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Introduzione

Landolfo Rufolo è il protagonista della quarta novella della seconda giornata


del Decameron di Giovanni Boccaccio. La regina è Filomena, la prima a
stabilire un tema unico per le novelle della giornata, poiché la precedente
aveva tema libero. I giovani dovranno narrare avventure pericolose che, a
fronte di circostanze disperate, si risolvono imprevedibilmente con un lieto
fine. A raccontare le avventure di Landolfo Rufolo sarà Lauretta, che affronta
una tematica molto sentita ai tempi di Boccaccio: quella della sorte precaria
dei mercanti e commercianti. Questi ultimi, simbolo della rinnovata società
tardo-medievale, affrontano i pericoli del mare per i loro commerci: per il fine
del profitto, è sempre presente il rischio di perdere il frutto del loro lavoro (e
persino la vita).

Riassunto

Il mercante Landolfo Rufolo vive a Ravello, città della costiera amalfitana in


cui l’attività commerciale è particolarmente fiorente. Nonostante le sue
ricchezze notevolissime Landolfo, avido di accrescere, acquista una nave
molto grande e la riempie di merci, salpando poi verso Cipro. Qui purtroppo si
trovano già numerose altre navi mercantili e merci varie e numerose, tanto
che Landolfo è costretto spesso a vendere le proprie al di sotto del prezzo
reale. Avendo fatto un cattivo investimento e avendo perso quasi tutti i suoi
soldi, Landolfo decide di rischiare la vita pur di rifarsi: vende la nave e con i
soldi rimastigli compra un’imbarcazione adatta a darsi alla pirateria contro le
navi turche. In meno di un anno Landolfo raddoppia le ricchezze di un tempo;
avendo compreso che è meglio non sfidare la fortuna si mette in viaggio per
tornare in patria. Nell’Egeo, però, è sorpreso da una tempesta: per proteggersi
si ripara in un golfo, dove poco dopo si accostano anche due grandi navi
mercantili genovesi, che provengono da Costantinopoli. Scoprendo di chi è la
nave e quante ricchezze porta i genovesi la assaltano e la fanno affondare;
Landolfo viene fatto prigioniero. A loro volta però anche i genovesi sono
vittime dei venti e della tempesta: le loro navi naufragano nei pressi di
Cefalonia. I naufraghi si aggrappano a pezzi di legno che galleggiano;
Landolfo afferra disperatamente una tavola e viene trasportato dal mare e dal
vento fino al mattino. Solo in mezzo al mare, è costretto ad affidarsi ad una
cassa che, sballottata dal mare accanto a lui, continua ad andare addosso al
tavolaccio su cui si trova e da cui finisce per cadere. Egli passa ancora un
giorno intero attaccato alla cassa; alla fine le maree lo conducono, stremato,
alla costa di Corfù, dove una donna sta lavando le stoviglie in mare. Superato
lo spavento iniziale, la donna salva il naufrago e se ne prende cura per
qualche giorno. Poi lo invita a tornare a casa e gli restituisce la cassa trovata
in mare, pensando che gli appartenga. Landolfo, che non si ricorda molto
della cassa, la apre e vi trova dentro numerose pietre preziose. Temendo che,
ancora una volta, la fortuna gli volti le spalle, decide di non dire niente alla
donna: avvolge i gioielli in alcuni stracci e scambia la cassa con un sacco. A
Trani, incontra altri mercanti, cui racconta le sue sventure, omettendo però il
ritrovamento della cassa. Con il loro aiuto può tornare a Ravello; qui conta con
maggior attenzione le pietre preziose e scopre di essere più ricco di quando
era partito. Con il denaro ottenuto dalla vendita, manda un somma alla donna
di Corfù e ai mercanti di Trani, per ringraziarli. Con ciò che gli resta decide di
ritirarsi a vita privata, lasciando il commercio e vivendo così in un sereno
benessere fino alla fine dei suoi giorni.

Analisi e commento

I temi forti della novella di Landolfo Rufolo possono essere ricondotti a tre
elementi fondamentali: l’attività mercantile, la Fortuna, la Virtù. Essi sono, più
in generale, motivi centrali in tutto il Decameron. La novella di Landolfo, in
particolare, appartiene - ed anzi ne è emblematica - al gruppo delle narrazioni
dedicate al ceto mercantile, rappresentato per certi aspetti in chiave realistica
(lo stesso Boccaccio era figlio di un mercante e aveva lavorato col padre in
gioventù), per altri con una certa idealizzazione.

Entrambi questi aspetti si colgono nel contrasto tra gli effetti del caso
(Fortuna) e la capacità del protagonista di reagire (Virtù). Infatti come spesso
avviene a chi osa, Landolfo è spinto ad agire dall’avidità e dal desiderio di
mettere a profitto i beni di cui dispone, secondo un atteggiamento tipico dei
mercanti; la sorte tuttavia lo fa incappare in rovesci imprevedibili e non di rado
disastrosi. Tuttavia, Landolfo reagisce attivamente ai voltafaccia della fortuna:
cambia professione e diviene con successo un pirata; poi si ingegna per
evitare la tempesta; riesce a sopravvivere al naufragio; nasconde con astuzia
le gemme trovate. Infine comprende il dono che la sorte gli ha fatto,
nonostante tutti i colpi precedenti, e con generosità ricompensa chi lo aveva
aiutato. Il giudizio di Boccaccio, in molti casi impietoso verso i vizi dei suoi
personaggi, è dunque tutt’altro che negativo: alla luce del comportamento
finale, l’avidità iniziale appare molto più una qualità professionale che un vero
e proprio peccato. La morale del racconto, però, risiede anche nella
considerazione finale. Landolfo infatti abbandona la mercatura: impara dalle
sue esperienze passate e si ritira per godersi in pace i propri beni. Astuzia e
intraprendenza sono dunque temi fondamentali, ma anche la moderazione
non deve mancare. In fondo, anche il fatto di sapere quando fermarsi
identifica una forma di furbizia. Un ultimo tema centrale è quello del mare, che
domina come costante panorama in tutto l’arco della novella, sia che si parli di
costa o di mare aperto. La distesa marina rappresentava al contempo un
universo di possibilità, cui non a caso i mercanti affidano le loro speranze di
guadagno e dunque sussitenza, e la fonte di sciagure tragiche, considerati i
pericoli enormi cui si esponeva chi viaggiava via nave con i mezzi dell’epoca.

A livello strutturale, la novella è piuttosto lineare e tuttavia efficace. L’intreccio,


con lo svolgersi degli avvenimenti, segue la fabula, cioè procede in ordine
cronologico così come i fatti si sono svolti. Il ritmo del racconto, invece, non è
uniforme. La prima parte della novella, che in realtà contiene la maggioranza
degli avvenimenti, è narrata in modo sintentico e sbrigativo, mentre il tempo
narrativo si dilata durante le scene dell’ultimo viaggio in mare, della tempesta
e del naufragio. L’effetto è quello di creare suspense rispetto alla sorte del
protagonista nonché compartecipazione per le sue avventurose esperienze.

Introduzione

Quella di Tancredi e Ghismunda è la prima novella del quarto giorno del


Decameron di Giovanni Boccaccio. Il re Filostrato sceglie un tema cupo, ben
più di quanto non siano stati quelli precedenti, come annota Fiammetta, la
prima narratrice. Si parlerà infatti di amori dall’esito tragico, in perfetta
coerenza con il nome stesso di Filostrato, cioè “vinto d’amore”. Anche la
scelta del nome Fiammetta è significativo: nelle altre opere di Boccaccio, in
particolare nell’Elegia di Madonna Fiammetta, il personaggio cela Maria
d’Aquino, la donna amata in gioventù da Boccaccio, che la narratrice qui, a
sua volta, in parte richiama.

Riassunto

Fiammetta esordisce esprimendo preoccupazione e disagio per il tema cupo


scelto da Filostrato, cui però intende attenersi secondo le regole stabilite. Ella
dunque narrerà una storia degna delle loro lacrime.

Tancredi, principe di Salerno, è un uomo di grande umanità e indole generosa,


padre di una giovane, Ghismunda, che ama immensamente, tanto che
dapprima ne ritarda il matrimonio e poi, quando ella è rimasta vedova, ne
prolunga lo stato di solitudine, pur di averla vicina a sé. La ragazza,
affezionata al padre ma infelice per l’isolamento, comincia a nutrire il desiderio
di innamorarsi, disposta anche ad avere un amante. In tale disposizione
d’animo, subisce il fascino di un valletto del padre, Guiscardo, di bell’aspetto e
animo nobile, benché povero e di umili origini. A sua volta il giovane ha notato
la bellezza e nobiltà di lei e la ama segretamente. Ghismunda a questo punto
trova il modo di incontrare in modo discreto e privato il suo amato e lo avverte
facendogli avere con l’astuzia un messaggio nascosto in una canna di bambù.
La camera della giovane è collegata, mediante una scala segreta che tutti
hanno dimenticato da tempo, ad una grotta scavata nel monte a ridosso del
palazzo, in cui Guiscardo può calarsi con una corda per poi raggiungere le
stanze dell’amata. I due giovani coronano così il loro amore e continuano a
vedersi clandestinamente in diverse occasioni.

Un giorno però Tancredi, secondo un’abitudine consolidata, va a trovare


Ghismunda nelle sue stanze e, non trovandola, si siede ad aspettarla dietro
un baldacchino, dove si addormenta. Nel frattempo Ghismunda, che non
sospetta della presenza del padre, riceve in segreto Guiscardo. Tancredi si
sveglia quando ormai il loro legame è evidente. Il principe, pur consapevole di
quello che sta succedendo e profondamente addolorato, decide di restare
nascosto per evitare lo scandalo e avere il tempo di decidere a mente fredda
quali provvedimenti prendere.

Il principe decide quindi di arrestare Guiscardo e rinchiuderlo in una stanza


con delle guardie che lo sorvegliano giorno e notte; poi comunica a
Ghismunda di aver scoperto la sua tresca con un uomo che, oltre a non
essere suo marito, è soprattutto di condizione inferiore, il che costituisce
un’onta inaccettabile per un uomo tanto nobile quanto Tancredi. Ghismunda,
pur temendo che Guiscardo sia già morto, mantiene un atteggiamento
decoroso e controllato. In un lungo e accorato discorso, in cui dimostra la sua
nobiltà d’animo e la sua eloquenza,

confessa al padre il suo amore per il valletto, esaltandone la virtù e la


grandezza interiore, che nulla hanno a che fare con la classe sociale inferiore
cui appartiene. Ghismunda per altro insiste sul fatto che tutti gli uomini
nascono uguali e che spesso la sorte ne cambia all’improvviso la condizione.
Infine, ella lascia intendere al padre che ha intenzione di porre fine alla propria
vita, qualora l’amante muoia.

Tancredi, accecato dalla sua folle gelosia e incapace di credere alla minaccia
della figlia, comprende comunque di non potersi vendicare sulla figlia e decide
di concentrare la propria crudeltà sul giovane. Ordina perciò alle sue guardie
di strangolare Guiscardo e portargliene il cuore. Egli poi lo fa consegnare in
una coppa d’oro alla figlia, accompagnato da una frase che chiarisce l’intento
vendicativo del gesto. Ma Ghismunda, che temendo il peggio aveva già
distillato delle radici velenose, dopo aver a lungo elogiato il suo amato e
pianto la sua morte, versa la fiala di veleno sul cuore dell’amato e da lì la
beve. Sul letto accostando il cuore dell’amante al suo, aspetta la morte. Le
ancelle di Ghismunda corrono quindi a informare dell’accaduto Tancredi, il
quale corre al capezzale della figlia: ma è ormai troppo tardi. Ghismunda,
come suo ultimo desiderio, chiede al padre di seppellirla al fianco di
Guiscardo; poi spira. Tancredi, pentitosi troppo tardi della propria crudeltà, fa
seppellire i due amanti nella stessa tomba.

Analisi e commento

L’elemento strutturale preminente nella novella è quello cortese, tipico della


letteratura romanzesca e della poesia lirica, soprattutto occitanica. I valori di
quella tradizione rappresentano per il mondo borghese cui appartiene
Boccaccio la sfera ideale, sebbene per lo più non realistica, cui tendere come
modello esistenziale e sociale. Gli aspetti più caratteristici riproposti nel
racconto sono:

● il rapporto determinante tra esperienza amorosa ed elevazione morale,


che contraddistingue entrambi gli amanti;
● la contrapposizione tra nobiltà di sangue e nobiltà d’animo,
importantissima anche nell’orizzonte stilnovistico, ben noto all’autore;
● diversi spunti tematico-narrativi, come la presenza della caverna e le
difficoltà anche fisiche che il giovane deve affrontare per incontrare
l’amata - che ricordano la tradizione delle prove d’amore -, oppure il
tema topico del cuore strappato all’amato e consegnato all’amante, o
infine l’immagine di un amore che rende ciechi, tanto che i due
protagonisti non si accorgono di essere osservati tanta è la gioia di
essere insieme.

Appaiono invece tipicamente boccacciani sia l’importanza della Fortuna nelle


sorti degli amanti, scoperti per caso, sia la caratterizzazione realistica del
personaggio femminile: Ghismunda è infatti una donna forte, coraggiosa,
dignitosa, intelligente, capace di prendere l’iniziativa e di trovare un modo per
realizzare ciò che desidera, e soprattutto eloquente (cioè, una delle doti che
maggiormente Boccaccio dimostra di apprezzare). Guiscardo, per quanto
rimanga in secondo piano, è un personaggio affine, per nobiltà e virtù. In netto
contrasto si trova invece Tancredi, figura complessa ed incoerente, che al
confronto con la lineare coerenza degli affetti di Ghismunda, rivela un
irrisolvibile contrasto interiore: egli è infatti un principe virtuoso ma un padre
vendicativo, capace di ammirare la grandezza della
figlia ma anche incline ad un amore morboso - e quasi incestuoso - nei suoi
confronti. Questa contrapposizione riproduce la discrepanza tra due mondi,
due concezioni diverse: l’apertura al nuovo e il senso del moderno della
gioventù da una parte, l’aristocrazia chiusa e superba, incapace di cambiare
se stessa, dall’altra.

Anche l’amore è presentato in termini molteplici e complessi: da una parte


l’istinto naturale che non può essere arginato dall’esterno, cioè l’amore
sensuale, alla cui forza non è possibile resistere. Dall’altra l’amore che non
presta attenzione ai criteri economici e sociali, ma solo alla dimensione
interiore e spirituale, dunque nobile e puro. Infine, l’amore tragico e
contrastato di Ghismunda e l’alto valore retorico del suo discorso ricordano
quelli di Francesca nel canto quinto dell’Inferno di Dante 1: in entrambi i casi
si parla infatti di donne nobili e colte che hanno ceduto alla passione amorosa,
benché - si noti bene - Boccaccio non condanni assolutamente la sua
Ghismunda, come invece Dante fa con Paolo e Francesca.

Introduzione

Lisabetta da Messina è la quinta novella della quarta giornata del


Decameron. Come in tutti i testi di questa sezione dell’opera, la trama è quella
di un amore infelice, che si conclude in modo drammatico.

Riassunto

Lisabetta è una giovane ragazza messinese, orfana di padre, che vive


insieme ai suoi tre fratelli, originari di San Gimignano e divenuti ricchi
conducendo affari e commerci particolarmente redditizi. La giovane donna,
non ancora maritata, commette lo sbaglio d’innamorarsi di Lorenzo, un
modesto ragazzo di Pisa che aiuta i fratelli nel loro lavoro. Il giovane
appartiene a un ceto inferiore a quello di Lisabetta e di conseguenza il loro
amore assume immediatamente implicazioni sociali assai complicate per
l’epoca, esemplificate dalla mentalità ristretta dei tre fratelli, rispetto alla quale
invece la passione tra i due protagonisti si afferma come qualcosa di
assolutamente spontaneo e naturale. Dice infatti Boccaccio:

Di che Lorenzo accortosi 1 e una volta e altra, similmente, lasciati suoi altri
innamoramenti di fuori, incominciò a porre l'animo a lei; e si andò la bisogna
che, piacendo l'uno all'altro igualmente, non passò gran tempo che,
assicuratisi 2, fecero di quello che più disiderava ciascuno.
Se la "bisogna" (ovvero, la situazione che nasce tra i due) sembra promettere
un esito felice della vicenda (come nelle novelle della quinta giornata), lo
sviluppo successivo sarà tragico. I tre fratelli infatti, una volta scoperto che la
sorella si reca nottetempo dal suo amante, decidono di contrastare con ogni
mezzo la loro unione, che nella loro ottica affaristica (Lisabetta è ancora
nubile) mette a rischio il decoro e il buon nome della famiglia. Inducono così
Lorenzo a seguirli fuori città con una scusa, e una volta usciti da Messina lo
assassinano e ne occultano il corpo. Tornati a casa giustificano l’assenza del
loro giovane aiutante dicendo a tutti che si trova altrove per motivi di affari, e
convincono di ciò anche la povera Lisabetta. Quando l’assenza di Lorenzo
diventa però sospetta, protraendosi per troppo tempo, la giovane donna
innamorata comincia a disperarsi.

Una notte il defunto compare ad animare i sogni di Lisabetta, rivelandole di


essere stato ucciso dai fratelli, e mostrandole il luogo dove è stato sepolto da
questi. La ragazza, presa da sconforto e disperazione, escogita un piano per
recuperare il corpo di Lorenzo. Ottiene infatti il permesso dei fratelli di fare una
gita in campagna con una fidata donna di servizio, Lisabetta si reca sul luogo
indicatole in sogno dall'amato. Qui ne disseppellisce il cadavere, e, non
potendo gli dare più degna sepoltura, gli taglia la testa per poter conservare
vicino a sé almeno un ricordo del suo innamorato. Tornata a casa, Lisabetta
nasconde la testa di Lorenzo in un vaso ("un testo di bassilico", dice
Boccaccio introducendoci alla narrazione) e la copre con una profumatissima
pianta di basilico, che cresce in modo assai rigoglioso. Ogni giorno Lisabetta
piange e si dispera sul vaso di basilico, trasferendo su questo l'amore e la
passione insopprimibili per l'amato Lorenzo:

E per usanza aveva preso di sedersi sempre a questo testo vicina e quello
con tutto il suo desidero vagheggiare, sì come quello che il suo Lorenzo
teneva nascosto: e poi che molto vagheggiato l'avea, sopr'esso andatesene
cominciava a piagnere, e per lungo spazio, tanto che tutto il basilico bagnava,
piagnea.

Il comportamento di Lisabetta insospettisce i vicini, che segnalano l'anomalia


ai fratelli; questi ultimi decidono quindi di requisirle la pianta e, dopo averci
trovato all’interno la testa dell’amato, di far sparire il tutto. Timorosi che la
vicenda e il delitto da loro compiuto diventino di dominio pubblico,
abbandonano Messina e si trasferiscono a Napoli, portando con loro
Lisabetta. La ragazza, già ammalatasi dopo la sottrazione della pianta, muore
di lì a poco di dolore. Il suo amore disperato - ci dice Filomena, narratrice degli
eventi - viene ancor oggi ricordato in una struggente canzone, che ricorda il
furto della pianta.

L’amore e il dramma di Lisabetta

Con questa novella Boccaccio difende la forza del sentimento amoroso, che,
espressione di un istinto naturale e irrefrenabile, non deve essere
assolutamente represso, tantomeno per motivazioni economiche o di
gerarchie sociali. Il tema è in sintonia con quanto l'autore afferma
nell'importantissima Introduzione alla quarta giornata dove, spezzando il
meccanismo narrativo della "cornice", Boccaccio specifica e precisa la propria
posizione in merito: l'amore è pulsione naturale e spontanea dell'uomo e della
donna, e non dovrebbe per nessuna ragione essere impedito, in quanto le
forze dell'istinto sono superiori a quelle della società o della morale.

Le conseguenze drammatiche dell'opposizione ad un amore spontaneo e


sincero sono messe in luce sin dalla caratterizzazione dei personaggi
principali della novella; i fratelli, dominati solo dalla logica della "mercatura" e
dalla necessità di conservare il buon nome della famiglia, considerano
Lisabetta alla stregua di un oggetto, da portare ad un matrimonio utile e
conveniente. All'opposto, Lorenzo si qualifica, nella breve descrizione che gli
viene concessa, come un giovane "assai bello della persona e leggiadro
molto": le virtù fisiche e il suo bell'aspetto si impongono rispetto alla sua umile
origine. Tuttavia, è Lisabetta il personaggio su cui Boccaccio si concentra con
più attenzione: giovane donna succube della famiglia, è condannata per tutta
la durata della vicenda (a parte i momenti felici con Lorenzo) ad una
condizione di minorità. Quando l'amante le viene sottratto con l'inganno e la
violenza, non può che trasferire nevroticamente i propri sentimenti sul basilico,
nutrito dalla testa dell'innamorato. Assai significativo che i pensieri e i
sentimenti di Lisabetta non si manifestino quasi mai per via verbale, con sue
frasi o espressioni dirette; piuttosto, Lisabetta è un personaggio che si
esprime attraverso gesti silenziosi, su tutti le lacrime che, alla fine, la
conducono ad una morte tragica.

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