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Per avere la definizione di bene culturale si deve aspettare la seconda metà nel Novecento con la

commissione Franceschini Papaldo.


La sovraintendenza non è un ente locale ma un organo periferico del ministero dei beni culturali per la
tutela dei beni sul territorio.
Gli edifici sono PALINSESTI= sono cioè il frutto della stratificazione che naturalmente avviene durante i
secoli, in quanto nessun edificio giunge ai nostri giorni nella sua configurazione originale (tranne Pompei
che fu sotterrata dalla lava)
Un esempio pratico possono rappresentarlo le cattedrali gotiche che, in seguito alla Controriforma,
furono trasformate secondo i nuovi valori estetico-funzionali.
Cesare Brandi definisce come INTERVALLO il lasso di tempo che intercorre tra la creazione di un’opera 1

alla nostra percezione attuale della stessa.


L’architettura cambia in funzione delle esigenze funzionali in quanto è vissuta dall’uomo, per cui il
compito del restauratore contemporaneo non è quello di eliminare le tracce della stratificazione bensì
conservare l’opera e favorire la lettura delle sue stratificazioni/fasi.

CRITERIO DEL MINIMO INTERVENTO:

Proprio per il fatto che abbiamo a che fare con un patrimonio che ha un carattere molto forte,
un’identità molto forte dobbiamo cercare di fare il minimo indispensabile per allungare la vita del
manufatto architettonico, il minimo per consolidarlo, per dargli sicurezza, ecc. Senza però modificare il
manufatto
Digressione:
riuso = obiettivo la rifunzionalizzazione dell'edificio
restauro = obiettivo conservazione edificio
Però per conservare l'edificio lo devo utilizzare, in quanto non utilizzandolo non lo tengo vivo.
La differenza quindi tra i due è che per il riuso l'utilizzazione è l'obiettivo principale per il restauro è
secondario l'obiettivo è la conservazione poi per conservarlo devo utilizzarlo.

CRITERIO DELLA REVERSIBILITÀ:

Non sempre si può raggiungere, il bene è irriproducibile;


secondo questo criterio si dovrebbero usare, ad esempio, per il consolidamento, delle tecniche che
consentano di ritornare alla configurazione precedente all’intervento, senza distruggere il manufatto.
Non è facile raggiungere questo obbiettivo ma si deve sempre provare. Mentre nel mondo elastico
lineare isotropo (strutture in c.a) si è in grado, grazie agli strumenti di calcolo di conoscere il
comportamento della muratura in ogni punto, della muratura in tufo giallo napoletano o in pietra
naturale non si conosce quasi nulla, per cui si rende necessario lavorare con il calcolo degli elementi
finiti, o con le prove a rottura, perché il numero delle incognite è superiore alle equazioni; il tufo, per
esempio, è anelastico e anisotropo e reagisce solo a compressione; inoltre, anche dopo aver effettuato
degli studi sui materiali, continueranno ad esserci delle “aree di crisi” in quanto conoscere il
comportamento puntuale del materiale risulta impossibile, per cui si deve agire monitorando la struttura
dopo l’intervento per capire gli effetti del consolidamento; per questo motivo si dovrebbe puntare alla
reversibilità degli interventi, in quanto si dovrebbero rimuovere in caso di efficacia degli stessi.

CRITERIO DI COMPATIBILITÀ:

Per compatibilità s’intende quella del materiale che impiego nell’intervento di restauro, rispetto alla
materia di cui è composto l’edificio da restaurare.
Per accostare due materiali differenti tra loro bisogna studiarne le caratteristiche fisico-chimiche, il
comportamento meccanico, il modulo elastico, ecc: il principio è quello della scelta di materiali quanto
più possibile compatibili per evitare il “rigetto” dell’intervento.
(se utilizzo un intonaco sbagliato, dopo breve tempo dall’intervento di restauro si creerà una
spaccatura)
Poiché per i manufatti storici può essere difficile ottenere un materiale con lo stesso comportamento
fisico-chimico di quello preesistente, esistono degli accorgimenti tecnici per evitare problemi, ad
esempio l’inserimento di un giunto elastico, come il neoprene, tra i due materiali; si può in alternativa
lasciare uno spazio tra i due materiale.

CONSERVAZIONE DELLE SUPERFICI:


Negli ultimi 20 anni ci si è accorti che l’intervento di restauro architettonico viene influenzato
notevolmente anche dall’attenzione che si pone alle superfici di finitura degli edifici.
L’architettura è fatta di struttura ma anche di superfici che assolvono una funzione protettiva.
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Tra le finiture di cui parliamo, ci sono gli intonaci, che possono essere decorati o meno, scolpiti o
affrescati; in caso risultino decorati, il loro restauro è adibito ai restauratori non architetti, che sono figure
professionali diplomate presso l’Istituto Superiore per la Conservazione e il restauro; in Italia tali istituti
sono 3: - Opificio di Firenze, Mosaico di Ravenna e ISCR, fondato da Cesare Brandi nel 1939; le superfici
architettoniche non decorate sono invece di nostra competenza attuando scelte tecniche e culturali:
è comunque da valutare l’eliminazione degli intonaci antichi e la loro totale sostituzione.

IL RESTAURO NON SI CHIUDE CON IL CANTIERE:


Dal momento in cui si conclude il restauro iniziano la manutenzione e la gestione, che servono a
mantenere per lungo tempo i risultati raggiunti con l'intervento di restauro.
Va quindi redatto un piano di gestione dei risultati raggiunti prevedendo, per esempio, ogni dieci anni
la sistemazione delle armature di un ponte (vedi ponte Morandi);
le opere di manutenzione e di gestione consentono all’opera di vivere a lungo nel tempo, perché il
restauro è come un’operazione chirurgica, la manutenzione è come la cura e dopo l'operazione
chirurgica si devono fare delle terapie.
La presenza del piano di gestione aiuta anche a monitorare gli effetti del restauro, cioè permette la
scelta di interventi più o meno invasivi per intervalli di tempo più o meno lunghi: per esempio, se devo
pulire la facciata della chiesa del Gesù, agisco attraverso un’operazione di semplice pulitura della
facciata piuttosto che pulire in modo eccessivo a costo di cancellare i segni dei lapicidi; per cui si
sceglierà di fare una pulitura blanda con spazzole di saggina ogni 5 anni.
L’intervento risulterà rispettoso della patina del tempo quindi blando, meno invasivo, ma dovrà essere
effettuato con una ciclica ripetizione relativamente breve.

I VARI ORIENTAMENTI NEL RESTAURO SONO ACCOMUNATI DAI CRITERI SUDDETTI


Vediamo invece quali sono le differenze possibili da individuare all' interno delle specificità appena
dette. Attorno a queste numerose invarianti ci sono delle posizioni culturalmente diverse in Italia, in
particolare ci si riferisce a degli orientamenti consolidati da circa un ventennio, dagli anni ‘90.
Il primo orientamento è quello che si coagula intorno alla sede universitaria del politecnico di Milano,
dove si distinsero in particolare due colleghi, Amedeo Bellini e Marco Dezzi Bardeschi (ora in pensione);
quest'ultimo è stato capogruppo dell'intervento del tempio nuovo a Pozzuoli.
La tipologia di intervento di restauro di questa scuola è chiamata di “pura conservazione”: esso si basa
su una considerazione riguardante l’allargamento del concetto di storia e di rispetto dell’istanza storica:
quella volontà di rispettare il valore testimoniale dell’architettura sulla quale interveniamo, postula oggi
la difesa di molte più cose rispetto al passato, da qui deriva anche l’espansione quantitativa della
conservazione.
L'orientamento dice che non è compito della storiografia fare un’azione selettiva, cioè si devono
conservare tutte le fasi attraversate dall'edificio perché tutte hanno una storia da raccontare; d’altro
canto, ogni giudizio storico è soggettivo e mutevole, per cui non si può sulla base di un giudizio
soggettivo modificare un patrimonio che non si può rinnovare; non si può fare un’azione selettiva a
scapito dell'esistente, pertanto ogni fase, anche la più incongrua del manufatto, va conservata; per
questo tipo di orientamento non si prevede la rimozione delle aggiunte.
I principi sono due: la storiografia non è oggettiva, quindi avrà sempre una tendenza a preferire un
periodo storico su un altro, per cui non si può fare una selezione di esclusione sulla base di tale giudizio;
inoltre, qualsiasi aggiunta fatta ad un edificio racconta il modo di viverlo, per cui nulla si rimuove, ad
esempio, persino i servizi igienici aggiunti sui balconi: poiché negli edifici del ‘600 i servizi igienici non
erano previsti, la loro aggiunta, spesso sui balconi, disimpegnati attraverso delle verande, rappresenta
un adeguamento dell’edificio, una trasformazione del patrimonio che documenta il mondo di abitare
antico, una documentazione che non va rimossa. Prevale, in altre parole, il valore testimoniale
dell’architettura sulla quale interveniamo, per questo ne conserviamo tutte le trasformazioni.
Amedeo Bellini diceva che non è più possibile proporre oggi l'intervento di restauro come la diretta
attuazione di un’indagine storiografica (questione di Longhi e del barocco) il restauro come braccio
secolare della storia come concretizzazione di un’ipotesi storiografica il giudizio critico non perde la sua
importanza ma non ha bisogno di concretizzarsi perché non sta in ciò il suo significato il giudizio di valore 3

non può guidare l’operatività cioè il giudizio di un solo restauratore non può guidare l’operazione di
restauro in quanto soggettivo, quindi non deve esercitare nessuna azione di selezione perché rischia in
questa azione selettiva di cancellare una fase della storia del manufatto e impoverirne il valore
testimoniale. A fronte del giudizio di valore che non può essere espresso perché soggettivo, questa
corrente contrappone l'oggettività del dato testimoniale che non può essere alterato per non ridurre il
numero di informazioni che può continuare a trasmettere. Significa che devo conoscere per conservare,
per comprenderne il valore, però bisogna anche conservare per continuare a conoscere. Se cancello
la fase barocca chi verrà dopo di me non conoscerà tale fase quindi prima devo conoscere perché
altrimenti non so cosa sto conservando e poi devo consentire a chi viene dopo di trarre conoscenza
dalle fasi della fabbrica, se tolgo la fase barocca da tutte le chiese non avremo più testimonianze di
questo stile e non potremmo studiarlo. Lo slogan, quindi, è: bisogna conoscere per conservare e
conservare per continuare a conoscere.

Domanda di Marcello:
Se sull' edificio verranno fatti dei graffiti vanno conservati? Si, è un segno CONTEMPORANEO
Quest' orientamento conserva la preesistenza così com'è in tutte le sue trasformazioni e poi ci
aggiunge il segno della propria epoca (esempio passerelle ascensori ecc in stile contemporaneo).
Quest' orientamento ha lasciato abbastanza segno di sé anche nell'orientamento napoletano sul tema
della conservazione delle superfici (luoghi del degrado) ma sono anche luoghi della testimonianza
esempio anche il graffito potrebbe essere un’aggiunta di valore su quella superficie.

Restauro di Marco Dezzi Bardeschi, Palazzo della Ragione di Milano 1975


Questo edificio è medievale tipicamente lombardo, in mattoni; ha un’aggiunta settecentesca per gli
ovuli orizzontali all' ultimo piano. L'intervento è consistito nella pulitura della parte in mattoni e nella
conservazione anche dell’intervento di restauro fatto sulla parte settecentesca; ci sono delle lacune
d'intonaco che decide di lasciare così come sono perché rappresentano una sedimentazione secondo
lui da rispettare; quando si spacchetta l'edificio l'intervento desta clamore: l'intonaco serve a
proteggere la struttura portante: lui ha ottenuto quest'obiettivo usando un intonaco trasparente e lo fa
quindi lasciando in questo modo la lacuna. L'idea è quella di rispettare tutti i segni aggiungendo segni
contemporanei all’interno: infatti era presente un battuto a terra, per cui si è chiamato un mosaicista
siciliano per la realizzazione di un pavimento, quando invece per le superfici interne non erano stati
previsti interventi: non vengono rifatti gli intonaci, ad esempio. Questo intervento degli anni ‘70 scuote
molto ma inaugura un nuovo modo d'intervenire sulla preesistenza, aggiungendo una cifra
contemporanea per adeguare l'edificio alle sue nuove funzioni.
All' esterno l’intervento è necessario perché altrimenti non allungherebbe la vita dell’edificio, mentre
all'interno ciò non è necessario e per tale motivo non vuole si interviene.
L'elogio del palinsesto era il motto del suo progetto per del suo progetto per il tempio Duomo. (i progetti
di architettura non si possono firmare prima che vengano scelti).

PRINCIPI DI RESTAURO
Introduzione
Tipologie di intervento di restauro:

• Minimo intervento: principio base operando lo stretto necessario per assicurare la durata di
un’opera (vedi Acropoli di Atene);
• Distinguibilità: il restauro non viene più considerato come in passato, quando si riteneva che
bisognasse rifare l’elemento danneggiato così com’era, un falso storico. La distinguibilità è
invece un punto fondamentale per il riconoscimento dell’elemento storico ovvero per
comprendere quali sono le cose storiche e quali no, facilitando la lettura dell’opera;
• Compatibilità: i materiali si comportano in maniera differente rispetto alle sollecitazioni 4

meccaniche o termiche e la compatibilità strutturale, chimica e meccanica, garantisce che


due materiali tra loro stiano bene insieme, siano appunto compatibili: essa è una
caratteristica fondamentale da rispettare;
• Reversibilità: la reversibilità assoluta è impossibile, ma nel restauro gli interventi “dovrebbero”
essere quanto più reversibili è possibile, si deve poter tornare indietro e rimuovere l’elemento, per
sostituirlo o per modificarne la funzione;
• Rispetto dell’autenticità: l’autenticità è uno degli elementi fondamentali per cui noi
eseguiamo un restauro, deve essere preservata e rispettata, rappresenta lo scopo più che il
criterio del restauro;
• Sostenibilità: nuovo e fondamentale criterio, per garantire che ciò che si realizza non crei
danni ai posteri.

La materia antica è considerata dal restauro generale come un qual cosa da conservare, la materia
considerata come documento storico deve essere totalmente conservata, ogni caso è unico, non può
essere categorizzata; ogni elemento ha una storia statica e costruttiva, non ci sono elementi
standardizzati; quindi, come un medico guarda il paziente e adotta la cura dopo averlo analizzato, così
il restauro opera, analizzando singolarmente i vari materiali ed elementi.

Concetto di patrimonio culturale:


oggetto essenziale del restauro è il patrimonio culturale, appunto inteso come “ciò che si restaura”; nel
1965 alla commissione Franceschini fu incaricato il compito di studiare lo stato dei beni culturali in Italia
e tra le pagine di 3 volumi scritti compare per la prima volta la definizione di Beni Culturali: “Testimonianze
materiali aventi valore di civiltà”, quindi anche un attrezzo agricolo di 200 anni fa che testimonia un
valore di civiltà, rappresenta un bene culturale, per cui non ci si riferisce solamente alle grandi opere di
architettura, ma anche a qualsiasi altro strumento che abbia un valore di civiltà. Nel tempo l’oggetto
della storia si è modificato, nella storia antica ci si riferiva ai grandi imperatori ed a uomini ricchi, non si
narra mai la vicenda di un povero contadino, nel tempo lo storico iniziò ad interrogarsi su cosa
significasse per l’uomo comune vivere in un certo tempo spostando l’importanza dai documenti, codici,
a passare a studiare i segni anche sul territorio, per comprendere come viveva l’uomo in quel periodo
storico. Tutto ciò ha avuto una ricaduta sul restauro, nel senso che tutto ciò che oggi è inteso come
patrimonio culturale non riguarda più solo il monumento intenzionale, ovvero nato perché si vuole
perpetuare una certa memoria, come la statua di imperatori, ma è una traccia, una cosa involontaria
che segna un pezzo di storia. L’archeologia è quindi un bene culturale, ma fino all’800 questo concetto
ancora non era ben sviluppato; quindi, molti elementi non venivano considerati come beni culturali e
quindi non ci si impegnava al restauro o alla conservazione, questo riconoscimento si identifica nel
concetto di “patrimonializzazione” (Città di Pompei).
Anche il paesaggio entra a far parte della categoria di bene culturale; il paesaggio è un insieme di
elementi naturali e modificazioni realizzate dall’uomo in vista delle sue necessità e attività, in cui
l’elemento di storia si intreccia con l’elemento natura (Terrazzamenti in costiera amalfitana).
Il termine paesaggio viene dalla parola “pagus” che in latino si traduce con villaggio, che sta a
rappresentare la presenza dell’uomo, relazione tra pagus e ager, territorio, infatti anche la coltivazione,
come quella della Campagna Toscana, può essere considerata come tale.
Il campo del restauro, infine, si occuperà di considerare come beni culturali, anche opere di ingegneria
civile, come ponti o acquedotti o ferrovie che quindi potranno essere oggetti di interventi di recupero
e conservazione. Innovativo è invece l’intervento sul patrimonio culturale del 900, ovvero di tutti quegli
elementi costruiti il secolo scorso e ritenuti già come beni culturali e su cui bisogna effettuare una certa
tutela e conservazione, un esempio è il museo Guggenheim di F.L. Wright di New York o la Fallingwater
o il palazzo delle poste a Napoli, che già hanno subito forti interventi di restauro col principio della
reversabilità e minimo intervento.
Spesso anche gli edifici industriali vengono valutati come beni culturali che vengono utilizzati come
musei o altro, tra cui le numerosissime ciminiere, preservandone l’immagine esterna.
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Storia del concetto di patrimonio


Circa 2000 anni fa il concetto di patrimonio era quasi inesistente: l’idea che si dovesse fare i conti
con il passato non era di particolare interesse. Quando Pompei venne distrutta dal terremoto del 63 d.C.
si cercò di fare grandi rinnovamenti, senza pensare di voler conservare il passato;
nel 79 d.C., anno dell’eruzione del Vesuvio, la città era diventata un enorme cantiere in cui si
effettuavano interventi sostitutivi: venivano cancellate le vecchie decorazioni, vennero realizzate delle
consolidazioni di murature e trasformazioni di edifici. C’era quindi una consapevolezza di cosa fosse il
restauro, visto però come “riparazione”, ovvero rimettere in sesto una cosa per poterla utilizzare; spesso,
infatti, i latini parlano di oggetto “instaurato” ovvero ricreato, rifatto; quindi, l’idea di rispettare l’antico
era ancora limitata. Molti edifici furono addirittura utilizzati per scopi nuovi, come la fullonica
(lavanderia) di Stephanus, realizzata all’interno di una domus tipica pompeiana, riadattandola, senza
voler preservare un’identità, c’è solo una trasformazione funzionale.
L’unico intervento di restauro consapevole era quello volto a lucidare le statue bronzee dell’imperatore,
o i vari monumenti, spesso però modificati. Un esempio brutale è quello della statua di Domiziano-Nerva
conservata presso il museo di Baia, ove si scopre che la testa è stata collocata in un momento
successivo: la statua, infatti, era stata realizzata per Domiziano, ma Nerva, suo successore, decise di
mozzarne la testa per mettere la propria, senza dover rifare l’intera statua. Si utilizza ciò che i romani
chiamano Damnatio memoriae, una condanna al vecchio imperatore che viene cancellato e
dimenticato.
Spesso si tendeva addirittura ad alterare la storia di un edificio, tipico è l’esempio del Pantheon, che
subì numerosissime trasformazioni: sulla scritta del frontone spicca il nome Agrippa, elemento che
dimostra che l’opera fu realizzata al tempo di Agrippa; Per molti secoli si ritenne che fosse straordinario
che in un’epoca così antica si realizzò una cupola così complessa, ma in realtà già nell’800 gli
archeologi scoprirono che sotto questa grande scritta, ve ne era un’altra, sotto l’architrave, più piccola.
Si scoprì che il monumento aveva subito un incendio e fu ricostruito al tempo di Adriano, circa 130 anni
dopo, il quale volle riprodurre la scrittura che faceva risalire il Pantheon al tempo di Agrippa, come se
fosse rimasto lo stesso, scrivendo in piccolo sotto il vero intento, per cui ciò che vediamo è il risultato di
vari interventi e ricostruzioni.
Ciò che però segna un primo cambiamento nella considerazione del patrimonio è l’avvento del
Cristianesimo. Esso segnò uno spartiacque nella cultura europea, molto importante anche dal punto di
vista patrimoniale, perché quando dal 313 d.C. Con l’editto di Milano, i cristiani acquistano il diritto di
culto, ognuno è libero di seguire la propria religione. Si manifesta una religione completamente diversa
in cui gli Dei “falsi e bugiardi” come li definisce Dante, vengono liquidati in tempi rapidi, circa 300 anni,
mettendo in discussione secoli precedenti di cultura pagana: tutti i templi diventano inutili, la religione
cristiana diventa la religione dello stato e nasce quindi l’esigenza di capire cosa fare di tutte le
costruzioni sacre pagane: se trasformarle in chiese, o se distruggerle.
Il senso della distruzione dell’architettura pagana è strettamente connesso con l’avvento del
cristianesimo anche dal punto di vista iconografico, quasi sempre la nascita di Cristo è collocata in una
condizione di distruzione della romanità, così come è rappresentato ad esempio in un famoso dipinto
di Francesco di Giorgio Martini, in cui dietro la nascita di Cristo compare un arco distrutto e spezzato a
metà dall’evento dell’avvento di Cristo.
L’ordine precedente deve distruggersi necessariamente, per la prima volta, non c’è più continuità, c’è
un prima e dopo. Quindi da quella data il destino delle rovine romane è stato segnato; infatti, perché si
ritorni ad un apprezzamento di quelle rovine ci vorranno molti secoli.
Poco dopo Costantino, il mondo romano cade in rovina, viene invaso e conteso da popolazioni diverse
che invadono soprattutto la parte Occidentale, come l’Italia o la penisola Iberica, Costantino sposta
così la capitale a Costantinopoli e dopo il 476 d.C. quando cade l’ultimo imperatore romano
d’Occidente, l’impero d’oriente si conserva in uno spazio limitato e sarà l’unico luogo in cui si ritrova una
continuità con il mondo romano, pur essendo assoggettato dal cristianesimo. Ci sono però alcune
eccezioni legate al periodo immediatamente successive alla caduta dell’Impero Romano
d’Occidente: quando l’Italia era invasa da Odoacre, rè dei Goti. Il successore di quest’ultimo, 6

Teodorico, manifesta infatti un approccio meno violento, di fronte a questo immenso patrimonio e
decide di promulgare una serie di “variae” ovvero editti scritti da un segretario, Cassiodoro, in cui ci
sono delle riflessioni che egli invia a personaggi della corte invitando a non distruggere i monumenti
antichi. Già allora c’è un embrione di conservazione: Teodorico raccomanda infatti che “chiunque trovi
sul proprio cammino pietre di ogni genere riutilizzabili per le fortificazioni urbane offra di buon grado
queste pietre affinché siano utilizzate nelle fortificazioni nuove della città”, ci fu quindi il rimpiego di pezzi.
L’importante è che tutto questo sia fatto con criterio, se infatti tra le pietre si ritrovi qualcosa di prezioso,
queste cose devono essere trattate con riguardo; un pezzo di un antico edificio torna ad essere un
elemento di un nuovo manufatto; tra gli scritti infatti leggiamo “il nostro proposito è sicuramente quello
di costruire il nuovo ma ancor più di conservare l’antico”.
Qualche anno dopo, finito il regno di Teoderico, l’Italia è scossa da un periodo di crisi in cui i Bizantini,
con l’imperatore Giustiniano, tentano una riconquista: scoppia una guerra tra Bizantini e Goti con
l’assedio della città di Roma. Belisario, a capo dei Goti, scrive una lettera a Totila, che aveva assediato
la città, invitandolo a non distruggere Roma, minacciata di essere resa al suolo.
Belisario richiama motivi culturali di forte interesse: “Di tutte le città sotto il sole Roma è la più grande e
la più bella”. È questa città, quale tu ora la vedi, edificata a poco a poco, che quegli uomini lasciarono
ai posteri, a simbolo della cultura del mondo. Perciò colui che rovinasse tante grandezze, si renderebbe
reo di un grave delitto verso tutti gli uomini del futuro perché priverebbe agli avi dei monumenti del loro
valore e ai nepoti impedirebbe di godere la vista delle eccelse opere degli antenati. Distruggendo
Roma non perdi una città di altri, tu perdi la tua stessa città”.

Nell’VIII secolo, l’Italia era stata divisa tra Longobardi e Bizantini dopo la guerra gotica, la storia quindi si
divide, Roma era occupata dai Bizantini. In Sicilia, sempre in mano ai Bizantini, ci sono numerosi episodi
di trasformazione di templi greci in basiliche cristiane, la cella diventa la navata centrale e la peristasi
diventa una navata laterale. Altro esempio lo ritroviamo a Siracusa, ove il tempio di Atena fu
completamente trasformato in cattedrale, in cui i vuoti tra le varie colonne vengono murati, tamponati,
le colonne però si lasciano a vista, è presente la commistione di una serie di secoli che si intrecciano
(arte classica, barocco e medioevo). Non c’è solo un uso utilitaristico di risparmio di materiali, ma anche
di continuità, a voler conservare e riutilizzare il vecchio. Anche il Partenone, oggetto simbolo del passato,
fu trasformato in basilica, oggi restaurato e riportato nella fase originale.

L’antico e le preesistenze tra Umanesimo e Rinascimento. Teorie, personalità ed interventi su


architettura e città
Il Rinascimento è un periodo di forte riavvicinamento col passato, soprattutto con l’architettura classica.
Gli storici parlano di quest’epoca come età moderna, dal ‘400 al ‘700, dalla fine del Medioevo all’inizio
della Rivoluzione francese.
Questa nuova indagine sull’antico inizia presso la città di Roma. Una vecchia pianta della città del 1474
mostra una rappresentazione di Roma, in cui si arrivava da Nord, con le mura Aureliane, la piramide
tomba di Caio Cestio, e tutta una seria di monumenti appartenenti alla storia della Roma antica, come
esempio di riavvicinamento al passato. Ritroviamo le basiliche cristiane, ma soprattutto il Colosseo, la
colonna Antonina, Traiana e di Marco Aurelio, il Pantheon; quindi, cominciano ad uscire fuori una serie
di preesistenze importanti che toccano l’immaginario degli Umanisti. In realtà esiste un “Proto-
Rinascimento” che si collocherebbe in una prima fase con Carlo Magno e poi con Federico II, quindi la
scoperta dell’antico non è proprio del ‘400, ma risale ad un’epoca più antica, pur senza darle ancora
la giusta importanza. Nel ‘400 cresce una consapevolezza anche politica: Lorenzo de Medici, così come
alcuni papi, come Niccolò V o Pio II, sono in prima persona degli umanisti, degli studiosi; quindi, questa
forza dell’antico si manifesta in maniera nettissima su tutta una serie di personaggi che iniziano a vedere
il mondo antico come una sorta di rimpianto verso un passato che non ritornerà mai più: nasce da qui
il concetto di rinascere, una rinascita della consapevolezza del passato che sarà però proiettato nel
futuro; si cercherà di andare oltre e già con Leon Battista Alberti si esprime una volontà anche di
superare il passato, cercando di fare di meglio. Il Rinascimento non è solo un momento di rinascita
dell’uomo che si presenta come il centro del tutto, è un fenomeno che nasce da una depressione
dell’Italia di quel tempo, nel 1453 era finito l’Impero Romano d’Oriente: per mano musulmana, 7

Costantinopoli viene infatti conquistata dagli Ottomani e in Italia non si parlava di altro; vi era ancora
una speranza di ritornare al passato ed è proprio da questa speranza che nasce un riavvicinamento
verso il mondo classico; è in questo periodo che vengono scoperti ad esempio gli scritti di Vitruvio e tanti
altri testi, e da questi ultimi nasce un interesse anche dal punto di vista architettonico al classico.
Leon Battista Alberti, quando arriva a Roma a metà del 1400, scrive un trattato “Descriptio Urbis Romae”
che rappresenta un rilievo topografico della città, ma non è una carta piuttosto è una trascrizione di
una serie di coordinate polari che consentono a chiunque di ridisegnare una carta: è un codice, una
sorgente informatica; è il primo momento in cui Alberti si avvicina a questi monumenti e segna un
passaggio importante. Siamo in una fase in cui i papi, che nel ‘300 erano scappati ad Avignone, col
ritorno del papato a Roma, iniziano un po' a preoccuparsi delle sorti del patrimonio antico. Eugenio IV
negli anni ‘30 del 1400 fu il primo a promulgare una specie di editto per tutelare il Colosseo, ma ancor
di più Pio II nel 1462 fa un editto “Cum almam nostram urbem” in cui invita i romani a non distruggere i
vecchi monumenti che spesso erano tra loro isolati ed il cui il tessuto connettivo si era abbastanza perso,
il luogo dei fori era un luogo di pascolo, i monumenti erano pieni di vegetazione e in parte coperti dal
terreno, rappresentati da una moltitudine di disegnatori. Da qui parte l’idea degli Umanisti di capire
cosa sono queste cose e quanta importanza bisogna dare ai monumenti.

Filippo Brunelleschi e l’antico


Filippo Brunelleschi, nato nel 1377 da famiglia molto ricca, arriva a Roma all’inizio del ‘400, quasi con un
retaggio medievale, insieme al suo amico scultore Donatello. Vengono a Roma perché sentono la
necessità di studiare i monumenti che la città offre, girando con degli operai a cui chiedevano di
scavare e di scoprire le basi dei monumenti ricoperti dal terreno, destando sospetto presso i cittadini
che li soprannominarono come “quelli del tesoro”. Brunelleschi non nasce come architetto, inizierà infatti
ad appassionarsi all’architettura solo dopo aver visitato Roma.

Breve cenno di storia


La cattedrale metropolitana di Santa Maria del Fiore, conosciuta comunemente come duomo di
Firenze, è la principale chiesa fiorentina, simbolo della città ed uno dei più famosi d'Italia; quando fu
completata, nel Quattrocento, era la più grande chiesa al mondo, mentre oggi è la terza in Europa
dopo San Pietro a Roma e San Paolo a Londra. Essa sorge sulle fondamenta dell'antica cattedrale di
Firenze, la chiesa di Santa Reparata, in un punto della città che ha ospitato edifici di culto sin dall'epoca
romana. La costruzione del Duomo, ordinata dalla Signoria fiorentina, inizia nel 1296 e termina dal punto
di vista strutturale soltanto nel 1436. I lavori iniziali furono affidati all'architetto Arnolfo di Cambio per poi
essere interrotti e ripresi numerose volte nel corso dei decenni (da Giotto, Francesco Talenti e Giovanni
di Lapo Ghini). Al completamento della cupola del Brunelleschi seguì la consacrazione da parte di papa
Eugenio IV il 24 marzo del 1436. La dedica a Santa Maria del Fiore avvenne in corso d'opera, nel 1412.
Santa Maria del fiore è l’opera principale di Brunelleschi, che oltre ad essere un capolavoro di
architettura ha anche un tema di prosecuzione di un’opera, l’apporto di Brunelleschi rappresenta infatti,
un intervento su una preesistenza. Non si tratta di restauro, ma ne condizionerà il concetto dal momento
che Brunelleschi dovette operare su un’opera già realizzata. C’è una forte analogia con il Pantheon,
pur sembrando diverse, le cupole, sono state progettate infatti secondo gli stessi rapporti dimensionali,
quali diametro e altezza, sono simili.
La basilica subisce verso la fine del ‘200 un grosso ampliamento voluto da Arnolfo di Cambio che
proseguì fino alla metà del 300 con Francesco Talenti, architetto che definisce la pianta ottagonale
immaginando che debba essere coperta da una grossa cupola. Brunelleschi fu in un primo momento
chiamato, verso il 1408 in cantiere per risolvere il problema delle aperture circolari nel tamburo, una
cosa che strutturalmente poteva indebolire il tutto. I problemi nati per la realizzazione della cupola erano
tre:
- costruire una cupola con dei ponteggi lignei che dovevano raggiungere un’altezza mai
raggiunta prima;
- il fatto che fosse una cupola sferica su pianta ottagonale, insolita rispetto agli schemi fissi;
- benché ci fosse questa matrice gotica, la cupola non prevedeva degli archi rampanti ma 8

doveva apparire completamente sferica, priva di elementi strutturali visibili.

Nel 1418 fu bandito un vero e proprio concorso per la realizzazione della Cupola, al quale partecipò
Brunelleschi: a vincere furono i due rivali Ghilberti e Brunelleschi. Nel 1420 venne redatto un capitolato,
cioè un contratto, in cui venivano descritti i modi di realizzazione e di affidamento dei lavori, passo per
passo, dimostrando che al momento della realizzazione non vi era un vero e proprio progetto definitivo,
si procedette infatti per tentativi con l’idea di partenza di voler realizzare una cupola senza centine e
valutarne la fattibilità man mano che iniziava a sorgere. Molti misteri rimangono sull’effettivo impianto
strutturale, come la questione “delle catene di macigno” o sul tracciamento dei piani di posa secondo
il sistema della “corsa blanda”. Brunelleschi inventa la possibilità di procedere tramite un sistema di
palchi a sbalzo, senza centine, attraverso delle mensole di legno si lavora contemporaneamente su
ognuno degli 8 spicchi, per ognuno dei quali fu nominato un capo; mentre l’ultima parte a causa della
forte inclinazione, necessitava di un ponteggio a stella chiuso. Ci sono due calotte, una interna resistente
dal punto di vista strutturale e una esterna per proteggere quella interna, nel cui vano compaiono delle
scale e che compongono la cupola, che risulta essere non a tutto sesto ma a sesto rialzato ottenuta col
sistema del quinto acuto negli angoli con incremento di freccia. I mattoni interni orizzontali sono interrotti
da altri mattoni posizionati a spinapesce che seguono la cupola in maniera elicoidale.
La realizzazione della cupola dura 16 anni, dal 1420 al 1436. La lanterna sarà realizzata in molto più
tempo, per la quale fu indetto un ulteriore concorso vinto anch’esso da Brunelleschi, il quale non riuscì
a vederla realizzata. Brunelleschi non vide realizzate neanche le tribune che furono addossate alla base
del tamburo e che hanno anche una funzione statica, sono infatti dei contrafforti: esse sono sicuramente
il pezzo più classico dell’opera, sono una citazione dell’antico che spiega il fatto che Brunelleschi sia
stato a Roma e abbia studiato l’architettura classica: colonne binate, nicchie molto grandi, sono una
sintassi romana.

Leon Battista Alberti, l’antico e le preesistenze (1404-1472)


Emblema del rinascimento, con una vita abbastanza intensa, Leon Battista Alberti possedeva una
radice fiorentina molto forte, figlio illegittimo di un ricco mercante appartenente ad un’importante
famiglia Toscana che subirà un esilio. Alberti studia a Padova ma si laurea a Bologna. In seguito alle
varie difficoltà provocate dall’esilio della famiglia, ha la grande fortuna di entrare sotto la sfera
protettrice del papa Eugenio IV che gli attribuisce una rendita, viene rimosso il bando che gli impediva
di stare a Firenze, e gli assegna il beneficio di un’abbazia fuori Firenze ricevendone dei soldi, potendosi
così dedicare completamente allo studio. Egli lavora col papa, non avrà mai una famiglia.
Il De Re Aedificatoria è un’opera alla quale Alberti lavora per molti anni che ha un’edizione definita
intorno al 1450, ma la prima edizione a stampa venne realizzata nel 1485 in 10 libri in lingua latina, che
per l’epoca era una lingua molto più comprensiva e internazionale. Il trattato è pieno di riferimenti
all’antico, l’ultimo dei 10 libri è incentrato proprio sul tema del restauro, di cui si ritrovano però dei
riferimenti in tutti gli altri libri, pur essendo completamente privo di disegni.
Nel libro III compare un embrione di approccio conservativo, c’è l’idea di non consumare le cose se
esse hanno ancora un’utilità; ancora nel libro IX parla a riguardo del tema di come bisogna completare
e proseguire un edificio non terminato. Panofsky, studioso del 900, afferma che all’epoca vi erano 3
approcci per continuare una fabbrica: circondarla ad un involucro nuovo, continuare alla maniera
medievale o conciliare le due modalità attraverso un’operazione che Alberti chiama “concinnitas”.
Secondo Alberti tre sono le leggi fondamentali su cui si fonda il metodo cercato: numerus, finitio,
collocatio (numero, delimitazione e collocazione); ma vi è inoltre una qualità risultante dalla
connessione di questi elementi: in essa risplende tutta la forma della bellezza ed è nota col nome di
concinnitas, ovvero l’ordinare secondo leggi precise le parti che altrimenti per propria natura sarebbero
ben distinte tra loro, è quindi l’armonia dell’insieme.
Il libro X è quello più tecnico e comprende una parte che riguarda l’idraulica e l’altra il restauro.
Egli parla dei difetti che possiamo riscontrare nei vari edifici: essi possono essere congeniti e connaturati,
cioè nati per errori del progettista, oppure possono formarsi naturalmente per cause esterne; Alberti
passa poi nel descrivere i metodi per curare i difetti e risolvere i problemi riguardo varie parti dell’edificio
a partire dalle fondazioni. Le due opere più interessanti, dal punto di vista della prosecuzione dell’opera, 9

sono il Tempio Malatestiano e la facciata della basilica di Santa Maria Novella. Il primo è un esempio di
trasformazione di una chiesa medievale in rinascimentale: Alberti venne chiamato nel 1447 per
un’analisi sui dipinti e sui contenuti di quella che allora era la chiesa di San Francesco a Rimini, medievale
tardo duecentesca con un’aula unica e delle cappelle, da Sigismondo Malatesta, ricco fiorentino, con
l’intento di trasformare la chiesa in una cappella di famiglia.
Siamo in un momento in cui il rinascimento guarda con molta attenzione la cultura pagana e la cultura
neoplatonica, in cui si va aldilà del dogma di fede canonica della chiesa di Roma per abbracciare un
retaggio anche astrologico e misterioso. Nelle cappelle del tempio si ritrovano riferimenti a segni
zodiacali e simboli che non fanno parte della religione cristiana.
Il tempio non verrà mai completato perché Sigismondo entra in un periodo di crisi e verrà scomunicato
dal papa. La trasformazione di questa chiesa può essere ricostruita tramite una serie di tracce: la prima
traccia è una medaglia che è stata ritrovata (all’epoca veniva realizzata per rispettare una tradizione
secondo cui la medaglia doveva essere gettata con la posa della prima pietra delle fondazioni) che
mostra in altorilievo la forma della nuova facciata dell’ex chiesa;
l’altra traccia è una lineatura di Giovanni da Fano che mostra uno stato del cantiere del 49-50,
rappresentando il momento in cui si stava realizzando la trabeazione della facciata con i lapicidi, gli
spaccapietre e una nuova figura di colui che supervisiona il tutto: l’architetto, quest’ultimo rappresenta
un nuovo simbolo, ovvero colui che progetta e guarda il realizzarsi dell’opera secondo una nuova
scansione di ruoli ben precisa.
Secondo il progetto iniziale, in facciata sarebbero dovute comparire le tombe di Sigismondo e della sua
compagna.
La pianta del duomo di Rimini, ovvero l’ex chiesa di S. Francesco, mostra chiaramente la presenza di un
impianto medievale: una navata centrale con cappelle laterali, una parte absidata tipicamente gotica
che si distingue da un involucro esterno che sarà realizzato da Alberti.
Egli dopo aver dato dei consigli sulle decorazioni, convince Sigismondo che per far un nuovo e bello
edificio, degno di essere considerato come un tempio, non si può accettare una fabbrica medievale,
considerata come vecchia; per cui l’involucro esterno che egli realizzerà è tipicamente classico e
indipendente rispetto alla fabbrica medievale interna da cui ne è staccato. Esso rappresenta un chiaro
riferimento all’Arco di Augusto a Rimini, in cui Alberti aveva trovato una fonte di ispirazione. Si tratta
quindi di un restauro anche abbastanza rispettoso visto che l’interno è lasciato così com’era, pur non
essendoci una corrispondenza tra interno ed esterno. Dietro le aperture ad archi a tutto sesto su
pilastroni, si nascondono le finestre gotiche ad arco a sesto acuto; potrebbe essere una sorta di
citazione agli acquedotti romani, oppure potrebbe richiamare un sarcofago. Nella realizzazione
dell’involucro egli applica una delle regole di cui aveva parlato nel De Re Aedificatoria: i pilastri devono
sostenere gli archi, una regola che secondo Alberti non tutti avevano capito, mentre le colonne circolari
devono sostenere un architrave ed è sbagliato fare il contrario, come aveva fatto spesso Brunelleschi.
La regola generale è poi che negli edifici pubblici saranno usati sempre pilastri e archi a tutto sesto,
mentre i templi preferibilmente avranno colonne. In questo caso egli utilizza tutti e due i sistemi, sulla
facciata laterale usa archi e pilastri, in facciata principale usa sia archi e pilastri e sia colonne e
trabeazione; egli fu il primo ad utilizzare gli ordini in maniera rigorosa, codificandone l’uso. La facciata
del tempio rappresenta il primo esempio di facciata del Rinascimento in Italia.
Il vero problema fondamentale era come continuare la facciata; unico elemento da cui si può trarre
una probabile facciata disegnata da Alberti è la medaglia di Matteo de Pasti, in cui c’è la presenza di
due raccordi curvi laterali per nascondere le falde, poi c’è la campata rialzata centrale e dietro una
grande cupola costolonata ma perfettamente circolare. In una lettera che Alberti scrive a Matteo de
Pasti compare un piccolo schizzo in cui aggiunge una voluta per ornare l’elemento laterale e una
copertura a volta a botte che non sarà mai realizzata.
Verso la fine della sua vita, abbandonato il progetto del tempio Malatestiano, Alberti si dedica al
completamento di un’altra opera, emblema della concinnitas: la facciata della chiesa di Santa Maria
Novella. Il lavoro sarà realizzato poco prima della morte dell’architetto.
La chiesa risultava anch’essa essere di impianto medievale, il cui completamento fu voluto da una
famiglia amica di Alberti, la famiglia Rucellai, per la quale egli aveva realizzato l’omonimo palazzo.
L’opera risultò abbastanza complessa visto il vincolo del basamento impostato con dei sepolcri 10

medievali, delle vere cappelle che non potevano essere spostate, la bicromia degli archi con
l’andamento a sesto acuto, le porte delle navate laterali che hanno un forte linguaggio medievale, il
rosone, o meglio l’oculo, la cui posizione crea problemi di proporzione. Sono molti i dubbi su chi ha
realizzato determinati elementi: se Alberti o se risalgono a periodi più antichi, come il sistema decorativo
dei marmi e delle lesene che risultano troppo esili. La composizione voluta era regolata da una serie di
elementi geometrici: in particolare, tutto è inscritto in un grande quadrato diviso a metà, all’interno del
quale si individuano altri quadrati più piccoli in cui si iscrivono altri elementi; la scansione medievale non
poteva essere proseguita sopra ed era quindi necessaria una grande trabeazione con timpano classico
e aspetti simbologici complessi che secondo alcuni potrebbero rappresentare un esplicitazione di
Alberti verso l’ermetismo, una corrente non accetta dalla chiesa di Roma. Alberti scriverà un trattato
chiamato “Canis” molto misterioso in cui sembra che egli voglia parlare del cane, ma che potrebbe
essere un modo per raccontare con allegorie il messaggio dell’ermetismo per cui il papa gli aveva
imposto di abiurare.
Le volute sono elemento fondamentale per nascondere le falde, e Alberti ne vide costruire una, l’altra
è stata realizzata solo nel 1970.

Antonio Averlino detto Il Filarete (1400 circa - post 1465)


Altro importante trattatista fu il Filarete. Diversamente da Alberti, è un architetto meno colto, non è
un grande letterato ma molto pratico. Scrive un trattato in volgare, composto da 24 libri con disegni,
che avrà molta diffusione rivolgendosi ad una pratica di cantiere, quindi a lavori manuali,
affermando egli stesso che chi vorrà capire le questioni teoriche dell’architettura potrà rivolgersi al
trattato di Alberti, citandolo. Filarete è fiorentino ma acquisirà fama a Milano, ove a partire degli
anni 50 del 400 si trasferisce presso la corte di Francesco Sforza, duca di Milano, realizzando l’ospedale
Maggiore e la torre del castello. Anche nel trattato di Filarete ritroviamo dei collegamenti al restauro,
con un richiamo prima del mondo medievale che verrà abbandonato per lasciare spazio alla cultura
classica. C’è un piccolo passo in cui parla del commercio dei marmi a Roma ottenuti dalla demolizione
delle opere antiche: di questi marmi molti venivano riutilizzati e venivano venduti, in alternativa questi
pezzi venivano messi in fornaci e dalla cottura si ricavava calcina, una calce che serviva per realizzare
stucchi. In un altro libro parla della rovina degli edifici, ritenendo che un qualsiasi edificio “s’amala
quando non mangia”, ovvero si degrada se non è manutenuto (egli pone in esempio il Pantheon,
ritenendo che in quel caso ciò che ha fatto sì che l’edificio non si degradasse fu il riutilizzo, visto come
garanzia di conservazione). Nel libro XIV Filarete fa un passaggio interessante per il restauro perché
immagina che mentre si sta costruendo la città di Sforzinda, (l’idealizzazione di una città è un tema
molto diffuso nel periodo rinascimentale, da interessare anche Filarete che ipotizza la sua città ideale
sotto il nome di Sforzinda) ci si imbatte in una scoperta archeologica, di un qualcosa quindi di antico;
quindi, con una metafora ci spiega il valore dell’antico per il nuovo. Si stanno facendo i lavori per il porto
fluviale di Sforzinda e si recano sul luogo Francesco Sforza, il figlio Galeazzo e lo stesso Filarete che
racconta in prima persona che mentre sta tracciando il porto insieme al committente, trovano qualcosa
di antico, un libro tutto d’oro scritto in greco, incomprensibile per loro. Portano così il libro alla corte e
aiutati dai lettori, scoprono che nel libro ci sono racconti di vicende antiche del re Zogalia, anagramma
di Galeazzo, della città di Plusiapolis che si trovava proprio nel luogo dove stava erigendo il porto, essi
allora decidono di realizzare una sorta di scavo archeologico nel luogo del porto. Il fatto che il porto
quindi si trovi sulle tracce di una città antica condiziona i lavori e soprattutto valorizza il tutto. Questa
storia è l’allegoria del Rinascimento: si scopre l’antico ed è inevitabile dargli attenzione e importanza.

Donato Bramante (1444-1514)


La carriera di Bramante si svolge in maniera marcata a Milano dopo la morte di Filarete. Egli è stato
allievo di Piero della Francesca, pittore prospettico.
Verso il 1482 fu richiesto a Bramante di ampliare la chiesa di Santa Maria presso San Satiro con un'unica
navata e un sacello polilobato: l’ampiamento è possibile in una sola direzione poiché a nord c'è il
11
vincolo di una strada.
La preesistenza diventa un condizionamento positivo, uno stimolo a fare di meglio non un vincolo, per
cui egli cerca di realizzare un impianto a pianta centrale tipico del Rinascimento.
Successivamente viene coinvolto in un lavoro più importante:
- l'ampliamento della Chiesa di Santa Maria delle grazie in cui è di nuovo presente il tema della
preesistenza: la chiesa era di stampo medievale con un impianto gotico e a Bramante fu richiesto di
modificarne l'abside, in quanto Ludovico Sforza voleva realizzare un mausoleo di famiglia: Bramante
allora demolì la parte absidale gotica per realizzare una nuova area fuori scala richiamando le grandi
aule termali romane (facendo riferimento a San Lorenzo): dall'esterno si evince quanto la nuova struttura
domini rispetto alla chiesa preesistente, nonostante Bramante cercò attraverso i materiali e i colori di
unificare le due opere l’una come prosecuzione dell’altra più antica. Nell'interno vengono ripresi i temi
astrologici, temi Pagani e cristiani che si mescolano richiamando i grandi spazi romani.
Alla fine del 1400 Bramante è costretto a scappare a Roma per la caduta di Ludovico il Moro: è qui che
dal 1505 viene presa l'importante decisione della demolizione del vecchio San Pietro per la sostituzione
della basilica costantiniana.
Già ai tempi di Papa Niccolò V fu richiesto a Leon Battista Alberti di fare un intervento sulla basilica di
San Pietro, egli però aveva proposto di non demolire il vecchio edificio ritenendo che l'antichità avesse
un valore rilevante.
Invece Bramante riuscì a convincere il Papa a realizzare una nuova basilica, demolendo
completamente la precedente e sostituendola con un organismo nuovo a pianta centrale con tutti i
riferimenti all'antico, andando contro l'opinione di alcuni religiosi che vedevano nella pianta centrale
uno schema con forti richiami al mondo pagano (infatti le basiliche avevano sempre avuto un impianto
longitudinale): ci sono voluti secoli per realizzare l'opera e gli architetti della fabbrica saranno numerosi
dopo Bramante il quale vide solo l'inizio dei lavori.
Donato Bramante intervenne anche su alcune opere in Campania: una delle tracce più rilevanti è il
succorpo del Duomo di Napoli, ossia la cripta del Duomo.

Raffaello (1483 – 1520) e la lettera a Papa Leone X


Raffaello nasce come pittore, portando in tutti i suoi dipinti anche l'architettura: infatti in essi c'è sempre
tantissima architettura e un controllo dello spazio architettonico impressionante, con un uso esperto
della prospettiva; tutto ciò influenzerà molto l'attività operativa di Raffaello. Dopo la morte di Bramante,
egli otterrà anche degli incarichi come architetto: in particolare il Papa Leone X, fiorentino, lo incarica
della realizzazione del rilievo dei monumenti della Roma antica, come prosecuzione della descriptio
urbis Romae iniziata da Alberti, con un rilievo fisico materico. Raffaello sarà aiutato da umanisti e
architetti, tra cui Antonio da San Gallo, ottenendo anche l'incarico di soprintendente ai monumenti di
Roma, ossia una sorta di responsabile delle antichità romane con il diritto di stabilire cosa si dovesse
conservare e cosa no; il criterio selettivo serviva a prevedere riutilizzo delle pietre di quelle opere che
dovevano essere demolite e per il loro reimpiego nella nuova San Pietro;
per raccontare al Papa i progressi del lavoro, Raffaello scrisse una lettera, una sorta di relazione, che si
è rivelata un documento importante per tenere traccia delle opere romane nel 1419 e perché porta
ancora più avanti il discorso sulla consapevolezza del valore dei monumenti antichi.

La lettera scritta con l'aiuto di Baldassarre Castiglione, si divide in quattro parti:


- la prima, in cui gli autori raccontano il loro approccio verso l'architettura antica, con un profondo
senso di rimpianto per il fatto che parte di essa è stata distrutta nel tempo dagli uomini con una
forte invocazione alla tutela;
- la seconda parte è un'evoluzione della storia di dell'architettura, con un giudizio netto contro
l'architettura medievale a favore dell'architettura rinascimentale, soprattutto quella del
Bramante;
- nella terza parte si descrivono i criteri adottati per il rilievo delle opere e tutti i materiali utilizzati;
- nella quarta parte descrivono i criteri con cui venivano realizzate le rappresentazioni grafiche,
piante prospetti e sezioni, la prospettiva e quindi le regole tecniche di disegno.
Nella lettera, inoltre, Raffaello muove una critica nei confronti dell'abbandono di tutte quelle 12

tecniche antiche che sono andate perdute, critica tutti coloro che hanno fatto “calcina” di tante
opere di fondamentale importanza e di forte pregio; critica l'architettura gotica e conclude dicendo
che edifici di Roma possono essere classificati in tre modi:
- dei buoni antichi (ossia quella romana)
- quella d'epoca medievale
- quella che va dal medioevo fino ai suoi tempi.

Michelangelo Buonarroti (1475-1564) e le preesistenze


Michelangelo nasce molto dopo Bramante e vivrà a lungo realizzando tantissime opere seppur non
finite. A Firenze egli si occupa di alcuni importanti casi di rapporto con le preesistenze: uno dei primi è
quello che vede il giovane Michelangelo alle prese con rifacimento del Palazzo Medici Riccardi
realizzato qualche decennio prima da Michelozzo. L’edificio è tipicamente quattrocentesco con
bugnato rustico come base e bugnato liscio nella parte superiore, con finestre bifore sormontate da
arco a tutto sesto archetti e colonnine. A Michelangelo viene affidato il compito di chiudere il porticato
realizzato da Michelozzo, quindi tamponarlo, realizzando delle finestre che vadano a integrarsi
all'interno di questa struttura quattrocentesca. Michelangelo inventa una finestra moderna con delle
volute allungate con un timpano classico ma con una proporzione equilibrata al contesto dell'edificio:
anche in questo caso la preesistenza non si configura come vincolo ma come stimolo alla creatività.
L'opera più famosa in cui Michelangelo si confronta con una preesistenza è la Biblioteca Laurenziana:
gli viene affidata la sua risistemazione; lo spazio progettato da Michelangelo era vincolato dalla
preesistenza: la sala di lettura, infatti, doveva essere posta al di sopra delle camere dei monaci, per cui
per accedervi c'era una sola scala con un piccolo vestibolo.
Agli inizi degli anni 30 del 1500, Michelangelo torna a Roma in un momento difficile della sua vita, in
quanto aveva appoggiato la Repubblica Fiorentina andando contro il Papa Clemente VII dal quale
però sarà perdonato. A Roma si occupò di una delle o pere più importanti per comprendere la
concezione urbanistica del tempo: la realizzazione di piazza del Campidoglio.

Controriforma e Barocco. Interventi a Roma di Bernini e Borromini

Controriforma-> volontà di ritorno alle origini della Chiesa


1545-1563 -> Concilio di Trento – per riportare la Chiesa alle origini si fa riferimento alle origini del
Cristianesimo, quando la chiesa era ancora pura, non corrotta. Nasce una sorta di “archeologia”
cristiana, un avvicinamento all’architettura Paleocristiana.
Gli interventi di questo periodo riguardano proprio le antiche basiliche, con abbellimenti barocchi volti
a sorprendere il fedele.

Al termine del Concilio di Trento, nel 1577, l’arcivescovo Carlo Borromeo emana un provvedimento:
“Instructionum fabricae et suppellectilis ecclesiasticae”, una guida su come abbellire, arredare e come
ricostruire le fabbriche religiose.

Il provvedimento è diviso in 7 punti chiave:


1. La chiesa deve essere isolata e rialzata dal piano stradale di tre o 5 gradini;
2. la pianta della Chiesa deve essere a croce Latina (la greca è vista come pagana);
3. l'orientamento deve prevedere l'abside Ad Est, quando non possibile, facciata al mezzogiorno;
4. porre attenzione al deflusso delle acque per evitare l'insorgere di fenomeni di degrado;
5. la facciata principale deve avere maggiore importanza degli altri prospetti; le aperture devono
rispecchiare l'articolazione interna delle navate; accesso mediato da portico o vestibolo;
6. utilizzo di finestre rettangolari sormontate da archi, poste in alto e dai vetri non colorati per
favorire l'ingresso della luce;
7. cappelle laterali coperte a volta, rialzate rispetto al piano della Chiesa e protette da cancelli.
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Roma, 1600 -> grandi cambiamenti urbanistici:


- collegamenti visivi tra le principali chiese -> Sisto V
- Tridente Campo Marzio

Francesco Borromini a Roma, metà 1600


S. Ivo alla Sapienza – intervento sulle preesistenze: cupola ovale e aggiunta del cortile;
San Giovanni in Laterano – chiesa dalla stratificazione complessa (è una basilica costantiniana,
modificata nel medioevo): Innocenzo X vuole un linguaggio interno unitario; il progetto di Borromini,
prevede la sostituzione dei pilastri con dei setti pieni alternati a vuoti in proporzione 1:1; i setti poi sono
scavati da nicchie per contenere i 12 apostoli: le nicchie sono caratterizzate dalle colonnine recuperati
dalla basilica preesistente. Le finestre gotiche diventano rettangolari con vetri trasparenti; nel progetto
di Borromini la facciata doveva far leggere l’antica muratura attraverso due oculi ma per questioni di
tempo non verrà realizzata; in ogni caso, il progetto si avvicina alla pura conservazione per la sensibilità
e modernità dello stesso.

Gian Lorenzo Bernini a Roma


Lavorerà insieme a Borromini al Pantheon che nella facciata principale presenta un ordine di colonne
giganti di differenti colori e con differenti capitelli, in quanto risalenti ad epoche e interventi diversi;
Un disegno di Giovannoli del 1616 mostra lo stato dell’edificio prima dell’intervento: c’erano edifici
addossati ed erano presenti lacune nell’angolo sinistro del pronao.
Papa Urbano VIII Barberini nel 1625, avendo Bernini come referente, lo chiama per un restauro del
Pantheon chiedendo la rimozione di tutto l’apparato bronzeo delle decorazioni del frontone, per
fonderlo e utilizzarlo nel Baldacchino di San Pietro; nel 1629 richiede di sostituire il capitello Corinzio
d'angolo e di liberare lo spazio circostante, abbattendo le varie botteghe. La riparazione dell'angolo
sinistro del pronao avviene in due fasi:
- la prima fase riguarda la colonna in angolo che era danneggiata: Urbano VIII ne ottiene la sostituzione
con una colonna in granito con l’esecuzione di un nuovo capitello, che viene realizzato anche da
Borromini e che si contraddistingue dal resto dei capitelli perché compare nella parte superiore la figura
di un'ape, stemma della famiglia Barberini. Vediamo l’applicazione del principio di distinguibilità: in
futuro si capirà che quella colonna è stata aggiunta successivamente su ordine di un preciso
committente.
- la seconda fase, col Papa Alessandro VII Chigi, con cui si riprende il tema dell’isolamento del Pantheon
(nel 1657 avvia il programma di riqualificazione dell'ambiente circostante, con l'obiettivo di riportare la
quota stradale a livello dei gradini del pronao, demolire alcuni edifici e arretrare la casa dei canonici);
Alessandro VII chiederà Bernini di decorare il cassettonato interno avendo il rifiuto dello scultore;
secondo il progetto di Bernini egli aveva immaginato di liberare il Pantheon lateralmente e realizzare
due strade. nel completamento del pronao compare un nuovo capitello con una stella, altro elemento
di datazione, simbolo della famiglia Chigi.
Negli anni del pontificato di Alessandro VIII, Bernini si occuperà del rinnovamento della chiesa di Santa
Maria del Popolo, di proprietà della famiglia Chigi; la chiesa è quattrocentesca, costruita su una
preesistenza romanica dell’XI sec. con tre navate e cappelle laterali, volte a crociera e pilastri che che
reggono arconi a tutto sesto. I Bernini propone di realizzare delle statue per ornare gli archi e di farle
reggere con un fregio continuo come elemento legante dello spazio delle navate; fa inoltre modificare
le finestre bifore sostituendole con finestre rettangolari; l'approccio di Bernini è quasi reversibile, c'è una
semplice aggiunta senza cancellare la preesistenza; in facciata e il rosone quattrocentesco viene
sostituito da una finestra molto più luminosa le finestre sormontate da archi i raccordi di volute laterali
vengono modificati in senso barocco.

Barocco e preesistenze a Napoli

Chiesa Monteoliveto, Sant’Anna dei Lombardi - Giorgio Vasari decora lo spazio del refettorio, spazio
quattrocentesco di stampa angioino, con una decorazione simbolica che si rifà al tema grottesco e
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che cerca di nascondere anche tramite stucchi ovali negli angoli le volte a crociera, utilizzando angoli
morbidi: ciò dimostra la completa disapprovazione degli artisti del ‘500 verso tutta l'architettura gotica,
intesa come antica e buia.

Gesù Nuovo
Palazzo del principe Roberto San Severino, 1470
Nel 1584 acquistato dai Gesuiti, nasce un dibattito sulla conservazione della facciata, unica nel suo
genere, col bugnato a diamante. Le bugne delle facciate laterali vennero utilizzate per alzare l'altezza
del prospetto principale che all'epoca era più basso. L'esterno appare come quello di un edificio militare
in forte contrasto con l'interno barocco a cui si accede tramite portale tipicamente rinascimentale.

Chiesa S. Paolo (Tempio dei Dioscuri)

Basilica Santa Restituta al Duomo


La chiesa aveva un'origine antichissima con colonne prese dal tempio di Apollo; era una basilica
costantiniana a 5 navate: oggi ne abbiamo tre perché le due laterali sono diventate cappelle;
la basilica appare tozza poiché il Duomo angioino ha occupato una o due campate Della Chiesa.
Oltre a problemi di unità stilistica, in quanto sono presenti archi a sesto acuto su colonne (cosa poco
usuale), il problema più grave è quello dell'umidità di risalita risolto attraverso il rialzo della quota di
calpestio della Chiesa. Il rialzo è stato effettuato attorno alle colonne che quindi appaiono tozze.
Nella zona dell'abside le finestre monofore vengono sostituite da finestre quadrangolari e archi a tutto
sesto. Viene realizzata una finta volta sospesa attraverso una macchina particolare in legno che
sorregge la calotta per abbassare l'altezza e rendere la chiesa meno medievale.

Complesso di Santa Chiara


Non abbiamo traccia delle decorazioni barocche in quanto la chiesa può incendiata nel 1943; il fuoco
tiro fuori le linee trecentesche originarie sulla cui base è stata oggi restaurata. L'intervento sul chiostro è
l'unico di cui c'è traccia con la forte decorazione maiolicata voluta per volontà della regina di Sassonia
moglie di Carlo terzo di Borbone; la regina sperava di rendere più piacevole il periodo giovanile in
convento delle ragazze benestanti di Napoli per questo sulle maioliche sono rappresentati paesaggi
esterni e scene di vita quotidiano.

Il Settecento e Luigi Vanvitelli come restauratore


Il ‘700 è un secolo molto vicino alla nostra sensibilità attuale sul restauro: ciò perché cambia l'approccio
culturale al tema del passato. Rilevanti da questo punto di vista sono state le scoperte archeologiche
di Ercolano (1738) e Pompei (1748): queste scoperte influenzarono il gusto dell'intera Europa e addirittura
dell'intero mondo.
uno degli aspetti che riguarda il restauro in quest'epoca riguarda la conservazione dei reperti che
vengono scoperti: possiamo dire che è da qui che inizia la vera storia del restauro.

Luigi Vanvitelli (1700-1773)


L'approccio di Vanvitelli è da ingegnere-restauratore, nel senso che si interesserà di meno
all'archeologia in favore di un restauro teso al consolidamento degli edifici.
Cupola di San Pietro
L'evento che porta Vanvitelli ad occuparsi di monumenti è quello che lo porta ad essere assistente
dell'architetto della fabbrica di San Pietro, Antonio Valeri. la cupola era stata realizzata nel 500, su
progetto di Michelangelo, e poi compiuta tra il 1588 il 1590 dai suoi allievi Domenico Fontana e Giacomo
Della Porta. Intorno al 1730 ci si occupa nuovamente della cupola: ci sono infatti architetti preposti alla
manutenzione della stessa. la cupola di Michelangelo è differita rispetto al progetto, infatti gli allievi
dovettero interpretare i suoi progetti e adattarli alle varie esigenze: quella di Michelangelo è una cupola
quasi a pieno centro (come quella del Pantheon) e a doppia calotta, gli allievi, invece, realizzano una
cupola leggermente rialzata più simile alla cupola di Santa Maria del fiore a Firenze. Michelangelo inoltre
aveva previsto delle statue alla base della cupola (tra cupola e tamburo) con ruolo importante dal
punto di vista strutturale, in quanto col proprio peso contrastano la spinta della cupola: uno dei problemi 15

principali della statica delle cupole era proprio l'attacco con il tamburo e il contenimento delle spinte
orizzontali. Già dopo poco la sua realizzazione, la cupola presenta delle lesioni preoccupanti: negli anni
40 del ‘700 il Papa Benedetto XIV, secondo una visione più scientifica che iniziava a delinearsi in quegli
anni, chiama tre matematici per fare calcoli sulla cupola: essi non tengono conto dell'aspetto spaziale
della cupola, non considerano l'attrito e fanno calcoli di equilibrio considerando la cupola come un
insieme di conci: i calcoli matematici applicati all'architettura vengono iniziati proprio in questo secolo;
per i matematici la cupola era a imminente rischio di crollo; il Papa quindi si rivolge ad un fisico anch'esso
aiutato da Vanvitelli, che per la prima volta effettua un rilievo materico: non si rileva la sola geometria
della cupola, ma come è fatta e come si presentano i suoi dissesti strutturali, evidenziando quindi anche
le lesioni e cedimenti. Nell'analisi effettuata da Vanvitelli egli propone degli interventi sulla base delle
osservazioni fatte:

- La cupola presenta la base del tamburo lesioni a 45° che possono causare cedimenti; individua
lesioni anche all'interno della cupola;
- rileva come sono fatti i contrafforti;
- ipotizza la presenza di alcune cerchiature e verifica se effettivamente ci siano;
- rappresenta le scale a chiocciola in sezione e mostra come lungo di esse si rivelino una serie di lesioni
all'andamento verticale molto preoccupanti; le scale a chiocciola sono l'unico modo che ha il
vanvitelli per entrare all'interno del tamburo e studiare l'andamento delle lesioni all'interno di esso;
rileva inoltre che le scale a chiocciola sono elemento di indebolimento della struttura, in quanto in
questi punti si riduce la sezione;
a tali rilevazioni aggiunge delle ipotesi migliorative che esprime al Papa in forma anonima:

- realizzare tre nuove cerchiature per contenere la spinta orizzontale: immagina di realizzarle con
elementi metallici posti a tridente (sua idea originale);
- rinforzare tutti i contrafforti ponendo in sommità delle mensole rovesce; propone cioè di mettere delle
volute al posto delle statue previste da Michelangelo per controbilanciare la spinta;
- ridurre la luce del vano di passaggio di tutti i corridoi sottostanti i contrafforti;
- ingrossare lo spessore dei contrafforti e collegarli mediante cerchioni e catene;
- Riempire alcune delle scale a chiocciola, per lui in numero eccessivo.
Il fisico Poleni immagina di dividere la cupola in una serie di conci utilizzando il modello funicolare per
dimostrare che l'andamento della curva delle pressioni è tutto interno alla sezione, e cioè che non è
vero che la cupola è a rischio crollo; per cui si trova d'accordo con le analisi fatte e si procede con la
realizzazione di due cerchiature come le aveva pensate Vanvitelli, la sua cerchiatura verrà quindi
brevettata: il suo sistema, detto a tre occhi, consente di serrare gli anelli con due cunei ribattuti l'uno
dentro l'altro, viene applicato a due delle catene della cupola.

Basilica di Santa Maria degli Angeli, Roma


Prima di andare a Napoli, Vanvitelli interviene su un’altra opera di Michelangelo: egli ha il compito di
abbellire lo spazio che Michelangelo aveva concepito come scarno per lasciar leggere il rudere
romano. Per questo intervento Vanvitelli riceverà molte critiche, sebbene parte degli interventi non siano
da essere attribuiti a lui. Lo spazio era già stato modificato, per cui l’intervento di Vanvitelli ha riguardato
le sole decorazioni. L’intervento maggiore è stato fatto nella zona del tiepidarium, in cui Vanvitelli decide
di realizzare una trabeazione in alto che spezza il rapporto tra colonna e volta (che Michelangelo voleva
far leggere) per accogliere delle tele provenienti dalla pinacoteca vaticana.

Palazzo Reale di Napoli


Vanvitelli arriva a Napoli intorno al 1750, quando si stava scoprendo Pompei, e ha l’incarico della
progettazione della Reggia di Caserta. Mentre lavora alla Reggia gli viene chiesto l’intervento su
fabbriche in rovina, una di queste è il Palazzo Reale: esso, la cui, facciata fu realizzata da Domenico
Fontana nel 1600, presentava dei dissesti strutturali proprio in facciata: sembrava che essa stesse
subendo una rotazione verso la piazza. La facciata dell’epoca era diversa da quella che vediamo oggi,
presentava infatti un porticato al piano terra che risultava essere elemento di indebolimento per l’intero 16

sistema, Vanvitelli fa due proposte:


- Fare una sottofondazione, allungando le fondazioni presenti, raggiungendo una quota più
profonda;
- Rinforzare la struttura in elevato annullando l’effetto del porticato, alternando un’apertura con
una tamponatura. Ogni vuoto tamponato veniva decorato con una nicchia architettonica;
Gli interventi realizzati da Vanvitelli sono tutti testimoniati da lettere al fratello, in cui egli presenta la sua
idea di restauro, che non era basata sulla distinguibilità ma piuttosto su un intervento mimetico.

Chiesa dell’Annunziata
È l’ultimo intervento che Vanvitelli realizza a Napoli; qui si ritrova a dover rifare quasi l’intera chiesa con
un forte condizionamento per la preesistenza: si tratta infatti di una chiesa angioina, tipicamente
medievale, dalla forma molto allungata; Successivamente, nel 1757, la chiesa subisce un incendio e
subito nasce una questione su cosa farne di questa chiesa. Nella questione furono
coinvolti alcuni dei maggiori architetti dell’epoca: Luigi Vanvitelli, Ferdinando Fuga, Mario
Gioffredo, Giuseppe Pollio, Nicola Tagliacozzi Canale, Carlo Bibiena, Giuseppe Astarita e
Costantino Manni. Tutte queste figure speravano che gli venisse commissionato questo lavoro.
Tutti, tranne Vanvitelli, sono dell’idea di riparare la chiesa e di realizzare una volta finta con
copertura lignea. Invece Vanvitelli, sostiene che questa è l’occasione per rifare la chiesa e con ciò
convince i governatori dell’Annunziata, per cui riceve l’incarico.
Vanvitelli propone di ricostruire la chiesa in muratura, ma senza modificarne l’involucro e senza
modificare gli spazi, rispettando questa difficile spazialità: pianta allungata, mancava il transetto,
abside rettangolare voltato a crociera. Con queste condizioni era difficile anche realizzare una
cupola. Per la realizzazione della chiesa, Vanvitelli propone di utilizzare un sistema di colonne che
reggesse il tutto. Dal punto di vista dello stile, queste colonne richiamano l’ordine classico che in
questo periodo si stava fortemente utilizzando. Inoltre, egli prevede di sormontare il transetto con
un’alta cupola. Mentre per quanto riguarda la volta, essa è una volta muraria.
Una cosa particolare che riguarda questa chiesa è che i governatori dell’Annunziata volevano
mantenere il culto durante il cantiere. Per questo Vanvitelli concepisce un succorpo, uno spazio
sottostante il transetto, a pianta circolare, dove poter svolgere le funzioni religiose mentre sopra si
costruiva la chiesa. Si tratta uno spazio architettonico di rilievo, ispirato alle cripte, interpretato con un
linguaggio di quel tempo. Nello scavare questo spazio, Vanvitelli, si imbatte in un resto archeologico,
trova un colombario (struttura sepolcrale romana) e ciò lo considererà come una perdita di tempo, in
quanto si sarebbero recati sul cantiere gli antiquari che avrebbero voluto studiare il resto.

Dal riuso alla conoscenza dell’antico: archeologia e restauro nel XVIII secolo
La conoscenza dell’antico influenza anche il restauro. Diciamo che il restauro nasce a fine ‘‘700 perché
è solo in questo momento che il restauro diventa una questione culturale e che quindi tutti i casi visti
precedentemente a questa fase, sono solo problemi di riuso, di riparazione o di continuazione di
fabbriche precedenti. Lo capiamo dalla frase di A.Bellini: “Il restauro in senso moderno nasce con la
rivalutazione ottocentesca della storia, con l’acquisizione della coscienza dell’idea del passato come
altro dal presente, del carattere singolare ed irripetibile di ogni evento e di ogni esperienza, unita alla
fiducia nella ricostruibilità della storia, nella possibilità di reperire negli avvenimenti una logica intrinseca,
una razionalità che ne spieghi la successione, quasi sempre in una visione progressiva.” Ciò ci fa capire
che il restauro è figlio della storia, nasce dalla necessità di conservare delle tracce e dalla fiducia di
poter ricostruire anche attraverso delle testimonianze materiali un excursus storico. Quando si scoprono
Pompei ed Ercolano, così come anche la Grecia classica, ci si trova di fronte a qualcosa che ormai
appare remoto, affascinante, ma non più continuabile. In ciò vediamo una grande differenza rispetto
al Rinascimento, ad esempio, Alberti pensava che si potesse conseguire una gloria anche maggiore
rispetto agli antichi e questo mostra una volontà di rifusione dell’antico nel nuovo. Gli architetti del
Rinascimento si sentivano eredi della modalità costruttiva antica e quindi pensavano di poter andare
oltre. Gli architetti del ‘‘700, invece, non vogliono andare oltre all’antico, l’approccio è più nostalgico e
più consapevole del fatto che quello è un passato troppo grandioso per poter essere replicato e quindi 17

va studiato e conosciuto come un fenomeno storico concluso.


A metà ‘700, questi monumenti iniziano ad interessare anche a livello europeo. A Roma, infatti, arriva
un personaggio che segna questo secolo: il tedesco Winckelmann, il quale è il primo ad inventare una
storia dell’arte antica ed è il primo che si accorge che per studiare queste cose è fondamentale avere
reperti autentici. Infatti, a Roma era nato anche un mercato di falsi di questi reperti e quindi l’autenticità
diventa un tema fondamentale, anche nel restauro.
Parallelamente a Roma, anche in Grecia, si stavano muovendo approcci simili. Infatti, la Grecia, a
partire dagli anni 30 dell’800, subirà grandissima attenzione perché liberatasi dal dominio turco, tornerà
ad essere un paese autonomo e quindi attirerà molti viaggiatori. In realtà già a metà ‘‘700, iniziano
viaggi di artisti, principalmente francesi ed inglesi, che vanno a conoscere la Grecia antica con
l’intenzione di scoprire la purezza dell’arte classica. Sono infatti soprattutto i popoli del Nord, lontani
dall’arte classica, a voler ritrovare le radici dell’arte e dell’architettura.

Giovan Battista Piranesi


A Roma un personaggio fondamentale è stato Piranesi, che è stato uno dei principali disegnatori di
rovine. Egli ha rappresentato ruderi romani in una visione romantica, pittoresca, che esalta la condizione
di rovina. C’è una concezione di suggestione della distruzione, di inesorabilità del tempo, c’è il tema
della natura che si riappropria delle architetture. Allo stesso tempo però c’è anche il tema di come
queste cose venivano ricostruite, c’è un istinto di conoscenza delle strutture romane.
Insieme a suo figlio, è tra i primi personaggi a dare luce a Paestum attraverso disegni ed incisioni: egli
era alla ricerca dello stile dorico perfetto, che però non aveva trovato a Roma, ma nella colonia greca
per eccellenza, Paestum. Prima di Piranesi, i viaggiatori non ci arrivavano perché c’erano
prevalentemente paludi e c’era la malaria. Piranesi mettendo insieme i suoi disegni su Paestum faceva
delle raccolte che poi vendeva, che in un tempo in cui non c’era la fotografia, serviva a diffondere
delle immagini di questo luogo ancora non conosciuto.
Nel ‘700 ci si pone il problema del restauro scultoreo; ovviamente in passato il restauro di statue antiche
già veniva eseguito, ma in questo secolo cambia l’approccio ad esso: subentra l’aspetto
dell’autenticità.
Bartolomeo Cavaceppi scrive un decalogo sulle operazioni di restauro di una statua antica: egli afferma
che per essere autentica dev’essere restaurata per un massimo di 1/3.
Un altro esempio riguarda le statue acefale (senza testa, per i tagli effettuati dai cristiani, in quanto si
consideravano oggetti pagani): per le statue decapitate del Partenone giunte a Londra, si chiamano
Antonio Canova e Quatreme de Quincy per il restauro: entrambi si rifiuteranno per assenza di
informazioni per ricostruirle e completarle.

Metà ‘700: la prammatica LVII


Nel 1755 viene emanata la LVII prammatica da Carlo di Borbone, che impediva di esportare i resti di
oggetti mobili al di fuori del Regno di Napoli. Nasce, quindi, la volontà di fare delle esposizioni.
In questo periodo nasce l’Accademia Ercolanese in cui inizialmente vengono raccolte tutte le opere.
Successivamente si spostano al MANN che a quel tempo era il Palazzo degli studi ovvero una sede
dell’Università.
Nello stesso periodo, in Sicilia, invece, è organizzata la tutela dei resti antichi da parte di due regi custodi:
due principi (uno della Sicilia dell’Est, l’altro della Sicilia dell’Ovest). Ad essi viene chiesto di realizzare un
piano per la tutela (siamo agli albori dell’Archeologia). Grazie al principe di Torremuzza, iniziamo i primi
interventi di restauro come, ad esempio, l’intervento al Tempio di Segesta in cui avviene l’inserimento di
elementi in ferro per sostenere le parti del tempio che stavano cedendo.

Pompei ed Ercolano
Nel 1738 vengono portati alla luce, per caso, gli scavi di Ercolano. Carlo V, ritornato nel regno poco
prima nel 1734, manda ad Ercolano figure due ingegneri militari e altre figure come Joachin d’Alcubierre
18
per scavare. Essi iniziano a scavare e anche tramite l’esplosione di mine furono portati alla luce i resti.
Per scoprirli venivano realizzati anche cunicoli. Gli scavi erano particolarmente difficili, anche perché la
maggior parte erano ipogei, poteva accadere che durante l’esplosione di mine si distruggessero anche
dei pezzi. Di questo, però, le persone che conducevano all’epoca gli scavi non si preoccupavano
perché esse erano più interessate a recuperare cose preziose, piuttosto che all’architettura. Di
conseguenza nascono anche nuove figure lavorative che avevano il compito di valutare i resti e
restaurarli. Inizia anche un turismo, solo per poche persone studiose o per i reali.
Per Pompei gli scavi furono più semplici perché non c’era la città costruita sopra che li ricopriva, come
invece avvenne per Ercolano. Anche in questo caso, però, gli scavi iniziano per caso in quanto gli
studiosi erano più orientati verso Stabia. Un’idea dello scavo di Pompei proviene dalla topografia di
Francesco Piranesi. In essa si mostra che lo scavo inizia dalla zona dei teatri e da Via dei Sepolcri con la
villa di Diomede, prima villa ad essere scoperta. Al suo interno vengono inoltre rinvenuti 18 scheletri. Ad
un certo punto nasce il problema di cosa fare di questi resti: se concepire Pompei come museo a cielo
aperto e quindi lasciare i resti “in situ” oppure conservare tali resti al coperto in musei chiusi. Ovviamente
si distinguono diverse correnti di pensiero.
Si decide di realizzare dei calchi; essi si ricavavano calando all’interno delle sagome del gesso.
Viene poi realizzata per prima copertura in legno per una rovina.
Anche le pitture vengono riprodotte. Si riproducono i templi con modellini: non viene ricostruito, ma è
mostrato così com’è. Tutte le colonnine dei modellini dei templi sono tutte davvero in marmo.

Gli attuali orientamenti del restauro


Facciamo una panoramica sugli attuali orientamenti del restauro architettonico in Italia attraverso le
sedi di diverse università italiane. L’università, infatti, non è solo un luogo di didattica, ma è anche un
luogo di ricerca. Ciò comporta che i diversi orientamenti del restauro facciano capo a diversi atenei
italiani. Gli orientamenti hanno diversità, ma soprattutto temi comuni, ad esempio:
- l’allargamento della tutela delle opere minori e non solo delle grandi emergenze
architettoniche;
- l’attenzione a tutte le fasi di un edificio, non solo a quelle di costruzione, ma anche a quelle di
trasformazione successive, guardando ad un edificio come il risultato di una sedimentazione di
segni e di trasformazioni. Ogni elemento di epoche diverse aggiungono valore all’edificio;
- il criterio del minimo intervento, ovvero capire l’importanza dell’edificio su cui si sta intervenendo
e cercare di trasformarlo il meno possibile per preservarne l’identità:
- il criterio di reversibilità, ovvero non cambiare in modo irreversibile la preesistenza, per dare la
possibilità eventualmente di tornare indietro;
- il concetto di compatibilità, ovvero restaurare con materiali che siano il più possibile compatibili
e che vivano bene con la preesistenza (uguali moduli elastici, uguale resistenza ai cicli gelo-
disgelo, ecc.);
- l’attenzione alla conservazione di superfici;
- la necessità di dotare gli edifici di un piano di manutenzione che ci consente anche
eventualmente di modificare l’intervento effettuato.

Gli orientamenti sono tre:


▪ Pura Conservazione;
▪ Manutenzione e Ripristino;
▪ Restauro Critico.
Sono tre correnti di pensiero che nascono in contrasto tra loro, ma nel tempo si sono molto integrati,
quindi le differenze sono andate affievolendosi.

Pura conservazione (anni ’70)


Il polo di ricerca di questo orientamento è il Politecnico di Milano. Esso ha influenzato molto l’area del
Nord Italia, in particolare l’università di Genova e di Venezia.
La pura conservazione si basa sulla constatazione che il concetto di storia si è molto allargato: oggi
riconosciamo un ruolo testimoniale non solo necessariamente a grandi emergenze architettoniche e
grandi monumenti, ma anche ad opere minori, come testimonianza costruttiva locale di un luogo. 19
Le opere minori possono infatti presentare materiali locali e tecniche costruttive fondamentali per la
conoscenza. Ciò cambia il modo di guardare alle testimonianze del passato. È importante che sia una
testimonianza materiale avente valore di civiltà.
Ciò significa che è cambiata nel tempo la concezione di monumento, che questo concetto si è evoluto.
Quindi all’interno di quest’orientamento, visto che il concetto di storia cambia, si è capito che non è
lecito rimuovere alcuna fase in un edificio. Esempio: nel passato si riteneva di poter rimuovere alcuni stili
come il barocco. In questo modo però si sono compiuti degli errori:
eliminando la fase più moderna (barocca), si cancella anche quella precedente (medievale) che
infatti si era trasformata in maniera irreversibile e quindi si era costretti ad inventare un medioevo che di
fatto non esisteva più; si è tolta la possibilità alle generazioni future di conoscere tutta la storia di un
edificio, di vedere ogni fase del manufatto. Una fase per una generazione può anche non essere
interessante, ma non per questo deve essere rimossa, in quanto per una generazione futura quella stessa
fase può invece avere valore.

Quindi l’indagine e il giudizio storiografico non possono guidare l’operatività nel campo del
restauro, visto che abbiamo a che fare con un patrimonio non rinnovabile e non riproducibile, bisogna
operare con coscienza, per preservare tale patrimonio per le generazioni future.
Non si possono legittimare liberazioni, eliminazioni di fasi (anche le più recenti). Addirittura, in questa fase
si arriva alla possibilità di conservare anche bagni abusivi su balconi, verande esterne su edifici antichi
napoletani, in quanto questi elementi sono la risposta ad esigenze funzionali che fanno parte della storia
dell’abitare.
Tutto ciò però non significa che non si possa adeguare l’edificio alla nuova funzione con
un’architettura moderna. Questo è ciò che succede nel Palazzo della Ragione, in cui si inserisce una
pavimentazione moderna mosaicata la quale aggiunge un segno della nostra epoca, ma non sottrae
fasi precedenti.

Palazzo Gotico, Piacenza


Per l’edificio era richiesto l’adeguamento alle norme di sicurezza moderne, attraverso l’inserimento di
una ringhiera. È un altro intervento di Marco Dezzi Bardeschi, che, come per il Palazzo della Ragione,
conserva anche le lacune sulle superfici intonacate, come testimonianza di una fase storica del
manufatto. Viene rispettata la fase settecentesca del palinsesto, con la sopraelevazione di un piano;
viene effettuata una semplice pulitura della struttura gotica, lasciando a vista l’opus listatum;
dove ci sono le lacune di intonaco viene fatto un intervento di consolidamento tramite pennello
protettivo.
Tempio Duomo di Pozzuoli
Il capogruppo di questo restauro è ancora una volta Marco Dezzi Bardeschi, il progetto vincitore del
concorso ha come motto “L’elogio del palinsesto”. L’edificio, molto stratificato a partire dall’età greco-
romana, si era trasformato a seguito della Controriforma in una chiesa nel corso del 1700.
Durante gli anni ’60 del ‘900 vengono addirittura inseriti dei pilastri in calcestruzzo armato.
Nell’ambito di quest’opera, si agisce secondo due esigenze:
- Quella del restauratore, con gli interventi di consolidamento;
- Quella del progettista, che deve attuare l’adeguamento funzionale;
Manutenzione e ripristino (anni ’80)
Fa capo all’università di Roma TRE, ovvero alla facoltà di architettura fino ad ora diretta da Cellini e che
ha avuto due personaggi molto importanti: Paolo Marconi (insegnante di restauro a Roma) e Mario
Manieri Elia (storico dell’architettura). L’idea di base è quella di effettuare con il restauro una rimessa a
nuovo, un ringiovanimento del manufatto, affinché le architetture segnate dall’azione del tempo,
riacquistino la faces di un manufatto nuovo. Questo orientamento è totalmente opposto alla pura
conservazione. Questo orientamento individua negli elementi di finitura di un manufatto le cosiddette
superfici di sacrificio.
Cioè quest’orientamento vede l’intonaco, le parti in ferro, in legno, (ovvero tutte le parti non strutturali
20
ma di finitura), come ciclicamente sacrificabili.
Il fine ultimo di questo orientamento è la protezione della parte strutturale dell’opera, attraverso il
rinnovamento delle finiture che devono essere realizzate secondo le modalità antiche, attraverso i
manuali e i documenti di archivio, per far sì che i materiali siano compatibili tra loro.
Un esempio è la Facciata di Via del Corso, in cui vediamo una ricostruzione dell’intonaco fatta in modo
tradizionale. Altro caso significativo è il Castello di Alcamo in Sicilia, nel cui restauro interviene Paolo
Marconi: le superfici vengono trattate con una scialbatura, uno strato di intonaco più leggero che
permette la traspirazione e la lettura dell’apparato murario retrostante. Si omogeneizza la facciata in
modo leggero e trasparente.
All’interno di questo orientamento è possibile completare per analogia alcune parti mancanti, nel caso
del castello, si è infatti proceduto con la ricostruzione della merlatura sulla facciata principale, che ormai
mancava; notare che le parti mancanti vengono sempre ricostruite con metodi tradizionali.
Quando questo approccio viene applicato non si riesce a distinguere l’intervento nuovo sulla
preesistenza.
Questo orientamento accetta anche la realizzazione delle parti degli edifici storici non interamente
compiute durante la vita del progettista: è questo il caso della Sagrada Familia, il cui completamento
è portato avanti sulla base dei progetti lasciati da Gaudì.

Restauro Critico (secondo Dopoguerra)


Esso fa capo all’Università degli Studi di Napoli e a La Sapienza di Roma;
questo filone ha origini durante il secondo dopoguerra, quando arriva il momento di pensare ai danni
provocati dai bombardamenti aerei su intere porzioni di città. Il problema della ricostruzione di aree così
grandi, con così tanti edifici, manda in crisi gli architetti perché non si sa quale approccio scegliere: se
realizzare dei falsi, dei moderni, ecc. Il periodo è quello dell’ampissima diffusione del calcestruzzo
armato, per cui le murature non vengono più studiate. I criteri su cui si basa il restauro critico sono quelli
esposti nella Carta fondamentale del Restauro di Venezia del 1964;
tra i personaggi di rilievo per questo filone troviamo Roberto Pane, napoletano, tra i redattori della Carta
di Venezia; Renato Bonelli, che fa capo all’Università di Roma La Sapienza, e Cesare Brandi, la cui teoria
del restauro è ancora oggi un caposaldo del restauro architettonico. Cesare Brandi non è un architetto
ma uno storico dell’arte che dirige l’ICR (istituto centrale per il restauro) dal 1939 al 1960. Pane e Bonelli
sono architetti.
In Teoria del Restauro, Brandi si batte per l’unicità del metodo, cioè afferma che a prescindere dal
campo di applicazione (arti pittoriche e decorative, architettura o archeologia) il restauro ha un’unica
teoria che si applica a tecniche diverse.
L’orientamento del restauro critico ha anche una declinazione più recente, il restauro critico
conservativo (a cui noi facciamo riferimento) che fa riferimento a figure come Giovanni Carbonara
(allievo di Bonelli), Stella Casiello, Giuseppe Fiengo, Paolo Sacelli (maestri di Napoli).
Il restauro critico si pone come posizione intermedia tra le due correnti suddette (che sono in netta
contrapposizione tra di loro) e affonda le sue radici nel restauro scientifico, che si deve a Camillo Boito
e a Giovannoni. Il restauro critico vede il restauro come il contemperamento di due istanze, l’istanza
storica e l’istanza estetica.
L’istanza storica è quell’istanza che ci porta a guardare l’edificio come un documento, come una
testimonianza storica e quindi ci porta a rispetto di tutte le stratificazioni del manufatto, in quanto tutte
sono significanti. Essa insiste quindi sul valore testimoniale dell’architettura.
L’istanza estetica, viceversa, ci porta a consentire qualche rimozione a favore della lettura delle
specificità architettoniche del manufatto. Essa invece insiste più sul valore spaziale e identitario
dell’architettura.
Esiste un caso in cui prevale solo l’istanza storica, secondo Brandi, e questo è il caso del rudere
architettonico e archeologico. In questo caso, quindi, prevale solo il valore di testimonianza, non c’è
bisogno di completare e rendere funzionale un rudere. Su ciò Pane non sarà d’accordo e dirà che nel
caso del rudere archeologico, la sistemazione del rudere, è già seguire un’istanza estetica.
Il restauro critico giudica inevitabile l’esercizio di un’azione critica da parte del restauratore: non è
possibile non assumersi responsabilità e conservare tutto, quindi per favorire la lettura occorre, anche in
misura minima, accettare che qualcosa possa essere eliminabile. Per questo è inevitabile effettuare 21

delle scelte, anche nell’intervento più conservativo. Per questo motivo il restauro viene definito “critico”.
Inoltre, non si nega la legittimità di azioni innovative progettuali, è accettata l’architettura
contemporanea per l’adeguamento funzionale. Essa garantisce un miglioramento della funzione, aiuta
la comprensione da parte del fruitore, favorisce la lettura della preesistenza.
In questo filone non abbiamo più la divisione tra progettista e restauratore, ma si parla di architetto
restauratore: una stessa figura si occupa di consolidamento e di adeguamento funzionale. Quindi
anche i lotti non sono divisi, ma abbiamo un unico lotto in cui si svolgono entrambe le attività, anche
perché l’edificio è un unico organismo, non si può separare.

Villa Romana del casale, Piazza Armerina, Sicilia


Nel 1960 Minuissi realizza una copertura in plexiglass e materiali moderni per permettere la fruizione
dell’opera e per ricreare la spazialità della villa romana, oltre che per osservare dall’alto i mosaici interni
della Villa Romana. Si permette di distinguere l’intervento moderno. La soluzione porterà a problemi
termo-idrometrici per mosaici e visitatori: l’intervento è sostituito da una copertura oscurante.

San Filippo Neri, Bologna


Restauro critico conservativo, bombardata e distrutta.
Cervellati la ricostruisce distinguendo il nuovo intervento con il legno lamellare che sostituisce le lacune
dovute al bombardamento. Ricostituisce quindi la sola spazialità.

Terme di Diocleziano, Roma


Esempio di palinsesto, terme romane modificate da Michelangelo e Vanvitelli, trasformate in planetario
attraverso colonnine in ghisa e una rete, successivamente trasformate in Museo Nazionale Romano
lasciando pilastrini e rete.

San Pietro di Ortigia, chiesa


Chiesa rudere con solo murature, per cui si crea una copertura in legno lamellare retroilluminante su un
cordolo ricreando lo spazio antico del rudere.

Chiesa del Gesù, Modica


Copertura legno lamellare a seguito dei bombardamenti, trattamento pareti come per il Palazzo della
Ragione, cioè lasciando le lacune.

Il decennio francese a Roma


Sotto la dominazione napoleonica.
Ci si pone la problematica della conservazione protezione e restauro dei monumenti a Roma. Tema
della distinguibilità nel restauro.
Napoleone Bonaparte si proclama imperatore di Roma nel 1809, motivo per cui c’è la nascita dello stilo
impero, volto al recupero della tradizione classica per replicare la grandezza dell’Impero Romano.
Napoleone, una volta conquistata Roma, avrà un ruolo fondamentale nella tutela e nella valorizzazione
del patrimonio storico attraverso l’istituzione della Consulta Straordinaria degli Stati Romani. Si crea
quindi una commissione degli edifici civili. Il prefetto, Camille de Tournon, esprime la volontà di creare
un parco archeologico percorribile nell’area dei fori romani. Si impiegherà tutto l’800 per portare alla
luce l’area interrata.

Area fori romani


Area di pascolo, tutti i monumenti erano interrati.

Teatro di Marcello
Per i francesi è l’esempio del fatto che i romani non sanno tutelare il patrimonio culturale in quanto il
teatro, con i suoi ordini sovrapposti, fu convertito in un’abitazione.
Oggi l’edificio è uno dei palinsesti di più grande rilevanza e pregio. 22

De Tournon, il prefetto, voleva demolire la parte aggiunta da Baldassarre Peruzzi nel ‘500: ciò che
all’epoca era visto come invasivo oggi è fonte di ricchezza.

Il termine palinsesto non nasce per l’architettura ma per la diplomatica, disciplina che studia i
documenti antichi: il palinsesto è un documento che viene cancellato, abraso e riscritto più volte. Le
modifiche sono visibili tramite analisi specifiche.

Colosseo
Negli anni era stato privato di molte parti durante i crolli. Ciò che crollava veniva utilizzato per altre
costruzioni. Il principale problema che aveva l’edificio era di stabilità, in quanto la mancanza dell’anello
esterno sul lato meridionale e orientale provocava un taglio verticale. Le spinte orizzontali degli archi più
esterni non venivano assorbite. I francesi avevano previsto un piano di espropriazione per tutta l’area
che però risultava inattuabile.
In quegli anni siamo sotto il pontificato di Pio VII, papa abbastanza interessato all’archeologia, il quale
nel 1802 (prima dell’arrivo dei francesi) aveva emanato un editto molto importante, l’editto del
Cardinale Doria-Pamphili: si trattava di un testo importante, il primo editto degli stati romani per la
protezione dell’archeologia. Esso impediva che si facessero scavi abusivi, che si esportassero pezzi al di
fuori di Roma, che si mettesse mano ai restauri prima che arrivasse una Commissione delle antichità a
stabilire cosa si potesse fare e cosa no (si inizia a diffondere l’idea che un cattivo restauro possa
danneggiare l’opera).
Quindi, il Papa nomina una commissione di architetti per salvare il Colosseo: Palazzi, Camporesi e Stern.
Si ripristina così il bene archeologico liberandolo da acqua e letame.
Gli archi nell’area orientale si stavano aprendo e ribaltando e per cui si convince il papa ad intervenire
rapidamente: Stern, uno dei tre architetti incaricati allo studio per poter salvare il Colosseo, propone la
costruzione di uno sperone in muratura laterizia per contrastare la spinta. L’intervento è strutturale ed
efficace ma è anche sensibile alla visione del tempo, romantica, del monumento in rovina: infatti esso
blocca il dissesto e congela in tempo, tanto che pare che il Colosseo stia per crollare quando non lo fa.
L’intervento risulta complesso dal punto di vista operativo in quanto gli archi scaricano sulla muratura
che è stata incassata tra di essi.

Arco di Tito
Esso si trova all’inizio dell’area archeologica dei fori, sulla strada dal Campidoglio, al Colosseo. È un arco
che Tito fa costruire e nella cui iscrizione richiama il padre Vespasiano, completato da Domiziano
(dinastia Flavia: Vespasiano, Tito, Domiziano)
L’arco era fortemente degradato in quanto era diventato una porta urbana (faceva parte della
fortificazione medievale della città).
Nel tempo aveva subito un intervento strutturale, l’aggiunta di uno sperone in sostituzione di un piedritto.
I due lati dell’arco erano conservati diversamente: il lato verso il Colosseo possedeva ancora tutti i
capitelli, la trabeazione, l’iscrizione; invece, il lato verso il Campidoglio (quello raffigurato da Piranesi),
risulta essere molto più degradato, con colonne per metà distrutte, senza capitelli, non c’è l’iscrizione e
con edifici ad esso accostati. All’interno dell’arco invece si può vedere una delle cose più preziose
dell’arco, ovvero il bassorilievo.
L'arco viene restaurato dai francesi con un metodo opposto a quello utilizzato da Stern per il Colosseo:
Gisors, ispettore degli edifici civili francese, arriva a Roma nel 1813 e critica l'intervento fatto al Colosseo,
in quanto il restauro ha lo scopo di rendere comprensivi i monumenti non solo di fermare il degrado.
Gisors afferma che nel restauro bisognerebbe ricostruire le masse delle parti mancanti di un monumento
nelle loro forme nelle loro proporzioni: ciò non significa ricostruire in modo identico creando un falso
storico ma riprendere solo la volumetria e le forme per farle comprendere. L'intervento viene effettuato
da Valadier sotto istruzioni francesi. l'arco stava subendo uno slittamento dei conci, per cui Valadier
prevede uno smontaggio e rimontaggio di ognuno di essi, attuando quello che oggi chiamiamo
anastilosi dell'arco.
Si nota la mancanza delle piombature all'interno dei conci; la parte più complessa resta comunque 23

quella del completamento dell'arco, realizzata ricostruendo per masse: si nota infatti una colonna liscia
invece che scanalata, un capitello molto più semplificato, viene eliminato lo sperone e ricostruiti i
piedritti; tutto ciò rende l'intervento distinguibile e quindi molto moderno. L'arco viene inoltre isolato dal
resto delle costruzioni.

Colosseo, sperone occidentale


Siamo ancora negli anni ’20. Dopo l’intervento sul lato orientale di Stern, il Papa Leone XII decide di
intervenire anche sul lato occidentale, il quale era stato tagliato in modo verticale; quindi, presentava
gli stessi problemi del lato orientale. Questa volta l’intervento viene affidato a Valadier,
il quale aveva appena finito l’intervento all’arco di Tito. Per fare il suo intervento,
Valadier fa una puntellatura di ritegno, ovvero un elemento di sostegno che serve a
contrastare le spinte orizzontali e che consente di lavorare in sicurezza.
Quello che fa Valadier è uno sperone in mattoni (come quello di Stern) che però
prosegue gli archi del Colosseo, quindi è una ricostruzione per masse, esattamente
come aveva fatto per l’arco di Tito.
È uno sperone architettonico di grande raffinatezza perché continua gli archi della parte di anello
crollato e allo stesso tempo si rende distinguibile per il fatto che viene realizzato in mattoni; quindi, si
capisce che è un intervento di restauro ottocentesco, non è un falso storico. Gli unici elementi che
Valadier non fa in mattoni ma in travertino sono le basi e i capitelli (in forme semplificate) delle colonne,
in quanto farli in mattoni sarebbe stato difficilissimo. Altra cosa interessante, che però viene criticata da
Stendhal, è che i nuovi archi dovevano poggiare sugli archi originari. Per fare questo innesto si doveva
sottrarre parte di materia per regolarizzare la superficie. Ciononostante, questo è un intervento ben
riuscito sia per la sua distinguibilità, sia per la sua compatibilità. Infatti, laterizio e travertino sono materiali
che tra loro dal punto di vista meccanico sono compatibili. Inoltre, vediamo che c’è un anello più
interno restaurato a metà ‘800 (non da Valadier) con gli stessi criteri e stessi materiali, in realtà ancora
più semplificati.

La tutela in Francia tra rivoluzione e Secondo Impero


Letterati, archeologi, “ispettori”
A fine ‘700 la Rivoluzione Francese scuote tutta l'Europa anche per quanto riguarda il patrimonio
culturale: quello che accade a Roma durante il decennio francese, tra il 1809 e il 1814, risente di tale
evento in quanto con la Rivoluzione il patrimonio francese viene distrutto o confiscato dai rivoluzionari,
attraverso quello che viene definito come “vandalismo rivoluzionario” che attaccava i simboli del
potere. Uno dei simboli del potere più importanti attaccati dai sanculotti durante la rivoluzione è Notre
Dame de Paris, la chiesa più importante di Francia, simbolo della religione cattolica.
Tutto ciò ha però un'importante conseguenza: nasce un'attenzione verso il patrimonio nazionale, nasce
l'archeologia medievale (In Italia il patrimonio è prevalentemente classico, In Francia è per la maggior
parte medievale). Nel 1792, anno apice della rivoluzione, vengono emanati tre decreti dall'assemblea
nazionale che invocano la distruzione sistematica dei monumenti e dei simboli della feudalità. Dopo
solo un anno il prelato Gregoire Spinge lo stato a emanare il primo decreto per la salvaguardia del
patrimonio nazionale che si stava perdendo.
Una delle più famose operazioni di questo tipo in Francia è l’istituzione del Museo dei Petits Augustins. Si
chiama così perché trova posto nel convento soppresso degli augustiniani minori a Parigi.
In questo convento, il rivoluzionario Alexandre Lenoir, organizza un deposito di oggetti sottratti ai vai
palazzi e chiese, che rischiavano di essere persi e distrutti. Quatremère de Quincy dirà che questo in
realtà non era un museo, ma il frutto di un decennio di rapine. È solo un posto in cui sono state
accatastate opere rubate dai loro contesti originari. Infatti, Lenoir organizzando questi spazi e
collocando i vari pezzi, fa grandissime
confusioni. I pezzi venivano messi vicini senza alcuna relazione, non c’era un criterio museale.

Quatremère de Quincy (1755-1849) 24

Era un personaggio molto malvisto, in quanto sostenitore del sovrano e conservatore; dal punto di vista
culturale fu un personaggio molto interessante che ha scritto molto sul tema del patrimonio.
Nel 1796 mentre Napoleone prepara la prima campagna d'Italia, dice di voler prendere oggetti d'arte
nel Bel Paese per portarli in Francia: Quatremère de Quincy scrive delle lettere “Lettere a Miranda”,
generale di Napoleone, in cui mostra cosa succederebbe se si portassero via dall'Italia. Queste lettere
sono importanti in quanto anticipano il concetto moderno di dimensione internazionale del patrimonio,
dimensione universale; riferendosi a Roma afferma che il vero museo di Roma non è solo di oggetti
d'arte ma anche di paesaggi luoghi e tradizioni, che non possono farsi che non sul posto, si accenna
cioè al patrimonio immateriale (tradizioni e mestieri).
Inoltre, si sofferma anche sull’idea che il patrimonio vada esteso a tutti, deve essere pubblico.
Quatremère de Quincy è noto soprattutto per aver scritto “Dictionnaire historique d’architecture” nel
1832, ovvero un dizionario di architettura. Egli qui inserisce anche la voce “restaurare” ed è la prima
volta che si parla di restauro in un dizionario, con la segnalazione che il vocabolo fosse più applicato
alla scultura che all’architettura. Quatremère vuole dimostrare l’esistenza della diversità tra architettura
e scultura.
Quindi anche il restauro in campo architettonico è diverso dal restauro delle sculture: se manca un
pezzo di statua nessuno può sapere come completarlo; invece, se in architettura manca la colonna di
un colonnato, posso risalire alla sua forma, alle sue proporzioni e quindi posso ricostruirla.
Inoltre, egli afferma che in architettura il restauro non deve falsificare nulla (tema della distinguibilità).
In più critica anche l’intervento di Stern al Colosseo in quanto qui è stato fatto un restauro che mostrava
la caduta dei conci, di una visione romantica e pittoresca del restauro che Quatremère rifiuta.
Quindi, a partire da ciò, propone una misura intermedia, cioè fare una ricostruzione integrale è
impossibile (perché questo significherebbe fare un falso), ma non si può nemmeno lasciare l’edificio in
rovina. L’idea che egli propone prevede prima di tutto un riconoscimento del valore artistico e storico
dei beni e del patrimonio, poi prevede di intervenire sulla base dello stato di conservazione e di degrado
del monumento. In questo si anticipa anche un pò Brandi, ovvero nell’idea che un edificio del tutto
degradato (ad esempio di cui resta solo qualche colonna e qualche muro) non può essere ricostruito,
perché altrimenti si avrebbe un eccesso di restauro.
Infine, l’idea che Quatremère propone, prevede anche che per tutte quelle opere che presentano
colonne, fregi e ornamenti, basterà semplicemente ricostruire la massa delle parti
mancanti, in modo tale da non ingannare lo spettatore. Bisogna quindi lavorare per “linee di inviluppo”,
ovvero definire i profili di una cosa ma non i dettagli. Questo è proprio ciò che è stato fatto da Valadier
all’arco di Tito ed è un approccio su cui ancora oggi si fonda il restauro critico.

Il recupero dell’architettura medioevale nei pensatori francesi di primo ‘800


Dopo l’emanazione del primo decreto per la salvaguardia del patrimonio francese, nel 1794, nasce
un’attenzione fortissima verso il patrimonio medievale e nasce un interesse verso monumenti che fino a
quel momento nessuno studiava.
Questo interesse nasce prima di tutto in ambito letterario e poi in ambito architettonico. Sono diversi gli
artisti letterari che in questo periodo avvicinano i francesi verso un’attenzione al patrimonio. Tra questi
c’è Chateaubriand, autore del libro “Le génie du christianisme”: quest’opera, pubblicata nel 1802, ha
come tema l’affermazione della bellezza della religione cristiana e l’intento di voler ritrovare le radici
francesi ed europee proprio nel cristianesimo. Conseguenza di ciò è l’avvio dei “voyages pittoresques”,
ovvero dei reportage nei territori della Francia alla ricerca del Medioevo francese.
Un altro autore fondamentale in questa fase è Victor Hugo, scrittore di pieno ‘800, considerato il padre
della letteratura e della lingua francese. Egli, sin da giovane, si occupa della questione dei monumenti.
Nel 1825 infatti scrive un articolo importante: “Guerra ai demolitori” (demolitori di monumenti);
guardando a ciò che succede nella Francia attorno a sé, infatti scrive “Se le cose vanno ancora per
qualche tempo in questo modo, presto non resterà alla Francia nessun altro monumento nazionale se
non i Voyages pittoresques”. Infatti, in quegli anni nessuno sapeva come intervenire su questi monumenti
distrutti dalla rivoluzione, come ripararli.
Per questo Hugo richiama l’attenzione di tutti “in soccorso alla Francia antica”, egli afferma che 25

basterebbe una legge di tutela di questi monumenti per mantenerne uso (che spetta ai proprietari) e
bellezza (che spetta a tutti). Quindi si sofferma sul fatto che la bellezza è di pubblica utilità e quindi è
una limitazione del diritto di proprietà: tutto ciò anticipa il concetto di vincolo. Hugo ritorna su questo
tema nel 1832 e se la prende con il vandalismo architettonico, che non è più il vandalismo dei sanculotti,
ma è il vandalismo degli architetti che non sanno più restaurare.
Nel 1830, in Francia cambia il governo con Luigi Filippo d’Orleans, re dei francesei, a seguito della
“Seconda Rivoluzione” viene creata una nuova figura che fino a quel momento non esisteva in Francia:
l’ispettore per i monumenti storici: la carica viene attribuita a Ludovic Vitet, archeologo medioevale:
questo personaggio ha un ruolo fondamentale nel definire un inventario dei monumenti francesi.
Da questo momento non si parla più di “monumenti nazionali” ma di “monumenti storici”, perché ormai
non si vuole più tutelare solo il patrimonio nazionale, ma l’intera storia di Francia.
Vitet scrive anche sul restauro e sostiene che per restaurare sia necessario “spogliarsi di ogni idea
attuale, dimenticare il tempo in cui si vive per farsi contemporaneo di tutto ciò che si restaura”,
immagina quindi un’immersione nel passato. Ciò però ha un effetto anche negativo perché porta al
restauro stilistico di Viollet Le Duc e quindi al falso. Inoltre, afferma che da un frammento di un’opera
d’arte si può risalire a tutto il suo processo artistico. Questo è l’esatto contrario di quello che affermava
negli stessi anni Quatremère, il quale diceva che non bisognava indurre nessuno in errore. Quindi mentre
con Quatremère si afferma che si può intervenire sul patrimonio archeologico solo in maniera
distinguibile; invece, con Vitet si stabilisce che sul patrimonio medioevale si può intervenire in modo
“mimetico”.
Il motto “il merito principale del restauro è passare inosservato” è un concetto che ispirerà Viollet Le Duc.

Eugène Emmanuel Viollet Le-Duc


Personaggio che ha segnato la storia del restauro. È stato un architetto dell’800 francese molto influente
non solo per il restauro, ma anche per l’architettura in generale. Egli viene molto influenzato da tutti i
pensatori francesi di quell’epoca, ma in particolare da Vitet e Mérimée, ispettori per i monumenti storici.
Per la prima volta si investe in termini economici nel restauro e nella tutela del patrimonio. Viollet le Duc
è colui che ha le competenze tecniche giuste per poter attuare questi interventi di tutela.
Infatti, egli aveva prima di tutto un grande talento grafico (vediamo alcuni suoi disegni). Viollet le Duc
si rifiutava di seguire l’Ecole Des Beaux Arts e preferiva formarsi presso studi professionali.
Quindi anche se successivamente è diventato professore di disegno, in realtà non si è mai perché
credeva che la scuola non formasse architetti di talento dal punto di vista creativo, in quanto era troppo
ancorata al recupero degli stilemi classici. Infatti, nel periodo in cui egli studiava (anni 30) c’era ancora
un retaggio fortissimo dell’architettura classica, che veniva da Quatremère de Quincy e il Medioevo
non si studiava.
Si pensava che si dovesse costruire ancora con uno stile classicheggiante, idea che Viollet le Duc rifiuta.
Grazie alla famiglia benestante frequenta i salotti parigini ed entra in contatto con Mérimée che gli
affiderà diversi incarichi. Inizia a lavorare per la rivista periodica Voyages pittoresques e romantiques de
la France.
Dai disegni per la rivista capiamo la caratteristica principale di Viollet Le Duc: egli si associa al restauro
stilistico. Una delle sue qualità è proprio quella della comprensione del linguaggio e dello stile
architettonico di ogni monumento per poterlo anche replicare: egli è convinto che l’architettura antica
vada conosciuta e compresa come una lingua (cosa importante per l’800 che è il secolo della
scientificizzazione dei saperi). L’architettura è come una lingua in cui ci sono parole, regole
grammaticali, ecc. e quindi queste regole vanno conosciute per potersi esprimere attraverso di essa.
Questo concetto in termini di restauro diventa una cosa pericolosissima: infatti, imparare a parlare
un linguaggio architettonico significa che posso arrivare al punto di fare falsi storici, di immaginare
cose che non c’erano, cose di cui non gli elementi per poterle ricostruire.
Per questo motivo Viollet Le Duc verrà considerato un restauratore stilistico in senso negativo.
Soltanto successivamente la figura di Viollet sarà riabilitata in quanto si è capito che egli agiva in un
periodo storico e in un paese che voleva la ricostruzione stilistica dei monumenti che erano stati distrutti
dal vandalismo dei rivoluzionari. Questo è infatti in generale il compito del restauro: perpetuare una 26

memoria, cosa che può essere fatta in tanti modi; Viollet le Duc fingeva che non ci fosse stata alcuna
perdita ripristinando i monumenti su cui interveniva.
I suoi disegni rispecchiano il grande interesse che egli aveva per la storia: spesso, oltre a rilevare anche
gli aspetti materici, inseriva personaggi medioevali.

L’attività di Viollet le Duc


La sua produzione lo rende famoso in termini negativi soprattutto per i restauri che fa alla fine della sua
vita. Infatti, la sua attività può essere divisa in più fasi:
• fase iniziale, in cui comincia a studiare il Medioevo e apprendere queste tecniche;
• fase in cui comincia ad usare queste conoscenze per fare restauri sempre più interventisti;
• fase in cui era talmente famoso da credere di essere autorizzato ad intervenire su monumenti
fortemente danneggiati con scelte radicali.

Tra i suoi principali interventi ne vediamo due:

• Cinta muraria di Carcassonne (cittadina fortificata del Sud della Francia) che si presentava in uno
stato di totale degrado e che sarà interamente ricostruita;
• Castello di Pierrefonds e qui un rudere diventa un castello.

Sono interventi di reinvenzione stilistica molto espliciti. Entrambi hanno determinato una forte condanna
a Viollet che è stato considerato un grande falsificatore. Entrambi, soprattutto Pierrefonds, sono stati
oggetti di attacchi da parte di intellettuali francesi già nel corso della vita di Viollet.
Questi attacchi sono arrivati persino in Italia e quindi hanno influenzato anche l’idea che in qui si aveva
di Viollet. Infatti, inizialmente in Italia Viollet viene apprezzato, anche a Napoli, il restauratore Travaglini
si ispira molto a Viollet; verso la fine degli anni 70 invece si cambia totalmente opinione riguardo a lui
In questi suoi due interventi non si riesce a capire cosa ha realizzato Viollet e cosa c’era, non c’è
distinguibilità.

Dizionario ragionato dell’architettura francese dall’ XI al XVI secolo


Per capire l’approccio di Viollet bisogna capire anche ciò che ha scritto sul restauro. Egli è autore di
un’opera molto importante, pubblicata a volumi che è il “Dizionario ragionato dell’architettura
francese dall’ XI al XVI secolo”. È un dizionario “ragionato” perché non ci sono tutte le voci ma solo
quelle che Viollet stesso sceglie come più significative.
È riferito inoltre all’architettura francese dall’ XI al XVI secolo (dall’anno mille al 1500). Tra le voci del
dizionario che sono state tradotte in italiano c’è quella di “restauro”.
Va detto che questa voce risale alla fine degli anni 50 dell’800 quindi non corrisponde all’inizio della sua
carriera ma ad una fase in cui già aveva fatto i suoi interventi di restauro, per cui aveva già esperienza.
Definizione che Viollet dà del restauro: “Il fare restauro è un’attività recente, contemporanea, non
antica. Restaurare un edificio non è conservarlo, ripararlo o rifarlo, ma è ripristinarlo in uno stato di
completezza che può non essere mai esistito in un dato tempo.”
Egli nella voce “restauro” parla del restauro anche dal punto di vista storico, ad esempio dice che i
romani non restauravano, quindi non esisteva il termine “restaurare” ma solo “ripristinare”; parla, inoltre,
del Medioevo. Quindi è la prima volta che si parla di storia del restauro.
Ricordiamo che in Viollet il tema del miglioramento è centrale perché egli vede gli edifici come elementi
che funzionano e quindi le cose migliorative fatte nella storia vanno conservate.
Questo secondo caso pone Viollet in un approccio che oggi definiamo “critico”. Infatti, egli si pone di
fronte ad ogni cantiere in modo molto critico ed ogni sua scelta l’ha sempre motivata.

Chiesa della Madeleine a Vézelay, 1840-59


Ricordiamo che Viollet si confrontava con architetture su cui mai nessuno aveva lavorato quindi non
aveva manuali o altri documenti da consultare, per questo erano interventi molto complessi in cui il
rischio crolli era enorme.
Viollet inizia così il proprio lavoro di restauro con un approccio simile al nostro: fa rilievi materici che 27

mostrano la situazione di degrado dei materiali e di tutti gli elementi della chiesa, individua eventuali
problemi strutturali che potessero causare crolli e fa altre attente analisi. Tutto viene rappresentato con
acquerelli in modo molto dettagliato, quasi come se fossero fotografie.
Nel 1841 Viollet manda un rapporto alla Commissione dei monumenti storici e fa un rapporto
dettagliatissimo, come una perizia che si farebbe oggi:

- In facciata il frontone gotico è inclinato, la torre settentrionale monca e la meridionale in pessime


condizioni statiche;
- Il vestibolo presenta lesioni nelle volte, gli archi della tribuna e parte delle finestre murati, le tribune
laterali in muratura sostituite da strutture lignee;
- Le tre ultime volte della navata, a sesto acuto, raggiungono un’altezza di circa quattro metri
maggiore di quelle a tutto sesto, l’ultimo dei grandi archi si è deformato sotto la spinta delle volte
più alte;
- I contrafforti, rinforzati a più riprese, risultano mal costruiti, i muri della navata presentano tratti fuori
piombo. Gli archi rampanti, anch’essi mal costruiti, si appoggiano ai contrafforti senza rispondere
adeguatamente alle spinte interne e si presentano lesionati;
- Il transetto accusa danni da infiltrazione di acqua piovana;
- Il coro appare ben conservato;
- Le falde di copertura delle navate laterali, ricostruite nel XVII secolo con più accentuata
inclinazione, lungo il lato adiacente della navata, giungono a inglobare parzialmente le finestre e il
difetto di costruzione provoca infiltrazioni d’acqua;
- Le lacune delle falde di copertura causano infiltrazioni e provocano danni alle sottostanti strutture.

Ricordiamo che questa era una chiesa romanica con volte a tutto sesto e qui le ultime tre campate nel
XIII secolo erano state sostituite con volte a sesto acuto (che rispetto alle precedenti erano più alte di 4
metri quindi si creavano problemi strutturali). Questo lo porterà a demolire le tre volte e a ricostruirle in
stile romanico. Questo è il caso che descrive nel suo dizionario. Per ricostruire queste volte in stile
romanico deve imitare le altre e in questo modo cancella l’aggiunta gotica che gli appare totalmente
incongrua, infatti, sostiene che va preservata l’unità romanica della chiesa.
Inoltre, la chiesa presentava un’abside non romanica ma gotica, che però viene lasciata.
C’è quindi una volontà di lasciare alcune parti omogenee del monumento, ma non tutto il monumento.
Non viene fatto quindi un falso storico assoluto.
Egli qui decide di rifare le volte non solo per un motivo estetico ma anche tecnico, infatti esse
avevano comportato problemi sia per lo scolo delle acque sia per la ripartizione dei carichi.
Come si vede dal rilevo della sezione e dal suo progetto, Viollet fa una ricostruzione della chiesa
secondo i principi con cui era stata costruita; quindi, la sua è una comprensione anatomica dell’edificio.
Ad esempio, grazie al suo rilievo in sezione, scopre che le falde delle navate laterali si comportavano in
modo strano perché chiudevano le finestre della navata. Per questo nel suo progetto ritrova la
pendenza originaria e la ripristina, quindi le falde vengono abbassate. Anche gli archi rampanti
vengono rifatti nelle dimensioni giuste, nelle dimensioni che avevano in origine e non nello spessore
eccessivo che presentano al momento in cui Viollet fa il rilievo (erano troppo pesanti e causavano un
carico eccessivo).
Vediamo come Viollet pone attenzione anche alla struttura provvisionale che regge la volta dissestata.
Infatti, appena arriva a Vézelay la prima cosa che fa è puntellare le volte per metterle in sicurezza a
causa delle loro fessurazioni. Egli pone molta attenzione all’aspetto funzionale degli edifici, infatti nel suo
dizionario dice che “i monumenti devono vivere e l’architetto deve farli rivivere”.
Questo intervento è un intervento ancora misurato rispetto a quelli che farà più tardi.
Una delle cose in cui risulta più misurato è la scelta che fa in facciata: ovvero la scelta di conservare la
torre mozza: infatti, invece di ricostruire la torre mancante, accetta di lasciarla distrutta, come simbolo
storico, come testimonianza da lasciare. Qui si limita solo a realizzare una copertura a padiglione a
quattro falde per proteggere la torre ed evitare che ci piova dentro (ancora il discorso del
funzionamento come tema fondamentale). 28

L’unico intervento in chiave stilistica lo realizza sempre sulla facciata riproponendo e ricostruendo le
decorazioni del portale che i rivoluzionari avevano distrutto. Per questo elemento non ha alcuna
informazione, quindi riproduce decorazioni neo-romaniche.
Trae ispirazione grazie al tema dell’analogia.
Per “analogia” si intende la capacità di studiare monumenti simili, cioè realizzati nella stessa epoca,
nella stessa regione o realizzati dagli stessi architetti, per provare a proporre similitudini.
Questo lo porterà a conoscere tantissimo ed avere una padronanza dell’architettura francese unica,
che soltanto lui avrà, tanto che Ruskin (uno dei principali oppositori di Viollet) affermerà che l’unico
documento al mondo utile per comprendere l’architettura gotica è il dizionario di Viollet.
D’altra parte, però l’analogia ha anche effetti negativi: inventare decorazioni che in realtà non sono
mai esistite è un qualcosa che oggi non faremmo.
Ciononostante, oggi queste decorazioni di Viollet sono considerate una pagina di storia dell’800, sono
pur sempre una testimonianza, quindi sono elementi che oggi conserviamo.

Notre Dame De Paris


Nel 1844 viene bandito un grande concorso per il restauro di Notre Dame.
Le finestre in alto erano state tamponate, le statue dei re, abbattute e decapitate dai rivoluzionari,
mancava la guglia centrale in facciata, ecc.
La flèche, ossia la guglia centrale, era stata abbattuta da un fulmine e mai più ricostruita, Lassus,
architetto insieme al quale Viollet Le Duc aveva vinto il concorso, non voleva ricostruirla; la morte di
Lassus porterà alla realizzazione della stessa secondo il modello dell’analogia, ricreando una guglia
assolutamente non uguale a quella duecentesca ma Viollet la realizza in quanto è convinto che essa
abbia anche un ruolo funzionale: funga cioè da parafulmine.
Vengono consolidate le strutture esterne, allungate le fondazioni dei contrafforti, sostituiti i pinnacoli; si
interviene sulla facciata meridionale del transetto modificandone anche il rosone, si rifanno le coperture
e si modificano 12 finestroni ripristinando le più antiche aperture a rosa.
Vengono rifatte anche le statue alla base della flèche, ma con volti di collaboratori di Viollet Le Duc e
di sé stesso.

Cittadella di Carcassonne
Cittadella militare che con l’espansione della Francia aveva smesso di avere tale ruolo. Egli ricostruisce
mura e torri, con relative merlature, abbatte le abitazioni povere aggiunte.
Compie un errore tecnico con le inclinazioni delle coperture, e il materiale impiegato: essendo nel sud
della Francia nella zona non nevica, quindi si potevano inclinare di meno. Inoltre, utilizza lastre di ardesia
come nel nord quando al sud si usava utilizzare manti di coppi.
Castello di Pierrefonds
È l’intervento per il quale subisce più critiche. Dopo varie vicende che lo avevano visto anche oggetto
di demolizione, nel 1848 Pierrefonds viene dichiarato monumento storico dalla Commissione dei
monumenti storici, pur restando di proprietà della famiglia Bonaparte. I committenti richiederanno il
restauro, qui inteso come ricostruzione di tutto il castello, anche delle parti ridotte in ruderi. Viene quindi
cancellata ogni traccia di rovina, secondo l’ulteriore principio esposto nel suo dizionario, per cui un
edificio dovrà risultare più comodo dopo l’intervento dell’architetto-restauratore.
John Ruskin, William Morris e l’anti-restoration movement
John ruskin è stato un personaggio molto importante che ha impegnato tutta la sua vita contro
quell’approccio di restauro estensivo, integrativo, falsificatore che modifica l’autenticità materiale delle
fabbriche. È un personaggio diametralmente opposto a Viollet Le Duc, ovviamente la visione dipende
dal gruppo di appartenenza: se per esempio per la scuola milanese Ruskin è visto in modo positivo e
Viollet al contrario, per le teorie di Marconi, della scuola di Manutenzione e ripristino Viollet è considerato
meglio;
Ruskin è uno storico dell’arte non abituato alla progettazione, sarà il suo allievo Morris a portare avanti
l’anti-restoration movement avanti in senso pratico, fondando la Society for Protection of the Ancient
29
Buildings (SPAB) di cui curerà il manifesto.
Entrambi socialisti, si interessarono alle vicende dell'epoca: il rapporto tra patrimonio e società. Hanno
una visione meno elitaria del monumento. Ruskin nasce nel 1819 muore nel 1900, si inserisce nel contesto
britannico attraverso il rapporto con la natura: gli inglesi hanno un rapporto molto più forte con essa a
causa della presenza delle rovine, cosa che va ad influenzare la nascita dei landscape Garden.
Ruskin si scaglia contro il restauro stilistico. La vita di ruskin è stata fortemente influenzata dalle sue
vicende amorose, tanto che spesso le biografie dividono le fasi della sua vita in base alle donne e ai
rifiuti che ha subito: non è un caso che scrive la sua più importante opera “the Seven lamps of
Architecture” nei primi felici anni del matrimonio combinato con Eufemia Grey. A partire dal 1860 ruskin
si interesserà dei problemi sociali ed inizia ad essere un forte oppositore della politica vittoriana,
arrivando affondare nel 1874, la Ghilda di San Giorgio: essa è una sorta di corporazione, sul modello di
quelle medievali, per aiutare gli artigiani e gli agricoltori attraverso una visione quasi comunitaria del
modo di vivere (visione fortemente socialista) ma l'opera risulterà fallimentare.

Ruskin, la natura e la pittura


Ruskin era molto legato a William Turner e ai preraffaelliti. Era un bravo disegnatore che schizzava in ogni
città che visitava; era affascinato dagli effetti degli agenti atmosferici sugli edifici.

The Seven Lamps of Architecture, 1849


Essa e l'opera più importante di Ruskin e sicuramente la più famosa: non si tratta di un vero e proprio
trattato di architettura ma un'opera in cui si vuole rappresentare la visione della stessa secondo Ruskin.
Il saggio fu pubblicato in forma di libro nel maggio 1849 ed è strutturato con otto capitoli; un'introduzione
e un capitolo per ciascuna delle sette 'Lampade', che rappresentano le esigenze che la buona
architettura deve soddisfare, espresse come direzioni in cui l'associazione di idee può prendere
l'osservatore:

Sacrificio - dedizione del mestiere dell'uomo a Dio, come prove visibili dell'amore e dell'obbedienza
dell'uomo
Verità: esposizione artigianale e onesta di materiali e strutture. La verità sui materiali e l'onesta
dimostrazione di costruzione erano parole d'ordine poiché il serio Revival gotico si era allontanato dal
capriccioso "Gothick" del 18 ° secolo; era stato spesso elaborato da Pugin e altri.
Potere - gli edifici dovrebbero essere pensati in termini di ammassamento e raggiungere la sublimità
della natura mediante l'azione della mente umana su di loro e l'organizzazione dello sforzo fisico nella
costruzione di edifici.
Bellezza - aspirazione verso Dio espressa in ornamenti tratti dalla natura, dalla sua creazione
La vita - gli edifici dovrebbero essere fatti da mani umane, in modo che la gioia di muratori e scalpellini
sia associata alla libertà espressiva data loro
Memoria - gli edifici dovrebbero rispettare la cultura da cui si sono sviluppati
Obbedienza - nessuna originalità per sé stessa, ma conforme al più raffinato dei valori inglesi esistenti, in
particolare espresso attraverso il gotico "Early Decorated inglese" come la scelta di stile più sicura.

La più interessante delle lampade è la sesta, con la quale Ruskin si pone il problema del rapporto con il
passato. Molto interessante è l’aforisma 31: “Il cosiddetto restauro è la peggiore delle distruzioni”.
Ruskin si scaglia in modo netto, negli anni dei restauri stilistici, contro i restauri falsificatori.
Per Ruskin il restauro è la più totale distruzione che un edificio possa subire, alla fine della quale non
rimane nemmeno un resto da raccogliere. Una distruzione accompagnata da una falsa descrizione
dell'opera: il restauro, cancella, sottrae, elimina e poi mette una falsa descrizione. È impossibile
restaurare perché è impossibile riprodurre il pensiero dell’esecutore. quando una superficie per la sua
consunzione (per vento e per pioggia) perde qualche centimetro non bisogna intervenire in quanto il
tempo abbellisce e non distrugge. Bisogna prendersi cura degli edifici e non abbandonarli per poi
sottoporli al restauro falsificatore.
Ammette però la cerchiatura, la centina, il puntellamento e dice di non preoccuparsi se questi interventi
possano risultare brutti perché almeno l’edificio non cade a pezzi. (è meglio che stia con le stampelle
piuttosto che senza una gamba!) 30

Spiega poi perché si restaura: lo si fa per la memoria, per le generazioni future; siamo in un flusso e non
abbiamo il diritto di interromperlo, nel senso che non abbiamo il diritto di distruggere ciò che non
abbiamo costruito noi. Sempre Ruskin, in ultima istanza, critica l’industrializzazione e le ferrovie, segno di
distruzione della vita agreste.

William Norris
Principale allievo di Ruskin, nasce nel 1834 e si forma ad Oxford dove ha contatto anche con i
prerafaelliti. Realizza quella che per molti è considerata un antesignana dell'architettura moderna, ossia
la Red House con Philip Webb, architettura moderna perché per la prima volta gli spazi vengono usati
e pensati in maniera funzionale e distributiva, si supera lo schema degli spazi bloccati dalla simmetria
avendo una pianta irregolare. Oltre alla Morris, Marshall, Faukner&Co., fonda la SPAB (Society for the
Protection of Ancient Building) una società che si propone di proteggere gli antichi edifici, di mettere in
pratica le teorie di Ruskin e contrastare i restauri falsificatori. Nel 1887 fonda la Arts and Crafts, permettere
al pari livello l'arte con le arti minori (arti decorative, tapezzerie). Interessante è la sua descrizione
dell’architettura, data durante una conferenza: “l'architettura è l'insieme delle modifiche e delle
alterazioni operate sulla superficie terrestre in vista delle necessità umane ad eccezione del deserto”,
l'uomo per vivere produce architettura.

Society for the Protection of Ancient Buildings


I restauri stilistici erano molto diffusi anche in Inghilterra, non solo in Francia. George Gilbert Scott è
considerato il Viollet inglese. Morris fonda la SPAB proprio per opporsi a questo tipo di restauro.

Manifesto
Nel manifesto si afferma che nell'ottocento abbiamo assistito alla morte dell'architettura come arte
popolare che si è rivolta alla conoscenza del passato. Si afferma inoltre che l'ottocento non ha prodotto
un proprio stile: da questa carenza è nata l'idea del restauro, collegato alla morte dell'architettura.
Morris per concludere propone la tutela al posto del restauro, costruire o aggiungere qualcosa di nuovo
ad un edificio in pessimo stato piuttosto che alterarlo con un restauro.

La S.P.A.B agì non solo a livello locale, si dotò, infatti, di un Foreign Commettee/Office per occuparsi
anche di quello che accadeva nel Continente. In particolare, mostrò un’attenzione speciale per
Venezia, città in cui già Ruskin aveva denunciato una serie di restauri sconsiderati. Appena un anno
dopo il Manifesto, la S.P.A.B. interviene contro i restauri in corso alla Basilica di San Marco.
Nel 1879, la S.P.A.B. scriverà degli articoli molto duri contro i restauri sostitutivi che Giovan Battista
Meduna stava effettuando sulla facciata di San Marco sostituendo molti marmi antichi con nuovi conci
(secondo il criterio di Viollet: nuove pietre più resistenti). Nasce una polemica durissima, gli inglesi hanno
come portavoce un veneziano Alvise Zorzi e alla fine otterranno la sostituzione di Meduna con Pietro
Saccardo, architetto più capace di resaturare i monumenti. Tutto accade nell’anno in cui muore Viollet.
Gli inglesi si accaniscano con Venezia perché lì si stavano succedendo una serie di restauri “spaventosi”
come quello del Fondaco dei Turchi ad opera di Federico Berchet. Coronamenti eliminati e reinventati.

Dagli echi del restauro stilistico agli albori del restauro filologico: Federico Travaglini, Alfonso
Rubbiani, Camillo Boito e il neo-medievalismo italiano.
In Italia la questione del restauro è influenzata da due poli: quello francese con Viollet-le Duc e quello
inglese con Ruskin e Morris. L’800, con il filone romantico, segna un momento di riscoperta dell’età
medievale anche in Italia. Le figure più rilevanti nel restauro in questo periodo sono Federico Travaglini
(Napoli), Alfonso Rubbiani (Bologna) che più appoggiavano il filone francese e Camillo Boito che si
configura come personaggio di transizione, a cavallo tra due secoli, che sarà fortemente contrario alla
visione di Viollet-le-Duc. Il suo, infatti, sarà un restauro di tipo filologico. La filologia è una disciplina che
nasce nell'ottocento e consiste nell'analisi dei testi antichi in maniera critica, tale disciplina viene
applicata anche all'architettura che viene vista come un testo del quale bisogna fare un’esegesi,
bisogna cioè tracciarne una biografia, ricostruire tutte le fasi della sua vita. Dal 1879 alla 1883 le teorie
di Boito avranno un'evoluzione da portarlo nel 1883 a contribuire a scrivere la prima carta italiana del 31

restauro, il primo documento, cioè, che stabilisce in 7 punti come affrontare ed eseguire il restauro.
Bisognerà attendere poi l’unità d’Italia e l’annessione di Roma del 1870 per poter pensare a
provvedimenti riguardanti il restauro di stampo nazionale.

Federico Travaglini
La sua attività si esplica prima dell’unità d’Italia, prima della questione “nazionale” del restauro.
Il suo lavoro sarà incentrato principalmente a Napoli e in Puglia.
Nasce nello stesso anno di Viollet, 1814, si forma presso l’Accademia delle Belle Arti.
Travaglini interviene nel restauro della chiesa di San Domenico Maggiore tra il 1850 e il 1853: esso
rappresenta l'intervento più emblematico per comprendere il suo approccio al restauro e il confine tra
restauro stilistico ed abbellimento. Restaurò molte cattedrali, intervenendo sul romanico alla maniera di
Viollet-le-Duc, spogliando l’edificio della fase barocca per ritornare a quella puramente medievale.
Il suo lavoro è immerso in un contesto in cui è molto forte la presenza dello stile neogotico.
Nel 1855 Travaglini scrive delle pagine che riprendono molto il pensiero di Viollet-le-Duc: il tempo deturpa
le forme degli edifici che devono tornare al “primitivo decoro”. Travaglini risulta più attento ai “ruderi
parlanti”.

San Domenico Maggiore, primo incarico:


si tratta di una cattedrale angioina duecentesca, ha una struttura a croce Latina con tre navate e
cappelle laterali; la chiesa aveva subito delle aggiunte barocche importanti per cui i domenicani
chiedono a Travaglini di intervenire; bisognava rimuovere gli ornamenti barocchi e tutto ciò che fu
aggiunto per rispettare le instructiones fabricae di Carlo Borromeo: Travaglini propone di rimuovere tutte
le aggiunte barocche, ricostruisce le bifore gotiche, riapre le monofore e gli oculi traforati (che in realtà
sono un’aggiunta originale sua); fa delle aggiunte di ornati di stucco, dorature e stucchi colorati,
attuando degli abbellimenti che allontanano dal restauro. Riveste le colonne di stucco lucido, a
imitazione di materiali preziosi.

Gli viene richiesto da Ferdinando II la rimozione dell’arco di Alfonso d’Aragona da Castelnuovo


(monumento all’epoca scarsamente considerato, tanto da aver rischiato di essere demolito), per
posizionarlo all’ingresso del Museo Nazionale: Travaglini accetta la proposta, ma l’improvviso crollo della
torre di mezzo di Castel Nuovo, lo fa chiamare per ricostruirla (con le sue solite aggiunte) e
fortunatamente l’intervento non verrà realizzato.

Alfonso Rubbiani
Nasce nel 1848, si forma nel campo del diritto e si avvicina ai monumenti antichi per passione.
Interessante la fondazione, nel 1898 di una società, “Aemilia Ars”, simile alle “Arts&Crafts” di Morris.
Nel 1899 costituisce un comitato per Bologna che promuove numerosi restauri, per cui tra la fine
dell’Ottocento e gli inizi del 900 Bologna è invasa da restauri stilistici. (un po’ anacronisticamente in
quanto ormai nel ‘900 l’approccio al restauro è filologico, motivo per cui verrà parecchio criticato).

Chiesa San Francesco, Bologna


Chiesa medievale, fortemente degradata, caratterizzata da integrazione, aggiunte che rendevano
difficile la lettura unitaria dell’opera. Rubbiani porterà avanti un intervento di progressiva liberazione
delle aggiunte, considerate incongrue con l’organismo originale medievale.
C’è quindi una forte volontà di riportare un’unità stilistica. Si riportano il fronte nord e la facciata allo
stato da progetto, ripristinando l’assetto medievale; la zona più interessante è però quella dell’abside,
che era stato murato, circondato dai tipici porticati bolognesi: Rubbiani scopre che al suo interno
c’erano antiche costruzioni medievali, che si scoprono essere tombe dei glossatori; i glossatori erano i
filologi del medioevo, analizzavano testi, erano una sorta di giuristi, per cui, data l’importanza per la
cultura bolognese e data la coincidenza con il cadere dei 1000 anni dalla fondazione dell’università di
Bologna (l’università più antica del mondo) Carducci, all’epoca rettore e amico di Rubbiani, lo convinse 32

a demolire il portico per liberare le tombe.

Palazzo dei notai


Edificio su piazza Maggiore, fortemente rimaneggiato, per cui Rubbiani propone la demolizione degli
extra per il ripristino dell’edificio originale, fatto con materiali ottocenteschi (LOL)

Camillo Boito
Grande esponente della cultura milanese.
Combatte l’esercito austriaco insieme ai garibaldini, a differenza di Rubbiani. Insieme a suo fratello, una
volta trasferitosi a Milano, diventa esponente della corrente letteraria della “Scapigliatura Milanese”.
Nel 1891, grazie a lui, vengono istituiti gli uffici regionali per la conservazione dei monumenti, veri e propri
antesignani delle Sovraintendenze.

Chiesa dei Santi Maria e Donato, Murano, Venezia


La chiesa è di origine romanica, Boito propone un intervento filo-Viollet, tranne che nella parte absidale,
in quanto c’erano state parecchie aggiunte e c’era l’intenzione di liberare la fabbrica originaria.
All’interno, infatti, vuole recuperare l’immagine bizantina, eliminando le tracce barocche, in modo da
rendere “coerente” la chiesa con la Venezia di quel tempo, con l’influenza orientale. Per l’abside
l’atteggiamento è molto più conservativo, perché Ruskin, in “The Stones of Venice” del 1852 aveva
elogiato quella parte.
Per la facciata, mai realizzata insieme al resto del progetto, per poter fuggire verso Milano, prevedeva
un forte intervento di “bizantizzazione” inventiva.
Scappato verso Milano, deve occuparsi della porta Ticinese, in quanto la città stava subendo profonde
trasformazioni ed essa, come le mura, era di intralcio al traffico cittadino.
Per cui Boito si trova di fronte ad una scelta, in quanto la porta risultava essere un palinsesto molto
stratificato, con edifici addossati ad essa. Il restauro realizzato da Boito non sarà totalmente stilistico:
rimuove il ballatoio che tagliava il bassorilievo, ricostruisce la merlatura ma lascia la torre a destra
monca; infine, decide di collocarla lungo il colonnato di San Lorenzo, di origine romana.
Negli anni ’70 dell’ottocento, c’è grande fermento per quanto riguarda l’organizzazione della tutela dei
monumenti. È stato un ministro napoletano, Ruggero Bonghi ad istituire un ministero per la conservazione
dei monumenti: la direzione centrale degli scavi e musei del Regno del 1875. Mette a capo di quetsa
istituzione Giuseppe Fiorelli, che era stato già direttore degli Scavi di Pompei per 15 anni fino al ’75 ed
era colui che aveva inventato il sistema dell’archeologia stratigrafica (volta a realizzare uno scavo
sistematico, non volto alla ricerca dei soli tesori) e il sistema per ottenere il calco delle vittime tramite
una colata di gesso. In questo contesto viene istituita nel 1875 la Giunta Superiore di Belle Arti a Roma,
un congresso molto elitario per professori ed esperti per decidere delle grandi questioni sul patrimonio
nazionale. Viene invitato anche Boito che dal 1979 diventa consulente a livello nazionale.
Il 21 luglio 1882, Fiorelli riesce a far approvare un decreto per i restauri monumentali grazie all’aiuto di un
ingegnere-topografo suo collaboratore, Francesco Bongioannini: si tratta di un testo molto importante
in quanto si descrive come fare un progetto di restauro. C’è un intero capitolo dedicato alla
compilazione dei progetti, in cui si arriva ad indicare la scala dei vari elaborati. Bisogna prima redarre
delle relazioni e poi dei progetti per il restauro, con scala 1:100 per le figure d’insieme, 1:10 o scala
maggiore, ove necessario, per i dettagli, piante, prospetti, sezioni acquerellate e foto (iniziano a
circolare le prime); si parla addirittura della stima del progetto che sarà effettuata attraverso un
computo metrico.
È il momento di passaggio dalla visione dilettantistica all’intervento tecnico: i progetti dovranno essere
presentati alle prefetture delle relative città per l'esame e l'approvazione delle commissioni conservatrici
nei riguardi storici ed artistici e del Genio Civile neri guardi amministrativi e tecnici. Dopo l'approvazione,
i progetti passano al Ministero Dei Lavori Pubblici che fa un ulteriore esame e, se approvati, la loro
realizzazione va ai progettisti stessi.

La Carta del restauro


33
Tale Carta si articola in 7 punti che sono evoluti nel tempo. Essa rappresenta il voto conclusivo del 3°
Congresso degli Ingegneri e Architetti Italiani tenutosi a Roma nel 1883; redatto da Camillo Boito, viene
considerato come la prima "Carta del restauro".
Nel primo punto afferma: I monumenti architettonici, quando sia dimostrata incontrastabilmente la
necessità di porvi mano, devono piuttosto venire consolidati che riparati, piuttosto riparati che restaurati,
evitando in essi con ogni studio le aggiunte e le rinnovazioni.
Nel secondo punto analizza le possibilità nel caso in cui le aggiunte o le innovazioni siano indispensabili:
Nel caso che le dette aggiunte o rinnovazioni tornino assolutamente indispensabili per la solidità o per
altre cause invincibili, e nel caso che riguardino parti non mai esistite o non più esistenti e per le quali
manchi la conoscenza sicura della forma primitiva, le aggiunte o rinnovazioni si devono compiere con
carattere diverso da quello del monumento, avvertendo che, possibilmente, nell'apparenza prospettica
le nuove forme non urtino troppo con il suo aspetto artistico.
Al terzo punto, analizza il caso in cui si debba completare un’opera:
Al terzo punto, invece, analizza il caso in cui bisogna completare un’opera. Se si deve completare
un’opera oppure bisogna riprodurre una parte vecchia con precisione i conci da utilizzare devono
essere distinguibili per materiale o devono portare un’iscrizione con la data del restauro (approccio
simile a quello di Quatremère de Quincy).
Tra il punto due e il punto tre c’è una differenza: il punto due riguarda parti non mai compiute o non più
esistenti macroscopiche (es. la scala). Il punto tre, invece, riguarda le parti imitabili, sono le parti che
Quatremère riteneva fosse possibile imitare ma in maniera distinguibile.
Boito accoglie la tesi di Quatremère (risalente al 1832) e la modernizza.
Con il punto quattro Boito si avvicina alle tesi di Ruskin:
nei monumenti in cui la bellezza del rudere e il fascino del pittoresco prevalgono, bisogna fermarsi prima
e fare in modo che essi non svaniscano. Bisogna dunque ridurre al minimo indispensabile l’intervento.
È chiaro omaggio all’aforisma 31 di Ruskin e a quell’idea del mezzo pollice e all’idea che il tempo deve
essere considerato come una gloria dell’edificio e non va eliminato.
Il punto cinque invita al rispetto delle stratificazioni. È un altro punto in cui va contro le tesi di Viollet.
Le aggiunte vengono considerate esse stesse monumenti anche se inserite successivamente all’origine.
Fa eccezione il caso in cui queste aggiunte mascherano parti notevoli dell’edificio o la sua storia si
consiglia la loro rimozione o distruzione. Entra in gioco l’aspetto critico del restauro.
Le parti da conservare o da rimuovere dipendono dal loro valore, ad esempio la tamponatura di una
finestra, non è sicuramente monumento perché maschera qualcosa.
Gli ultimi due articoli si possono semplificare notevolmente. Il punto sei dà grande importanza alla
fotografia. Al punto sette, infine, afferma che è necessario inserire una lapide con data per ricordare e
distinguere l’intervento di restauro.

Dopo 10 anni dalla scrittura dei 7 punti, Boito ritorna sul numero due, riguardo le aggiunte, attraverso
una sua antologia intitolata “Questioni pratiche di belle arti” dove afferma che le aggiunte era diversa
dal monumento, con uno stile diverso. Si assume un atteggiamento più prudente rispetto alla
precedente parola utilizzata (stile “contemporaneo”), in quanto lo stile contemporaneo potrebbe
essere in forte contrasto con quello antico del monumento.
Boito fonda negli anni ’80 una rivista “Arte italiana decorativa industriale” con la quale contribuì alla
diffusione delle arti minori e all’insegnamento delle arti minori nelle accademie.
Rapporto antico/nuovo = Architettura contemporanea e preesistenza storica
Intervenire con l’architettura contemporanea, come previsto dalla corrente del restauro critico, significa
avere una sensibilità maggiore perché è difficile far convivere due stili così diversi.
Quando perdiamo un bene in cui ci identifichiamo in maniera improvvisa, ciò che proviamo è un senso
di perdita, perdita di un bene in cui si riconoscono le radici della storia.

Campanile di San Marco, Venezia


Il campanile è crollato nell’arco di una notte nel 1902. È crollato per schiacciamento. Se esso è in fase
molto avanzata, genera ad un certo punto una sollecitazione da carico di punta. Una struttura
sottoposta a carico di punta, in pochi minuti può polverizzarsi al suolo e collassare. 34

Il 14 luglio del 1902 esso crolla con la distruzione della loggia del Sansovino e di una parte della Biblioteca
che sorgeva in sua prossimità. Il suo crollo fa aprire un dibattito che vede coinvolti vari personaggi:
Giacomo Boni, sovrintendente a Venezia, che recupera nel 1903 gli elementi superstiti, Luca Beltrami
(autore del restauro del Castello Sforzesco a Milano e grande interprete del restauro storico) termina
l’opera di recupero e ricostruzione storica dei documenti ma lascia l’incarico perché il dibattito sulla
ricostruzione era poco lineare.
Lo si ricostruisce con forme identiche a quelle precedenti, ma con materiali diversi. Pertanto, il
campanile attuale è il campanile ricostruito nel 1912 in cemento armato e mattoni all’esterno.
Ciò perché esso rappresentava il segno di Venezia, anche dal mare, un simbolo per i cittadini.
Il compito del restauratore in casi come questi si complica perché oltre all’istanza del restauro, egli deve
tener conto di aspetti di natura tecnica, economica e culturale e deve considerare quella che Roberto
Pane, negli anni ’60, ha definito istanza psicologica ossia la volontà della società di rimuovere l’evento
luttuoso e di essere risarcita di quella perdita. In particolare, il tema della perdita è particolarmente
centrale per le ricostruzioni postbelliche dove l’istanza psicologica si lega anche alla volontà di
contrastare un disegno, politico e militare. È il caso della chiesa di Santa Chiara a Napoli che viene
danneggiata non dalle bombe, ma da uno spezzone incendiario che nell’agosto 1943 incendia la
chiesa. Si distruggono tutti gli apparati barocchi e crolla anche la copertura lignea. Si brucia, dunque,
tutta la fase barocca. Anche per Santa Chiara c’è stato un dibattito che ha visto opporsi coloro che
volevano ricostruire la Chiesa lì dov’era e anche nelle forme con coloro, come Cesare Brandi, che non
volevano ricostruirla bensì lasciarla allo stato di rudere e costruire accanto una nuova chiesa.
In questo caso il ricorso all’istanza psicologica di Roberto Pane prevalse e quindi si scelse di ricostruire la
chiesa nelle sue forme medievali (c’erano più tracce delle forme medievali) con copertura in cemento
armato a finto legno. Le aperture laterali, trasformate nel corso del ‘‘700, furono riportate alla forma
gotica per omologarle al resto della chiesa. Si decise di ricostruire la chiesa e di non lasciarla allo stato
di rudere ed in particolare, si decise di ricostruirla nella fase di cui rimanevano maggiori tracce ovvero
la sua immagine medievali, mentre la fase barocca fu totalmente cancellata dall’incendio.

Ponte di Santa Trinità, Firenze


Distrutto come altri ponti di Firenze, dai Tedeschi in ritirata. Ci si avvale dell’istanza psicologica di Pane,
molto di successo nella fase di ricostruzione post-bellica, con accezione più politica che di memoria.
Dunque, il ponte di Santa Trinità, il cui apparato scultoreo era caduto nell’Arno, viene ricostruito con
forme uguali ma con tecniche moderne. La modanatura esterna è rivestita in pietra, all’interno c’è un
guscio con rete elettrosaldata e cemento armato che serviva a creare gli archi del ponte
successivamente rivestito in pietra.
Varsavia, altro esempio di ricostruzione post-bellica, in quanto la città e stata quella più annientata
politicamente e strategicamente durante la seconda guerra mondiale.
Tra la fine degli anni 40 e l'inizio degli anni 50, il compito dei tecnici era molto delicato perché significava
porre fine alle lacune urbane. si creeranno tuttavia diverse posizioni sul modo in cui intervenire per
risanare i centri storici dilaniati dalla guerra:

1. Ricostruzione identica*;
2. Ripristino tipologico alla Saverio Muratori, che aveva parlato per gli interventi urbani di ricreare
la maglia urbana (“ammagliandola”, è una riparazione del tessuto) con edifici “ambientati”: in
apparenza antichi, ma con materiali moderni; (esempio: centro storico di Bologna);
3. Strada suggerita dal restauro critico: inserimento dell’architettura contemporanea in dialogo
con l’antico;

Per tutti gli anni ’50 e ’60 si tengono una serie di convegni in tutta Italia, specialmente tra Torino, Firenze
e Venezia. Uno di questi si tiene nel 1964 a Venezia ed è intitolato “Gli architetti moderni e l’antico”.
In tali convegni si incontravano non solo i progettisti, ma anche restauratori, urbanisti e storici
dell’architettura per discutere come intervenire. Al loro interno si distinguono due fronti: 35

da un lato, coloro che si opponevano all’inserimento dell’architettura contemporanea nei centri storici;
tra essi, ricordiamo Leonardo Benevolo (autore del piano per il centro storico di Palermo), Antonio
Cederna (giornalista ed opinionista, molto importante in quegli anni per la sua lotta contro l’abusivismo
edilizio) e Cesare Brandi (autore della teoria del restauro ancor’oggi usata, era uno storico dell’arte).
Sono personalità che si oppongono in quanto i centri storici sono fatti da edifici costituiti in muratura
piena, tradizionale (tufo giallo, pietra naturale), hanno appoggi continui e non puntuali, in essi prevale
la massa e le aperture sono assai ridotte. Tutti i centri storici sono dei palinsesti, frutto della
sedimentazione di epoche diverse (fa eccezione San Pietroburgo che è una città omogenea perché
nasce per celebrare Pietro il Grande nel 1600). Napoli è un classico esempio di palinsesto che parte
dalla colonia panellenica di Puri e arriva al 2018 senza soluzione di continuità. Se si inserisce al loro interno
un’architettura contemporanea fatta con tecniche diverse che consentono all’architetto regole
costruttive prima impensabili, consentono
forme completamente aliene al contesto del centro storico.
Dall’altro lato c’è il fronte progressista che vede al suo interno: Roberto Pane (fondatore della
facoltà di architettura di Napoli), Bruno Zevi e Ernesto Nathan Rogers (all’epoca direttore della
rivista “Casabella Continuità”); essi si battono per la convivenza dell’architettura contemporanea
con i centri storici. Tutte le epoche hanno lasciato un segno nella storia, per cui anche quella
contemporanea può lasciare un segno in questo palinsesto stratificato. Sono favorevoli ad inserire
architetture contemporanee all’interno dei centri storici bombardati ma con posizioni non omogenee:
Pane parla di un’architettura moderna che sia volumetricamente e per altezza non invadente rispetto
alla preesistenza; per lui l’architettura contemporanea deve comunque rispettare il genius loci e la
preesistenza, senza sovrastarla. Zevi, invece, afferma che l’architettura contemporanea è fatta di libertà
stereometrica, è
fatta di regole diverse dall’architettura preesistente e non si può “imbavagliare”; quindi, bisogna far
dialogare l’architettura contemporanea con le preesistenze ma non necessariamente in accordo,
anche in contrasto.

Masieri Memorial, F. L. Wright, Venezia


Uno dei temi del dibattito dell’epoca della ricostruzione riguarda la casa su Canal Grande progettata
da Frank Lloyd Wright per l’Istituto Universitario di Architettura di Venezia (IUAV).
Nel 1956 F. L. Wright riceve la laurea “honoris causa” e fa una mostra all’IUAV coordinata da Carlo
Scarpa: un allievo e collaboratore di Scarpa, Angelo Masieri morirà in un incidente stradale per cui la
famiglia decide di dedicare alla memoria del figlio una residenza per studenti dell'istituto che prende il
nome di “Masieri Memorial”. F. L. Wright regala all’IUAV e a Venezia il
progetto che consisteva nella realizzazione di una piccola palazzina per
circa 20 studenti di tutto il mondo che arrivavano a Venezia per studiare
architettura.
Il lotto, piccolo e triangolare, sorgeva nel cuore del centro storico di
Venezia. Wright propone con il suo progetto un edificio piccolo e
contenuto, addirittura più basso del palazzo accanto, con un attacco a
terra realizzato tramite pilotis. In sommità in stile moderno presentava un
tetto giardino. Viene rispettato il genius loci perché la casa veneziana ha
tutte le aperture concentrate al centro in corrispondenza del gran salone,
mentre a destra e sinistra le aperture sono normali e classiche. Wright dimostra una grande sensibilità
per il centro di Venezia proponendo un progetto moderno ma che comunque rispetta le tradizioni
dell’architettura locale.
Si accende un dibattito molto acceso perché il fronte di coloro
che non vogliono che si realizzi il progetto di F.L.Wright è molto
forte. Tale fronte sostiene un concetto che viene sintetizzato
attraverso un’immagine de “Il Borghese” nel 1954 in cui si vede il
Canal Grande trasformato in una “promenade architecturale”
di varie epoche ma soprattutto delle opere che si stavano
realizzando in quegli anni: Se si desse l’autorizzazione per la 36

realizzazione del Masieri Memorial, il Canal Grande si ridurrebbe


ad una serie di nuove architetture che lo stravolgerebbero.
Da questo episodio, negli anni ’60, le facoltà di architettura si aprono sempre di più alla possibilità di
intervenire con architetture contemporanee. Si apre la corrente del restauro critico conservativo, a sua
volta aperta verso l'architettura contemporanea.
Gran parte degli interventi contemporanei risiede sull’accessibilità perché molte strutture antiche
nascono con enormi salti di quota e sbalzi. Questi interventi rendono possibile l’incontro tra due stili così
differenti e offrono la possibilità al tempo moderno di lasciare un segno. Tali interventi spesso consistono
in passerelle ed ascensori; essi, nel complesso, rendono l’edificio più attrattivo ed interessante per la
società civile.

Spagna
Nonostante in Spagna non si studi il restauro (le uniche due cattedre sono a Valencia e Granada) e non
ci sia un grande dibattito al riguardo, è presente una forte sensibilità nell’esprimersi con architetture
contemporanee accanto alle preesistenze.

Antoni Gonzalez, Chiesa di San Vicenç, Malla


Gonzalez è un progettista che si è specializzato proprio in questo tipo di
intervento. La chiesa, che si trovava allo stato di rudere, viene trasformata
da Gonzalez in un museo attraverso degli interventi
misurati sulla preesistenza: la parte absidale della chiesa era crollata, per
cui Gonzalez propone un ripristino del percorso di fruizione dall’ingresso
principale ricreando la zona absidale in pietra (locale) per linee di inviluppo
quasi in modo brandiano. Egli, cioè, riconfigura l’unità potenziale dell’opera. Ricostruisce l’abside con
materiali locali ma allo stesso tempo essa è distinguibile grazie al fatto che la parte ricostruita è
distaccata dalla preesistenza attraverso delle lastre di vetro.

Monastero de Roja
Si progetta l’ingresso del complesso museale con una copertura in legno lamellare che si poggia sui
ruderi dell’arco. Non demolisce l’arco, segna la distanza tra architettura contemporanea ed anticipo
in maniera molto meditata e pensata. Interviene in maniera organica, senza stravolgere o strafare.

Studio Levitate, Somerset – Sandsfoot Castel, Inghilterra


Siamo davanti ad un rudere archeologico nel mezzo del paesaggio inglese che
non svolge più la sua funzione, ma richiede solo degli adeguamenti. L’intervento
dello studio è un minimo intervento ma allo stesso tempo significativo. Si
progetta un sistema di superamento delle barriere architettoniche che tramite
una serie di passerelle in acciaio e legno con parapetti. Al di sotto delle
passerelle viene fatto scorrere il binario di elettrificazione che consente di
illuminarle anche di notte.
Francia
Dove gli interventi riguardano soprattutto i teatri.
Jean Nouvel, Teatro dell’Opera, Lione
Un esempio di approccio sbagliato da parte di un architetto valido.
L’intervento schiaccia la struttura preesistente, alterandone gli equilibri.

Norman Foster, Maison Carrée, Nimes


Norman Foster è sicuramente uno degli architetti viventi più importanti e famosi al mondo, è stato
nominato recentemente baronetto dalla regina d’Inghilterra. I francesi gli
conferiscono l’incarico per realizzare una mediateca (I francesi hanno 37

trasformato molte biblioteche in mediateche, anche nei centri minori). La


mediateca doveva sorgere di fronte alla Maison Carrée, tempietto di
origine romana di grande valore storico nella città di Nimes dotata, tra
l’altro, di un anfiteatro anch’esso molto antico e importante. Foster
risponde con maestria: progetta un edificio piccolo, basso che lavora
molto nel sottosuolo, con un impatto molto attutito rispetto alla
preesistenza. Struttura con pilastri piccoli, facciata riflettente il tempio con
cui dialoga grazie ad un basamento in pietra. Inoltre, l’edificio è arretrato
rispetto al filo della piazza, non è invasivo. Realizza un dialogo con la
preesistenza, lavorando con molta sensibilità.

Portogallo
In Portogallo, la scuola di Porto ha lasciato un segno nel modo di
progettare che si caratterizza per la sua efficace capacità di
rapportarsi con la preesistenza. A questa scuola si riconducono grandi
nomi come Souto de Mura, Alvaro Siza e il maestro Fernando Tavora.
Quest’ultimo viene incaricato dalla città di Porto di intervenire nel
cuore del centro storico di Porto, accanto al centro religioso: la
cattedrale. L’incarico consiste nel progettare un edificio per il potere
temporale: la torre dei 24 notabili (dei 24 quartieri della città di Porto).
La torre, fatta in pietra, era stata danneggiata durante la Seconda
guerra mondiale per cui alla fine degli anni ’80 viene dato l’incarico
al maestro della scuola di Porto di riprogettare la torre o quantomeno
completarla.
La torre sorge accanto alla cattedrale di Porto, la quale presenta una
cordonata ovvero una scala in salita, tipica delle città portoghesi. La
torre di Tavora si giustappone accanto ai ruderi della vecchia torre.
Tavora, invece di ricostruirla, prendo lo spunto per costruirne una
nuova. La nuova torre è piccola, rispettosa di quella antica, misurata
che ha il compito di essere una sorta di memoriale del potere temporale. Essa presenta due parti cieche
e una parte vetrata che tieni in piedi una statua che guarda verso la valle, verso la città. La torre nuova
si pone accanto a quella vecchia ma con distacco, torre che non insiste sulla preesistente.

Italia
Teatro Carlo Felice, Genova, Aldo Rossi
Il teatro che era stato bombardato durante la Seconda guerra mondiale viene
ricostruito da Aldo Rossi. La torre scenica è molto alta ma viene lasciata nella parte
retrostante. L’idea di Rossi, come traspare dai suoi schizzi, era quella di portare
l’esterno all’interno.

Borgo San Michele a Pisa, Massimo Carmassi


Caso recente e molto interessante ai fini del restauro è il caso del borgo di San
Michele, bombardato durante la guerra. Si tratta di un intervento a scala urbana.
La piazza distrutta dalla guerra era diventata un parcheggio. Si interviene
riconfigurando l’unità del lotto persa attraverso l’architettura contemporanea.
Carmassi tiene la trama del vecchio lotto di cui c’era traccia ricreando all’interno
la piazza. Lo fa con materiali tradizionali ovvero con opus listatum (muratura in
mattoni pieni) attraverso cui riconfigura la spazialità del cortile. Si distingue
lavorando per vie di inviluppo.
Distingue il moderno dall’antico lavorando in sottosquadro e facendo segnare
sempre l’aggiunta. 38

Il restauro Italiano: Luca Beltrami e Alfredo D’Andrade

Luca Beltrami e il restauro storico


Luca Beltrami nasce a Milano nel 1854. Dopo aver seguito alcuni corsi all’accademia di Brera, si sposta
al Politecnico per seguire quei corsi di tipo architettonico che Boito aveva appena avviato. Si laureerà
con Boito e diventerà suo assistente. Avrà, in una prima fase, un rapporto molto stretto con il maestro
da cui, più tardi, si allontanerà.
Ritornato In Italia dopo un tirocinio in Francia, avrà un impatto notevole sulla forma urbis Di Milano in
quanto ottiene il vincolo per il Castello Sforzesco (grazie al quale lo salva dalla demolizione totale) e
interverrà sul nuovo costruendo molte architetture come piazza Cordusio. fu
Beltrami declina il restauro verso il restauro storico perché utilizza nel restauro dei monumenti gli archivi,
le documentazioni storiche, la bibliografia, tutto quello che noi oggi classifichiamo come fonti indirette,
per giustificare gli interventi di ricostruzione. Mentre Viollet Le Duc si basava sull’analisi diretta del
monumento e su un processo che Ludovic Vitet aveva definito come “di severa induzione” quindi di
passaggio dal particolare al generale, con Beltrami c’è uno spostamento verso le fonti indirette di un
edificio, sul materiale degli storici. Mentre Viollet diceva che: “il restauro può portare ad un ripristino di
uno stato di integrità che può non essere esistito ad un dato tempo”. Questo stato di integrità era anche
in buona parte frutto di invenzione, generava dei falsi storici. Con il passaggio al restauro storico di
Beltrami si cerca, al contrario, di documentare quanto più possibile uno stato di integrità che può essere
esistito, si analizza, si ricerca una fase specifica del monumento. Non c’è più un margine interpretativo
così ampio come accadeva nel caso del restauro stilistico.
Uno dei primi interventi che realizza a Milano è a metà strada tra restauro e sistemazione urbana: la
realizzazione del fronte di Palazzo Marino su piazza della Scala, in quanto esso era sprovvisto di facciata;
la realizza creando una facciata speculare a quella su piazza San Fedele, realizzata da G. Alessi nel
‘500: c'è quindi la volontà di coerenza storica, con l’aggiunta di dettagli ottocenteschi (ad esempio nei
capitelli) per rendere l'intervento riconoscibile. A completare il disegno della piazza si aggiunge il
progetto della facciata della Banca Commerciale.
L’etichetta di “restauro storico” attribuita a Beltrami dipende da uno studioso milanese: Carlo Perogalli
che, nella sua opera “Monumenti e metodi di valorizzazione” del 1954, dedica un capitolo al tema del
restauro storico, introducendo la figura di Beltrami e definendo la differenza tra restauro storico e
stilistico.
Definisce stilistico il restauro di impronta romantica, con il quale il progettista si immedesima nel
costruttore iniziale con la pretesa di comportarsi come avrebbe fatto lo stesso.
Nel restauro storico, invece, il progettista rifiuta l’immedesimazione, facendo una profonda ricerca
d’archivio per arrivare ad una possibile esatta ricostruzione storicamente documentata.
Quest’ultimo è esattamente l’approccio che Beltrami ha con il Castello Sforzesco, una delle principali
costruzioni della famiglia Sforza, famiglia di duchi che aveva governato Milano nella seconda metà del
400. Il castello si presentava come una fabbrica molto stratificata.
Tutti i castelli subirono una trasformazione dovuta all’invenzione delle armi da fuoco, con progetti di
Giorgio Martini; quando decade il ruolo militare dei castelli, inizia il dibattito su cosa fare delle
fortificazioni. Si pensa quindi alla demolizione degli stessi, partendo proprio dai bastioni stellari di Giorgio
Martini: del castello Sforzesco era quindi rimasto il nucleo principale Sforzesco per cui Beltrami ottiene la
tutela con la realizzazione di uno spazio a esedra nella piazza antistante il castello. Gli viene poi affidato
anche il restauro dello stesso, per cui l’architetto studierà a fondo.
Propone quindi di restituire la fase sforzesca, ripristinando le merlature dei torrioni e le coperture, sulla
base della documentazione storica. Egli insiste sulla distinguibilità dell’intervento, realizzando il
paramento murario aggiunto. Anche sulla merlatura appone un segno: una scritta, come indicato nella
Carta del restauro di Boito.
Un altro intervento sul castello riguarda la torre del Filarete, distrutta da un fulmine, che verrà ricostruita
per analogia, mancando la documentazione necessaria. Beltrami rispetta i punti della Carta di Boito, in
particolare quello sul rispetto di tutte le fasi storiche del monumento, a patto che non si coprano cose 39

più preziose da poter liberare.

Campanile di San Marco, Venezia


Beltrami sarà inizialmente coinvolto nella ricostruzione: realizza le scale a chiocciola interne,
sperimentando, una delle prime volte in Italia, una soletta in cls.

Alfredo D’Andrade: tra restauro storico e restauro filologico


Rispetto a Beltrami, avrà la tendenza al restauro più filologico, con una lettura del monumento che lo
porteranno a scelte sicuramente più conservative.
Di origine portoghese, nasce a Lisbona nel 1839 e per motivi commerciali della ricca famiglia, si
trasferisce a Genova.
La svolta della sua carriera arriva quando nel 1882 viene coinvolto nella Commissione d’Arte che deve
preparare l’esposizione internazionale di Torino del 1884;
D’Andrade avrà un’idea geniale: documentare la storia dell’architettura piemontese ricostruendo in
scala 1:1 i principali monumenti della regione. La sua idea sarà accolta con molto piacere anche dai
suoi colleghi, in un momento in cui il Medioevo, in particolare, attraversa una fase di grande attenzione
come stile di possibile identificazione nazionale.
La volontà di D’Andrade è quella di costruire un borgo e una rocca medievali secondo lo stile delle
costruzioni, dei villaggi e dei castelli piemontesi e valdostani.
Il lavoro dell’esposizione è così importante da valergli altri incarichi a Torino. Uno dei più rilevanti
è l’incarico per il restauro di Palazzo Madama. Palazzo Madama è una delle architetture più importanti
di Torino legata alla dinastia dei Savoia. È un’architettura stratificata in cui conviveva un castello
quattrocentesco, il castello del principe Ludovico D’Acaia, e delle aggiunte settecentesche, in
particolare la facciata realizzata su progetto di Filippo Juvarra. D’Andrade viene chiamato per
musealizzare il palazzo che ormai non era più una residenza reale. D’Andrade lavora proprio sul castello
facendone un rilievo. Da queste operazioni viene fuori una fase ancora più antica di quella
quattrocentesca ovvero la fase romana. Torino è, infatti, una città di origine romana il cui nome deriva
da Augusta Taurinorum.
D’Andrade interviene su molti edifici a Genova dove sarà direttore dell’Ufficio Regionale per la
conservazione dei monumenti (Piemonte e Liguria), qui interviene sul Campanile di San Donato:
l’intervento è di consolidamento che avviene con cerchiatura in bronzo inserite lungo le fasce
marcapiano del campanile. Realizza un intervento di liberazione riaprendo una serie di tamponature
che il campanile aveva subito nel tempo;
un altro intervento di rilievo è quello sulla Sacra di San Michele presso Susa dove fa un rilievo sistematico
della fabbrica per fare una diagnosi efficace: documenta che la parete esterna della chiesa
presentava uno spanciamento che avrebbe portato, se non contrastato, ad un collasso di meccanismo
fuori dal piano. Propone, dunque, di realizzare degli arconi rampanti con contrafforti per contrastare la
parete che minacciava di collassare. Sono arconi pienamente distinguibili per materiale seppur
realizzati in stile medievale. Aggiunge poi un elemento di cordonatura terminale che gli consente di
riconfigurare la copertura a falde; l’intervento è accompagnato da un sistema di tiranti che vengono
inseriti all’interno della chiesa e che completano l’intervento di messa in sicurezza del complesso.
Essi vengono collocati a livello del pavimento della chiesa e sono realizzati con sistemi di catene che
recuperano sistemi antichi. Tali catene, in qualche tratto, sono visibili.
Dove non si vedono, D’Andrade usa l’accorgimento di ricollocare il concio e incide su di esso un disegno
di un tenditore. Esso segnala che è possibile tesare la catena rimuovendo il concio. Dà la possibilità di
poter re-intervenire. Preannuncia il criterio moderno della reversibilità dell’intervento (o rivolabilità).
Infine, con la Torre del Pailleron ad Aosta, opera molto stratificata è possibile riconoscere una grave
situazione a livello basamentale. Dietro un paramento di pietre squadrate si ritrova un grande sacco
murario con materiale incongruo che era in disfacimento per il crollo del paramento antistante.
D’Andrade studia i materiali e i documenti reperiti e giunge ad una
conclusione: la torre era di origini romane e aveva due ordini di aperture 40

Alois Riegl “Il culto moderno dei monumenti” (1903)


Dopo aver fatto una panoramica di quanto accade in Italia, in Francia e in Inghilterra, è necessario ora
spostarsi in Germania. Il mondo germanico, molto complesso per lingua e storia, va studiato nell’ambito
del restauro per una figura molto importante ed influente: Alois Riegl.
La sua opera più importante è “Il culto moderno dei monumenti”, un testo che svolge una funzione di
riassestamento del restauro ottocentesco in una visione più chiara di concetti teorici che possono essere
interpretati in maniera più netta e chiara per poter poi sviluppare varie direzioni del restauro. All’interno
del testo, Riegl fa uno sforzo notevole per tentare di costruire una teoria del restauro.
Alois Riegl è un personaggio molto interessante, aiuta a costruirsi una propria visione, idea del restauro
senza dare una risposta, una soluzione univoca. Per il restauro non esiste una legge, è lontano dalla
visione ingegneresca, ogni caso è singolo, ma ci si può muovere all’interno di un sistema di valori che ci
aiuta a prendere delle decisioni.
Nel 1893 pubblica il testo più importante della sua carriera “Stilfragen”, opera in cui introduce un
concetto molto importante ossia quello del Kunstwollen: volontà, intenzione d’arte. Con esso Riegl
supera la concezione positivista dell’800 di stile incarnato dal contemporaneo Semper; egli aveva una
visione dello stile evolutivo, lo stile, proprio come le teorie sull’evoluzionismo di Darwin, poteva evolversi.
Per Riegl lo stile è strettamente collegato alla volontà dell’artista e alla visione del popolo. Si interessa
agli apparati produttivi, soprattutto per l’industria tessile.

“Il culto moderno dei monumenti” 1903


Il libro nasce come premessa ad un progetto di una legge di tutela per l’impero austro – ungarico. Esso
svolge una riflessione sul concetto di monumento e su quali sono i valori che intervengono nel discorso
sui monumenti quando ci occupiamo di trasmetterli al futuro.
Tutte le ricerche e le esperienze che Riegl aveva compiuto fino all’epoca influiscono e si ritrovano in
quest’opera. Ancor’oggi risulta essere un testo molto moderno ed illuminante.
Per spiegare l’opera di Riegl possiamo fare riferimento ad un testo, molto successiva, di Lucien Febvre,
esponente molto importante degli Annal: egli afferma che la storia si fa con i documenti scritti che
costituiscono la fonte primaria e classica, ma aggiunge che la storia si può fare anche senza documenti
scritti se non ce ne sono e farla, invece, con pezzi di patrimonio culturale, con le analisi dei geologi e
dei chimici. Il testo è degli anni ’80 e dimostra già una posizione molto importante perché è una
posizione che ci fa capire che già a partire dagli anni ’60 si avvia e si assiste ad una rivoluzione
documentaria in cui i documenti tradizionali non sono soltanto le carte d’archivio, ma essi si ampliano
e si estendono fino all’archeologia.
Riegl vive circa 80 anni prima e già intuisce molto su questo aspetto;
la storia non è mai neutra, non è mai possibile raccontare come le cose sono realmente andate (pretesa
degli storici dell’800). Non è possibile perché i documenti sono frammentari e sono intenzionali: abbiamo
una visione limitata e sulla loro base costruiamo la nostra interpretazione storiografica.

In questa trattazione, Riegl parte dal definire il concetto di monumento.


esistono tre tipi di monumenti perché alle radici della civiltà i primi monumenti che si realizzano sono
monumenti intenzionali. Essi nascono per essere monumento, un esempio è la statua di Marco Aurelio:
essa è stata realizzata proprio per celebrare il potere.
Esistono dei monumenti involontari: indipendenti dalla volontà di chi li ha realizzati, nascono, semmai,
dalla volontà di chi li riceve; tali monumenti vengono definiti da Riegl monumenti storici.
Infine, i monumenti non storici per cui nutriamo un certo pathos sono i monumenti antichi.

In questo modo abbiamo appena definito tutte le categorie di monumenti. I monumenti antichi
racchiudono le altre due categorie di monumenti. Ritornando all’esempio iniziale la statua di Marco
Aurelio è un monumento intenzionale perché nasce per celebrare il potere e l’imperatore, allo stesso 41

tempo è un monumento storico perché testimonianza di come si facevano le statue nel II secolo d.C.,
ed infine è anche un monumento antico già solo per l’apparenza non moderna ci testimonia un
passato.
Questi monumenti comportano un’articolazione in valori, due sistemi di valori:
1. I valori in quanto memoria (attengono al fatto che i monumenti arrivano dal passato);
2. I valori contemporanei (per il fatto che essi sono ancora presenti qui ed ora).

I valori in quanto memoria


Valori intenzionali in quanto memoria sono legati ai monumenti intenzionali. Essi sono: “tutte quelle opere
che con volontà dei loro creatori si propongono di ricordare un preciso momento del passato”. Questi
monumenti hanno uno dei valori più semplici della teoria di Riegl ovvero un valore intenzionale in quanto
memoria. Tale valore ha sin dalla costruzione del monumento la funzione precisa di non permettere che
il monumento diventi passato, di conservarlo sempre presente e vivo nella coscienza dei posteri. Se il
monumento, come ad esempio la statua di Marco Aurelio, aveva il compito di rappresentare la
grandezza del potere e perpetuare la presenza del’imperatore, la sua apparenza deve essere perfetta.
Non si deve far degradare, l’apparenza deve rimanere intatta, altrimenti il monumento perde il valore
intenzionale: è proprio per questo motivo che questi monumenti venivano puliti (le statue erano
scintillanti, spesso ricoperte con patina d’oro).

Valore storico
Esso attiene ai monumenti storici. Essi vengono così definiti: “Tutte quelle opere che costituiscono un
momento significativo della storia passata, il cui valore testimoniale è attribuito dalla nostra volontà
soggettiva”. Più si conosce, più si attribuisce un valore storico. Riegl riconosce che il valore storico
richiede una mediazione culturale, è quindi soggetto ad una variabilità nel tempo.

“Il valore storico rappresenta un grado preciso dello sviluppo di un campo creativo dell’umanità” (è un
documento). Da questo punto di vista, del monumento non ci interessano le tracce degli effetti naturali
del degrado che si sono manifestate nel tempo trascorso dalla sua origine, ma ci interessa il suo stato
iniziale in quanto opera umana.” Quando lavoro con un monumento e/o documento, spero che questo
sia il più possibile integro. L’integrità è ben diversa dallo splendore. Lo splendore serve a mantenere
l’intenzionalità, l’integrità, invece, serve a capire il contenuto del docu/monumento. È un chiaro
esempio l’intervento di Dezzi Bardeschi sul Palazzo della Ragione, in cui conserva l’intonaco con le
lacune, a testimonianza di come esso venisse realizzato, con valorizzazione, quindi, del valore storico.

Valore antico
Il valore antico riguarda i monumenti antichi definiti da Riegl: “ciascuna opera dalla mano dell’uomo,
senza riguardo al suo significato e alla sua destinazione, in quanto dimostra esternamente e in modo
sufficientemente percettibile nient’altro che di essere esistita e “vissuta” prima del tempo presente.” “Il
valore dell’antico si rivela a prima vista in quanto apparenza non moderna.”

Valori contemporanei
Un’opera d’arte, un quadro non ha solo un valore storico, ma anche un valore legato all’estetica che
Riegl definisce valore contemporaneo. Esso attiene al nostro Kunstwollen, alla nostra sensibilità artistica
moderna.
Valore d’uso
Questo valore viene espresso al meglio dall’architettura. Il valore d’uso è quello che più ci ancora al
presente, comporta dei problemi enormi e confligge con gli altri valori. Un buon restauro deve tener
conto dell’equilibrio tra questi valori. Per fare degli spettacoli nel teatro di Pompei, il valore d’uso si è
fatto suggestionare e condizionare dal valore storico e antico (non vado a mettere delle poltrone). Se
si guardasse solo al valore d’uso, si altererebbero i monumenti.
Ciò accade nelle operazioni di riuso. Il restauro non mette al primo posto il valore d’uso come si fa nelle
operazioni di riuso. Il valore d’uso salta fuori quando considero la sicurezza e il grado sismico (se devo
utilizzare un edificio antico, mi devo preoccupare prima di tutto di assicurare la protezione e la sicurezza
delle persone). Si accetta che il patrimonio edilizio esistente monumentale di tipo storico, possa avere 42

un grado di risposta sismica inferiore rispetto al patrimonio costruito ex novo nel centro
abitato perché quest’ultimo coinvolge le persone e la loro incolumità.

Valore artistico
Esso non è unico, si divide in due sottovalori:
- Valore di novità
- Valore artistico relativo

Valore di novità
Il valore di novità è diametralmente opposto a quello antico. Pensiamo al Museo Guggenheim, opera
di architettura contemporanea, ci piace per la sua perfetta completezza, per la purezza dei volumi con
superfici in cls lisciate. Quest’opera non accetta il valore dell’antico ovvero è impensabile
abbandonarlo e lasciarlo degradare.
“Si propone come l’esatto opposto del valore dell’antico: apprezzamento per il carattere concluso
delle forme e delle superfici.” Se per il valore dell’antico ne apprezzavo la consunzione, con il valore di
novità apprezzo la perfezione e la completezza.
Se guardassimo con il valore di novità il Palazzo della Ragione, l’intervento di Dezzi Bardeschi non
riusciremmo ad apprezzarlo, vedremmo solo una serie di incompletezze e mancanze.
In realtà il valore di novità è in contrasto anche con il valore storico, è il valore più dirompente che
porterebbe all’idea di ripristinare tutto.

Valore artistico relativo


È un valore molto recente. Le cose che provengono dal passato hanno una bellezza perché ci
vorrebbero apparire compiute, come l’Annunciazione di Antonello da Messina, però hanno un valore
più complesso che tiene conto del fatto che sono passate attraverso il tempo pur nella loro
frammentarietà. Il dipinto ci piace nella sua incompletezza perché agisce un valore artistico relativo.
Relativo rispetto al nostro presente, al nostro Kunstwollen. “Il valore artistico relativo è fondato sul
rapporto tra il nostro moderno Kunstwollen e quello che ha prodotto l’opera nel passato; è dunque un
valore soggettivo e può essere positivo o negativo.” Apprezzo ancora il dipinto che è piaciuto in ogni
epoca ad eccezione di quella barocca in cui alcune parti sono state eliminate perché il Kunstwollen di
quell’epoca le condannava.

Il valore storico ha aperto verso l’orientamento della pura conservazione.


Il valore artistico relativo ha lasciato un segno nel restauro critico conservativo, invitando anche alla
possibilità di ricomporre un elemento frammentario.

Gustavo Giovannoni
Personaggio importante sotto moltissimi aspetti: ha fondato la “Scola di Architettura” a Roma, nel 1919;
ha ereditato il lavoro avviato da Camillo Boito, di cui si considera l’erede e come, Boito ricoprirà molti
ruoli di rilievo, soprattutto nel Ministero della pubblica istruzione e nel Consiglio Superiore dell’Antichità e
delle belle arti. Giovannoni riprenderà la Carta del restauro, frutto della votazione del Congresso degli
Ingegneri e degli Architetti del 1883 e promuoverà una nuova Carta, italiana, del 1932, documento
ministeriale che definisce i principi del restauro in Italia, una vera carta e non una dichiarazione di principi
come quella di Boito.
Giovannoni ha una visione integrale, che tiene conto di tutte le scale: dall’architettura, alla città, fino al
paesaggio: è grazie a lui che abbiamo la prima legge sulla protezione delle bellezze naturali in Italia nel
1939, che è il fondamento del codice dei beni culturali e del paesaggio impiegato oggi.
Si appassiona alle trasformazioni urbane e all’ingegneria sin da bambino, avendo vissuto le
trasformazioni che Roma Capitale stava subendo; dopodiché, per senso di incompletezza, si avvicina
anche alla storia dell’arte. Sarà un ingegnere-umanista.
In uno dei suoi articoli “diradamento edilizio dei vecchi centri” utilizza la parola “diradamento” in
maniera originale, facendola diventare bandiera del suo approccio al problema dei “vecchi centri” (e 43

non centri storici, in quanto all’epoca si parlava di vecchie città) vuole proporre un’alternativa agli
sventramenti e alla demolizione della città.
Il suo rapporto con l’architettura contemporanea è un po’ controverso, perché progressivamente
arriverà a chiudersi nei suoi confronti, fino al rifiuto: vedrà il moderno come rottura con la tradizione.
Il primo movimento italiano di architettura moderna inizia nel 1928 con una mostra del MIAR (Movimento
Italiano di Architettura Razionale): egli vede in questa cosa il rischio della perdita della tradizione
architettonica italiana. Scriverà dei grattacieli degli Stati Uniti e riflette sui loro aspetti costruttivi,
criticandone decorazioni derivanti da altri stili (spesso i grattacieli riprendevano il neogotico): in questo
caso si esporrà a favore della semplicità moderna, mostrando la pura costruzione invece che finti orpelli
che non hanno nulla in comune con la struttura in acciaio presente dietro. In una prima fase è
favorevole al moderno e tale attitudine la ritroviamo nel progetto del complesso della Birreria Peroni a
Roma, con in particolare il progetto dello Chalet Birreria, realizzato nel 1902, in
cui inserisce timidamente del linguaggio liberty, che si stava diffondendo in
Italia in quel periodo.
La progettazione del complesso continua fino al 1913 con la realizzazione del
padiglione su Via Alessandria, il progetto più interessante di Giovannoni, che
non a caso è di un padiglione industriale; per le costruzioni di questo tipo,
secondo Giovannoni, si poteva essere liberi di progettare secondo lo stile
moderno/contemporaneo, a differenza dei progetti di residenze per il centro
della città, dove c’era la necessità di adeguarsi allo stile delle costruzioni esistenti: un chiaro esempio è
quello del Palazzetto Torlonia nella centrale via Tomacelli, dove Giovannoni realizza un impaginato di
architettura eclettica che recupera elementi stilistici di varia provenienza con un
gusto tipicamente tardo-ottocentesco.
È dell’opinione che la Storia dell’architettura vada studiata attraverso il rilievo
diretto degli edifici, non attraverso le fotografie come si approcciava alla storia
dell’arte.
Nel 1903 Giovannoni partecipa al Congresso Internazionale di Scienze Storiche a
Roma, e ad una sessione che si occupa di restauro. La cosa è strana perché lui si
trova in un contesto di storici dell’arte, che hanno letto Ruskin (diffuso in Italia
grazie alle traduzioni francesi) e stava passando l’idea dell’antirestauration movement. Giovannoni si
trova in una importante sessione del convegno in cui si vota per la prosecuzione dei lavori per la facciata
del Duomo che secondo uno storico dell’arte polacco, non doveva essere portata avanti in quanto
falsa. Ciò lo colpisce tanto che decide di scrivere una recensione al convegno “i restauri dei monumenti
e il recente progresso storico”, pubblicata sul bollettino della SIAI: è la prima volta che esprime posizioni
sul restauro, parere molto da ingegnere, volto ad evitare che si arrivi ad una paralisi del restauro, perché
gli storici dell’arte dicevano di non far nulla perché tutto avrebbe falsificato i monumenti.
La sua opinione al riguardo è che bisogna capire in che condizioni si trova il monumento e quali sono i
margini possibili di un intervento.
Nel 1903 quindi, quando scrive questo articolo, prova a fare una classificazione dei tipi di restauro, in
rapporto alle finalità fondamentali dell'opera di restauro e progressivamente più estensivi:

- di consolidamento: diretto alla staticità della struttura indebolita - intervento da compiere tramite
le risorse della tecnica più aggiornata
- di ricomposizione: restauro per anastilosi con eventuali integrazioni distinguibili nessun elemento che
modifichi l'edificio, né l’interesse storico-contemplativo, nessuna modificazione d'uso
- di liberazione: eliminazione delle aggiunte, interne o esterne, eliminazione di ‘masse amorfe’ che
danneggiano le preesistenze;
- di completamento: cioè di integrazione di lacune per motivi di carattere strutturale, di continuità
formale, per ragioni d'uso. Ovvero prevedendo aggiunte, seppure limitate, ed escludendo
rifacimenti e inserzioni attuali, secondo il principio del “minimo lavoro”, fare il minimo necessario;
- d'innovazione: per una nuova funzione o quando necessita di una nuova costruzione che ne
garantisca l'esistenza o quando s'innesta un organismo completamente nuovo (rendendo lecita
anche l’aggiunta di parti di nuova concezione ed il rinnovamento di quelle esistenti): le nuove parti 44

devono essere caratterizzate da un linguaggio diverso rispetto a quello antico, per potersi
distinguere.

Restauro di completamento, ricomposizione e liberazione -> Arco di Tito di Valadier, considerato un


buon restauro;

Monte Vergine nel 1912-13, dove propone una soluzione che vede interventi abbastanza pesanti sulla
facciata della chiesa, che aveva avuto anche interventi successivi alla sua fondazione, riportandola a
uno stato romanico originario sulla base di poche tracce. Si avvicina alle posizioni di Beltrami, sono
restauri lontani da quello che poi lui professerà nel restauro filologico.

Sant’Andrea a Orvieto, un restauro abbastanza complesso, poiché nella stessa chiesa convivono diverse
fasi del monumento: una fase romanica, di cui sopravvive l’impianto generale della chiesa, assieme ad
una fase gotica che Giovannoni ritrova nelle cuspidi triangolari che sormontano la facciata che sono
un tema tipico del gotico italiano. L’intervento è molto pesante, un ritorno all’impostazione romanica
della facciata, demolizione delle cuspidi, apertura di un rosone che non c’era più, liberazione dal corpo
di fabbrica addossato alla sinistra ed intervento sul campanile. Quest’ultimo aveva una caratteristica
pianta dodecagonale: decide quindi di attuarne la medievalizzazione in quanto scopre un ordine di
bifore murate che decide di aprire; con l’avanzare degli interventi scopre sempre nuove tracce che
porteranno a un intervento molto pesante attuato, di libera interpretazione (per cui almeno applicherà
il principio della distinguibilità) per cui riceverà anche molte critiche.

Giovannoni in questi anni comincia a guardare anche la questione urbana romana. A Roma c’erano
stati i piani fatti da Alessandro Viviani nel ‘73 e ’83, molto invasivi, ed era stato realizzato il primo impianto
del quartiere Prati, ormai cresciuto, dove era il Palazzo di Giustizia (dibattito di fine ‘800), il Palazzaccio,
tutto realizzato nell’arco di 20 anni.
Dal 1907 al 1913, si affida l’incarico della redazione di un Piano Regolatore, a Saint Just che propone nel
1908 un piano che prevedeva un’espansione controllata, mirata, caratterizzata da grandi spazi verdi e
in cui si prevedeva che complessi come le Terme di Caracalla, venissero considerati per la prima volta
parchi archeologici e parte integrante del tessuto connettivo fondamentale per l’espansione urbana.
Risulta, quindi, come un piano estremamente positivo, fatto con ragione, eccezion fatta per un
intervento che fa adirare l’associazione artistica dei cultori di cui Giovannoni era presidente nel 1910:
l’intervento sulla parte antica della città. In particolare, spiccava (lo scrivono i cultori, Giovannoni per
primo) una strada, enorme rettifilo ottenuto con l’ampliamento della strada romana, via Recta, che
doveva collegare la zona del potere governativo (Montecitorio e Palazzo Chigi) verso il Tevere, in un
ideale connessione verso l’area del vaticano (senza volontà di conciliazione, che arriverà molto dopo),
per esigenze di circolazione. Però lo faceva tagliando il cuore della città antica molto stratificata,
toccando anche l’emiciclo nord di piazza Navona. Nasce, quindi, un’azione di protesta che porta al
ragionamento di Saintjust per arrivare alla soluzione del problema: una soluzione conserva e migliora,
talora spostando, con accusa di vandalismo, ma
si può anche abbandonare la linea retta e serpeggiare tra gli edifici mettendolo in valore con gli
allargamenti e con ripulitura della via. La conclusione è interessantissima perché mostra che Sanjust già
ha orecchiato che c’è anche una tendenza diversa, che il tema del diradamento, dell’allargamento,
sta diventando qualcosa di cui si discute in Italia. E infatti prevarrà quest’altra soluzione, perché
Giovannoni come presidente dell’Associazione Artistica nel 1910 propone e pubblica nel 1911 una
proposta alternativa della sistemazione del Rione Ponte.
Per Sanjust il tema era la strada, il tessuto urbano era rilevato ma non studiato nella sua identità; il disegno
di Giovannoni mostra delle parti campite più scure, che sono gli edifici che lui chiama capisaldi
immutabili, che non si possono demolire, elementi di valore storico e artistico che lui preventivamente
individua come da conservare.
Si tratta di una logica diversa che oppone una visione della città che mette la storia in primo piano, non
come un problema ma come un elemento da valorizzare.
I due articoli di Giovannoni, “Vecchie città in edilizia nuova” e “Diradamento edilizio dei vecchi centri” 45

servono a calcare questa idea.


Sono due articoli mirati alla conservazione: nel primo mette a confronto l’idea della città vecchia non
adatta al movimento della vita contemporanea, e le logiche urbane della città nuova, che con auto
e industria tende a scontrarsi con la città vecchia; in questo testo Giovannoni pone l’accento sul
confronto tra due modi di vedere la città, la vecchia e la nuova, e vengono fuori due esigenze
apparentemente contrastanti, la Vita e la Storia, il presente e il futuro e la sua memoria;
nel secondo articolo è famoso e suggestivo l’inizio perché Giovannoni spiega che vi è un’analogia di
tipo botanico, perché il diradamento (soprattutto per le vigne) significa rimuovere le piante in eccesso,
meno sane e meno forti, per consentire al tralcio più resistente di svilupparsi al meglio. Potare per far
sviluppare la parte migliore di una pianta. “L’abitato dei vecchi quartieri somiglia agli alberi di un bosco
germogliati talvolta con libera disposizione naturale e talvolta piantati su prestabiliti filari o disposti su
larghi spazi, così è la città: così come gli alberi muoiono per decrepitezza o vengono tagliati dall’ascia,
e i nuovi virgulti nascono sulle ceppaie, così le case si rinnovano, si trasformano, si ricostruiscono ma il
loro andamento raramente varia dal primitivo schema edilizio, che sopravvive come trama dello
sviluppo successivo.”

Si inizia a parlare di lettura del tessuto urbano.


Per il risanamento dei centri egli si oppone di agire su un’unica linea (che di solito è quella dei grandi
sventramenti); egli piuttosto è dell’idea che “le sorti dei centri” dipendano dall’espansione urbana, lo
scopo è ridurre la densità nel centro storico, in quanto ci sono funzioni non compatibili con esso che
possono essere traslate in periferia, dov’è possibile l’espansione. (un chiaro esempio riguarda la
circolazione veicolare, non compatibile con i centri antichi). Con l’espansione (e lo spostamento di
determinate funzione lontano dal centro) nasce l’esigenza di un adeguato trasporto pubblico, idea che
lo porterà ad essere tra i primi a proporre la realizzazione di metropolitane. Secondo questo principio
progetta i quartieri Monte Sacro e Garbatella, che dovevano essere collegati tramite treni velocissimi,
linee da realizzare prima della realizzazione dei quartieri stessi (in realtà la fermata della metropolitana
arriverà molto decenni dopo).
Il principio era quello della città-giardino sviluppata da Howard: sobborghi dove la popolazione operaia
potesse vivere, collegata con veloci ferrovie, per trovarsi in una condizione molto più decorosa che
negli slums londinesi.

Molto caratteristica è la progettazione delle reti stradali, curvilinea, seguendo la morfologia del territorio
e attuando la politica anti-geometrica dell’urbanistica del tempo, fondata sull’arte urbana, che aveva
avuto ampia diffusione in Europa dopo che Camillo Sitte ne aveva scritto nel 1889.
Il clima positivo viene interrotto dall'instaurazione del governo fascista nel 1922; il governo cambia
radicalmente tra il 22 e il 25 soprattutto a seguito dell'omicidio di Matteotti nel giugno del 1924: i deputati
socialisti che per rifiuto del fascismo sono usciti dal Parlamento si rifugiano sull'Aventino;
nel 1925 Mussolini annuncia il fascismo e si assume la responsabilità dell'omicidio di Matteotti: non
esisteranno più i sindaci ed elezioni, la camera è sostituita dalla Camera dei fasci (in cui non esiste altro
orientamento politico) e corporazioni (tipo sindacati).
Già nel 1924 il regime nomina commissione per rifare il piano regolatore generale di Roma: si propone
un intervento massiccio in cui si prevede la demolizione di gran parte del tessuto urbano per far posto a
nuovi edifici monumentali; il piano non fu attuato anche grazie all'intervento di Giovannoni.
viene redatta una variante generale al PRG in cui si elimina tutto il verde o quasi previsto nel piano
regolatore di Saint Just; Giovannoni e Piacentini devono assecondare il regime;
Si giunge nel 1929 ad uno scontro tra due visioni diverse della città storica tra Giovannoni e Piacentini;

Giovannoni entra a far parte di un gruppo di architetti favorevoli ad un'architettura monumentale in cui
si trascura l'attenzione al centro storico; il gruppo concede a Giovannoni di salvare almeno il quartiere
rinascimentale a sfavore però della parte seicentesca della città. È proposto un sistema cardo-
decumanico, ossia con un cardo e un decumano, due strade che si intersecano con una grande piazza
al centro, con una parallela a via del Corso. Il tema delle parallele è molto diffuso in quel periodo, ad
esempio a Napoli viene proposta una parallela a via Toledo che tagliava i quartieri spagnoli, e resta nel 46

dibattito urbanistico fino agli anni ’70, con l’idea di drenare il traffico.
Pur di assecondare il regime, dunque, vengono portate avanti delle posizioni che negano gli stessi
principi degli architetti.

Viene progettata via dei Fori Imperiali, che taglia l’area archeologica di Roma, fino a Palazzo Venezia,
sede del governo di Mussolini, dal cui balcone viene proclamata la Seconda guerra mondiale. Il
fascismo incanala il malcontento della Prima guerra mondiale e tutto quello che ha a che fare con la
prima guerra monumenti, ossari, monumenti al milite ignoto vengono molto evidenziati.
Per Mussolini l’unica parte da conservare era la romanità, per ricordare al mondo la gloria dell’Italia. In
una certa misura l’esaltazione della romanità porta a degli studi giunti fino a noi, gli studi latini vengono
molto potenziati. Nel discorso del ’25 Mussolini non parla solo di politica ma anche di queste cose, si
rivolge alla Sovrintendenza dicendo che deve liberare i monumenti romani da quello che intorno li
ingombra e li soffoca, devono giganteggiare in una necessaria solitudine. Si torna alle logiche
ottocentesche di come il monumento veniva isolato ai tempi di Haussmann.
Piacentini, dunque, accusa Giovannoni, in quanto proprio lui era stato il teorico del diradamento, colui
che aveva insegnato a rispettare la città storica, aveva firmato questo intervento.
Piacentini si unisce e a un gruppo di urbanisti più giovani, tra cui Luigi Piccinato, di visione più moderna,
il gruppo GUR gruppo urbanisti romani, ragazzi quasi tutti appena laureati, che in maniera molto più
moderna propone uno sviluppo di Roma verso est, lasciando quasi intatto il centro storico, verso
l’esquilino.

Dunque, c’è un’idea di decentramento molto più moderna nel piano di Piccinato e Piacentini rispetto
a quello di Giovannoni.
Mussolini Incarica una nuova commissione con l'obbligo della realizzazione in sei mesi del piano di Roma
(mettendo insieme Giovannoni e Piacentini).

Verrà realizzata anche l'espansione verso est proposta dal gruppo di Piacentini, ma
contemporaneamente avverranno molte liberazioni archeologiche nel cuore della città:
si demolisce il quartiere Alessandrino per realizzare la via dei Fori Imperiali, il quartiere rinascimentale sarà
l'unico ad essere conservato secondo gli originari principi di Giovannoni (verrà solo allargata una strada
dietro piazza Navona), per il quartiere verrà infatti redatto un piano particolareggiato;
In questi anni Giovannoni pubblica Vecchie Città Ed Edilizia Nuova Considerato il primissimo manuale
di urbanistica italiano, in quanto originariamente pensato come una collana di urbanistica; fino ad
allora, infatti, la disciplina non esisteva e dal 28 si inizierà ad insegnare nelle università (Piccinato lo farà
a Napoli);

In punto di morte Giovannoni scriverà il libro “il quartiere romano del Rinascimento” in cui difende lo
sventramento per collegare idealmente Castel Sant'Angelo a San Pietro, voluto da Mussolini (ma
realizzato negli anni 50), molto criticato poiché finisce per ridurre la grandiosità e la sorpresa dovute alla
basilica di San Pietro e al Porticato di Bernini.
Gli ultimi anni di Giovannoni sono dedicati alla tutela del paesaggio: egli, infatti, scrive la più importante
legge per la protezione delle bellezze naturali, introducendo nel 1938 i piani paesistici (oggi piani
paesaggistici) che disciplinano lo sviluppo edilizio a tutela delle aree di pregio. A Capri, prima
applicazione, si va a preservare tutto il costone della collina di Tiberio, su cui è anche consentita
l’edificazione seppur con indice di fabbricabilità basso.

Gino Chierici
Gino Chierici nasce a Pisa nel 1887. Nel 1910 diviene funzionario presso la Sovrintendenza di Pisa, dove
entra a far parte della commissione per la torre pendente.
1919-1924 Sovrintendente a Siena, dove restaura la chiesa di S. Galgano: La chiesa di S. Galgano è
immersa nella campagna senese e ancora oggi rappresenta
uno dei restauri più interessanti del centro Italia. Il dibattito
47
portava alla forte volontà di ricostruzione della chiesa, che
Chierici contrasta, decidendo di non ricostruire il tetto, lasciando
così la chiesa allo stato di rudere, incompleta. L' intervento di
Chierici è però comunque massiccio. È principalmente un
intervento che mira a consolidare la parte strutturale, la
muratura, gli orizzontamenti e i contrafforti.
Il tempo ha dato ragione a Chierici in quanto la chiesa è ancora oggi sede di moltissime manifestazioni
all' aperto e si inserisce incredibilmente all' interno del paesaggio circostante.

1924-1935 Sovrintendente all' arte Medievale e Moderna a Napoli. Realizza il restauro della chiesa
dell’Incoronata a via Medina, della chiesa di Donna Regina Vecchia e di San Lorenzo Maggiore.
Durante questo periodo insegna Restauro presso l’Università di Napoli.

Chiesa dell’Incoronata a via Medina


La sua metodologia si basa sulla ricerca storica del manufatto, sullo studio delle tracce materiali e su
una solida preparazione storico-critica che lo aiuti nella distinzione delle varie epoche.
La chiesa fu costruita nel XIV secolo e si trova sottoposta rispetto alla quota stradale (la quota della
città era più bassa nel Medioevo). Nel 1700 venne costruito al di sopra della chiesa un palazzo che
oggi è stato demolito.
NB. Il palazzo venne conservato da Chierici e demolito poi negli anni 60.
Il portico era stato chiuso per motivi statici, inglobato nelle murature del palazzo: Chierici decide di
liberarlo e fare un muro di sostegno a una distanza di 5 m, così da lasciare libera la visuale della chiesa
dalla strada. Per far sì che le colonne del portico riescano a sostenere il palazzo settecentesco realizza
un’operazione molto ardita per l'epoca: buca le colonne e vi inserisce all'interno dei cilindri d'acciaio di
diametro 17 cm con alla base zatteroni in calcestruzzo armato.
Ancora oggi è conservato all'interno della Chiesa il macchinario, progettato dallo stesso Chierici,
utilizzato per questa operazione. L'interno della chiesa, originariamente medievale, fu modificato in età
barocca. Chierici rimuove la parte barocca e restituisce la facies medievale.

Abside di San Lorenzo


Liberato e in parte ricostruito da Chierici, con un lavoro che permette la lettura delle Cappelle radiali
che accompagnano tutto all'esterno l'abside.

Chiesa di Santa Maria Donna Regina Vecchia


L’impianto della chiesa risente della regola francescana ed è concepito come un’aula unica coperta
a capriate, sulla quale si innesta un’efficace soluzione absidale di derivazione francese, costituita da
una volta a crociera costolonata su pianta pentagonale preceduta da un modulo rettangolare,
scandita da alte bifore che rendono particolarmente luminoso l’insieme. A questo schema, l’ignoto
architetto angioino aggiunse una singolare e «geniale» soluzione per il coro, che non trovando posto
alle spalle dell’abside o nella navata, fu realizzato al di sopra di una struttura basilicale minore, ripartita
in tre navate da due file di pilastri ottagoni su cui insistono volte a crociera a spigolo vivo.
A partire dagli inizi del Cinquecento iniziano significative trasformazioni del complesso, a partire dalla
realizzazione di un soffitto a cassettoni riccamente intagliato, che maschera le capriate lignee
originariamente a vista, occultando in parte anche il ciclo di affreschi. Ma la trasformazione più
significativa si produce intorno al 1620, allorché le monache decidono di costruire una nuova chiesa più
consona al gusto dell’epoca, affidando il progetto al laico teatino Giovanni Guarini.
L’impossibilità di estendere la costruzione verso l’attuale largo Donnaregina, conduce gli artefici ad
invadere con la nuova fabbrica parte dell’abside della chiesa trecentesca, distruggendola
parzialmente. Perso il ruolo di luogo di culto aperto ai fedeli, la chiesa trecentesca viene suddivisa in
due livelli, prolungando il soppalco del coro fino all’abside. Un’ulteriore trasformazione di notevole
pregio architettonico è compiuta intorno alla prima metà del Settecento, quando all’originaria facciata
della chiesa viene anteposto un chiostrino rettangolare a paraste ed archi rivestiti in marmi policromi,
che costituisce l’attuale ingresso alla chiesa.
L’intervento di restauro, date le condizioni della chiesa, verrà intrapreso soltanto nel 1928 dal 48

soprintendente Gino Chierici, per concludersi nel 1934. Oltre a mettere in luce le strutture trecentesche,
con la necessità di effettuare numerose integrazioni, l’intervento – che si segnala tra i restauri più
interessanti svolti all’epoca in Italia – affronta il difficilissimo tema della liberazione dell’abside
trecentesca dalle strutture realizzate in età barocca, giungendo a spostare un’intera parete del coro
della chiesa nuova, affrescata dal Solimena, con l’ausilio di una complessa “macchina” progettata
dallo stesso Chierici. Le lacune pittoriche vengono trattate a tinta neutra. Cesare Brandi
successivamente dirà che nella percezione visiva, la lacuna trattata a tinta neutra è preminente rispetto
al resto del dipinto. Brandi, infatti, proporrà il rigatino: continuare il racconto del quadro con un tratto
distaccato, così che da lontano si possa percepire l'unità potenziale e da vicino vedere chiaramente
che è un'integrazione.

Tomba di Virgilio
Realizza l'attuale sistemazione che vediamo oggi prima di imboccare la Galleria Laziale.

Tutela del paesaggio


Nel 1925 intuisce in anticipo la speculazione edilizia che investirà la città di Napoli negli anni 50-60.
Realizza un piano per le bellezze paesaggistiche di Napoli, ed applica un vincolo paesaggistico su
alcune aree che hanno notevoli caratteristiche di panoramicità.
1935 Sovrintendente a Milano. Realizza il restauro della chiesa di S. Lorenzo e della chiesa di Santa Maria
presso San Satiro (dove Bramante inserisce lo scorcio prospettico). Durante questo periodo insegna
Storia dell'Architettura presso il Politecnico di Milano.
Negli anni prima della II Guerra Mondiale predispone un programma di difesa dei monumenti contro gli
attacchi aerei per tutta Italia: tale difesa consiste nell' utilizzo di blindamenti, strutture in legno dentro le
quali vengono predisposti dei sacchetti di sabbia che consentono di attutire le vibrazioni dei
bombardamenti.
Grazie al blindamento si salva l'Arco di Alfonso d'Aragona del Castel Nuovo ed anche molti manufatti
del centro storico di Napoli.

Aspetti fondamentali di Gino Chierici:


▪ Volontà di porsi in una posizione intermedia tra i conservatori a oltranza (scuola inglese-John Ruskin)
e coloro che invece realizzavano ricostruzioni stilistiche (scuola francese-Viollet Le Duc);
▪ desiderio di attuare una rivalutazione storica del manufatto su cui interviene (un pò un antesignano
del concetto di "favorire la lettura delle diverse fasi storiche");
▪ Importanza della conoscenza del manufatto mediante ricerca storica e documentaria, ma anche
attraverso una lunga frequentazione. Chierici dice che può iniziare a ideare il suo progetto di
restauro dopo almeno 15 giorni di "comunanza con il grande muto (il monumento)". Infatti, quest'
ultimo porta in sé le tracce del passato e man mano che queste si rivelano al restauratore egli potrà
decidere come intervenire;
▪ Il restauro per Chierici è caratterizzato da una progettazione di tipo aperto, dove c' è uno stretto
rapporto tra cantiere e progetto: in base a ciò che si scopre, si decide come agire.

Roberto Pane
Nato a Taranto, studia a Napoli il biennio di ingegneria e si laurea a Roma sotto Giovannoni.
Personaggio molto poliedrico, sarà un grande appassionato di fotografia e arte.
Molto influenti nella sua vita sono stati lo stesso Giovannoni e il filosofo Benedetto Croce.
Tornato a Napoli, Pane collabora con Giovannoni nel 1926 alla reazione del Piano Regolatore della
città. Prevede il risanamento del rione Carità realizzato durante il regime fascista.
Negli stessi anni Roberto Pane realizza alcune opere a Napoli: partecipa e vince al concorso per la
realizzazione del frontone della galleria Vittoria, realizza il centro congressi e scuola di scienze
economiche e commerciali della Federico II sul lungomare.
Durante la Seconda guerra mondiale Napoli subirà devastanti bombardamenti che riguarderanno
anche il centro storico, molto vicino in linea d’aria agli obiettivi strategici da colpire (il porto, ad 49

esempio): nasce quindi, a partire dal 1943, una Sub-commission on Fine Arts and Archives, una sotto-
commissione alleata che si occupa di monumenti, archivi, beni culturali.
Ad occuparsene i cosiddetti monuments-men, elementi dell’esercito americano che nascevano come
architetti e poi, chiamati alle armi, avevano occupato i ranghi più alti dell’esercito: erano ben
consapevoli di dover agire per proteggere i beni culturali che venivano distrutti; Paul Gardner, capo
della sotto-commissione a Napoli, architetto direttore del museo di Kansas City in America, salva Santa
Chiara. Sono Gli americani che stanziano i fondi per i restauri: cho spinge a tipologia di restauro anche
un po’ più ricostruttive rispetto a quelle che avremmo fatto noi, in quanto c'è una forte volontà di
rimarginare la ferita creata dagli americani stessi, che per ragioni estetiche, idealizzano l'arte italiana.
La chiesa di Santa Chiara era stata pesantemente danneggiata da uno spezzone incendiario che la fa
bruciare per tre giorni: l'unica testimonianza gotica rimasta della Chiesa erano le tre tombe dei re
angioini, tra cui quella di Roberto d'Angiò, fondatore insieme alla moglie Sancha de Mallorca, della
chiesa monastica e del monastero con più chiostri.
Si trattava di una chiesa aperta al culto, molto amata dai napoletani.
Dopo aver scritto tanto di storia e fatto opere d’architettura, per la prima volta Pane prende la parola
sul restauro. Lo fa su una rivista fondata da Benedetto Croce nel ’44, chiamata Aretusa, che è una ninfa.
Segna l’idea della rinascita il fatto che nel ’44 nascano riviste storico-letterarie, anche per il nome della
rivista stessa. C’è l’idea della catarsi dai 20 anni di fascismo, della rinascita.
Il titolo dell’articolo è “Il restauro dei monumenti”, e gran parte del corpo è dedicato al caso di Santa
Chiara, a come affrontare la discussione.
È il primo testo in cui c’è il concetto di restauro critico, fa da giro di boa rispetto all’approccio di
Giovannoni.
Dati gli ingenti danni, si arriverà al restauro dell’austerità trecentesca, nonostante sia stato comunque
necessario ricostruire moltissime cose.
“I vincoli del restauro imporranno i loro giusti e rigorosi limiti al gusto e alla fantasia, ma saranno sempre
e soltanto questi ultimi a fornire una soddisfacente soluzione del problema”.
In sostanza sta dicendo che nonostante ci si attenga a tutti i principi del restauro codificati fino ad ora,
in questi restauri del dopoguerra c’è la necessità di gettare un ponte, di inserire un elemento creativo,
perché manca talmente tanto che è necessario l’elemento di gusto.
“Ogni monumento dovrà dunque essere visto come un caso unico, perché tale è in quanto opera
d’arte e tale dovrà essere anche il suo restauro.”
Frase molto nota e identificatrice del restauro critico, completamente diverso da quello del suo maestro
Giovannoni, che aveva teorizzato delle categorie di restauro. Si vede la voglia di superare la visione
positivista.
Gli interventi sono molto estesi. La copertura, originariamente in legno, si deve realizzare
completamente ex novo. Travi di luci di 18 metri sono irreperibili, non si poteva realizzare ancora in legno
al tempo, si opera dunque in cls armato, anche per via della fiducia che c’era a quel tempo su questo,
considerato eterno e che anche la Carta di Atene, nel ’31, aveva considerato come possibilità da
applicare in tutti i casi di restauro. Le capriate saranno poi dipinte a finto legno.
Vi erano poi le finestre ancora barocche, con la bifora gotica che viene completamente ricostruita
secondo poche tracce.
Cesare Brandi proponeva di lasciare l’involucro scoperto, di lasciarla a rudere, in testimonianza della
guerra, ma l’intervento ha restituito una chiesa ai napoletani, secondo l’istanza psicologica. Pane
partecipa anche al dibattito nazionale, il paese è pieno di casi come Santa Chiara, come il
Tempio Malatestiano, anche quello quasi completamente ricostruito, poiché la facciata era ruotata
quasi di 10cm per una deflagrazione fortissima e lo spostamento d’aria, smontata e ricostruita.
Un intervento di restauro in cui Pane è stato progettista diretto, è stato quello di ricostruzione del duomo
di Teano, a Caserta. Oggi vediamo il frutto della ricostruzione interpretativa di Roberto Pane, in stile
medievale novecentesco.

Napoli non ha gradi monumenti che le danno identità, come per Roma o Firenze, ma ha un’identità 50

legata al suo ambiente, al tessuto edilizio.


Nasce nel dopoguerra una polemica tra architetti e storici dell’arte (come per il Masieri Memorial di
Venezia): si tratta di una spaccatura che segna il dibattito di quegli anni, di forte speculazione edilizia,
molto aggressiva, sulle città. Nel 1956 Pane scrive “Città antiche, edilizia nuova” che riprende il titolo di
Giovannoni ma mette l’accento sull’antico, sul valore della città storica. Conduce una battaglia
durissima contro il sindaco di Napoli, Lauro, che sta costruendo intensissimamente, anche falsificando il
piano regolatore.
Pane, quindi, prova a dare una proposta concreta per arginare la speculazione edilizia, attraverso 3
punti fondamentali:
- Definizione dei confini del centro storico-artistico; (all’epoca non si capiva quale fosse, è la prima
volta che si utilizza il termine)
- Stabilire, senza ammettere eccezioni, che dentro i confini suddetti non sia consentito, né a
pubblici enti né a privati, di costruire edifici la cui altezza superi quella media degli edifici
circostanti;
- Espropriazione a titolo di pubblica utilità delle private zone verdi comprese nel centro suddetto
onde impedire che esse vegano sfruttate come suoli edificatori. Evitare quindi che continuino a
sorgere abitazioni all’interno delle insulae antiche, dove la presenza di orti e giardini ha
storicamente compensato l’angustia delle strade.

Tra le tante cose fatte da Roberto Pane una è importante a livello internazionale: la stesura della Carta
di Venezia. La Carta di Venezia è il documento internazionale sul restauro più famoso al mondo, risale
al ‘64, è un documento che ancora richiama molto interesse a livello internazionale. Roberto Pane,
insieme a Piero Gazzola, sovrintendente di Verona, in occasione di un grande
congresso a Venezia nel maggio 1964 e che vede la partecipazione di tantissimi architetti ed esperti
della conservazione da tutto il mondo, promuove la stesura di una carta interna del restauro nota come
Carta di Venezia. È importante perché abroga la carta di Atene del ’31.
Era la carta che Giovannoni e Chierici avevano contribuito a sottoscrivere ad Atene nel ’31, e che
era la sintesi delle idee del restauro di quegli anni, cioè prebelliche. La carta di Venezia invece
spiega e sintetizza i principi e l’approccio del restauro postbellico, cioè quello che era accaduto con la
ricostruzione. È importante leggere articoli della carta, che sono 16, perché sono ancora attuali. È un
documento importante, in particolare l’articolo 1, che è un cambiamento di punto di vista radicale che
si deve molto sia Roberto Pane che a Piero Gazzola, che presentarono all’assemblea delle proposte per
la carta, è l’articolo che sancisce l’estensione del concetto di monumento dal singolo oggetto verso
l’ambiente.

- Art. 1 La nozione di monumento storico comprende tanto la creazione architettonica isolata


quanto l'ambiente urbano o paesistico che costituisca la testimonianza di una civiltà particolare,
di un'evoluzione significativa o di un avvenimento storico. (questa nozione si applica non solo
alle grandi opere ma anche alle opere modeste che, con il tempo, abbiano acquistato un
significato culturale.
- Art. 5 La conservazione dei monumenti è sempre favorita dalla loro utilizzazione in funzioni utili
alla società: una tale destinazione è augurabile, ma non deve alterare la distribuzione e l'aspetto
dell'edificio. Gli adattamenti pretesi dalla evoluzione degli usi e dei consumi devono dunque
essere contenuti entro questi limiti.
- Art. 6 La conservazione di un monumento implica quella della sua condizione ambientale.
Quando sussista un ambiente tradizionale, questo sarà conservato; verrà inoltre messa al bando
qualsiasi nuova costruzione, distruzione ed utilizzazione che possa alterare i rapporti di volumi e
colori.
- Art. 9 Il restauro è un processo che deve mantenere un carattere eccezionale. Il suo scopo è di
conservare e di rivelare i valori formali e storici del monumento e si fonda sul rispetto della
sostanza antica e delle documentazioni autentiche. Il restauro deve fermarsi dove ha inizio
l'ipotesi: sul piano della ricostruzione congetturale qualsiasi lavoro di completamento, 51

riconosciuto indispensabile per ragioni estetiche e tecniche, deve distinguersi dalla


progettazione architettonica e dovrà recare il segno della nostra epoca. Il restauro sarà sempre
preceduto e accompagnato da uno studio storico e archeologico del monumento.

Si parla di autenticità, contro le falsificazioni che ancora nel dopoguerra si attuavano per
l’emergenza dei restauri. Per questo motivo nasce l’esigenza di scrivere una carta per il restauro del
futuro: affinché si rispetti l’autenticità delle opere.

- Art. 10 Quando le tecniche tradizionali si rivelano inadeguate, il consolidamento di un


monumento può essere assicurato mediante l'ausilio di tutti i più moderni mezzi di struttura e di
conservazione, la cui efficienza sia stata dimostrata da dati scientifici e sia garantita
dall'esperienza. Anche il calcestruzzo, l’acciaio, ma con fatti scientifici e sperimentazioni previe.
I monumenti cioè non possono essere usati come cavie di tecnologie avanzate; quindi, si fa una
messa in guardia sul calcestruzzo, che si stava usando in modo abbondante, che deve essere
garantito dall’esperienza.

Roberto Pane allora decide di coordinare un gruppo, anche di studenti e colleghi di altre discipline, per
studiare un piano di conservazione per il centro antico: esso era infatti minacciato da istanze speculative
fortissime.
Nel ’58 Lauro aveva provato a far approvare un piano in cui gran parte del centro antico era distrutto
da edifici moderni. Ecco il perché di questo piano pubblicato nel ’71, ma che purtroppo rimane sulla
carta, che era un piano ispirato ai criteri di restauro urbanistico, che in parte venivano da lontano. Si
capisce che era allievo di Giovannoni, e si capisce dal fatto che la parola diradamento è ancora
presente, la teoria del diradamento è modificata da Roberto Pane in senso più conservativo, bandendo
completamente l’idea del diradamento orizzontale, cioè l’allargamento di strade, come via dei
Coronari, ma sottolineando il solo diradamento verticale cioè la possibilità di abbassare di piani alcuni
edifici, perché la caratteristica di Napoli era che proprio per le prammatiche vicereali, che avevano
limitato l’espansione urbana durante il viceregno spagnolo, la città era cresciuta in verticale.
Era una città il cui sedime degli edifici era rimasto quello greco-romano. Un’insula dell’impianto greco-
romano è strettissima, tra due cardi, larga circa trenta metri, in cui gli edifici alti due piani all’epoca
romana, ma oggi alti sette-otto. L’idea del piano era di diradare alcuni di questi edifici per ottenere una
riduzione della densità del centro storico. Era la stessa idea di Giovannoni, cioè che l’unico modo di
risanare il centro storico è ridurre le funzioni del centro storico, c’erano ancora alcune funzioni
totalmente incompatibili e ci sono ancora oggi. Roberto Pane si è battuto tanto per dislocare le cliniche,
gli ospedali, che stanno nel cuore della città, posizione incompatibile con la loro funzione.
Negli anni ‘70 ha firmato, assieme a Luigi Piccinato, il piano urbanistico territoriale per la penisola
sorrentina amalfitana, ancora oggi vigente e che ha salvaguardato in buona parte il paesaggio della
costiera. Tutela i terrazzamenti che caratterizzano la costiera, coltivazioni a terrazze di limoneti, vengono
conservati come elementi qualificanti del paesaggio.

Cesare Brandi
Cesare Brandi rappresenta uno dei personaggi più importanti del ‘900; è stato uno dei pochi, insieme a
Riegl, che ha scritto un testo teorico, intitolato “Teoria del restauro”.
L’opera è stata pubblicata nel 1963 e risulta ancor’oggi molto attuale. Con Riegl, Brandi presenta
un’altra analogia: entrambi provengono da una formazione giuridica. Questo aspetto singolare è molto
interessante perché spiega, infatti, che chi è abituato alla logica giuridica, probabilmente è più versato
nell’idea di costruire una teoria.
Brandi nasce nel 1906 a Siena, in piena epoca fascista, tra il 1936 e il 1938 viene inviato presso la
Soprintendenza per l’istruzione nelle isole italiane nel Mare Egeo, nel Dodecaneso (all’epoca colonia
italiana).
Lavorava molto vicino al ministro dell’epoca ovvero Giuseppe Bottai. Quest’ultimo (definito fascista di 52

sinistra per la sua inclinazione sociale) è stato l’autore delle due leggi di tutela del 1939 poi aggiornate
nel Codice dei Beni Culturali. Il ritorno di Brandi si sviluppa con la nascita dell’Istituto Centrale del
Restauro, fondato da Bottai, su iniziativa di Argan, nel 1941. Tale istituto si pone l’obiettivo di centralizzare
tutte le pratiche di restauro pittorico e scultoreo a Roma, in una visione tipicamente fascista. La direzione
è affidata proprio a Brandi dal 1941 al 1960 (L’istituto esiste ancora ma con nome differente: ISCR ovvero
Istituto Superiore Conservazione e Restauro).
Dalle lezioni che Brandi faceva ai suoi allievi all’Istituto nasce la sua opera. Questa nasce proprio come
una raccolta delle sue lezioni fatta da un suo assistente.
Negli anni ’50 Brandi pubblica un libro che ha fatto epoca, dedicato al tema dell’architettura: “Arcadio
o della scultura, Eliante o dell’architettura”, una sorta di teoria estetica sull’architettura fondata su dei
dialoghi (come Platone).
L’opera è divisa in due tomi: uno dedicato alla scultura, l’altro all’architettura. All’interno del secondo
tomo, Brandi discuteva della legittimità dell’architettura moderna di inserirsi nei centri storici. L’opera
nasce nel contesto della ricostruzione post-bellica per questo il dibattito è aperto.

“Teoria del restauro”, 1963


Quest’opera nasce grazie al suo assistente, Giuseppe De Luca, che decide di raccogliere le sue lezioni
quando Brandi lascia l’Istituto per trasferirsi Palermo per insegnare all’università. Il libro è articolato in
pochi capitoli, otto, più una serie di appendici, sette. Alcuni capitoli corrispondono a dei testi che in
parte Brandi aveva pubblicato negli anni ’50.
Seguendo l’indice, si parte dalla definizione di restauro e si prosegue seguendo tutte le problematiche
che discendono dalla definizione stessa ovvero la materia, l’unità potenziale, il tempo dell’opera d’arte.
L’opera si conclude con i due capitoli finali che attengono a due poli
opposti del restauro: l’istanza storica e l’istanza estetica. Infine, nel capitolo 8, tratta del restauro
preventivo, oggi molto attuale, che riguarda la manutenzione.

Capitolo 1: Definizione di restauro


“Comunemente si intende con restauro qualsiasi intervento volto a rimettere in efficienza un prodotto
dell’attività umana”. Brandi dice che per chiunque il restauro significa rimettere in funzione qualcosa.
Ma è molto riduttivo definirlo così, non basta a spiegare che cos’è il restauro di un’opera d’arte che non
ha una funzionalità se non quella di essere fruita. Il restauro di un bene culturale (oggi patrimonio
culturale” nasce da un’operazione mentale, non è semplicemente un’operazione tecnica.
“Il restauro costituisce un momento metodologico del riconoscimento dell’opera d’arte, nella sua
consistenza fisica e nella sua duplice polarità estetica e storica, in vista della sua trasmissione al
futuro.” Individua due polarità da cui derivano poi le due istanze che configgono nel restauro. Ogni
opera d’arte è contemporaneamente un fatto estetico (estetico deriva dal greco e indica la dottrina
della sensibilità, oggi è un concetto molto legato al bello) e un fatto storico in quanto ogni opera d’arte
è un documento di storia.

Capitolo 1: Scopo del restauro


Sempre nel primo capitolo, si occupa di definire lo scopo del restauro: “Il restauro deve mirare al
ristabilimento della unità potenziale dell’opera d’arte, purché ciò sia possibile senza commettere un
falso artistico o un falso storico, e senza cancellare ogni traccia del passaggio dell’opera d’arte nel
tempo”. Ritornando al Partenone, prima del restauro c’erano dei pezzi, forse sparsi a terra. Il risultato
odierno è frutto di un’anastilosi ovvero la ricomposizione di parti smembrate;
secondo Brandi quando si ricompone un’opera dobbiamo sempre mirare all’unità dell’opera intesa
come un intero e non come un totale.
Un totale è una somma di parti;
Un intero è qualcosa di inscindibile, non posso immaginarlo come somma di parti.
Dunque, quando si restaura devo mirare all’intero perché quello che mi interessa è la sua integrità.
Ritornando ancora una volta all’esempio del muro del Partenone: il muro è stato ricomposto nella sua
unità, ma riconosco ancora i dissesti e la parte nuova. Non è un falso storico.
Se avessi lasciato i conci a terra, l’unità non sarebbe stata ricomposta. 53

La sua posizione è stata criticata perché in essa c’è la prevalenza dell’immagine, della compiutezza di
una cosa. La posizione di Brandi è ad esempio opposta alla Pura Consevazione, un orientamento nel
quale si tende a lasciare tutto così com’è.

Capitolo 2: La materia dell’opera d’arte


“Si restaura solo la materia dell’opera d’arte”
Tale principio serve a combattere l’idea che si possa restaurare l’idea di un’opera d’arte: restauro la
parte “fisica” dell’opera, non l’intenzione dell’artista (come Viollet)
Tuttavia, la materia è divisibile in due parti:

- Aspetto: quella a cui è associata l’immagine dell’opera d’arte (TELA di un quadro)


- Struttura: ad essa si associa una semplice funzione portante, un supporto (CORNICE di un quadro)

Queste due parti sono scindibili nel momento in cui ho la necessità di intervenire per salvarlo dalla
distruzione: in questo caso posso separare l’aspetto dalla struttura e conservarne l’aspetto che è la
cosa più importante che Brandi definisce l’epifania dell’immagine ovvero il luogo in cui l’immagine si
manifesta. Un esempio è quello dello strappo degli affreschi che è avvenuto anche a Pompei: l’affresco
è “strappato” e portato al museo, rimane il muro d’appoggio a Pompei, in situ, è un’operazione che si
fa in extremis ma che salva la pellicola pittorica.
CHIERICI -> chiesa Via Medina, acciaio nelle colonne -> distinzione tra struttura e aspetto.

Capitolo 3: l’unità potenziale dell’opera d’arte


“L’opera d’arte, non constando di parti, se fisicamente frantumata, dovrà continuare a sussistere
potenzialmente come un tutto in ciascuno dei suoi frammenti [...]. Ne discenderanno alcuni principi: il
primo è che l’integrazione dovrà essere sempre e facilmente riconoscibile; il secondo si riferisce alla
materia; il terzo al futuro: e cioè prescrive che ogni intervento di restauro non renda impossibili anzi faciliti
gli interventi futuri”.

3 principi:
- L’integrazione deve essere sempre e facilmente riconoscibile;
- Materia;
- Reversibilità: se è un’unità potenziale, devo poterla anche smontare perché un giorno potrei
ritrovare un altro pezzo dell’opera. Consentire interventi futuri è uno dei principi del restauro. La
reversibilità totale non esiste, è più giusto parlare di ri-lavorabilità.
La composizione dell’unità potenziale dipende dallo stato di rinvenimento dell’opera, dall’entità della
lacuna. Personaggi successivi a Brandi, come Umberto Baldini fanno una differenza tra lacuna perdita
e lacuna mancanza:

- la lacuna perdita è una mancanza così vasta che si perdono (Esempio Nike di Samotracia);
- la lacuna mancanza, invece, è una piccola mancanza (Esempio zampe del cavallo di Domiziano
Nerva). La mancanza nelle opere d’arte non ci spaventa, anzi, ci affascina perché crea una
nuova unità.
Il tempo dell’opera d’arte
L’opera d’arte ha diversi tempi ed individuarli è fondamentale per collocarsi in maniera esatta
durante il restauro. Brandi individua 3 tempi:

- Durata: corrisponde con il tempo della creazione. In architettura è molto difficile determinarlo: può
andare da anni a secoli. Pensiamo, ad esempio, alle facciate del Duomo di Milano e del Duomo di
Firenze.
- Intervallo: è il tempo che l’opera attraversa dal momento in cui è stata finita al momento in cui la
riceviamo. (Esempio: Nike di Samotracia. Esiste un tempo in cui essa è stata finita, poi ha attraversato 54

i mari, i tempi e le distruzioni fino ad arrivare a noi. Ha attraversato cicli di apprezzamento e


disprezzamento fino a quando è stata rinvenuta.)
- Attimo: riconoscimento. È il momento in cui è nato il restauro, è il nostro presente.

Secondo Brandi noi ci collochiamo nel terzo tempo, l’unico in cui è possibile fare un restauro.
Se ci collocassimo nel primo tempo (Durata), significherebbe metterci nei panni del progettista e
immaginarne la volontà, si tratterebbe di un restauro di fantasia, alla Viollet.
Se ci collocassimo nel secondo tempo, sceglieremmo una sola fase storica del monumento (esempio:
Castello Sforzesco, Luca Beltrami, dove si attua un restauro storico, per Brandi “di ripristino”) negando
l’intervallo si cancellano tutte le fasi attraversate dall’opera: anche in questo secondo caso, il restauro
è illegittimo; solo nel terzo tempo si può attuare un restauro legittimo.

Istanza storica ed istanza estetica


Per l’istanza storica, Brandi propone l’esempio del rudere, oggetto per eccellenza che ha solo l’istanza
storica, quella estetica l’ha persa completamente; esso si trova in uno stato così avanzato di rudere che
non consente di essere ricomposto in unità potenziale.
L’istanza storica vorrebbe conservare tutto, tutte le fasi del passaggio nel tempo dell’opera, anche
quelle “brutte”.
L’istanza estetica, per Brandi, è la principale, è più importante di quella storica: poiché siamo davanti
ad un’opera d’arte, essa dovrebbe essere la principale e come tale dovrebbe mirare a ristabilire l’unità
potenziale.

Il contemperamento, la dialettica tra queste due istanze è il sale del restauro.

Per l’istanza estetica, le aggiunte reclamano la rimozione: se deturpano, snaturano, offuscano e


sottraggono la vista dell’opera. È l’operazione che ha fatto Chierici: ha eliminato le tamponature che
erano state erette per sorreggere l’edificio sopraelevato.
Brandi è stato messo alla prova nelle sue teorie soprattutto dall’orientamento della Pura Conservazione
ed in particolare dall’intervento di Marco Dezzi Bardeschi al Palazzo della Ragione.
In questo caso M. D. Bardeschi riuscì a convincere il sindaco a non rimuovere il broletto perché è un
pezzo di storia ma anche estetico: è stato costruito nell’epoca illuminista come archivio dove dovevano
essere conservate le pratiche. Mise, dunque, in crisi l’idea brandiana di rimuovere il sopralzo: da qui
deriva la critica dei milanesi a Brandi: se si guarda solo all’istanza estetica, si rischia di cancellare delle
tracce importanti della storia. Per lui l’istanza estetica prevale perché è uno storico dell’arte

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