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Quodlibet

Enzo Melandri
Contro il simbolico
Dieci lezioni di filosofia
Dello stesso autore:

La litica e il circolo
Studio logico-filosofico sull’analogìa
Enzo Melandri

Contro il simbolico
Dieci lezioni di filosofia ri

Postfazione di Luca Guidetti

Quodlibet

I
2007 Quodlibet
Macerata, via S. Maria della Porta, 43
www.quodlibct.it

ISBN 978-88-7462-J43-9
A Enrico M. Forni
in memoriam
Avvertenza

Ogni opera, anche modesta, è sempre un’impresa collettiva. Questa deve


la sua origine al centro culturale Lucio Lombardo Radice, di Correggio, e
precisamente a un’iniziativa dell’amministrazione comunale di Correggio,
c dcH’assessorato alla Cultura dell’amministrazione provinciale e del CIDI.
La responsabilità del contenuto e della stesura definitiva spetta natural
mente all’autore, che è anzi lieto dell’occasione che gli è stata offerta di par
lare in pubblico nel palazzo dei Prìncipi. In questo caso tuttavia anche l’ese
cuzione finale mi è stata grandemente facilitata dalla precisa e affettuosa
collaborazione specialmente di Mauro Bertani, Luca Guidetti, Ivan Levrini,
Sandra Palmieri, Valeria Pezzi ed Emanuela Risari.
Tanto per intenderci, dovendo dar loro un titolo, queste conferenze le
avevamo chiamate non troppo propriamente «lezioni». Poi, chissà perché,
questa lezione ha attecchito e compare come «Dieci lezioni di filosofia»
negli inviti comparsi a suo tempo. Perciò, per riguardo a quelli che sono
intervenuti e che magari vogliono ripercorrere con la lettura quanto han
sentito dalla voce, ho mantenuto l’eco delle lezioni nel sottotitolo. Le dieci
lezioni furono tenute a Correggio, come s’è detto, dal febbraio al giugno
1988 bisettimanalmente, alle date e coi titoli che seguono:
1. Logica: la struttura c il calcolo; 12 febbraio 1988.
2. Linguaggio: lingua e linguaggi formali; 26 febbraio 1988.
3. Realtà: oggetti, mondo sensibile, entità, concetti; 13 marzo 1988.
4. Metafisica: pensiero, materia, essere; 23 marzo 1988.
5. Soggetto e coscienza; uno, molti, medio e soggetto; 8 aprile 1988.
6. Credenza e immaginario; sognare, l’altro e il doppio legame; 22 apri
le 1988.
7. Desiderio e volontà; passioni, azioni, deliberazione e causa dell’agire;
6 maggio 1988.
IO AVVERTENZA

S. Etica e morale; il dovere, la libertà, la coscienza e la teodicea; 20 mag


gio 1988.
9. Politica e potere; servitù e dominio; 27 maggio 1988.
10. Meditano vitae, meditano mortis; 3 giugno 1988.
Solo l’ultima conferenza, originariamente improntata alla morte di Ivan
U'ijc, è stata modificata nella stesura per le ragioni indicate nel testo. Spero
che il lavoro possa interessare come a suo tempo mi parve fossero accolte le
parole.
E. M.
Prima lezione

Logica
La struttura, il calcolo, l'interpretazione

i. Potremmo definire una specie di mappa isocronica della modernità


della logica nei confronti delle sue riproposizioni ormai passate, mettendo
dentro quest’area precursori come Leibniz, Bolzano e Boole, ed escluden
done altri come Hegel, Flerbart e Pi anti, benché la loro distanza dal pre
sente non delinei un’evidente regolarità. L’isocronia di cui parliamo non sta
in una nozione troppo rigida di contemporaneità, poiché dipende dalla tra
dizione, dalla nazionalità, dal clima in cui campa l’opera di un autore, tutte
cose che si riconoscono ex post festum, se tale è il caso, orientate sul senso
del presente. Forse la cosa appare più chiara se dico che tutto il pensiero
logico moderno è certamente posteriore a Fiegei, Comte e Mill, per citare
tre dei massimi teorici sintetici del XIX secolo che, per tradizione, cultura
nazionale e personalità individuale hanno più inciso sui destini dell’eredità
precedente. Il distacco da Fiegei in proposito è il maggiore che si possa ipo
tizzare; da lui anzitutto si desume l’impressione nettissima di aver voltato
pagina e, se anche possono farsi valere certi ripensamenti, per esempio in
sede di dialettica (come altro rispetto alla logica), si tratta di una tentazione
non reazionaria, che può spingere a un recupero ma su tutt’altre basi. Per
quanto riguarda Comte la distanza appare minore, e tuttavia rimane netta.
Comte non individuava nella logica lo statuto di una disciplina autonoma;
la logica era per lui il nerbo interiore del metodo scientifico, né bisognoso
né profittevole di trattamento esplicito. E l’unico metodo scientifico era
quello positivo dell’adduzione e addizione di fatti a fatti. La logica avrebbe
poi coinciso con un totale senza intervalli o differenze. Comte evidente
mente assumeva che il metodo scientifico fosse nella sostanza unitario, per
lo meno indipendente dalla logica, nel senso che l’accumulo dei fatti bene
accertati sarebbe bastato a dirimere ogni controversia. Basterà questo a defi
nirne la distanza dal presente. John Stuart Mill, invece, pur essendo in ter
mini di filosofia sintetica l’equivalente di Hegel e di Comte, ha scritto un
PRIMA LEZIONE
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trattato di logica che ancora oggi si legge con profitto. Ma nonostante la


maggiore prossimità del linguaggio e della tematica, anche qui si ricerche
rebbero invano i problemi che ci rendono familiare la contemporaneità.
Assumiamo le tre culture, francese, britannica e tedesca, come indici del
lo sviluppo che ha raggiunto la cultura mondiale. Ma c’è un’altra differen
za da segnalare. La cultura francese, dopo Comte, è tutta positivistica; e lo
si dica senza intenti derogatori, anzi. Sono positivisti, in Francia, o scienti
sti quanto al metodo, anche quelli che, come Bergson o altri, perseguono
tutt’altri intenti. In Inghilterra invece la cultura filosofica resta in prevalen
za empiristica, sia prima sia dopo J. S. Mill, che di suo vi aggiunge l’apertu
ra al positivismo. In Germania invece né prima né dopo Hegel si è stati
hegeliani. Dopo il 1860 si è affermata anche qui la tendenza positivistica,
che ha avuto coloritura psicologica. Si manifesta anche in quest’ultimo caso
la famigerata maggiore relativa arretratezza della cultura tedesca rispetto alle
altre due, dal momento che può rifarsi, positivisticamente, attingendo al
patrimonio dello spinto soggettivo, ideologico, anche se non strettamente
hegeliano, dello psicologismo.
Risalendo ai motivi animatori delle tre culture moderne, indirizzate ver
so la contemporaneità, sia lecito evidenziare che la filosofia britannica dipen
de dal primo avvertimento del modo di produzione capitalistico, e cioè dal
l’analisi dell’economia politica, coi suoi caratteristici problemi di massimi e
di minimi, e così via; che quella francese, dopo il positivismo, viene a dipen
dere dall’organizzazione del sapere e dell’insegnamento, cioè dal progresso
scientifico, soprattutto della scienza naturale, in cui rientra anche la sociolo
gia, anche se quest’ultima si occupa di problemi che debordano da tale ambi
to; e che infine la filosofia tedesca di fine secolo, dopo aver tentato di sussu
mere tutto il sapere sotto l’ideale salvifico della medicina, in quanto
psichiatria o psicologia, ha un andamento più disperso, forse meno centralo
ma in compenso a tratti più acuto delle altre due. In ogni modo è un fatto
che da nessuna di queste tre anime, l’economia politica, la sociologia e la psi
chiatria, spunta il motivo della riproposizionc della logica odierna.
Il mondo culturalmente rilevante della fine del secolo scorso indicava
quindi cumulativamente il massimo del benessere nel raggiungimento con
giunto dei tre obiettivi della prosperità economica, del sapere equivalente a
un potenziale complessivo di dominio sulla realtà e a una conduzione del
la vita psichica corrispondente a un optimum di sanità. Questo era natural
mente riferito al massimo numero degli uomini, compatibilmente con la
loro relativa distanza dai centri irradiatori del benessere. Questi ideali sono
LOGICA

ancora - si spera - quelli animanti distributivamente la più gran parte del


l’umanità. Fatte salve queste condizioni, cui cordialmente aderiamo, resta
da capire in che modo le odierne preoccupazioni per la logica possano inse
rirsi in una filosofia generale dell’umanità.

2. Da quel che ho detto credo emerga abbondantemente che io non pen


so che la filosofia cresca sui problemi battezzati come tali filosofici, ma che
piuttosto essa sia una creazione spontanea di qualsiasi quesito che in gene
rale si ponga l’umanità. Questo problema, una volta posto, si riflette poi in
vari modi nei riflessi delle attività particolari. Tra le attività ci sono anche
quelle teoriche, e non è lecito sottovalutare l’influsso del teorema di Pita
gora sulla nostra agrimensura. Ora, il nostro problema riguarda non tanto
l’origine, quanto la natura dell’odierna preoccupazione per la logica. Un’o
rigine epocale, di motivazione concreta, anche se di fatto indiretta, abbia
mo visto che non c’è. Gli uomini potrebbero di fatto arricchirsi, diventare
in lungo e in largo più sapienti, esibire una maggiore e ragionevole igiene
mentale senza preoccuparsi dello statuto della loro logica. Quindi, che cosa
manca?
La letteratura contemporanca non manca di risposte al riguardo. C’era
il problema epistemologico. Questo non rientra del tutto in una filosofia
della scienza di stampo positivistico. Di fatto, ci sono risultati sperimenta
li che non si sommano, come le note esperienze di fisica dei quanti. La som-
matività o meno dipende non solo dai fatti, ma anche dal metodo o per
meglio dire dalla filosofia con cui ci si dispone a darne la sintesi. Dunque lo
scrupolo per la verità sarebbe lo stimolo a porre il problema epistemologi
co, c di qui, con passaggio intuibile, la necessità di ricerche sui fondamenti
non sempre evidenti della logica. Ma questo problema pone in primo pia
no il veicolo di ogni operazione logica, cioè il linguaggio. È qui che i conti
non tornano.
Fin dai primordi si era supposto che la logica, in quanto puramente con
cettuale, nulla avesse che spartire col linguaggio. Si dava per scontata una
più che naturale astrazione, a patto però di sapere a che cosa se ne affidasse
il risultato. L’astrazione non si può esprimere come astrazione, bisogna affi
darla o al senso del discorso, o a quello dell’operazione di pensiero che
abbiamo in mente. Finché di questo si parlava in maniera convenzionale, a
nessuno poteva venire in mente di dire cose che non erano mai state espres
se già mille volte, c meglio di lui. Ma a un certo punto la cosa saltò fuori. Fu
sufficiente la perdila del medio linguistico in comune, che nel Medioevo era
PRIMA LEZIONE
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il latino. Ma qui il latinoj_usatocome linguaggio, non come lingua (ritor


neremo poi su questa importante distinzione, che comunque si può già
capire). Quando le lingue nazionali (prima il francese, poi l’inglese) sono
accreditate a parlare di filosofia, ne derivano differenze che non sono solo
di lingua, ma anche di linguaggio. La differenza si determina poi non solo
in sede di lingua nazionale logicamente corretta, ma anche nel caso di sin
goli autori particolarmente espressivi. È l’evenienza del Rinascimento, del
la renaissance o della ripresa della cultura dopo il Medioevo. Ancora Leib
niz scrive di logica (e di matematica) in latino, minimizzando le differenze,
mentre in metafisica, dove esprime idee più personali e contrastabili, usa il
francese (il tedesco era ancora un dialetto fiammingo sconosciuto e d’in
certa ortografia).
Questa perdita del medio comunicativo del linguaggio, definitiva in
quanto lingua (non c’è da sperare se non nell’esperanto), vien però recupe
rata mediante il linguaggio matematico, già a partire dal XVII secolo. Qui
non occorre esser cartesiani, o seguaci di una particolare mathesis univer-
salis, per riconoscere un fatto di poi sempre più universalmente accredita
to. Era naturale che a un certo punto questa acclimatazione universalmen
te riconosciuta al linguaggio matematico (anche dai giapponesi e dai cinesi)
si facesse essa stessa lingua e si rivolgesse contro i linguaggi naturali. Que
sto evento si è compiuto nel XIX secolo. Per parlare delle tre culture nazio
nali, esso può accogliere i nomi di Boole, di Schròder e di Couturat (anche
altri, ma vogliamo restare nei limiti di una equivalenza, che tale è). E evi
dente che in questo evento la matematica si presenta come un linguaggio,
anzi come una nuova linguistica di carattere internazionale.
Dunque l’impulso alla rivoluzione in materia di logica è venuto dalle esi
genze della comunicazione. Questa non poteva più esser soddisfatta con
mezzi puramente linguistici, come la traduzione, o con risorse puramente
culturali, come la compenetrazione di un modo di vita nell’altro. In passa
to era avvenuto che la versione cinese degli Elementi di Euclide, da parte
del padre Matteo Ricci, avesse provato i poteri della nostra civiltà presso
una cultura aliena, dando anzi origine in essa a uno sviluppo matematico in
parte indipendente. Ma evidentemente nel XIX secolo questo non basta più.
Ai procedimenti metodici ma lenti della diffusione culturale deve sostituir
si un cambiamento del sistema di cultura, fondato su un mutamento del
modo stesso di comunicazione, più rapido ed efficiente, dovuto principal
mente al progresso delle matematiche e soprattutto del loro apprendimen
to. La violenza dell’impatto col nuovo mondo culturale sconvolge tutti i
LOGICA
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collaudati sistemi diffusionistici e impone una rivoluzione che retroagisce


anche irriguardosamente sugli stessi promotori. Dal punto di vista degli
indiani, dei cinesi, dei giapponesi, per tacere dei tanti altri su cui si è eserci
tata l’influenza, la logica occidentale, fosse economia politica, scienza esat
ta della natura o igiene mentale esclusiva d’ogni altra insinuazione, si è pre
sentata come un’istanza di dominio puro, privo d’ogni razionalità finale.
C’è dunque da meravigliarsi se perfino la nostra cultura non vi ritrovi altro
fondamento? La logica è dunque il puro e semplice, denudato matematica-
mente, Willc zur Machtì La demoniaca volontà di potenza?
Non siamo così irriguardosi e senza ritegno anche verso noi stessi. La
civiltà, anche quella occidentale, ha lontane, oscure origini. La razionalità
spesso è frutto di razionalizzazione, e questa è una prassi non molto sim
patica, ma imposta dal bisogno di semplificare un accumulo eccessivo, una
complessità senza vie d’uscita. Per capire questo non si può che rivolgere il
nostro sguardo, per un momento, al passato. Mi scuso per questa nuova
deroga dal canone della contemporaneità; ma, senza di essa, non avrebbe
senso il presente.
Nella storia dell’evoluzione, o della crescita della coscienza occidentale,
non era la prima volta, nel XVII secolo, che si determinava una forbice tra
l’intelletto e la ragione. E mi spiego: tra l’intelletto come ragione del due per
due fa quattro, e la ragione come comprensione del rapporto tra mezzo e
scopo. Insomma, intellettuale è la comprensione di una regolarità, indipen
dentemente dal senso; mentre razionalità include il senso del capire il rap
porto che lega la parte al tutto, o comunque l’azione allo scopo. Questo è
un punto che dobbiamo tener fermo, se vogliamo capire più analiticamen
te le motivazioni complesse dell’affermazione della ragione occidentale sul
resto del mondo. In un certo senso la ragione occidentale ha dovuto subire
la sua riduzione intellettualistica, nell’affacciarsi al resto del mondo, ma nel
lo stesso tempo ha accettato tale riduzione solo perché ne comprendeva la
ragione. Risalendo all’indietro nel tempo, forse le stesse vicende ne posso
no offrire la giustificazione.

3. La circostanza che suscita il nostro interesse è il rapporto che si dà nel


passato tra linguistica e psicologia. Nel Rinascimento è interessante notare
come sia la linguistica, in quanto filologia, a offrire il modello (o i modelli)
del modo di pensare rinascimentale. Non si tratta ancora di logica, poiché la
nozione moderna si è formata a poco a poco, e quella medievale era più che
linguistica, grammaticale; fondata com’era sul soddisfacimento di certe chia-
PRIMA LEZIONE
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re regole, naturalmente differenti secondo le diverse scuole. Più che il riferi


mento alla logica, relativa secondo le diverse scuole, vale quello alla retorica.
La retorica non si spiega mediante regole di conformità linguistica, essa risic-
de anche nella trasgressione (ragionevole) delle regole, dunque è in tal senso
psicologica. La riscoperta dei classici vale come disponibilità non solo di un
nuovo mezzo di comunicazione, ma di un centro di comprensione, che vie
ne imitato e coltivato come un medio trascendentale, allo scopo di costitui
re una mentalità comune, inizio e centro di una pluralità di comunicazioni.
Sulla base della mentalità di Virgilio, di Orazio o di Catullo, l’ideologia
dell’umanismo non è che il tentativo di stabilire su basi linguistiche (o,
meglio, retoriche) una teoria della comunicazione letteraria.
Chiaro che il latino a suo tempo viene studiato perché è un modo di
comunicazione già collaudato o, meglio, accreditato da una mentalità comu
ne alle persone colte. Che è poi quella, propagatasi in epoca medievale, degli
antichi scrittori come Virgilio, Orazio e Ovidio e gli altri, che già si suppo
neva si intendessero tra loro. Questo modo di intendersi in comune è non
solo mediato da una cultura comune, dalla poesia e da altre esperienze cul
turali e da un retaggio di figure retoriche, ma è diffuso in una comunità lin
guistica di specie ecumenica, se non di estensione internazionale.
Tutto ciò andrà poi perduto; anche dopo i successi del Rinascimento ita
liano. Al di là dell’umanesimo sorge la rénaissance. Ma la renaissance è un
altro risvolto della storia, non del tutto una prosecuzione del Rinascimen
to italiano. La riscoperta dei classici porta a valorizzare un medio di porta
ta potenzialmente illimitata, il cui possesso non solo definisce una menta
lità comune come espressione di parola intelligibile, ma diventa altresì un
modello imitato e coltivato allo scopo di costituire una mentalità unitaria
che meglio utilizzi la comunicazione. La filologia, base dell’umanesimo, è
la scienza in base alla quale si dimostra falsa la Donazione di Costantino.
Ma giova osservare che la sua sapienza non è solamente linguistica; essa è
altresì, sebbene non in maniera appariscente, una dottrina psicologica che
giudica del vero in base al probabile accadimento in menti aliene. La forza
del Rinascimento sta nell’attrazione dell’alieno nell’identico. Ciò che un
altro ha pensato e prodotto devo poterlo pensare e riprodurre io stesso. La
forza della uiprjot^ ne commisura la grandezza e per converso i limiti.
Esteriormente l’umanesimo si presenta come un tentativo di stabilire un
medio universale su basi linguistiche. Questo medio di recente riscoperto e
offerto dal latino nel suo uso colto, e cioè filologico. La filologia, come si è
osservato, non comprende solo la competenza linguistica nell’idioma lati-
LOGICA 17

no, ma soprattutto l’assimilazione della mentalità degli autori che ne carat


terizzano la letteratura: Orazio, Virgilio, Ovidio e gli altri che sarà il caso
di citare. Non solo la lingua entra quindi in questione come medio, ma
anche la letteratura, il parere, la morale, l’estetica degli autori cui si affida:
cioè la psicologia. Leggendo un autore ne assimilo non solo i modi di dire,
ma anche la mentalità. La diffusione è compenetrazione psichica.
Al di là dell’umanesimo c’è il Rinascimento e, come prosecuzione di
questo, oltre esso, la renaissance francese e inglese. Dopo Lorenzo Valla,
dopo Pietro Ramo (Pierre de la Ramée), si annuncia una filosofia iconocla
sta rispetto a tutti i modelli letterari. Si tratta della renaissance come l’ha
intesa Descartes, che si vanta di aver dimenticato il latino che aveva appre
so al collegio dei gesuiti di La Flèche. Egli rifiuta l’insegnamento gramma
ticale, anzi ne rifiuta tutta la logica, né gli interessano le esercitazioni di lati
no, che pure aveva appreso assai bene nel suo apprendistato gesuitico. A
Descartes interessa il distacco della psicologia dalla grammatica. Egli non
accetterebbe l’ambigua — dal suo punto di vista — nozione di filologia. La
grammatica regge l’ordine delle parole; la psicologia dice quello delle idee.
Descartes pensa che i contenuti del nostro animo si presentino con una loro
evidenza, e che, rimettendoli in ordine secondo questo criterio, tutti gli altri
problemi debbano trovare il loro naturale assestamento. Ciò non conduce
direttamente alla verità, ma alla certezza soggettiva delle nostre idee. Idea
grandiosa, ma psicologica. Da cui segue con effetto generale un grande
ribaltamento. Non importa che cosa abbian pensato altri, benché famosi. Io
ritrovo in me queste c queste altre idee, in quanto principalmente chiare e
distinte. Le altre saranno altrettanto buone, ma mi vengono dal di fuori.
Non sono in grado di ricondurle alle mie. Quindi per il momento non ci
sono. Sono questi i criteri di una mente che riflette su se stessa, e giova
osservare che essi sono di natura psicologica, non grammaticale o retorica.
La certezza prevale sulla verità.
Le idee, le idee che io ho, sono l’unico criterio di certezza. Tutto il mon
do vicn fuori dalle idee, dalle mie o dalle tue idee, indifferentemente, purché
convergano a un unico criterio di certezza, che è insito nell’estensione. Le
idee passano da idee materiali, idee che io ho in mente come tali, a idee for
mali, quando sono in grado di distinguerle. Nel qual caso diventano a certe
condizioni idee obiettive, quando con l’estensione io attribuisco loro un
mondo obiettivo, cioè di cose che stanno fra di loro le une fuori dalle altre.
Qui c’è evidentemente una prestazione, per non dire indebita, tuttavia
trascendentale della psicologia. La volontà, la presenza, l’intelletto stanno
PRIMA LEZIONE
iS

da soli a rappresentare l’anima. Questa psicologia è però incrinata, perché


essa deve escludere il ricordo, mettere in sospetto la memoria, rendere pro
blematico il concetto stesso di tempo. Pertanto non parlerà della Scuola di
Port Royal o di Pascal, per cui valgono analoghe difficoltà metafisiche, per
passare immediatamente al secolo successivo. In esso si riproduce il ribal
tamento della psicologia in linguistica. È l’epoca dcH’illuminismo, dell’en
ciclopedia, della conversazione e del linguaggio parlato: il «logocentrismo»
non invita a meditare sui fondamenti. Per questa via si perviene al massimo
a Condillac, che si pone il problema di come, a partire dalla sensazione più
elementare, si venga costituendo e con quali funzioni il medio del linguag
gio. Come si vede, siamo nel vortice di una spirale che per un verso sembra
ripetersi, ma che per altro introduce insensibilmente a cose nuove. L’ultimo
giro è quello che, nel XIX secolo, rimette il primato tematico alla psicologia.
Abbiamo già detto di quest’ultima prestazione dello psicologismo positivi
stico. Ma anche in precedenza, con Hegel, nel pieno dell’idealismo trion
fante, la logica come spirito oggettivato, nella linguistica e nelle scienze del
la cultura, non si distingue dalla fenomenologia, la scienza dello spirito
soggettivo e cioè dalla psicologia. Soggettivo e oggettivo sono come il dop
pio conio di una stessa moneta, che deve sostenere entro uno stesso spes
sore logico la faccia linguistica e quelky?sicologica.
La rottura di questa spirale, o il suo allargamento in una tangente non
più avvolgibile, si verifica con l’inizio dell’età contemporanea, che farei
cominciare con la seconda metà del XIX secolo. Con questo nuovo svilup
po le soluzioni tendono a radicalizzarsi in senso diverso. La logica perde la
sua antica parentela con la psicologia e con la linguistica, per assumere un
tratto più decisamente calcolistico e strutturale. L’epoca moderna della logi
ca, che degrada tutta la vicenda precedente a preistoria della medesima, esor
disce con questo atteggiamento senza ritegno antistoricistico. La questione
della verità o della validità della logica si deve poter apprendere indipen
dentemente dalla considerazione della storia precedente. Perciò è tanto
complesso tracciarne le linee che vi conducono, come se la scienza che per
definizione è la più razionale di tutte avesse dei natali imbarazzanti, su cui
è meglio sorvolare. Il fatto è che la logica si presenta oggi come un’Atena
uscita intera e adulta dalla testa di Zeus.
Citerò solo tre nomi per illustrare la logica moderna: Boole, l’inventore
dell’algebra della logica e quindi del calcolo; Frege, il creatore di un linguag
gio astratto della logica, che ne include l’interpretazione; e Couturat, che ha
inaugurato un’interpretazione prettamente logicistica di Leibniz, sulla cui
LOGICA 19

scia si svolgerà la lettura di tanti altri autori contemporanei o meno della sto
ria del pensiero. Si potrebbero citare decine di altri autori, ma non ce n’è
bisogno per dimostrare che l’esigenza da cui sorge la nuova logica è in pri
mo luogo internazionale, trattandosi di un inglese, di un tedesco e di un fran
cese; che inoltre comprende i caratteri strutturali del calcolo, dell’interpre
tazione interna e di quella esterna, rivolta verso la storia del pensiero; e infine
che la sua efficacia non è un fatto isolato, giacché, almeno inizialmente, essa
porta a una profonda revisione di tutto il modo di studiare la filosofia.
Insieme con la possibilità di esprimere la deduzione come un calcolo,
Boole ha scoperto la struttura della logica, il suo reticolo, il latex o lattice
(come si dice con parola latina riconiata dall’inglese); ha visto che in logica
non vale la regola del prima e del poi, della premessa e della conseguenza, ma
che tutto in essa è contemporaneo, poiché la sua struttura può esser rappre
sentata come un reticolo o lattice bidimensionale al completo. Precedente e
conseguente, in senso temporale, non valgono che psicologicamente, come
ordine dell’apprendimento per noi. Una volta compreso questo, la struttu
ra potrà essere appresa tutta in una volta se si ha l’immaginazione sufficien
te a pensarla come data in una sola colata e un calcolo adatto a esprimerla.
Al di là anche dell’algebra della logica, Frege sopravanza di gran lunga
tutti gli altri nello spiegare perché si è dovuto risolvere a dare una notazio
ne astratta della logica. Il punto da rilevare è che la logica, in questo uso di
metodi simbolici, sembrerebbe di nuovo inclinare a un’interpretazione lin
guistica. Sennonché, nell’accezione di Frege, il linguaggio della logica non
c, se ci si passa l’apparente bisticcio, di natura linguistica, bensì strutturale.
Per poter essere espressa, tale struttura richiede un linguaggio artificiale, che
nulla ha che vedere con la linguistica. Non bisogna confondere linguaggio
con lingua. E un linguaggio che può essere usato solo da chi lo capisce con
cettualmente, così com’era già il caso per le formule matematiche. In mate
matica quel che è scritto tra le formule poco importa — sia esso scritto in
francese, inglese o russo - ma interessa capire le formule. Naturalmente per
intendere queste ultime forse occorrerà leggere anche quel che l’autore scri
ve appresso alle formule in francese, inglese o russo, per capire bene tutto
il resto: ma l’essenziale resta la comprensione del linguaggio matematico,
non della lingua in cui quello si esprime.

4. il linguaggio logico, come per altro verso il linguaggio figurativo o


quello della musica, non ha nulla che vedere con la lingua articolata; esso
mette in forma, esattamente come quest'ulti ma, ma non comunica nulla
20 PRIMA LEZIONE

all’infuori delle sue formule. Ognuno, se vuole, può apprendere un tale lin
guaggio; ma nel capirlo se ne costituisce uno proprio, figurativo, musicale
o logico. Solo, con esso non comunica nulla. Se viene usato esso è uguale
per tutti: si tratta allora di quella universalità che vale per ogni evento uni
co, e che proprio per questo non dice nulla. Da questo momento in poi il
linguaggio della logica non è più leggibile come lingua. Sotto tale aspetto la
questione sembra esser risolta. Ma siamo con ciò incappati in una stretta
nella quale non è più avvertibile lo smorzamento delle vaste oscillazioni che
l’hanno provocato. In seguito diremo qualcosa su come si sono formati
questi concetti che si inscrivono in una specie di ideografia autoregolata. La
cosa di per sé non è difficile; è un po’ quello che è successo in matematica,
dove l’interpretazione è tutta interna. Gli oggetti della logica sono queste
strutture astratte.
È importante riconsiderare questa nuova logica sotto il profilo filosofi-
co. La logica moderna, infatti, non è la tradizionale logica della filosofia,
non è una divisione interna a quel corso di studi che prevedeva la triparti
zione in grammatica, logica, dialettica, né di quella specializzazione di pro
blemi generali che induceva a una trattazione separata di gnoseologia, logi
ca, estetica ed etica. In prima approssimazione si può dire che la logica
moderna è una derivazione della logica formale. Ma a differenza di que-
st’ultima, che in fondo rimane esterna ai raziocini più interessanti dal pun
to di vista dei fondamenti, la logica moderna è fonte di importanti proble
mi e forse ancor più di basilari precisazioni. La novità sta soprattutto in
questo: che, dato il carattere fortemente tecnico di questa nuova logica, essa
può esser studiata e coltivata con profitto anche da chi non si interessi par
ticolarmente di filosofia. È successo altre volte, in altri campi.
Naturalmente gli esiti saranno, per un filosofo o meno, alquanto diversi.
È probabile che un filosofo, commentando i lavori di logici intesi come pura
mente tecnici, esca con qualche osservazione pungente. Ma questo, si imma
gina, sarà il tenore di tutti i commenti intorno alla rilevanza di ciò che un
altro sta facendo. Tuttavia è imprescindibile osservare che in epoca contem
poranea i lavori più importanti in merito sono dovuti a coloro che erano suf
ficientemente addestrati nelle nuove tecniche da riproporre, anche per la filo
sofia, una ridiscussione di antichi argomenti mediante un rinnovato rigore.
Si possono citare come esempio le famose «antinomie» di Kant a carattere
cosmologico: il mondo è finito o infinito.'' È eterno o non eterno? E cosi via.
Kant sostiene che qualunque risposta è un’antinomia, cioè che include
anche la sua negazione, e perciò comporta contraddizione.
LOG1C/X 21

Queste antinomie kantiane vengono ridiscusse da Russell nel 1903, con


l’intento di sostituire alla formulazione loro data da Kant una più esatta e
stringente. Evidentemente Russell era attratto dal problema, giacché aveva
già scoperto altre antinomie nei fondamenti del pensiero di Frege. Gli argo
menti di Kant, per chi non li avesse presenti, sono più intuitivi che ineccepi
bilmente formali; sorge cioè il dubbio che non siano vere e proprie antino
mie, in senso tecnico. E infatti Russell nel corso della loro riproposizione
giunge alla conclusione che non lo sono; cioè tesi e antitesi non hanno lo stes
so valore probativo, e non si dà quindi vera antinomia. Che io sappia, que
sto tentativo non è stato più rifatto; è parso definitivo il parere di Russell.
Comunque sia, questo esemplifica un intento ben preciso. Si tratta di
riprendere una vecchia dimostrazione, relativa all’impossibilità di decidere
se il mondo sia finito o infinito, all’inconcludenza delle ragioni per conce
pirlo come eterno o avente invece un inizio nel tempo, e così via seguendo
le quattro antinomie, col solo ausilio di una riformulazione più accurata. Se
infatti Russell fosse positivamente riuscito a riformularle con l’aiuto della
nuova logica in maniera ineccepibilmente rigorosa e noi, leggendo Russell,
ci fossimo convinti che permangono come antinomie anche nella nuova for
mulazione, ecco che oggi potremmo sostenere non solo che gli argomenti
kantiani sono corretti ma che risultano improponibili questioni di tale tipo
totalizzante. Forse Kant potrà aver ragione lo stesso; non però logicamen
te. E invece, secondo Russell, Kant ha formulato troppo scorrettamente tali
argomenti per trarne una così fatta conclusione. Anche questa conclusione,
a sua volta, è molto importante. Se uno oggi vuol sostenere che il mondo è
finito, oppure è infinito, e così via, può certamente farlo. È dubbio se pos
sa farlo per ragioni logiche, ma è certo che non gli si può per le stesse ragio
ni proibire di farlo.
Ci sono molti altri argomenti di questo genere, che la logica moderna tro
va di nuovo interessanti e che stimolano gli interpreti a ricercare la desidera
ta formulazione esatta. Uno di questi è il cosiddetto x u q l e ù io v Xóyoq (la
«proposizione dominante»), in una congiunzione di tre giudizi sul possibi
le che conduce a un’antinomia cd è di effetto destabilizzante su certi invete
rati usi linguistici. Ma sarebbe troppo lungo esporlo. Un altro esempio,
divertente e assai più noto, è quello dell’«asino di Buridano». Questi, posto
davanti a un bivio con un secchio di biada a destra e uno sulla sinistra, sic
come non ha motivo di scegliere quello a destra piuttosto che quello a sini
stra o viceversa, si ferma perplesso e muore di fame. Non tutti sanno però
che questo argomento potrebbe essere non solo divertente, ma anche serio.
PRIMA LEZIONE

Diventa un argomento serio se si dice che nil sine ratione, c che occorre sem
pre un motivo, o una causa, per scegliere anche tra due cose apparentemen
te equivalenti. A uno che sostenga sul serio che nulla può avvenire senza una
j ragione, auguro tuttavia di non trovarsi mai nella situazione dell’asino di
Buridano, perché sarebbe costretto a digiunare o a smentirsi.

5. Vediamo ora per quali difetti della logica tradizionale si è dimostrato


decisivo l’uso della notazione simbolica.
Il primo importante vantaggio si è registrato nella possibilità teorica di
superare l’equivocazione. L’equivocazione si dà nel linguaggio allorché usia
mo un termine, o una parola, con due o più significati diversi. Ciò può esse
re inevitabile, e non è detto sia un male necessario. Nulla vieta a una paro
la della lingua di poter avere o assumere due o più significati diversi. Ma
diventa un male, o un inconveniente, quando a ogni parola logicamente usa
ta si dà il significato di un concetto. Un concetto non può avere due, o più
significati diversi, o altrimenti non è più un concetto. Un concetto ha da
essere univoco, o non è più un concetto. Si parli allora di significato, che
può esser diverso perché non ha la pretesa di esser concetto. Il rimedio è
offerto dalla definizione concettuale di ogni termine; si può anche dire che
ogni termine è tale, solo se ammette una sua definizione concettuale. Con
ciò non abbiamo assegnato restrizioni all’uso filosofico; abbiamo solo pre
visto di usare il concetto per un certo uso del significato. In base a questo
modo di ragionare non si può più argomentare dicendo di intendere con
una certa parola una certa cosa piuttosto che un’altra, in base alla tradizio
ne o alla competenza linguistica, ogni volta spostando l’uso rilevante del
significato. Ma, in base allo statuto artificiale e quindi convenzionale del
nostro linguaggio, diremo semplicemente che abbiamo inteso questo o
quello, sulla scorta delle nostre definizioni. Né c’è più un appello palese o
occulto alle abitudini semantiche dei nostri interlocutori; si va semplice
mente a vedere quale sia il significato che abbiamo definito, nel caso che si
presti a esserlo, o altrimenti a controllarne la spettanza verosimile.
In secondo luogo l’uso del linguaggio permette, piu o meno secondo il
grado di formalizzazione del linguaggio, la trasformazione del ragiona
mento in calcolo; come avviene già in matematica, dove nessuno inferisce
alcunché, né deduce né induce, ma calcola. Nel calcolo algebrico poi, nes
suno fa uso di abachi, ma semplicemente sostituisce un algoritmo con un
altro dopo naturalmente avere bene appreso le regole di trasformazione e
di sostituzione. Così in logica simbolica (semplifichiamo) dire ‘se a, allora
LOGICA ^3

b’ (a —> b) vuol semplicemente dire ‘o non-4, o b\ Così non-rt vuol dire che,
se a ha valore 1, non-d ha quello duale, che è 0. Oppure viceversa nel caso
di convenzione diversa.
Possedendo un po’ d’esercizio questi passaggi si fanno algoritmicamen-
te senza pensare a che cosa significhino. Ciò è dovuto alla coincidenza del
l’idea di reticolo dell’algebra booleiana e della forma linguistica astratta, evi
denziata da Frege. Il passo decisivo penso sia stato, in questo caso, il
concetto fregeiano di valore di verità. In una logica bivalente (a due valori
di verità), i valori della verità possono essere 1 o 0, volgarmente il vero o il
falso\ in una logica a tre valori di verità, saranno il vero, il falso o Vincerlo.
In una a n valori di verità saranno il vero, il falso e gli n -2 valori di verità
(differenzialmente) intermedi tra 1 e 0.
Questa notazione del tutto relativistica è stata un vantaggio decisivo sot
to il profilo concettuale, perché quando Aristotele deve parlare della logi
ca, benché ne parli nel nostro senso, deve dire che Vanalitica è quella scien
za che tratta dell’òv cu; aXiiGég (dell’ews tamquam veruni), perché egli non
possiede il concetto del «valore di verità», e introduce in sua vece quello del
quam-si o del «come se», che agisce come un destabilizzante ontologico. In
effetti ci si sente in imbarazzo di fronte a questa formula. Come fa l’ente a
far finta di esser vero? L’ente o c’è, o non c’è. Il discorso sull’ente (su ciò che
c’è) è un discorso logico se assumiamo che le premesse siano vere e che
quindi quel che consegue si dia di necessità, expositis. È analitico ciò che
sappiamo in base a ciò che abbiamo detto, ma non sappiamo la rilevanza di
fatto di ciò che abbiamo detto. Questo definisce certamente l’importanza
del sillogismo, cioè dell’analitica, ma non sappiamo di fatto che cosa esso
significhi, perché non sappiamo se quanto abbiamo detto sia un entimema
che dipende da altre ipotesi o un’ipotesi puramente congetturale. Perciò tut
to il complesso del discorso relativistico, o cautelativo, è abbastanza goffo,
perché non dice di più di quel che esprimiamo in maniera puramente ipo
tetica. Aristotele si rende ben conto di ciò, escludendo che l’analitica faccia
parte della metalisica: la logica non è una scienza reale, perché parla di fin
zioni (coinc-sc) c non di cose sia pur generali ma effettive, come in fondo
fa la metafisica. Infatti egli non coordina la logica alla metafisica, ma ne fa
un ÒQyavoV o strumento del tutto speciale che non è bene inquadrato nel
sistema delle scienze obiettive.
La difficoltà nel dire qual sia l’oggetto della logica ha non poco imba
razzato il suo sviluppo. È di nuovo con Frege che spunta l’idea decisiva; può
sembrare una cosa da poco, e invece ne è la mossa fondazionale. La logica
PRIMA LEZIONE
24

non è una scienza reale, essendo suo oggetto non una costante in qualche
modo data, bensì una variabile. Questo oggetto formale è il suo valore di
verità, che può variare tra vero e falso; vero, falso e incerto; e così via. Non
dobbiamo fare altro che darne una definizione corrispondente, poiché una
scienza in generale può avere un oggetto qualsiasi, non è detto una costan
te. Se la matematica dovesse avere un oggetto reale, cioè costante, sarebbe
finita all’epoca della scoperta degl’irrazionali, circa nel vi secolo a.C. La sco
perta di Frege è la determinazione dell’oggetto formale della logica, che è
abbastanza ampio da comprendere anche i fondamenti della matematica.
Purtroppo è anche troppo ampio, fino a includere certe antinomie. Ma que
sto è un altro discorso; non abbiam detto che la nuova logica è una panacea
valevole per rutti i mali.

6. In genere non è interessante seguire lo sviluppo di logiche a più di due,


fino a infiniti valori di verità. Può sembrare bello, ma la cosa non ha gran
di sviluppi. A rutti gli scopi rilevanti, basta quella a due valori di verità. Non
avendo la logica valore conoscitivo, ci interessa solo sapere qual ne sarebbe
la configurazione adatta per risolvere certi casi. E chiaro che quando dob
biamo risolvere problemi concreti adopreremo gli strumenti del caso, più
pertinentemente analitici. Neppure sono importanti le altre divisioni della
logica che possono darsi. Noi usiamo normalmente una logica aletica., che
non usa funtori modali e si occupa semplicemente del vero e del falso. Ma
potremmo benissimo impiegare una logica modale che usa funtori modali
del tipo «è possibile che x», «è necessario che j», «non è possibile che z», e
così via. Allo stesso modo potremmo fare intervenire una logica probabili
stica usando funtori i quali dicano che è probabile, indicando anche la per
centuale di probabilità, che da a segua b. Si tratta di questioni che furono
assai dibattute agli inizi di questa nuova problematica, ma che in seguito
furono progressivamente disertate, quando si capì sempre meglio che esse
fanno parte della metodologia dell’applicazione della logica, ma non ne
mutano il quadro di riferimento teorico.
Ci sono invece questioni che sembrano ancora vantaggiosamente dibat
tute, come l’intervento di logiche libere, con cui si può operare corretta-
mente (cioè, in maniera calcolistica) anche in presenza di contraddizioni
marginali. Le logiche libere corrispondono all’esigenza di avere una logica
non contradittoria nel fuoco del proprio interesse, senza bisogno di dover
si salvaguardare dall’insorgcre di possibili incongruenze stabilendo pre
ventivamente un solido quadro teorico cui attenersi. Le logiche libere, si
LOGICA
25

può dire, sono logiche senza sponde; quelle teoretiche, come per esempio
quella che desiderava Russell, sono inquadrate fin dall’inizio in modo che
non sorgano certi problemi. Esigenza che, in molti casi, si è dimostrata
superiore alle capacità umane di previsione. Direi però che anche queste fac
cende, una volta assodata la formalità di un certo ambito, non interessano
più di tanto; esse fanno parte di un problema di applicazione, metodologi
co e interpretativo.
Come filosofo e interessato alla storia del pensiero, rilevo l’importanza
che la logica moderna ha conferito alla riscoperta del vero significato delle
opere dei medievali e degli antichi, per lo meno di certuni tra di essi. Si trat
ta di autori, tra antichi e meno antichi, che hanno dibattuto con un’ostina
zione degna di un miglior pubblico questioni e paradossi logici che un seco
lo fa non eravamo nemmeno in grado di apprezzare. Per questo recupero
storico dobbiamo esser grati ai fondatori della logica moderna. Più di
cent’anni fa c’erano logici e storici della logica considerevoli, come Trende-
lenburg, Ùberweg o Prantl, che tuttavia mancavano di conoscenze tecniche
adeguate; cosicché, quando s’imbattono in argomenti che per essere apprez
zati richiederebbero un notevole sforzo di riformulazione e di discussione
applicata, finiscono col trascurare il tema trovandolo impertinente o non
interessante.
Se ne può dare un esempio richiamando l’argomento della consequentia
mirabilis (detta anche «legge di Clavius») di cui si avvalsero i primi studio
si di assiomatica per discutere la questione dell’indipendenza degli assiomi
tra loro. Se per esempio risulta che negando il quinto postulato (o assioma)
di Euclide non cade tutta la geometria, ma ne resta in piedi una parte con
siderevole, si è con ciò dimostrato che il postulato delle parallele è indipen
dente dagli altri, cioè si sovraggiunge a essi. Se esso non fosse indipenden
te, negandolo si comprometterebbe l’intera costruzione. Questo si discute
applicando (ma è la metodologia che deve poi decidere) la legge di Clavius
che, nella sua generalità, in simboli si esprime così: -</>—> (p —» <7). Se negan
do il principiop l’implicazionep —> q rimane valida, questo vuol dire chep
è implicito in ciò che si vuol negare; perciò la sua negazione comporta la
distruzione di tutta la costruzione. Se invece questo non succede, è dimo
strata l’indipendenza di p rispetto a q\ cioè del nuovo assioma aggiuntivo.
Queste sottigliezze non erano facilmente sopportate in quel periodo del
XIX secolo in cui si mirava a cogliere il contenuto piuttosto che la forma del
pensiero, conformemente alla valutazione psicologistica della logica. Eppu
re detto principio era stato usato anche da Euclide, Teofrasto, Crisippo, per
26 PRIMA LEZIONE

tacere dì Anseimo e Bonaventura, che ne danno un’applicazione teologica


nell’argomento ontologico. Oltre al pensiero psicologistico, di cui s’è det
to, anche quello storicistico prevalente nello stesso torno di tempo è stato
decisamente incline a un orientamento contenutistico del pensiero, e quin
di ha mostrato una decisa insofferenza per questa specie di problemi. Vi è
quindi stata una revisione deH’orientamento del pensiero storico nel suo
complesso, e a questo punto si dovrebbe parlare dell’opera pionieristica
svolta in proposito da Couturat. Credo tuttavia si capisca bene il senso del
la correzione introdotta, volta a impedire che, anche da un punto di vista
storico, una parte di ciò che è stato tramandato non si possa più ricostruire
adeguatamente.

7. Un punto importante che non posso tralasciare, e che anch’esso si


deve a Frege, è il recupero della logica come logica proposizionale nei con
fronti della logica predicativa (o logica del termine) che era invece prevalsa
in epoca precontemporanea. Si può anche dire, un po’ meno bene, il recu
pero della logica stoica nei confronti di quella aristotelica. Una delle cose
che colpisce di più, percorrendo una qualsiasi storia della logica premoder
na, è che l’esemplificazione che prevale come canonica è «Socrate è morta
le». Questo è un esempio assai complicato di situazione logica. Ho il sospet
to che la tradizione provenga direttamente dall’Accademia, nella cui «aula
magna» da un lato c’era un quadro di Socrate che parlava con i suoi disce
poli e dall’altro sempre Socrate che aveva appena bevuto la cicuta. Quando
Aristotele teneva lezione gli veniva forse naturale dire, accompagnandosi
col gesto: «vedete, qui Socrate è vivo, là invece è morto, o sta morendo. Ma
il fatto che stia morendo vuol dire che era mortale anche quando viveva.
Diciamo dunque “Socrate è mortale”». Più seriamente, io credo che l’e
semplificazione sia dovuta all’abitudine del tutto naturale di discutere i pro
blemi di esistenza in connessione col tempo. «Socrate è vivo» e «Socrate è
morto (= non vivo)» sono proposizioni tra loro contraddittorie, se non si
tien conto del tempo cui si riferiscono. Ma «Socrate è mortale», morto
Socrate, resta vera anche quando lui era vivo. Però prima che lui morisse
non si poteva dire se fosse vera. Avrebbe anche potuto essere immortale.
Si deve anche tener presente il modo tenuto da Aristotele nel definire il
principio di contraddizione esclusa. Egli dice che e impossibile che una stes
sa cosa, nello stesso tempo, appartenga e non appartenga a una medesima
cosa, sotto lo stesso rispetto. Qui la complicazione appare proprio alla radi
ce del principio. Ciò dipende dal fatto che è enunciato in maniera predica-
LOGICA 27

tiva; questa maniera ha il vantaggio di essere intuitiva, ma si porta appresso


un insieme di complicazioni, segno evidente che essa non è primitiva, da un
punto di vista logico. Enunciato alla maniera moderna, invece, il principio
ha un fraseggio molto secco:' ->(p & -’/?). Non c’è menzione di tempo né di
aspetto. Per evitare fraintendimenti bisogna però specificare chep sta per
un’intera proposizione, non importa quale, purché sia sempre la stessa.
Per fare un esempio di logica proposizionale, è bene ricorrere alla logi
ca degli Stoici, i quali fornivano quali esempi di proposizioni espressioni
come tpcòg è ari (è luce), ìipépa èoit (è giorno), vvS, è o t l (è notte), e così via.
È facile capire che in questi casi la proposizione può essere affermata o
negata solamente in blocco, essendone impossibile la scomposizione in sog
getto e predicato. In «è giorno» non è possibile distinguere il quid o quod
dal quale, quantum, agens, patiens, ecc. Gli esempi sono scelti ad hoc e non
casualmente. Infatti in greco, come pure in latino e in italiano, non c’è nean
che grammaticalmente l’obbligo di mettere nell’enunciazione il falso sog
getto nominale. Certo la discussione sarebbe stata più capziosa se la lingua
in questione fosse stata il francese, l’inglese o il tedesco, poiché in tali enun
ciazioni si presenta un soggetto grammaticale che è il puro raddoppiamen
to del predicato nominale, privo di senso logico.
La logica proposizionale (o enunciativa) deve la sua fondamentalità
proprio a questa primitività. Infatti il calcolo proposizionale corrisponden
te è l’unico completo, cioè per ogni caso occorrente in esso si può dimo
strare che valep o -p, coerente, cioè non contradittorio o escludente l’eve
nienza di p &. ~p, e semplice, tale che in esso nessun assioma è implicito
negli altri. La dimostrazione che esso gode di queste proprietà è offerta dal
Primo teorema di Godei, mentre per il calcolo predicativo manca una sif
fatta prova. Anzi, se questo non viene delimitato ad hoc, come diremo
meglio, una tale prova non può nemmeno esistere. Così la logica dei pre
dicati, pur essendo assunta dalla tradizione logica premoderna come intui
tivamente più perspicua, non può esser da noi ritenuta come fondamenta
le perché manca (e con ragione) di qualsiasi prova di completezza o di
coerenza. Il calcolo predicativo ammette una tale prova solo se delimitato
artificialmente a un’estensione finita, con limite all’infinito dei razionali, e
ai predicati del primo ordine. I predicati del primo ordine ammettono solo
la quantificazione del soggetto, mentre quelli del secondo ordine ammet
tono anche la quantificazione dei predicati del primo ordine. Ora è questo
calcolo del secondo ordine che non consente una chiusura sistematica, e
quindi resta privo di assiomatizzazione. Purtroppo solo un calcolo predi-
PRIMA LEZIONE
2S

cativo del secondo ordine sarebbe in grado di fornire una giustificazione


logica dell’aritmetica dei numeri reali, per lo meno nell’interpretazione
logicistica di Frege e Russell. Ora il fallimento del programma formalisti-
co di Hilbert, sancito dal Secondo teorema di Godei, determina non solo
una restrizione consapevole delle procedure dimostrative, ma fa insorgere
delle differenze filosofiche decisive all’interno dello stesso pensiero logico
e/o matematico.

S. Quanto all’interpretazione o, meglio, alle interpretazioni della logica,


trattandosi di raccordare dei calcoli astratti a delle esemplificazioni concre
te, devo dire che la questione è assai controversa, che non può esser la stes
sa per tutti. In genere occorre stabilire dei modelli quanto meno parziali che
agevolino la comprensione del tipo di riferimento che si sottintende. Infat
ti il significato in una disciplina astratta non può mai identificarsi con il rife
rimento concreto, dato che questo per lo più non c’è, ragion per cui l’e
sempio serve solo a capire, quando ci si riesca, che specie d’intenzione
significante uno abbia in mente.
Si distinguono per esempio predicazioni universali e particolari-, queste
ultime sono concepite come negazioni delle prime. Sarebbe una quantifica
zione universale dire «tutti gli uomini sono ricchi»; la negazione di que-
st’ultima, «non tutti gli uomini sono ricchi», equivalente a «qualche (non
ogni) uomo è ricco (= povero)» è la quantificazione particolare. Ora c’è
un’altra distinzione tra predicazioni ipotetiche e esistenziali. Ci sono alcu
ni che interpretano le proposizioni esistenziali come particolari, e conse
guentemente le universali come ipotetiche; in base al fatto ovvio che queste
ultime non sono mai certe se l’universo di discorso (il soggetto di cui si par
la nella quantificazione) è illimitato o indefinito il numero, e che per esibi
re una particolare è sufficiente presentare un esempio di negazione di una
universale. Basta che esista un uomo provatamente povero per confutare
l’asserzione che tutti gli uomini sono ricchi. Una volta capito il meccani
smo, non c’è bisogno di perdersi in spiegazioni. D’altra parte ci sono altri
che, con non minori né meno plausibili ragioni, interpretano le esistenziali
come universali, senza considerare le particolari, che in questo caso diven
tano irrilevanti da esprimere. Allora dire che Socrate è mortale diventa equi
valente a dire che «tutti i Socrati sono mortali». E non vale ribattere che di
Socrati ce n’è solo uno; perché la predicazione universale non riguarda il
numero degli elementi di una classe, ma la totalità della loro inclusione in
essa. Trattandosi di materia teorica, l’obiezione è piu convincente di quan-
LOGICA 29

to sembra. In logica solo le predicazioni universali (o totalizzanti) possono


avere lo statuto di vere proposizioni logiche.
La logica moderna ha contribuito come poche altre discipline al risor
gere di una filosofia scientifica. Questa istanza è assai più forte e meno
moderata di una semplice filosofia della scienza:, ed è un’esigenza che si fa
valere anche in sede legittimamente storiografica. Oltre alla ripresa di auto
ri e movimenti come gli Epicurei, gli Stoici, gli Scettici e i Neoplatonici, e
di certe correnti medievali come i Terministi, i Modisti e i Nominali, cia
scuno nel proprio specifico universo di riferimento, questa filosofia scien
tifica sotto relativizzazione storiografica ha al suo attivo, per esempio, il
recupero di Leibniz, come si è detto. La riprova che non si tratta di sterile
erudizione accademica sta nel fatto che oggi Leibniz, malgrado la sua scien
za non sia più la nostra, dice indubbiamente di più che Kant; e questo nono
stante che il suo modo di pensare, spesso tanto formalistico, sia avvertito
con fastidio da molti studiosi storicizzanti. Sia ben chiaro che non ho volu
to parlar male di Kant. Gli autori che ci erano cari nel XIX secolo ci sono
presenti anche ora: Mozart non costituisce una confutazione di Bach, né
Beethoven degli altri due. Forse il cambiamento sopravvenuto attiene più
alla strumentazione che alla sintesi concertatoria. Con tale strumentazione
tuttavia la nostra epoca aggiunge una nuova sensibilità per aspetti diversi,
che forse in passato apparivano tra loro ripugnanti. In base a queste consi
derazioni si può forse affermare che, mentre nello storicismo di stile XIX
secolo non c’era modo di emergere se non con opzioni ideologiche, e forse
estetizzanti, di rottura stilistica con una tradizione, oggi invece si gode di
una (per principio) illimitata contemporaneità col passato, ragion per cui è
impossibile che per quanto individualista uno non trovi la propria nicchia
di soddisfazioni in un passato che glielo consenta: e quindi si deve consta
tare che mai finora un’epoca era mai stata tanto ricca di interessi tanto diver
si tra loro. E questa una contraddizione? No, se si sostituisce alla polemica
autoesaltantcsi e in fondo drogata la tolleranza non dell’indifferenza ma del
la mutua valorizzazione. La conclusione è forse troppo irenica, o più edifi
cante del dovuto. Come si deve interpretare quanto detto? Forse, nel sen
so di un superamento della storia stessa. È difficile parlare in termini di
civiltà postindustriale, e non so nemmeno se sia corretto farlo; in ogni modo
si scorgono gli estremi della questione plausibile che il discorso racchiude.
Nei nostri termini il discorso si fa ancora più utopico; ma nel momento in
cui si è capaci (o si fosse capaci) di esser contemporanei di Parmenide e di
Kant, di Aristotele c di Leibniz, di Buridano e di Russell, e così via: in tale
PRIMA LEZIONE

evenienza si vivrebbe un momento che ha superato la storia. Esso ancora
disporrebbe di grandi risorse di simpatia, ma non coltiverebbe predilezio
ni o antipatie per nessuno.
Non so abbandonare l’argomento senza toccare in maniera molto libe
ra un folto insieme di considerazioni conclusive. Ritorniamo al tema della
logica proposizionale. Questa logica ha come oggetto il vero o il falso; ma
in un altro senso: non come variabile proposizionale. Altrimenti si potreb
be dire che essa non ha oggetto, o che ce l’ha come obbligo puramente tra
scendentale. L’oggetto della logica, che dovrebbe essere il vero, per via del
la variabile non c’è più. C’è la possibilità di vero o falso; ma la possibilità,
ridotta all’oggetto, diventa l’ambivalenza del vero o del falso. Dunque l’og
getto non è vero, non è reale: ma è il confuso insieme di vero o di falso. A
questo punto avvertiamo una certa confusione: che cosa vuol mai dire ave
re p£r oggetto non questo o quello, ma l’insieme di «questo o quello»?

9. Qui sotto processo va il capire. Che cosa vuol dire mai «capire», se con
esso intendiamo mettere sotto un’etichetta, di cui non comprendiamo la
genesi, qualcosa che diciamo di aver capito solo dopo averlo messo sotto
un’etichetta? Se dico il «vero» o il «falso», come oggetti, che cosa si capisce?
O se dico, peggio ancora, il «vero o falso» come unico oggetto, che cosa si
capisce ancora? Ma se invece io dico «Socrate è mortale», questo si capisce:
ma che cosa? Che forse una verità venga fuori dall’unione di due rappresen
tazioni? Ma questa idea del congiungimento è una strana teoria. Perché allo
ra la disgiunzione del vero o del falso non dovrebbe costituire una verità?
Ma non è forse ragionevole che logica e matematica debbano riscoprire
la loro antica origine e parentela formale? Nessuno oggi metterebbe in for
se un’idea del genere. Evidentemente la matematica ha in comune con la logi
ca il principio di un’identità puramente formale, costituita di pensiero o di
attività di carta e matita; non certo di sassi o sacchi di cemento. Ma la mate
matica ha in proprio un principio induttivo, per il quale essa può allargare la
propria conoscenza di identità astratte. Lo stesso non si può dire della logi
ca, la quale può allargare il suo momento formale solo approfondendolo;
non come principio d’induzione. In assenza di tale requisito puramente
intensionale dell’approfondimento, estensionalmente la logica potrebbe con
siderarsi, come dice Kant, già acquisita fin da Aristotele. Come si possono
unificare le due discipline, se non dicendo che il loro oggetto comune è «il
formale o l’induttivo: cioè l’identico e il diverso»? Questo problema mi pare
che non sia stato risolto, ma che possa esser foriero di nuovi guai.
LOGICA 31

Nella logica modale si considerano due altri modi di dire o maniere di


pensare: il possibile e il necessario. Essi vengono formulati, nell’interpreta
zione chiamata de dicto, come prefissoidi che reggono per intero una pro
posizione. Per esempio «possibile» si esprime dicendo «è possibile che />»;
«necessario», «è necessario che -*p». La negazione del possibile produce il
non-possibile, cioè l’impossibile; e «è impossibile che/?» è lo stesso che dire
«è necessario che ip». Questa opposizione, strutturalmente parlando, è
duale. Allo stesso modo negando il necessario, «non è necessario che p»
dovrebbe essere equivalente a «è possibile che ->/?». Entro questi limiti va
tutto bene. Ma questo algoritmo non esaurisce tutto il campo della logica
modale. Il possibile è incluso nel necessario, o ne è escluso? Se si risponde
di sì, conformemente a un uso leibniziano del possibile, si dà la sequenza
necessario —» esistente —» possibile, insieme con la duale impossibile —» ine
sistente —» possibilmente inesistente. Inesistente, concepito così come con
tingente, si può considerare la congiunzione di «è possibile che p» e «è pos
sibile che -p». In tal modo il quadro diventa coerente, ma occorre notare
che questa è solo un’interpretazione: quella, per l’appunto, di Leibniz. Per
la verità ne esistono almeno una dozzina di altre differenti da questa, e tut
te perfettamente coerenti. A parte questo, esiste anche un’interpretazione de
re della logica modale, fondata sul predicato e non sulla modificazione del
l’intera proposizione. Essa è più coerente con l’interpretazione predicativa,
e cioè concettuale (del termine) della logica. E non si può tanto facilmente
eliminare, poiché è profondamente radicata nei nostri usi linguistici, anche
scientifici. Anziché dire per esempio che è possibile che siap, in questa inter
pretazione preferiremmo dire che il predicato di p è potenzialmente vero.
Di qui discendono gli usi del possibile in re, il potenziale e il virtuale.
Anche della logica della probabilità si può dare un’interpretazione de dic-
to e una de re. La prima riguarda la probabilità della previsione, espressa nel
% del numero dei casi in cui ci si aspetta; l’altra invece concerne la probabi
lità intrinseca del caso o evento, che corrisponde piuttosto a un grado di esi
stenza «minore» di 1. Vi è poi un’ulteriore specializzazione del formale, che
è il normativo. I suoi prefissoidi «è obbligatorio che /?», «è permesso che p»
ccc. sono gli equivalenti del modale in campo etico. Anche il normativo può
esser trattato al calcolatore, poiché le corrispondenti combinazioni sono
suscettibili di calcolo. Parimenti, alla normatività de dicto corrisponde l’in
terpretazione «giuridica» del comportamento, mentre a quella de re (predi
cativa, ossia significante) l’interpretazione «morale». Questo richiama alla
mente il fatto, in generale, che in un certo senso la logica modale intesa come
PRIMA LEZIONE
32

de re consiste nell’attribuire al mondo stesso necessità (razionale) e libertà


(contingente), mentre la concezione de dicto non concede al mondo che la
{atticità (modalmente neutra) e restringe alla mente dell’uomo, c al suo lin
guaggio, lo spazio illusorio (epifenomenico) di quell’altro significato.
Credo sia risultato chiaro in che senso la logica, pur avendo un proble
ma di linguaggio in proprio, non possa dipendere da una lingua o da consi
derazioni linguistiche. Esiste di certo una logica interna alla lingua (ad ogni
lingua parlata o scritta), ma questa non costituisce la fondazione della logi
ca senza frase. E mi pare che la situazione sia illustrata al meglio dal caso del
la logica modale. Aristotele segue la lingua, e non ammette che il possibile
segua dal necessario. Secondo lui il possibile esprime anche il potenziale; non
è solojl ò v v u t ó v . ma il òuvaiiEi òv. Da ciò consegue che quest’ultimo, essen
do virtualità di essere e di non-essere, è più ampio e non può risultare inclu
so nel primo, che è solo àvéyxT], necessità d’essere. Perciò, volendo attener
ci alle regolarità della lingua, noi dobbiamo relativizzarne la logica fino al
punto di non poter più disporre di un calcolo. Viceversa, assumendo la mate
matica interna a una parte del linguaggio, noi possiamo dissociare la logica
dalla linguistica e stabilirne l’autonomia. Il prezzo da pagare consiste nella
lunga catena del medio interpretativo. La logica conquista l’indipendenza,
ma si lascia dietro un lungo strascico di pensieri e di commenti.
La logica è una nozione chiara solo in apparenza. Essa fu inventata dai
greci antichi, che in questo come in tanti altri campi ci sono stati maestri.
Ma questo non deve ingannare, poiché tutto il pensiero moderno ha un
rivolgimento opposto a quello greco. Tale opposizione è dialettica, d’ac
cordo, nel senso che conserva il significato di ciò che nega. Ma vediamo il
nostro caso. È la logica un concetto? Per dir di sì, bisogna accertarne l’uni
vocità. Senza univocità non c’è concetto. Ciò non toglie che possano esser
ci dei significati oscillanti e ambigui, interessanti fin che si vuole, ma che non
possiamo accreditare come concetti. Detto questo, mi pare che per un orec
chio moderno la logica non sia un concetto. Essa è un ibrido di due com
ponenti: la lingua (o, nel senso che s’è detto, la psicologia) e il calcolo, che
si assomma nella capacità di dare una matrice. Dunque non esiste come con
cetto la logica, ma solo come combinazione limitativa su entrambi i lati di
linguaggio e calcolo. Oggi i computer offrirebbero abbondante prova in
proposito, se non fosse che la logica del calcolatore è limitata a una sotto
specie di logica. La potenza mentale dei greci fu abbastanza suggestiva,
combinata con la loro lingua, da produrre persistenti oggetti fantasmatici.
Uno di questi è quello che fu chiamato logica.
LOGICA 33

Credo sia sufficiente dir questo per liberarci dal «linguisticismo» che tut
tora incombe nel discorso logico. In precedenza c’era stato il pericolo del
l’attribuzione della logica alla psicologia. Quest’ultima era intesa non solo
come scienza della vita psichica, ma in particolare della sua fisiologia, ivi
incluso il pensiero e le altre attività psichiche superiori. Ora è facile demoli
re questa tesi, ma l’onore di essere il primo ad aver formulato una decisiva
obiezione contro lo «psicologismo» spetta a Husserl. Nelle sue ricerche logi
che del 1899 egli osservò che nessuno dubita che la fisiologia del pensiero sia
un fatto materiale, ma che su tale base si giustifica altrettanto bene tanto un
ragionamento giusto quanto uno errato. La differenza specifica tra un ragio
namento corretto e uno scorretto non si può misurare in kilocalorie, dicen
do per esempio che il pensiero corretto costa più sforzo e quindi consuma
di più, o invocando una misteriosa attività psicofisica come «scatola nera» di
cui non sappiamo nulla. La differenza non può consistere che nel fatto di
ragionare come si deve, e ciò vuol dire adoperare l’apparecchio fisiologico in
conformità con leggi logiche, non a causa di esse. Così una calcolatrice arit
metica (Husserl pensava a una di quelle macchinette di fine secolo che fun
zionavano con un giro di manovella) funziona bene non perché essa sia in sé
logica, ma perché strutturalmente è stata costruita in modo da produrre i
risultati desiderati; se fosse guasta o costruita male, produrrebbe altrettanto
bene risultati errati.
Ma la logica non si identifica nemmeno con il linguaggio, nemmeno con
quello artatamente costruito allo scopo. Probabilmente questo è un errore
simmetrico al precedente. Nella fattispecie fu Russell a scoprire l’antinomia
corrispondente. In genere, dice Russell, i greggi sono formati da pecore e
non, a loro volta, da greggi. Ma supponiamo che, in conformità con la teo
ria degli insiemi, io voglia parlare di greggi formati di greggi, e così via. Lin
guisticamente non vi sarebbe nulla da obiettare, purché si proceda molti
plicativamente e non di visivamente. Per quanto ne sappiamo in base agli usi
linguistici, le classi possono sia contenere sia non contenere se stesse come
elemento. Entrambe le costruzioni sono ammesse. Supponiamo ora che io
voglia costruire la classe di tutte le classi che non contengono se stesse come
elemento. Linguisticamente il costrutto è senz’altro possibile. Ma ora ci si
chiede se tale classe complessiva contenga o no se stessa come elemento. Ne
risulta una risposta antinomica. Se infatti la classe contiene se stessa, per
definizione viene a far parte di quelle classi che non contengono se stesse
come elemento; se invece si dice che non contiene se stessa, è una di quelle
classi che dovrebbero esservi contenute, sempre in virtù della costruzione.
3^ PRIMA LEZIONE

immaginiamo noi. Esso c’è solo nel suo esser-così. Questa differenza non
si può riferire a parole; si può solo ribadirla sperando che sia compresa. In
termini appena un po’ più consacrati, si può dire che essa riguarda la diffe
renza che c’è (o dovrebbe esserci) tra gnoseologia e ontologia, che non si
può appiattire su un solo riferimento. L'ontologia assume i significati come
se fossero fondamentali, quindi in rilevanza a tutto tondo; la gnoseologia li
riduce a quel che ne possiamo conoscere in proiezione bidimensionale.
Importante è notare che gnoseologia o ontologia non sono la stessa cosa. Si
potrà sopprimere l’incomodo riferimento all’ontologia, ma poi resta di ren
der ragione dell’altro, dei suoi limiti, soprattutto per quanto riguarda l’es
sere, l’esistenza, l’oggetto.
In conclusione, ho creduto di rispondere alle domande sulla logica: che
cosa essa è? Da dove proviene? È forse linguistica? È forse psicologia? È cal
colo, o un giochino che si fa sui simboli? A tutte queste domande ho cerca
to di rispondere non raccontando una favola, più o meno plausibile, ma con
un sicvel non. Il grande problema che rimane aperto è quello dell’applica
zione della logica. Con questo a mio parere resta stabilita la grande differenza
tra la logica, per quanto moderna, e la matematica. La matematica è infatti
cresciuta insieme con le sue applicazioni. Questo non si può dire della logi
ca, a meno che non si equivochi sul tenore della domanda. Quando per
esempio Newton e Leibniz inventano il calcolo, è un pezzo che i fisici mate
matici stavan dietro al problema delle tangenti. Trovato l’algoritmo, di lì a
presso vien subito trovata l’applicazione. Noi oggi troviamo una quantità di
cose di cui non sappiamo, presumibilmente, se ci sarà mai un’applicazione.
Il ragionamento sui mondi possibili, pur essendo sensato, non è affatto con
cepito in vista di un’applicazione su altri pianeti. E d’altra parte sarebbe stra
no che ciò dovesse sempre succedere, che la matematica chiedesse alle scien
ze empiriche su quali campi esercitare i suoi algoritmi. Quando tale esigenza
si determina in genere sono gli scienziati empirici stessi, non i matematici, ad
applicare in quei campi del sapere una sufficiente competenza per cavarsela.
Ma la nostra situazione è molto diversa.
Non si dimentichi: Vin sé è ciò che si risolve nel Sosein, nell'esser così in
senso fantasmatico-conoscitivo; il per sé non si risolve, essendo ciò che è
reale per conto suo. La definizione non è effettiva, ma credo di doverci
ritornare più volte in seguito. Noi lutti vogliamo esser realisti, anche il filo
sofo. Solo, non si sa come dirlo. Ho cercato di dirlo, ma forse con un truc
co. Se è così, mi dispiace.
LOGICA 37

Nota bibliografica

La «logica del concetto», o del «termine», le cui lontane origini risalgono


alla tradizione delle «categorie» di Porfirio e, indirettamente, all’Organon di
Aristotele, assume la forma apparentemente definitiva di «concetto della logi
ca» nell’idealismo tedesco, di cui resta esemplare il testo di George Wilhelm
Friedrich Hegel, Wissenschaft der Logik, 3 voli., Berlin 1812-16 [Logica].
Nell’indirizzo «scientistico», o cartesiano, del pensiero moderno, la logica è
invece considerata ineffabile proprio perche immanente al «metodo». Que
sta tradizione culmina col positivismo classico, che pone esplicitamente il
divieto della logica formale: v. in proposito Auguste Comte, Cours dephilo-
sophie positive, 6 voli., Paris 1830-32 [Corso]. E inoltre, dello stesso, Systè-
me depolitiquepositive, 4 voli., Paris 1851-54 [Sistema]. Il tratto d’unione e
di continuità tra la concezione tradizionale della logica (o del metodo) e quel
la invalsa all’inizio del nostro secolo è tuttora considerato l’ottima ed equili
brata silloge, da un punto di vista empiristico, di John Stuart Miìì/A System
of Logic (ratiocinative and inductive, being a connected view of thè princi-
ples of evidence and thè methods of scientific investigation), London 1843
[Sistema di logica]. L’isocronia di contemporaneità presenta un tratto carat
teristico saliente, che oggi consideriamo preterintenzionalmente profetico,
nell’opera di Bernhard Bolzano, Wissenschaftslehre (Versuch ciner ausfùhr-
lichen und gròsstenteils neuen Vorstellung der Logik mit steter Rucksicht auf
deren bisherigen Bearbeiter), 4 voli., Sulzbach 1837 [Epistemologia].
I tre autori sono citati come rappresentativi del nuovo indirizzo del pen
siero in logica. Il contrassegno del «nuovo» e il superamento della logica
categoriale, o del concetto. Ciò è stato ottenuto identificando la logica con
un «calcolo» e individuando, al di là di ogni psicologia, una struttura di
«reticolo» precedente l’espressione linguistica sia del concetto sia della pro
posizione. Si tratta anzitutto del lavoro pionieristico di George Boole, An
Investigation of thè Laws of Thought (on which are founded thè mathe
matica! theorics of logie and probabilities), London 1854 [Leggi del pen
siero]. Si ha quindi l’«algebra della logica», ossia il tentativo, alquanto pre
maturo, di trattare algoritmicamente i problemi di logica, per cui v. Ernst
Schròder, Vorlesungcn iiber die Algebra der Logik, 3 voli., Leipzig 1890
[Algebra della logica], c infine la filosofia «logicistica» della logica, espres
sa sotto forma di interpretazione e recupero della logica di Leibniz, in Louis
Couturat, La logiqne de Leibniz (d’aprcs des documents inédits), Paris
1901, e, dello stesso, Opiisciiles et fragments inédits de Leibniz, Paris 1903.
PRIMA LEZIONE
38

Al nuovo secolo spetta l’effettiva opera di rifondazione, quale si esprime


nel lavoro di Russell e altri tra il 1900 e il 1920: Bertrand Russell, The Prin-
ciples of Mathematics, Cambridge 1903; On Denoting, «Mind», XIV, 1905,
pp. 479 93; Introditction to Mathematica! Philosophy, London 1919; Alfred
North Whitehead / Bertrand Russell, Principia mathematica, 3 voli., Cam
bridge 1910-13 (li ed. 1925-27). In questo torno di tempo l’opera di Euclide
consegue la sua prima edizione critica moderna, con l’intento di essere defi
nitiva: Euclidi* Elementa, ed. Johann Ludwig Heiberg, 5 voli., Leipzig 1883-
88; e inoltre The Thirteen Books of Euclid’s Elements, a cura di Thomas L.
Heath, 3 voli., Cambridge 1908.
Il principale fautore della nuova «logica proposizionale» è stato senza
dubbio, Frege, al quale si deve la profonda opera di supporto, di giustifica
zione e di fondazione per mezzo di un’adeguata ideografia: Gottlob Frege,
Begriffsschrift (Eine der arithmetischen nachgebildete Formelsprache des
reinen Denken), Halle 1879 [Ideografia]; Die Grundlagen der Arithmetik
(Eine logisch mathematische Untersuchung ùber den Begriff der Zahl), Bre-
slau 1884 [Fondazione dell’aritmetica]; Grundgesetze der Arithmetik
(begriffsschriftlich abgeleitet), 2 voli., Jena 1893-1903 [Leggi fondamentali
dell’aritmetica]; Kleine Schriften, Darmstadt 1962. Le «antinomie di Kant»
si trovano esposte nella celebre Critica: Kritik der reinen Vemunft, A (1781)
B (1787), A 426-61, B 454-89. Le obiezioni di Russell in The Principici of
Mathematics, cit., cap. LII (Kant’s Theory of Space), pp. 456-61.
Un altro punto di riferimento costantemente presente, sebbene etero
nomo rispetto alla linea di sviluppo qui considerata, sono state le «ricerche
logiche- con cui esordisce la fenomenologia contemporanea: Edmund FI us
seri, Logische Untersuchungen, 2 voli., Halle 1899-1900 [Ricerche logiche].
Come introduzione generale e storica allo sviluppo qui considerato si veda
William e Martha Kneale, The Development of Logic, Oxford 1962, che
contiene la bibliografia corrispondente.
Seconda lezione

Linguaggio
La lingua, la comunicazione, l'informazione

i. Un primo rilievo da fare riguarda l’attuale interesse per il linguaggio.


Esso a mio parere è incentrato sul rapporto tra l’esperienza c l’espressio
ne, quindi tra l’impressione e l’espressione, è di carattere psicologico, pri
mariamente, e solo di riflesso concerne anche la comunicazione e, da ulti
mo, l’informazione. Questo interesse si inscrive nel tema della presa di
coscienza da parte del pensiero critico nei confronti di quanto è effettiva
mente dato a essa, e più in particolare della trasparenza con cui mostra i
propri contenuti.
La critica è rivolta alla tesi, per lo più tacita, con cui in precedenza si
assumeva la perfetta trasparenza (o diafania) della riflessione e del medio
comunicativo rispetto a tali contenuti. Esaminata con maggiore consape
volezza, tale convinzione appare articolata in due momenti, uno psicologi
co, che concerne il grado di consapevolezza che si può avere degli eventi
della nostra vita psichica, c uno psicolinguistico, che riguarda il rapporto
tra quel che ne sappiamo, o crediamo di saperne, e l’adeguatezza dell’e
spressione usata. Con l’affermarsi della psicologia del profondo, il tema
dell’inconscio (cioè della vita psichica inconscia) interviene in maniera sem
pre più massiccia anche dal punto di vista di certi problemi linguistici: come
per esempio nella genesi dei significati ambivalenti, modificanti o contrad
dittori. Per noi più interessante è l’altro problema, quello della pertinenza
dell’espressione all’intenzione significante e significata, sia da parte di chi
parla, sia da parte di chi ascolta.
La gestazione di questo problema linguistico risale abbastanza addietro
nella storia del pensiero. E importante constatare, però, che la sua origine
non deriva da vicende culturali o dalla loro storia, ma dipende del tutto
naturalmente da difficoltà insite nel fatto stesso che il nostro pensiero non
è immediatamente linguistico. Ingenuamente, noi crediamo forse di espri
merci identificandoci in gran parte con quanto diciamo e quindi assumen-
4O SECONDA LEZIONE

do la responsabilità della nostra espressione. Tuttavia a una qualsiasi obie


zione che ci possa esser rivolta è difficile che non ribattiamo, e con un cer
to risentimento, che la colpa è dell’ascoltatore: il quale non avrebbe voluto
capire nella maniera giusta quanto intendevamo dire. A un grado di consa
pevolezza più elevato, anziché dar la colpa all’interlocutore con frasi del
tipo «non mi hai capito», appartiene il bisogno di riformulare in vari modi
press’a poco equivalenti ciò che si è inteso dire, coscienti della difficoltà del
l’espressione stessa. In questo caso la frase tipica è «non mi sono spiegato
bene». Per chi parla non fa molta differenza che l’espressione sia stata frain
tesa per l’ottusità dell’interlocutore o per l’imperizia nell’uso del mezzo
espressivo; ma per chi ascolta la differenza consiste nel sentirsi attribuire
una responsabilità o no, il che è essenziale per l’interesse della comunica
zione. Questi limiti della comunicazione devono sempre esser tenuti pre
senti e, direi di più, essi vanno accettati senza indulgere a razionalizzazioni
(«colpa tua», «colpa mia» ecc.), poiché sono già presenti nell’ambito di una
conversazione a due tra interlocutori affiatati. Anche in questa situazione
privilegiata capita spesso di ripetere interlocuzioni come «non è quel che
volevo dire», «perché pensi proprio a questo?», «io avevo in mente un’al
tra cosa» ecc. Una spia di ciò sono le interiezioni di conferma che chi parla
inserisce periodicamente nel suo eloquio, come le interrogative «no?», «è
vero?» e simili, che in genere sono (brutte) abitudini prive di significato, ma
che tradiscono un’origine ben altrimenti significativa.
Questo vuol dire che anche la conversazione è più spesso di quanto non
si pensi un monologo a due e la comunicazione verbale in tal senso in gran
parte illusoria. Questo fatto, se viene teorizzato in negativo, prende il nome
di solipsismo, che è il discorso rivolto solo a se stesso (soli ipsi). In epoca
moderna colui che ha introdotto tale tematica, sia pure preterintenzional
mente, è stato Descartes. Tutto dipende dal suo ricorso all’evidenza, che e
tale per la vita psichica singolare. E dal fatto che sull’intuizione di quest’e
videnza, che egli suppone la stessa per tutti, si fonda la perspicuità del
discorso comunicativo. Ciò incoraggia una propensione solipsistica, in net
ta opposizione con le concezioni tradizionali, fondate sull’assenso dell’in
terlocutore (conserisus gentium). Ma il luogo è più complicato di quanto
appaia a prima vista, e converrà soffermarvisi un poco.
Quando Descartes cerca di fondare la certezza dell’evidenza sull’intui
zione fa perno su una circostanza dell’apprendimento che è abbastanza
comune e, come filosofo, la generalizza (o meglio, come vedremo, la rende
esemplare) quale fonte di tutto il pensiero razionale. Noi dobbiamo sem-
LINGUAGGIO 41

pre risalire a un’esperienza che ci appare evidente per il fatto che l’intuizio
ne è anteriore alla distinzione di soggetto c oggetto: c quindi chi esercita un
atto d’intuizione non può fare a meno di identificarsi col suo oggetto, facen
do tutt’uno con esso. Conviene non dare a queste espressioni un senso inde
bitamente mistico o, meno che mai, orientaleggiante (quasi si trattasse di
zen}. Quel che Descartes intende è molto semplice; tutto sta a vedere se è
sufficiente come base di tutto il pensiero.
Per dare un’idea della circostanza intuitiva del pensiero basterà un esem
pio. Se io dico che un circolo (come circonferenza) è il luogo di tutti 1 pun
ti equidistanti da un centro, chiedo agli ascoltatori di rappresentarsi un pun
to come centro e una circonferenza formata dalla curva di tutti i punti che
stanno alla stessa distanza dal centro. Ciò che io dico mi appare intuitivo
semplicemente perché nessuno può capire questa specie di definizione sen
za tracciare col pensiero una circonferenza che compia quel che io intendo.
In altre parole, se uno comprende ciò che io dico deve anche fare quel che
è richiesto, facendo coincidere apprendimento ed esecuzione. Se effettiva
mente si verifica tale comprensione, l’intuizione diviene per così dire perfor
mativa (o fattitiva}. Sono con ciò risolti tutti i problemi?

2. Abbiamo posto la questione in maniera ipotetica: se la performazio-


nc passa all’interlocutore, allora l’intuizione di base non solo è comune a
me e lui, ma è identica. Può tuttavia succedere che non passi, e me ne accor
go dalla non coincidenza di altri risultati che ne derivano. Quel che Descar
tes presuppone è che si dia un certo esercizio nella geometria, e quindi una
certa immaginazione matematica in comune. Non è difficile acconsentire a
ciò, dal momento che gli Elementi di Euclide furono pubblicati prima del
300 a.C. e da allora sono forse il libro più diffuso sull’argomento. Dicendo
questo, però, facciamo appello a uno speciale consensus, che è quello degli
esperti in materia, e questo non è esattamente quanto intende Descartes.
Egli pensa a un’erudizione che sia sufficiente a capire l’argomento; è questa
comprensione che lo rende performativo, quindi universale e per ciò stes
so trasmissibile. In questo modo pensa di superare il solipsismo: una verità
basata sull’intuizione è identica per qualunque essere pensante; in ultima
analisi, quindi, non c’è neppure bisogno della comunicazione per trasmet
terla. Paradossalmente il superamento del solipsismo lo riconferma a un
altro livello. Questo, per quanto riguarda l’origine moderna del problema.
Ma il riferimento all’intuizione si presta anche a un’altra conclusione, di esi
to simmetricamente opposto.
SECOND/\ LEZIONE
42

Descartes è uno di quei pensatori che dispone di un doppio cervello: una


metà che pensa geometricamente, con linguaggio, cioè, enidiale (o d’imma
ginazione raffigurativa, ma esatta): e una metà che pensa normalmente,
secondo bon sens e il medio linguistico usuale, che è della lingua (francese
o latino, poco importa) e non pertiene ad alcun linguaggio. E questo fatto
può averlo indotto a credere che a quanto veniva intuendo geometrica
mente, senza l’ausilio di schemi verbali, non occorresse che il complemen
to di un’esposizione a parole per renderlo accessibile a tutti. Si tratta però
di un’illusione, ed eccone le ragioni. La prima è che, come accennato, l’in
tuizione (o il suo principio) vale al massimo per una parte della geometria,
non per tutta, nemmeno ai tempi di Descartes; né, a maggior ragione, per
tutta la matematica (geometria-raritmetica) o la mathesis o scibile in gene
rale. L’altra è che non tutto l’intuibile per principio si restringe al sapere
matematico; oltre a questo, ci sono i princìpi metafisici o, se non ci si cre
de, quelli ben più complessi del cosiddetto senso comune. Entrambi questi
fondamenti, l’uno formale, l’altro informale, non sono contenuti nei princì
pi intuitivi della matematica; quindi richiedono un’evidenza (e un’intuizio
ne) loro propria e corrispondente alla funzione. Gli esempi di princìpi intui
tivi, sia metafisici sia di senso comune, sono tanto innumerevoli quanto
poco interessanti: si va dalle illustrazioni del principio d’identità, per cui a
= a, o di causalità, per cui nilsine ratione, al principio d’immanenza, per cui
si può affermare solo quanto è conosciuto, o a quello dell’evidenza attuale
dell’esperienza sensibile e fenomenica. Tralasciamo perciò questo punto, per
rivolgerci a quello della distinguibilità e conseguente delimitazione di sif
fatti princìpi.
Devo infatti ammettere che il numero di tali princìpi sia delimitabile, o
altrimenti niente vieterebbe di assumere (da un punto di vista empirico) che
ce ne sono tanti per quante evenienze diverse di cui noi facciamo esperien
za. Bisogna inoltre assumere che essi siano distinguibili, uno per uno. O altri
menti, di nuovo, sarei costretto ad ammettere un’intuizione tanto globale
quanto confusa, e in tale tripudio di esperienze unitive uno potrebbe chie
dersi se io sia ancora in grado di discernere qualche cosa, o se mi trovi in pre
da ai fumi della mistica più orgiastica e ossessiva. Quest’ultima osservazio
ne tra l’altro spiega anche perché, nell’epoca delle possessioni diaboliche e
della caccia alle streghe, Descartes pensi a una delimitazione dei princìpi di
carattere drasticamente intellettuale, matematico e anzi geometrico.
Dell’intuizione in sé è possibile soltanto dire che è anteriore alla distin
zione di soggetto e oggetto. Ma son troppe le cose che son tali (vi rientra per
LINGU/XGGIO 43

esempio tutto Vinconscio) e non per questo le diremmo intuitive. Provando


ad aggiungere dell’altro, non è facile evitare le incongruenze. Se dicessi,
poniamo, che in un’intuizione (primitiva) si trovano uniti in maniera inscin
dibile l’atto soggettivo e l’oggetto dell’intuizione stessa, dovrei fare uso di
una distinzione astratta, come dice Hume, o, nel senso della scolastica, ver
bale e cioè ex terminis. Posso anche dire che si tratta di una distinzione di
ragione c non di fatto, nel senso di un’operazione che è possibile compiere
solo intellettualmente. In realtà, e ai sensi della definizione di intuizione, non
è possibile separare le due cose, atto e oggetto, che ho distinto nel pensiero.
È bene soffermarsi alquanto su questo punto. In una bolla di sapone, per
esempio, si può non solo distinguere ma anche vedere che c’è una superficie
esterna e una interna; ma, ammesso che la bolla di sapone abbia uno spesso
re monomolecolare, non potrò mai separare la superficie esterna da quella
interna. Forse disponendo di sofisticate apparecchiature si potrebbero ver
niciare le due superfici di due colori diversi; e guardando l’interno con un
periscopio aghiforme, senza far scoppiare la bolla, con molta pazienza e peri
zia si potrebbe osservare che il suo colore è diverso da quello esterno. Ma
allora avremmo al minimo tre strati monomolecolari, e di nuovo l’impossi
bilità di dividere esattamente tre interi per due. La separazione reale, in que
sto caso fisica, rimarrebbe esclusa. La distinzione tra le due superfici di una
sfera, l’esterna c l’interna, è fondata sul modello topologico del confine coe
rente e chiuso; se voglio esprimere queste condizioni, non posso più ricor
rere a un modello intuitivo che, per quanto ideale, non contiene in sé la
ragione ultima; ma devo ricorrere a princìpi espliciti in senso verbale, che ne
sono espressione. E «a parole» che riusciamo a separare l’esterno dall’inter
no della sfera; in realtà non è così. Il modello riesce al massimo a renderci
astrattamente intuibile questo stato di cose.
Riassumendo: che cos’è che ci consente di compiere distinzioni anche là,
dove in realtà nulla si può dividere? La risposta è chiara: è l’uso del lin
guaggio. Il linguaggio riesce a dividere anche dove non c’è più niente da
dividere. Ma questa è in fondo una prestazione minore del linguaggio. Esso
inoltre porta a costruire entità (o identità riconoscibili) anche dove l’empi
ria o la testimonianza dei sensi, limitata com’è alla ricezione di corpi (o
entità individuabili) giustamente non può dirci più nulla. A mio parere, qui
ha origine il problema dell’espressione.
Il problema dell’espressione consiste nel fatto che, essendo il medio lin
guistico eterogeneo rispetto a ciò che vi viene espresso, esso rappresenta
contemporaneamente di meno e di più di quanto si vorrebbe. E tale prò-
SECONDA LEZIONE
44

blema sorge allorché, usando il linguaggio, ci accorgiamo che il medio in


questione (/) dice di meno, in quanto il linguaggio non è che l’appiattimen
to per così dire bidimensionale, un quadro verbale di un insieme infinito di
stati e relazioni, che non si potrebbe esprimere se non riducendolo secon
do regole espressive; e nello stesso tempo (z7) dice di più, in quanto esso
aggiunge a quanto rappresenta la struttura del suo modo di esprimere le
cose, che non esiste in realtà, ma che nel quadro che ci viene presentato non
si distingue da ciò che in esso vorrebbe essere simbolo di fatti esterni, che
quindi arricchisce per virtù propria. L’eterogeneità del linguaggio rispetto
alla realtà, esterna (o fisica) e interna (o psichica), fa sì che la corrisponden
za con le cose non possa darsi che sotto forma di coincidenza punto per
punto, e non per adeguazione. Se concepiamo il primo come un reticolo, la
coincidenza andrà ricercata nei nodi, non nella rete stessa.
Ora, che il linguaggio dica di meno di quanto c’è, fa parte di una consa
pevolezza quasi immediata. Ma che possa dir di più, senza che ce ne accor
giamo, è il risultato di maggior rilievo che deriva dall’essersi posto il pro
blema dell’espressione. Entrambi gli aspetti, quello del difetto come quello
dell’eccesso, sono rilevanti, anche perché si potrebbe dire che un difetto non
avvertito aggiunge surrettiziamente all’espressione una completezza che
essa non ha; ma il vero problema resta quello di escludere dall’interpreta
zione del medio in senso realistico quelle proprietà espressive che fanno
parte della sua stessa struttura, e che deformano inavvertitamente quanto
vorremmo dire in semplice prosa. Ma questa distinzione tra un contenuto
reale e una forma rappresentativa è molto difficile da mettere in opera: se
non si dispone di linguaggi alternativi, è impossibile. Infatti per esprimere
tale distinzione non posso che fare uso del controfattuale (il periodo ipote
tico di terzo tipo): come avrei potuto esprimere il mio pensiero se non l’a
vessi fatto con queste parole. Come si vede, la pluralità richiesta è di lin
guaggi, non di lingue; abbiamo detto che ogni lingua ammette più linguaggi,
condizione che è sufficiente alla bisogna.

3. Il problema acutizza dunque la consapevolezza che nel momento di


esprimersi vi è sempre tensione tra ciò che ci si accinge a dire e quanto si
sarebbe potuto dire, ma viene scartato, per esser solidali con la propria
intuizione. Se il discorso è conciso e la selezione delle parole e degli schemi
sintattici deve esser rapida, la coscienza controfattuale cresce di conse
guenza. L’esito di questo conflitto tra perplessità c brevità si traduce in
genere in una specie di legge dell’eloquenza decrescente. Ma mentre in anti-
LINGUAGGIO 45

co questo fenomeno poteva forse essere attribuito a inefficienza e illettera-


lità del retore, in epoca moderna ciò diventa il contrassegno più eloquente
circa la coscienziosità del dotto. È curioso che il problema dell’espressione
non emerga con Descartes, ma la cosa si spiega se teniamo presente che il
suo pensiero ha orientamento psicologico e non linguistico; la geometria
essendo forse un linguaggio (enidiale), non certo una lingua. Dal nostro
punto di vista, il fatto che egli non abbia saputo esprimere adeguatamente
il proprio pensiero dipende dall’assenza pressoché completa di un’analisi
del linguaggio, da lui considerato solamente mezzo esteriore di espressio
ne, inessenziale e indifferente. Ciò è all’origine di notevoli difficoltà inter
pretative, per esempio del fatto che noi distinguiamo un po’ troppo spedi
tamente nel suo pensiero l’idea di una sostanza estesa, la materia fisica, e una
sostanza pensante, che è V esprit. In realtà Descartes dovrebbe dire che non
si tratta di due cose diverse, estensione e pensiero, ma di un tutt’uno ante
predicativo (anteriore alla separazione dell’oggetto dal soggetto) in cui
interviene come discriminante il medio linguistico che, geometrico o meno,
vi istituisce l’oggettività. Noi, per sostanziare ciò che egli intende dire, dob
biamo ricorrere alla fictio iuris di un’estensione che sorreggerebbe gli ogget te LC
ti fisici, reali, e che in tal modo li separa dall’azione che costituisce il modus
operandi dello spirito immateriale. Ma siffatta separazione è interamente
affidata alla virtù delle distinzioni di ragione, astratte e anzi fantomatiche,
che non hanno identità fuori del linguaggio. Dobbiamo quindi reduplicare
il mondo antepredicativo indistintamente soggettivo e oggettivo, nella fin
zione di un mondo esterno, dove le cose appaiano distinguibili perché fisi
camente separabili, essendo poste nell’estensione le une fuori dalle altre. Ma
resta un cospicuo residuo, quello costituito da ciò che non è separabile se
non con l’immaginazione, che è una prestazione del pensiero. Infine, ma
questo andrebbe detto per primo, ciò che è chiaro c distinto è isolabile solo
nel pensiero.
Per una formulazione esplicita, adeguata del problema bisognerà atten
dere Leibniz. Ancora Malebranche non lo pone in maniera riconoscibile,
formale. La precisa dizione leibniziana c riconoscibile nella distinzione tra
le nozioni (cioè cognizioni, non semplici idee) intuitive e quelle simboliche.
Da notare che qui il simbolico viene inteso in senso strettamente letterale;
formalmente è simbolo quel segno che convenzionalmente sta per qualco
sa d’altro (supponit prò alio}, non solo eterogeneo ma estraneo alla sua nor
male semantica: come le lettere anziché i numeri nell’algebra. Nel passag
gio da Descartes a Leibniz si ripete più in piccolo quanto avevamo notato
46 SECONDA LEZIONE

in precedenza, cioè una nuova alternanza nel prevalere di volta in volta di


preoccupazioni linguistiche in luogo delle psicologiche; o viceversa. Per
esempio, nel XIX secolo, dopo Kant e dopo gli empiristi inglesi (eccettuato
Locke), non si sente più parlare per un pezzo del problema dell’espressio
ne o del linguaggio. Viene cioè tacitamente assunto che la coscienza sia già
chiara, che sappia quel che vuol dire, cioè diafana o trasparente a sé mede
sima. Ma non trascorre molto tempo, e si dà esattamente la situazione inver
sa. Si fa valere il punto di vista linguistico per il fatto che, non essendo la
coscienza in grado di leggere i suoi contenuti come un paesaggio nella came
ra obscura, si deve procedere per tentativi (ipotetici, controfattuali o
comunque indiretti) allo scopo di identificarne quello verosimilmente più
adeguato. Ma il problema è duale: non nello stesso modo, ma sempre cor
relativamente, la coscienza perde la diafania del contenuto perché diventa
consapevole di essere l’effetto di superficie di una vita psichica più riposta:
con lo spuntare della psicologia del profondo muta il modo stesso dell’au-
tocomprensione, la consapevolezza della presenza possibile di motivazioni
inconsce rende insignificante quanto è trasparente all’autocoscienza forma
le. L’alternanza periodica della tematica linguistica e di quella psicologica,
tanto defatigante quanto in fondo inane, rende evidente il fatto che entram
bi i fenomeni, e la loro stessa alternanza per reciproca induzione, si radica
no nel momento antepredicativo dell’esperienza di sé da parte dell’uomo.
Se il linguaggio esprima veracemente quel che avevamo in animo di dire; o
se il voler dire corrisponda a una pulsione vitale piuttosto che a una reazio
ne indotta: sono domande a cui non si può rispondere proponendo l’una in
funzione dell’altra, ma richiedono decisamente un nuovo approccio, tale da
contenerle entrambe.
L’innovazione porta oltre le sistemazioni del pensiero della prima metà
del XIX secolo: tanto l’idealismo come il positivismo, o l’empirismo appaio
no decisamente superati. E come succede a tutte le rivoluzioni radicali,
anche questa presenta un vasto effetto retroattivo. Ogni nuovo punto di
vista esige la riscrittura di tutta la storia precedente. A questo proposito vicn
naturale riconsiderare la questione connessa con l’intelletto agente (intcl-
lectus agens) di Aristotele. In conformità con la sua teoria della potenza c
dell’atto, Aristotele distingue nell’operare della mente un intelletto agente
(voùg TtotTyrrzóg) e uno passivo (voùg JtaOrfrtzóg) che raccoglie nei suoi abi
ti (memoria, conoscenza, abitudini propriamente dette) i proventi di quel
lo. Per lo più, quando si parla di contenuti della coscienza, ci si riferisce
all’intelletto inteso passivamente. Infatti quasi tutta la vita psichica di cui
I INGUAGGIO 47

possiamo in qualche modo parlare è data dal deposito passivamente regi


strato di un intelletto de-funto, non più in atto. Restando esclusa per Ari
stotele l’autocoscienza del voùq, ossia la diafania e l’autonomia dell’intel
letto in atto, ci si chiede com’egli possa pervenire a parlarci di una coscienza
attiva, del voùg notr)Ttxóq. Obiezione che deve essersi fatta lui stesso, o che
altri gli ha rivolto; e alla quale risponde che l’intelletto agente è dato insie
me coi suoi contenuti, non direttamente, ma in maniera secondaria: èv
JCOiQéQYtp, che in latino si traduce «in obliquo» e che noi potremmo rende
re, quanto al senso, «con la coda dell’occhio». Dunque la datità o, meglio,
con-datità della coscienza viene riconosciuta fin da colui che fu detto il filo
sofo per eccellenza; la condizione del suo apprendimento è forse un po’
troppo limitativa, ma devo dire che, come punto di partenza, è forse la cosa
più onesta che sia stata detta in proposito. Il problema è un altro. Ed è che
se la coscienza, rispetto ai suoi contenuti, è data perifericamente, indiretta
mente e come di riflesso, essa non è autonoma, né autoctona, né solidale con
tutto l’essere umano che la esprime (e sia pure il filosofo). E quindi, trala
sciando qualche passaggio, la domanda diventa: donde (da chi o che cosa)
si riversa in noi l’intelletto agente, la scintilla illuminante della coscienza?
La risposta varia dagli scolastici, che ponevano il dove in Dio, per arrivare
fino a noi, che postuliamo delle motivazioni inconsce, sebbene non inco
noscibili, del nostro agire, compresa l’attività intellettuale. Lo spettro rico
pre una distanza enorme tra 1 suoi due estremi; tuttavia è importante ren
dersi conto che la differenza nelle risposte può risultare esser da ultimo
puramente verbale e dipendere dalla forma del linguaggio che ci siamo
impegnati a sostenere. Certo, per dire che la motivazione inconscia e la
volontà di Dio sono la stessa cosa, occorrerebbe un supcrlinguaggio in cui
poter quanto meno formulare, non si dice dimostrare, tale equivalenza; cosa
che per il momento sembra esser fuori della nostra portata, ma che non ci
vieta di ricorrere alla figura retorica dell’insinuazione.

4. Ritorniamo al nostro TÓnog, il linguaggio. E precisamente confron


tiamoci con una sua prestazione particolare, che è la descrizione. Che cos’è
una descrizione? Essa non è un ricamo eseguito con le parole, ma dal pun
to di vista teorico è una proposizione, poiché le spettano il vero o il falso.
Quindi la descrizione è un’espressione soggetta a particolari limitazioni del
suo oggetto, se essa deve valere come vera. Teniamo presente che io posso
descrivere il fiore, la foresta, la montagna, o /'Australia; ma non altrettanto
bene dirò di volerlo fare con itti fiore, una foresta, un monte, o un conti-
4s SECONDA LEZIONE

nente; infatti l’assenza del determinativo (individuante) mi obbliga a riflet


tere su ciò che in genere è comune a ciascuna di queste cose, e quindi rischio
di finire col descrivere un sistema di classificazione, non qualcosa di vero o
falso. Da quanto detto si staglia la difficoltà cui alludiamo. Come posso
descrivere ciò che passa nel mio animo? Solo in certi casi estremi sono in
grado di dire se sono triste o allegro, se sto bene o male, a che cosa io pen
si o che cosa mi aspetti. Non è far professione di atarassia dire che per lo più
tali questioni mi appaiono indecidibili, ma un rendersi conto che la descri
zione della vita psichica porta immediatamente, o quasi, a discutere della
classificazione che si ha in mente. Il fatto che la classificazione dei fenome
ni psichici (rappresentazioni o idee, sentimenti e giudizi, secondo Brenta
no) sia tuttora un problema, anche se meno discusso di un tempo, la dice
lunga circa il loro tenore di oggetti delimitabili. In effetti il problema pare
mal posto. Una domanda più adeguata, anche se forse altrettanto inconclu
dente, potrebbe essere: quale realtà psichica ho presente, che non sia già
contenuta nei modi verbali che vengo usando e che per virtù propria con
tribuiscono quanto meno a determinarla? La risposta non dovrebbe conce
pirsi come alternativa (sì o no, vero o falso, reale o irreale), ma nei termini
di un riempimento intensivo (più o meno) di certe attese in proposito. In
alternativa si darebbe la possibilità di impiegare un linguaggio già bloccato
nel suo lessico semantico, articolato in suddivisioni fino al limite del discer
nimento, al quale fornire risposte in termini di tutto o nulla, senza sfuma
ture. Si tratterà poi di reinterpretarlo correttamente. In realtà è il linguag
gio usato dal metodo dei questionari, che si avvalgono anche del sistema
delle domande incrociate e delle risposte date involontariamente. Ma in tal
caso chi si esprime descrive la realtà con un linguaggio che non gli è pro
prio, le cui risposte vengono trattate come un qualsiasi dato di fatto este
riore, senza ciò che contraddistingue il fatto psichico come tale e lo rende
ambiguo positivamente, dico l’interazione dinamica con la coscienza. E in
ogni caso ci si troverebbe confinati all’uso di un linguaggio e non di una lin
gua; e anche a proposito di un siffatto linguaggio tecnico ci si potrebbe sem
pre sensatamente chiedere che cosa esso descriva: se qualcosa di effettiva
mente vero di per sé, o non piuttosto il modo che alcuni tecnici intendono
impiegare per passare il tempo chiacchierando di qualcosa.
Come si vede, l’approccio che ora pratichiamo è molto diverso da quel
lo logico che abbiamo seguito in precedenza. Ciò dipende dalla differenza
tra lingua e linguaggio. Se si procede da un punto di vista logico, si perse
gue l’intento di mettere a punto una struttura, la quale è essenzialmente un
LINGUAGGIO 49

fatto (o meglio un «da farsi») extralinguistico, alla stessa stregua di una rete ; )
ferroviaria, un sistema di canali, o un gioco di pedine sulla scacchiera. Natu
ralmente per esprimere tutto ciò occorrerà fare uso di una lingua, specie se
ho bisogno di collaborazione; e probabilmente sarà più opportuno allo sco
po sviluppare una funzione speciale della lingua stessa, che chiameremo il
«linguaggio», della logica, o di quel che si tratta. Invece dal punto di vista
propriamente linguistico, che ora pratichiamo, si tratta magari di parlare
delle stesse cose (oggetti di pensiero, relazioni connettive, ordinamenti ecc.),
ma senza presupporre uno speciale linguaggio in cui inserire tali idee, obict
tivandole. L’approccio linguistico usa la lingua come mezzo di comunica
zione, non di obiettivazione; non intende delimitare a priori una certa fun
zione o uso speciale della lingua, allo scopo di fissarne i significati in senso
tecnico. La lingua si assume sempre globalmente, con tutte le sue funzioni
e sistematiche ambiguità di lessico.
In generale, quando parliamo di lingua ci riferiamo all’italiano, all’ingle
se, al francese o ad una qualsiasi altra lingua del caso. Non risulta infatti pos
sibile parlare di un linguaggio, comunque inteso, se non presupponendo la
comprensibilità immediata o già acquisita di almeno una di tali lingue. La
necessità di ribadire una distinzione, che dovrebbe apparire quanto meno
nell’uso come scontata, è dovuta al fatto che nel tradurre dall’inglese pub
blicazioni di logica e di linguistica ci troviamo immancabilmente di fronte
all’unica parola language, che a volte significa linguaggio, ma a volte lingua
(come nella dizione colloquiai language, che non ha molto senso tradurre
letteralmente). Accettiamo provvisoriamente che il concetto di lingua sia ret
to dal criterio di una traduzione da una lingua all’altra, la quale consenta di
mantenere, come si dice, lo stesso significato. Non tenteremo qui di dire (non
si parli di definire) che cos’è il significato; basterà constatare che esso è ciò
che tutte le lingue hanno in comune, dal momento che regge la pratica della
traduzione. Da questo consegue che ogni lingua deve essere in grado, in teo
ria, di esprimere qualsiasi significato, e ciò per qualsiasi funzione del lin
guaggio. In realtà la cosa è un po’ meno assiomatica, ma nulla vieta di sup
porre che, nel caso, uno possa imparare la lingua nella quale l’espressione
racchiude il significato nella maniera più calzante. La lingua dunque si rife
risce (non direttamente, ma riflessivamente) a quei prodotti, i significati, che
vengono espressi con parole o mediante frasi dotate di senso compiuto.
Abbiam detto che bisogna cautelarsi contro l’equivocazione. Per esem
pio la lingua matematica, di cui parla Galilei, che c composta di triangoli,
rettangoli, circoli, e così via, tanto che chi non la capisca non può intcn-
SECONDA l EZIONE
50

derne letteralmente parola, dovrebbe inequivocabilmente dirsi, piuttosto,


linguaggio. Il concetto di linguaggio è diverso da quello di lingua. Per un
verso ne costituisce un sottoinsieme speciale, che non allarga la lingua, ma
ne fissa una funzione o uso. Per esempio, con l’osservazione un po’ irrita
ta «ma che linguaggio tieni?», alludo al fatto che l’interlocutore faccia uso
di modi inappropriati al senso del discorso. Nel caso di espressioni oscene
si suol ribattere, inappuntabilmente, «codesto è un linguaggio osceno». Ma
per altro verso il linguaggio è più esteso della lingua, nel senso che com
prende, mediante neologismi, termini tecnici o uso di deittici specifici, mol
te più occasioni di significato. Parliamo infatti di linguaggio delle arti figu
rative, di linguaggio musicale, di linguaggio del cinema ecc., con dizione che
dopo rutto resta accurata, non metaforica: a nessuno verrebbe in mente di
fare un uso colloquiale (come lingue) di tali linguaggi. Sono poi del tutto
privi di qualsiasi sospetto di metaforicità gli usi appropriati di linguaggio
geometrico, linguaggio della meccanica quantistica, o anche del codice pena
le. Una specificazione interessante del linguaggio è quella formale., che può
arrivare a essere assiomatica se il linguaggio in questione, oltre a esser for
male, sottosta a regole di formazione e di trasformazione coerenti e com
plete. Abbiam già parlato di ciò nella parte dedicata alla logica; qui ripetia
mo lo stesso argomento, ma in una generalizzazione tematicamente
linguistica. Le regole di formazione sono quelle che prescrivono a un enun
ciato ben formato, poniamo, di esser composto da un termine-soggetto, una
copula e un termine-predicato. Le regole di trasformazione operano sugli
enunciati ben formati e dicono quali tra loro, pur essendo diversamente for
mati, si possono ridurre a uno solo; e quali intrattengano rapporti di dipen
denza unilaterale, non equivalente. Questa precisazione mette in luce il fat
to che, anche in un linguaggio formale, è indispensabile la preliminare
divisione, nel linguaggio stesso, di elementi (termini, relazioni) di un tipo o
dell’altro, prima di procedere a combinazioni dei tipi diversi per dar luogo,
con le regole di formazione, a sequenze di forma prevista. E questo il pro
blema delle categorie semantiche (o dei modi significando nel linguaggio dei
modisti medievali), sul quale dovremo ritornare in seguito.
La distinzione tra lingua e linguaggio può esser meglio compresa dicen
do che per esempio la Divina commedia e scritta in lingua italiana, prescin
dendo dalla differenza storica tra l’italiano di Dante c quello di adesso, cosa
che fa pur sempre parte della lingua, non del linguaggio. Al massimo pos
siamo dire che la lingua vi è esemplificata in un uso poetico del linguaggio;
osservazione che nel caso sarebbe poco calzante, trattandosi di commedia
LINGUAGGIO 51

nel senso di Dante, cioè di componimento basato sulla commistione di


diversi stili (o funzioni) e in questo simile alla lingua parlata. Piuttosto, se
come di solito l’opera è corredata da un commento in calce di carattere sto
rico, cronachistico, stilistico e filosofico-morale, allora abbiamo una esem
plificazione di altri diversi linguaggi entro una stessa lingua. Per converso
posso dire che gli Stoi/Eta o Elementi di Euclide, benché redatti in greco,
esibiscono indipendentemente il linguaggio della geometria per l’appunto
euclidea: la qual cosa si può dire, oltre che in greco, in arabo, in latino e per
fino, grazie al lavoro del padre Matteo Ricci, nella lingua cinese. Dovrebbe
qui esser chiaro che si tratta dello stesso linguaggio che parla della geome
tria euclidea in lingue diverse.
Tocchiamo qui di striscio la controversa questione della traducibilità del
la poesia. Croce per esempio negava che lo si potesse fare, mentre Gentile
lo ammetteva (citiamo due autori che appartengono a una stessa situazione
di cultura). Ci si chiede però come Croce potesse citare Ibsen, dato che non
conosceva il norvegese; e perché mai Gentile, benché tradotto in molte lin
gue, sia così poco frequentato dagli stranieri. A parte ciò, è evidente che
conservare quel che Jakobson chiama la funzione poetica col variare della
lingua è cosa di estrema difficoltà. Anzitutto, trasferire insieme col signifi
cato primario (denotativo) il gioco di assonanze, dissonanze, sinonimie e
contrasti che formano il significato secondario (connotativo) o la coloritu
ra del significante (la parola pronunciata o letta), costituenti gran parte del
tessuto materiale della poesia, specie se moderna, dipende da tali contin
genze che una bella traduzione resta pur sempre un caso fortunato. Sarem
mo dunque tentati di dar ragione a Croce, se non fosse per due nei essen
ziali alla plausibilità del suo argomento. 11 primo è contro Jakobson: non si
può parlare di una funzione poetica. Parlare di funzione ne presuppone l’u
nicità, come nell’esempio della geometria euclidea; mentre qui si tratta di
non so quante c quali funzioni di volta in volta diverse. Se non si pongono
limiti parafrastici alla traduzione, dato che questa riguarda il significato e
non la poesia, non si vede perché L'infinito di Leopardi non possa esser reso
da una trentina di pagine di fitta prosa cinese. Non si pretende che una poe
sia debba tradursi in un’altra poesia della stessa lunghezza, solo di lingua
diversa. Ma c’è un altro modo di circonvenire la difficoltà, di cui abbiam già
parlalo. Ed è quello di imparare di volta in volta la lingua da cui si deve tra
durre col grado di competenza richiesto per poterlo fare bene, s’intende,
parafrasandola. Tutto sommato, quindi, concordiamo da ultimo con Gen
tile. Croce non ha capito che la traduzione di una poesia non ha bisogno
5^ SECONDA LEZIONE

d’essere, a sua volta, poetica. Ma ciò che egli intende è altra cosa, e lì siamo
d’accordo: non si può certo andare in paradiso in carrozza.

5. Parlare i vari linguaggi di una lingua può voler dire occuparsi di logi
ca, di metafisica, di diritto o altro ancora; ma ciò che ora vorrei fare è scor
porare tutti i momenti di linguaggio dall’oggetto del nostro discorso, per
occuparmi da un punto di vista filosofico in generale della lingua in sé e
vedere quali siano i problemi fondamentali a cui mette di fronte uno studio
linguistico così fatto. Dopo aver liberato il campo dalle più insidiose equi
vocazioni, conviene sempre partire da quanto, nel particolare, è specifico.
Anzitutto c’è il problema linguistico interno alla lingua, a qualsiasi lin
gua. Non intendiamo parlare di linguistica comparata; non che la cosa non
c’entri, ma deve per forza restare sullo sfondo. Intendiamo, da filosofi, ciò
di cui si è occupato lo stesso Aristotele, quando (nei capp. xx-xxi della Poe
tica) parla per la prima volta della òiàoGowotc o articolazione della lingua.
E un’osservazione aristotelica, contenuta in modo un po’ anodino anche in
zZ Platone (per esempio nel Teeteto, ma anche altrove), che per capire nell’a
scolto ie parole di una lingua bisogna riprenderne l’articolazione in sillabe,
" cioè che l’elemento minimo di intelligibilità uditiva è la sillaba. Si tratta di
- ' un primo concetto, un po’ primitivo, di fonema., in quanto fonologico e non
meramente fonetico-acustico, poiché fa perno sul momento intellettuale
associato alla percezione di ciascun suono articolato. Intesa in questo modo,
la sillaba adempie altrettanto bene che il fonema la sua funzione di identifi
cazione. La questione si chiarisce se si riflette sul fatto che in una lingua che
ci sia completamente ignota noi non riusciamo a percepire nemmeno una
sillaba riconoscibile. I suoni che sentiamo sono per noi meramente foneti
ci, cioè emessi con la voce, ma non sapremmo come scrivere nemmeno un
frammento di tale sequenza, o rappresentarlo in qualche altro modo, non
comprendendo l’articolazione di detta lingua.
Il primo principio della lingua è dunque l’articolazione. Essa è costituita
da un momento analitico di scomposizione riduttiva a unità minime, purché
intelligibili e cioè percepibili intellettualmente, e dal momento sintetico del
la ricomposizione delle parole a partire dalle sillabe intese nel senso che si è
detto. Questo principio di organizzazione strutturale è tanto essenziale che,
qualora esso venisse a mancare, come succede in certe patologie, ciò impe
direbbe la comprensione dell’atto di parola, non essendone più intelligibili
le parti costitutive. Viceversa la parola risulta percepibile anche in presenza
di una pronuncia che lasci molto a desiderare, appunto perché il principio
LINGUAGGIO 53

strutturale rinforza tacitamente le scansioni mancanti; questo va sottolinea


to in quanto di solito non ci rendiamo conto in che misura noi parlando
«mangiamo» la lingua. Una parola che manchi di articolazione non è nem
meno una parola: non si può memorizzare, né riprodurre, né tanto meno
rintracciare sul vocabolario. Perciò non è vero che la lingua si fondi su suo
ni fisici, o fonetici, essendo la fonetica una parte dell’acustica. L’osservazio
ne vale a metter fuori gioco le teorie onomatopoietiche dell’origine del lin
guaggio, poiché esse condividono un presupposto mimetico mal collocato.
Il principio diacritico della lingua, come lo chiama Bùhler, consiste non tan
to nella reduplicazione fonologica del suono fisico, quanto nel suo inseri
mento in una struttura intelligibile, l’articolazione, che ne fa un oggetto per
così dire noumenico. In tedesco si dice yernehmen questo tipo di percezio
ne fonologica. Senza tale Vemehmung non si spiegherebbe il fenomeno per
cui noi riusciamo a comprendere l’italiano anche se pronunciato in malo
modo e con gli accenti più diversi o per noi dissonanti. E la struttura che ci
permette di unificare le varie emissioni di voce in identità e differenze di pura
specie intellettuale.
Di qui Aristotele prosegue con la distinzione dei suoni, o emissioni di
voce (cpcovai), in sonanti o vocali (tpcovéevra) e con-sonanti (0U|A(pU)vé£VTa).
Le prime sono fonemi che possono esser pronunciati separatamente con
un’unica emissione di suono, cioè vocali e dittonghi; mentre le consonanti
sono molecolari fin dall’origine, dovendo esser pronunciate insieme con una
qualche vocale, per quanto atona. Noi parliamo di vocali e consonanti, ma
questa divisione non mette in luce il carattere duale (atomico e molecolare),
che è reso meglio per esempio dalla coppia aristotelica: sonanti e consonanti.
Questo principio strutturale della diaccisi della lingua ha costituito il fon
damento per distinzioni di livello supcriore, come quella tra parole seman
tiche, cioè dotate di significato atomico, e parole sinsemantiche, che hanno
significato molecolare, cioè in connessione con quelle della prima classe. A
essa corrisponde quella medievale tra termini categorematici (descrittivi) e
sincategovernatici (compositivi), dove la prima classe ammette la legge del
contrasto del significato e la seconda no. Per esempio, se posso descrivere
qualcosa dicendo che è «rosso», deve esistere qualche altra cosa che allo
stesso titolo è «non-rossa»; invece con i sincategorematici la legge del signi
ficato non trova applicazione, non potendo contrastare il significato di
parole come «uno», «con», «non» e simili. La nostra distinzione generale è
quella tra lessico e sintassi, che in sé è chiara, ma ha il difetto di non palesa
re il fondamento strutturale: che è la complementarità della funzione.
SECONDA LEZIONE
54

Nel momento sintetico l’articolazione procede ricombinando gli ele


menti. I fonemi di base, gli elementi fonologici, sono molto pochi. Consi
derando tutte le lingue, si riducono a meno di cinquanta (per fare una cifra
tonda). Le combinazioni sillabiche (vocali isolate e consonanti più vocale)
sono circa cinquecento, sebbene in ogni lingua questa cifra si riduca, essen
do utilizzate solo quelle combinazioni che hanno una resa migliore dal pun
to di vista fonologico (della perspicuità del capire). E con queste sillabe si
formano, in una lingua naturale (cioè, non accresciuta artificialmente dal
l’uso di vocabolari e termini tecnici), quelle 2000-3000 parole di cui abbiam
bisogno per parlare. Infatti con duemila parole è possibile esprimere infini
ti pensieri diversi: dove manca il vocabolo specifico, può sempre provvede
re la parafrasi, la recursività, l’analogia e la negazione parziale. Questa pre
stazione per davvero entusiasmante è data dalla ricombinazione degli
elementi a vario livello. Dallo stesso principio diacritico dipende la scrittu
ra, che in ogni lingua ne ricapitola l’articolazione fonologica. Esistono così
scritture sillabiche e scritture alfabetiche, secondo che pongano come ele
mento la molecola o l’atomo della diacrisi.
Aristotele aggiunge una considerazione abbastanza curiosa (per lo meno,
è quanto vi ho letto io e ne porto l’intera responsabilità). L’articolazione del
la lingua in parole, come si è visto, è formata da due momenti: uno analitico,
che spezza, divide e parcellizza l’emissione del suono e lo riduce a sillabe; e
uno sintetico, che lo ricompone, integrandolo e ricombinandolo come si è
detto. Considerando che gli animali producono dei suoni che non sono lin
guistici, perché inarticolati, cioè continuativi o ripetitivi in maniera mecca
nica, l’invenzione del linguaggio, la sua origine, è ciò che manifesta la diffe
renza specifica tra l’uomo e l’animale. Dato questo, Aristotele pare insinuare
che il fenomeno della balbuzie rappresenti uno stadio di regressione al
momento in cui gli uomini hanno inventato il linguaggio, vale a dire l’arre
sto al momento della scomposizione, senza la complementare ricomposi
zione nella sintesi susseguente. Del resto tutte le lingue usano le ripetizioni
sillabiche in maniera funzionale (come dedi, papiri, ÒJUDJta: non sono forse
balbettamenti che han trovato un uso espressivo?); vi manca ancora la piena
ricomposizione nell’impiego fluente, che richiede piuttosto la diversifica
zione delle sillabe e che probabilmente è un’acquisizione ulteriore. Con que
sto credo di avere espresso, sebbene in maniera molto inadeguata, i princìpi
della linguistica strutturale quali si trovano in Aristotele. Non deve stupire
che tali princìpi, di recentissima formulazione, si ritrovino già in antiquo, se
si riflette sul fatto che 2500 anni (il tempo trascorso tra noi e gli inizi del pen-
LINGUAGGIO 55

siero filosofico) sono un breve battito di ciglia nei confronti del tempo tra
scorso dai primordi della lingua e della sua diffusione generalizzata.

6. Dopo questo excursus linguistico-empirico, vorrei ora ritornare sul


problema filosofico della lingua, che è connesso con quello dell’espressio
ne. Abbiam già detto di come questo concetto non risulti abbastanza accu
rato, comportando un difetto e un eccesso rispetto a quanto si vorrebbe
dire. Ma forse non è giusto considerare la lingua secondo la semplice ade
guatezza, o meno, dell’espressione al suo contenuto; proprio perché il suo
problema, da un punto di vista funzionale, è un altro e diversamente collo
cato. Se parliamo di funzioni del linguaggio, esse appaiono essenzialmente
due, e sono entrambe funzioni espressive: una è la funzione rappresentatjva
(o simbolica), l’altra è la funzione comunicativa. Alcuni, come Platone, han
no sostenuto che la prima funzione, quella simbolica, è primaria, perche se
non c’intendessimo prima di tutto a proposito di che cosa in realtà la paro
la è rappresentazione, non sapremmo neppure dire a che prò cerchiamo di
comunicare. Mostrerò invece che questo è un paralogismo, non foss’altro
perché pone la ragione (t Ò ò l Ót l ) prima del fatto (lò ÓTt) da spiegare: non si
può certo fondare una spiegazione sul fatto che, senza di essa, essa non si
darebbe. Il fatto è che ancor oggi noi non sappiamo se, e in che misura, noi
riusciamo a comunicare. Possiamo solo osservare che il bisogno di comu
nicare è tale da vincere fortunatamente l’incertezza che abbiamo circa il dar
si di un’effettiva comunicazione. In particolare, non sappiamo se quel che
chiamiamo comunicare sia l’effetto di un atto linguistico significante, oppu
re di una provocazione a rispondere (di cui diremo poi) la quale per altre
vie, al di fuori del significato, ci costringe in qualche modo a intenderci. Per
quanto interdipendenti, è buona norma lasciare tra di loro indipendenti le
due funzioni, quella rappresentativa e quella comunicativa, evitando di dire
che la comunicazione presuppone l’univocità del riferimento, o viceversa.
Oltre a Platone e ai Cinici - i quali però su tale base sostengono l’inuti
lità di ogni discussione - a favore della priorità del riferimento simbolico
c’è il parere di Husserl, il quale sostiene che l’uso rappresentativo del lin
guaggio è necessario perfino nel discorso che l’io solitario svolge tra sé e sé,
vale a dire nelle meditazioni del pensiero. Egli intende dire che anche nelle
riflessioni solitarie, se non ci corroborasse l’ausilio della parola, per quanto
tacita, l’immaginazione si confonderebbe ben presto e, perdendo il filo del
discorso, non riusciremmo a obicttivare per noi stessi il senso dei nostri
pensieri. L’osservazione è considerevole, e mostra che il linguaggio ha una
SECONDA LEZIONE
56

funzione obicttivante (o simbolica) che vale anche in assenza di intenti


comunicativi. Anche nel discorso dell’io solitario bisogna potersi dire che
«questo è un punto fermo", fissandolo per associazione a una parola di più
facile rammemorazione che il semplice contenuto psichico. Questa circo
stanza tuttavia non assorbe in sé l’indipendente funzione comunicativa.
In concreto, io ho bisogno delle parole per stabilire delle divisioni, fis
sare delle scansioni, per ordinare le azioni che ho in animo di compiere in
sequenze organizzate. Non solo la vita di relazione, ma la stessa vita inte
riore è intessuta di trame verbali, senza il cui ordito risulterebbe disartico
lata, informale. L’uso della tacita verbalizzazionc rende più duttili ed effi
caci le mie disposizioni reattive, poiché rinforzo con una struttura
linguistica dei dispositivi altrimenti solo immaginativi. A parte ciò, come si
è detto, l’associazione al linguaggio rinforza le distinzioni e aumenta le stes
se possibilità di cui dispongo con l’immaginazione, in proporzione al voca
bolario interno messo in gioco. Certamente si usa l’immaginazione con un
assetto quasi-linguistico, nel senso che anche i pensieri si applicano a tale
trama come dei gettoni, che poi vengono eventualmente spostati lasciando
inalterato il loro valore; se poi si usa la lingua per fissare il significato delle
parole, questa prestazione di rinforzo dei termini «gettonati» emerge ancor
più chiaramente.
Si può associare il pensiero linguistico, a sua volta, a immagini geome
triche; probabilmente tutti i matematici classici facevano così. In questo
caso si dispone di una salda struttura di riferimento per un linguaggio già
preformato su base enidiale. Nel passaggio da una lingua a un’altra i mate
matici, i geometri e in generale tutti coloro che dispongono di un saldo cor
relato ideativo non hanno difficoltà a tradurre il ragionamento espresso a
parole, poiché disponendo dei termini appropriati lo schema di base resta
sempre lo stesso. Lo schema è un’immagine intuitiva della struttura, molto
spesso rudimentale, non complicata ma ripetitiva, che si tratterà poi di
riprendere, correggere e formalizzare con un linguaggio appropriato; ma il
suo fondamento è quello che si è detto, di un nucleo di rinforzo, che caso
mai è complicato spiegare a parole pur essendo in sé intuitivo.
E quindi assodato che una funzione importante del linguaggio è quella
di provvedere alla simbolizzazione dei nodi su cui poggia il nostro pensie
ro, in modo da liberare e rendere accessibile la rete di relazioni cui esso fa
capo e si sviluppa, fino a pervenire a nuovi nodi; e cosi via. Ciò ne costitui
sce il campo di applicazione, e tutto sommato si può dire che la funzione
simbolica, nel rendere esplicito quanto ci è già noto in maniera intuitiva ma
LINGUAGGIO 57

confusa, nel completarlo attraverso una rete di relazioni, è in funzione del-


l’oggettivazione dell’esperienza: nel caso più semplice quella di chi pensa.
Il pensiero è un’attività pratica che, benché vicariale rispetto alle pratiche
reali, che comportano uno spostamento di materia, opera su due tipi di cose:
le immagini degli oggetti effettivi, e le relazioni tra dette immagini. Infatti
gli schemi di cui disponiamo mentalmente sono in fondo due, e solo due:
quello della cosa, e quello del rapporto ad altra cosa. Che altro c’è al mon
do? Nient’altro. Ci sono solamente cose e relazioni tra cose; meglio, imma
gini di cose e di relazioni ad altre cose. Non ci sarebbe alcun problema se il
compito del pensiero fosse semplicemente quello di riprodurre in immagi
ne quanto c’è in realtà: in particolare, non ci sarebbe filosofia. Che essa ci
sia, dipende dal fatto che è possibile riprodurre in immagine la cosa; non ■.
però la relazione, perché questa non esiste al di fuori del pensiero. Infatti le
relazioni sono il risultato del raffronto, del confronto, della separazione e

divisione, del cumulo o somma, e così via, che la libera immaginazione . -,lX

costruisce col pensiero e nel pensiero. E questo che fa saltare il quadro '
riproduttivo dell’immagine, producendo variazioni, invenzioni o mostruo
sità. Ma in sé il pensiero è un’operazione abbastanza banale.
L’altra funzione del linguaggio risalta meglio per contrasto con quanto si
è prima detto sulla simbolizzazione c obiettivazione. Si tratta della funzio
ne comunicativa, che è specificamente linguistica, e cioè: non del linguaggio,
ma della lingua. Come già osservato, ripetiamo che «non c’è problema» del
la comunicazione, se ci si accontenta di presupporre che questa bene o male
esista, c ci limitiamo a ricercarne «all’indietro» le condizioni alle quali essa
sarebbe ottimale. Ci sono alcuni ottimi libri che insegnano l’arte di espri
mersi in un linguaggio piano, chiaro e intuitivo; ma questo è un problema di
didattica, o di giornalismo, che difficilmente potrebbe confondersi con quel
lo che ci sta di fronte. Di un vero e proprio problema della comunicazione
non si può parlare prima della seconda metà del XIX secolo. In precedenza
esso si presentava confuso con questioni come l’origine del linguaggio e i rac
conti mitici, come la torre di Babele e la confusione delle lingue. Nella Bib
bia la lingua originaria è l’ebraico, l’assegnazione dei nomi alle cose risale
direttamente al creatore (Elohim) oppure è delegata in parte ad Adamo, che
deve perfezionare l’istituzione: «il nome col quale infatti Adamo chiamò
ogni essere vivente, è il suo vero nome» (Gen., 2, 19-20). Chiaro che, quan
do si ricerca la verità nel nome, non si è ancor capito il problema in questio
ne. Dal racconto della torre di Babele si evince che la comunicazione è con
cepita come trasmissione di ordini, essendo gli uomini «un popolo solo», che
$S SECONDA LEZIONE

ha «una lingua sola per tutti». Alla fine ne risulta l’impossibilità di comuni
cazione, ma questa è concepita come nemesi o vendetta divina, con cui gli
uomini pagano il fio dell’oltracotanza, con intervento del tutto ex machina:
«andiamo dunque, discendiamo, e confondiamo le loro lingue, così che nes
suno più comprenda la parola del prossimo suo» (Ge?z., 11, 6-9). Non emer
ge la difficoltà intrinseca della comunicazione. Non giova dunque imparar
l’ebraico per venire a capo di tali problemi.

7. Nel tardo secolo XIX finalmente troviamo una prima formulazione


del problema comunicativo nel lavoro di Darwin dedicato all’«espressio-
ne delle emozioni negli uomini e negli animali ». La teoria di Darwin in
proposito si può riassumere così. Quando nel contatto tra due esseri sen
zienti uno di essi riesce con un gesto, un suono o una certa mimica faccia
le a esprimere un barlume di significato, e questo fatto viene afferrato dal
l’altro, si costituisce con ciò un modello di comunicazione imitabile, che
sarà poi destinato a perfezionarsi, stilizzarsi e infine articolarsi. L’origine
della comunicazione vien dunque fatta risalire all’istituzione tacita di con
venzioni espressive imitabili, non importa attraverso quale medio: gestuale,
mimico o fonetico. La successiva elezione del fatto acustico a medio deter
minante si spiega con l’opportunità di lasciar liberi l’occhio e le mani per altre
attività. La funzione comunicativa del linguaggio si comprende quindi come
imitazione di un’espressione che è connessa in maniera contingente con un
certo fatto; l’abitudine e la specializzazione fanno il resto. Non occorre sot
tolineare l’affinità con la teoria evoluzionistica delle piccole variazioni acci
dentali e della selezione naturale, che spiega lo stato presente in termini di
adattamento. Questa teoria venne poi perfezionata da Wundt, il famoso psi
cologo, che scrisse una voluminosa opera sull’argomento, portando l’atten
zione su una vasta gamma di casistiche particolari, come per esempio il lin
guaggio dei sordomuti. Scopo evidente era quello di imbrigliare, con una
griglia più fine, il fenomeno del significato fondato sullo scambio imitativo
di parlante e ascoltante. Per quanto generalizzata, la teoria resta in sostanza
quella di Darwin. Il problema è di vedere se, procedendo in questo modo, si
riesca a raggiungere il grado di specificità richiesto da una teoria della comu
nicazione.
Il principale difetto della teoria di Darwin-Wundt si palesa appieno non
appena si consideri il problema da un altro punto di vista. La comunicazio
ne non è fondata sullo scambio delle parti (tra il parlante e l’ascoltante), più
il tratto in comune dell’imitazione. Caso mai è quest’ultima, l’imitazione,
LINGUAGGIO 59

che regge il fatto comunicativo; ma presupporla vuol dire aver già risolto tut-
to il problema. Giova piuttosto tener ben distinti i due fatti della comunica
zione, l’espressione da parte di chi parla, e la ricezione da parte di chi ascol
ta, poiché il fatto d’esser interscambiabili negli attori non li rende, in se stessi,
identici. Infatti l’atto espressivo della comunicazione non ha nulla a che
vedere col reciproco atto ricettivo della sua comprensione. L’espressione è
un atto in senso lato retorico, fondato sull’efficacia dell’emissione; ma que
sta è solo una metà della comunicazione, la quale deve completarsi con la
comprensione dell’udienza, che è un atto squisitamente ermeneutico, inter
pretativo, fondato sulla effettiva ricezione del messaggio. Insomma, il fatto
che ora io funga da emittente e quindi, magari immediatamente dopo, da
ricevente: vuol semplicemente dire che io compio in due occasioni diverse
due diverse operazioni, una retorica e una ermeneutica, che per la circostan
za di esser scambievoli non diventano certo l’una l’inverso dell’altra. La reci
procità è puramente esteriore, e riguarda la funzione sociale della conversa
zione; in sé le due operazioni sono molto diverse, e richiedono ciascuna
un’analisi peculiare. Espressione e ricezione sono due differenti operazioni,
per nulla assimilabili al tipo di reciprocità di moltiplicazione e divisione.
Con questa osservazione la concezione suddetta della comunicazione
dimostra la sua inattendibilità. L’obiezione rivolta è valida perché si fonda
su un argomento puramente analitico, indipendente dal punto di vista e
basato sulla semplice constatazione. Siccome però una concezione non può
esser veramente superata che da un’altra migliore, chiameremo la prima
concezione la «teoria coordinativa» della comunicazione, per il fatto che
essa si fonda su un elemento comune (l’imitazione) che, permanendo iden
tico per l’emittente e il ricevente, istituisce per l’appunto la coordinazione
tra i due poli. Ciò spiega tra l’altro perché tale teoria, per quanto criticata,
rappresenti un presupposto inespressamente condiviso. Le idee più diffi
cilmente criticabili sono quelle che permangono nello stato endemico, ano
nimo e anodino.
La teoria coordinativa della comunicazione è tipicamente una tesi otto
centesca anche per un altro aspetto. Essa procede nel senso del «progres
so», che per ciò stesso è il nuovo; si ignora o si trascura presuntuosamente
il latto che esisteva un’altra tesi in grado di offrire uno strumento critico, se
adeguatamente ricolletta, molto più potente. Alludiamo alla tesi della inco
municabilità, la quale e stata per la prima volta espressa da Gorgia, il sofi
sta, nel v secolo a.C., c che si può ripresentare nel contesto di una «teoria
causale» della comunicazione, con tutta serietà e cognizione del fatto.
60 SECONDA LEZIONE

La tesi di Gorgia è la terza di una triade consecutiva, di cui la prima pro


posizione dice che (z) «nulla esiste- (ovòèv e o t l v ); la seconda (zz) che, se
anche esistesse, sarebbe «incomprensibile all’uomo» (àxaTaXìyTTOv
àvOpcÓTtcp); e la terza, finalmente, (zzz) che, se anche lo capisse, egli non
potrebbe né esprimerlo né «comunicarlo al prossimo» (avEQpr|VEUTOv t ò )
JléXag). Le tesi sono espresse in maniera sofistica, cioè paradossale; tale è il
vezzo prevalente nel v secolo a.C. Ma in se stesse non sono però sofistiche.
La proposizione (i) si riferisce al fatto che «esiste» è una parola del lin
guaggio, e che nel linguaggio è possibile parlare di tutto, di ciò che è e di ciò
che non è, senza che al suo interno si diano i criteri per fare distinzione tra
le due cose. Perciò nulla di quanto è detto (possibilmente) esiste. La (zz) riba
disce la stessa circostanza per cui se il linguaggio non è la realtà, la realtà non
è contenuta nelle parole; ossia, non si può esprimere con parole che cos’è
che contraddistingue il reale dal non reale. Come si vede, è una tesi un po’
deprimente, ma molto seria. La terza (zzz), infine, per cui se qualcosa fosse
conoscibile non sarebbe comunque comunicabile agli altri, riceve ulteriore
confono da altre opere dello stesso Gorgia. Presso i greci Elena era comu
nemente considerata il caso esemplare della seduzione rovinosa. Esami
nando le premesse da cui discende la condanna di Elena, Gorgia non solo
giustifica il suo operato, ma ne tesse l’elogio. Dunque l’«Elogio di Elena»
non solo esemplifica la forza di un controargomento, cosa che Gorgia farà
piuttosto, con argomenti da plaidoyer, nell’«Apologia di Palamede», ma è
la stessa esibizione dimostrativa del fatto che la lingua non comunica attra
verso una coordinazione di significati già acquisiti, ma semmai convince
perché esercita sull’audienza una costrizione che è quasi fisica, al di là del
significato. Anzi, il significato sta proprio nell’affezione che si è data nel
l’evento comunicativo.
La teoria causale della comunicazione, dunque, era già stata espressa in
forma paradossale da Gorgia. In termini prosaici, essa consiste nell’effetto
di scatenamento il cui significato si genera ex novo nell’ascoltatore quando,
per conto suo, capisce quanto vien detto. Bisogna intender bene questo
punto. Nell’atto della comunicazione, quando sono io che parlo, non si tra
smette alcun significato (in sé identico) da me a un altro; ma io provoco un
effetto che crea nell’altro, in maniera autoctona, un fenomeno di significa
to; ritenuto sia da me sia dall’altro un’identità, perché sorretta da coinci
denza, ma che in realtà è la produzione nell’altro di un nuovo significato,
diverso dal mio. Questo è il fatto duro della comunicazione, quale si deli
nca con la teoria causale, o del significato come effetto di scatenamento.
1 INGUAGGIO 6i

Solo dopo essersi intesi, comunicando bene o male (più male che bene),
interverrà un successivo processo di coordinazione dei significati. Sarà quin
di possibile, non vogliamo negarlo, anche l’altra tesi; ma non come teoria,
bensì successivamente, dopo aver acquisito la comprensione del meccani
smo comunicativo. In tal caso saranno le circostanze, per una sorta di riso
nanza, a costringere il contenuto della comunicazione verso un effetto con
centrico identificabile, seppure solo fino a un certo punto. In linea di
principio non si dà mai il caso, se non accidentalmente, che il significato
espresso coincida col significato ricevuto.

8. Presumibilmente questa concezione che fonda la comunicazione su


una specie di sistematico fraintendimento, che vorremmo chiamare la teo
ria gorgiana, non sarebbe mai stata recuperata se nel campo delle scienze
linguistiche e psicologiche non si fosse determinata una svolta molto impor
tante, costituita dalla «teoria della lingua» di Bùhler. Il viennese Karl Bùh-
ler, che esordì come psicologo dell’età evolutiva, divenne in seguito alla «cri
si della psicologia» (da lui così definita) un considerevole studioso di
semiologia e di linguistica. Nel periodo nazista emigrò, in quanto ebreo,
negli Stati Uniti, ma almeno inizialmente non riuscì a suscitare un interes
se di rilievo intorno alle proprie idee, forse perché trapiantate in un conte
sto del tutto alieno dal suo; ma oggi ci si sta accorgendo dell’importanza che
egli ha avuto e, ancor più, di quella che avrebbe avuto se l’accoglienza fos
se stata più adeguata. È Bùhler che ha fondato la teoria linguistica della
comunicazione sull’involontario appello, da parte di chi si esprime, a una
reazione capace di scatenare l’effetto di un significato in chi ascolta. Bùhler
elabora il concetto di Aùslòsungy o scatenamento: chi parla provoca un effet
to che è diverso in ciascuno dei suoi ascoltatori, poiché diversa è la prepa
razione all’ascolto o la competenza linguistica, generale e specifica, che
determina il significato in atto che si produce.
Non è che venga negata la comunicazione in sé, essa viene solamente
sottratta all’ipoteca di una teoria coordinativa del significato, secondo la
quale l’evidente esistenza di una comunicazione, ragionando in maniera
apagogica c trascendentale, presuppone l’identità di ciò che in essa si tra
smette. La teoria coordinativa, respinta sul piano filosofico e generale, si
ripropone dal punto di vista dell’ingegneria della comunicazione: secondo
questa, infatti, la comunicazione non è altro che trasmissione di informa
zioni. In tal modo si può parlare di sistemi comunicativi automatici (infor
matici), cosa che, a parte le equivocazioni che ingenera, può benissimo con-
62 SECONDA LEZIONE

servare il suo buon senso settoriale; solo, non bisogna dimenticare che il
senso della comunicazione è dato dall’incontro-scontro tra la retorica del
l’emittente e Vermeneutica del ricevente, e questa prestazione difficilmente
si può immaginare che possa esser resa automatica. L’idea ingenua, che può
esser rovinosa nelle conseguenze, è che si possa trasmettere il significato
come una derrata che viaggi su ferrovia.
La teoria causale (gorgiana e biihleriana) della comunicazione ha tra le
altre cose il merito di non avallare simili equivocazioni. E pur accentuando
il carattere dinamico della comunicazione, rendendola più drammatica, alea
toria e multiversa, nondimeno essa è in grado di fondare senza soggiacere
ad autoinganni il fatto comunicativo. Il cardine di questa teoria è costituito
dalla preferenza accordata al momento della ricezione, in confronto con l’e
missione: e cioè all’ermeneutica, piuttosto che alla retorica. Essendo l’er-
meneutica l’arte dell’interpretazione, tale concezione insiste giustamente
sulla differenza di preparazione e competenza linguistica dei singoli ele
menti dell’udienza. E infatti evidente che chi mi ascolti da lungo tempo rie
sce a intonare meglio la sua interpretazione (in accordo o disaccordo con
quanto dico) nei confronti di uno che mi ascolti per la prima volta; questo
perché chi è già abituato al mio modo di discorso riesce a cogliere più a pro
posito gli eventuali stimoli, là dove vadano rilevati. In effetti è molto inge
nuo far dipendere la comunicazione da un’informazione che si trasmetta
identicamente; e, ancor più che ingenuo, è stolto credere che l’esistenza (non
dimostrata) della comunicazione sia per ciò stesso la prova dell’identità del
significato trasmesso. Le concezioni coordinative servono semmai come
prescrizioni costruttive utili a preformare i quadri entro cui collocare le
comunicazioni dei linguaggi specialistici delle scienze particolari; ma tali
quadri, come la carta millimetrata, sono prelinguistici e anzi precomunica-
tivi, in quanto sf trasmettono come cose fisiche. Noi comunichiamo anzi
tutto con lo scambio di oggetti fisici, che nulla hanno che vedere con la
semantica. La comunicazione è una funzione linguistica importante, perche
precede in se stessa il linguaggio.
La teoria dello scatenamento rappresenta un risultato della riflessione
filosofica tanto piu ragguardevole, in quanto contiene implicitamente una
garbata critica, rivolta a coloro i quali pensano che ci si possa intendere e
capire senza problemi, purché si parli lentamente, spiccicando le parole c
dicendo cose semplici e chiare. La comunicazione e invece un parallelo
gramma di forze la cui risultante, quando c’è, si da in maniera mollo com
plessa. Chiamiamo «gorgiana» la teoria dello scatenamento, in quanto cer-
LINGUAGGIO <>3

te considerazioni in proposito di Gorgia ci appaiono particolarmente per


spicue. Per esempio nell’« Apologia di Palamede» Gorgia parte da premes
se che in genere non sono accettate, e finisce col trarre conclusioni che sono
simpatetiche con Palamede, l’arcitraditore invece secondo l’imputazione di
Odisseo. Gorgia procede in modo del tutto illogico; ma fa questo con una
tale maestria, che a noi sembra evidente, almeno a tratti, l’innocenza di Pala-
mede. Gorgia scoprì che le premesse non sono princìpi, se non per il fatto
che noi di solito, ma convenzionalmente, le collochiamo al principio di una
dimostrazione; invertendo il procedimento a mo’ di v o t e q o v -j CQÓt e o o v , una
diversa convenzione può far sì che la conclusione diventi la premessa della
premessa originaria; non c’è scritto sopra, quale premessa debba valere
come principio. Tutto dipende quindi dalla forza persuasiva dell’argomen
tazione svolta. Questo modo di ragionare può apparire un po’ sofistico; un
po’ in effetti lo è, ma non più di tanto. Certe premesse infatti si eleggono a
princìpi in virtù di una loro dignità normativa. Ma tale autorevolezza è loro
conferita, a sua volta, da una convenzione; e nulla vieta di dissentire da una
convenzione. Gorgia ha ragione nel sostenere che l’ordine sintattico del pri
ma e del poi non è garanzia sufficiente per attribuire, a quanto vien prima,
la dignità di principio; ci vuol ben altro, ammesso che lo si trovi. Comun
que sia, questo vuol dire che anche Vorcio geometricus più agguerrito può
esser sconvolto da un’adeguata controargomentazione.

9. A mio parere questo è un risultato importante, perché porta a distin


guere in maniera molto netta ciò clic è logico da ciò che è linguistico. Anche
senza dovere ammettere che la logica, poniamo, di Aristotele tracci infalli
bilmente la via giusta, si ammetterà che nella lingua vige un criterio diverso
del prima c del poi, che è quello dell’ordine sintagmatico, interno a essa e
dotato di senso proprio, che è altra cosa rispetto alla consequenziarictà logi
ca. E mi piace pensare che il sintagma, ossia l’ordine di successione delle
parole nella frase, sia sempre in conseguenza di uno scatenamento di signi
ficato (nel senso di Buhlcr) nel processo ricompositivo del medesimo. Vor
rei menzionare, avviandomi alla conclusione, un altro topico significativo
che contraddistingue la lingua rispetto alla logica e ai vari linguaggi scienti
fici o speciali. Ed e che mentre in logica si può operare per mezzo di para
digmi o formule che si ripetono identicamente, pur applicandosi a situazioni
differenti, nella lingua anche procedendo per paradigmi o esemplarità pre
fissali, il suo carattere di sintagma che si svolge nel tempo dà al significato
della frase la contingenza circostanziale del riferimento. In logica a + a = a;
64 SECONDA LEZIONE

ossia, la ripetizione dell’identico riproduce l'identico. Nella lingua una cosa


del genere non si può nemmeno dire, perché la ripetizione del significante
non dà mai lo stesso significato. Ma c’è dell’altro. Può essere che nell’e-
sporre un pensiero io debba impiegare un discorso alquanto lungo, una
sequenza di frasi concatenate, o un sintagma di sintagmi; e che nel far que
sto io parta da un punto, un sistema di paradigmi o di formule già noto, per
sviluppare con aggiunte successive il mio discorso, fino a pervenire a una
conclusione non più di dominio comune, la quale suggerisce infine altri
pensieri. A questo punto può darsi che lungo l’asse sintagmatico del discor
so io abbia smarrito, abbandonato o volutamente modificato l’identità para
digmatica dalla quale ero partito. Ora è evidente che, dal punto di vista del
paradigma, detto discorso presenta un difetto di chiarezza e richiederebbe
di esser riformulato fin dall’inizio; ma si potrebbe assumere anche un altro
punto di vista, quello del sintagma, e spiegare che nel suo decorso si dà del
tutto naturalmente una graduale modificazione dell’identità originaria. Si
V
potrebbe perciò giustificare razionalmente, dal punto di vista sintagmatico,
come mai nel decorso di un ragionamento linguistico (non logico), attra
verso^ successivi spostamenti del fuoco dell’identità, io possa a grado a gra
do pervenire perfino a conclusioni opposte a quanto le premesse originarie,
paradigmaticamente intese, parevano costringermi. Chiaro che questo svol
gimento di discorso capace di modificare l’identità, secondo il sintagma in
cui si inscrive, non sarebbe riformulabile coi mezzi di un linguaggio logico,
che deve usare per forza paradigmi a identità rigida, non variabile. Qualo
ra si volesse tentare un’impresa del genere, occorrerebbe complicare il para
digma, incaricarlo di tener conto di molte circostanze, magari utilizzando
le logiche libere: ma anche così operando non ci sarebbe alcuna garanzia che
il risultato ripagasse della spesa. Più promettente è senz’altro utilizzare in
sede analitica (come, all’incirca, nell’«analisi filosofica^ dell’ultimo Witt
genstein, o di altri inglesi) la logica della lingua stessa, la sua interna grani-
matica filosofica. Avremo modo di ritornare su questo punto.

io. Di fatto noi utilizziamo quotidianamente le risorse sintagmatiche del


discorso, e siamo consapevoli di procedere per lo più razionalmente, anche
se trasgredendo un canone strettamente logico. Anzi, mi chiedo che senso
abbia ragionare, con gli altri interlocutori o anche tra se stessi, se non si
ammette che si possa giungere a conclusioni anche opposte a quelle da cui
avevam preso l’abbrivo. Rispetto al paradigma, il sintagma riveste per noi
un aspetto creativo. Come Descartes, io posso partire dalla certezza, imper-
LINGUAGGIO 6$

meabile al dubbio, del cogito-, di qui, mediante l’argomento ontologico, per


venire all’esistenza necessaria di Dio; e infine, facendo perno su questa con
vinzione, riprodurre mediatamente altre certezze confortato da un metodo.
Questo ragionamento non è consequenziario, non essendo il metodo con
tenuto analiticamente nella maggiore premessa dell’ego. Ma nondimeno
esso riesce a essere convincente, non dico senz’altro per noi, ma per molti
e ragguardevoli suoi contemporanei. Si può anche dalla stessa premessa
giungere a conclusioni sensibilmente differenti, come dimostra il caso di
Malebranche o di Spinoza. Un uso corretto dello spostamento dell’asse sin
tagmatico dovrebbe portare a una più marcata distinzione tra quel che è
consentito dire, pensare e credere, e ciò che è conseguenza analiticamente
necessaria, ma priva di sviluppi. Far crescere su se stessa una convinzione,
modificandone la fissità iniziale: questo è il modo di operare della Sprach-
logik, la logica interna alla lingua.

Nota bibliografica

Sul problema del tradurre, e relativi topici, molto utile è l’antologia di


Hans Joachim Stórig, Das Problem des ÌJbersetzens, Stuttgart 1963, di cui
si v. in particolare la traduzione delle poesie cinesi (in tedesco) in epoche
diverse; sulla questione v. Emilio Mattioli, Introduzione al problema del tra
durre, in «Arte, critica, filosofia», Bologna 1965, pp. 189-214. La contrap
posizione riportata c in Benedetto Croce, La poesia, Bari 1953, pp. 103-4; e
Giovanni Gentile, Filosofia dell’arte, Firenze 1930, pp. 240-43. Per l’impo
stazione linguistica qui seguita, che corrisponde più a una «linguistica della
parola» che a una vera c propria «linguistica della lingua» (nel senso di Saus
sure, v. oltre), ovvero del «sintagma» piuttosto che del «paradigma» (nel sen
so di Hjelmslev, v. oltre), cfr. soprattutto Karl Bùhler, Sprachtheorie (Die
Darstellungsfunktion dcr Sprache), Stuttgart 1934 [Teoria linguistica], che
risale ai concetti di v gyov e èvé^yeta di Humboldt (pp. 6-9). Su questo auto
re, che gode di una doppia formazione, psicologica e linguistica (Scuola di
Wùrzburg e Scuola di Praga), torneremo anche in seguito. Per l’aspetto psi
cologico, Bùhler dipende da Brentano, Marty, Stumpf e soprattutto, Hus
serl; per quello linguistico, a parte Marty e Stumpf, in primo luogo Tru-
beckoj, c la scuola storica di H. Paul. La «teoria dell’espressione», a cui si
contrappone con A. Marty quella dello «scatenamento», è inaugurata da
Charles Darwin con The Expression of thè Emotions in Man and Animals,
66 SECONDA LEZIONE

London 1872, e quindi teorizzata da Wilhelm Wundt, Die Sprache, «Vòlker-


psychologie», I, 1900 (1904); entrambe le teorie riguardano la funzione
comunicativa del linguaggio, più che la struttura della lingua.
Per la linguistica in generale, oltre al lavoro fondamentale di Wilhelm
von Humboldt, di cui sono da tener presenti gli scritti di filosofia linguisti
ca, si v. Heymann Steinthal, Geschìchte der Sprachwissenschaft bei den Grie-
chen und Romeni mit besonderer Riicksicht auf die Logik, Berlin 1863
(1890) [Storia della grammatica classica]; Hermann Paul, Prinzipien der
Sprachgeschichte, Tiibingen 18S0 [Storia della linguistica]; Karl Vossler,
Positivismus und Idealismus in der Sprachwissenschaft, Heidelberg 1904;
Ernst Cassirer, Philosophie der symbolischen Formen, 3 voli., Berlin 1923,
voi. 1 («Die Sprache») [Filosofia delle forme simboliche]. Per la linguistica
strutturalistica, a partire dal celebre lavoro di Ferdinand de Saussure, C.oitrs
de linguistigue generale. Genève 191 $ (Paris 1916 sgg.), v. Nikolaj Sergee-
vic Trubeckoj. Grundziige der Ph enologie, «Travaux du Cercle linguistique
de Prague»», v ii , 1939 (Gòttingen 1958); Léonard Bloomfield, Langnage,
London 1935; Louis Hjelmslev, Prolegomena to a Theory of Langnage,
Madison 1961 (ma 1943, in clanese); riassuntivamente cfr. Giulio C.
Lepschy, La linguistica strutturale, Torino 1966.
Per il rapporto tra linguaggio e pensiero, oltre al lavoro di Charles Kay
Ogden e Ivor Armstrong Richards, The Meaning of Meaning (A study of
thè influente of language upon thought and of thè Science of symbolism),
London 1923, cfr. gli studi filosofici di K. Vossler, di J. Stenzel, di E Kainz
e di L. Weisgerber; quelli psicologici di S. Asch, J. Piaget, E. Sapir, B.L.
Whorf e A. Gemelli, spesso commisti a considerazioni sociologiche.
Per la retorica, concepita in senso non derogatorio, è da considerarsi
classico il testo di Chaì'm Perelman e Lucie Olbrechts-Tytcca, Traité de Par-
gumentation, 2 voli., Paris 1958 [Sull’argomentazione]; e, degli stessi, Rhé-
torique et philosophie, Paris 1952; mentre per l’ermeneutica il testo fonda
mentale è quello di Hans-Georg Gadamer, Wahrheit und Methode,
Tiibingen i960 [Verità e metodo].
Terza lezione

Realtà
Gli enti, i concetti, gli oggetti

i. Ai sensi dell’obiezione di Gorgia, del reale non si può dir nulla, giac
ché neppure può esser pensato. «Se le cose pensate non sono enti», egli dice,
«l’ente non viene pensato». E s’intenda: se io posso pensare tanto quel che
è come quel che non è, ciò che si pensa non è mai l’ente (= quel che è) se non
accidentalmente. Tale obiezione di solito viene circonvenuta mediante una
contemporanea aùiotpta, ossia facendo coincidere quel che si dice con
quanto si vede, o comunque con la testimonianza dei sensi. Da ciò si ricava
una certezza che marginalmente può esser problematica, ma sufficiente a
fondare un criterio di verità fattuale, che nel pensiero riempie una delle
alternative (vero o falso) e scarta l’altra. Non c’è dubbio che se la realtà è
totalmente determinata, e limitiamo la nostra indagine alle cose visibili, o
comunque sensibili, ogni domanda intorno all’ente deve avere come rispo
sta un sì o un no. Anche in sede di filosofia linguistica, se ci limitiamo a par
lare delle cose visibili (gli ó^aió), non sorge nemmeno un problema di
comunicazione. Ciò che si vede, infatti, o è un sensibile comune a tutti, o
non contiene neppure un significato. Vero è che non si capisce che bisogno
ci sia di comunicare quanto è già ampiamente noto a tutti, a meno che non
si debba trasmettere l’informazione a qualcuno che non è presente. Come
si vede, la comunicazione intesa come trasmissione di informazioni è un
problema di telecomunicazione, dove la distanza non è solo spaziale ma
altresì temporale.
La storia è per esempio un caso di telecomunicazione temporale a sen
so unico. Abbiamo inaugurato questa nuova indagine all’insegna del «nes
sun problema», né di verità, né di realtà, né di comunicazione. Per quanto
gradevole, quest’impressione non potrà esser mantenuta a lungo, quantun
que ci sforziamo di farla durare. Anzitutto alla questione del vero (o del rea
le) è possibile rispondere solo se nella domanda si può isolare lo stato di
cose enunciato dalle altre dichiarazioni concernenti l’autoriferimento di chi
68 TERZA LEZIONE

la formula. Per esempio in una telefonata interurbana se mi si chiede se qui


piove, in condizioni di tempo non incerto, posso dare una risposta com
pletamente enunciativa. Ma se io dico al mio interlocutore «chiudi la fine
stra, per favore», lo stato di cose (enunciativo) è la finestra aperta, mentre
l’autoriferimento è dato dalla trasmissione (in maniera garbata, ma non ci si
inganni) di un comando, in seguito al quale lo stato di cose (futuro) sarà pre
sumibilmente la finestra chiusa. È importante notare che V informazione non
è costituita solamente da enunciati, relativi a stati di cose, ma anche da
dichiarazioni autoreferenziali, come gli imperativi, le domande, le promes
se e i performativi. La necessità di distinguere, nella trasmissione di infor
mazioni, tra Venunciato relativo allo stato di cose e la dichiarazione pro
grammatica o intenzionale, si è imposta con l’uso del computer, che
funziona per l’appunto secondo questo doppio registro di linguaggio-mac
china e linguaggio di programmazione. Contemporaneamente filosofi del
linguaggio come Searle e come Grice, richiamando la teoria dell’intenzio
nalità e della notificazione di Husserl, ne hanno offerto un’ampia giustifi
cazione analitica. Ma avremo occasione di ritornare su questo punto. Al
presente ci interessa osservare che parlare della realtà unicamente come il
correlato oggettivo, Io stato di cose asserito da un enunciato vero, sarebbe
non solo un approccio disperatamente misero, ma anche per molti versi
difettivo nei confronti della sua espressione legittimamente disponibile.
Non è detto che, per parlare della realtà, il linguaggio debba fare il calco di
quanto è esteriormente descrivibile.

2. La domanda forse ingenua, ma che da sempre fino a oggi si sono posti


tutti gli uomini sensibili, certo non quelli che prendono il mondo per il suo
valore corrente e per così dire di scambio, ritorna sempre, comunque rifor
mulata, sullo stesso punto: che cos’è la realtà? Vorremmo porla come un
problema di psicologia evolutiva, cioè dell’età in cui si pone o si acutizza la
domanda. Più modestamente, cercheremo di far fruttare la memoria che
abbiamo. Entriamo nell’adolescenza, e proviamo il senso della vergogna di
non esser vestiti. Andavamo vestiti da marinaio, poi venne il giorno in cui
ci mandarono coi pantaloni alla zuava. Parlo per me, s’intende. La giacca,
vista da lontano, poteva far finta d’esser normale; però, essendo rivoltata,
aveva l’occhiello dall’altra parte e le spalle sempre un po’ troppo strette. Per
parte nostra, ci si sentiva in colpa per avere il corpo troppo grande, da adul
to. Ma perché quelle strane acconciature? Si noterà che la condizione, con
la scusa del casual, non è cambiata poi molto; e i giovani d’oggi sono altret-
REALTÀ 69

tanto sensibili al riguardo. È un’età in cui solo le scarpe e i calzini paiono


appartenerci in senso stretto. Bene, io credo che si tratti, nel vestimento, di
un’investitura, di un periodo d’iniziazione. Bisogna abituare il giovane ad
afferrare gradatamente il senso della realtà, che passa attraverso il senti
mento di essere uno come gli altri, uno tra i tanti.
È dunque la realtà una conquista della maturità, dato che sembra così
arduo affrontarla? Abbiamo detto di una fragile condizione psicologica, che
entra in crisi nelle zone di contatto col mondo esterno, la pelle, il rossore, le
pustole, il vestito, l’aspetto, il contegno... È un tratto intimistico, ma che si
rivela immediatamente come riflesso del sociale. Di dentro ti senti nudo, ma
fai finta di niente perché ormai sei grande; senza esibizionismi, devi esser
capace di capire quel che fanno gli altri a partire da un’idea adulta del mon
do, emancipata ma anche disincantata. La prima tentazione è quella di ricu
sa, regressiva, il rimpianto dell’età dell’oro perduta. Fin tanto che sei infan
te, cioè etimologicamente uno che non parla e comunque che nel caso non
sa farsi valere, ti viene concessa una dilazione dall’obbligo di essere adulto;
che tu, come Peter Pan, il bambino che non voleva crescere, utilizzi per gio
care e farti, bamboleggiando, più irresponsabile di quanto non sia. Ma pre
sto o tardi, anche se è bene non fare in fretta, la situazione di privilegio giun
ge a un termine: devi buttarti nel mondo e sei nudo, e all’arrivo devi
rivestirti nei panni dell’adulto. Questo onore non ti è gradito, ti calza mala
mente come un travestimento in maschera, finché a mano a mano non arri
vi a comprenderlo. Il che significa che per capire il mondo degli adulti devi
innanzitutto rispondere alla domanda: che cosa sci diventato tu?
Diventando altro da quello che cri, il mondo esterno appare dapprima
nella sua anonima, uniforme, comune alterità. La realtà sembra anzitutto
esser quella che è per tutti, la sua immediata connotazione essendo quella
ambientale e sociale. In questo senso essa è ciò in cui tutti implicitamente
credono; c siccome questa fede sociale consiste in una fitta rete di aspetta
tive, di ciò abbiamo esplicita, benché indiretta conferma, quando un senso
psicologico più sottile ci permette di rilevare le correnti indotte dalle tante
parziali delusioni di tali precostituite attese: segno evidente della religio di
speranze che connette il corpo sociale. Ma nel mondo visto da chi è appe
na pervenuto allo stato adulto non si dà ancora una percezione differenzia
ta del sistema sociale. Questo si mostra in blocco come omogeneo, orien
tato come ci appare in senso non tanto indipendente quanto piuttosto
contrario, anzi ostile, a quel mondo dell’infanzia che sembra invitarci a
disprezzare con la determinatezza del neofita, che da poco abbia dimesso la
7° TERZA LEZIONE

partecipazione al passato errore. Subentrando così, non importa se fatico


samente, il bisogno di proiettarsi negli adulti, prima ancora di averne intra
vista la riva di approdo, avvertiamo in noi il desiderio di distanziarci da
un’infanzia che abbiamo appena abbandonato. Vi è il lancio di noi stessi alla
cieca in una data direzione, ma senza un oggetto determinato; questo
dovrebbe restituirci il senso di una realtà, che noi non sappiamo se, e come,
ci sia. Non tutti siamo abbastanza avvertiti che si tratta non tanto di acqui
sire il modo di pensare degli adulti, ma invece di imparare altresì a difen
dersene, se vogliamo pervenire al punto decisivo, che anche 1 più maturi
degli uomini in definitiva, loro malgrado, falliscono: che cos’è dunque la
realta? Una maturazione convenzionale, benché precoce, può esserne d’im
pedimento quanto il più cronico infantilismo; sottilmente, sono estremi che
si toccano.
Nei discorsi degli uomini maturi, la realtà è il ripudio di ogni illusione
ideale, vale a dire aprioristica, ed è come tale il risultato dell’esperienza.
Questa esperienza propria dell’adulto sembra essere una riduzione a un
limite che resta invisibile dal lato adolescenziale, dove la sua menzione gene
ra lo spettro di un’esperienza depressiva che trae forza dalla meditata rinun
cia a ogni slancio trasgressivo. Ricordo che uno dei motivi che personal
mente mi spinsero alla filosofia fu la progressiva incapacità di accettare il
disincantato realismo col quale persone adulte, peraltro stimabili, finivano
con l’accettare senza contrastarlo il responso della loro esperienza. A que
ste persone avvedute ed esperte le mie obiezioni apparivano come delle
sciocchezze che il corso stesso della vita avrebbe finito con l’appianare, ren
dendole anestetiche. In primo piano dunque veniva e vien tuttora posto
quel concetto di esperienza, unico e vero e proprio «apriori», sulla cui base
occorre ricavare, da ultimo, il nocciolo definitivo di una stabile «verità»,
come correlato della realtà. Che io in seguito abbia fatto il professore di filo
sofia, e non le cose cui ero destinato, è un compromesso ragionevole che
dimostra l’adattabilità di un remoto disadattamento di origine adolescen
ziale. Tutto ciò induce a parlare di acquisizione del senso della realtà nei ter
mini di un processo induttivo, e non in quelli di un dato di fatto statico, pre-
costituibile. Ma un processo può anche non concludere, disperdere i suoi
obiettivi nelle tracce di un disegno troppo complesso per evidenziarsi.

3. Il discorso si sposta insensibilmente dall’analisi psicologica ai fonda


menti stessi della vita dell’uomo, alla sua ancestrale biologia. In questo sen
so l’esperienza del mondo e della vita agisce come una sorta di salutare,
REALTÀ 71

anche se depressiva, inibizione nei confronti degli impulsi selvaggi, inedu


cati. Il confine tra i riflessi incondizionati e quelli condizionati, tra gli
impulsi e gli adattamenti sociali dei medesimi, è spesso incerto; l’effetto del
l’inibizione porta a estendere la portata dei riflessi condizionati, a detri
mento di quelli incondizionati, ragion per cui nell’uomo sorge un senso
involutivo contrario alla linea principale, maestra, dell’evoluzione. Se que
sta procedeva verso una progressiva specializzazione di funzioni, nell’uo
mo il bisogno di integrazione prende per altro verso un senso regressivo.
Ne deriva un ritardo di adattamento, che assume la forma anche biologica
del differimento della maturità. La tesi per cui l’uomo non sarebbe altro
che una scimmia destrutturata, dalla nascita prematura e dalla crescita ritar
data da un più lungo e penoso periodo di adattamento, risale quanto meno
a Buffon. Ma è stato Lodewijk Bolk, in un’opera tanto celebre quanto pra
ticamente ignota, a darne dimostrazione con argomenti pertinenti all’ana
tomia, alla fisiologia, all’endocrinologia. L’uomo è il prodotto finale, non
ancora compiuto, non solo di un’evoluzione progressiva, ma anche in
parallelo di una regressiva, che agisce nel senso di un aumento dèlTmibL
zione dello sviluppo. Si tratta della tesi della fetalizzazione, che secondo
Bolk accompagna regressivamente la Menschwerdiing, la genesi dell’uomo.
Il meccanismo fetalizzatore consiste nel differimento della crescita e matu
razione. Questo ritardo sistematico provoca per un verso una nascita abor
tiva, anche se non letale; e, per l’altro, permette un più lungo periodo di svi
luppo extrauterino, con conseguente maggiore plasticità nei confronti delle
esigenze ambientali. Il rapporto riflessi condizionati/riflessi incondiziona
ti si altera a favore dei primi. Espulso ancora immaturo dal grembo mater
no, dove è troppo grosso per poterci ancora stare, l’uomo nasce pur essen
do ancora un feto; esso sarebbe incapace di sopravvivere, senza quel
sostituto della placenta che sono le cure che si prende di lui la società. Sono
queste che gli danno larghe probabilità di continuare una vita in gran parte
artificiale. L’uomo è animale urbano, utpov JtoXtTixóv, diceva Aristotele; e
si deve intendere che, per necessità di natura egli deve completare nel grem
bo della civiltà quel processo di maturazione che le specie inferiori hanno
in gran parte già acquisito non appena vedano la luce. Col crescere della
cura sociale, si accentua per converso la destrutturazione biologica. Come
dice Bolk, «l’accesso allo stato adulto è stato sempre più differito» nel cor
so dell’ominizzazione; parimenti «la crescita, rallentata; la durata della vita,
prolungata». Non ha senso scorgere in tutto ciò una promessa di vittoria
perenne; non si deve piuttosto vedervi un primo passo dell’umanità «verso
TERZA LEZIONE
72

la sua futura scomparsa»? La citazione di Nietzsche - è Bolk stesso a farla


- diventa qui d’obbligo: «L’uomo è qualcosa che deve esser superato»: que
sta «corda tirata tra la bestia e il superuomo»; «e perciò devi amare le tue
virtù, perché tu andrai in rovina con esse». Le virtù sono essenzialmente
capacità d’inibizione.
Questa digressione sul biologico rappresenta una tesi di per sé valida, o
comunque discutibile disponendo delle informazioni appropriate: dopo tut
to, si tratta di una teoria di oltre cinquant’anni fa. Noi l’abbiamo introdot
ta, oltre che per i suoi propri meriti, per far da contrappeso alla nozione di
esperienza. Questa, anche nei suoi esiti più meditati, si concepisce come un
agire, il fare esperienza (in inglese si direbbe to experiencef in accezione
meno empirico-cosale e più grave del senso di destinazione, patetico e bio-
grafico-storico, che assume la nostra vita in complesso. Così, se l’esperien
za per noi non vuol dire altro che mantenere un indirizzo prudente, che non
oltrepassi la portata delle nostre provate abilità, il nostro atteggiamento di
circospetta lungimiranza non potrà alla lunga che riscuotere conferme: ma
appunto perché non abbiamo veramente fatto esperienza, non ci siamo pro
vati nel rischio, dimettendoci infine senza aver trovato nulla. Ma c’è un altro
modo di fare esperienza, ed è quello degli uomini che osano sfidare l’igno
to. Non sto pensando ai viaggi spaziali, ma al fatto che un uomo può deci
dere di affrontare un compito per il quale non sa se le sue capacità saranno
all’altezza. Chiaramente la Divina commedia di Dante, per esempio, un poe
ma cioè in rima incatenata che intrattiene il lettore per oltre 14.000 versi in
una lingua fin allora mai udita, è un’impresa che prima d’esser compiuta a
nessuno era venuto in mente che si potesse fare; di sicuro, nemmeno a Dan
te. Questo è un esempio evidente di neotenia, per usare il linguaggio di Bolk,
cioè di crescita creativa su di sé, indotta dal rischio stesso dell’impresa. Dan
te non potè godere della sua acquisizione da parte del pubblico. Come rife
risce Boccaccio, alla morte di Dante mancavano ancora tredici canti del poe
ma, che non si potevano ritrovare. Ma al figlio Jacopo apparve in sogno il
Poeta, che disse dov’erano, e l’opera fu completata. Leggenda o realtà che
sia, l’epilogo c’informa che a Dante fu risparmiata la delusione di sopravvi
vere, ancora attivo, alla propria opera. Infatti, che cosa si può fare dopo ave
re portato a termine un’impresa del genere? Non è possibile ripeterla; né
riposare sugli allori aspettando la gloria. L’esperienza spinta oltre al limite
non ammette che il riflusso della bassa marea. La morte, o l’incapacità di
sopravvivere.
REALTÀ 73

4. C’è un personaggio del mondo antico che ha colpito in questo senso


l’immaginazione dei contemporanei e dei posteri, che li ha convinti che l’uo
mo non è sottoposto a un cieco destino, al fato, alla polpa onnipervasiva, ma
elevandosi alla libertà col proprio volere, si affranca dai tanti impedimenti. Si
tratta di Alessandro Magno, la cui importanza come esemplare, nell’età elle
nistica, difficilmente potrà esser sopravvalutata. Ma le cose belle sono diffi
cili, xaXejrà làxaXa. Anche qui il difficile comincia dopo l’impresa. Che cosa
ha veramente dimostrato Alessandro? Che si possono dominare gli eventi, o
che si è solo in grado, al massimo, di domesticarli, cambiando loro il nome?
Che ne è dell’impero persiano sotto i Diadochi: ha cessato di esistere, o ha
solo mutato i padroni? L’evento comunque resta considerevole; e in Occi
dente la sua fama surclassa perfino quella di Cambise, che ha infranto la plu
rimillenaria indipendenza dell’Egitto. Lo stesso mito ricompare, ma solo per
i contemporanei, con Napoleone. Non parliamo dei riformatori religiosi, ma
dei grandi condottieri coi quali si identificava immediatamente l’uomo comu
ne. Perche quelli, e si tratti pure di Mose, di Gesù o di Maometto, sono indi
ci putativi di un rivolgimento solamente morale, o spirituale, di per sé incon
sistente e privo, molto più del politico, di concreti effetti reali. Comunque
sia, la realtà che vorremmo qui cogliere e che più ci interessa, è quella che ci
appare in termini psichici e che si espande comunicando attraverso un con
senso intelligente c critico; non certo la realtà in termini di atomi, di radia
zione elettromagnetica o di età astronomica dell’universo. Una verità trop
po indiretta, dalle risultanze puramente simboliche e impalpabile nelle sue
conseguenze non e un correlato adeguato alle nostre esigenze in fatto di
realtà. Che ce ne facciamo della luce di una stella che a milioni di anni-luce
di distanza manifesta la sua presenza quando ormai con ogni verosimiglian
za, è scomparsa da un pezzo? Il pensiero è sconvolgente; ma dovremmo for
se farne uso per il suo valore subliminale, quasi fosse una verità religiosa? Lo
stesso sublime diventa ripugnante, se assunto con questa funzione. E d’altra
parte non sappiamo che farcene di verità specificamente religiose, che stan
no o cadono con la fede nell’intenzione pura che le anima. Le verità religio
se sono quelle di cui i loro adepti dicono che hanno scosso il mondo; solo che
il inondo non se n’è accorto, fatta eccezione per un innocuo cambiamento di
nomi. Infine dalle verità mistiche ci asteniamo per quanto più è possibile.
Queste sono simili a un uomo che, dopo dieci anni di solitudine e di digiu
ni, scende dalla montagna ad annunciare agli uomini che lo adorano: «EIo
visto un cervo dalle corna d’oro!» Di più non è dato sapere.
TERZA LEZIONE
74
I
5. Vorrei parlarvi di un’esperienza tanto psicologica quanto filosofica che
si fissò, io credo, nel cuore stesso del pensiero moderno quando esso si
espresse in forma esemplare nell’opera di René Descartes. Noi siamo al
mondo e crediamo di sapere che la realtà è fatta di oggetti che si palesano ai
sensi, ma la stessa riflessione ci dice che essa è composta altresì di entità in
soprannumero, invisibili e date indirettamente, che noi crediamo di identi
ficare accanto al resto che ci sta intorno. In particolare, quella parte del
mondo che è la nostra mente contiene anche dei concetti, il cui significato
possiamo comprendere e comunicare altrui senza doverli attribuire come
proprietà a degli oggetti sensibili. Che cosa dobbiamo pensare di queste
entità apolidi, che fan parte del mondo pur non essendo contenute in esso?
Senza atteggiarsi a santo, Descartes è il profeta disarmato di una via d’u
scita da queste perplessità: è il famoso cogito, anzi per esteso ego cogito, ergo
sum. Potrete ribattere come volete, ma una cosa è certa: se «io penso», pri
ma devo poter esistere come cosa che pensa. Descartes risale ancora più
indietro, fino a ricomprendere la frase di sant’Agostino, si fallor, sum, che
egli interpreta nel proprio senso. Se infatti io mi sbagliassi anche in questo,
per cui io sono in quanto peccatore, potrei tuttavia sempre sostenere che
esisto, come uno che si sbaglia perfino in questo ragionamento. Je pense,
donc je suis. Mi obietterete, come taluno dei contemporanei: Monsieur, qa
n’estpas grand’ chose! Infatti, non riesco a dire molto, posso solo a fatica
distanziarmi dal centro del mio essere inteso come pura soggettività. E tut
tavia in quanto essere pensante, io sono, in particolare posso avere delle idee
che non hanno le cose di questo mondo. Le cose non hanno idee, sono io
che le ho, che ho rappresentazioni anche delle cose prive di idee, che le sepa
ro e ricombino, magari per produrre involontariamente fantasmi di cui mi
spavento. Le idee sono solo l’oggetto cui è rivolta la mia mente e, come tali,
possono essere idee qualsiasi. Come quella scheggia di lapide mortuaria che
durante un bombardamento, nel fosso, si conficcò accanto a me più di qua-
rant’anni fa. Le idee, mi ricordo, erano confuse ma pertinenti: quel pove
retto, anche nella tomba»; «ma lui è già morto»; «poteva capitare a me»; «ma
per fortuna»; e così via. Impressioni concatenate in vario modo, non certo
coerente, ma tra di loro legate: delle idee, per l’appunto.
Prese in questo modo, come impressioni che mi passano per la mente,
inventate o evocate, le rappresentazioni in sé, prima ancora di pensare agli
stati di cose che raffigurano, sono quelle che per Descartes costituiscono le
«idee» materialmente intese, ideae materialiter sumptae. L’espressione
«materialmente intese»» significa che le assumo per come mi appaiono nel-
REALTÀ 75

la mente, come per così dire le vedo; sono cioè le idee che, nell’immediato,
mi passano per la testa. Fin qui nessun problema. Il punto importante è se,
nell’analisi delle idee, si possa procedere oltre. Si può andare più avanti?
Descartes lo fa. E di fatto io posso inquadrare topologicamente queste idee,
in uno spazio sempre ideale dove si distingua destra e sinistra, sopra e sot
to, davanti e dietro; e inoltre il pieno e il vuoto, la figura e lo sfondo, il
dipendente e inseparabile da ciascuna di esse da ciò che invece è indipen
dente e quindi separabile. E inoltre c’è il tempo, che cosa sia venuto prima,
distintamente, al pensiero; e che cosa dopo, di conseguenza. In una parola,
io posso cominciare a operare delle distinzioni razionali sull’oggetto mate
rialmente inteso delle mie idee. Queste distinzioni non sono però delle idee
materialmente intese, anche se compiute su di esse. Sono piuttosto distin
zioni che trovo io, vale a dire determinazioni del mio sguardo diretto sulle
idee, modificazioni della maniera di considerarle. Io mi accorgo per esem
pio che un triangolo non solo ha tre angoli, ma anche tre lati; e riconosco
che non solo li ha, ma deve averli, necessariamente. Ora tutto questo non si
riesce a scorgere nell’idea presa materialmente, di essa posso avere anche
una rappresentazione confusa, magmatica, anteriore a ogni distinzione. Più
precisamente l’idea materiale offre una raffigurazione appena discernibile,
che si contraddistingue per certi caratteri, come una casa o un albero. Ma ci
vuole uno sforzo dell’attenzione, sorretto da un adeguato sforzo della
volontà, per obbligarci a riconoscere che, una volta fissate certe distinzio
ni, altre cose ne risultano necessariamente. La distinzione dell’intelletto,
operata dalla volontà, è ciò che dà origine all’idea intesa in senso formale,
all’idea formaliter, che è così detta perche ne concerne il significatoTL’idea
del triangolo, in quanto significa un’entità (e non un oggetto dei sensi), è
tale se necessariamente comporta anche tre lati, tra le altre cose: essa deve
cioè esser fatta in un certo modo. E a questo punto comincia a prender for
ma il pensiero di una realtà possibile, di una realtà che non è ancora fisica,
ma certo concepibile nella mente. Così il reale si rivela alla mente come
qualcosa di altro, di distinto dalla propria attività coscienziale, ma nello stes
so momento come un qualcosa, che per il fatto d’esser suscettibile di darsi
così e così, non è quel che s’intendeva con materiale. L’idea deve esser fatta
in modo, distinguendosi per certe caratteristiche formali, da imporsi all’in
telletto. Le qualità che attribuiamo alla materia, intesa come il contrario del
la mente, non sono in se stesse materiali. Questo è un paradosso o, per
meglio dire, è il costo del compromesso cui dobbiamo piegarci per non
incorrere nell’antinomia di Gorgia. Il reale non è pensato, e dunque il pen-
TERZA LEZIONE
76

siero tratta del reale come dell’irreale. Descartes riduce al minimo il com-
promesso richiesto.
Omnia in mensura et numero et pondero disposasti (Sap., 11, 21): il mot
to potrebbe valere per Descartes e, in effetti, è stato spesso citato a tale pro
posito. L’ordine e il numero, cioè la misura, è quanto noi riteniamo del rea
le. La realtà determinabile, questa è la materia, più l’ordine e la misura, che
sono nostre esigenze intellettuali, il requisito minimo perché si possa par
lare di qualcosa d’altro dal pensiero. Per parlare dei corpi materiali, com
preso il nostro proprio, dobbiamo farlo prestabilendo a priori che devono
esser suscettibili di ordine, misura e peso. Presupposto di tutto ciò è che, a
fondamento dell’idea di corpo, debba esserci ['estensione. Che cos’è, dun
que, l’estensione? Sostanza o attributo? E, se attributo, essenziale o acci
dentale? Sono i problemi classici della filosofia moderna. Noi non daremo
risposta a queste domande, perché ci son già per esteso in qualsiasi buon
manuale. Diremo piuttosto dell’altra questione: che cosa si deve intendere
con estensione? Qual ne è il significato? Anzitutto, essa corrisponde alla
terza funzione delle idee, quando sono assunte in senso obicttivo, ideae
obiettive sumptae, vale a dire rappresentativamente. Sono le idee prese nel
senso rappresentativo, di raffigurazione cioè di un mondo di cose fuori di
me, che creano per me il mondo esterno, esteriorizzando i corpi nel mon
do. Secondo Descartes, se io non mi fondassi su questa presupposizione, il
mondo certamente continuerebbe a essere quel che è, ma io non lo potrei
concepire come esterno. Non ne avrei l’idea. E questa idea oltrepassa quel
la della distinzione formale.
In breve, è l’idea che se esistono due cose nel mondo occorre che si pen
sino come l’una fuori dell’altra, e viceversa; o, in altre parole, che siano non
solo distinte, ma altresì distanziate. E quindi, per operare questo distanzia
mento, devo immaginarmi anzitutto l’estensione. Sia essa sostanza o acci
dente, poco importa, purché rispetti l’ordine della fondazione, ciò che pre
cede e ciò che segue. Voglio dire che quest’ordine resta valido, per noi,
anche se per avventura non esistessero sostanze né mondo esterno «in sé».
Importante è rendersi conto che l’estensione non è un’idea del genere di
quelle che avevo all’inizio, e che consideravo solo materialmente: come l’i
dea del bianco grigiastro, del suolo, degli scoppi, del movimento ecc., e
nemmeno un’idea distinta matematicamente, con le sue proprietà formali,
le sue incompatibilità o conseguenze, la sua astratta identità ecc., ma qual
cosa di ulteriore e più fondamentale. Essa è infatti subentrata nel mio intel
letto per una ragione ben precisa, e cioè per distinguere distanziando. Qui
REALTÀ 77

non è più il caso delle associazioni che si formano nel sogno o nell’immagi
nazione, perché l’estensione, anche se si produce nello stesso modo, inter
viene con un motivo che riesco a identificare, a ritrovare, a dire esplicita
mente. Nasce così la raffigurazione «ideale», per mezzo degli assi cartesiani
delle ascisse e delle ordinate. Ma perché io possa parlare di due cose nel mio
campo visivo, comunque me le raffiguri, bisogna che prima di tutto èsse, df
«per sé», mi facciano il favore di stare un po’ separate, o altrimenti le
confondo.
L’idea dell’estensione mi permette così di stabilire che se due cose sono
diverse, c distanziate, io posso raffigurarmele in uno spazio di cui misuro la
distanza. Tramite questo procedimento, pervengo all’idea di uno spazio
complessivo, che è l’insieme di tutte le infinite distanze tra gli oggetti presi
in numero infinito; e, attraverso alcune distanze scelte a piacere, e seguen
do un determinato ordine, posso incaricare gli oggetti stessi, definiti dal
parametro spaziale, di essere nella loro propria localizzazione ciò di cui io
parlo. È quindi la misura di distanza relativa (per esempio, il signore laggiù
in fondo, nell’ultima fila, terzo da destra ecc.) che identifica l’oggetto del
mio discorso. Per costituirlo a soggetto grammaticale non è necessario pro
muoverlo (chiedendo scusa al signore laggiù in fondo) a vera e propria
sostanza. Nel modo di pensare precedente, per esempio in quello aristote
lico, bisognava invece attribuire al soggetto grammaticale per lo meno lo
status di «sostanza seconda».

6. Ora, ammesso che questo modo di parlare risulti intelligibile, siamo


evidentemente in presenza di un gioco di immagine e specchio. L’estensio
ne, se neghiamo che sia sostanza, è anch’essa un’immagine. Ciò che la distin
gue dalle altre immagini e la sua funzione di specchio, per cui ciò che all’ini
zio era solo una rappresentazione materiale indifferenziata, attraverso la
distinzione formale e la distanziazione si costituisce a fuoco di un riferi
mento universale, nella cui cornice è consentito inquadrare almeno un ele
mento di realtà esterna. In sé le idee sono tutte materiali. Esse non conten
gono nulla più di quel che sembrano. Ma seguendo questo filo raziocinante,
osserviamo che almeno alcune tra di esse (quelle della matematica, per esem
pio) si prestano più di altre a esser prese in senso formale. Non ci preoccu
piamo del perché ciò sia possibile: probabilmente tutte le idee sono suscet
tibili di tale trattamento; la questione può essere solamente una di politura,
curvatura e potere riflettente degli specchi disponibili. Non andiamo oltre,
c passiamo dalla distinzione formale a quella obiettiva, concependo l’imma-
78 TERZA LEZIONE

gine di un mondo dove ogni cosa, attraverso gli assi cartesiani, risulti univo
camente identificabile e quindi riconoscibile. Non importa che l’idea resti in
fondo quel che era prima, un’impressione materiale o un’immagine sul fon
do della retina, l’importante è che io ora so di che cosa sto parlando; e che
ogni altro può saperlo con me, purché si procuri le istruzioni per l’uso del
suo cervello. Posso non esser sicuro di nulla, ma, tracciando gli assi cartesia
ni, a ogni punto del mondo attribuisco una terna di numeri (x, y e z) che ne
identificano la posizione (unica) rispetto alle coordinate. Potrò continuare a
non sapere altro, ma per lo meno so di quale punto del mondo sto parlando;
meglio ancora, posso presumere di farlo, senza dovere abbandonare la sedia
del mio studio: la verifica pratica non aggiungerebbe nulla alla mia certezza.
Qui, stando fermo, con la sola mia mente dico a me stesso: posso fare a que
sto modo, dando un nome diverso a ogni cosa per quanto piccola di questo
mondo. Utilizzando il solo concetto di estensione, troverò tutto il mondo
obbediente ai miei piedi per quanto riguarda la mia capacità di nominarlo
attraverso le tre coordinate di numerali. Omne enim quod vocavit Adam (...)
ipsum est nomen eius (Gen., 2, 19).
.Ma ora il problema che ci interessa non è solo quello dcll'identificazio-
ne (o del riconoscimento di quella x, di cui esattamente parlavamo), ma del
ta, conoscenza degli oggetti di cui vogliamo parlare, ossia della loro effetti-
va individuazione. Vale a dire, non ci basta sapere che l’oggetto di cui
parliamo è identificabile come x, vogliamo anche sapere a che titolo esso è
un oggetto. Finché mi limito a usare l’apparato identificatore che ho descrit
to, ho una carta millimetrata che al massimo mi fornisce il concetto (nomi
nale), senza individuazione dell’oggetto. A parte la concreta individuazio
ne, che ci immette nel problema della conoscenza, io potrei avere un
apparato identificatore fallace perché, per esempio, prevede solo due dimen
sioni anziché le tre che ci vogliono. E qui, anche se a malincuore, dobbia
mo abbandonare Descartes, compiacendoci tuttavia di averlo accompagna
to per un non breve tratto di strada.
Un primo problema riguarda il presupposto, di origine atomistica, del
la incompenetrabilità dei corpi. Chiaro che, se ci sono atomi, e questi sono
indivisibili (o indistruttibili), ciò si dà come ovvia conseguenza. Ma si trat
ta proprio di ciò che vorremmo sapere, non presupporre. Ora ci viene in
mente che il principio di identificazione attraverso gli assi cartesiani è una
concezione solamente geometrica, che non può applicarsi alla fisica per
semplice proiezione. Vale a dire: se i corpi sono effettivamente incompene
trabili, l’individuazione geometrica coincide con quella fisica; ma se di fat-
REALTÀ 79

to, fisicamente, non lo sono? In effetti, se la distanza tra due corpi è mino
re di 1/ioo.ooo.ooo di cm., il principio non ha validità fisica, perché siamo
in presenza di una collisione atomica con probabile alterazione d’identità.
Come si vede, l’argomento è presentabile senza far menzione delle geome
trie fisiche speciali, che complicherebbero irrimediabilmente il quadro.
Un altro problema riguarda la nozione stessa di■ evento^ cioè di cosa che
muta nel tempo. Nel mondo non vi sono solamente le forme statiche. Ci
sono cose che mutano di forma e le figure che si trasformano non sono tut
te trascrivibili per mezzo della geometria analitica, nemmeno quelle rego-
lari. È a questo proposito che Descartes pone una categorica distinzione tra
curve geometriche e curve meccaniche’, le prime sono rappresentazioni geo
metriche di cui è possibile dare come generatrice una formula algebrica; le
altre, invece, si dicono meccaniche perché si generano con speciali disposi
tivi di disegno che permettono di tracciare figurazioni spostando il penni
no a velocità costante. (Sono tali la concoide, la quadratrice, la duplicatrice
del cubo ecc.). Queste ultime non sono riconducibili all’algebra se non
intervenendo col deus ex machina di un’addizionale cinematica. Il guaio in
tutto ciò è che Descartes rende tale distinzione categorica, come se fosse sta
bilita per sempre, mentre nemmeno cinquanta anni dopo sarà superata dal
l’intervento del calcolo infinitesimale. Ma anche l’introduzione di conside
razioni cinematiche nella geometria non va certo esente da inconvenienti.
Fare assegnamento sulla velocità costante nel tracciare le curve meccaniche
può voler dire una delle due: o non accettare affatto tale premessa, se non
come comodo espediente privo però di rilevanza teorica, e siamo costretti
ad ammettere un limite di chiusura sistematica della geometria analitica; o
ne accettiamo, ammettendolo, tutte le implicazioni teoriche, e il concetto
stesso di velocità costante introduce una nuova variabile non garantita dal
l’evidenza. Con questa nuova variabile entra infatti in gioco il problema del
tempo, vera bestia nera della filosofia cartesiana. Il mutamento infatti diven
ta comprensibile introducendo la variabile t (il tempo), ma il presupposto
del suo fluire costante non è certo evidente. Si tratta di un postulato meta
fisico di tutt’altro genere. Dobbiamo limitarci a dire che si afferra il tempo
in un atto di intuizione anch’essa elementare, in un atto temporale che ha
se stesso come oggetto. Ma a parte il palese carattere di espediente di que
sta considerazione, bisogna dire che nulla garantisce che due diversi atti
temporali riguardino lo «stesso» tempo oggettivo. Per altro verso spazio e
tempo non sono certo concetti correlatili in maniera simmetrica; perché lo
spazio, fin tanto che non vi si introduce il movimento (la cinematica), si
So TERZA LEZIONE

dispone in una coerente geometria, evidente in ogni suo luogo; mentre il


tempo non presenta nemmeno la certezza dell’attimo «ora», compresso
come limite fluttuante tra futuro e passato, e rimanda all’affidabilità della
memoria. Eppure la nozione di evento è quella di una cosa che perdura, pur
subendo modificazioni nel tempo. Parlare di eventi è parlare della realtà in
maniera più adeguata che non riferendosi alle semplici cose. Ma evidente
mente nel parlare di realtà in maniera più adeguata, rispunta fuori con mag
giore stringenza, come contraddizione o paradosso, la «rimossa» antinomia
di Gorgia.
Tuttavia noi insistiamo, in ciò cartesianamente, a muoverci sul terreno
dell’intuizione. Se vi è una qualche contraddizione nel rappresentarci ciò
che è reale, questo divario deve palesarsi nel fatto stesso che esso non è un’i
dea della nostra mente, ma l’idea di qualcosa d’altro. Tra l’idea che come tale
è sempre della nostra mente, materialmente parlando, e l’idea che, attraver
so il mutamento del nostro sguardo, diventa formale e da ultimo obicttiva,
rendendoci capaci di rappresentare qualcosa di radicalmente altro, il reale,
deve intervenire una modificazione avvertibile in noi come acquisizione del
senso della realtà. Questa modificazione, per quanto sia profonda, non deve
però comportare l’abbandono del terreno dell’intuizione, quale la cono
sciamo nel muoverci in ambiti privilegiati, come quelli delle scienze pro
priamente eidetiche, come almeno in parte sono le matematiche, la logica,
la deontologia ecc. Forse dovremo accontentarci di un pensiero parzial
mente intuitivo, sperando poi di stabilire il tutto su tale parte di evidenza,
giacché la pretesa di far valere solo l’intuizione appare francamente utopi
stica. Le risorse di un pensiero non intuitivo, o contro-intuitivo, come pre
feriamo dire, si fondano come sappiamo sull’uso di paradigmi linguistici ai
quali, essendo già adusati, non richiediamo che l’evidenza dell’abitudine, e
una reiterazione allargata. Il pensiero controintuitivo si muove per esempio
nel possibile, adoperando allo scopo delle matrici esaustive di tutti i casi cal
colabili, e trascegliendo quelli più adatti. Noi siamo talmente abituati a que
sto modo di ragionare, da non avvertirne l’alcatorietà; ma bisogna pensare
che esso riceve rincalzo, per complementarietà, dal compresente pensiero
intuitivo. Questo perché nessuna matrice potrebbe sul serio esaurire, nem
meno disponendo di schemi linguistici adeguati, l’universo trascendental
mente comprensivo di tutte le possibilità che si danno. L’alternativa di un
pensiero totalmente controintuitivo non è affatto percorribile. Il suo idea-
le sarebbe quello di un pensiero completamente simbolico, retto dall’arbi
trarietà del segno, regredente sul solo libro scritto comprensibilmente a par-
REALTÀ 8l

tire da un’infinita biblioteca di Babele. Il rapporto tra simbolo e designato


non può dunque essere completamente aliorelativo come quello tra cose
eterogenee, senza con ciò importare all’interno dell’universo dei segni il
paradosso gorgiano.

7. Il rapporto tra pensiero c realtà-fuori-del-pcnsiero si pone dunque,


attraverso il medio dell’intuizione, come un rapporto tra due realtà diver
se,contrarie e opposte fintanto che si vuole, ma non del tutto aliene l’una
all’altra. Tale rapporto è ciò che chiamiamo ragione, proporzione o rap-
portatezza (ratto), e la sua stessa definizione indica che esso può variare
molto, escludendo solo i due estremi dell’intuizione c del simbolico esclu
sivi, totalizzanti senza complemento. In particolare, la nozione di espe
rienza può essere usata, quantunque in maniera non totalizzante, sia per
riferirsi al momento intuitivo e redintegrante del farla, sia a quello simbo
lico e calcolistico del tenerne conto. Per quanto concerne il problema così
mediato del senso della realtà, il punto di vista prevalente è di carattere psi
cologico (e sociale); tuttavia anche la sua adozione non serve molto, per
ché non spiega il profondo divario che continua a sussistere tra il senso fisi
co-matematico e quello psicologico del reale. Lo psicologo che più si è
segnalato nel porre con nitidezza questo problema filosofico è stato Kiilpc,
fondatore della Scuola di Wùrzburg (il cui allievo Popper è oggi molto cele
brato) che ha scritto un lavoro intitolato appunto alla «realizzazione», nel
nostro senso. Ma nella filosofia moderna in generale l’inauguratore di una
vera c propria critica della conoscenza a partire dai suoi momenti concreta
mente mediatori tra la realtà e il pensiero, prima ancora di Kant, è stato il
filosofo Locke. Anche Locke, come Descartes, è fautore di una ripresa radi
cale della conoscenza a partire dalle idee che la generano. Ma queste idee, a
differenza di Descartes, non assumono il criterio di una mathesis univ erta
lis come discriminante in senso formale. Esse vengono assunte per il loro
valore assertorio di presenza, la cui attenta considerazione in sede sorgiva,
o fenomenologica, deve esser sufficiente a mostrare le fallacie del pregiudi
zio. La corrosiva critica dell’idea composta di sostanza, che è un pregiudi
zio considerare una nozione necessaria a priori, anziché fittizia; l’inedita
considerazione dei «modi misti», che riguardano il ruolo costruttivo del
l’immaginazione negli sviluppi dell’agire umano consapevole, non imitati
vo; e il grande rilievo dell’idea di libertà, che nessun raziocinio riuscirà mai
a comprimere tra le maglie di un predisposto meccanicismo, dagli effetti già
calcolati: costituiscono alcuni degli esiti giustamente più celebri della filo-
82 TIRZA 1 I /IONI-,

sofia di Locke, il fondatore del nuovo empirismo emergente. Al di là dei


suoi meriti innegabili, però il difetto di questa maniera di pensare a mathe-
sis nulla, o allargata, è che sulla sua scorta non si riesce a distinguere tra evi
denza originaria, o intuitiva, e evidenza proveniente dal costume e dall’abi
tudine. Il fatto è che non possiamo combattere il pregiudizio, raddrizzare
le idee e costituire una conoscenza verace basandoci su ciò che la media
degli uomini pensa, senza con ciò ricadere nella perplessità; o su ciò che i
miei amici e io pensiamo, senza relegarci nell’arbitrario. Ma Locke ebbe tut
tavia il coraggio di fare una cosa e l’altra insieme, e bisogna dire che il tem
po gli ha dato largamente ragione. Non possiamo nondimeno stabilire
mediante una specie di «curva gaussiana» quale sia il senso della realtà pre
valente a un dato momento, mettendo in ascisse il grado di cultura e in ordi
nate l’intensità della «realizzazione».
Mi pare pertinente mettere in rilievo le notevoli difficoltà che concezio
ni oggi ovvie e perfino banali hanno dovuto superare per entrare a far par
te della mentalità degli uomini pur colti di una data epoca. Così per esem
pio il fatto che ogni corpo sia pesante, è una cognizione che ha dovuto
compiere un percorso abbastanza faticoso per essere acquisita al senso fisi-
co-matematico, quindi a quello comune di realtà. Ancora Kant, indottrina
to com’era nelle teorie di Newton, pensa che la proposizione «ogni corpo
è pesante» sia sintetica a posteriori. Per noi è invece di senso comune con
siderarlo certo a priori. Invece non era così. La legge di gravitazione uni
versale di Newton fu da lui espressa dicendo che concerneva la sua esattez
za sperimentale (prodotto delle due masse, fratto il quadrato della distanza),
ma che quanto alle cause (hypotheses non fingo!) non intendeva sostenere
che ci fosse una forza di attrazione tra i corpi dotati di massa. Perché que
sto? Ma perché non era ancora entrato nella mentalità comune il fatto che
un corpo sia pesante perché fatto oggetto di un’attrazione di gravità. L’idea
stessa di un’attrazione era in qualche modo revulsiva, come per noi le sen
tenze pubblicitarie. Erano ancor troppo vicine le speculazioni degli alchi
misti, dei visionari, degli spiriti geniali ma indisciplinati del Rinascimento
che trattavano di un’occulta attrazione che si esercita tra le cose, in virtù di
una simpatia elettiva o altre filìe unitive. Erano cose presenti nei discorsi di
Giordano Bruno, di Fludd e perfino del suo discepolo Gilbert, che ne dava
dimostrazione col magnete; e la gravità come una sorta di magnetismo, per
quanto approssimativa, non si può dire che sia un’idea sbagliata, se propo
sta per intendersi. Il senso comune dei dotti era rimasto indietro, doveva
recuperare. Fu proprio a proposito di Ncv/ton che, con gli illuministi, si dif-
REALTA 83

fuse in Francia e da noi la mania filobritannica; essa comincia con Voltaire,


Maupertuis, Diderot e pervade tutta l’enciclopedia. Newton ha diffuso l’i
dea che la capacità di trasmettere un impulso a muoversi dipende da una
proprietà della materia; ma dopo aver lanciato il sasso, nasconde la mano
dicendo che non usa fingere delle ipotesi. Altri s’incaricano di raccordare
l’idea col sentimento di tutti. Newton non fingeva invano di non fingere
ipotesi. È interessante notare che quando Spinoza disse all’incirca le stesse
cose, senza ricorrere a cautele, venne immediatamente accusato di materia
lismo perché applicava al movimento, che è una produzione dello spirito,
la capacità intrinseca della materia. Oggi non sappiamo più muoverci, noi
stessi, senza bruciare benzina.
Anche queste concezioni più astratte fanno parte del quadro del mondo
che io mi faccio, anzi proprio i pregiudizi vi proiettano un chiaroscuro più
profondo, partecipe della realtà vissuta. Se riesco ad assegnare i movimenti,
in quanto meccanici, a una orologeria o clockwork universale, i loro effetti
non sono più ciò di cui potremmo esser ritenuti responsabili come soggetti.
Si capisce che anche nell’universo meccanicisticamente più deresponsabi
lizzato, rimane sempre un ambito di comportamenti destinato alla giusti
zia, in quanto le azioni considerate dipendano dal libero arbitrio o siano
comunque suscettibili di trattamento penale o civile. Il decorso degli even
ti, la storia stessa si divide in due parti sempre più difficilmente separabili, i
movimenti meccanici e le azioni volontarie; ma nell’unicità della sequenza
la discriminante del giudizio risulta incerta. All’epoca della caccia alle stre
ghe gli squilibri mentali provocati dallo stesso atteggiamento bigotto veni
vano giudicati invasamenti e possessioni diaboliche, implicanti l’almeno
parziale responsabilità dell’imputato, con conseguenti punizioni e torture;
oggi inorridiremmo di fronte a un ordinamento del genere, Beccaria ci ha
insegnato che la pena non riscatta il delitto, ma tuttavia non siamo propen
si a deresponsabilizzare completamente il malato psichico: le nevrosi intac
cano meno delle psicosi la capacità d’intendere e di volere, e la sentenza del
giudice si fa più incerta, in conseguenza. In teoria il criterio discriminatore
è molto netto: non dobbiamo rispondere delle sequenze naturali e mecca
niche degli eventi, bensì degli innesti volontari che vi si immettono con con
seguenze prevedibili. Così, una persona imputata di omicidio, non deve
rispondere dello sparo della polvere o della traiettoria del proiettile, ma solo
della mira e dello scatto del grilletto. Sarebbe quindi possibile in astratto
passare dalle sequenze meccaniche a quelle volontarie ogni qualvolta è
richiesto, facendo perno sulla rilevanza giuridico-morale. Ma supponiamo
TERZA LEZIONE
84

che uno commetta un’infrazione sotto l’influsso dell’alcool o di una droga:


ciò costituisce una circostanza attenuante o aggravante? Qui i pareri non
sono del tutto concordi, specialmente se si tratta di giudicare del compor
tamento abituale a un gruppo di persone.
Abbiamo quindi riunite malamente in una, una duplice accezione di
realtà: se da un lato è reale ciò la cui evenienza è ineluttabile, cioè un effetto
fisico di cause fisiche; dall’altro dichiariamo reale con altrettanta sicurezza
ciò che è conseguenza della nostra volontà, e che in assenza di essa non si
sarebbe determinato nemmeno fisicamente. In passato si tendeva a rendere
solidale o no, in blocco, l’individuo con tutto l’avvenimento. Oggi siamo più
inclini a dividere un capello in quattro, giudicando della relativa pertinenza
di ciascun segmento, ma è chiaro che essendo i due momenti malamente
accordati, nessuna norma se ne può ricavare con sicurezza. Così si può dire
che la morte di una madre anziana può dipendere da due motivi: uno fisico,
nel caso che la madre, poniamo, fosse molto vecchia o debilitata al punto di
non farcela proprio più; l’altro morale, nel caso che entrasse in causa il fatto
che i figli o i parenti più stretti non le prestassero ormai più l’attenzione o le
cure necessarie. A discolpa ecumenica si potrebbe sostenere che una perso
na anziana, malata e debole, doveva comunque prima o poi morire. Ma que
sto non solleva da un dubbio atroce: forse non doveva morire proprio in quel
momento, forse cercava ancora di dirci qualcosa d’importante.
Se le mie osservazioni sono giuste, la nostra concezione della realtà si
palesa fondamentalmente schizofrenica per esser in se stessa motivata da
due intenzioni opposte. Accanto a un’intenzione deresponsabilizzante, di
rifiuto dell’accadere e che chiamerei materialistica, nella tendenza ad attri
buire a ogni avvenimento una causa meccanica e naturale, si pone per con
verso una seconda intenzione, opposta e complementare, che a tratti si fa
più acuta che mai e nostro malgrado ci fa sentire, in ogni situazione indi
stintamente, nel profondo, consapevoli e colpevoli. Dalla somma di due
assurdità contrapposte non si può certo sperare la felicità, né s’intravede la
via per cui uscire da tale distretta.

8. Parlando del tutto in generale, senza cioè pensare a una dissoluzione


teorica o pratica di tale deprecabile dualismo, devo dire che però esiste un
terzo tipo di approccio alla realtà che non è immediatamente pregiudicato
in tal senso. Si tratta del punto di vista per cui la realtà, essenzialmente, si
pone in termini di ontologia e, in particolare, come teoria degli oggetti e del
loro modo di darsi alla nostra esperienza sensibile e intellettuale. È una cor-
REALTÀ 85

rentc di pensiero che tra le altre cose porta ad approfondire o recuperare


concezioni oggi dimenticate e che di recente è apparsa sotto le luci dell’at
tualità sotto il nome di fenomenologia o filosofia fenomenologica. Sarà for
se perché questa filosofia è subito apparsa stranamente irresponsabile sot
to il profilo sociale, etico e politico, proprio per questo essa esercita un
grande fascino. Essa pare immetterci in quella dimensione dell’oggettività,
che non coincide interamente con quella di realtà, dalla quale si diffonde un
effetto «anestetico», neutralizzante sia i problemi derivanti dalla rimozio
ne della coscienza, sia di rincaro della medesima nella riacutizzazione di un
senso di colpa. Come mai ci sentiamo in dovere di accordare una certa legit
timità a questa filosofia? È che nel corso delle riflessioni sul senso dere
sponsabilizzante del materialismo scientifico, o, in alternativa, sul riacutiz
zarsi della coscienza di colpa, alla lunga ci sentiamo sopraffatti da un senso
di demoralizzante stanchezza. L’uno e l’altro motivano invece un accatti
vante interesse per le teorie dell’oggetto, se ci si oppone moralmente sia a
ciò che ho chiamato materialismo, sia alla registrazione, infelice ma acquie
scente, del senso di colpa. Questa filosofia, nuova esproprio per ciò anti
chissima, trova quanto meno il modo di prendere per le corna il dilemma.
Anzitutto nel parlare di realtà, di esistenza, di cose individuali ricordia
moci che abbiamo che fare con dei modi di dire. L’osservazione non è inte
sa a diminuirne l’importanza, ce lo impedisce la consapevolezza linguistica
stessa, ma a mettere in rilievo che si tratta di un problema non di cose, o di
eventi, ma di significato. E di tale significato è possibile parlare in termini lin
guistici; o, meglio, metalinguistici. Assumiamo a scopo di perspicuità lo
schema stoico dei tre diversi livelli con cui la lingua (in questo caso, il greco)
affronta il che cosa del significato, andando dal meno al più determinato:

i) t i , qualcosa di indeterminato; ovciva, complemento al plurale;

zz) òv, ente, entità, essente; oùx o v t c x , c.s.;

z7z) ocòpa, corpo esistente individuale; àotópctTa, incorporei, c.s.

Come si vede, il otnpa c l’individuo, l’esistente in senso proprio, l’ogget


to materiale. Solo se l’ente esiste come corpo esso va soggetto al principio
d’individuazione. Invece l’ente, TÒ òv, preso a sé, può essere un ùoiópctiov o
incorporeo, ma resta un ente fin tanto che può essere identificato c ripreso
come lo stesso. Al t i , infine, non spetta nemmeno l’identità, per tacere del-
86 TERZA LEZIONE

l’individualità, non essendo che un qualcosa non meglio determinato. Le


determinazioni dunque son due, una debole e una forte: quella debole (zz) è
l’identità del riconoscimento; quella forte (zzz) è l’individuazione dell’esi
stente, che presuppone l’identità ma, in più, è un ente corporeo. L’ente incor
poreo non ha esistenza, si può dire che «è», ma non propriamente che «esi
ste». Dell’indeterminato, il Tl, non si può nemmeno dire che è; e ciò a
maggior ragione vale per gli orava.
La ragione per cui si raccomanda questo schema sta nella sua maggiore
semplicità e adeguatezza alla lingua rispetto a quello per esempio di Ari
stotele. Questi presentava una partizione in orizzontale oltre che in verti
cale distinguendo una predicazione categorica, una analogica e una paroni-
mica, imponendo fin dall’inizio una specie di «teoria ramificata dei tipi»
(nella terminologia di Russell) che complica irrimediabilmente il quadro e
lo rende praticamente inapplicabile. Invece lo schema stoico si limita a una
«teoria semplice dei tipi», che riguarda solo i gradi intensivi dell’essere (nul
lo, identico, esistente) ed è di applicazione intuitiva. Tale quadro non è ulte
riormente semplificabile; è un fatto che senza per lo meno presupporre una
siffatta distinzione non si può procedere con coerenza. In effetti le cose più
obiettive del mondo, cioè i numeri, non sono esistenti: voglio dire che non
esistono i numeri, ma solo le cose contate. Però il numero dato a certe cose
contate si può riconoscere come lo stesso. Per questo c’è bisogno di distin
guere tra identità ed esistenza (o sussistenza). In altri termini, l’obiettività
non è l’esistenza, ossia le cose che sono identificabili nella mente non è det
to che siano individuabili come esistenti nella realtà. Ma qui stiamo usando
il dualismo di mente e realtà in maniera troppo disinvolta, dimentichi delle
incongruenze già rilevate. In ogni modo si capisce in che modo debba inter
venire l’ontologia, cioè la teoria dell’oggetto (anche inesistente, purché iden
tico), nello stabilire la taratura oggettiva dei nostri sistemi di riferimento.
Riprendiamo per esempio il principio d’individuazione che per il mon
do fisico domina incontrastato da Descartes alla fine del secolo scorso. Tre
dimensioni dello spazio (x, y e z) e una del tempo (z), in base a tale princi
pio, sono considerate sufficienti a individuare un corpo fisico; cioè che non
può esistere più di un oggetto di cui parliamo in tal senso. Ma possiamo
assumere senz’altro che lo spazio non abbia più di tre dimensioni, o che il
tempo non possa andare all’indietro? Si tenga ben fermo il nostro presup
posto: noi vogliamo esser sicuri che nel punto prescelto al momento dato
non esista più di un corpo; o altrimenti le nostre osservazioni diverrebbero
equivoche, in quanto ubiquitarie. Ora, rispondere affermativamente vor-
REALTÀ 87

rebbe dire compromettere il principio d’individuazione col mondo sensi


bile; ossia rimandarlo al problema della conoscenza, che per parte sua a pro
pria volta lo presuppone. Mentre il principio d’individuazione, dal punto
di vista linguistico, dovrebbe discriminare l’uso puramente copulativo del
verbo «essere» da quello determinativo che ha in «esistere», o «sussistere».
La questione è dubbia; noi usiamo parlare di esistenza in senso proprio
anche a proposito degli atomi o delle particelle così dette elementari, che
non cadono nel mondo dei sensi. D’accordo, si dirà; ma l’esistenza di tali
corpuscoli si inferisce da esperimenti che vi afferiscono. Modifichiamo allo
ra il principio d’individuazione in modo che comprenda sia il mondo sen
sibile, sia ciò che in qualche modo ne viene dedotto.
Ora ciò che viene inferito appartiene al mondo sensibile per via di una
proiezione che pone il soggetto senziente in condizione di osservare ciò che
normalmente non può. Così il modello dell’atomo, in origine, deriva inge
nuamente dal desiderio dell’osservatore di farsi tanto piccolo da vederlo. In
maniera più indiretta i modelli più recenti cercano non di visualizzare, ma
di chiarire con diagrammi la distribuzione delle forze interagenti, i livelli
energetici, o il senso dello spin. Ma fondamentalmente si tratta sempre di
un’extrapolazione, che più o meno furbescamente cerca di rispondere alla
domanda: come vedremmo noi le cose, se fossimo al posto di Dio? Se tale
questione ammette, entro certi limiti, una soluzione confortante, è perché
del mondo sensibile vengono conservate per induzione, nel passaggio a quel
lo sovra - o sotto — sensibile, solo certe proprietà noetiche considerate inva
rianti. Ma è proprio quello che accade quando si parla di spazio a quattro o
più dimensioni. È chiaro che non si vede né si opera nella quarta dimensio
ne dello spazio: un guanto destro non si trasforma nel sinistro senza rove
sciare le costure. Ma anche gli atomi non si vedono né ci si gioca a bocce. E
tuttavia come possiamo stabilire che l’atomo ha un nucleo e degli orbitali
elettronici, così possiamo dire, basando l’induzione sulle proprietà note del
la prima, seconda e terza dimensione, che nella quarta è identificabile l’iper-
cubo, o cubo tesserattinico (a quattro raggi), che è formato da 8 cubi con 16
vertici, 24 facce e 32 spigoli. Non essendo possibile immaginarselo, noi cer
chiamo con la coda dell’occhio di coglierne approssimativamente le sem
bianze, ma invano. Nondimeno queste difficoltà non sono maggiori che nel
caso dell’atomo. Per me, l’unica cosa che non convince è che dopo aver piaz
zato 7 cubi, non si sa dove mettere l’ottavo, che bisogna aggiungere da una
parte con effetto destabilizzante, perché asimmetrico e antiestetico.
88 TERZ/\ LEZIONE

9. A quali conclusioni si giunge indulgendo a speculazioni del genere? È


chiaro che per stabilire che cosa esiste fisicamente, il mondo sensibile deve
essere oltrepassato. Non si può accettare la testimonianza dei sensi come
unico criterio discriminante tra ciò che esiste e ciò che non esiste. L’extra -
polazione così ammessa può prendere diverse direzioni: quella del sublimi-
nalmente piccolo, per esempio, come quella della quarta dimensione; ma ce
ne sono molte altre. Non abbiamo parlato del tempo, del fatto che potreb
be andare all’indietro. Per un verso questo è banale, perché se tutti gli even
ti devolvessero in un tempo invertito, nessuno se ne accorgerebbe. Ma par
liamo di quel luogo topico della microfisica, espresso dai diagrammi di
Feynman, in cui certi eventi di tale mondo sarebbero più agevolmente spie
gabili se si assumesse che, per essi, il tempo ha un senso invertito rispetto al
nostro mondo macroscopico. Si rifletta inoltre sul fatto che ci siamo limi
tati al mondo fisico, supponendo ovvia tale qualificazione. Ma la teoria del
l’oggetto, l’ontologia, non è definita da siffatti parametri. In conclusione,
anche senza fare intervenire un dubbio iperbolico, può benissimo darsi che
le tre coordinate spaziali congiunte con quella temporale traguardino più di
un’entità, non solo, ma di un corpo alla volta. La questione dell’individua
zione, data per risolta in maniera evidente, è ritornata a essere un problema,
e non dei meno gravi. D’altra parte può trattarsi di un recider pour mieux
sauter. se la conclusione al dualismo di cui abbiamo parlato dipende, com’è
vero che dipende, da un errato principio d’individuazione, la risalita al pro
blema fondamentale può avviarci in un percorso migliore. E interessante
peraltro notare che in questa critica dei princìpi acquisiti dopo Galilei non
pochi argomenti vengono tratti dal linguaggio ordinario, vale a dire dalla
logica interna alla lingua, o meglio dai suoi schemi profondi. Questi ragio
namenti non sarebbero apparsi pertinenti in una situazione scientifica in cui
perdurasse l’egemonia della meccanica e del suo semplice quadro di riferi
mento matematico-fisico.
Anche se abbiamo già tratto delle conclusioni che ci appaiono general
mente accettabili, vai la pena di soffermarsi ancora sulla crisi del «naturali
smo», che è la filosofia per lo più implicitamente fondata sull’egemonia del
la fisica matematica. Abbiamo detto che il principio dell’incompenetrabilità
dei corpi è in realtà la soluzione data al principio d’individuazione stabi
lendo che tre coordinate spaziali e una temporale siano sufficienti per par
lare univocamente di uno, e un solo, corpo fisico. Espressa in questa manie
ra più cautelata, l’incompenetrabilità rende palese il suo carattere di
principio misto, in parte fattuale, ma in parte anche normativo, vale a dire
REALTÀ 89

implicitamente performativo. Stabilire infatti che «un corpo non può stare
al posto di un altro» è solo apparentemente un dato di fatto, in realtà è un
ordine; nel senso che è diretto all’imposizione di un atomismo spaziale, per
evitare che una stessa porzione di spazio si possa chiamare con due nomi
diversi, tra loro non sinonimi, e che predicati tra loro contradittori si pos
sano asserire di uno stesso oggetto. In altre parole, l’incompenetrabilità non
è un buon principio di fisica. Se infatti ci chiediamo quali e quante situa
zioni fisiche possano esistere, tali da contraddirne il principio, non è diffi
cile rispondere che di fatto esse sono infinite.
A questo proposito interessante è la nozione di atomo. In origine l’ato
mo è quella parte dello spazio che fa da pieno, mentre il restante spazio è il
vuoto; oppure il pieno è l’essere, compatto e inscindibile, mentre il vuoto è
il non essere, la distanza e la separazione. Il carattere solido, pieno e inalte
rabile è sempre stato costitutivo del concetto di atomo; vale la pena di ricor
dare che ciò deriva da una distinzione dello spazio in parte e tutto, in pieno
e vuoto, in fisso e variabile, e che 1 secondi termini di tali coppie sono attri
buiti al non essere, alla distanza, allo sfondo del vuoto. Se poi l’atomo per
avventura non si rivelasse inscindibile, bisognerebbe parlarne in termini di
sottoparticelle più elementari, cui attribuire di nuovo l’originario concetto
atomico. La riproduzione dello stesso schema è inevitabile, poiché dipende
non da come stanno le cose, ma da un nostro modo a priori di trattare lo spa
zio, separando il pieno dal vuoto ecc. Se ammettiamo una misura dell’atomo
di 1/100.000.000 cm., non possiamo penetrare al di sotto di questa soglia: sia
mo fatti di atomi e non di vuoto. Tuttavia la scienza ci insegna a andare oltre
questi limiti: se per esempio un evento di tale ordine di grandezza presenta
caratteri contradittori, allora è possibile salvare lo schema pieno-vuoto divi
dendo col pensiero l’atomo, ossia postulando che sia composto di particelle
la cui somma spieghi la compresenza di attributi che in precedenza appari
vano inconciliabili. È ormai un secolo che si sa che l’atomo è composto da
elettroni e da un nucleo. Questo risolveva la compresenza nell’atomo di cari
che negative e di cariche positive, rivelate separatamente dal decadimento
radioattivo. Gli elettroni negativi formano degli orbitali che bilanciano l’at
trazione del nucleo positivo. Ma quando subito dopo sorse il problema di
come le cariche positive potessero coesistere nel nucleo, compatte, senza
esplodere, la risposta fu che la soglia del l’incompenetrabilità dovesse scen
dere da 1/100.000.000 a 1/10.000.000.000.000 cm. Al di sotto di tale valore
sarebbero invalse altre leggi, con una forza di attrazione (anzi, di stringi
mento) enormemente superiore a quella antagonista. Naturalmente al di sot-
90 TERZA LEZIONE

to di tale soglia sorgevano nuove particelle, il protone (positivo) e il neutro


ne (senza carica), e la storia è tutt’altro che conclusa. Dunque la scienza ha
dato una risposta insieme innovatrice e conservatrice: per un verso ha limi
tato l’assolutezza originaria del principio di incompenetrabilità; ma per l’al
tro ha riprodotto lo schema dell’interazione di due corpi separati, spostan
dola nel campo dell’inosservabile, al di sotto di 1/10.000.000.000.000 cm.
Coerentemente col principio atomistico, tale risposta è stata formulata in ter
mini spaziali, incurante però del fatto che con tale mossa sono saltati alcuni
postulati logici fondamentali, e che noi non siamo abituati a commisurarne
la validità secondo l’opportunità del caso. Che il positivo attragga il positi
vo, anziché respingerlo, è una questione di distanza; che dell’elettrone non
si possa insieme stabilire posizione e velocità, significa che esso è, e non è,
una particella; che le onde elettromagnetiche viaggino in pacchetti, mi per
metto di dire, è una disposizione abusiva.
Il nostro senso della realtà è dunque gravemente compromesso su
entrambe le fonti della sua tradizionale costituzione. Alla sinistra, diciamo
dopo Galilei, abbiamo una frontiera aperta su un ignoto in cui si insinuano
le nostre pattuglie esplorative, armate di fisica e di matematica. A destra,
dopo la secolarizzazione della teologia, il fronte non è più in avanscoperta
ma si assiste a un ripiegamento in buon ordine, approntato dalle autorità
civili della psicologia e della sociologia, le cui teorizzazioni ci inducono a
credere esattamente in quel che poi, bene o male, succede. Il nostro senso
della realtà è diviso e frastornato. Per un verso abbiamo la seduzione del
«nuovo», che in mancanza di un fondamento più fermo potrebbe sostituir-
visi come stimolo a una crescita, in attesa di tempi migliori. Ma si tratta di
un nuovo che non può più continuare a esser tale senza rinnegare la logica
e la ragione. E a questo proposito il sempre ruminante e mal disposto filo
sofo si chiede per quanto tempo ancora durerà l’illusione del progresso e la
fede nei suoi nuovi eroi, gli scienziati, prima di vederne l’intera corpora
zione a mano a mano trasformarsi in una setta esoterica e mistica, sul tipo
magari dei pitagorici ma in fondo sempre oscurantistica. Per l’altro verso,
sul piano della conoscenza dell’uomo, della società e della storia, le virtù di
sapienza che si richiedono non sono certo minori. Ma in questo campo le
teorie non servono a spiegare, bensì a capire e ad accettare anche senza spe
ranza. Si tentano anche delle spiegazioni volonterose, ma in realtà motiva
te da spirito di adattamento, e che si dimostrano utili fin tanto che sono ani
mate da una positiva gioia di vivere, con o senza teoria corrispondente.
L’ipotesi di un dio trascendente, ordinatore e provvidente è certo molto
REALTÀ 91

meglio che nulla, ma bisogna riconoscere che rappresenta l’ideale di un


adattamento crescente, positivo (di noi al mondo così com’è) e negativo (del
mondo a noi, mediante la tecnica); e che tale ideale non serve a nulla pro
prio per quelli che ne avrebbero più bisogno tra noi, i reietti, i relitti, i fal
liti; mentre a chi è mosso da una vorrei dire animale ma sana volontà di vive
re può apportare degli utili ritocchi, perfezionamenti e abbellimenti, ma
nulla che non abbia già.

io. Il nostro senso della realtà è dunque inoltre profondamente insicu-


ro e vacillante, stretto com’è tra la Scilla di un meccanicismo incredibile e il
Cariddi di un finalismo, impraticabile perche tautologico. Ripudiata la
visione meccanica delle cose e degli eventi, la scienza naturale non può dir
ci nulla che si assommi in una credenza, perché una fede ha da essere intui
tiva e quelle astrazioni non hanno nemmeno il sostegno della logica. Chia
ro che invece la fede in Dio, specialmente se non analizzata, può ancora
persistere; ma è il significato che essa ha per noi, una volta dimessa la fata
Morgana del finalismo, a dimostrarsi inane e vuoto. Il fatto è che bisogna
già avere il senso della realtà, se vogliamo attribuire a questo abito un signi
ficato positivo. Di fronte al malato incurabile, al drogato cronico, al rotta
me irreversibile io non posso fare altro, anche se me ne vergogno, che ripe
tere la preghiera del fariseo: «Signore, ti ringrazio perché non sono come
lui». Questo, per chi ama la verità, non le consolazioni edificanti. Il sistema
etico costruito sul sentimento fondamentale della colpa, proprio dell’ebrai
smo, subisce un primo scacco sul problema del senso del reale. Infatti, qua
si ci dimenticavamo imperdonabilmente di dirlo, la realtà (o il suo senso) ha
una forte implicazione etica: ma di ciò parleremo a suo luogo. Ai quattro
mali incontrati da Buddha nel mondo, la malattia, la vecchiaia, la morte e la
miseria, lo jahvista mosaico aggiunse il tratto d’unione, la sinsemantica del
la colpa. Non è infatti senza significato accusare gli uomini di corresponsa
bilità per i loro mali. Ma, colpa o no, per gli emarginati non c’è salvezza, se
manca loro la volontà di esserlo: che poi è la pura e semplice, sana e anima
le voglia di vivere.
Per concludere un po’ meno lugubrmente, vorrei indicare la mia pro
pria, personale riedizione della classica «consolazione filosofica». Come in
tutti gli argomenti, le conclusioni cui siamo giunti a proposito del dualismo
di natura e spirito, con quel che segue, sono al massimo altrettanto certe che
le premesse, non di più; in altre parole, le conclusioni sono relative alle pre
messe. Se queste cambiano, anche le conclusioni devono cambiare. Abbia-
92 TERZz\ LEZIONE

mo anche visto che ci sono validi motivi per cercare di mutare le premesse;
ma non è cosa facile, dal momento che non parliamo a vanvera, bensì sulla
! scia di una determinata tradizione. Si tratterà di combatterla, di propugna
re altre idee, non certo di starne al di fuori. Gli inizi son sempre difficili, len
ti e di poco momento; specie per chi pensi che non si tratti di rifar tutto da
capo, ma di riformare l’edificio del sapere. Se ho mostrato la necessità del
la riforma, sono contento dei risultati acquisiti. Se invece non ho indicato
la via da seguire, l’ignoranza non è solo mia; è che la proporzione tra i pas
si incerti e quelli certi non è molto incoraggiante. Ma forse si capisce senz’al
tro come una concezione della realtà fondata sull’ontologico, cioè sulla teo
ria degli oggetti, sulla metafisica e su cose lontane dal senso comune, possa
nondimeno interessare, nonostante il fatto che sembrino non importare a
nessuno.

Nota bibliografica

La teoria matematica della comunicazione che si riassume nella formu


la per cui la quantità d’informazione H --k log, W, analoga (ma si noti il
segno opposto) a quella di Boltzmann sull’entropia, si deve a Claude E.
Shannon e Warren Weaver, The Mathematical Theory of Communications
Urbana 1949, che sviluppano concezioni di Norbert Wiener, Cybernetics,
New York 1948. La teoria linguistica della comunicazione, pur non con
traddicendo a questa impostazione, oltrepassa tuttavia il punto di vista inge
gneristico per cui la comunicazione consisterebbe nella trasmissione di
informazioni, per adottare quello, più adeguato, della intenzionalità della
notificazione, che risale a Edmund Husserl, Logische Untersuchungen, voi.
II, Prima ricerca, cit., ed è stato sviluppato conformemente da Karl Bùhler,
Sprachtheories cit., con la teoria della «triplice funzione dell’atto linguisti
co», che in precedenza era stata messa a punto, nell’ambito della scuola di
Brentano, da Anton Marty, Ubersubjektlose Sàtze und das Verhdltnis der
Grammatikz h logik und Psychologie, «Vierteljahrsschrift fùr wisscnschaf-
tliche Philosophie», Vili, 1884; XVIII-XIX, 1894-95; rist. in A. Marty, Gesam-
melte Schnften, voi. il, 1, Halle 1918, pp. 1-307.
La ripresa odierna di quest’ultimo problema, per effetto del dualismo tra
linguaggio-macchina e linguaggio-programmazione che caratterizza l’infor
mazione del computer, è stata chiarita da John R. Searle, Speech Acts (An
essay in thè philosophy of language), London-New York 1969, che si avva-
REALTA 93

le anche del fondamentale lavoro di Herbert Paul Grice, Meaning, «Philo-


sophical Review», 1957; rist. in Philosophical Logic, ed. Peter Frederick
Strawson, London 1969. La tesi di Bolk sulla «ominizzazione», in quanto
ritardo della maturazione e prolungamento della fase «fetale» extrauterina,
si trova in Louis Bolk, Das Problem der Menschwerdung, Jena 1926; di cui
un estratto in francese, col titolo La génèse de Phomme, è nel n. 18 di
«Arguments», IV, i960, pp. 3-13. Il problema psicologico della realtà, il
cosiddetto «senso della realtà», è stato discusso da Oswald Kùlpe, Die Rea-
lisierung (Ein Bcitrag zur Grundlegung der Realwissenschaften), 3 voli.,
Leipzig, I, 1912, ii -iii , 1920-23.
Quarta lezione

Metafisica
Il principio, l'essere, il possibile

i. Un aneddoto racconta che Andronico di Rodi, riordinando gli scrit


ti lasciati da Aristotele, ne trovò alcuni che non appartenevano ad alcun
ramo dello scibile; mise perciò questi libri nello scomparto «dopo quelli di
fisica»: là pria là cpuaixa (bibita). Da ciò il nome, al singolare e preso come
sostantivo: la metafisica. Questo resoconto è chiaramente inattendibile, ma
gli siamo debitori di una caratterizzazione abbastanza buona dell’argo
mento. Infatti la metafisica, andando oltre la fisica, non è più legata dal pre
giudizio dell’esistente. Sarà dunque identica alla logica? No, perché la logi
ca non è, in sé, una scienza reale, ma fittizia; la logica o meglio l’analitica,
per Aristotele, tratta dell’ews tanquam verum, dell’essere come se fosse vero,
cioè reale. Essa tratta dunque del possibile irreale, o controfattuale, e la sua
virtù normativa si esercita per mezzo di questo distacco e ritorno sul reale,
non avendo consistenza in proprio. Mentre la metafisica, come si dice in un
famoso passo dei IV libro, proprio all’inizio, è «scienza del reale, in quanto
tale, e delle sue intrinseche attribuzioni». L’«in quanto tale» si riferisce al
fatto che, mentre le altre tre scienze teoretiche astraggono dal reale un aspet
to, ciascuna secondo il proprio punto di vista, e cioè la matematica il quan
titativo, la fisica il movimento, la teleologia la funzione, la metafisica o scien
za prima, invece, non avendo un punto di vista caratterizzante, che
specificandola la limiterebbe, ha come oggetto l'essere in quanto tale e i suoi
attributi essenziali. L’essere è dunque ciò che la metafisica ha in comune con
le altre scienze teoretiche, ma non l’essere come esistente e meno che mai i
suoi conscguenti attributi del quantitativo, del movimento e dell’agire fina
listico.
Andando oltre la fisica, la metafisica tratta del reale anche secondo le
modificazioni immaginarie o fantastiche; né in questo è limitata dal possi
bile secondo una definizione di legittimità logica. Ciò che in questo oriz
zonte illimitato le presta tuttavia una caratteristica di specificità è la con-
96 QUARTA LEZIONE

fluenza di tre motivi: (i) la metafisica è il campo della discussione dei princì
pi, ed è jiq c ó t i] ÈJIIOTÌ1I.U1 (o scienza prima) proprio in questo senso, per cui
il principio è ciò di cui si tratta prima; (ri) i princìpi di cui essa tratta devo
no risultare intelligibili, non si dice intuibili (questa è un’altra cosa), cioè tali
che in loro assenza non si darebbe spiegazione veruna; (iit) l’intelligibilità
del principio deve esser rilevante per il mondo reale, anche esistente, e cioè
l’assunzione di una metafisica, o di un’altra, o di nessuna, deve comportare
delle differenze per il relativo utente.
Ora, che cosa sia una discussione di principio (ì) credo sia chiaro a tutti.
Se voglio per esempio intervenire a favore della democrazia sosterrò che
il principio della maggioranza, anche se non è una panacea universale, è pur
sempre meno ingiusto che il suo contrario; in tal caso io oriento la discus
sione sul fatto che sia giusto o no il principio di maggioranza, e non tratto
degli inconvenienti derivanti da una possibile incompetenza tecnica dei pare
ri, della lentezza procedurale e della rappresentatività del giudizio che è pre
valso. L’intelligibilità di principio (ri) va intesa alla lettera, senza cioè fare
intervenire immediatamente il ricatto retroattivo di certe indesiderabili con
seguenze. Quando Democrito dice che esistono solo gli atomi e il vuoto, e
tutto il resto è inconsistente, non bisogna subito ribattere che, allora, è incon
sistente anche la teoria di Democrito. Il principio atomistico è di per sé chia
ramente intelligibile, questo è quanto. Non è detto che per capirlo occorra
condividerlo; ciò non è vero, forse, nemmeno per Democrito. Se non ci fos
se altro a favore della metafisica, essa sarebbe utile per questo: che ci fa capi
re maniere di pensare differenti da quella che indossiamo, senza obbligarci
alla partecipazione. Le religioni non sanno farlo. L’aspetto della rilevanza
pratica (riri), infine, dovrebbe essere eloquente. Non è detto che il principio
del libero arbitrio rafforzi la deliberazione, la volontà o la responsabilità più
che il fatalismo, o un altro principio opposto; anzi, psicologicamente è for
se vero il contrario. La metafisica non si occupa di queste conseguenze in
qualche modo casuali', si parla solo di implicazioni rilevanti, intendendo con
questo che cambia il senso, quindi anche il comportamento di chi vive coe
rentemente una certa convinzione; ma non che cambi di conseguenza. Biso
gna infine dire che la convinzione profondamente vissuta, se ha carattere di
principio, raramente coincide con la metafisica professata. In linea generale,
la fede non è mai, o quasi mai, ciò che si dice di credere.

2. Per inquadrare tematicamente il percorso della nostra disamina, vorrei


prender lo spunto da una considerazione che dev’esser stata rilevante nel fis-
METAFISICA 97

sare l’ineludibilità del problema della metafisica nel senso di Aristotele, che
è anche quello da noi seguito. Abbiamo già detto di Gorgia, la cui posizio
ne forse oggi manca di un po’ di spicco nel collettivo alquanto livellante del
le dossografie filosofiche; ma certo la sua importanza non può esser soprav
valutata, se vista attraverso la considerazione di cui godette in Platone e in
Aristotele, quale punto di riscontro, polemico sì, ma di tutto rispetto. Il prin
cipio di Gorgia che qui torna a proposito è quello dell’alterità reciproca di
pensiero e essere, in senso diametralmente antiparmenideo; esso dice, si
ricorderà, che se è proprio del pensiero pensare le cose che non sono, allora
vale anche la conversa per cui è destino della realtà non esser mai pensata.
Il linguaggio di Gorgia è volutamente duro, spigoloso, monolitico. Il
nostro uso prevalente, specie in questioni di principio, è più modale, possi
bilista, sfumato. Nulla dimostra meglio il successo di Aristotele che l’in-
troduzione del possibile, anche per noi normale, nel discorso teoretico. Tra
dotto in conformità, il principio di Gorgia diventa: se è proprio del pensiero
(poter) pensare (anche) le cose che non sono (attuali), allora è possibile che
la realtà abbia degli aspetti che non sono pensati, o che mai lo son stati o che
addirittura non sono nemmeno pensabili. Come si vede, l’introduzione del
la dizione al modale (col possibile) minaccia di trasformare un paradosso,
anzi un’antinomia, in una sentenza quasi di senso comune; se non fosse che,
per conservare la pregnanza dell’originale, abbiamo dilatato il finale con la
clausola per cui «la realtà può avere degli aspetti che non solo non sono pen
sati, ma nemmeno sono pensabili». Non son sicuro che questo pensiero non
sia di senso comune, in ogni modo non è banale in quanto contraddice la
stessa intelligibilità per principio. Questa considerazione spiega due cose:
primo, che il principio di Gorgia è invariante rispetto al linguaggio adope
rato, che cioè si mantiene anche se sfumato in maniera modale, purché si
faccia attenzione; e, secondo, che il suo senso «duro» lo rende inaccettabi
le come principio metafisico, appunto perché trascende l’intelligibilità e ci
lascia letteralmente senza parola. Questa conclusione non deve stupire, per
ché la filosofia non e la metafisica; e perché inoltre non per niente la meta-
fisica è un’invenzione di Aristotele.
Nella logica (anche quella aristotelica) la conclusione è canonica. Se io
dico «nessun uomo è immortale», la conversa di questa proposizione è
immediatamente valida, «nessun immortale è uomo». Così se dico, senza
quantificare c senza modalizzare, «il pensiero non pensa il reale», ne con
segue che «il reale non è pensato dal pensiero». Si dà solo in maniera più
abrupta quel che con l’uso dei modali diventa più perspicuo quanto al sen-
9S QU/\RT/\ LEZIONE

so. Il pensiero dell’essere è dunque turbato dal fatto fondamentale che il


pensiero stesso, come del resto il linguaggio, non è vincolato all’essere, ma
può presentare ciò-che-non-è alla stessa stregua di ciò-che-è. Noi diciamo
compiaciuti che il linguaggio, proprio per questa sua caratteristica, manife
sta un grado di libertà superiore a quello dell’essere, che deve limitarsi a
essere quel che è. Un linguaggio privo di tale dimensione in più, se ci fosse,
sarebbe costretto a enunciare solo quel che c’è in positivo, non potrebbe
esprimere la negazione né la privazione, sarebbe di conseguenza povero,
scomodo da usarsi e oltre tutto inutile. Ma per i primi filosofi, che dovette
ro riflettere sulla natura del linguaggio, emersero dapprima i difetti della sua
inaffidabilità. Perché quella libertà che sovradetermina il linguaggio nei con
fronti della realtà deve esser scontata da parte del suo utente, per converso,
per il fatto che la realtà stessa occulta delle peculiarità che non sono espri
mibili nel linguaggio e neppure indirettamente rappresentabili nel pensie
ro. Il rapporto di esclusione di pensiero e realtà è infatti reciproco.
Per noi questa conclusione è inaccettabile, poiché, come si è detto, essa
intacca uno dei capisaldi della metafisica: l’intelligibilità dei princìpi. Sareb
be tuttavia errato considerarla sofistica. Gorgia fu un sofista, va bene, e
come tale fa un uso espressivo dei paradossi, secondo un costume parabo
lico cui era adusata l’epoca. Secondo questo stile una verità filosofica, qua
si per assonanza con quella poetica, non deve esser detta plausibilmente
quando la si può esprimere altrettanto bene in maniera insolita, contra
stante, scandalosa: di modo che attiri su di sé l’attenzione e ne incida il
ricordo, custodendo meglio i motivi per cui il detto è anche stato concepi
to. La conclusione per altro verso è definita scettica; ma anche questo non
va bene, perché essa intende dire una verità sul linguaggio e sul pensiero.
Va da sé naturalmente che poi gli scettici troveranno in Gorgia un loro pre
cursore. Ma l’obiezione di fondo è stata classicamente formulata da Ari
stotele nel Protrettico, l’esortazione alla filosofia, con un argomento che
sarà ripreso anche da Engels nella sua Dialettica della natura. Vi si dice,
molto giustamente, che voler negare la filosofia non basta a eliminarla; quel
che ne risulta, alla fine, è l’imbarazzo della scelta tra una filosofia esplicita
e una implicita, quest’ultima probabilmente molto peggiore, perche incon
sapevole. La filosofia non è la metafisica, d’accordo; ma ha in comune con
essa il presupposto dell’intelligibilità del punto di partenza. E un punto di
vista che neghi plausibilità a quel che tutti fanno non può essere un inizio
accettabile. Per fortuna però non siamo tenuti ad accettare o ripudiare in
blocco questo argomento. L’evoluzione storica della teoria della cono-
METAFISICA
99

scenza ci permette di circonvenire l’aporia con un percorso naturalmente


più agevole.
Ciò che intriga Gorgia è che il pensiero del non essere comporti con
versamente la non realtà degli oggetti del pensiero. Si può rigirare questo
punto in molte maniere, ma si arriva sempre alla stessa conclusione. Da essa
deriva che non posso capire il vero, ne comunicarlo se non per accidente ad
altri. Tralasciando le varie tappe di questa travagliata dialettica, di cui men
zioniamo solo i paradossi di Zenone di Elea contro il movimento (si ricor
di Achille e la tartaruga), il passo decisivo è stato compiuto da Democrito,
allorché ha distinto la conoscenza (ideale) dalla realtà (empirica). Per sem
plicità identifichiamo qui Democrito con la teoria atomica, anche se proba
bilmente la sua filosofia era più complessa e multiforme. Il nostro pensie
ro, secondo Democrito, non è direttamente rivolto sulla realtà, ma mediato
dalle nostre asserzioni sulla realtà. Nelle asserzioni sulla realtà questa vi è
contenuta in maniera indiretta ma, in compenso, intelligibile. In esse si trat
ta di quella realtà non primaria, ma derivata, che ci è accessibile come cono
scenza. La verità della conoscenza è garantita dalla Oecopia, se essa è in gra
do di toglier via, spiegandole, le parvenze difformi della realtà primaria.
Nella teoria non siamo obbligati a seguire la tirannia delle accidentalità lin
guistiche. Se il linguaggio non si adatta a quel che vogliamo dire, si può
benissimo usargli violenza, travalicandolo (si fa qui valere la scomoda cir
costanza per cui Democrito non disponeva ancora di una matematica come
linguaggio alternativo, indipendente dalla lingua). In ogni modo è suo que
sto gioco di parole, che ne tradisce la risolutezza sprezzante d’ogni retori
ca: «non esiste Vento piuttosto che il ni-ente»\ dove Democrito mette TÒ óév
in prima posizione, ricavandolo da pqòév togliendogli la negazione p,f|, un
nonsenso più forte che in italiano.

3. Con tale reduplicazione del reale, esso una volta vicn datoy anche se
parzialmente, ma l’altra conosciuto, e qui perfettamente. Questo procedi
mento a due stadi pare fatto apposta per contrastare le obiezioni che fon
dano sull’estraneità del medio (il pensiero, il linguaggio) al reale l’impossi
bilità di afferrare quest’ultimo. I due stadi o momenti si direbbero in
tedesco Kenntnis e Erkenntnis, che possiamo rendere con conoscenza pri
maria, o empirica, e conoscenza intellettuale, o riconoscimento. Ciò ha in
sé un innegabile buon senso: può darsi che io conosca poco bene un tale,
ma questo non mi vieta di riconoscerlo se l’incontro di nuovo. La cono
scenza come riconoscimento è sempre un atto intellettuale che si sovrap-
IOO QUARTA LEZIONE

pone a una conoscenza primaria. Va da sé che la scoperta della teoria è vis


suta da Democrito come un’esperienza liberatoria totale, senza riserve e
cioè dogmaticamente; per giungere a concepirla più problematicamente
come un’ipotesi, sia pur molto probabile, bisognerà attendere in proposito
la riflessione di Epicuro, un paio di secoli dopo. Ma è più importante capi
re che cosa può risolvere la teoria, in particolare una teoria atomica.
In primo luogo si scioglie la contraddizione primaria sussistente nel lin
guaggio, la compresenza dell’essere (lò òv) e del non essere (t Ò pq òv), che
sono, in quanto asserzioni, paritetiche: cioè vere o false. Non vi è difficoltà
ad ammettere, nella teoria della conoscenza, l’esistenza di un non-essere
pariteticamente a quella dell’essere, entificandoli in ente e non-ente (o nten-
re, questa volta senza giochi di parole). Nella conoscenza primaria possia-
mo identificarli con il pieno e il vuoto, cioè con gli atomi e il vuoto. Come
si vede, però, la conoscenza primaria non è quella empirica, o percettiva, ma
la sua reduplicazione inversa nel mondo dell’estremamente piccolo, in realtà
contro-fattuale e immaginario, in cui, ridotti che fossimo in proporzione,
non vedremmo che atomi e vuoto. Anche il sensibile viene ridotto in
conformità della teoria, che per quanto immaginaria è talmente accattivan
te da farci vedere allucinatoriamente i minuscoli corpi che si muovono
urtandosi e rimbalzando via di nuovo. Ma questo movimento spiega non
solo la formazione dei corpi grandi, macroscopici, attraverso l’aggregazio
ne, come pure la loro corruzione e disfacimento attraverso la disgregazio
ne; ma anche le percezioni, i fantasmi, le idee che nascono nell’anima attra
verso le leggi della prospettiva. Proprio ai tempi di Democrito il pittore
Agatarco aveva introdotto la rappresentazione prospettica nelle scene tea
trali. E benché l’anima sia composta di atomi come ogni altra cosa, le leggi
della prospettiva e ogni altra illusione percettiva si fondano parimenti sulla
valutazione e misura proporzionale delle distanze, ma riorganizzate in altro
modo, soggettivo perché concavo e ideale come tutti gli scorci percettivi.
Parmenide diceva che per afferrare l’essere occorreva concepirlo in
modo che esso fosse identico al pensiero, respingendo fermamente ogni illu
sione di molteplicità, cangiamento e transitorietà. Nulla di più opposto a
Democrito, parrebbe. E tuttavia entrambi respingono la testimonianza per
cettiva nella parvenza della òó’^a, la mutevole opinione fondata sul mondo
decettivo dei sensi. In Democrito c’è in più il tentativo di spiegare come esso
si formi. Il pensiero ha in comune col reale non già l’identità con l’essere,
secondo il presupposto di Democrito, ma al contrario il non-essere, il vuo
to. Il non-essere della conoscenza non è il nulla assolutamente negativo; ma
METAFISICA IOI

è la privazione, l’assenza e in particolare tutte le forme della distanza, la divi


sione e la prospettiva. Il pensiero ha nell’anima il suo corpo, formato maga
ri di atomi più sottili e veloci; ma preso come pura funzione, esso è identi
co a quel vuoto che distanzia, divide e ricompone un ordine diverso. E
siccome il non-essere circonda tutto, il mondo come ogni singolo atomo,
anche il pensiero nella conoscenza non ha limiti. L’infinito è un oggetto di
pensiero proprio perché in realtà non esiste, e la stessa cosa vale per la sog
gettività come insondabile concavità del non-essere. Così la diagonale del
quadrato, il circolo, la sfera, gl’irrazionali non esistono se non come idea
lizzazioni create dal non-essere della conoscenza; in realtà le due parti in cui
si divide un quadrato non sono mai uguali, il circolo è un poligono irrego
lare, la sfera è tale per modo di dire, e gli irrazionali sono dei non-numeri
posti tra l’intervallo di due numeri piccoli a piacere. Il pensiero non può tra
sgredire la realtà perché ne condivide il non-essere. Facendo perno su nien
te, il pensiero può spiegare gli atomi c il vuoto, come pure le illusioni pro
spettiche della percezione. Non è che per convenzione, vópxp, che noi
parliamo di colore, di dolce o di amaro; in realtà, egli dice, non ci sono che
gli atomi e il vuoto, diopa xal xevóv. Non l’idealismo, ma l’accorgimento
dell’idealità della conoscenza è di Democrito, prima che di Platone.

4. L’idealità della conoscenza fa sì che questa possa comprendere tanto


l’essere quanto il non-essere. L’idealità della conoscenza si dice, da Demo
crito in poi, teoria. Infatti ogni teoria considera sia le cose che sono, sia per
contrasto quelle che non sono. La conoscenza presuppone la coscienza;
cioè, per dirla in greco, l’idealizzazione complessiva, la ouvetÒTioig. A que
sto punto diventa più facile spiegare perché la coscienza del non-essere non
sia lo stesso che la non coscienza dell’essere; la coscienza, a differenza del
la conoscenza, che può essere diretta oltre che riflessa, è sempre meta-onti-
ca sia rispetto all’òv o al pq òv. Con la scoperta di un punto di vista supe
riore, che è metaontico e perciò complementare, l’aporia di Gorgia appare
definitivamente superata. Questa invenzione ha però un prezzo, di cui for
se Democrito non si rese perfettamente conto, che mette in dubbio proprio
il suo approccio materialistico o quanto meno realistico. L’idealità della
conoscenza porta con sé l’inevitabile approccio a una filosofia idealistica o
spiritualistica, come di fatto avverrà con Platone e Aristotele. Anzi, questo
nuovo punto di vista postdemocriteo apparirà più stabile, e su questa base
fiorirà l’Axaòripeia. Nella teoria atomica rimaneva infatti una presunzione
debole. Se la teoria della conoscenza c ideale, nel senso che adopera delle
102 QUART/X LEZIONE

finzioni o idealizzazioni a scopo di perspicuità, in che misura è essa distin


guibile dalle altre fantasie o fantasmi della mente che si definiscono sogget
tivi, convenzionali e illusori? Come si vede, la difficoltà è tutta qui: se s’in
debolisce l’ideale dicendo che è fantastico, la stessa sorte spetta alla teoria
inventata; se si esalta l’idealità della teoria come tale, si rafforza di conse
guenza il valore decisivo e in definitiva realistico di talune almeno delle
costruzioni intellettuali. Si aggiunga come rinforzo il fatto che la matema
tica accademica, con Eudosso (fine ili secolo a.C.), imprimerà alla geome
tria quella svolta idealistica che da allora in poi renderà un certo platonismo
la metafisica privilegiata nel suo ambito; mentre la matematica democritea,
pur con la notevole ma discontinua eccezione delle sue applicazioni fisiche,
non ha avuto cittadinanza nella tradizione della scienza pura.
Nel cangiante gioco delle prospettive doxastiche, alle quali appartiene
l’espressione linguistica, la teoria della conoscenza deve dunque ritrovare
nel labirinto del sensibile il filo d’Arianna che la ricongiunga alla realtà,
anche di senso comune, che informi su ciò che è e su ciò che non è in sede
percettiva.
All’indomani del suo stesso trionfo, la 0E(OQia subisce dunque un fles
so, non tanto a cagione del ricatto idealistico delle sue finzioni irreali, quan
to per un risorgere della complessità in campo etico e politico, ciò che com
porta una rivalutazione del soggettivo, dell’opinione, dell’ideale in senso
pickwickiano. Tutto questo produsse l’ultimo grande rilancio filosofico nel
mondo antico, di cui la figura dominante è Socrate, piuttosto che Platone.
Non per nulla la dizione di presocratico (e, per contrasto, postsocratico) è
assurta a valore di concetto. Anzitutto, una questione di carattere storico.
Abbiamo presentato l’idealismo di Platone come se fosse sorto da una pole
mica interna al concetto di teoria di Democrito. Questa è una ricostruzio
ne di comodo. In realtà è documentabile l’opposizione di Socrate ad Anas
sagora, la cui concezione del voùg è per molti versi parallela alla funzione
della teoria in Democrito. Socrate ne\VApologia (di Platone) dice di aver stu
diato a lungo Anassagora, ma di esserglisi poi opposto perché Anassagora
riduce sempre l’agire a movimento, lo psichico a fisiologico, il discorso in
prima persona a spiegazione in terza persona. Senza polemizzare ulterior
mente con Anassagora, con questa osservazione Socrate dà inizio al ò e u t e -
oog TtXofjg, al secondo giro di boa, cioè alla svolta per lui decisiva e che lo
caratterizza come socratico. Ma che cos’è socratico, in questa accezione? È
anzitutto un’obiezione di metodo contro il modo di procedere naturalisti-
co, in terza persona. Inoltre, ridurre l’agire a movimento, non comporta
METAFISIC/X IO3

forse la stessa critica? Piuttosto, l’idealità della conoscenza deve riconosce


re l’efficacia reale delle idee, in ogni presa di coscienza. È qui che l’obiezio
ne si lascia a sua volta riconoscere come di paternità platonica; Platone attra
verso Socrate si rivolge ad Anassagora, affinché Democrito intenda. Ma
perché tanti riguardi, anche ammesso che Democrito fosse ancor vivo? E
perché non polemizzare direttamente con lui, in un dialogo apposito?
Democrito non compare mai, a nessun titolo, nei dialoghi.
Non è improbabile un’ostilità personale tra i due grandi personaggi. Da
parte di Platone, che era di Atene e di famiglia politicamente influente,
Democrito di Abdera, colonia ionica, essendo di famiglia ricca e legata ai
Persiani, viene ignorato come collaborazionista delle Guerre persiane e
respinto come «cinico» nelle questioni di impegno politico e etico. L’obie
zione contro Anassagora si lascia facilmente intendere come diretta all’in
nominato. La teoria che pretende di cogliere la realtà in sé, gli atomi e il vuo
to, al di là della proiezione prospettica dei sensi, che altro è alla fine se non,
a sua volta, un fantasma creato dalla mente? Come è possibile trovare la
verità in un’immagine soggettiva, idealizzata ma allucinatoria, escogitata da
una mente costretta a orientarsi tra mere fantasie? Naturalmente questa cri
tica del Socrate di Platone contro il falso oggettivismo della scienza della
natura non può esser spinta molto oltre, senza il pericolo di anticipare in
Platone stesso lo scetticismo della Seconda Accademia nei confronti del
possesso della verità in sé. Per il momento, l’obiezione antinaturalistica va
ricompresa nel fervore del rilancio di Socrate come filosofo morale, mae
stro non solo di etica ma di vita. Non occorre qui insistere sul fatto che l’op
zione idealistica dell* Accademia, la prima università, promuove nell’età di
Pericle una nuova fioritura di quelle che oggi si dicono scienze umane.

5. Al di là dell’alquanto negativa conclusione sofistica di Gorgia, di Pro


tagora e di altri, attraverso la triplice sistemazione teoretica atomismo
di Democrito, dc\Videalismo di Platone e della sintesi onnicomprensiva di
Aristotele, si viene configurando per l’uomo del V-IV secolo un confronto
con la realtà mediato dal linguaggio, la logica, la matematica e in generale la
cultura di cui ormai dispone con sempre più larga affidabilità. Questo rap
porto non è più immediato, come in precedenza; e ciò spiega la scomparsa
dei ragionamenti antinomici. D’altra parte tale mediazione si avvale anche
del confronto con alternative sussistenti al suo interno, come le lingue stra
niere, la logica del termine c quella proposizionale, la matematica finitisti-
ca e la dibattuta questione dell’illimitato. Non vi è più un confronto diret-
IO4 QUARTA LEZIONE

to tra pensiero e realtà per sé; è già stato dimostrato che esso non conduce
a nulla, in quanto fin dall’inizio presupposto come sussistente tra due ter
mini totalmente eterogenei e aliorelativi. Anzi la nascente epoca ellenistica,
quando la morte di Aristotele segue dappresso quella di Alessandro (323,
322 a.C.), assume in proprio il metodo comparatistico di trattare quel che
si suppone essere lo stesso problema per raffronto con altre, indipendenti
culture. Assistiamo così alla ripresa dotta delle citazioni orientali, già pre
senti in origine nella tradizione orfica e in frammenti delle religioni dcll’E-
gitto e della Mesopotamia. Le novità concernono lo Zend-Avesta e la cul
tura iraniana; i testi indiani dei Veda e del buddhismo, nel frattempo
emigrato in Cina; e forse anche, tramite la satrapia ex-persiana dell’indo, e
dei cinque fiumi, il confucianesimo e il taoismo.
Che cosa ne è rimasto? Quali conseguenze ne sono derivate per il pen
siero filosofico? A quanto pare tali contatti sono rimasti sterili. La filosofia
non prospera col commercio. La cultura greca è già molto complessa nel
secolo in cui si conclude la conquista macedonica dell’Oriente, e ciò che
rimane di tale contatto è il lungo confronto con l’ebraismo. Ma gli ebrei
sono i più occidentali, i meno tipici di tutti gli orientali. In ogni modo la
Bibbia apparve in greco nella versione detta dei LXX (Septuaginta, se. tran-
slatores), nel corso del il secolo a.C. In questo senso la spedizione di Ales
sandro in Oriente, come dimostra la presenza di filosofi, storici e scienzia
ti al suo seguito, assunse il significato simbolico di un viaggio alla ricerca
delle origini della metafisica, da Diogene il cinico ai gimnosofisti o fakiri
indù, con cui si conclude. In realtà l’indagine prende la forma effettiva di un
confronto fra etnie e tradizioni diverse, che in parte sono estranee ma in
parte si riconoscono cognate, come l’iranica, la sarmatica e l’indiana, c cia
scuna può vantare, se ha la scrittura, una propria cultura del libro, fors’an-
che un suo Omero. Degli ebrei resta oltre tutto un’eredità durevole, tutt’al-
tro che superficiale: il senso interiore, intimistico e perciò monoteistico,
della divinità, il sentimento di colpevolezza nei suoi confronti da parte del
l’uomo, e della religione come espiazione e speranza di redenzione. Ma di
tutto ciò parleremo più criticamente a suo luogo, più avanti.
In conclusione, il problema da cui sorge la soluzione metafisica può con
siderarsi risolto, e in eccesso, con la suddetta triade di teorie generali: quel
la democritea, quella platonica e quella aristotelica. È importante registrare
l’eccesso di spiegazione nei confronti della comprensione della realtà, giac
ché la metafisica, per la sua stessa natura, oltrepassa i limiti dell’esistente e
immette nell’immaginario e anzi nel fantastico: come si conviene a ogni ten-
METAFISICA I05

tativo generoso di risolvere le questioni per forza di princìpi. Ciò non è sen
za conseguenze sull’apprensione del reale, che viene via via raffinandosi nel
senso direi aristotelico di uno stemperamento delle antitesi in opposizioni
sempre meno radicali, che consentono l’avvicinamento se non proprio la
sintesi. Dal punto di vista metafisico, la contraddizione in quanto opposi
zione diametrale cede il passo alla contrarietà, che è un’opposizione inten
siva e polare, e questa a sua volta alla sub-contrarietà, che ammette una gra
dazione tra i suoi estremi.

6. All’interno della cultura ellenistica, il confronto con la cultura india


na porta alcuni contributi particolarmente degni di nota. Nella scuola che
in seguito si dirà neoplatonica si introducono i concetti di infinito e di zero,
precedentemente estranei ai greci, in quanto concetti che per essere assimi
lati richiedono una speciale infrastruttura culturale. Si tratta del procedi
mento di reiterazione illimitata, che oltrepassa l’obiezione di regressns in
infinitum in precedenza aborrita, e del concetto di limite, che ne supera d’un
tratto le soglie. Di conseguenza con zero non si deve qui intendere la «clas
se zero», o il nulla (come pii òv), ma il limite presupposto dalla sua infinita
approssimazione in una serie decrescente. Allo stesso modo {'infinito^ anche
quello attuale, deve esser concepito come il limite di una serie infinita, pen
sata come del tutto svolta. Anche Archimede aveva impiegato ragionamen
ti che implicitamente racchiudevano tali concetti, ma la loro esplicita, si
direbbe spudorata, menzione si deve ai filosofi e matematici della tarda
Accademia, per esempio Proclo. Contributi nuovi si danno anche nella geo
metria dove, attraverso le opere di Pappo e Apollonio, si sviluppano altri
metodi per la quadratura delle curve; segnaliamo un primo utilizzo dell’al
gebra e l’uso dei numerali per misurare le grandezze in geometria, mentre
prima era costume dei greci riportare le grandezze sulle grandezze, senza
pETÓpaotg e’iq aX.X,o y é v o q . Assistiamo quindi, per lo meno in maniera incoa
tiva, a un allargamento di orizzonti c a un tentativo di far convergere meto
di diversi per la soluzione di uno stesso problema. La conciliazione sul
l’oggetto del pensiero, mediante la disparità dei metodi, è un procedimento
che non sarebbe dispiaciuto ad Aristotele, né avrebbe trovato in lui impe
dimento. I moderni riprenderanno questa via con Viète (e quindi fra gli altri
Descartes), ma in polemica con l'aristotelismo, inconsapevoli del favore che
avrebbe trovato in lui questa nuova ars inveniendi.
Per ragioni che non comprendiamo bene il pensiero antico tende a chiu
dersi, a isterilirsi, mostrando di non avere né l’intenzione o meglio l’ener-
106 QUARTA LEZIONE

già di percorrere in profondità le nuove direzioni di espansione reperte. Tra


le tante ipotesi fatte, le quali possono esser tutte calzanti data la complessità
del problema, della decadenza del mondo antico, una particolare conside
razione merita l’aspetto economico. Non è esatto dire che gli antichi non
avevano una scienza economica; il fatto è che la loro economia non è in
espansione perché ha raggiunto un perfetto stato di equilibrio. La crescita
dovuta allo sviluppo dell’agricoltura stanziale risale ormai alla preistoria, al
neolitico, e il vantaggio è stato assorbito dall’aumento della popolazione
nell’ambito dei grandi imperi. Caso mai gli antichi non hanno saputo
affrontare il deterioramento della situazione economica nel momento del
disordine amministrativo, coincidente col periodo turbolento dell’alto
Medioevo. La produzione della ricchezza, cioè dei beni di consumo, era
considerata un fatto naturale come l’avvicendamento delle stagioni, e la
carestia aveva la contingenza saltuaria di una maledizione dipendente dalla
maligna configurazione degli astri. Qualsiasi tentativo di intervento pro
grammato, qualora fosse risultato escogitabile, avrebbe solo aggiunto disor
dine a disordine. Il tramonto della classe dirigente antica, nell’impero roma
no, non è compensato dall’insorgere di una nuova classe, esponente di una
popolazione più vasta, che sappia infondere idee e energie nuove nel vec
chio impianto, o rivoluzionarlo in qualche maniera più radicale. I cristiani
furono troppo affisati nell’al di là, o troppo rassegnati allo stato deludente
del mondo per essere di qualche aiuto. Le persecuzioni di persone e cose
del mondo «pagano», portarono a distruzioni rilevanti, ma anche in questo
i cristiani furono superati dalla fresca violenza dei barbari. È una retrospet
tiva molto triste, l’orizzonte antico sembra rinchiudere un mondo senza
speranza o, in alternativa, la vendetta senza scopo dei barbari e la follia mor
bida degli escatologisti.
L’arco dello sviluppo della metafisica fu dunque compresso negli scarsi
mille anni che vanno dal IV secolo a.C. al vii d.C. La sua vicenda si svolge
nel tentativo di dare una risposta al problema dell’essere e del non essere,
della forma e della materia, dell’intelligibile e del fatto bruto ecc., in segui
to alla scoperta della teoria e delle sue capacità esplicative a riproduzione
allargata. Queste non tanto giungono a esaurimento, quanto piuttosto non
trovano piena espansione per il fatto che la cultura antica muore di morte
violenta. Perciò non conosciamo la conclusione della metafisica, al massi
mo ne identifichiamo il carattere nella ripresa che essa ha avuto nel secolo
xvii. Di qui si evince che la convinzione da essa intrattenuta è ancor oggi
viva e operante, e consiste nel ritenere che esista una strategia complessiva,
METAFISICA 107

esprimibile mediante princìpi, che permette di pensare la realtà senza incor


rere in contraddizioni, e che tale convinzione sia rilevante anche ai fini pra
tici, perché l’intelligibilità è altresì ragione e guida del comportamento del
l’uomo. Questo è il significato della metafisica. Tralasciamo l’obiezione
derivante dalla pluralità delle metafisiche in conflitto tra loro, non perché è
banale ma, in quanto obiezione, ingiusta. Infatti nella cultura post-moder
na non sono solo i filosofi a essere in contrasto fra loro, ma anche i mate
matici, i fisici, i biologi ecc.; tal che a due a due tutti gli studiosi potrebbe
ro orientarsi più vantaggiosamente seguendo il criterio dell’opposizione al
collega della stessa disciplina. Solo le maestranze seguono più o meno disci
plinate e inquadrate, ma solo in apparenza o perché non significano nulla.
L’obiezione contro la metafisica, dunque, portata fino in fondo, si limita alla
constatazione che essa non ha maestranze: ma anche questa potrebbe esse
re un’impressione falsa.
Ora, proprio nella ricerca di una possibile strategia ecumenica di soprav
vivenza, tendente a evitare i crudi contrasti, l’incontro tra il mondo antico
e le culture orientali ha luogo non più sul terreno intonso del primo con
tatto con la realtà, ma su quello mediato delle opinioni, già comprese in un
orizzonte di conciliazione tra atteggiamenti noti. Ciò non deve stupire,
essendo proprio di un approccio ingentilito alla realtà così come viene espe
rita da altre culture non tanto il mito (o meglio i miti) che in assenza di una
teoria ne garantiscono l’accesso, quanto la riflessione sulle opinioni che li
contornano, in cui si esprime la sapienza di quei popoli esemplificando per
via di detti c proverbi briciole di una resipiscenza simile alla propria. È qui
che avviene il raffronto decisivo con l’ebraismo. Non si tratta infatti di una
vera comparazione, leale e onesta, tra due diversi modi di accesso alla realtà,
ma di una sfida intesa al capovolgimento del rapporto tra l’uomo e la realtà.
Quest’ultimo è negli ebrei profondamente sconvolto, e personalizzato.
Infatti per essi non si tratta tanto di ricercare un approccio pensabile con
una quantità già data, quanto di trovare una collocazione nei piani di chi ha
creato il mondo, destinandolo a uno scopo che prima non aveva. L’incon
tro non sarebbe stato possibile se i greci avessero tenuto fermo il loro inten
to, quello di trovare l’accesso a una realtà ostile, o indifferente all’uomo.
Questo è infatti il presupposto su cui si sviluppa la filosofia come teoria
naturalistica, c bisogna riconoscere che sono stati i greci, per curiosità di
cose nuove o volontà di estraneazione, ad assimilare lo strano e diverso. Nel
panorama comparatistico delle culture a loro aliene, le opinioni con cui l’el
lenismo si incontra più di frequente e in maniera più incisiva sono quelle,
108 QUARTA LEZIONE

insolite agli indoariani, degli orientali maggiormente emarginati dal loro


mondo, e più originali: gli ebrei. Anch’essi trovano per loro conto, sopra
tutto ad Alessandria, la via dell’ellenizzazione.
Già nel il secolo a.C. si porta a termine la traduzione della Torah, la leg
ge di Mose, in greco; e la versione, detta dei LXX (Septuaginta) porta il tito
lo di BipXia o Bibbia, i Libri. Il passo più importante compiuto dai gentili
verso gli ebrei fu il permesso di stanziarsi in forze ad Alessandria (da Hclio-
polis); ma quello reciproco fu ancor più decisivo: gli ebrei, in particolare
quelli di Alessandria, si danno a riconoscere attraverso la divulgazione del
loro statuto morale e legale: la Bibbia. Credo inoltre che la Bibbia, così
come oggi la conosciamo, non esistesse prima: perché sono i greci ad aver
creato la struttura in generale del libro. Che cos’è la Bibbia? Essa non è solo
la Torah, così s’intitola la parte finale del Pentateuco, con le Leggi, il Deu
teronomio e i Numeri. Il Pentateuco è preceduto da un racconto delle ori
gini comuni a tutta l’umanità, il mito della Genesi, e seguito da una conti
nuazione della storia d’Israele, culminante nella monarchia di Saul, Davide
e Salomone, e i suoi vari tentativi di restaurazione messianica da parte del-
l’Unto del Signore, il Re dei giudei, che viene ad assumere un significato
sempre più escatologico e trascendentale. Il tutto è poi interpolato da nume
rose composizioni liriche, sapienziali e proverbiali, che costituiscono i Sal
mi o inni. La Bibbia è in sostanza un’antologia della letteratura del popolo
d’Israele, dalle origini molto antiche, messa a punto in vista di un’edizione
divulgativa in greco.
Nella Bibbia c’è un unico punto metafisico degno di rilievo, ed è l’in
venzione del monoteismo. Ma la sua importanza è tale da non poter essere
sopravvalutata. Psicologicamente esso consiste nella concezione intimisti
ca, dialogica e contrastiva della divinità, una specie di superego col quale si
è sempre in rapporto, ma con cui si parla come a un alterego, se ne cerca l’a
micizia e non di rado si polemizza. Dal punto di vista metafisico il mono
teismo è il termine del raffronto, impossibile nel politeismo, tra l’uomo e la
sua radice ultima, assoluta ma personale, modello della sua stessa non somi
glianza ad alcunché d’altro. La fonte della realtà è per gli ebrei quella stessa
della creazione a opera di Jahweh. Questa creazione non è però creazione
dal nulla, concetto più tardo che manifesta in maniera per così dire espres
sionistica il nocciolo della questione. Nel libro della Genesi lo jahwista dice
che Elohim (la divinità collettiva, al plurale) ha creato il ciclo e la terra; non
l’acqua, si badi bene, e neppure il fango, la materia primordiale dalla quale
la divinità trasse poi l’uomo. L’acqua, l’informe, la cavità abissale e vuota
METAFISICA 109

costituiscono l’universo precedente; insieme con i mostri marini, le divinità


sotterranee, i princìpi caotici dell’indistinto, del dissolvente e del femmini
le, sono l’abominio contro cui si erge la legge mosaica. Il terrore dell’acqua
gli ebrei lo ritroveranno altre due volte, la prima con Noè e il diluvio, l’al
tra più lieta nella fuga dall’Egitto e il passaggio attraverso il Mar Rosso. La
creazione del mondo coincide dunque col ritiro delle acque, sopra il firma
mento e sotto, negli abissi, e consiste nello stabilire una dimora all’asciutto
per l’uomo, sopra la terra e sotto il cielo. Et factum est vespere et mane, dies
sextus (1, 31). E venne il sabato, et benedixit dici septimo et sanctificavit
illum, quia in ipso cessaverat ab omni opere suo (2, 3).
Anche i greci avevano in origine paura del mare, dominio dell’ostile
Poscidon, lo scotitore di terra. Vi sono sorprendenti analogie tra Genesi e
Odissea. Abramo trasgredisce indenne l’ordine ricevuto quando capisce che
Dio non può comandargli di fare una cosa atroce, oltre che ingiusta. Gia
cobbe lotta con l’angelo del Signore, e ne resta storpiato, pur di strappare
una legge, un contratto civilistico alla pari. Ogni volta si deve immaginare
una selezione che separi chi ha capito da chi semplicemente segue una con
suetudine, e tra obbedienza e trasgressione si compie il segreto volere divi
no. Così Odisseo resta l’ultimo degli scampati ai tanti pericoli, perché è l’u
nico a rimanere fedele al vóoxoq; in quella nostalgia che comprende i due
sensi del dolore del ritorno. Anche la stessa vicenda prende tanto la forma
del destino che si compie, quanto quella del trionfo della nemesi, della giu
sta norma. Nella Bibbia la presenza del momento normativo diverrà pre
valente, in specie dopo l’epoca romana; ciò che gli impedisce di farsi giuri
dico, di appiattire il Talmud a una precettistica di stile musulmano è la
contemporanea tensione data dall’interpretazione anomala, profetica, che
spinge lo sguardo verso la metafisica della volontà ascosa. Nel teatro greco
l’anelito alla giustizia si palesa drammaticamente, si esprime nel conflitto
tragico ma si risolve, catarticamente, nel riconoscimento del suo dovere
essere di nuovo riaffermato. Il contatto con la civiltà del teatro, manifesta
zione ignota ai popoli del Medio Oriente, altera profondamente il caratte
re di quella ricerca dell’assoluto che è insita nella metafisica. Anche per gli
ebrei la tensione verso il giusto è diretta a cogliere la volontà divina, e que
sto avviene attraverso vicende storiche che per la loro esemplarità, sottoli
neata dalle lamentazioni dei profeti, assumono significato tragico. Ma l’e
sposizione non segue una sceneggiatura drammatica, ripiega sul tono
elegiaco, diventa scambio di opinioni profondamente sofferte: loquar in tri-
bulationc spiritus mei, confabulabor cum amaritudine animae meae, dice
I IO QUARTA LEZIONE

Giobbe (bob, y, u). Questo rivolgimento all’interno, che è caratteristica


dell’orientamento monoteistico, sortisce degli effetti nuovi e tutt’affatto
paradossali rispetto ai generi classici. Il criterio di saggezza che persegue il
pensiero metafisico prende qui la forma di una curvatura negativa, di una
concavità senza centro all’interno dello stesso soggetto umano. La persua
sione di fondo è che se noi fossimo capaci di raggiungere l’altro, tutti i
restanti problemi si risolverebbero di conseguenza.

7. In definitiva pare che il destino singolare che ha caratterizzato l'Oc


cidente nei confronti di tutte le altre culture del mondo sia dovuto al con
corso delle due mentalità, la greca e l’ebraica, che a partire dall’epoca tardo-
antica del li secolo a.C. fino al basso Medioevo del XII secolo, sono
convissute talora in armonia e complementarità, ma più spesso in tensione
dilacerante e ostile, perché al di là della confusione si rendono consapevoli
di maturare metafisiche tra loro incompatibili. Forse a questa circostanza
altamente drammatica è dovuto il valore più universale che ha rivestito la
nostra civiltà medievale rispetto a tutte le altre. Ma con la scolastica e il tar
do pensiero medievale le acque si decantano e avviene una prima filtratura.
Viene riconosciuto il valore dei pensatori ebrei e musulmani, ma in tanto li
si assimila, in quanto sono circoscritti come alieni. Il medio del pensiero cri
stiano non tradisce più, perché esso si è definitivamente autonomizzato
come cattolico; e quando la riforma dividerà l’unità di questo, non sarà cer
to per ripercorrere la via da Roma a Gerusalemme. Il Rinascimento italia
no è forse ancor troppo medievale per inaugurare l’epoca moderna; ma la
rénaissance di Descartes e successori indica come, per procedere oltre,
abbiamo dovuto rinnegare per quanto allora si poteva l’eredità cristiana in
quanto ebraica e, dopo una lunga ma sempre parziale assimilazione, prose
guire per la via lasciata aperta dall’ellenismo. Dal punto di vista metafisico,
l’esprit de géométrie ha divorziato da l*esprit de finesse, e sotto tale forma è
divenuto egemone in tutto il mondo. Mi rendo conto che è difficile tentare
una siffatta generalizzazione, ma essendone costretto dal l’argomento, devo
dire che a mio parere il pensiero moderno e la sua intrinseca metafisica, tan
to più imperante nella pratica in quanto espressamente negata o contrasta
ta, è ormai fondamentalmente estraneo all’ebraismo, quindi anche al cri
stianesimo, e questo nel senso che non gli viene neppure in mente che si
possa ricercare nell’elaborazione del sentimento di colpa o nella redenzio
ne dallo stato di peccaminosità una soluzione qual ch’essa sia dei problemi
del mondo, meno che mai di quelli che si dicono di principio. Un dio che si
METAFISICA I II

fa uomo e si fa mettere in croce per portare su di sé i mali del mondo è una


storia senza partecipazione da parte nostra. Se il fatto riferito è vero, dispia
ce che sia accaduto; tanto più che non è nemmeno edificante, solo inutile.
Questa linea di lettura può darsi che non sia del tutto soddisfacente,
sopra tutto se messa a confronto, in sede di bilancio, con i tanti aspetti delu
denti seguiti all’espansione del mondo moderno. Si faccia attenzione, però,
che qui non stiamo facendo il panegirico della modernità, sulla quale abbia
mo già espresso altrove il proposito di un ridimensionamento; si tratta qui
di indicare anche attraverso l’esperienza storica la via percorsa dal pensiero
nella sua avventura metafisica. In un importante senso la via percorsa ci
appare a conti fatti come l’unica via che sarebbe stata percorribile; e anche
se questo ragionamento può essere inquinato da quella speciale falsità che
oggi chiamiamo tautologia, con un uso scorretto ma efficace del termine,
l’inesistenza di alternative percorribili quanto meno con l’immaginazione
resta un fatto assai eloquente. Nel dramma entro il quale si svolge l’intrec
cio degli atti del pensiero occidentale, la metafisica è il protagonista per
eccellenza. Essa e il sovrano che domina necessariamente, anche se non
incontrastato, estendendosi la sua giurisdizione al di là di questo mondo,
oltre cioè la fisica. Dei suoi caratteri abbiamo parlato, dicendo che il suo
proprio sono le questioni di principio, dell’intelligibilità e delle conseguen
ze sul piano pratico. Il complotto che ne minaccia l’imperio sorge dall’in
treccio col codominio orientale ed è una vicenda di lunga durata, ma che si
risolve in due tempi: prima, il divorzio da un’alleanza innaturale; e, secon
do, il passaggio delle civiltà orientali stesse a un comune destino postindu
striale c postmoderno. Le alternative si sono dimostrate fallaci non perché
fossero peggiori, ma perché sono inesistenti. Inoltre il fatto che la metafisi
ca vada oltre la fisica vuol dire che per un certo tratto può coincidere con
l’industria e il mondo moderno, ma che oggi è più libera che mai da questi
aspetti della razionalità. Così, se poniamo il principio di conservazione del
l’energia, o il principio d’entropia (o d’informazione), essi hanno un conte
nuto e un valore metafisici solo a condizione che ci rappresentiamo in essi
qualcosa che vada oltre la fisica; altrimenti essi sono al massimo delle leggi,
ma, col difetto di non essere empiriche, rischiano di mancare completa
mente di significato.
Come ho cercato di dimostrare, tuttavia, non è questo l’aspetto più inte
ressante della questione. La dizione di problema metafisico era intesa a fare
emergere un pensiero molto riposto, forse per l’innanzi mai compiutamen
te pensato, che per il fatto di andare oltre la realtà permettesse, alla manie-
I 12 QUARTA LEZIONE

ra di certi immaginari^ come le grandezze o i numeri detti tali, una miglio


re comprensione del rapporto da noi intrattenuto con la realtà. La cosa non
è assurda, anzi si dimostra possibile con l’intervento della teoria nelle que
stioni metafisiche. Il risultato si esprime considerando esemplarmente tre
figure di pensatori: Democrito, Platone e Aristotele. Generalizzando, si può
pervenire a fissare i tre tipi ideali di soluzioni metafisiche: il materialismo,
l’idealismo, il realismo-e/o-spiritualismo. Naturalmente questa è a sua vol
ta una semplificazione ideale, che non esclude altre soluzioni. Abbiamo
anche detto che la circostanza per cui le soluzioni sono in eccesso rispetto
al desiderato, cioè che il rapporto problema/soluzione sia \/n piuttosto che
1/1, dipende dalla natura della metafisica, la quale, per il fatto di spostarsi
nell’immaginario, non può garantire l’unicità del risultato: anzi, di ciò deve
farsene un vanto.
Fin qui rutto è lineare. Ma la concessione all’immaginario lascia la por
ta aperta all’indesiderato (mettiamo) ospite orientale: sia esso Gesù il cristo,
il profeta Geremia o il dio d’Àbramo, d’Isacco e di Giacobbe. Questo
sostiene che il rapporto con la realtà è mediato da un sesto senso, non meta
fisico, ma unitivo. Abbiamo cercato di intendere ciò come approfondi
mento della via interiore, del rapporto con l’altro, dell’immersione nella
concavità. Se procediamo ad analizzare tutto questo coi mezzi dell’ingegno
ellenico, geometrico e discriminante, lo stesso disegno ci apparirà del tutto
incomprensibile. Che cosa si dovrebbe fare, come e perché? Il monito di
solito esordisce stabilendo che tutti siamo peccatori; quindi continua
ingiungendoci di fare penitenza; infine conclude accattivandoci con la spe
ranza della redenzione. Il rutto viene espresso in termini duri e oscuri. Infat
ti non è chiaro che siamo tutti peccatori, in che misura o modo; né si vede
come potremmo pentirci, con quali mezzi o facendo che cosa; infine non si
capisce con quale guiderdone dovremmo esser ricompensati e perché.
Si prenda il caso di Abramo. Il Signore lo chiama e gli ordina di sacrifi
care il figlio in suo nome. Abramo non dice nulla; prende le sue cose e s’in
cammina col figlio e il somaro verso il luogo del sacrificio. Dopo tre giorni
di cammino ci arriva, prepara il luogo e si dispone a eseguire l’ordine. Ma
improvvisamente appare un ariete che si fa prendere e Isacco e salvo, poi
ché Abramo offre in sacrificio la bestia in luogo del figlio. Si capisce dal rac
conto che Abramo è tenuto a obbedire alla divinità, quali che ne siano gli
ordini, ma che trasgredendoli scopre la più riposta volontà del Signore, che
non è un Baal, ma il giusto e misericordioso Jahweh. Lo stesso tipo di inse
gnamento dialettico, articolato nei tre momenti dell’obbedienza al comari-
METAFISICA 113

damento, la trasgressione in antitesi, e la scoperta conclusiva del valore di


Dio, è presente in altri controversi episodi biblici.
Quel che anzitutto stupisce e la tortuosità del procedimento, di cui non
si comprende la ragione. Ammettiamo che nel culto prevalente fosse d’uso
comune sacrificare in certe solennità il primogenito e che anche i progeni
tori del popolo d’Israele, in particolare Abramo, fossero obbligati ad adem
piere tale atrocità. Perché il dio d’Àbramo, d’Isacco e di Giacobbe non esau
disce fin dall’inizio e direttamente la tacita preghiera che si eleva dal cuore
del genitore affranto? Da notare che tale supplica non viene esplicitamente
formulata, e che è evidente il proposito di mettere alla prova l’obbedienza
di Abramo. Solo perché questi è fino alla fine ligio alla legge, avrà la ricom
pensa di un contrordine. Poi si riconoscerà che l’abrogazione dei sacrifici
umani corrisponde all’intima volontà di Jahweh, ma sarebbe oltracotanza
da parte dell’uomo prevedere, anticipare e costringere Dio ad attuare anzi
tempo il supposto adempimento. I greci chiamavano upptg tale eccessiva
confidenza dell’uomo nel favore divino, ma presso gli ebrei il misfatto
intenzionale è la più grave trasgressione della legge divina, il peccato per
eccellenza, la «tentazione di Dio» da parte dell’uomo. Come si vede, non è
facile interpretare la volontà di Dio, c’è sempre il pericolo mortale di oltre
passarla o, in alternativa, quello di limitarsi a seguirne 1 precetti con animo
passivo o farisaico (secondo i cristiani). A questo proposito si veda l’inter
pretazione che dà il Talmud del supplizio di Gesù. Secondo gli ebrei orto
dossi l’intera vicenda della passione e morte di Gesù Nazareno, sedicente
Re dei giudei, se è racconto è veritiero, si deve valutare, apprezzare e con
dannare come una immane tentazione di Dio. 1 cristiani non trovarono altro
modo di ribattere che mediante un paradosso spinto al limite della blasfe
mia: che Gesù risorge dalla morte facendosi identico alla volontà di Dio,
l’unico modo di negare l’esistenza di una tentazione.

8. Ci chiediamo non senza sgomento se ci sia il modo di sfuggire a que


ste e altre assurdità. Non si dimentichi che la via greca di evitare questi ulti
mi problemi, che consiste nell’invenzione della metafisica, se se ne seguono
con acribia gli sviluppi fino all’epoca moderna, propone sorprese non mino
ri. A varie assurdità forse ci siamo abituati, l’inverosimiglianza attenua lo
sgomento che altrimenti ci assalirebbe, il fatto è che siamo costretti a capi
re il senso della realtà e che per riuscirci dobbiamo inoltrarci al di là di essa.
Non possiamo accontentarci della fisica, trovare la razionalità nel fatto che,
come ci assicurano gli scienziati, ci sono esattamente (poniamo) 264 parti-
114 QUARTA LEZIONE

celle elementari diverse, alcune esistenti e altre virtuali o di andamento nega


tivo nel tempo, o che, per comprendere la fisica dei quanti, bisogna pre
scindere tanto dalla logica come dai dati di fatto. La fisica moderna incon
tra abbastanza presto il primo limite, quello dell’incredulità. Quanto alla
metafisica, essa incontra un altro limite, il secondo, nella inimmaginabilità
del transreale.
Nel cercare di comprendere la realtà possiamo porre il compasso eccen
tricamente, scegliendo un punto al di fuori di essa. Questo è uno spunto
consentito, almeno da chi ammette la metafisica. Ma abbiamo visto quali ne
sono i limiti. Per rimettere a fuoco il problema, bisogna dire che c’è una cosa
che non è consentito fare: incoraggiare quel senso di dereahzzazione, che
dovunque sentiamo alitarci intorno. È un fatto che ai nostri giorni il senti
mento della realtà è gravemente menomato, e forse questo tratto sconfor
tante è il principale sintomo del nostro disagio della civiltà. Si possono cita
re in causa la crescente comodità della vita, la mollezza e anzi l’assenza di
stimoli contrastanti, come pure la diminuita rilevanza degli atti di volontà
tenace e indurita. Ma queste considerazioni non mi trovano consenziente,
sembra che si cambi l’effetto con la causa. E assurdo d’altra parte dire che
si sta peggio proprio perché si sta meglio in generale. A mio parere la per
dita di realtà è connessa col sempre più frequente insorgere di nevrosi, che
quindi tendono a stabilizzarsi, costituendosi come psicosi, anche in segui
to alla massiccia presenza di forme collettive di fuga dalla realtà. È qui che
diventano rilevanti le circostanze prima menzionate. Forse un tempo si
moriva prima di dar segni di pazzia, oppure le nevrosi venivano a forza
compresse o anche, senza tanti riguardi, ci si auscultava meno. Oggi un
rinforzo è dato dall’indulgenza con cui tolleriamo, quasi fosse un hobby,
ogni dimissione della realtà. Tra queste mi sembra lecito includere anche la
routine quotidiana, che ci sembra naturale seguire metodicamente in modo
da non subirne per contraccolpo dei problemi, giacché in ogni situazione
inconsueta poco o tanto si mette allo scoperto il nostro senso della realtà.
Ciò è inoltre aggravato dal fatto che le reazioni a noi normalmente accessi
bili si presentano in forma predeterminata, per così dire istituzionalizzata,
e ogni risentimento del genere non fa che avviarci sempre meglio verso la
stessa china, autoconfermandoci nell’acccttazione di modalità che non
nascono dai problemi, ma si costituiscono in vista di scansarli. Così anche
le anomalie fan parte del sistema di vita, e le reazioni che potrebbero sti
molare a un diverso apprendimento sono già previste come sottosistemi di
un sistema che procede imperturbabile e di cui quelle sono le eccezioni che
METAFISICA 115

confermano la regola. Noi siamo indignati per la diffusione della droga,


paventiamo il periglioso itinerario dei nostri figli e più giovani amici attra
verso tali consuetudini, adoperandoci per stornarle e promuovere una
coscienza individuale e sociale ripugnante a tali mezzi di evasione; ma in che
consiste la convinzione profonda del nostro atteggiamento? L’immoralità
della droga consiste nella creazione vicariale di un universo fittizio che
allontana il mondo reale e vi si sostituisce, ignorando anzitutto le esigenze
degli altri. Ma dobbiamo ammettere che anche la vita quotidiana normale,
nel suo vizio di routine, appare a un osservatore esterno «drogata» in quel
senso. Che cos’è dunque la verità? A che cosa l’abbiamo infine ridotta?
Restando sul concreto, la risposta riesce difficile, vien fuori discontinua
affannosa, asmatica. Questo senso di realtà è, senza alcun dubbio, quello dei
rapporti con gli altri, dal prossimo al più remoto, che tende a concludere a
una totalità ecologicamente equilibrata, stabile, persistente. Lo stile fram
mentario del discorso che gli pertiene corrisponde allora allo stato di insuf
ficiente maturità delle odierne scienze sociali, o umane, al fatto cioè che,
avendo ripudiato per ottime ragioni la sintesi di tipo ideologico, esse si
ritrovano non per la prima volta in una condizione disgregata, dai confini
incerti e priva di idee teoreticamente rilevanti. Per esempio, è importante la
geografia, come chilometri quadrati di territorio, per definire una popola
zione pacificamente autosufficiente? Se è così, si potrebbe tentare di defini
re la realtà in termini di effetti sociali derivanti da un sistema di relazioni
sociali la cui ampiezza ha il diametro minimo di tot chilometri. Ognuno
vede che si possono istituire infinite rilevanze di tipo più vario; e tuttavia
nell’ipotesi citata non c privo di senso istituire una comparazione tra società
dell’ordine di grandezza delle nazioni medie europee, quelle di mole ame
ricana, come gli Stati Uniti o il Brasile, o ancor più grandi, anzi immense
come l’Unione Sovietica. In considerazioni aventi questo grado di com
plessità, cui abbiamo alluso citando un solo parametro, l’estensione del ter
ritorio, pare evidente che nel definire il senso della realtà mediamente rile
vante, il momento «greco» della teoria e della visione chiara del mondo e
quello «ebraico» della soggettività profonda e della comprensione parteci
pativa devono già esser bilanciati in una ragionevole coesistenza irenica, sia
pure in misura variabile e non prefissabile, ma cangiante secondo i luoghi e
i tempi. Il problema dell’ipotesi di una siffatta oìxoupÉvq non è che l’ana
logo, più complesso, della definizione coerente, unitaria e sistematica delle
varie scienze sociali nel loro insieme organico. Psicologia, sociologia, dot
trina dello stato per un verso; economia, diritto civile e del lavoro, relazio-
116 QUARTA LEZIONE

ni internazionali per l’altro; ma inoltre psicologia sociale, sociologia del


l’individuo ed economia politica non come suddivisioni di quei generi, ma
sostanze seconde contrassegnate da un’istanza specifica propria; e in più
neoformazioni apparentemente asistematiche come antropologia, ecologia
e etologia: forse non converrà neppur tentare di riorganizzare questa pro
liferante molteplicità con il sistema degli organigrammi prediletti per esem
pio dal Direttorio; però è certo che ogni stabile conquista nel progresso del
la chiarezza e della distinzione teoretiche sarà anche un passo verso il
Weltstaaty io stato o nazione universale. Nell’attesa siamo costretti a
costruirlo con l’immaginazione, ciascuno per proprio conto. Non è detto
che sia uno sterile esercizio; come disse in proposito Hegel, «l’idea non è
così impotente da non sapersi realizzare».

9. Da ultimo ma non per ultimo viene il problema maggiore, che regge


quello cui abbiamo accennato più sopra e tradizionalmente lo riassume: la
questione dell’enea, e cioè in sostanza il problema del male. La ricerca del
la verità, secondo Malebranche, procede con un metro diverso trattando
dell’orJre de la nature o àeWordre de la gràce. L’ordine della natura è quel
lo dell’estensione, cui si aggiunge la fisica matematica e la trasmissione mec
canica del movimento; l’ordine della grazia riguarda il mondo dello spirito,
inteso non solo come pensiero ma anche come appetito, desiderio e moti
vazione delle trasformazioni finalistiche. È interessante rilevare che, men
tre nell’ordine naturale non sono ammesse eccezioni alla regolarità mate
matica delle leggi, nell’ordine spirituale vige un orientamento teleologico
che non ha altra esattezza che quella stabilita dal fine, e quindi in esso con
vivono massime di probabilità e punti di singolarità come eccezioni. Noi
tendiamo a ricondurre questa riedizione del dualismo cartesiano al divario
per noi più familiare che sussiste in sede metodica, oltre che sistematica, tra
scienze naturali e scienze culturali, storiche e sociali (o umane): per esem
pio alla maniera di Dilthey, di Croce o del neoidealismo in genere. Qui,
però, senza accentuare indebitamente le esigenze razionalizzatrici, vorrem
mo considerare la distinzione di Malebranche come prologo alla trattazio
ne di Leibniz. Leibniz segue il filo conduttore della recherche de la vèrite e
su questa base pone il problema dell’etica e dell’origine del male.
Parlando in generale, che si debba distinguere tra verità naturale e verità
morale è una necessità d’ordine metodico, che s’impone di fatto. I due
diversi luoghi preposti a tale accertamento sono da sempre l’osservazione
ripetuta di un fatto riproducibile o, nel caso che il fatto (più spesso il misfat-
METAFISICA
”7

to) non sia riproducibile, la testimonianza di uno o (meglio) più testi atten
dibili. Il primo caso mette capo alla verifica di laboratorio, e di norma è
impermeabile al dubbio; il secondo trova invece collocazione in tribunale,
nella contestatissima procedura dell’escussione dei testi, di cui si può dire
che non ce n’è una che sia assolutamente sicura. La verità che abbiamo det
to morale presenta inoltre un altro motivo d’incertezza. Oltre all’inatten
dibilità stessa di un’accertabilità irripetibile e ritenuta per sentito dire, si
aggiunge il fatto che la contestazione può essere a bella posta convinta a giu
rare il falso. In altre parole, se nel rapporto uomo/natura l’eventuale falsità
del giudizio sta tutta dalla parte dell’uomo, poiché è lui che si sbaglia e non
la natura che lo vuole ingannare; nel rapporto uomo/uomo invece, cioè nel
raccogliere la verità di un altro, può darsi che ci venga fatto credere il falso
in luogo del vero. Da questa proprietà che ha il linguaggio di poter far pas
sare l’irreale come realtà, e cioè il falso come verità, prende origine quella
varietà del male morale che è la falsa testimonianza. Siamo indotti da ciò a
parlare del male senz’altro.
L’esistenza del male è considerata indubitabile da Leibniz, per lo meno
per quanto riguarda il male fisico, che è la sofferenza in senso molto lato,
dalla noia al dolore, e il male morale, che è dato da tutti i delitti, a comin
ciare dall’inganno, e che fa tutt’uno col peccato. Solo per quanto riguarda il
male metafisico, che consiste semplicemente nell’imperfezione, è lecito e
anzi secondo Leibniz doveroso intrattenere dei dubbi. Infatti la discussio
ne di questo punto conduce direttamente nei problemi di teodicea. Si Deus
est, itnde malum? Si non est, unde bonum? Ma procediamo con ordine. L’e
sistenza del male fisico è riconosciuta anche dal Buddha, e con lui dai gim-
nosofisti e dai cinici. Il male morale, concediamolo, è eliminabile se si rinun
cia alla vita morale, addestrandosi come i cinici a non riconoscere alcuna
dignità o valore. Restano i mali fisici, la malattia, la vecchiaia, la miseria e la
morte. Essi non sono eliminabili se non ragionando al controfattuale:
«meglio sarebbe per l’uomo non essere mai nato...»; o come Egesia il cire
naico, il suasor mortis, che persuadeva gli altri al suicidio. In ogni modo la
morte non elimina che il male futuro, non certo quello che è stato, e che
continuerà a esser stato eternamente. Il male morale rientra nel conto cini
co, ma solo se si è disposti a rinunciare anche a quel bene che deriva dalla
stessa fonte, e che non si può conservare senza sopportare anche il primo.
La rinuncia ai valori, in ultima analisi, sembra essere una filosofia morale
dei paria, un nichilismo tra il rassegnato e il risentito dei diseredati. La radi
ce ultima del male morale sta in quello metafisico, nelle riflessioni sulla teo-
118 QUART/X LEZIONE

dicea. Quindi il male fisico, che certamente esiste, è superato dalla speran
za di star meglio. Ciò non è vero in tutti i casi: ci sono le sofferenze dispe
rate, quelli che ne sono consapevoli e, di conseguenza, i suicidi più o meno
eutanatici. Ma per la maggioranza dei viventi una siffatta motivazione è qua
si un truismo. Il male morale è compensato a usura dal bene morale, cioè
dai vantaggi che derivano dal vivere non come cani selvaggi, ma in società.
È interessante riflettere su questo bilancio ineguale, inclinato a nostro favo
re: poiché in assoluto i vantaggi sono l’esatto equivalente delle pene, cam
bia solo il segno. Ma il fatto è che la società civile esiste da tanto tempo che
non risentiamo più degli sforzi fatti per stabilirla, che quindi godiamo
(anche moralmente) senza avvertirne il debito costo. Va da sé che questo
giudizio è assai meno tautologico del precedente, esso dipende dall’apertu
ra del compasso circoscrivente il territorio e il suo risultato non è detto sia
maggioritario per ogni popolazione. In ogni modo, proiettivamente, tali
sono le nostre speranze.
Con tutto questo non abbiamo però parlato del problema del male, ma
solo della maniera con cui normalmente lo si ritiene compensato dal polo
opposto del bene. Avendo stabilito che il bene compensa a usura il male, il
problema di teodicea è già risolto. Con tutto il rispetto per Leibniz, il pro
blema sta nel fatto che il male non fa parte di un sistema civilistico, nel qua
le il risarcimento estingua il danno arrecato. Abbiamo già visto, a proposi
to del male fisico, che non si può eliminare dal mondo la sofferenza che c’è
già stata; si può solo far sì che non ci sia più. Questo vale per quanto è dato
per natura. In campo morale, il male deri\ra dalla cattiva volontà dei nostri
atti, o dall’ignoranza delle conseguenze dei medesimi. In ciò propriamente
il male è «cosa nostra», esiste perché ce lo facciamo da soli. E qui è tanto più
difficile riflettere con mente serena, ma i risultati sono gli stessi. Come pos
so compensare l’amico estinto di un male che gli ho fatto? E, più in genera
le ancora, che stravagante idea è mai quella che si possa compensare un
male? Il problema, come si vede, è quello del male assoluto, passato senza
compensi e incompensabile in se stesso, in una parola metafisico. Curiosa
mente, proprio il male metafisico è stato quello trattato in maniera più rela
tiva, privativa e da ultimo noncurante da tutta la filosofia. Come è posto il
problema da Leibniz?

io. Nella teodicea la questione è così formulata: ci si chiede come un


principio creatore, unico e libero, assolutamente buono, onnisciente c onni
potente, abbia potuto permettere il male e, soprattutto, come abbia potuto
METAFISICA 119

permettere il peccato, decidendosi spesso a rendere i peccatori felici e i giu


sti infelici. La risposta è concepita in termini di armonia prestabilita, la qua
le considerando le cose molto in generale, induce infine a credere che quan
to saremmo portati a biasimare è connesso con il piano più degno di esser
scelto, ad maiorem Dei gloriami L’armonia prestabilita spiega come mai, nel
bilancio generale della creazione, la sofferenza che spetta a uno ingiusta
mente possa esser compensata dal bene di cui un altro gode immeritata
mente: peccato però che questo non sia di sollievo al malcapitato né di effi
cacia pedagogica per il beneficiato!
La pazienza di Giobbe fu messa alla prova dal Signore, che gl’inviò ogni
genere di sofferenze. Pur pervenendo al limite della sopportazione, Giob
be superò la prova. In compenso il Signore gli diede il doppio di quel che
aveva prima, tra mogli, figli e pecore. E Giobbe finì in letizia 1 suoi anni.
Questo è il male in una concezione civilistica, che prevede il risarcimento
dei danni. Il medesimo convincimento dell’equità della compensazione del
male, questa volta però attraverso una pena inflitta alla sua causa, cioè noi
stessi, domina anche la concezione che potremmo definire penalistica della
giustizia. Così il male che io peccando ho inflitto al mio prossimo, se si trat
ta, poniamo di un delitto in sé irredimibile, può trovar risarcimento presso
Dio ove io volontariamente mi infligga una penitenza a lui gradita. In que
sto modo il male punitivamente inflitto a noi stessi estinguerebbe, a guisa
di vendetta, il male fatto agli altri, annullando il segno positivo col negati
vo. Questa concezione, che non ci peritiamo di qualificare come barbarica,
domina tuttavia ancora i nostri convincimenti tradizionali, sia pure in modo
semiconsapevolc. Volendo immaginare una grande festa del perdono, con
risarcimento dei peccati c rinascila morale in grande stile, infatti, non abbia-
mo saputo escogitare altro che questo: una vendetta, presa su una vittima
innocente, avrebbe per la sua stessa atrocità rabbonito il paventato giusti-
ziere. Eppure già Beccaria aveva dimostrato, con tutta ragionevolezza, che
non esiste alcuna sorta di legame causale tra delitto e pena, nemmeno di tipo
morale. E non c’è un disegno più distorto di questo, per cui del sangue
innocente dovrebbe lavare la colpa commessa da altri. Anche il male da noi
stessi commesso è inespiabile. Resta solo, tragicamente, il dispiacere.
Da un punto di vista più laico, si può solo prevenire il male, non curar
lo. In questo senso, se il sacrificio di Gesù è stato ed è atto a prevenire dei
mali futuri, esso non fu invano. Le riflessioni di teodicea si possono inten
dere, filosoficamente, in maniera trascendentale: cioè indipendentemente da
qualsiasi religione o teologia positiva. In tal modo la concezione di un dio
120 QUARTA LEZIONE

onnipotente, onnisciente e massimamente buono diventa un esercizio intel


lettuale diretto a saggiare, nel modo del controfattuale, come sarebbe in
assoluto una capacità di operare e di comprendere affrancata da ogni limi
tazione umana, e a quali fini potrebbe esser diretta. È interessante notare,
dal punto di vista della teodicea, che una siffatta rimozione dei limiti non
risolverebbe ogni problema; anzi, che rincarerebbe le difficoltà di taluni dei
più importanti, apprezzabili già nella condizione umana. L’onniscienza, per
esempio, è limitata per principio (non cioè dai difetti dell’intelletto umano)
dall’eventuale presenza di un infinito attuale, che fosse non solo non denu
merabile, ma anche non ordinabile. Leibniz sapeva già che l’infinito attua
le non è denumerabile; ragion per cui nemmeno un intelletto onnisciente
potrebbe conservar distinti tutti i ricordi e tutte le anticipazioni degli even
ti in un tempo continuo. Ma egli riteneva ciononostante che ogni legge di
sviluppo di una monade, la funzione che coordina i suoi attributi nel tem
po, fosse quanto meno ordinabile: e quindi suscettibile di esser registrata,
cioè denumerata distintamente, per segmenti. Ma tale fiducia è scomparsa
dalla matematica successiva. I limiti della memoria non c’entrano: sempli
cemente non si può denumerare distintamente un tutto inesistente, incapa
ce di distribuzione completa. Questa impossibilità è trascendentale, non
specificamente umana; nemmeno Dio può farci nulla.
Per parte sua l’onnipotenza è intaccata dalla potenza smisurata di un
infinito attuale. Restando nell’ambito della filosofia medievale, la conce
zione più verosimile sembra esser quella di Averroè (Ibn Rushd). Non
essendo concepibile l’onnipotenza, la creazione di Allah deve intendersi
come un evento parziale, episodico, che esiste all’interno di un universo
inintelligibile, indominabile e irrazionale. A parte questo, l’onnipotenza
(divina) non è più tale non appena si stabiliscano i primi princìpi. L’infinita
proliferazione delle conseguenze si surmoltiplica rapidamente oltre ogni
capacità efficace di rattenimento, e ogni agire diviene per principio irre
sponsabile, sia che assenta al factum, in quanto ciò avverrebbe ex post
festum, sia che cerchi di rimediare al fiat con interventi eccezionali. A dif
ferenza dell’idea dell’onniscienza, quella dell’onnipotenza è evidentemente
destinata al teatro umano. Essa è un’eloquente iperbole della facoltà di libe
ro arbitrio. Il libero arbitrio è il postulato su cui si fonda la responsabilità
dell’azione umana, che senza di esso non risulterebbe valutabile in alcun
modo: né punibile, né deprecabile e nemmeno degna di lode. Non vi è qui
necessità di usare il controfattuale teologico, poiché, come ben sapeva
Descartes, per quanto riguarda volontà e deliberazione, l’uomo è uguale a
METAFISICA I2I

Dio, proporzionalmente o analogicamente. In quanto postulato che regge


una pratica universalmente diffusa e alla quale non sapremmo rinunciare,
l’esistenza della libertà di volere non dovrebbe esser soggetta a negazioni.
Di fatto, invece, non è così.
Non alludiamo qui ai tanti argomenti, più o meno sofistici, che posso
no farsi valere contro l’esistenza del libero arbitrio. La stessa legislazione
liberale, nelle sue espressioni più recenti riconosce una restrizione sempre
maggiore al principio del libero arbitrio, sotto forma di quella temporanea
incapacità di intendere c di volere che nelle questioni penali sembra esser
divenuta quasi la condizione normale degli uomini. La nostra osservazione
vorrebbe andare più in profondo. Non ho difficoltà ad ammettere che il
libero arbitrio esiste. Ma così come non mi son dato io stesso l’esistenza,
solo l’ho ricevuta e (magari) l’approvo, la domanda diventa: sono io libero
di assumerlo, o sono condannato a esser libero? La domanda non vorreb
be esser sofistica, a sua volta, intesa nel senso che non basta al concetto di
libertà saper di esser liberi da qualcosa (di negativo), bensì esserlo per qual
cosa (di positivo). In questo senso devo correggermi: non credo che abbia
significato esser liberi di esser liberi; ma che lo abbia sentirsi l’obbligo, non
obbligati, di farne qualcosa.
Dovrei concludere dicendo qualcosa sull’essere infinitamente buono.
Anche lasciando perdere l’infinito, la questione intrigante è che due uomi
ni, o due popoli, possono esser buoni ciascuno per conto proprio, e tutta
via combattere tra loro a morte, facendo del male e ricevendone altrettan
to. La questione, come si vede, riguarda più precisamente i limiti intellettuali
delle questioni di etica, e sarà perciò meglio discussa nella lezione corri
spettiva. Dico intanto il mio parere, sconsideratamente. Leggendo Goethe,
la prima cosa che mi viene in mente di dire, e sono convinto che egli non
l’avrebbe presa a male, è che si sente che egli è stato un uomo profonda
mente buono e comprensivo, tanto da far venir la voglia d’imitarlo.

Nota bibliografica

Aristotele non parla mai di metafisica, né di filosofia in senso tecnico; il


termine in lui corrispondente è quello di t c q w t ìi ÈniGTqpìi, scienza prima.
Lo stesso vale per Tommaso d’Aquino c i medievali in genere. Il maggiore
trattato di metafisica, in cui essa compare col significato moderno, è senza
dubbio quello di Lrancisco Suarez, Disputationes mctapbysicae, pp. 1 e il,
122 QUARTA LEZIONE

Salamanca 1597. La metafisica concepita come ontologia e philosophia pri


ma appare invece con Christian Wolff, Philosophia prima sive ontologia^
Leipzig 1729. Ma per il significato che la metafisica ha assunto nel dibatti
to contemporaneo ci riferiamo in definitiva a Martin Heidegger, Was ist
Metaphysik?, Frankfurt am Main 1949 (ma 1929); e, dello stesso, Einfiih-
riing in die Metaphysik, Tùbingen 1953 (ma 1935).
Quinta lezione

Soggetto e coscienza
L'uno, i molti, il medio

i. Fin qui la discussione si è svolta in maniera abbastanza tranquilla, par


lando di concrezioni già coagulate nella nostra rappresentazione, quali la
logica, il linguaggio, la realtà o la metafisica. Ora invece dobbiamo inoltrarci
in quella zona d’ombra in cui nemmeno l’immaginazione più esperta riesce
a fissare il significato di parole come soggetto, coscienza, io personale e pri
vato. Volendo ricavare il significato dall’uso, bisogna dire che c’è un senso
ovvio per il quale tali parole si trattano come sinonimi, e va bene; ma nello
stesso tempo affiora la consapevolezza, magari per esser subito repressa, che
la cosa non sta proprio così: che le varie sfumature dell’uso esprimono
quanto meno un imbarazzo, forse un disagio dovuto a mancanza di chia
rezza. Per il momento ci accontentiamo di stabilire, al di là dell’uso sinoni
mico, che il subiectum, come soggetto psicologico (i), esprime specialmen
te l’istanza attiva, l’iniziativa drammatica, l’atto contrastivo; la conscientia,
da cum e sci) e; (ii), il sapere collettivo, quel che tutti sanno o «dovrebbero»
sapere, cioè la scrupolosa consapevolezza; e l’ego (z’n), infine, l’io persona
le, privato o sociale che sia, è semplicemente il soggetto grammaticale, l’ìn
dice di chi parla, in una parola l’autorifcrimcnto. Questa precisazione non
intende esaurire il significato di tali termini, il quale a causa della zona d’om
bra è inevitabilmente complesso; ma solo stabilire un inizio su cui proce
dere più speditamente.
Nel primo senso il soggetto è importante come attore (o attante) della
comunicazione. Per la teoria della comunicazione un messaggio viene defi
nito intenzionale, quando la probabilità che esso sia frutto del caso è tal
mente esigua da costituire una evidente confutazione di siffatta ipotesi;
quando cioè, anche senza vederlo, noi possiamo facilmente raffigurarci il
soggetto che lo emette. Siccome tale computo, trattandosi di probabilità, è
quantitativo, si darebbe con ciò una soglia comparativa al di sopra della qua
le l’emittente del messaggio è palesemente intenzionale, ossia soggettiva.
I24 QUINTA LEZIONE

Secondo questa teoria ci sarebbe, vale a dire, il modo di definire (sia pure
relativamente a una certa media) la qualità di soggetto obiettivamente, in
quanto soggettività oggettiva, e ciò attraverso la relativa improbabilità di un
messaggio intenzionale fortuito. È questa la probabilità, per ripetere un
famoso esempio, che un milione di scimmie, addestrate a battere i tasti,
lavorando per un milione di anni riescano a produrre per caso (non sapen
do l’italiano!) una cantica della Divina commedia.
È essenziale distinguere la comunicazione intenzionale da quella che non
lo è. In questo campo la letteratura divulgativa ha creato una certa confu
sione, non saprei fino a qual punto innocua, a giudicare da certi film di fan
tascienza. Quando per esempio si dice che una certa galassia (la quale, per
esser tale, deve distare almeno un milione di anni-luce) invia un messaggio
che ci informa sulla sua composizione chimica media, la sua velocità di rota
zione o di allontanamento, la sua distanza, e così via, questo modo di par
lare è chiaramente metaforico: quella galassia, anche senza conoscerla, è
chiaro che non è, e non è mai stata intenzionata a mandarci alcun messag
gio; siamo noi che, attraverso le leggi di fisica che ci son note, riusciamo a
inferire certe conclusioni con un certo grado di probabilità. Invece nel caso
del Progetto Ozma, il programma di ascolto delle emissioni stellari, la situa
zione ipotizzata è nettamente diversa. Ammettendo che nell’universo, pres
so altre stelle, esistano civiltà simili alla nostra, e che abbiano la tecnologia
e l’energia sufficienti, ma soprattutto la voglia di mandare un messaggio a
noi attraverso i vuoti abissi dello spazio, appoggiandosi sulle emissioni più
frequenti in natura (per esempio, la banda dell’idrogeno, o dell’ossidrile): la
cosa non presenta difficoltà di principio, ci si chiede solo se noi sapremmo
riconoscere tale messaggio come intenzionale. E il fatto che il programma
sia stato messo in atto, suscitando magari degli interrogativi sull’impiego
del tempo da parte degli astronomi, ci dice che la risposta è stata affermati
va. Ammesso di riceverlo, noi sapremmo apprezzare adeguatamente un
simile messaggio.
Finora non si è captato nulla, credo nemmeno un falso allarme. Ma sup
poniamo... Supponiamo che si riceva una sequenza di 1849 impulsi sulla
banda dell’idrogeno, che viene d’altronde utilizzata dalla radioastronomia
per «'vedere* l’universo; e che tale sequenza sia (a} ripetitiva, per esempio
esattamente ripetuta a intervalli di 43 ore, 21 ' e qualche secondo per 144 vol
te; (A) formata da unità (piene o vuote) di 13/100 di secondo, cioè che la suc
cessione di pieni e di vuoti si lasci ricomporre come multiplo di tale ipote
tica unità; e (c) che detta sequenza si possa trascrivere, inalterata quanto al
SOGGETTO E COSCI ENZA

possibile senso, in una «sequenza» lineare di + e di -. A questo punto è evi


dente che siamo di fronte a un probabile messaggio, che si tratta di decifra
re; e a tale scopo la sequenza trascritta viene trasmessa agli studiosi interes
sati. Ora è impossibile che a qualcuno non venga in mente che 1849 è il
quadrato di un numero primo, e cioè di 43. Che 43 sia un numero primo,
vuol dire che c’è solo un modo di combinarlo perché dia 1849, vale a dire il
quadrato. Allora si prende un foglio quadrettato e si traccia un quadrato
avente 43 quadretti di lato; quindi, andando da sinistra a destra e dall’alto in
basso, si riempiono o si lascian vuoti i quadretti corrispondenti agli impul
si unitari (si potrebbe anche andare da destra a sinistra, o dal basso in alto,
il risultato è invariante rispetto a queste convenzioni di scrittura). Che cosa
può apparire in un simile disegno? Parecchie cose. Per esempio, il sistema
numerale, che sarà quello duale, dato che si esprime già, anche meccanica-
mente, come sequenza modulare di pieni e di vuoti; il sistema degli elemen
ti chimici su base Z, il numero atomico; alcuni composti della chimica del
carbonio di interesse vitale; la composizione chimica del pianeta abitato e
della sua atmosfera; il sistema stellare corrispondente, e la sua distanza nel
lo spazio. Sono molte le informazioni che possono essere comunicate con
un quadrato di 43 per 43; eppoi, una volta riuscito il primo tentativo, nulla
vieta di farne altri, più grandi e complicati; se la distanza è grande, ce n’è di
tempo per risolvere dei rebus! Naturalmente tale comunicazione non sareb
be illimitata: non riusciremmo mai a intenderci su destra e sinistra, sulla pro
nuncia delle vocali, o su sentimenti indipendenti dalla chimica del sangue.

2. L’esemplificazione controfattuale, inesistente ma possibile, rende per


spicue le condizioni alle quali diventa obicttivo il discorso sulla soggettività,
cioè scientificamente controllabile e verificabile punto per punto. La via
indicata è indiretta, né potrebbe essere altrimenti, anche seguendone altre.
Essa passa attraverso l’intenzionalità del messaggio, e questa a sua volta è
dimostrata dall’estrema improbabilità di un risultato casuale, che si trasfor
ma poi in certezza quando interviene lo scambio della trasmissione. Tenia
mo dunque per fermo che l’esistenza della soggettività è scientificamente
dimostrata, né avremo motivo di ritornare su questo punto. Semmai può
destare qualche meraviglia che si debba insistere su un fatto tanto ovvio, ma
sentiamo l’obbligo di rettificare la voga che per qualche tempo è invalsa di
considerare superato il problema della soggettività: la qual cosa, per chi
abbia provato sul serio a prescindere da se stesso, in quanto superato, deve
esser stata fonte d’inenarrabile confusione. Si sarà d’altra parte notato che
I2Ó QUINTA LEZIONE

l’argomento che prova l’esistenza della soggettività è costruito sulla teoria


della comunicazione oggettiva, quella di tipo coordinativo e non causale.
Come si è detto, si tratta della concezione di senso comune presso gli inge
gneri, per cui la comunicazione consiste semplicemente nella trasmissione
o nello scambio, se va nei due sensi, di informazioni. L’informazione è poi
definita dal numero delle scelte binarie (logaritmo su base 2) richieste per
dare significato al messaggio. La scelta di questo riferimento è ovvio: una
dimostrazione è tanto migliore, quanto minori sono i presupposti che
richiedono di esser condivisi, e la teoria coordinativa, cioè obiettiva della
comunicazione è considerata di dominio pubblico. Siccome però il nostro
argomento non è la comunicazione, che abbiamo già svolto, ma la sogget
tività, ci chiediamo quali approfondimenti può fornire in merito l’altra teo
ria rivale, quella causale o gorgiana della comunicazione.
Secondo questa teoria, che abbiamo cercato di riesumare con Gorgia,
avvalendoci dei lavori di Bùhler in proposito, ciò che effettivamente si
comunica non coincide con la trasmissione obiettiva, e cioè complessiva
mente predeterminata, delle informazioni. Un esempio di comunicazione
nel senso qui inteso è dato dall’Encomio di Elena, dove Gorgia evidente
mente ha in mente una forza che si propaga non in virtù di un significato
che permanga identico nell’operazione, ma a causa di una suggestione,
anche fisica, che emana da chi parla e soggioga chi ascolta; e dove, nel sen
so obiettivo della comunicazione, propriamente non si trasmette nulla.
L’encomio, insomma, forza l’ascoltatore movendolo a provar pietà per Ele
na, anziché condannarla. Questo celebre esempio di comunicazione in sen
so causale forse prova troppo, e deve esser rettificato da alcune più fasti
diose precisazioni. In primo luogo, penso che sia chiaro perché si parla nel
caso opposto di teoria coordinativa della comunicazione. Durante questa
operazione, il significato che si vuole trasmettere deve essere rigorosamen
te identico, salvo i disturbi, a quello ricevibile da parte di un ascoltatore nor
male. Nella teoria causale della comunicazione, invece, ciò che si trasmette
non è un significato coordinabile (tra emittente e ricevente), ma esattamen
te quanto si causa nell’ascoltatore. Questo effetto è definito da Bùhler di
Auslòsung, q scatenamento. Limitando la comunicazione agli aspetti rigo
rosamente verbali, ci si avvede che l’effetto di scatenamento di significato,
se è vero che non può esser garantito da una preliminare coordinazione, non
è causale nel senso di una forza o suggestione fisica, ma dipende da una
motivazione squisitamente semantica. Da una parte c’è la scelta delle paro
le e dei giri di frase dell’oratore, e in questa capacità di suscitare lo scatena-
SOGGETTO E COSCIENZA 127

mento desiderato consiste la sua bravura. Ma dall’altra, e in collocazione in


definitiva più determinante, c’è la predisposizione culturale, disponibilità
all’assenso o al dissenso. Infatti è ovvio che quanto può muovere uno a pietà
può egualmente incitare altri al disprezzo.
È necessario dir questo per evitare di fraintendere la teoria della comu
nicazione gorgiana nel senso balordo di una riabilitazione della retorica.
Non c’è alcun bisogno di una così fatta riabilitazione, che oltre tutto ripor
terebbe la teoria causale della comunicazione nell’ambito dell’altra. Se infat
ti l’oratore fosse capace di disporre le sue parole secondo l’effetto desidera
to, questo sarebbe il significato tanto trasmesso quanto ricevuto, e cioè
coordinato; non scatenato. La riabilitazione della retorica ha avuto il suo
massimo esponente in Hitler, quando nel Mein Kampf osserva che la folla,
a guisa di femmina, deve essere non solo convinta, ma soggiogata dal tribu
no. In ciò Hitler dipende da Gustave Le Bon, la cui psicologia della folla ha
avuto anche altri discepoli, più domestici. Non credo però che Gorgia deb
ba essere inteso a codesto modo. Comunque sia, è evidente che la teoria del
la comunicazione come scatenamento del significato mette piuttosto l’ora
tore in balia di un ascolto minimamente preparato, critico e spregiudicato.
È inutile trascinare le folle se poi si finisce a piazzale Loreto.

3. Sebbene il nostro problema non sia la comunicazione, ma la soggetti


vità, è interessante considerare la prima, specie nell’accezione causale, come
una via d’accesso al momento agente, allattante. In primo luogo, il fatto che
si diano due diverse teorie della comunicazione, oltre tutto malamente
armonizzabili tra loro, fa pensare a un’origine extraverbale del fatto comu
nicativo, al di là dell’espressione delle emozioni, e cose simili. Per ricorrere
a un esempio banale, quando si forma una numerosa fila allo sportello del
la stazione, o della banca, è chiaro che le persone così accomunate, anche se
non usano parole, si comunicano (e come!) un profondo sentimento di fru
strazione, di rabbia mal repressa, di inespressa insoddisfazione. Tutto il con
trario del proverbiale mal comune, mezzo gaudio! Si odiano quelli davan
ti, nella fila, che una volta pervenuti allo sportello pretendono di fare
operazioni lunghe c complicate; si odiano di contraccambio quelli dietro a
noi, che premono irrequieti e pare cerchino di insinuarsi in posizione pre
rogativa; intanto si medita indispettiti sugli effetti perniciosi del crescente
benessere delle classi medie... La comunicazione interessa il mondo preu
mano, si estende agli esseri sprovvisti di linguaggio. Per la teoria causale del
la comunicazione, comunicare (s’intende, tra soggetti) in questo senso più
128 QUINTA LEZIONE

primitivo e profondo vuol dire scatenare nell’interlocutore una reazione che


forse avrà poco a che vedere con quanto intendevamo dire, ma che tuttavia
appare carica di tutta l’emotività e le svariate assonanze culturali di cui l’al
tro è capace. La diffusione culturale di fedi religiose come il cristianesimo,
l’islamismo o, di recente, lo spiritismo, che è senz’altro sproporzionata
rispetto al modesto livello dottrinale delle loro rispettive origini, è forse
spiegabile con l’effetto detonante (piuttosto che scatenante) del fiammifero
nella polveriera. La concezione provocativa del significato infatti dice che
non c’è proporzione tra causa ed effetto, ma solo consecutività. Per con
verso, se si cercasse mediante una dittatura pedagogica di comprimere gli
effetti, livellando e uniformando le cause, il risultato finale sarebbe sempre
all’incirca lo stesso, perché ognuno reagisce secondo la propria risonanza
agli stimoli verbali. In altre parole, la teoria causale della comunicazione dice
che la comunicazione è, in un senso profondo, un equivoco; ma che ciono
nostante essa esiste, c’è realmente. La comunicazione consiste dunque in
uno scatenamento o rimando di significati, di cui è responsabile chi parla
per il fatto che preme il grilletto {triggerpressing), ma ancor di più chi ascol
ta perché fa esplodere dentro di sé (putbursting) lo scatenamento di senso,
che è sempre personale.
Da ciò si evince una caratteristica non banale del soggetto: proprio per
ché esso appare intonato a una logica (nel senso di modo di funzionare) non
della coordinazione, ma piuttosto della consequenziarietà o, più esplicita
mente, causale. Da un punto di vista affatto teorico (o strutturale), non ci
peritiamo di proporre un accostamento tra Vintuizionismo, come logica del
«se—, allora — », e la dottrina causale di cui sopra, e il formalismo, come
logica della disgiunzione «— vel— » e coordinazione, sempre nello stesso
senso. A sua volta questo accostamento contiene trascendentalmente una
forte opzione, in ultima analisi, di segno intuizionistico. Secondo questa
filosofia l’albero della consequenziarietà prevale su quello della coordina
zione. La scelta precede sempre i due casi tra cui avremmo dovuto sceglie
re; anche se è più comodo presentare un contenitore, in definitiva, con i due
casi dati in anticipo sulla scelta. Come si vede, l’intuizionismo, o ciò che
abbiamo stabilito di chiamar tale, è in se stesso assai poco intuitivo. Noi sia
mo solo consapevoli che, dato un certo fatto, ci sentiamo indotti ad aspet
tarcene un certo altro: sep, allora q. Diamo al primo il titolo di causa, al
secondo di effetto; oppure, piu logicamente, premessa e conseguenza; e
simili. Ma se il legame tra il primo e il secondo è del tipo stimolo-significa
to, non sappiamo dare un nome convincente a tale nesso (—>), poiché di esso
SOGGETTO E COSCIENZA 129

siamo solo a metà consapevoli. In generale il soggetto agente può sempre


associare un motivo del suo agire, cioè accompagnare l’azione effettiva con
una spiegazione verbale. Questa verbalizzazione generalmente segue, a
richiesta, l’azione compiuta; ma può anche darsi contemporaneamente a
quella o addirittura precederla, prevedendone l’accadere. In quest’ultimo
caso, dato il senso anticipatorio della spiegazione, può sembrare che le paro
le producano l’evento anziché esserne il riflesso, per il fatto che esse vengon
prima. In molte occasioni la motivazione dell’agire addotta verbalmente
può esser quella effettiva, ma dal punto di vista generale bisogna supporre
che per principio essa sia sempre falsa (pur potendo risultar vera in qualche
caso, ma per accidente) per il fatto che interviene il fenomeno noto come
razionalizzazione delle motivazioni inconsce o semiconsapevoli. Questa ci
obbliga a contabilizzarle in doppio registro, uno ufficiale, l’altro reale.
L’esperienza dell’ipnosi è stata sotto questo aspetto decisiva. Se a un sog
getto debitamente ipnotizzato si dà l’ordine di chiudere la finestra non
appena sia sveglio, quello si sveglia e va a chiudere la finestra. Se quindi gli
si chiede perché l’ha fatto, egli normalmente risponde che aveva freddo.
Chiedo scusa se, a scopo di brevità, non ho presentato una situazione rigo
rosamente sperimentale, ma la morale del fatto è questa. L’ordine ricevuto
in stato ipnotico è la motivazione reale dell’evento «chiudere la finestra»; il
freddo ipotizzato, che per caso poteva anche esser sentito, è quella razio
nalizzata, fatta passare come credibile per sé e per gli altri. Dunque la razio
nalizzazione delle motivazioni a mezzo di giustificazione verbale per prin
cipio falsa, è un fatto accertato al di là di ogni dubbio. Anche questo fatto
getta luce sulla costituzione del soggetto umano, e dà ragione a quanti, come
Freud, lo vedono topologicamente dissociato in una parte rivolta alla per
cezione, all’io, alla coscienza, e una parte più propriamente autoreferenzia
le, intrinseca alla propriocezione, all’ex, all’inconscio. Secondo questa teo
ria, che è non solo della psicoanalisi freudiana, ma anche della psicologia
analitica junghiana e in generale di tutta la psicologia (dinamica) del profon
do, la motivazione reale è quella pulsionale dell’inconscio, mentre la moti
vazione verbale è al massimo quella cosciente, sempre in qualche modo
razionalizzata, e quindi in certa misura falsa. Il soggetto inteso in quanto
attore e non solo spettatore dell’azione, presenta sulla scena la coartazio
ne c le vicende di due individui distinti: l’io o la coscienza, come sede degli
atti razionali o razionalizzabili; e il sé o Vici (neutro), come subiectum per
lo più inconscio delle pulsioni profondamente istintuali. Questa distinzio
ne non ha il suo fondamento sull’io cosciente; sarebbe infatti un contro-
130 QUINTA LEZIONE

senso pretendere che la coscienza discrimini da sé quel che non è coscien


te. Per questo il fondamento della distinzione tra conscio e inconscio va
ricercato nel riferimento all’azione; perché Vagire nel suo attuale decorso, è
sempre al massimo solo per metà conscio. Quindi la comprensione piena
dell’agire richiede il concorso sulla rappresentazione scenica dei due co
attori del dramma, il protagonista e il deuteragonista, né è dato sapere in
anticipo chi è veramente il personaggio principale; non è detto che sia quel
lo che parla da protagonista. La psicologia del profondo invita di per sé alle
metafore drammatiche, e in questo si deve probabilmente scorgere di più
che un semplice parallelismo bi-associativo, produttivo di arguzie verbali:
non è forse tale psicologia del profondo il nostro teatro contemporaneo,
motivato com’è razionalmente dal disegno di una catarsi universale? Non
c’è davvero bisogno di rompersi la testa per capire chi o che cosa, nel caso,
ricoprirebbe il ruolo del protagonista.
Da questo breve esame della nozione di soggetto, inteso come ÙJtOxei-
pevov dell’azione, si ricavano almeno due importanti cognizioni: primo, che
tale soggetto è complesso, presentando gli estremi di un collettivo plurale
(a due, o a tre istanze distinte: ma basta il 2 perché ci sia pluralità) e non di
un individuo; e, secondo, che la ragione per cui si scinde, e si è scisso, è da
ricercarsi nella costrizione repressiva e oppressiva di quella stessa vita socia
le, neU’adattamento alla quale abbiamo ravvisato altrove il più sicuro indi
zio di progresso. Del primo punto ci occuperemo ancora a lungo. Quanto
al secondo, è chiaro anzitutto che non ci sarebbe razionalizzazione, né
quindi tendenza a dissociare un io cosciente e sociale da un sé irresponsa
bile e inconsciamente asociale, se non ci fosse bisogno di separare le moti
vazioni lodevoli o come minimo da tutti condividibili, da quelle che la ver
gogna ci impedisce di citare perché illecite o rimosse al punto di non esser
più coscienti. È quindi l’io sociale che porta il peso di una coabitazione for
zata con un parente impresentabile, e sa il cielo quanto stretto. In più, se egli
è di confessione psicanalitica, deve subire quotidianamente l’esortazione a
toglier lo scheletro dall’armadio o, in alternativa, a presentarlo come nulla
fosse agli amici, in pubblico.

4. Questa scoperta, relativamente semplice, della pluralità delle istanze


coabitanti in uno stesso condominio comune a tutta la vita psichica di ogni
singolo uomo, è stata senza dubbio foriera della maggiore trasformazione
della mentalità in epoca anche per noi contemporanea. Anche se e difficile
tracciare le linee per cui essa si è diffusa, è chiaro che questo mutamento di
SOGGETTO E COSCIENZA 131

consapevolezza ha per esempio inciso in profondità nella concezione del


diritto, avviandolo più decisamente sulla via civilistica (in opposizione a
penalistica) della sua interpretazione. Non è detto che questa via, per la qua
le si valorizza il momento di certezza più che quello di costrizione dell’or
dinamento giuridico, sia tutta liscia e carente d’insidie, vogliamo solo sot
tolineare che essa appare predeterminata come una sfida a cui, se è il caso,
occorre reagire positivamente, senza regredire alle risorse superstiziose e
magiche del penalismo. Della concezione precedente, lunga e penosa da
superare, ci si occupa da oltre un secolo e mezzo offrendone spiegazioni più
o meno ampie e pertinenti, da Michelet a Brémond fino a Aldous Huxley,
a proposito del periodo culminante (1600-1650) della persecuzione e caccia
delle streghe e dei fautori, come fu detto, della Vecchia religione. Esempla
re fu il caso di una celebre vittima, il parroco Urbain Grandier, arso vivo sul
rogo a causa di una (per noi) inconsistente accusa di commercio col demo
nio. I particolari della vicenda si possono leggere in I diavoli di Loudun, di
Huxley, da cui è stato tratto un film sedicente sensazionale.
Il periodo considerato cade ancora nell’ambito della filosofia dell’anima
dominata dalla tarda scolastica; ma dispiace dover annoverare come coa
diutore, seppure inconscio, dei presupposti a tal proposito rilevanti anche
un pensatore moderno come René Descartes. Per noi è interessante sotto
lineare che la psicologia razionale dell’epoca, condivisa in ciò anche dai car
tesiani, è dominata incontrastatamente dal dogma dell’unità dell’anima, ciò
che ne garantisce l’immortalità ma anche, per converso, ne assicura la puni
bilità dei peccati. Occorre soffermarsi un momento su questo punto, in
modo da aver ben chiaro che cosa significhi negarlo. L’unità dell’anima (si
badi bene, non dello spirito o dell’intelletto, in quanto istanze possibilmente
impersonali) comporta la sua atomicità o individualità indivisibile. Da ciò,
e più precisamente dalla sua trascendentalità, o mancanza di contrasto pos
sibile con concezioni alternative, se ne inferisce l’immortalità: è impossibi
le infatti pensare che possa aver fine ciò che non ha parti, e in questo senso
è unico, e per sempre (curioso che l’immortalità venga sempre immaginata
come estesa in un solo senso, nel post mortemi che cosa facesse l’anima pri
ma di nascere, di questo non c’è memoria, né ci vien data notizia alcuna).
Tale concezione è dunque dominante perché incontrastata; se ne può solo
avere un’attenuazione nel caso in cui l’intensità del vissuto corrispondente
sia indebolita dall’abito comunemente, anche allora, non filosofico ed extra-
vertito. In questa persuasione, giova osservare, si trovano consenzienti sia
la filosofia, scolastica o cartesiana, sia la religione, cattolica o protestante,
132 QUINTA LEZIONE

con la sola lodevole eccezione di una parte dei gesuiti. Ne deriva perciò che
in tutti gli atteggiamenti di carattere schizoide, dai quali gli uomini sono
afflitti specialmente nei periodi di conflitto religioso e ideologico, il pre
supposto rigido dell’allineamento unitario della vita psichica alle esigenze
categoriche dello spirito non può che aggravare e render più aspra la ten
denza alla dissociazione e a esprimerla patologicamente. Così per induzio
ne psichica e contrario la proibizione assoluta di un atto di cui non si com
prenda altrimenti la peccaminosità, genera ben volentieri una copiosa
proliferazione di comportamenti sempre meno contenibili; finché, risulta
tane impossibile la soppressione, la vitalità della psiche perversamente si
apre una via d’espressione attraverso le parvenze di una personalità diabo
lica disponibile alla bisogna. La cultura dell’epoca, intollerante nei confronti
di una qualsiasi oscillazione dell’identità personale, ignara per di più del suo
fragile e intermittente stato di equilibrio tra pulsioni diverse che d’ogni lato
ne minacciano l’integrità, non aveva altra alternativa da offrire che l’incal
zante ingombro d’una personalità tanto aliena, da risultare diabolica. E così
la schizofrenia, rincarata dalle asprezze dell’apparato giudiziario, veniva
man mano aggravandosi in durevole stato psicotico di sdoppiamento della
personalità, a tratti alternati. L’orrore della scena non è mitigato dal fatto
che, dopo tutto, noi siamo convinti che l’io personale, identico a se stesso e
perfettamente acclimatato alla sua cultura, non ha consistenza maggiore di
Asmoneo, di Balaam, di Leviathan e altri diavoli ai quali veniva assimilato.
Perché il fatto che i diavoli, Asmoneo, Balaam, Leviathan e gli altri, con
fessassero in prima persona d’essere autori dei peccati per i quali venivano
condannati, costringeva le loro vittime, non potendo altrimenti cacciarli, a
invocare la morte per far cessare, comunque, le torture. Agli inizi del XVili
secolo, quando un abito più civile e scettico fece recedere i processi alle stre
ghe e le torture, cessarono a poco a poco anche le apparizioni diaboliche e
i peccati del caso.
L’esistenza o meno del diavolo come persona (e cioè non come concet
to, ma come Asmoneo, Balaam, Leviathan ecc. intesi come individui) dipen
de dunque in primo luogo da una convenzione culturale che ne renda pos
sibile lo spazio semantico, e quindi, in secondo luogo, da un opportuno
riempimento di tale potenzialità semantica, così da renderla agibile. In tal
modo, che se Isacaaron è il demone della lussuria presso un uomo, gli atti
sessuali compiuti da quell’uomo, dato il personaggio e i modi dell’azione
incriminata, non possono altrimenti spiegarsi che come prodotto di pos
sessione diabolica. Dalla tortura apprendiamo, magari mentre andiamo in
SOGGETTO E COSCIENZ/\ 133

macchina, che l’istigatore ne è stato Isacaaron. Come si vede, la prima e fon


damentale condizione è l’istituzione, al di fuori di ogni res gesta, di un pro
mettente spazio semantico potenziale. Ora, si noterà che, togliendo il dia
volo, la situazione per l’uomo resta la stessa. Anche l’esistenza o meno
dell’uomo come persona... (riempire gli spazi vuoti come meglio aggrada),
dipende da ultimo da tali due condizioni, cioè da uno spazio semantico e da
un suo agibile riempimento. Nella vita normale il riempimento dello spa
zio agibile dalla mia persona (dove quel che vale per me deve esser consi
derato tale da qualsiasi altro) è assicurato dicono, dal codice civile e dello
stesso avviso era Napoleone. Per parte mia, conto di più sull’amicizia e,
dove questa non possa soccorrere, sull’indifferenza o non malevolenza del
prossimo nei miei riguardi. Questo per dire che dalla nozione dell’ego, a
parte l’ovvia funzione di autoriferimento, non mi aspetto gran che. Pure ci
son state fior di filosofie, che su concetti di io trascendentale, di io che mi
oppongo al non-io, o di io che sono o non sono quell’altro, hanno costruito
non trascurabili fortune. Anche l’io dilatato a persona, come consapevole
soggetto sociale che ha un censo, appartiene a un ceto, indossa un ruolo che
si fonda sulle aspettative degli altri, e svolge una parte lodevole, anche se
non proprio leggendaria, negli eventi della storia; confesso che tutto ciò mi
lascia abbastanza tiepido, appena fuori freddo o lukewarm, perché non è
qui che entra in gioco il senso della soggettività.
Abbiamo cercato di chiarire la nozione di soggetto, mostrando che in
relazione all’agire esso mostra una parte che esce fuori dal fuoco della
coscienza, c rimanda all’inconscio. Non intendiamo qui parlare dell’incon
scio, ma del fatto che il modo di intendere la coscienza, non potendosi par
lare di definizione, deve quanto meno esser riformulato in maniera tale da
non contraddirsi quando per esempio diciamo di esser consapevoli, e cioè
consci, che la reale motivazione di molti atti, anche da noi stessi compiuti,
ci rimane inconscia. Questa frase che, dopo quanto abbiam detto, contiene
una verità indubitabile, deve risultare anche nelle parole formalmente inop
pugnabile. Si possono escogitare vari espedienti verbali per rendere il
discorso privo di contraddizioni alla lettera, ma la cosa più efficace è attin
gere dall’uso corrente, si capisce quello colto e non triviale, il modo di far
le funzionare senza eccessivi crampi mentali. Il soggetto come viroxeipevov
può essere inteso come conscio o indifferentemente come inconscio senza
contraddizioni. La coscienza, invece, non può impunemente specificarsi in
conscia e inconscia senza aggiungere altro. Il termine coscienza è ambiguo,
perché noi lo usiamo indifferentemente per quanto ci risulta dall’introspe-
QUINT/\ LEZIONE
134

zione, come da ciò che veniamo a sapere, e quindi ne siamo consci, attra
verso la testimonianza di altri. Per esempio io so che c’è la Papuasia, ma per
sentito dire; non è come il mal di denti, che sai che c’è stato perché te ne
mancano parecchi.

5. Dal punto di vista neopositivistico, accettandone la supina osservanza,


bisognerebbe usare due parole diverse, una da riserbare ai dati introspettivi,
e l’altra per le risultanze delle descrizioni altrui. Dal punto di vista dell’ana
lisi del linguaggio, tuttavia, una strategia più promettente consiste nel cercar
di capire, al di là dell’equivocazione, la ragione per cui si è data semantica-
mente una tale collusione. Anzitutto, avendo ridimensionato la carica espli
cativa dell io, in quanto concetto teoreticamente troppo povero e semanti
camente troppo ambiguo (tra «l’io» come sostantivo e «io», come pronome),
e avendo retrogradato il soggetto all’antica mansione di essere il supporto o
la causa dell’azione, conscia o inconscia, non ci resta che la coscienza per
inquadrare tutto il resto. La questione del resto è simmetrica, e proprio in
questo senso analoga a quella dell’essere. Può esserci l’essere dell’ente come
l’essere del non ente, in corrispondenza con le due, e due sole possibili
domande dotate di senso: che cos’è ciò che è? (t i Èo t Ì òv), che cos’è ciò che
non è? (li èoii l u ì òv). A entrambe, come si è visto, la Oernoia deve dare una
risposta paritetica, entrando in merito all'essere dell'essere e all'essere del non
essere. Non si tratta di cambiar parola, ma solo di distinguere tra un primo e
un secondo senso dell’essere; cosa non difficile, dato che abbiamo imparato
a distinguerne perfino un terzo. Quanto a coscienza, se vogliamo conside
rarla un termine, le condizioni d’uso sono perfettamente simmetriche. Anche
qui dovremo distinguere una coscienza del secondo ordine di ciò di cui sia
mo consci direttamente, per esempio per via di percezione interna (o, per
intenderci, introspettivamente), e di ciò di cui solo indirettamente siamo con
sci, per esempio le motivazioni inconsce del nostro agire, di cui ci parlano gli
altri e noi, riflettendo, riconosciamo per vere.
La coscienza ha infatti il significato primario di consapevolezza, nel
senso di quel che sappiamo o dovremmo sapere, date certe condizioni,
maniera perfettamente intersoggettiva; la qual cosa non va confusa con la
conoscenza, che ne riguarda il momento oggettivo e neutrale, non inter
soggettivo, e si fonda sull’identità enunciativa. Che la consapevolezza di
primo grado sia diversa da quella riflessa, o di secondo grado, non defini
sce ancora gli estremi di un’equivocazione, anzi consente di conservare alla
coscienza un senso unitario: si dovrà forse evitare, in proposito, di parlar-
SOGGETTO E COSCIENZA i3S

ne come di un concetto, se s’intende con ciò la stretta univocità. Coscien


za di primo grado è per esempio la percezione come percezione interna^
Coscienza di secondo grado è in tal caso Vappercezione, in quanto perce I
zione di percezione, meta-percezione. La percezione detta esterna non è
una vera percezione; comunque la corrispondente appercezione è identica
all’altra. Alla percezione esterna, che si dice percezione perché le viene assi
milata, si può equiparare qualsiasi altra informazione non pervenutaci da
percezione interna, come l’esistenza della Papuasia, la probabilità dei buchi
neri o le congetture sull’adolescenza infelice di Amleto. Ma nel momento
in cui accettiamo come nostre simili certezze (che anche se non lo sono, si
possono sempre render tali associandovi un coefficiente di improbabilità,
o di modalità diversa dal reale), l’appercezione che ne risulta costituisce
senza alcun dubbio la coscienza adeguata del suo oggetto.
Da un punto di vista logico la dimostrazione riuscirebbe più facile. Nel
IV secolo a.C. le battaglie navali erano all’ordine del giorno. Immagino di
trovarmi in quella situazione aleatoria. In effetti io non so se domani ci sarà
o non ci sarà una battaglia navale. Come faccio? Posso sempre rassicurarmi
col fatto che, anche se non so che cosa succederà, certamente domani ci sarà,
o non ci sarà, una battaglia navale. Questa certezza è assoluta e non la cede
in nulla alle altre certezze che ho a disposizione. Si tratta ora di tradurre il
linguaggio della certezza in quello della coscienza, che ha la stessa struttu
ra. Procedendo in questo modo ci si può facilmente convincere che dire
d’esser consci di qualcosa d’inconscio, a parte l’ossimoro verbale, è una fra
se dotata di senso. Il significato di coscienza così chiarificato è tratto per
generalizzazione dall’appercezione, di cui è l’analogo trascendentale allar
gato a tutti quei fatti a cui il rendersene conto aggiunge la modificazione
intensiva dell’appropriazione, ciò che si dice la presa di coscienza.
L’asse di simmetria tra l’essere e la coscienza c il centro di quell’identità
che secondo Parmenide deve sussistere se la verità è costituita dalla coinci
denza del pensiero con la realtà. In effetti abbiamo visto che una siffatta cor
rispondenza non è soddisfatta né dal lato ontico, né da quello noetico. Ciò
che resta del principio parmenideo, c la coscienza che, in qualche modo, tra
scendentalmente, debba pur darsi una tale adaequatio rei et intellectns. Si è
anche visto che Democrito, introducendo la GetDQia, compie un importan
te passo in avanti, stabilendo che la conoscenza consiste nell’equiparare l’es
sere al non essere, c riducendo la coscienza a conoscenza puramente intel
lettuale. Il problema della coincidenza del pensiero con l’essere è anzi già
risolto, se poniamo il centro nella circostanza vuota per cui pensiero e realtà
I36 QUINTA LEZIONE

trovano la loro identità nel non essere. E cioè: la realtà è in quanto non
coscienza, e la coscienza è in quanto non reale. Il discorso non troppo chia
ro circa l’anima, costituita da atomi pulviscolari, più piccoli degli altri e
rotondi, scivolosi, mobilissimi, si lascia intendere come caratterizzante la
differenza tra le sue immagini, meri fantasmi, e la solidità e consistenza dei
corpi. Anche i fantasmi, come le percezioni, le immagini, i sentimenti, han
no una loro attenuata realtà, non sono un puro nulla: l’essere dell’idea, del
la rappresentazione, per quanto io lo spieghi come prospettiva, distanza,
gioco di apparizioni, effetto fantasmatico, prodotto di inafferrabili neutri
ni, è pur sempre qualcosa e non il nulla. Ma in ciò si tratta pur sempre di
pensiero impuro, che richiede un indebolito essere del pensiero: la perce
zione, per l’appunto. Se di qui noi portiamo l’astrazione al suo polo tra
scendentale, dando voce all’inesprimibile, riusciamo tuttavia a cogliere il
momento in cui il pensiero, relegando il residuo essere della coscienza a una
conoscenza del tutto oggettivata, si rivela come puro pensiero del non esse
re. Reciprocamente la conoscenza pura si rivela come oggettiva al punto di
non contenere più pensiero.
Questo gioco di riduzioni, lo ammettiamo, non è molto confortante né
illuminante. La ricomposizione delle simmetrie sull’asse portante del non
ente (per non dire il niente) suggerisce inevitabilmente la vana tautologia del
nichilismo, alla stessa stregua di Sartre quando parla di essere, di negazione
e di altro, consapevole della nausea a ciò inerente. Ma noi volevamo solo
dimostrare che il problema è in se stesso solubile, magari per la via di un
azzeramento. Forse l’esigenza di una spiegazione totale, esaustiva, perfetta,
racchiude in sé un vizio nichilistico; ma non sapremmo suggerire come anti
doto le virtù redentrici dell’irrazionale, consigliando per esempio di non
spiegare troppo, di limitare le generalizzazioni e di lasciare qualche proble
ma da risolvere ai posteri. Questi si daranno poi senz’altro, è perfino desi
derabile augurarselo, diciamo solo che non è pensabile delimitare senza
motivo le nostre generalizzazioni, né adottare di proposito spiegazioni che
si confutino da sole. E più importante scavare nei nostri attuali motivi di
insoddisfazione, poiché solo nei reperti messi così allo scoperto potremo
trovare la via della soluzione desiderata.

6. Come si è determinato questo svuotamento della coscienza, che ha


finito col contrarsi nella forma vuota dell’io? È opportuno seguire le vicen
de dell’identificazione del soggetto psicologico col soggetto grammaticale,
poiché tale inespressa equiparazione, svolgendosi nelle fasi alternative del
SOGGETTO E COSCIENZA 137

predominio ora della psicologia, ora della linguistica, che abbiamo cercato
di evidenziare nello sviluppo della mentalità moderna, può spiegarci il sen
so di questa complessiva riduzione. È chiaro anzitutto che non si può par
lare di una riduzione del grammaticale allo psicologico, o viceversa, senza
ulteriori qualificazioni; perché se considero l’«io» come pronome gramma
ticale sottostanno a esso tutti i diversi sensi e funzioni per i quali lo si usa,
non è detto che la realtà interessata dal gioco di questi mezzi espressivi sia
inferiore a quella che verrebbe alla luce trattandone con categorie psicolo
giche, tanto più che anche quest’ultima apparecchiatura deve esprimersi con
10 stesso medio, solo modificandone la poetica discorsiva; ed è evidente che
allo stesso modo non si può neppure parlare di riduzione nel senso inver
so, dalla linguistica alla psicologia, proprio perché la funzione è diversa e
incomparabile, mentre il medio espressivo resta lo stesso. Se si vuole, quin
di, bisogna parlarne con un linguaggio misto, fuori d’ogni committenza e
in questo senso «comico», sperando di conservare il messaggio attraverso
le forme cangianti e polimorfe del significato.
Parliamo dunque di un io medio, moderatamente introspettivo, gram
maticalmente corretto e, insomma, piccolo-borghese. Pur essendo ligio alla
logica del senso comune, egli gode del privilegio di stabilire, man mano che
parla, le leggi di pertinenza a quel che dice. «Che c’entra, questo?», è un
frequente intercalare, come pure «no, perché...» ed «ecco!», «bravo!», con
cernenti sempre la rilevanza. Il fatto d’aver detto, nel passato (magari cin
que minuti prima), qualcosa di opposto a quanto ora affermato, può non
esser contraddittorio, perché io posso essere, ora, un altro soggetto, diver
so dall’io che ero prima. Le leggi della logica non valgono se cambia il tem
po, le circostanze, il soggetto del discorso. Quel che è stato detto vien per
ciò annullato e ripreso da ciò che io adesso sto dicendo. Anche l’io
piccolo-borghese, se messo alle strette, può rinnegare se stesso e assumere
11 ruolo del sovrano assolutista e cambiare la legge vigente, se così gli aggra
da, poiché egli è sopra la legge e ne è anzi la fonte di legittimazione. Tutto
ciò diverrebbe esplicito nella formula, tuttora inespressa, implicita in chi
parla: «io adesso detto legge, e dico che cosa è vero e che cosa è falso, pre
scindendo sia dalla logica sia dai dati di fatto»: e posso far ciò, dal momen
to in cui mi vien concessa la parola c fin tanto che mi è dato farlo. Que
st’essere così autistico, sprezzante e prepotente quando non rischia nulla,
se non la perdita di un’udienza che d’altra parte non ha mai avuta, nel quo
tidiano odierno, pare il relitto, il residuo indigesto o la reminiscenza di
un’altra epoca, quando invece avere anche solo l’aria di poter dire qualco-
I3S QUINTA LEZIONE

sa del genere comportava un forte rischio. Il personaggio comico di oggi


appare tale per il fatto che indossa abiti tagliati nel panno giusnaturalisti
co di Grozio, di cui questi non ha saputo prevedere l’effetto su un referente
antiassolutistico qual è l’attuale democrazia. Una sovranità estesa a tutti,
purché sappiano respirare, è opportuno che resti anonima, a scanso del
ridicolo. Che cosa però significasse il privilegio assolutistico, è dimostra
to dall’interpretazione, che anche Grozio condivide, del noto principio per
cui suum cinque tribuatur. La giustizia coincide col dare a ciascuno quel
che gli spetta, va bene; ma non contraddice a questo principio che il sovra
no privilegi qualcuno, ivi incluso se stesso, dandogli senza merito più di
quel che gli spetta. Nell’epoca dell’assolutismo i sudditi andavano in pace
se non veniva loro sottratto quanto era dovuto, ora che sono cittadini alla
pari non devono far finta di legiferare in vacuo, su ciò che non esiste più se
non come illegittimo.
Pur nella sua astratta formalità, l’io ha un certo carattere, che eredita dal
la sua passata schiavitù e che è brutto come la sua storia: è assolutista,
monarchico, giusnaturalista. Pur non essendo una categoria, è un essere pie
no di sé che pretende di aver sempre ragione. È difficile sopprimere questo
io, che mette sempre in discussione tutto, fuorché se stesso. Questo essere
esiste solo come io, non come sé o altro. Non si riesce a stabilire se l’enfasi
cada sulla peculiarità grammaticale di poter stare sempre al centro autore
ferenziale, oppure sulla volontà psicologica di emergere a qualunque costo,
anche fittiziamente. Il soggetto grammaticale, come abbiamo detto, è mol
to complesso se si tiene conto del riferimento pronominale. Parlare in pri
ma persona non è lo stesso che parlare di sé. In prima persona si esprime
anche il dettame della coscienza, che è un’istanza diversa da quella stretta-
mente personale e formale. Rispunta qui il problema del «sé» che parla e
agisce, e possiamo concedere che citare se stessi indichi l’autoriferimento; e
che l’autoriferimento, a sua volta, quando assume il carattere del volere aver
ragione, si denomini anaforicamente «io». Si dà il caso in cui concediamo
all’io il potere della verità su quanto dice, senza discussione, se ciò va d’ac
cordo con quel che dicono gli altri, ma questo accade quando la persona a
cui appartiene l’io è accusata o è un testimone. Tale è la situazione dell’e
scussione dei testi in tribunale. È ovvio che in questo caso la libertà di
espressione in prima persona va sempre concessa, non foss’altro che per
aggravare l’eventuale condanna. Insomma, nel parlare dell’io non si esce dal
le aule del tribunale. Fuori delle filosofie dell’idealismo tedesco, l’io è un
tema del discorso giuridico.
SOGGETTO E COSCIENZA J39

Nel rapporto tra io e coscienza, la coscienza è il termine dominante, di


cui l’io è specificazione particolare. La coscienza deve prima di tutto inten
dersi-come un insieme di tutti gli io. Questi io si possono comprendere nel
senso dell’intersoggettività oppure in quello della intrasoggettività. Nel pri
mo caso, quello deli’intersoggettività, gli altri io sono compresenti al mio io
per introiezione nella coscienza che dico mia per intenderci, ma che nel
l’intenzione è quella di tutti, unica e potenzialmente universale. Parlando
invece di intrasoggettività, intendo invece comprendere con uno schema
simile a quello intersoggettivo il fenomeno dell’emergenza di una società di
io, apparentati ma successivi, quindi diversi, in una coscienza letteralmente
identica. Il quadro presentato ha forse l’aria di esser più complicato di quan
to intende spiegare, ma trattando di questi problemi è inevitabile intratte
nere senza sgomento un certo spessore di pertinente complessità. Nel Sosia
di Dostoevskij l’io del protagonista del racconto, in seguito a un incidente,
si sdoppia in maniera irreversibile; ma la coscienza di Goljadkin non si lascia
ingannare e risente delle colpe che vengono date al sosia, come un altro se
stesso. Dostoevskij ha avuto in sorte d’esser stato il più convincente poeta
di questa materia oscura. L’episodio maggiormente significativo, perché al
di_qua di ogni patologia, è presentato neW Idiota allorché il principe Myskin,
che per timidezza parla gesticolando esagitatamente, e si ripete tra sé, cer
cando di controllarsi, «devo smetterla, o finirò col rompere questo vaso!»,
conclude infine i suoi sforzi con uno spasmo che fa cadere il vaso. La cita
zione letteraria è qui d’obbligo non tanto per la sua esemplarità, ma per il
fatto che siffatte circostanze della vita quotidiana, anche se possono capita
re a tutti, non sono di comune dominio. Abbiamo con ciò indicato una del
le funzioni insostituibili del romanzo moderno, inteso come Rilditngsro-
man: il romanzo che educa e forma, in quanto sa esprimere l’accidentale
come momento di un riferimento universale.
Come è spiegabile, prescindendo dalla patologia, ciò a cui abbiamo allu
so? È evidente che nella complessità del soggetto non c’è solo l’io, l’io che
interviene in prima persona, nel romanzo, è solo quel fantoccio che parla e
sproloquia girando intorno al problema e tirandolo in lungo, sempre inva
no. Per Dostoevskij l’«io parlo» non è soltanto un’istanza autoconferman-
tc, ma anche il suo contrario. Se io sono autocontrollato, ciò che domino
sono anzitutto gli atti di parola; ma allora sono insincero, non dico tutto
quel che mi sta a cuore. Se invece sono spontaneo, accettando di correre i
rischi dell’incontinenza, finisco col dire tutto e il contrario di tutto; e chi mi
ascolti non raccoglie alcun chiarimento. Da queste modeste osservazioni
I40 QUINT/X LEZIONE

spunta già fuori il vero problema del soggetto, che non è quello di identifi
care colui che parla, o si muove, o si agita da isterico o rumina ossessiva
mente, non è cioè l’emergenza di un chi riconoscibile ma del che cosa si
muova nel profondo indirettamente, forse impersonalmente, facendo appa
rire come altro l’aspetto demonico della nostra stessa coscienza. Il sogget
to infatti potrebbe essere diverso dall’io; in questo abbiamo riconosciuto
non esserci contraddizione: non mi sento responsabile del fatto di aver sete,
o di continuare volentieri a respirare. Per ciò è stato creato il comodo con
cetto di anima vegetativa, la cui portata arriva esattamente dove giungono
il sangue, la linfa o gli ormoni. L’io respinge da sé ogni traccia di illegalità;
e qualche volta ha perfino ragione, quando cioè si dà il caso che giuridica
mente non gli possa addebitare nulla. È la coscienza che, avvalendosi di ciò
che sanno gli altri, e di cui anch’io mi rendo conto in certi momenti, mi per
mette di penetrare più profondamente nell’anima, al di là delle compro
missioni che essa, abbastanza innocentemente, trattiene in sé della biosfera
vegetativa e animale. Non tutto ciò che è propriamente psichico è per ciò
stesso positivo, ed è la coscienza a rivelarcelo. È questo il contributo più
importante dato alla conoscenza di noi stessi dai romanzieri e filosofi della
coscienza del profondo, Dostoevskij, Nietzsche e, non per ultimo, Freud.

7. Nessun argomento è più imbarazzante per il filosofo che il dover par


lare di coscienza. Da un lato egli si rende conto che non gli è consentito far
lo ingenuamente; dall’altro l’origine agostiniana e la destinazione kath’ho-
lica del concetto è troppo carica di storia e di implicazioni per trattarne con
semplicità. In ogni modo, si può sempre tentare di darne un’illustrazione
inventariale, come di istruzioni per l’uso in caso di bisogno. Dal punto di
vista dell’armamentario filosofico, coscienza è un termine ricco di significa
ti anche molto distanti tra loro, come consapevolezza, coscienziosità e
financo sicurezza. Parlare di coscienza anziché, per esempio di intelletto, è
prima di tutto molto comodo se quanto si vuol dire non ha bisogno di
distinguere la maniera in cui si è coscienti, attribuendola ai sensi, al senti
mento, al giudizio. La percezione sensibile è già un modo di esser coscien
ti, «questo panno morbido, verde, sul tavolo, ben steso» raccoglie per un
attimo il mio interesse, diventa la mia autocoscienza sensibile. Oppure
«questo panno non mi piace, è verde bandiera, al tatto sembra sfilacciato»
risponde, anche inespresso, a un sentimento o una prevenzione che allo
stesso modo è coscienza. O infine, il giudizio puramente intellettuale, «que
sta cosa qui è un panno, con queste e quest’altre caratteristiche», dà voce a
SOGGETTO E COSCIENZA 141

una coscienza distaccata, centrata sulla cosa, ma non di genere diverso dal
le altre occorrenze. Il concetto di coscienza concerne solo la certezza del
_suo oggetto, anche il grigio lattiginoso fluttuante intorno a me mi dà la sicu
rezza di vedere la nebbia anziché le cose al di là di essa, e questo fatto spe
cifico, ammesso che io non guidi una macchina, mi rende superfluo inte
ressarmi del riferimento simbolico a oggetti oltrepassanti il quadro che mi
si presenta, siano essi reali o fantastici, intellettuali o sensibili, scrupoli
morali o emozioni sgradevoli. La speciale neutralità che la coscienza così
intesa osserva nei confronti dei suoi contenuti, che si è radicalizzata in prin
cipio d'immanenza, ha contrassegnato il tema filosofico della ripresa del
concetto in epoca a noi contemporanea, con Brentano, Husserl e Heideg
ger. Non è difficile scorgere negli estremi di tale riproposizione la radice
fondamentalmente agostiniana di questo principio filosofico, per il fatto che
Agostino ha fondato l’oggettività del sapere sulla coscienza e non sulla
conoscenza dell’esistente. In primo luogo dunque la coscienza si oppone al
suo falso sinonimo, la conoscenza, soprattutto inteso sotto forma di teoria
empiristica, che ha il suo fondamento nell’esistenza sensibile. La riproposi
zione della coscienza ha dunque un senso antiintellettualistico, poiché la
forma analitica è riempita dal senso della consapevolezza e non ha il carat
tere dell’astrazione del concreto, ma ne codetermina il significato. E distin
guendo il significalo dal riferimento, è chiaro in che senso la coscienza Sia
indifferente all’esistenza, ossia libera da presupposti ontici.
Una seconda accezione del termine è quella contenuta nell’espressione
«esser coscienti», nel senso di coscienziosi o scrupolosi. In tedesco ciò si
'.I esprime mediante una parola diversa che contrappone a Bewufltsein, la
£ coscienza come consapevolezza, il Gewissen, la coscienza morale. L’uso di
Gewissen è un po’ obliquo rispetto alla centralità del Bewufltsein, ma tut
tavia ha il senso attivo dell’attualità e della presenza. Aver coscienza signi
fica anche rendersi conto. Quindi «sii cosciente di quel che fai» significa
anche un momento diretto sulle conseguenze dell’azione, accentuandone la
mediata responsabilità. Questo secondo aspetto della coscienza, la Gewis-
senhaftigkeit o coscienziosità, lo tradurrei con «rendersi conto di ciò che
sta in mezzo tra la coscienza e il suo termine estremo»: in altre parole, il
Gewissen è l’aver coscienza del medio, piuttosto che dell’oggetto. Perché
questa complicazione del medio nel rapporto al significato?
Come si e osservato, la coscienza c in primo luogo percezione, quindi
sentimento (e/o volontà) e infine giudizio. Questa classificazione è tratta da
Brentàno. Percezione, sentimento e giudizio non sono distinti in base
142 QUINTA LEZIONE

all’oggetto, che come rappresentazione può anzi essere il medesimo. La dif


ferenza sta nel medio, cioè nel diverso rapportarsi dell’orzo di coscienza a
ciò che le si presenta. Nella percezione qualcosa vien semplicemente pre
sentato, nel sentimento quanto è presentato vien considerato degno d’esser
intrattenuto o respinto, nel giudizio questo stesso rapporto è riconosciuto
come vero o falso, indipendentemente dall’emozione. Non occorre dire che
la percezione diventa giudizio percettivo, se si passa all’appercezione. La
coscienza è dunque sempre coscienza di qualcosa, ed è questo «aver qual-
cosa come oggetto» che per Franz Brentano la caratterizza come coscienza
intenzionale. La coscienza non è detto che sia sempre intenzionale, o sia tale
per natura; ma, se interpreto bene Brentano, vorrei dire che lo diventa quan
do intende il qualcosa, su cui è diretta, come un oggetto. Il problema del
medie) e proprio della coscienza in quanto intenzionale: essa è tale perché
diretta a qualcosa, che però si dà a riconoscere solo come oggetto. Vorrei
dire che l’essere intenzionale della coscienza è sempre sdoppiato in una sor
ta di doppio legame, che per un verso è il qualcosa dell’atto intenzionante,
per l’altro è identificato con l’oggetto inteso. Il termine a cui è diretta la
coscienza è quindi solo in apparenza identico all’oggetto; lo sarebbe solo
nel caso in cui il qualcosa collassasse nell’oggetto intenzionato senza resi
dui, il che non è mai il caso. Si forma in tal modo, anche al di là dei propo
siti coscienti di Brentano, il rimando a un oggetto oscuro dell’intenzione,
tale che se fosse possibile parlarne sarebbe il qualcosa di cui si diventa infi
ne consapevoli. Il massimo a cui possiamo aspirare è di afferrare come
oggetto una modificazione di questo qualcosa, coscienti di coglierlo in ver
sione alterata, in modo obliquo (quest’ultima notazione è in latino, e in
Brentano fa riferimento alla dottrina dei casus della declinazione, che spie
ga lo sdoppiamento di semantica).
In altre parole, non è detto che l’oggetto di coscienza sia una cosa-, tutt’al
più è cosa il qualcosa della percezione inteso come oggetto di percezione
esterna; ma è coscienza, in tal caso, che identifica in una cosa l’obiettiva-
zione così avvenuta. La percezione è inevitabilmente esterna, quando non
dio presente l’oggetto che sotto forma di rammemorazione, c allora il qual
cosa si riduce a traccia mnemonica, e perciò gli assegno un nome per ricor
darmene durevolmente. Anche 1 nomi possono esser dimenticati, s’intende,
ma il fatto che essi facciano parte del mio attuale sistema semiotico modifi
ca in tal senso la loro funzione di rappresentanza, trasformandola da ram
memorativi in ritenzionale. La ritenzione corrisponde alla memoria attua
lizzante, per cui ciò che è passato agisce ancora in tutto o in parte nel
SOGGETTO E COSCIENZA M3

presente, mentre la rammemorazione ricostruisce simbolicamente sulla sua


traccia l’evento ormai del tutto passato. Il sussidio che l’uso dei nomi for
nisce alla memoria non si saprebbe come sottovalutare, tanto è essenziale.
Bisogna qui considerare che nel denominare interviene tutta l’organizza
zione linguistica dei segni presentificanti, non solo questo o quel lessema
preso autonomamente, e perciò la portata rappresentativa della mente cre
sce in proporzione, finendo col coincidere con la capacità linguistica attua
le, di parola e di lingua, del soggetto. Dal punto di vista semiotico, il nome
sta per l’oggetto. Ricordarsi del nome è molto più facile che ritenere mne
monicamente l’oggetto, perché il nome fa parte della capacità attuale di
compiere atti di parola. Perciò il sistema linguistico rende attualmente men
zionale quanto altrimenti apparterrebbe solo all’archeologica delle media
zioni rammemorative.
Questo inestimabile vantaggio fornito dal sistema simbolico ha tuttavia
un prezzo che non può esser sottaciuto, e che è compito della fenomenolo
gia palesare ricorrendo a una più profonda presa di coscienza. Si tratta di
questo. Il nome sta per altro, snpponit prò aliqtto. Esso rimanda simbolica-
mente al suo denominato, esso sta per quello. Nelle espressioni composte
il rimando m parte trattiene il significato nel simbolo significante:, il signifi-
cato totale del simbolo è dunque essenzialmente il rimando al riferimento,
più la ritenzione del significante incorporata nell’uso.dTmmagmando di
disporre le parole secondo un sistema definitorio lessicale, come nei voca
bolari tipo Oxford English Dictionary ma con maggior rigore teoretico, i
lessemi si ridurrebbero a pochi; a un numero limitato dalla circostanza che,
per loro mezzo, si possano effettivamente definire tutte le altre parole. Ora
sorge la domanda: in tal caso, i lessemi residui avrebbero come significato
il solo rimando, senza ritenzione significante; o no? La risposta dei semio-
logi dovrebbe essere affermativa, si capisce; ma quella dei fenomenologi è
decisamente no. E deve esser così perché nell’uso del segno è parte del signi
ficante la sua appartenenza al sistema di segni, cioè la sua connotazione sin
tattica. Per la fenomenologia non e il latto che il segno stia per il designato
(la cosa, il riferimento) a fondare la relazione simbolica, ma l’atto con cui la
coscienza coordina un segno a una certa cosa, identificata come oggetto
esterno. Quindi il segno e sempre il significato più il significante. Se il signi
ficato e il rimando alla cosa, il significante è la legge di coordinazione di cui
è suscettibile sintatticamente. Ma la relazione simbolica è solo una tra le tan
te possibili nell’ambito delle categorie semantiche, le Bedeittungskategorien
o modi significando L’obiezione fenomenologica diventa più sostanziosa se
144 QUINTA LEZIONE

1 si riflette sul fatto che il quadro simbolico del mondo, quale per esempio ci
I è offerto dalLobiettivazione scientifica in tutte le sue specificazioni, appare
appiattito nell’unica dimensione della semantica denotativa. Quali sono
‘ dunque le altre categorie semantiche?

8. Nella filosofia fenomenologica le tesi concernenti il linguaggio non


sono trattate esplicitamente, ma compaiono parallelamente all’analisi della
coscienza, che costituisce complessivamente una psicologia dell’atto. La
presa di posizione antipsicologistica, per cui Husserl divenne celebre, non
deve intendersi nel senso di un disinteresse per le questioni psicologiche o
psicolinguistiche, com’è invece il caso di Frege. Tutt’altro: per la fenome
nologia anche la psicologia deve essere compresa in senso coscienziale,
quindi non naturalistico e addirittura antipsicologistico. Ma non vogliamo
complicare il problema. Nella percezione detta esterna l’oggetto primario è
quello esterno, cioè quello con cui^i è in relazione simbolica e che può esser
determinato. Il nome sta per qualcosa d’altro che si tratta di specificare, ma
questa specificazione non arriverà mai mediante il rimando all’esterno, poi
ché essa proviene dal sistema linguistico di cui fa parte, sintatticamente, la
parola che lo richiama e che da ultimo rispecchia la percezione interna.
Questo in sintesi. In realtà l’intreccio dei rimandi è alquanto più complica
to. Il faggio che cresce spontaneo nei boschi umidi di collina e mezza mon
tagna si chiama scientificamente fagus silvatica, ma nel dargli questo nome
non è più l’ingenuo albero di prima, in quanto l’oggettivazione lo fa stare
per qualcosa d’altro, che è inquadrato nelle categorie della botanica, dell’e
cologia, della geologia ecc. In questo caso il richiamo alla percezione inter-
na, se mai c’è, è disperso nella frantumazione delle tante oggettivazioni, cia
scuna facente capo a un’alterità specificata, il cui senso ultimo apparterrebbe
alla totalità del sapere scientifico nel modo in cui ne realizzo in sintesi la
coscienza. Ma in nessun caso l’obiettività esterna può interrompere il flus
so del richiamo retroattivo alla percezione interna; solo, può disperderlo e
renderne irriconoscibile la funzione coscienziale.
La critica degli effetti antirésipiscenziali della percezione esterna è per
ciò il primo passo della fenomenologia. Dal punto di vista filosofico la tesi
con cui si esprimerebbe tale convinzione (anche se non è stata mai così for
mulata da Brentano, né da Husserl o Meinong) è quella dell’autocontradit-
torietà del mondo esterno. Detta così, senza mezzi termini, la tesi appare
paradossale, ma l’analisi mostra che è tale solo in apparenza. Nelle obietti-
vazioni scientifiche i tanti e diversi riferimenti fanno perder di vista quella
SOGGETTO E COSCIENZA 145

sintesi che lo stile filosofico non deve mai abbandonare, anche a costo di
sfociare nel paradosso. Se noi partendo dal sistema linguistico dato nelle
varie scienze, le quali a vario titolo trattano del mondo obiettivo, inteso
come esterno, cerchiamo di sapere per che cosa stia quanto è simbolizzato
dai diversi termini, presi in senso proprio, il risultato è quel che direi un «far
finta di intendersi»: sia che si proceda dal genere al più specifico, perché da
ultimo abbiamo solo delle idee individuali, che saranno certo di nostra com
petenza, ma che non sono comparabili se non genericamente con quelle
degli altri componenti; sia che si proceda verso le maggiori generalità, che,
anche se non raggiungono lo stacco filosofico, non sono meno varie in sede
epistemologica che i pareri personali. Pur osservando la massima scrupolo
sità nelle decodificazioni, cercando di ricostruire il quadro totale del mon
do attraverso le diverse specie di denotati esterni, la somma non è mai
costantemente uguale, e questo porta a concludere che un mondo cosi con
cepito è in se stesso contraddittorio. Il mosaico non rivela la figura del mon
do esterno perché ogni tessera è come minimo sovradeterminata, non s’in
castra cioè nel punto giusto: ogni ambito del sapere ha infatti i suoi stilemi
d’obiettivazione categoriale, le sue implicite regole d’uso sintattiche_e
semantiche che portano insensibilmente a configurare totalità concluse
come tipo, pur essendo come somma inconcludenti. Passando attraverso
tutte le simbolizzazioni senza perdere la sinderesi, si ottiene al massimo un //
lessico ragionato, la competenza nell’impiego della lingua scientifica, la for -
bitezza impeccabile dell’eloquio, ma non la minima idea di un mondo ester- V-
no: poiché un simile oggetto non si dà per costruzione, bensì solo pregiu
dizievolmente, per rimorso della percezione interna tradita.
La percezione interna, per Brentano, è quella in cui abbiamo qualcosa
come oggetto immanente. Il suo carattere è di esser sempre evidente: infat
ti si dà evidenza (sia pure assertoria, non apodittica) quando il qualcosa si
sovrappone inevitabilmente all’oggetto immanente, come succede nella per
cezione interna. In seguito Brentano ha chiarito questo pensiero ricorren
do a una formulazione più espressamente linguistica. Noi distinguiamo
semantica e sintassi come dimensioni della semiotica. Brentano parla sem-
pre di termini all’uso medievale. Questi sono da lui distinti in autoseman
tici, cioè dotati di significato autonomo, in senso lessematico; e in sinse-
manlici, cioè dotali di significato solo in connessione con altri lessemi.
Quest’uso di «sinsemantico» è più chiaro, soprattutto più utile del sintatti
co odierno, poiché evita la dieresi col semantico; invece la proposta di «auto
semantico» nell’altro caso deve considerarsi infelice e le preferiamo la dizio-
I46 QUINTA LEZIONE

ne di lessema, dovunque necessario. Dunque la percezione interna, con que


sta precisazione, diventa quella in cui abbiamo qualcosa non come oggetto
immanente (espressione che non vuol dire nulla), ma come oggetto che si
esprime o meglio si esprimerebbe, se fosse possibile, in maniera totalmente
sinsemantica. Questo modo di dire non è più, come l’altro, tautologico. Se
l’aver qualcosa come oggetto esterno è il rimando inconcludente della per
cezione esterna, l’aver qualcosa come nesso sinsemantico è il termine della
percezione interna. Detto meno bene, la percezione interna contiene il
richiamo (lo Hinweis, non VAusweis del rimando, dirà Husserl) a cid che
nella coscienza corrisponde a quanto riusciamo a esprimere mediante la for
ma sinsemantica, o sintattica in senso lato. Il passaggio dalla percezione
interna alla coscienza intesa sia come Bewufltsein sia come Gewissen richie
de l’ulteriore analisi, oltre la rappresentazione, dell’emotività e del giudizio,
cosa che anche a volerne trattare in breve non sarebbe qui opportuna. La
conclusione che si dà infine è pur sempre che la coscienza è l’omologo supe
riore, in senso noetico, della più materiale e concreta percezione interna.
È caratteristico di Brentano e più in generale della fenomenologia che la
realtà del mondo esterno, nonostante la sua (parziale) contraddittorietà,
resti una nozione pur sempre in vigore. La coscienza funge da rettifica del-
l’oggettività esteriorizzata del senso comune e del suo omologo scientifico,
col risultato che l’obiettività ottenuta per mezzo dell’analisi fenomenologi
ca del linguaggio viene a occupare una posizione intermedia tra le esigenze
assolute della coscienza e il riferimento a una realtà alienata nelle cose. Il
richiamo alla coscienza è contenuto come modificazione, nel passaggio dal
la semantica autonoma dei lessemi alla sempre maggiore consapevolzza del
la sinsemantica delle loro dipendenze gerarchizzate e coimplicate dall’atti
vità della coscienza. Questo intervento attivo della consapevolezza e della
coscienza etica, dell’intelletto e insieme del sentimento e della volontà, che
è contenuto nella tendenza stessa alla concentrazione sinsemantica del signi
ficato, non è tuttavia un valore positivo e unilaterale, ma a sua volta un even
to che rispetto al mondo esterno si configura come un vortice rivolto all’in-
dietro, un risucchio nell’alterità di un black hole. Nella concezione passata
la coscienza non faceva nulla: ciò era essenziale affinché rispecchiasse fedel
mente, con scrupolo neutrale. Ora la coscienza deve riconoscersi attiva,
mirante, fungente. E nello stesso tempo ci si chiede, ed è una domanda legit
tima per la percezione interna: da che viene agita, a che deve mirare, o come
ciò avviene?
SOGGETTO E COSCIENZA M7

9. Il mondo al di là del buco, oltre il flusso invertente, il viaggio nell’an-


tiesteriorità può ben essere la scoperta dell’universo demonico. Invano han
no cercato di rassicurarci con l’idea che l’al di là sia tutto azzerato dalla pre
senza nullificante di Dio. Il dio di Agostino è uno e assoluto come quello
di Piotino, ma le due identità non sono collimanti. E dove due identità for
mano una differenza, ivi è la virtualità del conflitto, del male. Non c il male
assoluto, s’intende, ma quello derivato, che sorge per eliminare una diffe-
renza. Il mondo interiore conosce l’identità, se è vero che l’oggettività gli
appartiene; ma ancor più sa del suo contrario, la differenza. Esso è anzi for
mato da differenze: per questo è il regno dello spavento, il luogo dei fanta
smi, il ricettacolo di quanto si afferma e quindi la metamorfosi lo muta nel
suo opposto, modificandolo nel contrario. È per paura di esso che ci siamo
rivolti al mondo esterno, ancorando l’identità all’esistenza, al solido e cor
poso. Nella prospettiva inversa lo stesso significato può includere anche la
sua modificazione nel contrario e questa stessa idea ci dà una vertigine di
terrore. Dio e demonio vengono a coincidere, come non di rado nelle Scrit
ture, e sarebbe blasfemo, perché manicheo, supporre il contrario. E anche
senza scomodare il buon diavolo, il dio di Dostoevskij sarebbe nemico di
quello di Goethe, o di Milton.
In Delitto e castigo Raskolnikov c uno spregevole piccolo borghese, uno
studente che si mantiene a stento, povero tanto da dovere abbandonare l’u
niversità. Vorrebbe render felice la madre, che vive in provincia e si priva di
tutto pur di farlo studiare; si preoccupa della sorella che, impiegata come
istitutrice, è insidiata dal padrone presso cui lavora. A un certo punto
Raskolnikov, messo alle strette, nella sua coscienza inquieta ma lucida,
instabile ma risoluta, concepisce con freddezza una soluzione catastrofica:
il delitto. Qui Dostoevskij è abbastanza perfido da lasciarci intendere che il
delitto si dice tale per la tradizione cristiana e l’ordinamento vigente, ma non
è più così se, impunito, si misura coi valori di uno spregiudicato razionali
smo occidentale. In breve, Raskolnikov uccide a scopo dì rapina una vec
chia usuraia, cattiva, sorda e asociale, la cui perdita non è rimpianta da nes
suno; le circostanze lo aiutano a compiere il delitto perfetto: le spacca la
testa con l’accetta, ruba quel che gli serve e tutto si svolge come se fosse riu
scito a farla franca. Secondo Dostoevskij noi, se fossimo coerenti, dovrem
mo applaudirlo; essendo occidentali crediamo alla razionalità come azione
diretta allo scopo. Ma un oscuro istinto spinge Raskolnikov alla confessio
ne del delitto, ed egli si redime perche riscopre nel suo profondo la verità
imperitura, non solo tradizionale e popolare, della religione che aveva rin-
148 QUINTA LEZIONE

negato. Dostoevskij descrive la resipiscenza finale di Raskolnikov come


abreazione a un atto che egli ha compiuto sotto l’influsso plagiario e osses
sivo della mentalità pragmatistica moderna. Raskolnikov scopre che l’jdo»
dell’atto delittuoso non era lui, e per recuperare questo «sé» diverso deve
condannare l’altro espiando dppersona.
L’attività psichica di base è quella da cui si sviluppano come poli di
orientamento distinti l’io e la coscienza. La coscienza è un collettivo, una
società di io diversi di cui l’/o di volta in volta attuale non si accorge, perché
ciascun soggetto è corredato di una propria identità e rilevanza rammemo-
rativa, e tutti insieme hanno l’illusione della diafania, della trasparenza a se
stessi e della appartenenza a un unico evento già stato, la vita trascorsa. Ma
la coscienza non è solo attività di chiarificazione di questo sviluppo, è essa
stessa agita da un collettivo di soggetti di cui solo una parte raggiunge la
semitrasparenza di un io cosciente. Quindi la coscienza è in certo qual
modo il medio tra la falsa coscienza dell’io e la progressiva incoscienza del
le forze che operano in noi e che, risalendone il tramite, si collegano al tota
le della natura naturans per usare una felice espressione che fu di Scoto
Eriugena. L’io non conosce motivazioni reali, ma solo razionalizzazioni
regressive; perciò sotto la sua apparente onestà si può celare la pulsione tor
bida, sporca, demonica, che è compito della coscienza portare alla luce. Per
ciò è nell’io e le sue inconsapevoli rimozioni che risiede per l’uomo il male,
non nell’entità del misfatto. All’io di Raskolnikov erano presenti delle
ragioni obiettive per giustificare il delitto, ma queste dovevano palesarsi sco
pertamente e quindi erano inani, in quanto razionalizzazioni: così egli subi
sce la ritorsione della coscienza e lo sviluppo di nuove contraddizioni che
non trovano conciliazione se non nell’autocondanna. L’identificazione che
egli compie di se stesso con l’io del discorso razionalizzatore, autogiustifi
catorio, diventa una palese mistificazione che non ricopre forse più del cin
que per cento della realtà complessiva accessibile alla coscienza, ed è quin
di divaricante, schizoide, fallimentare fin dal suo nascere. Dostoevskij ha
detto questo quando la psichiatria non esisteva ancora, e oserei dire che gli
psichiatri hanno tuttora da imparare da lui. Quanto alla sua onestà intellet
tuale, resta molto da desiderare. Il confronto polemico non andava fatto tra
la coscienza cristiana e la pseudocoscienza occidentale del superuomo, ma
tra la prima e quella, essa pure occidentale, che non compie alcun delitto
perché prevede, nell’evenienza, il proprio tracollo, ed è motivata dal desi
derio di evitare con esso ogni pericolo di conversione all’irrazionale.
SOGGETTO E COSCIENZA I49

io. Quest’ultima ragione non è per nulla edificante, ma può esser reale
e nessuno si sentirà di dire che non è cosciente. La coscienza, senza tanta
religione, ha da essere obiettivamente etica, consapevole quanto basta per
non subire contraccolpi di resipiscenza. In noi c’è quindi un soggetto che si
dà a riconoscere come un io convenzionale, legale e formale; preferibil
mente si consiglia di esserlo come proprietario terriero del xvm secolo, pri
ma dell’assillo capitalistico, e di continuare a fare il gentleman per esempio
alla maniera dello squire Allworthy, il patron di Tom Jones. Se uno non può
permetterselo, è giocoforza convincersi che bisogna trovare il modo di coa
bitare in dubbia comodità con altri soggetti che stanno insieme a noi, come
l’immaginario, l’ossessivo, l’isterico, tutto ciò insomma che d’inverosimile,
sorprendente e illegittimo può esserci in noi e che nondimeno non possia
mo escludere dalla realtà, dal momento che non siamo unità né coerenti né
complete in tutto, ma (senza doversene vergognare) plurali. Ancora Piran
dello pareva rammaricarsene: c’è più che un sospetto d’accusa nel dire, come
egli fa, uno, nessuno, centomila.
A parte il problema intrasoggettivo della compresenza di molti soggetti
nella stessa coscienza, nei rapporti intersoggettivi, cioè tra coscienze separa
te da almeno 20 centimetri di spazio (tra il centro di un cranio e l’altro) si dà
un caratteristico problema di comunicazione che, come nel caso di quella
interstellare, si presenta specialmente in assenza di una deissi in comune tra
due interlocutori. Per quanto se ne sa, ciò ha origine dall’antinomia di Anti-
stene il cinico. Quando due persone discutono accanitamente per il fatto che
non sono d’accordo, Antistene mette in luce la contraddizione seguente. O
i due discutono esattamente della stessa cosa, e allora non si capisce in che
cosa non siano d’accordo, dal momento che il loro oggetto è identico; o par
lano di due cose diverse, uno avendo in mente una cosa e l’altro un’altra, e
allora non si capisce perché ci sia discussione, dal momento che ognuno svol
ge un monologo autistico. Come si vede, a rigor di logica aletica, non moda
le, l’argomento è irreprensibile. Tale argomento viene ripreso da Platone, e
piegato a una conclusione diversa. Egli assume uno dei due corni del dilem
ma, ma evitandone l’insensatezza. Non avrebbe senso una discussione tra due
che son persuasi di parlare dello stesso oggetto, tuttavia l’identità dell’ogget
to potrebbe esser virtuale, induttiva, al massimo ricavabile per convergenza
al termine di una discussione non contenziosa (o eristica) bensì di ricerca (o
zetetica). In tal modo la contraddizione viene evitata, ma a prezzo di rende
re trascendentalc-optativa l’identità dell’oggetto di discussione. Traducendo
in termini di senso comune il ragionamento di Platone, ne risulta che, se due
150 QUINTA LEZIONE

persone discutono accanitamente, ciò è segno che vanno almeno d’accordo


su che cosa essi poi dissentono. Ma allora il quesito di Antistene, «se son d’ac
cordo, perché discutono?», diventa più che mai pertinente. In realtà l’argo
mentazione di Platone è sofistica; egli dice che tale identità non c’è, ma è
come se ci fosse arrivandoci attraverso il suo argomento. È dunque vero che,
adottando la conclusione di Platone, la discussione diventa inutile.
In Antistene il tentativo di fondare l’oggettività sulla convergenza in una
delle diverse soggettività conduce dunque a privare di senso ogni discus
sione, anzi ogni possibile discorso. Nel contesto della nostra disamina que
sto significa che l’intersoggettività resta inane se non si fonda sulla comu
nicazione^ Ma quale comunicazione? Non, evidentemente, quella
trasmettitiva, nella quale vien presupposta come identica l’unità di misura,
il bit. Nel suo senso più profondo, la comunicazione trasmette degli effetti
la cui unica caratteristica comune è di non essere nel ricevente ciò che sono
nel trasmittente, o viceversa; questo perché, come abbiam detto, si trasmet
tono degli impulsi scatenanti ma non dei significati bell’e pronti. Ciò acca
de normalmente in ogni comunicazione, per banale che sia. I significati ven
gono ogni volta inventati da chi li riceve. La comunicazione quindi esiste,
ma non come trasmissione dell’identico. Comunicare l’identico è impossi
bile, essendo trascendentale esso non si trova né in chi trasmette né in chi
riceve, non esistendo né dentro né fuori di noi. Un’identità parziale è non
meno contraddittoria di quella totale del mondo esterno; e il mondo inte
riore è, sotto questo aspetto, una gola spalancata che inghiottc tutto, un
yaopa o il Xaoc esiodeo.
Siamo forse giunti a una conclusione un po’ troppo desolante, proba
bilmente più dovuta alla meccanica inevitabile del discorso che al senso
complessivo delle nostre intenzioni. Ma forse lo scopo era proprio quello
dichiarato di gettar scompiglio in alcune ormai inveterate identificazioni,
come il soggetto, l’io, la coscienza; e in questo senso ciò che abbiamo detto
potrà risultare utile a comprender meglio quanto segue. Avremo agio di
ritornare in tema. Se tutto questo è vero, lo si dimostrerà nell’esame suc
cessivo, sulla materia di cui son fatti i sogni.

Nota bibliografica

Il «Progetto Ozma», dal nome della principessa del favoloso paese di


Oz, con riferimento al libro per ragazzi di Lyman Frank Baum, The Won-
SOGGETTO E COSCIENZA 151

derful Wizard of Oz, Chicago 1900, e, dello stesso, The Marvelous Land of
Oz, Chicago 1904 ecc., fu ideato dall’astronomo americano Frank D.
Drake; tale progetto fu parzialmente realizzato mediante un ascolto siste
matico della durata di 150 ore (6 giorni) per mezzo del radiotelescopio di
25 metri di diametro presso l’Osservatorio di Radioastronomia di Green
Bank in West Virginia nel i960, orientato su Tau Ceti ed Epsilon Eridani
naturalmente senza risultati di sorta. Come esempio di un soggiogamento
«gorgiano» dell’uditorio cfr. la teoria retorica di Adolf Hitler, Mein Kampf,
2 voli, voi. il, cap. vi, Miinchen 1925-27, pp. 525-34; questa evidentemente
dipende da Gustave Le Bon, Psychologie des foules, Paris 1895, di cui è
impossibile sopravvalutare il successo. Sulla caccia alle streghe cfr. Jules
Michelet, La torcière, Paris 1862; Henri Brémond, L’inquiétude religieuse,
2 voli., Paris 1909; e, più di recente, Aldous Huxley, The Devils of Louditn,
London 1952.
La nozione di coscienza è, naturalmente, piuttosto elusiva, e non è faci-
le dire come «debba» esser concepita. La fenomenologia non ha nulla che
vedere con l’«autocoscienza» o Selbstbewufitsein in senso idealistico, il suo
tema essendo la «coscienza intenzionale» che ha come punto di partenza
paradigmatico, per es. in Brentano, la «percezione interna». Cfr. anzitutto
Franz Brentano, Psychologie vom empirischen Standpunkt, 3 voli.; voi. I,
Leipzig 1874 [Psicologia 1]; voi. li, «Von der Klassifikation der psychischen
Phànomene», 1911 [Psicologia II]; voi. ili, «Vom sinnlichen und noctischen
Bewufitsein», 1928 [Psicologia ni]; le note di Oskar Kraus chiariscono il
senso della transizione tra il primo e l’ultimo Brentano. Per la tesi «antipsi-
cologistica» di Husserl v. Edmund FI usseri, Logische Untersuchungen, voi.
I, cit., «Prolegomena zur reinen Logik». Sulla «riduzione eidetica» (la «mes
sa tra parentesi» del mondo esterno, del presupposto naturalistico) cfr.
Edmund Husserl, Ideen z h einer reinen Phànomenologie undpbanomeno-
logischen Philosophie, Halle 1913 [Idee l]; e, per confronto, l’analogo con
cetto di «obiettivo» in Alexius Meinong, Uber Gegenstandstheorie, Leip
zig 1904 [Teoria dell’oggetto], e, dello stesso, Uber Annahmen, Leipzig
1902 [Assunzioni]; v. soprattutto, la fondamentale monografia di John Nie-
meyer Findlay, Meinong’s Theory oj Objects and Values, Oxford 1933. Per
la concezione fenomenologica nel suo complesso v. Herbert Spiegelberg,
The Phenomenological Movemcnt, 2 voli., den Flaag i960.
Sesta lezione

Credenza e immaginario
Il sogno, la rappresentazione e il doppio legame

i. Credere è parola ambigua,'perché può voler dire tanto credenza,


quanto fede. Noi vorremmo limitarci a quel senso del credere che si può
esprimere come credenza, per esempio quella che uno può avere nell’esi
stenza di esseri intelligenti extraterrestri. La credenza è ciò_che a certe con
dizioni, non sempre verosimili, potrebbe diventare una verità di fatto; men
tre ripugna pensare che questo valga per la fede. Infatti l’Apostolo dice che
il giusto ex fide vivit (Rom., i, 17), e che considera l’uomo salvo per fidem
sine operibits (ivi, 3, 28). Non si potrebbero rimpiazzare queste occorrenze
con la semplice credenza. Nei paesi protestanti questa distinzione è ovvia
mente più acquisita, basterà dire che in quei passi fides viene resa con fàith,
mentre nel nostro senso credenza è normalmente belief. Naturalmente c’è
un problema anche a proposito del belief (o del beheving), ma questo non
ha nulla che fare con l’incertezza di fatto del riferimento, bensì col modo di
appresentificarlo, di raffigurarlo o in generale di rappresentarlo. L’esisten
za di intelligenze extraterrestri è una cosa, ma quella della struttura dell’a
tomo è un’altra, e quella di un oggetto di desiderio (o di repulsione) un’al
tra ancora. Nel parlare di credenza non basta dare un nome all’oggetto in
cui si crede, ma bisogna anche dire che tipo di supposizione è quella che ci
fa parlare di un oggetto.
L’analisi di questo tema ci condurrebbe a esaminare a quanti e quali
oggetti di riferimento linguistico noi assegnarne il titolo di credibili. È evi
dente che il concetto di cosa credibile, nel senso che si è detto, è molto più
ampjp che di quello di cosa esistente, o reale; se vogliamo tradurre il signi
ficato di credibile in quello di affidabile, nel senso della comunicazione, noi
possiamo facilmente osservare come l’uso di riferimenti comuni affidabili,
nei quali però noi non crediamo, sia preferibile in vista del mantenimento
dei contatti umani. Questa via di indagine sarebbe indispensabile in un
approccio sistematico. Meno dispendioso è l’approccio che, partendo dalla
SESTA LEZIONE
J54

periferia del problema, e senza pretesa di esaurirlo, riesce con pochi passaggi
a dar l’idea della sua portata e importanza. Il punto di partenza resta come
sempre la realtà esistente. Il punto di arrivo è come si configurano le cre
denze che noi ci formiamo in merito.

2. Nel romanzo realista del XIX secolo in sostituzione della realtà abbia
mo un’illusione di realtà che è fondamentalmente sorretta da due dispositi
vi linguistici: la descrizione e l’indicazione. Questi servono a mantenere
costante finché richiesta, l’attenzione della direzione della mente sull’og-
geno, ciò che avviene sia descrivendolo, sia indicizzandolo. Quindi la con
vinzione di cogliere la realtà, in un lettore del romanzo realista, tiene o non
tiene in ragione dell’efficacia di tale semantica suppositiva. Per comprende
re come merita il profondo coinvolgimento delle convinzioni a cui ci affi
diamo nel seguire certe convenzioni, bisogna tener presente che, oggi come
allora e come sempre, l’atteggiamento condiviso dal senso comune si espri
me all’incirca così: «Non facciamo tante disquisizioni oziose, metafisiche,
sull’oggetto; quando io dico “questo è un tavolo”, tu capisci che cosa dico,
e perché lo dico; il resto poi seguirà un po’ alla volta». Il pathos antimetafi
sico del senso comune esprime la tacita persuasione che le cose, prese sepa
ratamente, siano semplici e che il compito di prevenirne, con l’ammucchia
ta, la complicazione e la confusione spetti allo sguardo da vicino o,
preferibilmente, al contatto diretto con le cose. Per non cadere in errore
dovremmo sempre ricordarci che noi usiamo le parole in luogo delle cose;
e sarebbe meglio, ove fosse possibile, usare invece delle parole le cose diret
tamente. Così, accumulando oggetti anziché parole, noi renderemmo meglio
il senso di tanti discorsi; e uno che andasse in giro con un sacco contenente
tanti begli oggetti, magari taluni in miniatura, non avrebbe bisogno d’altro
per parlare, nemmeno di interpreti per le lingue straniere. Questo era il per-
siflage di Swift nei Viaggi di Gulliver. E Swift ha qui di mira Hobbes, cioè
la tesi che la comunicazione linguistica si regga sul rimando agli oggetti. È
chiaro che gli oggetti si possono denominare e, riunendoli con un certo ordi
ne, alla fine si deve capire il discorso che si fa con essi. Naturalmente, Hob
bes non dice questo; ma in letteratura si consente a certi scherzi.
Su questa base, la prima domanda che sorge è se l’ordine degli oggetti
riproduca il senso del discorso; se cioè questo si lasci esprimere per solo
mezzo dell’ordine con cui si collocano, o si producono, o si snocciolano dei
grani di rosario. Che questa non sia ancora la domanda da diecimila dolla
ri, lo dimostra la controdomanda, se cioè esista, c nel caso quale sia, un
CREDENZA E IMMAGINARIO 155

oggetto di riferimento che corrisponda alle parole «non», «oppure», o «per-


ché» (e l’elenco potrebbe continuare). Sono inconvenienti cui sembra diffi
cile rimediare pur con l’uso di mimiche particolarmente abili; anche senza
considerare il fatto che la mimica, intesa come linguaggio gestuale, non rien
tra in ciò che abbiam detto riferimento. È noto il fatto riferito da Wittgen
stein, a proposito di una sua discussione con Sraffa. Wittgenstein allora
sosteneva la teoria corrispondentistica (parole-cose) del linguaggio, e Sraf
fa gli fece un caratteristico gesto napoletano, con le dita a pera, chiedendo
gli a che cosa quello corrispondesse. Complementare a questo, cioè al sen
so delle parole non realistiche per la teoria della corrispondenza, è il
problema di come usiamo le parole quando intendiamo esprimere la realtà.
E da questa impostazione semantica della questione sorge il problema già
menzionato delle categorie semantiche', cioè di come usiamo principalmen
te (ossia, per principio) il nome o sostantivo, il pronome, l’aggettivo, l’av
verbio e il verbo.
Da notare che, con l’impostazione semantica del problema, abbiamo già
abbandonato l’ingenua concezione corrispondentistica. Il significato va dal-
le parole alle cose, non viceversa. Questo è il postulato della semantica in
generale, anche prescindendo dallo speciale problema posto dalle categorie
semantiche delle varie specie di parole (o parti del discorso) in questione.
La realtà, nell’accezione corrispondentistica, non c’è più; essa esiste solo
come convenzione evocata dal modo di usare i nomi, i verbi ecc. (ivi inclu
si anche i gesti), che in chi ascolta senza farsi troppe domande danno l’im
pressione che si stia parlando di qualcosa. Ma per non rompere l’incantesi
mo bisogna esser molto bravi, tanto nel parlare quanto, e ancor più,
nell’ascoltare, altrimenti ci si ritrova dinanzi a flatus vocis o a caratteri di
stampa: ciò che talvolta succede. E a tal proposito i romanzieri, questa genia
di nomadi nei confronti degli usi semantici stanziali, si son posti con sem
pre maggiore radicalità delle domande molto pertinenti su che cosa signifi
chi raccontare, la forma di discorso più ammaliante, e di chi, e che cosa, e
come c circa quali azioni, e in quali circostanze: e ne è risultato che i modi
di dire che più di frequente si usano per la bisogna sono, per l’appunto, la
descrizione e la deissi (ÒEÌ^iq, indicazione).
La descrizione si usa per parlare dell’abbigliamento delle signore (di una
volta) e cose simili, oppure per parlare impunemente dell’attuale re di Fran-
cia, che è supposto calvo, non si sa perché, anche se poi della cosa non si fa
nulla per il fatto che non esiste un re di Francia (senza offesa). Fin dall’e
lenco delle navi nel secondo canto Iliade y a cui Omero si è dovuto ras-
I56 SESTA LEZIONE

segnare per ragioni di epopea, con le descrizioni si rischia di riempire di noia


il lettore, quando non di sottoporlo a una vera e propria tortura. Essa è
comunque necessaria per fornire al lettore, a tratti e come di straforo, quel
le informazioni a cui da solo non potrebbe arrivare. Ma si tratta pur sem
pre di una notazione che, per sua natura o per il modo con cui è rifilata,
risulta innaturale e per così dire appiccicata. Invece l’indicazione dell’og
getto che si effettua mediante parole deittiche (in genere avverbi, ma anche
pronomi e altre parti del discorso usate invale funzione, appunto, deittica)
avviene più sveltamente, senza parere e quasi tacitamente, sol che si possa.
Èd è evidente che la deissi non è limitata dalla presenza del denotato, per
ché essa passa inavvertitamente allo stato di deissi fantasmatica, o diretta al
fantasma. Il riferimento a oggetti inesistenti avviene indifferentemente o per
mezzo di deissi fantasmatiche o di descrizioni false; ma si avverte che in
quest’ultimo caso l’uso linguistico suona più innaturale. Il romanziere deve
dunque descriverci brevemente l’ambiente in cui intende muoversi e quin
di indicare e farci collocare gli oggetti, cioè situazioni, persone e oggetti. A
questo proposito si è data una gara, in tempi recenti, a chi era più realista.
Se in Balzac e ancora in Flaubert troviamo descrizioni alquanto prolisse, per
non dir bieche, più ci avviciniamo ai moderni e più si dà deissi senza descri
zione. Il termine di arrivo per questo verso è Kafka. Kafka non descrive nul
la, finge semplicemente che noi capiamo quel che intende dire e, nel far que
sto, inflaziona al massimo il realismo deittico. Questo secondo me significa
che da un pezzo è venuto il momento di cambiar registro, ma qui la parola
spetta ai romanzieri.
Da II cappotto di Gogol’ fino ai nostri giorni questo criterio di relativo
avanguardismo si è consolidato con sempre maggiore incisività. Esso con
siste in un complesso di gesti, non di descrizioni, e di gesti fantasmatici
diretti al fantasma. Nonostante questa spettralità, l’effetto può esser sor
prendentemente realistico. A causa di questo gioco illusionistico, il lettore
è indotto a credere di sapere di che si tratta, cosa di cui porta invece per inte
ro la responsabilità. Certo, egli immagina di sapere che cos’è e come è fat
to attraverso, il racconto di Doyle, il numero 22 di Baker Street a Londra,
anche se nessuno gliel’ha descritto nemmeno per scherzo. Un altro celebre
luogo indicizzato è la società russa del secolo scorso, con gli anarchici e il
computo delle anime e le apparizioni delle anime morte. Che tali cose esi
stessero non è in discussione, bensì il fatto che di noi lettori occidentali nes
suno ha mai visto tale società, eppure tutti crediamo di dover conoscere
quelle cose, in cui compaiono come persone note Varvara Petrovna e Ste-
CREDENZA E IMMAGINARIO 157

pan Trofimovic e i mille altri rammemorabili. Se è vero ciò che abbiamo


osservato, lo spessore realista dei romanzi che trattano di tali vicende non
rimanda affatto alla conoscenza storica delle condizioni della Russia. La
memoria che ci resta dei tanti personaggi ricorrenti è quella di fatti che coi
tempo si affievoliscono, non di denominazioni registrate. Così in Gogol è
la deissi che provoca l’incauto lettore a suscitare inavvertitamente in sé? - ,
attraverso il sentimento vicariale, una realtà oltre il descritto. Questo 1 ef
fetto illusionistico di un autore che sia realista.

3. Come si è visto, i rapporti tra coscienza e realtà sono talmente com


plessi che, nemmeno nel caso di un rapporto ridotto a quello tra la lingua e
le cose, possiamo pensare di formularlo in termini di semplice corrispon
denza. Con l’approccio semantico al problema, lasciando cioè perdere lo
stesso pensiero di una corrispondenza qualsiasi, siamo pervenuti al punto
in cui, attraverso la descrizione e la deissi, a cui si devono aggiungere l’a
nafora e la metafora, il mondo dei significati diventa talmente fitto, da
minacciare di soverchiare quello reale. Avendo tuttavia scelto la via del
significato, che va dalla parola alla cosa, non viceversa, è evidente che non
si può eliminare l’immaginario per decreto, dichiarandolo cioè tale,_per tro
vare l’accesso alla realtà. Prima bisogna accostumarsi all’idea che uno stes
so immaginario sta alle radici della diramazione che per un verso immette
in ciò che chiamiamo reale, e per l’altro ramo, complementarmente, in quel
che abbiamo tagliato fuori come non reale, fantastico e immaginativo. Dun
que V immaginario (o mondo semantico), nel senso che si è detto, si suddi
vide in reale e non reale, fantastico c in una parola immaginativo. Sia chia LC
ro che non abbiamo detto che questa divisione si possa portare fino in
fondo, e per questo è bene che tra immaginario e immaginativo resti facile
l’equivocazione. Siamo con ciò pervenuti a un argomento su cui i più (nel
senso di ol JtoXXoL) fanno professione d’esser realisti, come se questo bastas
se a esorcizzare la fondamentalità dell’immaginario e le potenzialità demo
niche da esso racchiuse. Dovremo pertanto parlare, senza conforto di pro
fessioni, di un immaginario che si pone a mezza via tra gli estremi della
coscienza e della realtà, come «materia di cui son fatti i sogni», non solo, ma
anche la teoria atomica o qualsiasi altra cosa sia pensabile del mondo e che
possa non essere azzerata sul reale. E si noti che tutto è nato, si badi bene,
nel momento in cui si è dovuto riconoscere che alla percezione esterna spet-
ta solamente la competenza dell’immagine simbolica del frammento di
mondo al quale rimanda, e che il mondo ha un significato che non può esser
I5S SESTA LEZIONE

ricostruito per giustapposizione di tutte le istantanee simboliche in un uni


co, grande collage. Partendo da un’impostazione semantica del problema,
non è lecito privilegiare tino a tal punto l’uso di una particolare categoria
semantica, che è quella dei nome.
Sia consentito riassumere in breve il punto a cui siamo arrivati. Abbia
mo assunto la fenomenologia non come una filosofia particolare, ma come
quell’approccio che garantisce un discorso sulla coscienza e sulla soggetti
vità, distanziandoci solo da quelle filosofie che amano parlare di una crisi
. del soggetto e preconizzano un superamento dell’intero problema. La feno
menologia ferma l’attenzione sulla coscienza intenzionale, cioè su quella
coscienza che ha qualcosa come oggetto. La nostra interpretazione insiste
sul carattere triadico, e non diadico, di tale relazione. Ciò significa che io
(come coscienza) ho in mente qualcosa (come etwas iiberhaupt) che, in
mancanza di meglio, identifico con questa o quella specie di oggetti. Nel far
questo devo rendermi conto che tale identità non è ontologica, bensì gno
seologica o, meglio, fa pane del mio modo di essere intenzionale, di pren-
der coscienza. L’identità ontologica consiste nel constatare oggettivamente
che a = b-, mentre Videntificazione di cui parlo sta solo nel fatto che io pon
go a (il qualcosa) uguale a b (la specie di oggetto). In un certo senso questa
operazione è arbitraria, perché ciò che vale per me in un dato momento può
non valere per altri, e nemmeno per me in un altro momento. Ma tale è la
coscienza intenzionale. Abbiamo anche visto che di qui si dirama la princi
pale distinzione tra percezione esterna e percezione interna, secondo la
natura dell’oggetto (£) al quale eguagliamo il contenuto (^). Nella perce
zione esterna l’oggetto si determina mediante un l imando simbolico-, in
quella interna, invece, l’oggetto immanente si identifica col significato sm-
semantico (meno bene, sintattico). In definitiva Vctwas, comunque lo si
identifichi, è per sua natura immaginano. Questo, in breve, lo svolgimento
del filo seguito.

4. Non vorrei andare oltre l’argomentazione fin qui svolta. Più impor
tante, mi sembra, è approfondir meglio il senso di certi passaggi, inqua
drandoli con altre riflessioni forse meglio accessibili sia dal lato discorsivo,
sia da quello intuitivo. La prima cosa da considerare è proprio il significa
to dell’espressione complessa «aver qualcosa come oggetto», di cui abbia
mo già dato una spiegazione analitica. Indipendentemente da questa, che
potrebbe accusare una nostra forzatura interpretativa, l’aver-qualcosa-
come-oggetto è una dizione complessa che mette insieme due diversi Uvei-
CREDENZA E IMMAGINARIO 159

li di consapevolezza espressiva e d’impegno linguistico. Il qualcosa in gene


rale appartiene al grado infimo dell’individuazione, quindi anche d’identità,
o d’identificazione; tuttavia esso è depositario dell’esistenza di un contenu
to di coscienza, come l’essere indeterminato o il sentimento fondamentale
di Rosniini. Porre tutto ciò come oggetto rende esplicito il problema espres-
sivo a un livello linguistico profondo, di cui non siamo sempre perfetta
mente coscienti. Al riguardo ci si può chiedere se tale qualcosa, che è pre
sente come oggetto, lo sia nel senso d’esser suscettibile d’individuazione,_il
che implica l’avvenuta identificazione: nel qual caso la scelta è fatta, e si trat
ta solo di seguire con coerenza il riconoscimento linguistico di una certa
equazione. Vedo per esempio un raggio di luce come caso particolare di
onde hertziane. Ma, se il procedimento di riconoscimento non conclude, ci
si può chiedere se il qualcosa, che si vuole identificare, non impegni per caso
chi ne è soggetto su un piano di complessa esperienza, anche espressiva, che
lo sconsigli dal mettere la x entro un’equazione che usi termini (o numera
li, fa lo stesso) di una categoria prefissata. Il richiamo a\V esperienza che
compare a questo proposito è sintomo dell’avvertenza a sospendere la deci
sione di identificare come al solito il genere di oggetto di cui si tratta, per
riservarsi all’occorrenza una scelta diversa.
Come si vede, la coscienza si intende come intenzionale allorché essa
rimanda al costituirsi del qualcosa, il contenuto di cui è correlato, nei ter
mini che lo possano esprimere come oggetto. Purtroppo questo inviluppo
fraseologico non è ulteriormente semplificabile: essendo la relazione triadi
ca, ci sono difficoltà a esprimerla in qualsiasi linguaggio che abbia, come la
lingua, la forma di una sequenza lineare. Quindi, se il qualcosa corrispon
de al contenuto pre-prcdicativo, la sua espressione in quanto oggetto com
porta la preliminare soluzione del problema categoriale, cioè di quali cate
gorie o forme predicative siano indispensabili per oggettivare il contenuto
nel modo che di solilo adoperiamo. In caso di perplessità, ciò è un indizio
che il problema non si ritiene solubile in questo modo, diciamo per sem
plice obiettivazione (non necessariamente «esterna»), e allora si ricorre nor
malmente a un appello all’esperienza, che di solito significa che il problema
andrebbe impostato in altro modo, che o non sappiamo o che ci riuscireb
be troppo difficoltoso dire, e cerchiamo di cavarcela col rimando a «ogget
tivazioni» tra virgolette, allusive o lampeggianti a intermittenza. In realtà il
problema che emerge, al di là delle categorie, e quello delle categorie seman
tiche. È opportuno non confondere i due problemi, quello delle categorie
semplici e quello delle categorie semantiche: espressione, quest’ultima, che
160 SESTA LEZIONE

traduce il tedesco Bedentungskategonen e il latino medievale (dei logici


modisti) modi signifìcandi. È la questione a cui Kant ha cercato di rispon
dere con la teoria degli schemi trascendentali, i quali appunto sono chiama
ti a mediare tra l’intuizione e le categorie; _essi sono il prodotto dell’imma
ginazione, e preparano quelle che nell’odierna linguistica si direbbero
strutture profonde, cioè antepredicative, in quanto idee soggettive della suc
cessione, del numero, della sostanza come persistenza, della causalità come
mantenimento dell’effetto, dell’interazione come effetto reciproco, c delle
modificazioni modali dell’esistenza.
Queste complicazioni inerenti all’inserimento del qualcosa nelle opera
zioni di identificazione categorica si profilano meglio tematizzando il pro
blema del «come». La coscienza intenzionale non è anzitutto trascendenta-
le, nel senso che non è una forma vuota da riempire in qualsiasi maniera
purché rispetti le condizioni puramente funzionali della sintesi della sensi
bilità e dell’intelletto. Dal punto di vista fenomenologico siamo, si può dire,
agli antipodi di siffatta impostazione del problema, giacché la coscienza in
quanto intenzionale è sempre correlativa a un oggetto; o, meglio, è coscien
za di aver qualcosa come oggetto. A una lettura distratta questo «come»
può sembrare un’identità (il segno = dell’equazione), ma bisogna guardar-
si da questo appiattimento ontologico. Come si è detto, con esso si esprime
una identificazione da parte della coscienza, che pone il qualcosa «come se»
(quasi, quam si) fosse un oggetto: l’operazione di identificazione, cioè, ne
presuppone un’altra di segno opposto, che stacca i due termini della colli
mazione. Nell’estrema inopia del linguaggio filosofico di base, il «come»
non esprime tanto l’eguagliamento quanto l’imbarazzo in cui ci si trova nel
dover presentare come identico ciò che in realtà non lo è, ma che non si
saprebbe in che modo altrimenti esprimere.
La trascendentalità del come, cioè il problema del come del «come»,
pone un quesito che oltrepassa il semplice schema della coscienza intenzio
nale, poiché esso trascende sia il soggetto sia l’oggetto, per porsi come cor
relatore in sé. Forse questa è la ragione che ha condotto Husserl a parlare
non di oggetto, ma di noema, che si definisce come «l’oggetto nel come del
la sua datità», e a correlarlo con una corrispondente noesi. Anche se ciò
sembra spostare il problema senza risolverlo, resta il fatto che anche la
coscienza intenzionale non può più intendersi come puro correlato sogget
tivo di un oggettivo, poiché c’è in mezzo una complessa mediazione: quel
la, per l’appunto, del «come». Un’altra considerazione che può aiutare, pur
se in un primo momento pare peregrina, è la distinzione introdotta da Hei-
c/y ■ fC
fu' *
CREDENZA E IMMAGINARIO 161

degger tra i due sensi dell’^/s (il come), quello apofantico e quello erme
neutico. L’«in quanto» apofantico è la normale esplicazione per sinonimi,
senza cioè trasgressione categoriale; mentre l’«in quanto» ermeneutico è più
complesso, presupponendo che l’identità interpretativa sppossa ottenere per
concorso di categorie diverse. In ogni modo, l’effetto di questa distinzione
concorre a dare al come il senso di un distacco, più che di un’omologazio
ne. La funzione logica del chiedersi come, apparentemente così chiara, peri-
clita da ultimo in irresistibile dialettica.
Ci si può chiedere infine se per caso non appartenga alla coscienza, pro
prio in quanto intenzionale, questo tendere a esplicare nel senso del come,
più che del perché. Che cosa vieta di avere tale intenzione? Qui non biso
gna farsi carico deH’equivocazionc che in italiano può darsi tra intenzione
e intenzionalità. L’uso tedesco di Intentionalitat è solo tecnico; ed essendo ?' L-CXS (PV
tale significato quel che è, intentionales Bewufltsein vuol solo dire coscien a.c/VC
za di qualcosa come oggetto. Solo che Bewufltsein è parola d’uso comune,
oltre che tecnico. Normalmente significa coscienza, esser consapevoli, e
simili; ma può anche assumere il senso speciale di voluto, fatto apposta,
intenzionale fbewuflt). Allo stesso modo Selbst-bewufltsein è l’autoco-
scienza in Hegel; ma selbst-bewuflt può anche voler dire, di un contegno,
che si dà dell’importanza. Anche in inglese, se io per esempio dico, di una
donna, che è self-conscious, voglio insinuare che si crede bella, o interessan
te. Le trappole delle lingue sono molteplici; quindi non si può nemmeno
escludere che, per il concorso di tali accidenti, il significato di coscienza
intenzionale resti lo stesso in tutte le versioni.

5. Nella prima teoria dell'autocoscienza, interessante anche se incom


pleta, che risale a Platone, questa viene espressa con un termine che non ha
avuto molta fortuna storica, pur godendo del pregio di ridarne almeno una
delle sue connotazioni di fondo. Il termine greco è ovveiòìpig: esso espri
me (è il caso di dire, sinsemanticamente) tutto l’insieme degli etòq, degli
oggetti correlati alle idee soggettive con cui pensiamo di sorreggere il pro
cedimento cognitivo, e ne sottolinea la dipendenza da qualcosa di destina
to ad assicurarci, oltre alla semplicità e la coerenza, la sua completezza. Il
composto ovv-eiòipoig è interessante perché combina il significato sintatti
co del ouv- con la semantica oggettiva dell’etòog c la determinatezza dell’a
zione da parte del soggetto, l’(riòì])uic;: in latino sarebbe obiettiva con-idea-
tip, ossia con-scientia', essendo la scientia, in questo senso, il modo di
disporre di un’idea che richiede l’inclusione del limite, come termine o con-
IÓ2 SESTA LEZIONE

cetto nell’accezione socratica. È una semplice notazione da manuale, che


Socrate facesse il passo decisivo dalla dialettica al concetto; questa formula
zione agile ma frettolosa si avvale tuttavia di una grande autorità, quella di
Aristotele, che così si è espresso nel caratterizzarne la prestazione. Socrate
ci ha esonerato dall’incarico di portare ovunque l’intero apparato della dia
lettica, per affidare le risorse della nostra comprensione intellettuale alla sola
univocità del concetto. Noi vogliamo vedere se, per suo mezzo, siamo in
grado di fissare «l’oggetto nel come della sua datità».
Che cos’è il voryróv, il concetto? Nel senso della definizione data sopra,
il v o ìjt ó v è il correlato di vóiioiq e vóqiict, entrambi presi in senso intellet
tuale puro. Nella versioneplatonica sarebbe la correlazione dell’lòéa come
atto soggettivo, come idea che ho in mente io, e la tensione di approssima
zione dell’eióoc, il termine ideale oggettivo; questo, se fosse assimilabile,
conferirebbe verità all’intera operazione. Dunque la coscienza, come
ouvEiòiiot;, èil processo di approssimazione inerente a tutti 1 nostri concet
ti, concepiti come modelli, all’idea della verità oggettiva. Non si può esami
nare spassionatamente se una tale verità sia o no raggiungibile: prima biso
gna compiere il passaggio al limite, quindi affidarci a tale veicolo per varcare
il mare della vita e infine forse possederla, cosa che fu concessa a Socrate solo
in punto di morte. Mentre noi facciamo la traversata, E3TinÀEVOp.EV TÒv £iov,
siamo nella successione e non nel passaggio al limite: questo non può esser
deciso volontariamente. Perciò non compio il passaggio al limite, perché non
sono platonico; se anche lo fossi, neppure lo compirei in suo nome, perché
non so se Platone abbia veramente voluto dire questo. Nell’universo tanta-
lizzante, tantalizing, di Platone il mare profondo della vita ricopre, con le
idee, anche la loro forzatura al limite; il fatto che esistano tali nascosti teso
ri, alla lettera e non solo per metafora, è cosa che egli dice e non dice, cui
solamente allude, forse per attrarci nell’abisso. Restando al di qua del limi
te, la coscienza deve limitarsi al dominio dell’lòéa soggettiva, non dell’Eiòog
in sé e per sé, o al massimo dell’idea in senso kantiano o trascendentale.
Questa è l’idea che, pur non essendo oggettiva, possiede una sua oggettività
nel modo dell’aggettivo sostantivato: la regola della sua reiterazione e un
principio di rilevanza che si ripropone con ogni successiva applicazione in
un’astrazione sempre meglio precisabile.
Non desterà stupore rilevare come alcuni di questi procedimenti oggetti-
vanti, ma non oggettivi di per sé, trovino impiego in matematica. Il loro cen
tro di irradiazione, se non proprio in Platone, si riconosce tuttavia risalendo
all’Accademia, che ebbe il compito storico di dare allo sviluppo di certe scien-
CREDENZA E IMMAGINARIO iÓ3

ze, specie quelle matematiche, una durevole impronta platonizzante. I pro


cedimenti cui in particolare si allude sono quelli che vanno sotto il nome di
definizioni recursive ma impredicative. Esse furono nel fuoco di una specia
le acribia critica nel periodo tra Poincaré e Russell, ma non si trovò modo di
sostituirle con criteri migliori. Si prenda per esempio la cosiddetta induzio
ne matematica. Se si è capita la regola per cui, dato un numero abbastanza
grande, diciamo rz, si può creare sempre il successivo n+1, lasciando inaltera
to il concetto generale di numero, la comprensione di questa regola recursi-
va o di reiterazione illimitata non può che approfondire la rilevanza, altri
menti indefinibile, o impredicativa, del concetto di numero. Questo schema
era noto a Platone col nome di àÓQioiog òuàq, la generazione attraverso la
«diade illimitata». Se io parto dall’unità generica e la divido in due, per retroa
zione sull’unità del concetto ottengo il due, come uno più uno. Così la reite
razione della diade mi dà il tre, come due più uno; e via di seguito per tutti i
numeri. Non sarebbe sbagliato dire, dal punto di vista platonico, che la com
prensione della diade illimitata mi consente di pensare che nel concetto ori
ginario dell’unità in genere è contenuto implicitamente l’infinito.
Queste considerazioni possono apparire un po’ fantasiose, per lo meno
quanto a tenore espressivo, ma anche le definizioni per astrazione, o l’as
sioma moltiplicativo si presterebbero a simili licenze. Dire che due numeri
sono uguali quando sono gleichzahlig, cioè hanno la stessa cardinalità, è
un’anticipazione impredicativa come ogni altra astrazione che, per esser
compresa, richieda la preliminare acquisizione del senso della rilevanza.
Allo stesso modo si può dire trascendentale la comprensione del carattere
non cumulativo del concetto di numero nell’aritmetica. Ammesso che io
abbia capito le proprietà del numero, cioè che queste proprietà si applicano
al numero minimo, lo 0 come origine della serie, e a un numero qualsiasi di
essa, diciamo n, devo anche comprendere, per dire di aver capito, che tali
proprietà devono necessariamente applicarsi anche a »+l, il numero imme
diatamente successivo a quello n menzionato. Si tratta di un notevole rom
picapo, pur se questo è abbastanza semplice, che ha interessato pensatori
tanto divaricali nel tempo quanto Zenone e Aristotele da una parte, e Pea
no c Russell dall’altro. La ragione dell’idiosincrasia del pensiero intuitivo
sta nel fatto che in matematica si usano due diversi riferimenti all’universa
le: uno espresso da tutti (e ciascuno) c l’altro, meno evidente, da uno qual
siasi (a scelta), che non è equivalente al primo.
Seguendo le concezioni della Scuola di Marburg (i neokantiani Cohen,
Natorp e, in parte, Cassirer) si può pensare che le idee in senso kantiano,
164 SESTA LEZIONE

pur essendo contrassegnate come soggettive dal carattere astrattivo del loro
oggetto, riducibile al concetto della rilevanza pura, e da quello della conse
guente impredicatività o, meno bene, tautologicità, conservino tuttavia una
loro oggettività: ciò posto, l’aggettivo sostantivato deterrebbe quanto meno
la rappresentanza, il diritto di stare simbolicamente per l’Elóog oggettivo.
Stando a questa impostazione del problema, alla domanda per esempio «che
cos’è il numero?», intesa come «qual è l’oggetto corrispondente al concet
to soggettivo e ideale di numero?», si può tentare di rispondere richiaman
do l’operazione del contare, che termina nel concetto di numero ordinale;
quindi, partendo da questo, si può introdurre astrattivamente il concetto di
numero cardinale, facendone impredicativamente l’oggetto comparativo di
diverse operazioni del contare, che non avrebbero equinumerosità, o Glei-
chzahligkeit, in assenza di tale termine oggettivo. Può sembrare che tutto
vada egualmente bene, l’oggetto o, se non si può, il concetto dell’oggetto in
sua rappresentanza. Che differenza fa? Il fatto è che il concetto e l’ogge_tto
possono coincidere solo se quest’ultimo è singolare, unico. Diversamente
ho sì i concetti univoci del tre, del cinque, dell’enne e enne-più-uno, ma non
il fondamento su 3, 5, n, 7?+l oggetti. L’unità degli indiscernibili (nel con
cetto) annulla la pluralità solo numero (negli oggetti). Se fa parte dell’idea
soggettiva il riferimento a una pluralità di oggetti, pur non pretendendo che
questi siano esistenti, come si può ridurre tutto ciò a un significato pura
mente intensionale? Qualità e quantità, o intensione e estensione, sono
egualmente inerenze ontiche, determinazioni intrinseche, ÈWTtóo/.ovTa del
significato. Anche senza fare intervenire dimostrazioni decisive come l’an
tinomia di Russell o altri paradossi del genere, è evidente che la via ideali
stica di far stare, in luogo dell’oggetto, la sua rappresentanza, non è un vali
do espediente. E si badi che qui parliamo di oggetti, non di corpi esistenti;
evidentemente la rappresentanza dell’oggetto manca di uno dei caratteri che
si danno in sua presenza. Uno di questi caratteri è il tempo. Che cos’è il
tempo o, meglio, la coscienza del tempo?

6. Abbiamo già parlato del tempo come omologo dello spazio, cioè in
quanto categoria o, più modernamente, parametro. Conviene qui rammen
tare lo scopo che fin dall’origine ci si è prefisso introducendo tali categorie,
dal punto di vista dell’intelletto. Spazio e tempo sono indispensabili misure
strategiche, che consentono al linguaggio di evitare molte delle contraddizioni
che altrimenti si darebbero. Lo spazio introduce la nozione di distanza, che
permette di parlare senza incongruenze di qualità diverse, in quanto appar-
CREDENZA E IMMAGINARIO i 65

tenenti a oggetti distanti tra loro, l’uno fuori dell’altro. Il tempo introduce le
nozioni di dopo e, correlativamente, di prima, che permettono di parlare
coerentemente di qualità diverse anche dello stesso soggetto, purché si ten
ga conto del momento dell’attribuzione. Se oggetto dello spazio è la distan
za tra le sostanze, oggetto del tempo è invece il mutamento, il cangiamento
e il movimento, anche della stessa sostanza. La funzione anticontradittoria
dello spazio è sempre considerata ovvia, tanto da non esser neppure spiega
ta. Più riposta è invece quella del tempo, meno evidente, e bisognerà aspet
tare Platone e Aristotele per sentir dire che il tempo è la misura del movi
mento (o mutamento) secondo il criterio del prima e del dopo. Queste sono
le funzioni dello spazio e del tempo dal punto di vista intellettuale. Certo,
non è tutto qui. Ma per parlare di una realtà in proposito, bisogna parlare del
loro carattere empirico residuale, di cui non è facile trovare il referente.
Noi parliamo di cose che sono già nello spazio e nel tempo, ma questo
modo di trattare dell’ùz-esse, l’esser-nel-mondo spazio-temporale, allarga la
nostra domanda senza peraltro rispondervi. Non sappiamo dire perché le
dimensioni dello spazio siano esattamente tre, non quattro o venticinque.
Ciò rimanda alla questione delle traslazioni che possiamo compiere su un
oggetto spaziale senza alterarlo, ma questo sembra più un problema di defi
nizioni che un riferimento empirico. Né sappiamo dire perché il tempo
abbia solo una dimensione, e vada solo in avanti, dal passato al futuro,
secondo il mio modo di dire, una freccia che ne indica il senso. Abbiamo già
discusso di certi particolari notevoli che si danno in merito, ma ora non ci
interessano tali spunti. Consideriamo qui l’in-essere come schema lingui
stico profondo, che consente non tanto di parlare del mondo senza con
traddirsi, quanto soprattutto di parlare apofanticamente della realtà, qua
lunque essa sia. Tale schema corrisponde al principio di individuazione
spazio-temporale, per cui si può dire che esistono i corpi, cioè che ci sono
dei riempimenti non-vuoti dell’enorme casellario di posti spazio-tempora
li che tale principio ci mette a disposizione. In questo modo riusciamo a
inquadrare il problema dell’esistenza come una questione di riempimento,
o meno, di una struttura già presente, almeno virtualmente. Credo che ora
si capisca perché si dica, aristotelicamente, che la sostanza vicn prima degli
accidenti, in particolare delle determinazioni spazio-temporali. In teoria
potrei sempre disporre di uno schema più profondo per cui fosse tutt’altro
che ovvio che la cosa deve stare così.
La risposta è che il retaggio aristotelico è, per lo meno è stato, più profon
do di qualsiasi altra ipotetica alternativa. (Con eredità aristotelica si deve
166 SESTA LEZIONE

intendere sia il fatto che la sua teorizzazione ha avuto fortuna, sia quello
complementare per cui egli si è limitato a formalizzare una tendenza già in
atto. Sarebbe interessante poter dire qualcosa di più, ma non ci proviamo
nemmeno. Si sa solo che giapponesi, cinesi e vietnamiti, come risulta dalle
bibliografie, anche loro studiano Aristotele: sarà lecito arguire che cosa ci
' trovano?). In breve, che la sostanza venga prima degli accidenti vuol dire che,
tanto nell’ordine paradigmatico che in quello sintagmatico, la scelta del
sostantivo condiziona quella dell’aggettivo, dell’apposizione e dell’avverbio:
tutte determinazioni che aristotelicamente valgono come accidentali, cioè
extrasostanziali. Tutto questo è abbastanza chiaro; e si sarebbe tentati di con
cludere che H sostantivo sia la parola-chiave, che centra su di sé il significa
to (autosèmantica, diceva Brentano), e trattare tutto il resto come contorno,
in una sorta di specificazione di per sé inessenziale, perché dipendente da
quella, se non fosse che c’è una significativa omissione, che spicca proprio
per la sua assenza: che ne è del momento sinsemantico, del senso della frase
per intero? Nella questione della priorità della sostanza sugli accidenti non
sorge il problema del corrispettivo del verbo, che pure nella formazione del
sintagma, la sequenza di parole che esprime l’intero senso del dictum (o
meglio il a e z t ó v , per gli Stoici), ha un’importanza non inferiore a quella del
sostantivojo Vj TOXEÌl ie v o v . Difatti tutte le teorizzazioni più antiche del sen
so grammaticale-speculativo del discorso insistono sul duale, quasi un’en
diadi, di òvoua e òfjpa, di sostantivo e verbo. Anche Platone, anche Aristo
tele fanno occasionalmente uso di tale dizione già omologata. Ma in
Aristotele c’è un’altra teoria, più esplicita. Nella dottrina delle categorie egli
pone al primo posto la sostanza, l’oùoéa, ossia ciò di cui si parla nel caso
nominativo; quindi vengono le inerenze, gli èvujtào'/pvra della sostanza, il
jtoCov e il JtOOÓv, il quale e il quanto di essa, cioè gli aggettivi o le altre
occorrenze funzionalmente simili; solo al terzo posto si menziona il verbo
come potenza o forza, óùvapig, che può essere attiva o passiva, j iq ó .t t o v o
jrao'zov. Infine seguono le circostanze, t ò . èv irvi, lo spazio o t ó t t o c ; e il tem
po o ZQÓvog; e chiude la rassegna (a parte l’abito o è'/ov e la situazione o
zeloOat, che richiedono altro discorso) la menzione della relazione, TÒ j TOÓc ;
t l , di ciò che sopraggiunge ma non altera la sostanza.
Nell’elenco delle categorie intese come determinazioni ontiche, o Seins-
bestimmungen, la collocazione del verbo al terzo posto rompe la simmetria
paritetica dell’endiadi òvop.a e Ònpx/, introducendo un criterio di priorità che
si palesa nella collocazione della relazione (esterna) all’ultimo posto. L’azio
ne consignificata dal verbo insieme col tempo e il significato nominale (ma
CREDENZA E IMMAGINARIO ^7

queste due ultime determinazioni ci appaiono oggi accidentali, dovute cioè


alla contingenza della lingua) viene ulteriormente appiattita sull’apofantico,
ma dovrei dire sullo schema cosale, dal fatto di esser ridotta da a
òùvapic,, cioè da azione (in atto) a facoltà o capacità di agire (in potenza): che
è come raffigurarsi una molla sì contratta, ma inscatolata col fermo. Nelle
categorie il verbo non viene cioè afferrato nella sua peculiarità di categoria
semantica. Alla dottrina delle categorie semplici consegue la teoria classica
della sostanza, l’ontologia come ousiologia, che conclude a un trattamento
uniforme di tutte le determinazioni ontiche, differenziate solo dalla diversa
forza con cui sono trattenute dall’oùota. Aristotele rimedierà ai difetti di
questa teoria (statica) della sostanza con la teoria (dinamica) dell’atto e del
la potenza; ma, benché a vario titolo immaginabili, non si conoscono appli
cazioni per cosi dire autopoietiche di qucst’ultima teoria alla linguistica, all’a
nalitica, alla teoria della dimostrazione e in generale all’epistemologia, come
peraltro sarebbe stato auspicabile.

7. Per risolvere un accenno sul quale abbiamo alquanto indugiato, ma


senza farlo seguire da una clausola esplicativa, ora finalmente siamo in gra
do di dire, sia pure approssimativamente, che: (z) se la categoria semantica
del nome trova il suo adempimento nel denominato, sia esso il riferimento,
l’oggetto o il suo riscontro simbolico; invece (zz) la categoria semantica del
verbo, assunta come la contraria, non ha un soddisfacimento esprimibile per
mezzo dei termini suggeriti da quel modello interpretativo, in quanto essa
è non autosemantica, ma sinsemantica, e quindi ha una prestazione unitiva,
olisticae, in termini di espressione, mimetica. Il che è quanto dire che il ver
bo significa o, meglio, consignifica in altro modo che il nome. Il che, a sua
volta, è un discreto truismo o dovrebbe esserlo; se non fosse che è fin trop
po facile dimenticarsene. Il verbo dunque esprime non una denotazione, ma
l’unione stessa con l’azione, la partecipazione o l’imitazione di essa con altri
mezzi che quelli poictici. Diremo via via meglio di che si tratta, con l’ausi
lio di esemplificazioni. E diremo anche che nome e verbo non sono le due
uniche categorie semantiche, solo i due estremi della semantica nominale e
della sinsemantica proposizionale, tra i quali a mo’ di subcontrari si posso
no inserire molte altre categorie distinguibili qualitativamente: per esempio
l’aggettivo, il participio, l’avverbio, l’articolo.
Vogliamo ora lasciar cadere per un po’ questo discorso e riprender quel
lo sull’immaginario. 11 legame, se si ricorderà, era dato dal fatto che per giu-
IÓ8 SESTA LEZIONE

dicare della realtà si devono usare le categorie; e che queste richiedono l’uso
di schemi trascendentali per mediare, anche attraverso le categorie semanti
che, tra l’intelletto e l’immaginazione. Ora con quest’ultima, la facoltà imma
ginativa, dobbiamo intraprendere un trattamento simile, anche se di senso
inverso. L’immaginativa non è la facoltà responsabile del libero gioco, in fol
le o leerlaiifend, delle rappresentazioni disimpegnate, allorché il giudizio,
s’intenda il giudizio determinante e il suo prodotto, la conoscenza e infine la
scienza, si prende una vacanza. No: l’impostazione del problema, che fu di
Kant, e prima di lui di Burke, e di Bacon tra gli altri, ha dei meriti che non è
qui il caso di commemorare. Ma il giudizio riflettente non è esattamente il
duale di quello che lo è sul serio, il determinante; perché, se è vero che
entrambi si fondano sulla rappresentazione, che è il proprio della facoltà
immaginativa, la loro origine comune è anteriore a ogni successiva specializ
zazione. Ed è difficile a questo proposito rintracciare la retroazione dal giu
dizio acquisito come vero, anzi scientifico, agli abiti rappresentativi pregiu
dicati come reali, in opposizione a quelli che appaiono come dichiaratamente
fantasiosi. Prima di tutto, perché la linea discriminante non è così netta come
sembra negli esempi tipici scelti ad hoc, poi, perché in epoca di grandi rivol
gimenti, anche scientifici, tale linea è irregolare, né appare opportuno farla
valere in base all’abitudine o al pregiudizio; e infine perché, prescindendo dal
feed-back retroattivo, le rappresentazioni, come immagini, non portano la
firma sopra, la signatura dell’appartenenza, o meno, alla realtà.
Il ricorso ad Aristotele non suggerisce alcuna alternativa transitabile.
Come psicologo egli dice che la sensazione, l’aioOriaig, è sempre vera; il
giudizio successivo, costruito in base a essa, non può infatti contraddirne
le risultanze, per essere in se stesso pure vero. Ma la sensazione non viene
mai sola; vi si accoppiano, nell’empiria o conoscenza sensibile, la memo
ria (|1VT|P1) e la rappresentazione (cpavraota). Ora la pvqpq, così come
l’t/.ioOqotc, va sempre bene; salvo il caso di disfunzioni e che le si richieda
no prestazioni esorbitanti. Mentre la (pavraoia, per confronto col giudizio,
può esser detta vera o falsa. Perciò l’èpjtEtotc/., essendo intrisa di cpaviaota,
non sempre è un fondamento attendibile. Qui Aristotele ci pianta in asso,
anche se noi vorremmo sapere altre cose. Per esempio, se la rappresenta
zione è una facoltà immaginativa adattabile alla funzione conoscitiva, ma di
per sé indipendente da essa. Nel qual caso non sarebbe che l’opera prete
rintenzionale del medio, il quadro offerto dai (pavidopaia, ciò che può
indurci in errore, posto che la realtà non ci sia altrimenti accessibile. La fan
tasia potrebbe avere quale compito precipuo quello di registrare degli stati
CREDENZA E IMMAGINARIO 169

interni, propriocettivi, senza riguardo a funzioni di verosimiglianza; e solo


in un secondo momento esser stata filogeneticamente raccordata a tener
conto delle informazioni di sensi, come la vista e l’udito, che sono indub
biamente più esterni del tatto: come pare dimostrare l’esempio di Helen
Keller. In caso contrario la fantasia dipenderebbe solo da una capacità com
binatoria delle immagini che, comunque sorte, si lascerebbero così trattare
da un’immaginativa sfrenata, scriteriata, dominata dal bisogno di rimesco
lamento. Non sembra, quest’ultima, una prospettiva promettente; anche se
tuttora professata da alcuni indirizzi o poetiche d’arte contemporanea. In
conclusione, è per questo che abbiamo distinto immaginativo e immagina
rio} riserbando il primo termine al gioco combinatorio di unità fantastiche,
cioè al di fuori di ogni impegno cognitivo, e l’altro termine, l’immaginario,
al fatto che, come nel mito platonico della caverna, non possiamo fare altro
che guardare delle immagini proiettate quali ombre sulle pareti. Non c’è una
via che porti a veder le cose come sono, alla luce del sole.
Ci sono casi in cui si verifica l’emergenza dell’immaginario come tale, e
anche se poi questa esperienza viene considerata normale, restano tuttavia
le tracce della sua origine stupefacente, meravigliosa, straordinaria. A que
sto proposito è la ipt’/il che si segnala come capace di isolare nella sua mira
bile singolarità l’esperienza del Oaupaoióv. Che cos’è, in questo senso, l’a
nima? Non è facile rispondere, ma bisogna dire che essenzialmente l’anima
è ciò che anima. Il medio dello psichico è l’immaginario, non il gioco delle
immagini ma la loro intrinseca dinamica; così come il medio della fisica sono
gli scambi di energia tra assetti differenti, o quello della linguistica il con
corso dei segni nel mutevole effetto del discorso. Non basta dire che lo psi
chico ha un nuovo grado di libertà rispetto al fisico, così come lo spirito
oggettivo (la lingua, appunto) supera a sua volta il primo. A me pare che l’e
mergenza del medio, cioè dello psichico rispetto al fisico, in primo luogo,
ma poi anche di ogni soglia di stacco qualitativo, consista nel fatto che ogni
diverso medio possegga una sua propria scansione, articolazione e deter
minazione delle unità di cui si compone. Nel passaggio da un medio all’al
tro, se quel che dico è vero, si darebbe una brusca destrutturazione, segui
ta da una ristrutturazione secondo il nuovo modulo. Nell’esperienza
specificamente psichica è il fenomeno noto come Gestalt-switch. Il fatto è
di comune dominio e non occorre soffermarvisi. L’idea che affiora balugi
nando è che la Geslall rientri in un tentativo spontaneo di definizione e di
articolazione delle unità psichiche di base, al di sotto delle quali parliamo di
fatti fisici e, al di sopra, di costruzioni altrimenti definibili. È interessante
I/O SESTA LEZIONE

vedere come si può trovarne un riscontro partendo da Aristotele, per ricon-


siderarne certe peculiarità.
In Aristotele, come noto, non esiste né il concetto né un’espressione cor
rispondente a Gestalt. Ma questo non è affatto deterrente. La parola Gestalt,
badando al suo senso, si può rendere con «momento figurale» della perce
zione, ossia della gcnTCtoia collegata con l’atoOqoig. La parola «momento»
(momentum), in filosofia, ha due significati; uno è quello di «aspetta un
momento!», e consiste nel rappresentarsi il movimento del tempo come
arrestato in un’istantanea; l’altro (che in tedesco si dice das Moment, per
distinguerlo dal primo, der Moment) si può rendere non troppo bene con
«punto di vista», alludendo al movimento del pensiero, ci si sposta secon
do l’astrazione o il criterio di rilevanza adottati. Si potrebbe quindi dire,
senza tradire Aristotele, che nella sensazione c’è un momento fantastico, ©
immaginario, non riducibile alla ópoimotc o adaequatio con la realtà. Ades
so non siamo più così sicuri che in Aristotele non ci sia un momento fanta
stico corrispondente al figurale. Si consideri per esempio il concetto di
iioocpi (forma) e in generale di ’e v (uno), inteso come ciò che dà unità, quin
di forma in senso lato determinata, al contenuto della percezione, notando
come tali concetti non rientrino nell’elenco delle categorie, né tanto meno
tra le loro specificazioni. Il concetto dell’z/wo, e così pure quello di forma,
se li si intende in maniera trascendentale, non sono categorie per il fatto che
si predicano non come sinonimi (del genere sommo), ma analogicamente
(allo stesso modo per tutti i generi). Si potrebbe quindi dire che il medio dei
(pavraopctTa, al quale si affaccia la sensazione, si articola in unità proprie,
che dipendono non dalle cose esistenti nel mondo, i corpi così individuati,
ma da princìpi di unità e di forma che scandiscono in maniera autoctona la
potenziale molteplicità dell’immaginario.

S. L’anima è ciò che anima. La meraviglia che desta ciò che è animato è
che può possedere una psiche diversa dalla mia. In origine anzi tutto quel
che si muove è animato di vita psichica propria, mia o di altri. Poi uno impa
ra che i corpi si dividono in animati e inanimati; e ci resta male. Il panpsi
chismo è bello, l’ilozoismo è solo ingenuo. Risaliamo all’esperienza origi
naria, omettendo l’uomo primitivo c le sue credenze. Il fenomeno di base,
molto banale, consiste neU’animare o no i corpi intorno a noi del mondo
ambiente. Questo non dipende da credenze preconcette: e il mondo stesso
che, se non ci si pensa, appare fatto così. Per esempio di notte mi va d'al
zarmi, muovo dei passi senza accendere la luce e batto a tutta forza lo stin-
CREDENZA E IMMAGINARIO 171

co contro il piano del tavolino; per tutta risposta gli allungo un calcio che
reduplica il male che sento senza danneggiare minimamente l’odiata cagio
ne d’inciampo, che io per un attimo ho scambiato per un nemico o comun
que qualcuno che l’ha fatto apposta. Entra qui evidentemente in gioco un
principio di analogia^ per cui io induco dall’interruzione della mia azione
l’esistenza di una forza esattamente contraria, intenzionale e animata in sen-
so perverso; e l’attribuisco per un momento alle cose che mi circondano, fin
tanto che non sopravviene il ricordo che stanno lì, perché ce le ho messe io.
Forse l’uomo primitivo era ancor più propenso a credere nell’analogia, ma
bilanciava l’irritabilità col fatto di avere pochi oggetti contro cui urtare. Ci
viene però detto che l’atto critico con cui distinguiamo gli oggetti in animati
e inanimati comincia a un’età già considerevole dell’infanzia. È inutile dire
che tale distinzione è in sé arbitraria: sono illuminanti in proposito le discus
sioni teoriche se, disponendo di un computer abbastanza sofisticato, gli
attribuiremmo o no un’animazione indipendente, per esempio HAL 9000
di zoo/.- Odissea nello spazio. Chiaro che, se dovessimo apprendere tale
distinzione come epistemologi adulti, anziché per abitudine e pregiudizio
infantili, ci troveremmo talvolta in serie difficoltà. Da queste discussioni si
ricava da ultimo la persuasione, vagamente depressiva, che forse nemmeno
noi stessi, mentre agiamo, siamo veramente animati.
Senz’altro più conveniente è partire da uno schema d’azione, diretta-
mente, e quindi ricavare dal confronto con esso le specificazioni rilevanti.
Parlerò indifferentemente del modo d’agire del gatto e del cane, della fon
tana, dell’albero e della pietra semisepolta lì accanto, dell’erba, del fiume,
dell’aria e della luce; osserverò con molta attenzione, in compenso, il mio
comportamento, consapevole che sono io che distribuisco la mia attenzio
ne in modi a volta a volta diversamente circospetti. Di qui trarremo gli
auspici. Se si tratta per esempio di una testuggine che divaga distrattamen
te per il giardino, devo fare attenzione io a non esser distratto, o altrimenti
rischio di inciampare c farmi male. Se il cane mi infastidisce perché vorreb
be che lo portassi fuori, sono io che devo pensare all’investimento di ener
gie che ho speso nell’educazione di quest’animale e fare attenzione a non
contraddire l’impegno preso da tempo. Per veder crescere l’albero, in fon
do non si richiede altro che io, di tanto in tanto, lasci il cannello dell’acqua
aperto. La pietra che affiora accanto all’albero senza dar fastidio, se la
logliessi, certo, tutto starebbe meglio; ma è lì, c lì la lascio stare: non si
smuove, chissà com’è profonda, e che fatica ci vorrebbe. La realtà del mon
do, come si vede, si può scalare secondo l’entità degli investimenti richiesti
SEST/\ LEZIONE
^72.

dalla sua differenziata campionatura. Anche se mi riferisco a un figlio, per


questo modo di valutare non è determinante l’affetto, quale riflesso emoti
vo, ma piuttosto la consapevolezza di un impegno che dura per tutta la vita,
e anche oltre. Ricordo un’osservazione, attribuita per scherzo a uno dei miei
maestri perché calzava col mood del personaggio, il compianto Oggioni,
secondo cui una moglie, l’avrebbe detto Aristotele, doveva essere come un
cappotto: cioè durare a lungo e tenere caldo. Naturalmente anche uno stato
emotivo può essere apprezzato in questo modo, per quanto in esso dipende
da un investimento di energie in un lungo periodo. Il mondo è l’insieme degli
enti esistenti, i corpi, che io posso classificare distinguendoli in animati e ina
nimati; ma non è detto che debba farlo necessariamente, perché il mondo si
può altrettanto bene definire come l’insieme degli oggetti d’uso, che si dif
ferenziano secondo l’investimento che ciascuno richiede. Protagora diceva
che di tutte le cose è misura l’uomo; ma l’espressione «di tutte le cose» reci
ta navTcnv /OìipaiCDV, che renderei con «di tutti gli oggetti d’uso» pÉTQOV
EOTtv avSpauroc, anche se suona palesemente tautologico.
Ricapitolando, un primo momento da mettere in rilievo nella coscienza
dell’immaginario è che la auvetóìiaic si compone di eiór), ideae fantasmati-
ci, irreali dal punto di vista del loro essere. L’essere dell’idea è certamente
qualcosa e non nulla; l’importante è aver ben chiaro in mente che non è ciò
per cui sta. Il fatto che stiano per qualcosa, nel senso ancora presimbolico
che vogliano dire qualcos’altro, è una caratteristica fondamentale delle idee,
ed è questo «essere del non-essere» che costituisce, appunto, l’immagina
rio. Ciò è sufficiente a scalzare la concezione ingenua di una corrisponden
za tra pensiero e realtà. Tale concezione può ripresentarsi sotto forma di
idea fantastica, che mantiene la corrispondenza ma non la verosimiglianza.
Secondo questa teoria la corrispondenza può mantenersi se non si preten
de una correlazione continua tra parole e cose, ma si riconosce che allo sco
po è sufficiente una imbastitura più rada e intermittente, come tra proposi
zione per intero e stato di cose significato: cioè tra Xóyog (o Xexióv) e il
Jtoàvp.a sottinteso Oìipatvóp.Evov. Questa interpretazione del rapporto tra
le idee e le cose si trova in Platone, nel Sofista (come rettificazione c anzi
palinodia delle fantasiose concezioni del Cratilo), quindi esse furono ripre
se e sviluppate coerentemente da Aristotele. Val la pena di dire che, anche
se raramente il problema viene posto in questa maniera, la sua soluzione vie
ne naturalmente presupposta da ogni realismo di senso comune.
La teoria della corrispondenza come imbastitura a punti radi c irregola
ri in effetti riesce a superare l’obiezione per cui le idee sono immaginarie;
CREDENZzX E IMMAGINARIO 173

per essa basta che si dia coincidenza di tanto in tanto, non importa se il fon
damento è in sé fantasmatico: anche le lettere dell’alfabeto non hanno alcu
na somiglianza coi suoni che loro corrispondono. Non intendiamo qui con
futare i presupposti della ópoiojoiq: solo vorremmo degradarla da teoria a
dottrina, poiché la tecnica della corrispondenza per punti saltuari è passibi
le di interpolazione, ma non di extrapolazione. Eppure proprio questo, che
comporta la spiegazione della relazione d’impuntura in sé, sarebbe quanto
richiesto da un’autentica teoria. La sollecitazione a una critica ulteriore è
offerta dal fatto che la corrispondenza richiede una coincidenza tra unità,
ciascuna definibile nel proprio ambito. Le unità del linguaggio sono, ponia
mo, le proposizioni; e quelle delle idee le scansioni dei momenti figurali, o
qualcosa di simile. Ma quali sono le unità di ciò che succede, t ò ivy/avov,
nel mondo? La coincidenza non può esser creata ad hoc dallo stato di cose
richiesto dal significato, sospetto che inerisce intensamente all’accadere se
inteso come irpcr/pa t ò oqpaivópevov. Ogni fantasia ammette la proiezio
ne di sé nel significato. In ogni modo la dottrina della corrispondenza non
contraddice la tesi della fantasmaticità delle idee.
Un secondo momento importante, nell’analisi dell’immaginario, è l’in
combenza del carattere d’azione che inerisce alle idee in quanto fantasma-
tiche. Ciò non esorbita dall’ambito della ovve(òì]oiq, non è detto che le idee
debbano costituire una galleria di quadri, col cartellino, ma certo vi aggiun
ge una forte connotazione pragmatica. Non è certo peregrino che le prime
idee a essere isolate, nella loro pura concavità, siano state quelle di àoETCti,
quali virtù o forze: tale è infatti il contenuto dei dialoghi di Platone detti
«socratici», la definizione cioè di idee di pura JtQà^iq. Abbiamo detto più
sopra che la loro determinazione rende tali idee concave, ossia identificabi
li separatamente; secondo l'uso aristotelico che contrappone al concavo il
camuso, nel senso che non c’è una camusità separabile dal naso a cui com
pete. Ma qui non vogliamo certo chiederci se la sia un’entità sepa
rabile dal resto delle idee, sia pure nella fantasia.

9. Anche nella percezione, se io per esempio percepisco questo tavolo


come verde, quel che dico è già compromesso da una reificazione. È il
momento dell’appercezione, dirci, che mi obbliga a distinguere la compo
nente puramente verbale dcll’appercepire dal suo correlato esterno, deno
minabile c cosale: il panno verde, il panno che è sul tavolo, il suo colore ecc.
Nell’appercepire, l’evidenza si restringe al solo verbo, come nel cogito car
tesiano. Ora io vorrei riportare all’indietro questo dualismo, riavere l’idea
SESTA LEZIONE
J74

nella dimensione originaria della pura percezione, senza appercezione, pri


ma d’ogni altra operazione. Ma non si può dimenticare che, fin dal momen
to della rappresentazione, questa è una percezione esterna; lo è anterior
mente a ogni giudizio che ne precisi il rimando simbolico. Nel dire che
verde è il tavolo, verde il panno che sta sul tavolo, verde è l’impressione
esterna di un panno che aderisce per sovrapposizione al tavolo e cosi via,
cioè nel proporre all’attenzione dell’interlocutore questa specie di sequen
za monotematica, vengo a costituire l’oggetto tavolo (per chi non l’avesse
capito, nascosto dal panno verde), che né io né l’altro vediamo, come un
'mntnìvno, come si djcejilosoficamente, cioè come una cosa pensata, ma non
veduta né in altro modo sentita. L’esperienza percettiva che abbiamo cerca
to di descrivere ha un senso che, se ci siamo intesi, può esser generalizzato
per tutte le percezioni esterne. Le cose in sé che noi crediamo di vedere, di
toccare, di sentire hanno sempre un panno, non importa di che colore, che
le sottrae alla nostra diretta apprensione; non solo, ma riflettendo su ciò
>*- diventa evidente che l’unità dell’oggetto al quale si riferiscono i vari scorci
percettivi, gli adombramenti o meglio «schiasmi», è una creazione dell’im
maginazione teleologicamente orientata irrtàl senso. Ma non intendiamo
qui addentrarci in tale problema, trattato da Husserl sotto il tema delle
Abschattungen (schiasmi) con cui i fenomeni vengono percepiti in relazio
ne all’oggetto noumenico e da Meinong sotto la rubrica dell’oggetto incom
pleto. Questo è un argomento che abbiamo già trattato parlando del modo
di datità dell’oggetto, su cui resterebbe ancor molto da dire. Qui dobbiamo
cercare di capire in che maniera nella stessa percezione esterna, a parte la
questione relativa al noumeno (cioè, secondo la fenomenologia di Husserl,
al noema), si manifesta il carattere della percezione interna, inteso come
tratto immaginario e d’azione.
Nel dire la mia percezione che il tavolo è verde, nel fissare la mia atten
zione sull’attributo, io l’ho riempita di questa sensazione di verde, io stes
so sono diventato verde nel mio atto percettivo. C’è anche il tavolo, s’in
tende; ma ora questo è rimasto sullo sfondo, da cui emerge solo come
tavolità (o ToaTtE'CÓTqg) di un tutto globale. Per parte mia, ho subito la viri-
dità di cui tematicamente mi sento affetto, vorrei dire «affidato» {Raffice-
re, se ci fosse in italiano). La percezione interna implicita in quella esterna
si mette in evidenza modificando in sostantivo l’aggettivo (da «verde» a
«viridità») e trattando il sostantivo da aggettivo sostantivato (da «tavolo» a
«tavolità»). Rilevare la categoria semantica dell’aggettivo vuol dire percor
rere la via della contrarietà (o meglio, sub-contrarietà) che dal sostantivo
CREDENZ/X E IMMAGINARIO 175

conduce, all’altro estremo, al verbo. Se volessi mettere in evidenza diretta


mente l’azione che vi è implicita, dovrei dire che nel percepire del verde, io
virideggio. Questo nel nostro esempio fa un effetto un po’ strano, anzi è
francamente comico. Ma non è così, credo, in talune liriche di D’Annun
zio, dove si parla di «verde vigor rude...».
Ci sono però percezioni che pertengono più naturalmente all’azione, per
es. «corro», «vado», «canto», ecc. Esiste anche una classe particolare di ver
bi, in verità piuttosto estesa, che esprime proprio l’impegno nell’azione
dichiarata: se io per esempio dico che non mi accosterò più a un tavolo ver
de, ciò a cui mi impegno è la dichiarazione contenuta nella promessa. La
promessa è un moto dell’animo motivato da un certo scopo che si realizza
per tutto il tempo del suo mantenimento. È vero che ci sono promesse che
non vengono mantenute, che sfumano dopo un po' po’ di tempo; ma esse sono
pur sempre promesse, animate più dal sospiro della voce che dalla determi
natezza dell’azione; conoscendo il soggetto, diciamo di non stupirci se tale
è il loro modo tutto verbale di tendere una mano. Nel linguaggio della 1
comunicazione, accanto al momento obiettivo costituito dall’enunciato,
cioè dal contenuto enunciativo del discorso, c’è sempre più o meno esplici
to anche un momento autoreferenziale che notifica, rende noto o dichiara
la situazione, l’impegno o la richiesta del soggetto che attua la comunica- •
zione. A questa funzione linguistica che è normale nella comunicazione, c
che si risolve in un senso diretto retroattivamente su chi la emette, e cioè
autoreferenziale, si può dare il nome complessivo di parte dichiarativa (nel
senso di notificante) del discorso. Essa comprende le notificazioni vere e
proprie, ma anche le domande, le preghiere, gli impegni, le promesse, le
intenzioni e, insomma, lo stato d’animo dichiarato che accompagna e spes
so sostanzia l’enunciato di una comunicazione. Questa controcorrente
autoreferenziale, se è in qualche modo impegnativa per il soggetto, si dice
che è performativa dell’azione espressa con la frase (si può ricordare il signi
ficato latino di perficore, che in quest’uso ci ritorna dall’inglese: si tratta del
senso fattitivo, che si realizza col fiato della voce non appena se ne dichiari
l’intenzione).
Più semplicemente si dice performativo quel significato del quale l’e
spressione verbale dell’atto realizza l’atto stesso. Per esempio nel caso del
matrimonio dichiarare di prendere per coniuge una certa persona significa
anche farlo. In generale nell’uso performativo l’espressione verbale dell’a
zione, con cui si dichiara l’intenzione di compiere un certo atto, vale anche
per l’atto compiuto. La performatività tratta dell’aspetto meno fisico, meno
I76 SESTA LEZIONE

corrispondentistico del significato linguistico; ma non per questo esso si


mostra, come carattere, elusivo. Se ilperficere viene collegato, a partire dal
linguaggio, con l’animazione, cioè quel momento immaginario, suppositi
vo e analogico per cui la coscienza considera animati 1 suoi termini di rife
rimento, io dovrò di conseguenza modificare lo statuto della mia credenza
relativo a certi oggetti. Come si è già detto, in proposito c’è una circostan
za che viene spesso presentata come provocatoria. È il caso in cui vengo
messo in condizioni di parlare con un computer, di fare domande e di rice
vere risposte in maniera congruente, e mi si chiede qual sia il mio atteggia
mento al riguardo. In particolare, mi si chiede se io mi senta di assegnare al
computer una presuntiva alterità, analoga a quella che assegno agli altri
interlocutori umani; oppure se mi risulta evidente, per qualche peculiarità,
che non è altro che una macchina disegnata per produrre degli effetti in tal
senso sorprendenti. Mi pare evidente che, se tale apparecchiatura l’ho pro
gettata io, anche senza averla materialmente costruita, il suo modo di ope
rare mi risulterà familiare al punto di prevedere le sue mosse successive: in
tal caso non gli attribuirò alterità di sorta. In caso contrario la mia decisio
ne riuscirà perplessa in proporzione, o addirittura incline all’affermativa; ed
è giusto che sia così. È quindi chiaro che la questione, se posta in tutta la sua
radicalità, è semplicemente insolubile. Se una macchina in pratica fa tutto
quello che farebbe un uomo, è un altro uomo: sarebbe razzistico discrimi
narla solo perché è fatta di metallo e di plastica, anziché di ossa e di carne.
L’argomento è una generalizzazione di quello che si fa valere per il colore
della pelle o la forma dei capelli; la sua struttura è identica.
L’argomento offre tuttavia il fianco a due fatali obiezioni. La prima pone
in rilievo il difetto di universalità, o comunque di uniformità nelle risposte,
del test corrispondente. In effetti, uno che sia pratico della progettazione
dei computer, scoprirà più facilmente il «trucco» di un laico non solo igna
ro, ma per di più ingenuo. E un’attribuzione di alterità non è cosa che si
possa decidere a maggioranza, sia pure assoluta (1/2+1). La questione pro
posta si annuncia quindi come inconcludente: non è detto che un candida
to vincente al primo ballottaggio lo sarebbe anche, previa esauriente discus
sione, nel secondo e definitivo. In ultima analisi il giudizio determinante
sarebbe quello del progettatore del computer in esame, com’è del resto ora:
e non mi risulta che sia stata posta la questione. I computer sono macchine,
e basta. Ma possiamo dormire tranquilli? La seconda obiezione rovescia
l’argomento, e domanda se, per converso, noi siamo disposti a depennare
dalla qualifica di uomini tutti quelli che, pur essendo fatti esteriormente
CREDENZA E IMMAGINARIO 177

come noi, mostrano un comportamento provatamente prevedibile in tutti i


particolari, date certe condizioni. Infatti uomini, il cui comportamento
risulti scientificamente prevedibile, anche ignorandone la meccanica del fun
zionamento, si potrebbero classificare tra gli automati. In tal caso si potreb
bero considerare come sub-uomini e, pur senza pensare in termini di End-
lósung, ci si potrebbe comportare nei loro confronti come nel caso degli
psicopatici, degl’infanti o dei selvaggi della Nuova Guinea o del Mato Gros
so (se ce ne sono ancora). Questo accenno mostra il difetto dell’argomen
to. Prima di tutto queste categorie possibilmente automatiche di persone
non credo che supererebbero il test, se concepito scientificamente, della
totale prevedibilità del loro comportamento. In secondo luogo, l’esame di
maturità dell’umano dovrebbe comprendere un periodo più o meno lungo
di tempo, e allora lo psicopatico può guarire, l’infante imparare a parlare e
il selvaggio addomesticarsi. Infine, tutti nella maggioranza dei casi mostria
mo un comportamento prevedibile, specialmente le persone di forte carat
tere. Qualsiasi test automaticamente favorirebbe i temperamenti tenden
zialmente isterici, se è giusto definirli come quelli di cui è prevedibile
soltanto l’imprevedibilità. In effetti è impossibile distinguere dall’esterno
l’autodeterminazione finalistica, nel senso di Aristotele, dal determinismo
meccanico o causale nel senso di Democrito. La differenza non è osserva
bile, essendo data dall’animazione, che noi attribuiamo simpateticamente
all’azione nel primo caso, e a cui ci ricusiamo completamente nel secondo,
non per cattiveria, ma perché non avrebbe senso la partecipazione effusiva
a un meccanismo.

io. Resta da spiegare perché la coscienza tenda di per sé, sua sponte, all’a
nimazione. Questo fatto sembra arbitrario, nel senso che può darsi che uno
abbia addestrato la sua mente a inibire tale moto di partecipazione unitiva.
Non discutiamo sul fatto che, da un punto di vista pedagogico, può essere
utile un atteggiamento più circospetto; qui ci interessa solo il fatto che in
praxi noi ci serviamo di questa capacità proiettiva e unitiva insieme, cioè
partecipativa, della coscienza. Diremo anzitutto che l’animazione è una pre
stazione della coscienza che attinge all’immaginario. Si tratta di un gioco di
specchi, per cui considero a me uguale c cioè «doppio», non ogni uomo
indiscriminatamente, ma solo chi si dimostri profittevole di dialogo, uno
che sappia ascoltare a intervenire a sua volta con discorsi congruenti. Non
c’è bisogno di fare il punto con un test sul computer, per far questo, né di
precisare quali criteri si intendano seguire, è una pratica di tutti, e che
SESTA LEZIONE
178

seguiamo inconsciamente nel coltivare le amicizie. In negativo è anche quel


che succede in un vagone di seconda, quando giudichiamo più convenien
te stare zitti e non dare adito a una conversazione che può lasciarci ama
reggiati per la nostra stessa correità partecipativa. Non è questione di lignag
gio d’ordine culturale o cose simili; non è che tutti debbano sapere il
Secondo teorema di Godei o, se no, scomparire. Per quel che mi riguarda
con le persone prevedibilmente noiose io quasi automaticamente mi com
porto come una pietra, faccio finta di esser qualcosa che essi scambino per
una rupe; ma nel contempo sperando, ecco la mia insospettata socialità, che
non si mettano a fare delle scalate su di me con gli scarponi chiodati. Come
si vede, un minimo di partecipazione non manca mai, anche se in certe occa
sioni è bene ridurlo al minimo.
=* Abbiamo con ciò parlato della coscienza come simpatia (anche col segno
negativo, l’antipatia), che è ciò che produce sul medio immaginario i feno
meni della partecipazione (della pÉOeSig) e dello sdoppiamento nell’altro e
simile (Valter ego). In questa attività di animazione fantastica la coscienza è
meno o u v e ìò ìio i^ e più Gewissen, o coscienza morale. Nessuno è mai riu
scito a fare entrare in gioco questa specie di coscienza senza trattare, come
fa Hume, della simpatia. Come si è detto, c’è la coscienza come quadro di
riflesso, la consapevolezza; e c’è la coscienza come sdoppiamento morale,
come coscienziosità o, cogliendo un po’ malignamente il lato caricaturale,
lo scrupolo. Non vorrei parlare di questo aspetto della scrupolosità, i cui
riflessi non del tutto positivi sono penetrati financo negli usi linguistici. Ma
vorrei rilevare come nell’esortazione «sii cosciente»» si palesi un’ammoni
zione a comportarsi in maniera del tutto opposta alla normale spontaneità,
da cui deriva tra l’altro la propensione partecipativa della coscienza simpa
tetica. Si tratta di quel paradosso della comunicazione che da Batcson, e
quindi da Watzlawick e altri della Scuola (psicologica) di Palo Alto, viene
definito come prescrizione di doppio legame, ed esemplificato con il para
digma di «sii spontaneo». Tale illocuzione, se la si assume nel suo pieno
significato, contiene la doppia contraddizione di un’antinomia. Infatti, se io
obbedisco all’ingiunzione di esser spontaneo, ne risulta un comportamen
to che è tutto fuorché spontaneo; se invece sono naturalmente spontaneo,
quel che faccio non risponde alla prescrizione. Dall’imposizione di un com
portamento, che si manifesta nella prescrizione paradossale del sintomo
nevrotico, la Scuola di Palo Alto deduce poi importanti conseguenze per la
terapia e la pragmatica della comunicazione. Tutto questo qui non ci inte
ressa; noi prendiamo la nozione di doppio legame come sintomo linguisti-
CREDENZA E IMMAGINARIO 179

co di un più profondo nesso, o semplice legame, che sussiste tra quella


coscienza che si costituisce nella consapevolezza che il suo materiale non
può essere che immaginario, e la coscienza che assume, indipendentemen
te dal momento fantasmatico, una funzione, direzione e prescrittività mora
li. Per il momento ci accontentiamo di osservare che il «doppio legame»
dipende da un più riposto, fondamentale e semplice legame.
Si è già detto della polemica tra Antistene e Platone a proposito del quid
della comunicazione, se cioè esso sia presupposto o no, e quali conseguen
ze nel caso se ne possano trarre. C’è un altro risvolto di tale discussione, in
realtà il suo argomento di fondo, ed è a proposito della coscienza come
coscienza morale. Nei confronti delle controdeduzioni di Antistene, Plato
ne sostiene l’attività rilevante della coscienza morale come principio rego-
lativo, per dirla con le parole di Kant, che l’idea stessa dell’etica impone nel
determinare le proprie azioni. Che cosa si intende con principio regolativo,
e in che senso esso risulta determinante in sede etica? Il nostro ricorso alla
terminologia kantiana si spiega, anzitutto, con la maggiore comodità argo
mentativa che offre una discussione impostata su un netto dualismo, come
quello di «regolativo» e «determinante», nei confronti di quelle che risen
tono delle complicazioni dovute all’uso di schemi di scambio reciproco,
cioè interazionali, o di pluralismo indefinitivamente vario. I risultati otte
nuti usando un riferimento duale si possono poi sempre rifondere in quel
li proporzionati a ogni altro schema. Il dualismo, abbiam detto, contiene già
l’infinito di tutte le sue inutili moltiplicazioni. Un principio regolativo s’in
tende tale quando serve a spiegare la scelta preferenziale, tra due idee, di una
di esse; ma non può mai essere inteso in maniera determinante, cioè causa
le, di un fatto fisico da parte di un’idea. Tra fatti e idee vige cioè un chiaro '
divieto di trasgressione categoriale (di pEiapaotc eie; aXko yévoq) e, se di
causalità si deve parlare, allora ciascuna deve valere nel suo ambito.
Ora Platone vuol sostenere, per lo meno così è stato interpretato, che
l’emergenza di un principio regolativo in sede morale vada di pari passo con
la svalutazione esistenziale del mondo fenomenico e quindi, per passaggio
al limite, diventi determinante in senso pieno, con l’azzeramento di una del
le due categorie. In origine ci sono cioè i due mondi, quello fisico e quello
morale. Se si mantiene il dualismo si mantiene anche il divieto di trasgres
sione categoriale: cause fisiche spiegano i fatti fisici, motivazioni morali
quelli morali; non potrà mai darsi, perché l’abbiamo espressamente vietato,
che una causa fisica spieghi un’azione morale, o che una motivazione etica
sia il movente di un’eruzione vulcanica. Il dualismo si può eliminare solo
1S0 SESTA LEZIONE

togliendolo. Se si vuol far questo, i casi son due: o si azzera il mondo fisico,
riducendolo per esempio a mera apparenza fenomenica; o al contrario si fa
10 stesso col mondo morale, dicendo che esso è un epifenomeno dell’altro.
Questo è quanto si lascia onestamente dire partendo dal dualismo che si è
detto. Invece i transazionisti fanno di necessità virtù: la trasgressione agisce
come una corrente alternata a due poli che s’invertono come minimo a $o
Hz. Nella polemica così interpretata la parte del villain spetta ad Antiste-
ne, com’era previsto. Ma a me pare che la sua posizione sia equivalente a
quella di Platone: se è vero che i due poli, fisico e morale, sono enantio-
morfi, sono per ciò stesso anche isomorfi e quindi, prescindendo dal segno,
devono dare un risultato uguale. Ora Antistene dice che l’uomo dabbene,
11 quale non fa nulla senza averlo prima considerato attentamente, non ha
nulla che lo contraddistingua in positivo dallo scellerato, il quale agisce sot
to l’impulso del momento. Qui Platone gli dà torto, ma il suo argomento
non risulta conclusivo. Eppure sarebbe bastato che si fosse rammentato (per
la dottrina della reminiscenza, non importa se l’ha detto dopo) di quanto
aveva sostenuto altrove, esser cioè migliore chi pecca volontariamente
rispetto a chi lo fa inconsapevolmente, senza volerlo. Vero è che, per evi
dente influsso cristiano, si è interpretata questa tesi come se fosse parados
sale, cioè non rispondente al parere dell’autore. Ma non è così; paradossale
non equivale a contrario del vero, e il parere di Platone è che chi agisce male
con piena cognizione di causa non è peggiore, ma caso mai migliore, di chi
agisce male senza nemmeno saper dire perché.
Dei princìpi in uso regolativo si dice anche che le idee che vi corrispon
dono hanno significato normativo. Le idee prese in senso normativo si pos
sono esprimere con le modalità etico-giuridiche dell’obbligatorio (necessa
rio), del consentito (possibile) e del né obbligatorio e né consentito
(contingente); il parallelismo con la normale grammatica del modale rende
quest’uso forse più comodo per il trattamento logico del versante normati
vo, ma non penso che faccia progredire l’analisi in qualche senso sostanzia
le. A parte questo, trovo difficile credere in una qualche forza o potenza
normativa di certe idee, tale che, una volta pronunciate le parole corrispon
denti, questa speciale semantica abbia il potere di favorire o inibire una cer
ta azione. Così posto, però, il problema appare già pregiudicato nel senso
dell’irrilevanza dualistica di semantica e psicologia; da un lato ci appare la
semantica come studio del significato che di fatto diamo a certe espressio
ni, e dall’altro la psicologia come studio, in questo caso, delle volizioni e
delle parole che impiegheremmo per esprimerle quando prevediamo o pre-
CREDENZA E IMMAGINARIO i 8i

sumiamo che agiremo in un determinato modo. Si tratterà pur sempre di un


rapporto che, in se stesso, o nei due ambiti correlati, comunque si vogliano
definire, appare degno di considerazione e di studio. Ma né il dualismo, né
il transazionismo, né le altre teorie destinate a spiegare questo nesso sem
brano aggiungere alcunché di rilevante in merito. Che da un enunciato su
qualcosa si possa dedurre alcunché di rilevante per il dovere essere di quel
la cosa, è un’enormità talmente madornale da render difficile credere che
qualcuno l’abbia mai profferita, se non per distrazione. Ma neppure mi va
di credere che, per il fatto che qualcuno (fosse pure il demiurgo) l’ha decre
tato al modo, più che normativo, imperativo, certe cose debbano inevita
bilmente accadere. La mancanza di necessità nel clinamen degli atomi non
fonda il libero arbitrio, più di quanto questo possa retroagire sui loro casus.
Queste considerazioni, come si vede, ricadono insensibilmente nel duali
smo di esser-di-fatto e dovere-essere; ma a ciò consentiamo di malavoglia,
a scopo di chiarezza, essendo convinti che a una soluzione non si giunge
con la confusione, per quanto abile, dei punti di vista.
Il problema che abbiamo affrontato merita una trattazione più ampia e
distesa. Fenomenologicamente parlando la coscienza, sia che si tratti di
coscienza trascendentale, coscienza animatrice analogica o coscienza etica,
JLuiEistanza unitaria. L coscienza per esempio anche l’obbligo che sentia
mo tutti di esprimerci in quello che c potenzialmente l’unico e migliore lin
guaggio, anche se poi ciascuno in pratica balbetta, racimolando alla bell’e
meglio un suo proprio gergo, o idioletto. E il fatto, anche se non sembra che
tendiamo tutti a esprimerci nello stesso, unico linguaggio universale, costi
tuisce forse la sola istanza etica convincente, esistente soltanto in tale ten
denza. Ma probabilmente questo fatto, ancorché minimo, incoativo e dispo
sizionale, basterebbe a salvarci di fronte a un giudizio ultimativo o
universale. Del Purgatorio al quale ci avviamo ci siam fatti un’idea, ma dai
«novissimi» speriamo qualcosa di più.

Nota bibliografica

Sulla descrizione cfr. Bertrand Russell, On Denoting, cit., da cui dipen


de la principale letteratura sull’argomento. La teoria per un certo verso
alternativa, poiché parte dalle indicazioni «deittiche», è quella che si trova
in Karl Biihler, Sprachtheorie, cit., che considera la òcì^iq una peculiarità
non logica, ma linguistica.
i8z SESTA LEZIONE

Sull’immaginario, nel senso indicato, cfr. Jean-Paul Sartre, L’imaginaire


(Psychologie phénoménologique de l’imagination), Paris 1940; nonché
Roman Ingarden, Das literarische Kunstwerk, Tùbingen i960 (1930).
Sulle concezioni della scuola di Palo Alto, Cai., cfr. Paul Watzlawick,
Janet Helmick Beavin, Don D. Jackson, Pragmatic of Human Communi-
canon, A Study of Interactional Patterns, Pathologies, and Paradoxes, New
York 1967; Paul Watzlawick, John H. Weakland, Richard Fisch, Change,
Principles of Problem Formation and Problem Solution, New York, 1974;
Jurgen Ruesch, Gregory Bateson, The Social Matrix of Psychiatry, New
York 196S.
Sui modisignificandi v. Martin Heidegger, Die Kategorien- und Bedeu-
tungslehre des Duns Scotus, Tùbingen 1916, oltre ai lavori storici ben noti
sulla «vita dello spirito medievale» di Martin Grabmann.
Per il concetto di noesi cfr. Edmund Husserl, Ideen I, cit.; i due sensi del
«come», apofantico ed ermeneutico, sono illustrati da Martin Heidegger,
Sein undZeit, Tùbingen 1953 (1927). Per le componenti psicologiche e lin
guistiche del problema dell’essere v. Franz Brentano, Die Psychologie des
Aristoteles, insbesondere seine Lehre vom voùg JtouiTixóq, Mainz 1S67; e,
dello stesso, Die Lehre vom richtigen Urteil, Bern 1956, e Kategorienlehre,
Hamburg 1974 (1933).
Settima lezione

Desiderio e volontà
La passione e razione, la causa e il fine dell*agire

i. Molto più delle altre, questa lezione è la continuazione e il comple


tamento della precedente. Il tema ancora in discussione è se nell’uso di un
linguaggio idealmente uguale per tutti noi subiamo per contraccolpo una
regolazione restrittiva o propulsiva del nostro modo di comportarci. In
particolare, ci chiediamo se questa specie di retroazione del linguaggio sul
comportamento non sia proprio ciò che ci permette, attraverso il concet
to di norma, di parlare dell’azione in senso specificamente morale. Per
discutere questo problema non ci avvarremo più del dubbio ausilio delle
teorie dualistiche o transazionistiche, che pretendono per via d’ipotesi di
risolvere una questione che va oltre le capacità intellettuali; ma ci atterre
mo al metodo puramente fenomenologico di considerare valido, o per lo
meno non ripugnante all’intendimento, ciò che s’intona alle nostre cre
denze preteoretiche. L’unica evidenza che sorregga una credenza è il suo
non potere essere, consapevolmente, ingenua; vale a dire che si lasci espri
mere anche fantasiosamente, ma senza forzature e, dal punto di vista del
l’udienza, plausibilmente: una credenza cioè non si dice eloquente, ma non
ignara di dottrina, in grado di rispondere alle obiezioni che le si fanno via
via incontro.
«Italia mia, benché il parlar sia indarno ...»: in che modo l’esortazione
dei poeti può esser di sprone all’azione? È senz’altro meglio prender l’ar
gomento dall’altro lato, tanto la sostanza non retorica resta la stessa. E cioè:
in che modo gli usi linguistici possono incidere restrittivamente sulle nostre
azioni? Prima di tutto, che esista un tale feed-back normativo, che parte dal
linguaggio per retroagire regolando il comportamento, mi pare dimostrato
dalla stessa ipocrisia: un costume che non ci sarebbe, se non fosse motivato
dal desiderio di sfuggire a una sanzione. Più sopra abbiamo parlato della
razionalizzazione come falsa coscienza; nell’uso introdotto da Ernest Jones,
con ciò si indica l’invenzione di una più o meno plausibile scusa verbale allo
184 SETTIMA LEZIONE

scopo di rimpiazzare il motivo reale di un’azione già compiuta._La razio


nalizzazione serve per non pagare la penale, che sotto forma quanto meno
di disapprovazione, si teme incontrerebbe la notificazione della vera ragio
ne? Col tempo l’adozione di questa specie di espediente può diventare un
TEito, e io divento un ipocrita: uno che tende a farla franca, con poca spesa.
Ma resta pur sempre un costo; per essere ipocrita, io devo sobbarcarmi alla
fatica di assumere costantemente un atteggiamento schizoide di doppia vita,
con due registri, due metodi e due facce. Alla lunga non è detto sia una spe
sa da poco. Questo a mio parere dimostra che anche un uso non patologi
co, ma cosciente della razionalizzazione, se è in grado di evitare il dazio che
si deve pagare per ogni minima trasgressione della norma, non è tuttavia
capace di escluderne per intero il condizionamento; questo infatti si fa vale
re per via indiretta costringendoci alla doppiezza, al collo torto, al sorriso
accattivante. Al solito, La Rochefoucauld l’aveva capita una volta per tutte:
l’ipocrisia, egli dice, non è che l’omaggio che il vizio paga alla virtù.
L’uso del linguaggio favorisce la razionalizzazione, anche se non esclu
sivamente. Anche i cani, dopo una malefatta, cercano di stornar la punizio
ne con un contegno fuorviarne e talvolta ci smontano con l’ingegnosa gof
faggine di cui danno comica prova. Ma il linguaggio ha un’impronta
decisiva, perché esso si offre come il medio tra l’azione e il suo apprezza
mento, e impedisce che la norma, retroagendo come lode o biasimo, più
concretamente come ricompensa o punizione, guadagno o perdita, si con
netta solidarmente all’azione. La lingua è indifferente al fatto che si dica il
vero o il falso; così lo è rispetto all’addurre ragioni buone o cattive: in
entrambi i casi si adopera una subordinata introdotta da una congiunzione
tipo «perché», «poiché» e simili. Così come possiamo dire il falso in luogo
del vero, allo stesso modo nelle subordinate la lingua non è competente del
la maggiore o minore bontà delle ragioni dichiarate. Tutto questo rischia di
essere fin troppo ovvio, tanto da oscurare per eccesso il condizionamento
normativo che noi avvertiamo nella costruzione di un sintagma linguistico.
Voglio dire che un abito di coscienziosa espressione linguistica usa sempre
il vero, la ragione giusta, il sincero come base, per poi introdurre il contra
rio, cioè il falso o la razionalizzazione, come varianti esplicite. La ragione
di ciò sta non tanto nella (non) inevitabile sincerità con se stessi, che potreb
be anche mancare, quanto nel fatto che non importa che cosa si crede o ci
si dà a intender di credere, questo è uno, mentre le sue varianti più o meno
false, o cattive, sono infinite. La menzogna insomma non è altrettanto faci
le che la verità, e su questo principio si fondano gli interrogatori. Ciò che
DESIDERIO E VOLONTÀ I8S

lega il linguaggio al momento extralinguistico, sia le cose al di fuori sia la


nostra stessa mente, è sì un doppio legame ma con preferenza sbilanciata.
L’esistenza di un condizionamento normativo è dunque ampiamente
dimostrabile in base alle normali credenze. Voler andare oltre in modo da
prevenire certe obiezioni, che naturalmente possono darsi, significa pre
tendere di capire direttamente come ciò possa avvenire. Qui bisogna inten
dersi, poiché a rigore direttamente non è possibile andare oltre le nostre cre
denze; ma talvolta si usa tale espressione per dire che una teoria ci dà, se si
vuole, l’illusione di vedere proprio le cose in sé. A questo scopo vogliamo
adoperare una teoria rigidamente deterministica, fin dove si può, di detto
condizionamento, che diventa così unilateralmente e uniformemente cau
sale. Provvederemo poi a togliere l’ingombro della teoria nel momento in
cui diventasse fastidioso attenervisi ostinatamente. Fors_e_è meglio discute
tegli questo problema con riferimento politico piuttosto che morale; preci
sando che con politica intendiamo la morale distribuita su un collettivo di
individui, e con morale, per il momento, la politica di un solo individuo. È
anche opportuno richiamarsi alla storia di un certo tempo, quello della Gre
cia del V secolo a.C., dopo le guerre persiane ma prima di quella del Pelo
ponneso. Rammento che l’uomo è detto da Aristotele Lmov jrokiTtzóv, cioè
animale sì politico, ma nel senso che vive in città, nella polis, così come il
pesce sta nell’acqua o il lombrico sotto terra. Per converso solo chi vive in
città ed è politico può dirsi veramente uomo; non così il selvaggio che sta
nelle foreste, e nemmeno il contadino che non fa politica, perché incolto e
analfabeta. Chi vive in città, usa una lingua comune a tutti, pratica i suoi
concittadini c partecipa alla vita pubblica, dal matrimonio al funerale, fre
quenta il tribunale, il teatro e i comizi elettorali. Il quadro che vogliamo pre
sentare è del tutto normale.

2. Il cittadino gode della libertà politica sotto le specie della democra


zia. Ci chiediamo ora in che cosa precisamente consista questa libertà. In
primo luogo, abbiamo la libertà in senso rt£-lativo, la libertà dalla tiranni
de politica, anzitutto e quindi da ogni altra causa costrittiva che sia in pote
re dell’uomo esercitare. Non avrebbe senso richiedere alla politica la libe
razione dalle calamità naturali come 1 terremoti o la siccità, ma avvertendo
che per gli antichi erano tali anche le epidemie e la schiavitù, la carestia e in
fondo le stesse guerre. In secondo luogo, c’è la libertà in senso propositivo
o finalistico, la libertà di sostenere una parte politica, di eleggere un candi
dalo, di insistere per un provvedimento, del tutto come oggi. Naturalmen-
I 86 SETTIMA LEZIONE

te, affinché la volontà di tutti, o della maggioranza, diventi la volontà gene


rale, non occorrerà attendere la teoria rousseauiana del contratto sociale per
trovare la convenzione meno urtante: quella per cui la maggioranza mini
ma della metà più uno, anche se non rappresenta tutti, ha nondimeno la
funzione di rappresentanza totalizzante, o generale. E così come i cittadi
ni sono uguali passivamente, di fronte alla legge data, sono allo stesso modo
uguali anche attivamente, nelle questioni de iure condendo, in base allo stes
so artificio. Le scelte degli elettori sono incanalate secondo la preferenza
prevedibile, che può favorire il personaggio, la fazione di parte, il pro
gramma da svolgere o il rilievo che caratterizza l’insieme di certe richieste.
Si suppone che ognuno voti in accordo con il proprio interesse prevalente,
che non è detto sia solo di agi e ricchezza, ma anche di ambizione politica,
di direzione amministrativa e edilizia, di cura dei rapporti interpostici, di
iniziative culturali e altro. Ammesso che tutto questo almeno in linea gene
rale funzioni passabilmente, è chiaro che una gran parte della vita politica
di una democrazia va spesa nel correggere le sue stesse irregolarità, poiché
queste, dato il meccanismo strettamente formale del loro retto impiego,
sono considerate lesive della libertà. Ora, considerando statico l’orizzonte
temporale dell’epoca, così come portava la coscienza antistorica dei con
temporanei, illusi di vivere in una continuità senza fine, senza la minaccia
di nuove classi sociali emergenti, senza minacce provenienti dall’esterno, se
si vuole anche senza speranza: bene, considerato tutto questo, si può facil
mente prevedere quel che in verità non è accaduto, ma che non costituisce
il cuore di questa come di ogni altra previsione, cioè l’uniformità se non
meccanica, per lo meno omeostatica del comportamento democratico. Non
so se si capisce abbastanza il senso dell’esperimento di pensiero al quale
abbiamo alluso: che, in mancanza di stimoli esterni o interni, tali da dover
reagire con una certa risposta, l’uso della libertà democratica tende alla con
servazione dello stato di cose iniziale; e che, invece, la presenza di una sfi
da nei termini che si è detto rende la risposta obbligatoria e quindi inseri
sce la vicenda della città in una sequenza politicamente incontrollabile di
nuove situazioni storiche, quindi non comprensibili che in un senso deter
ministico. Che ne è stato della libertà politica? In effetti la saggezza politi
ca del mondo antico, già in epoca ellenistica, tende a privilegiare la tenden
za stabilizzatrice non più della polis, ma dell’impero universale o
ecumenico, sia esso macedone (Aristotele) o romano (Polibio), e a riporre
la sua fiducia nelle risorse statiche di un dispotismo addomesticato, se non
proprio illuminato.
DESIDERIO E VOLONTÀ l87

Anche se concepita entro le maglie di un sistema di pensiero determini


stico, la libertà è tuttavia un concetto utile a definire il funzionamento di un
assetto politico che presenta i minimi costi in termini di perdite per attrito.
La libertà politica intesa in questo senso è come il libero arbitrio quando lo
sTcapisce solo come il fondamento della responsabilità, quindi del diritto
penale e quanto ne consegue. Fondamento e conseguenza possono essere
appiattiti nel determinismo puramente formale di segni che procedono da
sinistra a destra, convenendo che chiamiamo più fondamentali quelli, tra i
segni, che stanno più a sinistra nei confronti di quelli che, stando più a
destra, li chiameremo di primo, secondo, ... piano, prima di arrivare al tet
to. Va bene: questo è il prezzo da pagare se si vuole essere coerenti deter
ministi. A noi interessa osservare che anche in questo caso la libertà occu
pa il primo posto a sinistra, o al massimo uno dei primi tre. Sul problema
dell’immaginario nella politica da questo punto di vista c’è poco da dire,
poiché per il determinista sono di bronzo non solo le Tavole della Legge,
ma anche il ricordo di Silvia e le sue rimembranze.
Nei confronti delle idee politiche, siamo liberi di scegliere ma tra un
numero molto piccolo di animazioni pensabili dello stato di cose che desi
deriamo riformare o restaurare. Il momento ideale che sorregge tale deside
rato cangiamento in senso utopico, positivo o negativo, se si offre come un
quadro coerente, è l’ideologia. Non occorre dire quanto sia fantasmatico il
tratto che unisce desiderio e ideologia. Il limitato numero delle ideologie
disponibili in un dato momento storico si spiega forse con ragioni struttura
li, essendo difficile immaginare una complessione totale di idee congruenti
non disponendo del supporto esistenziale. Inoltre le ideologie possibili ven
gono ulteriormente limitate dal desiderio, immanente all’immaginazione
politica, di sfociare nell’unanimità, o quanto meno di disporre di un efficace
strumento di persuasione. Le esigenze del proselitismo fanno sì che l’ideo
logia, oltre a essere coerente, debba anche apparir verosimile all’immagina
zione, e quindi intrattenere un certo qual rapporto di prossimità con le que
stioni particolari che offrono a ciascuno il destro per fantasticare. Dal punto
di vista realistico l’unica alternativa concepibile alle filosofie politiche ideo
logiche è costituita da ciò che vorrei chiamare confiicianismo (dal riformato
re cinese K’ung Fu-Tzu), per intendere un’arte del compromesso tra le
opposte tendenze molto vicina al senso comune «qualunquistico» di apprez
zare la realtà, ma motivata da un presupposto non banale di produrre il mas
simo vantaggio generale al minimo costo da parte di ciascuno. Forse in que
sto è da ravvisare l’utopia propria del confucianismo, in ogni modo è chiaro
SETTIMA LEZIONE
18S

che si tratta di un’ideologia dai toni sommessi, più sofferta che trionfalisti
ca, e i cui estremi si ritrovano in Occidente, almeno in parte, nell’utilitarismo
inglese da Bentham ai due Mill, James e John Stuart.
Una concezione anch’essa svincolata dalle utopie ma opposta al confu-
cianismo nel suo intento di riattingere al momento entusiastico, o quanto
meno non intrinsecamente depressivo dell’esperienza politica è risorta di
recente in Francia per opera di un piccolo gruppo,_detto dei nowveaux phi-
losophes. L’antitesi che inizialmente li accomuna è che la politica o meglio il
politico, nel senso di TÒ noXiTizóv, non possa consistere nell’attività di par
tito o nell’esercizio di un governo, siano pure intelligenti e buoni nella pras
si amministrativa. Anche l’iniziativa del partito, quale che esso sia (ma l’ap
punto è rivolto ai marxisti), nella misura in cui ha successo finisce co£
trasformarlo in un organo dello stato, e quindi al massimo non c capace che
di trasformare in prassi ordinaria quello che dovrebbe essere il momento
qualificante, del tutto straordinario. L’antitesi dunque nega che ia politica
si traduca in atti amministrativi, che si esplichi nelle elezioni votando per il
partito o il personaggio qualificanti la propria scelta, o che concluda il suo
ciclo operativo nel lasciarci in possesso di salde, meditate opinioni. Che
cos’è, allora, la politica? È difficile affacciare un’ipotesi al di là dell’antitesi,
su cui possiamo convenire, se non tutti, in molti. La tesi, a quanto pare, è
che l’evento politico non sia che un puro accadimento di stampo événe-
mentiel, che di solito consegue a un fatto storico eccezionale, con titolo a
piena pagina. E a questo evento, prima di qualsiasi razionalizzazione, e di
qualsiasi misura riduttiva che tenda a normalizzarlo, mi accade di parteg
giare e di parteciparvi come se ciò avvenisse anche per la mia spinta simpa
tetica, quantunque solo interiore. Si tratta della via più difficile per entrare
nella comprensione del problema, e siamo tentati di dire che i nouveaux
philosophes ci costringono a concludere che il politico è qualcosa che non
può esistere nel mondo così come lo conosciamo, perché questo non può
contenerlo. Esso cioè rientra in un discorso che la psicanalisi rende già risa
puto, aggiungendo la politica all’elenco delle cose sognate, che trovano una
realizzazione allucinatoria coi mezzi dell’immaginario. Questo fa pensare
che l’interesse ingenuo per la politica, che forse lutti condividiamo quando
l’esperienza avviene in stata nascondi, assommi a quella sospensione del
l’incredulità, o susponsion of misbelief che secondo Coleridge deve accom
pagnare la lettura dei racconti del meraviglioso. Quando immaginiamo che
andando a votare è in nostro potere imprimere una svolta o un raddrizza
mento alla direzione della volontà generale, noi viviamo in un tale immagi-
DESIDERIO E VOLONTÀ 189

nario. Se si raggiunge lo stato in cui la normale miscredenza è messa fuori


gioco, in quel momento ci sembra di realizzare la rivoluzione d’Ottobre o,
se si preferisce, di completare la marcia su Pietroburgo del generale Dcnikin.
Per lo più si avverte l’emozione contraria, la depressione conseguente all’ab
bandono della tensione politica.

3. Una domanda interessante, dal punto di vista fenomenologico, è se ci


siano esperienze che fin dall’origine, cioè non in seguito a un’interpreta
zione, si presentino come immaginarie. Come Aristotele, Brentano crede
va che già le nostre rappresentazioni potessero dirsi in certo modo vere o
false, anteriormente a ogni giudizio. Evidentemente il giudizio deve essere
espressamente vero o falso: questo è ammesso da tutti. Non tutti però
ammettono che questo valga anche per le rappresentazioni. Se si potesse dir
lo, saremmo in grado di definire palesemente immaginarie quelle rappre
sentazioni o idee che già nella loro apparenza mostrano il falso, cioè la con
traddizione per così dire in termini. Questo fa pensare che nello sviluppo
della conoscenza si formi un riverbero, un feed-back che retroagisce dal-
Voutput del riconoscimento (il giudizio vero o falso) AV input dell’iniziale
ideazione (la rappresentazione), col risultato che già quest’ultima sia pre
giudicata come più o meno verosimile oppure direttamente falsa, quindi
immaginaria. Naturalmente se il falso è prova dell’immaginario, bisogna
dire che non vale la reciproca, che cioè non sempre l’immaginario è per ciò
stesso falso. Ora, a parte la questione della contraddizione o del falso, che
risente troppo di un’impostazione logica del problema, io credo che abbia
mo una siffatta esperienza dell’immaginario in alcuni TÓJtot, luoghi note
voli. In breve, noi possiamo annoverare almeno tre di queste esperienze.
La prima, di cui abbiamo già parlato, è quella che proviamo in noi del
contatto con l’altro. Quest’esperienza, che nel suo grado più intenso si dice
empatia, ammette diverse interpretazioni. La più semplice e ingenua è che
esista un canale privilegiato nel contatto con l’altro, tale che, se se ne è all’al
tezza, questo fatto si costituisce in esperienza trascendentale che garantisce
l’accesso a una sia pur particolare alterità. C’è una banale ma decisiva obie
zione contro l’empatia intesa come identità con l’altro, la quale fu ritorta
contro^Schcler (il principale fautore del partito pro-empatistico), ed è che
verificandosi una tale ipotesi noi saremmo costretti a vedere con gli occhi
degli altri; purché, naturalmente ci siamo simpatici e noi a loro, di contrac
cambio. Ma io sono miope e, benché discretamente empatetico, non ho mai
registrato il minimo aumento di diottrie dal frequentare persone dalla vista
190 SETTIMA LEZIONE

acutissima. Un’altra possibile concezione dell’empatia è quella praticata


dagli psicoanalisti in occasione del procedimento di transfert, o Ubertra-
gitng. Qui l’obiezione si offre da sé per il fatto che la traslazione è a senso
unico, dal paziente al terapista, anzi quest’ultimo deve ben guardarsi dal tra
sferire alcunché al paziente. Non credo in ogni caso che l’identificazione di
questo tipo meriti il nome di empatia. Si tratta tutt’al più di un’assimilazio
ne simpatetica dello psicanalista da parte del suo paziente. L’unica conce
zione che resta dell’empatia, che sia possibile, è quando l’altro che scopria
mo è un altro che ritroviamo già virtualmente in noi, come prodotto della
nostra organizzazione coscienziale che non riesce a ridursi nel raggio di un
convincente principio di identità egologico. Si rende, necessario, in tal caso
(che poi è normale), che il residuo della coscienza egologica, anziché rima
nere acefalo, periferico e anodino, si avvalori in forma alterocentrica sotto
l’influsso di un’esperienza suscitata da un altro, effettivamente sussistente,
oltre che in sé, per sé. In definitiva, noi facciamo l’esperienza dell’altro che
è in noi, e questa empatia (da cui abbiamo tolto l’illusione che sia possibile
capire gli altri direttamente) diventa l’unico riconoscimento capace di pro
vocarne uno concomitante nell’altro per sé. Evidentemente il fatto che io
contenga in me un altro, che io sia duale, plurale e non monocentrico nella
coscienza, è la condizione per aver coscienza dell’altro in sé. Ho una netta
e decisa coscienza di soggetti altri da me, che sono «in sé» in me, poiché
avverto la mia soggettività egocentrica come ristretta, formale e molto al di
sotto delle sue possibilità di comprensione. L’empatia è dunque possibile se
la concepiamo, senza mire espansionistiche, come modo di trovarsi in buo
ni termini con l’altro o gli altri che sono in noi, la qual cosa è resa possibile
dal fatto di esser già virtualmente in possesso di una forma di coscienza schi
zoide. Questo pare coincidere con il tema di fondo delle «meditazioni car
tesiane» di Husserl; ma queste si intitolano, abbastanza stranamente, a
Descartes, e il problema che intendono risolvere è la fondazione dell’inter-
soggettività nella coscienza trascendentale. Dal nostro punto di vista, non
si tratta di pervenire a una fondazione che fa un po’ l’effetto di una qua
dratura del circolo. Si tratta più semplicemente di contenere un atteggia
mento che potrebbe esser patologico («schizoide») nei limiti di una nor
malità allargata, magari fino al punto che uno non trovi strano parlare a voce
alta (non ho detto altissima) a se stesso, senza dover ricadere nell’abito for
zatamente coerente, ma coatto, di osservare un rigoroso autismo. Un equi
librio per molti versi indifferente, cioè che ammette vari termini di conte
nimento, e che proprio per questo sarebbe inopportuno considerare una
DESIDERIO E VOLONTÀ 191

fondazione. L’esperienza dell’altro, se così vogliamo capire l’empatia, svela


dunque una stupefacente incertezza nello stesso autoriferimento. L’autore-
ferenzialità in senso stretto parrebbe dunque esclusa, ma per ragioni com
pletamente diverse da quelle dei logici: per mancanza di un termine di ritor
no, l’esperienza deve riconoscersi, fondamentalmente, come transeunte.
Il secondo punto è il guardarsi allo specchio. L’esperienza catottrica, o
dello specchio, è stata magistralmente analizzata da Lacan; ma qui vorrem
mo parlarne indipendentemente. Più che guardare, vorrei dire che ci sen
tiamo guardati dallo specchio; ed è ciò che rende sinistra, uncanny, tale espe
rienza. Lo specchio è il luogo dove al posto di uno scialbo se stessi
potremmo vedere apparire un volto diabolico, o un infernale nulla; io non
credo affatto a queste cose, ma proprio per questo me ne viene un frisson:
che cosa farei se, contraddicendo la mia miscredenza, ciononostante si veri
ficassero? Può darsi che non tutti provino o confessino a se stessi scioc
chezze di questo genere; ma c’è una più riposta ragione del prodursi di tale
incertezza, disagio, uneasiness, che sta proprio nel vedersi allo specchio.
L’inquietudine deve qui esser vista come meraviglia, stupore o 0avpót,eiv
modificati in senso negativo.
In effetti, l’esperienza catottrica sembra essere autocontradittoria. Di
fronte allo specchio io vedo la mia mano destra diventare la sinistra, e vice
versa. Come si spiega questo fatto? Anzitutto, vien da dire che il fatto col
pisce, anche se non lo si nota, e questo produce inquietudine per la sempli
ce ragione che non si spiega. Poi esamino la faccenda con calma e spirito
materialistico e mi accorgo che in effetti non c’è nulla da spiegare: lo spec
chio riproduce esattamente quel che ha davanti, l’immagine virtuale al di Là
dello specchio è la copia esatta in ogni punto dell’immagine reale. Ciò che
non è possibile non esiste; dunque, non c’è nulla da spiegare. Come mai,
allora, la mia immagine nello specchio si ostina ad avere la sinistra in luogo
della destra? Perché io sono mancino nell’immagine virtuale, al contrario di
quella reale? Ecco, la ragione, l’ho detta. Indebitamente io scambio l’im
magine virtuale con la realtà; dico «io» per l’immagine e per me stesso, pro
ducendo un’equivocazione. La peculiarità sta nel fatto che l’equivoco non
è solo verbale, ma anche immaginativo: io rivesto effettivamente i panni,
anzi la pelle dell’immagine nello specchio. Ed è in seguito a questo mio
sdoppiamento, per cui una parte di me rimane dov’era e un’altra parte pro
cede trough thè looking-glass e indossa l’immagine così animata, che la mia
destra diventa la sua sinistra, e viceversa. Se fosse possibile guardare disani
matamente la propria immagine allo specchio, vedremmo ogni cosa al suo
192 SETTIMA LEZIONE

posto. Il punto è che non è possibile guardarsi così allo specchio; questo
spiega il suo carattere weird, tra l’incomprensibile e il soprannaturale, nei
momenti di intensa suspension of disbelief, e inoltre che è solo perché l’e
sperienza appare incongruente, o quantomeno viene vissuta con disagio, che
ci accorgiamo dell’investimento emozionale che sostanzia l’immaginario. A
tal proposito mi pare più che mai adeguato parlare di doppio legame, appun
to perché la spiegazione materialistica e razionale del fenomeno non è suf
ficiente a eliminarne l’effetto di cui si diceva.
La terza esperienza in cui si è posti di fronte al proprio doppio, quasi un
Doppelgànger, è l’innamoramento. Molti saranno disposti a considerarla
una variante della prima, quella dell’alterità; ma benché la spiegazione sia
molto simile, l’innamoramento fa emergere in maniera spiccata il fenome
no del narcisismo. Sempre presupponendo come condizione necessaria il
delinearsi di un’esperienza forte dell’alterità, come vissuta in noi ma attri
buita all’altro per sé, l’innamoramento vi aggiunge l’aura del numinoso, il
dolore della separazione, l’esaltazione del costante appaiamento. Anzitut
to, dal punto di vista della reciprocità dello scambio, la formazione della
coppia appare sempre incentrata su uno dei due partner, tal che la simme
tria, se c’è, è tale solo accidentalmente e provvisoriamente. Nella Paarung
c’è sempre chi ama e chi si lascia amare; naturalmente l’esperienza che con
ta è quella di chi ama, perché sua è l’intensa valorizzazione dell’altro che egli
ricava dal rapporto. Nell’asimmetria si rivela il tratto che abbiam detto nar-
cisistico dell’innamoramento. Tuttavia sarebbe inesatto definirlo come pri
mariamente narcisistico, poiché in tale esperienza non mi innamoro di me
stesso, o di una parte, la migliore, di me stesso; no, io vivo sinceramente la
prossimità dell’altro, sia pure in forma fantasmatica, c mi sento legato in
maniera spesso drammatica all’altro per sé, nel senso che se non ci fosse,
non avrei motivo sufficiente per suscitare in me tale dedizione emozionale.
Nondimeno ciò non esclude che si tratti pur sempre di un atteggiamen
to narcisistico derivato. Non vorrei trattenermi a lungo su questo argo
mento, perché quando il suo vissuto è attuale, solo il Liebestod di Isolde
pare esserne un’adeguata espressione, anche se non prova nulla; mentre nel
la sua inattualità sfido chiunque a non considerarsi fortunato di non rien
trare tra i suoi addetti, essendo fastidioso pur il solo parlarne. In ogni modo,
anche nel momento dell’attualità si è consapevoli che ci si sente legati a un
se stessi che è nuovo e migliore, e tale esaltazione regge fin tanto che c’è un
altro che ci stimola a farlo e intanto si allarga la ricezione e ne rimane un
durevole lascito nell’esperienza che si ricorda. Ciò che contraddistingue
DESIDERIO E VOLONTÀ
193

questa specie di ampliamento d’orizzonti da quello che si ha con la conti


nua pratica dell’altro nel senso ordinario è il nesso pregnante che si stabili
sce tra l’immaginario e la memoria.

4. Queste sono le voci dell’immaginario allo stato fenomenologicamen 11


te più puro che ci è dato trovare. Nessuno potrebbe accontentarsi di assu
mere un atteggiamento ironico o condiscendente nei loro confronti, essen-
do istanze irreducibili al reale nel senso del fuor di noi, quindi nemmeno
paragonabili a quel suo surrogato, o Ersatz, che è il simbolico. Non è sim
bolico il referente di tali esperienze, poiché tale è il quadro fantasmatico
(non immaginario!) che si sostituisce alla cosa indicata dalla all’atto
del rimando. E non è simbolico nemmeno il senso traslato o in accezione
retorica, poiché anche questo rimando, pur essendo più complesso e con
catenato, da ultimo si deve risolvere onestamente allo stesso modo. Il signi
ficato del rimando simbolico è nella migliore delle ipotesi il noumeno, la
cosa che esso ci induce a pensare; mentre, a partire dall’immaginario, il nou
meno può svanire ma resta pur sempre il noema, come impressione sia pur
fantastica ma nel come della sua datità. Se dunque mi rifaccio alle rappre
sentazioni in sé, come appresentificazioni in me di qualcosa che mi è acca
duto e di cui conservo memoria e disposizione a continuarne il tracciato, il
risultato di ciò potrà magari esser travasato in recipienti e forme che paio
no simboliche, ma che in realtà è il mondo in cui vivo, sogno e credo. La
percezione interna ha la forma complessa ma unitaria delle immagini con
cui ci esprimeremmo, se fossimo capaci di adeguare a essa la sintassi lingui
stica del nostro discorso. L’illusione dei poeti sorregge la vanità del deside
rio, insistiamo a dirci che non saremmo uomini se non provassimo a sogna
re sempre di nuovo con questo metodo. La percezione esterna fornisce gli
elementi quali pezze d’appoggio di una rapsodia o ricucitura simbolica di
cui il mondo esterno c il risultato più probabile. Ciò che riusciamo a dire in
questo senso è garantito e durevolmente incasellato, ma non è che una pro
babilità derivata, la probabilità di una probabilità.
Siamo partiti dal presupposto, peraltro ben fondato, che le nostre cre
denze siano intessute con lo stesso filo di cui son fatti i sogni, cercando di
cogliere quei luoghi in cui l’immaginario si rivela, a causa di certe incon-
gruenze, coi suoi propri caratteri. Ora vorremmo indugiare sul nesso che
l’immagine ha con l’azione, mettendo in rilievo più direttamente gli effetti
del desiderio e della volontà. In questo rapporto il doppio legame si spiega
molto naturalmente come il duplice nesso che dal centro della monade
I94 SETTIMA LEZIONE

appetente conduce da un lato all’immagine del desiderio e, dall’altro, porta


all’agire direzionale. Per un verso, sarebbe privo di senso voler trattare l’im
magine come un fatto fisico, dal momento che essa è già parte dell’immagi
nario e s’incontra, non tangenzialmente, in certe manifestazioni di espe
rienza allucinatoria. Per l’altro verso, nemmeno l’azione si lascia
impunemente reificare in movimento e causa del movimento, come avvie
ne nelle spiegazioni di tipo meccanico; anzi, questo chiarimento risulta qua
si superfluo, dal momento che nessuno, credo, propone una simile ipotesi
per capire il nostro comportamento. In ogni modo, molto resta da dire: per
ché, quando si è detto che l’immagine non è la rappresentazione di un fat
to fisico e che l’azione non è il movimento a orologeria o comunque mec
canico, resta il problema di caratterizzare positivamente e l’immagine e il
movimento. E in più, vi aggiungiamo il disegno di unirli nel nesso supple
mentare di doppio legame, per coglierne il sostegno reciproco, e l’origine a
partire dal soggetto.
Nel suo lavoro di maggiore impegno teorico, il De antiquissima Italo-
rum sapientia, Giovan Battista Vico espone una critica al cartesianismo, in
realtà alla nuova scienza della natura, facendo uso di un criterio che egli dice
di aver desunto dalla filosofia presocratica degli «italici», cioè i sapienti del
la Magna Grecia. Nei manuali la critica di Vico a Descartes viene riferita in
questo modo. Nella conoscenza della natura l’uomo non può raggiungere
la certezza di chi l’ha creata, essendo questo fatto avvenuto fuori di lui; ma
nella conoscenza delle cose storiche, di cui ci ragguaglia la filologia, la cer
tezza che si può avere è di gran lunga più perfetta, in essa verità e fatto si
devono corrispondere, perché il creatore della storia umana è l’uomo stes
so. Il principio corrobora la tesi di Vico come storicista e filosofo della sto
ria. In realtà il riferimento ai megalo-ellenici è più complesso e mette capo
a un altro modo di intendere la natura. La sapienza sottintesa è quella dei
medici, le scuole di medicina che fioriscono in Asia Minore, nella Jonia, e
quindi anche nel meridione d’Italia e in Sicilia. Negli scritti che sono detti
ippocratici, l’autore o più verosimilmente gli autori che compilano le varie
parti, in specie nel trattato sulla dieta mostrano il loro credo epistemologi
co. Non stupirà di ritrovarvi la fiducia nella vis medicatrix naturae, che cor
risponde a uno stadio di conoscenze scientifiche non troppo avanzate, ma
in compenso attivamente pragmatico e confidente nella tecnica di imitazio
ne della natura. In teoria però questa specie di conoscenza è tutt’altro che
semplice, poiché il rapporto che essa riserba all’oggetto non è diadico
(uomo-natura), bensì triadico (uomo-dio-natura). In questo modo si insi-
DESIDERIO E VOLONTÀ I2S

nua il concetto di creazione, non nel senso ex rubilo, ma come forza medL
catrice con cui il OeÓQ anima e fa vivere la natura. La concezione è aristo
cratica, a tratti sdegnosamente distanziante e, nei confronti del genere uma
no, pessimistica. Al discorso sulle malattie, a un certo punto, nella
trattazione sulla dieta, si sostituisce quello sull’arte medica e le sue difficoltà,
rivolto non si sa se alla stoltezza dei pazienti o a quella dei medici. Val la
pena di addentrarvisi.
Un primo disappunto riguarda il disconoscimento umano della natura
del sintomo, che non somiglia a quel che manifesta: «gli uomini non sanno
capire da quanto è evidente (Èx t c d v q uvi omv) quel che non si vede (là
àcpavìi)». Siccome essi usano arti consone alla natura umana, non divina,
ignorano le cose nascoste. Questa ignoranza riguarda non solo la natura, ma
anche l’etica e la legge: «gli uomini diedero una legge a sé medesimi, ma sen
za conoscere su che cosa la stabilissero». Essi esercitano «tutte le arti che
hanno in comune per la loro natura umana», ma senza sapere perché. Della
natura invece si può dir questo, che «gli dèi tutti le diedero un senso ordi
nato»: cpvoiv òè Jtàvreg 6e o ì òiExóopìiouv. Ma in questa inopia delle menti
umane, come può sorgere sia pur solo l’illusione del sapere, l’èjtioTaoOai, il
dominare e guidare sapendo? La risposta è implicita nel concetto di piptionj,
che ha un significato complesso. Nell’apprendimento l’uomo inizialmente
comprende per imitazione degli altri e rinforzo degli effetti utili così conse
guiti. Si pensi all’apprendimento della lingua materna, o di altre capacità che
sfiderebbero un selvaggio, pur essendo di dominio comune. Ma tradurre
pipìiou; con imitazione non dice tutto, se ciò che si imita sottintende la com
prensione del senso dell’azione. Si veda per esempio l’uso della lingua; que
sto non si esaurisce nella riproduzione dei paradigmi, sia pure mutatis
miitandis, ma comprende la costruzione di sintagmi, nell’occasione nuovi,
che siano adeguati a esprimere il nostro pensiero nei suoi tratti non imitati
vi, o creativi. La pipì]oig dunque richiede, come nell’arte drammatica, che si
comprenda il senso contenuto nell’agire e che non si capisce riproducendo
lo, o facendogli il verso per far ridere. Lo stesso accade in rerum natura,
quando si tratti di esercitare l’arte medica. Occorre imitare non una cosa, ma
la stessa vis medicatrix naturae, che c una j To l iio k ; della natura animata dal
la òiaxóopqoic; divina, in un disegno intelligibile e ordinato del mondo. La
plpqCJLg è quindi l’imitazione del fatto ma regolandosi sull’idea che lo tra
scende nel sintagma dell’azione. Perciò «la mente degli dèi insegnò agli
uomini a imitare le cose divine», cioè a trascendere l’imitazione con l’appro
priarsi dell’azione, giacché gli uomini, lasciali a sé soli, non capirebbero. Essi
I96 SETTIMA LEZIONE

infatti al massimo «conoscono quel che fanno», yivóoxovTag et noiéovoi,


«ma non conoscono quel che imitano», xcù où yivooxovrac, a pipéovTai. Il
fare è qui la riproduzione della cosa, l’imitare è la comprensione dell’agire.
10 posso cercare di copiare un vaso, ma se ci riesco è per il fatto che ho imi
tato Pane del vasaio ricomprendendola.
Ora questo ragionamento non è più così strano come forse appariva nel
la vulgata manualistica e, a pensarci bene, nemmeno tanto originale. Ma è
ciò che Vico attribuisce alla antichissima sapienza degl’italioti e che gli offre
11 destro per il tratto polemico e anticartesiano della sua profetica «scienza
nuova». In questa scienza, che è poi la storia, \\ factum conserva sempre il
suo valore di voce verbale, di participio, senza assumere il senso cosale a cui
siamo adusati oggi, anche per influsso del positivismo e della scienza natu
rale; il fatto significa in quell’accezione le «cose fatte», res gestae, corri
spondente al greco là JipaypaTa, e perciò è naturale spostare l’attenzione
su chi li ha fatti, sull’uomo come attore della TtQà^ig. Nel comprendere la
storia noi istituiamo un dialogo per cui le cose fatte ci appaiono come agi
te dai loro autori, coi quali almeno a tratti facciamo l’esperienza dell’empa
tia. Potremmo interpretare il pensiero di Vico dicendo che se l’empatia per
gli uomini illustri è una condizione che, pur non essendo strettamente
necessaria, favorisce tuttavia la comprensione delle imprese storiche memo
rabili, ed è in qualche modo inevitabile provarla, la stessa cosa non avviene
coi fatti naturali come il terremoto di Lisbona (del 1755), l’eruzione del
Vesuvio che distrusse Pompei e seppellì Ercolano (del 79 d.C.) o la scom
parsa della mitica Atlantide «in un giorno e una notte tremenda» negli abis
si del mare (non si sa dove, né quando e né se...), ragion per cui sarebbe pri
vo di senso considerarli in questa maniera. Va da sé che il motivo degli
antichi ippocratici, per cui del principio dell’azione viene a essere investita
non solo la storia dei fatti umani, ma anche la natura stessa in certi suoi rap
porti col mondo umano, come nell’arte medica, ha perso per noi gran par
te della sua forza persuasiva. Tuttavia è da segnalare, come fa rilevare Can-
guilhem, che riguardo all’idea di salute o alla definizione di normale e di
patologico, che come tali (cioè come concetti) fuoriescono dall’ambito di
una scienza in senso stretto naturale, sussiste tuttora un divario ampissimo,
che in pratica diventa un’opposizione se si scende in campo psicopatologi
co, tra la medicina di puro stampo positivistico esemplificata da un Ribot,
e quella di indirizzo soggettivo, accentrata sulle esigenze del malato, che per
contrasto si considera rappresentata da Janet. In quest’ultimo caso la medi
cina, anche se non la biologia, ovviamente, resta nel novero delle scienze
DESIDERIO E VOLONTÀ 197

umane; nello stesso senso in cui l’ingegneria e in generale le tecniche ope


rative, che in qualche modo si occupino dei bisogni umani, lo sono rispet
to alle conoscenze fisiche di base.

5. Vico è altresì celebre per aver distinto dalla storia empirica dei fatti una
«storia ideal eterna» che contiene il puro aspetto intelligibile di uno svilup
po. Questa dualità tra il fattuale e l’ideale trova scarsa rispondenza presso
gli storicisti, benché sia egualmente importante del principio per cui veruni
et factum convertuntur^ ossia reciprocantur. L’incomprensione di Vico, sot
to questo aspetto, dipende dalla difficoltà più riposta dei rapporto che lega
il fatto alla sua intelligibilità; questo rapporto, come in Platone, si esprime
come relazione tra due piani di riferimento diversi, ma la stessa teoria con
tiene nello sdoppiamento un’aggiunta irrilevante o addirittura fuorviarne. È
10 stesso fatto che concepito come come cosa agita, ha in sé impli
cito il proprio criterio di comprensibilità, che è lo schema d’azione. L’idea
lità del fatto non sta nel suo riferirsi a un piano di essenze ideali, o come
altrimenti ci si rappresenta la cosa, ma nell’impossibilità di esaurirlo col rife
rimento a entità statiche, devitalizzate, prive di tensione, perché esso appar
tiene, in parte ma essenzialmente, all’atto che lo genera. L’incomprensione,
credo, prima che Vico riguarda proprio Platone. Si assume Platone secondo
11 facile schema di pensiero del platonismo, che è la storia delle idee come
reduplicazione del reale nella sua intelligibilità, senza pensare che Platone è
nato presocratico, e che le idee gli sono pervenute per reminiscenza, in un
senso cioè tutt’affatto ateoretico, immemore di Democrito e, fondamental
mente, animistico. Ma quale che sia l’esatta collocazione di Platone nei con
fronti della teoria degli «amici delle idee», come li chiama polemizzando
Aristotele, risulta chiaramente in tutti i dialoghi socratici che il rapporto tra
i fatti e la loro intelligibilità è fondato sulla trasparenza della JtQà^iq, sull’i
dealità autoctona dell’azione se intesa come puro atto. Non intendo qui pri
vare Platone della mediazione offertagli dalla teoria delle idee, ma avvertire
che non è lecito attribuirgliela sconsideratamente per poi rifiutarli entram
bi, Platone e le sue idee, quando se ne evidenzi l’incerta prestazione, tra il
paradossale c l’assurdo vero e proprio. Un Platone presocratico riuscirà for
se ancor più indigesto, ma per lo meno a un sofista sarà permesso parlare
liberamente, ed esprimere come vuole le proprie idee. Che Platone non fos
se quell’iniziato alla sapienza esoterica di cui hanno sognato in tanti, è cosa
che possiamo accogliere con animo equanime, né turbato né mosso.
I98 SETTIMA LEZIONE

6. A questo punto si rende opportuno un ennesimo ricollegamento alla


teoria semantica dei modisignificandi. Si è detto che le categorie semantiche,
le Bedeutungskategorien del nome e del verbo, per citare i due estremi del
lo spettro che le comprende tutte, hanno un diverso modo di significare, e
che perciò non vanno confuse con le categorie semplici, o Seinsbestimmun-
gen, che per il fatto di essere intese come mere determinazioni dell’ente (o
ontiche) non fanno menzione del modo. E si è visto che in maniera paradig
matica il nome designa il proprio significato per Ausweis, cioè dall’esterno o
simbolicamente, per deissi fantasmatica; mentre il verbo, tutto all’opposto,
rimanda al proprio senso per Hinweis, cioè dall’interno o sinsemanticamen-
te, che è la componente dell’azione partecipata o mimata. In mezzo ai due
estremi stanno poi le altre categorie semantiche, l’aggettivo, il pronome, l’av
verbio ecc., riferite al nome o al verbo e partecipanti a vario titolo di entram
bi. La componente dell’azione espressa dal verbo si è detta partecipativa o
anche mimetica, per evidenziare il suo carattere fondamentalmente non sim
bolico; ma è bene sottolineare che questo tratto unitivo si può esprimere
anche dicendo che il verbo è il funtore della proposizione (o comunque del
la frase compiuta), cioè quel che dà una vera unità di senso interiore alle varie
parole sparpagliate. Ora a questa concezione «modista» Brentano ha dato
un rilevante contributo con la sua concezione dei modi (di significare), che
anche indipendentemente ha costituito larga parte dello sviluppo fenome
nologico. La dottrina brentaniana dei modi è essenzialmente un’analisi di
quel che impropriamente abbiamo detto il doppio legame dell’intenziona
lità, meglio della relazione intenzionale che unisce in maniera triadica i poli
(/) dell’atto di coscienza intenzionale, (n) del qualcosa come puro correlato
dell’atto; e (Ut) del come che cosa della sua obiettivazione. Quindi la dottri
na brentaniana dei modi è in sostanza un’analisi dell’attante soggettivo, che
si definisce complementarmente mediante il correlato del qualcosa t/zs-ogget-
tjyato. Quest’ultimo punto merita attenta considerazione. L’atto non si può
definire se non per contrasto complementare col suo correlato, il qualcosa
intenzionato da quello; ma bisogna prima sottrarre al qualcosa il «come che
cosa» della sua oggettivazione, altrimenti il risultato è tautologico.
La distinzione rilevante, a questo proposito, riguarda quel che si espri
me nel caso del nominativo, o in modo recto, e quel che si dice negli altri
casi, in modo obliquo. Si tratta dunque di una dottrina logica o, meglio,
grammaticale-speculativa, che riguarda il soggetto della frase direttamente,
e quindi, ma in obliquo, le determinazioni che lo concernono. Se la dottri
na assumesse a questo punto la funzione di una teoria, bisognerebbe dire
DESIDERIO E VOLONTÀ 199

che essa è di stampo sostanzialistico, perché si può molto facilmente far cor
rispondere al soggetto grammaticale la sostanza ontologica. Ci sovviene
inoltre del fatto che Brentano analizza la relazione causale «da a a b» in due
parti, il fondamento «da a» e il termine correlativo «a £»; inoltre, espri
mendo la relazione con «a causa b» (col verbo causare) a vien detto in modo
recto e b in modo obliquo. Reciprocamente, in «b è effetto di a», b è il fon
damento della relazione e a il suo termine; e così i modi, b in recto e a in
obliquo. Si aggiunga infine che ciò che si esprime al caso nominativo è,
quanto meno aristotelicamente, una sostanza seconda, una òevxÉQa ovata.
Forse proprio quest’ultimo accenno può salvare Brentano dall’accusa di
sostanziammo. Il fatto è che dalla grammatica alla metafisica non c’è un pas
saggio e che la dottrina dei modi è intesa a chiarire una differenza tra casus
(come jTTCDOEiq) e non tra substantiae, o ovoiat. Del resto la sostanza secon
da, anche in Aristotele, è tutto ciò che può andare al nominativo. Simil
mente in Brentano la sostanza è sempre sostanza seconda, perché acciden
tale; si dice solo che senza di essa, espressa in modo recto, non avrebbe
senso la predicazione degli altri accidenti, detti in obliquo. Ma sarebbe qui
fuori luogo addentrarci nei particolari delle cose dette da Brentano.
La dottrina dei modi è anzitutto una tecnica filosofica di ispirazione, per
intenderci, nominalistica, che si applica nell’analisi delle entità astratte. Se
per esempio qualcuno dice di credere nella validità del teorema di Pitagora,
io mi rappresento quel qualcuno, in modo recto, il quale intrattiene un cer
to rapporto con l’oggetto chiamato teorema di Pitagora, che io mi rappre
sento in modo obliquo. Interrogato sul perché di quella sua credenza, egli
esibisce come prova la corretta dimostrazione del teorema di Pitagora. Que
sto significa che, attraverso quella dimostrazione, il teorema giunge a esser
rappresentato anche da me in modo recto, saltando la mediazione di chi te
ne parla. Fin qui tutto è in ordine, trattandosi di un’evidenza apodittica, o
dimostrativa. Ma supponiamo che qualcuno mi dica di avere un gran mal di
testa. In questo caso la sua evidenza tutta assertoria di avere il mal di testa,
supponendo che dica il vero, non è per me che il risultato di una notifica
zione; lasciando da parte 1 dubbi, il suo mal di testa è per me un oggetto di
riferimento presente in modo obliquo. Più importante ancora è il terzo caso,
quello in cui qualcuno dice di credere, poniamo, nell’esistenza di forme
sostanziali, o cose di questo genere. Qui non è possibile darne una prova
apodittica, o altrimenti da un bel pezzo la metafisica sarebbe un ramo della
geometria; e neppure si può sensatamente pensare a una finta credenza,
motivata da intenti menzogneri come quelli esibiti dalla vasta fenomenolo-
200 SETTIMA LEZIONE

già dell’assenteismo. In questo caso la prova non conclude, trattandosi nel


la migliore ipotesi di un entimema con infinite premesse; e d’altra parte la
discussione è utile, se io faccio la parte del nominalista costringo l’altro a
inventare delle spiegazioni sempre più sottili, o desistere. Questa la tecnica
dianoetica, intesa a mettere ordine nelle questioni metafisiche o comunque
non dimostrabili, mediante la distinzione dell’oggetto in modo recto e di
quello riferito in modo obliquo nella forma del discorso indiretto.
Queste considerazioni trovano applicazione nella logica della fenome
nologia o, meglio, nel problema fenomenologico della genealogia della logi
ca. Altrove si è detto che il problema di Parmenide, l’identità dell’essere e
del pensiero, presupporrebbe una logica a un solo valore di verità, il vero,
ma che esso non offre nessuna soluzione oggettiva. Al massimo si trova o
che l’essere non è il pensiero, come in Gorgia, o che il pensiero è il non esse
re, come in Democrito. Ma la questione della genealogia si riferisce alla
genesi della logica, e per noi moderni questo è un problema, con buona pace
di Frege, di psicologia. Già Freud nel parlare del sogno e delle sue manife
stazioni cognate, come la nevrosi, si era imbattuto in un problema molto
simile quando parla dell’assenza di negazione nel linguaggio dell’immagi
ne, che si manifesta nel sogno, nella nevrosi e negli usi linguistici primitivi.
Quest’ultimo indizio ha il vantaggio della perspicuità, poiché nelle lingue
scritte più antiche (per esempio l’egizio) si osserva agevolmente che con
trasti come forte/debole, luce/buio o grande/piccolo possono essere espres
si mediante lo stesso radicale o anche la stessa parola, purché dotata di dop
pio senso. Freud stesso cita poi a esempio il latino sacer, che significa tanto
sacro, quanto maledetto; o l’inglese withoia, che appare etimologicamente
composto da «con» e «fuori». La questione quindi si complica se conside
riamo le ulteriori specie di ambivalenza che si determinano quando (<z) una
parola in sé unica accoglie un significato contrario, per esempio «altri sacra
fames»; (b) una parola è composta da radici contrarie, ma ha un unico signi
ficato, per esempio «chiaroscuro»; o (c) una parola è dotata sia di senso con
trario, sia di significato composto, per esempio «benedetto» in «quel bene
detto uomo!» Freud stesso poi rileva che quest’uso linguistico, che è
ambiguo nella radice, non è più tale se si pon mente al significato comples
sivo. Nella psicologia del profondo sarebbe dunque ravvisabile l’esistenza
di una logica a un solo valore di verità, dal momento che si può procedere
senza la negazione? La negazione è infatti ciò in cui si esprime l’avvenuta
reduplicazione del mondo in affermato/negato, che trova la sua adeguata
formalizzazione nella dualità vero/falso o 1/0. Ma l’assenza di negazione è
DESIDERIO E VOLONTÀ 201

davvero la prova che il pensiero si avvale di una logica a un solo valore di


verità? Chiaro che no, sarebbe troppo semplice. Non bisogna infatti
confondere la forma con la funzione. La logica a un valore di verità, di fat
to, non esiste; bisognerà prima cercare di enuclearla esplicitandola. -A

7. Allo scopo può servire la dottrina dei modi, applicando il fondamen


tale concetto di modificazione, ai quale abbiamo già accennato. Abbiamo
visto che l’analogia e contrario, e il contrasto di senso che con essa si deli
nea, è uno degli espedienti formali più in uso (non solo presso i primitivi)
per esprimere una funzione negativa. Per esempio se io dico che «l’oro è fal
so», «l’amico è infido», o «l’uomo è morto», ciò che esprimo è la convin
zione che questo non è oro, che quello non è un amico o che quell’altro,
essendo cadavere, non è più un uomo. A questa funzione dell’aggettivo, che
qui abbiamo esemplificato come negazione, Brentano dà il nome di modifi
cazione, cioè alterazione del senso della frase rispetto àll’oggettò. Va bene,
si può ribattere, abbiam capito che il punto di arrivo della modificazione
negativa si può esprimere in maniera formalmente ineccepibile usando il
«non»: perché non ne approfittiamo? Perché la carovana nel deserto a dor
so di cammello quando è più semplice e meno dispendioso prender l’aereo?
Non è questione di comodità, fosse solo questo saremmo d’accordo. Il fat
to è che la logica a un solo valore di verità è come la topologia nell’albero
genealogico delle varie geometrie: può sembrare che essa serva solo a risol
vere il problema cartografico detto dei quattro colori, dove si vede subito
che non è possibile cavarsela con meno. In realtà la questione, oltre a rive
stire un interesse teorico, ha delle conseguenze che di primo acchito non si
possono scorgere. Una di queste è la dipendenza genealogica della negazio
ne dal contrario. La tecnica della libera associazione linguistica dà qui ragio
ne alla dialettica dei contrari piuttosto che alla logica della semplice nega
zione. Nel suo esercizio se uno dice «bianco» è più facile che l’altro risponda
«nero» piuttosto che «giallo», che è allo stesso modo non bianco. Anche
Kant indipendentemente cita l'esempio del «non aver buon odore» (nicht
wohlriechend), che inteso in maniera puramente logica può voler dire che la
cosa non ha odore affatto, ma che normalmente significa, secondo la logica
dei contrari, che quella cosa puzza. Si può dire che la negazione ha un sen
so puramente logico, mentre il ragionare per contrari è caratteristicamente
psicologico. In questo modo metteremmo fine a tante, inutili discussioni:
solo in logica si ragiona come si deve; nelle altre scienze ognuno s’arrangia
come può. Che cosa c’è che non va?
202 SETTIMA LEZIONE

L’obiezione pare rafforzata dal fatto che non è detto che ogni cosa deb
ba avere il suo contrario; mentre la negazione è applicabile universalmente,
tanto ai nomi quanto alle proposizioni. Anzitutto è vero che la contrarietà
si applica solamente agli aggettivi qualificativi, o agli avverbi che ne deriva
no: ciò è implicito nel senso stesso della modificazione per contrario, l’ari
stotelica aTÉOì]OK o privazione. Nulla a questo punto ci vieta di decretare
che tutti gli aggettivi qualificativi e loro derivati si possono organizzare in
coppie oppositive di contrari, massimi nei loro estremi e che ammettono al
loro interno coppie di sub-contrari più deboli, fino a raggiungere lo zero, il
neutrale come punto di indifferenza. Diciamo quindi che tutti gli aggettivi
sono suscettibili di grado comparativo, fino al superlativo comparativo e
assoluto, e compreso in positivo il grado d’indifferenza. Su questa proprietà
si basa l’uso moderno di chiamare con un numerale ciascun grado di tem
peratura o di miopia. Non si dirà che si tratti di usi empirici; tutto sta nel
trovare delle forme espressive ampliabili per analogia, preferibilmente di
proporzionalità. Quanto alla negazione dell’intera proposizione, bisogna
rendersi conto che, partendo da una logica del concetto (essendo la logica
proposizionale un’acquisizione molto tarda e non certo tuttora indiscussa),
essa ha un significato ben diverso da quella che si applica ai predicati. In una
logica primitiva si può per esempio sopperire a essa con l’arte della mimica
o il gesto, come Curio Dentato che nel quadro di Maccari a palazzo Mada
ma respinge i doni dei Sanniti. L’esistenza di una logica a un solo valore di
verità, il vero, è dunque perfettamente ipotizzabile. Non faremo una que
stione di comodità d’uso, dal momento che non abbiamo l’intenzione di
servircene in pratica.
Avendo trovato il modo di esprimere la funzione negativa in una logica
a un solo valore di verità, tutte le altre costanti logiche si esprimono di con
seguenza. Non occorre nemmeno scomodare il funtore di Nicod, o quello
di Sheffer, dal momento che in una tale logica tutte le connessioni sono
equivalenti alla congiunzione. Come si è già detto, questa logica è molto più
una logica del concetto che della proposizione; infatti della proposizione,
visto che dev’esser vera, non si può dire molto altro; mentre essa rimane
aperta all’infinita varietà dei concetti, che modificano l’oggetto dato in
modo recto secondo tutta la variabilità delle modificazioni sopraggiungen
ti in modo obliquo. Ma la principale differenza tra la logica a un valore di
verità e quella a due, ivi incluse quelle a 3, ... w, valori, è che queste ultime
: possono essere, e di solito sono, simboliche, anche quando non sembra,
mentre la prima non può esserlo. Con logica simbolica, ripetendo quanto si
DESIDERIO E VOLONT,\ 203

è detto a proposito della suppositioprò aliquo del simbolo, intendiamo quel


la che usa i segni in bianco, da riempire come gli assegni con un valore qual
siasi; mentre questo non vale per la logica del vero, che usa abbasranza sco
modamente pagare in contanti: per essa vale la modificazione ma non la
sostituzione. Se mantengo inalterato il valore di verità, cioè la supposiziò1
ne, io posso egualmente bene lavorare con questa anziché col suo contenu
to. Ma allora devo usare una logica ad almeno due valori di verità. Se inve
ce mi servo di una logica del vero, cioè a un valore di verità, sono
necessariamente legato a un contenuto che posso in certi casi modificare, ma
non sostituire. Il principio eadem sunt quorum unum potest substitui alteri
salva ventate non avrebbe alcun modo di applicarsi in condizioni siffatte.
Temo però che in questa il lustrazione dei caratteri di una logica del vero mi
sia lasciato involontariamente prender la mano, nel senso di aver dato l’im
pressione che tale logica si adatti a uomini tutti d’un pezzo e senza infingi
menti, tipo John Wayne in Sentieri selvaggi. Se tale è l’effetto, devo dire che
è falso.
La nostra tesi è, anzi, che la modificazione è in grado di esprimere, non
facendo questioni di comodità, tutto quel che si può esprimere facendo uso
della logica normale, a due valori di verità. Dire che le gemme sono false
non è nemmeno un eufemismo per evitare di dire che non sono vere; ed è
chiaro che si può sottrarre a ogni significato, senza usare il segno -, quel che
di positivo sembra contenere. Architettare una logica coerente, nonostante
le modificazioni, del tutto predicativa, non proposizionale, sarebbe di cer
to impresa non facile, ma non più che quella di Russell e Whitehead che
apparve nel 1913. Non sarebbe neppure impossibile adottare un criterio di
verificazione, che sarebbe dato dal significato complessivo del nesso logico
enunciato. L’unica obiezione è che tale fatica sarebbe completamente inuti
le, dal momento che è già quel che facciamo quando ascoltiamo un discor
so appena un po’ complesso. Se si vuole una verifica meccanica, bisogna ]
invece ricorrere, se basta, agli artifici del simbolismo. In ogni modo l’op- |
posizione profonda della fenomenologia a ogni modo di pensare simbolico j
emerge anche in relazione alla genealogia della logica. J
li significato più perspicuo di questa differenza di impostazione si trova
in alcuni momenti procedurali. Per farla breve, il metodo della fenomeno
logia è quello della variazione, mentre quello delle scienze simboliche è
quello combinatorio (o, per dirla con Leibniz, compluratorio, a n per ri). La
variazione è quella modificazione a cui si sottopone un contenuto in modo
da scoprire i limili della sua applicabilità, ed eventualmente fare di tali limi-
204 SETTIMA LEZIONE

ti il nucleo di una nuova variazione, e così via. Si tratta di un metodo abba


stanza naturale, quello per cui si è passati dai numeri naturali ai razionali e
agl’interi, e quindi ai reali, ai complessi, ecc. Il punto di partenza del meto
do della variazione è finito e molto spesso empirico, di umili origini, ma in
compenso è aperto a tutte le modificazioni sopravvenienti, purché definibi
li e non importa se recursivamente. Il metodo alternativo è dal punto di vista
teorico la combinatoria, anche se poi in pratica si usano entrambi: noi cer
chiamo qui di contrapporre due diversi metodi di pensiero presi allo stato
puro. Il pensiero combinatorio è considerato da molti la chiave della creati
vità per eccellenza: per esempio Pareto definisce «istinto delle combinazio
ni»' la tendenza all’innovazione dei gruppi umani più spregiudicati, meno
vincolati alla tradizione. In verità noi troviamo in questa occasione che le
tendenze all’innovazione sono due, la variazione e la combinazione, e che
l’una è l’inverso dell’altra. Il punto in cui tale contrarietà si manifesta genui
na è questo: che la variazione procede anodicamente, dal basso in alto (von
unten hin), mentre la combinatoria catodicamente, dall’alto in basso (von
ober ber). La circostanza su cui si deve riflettere c che la combinatoria ha
senso in un universo di discorso prefissato sia nel numero sia nelle unità che
10 compongono; il calcolo combinatorio non può fare altro, nella migliore
delle ipotesi, che ripescare quelle combinazioni che nel mucchio sono state
trascurate e magari contribuire a dar loro il dovuto rilievo (come nel com
pletamento dei 24 sillogismi validi conseguito con tale metodo da Leibniz).
11 metodo combinatorio ha cioè valore interpolativo, appunto dall’alto in
giù, ma non può procedere a un più alto ancora: a questo non sono adatti i
procedimenti combinatori, in quanto dipendono da un universo di discor-
/ so prefissato. Mentre invece non sono posti limiti di principio al procedi
mento opposto; quello della variazione, cui forse nuoce in pratica la vischio-
• sita del suo legame con l’esemplare di partenza, ragion per cui l’andamento
dal basso non va poi in là di molto. In ogni modo l’extrapolazione avviene
sempre applicando il metodo delle variazioni, che si avvale del fatto d’esse
re, benché nano, sulle spalle di giganti. In definitiva è impossibile tanto un
metodo che esaurisca per davvero tutte le combinazioni, anche perché non
c’è l’atomo minimo da combinare; quanto un metodo il cui filo conduttore
le raggiunga tutte per successiva variazione, perché questa dovrebbe com
prendere anche le sue modificazioni ramificate nel senso di marcia.

8. L’argomento a cui vorremmo passare dalla logi-ca monovalente è quél


lo della linguistica della menzogna. Una logica a un solo valore di verità può
DESIDERIO E VOLONTÀ 2OJ

benissimo ammettere una metalogica a due valori. Tale è il caso di Parmeni


de, che dopo aver stabilito il principio che essere e pensiero sono la stessa
cosa, retrocede poi nell’opinione, per la quale nella mente dei mortali si dan
no il vero e il falso promiscuamente. Anzi, la via che egli propone è proprio
quella che dall’opinione procede verso la verità, l’identità piena con l’esse
re. Ma anche trascurando queste complicazioni, se disporre di una logica a
un solo valore di verità comporta che io posso dire solo quel che c’è, e non
quel che non c’è, questo non mi impedisce d’esser menzognero. Basta che
io ometta di dire qualcosa che è rilevante ai sensi del mio enunciato, e la mia
comunicazione diverrà falsa in rapporto alla sua ricezione. Come si vede, la
questione della rilevanza diventa essenziale in una logica predicativa, qual è
quella che abbiamo ipotizzato nel caso di una logica del vero; ma è difficile
trattare della rilevanza, pur essendo tutti pronti a scommettere che è il prin
cipale requisito del pensiero, assegnandola alle condizioni di verità di un
enunciato nel senso di Frege o, più in particolare, di Tarski. Esula cioè dal
la logica quella componente soggettiva, ma importante, della verità che è la
certezza psicologica e la sincerità dell’espressione. Ora, certezza e sincerità
sono collegate nel problema della linguistica della menzogna. Il problema di
questo caso è costituito dal fatto che, al di là (o meglio, al di qua) di ogni
moralismo, di fatto è assai difficile sia non mentire mai, sia mentire nel lun
go periodo. Il fatto che occasionalmente si menta, diciamo un paio di volte
al giorno, è favorito dalla stessa impunità della menzogna, se essa è breve, di
poco momento e senza conseguenze. Forse è esagerato definirla tale, dal
momento che è solo un mezzo per evitare dilazioni o discussioni oziose. Ma
la menzogna vera e propria è scomoda, inaffidabile e incalcolabile in adiecto.
A uno spirito grossolano, impaziente c poco meditabondo è senz’altro rac
comandabile la politica della sincerità, meglio se condita con un po’ di reto
rica tipo libro aperto, che risucchia nel suo scarico molte altre insincerità
minori. Per sostenere sul serio una menzogna occorrono forza di carattere,
invenzione e fedeltà al primo detto nelle conseguenze che ne derivano. Si
ammetterà che queste non sono virtù di tutti, dal momento che richiedono
audacia, coerenza, memoria e calcolo riuniti insieme. Di qui il prevedibile
paradosso per cui, chi avesse tali doti, farebbe meglio a impiegarle per il ver
so giusto. In che consiste, allora, il problema linguistico della menzogna? In
breve, esso sta nel fatto che essendo tanto difficile la menzogna che abbiam
detto non occasionale, essa in effetti non viene usata dalle persone appena
un po’ assennate; queste infatti si rendono conto non solo della fatica a cui
si sobbarcherebbero a mentire; ma anche dell’impossibilità di non tradire,
2OÓ SETTIMA LEZIONE

con qualche firma o segnatura, il misfatto celato o millantato nella sua stes
sa compaginazione linguistica. Da questo punto di vista il problema diven
ta quello di individuare le spie linguistiche della menzogna ormai codifica
ta. Ma non ci interessa qui seguire le manifestazioni di questa vasta e
stimolante fenomenologia. Si tratta invece di seguire il filo che lega la logi
ca della verità alla certezza psicologica per un verso, e alla sincerità dell’e
spressione per l’altro, in modo che emerga dal concorso e dal contrasto dei
tanti desideri in gioco la direzione che vi assume la volontà.

9. La volontà consiste nell’aggiunta del fattore mancante per la determi


nazione dell’oggetto dell’azione. Quando l’oggetto è compiuto, esso appa
re determinato come un qualsiasi altro, con l’avvertenza che uno dei fattori
per mezzo dei quali esso si è costituito è per l’appunto la volontà. Che tale
oggetto sia un fine, cioè che si configuri come teleologico all’inizio dell’a
zione, non significa nulla nel momento in cui esso viene acquisito. Il giudi-
zio teleologico, in sé, è altrettanto deterministico che quello causale o mec-
canico. L’oggetto teleologico, invece, appare più problematico considerando
il divario tra il progetto e il conseguimento del medesimo. Io posso esser sti
molato dall’idea di un progetto che ho in mente o che ho tracciato nel blue-
print, e quindi accorgermi che applico il mio impegno per realizzare invo
lontariamente qualcosa di sensibilmente diverso. Questa differenza tra
previsione e risultato non esiste invece nell’applicazione di una legge natu
rale, la quale è in blocco giusta o sbagliata; se essa è scientificamente asso
data, e impiegata a proposito, il risultato non può sbagliare. Nel caso in cui
la volontà sia uno dei fattori della determinazione dell’oggetto, l’errore di
previsione può esser molto rilevante. In primo luogo può esser sbagliata la
previsione circa la tenuta, la durata, la forza della propria volontà: il proget
to stesso richiede un investimento, in termini di impegno, che non ho ben
calcolato; o altrimenti mi sarei accorto che le mie forze non erano all’altez
za e, rifacendo i calcoli, avrei più ragionevolmente dovuto rinunciare al pro
getto. Ma questo dopo tutto è un errore banale, anche se si fa molto spesso;
e può esser fatto corrispondere a uno sbaglio nel fare i conti, per esempio
nel calcolo di una derivata. Un’altra fonte di errore, più insidiosa, consiste
nell’aver considerato un fattore come dipendente esclusivamente dal mio
impegno, mentre invece dipendeva da circostanze per le quali la mia volontà
era irrilevante. Noi sappiamo benissimo che le alluvioni non si impedisco
no per legge, dicendo per esempio che da ora fino a nuovo ordine «e vieta
to piovere’-; ma in un’epoca o una cultura in cui vi e uno sciamano addetto
DESIDERIO E VOLONTÀ 207

alla danza della pioggia, la tecnologia medica non può dimettere tale pre
scrizione come irrilevante. Ciò non toglie che, in caso di successo, anche la
danza della pioggia sia una condizione determinante della cosa voluta.
Una questione simile è quella discussa da Wundt sotto la rubrica della
eterogenesi, o eterogonia dei fini, che più particolarmente prende in esame
il divario che si dà tra le convinzioni individuali e l’effetto storico, o collet
tivo, di un risultato d’insieme. L’esercizio della volontà individuale è lega
to a certe convinzioni, ma non è detto che queste siano rilevanti per apprez
zarne la risultante complessiva. Per esempio secondo Max Weber la
mentalità protestante calvinista è stata determinante, sul piano psicologico,
e cioè individuale, per lo sviluppo del capitalismo moderno; il quale però,
considerato in sé, non richiede la rappresentazione dell’inferno, né della
predestinazione divina o altre particolari credenze del genere. C’è chi è pas
sato dall’accumulazione primitiva all’espansione capitalistica, come il Giap
pone, pur essendo privato del conforto della religione cristiana. La Hete-
rogònie der Zwecke prende in esame particolarmente il fatto che, pur
essendo l’esercizio della volontà connesso, anzi derivante da certe creden
ze o rappresentazioni, esso risulta poi in larga misura indipendente dal loro
specifico contenuto. Sarebbe facile fare dell’ironia sull’America che è stata
conquistata in nome di Dio, e contrastare ciò con l’ascesa di una classe
sociale di avventurieri che, finita l’epoca della Crociate in Terrasanta, non
si lascia sfuggir l’occasione di esercitare impunemente il diritto a un sac
cheggio facile e in scala continentale. La malafede era qui palese, e consa
pevole. Vorremmo qui parlare dell’altra, più riposta malafede, che a rigore
non è nemmeno tale, per cui la rappresentazione dello scopo, il quale non
si realizzerà mai, dipende dall’insorgenza di potenti immagini del deside
rio. La malafede inerisce qui al fatto che nelle situazioni in cui la rappre
sentazione del fine si delinea in tale scenario, di tono fortemente emotivo,
noi dovremmo per ciò stesso avvertire che il fine dell’azione non può rea
lizzarsi che illusoriamente. Che lo scopo sia immaginario e concepito emo
tivamente non cambia la natura subordinata della proposizione, che resta
sempre finalistica, o teleologico-causale, ma rende il suo oggetto estrema
mente indeterminato. La componente determinante che per concludere a
un fine oggettivo dovrebbe ricorrere all’opera della volontà viene invece
rimpiazzata, oltre che da essa, da un soverchiante momento immaginativo
ed emotivo che, in virtù della sua composizione materiale, si presta a
nascondere gli elementi della sua costituzione. Ciò equivale a chiederci se
la volontà si distingua essenzialmente dall’emozione e dall’immaginazione.
2O8 SETTIMA LEZIONE

Questo problema ha interessato particolarmente i fenomenologi. Bren


tano classifica risolutamente la volontà tra le emozioni. Altri, pur non
negando la fondamentalità di tale assunto, come Pfànder, Hòfler o Lewin
hanno invece cercato di trovare una differenza specifica tra la volontà e le
rimanenti emozioni. Dire che la volontà è una emozione come le altre signi
fica dire che per voler qualcosa bisogna prima averne voglia. Questo, d’ac
cordo, non dice ancora nulla sul fatto che la volontà sia libera o determina
ta, ma certo inclina a considerarla secondo un ordine patogenetico. Entro
quest’ordine che, non dimentichiamolo, parte dalla sensazione per arrivare
all’azione, occorrerà poi discutere se le emozioni in generale sono determi
nate o determinanti. Più semplice è a nostro parere la questione, se si è riu
sciti ad assicurare uno statuto solo determinante alla componente volonta
ria dell’azione, lasciando naturalmente impregiudicato quello delle
emozioni. In breve, la volontà si distingue dalle emozioni perché conferi
sce al suo oggetto, in quanto fine dell’azione, una dignità entitativa; è un agi
re, un JigaiTEiv che permette di definire il suo oggetto interno in maniera
puramente immanente, senza commistione col fare, col j TOLEÌv , in cui lo sco
po si identifica con l’oggetto prodotto. In altri termini, la volontà ha la pos
sibilità di costituirsi come oggettività teleologica, e quindi di fondare l’eti
ca e il diritto. Inoltre in essa è psicologicamente interessante il fenomeno del
rinforzo, il quale si avvale anche del mezzo dell’associazione verbale, e che
è essenzialmente costituito dalla persistenza come identità intenzionale del
l’azione intrapresa. L’emozione si contraddistingue, al contrario, per il
carattere della spontaneità, ciò che la rende incommensurabile con i criteri
di misura intenzionali e ripugna alla teleologia di una direzione allo scopo.
Benché questi siano solamente pochi accenni al problema fenomenologico
dell’analisi delle emozioni, essi forniscono la base su cui pensare come si svi
luppi la linea progressiva che dai bisogni esistenti per natura si producano,
per intervento dell’immaginario, 1 desideri dotati di senso soggettivo, e di
qui, attraverso il piano linguistico e oggettivante dell’espressione, la diver
sa specializzazione del fare in senso tecnico, del l’agire etico, puramente
teleologico e interno, e della spontaneità creativa in accezione estetica.

io. L’attività teleologica, etica e tecnica, benché si sviluppi con maggiore


efficacia facendo uso di un materiale immaginario, si deve considerare una
funzione che l’uomo, in quanto organismo, esplica oggettivamente. Da que
sto punto di vista, biologico piuttosto che psicologico, può essere utile ricon
siderare la teoria di Bergson sulla memoria e la percezione sensibile. Berg-
DESIDERIO E VOLONTÀ 209

son partì dall’idea che la funzione dei sensi e quindi del sistema nervoso cen
trale, cioè il cervello, sia essenzialmente selettiva, e solo a questo titolo anche
elaborativa. Questo perché l’organismo complessivo, nella pratica della vita,
correrebbe un serio pericolo se fosse impacciato dalla folla di sensazioni non
selezionate che altrimenti i sensi gli invierebbero, e così pure la memoria, che
sarebbe sovraccarica di dati, e il cervello, che non saprebbe quali di essi rie
laborare a un fine utile. La selezione si avvale di un criterio di utilità per la
vita, secondo Bergson, che presenta già gli estremi per parlare di una virtua
le razionalità, cioè di una predisposizione teleologica delle azioni, orientate
in vista di uno scopo, e tale prestazione si sarebbe formata nel corso dell’e
voluzione per tentativo ed errore, moltiplicando la scarsa (ma non nulla)
intelligenza inerente a ogni evento non entropico per l’enormità del tempo
di cui può disporre l’evoluzione. Ciò significa che la consapevolezza razio
nale di cui fruiamo, essendo selezionata è cioè ridotta allo scopo di un utile
pratico, è solo una frazione di quella che altrimenti potremmo avere intel
lettualmente. Come dice in proposito Aldous Huxley, «per formulare ed
esprimere il contenuto di questa ridotta consapevolezza, l’uomo ha inventa
to ed elaborato all’infinito quei sistemi di simboli e di implicite filosofie che
chiamiamo lingue». Si capisce come il «simbolismo» non sia che un surro
gato intellettuale per rimediare all’inopia di una selezione troppo drastica
mente praticata o razionale, ma in un senso unilaterale. Perciò, conclude
Huxley, «ogni individuo è nello stesso tempo il beneficiario e la vittima del
la tradizione linguistica nella quale è nato». Per un verso è beneficiario, «in
quanto il linguaggio gli dà accesso ai ricordi accumulati dall’esperienza degli
altri»; ma per l’altro è vittima, «in quanto lo conferma nella convinzione che
la ridotta consapevolezza sia la sola consapevolezza», e perché conferma «il
suo senso della realtà, in modo che egli è fin troppo pronto a prendere i suoi
concetti per dati, e le sue parole per cose vere». Il punto di vista biologico
non può che confermare quanto già ci era noto, aggiungendovi una miglio
re comprensione del divario sussistente tra il momento intellettuale, o noe
tico, e quello razionale, o teleologico-pratico.

Nota bibliografica

Sulla letteratura ippocratica v. Émile Littré, CEiivres complètes d’Hippo-


crate, io voli., Paris 1839-61; Mario Vegetti, Opere di Ippocrate, Torino
1965; Hippocratis opera, ed. Johan Ludvig Heiberg, Leipzig 1927.
210 SETTIMA LEZIONE

Sul problema fenomenologico della volontà, cioè sul rinforzo che essa
aggiunge alla decisione «in atto», cfr. gli ottimi, anche se un po’ datati testi
di Alois Hòfler, Logik, Wien 1890; e, dello stesso, Psychologie, Wien 1894;
sopra tutto Alexander Pfànder, Phànomenologie des Wollens, Eine psycho-
logische Analyse, Leipzig 1900; e Hans Rciner, Freiheit, Wollen und Akti-
vitdt, Phànomenologische Untersuchungen in Richtung auf das Problem
der Willensfreiheit, Halle/Saale 1927.
Sulla concezione del «simbolo» in Freud e relativa teoria dell’immagi-
nario cfr. Sigmund Freud, Die Traumdeutung, 1900-1, vi, C (Die Darstel-
lungsmittel des Traums) e E (Die Darstellung durch Symbole); Uber den
Traum, 1901, vi; sul problema dello specchio v. Jacques Lacan, Le stade dii
miroir camme formateur de la fonction dit Je (telle qu’elle nous est révélée
dans l’expérience psychanalytique), 1949, in Ecrits, Paris 1966, pp. 93-100;
v. inoltre S. Freud, Vorlesungen zur Einfuhrung in die Psychoanalyse, 1916-
17, X (Die Symbolik im Traum), XI (Die Traumarbeit).
Sulla peculiare teoria dei «modi» e delle «modificazioni» v. Franz Bren
tano, Psych. IL «Von der Klassification der psychischen Phànomene»,
appendici li e HI; del «metodo delle variazioni» parla diffusamente Edmund
Husserl, Logische Untersuchungen, cit., e Ideen I, cit., passim.
Le citazioni di Huxley sono tratte dal suo saggio The Doors of Percep-
tion, London 1954; v. anche Heaven and Hell, London 1956.
Ottava lezione

Essere e dover-essere
La libertà, il male e la teodicea

1.1 temi di carattere morale, l’etica, la politica, il male ecc. hanno in comu
ne la necessità di dovere assumere, per trattarli, un punto di vista non natu
ralistico. Ormai sappiamo di che si tratta: occorre rifarsi non alla curva di
base, ma alla sua tangente intenzionale, o alla tangente della tangente, non
solo intenzionale ma differenziale. Questo punto di vista non è difficile da
adottare, tanto ci siamo abituati; ma è facile non accorgersi dello switch, del
salto che comporta per noi il passaggio da un modo di pensare naturalistico,
quello che usiamo per i fatti esterni o fisici, dove il senso comune va d’ac
cordo con la scienza naturale, a un modo di pensare altrettanto spontanea
mente spiritualistico o addirittura antinaturalistico, in cui il senso comune
condivide la morale religiosa o la normativa tradizionale, senza che ci ren
diamo conto della profonda incoerenza implicita in tale abitudine al salto
mortale. Il primo compito diventa dunque quello di approfondire tale scis
sione, in modo che diventi scandalo e non abitudine il fatto di saltare al di
sopra di essa spensieratamente; non diciamo questo in omaggio a un canone
di coerenza puramente filosofico, ma perché Pignorare tale dualismo di atteg
giamento da un punto di vista igienico può comportare conseguenze fatali.
L’obiettivazione naturalistica si ottiene per semplice astrazione a partire
dalla percezione esterna. Trascuriamo la problematica epistemologica che
complicherebbe considerevolmente questo semplice ragionamento, perché
ai fini della nostra discussione attuale essa risulta inutile. L’obiettivazione
non naturalistica delle scienze culturali, dette anche dello spirito o umane,
richiede invece qualcosa di più, cioè l’obiettività del giudizio orientato a un
fine, o a un valore, in una parola del giudizio teleologico. Abbiamo indica
to in che modo questo tipo di obiettività è possibile, attraverso la teoria dcl-
Voggetto incompleto, che si può saturare fino alla verosimiglianza mediante
l’aggiunta di componenti controfattuali, come i valori, i fini, e l’immagina
zione compensativa, senza trasgredire i canoni del determinismo. Il dato di
o t t a v a l e z io n e

partenza è qui costituito dalla percezione interna, la quale come si è visto è


essenzialmente incompleta e non trova mai un’oggettivazione che non sia
ipotetica. L’astrazione naturalistica della percezione esterna ne cela il carat
tere costruttivo e congetturale; ciò però si rivela nel quadro d’insieme, il
mondo esterno, che è frutto di combinatoria simbolica e la cui certezza non
eccede mai la probabilità del contingente (o ¥2). Nella percezione interna si
è sempre consapevoli, invece, delle ipotesi necessarie per la sua obiettiva-
zione; in compenso la certezza del qualcosa è data in maniera evidente, ne
ha bisogno di un calcolo che la sorregga.
Ritorniamo sulla percezione esterna. Essa è la percezione di un fenome
no che è instabile fin tanto che non si trasforma in noumeno. Ma il feno
meno diventa un noumeno solo attraverso un gioco simbolico, per cui ciò
che vedo o sento diventa segno o manifestazione di quel che penso, che ipo
tizzo come vero. Il noumeno consiste nella sovrapposizione di ciò che pen
so a ciò che sento; in una teoria naturalistica la coincidenza tra 1 due piani
del che sensibile e del perché dianoetico è prevista come perfettamente com
baciarne. Noi sappiamo che non è così, e con noi sono anche gli epistemo
logi. Ma il senso comune assume ciò come norma, trasformandolo senza
volerlo da fatto in valore, e quindi non ci pensa più, salvo casi sbalorditivi.
I difetti di combaciamento si fanno più rimarchevoli nell’immagine com
plessiva del mondo esterno, che, a parte la sua improbabilità, nessuno è mai
riuscito a dilatare abbastanza da comprendere anche la percezione interna.
Atteniamoci ai dati sensibili. Il fatto che io veda del rosso non definisce
ancora la mia percezione come esterna o interna. Solo se mi dico che cosa
io pensi che sia ciò che produce in me la sensazione del rosso, con questa
interpretazione io decido che sia una percezione esterna. Andando in mac
china di notte con la nebbia io devo interpretare rapidamente per sterzare a
destra o a sinistra, o fermarmi: quel rosso può essere il fanale di coda di
un’altra macchina che va più piano, o di un autocarro, o l’avvertimento di
lavori in corso, o la polizia o il delinquente dalla luce rossa in agguato. Non
sarà di certo il Moulin Rouge, o l’incendio di una carbonaia o un ammira
glio che segnala alla flotta la rotta da seguire: benché, a pensarci con calma,
anche questo è solamente improbabile, dato che siamo in autostrada. Ormai
l’ostacolo è superato e posso riflettere sulla corrispondente percezione
interna. Percezione interna e percezione esterna sono unite dalla comune
appercezione, il fatto cioè che mi sono accorto di vedere* del rosso. Ridi
scendo dall’appercezione alla percezione interna. Questa non è accoppiata
al noumeno, a ciò che penso manifesti il rosso. La percezione interna, se l’e-
ESSERE E DOVER-ESSERE 2I3

sprimessi a parole, suonerebbe così: «vedo il rosso e comprendo insieme il


suo contrasto». È necessario menzionare il contrasto, con l’ambiente circo
stante e la situazione precedente, poiché senza di esso non potrei percepire
il rosso. La ripercussione interna è sempre contrastiva.
Anche la percezione esterna dovrebbe esser descritta in questi termini,
se la descrizione fosse appena un po’ accurata e non subito oltrepassata per
fissarsi sul noumeno. Evidentemente la relazione simbolica tra il rosso e ciò
che manifesta c soddisfatta dal riconoscimento del colore senza menziona
re il contorno. Ma nella percezione interna non solo si deve notare il colo
re e il suo contrasto, bisogna aggiungere anche la motivazione, soggiun
gendo «perché senza contrasto non c’è colore», o «perché il colore si
riconosce solo per contrasto col suo confine spaziale o temporale». Se la
percezione esterna contiene solo due elementi, il colore e il contrasto, la per
cezione interna deve invece contenerne uno in più: oltre al colore e al con
trasto, si aggiunge l’elemento esplicativo che rende evidente la loro connes
sione. Questo perché ne implica poi altri, sempre interni, finché non si
giunga all’autocontenimento della totale evidenza. Per contro alla perce
zione esterna non interessa questo genere di spiegazione; che si veda il ros
so, comunque avvenga, è sufficiente per accendere la miccia del concatena
mento simbolico, che magari rimanda ad altro ancora, ma in estensione. Se
il contorno della situazione d’esperienza è in grado di eliminare come ozio
se molte delle ipotesi possibili, il restringimento delle probabilità utili può
ben tenere il luogo della certezza e dell’evidenza. La percezione interna
invece abbonda di spiegazioni ridondanti e autoconfermanti.
Tutto questo appartiene alla percezione interna perché essa, fondamen
talmente, contrae l’oggetto interno, per dirla con gli scolastici, secundum
modum recipientis. Il fatto che insieme col colore debba esser dato il con
trasto e, oltre a ciò, si debba trovare evidente il perché della loro connes
sione, appartiene al modo d’essere di chi percepisce, del percipiente secon
do il suo modo di ricezione, e non riguarda il fenomeno di per sé. È per
questo che la percezione si dice interna, la topologia della distinzione si
risolve da un lato nel rimando simbolico affidato all’induzione semiologi-
ca, e questo non ci riguarda più; ma dall’altro il suo fondamento è l’eviden
za che è data internamente, e in questo caso renderne esplicita la motiva
zione è una concessione agli abiti comunicativi, di per sé inessenziale ai fini
della certezza. Un altro carattere per cui la percezione si qualifica positiva
mente come interna è, come si è detto, che essa contiene più momenti rile
vanti di quanti ne siano dati alla percezione esterna. Questa eccedenza del-
2I4 OTTAVA LEZIONE

l’interno sull’esterno non è spiegabile come un noumeno, poiché è irrile


vante ai fini del rimando simbolico; essa è una pura funzione sinsemantica,
o il suo equivalente immaginario, che però non potrebbe mai risolversi in
deissi fantasmatica. La mancanza di ciò che Bùhler chiama la deìxis am
Phantasma, e la correlativa presenza di una spiegazione del tutto interna
della certezza, sono dunque un criterio sufficiente per contrassegnare in
positivo la percezione interna rispetto a quella esterna. Dunque non ha sen
so voler ridurre la percezione interna alla percezione esterna, dal momento
che quella esterna è un’istanza più povera del fatto percettivo in generale.
Da questo necessario risalire alla soggettività come fonte di tutta la per
cezione deriva la possibilità di intendere gli altri modi della realtà, per esem
pio quello dell’agire e/o patire, dell’addurre una motivazione che non è
necessariamente la causa, del fine, del dover essere, della coscienza e della
libertà, insomma tutto quel che si vuole in prima istanza e che è indipen
dente dal pregiudizio riduttivo a una realtà fisica esterna. Non vogliamo fis
sar qui come bersaglio polemico quello della filosofia anonimamente «nega
tiva» che sta alla base di tale atteggiamento deresponsabilizzante, che riduce
tutto a cause esterne, ma stabilire con tutto ciò un distanziamento definiti
vo. Possiamo esser d’accordo nel riconoscere che la realtà fisica ha il pregio
di una costanza, a partire dalla percezione esterna, che non ha il fluire del
la percezione interna, lo stream of consciousness di cui esprimiamo l’ogget-
tività ma in accezione diversa da quella fisica. Non si può tuttavia dimenti
care che questo particolare, per quanto importante, dipende da ultimo dal
fatto che ci siamo messi d’accordo prima per considerare esterno, o fisico,
ciò che presenta il pregio di tale costanza. Ciò che indispone è che la costan
za (della percezione) nemmeno esiste come proprietà dell’oggetto fisico, ma
è un effetto fantasmatico dovuto al modo del riferimento: che è, per l’ap
punto, quello simbolico. Chiaro che non tutto quel che si dice «simboli
smo», mettiamo in senso retorico, rientra sotto questo rilievo; ma lo è quan
to si ricomprende nelle scienze naturali non descrittive.

2. Il mio argomento è che per parlare di morale, di dovere, di libertà, di


teodicea, e così via, occorre anzitutto un punto di vista adeguato al tema, e
tale non può essere quello naturalistico. Quindi, dopo aver mostrato su che
base si può costituire questo diverso modo di approccio, che d’altronde ci
è familiare vorrei direttamente collocarmi all’interno di questa realtà non
naturale. Ma cambiare punto di vista significa anche cambiare linguaggio,
quindi non sarà inopportuno, di tanto in tanto, porsi il problema del rac-
ESSERE E DOVER-ESSERE 2I5

cordo di questo linguaggio con l’altro. Una volta quietati i miei scrupoli in
proposito, vorrei dar la parola, prevalentemente, alle cose stesse. Il primo,
ineludibile problema è quello del male. Molti sono giunti a chiedersi se esso
esista. Il problema posto dall’esistenza del male è quello stesso della sua eli-
minabilità. Ci chiediamo dunque se il male sia eliminabile, e a quali condi
zioni. Evidentemente, solo se risulta che il male è ineliminabile, esso diven
ta un problema morale: quello di dover decidere che atteggiamento tenere,
nel caso. Si è detto che Leibniz distingue tre specie di male: il male fisico, il
male morale e il male metafisico. Il male fisico è il dolore sensibile, di tutte
le specie. Il male morale è il peccato, e le sue conseguenze anche inavverti
te. Il male metafisico è quello dovuto all’imperfezione della creatura, cioè
allo stato di cose. Da ciò poi sorge il problema della teodicea, che dipende
non tanto dalla fede in Dio, quanto dal credere che ci sia rimedio a tutto.
Ma è bene attenersi a quanto detto.
Dunque il male non esiste, se è eliminabile. Ma è eliminabile, quanto
meno in linea di principio, il male? Il male fisico sembra poterlo essere, per
lo meno vale la pena tentarlo. Ci sono già gli analgesici, gli anestetici, i deri
vati dalla morfina; in tutti 1 casi si può ricorrere all’eutanasia. Un argomen
to cognato è se si possa ricorrere alla chimica delle droghe per aumentare il
senso temporaneo di benessere, dato che il male sia privazione del bene. Ma
questo è già un argomento morale, se non metafisico. In ogni modo preoc
cuparsi del male fisico pare eccessivo, dal momento che normalmente non
è lì, il problema, e gli uomini fanno già quanto possono per eliminarlo.
Aspettiamo intanto l’invenzione di una droga innocua ma efficace, come il
soma indù, per farci tutti contenti. Del male morale ci viene assicurato che
esso dipende dal peccato. Traducendo, per chi non sia particolarmente sen
sibile a tale aspetto, ciò vuol dire che esso sta nelle conseguenze di un male
originario. Vien subito in mente il peccato originale, di cui noi stiamo anco
ra scontando le conseguenze. Ma comunque stia la cosa in rapporto alle ori
gini (se sia giusto che paghi chi non ne ha colpa, questo è un problema di
teodicea che qui non c’entra), diventa rilevante la domanda: in che senso
sono male le conseguenze di una colpa? Se io lascio una pentola sul fuoco,
e questa è afferrata da un bambino che se la rovescia addosso, il mio è un
male morale, il dispiacere della mia colpa di imprevidenza, ma il suo male
(del bambino) è fisico. Allo stesso modo essere alcolizzati è in genere un
male morale, ma le conseguenze scontate da altri per incidenti che ne deri
vino sono un male fisico. Se in generale il peccato originale è un male mora
le, le conseguenze ereditarie di esso non possono essere che un male fisico.
2l6 OTTAVA LEZIONE

In conseguenza del peccato, viene inflitto ad Adamo un male fisico, il lavo


ro, la fatica e la mone: hi sudore vultus tui vesceris pane, donec revertaris in
terram (Gen., 3, 19). Il male morale è quello di Adamo. Quello che ne deri
va per i discendenti è un male fisico, anche se ereditario. Se l’ingegneria
genetica fosse debitamente sviluppata, potremmo con tutta legittimità eli
minare anche quello. Il male morale dunque non si estende oltre la sua
attualità; al di là di questa, noi possiamo avere un’abitudine, una propen
sione, una disposizione al male, cioè qualcosa di potenziale. Ma questo
potenziale o s’incarna in un difetto permanente, e allora diventa un male
fisico, come la tubercolosi, la sifilide o l’AIDS; oppure lo si considera come
una privazione in sé del bene, e diventa il male metafisico. Al male metafi
sico è rimessa tutta la difficoltà della discussione, con l’inclusione in essa
delia teodicea. Il criterio dell’eliminabilità a questo punto non serve più.
Che il male metafisico esista, non si può dimostrare. Ma esso o esiste o non
esiste. Se non esiste, la discussione è inutile; in ogni modo non può far male,
dato che questo non esiste. Se il male esiste, bisogna parlare indirettamente
del suo correlato, il bene metafisico. Dipende infatti da quest’ultimo la defi
nizione corrispettiva del male.
Il bene non è Dio, ma il principio di cui ci si serve per giustificare la crea
zione del mondo ex nìhilo. Tutti gli argomenti di teodicea hanno in comu
ne la concezione che la creazione è un bene, se il computo dei mali dà un
totale, poniamo M, che resta inferiore alla somma totale dei beni, che dun
que deve risultare almeno uguale o superiore a M + Ax. Detta così, la que
stione pare un po’ squallida, ma tale è l’ossatura dell’argomento. Pur ridot
to ai minimi termini, l’argomento contiene tre caratteristiche essenziali, che
si evincono per riflessione: esso è (?) impervio alle ragioni del relativismo
della questione, cioè vale per qualsiasi criterio si voglia adottare di bene o
di male, purché resti costante per tutta l’operazione di sommatoria; (zz) divi
sibile nella somma di tutte le azioni (buone e cattive) per un individuo dato,
e quindi ricomponibile nella somma totale, per tutti gli individui (l’argo
mento, cioè, non proibisce di farlo); (zzz) da riformulare in senso interroga
tivo, se non vuole risultare tautologico, vale a dire tale da ammettere anche
una risposta negativa, cioè che il totale dei beni possa essere M - Ax. La pri
ma osservazione si ammetterà che è senz’altro sensata. È ammesso dire che
il bene e il male sono relativi, a che cosa si vuole; ma non è ammesso fare del
relativismo un espediente da «ragione pigra», o ùcr/òq Xóyog. Il significato
assegnato a bene (e a male) va mantenuto per tutto l’argomento, o altrimenti
si cambia discorso. Che i predicati buono e cattivo si possano usare cumu-
ESSERE E DOVER-ESSERE 217

lativamente, cioè in rapporto a un numero piuttosto grande di azioni, e non


solo per ogni singola azione, non è inconsueto. Si pensi all’aritmetica mora
le degli utilitaristi, o cose simili; noi sosteniamo che tale uso è implicito in
quel tanto di marginalistico che c’è in ogni argomento di teodicea, e che
Leibniz ha svolto una parte di primo piano nell’incoraggiare questo tipo di
ragionamento. Volendo ricompattare il tutto, assumiamo in primo luogo la
sommatoria di bene e di male che si dà nel singolo individuo. Possiamo
semplificare il problema della raccolta degli addendi da sommare conve
nendo che lo stato momentaneo di assenso o di dissenso con la vita che si
conduce rappresenti la differenza in più o in meno (± Ax) rispetto al totale,
dato un certo periodo di tempo. Dato che non si può compiere più d’una
azione al secondo, e tanto meno parlarne, o ricordarsene (per il paradosso
di Tristram Shandy, esq.), fissiamo il tempo in 864.000 secondi, corrispon
denti a 100 giorni. Alla fine di questo periodo, chiediamo a ogni individuo
il suo differenziale, che all’ingrosso corrisponde alla domanda: «insomma,
sei contento o no di stare al mondo?» Come si vede, purtroppo tale doman
da non è tautologica. Infatti, per risponder di no, non è necessario esibire
seduta stante la prova dell’avvenuto suicidio; è sufficiente il pensiero che
meglio sarebbe stato non esser mai nati. Non è nemmeno necessario che
questo pensiero sia sincero, per influire negativamente sulla nostra statisti
ca; perché essere insinceri al solo scopo di falsare una statistica è già un atto
di cattiveria; per di piu gratuito, che equivale a una piena negazione, anzi -
moralmente - al suicidio. Posta su queste basi, la teodicea conclude preve
dibilmente a maggioranza, anche se a una grande maggioranza; non però
all’unanimità. Conclusione senz’altro triste, per un grande argomento.

3. L’argomento si può indebolire, anzi svalutare, ricorrendo al relativi


smo delle proposte specifiche circa ciò che è male. Partiamo di nuovo dal
minimo. Anzitutto, il male fisico è un male: nessuno ha mai potuto negare
questa premessa. Se il male fisico non si presta a esibirne l’essenza metafisi
ca, è perché esso appare in linea di principio eliminabile. Ma l’eliminazione
del male fisico richiede l’applicazione di una tecnica intelligente, cioè ade
guata allo scopo (il problema dei mezzi a tale scopo, se siano tutti legittimi
o no, per ora non ci interessa). Ciò presuppone in chi ricerca, organizza e
impiega tali mezzi, al fine di combattere il dolore, la credenza del bene, nel
senso che sia bene farlo. Dunque l’esistenza del male fisico induce in chi cer
ca i mezzi per eliminarlo la credenza che sia bene usarli: è bene non provar
male. Subito dopo sorge il problema dei mezzi leciti a provocare tale effet-
218 OTTAVA LEZIONE

to, giacché alcuni di essi alleviano temporaneamente, ma sono nocivi o addi


rittura letali se divengono, alla loro volta, un male. Anche questa conclusio
ne è meschina e limitata nel suo ambito. D’altra parte non si vede à qnoi bon
varrebbe sopportare eroicamente il male, rifiutando i mezzi per alleviarlo.
Il male non può consistere solo nel sentir male. Se si acconsente a que
sto, si affaccia immediatamente il problema metafisico del male, di cui quel
lo morale è una sfaccettatura. Ma al di qua del male metafisico, c’è il pro
blema ontologico del male. Un aspetto di questo problema ontologico è il
male come vien definito dalla fisica in senso lato, nella sua prospettiva
cosmologica. La determinazione ontologica del male, a cui si perviene con
la fisica, non è il male che si sente come male fisico, ma è la legge di entro
pia (che, come tale, non fa male). Se la legge di entropia si applicasse uni
versalmente, cioè valesse per tutto l’universo inteso come sistema chiuso,
essa comporterebbe la sua morte per entropia: ossia il soffocamento di ogni
movimento nell’universo per progressiva riduzione di qualsiasi dislivello
energetico. Da quando è stata formulata da Boltzmann, alla fine del secolo
scorso, la legge S = k log W (dove S è l’entropia, k la costante di Boltzmann
e \VZ la probabilità), per la sua stessa rilevanza intuitiva, ha costituito un
incubo per tutti gli scienziati. In questo senso non esitiamo a considerarla
come una definizione del male in termini fisici, proiettato su scala cosmo
logica. Si noterà che questa caratterizzazione del male come progressiva
riduzione del movimento, e quindi da ultimo della vita, non corrisponde
per nulla a quel che Leibniz definiva come il male fisico, che è il sentir male.
La riflessione sulla legge di entropia induce bensì a un senso di depressio
ne, direi claustrofobica, ma questo è un sentimento metafisico di origine
riflessa che nulla ha che vedere col fatto di sentir male, che è pur sempre una
passione vitale (vai la pena comunque di ricordare che Boltzmann si è sui
cidato, probabilmente per dispetto, ma non è detto si possa escludere dalle
causanti tale effetto metafisicamente depressivo). Occorre dire che l’equa
zione del male con l’entropia si colloca sul piano ontologico, sia pure nel
senso di quella speciale ontologia che è la fisica. A sua volta l’ontologia cor
risponde a una determinazione metafisica dell’oggetto, quindi si può dire
che l’entropia, attraverso i vari passaggi, corrisponde a una definizione
oggettiva del male nel senso della fisica.
Per fortuna la fisica è in grado di sfuggire alle conseguenze di una legge
di entropia ad applicazione indiscriminata. Boltzmann, sia detto a sua glo
ria, ha scoperto non tanto una nuova legge di fisica, quanto un nuovo modo
di intendere la scienza stessa. La fisica molecolare (statistica) da lui inaugu-
ESSERE E DOVER-ESSERE 219

rata introduce a un modo di formulare le questioni di fisica per il quale le


leggi della meccanica classica non concernono che aspetti particolari, por
tati al limite e privi di senso temporale. La fallacia di Boltzmann, come si
potrebbe chiamare, consiste proprio nel non essersi accorto della radicalità
della sua innovazione; ragion per cui ha indotto la legge di entropia, come
ha osservato Prigogine, extrapolandola coi metodi propri della fisica classi
ca. Ne è risultata una legge (quella, appunto, di entropia) che pretende di
determinare la freccia del tempo, ma per far questo in una applicazione uni
versale ha bisogno di ipotizzare uno stadio iniziale che non si può indurre
con le leggi atemporali, sincroniche della meccanica razionale. In ogni modo
queste sono ormai cose note e non c’è dubbio che altri sapranno illustrarle
meglio, all’occorrenza. Quel che ci deve interessare è che la legge di entro
pia ci offre il destro per definire oggettivamente il male, sia pure da un pun
to di vista particolare. Altri punti di vista particolari sono per esempio quel
lo dell’economia politica, dove il male è il calo tendenziale del saggio di
profitto; o l’ecologia, dove ciò è rappresentato dal consumo di risorse non
più ripristinabili, cosa che è talmente intuitiva da non aver bisogno di esse
re spiegata; o anche dalla psicopatologia, in cui la malattia rappresenta uno
stato di dispersione, anche antagonistica, delle energie psichiche che non
consente di svolgere all’esterno alcuna attività utile. Gli spunti sono vari,
ma ciascuno di essi consente una definizione oggettiva del male; che poi a
ciò si arrivi mediante un principio di analogia nemmeno tanto riposto, è
quanto ci si deve attendere dalla predilezione dello sguardo per le questio
ni dove il concreto si considera concentrato negli studi specialistici. Ciò
significa che alla filosofia è riserbato il privilegio di ricavare, per analogia o
simili, la morale di una favola già nota.

4. Stabilito che cos’c il male oggettivamente, il bene, come privazione del


male, si dà per complemento. In Al di là del principio del piacere, Freud
caratterizza l’Eros proprio in questo senso positivo. È essenziale che l’E-
ros, come principio del bene, cioè come tendenza all’aggregazione in unità
sempre più vaste, si definisca su uno sfondo metafisico, quindi psico-onto
logico, indipendente dal piacere; così come il male, come realtà fisico-onto
logica, non è il male fisico sensibile. Anzi sotto questo aspetto il principio
del piacere (psichico) presenta una tendenza del tutto entropica al criterio
del minimo sforzo che lo fa diventare Thanatos, o desiderio di morte, e si
palesa come il male. 11 principio dell’Eros è una modificazione di quello del
piacere che tuttavia si oppone a Thanatos, in quanto modificazione in sen-
220 OTT/WA LEZIONE

so contrario dello stesso principio. Tutto questo ci permette di definire il


male e il bene in termini oggettivi e, quel che più conta, assoluti. Il male e il
bene oggettivi e assoluti sono indipendenti, rispettivamente, dal dolore e dal
piacere sensibili. Che essi siano definibili in maniera indipendente, e cioè
intellettuale, è dimostrato dalla scienza stessa, a partire dalla fisica per arri
vare alla psicopatologia. Ciò non dipende affatto dalla filosofia. La filoso
fia non fa altro che raccogliere a fattore comune quanto vien detto autore
volmente altrove, non aggiungendo di suo che l’analogia. È questa che
consiglia di adoperare un vecchio termine, il tnale, appunto, in luogo dei
tanti concetti specifici come entropia, calo del profitto, impulso di morte
ecc. che dicono altrettanto male la stessa cosa. Lo stesso vale per il suo com
plemento positivo, che è il bene. Il rilievo dato all’uso scientifico dimostra,
caso mai ce ne fosse bisogno, che un profondo momento valutativo, e cioè
razionale, è connaturato all’attività scientifica; altrimenti non riusciremmo,
per suo mezzo, a dare una definizione obiettiva del bene e del male. Que
sto però non dimostra, per contrastare una generalizzazione fallace, che l’o
biettività scientifica sia costituita da valutazioni. No, la scienza è obiettiva
perché tratta di quel che c’è, che esiste. La valutazione permette una sele
zione di quel che esiste intorno a un tema dato, e consente di parlare a tal
proposito anche di quel che non esiste. Va da sé che la filosofia non sia vin
colata da alcun partito preso a favore dell’esistente, che in particolare con
sideri l’obiettività una grandezza incommensurabile con l’esistenza: ma
questo è un altro discorso. Da quanto detto traiamo invece la conclusione
che, anche consentendo a un discorso ontologico, non si può dimostrare
l’obbligatorietà del bene o comunque del contrario del male. Il principio
razionale stesso, per cui il bene è preferibile al male, resta un prevedibile
risultato di maggioranza che è sperabile si mantenga tale. La verifica per
principio di tale impossibilità di dimostrare sia pur solo la preferibilità del
bene non è difficile da immaginare. Si pensi per esempio ad un’umanità
decrepita, nell’A.D. 1.990.000, che abbia compiuto felicemente la sua sto
ria, e a cui non resti che il desiderio di scomparire una buona volta per sem
pre. Come la Sibilla Cumana racchiusa nell’ampolla che, a detta di Trimal-
chione, quando i ragazzi le chiedevano che cosa volesse, rispondeva
àTtoGvqozEiv.
Un’obiezione che può esser fatta riguardo a quanto detto più sopra è il
riferimento di un discorso così generale a unità individuali. Abbiam detto
che la preferenza per il bene non può essere che il parere di una maggio
ranza, e questo è ovvio se il computo è distribuito prò capite. Abbiamo cioè
ESSERE E DOVER-ESSERE 221

dato un’interpretazione sociologica dell’universalità del problema, e tale uni


versalità non si manifesta in forma unanime, ma al massimo in quella di un
giudizio di maggioranza. Chiamiamo universale sociologico questo tipo di
riferimento, ricordando che esso corrisponde al giudizio quasi-universale
di Aristotele, espresso dalla formula «innanzi tutto c per lo più» (lò JTQCò -
t o v xaì èjtì t ò jt o XÙ) come funtore di generalizzazione inesatta, press’a
poco. A parte Aristotele, in filosofia innanzi tutto e per lo più si è quasi
sempre preferito usare l’altro tipo di universale, quello che si riferisce all’es
senza e che si può chiamare universale essenziale. In questo caso non ci rife
riamo alle istanze individuali ma a un’essenza generale che abbiamo ricava
to per definizione astrattiva. Nel nostro esempio, anziché riferirci agli
uomini presi in senso distributivo, il confronto avverrebbe con l’uomo
astrattamente considerato. Nelle scienze sociali questo metodo di defini
zione astrattiva è stato molto in voga perché comodo ed elegante. Il ragio
namento che lo sorregge è dato dal meccanismo di rappresentanza, che è
bene esemplificato dalla formazione della volontà generale nel Contratto
sociale di Rousseau. In base a esso, ogni computo di maggioranza diventa
automaticamente espressione della volontà generale, obbligatoria per tutti,
anche se non tutti erano d’accordo. Da un punto di vista democratico, evi
dentemente ogni altra interpretazione non potrebbe che portare a pro
muovere a volontà generale un parere di minoranza, o addirittura partico
lare, e quindi sarebbe molto più iniquo. Inutile dire a quali abusi sofistici
può condurre l’uso indiscriminato dell’universale ottenuto per definizione
astrattiva: il plebiscito fascista, il pogrom antisemita, il linciaggio dei negri,
il principio del Blut und Boden o la democrazia totalitaria dei sovietici o
delle tante altre forme degeneri, sono tutti esempi di quest’uso essenziali-
stico, nemmeno mediato da un computo di maggioranza, dell’universalità.
Per questo anzitutto, e per una ragione più tecnica che tra poco diremo, pre
feriamo attenerci al più prudente anche se inelegante riferimento distribu
tivo individuale, prò capite, cioè al principio deWuniversale sociologico
anche nelle questioni teoriche.

5. La polemica contro l’uso indiscriminato del metodo di definizione


astrattiva, soprattutto nelle scienze sociali, ha una motivazione più squisi
tamente tecnica. Abbiamo visto che già in matematica, certamente in filo
sofia della matematica, tale metodo gode, e a ragione, di una pessima fama.
A maggior ragione questa motivata ostilità dovrebbe valere nelle scienze
sociali, come quelle discipline in cui il gioco di entità fantomatiche può eser-
222 OTTAVA LEZIONE

citare ed esercita di fatto, i più nefasti influssi. Infatti le scienze sociali, dal
punto di vista filosofico, appaiono orientate sul principio teleologico che
assume o forma etica o, per complemento o alternativa, un contenuto assio-
logico, di valore. Non è possibile costruire una scienza sociale compieta-
mente asettica quanto ai fini e/o ai valori, poiché la determinazione del
dover-essere o dello scopo da conseguire svolge una parte insostituibile in
ogni riferimento teleologico. Fine e valore, quanto al contenuto, sono dif
ficilmente distinguibili; ma se s’intende ciò che vogliamo dimostrare, non è
indispensabile un’analisi più puntuale. Diremo solo che in un’analisi di tipo
etico, siamo d’accordo con Kant nel rilevare che quel che conta è la forma
lità del procedimento, la messa in rilievo della teleologia come pura strut
tura formale; mentre, nelle considerazioni assiologiche, il tema è dato dalla
rappresentazione del valore in sé, ed eventualmente dalle conseguenze che
ne derivano nella collocazione gerarchica nell’insieme degli altri valori. Si
vede subito che l’etica deve al formalismo la sua maggiore generalità o uni
versalità, il che è come dire che essa fa uso larghissimo di procedimenti di
astrazione essenzialistica. Viceversa la teoria dei valori è sociologicamente
più adeguata, valga per tutte l’esempio àeW Etica aristotelica, detta «Nico-
machea». Ma il problema razionalmente insolubile, nel caso di un’etica dei
valori, diventa quello della loro gerarchia nell’ambito del sistema totale, eti
co e dei valori.
L’equazione valore = fine è ineccepibile in un giudizio teleologico, ma
va soggetta a una grave indeterminatezza. Se si fissa il valore, definendolo
come unico, il fine si determina di conseguenza. Ma nessun sistema etico
può basarsi su un unico valore; la teoria dei valori esige il pluralismo, e
anche storicamente essa fu escogitata per supplire al formalismo dell’etica
di stampo kantiano. D’altro lato non avrebbe senso fissare il fine in sé per
definire il valore, perché il fine fa parte della forma di ogni giudizio teleo
logico: in esso la scansione mezzo-fine è l’omologo di quella premessa-con
seguenza della logica aletica. Dunque la parte più importante di un sistema
etico è la preferenza accordata relativamente a ogni valore, cioè la loro
gerarchia. In questo senso il sistema appare da ultimo fondato sugli indivi
dui, e non ammette che un’articolazione relativa e maggioritaria. Di un
sistema di valori acquisito come concluso si potrà parlare soltanto per il pas
sato, relativamente a una civiltà e a un’epoca storica, e anche in questo caso
si dovrà esser consapevoli che l’universalità delle nostre qualificazioni non
è, al massimo, che innanzi tutto e per lo più. Nello svolgere queste consi
derazioni, abbiamo parlato di valori e di gerarchia tra di essi come se fosse
ESSERE E DOVER-ESSERE 223

acquisito che i valori sono degli elementi più o meno atomici, disponibili
per così dire su una scacchiera secondo una scala ordinata in I, il, IH,
magari aggiungendo che, poniamo, in quinta posizione, possono esser con
siderati a pari merito l’igiene e l’abbigliamento. Ma non è così. Già Aristo
tele s’era accorto di questa difficoltà di centrare tematicamente il valore,
quando, nella teoria della pEOÓiqq delle virtù propriamente etiche, aveva
cercato di definirle come un massimo intensivo tra due estremi che presi a
sé sono anzi disvalori: così il coraggio sta nel mezzo, valorizzando al mas
simo il positivo implicito nei due opposti difetti della temerità e della codar
dia; allo stesso modo la liberalità è l’ottimo tra i due estremi pessimi della
prodigalità e dell’avarizia; e così via. Questo disegno veramente intelligen
te ha lo scopo di rendere accessibile l’etica con mezzi dianoetici, e per di più
mostra che la combinazione differenziata delle virtù e dei difetti non solo
supera la concezione elemcntaristica da cui pur sorge, ma è sempre aperta a
nuove acquisizioni o rifusioni rispetto ai sistemi anteriori. Emerge da ciò il
carattere plastico ed enormemente variabile della fenomenologia del valo
re, cosa che solamente Scheler è stato in grado tra i moderni di porre in una
luce adeguata.
Inoltre Aristotele ha detto che, nei confronti della normale empiria, arte
e scienza si segnalano tra gli uomini anzitutto come istanze rilevanti per l’ap
prendimento e l’insegnamento, cioè per la loro funzione di Jtaiòeia, che tan
ta parte ha avuto nel progresso storico dell’umanità. L’empiria è a disposi
zione di tutti, ma incomincia ogni volta daccapo, per l’uomo come per
l’animale; mentre l’arte e la scienza si accumulano e si possono insegnare ed
apprendere consequenzialmente, c ciò è rilevante per la teoria dei valori. Il
vantaggio offerto dall’arte e dalla scienza, sempre secondo Aristotele, sta nel
fatto che la prima procede secondo regole e la seconda per mezzo di cause
o, più modernamente, leggi. Ora, regole e leggi si possono enunciare come
princìpi, cioè sotto forma universale; c quel che più conta, si possono
apprendere come tali, anche se poi passare al loro uso nella pratica della con
creta empiria non è automatico e neppure cosa facile. Tutto questo inserisce
nella considerazione dei valori una spiccata stilizzazione pedagogica. È age
vole osservare che anche nell’odierno sistema di valori si delinea un con
corso tra i diversi valori in lizza tendente a favorire quello che si presenta
più regolare o legittimo^ ciò produce un sempre maggiore consumo lingui
stico, poiché regole e leggi sono essenzialmente logocentriche, cosa che
complica il quadro più di quanto non lo semplifichi, sostituendo alla fatica
dell’empiria, nell’apprendimento, la conoscenza verbale di una regola.
224 on AVA LEZIONE

Secondo l’idea che Aristotele si fa della scienza, e che anche noi condi
vidiamo, io posso per esempio insegnare la matematica perché ne insegno a
capire i princìpi; l’apprendimento dal suo lato empirico è un presupposto,
che ognuno deve risolvere da solo. Il punto è un altro: che i princìpi della
matematica sono le sue cause formali, rispetto ai quali i problemi di mate
matica si subordinano, si inquadrano e si risolvono. Allo stesso modo si
apprende la fisica: imparando quali sono le cause del movimento, distin
guendole secondo che siano motrici o finali, e misurandole secondo criteri
adatti. Insomma la scienza si impara e si insegna attraverso le cause, che
sono i princìpi di tutto ciò che è regolare e legale. Per scienze diverse ci
saranno diversi princìpi, ma tutti si inquadrano in una somma enciclopedi
ca del sapere. Questo sapere complessivo diventa poi omogeneo, ma solo
nella sua forma linguistica. Aristotele riserba il nome di arte, lé/VT], non solo
a quel sapere che si esprime mediante regole, ma a quello che è meno rac
chiudibile sotto una veste linguistica. La legge di gravitazione universale io
posso benissimo comprenderla mediante il linguaggio, ivi incluso quel po’
di linguaggio matematico necessario, senza alzare gli occhi dalla pagina; ma
quale regola potrà mai descrivermi, a parole, come vada scolpito il naso rot
to della Pietà Rondanini, se voglio restaurarla? Allo stesso modo la musica
è un’arte che verbalmente, dal punto di vista delle regole, consiste nel sape
re a menadito le varie leggi che definiscono l’armonia, il contrappunto e l’in
terpretazione: ma altra cosa è poi saper suonare o cantare da cultori di Mel
pomene. Infine vi è la medicina, che secondo Aristotele è un’arte piuttosto
che una scienza; così come sono arti l’ingegneria o l’economia pratica. Non
che in esse non abbia parte la scienza; questa vi è caso mai presupposta. La
medicina presuppone la biologia, per quanto elementare questa possa esse
re. Ma la biologia non fonda la medicina nemmeno oggi, in tempi cioè adu
sati allo scientismo. La medicina è fondata unicamente sull’idea teleologica
della salute, la ir/LELCX, che è un’invenzione affatto umana e che, per quanto
ovvia, non troverebbe posto in una classificazione ontica delle scienze natu
rali. Dal punto di vista di queste ultime, infatti, un bel cancro è un oggetto
altrettanto degno di studio che un uomo, e per la biologia in sé non c’è
motivo di preferire questo a quello. La medicina vede invece come arte la
biologia umana in rapporto valutativo con l’ideale di salute, e anche quan
do si appella alla vis medicatrix naturae il suo tentativo consiste nell’attrar-
re dalla parte dell’uomo l’animazione divina che, nella visione primitiva,
sorregge la natura.
ESSERE E DOVER-ESSERI. 225

6. Tutto questo consente una prima ricapitolazione. Il bene e il male


assoluti sono definibili oggettivamente: il bene come ciò che aggrega e pro
muove unità più vaste o organiche tra i suoi elementi, il male al contrario
come ciò che disgrega e attraverso lo sminuzzarsi del contrasto conduce alla
morte per esaurimento. La conclusione si impone attingendo a un vasto
materiale induttivo, cosa che da un punto di vista speculativo può esser rias
sunta in poche righe. Ma il ragionamento con cui si dimostra l’esistenza di
un bene e un male assoluti, che qui abbiamo riprodotto parzialmente e per
accenni, non include tra gli elementi di sua spettanza le motivazioni di tut
ti gli individui indistintamente. Il mondo esiste perché una frazione delle
particelle elementari ha deciso di non esser simmetrica, dando così luogo ad
aggregazioni vieppiù complesse e unitarie pur nel conflitto. Per quanto
riguarda gli esseri umani l’esistenza del bene e del male non comprende la
motivazione alla vita racchiusa nel singolo. Vi è sempre una quantità non
certo trascurabile, anche se per noi marginale, di persone «simmetriche»,
che hanno scelto o sono state costrette a tale esito, dico la rinuncia del bene
e l’accettazione del male e questa consapevolezza rende per noi angoscioso
il ricordo parziale che abbiamo di tanti probabili fallimenti. Oggi il teadium
vitae si manifesta nel ricorso alla droga per divertimento, dove il diverti
mento, in questa come in tante altre forme, pare assumere non tanto le vesti
di una legittima vacanza, temporanea e ludica, dalla tensione d’impegno
principale per la vita, quanto quelle di una vera c propria neotema, della
nuova formazione o escrescenza di un modo di vivere disteleologico, auto
nomo e permanentemente al di qua del bene e del male. Paradossalmente,
si sarebbe indotti da una sorta di moralismo nazista, o comunque razzisti
co, a valutare il fenomeno della diffusione della droga in un’epoca che ha
visto di molto attenuarsi i rigori della selezione naturale nella lotta per la
vita, come un meccanismo teleologico o un dispositivo omeostatico che
porta a eliminare la nuova razza inferiore dei deboli, dei disadattati e dei
demotivati in modo da lasciare spazio ai veri «ariani», che così si contrad
distinguerebbero pur non portando la divisa. Stupisce che questo pensiero
non sia ancora stato formulato, se non, un po’ per scherzo, da De Crescen
zo. Eppure, in sé, esso potrebbe risultare vero; così come è vero che, essen
doci differenze individuali, devono anche esserci differenze razziali: sia pure
sotto forma di una curva gaussiana leggermente diversa nei vari casi. Ma una
siffatta verità naturalistica rimarrebbe per sempre sterile, non importa se
vera o falsa. Da un punto di vista umano, la teoria dell’eliminazione auto
matica degl’insipienti c dannosa; essa porta a disconoscere il legame che ci
216 OTTAVA LEZIONE

unisce anche a quelli di cui non capiamo le motivazioni o, meglio, che fac-
ciam finta di non intendere. Nella stessa guisa dai fratelli emarginati giun
ge sommessa la muta richiesta di un reinserimento: ecco ciò che non si può
respingere, ma che si deve rinforzare, per non introdurre il male nel nostro
stesso atteggiamento virtuoso. L’essenziale, al riguardo, è già stato scritto
da tempo. Perciò non mandare a chiedere per chi suona la campana: essa
suona per te.

7. Le questioni morali che più si prestano a discussione sono quelle in


cui compare il bene e il male di secondo grado. Mi spiego: dal bene assolu
to o di primo grado discende un bene e un male relativo, di secondo grado;
anche se dal male assoluto non discende nulla, a mio parere. Cristiani e
maomettani hanno professato di adorare lo stesso dio, che in latino si chia
ma Deus e in arabo Al-lah (perlomeno è lo stesso per Abramo fino a Isac
co; per Giacobbe la cosa è controversa). Ciò significa che fino a un certo
punto cristiani e maomettani hanno in comune lo stesso sistema e gerarchia
di valori. Eppure si sono costantemente combattuti; e ciò per cui si son fat
ti del male a vicenda non è dipeso dalla differenza genealogica tra Isacco e
Giacobbe, né da quella tra Mosè e altri profeti, ivi incluso Gesù. Questo è
un esempio del male di secondo ordine, per il quale una certa data divisio
ne, fortuita perché immotivata, diventa un momento di conflitto irraziona
le ma non per questo meno funesto. Altri esempi è inutile elencare. Diremo
solo della soppressione dell’Accademia di Atene, che non ha mai fatto del
male a nessuno, da parte di Giustiniano; o delle missioni dei gesuiti nel
Paraguay e nell’America Latina, che si inserivano in un legittimo, benché
inviso, tentativo di offrire una via all’emancipazione degl’indigeni. Il fatto
che da un bene primario possa discendere il male si scorge forse meglio
all’inverso, considerando il male che traspare da certi fatti celebrati come
edificanti o eroici. La revisione tuttora in corso dei giudizi e valutazioni ere
ditati dalla tradizione storica, e che è motivata da considerazioni ecumeni
che oltre che scientifiche, rende oggi facile quest’ultima specie di esempli
ficazione. Il contraccolpo più grave è quello subito dall’assiologia militare,
e ciò ha le sue buone ragioni. La carica dei 600 a Balaklava, per esempio, non
consente più di soffermarsi sul valore puramente militare dell’eroismo in sé,
con buona pace di Errol Flynn. Il fatto è che la percezione dell’eroismo, che
pure c’è, viene soverchiata dalla stupidaggine dell’ordine di caricare inermi
contro i cannoni, per tacere dell’altra, ancor più enorme, di una guerra inte
reuropea. Un altro punto che invita alla revisione del giudizio storico è
ESSERE E DOVER-ESSERE 227

quello relativo alla colonizzazione del Nuovo Mondo e al tentato, ma in


gran parte abortivo, soggiogamento dell’Asia e dell’Africa. Lentamente,
molto lentamente, un atteggiamento a un tempo più disincantato, tolleran
te e liberale nei confronti dello straniero (quale, non si può dire, perché cia
scuno ha il suo) incomincia a farsi strada anche nel senso comune della
coscienza la più comune. E si sarà notato che in questi casi e altri simili il
buon senso, e cioè il lume naturale dell’intelletto, a parte il senso comune
più incline al pregiudizio, è di valido aiuto per combattere il male di questo
genere, vale a dire secondario. Ma non tutte le questioni morali del male
derivato si lasciano dissolvere alla luce dell’intelligenza. C’è una casistica
morale più insidiosa che dobbiamo ancora discutere.
Si prenda per esempio il rapporto padre-figlio, che è anche d’introdu
zione ai problemi di teodicea di cui diremo subito appresso. Normalmente
i padri vogliono avviare i figli a una professione rispettabile e solida, ma i
figli spesso preferiscono impegnarsi, per lo più malamente, nel correr l’alea
di un’attività artistica incerta nel momento e di imprevedibile esito. Perlo
meno, questa è l’immagine richiamata da tanta letteratura di fine secolo, che
rispecchia un problema di adattamento professionale della classe media
agiata, il quale è autobiografico nel senso che la vicenda per definizione non
può esser mai raccontata da un autore fallito. Ma c’è una vignetta di Dau-
mier, nella quale un padre sbircia di notte in una stanza dove il figlio studia
tra molti libri al lume di candela, poiché, come dice la didascalia, «avviato
dal padre alla musica e allo studio del violino, stava alzato la notte per dedi
carsi ai suoi preferiti libri di ragioneria». La pointe è paradossale, ma illu
mina bene un lato del rapporto padri-figli. La letteratura più moderna, che
è andata a scuola da Freud, ha arricchito di molti altri aspetti, per lo più
spiacevoli, la polemica inerente a tale rapporto. Ma senza indulgere al para
dossale e a quant’altro di romanzesco si può ricavare dal contrasto, si può
benissimo immaginare il seguito del rapporto tra il padre artista, almeno
nelle intenzioni, e il figlio ragioniere o comunque normale, insofferente di
qualsiasi rischio e soprattutto desideroso di conservare a lungo la protetti
va amicizia del padre. Evidentemente si tratta di un figlio adolescente, e non
c’è nulla di paradossale nel descrivere un rapporto del genere, che per il
resto è ottimo e più che soddisfacente. Solo per un unico neo non si può
parlare di felicità perfetta. Ed è che il padre, per contrastare la propria ten
denza naturale a una vita puramente vegetativa, in contrasto col tono ner
voso richiesto dalle attività alle quali si dedica, è da lungo tempo abituato a
far ricorso a stimolanti; niente di speciale, s’intende, solo caffè in abbon-
218 OTTAVA LEZIONE

danza e, più moderatamente e all’occasione, il vino. Ma questo c sufficien


te per provocare, nel lungo termine, delle apprensioni nei familiari edotti
dai medici circa il suo stato generale di salute, particolarmente del cuore.
Ecco come si delinea un contrasto perfettamente legittimo, consapevole e
pulito. Le esigenze del figlio sono di conservare l’efficienza e la durata del
la vita del padre, ma questo promuove un accerchiamento dei suoi impulsi
attivi, che si vedono progressivamente ridotti entro i limiti di un’esistenza
vieppiù vegetativa. D’altra parte i tentativi di evasione del padre dal confi
ne tracciato intorno a un progetto di vita puramente igienica, che non è
conforme alle proprie esigenze, sono esposti a una tacita accusa di egoismo,
che non è d’entità minore per il fatto di apparire a chi lo vive giustificato da
motivazioni d’ordine superiore o comunque incommensurabili. La coscien
za del padre si trova così divisa, non diciamo dilacerata, tra le istanze di un
progetto vitale, interessante di per sé e non certo egoistico, se considerato
nei suoi termini, ma tale da apparire agl’intimi, particolarmente al figlio,
come separato dalle loro più immediate e pressanti esigenze; e non vale qui
rammentare che l’atteggiamento degli estranei alla cerchia famigliare sareb
be più disinteressato, si capisce, e quindi nettamente più favorevole alle
ragioni personali del padre. La coscienza del figlio, invece, pur essendo sor
retta da ragioni di buon senso generalmente altruistico, la preoccupazione
per la salute del padre, ha il tormento segreto di una mancanza di riguardo
più riposta, poiché non si può imporre a nessuno, nemmeno al più stretto
parente, l’ideale di una vita altruistica ma alienata. Il male dunque esiste, e
proprio all’interno del bene. E un male che non incrina i rapporti, ma nem
meno li fa prosperare al massimo del bene che pur sarebbe possibile. E pre
vedibilmente il compromesso tra le due contrapposte esigenze porterà al
fallimento di entrambe le realizzazioni; di positivo resterà solo il rimorso
di non aver seguito del tutto le ragioni dell’altro. La vita è afflitta da tanti di
questi insolu bilia.
Riassumendo, il male metafisico esiste come conseguenza della libertà.
Che la libertà sia possibile, è dimostrato dall’esistenza di un determinismo
puramente teleologico, nel quale la definizione del fine dipende dalla pro
pria elezione, non da necessità di natura. E impossibile chiedersi se questa
libertà sia un bene o un male, perché è connaturata in noi. Ma la libertà pro
duce il male; ed è fuori luogo chiedersi, qui, se il male da essa prodotto non
sia inferiore al bene che da essa pure deriva di conseguenza. Da questo male
generale, o primario, deriva quello secondario, di cui sono più profonda
mente intessute le nostre vite umane. Questo male secondario ha la peculia-
ESSERE E DOVER-ESSERE 229

rità di sorgere nel bel mezzo di intenzioni teleologiche pure, ossia non inqui
nate da irregolarità che non si conformano al fine. Perciò la dimensione eti
ca del giudizio sul bene e sul male, in quanto necessariamente secondaria in
rapporto alla vita umana, è indissolubilmente legata al problema dei valori.
I valori sono sempre più o meno particolari, ed è il loro stesso numero, oltre
che la questione della relativa priorità dell’uno rispetto all’altro, a costituir
ne il problema. La questione di quale sistema di valori sia da scegliere, inten
dendosi con sistema il numero e la gerarchia dei valori messi in ordine, non
è stato discusso perché è implicito in un ordinamento democratico che tut
to ciò da ultimo debba avvenire per alzata di mano di fronte alle varie richie
ste. È chiaro che, indipendentemente dalle singole richieste, ci sono valori
più grossi e pesanti che, come le pietre in un setaccio, vanno subito al fondo;
e altri che, per esser più minuti e particolari, devono accontentarsi degli inter
stizi: ma per principio tanto le pietre quanto il setaccio hanno pezzatura e
fessure variabili e nulla c’è di indispensabile, salvo le pietre e il setaccio stes
si. Ciò non toglie che a ciascuno è lecito proporre un proprio sistema di valo
ri, purché poi non si lamenti che non c’è nessuno ad ascoltarlo. Il compito
proprio di queste discussioni spetta alla filosofia morale e politica, che qui
lasciamo volentieri ai colleghi della stanza accanto.
Se l’invenzione della libertà, e cioè del male che ne è conseguenza, sia
stata o no utile, questo problema che abbiam detto non si pone nella con
dizione umana, può tuttavia riproporsi in generale in relazione alla crea
zione ex nihilo, riportata a Dio. Si definisce così il problema principale del
la teodicea, che è quello della giustificazione del male dal punto di vista di
Dio. Il presupposto dell’argomento è che Dio non era affatto obbligato a
creare il mondo; altrimenti ci si chiede chi o che cosa l’abbia costretto a far
lo, e si ripropone il problema. Dunque, Dio ha creato il mondo pur preve
dendo e anzi sapendo, in base al postulato della onniscienza, che il male
avrebbe fatto parte del mondo, se consentiva a dotare di libertà almeno un
punto del mondo: che è l’uomo. Ora ci chiediamo come, dal suo punto di
vista, questo possa esser giustificato. Il linguaggio teologico che abbiamo
usato per esporre l’argomento si ammetterà che senz’altro è molto como
do per esprimere concisamente la questione. Ma uno potrebbe chiedersi se
l’argomento, in se stesso, sia indipendente dalla teologia, in particolare dal
la teologia giudaico-cristiana; e se, in assenza di questa, non si dimostre
rebbe, piuttosto, che non c’è nessun problema su cui disputare. Ma quel che
abbiamo detto circa la libertà c il male renderebbe obbligatorio il riferi
mento teologico, anche in assenza di Dio o, più propriamente, proprio per
23O OTT/WzX LEZIONE

tale ragione; perché, allora, diverrebbe ancor più pertinente chiedersi che
cosa consideriamo in generale giusto, tenuto conto del fatto della libertà che
produce, anche senza volerlo, il male. Cercheremo dunque di far vedere la
sussistenza, anche se più scomoda da esprimersi, di questa possibilità non
specificamente teologica dell’argomento.

S. Se Dio non ha creato materialmente il mondo, ciò significa che egli non
può esser ritenuto responsabile del male fisico. Questo comporta la restri
zione del senso della creazione al mondo inteso in senso morale e metafisi
co, e quindi la ridefinizione del male in conseguenza. Ora il male morale
dipende dal trasgredire la norma del bene, pur conoscendola, e questo non
si applica a Dio. Solo il male metafisico coincide con la responsabilità della
creazione, e ogni discussione deve accentrarsi proprio su questo punto. La
responsabilità di Dio consiste dunque nell'aver stabilito delle norme che egli
poteva ben prevedere che non sarebbero state seguite, generando quindi il
male come conseguenza quasi inevitabile. Questo «quasi», al quale è affida
ta la responsabilità specificamente umana del trasgredire la norma divina,
richiede un’analisi dell’idea che noi ci facciamo dell’onniscienza che Dio può
avere, poiché dalla natura di tale prescienza del futuro dipende la nostra
autonomia rispetto alla norma, e quindi il male. Infatti, se Dio fosse stato in
grado di prevedere non solo tutti gli eventi, ma anche ciascun atto volonta
rio da parte di ogni singolo uomo in ogni singolo momento della sua esi
stenza, egli diverrebbe il creatore ultimo del male, se non causalmente o per
conseguenza diretta, per lo meno occasionalisticamente. Ci si può d’altron
de chiedere se sia lecito all’uomo ergersi a giudice di Dio o quanto meno por
re la logica come un’istanza sovraordinata al rapporto tra l’uomo e Dio. Tut
to ciò è senz’altro ammissibile da un punto di vista criticistico, kantiano o
comunque immanentistico, per il quale l’intera teodicea non è che lo sforzo
del pensiero umano di sottoporre a giudizio morale, quasi in tribunale, se
stesso e le proprie pretese, allo scopo di saggiarne sia l’autoconsistenza sia le
prospettive di realizzazione. Ma, anche se la sostanza della questione resta la
stessa, noi preferiamo per ragioni di metodo la sua espressione obicttivata,
alla maniera di Leibniz, che parla di Dio come di un’entità in sé. In questo
senso, se è lecito parlare di teologia, bisogna presupporre che la logica sia
comune a Dio e all’uomo, e anzi sovrastante a entrambi i termini. Allo stes
so modo deve esser la stessa ogni forma di normativa teologica che si sia con
venuto di far valere. Altrimenti bisogna dire che la stessa teologia costituisce
una deroga dalla norma, cosa che per fortuna non è stata mai detta.
ESSERE E DOVER-ESSERE 231

Notiamo anzitutto che il concetto di prescienza (o di onniscienza) è


ambiguo. Esso equivale a un sapere perfetto, che tra le tante cose è caratte
rizzato dalla capacità di preveder tutto. Ma proprio il concetto di «preve
dere tutto» è ambiguo, perché non distingue il tutto della totalità dei casi
possibili e la previsione di quell’unico evento che accadrà. Nel gettare un
dado io posso preveder tutto nel senso dei sei casi possibili, tra i quali ne
sortirà uno, oppure posso intendere quell’unico caso su sei che ne sortirà.
Così la prescienza che attribuiamo a Dio può benissimo esser perfetta, ma
solo nel senso di disporre di una memoria infinita, non delimitata da alcun
particolare, per quanto minuto esso sia, e di una capacità sia d’intuizione sia
di ragionamento istantanei, tali cioè che nulla sfugga a esse di quanto esiste
o quanto conseguirà a ciò che esiste in un momento dato, ma non può la sua
perfezione intendersi nel senso di superare la logica: il punto di vista di
Leibniz è quello più compiutamente razionale che sia mai stato concepito,
perché, pur consapevole della nostra ignoranza in merito, non ammette che
se ne tragga argomento indebitamente sofistico, anche se in apparenza
mistico. Ora, in una prescienza così intesa, permane l’ambiguità che si è rile
vata. Nel concetto di «prevedere tutto» da parte di Dio, è incluso o no l’e
vento la cui realizzazione dipende dalla libera scelta dell’uomo? Non è pos
sibile rispondere a questa domanda se prima non si distingue tra previsione
del possibile e previsione esistenziale. Il tenore dei due diversi significati
dovrebbe esser chiaro. Un conto è dire che io posso preveder tutto nel sen
so che quel che poi accadrà deve rientrare in una delle possibilità previste,
come uno che vincesse al totocalcio per aver giocato tutte le schedine; e un
altro è predire qual sarà quell’evento unico giocando un’unica scheda tra le
tante, la qual cosa, se l’evento è perfettamente random, cioè casuale e alea
torio, nel senso teorico forte di privo di causa, risulta impossibile prevede
re razionalmente. Può ben darsi che il caso in assoluto non esista, ma solo
in rerum natura. Se esiste la libertà, mia come degli altri, esiste anche il caso,
nel senso che non tutto quel che avviene è razionalmente prevedibile, dal
momento che dipende da scelte e ragioni altrui. Ciò che appare razionale
dal punto di vista delle motivazioni di un altro può essere fortuito, motiva
to a caso, dal mio punto di vista, e questo si deduce dalla molteplicità dei
valori c dal fatto che non sempre si agisce motivatamente. Ora ciò che vale
per noi a maggior ragione vale per Dio, ma bisogna dire come.
In un certo senso la previsione del possibile include anche quella del
futuro esistenziale, ma come si è detto non è quel che intendiamo con pre
visione dell’aleatorio, che si manifesta esattamente quando questo si verifi-
o t t a v a l e z io n e
232

ca. E abbiam detto anche che, se la prescienza divina include anche l’esi
stenziale, ciò finisce con l’includere la stessa scelta da parte dell’uomo e
quindi contraddice alla libertà. Un momento di incertezza è creato dall’in
terpretazione occasionalistica di questo corno del dilemma, ma diamo
ragione a Leibniz nel respingere come paralogismo siffatto argomento.
Come interpretazione coerente sia con la logica sia col presupposto della
volontà libera non resta che quella per cui la previsione divina è solo dei pos
sibili, mentre la scelta esistenziale resta appannaggio dell’uomo in punto di
farla. Se Dio volesse includere nella sua sapienza anche la spiegazione e la
previsione di questa scelta, ciò ridurrebbe l’uomo a un ente di natura, come
un minerale di cui una previsione illimitata saprebbe predire lo stato attua
le, se mancasse ogni altra iniziativa. Ma abbiamo già escluso che leggi natu
rali, anche se ignote, siano determinanti di teleologie liberamente poste. La
delimitazione della prescienza ai possibili deve inoltre subire secondo logi
ca un’altra limitazione quanto al numero dei possibili, resi così possibili. Il
numero dei possibili deve essere almeno uguale a quello delle scelte teori
camente possibili, e questo numero, per quanto grande e anzi infinito, deve
nondimeno esserlo tutt’al più nel senso del limite del denumerabile, cioè
aleph con zero. Non si saprebbe neppure concepire in astratto una ramifi
cazione delle scelte che presenti dei nodi della densità del continuo, e
comunque l’infinito denumerabile è anche il limite di una memoria indefi
nitamente estendibile, corrispondendo al suo catalogo. D’altra parte, aven
do Dio creato il migliore dei mondi, secondo Leibniz, in base al computo
di tutti i possibili, è chiaro che anche un intelletto divino deve distinguere
il pensiero del possibile dall’intuizione del reale. Dunque anche in Dio la
sapienza del possibile è distinta dalla sapienza del reale, e quest’utima è limi
tata al presente quasi come la sapienza dell’uomo, non tenendo conto dei
difetti di approssimazione. Quindi anche la sapienza e la coscienza reali di
Dio, al presente, sono una funzione del tempo e in particolare della storia,
e l’eventuale definizione del suo ideale di giustizia deve tener conto anche
di quest’ultima e più inquietante variabile. Date le difficoltà pressoché proi
bitive del ragionamento delineato, si capisce perche la maggior parte dei
filosofi abbia preferito ripiegare sulla sua versione immanentistico-trascen-
dentale, proponendo la teodicea come un problema di autocritica raziona
le della coscienza morale di fronte a un tribunale che essa stessa si impone.
Tuttavia per chi crede nel bene e nel male in assoluto, si esige una risposta
se non diversa nella sostanza, quanto meno impostata diversamente, in
modo da non annullare un problema tanto faticosamente affastellato. Simil-
ESSERE E DOVER-ESSERE 233

mente nel Dies irae Tommaso da Celano rivolge a Dio l’invocazione affin
ché non sia cancellata l’immane fatica della Passione.

9. Il problema assume tutta la sua importanza solo se si inserisce nel dise


gno di una teleologia oggettiva. Nei sistemi di pensiero di derivazione kan
tiana e neokantiana, il presupposto criticistico di ammettere come teoria
della conoscenza non più che un’istanza di conferma di quanto esiste secon
do la scienza naturale, che è quella di fine secolo, agisce come deterrente nei
confronti di ogni argomento del disegno. Il giudizio teleologico è ammes
so soltanto in sede soggettiva, valevole in quanto regolativo ma puramente
interno, senza rilevanza effettiva sul decorso degli eventi oggettivi. Ciò è
dimostrato dalla stessa opera maggiore di Cassirer, che assegna alla finalità
del giudizio solo un ruolo subordinato, non esistenziale, all’interno del pro
blema del significato nella filosofia delle «forme simboliche». Sarà tutt’al
più nelle scienze dello spirito, linguistiche, sociali e genericamente umane,
che la teleologia in uso otterrà uno statuto particolare, accanto ma subor
dinatamente all’autentica oggettività scientifica. I neokantiani evidente
mente ritengono di neutralizzare il naturalismo implicito nell’appello a «sal
vare i fenomeni» secondo un’ortodossia scientifica che, dopo tutto, è quella
stessa del positivismo, mediante il ricorso sempre più pervasivo alla mate
matica che, specie in Cohen e la sua scuola, diventa un programma di vero
e proprio scientismo che minaccia di snaturare la stessa matematica. I pro
gressi di quest’ultima, in sede di filosofia della matematica e dei fondamen
ti, hanno rapidamente fatto giustizia di tali tentativi, emarginandoli. Ma ciò
non fa che rendere ancora più scoperto il conto che mette la filosofia in
debito di proposte nei confronti del problema teleologico del disegno.
L’argomento del disegno riemerge in ambito non filosofico ma scienti
fico, a proposito della termodinamica c del problema dell’entropia. Se l’en
tropia c una legge che rientra nella meccanica classica, come un tempo si era
costretti a ritenere, le sue risultanze entrano in diretta contraddizione col
pensiero dell’eternità del mondo. Questo pensiero, benché non sia mai sta
to asserito come principio, è tuttavia implicito nella concezione stessa del
la meccanica classica, che considera il tempo come variabile esterna, del tut
to indipendente; ed c un principio abbastanza forte da fiaccare ogni altra
istanza e ridurre il moto dell'intero universo, data l’immensità del tempo
già trascorso, ai suoi minimi termini, in accordo con la legge di entropia.
Appellarsi all’inconcludenza ultima di questa legge non è un pensiero con
solante, vuol dire solo scegliere il punto di vista della tartaruga, f(t)y rispet-
OTTAVA LEZIONE
234

to a quello del sorpasso del pie’ veloce Achille, che sarebbe t. Nemmeno l’i
potesi di un big bang sarebbe d’intralcio alla meccanica classica (e infatti è
stata formulata in epoca posteriore), in quanto farebbe sorgere egualmente
il problema del tempo anteriore. È degno di nota che Agostino abbia dato
alla domanda una forma «classica», cioè quid faciebat deus, antequam face-
ret caelum et terram — pur opponendole una risposta non classica, nec ah-
quo tempore non erat tempus.
Proprio come dobbiamo fare noi. Anzitutto è necessario togliere l’argo
mento dal suo duplice inviluppo teologico, quello del tempo della creazione
e quello del disegno prefigurante un’intenzione divina. In altre parole, l’ar
gomento che è stato detto ontologico del Gottesbeweis, o prova di Dio, deve
potersi dare in versione cosiddetta fisico-teleologica, conservando la struttu
ra del disegno ma senza l’assegnazione a una sostanza. La prova ontologica
di Dio consiste essenzialmente nell’uso teologico del procedimento di defi
nizione astrattiva, che conclude all’esistenza di ciò che è rilevante per l’astra
zione. Questa prova, come si è detto a proposito della filosofia della mate
matica, non è conclusiva; poiché, per dirla in generale, non si può passare
logicamente dalla categoria semantica dell’aggettivo, sulla cui rilevanza si basa
l’astrazione, a quella ben diversa del sostantivo, presupponente un denotato,
al quale vorrebbe concludere l’argomento. Nella forma che gli ha dato Ansei
mo di Canterbury (o d’Aosta), Dio è definito astrattivamente come aliquid
quo maius nihil cogitaripotest, e ciò è messo in evidenza dall’operazione stes
sa di intelligere da parte deWintellectus. Ora, senza spostare una virgola, l’in
tellezione della frase può diventare sibillina. Normalmente, ma seguendo la
semantica dell’aggettivo, se ne considera l’esito secondo il comparativo e
quindi il superlativo relativo, e si è indotti così al limite che termina l’inten
sificazione, Valiquid al di sopra di rutto. Ma si potrebbe altrettanto bene fis
sare la mente sulla stretta intellezione sostantivale della frase, in cui è il nihil
substantivum ciò di cui non si può pensare alcunché di maggiore, perché allo
ra sarebbe qualcosa e non il nulla. In questa interpretazione non si può oltre
passare il nulla da cui si parte, e l’argomento si elimina da sé. Dispiace in que
sto dover tener la parte di Gaunilone cui, sebbene per un’altra ragione, si è
convenuto da tempo immemorabile di far svolgere la parte di villain dell’ar
gomento dialogato. In ogni modo anche Gaunilone converrebbe che il fatto
che l’argomento non dimostri quel che vorrebbe, non vuol dire che Dio non
esista. Anzi, il procedimento di Sleigerung o intensificazione dell’aggettivo
mostra che il suo senso non sostantivale è legittimo, anche se non può con
cludere all’esistenza come all’isola incognita di Utopia.
ESSERE E DOVER-ESSE RE ^35

L’argomento ontologico sfuma insensibimente, attraverso la Steigerung


dell’aggettivazione, in quello fisico-teleologico. Già ne abbiamo visto l’ef
ficacia in quello di Anseimo, per quanto non esplicita tematicamente. Que
sto aspetto è presente nell’argomento di Descartes, quando esso fa appello
alla perfezione. La possibilità di un grado superiore di quelle stesse qualità
di cui godiamo è la prova della dipendenza del nostro essere da un essere di
qualità superiori. L’argomento è riproponibile, quale che sia il livello delle
qualità considerate; benché impredicativo, vale a dire non riferibile a una
sostanza, l’argomento è nondimeno reiterativo e induttivo. Questo signifi
ca che la rilevanza sottintesa dall’astrazione è capace di concentrarsi in qua
lità superlativa, ed è sotto questa forma che essa, come fine in sé, entra a far
parte del giudizio teleologico. Il giudizio teleologico, tra l’altro, offre la
peculiarità di presentare sotto la forma di un fine il riferimento a un ogget
to inesistente; infatti è solo subordinando l’azione da compiere a un tale
scopo che questo infine potrà di fatto realizzarsi. Ciò si può esprimere in
maniera paradossale dicendo che nel giudizio teleologico la rappresenta
zione del fine diventa una causa (finale) della sua stessa causa (efficiente),
dato che senza di essa quest’ultima non si realizzerebbe. Se si analizza con
cura questa proposizione, cercando di evitare le equivocazioni puramente
verbali, si troverà che tale impressione sparisce. Non c’è infatti nulla di para
dossale nel disegnare il progetto della casa da costruire, e poi nel costruirla
seguendo dappresso le indicazioni evidenziate dal blueprint, anzi sarebbe
strano realizzare qualcosa di complicato senza avvalersi della comodità
offerta da un progetto minuziosamente disegnato in debita scala. Anch’es-
so è causa, sebbene in senso tutt’affatto formale e finale, e nessuno ha mai
creduto che il progetto stampato in eliografia potesse sostituire il lavoro del
muratore e i materiali da impiegare. Caso mai, all’argomento cartesiano
bisogna aggiungere che, quando si parla di fondamento, si deve in esso
intendere la causa solo in senso formalc-finale, quale momento specifico del
disegno, essendo l’altra causa, quella materiale-efficiente, destinata a una
diversa mediazione, importante ma inessenziale per l’argomento. Queste
cose sono talmente ovvie che bisogna vincere un certo ritegno per riespor
le; c ci si chiede, allora, come mai esse abbiano un’aria strana quando com
paiono insieme in un ragionamento. Si è già data, con questo, la risposta. La
paradossalità dell’argomento fisico-teleologico consiste in nient’altro che
nel mettere di nuovo insieme quel che avevamo separato distinguendo un
mondo dei fenomeni naturali, oggettivamente privo di fini, e un mondo
noumenico, regolato invece da giudizi riflettenti. In realtà l’universo è neu-
236 CITAVA LEZIONE

trale, nel senso che non esiste separatamente né un mondo né l’altro. Solo
la fisica classica, ma per ragioni di metodo, è apparsa consegnata alla visio
ne di un sistema di mondo ateietico.
Per la riconsiderazione della teleologia in senso forte, o oggettivo, erano
necessarie due condizioni tra loro interdipendenti, che sono state soddisfat
te dalla scienza naturale contemporanea. La prima è formale, e consisteva nel
far vedere che la descrizione di un processo in linguaggio matematico è indi
pendente dal fatto che esso segua leggi meccaniche o teleologiche, purché l’e
vento sia regolare o se ne possa spiegare l’apparente irregolarità. In partico
lare, data la nuova definizione di evento come decorso spazio-temporale, che
sostituisce vantaggiosamente il concetto di una cosa istantanea, relativa a una
sua sezione, si è apena la possibilità di intendere i rapporti diacronici tra pri
ma e dopo, e anche tra dopo e prima, come relazioni strutturali vigenti anche
nel presente, quando cioè il futuro, benché implicito, non esiste ancora. La
concezione strutturale dell’evento, in altri termini, rende comprensibile sin-
cronicamente anche ciò che quanto a presenza è diacronico, e toglie con que
sto semplice atto rappresentativo ogni paradosso temporale all’idea di una
causalità che (formalmente) vada dal dopo al prima. A parte questo, se l’o
biettività delle scienze fisiche dipende da quanto in esse c’è di matematica,
giusta l’ammonimento kantiano soviel Mathematik, soviel Wissenschaft, la
dimostrazione dell’oggettività della teleologia è offerta dalla «teoria dei siste
mi» di Bertalanffy. Benché incentrata prevalentemente sulla biologia, la teo
ria dei sistemi presenta un vasto spettro di possibili applicazioni, dalla fisica
e chimica dei sistemi aperti, attraverso la biologia molecolare e degli organi
smi, alla psicologia e psichiatria fino alle scienze umane e alla stessa storia.
Inoltre essa offre una compiuta trattazione formale matematica del concet
to di sistema che, partendo dai lavori di Volterra, Lotka, D’Ancona, Gause
e altri, perviene alla definizione delle equazioni non-lineari (che permettono
l’espansione in serie di Taylor) come strumento che forma la chiave analiti
ca della ricerca. Non è qui il caso nemmeno di tentare un sommario di tale
arricchimento problematico, il cui nuovo stile è già da tempo la caratteristi
ca più saliente delle scienze àe\Vinformazione. Basterà dire che le questioni
coinvolte dalla teoria dei sistemi sono tali e tante, che in sua assenza non
avrebbe potuto svilupparsi, per scegliere un esempio tra i molti possibili,
nemmeno la sociologia di Luhmann.

io. Questa rivoluzione di grande portata filosofica è stata introdotta nel


sapere dallo sviluppo stesso delle scienze, nel momento in cui si è reso
ESSERE E DOVER-ESSER1. 237

necessario un accostamento analogico tra di esse, privilegiando un taglio


trasversale. Si è così verificata una nuova affermazione dell’unità del sape
re scientifico, benché in una maniera non prevista dai fautori dell’«unità
della scienza» secondo lo stile Einheitswissenschaft o Unified Science degli
anni trenta. La filosofia aveva già discusso di questi problemi nel xvn e
quindi nel XIX secolo, con Leibniz e Dilthey rispettivamente, ma senza
disporre di strumenti adeguati. Un’eco di ciò si ritrova nei concetti di ordre
de la nature e ordre de la gràce, sviluppati da Malebranche e rielaborati più
sistematicamente da Leibniz. Forse anche lo sviluppo moderno trovereb
be una collocazione a parte, che lo priverebbe del suo momento rivoluzio
nario, se non fosse per la concomitanza della seconda condizione menzio
nata sopra. Questa interviene mettendo in discussione in modo
decisamente non marginale i fondamenti stessi della fisica classica, indi
pendentemente da ogni considerazione analogica e trasversale. L’opera di
revisione dell’intero edificio della fisica, e che offre una diversa soluzione
al problema della termodinamica, cioè l’entropia, si deve principalmente a
Prigogine, del quale abbiamo già parlato a proposito di Boltzmann. Il lavo
ro di Prigogine s’intitola significativamente alla «nuova alleanza» tra le
scienze umane e la fisica, che risulterebbe di nuovo possibile sviluppando
la scienza fisica su presupposti che, essendo molecolari, statistici e aleato
ri, oltrepasserebbero per principio la meccanica classica c il suo principio
di induzione esatta. Quanto meno, sarebbe la scienza governata da questo
principio classico d’induzione (quello, per intenderci, che portò a formu
lare la legge di gravitazione universale) a trovare una collocazione non si
dice emarginata, ma comunque defilata e a parte, mentre la nuova scienza
fisica troverebbe piena espressione portando a compimento le idee origi
narie di Boltzmann, non snaturate dalla falsa interpretazione del significa
to dell’entropia. Non tanto dalla fisica dei quanti, delle particelle e delle for
me di energia Prigogine si attende il rinnovamento, anzi la rivoluzione della
fisica, quanto da una rifondazione radicale del più importante dei princìpi
della scienza, quello d’induzione. A conclusione di tutto questo, non pos
siamo lasciare insoddisfatta la riacutizzata curiosità suscitata dall’interven
to di Prigogine: qual c in fin dei conti il significato da assegnare alla legge
di entropia? La risposta, com’era forse prevedibile, non si oppone alla pre
cedente (quella classica) nel senso di un impossibile esito positivo, ma con
serva tutta la sua naturale indeterminatezza. Ciò che vi è di positivo è il fat
to che l’immagine dell’universo, qualsiasi cosa essa voglia dire, non è più
claustrofobica.
23 8 OTTAVA LEZIONE

La presenza rilevabile forse oggettivamente di un disegno o di un affla


to d’intelligenza cosmica giustifica quanto meno la speranza e cioè la sen
satezza dello sforzo. Dio non è così indiscreto da imporre la sua presenza
mediante un’inconfutabile dimostrazione. Deve bastarci l’indeterminata
certezza che ci si può credere onestamente.

Nota bibliografica

In tema di morale si v. anzitutto le opere che introducono ai concetti


moderni di «secolarizzazione» e di «disincantamento del mondo», vale a
dire Max Weber, Uber einige Kategorien der verstehenden Soziologie
(1913), DerSinn der «Wertfreiheit» der soziologischen und oekonomischen
Wissenschaften (1917); e Max Scheler, Vom Umsturz der Werte, 2 voli.,
Leipzig 1919; la loro fonte comune è in Friedrich Nietzsche, Genealogie der
Moral (1887).
Sulla «teoria dei sistemi» in generale v. Ludwig v. Bertalanffy, General
System Theory, New York 1968; su questioni correlate cfr. Brice Parain,
Recherches sur la nature et les fonctions dii langage, Paris 1942; Arthur Koe-
stler, The Ghost in thè Machine, New York 1968; e sopra tutto, Ilya Prigo
gine & Isabelle Stengers, La nouvelle alliance, Métamorphose de la Scien
ce, Paris (1979), 1986.
Nona lezione

Etica e politica
La servitù, il potere, il comuniSmo

i. Discutere di politica e di potere ci riporta, forse in maniera più con


creta e di certo più perspicua, alla stessa impossibilità che avevamo notato
a proposito della morale. Di qualunque morale si parli, non è infatti possi
bile trattarne in termini che siano a un tempo obbligatori e universali; e tut
tavia è richesto che se ne parli proprio in tali termini. L’impossibilità si risol
ve parlandone in termini metaetici e metapolitici, cioè di forma e non di
contenuto. La regressione metateoretica è indispensabile per evitare l’anti
nomia di Russell che si darebbe usando la formula «il concetto di tutti i con
cetti formali», cioè il concetto di tutti quei concetti che non hanno per con
tenuto che la loro stessa forma. Si può parlare di morale, non di etica, solo
a proposito di morali regionali, che siano o non universali, o non obbliga
torie. In altre parole, ogni morale concreta non è un’etica, ma un’etichetta.
Considerazioni del tutto simili valgono anche per la politica, dove la cogen-
za della norma si stempera immediatamente sotto forma di una proposta
che può essere accettata, ma non è detto debba esser così intesa; e dove l’u
niversalità dei princìpi anche limitatamente a uno stesso luogo prende for
me diverse, secondo la classe sociale dal punto di vista della quale essi ven
gono enunciati. Il relativismo della politica è assai più spiccato che quello
dell’etica e, quel che più conta, sembra evidente che tale principio debba
valere anche in sede metapolitica.
Così, nel considerare la politica del XIX e XX secolo, l’universalità dei
princìpi deve rifarsi a coppie oppositive di essi che, come liberalismo e comu
niSmo, rendano superfluo parlare di posizioni intermedie (o subcontrarie) o
comportino l’esclusione per principio di atteggiamenti dichiaratamente non
universali (come il razzismo, il nazismo, o anche il socialismo o il liberali
smo «in un solo paese»). L’universalità stessa dei princìpi, si è detto, va sog
getta a limitazioni se intesa in senso sociologico. Ma di questo parleremo poi;
perii momento intenderemo la discussione sui princìpi esclusivamente in
24O NONA LEZIONE

senso essenzialistico. Naturalmente la storia di due secoli ha avuto un peso


determinante nel ridefinire la spettanza relativa dei due poli in concreto, che
quindi non possono intendersi attraverso il solo valore nominale delle rispet
tive ideologie. Il liberalismo del XIX secolo è in difetto di universalità, in
quanto non ammette che un suffragio delimitato dal possesso di un certo
censo, e in tal misura non è democratico. Viceversa il comuniSmo, così come
veniva inteso per esempio da Marx nel 1848, assumeva con le rivendicazio
ni sociali anche molti tratti della democrazia in senso radicale. L’opposizio
ne tra i princìpi non può dunque essere intesa in maniera nettamente antite
tica, come vorrebbe la polemica tra le rispettive ideologie, ma deve tener
conto del fenomeno dell’interscambio tra le due posizioni, che lasciando
inalterato il nome diventa compatibile col mutare del significato. Da un pun
to di vista nominale liberalismo e comuniSmo sono entrambe ideologie uni
versali, nel senso che non prefigurano il tipo di utente al quale si applicano:
la stirpe ariana, la razza bianca o il certificato di completa estraneità alla dro
ga. Una volta eliminate queste eccezioni, tuttavia, è facile vedere come il pro
blema si faccia subito più complesso e indecidibile.
E fin troppo ovvio osservare che il liberalismo è effettivo solo a condi
zione della proprietà privata, che rende possibile condizioni di vita tollera
bili, l’istruzione e il godimento dei diritti civili; ma la proprietà privata non
può essere estesa a tutti, universalmente, perché non ce n’è abbastanza e, se
anche fosse, non si potrebbe rovinare il mercato. La legge del mercato si
regge infatti sulla penuria, e questa esige l’esistenza di una classe maggiori
taria di bisognosi. Per contro, mi scuserete se qui mi astengo dal parlare
altrettanto male del comuniSmo, tanto i suoi difetti sono sotto gli occhi di
tutti e non mi piace atteggiarmi a Maramaldo. Oggi il tentativo del comu
niSmo del XX secolo di eliminare d’un tratto l’economia di mercato ci appa
re in restrospettiva donchisciottesco, e si saluta come un fatto beneaguran-
te l’avvenuta resipiscenza dei comunisti su questo punto; ma bisogna anche
rendersi conto del significato che avrà, alla lunga, aver rinunciato alla criti
ca di principio di tale presupposto. Il difetto del comuniSmo del XX secolo
consiste nell’essersi identificato per troppo tempo col destino storico e seco
lare dell’Unione Sovietica. Lo sviluppo dell’industrializzazione, indipen
dentemente dall’idea del mercato, condusse alla necessità di una politica
economica protezionistica su scala fino allora mai vista. Di fatto era un’ap
plicazione dei princìpi economici di List, i quali han dato buona prova nel
caso della Germania, del Giappone e degli altri paesi che oggi si dicono
industriali, come l’Italia. In Russia è stato più difficile valutarne l’esito, per
ETICA E POLITICA 24I

l’intrecciarsi dell’altro fattore, quello della mobilitazione totale delle risor


se del lavoro in senso socialista. Ormai lo sviluppo industriale non si lascia
più seguire seguendo il modello di List. India e Cina offrono interessanti
termini di paragone al riguardo. Ma in Iran, invece, la chiusura delle fron
tiere conseguente alle riforme dello Scià, quella agraria e l’industrializza
zione, non pare aver prodotto altro che disoccupazione e, come rimedio
abortivo, militarismo: il rinascimento islamico ne è la temporanea raziona
lizzazione. Forse oggi le stesse ragioni di carattere nazionale che consiglia
rono la Russia sovietica alla chiusura spingono altri nella direzione oppo
sta dell’integrazione nel grande mercato mondiale, ovvero si assiste a un
riallineamento d’altro genere motivato dal timore del terzo mondo. Ma
intanto i comunisti non fanno mistero d’esser disorientati dall’apprendere
che l’Unione Sovietica ha deciso di far propria la legge del mercato, e che
quindi viene a patti con la corruzione. Ormai non resta che sperare che l’ab
bondanza delle merci banalizzi la stessa corruzione e che anzi da ultimo
demolisca lo stesso mercato. Ma siamo finiti nei sogni.

2. L’universalità, che è necessaria al politico, abbiam detto di volerla pri


ma considerare dal punto di vista essenzialistico. Questa interpretazione
non esaurisce nemmeno l’essenza della politica, ma è sufficiente a esclude
re il particolarismo. Il nazismo è per esempio particolarista per eccellenza,
e l’immoralità di una tale politica è dimostrata dal fatto di volere uno spa
zio vitale, tagliato abbastanza largo, per i soli tedeschi, senza riguardo per
quelli che in tale spazio ci sono già; cosa che poi si riduce al ridicolo, anche
se c’è stato poco da ridere, pensando al fatto che la propaganda nazista trae
va ampi lamenti dall’ostilità del mondo nei loro confronti. Sembra assurdo
che una dottrina politica teorizzi l’egemonia di un popolo su tutti gli altri,
faccia il possibile per realizzarla e poi, non riuscendoci, incolpi il mondo di
non aver voluto collaborare. Da questo punto di vista non c’è altro da dire,
volendo attenersi a un criterio di sensatezza.
L’universalità richiesta alla politica costituisce quel che vorrei chiamare
il «numero di Avogadro» del suo impianto essenziale, così come quel con
cetto lo è per la chimica volumetrica. Bisogna cioè stabilire per principio che
il cittadino sia uguale a tutti gli altri cittadini. Noi sappiamo che gli uomini
non sono tutti uguali per natura, condizione c censo. Si può parlare di un
diritto dell’uomo, anteriore e indipendente da quello del cittadino? La dif
ferenza della risposta, sì o no, indica il divario tra Locke e Rousseau. Il pun
to di vista qui discusso, quello essenzialistico, e proprio del contratto socia-
242 NONz\ LEZIONE

le di Rousseau. L’uomo di natura, il sauvage, non ha nessun diritto. Egli è


libero fin tanto che sa mantenersi tale. Solo alienando la sua libertà per acce
dere a un patto sociale, potrà vedersela restituita sotto forma di diritto (alla
libertà) nelle forme previste dal contratto stesso. Anteriormente al contrat
to, è chiaro che non ci sono diritti di sorta. Di diverso avviso è la concezio
ne che si ispira a Locke, che si assomma nel sostenere una retroattività 0
analogia iuris, dal diritto ottenuto per contratto del cittadino, alle libertà e
proprietà del selvaggio, che ripugna considerare res nullius. Ma di ciò dire
mo a suo luogo. Per il momento per esempio il nascituro è tale, perché non
essendo ancora iscritto all’anagrafe, non è cittadino e non possiede diritti.
Come si vede, il cittadino non è in grado di recuperare in forma legale tut
te le libertà dell’uomo; appunto l’uomo non aveva la libertà di nascere, pri
ma che fosse nato.
Il numero di Avogadro è relativo al fatto che ogni molecola di una cer
ta sostanza, se presente sotto lo stato gassoso, viene a occupare, in condi
zioni normali di temperatura e di pressione, sempre lo stesso volume. In
realtà questo è vero con una certa approssimazione. Ma quel che conta è che
tale principio regge rutta la chimica sotto un certo aspetto, quello volume
trico o dello spazio chimico. Attraverso questo principio si riesce a dire, non
importa se il gas in questione è l’idrogeno o l’esafluoruro di uranio, di mas
sa molto superiore, che essi occupano lo stesso spazio fisico; oppure che, se
ridotti allo stato di ioni in soluzione acquosa, entrambi osservano la stessa
proporzione volumetrica. Questa circostanza rende possibile parlare chi
micamente, cioè di combinazioni e permute che divengono intelligibili per
ché mediate dalla stessa struttura reticolare dello spazio. Allo stesso modo
si può concepire la vita politica, se mediata dalle concezioni strutturali che
reggono l’idea del contratto sociale di Rousseau. Nel definire che cos’è un
cittadino, per Rousseau, noi veniamo stabilendo quale sia il suo spazio di
libertà entro un reticolo di diritti, che circoscrivono il numero di Avogadro
dei cittadini, tutti uguali per volumetria politica. In realtà essi possono risul
tare sensibilmente diversi, come uomini; ma, come cittadini, essi sono tutti
uguali per definizione. Non ha senso chieder di più. Siano essi uomini nor
mali, idioti da Cottolengo o robot antropomorfi, noi li rendiamo uguali
attraverso tale principio.
Ora nelle scienze naturali, se ci teniamo a conservare un’immagine in
qualche modo intuitiva del mondo, ha un certo senso chiedersi per esempio
se il numero di Avogadro abbia una certa corrispondenza effettiva nella
realtà. In questo caso la risposta e affermativa, poiché per la natura elettrica
ETICA E POLITICA 243

della materia un atomo più massiccio presenta delle cariche più compresse,
e quindi il volume complessivo risulta alla fine quasi uguale a quello di un
atomo più leggero e soave; ma non sempre è così, si provi per esempio a
immaginare un tam-tam di onde gravitazionali prodotte dal big bang (come
all’inizio dello Zarathustra di Strauss). Certamente l’astrazione non segue la
politica della verosimiglianza, o l’esigenza di fornire una immagine intuitiva
del mondo! In ogni modo nelle scienze sociali essa persegue un obiettivo del
tutto diverso, che è quello di metterci in condizioni di riflettere su quel che
comporta l’applicazione il più possibile pertinente di certi princìpi. Sotto
l’impero della definizione, cioè dell’essenza di quanto abbiam detto rilevan
te, nelle scienze sociali noi ci lasciam guidare dal solo lume dell’astrazione,
non potendo seguire contemporaneamente e in maniera sintetica il risultato
forse diverso cui perverremmo per definizione astrattiva di altri princìpi logi
camente possibili. In questo modo l’obiettività sancisce il suo doveroso
divorzio dall’esistenza, e non avrebbe senso chiedersi né quali astrazioni esi
stono poi in realtà, né fin dove l’astrazione possa spingersi per non abban
donarne il terreno. La risposta sarebbe sempre che le astrazioni non esisto
no, a meno di non idealizzare la realtà, e che meglio sarebbe stato per l’uomo
non essersi mai cibato dei frutti della sapienza. Ma questo non lo diciamo sul
serio, gli stessi apologisti parlano di felix culpa, in proposito.

3. Secondo la visione esscnzialistica, dunque, il fondamento dell’egua


glianza dei cittadini non è qualcosa di esistente, cioè non sta in una proprietà
che ogni cittadino esibisca e la cui media sia una quantità misurabile. In que
sto senso l’eguaglianza dei cittadini non ha alcun fondamento. Essa è una
pura costruzione della legge, che impone di considerarli uguali sotto un cer
to rispetto, per esempio quello dei diritti del cittadino. Si può dire che la leg
ge impone a ogni uomo, che egli lo voglia o no, purché sia nato sotto la sua
giurisdizione, l’obbligo di alienare le sue libertà naturali per averne in cam
bio il pacchetto dei diritti del cittadino. Come si vede, la sua struttura è
simile a quella del numero di Avogadro, ma il suo significato è molto diver
so. Prima di tutto, non avrebbe senso chiedersi quale ne sia la verosimi
glianza; perché non ne ha alcuna. In teoria gli uomini potrebbero, non per
scherzo, ribellarsi all’obbligo d’esser cittadini, rivolere indietro la propria
libertà selvaggia, naturale, apolide. E già successo che qualcuno stracciasse
il passaporto proclamandosi, abbastanza incongruentemente, cittadino del
mondo; sarebbe stato meglio dirsi, non considerando il truismo, uomo del
mondo: nel senso della non accettazione di qualsiasi contratto sociale dato.
244 NONA LEZIONE

Aderendo a una filosofia politica essenzialistica, da giacobini, non ci sareb


be altro modo di distogliere dal proposito che quella di ricorrere alla ghi
gliottina, per eliminare quelli che, non volendo alienare la loro libertà natu
rale, non sono in grado di essere uguali: l’«eguagliatrice» sarebbe nel caso
diretta espressione della volontà normativa della legge. Ma questo non è per
così dire «pacifico», per tutti. Nelle costituzioni di tipo liberale ci si pren
de la pena di parlare di diritti «dell’uomo e del cittadino», espressione che
non è un’endiadi, perché sorvola elegantemente su una contraddizione, e
allo stesso modo dimentica di precisare che l’eguaglianza, caso mai ci fos
sero dubbi, è tale «solo» nei confronti della legge. Per i princìpi liberali l’uo
mo è come Robinson sull’isola deserta, che fa quel che gli pare e possiede
quel che può afferrare; non può goder molto di questa sua libertà, perché
manca di tutto e non muore di fame per un pelo. Tuttavia Robinson, dopo
la comparsa di Venerdì, riesce a stabilire una certa accumulazione, è il caso
di dire, primitiva. La proprietà gli frutta una certa esenzione dall’assillo del
lavoro. Poi arrivano in altri duecento, pirati o filibustieri poco importa:
sono uomini naturali, fuori della legge ma non proprio selvaggi. Robinson
deve mercanteggiare il suo stesso diritto all’esistenza, stabilire e osservare
talune regole. Per fortuna può raggiungere il mondo civile, ma da cittadino
e nuovamente povero. Nelle costituzioni liberali la clausola dell’uomo e del
cittadino fa non a caso pensare alla riserva mentale di uno che si ritrovi a
esser cittadino di una repubblica della filibusta, ma che conservi la speran
za di poter fuggire un giorno col malloppo. I diritti dell’uomo e del cittadi
no segnano i limiti di adesione alla legge di chi sa che la forza, la libertà e la
proprietà sono acquisizioni anteriori a ogni diritto.
Il punto di dissidio è questo, che se anche tutti gli uomini fossero ugua
li secondo i princìpi liberali, questa eguaglianza di natura sarebbe fondata
solo su un fatto ex lege, e dunque non sarebbe un diritto del cittadino in
senso democratico-radicale, e cioè comunista. La discriminazione fonda
mentale si palesa linguisticamente nel fatto che mentre i liberali parlano di
libertà dell’uomo, i comunisti preferiscono la dizione dei diritti del cittadi
no. Ora, chi o che cosa decide dell’appartenenza dell’uomo-e/o-cittadino
all’uno o l’altro principio di costituzione? Siamo di nuovo coinvolti in una
questione di fatto abbastanza sgradevole, dal momento che si tratta di una
questione di diritto. E la questione è già decisa, alla nascita, dal fatto giuri
sdizionale dell’appartenenza anagrafica a questa o quella fonte locale del
diritto. Posso considerarmi fortunato di esser cittadino italiano (dopo il
1945) e non albanese, ma per ragioni indipendenti dalla mia scelta. In que-
ETICA E POLITICA 245

sto il principio liberale è avvantaggiato, per il fatto di conservare un


momento di contingenza e dunque di immoralità nella sua stessa definizio
ne. Dal punto di vista comunista, la (così detta) scelta del principio fonda
mentale dipende da un altro fattore, l’egemonia politica della classe sociale
che in quel momento si fa portatrice di un nuovo principio e nel far questo
modifica gli equilibri già acquisiti, ivi compreso quello liberale vigente. Il
nuovo concetto che così si afferma è quello di classe sociale, che è insieme
sociologico e essenziale. Ma il momento sociologico della classe sociale è
più postulativo che descrittivo, quindi rimaniamo imperturbati sempre nel
punto di vista della definizione astrattiva. Nel parlare di classe sociale il
discorso sull’uomo supera d’un tratto le robinsonate, falsamente indivi
dualistiche e cioè anarchiche, del principio liberale primitivo. Un vantaggio
che però è ripagato a usura dal fatto che la definizione di classe sociale, per
fungere come essenza, deve intendersi oggettivamente e quindi in senso
deterministico. Non è tanto l’individuo, di nuovo, a esser sacrificato da que
sta astrazione: cioè il fatto che un bracciante, soggettivamente, possa resta
re un buon cristiano mentre partecipa, oggettivamente, a una politica det
tata dalla sua coscienza di classe. Questa è in fondo una contraddizione
minore. Ma è che la definizione della politica attraverso il medio di una ipo
tizzata coscienza di classe fornisce alle sue determinazioni un’illusoria
oggettività che, col mutare delle circostanze, può esser d’impedimento alla
formazione stessa di una intelligente volontà generale. La parte liberale evi
dentemente si avvantaggia degli errori dell’iniziativa democratico-radicale.
L’altra parte può esser svantaggiata dalla propria intrinseca debolezza; e fin
qui va bene, poiché non è detto che, se non c’è un domani, questo debba
esser colpa di qualcuno. Ma essa può anche pagare il fio della propria man
canza di reattività, cioè d’intelligenza e di cultura.

4. Egemonia c termine greco che significa sovranità, imperio. Nella Giu


dea antica, ip/quóv era il titolo del procuratore dell’imperatore, per esem
pio Ponzio Pilato, che vi esercitava l’egemonia. In latino la sovranità illimi
tata, benché temporanea, si diceva dittatura. Le leggi venivano dettate,
trascritte e quindi, allo scadere del mandato, eventualmente, ritorte contro
l’ex dittatore. Per la precisione, la dittatura non è di per sé la tirannide. Nel
contesto di un’ideale costituente democratico-radicale, l’egemonia di una
certa classe sociale, diciamo il proletariato, potrebbe temporaneamente
ammettere la forma di governo della dittatura del proletariato. In tal caso
certe trasformazioni sociali sarebbero dettate dalla natura delle riforme, da
246 n o n a l e z io n e

perseguire senza riguardo del parere transeunte dei singoli individui. Evi
dentemente ci sarebbero degli scontenti, forse la maggioranza, ma in un
modo di pensare essenzialistico questi andrebbero annoverati tra gli incon
venienti momentanei. La prova elettorale del suffragio sarebbe in questo
caso rimandata a dopo la riforma. È chiaro che questo tipo di dittatura non
è in diretto contrasto con la piena democrazia, né può esser confuso con la
tirannide, intesa come dittatura per la dittatura. Credo che accetteremmo
tutti dieci anni di stato di polizia, se questo bastasse a eliminare la mafia, gli
spacciatori di droga e gli evasori fiscali. Le nostre diffidenze sono di diver
sa origine, e ben altrimenti giustificate; ma non bisogna lasciarci distoglie
re dal razionale di questa discussione per il fatto che oggi come oggi non è
prudente nemmeno parlare di dittatura o di egemonia. Tutta l’esperienza
storica ci rende diffidenti verso questa specie di soluzioni di principio, ma
bisogna sviscerare fino in fondo le conclusioni del pensiero essenzialistico.
Rousseau ci ha insegnato a vedere nella volontà della maggioranza l’e
spressione della volontà generale. Va bene, abbiam capito. Ma un primo
inconveniente è dato dal fatto che vale come volontà generale sia il cin
quanta per cento sia l’ottanta per cento dei votanti, e che in certi sistemi elet
torali non proporzionali il quorum può essere del trentasette per cento.
Rousseau non ci dice nulla circa la formazione di questa volontà generale,
e neppure se il responso delle urne vada ripetuto ogni anno, o ogni 50 anni.
Una riforma può richiedere più di venti anni per essere attuata, e sarebbe
ingiusto interromperla ogni sei mesi per chiedere il parere della gente. Chia
ro che ragionando in questo modo si giustifica anche Stalin, che vide inter
rotto dalla guerra il terzo piano quinquennale. Se ci rifacessimo a Kant,
saremmo ancor peggio consigliati. Per Kant i princìpi morali, quindi anche
quelli politici, sono immediatamente certi a priori. Perciò dal punto di vista
di Kant, anche se lui non l’ha detto, possiamo partire dal principio che
chiunque non sia comunista, è un disonesto. Questo principio si deduce
immediatamente dalle «massime» della ragione pratica. In questo modo la
legge elettorale sarebbe enormemente semplificata. Tuttavia, se alcuni
comunisti volessero le autostrade e altri comunisti le ferrovie, ci ritrove
remmo al punto in cui siamo ora, in cui è evidente che tali decisioni non
vengono fuori da un responso elettorale. In tanta incertezza di principio,
che finisce con l’attenuare l’opposizione tra democrazia e dittatura, si può
essere indotti a pensare che una certa dittatura, temporanea e garantita costi
tuzionalmente, abbia quanto meno il vantaggio di rafforzare l’esecutivo, nel
senso non decisionale ma dell’efficacia penale.
ETICA E POLITICA
247

Beccaria è partito dalla constatazione che non c’è proporzione tra il


delitto e la pena, poiché il male causato dal delitto non è in nessun modo
neutralizzato dalla pena che si infligge al reo. Dunque contro il delitto non
resta che l’effetto deterrente delle pene che la legge prevede contro le sue
infrazioni. Beccaria è stato sempre interpretato, credo giustamente, come
un fautore dell’attenuazione delle pene, in base al fatto che la legge non può,
anche se lo volesse, infliggere una pena proporzionale al delitto. Questo
perché tra le due cose, pena e delitto, non c’è nessun rapporto. Il principio
di Beccaria non può però voler dire che, siccome non c’è proporzione tra il
delitto e la pena, non esiste alcun effetto deterrente della pena; e, meno che
mai, che il sistema legale si fondi unicamente sugli effetti positivi della cer
tezza del diritto. La certezza del diritto giova a chi vuol farsi gli affari suoi
in santa pace, ma non serve a produrre dei buoni affaristi o imprenditori,
più di quanto non faccia per distogliere i malintenzionati dal tentativo di
una lucrosa rapina. Non è mai stato dimostrato che l’esistenza di un crite
rio penale non sia efficace nel produrre una diminuzione delle trasgressio
ni della legge, mentre è perfettamente comprensibile che chi fonda la si
attività sulla certezza del diritto continuerà a farlo anche in condizioni
precarietà di quest’ultimo. L’incertezza del diritto produrrà, caso mai, u
aumento delle armi private e dei porti d’armi, nonché dei sistemi paralega
li dei vigilantes e delle guardie del corpo. In ogni modo dal principio del
l’incommensurabilità di delitto e pena si può stabilire che la pena, essendo
una variabile indipendente, può assumere qualsiasi valore compreso tra zero
e l’infinito. Normalmente si crede di dover dedurre dal detto principio la
negazione della pena, dicendo per esempio che lo stato non ha il diritto di
punire i colpevoli, ma solo di segregarli per prevenire ulteriori delitti. Ma
per la stessa ragione esso è compatibile anche con una pena infinita, come
sarebbe infliggere la pena di morte per ogni delitto senza distinzione, anche
fumare o gettar la carta per terra dove sia fatto esplicito divieto di ciò. Al
senso comune, che di regola non è giacobino (meno che mai in Italia), ripu
gna una tale concezione sproporzionata della punizione; ma bisogna pen
sare che il principio di Beccaria dice appunto che non c è proporzione di
sorta tra delitto e pena, quindi è arbitrario il diritto penale. Ciò vale tanto
per l’indulgenza plenaria quanto per la pena di morte, nonché per ogni
misura intermedia. Bisognerebbe concludere che parlare di princìpi nelle
questioni di etica e di politica è manifestare una invincibile propensione al
cattivo gusto. Purtroppo non siamo né abbastanza gentiluomini, né anglo
fili a sufficenza per poter accettare un siffatto ammiccamento.
r

248 NONA LEZIONE

Normalmente le discussioni etico-politiche, anche quelle derivate da


concetti essenzialistici, vengono ottuse adottando anziché il rigore logico,
la verosimiglianza dettata dal buon senso. In tal modo la logica diventa un
supplemento di usi retorici e la discussione da ultimo riesce inutile. Ora, è
vero che anche le conclusioni che abbiamo qui tratto dagli argomenti di cui
abbiamo parlato non sono né accettabili né in qualsiasi altra maniera deci
sive. Ma almeno non le abbiamo rese plausibili annacquando le essenze dei
princìpi, ragion per cui siamo in grado di indicarne il difetto logico. Que
sto, come già dimostrato dalla filosofia della matematica, consiste proprio
nell’uso delle essenze, cioè delle definizioni per astrazione. A guardar bene
un indizio di ciò era già stato offerto dallo stesso Platone, il quale si deve a
tutti gli effetti considerare, ponendo mente alla ótaipeoig, come l’invento
re della definizione astrattiva stessa. Infatti, benché questa specie di defini
zione, come dimostrerà Aristotele, sia relativa solo alla species intelligibilis
e non valga per lo unozeipEvov, Platone molto accortamente si guarda bene
dal riassumere le vie non aporetiche percorse dal dialogo sotto le specie di
una conclusiva definizione. In ogni modo, per noi è chiaro che la defini
zione astrattiva è impredicativa sotto un rispetto decisivo, che è quello di
non consentire una coerente applicazione dell’identità; o, ciò che vale lo
stesso, di non sapere di che cosa esattamente stiamo parlando, quando il
discorso verte sull’essenza. È chiaro che non basta evitare di parlare di
essenza, per essere al di fuori della portata di una siffatta fallacia; come pure
non è un correttivo sufficiente l’appello empirico del senso comune, poiché
anche quest’ultimo compie talvolta dei paralogismi astrattivi, solo che,
essendoci abituati, non ce ne accorgiamo. Al ragionamento che scorre non
si guarda in bocca, sembra essere il motto del senso comune. Solo che, fin
tanto che non urti, può sembrare ovvia anche l’astrazione in sé più selvag
gia, quella che, a conti fatti, risulta fallace. Aggiustare il ragionamento esscn-
zialistico supplementandolo di buon senso vuol dire dunque sperare di rag
giungere la verità col metodo del doppio errore; ma per ottenere questo
bisogna che gli errori siano eguali in mole, oltre che di segno contrario.
Il ragionamento essenzialistico, fondato cioè su concetti astrattivi, vie
ne diffidato dagli empiristi per il fatto d’esser lontano dalla realtà. Abbia
mo già visto che l’obiettività è un carattere abbastanza diverso dall’esisten
za, e certamente il discorso politico può avere necessità di richiamarsi allo
stato di cose esistente. Ma c’è un altro difetto che emerge, ancor più insi
dioso perché più fondamentale, ed è la perdita di identità riscontrabile nel
procedere con tale discorso. L’astrazione è infatti un’operazione che, a dif-
ETICA E POLITICA 249

ferenza di quelle matematiche, non consente la riprova della sua contraria.


Una volta partiti da un fatto per giungere astrattivamente alla sua essenza,
non si è più in grado di ritornare da quest’ultima al punto di partenza. L’as
senza di una operazione contraria, com’è la moltiplicazione rispetto alla
divisione, rende non solo impossibile ogni riprova del ragionamento fatto,
quanto alla sua forma, ma compromette la stessa identità di quel che si è così
astratto. L’astrazione, equivalendo così a una estrazione, può condurre a
risultati diversi, pur partendo dallo stesso fatto, se si usano criteri di rile
vanza essenzialmente diversi. Un risultato più controllabile si ottiene ren
dendo espliciti tali criteri, ma è difficile perseguire questo obiettivo con la
necessaria lucidità e accuratezza, perché l’astrazione è un raziocinio che si
affretta a concludere e non sarebbe umano pretendere da essa un elenco di
quanto si è trascurato di menzionare perché irrilevante. Reciprocamente
l’essenza, una volta identificata, si adatta non solo al fatto da cui è stata
astratta, ma a una molteplicità indefinita di possibili esemplificazioni. Ma
c’è dell’altro ancora.

5. Un’essenza o semplice ovaia rientrerebbe in ciò che Aristotele chia


merebbe una sostanza seconda. Con tale dizione egli intende legittimare l’u
so che si fa nel discorso di sostantivi tratti dall’aggettivo o dal verbo, pur
non avendo essi alcun titolo a valere come vjtoxeipeva o sostanze prime,
cioè vere e proprie. Ciò significa che, per essere grammaticalmente corret
to, il discorso non esige di avere come soggetto delle sostanze dimostrabil
mente prime, o altrimenti prima di parlare dovremmo attendere i più
aggiornati reperti di laboratorio. Ma ci si può chiedere se questa legittima
zione del buon senso nei limiti del discorso quotidiano ricopra anche l’area
degli usi scientifici o tali da pretendere a un’obiettività. E in questo caso la
risposta è negativa, senza con ciò contraddire Aristotele; infatti anch’egli
assumeva certe precauzioni cautelative nel condurre il discorso su ambiti
specialistici o particolarmente impegnativi. Della questione abbiamo già
discusso più d’una volta a proposito delle definizioni astrattive, o essenzia
li. Ne è risultato che la tendenza verso l’identità non è soddisfatta dal pro
cedimento per astrazione, poiché l’identificazione (cioè, il riconoscimento)
così ottenuto può sempre esser messo in forse da un rincaro dell’astrazio
ne stessa, ma ripresa con criteri di rilevanza anche solo leggermente diver
si. Del resto, non si può neppure garantire che nel corso di una medesima
astrazione uno si attenga a un identico criterio di rilevanza, essendo le sue
assunzioni molteplici c tacitamente presupposte, tanto che non è diffiden-
25O NONA LEZIONE

za ma normale prudenza sottoporre a critica anche le dichiarazioni pro


grammatiche più sincere. In altri termini, l’identità ideale non è ancora la
richiesta identificazione, l’esatto riconoscimento, né quest’ultimo può esser
confuso con l’accertata individuazione. A ciò si deve aggiungere l’ulterio
re, netto rifiuto dell’abito, che purtroppo tutti abbiamo di affastellare i risul
tati, quanto meno parziali, di molte astrazioni; e di usare questi come una
fonte prossima per altre, possiamo solo immaginare quanto remote, ulte
riori astrazioni. Il fatto è che allora, se si è sobri e onesti, bisogna ricono
scere che non si sa più di che cosa si stia parlando. Ma alla fine tutti si accor
gono, come nella favola di Andersen, che... l’imperatore è nudo. Per poter
comunque proseguire il discorso etico-politico, bisogna fondarlo su princì
pi meno criticabili, più soggetti a verificabilità.
Non ci viene richiesto di rinunciare ai princìpi, ma solo di riconoscere
che questi alla fine non possono fare altro che ribadire tautologicamente se
stessi. La loro funzione, essendo privi di contenuto, sarà quella negativa di
controllare che non si trasgrediscano le regole di sintassi (meglio, sinse-
mantiche) del discorso etico-politico. In questo modo non sarà possibile
fare uso della sintassi per dare espressione al proprio radicalismo, giacobi
no o comunista, né per contro profittare della permissività di certe regole,
affatto linguistica, per far passare altri lassismi, più contenutisticamente
motivabili. Ora, la principale modifica che si rende necessaria è uno spo
stamento a destra, in senso liberale non radicale, del covenant che regge la
vita sociale. Insomma, se non si può definire astrattivamente l’essenza del
patto sociale, bisogna per forza ricavarla dal riferimento agli individui che
compongono la società. Rifacendoci ai grandi parametri che abbiamo evo
cato, il décalage si rende più perspicuo come allontanamento dalla dottrina
dei diritti del cittadino e relativo accostamento a quella delle libertà del
l’uomo. Per dirla in termini poco appetibili, ma non equivocabili, si tratta
di una ricerca di compromesso ottimale tra le due opposte istanze, tale che
diventi possibile assottigliando le contraddizioni parlare di libertà-e/o-dirit-
ti dell’uomo-e/o-cittadino. Questo compromesso non è facile, poiché le
concezioni che esso è chiamato a unire sono distanti nell’origine e diverse
come tradizione e abiti di pensiero, ma per esempio i costituzionalisti non
disperano di poter trovare proprio nel contrasto l’occasione per una pro
mettente (anche se forse non nuova) filosofia politica.
Per prima cosa, è chiaro che i diritti del cittadino definiscono implicita
mente le libertà consentite all’uomo, che sia un tale cittadino. È l’inverso
che è assai più difficile da trattare: date le libertà dell’uomo, che non sono
ETICA E POLITICA 25I

diritti, in che modo diventa discutibile il problema dell’alienazione? Si dice


che, attraverso l’alienazione delle libertà nel contratto sociale, queste ven
gano restituite all’uomo, trasformato in cittadino, come diritti a pieno tito
lo legale. La trasformazione delle libertà in diritti viene descritta come un’e
quivalenza, come se l’alienazione non togliesse nulla. Ma è evidente che non
è cosi; l’operazione ha un suo costo, come del resto è abbastanza evidente.
Esso è l’analogo politico di quel che Freud, in termini di psicodinamica
sociale, chiama il disagio della civiltà. Tuttavia noi dobbiamo partire di qui,
dal chiaro concetto dei diritti del cittadino, per tentare di allargare al di fuo
ri del suo chiuso ambito l’idea alquanto differente del quasi-diritto alla
libertà, con quel che segue, dell’uomo selvaggio. In che misura, o con qua
le intensità di analogia iuris può essere estrapolato tale principio del dirit
to? Evidentemente non si può parlare di «diritto naturale», che presuppor
rebbe un’assunzione normativa di certe leggi di natura, o di regolarità
supposte tali. Il diritto naturale semplicemente non esiste, né si vede a che
servirebbe farlo esistere per decreto. Da quel punto di vista bisogna avere il
coraggio di riconoscere che, come si è osservato, un bel cancro ha altret
tanto diritto di prosperare quanto il malandato paziente, anche se finiremo
col seppellire l’uno e l’altro. Il principio del diritto naturale è chiaramente
derivato dalla Bibbia, in cui si sostiene che, in seguito al peccato originale,
ogni malattia è conseguenza della colpa; e che lo stato di perfetta salute cor
risponderebbe invece all’ordine naturale nelle intenzioni di Dio. Ma, con
buona pace dei fautori di una bioetica, questo novissimo Incus a non lucen
do, la salute è un’idea teleologica e quindi, se si vuole, anche teologica; e il
suo posto non va allora ricercato tra le leggi di natura, che si dicono tali per
ché cieche e meccaniche. Se ogni malattia è una colpa, per noi eredi di tale
decreto le sue conseguenze sono solamente fisiche, non morali. Nessuno
cura il cancro mediante un trattamento intensivo a base di prediche.

6. Una delle conseguenze della tendenza a estrapolare i diritti del citta


dino alla capienza delle libertà dell’uomo consiste nello spostamento seman
tico del significato di diritto; o, meglio, dell’aver diritto. Normalmente tale
accezione è negativa. Uno ha diritto di fare qualcosa se nulla gli impedisce
di farla. Questo e come il diritto che io ho di diventare il padrone delle fer
riere; è chiaro che nessuno mi proibisce di diventarlo, ma dire che potrei
esserlo, se lo volessi, non c nemmeno un’ipotetica proposizione controfat
tuale. Invece se parto dalle libertà dell’uomo per parlare di diritti, o di qua-
si-diritti, il discorso prende una piega diversa. Le libertà dell’uomo, non si
2J2 NONA LEZIONE

dimentichi, comprendono anche il suo effettivo possesso, le cose di cui


gode, il rispetto che incute nel far valere il suo spazio di vita: sono insom
ma le libertà che si piglia e che difende, anche prepotentemente, con le
unghie e coi denti. Yon may ifyou cany puoi permetterti di fare quel che sei
capace: il sottinteso liberale non si adatta certo a una scuola di educande. Il
gentleman non è tanto il cittadino rispettoso e timorato, ma uno che è bene
scansare perché fin troppo spiccio di modi e lesto di mano; e la legge si
aspetta che chi non vuole esser sopraffatto sappia reagire di conseguenza.
Questa diversa interpretazione del diritto ha importanti conseguenze una
volta penetrata negli abiti democratici dei paesi liberi. La semantica della
libertà, riferita all’uomo piuttosto che al cittadino, si arricchisce delle con
notazioni inalienabili del naturale, dell’abituale e del selvaggio, e in questo
modo aver diritto significa positivamente essere in grado di farlo valere.
Così nella Costituzione tra le leggi fondamentali compare il diritto al
lavoro, che nell’interpretazione negativa appare come una precisazione
superflua e, anzi, un po’ ridicola. Ma non è questa l’interpretazione che
comunemente se ne dà, né quella che vollero darle i costituenti. Essa va inte
sa nel senso che c’è un preciso dovere, da parte dello stato e dei suoi gover
nanti, di dare un lavoro a chiunque lo richieda e cioè di favorire il pieno
impiego di tutte le risorse, eliminando la disoccupazione. Si assiste al para
dosso per cui l’interpretazione positivamente liberale della legge, contro il
lassismo, impone l’intervento dello stato per favorire l’assistenza, la piena
occupazione e lo sviluppo della condizione di benessere. I partiti politici di
sinistra, specie quello comunista, hanno indossato per lungo tempo le vesti
del lavoratore o di chi chiede di lavorare, svolgendo sul fronte opposto il
ruolo del gentleman inglese che potenzia la sua agguerrita libertà. Ma l’e
voluzione economica del mondo moderno minaccia di rendere obsoleto il
diritto al lavoro, concepito ancora in un’epoca in cui il pieno impiego, con
un margine funzionale di disoccupazione del dieci per cento, era un obiet
tivo di tutta la politica nazionale, ivi compresi gli interessi del capitale. Oggi
questo sviluppo ha portato a far sì che non sia più né necessario né conve
niente dar lavoro a tutti o quasi, se si vuole rispettare per ragioni di calmie
re retributivo quel dieci per cento di disoccupazione in cui si diceva. Di fat
to è sufficiente che lavori il cinquanta per cento delle persone in grado di
farlo e che gli altri vivano da parassiti consumando i salari comparativa
mente più alti della classe lavoratrice. Resta un problema distributivo, mala
mente risolto dal livellamento e dalla generalizzazione delle pensioni. In
teoria sarebbe possibile destinare al lavoro produttivo solo il dieci per cen-
ETICA E POLITIC/\ 253

to delle persone nei limiti di età utili, mentre il rimanente novanta per cen
to potrebbe tranquillamente fruire di tale fonte di reddito in maniera paras
sitarla. Ma non esistono più le famiglie di consistenza patriarcale, né le case
0 fattorie agricole, che pur inefficienti a produrre reddito risolverebbero
forse in maniera ottimale il problema distributivo. Si è trovato più efficace,
dal punto di vista politico, il rimedio di inventare dei lavori inutili che però
servono a tenere occupata la gente.
Teorizzando il pieno impiego in una società del benessere, Keynes soste
neva una tesi in apparenza paradossale. Se si prendono degli operai disoc
cupati, gli si fanno fare delle buche in terra, e poi, quando hanno finito di
scavarle, si continua a occuparli perché riempiano di nuovo quelle buche:
questo è il modo di mantenere in efficienza l’economia in un’epoca di pie
no benessere. Questo ragionamento offre una giustificazione al fatto che,
in condizioni normali, ci sono sempre lavoratori produttivi e utili, e lavo
ratori più o meno improduttivi o inutili; entrambi però costituiscono una
massa d’impiego necessaria per il buon andamento dell’economia, la quale
non ha solo il problema della produzione di beni, ma anche quello del loro
consumo. In realtà poi non siamo in grado di stabilire quali lavori siano pro
duttivi e utili, e quali no. Noi siamo solo in grado di constatare, con una cer
ta approssimazione, da quali settori produttivi provengano le offerte d’im
piego. Ma nel costituire questa domanda intervengono insieme confuse
considerazioni di carattere economico e di carattere sociale e politico. In
Italia per esempio ci auguriamo che ben venga una legge sui beni culturali,
che impieghi un certo numero di persone qualificate per inventariarli, custo
dirli, studiarli, dirigere la cura e la frequentazione dei musei, rendendoli
accessibili al pubblico, intrattenerlo con conferenze, e così via. Avrei anzi
in niente una legge che darebbe lavoro a parecchie persone, tra i laureati in
Lettere o in Legge, perché in Italia c’è la metà di tutti i beni archiviabili del
mondo, tra rovinati o meno, e certo conviene conservarli gelosamente. E
questa specie di attività non sarebbe nemmeno in passivo, fatti i dovuti pas
si. Sappiamo inoltre che la questione del passivo è in gran parte uno pseu-
doproblema: un lavoro improduttivo è passivo solo nel momento in cui lo
si costituisce. Una volta che lo si sia costituito, che la comunità si sia assun
ta l’onere di creare ex novo tale posto di lavoro, questo (e sia pure il lavoro
di aprire delle buche per poi riempirle) dopo non costa più nulla. Infatti il
salario dato al lavoratore per l’incombenza viene poi da questi tutto speso,
quindi è denaro che ricicla senza praticamente costare nulla alla comunità
che lo contiene (non calcoliamo il lieve ritardo che la mediazione del sala-
NONA LEZIONE
254

rio provoca nel rientro del capitale). In conclusione, si è ormai in molti a


pensare che con la dilatazione del terziario si potrebbero creare molte atti
vità utili e non del tutto improduttive come lo scavare buche per poi riem
pirle di nuovo, senza nemmeno piantarci degli alberi.

7. Un altro problema dato dall’eccedenza della libertà sul diritto è quel


lo del cosiddetto diritto d’asilo talvolta concesso a perseguitati politici, dis
sidenti o anche ribelli o terroristi, che si trovino in condizione di apolidi 0
invisi alla maggior parte delle nazioni. In questo la legislazione liberale più
progressista, anche se non sempre coerentemente, ha seguito il grande, edi
ficante esempio fornito già nel secolo scorso dalla Francia, dall’Inghilterra
e dall’America. A dire il vero attualmente si assiste a una certa stanchezza
al riguardo, poiché le displaced persons si contano oggi a decine se non a
centinaia di migliaia, e non è più questione di dare asilo, a loro spese, ai ven
ticinque mazziniani di un tempo. In un mondo più fittamente abitato e
regolato, ciò che anzitutto occorre è una definizione di appartenenza a una
nazione o popolo. Perché dovrebbe avere diritto d’asilo un dirottatore di
San Marino e non uno di San Donà del Piave, a parità di dissenso? Come si
fa a parteggiare per l’indipendenza degli azerbaigiani, se poi non si è dispo
sti a concederla ai trasteverini? Qual è il numero minimo di persone che
possono costituire una nazione indipendente? La divisione napoleonica in
dipartimenti o quella in province della vecchia Italia avevano almeno sud
diviso il territorio e la popolazione per prevenire l’insorgenza di casi del
genere. Fatto questo, bisognerà definire perlomeno una giusta causa, perla
quale un individuo possa ritenersi apolide o costretto a emigrare dal paese
di appartenenza. Per il momento questa complessa casistica pare affidata
interamente alla discrezione dei funzionari di un ministero degli esteri. Per
tutte le situazioni simili l’atteggiamento più promettente c la ricerca com
parata di una definizione dei quasi-diritti corrispondenti a ciò che s’inten
de con libertà-e/o-diritti dell’uomo individuale, non protetto né garantito
da una condizione civile, costituzionale o meno, adeguata.
Un caso per molti versi simile è offerto dalla condizione del nascituro,
ossia dalla legge sulla sospensione volontaria della gravidanza, l’aborto.
Data la constatata eccedenza della libertà dell’uomo sul diritto del cittadi
no, bisognerà evitare di ricorrere al sofisma per cui non esiste la fattispecie
dell’infanticidio fin tanto che il neonato non sia iscritto all’anagrafe. In que
sto caso il neonato può esser paragonato all’uomo selvaggio, al boscimano,
che non sarà lecito uccidere solo perché vive nei boschi e si ha la certezza
ETICA E POL1TIC/X *55

che il suo nome non è registrato in alcun archivio. La libertà dell’uomo esi
ge quanto meno che lo si metta agli arresti, in attesa di accertamenti. Ma
nemmeno si può sostenere che un uomo e una donna, per il fatto d’esser
giaciuti insieme, sono già eo ipso marito e moglie, padre e madre, potendo
si dare il caso che siano entrambi sterili o che non abbiano l’intenzione di
procreare, né di sposarsi. Sempre in nome della libertà selvaggia, è fuori luo
go pretendere che il comportamento sessuale si componga di atti perfetta
mente responsabili; non è tale il suo ufficio. Se si fosse capaci di ripassare il
catechismo dell’educazione sessuale prima di acconsentire all’atto, soppe
sando i prò e i contro, tanto varrebbe astenersene. Ma non bisogna dimen
ticare che il sesso è indispensabile al giovane; e che anche quando l’appeti
to sarebbe in sé resistibile, invincibile diventa il desiderio di provare a sé e
al partner che si è capaci di soddisfarlo. Una volta un moralista che non
mancava d’umorismo disse che, secondo una stima prudente, di amore al
mondo ce n’era almeno cinquecento volte più di quanto occorresse per assi
curare la sopravvivenza della specie umana. La natura, si sa, concepisce sem
pre le sue imprese con largo margine di sicurezza; e vorremmo sapere da ur
bioetico se non trova anche lui un po’ depressivo accostare un partner ame
roso con l’idea di coinvolgerlo in attività riproduttive e di allevamento. Ave
figli c prendersi di loro cura, crescerli ed educarli, è senza dubbio una delle
gioie più piene e complete: ma a trent’anni; non a quindici. Questo è uno
dei casi in cui diventa maggiormente palese la sproporzione tra, diciamo, il
delitto e la pena; ovvero, per meglio dire, tra il motivo intimamente vissu
to dell’atto sessuale e le conseguenze possibili, benché preterintenzionali,
del suo significato.
Parlare di infanticidio è molto crudo, eppure è stata la pratica anticon
cezionale più diffusa dell’umanità posta in tali frangenti. Propriamente par
lando, l’infanticidio è la soppressione di uno che è già nato. In tutti gli altri
casi, l’aborto volontario e un’interruzione di gravidanza. Dovrà pure esser
ci una differenza tra il momento in cui l’ovulo viene fecondato e il momen
to in cui l’embrione, rompendo le acque, viene alla luce! La differenza
indubbiamente c’è, e tutti possono vederla. In apparenza, ma ipocritamen
te, il problema sembrerebbe di bioetica: ma la natura non ha morali di sor
ta. 11 problema sta esclusivamente nella decisione; si tratta di stabilire se a
sei mesi, o tre, dall’inizio non sia più lecito interrompere volontariamente
la gravidanza. E questa è una decisione che non può esser selvaggia, ma che
dobbiamo prender tutti insieme, costituzionalmente. Non si dica che l’o
micidio non può esser legalizzato, a nessun titolo. L’omicidio è tranquilla-
n o n a l e z io n e
2 $6

mente ammesso: sia per difender la patria, sia per legittima difesa. Anche
l’eccesso demografico è un male estremo da evitare, e l’anticoncezionalità
è. nell’intenzione, legittima. Se non provvedessimo a stabilire efficaci mez
zi contro la crescita ormai esponenziale della popolazione, alla fine ci pen
serebbe la natura a ristabilire comunque l’equilibrio. È vero che i mezzi
anticoncezionali, massime l’aborto, sono più o meno ripugnanti; ma di
fronte alla gravità del problema, è frivolo fare questioni di estetica.
Una delle conseguenze di questo mutato ordinamento è una ridefini
zione del rapporto tra genitori e figli, dal punto di vista dei figli. I figli che
abbiamo sono evidentemente nati, e questo vuol dire che non li abbiamo
fatti abortire. Questo non garantisce loro, automaticamente, il migliore
affetto possibile da parte dei genitori. Ragionando in maniera controfat
tuale. il genitore si convince facilmente che ha voluto il figlio con un atto di
creazione per Io meno in adiecto responsabile; ma questo è il vissuto del
genitore, non del figlio. Il genitore deve guardarsi bene dall’aver l’aria vaga
mente eroica dell’almo e provvido sostentatore di prole: il figlio sa bene che
è anche colui che poteva non farlo nascere, e non può essergli grato di non
averlo fatto. Divenendo faccenda di rutti, l’anticoncezionalità appartiene
anche ai figli prima d’essere in età di procreare; e non c’è dubbio che su ogni
dove aduggi con essa uno stato d’animo vagamente depressivo, che non si
avvertiva quando eravamo più innocenti, e inconscienti. Almeno sappiamo
la ragione, perché i figli a un ceno punto tendono a uccidere i padri, vendi
candosi. Speriamo sia solo per metafora.

S. Bisogna rendersi conto che non rutti i problemi politici hanno, perciò
stesso, la loro soluzione; e meno che mai, se l’hanno, questa è una soluzio
ne ottimale. Tra i problemi che si possono immaginare ingranditi nel futu
ro c'è quello, già grave, del rapporto tra l’integrato (in) e l’escluso (da) una
stessa società. Di ciò abbiamo già parlato più volte, ma mi preme rammen
tarlo qui. Altri corollari degli stessi princìpi che reggono il vivere civile sono
l’uniformità e il suo apparente contrario, l’individualismo. Una vita sociale
che si ispiri alla democrazia automaticamente incoraggia l’uniformità. Non
siamo mai andati tanto vestiti in divisa che da quando impera la moda del
casual. Chi viaggia in Rolls Royce con l’autista è si diverso da chi va in Fiat-
Tipo. ma solo se ci si guarda e si è anormalmente invidiosi; in ogni modo, a
questo si può rimediare con la cosiddetta personalizzazione, uno degli arti
fici pubblicitari più irritanti. E che dire dell’individualismo? È chiaro che
anch’esso è l’effetto di quel nascosto numero di Avogadro che regge le nor-
ETICA E POLITICA 257

me, anzi la normalità di specie etico-politica. Civiltà per eccellenza indivi


dualistica è quella di cultura anglosassone, che però ha creato la categoria
dei Joneses, come termine di raffronto permanente coi vicini. Nel linguag
gio americano corrente l’individuo è quella media statistica che non si sen
te soddisfatta nel suo individualismo se non ha esattamente quel che hanno
i suoi vicini qualunque, i Joneses. Mi direte, un momento, noi italiani abbia
mo una diversa concezione dell’individualismo! No; non è così. Forse non
ci siamo ancora adattati alla nuova realtà del fenomeno, o i nostri modelli
sono d’altri tempi, insinceri. L’individualismo consiste nel fare per libera
scelta esattamente quel che vediamo fare agli altri; che altro si potrebbe mai
voler fare?
Una volta abolite le guerre come mezzo per risolvere le controversie
internazionali, smussati e resi infine inoperanti i motivi di dissenso sociale
all’interno, denunciata come inconcludente e fantasmatica la polemica ideo
logica sui princìpi di riforma radicale, dimessa che fosse infine la pratica del
la cattiva amministrazione, prepotente o corrotta, finirebbe con l’emergere
con tutta chiarezza l’inconsistenza di ogni impegno nella politica. Si capi
sce, con questo ragionamento controfattuale si finisce col dare per sconta
to qualcosa che tutti vorremmo vedere risolto una volta per tutte, e che
sarebbe utopistico pensare che sia anche solo in via di soluzione. Quel che
vorrei dire è un’altra cosa. E cioè che se l’interesse per la politica è motiva
to dal desiderio di eliminare i mali sopra enumerati con un volo utopistico,
il semplice pensiero di poterlo fare è sufficiente a svelare tutta l’inconsi
stenza dell’immaginario che ci impegna, anche se la condizione ipotizzata
dovesse non realizzarsi mai. Dopo tutto, non si può sostenere che tale
obiettivo è semplicemente irrealizzabile. La combinazione di stato di benes
sere, amministrazione elettronica e individualismo normalizzato può rive
larsi un’utopia vincente. Guerra, disparità sociale e corruzione non sono che
difetti tecnici di programmazione. La lotta ideologica può esser vantaggio
samente sostituita da nuovi, più fantasiosi war games. La politica utopisti
ca sfocia nell’utopia dell’impolitico.
Abbiam voluto dare espressione a un sentimento esistenziale che credo
assalga talvolta anche i politici più invasati dal demone del potere, e che si
dice la frustrazione del successo. Non importa che il successo sia solo
immaginario e tutt’altro che realizzato; nel fantasticare non tutti i pensieri
girano a vuoto, in un gioco tanto instancabile quanto inane di riproposi
zioni e nuovi azzeramenti: alcuni pensieri giungono a segno, si fissano nel
la memoria, tengono il luogo di esperienze quasi (come se fossero) vissute,
258 NONA LEZIONE

formano i deliri del già risaputo. Berdjaev, che scriveva sotto l’incubo dei
grandi rivolgimenti sociali del suo paese, disse una volta che purtroppo le
utopie sono realizzabili. Non per nulla questa citazione di Berdjaev com
pare in epigrafe a Brave New World, di Aldous Huxley, il più famoso
romanzo antiutopistico del nostro secolo (1931). Ma senza voler toglier nul
la al valore profetico di tale finzione, che è davvero considerevole giudi
cando già da ora, e non tra cinquecento anni, noi vorremmo considerare
l’intero prodotto di quel tipo di immaginazione poetica come una sindro
me della frustrazione derivante dal successo. Di che successo si tratta? Nel
l’immaginario, è il successo che arride alla politica che sappia avvalersi del
la tecnologia, per toglier di mezzo i tanti impedimenti di natura particolare,
casuale o banale, che hanno finora ostacolato, frantumandola e rendendola
irriconoscibile, la volontà di realizzare il grande disegno. Nella fantasia que
sti inconvenienti possono essere facilmente rimossi, tanto più in quanto essi
prendono origine dall’interesse particolare degli uomini, che, considerato
nel suo effetto d’insieme, è esteticamente irritante come un quadro in cui
appaia dipinto un gran polverone. L’applicazione intelligente della tecnolo
gia è il piumino di cui si serve l’immaginazione per togliere la polvere dagli
oggetti (persone, azioni e cose) che devono comparire nel quadro. Questa
semplificazione viene ulteriormente accentuata dal fatto che gli oggetti in
questione non sono esistenti, ma devono essere immaginati come futuri.
Nell’immaginare un futuro diverso da quanto ci è abituale, per il duplice
effetto dello spolveramento e del trionfo tecnologico, non ci sarà di che stu
pirsi se si ottiene un effetto semplicistico, attraverso la supersemplificazio-
ne. La fantasia può imprimere una grande vividezza alle sue immagini,
basandosi sul potere raffigurativo e la pregnanza intuitiva dell’immagina
rio, ma non può competere con la realtà presente, specialmente dove que
sta assume il suo aspetto prevalente di molteplicità di particolari prolife
ranti, forse in sé importanti, ma disordinati e caotici per ogni infastidito
osservatore. La sindrome di cui s’è detto, di frustrazione da successo, si può
così più banalmente spiegare come effetto del «pugno di mosche» che uno
si ritrova in mano quando, dopo esser riuscito a ridurre drasticamente la
complessità del mondo ricorrendo a moduli ripetitivi di articolazione ana
litica, deve fare i conti con la sua stessa tautologia fantasmatica. Si obietterà
che questo vale forse per il successo immaginato, o proiettato nel futuro;
non però per quella frustrazione che prende dopo un successo reale. Può
darsi; ma il nostro argomento era diretto contro le fallacie dell’immagina
rio. Del resto, chi può dire quando il successo e per davvero reale? Non si
ETICA E POLITICA
259

tratterà, sempre, di una recita narcisistica che ha per protagonista un se stes


so che si sente deluso dopo un immaginario, inesistente, successo? Chi può
dire che non gli sia mai capitata una cosa del genere? Il teatrino dell’imma
ginario è pieno di marionette.
Non vorremmo concludere che, per fortuna, ci sono problemi che sfi
dano ogni soluzione per la loro stessa complessità. Anche questa conclu
sione sarebbe tautologica, ed è proprio della tautologia non offrire alcuna
soddisfazione. Le condizioni future dello scenario politico saranno preve
dibilmente altrettanto, se non più complesse, di quelle presenti. Alcuni pro
blemi, pur non essendo stati risolti, recederanno per diminuita importanza
sullo sfondo. Questo mi pare più adeguato che non dire che alcuni proble
mi saranno risolti e forse altri ne sorgeranno. Bisogna lasciare aperta la pos
sibilità, tutt’altro che insignificante, che la vita dell’uomo, sia individuale sia
collettiva, costituisca alla fine un unico problema ipercomplesso che non
può esser risolto, ma nemmeno sia tale da consentirci di considerarlo sem
plicemente come irresolubile. Alla semplificazione delle conclusioni aveva
mo già per principio rinunciato allorché abbiamo criticato il metodo essen-
zialistico della definizione astrattiva che tuttora viene impiegato per
discutere le questioni etico-politiche.

9. Il discorso ideologico è sicuramente nei suoi diritti quando si tratti


non di riconoscere la realtà sociale, ina di definire per riflesso il nostro atteg
giamento in merito. Da questo punto di vista la democrazia è sicuramente
l’obiettivo su cui verte tutto il nostro impegno politico, non considerando
il grado con cui esso si realizza in concreto. Tcleologicamente parlando, con
democrazia intendiamo qui il superamento in praxi tanto del liberalismo
quanto del comuniSmo, la sintesi concreta delle libertà dell’uomo e dei dirit
ti del cittadino. Forse non esiste neppure in theoria un punto di massimo
ottimale che rappresenti il prodotto di quanto di migliore possono offrire
le due esigenze che abbiamo trovato dialetticamente contrapposte nel paral
lelogramma delle forze antagoniste. Può benissimo darsi che, nell’ipotesi di
tali forze parzialmente cospiranti, noi dovremo di volta in volta acconten
tarci, secondo 1 differenti tempi di sviluppo delle società considerate, di una
determinata, particolare sintesi di liberalità c rigorismo, di tolleranza e
intransigenza, non sempre seguendo risultanze ottimali, e tuttavia non ricu
sabili perché in ogni caso suscettibili di ulteriori modificazioni in meglio.
L’essenziale c che le varie comunità, giacché non parliamo di una società
ideale ma di diverse e concrete formazioni storicamente date, restino aper-
2ÓO NONA LEZIONE

te come conviene le une nei confronti delle altre, così da permettere ad arbi
trio personale lo scambio di appartenenza nazionale, o quanto meno quel
lo delle esperienze, mediante comunicazione liberamente comunicabile, in
un confronto aperto a tutti.
Il rivestimento ideologico dell’argomento, inevitabile quando si parla di
democrazia come valore in sé, non deve tuttavia offuscare il fatto che si trat
ta di una democrazia non ideale, ma di compromesso, ricavata com’è da
varie ricette che combinano secondo molteplici alchimie concettuali il pro
vento reale, perché ripetibile e quindi in potere dell’uomo, di quattro rivo
luzioni sociali che appartengono alla storia mondiale: la rivoluzione ingle
se, liberale e incruenta, del 168S; la rivoluzione francese, giacobina ma
transeunte, del 1789; la rivoluzione americana, jeffersoniana e puritana, del
1776; e la rivoluzione russa, bolscevica ma revisionista in bene e in male del
1917 (si noterà il tipico anacronismo europeo, lieve ma tendenzioso, di met
tere la rivoluzione francese prima di quella americana). Considerata come
il prodotto storico delle quattro rivoluzioni menzionate, questa idea di
democrazia non si è dunque imposta come tale se non dopo molti tentativi
ed errori. Il fatto che oggi se ne possa proporre positivamente una certa sin
tesi, facendo perno su tendenze che potrebbero differenziarsi con intenti
difformi, e perfino centrifughi, deve giovare a rammentare che quel che oggi
chiamiamo democrazia in accezione eulogica, è stata a lungo ed è tuttora
una realtà valutabile ben diversamente. In effetti la democrazia è una con
figurazione di interessi destinata a far emergere una certa media, dall’am
ministrazione non troppo accurata e facilmente corruttibile, di un’efficien
za non proprio entusiasmante, e che si è imposta non con le lusinghe del
sistema idealmente perfetto di governo, ma piuttosto come inevitabile
razionalizzazione dell’impossibilità di far meglio. La democrazia è anzitut
to razionalizzazione secondo un profilo basso e decisamente non weberia-
no; lo è nel senso della semplificazione rassegnata agli usi già in atto, che
non conviene contrastare con «grida-, oltre che noiose, inutili; lo è infine
nel senso più derogatorio e perverso della pratica di accettare, quasi fosse
un dettame della ragione, quanto dobbiamo accettare perché soverchiati dal
numero. Dal punto di vista dei governanti, il riconoscimento che la demo
crazia è una razionalizzazione imposta dalla constatata impossibilità di
governare in altro modo le masse recalcitranti, deve talvolta imporsi come
un incubo, poiché ciò equivale al riconoscimento che si governa nell’esatta
misura in cui si è governati, secondo una dialettica servo-padrone che non
si rovescia perché è già in corto circuito. L’appellativo del vescovo di Roma,
ETICA E POL1TIC/X 2ÓI

servus servorum dei, che appariva sublime solo in quanto era ipocrita, cioè
non era di fatto quel che faceva le viste di essere, diventa minaccioso se
assunto nella sua demoniaca letteralità di autogoverno senza mediazione
etico-politica. Di fatto, diventa effettiva protagonista della democrazia pro
prio la folla, apolitica e renitente, ineducabile alla disciplina di un progetto
e sempre minacciosa, anche nelle sue manifestazioni di momentanea unani
mità. La democrazia è quindi, nella sostanza, il tentativo abbastanza falli
mentare di contenimento ragionevolmente repressivo di una altrimenti
incoercibile spontaneità. L’unico sistema di governo di provata efficacia usa
to per addomesticare le masse riluttanti è stata la crisi economica e il suo
parente prossimo, la guerra di tipo mondiale, nelle due edizioni del 19140
del 1939. Ma si tratta di un mezzo esiziale per gli stessi governanti, e l’uso
dell’economia in funzione della politica (dunque l’esatto contrario del prin
cipio del materialismo storico) non rientra nemmeno nella teoria di un
governo democratico. Si può riassumere questa complessa situazione dicen
do che il pensiero politico del XX secolo è stato in gran parte destinato allo
scopo di formulare in senso positivo un’eredità trasmessa dal passato in
maniera casuale c tumultuosa. Si tratta di prospettive politiche che, se pre
varranno, diverranno più perspicue nel futuro.
In teoria l’intervento dei cittadini è determinato da una libera scelta che
tuttavia è prefigurata da uno spettro di partiti politici. Di recente, e contra
riamente all’ormai antico parere dei costituenti, i partiti si sono configura
ti come enti di diritto privato che si reggono in base a una sovvenzione pub
blica: qualcosa di mezzo, insomma, tra le società anonime e gli enti stabili.
Forse si può dire che il sistema dei partiti (al plurale) è diventato una strut
tura dello stato (al singolare). La formula poco importa, in sostanza. Negli
altri paesi, se più privatistici, la tradizione consolidatasi in certi usi può ave
re più peso che non le nostre discriminazioni legali di diritto pubblico e pri
vato. L’intenzione del sistema dei partiti è di offrire una scelta differenzia
ta nelle opinioni, nei programmi elettorali e nelle tradizioni storiche, che
ricoprono tutta la rosa delle opzioni legalmente sostenibili percorrendo un
indice da sinistra a destra. Ma è successo che la legge delle distribuzioni del
le opinioni segue all’ingrosso una curva di Gauss, con l’ammucchiata al cen
tro, c quindi invano si cercherebbe una differenziazione decisiva compa
rando le opinioni c i programmi dei vari partiti. Evidentemente questo
sistema presenta un’articolazione ancor troppo grossolana, o quanto meno
irrilevante rispetto ai problemi da discutere, ed è facile preconizzarne il rapi
do deterioramento; meno facile è immaginare con che cosa esso debba esse-
2Ó2 NONA LEZIONE

re sostituito o integrato, dal momento che la politica, a parte il carisma per


sonale di qualche singolo personaggio-guida, è stata avara di iniziative in
proposito. La democrazia dunque impone ai partiti politici una loro dimi
nuzione in numero, data la loro scarsa differenziabilità; e anche, aggiungia
mo, una partecipazione indiretta e piuttosto tiepida dell’elettorato, che ten
de a disawezzarsi da un interesse tenuto in vita da scandali e passioni
polemiche. In America non fa impressione che possa votare meno del qua
ranta per cento degli elettori.

io. Al di là della politica c’è, di nuovo, l’individuo; e intendo con indi


viduo la persona in privato, la coscienza interiore, il nucleo dell’io origina
rio. Di riflesso dal mondo sociale riceviamo un’immagine distorta, quella
del sé anonimo, comune al collettivismo e all’individualismo. Si è indivi
dualisti così come si è furbi, si fa finta di lavorare, si lascia la fatica agli altri,
ci si butta il dovere dietro le spalle; in realtà si è dei comuni mascalzoni, e
l’unica giustificazione è l’appello agli usi generalmente invalsi e di fatto con
divisi. Lo fan tutti, si è mal pagati, non c’è soddisfazione e si ripaga la società
con la stessa moneta. Chi fa il furbo crede di essere individualista; in realtà
è di un riflesso medio abbastanza comune, la cui giustificazione è colletti
vistica. Per fortuna la società del benessere, dove esiste per davvero, ha reso
molto più marginali queste miserie; ma siamo ancora ben lontani da un indi
vidualismo inteso come interesse della società per l’individuo. La società
che ha prodotto maggiormente l’individualismo, quella inglese dei secoli
passati, non ha saputo o potuto concepirlo che sotto le specie alto-borghe
si. Affinché si desse un autentico individualismo bisognerebbe che ognuno
potesse vivere coltivando degli interessi personali; ma non si può certo ipo
tizzare quel che una volta, purtroppo, è scappato detto anche a Marx: che
un lavoro generalizzato e col progresso, com’è giusto, ridotto a tre-quattro
ore al giorno, permetterebbe una produzione di massa di pittori della dome
nica, critici d’arte e drammaturghi a tempo perso. Dio ci scampi dalla mol
tiplicazione in serie di dilettanti, il cui prevedibile scarso talento è squalifi
cato dal loro impegno privo di rischi e tranquillamente dopolavoristico!
La produzione artistica non è mai necessaria, socialmente parlando,
anche se la sua rarità, col metro dell’eccellenza e della significatività, la ren
dono un bene destinato a esser durevole, degno di esser custodito, reso lar
gamente fruibile e argomento di riflessione. Ma la realizzazione dell’indivi
duo non sta nel suo diventare artista, e nemmeno Alessandro Magno o
Maometto. S’intitolino le vie cittadine agli uomini illustri, e tra questi fac-
ETICA E POLITICA ^5

ciano pure spicco i letterati, i poeti, oltre ai musici e agli altri artisti piutto
sto che i filosofi, gli scienziati, gl’inventori e gli statisti, dimenticando le bat
taglie e le stragi, nonché le date d’infausta gloria! Nemmeno il ricordo del
l’impresa più ardua, e riconosciuta da tutti invidiabile, può esser di conforto
all’individuo compreso nella sua suprema realizzazione. Questo momento
culminante, in cui l’individuo è solo con se stesso, è solamente per se stes
so, escluso da ogni rimando ad altro e da ogni ulteriore provvisorietà, in cui
non può nemmeno fingere, perché non avrebbe più senso farlo, è la pura
accettazione teleologica della propria morte. Non la morte che capita per
disgrazia, quando non si ha il tempo di riflettere, e nemmeno la morte per
una malattia contro la quale fino all’ultimo si lotta, e non è il momento adat
to per meditare, ma la morte in cui si realizza il proprio inserimento nell’e
ternità. Naturalmente l’idea di una sopravvivenza di quella parte del nostro
io, che è l’anima, come cassa di risonanza, o di uno spirito immortale, non
è che una maniera, nemmeno tanto abile, perché inautentica, di negare l’e
vento sempre incombente dell’irruzione dell’eterno a termine assoluto del
la vita. Parleremo piuttosto dell’uomo in punto di morte, nella sua accetta
ta prossimità. Questi sono ancora eventi del vissuto, su cui si stende
agghiacciante l’ala dell’eternità. La prossima lezione, che di fatto non è sta
ta mai tenuta, prende l’abbrivo dalle riflessioni su Spinoza e la conclusione
dell’individuo compiute dal mio amico Enrico Maria Forni, in alcune pagi
ne pubblicate poco prima di morire, il 15 novembre 1988.

Nota bibliografica

Cesare Beccaria, Dei delitti e delle pene (1764).


Decima lezione

Morte e finitezza
L'amicizia e la trasmissione del progetto oltre la fine

Questa lezione, come si è detto, è un colloquio con Enrico M. Forni, che


prima di morire ci ha lasciato una complessa, ma lucida meditazione sulla
morte. Al tempo in cui fu pubblicata (gennaio 1987) nessuno pensava che egli
dovesse morire di là a poco (zj novembre 1988). Ma il tenore dello scritto, a
un lettore attento, lascia pochi dubbi sul fatto che egli già sapesse del desti
no imminente; e che non palesasse ravvertimento per evitare l'imbarazzo
della compassione e benevolenza da ciò indotte, e per illudersi di continua
re come nulla fosse nella sua attività quotidiana. Le citazioni che seguono
tra virgolette, salvo esplicita indicazione d'altro, sono tratte dal suo lavoro,
«Morte e verità in Spinoza», che sotto forma di relazione fu presentato a
Bolzano alla fine di maggio del 1986. Non si tratta di un «ultimo» colloquio,
perché è uno dei tanti che abbiamo avuto proprio su questi temi: una tradi
zione che di certo non termina qui.

1. Prendiamo l’avvio da un principio molto discutibile: «della morte non


si sa nulla c quindi non si può dir nulla»: essa «è fuori dal circuito della
comunicazione». Di certo, la morte non è un oggetto individuabile nella
propria esperienza, e la morte dell’altro si impone «come fatto», cioè qual
cosa che non si capisce e che «dice innanzi tutto che io certamente sono
morto nella sua mente». Questa è l’amarezza del fatto, che resta vero anche
se la sua ragione è un’altra. Ma accogliamo l’invito a fare dell’argomento un
uso discorsivo più complesso, «che interessa il dato della morte solo obli
quamente». Qui «obliquamente» significa che tale dato viene riflesso da noi,
cui non è ancor dato l’oggetto direttamente, e per questa via inautentica è
immesso nel discorso. A dire il vero la filosofia è trascinata in questo discor
so, che non elegge volentieri a tema di sua spontanea iniziativa; le incombe
piuttosto per dovere, una sorta di noblesse oblige che eredita dalla sua anti
ca rivalità con le religioni della sopravvivenza e dell’immortalità. Soluzio-
F

266 DECIMA LEZIONE

ni, queste, che denaturano l’evento a fatto interlocutorio, per metà accetta
to e per metà negato, e che rimandano l’esito ad altra decisione. A tale spe
cie di consolazione della speranza vana bisogna dire che la filosofia è sem
pre stata fieramente avversa. Altre scienze allargano il circuito della
comunicazione nell’inautentico della morte: la medicina innanzi tutto, per
cui la morte è data dalla presenza del cadavere; la psicologia, cui spetta di
riflesso l’interpretazione dei sogni e l’angoscia della morte; l’urbanistica dei
sepolcri; la sociologia e la storia, e le altre scienze umane. Ma nessuno di
questi discorsi, generali o speciali, ci aiuta però a comprendere l’evento «nel
suo significato esistenziale e a intrattenerlo in anticipo prima della sua
incombenza»'. Il discorso filosofico ha un’altra chance, quella di definire in
negativo il finito a partire dall’infinità del campo totale.
La morte, dice Aristotele, è una sorta di perfezione, definitiva e chiusa in
se stessa: una t e /.e u t É]. Heidegger commenta che tale è la perfezione struttu
rale di ciò che, come possibilità ultima, è anche culminante, poiché non
ammette più il rinvio ad altre possibilità non presenti, ma future, quindi non
autentiche né autoreferenziali. Ma il significato della morte, come lo com
prende Aristotele in senso positivo, è biologico. Dopo i 40 anni, quando cioè
l’individuo umano raggiunge la sua ù.xpq e con ciò il massimo di èvreXéxeia,
egli può tranquillamente sparire e la specie umana durare in eterno, o alme
no quanto a lungo essa vuole. Questo pensiero è stato completato e raffor
zato dagli evoluzionisti, i quali anzi vedono nella morte dell’individuo un
mezzo che consente il perfezionamento della specie, il prolungamento del
l’entelechia evolutiva. La morte è un’invenzione che il genio della specie ha
escogitato per superare il principio di conservazione dell’individuo e perve
nire a quello, superiore, della conservazione e anzi del perfezionamento del-
la specie. Questo ragionamento ha una sua validità, non solo biologica.
Anche storicamente si può arguire che, se vivessimo in media due o trecen
to anni (come vuole G. B. Shaw in Back to Methuselah) anziché i soliti cin
quanta o ottanta, noi ci troveremmo ancora nel medio evo... ellenico! Ma è
anche la osservazione più estrinseca che si possa fare in merito.
Sul versante opposto, preoccupato di liberare l’uomo dalla paura della
morte, il metus nocturnus, troviamo naturalmente Epicuro. «Nulla è per noi
la morte»-, t ò v OdvaTOV p.qòÈv Etvai Jtoòq 7|p.ù.c;; «infatti ciò che è dissolto è
insensibile, e l’insensibile è nulla per noi-, egli dice. È inutile analizzare in
dettaglio questa concisa osservazione, del resto di una chiarezza che nulla
lascia a desiderare. Forse non occorre nemmeno dire che questo ragiona
mento è ancora più esterno dell’altro. Perche, se tutti abbiamo coltivato la
MORTE E UNITEZZA ^7

speranza che i nostri figli fossero biologicamente più dotati di noi, a nessu
no credo sia venuto in mente che la paura della morte sia dovuta al pensie
ro dell’oltretomba. Caso mai è vero il contrario: è il senso di colpa di una
vita non realizzata, ma rimediata alla meglio per mezzo di illecite, furtive e
occulte compensazioni che genera la razionalizzazione immaginaria di un
giudizio universale, dal quale la giustizia punitiva si distribuirà equamente
su tutti i peccatori. Forse la dottrina di Epicuro, non pensare a ciò che ti ren
de infelice la vita per paura della morte, poteva godere di una certa entrata
presso il ceto relativamente agiato, senza responsabilità sociali né doveri
politici, del mondo antico. È escluso che trovasse comprensione, non si dice
simpatia e accoglienza, da parte del travagliato uomo-massa delle stermina
te plebi dell’epoca tardo-antica e ancor più medievale. Eppure qualsiasi
ricognizione storica ci obbliga a ritrovare la nostra pregressa identità par
tendo non da quei relitti della civiltà ellenistica ormai disfatta, ai quali
abbiam finito noi moderni col rassomigliare, ma proprio dal comune uomo
della plebe, senza vestigi di nobiltà o arte. Almeno per noi occidentali, la
storia ricomincia daccapo intorno al minimo dei secoli IX-XI, del tutto come
se si fosse avverato il compimento del millennium.

2. La filosofia della storia non esiste al di fuori dello spazio evocato dal
la domanda: dove ci conduce la storia? Non si dica che è una domanda
impossibile, anche se resta per sempre senza risposta. Un po’ meno ina
dempiente è l’altra questione, quella reciproca: da dove siam giunti fin qui?
La risposta presuppone un’identificazione, senza la quale non è possibile
ridiscendere lungo il pozzo del passato. E dato che il filo si dissolve nella
lontananza, l’unica risposta possibile prende le sembianze del mito. Da que
sto periplo recuperiamo il presente. Nella Sorcière di Michelet sono descrit
te le due grandi crisi di massa della mentalità popolare, quella che culmina
nel Xiil secolo e quella che si concentra nel XVII. Nel dare espressione poe
tica, vale a dire visionaria e profetica, alla sua ampia sintesi del decorso del
la stregoneria, lo storico muratoriano, così attento agli archivi, ai documenti
e monumenti di cui lascia traccia il pensiero, si compiace di raccontare l’e
vento attraverso le riedizioni di una favola antica, La fidanzata di Corinto,
che narrata da Flegone, il liberto di Adriano, si ritrova nel secolo Xll e si
ritrova nel secolo XV1 con due interpretazioni notevolmente diverse. In bre
ve, la storia è questa. Un giovane d'Atene si reca a Corinto, in casa dei
parenti della fidanzata che egli vuol prendere in moglie. Ma egli non sa,
essendo rimasto pagano, che la famiglia con cui intende imparentarsi s’è fat-
268 DECIMA LEZIONE

ta cristiana. La fidanzata non si vede, ma durante le notti ella compare e suo


le giacersi con lui fino all’alba. Finché una volta, sorpresi dalla madre, il gio
vane si accorge con raccapriccio d’avere amato la fidanzata morta, che ogni
notte usciva dalla tomba, e non gli resta che morire a sua volta. Questa è la
riedizione del XII secolo, nelle sue linee essenziali. Enrico Forni parla qui,
riferendosi ad Ariès, della «crisi macabra» della fine del Medioevo, come
«espressione della esperienza patetica di una coscienza divisa [...] che inco
mincia a intravedere il proprio sé individuo nella scoperta della bellezza
della vita e del mondo, anche se averte come minaccia la radicale fragilità
e la caducità di questa sua passione di vivere, come percependo dentro la
vita stessa l’alito della sua corruzione». Questa crisi sfocerà dissolvendo
l’antitesi secondo l’orientamento monopolare, o in tal misura, nel trionfo
effimero dell’uomo del Rinascimento. Ciò, va però osservato, non riguar
da se non di riflesso e molto indirettamente la mentalità popolare. Ma anche
nel bel mezzo dei suoi fastigi, «la consapevolezza della morte aiuta l’uomo
del Rinascimento a costituire la categoria dell’individualità», e «proprio nel
senso indicato da Hegel». L’alternanza dei vissuti del macabro, la dialettica
di concupibile e rivoltante, di intenerimento ed essiccazione, di sensualità e
ascetismo, viene espressa anche senza concludere in sintesi nella giustappo
sizione puramente lirica del contrasto, «come aviene quando la riflessione
sulla morte è riflessione sulla corruzione della vita».
Nella decostruzione interpretativa del XVI secolo, di cui è ancora un’e
co la riscrittura di Goethe, la fidanzata di Corinto ha una clausola differen
te. All’atto della definitiva agnizione, lo sventurato giovane si accorge d’es-
ser congiaciuto non tanto con un cadavere, quanto con un vampiro che esce
dalla tomba per suggergli il sangue, e così preservarsi come potenza aliena
e alienante. Questa conclusione allude a una crisi di identità molto più
profonda dell’altra, e anche se la vicenda termina allo stesso modo, con la
morte di entrambi i partner e la dissoluzione di una possibilità altra, il cui
solo pensiero disconfermerebbe il sé, questa soluzione fa l’effetto di un deus
ex machina che debba inevitabilmente azzerare il tema. In realtà al giovane
di Atene deve, almeno per un attimo, essergsi affacciata alla mente la possi
bilità di passare dall’altra parte, di adattarsi a vivere da lemure e trovare sot
to quest’altra forma una sorta di proporzionata felicità surrogatoria. È que
sta tentazione di scambio di identità, subito respinta con spavento e orrore,
che definisce il genere drammatico della nuova interpretazione che gli con
ferisce la mentalità barocca. Il dramma resta strutturalmente lo stesso, sia
che si tratti del prete che si fa stregone per celebrare di notte la messa nera,
MORTE E FINITEZZA z6<)

del Don Giovanni di Molière (e di Mozart) che è nobile finché resta inac
cessibile al pentimento, del Faust di Marlowe (e di Goethe) in cui l’identità
muta partito per esplorare le possibilità di un altro modo di essere. Questa
seconda crisi, che Ariès descrive come quella della «grande paura», e ora ne
capiamo il perché, viene considerata un’espressione della mentalità baroc-
ca. L’uomo barocco, dice Enrico Forni, parla pur sempre di Dio, delle sue
convinzioni religiose e dell’anima immortale; e il mondo intorno a lui è abi
tuato a ragionare sulla base di credenze che erano ferme e solide per tradi
zione. Ma «sotto la superficie di tali credenze», pur sempre «sostenute dai
pilastri di un’argomentazione lucida e scientificamente distaccata, prende
però corpo un sentimento ossessivo», che è alla radice della tensione «tra
un elemento discorsivo enunciato alla luce del sole e un elemento sommer
so che cogliamo dal valore espressivo di molti indizi», soprattutto sotto for
ma drammatica. «Si tratta dell’ossessione del “nulla”»; e, costretto da detta
tensione alla dialettica «assoluto-nulla», l’uomo barocco si esprime sulla
morte secondo i canoni del genere drammatico, che non gli consente un
atteggiamento non partecipativo di condiscendenza, degnazione o distac-
co. In più, «è il dramma consumato nell’esperienza vissuta che insegna del
l’insoddisfazione del desiderio come mancanza, del senso di privazione del
la coscienza che sa di un essere che la oltrepassa». Così «finitudine, errore,
rischio sono contrassegni, indizi del nulla nel ritorno all’assoluto della
“coscienza infelice”»; «e da Descartes fino a Pascal si rinverrà la grandezza
dell’uomo nella possibilità del suo scacco esistenziale, che è anche possibi
lità di una sua accettazione dell’assoluto». La crisi dell’identità smentisce
anche la concomitanza, il mutuo rinforzo di sentimento e ragione; di que
stodécalage che sormonta la differenza tra il soggettivo c l’oggettivo è
responsabile la nuova concezione scientifica del mondo, il cui apparato di
concetti trascendentali, benché tuttora in formazione, è già forte abbastan
za per porsi come alternativo alla teologia. Alla radice della «grande paura»
c’è sempre la tentazione di riconoscersi nelle sembianze del mondo alieno,
al quale solo il sentimento resiste ancora.
Il ripudio o il mutamento di alleanza tra sentimento e ragione, nella
distretta dell’incertezza, acuisce ed esaspera la tragicità della morte, dove al
nulla decretato dall’intelletto si contrappone solo emotivamente la totalità
della nuda speranza. «In Pascal c’è l’avvertenza che solo una passione più
forte può vincere un’altra passione»; ma nel teatro di una tragedia, dove
«non si tratterà mai di una passione che abbia positività cognitiva, capace in
quanto tale di vincere una inclinazione irrazionale». La concezione mecca-
27O DECIMA LEZIONE

nicistica cartesiana, per cui esiste un «automatismo animale», al quale


«obbedisce anche il corpo umano», e che può «essere utilizzato per creare
automatismi innovatori» «a Pascal non serve per esprimere una certezza,
ma solo per rafforzare una scelta». Vi è una sorta di gioco, addirittura di
cinismo intellettuale nel fatto che Pascal affidi le sorti della speranza all’ar
gomento della scommessa, il pari di una sfida tra giocatori; o quando egli
dice che «c’è più certezza nella religione che non nell’affermare che noi
vedremo la giornata di domani», pur riconoscendo d’altra parte che la reli
gione «non è fornita di certezza». Solo Spinoza sa assumere una posizione
che è tanto al di sopra dei giochi e del gusto effimero del paradosso, quan
to è discosta dal patetico del sentimento incostante e dalla sua disperazio
ne. Spinoza si situa consapevolmente fuori da ogni teatro drammatico. Nel
secolo della grande paura, egli attinge direttamente, unico tra i filosofi a far
professione di «filosofo», alla fonte eterna e infinita di ogni saggezza. E
quanto egli finalmente dice (Ethices P. IV, prop. 67):

Homo liber de nulla re minus quam de morte cogitat;


eius sapientiae non mortis sed vitae meditano est

si avverte immediatamente che il significato della proposizione non sta nel


coraggio di chi la profferisce, di contro a una moltitudine di pavidi, cinici e
disperati, ma richiede un’adeguata interpretazione. «Sancte Socrates», recita
va la preghiera di Erasmo, preso tra altre angustie, «ora prò nobis». Ma l’ap
pellativo si adatta di più a Spinoza. Prima di tutto, la sfida alla quale Spinoza
si sente chiamato a dare una risposta è più profonda, radicale, difficile di quel
la che possiamo immaginare in Erasmo. E quindi, anche rispetto a Socrate, la
fermezza di Spinoza è del tutto esente dall’accompagnamento orfico e scia
manico con cui Platone vuol commentare la morte di Socrate. Ma per met
tere Spinoza nella sua giusta luce, va da sé che non c’è bisogno di offuscare il
rilievo spettante a Socrate. Basterà il raffronto con i moralisti dell’epoca, col
rinato movimento neostoico la cui pietra di paragone resta pur sempre la ven-
tiseiesima delle Lettere a Lucilio di Seneca, che Spinoza ha certamente in
mente quando esprime la sua proposizione, e «che in questo caso riesce mol
to bene.a simboleggiare l’atteggiamento filosofico del pensiero barocco».
L’opera e la vita di Seneca, virtuosa per la rassegnazione con cui accetta le
rinunce, specie quelle dovute all’età, è al centro di un sistema di rimandi, di
citazioni che divengono significative nel contesto del movimento neostoico
dei secoli XV1 e XVll in Francia, che e il cuore del risentimento culturale dei
MORTE E FINITEZZA 271

moralisti contro le ormai evidenti inadempienze della rinascenza umanisti


ca. In qualsiasi storia del pensiero, qual che ne sia l’intuizione di base da cui
prende origine, il moralismo svolge sempre la parte di filosofia perdente.
Anche qui, dove la voga dei moralisti è, al presente, eclatante, «sarà sufficiente
ricordare alcune metafore, accennare a un clima di pensiero» per adempiere
alle condizioni della rappresentazione, come messa in scena, poiché «sia per
^eclettismo di Seneca, sia per il sincretismo dei moralisti (del XVII secolo),
non si può parlare di sistema filosofico». La filosofia per Seneca tematica-
mente e programmaticamente è discorso morale, a cui va riferito ogni altro
significato: «quominus legas non deterreo, dummodo quidquid legeris ad
mores statini referas» (Ep. LXXXIX a). Come riflessione sull’agire umano, la
filosofia morde tiene il timone e dirige il corso mutevole della vita: «[...] vitam
disponit, actiones regit, agenda et omittenda demonstrat, sedet ad guberna-
culum et per ancipitia fluctuantium derigit cursum» (Ep. XVI a). Il filosofo è
direttamente il sapiens^ colui che guida nell’arte difficile di «compiere il viag
gio della vita, il cui fine è un ritorno alla patria»; egli è il generis humanipae-
dagogus, in quanto «toglie la maschera non solo agli uomini, ma anche alle
cose, per restituire a esse il loro vero aspetto» (Ep. XXIV a). Suo precipuo
impegno è quello «di curare quelle malattie che sono le passioni».
Il filosofo è colui che coltiva la sapienza per amore della sapienza, sen
za fini utilitari. Ma nella morale il (ptkóoocpoq si contrae nei (JOtpóc;, in colui
che sa dirigere le azioni altrui perché è sapiens. Ci si chiede non perché egli
presuma d’esser tanto, ma perché gli altri siano disposti a riconoscerglielo,
anzi a invocarne l’intervento. In effetti, rileva Seneca, «ci moviamo in mez
zo a ogni genere di ostacoli» e, presi nel conflitto, «invochiamo l’aiuto di
qualcuno». Il vantaggio del sapiente consiste nel disporre del consiglio del
l’età, se non sua, almeno dei ricordi tramandati da tempo immemore. Infat
ti «non solo i contemporanci possono aiutarci, ma anche quelli vissuti tem
po fa» (Ep. I .il a). L’esperienza del passato è anzitutto efficace come mezzo ,
di smascheramento, di recupero del genuino: la vita è maschera, è «una 1
commedia [...] la quale ci assegna parti che noi rappresentiamo assai male»
(Ep. l.XXX a). Nel commento di Forni, «la filosofia come riflessione sul
significato dell’esistenza e della morte, le metafore dell’uomo viatory della
vita come viaggio, come commedia, delle maschere che nascondono il vol
to degli uomini, delle passioni come malattie», l’esperienza della vecchiaia,
propria e di chi ci ha preceduto, è benefica e preziosa per chi non è altret
tanto avveduto e saggio. E sono questi «gli ingredienti che ritroveremo nel
le massime, nei pensieri, nelle quartine, nei saggi, nelle favole, nei dialoghi,
I

DECIMA LEZIONE
272

nei ritratti, negli entretiens, nelle lettere dei moralisti». A questo punto con
dividiamo il sollievo dell’autore, quando si limita a esaminare la XXVI lette
ra a Lucilio (Ep. xxvi a).
La lettera, com’è noto, è principalmente dedicata a mettere in rilievo i
vantaggi della vecchiaia, sul finire della vita, come un’età che nell’assopi
mento delle passioni può far rifulgere meglio l’astro della saggezza. Ed è
interessante qui notare come l’etica di Spinoza sia, quasi punto contro pun-
to^direttamente contrastante gli argomenti della morale, che si dice stoica,
di Seneca. Seneca esordisce dicendo di essere non solo vecchio, ma sull’or
lo della tomba. Tuttavia «l’animo è valido e si compiace di avere scarse rela
zioni col corpo», così che «questa età costituisce [per lui] il fiore della vita».
Ora, ribatte Forni, «che l’anima, idea del corpo, possa fiorire in un corpo
languente, è inconcepibile in una prospettiva spinoziana intesa sia nella let
tera o nello spirito». In Spinoza la salute è una certa proporzione (ratio} che
le pani del corpo hanno tra loro, in modo da acuire al massimo la sua capa
cità di sentire (affici} e di farsi sentire (ad afficiendum)', non è per lui ipo
tizzabile una debilitazione che esalti selettivamente la ricettività, sia pur
quella peculiare al saggio. Il testo parla chiaro: «ciò che il corpo umano così
dispone, da potere essere affetto in più modi, o che lo rende atto a farsi sen
tire in più modi sui corpi esterni, è utile all’uomo; e tanto più utile, in quan
to da ciò il corpo viene reso ancor più atto a essere affetto in più modi, e ad
agire sugli altri corpi; e viceversa nuoce quanto rende il corpo meno atto a
queste cose» (P. IV, prop. 38). Allo stesso modo, e correlativamente, «le cose
che fan sì, che le parti del corpo umano che abbian tra loro una proporzio
ne di moto e di quiete che le mantenga, son buone; e viceversa sono cattive
quelle che fan sì che le parti del corpo umano abbiano tra loro una propor
zione diversa di moto e di quiete» (P. IV, prop. 39). Questo non vuol dire
che al vecchio sia rifiutata la felicità, ma la sua felicità consiste nell’«aver
potuto trascorrere tutto l’arco della vita sano di mente e di corpo» (P. v,
prop. 39 schol.). Come dice Enrico Forni, «se per Spinoza la saggezza è
meditazione non della morte ma della vita, ciò avviene perche il suo pen
siero è pensiero di salute intellettuale, morale e fisica». La sua è un’«antro-
pologia profondamente radicata nella concretezza ebraica, così distante dal
dualismo proprio alla linea di pensiero di matrice orfico-sciamanica, che lo
pone su posizioni antitetiche a quelle di Seneca».

3. Dal punto di vista dell’antropologia spinoziana non è verosimile, anzi


è un controsenso, che la vecchiaia porti la saggezza. Per il fatto che le pul-
MORTE E FINITEZZA ^73

sioni di origine corporea giungano alla mente sopite o estenuate, non per
questa sproporzione lo spirito può trarre vantaggio e riuscirne, tutto som
mato, più forte perché incontrastato. Caso mai ne sortirà squilibrato e mala
to, quindi debilitato, in quanto nell’uomo, come modo finito, mente e cor
po stanno o cadono insieme. Il «modo finito» riunisce in sé, individuandoli,
«gli attributi del pensiero e dell’estensione e quindi si realizza in un momen
to psichico e in un momento somatico, ciascuno dei quali richiede un meto
do differente di indagine». Come dice la proposizione 23, nella Parte II, «la
mente umana non conosce se stessa, se non fin dove percepisce le idee che
le fa sentire il corpo». Questo perché «tanto il decreto della mente, come
l’appetito e la determinazione del corpo, sono per natura simultanei, o
meglio sono una sola e medesima cosa che, quando è considerata e spiega
ta sotto l’attributo del pensiero chiamiamo decisione, e quando è conside
rata sotto l’attributo dell’estensione ed è dedotta dalle leggi del moto e del
la quiete chiamiamo determinazione» (P. Ili, 2 schol.). Adottando uno;
schema deterministico di base, si può dire che quando si ricerca la causa nel
senso di efficiente-motrice abbiamo come oggetto il corpo, quando invece,
la si coglie come motivazione nel senso finale e teleologico siamo in pre
senza della nostra volontà cosciente. In una versione indeterministica, S£
l’interpretazione c plausibile, alla volontà inconscia verrebbe allo stesso
modo a corrispondere uno stato di ipercomplessità che, escludendo la
coscienza, non consentirebbe di ricavare una risultante causale univoca. Ma
con questo, sebbene non sia una conclusione sicura, saremmo pervenuti,
oltre Spinoza, alle posizioni di un Lotze o di un Eduard von Hartmann; è
interessante tuttavia notare come, anche nel caso, ci si avvalga di uno stes
so tipo di speculazione, che fa di anima e corpo due aspetti, o «modi finiti»,
di una stessa realtà assoluta, o «infinita».
L’interpretazione di questo punto si fa incerta, poiché il determinismo
del pensiero di Spinoza fa tutt’uno con la sua concezione della causalità e
questa, a sua volta, si sdoppia nella causa meccanica e/o finale dei modi fini
ti, di cui non è detto che possiamo conoscere perfettamente tutta la com
plessità; e nella causalità per così dire trascendentale, che spiega i modi fini
ti attraverso la loro dipendenza dall’incondizionatamente assoluto. Per
quest’ultimo aspetto la mente umana non sarebbe del tutto finita, come
invece lo c il corpo, ma entrerebbe a far parte di quella sostanza infinita o
mente in assoluto, che in mancanza di una parola più adeguata chiamiamo
Dio. Forse questo sdoppiamento gcometrico/trascendentale del principio
di causalità definisce positivamente il limite della filosofia spinoziana e ren-
DECIMA LEZIONE
274

de possibile parlare della sua religione, che tutti avvertiamo almeno emoti
vamente come innegabile religiosità. Per questa via, attraverso la religiosità,
diventa accessibile in maniera anche filosoficamente più adeguata la teoria
spinoziana delle passioni, sulla quale dovremo ritornare. Ma la causalità, dal
punto di vista trascendentale, è ciò che rende possibile parlare di identità
nella differenza, cioè di conservare l’individuazione pur nel bel mezzo del
cangiamento. Anche se ci riferiamo ai corpi, la causalità non è la causa, non
è questa o quella causa, e neppure il loro concetto generale, ma come il prin
cipio d’inerzia o di conservazione della forza, o dell’energia, è ciò che con
sente di individuare, di stabilire, di determinare una costante, una perma
nenza o persistenza identica nella variazione universale del divenire. Anche
se si applica al mondo fisico, la causalità è un fatto mentale, un atto d’arbi
trio assolutamente metafisico. Nel riflesso mentale del mondo, la causalità
è nient’altro che evidenza, cioè «veritas», letteralmente, «quae se ipsam pate-
facit»: così dice Spinoza. Ora, a conclusione dell’argomento, si può anche
dire che una causalità trascendentalmente intesa può esser compatibile con
qualsiasi grado d’indeterminatezza delle cause definite in maniera geome-
trica e/o empirica. E questa l’incertezza cui alludevamo, che rende per lo
meno arbitrario fissare un limite alla filosofia di Spinoza, al di là del quale
troveremmo invece la sua religione o, come alternativa in subordine, l’e
spansione illimitata della sua teoria delle passioni.
Ma raccogliamo l’invito a intendere la proposizione 67 della Parte IV,
senza addentrarci nella questione dell’interpretazione del pensiero di Spi
noza più di quanto sia richiesto per comprenderlo perfettamente. Dicendo
risolutamente che il saggio non medita sulla morte, ma sulla vita, Spinoza
prende quasi sdegnosamente le distanze da tutta la nuova antropologia dei
moralisti. Questa, mettendo in rilievo proprio ciò che egli principalmente
respinge, consiste nel rifiuto di sistematizzare l’universo delle emozioni psi
chiche, preferendo invece, nel -disordine organico» conseguente a una realtà
vissuta senza il correttivo di una reazione logica, il partito di «descrivere l’e
nigma dell’io, la contradittorietà dei caratteri, l’ambiguità della coscienza che
tende a camuffarsi anche di fronte a se stessa», com’è ampiamente docu-
' mentato nelle Pensées di Pascal. Si deve a questa nuova psicologia l’esordio
di una filosofia morale «senza princìpi-, priva di fondamento logico, «capa
ce al più di analizzare la meccanica che regola il comportamento dell’amor
proprio», che, come ci avverte Forni, è un’operazione che appare già com
piuta, «ancor prima che, con Diderot e con Fiume, questo sentimento [del
l’amor proprio] fosse liberato da ogni connotazione morale». Ora è chiaro
MORTE E FINITEZZA 275

che «il prodotto culturale congeniale a questo stile non sarà quindi il tratta
to, [o] il sistema filosofico»; e «già sul piano della forma, a quel livello che
individua il tipo di messaggio», possiamo vedere tutta la «contrapposizione
tra il pensiero di Spinoza, sistematico, elaborato secondo gli stilemi rigoro-
si del trattato, e quello dei moralisti», endemicamente diffusivo e «rumoro
so». Proprio all’opposto di Spinoza, dunque, la nuova psicologia «tende a
sottolineare le contraddizioni, le incongruenze, il mistero della psiche uma
na», la grandezza e miseria di «questa “canna pensante” di cui non si può
[nemmeno] dare una descrizione unitaria». Nondimeno il discorso appare
«centrato sull’uomo», sia pure «sull’uomo inteso come attore che si masche
ra, perché da sempre colpevole», in un «mondo visto come scenario di una
commedia, perché mondo della caduta». Curiosamente, a questo antropo
centrismo non si addice il sérieux della tragedia; quel che oscilla tra «un sen
timento di angoscia per il fluire di questo tempo caduco» e «un sentimento
di speranza per il porto di pace che si raggiungerà nella consumazione del
tempo» non può avere altro scenario che la commedia.

4. Spinoza non è il teorico dell’amor proprio, non è l’orgoglio la sua


motivazione, ma piuttosto la tranquillità d’animo: forse è questo il suo vero
■ retaggio stoico. All’estremo opposto della tranquillità dell’animo vi è lo sta
to d’animo oscillante in precario equilibrio tra le passioni contrarie, che tut
tavia sono complicate nell’equilibrio instabile della animi fliictuatio. Da un
punto di vista tassonomico si tratta di una ripresa, in chiave di passioni, del
la fondamentale distinzione aristotelica tra virtù etiche e virtù dianoetiche,
o intellettuali. Le virtù etiche secondo Aristotele non si definiscono in pro
prio, ma come punti di equilibrio ottimale tra due abiti contrari, che presi
ciascuno a sé costituirebbero un vizio. Sono queste le radici del comporta
mento che Spinoza chiama passioni. Poi ci sono le virtù dianoetiche, che
non hanno il contrario c che Aristotele pone a fondamento della sua etica.
La novità che vi introduce Spinoza sta nell’aver superato l’intellettualismo
della fondazione dianoetica delle virtù di Aristotele. Le virtù etiche, che sen
za fondamento dianoetico coesistono oscillando in una inconcludente ani
mi fluctuatio, come per esempio nella dialettica complicante speranza e
timore, la cui incessante alternanza definisce la superstizione, trovano una
diversa via di composizione nella fermezza con cui il saggio affronta tutte
le prove della vita, ultima delle quali è l’evenienza della morte. Proprio nei
confronti della superstizione, cioè della sensibilità religiosa dell’epoca del
la «grande paura», «non puto operae esse pretium», non mi pare che valga
F

276 DECIMA LEZIONE

la pena, dice Spinoza, «animi hic estendere fluctuationes, quae ex spe et


metti oriuntur», metter qui in pubblico le oscillazioni dell’animo che sor
gono dalla speranza e dal timore (P. ili, schol. 50). La fluttuazione dell’ani
mo è dunque un male non solo di per sé, come incostanza, ma anche per il
fatto che si alimenta della sua stessa risonanza di incertezza. Esaminiamo
qui la sola oscillazione fra timore e speranza, che come ambivalenza di cui
si nutre la superstizione, in quanto esemplare o luogo notevole, rappresen
ta tutte le altre coppie di passioni opposte. In più, la superstizione tiene il
posto della religione del volgo, dalla quale si tratta come filosofi di distan
ziarsi. Ma nel considerare l’atteggiamento del saggio nei confronti della
morte - occorre specificare la sua propria morte? - bisognerà prima elimi
nare un possibile malinteso. «Qual è dunque il messaggio di Spinoza sul
senso della morte?» In breve, «l’assunto di Spinoza è che il saggio penserà
il meno possibile alla morte, cioè reagirà all’ultima fatale minaccia con un
minimo di paura e di speranza». Ma «Spinoza non dice che il saggio non
proverà reazione alcuna», e questa osservazione, giustamente, non è impas
sibile. «Gli uomini, come modi finiti dell’essere, cioè in quanto determina
ti dalla situazione esistenziale, quale che sia la reazione all’ultima minaccia,
di esito certo anche se ignoto, che riserba loro il mondo in cui sono relega
ti, una reazione qualsiasi l’hanno inevitabilmente». Il rifiuto di identificar
si col va e vieni delle oscillazioni dell’animo, tra la speranza e il timore, non
è eo ipso il raggiungimento di uno stato di tranquillità, di pace dell’animo.
Proprio dall’umanità di Spinoza «è così esclusa l’efficacia della dottrina stoi
ca dell’atarassia».
Per ritornare al discorso sulla fluctuatio animi, per cui «non dari spein
sine meni, neque metum sine spe» (P. ili, 50 schol.), è evidente il legame del
la teologia, come teologia positiva o rivelata, con la religione del senso
comune o del volgo; e che essa non può recidere questo legame, ma anzi ali
mentarlo o al massimo regolarlo nell’ampiezza delle sue oscillazioni, pena
altrimenti la propria riduzione al mutismo. Non vai neppure la pena di
notare che Spinoza non è irreligioso nel senso in cui il termine si adatta ai
libertini, ma bisogna insistere sul fatto che la sua critica alla religione super
stiziosa, al di là dei moralisti francesi, «ha in mente un arco ben più ampio
che comprende tutti i sostenitori di una fede religiosa irrazionale, c quindi
intollerante, si tratti di un “cristiano o turco o giudeo o pagano”». In que
sto senso «la religione è assimilata alla superstizione, c la genesi psicologi
ca della superstizione è dimostrata more geometrico nell’ fobica». Più in par
ticolare, tutto ciò riguarda il rapporto di Spinoza, in quanto filosofo
MORTE E FINITEZZA 277

xax’è^oxqv, con il cristianesimo e il simbolo trinitario (che poi è duale, se


si conviene che non è il caso di reificare la relazione nel rapporto tra Dio e
Cristo). E forse, più in particolare, per spiegare certe premesse dell’atteg
giamento di Enrico M. Forni, non è inopportuno far presente che molti era
no 1 libri che ci appartenevano per induzione di lettura scambievole, e su cui
poi tornavamo a riferirci in comune nel corso di ripetute discussioni, e di
diuturne meditazioni. E riflettendo su questo passato di cose dette tra di
noi, ma non mai scritte, nemmeno in un diano («che ti viene mai in men
te?»), direi che possiamo ricordarle come divise in tre epoche biografiche:
quella del protestantismo liberale, quella del cattolicismo e quella dell’e
braismo. Si consideri che queste definizioni di tendenza sono relative a una
certa rilevanza astrattiva, non certo commisurabili ai canoni di una qualche
ortodossia, essendo entrambi di formazione liberamente laica e nella quale
il problema religioso, se così si può dire, non occupa che una posizione mar
ginale c per di più di carattere culturale. In fondo questo si riduceva a che
cosa noi pensassimo riguardo a Gesù e al cristianesimo, perché qualcosa
(ecco, questo ci era chiaro) bisognava pur pensarne! Anche se poi avveniva
di rado, e per di più frammentariamente, che ne parlassimo al di fuori di noi
due. Ed è con grande riluttanza che mi accingo a rompere questo tacito giu
ramento di non dire.

5.II protestantismo liberale consiste nel dire che Gesù di Nazareth, se si


deve prestar fede al Nuovo Testamento, era un gran buon uomo, che fu con
dannato ingiustamente e patì e morì in maniera commovente ed edificante.
Che si debba credere ai Vangeli c a quanto altro, non è nemmeno il caso dì
discutere. La critica storica e filologica aveva già sbriciolato anche i pochi cal
cinacci rimasti, e del resto sarebbe bastato il buonsenso, e l’esame compara
to delle varie religioni che la pretendono a teologia rivelata. Quest’ultima via,
dato il prevalente disinteresse, non fu purtroppo seguita. Più promettente
sembrava, come a Renan, la questione delle origini del cristianesimo, cioè del
suo mito. A questo punto Gesù poteva benissimo non esser mai esistito, per
lo meno non come ne riferiscono i Vangeli. Il problema era un altro, quello
di Gesù come personaggio di un racconto, di un mito, per l’appunto. Da
questo punto di vista non occorreva spremersi troppo le meningi, con la
buona volontà, in una favola si trova sempre il modo di accontentare tutti.
In questo senso l’essenziale ci pareva espresso nella parte culminante della
Passione secondo Matteo di Bach, dove il grido finale di Gesù, più dramma
tico c realistico se risuona in tedesco («Mein Gott, mein Gott, warum,
27S DECIMA LEZIONE

warum / hast Du mich verlassen?»), appariva come la sintesi definitiva di


emozione e pensiero. Il simbolo di un uomo che muore solo, abbandonato
dagli uomini in quanto dio. abbandonato da Dio in quanto uomo. Gesù, che
tanto era già ridimensionato a personaggio di un mito, come Amleto o Don
Chisciotte, poteva benissimo disporsi a esser spiegato come Uomo/Dio con
l’ausilio pertinente di un simbolismo appropriato. Rimaneva, è vero, la que
stione dell’origine del cristianesimo, capire come una causa formale (qual è,
appunto, una figura romanzata) abbia potuto produrre tanto rivolgimento,
non solo immateriale. Ma anche a questo si risponde. In primo luogo l’ef
fetto di incredulità, al pensiero che una causa formale possa produrre degli
effetti concreti, dipende dal metodo usato. E come se si chiedesse alla storia
della matematica, la quale procede per partenogenesi di scoperte fatte dai soli
cervelli, di spiegarci lo sviluppo della tecnologia moderna fino alle sue pro
paggini di interesse ecologico. In secondo luogo si fa valere un’incredulità
maggiore, e di portata ben più radicale: in che cosa è cambiato per davvero
il mondo, con l’avvento del cristianesimo? Ci sono mai stati degli effetti con
creti, che dipendessero da quella causa?
Il cattolicesimo che ci interessò in seguito era quello, per farla breve, del
Grande Inquisitore di Dostoevskij, cioè una religione istituzionale, la cui
morale è rappresentata con chiarezza, fino a tutte le sue più minute casisti
che, dal codice canonico, e che nella sostanza è anticristiana. Tutte le anime
belle a questo punto si rivolteranno, forse ci accuseranno retroattivamente
di snobismo. Ma si rifletta: se la religione ha da essere una cosa valida, dal
punto di vista istituzionale, storico e pubblico, può darsi benissimo che,
allora, sia una cosa troppo seria per lasciarla fare a Gesù Cristo. Alla scom
posta vivacità del fondatore, cui aveva già rimediato in parte Paolo, l’apo
stolo delle genti, deve subentrare la profonda serietà, anche se terribile, del
Grande Inquisitore. Questa figura s’impone con la forza di un teorema; e
Dostoevskij, nell’immaginario, non ha certo voluto mettere in caricatura il
vescovo di Roma. Il personaggio è disegnato con perfetto intendimento
morale, in stato di coscienza lucido e perfino simpatetico. Il fatto è che la
morale, se deve diventare universale, non può che farsi pubblica e cioè isti
tuzionalizzarsi. Ciò significa che non tutti i problemi morali possono risol
versi per regressione emozionale, e questo fatto spiacevole dà origine alla
casistica. Evidentemente queste prese di posizione un po’ paradossali
denunciavano in noi una sopravvenuta perdita di interesse per l’intera pro
blematica; non sarebbe stata definitiva, da un certo punto di vista. Ma era
no chiari i segni del suo disfacimento: evidentemente non si può passare dal-
MORTE E 11NITEZZA 279

l’interpretazione simbolica, protestante e liberale del cristianesimo a una


suriezione cattolica del medesimo, altrettanto simbolistica e in più lucida
mente anticristiana. Ma ricordo con chiarezza quel passaggio. Si discuteva
a proposito dell’invocazione di Gesù in punto di morte: «Eli, eli, lamma
sabachtani?» (Matth., 27, 46; Marc. 15, 34), che è una citazione dal Salmo
ventunesimo di Davide (Ps., 21, 2). Pareva più verosimile l’interpretazione
esistenziale e drammatica corrente, per intenderci quella che Bach ha mes
so in musica come punta di disperazione assoluta. Al senso comune, infat
ti, è di disturbo il fatto che uno in punto di morire possa mettersi a fare cita
zioni o sfoggio di cultura libresca. Ma proprio qui era contenuto il veleno.
Con la sua esigenza di rendere verosimile la situazione umana di Gesù, la
cultura protestante mostra un residuo di indigerito mitologismo, cioè una
comprensione incompleta del valore puramente immaginario, vale a dire
miracoloso e non storico, del messaggio dei Vangeli^Fu proprio Enrico
Forni a farmi riflettere su questo punto. Nella suriezione per così dire cat
tolica delle conclusioni in precedenza acquisite, diventava perfettamente
chiaro come, pur ponendo uguale a zero il valore rappresentativo, simboli
co o verosimile del racconto, ne risultasse una verità di specie performati
va. E cioè, credere che Gesù abbia potuto fare una citazione in punto di.
morte significa accettare il miracolo, l’invero-simile e la sospensione della
miscredenza, ed è questo aito di mitopoiesi che rende cattolici. L’ombra del
Grande Inquisitore si proietta fin su questo punto; anche se tutto il Vange
lo è falso, ridicolo, inconsistente, resta il fatto che il cattolico ci vuol crede
re, performativamente, ai sensi della credenza che lo definisce legittima-
mente tale. In quel momento apprezzammo il Cardinal Bellarmino come
l’acume massimo dispiegato dall’interpretazione cattolica. Mtrè'chiaro che
è difficile provare un qualche entusiasmo sotto le insegne di un tal profeta.
Del resto il cattolicesimo è da sempre minacciato dall’evenienza miracolo
sa, non importa quanto inverosimile, di una ÒEVTÉpa Jtagovaia.

6. Con l’interesse per l’ebraismo rientrammo nell’ambito di una inter


pretazione letterale, ma avveduta, respingendo tutte le indulgenze al sim
bolismo. L’opposizione al simbolismo, anzi al simbolico in quanto model-
losemantico, è quanto ci spinse (del tutto al di fuori delle questioni
religiose) verso la concretezza del pensiero ebraico. Forni scelse la temati
ca delle passioni e del sentimento; io quella della semantica non simbolica.
Io trovai Brentano, lui trovò Spinoza. Son tutti fili che si riannodano nel
rovescio del tessuto.
280 DECIMA LEZIONE

La prima cosa che s’impara pensando dal punto di vista ebraico, è che
Gesù non fu innocente ma colpevole; e ciò ai sensi della Torah. L’osserva
zione è rilevante per Gesù, dal momento che era ebreo; lo è meno per i cri-
stiani, in quanto antisemiti, ed è quasi irrilevante per i cattolici, che ignora-
no quasi del tutto la Bibbia. Parlando dell’intervallo tra la festa delle palme
e la Pasqua, che è l’anniversario della liberazione del popolo d’Israele dalla
servitù in Egitto, le imputazioni si precisano. Di che viene accusato, Gesù?
I capi d’imputazione sono tre: uno effettivamente provato, uno molto pro
babile, ma discutibile, e uno solo putativo.
Il primo è d’essersi proclamato, o d’aver lasciato credere che fosse, re dei
giudei. L’accusa è provata dagli atti e dai discorsi fatti nel breve ma intenso
soggiorno a Gerusalemme, e dal fatto che Gesù non sa difendersi di fronte
a Pilato, che pure voleva appurare obiettivamente «quale fosse la verità»,
cioè se si fosse o no dichiarato re dei giudei. Le risposte son poco chiare e
divaganti, tali che confermano l’accusa di aver quanto meno lasciato crede
re la cosa. In una monarchia, quando c’è un sovrano regnante, è sempre
imprudente far credere di essere un usurpatore o, peggio, un possibile legit
timo aspirante al trono. Ai tempi di Erode Antipa poi, travagliati da som
mosse, rivolte e rivolgimenti endemici, dire anche per scherzo d’esser re dei
giudei era una sicura candidatura al supplizio. Le ragioni di questa auto
candidatura di Gesù sono fonte di congettura, ma restano oscure perché
prive di documenti; e tanto più in quanto, fino allora, egli era vissuto defi
lato e senza palesare alcuna intenzione. Questa accusa è comunque ben pro
vata, e ci è nota attraverso l’acrostico INRI (lesus Nazarenus Rex ludaeo-
rum), messo sul cartello a edificazione del popolo.
La seconda accusa è d’aver voluto provocare una sommossa, come
dimostrato dalla cacciata dei mercanti dal tempio, dalla trasgressione del
divieto sabbatico, dal tono esagitato e aspro di certe arringhe, e da altre con
sapevoli indecenze. Quest’imputazione è probabilmente vera, ma per le
ragioni che diremo poi. Quanto a provarla, non c’è dubbio che un abile
difensore potrebbe perfino annullarla, perché dopo tutto la sommossa non
c’è stata e non si tratta di fare un processo alle intenzioni. La discussione
verrebbe probabilmente complicata da un fastidioso strascico, connesso con
l’episodio di Giuda Iscariota. Giuda tradì il maestro, ma nel senso che, non
condividendone il disegno, cercò di stornarne le prevedibili conseguenze
tragiche venendo a patti con la polizia. La polizia avrebbe dovuto tenere il
rabbi in stato di fermo, evitandogli di esporsi durante i previsti disordini di
Pasqua. Quale fosse il piano di Gesù, questo non lo sappiamo, ed è chiaro
MORTE E FINITEZZA 28l

che non lo conoscevano nemmeno i suoi intimi. Questo disegno ricopre


uno spettro di possibilità che può andare dalla semplice jacquerie popolare
alla risoluzione di affrontare il supplizio, forse in una variante diversa da
quella che poi fu. In tutta questa vicenda Giuda si preoccupò solamente di
salvare il maestro, rifiutandone la missione che malamente s’indovinava
volesse mettere in atto. L’espediente di Giuda fu malaccorto, l’accordo con
la polizia fu sconfessato dall’intervento del Sinedrio, che evidentemente
capiva meglio di Giuda le intenzioni di Gesù. Fallito tale accomodamento,
la cosa più ridicola dell’intero episodio è che i cristiani vollero fare di Giu
da il capro espiatorio della tragedia: come se le guardie, che all’indomani lo
avrebbero accompagnato al supplizio tra le ali della folla, avessero avuto
bisogno di un bacio per arrestare Gesù. Ma Giuda come cristiano ne risentì
mortalmente, e nemmeno il suicidio valse a scagionarlo dell’accusa dei tren
ta denari, lui che aveva in mano la cassa dell’intera comunità. In ogni modo
ciò che credette di intuire Giuda degl’intenti del maestro lo spaventò
profondamente, tanto da indurlo a compiere il maldestro passo. Occorre
rebbe qui un supplemento d’istruttoria.
La terza accusa, puramente putativa, è tutta teologica. Al di là della pre
tesa al regno giudaico, l’intera vicenda della passione si legge, ebraicamen
te, come una sfida che provochi l’intervento di Jahweh, memore delle
lamentazioni di Giobbe, dell’uomo dei dolori di Isaia, e delle invocazioni
degli altri profeti, e liberi dalla condanna l’uomo giusto. L’accusa è terribi
le: dopo l’obbligo di amare I )io, subito dopo c’è il divieto di tentarlo. «Non
tentabis Dominum Deum tuum», dice il Deuteronomio a chiare lettere (6,
16). La seconda tentazione con cui lo alletta Satana nel deserto è respinta da
Gesù esattamente con la citazione di quelle parole (Matth., 4, 7). Come mai
egli non resiste, secondo l’interpretazione ebraica, di fronte a quest’ultima
tentazione di Dio? Anzitutto, bisogna dire che la distinzione tra invoca
zione e tentazione di Dio non è così netta come desidererebbe la scrupolo
sa ortodossia ebraica. In questo caso, bisognerebbe dimostrare che Gesù ha
consapevolmente scelto di morire, e ciò allo scopo di provocare l’interven
to di Dio o di palesarne, in caso contrario, la malevolenza: sospetto che,
francamente, è eccessivo. Sarebbe questo il Gesù «ateo», in un senso che
non e sfuggito agli esistenzialisti e che lo colloca come rivale di Jahweh. In
secondo luogo, e questo sembra più importante, esiste un vasto spettro di
ipotesi interpretative, tutte in fondo ostili a Gesù ma che non giungono fino
a fissarsi su quel caso estremo di provocazione ateistica. Per esempio, si può
far l’ipotesi del disegno di una sollevazione che liberi a furor di popolo
282 DECIMA LEZIONE

Gesù e, anche se può scapparci il morto, gli consenta di rientrare libero e


vittorioso a Gerusalemme, come capo ormai indiscusso di un grande e in
fondo pacifico movimento popolare di liberazione. L’idea non è contrad
detta dall’altra ipotesi, che l’inviso regno di Erode Antipa, vassallo dei
romani e di parte sadducea, possa esser detronizzato per opera di un «usur
patore» a tendenza teocratica, che in teoria, se avesse successo e gli si desse
ascolto, godrebbe dell’appoggio di tutta l’opinione in senso lato moderata
e farisaica, xenofoba ma ligia alla legge e alla religione, distante sia dagli ero-
diani sia dagli zeloti. Su questo sfondo di possibilità l’intreccio col motivo
della tentazione di Dio, data l’implicazione di Jahweh con la storia e la poli
tica del popolo eletto, esisterebbe ancora sotto la forma della provocazione
di un movimento che non può riuscire se non con l’aiuto di Dio; ma di cer
to sarebbe molto difficile isolare questa specifica intenzione di compro
mettere Dio nei fatti del mondo, in modo da precisarne - in caso d’insuc
cesso - un dimostrabile capo d’imputazione. La plausibilità di queste e altre
ipotesi è data dal fatto che Gesù era ebreo; egli si chiamava Giòsue o meglio
Joshua, un nome abbastanza comune che significa «Dio salva».

7. La vita pubblica di Gesù, di cui ci parlano i Vangeli, comprende l’ar


co di vita di circa tre anni. In questi tre anni sono comprese la fase esor
diente, che è la «pesca miracolosa» dei discepoli intorno al lago di Galilea,
la vera e propria «missione evangelica» coi discepoli inviati da Gesù in varie
parti della Palestina, inclusa la Giudea, e l’ingresso ufficiale di Gesù e i disce
poli, apostoli e seguaci, a Gerusalemme, con cui ha inizio la fase conclusiva
di circa due settimane, che culmina con la «passione c morte». Se si può par
lare di fallimento della missione evangelica, data la poca consistenza del
movimento che lo segue, a tal riguardo è stata formulata l’ipotesi, psico- e
psicopato-logicamente tutt’altro che insostenibile, che Gesù abbia voluta-
mente scelto di affrontare il supplizio; e ciò allo scopo di riorientare il sen
so di colpa collettivo e di rilanciare, col favore di Jahweh, un movimento
ormai languente ripristinandone l’originaria potenzialità eversiva. Questo
non è incompatibile con l’alternativa subordinata del colpo di stato teocra
tico sul regno di Giudea, ma soprattutto conferma il giudizio, al quale si sarà
pervenuti, che Gesù fu condannato «innocente» perché fece di tutto per
apparire «colpevole». Di questa opinione è tra gli altri il dottor Schweitzer,
il famoso missionario, medico e concertista, che nella sua tesi di laurea sul
«Leben Jesu», scagiona Gesù da ogni sospetto di comportamento patologi
co. Tutte queste possibilità interpretative, in conclusione, sono fondate sul-
MORTE E FINITEZZA 283

la storia e la mentalità ebraiche del momento in questione. Come si vede,


esse rientrano come varianti entro la tesi metastorica che, resa esplicita sen
za attenuazioni, resta quella della «tentazione di Dio», provocata dalla estre
ma disperazione ed esasperazione in cui versa il popolo d’Israele. La con
clusione della vicenda storica è il suicidio collettivo di Eleazar e i suoi sicari,
estremisti zeloti, nella fortezza di Masada (70 d.C.), «l’ultima fatica della
guerra dei romani contro i giudei», come si dice nella conclusione del Bei-
limi iudaicum di Flavio Giuseppe.
Paradossalmente il rinforzo della tesi metastorica proviene proprio dal
la versione cristiana dei fatti. Questa fu concepita non contemporaneamen
te, ma in risposta all’accusa, e quindi non stupisce che le Lettere di Paolo,
oltre alle interpolazioni evangeliche, contengano come dogma l’antitesi apo
logetica. Riprendiamo 1 tre capi d’imputazione. Alla prima accusa, d’esser-
si proclamato re dei giudei, si fa rispondere Gesù stesso, con un’interpola-
zione contestualmente stridente, quando dice a Pilato che il suo regno non
è di questo mondo. Questo contribuisce sicuramente a esaltare l’effetto, non
si sa se sublime o comico, che fa dell’intero episodio un dialogo tra sordi.
Ma è chiaro che se uno intende il regno, di Giudea o d’altro, in senso pura
mente metaforico, nemmeno la più intrattabile delle tirannie potrebbe tro
varci qualcosa da ridire. Alla seconda accusa, d’istigazione alla sommossa,
che d’altra parte non ha significato metastorico, essendo del tutto tran
seunte, si risponde sottolineando uno dei due poli della figura altrimenti
dialettica di Gesù, cioè quello, derivato dal rabbi Hillel, della mitezza e del
la mansuetudine: l’agnello. Ma restiamo con la curiosità di sapere come avrà
la polizia riferito il fatto che i discepoli di Gesù andavano armati, tanto che
Pietro l’apostolo, all’atto della cattura di Gesù nel Getsemani, ferì una guar
dia di spada, staccandole l’orecchio. L’episodio non sarebbe stato giudica
to edificante nemmeno dal punto di vista indulgente del rabbi Hillel.
Venendo al terzo capo d’accusa, quello propriamente teologico della
tentazione di Dio, si ha la risposta più stupefacente, quella che costituisce,
per la sua geniale originalità, l’atto di nascita di una religione del tutto nuo
va e diversa, il cristianesimo. La risposta si sdoppia in due parti, che stati
camente considerate paiono contraddittorie tra loro, ma se intese dialetti
camente culminano invece in una sintesi che, posto che le arrida il successo
nel mondo, diventa trionfale. Da una parte si sostiene che Dio ha accetta
to la sfida a cui è stato sottoposto dalla tentazione, e rompendo il vecchio
patto unilateralmente, ha resuscitato Gesù subito dopo morto. Alla
domanda un po’ da curiosi, perché Dio non l’abbia fatto dodici ore prima,
f —

284 DECIMA LEZIONE

quando tutti si aspettavano il miracolo, susseguente ai prodigi dell’oscura


mento del giorno, il terremoto, le cortine strappate del tempio e la pietosa
invocazione finale, si risponde del tutto impunemente che, per essere
uomo, a Gesù sarebbe altrimenti mancata l’esperienza completa della mor
te. Ma è l’altra parte della risposta che fa gridare allo scandalo gli ebrei e
che credo ancora oggi faccia ribollire il sangue ai sinceri, ortodossi credenti.
Anche giudicando dall’assise un po’ defilata degli agnostici, comprensivi
ma tiepidi, non si può reprimere un sussulto a sentir dire che, alla fin fine,
non ha_alcun senso parlare di tentazione di Dio per il semplice fatto che è
lui stesso che se la propone. Infatti, se Gesù è Dio, non può esserci alcuna
tentazione di Dio; la genesi del fatto è sepolta nel mistero viscerale, tutto
interno, della trinità. Quel che occorre, ma è più che sufficiente, è che Dio
scopra all’occasione di esser uno o e trino. In effetti basta e avanza che sia
uno e bino, padre e figlio, Dio e Cristo. E la prontezza con cui i cristiani,
e di lì in seguito, tutta l’umanità occidentale, accolsero questa semplice,
rude e irrazionale conciliazione, decretando superata d’un colpo tutta la
tormentata ricerca d’un dio, di cui è testimonianza la Bibbia, rende anco
ra oggi intimamente comprensibile lo sgomento dei pii giudei. Nonostan
te l’apparecchiatura sadica e lacrimevole della passione e morte di Nostro
Signore, la resurrezione e l’assise alla destra di Dio rendono l’intera trage-
dia una divina commedia, senza maiuscole.

8. Questa forse troppo ingombrante regressione, ma non era possibile


cavarsela con meno, è la condizione per introdurre degnamente quell’«ulti-
mo dialogo con chi muore», di cui parla Enrico Forni, e che egli ha com
piuto dedicandolo a Spinoza. Anzi, è bene rendersi conto subito che si trat
ta del suo dialogo con Spinoza, al quale tutti, me compreso, possiamo
assistere, ma con l’avvertenza che facciam parte del pubblico dei lettori
esterni. Dal punto di vista di un pensiero filosofico con rilevanti interessi
antropologici, riveste grande importanza l’evoluzione delle idee religiose
soprattutto in senso sociale e politico; ora quanto detto sopra, l’orienta
mento sull’interpretazione ebraica di una delle radici della nostra civiltà
(l’altra essendo quella classica, greco-romana) e, nello stesso tempo, il ripu
dio sempre più netto di ogni fondamentalismo, religioso o (meno che mai)
confessionale, rendono credo del tutto comprensibile la predilezione per
Spinoza. Ma la rivisitazione ha ambizioni più alte. È infatti in gioco una
ridefinizione del concetto stesso di razionalità, né forte né debole, ma inte
grata col vissuto delle passioni, e a cui si intende pervenire con l’aiuto pro
MORTE E FINITEZZA z8j

prio di Spinoza. La concezione non intellettualistica, ma intuitiva e affetti


vamente integrata della razionalità rende accessibile con crescente perspi
cuità il quadro proposto. «Secondo Spinoza i filosofi volgari hanno inco-
minciato dalle cose, Descartes dalla coscienza, egli però intende
incominciare da Dio». Questo inizio del filosofare sottopone l’intelletto alla
prova generale della sua affidabilità. Là dove questa si presume minima, il
cominciamento è per riflesso dalle cose, e l’intelligenza trascorre dianoeti
camente^ sui dati sensibili. L’apertura decisiva ha inizio con Descartes, che
però si limita a tracciare il metodo. Egli parla di intuizione intellettuale, ma
spiover gli oggetti di apprendimento razionale, cioè suscettibili di paOqoi^.
La coscienza di questo potere è racchiusa nel significato del cogito. Insieme
con la certezza indubitabile, l’intuizione scopre i limiti della sua portata e
questi dipendono dal modo d’essere del soggetto. Così la coscienza scopre
al di là dell’ilo una perfezione che, superando il termine, ne fonda la com
prensione. Questo è l’argomento ontologico della seconda e terza medita
zione. Dal punto di vista del metodo, occorre render conto di due opera
zioni diverse: l'intuizione della certezza mediante l’evidenza del cogito; e la
riflessione con cui questo scopre la sua dipendenza necessaria da Dio.
Uintuito di Spinoza, invece, non fa parte del metodo, ma del sistema.
Egli riunisce le due operazioni in un unico atto intellettuale, e quindi «pen
sare, dice Spinoza, vuol dire partire da Dio, sostanza assoluta e unica cosa
libera». Già da questo esordio si capisce che l’effetto della ragione si pro
durrà come istanza liberatoria. Perciò, «per comprendere il significato del
la vita e della morte secondo Spinoza bisognerà quindi tener presente il ruo
lo che il binomio Dio-ragione svolge nel suo sistema». Abbiamo già detto
della via antiintellettualistica, in rapporto ad Aristotele, battuta daìV Ethica.
La ragione diventa, nel filosofo, quell’unione che si realizza come affetto o
passione dominante sia l’anima sia il corpo. La mente e il corpo sono i due
modi finiti che hanno come loro centro l’uomo; ma_i modi finiti non sono
categorie dell’essere, nemmeno sono divisioni del sapere come la psicologia
e la fisica, anche se queste conoscenze scientifiche dipendono dall’ontolo
gia speciale dei modi finiti. Questi sono indipendenti tra loro e non comu
nicano attraverso coordinazione; quindi non c’è parallelismo tra essi, né
coincidenza occasionale, ma solo unità, ed è un’unità che trascende la pura
e semplice identità. La mente eccede il corpo in quanto essa diventa capace
di accedere all’infinito e all’eterno; c d’altra parte anche il mondo dei corpi,
dal versante opposto, trova il suo fondamento ultimo nella causa trascen
dente e incondizionata. Quando s’intende l’eterno, l’infinito, l’assoluto di
286 DECIMA LEZIONE

Spinoza come un’entità di ragione che si comprende al di fuori del tempo e


che s’individua per azzeramento dei modi finiti, ci rendiamo responsabili di
una facile ma falsa interpretazione. L’assoluto non è fuori del tempo, ma
all’interno di tutti i tempi; perciò non esclude i modi finiti, ma li include
i fondandone la condizionatezza. «La scientia intuitiva propria del terzo gra
do di conoscenza, che ci fa cogliere l’amore intellettuale di Dio e compren
dere gli eventi sub quadam specie aeternitatis [...] è in realtà quel grado.del
sapere che ci fa conoscere» sia l’essenza di Dio come esistenza assoluta, sfa
l’essenza dell’uomo come finitezza accessibile già ai gradi inferiori del sape
re, ma soprattutto noi stessi «come passione e comprensione chiara di esse
re una espressione di Dio».
Rammentiamo che il primo genere di comprensione è quello che si
attinge dalle cose singole, o dai nomi intesi come segni di rimando alle stes
se, e che Spinoza chiama complessivamente imagmatio, rifacendosi alla
facoltà mentale che vi è direttamente implicata. Il secondo genere è invece
quello che è di spettanza alla ratio, la capacità intellettuale di cogliere le
nozioni comuni, gli universali, i trascendentali e i rapporti di proporziona
lità, secondo l’uso matematico o mos geometneus. Il terzo genere di cogni
zione, infine, è la scientia intuitiva, che si distingue dal secondo (contenu
to per esempio nell’intuizione cartesiana)per il fatto che la «causa formale»
di cui si avvale vige fin dove e in quanto «la stessa mente sia eterna» (P. V,
prop. 21). L’intuito spinoziano, a differenza di quello cartesiano, com
prende non solo l’immaginazione e le relazioni geometriche, ma anche l’at
tività motoria e quindi le connessioni causali. Corpo e mente sono così uni
ti attraverso tutti e tre i generi di conoscenza, e questo spiega del tutto
naturalmente perché «chi ha un corpo atto a più cose», e cioè sano, «abbia
(anche) una mente la cui parte massima è eterna» (P. v, prop. 39). Ora il rap
porto tra il modo finito e quello infinito si può illustrare con un’analogia
matematica, se si tien conto della circostanza proporzionale, per cui usia
mo il secondo genere per capire un fatto che richiederebbe il terzo genere
di cognizione. Una successione infinita, per esempio, può esser compresa
stabilendo il passaggio reiterabile che porta dal membro n al successivo,
n+1. D’altra parte ogni membro n si può dire finito in quanto è delimitato,
in una dimensione, dal predecessore n-1 e dal successore h +1. Il rapporto
tra finito e infinito è simile a questo, che presenta la definizione di ogni sin
golo membro ma proiettala sulla legge generatrice. Questo non pare diffi
cile da intendersi. Più arduo è parlare di Dio come sostanza, o come intrin
seca necessità.
MORTE E FINITEZZA 2$7

•'Secondo Spinoza ognuno di noi ha la conoscenza di Dio, se non della


sua natura, almeno della sua esistenza». Il fatto che ognuno abbia cono
scenza di Dio, anche senza saperlo, assicura quanto meno una conoscenza
accidentale di Dio. Se l’argomento e contingentici mundi non è conclusivo,
occorre partire dal rapporto accidente/accidente e non da quello acciden-
te/sostanza. Quest’ultimo infatti non consente nessuna proporzione, essen
do i due termini eterogenei. Volendo mantenere l’argomento more geome
trico, bisogna formularlo come rapporto tra accidenti, per esempio
accidcntc-di-grado-(??) / accidcnte-di-grado-(w-l). La legge causale di ine
renza degli accidenti alla sostanza può benissimo esser formulata in termi-
ni di inerenza di accidenti ad accidenti. L’impressione che discendendo l’or
dine delle inerenze si arrivi sempre a qualcosa di più sostanziale si spiega
benissimo se si pensa che solo l’accidente-di-grado^w) è oggetto di perce
zione, più o meno chiara e distinta, mentre gli accidenti di grado inferiore,
indotti dalla legge causale di inerenza, sono presenti nell’immaginazione e/o
nel ricordo. Nulla di strano, quindi, che essendo più sbiaditi o meno preci-N
-rt“
si della percezione, essi ci possano apparire più semplici e fondamentali: ma,
se è vero che l’argomento e contingentici mundi non regge, questo è un effet
to di fata Morgana. Non possiamo però concludere che la rappresentazio
ne dell’inerenza come successione di accidenti solo diversi di grado sia l’e
quivalente della legge causale o di qualsiasi altro tipo di connessione
necessaria tra gli clementi. L’enunciazione di una dipendenza deterministi-1
ca equivale caso mai alla sommatività di una serie, che è cosa ben diversa dal-'
la semplice successione, e corrisponde alla sintesi del limite che conclude
terminando la sequenza; d’altra parte non bisogna dimenticare, parlando
fuori della metafora geometrica, che procedendo dall’astrazione alla sinte4
si a un altro livello non si può dimostrare l’esistenza dell’entità così ricava-}
ta, ma solo quella di una più fondamentale attività mentale. _J
Si potrebbe tutt’al più dire che la totalità degli accidenti, presa come sin
tesi olistica, dal punto di vista della mente funge come una sostanza di cui
sono accidenti gli accidenti presi al di fuori di detta sintesi. Rispetto al com-
plesso della natura la mente non è la sua figura cnantiomorfa, opposta ma ,no ò.
identica, e piuttosto l’istanza contraria come il_principio d’informazione lo
è nei confronti della legge d’entropia. In questo caso, chiedersi non tanto se,
ma come esista Dio, e analogo a chiedersi non solo se, ma come si possa rica
vare dell’informazione partendo dal puro rumore, apparentemente senza
senso. La risposta c che si può farlo, se solo si modifica il punto di vista, spo
standolo o approfondendolo. L’eccedenza del mentale rispetto al corporeo
288 DECIMA LEZIONE

è dimostrata dal fatto che ci si deve servire di un’ipotesi corporea data, per
pervenire con la meccanica a quella determinatezza che un’altra ipotesi,
condotta secondo una diversa informazione, dovrà poi confutare. «Secon-
dnJLontologia meccanicistica e del suo tipo di razionalità [...], per cogliere
il reale bisognava pervenire agli elementi ultimi di tale realtà strutturata in
un sistema chiuso»; e «il metodo analitico era il metodo usato per isolare le
parti della realtà e per ricostruire quest’ultima sommativamente». Ora, nel
l’interpretazione di Forni, «al sistema chiuso Spinoza sostituisce il sistema
aperto, e qui ricordiamo che gli attributi sono infiniti» e «che la natura del
l’esistenza assoluta è la sua continua attività generativa -. 11 sistema aperto e
dinamico consiste nel fatto che «al reale come agglomerato di atomi egli
sostituisce un sistema di accordi tra le parti e il tutto e che ■ la ragione ten
de alla comprensione di una realtà dinamica che è un processo verso più
direzioni». Con Spinoza «non si richiede più il riduzionismo atomistico e
la stabilità del dato», né d’altra parte «si può parlare di una razionalità
monocontestuale riconducibile all’unità della coscienza come fondamen
to». Quest’ultima opposizione «giustifica lo sviluppo nell’altro senso di una
Razionalità policontestuale» che modifichi, spostandolo o approfondendo
lo, il proprio non identico punto di vista.

9- Il complesso Dio-ragione si può mettere in evidenza dicendo che esso


non è una struttura, ma un sistema. Se fosse una struttura sarebbe fisso, sta
tico, dato una volta per tutte. Siccome non ha queste caratteristiche, è meglio
considerarlo un sistema, cioè come una quasi^struttura, globalmente parlan
do, che però si fonda sull’autonomia parziale dei suoi elementi e quindi
ammette una certa, imprevedible e indefinita modificazione del suo assetto
totale. La dinamica di questo sistema e, indipendentemente da ciò, l’infor
mazione o grado di conoscenza che se ne può avere, anche dal punto di vista
di Dio, illustrano il momento della variabilità rispetto a ogni struttura, cioè
che razionalmente si spiega come eccedenza del mentale rispetto a quanto è
dato come fisicp._Quest’ultima realtà, quella dei corpi, è d’altra parte defini
bile solo come ipostasi di una particolare struttura, che è quella del sistema
chiuso. Anche sottoponendo la totalità di una tale complessione alla specia
le chiusura di un sistema teologico, ne deriverebbe sempre una persistente
destrutturazione, soprattutto sensibile in sede di dinamica.
Un sistema teologico appare caratterizzato come tale dalla presenza di
tre attributi trascendenti, che sono inerenti a Dio: essi sono l’incondiziona-
to, l’eterno e l’identità. Da questi poi discendono le attribuzioni più perso-
MORTE E FINITEZZA 289

nali dell’onnipotenza, dell’onniscienza e dell’amore per tutte le creature,


dato che Dio ne è l’origine. In seno a Dio essenza ed esistenza fanno tutt’u-
OCL-Questo pone anzitutto il problema del rapporto tra la mente e il corpo
di Dio, dal momento che la sua esistenza non può essere soltanto mentale.
Il corpo di Dio è in definitiva formato, o direttamente dall’insieme delle sue
creature (dall’elettrone alle galassie, dal virus all’uomo o quant’altro), oppu
re, non volendo pregiudicare il sistema con una presupposizione troppo
/-panteistica, dal suo amore per le creature, che costituirebbe il suo sensorio
dispiegato nello spazio c nel tempo. E credo che anche in Dio si possa par
lare di un’eccedenza della mente rispetto al corpo, cioè di una preminenza
dell’intelligenza rispetto al vincolo d’amore; o altrimenti Dio non potreb
be immaginare, fare cioè uso del ragionamento controfattuale, e dovrebbe
ridursi a pensare l’esistente o a crearlo, per poterlo pensare. Non tutto infat
ti esiste di ciò che potrebbe esistere, e di questo ci rende certi il principio di
incompatibilità che, per quanto concepito debole, agisce sempre selettiva
mente. Dunque il pensiero di Dio è dianoetico oltre che noetico ointuiti-
-vo, se è vero che il pensiero può essere intuitivo solo in presenza del suo
oggetto reale. Consideriamo dunque con attenzione più scrupolosa le carat-
teristiche razionali di un sistema teologico, poiché non è vero quel che gene
ralmente si ritiene un vantaggio (o uno svantaggio) per la discussione, che
cioè una volta ammesso Dio si sia con questo risolto (o dissolto) tutto, alla
maniera di un big slam.
Esaminiamo i tre princìpi di incondizionatezza, di eternità e di identità
dell’assoluto. L’incondizionato, rapportato all’assoluto, non è l’incondizio
nato indeterminato, ma l’omni-condizionante. Ora la ricerca razionale di
ciò che condiziona tutto, senza esserne a sua volta condizionato, non è det
to che debba concludere a qualcosa di più semplice degli effetti di cui è cau
sa. La maggiore apparente semplicità delle cause, rispetto ai loro effetti, non
è che una conseguenza dell’uso, nelle proposizioni causali subordinate, di
un principio di rilevanza astrattiva. Ma senza entrare in merito a questo prò- jj
blema si pensi a un principio di condizionamento circolare, quale per esem
pio è entrato a far parte del corredo della cibernetica e relativa teoria del
l’informazione. Non è detto che l’incondizionato debba intendersi come
chiusura «a sinistra» di una sequenza lineare aperta verso destra; o forse
escluderemo da ogni indagine razionale l’esistenza di retroazioni dal con
dizionato al condizionante, e diremo che si può parlare di attributo omni-
condizionante solo nel caso che questo escluda la circolarità, cioè qualcosa
di rilevante per capire come funzioni la ragione? Se l’omnicondizionante è
r

29O DECIMA LEZIONE

assoluto quando ricomprende in sé tutto ciò che condiziona l’altro, allora


non può escludere nulla di quanto è a ciò rilevante. Questa è la prima desta
bilizzazione dell’impianto, che deve ristabilirsi per inclusione nel sistema.
Similmente, se l’eterno, rapportato all’assoluto, non è l’azzeramento del
tempo, ma l’inclusione di ogni tempo; se non è l’intemporale, ma l’omni-
temporale, come è già stato detto molte volte, anche dalla Scrittura: allora
questa inclusione di tutti i tempi, di cui la metà sono per definizione futu
ri, è a sua volta una funzione dell’esistenza nel tempo. Abbiamo già discus
so questo aspetto dell’omni-scienza: se questa è possibile per i contingenti
futuri, lo è solo nella forma matriciale di una previsione di tutti 1 possibili
esistenti futuri, e ciò al massimo entro i limiti di una molteplicità non più
che denumerabile; per quanto riguarda l’occorrenza del contingente, anche
un intelletto potenzialmente omnisciente è limitato da una ragione dianoe
tica, e quindi quel che esisterà lo verrà a sapere solo per via storica. Questa
disparità tra la previsione dei contingenti in quanto possibili e l’accadimen-
to contingente reale, o volta per volta esistente, non è colmabile che da una
ragione necessaria e più precisamente meccanica, come nell’ipotesi di Lapla
ce. Ma il presupposto della libera volontà umana, se Dio la concede anche
solo in parte a una delle sue creature, comporta il fatto che la previsione a
matrice, non tenendo conto delle altre limitazioni, ricopre ma non fa sape-
re in anticipo l’evenienza esistenziale. Questa è la seconda imperfezione del
l’impianto teologico, che introduce ad altre destabilizzazioni.
Il principio di identità trascendente, infine, e compromesso dalla sua
stessa indeterminatezza al di fuori di un ambito mentale. Per questo ha così
poco senso dire che esiste un dio, piuttosto che nessuno o centomila. Dal
punto di vista della mente la cosa è diversa, ma bisogna rendersi conto, allo
ra, che l’unità e quindi l’identità di cui si parla è quella del concetto astrat
tivo, del suo criterio di rilevanza. Dobbiamo dunque limitarci a questo
ambito, dato che non ci aspettiamo che qualcuno possa esibirci un qualche
corpo e dire che quello è Dio. Le difficoltà di un’identità trascendente si
palesano già al limite, quand’essa è solamente trascendentale. Per esempio
l’identità di un totale, rispetto ai suoi elementi, può non essere uguale a se
stessa, se quel totale può essere ottenuto in più modi. Questo e particolar
mente evidente quando interviene il tempo, come addendo del totale, e si
parla allora più propriamente di processo, la cui identità istantanea è diver
sa da quella che è tale risalendone la genesi o affrettandone lo sbocco con
clusivo. Ma anche in assenza di questa specificazione temporale, il totale
raramente è un concetto semplice, definito solo dai suoi addendi e dalla
MORTE E FINITEZZA 29I

monotonia dell’assemblaggio; più caratteristicamente, esso è un concetto


olistico, che diviene complesso allorché, pur partendo dagli stessi elemen
ti, può assumere valori diversi secondo la struttura dei rapporti di inerenza
che intervengono a produrre la sintesi. E questa è la terza instabilità fonda
mentale, che reagisce decostruttivamente sulla stessa possibilità di pensare
alcunché di definito nell’assoluto.

io. In tutte e tre le occorrenze il principio di destrutturazione, che non


deve essere inteso negativamente perché può esser la premessa di una sus
seguente ristrutturazione, se è a questo che si vuole arrivare, può essere
espresso in termini di modificazione. Infatti l’incertezza circa l’incondizio
nato può essere equiparata a una modificazione a priori del punto di vista
che produce informazione; quella circa l’eterno, è una conoscenza del pro
cesso che, estendendo la previsione, può portare a modificare il decorso del
l’evento stesso; c quella circa l’identità del totale è una variazione che modi
fica istantaneamente il modo di connettersi delle parti al tutto, e quindi per
questa via finisce col rimettere in questione anche se stessa. Ora, se al di là
della teologia, è la stessa razionalità che si deve definire sulla base di questi
criteri, è possibile parlare di assoluto, d’identico e di eterno pur permetten
do al discorso, senza fuoruscirne, di trattare dell’emergenza di nuove con
dizioni, di processi dal futuro imprevedibile e di modificazioni dell’identità
in seno allo stesso totale, includendo il caso come fonte di senso informati
vo; la ragione di cui al massimo si dispone diventa indistinguibile, fatta ecce
zione per la quantità della memoria e la celerità del calcolo, solo qualitati
vamente considerata, da quella divina. Si potrà forse rovesciare l’argomento,
volgendolo in negativo, e chiedersi perché parlare, in tal caso, d’identico e
assoluto e eterno, quando poi occorre modificare tale pretesa aggiungen
dovi precisazioni che ne snaturano il senso. È qui che il rapporto col divi
no, a onta di tutto, diventa essenziale, in quanto si tratta dell’identità con la
più memorabile tradizione.
D’altra parte non è possibile considerare i limiti negativi della mente
umana, vale a dire i propri limiti, come rappresentanti del totale. Questo
totale, per la sua stessa natura, ci c ignoto ed è solo per licenza poetica che lo
chiamiamo Dio, come un tempo si usava. Tuttavia il riconoscerne l’esisten
za al di là della nostra inopia vuol dire non esser costretti ad assolutizzare
l’accidentale e l’effimero, e questo collegamento che si realizza nella com
prensione di tutto il resto, c fonte di acquiescienza e di serenità anche in pun
to di morte. Spinoza, che morì di tubercolosi a quaranta e quattro anni, ne
292 DECIMA LEZIONE

aveva una vivida esperienza. Come dice Enrico Forni, «il dato della morte è
certamente ineludibile»; e a noi non resta che il compito di «fuoriuscir dal
vortice senza fine che correla le passioni della tristitia e della laetitia come
affetti passivi», indotti dalla animi fluctuatio. Per prepararci dignitosamen
te alla morte, «dovremmo affermare la letizia come passione attiva, elevarci
al livello della beatitudine che è un atto di amore e di gioia», quando «la gioia
che prova la mente umana nel contemplare se stessa» è quella di «ricono
scersi come manifestazione dell’esistenza assoluta di Dio», cioè di «avverti
re la dimensione di eternità che è congiunta al proprio stato contingente». E
«a questo livello sapienziale, l’accettazione della morte come conoscenza del
la legge di natura, che è legge di Dio, si fonda su un atto di amore per l’esi
stenza». L’atto di amore confida nella possibilità di «uno scambio con pochi
del nostro progetto esistenziale, per una sua trasmissione», perché «è solo
con un atto di amore che possiamo accettare la legge naturale della nostra
finitezza, che possiamo intravedere, al di là della solitudine, la trasmissio
ne del compito esistenziale che abbiamo progettato». E, «nelle parole di Spi
noza», «vivendo questa esperienza di verità e d’amore», noi «percepiamo
come larga parte della nostra mente sia eterna».
Ti ricordiamo, Enrico.

Nota bibliografica

Enrico M. Forni, Il mito del sentimento, Saggio di antropologia filoso


fica, Bologna 1984; e Morte e verità in Spinoza, "Annali di discipline filo
sofiche dell’università di Bologna», 5, 1983-84 (ma 1987), pp. 25-64.
Postfazione

di Luca Guidetti
i. La genesi dell'opera e la sua forma

Contro il simbolico (1989) è il penultimo libro di Enzo Melandri, a cui


farà seguito l’anno dopo (1990) il volume sulle Ricerche logiche di Husserl1
che chiudeva emblematicamente il suo percorso filosofico recuperando
l’autore e la corrente di pensiero che trent’anni prima avevano segnato il
suo esordio sulla scena intellettuale italiana ed europea2.
Come detto neWAvvertenza, il testo deve la sua origine a un’iniziativa
del Centro culturale «Lucio Lombardo Radice» che, in collaborazione con
l’Amministrazione comunale di Correggio, l’Amministrazione provincia
le di Reggio Emilia e il CIDI, propose a Melandri una serie di dieci lezioni
pubbliche a carattere di conferenza, con cadenza bisettimanale dal febbraio
al giugno 198S, i cui titoli, con alcune modifiche, sono gli stessi dei diver
si capitoli del libro. Le lezioni furono registrate e trascritte nell’estate 1988,
quindi consegnate all’autore che sottopose il testo scritto a una revisione e
approntò la stesura definitiva per l’autunno dello stesso anno. Tuttavia, la
morte dell’amico e collega Enrico Maria Forni, avvenuta il 15 novembre
1988, portò Melandri a modificare la stesura dell’ultima conferenza (Medi-
tatio vitae, meditatio mortis) impostandola come un «colloquio» con lo
stesso Forni, anche se - notava Melandri - «non si tratta di un “ultimo”
colloquio, perché c uno dei tanti che abbiamo avuto proprio su questi temi:
una tradizione che di certo non termina qui»\
La pubblicazione dell’opera con l’editore Ponte alle Grazie di Firenze
era inscritta in un progetto di collaborazione che, negli anni immediata-

1 Cfr. E. Melandri, Le - Ricerche logiche» di Husserl. Introduzione e commento alla Pri


ma ricerca, il Mulino, Bologna 1990.
1 Cfr. E. Melandri, Logica e esperienza in Husserl, il Mulino, Bologna i960.
3 E. Melandri, Contro il simbolico. Decima lezione: Morte e finitezza. L'amicizia e la
trasmissione del progetto oltre la fine.
296 LUCA GUIDETTI

mente successivi, avrebbe visto Melandri impegnato nella direzione della


collana «Biblioteca di studi filosofici»» in cui, ad opera dei suoi allievi,
compariranno traduzioni, curatele e saggi originali su tematiche e autori
appartenenti al dibattito filosofico tra Otto e Novecento, in particolare
nelle aree disciplinari che continuamente hanno caratterizzato la ricerca
melandriana: il rapporto tra logica e psicologia, la tradizione fenomeno
logica, la logica della validità, la logica modale4. Nello stesso periodo
nasceva, sempre sotto la direzione di Melandri, la rivista «Discipline Filo
sofiche» - inizialmente (1991) con Thema Editore e, dal 1998, con Quod-
libet edizioni sotto la direzione di Stefano Besoli - come continuazione e
sviluppo dell’originario disegno che, a partire dalla fine degli anni Settan
ta, aveva caratterizzato gli «Annali di discipline filosofiche dell’Univer-
sità di Bologna».
Il percorso intellettuale di Melandri è segnato, fin dalle sue origini, da
una spiccata e consapevolmente perseguita eccentricità rispetto alle corren
ti filosofiche dominanti nella cultura italiana dagli anni Cinquanta alla fine
degli anni Settanta. Storicismo, strutturalismo, esistenzialismo, neopositi
vismo sono sempre, per Melandri, termini di confronto e di scontro criti
co, mai assunzioni in blocco o visioni del mondo «risolutive» rispetto ai
paradigmi della modernità. La stessa fenomenologia, a cui egli ha dedicato
il suo maggiore impegno teoretico, non emerge dalle sue riflessioni nella
forma di una dottrina compiuta, quasi come se si trattasse di un nuovo
modello idealistico-trascendentale alternativo a quello kantiano, ma come
un’autentica teoria dell’esperienza, una sorta di «scienza applicata» secon
do la quale è l’oggetto a essere preordinato al metodo, e non viceversa5.
Così intesa, la fenomenologia può, ad esempio, essere utilizzata per rende
re ragione dei «paradossi dell’infinito»6, della struttura comunicativa del lin-

4 Cfr. A. Meinong, Empirismo e nominalismo. Studi su Hume, traci, it. e cura di R. Briga
ti, Ponte alle Grazie, Firenze 1991; J. Bona Meyer, La psicologia di Kant. Un'esposizione cri
tica, trad. it. e cura di L. Guidetti, Ponte alle Grazie, Firenze 1991; C. Stumpf, Psicologia e
metafisica, trad. it. e cura di V. Fano, Ponte alle Grazie, Firenze 1992; S. A. Kripke, Esistenza
e necessità, a cura di G. Franci, Ponte alle Grazie, Firenze 1992; S. Besoli, // valore della verità.
Studio sulla 'logica della validità - nel pensiero di Lotze, Ponte alle Grazie, Firenze 1992.
5 Cfr., a tal riguardo, S. Besoli, Per una lettura non naturalistica dell'esperienza. Intorno
all’interpretazione fenomenologica di Enzo Melandri, in S. Besoli, F. Paris (a cura di), Studi
su Enzo Melandri. Atti della giornata di studi - Faenza, 22 maggio 1996, Polaris, Faenza 2000,
p. 115.
6 Cfr. E. Melandri, {paradossi dell’infinito nell'orizzonte fenomenologico, in E. Paci (a
cura di), Omaggio a Husserl, Il Saggiatore, Milano i960, pp. 81-120, ora in B. Bolzano, /
paradossi dell’infinito. Cappelli, Bologna 1979, pp. 7-40.
POSTFAZIONE 297

guaggio, dei molteplici sensi della realtà. Questa capacità di configurare un


significato attraverso modalità alle quali «non avevamo ancora pensato» -
per utilizzare un’espressione di Wittgenstein - traeva origine sia dalla for
mazione eclettica di Melandri, sia dalla sua profonda conoscenza dei più
recenti sviluppi scientifici da cui egli, mediante immagini metaforiche, rica
vava nuove e originali prospettive d’indagine filosofica.
Al di là dei contenuti teoretici e dell’impostazione generale del volume
- di cui discuteremo tra breve -, l’aspetto più saliente che emerge dalla let
tura del testo è che l’approccio metodico e il taglio analitico a cui vengono
consegnati i diversi argomenti, benché rivolti a un pubblico composito e
non specialista, non differiscono sostanzialmente per rigore e profondità
da quelli mediante i quali Melandri affrontava le medesime questioni nei
suoi corsi universitari o nelle numerose conversazioni con i suoi allievi.
Nelle sue lezioni non vi era traccia di un’autentica struttura architettoni
ca. Il suo «pensiero ad alta voce», fatto di continui rimandi al mito, alla let
teratura, alla scienza e alla tecnica, tendeva a scardinare i nuclei dottrinari
per aprirli alla dimensione relazionale del dialogo filosofico7. I testi e gli
autori, sottratti all’ipoteca dell’autorità, rivivevano così davanti ai suoi
allievi come «contemporanei» di cui era possibile scomporre e interrogare
il messaggio. Anche la forma dell’improvvisazione, alla quale spesso era
no affidati i molteplici temi, era sempre sorretta da un’attenzione
all’«essenza» delle posizioni emergenti e di cui egli, mediante esempi trat
ti dall’esperienza quotidiana, sapeva abilmente rappresentare la «cartogra
fia» delle premesse e delle conseguenze. Da questo punto di vista, tra il
testo orale delle conferenze e il testo scritto della stesura definitiva di Con
tro il simbolico non vi sono differenze rilevanti; Melandri era infatti estra
neo a qualsiasi semplificazione o schematizzazione di «scuola», così come
a qualsiasi artificioso e fintamente benevolo adattamento del linguaggio
filosofico alle «competenze» dell’interlocutore. Il senso autentico del mes
saggio filosofico risiede infatti nella sua capacità di trascendere l’«aura» del
suo particolare codice storico, riproponendosi ogni volta come specchio
dell’intera complessità problematica del pensiero.
Tale impostazione si basava su due convincimenti fondamentali: in pri
mo luogo, ncll’affrontarc ogni questione filosofica bisogna sempre — in
qualche modo - assumersi l’«onere del dogmatismo», poiché il continuo

7 Cfr. S. Besoli, Il percorso intellettuale di Enzo Melandri, in S. Besoli, F. Paris (a cura


di), Studi si< Enzo Melandri, cit. p. 153.
298 LUCA GUIDETTI

tentativo esplicitare e di rendere problematico il criterio di cui ci si serve


alla fine non produce altro che un dogmatismo cquivocos. Se non si vuole
infatti ridurre il discorso filosofico a un insieme di divagazioni esemplifi
cative, l’interlocutore deve farsi carico della fatica della riflessione concet
tuale, a cui inevitabilmente conduce l’impiego e la comprensione della
grammatica filosofica. In secondo luogo, ogni argomentazione e interpre
tazione non può avere l’ambizione di «spiegare tutto», facendo sfoggio ad
esempio di formule o ricorrendo alle immagini del senso comune; per capi
re un autore, o inquadrare un problema, è sufficiente rendersi ragione del
la struttura di fondo del suo discorso9. Questi due convincimenti conflui
scono al loro volta nel filo conduttore che deve reggere l’esposizione
filosofica: il linguaggio argomentativo dev’essere continuamente ricon
dotto alla sue matrici logiche e all’esibizione dei diversi piani categoriali in
cui gli oggetti del nostro discorso assumono un significato. È qui che,
secondo Melandri, si rivela il senso più profondo dell’approccio fenome
nologico. Infatti, il compito primario del linguaggio filosofico è quello di
mostrare le prospettive genetiche di costituzione dei significati portando
alla luce le diverse forme intenzionali implicite in ogni «posizione» dell’e
sperienza. L’aspetto enunciativo della filosofia dev’essere strutturale al fine
di mantenere, in un costante rapporto dialettico, la forma con la funzione,
l’espressione con il contenuto. Se l’esercizio della riflessione non vuole
ricadere in un astratto manierismo autoreferenziale, non bisogna mai
dimenticare - diceva Melandri utilizzando una metafora platonica - «di che
cosa sono proiezione le ombre sul muro»10.

2. Il contenuto teoretico

Il pensiero dominante dell’opera di Melandri - e, a fortlori, di Contro


il simbolico - è che la cultura filosofica occidentale debba essere intesa
come una continua riproposizione, a diversi livelli, dei medesimi schemi
semantici e delle posizioni intellettuali già presenti nell’antichità riguardo
alla nozione di identità. L’identità serve a «rimettere in ordine il mondo»

Cfr. E. Melandri, Alcune note in margine ^//’Organon aristotelico, CI.UEB, Bologna


1965, p. 8 (d’ora in poi: Organon).
9 Cfr. ibid., p. io.
,c Ibid., p. 20.
POSTFAZIONE 299

di fronte allo sguardo originario e quotidiano determinato dallo «stupore»


di accorgersi che esso non è quello che sembra11.
Questa ristrutturazione si svolge in due fasi: in primo luogo nella fissa
zione dell’identità elementare, intuitiva e pre-simbolica (a=a), sorretta dalla
tesi «arcaica» dell’isomorfismo tra pensiero e realtà; in secondo luogo nella
critica all’isomorfismo e nella conseguente determinazione dell’identità fun
zionale e motivazionale, eminentemente simbolica e discorsiva (a—>A, dove
«A» maiuscolo rappresenta il concetto, la sostanza o l’idea)12. Il passaggio
dall’intuizione al simbolo equivale dunque al passaggio dalla struttura logica
del discorso, in cui il segno è immediatamente la cosa o la «natura», al fatto
linguistico e semiotico come prodotto della conoscenza umana, in cui il rap
porto tra segno e oggetto è mediato dal problema del significato o «rappre
sentazione». Così, le «restrizioni» all’isomorfismo presentate da Gorgia, e
successivamente sviluppate nell’esigenza socratico-platonica di una regres
sione analitica ai fondamenti che trasformi ogni asserzione riguardo all’og
getto in una questione riguardo ai moventi pratici dell’azione e della cono
scenza, tendono a un unico obiettivo: includere nella scienza della natura
anche la «mente» di chi si disponga a contemplarla13.
Tuttavia, l’universo del simbolico, sorto come critica all’originaria intui
zione metafisica, tende ben presto a imporsi come il vero e autentico mondo
che esclude sia le operazioni concrete e vitali che lo hanno costituito, sia le
intuizioni empiriche che sono alla base del fenomeno linguistico e conosciti
vo. Ciò corrisponde alla nascita della teoria e a quelle obiettivazioni del signi
ficato che trovano la loro massima espressione nella scienza moderna14. Por
si «contro il simbolico» significa dunque anzitutto rivelare la dimensione
genetica della simbolizzazione attraverso il recupero dell’esperienza dell’in
tuizione. Questa non si presenta mai, per Melandri, come un puro atto men
tale, ma è anzi manifestazione dei modi attraverso i quali l’uomo si relaziona
alle cose e agli altri uomini. Il simbolo mostra infatti una capacità di riferi
mento c di oggettivazione non riduttiva nella misura in cui viene continua-

11 Cfr. E. Melandri, Le novità degli ultimi tremila anni, in «il Mulino», 296, anno XXXIII,
19S4 (d’ora in poi: Le novità), p. 972.
12 Cfr. E. Melandri, Logica, in G. Preti (a cura di), Filosofia, Enciclopedia Feltrinelli
Fischer, voi. 14, Feltrinelli, Milano 1966, 19702 (d’ora in poi: Logica), p. 268; Id., La linea c
il circolo. Studio logico-filosofico sull'analogia, il Mulino, Bologna 196S, Quodlibet, Mace
rata 20042 (d’ora in poi: La linea e il circolo) p. 662 sg.; Organon, pp. 52 sgg. Per la tesi del
l’identità elementare, rimandiamo a Contro il simbolico. Quarta lezione: Metafisica. Il prin
cipio, l’essere, il possibile.
1 •' Cfr. Logica, p. 269; Le novità, p. 969.
14 Cfr. Le novità, p. 975.
r

300 LUCA GUIDETTI

mente ricompreso e riconsegnato ai contesti vitali ed esperienziali nei quali


si radica la prassi umana del pensare, dell’intendere e del decidere: in una
parola del giudicare.
Ora, secondo Melandri la ricognizione delle esperienze intuitive fonda
mentali deve realizzarsi attraverso due momenti complementari: l’archeolo
gia e la fenomenologia. La prima capovolge il processo di razionalizzazione
facendo emergere le realtà residuali, rimosse ed escluse dalla semiologia pura
mente simbolica. Se quest’ultima si limita alla descrizione del mondo - descri
zione in cui, si badi bene, rientra anche la «spiegazione» scientifica -, l’ar
cheologia ne consente invece Vinterpretazione. Infatti, il procedimento di
regressione all’«arcaico» ci fa notare che a fondamento delle diverse teorie
della realtà si pongono visioni del mondo informali e prescientifiche, deter
minate dal quel «bisogno di capire»15 in cui segno e significato, qualità e
quantità, primario e secondario, follia e ragione «non hanno ancora stabilito
un divorzio»16. L’ermeneutica, a cui l’archeologia mette capo, non si sottrae
certo all’obiettivazione, ma si tratta, per l’appunto, di un’obiettivazione che
si rivolge non alle cose o agli oggetti, ma ai significati di cui essa fa emergere
le condizioni ovvero le «funzioni». D’altra parte, proprio in quanto ancora
sorretta da un’obiettivazione - sebbene di tipo «regressivo» - l’ermeneutica
rischia di trasformarsi in un ulteriore sistema simbolico o, come Melandri la
definisce, in una «teoria dei codici»17. E a questo punto che interviene \a feno
menologia in cui la realtà si dipana e si articola nei suoi diversi sensi che non
ammettono gerarchie di obiettivazione, ma solo l’unico piano inferenziale e
«orizzontale» della modalità intenzionale. La fenomenologia ci fa apparire
sensati anche quegli aspetti della realtà che si sottraggono alla razionalizza
zione diretta o di «primo grado» della conoscenza simbolica. I diversi sensi
della realtà che si presentano all’indagine fenomenologica non sono più lega
ti a un «codice», bensì — osserva Melandri richiamandosi a Wolfgang Metz
ger- al modo d’essere del «mondo intuito ovvero vissuto»’8. È infatti sulla

’5 La linea e il circolo, p. 69.


’6 Ibid., p. 67.
17 Cfr. ibid., p. 68.
’8 E. Melandri, Sulla c.d. •ipotesi del mondo esterno», ovvero la fenomenologia del senso,
o dei vari sensi assunti dal c.d. -reale-' (1979), ora in Id., Sette variazioni in tema di psicologia
e scienze sociali, Pitagora, Bologna 1984, p. 23 5 sg.; La linea e il circolo, p. 644. Su questo tema
Melandri fa riferimento ai «cinque sensi» del reale presentati e discussi da W. Metzger, Psy-
chologie. Die Entwicklung ihrer Grundannahmen seù der Einfuhrung des Expcriments,
Steinkopff, Dresden und Leipzig 1941, 1963*, trad. it. di L. Lumbelli, / fondamenti della psi
cologia della Gestalt, a cura di G. Kanizsa, Giunti-Barbèra, Firenze 1971, pp. 18 sgg.
POSTFAZIONE 3OI

base del legame tra intuizione ed esperienza vissuta (Erlebnis) che «la nozio
ne di esperienza può essere usata sia per riferirsi al momento intuitivo del far
la, sia a quello simbolico e calcolistico del tenerne conto»’9.
Svincolando l’intuizione dall’apparato psicologico a cui la tradizione l’a
veva consegnata, la fenomenologia, nell’accezione melandriana, fonda sul-
Vindagine delle molteplici forme dell’evidenza quell’istanza metodica del
l’esperienza che la conoscenza simbolica assume come «ovvia», già
costituita e in sé «valida». Il metodo non è un insieme di atti intuitivi a cui
le leggi logiche danno una forma coerente c ordinata, ma è sempre la corre
lazione indissolubile tra l’aspetto soggettivo e l’aspetto oggettivo dell’espe
rienza che si offre nella sua unità: «Per ogni modo di datità esiste sempre un
correlativo modo di prenderne atto e perciò in linea di principio ogni espe
rienza ha la sua tipica evidenza adeguata»20. Nell’intuizione metodicamen
te strutturata, l’oggetto non può essere colto indipendentemente dall’insie
me delle relazioni in cui esso cade, e poiché un lato di questo sistema è
rappresentato da ciò che chiamiamo «soggettività» o «coscienza», caratte
rizzato dall’agile intenzionale, ne deriva che anche gli altri lati dovranno
essere intesi sulla base di una dinamica soggettiva. In questa prospettiva,
«essere coscienti» non vuol dire produrre simboli, ma immagini. L’imma
gine si dà immediatamente (intuitivamente), ma nella sua immediatezza essa
presenta, oltre al risultato, anche il procedimento come condizione signifi
cante. Hartmann parlava, a questo riguardo, di «intuizione conspettiva», la
cui funzione non è l’isolamento del dato, ma la comprensione relazionante
o «categoriale» dell’universalità essenziale (eidos)11. Infatti, al centro del
l’immagine fenomenologicamente intesa non vi è più l’oggetto come «cosa»
o rimando simbolico (della percezione, del concetto ecc.), ma il «qualcosa»
che dall’io o coscienza viene identificato come oggetto.
Vi sono immagini che non oltrepassano l’orizzonte della datità attuale,
che coincidono con l’intenzione e la soddisfano senza residui o sfrangiatu
re: in tal caso il risultato (l’oggetto) proietta su uno «schermo» in modo figu
rale e compiuto il processo soggettivo di costituzione che può apparire come
un sistema di relazioni simboliche; ma vi sono anche immagini che oltrepas
sano tale orizzonte e in cui l’oggetto si presenta come un «polo d’identità»:
in tal caso il processo emerge in tutta la sua forza costitutiva e dinamica come

19 E. Melandri, Contro il simbolico, Terza lezione. Realtà. Gli enti, i concetti, gli oggetti.
20 E. Melandri, / paradossi dell'infinito nell'orizzonte fenomenologico, eie., p- zz.
Cfr. N. Hartmann, Griindziige cincr Mctapbysik dei Erkenntnis (1921)» 21
ampliata, de Gruyter, Berlin 192$-1965!, pp. 518 sgg.
302 LUCA GUIDETTI

quando, ad esempio, cerchiamo di comprendere l’infinito22. L’emergenza


della coscienza con le sue «immagini» conduce pertanto la determinazione
simbolica a un punto di rottura, costringendola a confrontarsi con la condi
zione che ne detta il senso, vale a dire l’immaginario. Da qui la necessità di
risalire alle strutture della soggettività, le quali offrono la possibilità di inten
dere, in libera variazione, ogni «modo» della realtà e dunque anche il modo
particolare del riferimento simbolico. Nell’immaginario (da non confondersi
con l’immaginativo che per Melandri indica ciò che è meramente «fantasti
co») ogni contenuto rappresentativo del mondo - sia esso idea, sostanza o
semplice percezione — manifesta un carattere di azione, una forza teleologi-
camente orientata e riconducibile a una matrice pratica. In Contro il simbo
lico, questo spiega il passaggio senza soluzione di continuità dall’indagine
teoretica della prima parte alle forme della ragion pratica sviluppate nella
seconda parte. L’immaginario è infatti sempre emo?.ionalmente investito: ciò
consente la produzione del desiderio come sovrapposizione dell’immagine
virtuale alla realtà, le nozioni di bene e di male come immagini degli «scopi»
che declinano, in senso motivazionale, la rigida causalità meccanica dell’agi-
re tecnico e, infine, la normatività del dover-essere che, nell’imposizione dei
valori e dei fini, produce un’immagine ideale dell’essere, come condizione
della sua stessa causa efficiente.
Composto al termine di un decennio in cui Melandri, nelle sue lezioni
universitarie, aveva affrontato i «grandi temi» della metafisica occidentale
(il realismo di Aristotele, l’idealismo di Platone e di Cartesio, il logicismo
di Leibniz, la fenomenologia di Husserl), Contro il simbolico costituisce
l’eterno, sistematico ritorno — e perciò, in senso dialettico, il «compimen
to» - di un costante e rigoroso paradigma metodologico (già per altro
espresso nel suo opus magnum, La linea e il circolo), caratterizzato da fini
intrecci argomentativi, da destrutturanti «criteri di rilevanza», ma soprat
tutto mai indulgente nei confronti delle «ovvietà» e delle approssimazioni
retoriche da cui troppo spesso risulta affetto il discorso filosofico della
contemporaneità. Anche solo per questo esso si avvicina a noi come un’in
dispensabile — e certo la sua non ultima - «lezione».

22 Cfr. E. Melandri, / paradossi dell’infinito nell’orizzonte fenomenologico, cit., p. 25.


Indice dei nomi
r
Abramo 109,112-113,226 Bateson, Gregory 178,182
Achille 99, 234 Baum, Lyman Frank 150
Adamo 57, 78, 216 Beccaria, Cesare 83, 119, 247, 263
Adriano, Publio Elio Traiano 267 Beethoven, Ludwig van 29
Agatarco 100 Bellarmino, Roberto 279
Agostino d’Ippona 74, 141, 147, 234 Bentham, Jeremy 1S8
Alessandro Magno 73, 104, 262 Berdjaev, Nikolaj Aleksandrovic 258
Alighieri, Dante 50-51, 72 Bergson, Henri-Louis 12,208-209
Alighieri, Jacopo 72 Bertalanffy, Ludwig von 236, 238
Allah (Al-lah) 120, 226 Bertani, Mario 9
Allworthy, sqitire 149 Besoli, Stefano 296, 296-297
Amleto 135,278 Bloomfield, Léonard 66
Anassagora 102-103 Boccaccio, Giovanni 72
Andersen, Hans Christian 250 Bolk, Louis (Lodewijk) 71-72,93
Andronico di Rodi 95 Boltzmann, Ludwig Eduard 92, 218-219,
Anseimo di Canterbury (o d’Aosta) 16,
237
Bolzano, Bernhard 11, 37,296
234-23 5.
Antistcne di Atene 149-150, 179-180 Bona Meyer, Jurgen 296
Apollonio di Perga 105 Bonaventura da Bagnoregio 26
Archimede 105 Boole, George 11,14,18-19,37
Arics, Philippe 268-269 Brémond, Henri 131, 151
Aristotele 23, 26, 29-30, 32, 37, 46-47, 52- Brentano, Franz 48, 65, 92, 141-142, 144-
54, 63, 86, 95, 97-98, 101, 103-105, 112, 146, 151, 166, 182, 1S9, 198-199, 201,
121, 162-163, 165-168, 170, 172, 177, 208, 210, 279
185-186, 189, 197, 199, 221, 223-224, Brigati, Roberto 296
248-249, 266, 275, 285, 302 Bruno, Giordano 82
Asch, Solomon E. 66 Buddha 91,117
Asmoneo 132 Buffon, Georges-Louis Ledere, conte di 71
Atena 18 Buhler, Karl 53, 61, 63, 65, 92, 126, 181,214
Averroè (Ibn Rushd) 120 Buridan, Jean 21-22,29
Avogadro, Amedeo 241-243, 256 Buridano, Giovanni, v. Buridan, Jean
Burke, Edmund 16S
Baal 112
Bach, Johann Sebastian 29, 277, 279 Cambise 73
Bacon, Francis 168 Canguilhem, Georges 196
Balaam 132 Cartesio, v. Descartes, René
Balzac, Honoré de 156 Cassirer, Ernst 66, 163, 233
306 INDICE DEI NOMI

Catullo, Gaio Valerio 16 Flavio Giuseppe 2S3


Chisciotte della Mancia, don 27S Flegone 267
Clavius, Christopher 25 Fludd, Robert 82
Cohen, Hermann 163, 233 Flynn, Errol 226
Coleridge, Samuel Taylor iSS Forni, Enrico Maria 7, 263, 265, 269, 271-
Comte, Auguste 11-12, 37 272, 277, 279, 2S4, 288, 292, 295
Condillac, Etienne Bonnot de iS Franci, Gabriele 296
Confucio, v. K’ung Fu-Tzu Frege, Friedrich Ludwig Gottlob 18-19, 21,
Costantino, Gaio Flavio Valerio Aurelio 16 23-24, 26, 28, 34, 38, 144, 200, 205
Couturat, Louis 14, iS, 26, 37 Freud, Sigmund 129, 140, 200, 210, 219,
Crisippo 25 227, 251
Croce, Benedetto 51,65, 116
Crusoe, Robinson 244 Gadamer, Hans-Georg 66
Curio Dentato, Manio 202 Galilei, Galileo 49, 88, 90
Gaunilone 234
D’Ancona, Umberto 236 Gause, Georgi 236
D’Annunzio, Gabriele 175 Gauss, Karl Friedrich 261
Darwin, Charles Robert 58, 65 Gemelli, Agostino 66
Daumier, Honoré 227 Gentile, Giovanni 51,65
Davide 108,279 Geremia 112
De Crescenzo, Luciano 225 Gesù (o Giòsue, o Joshua) di Nazareth 73,
De la Ramée, Pierre, v. Ramo, Pietro 112-113, 119, 226, 277-2S4
Democrito 96, 99-112, 135, 177, 197, 200 Giacobbe 109,112-113,226
Denikin, Anton Ivanovic 189 Gilbert, William 82
Descartes, René 17, 40-42, 45, 64, 74-76, Giobbe 1 io, 119, 281
78-79, 81, 86, 105, 109, 120, 131, 190, Giuda Iscariota 280-281
194,235,269,285,302 Giustiniano, Flavio Pietro Sabazio 226
Diderot, Denis 83, 274 Godei, Kurt 27-28, 178
Dilthey, Wilhelm 116, 237 Goethe, Johann Wolfgang von ili, 147,
Diogene di Sinope 104 268-269
Dostoevskij, Fédor Michajlovic 139-140, Gogol’, Nikolaj Vasil'evic 156-157
147-148, 278 Goljadkin, Jakov Petrovic 139
Doyle, Arthur Conan 156 Gorgia da Lentini 59-60, 63, 67, 75, 80, 97-
Drake, Frank D. 151 99, 101, 103, 126-127, 2O°, 299
Grabmann, Martin 182
Egesia di Cirene 117
Grandier, Urbain 131
Eleazar 283
Grice, Herbert Paul 68, 93
Elena di Troia 60, 126
Grozio, Ugo (Huig van Groot) 138
Elohim 57, 108
Guidetti, Luca 9, 293,296
Engels, Friedrich 98
Epicuro 100, 266-267
HAL 9000 171
Erasmo da Rotterdam 270
Hartmann, Eduard von 273
Erode Antipa 280, 282
Hartmann, Nicolai 301,50/
Euclide 14,25,35,38,41,51
Heath, Thomas L. 38
Eudosso 35, 102
Hegel, Georg Wilhelm Friedrich 11 -12, 18,
Fano, Vincenzo 296 37, 116, 161, 268
Feynman, Richard Phillips 88 Heiberg, Johann Ludwig (Johan Ludvig)
Findlay, John Niemeyer 151 38. 209
Fisch, Richard 182 Heidegger, Marlin 122, 141, 160-161, 182,
Flaubert, Gustave 156 266
INDICE DEI NOMI ò°7

Helmick Beavin, Janet 182 Leibniz, Gottfried Wilhelm 11, 14, 18, 29,
Herbart, Johann Friedrich 11, 31, 36-37, 45, 116-118, 120, 203-204, 215,
Hilbert, David 28 217-218, 230-232, 237, 302
Hillel, rabbi 283 Leopardi, Giacomo 51
Hitler, Adolf 127,151 Lepschy, Giulio C. 66
Hjelmslev, Louis 65-66 Leviathan 132
Hobbes, Thomas 154 Levrini, Ivan 9
Hòfler, Alois 208,210 Lewin, Kurt 208
Humboldt, Wilhelm von 65-66 List, Friedrich 240-241
Hume, David 43, 178, 274 Littré, Émile 209
Husserl, Edmund Gustav Albrecht 33. 38, Locke, John 46,81-82,241-242
55, 68, 92, 141, 144, 146, 151, 160, 174, Lotka, Alfred J. 236
182, 190, 210, 295, 302 Lotze, Rudolf Hermann 273
Huxley, Aldous Léonard 131, 151,209-210, Lucilio luniore, Gaio 272
258 Luhmann, Niklas 236
Lumbelli, Lucia 300
Ibsen, Henrik 51
Ingarden, Roman 182 Maccari, Cesare 202
Ippocrate 209 Malebranche, Nicolas 45, 65, 116, 237
Isaia 281 Maometto 73, 262
Isacaaron 132-133 Marlowe, Christopher 269
Isacco 112-113, 226 Marty, Anton 65, 92
Isolde 192 Marx, Karl 239, 262
Mattioli, Emilio 65
Jackson, Don D. 1S2 Maupertuis, Pierre Louis Moreau de 83
Jakobson, Roman 51 Meinong, Alexius 144, 151, 174, 296
Jahweh 108,112-113,281-282 Melandri, Enzo 295,295, 296,296, 297, 298,
Janet, Pierre 196 298, 299, 299, 300, 300, jor, 302,302
Jones, Ernest 183 Melpomene 224
Jones, Tom 149 Metzger, Wolfgang 300,300
Michelet, Jules 131, 151, 267
Kafka, Franz 156 Mill, James 188
Kainz, Friedrich 66 Mill, John Stuart II-I2, 37, 188
Kanizsa, Gaetano 300 Milton, John 147
Kant, Immanuel 20-21, 29-30, 34, 38, 46, Molière, Jean-Baptiste Poquelin, detto 269
81-82, 160, 168, 179, 201, 222, 246 Mose 73, 10S, 226
Keller, Helen 169 Mozart, Wolfgang Amadeus 29, 269
Keynes, John Maynard 253 Myskin, Lev Nikolaevic 138
Kncale, Martha 38
Kncale, William 38 Napoleone Bonaparte 73,133
Koestler, Arthur 23S Natorp, Paul 163
Kraus, Oskar 151 Newton, Isaac 36, 82-S3
Kripke, Saul A. 296 Nicod, Jean George Pierre 202
Kùlpe, Oswald 81,93 Nietzsche, Friedrich Wilhelm 72, 140, 238
K’ung Fu-Tzu 1S7 Noè 109

Lacan, Jacques 191,210 Ogden, Charles Kay 66


Laplace, Picrre-Simon de 290 Odisseo 63, 109
La Rochefoucauld, Francois VI duca di 184 Oggioni, Emilio 172
Le Bon, Gustave 127,151 Olbrechts-Tyteca, Lucie 66
30S INDICE DEI NOMI

Omero 104,155 Rosmini Serbati, Antonio 159


Orazio Fiacco, Quinto 16-17 Rousseau, Jean-Jacques 221, 241-242, 246
Ovidio Nasone, Publio 16-17 Ruesch, Jurgen 1S2
Ozma di Oz 124,150 Russell, Bertrand Arthur William 21, 25,
28-29, 33-34, 38, S6, 163-164, 181, 203,
Paci, Enzo 296 *39
Palamede 60, 63
Palmieri, Sandra 9 Salomone 108
Paolo di Tarso 278,283 Sapir, Edward 66
Pappo 105 Sartre, Jean-Paul 136, 1S2
Parain, Brice 238 Satana 281
Pareto, Vilfredo Federico Damaso 204 Schweitzer, Albert 282
Paris, Franco 296-297 Scoto Eriugena 14S
Parmenide 29, 100, 135, 200, 205 Searle, John Rogers 68, 92
Pascal, Blaise iS, 269-270, 274 Saul 10S
Paul, Hermann 65-66 Saussure, Ferdinand de 65-66
Peano, Giuseppe 163 Scheler, Max 189,223,238
Perelman, Chaì'm 66 Schróder, Ernst 14,37
Pericle 103 Seneca, Lucio Anneo 270-272
Peter Pan 69 Shandy, Tristram 217
Pezzi, Valeria 9 Shannon, Claude E. 92
Pfànder, Alexander 208,210 Shaw, George Bernard 266
Piaget, Jean 66 Sheffer, Henry Maurice 202
Pietro, Simon ben Jonah, detto 283 Sibilla Cumana 220
Pilato, Ponzio 245,280,283 Silvia, personaggio leopardiano 187
Pirandello, Luigi 149 Socrate 26, 28-29, 102-103, 162, 270
Pitagora 199 Spiegelberg, Herbert 151
Platone 35, 52, 55, 97, 101-103, 112, 149- Spinoza, Baruch 65, 83, 263, 265, 270, 272-
150, 161-163, 165-166, 172-173, 179-180, 276, 279,284-288, 291-292
197, 248, 270, 302 Sraffa, Piero 15 5
Plotino 147 Stalin, Josif Vissarionovic Dzugasvili, detto
Poincaré, Jules-Henri 163 246
Polibio di Megalopoli 186 Stavrogin, Varvara Petrovna 156
Popper, Karl Raimund 81 Steinthal, Hermann Heymann 66
Porfirio di Tiro 37 Stengers, Isabelle 238
Poseidon 109 Stenzel, Julius 66
Prantl, Karl von 11,25 Stepan Trofimovic, v. Verchovenskij, Stcpan
Preti, Giulio 299 Trofimovic
Prigogine, Ilya Romanovic 219, 237-238 Stórig, Hans Joachim 65
Proclo 105 Strauss, Richard 243
Protagora 103, 172 Strawson, Peter Frederick 93
Stumpf, Cari 65,296
Ramo, Pietro 17 Suarez, Francisco 121
Raskolnikov, Rodion Romanovic 147-148 Swift, Jonathan 154
Reiner, Hans zio
Renan, Ernest 277 Tarski, Alfred 205
Ribot, Théodule-Armand 196 Taylor, Brook 236
Ricci,-Matteo 14, 51 Teofrasto 25
Richards, Ivor Armstrong 66 Tommaso da Celano 233
Risari, Emanuela 9 Tommaso d’Aquino 121
INDICE DEI NOMI 309

Trendelenburg, Friedrich Adolf 25


Trimalchione, Gaio Pompeo 220
Trubeckoj, Nikolaj Sergeevic 65-66

Ùberweg, Friedrich 25

Valla, Lorenzo 17
Varvara Petrovna, v. Stavrogin, Varvara
Petrovna
Vegetti, Mario 209
Venerdì 244
Verchovenskij, Stepan Trofimovic 156-157
Vico, Giovan Battista 194, 196-197
Viète, Francois, seigneur de la Bigotière 105
Virgilio Marone, Publio 16-17
Voltaire (pseudonimo di Fran<;ois-Marie
Arouet) 83
Volterra, Vito 236
Vossler, Karl 66

Watzlawick, Paul 178,182


Wayne.John 203
Weakland, John H. 182
Weaver, Warren 92
Weber, Max 207, 238
Weisgerber, Leo 66
Whitehead Alfred North 38, 203
Whorf, Benjamin Lee 66
Wiener, Norbert 92
Wittgenstein, Ludwig Josef Johann 64, 155,
297
Wolff, Christian 122
Wundt, Wilhelm Maximilian 58, 66, 207

Zenone di Elea 99, 163


Zeus 18
Indice
9 Avvertenza

11 Prima lezione
Logica
La struttura, il calcolo, l’interpretazione

39 Seconda lezione
Linguaggio
La lingua, la comunicazione, l’informazione

^7 Terza lezione
Realtà
Gli enti, i concetti, gli oggetti

95 Quarta lezione
Metafisica
Il principio, l’essere, il possibile

I23 Quinta lezione


Soggetto e coscienza
L’uno, i molti, il medio

D3 Sesta lezione
Credenza e immaginario
Il sogno, la rappresentazione e il doppio legame

183 Settima lezione


Desiderio e volontà
La passione e l’azione, la causa e il fine dell*agire
Ottava lezione
Essere e dover-essere
La libertà, il male e la teodicea

239 Nona lezione


Etica e politica
La servitù, il potere, il comuniSmo

265 Decima lezione


Morte e finitezza
Lya?nicizia e la trasmissione del progetto oltre la fine

293 Postfazione di Luca Guidetti


3°3 Indice dei nomi
Finito di scampare nel giugno 2007
dalla Litografica Com di Capodarco di Fermo (FM)
QUADERNI QUODLIBET

1 Gilles Deleuze, Francis Bacon. Logica della sensazione


2 Sergio Bettini, Tempo e forma. Scritti 1933-1977
3 A moine Berman, La prova dell'estraneo. Cultura e traduzione nella Germania
romantica
4 Alois Ricgl, Antichi tappeti orientali
5 Jean-Christophe Bailly, L'apostrofe muta. Saggio sui ritratti del Fayum
6 Ludwig Wittgenstein, Movimenti del pensiero. Diari 1930-1932 / 1936-1937
7 Gilles Deleuze, Spinoza e il problema dell'espressione
8 Gianni Carchia, L'amore del pensiero
9 Jacob Taubes, //prezzo del messianesimo
10 Matteo Ricci, Della entrata della Compagnia di Giesù e Christianità nella Cina
11 Matteo Ricci, Lettere
12 Giorgio Agamben, Idea della prosa
13 Furio Jesi, Esoterismo e linguaggio mitologico. Studi su Reiner Maria Rilke
14 Jan Lukasiewicz, Del principio di contraddizione in Aristotele
15 Alcxius Meinong, Teoria dell'oggetto
16 Antoine Berman, La traduzione e la lettera o l'albergo nella lontananza
17 Jean-Claude Milner, I nomi indistinti
18 Enzo Melandri, La linea e il circolo. Studio logico-filosofico sull'analogia
19 Matteo Ricci, Dell'amicizia
20 Fernando Pessoa, // ritorno degli dèi. Opere di Antonio Mora
21 Franco Fortini, Un giorno o l'altro
22 Jean Louis Schefer, L'uomo comune del cinema
23 Fernando Pessoa, Pagine di estetica. Il gioco delle facoltà critiche in arte e in let
teratura
24 Édouard Glissant, Poetica della Relazione
25 Enzo Melandri, Contro il simbolico. Dieci lezioni di filosofia
QUODLIBET

i Gilles Deleuze, Giorgio Agamben, Bartleby. La formula della creazione


i Silvio D’Arzo, L’uomo che camminava per le strade
3 Robert Walser, Una cena elegante
4 Robert Walser, Pezzi in prosa
5 René, // testamento della ragazza morta
6 Giorgio Agamben, L’uomo senza contenuto
7 Colerus, Lucas, Le vite di Spinoza
S Erri De Luca, Pianoterra
9 Blaise Pascal, Compendio della vita di Gesù Cristo
10 Gino Giometti, Martin Heidegger. Filosofia della traduzione
11 Miljenko Jergovic, Le Marlboro di Sarajevo
li Antonio Delfini, Poesie della fine del mondo
13 Jean-Luc Nancy, L’essere abbandonato
14 Furio Jesi, Lettura del *Bateau ivre» di Rimbaud
15 Dolores Prato, Scottature
16 Jacob Taubes, In divergente accordo. Scritti su Cari Schmitt
18 Francesco Nappo, Genere
19 Louis-René des Foréts, La stanza dei bambini
20 Emmanuel Lévinas, Alcune riflessioni sulla filosofia dell’hitlerismo
21 Gilles Deleuze-Felix Guattari, Kafka. Per una letteratura minore
22 Gianni Carchia, La favola dell’essere. Commento al -Sofista-
23 Clio Pizzingrilli, // tessitore
24 Silvio D’Arzo, L’osteria
25 Ginevra Bompiani, Le specie del sonno
26 Giorgio Manganelli, Contributo critico allo studio delle dottrine politiche del ’6oo
italiano
27 Maries Gardella, Fastigio
28 Maurici© Kagel, Parole sulla musica
29 Clio Pizzingrilli, Ioa lo spaccapiet re
30 Gilles Deleuze, Pourparler
31 Scholem/Shalom, Due conversazioni con Gershom Scholem su Israele, gli ebrei e
la qabbalah
32 Ingeborg Bachmann, Quel che ho visto e udito a Roma
33 Eugenio De Signoribus, Memoria del chiuso mondo
34 Carmelo Bene-Gilles Deleuze, Sovrapposizioni
35 Franco Fortini, / cani del Sinai
y6 Furio Jesi-Kàroly Kerényi, Demone e mito. Carteggio 1964-1968
Y7 Yona Friedman, Utopie realizzabili
38 Luigi Trucillo, Le amorose
39 Alexandre Kojève, Kandinsky
40 Gilles Clément, Manifesto del Terzo paesaggio
41 Giinther Anders, Kafka. Pro e contro. I documenti del processo
42 Rem Koolhaas, «Junkspace». Per un ripensamento radicale dello spazio urbano

IN OTTAVO

1 Lu Xun, Erbe selvatiche


2 liana Shmueli, Di' che Gerusalemme è. Su Paul Celan: ottobre 1969-aprile 1970
3 Farrukh Dhondy, Vieni alla Mecca
4 Robert Walser, Una cena elegante
5 Plugo von Hofmannsthal, Le parole non sono di questo mondo
6 Julien Green, Se fossi in te...
7 Blaise Pascal, Compendio della vita di Gesù Cristo
8 Henri Michaux, Altrove
9 Francesco Permunian, Il principio della malinconia
10 Henri Michaux, Ecuador
11 Georg Trakl, Gli ammutoliti
12 Gaspare De Caro, L'ascensore al Pincio
13 Henri Michaux, Conoscenza dagli abissi
14 Lu Xun, La falsa libertà

Fuori collana

Peter Eiseninan, Giuseppe Terragni: trasformazioni, scomposizioni, critiche

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