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Epoché o riduzione fenomenologica:

L’adozione del metodo fenomenologico richiede infatti un’operazione da compiere su noi stessi , e più
precisamente si tratta di attuare una modificazione dell’atteggiamento naturale, ovvero di quell’attitudine
pre-filosofica che noi manifestiamo nei confronti delle cose, disponendoci a un tipo di visione non
pregiudicata. Ma in cosa consiste appunto questa modificazione nel fare esperienza delle cose che si
chiama, in senso tecnico, epoché o riduzione fenomenologica (ma Husserl parla anche di messa tra
parentesi, di sospensione del giudizio, di messa fuori circuito o disattivazione, Ausschaltung), la quale
dovrebbe condurci a prender coscienza dei modi di essere e di darsi a conoscere dei diversi tipi di cose (o
realtà)? I termini che abbiamo ora evocato per indicare tale operazione sono molteplici e non del tutto
equivalenti, ma descrivono – seppur da diverse angolature – il medesimo processo. L’epoché segna infatti
la volontà di mettere tra parentesi tutte le conoscenze di carattere empirico-fattuale, il cui solo esito è lo
scetticismo; nel contempo, essa indica anche l’esigenza di porre fuori causa, sia pure provvisoriamente,
tutti gli atteggiamenti gnoseologici viziati da pregiudizi, intendendo qui il termine pregiudizio non in una
direzione illuministica (e cioè interpretandolo in accezione ideologico-politica), bensì in senso per così dire
letterale: ovvero come giudizio formulato in modo ingenuo, irriflesso, e come tale viziato da un’assenza
d’indagine sui suoi stessi presupposti. Al riguardo, la stessa formulazione della messa tra parentesi di ogni
opinione pregiudiziale risulta però alquanto dubbia come scelta filosofica consapevole, per il semplice fatto
che i pregiudizi agiscono realmente come tali solo se si trovano alle nostre spalle, ovvero se come pregiudizi
essi sono fuori dalla portata della nostra consapevolezza. Cosicché non può esserci alcun gesto generale di
liberazione da tutti i pregiudizi, come se essi potessero essere scacciati tutti in un colpo solo – giacché un
atteggiamento del genere sarebbe una mera astrazione filosofica. Deve invece esserci, anzitutto, la messa
allo scoperto del pregiudizio nella sua determinatezza e nella determinatezza delle sue conseguenze, e solo
in quest’operazione – necessariamente particolare – è possibile la sua disattivazione. Di fatto, quando agli
albori della fenomenologia si parlò di un “ritorno alle cose stesse” e di una liberazione dai pregiudizi, si
aveva in effetti di mira un insieme di opinioni ben determinate, con precise conseguenze teoriche
soprattutto nell’ambito di una filosofia dell’esperienza in cui si facevano valere le istanze della psicologia
associazionistica. Da questo punto di vista è esemplare il richiamo a un’osservazione libera da pregiudizi
così caratteristica della psicologia della forma ai suoi inizi. In quel contesto, le teorie e le concezioni da
mettere da parte erano chiaramente individuate, e altrettanto lo erano le loro conseguenze
nell’interpretazione dei fatti di esperienza, cosicché la sottolineatura della necessità di una visione non
pregiudiziale non poteva che essere accompagnata dall’esibizione delle distorsioni indotte nei fatti da quel
tipo di interpretazioni.

È solo però nel momento in cui Husserl ritiene di poter reintrodurre l’idea stessa di fenomenologia
attraverso la reinterpretazione del dubbio cartesiano, riletto alla luce della “sospensione del giudizio”, che il
motto alla cose stesse, così come il tema della messa tra parentesi, possono essere proposti come un vero e
proprio problema metodologico autonomo. Sorge così la teoria della riduzione fenomenologica. In greco la
parola epoché significa interruzione (sospensione), ed è proprio l’epoché fenomenologica che –
distogliendo il nostro sguardo da una nozione ingenua di realtà – ci permette di fissarlo sull’esperienza,
dove gli oggetti si costituiscono come correlati intenzionali delle nostre percezioni. Se, infatti, per l’uomo
nell’atteggiamento naturale (o quotidiano) l’oggetto è una realtà assoluta che si impone alla soggettività
(che ci sta di contro: Gegen-stand), per il filosofo che esercita l’epoché gli oggetti si rivelano come
particolari unità di senso che si costituiscono nell’esperienza, e che in essa si pongono come interne o
esterne al soggetto, come esistenti o inesistenti, come immaginarie o reali e così via. La “svolta”
trascendentale della fenomenologia husserliana consiste appunto nel rifiuto del cosiddetto realismo
ingenuo e nel muovere dall’oggetto, come un dato predefinito, all’oggetto che invece si costituisce
nell’esperienza.
Ma vediamo, un po’ più da vicino, perché si parla di riduzione e perché tale operazione viene etichettata
come fenomenologica. Quest’ultimo aggettivo è forse più facile da spiegare, dato che in greco fenomeno
significa ciò che si mostra, ciò che appare, e che la nozione stessa di fenomeno ottiene un pieno
investimento nell’ambito della riflessione husserliana, allorché si tratta di sancire il venir meno di ogni
trascendenza ontologica, o per lo meno del significato che la realtà in sé ha per la filosofia. La riduzione
fenomenologica è lo strumento di cui si serve Husserl non per negare l’esistenza, ma per mettere fuori
gioco (fuori circuito) la credenza nell’esistenza. Di norma infatti noi viviamo in un mondo reale che ci
circonda e verso il quale rivolgiamo tutte le nostre attività, sia di ordine teorico che pratico. Ovverosia, il
mondo reale è presente a noi in maniera del tutto naturale, senza che noi facciamo alcuno sforzo perché
ciò avvenga. Ed è precisamente ad esso che si rivolge in maniera naturale il nostro sguardo e il nostro
pensiero. Il processo della riduzione fenomenologica – che serve a ottenere una chiarificazione filosofica
radicale e a dare una fondazione assoluta alla conoscenza – comincia appunto da un cambiamento
profondo di questa direzione. L’azzeramento richiesto dall’epoché fenomenologica tende dunque ad
assumere il carattere di un’immensa operazione catartica, che deve giungere a un ripensamento dell’idea
stessa di razionalità e a un rinnovamento radicale della vita della cultura.

Ma tornando a trattare dell’aspetto metodico, tale riduzione del campo visivo ai fenomeni significa mettere
fuori gioco (neutralizzare) in maniera sistematica tutto quell’insieme di conoscenze attraverso cui le cose
godono secondo noi di proprietà legittimamente attribuite, ma che le cose non esibiscono direttamente in
carne ed ossa (ovvero che non offrono in maniera originaria). Ciò significa mettere tra parentesi
praticamente tutta la scienza empirica riguardante quel tipo di cose , anche se ciò non corrisponde a
mettere in dubbio o a negare il valore delle proposizioni in cui tale conoscenza originaria consiste, ma
semplicemente a evitare di farne uso (a non presupporne alcuna) nell’analisi filosofica (e segnatamente in
quella fenomenologica).

Tale riduzione non consiste dunque nel fatto di negare il mondo o la credenza nella sua realtà: non si tratta
cioè di negare alla maniera dei sofisti o degli scettici l’esistenza del mondo o di metterla in dubbio, come se
si trattasse di considerare l’esistenza – invece che come certa – solamente probabile. Un atteggiamento del
genere costituirebbe infatti una modificazione della credenza e non una sua sospensione. Il cambiamento di
attitudine che la riduzione fenomenologica vuole invece produrre è di tutt’altro genere: essa infatti non
nega e non distrugge nulla, ma mette semplicemente fuori azione, neutralizza, si astiene dall’utilizzare
l’insieme delle credenze naturali, che restano tuttavia inalterate, e con esse tutti i giudizi o concetti
derivanti dal modo naturale di guardare le cose. Se nell’orientamento naturale l’oggetto si costituisce
come un essere posto al di là dell’atto stesso, come una realtà assoluta posta al di là della soglia della
sensazione – e ciò aveva però dato origine, come aveva colto anche Descartes, al dubbio universale dello
scetticismo, nel senso che con ciò nessun oggetto appariva assolutamente fondato e nessuna credenza
apoditticamente certa – attraverso l’epoché fenomenologica tutti gli oggetti sono per così dire convertiti in
fenomeni, configurando un campo originario di verità comprendente la totalità di ciò che si presenta a noi,
nel modo in cui ci si presenta.

Il risultato cui conduce l’esercizio metodico dell’epoché è quello di mettere definitivamente fuori causa il
realismo ingenuo, ovvero la trascendenza di una realtà concepita come in sé, laddove la fenomenologia
non conosce altra realtà che non sia il fenomeno dato alla coscienza, e come tale quindi sempre correlativo
di un soggetto. Neutralizzando, potremmo dire, tutti gli impegni presi da sempre implicitamente con le
cose, non ci s’inibisce l’esperienza delle cose stesse, ma al contrario si entra nella condizione più favorevole
per poter vedere (notare) come siano diversi i modi di offrirsi in originale, ovvero di darsi a conoscere in
carne ed ossa di cose o realtà differenti come un tavolo, un libro o una persona. Ovviamente, il fatto di aver
operato tale riduzione non implica ancora una presa critica di distanza nei confronti di quelle nozioni e di
quelle ipotesi: esse, cioè, potrebbero benissimo essere vere, per quello che ne sappiamo. Quello del
rapporto tra la fenomenologia e la fondazione delle scienze è infatti un problema ulteriore su cui magari ci
sarà modo di ritornare. Per ora accontentiamoci di aver chiarito il fatto che nel definire l’oggetto della
riflessione filosofica sulla base della riduzione fenomenologica, la fenomenologia rivendica la propria
indipendenza e precedenza rispetto ad ogni teoria, in particolare ad ogni teoria empirica in ordine alle cose
di cui si occupa. Tale tesi corrisponde dunque semplicemente a una delimitazione del concetto
metodologico centrale nella fenomenologia, vale a dire il concetto di un’esperienza che si offre
originalmente. In un passo del primo libro delle Ideen (1913), in cui il tema della riduzione fenomenologica
viene messo a punto [anche se tale tematica aveva iniziato a delinearsi almeno dal 1905], si dice infatti che
«ogni intuizione originalmente offerente è una sorgente legittima di conoscenza, che tutto ciò che si dà
originalmente nell’intuizione [Intuition] (per così dire in carne ed ossa) è da assumere come esso si dà, ma
anche soltanto nei limiti in cui si dà» (§ 24: Il principio di tutti i principi). Ciò che si dà per Husserl è la cosa –
quale essa sia, e il principio che vuole che si presti attenzione e rispetto alla cosa stessa ci dice anche che è
questa a manifestarsi per quello che è, e ad offrirsi in carne ed ossa alla nostra intuizione o esperienza
diretta. Ma – come abbiamo già detto – per concedere ad ogni cosa di darsi a conoscere così come le spetta
– una montagna in maniera differente da un tavolo, da un teorema matematico, da una persona e così via –
occorre estendere e allo stesso tempo differenziare quel concetto di esperienza che per lo più sembrava
essere ristretto ai soli dati sensibili.

Che cos’è la fenomenologia? Quali sono le sue origini?


Dovendoci avvicinare alla fenomenologia husserliana e alla peculiarità del metodo fenomenologico,
potremmo iniziare a dire che la fenomenologia si configura come una filosofia o una logica dell’esperienza,
e più precisamente come il tentativo di chiarificare l’esperienza in base ai principi che le sono propri, non
piegandola dunque a principi esterni, né sottoponendola a schemi formali, in qualche modo precostituiti,
che tentino di darne una spiegazione in termini deduttivi. In tal senso la fenomenologia si pone come
un’analisi descrittiva dei dati immediati della coscienza, come descrizione pura dei contenuti che si
manifestano alla coscienza stessa. Nelle Ricerche logiche, che è l’opera che apre il secolo, con
fenomenologia s’intende una sorta di psicologia descrittiva che analizza e classifica i nostri vissuti (una sorta
di geometria dei vissuti). Al riguardo, ricordiamoci che Franz Brentano – colui che aveva distolto Husserl
dagli interessi matematici per iniziarlo allo studio della filosofia, convincendolo soprattutto del fatto che
fosse possibile affrontare tale disciplina in maniera scientifica e rigorosa – aveva contrapposto alla
psicologia descrittiva una psicologia genetica, da intendersi come indagine che studia le cause di carattere
psico-fisiologico che determinano il succedersi delle nostre esperienze. In questo, al di là delle molte
differenze che andrebbero evidenziate, si può dire che Husserl segua Brentano (rimanendogli fedele): il
fenomenologo, infatti, non spiega nulla, né potremmo dire ambisce a farlo, non cerca cioè le cause dei
fenomeni psichici, ma descrive ciò che è dato alla coscienza, vale a dire in primo luogo gli atti e i vissuti
attraverso i quali esperiamo ogni sorta di oggetti. La descrizione a cui mira il fenomenologo non è però una
descrizione qualsiasi, bensì è una descrizione che vuol essere programmaticamente pura e che può dirsi in
effetti tale solo se riesce a liberarsi da ogni interpretazione preconcetta dei fenomeni: e cioè, la descrizione
fenomenologica non può fondarsi su argomentazioni metafisiche, su ipotesi o conoscenze di stampo
fisiologico o fisico e così via, né può avvalersi di esse.

Risparmiandovi gli aspetti che riguardano l’archeologia del termine “fenomenologia”, mi limito a dirvi che
esso compare la prima volta in una lettera di Kant, ma il suo conio in senso tecnico si ha in un’opera di
Lambert (Nuovo Organo, 1764, all’interno della grande tradizione wolffiano-leibniziana), laddove s’intende
per fenomenologia una dottrina e una critica delle apparenze sensibili che costituisce una parte della teoria
della conoscenza. Il termine compare poi anche nel linguaggio dell’ottica e dell’astronomia, ma è
soprattutto nella Fenomenologia dello spirito di Hegel (1807) che tale termine trova la sua consacrazione
filosofica: in essa con fenomenologia s’intende «l’esposizione della coscienza nel suo progredire dalla prima
antitesi immediata tra sé e l’oggetto fino al sapere assoluto», intesa appunto come il venire all’apparenza,
in maniera mediata, dello spirito assoluto. Per i fisici del secondo ottocento, inoltre, la fenomenologia
consiste nella “descrizione dei fatti dati” e come tale contrasta le “ipotesi formulate in concetti
matematici”. A noi però interessa la fenomenologia nella sua accezione contemporanea, che in larga parte
coincide con la filosofia husserliana, e con la quale possiamo intendere un movimento di pensiero che
prende le mosse dalla generale sfiducia del secolo XIX nei confronti di ogni filosofia speculativa e
“costruttiva” in senso razionalistico, così come l’aveva incarnata ad es. l’idealismo. La fenomenologia è
dunque in primo luogo una sorta di positivismo radicale o di empirismo eidetico-trascendentale, per il
quale vige come massima suprema dell’indagine il “ritorno alle cose stesse”, nel senso che alla
fenomenologia interessa primariamente descrivere il dato, considerandolo con la maggiore obiettività,
precisione, completezza e rigore possibili. Da questo punto di vista la fenomenologia non è forse,
propriamente parlando, una determinata filosofia (una tra le altre, diremmo), bensì è un atteggiamento
scientifico e metodico generale, caratterizzato dal rifiuto di ogni sistema e di ogni presupposto del genere.

La definizione che Husserl dà, nelle Ideen (1913), del metodo da lui praticato suona più o meno così: la
fenomenologia è una descrizione pura del dominio neutro del vissuto (dell’esperienza come tale) e delle
essenze che vi si presentano. A prescindere dal fatto che il termine fenomenologia fosse qualcosa di già
noto nel campo della filosofia e che dunque sia stata una scelta felice, da parte di Husserl, chiamare in tal
modo la propria filosofia, occorre sgombrare il campo da due possibili equivocazioni interpretative (che
sono tra loro opposte e complementari). Da un lato, occorre inibirsi dal considerare la fenomenologia come
una forma di psicologia introspettiva, anche se il suo campo d’indagine s’interseca e presenta notevoli punti
di contatto con la psicologia. E questo innanzitutto perché nei confronti di tale omologazione vale il divieto
husserliano di assumere qualsiasi “atteggiamento naturalistico”, vale a dire di dare per scontati i dati di
fatto, per quanto essi possano essere accreditati dal senso comune o perfino dalla scienza. Del resto la
fenomenologia vuole essere sì una descrizione pura, ma più che altro vuole descrivere le strutture invarianti
dell’esperienza (le sue regolarità strutturali): e in questo senso le sue descrizioni hanno dunque validità
necessaria. La descrizione fenomenologica non mira cioè a cogliere introspettivamente ciò che di fatto
accade nel soggetto, ma tende piuttosto a rilevare le caratteristiche essenziali, le strutture invarianti di ogni
singola esperienza. Il fenomenologo deve perciò mostrare ciò che necessariamente caratterizza ad es. il
ricordo, la percezione, l’immaginazione e così via, per indicare i nessi a priori che sussistono tra queste
forme dell’esperienza: un ricordo, ad es., presuppone necessariamente una percezione, il timore la
possibilità che un certo evento accada ecc. Questo vuol dire che la fenomenologia non ha a che fare con
regolarità psicologiche fondate sulla natura umana, bensì con leggi a priori necessariamente valide, del
tutto simili a quelle che la geometria coglie nel campo della spazialità.

Dall’altro lato occorre tuttavia scongiurare un’ulteriore equivocazione. Malgrado cioè il richiamo al
fenomeno sia in essa costitutivo, la fenomenologia non confluisce nemmeno nella cosiddetta filosofia
trascendentale di derivazione kantiana o neo-kantiana, per il fatto che la fondazione fenomenologia della
conoscenza, che procede per così dire dal “basso in alto”, non ammette il tipico andamento kantiano
(regressivo e apagogico; l’apagoge: condur via, far deviare dal diritto cammino, reductio ad absurdum, è la
risoluzione di un problema mediante la sua riduzione a un altro problema già risolto), che è quello di risalire
dalle conseguenze ai principi del ragionamento trascendentale, né il suo inverso procedere dall’alto in
basso. In altri termini, la filosofia kantiana regredisce dal dato di fatto alle supposte condizioni che lo
rendono possibile (nozione kantiana di trascendentale), nel tentativo appunto di risalire dall’esperienza a
qualcosa di non esperibile, senza cui però l’esperienza non sarebbe pensabile e fondabile razionalmente.
Viceversa, per la fenomenologia l’esperienza va compresa mediante l’esperienza stessa, non
riconducendola cioè a principi “superiori”. In tal senso, fondanti sono i principi secondo i quali l’esperienza
stessa mostra di organizzarsi, e non i principi secondo i quali essa è logicamente pensabile e fondabile. Il
riconoscimento di una forma (nel senso evocato dalla Gestaltpsychologie) come condizione di possibilità è
legittimo dunque, per la fenomenologia, se essa caratterizza descrittivamente i dati che incontriamo
nell’esperienza, e non se si ritiene che l’esperienza possa essere compresa e fondata razionalmente solo
postulando tale forma.

[Definizione del fenomeno a partire da Kant e Hegel:


Ma a parte questo, nella tradizione kantiana del XIX secolo il concetto di fenomenologia atteneva per lo più
a un aspetto: e cioè al fatto che in essa il fenomeno fosse considerato come opposto all’essere. Il fenomeno
(e dunque la fenomenologia, meglio sarebbe dire fenomenismo) di Kant, e anche la fenomenologia nel
senso in cui la intende Hegel, presuppongono, agli occhi di Husserl, la dualità tra l’essere e ciò che appare,
mentre nella dottrina husserliana la fenomenologia trova il suo punto di partenza esattamente nella loro
identità. La fenomenologia cioè non ha nulla a che fare con il fenomenismo, ovvero con quella concezione
che limita la conoscenza umana a ciò che appare, nella sua opposizione a ciò che è in sé. Per Kant, infatti, il
termine fenomeno designa una sorta di diminuzione dell’essere: vale a dire, ciò che non si mostra, si
annuncia attraverso ciò che sta in qualche modo al suo posto. (Anassagora, filosofo pre-socratico del V
secolo a. C., diceva che i fenomeni sono la manifestazione di ciò che non si vede). Contro tale concezione
difettiva, Husserl invece comprende il fenomeno in un senso positivo , intendendolo come tutto ciò che si
mostra da sé sul piano della coscienza, come elemento originario e irriducibile. La fenomenologia è
dunque, in questo senso, la scienza dei fenomeni. Ciò significa che essa è una descrizione, anteriore a ogni
teoria e indipendente da ogni presupposizione, di tutto ciò che si mostra a noi così come esso è (cioè senza
mistificazioni di sorta). Così concepita, la fenomenologia mostra di avere anche una valenza ontologica e di
non aver affatto smarrito ogni rapporto con il tema dell’essere, poiché ciò che essa radicalmente sostiene è
che il senso di ciò che è risiede proprio nel suo apparire. [Del resto, anche Heidegger dice che l’ontologia è
possibile soltanto come fenomenologia]. Non vi è differenza per Husserl tra il mondo che appare alla
coscienza e l’apparire obiettivo del mondo. E questo perché il concetto stesso di datità – di cui Husserl si
serve ampiamente – vale a dire il modo in cui qualcosa si mostra da sé alla coscienza, in qualità appunto di
fenomeno, contiene un rimando ineludibile alla fonte soggettiva dell’esperienza. Questo vuol dire che per
la fenomenologia il tema relativo all’analisi descrittiva del dato non riguarda mai l’essere in sé, ma il modo
in cui esso ci appare soggettivamente. Non si tratta dunque dell’essere come noumeno (cosa in sé, l’oggetto
del puro pensiero dell’intelletto, a prescindere dalle condizioni a cui un oggetto può essere effettivamente
dato alla nostra sensibilità), bensì dell’essere come fenomeno. La fenomenologia esclude che vi sia un
metodo o anche solo un accorgimento che consenta di porre l’essere al di là del fenomeno. Da ciò
scaturisce la tendenza husserliana a inibire ogni ipotesi trascendente, proprio per il fatto che il fenomeno
non è un segno indicatore di una realtà che si pone al di là del dato. Il fenomeno, così concepito,
rappresenta qualcosa di ultimativo, in quanto non rimanda a nulla di diverso da sé. La radicalità del
progetto husserliano e l’esigenza di scientificità e rigore cui esso risponde si costituiscono proprio a partire
da ciò: il concetto di fenomenologia ruota intorno al fatto che il fenomeno, per lui, non indica solo ciò che
appare o si manifesta al soggetto in particolari condizioni, bensì ciò che appare o si manifesta in se stesso ,
vale a dire come è in sé, nella sua essenza.

Con il termine fenomeno invalso nella fenomenologia non si ha più a che fare, dunque, con un’entità
mediatrice, ovvero con qualcosa da interpretare come segno di una realtà nascosta, o con un’immagine da
rapportare a un originale ritenuto peraltro inaccessibile, ma si è propriamente a ridosso, si ha a portata di
mano ciò che costituisce il modo di essere assoluto e più autentico. La chiave di volta della fenomenologia
husserliana, che a mio modo di vedere va intesa come una logica dell’esperienza, consiste nel suo punto di
partenza: cioè a dire, nell’aver cercato l’esistenza della cosa esterna (e in definitiva il suo senso) non nella
sua opposizione a ciò che essa è per la coscienza, ma nell’aspetto sotto il quale essa si presenta a noi nella
concreta vita cosciente. Ciò che esiste per noi, ciò che noi trattiamo come esistente, non è dunque una
realtà nascosta dietro ai fenomeni, che in tal caso ci apparirebbero solo come immagini o segni di questa
realtà. Piuttosto, come dice un altro fenomenologo del Novecento (Sartre), avendo ridotto ciò che esiste
alla serie delle apparizioni che lo manifestano, il fenomeno non rinvia più all’essere ma è l’essere . E per
questo la sua essenza è costituita da un apparire che non si oppone più all’essere, ma che ne è al contrario
la misura. Infatti, l’essere di un ente è precisamente il modo in cui esso ci appare. Il fenomeno è, in questo
senso, una sorta di relativo-assoluto, poiché da un lato è certamente qualcosa di relativo, presupponendo
un soggetto al quale apparire; ma dall’altro, non ha la duplice relatività dell’Erscheinung (apparenza)
kantiana, dato che non indica al di là di sé un essere vero e proprio che costituirebbe, a sua volta, l’assoluto
e che ne costituirebbe altresì il fondamento. Viceversa, il fenomeno è in assoluto indicativo solo di se
stesso].

Il fatto che Husserl consideri l’essere nella coscienza (e per la coscienza) come il modo assoluto di essere,
e cioè come quello in cui l’essere è realmente, si traduce nell’assioma dell’universale fenomenicità
dell’essere, vista come condizione insuperabile, essenziale e costitutiva di ogni ente. In altre parole: di
qualunque cosa si possa dire che essa “è”, e qualsiasi significato si dia al suo “essere”, tutto ciò è sempre
necessariamente relativo al soggetto che lo esperisce. Si può anche esprimere questo fatto dicendo che
l’esperienza è caratterizzata da un’intrinseca relazionalità. Tuttavia, tale nozione di fenomeno ottiene un
pieno investimento nell’ambito della riflessione husserliana solo a partire dalla cosiddetta “svolta”
trascendentale della fenomenologia, e in particolare attraverso la definizione del metodo della riduzione
fenomenologia, con l’ausilio del quale Husserl determina il venir meno di ogni trascendenza ontologica, o
perlomeno del significato che la realtà in sé ha per la filosofia. Affinché io possa affermare la realtà di un
oggetto che ho di fronte a me non ho bisogno di ritenere che vi sia, dietro le sue manifestazioni, un nucleo
per così dire sostanziale che costituisca in qualche modo la loro struttura e il loro supporto oggettivo .
Questo oggetto mi si dà come “reale”, mentre l’immagine del centauro mi si dà come prodotto della mia
attività fantastica. Ma per accertare questa differenza non ho bisogno di nessun controllo che vada al di là
dei dati fenomenologici. Le distinzioni tra vero e falso, tra reale e irreale, cadono sempre all’interno della
sfera fenomenologica [e cioè nell’ambito del manifestarsi di una cosa, di un fenomeno]. Gli atti di verifica
che compio per accertare se ciò che vedo è una semplice illusione o una cosa reale sono in grado di esibire
una distinzione tra “reale” e “immaginario”, ma tale distinzione non ha altra garanzia al di là di questi stessi
miei atti di verifica. Perciò si tratta, a tutti gli effetti, di una distinzione “soggettiva”. Ma – ed è questo il
punto essenziale – questo carattere soggettivo non ottiene il suo senso dalla contrapposizione con
un’oggettività già data. Posso dire cioè che il dato fenomenologico vale come reale anzitutto per me: ma in
ciò non è implicito il fatto che si tratti di una validità solo per me o che sia invece una validità per tutti.
Quando parliamo di una verità soggettiva contrapponendola a una verità oggettiva, intendiamo in realtà
affermare che un determinato oggetto è valido solo per me e non per tutti. Ma in entrambi i casi vi è un
riferimento soggettivo che diventa visibile nel momento in cui si formula il problema in termini di validità:
questa validità è sempre cioè una validità per qualcuno, né potrebbe essere diversamente. Ciò che muta è
semmai il senso del soggetto per il quale qualcosa è valido, non il riferimento soggettivo in quanto tale . Per
questo vi è una sottile ma decisa differenza di senso tra il carattere soggettivo dell’esperienza
fenomenologica e il carattere soggettivistico di un’esperienza scettico-fenomenistica.

Validità oggettiva del metodo fenomenologico:


Se si accetta dunque questo tipo d’impostazione, non si chiederà più in che modo l’oggettività del sapere
sia garantita dall’essere in sé della realtà, ma piuttosto in che modo a partire dall’esperienza – che è
anzitutto mia e che vale anzitutto per me – si costituisce un’esperienza che non sia soltanto mia, ma anche
di altri, così da dare origine a una validità per tutti, a un dato che può essere riconosciuto da tutti come
valido e che, come tale, è dunque oggettivo. Da questo punto di vista è naturale che scompaia la questione
inerente alla possibilità della conoscenza; essa era stata per così dire agitata dallo scetticismo sulla base del
presupposto fondamentale del realismo più ingenuo: e cioè l’idea che la realtà stessa sia sempre al di là del
sapere che si può avere di essa, e che quindi risulti di fatto inaccessibile. Detto con più precisione, questo
problema assume un significato del tutto diverso, dal momento che esso non dà più luogo a insolubili
aporie, ma si traduce semplicemente in un compito, assolvibile per principio, di descrizione sistematica del
processo soggettivo nel quale qualcosa si dà a me come conosciuta nella sua verità oggettiva, e cioè come
valida per tutti. A tal riguardo ha ragione quindi il buon senso comune quando rifiuta le argomentazioni
scettiche come vuoti sofismi. Se riflettiamo però ancora sulla posizione di questo problema, ci rendiamo
conto che per motivi nient’affatto casuali esso è estraneo alla grammatica del realismo più ingenuo o a
quella critica che lo scetticismo tenta di esercitare nei suoi confronti. Per una posizione ingenuamente
realistica tale problema non sussiste perché il carattere di oggettività di una conoscenza dipende
unicamente dal fatto che essa rispecchia un essere in sé reale. Proprio per questo – perché è oggettiva in
questo senso – una simile conoscenza è ritenuta essere valida per tutti. Come si può comprendere
facilmente, la validità assume qui rispetto all’oggettività un senso logicamente secondario. La stessa
impostazione di fondo si può ritrovare nello scetticismo: esso infatti riproduce tale situazione, anche se
rovesciata. Lo scetticismo sostiene infatti che – non essendovi alcuna adeguazione tra la conoscenza e la
realtà che essa è tenuta a rispecchiare – ogni conoscenza può essere valida solo per me e per nessun altro.
Anche in questo caso il significato dell’essere valido è subordinato alla questione dell’adeguazione della
conoscenza alla realtà. Il momento essenziale della proposta husserliana è invece un altro: e precisamente
quello di riportare la questione dell’oggettività del sapere alla sua validità intersoggettiva. Ma per far
questo, è necessario ridurre l’essere stesso all’apparire (e cioè al fenomeno), considerando ogni
distinzione tra realtà e parvenza (Schein) come fondata ancora una volta nell’apparire , dato che il piano
della realtà fenomenica non può essere in alcun modo trasceso, non essendovi nulla al di là e al di fuori di
esso. E qui interviene appunto la riduzione fenomenologica, che oltre a rappresentare una parte
importante del metodo fenomenologico, costituisce anche una precisa reinterpretazione della
problematica del dubbio.

Riduzione fenomenologica:
Il cambiamento di attitudine (di atteggiamento) in cui consiste la riduzione fenomenologia non nega infatti
né distrugge nulla, ma mette semplicemente fuori azione, neutralizza, si astiene dall’utilizzare la credenza
naturale, che resta inalterata, ma che è messa tra parentesi (epochizzata, tenuta in sospeso), e con essa
tutti quei giudizi o concetti derivanti dal modo naturale di guardare le cose. Quest’azione, consistente –
come si è visto – nel lasciar da parte, nel sospendere, ha per conseguenza che tutto il mondo naturale e
tutte le tesi scientifiche che vi si rapportano cessano di essere per noi oggetti diretti. E cioè, attraverso
l’epoché o riduzione fenomenologico-trascendentale tutti gli oggetti sono convertiti in fenomeni [in tal
senso l’epoché è omologa alla rivoluzione copernicana di Kant]. In tal modo, essi – sotto un certo aspetto –
non sono più che delle idee, degli oggetti di pensiero, ma in quanto tali il loro essere è indubitabile, allo
stesso titolo del nostro pensiero. Noi raggiungiamo dunque la certezza indubitabile del nostro pensiero (del
cogito, in un senso però non sostanzialistico) e degli oggetti che si manifestano alla coscienza, a condizione
di ritirare agli oggetti in generale la realtà che noi accordiamo spontaneamente loro nell’attitudine naturale:
e cioè a condizione, come dice Husserl, di mettere il mondo tra parentesi.

[Da Wikipedia, voce “Riduzione fenomenologica”: Nella riduzione fenomenologica non si tratta
semplicemente di sospendere la percezione ingenua del mondo ma di elevare (nel senso di annullare e
sostituire) questo presupposto continuo e latente. Più precisamente, con la Riduzione, siamo interessati al
mondo solo nella misura in cui è vissuto, percepito, immaginato, giudicato ecc., Cioè nella misura in cui è
correlato di un'esperienza, una percezione, un'immaginazione. Grazie a questa sospensione, il
fenomenologo pensa di poter accedere alle "cose stesse". Applicata all'oggetto, la riduzione
fenomenologica diventa una disciplina che toglie l'ingenuità dell'atteggiamento naturale, abbatte l'opacità
dell'oggetto per cercare gli atti che lo componevano in un processo di sintesi. In sintesi, possiamo
considerare l'epochè come una sospensione del giudizio ingenuo "ontico" e la riduzione come il
cambiamento di atteggiamento che tematizza la correlazione tra il mondo e la coscienza, scoprendone
infine il fondamento trascendentale .

La sospensione del giudizio, che gli scettici antichi definivano epoché, coincide quindi direttamente con una
trasvalutazione della realtà in un campo fenomenologico di verità apodittica (di per sé evidente) . Come per
Descartes, anche per Husserl questa trasvalutazione è una pura finzione, che deriva dalla nostra piena
libertà e lascia intatto ciò che noi crediamo e di cui siamo profondamente convinti. Ma, diversamente da
Descartes, questo dubbio non è un vero dubbio nemmeno sul piano della finzione, perché non contiene in
sé alcuna istanza di negazione. Nel dubbio invece vi è sempre questa possibilità di negare la tesi su cui si
dubita. Viceversa, il dubbio di Husserl non asserisce e non nega. Egli parla di “neutralizzazione” o di “messa
tra parentesi”, e l’idea espressa da tali metafore è che ogni tesi già data, a cominciare da quella
dell’atteggiamento naturale, vada considerata per quello che è, con i predicati di validità che le ineriscono,
senza tuttavia assentire immediatamente ad essi. Nel caso ad es. io abbia di fronte a me un oggetto come
oggetto reale, il predicato di realtà – pur senza scomparire – è per me soltanto un indice che l’analisi di ciò
che effettivamente vedo dovrà chiarire nel suo senso. In questo modo, lo stesso predicato di realtà diventa
un dato fenomenologico. Il dubbio, così inteso, è dunque propriamente una riduzione, e il dubbio sulla tesi
generale dell’atteggiamento naturale non è altro che la riduzione della realtà e di tutti i suoi contenuti di
senso a un campo di dati fenomenologici. È su questo punto che va colta tra l’altro la critica di Husserl al
modulo di pensiero cartesiano, nonché la distanza che intercorre dunque tra le due forme di dubbio. Infatti,
il risultato cui conduce l’esercizio metodico del dubbio è l’assoluta certezza del cogito, ma questo processo
non va interpretato come l’acquisizione della verità assiomatica dell’esistenza del soggetto pensante come
tale (e dunque della sua sostanzialità); e neppure come l’acquisizione del principio assoluto della scienza.
L’idea cartesiana, che è stata certamente ripresa da Husserl, va però reinterpretata alla luce della
considerazione del dubbio come riduzione al fenomeno: in altri termini, nell’esercizio dell’epoché ciò che
io ottengo non è il primo principio della scienza (o di un sistema di pensiero), ma un campo di verità
apodittica che comprende la totalità di ciò che mi si presenta, nel modo in cui mi si presenta.

La riduzione quindi, come si è detto, si pone un obiettivo ben preciso: quello di disporci da subito sul
terreno dell’indagine fenomenologica. Ma la fenomenologia ha innanzitutto carattere descrittivo e la
riduzione dovrà quindi mettere da parte ciò che non ha interesse ai fini della descrizione. Per il
fenomenologo, privo di qualsiasi interesse è l’esistenza effettiva degli oggetti che esperiamo, poiché ad
es. la nostra esperienza del colore non viene a mutare per il fatto che la fisica ci dice che i colori in senso
proprio non esistono (nel senso che sono per essa riconducibili a lunghezze d’onda): l’epoché
fenomenologica assolve appunto al compito di mettere tra parentesi il problema della realtà effettiva del
mondo di cui facciamo esperienza. Questo non significa tuttavia far cadere sotto l’epoché anche gli oggetti
che percepiamo, immaginiamo, ricordiamo: questi infatti appartengono senz’altro al terreno
fenomenologico, ma vi appartengono come oggetti della nostra esperienza, come oggetti che potrebbero
non esistere affatto, ma che pure viviamo come reali, immaginari, passati e così via. A partire da qui si può
comprendere anche quello che è il secondo aspetto (o livello) della riduzione fenomenologica. L’epoché,
possiamo dire, non è solo un’introduzione alla fenomenologia, ma è anche quel libero atto spirituale che ci
permette di assumere un atteggiamento filosofico. Nella vita quotidiana o, come Husserl si esprime,
nell’atteggiamento naturale, le cose di cui facciamo esperienza hanno un’esistenza certa e indiscutibile che
ci limitiamo a constatare: vi è già da sempre, cioè, un mondo con cui abbiamo a che fare e che accettiamo
come un dato, anche quando cerchiamo di averne una conoscenza scientifica. Questo realismo ingenuo
viene visto però da Husserl come filosoficamente infondato e, in ultima analisi, come portatore di
falsificazioni, poiché in questa immediatezza del suo rapporto con le cose l’uomo sembra dimenticare che è
l’esperienza la fonte di ogni posizione di realtà. Nella vita quotidiana ciò che invece importa è l’oggetto e
non l’esperienza che ne abbiamo: finché siamo immersi nelle nostre occupazioni con le realtà che ci
circondano, l’esperienza sembra scomparire o, quantomeno, risolversi interamente nel risultato a cui
conduce: vale a dire, nell’oggetto. Rifiutare dunque il realismo ingenuo per assumere un atteggiamento
filosofico non significa, come detto, negare la realtà o anche solo metterla in dubbio – come fa ad es. lo
scettico; ma nemmeno asserire che reali sono solo le nostre sensazioni (o idee), come sostiene l’idealismo
di Berkeley (secondo cui “esse est percipi”). Tale rifiuto significherà, invece, abbandonare l’atteggiamento
naturale, non vivere ingenuamente nelle esperienze in cui ci si dà un mondo, interrompere almeno per un
certo tempo quell’adesione totale alla realtà che ci impedisce di cogliere gli oggetti come realtà che si
costituiscono nell’esperienza. L’epoché serve quindi a distogliere lo sguardo da una nozione ingenua di
realtà, consentendoci di fissarlo sull’esperienza (è una sorta di torsione dello sguardo), laddove gli oggetti
si costituiscono come correlati intenzionali delle nostre percezioni (o, più in generale, dei nostri atti). Così,
se per l’uomo nell’atteggiamento naturale l’oggetto è una realtà assoluta che s’impone alla soggettività, per
il filosofo che esercita l’epoché gli oggetti si rivelano invece come particolari unità di senso che si
costituiscono nell’esperienza e che nell’esperienza si pongono come interne o esterne al soggetto, come
esistenti o inesistenti, come immaginarie o reali e così via. In questo rifiuto del realismo ingenuo e in questo
muovere dall’oggetto come qualcosa di già dato all’oggetto come qualcosa che si costituisce nell’esperienza
consiste la cosiddetta svolta trascendentale della fenomenologia husserliana.

[Dal punto di vista fenomenologico è dunque improponibile un ritorno all’attitudine naturale, anteriore
all’epoché, poiché questo vorrebbe dire consegnarsi a tutte le illusioni dei sensi e dell’immaginazione.
Viceversa, l’attitudine trascendentale, sulla quale si fonda la fenomenologia husserliana, mette
definitivamente fuori causa il realismo ontologico, la trascendenza della realtà concepita come in sé. La
fenomenologia non conosce infatti altra realtà che il fenomeno dato alla coscienza, e come tale correlativo
di un soggetto non più empirico ma trascendentale (purificato dalla riduzione fenomenologica). Ed è
appunto nell’ambito della soggettività trascendentale, cioè a dire nella coscienza ugualmente purificata
dalla riduzione fenomenologica, che si costituiscono oggetti dotati di un fondamento oggettivo: tanto quelli
dell’esperienza esterna come quelli dell’esperienza interna, dell’introspezione, della percezione e della
scienza. In tal senso la riduzione fenomenologica rappresenta anche un piano di accesso (e forse proprio
quello privilegiato) a una teoria dell’oggettività della conoscenza, a una gnoseologia che Husserl considera
del tutto affidabile proprio per aver preso congedo dalla trascendenza ontologica delle “assurde cose in sé”
– come lui le chiama nelle Meditazioni cartesiane (1931) – inaccessibili alla conoscenza, e per aver rifiutato
di attribuire agli oggetti della conoscenza quella realtà trascendente che ostacolava la loro conoscibilità].

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