Documenti di Didattica
Documenti di Professioni
Documenti di Cultura
Enzo Melandri, Contro Il Simbolico
Enzo Melandri, Contro Il Simbolico
Enzo Melandri
Contro il simbolico
Dieci lezioni di filosofia
Dello stesso autore:
La litica e il circolo
Studio logico-filosofico sull’analogìa
Enzo Melandri
Contro il simbolico
Dieci lezioni di filosofia ri
Quodlibet
I
2007 Quodlibet
Macerata, via S. Maria della Porta, 43
www.quodlibct.it
ISBN 978-88-7462-J43-9
A Enrico M. Forni
in memoriam
Avvertenza
Logica
La struttura, il calcolo, l'interpretazione
scia si svolgerà la lettura di tanti altri autori contemporanei o meno della sto
ria del pensiero. Si potrebbero citare decine di altri autori, ma non ce n’è
bisogno per dimostrare che l’esigenza da cui sorge la nuova logica è in pri
mo luogo internazionale, trattandosi di un inglese, di un tedesco e di un fran
cese; che inoltre comprende i caratteri strutturali del calcolo, dell’interpre
tazione interna e di quella esterna, rivolta verso la storia del pensiero; e infine
che la sua efficacia non è un fatto isolato, giacché, almeno inizialmente, essa
porta a una profonda revisione di tutto il modo di studiare la filosofia.
Insieme con la possibilità di esprimere la deduzione come un calcolo,
Boole ha scoperto la struttura della logica, il suo reticolo, il latex o lattice
(come si dice con parola latina riconiata dall’inglese); ha visto che in logica
non vale la regola del prima e del poi, della premessa e della conseguenza, ma
che tutto in essa è contemporaneo, poiché la sua struttura può esser rappre
sentata come un reticolo o lattice bidimensionale al completo. Precedente e
conseguente, in senso temporale, non valgono che psicologicamente, come
ordine dell’apprendimento per noi. Una volta compreso questo, la struttu
ra potrà essere appresa tutta in una volta se si ha l’immaginazione sufficien
te a pensarla come data in una sola colata e un calcolo adatto a esprimerla.
Al di là anche dell’algebra della logica, Frege sopravanza di gran lunga
tutti gli altri nello spiegare perché si è dovuto risolvere a dare una notazio
ne astratta della logica. Il punto da rilevare è che la logica, in questo uso di
metodi simbolici, sembrerebbe di nuovo inclinare a un’interpretazione lin
guistica. Sennonché, nell’accezione di Frege, il linguaggio della logica non
c, se ci si passa l’apparente bisticcio, di natura linguistica, bensì strutturale.
Per poter essere espressa, tale struttura richiede un linguaggio artificiale, che
nulla ha che vedere con la linguistica. Non bisogna confondere linguaggio
con lingua. E un linguaggio che può essere usato solo da chi lo capisce con
cettualmente, così com’era già il caso per le formule matematiche. In mate
matica quel che è scritto tra le formule poco importa — sia esso scritto in
francese, inglese o russo - ma interessa capire le formule. Naturalmente per
intendere queste ultime forse occorrerà leggere anche quel che l’autore scri
ve appresso alle formule in francese, inglese o russo, per capire bene tutto
il resto: ma l’essenziale resta la comprensione del linguaggio matematico,
non della lingua in cui quello si esprime.
all’infuori delle sue formule. Ognuno, se vuole, può apprendere un tale lin
guaggio; ma nel capirlo se ne costituisce uno proprio, figurativo, musicale
o logico. Solo, con esso non comunica nulla. Se viene usato esso è uguale
per tutti: si tratta allora di quella universalità che vale per ogni evento uni
co, e che proprio per questo non dice nulla. Da questo momento in poi il
linguaggio della logica non è più leggibile come lingua. Sotto tale aspetto la
questione sembra esser risolta. Ma siamo con ciò incappati in una stretta
nella quale non è più avvertibile lo smorzamento delle vaste oscillazioni che
l’hanno provocato. In seguito diremo qualcosa su come si sono formati
questi concetti che si inscrivono in una specie di ideografia autoregolata. La
cosa di per sé non è difficile; è un po’ quello che è successo in matematica,
dove l’interpretazione è tutta interna. Gli oggetti della logica sono queste
strutture astratte.
È importante riconsiderare questa nuova logica sotto il profilo filosofi-
co. La logica moderna, infatti, non è la tradizionale logica della filosofia,
non è una divisione interna a quel corso di studi che prevedeva la triparti
zione in grammatica, logica, dialettica, né di quella specializzazione di pro
blemi generali che induceva a una trattazione separata di gnoseologia, logi
ca, estetica ed etica. In prima approssimazione si può dire che la logica
moderna è una derivazione della logica formale. Ma a differenza di que-
st’ultima, che in fondo rimane esterna ai raziocini più interessanti dal pun
to di vista dei fondamenti, la logica moderna è fonte di importanti proble
mi e forse ancor più di basilari precisazioni. La novità sta soprattutto in
questo: che, dato il carattere fortemente tecnico di questa nuova logica, essa
può esser studiata e coltivata con profitto anche da chi non si interessi par
ticolarmente di filosofia. È successo altre volte, in altri campi.
Naturalmente gli esiti saranno, per un filosofo o meno, alquanto diversi.
È probabile che un filosofo, commentando i lavori di logici intesi come pura
mente tecnici, esca con qualche osservazione pungente. Ma questo, si imma
gina, sarà il tenore di tutti i commenti intorno alla rilevanza di ciò che un
altro sta facendo. Tuttavia è imprescindibile osservare che in epoca contem
poranea i lavori più importanti in merito sono dovuti a coloro che erano suf
ficientemente addestrati nelle nuove tecniche da riproporre, anche per la filo
sofia, una ridiscussione di antichi argomenti mediante un rinnovato rigore.
Si possono citare come esempio le famose «antinomie» di Kant a carattere
cosmologico: il mondo è finito o infinito.'' È eterno o non eterno? E cosi via.
Kant sostiene che qualunque risposta è un’antinomia, cioè che include
anche la sua negazione, e perciò comporta contraddizione.
LOG1C/X 21
Diventa un argomento serio se si dice che nil sine ratione, c che occorre sem
pre un motivo, o una causa, per scegliere anche tra due cose apparentemen
te equivalenti. A uno che sostenga sul serio che nulla può avvenire senza una
j ragione, auguro tuttavia di non trovarsi mai nella situazione dell’asino di
Buridano, perché sarebbe costretto a digiunare o a smentirsi.
b’ (a —> b) vuol semplicemente dire ‘o non-4, o b\ Così non-rt vuol dire che,
se a ha valore 1, non-d ha quello duale, che è 0. Oppure viceversa nel caso
di convenzione diversa.
Possedendo un po’ d’esercizio questi passaggi si fanno algoritmicamen-
te senza pensare a che cosa significhino. Ciò è dovuto alla coincidenza del
l’idea di reticolo dell’algebra booleiana e della forma linguistica astratta, evi
denziata da Frege. Il passo decisivo penso sia stato, in questo caso, il
concetto fregeiano di valore di verità. In una logica bivalente (a due valori
di verità), i valori della verità possono essere 1 o 0, volgarmente il vero o il
falso\ in una logica a tre valori di verità, saranno il vero, il falso o Vincerlo.
In una a n valori di verità saranno il vero, il falso e gli n -2 valori di verità
(differenzialmente) intermedi tra 1 e 0.
Questa notazione del tutto relativistica è stata un vantaggio decisivo sot
to il profilo concettuale, perché quando Aristotele deve parlare della logi
ca, benché ne parli nel nostro senso, deve dire che Vanalitica è quella scien
za che tratta dell’òv cu; aXiiGég (dell’ews tamquam veruni), perché egli non
possiede il concetto del «valore di verità», e introduce in sua vece quello del
quam-si o del «come se», che agisce come un destabilizzante ontologico. In
effetti ci si sente in imbarazzo di fronte a questa formula. Come fa l’ente a
far finta di esser vero? L’ente o c’è, o non c’è. Il discorso sull’ente (su ciò che
c’è) è un discorso logico se assumiamo che le premesse siano vere e che
quindi quel che consegue si dia di necessità, expositis. È analitico ciò che
sappiamo in base a ciò che abbiamo detto, ma non sappiamo la rilevanza di
fatto di ciò che abbiamo detto. Questo definisce certamente l’importanza
del sillogismo, cioè dell’analitica, ma non sappiamo di fatto che cosa esso
significhi, perché non sappiamo se quanto abbiamo detto sia un entimema
che dipende da altre ipotesi o un’ipotesi puramente congetturale. Perciò tut
to il complesso del discorso relativistico, o cautelativo, è abbastanza goffo,
perché non dice di più di quel che esprimiamo in maniera puramente ipo
tetica. Aristotele si rende ben conto di ciò, escludendo che l’analitica faccia
parte della metalisica: la logica non è una scienza reale, perché parla di fin
zioni (coinc-sc) c non di cose sia pur generali ma effettive, come in fondo
fa la metafisica. Infatti egli non coordina la logica alla metafisica, ma ne fa
un ÒQyavoV o strumento del tutto speciale che non è bene inquadrato nel
sistema delle scienze obiettive.
La difficoltà nel dire qual sia l’oggetto della logica ha non poco imba
razzato il suo sviluppo. È di nuovo con Frege che spunta l’idea decisiva; può
sembrare una cosa da poco, e invece ne è la mossa fondazionale. La logica
PRIMA LEZIONE
24
non è una scienza reale, essendo suo oggetto non una costante in qualche
modo data, bensì una variabile. Questo oggetto formale è il suo valore di
verità, che può variare tra vero e falso; vero, falso e incerto; e così via. Non
dobbiamo fare altro che darne una definizione corrispondente, poiché una
scienza in generale può avere un oggetto qualsiasi, non è detto una costan
te. Se la matematica dovesse avere un oggetto reale, cioè costante, sarebbe
finita all’epoca della scoperta degl’irrazionali, circa nel vi secolo a.C. La sco
perta di Frege è la determinazione dell’oggetto formale della logica, che è
abbastanza ampio da comprendere anche i fondamenti della matematica.
Purtroppo è anche troppo ampio, fino a includere certe antinomie. Ma que
sto è un altro discorso; non abbiam detto che la nuova logica è una panacea
valevole per rutti i mali.
può dire, sono logiche senza sponde; quelle teoretiche, come per esempio
quella che desiderava Russell, sono inquadrate fin dall’inizio in modo che
non sorgano certi problemi. Esigenza che, in molti casi, si è dimostrata
superiore alle capacità umane di previsione. Direi però che anche queste fac
cende, una volta assodata la formalità di un certo ambito, non interessano
più di tanto; esse fanno parte di un problema di applicazione, metodologi
co e interpretativo.
Come filosofo e interessato alla storia del pensiero, rilevo l’importanza
che la logica moderna ha conferito alla riscoperta del vero significato delle
opere dei medievali e degli antichi, per lo meno di certuni tra di essi. Si trat
ta di autori, tra antichi e meno antichi, che hanno dibattuto con un’ostina
zione degna di un miglior pubblico questioni e paradossi logici che un seco
lo fa non eravamo nemmeno in grado di apprezzare. Per questo recupero
storico dobbiamo esser grati ai fondatori della logica moderna. Più di
cent’anni fa c’erano logici e storici della logica considerevoli, come Trende-
lenburg, Ùberweg o Prantl, che tuttavia mancavano di conoscenze tecniche
adeguate; cosicché, quando s’imbattono in argomenti che per essere apprez
zati richiederebbero un notevole sforzo di riformulazione e di discussione
applicata, finiscono col trascurare il tema trovandolo impertinente o non
interessante.
Se ne può dare un esempio richiamando l’argomento della consequentia
mirabilis (detta anche «legge di Clavius») di cui si avvalsero i primi studio
si di assiomatica per discutere la questione dell’indipendenza degli assiomi
tra loro. Se per esempio risulta che negando il quinto postulato (o assioma)
di Euclide non cade tutta la geometria, ma ne resta in piedi una parte con
siderevole, si è con ciò dimostrato che il postulato delle parallele è indipen
dente dagli altri, cioè si sovraggiunge a essi. Se esso non fosse indipenden
te, negandolo si comprometterebbe l’intera costruzione. Questo si discute
applicando (ma è la metodologia che deve poi decidere) la legge di Clavius
che, nella sua generalità, in simboli si esprime così: -</>—> (p —» <7). Se negan
do il principiop l’implicazionep —> q rimane valida, questo vuol dire chep
è implicito in ciò che si vuol negare; perciò la sua negazione comporta la
distruzione di tutta la costruzione. Se invece questo non succede, è dimo
strata l’indipendenza di p rispetto a q\ cioè del nuovo assioma aggiuntivo.
Queste sottigliezze non erano facilmente sopportate in quel periodo del
XIX secolo in cui si mirava a cogliere il contenuto piuttosto che la forma del
pensiero, conformemente alla valutazione psicologistica della logica. Eppu
re detto principio era stato usato anche da Euclide, Teofrasto, Crisippo, per
26 PRIMA LEZIONE
9. Qui sotto processo va il capire. Che cosa vuol dire mai «capire», se con
esso intendiamo mettere sotto un’etichetta, di cui non comprendiamo la
genesi, qualcosa che diciamo di aver capito solo dopo averlo messo sotto
un’etichetta? Se dico il «vero» o il «falso», come oggetti, che cosa si capisce?
O se dico, peggio ancora, il «vero o falso» come unico oggetto, che cosa si
capisce ancora? Ma se invece io dico «Socrate è mortale», questo si capisce:
ma che cosa? Che forse una verità venga fuori dall’unione di due rappresen
tazioni? Ma questa idea del congiungimento è una strana teoria. Perché allo
ra la disgiunzione del vero o del falso non dovrebbe costituire una verità?
Ma non è forse ragionevole che logica e matematica debbano riscoprire
la loro antica origine e parentela formale? Nessuno oggi metterebbe in for
se un’idea del genere. Evidentemente la matematica ha in comune con la logi
ca il principio di un’identità puramente formale, costituita di pensiero o di
attività di carta e matita; non certo di sassi o sacchi di cemento. Ma la mate
matica ha in proprio un principio induttivo, per il quale essa può allargare la
propria conoscenza di identità astratte. Lo stesso non si può dire della logi
ca, la quale può allargare il suo momento formale solo approfondendolo;
non come principio d’induzione. In assenza di tale requisito puramente
intensionale dell’approfondimento, estensionalmente la logica potrebbe con
siderarsi, come dice Kant, già acquisita fin da Aristotele. Come si possono
unificare le due discipline, se non dicendo che il loro oggetto comune è «il
formale o l’induttivo: cioè l’identico e il diverso»? Questo problema mi pare
che non sia stato risolto, ma che possa esser foriero di nuovi guai.
LOGICA 31
Credo sia sufficiente dir questo per liberarci dal «linguisticismo» che tut
tora incombe nel discorso logico. In precedenza c’era stato il pericolo del
l’attribuzione della logica alla psicologia. Quest’ultima era intesa non solo
come scienza della vita psichica, ma in particolare della sua fisiologia, ivi
incluso il pensiero e le altre attività psichiche superiori. Ora è facile demoli
re questa tesi, ma l’onore di essere il primo ad aver formulato una decisiva
obiezione contro lo «psicologismo» spetta a Husserl. Nelle sue ricerche logi
che del 1899 egli osservò che nessuno dubita che la fisiologia del pensiero sia
un fatto materiale, ma che su tale base si giustifica altrettanto bene tanto un
ragionamento giusto quanto uno errato. La differenza specifica tra un ragio
namento corretto e uno scorretto non si può misurare in kilocalorie, dicen
do per esempio che il pensiero corretto costa più sforzo e quindi consuma
di più, o invocando una misteriosa attività psicofisica come «scatola nera» di
cui non sappiamo nulla. La differenza non può consistere che nel fatto di
ragionare come si deve, e ciò vuol dire adoperare l’apparecchio fisiologico in
conformità con leggi logiche, non a causa di esse. Così una calcolatrice arit
metica (Husserl pensava a una di quelle macchinette di fine secolo che fun
zionavano con un giro di manovella) funziona bene non perché essa sia in sé
logica, ma perché strutturalmente è stata costruita in modo da produrre i
risultati desiderati; se fosse guasta o costruita male, produrrebbe altrettanto
bene risultati errati.
Ma la logica non si identifica nemmeno con il linguaggio, nemmeno con
quello artatamente costruito allo scopo. Probabilmente questo è un errore
simmetrico al precedente. Nella fattispecie fu Russell a scoprire l’antinomia
corrispondente. In genere, dice Russell, i greggi sono formati da pecore e
non, a loro volta, da greggi. Ma supponiamo che, in conformità con la teo
ria degli insiemi, io voglia parlare di greggi formati di greggi, e così via. Lin
guisticamente non vi sarebbe nulla da obiettare, purché si proceda molti
plicativamente e non di visivamente. Per quanto ne sappiamo in base agli usi
linguistici, le classi possono sia contenere sia non contenere se stesse come
elemento. Entrambe le costruzioni sono ammesse. Supponiamo ora che io
voglia costruire la classe di tutte le classi che non contengono se stesse come
elemento. Linguisticamente il costrutto è senz’altro possibile. Ma ora ci si
chiede se tale classe complessiva contenga o no se stessa come elemento. Ne
risulta una risposta antinomica. Se infatti la classe contiene se stessa, per
definizione viene a far parte di quelle classi che non contengono se stesse
come elemento; se invece si dice che non contiene se stessa, è una di quelle
classi che dovrebbero esservi contenute, sempre in virtù della costruzione.
3^ PRIMA LEZIONE
immaginiamo noi. Esso c’è solo nel suo esser-così. Questa differenza non
si può riferire a parole; si può solo ribadirla sperando che sia compresa. In
termini appena un po’ più consacrati, si può dire che essa riguarda la diffe
renza che c’è (o dovrebbe esserci) tra gnoseologia e ontologia, che non si
può appiattire su un solo riferimento. L'ontologia assume i significati come
se fossero fondamentali, quindi in rilevanza a tutto tondo; la gnoseologia li
riduce a quel che ne possiamo conoscere in proiezione bidimensionale.
Importante è notare che gnoseologia o ontologia non sono la stessa cosa. Si
potrà sopprimere l’incomodo riferimento all’ontologia, ma poi resta di ren
der ragione dell’altro, dei suoi limiti, soprattutto per quanto riguarda l’es
sere, l’esistenza, l’oggetto.
In conclusione, ho creduto di rispondere alle domande sulla logica: che
cosa essa è? Da dove proviene? È forse linguistica? È forse psicologia? È cal
colo, o un giochino che si fa sui simboli? A tutte queste domande ho cerca
to di rispondere non raccontando una favola, più o meno plausibile, ma con
un sicvel non. Il grande problema che rimane aperto è quello dell’applica
zione della logica. Con questo a mio parere resta stabilita la grande differenza
tra la logica, per quanto moderna, e la matematica. La matematica è infatti
cresciuta insieme con le sue applicazioni. Questo non si può dire della logi
ca, a meno che non si equivochi sul tenore della domanda. Quando per
esempio Newton e Leibniz inventano il calcolo, è un pezzo che i fisici mate
matici stavan dietro al problema delle tangenti. Trovato l’algoritmo, di lì a
presso vien subito trovata l’applicazione. Noi oggi troviamo una quantità di
cose di cui non sappiamo, presumibilmente, se ci sarà mai un’applicazione.
Il ragionamento sui mondi possibili, pur essendo sensato, non è affatto con
cepito in vista di un’applicazione su altri pianeti. E d’altra parte sarebbe stra
no che ciò dovesse sempre succedere, che la matematica chiedesse alle scien
ze empiriche su quali campi esercitare i suoi algoritmi. Quando tale esigenza
si determina in genere sono gli scienziati empirici stessi, non i matematici, ad
applicare in quei campi del sapere una sufficiente competenza per cavarsela.
Ma la nostra situazione è molto diversa.
Non si dimentichi: Vin sé è ciò che si risolve nel Sosein, nell'esser così in
senso fantasmatico-conoscitivo; il per sé non si risolve, essendo ciò che è
reale per conto suo. La definizione non è effettiva, ma credo di doverci
ritornare più volte in seguito. Noi lutti vogliamo esser realisti, anche il filo
sofo. Solo, non si sa come dirlo. Ho cercato di dirlo, ma forse con un truc
co. Se è così, mi dispiace.
LOGICA 37
Nota bibliografica
Linguaggio
La lingua, la comunicazione, l'informazione
pre risalire a un’esperienza che ci appare evidente per il fatto che l’intuizio
ne è anteriore alla distinzione di soggetto c oggetto: c quindi chi esercita un
atto d’intuizione non può fare a meno di identificarsi col suo oggetto, facen
do tutt’uno con esso. Conviene non dare a queste espressioni un senso inde
bitamente mistico o, meno che mai, orientaleggiante (quasi si trattasse di
zen}. Quel che Descartes intende è molto semplice; tutto sta a vedere se è
sufficiente come base di tutto il pensiero.
Per dare un’idea della circostanza intuitiva del pensiero basterà un esem
pio. Se io dico che un circolo (come circonferenza) è il luogo di tutti 1 pun
ti equidistanti da un centro, chiedo agli ascoltatori di rappresentarsi un pun
to come centro e una circonferenza formata dalla curva di tutti i punti che
stanno alla stessa distanza dal centro. Ciò che io dico mi appare intuitivo
semplicemente perché nessuno può capire questa specie di definizione sen
za tracciare col pensiero una circonferenza che compia quel che io intendo.
In altre parole, se uno comprende ciò che io dico deve anche fare quel che
è richiesto, facendo coincidere apprendimento ed esecuzione. Se effettiva
mente si verifica tale comprensione, l’intuizione diviene per così dire perfor
mativa (o fattitiva}. Sono con ciò risolti tutti i problemi?
fatto (o meglio un «da farsi») extralinguistico, alla stessa stregua di una rete ; )
ferroviaria, un sistema di canali, o un gioco di pedine sulla scacchiera. Natu
ralmente per esprimere tutto ciò occorrerà fare uso di una lingua, specie se
ho bisogno di collaborazione; e probabilmente sarà più opportuno allo sco
po sviluppare una funzione speciale della lingua stessa, che chiameremo il
«linguaggio», della logica, o di quel che si tratta. Invece dal punto di vista
propriamente linguistico, che ora pratichiamo, si tratta magari di parlare
delle stesse cose (oggetti di pensiero, relazioni connettive, ordinamenti ecc.),
ma senza presupporre uno speciale linguaggio in cui inserire tali idee, obict
tivandole. L’approccio linguistico usa la lingua come mezzo di comunica
zione, non di obiettivazione; non intende delimitare a priori una certa fun
zione o uso speciale della lingua, allo scopo di fissarne i significati in senso
tecnico. La lingua si assume sempre globalmente, con tutte le sue funzioni
e sistematiche ambiguità di lessico.
In generale, quando parliamo di lingua ci riferiamo all’italiano, all’ingle
se, al francese o ad una qualsiasi altra lingua del caso. Non risulta infatti pos
sibile parlare di un linguaggio, comunque inteso, se non presupponendo la
comprensibilità immediata o già acquisita di almeno una di tali lingue. La
necessità di ribadire una distinzione, che dovrebbe apparire quanto meno
nell’uso come scontata, è dovuta al fatto che nel tradurre dall’inglese pub
blicazioni di logica e di linguistica ci troviamo immancabilmente di fronte
all’unica parola language, che a volte significa linguaggio, ma a volte lingua
(come nella dizione colloquiai language, che non ha molto senso tradurre
letteralmente). Accettiamo provvisoriamente che il concetto di lingua sia ret
to dal criterio di una traduzione da una lingua all’altra, la quale consenta di
mantenere, come si dice, lo stesso significato. Non tenteremo qui di dire (non
si parli di definire) che cos’è il significato; basterà constatare che esso è ciò
che tutte le lingue hanno in comune, dal momento che regge la pratica della
traduzione. Da questo consegue che ogni lingua deve essere in grado, in teo
ria, di esprimere qualsiasi significato, e ciò per qualsiasi funzione del lin
guaggio. In realtà la cosa è un po’ meno assiomatica, ma nulla vieta di sup
porre che, nel caso, uno possa imparare la lingua nella quale l’espressione
racchiude il significato nella maniera più calzante. La lingua dunque si rife
risce (non direttamente, ma riflessivamente) a quei prodotti, i significati, che
vengono espressi con parole o mediante frasi dotate di senso compiuto.
Abbiam detto che bisogna cautelarsi contro l’equivocazione. Per esem
pio la lingua matematica, di cui parla Galilei, che c composta di triangoli,
rettangoli, circoli, e così via, tanto che chi non la capisca non può intcn-
SECONDA l EZIONE
50
d’essere, a sua volta, poetica. Ma ciò che egli intende è altra cosa, e lì siamo
d’accordo: non si può certo andare in paradiso in carrozza.
5. Parlare i vari linguaggi di una lingua può voler dire occuparsi di logi
ca, di metafisica, di diritto o altro ancora; ma ciò che ora vorrei fare è scor
porare tutti i momenti di linguaggio dall’oggetto del nostro discorso, per
occuparmi da un punto di vista filosofico in generale della lingua in sé e
vedere quali siano i problemi fondamentali a cui mette di fronte uno studio
linguistico così fatto. Dopo aver liberato il campo dalle più insidiose equi
vocazioni, conviene sempre partire da quanto, nel particolare, è specifico.
Anzitutto c’è il problema linguistico interno alla lingua, a qualsiasi lin
gua. Non intendiamo parlare di linguistica comparata; non che la cosa non
c’entri, ma deve per forza restare sullo sfondo. Intendiamo, da filosofi, ciò
di cui si è occupato lo stesso Aristotele, quando (nei capp. xx-xxi della Poe
tica) parla per la prima volta della òiàoGowotc o articolazione della lingua.
E un’osservazione aristotelica, contenuta in modo un po’ anodino anche in
zZ Platone (per esempio nel Teeteto, ma anche altrove), che per capire nell’a
scolto ie parole di una lingua bisogna riprenderne l’articolazione in sillabe,
" cioè che l’elemento minimo di intelligibilità uditiva è la sillaba. Si tratta di
- ' un primo concetto, un po’ primitivo, di fonema., in quanto fonologico e non
meramente fonetico-acustico, poiché fa perno sul momento intellettuale
associato alla percezione di ciascun suono articolato. Intesa in questo modo,
la sillaba adempie altrettanto bene che il fonema la sua funzione di identifi
cazione. La questione si chiarisce se si riflette sul fatto che in una lingua che
ci sia completamente ignota noi non riusciamo a percepire nemmeno una
sillaba riconoscibile. I suoni che sentiamo sono per noi meramente foneti
ci, cioè emessi con la voce, ma non sapremmo come scrivere nemmeno un
frammento di tale sequenza, o rappresentarlo in qualche altro modo, non
comprendendo l’articolazione di detta lingua.
Il primo principio della lingua è dunque l’articolazione. Essa è costituita
da un momento analitico di scomposizione riduttiva a unità minime, purché
intelligibili e cioè percepibili intellettualmente, e dal momento sintetico del
la ricomposizione delle parole a partire dalle sillabe intese nel senso che si è
detto. Questo principio di organizzazione strutturale è tanto essenziale che,
qualora esso venisse a mancare, come succede in certe patologie, ciò impe
direbbe la comprensione dell’atto di parola, non essendone più intelligibili
le parti costitutive. Viceversa la parola risulta percepibile anche in presenza
di una pronuncia che lasci molto a desiderare, appunto perché il principio
LINGUAGGIO 53
siero filosofico) sono un breve battito di ciglia nei confronti del tempo tra
scorso dai primordi della lingua e della sua diffusione generalizzata.
costruisce col pensiero e nel pensiero. E questo che fa saltare il quadro '
riproduttivo dell’immagine, producendo variazioni, invenzioni o mostruo
sità. Ma in sé il pensiero è un’operazione abbastanza banale.
L’altra funzione del linguaggio risalta meglio per contrasto con quanto si
è prima detto sulla simbolizzazione c obiettivazione. Si tratta della funzio
ne comunicativa, che è specificamente linguistica, e cioè: non del linguaggio,
ma della lingua. Come già osservato, ripetiamo che «non c’è problema» del
la comunicazione, se ci si accontenta di presupporre che questa bene o male
esista, c ci limitiamo a ricercarne «all’indietro» le condizioni alle quali essa
sarebbe ottimale. Ci sono alcuni ottimi libri che insegnano l’arte di espri
mersi in un linguaggio piano, chiaro e intuitivo; ma questo è un problema di
didattica, o di giornalismo, che difficilmente potrebbe confondersi con quel
lo che ci sta di fronte. Di un vero e proprio problema della comunicazione
non si può parlare prima della seconda metà del XIX secolo. In precedenza
esso si presentava confuso con questioni come l’origine del linguaggio e i rac
conti mitici, come la torre di Babele e la confusione delle lingue. Nella Bib
bia la lingua originaria è l’ebraico, l’assegnazione dei nomi alle cose risale
direttamente al creatore (Elohim) oppure è delegata in parte ad Adamo, che
deve perfezionare l’istituzione: «il nome col quale infatti Adamo chiamò
ogni essere vivente, è il suo vero nome» (Gen., 2, 19-20). Chiaro che, quan
do si ricerca la verità nel nome, non si è ancor capito il problema in questio
ne. Dal racconto della torre di Babele si evince che la comunicazione è con
cepita come trasmissione di ordini, essendo gli uomini «un popolo solo», che
$S SECONDA LEZIONE
ha «una lingua sola per tutti». Alla fine ne risulta l’impossibilità di comuni
cazione, ma questa è concepita come nemesi o vendetta divina, con cui gli
uomini pagano il fio dell’oltracotanza, con intervento del tutto ex machina:
«andiamo dunque, discendiamo, e confondiamo le loro lingue, così che nes
suno più comprenda la parola del prossimo suo» (Ge?z., 11, 6-9). Non emer
ge la difficoltà intrinseca della comunicazione. Non giova dunque imparar
l’ebraico per venire a capo di tali problemi.
che regge il fatto comunicativo; ma presupporla vuol dire aver già risolto tut-
to il problema. Giova piuttosto tener ben distinti i due fatti della comunica
zione, l’espressione da parte di chi parla, e la ricezione da parte di chi ascol
ta, poiché il fatto d’esser interscambiabili negli attori non li rende, in se stessi,
identici. Infatti l’atto espressivo della comunicazione non ha nulla a che
vedere col reciproco atto ricettivo della sua comprensione. L’espressione è
un atto in senso lato retorico, fondato sull’efficacia dell’emissione; ma que
sta è solo una metà della comunicazione, la quale deve completarsi con la
comprensione dell’udienza, che è un atto squisitamente ermeneutico, inter
pretativo, fondato sulla effettiva ricezione del messaggio. Insomma, il fatto
che ora io funga da emittente e quindi, magari immediatamente dopo, da
ricevente: vuol semplicemente dire che io compio in due occasioni diverse
due diverse operazioni, una retorica e una ermeneutica, che per la circostan
za di esser scambievoli non diventano certo l’una l’inverso dell’altra. La reci
procità è puramente esteriore, e riguarda la funzione sociale della conversa
zione; in sé le due operazioni sono molto diverse, e richiedono ciascuna
un’analisi peculiare. Espressione e ricezione sono due differenti operazioni,
per nulla assimilabili al tipo di reciprocità di moltiplicazione e divisione.
Con questa osservazione la concezione suddetta della comunicazione
dimostra la sua inattendibilità. L’obiezione rivolta è valida perché si fonda
su un argomento puramente analitico, indipendente dal punto di vista e
basato sulla semplice constatazione. Siccome però una concezione non può
esser veramente superata che da un’altra migliore, chiameremo la prima
concezione la «teoria coordinativa» della comunicazione, per il fatto che
essa si fonda su un elemento comune (l’imitazione) che, permanendo iden
tico per l’emittente e il ricevente, istituisce per l’appunto la coordinazione
tra i due poli. Ciò spiega tra l’altro perché tale teoria, per quanto criticata,
rappresenti un presupposto inespressamente condiviso. Le idee più diffi
cilmente criticabili sono quelle che permangono nello stato endemico, ano
nimo e anodino.
La teoria coordinativa della comunicazione è tipicamente una tesi otto
centesca anche per un altro aspetto. Essa procede nel senso del «progres
so», che per ciò stesso è il nuovo; si ignora o si trascura presuntuosamente
il latto che esisteva un’altra tesi in grado di offrire uno strumento critico, se
adeguatamente ricolletta, molto più potente. Alludiamo alla tesi della inco
municabilità, la quale e stata per la prima volta espressa da Gorgia, il sofi
sta, nel v secolo a.C., c che si può ripresentare nel contesto di una «teoria
causale» della comunicazione, con tutta serietà e cognizione del fatto.
60 SECONDA LEZIONE
Solo dopo essersi intesi, comunicando bene o male (più male che bene),
interverrà un successivo processo di coordinazione dei significati. Sarà quin
di possibile, non vogliamo negarlo, anche l’altra tesi; ma non come teoria,
bensì successivamente, dopo aver acquisito la comprensione del meccani
smo comunicativo. In tal caso saranno le circostanze, per una sorta di riso
nanza, a costringere il contenuto della comunicazione verso un effetto con
centrico identificabile, seppure solo fino a un certo punto. In linea di
principio non si dà mai il caso, se non accidentalmente, che il significato
espresso coincida col significato ricevuto.
servare il suo buon senso settoriale; solo, non bisogna dimenticare che il
senso della comunicazione è dato dall’incontro-scontro tra la retorica del
l’emittente e Vermeneutica del ricevente, e questa prestazione difficilmente
si può immaginare che possa esser resa automatica. L’idea ingenua, che può
esser rovinosa nelle conseguenze, è che si possa trasmettere il significato
come una derrata che viaggi su ferrovia.
La teoria causale (gorgiana e biihleriana) della comunicazione ha tra le
altre cose il merito di non avallare simili equivocazioni. E pur accentuando
il carattere dinamico della comunicazione, rendendola più drammatica, alea
toria e multiversa, nondimeno essa è in grado di fondare senza soggiacere
ad autoinganni il fatto comunicativo. Il cardine di questa teoria è costituito
dalla preferenza accordata al momento della ricezione, in confronto con l’e
missione: e cioè all’ermeneutica, piuttosto che alla retorica. Essendo l’er-
meneutica l’arte dell’interpretazione, tale concezione insiste giustamente
sulla differenza di preparazione e competenza linguistica dei singoli ele
menti dell’udienza. E infatti evidente che chi mi ascolti da lungo tempo rie
sce a intonare meglio la sua interpretazione (in accordo o disaccordo con
quanto dico) nei confronti di uno che mi ascolti per la prima volta; questo
perché chi è già abituato al mio modo di discorso riesce a cogliere più a pro
posito gli eventuali stimoli, là dove vadano rilevati. In effetti è molto inge
nuo far dipendere la comunicazione da un’informazione che si trasmetta
identicamente; e, ancor più che ingenuo, è stolto credere che l’esistenza (non
dimostrata) della comunicazione sia per ciò stesso la prova dell’identità del
significato trasmesso. Le concezioni coordinative servono semmai come
prescrizioni costruttive utili a preformare i quadri entro cui collocare le
comunicazioni dei linguaggi specialistici delle scienze particolari; ma tali
quadri, come la carta millimetrata, sono prelinguistici e anzi precomunica-
tivi, in quanto sf trasmettono come cose fisiche. Noi comunichiamo anzi
tutto con lo scambio di oggetti fisici, che nulla hanno che vedere con la
semantica. La comunicazione è una funzione linguistica importante, perche
precede in se stessa il linguaggio.
La teoria dello scatenamento rappresenta un risultato della riflessione
filosofica tanto piu ragguardevole, in quanto contiene implicitamente una
garbata critica, rivolta a coloro i quali pensano che ci si possa intendere e
capire senza problemi, purché si parli lentamente, spiccicando le parole c
dicendo cose semplici e chiare. La comunicazione e invece un parallelo
gramma di forze la cui risultante, quando c’è, si da in maniera mollo com
plessa. Chiamiamo «gorgiana» la teoria dello scatenamento, in quanto cer-
LINGUAGGIO <>3
Nota bibliografica
Realtà
Gli enti, i concetti, gli oggetti
i. Ai sensi dell’obiezione di Gorgia, del reale non si può dir nulla, giac
ché neppure può esser pensato. «Se le cose pensate non sono enti», egli dice,
«l’ente non viene pensato». E s’intenda: se io posso pensare tanto quel che
è come quel che non è, ciò che si pensa non è mai l’ente (= quel che è) se non
accidentalmente. Tale obiezione di solito viene circonvenuta mediante una
contemporanea aùiotpta, ossia facendo coincidere quel che si dice con
quanto si vede, o comunque con la testimonianza dei sensi. Da ciò si ricava
una certezza che marginalmente può esser problematica, ma sufficiente a
fondare un criterio di verità fattuale, che nel pensiero riempie una delle
alternative (vero o falso) e scarta l’altra. Non c’è dubbio che se la realtà è
totalmente determinata, e limitiamo la nostra indagine alle cose visibili, o
comunque sensibili, ogni domanda intorno all’ente deve avere come rispo
sta un sì o un no. Anche in sede di filosofia linguistica, se ci limitiamo a par
lare delle cose visibili (gli ó^aió), non sorge nemmeno un problema di
comunicazione. Ciò che si vede, infatti, o è un sensibile comune a tutti, o
non contiene neppure un significato. Vero è che non si capisce che bisogno
ci sia di comunicare quanto è già ampiamente noto a tutti, a meno che non
si debba trasmettere l’informazione a qualcuno che non è presente. Come
si vede, la comunicazione intesa come trasmissione di informazioni è un
problema di telecomunicazione, dove la distanza non è solo spaziale ma
altresì temporale.
La storia è per esempio un caso di telecomunicazione temporale a sen
so unico. Abbiamo inaugurato questa nuova indagine all’insegna del «nes
sun problema», né di verità, né di realtà, né di comunicazione. Per quanto
gradevole, quest’impressione non potrà esser mantenuta a lungo, quantun
que ci sforziamo di farla durare. Anzitutto alla questione del vero (o del rea
le) è possibile rispondere solo se nella domanda si può isolare lo stato di
cose enunciato dalle altre dichiarazioni concernenti l’autoriferimento di chi
68 TERZA LEZIONE
la mente, come per così dire le vedo; sono cioè le idee che, nell’immediato,
mi passano per la testa. Fin qui nessun problema. Il punto importante è se,
nell’analisi delle idee, si possa procedere oltre. Si può andare più avanti?
Descartes lo fa. E di fatto io posso inquadrare topologicamente queste idee,
in uno spazio sempre ideale dove si distingua destra e sinistra, sopra e sot
to, davanti e dietro; e inoltre il pieno e il vuoto, la figura e lo sfondo, il
dipendente e inseparabile da ciascuna di esse da ciò che invece è indipen
dente e quindi separabile. E inoltre c’è il tempo, che cosa sia venuto prima,
distintamente, al pensiero; e che cosa dopo, di conseguenza. In una parola,
io posso cominciare a operare delle distinzioni razionali sull’oggetto mate
rialmente inteso delle mie idee. Queste distinzioni non sono però delle idee
materialmente intese, anche se compiute su di esse. Sono piuttosto distin
zioni che trovo io, vale a dire determinazioni del mio sguardo diretto sulle
idee, modificazioni della maniera di considerarle. Io mi accorgo per esem
pio che un triangolo non solo ha tre angoli, ma anche tre lati; e riconosco
che non solo li ha, ma deve averli, necessariamente. Ora tutto questo non si
riesce a scorgere nell’idea presa materialmente, di essa posso avere anche
una rappresentazione confusa, magmatica, anteriore a ogni distinzione. Più
precisamente l’idea materiale offre una raffigurazione appena discernibile,
che si contraddistingue per certi caratteri, come una casa o un albero. Ma ci
vuole uno sforzo dell’attenzione, sorretto da un adeguato sforzo della
volontà, per obbligarci a riconoscere che, una volta fissate certe distinzio
ni, altre cose ne risultano necessariamente. La distinzione dell’intelletto,
operata dalla volontà, è ciò che dà origine all’idea intesa in senso formale,
all’idea formaliter, che è così detta perche ne concerne il significatoTL’idea
del triangolo, in quanto significa un’entità (e non un oggetto dei sensi), è
tale se necessariamente comporta anche tre lati, tra le altre cose: essa deve
cioè esser fatta in un certo modo. E a questo punto comincia a prender for
ma il pensiero di una realtà possibile, di una realtà che non è ancora fisica,
ma certo concepibile nella mente. Così il reale si rivela alla mente come
qualcosa di altro, di distinto dalla propria attività coscienziale, ma nello stes
so momento come un qualcosa, che per il fatto d’esser suscettibile di darsi
così e così, non è quel che s’intendeva con materiale. L’idea deve esser fatta
in modo, distinguendosi per certe caratteristiche formali, da imporsi all’in
telletto. Le qualità che attribuiamo alla materia, intesa come il contrario del
la mente, non sono in se stesse materiali. Questo è un paradosso o, per
meglio dire, è il costo del compromesso cui dobbiamo piegarci per non
incorrere nell’antinomia di Gorgia. Il reale non è pensato, e dunque il pen-
TERZA LEZIONE
76
siero tratta del reale come dell’irreale. Descartes riduce al minimo il com-
promesso richiesto.
Omnia in mensura et numero et pondero disposasti (Sap., 11, 21): il mot
to potrebbe valere per Descartes e, in effetti, è stato spesso citato a tale pro
posito. L’ordine e il numero, cioè la misura, è quanto noi riteniamo del rea
le. La realtà determinabile, questa è la materia, più l’ordine e la misura, che
sono nostre esigenze intellettuali, il requisito minimo perché si possa par
lare di qualcosa d’altro dal pensiero. Per parlare dei corpi materiali, com
preso il nostro proprio, dobbiamo farlo prestabilendo a priori che devono
esser suscettibili di ordine, misura e peso. Presupposto di tutto ciò è che, a
fondamento dell’idea di corpo, debba esserci ['estensione. Che cos’è, dun
que, l’estensione? Sostanza o attributo? E, se attributo, essenziale o acci
dentale? Sono i problemi classici della filosofia moderna. Noi non daremo
risposta a queste domande, perché ci son già per esteso in qualsiasi buon
manuale. Diremo piuttosto dell’altra questione: che cosa si deve intendere
con estensione? Qual ne è il significato? Anzitutto, essa corrisponde alla
terza funzione delle idee, quando sono assunte in senso obicttivo, ideae
obiettive sumptae, vale a dire rappresentativamente. Sono le idee prese nel
senso rappresentativo, di raffigurazione cioè di un mondo di cose fuori di
me, che creano per me il mondo esterno, esteriorizzando i corpi nel mon
do. Secondo Descartes, se io non mi fondassi su questa presupposizione, il
mondo certamente continuerebbe a essere quel che è, ma io non lo potrei
concepire come esterno. Non ne avrei l’idea. E questa idea oltrepassa quel
la della distinzione formale.
In breve, è l’idea che se esistono due cose nel mondo occorre che si pen
sino come l’una fuori dell’altra, e viceversa; o, in altre parole, che siano non
solo distinte, ma altresì distanziate. E quindi, per operare questo distanzia
mento, devo immaginarmi anzitutto l’estensione. Sia essa sostanza o acci
dente, poco importa, purché rispetti l’ordine della fondazione, ciò che pre
cede e ciò che segue. Voglio dire che quest’ordine resta valido, per noi,
anche se per avventura non esistessero sostanze né mondo esterno «in sé».
Importante è rendersi conto che l’estensione non è un’idea del genere di
quelle che avevo all’inizio, e che consideravo solo materialmente: come l’i
dea del bianco grigiastro, del suolo, degli scoppi, del movimento ecc., e
nemmeno un’idea distinta matematicamente, con le sue proprietà formali,
le sue incompatibilità o conseguenze, la sua astratta identità ecc., ma qual
cosa di ulteriore e più fondamentale. Essa è infatti subentrata nel mio intel
letto per una ragione ben precisa, e cioè per distinguere distanziando. Qui
REALTÀ 77
non è più il caso delle associazioni che si formano nel sogno o nell’immagi
nazione, perché l’estensione, anche se si produce nello stesso modo, inter
viene con un motivo che riesco a identificare, a ritrovare, a dire esplicita
mente. Nasce così la raffigurazione «ideale», per mezzo degli assi cartesiani
delle ascisse e delle ordinate. Ma perché io possa parlare di due cose nel mio
campo visivo, comunque me le raffiguri, bisogna che prima di tutto èsse, df
«per sé», mi facciano il favore di stare un po’ separate, o altrimenti le
confondo.
L’idea dell’estensione mi permette così di stabilire che se due cose sono
diverse, c distanziate, io posso raffigurarmele in uno spazio di cui misuro la
distanza. Tramite questo procedimento, pervengo all’idea di uno spazio
complessivo, che è l’insieme di tutte le infinite distanze tra gli oggetti presi
in numero infinito; e, attraverso alcune distanze scelte a piacere, e seguen
do un determinato ordine, posso incaricare gli oggetti stessi, definiti dal
parametro spaziale, di essere nella loro propria localizzazione ciò di cui io
parlo. È quindi la misura di distanza relativa (per esempio, il signore laggiù
in fondo, nell’ultima fila, terzo da destra ecc.) che identifica l’oggetto del
mio discorso. Per costituirlo a soggetto grammaticale non è necessario pro
muoverlo (chiedendo scusa al signore laggiù in fondo) a vera e propria
sostanza. Nel modo di pensare precedente, per esempio in quello aristote
lico, bisognava invece attribuire al soggetto grammaticale per lo meno lo
status di «sostanza seconda».
gine di un mondo dove ogni cosa, attraverso gli assi cartesiani, risulti univo
camente identificabile e quindi riconoscibile. Non importa che l’idea resti in
fondo quel che era prima, un’impressione materiale o un’immagine sul fon
do della retina, l’importante è che io ora so di che cosa sto parlando; e che
ogni altro può saperlo con me, purché si procuri le istruzioni per l’uso del
suo cervello. Posso non esser sicuro di nulla, ma, tracciando gli assi cartesia
ni, a ogni punto del mondo attribuisco una terna di numeri (x, y e z) che ne
identificano la posizione (unica) rispetto alle coordinate. Potrò continuare a
non sapere altro, ma per lo meno so di quale punto del mondo sto parlando;
meglio ancora, posso presumere di farlo, senza dovere abbandonare la sedia
del mio studio: la verifica pratica non aggiungerebbe nulla alla mia certezza.
Qui, stando fermo, con la sola mia mente dico a me stesso: posso fare a que
sto modo, dando un nome diverso a ogni cosa per quanto piccola di questo
mondo. Utilizzando il solo concetto di estensione, troverò tutto il mondo
obbediente ai miei piedi per quanto riguarda la mia capacità di nominarlo
attraverso le tre coordinate di numerali. Omne enim quod vocavit Adam (...)
ipsum est nomen eius (Gen., 2, 19).
.Ma ora il problema che ci interessa non è solo quello dcll'identificazio-
ne (o del riconoscimento di quella x, di cui esattamente parlavamo), ma del
ta, conoscenza degli oggetti di cui vogliamo parlare, ossia della loro effetti-
va individuazione. Vale a dire, non ci basta sapere che l’oggetto di cui
parliamo è identificabile come x, vogliamo anche sapere a che titolo esso è
un oggetto. Finché mi limito a usare l’apparato identificatore che ho descrit
to, ho una carta millimetrata che al massimo mi fornisce il concetto (nomi
nale), senza individuazione dell’oggetto. A parte la concreta individuazio
ne, che ci immette nel problema della conoscenza, io potrei avere un
apparato identificatore fallace perché, per esempio, prevede solo due dimen
sioni anziché le tre che ci vogliono. E qui, anche se a malincuore, dobbia
mo abbandonare Descartes, compiacendoci tuttavia di averlo accompagna
to per un non breve tratto di strada.
Un primo problema riguarda il presupposto, di origine atomistica, del
la incompenetrabilità dei corpi. Chiaro che, se ci sono atomi, e questi sono
indivisibili (o indistruttibili), ciò si dà come ovvia conseguenza. Ma si trat
ta proprio di ciò che vorremmo sapere, non presupporre. Ora ci viene in
mente che il principio di identificazione attraverso gli assi cartesiani è una
concezione solamente geometrica, che non può applicarsi alla fisica per
semplice proiezione. Vale a dire: se i corpi sono effettivamente incompene
trabili, l’individuazione geometrica coincide con quella fisica; ma se di fat-
REALTÀ 79
to, fisicamente, non lo sono? In effetti, se la distanza tra due corpi è mino
re di 1/ioo.ooo.ooo di cm., il principio non ha validità fisica, perché siamo
in presenza di una collisione atomica con probabile alterazione d’identità.
Come si vede, l’argomento è presentabile senza far menzione delle geome
trie fisiche speciali, che complicherebbero irrimediabilmente il quadro.
Un altro problema riguarda la nozione stessa di■ evento^ cioè di cosa che
muta nel tempo. Nel mondo non vi sono solamente le forme statiche. Ci
sono cose che mutano di forma e le figure che si trasformano non sono tut
te trascrivibili per mezzo della geometria analitica, nemmeno quelle rego-
lari. È a questo proposito che Descartes pone una categorica distinzione tra
curve geometriche e curve meccaniche’, le prime sono rappresentazioni geo
metriche di cui è possibile dare come generatrice una formula algebrica; le
altre, invece, si dicono meccaniche perché si generano con speciali disposi
tivi di disegno che permettono di tracciare figurazioni spostando il penni
no a velocità costante. (Sono tali la concoide, la quadratrice, la duplicatrice
del cubo ecc.). Queste ultime non sono riconducibili all’algebra se non
intervenendo col deus ex machina di un’addizionale cinematica. Il guaio in
tutto ciò è che Descartes rende tale distinzione categorica, come se fosse sta
bilita per sempre, mentre nemmeno cinquanta anni dopo sarà superata dal
l’intervento del calcolo infinitesimale. Ma anche l’introduzione di conside
razioni cinematiche nella geometria non va certo esente da inconvenienti.
Fare assegnamento sulla velocità costante nel tracciare le curve meccaniche
può voler dire una delle due: o non accettare affatto tale premessa, se non
come comodo espediente privo però di rilevanza teorica, e siamo costretti
ad ammettere un limite di chiusura sistematica della geometria analitica; o
ne accettiamo, ammettendolo, tutte le implicazioni teoriche, e il concetto
stesso di velocità costante introduce una nuova variabile non garantita dal
l’evidenza. Con questa nuova variabile entra infatti in gioco il problema del
tempo, vera bestia nera della filosofia cartesiana. Il mutamento infatti diven
ta comprensibile introducendo la variabile t (il tempo), ma il presupposto
del suo fluire costante non è certo evidente. Si tratta di un postulato meta
fisico di tutt’altro genere. Dobbiamo limitarci a dire che si afferra il tempo
in un atto di intuizione anch’essa elementare, in un atto temporale che ha
se stesso come oggetto. Ma a parte il palese carattere di espediente di que
sta considerazione, bisogna dire che nulla garantisce che due diversi atti
temporali riguardino lo «stesso» tempo oggettivo. Per altro verso spazio e
tempo non sono certo concetti correlatili in maniera simmetrica; perché lo
spazio, fin tanto che non vi si introduce il movimento (la cinematica), si
So TERZA LEZIONE
implicitamente performativo. Stabilire infatti che «un corpo non può stare
al posto di un altro» è solo apparentemente un dato di fatto, in realtà è un
ordine; nel senso che è diretto all’imposizione di un atomismo spaziale, per
evitare che una stessa porzione di spazio si possa chiamare con due nomi
diversi, tra loro non sinonimi, e che predicati tra loro contradittori si pos
sano asserire di uno stesso oggetto. In altre parole, l’incompenetrabilità non
è un buon principio di fisica. Se infatti ci chiediamo quali e quante situa
zioni fisiche possano esistere, tali da contraddirne il principio, non è diffi
cile rispondere che di fatto esse sono infinite.
A questo proposito interessante è la nozione di atomo. In origine l’ato
mo è quella parte dello spazio che fa da pieno, mentre il restante spazio è il
vuoto; oppure il pieno è l’essere, compatto e inscindibile, mentre il vuoto è
il non essere, la distanza e la separazione. Il carattere solido, pieno e inalte
rabile è sempre stato costitutivo del concetto di atomo; vale la pena di ricor
dare che ciò deriva da una distinzione dello spazio in parte e tutto, in pieno
e vuoto, in fisso e variabile, e che 1 secondi termini di tali coppie sono attri
buiti al non essere, alla distanza, allo sfondo del vuoto. Se poi l’atomo per
avventura non si rivelasse inscindibile, bisognerebbe parlarne in termini di
sottoparticelle più elementari, cui attribuire di nuovo l’originario concetto
atomico. La riproduzione dello stesso schema è inevitabile, poiché dipende
non da come stanno le cose, ma da un nostro modo a priori di trattare lo spa
zio, separando il pieno dal vuoto ecc. Se ammettiamo una misura dell’atomo
di 1/100.000.000 cm., non possiamo penetrare al di sotto di questa soglia: sia
mo fatti di atomi e non di vuoto. Tuttavia la scienza ci insegna a andare oltre
questi limiti: se per esempio un evento di tale ordine di grandezza presenta
caratteri contradittori, allora è possibile salvare lo schema pieno-vuoto divi
dendo col pensiero l’atomo, ossia postulando che sia composto di particelle
la cui somma spieghi la compresenza di attributi che in precedenza appari
vano inconciliabili. È ormai un secolo che si sa che l’atomo è composto da
elettroni e da un nucleo. Questo risolveva la compresenza nell’atomo di cari
che negative e di cariche positive, rivelate separatamente dal decadimento
radioattivo. Gli elettroni negativi formano degli orbitali che bilanciano l’at
trazione del nucleo positivo. Ma quando subito dopo sorse il problema di
come le cariche positive potessero coesistere nel nucleo, compatte, senza
esplodere, la risposta fu che la soglia del l’incompenetrabilità dovesse scen
dere da 1/100.000.000 a 1/10.000.000.000.000 cm. Al di sotto di tale valore
sarebbero invalse altre leggi, con una forza di attrazione (anzi, di stringi
mento) enormemente superiore a quella antagonista. Naturalmente al di sot-
90 TERZA LEZIONE
mo anche visto che ci sono validi motivi per cercare di mutare le premesse;
ma non è cosa facile, dal momento che non parliamo a vanvera, bensì sulla
! scia di una determinata tradizione. Si tratterà di combatterla, di propugna
re altre idee, non certo di starne al di fuori. Gli inizi son sempre difficili, len
ti e di poco momento; specie per chi pensi che non si tratti di rifar tutto da
capo, ma di riformare l’edificio del sapere. Se ho mostrato la necessità del
la riforma, sono contento dei risultati acquisiti. Se invece non ho indicato
la via da seguire, l’ignoranza non è solo mia; è che la proporzione tra i pas
si incerti e quelli certi non è molto incoraggiante. Ma forse si capisce senz’al
tro come una concezione della realtà fondata sull’ontologico, cioè sulla teo
ria degli oggetti, sulla metafisica e su cose lontane dal senso comune, possa
nondimeno interessare, nonostante il fatto che sembrino non importare a
nessuno.
Nota bibliografica
Metafisica
Il principio, l'essere, il possibile
fluenza di tre motivi: (i) la metafisica è il campo della discussione dei princì
pi, ed è jiq c ó t i] ÈJIIOTÌ1I.U1 (o scienza prima) proprio in questo senso, per cui
il principio è ciò di cui si tratta prima; (ri) i princìpi di cui essa tratta devo
no risultare intelligibili, non si dice intuibili (questa è un’altra cosa), cioè tali
che in loro assenza non si darebbe spiegazione veruna; (iit) l’intelligibilità
del principio deve esser rilevante per il mondo reale, anche esistente, e cioè
l’assunzione di una metafisica, o di un’altra, o di nessuna, deve comportare
delle differenze per il relativo utente.
Ora, che cosa sia una discussione di principio (ì) credo sia chiaro a tutti.
Se voglio per esempio intervenire a favore della democrazia sosterrò che
il principio della maggioranza, anche se non è una panacea universale, è pur
sempre meno ingiusto che il suo contrario; in tal caso io oriento la discus
sione sul fatto che sia giusto o no il principio di maggioranza, e non tratto
degli inconvenienti derivanti da una possibile incompetenza tecnica dei pare
ri, della lentezza procedurale e della rappresentatività del giudizio che è pre
valso. L’intelligibilità di principio (ri) va intesa alla lettera, senza cioè fare
intervenire immediatamente il ricatto retroattivo di certe indesiderabili con
seguenze. Quando Democrito dice che esistono solo gli atomi e il vuoto, e
tutto il resto è inconsistente, non bisogna subito ribattere che, allora, è incon
sistente anche la teoria di Democrito. Il principio atomistico è di per sé chia
ramente intelligibile, questo è quanto. Non è detto che per capirlo occorra
condividerlo; ciò non è vero, forse, nemmeno per Democrito. Se non ci fos
se altro a favore della metafisica, essa sarebbe utile per questo: che ci fa capi
re maniere di pensare differenti da quella che indossiamo, senza obbligarci
alla partecipazione. Le religioni non sanno farlo. L’aspetto della rilevanza
pratica (riri), infine, dovrebbe essere eloquente. Non è detto che il principio
del libero arbitrio rafforzi la deliberazione, la volontà o la responsabilità più
che il fatalismo, o un altro principio opposto; anzi, psicologicamente è for
se vero il contrario. La metafisica non si occupa di queste conseguenze in
qualche modo casuali', si parla solo di implicazioni rilevanti, intendendo con
questo che cambia il senso, quindi anche il comportamento di chi vive coe
rentemente una certa convinzione; ma non che cambi di conseguenza. Biso
gna infine dire che la convinzione profondamente vissuta, se ha carattere di
principio, raramente coincide con la metafisica professata. In linea generale,
la fede non è mai, o quasi mai, ciò che si dice di credere.
sare l’ineludibilità del problema della metafisica nel senso di Aristotele, che
è anche quello da noi seguito. Abbiamo già detto di Gorgia, la cui posizio
ne forse oggi manca di un po’ di spicco nel collettivo alquanto livellante del
le dossografie filosofiche; ma certo la sua importanza non può esser soprav
valutata, se vista attraverso la considerazione di cui godette in Platone e in
Aristotele, quale punto di riscontro, polemico sì, ma di tutto rispetto. Il prin
cipio di Gorgia che qui torna a proposito è quello dell’alterità reciproca di
pensiero e essere, in senso diametralmente antiparmenideo; esso dice, si
ricorderà, che se è proprio del pensiero pensare le cose che non sono, allora
vale anche la conversa per cui è destino della realtà non esser mai pensata.
Il linguaggio di Gorgia è volutamente duro, spigoloso, monolitico. Il
nostro uso prevalente, specie in questioni di principio, è più modale, possi
bilista, sfumato. Nulla dimostra meglio il successo di Aristotele che l’in-
troduzione del possibile, anche per noi normale, nel discorso teoretico. Tra
dotto in conformità, il principio di Gorgia diventa: se è proprio del pensiero
(poter) pensare (anche) le cose che non sono (attuali), allora è possibile che
la realtà abbia degli aspetti che non sono pensati, o che mai lo son stati o che
addirittura non sono nemmeno pensabili. Come si vede, l’introduzione del
la dizione al modale (col possibile) minaccia di trasformare un paradosso,
anzi un’antinomia, in una sentenza quasi di senso comune; se non fosse che,
per conservare la pregnanza dell’originale, abbiamo dilatato il finale con la
clausola per cui «la realtà può avere degli aspetti che non solo non sono pen
sati, ma nemmeno sono pensabili». Non son sicuro che questo pensiero non
sia di senso comune, in ogni modo non è banale in quanto contraddice la
stessa intelligibilità per principio. Questa considerazione spiega due cose:
primo, che il principio di Gorgia è invariante rispetto al linguaggio adope
rato, che cioè si mantiene anche se sfumato in maniera modale, purché si
faccia attenzione; e, secondo, che il suo senso «duro» lo rende inaccettabi
le come principio metafisico, appunto perché trascende l’intelligibilità e ci
lascia letteralmente senza parola. Questa conclusione non deve stupire, per
ché la filosofia non e la metafisica; e perché inoltre non per niente la meta-
fisica è un’invenzione di Aristotele.
Nella logica (anche quella aristotelica) la conclusione è canonica. Se io
dico «nessun uomo è immortale», la conversa di questa proposizione è
immediatamente valida, «nessun immortale è uomo». Così se dico, senza
quantificare c senza modalizzare, «il pensiero non pensa il reale», ne con
segue che «il reale non è pensato dal pensiero». Si dà solo in maniera più
abrupta quel che con l’uso dei modali diventa più perspicuo quanto al sen-
9S QU/\RT/\ LEZIONE
3. Con tale reduplicazione del reale, esso una volta vicn datoy anche se
parzialmente, ma l’altra conosciuto, e qui perfettamente. Questo procedi
mento a due stadi pare fatto apposta per contrastare le obiezioni che fon
dano sull’estraneità del medio (il pensiero, il linguaggio) al reale l’impossi
bilità di afferrare quest’ultimo. I due stadi o momenti si direbbero in
tedesco Kenntnis e Erkenntnis, che possiamo rendere con conoscenza pri
maria, o empirica, e conoscenza intellettuale, o riconoscimento. Ciò ha in
sé un innegabile buon senso: può darsi che io conosca poco bene un tale,
ma questo non mi vieta di riconoscerlo se l’incontro di nuovo. La cono
scenza come riconoscimento è sempre un atto intellettuale che si sovrap-
IOO QUARTA LEZIONE
to tra pensiero e realtà per sé; è già stato dimostrato che esso non conduce
a nulla, in quanto fin dall’inizio presupposto come sussistente tra due ter
mini totalmente eterogenei e aliorelativi. Anzi la nascente epoca ellenistica,
quando la morte di Aristotele segue dappresso quella di Alessandro (323,
322 a.C.), assume in proprio il metodo comparatistico di trattare quel che
si suppone essere lo stesso problema per raffronto con altre, indipendenti
culture. Assistiamo così alla ripresa dotta delle citazioni orientali, già pre
senti in origine nella tradizione orfica e in frammenti delle religioni dcll’E-
gitto e della Mesopotamia. Le novità concernono lo Zend-Avesta e la cul
tura iraniana; i testi indiani dei Veda e del buddhismo, nel frattempo
emigrato in Cina; e forse anche, tramite la satrapia ex-persiana dell’indo, e
dei cinque fiumi, il confucianesimo e il taoismo.
Che cosa ne è rimasto? Quali conseguenze ne sono derivate per il pen
siero filosofico? A quanto pare tali contatti sono rimasti sterili. La filosofia
non prospera col commercio. La cultura greca è già molto complessa nel
secolo in cui si conclude la conquista macedonica dell’Oriente, e ciò che
rimane di tale contatto è il lungo confronto con l’ebraismo. Ma gli ebrei
sono i più occidentali, i meno tipici di tutti gli orientali. In ogni modo la
Bibbia apparve in greco nella versione detta dei LXX (Septuaginta, se. tran-
slatores), nel corso del il secolo a.C. In questo senso la spedizione di Ales
sandro in Oriente, come dimostra la presenza di filosofi, storici e scienzia
ti al suo seguito, assunse il significato simbolico di un viaggio alla ricerca
delle origini della metafisica, da Diogene il cinico ai gimnosofisti o fakiri
indù, con cui si conclude. In realtà l’indagine prende la forma effettiva di un
confronto fra etnie e tradizioni diverse, che in parte sono estranee ma in
parte si riconoscono cognate, come l’iranica, la sarmatica e l’indiana, c cia
scuna può vantare, se ha la scrittura, una propria cultura del libro, fors’an-
che un suo Omero. Degli ebrei resta oltre tutto un’eredità durevole, tutt’al-
tro che superficiale: il senso interiore, intimistico e perciò monoteistico,
della divinità, il sentimento di colpevolezza nei suoi confronti da parte del
l’uomo, e della religione come espiazione e speranza di redenzione. Ma di
tutto ciò parleremo più criticamente a suo luogo, più avanti.
In conclusione, il problema da cui sorge la soluzione metafisica può con
siderarsi risolto, e in eccesso, con la suddetta triade di teorie generali: quel
la democritea, quella platonica e quella aristotelica. È importante registrare
l’eccesso di spiegazione nei confronti della comprensione della realtà, giac
ché la metafisica, per la sua stessa natura, oltrepassa i limiti dell’esistente e
immette nell’immaginario e anzi nel fantastico: come si conviene a ogni ten-
METAFISICA I05
tativo generoso di risolvere le questioni per forza di princìpi. Ciò non è sen
za conseguenze sull’apprensione del reale, che viene via via raffinandosi nel
senso direi aristotelico di uno stemperamento delle antitesi in opposizioni
sempre meno radicali, che consentono l’avvicinamento se non proprio la
sintesi. Dal punto di vista metafisico, la contraddizione in quanto opposi
zione diametrale cede il passo alla contrarietà, che è un’opposizione inten
siva e polare, e questa a sua volta alla sub-contrarietà, che ammette una gra
dazione tra i suoi estremi.
to) non sia riproducibile, la testimonianza di uno o (meglio) più testi atten
dibili. Il primo caso mette capo alla verifica di laboratorio, e di norma è
impermeabile al dubbio; il secondo trova invece collocazione in tribunale,
nella contestatissima procedura dell’escussione dei testi, di cui si può dire
che non ce n’è una che sia assolutamente sicura. La verità che abbiamo det
to morale presenta inoltre un altro motivo d’incertezza. Oltre all’inatten
dibilità stessa di un’accertabilità irripetibile e ritenuta per sentito dire, si
aggiunge il fatto che la contestazione può essere a bella posta convinta a giu
rare il falso. In altre parole, se nel rapporto uomo/natura l’eventuale falsità
del giudizio sta tutta dalla parte dell’uomo, poiché è lui che si sbaglia e non
la natura che lo vuole ingannare; nel rapporto uomo/uomo invece, cioè nel
raccogliere la verità di un altro, può darsi che ci venga fatto credere il falso
in luogo del vero. Da questa proprietà che ha il linguaggio di poter far pas
sare l’irreale come realtà, e cioè il falso come verità, prende origine quella
varietà del male morale che è la falsa testimonianza. Siamo indotti da ciò a
parlare del male senz’altro.
L’esistenza del male è considerata indubitabile da Leibniz, per lo meno
per quanto riguarda il male fisico, che è la sofferenza in senso molto lato,
dalla noia al dolore, e il male morale, che è dato da tutti i delitti, a comin
ciare dall’inganno, e che fa tutt’uno col peccato. Solo per quanto riguarda il
male metafisico, che consiste semplicemente nell’imperfezione, è lecito e
anzi secondo Leibniz doveroso intrattenere dei dubbi. Infatti la discussio
ne di questo punto conduce direttamente nei problemi di teodicea. Si Deus
est, itnde malum? Si non est, unde bonum? Ma procediamo con ordine. L’e
sistenza del male fisico è riconosciuta anche dal Buddha, e con lui dai gim-
nosofisti e dai cinici. Il male morale, concediamolo, è eliminabile se si rinun
cia alla vita morale, addestrandosi come i cinici a non riconoscere alcuna
dignità o valore. Restano i mali fisici, la malattia, la vecchiaia, la miseria e la
morte. Essi non sono eliminabili se non ragionando al controfattuale:
«meglio sarebbe per l’uomo non essere mai nato...»; o come Egesia il cire
naico, il suasor mortis, che persuadeva gli altri al suicidio. In ogni modo la
morte non elimina che il male futuro, non certo quello che è stato, e che
continuerà a esser stato eternamente. Il male morale rientra nel conto cini
co, ma solo se si è disposti a rinunciare anche a quel bene che deriva dalla
stessa fonte, e che non si può conservare senza sopportare anche il primo.
La rinuncia ai valori, in ultima analisi, sembra essere una filosofia morale
dei paria, un nichilismo tra il rassegnato e il risentito dei diseredati. La radi
ce ultima del male morale sta in quello metafisico, nelle riflessioni sulla teo-
118 QUART/X LEZIONE
dicea. Quindi il male fisico, che certamente esiste, è superato dalla speran
za di star meglio. Ciò non è vero in tutti i casi: ci sono le sofferenze dispe
rate, quelli che ne sono consapevoli e, di conseguenza, i suicidi più o meno
eutanatici. Ma per la maggioranza dei viventi una siffatta motivazione è qua
si un truismo. Il male morale è compensato a usura dal bene morale, cioè
dai vantaggi che derivano dal vivere non come cani selvaggi, ma in società.
È interessante riflettere su questo bilancio ineguale, inclinato a nostro favo
re: poiché in assoluto i vantaggi sono l’esatto equivalente delle pene, cam
bia solo il segno. Ma il fatto è che la società civile esiste da tanto tempo che
non risentiamo più degli sforzi fatti per stabilirla, che quindi godiamo
(anche moralmente) senza avvertirne il debito costo. Va da sé che questo
giudizio è assai meno tautologico del precedente, esso dipende dall’apertu
ra del compasso circoscrivente il territorio e il suo risultato non è detto sia
maggioritario per ogni popolazione. In ogni modo, proiettivamente, tali
sono le nostre speranze.
Con tutto questo non abbiamo però parlato del problema del male, ma
solo della maniera con cui normalmente lo si ritiene compensato dal polo
opposto del bene. Avendo stabilito che il bene compensa a usura il male, il
problema di teodicea è già risolto. Con tutto il rispetto per Leibniz, il pro
blema sta nel fatto che il male non fa parte di un sistema civilistico, nel qua
le il risarcimento estingua il danno arrecato. Abbiamo già visto, a proposi
to del male fisico, che non si può eliminare dal mondo la sofferenza che c’è
già stata; si può solo far sì che non ci sia più. Questo vale per quanto è dato
per natura. In campo morale, il male deri\ra dalla cattiva volontà dei nostri
atti, o dall’ignoranza delle conseguenze dei medesimi. In ciò propriamente
il male è «cosa nostra», esiste perché ce lo facciamo da soli. E qui è tanto più
difficile riflettere con mente serena, ma i risultati sono gli stessi. Come pos
so compensare l’amico estinto di un male che gli ho fatto? E, più in genera
le ancora, che stravagante idea è mai quella che si possa compensare un
male? Il problema, come si vede, è quello del male assoluto, passato senza
compensi e incompensabile in se stesso, in una parola metafisico. Curiosa
mente, proprio il male metafisico è stato quello trattato in maniera più rela
tiva, privativa e da ultimo noncurante da tutta la filosofia. Come è posto il
problema da Leibniz?
Nota bibliografica
Soggetto e coscienza
L'uno, i molti, il medio
Secondo questa teoria ci sarebbe, vale a dire, il modo di definire (sia pure
relativamente a una certa media) la qualità di soggetto obiettivamente, in
quanto soggettività oggettiva, e ciò attraverso la relativa improbabilità di un
messaggio intenzionale fortuito. È questa la probabilità, per ripetere un
famoso esempio, che un milione di scimmie, addestrate a battere i tasti,
lavorando per un milione di anni riescano a produrre per caso (non sapen
do l’italiano!) una cantica della Divina commedia.
È essenziale distinguere la comunicazione intenzionale da quella che non
lo è. In questo campo la letteratura divulgativa ha creato una certa confu
sione, non saprei fino a qual punto innocua, a giudicare da certi film di fan
tascienza. Quando per esempio si dice che una certa galassia (la quale, per
esser tale, deve distare almeno un milione di anni-luce) invia un messaggio
che ci informa sulla sua composizione chimica media, la sua velocità di rota
zione o di allontanamento, la sua distanza, e così via, questo modo di par
lare è chiaramente metaforico: quella galassia, anche senza conoscerla, è
chiaro che non è, e non è mai stata intenzionata a mandarci alcun messag
gio; siamo noi che, attraverso le leggi di fisica che ci son note, riusciamo a
inferire certe conclusioni con un certo grado di probabilità. Invece nel caso
del Progetto Ozma, il programma di ascolto delle emissioni stellari, la situa
zione ipotizzata è nettamente diversa. Ammettendo che nell’universo, pres
so altre stelle, esistano civiltà simili alla nostra, e che abbiano la tecnologia
e l’energia sufficienti, ma soprattutto la voglia di mandare un messaggio a
noi attraverso i vuoti abissi dello spazio, appoggiandosi sulle emissioni più
frequenti in natura (per esempio, la banda dell’idrogeno, o dell’ossidrile): la
cosa non presenta difficoltà di principio, ci si chiede solo se noi sapremmo
riconoscere tale messaggio come intenzionale. E il fatto che il programma
sia stato messo in atto, suscitando magari degli interrogativi sull’impiego
del tempo da parte degli astronomi, ci dice che la risposta è stata affermati
va. Ammesso di riceverlo, noi sapremmo apprezzare adeguatamente un
simile messaggio.
Finora non si è captato nulla, credo nemmeno un falso allarme. Ma sup
poniamo... Supponiamo che si riceva una sequenza di 1849 impulsi sulla
banda dell’idrogeno, che viene d’altronde utilizzata dalla radioastronomia
per «'vedere* l’universo; e che tale sequenza sia (a} ripetitiva, per esempio
esattamente ripetuta a intervalli di 43 ore, 21 ' e qualche secondo per 144 vol
te; (A) formata da unità (piene o vuote) di 13/100 di secondo, cioè che la suc
cessione di pieni e di vuoti si lasci ricomporre come multiplo di tale ipote
tica unità; e (c) che detta sequenza si possa trascrivere, inalterata quanto al
SOGGETTO E COSCI ENZA
con la sola lodevole eccezione di una parte dei gesuiti. Ne deriva perciò che
in tutti gli atteggiamenti di carattere schizoide, dai quali gli uomini sono
afflitti specialmente nei periodi di conflitto religioso e ideologico, il pre
supposto rigido dell’allineamento unitario della vita psichica alle esigenze
categoriche dello spirito non può che aggravare e render più aspra la ten
denza alla dissociazione e a esprimerla patologicamente. Così per induzio
ne psichica e contrario la proibizione assoluta di un atto di cui non si com
prenda altrimenti la peccaminosità, genera ben volentieri una copiosa
proliferazione di comportamenti sempre meno contenibili; finché, risulta
tane impossibile la soppressione, la vitalità della psiche perversamente si
apre una via d’espressione attraverso le parvenze di una personalità diabo
lica disponibile alla bisogna. La cultura dell’epoca, intollerante nei confronti
di una qualsiasi oscillazione dell’identità personale, ignara per di più del suo
fragile e intermittente stato di equilibrio tra pulsioni diverse che d’ogni lato
ne minacciano l’integrità, non aveva altra alternativa da offrire che l’incal
zante ingombro d’una personalità tanto aliena, da risultare diabolica. E così
la schizofrenia, rincarata dalle asprezze dell’apparato giudiziario, veniva
man mano aggravandosi in durevole stato psicotico di sdoppiamento della
personalità, a tratti alternati. L’orrore della scena non è mitigato dal fatto
che, dopo tutto, noi siamo convinti che l’io personale, identico a se stesso e
perfettamente acclimatato alla sua cultura, non ha consistenza maggiore di
Asmoneo, di Balaam, di Leviathan e altri diavoli ai quali veniva assimilato.
Perché il fatto che i diavoli, Asmoneo, Balaam, Leviathan e gli altri, con
fessassero in prima persona d’essere autori dei peccati per i quali venivano
condannati, costringeva le loro vittime, non potendo altrimenti cacciarli, a
invocare la morte per far cessare, comunque, le torture. Agli inizi del XVili
secolo, quando un abito più civile e scettico fece recedere i processi alle stre
ghe e le torture, cessarono a poco a poco anche le apparizioni diaboliche e
i peccati del caso.
L’esistenza o meno del diavolo come persona (e cioè non come concet
to, ma come Asmoneo, Balaam, Leviathan ecc. intesi come individui) dipen
de dunque in primo luogo da una convenzione culturale che ne renda pos
sibile lo spazio semantico, e quindi, in secondo luogo, da un opportuno
riempimento di tale potenzialità semantica, così da renderla agibile. In tal
modo, che se Isacaaron è il demone della lussuria presso un uomo, gli atti
sessuali compiuti da quell’uomo, dato il personaggio e i modi dell’azione
incriminata, non possono altrimenti spiegarsi che come prodotto di pos
sessione diabolica. Dalla tortura apprendiamo, magari mentre andiamo in
SOGGETTO E COSCIENZ/\ 133
zione, come da ciò che veniamo a sapere, e quindi ne siamo consci, attra
verso la testimonianza di altri. Per esempio io so che c’è la Papuasia, ma per
sentito dire; non è come il mal di denti, che sai che c’è stato perché te ne
mancano parecchi.
trovano la loro identità nel non essere. E cioè: la realtà è in quanto non
coscienza, e la coscienza è in quanto non reale. Il discorso non troppo chia
ro circa l’anima, costituita da atomi pulviscolari, più piccoli degli altri e
rotondi, scivolosi, mobilissimi, si lascia intendere come caratterizzante la
differenza tra le sue immagini, meri fantasmi, e la solidità e consistenza dei
corpi. Anche i fantasmi, come le percezioni, le immagini, i sentimenti, han
no una loro attenuata realtà, non sono un puro nulla: l’essere dell’idea, del
la rappresentazione, per quanto io lo spieghi come prospettiva, distanza,
gioco di apparizioni, effetto fantasmatico, prodotto di inafferrabili neutri
ni, è pur sempre qualcosa e non il nulla. Ma in ciò si tratta pur sempre di
pensiero impuro, che richiede un indebolito essere del pensiero: la perce
zione, per l’appunto. Se di qui noi portiamo l’astrazione al suo polo tra
scendentale, dando voce all’inesprimibile, riusciamo tuttavia a cogliere il
momento in cui il pensiero, relegando il residuo essere della coscienza a una
conoscenza del tutto oggettivata, si rivela come puro pensiero del non esse
re. Reciprocamente la conoscenza pura si rivela come oggettiva al punto di
non contenere più pensiero.
Questo gioco di riduzioni, lo ammettiamo, non è molto confortante né
illuminante. La ricomposizione delle simmetrie sull’asse portante del non
ente (per non dire il niente) suggerisce inevitabilmente la vana tautologia del
nichilismo, alla stessa stregua di Sartre quando parla di essere, di negazione
e di altro, consapevole della nausea a ciò inerente. Ma noi volevamo solo
dimostrare che il problema è in se stesso solubile, magari per la via di un
azzeramento. Forse l’esigenza di una spiegazione totale, esaustiva, perfetta,
racchiude in sé un vizio nichilistico; ma non sapremmo suggerire come anti
doto le virtù redentrici dell’irrazionale, consigliando per esempio di non
spiegare troppo, di limitare le generalizzazioni e di lasciare qualche proble
ma da risolvere ai posteri. Questi si daranno poi senz’altro, è perfino desi
derabile augurarselo, diciamo solo che non è pensabile delimitare senza
motivo le nostre generalizzazioni, né adottare di proposito spiegazioni che
si confutino da sole. E più importante scavare nei nostri attuali motivi di
insoddisfazione, poiché solo nei reperti messi così allo scoperto potremo
trovare la via della soluzione desiderata.
predominio ora della psicologia, ora della linguistica, che abbiamo cercato
di evidenziare nello sviluppo della mentalità moderna, può spiegarci il sen
so di questa complessiva riduzione. È chiaro anzitutto che non si può par
lare di una riduzione del grammaticale allo psicologico, o viceversa, senza
ulteriori qualificazioni; perché se considero l’«io» come pronome gramma
ticale sottostanno a esso tutti i diversi sensi e funzioni per i quali lo si usa,
non è detto che la realtà interessata dal gioco di questi mezzi espressivi sia
inferiore a quella che verrebbe alla luce trattandone con categorie psicolo
giche, tanto più che anche quest’ultima apparecchiatura deve esprimersi con
10 stesso medio, solo modificandone la poetica discorsiva; ed è evidente che
allo stesso modo non si può neppure parlare di riduzione nel senso inver
so, dalla linguistica alla psicologia, proprio perché la funzione è diversa e
incomparabile, mentre il medio espressivo resta lo stesso. Se si vuole, quin
di, bisogna parlarne con un linguaggio misto, fuori d’ogni committenza e
in questo senso «comico», sperando di conservare il messaggio attraverso
le forme cangianti e polimorfe del significato.
Parliamo dunque di un io medio, moderatamente introspettivo, gram
maticalmente corretto e, insomma, piccolo-borghese. Pur essendo ligio alla
logica del senso comune, egli gode del privilegio di stabilire, man mano che
parla, le leggi di pertinenza a quel che dice. «Che c’entra, questo?», è un
frequente intercalare, come pure «no, perché...» ed «ecco!», «bravo!», con
cernenti sempre la rilevanza. Il fatto d’aver detto, nel passato (magari cin
que minuti prima), qualcosa di opposto a quanto ora affermato, può non
esser contraddittorio, perché io posso essere, ora, un altro soggetto, diver
so dall’io che ero prima. Le leggi della logica non valgono se cambia il tem
po, le circostanze, il soggetto del discorso. Quel che è stato detto vien per
ciò annullato e ripreso da ciò che io adesso sto dicendo. Anche l’io
piccolo-borghese, se messo alle strette, può rinnegare se stesso e assumere
11 ruolo del sovrano assolutista e cambiare la legge vigente, se così gli aggra
da, poiché egli è sopra la legge e ne è anzi la fonte di legittimazione. Tutto
ciò diverrebbe esplicito nella formula, tuttora inespressa, implicita in chi
parla: «io adesso detto legge, e dico che cosa è vero e che cosa è falso, pre
scindendo sia dalla logica sia dai dati di fatto»: e posso far ciò, dal momen
to in cui mi vien concessa la parola c fin tanto che mi è dato farlo. Que
st’essere così autistico, sprezzante e prepotente quando non rischia nulla,
se non la perdita di un’udienza che d’altra parte non ha mai avuta, nel quo
tidiano odierno, pare il relitto, il residuo indigesto o la reminiscenza di
un’altra epoca, quando invece avere anche solo l’aria di poter dire qualco-
I3S QUINTA LEZIONE
spunta già fuori il vero problema del soggetto, che non è quello di identifi
care colui che parla, o si muove, o si agita da isterico o rumina ossessiva
mente, non è cioè l’emergenza di un chi riconoscibile ma del che cosa si
muova nel profondo indirettamente, forse impersonalmente, facendo appa
rire come altro l’aspetto demonico della nostra stessa coscienza. Il sogget
to infatti potrebbe essere diverso dall’io; in questo abbiamo riconosciuto
non esserci contraddizione: non mi sento responsabile del fatto di aver sete,
o di continuare volentieri a respirare. Per ciò è stato creato il comodo con
cetto di anima vegetativa, la cui portata arriva esattamente dove giungono
il sangue, la linfa o gli ormoni. L’io respinge da sé ogni traccia di illegalità;
e qualche volta ha perfino ragione, quando cioè si dà il caso che giuridica
mente non gli possa addebitare nulla. È la coscienza che, avvalendosi di ciò
che sanno gli altri, e di cui anch’io mi rendo conto in certi momenti, mi per
mette di penetrare più profondamente nell’anima, al di là delle compro
missioni che essa, abbastanza innocentemente, trattiene in sé della biosfera
vegetativa e animale. Non tutto ciò che è propriamente psichico è per ciò
stesso positivo, ed è la coscienza a rivelarcelo. È questo il contributo più
importante dato alla conoscenza di noi stessi dai romanzieri e filosofi della
coscienza del profondo, Dostoevskij, Nietzsche e, non per ultimo, Freud.
una coscienza distaccata, centrata sulla cosa, ma non di genere diverso dal
le altre occorrenze. Il concetto di coscienza concerne solo la certezza del
_suo oggetto, anche il grigio lattiginoso fluttuante intorno a me mi dà la sicu
rezza di vedere la nebbia anziché le cose al di là di essa, e questo fatto spe
cifico, ammesso che io non guidi una macchina, mi rende superfluo inte
ressarmi del riferimento simbolico a oggetti oltrepassanti il quadro che mi
si presenta, siano essi reali o fantastici, intellettuali o sensibili, scrupoli
morali o emozioni sgradevoli. La speciale neutralità che la coscienza così
intesa osserva nei confronti dei suoi contenuti, che si è radicalizzata in prin
cipio d'immanenza, ha contrassegnato il tema filosofico della ripresa del
concetto in epoca a noi contemporanea, con Brentano, Husserl e Heideg
ger. Non è difficile scorgere negli estremi di tale riproposizione la radice
fondamentalmente agostiniana di questo principio filosofico, per il fatto che
Agostino ha fondato l’oggettività del sapere sulla coscienza e non sulla
conoscenza dell’esistente. In primo luogo dunque la coscienza si oppone al
suo falso sinonimo, la conoscenza, soprattutto inteso sotto forma di teoria
empiristica, che ha il suo fondamento nell’esistenza sensibile. La riproposi
zione della coscienza ha dunque un senso antiintellettualistico, poiché la
forma analitica è riempita dal senso della consapevolezza e non ha il carat
tere dell’astrazione del concreto, ma ne codetermina il significato. E distin
guendo il significalo dal riferimento, è chiaro in che senso la coscienza Sia
indifferente all’esistenza, ossia libera da presupposti ontici.
Una seconda accezione del termine è quella contenuta nell’espressione
«esser coscienti», nel senso di coscienziosi o scrupolosi. In tedesco ciò si
'.I esprime mediante una parola diversa che contrappone a Bewufltsein, la
£ coscienza come consapevolezza, il Gewissen, la coscienza morale. L’uso di
Gewissen è un po’ obliquo rispetto alla centralità del Bewufltsein, ma tut
tavia ha il senso attivo dell’attualità e della presenza. Aver coscienza signi
fica anche rendersi conto. Quindi «sii cosciente di quel che fai» significa
anche un momento diretto sulle conseguenze dell’azione, accentuandone la
mediata responsabilità. Questo secondo aspetto della coscienza, la Gewis-
senhaftigkeit o coscienziosità, lo tradurrei con «rendersi conto di ciò che
sta in mezzo tra la coscienza e il suo termine estremo»: in altre parole, il
Gewissen è l’aver coscienza del medio, piuttosto che dell’oggetto. Perché
questa complicazione del medio nel rapporto al significato?
Come si e osservato, la coscienza c in primo luogo percezione, quindi
sentimento (e/o volontà) e infine giudizio. Questa classificazione è tratta da
Brentàno. Percezione, sentimento e giudizio non sono distinti in base
142 QUINTA LEZIONE
1 si riflette sul fatto che il quadro simbolico del mondo, quale per esempio ci
I è offerto dalLobiettivazione scientifica in tutte le sue specificazioni, appare
appiattito nell’unica dimensione della semantica denotativa. Quali sono
‘ dunque le altre categorie semantiche?
sintesi che lo stile filosofico non deve mai abbandonare, anche a costo di
sfociare nel paradosso. Se noi partendo dal sistema linguistico dato nelle
varie scienze, le quali a vario titolo trattano del mondo obiettivo, inteso
come esterno, cerchiamo di sapere per che cosa stia quanto è simbolizzato
dai diversi termini, presi in senso proprio, il risultato è quel che direi un «far
finta di intendersi»: sia che si proceda dal genere al più specifico, perché da
ultimo abbiamo solo delle idee individuali, che saranno certo di nostra com
petenza, ma che non sono comparabili se non genericamente con quelle
degli altri componenti; sia che si proceda verso le maggiori generalità, che,
anche se non raggiungono lo stacco filosofico, non sono meno varie in sede
epistemologica che i pareri personali. Pur osservando la massima scrupolo
sità nelle decodificazioni, cercando di ricostruire il quadro totale del mon
do attraverso le diverse specie di denotati esterni, la somma non è mai
costantemente uguale, e questo porta a concludere che un mondo cosi con
cepito è in se stesso contraddittorio. Il mosaico non rivela la figura del mon
do esterno perché ogni tessera è come minimo sovradeterminata, non s’in
castra cioè nel punto giusto: ogni ambito del sapere ha infatti i suoi stilemi
d’obiettivazione categoriale, le sue implicite regole d’uso sintattiche_e
semantiche che portano insensibilmente a configurare totalità concluse
come tipo, pur essendo come somma inconcludenti. Passando attraverso
tutte le simbolizzazioni senza perdere la sinderesi, si ottiene al massimo un //
lessico ragionato, la competenza nell’impiego della lingua scientifica, la for -
bitezza impeccabile dell’eloquio, ma non la minima idea di un mondo ester- V-
no: poiché un simile oggetto non si dà per costruzione, bensì solo pregiu
dizievolmente, per rimorso della percezione interna tradita.
La percezione interna, per Brentano, è quella in cui abbiamo qualcosa
come oggetto immanente. Il suo carattere è di esser sempre evidente: infat
ti si dà evidenza (sia pure assertoria, non apodittica) quando il qualcosa si
sovrappone inevitabilmente all’oggetto immanente, come succede nella per
cezione interna. In seguito Brentano ha chiarito questo pensiero ricorren
do a una formulazione più espressamente linguistica. Noi distinguiamo
semantica e sintassi come dimensioni della semiotica. Brentano parla sem-
pre di termini all’uso medievale. Questi sono da lui distinti in autoseman
tici, cioè dotati di significato autonomo, in senso lessematico; e in sinse-
manlici, cioè dotali di significato solo in connessione con altri lessemi.
Quest’uso di «sinsemantico» è più chiaro, soprattutto più utile del sintatti
co odierno, poiché evita la dieresi col semantico; invece la proposta di «auto
semantico» nell’altro caso deve considerarsi infelice e le preferiamo la dizio-
I46 QUINTA LEZIONE
io. Quest’ultima ragione non è per nulla edificante, ma può esser reale
e nessuno si sentirà di dire che non è cosciente. La coscienza, senza tanta
religione, ha da essere obiettivamente etica, consapevole quanto basta per
non subire contraccolpi di resipiscenza. In noi c’è quindi un soggetto che si
dà a riconoscere come un io convenzionale, legale e formale; preferibil
mente si consiglia di esserlo come proprietario terriero del xvm secolo, pri
ma dell’assillo capitalistico, e di continuare a fare il gentleman per esempio
alla maniera dello squire Allworthy, il patron di Tom Jones. Se uno non può
permetterselo, è giocoforza convincersi che bisogna trovare il modo di coa
bitare in dubbia comodità con altri soggetti che stanno insieme a noi, come
l’immaginario, l’ossessivo, l’isterico, tutto ciò insomma che d’inverosimile,
sorprendente e illegittimo può esserci in noi e che nondimeno non possia
mo escludere dalla realtà, dal momento che non siamo unità né coerenti né
complete in tutto, ma (senza doversene vergognare) plurali. Ancora Piran
dello pareva rammaricarsene: c’è più che un sospetto d’accusa nel dire, come
egli fa, uno, nessuno, centomila.
A parte il problema intrasoggettivo della compresenza di molti soggetti
nella stessa coscienza, nei rapporti intersoggettivi, cioè tra coscienze separa
te da almeno 20 centimetri di spazio (tra il centro di un cranio e l’altro) si dà
un caratteristico problema di comunicazione che, come nel caso di quella
interstellare, si presenta specialmente in assenza di una deissi in comune tra
due interlocutori. Per quanto se ne sa, ciò ha origine dall’antinomia di Anti-
stene il cinico. Quando due persone discutono accanitamente per il fatto che
non sono d’accordo, Antistene mette in luce la contraddizione seguente. O
i due discutono esattamente della stessa cosa, e allora non si capisce in che
cosa non siano d’accordo, dal momento che il loro oggetto è identico; o par
lano di due cose diverse, uno avendo in mente una cosa e l’altro un’altra, e
allora non si capisce perché ci sia discussione, dal momento che ognuno svol
ge un monologo autistico. Come si vede, a rigor di logica aletica, non moda
le, l’argomento è irreprensibile. Tale argomento viene ripreso da Platone, e
piegato a una conclusione diversa. Egli assume uno dei due corni del dilem
ma, ma evitandone l’insensatezza. Non avrebbe senso una discussione tra due
che son persuasi di parlare dello stesso oggetto, tuttavia l’identità dell’ogget
to potrebbe esser virtuale, induttiva, al massimo ricavabile per convergenza
al termine di una discussione non contenziosa (o eristica) bensì di ricerca (o
zetetica). In tal modo la contraddizione viene evitata, ma a prezzo di rende
re trascendentalc-optativa l’identità dell’oggetto di discussione. Traducendo
in termini di senso comune il ragionamento di Platone, ne risulta che, se due
150 QUINTA LEZIONE
Nota bibliografica
derful Wizard of Oz, Chicago 1900, e, dello stesso, The Marvelous Land of
Oz, Chicago 1904 ecc., fu ideato dall’astronomo americano Frank D.
Drake; tale progetto fu parzialmente realizzato mediante un ascolto siste
matico della durata di 150 ore (6 giorni) per mezzo del radiotelescopio di
25 metri di diametro presso l’Osservatorio di Radioastronomia di Green
Bank in West Virginia nel i960, orientato su Tau Ceti ed Epsilon Eridani
naturalmente senza risultati di sorta. Come esempio di un soggiogamento
«gorgiano» dell’uditorio cfr. la teoria retorica di Adolf Hitler, Mein Kampf,
2 voli, voi. il, cap. vi, Miinchen 1925-27, pp. 525-34; questa evidentemente
dipende da Gustave Le Bon, Psychologie des foules, Paris 1895, di cui è
impossibile sopravvalutare il successo. Sulla caccia alle streghe cfr. Jules
Michelet, La torcière, Paris 1862; Henri Brémond, L’inquiétude religieuse,
2 voli., Paris 1909; e, più di recente, Aldous Huxley, The Devils of Louditn,
London 1952.
La nozione di coscienza è, naturalmente, piuttosto elusiva, e non è faci-
le dire come «debba» esser concepita. La fenomenologia non ha nulla che
vedere con l’«autocoscienza» o Selbstbewufitsein in senso idealistico, il suo
tema essendo la «coscienza intenzionale» che ha come punto di partenza
paradigmatico, per es. in Brentano, la «percezione interna». Cfr. anzitutto
Franz Brentano, Psychologie vom empirischen Standpunkt, 3 voli.; voi. I,
Leipzig 1874 [Psicologia 1]; voi. li, «Von der Klassifikation der psychischen
Phànomene», 1911 [Psicologia II]; voi. ili, «Vom sinnlichen und noctischen
Bewufitsein», 1928 [Psicologia ni]; le note di Oskar Kraus chiariscono il
senso della transizione tra il primo e l’ultimo Brentano. Per la tesi «antipsi-
cologistica» di Husserl v. Edmund FI usseri, Logische Untersuchungen, voi.
I, cit., «Prolegomena zur reinen Logik». Sulla «riduzione eidetica» (la «mes
sa tra parentesi» del mondo esterno, del presupposto naturalistico) cfr.
Edmund Husserl, Ideen z h einer reinen Phànomenologie undpbanomeno-
logischen Philosophie, Halle 1913 [Idee l]; e, per confronto, l’analogo con
cetto di «obiettivo» in Alexius Meinong, Uber Gegenstandstheorie, Leip
zig 1904 [Teoria dell’oggetto], e, dello stesso, Uber Annahmen, Leipzig
1902 [Assunzioni]; v. soprattutto, la fondamentale monografia di John Nie-
meyer Findlay, Meinong’s Theory oj Objects and Values, Oxford 1933. Per
la concezione fenomenologica nel suo complesso v. Herbert Spiegelberg,
The Phenomenological Movemcnt, 2 voli., den Flaag i960.
Sesta lezione
Credenza e immaginario
Il sogno, la rappresentazione e il doppio legame
periferia del problema, e senza pretesa di esaurirlo, riesce con pochi passaggi
a dar l’idea della sua portata e importanza. Il punto di partenza resta come
sempre la realtà esistente. Il punto di arrivo è come si configurano le cre
denze che noi ci formiamo in merito.
2. Nel romanzo realista del XIX secolo in sostituzione della realtà abbia
mo un’illusione di realtà che è fondamentalmente sorretta da due dispositi
vi linguistici: la descrizione e l’indicazione. Questi servono a mantenere
costante finché richiesta, l’attenzione della direzione della mente sull’og-
geno, ciò che avviene sia descrivendolo, sia indicizzandolo. Quindi la con
vinzione di cogliere la realtà, in un lettore del romanzo realista, tiene o non
tiene in ragione dell’efficacia di tale semantica suppositiva. Per comprende
re come merita il profondo coinvolgimento delle convinzioni a cui ci affi
diamo nel seguire certe convenzioni, bisogna tener presente che, oggi come
allora e come sempre, l’atteggiamento condiviso dal senso comune si espri
me all’incirca così: «Non facciamo tante disquisizioni oziose, metafisiche,
sull’oggetto; quando io dico “questo è un tavolo”, tu capisci che cosa dico,
e perché lo dico; il resto poi seguirà un po’ alla volta». Il pathos antimetafi
sico del senso comune esprime la tacita persuasione che le cose, prese sepa
ratamente, siano semplici e che il compito di prevenirne, con l’ammucchia
ta, la complicazione e la confusione spetti allo sguardo da vicino o,
preferibilmente, al contatto diretto con le cose. Per non cadere in errore
dovremmo sempre ricordarci che noi usiamo le parole in luogo delle cose;
e sarebbe meglio, ove fosse possibile, usare invece delle parole le cose diret
tamente. Così, accumulando oggetti anziché parole, noi renderemmo meglio
il senso di tanti discorsi; e uno che andasse in giro con un sacco contenente
tanti begli oggetti, magari taluni in miniatura, non avrebbe bisogno d’altro
per parlare, nemmeno di interpreti per le lingue straniere. Questo era il per-
siflage di Swift nei Viaggi di Gulliver. E Swift ha qui di mira Hobbes, cioè
la tesi che la comunicazione linguistica si regga sul rimando agli oggetti. È
chiaro che gli oggetti si possono denominare e, riunendoli con un certo ordi
ne, alla fine si deve capire il discorso che si fa con essi. Naturalmente, Hob
bes non dice questo; ma in letteratura si consente a certi scherzi.
Su questa base, la prima domanda che sorge è se l’ordine degli oggetti
riproduca il senso del discorso; se cioè questo si lasci esprimere per solo
mezzo dell’ordine con cui si collocano, o si producono, o si snocciolano dei
grani di rosario. Che questa non sia ancora la domanda da diecimila dolla
ri, lo dimostra la controdomanda, se cioè esista, c nel caso quale sia, un
CREDENZA E IMMAGINARIO 155
4. Non vorrei andare oltre l’argomentazione fin qui svolta. Più impor
tante, mi sembra, è approfondir meglio il senso di certi passaggi, inqua
drandoli con altre riflessioni forse meglio accessibili sia dal lato discorsivo,
sia da quello intuitivo. La prima cosa da considerare è proprio il significa
to dell’espressione complessa «aver qualcosa come oggetto», di cui abbia
mo già dato una spiegazione analitica. Indipendentemente da questa, che
potrebbe accusare una nostra forzatura interpretativa, l’aver-qualcosa-
come-oggetto è una dizione complessa che mette insieme due diversi Uvei-
CREDENZA E IMMAGINARIO 159
degger tra i due sensi dell’^/s (il come), quello apofantico e quello erme
neutico. L’«in quanto» apofantico è la normale esplicazione per sinonimi,
senza cioè trasgressione categoriale; mentre l’«in quanto» ermeneutico è più
complesso, presupponendo che l’identità interpretativa sppossa ottenere per
concorso di categorie diverse. In ogni modo, l’effetto di questa distinzione
concorre a dare al come il senso di un distacco, più che di un’omologazio
ne. La funzione logica del chiedersi come, apparentemente così chiara, peri-
clita da ultimo in irresistibile dialettica.
Ci si può chiedere infine se per caso non appartenga alla coscienza, pro
prio in quanto intenzionale, questo tendere a esplicare nel senso del come,
più che del perché. Che cosa vieta di avere tale intenzione? Qui non biso
gna farsi carico deH’equivocazionc che in italiano può darsi tra intenzione
e intenzionalità. L’uso tedesco di Intentionalitat è solo tecnico; ed essendo ?' L-CXS (PV
tale significato quel che è, intentionales Bewufltsein vuol solo dire coscien a.c/VC
za di qualcosa come oggetto. Solo che Bewufltsein è parola d’uso comune,
oltre che tecnico. Normalmente significa coscienza, esser consapevoli, e
simili; ma può anche assumere il senso speciale di voluto, fatto apposta,
intenzionale fbewuflt). Allo stesso modo Selbst-bewufltsein è l’autoco-
scienza in Hegel; ma selbst-bewuflt può anche voler dire, di un contegno,
che si dà dell’importanza. Anche in inglese, se io per esempio dico, di una
donna, che è self-conscious, voglio insinuare che si crede bella, o interessan
te. Le trappole delle lingue sono molteplici; quindi non si può nemmeno
escludere che, per il concorso di tali accidenti, il significato di coscienza
intenzionale resti lo stesso in tutte le versioni.
pur essendo contrassegnate come soggettive dal carattere astrattivo del loro
oggetto, riducibile al concetto della rilevanza pura, e da quello della conse
guente impredicatività o, meno bene, tautologicità, conservino tuttavia una
loro oggettività: ciò posto, l’aggettivo sostantivato deterrebbe quanto meno
la rappresentanza, il diritto di stare simbolicamente per l’Elóog oggettivo.
Stando a questa impostazione del problema, alla domanda per esempio «che
cos’è il numero?», intesa come «qual è l’oggetto corrispondente al concet
to soggettivo e ideale di numero?», si può tentare di rispondere richiaman
do l’operazione del contare, che termina nel concetto di numero ordinale;
quindi, partendo da questo, si può introdurre astrattivamente il concetto di
numero cardinale, facendone impredicativamente l’oggetto comparativo di
diverse operazioni del contare, che non avrebbero equinumerosità, o Glei-
chzahligkeit, in assenza di tale termine oggettivo. Può sembrare che tutto
vada egualmente bene, l’oggetto o, se non si può, il concetto dell’oggetto in
sua rappresentanza. Che differenza fa? Il fatto è che il concetto e l’ogge_tto
possono coincidere solo se quest’ultimo è singolare, unico. Diversamente
ho sì i concetti univoci del tre, del cinque, dell’enne e enne-più-uno, ma non
il fondamento su 3, 5, n, 7?+l oggetti. L’unità degli indiscernibili (nel con
cetto) annulla la pluralità solo numero (negli oggetti). Se fa parte dell’idea
soggettiva il riferimento a una pluralità di oggetti, pur non pretendendo che
questi siano esistenti, come si può ridurre tutto ciò a un significato pura
mente intensionale? Qualità e quantità, o intensione e estensione, sono
egualmente inerenze ontiche, determinazioni intrinseche, ÈWTtóo/.ovTa del
significato. Anche senza fare intervenire dimostrazioni decisive come l’an
tinomia di Russell o altri paradossi del genere, è evidente che la via ideali
stica di far stare, in luogo dell’oggetto, la sua rappresentanza, non è un vali
do espediente. E si badi che qui parliamo di oggetti, non di corpi esistenti;
evidentemente la rappresentanza dell’oggetto manca di uno dei caratteri che
si danno in sua presenza. Uno di questi caratteri è il tempo. Che cos’è il
tempo o, meglio, la coscienza del tempo?
6. Abbiamo già parlato del tempo come omologo dello spazio, cioè in
quanto categoria o, più modernamente, parametro. Conviene qui rammen
tare lo scopo che fin dall’origine ci si è prefisso introducendo tali categorie,
dal punto di vista dell’intelletto. Spazio e tempo sono indispensabili misure
strategiche, che consentono al linguaggio di evitare molte delle contraddizioni
che altrimenti si darebbero. Lo spazio introduce la nozione di distanza, che
permette di parlare senza incongruenze di qualità diverse, in quanto appar-
CREDENZA E IMMAGINARIO i 65
tenenti a oggetti distanti tra loro, l’uno fuori dell’altro. Il tempo introduce le
nozioni di dopo e, correlativamente, di prima, che permettono di parlare
coerentemente di qualità diverse anche dello stesso soggetto, purché si ten
ga conto del momento dell’attribuzione. Se oggetto dello spazio è la distan
za tra le sostanze, oggetto del tempo è invece il mutamento, il cangiamento
e il movimento, anche della stessa sostanza. La funzione anticontradittoria
dello spazio è sempre considerata ovvia, tanto da non esser neppure spiega
ta. Più riposta è invece quella del tempo, meno evidente, e bisognerà aspet
tare Platone e Aristotele per sentir dire che il tempo è la misura del movi
mento (o mutamento) secondo il criterio del prima e del dopo. Queste sono
le funzioni dello spazio e del tempo dal punto di vista intellettuale. Certo,
non è tutto qui. Ma per parlare di una realtà in proposito, bisogna parlare del
loro carattere empirico residuale, di cui non è facile trovare il referente.
Noi parliamo di cose che sono già nello spazio e nel tempo, ma questo
modo di trattare dell’ùz-esse, l’esser-nel-mondo spazio-temporale, allarga la
nostra domanda senza peraltro rispondervi. Non sappiamo dire perché le
dimensioni dello spazio siano esattamente tre, non quattro o venticinque.
Ciò rimanda alla questione delle traslazioni che possiamo compiere su un
oggetto spaziale senza alterarlo, ma questo sembra più un problema di defi
nizioni che un riferimento empirico. Né sappiamo dire perché il tempo
abbia solo una dimensione, e vada solo in avanti, dal passato al futuro,
secondo il mio modo di dire, una freccia che ne indica il senso. Abbiamo già
discusso di certi particolari notevoli che si danno in merito, ma ora non ci
interessano tali spunti. Consideriamo qui l’in-essere come schema lingui
stico profondo, che consente non tanto di parlare del mondo senza con
traddirsi, quanto soprattutto di parlare apofanticamente della realtà, qua
lunque essa sia. Tale schema corrisponde al principio di individuazione
spazio-temporale, per cui si può dire che esistono i corpi, cioè che ci sono
dei riempimenti non-vuoti dell’enorme casellario di posti spazio-tempora
li che tale principio ci mette a disposizione. In questo modo riusciamo a
inquadrare il problema dell’esistenza come una questione di riempimento,
o meno, di una struttura già presente, almeno virtualmente. Credo che ora
si capisca perché si dica, aristotelicamente, che la sostanza vicn prima degli
accidenti, in particolare delle determinazioni spazio-temporali. In teoria
potrei sempre disporre di uno schema più profondo per cui fosse tutt’altro
che ovvio che la cosa deve stare così.
La risposta è che il retaggio aristotelico è, per lo meno è stato, più profon
do di qualsiasi altra ipotetica alternativa. (Con eredità aristotelica si deve
166 SESTA LEZIONE
intendere sia il fatto che la sua teorizzazione ha avuto fortuna, sia quello
complementare per cui egli si è limitato a formalizzare una tendenza già in
atto. Sarebbe interessante poter dire qualcosa di più, ma non ci proviamo
nemmeno. Si sa solo che giapponesi, cinesi e vietnamiti, come risulta dalle
bibliografie, anche loro studiano Aristotele: sarà lecito arguire che cosa ci
' trovano?). In breve, che la sostanza venga prima degli accidenti vuol dire che,
tanto nell’ordine paradigmatico che in quello sintagmatico, la scelta del
sostantivo condiziona quella dell’aggettivo, dell’apposizione e dell’avverbio:
tutte determinazioni che aristotelicamente valgono come accidentali, cioè
extrasostanziali. Tutto questo è abbastanza chiaro; e si sarebbe tentati di con
cludere che H sostantivo sia la parola-chiave, che centra su di sé il significa
to (autosèmantica, diceva Brentano), e trattare tutto il resto come contorno,
in una sorta di specificazione di per sé inessenziale, perché dipendente da
quella, se non fosse che c’è una significativa omissione, che spicca proprio
per la sua assenza: che ne è del momento sinsemantico, del senso della frase
per intero? Nella questione della priorità della sostanza sugli accidenti non
sorge il problema del corrispettivo del verbo, che pure nella formazione del
sintagma, la sequenza di parole che esprime l’intero senso del dictum (o
meglio il a e z t ó v , per gli Stoici), ha un’importanza non inferiore a quella del
sostantivojo Vj TOXEÌl ie v o v . Difatti tutte le teorizzazioni più antiche del sen
so grammaticale-speculativo del discorso insistono sul duale, quasi un’en
diadi, di òvoua e òfjpa, di sostantivo e verbo. Anche Platone, anche Aristo
tele fanno occasionalmente uso di tale dizione già omologata. Ma in
Aristotele c’è un’altra teoria, più esplicita. Nella dottrina delle categorie egli
pone al primo posto la sostanza, l’oùoéa, ossia ciò di cui si parla nel caso
nominativo; quindi vengono le inerenze, gli èvujtào'/pvra della sostanza, il
jtoCov e il JtOOÓv, il quale e il quanto di essa, cioè gli aggettivi o le altre
occorrenze funzionalmente simili; solo al terzo posto si menziona il verbo
come potenza o forza, óùvapig, che può essere attiva o passiva, j iq ó .t t o v o
jrao'zov. Infine seguono le circostanze, t ò . èv irvi, lo spazio o t ó t t o c ; e il tem
po o ZQÓvog; e chiude la rassegna (a parte l’abito o è'/ov e la situazione o
zeloOat, che richiedono altro discorso) la menzione della relazione, TÒ j TOÓc ;
t l , di ciò che sopraggiunge ma non altera la sostanza.
Nell’elenco delle categorie intese come determinazioni ontiche, o Seins-
bestimmungen, la collocazione del verbo al terzo posto rompe la simmetria
paritetica dell’endiadi òvop.a e Ònpx/, introducendo un criterio di priorità che
si palesa nella collocazione della relazione (esterna) all’ultimo posto. L’azio
ne consignificata dal verbo insieme col tempo e il significato nominale (ma
CREDENZA E IMMAGINARIO ^7
dicare della realtà si devono usare le categorie; e che queste richiedono l’uso
di schemi trascendentali per mediare, anche attraverso le categorie semanti
che, tra l’intelletto e l’immaginazione. Ora con quest’ultima, la facoltà imma
ginativa, dobbiamo intraprendere un trattamento simile, anche se di senso
inverso. L’immaginativa non è la facoltà responsabile del libero gioco, in fol
le o leerlaiifend, delle rappresentazioni disimpegnate, allorché il giudizio,
s’intenda il giudizio determinante e il suo prodotto, la conoscenza e infine la
scienza, si prende una vacanza. No: l’impostazione del problema, che fu di
Kant, e prima di lui di Burke, e di Bacon tra gli altri, ha dei meriti che non è
qui il caso di commemorare. Ma il giudizio riflettente non è esattamente il
duale di quello che lo è sul serio, il determinante; perché, se è vero che
entrambi si fondano sulla rappresentazione, che è il proprio della facoltà
immaginativa, la loro origine comune è anteriore a ogni successiva specializ
zazione. Ed è difficile a questo proposito rintracciare la retroazione dal giu
dizio acquisito come vero, anzi scientifico, agli abiti rappresentativi pregiu
dicati come reali, in opposizione a quelli che appaiono come dichiaratamente
fantasiosi. Prima di tutto, perché la linea discriminante non è così netta come
sembra negli esempi tipici scelti ad hoc, poi, perché in epoca di grandi rivol
gimenti, anche scientifici, tale linea è irregolare, né appare opportuno farla
valere in base all’abitudine o al pregiudizio; e infine perché, prescindendo dal
feed-back retroattivo, le rappresentazioni, come immagini, non portano la
firma sopra, la signatura dell’appartenenza, o meno, alla realtà.
Il ricorso ad Aristotele non suggerisce alcuna alternativa transitabile.
Come psicologo egli dice che la sensazione, l’aioOriaig, è sempre vera; il
giudizio successivo, costruito in base a essa, non può infatti contraddirne
le risultanze, per essere in se stesso pure vero. Ma la sensazione non viene
mai sola; vi si accoppiano, nell’empiria o conoscenza sensibile, la memo
ria (|1VT|P1) e la rappresentazione (cpavraota). Ora la pvqpq, così come
l’t/.ioOqotc, va sempre bene; salvo il caso di disfunzioni e che le si richieda
no prestazioni esorbitanti. Mentre la (pavraoia, per confronto col giudizio,
può esser detta vera o falsa. Perciò l’èpjtEtotc/., essendo intrisa di cpaviaota,
non sempre è un fondamento attendibile. Qui Aristotele ci pianta in asso,
anche se noi vorremmo sapere altre cose. Per esempio, se la rappresenta
zione è una facoltà immaginativa adattabile alla funzione conoscitiva, ma di
per sé indipendente da essa. Nel qual caso non sarebbe che l’opera prete
rintenzionale del medio, il quadro offerto dai (pavidopaia, ciò che può
indurci in errore, posto che la realtà non ci sia altrimenti accessibile. La fan
tasia potrebbe avere quale compito precipuo quello di registrare degli stati
CREDENZA E IMMAGINARIO 169
S. L’anima è ciò che anima. La meraviglia che desta ciò che è animato è
che può possedere una psiche diversa dalla mia. In origine anzi tutto quel
che si muove è animato di vita psichica propria, mia o di altri. Poi uno impa
ra che i corpi si dividono in animati e inanimati; e ci resta male. Il panpsi
chismo è bello, l’ilozoismo è solo ingenuo. Risaliamo all’esperienza origi
naria, omettendo l’uomo primitivo c le sue credenze. Il fenomeno di base,
molto banale, consiste neU’animare o no i corpi intorno a noi del mondo
ambiente. Questo non dipende da credenze preconcette: e il mondo stesso
che, se non ci si pensa, appare fatto così. Per esempio di notte mi va d'al
zarmi, muovo dei passi senza accendere la luce e batto a tutta forza lo stin-
CREDENZA E IMMAGINARIO 171
co contro il piano del tavolino; per tutta risposta gli allungo un calcio che
reduplica il male che sento senza danneggiare minimamente l’odiata cagio
ne d’inciampo, che io per un attimo ho scambiato per un nemico o comun
que qualcuno che l’ha fatto apposta. Entra qui evidentemente in gioco un
principio di analogia^ per cui io induco dall’interruzione della mia azione
l’esistenza di una forza esattamente contraria, intenzionale e animata in sen-
so perverso; e l’attribuisco per un momento alle cose che mi circondano, fin
tanto che non sopravviene il ricordo che stanno lì, perché ce le ho messe io.
Forse l’uomo primitivo era ancor più propenso a credere nell’analogia, ma
bilanciava l’irritabilità col fatto di avere pochi oggetti contro cui urtare. Ci
viene però detto che l’atto critico con cui distinguiamo gli oggetti in animati
e inanimati comincia a un’età già considerevole dell’infanzia. È inutile dire
che tale distinzione è in sé arbitraria: sono illuminanti in proposito le discus
sioni teoriche se, disponendo di un computer abbastanza sofisticato, gli
attribuiremmo o no un’animazione indipendente, per esempio HAL 9000
di zoo/.- Odissea nello spazio. Chiaro che, se dovessimo apprendere tale
distinzione come epistemologi adulti, anziché per abitudine e pregiudizio
infantili, ci troveremmo talvolta in serie difficoltà. Da queste discussioni si
ricava da ultimo la persuasione, vagamente depressiva, che forse nemmeno
noi stessi, mentre agiamo, siamo veramente animati.
Senz’altro più conveniente è partire da uno schema d’azione, diretta-
mente, e quindi ricavare dal confronto con esso le specificazioni rilevanti.
Parlerò indifferentemente del modo d’agire del gatto e del cane, della fon
tana, dell’albero e della pietra semisepolta lì accanto, dell’erba, del fiume,
dell’aria e della luce; osserverò con molta attenzione, in compenso, il mio
comportamento, consapevole che sono io che distribuisco la mia attenzio
ne in modi a volta a volta diversamente circospetti. Di qui trarremo gli
auspici. Se si tratta per esempio di una testuggine che divaga distrattamen
te per il giardino, devo fare attenzione io a non esser distratto, o altrimenti
rischio di inciampare c farmi male. Se il cane mi infastidisce perché vorreb
be che lo portassi fuori, sono io che devo pensare all’investimento di ener
gie che ho speso nell’educazione di quest’animale e fare attenzione a non
contraddire l’impegno preso da tempo. Per veder crescere l’albero, in fon
do non si richiede altro che io, di tanto in tanto, lasci il cannello dell’acqua
aperto. La pietra che affiora accanto all’albero senza dar fastidio, se la
logliessi, certo, tutto starebbe meglio; ma è lì, c lì la lascio stare: non si
smuove, chissà com’è profonda, e che fatica ci vorrebbe. La realtà del mon
do, come si vede, si può scalare secondo l’entità degli investimenti richiesti
SEST/\ LEZIONE
^72.
per essa basta che si dia coincidenza di tanto in tanto, non importa se il fon
damento è in sé fantasmatico: anche le lettere dell’alfabeto non hanno alcu
na somiglianza coi suoni che loro corrispondono. Non intendiamo qui con
futare i presupposti della ópoiojoiq: solo vorremmo degradarla da teoria a
dottrina, poiché la tecnica della corrispondenza per punti saltuari è passibi
le di interpolazione, ma non di extrapolazione. Eppure proprio questo, che
comporta la spiegazione della relazione d’impuntura in sé, sarebbe quanto
richiesto da un’autentica teoria. La sollecitazione a una critica ulteriore è
offerta dal fatto che la corrispondenza richiede una coincidenza tra unità,
ciascuna definibile nel proprio ambito. Le unità del linguaggio sono, ponia
mo, le proposizioni; e quelle delle idee le scansioni dei momenti figurali, o
qualcosa di simile. Ma quali sono le unità di ciò che succede, t ò ivy/avov,
nel mondo? La coincidenza non può esser creata ad hoc dallo stato di cose
richiesto dal significato, sospetto che inerisce intensamente all’accadere se
inteso come irpcr/pa t ò oqpaivópevov. Ogni fantasia ammette la proiezio
ne di sé nel significato. In ogni modo la dottrina della corrispondenza non
contraddice la tesi della fantasmaticità delle idee.
Un secondo momento importante, nell’analisi dell’immaginario, è l’in
combenza del carattere d’azione che inerisce alle idee in quanto fantasma-
tiche. Ciò non esorbita dall’ambito della ovve(òì]oiq, non è detto che le idee
debbano costituire una galleria di quadri, col cartellino, ma certo vi aggiun
ge una forte connotazione pragmatica. Non è certo peregrino che le prime
idee a essere isolate, nella loro pura concavità, siano state quelle di àoETCti,
quali virtù o forze: tale è infatti il contenuto dei dialoghi di Platone detti
«socratici», la definizione cioè di idee di pura JtQà^iq. Abbiamo detto più
sopra che la loro determinazione rende tali idee concave, ossia identificabi
li separatamente; secondo l'uso aristotelico che contrappone al concavo il
camuso, nel senso che non c’è una camusità separabile dal naso a cui com
pete. Ma qui non vogliamo certo chiederci se la sia un’entità sepa
rabile dal resto delle idee, sia pure nella fantasia.
io. Resta da spiegare perché la coscienza tenda di per sé, sua sponte, all’a
nimazione. Questo fatto sembra arbitrario, nel senso che può darsi che uno
abbia addestrato la sua mente a inibire tale moto di partecipazione unitiva.
Non discutiamo sul fatto che, da un punto di vista pedagogico, può essere
utile un atteggiamento più circospetto; qui ci interessa solo il fatto che in
praxi noi ci serviamo di questa capacità proiettiva e unitiva insieme, cioè
partecipativa, della coscienza. Diremo anzitutto che l’animazione è una pre
stazione della coscienza che attinge all’immaginario. Si tratta di un gioco di
specchi, per cui considero a me uguale c cioè «doppio», non ogni uomo
indiscriminatamente, ma solo chi si dimostri profittevole di dialogo, uno
che sappia ascoltare a intervenire a sua volta con discorsi congruenti. Non
c’è bisogno di fare il punto con un test sul computer, per far questo, né di
precisare quali criteri si intendano seguire, è una pratica di tutti, e che
SESTA LEZIONE
178
togliendolo. Se si vuol far questo, i casi son due: o si azzera il mondo fisico,
riducendolo per esempio a mera apparenza fenomenica; o al contrario si fa
10 stesso col mondo morale, dicendo che esso è un epifenomeno dell’altro.
Questo è quanto si lascia onestamente dire partendo dal dualismo che si è
detto. Invece i transazionisti fanno di necessità virtù: la trasgressione agisce
come una corrente alternata a due poli che s’invertono come minimo a $o
Hz. Nella polemica così interpretata la parte del villain spetta ad Antiste-
ne, com’era previsto. Ma a me pare che la sua posizione sia equivalente a
quella di Platone: se è vero che i due poli, fisico e morale, sono enantio-
morfi, sono per ciò stesso anche isomorfi e quindi, prescindendo dal segno,
devono dare un risultato uguale. Ora Antistene dice che l’uomo dabbene,
11 quale non fa nulla senza averlo prima considerato attentamente, non ha
nulla che lo contraddistingua in positivo dallo scellerato, il quale agisce sot
to l’impulso del momento. Qui Platone gli dà torto, ma il suo argomento
non risulta conclusivo. Eppure sarebbe bastato che si fosse rammentato (per
la dottrina della reminiscenza, non importa se l’ha detto dopo) di quanto
aveva sostenuto altrove, esser cioè migliore chi pecca volontariamente
rispetto a chi lo fa inconsapevolmente, senza volerlo. Vero è che, per evi
dente influsso cristiano, si è interpretata questa tesi come se fosse parados
sale, cioè non rispondente al parere dell’autore. Ma non è così; paradossale
non equivale a contrario del vero, e il parere di Platone è che chi agisce male
con piena cognizione di causa non è peggiore, ma caso mai migliore, di chi
agisce male senza nemmeno saper dire perché.
Dei princìpi in uso regolativo si dice anche che le idee che vi corrispon
dono hanno significato normativo. Le idee prese in senso normativo si pos
sono esprimere con le modalità etico-giuridiche dell’obbligatorio (necessa
rio), del consentito (possibile) e del né obbligatorio e né consentito
(contingente); il parallelismo con la normale grammatica del modale rende
quest’uso forse più comodo per il trattamento logico del versante normati
vo, ma non penso che faccia progredire l’analisi in qualche senso sostanzia
le. A parte questo, trovo difficile credere in una qualche forza o potenza
normativa di certe idee, tale che, una volta pronunciate le parole corrispon
denti, questa speciale semantica abbia il potere di favorire o inibire una cer
ta azione. Così posto, però, il problema appare già pregiudicato nel senso
dell’irrilevanza dualistica di semantica e psicologia; da un lato ci appare la
semantica come studio del significato che di fatto diamo a certe espressio
ni, e dall’altro la psicologia come studio, in questo caso, delle volizioni e
delle parole che impiegheremmo per esprimerle quando prevediamo o pre-
CREDENZA E IMMAGINARIO i 8i
Nota bibliografica
Desiderio e volontà
La passione e razione, la causa e il fine dell*agire
che si tratta di un’ideologia dai toni sommessi, più sofferta che trionfalisti
ca, e i cui estremi si ritrovano in Occidente, almeno in parte, nell’utilitarismo
inglese da Bentham ai due Mill, James e John Stuart.
Una concezione anch’essa svincolata dalle utopie ma opposta al confu-
cianismo nel suo intento di riattingere al momento entusiastico, o quanto
meno non intrinsecamente depressivo dell’esperienza politica è risorta di
recente in Francia per opera di un piccolo gruppo,_detto dei nowveaux phi-
losophes. L’antitesi che inizialmente li accomuna è che la politica o meglio il
politico, nel senso di TÒ noXiTizóv, non possa consistere nell’attività di par
tito o nell’esercizio di un governo, siano pure intelligenti e buoni nella pras
si amministrativa. Anche l’iniziativa del partito, quale che esso sia (ma l’ap
punto è rivolto ai marxisti), nella misura in cui ha successo finisce co£
trasformarlo in un organo dello stato, e quindi al massimo non c capace che
di trasformare in prassi ordinaria quello che dovrebbe essere il momento
qualificante, del tutto straordinario. L’antitesi dunque nega che ia politica
si traduca in atti amministrativi, che si esplichi nelle elezioni votando per il
partito o il personaggio qualificanti la propria scelta, o che concluda il suo
ciclo operativo nel lasciarci in possesso di salde, meditate opinioni. Che
cos’è, allora, la politica? È difficile affacciare un’ipotesi al di là dell’antitesi,
su cui possiamo convenire, se non tutti, in molti. La tesi, a quanto pare, è
che l’evento politico non sia che un puro accadimento di stampo événe-
mentiel, che di solito consegue a un fatto storico eccezionale, con titolo a
piena pagina. E a questo evento, prima di qualsiasi razionalizzazione, e di
qualsiasi misura riduttiva che tenda a normalizzarlo, mi accade di parteg
giare e di parteciparvi come se ciò avvenisse anche per la mia spinta simpa
tetica, quantunque solo interiore. Si tratta della via più difficile per entrare
nella comprensione del problema, e siamo tentati di dire che i nouveaux
philosophes ci costringono a concludere che il politico è qualcosa che non
può esistere nel mondo così come lo conosciamo, perché questo non può
contenerlo. Esso cioè rientra in un discorso che la psicanalisi rende già risa
puto, aggiungendo la politica all’elenco delle cose sognate, che trovano una
realizzazione allucinatoria coi mezzi dell’immaginario. Questo fa pensare
che l’interesse ingenuo per la politica, che forse lutti condividiamo quando
l’esperienza avviene in stata nascondi, assommi a quella sospensione del
l’incredulità, o susponsion of misbelief che secondo Coleridge deve accom
pagnare la lettura dei racconti del meraviglioso. Quando immaginiamo che
andando a votare è in nostro potere imprimere una svolta o un raddrizza
mento alla direzione della volontà generale, noi viviamo in un tale immagi-
DESIDERIO E VOLONTÀ 189
posto. Il punto è che non è possibile guardarsi così allo specchio; questo
spiega il suo carattere weird, tra l’incomprensibile e il soprannaturale, nei
momenti di intensa suspension of disbelief, e inoltre che è solo perché l’e
sperienza appare incongruente, o quantomeno viene vissuta con disagio, che
ci accorgiamo dell’investimento emozionale che sostanzia l’immaginario. A
tal proposito mi pare più che mai adeguato parlare di doppio legame, appun
to perché la spiegazione materialistica e razionale del fenomeno non è suf
ficiente a eliminarne l’effetto di cui si diceva.
La terza esperienza in cui si è posti di fronte al proprio doppio, quasi un
Doppelgànger, è l’innamoramento. Molti saranno disposti a considerarla
una variante della prima, quella dell’alterità; ma benché la spiegazione sia
molto simile, l’innamoramento fa emergere in maniera spiccata il fenome
no del narcisismo. Sempre presupponendo come condizione necessaria il
delinearsi di un’esperienza forte dell’alterità, come vissuta in noi ma attri
buita all’altro per sé, l’innamoramento vi aggiunge l’aura del numinoso, il
dolore della separazione, l’esaltazione del costante appaiamento. Anzitut
to, dal punto di vista della reciprocità dello scambio, la formazione della
coppia appare sempre incentrata su uno dei due partner, tal che la simme
tria, se c’è, è tale solo accidentalmente e provvisoriamente. Nella Paarung
c’è sempre chi ama e chi si lascia amare; naturalmente l’esperienza che con
ta è quella di chi ama, perché sua è l’intensa valorizzazione dell’altro che egli
ricava dal rapporto. Nell’asimmetria si rivela il tratto che abbiam detto nar-
cisistico dell’innamoramento. Tuttavia sarebbe inesatto definirlo come pri
mariamente narcisistico, poiché in tale esperienza non mi innamoro di me
stesso, o di una parte, la migliore, di me stesso; no, io vivo sinceramente la
prossimità dell’altro, sia pure in forma fantasmatica, c mi sento legato in
maniera spesso drammatica all’altro per sé, nel senso che se non ci fosse,
non avrei motivo sufficiente per suscitare in me tale dedizione emozionale.
Nondimeno ciò non esclude che si tratti pur sempre di un atteggiamen
to narcisistico derivato. Non vorrei trattenermi a lungo su questo argo
mento, perché quando il suo vissuto è attuale, solo il Liebestod di Isolde
pare esserne un’adeguata espressione, anche se non prova nulla; mentre nel
la sua inattualità sfido chiunque a non considerarsi fortunato di non rien
trare tra i suoi addetti, essendo fastidioso pur il solo parlarne. In ogni modo,
anche nel momento dell’attualità si è consapevoli che ci si sente legati a un
se stessi che è nuovo e migliore, e tale esaltazione regge fin tanto che c’è un
altro che ci stimola a farlo e intanto si allarga la ricezione e ne rimane un
durevole lascito nell’esperienza che si ricorda. Ciò che contraddistingue
DESIDERIO E VOLONTÀ
193
nua il concetto di creazione, non nel senso ex rubilo, ma come forza medL
catrice con cui il OeÓQ anima e fa vivere la natura. La concezione è aristo
cratica, a tratti sdegnosamente distanziante e, nei confronti del genere uma
no, pessimistica. Al discorso sulle malattie, a un certo punto, nella
trattazione sulla dieta, si sostituisce quello sull’arte medica e le sue difficoltà,
rivolto non si sa se alla stoltezza dei pazienti o a quella dei medici. Val la
pena di addentrarvisi.
Un primo disappunto riguarda il disconoscimento umano della natura
del sintomo, che non somiglia a quel che manifesta: «gli uomini non sanno
capire da quanto è evidente (Èx t c d v q uvi omv) quel che non si vede (là
àcpavìi)». Siccome essi usano arti consone alla natura umana, non divina,
ignorano le cose nascoste. Questa ignoranza riguarda non solo la natura, ma
anche l’etica e la legge: «gli uomini diedero una legge a sé medesimi, ma sen
za conoscere su che cosa la stabilissero». Essi esercitano «tutte le arti che
hanno in comune per la loro natura umana», ma senza sapere perché. Della
natura invece si può dir questo, che «gli dèi tutti le diedero un senso ordi
nato»: cpvoiv òè Jtàvreg 6e o ì òiExóopìiouv. Ma in questa inopia delle menti
umane, come può sorgere sia pur solo l’illusione del sapere, l’èjtioTaoOai, il
dominare e guidare sapendo? La risposta è implicita nel concetto di piptionj,
che ha un significato complesso. Nell’apprendimento l’uomo inizialmente
comprende per imitazione degli altri e rinforzo degli effetti utili così conse
guiti. Si pensi all’apprendimento della lingua materna, o di altre capacità che
sfiderebbero un selvaggio, pur essendo di dominio comune. Ma tradurre
pipìiou; con imitazione non dice tutto, se ciò che si imita sottintende la com
prensione del senso dell’azione. Si veda per esempio l’uso della lingua; que
sto non si esaurisce nella riproduzione dei paradigmi, sia pure mutatis
miitandis, ma comprende la costruzione di sintagmi, nell’occasione nuovi,
che siano adeguati a esprimere il nostro pensiero nei suoi tratti non imitati
vi, o creativi. La pipì]oig dunque richiede, come nell’arte drammatica, che si
comprenda il senso contenuto nell’agire e che non si capisce riproducendo
lo, o facendogli il verso per far ridere. Lo stesso accade in rerum natura,
quando si tratti di esercitare l’arte medica. Occorre imitare non una cosa, ma
la stessa vis medicatrix naturae, che c una j To l iio k ; della natura animata dal
la òiaxóopqoic; divina, in un disegno intelligibile e ordinato del mondo. La
plpqCJLg è quindi l’imitazione del fatto ma regolandosi sull’idea che lo tra
scende nel sintagma dell’azione. Perciò «la mente degli dèi insegnò agli
uomini a imitare le cose divine», cioè a trascendere l’imitazione con l’appro
priarsi dell’azione, giacché gli uomini, lasciali a sé soli, non capirebbero. Essi
I96 SETTIMA LEZIONE
5. Vico è altresì celebre per aver distinto dalla storia empirica dei fatti una
«storia ideal eterna» che contiene il puro aspetto intelligibile di uno svilup
po. Questa dualità tra il fattuale e l’ideale trova scarsa rispondenza presso
gli storicisti, benché sia egualmente importante del principio per cui veruni
et factum convertuntur^ ossia reciprocantur. L’incomprensione di Vico, sot
to questo aspetto, dipende dalla difficoltà più riposta dei rapporto che lega
il fatto alla sua intelligibilità; questo rapporto, come in Platone, si esprime
come relazione tra due piani di riferimento diversi, ma la stessa teoria con
tiene nello sdoppiamento un’aggiunta irrilevante o addirittura fuorviarne. È
10 stesso fatto che concepito come come cosa agita, ha in sé impli
cito il proprio criterio di comprensibilità, che è lo schema d’azione. L’idea
lità del fatto non sta nel suo riferirsi a un piano di essenze ideali, o come
altrimenti ci si rappresenta la cosa, ma nell’impossibilità di esaurirlo col rife
rimento a entità statiche, devitalizzate, prive di tensione, perché esso appar
tiene, in parte ma essenzialmente, all’atto che lo genera. L’incomprensione,
credo, prima che Vico riguarda proprio Platone. Si assume Platone secondo
11 facile schema di pensiero del platonismo, che è la storia delle idee come
reduplicazione del reale nella sua intelligibilità, senza pensare che Platone è
nato presocratico, e che le idee gli sono pervenute per reminiscenza, in un
senso cioè tutt’affatto ateoretico, immemore di Democrito e, fondamental
mente, animistico. Ma quale che sia l’esatta collocazione di Platone nei con
fronti della teoria degli «amici delle idee», come li chiama polemizzando
Aristotele, risulta chiaramente in tutti i dialoghi socratici che il rapporto tra
i fatti e la loro intelligibilità è fondato sulla trasparenza della JtQà^iq, sull’i
dealità autoctona dell’azione se intesa come puro atto. Non intendo qui pri
vare Platone della mediazione offertagli dalla teoria delle idee, ma avvertire
che non è lecito attribuirgliela sconsideratamente per poi rifiutarli entram
bi, Platone e le sue idee, quando se ne evidenzi l’incerta prestazione, tra il
paradossale c l’assurdo vero e proprio. Un Platone presocratico riuscirà for
se ancor più indigesto, ma per lo meno a un sofista sarà permesso parlare
liberamente, ed esprimere come vuole le proprie idee. Che Platone non fos
se quell’iniziato alla sapienza esoterica di cui hanno sognato in tanti, è cosa
che possiamo accogliere con animo equanime, né turbato né mosso.
I98 SETTIMA LEZIONE
che essa è di stampo sostanzialistico, perché si può molto facilmente far cor
rispondere al soggetto grammaticale la sostanza ontologica. Ci sovviene
inoltre del fatto che Brentano analizza la relazione causale «da a a b» in due
parti, il fondamento «da a» e il termine correlativo «a £»; inoltre, espri
mendo la relazione con «a causa b» (col verbo causare) a vien detto in modo
recto e b in modo obliquo. Reciprocamente, in «b è effetto di a», b è il fon
damento della relazione e a il suo termine; e così i modi, b in recto e a in
obliquo. Si aggiunga infine che ciò che si esprime al caso nominativo è,
quanto meno aristotelicamente, una sostanza seconda, una òevxÉQa ovata.
Forse proprio quest’ultimo accenno può salvare Brentano dall’accusa di
sostanziammo. Il fatto è che dalla grammatica alla metafisica non c’è un pas
saggio e che la dottrina dei modi è intesa a chiarire una differenza tra casus
(come jTTCDOEiq) e non tra substantiae, o ovoiat. Del resto la sostanza secon
da, anche in Aristotele, è tutto ciò che può andare al nominativo. Simil
mente in Brentano la sostanza è sempre sostanza seconda, perché acciden
tale; si dice solo che senza di essa, espressa in modo recto, non avrebbe
senso la predicazione degli altri accidenti, detti in obliquo. Ma sarebbe qui
fuori luogo addentrarci nei particolari delle cose dette da Brentano.
La dottrina dei modi è anzitutto una tecnica filosofica di ispirazione, per
intenderci, nominalistica, che si applica nell’analisi delle entità astratte. Se
per esempio qualcuno dice di credere nella validità del teorema di Pitagora,
io mi rappresento quel qualcuno, in modo recto, il quale intrattiene un cer
to rapporto con l’oggetto chiamato teorema di Pitagora, che io mi rappre
sento in modo obliquo. Interrogato sul perché di quella sua credenza, egli
esibisce come prova la corretta dimostrazione del teorema di Pitagora. Que
sto significa che, attraverso quella dimostrazione, il teorema giunge a esser
rappresentato anche da me in modo recto, saltando la mediazione di chi te
ne parla. Fin qui tutto è in ordine, trattandosi di un’evidenza apodittica, o
dimostrativa. Ma supponiamo che qualcuno mi dica di avere un gran mal di
testa. In questo caso la sua evidenza tutta assertoria di avere il mal di testa,
supponendo che dica il vero, non è per me che il risultato di una notifica
zione; lasciando da parte 1 dubbi, il suo mal di testa è per me un oggetto di
riferimento presente in modo obliquo. Più importante ancora è il terzo caso,
quello in cui qualcuno dice di credere, poniamo, nell’esistenza di forme
sostanziali, o cose di questo genere. Qui non è possibile darne una prova
apodittica, o altrimenti da un bel pezzo la metafisica sarebbe un ramo della
geometria; e neppure si può sensatamente pensare a una finta credenza,
motivata da intenti menzogneri come quelli esibiti dalla vasta fenomenolo-
200 SETTIMA LEZIONE
L’obiezione pare rafforzata dal fatto che non è detto che ogni cosa deb
ba avere il suo contrario; mentre la negazione è applicabile universalmente,
tanto ai nomi quanto alle proposizioni. Anzitutto è vero che la contrarietà
si applica solamente agli aggettivi qualificativi, o agli avverbi che ne deriva
no: ciò è implicito nel senso stesso della modificazione per contrario, l’ari
stotelica aTÉOì]OK o privazione. Nulla a questo punto ci vieta di decretare
che tutti gli aggettivi qualificativi e loro derivati si possono organizzare in
coppie oppositive di contrari, massimi nei loro estremi e che ammettono al
loro interno coppie di sub-contrari più deboli, fino a raggiungere lo zero, il
neutrale come punto di indifferenza. Diciamo quindi che tutti gli aggettivi
sono suscettibili di grado comparativo, fino al superlativo comparativo e
assoluto, e compreso in positivo il grado d’indifferenza. Su questa proprietà
si basa l’uso moderno di chiamare con un numerale ciascun grado di tem
peratura o di miopia. Non si dirà che si tratti di usi empirici; tutto sta nel
trovare delle forme espressive ampliabili per analogia, preferibilmente di
proporzionalità. Quanto alla negazione dell’intera proposizione, bisogna
rendersi conto che, partendo da una logica del concetto (essendo la logica
proposizionale un’acquisizione molto tarda e non certo tuttora indiscussa),
essa ha un significato ben diverso da quella che si applica ai predicati. In una
logica primitiva si può per esempio sopperire a essa con l’arte della mimica
o il gesto, come Curio Dentato che nel quadro di Maccari a palazzo Mada
ma respinge i doni dei Sanniti. L’esistenza di una logica a un solo valore di
verità, il vero, è dunque perfettamente ipotizzabile. Non faremo una que
stione di comodità d’uso, dal momento che non abbiamo l’intenzione di
servircene in pratica.
Avendo trovato il modo di esprimere la funzione negativa in una logica
a un solo valore di verità, tutte le altre costanti logiche si esprimono di con
seguenza. Non occorre nemmeno scomodare il funtore di Nicod, o quello
di Sheffer, dal momento che in una tale logica tutte le connessioni sono
equivalenti alla congiunzione. Come si è già detto, questa logica è molto più
una logica del concetto che della proposizione; infatti della proposizione,
visto che dev’esser vera, non si può dire molto altro; mentre essa rimane
aperta all’infinita varietà dei concetti, che modificano l’oggetto dato in
modo recto secondo tutta la variabilità delle modificazioni sopraggiungen
ti in modo obliquo. Ma la principale differenza tra la logica a un valore di
verità e quella a due, ivi incluse quelle a 3, ... w, valori, è che queste ultime
: possono essere, e di solito sono, simboliche, anche quando non sembra,
mentre la prima non può esserlo. Con logica simbolica, ripetendo quanto si
DESIDERIO E VOLONT,\ 203
con qualche firma o segnatura, il misfatto celato o millantato nella sua stes
sa compaginazione linguistica. Da questo punto di vista il problema diven
ta quello di individuare le spie linguistiche della menzogna ormai codifica
ta. Ma non ci interessa qui seguire le manifestazioni di questa vasta e
stimolante fenomenologia. Si tratta invece di seguire il filo che lega la logi
ca della verità alla certezza psicologica per un verso, e alla sincerità dell’e
spressione per l’altro, in modo che emerga dal concorso e dal contrasto dei
tanti desideri in gioco la direzione che vi assume la volontà.
alla danza della pioggia, la tecnologia medica non può dimettere tale pre
scrizione come irrilevante. Ciò non toglie che, in caso di successo, anche la
danza della pioggia sia una condizione determinante della cosa voluta.
Una questione simile è quella discussa da Wundt sotto la rubrica della
eterogenesi, o eterogonia dei fini, che più particolarmente prende in esame
il divario che si dà tra le convinzioni individuali e l’effetto storico, o collet
tivo, di un risultato d’insieme. L’esercizio della volontà individuale è lega
to a certe convinzioni, ma non è detto che queste siano rilevanti per apprez
zarne la risultante complessiva. Per esempio secondo Max Weber la
mentalità protestante calvinista è stata determinante, sul piano psicologico,
e cioè individuale, per lo sviluppo del capitalismo moderno; il quale però,
considerato in sé, non richiede la rappresentazione dell’inferno, né della
predestinazione divina o altre particolari credenze del genere. C’è chi è pas
sato dall’accumulazione primitiva all’espansione capitalistica, come il Giap
pone, pur essendo privato del conforto della religione cristiana. La Hete-
rogònie der Zwecke prende in esame particolarmente il fatto che, pur
essendo l’esercizio della volontà connesso, anzi derivante da certe creden
ze o rappresentazioni, esso risulta poi in larga misura indipendente dal loro
specifico contenuto. Sarebbe facile fare dell’ironia sull’America che è stata
conquistata in nome di Dio, e contrastare ciò con l’ascesa di una classe
sociale di avventurieri che, finita l’epoca della Crociate in Terrasanta, non
si lascia sfuggir l’occasione di esercitare impunemente il diritto a un sac
cheggio facile e in scala continentale. La malafede era qui palese, e consa
pevole. Vorremmo qui parlare dell’altra, più riposta malafede, che a rigore
non è nemmeno tale, per cui la rappresentazione dello scopo, il quale non
si realizzerà mai, dipende dall’insorgenza di potenti immagini del deside
rio. La malafede inerisce qui al fatto che nelle situazioni in cui la rappre
sentazione del fine si delinea in tale scenario, di tono fortemente emotivo,
noi dovremmo per ciò stesso avvertire che il fine dell’azione non può rea
lizzarsi che illusoriamente. Che lo scopo sia immaginario e concepito emo
tivamente non cambia la natura subordinata della proposizione, che resta
sempre finalistica, o teleologico-causale, ma rende il suo oggetto estrema
mente indeterminato. La componente determinante che per concludere a
un fine oggettivo dovrebbe ricorrere all’opera della volontà viene invece
rimpiazzata, oltre che da essa, da un soverchiante momento immaginativo
ed emotivo che, in virtù della sua composizione materiale, si presta a
nascondere gli elementi della sua costituzione. Ciò equivale a chiederci se
la volontà si distingua essenzialmente dall’emozione e dall’immaginazione.
2O8 SETTIMA LEZIONE
son partì dall’idea che la funzione dei sensi e quindi del sistema nervoso cen
trale, cioè il cervello, sia essenzialmente selettiva, e solo a questo titolo anche
elaborativa. Questo perché l’organismo complessivo, nella pratica della vita,
correrebbe un serio pericolo se fosse impacciato dalla folla di sensazioni non
selezionate che altrimenti i sensi gli invierebbero, e così pure la memoria, che
sarebbe sovraccarica di dati, e il cervello, che non saprebbe quali di essi rie
laborare a un fine utile. La selezione si avvale di un criterio di utilità per la
vita, secondo Bergson, che presenta già gli estremi per parlare di una virtua
le razionalità, cioè di una predisposizione teleologica delle azioni, orientate
in vista di uno scopo, e tale prestazione si sarebbe formata nel corso dell’e
voluzione per tentativo ed errore, moltiplicando la scarsa (ma non nulla)
intelligenza inerente a ogni evento non entropico per l’enormità del tempo
di cui può disporre l’evoluzione. Ciò significa che la consapevolezza razio
nale di cui fruiamo, essendo selezionata è cioè ridotta allo scopo di un utile
pratico, è solo una frazione di quella che altrimenti potremmo avere intel
lettualmente. Come dice in proposito Aldous Huxley, «per formulare ed
esprimere il contenuto di questa ridotta consapevolezza, l’uomo ha inventa
to ed elaborato all’infinito quei sistemi di simboli e di implicite filosofie che
chiamiamo lingue». Si capisce come il «simbolismo» non sia che un surro
gato intellettuale per rimediare all’inopia di una selezione troppo drastica
mente praticata o razionale, ma in un senso unilaterale. Perciò, conclude
Huxley, «ogni individuo è nello stesso tempo il beneficiario e la vittima del
la tradizione linguistica nella quale è nato». Per un verso è beneficiario, «in
quanto il linguaggio gli dà accesso ai ricordi accumulati dall’esperienza degli
altri»; ma per l’altro è vittima, «in quanto lo conferma nella convinzione che
la ridotta consapevolezza sia la sola consapevolezza», e perché conferma «il
suo senso della realtà, in modo che egli è fin troppo pronto a prendere i suoi
concetti per dati, e le sue parole per cose vere». Il punto di vista biologico
non può che confermare quanto già ci era noto, aggiungendovi una miglio
re comprensione del divario sussistente tra il momento intellettuale, o noe
tico, e quello razionale, o teleologico-pratico.
Nota bibliografica
Sul problema fenomenologico della volontà, cioè sul rinforzo che essa
aggiunge alla decisione «in atto», cfr. gli ottimi, anche se un po’ datati testi
di Alois Hòfler, Logik, Wien 1890; e, dello stesso, Psychologie, Wien 1894;
sopra tutto Alexander Pfànder, Phànomenologie des Wollens, Eine psycho-
logische Analyse, Leipzig 1900; e Hans Rciner, Freiheit, Wollen und Akti-
vitdt, Phànomenologische Untersuchungen in Richtung auf das Problem
der Willensfreiheit, Halle/Saale 1927.
Sulla concezione del «simbolo» in Freud e relativa teoria dell’immagi-
nario cfr. Sigmund Freud, Die Traumdeutung, 1900-1, vi, C (Die Darstel-
lungsmittel des Traums) e E (Die Darstellung durch Symbole); Uber den
Traum, 1901, vi; sul problema dello specchio v. Jacques Lacan, Le stade dii
miroir camme formateur de la fonction dit Je (telle qu’elle nous est révélée
dans l’expérience psychanalytique), 1949, in Ecrits, Paris 1966, pp. 93-100;
v. inoltre S. Freud, Vorlesungen zur Einfuhrung in die Psychoanalyse, 1916-
17, X (Die Symbolik im Traum), XI (Die Traumarbeit).
Sulla peculiare teoria dei «modi» e delle «modificazioni» v. Franz Bren
tano, Psych. IL «Von der Klassification der psychischen Phànomene»,
appendici li e HI; del «metodo delle variazioni» parla diffusamente Edmund
Husserl, Logische Untersuchungen, cit., e Ideen I, cit., passim.
Le citazioni di Huxley sono tratte dal suo saggio The Doors of Percep-
tion, London 1954; v. anche Heaven and Hell, London 1956.
Ottava lezione
Essere e dover-essere
La libertà, il male e la teodicea
1.1 temi di carattere morale, l’etica, la politica, il male ecc. hanno in comu
ne la necessità di dovere assumere, per trattarli, un punto di vista non natu
ralistico. Ormai sappiamo di che si tratta: occorre rifarsi non alla curva di
base, ma alla sua tangente intenzionale, o alla tangente della tangente, non
solo intenzionale ma differenziale. Questo punto di vista non è difficile da
adottare, tanto ci siamo abituati; ma è facile non accorgersi dello switch, del
salto che comporta per noi il passaggio da un modo di pensare naturalistico,
quello che usiamo per i fatti esterni o fisici, dove il senso comune va d’ac
cordo con la scienza naturale, a un modo di pensare altrettanto spontanea
mente spiritualistico o addirittura antinaturalistico, in cui il senso comune
condivide la morale religiosa o la normativa tradizionale, senza che ci ren
diamo conto della profonda incoerenza implicita in tale abitudine al salto
mortale. Il primo compito diventa dunque quello di approfondire tale scis
sione, in modo che diventi scandalo e non abitudine il fatto di saltare al di
sopra di essa spensieratamente; non diciamo questo in omaggio a un canone
di coerenza puramente filosofico, ma perché Pignorare tale dualismo di atteg
giamento da un punto di vista igienico può comportare conseguenze fatali.
L’obiettivazione naturalistica si ottiene per semplice astrazione a partire
dalla percezione esterna. Trascuriamo la problematica epistemologica che
complicherebbe considerevolmente questo semplice ragionamento, perché
ai fini della nostra discussione attuale essa risulta inutile. L’obiettivazione
non naturalistica delle scienze culturali, dette anche dello spirito o umane,
richiede invece qualcosa di più, cioè l’obiettività del giudizio orientato a un
fine, o a un valore, in una parola del giudizio teleologico. Abbiamo indica
to in che modo questo tipo di obiettività è possibile, attraverso la teoria dcl-
Voggetto incompleto, che si può saturare fino alla verosimiglianza mediante
l’aggiunta di componenti controfattuali, come i valori, i fini, e l’immagina
zione compensativa, senza trasgredire i canoni del determinismo. Il dato di
o t t a v a l e z io n e
cordo di questo linguaggio con l’altro. Una volta quietati i miei scrupoli in
proposito, vorrei dar la parola, prevalentemente, alle cose stesse. Il primo,
ineludibile problema è quello del male. Molti sono giunti a chiedersi se esso
esista. Il problema posto dall’esistenza del male è quello stesso della sua eli-
minabilità. Ci chiediamo dunque se il male sia eliminabile, e a quali condi
zioni. Evidentemente, solo se risulta che il male è ineliminabile, esso diven
ta un problema morale: quello di dover decidere che atteggiamento tenere,
nel caso. Si è detto che Leibniz distingue tre specie di male: il male fisico, il
male morale e il male metafisico. Il male fisico è il dolore sensibile, di tutte
le specie. Il male morale è il peccato, e le sue conseguenze anche inavverti
te. Il male metafisico è quello dovuto all’imperfezione della creatura, cioè
allo stato di cose. Da ciò poi sorge il problema della teodicea, che dipende
non tanto dalla fede in Dio, quanto dal credere che ci sia rimedio a tutto.
Ma è bene attenersi a quanto detto.
Dunque il male non esiste, se è eliminabile. Ma è eliminabile, quanto
meno in linea di principio, il male? Il male fisico sembra poterlo essere, per
lo meno vale la pena tentarlo. Ci sono già gli analgesici, gli anestetici, i deri
vati dalla morfina; in tutti 1 casi si può ricorrere all’eutanasia. Un argomen
to cognato è se si possa ricorrere alla chimica delle droghe per aumentare il
senso temporaneo di benessere, dato che il male sia privazione del bene. Ma
questo è già un argomento morale, se non metafisico. In ogni modo preoc
cuparsi del male fisico pare eccessivo, dal momento che normalmente non
è lì, il problema, e gli uomini fanno già quanto possono per eliminarlo.
Aspettiamo intanto l’invenzione di una droga innocua ma efficace, come il
soma indù, per farci tutti contenti. Del male morale ci viene assicurato che
esso dipende dal peccato. Traducendo, per chi non sia particolarmente sen
sibile a tale aspetto, ciò vuol dire che esso sta nelle conseguenze di un male
originario. Vien subito in mente il peccato originale, di cui noi stiamo anco
ra scontando le conseguenze. Ma comunque stia la cosa in rapporto alle ori
gini (se sia giusto che paghi chi non ne ha colpa, questo è un problema di
teodicea che qui non c’entra), diventa rilevante la domanda: in che senso
sono male le conseguenze di una colpa? Se io lascio una pentola sul fuoco,
e questa è afferrata da un bambino che se la rovescia addosso, il mio è un
male morale, il dispiacere della mia colpa di imprevidenza, ma il suo male
(del bambino) è fisico. Allo stesso modo essere alcolizzati è in genere un
male morale, ma le conseguenze scontate da altri per incidenti che ne deri
vino sono un male fisico. Se in generale il peccato originale è un male mora
le, le conseguenze ereditarie di esso non possono essere che un male fisico.
2l6 OTTAVA LEZIONE
citare ed esercita di fatto, i più nefasti influssi. Infatti le scienze sociali, dal
punto di vista filosofico, appaiono orientate sul principio teleologico che
assume o forma etica o, per complemento o alternativa, un contenuto assio-
logico, di valore. Non è possibile costruire una scienza sociale compieta-
mente asettica quanto ai fini e/o ai valori, poiché la determinazione del
dover-essere o dello scopo da conseguire svolge una parte insostituibile in
ogni riferimento teleologico. Fine e valore, quanto al contenuto, sono dif
ficilmente distinguibili; ma se s’intende ciò che vogliamo dimostrare, non è
indispensabile un’analisi più puntuale. Diremo solo che in un’analisi di tipo
etico, siamo d’accordo con Kant nel rilevare che quel che conta è la forma
lità del procedimento, la messa in rilievo della teleologia come pura strut
tura formale; mentre, nelle considerazioni assiologiche, il tema è dato dalla
rappresentazione del valore in sé, ed eventualmente dalle conseguenze che
ne derivano nella collocazione gerarchica nell’insieme degli altri valori. Si
vede subito che l’etica deve al formalismo la sua maggiore generalità o uni
versalità, il che è come dire che essa fa uso larghissimo di procedimenti di
astrazione essenzialistica. Viceversa la teoria dei valori è sociologicamente
più adeguata, valga per tutte l’esempio àeW Etica aristotelica, detta «Nico-
machea». Ma il problema razionalmente insolubile, nel caso di un’etica dei
valori, diventa quello della loro gerarchia nell’ambito del sistema totale, eti
co e dei valori.
L’equazione valore = fine è ineccepibile in un giudizio teleologico, ma
va soggetta a una grave indeterminatezza. Se si fissa il valore, definendolo
come unico, il fine si determina di conseguenza. Ma nessun sistema etico
può basarsi su un unico valore; la teoria dei valori esige il pluralismo, e
anche storicamente essa fu escogitata per supplire al formalismo dell’etica
di stampo kantiano. D’altro lato non avrebbe senso fissare il fine in sé per
definire il valore, perché il fine fa parte della forma di ogni giudizio teleo
logico: in esso la scansione mezzo-fine è l’omologo di quella premessa-con
seguenza della logica aletica. Dunque la parte più importante di un sistema
etico è la preferenza accordata relativamente a ogni valore, cioè la loro
gerarchia. In questo senso il sistema appare da ultimo fondato sugli indivi
dui, e non ammette che un’articolazione relativa e maggioritaria. Di un
sistema di valori acquisito come concluso si potrà parlare soltanto per il pas
sato, relativamente a una civiltà e a un’epoca storica, e anche in questo caso
si dovrà esser consapevoli che l’universalità delle nostre qualificazioni non
è, al massimo, che innanzi tutto e per lo più. Nello svolgere queste consi
derazioni, abbiamo parlato di valori e di gerarchia tra di essi come se fosse
ESSERE E DOVER-ESSERE 223
acquisito che i valori sono degli elementi più o meno atomici, disponibili
per così dire su una scacchiera secondo una scala ordinata in I, il, IH,
magari aggiungendo che, poniamo, in quinta posizione, possono esser con
siderati a pari merito l’igiene e l’abbigliamento. Ma non è così. Già Aristo
tele s’era accorto di questa difficoltà di centrare tematicamente il valore,
quando, nella teoria della pEOÓiqq delle virtù propriamente etiche, aveva
cercato di definirle come un massimo intensivo tra due estremi che presi a
sé sono anzi disvalori: così il coraggio sta nel mezzo, valorizzando al mas
simo il positivo implicito nei due opposti difetti della temerità e della codar
dia; allo stesso modo la liberalità è l’ottimo tra i due estremi pessimi della
prodigalità e dell’avarizia; e così via. Questo disegno veramente intelligen
te ha lo scopo di rendere accessibile l’etica con mezzi dianoetici, e per di più
mostra che la combinazione differenziata delle virtù e dei difetti non solo
supera la concezione elemcntaristica da cui pur sorge, ma è sempre aperta a
nuove acquisizioni o rifusioni rispetto ai sistemi anteriori. Emerge da ciò il
carattere plastico ed enormemente variabile della fenomenologia del valo
re, cosa che solamente Scheler è stato in grado tra i moderni di porre in una
luce adeguata.
Inoltre Aristotele ha detto che, nei confronti della normale empiria, arte
e scienza si segnalano tra gli uomini anzitutto come istanze rilevanti per l’ap
prendimento e l’insegnamento, cioè per la loro funzione di Jtaiòeia, che tan
ta parte ha avuto nel progresso storico dell’umanità. L’empiria è a disposi
zione di tutti, ma incomincia ogni volta daccapo, per l’uomo come per
l’animale; mentre l’arte e la scienza si accumulano e si possono insegnare ed
apprendere consequenzialmente, c ciò è rilevante per la teoria dei valori. Il
vantaggio offerto dall’arte e dalla scienza, sempre secondo Aristotele, sta nel
fatto che la prima procede secondo regole e la seconda per mezzo di cause
o, più modernamente, leggi. Ora, regole e leggi si possono enunciare come
princìpi, cioè sotto forma universale; c quel che più conta, si possono
apprendere come tali, anche se poi passare al loro uso nella pratica della con
creta empiria non è automatico e neppure cosa facile. Tutto questo inserisce
nella considerazione dei valori una spiccata stilizzazione pedagogica. È age
vole osservare che anche nell’odierno sistema di valori si delinea un con
corso tra i diversi valori in lizza tendente a favorire quello che si presenta
più regolare o legittimo^ ciò produce un sempre maggiore consumo lingui
stico, poiché regole e leggi sono essenzialmente logocentriche, cosa che
complica il quadro più di quanto non lo semplifichi, sostituendo alla fatica
dell’empiria, nell’apprendimento, la conoscenza verbale di una regola.
224 on AVA LEZIONE
Secondo l’idea che Aristotele si fa della scienza, e che anche noi condi
vidiamo, io posso per esempio insegnare la matematica perché ne insegno a
capire i princìpi; l’apprendimento dal suo lato empirico è un presupposto,
che ognuno deve risolvere da solo. Il punto è un altro: che i princìpi della
matematica sono le sue cause formali, rispetto ai quali i problemi di mate
matica si subordinano, si inquadrano e si risolvono. Allo stesso modo si
apprende la fisica: imparando quali sono le cause del movimento, distin
guendole secondo che siano motrici o finali, e misurandole secondo criteri
adatti. Insomma la scienza si impara e si insegna attraverso le cause, che
sono i princìpi di tutto ciò che è regolare e legale. Per scienze diverse ci
saranno diversi princìpi, ma tutti si inquadrano in una somma enciclopedi
ca del sapere. Questo sapere complessivo diventa poi omogeneo, ma solo
nella sua forma linguistica. Aristotele riserba il nome di arte, lé/VT], non solo
a quel sapere che si esprime mediante regole, ma a quello che è meno rac
chiudibile sotto una veste linguistica. La legge di gravitazione universale io
posso benissimo comprenderla mediante il linguaggio, ivi incluso quel po’
di linguaggio matematico necessario, senza alzare gli occhi dalla pagina; ma
quale regola potrà mai descrivermi, a parole, come vada scolpito il naso rot
to della Pietà Rondanini, se voglio restaurarla? Allo stesso modo la musica
è un’arte che verbalmente, dal punto di vista delle regole, consiste nel sape
re a menadito le varie leggi che definiscono l’armonia, il contrappunto e l’in
terpretazione: ma altra cosa è poi saper suonare o cantare da cultori di Mel
pomene. Infine vi è la medicina, che secondo Aristotele è un’arte piuttosto
che una scienza; così come sono arti l’ingegneria o l’economia pratica. Non
che in esse non abbia parte la scienza; questa vi è caso mai presupposta. La
medicina presuppone la biologia, per quanto elementare questa possa esse
re. Ma la biologia non fonda la medicina nemmeno oggi, in tempi cioè adu
sati allo scientismo. La medicina è fondata unicamente sull’idea teleologica
della salute, la ir/LELCX, che è un’invenzione affatto umana e che, per quanto
ovvia, non troverebbe posto in una classificazione ontica delle scienze natu
rali. Dal punto di vista di queste ultime, infatti, un bel cancro è un oggetto
altrettanto degno di studio che un uomo, e per la biologia in sé non c’è
motivo di preferire questo a quello. La medicina vede invece come arte la
biologia umana in rapporto valutativo con l’ideale di salute, e anche quan
do si appella alla vis medicatrix naturae il suo tentativo consiste nell’attrar-
re dalla parte dell’uomo l’animazione divina che, nella visione primitiva,
sorregge la natura.
ESSERE E DOVER-ESSERI. 225
unisce anche a quelli di cui non capiamo le motivazioni o, meglio, che fac-
ciam finta di non intendere. Nella stessa guisa dai fratelli emarginati giun
ge sommessa la muta richiesta di un reinserimento: ecco ciò che non si può
respingere, ma che si deve rinforzare, per non introdurre il male nel nostro
stesso atteggiamento virtuoso. L’essenziale, al riguardo, è già stato scritto
da tempo. Perciò non mandare a chiedere per chi suona la campana: essa
suona per te.
rità di sorgere nel bel mezzo di intenzioni teleologiche pure, ossia non inqui
nate da irregolarità che non si conformano al fine. Perciò la dimensione eti
ca del giudizio sul bene e sul male, in quanto necessariamente secondaria in
rapporto alla vita umana, è indissolubilmente legata al problema dei valori.
I valori sono sempre più o meno particolari, ed è il loro stesso numero, oltre
che la questione della relativa priorità dell’uno rispetto all’altro, a costituir
ne il problema. La questione di quale sistema di valori sia da scegliere, inten
dendosi con sistema il numero e la gerarchia dei valori messi in ordine, non
è stato discusso perché è implicito in un ordinamento democratico che tut
to ciò da ultimo debba avvenire per alzata di mano di fronte alle varie richie
ste. È chiaro che, indipendentemente dalle singole richieste, ci sono valori
più grossi e pesanti che, come le pietre in un setaccio, vanno subito al fondo;
e altri che, per esser più minuti e particolari, devono accontentarsi degli inter
stizi: ma per principio tanto le pietre quanto il setaccio hanno pezzatura e
fessure variabili e nulla c’è di indispensabile, salvo le pietre e il setaccio stes
si. Ciò non toglie che a ciascuno è lecito proporre un proprio sistema di valo
ri, purché poi non si lamenti che non c’è nessuno ad ascoltarlo. Il compito
proprio di queste discussioni spetta alla filosofia morale e politica, che qui
lasciamo volentieri ai colleghi della stanza accanto.
Se l’invenzione della libertà, e cioè del male che ne è conseguenza, sia
stata o no utile, questo problema che abbiam detto non si pone nella con
dizione umana, può tuttavia riproporsi in generale in relazione alla crea
zione ex nihilo, riportata a Dio. Si definisce così il problema principale del
la teodicea, che è quello della giustificazione del male dal punto di vista di
Dio. Il presupposto dell’argomento è che Dio non era affatto obbligato a
creare il mondo; altrimenti ci si chiede chi o che cosa l’abbia costretto a far
lo, e si ripropone il problema. Dunque, Dio ha creato il mondo pur preve
dendo e anzi sapendo, in base al postulato della onniscienza, che il male
avrebbe fatto parte del mondo, se consentiva a dotare di libertà almeno un
punto del mondo: che è l’uomo. Ora ci chiediamo come, dal suo punto di
vista, questo possa esser giustificato. Il linguaggio teologico che abbiamo
usato per esporre l’argomento si ammetterà che senz’altro è molto como
do per esprimere concisamente la questione. Ma uno potrebbe chiedersi se
l’argomento, in se stesso, sia indipendente dalla teologia, in particolare dal
la teologia giudaico-cristiana; e se, in assenza di questa, non si dimostre
rebbe, piuttosto, che non c’è nessun problema su cui disputare. Ma quel che
abbiamo detto circa la libertà c il male renderebbe obbligatorio il riferi
mento teologico, anche in assenza di Dio o, più propriamente, proprio per
23O OTT/WzX LEZIONE
tale ragione; perché, allora, diverrebbe ancor più pertinente chiedersi che
cosa consideriamo in generale giusto, tenuto conto del fatto della libertà che
produce, anche senza volerlo, il male. Cercheremo dunque di far vedere la
sussistenza, anche se più scomoda da esprimersi, di questa possibilità non
specificamente teologica dell’argomento.
S. Se Dio non ha creato materialmente il mondo, ciò significa che egli non
può esser ritenuto responsabile del male fisico. Questo comporta la restri
zione del senso della creazione al mondo inteso in senso morale e metafisi
co, e quindi la ridefinizione del male in conseguenza. Ora il male morale
dipende dal trasgredire la norma del bene, pur conoscendola, e questo non
si applica a Dio. Solo il male metafisico coincide con la responsabilità della
creazione, e ogni discussione deve accentrarsi proprio su questo punto. La
responsabilità di Dio consiste dunque nell'aver stabilito delle norme che egli
poteva ben prevedere che non sarebbero state seguite, generando quindi il
male come conseguenza quasi inevitabile. Questo «quasi», al quale è affida
ta la responsabilità specificamente umana del trasgredire la norma divina,
richiede un’analisi dell’idea che noi ci facciamo dell’onniscienza che Dio può
avere, poiché dalla natura di tale prescienza del futuro dipende la nostra
autonomia rispetto alla norma, e quindi il male. Infatti, se Dio fosse stato in
grado di prevedere non solo tutti gli eventi, ma anche ciascun atto volonta
rio da parte di ogni singolo uomo in ogni singolo momento della sua esi
stenza, egli diverrebbe il creatore ultimo del male, se non causalmente o per
conseguenza diretta, per lo meno occasionalisticamente. Ci si può d’altron
de chiedere se sia lecito all’uomo ergersi a giudice di Dio o quanto meno por
re la logica come un’istanza sovraordinata al rapporto tra l’uomo e Dio. Tut
to ciò è senz’altro ammissibile da un punto di vista criticistico, kantiano o
comunque immanentistico, per il quale l’intera teodicea non è che lo sforzo
del pensiero umano di sottoporre a giudizio morale, quasi in tribunale, se
stesso e le proprie pretese, allo scopo di saggiarne sia l’autoconsistenza sia le
prospettive di realizzazione. Ma, anche se la sostanza della questione resta la
stessa, noi preferiamo per ragioni di metodo la sua espressione obicttivata,
alla maniera di Leibniz, che parla di Dio come di un’entità in sé. In questo
senso, se è lecito parlare di teologia, bisogna presupporre che la logica sia
comune a Dio e all’uomo, e anzi sovrastante a entrambi i termini. Allo stes
so modo deve esser la stessa ogni forma di normativa teologica che si sia con
venuto di far valere. Altrimenti bisogna dire che la stessa teologia costituisce
una deroga dalla norma, cosa che per fortuna non è stata mai detta.
ESSERE E DOVER-ESSERE 231
ca. E abbiam detto anche che, se la prescienza divina include anche l’esi
stenziale, ciò finisce con l’includere la stessa scelta da parte dell’uomo e
quindi contraddice alla libertà. Un momento di incertezza è creato dall’in
terpretazione occasionalistica di questo corno del dilemma, ma diamo
ragione a Leibniz nel respingere come paralogismo siffatto argomento.
Come interpretazione coerente sia con la logica sia col presupposto della
volontà libera non resta che quella per cui la previsione divina è solo dei pos
sibili, mentre la scelta esistenziale resta appannaggio dell’uomo in punto di
farla. Se Dio volesse includere nella sua sapienza anche la spiegazione e la
previsione di questa scelta, ciò ridurrebbe l’uomo a un ente di natura, come
un minerale di cui una previsione illimitata saprebbe predire lo stato attua
le, se mancasse ogni altra iniziativa. Ma abbiamo già escluso che leggi natu
rali, anche se ignote, siano determinanti di teleologie liberamente poste. La
delimitazione della prescienza ai possibili deve inoltre subire secondo logi
ca un’altra limitazione quanto al numero dei possibili, resi così possibili. Il
numero dei possibili deve essere almeno uguale a quello delle scelte teori
camente possibili, e questo numero, per quanto grande e anzi infinito, deve
nondimeno esserlo tutt’al più nel senso del limite del denumerabile, cioè
aleph con zero. Non si saprebbe neppure concepire in astratto una ramifi
cazione delle scelte che presenti dei nodi della densità del continuo, e
comunque l’infinito denumerabile è anche il limite di una memoria indefi
nitamente estendibile, corrispondendo al suo catalogo. D’altra parte, aven
do Dio creato il migliore dei mondi, secondo Leibniz, in base al computo
di tutti i possibili, è chiaro che anche un intelletto divino deve distinguere
il pensiero del possibile dall’intuizione del reale. Dunque anche in Dio la
sapienza del possibile è distinta dalla sapienza del reale, e quest’utima è limi
tata al presente quasi come la sapienza dell’uomo, non tenendo conto dei
difetti di approssimazione. Quindi anche la sapienza e la coscienza reali di
Dio, al presente, sono una funzione del tempo e in particolare della storia,
e l’eventuale definizione del suo ideale di giustizia deve tener conto anche
di quest’ultima e più inquietante variabile. Date le difficoltà pressoché proi
bitive del ragionamento delineato, si capisce perche la maggior parte dei
filosofi abbia preferito ripiegare sulla sua versione immanentistico-trascen-
dentale, proponendo la teodicea come un problema di autocritica raziona
le della coscienza morale di fronte a un tribunale che essa stessa si impone.
Tuttavia per chi crede nel bene e nel male in assoluto, si esige una risposta
se non diversa nella sostanza, quanto meno impostata diversamente, in
modo da non annullare un problema tanto faticosamente affastellato. Simil-
ESSERE E DOVER-ESSERE 233
mente nel Dies irae Tommaso da Celano rivolge a Dio l’invocazione affin
ché non sia cancellata l’immane fatica della Passione.
to a quello del sorpasso del pie’ veloce Achille, che sarebbe t. Nemmeno l’i
potesi di un big bang sarebbe d’intralcio alla meccanica classica (e infatti è
stata formulata in epoca posteriore), in quanto farebbe sorgere egualmente
il problema del tempo anteriore. È degno di nota che Agostino abbia dato
alla domanda una forma «classica», cioè quid faciebat deus, antequam face-
ret caelum et terram — pur opponendole una risposta non classica, nec ah-
quo tempore non erat tempus.
Proprio come dobbiamo fare noi. Anzitutto è necessario togliere l’argo
mento dal suo duplice inviluppo teologico, quello del tempo della creazione
e quello del disegno prefigurante un’intenzione divina. In altre parole, l’ar
gomento che è stato detto ontologico del Gottesbeweis, o prova di Dio, deve
potersi dare in versione cosiddetta fisico-teleologica, conservando la struttu
ra del disegno ma senza l’assegnazione a una sostanza. La prova ontologica
di Dio consiste essenzialmente nell’uso teologico del procedimento di defi
nizione astrattiva, che conclude all’esistenza di ciò che è rilevante per l’astra
zione. Questa prova, come si è detto a proposito della filosofia della mate
matica, non è conclusiva; poiché, per dirla in generale, non si può passare
logicamente dalla categoria semantica dell’aggettivo, sulla cui rilevanza si basa
l’astrazione, a quella ben diversa del sostantivo, presupponente un denotato,
al quale vorrebbe concludere l’argomento. Nella forma che gli ha dato Ansei
mo di Canterbury (o d’Aosta), Dio è definito astrattivamente come aliquid
quo maius nihil cogitaripotest, e ciò è messo in evidenza dall’operazione stes
sa di intelligere da parte deWintellectus. Ora, senza spostare una virgola, l’in
tellezione della frase può diventare sibillina. Normalmente, ma seguendo la
semantica dell’aggettivo, se ne considera l’esito secondo il comparativo e
quindi il superlativo relativo, e si è indotti così al limite che termina l’inten
sificazione, Valiquid al di sopra di rutto. Ma si potrebbe altrettanto bene fis
sare la mente sulla stretta intellezione sostantivale della frase, in cui è il nihil
substantivum ciò di cui non si può pensare alcunché di maggiore, perché allo
ra sarebbe qualcosa e non il nulla. In questa interpretazione non si può oltre
passare il nulla da cui si parte, e l’argomento si elimina da sé. Dispiace in que
sto dover tener la parte di Gaunilone cui, sebbene per un’altra ragione, si è
convenuto da tempo immemorabile di far svolgere la parte di villain dell’ar
gomento dialogato. In ogni modo anche Gaunilone converrebbe che il fatto
che l’argomento non dimostri quel che vorrebbe, non vuol dire che Dio non
esista. Anzi, il procedimento di Sleigerung o intensificazione dell’aggettivo
mostra che il suo senso non sostantivale è legittimo, anche se non può con
cludere all’esistenza come all’isola incognita di Utopia.
ESSERE E DOVER-ESSE RE ^35
trale, nel senso che non esiste separatamente né un mondo né l’altro. Solo
la fisica classica, ma per ragioni di metodo, è apparsa consegnata alla visio
ne di un sistema di mondo ateietico.
Per la riconsiderazione della teleologia in senso forte, o oggettivo, erano
necessarie due condizioni tra loro interdipendenti, che sono state soddisfat
te dalla scienza naturale contemporanea. La prima è formale, e consisteva nel
far vedere che la descrizione di un processo in linguaggio matematico è indi
pendente dal fatto che esso segua leggi meccaniche o teleologiche, purché l’e
vento sia regolare o se ne possa spiegare l’apparente irregolarità. In partico
lare, data la nuova definizione di evento come decorso spazio-temporale, che
sostituisce vantaggiosamente il concetto di una cosa istantanea, relativa a una
sua sezione, si è apena la possibilità di intendere i rapporti diacronici tra pri
ma e dopo, e anche tra dopo e prima, come relazioni strutturali vigenti anche
nel presente, quando cioè il futuro, benché implicito, non esiste ancora. La
concezione strutturale dell’evento, in altri termini, rende comprensibile sin-
cronicamente anche ciò che quanto a presenza è diacronico, e toglie con que
sto semplice atto rappresentativo ogni paradosso temporale all’idea di una
causalità che (formalmente) vada dal dopo al prima. A parte questo, se l’o
biettività delle scienze fisiche dipende da quanto in esse c’è di matematica,
giusta l’ammonimento kantiano soviel Mathematik, soviel Wissenschaft, la
dimostrazione dell’oggettività della teleologia è offerta dalla «teoria dei siste
mi» di Bertalanffy. Benché incentrata prevalentemente sulla biologia, la teo
ria dei sistemi presenta un vasto spettro di possibili applicazioni, dalla fisica
e chimica dei sistemi aperti, attraverso la biologia molecolare e degli organi
smi, alla psicologia e psichiatria fino alle scienze umane e alla stessa storia.
Inoltre essa offre una compiuta trattazione formale matematica del concet
to di sistema che, partendo dai lavori di Volterra, Lotka, D’Ancona, Gause
e altri, perviene alla definizione delle equazioni non-lineari (che permettono
l’espansione in serie di Taylor) come strumento che forma la chiave analiti
ca della ricerca. Non è qui il caso nemmeno di tentare un sommario di tale
arricchimento problematico, il cui nuovo stile è già da tempo la caratteristi
ca più saliente delle scienze àe\Vinformazione. Basterà dire che le questioni
coinvolte dalla teoria dei sistemi sono tali e tante, che in sua assenza non
avrebbe potuto svilupparsi, per scegliere un esempio tra i molti possibili,
nemmeno la sociologia di Luhmann.
Nota bibliografica
Etica e politica
La servitù, il potere, il comuniSmo
della materia un atomo più massiccio presenta delle cariche più compresse,
e quindi il volume complessivo risulta alla fine quasi uguale a quello di un
atomo più leggero e soave; ma non sempre è così, si provi per esempio a
immaginare un tam-tam di onde gravitazionali prodotte dal big bang (come
all’inizio dello Zarathustra di Strauss). Certamente l’astrazione non segue la
politica della verosimiglianza, o l’esigenza di fornire una immagine intuitiva
del mondo! In ogni modo nelle scienze sociali essa persegue un obiettivo del
tutto diverso, che è quello di metterci in condizioni di riflettere su quel che
comporta l’applicazione il più possibile pertinente di certi princìpi. Sotto
l’impero della definizione, cioè dell’essenza di quanto abbiam detto rilevan
te, nelle scienze sociali noi ci lasciam guidare dal solo lume dell’astrazione,
non potendo seguire contemporaneamente e in maniera sintetica il risultato
forse diverso cui perverremmo per definizione astrattiva di altri princìpi logi
camente possibili. In questo modo l’obiettività sancisce il suo doveroso
divorzio dall’esistenza, e non avrebbe senso chiedersi né quali astrazioni esi
stono poi in realtà, né fin dove l’astrazione possa spingersi per non abban
donarne il terreno. La risposta sarebbe sempre che le astrazioni non esisto
no, a meno di non idealizzare la realtà, e che meglio sarebbe stato per l’uomo
non essersi mai cibato dei frutti della sapienza. Ma questo non lo diciamo sul
serio, gli stessi apologisti parlano di felix culpa, in proposito.
perseguire senza riguardo del parere transeunte dei singoli individui. Evi
dentemente ci sarebbero degli scontenti, forse la maggioranza, ma in un
modo di pensare essenzialistico questi andrebbero annoverati tra gli incon
venienti momentanei. La prova elettorale del suffragio sarebbe in questo
caso rimandata a dopo la riforma. È chiaro che questo tipo di dittatura non
è in diretto contrasto con la piena democrazia, né può esser confuso con la
tirannide, intesa come dittatura per la dittatura. Credo che accetteremmo
tutti dieci anni di stato di polizia, se questo bastasse a eliminare la mafia, gli
spacciatori di droga e gli evasori fiscali. Le nostre diffidenze sono di diver
sa origine, e ben altrimenti giustificate; ma non bisogna lasciarci distoglie
re dal razionale di questa discussione per il fatto che oggi come oggi non è
prudente nemmeno parlare di dittatura o di egemonia. Tutta l’esperienza
storica ci rende diffidenti verso questa specie di soluzioni di principio, ma
bisogna sviscerare fino in fondo le conclusioni del pensiero essenzialistico.
Rousseau ci ha insegnato a vedere nella volontà della maggioranza l’e
spressione della volontà generale. Va bene, abbiam capito. Ma un primo
inconveniente è dato dal fatto che vale come volontà generale sia il cin
quanta per cento sia l’ottanta per cento dei votanti, e che in certi sistemi elet
torali non proporzionali il quorum può essere del trentasette per cento.
Rousseau non ci dice nulla circa la formazione di questa volontà generale,
e neppure se il responso delle urne vada ripetuto ogni anno, o ogni 50 anni.
Una riforma può richiedere più di venti anni per essere attuata, e sarebbe
ingiusto interromperla ogni sei mesi per chiedere il parere della gente. Chia
ro che ragionando in questo modo si giustifica anche Stalin, che vide inter
rotto dalla guerra il terzo piano quinquennale. Se ci rifacessimo a Kant,
saremmo ancor peggio consigliati. Per Kant i princìpi morali, quindi anche
quelli politici, sono immediatamente certi a priori. Perciò dal punto di vista
di Kant, anche se lui non l’ha detto, possiamo partire dal principio che
chiunque non sia comunista, è un disonesto. Questo principio si deduce
immediatamente dalle «massime» della ragione pratica. In questo modo la
legge elettorale sarebbe enormemente semplificata. Tuttavia, se alcuni
comunisti volessero le autostrade e altri comunisti le ferrovie, ci ritrove
remmo al punto in cui siamo ora, in cui è evidente che tali decisioni non
vengono fuori da un responso elettorale. In tanta incertezza di principio,
che finisce con l’attenuare l’opposizione tra democrazia e dittatura, si può
essere indotti a pensare che una certa dittatura, temporanea e garantita costi
tuzionalmente, abbia quanto meno il vantaggio di rafforzare l’esecutivo, nel
senso non decisionale ma dell’efficacia penale.
ETICA E POLITICA
247
to delle persone nei limiti di età utili, mentre il rimanente novanta per cen
to potrebbe tranquillamente fruire di tale fonte di reddito in maniera paras
sitarla. Ma non esistono più le famiglie di consistenza patriarcale, né le case
0 fattorie agricole, che pur inefficienti a produrre reddito risolverebbero
forse in maniera ottimale il problema distributivo. Si è trovato più efficace,
dal punto di vista politico, il rimedio di inventare dei lavori inutili che però
servono a tenere occupata la gente.
Teorizzando il pieno impiego in una società del benessere, Keynes soste
neva una tesi in apparenza paradossale. Se si prendono degli operai disoc
cupati, gli si fanno fare delle buche in terra, e poi, quando hanno finito di
scavarle, si continua a occuparli perché riempiano di nuovo quelle buche:
questo è il modo di mantenere in efficienza l’economia in un’epoca di pie
no benessere. Questo ragionamento offre una giustificazione al fatto che,
in condizioni normali, ci sono sempre lavoratori produttivi e utili, e lavo
ratori più o meno improduttivi o inutili; entrambi però costituiscono una
massa d’impiego necessaria per il buon andamento dell’economia, la quale
non ha solo il problema della produzione di beni, ma anche quello del loro
consumo. In realtà poi non siamo in grado di stabilire quali lavori siano pro
duttivi e utili, e quali no. Noi siamo solo in grado di constatare, con una cer
ta approssimazione, da quali settori produttivi provengano le offerte d’im
piego. Ma nel costituire questa domanda intervengono insieme confuse
considerazioni di carattere economico e di carattere sociale e politico. In
Italia per esempio ci auguriamo che ben venga una legge sui beni culturali,
che impieghi un certo numero di persone qualificate per inventariarli, custo
dirli, studiarli, dirigere la cura e la frequentazione dei musei, rendendoli
accessibili al pubblico, intrattenerlo con conferenze, e così via. Avrei anzi
in niente una legge che darebbe lavoro a parecchie persone, tra i laureati in
Lettere o in Legge, perché in Italia c’è la metà di tutti i beni archiviabili del
mondo, tra rovinati o meno, e certo conviene conservarli gelosamente. E
questa specie di attività non sarebbe nemmeno in passivo, fatti i dovuti pas
si. Sappiamo inoltre che la questione del passivo è in gran parte uno pseu-
doproblema: un lavoro improduttivo è passivo solo nel momento in cui lo
si costituisce. Una volta che lo si sia costituito, che la comunità si sia assun
ta l’onere di creare ex novo tale posto di lavoro, questo (e sia pure il lavoro
di aprire delle buche per poi riempirle) dopo non costa più nulla. Infatti il
salario dato al lavoratore per l’incombenza viene poi da questi tutto speso,
quindi è denaro che ricicla senza praticamente costare nulla alla comunità
che lo contiene (non calcoliamo il lieve ritardo che la mediazione del sala-
NONA LEZIONE
254
che il suo nome non è registrato in alcun archivio. La libertà dell’uomo esi
ge quanto meno che lo si metta agli arresti, in attesa di accertamenti. Ma
nemmeno si può sostenere che un uomo e una donna, per il fatto d’esser
giaciuti insieme, sono già eo ipso marito e moglie, padre e madre, potendo
si dare il caso che siano entrambi sterili o che non abbiano l’intenzione di
procreare, né di sposarsi. Sempre in nome della libertà selvaggia, è fuori luo
go pretendere che il comportamento sessuale si componga di atti perfetta
mente responsabili; non è tale il suo ufficio. Se si fosse capaci di ripassare il
catechismo dell’educazione sessuale prima di acconsentire all’atto, soppe
sando i prò e i contro, tanto varrebbe astenersene. Ma non bisogna dimen
ticare che il sesso è indispensabile al giovane; e che anche quando l’appeti
to sarebbe in sé resistibile, invincibile diventa il desiderio di provare a sé e
al partner che si è capaci di soddisfarlo. Una volta un moralista che non
mancava d’umorismo disse che, secondo una stima prudente, di amore al
mondo ce n’era almeno cinquecento volte più di quanto occorresse per assi
curare la sopravvivenza della specie umana. La natura, si sa, concepisce sem
pre le sue imprese con largo margine di sicurezza; e vorremmo sapere da ur
bioetico se non trova anche lui un po’ depressivo accostare un partner ame
roso con l’idea di coinvolgerlo in attività riproduttive e di allevamento. Ave
figli c prendersi di loro cura, crescerli ed educarli, è senza dubbio una delle
gioie più piene e complete: ma a trent’anni; non a quindici. Questo è uno
dei casi in cui diventa maggiormente palese la sproporzione tra, diciamo, il
delitto e la pena; ovvero, per meglio dire, tra il motivo intimamente vissu
to dell’atto sessuale e le conseguenze possibili, benché preterintenzionali,
del suo significato.
Parlare di infanticidio è molto crudo, eppure è stata la pratica anticon
cezionale più diffusa dell’umanità posta in tali frangenti. Propriamente par
lando, l’infanticidio è la soppressione di uno che è già nato. In tutti gli altri
casi, l’aborto volontario e un’interruzione di gravidanza. Dovrà pure esser
ci una differenza tra il momento in cui l’ovulo viene fecondato e il momen
to in cui l’embrione, rompendo le acque, viene alla luce! La differenza
indubbiamente c’è, e tutti possono vederla. In apparenza, ma ipocritamen
te, il problema sembrerebbe di bioetica: ma la natura non ha morali di sor
ta. 11 problema sta esclusivamente nella decisione; si tratta di stabilire se a
sei mesi, o tre, dall’inizio non sia più lecito interrompere volontariamente
la gravidanza. E questa è una decisione che non può esser selvaggia, ma che
dobbiamo prender tutti insieme, costituzionalmente. Non si dica che l’o
micidio non può esser legalizzato, a nessun titolo. L’omicidio è tranquilla-
n o n a l e z io n e
2 $6
mente ammesso: sia per difender la patria, sia per legittima difesa. Anche
l’eccesso demografico è un male estremo da evitare, e l’anticoncezionalità
è. nell’intenzione, legittima. Se non provvedessimo a stabilire efficaci mez
zi contro la crescita ormai esponenziale della popolazione, alla fine ci pen
serebbe la natura a ristabilire comunque l’equilibrio. È vero che i mezzi
anticoncezionali, massime l’aborto, sono più o meno ripugnanti; ma di
fronte alla gravità del problema, è frivolo fare questioni di estetica.
Una delle conseguenze di questo mutato ordinamento è una ridefini
zione del rapporto tra genitori e figli, dal punto di vista dei figli. I figli che
abbiamo sono evidentemente nati, e questo vuol dire che non li abbiamo
fatti abortire. Questo non garantisce loro, automaticamente, il migliore
affetto possibile da parte dei genitori. Ragionando in maniera controfat
tuale. il genitore si convince facilmente che ha voluto il figlio con un atto di
creazione per Io meno in adiecto responsabile; ma questo è il vissuto del
genitore, non del figlio. Il genitore deve guardarsi bene dall’aver l’aria vaga
mente eroica dell’almo e provvido sostentatore di prole: il figlio sa bene che
è anche colui che poteva non farlo nascere, e non può essergli grato di non
averlo fatto. Divenendo faccenda di rutti, l’anticoncezionalità appartiene
anche ai figli prima d’essere in età di procreare; e non c’è dubbio che su ogni
dove aduggi con essa uno stato d’animo vagamente depressivo, che non si
avvertiva quando eravamo più innocenti, e inconscienti. Almeno sappiamo
la ragione, perché i figli a un ceno punto tendono a uccidere i padri, vendi
candosi. Speriamo sia solo per metafora.
S. Bisogna rendersi conto che non rutti i problemi politici hanno, perciò
stesso, la loro soluzione; e meno che mai, se l’hanno, questa è una soluzio
ne ottimale. Tra i problemi che si possono immaginare ingranditi nel futu
ro c'è quello, già grave, del rapporto tra l’integrato (in) e l’escluso (da) una
stessa società. Di ciò abbiamo già parlato più volte, ma mi preme rammen
tarlo qui. Altri corollari degli stessi princìpi che reggono il vivere civile sono
l’uniformità e il suo apparente contrario, l’individualismo. Una vita sociale
che si ispiri alla democrazia automaticamente incoraggia l’uniformità. Non
siamo mai andati tanto vestiti in divisa che da quando impera la moda del
casual. Chi viaggia in Rolls Royce con l’autista è si diverso da chi va in Fiat-
Tipo. ma solo se ci si guarda e si è anormalmente invidiosi; in ogni modo, a
questo si può rimediare con la cosiddetta personalizzazione, uno degli arti
fici pubblicitari più irritanti. E che dire dell’individualismo? È chiaro che
anch’esso è l’effetto di quel nascosto numero di Avogadro che regge le nor-
ETICA E POLITICA 257
formano i deliri del già risaputo. Berdjaev, che scriveva sotto l’incubo dei
grandi rivolgimenti sociali del suo paese, disse una volta che purtroppo le
utopie sono realizzabili. Non per nulla questa citazione di Berdjaev com
pare in epigrafe a Brave New World, di Aldous Huxley, il più famoso
romanzo antiutopistico del nostro secolo (1931). Ma senza voler toglier nul
la al valore profetico di tale finzione, che è davvero considerevole giudi
cando già da ora, e non tra cinquecento anni, noi vorremmo considerare
l’intero prodotto di quel tipo di immaginazione poetica come una sindro
me della frustrazione derivante dal successo. Di che successo si tratta? Nel
l’immaginario, è il successo che arride alla politica che sappia avvalersi del
la tecnologia, per toglier di mezzo i tanti impedimenti di natura particolare,
casuale o banale, che hanno finora ostacolato, frantumandola e rendendola
irriconoscibile, la volontà di realizzare il grande disegno. Nella fantasia que
sti inconvenienti possono essere facilmente rimossi, tanto più in quanto essi
prendono origine dall’interesse particolare degli uomini, che, considerato
nel suo effetto d’insieme, è esteticamente irritante come un quadro in cui
appaia dipinto un gran polverone. L’applicazione intelligente della tecnolo
gia è il piumino di cui si serve l’immaginazione per togliere la polvere dagli
oggetti (persone, azioni e cose) che devono comparire nel quadro. Questa
semplificazione viene ulteriormente accentuata dal fatto che gli oggetti in
questione non sono esistenti, ma devono essere immaginati come futuri.
Nell’immaginare un futuro diverso da quanto ci è abituale, per il duplice
effetto dello spolveramento e del trionfo tecnologico, non ci sarà di che stu
pirsi se si ottiene un effetto semplicistico, attraverso la supersemplificazio-
ne. La fantasia può imprimere una grande vividezza alle sue immagini,
basandosi sul potere raffigurativo e la pregnanza intuitiva dell’immagina
rio, ma non può competere con la realtà presente, specialmente dove que
sta assume il suo aspetto prevalente di molteplicità di particolari prolife
ranti, forse in sé importanti, ma disordinati e caotici per ogni infastidito
osservatore. La sindrome di cui s’è detto, di frustrazione da successo, si può
così più banalmente spiegare come effetto del «pugno di mosche» che uno
si ritrova in mano quando, dopo esser riuscito a ridurre drasticamente la
complessità del mondo ricorrendo a moduli ripetitivi di articolazione ana
litica, deve fare i conti con la sua stessa tautologia fantasmatica. Si obietterà
che questo vale forse per il successo immaginato, o proiettato nel futuro;
non però per quella frustrazione che prende dopo un successo reale. Può
darsi; ma il nostro argomento era diretto contro le fallacie dell’immagina
rio. Del resto, chi può dire quando il successo e per davvero reale? Non si
ETICA E POLITICA
259
te come conviene le une nei confronti delle altre, così da permettere ad arbi
trio personale lo scambio di appartenenza nazionale, o quanto meno quel
lo delle esperienze, mediante comunicazione liberamente comunicabile, in
un confronto aperto a tutti.
Il rivestimento ideologico dell’argomento, inevitabile quando si parla di
democrazia come valore in sé, non deve tuttavia offuscare il fatto che si trat
ta di una democrazia non ideale, ma di compromesso, ricavata com’è da
varie ricette che combinano secondo molteplici alchimie concettuali il pro
vento reale, perché ripetibile e quindi in potere dell’uomo, di quattro rivo
luzioni sociali che appartengono alla storia mondiale: la rivoluzione ingle
se, liberale e incruenta, del 168S; la rivoluzione francese, giacobina ma
transeunte, del 1789; la rivoluzione americana, jeffersoniana e puritana, del
1776; e la rivoluzione russa, bolscevica ma revisionista in bene e in male del
1917 (si noterà il tipico anacronismo europeo, lieve ma tendenzioso, di met
tere la rivoluzione francese prima di quella americana). Considerata come
il prodotto storico delle quattro rivoluzioni menzionate, questa idea di
democrazia non si è dunque imposta come tale se non dopo molti tentativi
ed errori. Il fatto che oggi se ne possa proporre positivamente una certa sin
tesi, facendo perno su tendenze che potrebbero differenziarsi con intenti
difformi, e perfino centrifughi, deve giovare a rammentare che quel che oggi
chiamiamo democrazia in accezione eulogica, è stata a lungo ed è tuttora
una realtà valutabile ben diversamente. In effetti la democrazia è una con
figurazione di interessi destinata a far emergere una certa media, dall’am
ministrazione non troppo accurata e facilmente corruttibile, di un’efficien
za non proprio entusiasmante, e che si è imposta non con le lusinghe del
sistema idealmente perfetto di governo, ma piuttosto come inevitabile
razionalizzazione dell’impossibilità di far meglio. La democrazia è anzitut
to razionalizzazione secondo un profilo basso e decisamente non weberia-
no; lo è nel senso della semplificazione rassegnata agli usi già in atto, che
non conviene contrastare con «grida-, oltre che noiose, inutili; lo è infine
nel senso più derogatorio e perverso della pratica di accettare, quasi fosse
un dettame della ragione, quanto dobbiamo accettare perché soverchiati dal
numero. Dal punto di vista dei governanti, il riconoscimento che la demo
crazia è una razionalizzazione imposta dalla constatata impossibilità di
governare in altro modo le masse recalcitranti, deve talvolta imporsi come
un incubo, poiché ciò equivale al riconoscimento che si governa nell’esatta
misura in cui si è governati, secondo una dialettica servo-padrone che non
si rovescia perché è già in corto circuito. L’appellativo del vescovo di Roma,
ETICA E POL1TIC/X 2ÓI
servus servorum dei, che appariva sublime solo in quanto era ipocrita, cioè
non era di fatto quel che faceva le viste di essere, diventa minaccioso se
assunto nella sua demoniaca letteralità di autogoverno senza mediazione
etico-politica. Di fatto, diventa effettiva protagonista della democrazia pro
prio la folla, apolitica e renitente, ineducabile alla disciplina di un progetto
e sempre minacciosa, anche nelle sue manifestazioni di momentanea unani
mità. La democrazia è quindi, nella sostanza, il tentativo abbastanza falli
mentare di contenimento ragionevolmente repressivo di una altrimenti
incoercibile spontaneità. L’unico sistema di governo di provata efficacia usa
to per addomesticare le masse riluttanti è stata la crisi economica e il suo
parente prossimo, la guerra di tipo mondiale, nelle due edizioni del 19140
del 1939. Ma si tratta di un mezzo esiziale per gli stessi governanti, e l’uso
dell’economia in funzione della politica (dunque l’esatto contrario del prin
cipio del materialismo storico) non rientra nemmeno nella teoria di un
governo democratico. Si può riassumere questa complessa situazione dicen
do che il pensiero politico del XX secolo è stato in gran parte destinato allo
scopo di formulare in senso positivo un’eredità trasmessa dal passato in
maniera casuale c tumultuosa. Si tratta di prospettive politiche che, se pre
varranno, diverranno più perspicue nel futuro.
In teoria l’intervento dei cittadini è determinato da una libera scelta che
tuttavia è prefigurata da uno spettro di partiti politici. Di recente, e contra
riamente all’ormai antico parere dei costituenti, i partiti si sono configura
ti come enti di diritto privato che si reggono in base a una sovvenzione pub
blica: qualcosa di mezzo, insomma, tra le società anonime e gli enti stabili.
Forse si può dire che il sistema dei partiti (al plurale) è diventato una strut
tura dello stato (al singolare). La formula poco importa, in sostanza. Negli
altri paesi, se più privatistici, la tradizione consolidatasi in certi usi può ave
re più peso che non le nostre discriminazioni legali di diritto pubblico e pri
vato. L’intenzione del sistema dei partiti è di offrire una scelta differenzia
ta nelle opinioni, nei programmi elettorali e nelle tradizioni storiche, che
ricoprono tutta la rosa delle opzioni legalmente sostenibili percorrendo un
indice da sinistra a destra. Ma è successo che la legge delle distribuzioni del
le opinioni segue all’ingrosso una curva di Gauss, con l’ammucchiata al cen
tro, c quindi invano si cercherebbe una differenziazione decisiva compa
rando le opinioni c i programmi dei vari partiti. Evidentemente questo
sistema presenta un’articolazione ancor troppo grossolana, o quanto meno
irrilevante rispetto ai problemi da discutere, ed è facile preconizzarne il rapi
do deterioramento; meno facile è immaginare con che cosa esso debba esse-
2Ó2 NONA LEZIONE
ciano pure spicco i letterati, i poeti, oltre ai musici e agli altri artisti piutto
sto che i filosofi, gli scienziati, gl’inventori e gli statisti, dimenticando le bat
taglie e le stragi, nonché le date d’infausta gloria! Nemmeno il ricordo del
l’impresa più ardua, e riconosciuta da tutti invidiabile, può esser di conforto
all’individuo compreso nella sua suprema realizzazione. Questo momento
culminante, in cui l’individuo è solo con se stesso, è solamente per se stes
so, escluso da ogni rimando ad altro e da ogni ulteriore provvisorietà, in cui
non può nemmeno fingere, perché non avrebbe più senso farlo, è la pura
accettazione teleologica della propria morte. Non la morte che capita per
disgrazia, quando non si ha il tempo di riflettere, e nemmeno la morte per
una malattia contro la quale fino all’ultimo si lotta, e non è il momento adat
to per meditare, ma la morte in cui si realizza il proprio inserimento nell’e
ternità. Naturalmente l’idea di una sopravvivenza di quella parte del nostro
io, che è l’anima, come cassa di risonanza, o di uno spirito immortale, non
è che una maniera, nemmeno tanto abile, perché inautentica, di negare l’e
vento sempre incombente dell’irruzione dell’eterno a termine assoluto del
la vita. Parleremo piuttosto dell’uomo in punto di morte, nella sua accetta
ta prossimità. Questi sono ancora eventi del vissuto, su cui si stende
agghiacciante l’ala dell’eternità. La prossima lezione, che di fatto non è sta
ta mai tenuta, prende l’abbrivo dalle riflessioni su Spinoza e la conclusione
dell’individuo compiute dal mio amico Enrico Maria Forni, in alcune pagi
ne pubblicate poco prima di morire, il 15 novembre 1988.
Nota bibliografica
Morte e finitezza
L'amicizia e la trasmissione del progetto oltre la fine
ni, queste, che denaturano l’evento a fatto interlocutorio, per metà accetta
to e per metà negato, e che rimandano l’esito ad altra decisione. A tale spe
cie di consolazione della speranza vana bisogna dire che la filosofia è sem
pre stata fieramente avversa. Altre scienze allargano il circuito della
comunicazione nell’inautentico della morte: la medicina innanzi tutto, per
cui la morte è data dalla presenza del cadavere; la psicologia, cui spetta di
riflesso l’interpretazione dei sogni e l’angoscia della morte; l’urbanistica dei
sepolcri; la sociologia e la storia, e le altre scienze umane. Ma nessuno di
questi discorsi, generali o speciali, ci aiuta però a comprendere l’evento «nel
suo significato esistenziale e a intrattenerlo in anticipo prima della sua
incombenza»'. Il discorso filosofico ha un’altra chance, quella di definire in
negativo il finito a partire dall’infinità del campo totale.
La morte, dice Aristotele, è una sorta di perfezione, definitiva e chiusa in
se stessa: una t e /.e u t É]. Heidegger commenta che tale è la perfezione struttu
rale di ciò che, come possibilità ultima, è anche culminante, poiché non
ammette più il rinvio ad altre possibilità non presenti, ma future, quindi non
autentiche né autoreferenziali. Ma il significato della morte, come lo com
prende Aristotele in senso positivo, è biologico. Dopo i 40 anni, quando cioè
l’individuo umano raggiunge la sua ù.xpq e con ciò il massimo di èvreXéxeia,
egli può tranquillamente sparire e la specie umana durare in eterno, o alme
no quanto a lungo essa vuole. Questo pensiero è stato completato e raffor
zato dagli evoluzionisti, i quali anzi vedono nella morte dell’individuo un
mezzo che consente il perfezionamento della specie, il prolungamento del
l’entelechia evolutiva. La morte è un’invenzione che il genio della specie ha
escogitato per superare il principio di conservazione dell’individuo e perve
nire a quello, superiore, della conservazione e anzi del perfezionamento del-
la specie. Questo ragionamento ha una sua validità, non solo biologica.
Anche storicamente si può arguire che, se vivessimo in media due o trecen
to anni (come vuole G. B. Shaw in Back to Methuselah) anziché i soliti cin
quanta o ottanta, noi ci troveremmo ancora nel medio evo... ellenico! Ma è
anche la osservazione più estrinseca che si possa fare in merito.
Sul versante opposto, preoccupato di liberare l’uomo dalla paura della
morte, il metus nocturnus, troviamo naturalmente Epicuro. «Nulla è per noi
la morte»-, t ò v OdvaTOV p.qòÈv Etvai Jtoòq 7|p.ù.c;; «infatti ciò che è dissolto è
insensibile, e l’insensibile è nulla per noi-, egli dice. È inutile analizzare in
dettaglio questa concisa osservazione, del resto di una chiarezza che nulla
lascia a desiderare. Forse non occorre nemmeno dire che questo ragiona
mento è ancora più esterno dell’altro. Perche, se tutti abbiamo coltivato la
MORTE E UNITEZZA ^7
speranza che i nostri figli fossero biologicamente più dotati di noi, a nessu
no credo sia venuto in mente che la paura della morte sia dovuta al pensie
ro dell’oltretomba. Caso mai è vero il contrario: è il senso di colpa di una
vita non realizzata, ma rimediata alla meglio per mezzo di illecite, furtive e
occulte compensazioni che genera la razionalizzazione immaginaria di un
giudizio universale, dal quale la giustizia punitiva si distribuirà equamente
su tutti i peccatori. Forse la dottrina di Epicuro, non pensare a ciò che ti ren
de infelice la vita per paura della morte, poteva godere di una certa entrata
presso il ceto relativamente agiato, senza responsabilità sociali né doveri
politici, del mondo antico. È escluso che trovasse comprensione, non si dice
simpatia e accoglienza, da parte del travagliato uomo-massa delle stermina
te plebi dell’epoca tardo-antica e ancor più medievale. Eppure qualsiasi
ricognizione storica ci obbliga a ritrovare la nostra pregressa identità par
tendo non da quei relitti della civiltà ellenistica ormai disfatta, ai quali
abbiam finito noi moderni col rassomigliare, ma proprio dal comune uomo
della plebe, senza vestigi di nobiltà o arte. Almeno per noi occidentali, la
storia ricomincia daccapo intorno al minimo dei secoli IX-XI, del tutto come
se si fosse avverato il compimento del millennium.
2. La filosofia della storia non esiste al di fuori dello spazio evocato dal
la domanda: dove ci conduce la storia? Non si dica che è una domanda
impossibile, anche se resta per sempre senza risposta. Un po’ meno ina
dempiente è l’altra questione, quella reciproca: da dove siam giunti fin qui?
La risposta presuppone un’identificazione, senza la quale non è possibile
ridiscendere lungo il pozzo del passato. E dato che il filo si dissolve nella
lontananza, l’unica risposta possibile prende le sembianze del mito. Da que
sto periplo recuperiamo il presente. Nella Sorcière di Michelet sono descrit
te le due grandi crisi di massa della mentalità popolare, quella che culmina
nel Xiil secolo e quella che si concentra nel XVII. Nel dare espressione poe
tica, vale a dire visionaria e profetica, alla sua ampia sintesi del decorso del
la stregoneria, lo storico muratoriano, così attento agli archivi, ai documenti
e monumenti di cui lascia traccia il pensiero, si compiace di raccontare l’e
vento attraverso le riedizioni di una favola antica, La fidanzata di Corinto,
che narrata da Flegone, il liberto di Adriano, si ritrova nel secolo Xll e si
ritrova nel secolo XV1 con due interpretazioni notevolmente diverse. In bre
ve, la storia è questa. Un giovane d'Atene si reca a Corinto, in casa dei
parenti della fidanzata che egli vuol prendere in moglie. Ma egli non sa,
essendo rimasto pagano, che la famiglia con cui intende imparentarsi s’è fat-
268 DECIMA LEZIONE
del Don Giovanni di Molière (e di Mozart) che è nobile finché resta inac
cessibile al pentimento, del Faust di Marlowe (e di Goethe) in cui l’identità
muta partito per esplorare le possibilità di un altro modo di essere. Questa
seconda crisi, che Ariès descrive come quella della «grande paura», e ora ne
capiamo il perché, viene considerata un’espressione della mentalità baroc-
ca. L’uomo barocco, dice Enrico Forni, parla pur sempre di Dio, delle sue
convinzioni religiose e dell’anima immortale; e il mondo intorno a lui è abi
tuato a ragionare sulla base di credenze che erano ferme e solide per tradi
zione. Ma «sotto la superficie di tali credenze», pur sempre «sostenute dai
pilastri di un’argomentazione lucida e scientificamente distaccata, prende
però corpo un sentimento ossessivo», che è alla radice della tensione «tra
un elemento discorsivo enunciato alla luce del sole e un elemento sommer
so che cogliamo dal valore espressivo di molti indizi», soprattutto sotto for
ma drammatica. «Si tratta dell’ossessione del “nulla”»; e, costretto da detta
tensione alla dialettica «assoluto-nulla», l’uomo barocco si esprime sulla
morte secondo i canoni del genere drammatico, che non gli consente un
atteggiamento non partecipativo di condiscendenza, degnazione o distac-
co. In più, «è il dramma consumato nell’esperienza vissuta che insegna del
l’insoddisfazione del desiderio come mancanza, del senso di privazione del
la coscienza che sa di un essere che la oltrepassa». Così «finitudine, errore,
rischio sono contrassegni, indizi del nulla nel ritorno all’assoluto della
“coscienza infelice”»; «e da Descartes fino a Pascal si rinverrà la grandezza
dell’uomo nella possibilità del suo scacco esistenziale, che è anche possibi
lità di una sua accettazione dell’assoluto». La crisi dell’identità smentisce
anche la concomitanza, il mutuo rinforzo di sentimento e ragione; di que
stodécalage che sormonta la differenza tra il soggettivo c l’oggettivo è
responsabile la nuova concezione scientifica del mondo, il cui apparato di
concetti trascendentali, benché tuttora in formazione, è già forte abbastan
za per porsi come alternativo alla teologia. Alla radice della «grande paura»
c’è sempre la tentazione di riconoscersi nelle sembianze del mondo alieno,
al quale solo il sentimento resiste ancora.
Il ripudio o il mutamento di alleanza tra sentimento e ragione, nella
distretta dell’incertezza, acuisce ed esaspera la tragicità della morte, dove al
nulla decretato dall’intelletto si contrappone solo emotivamente la totalità
della nuda speranza. «In Pascal c’è l’avvertenza che solo una passione più
forte può vincere un’altra passione»; ma nel teatro di una tragedia, dove
«non si tratterà mai di una passione che abbia positività cognitiva, capace in
quanto tale di vincere una inclinazione irrazionale». La concezione mecca-
27O DECIMA LEZIONE
DECIMA LEZIONE
272
nei ritratti, negli entretiens, nelle lettere dei moralisti». A questo punto con
dividiamo il sollievo dell’autore, quando si limita a esaminare la XXVI lette
ra a Lucilio (Ep. xxvi a).
La lettera, com’è noto, è principalmente dedicata a mettere in rilievo i
vantaggi della vecchiaia, sul finire della vita, come un’età che nell’assopi
mento delle passioni può far rifulgere meglio l’astro della saggezza. Ed è
interessante qui notare come l’etica di Spinoza sia, quasi punto contro pun-
to^direttamente contrastante gli argomenti della morale, che si dice stoica,
di Seneca. Seneca esordisce dicendo di essere non solo vecchio, ma sull’or
lo della tomba. Tuttavia «l’animo è valido e si compiace di avere scarse rela
zioni col corpo», così che «questa età costituisce [per lui] il fiore della vita».
Ora, ribatte Forni, «che l’anima, idea del corpo, possa fiorire in un corpo
languente, è inconcepibile in una prospettiva spinoziana intesa sia nella let
tera o nello spirito». In Spinoza la salute è una certa proporzione (ratio} che
le pani del corpo hanno tra loro, in modo da acuire al massimo la sua capa
cità di sentire (affici} e di farsi sentire (ad afficiendum)', non è per lui ipo
tizzabile una debilitazione che esalti selettivamente la ricettività, sia pur
quella peculiare al saggio. Il testo parla chiaro: «ciò che il corpo umano così
dispone, da potere essere affetto in più modi, o che lo rende atto a farsi sen
tire in più modi sui corpi esterni, è utile all’uomo; e tanto più utile, in quan
to da ciò il corpo viene reso ancor più atto a essere affetto in più modi, e ad
agire sugli altri corpi; e viceversa nuoce quanto rende il corpo meno atto a
queste cose» (P. IV, prop. 38). Allo stesso modo, e correlativamente, «le cose
che fan sì, che le parti del corpo umano che abbian tra loro una proporzio
ne di moto e di quiete che le mantenga, son buone; e viceversa sono cattive
quelle che fan sì che le parti del corpo umano abbiano tra loro una propor
zione diversa di moto e di quiete» (P. IV, prop. 39). Questo non vuol dire
che al vecchio sia rifiutata la felicità, ma la sua felicità consiste nell’«aver
potuto trascorrere tutto l’arco della vita sano di mente e di corpo» (P. v,
prop. 39 schol.). Come dice Enrico Forni, «se per Spinoza la saggezza è
meditazione non della morte ma della vita, ciò avviene perche il suo pen
siero è pensiero di salute intellettuale, morale e fisica». La sua è un’«antro-
pologia profondamente radicata nella concretezza ebraica, così distante dal
dualismo proprio alla linea di pensiero di matrice orfico-sciamanica, che lo
pone su posizioni antitetiche a quelle di Seneca».
sioni di origine corporea giungano alla mente sopite o estenuate, non per
questa sproporzione lo spirito può trarre vantaggio e riuscirne, tutto som
mato, più forte perché incontrastato. Caso mai ne sortirà squilibrato e mala
to, quindi debilitato, in quanto nell’uomo, come modo finito, mente e cor
po stanno o cadono insieme. Il «modo finito» riunisce in sé, individuandoli,
«gli attributi del pensiero e dell’estensione e quindi si realizza in un momen
to psichico e in un momento somatico, ciascuno dei quali richiede un meto
do differente di indagine». Come dice la proposizione 23, nella Parte II, «la
mente umana non conosce se stessa, se non fin dove percepisce le idee che
le fa sentire il corpo». Questo perché «tanto il decreto della mente, come
l’appetito e la determinazione del corpo, sono per natura simultanei, o
meglio sono una sola e medesima cosa che, quando è considerata e spiega
ta sotto l’attributo del pensiero chiamiamo decisione, e quando è conside
rata sotto l’attributo dell’estensione ed è dedotta dalle leggi del moto e del
la quiete chiamiamo determinazione» (P. Ili, 2 schol.). Adottando uno;
schema deterministico di base, si può dire che quando si ricerca la causa nel
senso di efficiente-motrice abbiamo come oggetto il corpo, quando invece,
la si coglie come motivazione nel senso finale e teleologico siamo in pre
senza della nostra volontà cosciente. In una versione indeterministica, S£
l’interpretazione c plausibile, alla volontà inconscia verrebbe allo stesso
modo a corrispondere uno stato di ipercomplessità che, escludendo la
coscienza, non consentirebbe di ricavare una risultante causale univoca. Ma
con questo, sebbene non sia una conclusione sicura, saremmo pervenuti,
oltre Spinoza, alle posizioni di un Lotze o di un Eduard von Hartmann; è
interessante tuttavia notare come, anche nel caso, ci si avvalga di uno stes
so tipo di speculazione, che fa di anima e corpo due aspetti, o «modi finiti»,
di una stessa realtà assoluta, o «infinita».
L’interpretazione di questo punto si fa incerta, poiché il determinismo
del pensiero di Spinoza fa tutt’uno con la sua concezione della causalità e
questa, a sua volta, si sdoppia nella causa meccanica e/o finale dei modi fini
ti, di cui non è detto che possiamo conoscere perfettamente tutta la com
plessità; e nella causalità per così dire trascendentale, che spiega i modi fini
ti attraverso la loro dipendenza dall’incondizionatamente assoluto. Per
quest’ultimo aspetto la mente umana non sarebbe del tutto finita, come
invece lo c il corpo, ma entrerebbe a far parte di quella sostanza infinita o
mente in assoluto, che in mancanza di una parola più adeguata chiamiamo
Dio. Forse questo sdoppiamento gcometrico/trascendentale del principio
di causalità definisce positivamente il limite della filosofia spinoziana e ren-
DECIMA LEZIONE
274
de possibile parlare della sua religione, che tutti avvertiamo almeno emoti
vamente come innegabile religiosità. Per questa via, attraverso la religiosità,
diventa accessibile in maniera anche filosoficamente più adeguata la teoria
spinoziana delle passioni, sulla quale dovremo ritornare. Ma la causalità, dal
punto di vista trascendentale, è ciò che rende possibile parlare di identità
nella differenza, cioè di conservare l’individuazione pur nel bel mezzo del
cangiamento. Anche se ci riferiamo ai corpi, la causalità non è la causa, non
è questa o quella causa, e neppure il loro concetto generale, ma come il prin
cipio d’inerzia o di conservazione della forza, o dell’energia, è ciò che con
sente di individuare, di stabilire, di determinare una costante, una perma
nenza o persistenza identica nella variazione universale del divenire. Anche
se si applica al mondo fisico, la causalità è un fatto mentale, un atto d’arbi
trio assolutamente metafisico. Nel riflesso mentale del mondo, la causalità
è nient’altro che evidenza, cioè «veritas», letteralmente, «quae se ipsam pate-
facit»: così dice Spinoza. Ora, a conclusione dell’argomento, si può anche
dire che una causalità trascendentalmente intesa può esser compatibile con
qualsiasi grado d’indeterminatezza delle cause definite in maniera geome-
trica e/o empirica. E questa l’incertezza cui alludevamo, che rende per lo
meno arbitrario fissare un limite alla filosofia di Spinoza, al di là del quale
troveremmo invece la sua religione o, come alternativa in subordine, l’e
spansione illimitata della sua teoria delle passioni.
Ma raccogliamo l’invito a intendere la proposizione 67 della Parte IV,
senza addentrarci nella questione dell’interpretazione del pensiero di Spi
noza più di quanto sia richiesto per comprenderlo perfettamente. Dicendo
risolutamente che il saggio non medita sulla morte, ma sulla vita, Spinoza
prende quasi sdegnosamente le distanze da tutta la nuova antropologia dei
moralisti. Questa, mettendo in rilievo proprio ciò che egli principalmente
respinge, consiste nel rifiuto di sistematizzare l’universo delle emozioni psi
chiche, preferendo invece, nel -disordine organico» conseguente a una realtà
vissuta senza il correttivo di una reazione logica, il partito di «descrivere l’e
nigma dell’io, la contradittorietà dei caratteri, l’ambiguità della coscienza che
tende a camuffarsi anche di fronte a se stessa», com’è ampiamente docu-
' mentato nelle Pensées di Pascal. Si deve a questa nuova psicologia l’esordio
di una filosofia morale «senza princìpi-, priva di fondamento logico, «capa
ce al più di analizzare la meccanica che regola il comportamento dell’amor
proprio», che, come ci avverte Forni, è un’operazione che appare già com
piuta, «ancor prima che, con Diderot e con Fiume, questo sentimento [del
l’amor proprio] fosse liberato da ogni connotazione morale». Ora è chiaro
MORTE E FINITEZZA 275
che «il prodotto culturale congeniale a questo stile non sarà quindi il tratta
to, [o] il sistema filosofico»; e «già sul piano della forma, a quel livello che
individua il tipo di messaggio», possiamo vedere tutta la «contrapposizione
tra il pensiero di Spinoza, sistematico, elaborato secondo gli stilemi rigoro-
si del trattato, e quello dei moralisti», endemicamente diffusivo e «rumoro
so». Proprio all’opposto di Spinoza, dunque, la nuova psicologia «tende a
sottolineare le contraddizioni, le incongruenze, il mistero della psiche uma
na», la grandezza e miseria di «questa “canna pensante” di cui non si può
[nemmeno] dare una descrizione unitaria». Nondimeno il discorso appare
«centrato sull’uomo», sia pure «sull’uomo inteso come attore che si masche
ra, perché da sempre colpevole», in un «mondo visto come scenario di una
commedia, perché mondo della caduta». Curiosamente, a questo antropo
centrismo non si addice il sérieux della tragedia; quel che oscilla tra «un sen
timento di angoscia per il fluire di questo tempo caduco» e «un sentimento
di speranza per il porto di pace che si raggiungerà nella consumazione del
tempo» non può avere altro scenario che la commedia.
La prima cosa che s’impara pensando dal punto di vista ebraico, è che
Gesù non fu innocente ma colpevole; e ciò ai sensi della Torah. L’osserva
zione è rilevante per Gesù, dal momento che era ebreo; lo è meno per i cri-
stiani, in quanto antisemiti, ed è quasi irrilevante per i cattolici, che ignora-
no quasi del tutto la Bibbia. Parlando dell’intervallo tra la festa delle palme
e la Pasqua, che è l’anniversario della liberazione del popolo d’Israele dalla
servitù in Egitto, le imputazioni si precisano. Di che viene accusato, Gesù?
I capi d’imputazione sono tre: uno effettivamente provato, uno molto pro
babile, ma discutibile, e uno solo putativo.
Il primo è d’essersi proclamato, o d’aver lasciato credere che fosse, re dei
giudei. L’accusa è provata dagli atti e dai discorsi fatti nel breve ma intenso
soggiorno a Gerusalemme, e dal fatto che Gesù non sa difendersi di fronte
a Pilato, che pure voleva appurare obiettivamente «quale fosse la verità»,
cioè se si fosse o no dichiarato re dei giudei. Le risposte son poco chiare e
divaganti, tali che confermano l’accusa di aver quanto meno lasciato crede
re la cosa. In una monarchia, quando c’è un sovrano regnante, è sempre
imprudente far credere di essere un usurpatore o, peggio, un possibile legit
timo aspirante al trono. Ai tempi di Erode Antipa poi, travagliati da som
mosse, rivolte e rivolgimenti endemici, dire anche per scherzo d’esser re dei
giudei era una sicura candidatura al supplizio. Le ragioni di questa auto
candidatura di Gesù sono fonte di congettura, ma restano oscure perché
prive di documenti; e tanto più in quanto, fino allora, egli era vissuto defi
lato e senza palesare alcuna intenzione. Questa accusa è comunque ben pro
vata, e ci è nota attraverso l’acrostico INRI (lesus Nazarenus Rex ludaeo-
rum), messo sul cartello a edificazione del popolo.
La seconda accusa è d’aver voluto provocare una sommossa, come
dimostrato dalla cacciata dei mercanti dal tempio, dalla trasgressione del
divieto sabbatico, dal tono esagitato e aspro di certe arringhe, e da altre con
sapevoli indecenze. Quest’imputazione è probabilmente vera, ma per le
ragioni che diremo poi. Quanto a provarla, non c’è dubbio che un abile
difensore potrebbe perfino annullarla, perché dopo tutto la sommossa non
c’è stata e non si tratta di fare un processo alle intenzioni. La discussione
verrebbe probabilmente complicata da un fastidioso strascico, connesso con
l’episodio di Giuda Iscariota. Giuda tradì il maestro, ma nel senso che, non
condividendone il disegno, cercò di stornarne le prevedibili conseguenze
tragiche venendo a patti con la polizia. La polizia avrebbe dovuto tenere il
rabbi in stato di fermo, evitandogli di esporsi durante i previsti disordini di
Pasqua. Quale fosse il piano di Gesù, questo non lo sappiamo, ed è chiaro
MORTE E FINITEZZA 28l
è dimostrata dal fatto che ci si deve servire di un’ipotesi corporea data, per
pervenire con la meccanica a quella determinatezza che un’altra ipotesi,
condotta secondo una diversa informazione, dovrà poi confutare. «Secon-
dnJLontologia meccanicistica e del suo tipo di razionalità [...], per cogliere
il reale bisognava pervenire agli elementi ultimi di tale realtà strutturata in
un sistema chiuso»; e «il metodo analitico era il metodo usato per isolare le
parti della realtà e per ricostruire quest’ultima sommativamente». Ora, nel
l’interpretazione di Forni, «al sistema chiuso Spinoza sostituisce il sistema
aperto, e qui ricordiamo che gli attributi sono infiniti» e «che la natura del
l’esistenza assoluta è la sua continua attività generativa -. 11 sistema aperto e
dinamico consiste nel fatto che «al reale come agglomerato di atomi egli
sostituisce un sistema di accordi tra le parti e il tutto e che ■ la ragione ten
de alla comprensione di una realtà dinamica che è un processo verso più
direzioni». Con Spinoza «non si richiede più il riduzionismo atomistico e
la stabilità del dato», né d’altra parte «si può parlare di una razionalità
monocontestuale riconducibile all’unità della coscienza come fondamen
to». Quest’ultima opposizione «giustifica lo sviluppo nell’altro senso di una
Razionalità policontestuale» che modifichi, spostandolo o approfondendo
lo, il proprio non identico punto di vista.
aveva una vivida esperienza. Come dice Enrico Forni, «il dato della morte è
certamente ineludibile»; e a noi non resta che il compito di «fuoriuscir dal
vortice senza fine che correla le passioni della tristitia e della laetitia come
affetti passivi», indotti dalla animi fluctuatio. Per prepararci dignitosamen
te alla morte, «dovremmo affermare la letizia come passione attiva, elevarci
al livello della beatitudine che è un atto di amore e di gioia», quando «la gioia
che prova la mente umana nel contemplare se stessa» è quella di «ricono
scersi come manifestazione dell’esistenza assoluta di Dio», cioè di «avverti
re la dimensione di eternità che è congiunta al proprio stato contingente». E
«a questo livello sapienziale, l’accettazione della morte come conoscenza del
la legge di natura, che è legge di Dio, si fonda su un atto di amore per l’esi
stenza». L’atto di amore confida nella possibilità di «uno scambio con pochi
del nostro progetto esistenziale, per una sua trasmissione», perché «è solo
con un atto di amore che possiamo accettare la legge naturale della nostra
finitezza, che possiamo intravedere, al di là della solitudine, la trasmissio
ne del compito esistenziale che abbiamo progettato». E, «nelle parole di Spi
noza», «vivendo questa esperienza di verità e d’amore», noi «percepiamo
come larga parte della nostra mente sia eterna».
Ti ricordiamo, Enrico.
Nota bibliografica
di Luca Guidetti
i. La genesi dell'opera e la sua forma
4 Cfr. A. Meinong, Empirismo e nominalismo. Studi su Hume, traci, it. e cura di R. Briga
ti, Ponte alle Grazie, Firenze 1991; J. Bona Meyer, La psicologia di Kant. Un'esposizione cri
tica, trad. it. e cura di L. Guidetti, Ponte alle Grazie, Firenze 1991; C. Stumpf, Psicologia e
metafisica, trad. it. e cura di V. Fano, Ponte alle Grazie, Firenze 1992; S. A. Kripke, Esistenza
e necessità, a cura di G. Franci, Ponte alle Grazie, Firenze 1992; S. Besoli, // valore della verità.
Studio sulla 'logica della validità - nel pensiero di Lotze, Ponte alle Grazie, Firenze 1992.
5 Cfr., a tal riguardo, S. Besoli, Per una lettura non naturalistica dell'esperienza. Intorno
all’interpretazione fenomenologica di Enzo Melandri, in S. Besoli, F. Paris (a cura di), Studi
su Enzo Melandri. Atti della giornata di studi - Faenza, 22 maggio 1996, Polaris, Faenza 2000,
p. 115.
6 Cfr. E. Melandri, {paradossi dell’infinito nell'orizzonte fenomenologico, in E. Paci (a
cura di), Omaggio a Husserl, Il Saggiatore, Milano i960, pp. 81-120, ora in B. Bolzano, /
paradossi dell’infinito. Cappelli, Bologna 1979, pp. 7-40.
POSTFAZIONE 297
2. Il contenuto teoretico
11 Cfr. E. Melandri, Le novità degli ultimi tremila anni, in «il Mulino», 296, anno XXXIII,
19S4 (d’ora in poi: Le novità), p. 972.
12 Cfr. E. Melandri, Logica, in G. Preti (a cura di), Filosofia, Enciclopedia Feltrinelli
Fischer, voi. 14, Feltrinelli, Milano 1966, 19702 (d’ora in poi: Logica), p. 268; Id., La linea c
il circolo. Studio logico-filosofico sull'analogia, il Mulino, Bologna 196S, Quodlibet, Mace
rata 20042 (d’ora in poi: La linea e il circolo) p. 662 sg.; Organon, pp. 52 sgg. Per la tesi del
l’identità elementare, rimandiamo a Contro il simbolico. Quarta lezione: Metafisica. Il prin
cipio, l’essere, il possibile.
1 •' Cfr. Logica, p. 269; Le novità, p. 969.
14 Cfr. Le novità, p. 975.
r
base del legame tra intuizione ed esperienza vissuta (Erlebnis) che «la nozio
ne di esperienza può essere usata sia per riferirsi al momento intuitivo del far
la, sia a quello simbolico e calcolistico del tenerne conto»’9.
Svincolando l’intuizione dall’apparato psicologico a cui la tradizione l’a
veva consegnata, la fenomenologia, nell’accezione melandriana, fonda sul-
Vindagine delle molteplici forme dell’evidenza quell’istanza metodica del
l’esperienza che la conoscenza simbolica assume come «ovvia», già
costituita e in sé «valida». Il metodo non è un insieme di atti intuitivi a cui
le leggi logiche danno una forma coerente c ordinata, ma è sempre la corre
lazione indissolubile tra l’aspetto soggettivo e l’aspetto oggettivo dell’espe
rienza che si offre nella sua unità: «Per ogni modo di datità esiste sempre un
correlativo modo di prenderne atto e perciò in linea di principio ogni espe
rienza ha la sua tipica evidenza adeguata»20. Nell’intuizione metodicamen
te strutturata, l’oggetto non può essere colto indipendentemente dall’insie
me delle relazioni in cui esso cade, e poiché un lato di questo sistema è
rappresentato da ciò che chiamiamo «soggettività» o «coscienza», caratte
rizzato dall’agile intenzionale, ne deriva che anche gli altri lati dovranno
essere intesi sulla base di una dinamica soggettiva. In questa prospettiva,
«essere coscienti» non vuol dire produrre simboli, ma immagini. L’imma
gine si dà immediatamente (intuitivamente), ma nella sua immediatezza essa
presenta, oltre al risultato, anche il procedimento come condizione signifi
cante. Hartmann parlava, a questo riguardo, di «intuizione conspettiva», la
cui funzione non è l’isolamento del dato, ma la comprensione relazionante
o «categoriale» dell’universalità essenziale (eidos)11. Infatti, al centro del
l’immagine fenomenologicamente intesa non vi è più l’oggetto come «cosa»
o rimando simbolico (della percezione, del concetto ecc.), ma il «qualcosa»
che dall’io o coscienza viene identificato come oggetto.
Vi sono immagini che non oltrepassano l’orizzonte della datità attuale,
che coincidono con l’intenzione e la soddisfano senza residui o sfrangiatu
re: in tal caso il risultato (l’oggetto) proietta su uno «schermo» in modo figu
rale e compiuto il processo soggettivo di costituzione che può apparire come
un sistema di relazioni simboliche; ma vi sono anche immagini che oltrepas
sano tale orizzonte e in cui l’oggetto si presenta come un «polo d’identità»:
in tal caso il processo emerge in tutta la sua forza costitutiva e dinamica come
19 E. Melandri, Contro il simbolico, Terza lezione. Realtà. Gli enti, i concetti, gli oggetti.
20 E. Melandri, / paradossi dell'infinito nell'orizzonte fenomenologico, eie., p- zz.
Cfr. N. Hartmann, Griindziige cincr Mctapbysik dei Erkenntnis (1921)» 21
ampliata, de Gruyter, Berlin 192$-1965!, pp. 518 sgg.
302 LUCA GUIDETTI
Helmick Beavin, Janet 182 Leibniz, Gottfried Wilhelm 11, 14, 18, 29,
Herbart, Johann Friedrich 11, 31, 36-37, 45, 116-118, 120, 203-204, 215,
Hilbert, David 28 217-218, 230-232, 237, 302
Hillel, rabbi 283 Leopardi, Giacomo 51
Hitler, Adolf 127,151 Lepschy, Giulio C. 66
Hjelmslev, Louis 65-66 Leviathan 132
Hobbes, Thomas 154 Levrini, Ivan 9
Hòfler, Alois 208,210 Lewin, Kurt 208
Humboldt, Wilhelm von 65-66 List, Friedrich 240-241
Hume, David 43, 178, 274 Littré, Émile 209
Husserl, Edmund Gustav Albrecht 33. 38, Locke, John 46,81-82,241-242
55, 68, 92, 141, 144, 146, 151, 160, 174, Lotka, Alfred J. 236
182, 190, 210, 295, 302 Lotze, Rudolf Hermann 273
Huxley, Aldous Léonard 131, 151,209-210, Lucilio luniore, Gaio 272
258 Luhmann, Niklas 236
Lumbelli, Lucia 300
Ibsen, Henrik 51
Ingarden, Roman 182 Maccari, Cesare 202
Ippocrate 209 Malebranche, Nicolas 45, 65, 116, 237
Isaia 281 Maometto 73, 262
Isacaaron 132-133 Marlowe, Christopher 269
Isacco 112-113, 226 Marty, Anton 65, 92
Isolde 192 Marx, Karl 239, 262
Mattioli, Emilio 65
Jackson, Don D. 1S2 Maupertuis, Pierre Louis Moreau de 83
Jakobson, Roman 51 Meinong, Alexius 144, 151, 174, 296
Jahweh 108,112-113,281-282 Melandri, Enzo 295,295, 296,296, 297, 298,
Janet, Pierre 196 298, 299, 299, 300, 300, jor, 302,302
Jones, Ernest 183 Melpomene 224
Jones, Tom 149 Metzger, Wolfgang 300,300
Michelet, Jules 131, 151, 267
Kafka, Franz 156 Mill, James 188
Kainz, Friedrich 66 Mill, John Stuart II-I2, 37, 188
Kanizsa, Gaetano 300 Milton, John 147
Kant, Immanuel 20-21, 29-30, 34, 38, 46, Molière, Jean-Baptiste Poquelin, detto 269
81-82, 160, 168, 179, 201, 222, 246 Mose 73, 10S, 226
Keller, Helen 169 Mozart, Wolfgang Amadeus 29, 269
Keynes, John Maynard 253 Myskin, Lev Nikolaevic 138
Kncale, Martha 38
Kncale, William 38 Napoleone Bonaparte 73,133
Koestler, Arthur 23S Natorp, Paul 163
Kraus, Oskar 151 Newton, Isaac 36, 82-S3
Kripke, Saul A. 296 Nicod, Jean George Pierre 202
Kùlpe, Oswald 81,93 Nietzsche, Friedrich Wilhelm 72, 140, 238
K’ung Fu-Tzu 1S7 Noè 109
Ùberweg, Friedrich 25
Valla, Lorenzo 17
Varvara Petrovna, v. Stavrogin, Varvara
Petrovna
Vegetti, Mario 209
Venerdì 244
Verchovenskij, Stepan Trofimovic 156-157
Vico, Giovan Battista 194, 196-197
Viète, Francois, seigneur de la Bigotière 105
Virgilio Marone, Publio 16-17
Voltaire (pseudonimo di Fran<;ois-Marie
Arouet) 83
Volterra, Vito 236
Vossler, Karl 66
11 Prima lezione
Logica
La struttura, il calcolo, l’interpretazione
39 Seconda lezione
Linguaggio
La lingua, la comunicazione, l’informazione
^7 Terza lezione
Realtà
Gli enti, i concetti, gli oggetti
95 Quarta lezione
Metafisica
Il principio, l’essere, il possibile
D3 Sesta lezione
Credenza e immaginario
Il sogno, la rappresentazione e il doppio legame
IN OTTAVO
Fuori collana