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Il canto si apre con l'ardente preghiera di san Bernardo alla Vergine. La prima parte della preghiera contiene le lodi di
Maria, la Madonna è in cielo per i beati una fiaccola luminosa e in Terra per gli uomini un'inesauribile fonte di
speranza. La seconda parte invoca la sua intercessione presso Dio affinché Dante possa concludere il viaggio con la
visione completa della sua grandezza. Maria rivolge ora lo sguardo a Dio per intercedere a favore di Dante, San
Bernardo invita quindi il poeta a guardare in alto, ma questi già si appresta a farlo da sé. Da qui in poi né la parola né
la memoria saranno più in grado di rendere pienamente l'esperienza della sua visione. Una luce intensa colpisce
Dante, che non ne distoglie gli occhi e vede unito con amore tutto ciò che nell'universo è molteplice. Il suo sguardo
umano penetra per gradi entro la luce divina, giungendo a vedere in essa la manifestazione dei misteri della Trinità e
dell'incarnazione. Gli appaiono tre cerchi di tre colori diversi ma del tutto uguali, dal primo (il Padre) si riflette il
secondo (il Figlio), e il terzo (lo Spirito Santo) da entrambi Fissando poi lo sguardo sul secondo dei tre giri, egli vede in
quel lume reflesso (v. 128) l’effigie umana, e si sforza, così come fa il geometra che cerca di risolvere il problema
della quadratura del cerchio, di vedere come quell'immagine si adatti e si unisca al cerchio, ma invano. Mentre è
concentrato nel tentativo di comprendere il mistero dell'Incarnazione che la sola conoscenza umana non può
cogliere, il poeta è come folgorato da un lampo della Grazia e intuisce la verità. E così, raggiunta la condizione stessa
dei beati, Dante avverte di appartenere all'ordine universale e di essere, nella perfetta armonia governata dall'amore
di Dio.
L’incontro con Dio
La conclusione della Commedia, e del viaggio che racconta, è l'incontro con Dio. È una conclusione terribilmente
impegnativa dal punto di vista espressivo. Ma Dante non fallisce, e scrive uno dei canti più straordinari del poema. La
possibilità di parlare di Dio mostra quanta strada abbia percorso la cultura medievale dal momento in cui, all'inizio
del XIII secolo, san Francesco aveva proclamato, nelle Laudes creaturarum, che nessun vivente è degno di nominarlo.
E tuttavia Dante rinuncia a definire Dio descrivendolo direttamente. Come in altre circostanze analoghe, gli eventi
immateriali del campo teologico vengono rappresentati per mezzo di paragoni con eventi concreti. Solo fra il v. 58 e
il v. 66 ci sono ben tre similitudini: quella con l'esperienza del sogno («Qual è colui che sognando vede, / che dopo 'l
sogno la passione impressa/ rimane, e l'altro a la mente non riede, / cotal son io, ché quasi tutta cessa/ mia
visione, e ancor mi distilla / nel core il dolce che nacque da essa»), quella con la neve che si scioglie al sole («Così la
neve al sol si disigilla») e quella delle sentenze della Sibilla che si spargono al vento (così al vento ne le foglie levi /
si perdea la sentenza di Sibilla»). In questo modo, ricorrendo a esperienze dirette e comuni o a riferimenti culturali
condivisi, il lettore ha modo di concepire cose del tutto inconcepibili quali l'incontro con il divino. Questo
procedimento è parte decisiva del realismo di Dante, e costituisce uno degli aspetti che ancora parlano alla nostra
sensibilità.
I limiti della parola
Tuttavia la cosa che ci affascina di più in questo canto è la sfida dell'espressione, la sfida della dicibilità. A partire dal
v. 55, la descrizione del divino procede a tappe, ogni volta alternandosi a una riflessione sui limiti della parola. Certo,
più si procede nei tentativi e ci si approssima al divino, più risalta la fragilità dell'espressione umana, fino al paragone
con le capacità di parola di un neonato che ancora succhi il latte dal seno materno. «Omai sarà più corta mia
favella, / pur a quel ch'io ricordo, che d'un fante / che bagni ancor la lingua a la mammella» (vv. 106-108) . Ma
Dante va avanti lo stesso, e spinge la lingua e l’espressione umana al limite delle sue possibilità.