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INDICE

Introduzione 3

1. EROS E CONOSCENZA DI SÉ NELL'ALCIBIADE I 5

1. L'Alcibiade I 5

2. Socrate e la sua attività filosofica 9

3. Eros e vergogna nella confutazione socratica 12

4. Il rapporto educativo tra eros e paideia 16

5. Eros e cura di sé 20

6. Alcibiade: una natura filosofica? 24

7. Eros e conoscenza di sé 26

2. IL SIMPOSIO: DALLA CONOSCENZA DI SÉ ALLA CONOSCENZA 32

DEL BELLO

1. Eros nei dialoghi platonici della maturità 32

2. Il Simposio 34

3. Eros platonico e tradizione 36

4. Il discorso di Socrate 45

5. Eros come generazione 50

6. L'ascesa del filosofo tra emotività, creatività e razionalità 55

7. L'intervento di Alcibiade 64

3. IL FEDRO: TRA AMORE DEL BELLO E REMINISCENZA 71

1. Il Fedro 71

2. L'amore secondo Lisia 72

3. Eros e la natura dell'anima 81

1
4. La reminiscenza 87

5. Eros e cura di sé 93

6. Eros e la soddisfazione del piacere fisico 99

7. Eros e la retorica 104

4. LA REPUBBLICA: DALL'EROS ALLA DIALETTICA 110

1. La Repubblica 110

2. La tripartizione dell'anima 111

3. L'educazione: cura dell'anima e riorientamento dei desideri 120

4. Dalla realtà sensibile all'intelligibile 129

5. La matematica e la dialettica 137

Conclusione 146

Bibliografia 148

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INTRODUZIONE

Con questo mio lavoro intendo identificare un percorso che vada dall'educazione

socratica alla dialettica platonica. Se l'elemento di continuità comunemente individuato tra

le due concezioni è il logos, ovvero la dimensione dialogica socratica che Platone ha

assorbito e rielaborato nel suo pensiero filosofico, questa indagine vuole seguire un'altra

strada, quella dell'eros. L'eros costituisce, infatti, un elemento centrale sia in Socrate, che è

solito instaurare relazioni di tipo erotico-educativo con i suoi allievi, sia in Platone, che si

dedica alla trattazione di questo tema in più dialoghi. Le fonti principali utilizzate saranno

quattro dialoghi platonici: Alcibiade I, Simposio, Fedro e Repubblica.

A partire dall'Alcibiade I, che offre una rappresentazione del tipico dialogo socratico

in cui la vera posta in gioco non è ciò di cui si parla, ma colui che parla, intendo mostrare il

ruolo di eros nella confutazione socratica. Descrivendo e analizzando il tentativo di

Socrate di condurre Alcibiade prima a mettere in discussione il suo modo di vivere, e poi a

percorrere la strada della conoscenza di se stesso, cercherò di illustrare il ruolo decisivo di

eros nel favorire questa “conversione su di sé”, che ha come conseguenza la conquista

della virtù e che apre alla dimensione della “cura di sé” intesa come tentativo di migliorare

la propria anima. L'esame di questo dialogo sarà utile per seguire, passo per passo,

l'intreccio tra dimensione razionale e dimensione emotiva che caratterizza la tecnica

confutatoria socratica, e che possiamo pensare che Platone abbia assorbito mantenendone

intatto il nucleo più profondo.

Analizzando il modo in cui Platone rivisita e integra nella sua filosofia l'elemento

erotico, ovvero mostrando i punti di contatto e le differenze tra l'eros socratico e quello

3
platonico, intendo indagare il modo in cui la concezione del legame tra amore, conoscenza

e cura di sé si trasforma via via che il pensiero platonico diviene più autonomo rispetto a

quello del maestro.

Cercherò di descrivere, perciò, la trasformazione sia del concetto di eros sia di quelli

di conoscenza e cura di sé in relazione al passaggio dal piano umano, “orizzontale”, in cui

si esaurisce l'attività filosofica socratica, a quello “verticale” della filosofia platonica, che

vede la significativa novità dell'introduzione di una realtà ontologica al di sopra di quella

sensibile. A questo scopo, analizzerò approfonditamente i dialoghi erotici Simposio e

Fedro, in cui emerge l'articolata concezione dell'eros platonico in connessione con gli altri

elementi peculiari della sua filosofia, quali la teorizzazione del mondo delle Idee, la

dottrina dell'anima tripartita e l'immortalità dell'anima, che ci porteranno direttamente al

cuore del pensiero platonico.

Una volta chiarite la genesi e l'elaborazione platonica del concetto di eros, e il suo

legame con la conoscenza, sarà possibile verificare se esso possa costituire un efficace

elemento di continuità tra l'educazione socratica e la dialettica platonica. Cercherò di

capire, nello stesso tempo, se l'interesse platonico per eros e la sua funzione decisiva in

relazione alla conoscenza continuino a svolgere un ruolo nell'elaborazione platonica

dell'educazione e della dialettica. Quest'ultima viene descritta già nel Fedro, ma è più

chiaramente riproposta nella Repubblica come disciplina culmine del curriculum educativo

del filosofo.

Il confronto tra Fedro e Simposio da un lato e Repubblica dall'altro considera di

mettere in luce lo sviluppo del pensiero platonico riguardo all'effetto che eros e

conoscenza, unitamente o separati, hanno sull'anima e nella loro capacità di guidare e

condurre l'individuo verso la saggezza.

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1. EROS E CONOSCENZA DI SÉ NELL'ALCIBIADE I

1. L'Alcibiade I

Il primo dialogo platonico di cui ci serviremo per affrontare la questione del rapporto

tra eros e conoscenza di sé è l'Alcibiade I. Questo dialogo ci interessa in quanto, all'interno

del corpus platonico, è quello che indaga più direttamente il tema di “che cosa sia l'uomo”.

Intorno a questo interrogativo centrale ruotano concetti importanti della filosofia socratica

e platonica, come quello della conoscenza di sé, fondamentale per la nostra indagine.

Queste caratteristiche del dialogo hanno fatto sì che, nella tarda antichità, questo testo

fosse spesso utilizzato come lettura di avvio per chiunque volesse studiare il pensiero di

Platone o fosse interessato ad intraprendere un curriculum di studi filosofici in generale,

secondo l'idea presente anche all'interno del dialogo, per cui la conoscenza di sé va ritenuta

prioritaria rispetto alla conquista di qualunque altra conoscenza.

Occorre precisare che l'attribuzione dell'Alcibiade I a Platone, e di conseguenza

anche la sua datazione, sono oggetto di dibattito da parte degli studiosi. Il dialogo infatti

contiene, sia dal punto di vista stilistico che contenutistico, elementi che sono ritenuti

caratteristici dei dialoghi giovanili, quelli in cui si ritiene emerga un pensiero soprattutto

socratico, misti ad elementi che sono normalmente reperibili nei dialoghi più tardi, in cui il

personaggio di Socrate si fa sempre più “portavoce” di pensieri di Platone, pur elaborati

sulla base della lezione del maestro. Gli aspetti presenti nell'Alcibiade I che si possono

riscontrare con ricorrenza all'interno dei dialoghi giovanili o “socratici” sono, ad esempio,

la tecnica della confutazione socratica che procede per brevi domande e risposte e il tema

5
centrale della conoscenza di sé, mentre i discorsi lunghi e i riferimenti metafisici sono

considerati elementi peculiari dei dialoghi platonici della maturità1.

Olimpiodoro di Alessandria, autore dell'unico commento antico completo del

dialogo, vissuto nel V secolo d.C., sottolinea tale carattere “misto” del dialogo, ma ne

difende l'armonia interna, in opposizione a coloro che ritengono problematica la sua

etereogeneità.2 Egli propone una suddivisione del testo in tre parti distinte che ritiene

possano perfettamente integrarsi tra loro in un'ottica di continuità: una prima parte

confutatoria, una seconda protrettica e una terza maieutica. Le prime due parti vedono

Socrate impegnato nella confutazione del falso sapere di Alcibiade e nel tentativo di

convincerlo a purificarsi con un lavoro su se stesso, mentre la terza parte introduce un

riferimento al precetto delfico che invita a conoscere se stessi, fino a giungere alla

rivelazione maieutica del vero sé.

Per quanto riguarda l'aspetto drammatico del dialogo, abbiamo un unico interlocutore

di Socrate, Alcibiade, che non è, come accade in modo ricorrente in altri dialoghi giovanili,

un giovane che Socrate non conosce e avvicina per la prima volta, ma è un individuo verso

il quale il filosofo nutre da tempo un interesse particolare. Socrate stesso ammette di aver

osservato a lungo il suo comportamento e le sue azioni prima di avvicinarlo e parlargli.

Alcibiade, inoltre, è presente in più di un dialogo platonico ed è considerato una delle

figure più notevoli nella cerchia di Socrate. Qui è rappresentato come un giovane

ambizioso che ha come aspirazione fondamentale quella di diventare un potente uomo

politico, avere potere ed essere ricoperto di grandi onori. Dal punto di vista storico

Alcibiade era di fatto una figura di rilievo nel panorama politico ateniese del V secolo a.C.,

1 Cfr. Maria Michela Sassi, Indagine su Socrate: persona, filosofo, cittadino, Torino, Einaudi, 2015, p. 122.
2 Cfr. Francois Renaud, La conoscenza di sé nell'Alcibiade I e nel commento di Olimpiodoro, in Interiorità
e anima: la psychè in Platone, a cura di Maurizio Migliori, Linda M. Napolitano Valditara, Arianna
Fermani, Milano, V&P, 2007, p. 229.

6
avendo ricoperto un ruolo tanto di spicco quanto controverso negli anni della guerra del

Peloponneso.

In questo dialogo lo incontriamo, appunto, agli esordi della sua carriera politica,

affiancato da Socrate, che, in nome dell'amore che prova per lui, cerca di convincerlo a

seguire i suoi consigli, dipingendosi come l'unico in grado di offrirgli l'educazione di cui

necessita per esordire degnamente nel panorama politico. Di fatto Socrate non si preoccupa

propriamente di dargli dei meri consigli politici, ma tenta di avviare il suo allievo al modo

di pensare e vivere proprio della filosofia, cioè condurlo verso quello che è, a suo avviso, il

principale scopo di un'educazione autentica.

La relazione tra Socrate e Alcibiade descritta in questo dialogo è di tipo erotico e

insieme di tipo educativo. Questo non sorprende, dato che nella Grecia classica erano

comunemente ammesse e praticate le relazioni pederastiche, in quanto avevano una

funzione sociale ben precisa: avviavano all’inserimento sociale di un giovane nella società

aristocratica. Tali relazioni avevano infatti luogo tra un erastès, l'amante adulto, e un

eromenos, il giovane amato, con la precisa funzione di trasmissione del sapere e della virtù

dal primo al secondo. In questo senso si trattava di relazioni asimmetriche in cui il giovane

ricopriva un ruolo passivo, ruolo che avrebbe poi abbandonato una volta raggiunta la

maturità.

Il programma di Socrate si può accostare a questa concezione dell'amore pederastico,

che viene per così dire trasfigurato in amore filosofico. Anche in altri dialoghi platonici

Socrate rappresenta l’amante filosofico, caratterizzato da un comportamento controllato e

misurato, poco incline a lasciarsi sopraffare dal desiderio fisico. Questa caratteristica è

enfatizzata da Platone anche per distinguere Socrate da coloro che tenevano un

comportamento poco decoroso, privilegiando l'aspetto fisico della relazione a discapito di

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quello pedagogico. É utile accostare a questa situazione quella rappresentata alla fine del

Simposio, dove emerge tutta la temperanza di Socrate: Alcibiade rammenta il frangente in

cui, deluso, si era dovuto arrendere al rifiuto del filosofo di fronte alla sua volontà di

consumare il rapporto, proprio perché aveva erroneamente interpretato l'interesse di

Socrate come un interesse fisico. Socrate chiarisce di non voler scambiare “oro con

bronzo” (Symp. 218e), ovvero una bellezza dell'anima, la propria, con quella corporea di

Alcibiade, perché ciò avrebbe significato scambiare una bellezza autentica con una

apparente.

Nell'Alcibiade I Socrate sottolinea l'unicità e l'autenticità del suo amore, diverso dagli

tipi di amore: il suo unico scopo è il miglioramento dell'anima di Alcibiade, ed è ad essa

che egli rivolge il suo amore. Il filosofo è convinto di poter educare Alcibiade in modo che

acquisisca la competenza necessaria per governare e spiccare tra gli uomini più potenti del

suo tempo, ma non è questo l'obiettivo principale dalla sua educazione: non intende

solamente istruire Alcibiade dal punto di vista tecnico-politico, ma intende condurlo a

quella “conversione su di sé” che gli permetta di vivere una vita più autentica, in altre

parole, più degna di essere vissuta. Socrate è il primo pensatore nella storia della filosofia

che, attraverso un'indagine di tipo antropologico ed etico, solleva la questione di quale sia

la vita buona per l'uomo, di che cosa significhi “vivere bene” (eu zen). Famoso è il passo

del Critone in cui Socrate afferma che «l'importante non è vivere, ma vivere bene» (Crit.

48b). A suo avviso la vita buona e felice risiede nell'esercizio della virtù (aretè) specifica

dell'uomo, quella che risiede nella sua dimensione propriamente razionale, e segue

necessariamente dalla conoscenza del bene: secondo l'intellettualismo etico attribuito a

Socrate, chi compie il male lo fa esclusivamente per ignoranza.

Il problema di che cosa sia il bene si trasforma, nell'Alcibiade I, nella questione di

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quale sia la natura dell'uomo (Alc. I, 129e). La tesi che viene sostenuta è che solamente

conoscendo la nostra natura possiamo comprendere anche quali siano il bene e il male per

noi.

Socrate vorrebbe che Alcibiade si avvicinasse alla filosofia e convertisse il suo modo

di vivere sulla base di questa conoscenza del bene, che non è altro che la saggezza che

segue l'approfondita conoscenza di se stessi e della propria anima. Occorre, a questo scopo,

che il giovane volga la sua attenzione là dove risiedono principi spiritualmente più alti

rispetto ad onore, fama e ricchezza. Vi sono infatti quei valori dell'anima, in primis la

giustizia, che è necessario conoscere e scoprire dentro di sé in modo prioritario rispetto a

qualsiasi altra conquista intellettuale o materiale. La conoscenza e la cura di se stessi che

permettono di conquistare e possedere stabilmente nell'anima la virtù, potranno porsi alla

base anche del successo politico tanto desiderato da Alcibiade, offrendo le linee guida

necessarie per agire in ogni circostanza nel modo più opportuno.

Questa “conversione su se stesso” che Socrate cerca di favorire nel giovane può

essere agevolata dal particolare tipo di relazione erotica presente tra i due. Eros e

conoscenza di sé sono in questo senso profondamente collegati all'interno dell'Alcibiade I,

in quanto il processo di conoscenza interiore ricercato comporta un totale sconvolgimento

dell'anima ed implica che l'individuo sia coinvolto sia sul piano intellettuale che emotivo.

Recenti studi hanno sottolineato proprio l'importanza della “presa” emotiva che il dialogare

socratico è capace di sfruttare per favorire il raggiungimento dei suoi obiettivi filosofici.

Approfondiremo questo punto dopo aver fatto una necessaria digressione.

2. Socrate e la sua attività filosofica

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Non è facile cogliere le linee del pensiero socratico: le fonti più importanti che abbiamo

(Aristofane, Senofonte e Platone) ce ne offrono immagini tra loro diverse. Poiché quello

che ci interessa qui è contestualizzare l'esempio di attività filosofica socratica presente

nell'Alcibiade I, prendiamo in considerazione il Socrate di Platone, così come egli ce lo

presenta nei suoi dialoghi.

Come abbiamo già accennato, i dialoghi platonici, in particolare quelli “socratici”, ci

presentano Socrate nei panni del filosofo che, attraverso le sue domande, invita i propri

interlocutori ad esaminare questioni di vario genere e, attraverso la confutazione delle tesi

che essi propongono di volta in volta, li conduce alla consapevolezza della propria

ignoranza e alla necessità di porvi rimedio.

Le opinioni che ciascuno ha a proposito dei principi morali o della natura degli

oggetti di cui si occupa, determinano quei comportamenti che rendono un individuo ciò

che è, e questo può avvenire molto spesso in modo automatico, senza che si sia mai

riflettuto abbastanza sulla validità delle proprie opinioni. Le domande che Socrate rivolge

ai suoi interlocutori hanno proprio lo scopo di favorire tale riflessione, e capita quasi

sempre che costoro, nel dialogare con il filosofo, incorrano nell'incapacità di rispondere

coerentemente ai suoi interrogativi. Questo ha ricadute sulla loro condotta di vita: essi non

riescono a dare ragione di quelle conoscenze o di quei principi che regolano le loro stesse

azioni, e si rendono così conto di non sapere per quale motivo agiscano.

Un passo del Lachete, dialogo platonico che indaga la natura del coraggio, vede uno

dei protagonisti, Nicia, descrivere tale situazione con parole significative:

Credo che tu non sappia che chi si incontra con Socrate e inizia a dialogare con lui, qualunque
sia l’argomento da cui ha preso le mosse, senza rendersene conto, cade sotto la costrizione di non
riuscire a terminare il suo discorso prima di aver dato completa ragione di se stesso, del modo in

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cui vive e in cui ha vissuto. Quando ciò accade, Socrate infatti non lo lascia andare prima di averlo
esaminato ben bene (Lach. 187e-188a).

In questo passo vediamo che Nicia è ben consapevole di che cosa significhi intraprendere

un dialogo con Socrate: bisogna essere prima di tutto disposti a mettersi in discussione. Per

quanto chi si trova a dialogare con lui possa cercare di avere la meglio, non può aspirarvi

senza trovarsi a dover rendere conto delle sue convinzioni più profonde e del modo di vita

che ha adottato in base a quelle.

Un altro passo che vale la pena riportare è quello dell'Apologia, in cui Socrate

riassume il senso essenziale della propria “inchiesta”:

Ehi tu, eccellentissimo fra gli uomini e cittadino di Atene, che è la città più grande e gloriosa per
sapienza e potenza, non ti vergogni di rivolgere le tue cure alle ricchezze, per accumularne il più
possibile, e alla fama e al prestigio, anziché curarti e darti pensiero di saggezza e verità e della
perfezione dell'anima? E se qualcuno di voi ribatterà che invece se ne cura, non lo congederò subito
né me ne andrò io, ma lo interrogherò, lo esaminerò, lo metterò alla prova; e se lo troverò privo di
virtù, e se ne dichiarasse tuttavia dotato, lo biasimerò perché tiene in poco conto le cose di maggior
valore, privilegiando invece quelle vili (Apol. 29d-30a).

Questo passo illustra molto bene quello che doveva essere lo scopo dell'attività

socratica: portare gli individui ad occuparsi della propria anima prima che di qualsiasi altra

cosa. Maria Michela Sassi ha ultimamente sottolineato il carattere rivoluzionario del

programma di “cura” della città presentato da Socrate: non era uso comune nell'Atene del

V secolo la condanna morale del desiderio di ricchezza, fama e onori. Tali desideri erano

diffusi e considerati del tutto legittimi, in quanto la maggioranza dei cittadini aspirava a

possedere una vita ricca di onori e riconoscimenti3.

3 Cfr. Sassi, Indagine su Socrate, cit., p. 116.

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Il carattere rivoluzionario delle parole socratiche, insieme ad altri aspetti scomodi

della sua attività filosofica che direttamente coinvolgevano i politici ateniesi, è

indubbiamente alla base della condanna a morte di Socrate, accusato di corrompere i

giovani insegnando dottrine che favorivano il disordine sociale e di non credere negli dei

della città, tentando di introdurne di nuovi. In effetti, i suoi concittadini non potevano

percepire il suo invito a rimettere in discussione i valori, i loro modi di agire, a prendersi

cura di se stessi, se non come un taglio con le abitudini e le convenzioni della vita di tutti i

giorni, con il mondo che era loro familiare 4. Nell’Apologia Socrate non fornisce alcuna

ragione teorica per spiegare perché egli costringa se stesso e gli altri ad esaminare la

propria vita, accontentandosi di dire che questa è la missione affidatagli dal dio e che «una

vita che non metta se stessa alla prova, non è degna di essere vissuta». (Apol. 38a)

3. Eros e vergogna nella confutazione socratica

Dal punto di vista del metodo utilizzato da Socrate abbiamo un procedimento di tipo

“dialettico”, che vede la messa in opera dell'elenchos, o confutazione, che procede per

domande e risposte, alla ricerca di definizioni il più possibile veritiere dei vari oggetti in

questione, spesso concetti e valori morali. Già a partire da Omero il sostantivo elenchos

indicava l'atto di “mettere alla prova un individuo” e verificare la correttezza della sua

condotta morale.5 Oltre a non fornire risposte esaurienti, il metodo confutatorio abbatte le

certezze e dimostra l'infondatezza di ciò che dava senso e struttura al modo di vivere che

l'interlocutore aveva prima di intraprendere il dialogo con Socrate. La situazione

4 Cfr. Pierre Hadot, Qu'est-ce que la philosophie antique?, trad. it. di Elena Giovannelli, Torino, Einaudi,
2010 (1995), p. 38.
5 Cfr. Sassi, Indagine su Socrate, cit. p. 69.

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contraddittoria in cui si trova colui che viene interrogato da Socrate, sia durante il dialogo

che alla fine, è la famosa condizione di “aporia” per cui non si riesce a trovare una

definizione esaustiva, una verità definitiva che possa risolvere efficacemente il problema

posto in principio. Il riconoscimento del proprio “non sapere” da parte dell'interlocutore è

però considerato un punto di partenza, una condizione feconda da cui poter intraprendere

un'autentica ricerca, proprio perché favorisce lo sguardo dell'individuo verso la propria

anima, là dove risiedono i valori più profondi su cui ha basato la sua vita. Ciò che interessa

a Socrate, infatti, è l'aderenza delle parole del suo interlocutore al proprio comportamento,

ed è proprio questa connessione che favorisce gli effetti “terapeutici” dell'elenchos.

Socrate, al fine di favorire nell'interlocutore una sorta di “purificazione” dalle false

opinioni, utilizza un processo che sembra agire tanto sui ragionamenti quanto sulle

emozioni dell'individuo. A proposito dell'effetto che le parole socratiche hanno sullo stato

emotivo di chi le ascolta, è utile fare riferimento al Simposio, dove Alcibiade accosta

Socrate al satiro Marsia, proprio perché è capace, con i suoi discorsi, di ammaliare e

stordire come fa un satiro con la sua musica. Il giovane afferma:

Io stesso, amici miei, se non rischiassi di passare per completamente ubriaco, vi racconterei
sotto giuramento le impressioni che ho ricevuto e ricevo tutt'ora dai suoi discorsi. Quando ascolto,
il cuore mi balza in petto più che ai coribanti e per le sue parole le lacrime mi colano giù, e vedo
che moltissimi altri subiscono i medesimi effetti. Udendo Pericle e altri valenti oratori, io credevo
che parlassero bene, ma non ricevevo nessuna impressione del genere, e l'anima non mi tumultuava
né soffriva di sentirsi in uno stato di schiavitù, ma più volte questo Marsia mi ha messo in una
condizione tale da credere che la vita non fosse degna per me di essere vissuta nello stato in cui mi
trovo ora (Symp. 215d-e).

In questo passo possiamo vedere come l'elenchos socratico riesca a persuadere

l'interlocutore suscitando un certo sconvolgimento emotivo. Si può parlare in questo senso

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di un effetto “magico” delle parole socratiche, che sarebbero in grado di generare virtù

agendo ad un livello emotivo e pre-razionale. Menone, nell'omonimo dialogo, dice a

Socrate: «Anche ora, almeno questo mi pare, mi fai la magia, mi streghi – insomma

m'incanti, così che io sono pieno di dubbi» (Men. 80a).

Nell'Alcibiade I l'elenchos verte su quegli argomenti di cui Alcibiade deve avere

padronanza per poter consigliare gli Ateniesi quando si troverà in assemblea. Poiché il

giovane, in linea con il suo carattere orgoglioso, è convinto di possedere mirabili doti,

Socrate lo interroga per verificare la solidità delle sue competenze in proposito. Il primo

punto su cui i due concordano è questo: affinché Alcibiade possa dare i propri consigli

riguardo a qualche cosa, è necessario che egli ne possieda una competenza maggiore

rispetto a quella di coloro che si suppone dovrebbero ascoltarlo. Il giovane è convinto di

essere più competente degli altri riguardo alle questioni di Stato, ma quando Socrate lo

interroga a proposito di che cosa sia “meglio” a proposito del fare o non fare la guerra,

Alcibiade non sa rispondere e Socrate gli fa notare quanto questo sia vergognoso:

Ma è vergognoso! Se uno, mentre stai parlando e dando consigli sostenendo che questo è meglio
di quello, in questo particolare momento e in una certa quantità, ti chiedesse: “Alcibiade, cosa
intendi per meglio?”, tu sapresti rispondere che meglio è ciò che è più salutare, anche se non hai
assolutamente la pretesa di essere un medico. Ma su quello che pretendi di conoscere in modo
sistematico e su cui ti alzerai a dare consigli da persona competente, se ti si interroga su questo e
non sai rispondere, non ti vergogni? O non ti sembra cosa su cui ci si debba vergognare? (Alc.I,
108e-109a)

Alcibiade non può non riconoscere di trovarsi in una situazione di ignoranza proprio

in quegli ambiti in cui aveva fermamente ritenuto di essere più competente della massa, ed

è così costretto ad ammettere che tale condizione è vergognosa. Socrate fa leva sulla

vergogna che Alcibiade proverebbe se, in ambito pubblico, si rivelasse incompetente sulle

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questioni decisive per il bene della polis.

Il risvolto morale della confutazione è presente anche là dove, come in questo caso,

essa riguarda il complesso di competenze dell'interlocutore, poiché fa appello alla

«congruenza fra l'esibizione di virtù della persona interrogata e la sua virtù reale»6. La

vergogna, in particolare, è un'emozione che svolge un ruolo decisivo per innescare un

cambiamento interiore, alla quale Socrate ricorre anche più avanti nel dialogo, portando

Alcibiade ad ammettere: «Per gli dèi, Socrate, quello che dico non lo so nemmeno io, e sto

rischiando di trovarmi da un pezzo, e senza accorgermene, in una situazione molto, molto

vergognosa» (Alc. I, 127d). A questa affermazione di Alcibiade Socrate risponde

rincuorandolo: «Ma devi farti coraggio! Se ti fossi accorto a cinquant'anni di essere in

questa situazione, allora sarebbe stato un problema per te metterti a pensare a te stesso.

Adesso invece sei nell'età giusta per rendertene conto» (Alc. I, 127d-e). Con queste parole

Socrate cerca di mostrare il positivo utilizzo della vergogna che il giovane sta provando:

egli ha la possibilità di porre rimedio alla sua ignoranza, creando così le condizioni tali per

cui non è più costretto a provare tale emozione.

Questi passi mostrano che la vergogna costituisce di fatto la molla emotiva che è in

grado di portare l'individuo ad una conversione del proprio modo di vivere. Affinché sia

efficace, deve riguardare i punti deboli dell'individuo, che nel caso di Alcibiade sono

legati alla sete di onori e alla sua ambizione di fare carriera politica. Questi sono i desideri

che, al momento presente, sono capaci di muovere Alcibiade all'azione, ed è quindi su di

essi che è necessario far presa. Immaginando la propria vergogna nel caso in cui la sua

competenza venga smentita durante l'assemblea, situazione che Alcibiade si figura come

6 Cfr. Maria Michela Sassi, Con Alcibiade: l'emergere del tema socratico della coscienza nel Simposio e
nell'Alcibiade primo, in Società, Natura, Storia: studi in onore di Lorenzo Calabi, a cura di Andrea
Civello, Pisa, ETS, 2015, p. 20.

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sempre più plausibile via via che Socrate lo confuta, il giovane è spinto a guardare se

stesso in modo critico, avviando quel processo che potrà poi convertirsi nella “cura di sé”

volta a sviluppare la virtù. Siamo di fronte ad un tipo di vergogna legato tanto al “perdere

la faccia” di fronte ad una comunità quanto al non soddisfare le aspettative del proprio

amante. All'interno della relazione dialogica ma anche erotica tra Socrate e Alcibiade, eros

e vergogna si intrecciano favorendo lo spostamento dello sguardo dell'individuo verso il

proprio mondo interiore. Paul Woodruff distingue tre tipi di vergogna all'interno dei

dialoghi platonici aggiungendo a questi due un terzo, che è quello solipsistico, dato dalla

consapevolezza del soggetto di aver tradito valori esclusivamente suoi. Quest'ultimo non è

eteronomo come i precedenti ed è a suo avviso l'unico ad avere un decisivo risvolto

morale7. Riprenderemo più avanti questa tesi, cercandone un'eventuale conferma

nell'analisi del rapporto tra vergogna e cura di sé.

4. Il rapporto educativo tra eros e paideia

Abbiamo visto che la confutazione socratica conduce Alcibiade a prendere consapevolezza

della propria ignoranza. Per Socrate ci sono due tipi di ignoranza: quella che consiste nella

consapevolezza di non sapere e quella che invece è propria di chi crede di sapere ciò che in

realtà non sa. Di queste due la forma peggiore è la seconda, in quanto chi è consapevole di

non sapere è consapevole anche del fatto che è per lui conveniente affidarsi ad altri più

competenti di lui sulle questioni che non conosce. Socrate fa l'esempio del timoniere: «E se

ti trovassi a navigare su una nave, forse esprimeresti le tue opinioni su come va manovrato

7 Cfr. P. Woodruff, Socrates and the Irrational, in Reason and Religion in Socratic Philosophy, a cura di
N. Smith, P. Woodruff, University Press, Oxford, 2000, pp. 130-146.

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il timone, se in dentro o in fuori, e ti smarriresti perché non ne hai cognizioni, oppure

saresti tranquillo nell'affidarti al timoniere?» (Alc. I, 117c-d). Alcibiade risponde che si

affiderebbe al timoniere, e Socrate lo rincuora dicendogli che chi si comporta così non

sbaglia, ovvero che qualcuno che si affida a chi è più sapiente di lui non cade in errore.

Così aggiunge che se a sbagliare non sono «quelli che sanno, né quelli che, tra gli

ignoranti, sanno di esserlo, non possono essere altri che quelli che non sanno ma pensano

di sapere» (Alc. I, 118a).

Alcibiade fa parte di questi ultimi, quindi ha dentro di sé il peggior tipo di ignoranza,

almeno fino al momento in cui non ne diviene consapevole. Socrate si esprime in maniera

chiara nei suoi confronti:

Ahi, povero Alcibiade, che dolore! Io stento a chiamarlo per nome, ma dato che ci troviamo qui
noi due soli, vale la pena di dirlo. Tu, amico carissimo, convivi con la più profonda ignoranza; è
un'accusa, questa, che le tue stesse parole, tu stesso ti lanci. Perciò ti butti nella vita politica prima
di esservi stato educato (Alc. I, 118b).

Questo passaggio segna il confine tra la cosiddetta pars destruens e quella che può essere

definita pars construens: una volta abbattute le certezze di Alcibiade, Socrate ha creato

terreno fertile per la fase paideutica, costruttiva, del dialogo. Il giovane è passato dalla

forma di ignoranza inconsapevole a quella consapevole, e può così evitare non solo di

compiere errori e danneggiare se stesso e i suoi concittadini, ma può dare inizio ad un

percorso interiore che gli permetta di allontanarsi progressivamente sempre di più dalla sua

condizione di ignoranza.

Avvilito nel suo orgoglio, Alcibiade si rassegna ad ascoltare e, forse, accettare

quanto Socrate può dirgli a proposito del giusto e dell'utile, quegli argomenti su cui si era

rivelato incompetente. Assumendo tale atteggiamento, tuttavia, egli dimostra di credere

17
che sia possibile imparare tali questioni mediante il solo ascolto. Non è questo il metodo

che Socrate intende utilizzare, consapevole che, affinché l'anima di Alcibiade vada

incontro ad un cambiamento, è necessario che ogni verità, con le relative implicazioni sia

logiche che morali, siano opera di Alcibiade stesso. Questo è ciò che sta alla base del

modello socratico di educazione: essa non consiste nel riempire un recipiente vuoto, ma

nell'aiutare l'allievo a portare alla luce conoscenze che possiede già dentro di sé. È

opportuno rammentare qui le parole significative formulate a questo proposito nel

Simposio, quando Agatone lo invita a stendersi di fianco a lui in modo da poter attingere

alla sua sapienza anche solo toccandolo:

Sarebbe bello, Agatone, se la sapienza fosse qualcosa che può scorrere, al semplice contatto, dal
più pieno al più vuoto di noi, come attraverso un filo di lana l'acqua scorre dalla tazza più colma a
quella più vuota. Ma se anche la sapienza è cosiffatta, in tal caso è un vero onore per me stare
sdraiato accanto a te: così, credo, mi colmerai di copiosa e splendida sapienza (Symp. 175d-e).

La conoscenza non può essere trasferita come si trasferisce l'acqua dal recipiente più

pieno a quello più vuoto: ad opera dell'interrogare socratico, Alcibiade non è chiamato a

trasformare la sua ignoranza in un pieno sapere per un semplice travaso di nozioni, così da

rimanere nelle condizioni in cui si trova, ma a modificare se stesso. Questo è un punto

fondamentale per il suo apprendimento, che deve provenire, appunto, dall'interno piuttosto

che dall'esterno.

L'affermazione che l'ignoranza non è un “vuoto di contenuti” dell’anima e il sapere

non è il riempimento di questo vuoto, ma sapere e ignoranza sono due stati dell’anima, va

di pari passo con l’affermazione di Socrate che l’educazione avviene attraverso

l'allenamento, come per un atleta (Alc.I, 119c): l'allenamento di un atleta non è volto

solamente a renderlo più veloce e più forte, ma, insieme alle tecniche che acquisisce, lo

18
porta a far proprio un modo di comportarsi quotidiano ben preciso. Non basta, infatti, che

egli vinca una singola gara, poiché se vuole davvero essere il migliore deve adottare un

certo stile di vita, vale a dire cambiare radicalmente il suo modo di vivere.

Socrate si rivolge ad Alcibiade dicendogli: «rispondimi dunque e se non sentirai te

stesso dire che il giusto e l’utile sono la stessa cosa, non credere a nessun altro» (Alc. I, 114

e). In questo modo, quando più avanti durante il loro dialogo Alcibiade lo accusa di tenere

tutto il discorso da solo, Socrate può fargli notare, senza il rischio di essere contraddetto,

che lui è semplicemente il domandante, e che di fatto è Alcibiade quello che dà le risposte.

Il giovane si rende così conto che le affermazioni a cui i due giungono di volta in volta

sono frutto di riflessioni a cui anch'egli ha preso parte e su cui ha concordato.

Ad un certo punto del dialogo Socrate compie una mossa cruciale, nel momento in

cui si pone sullo stesso piano di Alcibiade, sostenendo di essere anch'egli nelle condizioni

di dover ricevere un'educazione. Gli dice: «Dobbiamo consigliarci insieme sul modo che ci

consenta di diventare migliori il più possibile» (Alc. I, 124b-c). Si tratta di un

atteggiamento che Socrate può assumere grazie al tipo di relazione erotica presente tra i

due. Benché il Socrate di Platone sia una figura umana e non divina, un filosofo che,

amante della saggezza quale è, la ricerca in quanto non ne è in pieno possesso, noi

sappiamo che Alcibiade e Socrate non si trovano esattamente sullo stesso piano, e che

Alcibiade ha ancora molta strada da percorrere prima di raggiungere il livello di saggezza

posseduto da Socrate. Anthony Hooper ha visto in questo passo il tentativo di Socrate di

instaurare con Alcibiade un tipo di relazione particolarmente funzionale per il

miglioramento della sua anima, definendola “a doppio ruolo”8: in essa viene meno la

8 Cfr. Anthony Hooper, The Dual-Role Philosophers: An Exploration of a Failed Relationship, in


Marguerite Johnson, Harold Tarrant, Alcibiades and the Socratic Lover-Educator, London, Bristol
Classical Press, 2012, p. 107.

19
classica asimmetria amante-amato e si instaura una certa “reciprocità erotica” in cui

entrambe le parti si comportano come se fossero sia gli amanti che gli amati.

In questo tipo di relazione i due “amanti” costruiscono uno spazio sociale di

condivisione in cui sono stimolati in direzione di un sempre più elevato modo di essere.

Questa interpretazione ci mostra il legame presente tra eros e la cura di sé: all'interno della

relazione amorosa è possibile favorire quelle condizioni tali che l'anima di chi è coinvolto

si dispone a un miglioramento.

5. Eros e cura di sé

Dopo che Socrate ha convinto Alcibiade della necessità per entrambi di migliorarsi,

occorre capire come sia possibile nei fatti prendersi cura di se stessi. Gli domanda:

Allora cosa vuol dire “prendersi cura di se stessi”? Perché c’è rischio che a volte, senza
accorgercene, non ci prendiamo cura di noi stessi, pur credendo di farlo. E quando è che un uomo
lo fa? Quando si preoccupa delle proprie cose? È allora che si prende cura di se stesso? (Alc. I
127e-128a)

Il tentativo di rispondere a questi interrogativi occupa numerose pagine all'interno del

dialogo, e parte dalla distinzione tra la cura di noi stessi e la cura di ciò che ci appartiene

attraverso un paragone tecnico: quando ci prendiamo cura delle calzature, per esempio, non

ci prendiamo cura dei piedi, ma di ciò che attiene ai piedi, mentre dei piedi ci prendiamo

cura esclusivamente con la ginnastica. Socrate afferma chiaramente che «l'arte con cui ci si

cura di noi stessi e quella con cui ci si cura delle proprie cose non coincidono» (Alc. I,

128d). Proseguendo su questa linea si giunge ad affermare la necessità di conoscere ciò di

cui bisogna prenderci cura: Socrate sostiene che, così come senza conoscere le calzature

20
non possiamo conoscere quale sia l'arte che le rende migliori, allo stesso modo senza

sapere chi siamo noi stessi non possiamo conoscere l'arte che ci rende migliori (Alc. I,

128e). Il paragone tecnico viene ripreso per argomentare che se calzolaio e citaredo sono

diversi dalle mani e dagli occhi di cui si servono per eseguire il loro lavoro, lo strumento è

sempre diverso da colui che lo usa, né il citaredo né il calzolaio possono essere identificati

con le parti del loro corpo. Ma se non possiamo identificare l'uomo con il suo corpo,

occorre domandarsi: «Che cosa è mai l’uomo?» (Alc. I, 129e).

Alcibiade non sa rispondere a questa domanda, ma la riflessione fatta a proposito

della differenza tra lo strumento e colui che se ne serve rende quasi obbligata la risposta:

«è colui che si serve del proprio corpo [...] Esiste qualcos'altro che si serve del corpo se

non l’anima?» (Alc. I, 129e-130a).

L'unica alternativa è che l'uomo sia l'insieme di corpo e anima, ma Socrate conclude

che non può essere neanche tale l'unione, perché se una delle due parti non partecipa al

governo del corpo, ed è evidente che il corpo non può comandare se stesso, l'insieme di tali

parti non è in grado di essere al comando. La conseguenza di questa riflessione è che

l'uomo non può che essere la sua anima.

Ricollegando questa importante conquista con il punto da cui i due erano partiti,

Socrate conclude che colui che ci prescrive il “conosci te stesso” ci ordina di conoscere la

nostra anima (Alc. I, 130e). Socrate si riferisce qui all'iscrizione gnōthi sautón presente sul

tempio di Apollo a Delfi, di cui dice: «Sospetto cosa significhi e che cosa ci voglia

effettivamente consigliare quella iscrizione, e te lo dirò. Probabilmente non si può trovare

da nessuna parte un modello di ciò, tranne che, unicamente, nella vita» (Alc. I, 132d). Il

motto delfico, originariamente concepito come esortazione a riconoscere i limiti della

condizione umana di fronte al dio, viene rivisitato nell'Alcibiade I in chiave di invito alla

21
conoscenza di sé.

La tesi che vede l'essenza dell'uomo nella sua anima ha come conseguenza che chi si

occupa del proprio corpo ha cura di cose che lo riguardano, ma non di se stesso. A maggior

ragione chi si cura dei soldi, ad esempio, si cura di qualcosa che è ancora più lontano da

ciò che lo riguarda. Lo stesso discorso vale per l'amore: chi ama il corpo di Alcibiade non

ama Alcibiade, ma qualcosa che gli appartiene: chi lo ama veramente è colui che è

innamorato della sua anima. Sulla base di questo, Socrate fa notare ad Alcibiade come il

proprio amore per lui sia l'unico vero e autentico amore che qualcuno abbia mai provato

nei suoi confronti (Alc. I, 131 c-d). Gli altri suoi corteggiatori, infatti, se ne sono andati non

appena la sua bellezza ha cominciato a sfiorire, mentre Socrate è rimasto, in quanto

innamorato di ciò che veramente lui è, cioè della sua anima. In questo senso spiega ad

Alcibiade che, se desidera continuare ad essere amato da lui, deve impegnarsi ad essere “il

più bello possibile” (Alc. I, 131d) nella propria anima, perché è essa che costituisce

l'oggetto del suo amore. È adesso, a suo avviso, che Alcibiade comincia a fiorire, proprio

perché egli non si identifica con il suo corpo, che sta sfiorendo, ma con la sua anima, di cui

ha appena ammesso di volersi prendere cura.

Vediamo emergere nuovamente il legame fondamentale tra eros e cura di sé: il

sentimento erotico che per sua natura porta a compiacere la persona amata conduce, in una

relazione basata sull'amore filosofico, a volgere l'attenzione alla propria anima, mossi dal

desiderio di migliorarla il più possibile. Possiamo ricollegare questo invito di Socrate ad

essere “il più bello possibile” nella propria anima con la riflessione sulla vergogna che

abbiamo fatto precedentemente: esso fa pensare alla vergogna che l'individuo proverebbe

nel caso in cui deludesse le aspettative dell'amante. Una testimonianza più chiara di come

questo aspetto caratterizzi la relazione tra Socrate e Alcibiade emerge nelle battute finali

22
del Simposio. Queste sono le parole che Alcibiade pronuncia in riferimento a Socrate:

E sono tuttora consapevole che, se solo volessi porgere l'orecchio, non resisterei ma subirei i
medesimi effetti. In realtà mi costringe a riconoscere che, pur con tutte le manchevolezze che mi
affliggono, continuo a trascurare me stesso per occuparmi degli affari degli Ateniesi. Perciò io mi
costringo a turarmi le orecchie e fuggo via come dalle Sirene, per non restare seduto qui ed
invecchiare accanto a lui. Soltanto al cospetto di quest'uomo ho sperimentato una sensazione che
nessuno crederebbe che io possa provare: vergognarmi di fronte a qualcuno; e io provo vergogna
solo di fronte a lui, appunto. Sono consapevole di non poter contestare il dovere di fare ciò che lui
mi raccomanda, e d'altra parte di essere sopraffatto dagli onori che mi vengono dalle masse non
appena mi allontano da lui. Così lo sfuggo, lo scanso, e quando lo vedo mi vergogno per ciò su cui
ci eravamo accordati. E non di rado sarei contento di vederlo scomparire dalla terra; ma se così
accadesse, so che ne soffrirei ancora di più. Così non so proprio che fare di quest'uomo (Symp.
216a-c).

Possiamo notare che Alcibiade è portato a guardarsi dentro e a riconoscere la

necessità di prendersi cura di se stesso soprattutto a causa dell'effetto che suscita in lui la

vicinanza di Socrate. Si tratta di un processo che avviene a partire dal livello dell'emotività,

in cui eros fa da protagonista e la vergogna svolge la funzione decisiva nel favorire la

svolta introspettiva. Nel caso di Alcibiade tale svolta non pare però aver aperto a quel

processo di conoscenza di sé che, come vediamo nell'Alcibiade I, è indispensabile per

convertire il proprio modo di vita: il giovane si allontana da Socrate proprio per evitare di

avvertire questa esigenza interiore e continuare a godere degli onori delle masse. La

vergogna provata da Alcibiade è presente solo ed esclusivamente quando si trova in

vicinanza di Socrate, ma svanisce quando se ne allontana, proprio per la sua volontà di

sfuggirle. Per riprendere la distinzione fatta da Woodruff a proposito dei tre tipi di

vergogna, questo passo sembra confermare la sua tesi che solamente una vergogna

interiorizzata, per così dire solipsistica, porta con sé un reale ed effettivo cambiamento a

23
livello morale. Sarebbe proprio questa la mossa cruciale che Alcibiade si rifiuta di fare:

non trasforma la consapevolezza acquisita grazie a Socrate in un reale ed effettivo lavoro

su se stesso, non attuando quella cura di sé che dipende solamente da un suo atto di

volontà. L'insuccesso del tentativo socratico di convertire Alcibiade alla filosofia, che ci

viene rivelato nel Simposio, non è presente nell'Alcibiade I, in cui sembra che il giovane sia

invece intenzionato a compiere questo passo decisivo. Sono le parole che Socrate

pronuncia alla fine del dialogo che lasciano trasparire tutte le sue perplessità: «Il mio

desiderio sarebbe che tu arrivassi fino in fondo: ma ho paura. Non che non abbia fiducia

nella tua disposizione naturale; il fatto è che vedo la forza dello Stato, e temo che entrambi

possiamo esserne sopraffatti» (Alc. I, 135e).

6. Alcibiade: una natura filosofica?9

È possibile individuare un interessante confronto tra la descrizione di Alcibiade e

quella della “natura filosofica” delineata da Platone nella Repubblica. Socrate teme che le

buone intenzioni di Alcibiade possano venire meno nel momento in cui entri in gioco la

forza dello Stato. Platone riprenderà il tema dell'influenza dello Stato sulle anime dei

cittadini all'interno della Repubblica, in cui cercherà di spiegare quale possa essere lo Stato

ideale retto da filosofi, gli unici saggi e capaci di garantire la giustizia. Nel suo tentativo di

teorizzare tale società ideale Platone spiega quali siano le caratteristiche psichiche degli

individui naturalmente predisposti a diventare filosofi, in modo da riconoscerli e educarli

nel modo più opportuno. Gli individui che possiedono tale natura vivono alimentati dalla

9 Questo paragrafo prende spunto da riflessioni presenti in C. Pacini, Alcibiade tra letteratura e storia
(http://amsdottorato.unibo.it/2090/1/Pacini_Costanza_TESI.pdf, 10/02/2018), pp.146-147.

24
ricerca della verità, hanno un carattere equilibrato, sono dotati di coraggio, magnanimità,

prontezza nell’apprendere e buona memoria (Re s p . V I , 490c). Qualora tali nature

“filosofiche” ricevano una buona educazione, possono facilmente conquistare la vera virtù.

Tuttavia, vi sono molte ragioni per cui una natura del genere può corrompersi e

trasformarsi, crescendo, in quella di un individuo peggiore addirittura di coloro che per

natura sono mediocri. Socrate infatti spiega che «il male è opposto più al bene che a ciò

che non è bene» (Resp. VI, 491d), vale a dire che le anime più grandi sono capaci delle più

grandi virtù come dei più grandi vizi. Per esempio, a causa della loro temperanza e

magnanimità essi possono facilmente perdersi nel compiacere gli altri, oppure possono

essere distratti da fattori come bellezza, ricchezza, o parentele potenti nello Stato, e altri

simili.

Tutto questo può accadere se tali nature vengono educate in maniera errata, secondo i

valori e gli esempi sbagliati. Un'anima dotata in una società corrotta è come un buon seme

gettato in un suolo avverso, cresce storcendo la propria natura, perde le sue virtù e finisce

per risultare peggiore delle nature mediocri. Una natura mediocre, infatti, non farà mai

nulla di importante, mentre una natura rara come quella filosofica è capace di grandi beni

come di grandi mali. L'anima per Platone ha una grande capacità assimilativa ed è per

questo che egli attribuisce molta importanza alle circostanze e all'ambiente in cui essa si

trova a crescere. Tali nature filosofiche diventano, infatti, facilmente vittime di cattivi

educatori: può trattarsi di sofisti abituati a persuadere le folle con i loro discorsi, o di

profittatori che tentano di sfruttare le doti eccezionali di tali individui in vista di interessi

personali, facendoli inorgoglire ed allontanare dalla filosofia. Privati di una corretta

educazione, essi diventano arroganti e finiscono per credere di poter dominare i vari

popoli, rischiando facilmente di diventare tiranni: «E da codesti uomini si sviluppano sia

25
coloro che causano i mali maggiori agli stati e ai privati, sia coloro che causano i maggiori

beni, se la corrente così li trascina» (Resp. VI, 495b).

Platone pensa che nessun insegnamento privato possa resistere all'influenza negativa

della società, a meno che non si verifichi un intervento divino. Questa è la ragione per cui,

nella Repubblica, il filosofo propone una riforma radicale della società stessa. Tale

progetto è indubbiamente legato alla sfiducia nei confronti di quello stato che aveva

condannato a morte Socrate, colui che per Platone (e anche per l'oracolo di Delfi) era “il

più saggio di tutti”.

Platone si preoccupa di attribuire la responsabilità del fallimento educativo di Socrate

nei confronti di Alcibiade interamente al giovane, al suo fuggire dalla “cura di se stesso” e

al suo lasciarsi influenzare, appunto, dalla brama degli onori politici. Alla fine del dialogo,

come emerge dal passo citato, Socrate sembra riconoscere la physis eccezionale di

Alcibiade, perciò possiamo pensare che il filosofo abbia veramente individuato in

Alcibiade una natura filosofica così come ci viene descritta nella Repubblica, cioè che

abbia riscontrato la presenza di quelle qualità che, se correttamente educate, gli avrebbero

permesso di diventare un uomo politico “illuminato”, in grado di essere veramente utile

alla città. Questo spiegherebbe l'attaccamento e il così appassionato e speranzoso amore

nei suoi confronti.

7. Eros e conoscenza di sé

Tornando all'Alcibiade I, questo dialogo si conferma in ogni caso il primo testo

filosofico in cui si parla della conoscenza e cura di sé come essenza stessa dell'esistenza

umana. Ci troviamo per la prima volta nella storia della filosofia di fronte ad un testo che

26
affronta il tema dell'oggettivazione dell'individuo nei confronti di se stesso: egli si vede

come materia su cui agire e apportare miglioramenti10.

Abbiamo visto che secondo Socrate prendersi cura di sé è un processo che richiede

prima di tutto la conoscenza di sé11. Per spiegare come questa conoscenza possa avvenire

Socrate introduce la celebre analogia dello specchio: se l'uomo fosse un occhio, per vedere

se stesso dovrebbe guardare in uno specchio o in qualcosa di simile; in particolare,

dovrebbe guardare in un altro occhio, in quanto potrebbe vedere un suo riflesso nella

pupilla, che ne è la parte migliore. Così come è possibile per un occhio rispecchiarsi in un

altro occhio, la nostra anima può trovare in un'altra anima uno specchio che le permetta di

vedere se stessa:

L’anima, se vuole arrivare a conoscere se stessa, deve guardare fisso in un’altra anima, e in
particolare a quella parte di essa nella quale dimora la virtù dell’anima, cioè la saggezza, oppure
deve guardare a qualcos'altro al quale questa parte dell'anima possa per caso rassomigliare [...]
Possiamo dire che c'è una parte dell'anima più divina di quella nella quale dimorano le funzioni
della conoscenza e del pensiero? […] questa parte dell’anima ha somiglianza col divino; chi fissa
lo sguardo su di essa ha piena conoscenza del divino, intelletto e pensiero, e così potrà avere anche
completa conoscenza di se stesso (Alc. I, 133b-c).

È in questo rispecchiarsi, nel riconoscimento di una dimensione comune di sapere e

di virtù tra due anime, che avviene la conoscenza di sé. Questa, quindi, avviene per via

indiretta tramite un oggetto che svolge il ruolo dello specchio, che non è altro che un'anima

simile alla nostra, in particolare la parte migliore di quell'anima, che è quella in cui risiede

la virtù. La virtù, cioè la saggezza, risiede per Socrate in quella parte dell'anima in cui

10 Cfr. Sassi, Indagine su Socrate, cit. p. 129.


11 Vedi supra, p. 21.

27
dimorano le funzioni della conoscenza e del pensiero. Secondo queste parole il rapporto

interpersonale, che implica il dialogo tra due anime, è un passaggio fondamentale che

permette all'individuo di prendere consapevolezza del proprio sapere o non sapere.

Il fatto che la “conversione su di sé”, il portare lo sguardo verso la propria interiorità,

avvenga attraverso la presenza di un'altra persona, in questo caso l'amante, potrebbe farci

pensare che essa costituisca essenzialmente uno strumento funzionale all'avvio di tale

processo. Questa riflessione ha portato Victoria Wohl ad offrire un'interpretazione

narcisistica12 dell'eros presentato nell'Alcibiade I: secondo la studiosa, l'amante non vede la

divinità dell'anima dell'altro, ma vede ed è invitato a vedere la propria divinità riflessa in

essa. In altre parole, l'occhio che guarda la pupilla di un altro occhio per vedere se stesso,

di fatto non vede l'occhio che sta guardando, e neanche la pupilla, ma se stesso. Allo stesso

modo, un'anima che guarda in un'altra anima non vede l'altro, ma il riflesso di sé. Wohl

insiste su questo aspetto narcisistico e conclude che l'altro diviene irrilevante, in quanto la

sua autonomia e alterità sono funzionali al suo essere specchio: è come se l'altro

scomparisse nello sguardo amorevole che il filosofo ha nei confronti di se stesso.

Se, per quanto riguarda la conoscenza di sé, tale interpretazione ci offre una

prospettiva interessante, essa si concilia più difficilmente con le considerazioni svolte già

sopra13 a proposito della cura di sé: i complessi aspetti del rapporto tra la relazione erotica

e la cura di sé che emerge nell'Alcibiade I (si veda in particolare il coinvolgimento emotivo

presente all'interno della relazione “a doppio ruolo”), rende difficile pensare all'altro come a

qualcuno che diviene, anche se in un secondo momento, irrilevante. Basandoci

sull'interpretazione di Hooper siamo piuttosto portati a pensare che, oltre a creare il

12 Cfr. Victoria Wohl, The Eye of the Beloved: Opsis and Eros in Socratic Pedagogy, in Marguerite
Johnson, Harold Tarrant, Alcibiades and the Socratic Lover-Educator, London, Bristol Classical Press,
2012, p. 46.
13 Vedi supra, pp. 19-20.

28
contesto per un possibile rispecchiamento dell'anima dell'amante in quella dell'amato, eros

offra le condizioni per l'avvio di un comune percorso di crescita e di cura di sé, che

riguarda allo stesso modo entrambi gli individui coinvolti e che, per progredire, si nutre

della fecondità della relazione stessa. In questo senso, il processo di conoscenza e cura di

sé non prevede la presenza dell'altro come un semplice punto di partenza, ma come

elemento essenziale per un progredire comune e per il mantenimento dello stato emotivo

ottimale per realizzare il cambiamento interiore.

Un altro aspetto da prendere in considerazione e che è stato oggetto di dibattito è

quello del riferimento al divino presente nel passo citato: François Renaud, in un suo

articolo, riduce la maggioranza delle interpretazioni che ne sono state date a due di segno

opposto, una delle quali è “teocentrica” e l'altra “antropocentrica”.

L'interpretazione teocentrica, secondo la quale la conoscenza dell'anima è

direttamente legata a dio, fa leva sia sul passo appena citato che su un altro successivo in

cui Socrate dichiara che: «con lo sguardo fisso in dio, avremo in lui lo specchio più bello in

cui si riflettono le cose umane che mirano alla virtù dell'anima, e così nel modo migliore

potremo vedere e conoscere anche noi stessi» (Alc. I, 133c). Chi sostiene l'inautenticità

dell'Alcibiade I ne vede una prova in questo passo, poiché l'idea di un dio che illumina

l'anima sarebbe più neoplatonica che platonica, e in ogni caso non socratica14. Se il passo di

133c è in realtà ritenuto un'interpolazione anche da parte dei difensori dell'autenticità del

dialogo, in quanto non presente nei manoscritti platonici 15, nel contesto si ritrovano altri

riferimenti al divino che permettono agli esponenti dell'interpretazione teocentrica di

sostenere che non solo la conoscenza dell'anima è legata a dio, ma coincide con quella di

14 Cfr. Renaud, op. cit. p. 231.


15 Cfr. Platone, Alcibiade primo Alcibiade secondo, a cura di D. Puliga, Milano, BUR, 2015, p.151.

29
dio. A questo proposito Renaud precisa però che l'anima è detta “simile” al dio, non

coincidente con esso: «Dio, o il dio, non è semplicemente il “divino in noi”, ma è altro e

deve essere inteso come superiore a noi, dunque come trascendente»16.

L'altra interpretazione, quella antropocentrica, ponendo in secondo piano il

riferimento al divino, sostiene invece la centralità della necessità del dialogo con gli altri

come ciò che permette l'introspezione diretta e la coscienza immediata di se stessi. Sassi fa

notare che:

Il richiamo al “divino” su cui fissare lo sguardo (anche in 134d) può fungere semplicemente da
caratterizzazione di quella componente più nobile dell’anima umana che è la facoltà di pensiero
[...] Quel che più conta è che nel complesso il discorso appare sostenuto da una concezione
“umanistica” o “dialettica”: l’accento cade sull’interazione tra individui le cui capacità cognitive si
rispecchiano reciprocamente, così da destare e alimentare pensieri creativi 17.

Di fatto, l'interpretazione antropocentrica si sposa meglio con le caratteristiche del

rapporto erotico che abbiamo visto emergere in questo dialogo, in cui l'eros socratico ha

una natura tendenzialmente orizzontale: l'ampio coinvolgimento sia intellettuale che

emotivo degli individui in questione favorisce il loro progresso morale attraverso un

processo di introspezione che non chiama in causa in maniera determinante una

dimensione ulteriore e trascendente. Eros svolge la sua funzione fondamentale creando le

condizioni ottimali per un radicale cambiamento interiore, come abbiamo visto

analizzandone il rapporto con la conoscenza e la cura di sé, muovendosi sul piano umano

dell'emotività.

Nel prossimo capitolo cercheremo di capire come questo e gli altri aspetti dell'eros

16 Renaud, op. cit. p. 232.


17 Sassi, Indagine su Socrate, cit. p. 128.

30
socratico siano stati assorbiti e rielaborati da Platone, e lo faremo basandoci sui dialoghi

del Fedro e del Simposio, nei quali emerge quella che è ritenuta la dottrina platonica

dell'eros.

31
2. IL SIMPOSIO:

DALLA CONOSCENZA DI SÉ ALLA CONOSCENZA DEL BELLO

1. Eros nei dialoghi platonici della maturità

Analizzando l'Alcibiade I abbiamo mostrato che l'eros socratico può essere visto

come un mezzo che permette la conoscenza di se stessi, favorendo quel particolare tipo di

relazione che invita gli individui ad assumere uno sguardo introspettivo. Tale conoscenza

si lega naturalmente alla cura di sé, in quanto comporta la consapevolezza della necessità

di migliorare le condizioni della propria anima. Nel Simposio e nel Fedro viene mantenuto

il ruolo di eros, ma l'oggetto della conoscenza cambia, poiché questi due dialoghi

presentano al loro interno elementi propri della ricca filosofia platonica, che rispetto a

quella socratica è caratterizzata da riferimenti ontologici che gettano una luce diversa sia

sul concetto di eros che su quello di conoscenza.

Nell'Alcibiade I ci viene detto che l'essenza dell'uomo è la sua anima, ma non ci è

stato detto come questa anima sia strutturata e come si possa nei fatti prendersene cura.

Tali aspetti vengono approfonditi in questi dialoghi, dove eros è fondato filosoficamente

come via che il filosofo ha da percorrere per conquistare la sapienza. Eros diviene

fondamentalmente “mediatore” tra due mondi, dotato della capacità di elevare l'anima dal

mondo sensibile, dell'apparenza, a quello vero e reale delle Idee, dove si possono cogliere

le verità che permettono al filosofo di vivere una vita basata sull'autenticità. Questa

attenzione per il “modo di vivere” è un elemento che Platone riprende dal maestro:

l'elevazione dell'anima che il filosofo è capace di realizzare attraverso la contemplazione

32
delle Idee è ciò che gli permette di vivere una vita degna di essere vissuta, di vivere

“bene”. La stessa forma della produzione letteraria di Platone, il dialogo, può essere vista

in continuità con il dialogare che caratterizzava l'attività socratica, forse un modo per

cercare di suscitare nel lettore l'effetto che Socrate aveva sui suoi interlocutori.

Vedremo che il processo di conoscenza di sé che in Socrate avveniva sul piano

umano, in Platone diviene un percorso che porta l'individuo verso l'alto, verso una realtà

trascendente, dimora della verità e delle realtà immutabili, la cui comprensione è

fondamentale per il filosofo. La funzione decisiva che l'eros socratico svolgeva dal punto

di vista della conoscenza di sé permane all'interno della filosofia platonica, in cui il

raggiungimento del mondo delle Idee favorisce la riscoperta della propria vera natura, e

quindi in questo senso conoscenza di se stessi e di ciò che si è realmente. Entrambi i

percorsi filosofici hanno come scopo uno stato di comprensione che permette di vivere una

vita degna di essere vissuta, poiché basata sulla verità.

Analizzando l'attività filosofica di Socrate, abbiamo sottolineato nel primo capitolo il

ruolo decisivo delle emozioni nel processo di confutazione 18. Abbiamo visto che il metodo

d'indagine socratico non giunge di fatto ad una definizione stabile dei concetti che si

propone di indagare, ma conduce ad un'aporia che trasforma l'indagine intellettuale in uno

sguardo interiore e nel riconoscimento di una dimensione di sapere e virtù posseduta in

comune con un altro individuo. Il valore positivo dell'elenchos socratico va rintracciato

nella sua realizzazione sul piano etico e pratico 19, nella cura di sé, nella purificazione

dall'errore realizzabile attraverso la contraddizione e la vergogna rispetto alla propria

insufficienza intellettuale. Lo scopo finale dell'attività filosofica di Socrate era condurre

18 Vedi supra, pp. 12-16.


19 Cfr. L. Candiotto, Nous e phren: conoscenza intellettuale, razionalità discorsiva e saggezza erotica in
Socrate e Platone, in Methodos, 16, 2016, URL: http://methodos.revues.org/4343, p. 4.

33
l'interlocutore a scoprire dentro di sé la saggezza. Tale saggezza (phronesis) socratica è

tanto una forma di conoscenza quanto una pratica, un esercizio che si concretizza nella

cura dell'anima. Questa svolta introspettiva favorita da eros e il suo legame con la cura

attenuano l'intellettualismo etico socratico. Inoltre, l'elemento erotico che vi sottende

costituisce un significativo dato di continuità tra saggezza socratica e dialettica platonica.

La novità di Platone risiede nell'invenzione dell'oggetto intellettuale che realizza a

livello ontologico l'universale socratico e nell'attribuzione della centralità conoscitiva al

nous, la facoltà razionale capace di cogliere tale realtà intelligibile. Inoltre, si fa strada una

più complessa teoria dell'anima. Entrambe le filosofie prevedono una svolta conoscitiva:

una la ottiene attraverso l'aporia, l'altra attraverso la noesis. Entrambe le filosofie

prevedono una cura dell'anima: da un lato si prevede una svolta introspettiva volta a

riscoprire la saggezza interiore, dall'altro si chiama in causa una realtà trascendente, sede

della verità, che può essere colta elevando la propria anima verso l'alto.

L'eros socratico viene ripreso ed inserito da Platone nella propria filosofia con la

funzione di impulso emotivo che dispone l'anima nelle condizioni di poter contemplare le

Idee. Nell'individuo che compie l'ascesa, così come per l'individuo che scopre la propria

dimensione interiore di verità e saggezza, il coinvolgimento emotivo favorito da eros

costituisce il punto di partenza del percorso che conduce al miglioramento dell'anima.

2. Il Simposio

Il Simposio è uno dei due dialoghi erotici che Platone scrive nel periodo della

maturità, intorno al 380 a.C., nel quale compaiono elementi peculiari della sua filosofia,

che ne mostrano il distacco rispetto a quella socratica. L'elemento più importante, come

34
abbiamo già accennato, è l'introduzione di un Bello ideale, più precisamente il riferimento

alle Idee. Platone rivisita il concetto di eros alla luce della peculiare dimensione ontologica

che caratterizza la sua filosofia: egli l'ha in mente quando presenta, nel Simposio, per la

prima volta, la sua dottrina erotica. Questo dialogo è l'unico che ruota intorno ad eros come

unico tema centrale, dato che il Fedro, l'altro principale dialogo erotico di Platone,

intreccia ad esso altri temi, come la retorica e l'immortalità dell'anima, che, anche se

collegati ad esso, vi assumono una loro autonomia tematica.

Dal punto di vista drammatico, tutti i personaggi si trovano riuniti attorno ad un

banchetto a casa di uno dei protagonisti, il poeta Agatone, di cui viene così celebrata la

vittoria nell'agone tragico in occasione delle feste Lenee. In particolare, Platone mette in

scena la parte finale del banchetto, il “simposio” appunto, in cui i presenti erano soliti bere

e discutere insieme su argomenti di vario genere, e in questo caso l'argomento scelto è

eros.

La struttura compositiva del Simposio sembra agevolare il lettore nella comprensione

della concezione platonica dell'eros, poiché presenta una prima parte in cui cinque

personaggi, ognuno a rappresentazione di un diverso aspetto della cultura ateniese,

espongono in stile encomiastico le loro teorie su eros, e una parte successiva in cui Socrate

prende la parola e, riprendendo e smentendo le precedenti teorie, espone la sua “verità”

sull'amore. Non abbiamo, quindi, un dialogo strutturato con brevi domande e risposte in

tipico stile socratico, ma troviamo per lo più discorsi lunghi pronunciati dai diversi

protagonisti. Ognuno dei discorsi che precedono quello socratico abitua il lettore alla

riflessione sul tema dell'amore e anticipa spunti utili alla comprensione della teoria poi

esposta da Socrate, che si fa in questo caso portavoce della dottrina erotica di Platone.

Le parole che Socrate pronuncia, oltretutto, non sono presentate come il frutto di una

35
sua riflessione autonoma, ma, come la riproposizione di un insegnamento ricevuto da una

sacerdotessa, Diotima, che in un momento precedente si sarebbe preoccupata di istruire

Socrate sulle questioni erotiche. Si tratta di una mossa che Platone compie probabilmente

per attribuire una maggiore credibilità alla dottrina presentata, dato che una sacerdotessa è

una figura la cui sapienza viene direttamente ricondotta a qualcosa di divino, più alto e

perfetto.

3. Eros platonico e tradizione

Come abbiamo detto, la teoria erotica di Platone si pone sulla scia del pensiero

socratico. Tuttavia, Platone vede l'eros presente nella relazione d'amore tra due individui

come un aspetto particolare di un più generale eros, che egli definisce come desiderio di

possedere il bene e possederlo per sempre (Symp. 206a). Come abbiamo anticipato, prima

di far esporre la sua visione erotica per bocca di Socrate, Platone fa presentare cinque

discorsi di elogio nei confronti di eros da esponenti dei vari campi del sapere

contemporaneo. Passiamo velocemente in rassegna gli aspetti di tali discorsi che sono in

qualche modo connessi con la nostra indagine sul collegamento tra eros e conoscenza.

Nel primo discorso, quello di Fedro (Symp. 178a-180b), che riporta la voce della

morale tradizionale, vediamo che prima di tutto amore è un dio, e ritroviamo quegli

elementi caratteristici delle relazioni pederastiche diffuse ad Atene a cui abbiamo fatto

riferimento nel primo capitolo20 per contestualizzare la figura di Socrate come amante-

filosofo:

20 Vedi supra, p. 7.

36
Ciò che deve servire da guida per tutta l'esistenza agli uomini che intendono vivere degnamente,
né la parentela è in grado di installarlo né gli onori né la ricchezza né altra cosa alcuna se non
l’amore. E cosa intendo con questo? Vergogna di fronte a ciò che è brutto, aspirazione alle cose
belle, senza le quali né città né individuo possono compiere imprese nobili e grandi. Affermo anzi
che un uomo innamorato, se fosse colto a commettere un’azione riprovevole oppure subirla senza
reagire per mancanza di coraggio, non si cruccerebbe di essere visto da suo padre o dai suoi amici o
da chiunque altro quanto dal suo amato. E possiamo notare che lo stesso vale per l’amato, che sente
vergogna soprattutto di fronte all’amante, se lo si scopre immischiato in qualcosa di brutto. Così se
si potesse fare in modo che una città o un esercito fossero esclusivamente composti di amanti e di
amati, si realizzerebbe il miglior governo possibile in quanto essi si asterrebbero da qualsiasi
azione riprovevole e gareggerebbero in reciproca emulazione; e combattendo gli uni accanto agli
altri, anche in pochi avrebbero la meglio, oserei dire, su tutta l'umanità (Symp. 178c-179a).

Nelle parole di Fedro viene sottolineata la capacità di eros di aiutare gli uomini a

vivere in maniera onorevole, attraverso il particolare rapporto di educazione e guida che si

instaura tra amante e amato. Il nucleo del suo discorso è costituito dalle conseguenze

etiche, ovvero dagli effetti buoni e utili che eros produce su coloro che sono coinvolti nella

relazione amorosa. La consapevolezza di essere sotto lo sguardo del proprio amante, da un

lato ispira azioni coraggiose e onorevoli, dall'altro porta entrambi i membri del rapporto ad

astenersi dal compiere azioni che li potrebbero far vergognare. Nella società greca, ciò che

conta è la visibilità dell'azione, che viene ritenuta virtuosa in base a parametri di giudizio

condivisi dalla comunità.

Le parole che Fedro pronuncia a proposito della funzione fondamentale della

vergogna ci riportano alle riflessioni che abbiamo fatto nel primo capitolo a proposito del

ruolo di tale emozione nella confutazione socratica, e mostrano che all'interno della

tradizione greca vi era una certa consapevolezza del forte legame presente tra eros e

37
vergogna21. Benché Socrate sfruttasse questo legame per ottenere maggiore effetto

sull'anima del suo interlocutore, abbiamo già precisato gli aspetti fondamentali che nella

sua attività filosofica lo portavano a distaccarsi profondamente dalla tradizione: la

relazione erotica che Socrate instaurava con i suoi giovani discepoli non aveva lo scopo di

favorire comportamenti decorosi che si mantenessero in linea con la morale corrente, ma

intendeva porre le basi di una vita buona e autentica proprio mettendo in discussione tale

morale. La vergogna e il suo legame con eros erano sfruttati dal filosofo per favorire la

svolta verso l'interiorità, che abbiamo visto stare alla base della conoscenza e della cura di

sé.

Nel discorso di Fedro la vergogna non sembra avere tuttavia un ruolo positivo nei

confronti della cosiddetta “svolta verso l'interiorità”, non compare il legame con una virtù

interiore, con la saggezza filosofica, ma il parametro con cui è misurata tale emozione è il

punto di vista dell'altro, dell'amante, che non fa altro che rispecchiare i valori diffusi nella

cultura ateniese. Il vantaggio offerto dalla relazione amorosa agli innamorati sta in una

maggiore spinta a rendere il proprio comportamento adeguato alle aspettative sociali. In

altre parole l'obiettivo finale dell'eros non è la “vita nobile” o virtuosa come per l'eros

socratico. Viene mantenuta la visione di eros come una potente forza motivazionale che è

capace di trasformare i comportamenti dell'individuo grazie alla volontà di compiacere la

persona innamorata, ma ciò a cui si cerca di adeguare la propria condotta non è un alto

ideale di saggezza filosofica, bensì solamente l'aspettativa di una società i cui valori

fondamentali sono onore e ricchezza. E questo a patto che l'amante sia veicolo di tali

valori: Fussi fa notare che quello che Fedro sta proponendo è di fatto un desiderio di

soddisfare le aspettative dell'amante, qualsiasi esse siano, solo per non provare vergogna

21 Vedi supra, pp. 12-16.

38
nei suoi confronti. Se si tratta di compiere azioni eclatanti ma per niente nobili e virtuose,

possiamo pensare che l'amato sarebbe disposto a compierle. Tuttavia, secondo Fussi, Fedro

non intende proporre una tale concezione relativistica dell'eros: la sua convinzione di

fondo è che eros possa portare l'amato a compiere azioni nobili anche se in contrasto con la

propria natura22.

La crescita dell'amato, che consiste nell'adottare certi comportamenti moralmente

corretti di fronte agli occhi dell'amante, è inserita in un contesto di asimmetria 23 tra amante

e amato, e trova conferma là dove si dice che gli dei mostrano maggiore ammirazione per

atti compiuti per amore da parte dell'amato nei confronti dell'amante, piuttosto che il

contrario, «essendo l'amante, in quanto è invasato dal dio, cosa più divina dell'amato»

(Symp. 180b). Fedro richiama l'esempio di due personaggi omerici, Achille e Patroclo, in

cui il sacrificio di Achille per il suo amante viene notevolmente onorato e ricompensato

dagli dei, proprio perché, inaspettatamente, proveniente da un amato nei confronti del suo

amante. Il punto principale di questa asimmetria è costituito dal fatto che l'amore

dell'amante proviene direttamente dal dio, mentre quello dell'amato sembra avere una

ragione diversa.

A questo proposito, Fussi distingue le motivazioni di fondo che muovono amante e

amato: il primo ama il secondo per la sua bellezza ed è in preda al sentimento amoroso,

mentre il secondo è mosso da vanità, vuole di fatto compiacere l'amante e ottenere il suo

apprezzamento24. Achille, in qualità di amato, ha sacrificato la sua vita non per salvare il

suo amante, o poter stare con lui, ma solamente per vendicare la sua morte, in nome

dell'onore.

22 Cfr. Fussi, The desire for recognition in Plato's Symposium, in Arethusa 41, 2008, p. 245.
23 Cfr. ivi, p. 243.
24 Cfr. ivi, p. 247.

39
La condizione di asimmetria evocata nel discorso di Fedro assorbe inerzialmente una

visione tradizionale, ma ricorda quella che si pone a proposito del rapporto tra Socrate e

Alcibiade nell'Alcibiade I25. In questo caso, la simmetria sembra venir meno per volontà

del filosofo, che si preoccupa di porsi sullo stesso piano di Alcibiade dicendogli che

entrambi, allo stesso modo, necessitano di ricevere un'educazione (Alc. I, 124b-c). Ora, la

mitigazione di questa simmetria è peculiare dell'eros socratico e si spiega con l'idea che sia

finalizzata ad un percorso “condiviso” da parte di entrambi gli individui coinvolti nella

relazione d'amore.

La valenza educativa dell'amore emerge anche dal discorso di Pausania (Symp. 180c-

185c), per il quale esistono specie migliori e specie peggiori d'amore. In questo discorso

emergono lati negativi di eros che non erano stati presi in considerazione da Fedro, per il

quale amore è un dio che favorisce esclusivamente la crescita e il miglioramento degli

individui coinvolti nella relazione amorosa. Pausania riprende esplicitamente la questione

dell'eros paidikos, ovvero del rapporto insieme erotico e educativo istituzionalizzato nella

città greca Atene, e distingue un tipo di amore ispirato da Afrodite volgare e uno ispirato

da Afrodite celeste:

Ed è ignobile quell'amante volgare che si innamora piuttosto del corpo che dell'anima; e del
resto non può essere nemmeno costante, giacché è innamorato di qualcosa che costante non è. Non
appena appassisce il fiore del corpo, di cui era innamorato, s'invola lontano, smentendo tanti
discorsi e tante promesse; ma chi si innamora di un nobile carattere, ne resta amante per tutta la
vita, in quanto si fonde a cosa che resta. […] Tale è l'amore della dea celeste, e degno di sommo
onore così da parte della collettività come dei singoli, in quanto costringe sia l'amante che l'amato a
tendere alla virtù con tutte le loro energie, ognuno per la sua parte. Tutti gli altri generi d'amore
appartengono all'altra, alla dea volgare (Symp. 183d-185c).

25 Vedi supra, pp. 19-20.

40
Per Pausania i due tipi di amore diversi corrispondono a due tipi di amanti diversi.

Vi sono quelli ispirati da Afrodite volgare, che, amando sia uomini che donne, prediligono

il corpo piuttosto che l'anima, e per questa ragione desiderano principalmente

l'appagamento fisico. Agli amanti ispirati da Afrodite celeste, invece, corrisponde un tipo

di amore che coinvolge solo gli uomini. Si tratta della relazione omoerotica in cui l'amante

prova amore per l'anima piuttosto che per il corpo, e che è finalizzata alla trasmissione

della sapienza. Mettendo in luce la superiorità delle relazioni omoerotiche rispetto a quelle

tra uomini e donne, Pausania riflette il pregiudizio della superiorità maschile che era

diffuso nella società ateniese. Tuttavia, sottolineando i benefici intellettuali che un giovane

può ricavare da questo tipo di rapporto, presenta spunti di riflessione comuni alla teoria

erotica che Platone espone nel Fedro26: la figura dell'amante virtuoso descritto da Pausania

è molto vicina a quella del filosofo educatore inteso come colui che può guidare il ragazzo

fino alla conquista della sapienza e della virtù.

Nel passo citato, Pausania dice anche che il sentimento di chi ama l'anima è destinato

a rimanere costante in quanto ama ciò che non muta. Questa affermazione, insieme alla

distinzione tra un tipo di amore rivolto all'anima e uno rivolto al corpo, non possono non

farci pensare al passo dell'Alcibiade I in cui Socrate fa notare ad Alcibiade come lui sia

l'unico tra i suoi corteggiatori ad essere rimasto al suo fianco (Alc. I, 131c-d), mentre tutti

gli altri si sono allontanati una volta che la sua bellezza corporea ha cominciato a svanire 27.

In quel frangente Socrate sottolineava la maggior autenticità di un amore rivolto all'anima:

è l'anima che costituisce quella che è l'essenza dell'uomo. Anche nella concezione erotica

26 Vedi infra, pp. 93-99.


27 Vedi supra, p. 22.

41
di Platone, come vedremo più avanti, l'anima è posta su un piano più alto rispetto al corpo

e la presa di consapevolezza della superiorità della bellezza dell'anima rispetto a quella

corporea è una tappa necessaria del progresso del filosofo verso la virtù.

Dopo che si è concluso il discorso di Pausania, la parola passa al medico Erissimaco

(Symp. 185c-188e), il cui intervento segna una rottura significativa rispetto a quelli dei due

oratori precedenti. Il medico amplia il raggio di azione di eros, spostandosi dal piano delle

azioni dell'uomo al piano cosmico. Egli descrive eros come una forza cosmica che genera

attrazione e desiderio in esseri dissimili, e genera accordo e armonia fra gli opposti. Questo

principio di conciliazione degli opposti viene derivato da Erissimaco dall'arte della

medicina. Di fatto, Erissimaco si preoccupa di elogiare la techne, in particolare quella

medica, piuttosto che eros. La medicina è definita la scienza delle «inclinazioni amorose a

riempirsi e a vuotarsi» (Symp. 186c) e il medico aggiunge che «colui che riesce a

distinguere, all'interno di queste inclinazioni, fra l'amore bello e l'amore brutto, questo è

medico veramente competente» (Symp. 186c).

Alla luce di questa definizione, eros sembra essere un flusso che attraversa l'anima

come desiderio di riempimento e svuotamento. Inoltre, agisce come principio di armonia

che riesce a rendere concordi gli elementi contrari del corpo. Il medico spiega che secondo

il medesimo principio agisce anche la musica, che crea armonia fra i suoni discordi,

l'astronomia da cui dipendono le stagioni, la ginnastica che conserva e produce ciò che nel

corpo permette di ottenere la salute, l'agricoltura, che consiste nell'infondere eros buono

nelle piante per farle crescere correttamente, e infine la mantica, che ha il compito di

custodire e curare eros per garantire il rapporto fra gli dei e gli uomini.

Eros, dunque, nell'argomentazione di Erissimaco, viene depersonalizzato, dato che

non è più considerato all'interno del rapporto fra due individui, ma è posto su uno piano

42
molto più generale, come una forza, un'energia che genera equilibrio e armonia. Benché la

dottrina platonica dell'eros che emergerà più avanti nel dialogo si distacchi nelle sue linee

essenziali da quella di Erissimaco, è possibile riscontrare un aspetto comune di de-

individualizzazione. Come vedremo, per Platone il filosofo è invitato a sublimare

progressivamente l'amore, in particolare l'impulso erotico e il relativo coinvolgimento

emotivo nei confronti di un altro individuo, distaccandolo da esso e intraprendendo un

percorso in cui eros è diretto verso oggetti via via sempre meno fisici e più generali.

Un altro aspetto importante del discorso di Erissimaco è la nozione di eros come

flusso. Benché Platone nel Simposio non si esprima in questi termini, è da ricordare a

questo proposito l'interpretazione dell'eros platonico come flusso del desiderio, proposta da

F . M. Cornford in un suo importante saggio28. Si tratta di un'interpretazione che è stata

ripresa da vari studiosi e di cui ci serviremo ampiamente più avanti per gettare luce sulla

connessione tra eros, educazione e dialettica in Platone, ma è il caso di notare già qui che

nel discorso di Erissimaco è possibile individuare un primo accenno a tale

caratterizzazione di eros.

Per tornare ai discorsi pronunciati in elogio dell'amore, vediamo che al medico

Erissimaco segue il poeta comico Aristofane (Symp. 189a-193e), nel cui discorso è

contenuto quello che è divenuto uno dei passi più celebri del Simposio, ovvero

l'esposizione del “mito dell'androgino” (Symp. 189d-193a). Aristofane ricorre a questo

racconto per spiegare la genesi di eros, narrando che l'umanità era originariamente divisa

in tre specie: uomo, donna e androgino. Ognuno di essi possedeva un corpo rotondo con

due braccia, due gambe e due volti rivolti in direzioni opposte. Ad un certo punto queste

28 F. M. Cornford, The Doctrine of Eros in Plato's 'Symposium' , in F. M. Cornford, The unwritten


philosophy and other essays, Cambrigde, University Press, 1967 (1937).

43
creature, ambiziose e dotate di grande forza, iniziarono a cospirare contro gli dei per

prenderne il posto, così Zeus decise di tagliarle a metà al fine di renderle più vulnerabili.

Una volta separati, questi esseri cominciarono a cercare la propria metà perduta, senza

darsi pace fino a che non l'avessero trovata, e soffrendo terribilmente per l'impossibilità di

potervisi riunire. Così Zeus, impietosito, avrebbe spostato i genitali in modo tale che fosse

per loro possibile unirsi di nuovo, dando così vita alla natura umana attuale.

Il mito di Aristofane ha l'intento di spiegare l'origine dell'amore omosessuale e

eterosessuale a partire dal desiderio di ricomposizione dell'originaria unità perduta.

Secondo il mito, l'amore omossessuale deriva dalla riunificazione delle creature che in

origine erano costituite dall'insieme di due uomini o due donne, mentre l'amore

eterosessuale discende dall'androgino che, per metà donna e per metà uomo, ricerca il

proprio corrispondente in una metà di genere opposto. Sulla base di tale storia, Aristofane

offre l'importante tesi per cui eros è desiderio di interezza, bisogno di riappropriarsi di ciò

di cui si è privi.

Questa riflessione anticipa un'affermazione che lo stesso Socrate pronuncerà in

seguito, definendo eros come amore di ciò di cui si è mancanti (Symp. 200e). Questa

riflessione emerge nel momento del dialogo in cui Socrate sta confutando la tesi sostenuta

dal poeta Agatone, l'ultimo dei partecipanti al simposio a pronunciare il suo elogio nei

confronti di eros. Prima di approfondirla vediamo nel dettaglio quest'ultimo discorso.

Agatone, la cui vittoria nell'agone tragico è all'origine dell'organizzazione del

banchetto, sostiene la necessità di definire eros prima di passare ad elogiarlo (Symp. 194d-

195a). Si tratta di un atteggiamento che, dal punto di vista metodologico, Socrate approva,

in quanto soddisfa l'esigenza di dare priorità, all'interno di una argomentazione, alla

definizione di ciò di cui si va a parlare (Symp. 199c; Fedro 237c). Agatone definisce,

44
dunque, eros il più beato, il più bello ed il più insigne fra gli dei (Symp. 195a),

aggiungendo che è giovane, in quanto rifugge la vecchiaia e si «accompagna sempre ai

giovani» (Symp. 195b) e tenero, poiché si muove tra le cose più tenere, ovvero tra le anime

degli uomini, e in particolare, ancora, tra di esse si insedia in quelle dal carattere più tenero

(Symp. 195e). Descrive poi le virtù di cui si costituisce la natura di eros, ossia la giustizia,

la temperanza, il coraggio e la sapienza. La giustizia di eros si ravvisa nel comportamento

non violento con cui opera, la sua temperanza nella capacità di dominare desideri e piaceri,

mentre la sua sapienza consiste nella poesia e nella creatività. Agatone, da letterato quale è,

sottolinea proprio la capacità di eros di rendere poeti gli uomini e lo definisce «creatore

valente in ogni creazione che attiene alle Muse» (Symp. 196e): è sotto il suo influsso,

infatti, che sono state inventate le arti e la poesia. Su questa scia Agatone accenna al ruolo

decisivo dell'amore nella procreazione, nella nascita e nella crescita di tutti gli esseri

viventi, anticipando così una delle questioni che Socrate affronterà prendendo la parola

subito dopo di lui.

Infine, il poeta afferma che eros è quel dio che possiede la capacità di ristabilire la

pace e l'amicizia, ma soprattutto afferma che esso possiede una natura fluida che gli

permette di entrare e di uscire di nascosto dall'anima (Symp. 196a). Questo riferimento alla

sua fluidità è, insieme alla definizione di eros data da Erissimaco, un altro accenno

significativo alla teoria platonica di eros come flusso del desiderio.

4. Il discorso di Socrate

Come abbiamo già accennato, nel confutare la tesi di Agatone Socrate riprende uno

spunto di Aristofane, affermando che «Amore è in primo luogo amore di qualcosa, e in

45
secondo luogo amore di ciò di cui si ha mancanza» (Symp. 200e). Quando proviamo un

desiderio, infatti, proviamo necessariamente desiderio di qualcosa, e questo qualcosa, per

essere desiderato, dev'essere un oggetto che ancora non possediamo. L'unico modo in cui

possiamo desiderare qualcosa che già possediamo è il desiderio di continuare a possedere

quel medesimo oggetto nel tempo, cioè possederlo per sempre, e vedremo tra poco che

Socrate rifletterà sulla questione per cui questo “per sempre” si sposa male con la natura

mortale dell'essere umano.

Con un breve “botta e risposta” Agatone e Socrate hanno quindi concordato che eros

è desiderio di qualcosa che non si possiede, e sulla base di questo Socrate può subito

dimostrare ad Agatone che eros non è né buono né bello (Symp. 201c), come invece lui

aveva sostenuto, perché non potrebbe altrimenti essere né desiderio di possedere il bene, né

desiderio nei confronti della bellezza. Agatone non riesce a controbattere a queste

affermazioni di Socrate, e, dopo essere stato così confutato lascia la parola a Socrate, che a

sua volta introduce la figura di Diotima, la sacerdotessa che lo avrebbe iniziato alle

questioni d'amore, ricordando che gli argomenti che ha utilizzato per confutare Agatone

sono gli stessi che la sacerdotessa ha utilizzato un tempo nei suoi confronti, dopo che

Socrate stesso aveva pronunciato a proposito di eros un discorso più o meno simile a

quello di Agatone. Diotima è una sacerdotessa di Mantinea la cui esistenza è molto

probabilmente fittizia, una figura nata dalla penna di Platone per rivestire il ruolo di

un'autorità superiore come portavoce della propria teoria. Essendo una profetessa, infatti, è

possibile attribuirle un tipo di saggezza divina. È dalla conversazione avuta con Diotima

riportata da Socrate, che emerge la teoria platonica dell'amore.

La confutazione di Diotima fa perno sull'affermazione che eros non è né buono né

bello. Tuttavia, la sacerdotessa corregge Socrate quando replica che eros sarebbe allora

46
brutto e cattivo, rivelandogli che si tratta di una figura intermedia. Egli non è un dio, come

il filosofo pensava, ma un demone, un essere dotato di una natura sia umana che divina

(Symp. 202e). Questa natura demonica gli permette di situarsi in una posizione intermedia

tra uomini e dei, con la particolare funzione

di interprete e di messaggero degli uomini agli dei e dagli dei agli uomini: trasmette le preghiere
e i sacrifici degli uni, e da parte degli altri i comandi e la restituzione di favori per i sacrifici
ricevuti; e poiché sta nel mezzo fra dei e uomini, colma lo spazio intermedio in modo che l'insieme
resti saldamente connesso in tutte le sue parti. Nella sfera del demonico si svolge tutta la pratica
divinatoria e l'arte dei sacerdoti in relazione ai sacrifici e alle iniziazioni e agli incantesimi e a ogni
genere di profezie e di magia. Gli dei non hanno contatti con gli uomini, ma attraverso il demonico
si realizza ogni rapporto e ogni colloquio degli dei con gli uomini, desti o addormentati. […] Di
questi dèmoni ce ne sono molti e svariati, e Amore è uno di essi (Symp. 202e-203a).

La funzione di intermediario di eros emergerà più specificamente più avanti, quando

verranno delineate le tappe dell'ascesa che può condurre il filosofo dal mondo terreno a

quello ideale: eros è proprio ciò che favorisce via via il progredire dell'iniziato in questo

percorso. Inoltre, eros è metaforicamente accostato proprio alla figura del filosofo:

anch'egli si trova in una situazione intermedia tra la sapienza e l'ignoranza, sempre

desideroso di saggezza, il cui pieno possesso è però qualcosa di riservato esclusivamente

agli dei. In questo senso il filosofo si trova in una continua tensione verso il

raggiungimento di una condizione sempre più perfetta, che, tuttavia, non può raggiungere.

Per spiegare ancora meglio la natura di eros, Platone ricorre ad una narrazione mitica

della sua discendenza: egli venne concepito durante il banchetto organizzato per

festeggiare la nascita di Afrodite grazie all'unione tra Por o, il cui nome sta per

“espediente” o “ingegno”, e Penia, che indica “povertà”. Tale unione è avvenuta per

volontà di Penia, che, vedendo Poro addormentato sul prato, ubriaco per aver bevuto

47
troppo nettare, ne approfittò per distendersi accanto a lui e concepire eros. Il fatto che eros

sia stato concepito il giorno della nascita di Afrodite spiega perché sia ritenuto un suo

seguace, e la bellezza di Afrodite è considerata ciò che rende eros “amante del bello”.

Vediamo anche che eros eredita dai genitori delle precise caratteristiche:

Perciò, in quanto figlio di Poro e Penia, Amore si trova in questa condizione: in primo luogo è
sempre povero e tutt'altro che tenero e bello, come invece ritengono i più, anzi è aspro, incolto,
sempre scalzo e senza casa, e si sdraia sulla terra nuda, dormendo all'aperto davanti alle porte e per
le strade secondo la natura di sua madre, e sempre accompagnato dall'indigenza, invece per parte di
padre insidia i belli e i virtuosi, in quanto è coraggioso e ardito e veemente, e cacciatore astuto,
sempre pronto a tessere intrighi, avido di sapienza, ricco di risorse, e per tutta la vita innamorato
del sapere, mago ingegnoso e incantatore e sofista; e non è nato né immortale né mortale […] non è
mai né povero né ricco, e d'altra parte sta in mezzo fra la sapienza e l'ignoranza (Symp. 203c-e).

Vediamo così che da Poro eros ottiene l'intelligenza e da Penia uno stato

connaturato di mancanza: una mancanza che abbiamo visto essere all'origine del desiderio

erotico sia per Aristofane che per Socrate.

La tesi di Aristofane, oltre ad essere ripresa, è però anche confutata:

E c'è chi dice che coloro che amano vanno in cerca della metà di se stessi; ma io dico che
l'amore non è amore né della parte né dell'intero, nel caso che, amico mio, non sia effettivamente
un bene, dato che gli uomini si lasciano tagliare volentieri e piedi e mani, se si avvedono che le loro
membra sono mal ridotte. Non ciò che gli è proprio, credo, ognuno ama, a meno che uno non
definisca il bene come “proprio” e “personale”, e il male come “estraneo”. In realtà gli uomini non
amano che il bene (Symp. 205d-206a).

Identificare eros come desiderio di completezza non esaurisce il modo in cui gli

individui amano, non è qualcosa di universale: capita che si decida di rinunciare a parti del

proprio corpo perché malate e dannose per noi, andando contro il desiderio di interezza, di

48
completezza. In un'acuta analisi di questo passo Fussi sottolinea che queste considerazioni

rimandano alla distinzione tra il desiderare qualcosa sulla base del piacere che si pensa di

trarne o del dolore da cui ci si crede di poter liberare, e il volere qualcosa perché lo

riteniamo un bene29. Si tratta di una distinzione strettamente legata alla tripartizione

dell'anima che peraltro nel Simposio non viene ancora teorizzata in maniera chiara e

completa. Piuttosto va fatto riferimento ad un passo del Gorgia in cui si sostiene che la

maggior parte della gente, di fronte alla scelta tra un medico che propone cure dolorose ma

benefiche e un cuoco che propone cibi appetitosi ma dannosi, non sarebbe pronta a

scegliere la prima alternativa (Gorg. 465b-d). Questo mostra un conflitto tra una parte

dell'anima, l'epithymia (che ci occuperemo più avanti di descrivere nel dettaglio), che

ritiene essere un bene qualunque oggetto si trova a desiderare, e il logistikon, la parte

razionale, che invece è in grado di discernere che cosa sia realmente bene e perseguirlo.

Riguardo alla maggior parte degli uomini Aristofane probabilmente non aveva del tutto

torto a definire eros come desiderio di completezza, ma l'argomentazione di Socrate mostra

che la sua definizione non copre tutti i casi di eros30.

Per Platone, il ricongiungimento con ciò che ci manca avviene con la conquista della

verità, con la contemplazione delle Idee, che, una volta raggiunta, consente di agire

secondo virtù e saggezza. L. A. Kosman ha approfondito questo aspetto, sottolineando che

possiamo vedere “ciò di cui si è carenti” come la nostra vera natura, il nostro vero sé. Dalla

riflessione dello studioso emerge che la spinta erotica che caratterizza gli esseri umani non

è altro che il desiderio che ogni cosa diventi ciò che è: “il mio sé è quel che sono, ma che

allo stesso tempo non sono, è ciò che aspiro a diventare”31. Kosman fa notare che il nostro

29 Cfr. A. Fussi, Tempo, desiderio, generazione. Diotima e Aristofane nel Simposio di Platone, in Rivista di
storia della Filosofia, 2008, p. 14.
30 Cfr. ivi, p. 15.
31 Cfr. L. A. Kosman, Platonic Love, in W. H. Werkmeister (ed.) Facets of Plato's philosophy, Van

49
non essere il nostro vero sé è causato dalla caduta nel mondo, dalla separazione tra realtà e

apparenza, tra mondo delle Idee e mondo delle manifestazioni sensibili. Seguendo questo

ragionamento siamo invitati a riconoscere eros come quella spinta divina che ci volge in

direzione della nostra vera natura che, a causa della nostra costituzione umana, ci è in

qualche modo lontana, non ci appartiene più pienamente. Inoltre, noi cerchiamo di ottenere

ciò di cui siamo carenti, tanto quanto invitiamo l'altro a fare lo stesso: eros è ciò con cui

vediamo l'altro non solo per come è, ma per ciò che può essere, e lo invitiamo a prendersi

cura di sé.

Questa interpretazione richiama alla mente il passo dell'Alcibiade I in cui Socrate

spiega ad Alcibiade che, se desidera che egli lo ami e resti al suo fianco, occorre che si

occupi di sé e che sia il più bello possibile nella sua anima 32. Abbiamo visto l'importanza, a

questo scopo, della volontà di Socrate di intraprendere un percorso di crescita insieme ad

Alcibiade. Possiamo vedere l'esortazione a “prendersi cura della propria anima” come un

invito a recuperare la dimensione più autentica della propria anima. Molto probabilmente

Platone ha accolto nella sua filosofia questo aspetto di collegamento dell'eros con la verità,

identificando la funzione più propria dell'amore proprio nella mediazione tra mondo

sensibile e mondo ideale, in cui la contemplazione di quest'ultimo non sarebbe altro che il

conoscere o, come potremmo dire alla luce della teoria della anamnesi presente nel Fedro

di cui ci occuperemo nel prossimo capitolo, un “riconoscere” quella dimensione

corrispondente alla vera natura della nostra anima e di ciò che siamo.

5. Eros come generazione

Gorcum, Assen/Amsterdam, 1976, p. 60.


32 Vedi supra, p. 22.

50
Questa conquista della verità da parte dell'anima, che si ottiene grazie ad eros, viene

accostata nel Simposio alla generazione: un aspetto di eros che già Agatone aveva

accennato33. Socrate sostiene che, desiderando di possedere il bene “per sempre” gli

uomini di fatto desiderano l'immortalità (Symp. 207a) ed è evidente che per gli esseri

umani, data la loro condizione mortale, raggiungere l'immortalità non è possibile, se non

lasciando tracce di sé, attraverso una qualche forma di generazione (Symp. 207d).

Si può vedere qui anche una ripresa del discorso di Fedro, poiché un modo in cui gli

uomini possono cercare di ottenere l'immortalità è la fama, conquistare l'onore e fare in

modo che di tale onore resti memoria il più a lungo possibile: questo è quello che ha mosso

all'azione Achille quando ha deciso di sacrificare la sua vita per Patroclo. Diotima

interpreta gli esempi di sacrificio per amore presentati da Fedro come tentativi di ottenere

l'immortalità mediante l'esecuzione di atti gloriosi. Ne sottolinea l'irrazionalità spiegando

come gli uomini ambiziosi «sono investiti dalla veemente passione di diventare celebri e di

lasciare gloria immortale per l'infinito avvenire, e per questo sono pronti ad affrontare

qualsiasi pericolo ancor più che per i figli, e a dilapidare i propri beni e a sopportare

qualunque fatica e a morire a questo fine» (Symp. 208c-d). Fussi34 fa notare, richiamando la

trattazione dell'Etica Nicomachea (E.N. I, 1095b 22-30), di Aristotele, che l'onore, la fama,

il riconoscimento sociale che qui si ricercano sono cose che dipendono da qualcun altro a

cui viene delegato il potere di stabilire se siamo o meno in possesso di certe qualità. È

qualcosa che poggia sull'opinione, sull'apparenza, e questa è la ragione per cui Platone non

parlerà di questo tipo di amore quando fa esporre a Diotima la sua dottrina erotica, che,

33 Vedi supra, p. 18.


34 Cfr. Fussi, The desire for recognition in Plato's Symposium, cit., pp. 251-252.

51
come vedremo più avanti, è caratterizzata da un progressivo distacco dall'apparenza

sensibile e da un legame sempre più stretto con la verità ideale.

Per tornare al discorso di Socrate, dopo aver ripreso le parole di Fedro vengono

distinti due tipi di generazione: una che si ottiene tramite i figli e l'altra conquistabile con la

virtù. La prima è legata alla dimensione corporea, mentre la seconda è legata alla sfera

dell'anima:

Dal momento che l'amore consiste sempre in questo […] questa attività consiste nel partorire in
bellezza sia nel corpo sia nell'anima. […] Tutti gli uomini, o Socrate, concepiscono e nel corpo e
nell'anima, e una volta che siano giunti a una determinata età, la nostra natura desidera partorire
(Symp. 206b-c).

Questa riflessione non può non riportare alla mente la “maieutica” socratica, che era

la tecnica che Socrate nel Teeteto dice di utilizzare per portare alla luce la verità che ritiene

già presente nell'anima dell'interlocutore: ne abbiamo visto un esempio pratico nel primo

capitolo, in particolare quando abbiamo descritto nell'Alcibiade I la cosiddetta pars

construens del metodo socratico35. Se la confutazione costituisce il procedimento attraverso

il quale Socrate conduce il suo interlocutore alla consapevolezza della propria ignoranza o

della falsità delle sue opinioni, l'arte maieutica è quella che permette al filosofo di far

scoprire ai suoi interlocutori verità preziose che essi non erano consapevoli di possedere

già.

N e l Teeteto Socrate afferma: «il dio mi costringe a fare da levatrice, ma mi ha

proibito di generare» (Theaet. 150 c), e poco prima aveva detto in riferimento ai suoi

allievi: «da me non hanno imparato mai nulla, ma da loro stessi scoprono e generano molte

35 Vedi supra, pp. 17-19.

52
cose belle» (Theaet. 149a). Ricordando come sua madre Fenarete fosse un'abile e stimata

levatrice, Socrate rivendica l'ascendenza divina dell'arte di entrambi, «ricevuta in dono da

un dio: lei per le donne, io per i giovani nobili e per quanti sono virtuosi» (Theaet. 210 c-

d). Ritroviamo nel Simposio questa distinzione tra la generazione che avviene attraverso i

corpi e quella riguardante le anime. Anche in questa riflessione, possiamo pensare che

Platone sia debitore al pensiero e alla pratica filosofica del maestro, e possiamo leggervi il

tentativo di integrare questo dato nel proprio quadro concettuale, in cui istituisce una

connessione decisiva tra generazione e contemplazione delle Idee: questa diviene ancor più

evidente nel Fedro, in cui si afferma che il raggiungimento del mondo delle Idee può

avvenire attraverso l'anamnesi, che consiste nel portare alla luce qualcosa che è già

presente dentro la propria anima36.

Nel Simposio si afferma prima di tutto che c'è uno stretto legame tra la generazione e

la bellezza:

la nostra anima desidera partorire; però non può partorire nel brutto, ma solo nel bello. E
l'unione di un uomo e di una donna è il partorire. Questa è cosa divina, e negli esseri mortali è cosa
immortale il concepire e il generare, che d'altra parte non possono realizzarsi nella disarmonia. E il
brutto è in disarmonia, il bello in armonia con tutto ciò che è divino. Dunque per la generazione
Bellezza è Moira e Ilitia. Di conseguenza quando ciò che è pregno si accosta al bello, diventa lieto
e per la gioia va in deliquio e partorisce e genera; quando invece si accosta al brutto, si fa torvo e
per il dolore si contrae e ne è respinto e torna indietro e non genera, ma soffre di dover trattenere il
feto. Pertanto l'essere pregno e ormai turgido è colto da grande eccitazione alla vista del bello,
poiché il bello libera chi lo possiede da una doglia immensa (Symp. 206c-d).

Il ruolo decisivo della bellezza è uno dei punti centrali della teoria erotica di Platone:

poiché la bellezza è in armonia con tutto ciò che è divino, permette che avvenga la

36 Vedi infra, pp. 81-82.

53
generazione, come desiderio di immortalità, che è per l'appunto, qualcosa di

esclusivamente divino. Vedremo tra poco che la scala amoris, ovvero il percorso d'amore

che il filosofo può compiere per raggiungere il mondo delle Idee, vedrà in ogni sua tappa

come elemento di progresso imprenscindibile proprio la bellezza. Il passo che abbiamo

riportato è immediatamente seguito da un chiarimento: Diotima precisa che l'amore non è

“amore del bello”, come credeva Socrate, bensì amore “della generazione e del partorire

nel bello” (Symp. 206e). Non resta che specificare che cosa accada di preciso quando ha

luogo la generazione. Un individuo che sia gravido spiritualmente

qualora incontri un'anima e bella e nobile e bennata, agogna intensamente e l'anima e il corpo e
subito con questo individuo si profonde in discorsi sulla virtù e su come debba essere un uomo
virtuoso e quali attività debba praticare, e si sforza di educarlo. Infatti, credo, venendo a contatto
con chi è bello e frequentandolo, partorisce e genera ciò di cui era pregno da tempo, e che sia
presente o lontano, lo ha sempre in mente e alleva il generato insieme con lui, al punto che simili
persone hanno fra loro una comunanza molto maggiore che se fosse comunanza di figli, e un
affetto molto più saldo, dal momento che hanno avuto in comune figli più belli e più immortali
(Symp. 208e-209c).

In questo passo Socrate parla dell'amore tra due anime “simili”, che condividono lo

stesso desiderio di divenire virtuose, e che trovano nella relazione erotica la possibilità di

realizzare il loro desiderio. Platone presenta una relazione idealizzata fra amante e amato

simile a quello che Socrate instaura con i suoi allievi: si tratta di una relazione in cui

l'oggetto dell'amore è l'anima piuttosto che il corpo, e in cui entrambi gli individui

coinvolti condividono la ricerca della virtù. In Platone però, come abbiamo già accennato a

proposito del discorso di Erissimaco,37 vi è un aspetto di de-individualizzazione dell'eros

37 Vedi supra, p. 42.

54
che lo distingue da quello socratico, per cui l'amore che caratterizza la relazione erotica tra

due individui risulta essere manifestazione particolare di un eros più generale:

in generale ogni desiderio del bene e della felicità si identifica per chiunque nel sommo e astuto
amore; ma di coloro che lo cercano per molteplici sentieri, attraverso gli affari o la ginnastica o la
filosofia, non si dice né che amano né che sono amati; coloro invece che tendono e si appassionano
a una certa forma particolare prendono il nome dell'intero, amore e amati e amanti (Symp. 205d).

Eros non si realizza esclusivamente nel sentimento presente tra i due individui

coinvolti in una relazione d'amore, ma è una forza desiderativa che può indirizzare

l'individuo per molteplici e distinte vie. La questione erotica in Platone si fa così più

profonda e complessa rispetto alla dottrina socratica, che si muoveva interamente sul piano

umano. L'eros di cui Platone parla nella scala amoris mostra subito aspetti di distinzione

rispetto a quello socratico: è una forza propulsiva che spinge e poi accompagna

l'innamorato lungo un percorso che lo conduce alla sapienza, agendo come una corrente

desiderativa che può essere variamente canalizzata all'interno dell'anima e che possiede la

capacità di elevarla dal mondo sensibile a quello ideale, dove potrà attingere alla verità

(Symp. 212b), e raggiungere quella sfera di esistenza che è l'unica in cui «la vita è per

l'uomo degna di essere vissuta» (Symp. 211d).

6. L'ascesa del filosofo tra emotività, creatività e razionalità

L'ascesa del filosofo proposta nel Simposio è costituita da passaggi, gradini, tappe in

cui l'individuo prova amore per la bellezza di oggetti sempre più astratti, sempre più

lontani dalla dimensione fisica, fino a giungere ad un'ultima tappa in cui, come vedremo, la

dimensione emotiva che caratterizza il sentimento amoroso non è più chiamata in causa e

55
cede del tutto alla ragione. A questo proposito potremmo parlare di una “purificazione

dell'impulso erotico”38 e, adottando il modello proposto da Cornford nel suo lavoro già

citato, possiamo dire che eros come flusso del desiderio finisce per essere canalizzato

prevalentemente verso la razionalità.

Questa interpretazione, secondo la quale eros non è più visto solamente come

sentimento, ovvero come qualcosa che appartiene alla dimensione emotiva dell'individuo,

ma come una corrente di energia che può essere variamente direzionata fra emotività e

ragione, è effettivamente una chiave interpretativa utile per la comprensione della scala

amoris.

Socrate dice, per l'appunto, che per giungere alla meta ultima è necessario che il

filosofo sia abbastanza “irrobustito e cresciuto” (Symp. 210 d). In questa espressione

possiamo leggere la necessità che il flusso di eros sia canalizzato il più possibile verso

realtà ideali, rinforzando e apportando energia a quella facoltà dell'anima che possiede

appunto la capacità di scorgere il Bello ideale. Benché nel Simposio non si parli della

struttura interna dell'anima e della possibilità di individuare al suo interno parti o aspetti a

cui attribuire distinte funzioni, come avviene invece nel Fedro e nella Repubblica,

vedremo che durante l'ascesa al mondo ideale entrano in gioco diversi fattori che è

possibile distinguere.

Prima di entrare nello specifico del percorso di iniziazione all'amore, occorre

precisare che non si tratta di un percorso che tutti, indifferentemente, possono

intraprendere. Wolfgang Detel 39 mette in luce la distanza, dal punto di vista

epistemologico, fra chi lo percorre e chi non lo fa, osservando che possiamo distinguere

38 Sassi, Eros come energia psichica, in Interiorità e anima, a cura di Migliori, Napolitano Valditara,
Fermani, V&P, Milano, 2007, p. 291.
39 Cfr. W. Detel, Eros and knowledge in Plato's Symposium, in Franz Steiner Verlag Stuttgart (a cura di),
Ideal and Culture of Knowledge in Plato, 2003, pp. 90-93.

56
due meta-stati erotici che caratterizzano le diverse tipologie di amanti: l'eros che

caratterizza chi non intraprende l'ascesa può essere descritto come quello di chi prova

esclusivamente un desiderio fisico, senza sviluppare un apprezzamento estetico, per così

dire, della bellezza dell'altro. Non si trovano in questo stato solo coloro che, di fronte ad un

individuo che suscita loro desiderio fisico, non sono interessati a niente di più che

soddisfare fisicamente tale desiderio, ma anche coloro che amano gli onori e la fama: tutti,

allo stesso modo, non sanno e non riescono a raggiungere la consapevolezza che ci sono

ulteriori possibili stadi erotici. Per intraprendere l'ascesa, infatti, occorre avere una qualche

consapevolezza che c'è la possibilità di progredire, di sviluppare il proprio sentimento

erotico, elevarlo e sublimarlo avvicinandolo sempre più ad una dimensione divina.

Il primo passo, quindi, affinché l'ascesa sia intrapresa è costituito dalla

trasformazione del desiderio erotico in contemplazione per la bellezza della persona amata,

e in questo passaggio è indubbiamente presente un primo distacco di eros dalla dimensione

fisica.

Ad ogni gradino vengono introdotti oggetti d'amore sempre più lontani dalla sfera

sensibile, di modo che il filosofo si trova di fronte a tappe che si succedono

gerarchicamente e corrispondono a diverse modalità di espressione di eros.

Il passaggio da una tappa all'altra è favorita dall'intervento di tre diversi fattori, come

ha notato J. M. E. Moravcsik in un'acuta lettura della scala amoris: uno è la componente

emotiva che caratterizza il sentimento erotico, quello che è comunemente chiamato

“amore”, ma che abbiamo visto non esaurire il concetto di eros platonico, un'altro è la

ragione, grazie alla quale si ottengono di volta in volta importanti conquiste cognitive, e

l'ultimo è la creatività, che si esprime per lo più nella creazione di discorsi capaci di

predisporre l'anima in direzione di nuove consapevolezze.

57
Diotima, dopo aver detto a Socrate che difficilmente da solo sarebbe in grado di

“percorrere i gradini della visione suprema”, lo invita a seguirlo nella sua descrizione della

scala amoris, all'inizio della quale

chi si dirige per la retta via, deve amare un determinato corpo e in esso generare discorsi belli e
poi riconoscere che il bello di ciascun corpo è fratello al bello di un altro corpo, e quando si deve
andare a caccia di ciò che è bello in apparenza, sarebbe troppo sciocco non ritenere che unica e
indifferenziata è la bellezza che alberga in tutti i corpi (Symp. 210a-210b).

L'ascesa prende inizio con l'amore che un individuo dirige nei confronti di un altro,

dal cui corpo è attratto. Ci troviamo quindi, inizialmente, su di un piano fisico, ma, come

abbiamo accennato, segue subito un certo distanziamento da tale dimensione corporea

attraverso il riconoscimento della bellezza estetica dell'amato. Avviene già su questo

livello un atto creativo, che consiste nella generazione di discorsi belli. Non viene

specificato il carattere dei discorsi che vengono creati, ma si pensa, anche sulla base del

fatto che qualche riga prima sono stati nominati Omero ed Esiodo, che possa trattarsi di

composizioni poetiche ispirate dalla bellezza dell'amato. È possibile individuare

un'anticipazione di questo aspetto nel discorso che era stato pronunciato dal poeta Agatone,

che aveva proprio sottolineato la capacità di eros di rendere poeti gli uomini 40. Tuttavia

Agatone non aveva fatto riferimento alla bellezza come fattore decisivo per la creazione,

mentre abbiamo visto che Socrate sottolinea abbondantemente, nella prima parte del suo

discorso, il legame tra la bellezza e ogni tipo di generazione. Senza dubbio, i discorsi che

vengono creati sono discorsi in grado di favorire un progresso, un avanzamento nel

percorso del filosofo, una conquista cognitiva che permetta all'anima di elevarsi. Già in

40 Vedi supra, p. 45.

58
questo passo possiamo vedere che viene raggiunta una nuova consapevolezza: si riconosce

che la bellezza di un singolo corpo “è sorella” di quella di ogni altro corpo bello. Questa

importante conquista, che avviene attraverso l'attività della ragione, fa sì che l'eros inteso

come sentimento provato nei confronti di un individuo subisca un qualche mutamento, se

non altro nel proprio orizzonte di riferimento, in quanto viene sciolto dal legame con ciò

che è puramente corporeo, e con una prima forma di “sublimazione”, si dirige “verso

l'alto”, trascinando con sé l'anima.

Con questo passaggio l'amante può ascendere al gradino successivo, tappa in cui

diviene capace di vedere la bellezza come qualcosa di “intellettuale”:

E quando uno se ne sia reso conto, bisogna far sì che si innamori di tutti i corpi belli, e che
allenti la veemente passione per uno solo, giungendo a disprezzarla e a considerarla meschina, e
poi prenda a stimare la bellezza che è nelle anime come più preziosa di quella che è nei corpi, di
modo che, se l'altro è eccellente nell'anima ma possiede un ben modesto fiore di bellezza, sia
contento di lui e lo ami e ne abbia cura ricercando e partorendo discorsi capaci di rendere migliori i
giovani, affinché in seguito egli sia costretto a contemplare il bello che è nelle istituzioni e nelle
leggi e ad avvedersi che la bellezza in ogni sua parte nata da un solo parto (Symp. 210b-210c).

L'amore che prima era diretto verso la bellezza di un solo corpo, adesso è rivolto alla

bellezza che accomuna tutti i corpi belli, ritenuta superiore alla precedente, tanto che quella

viene “disprezzata” e considerata “meschina”. A questo punto l'individuo si può ritenere

abbastanza allenato da essere capace di spostare la sua attenzione dalla bellezza dei corpi a

quella dell'anima, con un passaggio accompagnato ancora una volta dal riconoscimento

della superiorità di questo tipo di bellezza rispetto a quella che veniva apprezzata

precedentemente. I giudizi negativi che l'anima formula via via in riferimento alle tappe

precedenti mostrano il carattere gerarchico dell'ascesa, che prevede un progresso da

qualcosa di più “basso” a qualcosa di più “alto” anche da un punto di vista del valore e

59
della nobiltà della modalità con cui eros si esprime.

Nell'ultimo passo citato si parla nuovamente di creazione di discorsi, ma questa volta

viene specificato che sono discorsi capaci di rendere migliori i giovani: possiamo pensare

che si tratti di discorsi con enfasi morale, o semplicemente intellettuali e confutatori, volti a

migliorare l'anima. Alla luce dello stretto legame tra elenchos socratico, emozioni e

miglioramento dell'anima, di cui si è parlato anche in relazione al rapporto tra Socrate ed

Alcibiade, viene spontaneo pensare che anche in questa formulazione teorica Platone sia

debitore nei confronti del maestro e della sua pratica filosofica. Qualcosa di simile a ciò

che accadeva con l'elenchos socratico, infatti, sembra accadere anche qui: i discorsi hanno

come conseguenza un miglioramento dell'anima che permette all'individuo di progredire

ancora nell'ascesa, dirigendo il proprio amore verso oggetti via via più staccati dal

sensibile. Una volta compiuto questo passo, emerge ancora una volta un tipo diverso di

consapevolezza, una conquista cognitiva che consiste nel cogliere l'unità della bellezza

propria delle istituzioni e delle leggi.

Alla luce di queste prime tappe dell'ascesa vediamo che Platone ripropone due volte

lo stesso schema: l'individuo prova prima di tutto “amore”, inteso come attrazione verso un

qualche oggetto, che è di fatto una forza, un impulso che egli avverte a livello emotivo.

Alla contemplazione dell'oggetto d'amore segue puntualmente un atto creativo, una

produzione di discorsi che apre ad una conquista cognitiva decisiva affinché l'individuo

progredisca nella scala erotica. Sono tali chiarimenti cognitivi a conferire una maggiore

conoscenza e consapevolezza riguardo agli oggetti per cui l'individuo provava attrazione.

Dopo aver notato che si potrebbe pensare, sulla base di questo, che eros non sia in

grado di valutare gli oggetti a cui si rivolge, come se fosse una qualche cieca passione,

Moravcsik avverte che, in realtà, l'amore non viene indirizzato di volta in volta verso nuovi

60
e diversi oggetti in modo casuale, ma tiene in qualche modo conto della loro natura, ovvero

ne possiede qualche tipo di conoscenza che permette di avviare il successivo processo

intellettuale41. Questa riflessione si connette facilmente a quegli studi che si sono occupati

di indagare il “contenuto cognitivo delle emozioni”, cioè l'aspetto delle credenze

valutative, dei giudizi di valore, che le emozioni portano con sé 42. Ritorneremo su questo

punto quando ci occuperemo dell'educazione nella Repubblica, dialogo in cui, grazie

all'esplicita esposizione della dottrina della tripartizione dell'anima, potremo analizzare in

modo più completo il rapporto tra emozioni e razionalità configurato da Platone.

Per tornare alla scala amoris, resta da considerare l'ultimo livello dell'ascesa, quello

c h e conduce l'individuo alla sua meta ultima e che, a differenza dei precedenti, non

prevede più tappe emotive: lo spostamento della contemplazione verso la bellezza di

oggetti sempre più astratti avviene ancora una volta grazie ad un atto creativo, ma questo

non segue la scia dell'emotività, quanto piuttosto quella della ragione.

E dopo le istituzioni essa lo conduca alle scienze, perché ora veda la bellezza delle scienze, e
guardando a un bello ormai molteplice, non sia più un individuo gretto e meschino che servendo
presso un solo padrone, come uno schiavo, agogna la bellezza di un fanciulletto o comunque di un
solo individuo o di una sola istituzione, ma rivolto ormai al grande mare del bello, partorisca in
virtù della speculazione molti e belli e magnifici discorsi e pensieri in un illimitato desiderio di
conoscenza finché, irrobustito e cresciuto in questa sfera, penetri in un'unica scienza siffatta, la
quale è scienza di un siffatto bello (Symp. 210c-d).

Questo passo mostra la più alta “sublimazione” di eros, che, pur essendo partito dalla

dimensione corporea, approda ad un livello in cui di corporeo non compare più niente. ll

41 Cfr. J. M. Moravcsik, Reason and Eros in the “Ascent”-Passage of the Symposium, in J. P. Anton – G. L.
Kustas, Essays in Ancient Greek Philosophy, State Univ. of New York Press, Albany, 1971, p. 294.
42 Vedi infra, pp. 115-117.

61
passaggio dalla contemplazione delle istituzioni a quella della bellezza delle scienze,

infatti, non prevede l'emotività: la produzione di discorsi che accompagna, ancora una

volta, l'ascesa verso l'alto, è frutto di un atto esclusivo della ragione. Dalla contemplazione

della bellezza delle scienze scaturisce la conquista cognitiva per cui si comprende, a livello

razionale, l'unità della bellezza di tutte le scienze, e i discorsi che vengono generati hanno a

che fare con un “illimitato desiderio di conoscenza”. Siamo così portati a pensare che il

prodotto di tale atto creativo coincida con la filosofia, dato anche che Platone afferma

spesso che in essa consiste l'attività più propria ed esclusiva della ragione.

Siamo giunti così al culmine dell'ascesa, dove finalmente l'individuo raggiunge la sua

meta ultima, la contemplazione delle Idee:

Colui che sia stato educato fino a questo punto nell'amore, contemplando le cose belle una dopo
l'altra secondo la retta via, scorgerà all'improvviso, una volta giunto al termine ultimo delle cose
d'amore, un bello per sua natura meraviglioso, quello appunto o Socrate, in vista del quale sono
state sopportate tutte le fatiche precedenti (Symp. 210 e).

La meta del percorso erotico è la visione del Bello in sé, una bellezza che è di natura

meravigliosa. Al termine dell'iniziazione amorosa, l'individuo coglie una bellezza

completamente diversa da quella che ha contemplato mentre si trovava ai gradini

precedenti: essa è divina, lontana dalla bellezza corporea e sensibile. Si presenta come una

visione immediata, molto vicina ad un'intuizione improvvisa. Il fatto che si tratti di

un'“intuizione” e non di una conquista cognitiva come quelle che abbiamo visto fino a

questo momento, apre ad una delle questioni più spinose che gli studiosi platonici si sono

trovati di fronte: cercare di comprendere come possa di fatto avvenire questa

contemplazione delle Idee. Non si tratta di qualcosa ad opera della ragione, ma è qualcosa

di non discorsivo che può avvenire esclusivamente attraverso la noesis, la visione

62
intellettuale.

Platone, infine, dice che il Bello in sé si mostra come qualcosa che

esiste perennemente e non nasce e non muore mai, e non aumenta e non scema, e inoltre non è
in parte bello e in parte brutto, né ora sì e ora no, né bello per un verso e brutto per un altro, né qui
bello e là brutto, e come se fosse bello per alcuni e brutto per altri; né d'altra parte il bello gli
apparirà come un volto o una mano o qualcos'altro che fa parte del corpo, né come un discorso o
come una scienza, e neppure gli apparirà risiedere in qualcosa di diverso da sé, come a dire in un
animale o nella terra o nel cielo o in qualche altro luogo, ma come qualcosa che è sempre in sé e
per sé e ha un'unica forma, con tutte le altre parti facenti parte di quello in un certo modo siffatto
che, mentre le altre cose nascono e periscono, esso non diventa in nulla né maggiore né minore e
non è soggetto a nessun evento (Symp. 211 a-c).

L'oggetto finale di eros è dunque la bellezza ideale, qualcosa che sta al di là del

mondo del divenire: il risultato dell'esperienza erotica è costituito da una verità che non si

trova su questo piano di realtà, ma nel regno dell'immutabile. La bellezza che è possibile

riscontrare sul piano sensibile, infatti, è imperfetta: anche se “partecipa” del Bello ideale e

rimanda ad esso, è una realtà soggetta al mutamento, ben distinta da ciò che è veramente

bello, che abbiamo visto trovarsi al di là del mondo del divenire.

7. L'intervento di Alcibiade

Una volta conclusa l'esposizione della scala amoris da parte di Socrate, l'assetto del

dialogo subisce un brusco mutamento a causa dell'entrata in scena di Alcibiade, in quello

che è stato definito un “anticlimax”. Dopo l'esposizione di una dottrina sull'eros filosofico,

il lettore viene trascinato all'interno dei meccanismi propri di un eros, quello di Alcibiade

per Socrate, che con esso sembra non avere proprio niente in comune. Alcibiade si presenta

63
improvvisamente, ubriaco, a casa di Agatone, anch'egli con l'intento di festeggiare la sua

vittoria nell'agone tragico. Una volta arrivato, viene invitato ad accomodarsi insieme agli

altri. Non nota subito la presenza di Socrate, ma non appena lo vede reagisce

energicamente, rivolgendosi a lui con parole che lasciano trapelare il burrascoso trascorso

dei due, il cui rapporto è ancora evidentemente caratterizzato da una certa gelosia di

Alcibiade nei confronti del filosofo. Alcibiade lo accusa, infatti, di essersi seduto accanto

ad Agatone, “il più bello tra i presenti”, proprio per infastidirlo e Socrate si rivolge al poeta

con questo commento:

Vedi tu, Agatone, se puoi venirmi in aiuto: perché il mio amore per quest'uomo è diventato una
cosa seria. Da quando mi sono innamorato di lui, non mi è più consentito di rivolgere uno sguardo
o una parola a un'altra persona bella; altrimenti lui, pieno di gelosia e di invidia, si mette a fare
stranezze e mi insulta e poco ci manca che mi metta le mani addosso (Symp. 213c-d).

Il sentimento di Alcibiade nei confronti di Socrate è dunque caratterizzato, agli occhi

del filosofo, da gelosia e invidia: due elementi che, come vedremo più avanti analizzando il

Fedro43, sono estranei all'eros filosofico, ovvero all'amore che si instaura tra anime nobili.

La situazione sembra notevolmente mutata rispetto a quella presentata in conclusione

dell'Alcibiade I, in cui il maestro e l'allievo erano giunti ad un accordo sancito dalle parole

pronunciate da Alcibiade verso Socrate:

noi oggi siamo vicini a fare uno scambio delle parti, Socrate; io prendo la tua e tu la mia. Da
oggi in poi non ci sarà modo che io non ti segua sempre come tu fossi un bambino, e che tu non mi
abbia visto vicino come tuo pedagogo […] da questo momento comincio a prendermi a cuore la
giustizia (Alc. I, 135d-e).

43 Vedi infra, pp. 96-97.

64
Il rapporto tra Socrate e Alcibiade, insieme erotico e educativo, che nell'Alcibiade I

sembrava concretizzarsi in una relazione di crescita in nome della filosofia, non ha dato i

frutti sperati. Ulteriori informazioni a riguardo ci vengono date quando, invitato da

Erissimaco a pronunciare un elogio nei confronti di eros così come hanno fatto gli altri

partecipanti al simposio, Alcibiade decide piuttosto di parlare di Socrate. Egli infatti

afferma che in presenza del filosofo non può lodare che lui (Symp. 214d). Tuttavia, nel

vero e proprio elogio di Socrate che segue, Alcibiade lascia emergere, in nome della verità,

anche elementi di critica. Egli afferma subito che dirà esclusivamente le cose come stanno,

e invita Socrate a correggerlo qualora dica qualcosa di falso. Di fatto Socrate non lo

corregge mai, per cui abbiamo motivo di pensare che quella presentata da Alcibiade sia

una descrizione abbastanza fedele di ciò che è avvenuto tra i due e delle azioni compiute da

Socrate nei suoi confronti.

Vale la pena di riportare le parole con cui comincia l'elogio:

Dunque io affermo che Socrate è in tutto simile a quei sileni che sono esposti nelle botteghe
degli scultori e che gli artisti scolpiscono con zampogne o flauti in mano: sileni che, aperti in due,
mostrano di contenere al loro interno simulacri di divinità. In fondo neppure tu, o Socrate, potresti
contestare di avere un aspetto simile a quelli (Symp. 215a-b).

In questo passo emerge che l'aspetto di Socrate era tutt'altro che bello. Tale bruttezza

è, però, solo apparente, come l'aspetto esteriore delle statuette dei Sileni, che nascondono

all'interno immagini divine, così come divina è l'anima di Socrate. Come fa notare Sassi, la

combinazione di bruttezza fisica e fascino intellettuale in Socrate «è falsificazione vivente

di quell'ideale di congruenza fra bellezza esteriore e nobiltà d'animo che si attesta come

nucleo vitale della cultura greca fin dal prototipo dell'eroe omerico, e ben si condensa nel

65
termine kalokagathia (crasi appunto di kalòs, “bello”, e agathos, “buono”)»44.

Se leggiamo questo passo alla luce della lettura dell'Alcibiade I vediamo che è

possibile ricollegarvi l'affermazione di Socrate lì contenuta che la bellezza autentica non è

quella del corpo, bensì quella dell'anima45. Questo aspetto del pensiero socratico emerge

nuovamente più avanti, quando Alcibiade precisa:

Dovete sapere che a lui non importa nulla se uno è bello, ma lo disprezza oltre ogni dire, né gli
importa se uno è ricco né se possiede qualunque altro dei pregi che la gente esalta: tutti questi
possessi li considera privi di qualsiasi valore e noi stessi ci valuta delle nullità – ve lo garantisco io
– e passa tutta la vita fingendo ignoranza e burlandosi di tutto e di tutti (Symp. 216d-e).

Questo atteggiamento di Socrate è presente anche nel Carmide, là dove Socrate si

avvicina al personaggio eponimo, un giovane caratterizzato da grande avvenenza, proprio

con l'intento di scoprire se ad essa corrisponda un'anima altrettanto bella (Charm. 154e).

Benché Alcibiade abbia messo bene in luce questa caratteristica di Socrate, emerge

subito quanto egli l'abbia fraintesa, nel momento in cui passa a narrare quello che definisce

“un atto di superbia” del filosofo. È il famoso episodio in cui Socrate lo accusa di voler

scambiare “oro con bronzo”. (Vi abbiamo già fatto riferimento nel primo capitolo 46 a

dimostrazione della famosa “temperanza” di Socrate). In questo frangente, come Alcibiade

stesso racconta, il giovane ha cercato di persuadere il filosofo a giacere con lui, con queste

parole:

Per me nulla è più onorevole che diventare quanto migliore mi riesce, e credo che a questo fine
nessuno può aiutarmi più validamente di te. Non compiacendo un uomo quale tu sei, ne proverei

44 Sassi, Indagine su Socrate, op. cit. p. 17.


45 Vedi il passo in cui si afferma che la natura, ovvero l'essenza, dell'uomo non coincide con il suo corpo,
bensì con la sua anima, supra, p. 21.
46 Vedi supra, p. 8.

66
vergogna davanti alle persone intelligenti più di quanta ne proverei, compiacendoti, di fronte alla
massa degli ignoranti (Symp. 218d).

Notiamo che compare qui il tema del carattere educativo del rapporto erotico, che

abbiamo ampiamente visto caratterizzare l'eros socratico, e, anche se in un'ottica diversa,

quello platonico. Alcibiade crede che tale crescita, tale miglioramento, possa avvenire

attraverso la consumazione del rapporto fisico. Non è della stessa opinione Socrate: non è

possibile ottenere la saggezza con una tale facilità. Come abbiamo già visto nel primo

capitolo47, per Socrate la saggezza si può conquistare solo scoprendola dentro di sé, nella

propria anima, e riguarda così una sfera ben distinta da quella fisica. Ecco perché accusa

Alcibiade di voler scambiare “oro con bronzo”:

Se […] cerchi di concludere un affare con me barattando bellezza con bellezza, ingente è il
profitto che intendi lucrare a danno mio, anzi in luogo dell'apparenza tu cerchi di acquistare la
realtà del bello e veramente mediti di scambiare oro con bronzo. Tuttavia, mio carissimo, sta
attento e controlla se io, essendo di fatto una nullità, non ti metto di mezzo. La vista del pensiero
incomincia a vedere acuto quando prende a scemare la vista degli occhi; ma tu sei ancora ben
lontano da questo punto (Symp. 218e-219a).

Con la sua tipica ironia, Socrate spiega ad Alcibiade l'errore, l'equivoco in cui è

caduto. Ma il rifiuto di Socrate colpisce profondamente l'orgoglio del giovane, che

racconta di aver provato insieme umiliazione e ammirazione per la temperanza del

filosofo. Oltre ad aver frainteso l'interesse di Socrate nei suoi confronti, interpretandolo

come interesse fisico, Alcibiade ha rovesciato il meccanismo delle relazioni tra amanti e

amati usuale nella società ateniese: era l'amante, in questo caso Socrate, che doveva

47 Vedi supra, p. 18.

67
corteggiare l'amato, qui Alcibiade, e quest'ultimo doveva mostrare di essere interessato più

ai benefici che poteva ricevere a livello di sapienza e crescita intellettuale che a quelli

fisici. Qui avviene esattamente l'opposto, e ciò è tanto umiliante per il giovane da portarlo

ad allontanarsi da Socrate, abbandonando con lui anche la possibilità di divenire virtuoso48.

Fussi fa notare che dal comportamento di Alcibiade emerge tutta la sua natura di

individuo che aspira solamente all'onore e alla ricchezza, un individuo che secondo la

distinzione presentata nella Repubblica49, potremmo definire “timocratico”50. Non vuole

accettare che secondo gli standard di Socrate egli non ha abbastanza qualità, ovvero che la

sua anima necessita di cure, ma si sente semplicemente sminuito e crede che Socrate abbia

usato nei suoi confronti un vero e proprio inganno. In linea con la sua natura di uomo

ambizioso, Alcibiade reagisce come qualcuno che è stato ferito nell'orgoglio, prova

desiderio di vendetta e mette in guardia i presenti con queste parole:

Questi, amici miei, sono le cose di cui rendo lode a Socrate; e d'altronde, mescolandovi le cose
per cui lo biasimo, vi ho spiegato in che cosa mi ha offeso. Comunque sia, non ha fatto così solo
con me, ma anche con Carmide di Glaucone e con Eutidemo di Diocle e con tanti altri: dando loro
ad intendere di voler esserne l'amante, ne è diventato lui l'amato. E proprio questo raccomando
anche a te, Agatone: non lasciarti ingannare da lui, ma sta' in guardia, ammaestrato dalle nostre
esperienze, e non voler imparare a tue spese, come lo sciocco del proverbio (Symp. 222 a-b).

In realtà Socrate stesso riconosce di aver provato amore nei suoi confronti (Symp.

213d), ma nel momento in cui Socrate cerca di capire se alla bellezza esteriore corrisponda

una virtù interiore, l'impulso erotico si trasforma in atto pedagogico51.

È Alcibiade, che, agli occhi di Platone, non è riuscito a comprendere questo aspetto a

48 Cfr. Sassi, Indagine su Socrate, cit. pp. 101-102.


49 Vedi infra, pp. 110-114.
50 Cfr. Fussi, The desire for recognition in Plato's Symposium, cit., p. 257.
51 Cfr. Sassi, Socrate: persuasione ed emozione, cit., p. XVI.

68
sufficienza, poiché, pur avendo descritto Socrate come un sileno che contiene al suo

interno preziose doti come temperanza e saggezza, è rimasto «prigioniero della rete di

valori e desideri esteriori che Socrate tanto disprezza, anzi per non provarne vergogna è

fuggito là dove non potesse ascoltare i suoi discorsi incantatori, e ha “trascurato se

stesso”»52. Alle parole di Socrate abbiamo già fatto riferimento nel primo capitolo citando

il passo del Simposio in cui Alcibiade paragona Socrate al satiro Marsia 53. Vale la pena di

riportare qui alcune altre righe presenti in tale contesto:

E non sei un flautista? Anzi, molto più meraviglioso di Marsia. Quello incantava con la potenza
della sua bocca ma in virtù di strumenti, come fa anche oggi chi suona le sue melodie – quelle che
suonava Olimpo, io le attribuisco a Marsia, che gliele insegnò – orbene le melodie di Marsia, che le
suoni un artista valente o una mediocre flautista, inducono di per sé uno stato di possessione e in
quanto divine denunciano chi ha bisogno degli dei e delle iniziazioni. Tu invece lo superi di gran
lunga già per il fatto che ottieni lo stesso risultato senza strumenti ma con la nuda parola (Symp.
215b-c).

Gli effetti incantatori delle parole di Socrate sono proprio ciò che abbiamo visto

costringere l'Alcibiade dell'Alcibiade I a guardare dentro di sé, grazie alla loro capacità di

suscitare un certo sconvolgimento emotivo. Alla luce del Simposio comprendiamo meglio

il quadro generale in cui possiamo inserire la complessa relazione tra Socrate ed Alcibiade,

e soprattutto siamo in grado di osservare la rielaborazione del concetto dell'eros socratico

da parte di Platone.

La scala amoris del Simposio può apparire come la rielaborazione dell'immagine che

Platone aveva del maestro e del suo atteggiamento nei confronti di eros. Socrate

52 Sassi, Indagine su Socrate, cit., p. 105.


53 Vedi supra, p. 13.

69
trasformava di fatto l'impulso erotico verso la bellezza fisica in amore per la bellezza

immateriale della sapienza54. Sassi fa notare che la dottrina erotica che Platone fa

presentare a Socrate nel Simposio, così come quella che emergerà nel Fedro, si distingue

per aspetti sostanziali da quella del maestro, di cui costituisce di fatto un superamento. La

componente emotiva che nell'Alcibiade I è sfruttata da Socrate per favorire gli effetti della

sua pratica filosofica55, diviene oggetto di repressione, come emerge a ben vedere qui nel

Simposio. Platone, a differenza del maestro, non opta per una repressione del desiderio,

ma, come abbiamo visto ripercorrendo passo per passo la scala amoris, sublima l'impulso

erotico in “desiderio di conoscenza”56.

54 Cfr. Sassi, Socrate: persuasione ed emozione, cit., p. XVI.


55 Vedi supra, p. 12.
56 Cfr. Sassi, Indagine su Socrate, cit., p. 107.

70
3. IL FEDRO: TRA AMORE DEL BELLO E REMINISCENZA

1. Il Fedro

Il tema dell'eros, centrale nel Simposio, viene nuovamente proposto e rielaborato in

un altro dialogo platonico: il Fedro. Questo dialogo, considerato un'opera della tarda

maturità, affronta il tema dell'amore nella sua prima parte, a seguito della quale la

trattazione si sposta sul tema della retorica e della composizione di discorsi. In relazione al

tema erotico, vengono introdotti elementi innovativi rispetto a quelli che sono emersi nel

Simposio e che vanno a completare la dottrina platonica dell'eros. L'ambientazione dei due

dialoghi è significativamente diversa: passiamo dall'ambiente chiuso della casa del poeta

Agatone ad un ambiente aperto e, Socrate e Fedro, gli unici due protagonisti del dialogo, si

trovano a passeggiare nella natura. Si tratta di una novità, poiché Socrate è solito non

uscire dalle mura della città, e si giustifica dicendo di essere più interessato a interloquire

con i suoi concittadini che alla contemplazione del paesaggio. Questo è in accordo con la

motivazione di fondo che muove la pratica filosofica socratica e che il filosofo spiega a

Fedro dicendo: «Abbi pazienza con me, carissimo. Amo imparare: ma la campagna e gli

alberi non sono disposti a insegnarmi nulla, a differenza degli uomini in città» (Fedro, 230

d). Nel caso del Fedro, Socrate sta accompagnando il personaggio eponimo nella sua

passeggiata solamente perché è interessato ad ascoltare quello che ha da dire.

L'ambiente che circonda i due protagonisti viene descritto accuratamente: si tratta di

un paesaggio idilliaco e sacrale caratterizzato dalla bellezza, bellezza che, come abbiamo

visto, occupa una posizione importante all'interno della dottrina erotica platonica del

71
Simposio57, e che anche nel Fedro manterrà il suo ruolo decisivo per guidare l'anima sul

percorso della verità.

L'interlocutore di Socrate, Fedro, è il medesimo personaggio che abbiamo incontrato

nel Simposio, dove ha esordito con il primo discorso di elogio nei confronti di eros. In quel

frangente abbiamo sottolineato che il suo discorso si preoccupava più che altro di riportare

la voce della morale tradizionale58. La tesi che propone nel Fedro, tuttavia, non appartiene

a lui, ma a Lisia, un retore conosciuto e rinomato ad Atene. È a partire dalla lettura di un

discorso di Lisia che prende avvio la conversazione su eros: Fedro ha con sé un rotolo con

scritte le parole pronunciate dal retore a proposito delle conseguenze, soprattutto gli

svantaggi, di concedersi a qualcuno che è innamorato. Si tratta di una tesi paradossale che

Lisia sceglie di sostenere allo scopo di mostrare le sue abilità retoriche. Socrate convince il

giovane a leggere il discorso ad alta voce e, una volta ascoltatolo, prende la parola e ne

pronuncia altri due a proposito dell'amore, di cui si ritiene che il secondo rispecchi il

pensiero platonico.

Emergono, come nel Simposio, riferimenti ontologici e metafisici che distinguono il

pensiero platonico da quello socratico. Oltre al “mondo delle Idee” già introdotto nel

precedente dialogo erotico, vengono presentati i temi dell'immortalità dell'anima, della sua

composizione interna descritta attraverso la celebre immagine della “biga alata”, e quello

dell'anamnesi, ovvero della possibilità di ricordare il mondo delle Idee, la realtà autentica

dell'Essere, richiamando alla mente l'esperienza vissuta dall'anima prima dell'incarnazione.

2. L'amore secondo Lisia

57 Vedi supra, pp. 53-54.


58 Vedi supra, pp. 36-37.

72
La discussione prende quindi le mosse a partire dalla lettura da parte di Fedro del

discorso di Lisia. Il retore ha cercato di dimostrare la sua abilità nell'arte retorica

argomentando in favore di una tesi che contraddice le opinioni socialmente più diffuse. La

tesi che Lisia sostiene è che sia meglio per un giovane concedersi a chi non lo ama

piuttosto che a chi lo ama. Si tratta di una tesi paradossale, ma i punti argomentativi che

tocca non sono moralmente scandalosi, dato che fanno appello ad alcune convinzioni

radicate nella società ateniese. Occorre ricordare che Lisia cerca di persuadere un pubblico

che ha presente il legame tra eros e le pratiche educative, data la decisiva funzione che le

relazioni pederastiche svolgono nella formazione dei giovani ateniesi, trasmettendo valori

e norme sociali.

Sottolineando che il fine di tali rapporti è il “miglioramento” del giovane (Fedro,

233a) Lisia cerca di mostrare che una relazione con qualcuno che non è innamorato può

offrire più benefici rispetto ad una relazione intrattenuta con qualcuno che si trova in preda

al sentimento amoroso. Queste sono le sue parole:

se mi dài retta, ti frequenterò non servendo solo il piacere del momento ma anche il tuo
interesse futuro, non dominato dall'amore ma nel pieno possesso di me stesso, senza farmi
trascinare in un odio violento per delle piccolezze ma contenendo piuttosto l'irritazione nelle
questioni serie, pronto a perdonare i torti involontari e cercando di scongiurare quelli volontari:
queste sono le prove di un'amicizia che durerà a lungo nel tempo (Fedro, 233 b-c).

A suo parere, gli innamorati prendono decisioni mentre sono trascinati dalla

passione. Concedersi a un uomo innamorato e ascoltare i suoi consigli è dannoso perché

chi ama loda le azioni e le parole dell'amato senza tenere conto del loro valore: lo fa per

evitare che egli lo odi o perché il suo giudizio è offuscato dal desiderio (Fedro, 233 a-b).

73
Lisia lascia emergere una valutazione negativa di eros, che viene visto come una follia che

si impadronisce degli uomini e che comporta il fatto che essi non siano più «nel pieno

possesso delle proprie facoltà» (Fedro, 231d). Per questo motivo, quando tornano in sé, gli

innamorati «rimpiangono i benefici che hanno fatto» (Fedro, 231a). Lisia contrappone a

questa immagine di innamorato malato quella di un “non amante” sano, capace di valutare

lucidamente quali siano le scelte più vantaggiose per sé e per l'amato. Per indicare la “non

padronanza” di sé dell'innamorato si parla di mancanza di sophrosyne, un termine che ha

sia valore morale che intellettuale: indica sia la temperanza e il controllo di sé, che una

mente o un pensiero integro59. Quando Socrate lascerà emergere un'immagine positiva di

eros nel suo secondo discorso affermerà proprio l'opposto, ovvero che la follia erotica è ciò

che permette di riscoprire il vero sé, e con esso il giusto modo di vivere, caratterizzato

proprio dalla temperanza. Affronteremo questo aspetto più avanti, mentre è significativo

riportare qui un passo del discorso di Lisia, in cui vengono descritte nel dettaglio le azioni

che sono soliti compiere gli innamorati:

tentano di impedire ai loro amati di frequentare gli altri: temono i ricchi, perché li potrebbero
superare con i loro beni, e temono le persone colte, perché potrebbero risultare migliori per
intelligenza; diffidano di chiunque abbia un qualche ascendente. Convincendoti a odiare tutti,
costoro fanno il vuoto intorno a te. Ma se consideri il tuo interesse personale e mostri più giudizio
dei tuoi amanti, è con costoro che dovrai litigare. Al contrario chi non ama, quando grazie alla sua
virtù avrà ottenuto ciò che desiderava, non sarà geloso delle tue frequentazioni […] Per di più,
molti amanti desiderano il corpo prima ancora di conoscere il carattere o di avere fatto esperienza
delle altre qualità: è dunque incerto se vorranno essere ancora amici dopo che il desiderio sarà
passato (Fedro, 232c-d).

L'immagine della persona innamorata che emerge in questo passo è quella di un

59 Cfr. M. Bonazzi, Platone, Fedro, trad. a cura di M. B., Torino, Einaudi, 2011, p. 27, n. 36.

74
individuo irrazionale, possessivo, indiscreto, egoista e incostante. I contenuti di questo

discorso rispecchiano convinzioni diffuse nella società ateniese, ovvero precetti

tradizionali come l'esortazione a non cedere ad eros, visto alla stregua di una malattia, o

l'elogio di una temperanza che trae legittimità dai vantaggi che procura. La morale

implicita nel discorso di Lisia è che per ottenere la felicità, intesa come successo pubblico

e privato, “occorre appagare con intelligenza i propri desideri” 60. Il modo più intelligente è

ovviamente quello di concedersi ad una persona che non è innamorata, ovvero che

mantiene intatta la sua lucidità e la padronanza di sé. La conseguenza è che il rapporto che

viene a crearsi sembra d'amicizia più che d'amore, data l'assenza del “dannoso” eros, e lo

stesso Lisia non esita a parlare di “amicizia” (philia). Non viene però offerta una

spiegazione all'attrazione dell'amante nei confronti dell'amato: se egli non prova amore, e

non è accecato dal desiderio erotico, deve esserci un'altra ragione per cui è attratto dal

giovane, ma non ci sono indizi in proposito. È possibile ricollegare questa osservazione al

fatto che, nel discorso che Socrate pronuncerà subito dopo, il non amante di cui ha parlato

il retore si trasforma in un amante mascherato, ovvero in un individuo che prova amore ma

finge che non sia così.

Il discorso di Lisia si conclude ribadendo il concetto già sostenuto, secondo il quale

conviene concedersi a chi non è innamorato in ragione del fatto che le decisioni che

prenderà saranno accompagnate dalla padronanza di sé. L'aspetto ripetitivo, oltre ad altre

caratteristiche della struttura compositiva del discorso di Lisia, vengono sottolineate da

Socrate come imperfezioni e riprese nella seconda parte del dialogo come esempio di

errata costruzione di un discorso retorico. Dopo che si è conclusa la lettura del discorso di

Lisia da parte di Fedro Socrate si rivolge così al giovane:

60 Cfr. Bonazzi, op. cit., p. 33, n. 37.

75
Davvero Fedro, mi è sembrato, ma forse tu sei di altro parere, che siano state ripetute le stesse
cose due o tre volte, come se gli mancassero i mezzi per sviluppare lo stesso tema; o come se forse
di un simile argomento non gliene importasse nulla. Mi è sembrato proprio un ragazzotto bramoso
di mostrare che era capace di dire le stesse cose ora in un modo ora in un altro, ma sempre nel
modo migliore (Fedro, 235a).

Socrate afferma che l'argomentazione di Lisia contiene al suo interno ripetizioni e

carenze compositive che mostrano come l'interesse principale del retore fosse dimostrare le

sue abilità persuasive, piuttosto che comporre un bel discorso. Il filosofo sostiene così di

aver sentito pronunciare discorsi migliori (Fedro, 235c) e Fedro lo convince a pronunciare

lui stesso un discorso che, centrato sugli stessi temi, risulti migliore. Socrate esita

inizialmente, ma poi accetta di pronunciare tale discorso «con il capo coperto» (Fedro,

237a), in modo da non «provare vergogna» (Fedro, 237a). Le tesi che va a sostenere,

infatti, come sarà più chiaro in seguito, non rispecchiano il suo pensiero, ma sono riprese

dal discorso di Lisia. Egli si trova quindi ad argomentare intorno agli stessi nuclei tematici

toccati dal retore, ma presenta le sue argomentazioni come se fossero pronunciate da un

amante mascherato, un amante che «aveva convinto il ragazzo che non l'amava» (Fedro,

237b), e non da un “non amante”, come quello presentato Lisia.

La prima cosa che Socrate sottolinea è la necessità di partire dalla definizione di

eros, in accordo con la sua convinzione che, per argomentare correttamente, occorre

iniziare dalla definizione dell'oggetto di cui si tratta. Si ricordi che già nel Simposio (Symp.

199c) Socrate aveva sottolineato l'opportunità di non trascurare questo aspetto.

Si afferma così, prima di tutto, che eros è un desiderio, ma si precisa subito che

«desidera le cose belle anche chi non ama» (Fedro, 237d). Per distinguere chi ama da chi

non ama Socrate sostiene che bisogna tener presente che ci sono due principi che ci

76
spingono all'azione: uno è il desiderio di piaceri e uno la convinzione acquisita,

l'assennatezza. Il predominio dell'assennatezza consiste nella temperanza, mentre quello

del desiderio irrazionale è la smodatezza (Fedro, 237e-238a). Sulla base di questa

distinzione Socrate dà la definizione di eros:

il desiderio irrazionale che domina sull'opinione indirizzata al meglio, che si lascia trascinare
verso il piacere della bellezza e che si rinforza vigorosamente per opera dei desideri a lui affini
volti alla bellezza del corpo – quel desiderio, quando diventa guida vittoriosa, proprio da quella
forza prende il suo nome e viene chiamato amore (Fedro, 238b-c).

Eros è visto come un desiderio irrazionale che domina sulla ragione, ne segue che

l'uomo che è dominato da tale desiderio agisce in preda all'irrazionalità. Di fatto,

l'innamorato descritto in questo discorso è schiavo del desiderio di piacere e fa di tutto per

rendere l'oggetto del suo desiderio il più possibile piacevole per sé. Viene ripresa e ribadita

l'osservazione di Lisia per cui l'amante è come colpito da una malattia, e vale la pena

riportare l'acuta descrizione che Platone offre per voce di Socrate a proposito della

psicologia e del comportamento di un individuo mosso da questo tipo di amore (vedremo

più avanti che c'è un altro modo di intendere eros, che Socrate descriverà nel suo secondo

discorso):

Chi è dominato dal desiderio, l'uomo servo del piacere, non potrà fare altro che foggiarsi l'amato
in modo da trarne quanto più piacere possibile: per chi è malato piacevole è infatti tutto ciò che non
gli si oppone, ma odioso ciò che gli è superiore o pari. Non tollererà dunque di buon grado che
l'amato gli sia superiore e neppure pari, ma farà sempre di tutto perché gli sia inferiore e da lui
dipenda. […] È inevitabile che sia geloso e che gli impedisca la frequentazione di molte altre
compagnie, anche utili, grazie a cui potrebbe diventare un vero uomo; è perciò causa di un grande
danno, un danno grandissimo quando gli impedisce la frequentazione di chi lo aiuterebbe a
diventare un vero saggio. Intendo la divina filosofia, da cui è inevitabile che l'amante tenga lontano

77
l'amato per paura di essere disprezzato. Escogiterà di tutto perché l'amato rimanga nell'ignoranza e
non abbia occhi che per il suo amante (Fedro, 239a-b).

Vediamo in questa descrizione che chi è innamorato ostacola i progressi dell'amato,

la sua crescita, il suo possesso di beni, in modo che la sua condizione di inferiorità lo porti

a dipendere da lui e a restare costantemente al suo fianco come suo oggetto di «piacere

immediato» (Fedro, 239a). In un suo articolo61 Fussi fa notare che è possibile tradurre con

“invidia” il vedere come odioso tutto ciò che è superiore o pari. Osserva che la bellezza

che ispira amore, e che, come vedremo nel secondo discorso di Socrate, attrae e colpisce

profondamente l'amante in quanto è qualcosa di “superiore”, proprio per questo ispira

anche il desiderio di degradare tale bellezza fino a distruggerla. Riprenderemo più avanti

questa riflessione per confrontare il tipo di reazione di questo amante di fronte alla bellezza

con quella che viene descritta nella palinodia socratica. Occorre invece notare qui che,

oltre che di invidia, Socrate parla anche di gelosia che spinge l'amante ad impedire al suo

amato di intrattenere rapporti con altri individui, anche quelli che potrebbero essere

benefici per lui, favorendo così la sua ignoranza. In generale, Socrate afferma che il

rapporto con qualcuno che è innamorato comporta più svantaggi che vantaggi, e soprattutto

risulta dannoso nei confronti dell'educazione dell'anima, la cui importanza è sottolineata in

modo ricorrente all'interno dei vari dialoghi platonici, e di cui anche nel Fedro, proprio in

questo frangente, si ribadisce che «niente è o giammai sarà più prezioso né per gli uomini

né per gli dei» (Fedro, 241c).

Oltre a questi svantaggi che comporta il rapporto intrattenuto con qualcuno che è

innamorato, Socrate descrive anche gli aspetti negativi di una relazione del genere che si

61 Cfr. A. Fussi, “As the Wolf Loves the Lamb”: Need, Desire, Envy, and Generosity in Plato's Phaedrus, in
Epoché, 11, 2006, p. 68.

78
avvia alla fine, quando, svanito l'amore, l'amante diventa un'altra persona, poiché

«intelligenza e sobrietà hanno preso il posto dell'amore e della follia» (Fedro, 241a). A

questo punto l'amante fugge, interrompe la relazione senza dare spiegazioni, poiché

si vergogna di dire che ormai è un altro né sa come mantenere giuramenti e promesse fatti sotto
l'imperio della precedente dissennatezza, perché teme, ora che ha recuperato intelligenza e senno,
che rifacendo le stesse cose non diventi di nuovo simile o addirittura identico a quel che era (Fedro,
241 a-b).

Proprio come se guarisse da una malattia, l'innamorato il cui amore svanisce diviene

un'altra persona, e non può mantenere saldo il rapporto precedente con il suo amato. Una

volta guarito riconosce la malattia che lo colpiva e, pur di non tornare in quelle condizioni,

fugge senza riuscire a dare spiegazioni all'amato, tradendo così ogni promessa e privandolo

improvvisamente di tutti i vantaggi che gli procurava. Socrate offre questa riflessione per

spiegare come, al contrario, un rapporto instaurato con qualcuno che non è innamorato non

mette il giovane nelle condizioni di poter subire un tale danno. In conclusione del suo

discorso Socrate aggiunge queste parole: «l'amicizia di un amante non nasce dall'affetto,

ma è come cibo per saziarsi: come i lupi amano gli agnelli, così “gli amanti si tengono caro

il proprio fanciullo”» (Fedro, 241d). L'immagine dell'amore che emerge da questo discorso

è decisamente negativa: l'amato sembra essere nutrimento per l'amante, mero oggetto di

soddisfazione del suo desiderio. Fussi sottolinea l'importanza della metafora del nutrimento

e sottolinea che il tipo di nutrimento di cui Socrate parla in questo passo consiste nel

processo per cui l'altro viene trasformato in qualcosa di proprio, ovvero assimilato come si

assimila un cibo o consumato come un carburante di cui si ha costantemente bisogno 62. È

62 Cfr. Fussi, As the Wolf Loves the Lamb, cit., p. 57.

79
possibile ricollegare questo passo a quello del Gorgia in cui Socrate fa notare al suo

interlocutore, Callicle, che la tesi da lui sostenuta, per cui la felicità consiste nel soddisfare

il più possibile i propri desideri, non è veritiera, perché può essere vista come il tentativo di

riempire costantemente una giara bucata con dell'acqua: essa non potrà mai riempirsi, ma

ci sarà sempre bisogno di continuare ad aggiungere acqua (Gorg. 493d). Si tratta di una

nozione negativa del bisogno: un appagamento del desiderio che consiste nel soddisfare i

bisogni immediati è proprio di una natura animale o vegetale, non di una umana, in cui ciò

può essere trasceso63.

Fussi invita a mettere a confronto questo tipo di nutrimento con quello che verrà

presentato poco più avanti a proposito della capacità dell'anima di nutrirsi della verità

grazie all'eros. In questo secondo caso, non si tratta di un'assimilazione, ma di un nutrirsi

che non consuma e non modifica: la verità non diminuisce o muta mentre l'anima vi

attinge. È sempre l'altro, l'amato, che è fonte di nutrimento, ma non più come qualcosa che

viene trasformato in una parte di sé, ovvero assimilato, ma qualcuno la cui alterità viene

rispettata e mantenuta intatta.

Questo secondo modo di vedere eros, quindi, viene presentato come più autentico:

abbiamo visto nel Simposio che secondo Platone l'amore è una via da percorrere per

raggiungere la vera conoscenza, la saggezza, la virtù, ma nel discorso che Socrate ha

appena pronunciato qui nel Fedro si configura un percorso diverso. È probabilmente per

questa ragione che il filosofo non riesce a proseguire il discorso, anche se non sembra aver

concluso: Fedro si aspetta che Socrate enunci i vantaggi che comporta intrattenere una

relazione con qualcuno che non è innamorato, visto che fino a quel momento si è parlato

solo degli svantaggi che un innamorato può arrecare. Socrate, invece, vorrebbe congedare

63 Cfr. Fussi, As the Wolf Loves the Lamb, cit., p. 57.

80
Fedro e smettere di parlare, ma quando si accinge a farlo avverte il suo “segno divino” che

lo invita a non andarsene prima di aver pronunciato un altro discorso, ovvero uno che sia

veramente degno di eros. Troviamo qui il riferimento a quella voce interiore che abbiamo

visto intervenire anche nell'Alcibiade I (Alc. I, 103a), dove si legge che il daimonion aveva

trattenuto il filosofo dal parlare con Alcibiade fino a che non fosse giunto il momento

opportuno. Nel Fedro Socrate sostiene di aver nuovamente avvertito questo segno, e spiega

a Fedro che tale voce gli ha intimato di “purificarsi”, come se avesse «commesso qualche

colpa nei confronti della divinità» (Fedro 242c). Si rende così conto di non aver parlato

secondo ciò che è opportuno, poiché di fatto ha calunniato eros che, come abbiamo visto

nel Simposio, è un essere divino. Socrate si rende conto che gli dei potrebbero punirlo per

questo, a meno che non proceda con una palinodia, ritrattando tutto ciò che ha appena

sostenuto.

3. Eros e la natura dell'anima

Si ritiene che nella palinodia di Socrate sia racchiusa l'autentica dottrina dell'amore di

Platone nel Fedro, che è presentata in contrasto con ciò che si è affermato nei discorsi

precedenti. Viene mantenuta la tesi per cui eros è una forma di follia, ma si precisa che è

una forma di mania divina, una follia che colpisce chi si innamora per volontà degli dei

stessi. Nei discorsi che sono stati pronunciati fino a questo momento l'accostamento di

eros ad una sorta di follia era considerato un aspetto negativo, un elemento in grado di

privare l'innamorato della padronanza di sé, fondamentale per mettere al primo posto il

bene dell'altro, ma Socrate precisa:

81
Non è vero il discorso che invita a concedere le proprie grazie a chi non ama quando è presente
chi ama, perché quest'ultimo sarebbe folle, mentre l'altro è assennato. Certo, sarebbe detto bene, se
la follia fosse un male soltanto. Ma i beni più grandi ci vengono dalla follia, dalla follia che ci è
elargita per dono divino (Fedro, 244a).

Il primo passo che fa Socrate, quindi, è mostrare che esistono forme di follia di cui la

stessa tradizione riconosce il valore positivo. Vi è la mania profetica, la mantica, con cui la

profetessa di Delfi, le sacerdotesse dell'oracolo di Dodona e gli indovini in generale

emettono, mentre sono divinamente posseduti, (Fedro, 244b-c) responsi a cui il mondo

greco attribuisce una eccezionale autorità. Vi è poi l'oionistica, la follia iniziatico-rituale,

purificatrice, capace di guarire forme dannose di follia stessa con preghiere e riti sacri

(Fedro, 244d-e). Infine, l'ultimo tipo di follia positiva che Socrate rammenta è la mania

poetica, ispirata dalle Muse: i poeti della tradizione orale legittimano la loro grandezza in

nome della follia che impadronendosi di loro permette di ricevere ispirazione direttamente

dagli dei (Fedro, 245a).

Come queste forme di mania sono un dono prezioso, in quanto offrono all'uomo la

possibilità di attingere alla sfera del divino, allo stesso modo anche eros può essere una

forma di follia positiva. A sostegno di questa tesi viene introdotta una questione

fondamentale già centrale nell'Alcibiade I, quella della natura dell'uomo. Nel Fedro, come

nell'Alcibiade I, Socrate afferma la priorità della conoscenza di se stessi: quando Fedro,

prima di leggere il discorso di Lisia, aveva cercato di affrontare una discussione riguardo

ad un mito legato al bellissimo luogo in cui i due si trovano a passeggiare, il filosofo gli

aveva risposto:

io di tempo per queste cose non ne ho, e la causa, mio caro, è questa. Non sono neppure capace
di conoscere me stesso, come prescrive l'iscrizione di Delfi: ignorando questo, mi sembra allora

82
ridicolo indagare cose che mi sono estranee. Perciò le lascio da parte, credendo a quello che di esse
si tramanda; e intanto, come dicevo, indago non loro ma me stesso (Fedro, 229e-230a).

Prima di procedere con il suo secondo discorso su eros, quindi, Socrate si esprime a

proposito della natura dell'anima. Nell'Alcibiade I è stato detto che l'essenza dell'uomo è la

sua anima, ma non sono state specificate né le sue caratteristiche, né in che modo essa stia

in relazione al corpo.

La tradizione omerica aveva elaborato il concetto di anima come soffio vitale che

anima il corpo e sopravvive alla morte dell'individuo. L'immortalità dell'anima è sostenuta

anche dal pensiero pitagorico e da quello orfico, accomunati dalla credenza che essa debba

reincarnarsi più volte, al fine di espiare una qualche colpa originaria e recuperare la sua

purezza divina. Sassi fa notare che è da questa visione orfico-pitagorica che deriva la

nozione dell'anima come soggetto intellettuale e morale, pensata come la parte più nobile

dell'individuo. Il pensiero di Socrate è indubbiamente influenzato da questa concezione,

ma si distacca dal contesto religioso di origine per fondarsi su «un piano che potremmo

definire “laico”, sul quale il valore dell'anima, intesa essenzialmente come ragione, si

misura all'interno della prassi morale a prescindere da ogni promessa di immortalità e

salvezza»64. È per l'appunto Platone a riprendere invece l'aspetto metafisico del pensiero

sull'anima, sostenendo sia nel Fedone (Phaed. 72e-78b) che nel Fedro che sia possibile

conoscere la verità attraverso la reminiscenza, ovvero il ricordo della contemplazione delle

Idee, risalente ad un momento di esistenza che precede l'incarnazione.

Nel Fedro, che qui più c'interessa, viene affrontato il tema dell'incarnazione

dell'anima nel corpo, unitamente alla questione della sua immortalità. A questo proposito

avremo modo di prendere in considerazione la dottrina dell'anima presentata nella

64 Sassi, Indagine su socrate, cit., p. 117.

83
Repubblica, ma per quanto concerne il Fedro, Platone affronta, in un primo momento, la

questione dell'immortalità dell'anima in termini logico-argomentativi, sostenendo che,

poiché l'anima è ciò che muove se stessa (una tesi assunta come vera, piuttosto che

dimostrata) ne segue che non può perire: ciò che muove se stesso può farlo solo in quanto

non ottiene il principio del movimento da qualcosa di esterno a sé, ma lo contiene già al

suo interno. Dunque, poiché tale principio del movimento non è generato da altro e non si

può per sua natura arrestare, ne segue che l'anima, che è ciò che sempre muove se stessa, è

immortale (Fedro 245 c-d).

Rilevante al nostro proposito è lo sviluppo, che segue, dell'immagine della “biga

alata”, il racconto con cui Platone descrive ciò a cui somiglia l'anima umana e offre la

possibilità di capire con facilità la sua natura e le parti che la compongono. La pariglia

alata, infatti, è costituita da un lato dall'auriga, che si trova alla guida del carro, e che

simboleggia la ragione, e dall'altro dai due cavalli che trainano la biga, uno bianco e uno

nero, di cui solamente il primo è di buona razza. Essi rappresentano le altre due parti che

sono presenti nell'anima insieme alla ragione, rispettivamente quella irascibile o animosa, e

quella passionale. Come vedremo nel dettaglio più avanti, il cavallo bianco obbedisce più

facilmente alla ragione, mentre quello nero è più difficile da domare.

Socrate afferma che c'è una condizione originaria in cui l'anima, composta così come

abbiamo visto, è dotata di ali grazie alle quali «ascende alle altezze del cielo e governa

l'intero cosmo» (Fedro, 246c), muovendosi insieme agli dei. In questo stato disincarnato è

possibile per l'anima contemplare le realtà immutabili, le Idee, quelle stesse entità alla cui

comprensione era finalizzata la scala amoris del Simposio. Qui nel Fedro Socrate parla

delle Idee definendole «l'essere che veramente è tale, privo di colore, privo di forma, che

non si può toccare, che solo il pilota dell'anima, l'intelletto, può contemplare, e che è

84
l'oggetto proprio del genere della vera conoscenza» (Fedro 247c-d). L'anima ha la

possibilità di trovarsi in questo «luogo al di sopra dell'universo» (Fedro 247c) solamente

nel suo stato disincarnato. L'incarnazione, infatti, avviene una volta “perdute le ali” a causa

della lotta con le altre anime nel tentativo di salire più in alto e nutrirsi il più possibile della

verità.

È all'ala in particolare che è destinato il nutrimento presente nel “prato” della

“pianura della verità” (Fedro, 248b). Socrate afferma che l'ala è la parte dell'anima che

partecipa al divino più delle altre (Fedro, 246d), e che, anche una volta perduta, può

ricrescere se si trova ad essere opportunamente nutrita. La crescita dell'ala è favorita da

tutto ciò che, presso la realtà terrena, possiede qualità affini al divino: ciò che è bello,

buono, sapiente, e così via.

A proposito degli dei, insieme ai quali l'anima umana disincarnata compie il suo

percorso celeste contemplando la verità, Socrate spiega che la loro anima si differenzia da

quella degli uomini poiché possiede entrambi i cavalli di buona razza. (Nel caso della

caduta delle anime umane sulla terra, il cavallo nero, che non è di buona razza, trascina la

biga verso il basso). Perciò, durante la vita ultraterrena l'anima umana cerca di «seguire il

dio e farsi simile a lui» (Fedro, 248a), ovvero cerca di contemplare il più possibile le Idee.

Riguardo all'attività degli dei presso il regno sovraceleste, Socrate offre una chiara

descrizione:

E allora la ragione divina, che si nutre di intelligenza e conoscenza pura, e ogni anima a cui sta a
cuore ricevere ciò che le è proprio, per tutto il tempo che guarda l'essere lo ama e contemplando la
verità trova il suo nutrimento e la sua gioia, fino a quando la rivoluzione circolare non lo riconduce
allo stesso punto. Durante la rivoluzione v e d e la Giustizia, vede la Temperanza, vede la
Conoscenza, non quella soggetta al divenire e neppure quella che è diversa in ciascuno dei diversi
oggetti che noi chiamiamo enti, ma la conoscenza che è vera conoscenza della vera realtà (Fedro,

85
247d).

Vediamo che gli dei contemplano le Idee “per tutto il tempo” e non lottano tra loro

per conquistare la possibilità di vedere più a lungo la verità, come fanno invece le anime

umane. In questo passo torna di nuovo la metafora del nutrimento, che abbiamo visto

essere stata utilizzata anche nei discorsi che hanno preceduto la palinodia socratica e che,

come abbiamo visto, lascia emergere il contrasto tra il nutrimento come assimilazione che

emergeva nel primo discorso socratico e quello che viene descritto qui: ci si può nutrire

della verità senza che essa venga consumata, senza toglierla ad altri, quindi senza che ci sia

bisogno di intraprendere una lotta per accaparrarsene un po'. Si tratta di una

consapevolezza che gli uomini, a differenza degli dei, non possiedono, e, per questa

ragione, si trovano a lottare tra loro e a cadere nel mondo terreno. Vi sono però delle anime

che prima di incarnarsi sono riuscite a contemplare la verità più di altre, e un'anima del

genere attecchisce «nel seme di un uomo che diventerà amante della sapienza, amante del

bello, devoto alle Muse e vero amante» (Fedro, 248d). Si accosta qui per la prima volta il

filosofo al “vero amante”. C'è uno stretto legame tra il tempo che l'anima ha potuto

impiegare nella contemplazione delle Idee e il modo in cui l'individuo si relaziona con

eros, ovvero il modo in cui ama la persona oggetto del suo amore.

È per questo che la trattazione di temi come l'immortalità dell'anima e il mondo delle

Idee va intesa come una digressione propedeutica a una piena comprensione dell'eros: per

comprendere l'esperienza amorosa dobbiamo comprendere chi siamo veramente, e questo

non è possibile se non mettiamo la nostra dimensione terrena in relazione con quella

metafisica.

86
4. La reminiscenza

Secondo la filosofia platonica è possibile conservare dentro di sé un ricordo delle

Idee che sono state contemplate prima dell'incarnazione, tanto più intenso quanto più a

lungo l'anima è stata capace di vedere la verità. Nel Fedro, così come nel Simposio, è

presentata la possibilità del filosofo di attingere al mondo ideale a partire dalla percezione

sensibile delle realtà terrene, ma questa volta un ruolo decisivo è svolto dalla reminiscenza,

ovvero dal recupero d'un ricordo:

Ma ricordarsi delle cose di laggiù a partire da quelle di quaggiù non per tutte le anime è facile –
non per quelle che hanno goduto di una visione fugace delle cose di laggiù, né per quelle che, una
volta cadute quaggiù, ebbero la sventura di dimenticare le sacre visioni di cui avevano goduto un
tempo, trascinate da cattive compagnie nell'ingiustizia; poche allora ne rimangono capaci di
ricordare in modo adeguato: e queste, quando vedano delle immagini somiglianti alle cose di lassù,
ne vengono sconvolte e non sono più padrone di sé. Non sono in grado di comprendere ciò che
provano perché non riescono a coglierlo in maniera adeguata (Fedro, 250a-b).

Le “immagini somiglianti alle cose di lassù” sono quelle qualità presenti nelle realtà

sensibili che sono comuni al divino. In particolare, fra tali realtà, è la bellezza sensibile a

risvegliare il ricordo di una bellezza più autentica, quella ideale, che è stata contemplata

prima dell'incarnazione. Questo avviene attraverso l'amore: la bellezza della persona

amata, più di ogni altra, coinvolge e sconvolge tutta l'anima favorendo quella che

all'interno del mito della biga alata è stata descritta come la “crescita dell'ala”, e permette il

ricongiungimento con la verità. Tale ricongiungimento avviene insieme ad uno

sconvolgimento emotivo che non è del tutto comprensibile da parte di chi lo prova, e che

getta l'amante nell'incapacità di essere padrone di se stesso. Ritorna il concetto di

padronanza di sé, già centrale nei discorsi precedenti, ma stavolta perdere tale padronanza

87
non è considerato il danno più grande, ma il dono più prezioso. Abbiamo visto sopra che la

prima mossa di Socrate, nella sua palinodia, è proprio quella di accostare eros a forme di

mania positive, quelle con cui l'uomo è capace di attingere al mondo celeste, di entrare in

comunicazione con gli dei. Platone la definisce «quella follia per cui quando si vede la

bellezza di quaggiù, ci si ricorda la vera bellezza, si mettono le ali» (Fedro 149d). La

bellezza, in particolare quella della persona amata, è il fattore fondamentale, quello che nel

Fedro, come nel Simposio, è in grado di condurre il filosofo alla contemplazione delle

Idee.

A proposito della bellezza, Platone afferma che «anch'essa risplendeva insieme agli

altri, ed è ancora lei, luminosa di più intensa chiarezza, che noi cogliamo una volta giunti

qui in basso per mezzo del più chiaro dei nostri sensi» (Fedro, 250d). Con “il più chiaro

dei nostri sensi” Platone intende la vista, la cui importanza era emersa già nel Simposio. La

visione della bellezza sensibile è l'unica che, immediatamente, è in grado di avviare il

processo di ricongiungimento con il mondo ideale: tale processo si presenta come una

progressiva '“ascesa” nel Simposio, e come immediata “reminiscenza” nel Fedro. Nel

Fedro, infatti, il ricordo del mondo ideale si manifesta alla mente in maniera immediata,

attraverso una forma di entusiasmo, un'estasi, che abbiamo visto lasciare chi la prova nelle

condizioni di non saperne dare ragione. Nel Simposio, benché anche qui la visione delle

Idee non consista in qualcosa di razionale, ma, come abbiamo visto, in qualcosa di

istantaneo ed intuitivo65, Platone non fa riferimento al legame tra eros e la mania. Qui nel

Fedro l'irrazionalità è molto più accentuata, e fa la sua comparsa sin dall'inizio.

Vale la pena riportare per intero, in tutta la sua bellezza, il passo in cui Platone

descrive quel che avviene nel filosofo non appena si trova di fronte alla bellezza della

65 Vedi supra, p. 63.

88
persona amata:

Mentre lo guarda si produce in lui un cambiamento, e dopo i brividi si copre di sudore provando
un insolito calore: il fatto è che ricevendo gli effluvi della bellezza attraverso gli occhi si scalda nel
punto in cui l'ala viene irrorata. Per il calore si scioglie la zona in cui crescono le ali, zona che
prima era dura e impediva loro di sbocciare; affluendo il nutrimento, il fusto dell'ala si inturgidisce
e inizia a sbocciare dall'alveolo, su tutta la superficie dell'anima. Perché l'anima prima era tutta
alata. Ribolle allora tutta intera ed erompe, prova il dolore di chi sta mettendo i denti:
quell'irritazione fastidiosa alle gengive che si prova quando spuntano i denti è la stessa che prova
l'anima di chi comincia a mettere le ali; mentre le ali spuntano l'anima ribolle, prova fastidio, sente
prurito. Quando dunque l'anima fissa lo sguardo sulla bellezza del ragazzo, accogliendo le
particelle che di lì partono e fluiscono (che per questo sono dette “desiderio”) ne è irrorata e
riscaldata, cessa di soffrire e gioisce. Quando invece ne è separata e si inaridisce, gli orifizi dei
pori, dove le penne premono, si seccano e si chiudono ostruendo i germogli dell'ala: e quei
germogli, chiusi all'interno insieme al flusso del desiderio, palpitando come arterie pulsanti,
premono ciascuno contro il proprio poro, così che l'anima, punta tutt'intorno, smania per il dolore;
ma il ricordo della bellezza la riempie di gioia. Nella mescolanza di queste emozioni s'inquieta per
l'assurdità di quello che prova; s'infuria nella sua incapacità di trovare una via d'uscita; nel pieno
della follia non riesce a dormire di notte né a trovare riposo di giorno, ma corre desiderosa là dove
si immagina che potrà vedere colui che possiede quella bellezza. Ma come lo vede s'impregna di
desiderio e si sciolgono allora i condotti prima ostruiti: trova requie dalle punture e smette di
soffrire, e coglie finalmente il frutto di quel piacere dolcissimo (Fedro, 251a-252a).

Quando la bellezza risveglia il ricordo del mondo ideale l'innamorato prova uno

sconvolgimento interiore in cui il dolore si mescola alla gioia. Il dolore della “crescita

dell'ala” è paragonato a quello provato da chi mette i denti, ma è una sofferenza che si

trasforma in gioia in presenza dell'amato. La bellezza irrora e riscalda l'anima, apre i

condotti prima ostruiti, nutre l'ala che permette all'anima di tornare com'era in origine.

Come fa notare Sassi, in questo passo viene presentato uno scenario che somiglia ad

un'«elaborata irrigazione di un corpo-giardino, attraversato da solchi che ora fanno fluire,

89
ora si ostruiscono e bloccano il passaggio di particelle del mondo sensibile»66. Prima di

Platone, è Empedocle che ha spiegato la percezione sensibile in termini di “effluvi”,

intendendo con essi i flussi di particelle materiali che, a suo avviso, si staccano dagli

oggetti esterni per penetrare nel soggetto senziente. (Altri riferimenti simili possono essere

individuati in alcuni scritti ippocratici come il Morbo Sacro o il De Victu67).

Questo risulta ancor più evidente quando Platone riprende l'immagine della biga alata

per spiegare in maniera più approfondita lo sconvolgimento che colpisce l'anima in preda

a d eros: tutte e tre le componenti dell'anima, di fronte alla bellezza dell'amato, sono

travolte dalla divina follia erotica, ed ognuna reagisce secondo quelle che sono le sue

caratteristiche peculiari. L'auriga è la parte in cui la percezione della bellezza sensibile si

trasforma in reminiscenza del mondo ideale: esso contempla la bellezza dell'amato

lasciando che il ricordo della bellezza ideale venga risvegliato. Il cavallo nero, invece, che

rappresenta l'irresistibile forza della passione, preme affinché venga soddisfatto senza

alcun freno il desiderio fisico che tale bellezza suscita, mentre il cavallo bianco, frenato dal

pudore, è trattenuto dall'avvicinarsi e sottostà al comando dell'auriga.

Platone rappresenta diversi momenti di interazione delle diverse componenti

dell'anima tra di loro: dopo un'iniziale resistenza, l'auriga e il cavallo bianco accettano

l'invito del cavallo nero ad avvicinarsi all'amato, ma quando l'individuo incrocia il suo

sguardo, l'auriga ricorda le Idee che ha contemplato un tempo ed è immediatamente

pervaso dall'essenza della bellezza, dalla purezza e dalla temperanza. Di conseguenza, in

preda ad una forte emozione di venerazione, quasi spaventato, cade indietro e trascina con

sé entrambi i cavalli. Il cavallo nero non comprende le motivazioni che stanno alla base del

66 M. M. Sassi, Eros come energia psichica. Platone e i flussi dell'anima, in Interiorità e anima, cit., p. 285.
67 Cfr. ivi, p. 287.

90
comportamento dell'auriga: si lascia convincere ad aspettare ma vive questo gesto come un

tradimento, rimproverando l'auriga e il cavallo bianco per la loro mancanza di virilità. Vi è

poi un secondo momento in cui il cavallo nero cerca di persuadere nuovamente l'auriga e il

cavallo bianco, senza la minima intenzione di non essere assecondato, e con forza scalpita

e si agita, tanto che l'auriga ricorre alla violenza per tenerlo a freno (Fedro, 254d-e).

Questo meccanismo sembra ripetersi più volte fino a che il cavallo nero, esausto in seguito

ai molteplici tentativi, non segue il volere dell'auriga.

È interessante notare che, in questa battaglia interna all'anima, sia l'auriga sia il

cavallo nero ricorrono a metodi che sarebbero più appropriati per l'antagonista:

inizialmente il cavallo nero usa la forza bruta, ma quando si rende conto che l'auriga e il

cavallo buono non cedono ricorre al ragionamento per persuaderli, così come l'auriga ad un

certo punto ricorre alla violenza. G. R. F. Ferrari fa notare che c'è comunque una

sostanziale differenza tra il tipo di ragionamento utilizzato dal cavallo nero e quello

proprio dell'auriga68, in quanto il cavallo nero è in grado di deliberare solamente in vista

del soddisfacimento del suo preponderante desiderio: quando, ad esempio, definisce

l'auriga e il cavallo bianco “codardi”, vede solo un lato della situazione. La razionalità che

utilizza è solo un mezzo per raggiungere il suo fine, non è capace di valutare in un'ottica

più ampia la bontà di esso o di ampliare il proprio orizzonte. Non vale, invece, l'inverso:

l'auriga capisce le motivazioni del cavallo nero, le ritiene unilaterali e riduttive, ed è in

grado di valutare che cosa sia veramente bello e buono, riuscendo ad andare al di là del

desiderio fisico. La forza utilizzata dall'auriga è legata ad un desiderio più intenso rispetto

a quello del cavallo nero: è il desiderio del Bello e del Bene che caratterizza la natura

68 Cfr. G.R.F Ferrari, The Struggle in the Soul: Plato, Phaedrus 253c7-255a1, in Ancient Philosophy 5,
1985, p. 4.

91
filosofica, indubbiamente più autentico rispetto alla passione erotica che muove il cavallo

nero. Si dice che alla fine della lotta, una volta che il cavallo nero è domato, quando

l'auriga vede il bel ragazzo «si sente venir meno per la paura» (Fedro, 254e) e che quindi

«l'anima dell'amante si accompagna a quella dell'amato piena di pudore e timore» (Fedro,

254e-255a). Si tratta di una paura legata al timore di commettere qualche tipo di ingiustizia

nei confronti di quel mondo delle Idee di cui la vista dell'amato ha risvegliato il ricordo. Il

cavallo bianco, che si oppone anch'esso al cavallo nero, sembra capire il legame tra

bellezza e moderazione, poiché, essendo per natura incline all'onore, vede questa

opposizione come favorevole al raggiungimento del suo fine. Anche nel suo caso il

ragionamento è limitato a soddisfare i propri desideri senza la capacità di vedere la

situazione da una prospettiva più ampia69.

Abbiamo visto che, per loro natura, il cavallo nero e quello bianco possiedono dei

propri e particolari desideri che vanno in direzioni diverse e contrastanti rispetto a quelli

dell'auriga: viene detto anche che la tendenza naturale dei cavalli è di portare verso il basso

(Fedro, 247b, 248a), mentre ciò che rende possibile la contemplazione è un movimento

verso l'alto, favorito dalla crescita dell'ala (Fedro, 246d-e). Ora, Socrate ad un certo punto

afferma che è la ragione del filosofo che mette le ali (Fedro, 249c), mentre

successivamente dice che l'ala cresce su tutta la superficie dell'anima (Fedro, 251b). Nasce

così il problema di rendere compatibili queste due affermazioni. Una soluzione plausibile

potrebbe essere ritenere che tutta l'anima diviene alata, ma grazie all'attività della ragione,

o dell'auriga, soprattutto grazie alla sua capacità di imporre la direzione giusta ai cavalli, in

modo che contribuiscano, o quanto meno non si oppongano, al movimento verso l'alto70.

69 Cfr. G. R. F. Ferrari, op. cit., pp. 4-6.


70 Cfr. Sheffield, Eros before and after tripartition, in R. Barney, T. Brennan, C. Brittain, Plato and the
divided self, Cambridge, University Press, 2012, pp. 227-228.

92
5. Eros e cura di sé

Dopo aver sottolineato il notevole sconvolgimento che colpisce l'anima alla vista

della bellezza dell'amato, non ci resta che vedere che cosa avviene una volta che viene

instaurato il rapporto con la persona amata. Socrate afferma che, in preda all'amore,

l'innamorato perde di vista tutte le altre cose importanti: «si dimentica di madri, fratelli,

degli amici tutti e neppure si preoccupa se le sue ricchezze andassero in rovina;

disprezzando tutte le regole di condotta di cui prima si faceva bella» (Fedro, 252a). Nel

momento in cui l'individuo si innamora avviene un vero e proprio sconvolgimento dei

parametri e dei valori che regolavano la vita precedente. È possibile vedere in questo

aspetto un parallelismo tra eros e l'esperienza della filosofia, che, come è già emerso nei

dialoghi che abbiamo analizzato, ma sarà ancor più evidente quando prenderemo in

considerazione la Repubblica, è capace di rivoluzionare l'intera vita di chi vi si dedica71.

Questo però non avviene per tutti allo stesso modo. La reminiscenza stessa non è

qualcosa che ogni individuo indifferentemente può sperimentare:

è giusto che solo la ragione del filosofo metta le ali: perché, per quanto le è possibile, è sempre
fissa sul ricordo di quelle cose, che rendono divino un dio quando si rivolge a esse. L'uomo che si
serve correttamente di questi strumenti per rinnovare la memoria, iniziandosi sempre ai misteri
perfetti, è il solo che può diventare veramente perfetto: allontanandosi dalle preoccupazioni umane
e occupandosi di ciò che è divino, è accusato dalla massa di essere fuori di sé, e nessuno capisce
che è divinamente occupato (Fedro, 249 c-d).

71 Vedi supra, pp. 13-15.

93
Come abbiamo accennato sopra72, le anime che più a lungo sono riuscite a

contemplare la verità si incarnano in individui dal carattere filosofico (Fedro, 248d), di

conseguenza è il filosofo il solo che è capace di riconoscere nella bellezza dell'amato le

tracce della bellezza ideale, e di sperimentare il processo della “crescita delle ali”.

Una volta avvenuto l'incontro tra un'anima del genere e il giovane di cui si innamora,

si instaura tra i due una relazione caratterizzata da una frequentazione assidua e lunghe

conversazioni. Una volta che l'amato ha accettato di parlare e frequentare l'amante «la

benevolenza dell'amante, manifestandosi più da vicino, sbalordisce l'amato» (Fedro 155b),

poiché ne riconosce la straordinarietà, la qualità divina:

la fonte di quel flusso, che Zeus innamorato di Ganimede chiamò “desiderio”, si riversa copiosa
sull'amante, penetrando prima dentro di lui, e poi traboccando di fuori quando lui ormai ne è pieno.
Come un soffio di vento o un'eco che rimbalzando su una superficie levigata e solida ritorna al
punto da cui era partito, così, attraverso gli occhi, il flusso della bellezza ritorna sul bel ragazzo; e lì
è naturale che proceda verso l'anima e, una volta raggiuntala, la disponga al volo, irrorando i
condotti, spingendo le ali a crescere e riempendo di amore l'anima dell'amato. Allora ama, ma non
sa chi; e non comprende ciò che prova né sa esprimerlo: come se avesse contratto da altri una
malattia agli occhi non sa dirne il motivo e non si accorge di vedere nell'amato se stesso come in
uno specchio. Quando gli è vicino, smette di provare dolore, proprio come lui desidera ed è
desiderato, perché prova un amore di risposta, immagine dell'amore (Fedro 255 c-e).

Lo sconvolgimento provato dall'amante alla vista della bellezza dell'amato si

trasferisce all'amato stesso, dalla cui bellezza di fatto era partito. L'amore provato

dall'amante, quindi, inonda l'amato, che cade anche lui in preda alla follia amorosa, senza

però capire quello che sta succedendo, in quanto si tratta di un amore di riflesso, che fa sì

che egli veda nell'altro se stesso come in uno specchio. Vediamo tornare l'immagine dello

72 Vedi supra, p. 86.

94
specchio che abbiamo visto nell'Alcibiade I, atta a illustrare che all'interno del rapporto

erotico è possibile, appunto, vedere se stessi nell'anima della persona amata come se ci si

stesse riflettendo in uno specchio73. Il concetto di “rispecchiamento” che nell'Alcibiade I

era riconducibile alla scoperta di una dimensione interiore di virtù comune sia all'amante

che all'amato, ritorna nel Fedro sotto una nuova luce offerta dalle originali riflessioni

platoniche.

Nel Fedro, a differenza che negli altri dialoghi, è la somiglianza tra anime la ragione

dell'insorgere di eros: in altre parole, la bellezza che attrae l'amante non è solo di tipo

fisico, ma anche di tipo psichico. Tra i due amanti c'è un'affinità la cui origine è

rintracciabile nell'esperienza che le anime hanno fatto durante la loro permanenza

nell'iperuranio prima dell'incarnazione. Ognuna di esse, infatti, si trovava al seguito di una

specifica divinità dotata di peculiari caratteristiche, alla quale cercava di rendersi “simile”.

Secondo le parole di Socrate, il carattere della divinità influenza direttamente il

temperamento dell'individuo in cui l'anima che ne era al seguito va ad incarnarsi. Chi era al

seguito di Zeus, per esempio, si incarna in un individuo con un carattere adatto al comando

e incline all'amore per la sapienza, così come chi era al seguito di Era si incarna in un

individuo dal carattere regale, e così via. Il ricordo del dio al cui seguito l'anima si trovava

nasce proprio in seguito alla vista dell'amato, ed è in questo senso che Socrate afferma che

attraverso l'amato è possibile partecipare a ciò che è divino:

E così i seguaci di Zeus cercano come amato chi abbia un'anima affine a quel dio: osservano se
abbia una natura filosofica e incline al comando, e quando lo trovano se ne innamorano e fanno di
tutto perché rimanga tale. Se prima non si erano impegnati in una tale occupazione, ora vi si
accingono, imparando da dove possono e applicandosi per loro conto. Mettendosi sulle tracce

73 Vedi supra, pp. 27-28.

95
riescono facilmente a trovare da sé la natura del loro dio; erano stati infatti costretti a fissare il loro
sguardo intensamente su di esso: quando entrano in contatto con lui tramite la memoria, venendone
ispirati, ne adottano le consuetudini e le occupazioni, per quanto è possibile all'uomo partecipare di
ciò che è divino. E attribuendo il merito di tutto ciò ai loro amati, li amano ancora di più: anche se
attingono da Zeus come le Baccanti, riversando nell'anima dell'amato ciò che hanno attinto, lo
rendono quanto più possibile simile al loro dio (Fedro, 252e-253b).

Un amante che era al seguito di Zeus ricerca sulla terra un individuo che, come lui,

sia stato al seguito dello stesso dio, e che quindi possieda un'anima simile alla sua.

Trovando un amato della sua stessa natura, gli si presenta di fronte un'immagine del dio del

quale entrambi erano al seguito. Così, il primo scopo dell'amante è far sì che quelle qualità

affini al divino che egli ha visto nell'amato siano valorizzate il più possibile. Il ricordo del

dio ispira l'amante a compiere azioni sempre più affini a quelle del dio, e in questo modo la

sua anima si fa sempre più divina, per quanto è permesso all'uomo. Socrate aggiunge che

«non c'è gelosia, non c'è malevolenza servile nei loro rapporti; al contrario tutti gli sforzi

sono volti a rendere l'amato più simile a se stessi e al dio che onorano» (Fedro, 253 b-c).

Eros quindi porta l'amante a rendere l'amato il più possibile simile al dio, e così

facendo egli stesso diviene migliore. Eros in questo senso non è una passione incentrata su

se stessa, ma è desiderio di un bene e di un bello assoluto che è anche inevitabilmente un

desiderio di rendere l'altro più nobile e più bello 74. È il caso di rammentare qui il passo del

Simposio in cui Platone sostiene che eros è amore di “ciò di cui si è carenti” (Symp. 200e).

Abbiamo visto che “ciò di cui si è carenti” non è altro che la nostra vera natura, che

cerchiamo di recuperare tanto quanto invitiamo la persona che amiamo a fare lo stesso 75.

Se leggiamo il passo del Fedro appena citato alla luce di questo nesso possiamo sostenere

74 Cfr. Bonazzi, op. cit., p. 133, n. 169.


75 Vedi supra, pp. 49-50.

96
che “la nostra vera natura” assume in questo dialogo caratteristiche più chiare e specifiche:

è riconducibile alla nostra esistenza prima dell'incarnazione ed è strettamente legata alle

qualità possedute dal dio di cui eravamo al seguito. Il rapporto erotico che si instaura qui

ha come scopo il rendere l'altro “più divino”. Non ci sorprende quindi il fatto che Socrate

affermi che tale relazione è esente da invidia o gelosia: un amante nobile sa che la bellezza

che costituisce l'oggetto del suo amore va al di là dell'amato e proviene direttamente dal

dio. Non c'è, quindi, il desiderio di possedere l'altro fisicamente o spiritualmente, ma di

compiere un viaggio insieme alla volta della bellezza ideale76.

Nel Simposio Platone rimane piuttosto vago sul motivo per cui una persona può

attrarre più di un'altra il desiderio erotico, o meglio, si limita ad indicare come unica

ragione la bellezza fisica. Nel Fedro, invece, è maggiormente enfatizzato l'aspetto della

reciprocità della relazione amorosa. Occorre sottolineare che in questa relazione è presente

una certa asimmetria: l'amato riceve di rimando dall'amante la corrente di bellezza e di

amore che è partita da lui, si rispecchia, ma di fatto non capisce che cosa sta succedendo.

Socrate afferma che, benché anche lui sia mosso da amore, lo chiama amicizia. L'amante

rivede il suo comportamento e diviene più divino attraverso il ricordo della realtà

ultraterrena, comprende l'aspetto divino del sentimento che sta provando, mentre l'amato

non fa lo stesso con l'amore che prova, non lo comprende, perché è un amore di risposta,

un'immagine dell'amore (Fedro, 255e). Nonostante sia possibile rilevare qui una forma di

asimmetria, si tratta comunque di una asimmetria diversa da quella che caratterizzava le

relazioni pederastiche diffuse nella società ateniese al tempo di Platone, in cui un membro

era attivo e l'altro passivo, e nelle quali non erano previsti sentimenti di amore da parte del

76 Cfr. Bonazzi, op. cit., p. 133, n. 169.

97
giovane77.

Nella relazione erotica teorizzata da Platone entrambi gli individui coinvolti

progrediscono sul cammino della virtù. Non può non venire alla mente a questo proposito

la situazione dell'Alcibiade I in cui la relazione amorosa offre le condizioni per cui Socrate e

Alcibiade possono mettersi, insieme, sulla strada della saggezza 78. Anche nel Fedro, come

nell'Alcibiade I, la relazione proposta da Platone è una relazione a “doppio ruolo”, in

quanto eros procura agli amanti le condizioni necessarie per comprendere che cosa è

“bene” in modo che entrambi siano d'aiuto reciproco in vista del miglioramento delle

rispettive anime.

Questo permette di sottolineare ancora una volta che in una relazione come quella

descritta non siamo primariamente preoccupati del nostro interesse personale, ma di un

rapporto fondato sull'idea di cura. Secondo Socrate, questa relazione tra due individui dal

carattere filosofico, oltre ad essere libera da invidia, gelosia, cattiveria e egoismo, prevede

che entrambi gli innamorati si impegnino nel fare bei discorsi e a discuterne (Fedro, 257b).

L'altro, quindi, non è semplicemente un individuo bello fisicamente, nella cui avvenenza

possiamo acciuffare una traccia del divino, ma è un individuo che, come noi, percorre la

strada della saggezza attraverso la filosofia. In questo senso l'altro è un'immagine non solo

della divinità, ma anche della mortalità: è qualcuno che, in quanto umano, non è già

virtuoso, ma aspira a diventarlo il più possibile, proprio come il “filosofo” del Simposio,

che come '“amante della sapienza”, si trova in una posizione intermedia fra ignoranza e

saggezza, sempre teso in direzione di quest'ultima.

Risulta evidente nel Fedro, come nell'Alcibiade I, l'importanza del nesso tra eros e

77 Cfr. Bonazzi, op. cit., p. 143, n. 182.


78 Vedi supra, pp. 19-20, 29.

98
cura di sé: l'amore, mettendo le “ali” all'anima, ne favorisce la cura, che consiste

nell'assimilarsi sempre più alla divinità. È Socrate stesso nell'Alcibiade I a dire al suo

amato: «Il mio amore verso di te, allora, sarà in tutto simile a quello della cicogna: dopo

avere covato in te un amore alato, sarà esso poi, a sua volta, ad essere circondato di cure»

(Alc. I, 135e). Anche il concetto di “ascesa” presente sia nel Simposio che nel Fedro, può

trovare un'anticipazione nell'Alcibiade I, là dove Socrate domanda ad Alcibiade: «Tu

conosci il modo di poter salire al cielo?» (Alc. I, 117b). Sembra plausibile collegare il

riferimento al “cielo” al mondo delle Idee e a quella che nel Fedro è la “pianura della

verità”, il luogo dell'Iperuranio in cui si trova il «pascolo che si addice alla parte migliore

dell'anima» (Fedro, 248b), ovvero il prezioso nutrimento dell'ala dell'anima.

Nonostante che il problema della conoscenza di se stessi avviato nell'Alcibiade I si

leghi nel Fedro alla comprensione di qualcosa che sta al di fuori dell'esperienza

prettamente umana, ovvero alla dimensione ultraterrena che l'anima ha sperimentato prima

di incarnarsi, l'amore continua ad essere qualcosa capace di favorire la conquista, o in

questo caso, il recupero, di questa indispensabile e imprescindibile conoscenza (Fedro,

229e).

6. Eros e la soddisfazione del piacere fisico

Come abbiamo accennato, una relazione d'amore del genere, volta al miglioramento

dell'anima attraverso la filosofia, non è per tutti:

L'uomo la cui iniziazione risale a tanto tempo fa o che ormai corrotto non si slancia rapidamente
di qui a là, verso la bellezza in sé, quando guarda quello che sulla terra porta il suo nome: così,
invece di elevare il suo sguardo con venerazione in quella direzione, si abbandona al piacere,

99
cercando come una bestia di montare e di spargere il suo seme; compagno dell'eccesso, non teme
né si vergogna di inseguire piaceri contro natura (Fedro, 250e-251a).

Una relazione di eros filosofico come quella che abbiamo descritto non può esistere

tra persone che provano solamente il desiderio di soddisfare il piacere fisico, ma si addice a

coloro che hanno un'anima filosofica e amano trascorrere la vita in discorsi ispirati dalla

filosofia. Queste caratteristiche che contraddistinguono gli individui sono considerate in un

certo senso “innate”, poiché derivano dall'esperienza che l'anima ha avuto prima di

incarnarsi. Nel passo citato i filosofi vengono distinti da coloro che provano

esclusivamente il desiderio di soddisfare i propri impulsi fisici, ma, come abbiamo visto

indagando la natura dell'anima, la questione è ben più complessa. Nel Simposio il desiderio

erotico, con il relativo aspetto passionale, è presente, ma è il primo che va incontro ad una

sublimazione trasformandosi in apprezzamento “estetico”, o per così dire “contemplativo”,

della bellezza dell'altro. Abbiamo a questo proposito sottolineato il contrasto con l'eros

socratico, che prevedeva piuttosto una repressione del desiderio. Nel Fedro viene

presentato un quadro più ampio della condizione umana, i cui molteplici desideri e spinte

motivazionali, come il desiderio di onori o, appunto, quello passionale, sono ricondotti alla

composizione interna dell'anima, di cui nel Simposio non si parla. Anche se Socrate sembra

sostenere che la felicità risieda nel raggiungere gli scopi del desiderio razionale, si può

ipotizzare che i desideri non razionali possano contribuire all'avere una vita felice,

svolgendo un ruolo positivo in due sensi: il primo è che possono essere un'importante fonte

di motivazione all'azione, e il secondo è che, in quanto rispondono alla bellezza, possono

guidare in vista del perseguimento del bene79. F. Sheffield fa presente che questa inclusione

degli elementi non razionali nel Fedro può essere vista come una compensazione

79 Cfr. Sheffield, op. cit., p. 226.

100
dell'eccessivo razionalismo del Simposio, ovvero come un completamento della dottrina

erotica esposta da Diotima, il che favorirebbe un'interpretazione “debole” del confronto tra

i due dialoghi, che viene solitamente contrapposta ad una “forte”, secondo la quale la teoria

del Fedro sarebbe un tentativo di correzione di quella del Simposio80. Nel Simposio l'unica

distinzione che ritroviamo tra gli individui è basata su una diversa concezione di quale sia

il bene che sta al centro di una vita felice: gli affari, la ginnastica o la filosofia. Lo studioso

fa notare che, per sostenere il parallelismo con la tripartizione dell'anima che emerge nel

Fedro e nella Repubblica, occorre mostrare che ogni individuo contiene in sé tutte e tre

queste tendenze e, nella formulazione della sua concezione del bene, si trova a

privilegiarne una piuttosto che un'altra. Inoltre, alla luce della Repubblica possiamo

affermare che per distinguere le diverse parti dell'anima occorre un qualche criterio, come

quello di “opposizione” presente in quest'ultimo dialogo platonico 81. Questo non è

possibile in relazione al Simposio, perché Platone non dà informazioni sufficienti per

estrapolare una teoria dell'anima82. Tuttavia, per Sheffield, la teoria della tripartizione

dell'anima non è incompatibile con la dottrina erotica del Simposio83.

N e l Fedro, rispetto al Simposio, è enfatizzato l'aspetto irrazionale di eros: come

abbiamo visto, quando l'individuo si trova colpito dal sentimento amoroso accade qualcosa

che la ragione non è del tutto in grado di comprendere, ma entra in gioco la mania. Gli

aspetti non-razionali presenti nell'anima, ovvero la passionalità e l'animosità, come

abbiamo visto descrivendo la lotta interna all'anima durante il processo di reminiscenza,

sono prima di ostacolo e poi di aiuto nel movimento verso l'alto dell'anima, che però è

sempre guidato dalla ragione. In questo senso, la teoria della virtù e della felicità non

80 Cfr. Sheffield, op. cit,, p. 219.


81 Vedi infra, pp. 110-115.
82 Cfr. Sheffield, op. cit., p. 217.
83 Cfr. ivi, p. 232.

101
subisce sostanziali modificazioni in Platone. In entrambi i dialoghi eros tende al bene, che

si ottiene attraverso la contemplazione delle Idee (Fedro 247c e Simposio 211d), e in

entrambi il processo di ascesa è innescato dalla visione della bellezza.

Se riprendiamo l'interpretazione di eros come energia psichica delineata da Cornford,

possiamo pensare alla lotta interna all'anima come a una ricanalizzazione del flusso del

desiderio che, mentre nel Simposio andava incontro ad una progressiva sublimazione

dirigendosi verso oggetti sempre più astratti, nel Fedro si presenta come una

ridistribuzione dell'energia in quantità diversa all'interno delle distinte parti dell'anima.

Questo processo avviene in maniera immediata, attraverso uno sconvolgimento interiore

intenso e irrazionale, per cui l'energia che in un primo momento si dirige come un fiume in

piena verso la parte passionale dell'anima finisce, nel caso dell'eros che si instaura tra

anime filosofiche, per essere canalizzato perlopiù verso la parte razionale, quella divina,

che, attraverso i discorsi filosofici, ricerca la conoscenza. In questo modo una minor

quantità di energia affluisce alla parte passionale dell'anima, e il cavallo nero può più

facilmente essere domato. La temperanza che caratterizza l'eros filosofico può essere vista,

così, come una distribuzione equilibrata dell'energia psichica all'interno delle tre parti

dell'anima, che, come viene ribadito anche nella Repubblica, prevede che ad essere

privilegiata sia la parte razionale.

Il Fedro, aggiunge, rispetto al Simposio, che, in quanto umani, siamo sensibili a

spinte motivazionali presenti nella nostra anima che possono essere in contrasto tra loro.

Sostiene anche, però, che possiamo raggiungere una condizione di armonia tra di esse tale

che le passioni contribuiscono alla nostra felicità. Platone non afferma da nessuna parte che

dobbiamo eliminare gli appetiti fisici o la sete d'onore, ma invita semplicemente a domarli

come si addestrano dei cavalli ineducati. Il desiderio razionale che mira alla

102
contemplazione e alla conoscenza delle Idee resta l'aspirazione più alta che il filosofo, se

vuole essere virtuoso, deve assecondare e porre alla base della sua vita, senza lasciare che

le altre motivazioni presenti nell'anima lo distraggano da questo scopo, ma facendo in

modo che invece vi contribuiscano.

Secondo Fussi, la differenza tra un cavallo nero educato che si muove verso l'alto in

modo unitario insieme a tutta l'anima, e uno ineducato che si ostina ad opporsi alla

direzione imposta dall'auriga, corrisponde alla differenza tra un semplice appetito, quello

proprio ad esempio degli animali, e un appetito umano: nel bisogno umano vi è

un'interruzione della continuità con l'elemento naturale, un taglio del cordone ombelicale

che lega direttamente l'essere vivente alla natura, dovuto alla relazione dell'ala con la

verità84, che permette il movimento verso l'alto. Grazie all'ala l'anima entra in contatto con

“ciò che veramente è”, si stacca dalla dimensione terrena, e prova un tipo di desiderio che

può essere guidato o influenzato, anche se con difficoltà, dalla ragione. Lo stesso non può

accadere negli animali, in cui il legame con la natura è caratterizzato da una continuità che

non può essere interrotta, e i cui bisogni sono caratterizzati da un approccio assimilativo,

quello che abbiamo visto caratterizzare il tipo di amore descritto da Socrate nel suo primo

discorso, in cui l'amato era per l'amante «come cibo per saziarsi» (Fedro, 241c). Il

desiderio che prova chi mette le ali, al contrario, non mira a trasformare l'oggetto del

desiderio in qualcosa da consumare e trasformare, ma riconosce il carattere

sovrabbondante, inesauribile e generoso della verità. Risulta evidente l'affinità con

l'atteggiamento adottato degli dei durante il loro percorso di contemplazione delle Idee:

essi non lottano tra loro per riuscire a nutrirsi in maniera maggiore della verità, ma

84 Cfr. Fussi, “As the Wolf Loves the Lamb”, cit., p. 60.

103
comprendono come essa sia inesauribile e non assimilabile85.

Questa lettura invita ad immaginare che, come il cavallo nero che mette le ali

conferisce all'anima un modo di desiderare moderato e rispettoso dell'alterità dell'oggetto

del desiderio, allo stesso modo un cavallo bianco alato conferisce all'animosità quella

temperanza per cui essa non degenera in arroganza e vanagloria. D'altronde, una ragione

senza ali può essere qualcosa che allontana dalla verità piuttosto che un mezzo per

raggiungerla, ovvero un semplice strumento di conformismo del tutto opposto ad una

forma di pensiero libera e indipendente, capace di percorrere la strada della filosofia86.

7. Eros e la retorica

Una volta concluso il discorso di Socrate, la conversazione tra Fedro e il filosofo si

sposta sul tema della retorica, abbandonando così la trattazione specifica del tema dell'eros,

con il quale, tuttavia, sono riscontrabili rimandi e connessioni. Fedro risponde a Socrate

senza riconoscere la rilevanza dei contenuti filosofici che egli ha esposto, ma si esprime

esclusivamente in relazione alla superiorità del suo discorso dal punto di vista retorico. La

retorica è un tema caro a Platone, che lo affronta in diversi dialoghi, principalmente nel

Gorgia. Essa, così come eros, ha per Platone uno stretto legame con la verità che emerge

subito nel Fedro, quando Socrate domanda al giovane: «Non è forse necessario che i

discorsi ben detti presuppongano nella mente di chi li tiene la conoscenza della verità in

merito all'argomento di cui si deve parlare?» (Fedro, 259d). Fedro risponde facendo

presente a Socrate che molti sostengono il contrario, ovvero che ciò che conta nella

85 Vedi supra, p. 85.


86 Cfr. Fussi, “As the Wolf Loves the Lamb”, cit., p. 61.

104
retorica non è la verità, ma l'opinione di coloro a cui si rivolgono i discorsi: «non ciò che è

realmente buono, ma ciò che sembrerà tale» (Fedro, 260a). Interrogandosi sulle

caratteristiche della retorica, Socrate e Fedro concordano che, per persuadere o ingannare,

è necessario conoscere le somiglianze o le dissomiglianze tra le cose: non è possibile

essere certi di ingannare a proposito di qualcosa se non si conosce con certezza la verità

sull'argomento di cui si parla (Fedro, 262b).

Poiché conoscere la natura delle cose non è semplice, Socrate individua un metodo

composto da due procedimenti, detto metodo “dialettico”. Il primo passo consiste nel

considerare «insieme ciò che è molteplice e disseminato per ricondurlo a una sola forma, in

modo da rendere chiara, definendola, ciascuna cosa intorno a cui ogni volta si voglia

insegnare» (Fedro, 265d) e il secondo nel «suddividere nuovamente l'oggetto per specie,

seguendone le articolazioni naturali» (Fedro, 265c). Viene così delineato il procedimento

proprio del dialettico: la capacità di condurre prima il molteplice ad un'unica idea, e poi

suddividere tale idea secondo le sue linee naturali con un movimento discensivo, in modo

da offrirne un quadro sinottico. Un esempio di questo procedimento è riscontrabile nella

definizione che Socrate dà della mania per spiegare come sia stato possibile passare da un

discorso di biasimo nei confronti di eros ad uno di lode. Dopo aver riunito la mantica,

l'oionistica, la poesia e l'amore sotto l'idea di mania è opportuno suddividere tale idea

secondo le sue linee naturali e mostrare che ci sono due diramazioni interne tali che esiste

una follia «derivante dalle malattie umane» (Fedro, 264b), e una provocata dalla divinità.

Entrambi i discorsi di Socrate hanno considerato come unica la follia che colpisce gli

uomini ed hanno perciò messo in luce solo un aspetto limitato di eros. Una visione più

veritiera si può ottenere con il procedimento di “ascesa” e “discesa” proprio del dialettico,

l'unico in grado di svelare la verità sull'oggetto dell'argomentazione, quella verità

105
necessaria alla realizzazione di ogni tipo di persuasione, anche di quella che mira

all'inganno.

Il procedimento dialettico sta quindi alla base della retorica. Per persuadere, però,

non è sufficiente che il retore conosca dell'oggetto di cui si parla: occorre conoscere anche

la natura dell'anima, in particolare quanti e quali tipi di anime esistono, poiché non tutti gli

uomini si lasciano persuadere dai medesimi discorsi. Socrate sostiene che discorsi diversi

siano in grado di persuadere tipologie di anime diverse (Fedro, 271d), e per questo occorre

essere consapevoli degli effetti che specifiche tipologie di discorsi possono avere e su quali

anime. Questo aspetto è comune alla retorica e alla medicina: come la medicina deve

conoscere il corpo per curarlo, così è necessario per la retorica conoscere la natura

dell'anima per avere effetto su di essa (Fedro, 270b).

Il procedimento da seguire per conoscere l'anima è quello proprio di una techne:

Non bisogna forse ragionare intorno alla natura di una cosa, quale che sia, nel seguente modo?
Prima di tutto, se sia semplice o multiforme ciò di cui vogliamo diventare esperti e capaci di
rendere tali gli altri; in un secondo momento, nel caso sia semplice, occorre indagare la sua
capacità, vale a dire da un lato quale capacità di agire abbia, e su che cosa, dall'altro quale di subire
e per opera di che cosa. Nel caso sia invece multiforme, occorre enumerarne le parti, per vedere,
come nel caso dell'oggetto unico, quale capacità abbia di agire e su che cosa, e quale di subire e per
opera di che cosa (Fedro, 270d).

Il retore è chiamato a catalogare i tipi di anime e a stabilire i generi di discorso che si

addicono a ciascuno. A questa conoscenza va aggiunta quella «del momento opportuno per

parlare o tacere, riconoscendo anche la misura adatta e inadatta per i discorsi brevi, lo stile

compassionevole, quello veemente e tutti i generi di discorsi appresi: solo allora si sarà

raggiunta una completa perfezione della tecnica» (Fedro, 272a).

Questa approfondita descrizione dei meccanismi della retorica si spiega con la

106
convinzione platonica per cui «la potenza del discorso culmina nella guida delle anime»

(Fedro, 271d). Solo chi conosce la verità sia riguardo all'oggetto di cui parla, sia riguardo

agli effetti che il tipo di discorso ha e su quali tipi di anime, può esercitare un'efficace

persuasione nell'anima dell'interlocutore e impiantare in lui quei discorsi che lo porteranno

alla pratica della filosofia. Per comprendere meglio che cosa si intenda con “impiantare

nell'anima” i discorsi, occorre fare riferimento alla critica alla scrittura presente nelle

ultime pagine del Fedro e che viene introdotta con un mito: il mito di Theuth.

Tale mito narra l'invenzione della scrittura da parte di Theuth, un dio che vive in

Egitto sotto il regno di Thamous. Nel presentare la sua invenzione, Theuth descrive la

scrittura come uno strumento in grado di favorire sapienza e memoria. Il re, al contrario,

gli spiega che essa genera oblio sulle anime di chi l'apprende, poiché, confidando nella

scrittura, gli individui non esercitano la memoria dall'interno di se stessi, ma dall'esterno

(Fedro, 275a). Questa affermazione è da collegare con la reminiscenza, il processo favorito

d a eros in grado di risvegliare nell'anima il sapere già presente in essa. I discorsi

possiedono questa capacità preziosa di “guidare” l'anima in questo percorso di riscoperta

della verità, e se «l'unico vero sapere è il sapere che è nell'anima, il criterio per stabilire il

valore relativo dei discorsi risiede nella maggiore o nella minore incidenza che un discorso

riesce ad ottenere su questo terreno»87. Il discorso scritto, ad esempio, possiede un difetto

ineliminabile: può finire nelle mani di chiunque ed essere letto sia da coloro sui quali può

avere un effetto positivo, che da coloro che possono fraintenderlo. In altre parole, il

problema principale della scrittura consiste nell' «incapacità di armonizzare anime e

discorsi»88. Inoltre, un discorso scritto non può venire «in soccorso a se stesso» (Fedro,

87 F. Trabattoni, Scrivere nell'anima, La Nuova Italia Editrice, 1993, pp. 63-64.


88 Ivi, p. 68.

107
276a): ormai fissato ed immutabile, non può chiarire in alcun modo al lettore il significato

che vuole veicolare, rischiando di essere inutile o, nei casi peggiori, dannoso. Il discorso

orale, invece, permette all'oratore di scegliere i discorsi che più si adattano all'anima

dell'individuo che li ascolta, favorendo il recupero interiore della verità in cui consiste la

vera conoscenza. È possibile riconoscere che il discorso scritto possiede una funzione

positiva: è un utile «supporto per la memoria di chi già sa» (Fedro, 278a). Tuttavia, dato

che «la verità è un attributo dell'anima e non dei discorsi»89, per chi sa dedicarsi ai discorsi

molto più bello […] diventerà quando farà sul serio, quando ricorrendo alla dialettica e
prendendo un'anima adatta, pianterà e seminerà, con la conoscenza, discorsi che saranno capaci di
soccorrere se stessi e chi li ha piantati, discorsi non sterili ma fecondi di semi, da cui cresceranno
altri discorsi ancora, in altri tipi di anime, capaci di rendere sempre immortale questa semenza e
rendendo chi li possiede felici, per quanto felice piò essere un uomo (Fedro, 276e-277a).

La differenza fondamentale stabilita dal Fedro non è dunque quella fra discorso

scritto e discorso orale, ma fra il sapere dell'anima e i discorsi in generale 90. Quello che

conta è la capacità del discorso di risvegliare la verità presente nell'anima e dare vita ad

altri discorsi che abbiano la stessa capacità maieutica in altre anime.

Anche nel Simposio si riscontrano riferimenti al potere delle parole: l'ascesa

dell'individuo verso la verità prevede ad ogni tappa la creazione di discorsi che conducano

l'anima a conquiste cognitive fondamentali per progredire nel percorso verso la

contemplazione del Bello ideale. A differenza del Fedro, però, non si parla di dialettica, la

quale, se è presente nell'ascesa della scala amoris, come abbiamo appena ipotizzato, lo fa

favorendo il processo per cui l'anima riconduce il molteplice all'unità, senza che faccia poi

89 Trabattoni, op. cit., p. 72.


90 Cfr. ivi, p. 63.

108
la comparse un movimento “discendente” di ritorno alla molteplicità, come quello

delineato nel Fedro.

109
4. LA REPUBBLICA: DALL'EROS ALLA DIALETTICA

1. La Repubblica

La Repubblica, scritta tra il 390 e il 360 a.C., è ritenuta uno dei dialoghi più completi

e significativi di Platone grazie alla peculiarità di riuscire a toccare tutti i punti principali

della filosofia platonica. Si tratta di un dialogo molto corposo, composto da dieci libri, in

cui ritroviamo riferimenti alla tripartizione e all'immortalità dell'anima, ma anche al mondo

delle Idee e alla dialettica, il tutto in relazione ad un ampio progetto politico. L'oggetto

fondamentale del dialogo, infatti, è l'indagine su che cosa sia la giustizia, sia nell'individuo

che nello Stato. Tale indagine porta Socrate, presente nel dialogo in forma di narratore che

espone in prima persona una conversazione accaduta in un momento precedente, a spaziare

con l'argomentazione fino a creare un paradigma di città ideale retta sulla giustizia. Platone

offre una descrizione dettagliata di questo Stato ideale, dall'articolazione della funzione

delle classi sociali all'educazione dei singoli cittadini. L'educazione costituisce un filo

conduttore che percorre quasi tutto il dialogo e che fa la sua comparsa con l'esposizione

delle regole per la formazione di un buon guerriero, figura protagonista dei primi libri della

Repubblica, e prosegue con la descrizione delle discipline riservate ai futuri filosofi e

governanti.

Tutto l'interesse per la formazione dei cittadini e del modo in cui la loro anima si

struttura a partire dalla nascita mostra la volontà di Platone di offrire un esempio di

profonda riforma sociale. Con l'elaborazione della teoria dell'educazione il filosofo si

allontana sempre più dalla dimensione ristretta del dialogo che caratterizzava l'attività

socratica, spostando la sua riflessione all'interno di un contesto più ampio, in linea con il

110
progetto di riforma sociale che qui si delinea. Questo interesse per la politica, che si

rispecchia nella Repubblica nel tentativo di teorizzare la città ideale e giusta, nasce dal

riconoscimento della tragica decadenza che ha colpito Atene, con la sconfitta nella guerra

del Peloponneso e il colpo di stato dei Trenta Tiranni, ma anche e soprattutto dalla

condanna di Socrate. Come Platone spiega nella Lettera VII, questi eventi lo hanno portato

a pensare che l'unica soluzione per sanare il sistema politico sia di Atene che delle altre

città fosse la filosofia (Lettera VII, 324c-326b).

Per Platone, la riforma politica deve partire dalle anime dei singoli individui, sulle

quali l'educazione può influire favorendo le condizioni necessarie affinché essi non

commettano ingiustizie. La condanna di Socrate non aveva fatto altro che mostrare al

filosofo il fallimento dell'approccio del maestro e presentare ai suoi occhi la necessità di

trovare una nuova chiave per il miglioramento morale degli individui, un miglioramento

che si rispecchiasse nelle istituzioni e in quel mondo politico che si era mostrato capace,

condannando Socrate, di compiere la più grave delle ingiustizie. È alla luce di questa

contestualizzazione che possiamo comprendere la continuità tra eros socratico, eros

platonico, ed educazione: tutti e tre sono volti a realizzare lo scopo ultimo della filosofia,

ovvero il miglioramento interiore, la saggezza.

2. La tripartizione dell'anima

Interesse di Platone è riflettere su un sistema educativo che possa influire sull'anima

dei cittadini, quella che è per lui l'essenza autentica dell'uomo, ricercandone la giustizia.

Per questa ragione, troviamo riferimenti specifici e dettagliati alla composizione interna

dell'anima, che, come vedremo, si pongono in continuità con il mito della biga alata

111
presente nel Fedro. Nella Repubblica tutti i desideri, compresi gli appetiti fisici, vengono

collocati nell'anima piuttosto che nel corpo, in una concezione innovativa rispetto alla

tradizione precedente: viene superata la posizione di pensiero di origine orfico-pitagorica

che vede l'opposizione sia ontologica che morale tra anima e corpo, in cui la prima

rappresenta la polarità divina, immortale e incontaminata, e il secondo l'impurità sia morale

che conoscitiva91.

Occorre precisare che sono presenti, nella Repubblica, delle incongruenze riguardo

alla natura dell'anima: nel IV libro Platone ne distingue le varie parti che la compongono,

ma quando cerca di dimostrare la sua immortalità nei libri IX e X precisa che l'anima che

sopravvive alla morte e che si reincarna dopo aver contemplato le Idee è semplice e ben

separata dal corpo (Resp. X, 611b-612a), quindi non corrisponde esattamente a quella che

precedentemente aveva indagato in tutta la sua complessità. Quando Platone scrive il

Fedone (Phaed. 108a-c), attribuisce all'anima solamente la facoltà razionale, e ritiene

passioni ed emozioni, così come l'appetito fisico puro, elementi corporei che hanno come

scopo quello di trascinare l'anima in basso, al proprio livello92. La conseguenza di tale

posizione è che passioni ed emozioni debbano essere repressi in favore di una

“coltivazione” dell'anima che la conduca ad acquisire quelle caratteristiche che avrebbe se

fosse disincarnata, in una sorta di "pratica per la morte". Tuttavia, abbiamo visto che le

anime disincarnate di cui Platone ha parlato nel mito della biga alata nel Fedro sono

composte da tre parti: le anime che sono destinate all'incarnazione nei corpi mortali

possiedono già tutti e tre gli elementi prima della caduta dal cielo, mentre ancora cercano

di intravedere la realtà nella pianura della verità93. Siamo in un'evidente difficoltà se

91 Cfr. Mario Vegetti, Guida alla Repubblica di Platone, Roma, Laterza, 1999, p. 56. Ho fatto simili
riferimenti già nel III capitolo, trattando il mito della biga alata nel Fedro, vedi supra, p. 83.
92 Cfr. Sassi, Eros come energia psichica, cit., p. 276.
93 Vedi supra, pp. 84-86.

112
confrontiamo questa visione del destino ultraterreno dell'anima con quelle di altri dialoghi.

C'è probabilmente una contraddizione irrisolta nel pensiero stesso di Platone, che oscilla

fino alla fine tra una concezione religioso-pitagorica dell'anima concepita in contraddizione

dualista al corpo e una concezione dell'anima intesa essenzialmente come sede di una

varietà di desideri, compresi quelli fisici94. Guthrie95, ad esempio, sostiene che Platone non

abbia mai, in realtà, cambiato radicalmente la sua posizione riguardo l'“essenza”

dell'anima: a suo avviso è improbabile che sia arrivato ad includere le due parti inferiori

dell'anima nella sua natura più pura e più vera, ma è più plausibile che sia sempre stato

convinto che solo la ragione, o per meglio dire, quella parte dell'anima che aspira alla

sapienza e alla conoscenza, sia immortale.

Al di là della questione dell'immortalità dell'anima, che non possiamo ulteriormente

approfondire in questa sede, è utile ritornare sulla novità significativa della Repubblica,

che era già emersa nel mito della biga alata esposto nel Fedro: Platone indaga il conflitto

tra passioni, emozioni e razionalità, situandolo interamente nell'anima. La conseguenza di

questa nuova consapevolezza è che viene data una maggiore importanza al ruolo di

passioni ed appetiti, spostando l'attenzione sulla necessità di una loro regolazione o

armonizzazione, piuttosto che di una loro repressione.

Platone individua tre parti dell'anima che sono di fatto tre “centri motivazionali”96:

uno passionale, uno animoso e uno razionale, ognuno dei quali possiede diversi tipi di

bisogni e desideri. A seconda di quali tipi di desideri prevalgono al suo interno, l'anima

risulta dominata da una delle tre specifiche componenti e ne segue che l'individuo è portato

ad assumere lo stile di vita corrispondente. La prima, la ragione, viene descritta come la

94 Cfr. W. K. C. Guthrie, Plato's View on the Nature of the Soul, in Recherches sur la tradition
platonicienne – Entretiens sur l'antiquité classique, tome III, Genova, 1955, pp. 7-8.
95 Cfr. ivi, p. 8.
96 Cit. Vegetti, Guida alla Repubblica di Platone, cit., p. 61.

113
parte che desidera la saggezza e l'apprendimento, e permette di ampliare la sfera della

conoscenza escludendo da essa tutto ciò che non corrisponde a verità (Resp. IX, 581b).

Essa è inoltre, come sottolineeremo meglio più avanti, l'unica in grado di guardare al bene

dell'anima nel suo complesso97, mentre le altre due parti, quella epithymetica e quella

thymoeidetica, non vedono oltre il soddisfacimento dei propri specifici desideri. L'appetito

desidera soddisfare i bisogni del corpo e quindi ricerca cibo, bevande, sesso e il denaro

necessario per possedere tali oggetti (Resp. IX, 580e), mentre le aspirazione di thymos sono

onore e gloria (Resp. IX, 581a-b).

Per delineare questa tripartizione dell'anima Platone fa riferimento alla

fenomenologia dei conflitti psichici, a partire dall'assunto che «l'identico soggetto

nell'identico rapporto e rispetto all'identico oggetto non potrà contemporaneamente fare o

patire cose opposte» (Resp. IV, 436b). Ciò significa che quando incontriamo una

contraddizione di questo genere dobbiamo riportare ogni azione a diversi soggetti. Socrate

fa l'esempio di un uomo che allo stesso tempo si trova a desiderare e a rifiutare una

bevanda (Resp. IV, 439c). Per spiegare come sia possibile provare entrambi gli opposti

desideri (possiamo immaginare che abbia sete ma che la bevanda di fronte a lui, se bevuta,

gli recherebbe dei danni) non si può che ipotizzare un conflitto interno all'anima tra un

elemento appetitivo, quello che suggerisce di bere, e la ragione che tende all'opposto.

Un simile schema viene seguito per distinguere la parte animosa da quella

passionale: Socrate racconta la storia di Leonzio (Resp. IV, 439e-440a) che, passando

accanto a dei cadaveri distesi ai piedi di un boia, prova un forte desiderio di guardarli.

Insieme a questo desiderio prova repulsione per il fatto stesso di desiderare qualcosa di

così riprovevole, ritrovandosi a sperimentare un conflitto interiore, una feroce lotta interna

97 Vedi infra, p. 119.

114
alla fine della quale cede e guarda i cadaveri dicendo ai propri occhi di “godere del bello

spettacolo”, ovvero rimproverando se stesso.

Questo esempio mostra che tutti quegli aspetti legati al senso di dignità personale,

alla rabbia, all'indignazione e al desiderio di onore non possono appartenere alla parte

appetitiva, perché possono risultare contraddittori rispetto ai desideri di tale parte. È così

che viene individuata la parte thymoeidetica dell'anima, chiamata anche “animosa”, capace

di fare appello a valori come “nobile” e “ignobile”, fondamentali per stabilire la propria

condotta. Essa sembra essere anche la sede di emozioni come la vergogna, di cui abbiamo

visto la funzione fondamentale all'interno del metodo confutatorio socratico, e di cui

abbiamo sottolineato il legame con eros98. In questo specifico caso, la vergogna di Leonzio

è provata nei confronti dell'ideale di persona rispettabile e dignitosa che la società gli ha

trasmesso e al quale egli sente di dover corrispondere. Essa, unita all'indignazione verso se

stesso, comporta necessariamente una credenza valutativa a proposito di che cosa sia

giusto e nobile, e questo ci spiega perché thymos sia considerato da Platone l'alleato

naturale della ragione (Resp. IV, 441a): il carattere intrinsecamente sociale dei desideri

propri della parte thymoedetica possiede un riferimento al bene comune che la ragione può

sfruttare per affermare e far prevalere i propri desideri su quelli prettamente fisici della

parte epithymetica99.

Potremmo chiederci, a questo punto, in che relazione questa parte stia con quella

razionale. Socrate si preoccupa di distinguere thymos anche dalla ragione, sottolineando

come esso sia già presente nei bambini e negli animali, in cui la ragione non è ancora

sviluppata. Inoltre, fornisce l'esempio di Ulisse (Resp. IV, 441b-c) che, tornato in incognito

98 Vedi supra, pp. 8-12.


99 Cfr. Vegetti, Guida alla Repubblica di Platone, cit., pp. 59-60.

115
nel suo palazzo a Itaca, scopre che le sue ancelle lo hanno tradito con i Proci e prova un

immediato e furioso desiderio di ucciderle. Tuttavia egli si rende conto che cedere alla

rabbia ridurrebbe le possibilità di raggiungere il suo scopo principale, cioè uccidere i Proci.

Omero dice che Ulisse «“percotendosi il petto rimproverava il suo cuore”» (Resp. IV,

441b) e ciò mostra che siamo di fronte ad un caso in cui la parte razionale dell'anima

rimprovera quella thymoeidetica per aver cercato di accendersi irrazionalmente e la

convince ad allearsi con lei.

Thymos si distingue dalla ragione anche per la natura delle sue risposte agli eventi

circostanti: esse sono immediate, non riflessive, sono parziali e si occupano di questioni

morali solo nella misura in cui tali questioni sono direttamente connesse all'immagine che

l'agente ha di sé. Come fa notare Fussi100, rabbia e indignazione non vengono provate dal

soggetto sulla base della conoscenza di cosa è giusto, ma sulla base di ciò che “appare”

giusto. Per questa ragione thymos può facilmente sbagliare, interpretando frettolosamente

gli eventi e vedendo ingiustizie là dove non ci sono; oppure può credere che ciò che è stato

commesso sia più grave di quanto lo è realmente, portando l'individuo ad esprimere la sua

rabbia in modi e luoghi inopportuni. In questi casi spetta alla ragione acquietare thymos e

riportarlo sulla giusta strada.

Occorre notare che è possibile sostenere che anche la parte appetitiva abbia una sua

propria opinione101, poiché Socrate afferma che durante il sonno la parte appetitiva è in

grado di elaborare sogni complessi ed esercitare il governo sull'anima (Resp. IX, 571c-d).

Questa è la parte che domina, anche mentre la ragione è sveglia, nel modo di vivere del

tiranno.

100Cfr. Fussi, Retorica e potere, Pisa, ETS, 2006, pp. 193-194.


101Cfr. J. Moline, Plato on the Complexity of the Psyche, in De Gruyter, Archiv fur Geschichte der
Philosophie, Berlino, New York, 1978, p. 10.

116
Tutto questo mostra che l'armonia interna all'anima è qualcosa di tutt'altro che

semplice da realizzare, poiché chiama in causa desideri e aspetti valutativi che finiscono

spesso per entrare in conflitto tra loro. È proprio nel miglior equilibrio possibile tra di essi,

in particolare nella capacità di ognuna delle tre parti di svolgere esclusivamente il proprio

compito, che Platone individua la giustizia dell'anima (Resp. IV, 443c-d). Per giungere ad

affermare questa importante tesi, Platone sfrutta l'analogia con lo Stato giusto. La decisione

di ricorrere a questa analogia è giustificata dal fatto che “è più facile leggere una stessa

cosa scritta a caratteri grandi, piuttosto che a caratteri piccoli” (Resp. II, 368d), ovvero che

è utile comprendere in che cosa consista la giustizia nello Stato, dove risulta più chiaro, per

riuscire poi a definire la giustizia dell'anima.

Socrate afferma che «entro ciascuno di noi esistono i medesimi aspetti e caratteri che

esistono nello stato […] perché nello stato essi non sono venuti che dall'individuo» (Resp.

IV, 435e). Buona parte del dialogo è così dedicata alla teorizzazione di un modello di città

giusta, “kallipolis”. Tale città è composta da tre classi sociali: quella dei produttori e degli

agricoltori, quella dei guerrieri o guardiani, e quella dei governanti. Platone spiega che la

classe dei governanti corrisponde alla parte razionale dell'anima, quella dei guardiani alla

parte thymoeidetica, o animosa, e quella dei produttori a quella passionale o epithymetica

(Resp. IV, 439c-e). Così come la giustizia nello Stato può realizzarsi solamente se ogni

classe sociale svolge le proprie mansioni senza invadere i territori di competenza delle altre

due (Resp. IV, 433e-434c), nell'anima vi è giustizia se ogni sua parte svolge

esclusivamente la propria funzione, rispettando i ruoli delle altre.

E la giustizia, come sembra, era davvero qualcosa di simile: essa consiste nell'adempiere i
propri compiti non esteriormente ma interiormente, in un'azione che coinvolge veramente la
propria personalità e carattere, per cui l'individuo non permette che ciascuno dei suoi elementi

117
esplichi compiti propri di altri né che le parti dell'anima s'ingeriscano le une nelle funzioni delle
altre; ma instaurando un reale ordine nel suo intimo, diventa signore di se stesso e disciplinato e
amico di se medesimo e armonizza le tre parti della sua anima (Resp. IV, 443c-d).

La funzione propria della ragione è “governare” (Resp. IV, 444b). Qualora questo

non accada si genera nell'anima l'ingiustizia, che consiste in una sorta di “usurpazione”,

ovvero nel tentativo delle altre parti dell'anima di svolgere il compito proprio della ragione

(Resp. IV, 444b). Non dobbiamo fare l'errore di pensare che, se a ogni parte dell'anima è

riservata una specifica funzione, ognuna sia in grado di svolgere esclusivamente la

propria102. Abbiamo già accennato al fatto che anche la parte animosa e quella passionale

possiedono una certa capacità di ragionamento, così come la ragione ha dei suoi specifici

desideri, come quello della conoscenza.

Nel IX libro della Repubblica Platone attribuisce ad ogni parte dell'anima uno

specifico “amore”: la ragione è definita «amante di apprendere e di sapere» (Resp. IX,

581b), la parte animosa «amante di vittoria e di onori» (Resp. IX, 581b), la parte appetitiva

«amante di denaro e amante di guadagno» (Resp. IX, 581a), nella misura in cui il denaro

permette di soddisfare i suoi appetiti fisici.

Quest'ultimo caso mostra che ci sono cose amate per se stesse e cose amate in quanto

strumenti utili al raggiungimento delle prime. Questo non vale solamente per la parte

appetitiva, ma può valere anche per la parte animosa: l'oggetto amato per se stesso è

l'onore, mentre la vittoria, la buona reputazione, il dominio, sono amati come mezzi per

raggiungerlo103. Questa distinzione mezzi/fini offre la possibilità di pensare all'equilibrio

interno all'anima come ad una modulazione dei diversi desideri che non prevede tanto che

102Cfr. Moline, op. cit., p. 8.


103Cfr. ivi, p. 10.

118
alcuni di essi vengano repressi in favore di altri, quanto piuttosto subordinati. Ognuna delle

tre parti può detenere il comando e subordinare i desideri delle altre due ai propri, ma

solamente quando comanda la ragione l'anima si trova nel suo stato ottimale: essa è l'unica

capace sia di cogliere e comprendere i desideri delle altre due parti, sia di aiutare le parti

stesse ad avere un'autentica e veritiera concezione dei propri desideri:

A proposito di tutti quegli appetiti che si ricollegano all'amore del guadagno e della vittoria,
possiamo dire che quelli che seguono la scienza e la ragione e che, aiutati da queste, mirano e
riescono a cogliere i piaceri che l'intelligenza indica, coglieranno i più veri, per quanto è loro
possibile coglierne i veri. […] Allora se tutta l'anima segue l'elemento filosofico e non è turbata da
discordia, ciascuna sua parte, oltre ad adempiere ogni suo altro compito, è giusta; e inoltre gode i
propri piaceri, i migliori e i più veri che le sia possibile. […] Quando però uno degli altri elementi
abbia il predominio, avviene che esso non riesce a scoprire il proprio piacere e costringe gli altri a
perseguirne uno estraneo e non vero (Resp. IX, 586d-587a).

Se l'anima è governata dalla ragione, in essa regna concordia e giustizia, poiché

questa parte è in grado di realizzare ciò che è meglio anche per le altre due, qualora

riescano a seguire le sue indicazioni. La razionalità, però, non possiede le stesse capacità

per comandare sugli altri desideri che invece possiedono la parte animosa e quella

passionale, dotate di forza bruta che deriva dalle forti emozioni e dagli urgenti desideri che

le caratterizzano. Per dominare su di esse la razionalità può ricorrere esclusivamente alla

sua capacita di comprensione e di persuasione 104, mentre la parte animosa e quella

passionale utilizzano la violenza per detenere il comando. Cerchiamo di capire, perciò,

come sia possibile per la parte razionale riuscire a dominare.

Sulla base dell'analogia che abbiamo visto sopra, a membri di classi sociali diverse

104Cfr. Moline, op. cit., p. 22.

119
viene attribuita la prevalenza di uno dei tre elementi dell'anima: i governanti sono coloro

nella cui anima predomina il principio razionale, capace di guidare le anime individuali e

la collettività verso il bene comune, i guerrieri quelli in cui predomina thymos, con la sua

aggressività collerica che è però disposta ad ascoltare la ragione, e i produttori coloro in cui

hanno il sopravvento i desideri epithymetici, che possono essere temperati solamente con la

dote morale della moderazione105. Ogni componente di questi gruppi possiede dunque

dentro di sé o l'amore per la conoscenza, o quello per l'onore, o quello per i piaceri fisici. È

interessante porre questo punto in relazione con il passo del Simposio che abbiamo citato

nel secondo capitolo106 in cui Socrate afferma che eros, inteso come desiderio del bene,

può esercitarsi attraverso molteplici sentieri: gli affari, la ginnastica, o la filosofia (Symp.

205d).

Ora, nella Repubblica chi persegue la filosofia è considerato l'unico individuo

“giusto”. Come abbiamo accennato inizialmente in quest'opera. Platone mira anzitutto a

riflettere su come sia possibile realizzare la giustizia nell'anima e nello Stato, e a trovare

una soluzione in una riforma dell'educazione. Occorre vedere, quindi, come l'educazione

sia in grado di influire sui desideri dell'anima, orientandoli in modo da favorire il dominio

della parte razionale.

3. L'educazione: cura dell'anima e riorientamento dei desideri

La prospettiva pedagogica adottata da Platone rispecchia la consapevolezza diffusa

nella società greca secondo la quale la formazione del carattere e lo sviluppo della

105Cfr. Vegetti, Guida alla Repubblica di Platone, cit., pp. 62-63.


106Vedi supra, p. 55.

120
conoscenza non dipendono solo dall'insegnamento razionale, ma anche dalle

predisposizioni naturali e dalla formazione dell'individuo attraverso l'esercizio o

l'abitudine107. In un significativo passo Platone spiega che educare l'anima significa in

qualche modo conferirle uno stato di salute:

produrre sanità significa disporre gli elementi del corpo in un sistema di dominanti e di dominati
conforme alla natura: produrre malattia disporli in un sistema di governanti e governati contrario
alla natura. […] D'altra parte, dissi, produrre la giustizia non significa disporre gli elementi
dell'anima in un sistema di dominanti e dominati conforme alla natura? E produrre l'ingiustizia
disporli in un sistema di governanti e governati contrario alla natura? E allora la virtù, sembra, sarà
una specie di sanità, bellezza e felice condizione dell'anima; il vizio malattia, bruttezza e debolezza
(Resp. IV, 444d-e).

Questa analogia tra la virtù e la salute mostra il legame tra educazione e cura

dell'anima: Platone elabora un vero e proprio curriculum educativo volto ad equilibrare le

parti dell'anima. Abbiamo sottolineato nei capitoli precedenti l'esistenza di un legame tra

eros e cura di sé sia in Socrate che in Platone: la cura dell'anima e la sua “conversione”

verso la verità, si trovi essa nella propria dimensione interiore o presso un diverso piano

ontologico, restano gli interessi principali della filosofia platonica nel corso di tutta la sua

riflessione. Come abbiamo già accennato, qui nella Repubblica non si parla esplicitamente

di eros, se non in alcuni passi sporadici, bensì di desideri che caratterizzano le diverse parti

dell'anima. Vedere nel dettaglio i procedimenti educativi consigliati da Platone può aiutarci

a stabilire se è possibile individuare una qualche continuità tra i dialoghi erotici e quelli

“politici” della tarda maturità.

107Cfr. J. Szaif, Plato on the “cultivation of the soul” through philosophical knowledge, in Ideal and
Culture of Knowledge in Plato (Philosophie der Antike), a cura di W. Detel, A. Becker, P. Scholz, Franz
Steiner Verlag, 2003, p. 26.

121
N e l Fedro il legame tra eros e elevazione dell'anima risulta evidente: si parla

esplicitamente della relazione tra innamorati come di una relazione di crescita e di

miglioramento reciproco, volta a rendere l'altro “sempre più divino” (Fedro, 253b-c). E

anche se l'aspetto della reciprocità della relazione amorosa presente nel Fedro non è

analogamente presente nel Simposio, come abbiamo già sottolineato, anche in quest'ultimo

dialogo è possibile ritrovare alcuni riferimenti all'educazione: nella descrizione della scala

amoris sono presenti passi in cui si parla della creazione di discorsi volti a migliorare i

giovani e ce n'è uno in particolare in cui la sublimazione dell'amore per l'anima dell'amato

conduce l'iniziato ad amare le istituzioni e le norme. È il caso di sottolineare, sulla scorta di

Di Benedetto, che questo passaggio non era obbligatorio ai fini dell'ascesa del filosofo,

poiché si sarebbe potuti giungere alla contemplazione dell'Idea del Bello anche senza di

esso:

L'eros e anche la philia più spiritualizzata potevano restare indefinitamente nel loro ambito.
Invece a Platone premeva che l'interesse per l'anima (anziché il corpo) avesse come conseguenza
uno sbocco pedagogico: il fatto che l'anima produca dei discorsi tali che rendano migliori i giovani.
Il nesso tra eros pederastico ed educazione poteva riflettere un modo di vita reale, ma da questo non
derivava ancora che l'amante, uscendo dalla sfera interpersonale, passasse alla contemplazione dei
nomoi degli uomini. Ma il passaggio era necessario perché Platone potesse compiere l'operazione
di innestare su una esperienza fondamentale quale quella erotica le sue esigenze di filosofo
educatore108.

Di Benedetto mette in luce il riferimento alla sfera educativa presente in questo passo

dell'ascesa. A questo proposito fa notare che vi sono, nelle parole di Diotima, espliciti

riferimenti alla figura di una guida:

108Cit. Vincenzo Di Benedetto, Eros / conoscenza in Platone, introduzione a Simposio, di Platone, Milano,
BUR, 2005, p. 38.

122
Per altro in queste cose d'amore forse, o Socrate, avresti potuto anche iniziarti da solo; ma
dubito che saresti capace di percorrere i gradi della visione suprema, in cui hanno radice anche le
cose d'amore, se si segue una retta via di indagine. Perciò te ne parlerò io e non mi farò mancare
d'impegno. Tu cerca di venirmi dietro, se ti riesce. In realtà – disse – chi si dirige per la retta via a
questa impresa, deve cominciare fin da giovane ad avvicinarsi a corpi belli, e dapprima, se chi lo
guida lo indirizza per la retta via, deve amare un determinato corpo e in esso generare discorsi belli
(Symp. 209e-210a).

In questo passo Diotima dice che il filosofo ha bisogno di una guida che lo indirizzi,

che lo aiuti a seguire una “retta via di indagine”. Questo punto è sottolineato anche più

avanti, quando, subito prima di parlare della visione del Bello, Diotima ricapitola i passi

compiuti dall'amante parlandone come di «colui che sia stato educato fino a questo punto

nell'amore» (Symp. 210e). Secondo Di Benedetto, la presenza di una guida esterna

all'esperienza erotica è un primo punto di continuità tra i due dialoghi. Nella Repubblica la

figura della guida è trasferita nello Stato stesso, i cui comandanti (i filosofi nel caso di

kallipolis) possono migliorare e rendere giusti i cittadini grazie al più indicato sistema

educativo.

Tale educazione può essere scissa in due momenti distinti: uno in cui la formazione

dell'individuo è affidata alla giusta combinazione di ginnastica e mousiké destinata sia ai

guerrieri che ai filosofi, ed uno riservato esclusivamente ai filosofi volto ad allenare la

parte razionale dell'anima in modo che possa giungere a contemplare le Idee.

Possiamo immaginare la prima parte come una sorta di “preparazione del terreno” in

cui verrà impiantato il “seme” del logos filosofico109. Platone è convinto che l'anima

infantile sia porosa, plasmabile, dotata di una plasticità in grado di ricevere e interiorizzare

109Cfr. Szaif, op. cit., p. 29.

123
ogni tipo di stimolo in modo profondo e determinante. Possiamo sottolineare, a questo

proposito, il ricorrere dei termini plattein e typos110, che rimandano alla tecnica di

manipolazione dei materiali come il modellamento della cera o della creta.

Ginnastica e mousiké agiscono sull'anima l'una in modo opposto all'altra: la

ginnastica favorisce la forza e la virtù del corpo, ma in eccesso comporta selvatichezza e

scontrosità (Resp. III, 410d), mentre la mousiké favorisce la temperanza, ma, in eccesso, la

mollezza fisica (Resp. III, 410d). Per un'eccellente educazione morale e fisica occorre che

le due discipline si armonizzino tra loro (Resp. III, 412a-b), favorendo un equilibrio tra

queste due tendenze.

Occorre tener presente che la mousiké comprende i canti, i componimenti poetici e

tutte le arti cui presiedono le Muse. Platone si preoccupa perciò di modificare le storie che

vengono raccontate ai bambini in base agli effetti che hanno sull'anima, curando in

particolare l'immagine degli dei che viene trasmessa in questi racconti, in quanto essa

costituisce un efficace e diffuso modello educativo. È utile far emergere degli dei una

concezione non antropomorfica e totalmente positiva sul piano morale (Resp. III, 388b-d),

in modo che i giovani non possano giustificare eventuali proprie azioni ingiuste ispirandosi

a tali racconti.

Riguardo all'aspetto della melodia, viene specificato che armonia e ritmo sono i due

elementi chiave in grado di influenzare l'anima. Platone ne parla in un passo significativo

verso la metà del III libro della Repubblica:

Ora, Glaucone, ripresi, non sono queste le ragioni che rendono estremamente importante
l'educazione musicale? Ché il ritmo e l'armonia penetrano profondamente entro l'anima e assai

110Cfr. S. Gastaldi, Paideia/mythologia, in La Repubblica, a cura di M. Vegetti, Vol. II, Napoli, Bibliopolis,
2003, p. 343.

124
fortemente la toccano, conferendole armoniosa bellezza; e se uno è stato educato bene, gliela
rendono bella, e se no, brutta. Perché chi ha avuto una perfetta educazione musicale, sarà
prontissimo ad accorgersi delle cose trascurate o imperfettamente lavorate o difettose per nascita; e,
giustamente disgustato, loderà le cose belle, se ne compiacerà e le accoglierà nell'anima sua
facendosene nutrimento e diventerà una persona perfetta, mentre sin da giovane, prima di poterne
acquistare piena coscienza, rettamente criticherà e aborrirà quelle brutte; e quando gli sia
sopraggiunta la ragione, chi così è stato allevato le farà grande festa riconoscendola soprattutto per
la familiarità che ve lo unisce (Resp. III, 401d-402a).

Armonia e ritmo sono due elementi in grado di generare nell'anima una sorta di pre-

concezione di che cosa è bello e che cosa è brutto, producendo nel giovane la capacità di

distinguere istintivamente gli oggetti in cui si trova l'armonia e quelli che ne sono privi.

Abbiamo visto l'importanza attribuita da Platone alla bellezza sia nel Simposio che nel

Fedro, in quanto permette all'anima di elevarsi conducendola presso il mondo ideale. Qui

nella Repubblica, coerentemente, Platone afferma che la musica allena l'anima a sviluppare

dentro di sé una concezione intuitiva della bellezza, distinguendo le cose in cui risiede

armonia da quelle disarmoniche prima ancora che tale distinzione sia compresa

razionalmente (Resp. III, 401d), in modo da non avere difficoltà più avanti, quando

arriverà il momento di contemplare la realtà ideale.

Anzi, Platone dice esplicitamente che l' “amore per il bello” è il fine ultimo della

musica (Resp. III, 403c). In questo frangente si ribadisce la superiorità della bellezza

dell'anima su quella corporea (Resp. III, 402d), bellezza che in entrambi i casi consiste in

una perfetta armonia e che viene definita “degna d'amore” (Resp. III, 402d). Più in

generale a proposito dei desideri Platone afferma che

chi realmente ama apprendere deve, fino da fanciullo, desiderare più che può tutta la verità. […]
nella persona in cui i desideri sono fortemente inclinati in un senso, essi sono più deboli negli altri
sensi, come una corrente lì convogliata. […] Ora, in quella persona in cui i desideri sono rivolti agli

125
studi e a ogni attività simile, essi riguarderanno, credo, il piacere dell'anima per se stessa e
trascureranno i piaceri del corpo (Resp. VI, 485d).

Nella Repubblica Platone descrive l'ascesa del filosofo verso il mondo delle Idee,

senza che sia eros a guidare l'anima come avveniva nel Simposio e nel Fedro. Tuttavia, si

parla di desideri che possono essere canalizzati in direzioni diverse ed il ruolo di primaria

importanza, a questo proposito, è attribuito all'educazione. È possibile vedere tale

educazione, il cui scopo è rendere l'anima armoniosa e giusta, come il tentativo di

canalizzare nel modo corretto questo flusso di energia presente in essa, disponendola in

condizioni tali che possa avvicinarsi sempre di più alla verità.

Se riprendiamo il concetto di eros che emergeva nella scala amoris del Simposio, in

cui esso è via via direzionato verso oggetti diversi e più vicini alle Idee, vediamo che non è

possibile identificarlo con uno stato emotivo specifico, in quanto ognuno di essi è

manifestazione di un eros che muta e predispone l'anima ogni volta in modo diverso. Sono

state proposte diverse interpretazioni di tale processo, tra cui un'interpretazione

“inclusiva”, che vede eros espandersi dirigendosi verso un numero sempre maggiore di

oggetti senza che nessuno di essi venga sostituito o in qualche modo abbandonato, o,

all'opposto, un'interpretazione esclusiva, secondo la quale i precedenti oggetti di

aspirazione vengono totalmente sostituiti dai nuovi 111. Sembra plausibile, però,

un'interpretazione “mediana”, che vede eros come flusso psichico, ovvero come una

corrente di energia che si presenta ai livelli più bassi come istinto passionale e di

autoconservazione e a quelli più alti come principio di conoscenza 112, ovvero come una

forza che trascina con sé l'anima fino a permetterle di conoscere la verità. Secondo questa

111Cfr. Moravscik, op. cit., p. 293.


112Cfr. Sassi, Eros come energia psichica, cit., p. 291.

126
interpretazione, le tappe della scala amoris devono essere considerate come espressioni di

un reindirizzamento del flusso: una volta che la corrente di eros viene canalizzata in una

nuova direzione, affluisce “in quantità minore” nella direzione precedente, o in altre

direzioni. Un elemento a favore di questa interpretazione è riscontrabile nel passo in cui

Socrate afferma che quando il filosofo dirige il suo amore verso “tutti” i corpi belli,

“allenta” la passione per uno solo (Symp. 210d). Questo “allentare” potrebbe essere

indizio, appunto, di una canalizzazione del flusso della corrente erotica in direzione diversa

da quella di un solo corpo bello, dunque vale la pena ricercare se anche nella Repubblica

sia possibile riscontare qualcosa di simile, prendendo in considerazione ciò che Platone

dice a proposito del ruolo svolto dai desideri nei diversi temperamenti umani.

Oltre alla distinzione tra filosofi, timocratici e passionali, Platone offre la descrizione

dettagliata di cinque tipi psicologici, distinguendo all'interno di coloro che sono dominati

dai desideri passionali l'individuo democratico, quello oligarchico e il tiranno, che vanno

ad aggiungersi al filosofo e al timocratico. Ognuno di essi vede all'interno della propria

anima un certo equilibrio tra i diversi tipi di desideri.

L'individuo democratico viene descritto come colui che «vive giorno per giorno

compiacendo così il primo appetito che gli capita […] e per la sua vita non conosce né

ordine né necessità alcuna» (Resp. VIII, 561c-d), l'oligarchico invece reprime i desideri

superflui per realizzare i necessari, agendo in preda alla paura di perdere i propri beni,

mentre non si fa problemi a dissipare i beni altrui e finisce così per essere doppio (Resp.

VIII, 554c-e), e, infine, il tiranno è descritto come colui che possiede dentro di sé un «certo

amore che si pone a capo degli appetiti oziosi e prodighi di ogni bene disponibile» (Resp.

IX, 572e-573a).

Se a proposito del timocratico, dell'oligarchico e del democratico Platone parla di

127
desideri, in relazione al tiranno parla esplicitamente e ripetutamente di “amore”.

Riprendendo un interessante articolo di Nucci, possiamo comprendere come la descrizione

della figura del tiranno sia in grado di offrire dei chiarimenti a proposito della concezione

platonica di eros. Lo studioso sottolinea che si tratta di una forza distinta dagli appetiti

stessi, che però è in grado di ordinarli «consentendo un'esistenza estrema (ed estremamente

ingiusta) dotata di una solidità che né il democratico, né tantomeno l'oligarchico sono in

grado di eguagliare»113. In altre parole, il flusso di eros, se propriamente e univocamente

indirizzato, è capace di unificare tutta l'anima, nel tiranno come nel filosofo. Nel Simposio

e nel Fedro eros era ciò che riusciva a trascinare l'anima del filosofo verso l'alto, presso il

mondo ideale e la contemplazione della verità, conferendo alla vita il massimo “bene”. Qui

nella Repubblica vediamo che eros può dominare nell'anima anche in nome del più grande

male. Si tratta, infatti, di una potente energia psichica che può unidirezionare le pulsioni 114,

sia assecondando il soddisfacimento delle più basse passioni, sia a favore della razionalità

e dell'elevazione dell'anima. In ogni caso, anche nella Repubblica, eros rimane mediatore:

congiunge la parte più bassa e quella più alta dell'anima, creando un equilibrio per cui l'una

è totalmente al servizio dell'altra.

In generale, quindi, tra Simposio e Repubblica, sembra che il desiderio sia come un

flusso di una certa quantità limitata di energia che, se direzionata verso un oggetto, viene

tolta o direzionata in quantità minore verso un altro.

È possibile individuare, perciò, una certa continuità tra la purificazione dell'impulso

erotico nel Simposio, e la funzione essenziale dell'educazione per il riorientamento del

desiderio nella Repubblica. A questo proposito, Sassi fa notare che l'interpretazione di eros

113Nucci, op. cit., p. 47.


114Cfr. ivi, pp. 65-66.

128
come energia psichica può essere utilizzata per «spiegare l'apparente venir meno della

tematica dell'eros nell'opera più tarda di Platone»115.

Sembra, cioè, che in ciascun elemento dell'anima la tensione del desiderio acquisti un preciso
carattere a seconda dell'oggetto di riferimento, determinando poi il carattere stesso degli individui
in cui ciascun elemento predomina. Il desiderio apparirebbe allora non circoscrivibile all'elemento
più basso, avendo la possibilità di fluire attraverso l'intera anima (così come un elemento cognitivo
sembra necessariamente attribuibile a tutti e tre gli elementi) 116.

4. Dalla realtà sensibile all'intelligibile

La seconda parte del curriculum educativo è riservata a coloro che sono idonei ad

intraprendere il percorso di ascesa filosofica. Questi individui possiedono una natura

filosofica: «amano sempre una disciplina che sveli loro un po' di quell'essenza che

perennemente è e che non subisce le vicissitudini della generazione e della corruzione»

(Resp. VI, 485a-b). Il passaggio da guardiano a filosofo costituisce l'inizio di un percorso

di conoscenza articolato e complesso. Affinché i guardiani diventino filosofi, non devono

mai interrompere la strada dell'apprendimento, ma devono «percorrere il giro più lungo e

affaticarsi nello studio non meno che nella ginnastica» (Resp. VI, 504d), altrimenti non

verranno mai a capo della disciplina più sublime, quella che ha per oggetto l'idea del Bene,

quell'idea che occupa il sito più alto del mondo intelligibile. Essa viene immediatamente

introdotta:

di essa non abbiamo una conoscenza adeguata; ma se non ne abbiamo conoscenza, anche se

115Cit. Sassi, Eros come energia psichica, cit., p. 291.


116Nucci, op. cit., p. 60.

129
conoscessimo perfettissimamente tutto il resto senza di questa, vedi bene che non ne ritrarremmo
nessun giovamento, come non lo ritrarremmo se possedessimo una cosa senza il bene (Resp. VI,
505a-b).

Possedere l'Idea del Bene è per il filosofo una conquista imprescindibile. Definirla

chiaramente, però, risulta essere un'impresa alquanto difficile. Innanzitutto veniamo a

sapere che non è possibile identificare il “Bene” né con l'intelligenza, né con il piacere

(Resp. VI, 505b). L'identificazione del Bene con l'intelligenza produce una definizione

circolare: l'intelligenza è tale, infatti, soltanto se ha per oggetto il Bene, quindi non può

essere identificata con il Bene in sé. L'identificazione del Bene col piacere, ancora, genera

una contraddizione non appena si riconosce che esistono piaceri cattivi. Infatti, se il Bene

coincide con il piacere, allora qualsiasi piacere deve costituire un bene, ma è possibile

individuare più di un esempio che dimostra il contrario (Resp. VI, 505c-d).

Il Bene viene, inoltre, distinto dal giusto e dal bello: gli individui, pur essendo

disposti a compiere azioni che appaiono giuste o belle senza in realtà esserlo, non

accettano, di contro, di possedere beni che sono tali solo in apparenza (Resp. VI, 505d). A

questo proposito si afferma anche che per i guardiani di kallipolis è fondamentale

conoscere in che relazione le cose giuste e belle stanno con l'idea del Bene (Resp. VI,

506a), se desiderano possederne una conoscenza autentica. Per chiarire la natura di questa

“suprema” Idea, Platone presenta un'analogia tra il Bene e il sole, osservando che «ciò che

nel mondo intelligibile il bene è rispetto all'intelletto e agli oggetti intelligibili, nel mondo

visibile è il sole rispetto alla vista e agli oggetti visibili» (Resp. VI, 508c).

Il sole mette in atto la potenzialità della vista: quando guardiamo oggetti illuminati

dal sole, riusciamo a vedere, mentre quando guardiamo oggetti oscuri, è come se fossimo

ciechi (Resp. VI, 508c). Il Bene fa lo stesso con l'anima: quando essa si fissa su ciò che è

130
illuminato dalla verità e dall'essere, ovvero il Bene, lo coglie e lo conosce, mentre quando

si fissa su ciò che è oscuro e “viene ad essere e perisce”, allora ha solo opinioni, si offusca e

somiglia a chi non ha intelletto (nous).

questo elemento che conferisce la verità e a chi conosce dà la facoltà di conoscere, dì pure che è
l'idea del bene; e devi pensarla causa della scienza e della verità, in quanto conosciute. Ma per belle
che siano ambedue, conoscenza e verità, avrai ragione se riterrai che diverso e ancora più bello di
loro sia quell'elemento. E come in quell'altro ambito è giusto giudicare simili al sole la luce e la
vista, ma non ritenerle il sole, così anche in questo è giusto giudicare simili al bene ambedue questi
valori, la scienza e la verità, ma non ritenere il bene l'una o l'altra delle due. […] agli oggetti visibili
il sole conferisce non solo la facoltà di essere visti, ma anche la generazione, la crescita e il
nutrimento, pur senza essere esso stesso generazione […] anche gli oggetti conoscibili non solo
ricevono dal bene la proprietà di essere conosciuti, ma ne ottengono ancora l'esistenza e l'essenza,
anche se il bene non è essenza, ma qualcosa che per dignità e potenza trascende l'essenza (Resp. VI,
508e-509b).

Come il sole fornisce alle cose visibili non solo la nascita, la crescita e il nutrimento,

ma anche la capacità di essere viste, così il Bene conferisce ai conoscibili sia l'essere che

l'essenza (ousia). Platone imposta il discorso sia a livello conoscitivo che ontologico:

essendo il Bene causa di conoscenza e verità, ma trovandosi al di là dell'essere, dal punto

di vista conoscitivo è possibile pensare che esso sia immaginabile come l'orientamento di

ogni conoscenza, e dal punto di vista ontologico come ciò in vista di cui ogni agire tende

(benché l'analogia sia con il sole, che non è causa finale ma efficiente) 117. In generale, però,

Platone non spiega in modo sistematico perché e in che senso il bene sia causa dell'essere e

della scienza, né cosa significhi il suo essere al di là dell'essere118.

Un ulteriore chiarimento è offerto grazie all'immagine della linea (Resp. VI, 509d-

117Cfr. B. Centrone, La Repubblica, Roma, Bari, Laterza, 2001, p. 770, n. 67.


118Cfr. ivi, p. 771, n. 67.

131
511e), intesa come una prosecuzione dell'analogia fra sole e Bene. Platone invita ad

immaginare una linea divisa in due segmenti, uno per la sfera del visibile e uno per quella

dell'intelligibile, a loro volta divisi in due “sotto-segmenti”. Secondo l'interpretazione onto-

gnoseologica119, ognuno di questo quattro sotto-segmenti rappresenta una “fase della

conoscenza” a cui corrispondono da un lato certi tipi di oggetti distinti secondo gradi

dell'essere, ovvero in progressione crescente di realtà ontologica, dall'altro le affezioni

dell'anima, ovvero le modificazioni che si verificano in essa quando ha a che fare con tali

oggetti. Le diverse fasi sono distinte in base a criteri di verità e chiarezza: come le diverse

tipologie di oggetti partecipano in grado differente della verità, le affezioni partecipano in

grado differente della chiarezza, e la chiarezza ottenibile dall'intelletto dipende dal grado di

verità proprio degli oggetti.

Il primo sotto-segmento, ovvero il grado più basso della linea (che occorre, appunto,

immaginarsi in verticale), corrisponde all'immaginazione/congettura (eikasia) che si

verifica nell'anima quando si trova in relazione alle immagini delle cose sensibili, come le

loro ombre e i loro riflessi (Resp. VI, 509e-510a). Al secondo sotto-segmento corrisponde

invece la “credenza fondata” (pistis) in relazione alle cose sensibili, come gli animali, le

piante e tutti gli oggetti artificiali (Resp. VI, 510a-b). Il segmento dell'intelligibile, invece,

vede corrispondere la sua parte inferiore alla dianoia, traducibile con “intellezione

articolata”120, quella che ha che fare con gli oggetti delle scienze matematiche, geometriche

e simili, che si servono delle cose visibili per cogliere l'intelligibile (Resp. VI, 510b-511a).

L'ultimo sotto-segmento, infine, il più alto, corrisponde alla dialettica, che permette di

vedere e contemplare le Idee, gli enti immutabili.

119Questa interpretazione si oppone a quella illustrativa, secondo cui i due segmenti inferiori della linea si
limitano a illustrare analogicamente, proseguendo l'analogia del sole, il rapporto tra i due metodi di
conoscenza, matematica e dialettica, descritte nei due segmenti superiori.
120Cfr. Di Benedetto, op. cit., p. 7.

132
L'ultima “fase” è qualcosa che il filosofo è chiamato a raggiungere, e in questo senso

le distinzioni interne all'immagine della linea possono essere viste come tappe di un

percorso di ascesa dal mondo sensibile a quello intelligibile.

Si tratta di un percorso filosofico che Platone cerca forse di illustrare con il mito

della caverna, che vale la pena riprendere, date le assonanze con l'immagine della linea che

ne hanno, tra l'altro, favorito un'interpretazione in analogia con essa. I prigionieri della

caverna sono legati mani e piedi, costretti ad osservare delle ombre proiettate sul muro di

fronte a loro grazie alla luce di un fuoco dietro di loro, convinti che quella sia la realtà.

Quando uno di loro viene slegato e condotto presso la realtà esterna, lungo un percorso

articolato e difficoltoso, passa dalla visione delle ombre proiettate sul muro a quella degli

oggetti “reali” di cui prima vedeva le ombre, rendendosi conto di come quella che credeva

essere la realtà fosse invece un'illusione, per poi progredire ancora uscendo dalla caverna e

vedendo le cose che sono al di fuori, nel mondo superiore (Resp. VII, 516a), autentico.

Anche qui, dato che i suoi occhi non sono ancora abituati alla luce, prima di vedere gli

oggetti, è costretto a guardare il loro riflesso nell'acqua. Solo in seguito riesce a guardare

gli oggetti illuminati dalla luce del sole, per riuscire infine a guardare direttamente il sole.

Il tentativo di mettere in corrispondenza le tappe attraversate dal prigioniero con i

gradi della conoscenza presentati nell'immagine della linea ha creato non poche difficoltà.

La prima tappa, ovvero la visione delle ombre, dovrebbe corrispondere al grado più basso

delle affezioni dell'anima presente nella linea: l'immaginazione/congettura (eikasia).

Questa corrispondenza è però problematica: chi vede ombre, secondo la linea, sa di vedere

delle immagini riflesse, mentre il prigioniero è convinto che le ombre siano reali. Lo stato

conoscitivo del prigioniero sembra corrispondere alla credenza (pistis) piuttosto che

all'eikasia, ma nella linea la pistis corrisponde allo stadio successivo alla visione delle

133
ombre e dei riflessi, il secondo grado della conoscenza. Se allora cerchiamo di individuare

una corrispondenza della pistis con la seconda tappa del percorso attraversato dal

prigioniero troviamo nuovamente un'incongruenza: la liberazione dalle catene implica una

condizione conoscitiva in cui lo stato di “credenza” è già superato.

Vi è, tuttavia, la possibilità di interpretare la visione delle ombre nella caverna in

modo simbolico e non in stretta corrispondenza con il primo stadio conoscitivo della linea,

ovvero vedendole come false credenze dal punto di vista etico, false opinioni 121 da cui è

necessario liberarsi. Per quanto riguarda le fasi successive del percorso del prigioniero

liberato, abbiamo che la visione del riflesso degli oggetti nell'acqua dovrebbe

corrispondere alla fase della dianoia nella linea, quella in cui ci si serve degli enti

matematici come immagini delle entità ideali, e la visione delle cose sensibili

corrisponderebbe alla conoscenza vera delle Idee (episteme). La visione del Sole, infine,

corrisponde alla contemplazione dell'Idea del Bene.

Tra i riflessi, ovvero le immagini che il prigioniero vede appena uscito dalla caverna,

e il mondo matematico non c'è, di nuovo, una chiara corrispondenza: agli enti matematici

si giunge a partire dagli oggetti sensibili, operando una sempre maggiore astrazione, ma i

riflessi degli oggetti nell'acqua fuori dalla caverna non hanno alcuna relazione con il

mondo dentro la caverna. Vediamo così che, in generale, la sequenza tra gradi della

conoscenza presente nell'immagine della linea non trova corrispondenza nel mito della

caverna.

Al di là di tali difficoltà, comunque, l'immagine della caverna offre l'illustrazione di

un percorso di progressivo avvicinamento alla verità, a quel mondo delle Idee che

costituiva già la meta ultima degli altri percorsi di “elevazione dell'anima” che Platone ha

121Cfr. Centrone, op.cit., pp. 778-779, n. 6.

134
esposto sia nel Simposio che nel Fedro.

Sciogliersi dai legami, volgersi dalle ombre alle immagini e alla luce, ascendere dal mondo
sotterraneo verso il sole […]: questo potere è posseduto da tutto quello studio delle arti di cui
abbiamo discorso, uno studio che eleva la parte migliore dell'anima alla contemplazione dell'essere
più sublime (Resp. VII, 532 b-c).

Quando Platone parla dello “studio delle arti di cui abbiamo discorso” si riferisce al

curriculum educativo che abbiamo visto cominciare con ginnastica e mousiké, di cui

ricordiamo la capacità di fornire all'anima una pre-concezione di ciò che è bello, cui si

aggiungono poi i mathemata e la dialettica. La necessità di un tale percorso educativo che

si estende per anni può essere colta alla luce delle difficoltà che caratterizzano l'uscita dalla

caverna: il prigioniero liberato non riesce subito a guardare la luce del sole, che possiamo

senza problemi leggere in analogia con il Bene, ma è costretto ad attendere che i suoi occhi

si abituino prima di riuscirci, e solo dopo che questo è avvenuto egli è in grado di giudicare

ciò che vede più vero del mondo della caverna (Resp. VII, 515c-516c). È in questo senso

che Platone afferma che la ragione deve voltarsi in direzione della verità insieme a tutta

l'anima (Resp. VII, 518c): essa deve essere capace di resistere a tale contemplazione, e

deve perciò essere allenata in precedenza con le discipline che Platone ha inserito nel suo

programma educativo.

Quando la dialettica capita in mano ai giovani, infatti, essi se ne servono a loro

piacimento come se fosse un gioco, per contraddire chiunque gli capiti di fronte, finendo

per rinnegare tutto ciò in cui credono e gettando scredito su se stessi e sulla filosofia (Resp.

VII, 539b-c). Occorre imparare le basi della dialettica, ma prima di giungere alla “meta

ultima” è necessario assumere i comandi bellici e ricoprire le cariche pubbliche, affinché se

ne faccia esperienza. Se l'animo di tali individui non è turbato dalla carriera militare e

135
politica, una volta raggiunti i cinquant'anni d'età

verranno costretti a volgere in su il raggio dell'anima e a guardare a ciò che a ogni cosa dà luce;
e dopo aver veduto il bene in sé a usarlo come un modello e ordinare, ciascuno a turno, per il resto
della vita, lo stato e i privati cittadini e se stessi (Resp. VII, 540a-b).

Il percorso educativo si estende lungo tutto l'arco della vita, e coloro che riescono a

raggiungere il culmine della più alta educazione sono indubbiamente coloro che Platone

ritiene prescelti per ricoprire le cariche governative. Essi hanno il compito di prendere le

decisioni più importanti in quanto sono i soli in grado di deliberare basandosi sulla verità,

senza perdersi nella molteplicità delle opinioni. Essi sono capaci prima di tutto di

mantenere saldo il controllo della propria anima, dato che, come abbiamo visto, la loro

anima si caratterizza per il migliore equilibrio interno possibile: la ragione possiede il

comando, la parte irascibile è in accordo con essa e quella passionale le obbedisce.

Nella Repubblica, a differenza del Simposio e del Fedro, il filosofo è invitato, una

volta contemplata la realtà immutabile delle Idee, a non «plasmare solo se stesso» (Resp.

VI, 500d), ma a modificare anche la polis sulla base di tale «modello divino» (Resp. VI,

500e): egli è chiamato a gettare il proprio sguardo ora da un lato ora dall'altro al fine di

migliorare la costituzione della città e gli altri uomini in base al modello ideale (Resp. VI,

500d). Quello che nel Simposio era lo stadio finale e che nel Fedro era seguito da un

movimento discendente dall'unità alla molteplicità nell'ambito di una corretta

argomentazione dialettica, nella Repubblica è seguito dalla necessità di tornare indietro

nella vita pubblica. Questo aspetto si pone in sintonia con il progetto generale di riforma

sociale che muove Platone quando scrive la Repubblica. Tuttavia, si afferma che il filosofo

si trova “costretto” (Resp. VI, 500d) a tradurre in caratteri umani gli oggetti della sua

136
visione, sintomo del fatto che preferirebbe passare il resto della sua vita contemplando le

Idee piuttosto che impegnarsi nell'attività politica122, il che significa in qualche modo

occuparsi di affari dai quali il filosofo si sente ormai distante, avendo conosciuto una realtà

più perfetta e divina.

5. La matematica e la dialettica

Abbiamo visto che l'educazione proposta nella Repubblica per coloro che sono

destinati a diventare filosofi prevede, per riprendere l'immagine della linea, il passaggio

cruciale dalla sfera del sensibile a quella dell'intelligibile. Sappiamo che nella porzione

inferiore della sezione dell'intelligibile Platone pone i mathemata, che quindi costituiscono

la chiave per comprendere come possa avvenire questo “salto” da una dimensione all'altra.

Per mathemata si intendono tutte quelle discipline che si servono di immagini sensibili,

come, ad esempio, disegni di figura geometriche ricavate dall'osservazione di oggetti fisici,

per pensare a modelli intelligibili, come può essere l'Idea del triangolo in sé o gli enti

matematici in generale. Queste discipline, ovvero la matematica, la geometria, l'astronomia

e l'armonica, conducono «dal mondo della generazione al mondo dell'essere» (Resp. VII,

521d). In particolare la matematica «sospinge energicamente l'anima in alto» (Resp. VII,

525d) grazie alla sua capacità, di fronte a percezioni contrastanti, di ricercare la verità

tramite l'intelletto. La percezione di una “confusione” di contrari, come possono essere

grande e piccolo, o gli stessi visibile e intelligibile, costringe l'anima a risvegliare la sua

noesis, la sua pura facoltà intellettuale, per porsi dubbi e iniziare un nuovo lavoro di

indagine e discussione, rivolto a distinguere la vera natura delle cose. In questa ricerca

122Cfr. Di Benedetto, op. cit., p. 49.

137
l'anima si serve di oggetti sensibili come immagini di enti intelligibili e procede

formulando ipotesi di cui scopre via via la fondatezza o meno, in modo da poter giungere

alla formulazione di leggi generali (Resp. VI, 510b). La matematica, la geometria,

l'astronomia e l'armonica costituiscono, così, gli strumenti di una sorta di “ginnastica”

nell'ambito della logistiké, affinano la minore o maggiore acutezza di ingegno posseduta

naturalmente dal filosofo, avviandolo alla dialettica.

I mathemata si distinguono dalle altre discipline che finora Platone ha descritto:

nonostante sia la ginnastica che la mousiké perseguano armonia, equilibrio e proporzione,

la ginnastica è subordinata a ciò che nasce e perisce, in quanto «si occupa della crescita e

della diminuzione dei corpi» (Resp. VII, 521e) e alla musica manca la capacità di «trainare

l'anima da ciò che diviene a ciò che è» (Resp. VII, 521d). Abbiamo già sottolineato la loro

importanza per la stabilità e l'equilibrio interni dell'anima, ma per raggiungere una

conoscenza puramente razionale come quella delle Idee, occorre l'esclusivo esercizio del

logistikon, quella parte dell'anima che è detta, appunto, razionale.

L'ultima fase dell'ascesa, la più importante, è costituita dall'esercizio della dialettica.

Il procedimento per cui, nei libri VI e VII della Repubblica, si passa dai mathemata alla

dialettica mostra un certo parallelismo con il passaggio della scala amoris del Simposio123

in cui dall'eros rivolto alla bellezza delle scienze si passa all'amore per il Bello in sé (Symp.

210d)124.

In generale, in entrambi i dialoghi si prevede un percorso di distacco dalla realtà

sensibile e di un sempre maggiore utilizzo della facoltà razionale. Nell'ultima tappa della

scala amoris, infatti, abbiamo visto che l'emotività da cui si era partiti non svolge più alcun

123Vedi supra pp. 61-62.


124Cfr. Di Benedetto, op. cit. p. 40.

138
ruolo. Allo stesso modo nella Repubblica, thymos, la parte dell'anima sede delle emozioni,

non interviene nella fase finale dell'educazione, quella dialettica. Questa dimensione, però,

ha costituito un elemento fondamentale delle prime tappe dell'ascesa, sia nella scala

amoris che nell'educazione, e occorre sottolineare che di fatto non si può mai davvero

prescindere da essa. Nella Repubblica è grazie al lavoro fatto sulla parte thymoeidetica che

la ragione può raggiungere i livelli più alti di conoscenza: la dialettica deve essere

insegnata solamente a coloro che hanno una natura ordinata e ferma (Resp. VII, 539d).

Ancora, sia nel percorso educativo che nella scala amoris, la ragione, che finisce per essere

preponderante nella tappa finale, interviene già nelle prime fasi dell'ascesa, favorendo,

passo per passo, una sempre maggiore presa di coscienza.

Oltre a questi punti comuni, la struttura gerarchica che caratterizza eros da un lato e

il percorso che va dai mathemata alla dialettica dall'altro, ne mette in luce la continuità 125:

in entrambi i percorsi di ascesa la predisposizione dell'anima guadagna uno stato di più

elevata perfezione via via che aumenta il valore (da intendersi in senso ontologico) degli

oggetti cui si riferisce. Inoltre, è stato osservato che non è del tutto corretto considerare il

primo stadio dell'educazione come semplicemente abituale e pre-razionale. Gill, ad

esempio, sostiene che già nella prima fase l'anima utilizzi il ragionamento inferenziale

quando conserva le giuste convinzioni, e invita a riflettere sul fatto che la ragione sarebbe

presente in entrambe le fasi educative e non solamente nella seconda, che di fatto

fornirebbe la comprensione delle strutture intelligibili che sono alla base delle credenze

sviluppate nel primo stadio126. Sia in un caso che nell'altro, quindi, la componente razionale

e quella emotiva collaborano per buona parte del percorso filosofico, favorendo un

125Cfr. Jerry Stannard, Socratic Eros and Platonic Dialectic, in Phronesis, 4, 1959, pp.126-127.
126Cfr. BMCR 2005.10.28, Ideal & Culture of Knowledge in Plato, owner-bmcr-1@brynmawr.edu, p.2
(17/10/2005)

139
progresso graduale che conduce l'anima a volgere il proprio sguardo presso la realtà ideale.

L'educazione non è proprio come la definiscono alcuni che ne fanno professione. Essi dicono
che essendo l'anima priva di scienza, sono loro che la istruiscono, come se in occhi ciechi
ponessero la vista […] Invece, il presente discorso vuole significare che questa facoltà insita
nell'anima di ciascuno e l'organo con cui ciascuno apprende si devono staccare dal mondo della
generazione e far girare attorno insieme con l'anima intera, allo stesso modo che non è possibile
volgere l'occhio dalla tenebra allo splendore se non insieme con il corpo tutto (Resp. VII, 518 b-c).

Si ribadisce che l'anima intera deve seguire il movimento dell'intelletto. Abbiamo

visto sopra127 che la fermezza e l'equilibrio dell'anima sono favoriti da una corretta

canalizzazione dei desideri, ovvero un'adeguata distribuzione del flusso di energia presente

nell'anima nelle sue tre parti in modo che ad essere privilegiata sia la ragione.

Inoltre, questo passo mette in evidenza il fatto che la teoria dell'educazione platonica

si pone in continuità con la maieutica socratica, nel comune presupposto che la conoscenza

della verità non possa essere acquisita tramite un'istruzione che preveda il trasferimento di

nozioni dall'esterno all'interno, ma possa essere raggiunta tramite qualcosa che già

possediamo, che è già dentro di noi. In altre parole, si tratta di conferire all'anima la

migliore costituzione possibile prendendosene cura. A questo proposito, sottolineiamo che

il tema della cura dell'anima permane costante in ognuno dei dialoghi che abbiamo preso in

considerazione in questo lavoro, sia quando il tema trattato è l'eros, prima socratico che

platonico, sia quando si tratta l'educazione. Permane immutato, in un'ottica molto generale,

anche il fine di tale cura, inteso come una certa “conversione” dell'anima. Come ricavare

informazioni esaustive su tale “conversione” resta però un'impresa difficile. Nella

Repubblica, come nel Simposio, Platone lascia intravedere un processo a più stadi in cui

127Vedi supra, pp. 127-128.

140
l'ultima tappa è costituita da un atto intuitivo128. Tuttavia, riguardo l'ascesa del filosofo

nella Repubblica, Platone non spiega mai con chiarezza come si arrivi alla meta finale

dell'ascesa, ma spiega solamente il modo in cui si procede:

Allora comprendi che per secondo segmento dell'intelligibile io intendo quello cui il discorso
attinge con il potere dialettico, considerando le ipotesi non principi, ma ipotesi nel senso reale della
parola, punti di appoggio e di slancio per arrivare a ciò che è immune da ipotesi, al principio del
tutto; e, dopo averlo raggiunto, ripiegare attenendosi rigorosamente alla conseguenze che ne
derivano, e così discendere alla conclusione senza assolutamente ricorrere a niente di sensibile, ma
alle sole idee, mediante le idee passando alle idee; e nelle idee termina tutto il processo (Resp. VI,
511b-c).

Il procedimento dialettico è presentato come un cammino, un'ascesa (Resp. VII,

519d) in cui i gradini sono costituiti dalle ipotesi, che, di volta in volta superate,

permettono di risalire fino al non ipotetico, il principio del tutto, in modo da giungere a

conclusioni che vertono su Idee, senza fare più ricorso a nulla di sensibile. Le scienze non

sono capaci di condurre fino a questo punto: l'apprendimento delle scienze per Platone è

ateles, senza telos, ovvero senza compimento, imperfetto (Resp. VII, 530e). Esercitando la

dialettica, invece, l'intelletto si serve di Idee, passa attraverso Idee ed è rivolto ad Idee:

quando uno, servendosi della dialettica e prescindendo da ogni sensazione cerca di muovere con
la ragione verso ciascuna cosa che è, in se stessa, e non desiste se prima non è riuscito a cogliere
con la pura intellezione la reale essenza del bene, giunge proprio al limite estremo dell'intelligibile
(Resp. VII, 532a-b).

Molte difficoltà emergono quando cerchiamo di capire se la meta finale sia stata

effettivamente raggiunta attraverso un'operazione logico-discorsiva o un'intuizione

128Cfr. Di Benedetto, op. cit., p. 17.

141
noetico-eidetica, cioè in una sorta di visione che, a causa della natura extra-linguistica

degli oggetti ideali, non può più essere discorsiva. Il Bene, infatti, è il punto di approdo di

un procedimento volta per volta sottoposto a verifica ipotetica e, nello stesso tempo, si

pone fuori di esso. È utile notare che quando Platone parla di ciò che sta al di là del

procedimento conoscitivo, in una dimensione ontologica nettamente distinta, non parla di

“idea del Bene”, ma solamente di “Bene”129, suggerendo una realtà che va al di là di

qualsiasi procedimento conoscitivo. In generale, una soluzione può essere quella di

attribuire alla conclusione noetica del percorso dialettico uno “stato di comprensione”

stabile a cui si perviene dopo un lungo lavoro critico-confutatorio attuato nell'ambito

dell'argomentazione discorsiva130. Potrebbe essere utile notare che, più avanti, Platone

afferma che il metodo dialettico procede “eliminando le ipotesi” (Resp. VII, 533c), ma non

è chiaro, anche qui, che cosa intenda Platone con questa espressione. Una delle convinzioni

più diffuse è che si tratti di superare il carattere ipotetico delle ipotesi, dimostrandone di

volta in volta la loro verità in modo da trasformarle in assiomi da utilizzare come teoremi

della dialettica. Tuttavia, Platone non afferma che la dialettica utilizza le ipotesi come

principi, bensì come punti di partenza il cui carattere ipotetico non viene affatto

soppresso131.

Può venire in nostro soccorso il significativo passo del Fedro in cui vengono definiti

“dialettici” coloro che sono in grado di pensare e di parlare grazie alla capacità di operare

divisioni e sintesi (Fedro, 266b). Il metodo da loro utilizzato è in grado di far scoprire la

verità delle cose, ovvero dare definizioni riguardo alla loro vera natura utilizzando un

procedimento di unificazione e divisione. Come abbiamo già accennato132, esso consiste

129Cfr. Di Benedetto, op.cit., p. 30.


130Cfr. Vegetti, Dialettica, in La Repubblica, a cura di M. Vegetti, Vol. V, Napoli, Bibliopolis, 2003, p. 426.
131Cfr. Centrone, op. cit., p. 784, n. 36.
132Vedi supra, p. 105.

142
nel riunire sotto un'unica idea distinte realtà sensibili, per poi procedere da tale idea con

divisioni che ne seguano la naturale articolazione, per comprendere come dall'unità possa

articolarsi la molteplicità. In questo modo la dialettica offre una visione sia sinottica che

sistematica delle Idee e dei loro reciproci rapporti 133. È possibile riconoscere questo aspetto

anche nella scala amoris del Simposio, in cui eros, riconoscendo ad ogni stadio la presenza

di carenze ed imperfezioni nel precedente, è in grado di porre i vari tipi di amore e i relativi

oggetti in una prospettiva ampia che metta ognuno di essi in un'opportuna relazione con gli

altri134.

Data l'affinità tra i percorsi di ascesa del Simposio e della Repubblica, possiamo

chiederci se sia possibile individuare una corrispondenza tra il Bello in sé di cui Platone

parla nel Simposio e il Bene descritto nella Repubblica. Su questo punto, però, Platone è

tutt'altro che esplicito. L'Idea del Bene è posizionata al vertice della piramide delle Idee e il

Bello nel Simposio sembra occupare il medesimo sito. Possiamo affermare che da esso

discende e dipende la bellezza sensibile, ma non possiamo affermare di più, dato che il

Bello non è descritto in maniera esaustiva: l'autore si limita a elencare dei predicati, come

l'eternità, l'essere in sé e per sé, l'uniformità (Symp. 211a-c), che tuttavia non esplicano con

esattezza che cosa sia la Bellezza in sé. Possiamo notare che nella Repubblica non si parla

di una visione improvvisa dell'Idea più “alta”, come si afferma invece nel Simposio (Symp.

210e), forse perché tale espressione risulta meno compatibile con la maggiore articolazione

della descrizione dell'ascesa compiuta attraverso la dialettica 135. Quello che possiamo

affermare è che la visione del Bello in sé si manifesta come un'esperienza metafisica, che

consiste in una conversione intellettuale dell'anima. Nel Simposio Platone descrive così la

133Cfr. Stannard, op. cit., pp. 133-134


134Cfr. ivi, p. 129.
135Cfr. Di Benedetto, op. cit., p. 42.

143
condizione di colui che è giunto alla contemplazione del Bello ideale:

In questa sfera di esistenza, semmai in altra, o mio caro Socrate – disse l'ospite di Mantinea – la
vita è per l'uomo degna di essere vissuta, contemplando il bello in sé. […] E dunque – disse – che
cosa non immagineremo se a qualcuno fosse dato di vedere il bello in sé nitido, puro, intatto,
incontaminato da umane carni e colori e ogni altra effimera vanità, ma potesse scorgere il divino in
sé, bello e uniforme? Credi forse che possa diventare meschina la vita di un uomo che abbia
l'occhio fisso su quella mèta e contempli il bello con lo strumento con cui appunto bisogna
contemplarlo e viva con esso? Non comprendi – aggiunse – che soltanto a questo stadio, guardando
il bello con lo strumento con cui si può guardare, gli sarà dato di partorire non già immagini di virtù
(infatti non attinge a un'immagine), ma la virtù vera, e allevandola, gli riuscirà di diventare amico
del dio, e, se altri mai, immortale anch'egli? (Symp. 211d-212a).

La contemplazione del Bello ideale porta, nel Simposio, ad acquisire la virtù. Questo

passo può essere messo in relazione con quello della Repubblica in cui si afferma che

chi pensa seriamente alle «cose che sono», non ha nemmeno tempo libero per abbassare lo
sguardo alle cose degli uomini, riempirsi d'invidia e di astio combattendo con loro. Tali persone
guardano invece oggetti ordinati e sempre invariabilmente costanti, e osservano che non si fanno
reciproca ingiustizia, ma che se ne stanno tutti ordinati secondo un principio razionale; e perciò li
imitano e si fanno simili a loro quanto più possono. Credi che si possa evitar d'imitare ciò con cui si
vive in armonia e che si ammira? […] Se dunque il filosofo vive in armonia con ciò che è divino e
ordinato, egli diviene ordinato e divino, per quanto è possibile a un uomo (Resp. VI, 500 c-d).

Notiamo che sia chi giunge alla contemplazione del Bello, sia chi coglie l'Idea del

Bene, ne ricava una sorta di “conversione”, un mutamento profondo nel proprio modo di

vivere, che diviene sempre più affine a quello “divino”. Anche nel Fedro abbiamo visto

che il ricordo della realtà ideale fa sì che, nel rapporto d'amore, l'amante si trovi ad essere

“sempre più divino”, rendendo tale anche l'amato (Fedro, 253b-c). Permane costante in

tutti e tre questi dialoghi il perfezionamento morale dell'individuo come conquista finale

144
dell'“ascesa”, con l'assimilarsi del filosofo, anche a livello etico, agli enti che contempla.

Già nell'eros socratico, di cui abbiamo visto un'esemplificazione nell'Alcibiade I, il

miglioramento morale era lo scopo della relazione tra Socrate e i suoi allievi. Sulla base

anche di questo punto comune è possibile vedere eros come elemento di continuità tra la

psicacogia socratica e l'educazione platonica.

145
CONCLUSIONE

Il percorso che abbiamo compiuto qui, adottando eros come filo conduttore del

passaggio dall'educazione socratica alla dialettica platonica, ha mostrato che è in effetti

possibile vedere nell'amore un efficace elemento di continuità. Abbiamo cominciato nel I

capitolo analizzando l'Alcibiade I, inteso come dialogo in cui Platone riporta fedelmente

l'“approccio socratico”. L'esame di questo dialogo ha consentito di mettere in luce la

decisiva funzione di eros nella confutazione socratica mostrando l'importanza delle

emozioni, in particolare la vergogna, nel processo di “conversione su di sé”, capace di

aprire alla sfera della cura di sé e del miglioramento dell'anima. Abbiamo ritenuto

importante sottolineare la capacità di eros di favorire la nascita di relazioni “a doppio

ruolo”, ovvero di rendere il rapporto tra amante e amato il contesto più adatto all'avvio di

un percorso di crescita condiviso in direzione della conquista della virtù: un risultato che,

come vedremo fra poco, si è rivelato fruttuoso per la lettura del Fedro.

Nel II capitolo, analizzando il Simposio, abbiamo esaminato la rielaborazione del

concetto di eros in Platone. In questo dialogo, l'amore mantiene una funzione decisiva per

la conoscenza, ma è trasformato in elemento “mediatore” tra due mondi, capace di elevare

l'anima dal mondo sensibile al mondo delle Idee. Nello stesso tempo, in Platone, anche il

processo di conoscenza di sé subisce una trasformazione e diviene conoscenza della realtà

ideale. Questa trasformazione diventa ancora più evidente nel Fedro (dialogo che abbiamo

preso in esame nel III capitolo) grazie all'introduzione della teoria dell'anamnesi. Ma sia

nel percorso erotico proposto nel Simposio, l a scala amoris, sia nel processo di

reminiscenza nel Fedro, l'anima viene condotta in alto grazie alla spinta propulsiva di un

sentimento amoroso che muove dalla visione di una bellezza individuale e corporea.

146
Inoltre, nel Fedro viene ripreso l'aspetto di crescita reciproca caratteristico dell'eros

socratico. La meta finale, comunque, sia in Socrate che in Platone, è uno stato di

comprensione e di consapevolezza che porta ad un cambiamento profondo e permette di

“vivere una vita degna di essere vissuta”.

La capacità di disporre l'anima nelle condizioni più adatte per un percorso che

permetta all'individuo di giungere alla verità, finora attribuita ad eros, è attribuita nella

Repubblica all'educazione. Questo è stato illustrato nel IV capitolo, dove abbiamo

utilizzato il paradigma interpretativo inaugurato da Cornford, ovvero la nozione di eros

come flusso del desiderio che può essere diversamente canalizzato, per riscontrare una

certa continuità in questo sviluppo: la migliore disposizione dell'anima si può realizzare

grazie al corretto indirizzamento del flusso di energia da una parte all'altra di essa. Sia

l'ascesa della scala amoris nel Simposio, sia la follia amorosa del Fedro, sia quella

dialettica nella Repubblica, prevedono un'alternanza e combinazione tra emotività e

razionalità che è importante sottolineare nelle sue variazioni da un dialogo all'altro. In ogni

caso, sia Simposio che Repubblica sfruttano la qualità del bello sensibile come tramite di

elevazione verso l'alto.

Nella Repubblica Platone descrive l'ascesa del filosofo verso il mondo delle Idee

come un percorso prevalentemente razionale e dialettico. Tuttavia, si parla di desideri che

possono essere canalizzati nelle diverse parti dell'anima grazie all'educazione.

Data la possibilità di concepire l'educazione come un processo di canalizzazione nel

modo corretto del flusso erotico sembra plausibile pensare che le riflessioni sull'eros

rimangano implicitamente sottese all'elaborazione platonica della teoria educativa. In base

a tutte queste considerazioni, mi è parso di poter concludere che eros, nelle sue varie

forme, costituisca un elemento di continuità tra psicagogia socratica e dialettica platonica.

147
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