tractatus, 3. 21, p. 66.

28
Capitolo II:

La bellezza del mondo.

Numerosissimi, negli scritti di Agostino, sono i riferimenti alla


bellezza dell'universo, nelle sue più disparate forme, a testimonianza
dell'importanza che per lui doveva avere il poter leggere, ovunque nel creato,
l'impronta della bellezza divina. Le bellezze sensibili, infatti, gli forniscono
l'indicazione, non la prova, dell'esistenza di Dio. Compreso ciò con la ragione e
compreso anche il limite della stessa ragione, Agostino scopre la bellezza
assoluta e la contempla, essendosi reso saldo nella fede. Di qui, poi, può
ripartire con la ragione, a indagare le leggi delle armonie sensibili e con il
sentimento, a godere della loro bellezza. Ci sono, dunque, un movimento di
andata, dal senso alla ragione e alla fede, e un movimento di ritorno, dalla fede
nuovamente alla ragione e al sentire, durante i quali ognuna delle tre facoltà
umane trova la sua misura e la sua giusta collocazione. Secondo l'Ipponate,
infatti, quando l'uomo riesce a intuire Dio e, riconoscendolo come Padre e
Creatore, lo ama, gli appare in maniera chiara ed evidente come ogni elemento

29
nella propria vita, ed ogni elemento nell'universo, è disposto secondo un
preciso ordine derivante da Dio stesso(47). Il carattere fondamentale
dell'universo agostiniano è proprio questo ordine, che regna in ogni parte. La
bellezza risplende in esso quando e nella misura in cui i suoi elementi lo
rispettano. L'universo si presenta come una grande piramide che al vertice vede
l'unità suprema di Dio governare su tutti gli altri gradi della gerarchia, che
seguono tutti la regola dell' "essere non è altro che essere uno"(48): "L'ordine è
ciò per cui sono condotte tutte le cose che Dio ha creato"(49). Esso comprende
tutto, sia nel senso che al di fuori del mondo ordinato non c'è nulla, sia nel
senso che all'interno del mondo nulla sfugge ad esso: "Che cosa pensi sia
contrario all'ordine? Niente. Come potrebbe qualcosa essere contrario a ciò che
tutto comprende, tutto subordina? Ciò che fosse contrario all'ordine sarebbe
necessariamente al di fuori dell'ordine. E io non vedo che ci sia nulla al di fuori
dell'ordine. Quindi si deve pensare che non ci sia niente di contrario
all'ordine"(50). Peculiarità dell'ordine è, quindi, la totalità. Per far risaltare come
questo ordine non casuale unifichi tutto il creato(51), Agostino fa spesso
____________________
(47) Secondo Pépin, la nozione di ordine rappresenta l'idea principale attorno alla quale ruota tutto il
pensiero di Agostino: J. Pépin, Saint Augustin et la Patristique occidentale, in AA.VV., Histoire de la
philosophie. Idées, Doctrines, vol. II, La philosophie médiévale, Paris, 1972; traduzione italiana di L.
Sosio: Storia della filosofia. La filosofia medievale, Milano, 1976, pp. 46-61.
(48) De moribus ecclesiae catholicae et de moribus Manichaeorum, II, 6.8, p. 278.
(49) De ordine, I, 10.28, p. 31.
(50) Ibidem, I, 6.15, p. 21.
(51) Si noti che recenti ricerche fisiche sembrano dar ragione ad Agostino nel constatare la presenza di
un principio ordinatore nell' universo. G. Gavallotti (in Meccanica Elementare, Torino, 1986, p. 284)
afferma, ad esempio, che il moto dei pianeti è "un caso eccezionale veramente notevole e
meraviglioso" tra i moti periodici. La possibilità, infatti, che il caso produca orbite circolari o ellittiche
è praticamente nulla. A proposito di questi argomenti si possono vedere anche S. L. Jaki, God and the
cosmologists, Edimburgo, 1989; E. Agazzi - A. Cordero, Philosophy and the Origin and evolution of
the Universe, Dordrecht, 1991; I. Bogdanov - J. Guitton, Dieu et la science, vers le métaréalisme,
Paris, 1991.

30
riferimento ad esempi tratti dalla natura, sia dal macrocosmo che dal
microcosmo, rivelando un particolare interesse anche a questi settori del
sapere. Così, per esempio, nel De ordine si legge: "Ma chi è tanto cieco da
dubitare di attribuire alla potenza e alla provvidenza divina qualsiasi ordine nei
movimenti dei corpi indipendente dall'intenzione e dalla volontà umana? A
meno che o le membra di animali anche piccolissimi sono strutturate da
combinazioni casuali in dimensioni tanto esatte e sottili, oppure, se qualcuno
nega che questo dipenda dal caso, potrebbe derivare solo da un principio
razionale, oppure ancora, per futilità di vane opinioni, oseremo non attribuire al
misterioso arbitrio divino l'ordine che ammiriamo nelle singole realtà, senza
che vi abbia partecipato l'arte dell'uomo"(52). O ancora nelle Enarrationes in
Psalmos: "E' grande la bellezza della terra, ma ha un artefice. Grandi prodigi
sono quelli dei semi e delle piante che crescono, ma tutte queste cose hanno un
creatore. Contemplo la grandezza del mare che mi sta intorno, mi stupisco,
ammiro; cerco l'artefice. Levo gli occhi al cielo e alla bellezza delle stelle;
ammiro lo splendore del sole, capace di illuminare il giorno, e la luna che
consola le tenebre notturne. Sono cose meravigliose, degne di lode, anzi
stupende, e non più terrene, sono già celesti. Ma non si placa qui la mia sete; le
lodo, le ammiro, ma è di chi le ha fatte che ho sete "(53) e più avanti: "Che
splendore hanno la terra, il mare, l'aria, il cielo, le stelle! Non mettono paura a
chi le considera? La loro bellezza non è così elevata, da far pensare che non si
possa trovare niente di più bello? Eppure quaggiù, in questo splendore, in
questa bellezza quasi ineffabile, accanto a te vivono anche i vermiciattoli e i
topi e tutti gli esseri che strisciano sulla terra: loro vivono accanto a te in questo
splendore. Quale sarà lo splendore di quel regno, dove accanto a te non vivono
____________________
(52) De ordine, I, 1.2, p. 9; sempre a proposito degli esempi tratti dal microcosmo, in De vera religione,
41.77, p. 208, Agostino si ferma ammirato a descrivere un verme.
(53) Enarrationes in Psalmos, 4.7, p. 40.

31
che angeli?"(54). Queste, come tantissime altre(55), sono pagine stupende in cui,
costantemente, Agostino si ferma stupefatto davanti alle opere del creato, ne
canta la bellezza esaltandola, quindi va col pensiero immediatamente a Dio,
che è imparagonabilmente più bello di tutte le sue opere. La bellezza del creato,
quindi, sembra in grado di svelarci qualcosa della bellezza di Dio o della vita
che ci aspetta dopo la morte, anche se sempre per negazione. Nessun attributo
positivo, infatti, si può ricavare dal sensibile e riferirlo a Dio o a ciò che
comunque non appartiene alla dimensione terrena. Questo potrebbe portare a
pensare che Agostino abbia fatto sua la dualità platonica e plotiniana tra le due
dimensioni del bello. Se così fosse, egli affermerebbe che esistono due tipi
nettamente distinti di bellezza, uno dei quali, la bellezza sensibile delle realtà
corporee, è inferiore e tende al non essere; l'altra, la bellezza intelligibile,
superiore e assoluta, rappresenta la pienezza e il sommo grado dell'essere. La
prima, quella del mondo sensibile, si coglie con i sensi e va decisamente
superata e abbandonata, la seconda, quella del mondo intelligibile, si raggiunge
con un atto di intellezione puro, dopo un difficile cammino di ascesi. Ma
Agostino ama troppo Dio per sostenere che egli si concede solo a pochi adepti,
meritevoli della sua considerazione per avere negato i piaceri dei sensi e
ignorato i suoi doni di bellezze terrene; ama troppo la bellezza per accettare che
ve ne siano due e per affermare che lo splendore dei cieli, il fascino della
vastità dei mari, la delicatezza delle creature tutte, siano solamente delle vuote
apparenze che celano il non essere. No, non è così: la bellezza è una ed è Dio,
che essendo Amore, rende partecipi di se stesso innumerevoli creature e
l'universo intero. L'universo, infatti, secondo Agostino, è bello per
____________________
(54) Ibidem, 144.15, p. 710-712.
(55) Si veda, per esempio, anche De libero arbitrio, I. 15.31 e sgg., p. 199; II, 41-45, p. 264 e sgg.; De
vera religione, 38-44, pp. 202-212; Confessioni, II, 6.12, p. 55; V, 2.2, p. 131; XI, 6.8, p. 435; XIII 28,
p. 557; De Trinitate, VI, 12, p. 286; La città di Dio, XI, 4, p. 518 e sgg.; 18, p. 537; 22, p. 541 e sgg.;
XII, 4, p. 565; 25, p. 597; XVI, 8.2, p. 758.

32
partecipazione, mentre Dio lo è per la sua stessa essenza. L'universo è bello,
Dio è la bellezza. Gli influssi platonici e neoplatonici, innegabilmente presenti,
sono sempre da interpretare nel modo di qui si è detto parlando di Dio nel
paragrafo precedente: sono essenzialmente strumenti filosofici di cui si serve
Agostino, ma dai quali non esita ad essere indipendente in quanto a contenuti.
Il rapporto Dio/mondo in Agostino è stato approfondito e ben esplicato da E.
Samek Lodovici(56), che parla di "differenza modale", similmente alla
differenza che c'è tra il senso di un discorso ed il discorso stesso: le parti stanno
nel tutto, il senso del tutto non può stare in una parte, ma solo nel tutto. Così
Dio è una unità semplice che include tutto in una relazione; il mondo a sua
volta non è una cosa, isolata e circoscritta, ma è un "esse ad", un inerire al
Principio. Questa relazione di riferimento al Principio risulta lampante anche
dalla considerazione dell'ordine che si riscontra a tutti i livelli del sensibile. La
presenza di leggi e di forti analogie tra i vari livelli rimanda direttamente
all'esistenza di una intelligenza ordinatrice. Il problema è, a questo punto,
stabilire se l'ordine governa tutto e tutti gli esseri, compreso Dio, o se pure Dio
ne è al di sopra. Agostino risponde a questa domanda nel De ordine,
affermando che Dio è al di sopra di tutti gli esseri e delle leggi che li
governano: "In che modo, dunque - domandai - Dio conduce tutte le cose
secondo l'ordine? Anche egli è condotto secondo l'ordine o piuttosto tutte le
cose tranne Dio sono governate da lui secondo l'ordine?" "Dove tutto è bene -
disse - non c'è ordine. Vi é infatti somma uguaglianza, che non esige per nulla
l'ordine"(57). La bellezza assoluta, allora, non è data dall'ordine, perché in Dio
non v'è ordine, in quanto perfetta identità. La bellezza terrena, invece, è
determinata dall'ordine, poiché ciò che segue l'ordine divino diventa
____________________
(56) E. Samek Lodovici, Dio e mondo. Relazione, causa, spazio in S. Agostino, Roma, 1979, p. 261,
326.
(57) De ordine, II, 1.2, p. 37-38.

33
somigliante a Dio, secondo un proprio grado di somiglianza attribuitogli dal
Creatore. Come l'identità e l'uguaglianza sono le peculiarità della bellezza
divina, così l'ordine e la somiglianza sono quelle della bellezza sensibile.
L'uguaglianza, passando attraverso il filtro terreno e sensibile della
somiglianza, diventa proporzione e simmetria. Così, sulla terra, non essendo
possibile una perfetta uguaglianza con Dio, il bello è bello perché
proporzionato, simmetrico, misurato: "Ogni bellezza corporea sta nell'armonia
delle sue parti e in una certa dolcezza del colore. Quando manca questa
armonia delle parti, qualcosa urta o per la sua sconcezza o per difetto o per
eccesso"(58). La proporzione esprime un rapporto, una relazione tra parti o tra
una parte e il suo intero. Tornano così le qualificazioni dell'unità e della
relazione, ma con la differenza che, mentre in Dio bellezza, unità e relazione
sono una sola cosa nel mistero della Trinità, sulla terra l'unità, forma di ogni
bellezza, si dispiega nella pluralità(59) e la bellezza deve fare i conti con essa.
Doveva essere certo difficile anche per un uomo dell'epoca di Agostino
osservare il mondo, vivendoci, e asserire, senza ombra di dubbio, che a
governarlo è l'ordine e l'armonia. Anche lasciando fuori del discorso, per ora,
quello che riguarda più direttamente l'uomo, la sua responsabilità e le
conseguenze del suo agire, non si poteva certo, neanche allora, non rimanere
esterrefatti e impauriti davanti alle distruzioni e all'irruenza devastante delle
calamità naturali, alle malattie e alle tremende epidemie, a tutto ciò che,
insomma, sembra appartenere ad una ingiustizia cosmica, che immobilizza
____________________
(58) La città di Dio, XXII, 19.2, p. 1162.
Analoghe definizioni si trovano in altri scritti, per esempio nell' Epistola 3.4, p. 14: "Che cos'è la
bellezza corporea? La proporzione delle parti con una certa dolcezza dei colori".
(59) Ancora S. Lodovici, Dio e mondo...: "Agostino non si limita ad affermare che esistono due livelli
di realtà, quello del mondo e quello di Dio, e che tra questi passa una differenza qualitativa, ma ne
specifica il contenuto: Dio è l'unità complicativa (singulare) di tutto ciò che sul piano del mondo
appare come pluraliter" (p. 258).

34
l'uomo nella sua impotenza e lo lascia attonito, senza un perché plausibile alle
sue domande. Non è facile godere sempre del "poema dell'universo"(60), credere
veramente (e non filosofare astrattamente in un proprio mondo inventato) alla
sua dolcezza e alla sua armonia, soprattutto quando si sperimenta sulla propria
pelle o su quella di chi ci è vicino, il dolore, la sofferenza, la nullità dell'uomo,
la morte. Di tutto ciò era ben consapevole Agostino, che nelle Confessioni
scrive: "Da qualunque parte si volti, è in un dolore che si imbatte l'anima
dell'uomo: dovunque tranne che in te, perfino se fissa lo sguardo su ciò che di
bello esiste fuori di te e di se stessa. E nulla di bello esisterebbe se non venisse
da te. Ciò che nasce e declina, nascendo quasi comincia a essere e cresce per
giungere a compiutezza, e quando l'ha toccata invecchia e muore. Non tutto
invecchia, ma ogni cosa muore. Perciò nel nascere, nella tensione a esistere, le
cose più in fretta crescono all'essere e più si affrettano a non essere. Questa è la
loro misura. Questa e non altra hai concesso alle cose, in quanto fanno parte di
altre cose che non esistono tutte in una volta, ma cedono e succedono le une
alle altre per formare l'universo, di cui tutte son parti"(61). La presenza nel
mondo della sofferenza, della corruzione, della morte, e si potrebbe riassumere
tutto dicendo la presenza del male, pone due possibilità: o non è vero che
l'universo è ordinato al bene, cioè a Dio, oppure anche il male fa parte
dell'ordine. Questa seconda eventualità, già prima della conversione a Cristo,
era sicuramente più congeniale alla personalità di Agostino, così sensibile al
conflitto tra bene e male, che egli avvertiva dentro e fuori di sé, come legge
cosmica. Era stato questo dualismo, in cui così tanto si riconosceva, a
entusiasmarlo da giovane e a fargli abbracciare la religione manichea, che
aveva il suo nucleo dottrinale fondamentale appunto nella lotta universale tra i
due principi del bene, la Luce, e del male, le Tenebre, e nella conclusiva
____________________
(60) De musica, VI, 11.29, p. 248.
(61) Confessioni, IV, 10.15, p. 111-113.

35
vittoria del bene. Ma più tardi, abbandonato il poco convincente insegnamento
manicheo e superata la fase di scetticismo susseguente, quando Agostino trova
in Gesù il senso ed il significato della sua vita e della vita di tutto ciò che è
creato, capisce che Dio è al di sopra di qualsiasi altra realtà, anzi è Lui l'unica
realtà e l'unico Principio. Allora diventa assiomatico che l'ordine regga
l'universo e sia onnicomprensivo: il male, visto non come realtà metafisica da
sconfiggere, ma come privazione di bene e quindi di essere, rientra anch'esso
nell'ordine delle cose e partecipa all'armonia del cosmo. "Dio non ama il male,
- disse - se non altro perché non fa parte dell'ordine che anche Dio ami il male.
E per questo ama molto l'ordine, perché per esso non ama il male. E come è
possibile che il male rientri nell'ordine, se Dio non lo ama? Infatti l'ordine
stesso del male è di non essere amato da Dio. E forse ti sembra un ordine
insufficiente delle cose, che Dio ami il bene e non ami il male? Dunque il male
che Dio non ama non è fuori dall'ordine che Dio ama: egli infatti vuole che si
ami il bene e che non si ami il male e questo viene dal supremo ordine e dalla
divina disposizione. E poiché questo ordine e questa disposizione garantiscono,
grazie a questa stessa disposizione, l'armonia dell'universo, ne consegue che
anche il male sia necessario. Così in certo qual modo la bellezza di tutte quante
le cose è plasmata dalle antitesi, dai contrari, cosa che per noi è piacevole
anche nel parlare"(62). Dunque nel mondo la bellezza è armonia che scaturisce
dalle antitesi, dai contrari, dai pieni e dai vuoti, dalle luci e dalle ombre, da
essere e non-essere, non come in Dio, in cui è la somma identità trinitaria la
bellezza stessa. Il mondo sensibile si presenta, allora, come una grande opera
d'arte, di cui Dio è l'artista. Come in quadro magnifico, Egli dispone ogni
colore ed ogni forma secondo la sua sapiente scienza ed ogni elemento ha una
sua precisa ragione d'essere. Dipenderà dall'occhio di chi ammira l'opera
scorgere e godere della sua bellezza o non intuire per niente l'armonia di
____________________
(62) De ordine, I, 7.18, p. 23.

36
elementi apparentemente discordanti: "A questo proposito, poniamo che uno ci
veda così poco, che il suo sguardo riesca a percepire in un pavimento a
mosaico solo una tessera per volta. Egli rimprovererebbe all'artista di essere
incapace di ordinare e comporre le tessere e penserebbe che le diverse pietre
sono disposte in modo disordinato perché da lui quelle immagini non
potrebbero essere ammirate con coerenza di unitaria bellezza. Proprio questo
accade agli uomini meno colti, che per la loro mente debole non sono capaci di
comprendere e considerare l'ordine e l'armonia dell'universo. Se qualcosa li
urta, perché è troppo grande per la loro intelligenza, pensano che nelle cose sia
presente una grande perversione"(63). L'armonia si coglie nell'insieme, nella
totalità, ma mentre nell'unità divina il rapporto tra Padre, Figlio e Spirito è
pienezza d'amore e di essere, nel mondo le singole parti sono tra loro in una
relazione che si esplica nelle antitesi, essendo il piano dell'esistenza sensibile
caratterizzato da essere e non essere. La bellezza dell'universo, quindi, non è la
bellezza perfetta di Dio, cioè assoluta, ma nello stesso tempo è perfetta per il
suo grado, in quanto così pensata da Dio: una bellezza che trova la sua ragione
nell'indicare e rimandare ad una bellezza superiore a lei, nell'inerire al
Principio. Sembra quasi che le singole parti del grande mosaico dell'universo,
disposte nella creazione secondo il perfetto disegno di Dio, abbiano la
responsabilità di gestire la relazione tra loro in modo libero, potendo scegliere
di trasformare, o meglio, di significare le antitesi come conflitti o, seguendo il
modello divino, come dialogo amoroso. Se una tessera, infatti, si ribellasse al
disegno del mosaico di cui è parte, non riconoscesse quindi la sua propria
identità e ragione d'essere, spezzerebbe l'armonia del tutto, rendendo brutto ciò
che era stato creato bello. Naturalmente, come è chiaro nell'esempio metaforico
di Agostino, non sono di tutti gli elementi sensibili dell'universo questa libertà
e questo potere. Non possono infatti ribellarsi le montagne o le stelle e i
____________________
(63) Ibidem, I, 1.2, p. 9.

37
pianeti, come non è donato alle piante o agli animali di poter amare e odiare, e
non può il grande mare smettere di guardare sopra di lui il cielo: solo l'uomo è
stato creato libero e cosciente, responsabile della sua risposta al Padre. Così,
non è detto che l'uomo sia capace di vedere la bellezza nelle cose che lo
circondano, anzi è molto facile che esse gli appaiano disordinate: "Molte di
queste cose ci sembrano disordinate e sconvolte, perché siamo stati assunti
secondo i nostri meriti nel loro ordine, senza sapere che cosa stia facendo di
bello nei nostri confronti la divina provvidenza. Pertanto se qualcuno, ad
esempio, fosse collocato come una statua in un angolo di una sala molto ampia
e bella non si potrebbe accorgere della bellezza di quella costruzione, della
quale è parte anch'egli. E così un soldato in una schiera non è in grado di
cogliere l'ordinamento di tutto l'esercito. E se in qualsiasi poema le sillabe
potessero vivere e sentire per la stessa lunghezza di tempo in cui risuonano, a
loro non potrebbe assolutamente piacere la ritmicità e la bellezza dell'insieme
dell'opera, che non sarebbero in grado di osservare e godere completa, anche se
è stata composta e completata dalle sillabe stesse ripetute più volte"(64). Spesso
l'uomo guarda le cose e le vede male e, non sapendole stimare nella loro
totalità, le giudica brutte, accusando Dio di aver inserito nel mondo una grande
perversione. Non così Agostino, che ama le cose del mondo in quanto buone, e
proprio perché buone, soggette a corrompersi : "E mi fu chiaro che sono buone
le cose soggette a corruzione: perché non potrebbero corrompersi né se fossero
beni sommi né se non fossero beni. Se fossero sommi beni sarebbero
incorruttibili, ma se non fossero beni affatto non avrebbero in sé di che farsi
corrompere. La corruzione infatti è un danno: e se non c'è diminuzione di bene
non c'è danno. Dunque o la corruzione non arreca alcun danno, il che è
impossibile, oppure - il che è certissimo - tutto ciò che si corrompe subisce una
privazione di valore. Ma se la privazione di valore è totale, una cosa cesserà di
____________________
(64) De musica, VI, 11.30, p. 248.

38
esistere. Se infatti una cosa continua a esistere senza poter più essere corrotta,
allora sarà migliore, perché perdurerà incorruttibile. E che cosa è più mostruoso
dell'asserzione che una cosa diventa migliore per aver perduto ogni valore?
Dunque se un ente sarà privato di ogni valore, sarà un assoluto niente: dunque
in quanto esiste è buono. Dunque tutto ciò che esiste è buono, e quel male di
cui io cercavo l'origine non è una sostanza, perché se fosse una sostanza
sarebbe un bene. Infatti sarebbe o una sostanza incorruttibile, certamente
quindi un grande bene, o una sostanza corruttibile, che se non fosse buona non
potrebbe essere corrotta. E così mi fu chiaro ed evidente che tu hai fatto buone
tutte le cose, e non esistono assolutamente sostanze che non abbia fatto tu. E
poiché non le hai fatte tutte uguali, tutte esistono in quanto sono singolarmente
buone e tutte insieme molto buone. Già, il nostro Dio fece tutte le cose molto
buone"(65). Ogni cosa creata ha, perciò, una vocazione alla bellezza che, fin
quando esiste questo mondo, non potrà mai perdere completamente, perché
anche un briciolo di essere, in quanto essere, è buono e bello. La perdita di
valore e di bellezza è direttamente collegata con l'allontanamento dall'ordine,
che corrisponde ad un allontanamento dall'Uno e dall'essere: "Brutta è ogni
parte che non si accorda con il suo intero"(66). L'accordo con il progetto divino
conferisce bellezza e consistenza, mentre il brutto viene ad identificarsi con
una mancanza di bellezza, una inconsistenza estetica oltre che ontologica. Una
cosa brutta è qualcosa che ha perso il suo originario valore, cioè il suo peso, la
misura donatagli dal Creatore, che per Agostino è la Misura e il Numero. Così i
numeri Ideali di Platone, essenza della realtà secondo i Pitagorici, permangono
in Agostino come idee di Dio, leggi tramite le quali il principio dell'ordine dà
forma e governo al mondo. Infatti tutte le cose hanno numeri, attribuiti ad esse
da Dio: "Osserva il cielo, la terra e il mare e tutte le cose che in essi splendono
____________________
(65) Confessioni, VII, 12.18, p. 235-237.
(66) Ibidem, III, 8.15, p. 83.

39
nella sfera superiore o nella inferiore: si muovono camminando, volano oppure
nuotano; hanno forme, perché hanno numeri: strappaglieli, non saranno più
nulla"(67). Un altro importante elemento da mettere in evidenza è che non solo
ogni ente trova l'espressione massima della sua potenzialità estetica nel
conformarsi all'intero di cui è parte, ma tutti gli elementi costituenti un intero
sono molto più belli considerati nel loro insieme, piuttosto che presi
singolarmente: "Ecco che considerate tutte insieme (le opere del Signore) erano
non soltanto buone, ma molto buone. Sì, le singole cose erano soltanto buone,
ma tutte insieme erano buone, e molto. Lo si dice anche di un qualsiasi bel
corpo: perché il corpo che consta di belle membra è di gran lunga più bello
delle singole membra, che con la loro disposizione il più possibile ordinata
formano il complesso: sebbene anch'esse siano singolarmente belle"(68). Anche
questo testimonia che la vocazione alla bellezza di ogni ente creato, si
identifica con la vocazione all'unità, la chiamata ad un intero in cui, anche il
disordine del più piccolo elemento tra quelli da cui è costituito, è capace di
comprometterne l'armonia: "Dio poi è un grande artefice nelle cose grandi, ma
non al punto da non esserlo nelle piccole; queste non vanno valutate nelle loro
dimensioni, assolutamente insignificanti, ma nella sapienza dell'artefice, così
come, tagliando un solo sopracciglio, non si toglie nella figura di un uomo
quasi nulla al suo corpo, ma molto alla sua bellezza, poiché essa non dipende
dalla mole fisica, bensì dall'armonia e dalla proporzione delle membra"(69).
Restano dunque, come assi portanti della visione dell'universo, l'unità, la
relazione e di certo anche il mistero. Derivando, infatti, la bellezza del mondo
direttamente da quella di Dio, ogni volta che si percepisce il bello si ha sempre
la sensazione, che è anche però consapevolezza razionale, di avvicinarsi a
____________________
(67) De libero arbitrio, II, 16.42, p. 265.
(68) Confessioni, XIII, 28.43, p. 577.
(69) La città di Dio, XI, 22. p. 542.

40
qualcosa che si fa sì apprendere e conoscere, ma mai penetrare fino in fondo,
qualcosa che si intuisce e ci dà forza, motivazione e speranza, ma di cui mai
possiamo dire di essere i padroni. Chi potrà mai, infatti, possedere il cielo, il
mare, le loro creature? E anche se ci fosse un uomo così ricco da poterseli
comprare, come potrà mai pensare, illuso, di aver comprato anche la loro
bellezza? Si può essere padroni di un'opera d'arte, anche di un intero museo di
prodigi di splendore artistico, ma non della bellezza di cui quelle opere,
singolarmente e insieme, parlano. Questa, infatti, appare essere un'altra
caratteristica che Agostino scopre nella bellezza: essa parla, sicuramente parla,
ma parla per tutti e mai solo per alcuni. Allora viene spontaneo chiedersi come
mai non tutti sembrano vederla o sembrano non curarsene, come mai spesso
l'uomo si fa amante del brutto e non del bello, tanto da sembrare di averlo
persino in odio. Rimangono allora da approfondire le tematiche che riguardano
più da vicino l'uomo, la sua vita, la sua collocazione nell'ordine universale, la
chiamata alla bellezza, che proprio in lui trova il suo termine privilegiato.

41
Capitolo III:

La bellezza dell'uomo.

Chiara ed esplicita è la risposta di Agostino alla domanda sulla bellezza


dell'uomo: "Amandolo diventiamo belli"(70). Amando Dio l'uomo attua la sua
bellezza, fa suo il disegno del Padre e, rimanendo presso di Lui, che è
bellissimo, anch'egli diventa bello. La bellezza dell'anima, nei confronti di
quella divina, è infatti "bellezza dall'altro, bellezza mediante l'altro, bellezza
attorno all'altro, bellezza al bello, bellezza nel bello, bellezza verso la bellezza,
bellezza presso la bellezza"(71). Da queste espressioni risulta subito lampante
come, anche per quanto riguarda l'uomo, una delle categorie dominanti nel
problema del bello sia proprio la relazione, che, prima di tutto, è relazione al
Principio. Egli è stato creato e posto in un universo ordinato e, come ogni altro
ente esistente, si trova inserito in quest'ordine. L'uomo, però, si trova in una
posizione particolare, o meglio, è una creatura particolare. Egli, infatti, è
____________________
(70) In Iohannis epistolam ad Parthos, 9.9, p. 1826.
(71) De quantitate animae, 35.79, p. 129.

42
l'unico ad essere stato voluto libero, in quanto dotato dell'anima, principio di
intellezione, sentimento, volontà. Con il suo libero arbitrio può decidere della
sua vita ed è con la vita che l'uomo decide della vita. Egli può scegliere di
riconoscere Dio come Padre e quindi conformarsi a Lui, accettando e vivendo
secondo l'ordine da Lui stabilito nelle cose, oppure può negarlo, rinnegando il
proprio essere figlio e sostituendosi al Padre come signore e padrone della
propria vita. L'ordine, ancora una volta, si configura come il principio mediante
il quale ogni elemento si dispone al posto giusto: questa è la condizione
essenziale per cui un ente può essere veramente ciò che è, può esprimere al
massimo le sue potenzialità ontologiche, estetiche e morali. Ancora una volta la
verità, il bene, la bellezza si presentano come un'unità, scindibile solo
concettualmente. Il riconoscimento dell'ordine viene ad essere, nella sua
essenza, un principio di realtà. Se riconosco, infatti, che Dio è Padre e
Creatore, affermo che la verità è una sola, la realtà è una. Se pretendo, allora, di
vivere secondo la realtà che dico io essere vera, ma che non è quella di Dio,
vivo per definizione in modo disordinato, in modo inautentico poiché irreale,
non secondo la mia vera identità. Viene così chiarito anche il concetto di
libertà, che non può essere intesa come la possibilità di scegliere la realtà che
più ci sembra consona al nostro spontaneo modo di essere, cioè al nostro
egocentrismo, ma è la precisa e seria responsabilità di ricercare la verità nella
propria breve esperienza di vita e accettarla, cioè sceglierla, oppure no. La
libertà che l'uomo, spesso, cerca, è invece quella di Dio, vale a dire
l'onnipotenza. Sostituendo a Dio il proprio io, sovvertendo quindi l'ordine reale
e inventandone uno illusorio, egli conduce una vita che sa della commedia,
dove è disposto a sacrificare tutto e tutti, non per la ricchezza, non per il
piacere, non per la felicità, ma solo per riuscire a reggere il peso della maschera
che, giorno dopo giorno, ha fatto crescere sulla sua pelle. Le modalità con cui
l'uomo sbaglia sono infinite, ma alla base di tutte vi è sempre il servire la carne

43
e non lo spirito, che in ultima analisi corrisponde sempre ad un sovvertimento
dell'ordine: "A che scopo ti stravolgi a seguir la tua carne? E' lei che deve
volgersi verso te e seguirti. Qualunque cosa lei ti faccia sentire, non è che
parte: e ignori il tutto di cui è parte, e tuttavia ti dà piacere. Ma se la sensibilità
della tua carne fosse fatta per afferrare il tutto e non fosse per tua pena
giustamente stata confinata nei limiti di una parte dell'universo, tu vorresti che
ciascuna delle cose esistenti e presenti passasse, per meglio apprezzarle tutte.
Così è la stessa sensibilità che ti fa udire ciò che diciamo: ma non vuoi che le
sillabe restino immobili, ma che volino via lasciando il posto ad altre e tu possa
udire l'intera frase. E così è sempre per tutte le parti che costituiscono un intero
e non hanno tutte un'esistenza simultanea: il tutto è più apprezzato delle singole
parti, quando può essere percepito. Ma ancora meglio è chi tutto ha fatto, e
questo è il nostro Dio che non dilegua, perché nulla gli succede"(72). L'uomo,
dunque, sbaglia quando assolutizza una parte e la scambia per il tutto e sbaglia
quando assolutizza se stesso e ciò che gli sembra di vedere dalla sua posizione,
che è ciò che si vede da una parte, come "una statua in un angolo di una sala
molto ampia e bella non si potrebbe accorgere della bellezza di quella
costruzione, di cui è parte anch'essa"(73). Ma perché, se Dio ha creato l'uomo
buono e bello, la sua libertà non lo fa convergere spontaneamente verso il bene
e la bellezza? Perché esiste il peccato e come mai esso non è solo una remota
possibilità, un'eccezione, ma è invece una presenza così forte nella sua
esistenza? Agostino crede fermamente che, sia l'uomo che ama Dio, sia quello
che pecca contro Dio (che più che essere due persone diverse sono due
modalità compresenti in tutte le persone) cercano entrambi la stessa cosa, cioè
la felicità. La differenza è che uno crede, e quindi sa, che la felicità si trova
presso Dio, l'altro, invece, o è inconsapevole della sua ricerca, o si rifiuta di
____________________
(72) Confessioni, IV, 11.17, p. 113-115.
(73) De musica, VI, 11.30, p. 248.

44
credere e, quindi, cerca la felicità altrove. Ma l'uomo ha dentro di sé come un
seme, che, germogliando, non può che indirizzare il suo fusto, i rami, le foglie
verso il cielo, anche se non ha occhi per vedere il cielo: così tutti gli uomini,
anche senza saperlo, cercano Dio. Leggiamo alcune pagine delle Confessioni,
tra le più belle scritte da Agostino sul desiderio di felicità dell'uomo: "Come ti
cerco dunque, mio Signore? Cercando te, mio Dio, io cerco la felicità. Ti
cercherò perché l'anima viva. Perché vive dell'anima il mio corpo, e di te vive
l'anima. E come la cerco, la felicità? Finché io non dica "Basta, eccola", io non
ce l'ho. Ma bisogna dire come la cerco: se è perché il cuore ne ha memoria,
quasi l'avessi dimenticata senza scordare di averla dimenticata, o per il
desiderio di conoscere l'ignoto, sia che non l'abbia conosciuta mai, sia che a tal
punto me ne sia scordato, da non aver memoria di questo oblio. Ma non è la
felicità che tutti vogliono? Non c'è assolutamente nessuno che non la desideri;
e dove l'hanno conosciuta, per desiderarla così? Dove l'han vista, per
innamorarsene? Eppure noi l'abbiamo, io non so come. E altro è possederla ora,
e ora esser felici, altro è vivere di speranza, felicemente. Questo è un modo
d'averla inferiore al primo, di chi è felice della cosa stessa, ma superiore a
quello di chi non vive né la felicità vera né quella della speranza. Eppure anche
questi non desidererebbero tanto la felicità se in qualche senso non l'avessero: e
che la desiderino, non c'è alcun dubbio. Dunque lo sanno cos'è: una loro idea ce
l'hanno. E' quest'idea che mi sto sforzando di capire se si trova nella memoria.
Perché se è lì, eravamo felici, una volta. Io non mi chiedo ora se lo eravamo
come individui, ciascuno per sé, o tutti nell'uomo che peccò per primo, in cui
noi tutti siamo morti e da cui siamo nati, infelici: ma chiedo se è nella
memoria, quella vita felice. Perché non l'ameremmo se non sapessimo cos'è. Ne
abbiamo udito il nome, e tutti confessiamo di tendere alla cosa: non la parola, è
chiaro, ci è gradita. Quella non piace al greco che la sente pronunciare in latino,
perché non sa che cosa significa: ma a noi piace, e anche a lui, se la sente

45
pronunciare in greco, perché non è né greca né latina la cosa stessa: una cosa
che tutti si consumano dalla voglia di avere, greci e latini o qualunque sia
quella che parlano fra le lingue della terra. E' cosa a tutti nota: e se in un solo
colpo si potesse porla a tutti, la domanda se desiderano la felicità,
risponderebbero senza alcun dubbio a una voce: sì. Così non sarebbe, se non
serbassero memoria della cosa che ha questo nome"(74). Il seme della felicità
sembra essere conservato dall'uomo nella memoria, come il ricordo di una gioia
già goduta, già conosciuta e poi caduta nell'oblio. Eppure, nonostante questo
ricordo sia comune a tutti, gli uomini cercano cose diverse: "Ma dove e quando
ho appreso che cos'era la felicità della mia vita, per averne il ricordo e provarne
amore e desiderio? E non soltanto io ho poche altre persone, ma tutti vogliamo
esser felici. Se non ne avessimo ben precisa nozione, non ne avremmo una
volontà tanto decisa. Ma che significa questo? Prova a chiedere a due persone
se vogliono arruolarsi, e uno magari risponderà di sì, l'altro di no; ma chiedi se
vogliono essere felici, e subito tutti e due diranno senza dubbio di sì, e anzi non
hanno altro scopo che questo, d'esser felici nel volersi o non volersi arruolare.
Chi si diletta di una cosa, chi di un'altra. E così tutti si trovano d'accordo nel
desiderio di felicità, così come lo sarebbero nel rispondere all'unisono, se
interrogati, che desiderano godersi la vita. E' questo godimento che chiamano
vita felice. E anche se ciascuno ha il suo modo di godersela uno solo è lo scopo
che tutti si sforzano di conseguire, questo. La gioia di vivere, nessuno può dire
di non sapere cosa sia; e per questo la si ritrova nella memoria, e la si riconosce
al solo udire il nome della felicità"(75). Ogni uomo, quindi, cerca di essere felice
e, godendo di libero arbitrio, ognuno cerca dove meglio crede. Ma può
veramente esser valida qualsiasi strada, può esser celebrata davvero
l'assolutizzazione del soggettivo e del relativo? "Via, lontano dal cuore del tuo
____________________
(74) Confessioni, X, 20.29, p. 377-379.
(75) Ibidem, X, 21.31, p. 381.

46
servo che a te si confida, caccialo via il pensiero che basti a farmi felice il
godimento di una gioia qualunque, c'è una gioia che non è data agli atei, ma a
coloro che di te si fanno un disinteressato culto: sei tu la loro gioia. Ed è già
questa la vita felice, la gioia che si cerca in te e deriva da te e per te si prova:
questa e non altra. Chi crede che ve ne sia un'altra cerca altre gioie, ma non
quelle vere. Ma è pur sempre un'immagine di gioia a orientare la sua volontà: a
questa non volta le spalle"(76). Agostino liquida con decisione il pensiero della
possibilità di un cammino alternativo a quello della fede, domanda che,
peraltro, non è solo lecita, ma che, sicuramente, più cristiani dovrebbero avere
il coraggio e l'onestà di porsi, per non rischiare di condurre una vita
inautentica, decisamente brutta, passata tra la messa in scena di una parte mal
recitata e la nostalgia malsana per una vita più allettante, nascostamente e
maniacalmente bramata. Poi, forse, si rinuncia più facilmente ad una cosa di
cui si è fatta esperienza, piuttosto che ad una cosa solo immaginata. Chi vuole
seguire Cristo, infatti, non ha da temere nessun confronto con la realtà, perché
questa è presso di Lui. La felicità, del resto, dice Agostino, non è altro che il
piacere della verità, ed è questa una definizione davvero sapiente e bella: "Non
è certo, allora, che tutti vogliano essere felici: perché chi non cerca il suo
piacere in te, che sei la sola vita felice, in realtà non vuole la felicità. O forse sì,
tutti la vogliono, ma i desideri della carne sono opposti allo spirito, e quelli
dello spirito alla carne, e così non fanno ciò che vogliono: per questo perdono
forza fino ad accontentarsi di ciò che è in loro potere, perché dove non valgono
non vogliono abbastanza per potere. Già, io chiedo a ciascuno: preferisci
godere del falso o del vero, e nessuno ha qualche dubbio nel pronunciarsi per il
vero, non più di quanti ne abbia ad ammettere che desidera essere felice.
Perché è appunto il piacere del vero, la felicità. Dunque è gioire di te, che sei la
verità, luce e salvezza dei miei occhi, mio Dio. Questa felicità tutti la vogliono,
____________________
(76) Ibidem, X, 22.32, pp. 381-383.

47
questa vita che è la sola felice, tutti vogliono godere del vero. Molti ho
incontrato che volevano ingannare, ma che volesse farsi ingannare, nessuno.
Dove hanno appreso allora che cosa sia vivere felicemente, se non dove hanno
appreso anche che cos'è verità? Perché l'amano, è chiaro, se non vogliono
essere ingannati: amando la felicità, che non è se non il piacere della verità,
debbono pure amare anche la verità. Ma come potrebbero, se non ne avessero
un'idea, nella memoria. E allora perché non riescono a goderne? Perché non
sono felici? Perché si occupano troppo di altre cose: anche se non vi trovano
alcuna felicità paragonabile a quella di cui conservano un ricordo così tenue.
Sì, c'è ancora un po' di luce fra gli uomini: presto, si mettano in cammino,
affinché il buio non li sorprenda"(77). La prova che tutti gli uomini nutrono
questo amore è proprio il fatto che se uno ama una cosa che non è la verità,
pretende che quella sia la verità, cadendo di nuovo nell'errore di sostituirsi a
Dio: "Eppure la verità genera odio, e chi l'annuncia in tuo nome si fa nemico
agli uomini. Perché, se è vero che essi amano la felicità, che è soltanto il
piacere della verità? Evidentemente perché si ama la verità a tal punto che se
uno ama un'altra cosa pretende che sia quella la verità: e siccome chiunque
detesta ingannarsi, uno rifiuta di farsi convincere che è in errore. Perciò odiano
la verità: per amore di quella che credono verità. Ne amano lo splendore, ne
odiano l'accusa. Già: siccome non vogliono essere ingannati ma vogliono
ingannare, l'amano quando indica se stessa, e la odiano quando punta il dito
contro di loro. E lei li tratterà allo stesso modo: essi rifiutano di essere da lei
scoperti, e lei li scoprirà a loro dispetto, senza farsi scoprire da loro. Così -
anche così - è l'animo umano, così cieco e labile, così brutto e ignobile che vuol
sì restare nascosto, ma non che qualcosa resti nascosto a lui. Ma ne viene
ripagato come merita: non lui resta nascosto alla verità ma la verità a lui.
Eppure anche così, in questa sua infelice condizione, preferisce le cose vere,
____________________
(77) Ibidem, X, 23.33, p. 383.

48
per goderne, a quelle false. Felice dunque sarà se mai potrà godersi senza
impacci fastidiosi l'unica verità, per cui è vera ogni cosa vera"(78). In questo
comune e originario amore per la verità e la felicità, l'uomo facilmente cade, in
definitiva, in un errore di stima, di discernimento. Egli non sa misurare e pesare
correttamente le varie realtà con cui si rapporta. Così è fortemente attratto da
ciò che più intensamente e, soprattutto, più immediatamente, offre materia ai
suoi sensi e alla sua coscienza, tutto ciò, quindi, che si trova fuori di lui, più
che dentro di lui. E' attratto così intensamente proprio perché ha una naturale
propensione per la bellezza, per il bene, per la verità, ha una tendenza innata
verso l'essere: è logico, quindi, che ciò che gli si presenta come materia, gli dia
maggiore impressione di consistenza e lo attiri a sé. E' sicuramente più facile
reputare reale e bello il corpo della donna che amo o da cui prendo solo
piacere, piuttosto che un Dio che non riesco neanche ad immaginare, che
chiamo e non risponde, che dice di essere la ricchezza e, poi, non si fa
possedere. Così l'uomo dà più importanza alle cose che sono fuori di lui e che
può possedere più o meno facilmente. Queste gli danno l'illusione di essere,
solo perché può accumularle e abbuffarsene e, gonfiandosi, crede di essere
pieno solo perché più pesante. Tutto questo è il peccato, il brutto,
l'inconsistenza, che oltre a far deviare l'uomo dalla strada della verità,
indebolisce anche la sua volontà, per cui è sempre più difficile per lui, ritornare
a splendere di bellezza: "Pertanto, essendo il corpo mortale e fragile, si domina
con grande difficoltà e attenzione. Ne deriva per l'anima l'errore di stimare di
più il piacere del corpo, perché offre materia alla sua coscienza, della stessa
salute, alla quale non è necessaria alcuna attenzione. E non è strano che si
impigli negli affanni, anteponendo la preoccupazione alla sicurezza. E quando
si volge al Signore, ne sorge una maggior preoccupazione di non rivolgersi
indietro, fino a che si plachi l'impeto delle realtà carnali frenato dalla lunga
____________________
(78) Ibidem, X, 23.34, pp. 383-385.

49
consuetudine, che si inserisce con sconvolgenti ricordi nel suo volgersi a Lui.
Così, placati i suoi moti, dai quali era trascinata verso l'esteriorità, esercita
nell'interiorità una libera attività spirituale, che è significata dal sabato. Allora
riconosce che solo Dio è il suo Signore e di Lui solo si è servi con la più grande
libertà. E tuttavia quei moti carnali, che eccita quando vuole, non li può
estinguere quando vuole, perché se il peccato è in suo potere, non così la pena
del peccato. E per quanto l'anima in sé sia una gran cosa, non è idonea da sola a
reprimere i suoi moti lascivi. E' più forte nel peccare, ma dopo aver peccato per
legge divina diventa più debole, è meno capace di allontanare ciò che ha
commesso"(79).
Il brutto è questo allontanamento dall'unità ordinatrice di Dio, che si
esprime come disordine nelle relazioni tra l'uomo e le altre realtà con cui egli si
rapporta. Ma è anche il tentativo di negare il mistero nella bellezza,
desiderando di possederla e conoscerla come se fosse un oggetto materiale. E'
bene, allora, che l'uomo non si disperda nella molteplicità dissipante e cerchi,
con tutto se stesso, di ricostruire dentro di sé l'ordo amoris(80), di cui Agostino
ci parla così nel De doctrina christiana: "Quattro sono le cose da amare: una
che è sopra di noi, un'altra che siamo noi, una terza che è accanto a noi, la
quarta che è sotto di noi"(81). Ogni cosa va riconosciuta per quello che è
realmente e amata di conseguenza. Così Dio va messo al primo posto, cioè
sopra di noi, e amato come tale con tutto noi stessi; a noi e agli altri con cui
viviamo dobbiamo riservare il secondo posto e amare totalmente anche in
questo caso, ma facendo sempre attenzione di non mettere qualcuno al posto di
Dio; tutto il resto, che costituisce l'universo, animali, piante, cose materiali,
cielo, terra, mare è sotto di noi, quindi non va disprezzato ma neanche adorato,
____________________
(79) De musica, VI, 5.14, p. 235.
(80) Si veda in proposito R. Bodei, Ordo amoris. Conflitti terreni e felicità celeste, Bologna, 1991.
(81) De doctrina christiana, I, 23.22, pp. 32-34.

50
semplicemente amato per la misura che gli compete(82). Ma questo sguardo
libero sulla realtà delle cose è possibile solamente all'uomo che si distacca
temporaneamente da tutto ciò che è fuori di lui, rientra in se stesso e, nella
profondità della sua interiorità, trova il lume della verità, alla luce della quale
vede con chiarezza il suo limite(83). Poi, può tornare a guardare tutte le cose,
scoprendosi bello nella bellezza: "Così dunque lo spirito ritornato in se stesso
comprende quale sia la bellezza dell'universo, che di certo ha ricevuto questo
nome dall'uno. Pertanto non è consentito contemplarla all'anima che si inoltra
tra le molte cose e scaccia con cupidigia la povertà, che non sa che può essere
evitata solo attraverso il distacco dalla molteplicità.(...) E così lo spirito,
allontanatosi da sé si frantuma in infinite parti e si degrada a una vera miseria,
perché la sua natura lo spinge a cercare l'uno e la molteplicità non gli permette
di trovarlo"(84). Se, da una parte, l'attrazione verso le cose belle e l'affannosa
ricerca di qualche creatura bella da amare testimoniano la presenza, nell'uomo,
di una tensione amorosa, di un'inquietudine antica che suona come un richiamo
all'Uno, dall'altra, l'attaccamento ad esse può dare all'uomo solo delusione, noia
o illusione. Ognuno può capire quale dio ha scelto nella sua vita, quale falso
idolo a cui fare sacrifici, chiedendo a se stesso dove trae godimento nella sua
vita. E' una domanda tanto semplice quanto scomoda: "Non consideriamo male
dunque le cose che ci sono inferiori, e ordiniamoci, con l'aiuto di Dio Signore
nostro, tra quelle che sono sotto di noi e quelle che sono sopra di noi, in modo
da non essere ostacolati dalle inferiori e non essere dilettati solo dalle superiori.
Il godimento dunque è come il peso dell'anima. E quindi il godimento ordina
____________________
(82) Recuperando il valore dell'ordine dell' universo, anche tanti dibattiti attuali su temi importantissimi,
quali per esempio l' ecologia o il rapporto uomo-animali, troverebbero la loro misura ed il loro senso
autentico, lontano da assolutizzazioni e stravaganti, quanto ridicole, iniziative.
(83) Per Sciacca l' intelligenza consiste nel riconoscimento e nell' accettazione consapevole del proprio
limite, mentre la stupidità sta proprio nel negare il limite ( L' oscuramento..., pp. 19 e sgg., 59-70).
(84) De ordine, I, 2.3, pp. 10-11.

51
l'anima. Dove infatti sarà il tuo tesoro, lì sarà anche il tuo cuore. Dove il
godimento, lì il tesoro; dove il cuore, lì la felicità o la miseria. E quali cose
sono superiori, se non quelle nelle quali permane la somma, indiscussa,
immobile eterna uguaglianza? Dove non si trova il tempo, perché nulla è
mutabile, e da dove i tempi sono costruiti, ordinati e misurati a imitazione
dell'eternità, mentre il giro del cielo ritorna all'identico e i corpi celesti riporta
all'identico e obbedisce alle leggi dell'uguaglianza, dell'unità e dell'ordine, con i
giorni, i mesi, gli anni, i lustri e gli altri movimenti orbitali delle stelle. Così le
cose terrene, sottomesse a quelle celesti, uniscono in una ritmica successione le
orbite dei propri tempi come in un poema dell'universo"(85). L'uomo che ha il
suo tesoro in Dio, avrà bellezza e felicità, mentre chi, nel suo cuore, si tiene
lontano da Dio sarà brutto e infelice. Questa visione, naturalmente, chiede di
andare al di là della danza delle apparenze, gioco di maschere vuote o piene di
nulla. Così, un uomo ricco e potente (e perché no anche fotogenico) ci apparirà
sempre bellissimo, mentre, dal suo trono d'oro (magari un bello schermo
televisivo), profetizza a noi, brutti e straccioni che lo stiamo ad ascoltare, la
strada per la felicità, ponendosi come modello da seguire. Ma chi potrà
guardarci nel cuore e giudicarci belli o brutti? Non certo quell'uomo, troppo
intento nell'apparire fuori per preoccuparsi di non essere straccione dentro.
L'uomo bello di cui parla Agostino è prima di tutto l'uomo interiore, in cui
splende la suprema bellezza del vero che, abitando dentro, emana poi, anche al
di fuori, soave profumo di sé: "Che desideri d'altro, se non d'essere felice? e
chi è più felice di chi gode della stabile, immutabile, suprema verità? Gli
uomini si dichiarano felici quando godono nell'amplesso di un bel corpo
ardentemente desiderato, sia delle mogli che delle amanti. E noi dubitiamo di
essere felici nell'amplesso con la verità?"(86). L'uomo che è arrivato alla verità
____________________
(85) De musica, VI, 11.29, p. 248.
(86) De libero arbitrio, II, 13.35, p. 257.

52
non è l'asceta solitario, che vive di privazioni e sforzi individuali perché, prima
di tutto, non c'è arrivato e non ci sarebbe mai potuto arrivare da solo: è Dio che
gli si è fatto incontro con la sua Grazia per liberarlo dalla dannosa oscurità. In
secondo luogo, la sua bellezza non è mai un fatto solitario, individuale, in
quanto implica sempre una relazione d'amore con Dio e con gli altri uomini:
l'uomo diventa bello quando è uno con il Padre e con i fratelli. A questo punto
merita una particolare attenzione proprio il tema del rapporto con i fratelli, che
trova privilegiata espressione nell'amicizia.
Essa è la modalità d'amore che forse, più d'ogni altra, è indice dell'amore
gratuito di Dio ed è, per Agostino, un dono di Dio che rende ancora più
amabile la vita. Infatti "l'amicizia degli uomini è dolce nel suo caro nodo che
stringe molte anime in una"(87). Essa è un aiuto fondamentale per l'uomo che,
tramite lei, fa esperienza di gratuità, di un amore teso non al possesso, ma al
dono reciproco di una vita condivisa, una vita bella: "Soprattutto mi aiutava a
riprendermi il conforto di altri amici: con loro amavo ciò che amavo in vece
tua, cioè una sterminata favola e una lunga bugia, che con le sue lusinghe e
seduzioni ci sollecitava le orecchie e ci corrompeva la mente. E quella favola
non mi moriva: era sopravvissuta alla morte di uno dei miei amici. Altre erano
le cose che sempre più mi stringevano a loro: il riso e il conversare insieme, e
le reciproche affettuose cortesie, e il fascino dei libri letti insieme, gli scherzi e
i nobili svaghi comuni, e il dissentire a volte, ma senza rancore, come succede
con se stessi, e con questi rarissimi dissensi fare più intenso il gusto dei molti
consensi, e l'insegnare e l'imparare a turno, la nostalgia impaziente per chi
manca, le festose accoglienze a chi ritorna: son questi o simili, i segni che dal
cuore di chi ama ed è riamato giungono tramite il volto, la bocca, gli occhi e
mille graziosissimi gesti, quasi ad alimentare il fuoco che divampa e fonde
____________________
(87) Confessioni, II, 5.10, p. 53.

53
molte anime in una"(88). E' evidente, dal tono di queste descrizioni, quanto
Agostino abbia a cuore l'amore per i suoi amici, cosa che, del resto, è
testimoniata anche dalla sua vita, dove la loro è una presenza costante.
Tuttavia essa non rende più bella la vita dell'uomo di per sé, ma solo perché
questa è la volontà di Dio. Infatti "l'amicizia vera è solo quella che Dio stringe
fra persone unite a lui dall'amore diffuso nei nostri cuori tramite lo Spirito
Santo, che ci è stato dato"(89). Anche l'amicizia è bella perché è armonia,
dialogo amoroso di cuori raccolti misteriosamente in unità. Anche l'amicizia è
bella e vera solo se ordinata a Dio, se aiuta le anime strette in lei ad obbedire al
Padre. L'obbedienza alla sua volontà, infatti, rimane l'atto essenziale dell'uomo
bello. Suona sicuramente male a noi, oggi, e qualcuno potrebbe forse anche
scandalizzarsi, parlare di obbedienza e, tanto più, mettendola in rapporto con la
libertà, la felicità e la bellezza dell'uomo. Forse, anzi, sicuramente, abbiamo un
cattivo bagaglio di ricordi e di esperienze personali, culturali e storiche, che ci
fanno aborrire la parola stessa, facendocela mettere in relazione con altri
fantasmi che affollano la nostra mente e la nostra cultura. E intanto, posseduti
fino all'anima dal mito dell'indipendenza da tutto e da tutti, nevroticamente
preoccupati di compiacere il nostro spietato super-io "made in U.S.A.", che ci
impone, come valore assoluto, la realizzazione di noi stessi e delle nostre
aspirazioni sopra qualsiasi altra cosa, non facciamo altro che obbedire,
penosamente obbedire, come schiavi vestiti da padroni. "Ciò che è stato sarà e
ciò che si è fatto si rifarà; non c'è niente di nuovo sotto il sole"(90): anche noi,
come tutti gli uomini che ci hanno preceduto nelle epoche precedenti, stiamo
solamente costruendoci idoli a cui obbedire, per poterci sentire inseriti in una
relazione. Questa è, infatti, la nostra autentica e legittima aspirazione. E
____________________
(88) Ibidem, IV, 8.13, p. 109.
(89) Ibidem, IV, 4.7, p. 101.
(90) Qoèlet, I, 9, p. 1341.

54
obbediamo, così, agli ultimi prototipi di dèi disponibili sul mercato delle
illusioni, rivestimenti al silicone dei soliti dèi pagani, che almeno avevano il
pregio di essere originali: sia fatta la tua volontà dio denaro, a qualsiasi prezzo,
e la tua dio potere, datemi oggi la mia carriera necessaria; sia fatta la tua
volontà, dio sesso, sii sempre presente nelle menti stordite dei nostri figli; e tu,
dio apparenza, non ti dimenticare di me, che in te ho investito tutto per
l'immagine della mia azienda e sacrifico ore ed ore del mio tempo prezioso, in
masochistici esercizi di body-building e in cure estetiche che mi flagellano il
corpo! Ma davvero tutte queste cose possono farci felici? Possono veramente
farci belli? E se è insito nella nostra natura l'obbedire a qualcuno o a qualcosa
che è altro da noi, avere cioè un riferimento di verità esterno a noi, che altro
non testimonia se non la nostra essenza di figli, perché cerchiamo padroni
astratti fuori di noi e non serviamo, invece, il nostro vero padre, che ci ama
dell'unico amore vero? Agostino ci esorta, con il suo pensiero e la sua vita, a
recuperare la nostra relazione essenziale con il Padre e farci belli della bellezza
del Figlio. Lo splendore di Cristo, "bello sulla croce"(91), rende bello l'uomo che
si lascia amare da lui e con lui ricompone l'unità con il Padre che è nei cieli. E
qual'è il mistero della bellezza dell'uomo, se non l'uomo stesso, nella sua
testardaggine a farsi brutto?

____________________
(91) Enarrationes in Psalmos, 44,3, p. 1080.

55
PARTE SECONDA:

LA TEORIA DELLA SENSAZIONE


E IL PROBLEMA DELL'ARTE

56
Capitolo IV:

La concezione del sentire come atto estetico

La teoria della sensazione di Agostino, importantissimo punto di


riferimento per tutte le gnoseologie successive fino al nostro secolo, segue una
evoluzione parallela al suo cammino spirituale e ai conseguenti sviluppi della
sua concezione della corporeità e del sensibile in generale. Nelle prime opere,
infatti, quelle immediatamente successive alla sua conversione, si assiste ad
una generale svalutazione della sensibilità, in conseguenza alla reazione di
Agostino alla fase di estetismo e di scetticismo che aveva preceduto la sua
adesione all'insegnamento cristiano. E' psicologicamente comprensibile che,
nel momento in cui egli sceglie, come primo e assoluto valore, l'amore di Dio,
sia trasportato da questo a distaccarsi completamente da tutto ciò che prima
rappresentava il suo oggetto d'amore, le creature, le bellezze sensibili.
Considerando, poi, il ruolo fondamentale avuto dal pensiero neoplatonico nella
sua formazione, si capisce come questo distacco è, in questo periodo,
sottolineato quasi in modo esasperato, sicuramente da riequilibrare. A questo

57
svalutazione del sensibile corrisponde, specularmente, un innalzamento della
razionalità, quale fattore essenziale della proporzione e della simmetria che
caratterizzano la bellezza e, di conseguenza, quale principio operante nei sensi
superiori e qualificante gli stessi come tali. Nel De ordine Agostino afferma,
infatti, che la bellezza è percepibile solamente dalla vista e dall'udito, cioè dagli
unici sensi in cui può operare intrinsecamente la struttura razionale(1). Questi
sono i sensi superiori, mentre gli altri, la cui funzione è esaurita
nell'appagamento dei bisogni vitali, senza che intervenga la ragione, sono
considerati inferiori: "Possediamo, per quanto si sia potuto ricercare, alcune
tracce della ragione nei sensi, sia per quanto riguarda la vista e l'udito, sia nello
stesso piacere. Gli altri sensi, non per il piacere che è loro proprio, ma per
qualcosa d'altro sono soliti ottenere questo nome: cioè per qualcosa che è fatto
dall'animale dotato di ragione in vista di un fine. Ciò che compete alla vista, a
proposito del quale si dice che la proporzione delle parti è razionale, di solito si
chiama bello. Ciò che compete all'udito, quando diciamo che un concetto è
razionale e che un canto ritmico è composto razionalmente, ormai con nome
appropriato è chiamato dolcezza. Ma non siamo soliti definire razionale né ciò
che ci diletta nelle cose belle, né ciò che ci diletta nella dolcezza dell'udito
quando la corda toccata suona in modo quasi liquido e puro. Ne consegue
quindi che dobbiamo accettare che il piacere di questi sensi appartenga alla
ragione quando c'è proporzione e misura"(2). La vista e l'udito sono superiori
anche perché il loro oggetto, l'armonia, è un contenuto intelligibile, cioè
apprendibile dalla ragione a prescindere dai sensi stessi. Quelli inferiori,
invece, possono al limite ottenere la qualifica di razionali non per qualcosa a
loro intrinseco, ma per l'azione, in cui sono inseriti, che il soggetto razionale
____________________
(1) La limitazione della bellezza sensibile ai sensi della vista e dell' udito è già di Platone (cfr. Ippia
maggiore, 297 e sgg., p. 270 e sgg.; Repubblica, 401c, p. 384) e di Plotino (cfr. Enneadi, I, 6, 1, pp.
97-99).
(2) De ordine, II, 11.33, p. 65.
58
compie per raggiungere un certo fine. Anche i sensi superiori, però, risultano
svalutati, in quanto essi sono diretti a percepire il significante di un certo
contenuto estetico, mentre il significato di questo si riferisce solo alla mente:
"Se consideriamo bene le parti singole in questo stesso edificio, non possiamo
non essere disturbati nel vedere una porta di fianco e l'altra messa vicino al
centro, ma non proprio in mezzo. Infatti nelle costruzioni, se non c'è una
necessità stringente, l'errata proporzione delle parti è come un insulto per la
vista. Il fatto che invece all'interno tre finestre, una in mezzo, due a fianco,
diffondano la luce nella stanza a intervalli pari, se osserviamo bene ci diletta e
attira a sé l'attenzione, ed è cosa evidente, che non va spiegata a voi con molte
parole. Pertanto gli stessi architetti con un termine tecnico la definiscono
"ragione" e dicono che non hanno "ragione" le parti disposte in modo
asimmetrico. Il che si può estendere ampiamente e applicare a quasi tutte le arti
e le opere umane"(3).
La sensibilità è, quindi, in questo caso, considerata come un momento
non strettamente necessario, puramente strumentale e neanche definitivo, cioè
essenziale dell'uomo. Infatti essa appartiene allo stato di imperfezione in cui
l'uomo è caduto con il peccato, con il quale egli ha perduto la sua originaria
capacità di intellezione diretta ed è condannato ad essere necessariamente
condizionato dal corpo, di cui è costretto a servirsi. La via per giungere alla
bellezza risulta qui essere la pura ascesi intellettuale, che trova il suo modello
in quella neoplatonica. La percezione estetica è tutta sbilanciata verso
un'assoluta intellettualizzazione, mentre il concetto di bellezza che
l'accompagna risulta ridotto esclusivamente alle essenze intelligibili di natura
aritmetica e geometrica: "Da questo momento in poi la ragione ha voluto
elevarsi alla beatissima contemplazione delle realtà divine. Ma per non cadere
dall'alto, cercò dei gradini e si costruì la stessa via attraverso ciò che già
____________________
(3) Ibidem, II, 11.34, p. 66.

59
possedeva e un ordine. Desiderava infatti la bellezza, che può essere vista
direttamente e semplicemente senza questi occhi; ne era impedita dai sensi.
Così volse un poco lo sguardo ad essi, che proclamando di possedere la verità
la ritraevano con un baccano inopportuno quando essa si affrettava ad avviarsi
verso altro"(4). Così tutto ciò che di bello ci colpisce, interessa i sensi che ne
traggono godimento, ma il significato di quella bellezza, che ne è anche causa,
è rivolto solo all'anima, capace di cogliere razionalmente i rapporti numerici e
le strutture geometriche determinanti le armonie e le simmetrie. Sono questi
rapporti e queste strutture i costituenti essenziali del mondo sensibile, la realtà
velata dall'apparenza materiale e tangibile. Così, raccontando della genesi della
geometria e dell'astronomia, Agostino afferma: "Quindi (la ragione) passò nel
dominio degli occhi e girando per la terra e il cielo si accorse che niente le
piaceva come la bellezza, e nella bellezza le forme, nelle forme le misure, nelle
misure i numeri. E domandò a se stessa se tale linea o tale cerchio o qualsiasi
altra forma e figura fossero come quelle che sono nell'intelligenza. Le trovò
molto meno perfette e si accorse che sotto nessun aspetto si può paragonare ciò
che vedono gli occhi con ciò che scorge la mente. Analizzò e sistemò tutti
questi argomenti e definì la geometria. L'attraeva molto il movimento del cielo
e la invitava a meditarlo con diligenza. Comprese che anche qui, attraverso le
successioni costanti dei tempi, il corso fisso e definito degli astri, le distanze
proporzionali, dominavano nient'altro che la misura e il numero. E nel
collegare con ordine queste nozioni, attraverso definizioni e analisi, generò
l'astronomia, grande dimostrazione per chi ha fede, grande tormento per chi è
superstizioso"(5). Sono costanti in tutta l'opera, allora, questi elementi: il
dualismo di sensibile e intelligibile, il dualismo anima-corpo, la struttura
numerica della realtà e della bellezza e, in ultimo, l'esigenza di allontanarsi dal
____________________
(4) Ibidem, II, 14.39, p. 70.
(5) Ibidem, II, 15.42, p. 72.

60
sensibile e dal senso per poter cogliere le armonie superiori e la bellezza
dell'universo. Ma, anche se questa visione è quella che effettivamente risulta
preponderante nel De ordine, verso la fine del dialogo si trova un'osservazione
che ci può aiutare a comprendere meglio la posizione di Agostino: "E quando si
sarà ricomposta e ordinata e sarà ritornata armonica e bella, oserà mai vedere
Dio, e la stessa fonte dalla quale sgorga ogni vero e lo stesso Padre della
Verità. Grande Dio, come saranno quegli occhi! Come saranno sani, belli,
penetranti, stabili, sereni, felici! E che cos'è ciò che vedono? Che cosa, ti
prego? Che cosa possiamo pensare, reputare, esprimere? Ci si presentano
parole quotidiane, ma sono tutte sporcate da vili realtà. Non dirò di più, se non
che a noi è promessa la visione della bellezza, per imitazione della quale tutto il
resto è bello, a paragone della quale tutto il resto è brutto"(6). Affiora, da queste
pagine, non tanto l'esigenza di distacco dal sensibile desiderabile per se stesso,
quanto piuttosto la convinzione che, nella nostra essenza di uomini, non c'è
questo distacco, né tanto meno è presente una considerazione negativa del
corpo. Tuttavia quegli occhi, che appartengono al nostro corpo, per poter
svolgere a pieno la loro funzione di apprensione del reale e diventare
quegl'occhi belli a cui è donata la visione di Dio, hanno bisogno di rigenerarsi,
di purificarsi. Il sentire ed il corpo stesso hanno bisogno, quindi, di una
reformatio, non perché devono diventare diversi per accedere al divino, ma
perché sono diventati diversi con il peccato, cioè più deboli e, quindi, incapaci
di vedere. Anche se qui appena accennata, in questa ben più profonda
prospettiva è nell'essenza la differenza con i neoplatonici. Il tono prevalente
rimane comunque quello di una presa di distanza dal sensibile e dal corporeo,
che è quello che caratterizza i primi anni dopo la conversione. Così, nei
Soliloquia, altra opera di quel periodo, la medesima istanza di aspirazione alla
verità intelligibile lo porta ad una visione negativa dell'opera d'arte, ritenuta
____________________
(6) Ibidem, II, 19.51, p. 79.

61
falsificatoria della realtà, sulle orme dello stesso Platone(7). Anche in questa
opera, però, ci sono dei segnali che ci fanno intuire quale sarà il senso
dell'evoluzione del pensiero di Agostino. Infatti, precisando le condizioni e la
disposizione spirituale necessari per la cognizione di Dio, egli richiede una
mente che desideri liberarsi da ogni peccato con la fede, che professi di credere
alla salvezza con la speranza, che brami più di tutto di arrivare a contemplare
Dio attraverso la carità. Ancora una volta afferma che l'apprensione di Dio
richiede una rigenerazione dell'uomo, non limitata a qualche sua parte o a
qualche sua facoltà, ma riferita a tutta la persona nella sua concreta unità di
anima e corpo. Questo punto è fondamentale, in quanto per l'intellezione degli
enti matematici e geometrici non è certo necessaria questa conversione totale
della persona che desidera la comunione con Dio. L'ascesi cristiana, mi sembra
si possa affermare senza dubbi, si diversifica nettamente da quella
neoplatonica, dove a salire verso la Bellezza è soltanto l'anima, che troverà più
facile il cammino tanto più sarà stata capace di ignorare e frustrare il corpo e i
suoi bisogni. Il carattere dominante del cristianesimo, invece, non è il grado di
santità del credente o la sua capacità di innalzarsi verso Dio, che, indifferente,
non si cura delle sue vicende, ma è l'amore, e prima di tutto l'amore di Dio
verso gli uomini. Senza la Grazia divina, infatti, qualsiasi sforzo ascetico
dell'uomo sarebbe vano. Questo dono di Dio, non corrisponde ad un suo
perverso disegno, con cui ha disposto le cose in modo che l'uomo sia
ripetutamente costretto a riconoscere la signoria e l'incommensurabile
____________________
(7) La concezione più diffusa riguardo a questo punto, è la condanna dell'arte da parte di Platone, che la
considera imitazione di una imitazione e quindi troppo lontana dalle idee per aiutare in un cammino
verso di esse. Anche se fermarsi a queste affermazioni sarebbe sicuramente riduttivo, è innegabile che
tale concezione è quasi costantemente mantenuta in tutti i dialoghi, dal Fedro alle Leggi. Ma nella
famosa condanna dell' arte imitativa del X libro della Repubblica, si può leggere, nel tentativo di
salvare alcuni generi di poesia, la profonda insoddisfazione di Platone, diviso tra l'esigenza politica e
morale di allontanare i pericoli e gli ostacoli per la crescita dei cittadini, e la sua naturale inclinazione
verso l'amore per la poesia.
62
superiorità del suo signore-padrone, ma ci porta alla semplice e schietta
considerazione della realtà. L'uomo deve imparare a riconoscere e accettare la
verità, deve comprendere che esiste un criterio, da lui completamente
indipendente, per cui le cose stanno "così e così" e che, tra la sua
immaginazione e la realtà, vi è, nella maggior parte dei casi, una
incompatibilità totale. La più grande e pericolosa illusione dell'uomo (oggi più
che mai regina assoluta della nostra cultura) deriva proprio dal dare per
scontato che la realtà dipenda da lui e non lui dalla realtà, che poi equivale a
dire che non esiste una realtà, ma tante, e tutte legittime, quante sono i soggetti
che la pensano. Le conseguenze di questa mentalità ci sono evidenti in
qualunque campo della nostra vita, sia pubblica che privata.
La vocazione alla salvezza è, dunque, per Agostino, sia dell'anima che
del corpo, come viene espresso in vari passi delle sue opere(8), perché entrambi
sono buoni. Questo è fondamentale per le conseguenze che ha nella dottrina del
sentire, in quanto, se il corpo è buono originariamente, anche il senso, che
appartiene al corpo, è buono. Il distacco da Plotino e da Porfirio è ormai totale:
essi affermavano che il corpo è un non-essere che, partecipando della materia
che è il primo male, anch'esso è causa di male(9). Il pensiero di Agostino si
evolve, quindi, da una visione più vicina ai neoplatonici ad una in cui si fa
sempre più distinto l'emergere del pensiero biblico e cristiano, come abbiamo
già messo in evidenza nella prima parte di questo lavoro.
Vediamo, dunque, come viene spiegata la sensazione in questa fase, in
cui prevale nettamente una concezione strumentale del sentire. Agostino studia
questo fenomeno nel De quantitate animae, all'interno di un argomento più
vasto, il rapporto tra anima e corpo. Il problema viene studiato in riferimento
____________________
(8) Cfr. per esempio De vera religione, XII, 25, p. 170; Retractationes, I, 13.4; La città di Dio, libro
XIII.
(9) Enneadi, I, 8, 3-4, pp. 115-118; III, 6, 6, pp. 90-93.

63
alle sue determinanti ontologiche, vale a dire che il fine che si propone è quello
di stabilire i rispettivi ruoli dell'anima e del corpo nel verificarsi del fenomeno,
cioè individuarne la realtà responsabile. La concezione della sensazione deriva
così da quella del rapporto che l'anima e il corpo hanno tra loro. Questo è
analogo a quello che c'è tra l'operaio ed il suo attrezzo, quindi la sensazione è
un caso particolare dell'uso che l'anima fa del suo corpo. Ciò risulta chiaro già
dal modo in cui Agostino imposta il problema, interrogando il suo
interlocutore: "Dimmi che cosa, secondo te, è la sensazione che l'anima attua
mediante il corpo"(10). Questa interpretazione è solo un primo abbozzo di
soluzione della questione, che viene in seguito approfondita più
adeguatamente. La definizione a cui arriva Agostino è che la sensazione è
essenzialmente una passione del corpo di cui l'anima si avvede
immediatamente: "Così si deve definire, ora lo comprendo, che sensazione è
modificazione del corpo, la quale in sé è presente nell'anima. Infatti ogni
sensazione è questo e, secondo me, soltanto questo è sensazione"(11). Gli
elementi determinanti la sensazione, la passio corporis da un lato e l'atto
d'attenzione dell'anima dall'altro, sono strettamente congiunti in un'unità
indissolubile e al tempo stesso in relazione tra loro come realtà distinte. Questa
sintesi originaria manifesta come si configuri il rapporto a lei presupposto,
quello cioè tra l'anima e il corpo, in unità e relazione tra loro, a costituire l'ente
animato. L'autentico principio attivo della sensazione è, però, per Agostino
come già per Plotino, solo l'anima, a cui inerisce veramente l'attività di
sentimento. Il fatto che l'anima sia considerata attiva ed il corpo passivo, come
sarebbe invece se si affermasse che l'anima sente perché subisce un'azione dal
corpo, viene giustificato dal criterio secondo cui l'inferiore non può in nessun
modo agire sul superiore. Mi sembra che questa spiegazione sia quanto meno
____________________
(10) De quantitate animae, XXIII, 41, p. 75.
(11) Ibidem, XXV, 48, p. 89.

64
criticabile, non per il risultato a cui giunge, ma per la strada seguita, che
testimonia ancora una eccessiva dipendenza dalla mentalità neoplatonica.
Quello che si legge tra le righe è, infatti, la preoccupazione primaria di salvare
la priorità dell'anima sul corpo, mentre, presentando come fa Agostino l'intima
connessione tra i due enti e la "bontà" di entrambi, si potrebbe forse più
tranquillamente tirare le conclusioni coerenti del discorso, giungendo a
considerare il corpo come naturale campo di sensibilità della persona, che in lui
subisce le azioni o le reazioni del mondo esterno in cui si muove. Questi
stimoli producono un "patire" del corpo, quindi delle modificazioni del corpo,
che l'anima avverte istantaneamente poiché la connessione con lui fa sì che
esso sia il primo "sentito" dall'anima. E' chiaro che l'unità di corpo e anima è
presupposta assiomaticamente, quindi non bisogna commettere l'errore di
indagare la sensazione con l'aspettativa che questa sveli il mistero di questa
connessione originaria, che costituisce la relazione essenziale di sensibilità, da
cui poi deriva la possibilità di tutte le altre sensazioni successive. Anche in
questo caso è evidente come per Agostino il mistero sia una componente
essenziale non solo di Dio, ma di tutti gli enti creati. Se non si tenesse conto di
questo, la sua teoria della sensazione porterebbe ad una aporia dualistica
irrisolvibile, in quanto non si spiega razionalmente come due sostanze diverse
possano essere in relazione tra loro. Coscienti della dimensione del mistero,
invece, non si può considerare il corpo semplicemente come una res extensa,
ma bisogna presupporlo come un ente "animato". Tuttavia, nella trattazione di
Agostino, non è ancora esposta in maniera così chiara e decisa quella che poi è
veramente la sua teoria, così che il corpo risulta, come abbiamo detto, un
semplice attrezzo dell'anima. Ma bisogna tener presente non solo l'influenza
plotiniana, ma soprattutto il fatto che in questa opera l'obiettivo primario di
Agostino non è quello di fondare un'estetica, ma quello di dimostrare
l'immaterialità dell'anima. Il termine di "quantità", da lui usato riguardo

65
all'anima, si riferisce infatti alla sua grandezza come valore, non come
estensione spaziale. Così la sensazione è studiata in relazione alla definizione
che egli dà dell'anima: "sostanza dotata di pensiero e ordinata a governare un
corpo"(12). In questa funzione di governo del corpo, la sensazione svolge un
importante ruolo, ordinato all'organizzazione della vita e alla conservazione
dell'equilibrio del corpo. Il sentire concepito come strumento accomuna l'uomo
e l'animale, in cui esso è ancora più potente e svolge ruoli di importanza
maggiore. L'animale, infatti, si avvale solo dei sensi per la sua vita di relazione
con l'ambiente, per procurarsi il nutrimento ed il piacere corporeo. L'uomo,
invece, che è superiore essendo dotato della ragione, può trarre godimento
anche da questa e rivolgersi a gioie interiori: "Molte bestie ci superano nella
sensazione. Non è qui il luogo di trattare la ragione del fatto. Iddio comunque
ci ha creati superiori ad esse per l'intelligenza, la ragione, la scienza. Ma la
sensazione, con l'aiuto dell'adattamento che ha un grande potere, può
discernere gli oggetti che sono fonte di godimento per le anime inferiori, e
tanto più agevolmente perché l'anima bruta è più condizionata al corpo, in cui
risiedono gli organi funzionali al vitto e al piacere, che essa riceve nel corpo
stesso. L'anima umana al contrario, mediante ragione e scienza, di cui
trattiamo, per il fatto che esse sono di gran lunga superiori ai sensi, si distacca
dal corpo nei limiti che le è possibile e gode più volentieri del piacere interiore,
ma quanto più si abbassa alla sensibilità, tanto più rende l'uomo simile alla
bestia(13). In questo modo Agostino afferma decisamente la superiorità della
cognizione intellettuale sulla percezione sensibile, per la sua capacità di avere
scienza di enti puramente intelligibili, che appaiono come mete più alte perché
lontane dalla materialità dei corpi. La concezione strumentale del sentire
sostenuta in questo dialogo, si chiarisce definitivamente nella parte finale dello
____________________
(12) Ibidem, XIII, 22, p. 47.
(13) Ibidem, XXVIII, 54, p. 97.

66
stesso, dove Agostino espone la teoria dei diversi gradi del valore dell'anima(14).
Al grado più basso colloca l'attività di animazione del corpo, con cui l'anima lo
rende vivo, mantiene le sue diverse parti in unità e in armonia, attiva la
distribuzione del nutrimento nelle membra e regola la crescita e la generazione.
Tutte le proprietà caratteristiche dell'atto di animazione sono comuni agli
uomini, agli animali e alle piante. A questo livello l'anima si manifesta quindi
come ragione seminale nel mondo della natura. Al secondo gradino si trova
invece la sensazione, di cui non si possono avvalere le piante e che, di
conseguenza, caratterizza la vita animale e quella dell'uomo in quanto animale.
Sono elencati qui tutti quei campi con cui essa ha a che fare: il tatto per
percepire il caldo e il freddo, la durezza e la mollezza, il liscio e il ruvido; il
gusto, l'odorato, l'udito e la vista con i quali si possono percepire innumerevoli
varietà di aromi, di profumi, di suoni e di forme; nei sogni che si fanno durante
il sonno l'anima ripercorre tutti materiali che hanno prodotto sensazioni durante
la veglia, mentre i sensi stessi rigenerano le loro forze; nel congiungimento
sessuale favorisce l'unione dei corpi rendendola piacevole e segno dell'amore
che li unisce; contribuisce ancora alla generazione, all'allevamento della prole,
alla sua difesa e nutrimento. Il sentire risulta chiaramente attinente
esclusivamente alle sue funzioni pratiche utili alla vita ed è per questo che,
nella sensazione, non sembra esservi nulla che differenzi l'uomo dalle bestie, se
non la potenza maggiore dei sensi in esse. Questo discorso esclude di fatto, o
perlomeno non prende in considerazione, il sentire nella sua capacità di
percepire il bello come piacevole, potere che gli animali non posseggono,
essendo la loro sensibilità del piacevole limitata alla sua forma più semplice,
corporea, immediata. L'uomo invece ha la capacità di cogliere la bellezza a
partire dalle sensazioni e manifesta attrazione e desiderio per essa a prescindere
da ogni sorta di appagamento fisico e biologico. La percezione del bello,
____________________
(14) Ibidem, XXXIII, 70 e sgg., p. 115 e sgg.

67
attività di natura spirituale, gli fa avvertire la possibilità della piena
realizzazione della sua identità, gli è indizio, in altre parole, della sua
vocazione alla bellezza, che viene così postulata come valore oggettivo, come
essere. Questo significa riconoscere la possibilità di una vera e propria
dimensione estetica, che porta con sé una alta considerazione della sensibilità.
In questo dialogo, invece, ciò non viene preso in considerazione e la
sensazione, di conseguenza, non può che essere relegata ad un gradino basso
della scala di ascesi dell'anima, puro strumento di essa nell'espletamento di
compiti necessari, visto la sua unione con un corpo, ma che, in definitiva, la
sacrificano e la ostacolano non poco nella sua aspirazione a Dio. Nei successivi
gradi più alti della scala trovano posto attività umane come le tecniche
artigianali, la coltivazione dei campi, la costruzione di città e monumenti,
l'invenzione dei segni dell'alfabeto, le arti in genere e le scienze matematiche e
geometriche, la poesia e l'eloquenza. Tutte queste, dice Agostino, non sono
valori di per sé, essendo comuni, infatti, sia ai dotti che agli ignoranti, sia ai
buoni che ai cattivi. Per questo il punto determinante dell'ascesi è la scelta del
cammino di purificazione alla virtù, che termina nella contemplazione divina,
meta ultima del cammino umano. Con la purificazione dell'anima, possono
allora trovare la loro autentica valorizzazione tutte le attività dette prima.
Attività in cui, però, la sensibilità non entra mai, essendo essenzialmente
considerate campo di azione della razionalità, facoltà decisamente superiore ai
sensi. Solamente in opere successive, quando il pensiero di Agostino sarà
maturato nell'approfondimento dottrinale e vissuto del cristianesimo, la
dimensione estetica ed il sentire troveranno la loro adeguata valorizzazione. E'
indicativo, d'altra parte, che l'unico punto nel De quantitate animae in cui vi è
un accenno ad una visione più soddisfacente della problematica estetica, si
colleghi strettamente ai temi della incarnazione e della risurrezione della carne,
da cui poi partirà effettivamente la rivalutazione del corpo e di ciò a cui esso è

68
collegato, come il senso. Dice infatti Agostino che nella contemplazione della
verità vi è tanto godimento, tanto compiacimento della perfezione, tanta
certezza dell'oggetto che sembra di non aver mai, prima, conosciuto nulla, e
che la morte, quae antea metuebatur, id est ab hoc corpore omnimoda fuga et
elapsio, pro summo munere desideretur(15). Incontrata veramente la Verità nella
contemplazione, si arriva a desiderare addirittura come ricompensa la morte,
cioè la liberazione definitiva non dal corpo, ma da questo corpo. Si apre quindi
la prospettiva, non tanto dalla dimensione terrena a quella ultraterrena, ma da
una concezione che dà per scontato l'identità tra la realtà e ciò che costituisce la
nostra esperienza carnale, ad una consapevolezza che la nostra identità di
persona, inscindibile unità di corpo e anima, non è realizzata nel nostro stato
attuale, a causa del peccato. Questo corpo, quindi, che possediamo, nella sua
forma esistente non coincide con la sua forma essenziale. Ritorna perciò la
necessità di una reformatio corporis et sensus, che si compirà pienamente con
la risurrezione, ma che può già iniziare durante la vita. Questo del De
quantitate è comunque ancora un piccolissimo spiraglio ad un concetto più
profondo del sentire, mentre rimane dominante l'impostazione neoplatonica del
problema e la conseguente svalutazione del senso e del corpo in genere, che, tra
l'altro, nega al sentire anche qualsiasi possibile contributo alla vita religiosa,
come viene chiarito, alla fine del dialogo, con l'individuazione del terzo grado
come punto di partenza del rapporto con Dio: "E' vera religione quella con cui
l'anima, mediante la riconciliazione si lega di nuovo a Dio, dal quale s'era
disciolta, per così dire, col peccato. E' essa dunque che nel terzo grado
imbriglia l'anima e comincia a guidarla, la purifica nel quarto, la rinnova nel
quinto, la introduce nel sesto, la nutrisce nel settimo"(16).

____________________
(15) Ibidem, XXXIII, 76, p. 124.
(16) Ibidem, XXXVI, 80, p. 131.

69
Capitolo V:

La concezione del sentire come atto estetico.

Nel De musica Agostino studia il problema della percezione musicale e


ritorna vivo, così, l'interesse per la sensazione. La sua attenzione è rivolta, in
primo luogo, verso quegli elementi del fenomeno musicale più facilmente
riconducibili a strutture numeriche e schemi matematici, come voleva la
tradizione pitagorica, a cui egli era comunque legato, intellettualisticamente,
soprattutto nel periodo giovanile. Oggetto del suo studio è così il ritmo, mentre
egli lascia in secondo piano le questioni inerenti all'aspetto melodico, che, per
le sue caratteristiche, non si prestava facilmente a razionalizzazioni
matematiche. L'elemento chiave della musica, afferma Agostino, è il numero.
Nel corso del suo pensiero egli usa il termine numerus per esprimere almeno
quattro significati diversi: il significato logico-matematico, come nel De Libero
Arbitrio(17); il significato musicale di ritmo, come nel De musica, soprattutto i
primi cinque libri; il significato di armonia, sia per quanto riguarda la musica,
____________________
(17) De Libero Arbitrio, II, VIII, 20-23, p. 237 e sgg.

70
sia per quanto riguarda la bellezza del cosmo ordinato e la bellezza dell'uomo
che gode dell'unità armonica delle sue facoltà; il significato teologico che
esprime la pienezza dell'unità divina, in cui risiedono le proporzioni
matematiche, i ritmi e l'armonia. Nel nostro caso, quindi, numero è inteso come
ritmo, ma con un potenziale significativo molto ampio, che tiene conto anche
delle altre accezioni del termine.
La sensazione che coglie il fenomeno musicale ha, quindi, di riflesso al
suo contenuto, un intrinseco carattere "numerico", che ne esprime gli aspetti
ritmico-armonici. Questo complesso contenuto "sentito" risulta dal reciproco
contributo di "numeri" diversi, che Agostino elenca come ritmi sonanti, ritmi
della memoria, ritmi presenti o percepiti, ritmi progressivi e ritmi giudicativi(18).
Egli li presenta però nell'ordine inverso, cioè gerarchicamente elencati secondo
il loro rispettivo grado di necessità, in riferimento alle condizioni di possibilità
della percezione. Così i primi sono i ritmi giudicativi e gli ultimi i sonanti.
Questi (numeri sonantes) sono i ritmi che si trovano nella vibrazione dell'aria
che trasmette il suono, quindi nell'impressione sonora che colpisce il nostro
orecchio; i ritmi della memoria (numeri recordabiles) sono quelli grazie ai
quali il soggetto riesce a prolungare o a ricreare la presenza del contenuto
percettivo alla sua mente o a confrontarlo con un altro già passato; quelli
contenuti nella sensazione di chi percepisce il suono sono i ritmi presenti
(numeri occursores); come questi ultimi derivano dai primi, quelli a loro volta
derivano dai ritmi progressivi (numeri progressores), cioè da quelli presenti
nella sorgente sonora, che imprimono una certa vibrazione all'aria; infine, i
ritmi giudicativi (numeri judiciales) sono quelli presenti a priori in chi ascolta,
che gli permettono di giudicare istintivamente il suono ricevuto. Tutti questi
rappresentano i coefficienti dell'esperienza musicale dal punto di vista
percettivo.
____________________
(18) De musica, VI, 6.16, p. 237.

71
L'individuazione, da parte di Agostino, di elementi apriori della
percezione, lo riporta al tema della relazione anima-corpo ed al proposito di
stabilire i loro rispettivi ruoli nella sensazione. L'occasione gli si presenta
quando deve spiegare perché i ritmi sonanti sono gli ultimi nella scala
gerarchica da lui indicata, mentre all'apparenza sembrerebbero dover avere la
priorità, come causa della sensazione. Sembra infatti che l'anima, nella
percezione del fenomeno musicale, rimanga passiva e subisca l'azione del
suono corporeo. Affermare questo, però, è assurdo in quanto rovescia
esattamente quella che è la verità: è l'anima che opera l'animazione del corpo e
non può essere questo, quindi, ad avere soggetto a sé la materia spirituale. Gli
stimoli esterni, in questo caso i suoni, non producono i loro effetti direttamente
sull'anima, ma nel corpo da lei animato. Queste azioni dall'esterno possono
avere degli effetti sul corpo che favoriscono il compito dell'anima di
governarlo, oppure sfavorevoli alla sua attività. Non sembra esservi la
possibilità di effetti neutrali, in quanto ciò comporterebbe l'assenza di qualsiasi
modifica corporea, cioè nessun effetto. Dal momento che questi effetti ci sono,
quindi, questi possono risultare facilitanti l'azione dell'anima od ostacolanti la
stessa, procurando piacere i primi, dolore i secondi. Quando si verifica un
effetto sfavorevole, questo intensifica il grado di attenzione dell'anima, che
trovando difficoltà ad agire, esplica il suo potenziale sensibile ad un atto di
sensazione di dolore o di fatica. L'anima, con questa sensazione, si rende più
cosciente della sua azione. Sembra quindi che essa si verifichi nella misura in
cui c'è contrasto tra lo stimolo e l'anima, o meglio, tra la resistenza opposta dal
corpo e l'anima. Se così fosse, nel caso in cui le impressioni del corpo fossero
tutte favorevoli all'azione dell'anima, non si avrebbe nessuna sensazione, per la
mancanza di contrasto. Questo è un punto non del tutto chiaro nella trattazione
di Agostino, poiché prima afferma che non è dal contrasto in quanto tale che si
origina la sensazione, ma dalla modifica del corpo, per cui non vi è solo la

72
sensazione negativa di dolore o di fatica, ma anche quella positiva di piacere,
se l'anima viene favorita; poi, invece, sembra che in uno stato di perfetta
armonia tra anima e corpo, in cui esso asseconda dolcemente l'anima, si
verifichi la totale assenza di sensazioni: "Io credo infatti che il corpo sia
animato dall'anima solo per l'intenzione di chi agisce. E non penso che l'anima
sia modificata dal corpo, ma che agisca in esso e su di esso in quanto soggetto
al suo dominio per volere divino. E che talora agisca con facilità, talaltra con
difficoltà, a seconda che la natura corporea, per la sua dignità, le sia più o meno
sottomessa.
Dunque tutti gli oggetti sensibili che sono introdotti nel corpo, o gli si
presentano dal di fuori, producono non nell'anima, ma nel corpo, qualcosa che
ostacola o favorisce l'azione dell'anima. Perciò quando l'anima oppone
resistenza a ciò che la ostacola e spinge con difficoltà la materia che le è
soggetta sulle vie del proprio agire, a causa della difficoltà diviene più attenta
nell'azione. E quando non le si nasconde questa difficoltà, poiché è cosciente,
si dice sentire, e in questo caso si chiama dolore o fatica. Quando invece ciò
che si introduce o si avvicina è adeguato all'anima, lo porta con facilità, tutto o
quanto è necessario, sui cammini del suo agire. E questa sua azione, con cui
mette in contatto il suo corpo con un corpo esterno adeguato, non resta
nascosta, perché è compiuta con più attenzione a causa dello stimolo esterno.
Inoltre, per l'adeguatezza, è avvertita con piacere"(19). E poco più avanti:
"Dunque, dato che sentire è far muovere il corpo contro il moto che in esso è
stato prodotto, non pensi che per questa ragione non si sente nulla quando si
tagliano ossa, unghie o capelli, non perché queste cose non vivano in noi,
perché altrimenti non si conserverebbero, non si nutrirebbero, non
crescerebbero o non mostrerebbero la loro forza nel riprodursi, ma perché sono
stimolate da un'aria, cioè un elemento mobile, meno libera, di quella che fa sì
____________________
(19) Ibidem, VI, 5.9, pp. 230-231.

73
che il moto possa giungere veloce dall'anima, tanto quanto quello contrario che
si ha quando si dice di provare una sensazione?
Poiché si sa che tale vita si trova negli alberi e nelle altre piante, non si
può assolutamente anteporre non solo alla nostra vita, che è superiore anche per
la ragione, ma nemmeno a quella delle bestie. Una cosa infatti è non sentire
nulla per la totale mancanza di sensibilità, un'altra per salute totale del corpo.
Nel primo caso mancano gli strumenti, che reagiscono alle passioni del corpo,
nel secondo mancano le stesse passioni"(20). Tutto sta a vedere cosa succede in
questo stato di salute totale, infatti la mancanza di sensibilità che si verifica è
quella derivante dall'assenza delle passioni del corpo, quelle che provengono
dai suoi bisogni e dalla sua voluttà. Nel caso citato della vita delle piante
mancano gli organi di senso, nel caso dell'anima in armonia con il suo corpo
mancano le passioni, ma gli organi ci sono e sono nella migliore condizione di
funzionalità. La capacità dell'anima di sentire è quindi essenziale all'anima
stessa e non solo legata allo stato di peccato o comunque alla dimensione
terrena. Una volta esaurita la sua funzione strumentale, il sentire rimane
comunque come atto essenziale dell'anima, anzi può forse solo allora esplicare
al meglio la sua ragione d'essere, non più condizionato dai bisogni del corpo. E'
chiaro infatti che se il corpo è eccessivamente oberato dalla stanchezza, o in
preda alla fame, al sonno o alla malattia, l'anima, che insieme con il corpo
forma un'unità, non si trova nelle condizioni idonee all'esercizio delle sue
attività mentali, che non sono solo la contemplazione della verità e il raziocinio
logico-scientifico, ma anche la percezione della bellezza. Con questo passaggio
Agostino libera il sentire, anche se a fatica, dalla riduzione alla sua
strumentalità biologica e gli conferisce la capacità di una dimensione
autenticamente estetica, lo riconosce cioè abile ad una vera e diretta
apprensione dell'essere attraverso il valore della bellezza. La dimensione
____________________
(20) Ibidem, VI, 5.15, pp. 235-236.

74
strumentale non viene negata ma ridimensionata, non costituendo l'essenza
dell'attività di sensazione, ma una funzione di essa. In uno stato di perfetta
integrità dell'io le sensazioni derivanti da questa funzione cesserebbero, perché
l'anima non dovrebbe più rivolgere la sua attenzione ai contrasti del corpo. In
questo senso non ci sarebbe più sensibilità, perché lo stato di quiete non
richiede l'attenzione. L'anima potrebbe così essere totalmente impegnata nel
godimento diretto della bellezza, dove la sensazione corrisponde
all'apprensione diretta dell'essere e dell'armonia dell'universo. Questa sarà la
condizione che si riscontrerà dopo la resurrezione del corpo, quando esso non
sarà più corruttibile e sarà stato rigenerato a vita nuova. In una certa misura,
però, per quanto limitata, questa può essere anche la condizione di chi, in vita,
riconosce Dio come suo Signore e cerca di condurre un'esistenza libera, per
quanto possibile, dal peccato.

75
Capitolo VI:

Il giudizio estetico.

Come abbiamo visto nel capitolo precedente Agostino ritiene che i


numeri judiciales, cioè i ritmi giudicativi, siano i più determinanti tra i fattori
che concorrono all'atto di percezione capace di cogliere l'armonia. Questi
numeri musicali sono contenuti nell'anima e vi esistono in modo perfetto, tanto
che, grazie a loro, il soggetto è in grado di ricevere una impressione immediata
di piacere o di disagio dall'ascolto di una certa musica o di determinati versi.
Essi rappresentano, quindi, la regola dell'armonia a cui gli altri numeri debbono
conformarsi ed il criterio in base al quale questi possono essere giudicati.
Questi ritmi presenti nel soggetto costituiscono un apriori del sentimento: "Non
direi con tranquillità che il senso sia privo di questi ritmi costituiti in lui, anche
prima che qualcosa suoni, altrimenti non potrebbe deliziarsi della loro armonia
e infastidirsi della dissonanza. Io chiamo ritmo dello stesso udito questo
qualcosa con cui approviamo o rifiutiamo, non con la ragione, ma per natura,

76
quando qualcosa suona. La capacità di approvare o rifiutare non nasce nel mio
udito quando ascolto un suono, poiché l'udito è aperto ai suoni buoni allo stesso
modo che ai cattivi (...) (Il ritmo percepito) non può esserci se non ha il suono
come sua causa: è simile alla figura specchiata nell'acqua, che non si forma
prima che il corpo vi si specchi e non rimane quando si ritrae. In verità, la
facoltà naturale, per così dire, di giudicare, che è presente nell'udito, non smette
di esistere nel silenzio, e non ce la dà il suono, che, piuttosto, da essa è ricevuto
come gradevole o sgradevole. Pertanto queste due possibilità, se non sbaglio,
sono da distinguere, e si deve ammettere che i ritmi che si trovano nello stesso
sentire dell'udito, quando si ode qualcosa, sono introdotti dal suono, eliminati
dal silenzio. Da ciò deriva che i ritmi che sono nello stesso suono possono
esserci senza quelli che ci sono nell'atto dell'udire, mentre questi non ci
possono essere senza quelli"(21). Vi sono, allora, i ritmi percepiti, che,
dipendendo dal suono, sono presenti nel soggetto con le caratteristiche del
suono e per la durata del suono, mentre se questo è assente non vi è alcun
percepito; vi sono poi i ritmi giudicativi, che, invece, appartengono alla
struttura stessa del senziente e non dipendono dal contenuto sensibile, quindi
sono indipendenti sia dal suono emesso che da quello percepito. Rimanendo
sufficientemente stabili e invariati, anche se non indipendenti in maniera
assoluta dall'interazione con l'esperienza nel tempo(22), presenti anche nel
silenzio, rappresentano una naturale apriori virtù di giudizio del soggetto.
Questo è un punto di fondamentale importanza per il nostro discorso,
derivando da qui il riconoscimento della capacità del sentire di attingere
direttamente l'essere, sentire che riceve pienamente una rivalutazione come
____________________
(21) Ibidem, VI, 2.3, pp. 223-224.
(22) Agostino si chiede se questi ritmi siano eterni e sembra concludere che, esistendo un limite di
durata oltre il quale la nostra sensibilità, che varia anche da individuo a individuo, non è più in grado di
valutare il rapporto tra lunghezza dei suoni, non si può attribuire ad essi l'eternità. Vedi Ibidem, VI,
7.17-19, pp. 237-239.

77
attività estetica. Il fatto che Agostino non presenti questa virtù solamente come
una generica e neutra capacità di accogliere tutte le impressioni ricevute, ma
come una struttura già in sé armonica, dalla quale dipende il riconoscimento
della armonia presente nel mondo sensibile, conferisce all'anima, come realtà
senziente, una posizione privilegiata e particolarissima. E' infatti nell'anima e
nell'atto estetico di questa che l'armonia cosmica entra nell'ordine della
cognizione e della percezione. L'anima viene a rappresentare il termine finale
della strutturazione armonica dell'universo da parte del Creatore.
Agostino non esaurisce così il discorso sulla percezione estetica, in
quanto sembra insoddisfatto di una trattazione che si fermi al momento del
diletto estetico reso possibile dai numeri judiciales: "Tentiamo, se riusciamo, di
superare questi ritmi del giudizio e cerchiamo se ce ne siano di superiori (...)
Non si perde nulla perché indaghiamo con più diligenza. Infatti o ne troveremo
di superiori nell'anima umana, o confermeremo che i ritmi del giudizio sono
nell'anima i migliori, se si evidenzierà che in essa non ve ne sono di più
perfetti. Una cosa è che non ce ne siano, un'altra è che non possano essere
scoperti, da noi o da nessuno. Ma penso che quando si canta il verso da noi
proposto: Deus creator omnium(23), lo ascoltiamo con i ritmi presenti, lo
riconosciamo con i ritmi della memoria, lo pronunciamo con i progressivi, ne
siamo dilettati dai ritmi del giudizio e lo valutiamo con non so quali altri, ma da
questo diletto, che è come la sentenza dei ritmi del giudizio, noi attraverso ritmi
più nascosti pronunciamo una sentenza più certa. Oppure ti sembra che sia la
stessa cosa essere dilettati dal senso e valutare con la ragione?"(24). Agostino è
consapevole che una cosa è provar piacere della sensazione armonica che
____________________
(23) E' il primo verso di un inno composto da Ambrogio (Hymnus 4, 1), che Agostino prende come
esempio all' inizio del VI libro. Tutte le citazioni che egli usa in questo libro sono tratte da autori
cristiani o direttamente dalle Scritture, a differenza degli altri libri che abbondano di esempi presi dal
mondo pagano.
(24) Ibidem, VI, 9.23, pp. 242-243.

78
corrisponde alla spontanea armonia della virtù sensitiva, altra è valutarla con la
ragione: la prima è una operazione totalmente soggettiva, la seconda invece fa
riferimento all'oggettività del bello. I due momenti non sono in antitesi, anche
se ciò può accadere per una distorsione del sentimento o della ragione, ma
complementari, in quanto con la ragione io riferisco il piacevole soggettivo al
bello oggettivo. Questi, quindi, non possono identificarsi, anche se il bello
come valore oggettivo si attua nel sentimento soggettivo per diventare bello
estetico. Quello che più importa è che il sentimento è sempre fondato
dall'oggettività della bellezza come valore, per cui non si potrà affermare che
qualcosa è bello perché piace, ma che piace perché è bello, anche se,
subentrando la possibilità del senso di essere indebolito e sviato, potranno
piacere anche cose che non sono belle. In definitiva, perciò, Agostino riconosce
al sentimento una sorta di apriorità, essendo esso "imbevuto di alcuni ritmi"(25)
senza i quali non sarebbe abile a cogliere con piacere i ritmi ordinati e a
respingere quelli disordinati, ma sostiene l'esigenza di un intervento della
ragione a vagliare ciò che risulta piacevole al senso. La ragione, dal canto suo,
non potrebbe giudicare dei numeri a lei inferiori se non fosse provvista di ritmi
superiori e più duraturi di quelli propri del sentimento. Da questo momento in
poi egli definisce ritmi corporali quelli fino a questo punto chiamati sonanti e
ritmi sensibili i ritmi del giudizio, per non confondere questi ultimi con quelli
della ragione, a cui è più appropriato riconoscere la facoltà di formulare
giudizi(26). Nella ragione si trovano dei numeri incorporali ed eterni, che
fungono da criteri che essa segue per riconoscere le armonie. Essi derivano
direttamente da Dio, bellezza e armonia assolute, che le comunica alla mente
dotandola così di una ragione estetica. Questo concetto non esprime la presenza
di più principi razionali nell'anima, ma un modo specificato dell'unica ragione,
____________________
(25) Ibidem, VI, 9.24, p. 244.
(26) Ibidem.

79
come dimensione della razionalità a cui spetta un particolare tipo di giudizio,
quello estetico. Il godimento estetico dell'anima è quello che deriva dal
riconoscimento razionale dell'uguaglianza tra l'armonia presente in un certo
contenuto sensibile e l'armonia impressa nei ritmi della ragione. Ora, è evidente
che questa corrispondenza non è mai possibile pienamente sul piano
dell'esistenza sensibile, avendo questa in sé l'imperfezione del divenire e del
peccato. Per questo il godimento più alto sarà trovato dall'anima in Dio, che
essa potrà contemplare attraverso le ragioni divine in lei contenute: "La ragione
poi ricerca e interroga il piacere dell'anima, che rivendica a sé gli aspetti del
giudizio. Gli domanda se, mentre lo delizia nei ritmi l'uguaglianza delle
lunghezze di tempo, le due sillabe brevi, che ha sentito, siano davvero uguali,
oppure se è possibile che una delle due sia pronunciata più lentamente, non
fino alla misura della sillaba lunga, ma un pochino meno, tanto da superare
comunque la sua compagna. Forse si può negare che è possibile, anche se
questo piacere non se ne accorge e gode di tempi ineguali come se fossero
uguali? E che cosa è più sgradevole di questo errore e di questa inuguaglianza?
Da ciò siamo invitati a togliere il godimento da questi ritmi, che imitano
l'uguaglianza e non possiamo comprendere se diano la pienezza. Tuttavia
proprio perché imitano, non possiamo negare che siano belli nel loro
genere"(27). Le rationes incorporales et sempiternae sono idee(28) che Dio rivela
all'uomo inserendole nella profondità della sua interiorità. L'anima che si è
ordinata al Creatore le può apprendere tramite la sua dimensione superiore,
cioè la mente stessa e la ragione. A questo punto è importante tener conto della
distinzione che Agostino opera fra i termini anima, animus e mens. Tutti e tre
indicano l'anima, che per Agostino ha un'essenza unitaria, che si esplica, però,
____________________
(27) Ibidem, VI, 10.28, p. 247.
(28) Agostino espone in particolare la sua dottrina delle idee nel De diversis quaestionibus, LXXXIII,
quaestio XLVI, "De Ideis".

80
in una pluralità di forme o di funzioni. Così anima, in senso specifico, è riferito
al principio operante l'animazione del corpo; animus designa l'anima dell'uomo
in contrapposizione a quella dell'animale, quindi la sua essenza spirituale; mens
indica anch'essa questa essenza o preferibilmente la dimensione superiore
dell'animus come principio spirituale, dove hanno sede la ragione e
l'intelligenza. Pur non essendo applicata in maniera rigida, questa
diversificazione nell'uso di questi termini è generalmente presente, soprattutto
nelle opere della maturità.
L'anima, dunque, o meglio, la mens, nella misura in cui è unita a Dio
nella carità, è illuminata da Lui e, tramite l'intelletto, può riconoscere le idee
eterne, con la cui visione può giungere alla beatitudine suprema. Naturalmente
l'allontanamento da Dio comporta l'oblio delle idee e l'impossibilità di averne
una diretta intuizione. Rimangono, di esse, solo leggere tracce nel fondo della
memoria. Il tema della memoria è uno dei più importanti tra quelli trattati da
Agostino e la sua dottrina si svolge nell'intero arco della sua opera. La memoria
a cui qui ci si riferisce, non è quella sensibile, dove vengono ricordati i dati
esperienziali passati, ma un luogo più profondo, in cui Dio si rivela all'uomo
tramite le idee. La presenza di Dio alla mente è però una presenza trascendente
di cui spesso non ci si accorge. Essa richiede, perciò, un'attenzione da parte
dell'uomo, che si fa interiormente consapevole della relazione con il Padre e si
volge a Lui come alla sola luce capace di indicargli la via e di illuminare il suo
giudizio sulle cose e sulla vita. Più l'anima si allontana dalla Luce, più le idee si
obliano e più difficile è dare un giudizio veritiero e avere un discernimento
corretto sulla realtà delle cose e sull'ordine che le governa. Questo vale
naturalmente anche per il giudizio estetico, cioè per la possibilità e la capacità
di discernere il bello e l'armonia del mondo, sapendolo distinguere e separare
da ciò che, invece, è brutto, disarmonico, inconsistente. Anche per l'intuizione
delle armonie intelligibili, quindi, è necessario che l'anima sia ordinata al

81
Principio, pena l'oblio dei criteri con cui essa può riconoscere e amare la
bellezza. Il discorso che si è fatto precedentemente sulla felicità, è
perfettamente valido anche per la bellezza: tutti la vogliono cercare, anche chi
apparentemente lo nega, ma ognuno la cerca in modo diverso, poiché è capace
di vedere in misura diversa. Così si può credere di cercare o di aver trovato la
bellezza mentre in realtà i nostri occhi, soprattutto quelli interiori, ci tradiscono
perché indeboliti o smarriti nell'opacità del disordine esistenziale in cui siamo
immersi. Così la bellezza particolare delle creature ci trattiene a sé, divenendo
subito bruttezza perché fuori misura, mentre noi ci disperdiamo nel nulla
insistendo ad ogni costo nel voler attingere essere ad una sorgente che è solo un
miraggio, un'illusione ottica prodotta dalla nostra condizione di assetati e
disidratati dai nostri amori sbagliati. L'uomo deve conservare quella che
Agostino definisce prudentia, cioè la capacità di conoscere le cose da amare e
la misura di questi amori: "E quindi questa affezione o moto dell'anima, con cui
comprende le cose eterne e comprende che le temporali, anche se in essa si
trovano, sono ad esse inferiori, e conosce che sono da desiderarsi le superiori
piuttosto che le inferiori, non ti sembra la prudenza?(29). L'estetica appare, così,
inscindibilmente legata all'etica o, per meglio dire, esse si compenetrano
totalmente, proprio per l'unicità e la inscindibilità di valore di Vero-Bello-
Buono. Il giudizio estetico ha, quindi, una posizione di primaria importanza nel
pensiero di Agostino, in quanto permette all'attività estetica non solo di
attingere l'essere dalle bellezze, tramite il sentimento, ma di indirizzare
quest'ultimo là dove vi è pienezza di essere e di valore, alla Bellezza Assoluta
che risplende in Dio. Eppure tale capacità di giudizio, basata sull'intelligibilità
delle idee di armonia e di bellezza, non è di per sé sufficiente all'accoglimento
di Dio da parte dell'uomo. Conoscere razionalmente o intuitivamente quale sia
la verità, o quale sia la bellezza ed il bene, non implica di per sé il conformarsi
____________________
(29) De musica, VI, 13.37, p. 254.

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dell'uomo a questi valori: "E pensi che si debba considerare di meno il fatto che
nell'anima l'aderire alle cose eterne non si verifica quando in essa c'è il
conoscere che bisogna aderirvi?(30) La conversione autentica a Dio rimane,
dunque, "mistero". Da una lato, infatti, si comprende che essa deve coinvolgere
la persona nella sua totalità e non può essere determinata solo da una sua
"parte", sia questa l'intelletto, la volontà o il sentimento, dall'altro rimane
comunque incomprensibile come essa avvenga, cioè come agisca nell'uomo lo
Spirito di Dio. Da ciò deriva che nulla nell'uomo può essere assolutizzato se
non il suo contatto interiore con Dio. Ed in effetti, non c'è nel pensiero di
Agostino questa assolutizzazione dell'intelletto, mentre risulta
incomparabilmente più importante la fede. Manferdini(31) arriva ad affermare
che, considerando la realtà del corpo spirituale dell'uomo, rigenerato dopo la
risurrezione, Agostino inverte addirittura i valori di sensibile e di intelligibile,
rispetto alle sue prime opere: "E' interessante inoltre notare che in relazione alla
possibilità di una percezione piena e adeguata della realtà divina, viene in luce
il vero significato della dualità di sensibile e intelligibile, dove il primo termine
corrisponde alla cognizione diretta integrale e concreta della realtà, mentre
l'intelligibile corrisponde alla semplice intellezione indiretta e simbolica, per
speculum et in aenigmate, parziale e astratta, di quella medesima realtà. I valori
si invertono: la pura intelligibilità viene a significare un modo di cognizione
inferiore e limitato rispetto a quello della cognizione sensibile che coglie
direttamente, interamente e concretamente il suo oggetto." Per sostenere
questo, l'autrice si basa in particolare sul passo del La città di Dio in cui
Agostino parla della visione beatifica di Dio, che sarà possibile dopo la
risurrezione: "Per questo è possibile e molto credibile che noi vedremo così i
corpi del mondo che appartiene ad un nuovo cielo e ad una nuova terra, per cui
____________________
(30) Ibidem, VI, 13.38, p. 254.
(31) T. Manferdini, L'estetica...., p. 111.

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nella più nitida chiarezza, tramite i corpi che avremo e che vedremo, dovunque
si volgeranno gli occhi vedremo Dio, che è presente dovunque e che governa
anche tutti i corpi; non sarà come ora, che con l'intelletto scorgiamo le
perfezioni invisibili nelle opere da Lui compiute, come in uno specchio, in
maniera confusa e parziale(32), dove la fede con cui crediamo conta in noi più
dell'apparenza delle realtà corporee, che osserviamo attraverso gli occhi del
corpo. Ora noi, non appena scorgiamo gli uomini in mezzo ai quali viviamo e
che dimostrano di vivere attraverso i loro movimenti vitali, non crediamo di
vivere, bensì lo vediamo, ed anche se non possiamo vedere la loro vita senza
vedere i loro corpi, la scorgiamo in loro inequivocabilmente, passando
attraverso i loro corpi. Allo stesso modo, dovunque volgeremo gli occhi
spirituali dei nostri corpi, contempleremo anche per mezzo dei corpi Dio
incorporeo, che regge tutte le cose.
Dunque, o Dio sarà visto così per mezzo di quegli occhi, in modo che
essi abbiano nella loro superiorità qualcosa di simile all'intelligenza, con cui
scorgere anche la natura incorporea, ciò che però è difficile o impossibile
dimostrare con esempi e con testimonianze tratte dalle Sacre Scritture; oppure,
come è più facile a comprendersi, Egli ci si manifesterà direttamente in modo
da esser visto con lo spirito da ciascuno di noi, dall'uno nell'altro e in se stesso;
sarà visto nel cielo nuovo e nella terra nuova e in ogni creatura che allora sarà;
sarà visto anche in ogni corpo per mezzo dei corpi, dovunque gli occhi del
corpo spirituale saranno rivolti con il loro sguardo. Anche i nostri pensieri si
apriranno scambievolmente. Finalmente si compiranno le parole
dell'Apostolo(33), il quale, dopo aver detto: Non vogliate perciò giudicare nulla
prima del tempo, subito ha aggiunto: Finché venga il Signore. Egli metterà in
____________________
(32) Cfr. Rm. 1, 20, p. 2416; 1 Cor. 13,12, p. 2473.
(33) 1 Cor. 4,5, p. 2456.

84
luce i segreti delle tenebre e manifesterà le intenzioni dei cuori; allora
ciascuno avrà la sua lode da Dio"(34).
Se, come afferma Manferdini a conclusione della sua opera, è possibile
sicuramente sostenere che Agostino operi una rivalutazione piena del sentire,
non limitando la prospettiva solo alla vita terrena, ma ampliandola in un
discorso escatologico, ci sembra però contraddittorio e non corretto voler
scorgere un ribaltamento dei valori tra conoscenza intelligibile e conoscenza
sensibile. Ella infatti confronta il sentire del corpo spirituale con l'intelligere
possibile nella vita terrena, come se nella vita ultraterrena si fosse sprovvisti di
intelletto o, comunque, questo non ricevesse anch'esso dalla nuova condizione
la perfetta potenzialità che gli compete. Mi sembra, invece, che Agostino non
voglia rivalutare il senso a scapito dell'intelletto, come se l'uno escludesse
l'altro, ma dare pienezza di valore in primo luogo alla persona, che nella vita
nova potrà godere di Dio con tutta se stessa perfettamente: sensi, volontà,
intelletto godranno inscindibilmente uniti nell'unico atto di lode a Dio, vero e
unico atto essenziale della vita umana.

____________________
(34) La città di Dio, XXII, 29.6, p. 1188.

85
Capitolo VII:

Il concetto dell'arte e la sua funzione .

La sensibilità di Agostino verso la bellezza non poteva certo


permettergli di essere indifferente al problema dell'arte e del bello artistico.
Molte volte, anzi, egli stesso confessa quanto fosse attratto dai piaceri
dell'udito e della vista, dai canti e dalle danze, dalle luci, i colori e le belle
forme. Molte volte si serve di metafore e di immagini prese dal mondo artistico
per esprimere l'idea dell'abilità del Creatore e dell'armonia del creato.
Soprattutto quest'ultimo viene spesso paragonato ad un'opera d'arte: un
bellissimo poema(35), armonizzato e reso più vivo da licenze poetiche e
barbarismi(36), una musica che trae movimento dall'alternarsi di suoni e di
pause(37), una pittura bella per i chiaroscuri(38). Se queste espressioni ci possono
far pensare ad un Agostino cultore dell'arte, non ci devono però trarre in
____________________
(35) Ibidem, XI, 18, p. 537.
(36) De ordine, II, 4.13, p. 49.
(37) Epistola 166, 13, p. 736.
(38) La città di Dio, XI, 23, p. 544.
86
inganno e portarci a proiettare su di lui quelle che sono nostre concezioni
dell'arte, discendenti da visioni romantiche, dove predominano spontaneità e
istinto dell'artista. Per Agostino, infatti, il concetto di arte è strettamente e
prima di tutto legato a quello di scienza. Non sarà quindi il sentimento a
operare primariamente nell'attività artistica, ma la ragione, a cui spetta
conoscere le leggi della realtà per riprodurle poi nelle diverse arti: "Da questo
momento in poi la ragione ha voluto elevarsi alla beatissima contemplazione
delle realtà divine. Ma per non cadere dall'alto, cercò dei gradini e si costruì la
stessa via attraverso ciò che già possedeva e un ordine. Desiderava infatti la
bellezza, che può essere vista direttamente e semplicemente senza questi occhi;
ne era impedita dai sensi. Così volse un poco lo sguardo ad essi, che
proclamando di possedere la verità la ritraevano con un baccano inopportuno
quando essa si affrettava ad avviarsi verso altro. Per prima cosa iniziò
dall'udito, perché diceva che erano sue le parole, per le quali aveva già creato
la grammatica, la dialettica e la retorica. Ma la ragione, molto potente nel
discernere, si accorse subito della differenza che c'era tra il suono e ciò di cui
era segno"(39). Due momenti sono allora fondamentali: lo studio razionale delle
leggi, che rappresenta il momento propriamente scientifico, e l'imitazione della
realtà, che costituisce il momento produttivo dell'oggetto artistico. Entrambi
sono essenziali all'arte per poter essere tale. La conoscenza razionale da sola,
infatti, non è arte se non è seguita da un "prodotto" che riproduce la realtà, ma
solamente conoscenza; l'imitazione da sola non è arte se non è preceduta dallo
studio, in quanto non può essere vera imitazione se non conosce prima ciò che
deve imitare. Stando così le cose, questi due fattori a rigor di logica dovrebbero
godere della medesima considerazione da parte di Agostino. In realtà non è
così, poiché se la scienza è sempre vista come nobile strumento di elevazione
dello spirito, pur non essendo sufficiente ad esso, l'imitazione viene spesso
____________________
(39) De ordine, II, 14.39, p. 70.

87
condannata, in quanto, in linea con il pensiero platonico(40), può allontanare
l'uomo da Dio, perché presenta come reale ciò che non lo è. Per questo motivo
egli propende senza dubbio a presentare l'arte essenzialmente come scienza,
come attività razionale. Questo si manifesta in modo lampante già, ad esempio,
nella definizione di "musica" che fornisce nel I libro del De musica: "Musica
est scientia bene modulandi"(41), che può essere tradotta come scienza del
misurare bene secondo un ritmo. Qui, oltre a essere chiaro che quest'arte è vista
come scienza, c'è da considerare, come fa giustamente notare Stefani(42), la
specificazione etica dell'arte, posta in rilievo dall'avverbio bene e dal verbo
modulari che implica già di per sé una valenza positiva. Inoltre la scientia si
può manifestare in due modi: come scienza musicale in senso proprio oppure
come prudentia, cioè come virtù che conduce ad un uso ordinato della musica.
Già solamente la definizione è intrisa di valenze morali e non c'è da stupirsi di
questo, in quanto, come è stato detto, la dottrina estetica di Agostino è anche
un'etica. L'intento morale del dialogo è quello di indirizzare gli animi, in
____________________
(40) La condanna dell'arte come imitazione, da parte di Platone, non è così totale e scontata come
spesso invece è stata presentata. Il nucleo della condanna sta nel fatto che l'arte, imitando la realtà
sensibile, a sua volta imitazione del mondo delle idee, sarebbe di tre gradi distante dalla verità e
allontanerebbe quindi l'uomo da essa. Questa concezione è mantenuta abbastanza costante in tutti
dialoghi, dal Fedro alle Leggi, anche se traspare molte volte in maniera evidente l' insoddisfazione di
Platone per questa condanna, che certo sentiva troppo restrittiva. Nel III e nel X libro della Repubblica,
invece, a proposito della poesia la condanna sembra essere rivolta solo a quei generi che lasciano
parlare direttamente i loro personaggi, come la tragedia e la commedia, mentre ne esiste un tipo più
semplice, come il ditirambo, l'inno, l'encomio, in cui il poeta parla in prima persona, che non si
qualificherebbe come poesia imitativa. C'è però da osservare che, se è vero che la condanna è nelle
parole di Platone, parziale, è anche vero che essa è rivolta proprio a quei generi che costituiscono il fior
fiore della poesia greca, la sua principale espressione.
(41) De musica, I, 2.2, p. 90. La definizione non è originale di Agostino, ma appare già nel De die
natali di Censorino (10, 3)
(42) G. Stefani, L'etica musicale di S. Agostino, in "Jucunda Laudatio", 1-2, 1968, pp. 1-65. L'autore
parte dal presupposto che "nel pensiero agostiniano il bene e il bello sono valori convertibili" e quindi
l'estetica e l'etica sono intimamente connesse.

88
particolare quelli dei letterati, a fare dell'arte una via di elevazione a Dio e non
un'occasione di dispersione e di peccato. E l'arte può rappresentare questo
strumento morale proprio perché, in quanto scienza, si eleva a contemplare la
vera realtà. E' strumento di conoscenza perché, come la realtà, è riducibile a
numero. Questa concezione è così presente in Agostino che Fubini(43) lo
considera uno dei capisaldi del polo intellettualistico-razionale, nella dicotomia
che avrebbe caratterizzato la storia della musica dai "pitagorici" al Settecento.
Questo dualismo vede, da una parte, la tradizione che si rifà appunto
all'impostazione pitagorica della musica come via di ascesi, dall'altra quella che
ha come radice storica la concezione aristotelica della musica come ricerca di
piacere.
L'importanza di ritenere la musica una scienza è chiarita da Agostino
allorché egli si appresta a distinguere il musico-teorico, o musicologo, dal
musico-pratico, o musicista, cioè tra chi sa, e non necessariamente esercita, e
chi esercita e forse non sa: "Maestro: Rimane da indagare perché nella
definizione ci sia la scienza.
Alunno: E' così, infatti, ricordo che il procedimento lo richiede.
Maestro: Rispondi dunque, se ti sembra che l'usignolo misuri correttamente
secondo un ritmo la voce in primavera: infatti quel canto è ritmico, molto dolce
e, se non sbaglio, adatto alla stagione.
Alunno: Mi pare chiaro.
Maestro: E' forse esperto in questa disciplina liberale?
Alunno: No.
Maestro: Vedi dunque che il termine scienza è necessario alla definizione.
Alunno: Lo vedo bene.
____________________
(43) E. Fubini, L'estetica musicale dall'antichità al Settecento, Torino, 1976, pp. 16-23, 29-51, 63-65,
70.

89
Maestro: Dunque dimmi: e non ti sembra che come è l'usignolo così siano tutti
coloro che cantano correttamente condotti da una certa sensibilità, cioè lo
fanno con dolcezza e ritmo, e sebbene interrogati sugli stessi ritmi o sugli
intervalli dei suoni acuti e gravi, non sono in grado di rispondere?
Alunno: Li considero simili.
Maestro: E dunque coloro che ascoltano volentieri senza avere questa scienza
non sono da paragonare alle bestie, dato che vediamo elefanti, orsi e altre
specie di animali che si muovono secondo il canto e gli stessi uccelli che si
dilettano delle proprie voci (non lo farebbero, infatti, con tanto impegno, al di
là di un'intenzione interessata senza un certo piacere)?
Alunno: Sono d'accordo, ma lanci questa offesa a quasi tutto il genere umano.
Maestro: Non è come tu pensi. Infatti grandi uomini, che pure non
conoscono la musica o si vogliono adattare alla massa, che non è molto diversa
dalle bestie ed è assai numerosa, e lo fanno in modo molto moderato e prudente
(ma ora non è il momento di discuterne); oppure dopo le grandi preoccupazioni
per rilassare e rinfrancare lo spirito, con molta moderazione accettano un po' di
divertimento. E prenderlo in questo modo qualche volta è di grande
morigeratezza; invece farsene possedere anche solo qualche volta è vergognoso
e indegno(44)".
La scienza è dunque necessaria all'arte, perché divide i veri artisti da
coloro che hanno solo abilità pratica, gli uomini dalle bestie. In molti punti
sembra che Agostino consideri la scienza condizione non solo necessaria, ma
anche sufficiente dell'arte. Questo nel De Musica avviene meno che in altre
opere, essendoci qui anche una certa apertura alle doti istintuali dell'artista e al
fattore imitativo, che viene comunque riconosciuto come costituente l'arte:
"Maestro: Ma che cosa te ne sembra? Coloro che suonano il flauto o la cetra e
strumenti di questo tipo forse si possono paragonare all'usignolo?
____________________
(44) De musica, I, 4.5, pp. 95-97.

90
Alunno: No.
Maestro: In che cosa dunque sono differenti?
Alunno: Nel fatto che in costoro vedo che c'è una certa arte, nell'altro
invece solo la natura.
Maestro: Dici qualcosa di verosimile; ma ti sembra che si debba
chiamare arte anche se eseguono per imitazione?
Alunno: Perché no? Mi pare che l'imitazione nelle arti valga tanto che se
fosse eliminata quasi tutte sarebbero distrutte. Anche i maestri si offrono per
essere imitati, e proprio questo è ciò che chiamano insegnare (...) E dunque
quali arti si basano sull'imitazione, che non reputi si basino anche sulla
ragione?
Alunno: Anzi penso che si fondino su entrambe.
Maestro: Non faccio obiezioni, ma la scienza dove la collochi, nella
ragione o nell'imitazione?
Alunno: Anche questa in entrambe.
Maestro: Quindi concederai la scienza agli uccelli, ai quali non neghi
l'imitazione.
Alunno: Non la concederò, ho detto infatti che in entrambe v'è scienza,
cosicché nella sola imitazione non si possa trovare.
Maestro: E ti sembra che si possa trovare nella sola ragione?
Alunno: Sì.
Maestro: Quindi pensi che una cosa sia l'arte, un'altra la scienza, poiché
la scienza si può trovare nella sola ragione, l'arte invece unisce la ragione
all'imitazione.
Alunno: Non mi sembra che sia conseguente. Io avevo detto che non
tutte, ma molte arti sono costituite da ragione e imitazione insieme.
Maestro: E considererai scienza anche quella che è formata da entrambe
o le concederai solo la parte della ragione?

91
Alunno: Che cosa mi impedisce di chiamarla scienza, quando alla
ragione si aggiunge l'imitazione?"(45).
Dunque, nello studio dei rapporti tra arte, scienza, ragione e imitazione
emergono queste caratteristiche: arte e scienza tendono a identificarsi,
soprattutto nel caso di arti dove non è presente l'imitazione; ci sono diversi tipi
di arte, alcune in cui intervengono sia la ragione che l'imitazione, altre in cui
agisce solo la ragione; là dove vi sia solo un'imitazione priva di studio
razionale non c'è arte; il fatto che nell'arte sia presente l'imitazione non toglie
nulla alla scienza, anzi, in molti casi sono essenziali entrambe. Nonostante
l'impatto immediato con tale dottrina ci faccia sentire, probabilmente, molto
lontani da Agostino, ad una più approfondita considerazione notiamo che già,
ad esempio, è stato fatto un passo molto grande rispetto a Platone, che
condannava l'arte proprio in quanto imitazione, mentre abbiamo visto che in
Agostino essa, di per sé, non determina alcuna degradazione. Anzi, nell'oggetto
d'arte si possono ritrovare e contemplare i numeri che rispecchiano i numeri
eterni e, proprio in virtù di questa imitazione possono condurre al principio:
"Osserva la bellezza di un oggetto d'arte; i numeri sono racchiusi nello spazio.
Osserva la bellezza del movimento dei corpi; i numeri si svolgono nel tempo.
Avvicinati all'arte da cui procedono, cerca in essa lo spazio e il tempo; non sarà
in nessun tempo, non sarà in nessuno spazio; eppure in essa vive il numero, ma
il suo non è un luogo fatto di spazio, non è un'età fatta di giorni. Tuttavia
coloro che decidono di diventare artisti, quando si dispongono a imparare l'arte,
muovono il corpo nel tempo e nello spazio, lo spirito invece solo nel tempo,
poiché col passare del tempo diventano più esperti. Trascendi dunque anche lo
spirito dell'artista, per vedere il numero eterno; allora la sapienza splenderà per
te dalla sede interiore e dallo stesso santuario della verità. E se abbaglia il tuo
sguardo ancora troppo debole, riporta gli occhi della tua mente su quella via,
____________________
(45) Ibidem, I, 4.6, pp. 97-99.

92
dove si mostrava affabilmente. Ricordati però che hai rimandato la visione che
devi ritentare quando sarai più sano e forte"(46). Ma probabilmente, la cosa che
ci dà più fastidio, è l'assimilazione dell'arte alla scienza. Questo si verifica
perché in noi c'è una sorta di rigetto nel concepire un'idea di arte, che in noi
facilmente evoca senso, impressione, espressione, impulso, che si mescoli in
qualche modo a qualcosa di oggettivo, di "certo". E specularmente non
accettiamo un'idea di scienza, di cui abbiamo ancora una concezione
primitivamente positivista, che abbia a che fare con qualcosa di così
irrazionale. Quello che continuiamo indisturbatamente a perseguire, nonostante
gli sforzi delle nuove tendenze interdisciplinari si rivolgano a scoprire
interazioni tra i diversi campi del sapere, è il settorialismo più tenace delle
varie forme di conoscenza, la frammentazione all'infinito delle
specializzazioni, il tentativo perverso di distribuire un po' di realtà ciascuno ai
vari cassetti non comunicanti di quello che chiamiamo progresso: una sorta di
Divide et impera della nostra ignoranza. Esattamente opposta è la concezione
di cultura di Agostino(47), che tende a vedere il sapere come un'unità, a cui le
varie scienze-arti contribuiscono insieme dialogando reciprocamente tra loro.
Non c'è in lui, quindi, l'ansia per il dividere, il definire, il classificare: c'è forse
meno paura del sapere, più fiducia nella positività del reale.
Ancora un dato emerge da quanto considerato finora: proprio perché
scienza, l'arte ha la possibilità e la consegna di aiutare l'uomo ad elevarsi alla
contemplazione della verità. Un'arte sarà tanto più nobile quanto più avvicina
l'uomo a Dio. Nel De ordine Agostino propone un vero e proprio programma di
studi, un ciclo di sette scienze unite tra loro dai numeri, che le collegano infine
alla filosofia che ha per scopo ultimo l'indagine sull'Uno(48). Divergenti sono le
____________________
(46) De Libero Arbitrio, II, 16.42, p. 264-266.
(47) Per l'idea di cultura in Agostino cfr. A. Quacquarelli, Le scienze e la numerologia, in Vetera
Christianorum, n° 25, 1988, pp. 359-379.
(48) Cfr. De ordine, II, 8.25-18.48, pp. 59-77.
93
opinioni dei vari studiosi di Agostino sull'argomento. Alcuni, come Marrou,
ritengono che egli non abbia stilato questo programma in maniera originale,
reputando sufficiente adottare all'incirca un ciclo da lungo tempo
tradizionale(49); altri, come Hadot, affermano che quello proposto da Agostino è
un sistema innovativo, che si rifà con tutta probabilità a Porfirio e sicuramente
non ha radici più antiche del quarto secolo d.C.(50) Comunque, quello che forse
è più interessante notare è che, tra le arti proposte, non ve n'è neanche una di
quelle che noi, oggi, intendiamo come arti. Esse infatti sono tutte scienze,
discipline: la grammatica, la dialettica, la retorica, la metrica, la musica, la
geometria e l'astronomia. Anche la musica, come viene qui intesa da Agostino,
è scienza. Dalle sue parole deduciamo che l'arte, quindi, ha questo nobile ruolo
formativo solo in quanto scienza(51), non in quanto imitazione. Del resto, non in
tutte le opere Agostino si mostra così aperto alle arti imitative come nel De
musica, dove, appunto, riconosce che l'imitazione ha un suo valore, a
condizione che sia accompagnata dalla scienza. Nei Soliloquia(52), ad esempio,
come già accennato in precedenza, egli sembra svalutare l'opera d'arte,
considerandola appartenente alle "cose false". Di questo parere è Manferdini,
che legge nelle parole di Agostino "la sua insofferenza verso queste cose a cui
giova la falsità per essere vere"(53). A noi non sembra, in verità, che sia espressa
qui una vera condanna o svalutazione dell'opera d'arte: se c'è insofferenza, essa
è piuttosto rivolta verso la possibilità che l'uomo si disperda cercando il vero
____________________
(49) H. I. Marrou, S. Agostino e la fine della cultura antica, Milano, 1987, p. 171.
(50) I. Hadot, Systèmes éducatifs et culture générale. Recherches sur l'origine du cycle des sept arts
libéraux, École pratique des Hautes Études, V section, Sciences religieuses. Annuaire, Résumés de
conférences et travaux, 89, 1980-1981, pp. 403-409.
(51) E' importante sottolineare, tra l'altro, che Agostino non reputa il cammino attraverso queste scienze
come assolutamente necessario all'uomo, poiché la fede e un conseguente comportamento morale
rendono superflue le arti. Cfr. De ordine, II, 17.45-46, pp. 75-76.
(52) Soliloquia, 2, 6.11-10.18, pp. 447-457.
(53) T. Manferdini, L'estetica...., p. 27.

94
nel falso, rivolgendo cioè a quelle cose più attenzione di quanta ne competa
loro. Ma questo dipende dall'ordine spirituale dell'uomo, non dal fatto che
l'opera d'arte sia cattiva in sé. E' vero, però, che Agostino, se non la condanna,
non le dà certo un particolare valore, non coglie l'autentico significato
dell'oggetto d'arte, pur avvicinandocisi molto. D'altra parte il suo intento non è
quello di trattare come argomento centrale l'arte, ma se ne serve, prendendone
solo alcuni aspetti concettuali, per parlare del falso. Egli, infatti, dopo aver
definito il falso come qualcosa che si finge essere ciò che non è o tende ad
essere e non è(54), afferma che nella prima categoria sono compresi l'inganno,
consapevole o istintivo, e la finzione, che non necessariamente cela una volontà
ingannatrice. Finzione è ad esempio quella dei mimi, delle commedie e di gran
parte della poesia, che hanno lo scopo di dilettare e non di ingannare. Della
seconda categoria, cioè quelle cose che sembrano essere ma non sono, fanno
parte le immagini riflesse negli specchi, le illusioni ottiche e sensibili in genere,
ma anche ogni sorta di pittura, di figurazione, di produzione artistica, come
infine i sogni e le allucinazioni dei pazzi. Agostino si rende conto, però, che il
discorso riguardo all'opera d'arte è particolare. Infatti vi è in essa una
compresenza di essere e di non essere, di vero e di falso: "Devi ammettere che
tutte le finzioni anzidette in certi aspetti sono vere per lo stesso motivo per cui
in altri aspetti sono false e che contribuisce al loro esser vere il solo motivo per
cui in altro senso sono false "Devi ammettere che tutte le finzioni anzidette in
certi aspetti sono vere per lo stesso motivo per cui in altri aspetti sono false e
che contribuisce al loro esser vere il solo motivo per cui in altro senso sono
false"(55). L'opera d'arte, cioè, realizza il suo dover essere, relativo alla sua
essenza, proprio in quanto rispetto alla realtà che imita è falsa, finge. La sua
pretesa, però, non è quella di sembrare vera, cioè di ingannare, ma, anche in
____________________
(54) Soliloquia, 2, 9.16, p. 453.
(55) Ibidem, 2, 10.18, p. 457.

95
questo caso, di suscitare diletto. Secondo Manferdini Agostino giunge molto
vicino, forse in modo inconsapevole, alla comprensione dell'essenza vera
dell'opera d'arte, ma indotto nel pregiudizio dall'intellettualismo pitagorico che
lo influenza, si ferma a constatarne la natura "bifronte" di vero e falso e passa
oltre perché essa non è degna di un maggior discorso. Per affermare
l'insofferenza di Agostino Manferdini fonda la sua osservazione sul seguente
passo: "Tuttavia io negli esempi addotti non scorgo che cosa sia degno della
nostra imitazione. Noi, per essere veri nel genuino nostro modo d'esserlo, non
dobbiamo come i commedianti, le immagini riflesse dagli specchi e le vitelle
bronzee di Mirone, essere modellati e assimilati al modo d'essere di un'altra
cosa e cioè esser falsi. Dobbiamo piuttosto cercare quel vero che non sia, per
così dire, di struttura bifronte e in contraddizione con se stesso sicché da una
parte è vero e dall'altro è falso"(56). L'esortazione a cercare per noi le cose vere
non ci sembra da leggere come giudizio negativo sull'opera d'arte. Agostino
vuol sfruttare il paragone con quelle cose, vere e false insieme, per dire che
l'uomo è diverso e nella sua natura non ha da essere falso per poter essere vero,
come invece l'opera d'arte. Non dice state lontani da quelle cose perché sono
false, perché quelle cose sono vere solo essendo per altro verso false, ma
cercate di essere veri perché l'uomo si realizza solo nella verità. E' vero, invece,
che egli arriva molto vicino a sviscerare il nodo centrale del discorso sull'arte, e
ci sembra questo un elemento di portata incalcolabilmente superiore rispetto ai
discorsi sulla sua condanna, mai qui veramente esplicita. E' vero anche, però,
che non approfondisce il discorso, che non tira le conclusioni delle sue
premesse: intuito il nodo problematico fondamentale, lo lascia lì, avvolto un po'
dal mistero, forse perché intuisce anche che nel mistero risiede la capacità di
significazione dell'arte, la sua "missione" di linguaggio, l'attrazione che la sua
bellezza sa esercitare sull'uomo per rimandarlo a qualcosa d'altro ben più in
____________________
(56) Ibidem.

96
alto di lei, ad una bellezza superiore di cui possiamo avere, anche tramite l'arte,
preziosissimi indizi.

97
PARTE TERZA:

SIGNIFICATO DELLA PROBLEMATICA


ESTETICA IN AGOSTINO

98
Capitolo VIII:

Il linguaggio della bellezza

Moltissime sono le prospettive con cui ci si può avvicinare alle


tematiche inerenti l'estetica di Agostino, moltissimi gli stimoli a fermarsi per
mettere a fuoco e approfondire i diversi temi che essa offre o aspetti particolari
di essi. Proprio perché fondato sul valore oggettivo della Bellezza e proprio
perché questa è considerata nella sua intrinseca unità con i valori della Verità e
del Bene, il discorso estetico di Agostino regala infiniti spunti di collegamento
con altri campi, distinti concettualmente dall'estetica solo apparentemente. Così
si può partire da essa e tranquillamente arrivare ad esprimerne le implicazioni
morali, religiose, pedagogiche, gnoseologiche, politiche e così via. Ma l'intento
di questo studio, non era quello di incentrarsi su di un aspetto, o su una
relazione con qualche altro settore particolare della vita umana: esso voleva
innanzi tutto esporre le principali tematiche estetiche trattate da Agostino nelle
sue opere, tra le quali, non bisogna dimenticare, non ve n'è alcuna che tratti,
come problema centrale, uno di quelli che la storiografia filosofica ha

99
successivamente incluso nel termine di estetica. Si è voluto deliberatamente
svolgere questa esposizione utilizzando direttamente molti passi inerenti ai
temi indagati, individuati e scelti nella sua vasta produzione di scritti. Si è
preferito questo percorso, anche a rischio di far apparire il lavoro quasi una
raccolta antologica, perché crediamo che sempre sia fondamentale vedere non
solo quali idee sono espresse da un autore, ma in che modo egli le esprime. Nel
caso di Agostino, questo ci sembra particolarmente importante perché, oltre al
piacere della lettura che molte sue pagine provocano, essa può essere molto
utile e forse indispensabile per rendersi conto veramente dei contenuti che vuol
comunicare, quale vera intenzione lo animi nel pensare e nello scrivere, quale il
retroscena culturale e personale delle sue parole. Oltre all'intento della semplice
esposizione, si è cercato di mettere in luce quelle che via via apparivano come
le costanti essenziali del discorso, individuandole nella triade di unità-
relazione-mistero.
In secondo luogo si voleva verificare la possibilità di ricondurre tutto il
suo pensiero in proposito, il suo modo di avvicinare questi temi e la sensibilità
che distingue il suo rapportarsi alla bellezza e agli aspetti ad essa collegati, ad
un unico denominatore comune, capace di indicare il senso e il significato del
suo interrogarsi e del suo farsi problema di questi argomenti. Questo è ciò che
ci proponiamo in questa parte conclusiva.
Due sono i grandi blocchi in cui il discorso estetico di Agostino può
essere diviso. Il primo riguarda direttamente la bellezza, il secondo include la
teoria della sensazione e quella del giudizio estetico, cioè le modalità con cui
noi possiamo apprendere, giudicare e godere della bellezza. Infine, a questi due
principali nuclei è collegato il discorso particolare e circoscritto dell'arte.
Abbiamo visto come unità, relazione e mistero siano caratteristiche costanti di
ognuno dei due nuclei tematici. Per quanto riguarda la bellezza, infatti, la triade
evidenziata è espressa nell'unica modalità perfetta dalla Trinità, che si rivela

100
agli uomini in modo privilegiato nella persona del Figlio, l'Incarnato. La
bellezza del mondo e delle cose del mondo scaturisce dall'armonia, mistero di
unità e relazione di parti molte volte anche in antitesi tra loro. La bellezza
dell'uomo nasce in lui dalla presa di coscienza della presenza del mistero nella
realtà della vita, cioè nella sua esperienza esistenziale, dall'accettazione del
limite di essere "parte" in relazione con il "tutto" e con le altre "parti" e dalla
scelta di far propria la "missione" di ricomporre con l'amore l'unità dentro e
fuori di lui, cioè con se stesso, con Dio, con gli altri uomini. Per quanto
riguarda la teoria della sensazione si é visto come essa si attui attraverso l'unità
e la relazione dell'anima e del corpo, mentre il mistero risiede proprio in questo
rapporto tra sostanze diverse. Nel caso dell'arte, infine, il discorso è particolare
in quanto, riguardo al significato che le si attribuisce comunemente oggi, non ci
sono trattazione esaustive né conclusioni definitive da parte di Agostino. Si può
dedurre comunque dai suoi discorsi che l'opera d'arte nasce dall'unità di azione
dell'artista che sa meglio condurre e mettere in relazione "scientia" e "imitatio",
mentre la sua bellezza avrà le caratteristiche di ogni altra bellezza sensibile,
cioè dell'armonia.
Ogni argomento è poi visto in una prospettiva evolutiva che parte dalla
realtà terrena e temporanea per passare a quella ultraterrena e definitiva.
L'unica realtà che non muta, pur entrando nella storia degli uomini, quindi nelle
categorie spazio-temporali terrene, è naturalmente Dio, che è anche la vera e
assoluta Realtà. In quella che si potrebbe allora definire una cosmologia
estetica, una storia di bellezze in rapporto tra loro, Agostino pone da una parte
Dio, Realtà, Essere, Bellezza, dall'altra l'uomo, analogamente realtà, essere,
bellezza e il mondo che egli abita, a sua volta analogamente realtà, essere,
bellezza. L'avverbio analogamente indica la modalità propria dell'uomo e del
mondo di essere reali, esistenti, belli, cioè l'analogia nei confronti della realtà
divina. Solo Dio è Realtà, Essere, Bellezza in senso proprio, cioè secondo

101
l'essenza. L'uomo e il mondo, invece, sono realtà, essere, bellezza in modo
analogo, cioè non per essenza assoluta propria, ma per partecipazione da Altro.
Il proprio dell'uomo e del mondo è l'analogo del divino. Tra uomo è mondo vi
è però grande differenza. Il cosmo, infatti, è governato da un perfetto ordine
secondo il quale ogni elemento occupa il posto a lui attribuito da Dio, e uomo e
mondo occupano posti diversi. L'uomo si definisce non solo dal rapporto di
analogia con Dio ma anche dal rapporto con Lui nella sua vita. E' persona.
L'uomo è "letto" da Dio nel suo cuore, il mondo può essere "letto" dall'uomo,
infatti "è come una voce muta della terra, la bellezza della terra"(1). La realtà
cosmica è allora intrisa di comunicazione: è realtà di comunicazione e
comunicazione di realtà. Dio comunica l'essere all'uomo e al mondo, l'uomo
legge il significato di questa comunicazione nel mondo, quindi il mondo
"comunica" significato all'uomo. Egli a questo punto decide del significato
scoperto: può scambiarlo con gli altri uomini comunicando con loro, può
tenerselo per sé, può anche decidere di non farsene assolutamente niente. E'
importante sottolineare che l'unico che può comunicare direttamente l'essere è
Dio, negli altri casi vi è solo comunicazione di significato, cioè di riferimento
all'essere: il cielo e la terra infatti "gridano che sono stati fatti ... e gridano
anche di non essersi fatti da soli"(2). Venendo alla bellezza, si capisce anche in
questo caso che, come Dio è il solo assoluto Bello, così Egli è il solo che può
comunicare Bellezza, donando se stesso. La bellezza dell'uomo e del mondo
sono infatti bellezze analoghe, ma non sono la Bellezza. Anzi, al suo confronto,
essi non sono neanche belli: " Tu dunque li hai creati, che sei bello, perché son
cose belle; tu che sei buono perché son cose buone; tu che esisti, perché
esistono. Ma non sono cose belle né buone né esistenti come lo sei tu, loro
____________________
(1) Enarrationes in Psalmos, 144.13, pp. 706-710.
(2) Confessioni, XI, 4.6, p. 433.

102
autore, al cui confronto non sono belle né buone e neppure esistono"(3). Questo
vuol dire che il mondo ha visto direttamente la Bellezza solo quando Dio si è
incarnato in Cristo ed è venuto sulla terra. Questo vuol dire anche che la
bellezza, qui sulla terra, è tale sotto due aspetti diversi. Per il primo è da
intendersi come bellezza in senso ontologico: nella misura in cui ad un ente è
donato l'essere, questo ente è bello perché l'essere è bello; per il secondo
aspetto essa è tale in quanto rimanda ad una bellezza a lei infinitamente
superiore, alla Bellezza Assoluta per la quale tutti gli enti sono belli. In questo
secondo aspetto la bellezza è tale in quanto segno, linguaggio di Dio: "Infatti in
qualsiasi direzione ti volgerai, (la sapienza) ti parlerà con le orme che ha
impresso nelle sue opere. Se ti ributti verso le cose esteriori, ti richiama dentro
con le stesse forme delle cose esteriori. Dovrai così riflettere che tutto ciò che ti
piace nel corpo, e ti avvince con i sensi del corpo, é dato dal numero, ricercare
da dove proviene, ritornare in te stesso e comprendere che non puoi giudicare
né bello né deforme l'oggetto sensibile se non possiedi le leggi della bellezza,
alle quali puoi riferire ciò che percepisci come bello al di fuori"(4). La Suprema
Bellezza dà segnale di sé e della sua presenza attraverso l'esistenza di realtà
terrene che l'uomo ha chiamato belle. Bisogna allora a questo punto vedere se e
come all'uomo è possibile l'accesso alla bellezza, cioè la conoscenza ed il
godimento di essa.
Sotto il profilo ontologico la risposta alla nostra analisi è fornita
direttamente da Agostino allorché egli considera i sensi come strumenti
imperfetti dell'uomo. Operando infatti la distinzione tra la dimensione terrena e
quella ultraterrena, afferma che, nella condizione in cui l'uomo si è trovato
dopo il peccato, egli dispone di un corpo imperfetto oltre che di una volontà
imperfetta e indebolita. Questo ha fatto sì che il sentire, connesso direttamente
____________________
(3) Ibidem.
(4) De Libero Arbitrio, II, 16.41, p. 264.

103
al corpo nelle sue varie forme, perdesse quella potenza originaria con la quale
l'uomo era stato generato ed egli, a causa del peccato, ha perduto la possibilità
di apprendere immediatamente l'essere e, quindi, la bellezza. Così è facile
vedere uomini che reputano belle cose in realtà deformi o inconsistenti, altri
che non sanno riconoscere il bello anche avendolo davanti agli occhi. Ed è
facile anche indebolirsi a tal punto da inseguire non solo il piacere che
normalmente emana dalla bellezza, ma anche quello che proviene dalla
curiosità perversa, per cui si gode di cose orrende: "Il piacere insegue la
bellezza, l'armonia, la fragranza, il sapore, la morbidezza: la curiosità anche i
loro contrari, e non per procurarsi nausea ma per il capriccio di fare esperienza
e conoscenza"(5). Visto la non affidabilità del sentimento, l'uomo saggio si rifà
alla ragione e la pone a guida della sensibilità, per discernere, nella selva delle
impressioni, le forme belle da quelle brutte o da quelle che hanno solo
l'apparenza esteriore della bellezza. Nasce dalla ragione la possibilità del
giudizio estetico, che, confrontando i contenuti delle percezioni con le idee
intuite nella mens, ne valuta l'uguaglianza o la dissomiglianza, riconoscendo
così ciò che si avvicina alla bellezza o se ne allontana. Anche in questo caso,
però, non si ha un'apprensione diretta del bello, ma solamente conoscenza
dell'idea di bello, così come delle idee di armonia, di simmetria eccetera.
Appare in questo modo pregiudicata la possibilità per l'uomo di godere, in
questa vita, della bellezza, intesa non solo come mera apparenza, ma come
qualifica essenziale della realtà. Solo con un difficile e faticoso cammino di
riconversione all'Uno, alla Relazione e al Mistero, l'uomo può indirizzare il suo
essere a riconquistare lo stato primigenio di purezza e perfezione. Questo
"viaggio" di ritorno, che viene a rappresentare l'unica autentica meta
esistenziale dell'uomo, non è però possibile senza la Grazia divina, dono
gratuito del Padre ai figli, e comunque non lo si può compiere pienamente nella
____________________
(5) Confessioni, X, 35.55, p. 407.

104
vita terrena: solo dopo la morte e la risurrezione della carne, cioè dopo che il
corpo sarà rigenerato nello spirito, l'uomo sarà in grado, per volere divino, di
godere direttamente della visione di Dio. Allora potrà valersi di ogni sua
facoltà al massimo delle rispettive potenzialità, e tutte insieme concorreranno
alla perfetta apprensione della Bellezza.
Esclusa così tale possibilità in questa vita, vediamo che cosa voglia dire
e quali esiti può avere, invece, il rapportarsi alla bellezza terrena come
linguaggio. Vediamo, prima di tutto, che cosa significa linguaggio per
Agostino(6).
Egli affronta in modo diretto l'argomento soprattutto nel De Magistro e
nel De doctrina Christiana. In queste due opere viene messo in risalto, prima di
tutto, che il linguaggio ha come suo elemento base il signum e che questo
rappresenta l'intermediario tra il mondo delle cose e la persona. Infatti la realtà
che ci circonda può essere conosciuta tramite i segni. Osserva Agostino che "il
segno è una cosa che trascende la mera apparenza sensibile, poiché fa pensare
qualcos'altro da sé: come dopo aver visto un'impronta, pensiamo al passaggio
di un'animale che ha quell'impronta"(7). Questo vuol dire che la res, attraverso il
segno, si illumina di significatività, venendo investita dalla luce di
consapevolezza propria della persona, che è essere intelligente. Anche il segno
è una res, ma molto particolare. Anzi, forse sarebbe più esatto dire che tutte le
cose possono essere segni e che, quindi, il signum è un profilo particolare sotto
cui esse possono essere viste. L'eccezionalità del segno non è infatti nella sua
dimensione ontologica, ma in quella semantica. Ciò che lo rende peculiare è la
sua potenza evocativa, il suo fortemente rimandare a qualcosa d'altro da sé.
Esso introduce tra le cose un rapporto di comunicatività che presuppone la
____________________
(6) Sul problema del linguaggio in Agostino cfr. Luigi Alici, Il linguaggio come segno e come
testimonianza. Una rilettura di Agostino, Roma, 1976.
(7) De doctrina christiana, II, 1.1, p. 60.

105
presenza di un centro di riferimento intelligente. E' fondamentale precisare,
però, che la possibilità di significazione, anche se trova il suo termine
nell'intelligenza che legge il simbolo, non nasce nell'intelligenza, ma tra le cose
stesse, ha cioè radice ontologica. La semantica, sotto il cui profilo il segno è
eccezionale, è radicata nell'ontologia. La bidimensionalità del segno,
ontologica e semantica, è riassumibile dalle espressioni essere-da-altro ed
essere-per-altro: esso parte da una realtà per raggiungerne un'altra. Mentre la
prima, cioè la cosa significata, può essere di qualsiasi genere, intelligente o no,
la seconda è obbligatoriamente un riferimento intelligente. Il segno "chiama" la
cosa significata e la persona ad un incontro unico, che non avviene nel segno,
ma grazie al segno, in quanto questo stimola la persona alla conoscenza della
cosa. Esso è strumento di comunicazione. Il linguaggio per Agostino ha solo
questa funzione comunicativa, non struttura il pensiero, ma lo stimola. Il
significato che il segno porta con sé, infatti, non fa conoscere la cosa stessa di
cui è simbolo, ma rimanda l'attenzione ad essa, spingendo a farne esperienza
diretta. Del resto, egli dice, "le cose significate debbono essere anteposte ai
loro segni. Ciò che infatti è per altro, deve necessariamente essere inferiore a
ciò per cui esso è"(8). Il valore risiede nell'essere, non nel segno, se non nella
misura in cui anch'esso è.
Finora si è parlato indistintamente di segno e di linguaggio, ma Agostino
opera questa distinzione. Ci sono infatti segni di diverso genere. Alcuni, ad
esempio, sono semplicemente segni naturali, cose che fan pensare di per sé ad
altre, come il fumo fa pensare al fuoco da cui proviene e le orme all'animale a
cui appartengono. Ce ne sono invece altri che lasciano trasparire una precisa
volontà di significazione, che corrisponde ad un fine altrettanto preciso che è la
comunicazione. Questi ultimi appartengono e definiscono il linguaggio, come
un insieme di segni di cui un soggetto si serve per trasmettere ad un altro delle
____________________
(8) De Magistro, 9.25, p. 768.

106
informazioni. La scelta dei segni non è mai puramente arbitraria, anche se l'atto
di significazione rivela sempre un'impronta personale. Il linguaggio scritto o
parlato ha senza dubbio, per Agostino, la priorità tra gli strumenti comunicativi
umani. Esso è costituito dalle parole, nelle quali il suono prodotto o la traccia
scritta rappresentano il significante. Il segno è l'unità indissolubile di
significante e significato, elementi distinti ma in intima relazione tra loro. Il
significante è di carattere sensibile, poiché è diretto ai sensi, mentre il
contenuto, cioè il significato, ha come meta l'intelletto, quindi l'anima. Il
significante viene caricato dall'intenzionalità espressiva del soggetto di un
contenuto che si presenta come eccedente il significante stesso. Ciò che viene
trasmesso dall'emittente al ricevente è sempre e solo il significante, ad esempio
il suono, mentre il significato scaturisce nell'interiorità del ricevente dal
processo di comprensione che il significante ha stimolato. Per questo motivo la
comunicazione non è propriamente un passaggio asettico di informazioni, che
giungono al ricevente esattamente come son partite dall'emittente, ma è
trasmissione sensibile di un significante che chiama la persona a rintracciare in
se stesso, cioè nel suo vissuto esperienziale, la consapevolezza del contenuto.
Da qui trae origine la tesi secondo la quale nulla può essere insegnato tramite il
linguaggio, ma ogni apprendimento è un ritrovare in se stessi, grazie alla
memoria, il contenuto in questione. Ancora una volta è ribadita la supremazia
del significato sul significante e, nel caso della comunicazione verbale, del
verbum sulla vox: "Se togli la parola che rimane della emissione di voce? Dove
non c'è comprensione, c'è inutile rumore. Una emissione di voce che non possa
dirsi parola, vibra nell'aria, ma non tocca l'uomo interiore"(9). La comprensione
però non è un atto meramente interioristico, anche se è atto dell'anima: essa
coinvolge infatti tutta la persona nell'insieme delle sue facoltà, sensi, intelletto,
volontà. Importante è anche il rapporto del linguaggio con la temporalità: esso
____________________
(9) Sermo 293.3, p. 226.

107
si svolge nel tempo per quanto riguarda il suono significante, ma in quanto al
significato sfugge a questa categoria, preesistendo nel ricevente al momento
della ricezione del suono: "tutte le cose che vengono pronunciate e passano,
sono suoni, lettere, sillabe. La parola esteriore che risuona passa, ma il
significato di quel suono, presente in chi lo pensa e in chi lo comprende, resta
anche senza i suoni che lo esprimono"(10). Anche in questo caso il linguaggio
manifesta chiaramente il suo carattere bidimensionale: da una parte la
dimensione sensibile, nascente dalla necessità del verbum di materializzarsi
nella vox per poter attuare l'intenzionalità comunicativa dell'emittente; dall'altra
la dimensione atemporale ed extraempirica della parola, espressione
dell'interiorità oggettiva(11) dell'emittente e del ricevente. L'interiorità si rivela
il luogo in cui possono essere ricercate le condizioni stesse di possibilità del
linguaggio. Questo infatti ha il suo fondamento originario in interiore homine,
nel pensiero. Il ritorno al pensiero, che è ritorno in se stessi, si attua con quel
processo indicato da Agostino con il termine di intentio, che consiste in una
tensione di raccoglimento interiore, sorretta da una forza centripeta che si
oppone alla fuga nell'esteriorità della distentio. Dentro di sé l'uomo constata la
presenza di una verità stabile e duratura, una verità che salva. Qui nasce la
parola interiore, espressione dell'incontro unico dell'uomo con la verità. "Le
parole nascono prima dalla nostra interiorità, successivamente dal nostro corpo;
la mano obbedisce al comando della interiorità, l'interiorità e la mano
producono le stesse parole (...) ma non nella stessa maniera. L'interiorità le
rende intelligibili, la mano invece le rende visibili"(12). Tra pensiero e
linguaggio non c'è identità, ma nemmeno una totale alterità: essi sono in
relazione tramite un rapporto di analogia. Come Gesù è il Verbo, l'incarnazione
____________________
(10) In Iohannis evangelium tractatus, 1.8, p. 10.
(11) L'espressione "interiorità oggettiva" è di M. F. Sciacca, per il quale se ne può parlare come
5
"presenza della verità alla mente" ( L'interiorità oggettiva, Milano, 1967 , p. 63).
(12) In Iohannis evangelium tractatus, 18.8, p. 424.
108
della Parola di Dio, così il verbum è l'incarnazione del pensiero e la vox
l'incarnazione del verbum: "La parola che risuona all'esterno è un segno della
parola che riluce nell'intimo, alla quale anzi si addice maggiormente il nome di
parola (...). Infatti, ciò che viene proferito con la bocca materialmente è voce
della parola. Così la nostra parola diventa in qualche modo voce del corpo,
assumendola in modo da potersi manifestare sensibilmente agli uomini (...). E
come la nostra parola diventa voce senza mutarsi in voce, così la Parola di Dio
si fece carne, lungi però dal mutarsi in carne"(13). Una conseguenza di tale
rapporto di analogia è la constatazione della limitatezza della vox. Tutto ciò che
essa esprime, infatti, proviene dal verbum, ma non tutto il verbum può essere
espresso dalla vox. C'è quindi un'eccedenza di significato a cui il significante
può solo rimandare, ma non può esprimere. Si può notare qui una vicinanza
con quanto afferma Wittgenstein nel Tractatus: "Quanto può dirsi, si può dir
chiaro; e su ciò, di cui non si può parlare, si deve tacere"(14). Differenza
fondamentale è, però, che per Agostino l'ineffabile è solo ciò che per la sua
eccedenza non può trovare spazio adeguato nelle parole, ma non per questo non
lo si deve comunque cercare di esprimere. Naturalmente sarà sempre una
significazione limitata, che sarà attuata non tanto dalle parole, quanto dalla vita
stessa dell'uomo, dal gaudio interiore, dal silenzio ricco di significato.
La parola, dunque, è espressione della vita interiore dell'uomo, del suo
spirito. Essa nasce dall'incontro intimo e unico della persona con la verità che
essa scopre abitare in lei. E' autocoscienza in atto. La genesi, l'esistenza e la
manifestazione esteriore della parola coinvolgono tutta la persona in modo
radicale, fino a porla in questione sul senso della sua esistenza. Dalla parola
nasce anche la possibilità della menzogna, che è l'abbattimento del ponte tra
____________________
(13) De Trinitate, XV, 11.20, p. 654.
(14) L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus, traduzione italiana a cura di A. G. Conte, Torino,
2
1968 , p. 4.

109
l'intus e il foris, il saper vera una cosa dentro ed esprimerne un'altra fuori.
L'errore, invece, è produrre inconsapevolmente una parola non vera. Per questo
la verità del verbum nasce dalla scientia, cioè da ciò che conosciamo come
possesso interiore stabile e duraturo. La parola interiore allora viene ad essere
l'atto originario della persona che si incontra con la realtà, il segno di questo
incontro unico a cui concorrono memoria, intelletto, volontà. Quest'ultima è
una delle immagini trinitarie più usate da Agostino per esprimere l'attuazione
del pensiero, cioè la parola interiore. Spingendosi al massimo della profondità
dell'indagine interiore, l'uomo giunge, secondo Agostino, alla parola-immagine,
che rappresenta il confine estremo con il mistero, l'imago di Dio: "bisogna
spingersi sino a quella parola dell'uomo, a quella parola propria dell'essere
razionale, a quella parola-immagine di Dio non nata da Dio, ma creata da Dio,
che non è proferibile in un suono, che costitutivamente non può appartenere ad
alcuna lingua, ma che precede tutti i segni tramite i quali riceve una
significazione, e che nasce dalla scienza propria dell'animo quando tale scienza
si esprime interiormente così come essa è (...). Quando invece tale parola si
esprime per mezzo di un suono o per qualche segno materiale, non si esprime
così come essa è, ma come può essere veduta o percepita tramite il corpo"(15).
La parola-immmagine si presenta come segno interiore inadeguato del Verbo
del Padre, come inadeguata era la vox nei confronti del verbum e come
inadeguato è qualsiasi strumento o qualsiasi facoltà umana di fronte a ciò che è
mistero.
Il pronunciamento interiore della parola-immagine, con cui l'uomo,
tramite il concorso di memoria, intelletto e volontà, attualizza il suo pensiero a
partire da ciò che egli conosce, è già atto morale. La parola infatti è, in
definitiva, una presa di posizione dell'uomo all'incontro con la realtà, un atto
dello spirito che si pone come fondamento di ogni atto morale successivo.
____________________
(15) De Trinitate, XV, 11.20, p. 652.

110
Infatti "non facciamo nulla da un punto di vista materiale con l'azione o con la
parola, con cui approvare o disapprovare i costumi umani, che non sia
anticipato con la parola data interiormente presso di noi (...). Quindi nessuno fa
qualcosa di sua propria volontà, che prima non abbia detto nel suo cuore"(16).
Per Agostino, allora, il linguaggio non è un semplice riflesso del pensiero, né il
pensiero si struttura a partire dall'espressione linguistica esteriore. Questa, anzi,
rappresenta, da un punto di vista sostanziale, l'aspetto meno interessante del
fenomeno. Il contributo essenziale di Agostino allo studio di queste
problematiche è infatti, senza dubbio, il recupero della dimensione esistenziale
del linguaggio, per le implicazioni essenziali che la parola-segno ha, sia
nell'ambito interiore che in quello esteriore della vita umana. Da Agostino ci
viene la segnalazione dell'importanza fondamentale di rivolgere la nostra
attenzione alla sfera dell'interiorità, superando la comprensibile ma quanto mai
deviante tentazione di volerla risolvere tutta nei dati empirici dell'esteriore.
L'atteggiamento di Agostino che ci sembra di gran lunga predominante,
in riguardo al tema della bellezza, fa trasparire alle sue spalle una sensibilità
che, più o meno esplicitamente, percepisce questa come linguaggio. Vogliamo
allora a questo punto verificare la percorribilità di una linea interpretativa della
tematica estetica di Agostino che prende le mosse da una concezione che
avvicina la bellezza al linguaggio. Quindi si valuteranno le conclusioni e gli
ulteriori stimoli a cui si perviene attraverso questa particolare prospettiva di
lettura.
L'interpretazione della bellezza come segno della presenza e dell'amore
di Dio è molte volte espressa direttamente da Agostino, come abbiamo potuto
mettere in evidenza in vari brani già citati. Può essere ancora illuminante, in
questo senso, leggere nel libro X delle Confessioni: "Gli uomini hanno facoltà
di interrogare, per vedere e capire le invisibili cose divine attraverso quelle
____________________
(16) Ibidem, IX, 7.12, pp. 378-380.

111
create, ma per amore se ne lasciano soggiogare, e dei succubi non possono fare
i giudici. E tutte queste cose d'altra parte non rispondono che alle domande di
chi sa giudicare: e la loro voce - cioè la loro bellezza - non muta a seconda che
uno si limiti a vederla, oppure la interroghi con lo sguardo, in modo da apparire
diversa a ciascuno dei due ma pur avendo per entrambi lo stesso aspetto, per
uno è muta dove all'altro parla: anzi per la verità parla a tutti, ma a intenderla
sono soltanto quelli che accolgono la voce dall'esterno per confrontarla
nell'intimo con la verità"(17). Qui esplicitamente viene detto che la bellezza è la
"voce" delle cose create, mentre prima si era attribuita agli uomini la facoltà di
"interrogare" il creato perché attraverso di esso parla Dio. La bellezza sensibile
delle cose viene ad essere allora la vox di Dio, che è-da-Dio ed è-per-tutti. La
conclusione del brano ripete in pratica la teoria della comunicazione di
Agostino: il significato rinasce nell'intimo, accogliendo qui la voce giunta
sensibilmente, che stimola il ricevente a confrontarla con la verità che scopre
dentro di sé. Ancora direttamente il Sermo 241 ribadisce lo stesso concetto:
"Come l'hanno conosciuto? Attraverso le cose che lui ha fatto. Interroga la
bellezza della terra, interroga la bellezza del mare, interroga la bellezza dell'aria
diffusa e rarefatta, interroga la bellezza del cielo, interroga l'ordine delle stelle,
interroga il sole che con il suo fulgore illumina il giorno, interroga la luna che
col suo splendore attenua le tenebre della notte che lo segue, interroga gli
animali che si muovono nell'acqua, che dimorano sulla terra, che svolazzano in
cielo; le anime sono nascoste, i corpi visibili; è visibile ciò che deve essere
retto, è invisibile ciò che regge; interrogali. Ti risponderanno: Guardaci, siamo
belli. La loro bellezza è la loro confessione. Chi ha fatto queste bellezze
mutevoli, se non chi è l'immutabile bello?"(18). Riprendendo la struttura del
segno, il significante è ciò che è visibile e deve essere retto, cioè tutte le cose
____________________
(17) Confessioni, X, 6.10, p. 353.
(18) Sermo 241.2, p. 640.

112
che non hanno in sé l'origine e la ragione della loro esistenza, il significato è
invece ciò che è invisibile e regge, quindi Dio, Principio e Governatore del
mondo. Ancora viene detto che la bellezza è la "confessione" del creato, cioè
essa è il segno attraverso cui il creato dichiara la propria identità e la propria
appartenenza a Dio.
Bellezza come segno, dunque, ma che cosa significa veramente questo
accostamento? Ha realmente la bellezza le caratteristiche del segno? La cosa
che immediatamente appare più evidente, dal confronto delle analisi separate
del problema estetico e di quello del linguaggio, è senza dubbio che in
entrambe risaltano come costanti forti e strutturali l'unità, la relazione e il
mistero. Come queste si sono mostrate come qualificazioni essenziali della
bellezza e del sentire, così esse si mostrano altrettanto essenziali nella struttura
del segno. Questo infatti nella sua essenza costituisce una "unità": non basta a
fare il segno la "materialità" del significante, come non è sufficiente la
"spiritualità" del significato. Il segno in quanto tale è l'intima connessione dei
due. Questi però, concettualmente distinguibili anche all'interno del segno,
sono in esso in stretta "relazione": il significante non può che rimandare al
significato, il significato non può fare a meno del significante. E' vero che,
riferendoci a Dio come significato, si potrebbe obiettare che è assurdo o per lo
meno paradossale che l'Assoluto Principio di ogni realtà e di ogni ente abbia
bisogno di una realtà materiale per rivelarsi. Mi sembra però sufficiente, per
superare questa obiezione, osservare che non sembra proprio estraneo allo
"stile" del Dio cristiano il ricorso a ciò che l'uomo giudica comprensibilmente
assurdo o paradossale. L'Incarnazione di Cristo e la sua morte sono certamente
più incomprensibili di quello di cui si sta discutendo. Come Dio si è fatto carne
senza mutarsi in carne, così, se questa è la Sua volontà, la sua Parola può
passare certamente attraverso significanti sensibili senza diventare quelli(19).
____________________
(19) Cfr. De Trinitate, XV, 11.20, p. 654.

113
Rimane infine il "mistero". Basta, allora, per capire come questo sia costitutivo
del segno, riflettere sulla potenza evocativa che esso ha. Anche cercando di
penetrare in profondità questa realtà, rimane comunque insoddisfacente
qualsiasi spiegazione razionale sul come una banale traccia sensibile e
materiale abbia a disposizione una potenza tale da scaturire, in chi vi si
rapporta, l'evocazione di realtà indiscutibilmente eccedenti il segno stesso. Non
il meccanismo, il funzionamento del segno rimane incomprensibile, ma da
dove tragga la sua forza. Se sposto un oggetto, posso spiegare bene sia come
questo succede, sia il perché. Ma non posso assolutamente essere soddisfatto
spiegando il segno solo in termini psicologici o linguistici, perché spiego il
come ma non il perché profondo. Si arriva allora a comprendere che si è
arrivati ad una delle tante "porte" chiuse del mistero.
La bellezza sembra allora trovarsi a suo agio nei panni del segno. Le
strutture sono compatibili, le "taglie" sono le stesse. Ci saranno però,
naturalmente, esiti diversi se si distingue di quale bellezza si parla.
La Bellezza Assoluta, Dio, sarà anche il Segno Assoluto, in cui si
verifica la perfetta identità di significante e significato. E' Realtà d'amore che
comunica se stessa attraverso se stessa. Nella sua pienezza il Segno Assoluto
sarà contemplabile dall'uomo solo dopo la sua morte e risurrezione, ma anche
questa vita è impregnata di comunicazione d'amore, tanto che ogni uomo può
trovare dentro di sé, nella sua interiorità, la chiamata diretta del Segno, che lo
attira all'incontro unico con Lui. La grande "esagerazione" del Segno è stata
però la sua Incarnazione. Il Figlio, il Verbum, si è fatto carne, si è
materializzato nella dimensione sensibile e temporale come Significante, ma
senza smettere di essere il Significato. Egli è stato riconoscibile per il suo
essere-da-Altro, cioè dal Padre, e per il suo essere-per-altro, cioè per l'uomo. Il
Segno si è fatto riconoscere così come Amore, Donazione di sé fino alla morte.
Bellezza e Segno sono una cosa solo in Cristo sulla croce. Con la sua morte il

114
significante si è smaterializzato, come una voce di cui non rimane nulla
esternamente a chi l'ha ascoltata, se non degli echi lontani. E questo silenzio
deve essere stato tremendo per gli uomini e le donne che erano state con Lui e
per la terra tutta. Ma Cristo Risorto è altrettanto Segno, testimonianza assoluta
di un ritorno eterno al Padre. Essendo Segno Assoluto Cristo è "il più Bello tra
i figli dell'uomo"(20). Essendo Segno di se stesso, Egli è anche l'unico
Maestro(21). Ogni segno indica sempre anche se stesso, ma il significato è
sempre in eccedenza rispetto al significante; in Dio invece il Figlio è una cosa
sola e la medesima con il Padre e lo Spirito, nel Mistero della Trinità, Bellezza
di ogni bellezza.
Da Gesù apprendiamo che ciò che è bello non può far a meno di
comunicare. Egli ha comunicato se stesso, il Padre, e lo Spirito; ogni ente e
qualsiasi realtà terrestre che voglia recuperare la propria vocazione di bellezza
non potrà fare a meno di comunicare se stesso e il Padre di cui è figlio. In
questa comunicazione cosmica e ultra cosmica risiede il Mistero d'Amore che è
anche il Mistero del Segno.
Tutto ciò che è bello sulla terra è tale, allora, in quanto segno. Non tutto
ciò che è segno, però, è bello, ma solo ciò che è segno della vera Bellezza. O
meglio ancora, tutto ciò che è segno è bello nella misura in cui è segno della
Bellezza. Più un segno si allontanerà da ciò che originariamente deve segnare e
meno bello sarà. Così, probabilmente, la bellezza del nostro pianeta e delle sue
creature è minacciata nella misura in cui diventa ogni giorno sempre meno
segno della Sapienza creatrice di Dio e sempre più segno dell'ignoranza e della
stupidità umana. D'altra parte la bellezza, essendo anche un linguaggio,
presuppone un centro di riferimento intelligente per far esplodere la sua forza
____________________
(20) Salmo 45, 3, p. 1167.
(21) Cfr. De Magistro, 14, p. 226 e sgg.

115
evocativa nel cuore dell'uomo. Se questo centro intelligente non c'è la bellezza
non può nulla, come non può nulla una voce gridata a un sordo.
Le armonie dell'universo, i suoi colori, i profumi ci attraggono e noi li
chiamiamo belli, perché ci parlano della fantasia di Dio e del suo amore per
noi. Il rischio per l'uomo, naturalmente, è quello di fermarsi al significante
come se fosse il significato, ritenere assoluta la dimensione sensibile del segno
e quindi attaccarcisi morbosamente come per succhiare da essa un nutrimento
che non può dare. Così, tutto ciò che è stato messo al mondo, forse soprattutto
per essere segno di bellezza, può rivelarsi ostacolante il ritorno stesso alla
bellezza. Ma di tradimento del segno si può parlare solo riferendosi all'uomo,
non certo alle creature prive di intelligenza. In definitiva l'uomo è bello se è
segno di Dio. Il suo essere segno si esplica totalmente nella testimonianza del
Padre. La differenza essenziale con le altre creature è, però, naturalmente, la
sua libertà. Pertanto, tutto ciò che egli è, lo deve scegliere. Per essere ciò che è,
deve rispondere alla chiamata alla responsabilità. Per essere bello deve
scegliere di essere segno di Dio. La bellezza dell'uomo, proprio come il suo
linguaggio, nasce dentro di lui, dalla sua parola interiore. E' bello chi manifesta
all'esterno, in una vita "significante", la bellezza della parola nata nell'intimo,
dall'incontro con la Verità. Per sconfiggere la bruttezza della dispersione nella
dimensione spazio-temporale, l'uomo ha la possibilità di scegliere la
prospettiva della testimonianza, orientando la distentio a qualcosa di meta-
storico, finalizzandola alla Verità atemporale. L'atteggiamento con cui egli può
vivere in questa logica la propria condizione temporale è costituito dalla fede.
Essa porta nel cuore dell'uomo come un'anticipazione della Verità e
dell'eternità, è il "legno" con cui abbandonarsi ai flutti del Mistero. Tramite la
fede, che è chiave della bellezza, la degenerazione della distentio si rigenera e
si trasforma in extensio, dimensione dell'uomo che vive all'esterno il suo
interno. L'extensio è la condizione stabile di bellezza. E' immediato il passaggio

116
per cui la menzogna, l'inautenticià, è invece ciò che rompe questa possibilità di
stabilità nel bello. La persona che non si traduce in segno, cade nella
inconsistenza dell'insignificante, è una vox che risuona nel nulla, rumore di un
involucro vuoto che si infrange nella realtà.
In questa prospettiva si può rileggere anche la concezione dell'arte di
Agostino. Il punto fondamentale che ci permette di trarre delle conclusioni che
Agostino non esplicita, è il fatto che sia l'arte che il linguaggio nascono dalla
scientia. Questo ci permette di accostarli e di interpretare l'arte come
linguaggio. Per le sue caratteristiche, tra l'altro, è sicuramente il linguaggio che
manifesta con più forza la potenza della bellezza come segno. L'artista è prima
di tutto un uomo che non fugge all'incontro con la realtà. Vivendo in prima
persona il dramma dell'incontro con il Mistero, egli cerca dentro di sé, nel più
profondo del suo essere, quella luce che gli permetta di vedere l'invisibile nelle
cose visibili, attratto dall'indicibile certezza che ciò che è Mistero sulla terra, è
invece enigma risolvibile nella dimensione eterna. Dall'incontro con la Verità
interiore nasce nel suo cuore la parola-immagine, che è la sua presa di
posizione di uomo davanti all'esistenza. Questa si traduce all'esterno nella sua
opera, "incarnazione" del verbum in un significante sensibile, destinato a
raggiungere gli altri uomini. L'opera d'arte, professione di segni nello spazio e
nel tempo secondo scienza e bellezza, riassume in sé l'essenza dell'esperienza
esistenziale dell'uomo e la sua vocazione ad essere, insieme alla comunità degli
uomini, relazione, unità e mistero. L'artista diventa il simbolo dell'uomo.
Ognuno di noi ha infatti in sé il seme di un'opera "d'arte": la vita, che ci siamo
trovati a vivere e che viviamo ogni giorno senza averla decisa noi, ci interpella
ad una presa di posizione personale. Anche noi abbiamo la "missione" di
spargere segni di bellezza per il mondo. Siamo infatti da-Altro e per-Altro.
Come l'artista deve fuggire la "menzogna" dell'arte, fingere di dire e non dire,
così noi fuggiamo la menzogna che ci fa brutti. "Parliamo", con la vita, di

117
quello di cui si può parlare e, davanti alla Bellezza, rimaniamo in silenzio,
lasciando che esso dica per noi. Essa ci ruba il respiro per donarci quello di
Dio. Il silenzio, l'ascolto, la preghiera siano la nostra parola e la nostra bellezza
davanti alla Parola e alla Bellezza, attendendo la pace: "Signore Dio, donaci la
pace - perché di tutto tu ci hai provveduti(22). La pace del riposo, la pace del
sabato, la pace senza sera. Perché tutto quest'ordine bellissimo di cose molto
buone, colma la sua misura, passerà: e anche per loro sarà stato mattino e poi
sera"(23).

____________________
(22) Isaia, 26, 12 (Settanta).
(23) Confessioni, XIII, 35.50, p. 587.

118
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