Documenti di Didattica
Documenti di Professioni
Documenti di Cultura
Proprio per il fatto che abbiamo a che fare con un patrimonio che ha un carattere molto forte,
un’identità molto forte dobbiamo cercare di fare il minimo indispensabile per allungare la vita del
manufatto architettonico, il minimo per consolidarlo, per dargli sicurezza, ecc. Senza però modificare il
manufatto
Digressione:
riuso = obiettivo la rifunzionalizzazione dell'edificio
restauro = obiettivo conservazione edificio
Però per conservare l'edificio lo devo utilizzare, in quanto non utilizzandolo non lo tengo vivo.
La differenza quindi tra i due è che per il riuso l'utilizzazione è l'obiettivo principale per il restauro è
secondario l'obiettivo è la conservazione poi per conservarlo devo utilizzarlo.
CRITERIO DI COMPATIBILITÀ:
Per compatibilità s’intende quella del materiale che impiego nell’intervento di restauro, rispetto alla
materia di cui è composto l’edificio da restaurare.
Per accostare due materiali differenti tra loro bisogna studiarne le caratteristiche fisico-chimiche, il
comportamento meccanico, il modulo elastico, ecc: il principio è quello della scelta di materiali quanto
più possibile compatibili per evitare il “rigetto” dell’intervento.
(se utilizzo un intonaco sbagliato, dopo breve tempo dall’intervento di restauro si creerà una
spaccatura)
Poiché per i manufatti storici può essere difficile ottenere un materiale con lo stesso comportamento
fisico-chimico di quello preesistente, esistono degli accorgimenti tecnici per evitare problemi, ad
esempio l’inserimento di un giunto elastico, come il neoprene, tra i due materiali; si può in alternativa
lasciare uno spazio tra i due materiale.
non può guidare l’operatività cioè il giudizio di un solo restauratore non può guidare l’operazione di
restauro in quanto soggettivo, quindi non deve esercitare nessuna azione di selezione perché rischia in
questa azione selettiva di cancellare una fase della storia del manufatto e impoverirne il valore
testimoniale. A fronte del giudizio di valore che non può essere espresso perché soggettivo, questa
corrente contrappone l'oggettività del dato testimoniale che non può essere alterato per non ridurre il
numero di informazioni che può continuare a trasmettere. Significa che devo conoscere per conservare,
per comprenderne il valore, però bisogna anche conservare per continuare a conoscere. Se cancello
la fase barocca chi verrà dopo di me non conoscerà tale fase quindi prima devo conoscere perché
altrimenti non so cosa sto conservando e poi devo consentire a chi viene dopo di trarre conoscenza
dalle fasi della fabbrica, se tolgo la fase barocca da tutte le chiese non avremo più testimonianze di
questo stile e non potremmo studiarlo. Lo slogan, quindi, è: bisogna conoscere per conservare e
conservare per continuare a conoscere.
Domanda di Marcello:
Se sull' edificio verranno fatti dei graffiti vanno conservati? Si, è un segno CONTEMPORANEO
Quest' orientamento conserva la preesistenza così com'è in tutte le sue trasformazioni e poi ci
aggiunge il segno della propria epoca (esempio passerelle ascensori ecc in stile contemporaneo).
Quest' orientamento ha lasciato abbastanza segno di sé anche nell'orientamento napoletano sul tema
della conservazione delle superfici (luoghi del degrado) ma sono anche luoghi della testimonianza
esempio anche il graffito potrebbe essere un’aggiunta di valore su quella superficie.
PRINCIPI DI RESTAURO
Introduzione
Tipologie di intervento di restauro:
• Minimo intervento: principio base operando lo stretto necessario per assicurare la durata di
un’opera (vedi Acropoli di Atene);
• Distinguibilità: il restauro non viene più considerato come in passato, quando si riteneva che
bisognasse rifare l’elemento danneggiato così com’era, un falso storico. La distinguibilità è
invece un punto fondamentale per il riconoscimento dell’elemento storico ovvero per
comprendere quali sono le cose storiche e quali no, facilitando la lettura dell’opera;
• Compatibilità: i materiali si comportano in maniera differente rispetto alle sollecitazioni 4
La materia antica è considerata dal restauro generale come un qual cosa da conservare, la materia
considerata come documento storico deve essere totalmente conservata, ogni caso è unico, non può
essere categorizzata; ogni elemento ha una storia statica e costruttiva, non ci sono elementi
standardizzati; quindi, come un medico guarda il paziente e adotta la cura dopo averlo analizzato, così
il restauro opera, analizzando singolarmente i vari materiali ed elementi.
Teodorico, manifesta infatti un approccio meno violento, di fronte a questo immenso patrimonio e
decide di promulgare una serie di “variae” ovvero editti scritti da un segretario, Cassiodoro, in cui ci
sono delle riflessioni che egli invia a personaggi della corte invitando a non distruggere i monumenti
antichi. Già allora c’è un embrione di conservazione: Teodorico raccomanda infatti che “chiunque trovi
sul proprio cammino pietre di ogni genere riutilizzabili per le fortificazioni urbane offra di buon grado
queste pietre affinché siano utilizzate nelle fortificazioni nuove della città”, ci fu quindi il rimpiego di pezzi.
L’importante è che tutto questo sia fatto con criterio, se infatti tra le pietre si ritrovi qualcosa di prezioso,
queste cose devono essere trattate con riguardo; un pezzo di un antico edificio torna ad essere un
elemento di un nuovo manufatto; tra gli scritti infatti leggiamo “il nostro proposito è sicuramente quello
di costruire il nuovo ma ancor più di conservare l’antico”.
Qualche anno dopo, finito il regno di Teoderico, l’Italia è scossa da un periodo di crisi in cui i Bizantini,
con l’imperatore Giustiniano, tentano una riconquista: scoppia una guerra tra Bizantini e Goti con
l’assedio della città di Roma. Belisario, a capo dei Goti, scrive una lettera a Totila, che aveva assediato
la città, invitandolo a non distruggere Roma, minacciata di essere resa al suolo.
Belisario richiama motivi culturali di forte interesse: “Di tutte le città sotto il sole Roma è la più grande e
la più bella”. È questa città, quale tu ora la vedi, edificata a poco a poco, che quegli uomini lasciarono
ai posteri, a simbolo della cultura del mondo. Perciò colui che rovinasse tante grandezze, si renderebbe
reo di un grave delitto verso tutti gli uomini del futuro perché priverebbe agli avi dei monumenti del loro
valore e ai nepoti impedirebbe di godere la vista delle eccelse opere degli antenati. Distruggendo
Roma non perdi una città di altri, tu perdi la tua stessa città”.
Nell’VIII secolo, l’Italia era stata divisa tra Longobardi e Bizantini dopo la guerra gotica, la storia quindi si
divide, Roma era occupata dai Bizantini. In Sicilia, sempre in mano ai Bizantini, ci sono numerosi episodi
di trasformazione di templi greci in basiliche cristiane, la cella diventa la navata centrale e la peristasi
diventa una navata laterale. Altro esempio lo ritroviamo a Siracusa, ove il tempio di Atena fu
completamente trasformato in cattedrale, in cui i vuoti tra le varie colonne vengono murati, tamponati,
le colonne però si lasciano a vista, è presente la commistione di una serie di secoli che si intrecciano
(arte classica, barocco e medioevo). Non c’è solo un uso utilitaristico di risparmio di materiali, ma anche
di continuità, a voler conservare e riutilizzare il vecchio. Anche il Partenone, oggetto simbolo del passato,
fu trasformato in basilica, oggi restaurato e riportato nella fase originale.
Costantinopoli viene infatti conquistata dagli Ottomani e in Italia non si parlava di altro; vi era ancora
una speranza di ritornare al passato ed è proprio da questa speranza che nasce un riavvicinamento
verso il mondo classico; è in questo periodo che vengono scoperti ad esempio gli scritti di Vitruvio e tanti
altri testi, e da questi ultimi nasce un interesse anche dal punto di vista architettonico al classico.
Leon Battista Alberti, quando arriva a Roma a metà del 1400, scrive un trattato “Descriptio Urbis Romae”
che rappresenta un rilievo topografico della città, ma non è una carta piuttosto è una trascrizione di
una serie di coordinate polari che consentono a chiunque di ridisegnare una carta: è un codice, una
sorgente informatica; è il primo momento in cui Alberti si avvicina a questi monumenti e segna un
passaggio importante. Siamo in una fase in cui i papi, che nel ‘300 erano scappati ad Avignone, col
ritorno del papato a Roma, iniziano un po' a preoccuparsi delle sorti del patrimonio antico. Eugenio IV
negli anni ‘30 del 1400 fu il primo a promulgare una specie di editto per tutelare il Colosseo, ma ancor
di più Pio II nel 1462 fa un editto “Cum almam nostram urbem” in cui invita i romani a non distruggere i
vecchi monumenti che spesso erano tra loro isolati ed il cui il tessuto connettivo si era abbastanza perso,
il luogo dei fori era un luogo di pascolo, i monumenti erano pieni di vegetazione e in parte coperti dal
terreno, rappresentati da una moltitudine di disegnatori. Da qui parte l’idea degli Umanisti di capire
cosa sono queste cose e quanta importanza bisogna dare ai monumenti.
Nel 1418 fu bandito un vero e proprio concorso per la realizzazione della Cupola, al quale partecipò
Brunelleschi: a vincere furono i due rivali Ghilberti e Brunelleschi. Nel 1420 venne redatto un capitolato,
cioè un contratto, in cui venivano descritti i modi di realizzazione e di affidamento dei lavori, passo per
passo, dimostrando che al momento della realizzazione non vi era un vero e proprio progetto definitivo,
si procedette infatti per tentativi con l’idea di partenza di voler realizzare una cupola senza centine e
valutarne la fattibilità man mano che iniziava a sorgere. Molti misteri rimangono sull’effettivo impianto
strutturale, come la questione “delle catene di macigno” o sul tracciamento dei piani di posa secondo
il sistema della “corsa blanda”. Brunelleschi inventa la possibilità di procedere tramite un sistema di
palchi a sbalzo, senza centine, attraverso delle mensole di legno si lavora contemporaneamente su
ognuno degli 8 spicchi, per ognuno dei quali fu nominato un capo; mentre l’ultima parte a causa della
forte inclinazione, necessitava di un ponteggio a stella chiuso. Ci sono due calotte, una interna resistente
dal punto di vista strutturale e una esterna per proteggere quella interna, nel cui vano compaiono delle
scale e che compongono la cupola, che risulta essere non a tutto sesto ma a sesto rialzato ottenuta col
sistema del quinto acuto negli angoli con incremento di freccia. I mattoni interni orizzontali sono interrotti
da altri mattoni posizionati a spinapesce che seguono la cupola in maniera elicoidale.
La realizzazione della cupola dura 16 anni, dal 1420 al 1436. La lanterna sarà realizzata in molto più
tempo, per la quale fu indetto un ulteriore concorso vinto anch’esso da Brunelleschi, il quale non riuscì
a vederla realizzata. Brunelleschi non vide realizzate neanche le tribune che furono addossate alla base
del tamburo e che hanno anche una funzione statica, sono infatti dei contrafforti: esse sono sicuramente
il pezzo più classico dell’opera, sono una citazione dell’antico che spiega il fatto che Brunelleschi sia
stato a Roma e abbia studiato l’architettura classica: colonne binate, nicchie molto grandi, sono una
sintassi romana.
sono il Tempio Malatestiano e la facciata della basilica di Santa Maria Novella. Il primo è un esempio di
trasformazione di una chiesa medievale in rinascimentale: Alberti venne chiamato nel 1447 per
un’analisi sui dipinti e sui contenuti di quella che allora era la chiesa di San Francesco a Rimini, medievale
tardo duecentesca con un’aula unica e delle cappelle, da Sigismondo Malatesta, ricco fiorentino, con
l’intento di trasformare la chiesa in una cappella di famiglia.
Siamo in un momento in cui il rinascimento guarda con molta attenzione la cultura pagana e la cultura
neoplatonica, in cui si va aldilà del dogma di fede canonica della chiesa di Roma per abbracciare un
retaggio anche astrologico e misterioso. Nelle cappelle del tempio si ritrovano riferimenti a segni
zodiacali e simboli che non fanno parte della religione cristiana.
Il tempio non verrà mai completato perché Sigismondo entra in un periodo di crisi e verrà scomunicato
dal papa. La trasformazione di questa chiesa può essere ricostruita tramite una serie di tracce: la prima
traccia è una medaglia che è stata ritrovata (all’epoca veniva realizzata per rispettare una tradizione
secondo cui la medaglia doveva essere gettata con la posa della prima pietra delle fondazioni) che
mostra in altorilievo la forma della nuova facciata dell’ex chiesa;
l’altra traccia è una lineatura di Giovanni da Fano che mostra uno stato del cantiere del 49-50,
rappresentando il momento in cui si stava realizzando la trabeazione della facciata con i lapicidi, gli
spaccapietre e una nuova figura di colui che supervisiona il tutto: l’architetto, quest’ultimo rappresenta
un nuovo simbolo, ovvero colui che progetta e guarda il realizzarsi dell’opera secondo una nuova
scansione di ruoli ben precisa.
Secondo il progetto iniziale, in facciata sarebbero dovute comparire le tombe di Sigismondo e della sua
compagna.
La pianta del duomo di Rimini, ovvero l’ex chiesa di S. Francesco, mostra chiaramente la presenza di un
impianto medievale: una navata centrale con cappelle laterali, una parte absidata tipicamente gotica
che si distingue da un involucro esterno che sarà realizzato da Alberti.
Egli dopo aver dato dei consigli sulle decorazioni, convince Sigismondo che per far un nuovo e bello
edificio, degno di essere considerato come un tempio, non si può accettare una fabbrica medievale,
considerata come vecchia; per cui l’involucro esterno che egli realizzerà è tipicamente classico e
indipendente rispetto alla fabbrica medievale interna da cui ne è staccato. Esso rappresenta un chiaro
riferimento all’Arco di Augusto a Rimini, in cui Alberti aveva trovato una fonte di ispirazione. Si tratta
quindi di un restauro anche abbastanza rispettoso visto che l’interno è lasciato così com’era, pur non
essendoci una corrispondenza tra interno ed esterno. Dietro le aperture ad archi a tutto sesto su
pilastroni, si nascondono le finestre gotiche ad arco a sesto acuto; potrebbe essere una sorta di
citazione agli acquedotti romani, oppure potrebbe richiamare un sarcofago. Nella realizzazione
dell’involucro egli applica una delle regole di cui aveva parlato nel De Re Aedificatoria: i pilastri devono
sostenere gli archi, una regola che secondo Alberti non tutti avevano capito, mentre le colonne circolari
devono sostenere un architrave ed è sbagliato fare il contrario, come aveva fatto spesso Brunelleschi.
La regola generale è poi che negli edifici pubblici saranno usati sempre pilastri e archi a tutto sesto,
mentre i templi preferibilmente avranno colonne. In questo caso egli utilizza tutti e due i sistemi, sulla
facciata laterale usa archi e pilastri, in facciata principale usa sia archi e pilastri e sia colonne e
trabeazione; egli fu il primo ad utilizzare gli ordini in maniera rigorosa, codificandone l’uso. La facciata
del tempio rappresenta il primo esempio di facciata del Rinascimento in Italia.
Il vero problema fondamentale era come continuare la facciata; unico elemento da cui si può trarre
una probabile facciata disegnata da Alberti è la medaglia di Matteo de Pasti, in cui c’è la presenza di
due raccordi curvi laterali per nascondere le falde, poi c’è la campata rialzata centrale e dietro una
grande cupola costolonata ma perfettamente circolare. In una lettera che Alberti scrive a Matteo de
Pasti compare un piccolo schizzo in cui aggiunge una voluta per ornare l’elemento laterale e una
copertura a volta a botte che non sarà mai realizzata.
Verso la fine della sua vita, abbandonato il progetto del tempio Malatestiano, Alberti si dedica al
completamento di un’altra opera, emblema della concinnitas: la facciata della chiesa di Santa Maria
Novella. Il lavoro sarà realizzato poco prima della morte dell’architetto.
La chiesa risultava anch’essa essere di impianto medievale, il cui completamento fu voluto da una
famiglia amica di Alberti, la famiglia Rucellai, per la quale egli aveva realizzato l’omonimo palazzo.
L’opera risultò abbastanza complessa visto il vincolo del basamento impostato con dei sepolcri 10
medievali, delle vere cappelle che non potevano essere spostate, la bicromia degli archi con
l’andamento a sesto acuto, le porte delle navate laterali che hanno un forte linguaggio medievale, il
rosone, o meglio l’oculo, la cui posizione crea problemi di proporzione. Sono molti i dubbi su chi ha
realizzato determinati elementi: se Alberti o se risalgono a periodi più antichi, come il sistema decorativo
dei marmi e delle lesene che risultano troppo esili. La composizione voluta era regolata da una serie di
elementi geometrici: in particolare, tutto è inscritto in un grande quadrato diviso a metà, all’interno del
quale si individuano altri quadrati più piccoli in cui si iscrivono altri elementi; la scansione medievale non
poteva essere proseguita sopra ed era quindi necessaria una grande trabeazione con timpano classico
e aspetti simbologici complessi che secondo alcuni potrebbero rappresentare un esplicitazione di
Alberti verso l’ermetismo, una corrente non accetta dalla chiesa di Roma. Alberti scriverà un trattato
chiamato “Canis” molto misterioso in cui sembra che egli voglia parlare del cane, ma che potrebbe
essere un modo per raccontare con allegorie il messaggio dell’ermetismo per cui il papa gli aveva
imposto di abiurare.
Le volute sono elemento fondamentale per nascondere le falde, e Alberti ne vide costruire una, l’altra
è stata realizzata solo nel 1970.
tecniche antiche che sono andate perdute, critica tutti coloro che hanno fatto “calcina” di tante
opere di fondamentale importanza e di forte pregio; critica l'architettura gotica e conclude dicendo
che edifici di Roma possono essere classificati in tre modi:
- dei buoni antichi (ossia quella romana)
- quella d'epoca medievale
- quella che va dal medioevo fino ai suoi tempi.
Al termine del Concilio di Trento, nel 1577, l’arcivescovo Carlo Borromeo emana un provvedimento:
“Instructionum fabricae et suppellectilis ecclesiasticae”, una guida su come abbellire, arredare e come
ricostruire le fabbriche religiose.
Chiesa Monteoliveto, Sant’Anna dei Lombardi - Giorgio Vasari decora lo spazio del refettorio, spazio
quattrocentesco di stampa angioino, con una decorazione simbolica che si rifà al tema grottesco e
14
che cerca di nascondere anche tramite stucchi ovali negli angoli le volte a crociera, utilizzando angoli
morbidi: ciò dimostra la completa disapprovazione degli artisti del ‘500 verso tutta l'architettura gotica,
intesa come antica e buia.
Gesù Nuovo
Palazzo del principe Roberto San Severino, 1470
Nel 1584 acquistato dai Gesuiti, nasce un dibattito sulla conservazione della facciata, unica nel suo
genere, col bugnato a diamante. Le bugne delle facciate laterali vennero utilizzate per alzare l'altezza
del prospetto principale che all'epoca era più basso. L'esterno appare come quello di un edificio militare
in forte contrasto con l'interno barocco a cui si accede tramite portale tipicamente rinascimentale.
principali della statica delle cupole era proprio l'attacco con il tamburo e il contenimento delle spinte
orizzontali. Già dopo poco la sua realizzazione, la cupola presenta delle lesioni preoccupanti: negli anni
40 del ‘700 il Papa Benedetto XIV, secondo una visione più scientifica che iniziava a delinearsi in quegli
anni, chiama tre matematici per fare calcoli sulla cupola: essi non tengono conto dell'aspetto spaziale
della cupola, non considerano l'attrito e fanno calcoli di equilibrio considerando la cupola come un
insieme di conci: i calcoli matematici applicati all'architettura vengono iniziati proprio in questo secolo;
per i matematici la cupola era a imminente rischio di crollo; il Papa quindi si rivolge ad un fisico anch'esso
aiutato da Vanvitelli, che per la prima volta effettua un rilievo materico: non si rileva la sola geometria
della cupola, ma come è fatta e come si presentano i suoi dissesti strutturali, evidenziando quindi anche
le lesioni e cedimenti. Nell'analisi effettuata da Vanvitelli egli propone degli interventi sulla base delle
osservazioni fatte:
- La cupola presenta la base del tamburo lesioni a 45° che possono causare cedimenti; individua
lesioni anche all'interno della cupola;
- rileva come sono fatti i contrafforti;
- ipotizza la presenza di alcune cerchiature e verifica se effettivamente ci siano;
- rappresenta le scale a chiocciola in sezione e mostra come lungo di esse si rivelino una serie di lesioni
all'andamento verticale molto preoccupanti; le scale a chiocciola sono l'unico modo che ha il
vanvitelli per entrare all'interno del tamburo e studiare l'andamento delle lesioni all'interno di esso;
rileva inoltre che le scale a chiocciola sono elemento di indebolimento della struttura, in quanto in
questi punti si riduce la sezione;
a tali rilevazioni aggiunge delle ipotesi migliorative che esprime al Papa in forma anonima:
- realizzare tre nuove cerchiature per contenere la spinta orizzontale: immagina di realizzarle con
elementi metallici posti a tridente (sua idea originale);
- rinforzare tutti i contrafforti ponendo in sommità delle mensole rovesce; propone cioè di mettere delle
volute al posto delle statue previste da Michelangelo per controbilanciare la spinta;
- ridurre la luce del vano di passaggio di tutti i corridoi sottostanti i contrafforti;
- ingrossare lo spessore dei contrafforti e collegarli mediante cerchioni e catene;
- Riempire alcune delle scale a chiocciola, per lui in numero eccessivo.
Il fisico Poleni immagina di dividere la cupola in una serie di conci utilizzando il modello funicolare per
dimostrare che l'andamento della curva delle pressioni è tutto interno alla sezione, e cioè che non è
vero che la cupola è a rischio crollo; per cui si trova d'accordo con le analisi fatte e si procede con la
realizzazione di due cerchiature come le aveva pensate Vanvitelli, la sua cerchiatura verrà quindi
brevettata: il suo sistema, detto a tre occhi, consente di serrare gli anelli con due cunei ribattuti l'uno
dentro l'altro, viene applicato a due delle catene della cupola.
Chiesa dell’Annunziata
È l’ultimo intervento che Vanvitelli realizza a Napoli; qui si ritrova a dover rifare quasi l’intera chiesa con
un forte condizionamento per la preesistenza: si tratta infatti di una chiesa angioina, tipicamente
medievale, dalla forma molto allungata; Successivamente, nel 1757, la chiesa subisce un incendio e
subito nasce una questione su cosa farne di questa chiesa. Nella questione furono
coinvolti alcuni dei maggiori architetti dell’epoca: Luigi Vanvitelli, Ferdinando Fuga, Mario
Gioffredo, Giuseppe Pollio, Nicola Tagliacozzi Canale, Carlo Bibiena, Giuseppe Astarita e
Costantino Manni. Tutte queste figure speravano che gli venisse commissionato questo lavoro.
Tutti, tranne Vanvitelli, sono dell’idea di riparare la chiesa e di realizzare una volta finta con
copertura lignea. Invece Vanvitelli, sostiene che questa è l’occasione per rifare la chiesa e con ciò
convince i governatori dell’Annunziata, per cui riceve l’incarico.
Vanvitelli propone di ricostruire la chiesa in muratura, ma senza modificarne l’involucro e senza
modificare gli spazi, rispettando questa difficile spazialità: pianta allungata, mancava il transetto,
abside rettangolare voltato a crociera. Con queste condizioni era difficile anche realizzare una
cupola. Per la realizzazione della chiesa, Vanvitelli propone di utilizzare un sistema di colonne che
reggesse il tutto. Dal punto di vista dello stile, queste colonne richiamano l’ordine classico che in
questo periodo si stava fortemente utilizzando. Inoltre, egli prevede di sormontare il transetto con
un’alta cupola. Mentre per quanto riguarda la volta, essa è una volta muraria.
Una cosa particolare che riguarda questa chiesa è che i governatori dell’Annunziata volevano
mantenere il culto durante il cantiere. Per questo Vanvitelli concepisce un succorpo, uno spazio
sottostante il transetto, a pianta circolare, dove poter svolgere le funzioni religiose mentre sopra si
costruiva la chiesa. Si tratta uno spazio architettonico di rilievo, ispirato alle cripte, interpretato con un
linguaggio di quel tempo. Nello scavare questo spazio, Vanvitelli, si imbatte in un resto archeologico,
trova un colombario (struttura sepolcrale romana) e ciò lo considererà come una perdita di tempo, in
quanto si sarebbero recati sul cantiere gli antiquari che avrebbero voluto studiare il resto.
Dal riuso alla conoscenza dell’antico: archeologia e restauro nel XVIII secolo
La conoscenza dell’antico influenza anche il restauro. Diciamo che il restauro nasce a fine ‘‘700 perché
è solo in questo momento che il restauro diventa una questione culturale e che quindi tutti i casi visti
precedentemente a questa fase, sono solo problemi di riuso, di riparazione o di continuazione di
fabbriche precedenti. Lo capiamo dalla frase di A.Bellini: “Il restauro in senso moderno nasce con la
rivalutazione ottocentesca della storia, con l’acquisizione della coscienza dell’idea del passato come
altro dal presente, del carattere singolare ed irripetibile di ogni evento e di ogni esperienza, unita alla
fiducia nella ricostruibilità della storia, nella possibilità di reperire negli avvenimenti una logica intrinseca,
una razionalità che ne spieghi la successione, quasi sempre in una visione progressiva.” Ciò ci fa capire
che il restauro è figlio della storia, nasce dalla necessità di conservare delle tracce e dalla fiducia di
poter ricostruire anche attraverso delle testimonianze materiali un excursus storico. Quando si scoprono
Pompei ed Ercolano, così come anche la Grecia classica, ci si trova di fronte a qualcosa che ormai
appare remoto, affascinante, ma non più continuabile. In ciò vediamo una grande differenza rispetto
al Rinascimento, ad esempio, Alberti pensava che si potesse conseguire una gloria anche maggiore
rispetto agli antichi e questo mostra una volontà di rifusione dell’antico nel nuovo. Gli architetti del
Rinascimento si sentivano eredi della modalità costruttiva antica e quindi pensavano di poter andare
oltre. Gli architetti del ‘‘700, invece, non vogliono andare oltre all’antico, l’approccio è più nostalgico e
più consapevole del fatto che quello è un passato troppo grandioso per poter essere replicato e quindi 17
Pompei ed Ercolano
Nel 1738 vengono portati alla luce, per caso, gli scavi di Ercolano. Carlo V, ritornato nel regno poco
prima nel 1734, manda ad Ercolano figure due ingegneri militari e altre figure come Joachin d’Alcubierre
18
per scavare. Essi iniziano a scavare e anche tramite l’esplosione di mine furono portati alla luce i resti.
Per scoprirli venivano realizzati anche cunicoli. Gli scavi erano particolarmente difficili, anche perché la
maggior parte erano ipogei, poteva accadere che durante l’esplosione di mine si distruggessero anche
dei pezzi. Di questo, però, le persone che conducevano all’epoca gli scavi non si preoccupavano
perché esse erano più interessate a recuperare cose preziose, piuttosto che all’architettura. Di
conseguenza nascono anche nuove figure lavorative che avevano il compito di valutare i resti e
restaurarli. Inizia anche un turismo, solo per poche persone studiose o per i reali.
Per Pompei gli scavi furono più semplici perché non c’era la città costruita sopra che li ricopriva, come
invece avvenne per Ercolano. Anche in questo caso, però, gli scavi iniziano per caso in quanto gli
studiosi erano più orientati verso Stabia. Un’idea dello scavo di Pompei proviene dalla topografia di
Francesco Piranesi. In essa si mostra che lo scavo inizia dalla zona dei teatri e da Via dei Sepolcri con la
villa di Diomede, prima villa ad essere scoperta. Al suo interno vengono inoltre rinvenuti 18 scheletri. Ad
un certo punto nasce il problema di cosa fare di questi resti: se concepire Pompei come museo a cielo
aperto e quindi lasciare i resti “in situ” oppure conservare tali resti al coperto in musei chiusi. Ovviamente
si distinguono diverse correnti di pensiero.
Si decide di realizzare dei calchi; essi si ricavavano calando all’interno delle sagome del gesso.
Viene poi realizzata per prima copertura in legno per una rovina.
Anche le pitture vengono riprodotte. Si riproducono i templi con modellini: non viene ricostruito, ma è
mostrato così com’è. Tutte le colonnine dei modellini dei templi sono tutte davvero in marmo.
Quindi l’indagine e il giudizio storiografico non possono guidare l’operatività nel campo del
restauro, visto che abbiamo a che fare con un patrimonio non rinnovabile e non riproducibile, bisogna
operare con coscienza, per preservare tale patrimonio per le generazioni future.
Non si possono legittimare liberazioni, eliminazioni di fasi (anche le più recenti). Addirittura, in questa fase
si arriva alla possibilità di conservare anche bagni abusivi su balconi, verande esterne su edifici antichi
napoletani, in quanto questi elementi sono la risposta ad esigenze funzionali che fanno parte della storia
dell’abitare.
Tutto ciò però non significa che non si possa adeguare l’edificio alla nuova funzione con
un’architettura moderna. Questo è ciò che succede nel Palazzo della Ragione, in cui si inserisce una
pavimentazione moderna mosaicata la quale aggiunge un segno della nostra epoca, ma non sottrae
fasi precedenti.
delle scelte, anche nell’intervento più conservativo. Per questo motivo il restauro viene definito “critico”.
Inoltre, non si nega la legittimità di azioni innovative progettuali, è accettata l’architettura
contemporanea per l’adeguamento funzionale. Essa garantisce un miglioramento della funzione, aiuta
la comprensione da parte del fruitore, favorisce la lettura della preesistenza.
In questo filone non abbiamo più la divisione tra progettista e restauratore, ma si parla di architetto
restauratore: una stessa figura si occupa di consolidamento e di adeguamento funzionale. Quindi
anche i lotti non sono divisi, ma abbiamo un unico lotto in cui si svolgono entrambe le attività, anche
perché l’edificio è un unico organismo, non si può separare.
Teatro di Marcello
Per i francesi è l’esempio del fatto che i romani non sanno tutelare il patrimonio culturale in quanto il
teatro, con i suoi ordini sovrapposti, fu convertito in un’abitazione.
Oggi l’edificio è uno dei palinsesti di più grande rilevanza e pregio. 22
De Tournon, il prefetto, voleva demolire la parte aggiunta da Baldassarre Peruzzi nel ‘500: ciò che
all’epoca era visto come invasivo oggi è fonte di ricchezza.
Il termine palinsesto non nasce per l’architettura ma per la diplomatica, disciplina che studia i
documenti antichi: il palinsesto è un documento che viene cancellato, abraso e riscritto più volte. Le
modifiche sono visibili tramite analisi specifiche.
Colosseo
Negli anni era stato privato di molte parti durante i crolli. Ciò che crollava veniva utilizzato per altre
costruzioni. Il principale problema che aveva l’edificio era di stabilità, in quanto la mancanza dell’anello
esterno sul lato meridionale e orientale provocava un taglio verticale. Le spinte orizzontali degli archi più
esterni non venivano assorbite. I francesi avevano previsto un piano di espropriazione per tutta l’area
che però risultava inattuabile.
In quegli anni siamo sotto il pontificato di Pio VII, papa abbastanza interessato all’archeologia, il quale
nel 1802 (prima dell’arrivo dei francesi) aveva emanato un editto molto importante, l’editto del
Cardinale Doria-Pamphili: si trattava di un testo importante, il primo editto degli stati romani per la
protezione dell’archeologia. Esso impediva che si facessero scavi abusivi, che si esportassero pezzi al di
fuori di Roma, che si mettesse mano ai restauri prima che arrivasse una Commissione delle antichità a
stabilire cosa si potesse fare e cosa no (si inizia a diffondere l’idea che un cattivo restauro possa
danneggiare l’opera).
Quindi, il Papa nomina una commissione di architetti per salvare il Colosseo: Palazzi, Camporesi e Stern.
Si ripristina così il bene archeologico liberandolo da acqua e letame.
Gli archi nell’area orientale si stavano aprendo e ribaltando e per cui si convince il papa ad intervenire
rapidamente: Stern, uno dei tre architetti incaricati allo studio per poter salvare il Colosseo, propone la
costruzione di uno sperone in muratura laterizia per contrastare la spinta. L’intervento è strutturale ed
efficace ma è anche sensibile alla visione del tempo, romantica, del monumento in rovina: infatti esso
blocca il dissesto e congela in tempo, tanto che pare che il Colosseo stia per crollare quando non lo fa.
L’intervento risulta complesso dal punto di vista operativo in quanto gli archi scaricano sulla muratura
che è stata incassata tra di essi.
Arco di Tito
Esso si trova all’inizio dell’area archeologica dei fori, sulla strada dal Campidoglio, al Colosseo. È un arco
che Tito fa costruire e nella cui iscrizione richiama il padre Vespasiano, completato da Domiziano
(dinastia Flavia: Vespasiano, Tito, Domiziano)
L’arco era fortemente degradato in quanto era diventato una porta urbana (faceva parte della
fortificazione medievale della città).
Nel tempo aveva subito un intervento strutturale, l’aggiunta di uno sperone in sostituzione di un piedritto.
I due lati dell’arco erano conservati diversamente: il lato verso il Colosseo possedeva ancora tutti i
capitelli, la trabeazione, l’iscrizione; invece, il lato verso il Campidoglio (quello raffigurato da Piranesi),
risulta essere molto più degradato, con colonne per metà distrutte, senza capitelli, non c’è l’iscrizione e
con edifici ad esso accostati. All’interno dell’arco invece si può vedere una delle cose più preziose
dell’arco, ovvero il bassorilievo.
L'arco viene restaurato dai francesi con un metodo opposto a quello utilizzato da Stern per il Colosseo:
Gisors, ispettore degli edifici civili francese, arriva a Roma nel 1813 e critica l'intervento fatto al Colosseo,
in quanto il restauro ha lo scopo di rendere comprensivi i monumenti non solo di fermare il degrado.
Gisors afferma che nel restauro bisognerebbe ricostruire le masse delle parti mancanti di un monumento
nelle loro forme nelle loro proporzioni: ciò non significa ricostruire in modo identico creando un falso
storico ma riprendere solo la volumetria e le forme per farle comprendere. L'intervento viene effettuato
da Valadier sotto istruzioni francesi. l'arco stava subendo uno slittamento dei conci, per cui Valadier
prevede uno smontaggio e rimontaggio di ognuno di essi, attuando quello che oggi chiamiamo
anastilosi dell'arco.
Si nota la mancanza delle piombature all'interno dei conci; la parte più complessa resta comunque 23
quella del completamento dell'arco, realizzata ricostruendo per masse: si nota infatti una colonna liscia
invece che scanalata, un capitello molto più semplificato, viene eliminato lo sperone e ricostruiti i
piedritti; tutto ciò rende l'intervento distinguibile e quindi molto moderno. L'arco viene inoltre isolato dal
resto delle costruzioni.
Era un personaggio molto malvisto, in quanto sostenitore del sovrano e conservatore; dal punto di vista
culturale fu un personaggio molto interessante che ha scritto molto sul tema del patrimonio.
Nel 1796 mentre Napoleone prepara la prima campagna d'Italia, dice di voler prendere oggetti d'arte
nel Bel Paese per portarli in Francia: Quatremère de Quincy scrive delle lettere “Lettere a Miranda”,
generale di Napoleone, in cui mostra cosa succederebbe se si portassero via dall'Italia. Queste lettere
sono importanti in quanto anticipano il concetto moderno di dimensione internazionale del patrimonio,
dimensione universale; riferendosi a Roma afferma che il vero museo di Roma non è solo di oggetti
d'arte ma anche di paesaggi luoghi e tradizioni, che non possono farsi che non sul posto, si accenna
cioè al patrimonio immateriale (tradizioni e mestieri).
Inoltre, si sofferma anche sull’idea che il patrimonio vada esteso a tutti, deve essere pubblico.
Quatremère de Quincy è noto soprattutto per aver scritto “Dictionnaire historique d’architecture” nel
1832, ovvero un dizionario di architettura. Egli qui inserisce anche la voce “restaurare” ed è la prima
volta che si parla di restauro in un dizionario, con la segnalazione che il vocabolo fosse più applicato
alla scultura che all’architettura. Quatremère vuole dimostrare l’esistenza della diversità tra architettura
e scultura.
Quindi anche il restauro in campo architettonico è diverso dal restauro delle sculture: se manca un
pezzo di statua nessuno può sapere come completarlo; invece, se in architettura manca la colonna di
un colonnato, posso risalire alla sua forma, alle sue proporzioni e quindi posso ricostruirla.
Inoltre, egli afferma che in architettura il restauro non deve falsificare nulla (tema della distinguibilità).
In più critica anche l’intervento di Stern al Colosseo in quanto qui è stato fatto un restauro che mostrava
la caduta dei conci, di una visione romantica e pittoresca del restauro che Quatremère rifiuta.
Quindi, a partire da ciò, propone una misura intermedia, cioè fare una ricostruzione integrale è
impossibile (perché questo significherebbe fare un falso), ma non si può nemmeno lasciare l’edificio in
rovina. L’idea che egli propone prevede prima di tutto un riconoscimento del valore artistico e storico
dei beni e del patrimonio, poi prevede di intervenire sulla base dello stato di conservazione e di degrado
del monumento. In questo si anticipa anche un pò Brandi, ovvero nell’idea che un edificio del tutto
degradato (ad esempio di cui resta solo qualche colonna e qualche muro) non può essere ricostruito,
perché altrimenti si avrebbe un eccesso di restauro.
Infine, l’idea che Quatremère propone, prevede anche che per tutte quelle opere che presentano
colonne, fregi e ornamenti, basterà semplicemente ricostruire la massa delle parti
mancanti, in modo tale da non ingannare lo spettatore. Bisogna quindi lavorare per “linee di inviluppo”,
ovvero definire i profili di una cosa ma non i dettagli. Questo è proprio ciò che è stato fatto da Valadier
all’arco di Tito ed è un approccio su cui ancora oggi si fonda il restauro critico.
basterebbe una legge di tutela di questi monumenti per mantenerne uso (che spetta ai proprietari) e
bellezza (che spetta a tutti). Quindi si sofferma sul fatto che la bellezza è di pubblica utilità e quindi è
una limitazione del diritto di proprietà: tutto ciò anticipa il concetto di vincolo. Hugo ritorna su questo
tema nel 1832 e se la prende con il vandalismo architettonico, che non è più il vandalismo dei sanculotti,
ma è il vandalismo degli architetti che non sanno più restaurare.
Nel 1830, in Francia cambia il governo con Luigi Filippo d’Orleans, re dei francesei, a seguito della
“Seconda Rivoluzione” viene creata una nuova figura che fino a quel momento non esisteva in Francia:
l’ispettore per i monumenti storici: la carica viene attribuita a Ludovic Vitet, archeologo medioevale:
questo personaggio ha un ruolo fondamentale nel definire un inventario dei monumenti francesi.
Da questo momento non si parla più di “monumenti nazionali” ma di “monumenti storici”, perché ormai
non si vuole più tutelare solo il patrimonio nazionale, ma l’intera storia di Francia.
Vitet scrive anche sul restauro e sostiene che per restaurare sia necessario “spogliarsi di ogni idea
attuale, dimenticare il tempo in cui si vive per farsi contemporaneo di tutto ciò che si restaura”,
immagina quindi un’immersione nel passato. Ciò però ha un effetto anche negativo perché porta al
restauro stilistico di Viollet Le Duc e quindi al falso. Inoltre, afferma che da un frammento di un’opera
d’arte si può risalire a tutto il suo processo artistico. Questo è l’esatto contrario di quello che affermava
negli stessi anni Quatremère, il quale diceva che non bisognava indurre nessuno in errore. Quindi mentre
con Quatremère si afferma che si può intervenire sul patrimonio archeologico solo in maniera
distinguibile; invece, con Vitet si stabilisce che sul patrimonio medioevale si può intervenire in modo
“mimetico”.
Il motto “il merito principale del restauro è passare inosservato” è un concetto che ispirerà Viollet Le Duc.
memoria, cosa che può essere fatta in tanti modi; Viollet le Duc fingeva che non ci fosse stata alcuna
perdita ripristinando i monumenti su cui interveniva.
I suoi disegni rispecchiano il grande interesse che egli aveva per la storia: spesso, oltre a rilevare anche
gli aspetti materici, inseriva personaggi medioevali.
• Cinta muraria di Carcassonne (cittadina fortificata del Sud della Francia) che si presentava in uno
stato di totale degrado e che sarà interamente ricostruita;
• Castello di Pierrefonds e qui un rudere diventa un castello.
Sono interventi di reinvenzione stilistica molto espliciti. Entrambi hanno determinato una forte condanna
a Viollet che è stato considerato un grande falsificatore. Entrambi, soprattutto Pierrefonds, sono stati
oggetti di attacchi da parte di intellettuali francesi già nel corso della vita di Viollet.
Questi attacchi sono arrivati persino in Italia e quindi hanno influenzato anche l’idea che in qui si aveva
di Viollet. Infatti, inizialmente in Italia Viollet viene apprezzato, anche a Napoli, il restauratore Travaglini
si ispira molto a Viollet; verso la fine degli anni 70 invece si cambia totalmente opinione riguardo a lui
In questi suoi due interventi non si riesce a capire cosa ha realizzato Viollet e cosa c’era, non c’è
distinguibilità.
mostrano la situazione di degrado dei materiali e di tutti gli elementi della chiesa, individua eventuali
problemi strutturali che potessero causare crolli e fa altre attente analisi. Tutto viene rappresentato con
acquerelli in modo molto dettagliato, quasi come se fossero fotografie.
Nel 1841 Viollet manda un rapporto alla Commissione dei monumenti storici e fa un rapporto
dettagliatissimo, come una perizia che si farebbe oggi:
Ricordiamo che questa era una chiesa romanica con volte a tutto sesto e qui le ultime tre campate nel
XIII secolo erano state sostituite con volte a sesto acuto (che rispetto alle precedenti erano più alte di 4
metri quindi si creavano problemi strutturali). Questo lo porterà a demolire le tre volte e a ricostruirle in
stile romanico. Questo è il caso che descrive nel suo dizionario. Per ricostruire queste volte in stile
romanico deve imitare le altre e in questo modo cancella l’aggiunta gotica che gli appare totalmente
incongrua, infatti, sostiene che va preservata l’unità romanica della chiesa.
Inoltre, la chiesa presentava un’abside non romanica ma gotica, che però viene lasciata.
C’è quindi una volontà di lasciare alcune parti omogenee del monumento, ma non tutto il monumento.
Non viene fatto quindi un falso storico assoluto.
Egli qui decide di rifare le volte non solo per un motivo estetico ma anche tecnico, infatti esse
avevano comportato problemi sia per lo scolo delle acque sia per la ripartizione dei carichi.
Come si vede dal rilevo della sezione e dal suo progetto, Viollet fa una ricostruzione della chiesa
secondo i principi con cui era stata costruita; quindi, la sua è una comprensione anatomica dell’edificio.
Ad esempio, grazie al suo rilievo in sezione, scopre che le falde delle navate laterali si comportavano in
modo strano perché chiudevano le finestre della navata. Per questo nel suo progetto ritrova la
pendenza originaria e la ripristina, quindi le falde vengono abbassate. Anche gli archi rampanti
vengono rifatti nelle dimensioni giuste, nelle dimensioni che avevano in origine e non nello spessore
eccessivo che presentano al momento in cui Viollet fa il rilievo (erano troppo pesanti e causavano un
carico eccessivo).
Vediamo come Viollet pone attenzione anche alla struttura provvisionale che regge la volta dissestata.
Infatti, appena arriva a Vézelay la prima cosa che fa è puntellare le volte per metterle in sicurezza a
causa delle loro fessurazioni. Egli pone molta attenzione all’aspetto funzionale degli edifici, infatti nel suo
dizionario dice che “i monumenti devono vivere e l’architetto deve farli rivivere”.
Questo intervento è un intervento ancora misurato rispetto a quelli che farà più tardi.
Una delle cose in cui risulta più misurato è la scelta che fa in facciata: ovvero la scelta di conservare la
torre mozza: infatti, invece di ricostruire la torre mancante, accetta di lasciarla distrutta, come simbolo
storico, come testimonianza da lasciare. Qui si limita solo a realizzare una copertura a padiglione a
quattro falde per proteggere la torre ed evitare che ci piova dentro (ancora il discorso del
funzionamento come tema fondamentale). 28
L’unico intervento in chiave stilistica lo realizza sempre sulla facciata riproponendo e ricostruendo le
decorazioni del portale che i rivoluzionari avevano distrutto. Per questo elemento non ha alcuna
informazione, quindi riproduce decorazioni neo-romaniche.
Trae ispirazione grazie al tema dell’analogia.
Per “analogia” si intende la capacità di studiare monumenti simili, cioè realizzati nella stessa epoca,
nella stessa regione o realizzati dagli stessi architetti, per provare a proporre similitudini.
Questo lo porterà a conoscere tantissimo ed avere una padronanza dell’architettura francese unica,
che soltanto lui avrà, tanto che Ruskin (uno dei principali oppositori di Viollet) affermerà che l’unico
documento al mondo utile per comprendere l’architettura gotica è il dizionario di Viollet.
D’altra parte, però l’analogia ha anche effetti negativi: inventare decorazioni che in realtà non sono
mai esistite è un qualcosa che oggi non faremmo.
Ciononostante, oggi queste decorazioni di Viollet sono considerate una pagina di storia dell’800, sono
pur sempre una testimonianza, quindi sono elementi che oggi conserviamo.
Cittadella di Carcassonne
Cittadella militare che con l’espansione della Francia aveva smesso di avere tale ruolo. Egli ricostruisce
mura e torri, con relative merlature, abbatte le abitazioni povere aggiunte.
Compie un errore tecnico con le inclinazioni delle coperture, e il materiale impiegato: essendo nel sud
della Francia nella zona non nevica, quindi si potevano inclinare di meno. Inoltre, utilizza lastre di ardesia
come nel nord quando al sud si usava utilizzare manti di coppi.
Castello di Pierrefonds
È l’intervento per il quale subisce più critiche. Dopo varie vicende che lo avevano visto anche oggetto
di demolizione, nel 1848 Pierrefonds viene dichiarato monumento storico dalla Commissione dei
monumenti storici, pur restando di proprietà della famiglia Bonaparte. I committenti richiederanno il
restauro, qui inteso come ricostruzione di tutto il castello, anche delle parti ridotte in ruderi. Viene quindi
cancellata ogni traccia di rovina, secondo l’ulteriore principio esposto nel suo dizionario, per cui un
edificio dovrà risultare più comodo dopo l’intervento dell’architetto-restauratore.
John Ruskin, William Morris e l’anti-restoration movement
John ruskin è stato un personaggio molto importante che ha impegnato tutta la sua vita contro
quell’approccio di restauro estensivo, integrativo, falsificatore che modifica l’autenticità materiale delle
fabbriche. È un personaggio diametralmente opposto a Viollet Le Duc, ovviamente la visione dipende
dal gruppo di appartenenza: se per esempio per la scuola milanese Ruskin è visto in modo positivo e
Viollet al contrario, per le teorie di Marconi, della scuola di Manutenzione e ripristino Viollet è considerato
meglio;
Ruskin è uno storico dell’arte non abituato alla progettazione, sarà il suo allievo Morris a portare avanti
l’anti-restoration movement avanti in senso pratico, fondando la Society for Protection of the Ancient
29
Buildings (SPAB) di cui curerà il manifesto.
Entrambi socialisti, si interessarono alle vicende dell'epoca: il rapporto tra patrimonio e società. Hanno
una visione meno elitaria del monumento. Ruskin nasce nel 1819 muore nel 1900, si inserisce nel contesto
britannico attraverso il rapporto con la natura: gli inglesi hanno un rapporto molto più forte con essa a
causa della presenza delle rovine, cosa che va ad influenzare la nascita dei landscape Garden.
Ruskin si scaglia contro il restauro stilistico. La vita di ruskin è stata fortemente influenzata dalle sue
vicende amorose, tanto che spesso le biografie dividono le fasi della sua vita in base alle donne e ai
rifiuti che ha subito: non è un caso che scrive la sua più importante opera “the Seven lamps of
Architecture” nei primi felici anni del matrimonio combinato con Eufemia Grey. A partire dal 1860 ruskin
si interesserà dei problemi sociali ed inizia ad essere un forte oppositore della politica vittoriana,
arrivando affondare nel 1874, la Ghilda di San Giorgio: essa è una sorta di corporazione, sul modello di
quelle medievali, per aiutare gli artigiani e gli agricoltori attraverso una visione quasi comunitaria del
modo di vivere (visione fortemente socialista) ma l'opera risulterà fallimentare.
Sacrificio - dedizione del mestiere dell'uomo a Dio, come prove visibili dell'amore e dell'obbedienza
dell'uomo
Verità: esposizione artigianale e onesta di materiali e strutture. La verità sui materiali e l'onesta
dimostrazione di costruzione erano parole d'ordine poiché il serio Revival gotico si era allontanato dal
capriccioso "Gothick" del 18 ° secolo; era stato spesso elaborato da Pugin e altri.
Potere - gli edifici dovrebbero essere pensati in termini di ammassamento e raggiungere la sublimità
della natura mediante l'azione della mente umana su di loro e l'organizzazione dello sforzo fisico nella
costruzione di edifici.
Bellezza - aspirazione verso Dio espressa in ornamenti tratti dalla natura, dalla sua creazione
La vita - gli edifici dovrebbero essere fatti da mani umane, in modo che la gioia di muratori e scalpellini
sia associata alla libertà espressiva data loro
Memoria - gli edifici dovrebbero rispettare la cultura da cui si sono sviluppati
Obbedienza - nessuna originalità per sé stessa, ma conforme al più raffinato dei valori inglesi esistenti, in
particolare espresso attraverso il gotico "Early Decorated inglese" come la scelta di stile più sicura.
La più interessante delle lampade è la sesta, con la quale Ruskin si pone il problema del rapporto con il
passato. Molto interessante è l’aforisma 31: “Il cosiddetto restauro è la peggiore delle distruzioni”.
Ruskin si scaglia in modo netto, negli anni dei restauri stilistici, contro i restauri falsificatori.
Per Ruskin il restauro è la più totale distruzione che un edificio possa subire, alla fine della quale non
rimane nemmeno un resto da raccogliere. Una distruzione accompagnata da una falsa descrizione
dell'opera: il restauro, cancella, sottrae, elimina e poi mette una falsa descrizione. È impossibile
restaurare perché è impossibile riprodurre il pensiero dell’esecutore. quando una superficie per la sua
consunzione (per vento e per pioggia) perde qualche centimetro non bisogna intervenire in quanto il
tempo abbellisce e non distrugge. Bisogna prendersi cura degli edifici e non abbandonarli per poi
sottoporli al restauro falsificatore.
Ammette però la cerchiatura, la centina, il puntellamento e dice di non preoccuparsi se questi interventi
possano risultare brutti perché almeno l’edificio non cade a pezzi. (è meglio che stia con le stampelle
piuttosto che senza una gamba!) 30
Spiega poi perché si restaura: lo si fa per la memoria, per le generazioni future; siamo in un flusso e non
abbiamo il diritto di interromperlo, nel senso che non abbiamo il diritto di distruggere ciò che non
abbiamo costruito noi. Sempre Ruskin, in ultima istanza, critica l’industrializzazione e le ferrovie, segno di
distruzione della vita agreste.
William Norris
Principale allievo di Ruskin, nasce nel 1834 e si forma ad Oxford dove ha contatto anche con i
prerafaelliti. Realizza quella che per molti è considerata un antesignana dell'architettura moderna, ossia
la Red House con Philip Webb, architettura moderna perché per la prima volta gli spazi vengono usati
e pensati in maniera funzionale e distributiva, si supera lo schema degli spazi bloccati dalla simmetria
avendo una pianta irregolare. Oltre alla Morris, Marshall, Faukner&Co., fonda la SPAB (Society for the
Protection of Ancient Building) una società che si propone di proteggere gli antichi edifici, di mettere in
pratica le teorie di Ruskin e contrastare i restauri falsificatori. Nel 1887 fonda la Arts and Crafts, permettere
al pari livello l'arte con le arti minori (arti decorative, tapezzerie). Interessante è la sua descrizione
dell’architettura, data durante una conferenza: “l'architettura è l'insieme delle modifiche e delle
alterazioni operate sulla superficie terrestre in vista delle necessità umane ad eccezione del deserto”,
l'uomo per vivere produce architettura.
Manifesto
Nel manifesto si afferma che nell'ottocento abbiamo assistito alla morte dell'architettura come arte
popolare che si è rivolta alla conoscenza del passato. Si afferma inoltre che l'ottocento non ha prodotto
un proprio stile: da questa carenza è nata l'idea del restauro, collegato alla morte dell'architettura.
Morris per concludere propone la tutela al posto del restauro, costruire o aggiungere qualcosa di nuovo
ad un edificio in pessimo stato piuttosto che alterarlo con un restauro.
La S.P.A.B agì non solo a livello locale, si dotò, infatti, di un Foreign Commettee/Office per occuparsi
anche di quello che accadeva nel Continente. In particolare, mostrò un’attenzione speciale per
Venezia, città in cui già Ruskin aveva denunciato una serie di restauri sconsiderati. Appena un anno
dopo il Manifesto, la S.P.A.B. interviene contro i restauri in corso alla Basilica di San Marco.
Nel 1879, la S.P.A.B. scriverà degli articoli molto duri contro i restauri sostitutivi che Giovan Battista
Meduna stava effettuando sulla facciata di San Marco sostituendo molti marmi antichi con nuovi conci
(secondo il criterio di Viollet: nuove pietre più resistenti). Nasce una polemica durissima, gli inglesi hanno
come portavoce un veneziano Alvise Zorzi e alla fine otterranno la sostituzione di Meduna con Pietro
Saccardo, architetto più capace di resaturare i monumenti. Tutto accade nell’anno in cui muore Viollet.
Gli inglesi si accaniscano con Venezia perché lì si stavano succedendo una serie di restauri “spaventosi”
come quello del Fondaco dei Turchi ad opera di Federico Berchet. Coronamenti eliminati e reinventati.
Dagli echi del restauro stilistico agli albori del restauro filologico: Federico Travaglini, Alfonso
Rubbiani, Camillo Boito e il neo-medievalismo italiano.
In Italia la questione del restauro è influenzata da due poli: quello francese con Viollet-le Duc e quello
inglese con Ruskin e Morris. L’800, con il filone romantico, segna un momento di riscoperta dell’età
medievale anche in Italia. Le figure più rilevanti nel restauro in questo periodo sono Federico Travaglini
(Napoli), Alfonso Rubbiani (Bologna) che più appoggiavano il filone francese e Camillo Boito che si
configura come personaggio di transizione, a cavallo tra due secoli, che sarà fortemente contrario alla
visione di Viollet-le-Duc. Il suo, infatti, sarà un restauro di tipo filologico. La filologia è una disciplina che
nasce nell'ottocento e consiste nell'analisi dei testi antichi in maniera critica, tale disciplina viene
applicata anche all'architettura che viene vista come un testo del quale bisogna fare un’esegesi,
bisogna cioè tracciarne una biografia, ricostruire tutte le fasi della sua vita. Dal 1879 alla 1883 le teorie
di Boito avranno un'evoluzione da portarlo nel 1883 a contribuire a scrivere la prima carta italiana del 31
restauro, il primo documento, cioè, che stabilisce in 7 punti come affrontare ed eseguire il restauro.
Bisognerà attendere poi l’unità d’Italia e l’annessione di Roma del 1870 per poter pensare a
provvedimenti riguardanti il restauro di stampo nazionale.
Federico Travaglini
La sua attività si esplica prima dell’unità d’Italia, prima della questione “nazionale” del restauro.
Il suo lavoro sarà incentrato principalmente a Napoli e in Puglia.
Nasce nello stesso anno di Viollet, 1814, si forma presso l’Accademia delle Belle Arti.
Travaglini interviene nel restauro della chiesa di San Domenico Maggiore tra il 1850 e il 1853: esso
rappresenta l'intervento più emblematico per comprendere il suo approccio al restauro e il confine tra
restauro stilistico ed abbellimento. Restaurò molte cattedrali, intervenendo sul romanico alla maniera di
Viollet-le-Duc, spogliando l’edificio della fase barocca per ritornare a quella puramente medievale.
Il suo lavoro è immerso in un contesto in cui è molto forte la presenza dello stile neogotico.
Nel 1855 Travaglini scrive delle pagine che riprendono molto il pensiero di Viollet-le-Duc: il tempo deturpa
le forme degli edifici che devono tornare al “primitivo decoro”. Travaglini risulta più attento ai “ruderi
parlanti”.
Alfonso Rubbiani
Nasce nel 1848, si forma nel campo del diritto e si avvicina ai monumenti antichi per passione.
Interessante la fondazione, nel 1898 di una società, “Aemilia Ars”, simile alle “Arts&Crafts” di Morris.
Nel 1899 costituisce un comitato per Bologna che promuove numerosi restauri, per cui tra la fine
dell’Ottocento e gli inizi del 900 Bologna è invasa da restauri stilistici. (un po’ anacronisticamente in
quanto ormai nel ‘900 l’approccio al restauro è filologico, motivo per cui verrà parecchio criticato).
Camillo Boito
Grande esponente della cultura milanese.
Combatte l’esercito austriaco insieme ai garibaldini, a differenza di Rubbiani. Insieme a suo fratello, una
volta trasferitosi a Milano, diventa esponente della corrente letteraria della “Scapigliatura Milanese”.
Nel 1891, grazie a lui, vengono istituiti gli uffici regionali per la conservazione dei monumenti, veri e propri
antesignani delle Sovraintendenze.
Dopo 10 anni dalla scrittura dei 7 punti, Boito ritorna sul numero due, riguardo le aggiunte, attraverso
una sua antologia intitolata “Questioni pratiche di belle arti” dove afferma che le aggiunte era diversa
dal monumento, con uno stile diverso. Si assume un atteggiamento più prudente rispetto alla
precedente parola utilizzata (stile “contemporaneo”), in quanto lo stile contemporaneo potrebbe
essere in forte contrasto con quello antico del monumento.
Boito fonda negli anni ’80 una rivista “Arte italiana decorativa industriale” con la quale contribuì alla
diffusione delle arti minori e all’insegnamento delle arti minori nelle accademie.
Rapporto antico/nuovo = Architettura contemporanea e preesistenza storica
Intervenire con l’architettura contemporanea, come previsto dalla corrente del restauro critico, significa
avere una sensibilità maggiore perché è difficile far convivere due stili così diversi.
Quando perdiamo un bene in cui ci identifichiamo in maniera improvvisa, ciò che proviamo è un senso
di perdita, perdita di un bene in cui si riconoscono le radici della storia.
Il 14 luglio del 1902 esso crolla con la distruzione della loggia del Sansovino e di una parte della Biblioteca
che sorgeva in sua prossimità. Il suo crollo fa aprire un dibattito che vede coinvolti vari personaggi:
Giacomo Boni, sovrintendente a Venezia, che recupera nel 1903 gli elementi superstiti, Luca Beltrami
(autore del restauro del Castello Sforzesco a Milano e grande interprete del restauro storico) termina
l’opera di recupero e ricostruzione storica dei documenti ma lascia l’incarico perché il dibattito sulla
ricostruzione era poco lineare.
Lo si ricostruisce con forme identiche a quelle precedenti, ma con materiali diversi. Pertanto, il
campanile attuale è il campanile ricostruito nel 1912 in cemento armato e mattoni all’esterno.
Ciò perché esso rappresentava il segno di Venezia, anche dal mare, un simbolo per i cittadini.
Il compito del restauratore in casi come questi si complica perché oltre all’istanza del restauro, egli deve
tener conto di aspetti di natura tecnica, economica e culturale e deve considerare quella che Roberto
Pane, negli anni ’60, ha definito istanza psicologica ossia la volontà della società di rimuovere l’evento
luttuoso e di essere risarcita di quella perdita. In particolare, il tema della perdita è particolarmente
centrale per le ricostruzioni postbelliche dove l’istanza psicologica si lega anche alla volontà di
contrastare un disegno, politico e militare. È il caso della chiesa di Santa Chiara a Napoli che viene
danneggiata non dalle bombe, ma da uno spezzone incendiario che nell’agosto 1943 incendia la
chiesa. Si distruggono tutti gli apparati barocchi e crolla anche la copertura lignea. Si brucia, dunque,
tutta la fase barocca. Anche per Santa Chiara c’è stato un dibattito che ha visto opporsi coloro che
volevano ricostruire la Chiesa lì dov’era e anche nelle forme con coloro, come Cesare Brandi, che non
volevano ricostruirla bensì lasciarla allo stato di rudere e costruire accanto una nuova chiesa.
In questo caso il ricorso all’istanza psicologica di Roberto Pane prevalse e quindi si scelse di ricostruire la
chiesa nelle sue forme medievali (c’erano più tracce delle forme medievali) con copertura in cemento
armato a finto legno. Le aperture laterali, trasformate nel corso del ‘‘700, furono riportate alla forma
gotica per omologarle al resto della chiesa. Si decise di ricostruire la chiesa e di non lasciarla allo stato
di rudere ed in particolare, si decise di ricostruirla nella fase di cui rimanevano maggiori tracce ovvero
la sua immagine medievali, mentre la fase barocca fu totalmente cancellata dall’incendio.
1. Ricostruzione identica*;
2. Ripristino tipologico alla Saverio Muratori, che aveva parlato per gli interventi urbani di ricreare
la maglia urbana (“ammagliandola”, è una riparazione del tessuto) con edifici “ambientati”: in
apparenza antichi, ma con materiali moderni; (esempio: centro storico di Bologna);
3. Strada suggerita dal restauro critico: inserimento dell’architettura contemporanea in dialogo
con l’antico;
Per tutti gli anni ’50 e ’60 si tengono una serie di convegni in tutta Italia, specialmente tra Torino, Firenze
e Venezia. Uno di questi si tiene nel 1964 a Venezia ed è intitolato “Gli architetti moderni e l’antico”.
In tali convegni si incontravano non solo i progettisti, ma anche restauratori, urbanisti e storici
dell’architettura per discutere come intervenire. Al loro interno si distinguono due fronti: 35
da un lato, coloro che si opponevano all’inserimento dell’architettura contemporanea nei centri storici;
tra essi, ricordiamo Leonardo Benevolo (autore del piano per il centro storico di Palermo), Antonio
Cederna (giornalista ed opinionista, molto importante in quegli anni per la sua lotta contro l’abusivismo
edilizio) e Cesare Brandi (autore della teoria del restauro ancor’oggi usata, era uno storico dell’arte).
Sono personalità che si oppongono in quanto i centri storici sono fatti da edifici costituiti in muratura
piena, tradizionale (tufo giallo, pietra naturale), hanno appoggi continui e non puntuali, in essi prevale
la massa e le aperture sono assai ridotte. Tutti i centri storici sono dei palinsesti, frutto della
sedimentazione di epoche diverse (fa eccezione San Pietroburgo che è una città omogenea perché
nasce per celebrare Pietro il Grande nel 1600). Napoli è un classico esempio di palinsesto che parte
dalla colonia panellenica di Puri e arriva al 2018 senza soluzione di continuità. Se si inserisce al loro interno
un’architettura contemporanea fatta con tecniche diverse che consentono all’architetto regole
costruttive prima impensabili, consentono
forme completamente aliene al contesto del centro storico.
Dall’altro lato c’è il fronte progressista che vede al suo interno: Roberto Pane (fondatore della
facoltà di architettura di Napoli), Bruno Zevi e Ernesto Nathan Rogers (all’epoca direttore della
rivista “Casabella Continuità”); essi si battono per la convivenza dell’architettura contemporanea
con i centri storici. Tutte le epoche hanno lasciato un segno nella storia, per cui anche quella
contemporanea può lasciare un segno in questo palinsesto stratificato. Sono favorevoli ad inserire
architetture contemporanee all’interno dei centri storici bombardati ma con posizioni non omogenee:
Pane parla di un’architettura moderna che sia volumetricamente e per altezza non invadente rispetto
alla preesistenza; per lui l’architettura contemporanea deve comunque rispettare il genius loci e la
preesistenza, senza sovrastarla. Zevi, invece, afferma che l’architettura contemporanea è fatta di libertà
stereometrica, è
fatta di regole diverse dall’architettura preesistente e non si può “imbavagliare”; quindi, bisogna far
dialogare l’architettura contemporanea con le preesistenze ma non necessariamente in accordo,
anche in contrasto.
Spagna
Nonostante in Spagna non si studi il restauro (le uniche due cattedre sono a Valencia e Granada) e non
ci sia un grande dibattito al riguardo, è presente una forte sensibilità nell’esprimersi con architetture
contemporanee accanto alle preesistenze.
Monastero de Roja
Si progetta l’ingresso del complesso museale con una copertura in legno lamellare che si poggia sui
ruderi dell’arco. Non demolisce l’arco, segna la distanza tra architettura contemporanea ed anticipo
in maniera molto meditata e pensata. Interviene in maniera organica, senza stravolgere o strafare.
Portogallo
In Portogallo, la scuola di Porto ha lasciato un segno nel modo di
progettare che si caratterizza per la sua efficace capacità di
rapportarsi con la preesistenza. A questa scuola si riconducono grandi
nomi come Souto de Mura, Alvaro Siza e il maestro Fernando Tavora.
Quest’ultimo viene incaricato dalla città di Porto di intervenire nel
cuore del centro storico di Porto, accanto al centro religioso: la
cattedrale. L’incarico consiste nel progettare un edificio per il potere
temporale: la torre dei 24 notabili (dei 24 quartieri della città di Porto).
La torre, fatta in pietra, era stata danneggiata durante la Seconda
guerra mondiale per cui alla fine degli anni ’80 viene dato l’incarico
al maestro della scuola di Porto di riprogettare la torre o quantomeno
completarla.
La torre sorge accanto alla cattedrale di Porto, la quale presenta una
cordonata ovvero una scala in salita, tipica delle città portoghesi. La
torre di Tavora si giustappone accanto ai ruderi della vecchia torre.
Tavora, invece di ricostruirla, prendo lo spunto per costruirne una
nuova. La nuova torre è piccola, rispettosa di quella antica, misurata
che ha il compito di essere una sorta di memoriale del potere temporale. Essa presenta due parti cieche
e una parte vetrata che tieni in piedi una statua che guarda verso la valle, verso la città. La torre nuova
si pone accanto a quella vecchia ma con distacco, torre che non insiste sulla preesistente.
Italia
Teatro Carlo Felice, Genova, Aldo Rossi
Il teatro che era stato bombardato durante la Seconda guerra mondiale viene
ricostruito da Aldo Rossi. La torre scenica è molto alta ma viene lasciata nella parte
retrostante. L’idea di Rossi, come traspare dai suoi schizzi, era quella di portare
l’esterno all’interno.
In questo modo abbiamo appena definito tutte le categorie di monumenti. I monumenti antichi
racchiudono le altre due categorie di monumenti. Ritornando all’esempio iniziale la statua di Marco
Aurelio è un monumento intenzionale perché nasce per celebrare il potere e l’imperatore, allo stesso 41
tempo è un monumento storico perché testimonianza di come si facevano le statue nel II secolo d.C.,
ed infine è anche un monumento antico già solo per l’apparenza non moderna ci testimonia un
passato.
Questi monumenti comportano un’articolazione in valori, due sistemi di valori:
1. I valori in quanto memoria (attengono al fatto che i monumenti arrivano dal passato);
2. I valori contemporanei (per il fatto che essi sono ancora presenti qui ed ora).
Valore storico
Esso attiene ai monumenti storici. Essi vengono così definiti: “Tutte quelle opere che costituiscono un
momento significativo della storia passata, il cui valore testimoniale è attribuito dalla nostra volontà
soggettiva”. Più si conosce, più si attribuisce un valore storico. Riegl riconosce che il valore storico
richiede una mediazione culturale, è quindi soggetto ad una variabilità nel tempo.
“Il valore storico rappresenta un grado preciso dello sviluppo di un campo creativo dell’umanità” (è un
documento). Da questo punto di vista, del monumento non ci interessano le tracce degli effetti naturali
del degrado che si sono manifestate nel tempo trascorso dalla sua origine, ma ci interessa il suo stato
iniziale in quanto opera umana.” Quando lavoro con un monumento e/o documento, spero che questo
sia il più possibile integro. L’integrità è ben diversa dallo splendore. Lo splendore serve a mantenere
l’intenzionalità, l’integrità, invece, serve a capire il contenuto del docu/monumento. È un chiaro
esempio l’intervento di Dezzi Bardeschi sul Palazzo della Ragione, in cui conserva l’intonaco con le
lacune, a testimonianza di come esso venisse realizzato, con valorizzazione, quindi, del valore storico.
Valore antico
Il valore antico riguarda i monumenti antichi definiti da Riegl: “ciascuna opera dalla mano dell’uomo,
senza riguardo al suo significato e alla sua destinazione, in quanto dimostra esternamente e in modo
sufficientemente percettibile nient’altro che di essere esistita e “vissuta” prima del tempo presente.” “Il
valore dell’antico si rivela a prima vista in quanto apparenza non moderna.”
Valori contemporanei
Un’opera d’arte, un quadro non ha solo un valore storico, ma anche un valore legato all’estetica che
Riegl definisce valore contemporaneo. Esso attiene al nostro Kunstwollen, alla nostra sensibilità artistica
moderna.
Valore d’uso
Questo valore viene espresso al meglio dall’architettura. Il valore d’uso è quello che più ci ancora al
presente, comporta dei problemi enormi e confligge con gli altri valori. Un buon restauro deve tener
conto dell’equilibrio tra questi valori. Per fare degli spettacoli nel teatro di Pompei, il valore d’uso si è
fatto suggestionare e condizionare dal valore storico e antico (non vado a mettere delle poltrone). Se
si guardasse solo al valore d’uso, si altererebbero i monumenti.
Ciò accade nelle operazioni di riuso. Il restauro non mette al primo posto il valore d’uso come si fa nelle
operazioni di riuso. Il valore d’uso salta fuori quando considero la sicurezza e il grado sismico (se devo
utilizzare un edificio antico, mi devo preoccupare prima di tutto di assicurare la protezione e la sicurezza
delle persone). Si accetta che il patrimonio edilizio esistente monumentale di tipo storico, possa avere 42
un grado di risposta sismica inferiore rispetto al patrimonio costruito ex novo nel centro
abitato perché quest’ultimo coinvolge le persone e la loro incolumità.
Valore artistico
Esso non è unico, si divide in due sottovalori:
- Valore di novità
- Valore artistico relativo
Valore di novità
Il valore di novità è diametralmente opposto a quello antico. Pensiamo al Museo Guggenheim, opera
di architettura contemporanea, ci piace per la sua perfetta completezza, per la purezza dei volumi con
superfici in cls lisciate. Quest’opera non accetta il valore dell’antico ovvero è impensabile
abbandonarlo e lasciarlo degradare.
“Si propone come l’esatto opposto del valore dell’antico: apprezzamento per il carattere concluso
delle forme e delle superfici.” Se per il valore dell’antico ne apprezzavo la consunzione, con il valore di
novità apprezzo la perfezione e la completezza.
Se guardassimo con il valore di novità il Palazzo della Ragione, l’intervento di Dezzi Bardeschi non
riusciremmo ad apprezzarlo, vedremmo solo una serie di incompletezze e mancanze.
In realtà il valore di novità è in contrasto anche con il valore storico, è il valore più dirompente che
porterebbe all’idea di ripristinare tutto.
Gustavo Giovannoni
Personaggio importante sotto moltissimi aspetti: ha fondato la “Scola di Architettura” a Roma, nel 1919;
ha ereditato il lavoro avviato da Camillo Boito, di cui si considera l’erede e come, Boito ricoprirà molti
ruoli di rilievo, soprattutto nel Ministero della pubblica istruzione e nel Consiglio Superiore dell’Antichità e
delle belle arti. Giovannoni riprenderà la Carta del restauro, frutto della votazione del Congresso degli
Ingegneri e degli Architetti del 1883 e promuoverà una nuova Carta, italiana, del 1932, documento
ministeriale che definisce i principi del restauro in Italia, una vera carta e non una dichiarazione di principi
come quella di Boito.
Giovannoni ha una visione integrale, che tiene conto di tutte le scale: dall’architettura, alla città, fino al
paesaggio: è grazie a lui che abbiamo la prima legge sulla protezione delle bellezze naturali in Italia nel
1939, che è il fondamento del codice dei beni culturali e del paesaggio impiegato oggi.
Si appassiona alle trasformazioni urbane e all’ingegneria sin da bambino, avendo vissuto le
trasformazioni che Roma Capitale stava subendo; dopodiché, per senso di incompletezza, si avvicina
anche alla storia dell’arte. Sarà un ingegnere-umanista.
In uno dei suoi articoli “diradamento edilizio dei vecchi centri” utilizza la parola “diradamento” in
maniera originale, facendola diventare bandiera del suo approccio al problema dei “vecchi centri” (e 43
non centri storici, in quanto all’epoca si parlava di vecchie città) vuole proporre un’alternativa agli
sventramenti e alla demolizione della città.
Il suo rapporto con l’architettura contemporanea è un po’ controverso, perché progressivamente
arriverà a chiudersi nei suoi confronti, fino al rifiuto: vedrà il moderno come rottura con la tradizione.
Il primo movimento italiano di architettura moderna inizia nel 1928 con una mostra del MIAR (Movimento
Italiano di Architettura Razionale): egli vede in questa cosa il rischio della perdita della tradizione
architettonica italiana. Scriverà dei grattacieli degli Stati Uniti e riflette sui loro aspetti costruttivi,
criticandone decorazioni derivanti da altri stili (spesso i grattacieli riprendevano il neogotico): in questo
caso si esporrà a favore della semplicità moderna, mostrando la pura costruzione invece che finti orpelli
che non hanno nulla in comune con la struttura in acciaio presente dietro. In una prima fase è
favorevole al moderno e tale attitudine la ritroviamo nel progetto del complesso della Birreria Peroni a
Roma, con in particolare il progetto dello Chalet Birreria, realizzato nel 1902, in
cui inserisce timidamente del linguaggio liberty, che si stava diffondendo in
Italia in quel periodo.
La progettazione del complesso continua fino al 1913 con la realizzazione del
padiglione su Via Alessandria, il progetto più interessante di Giovannoni, che
non a caso è di un padiglione industriale; per le costruzioni di questo tipo,
secondo Giovannoni, si poteva essere liberi di progettare secondo lo stile
moderno/contemporaneo, a differenza dei progetti di residenze per il centro
della città, dove c’era la necessità di adeguarsi allo stile delle costruzioni esistenti: un chiaro esempio è
quello del Palazzetto Torlonia nella centrale via Tomacelli, dove Giovannoni realizza un impaginato di
architettura eclettica che recupera elementi stilistici di varia provenienza con un
gusto tipicamente tardo-ottocentesco.
È dell’opinione che la Storia dell’architettura vada studiata attraverso il rilievo
diretto degli edifici, non attraverso le fotografie come si approcciava alla storia
dell’arte.
Nel 1903 Giovannoni partecipa al Congresso Internazionale di Scienze Storiche a
Roma, e ad una sessione che si occupa di restauro. La cosa è strana perché lui si
trova in un contesto di storici dell’arte, che hanno letto Ruskin (diffuso in Italia
grazie alle traduzioni francesi) e stava passando l’idea dell’antirestauration movement. Giovannoni si
trova in una importante sessione del convegno in cui si vota per la prosecuzione dei lavori per la facciata
del Duomo che secondo uno storico dell’arte polacco, non doveva essere portata avanti in quanto
falsa. Ciò lo colpisce tanto che decide di scrivere una recensione al convegno “i restauri dei monumenti
e il recente progresso storico”, pubblicata sul bollettino della SIAI: è la prima volta che esprime posizioni
sul restauro, parere molto da ingegnere, volto ad evitare che si arrivi ad una paralisi del restauro, perché
gli storici dell’arte dicevano di non far nulla perché tutto avrebbe falsificato i monumenti.
La sua opinione al riguardo è che bisogna capire in che condizioni si trova il monumento e quali sono i
margini possibili di un intervento.
Nel 1903 quindi, quando scrive questo articolo, prova a fare una classificazione dei tipi di restauro, in
rapporto alle finalità fondamentali dell'opera di restauro e progressivamente più estensivi:
- di consolidamento: diretto alla staticità della struttura indebolita - intervento da compiere tramite
le risorse della tecnica più aggiornata
- di ricomposizione: restauro per anastilosi con eventuali integrazioni distinguibili nessun elemento che
modifichi l'edificio, né l’interesse storico-contemplativo, nessuna modificazione d'uso
- di liberazione: eliminazione delle aggiunte, interne o esterne, eliminazione di ‘masse amorfe’ che
danneggiano le preesistenze;
- di completamento: cioè di integrazione di lacune per motivi di carattere strutturale, di continuità
formale, per ragioni d'uso. Ovvero prevedendo aggiunte, seppure limitate, ed escludendo
rifacimenti e inserzioni attuali, secondo il principio del “minimo lavoro”, fare il minimo necessario;
- d'innovazione: per una nuova funzione o quando necessita di una nuova costruzione che ne
garantisca l'esistenza o quando s'innesta un organismo completamente nuovo (rendendo lecita
anche l’aggiunta di parti di nuova concezione ed il rinnovamento di quelle esistenti): le nuove parti 44
devono essere caratterizzate da un linguaggio diverso rispetto a quello antico, per potersi
distinguere.
Monte Vergine nel 1912-13, dove propone una soluzione che vede interventi abbastanza pesanti sulla
facciata della chiesa, che aveva avuto anche interventi successivi alla sua fondazione, riportandola a
uno stato romanico originario sulla base di poche tracce. Si avvicina alle posizioni di Beltrami, sono
restauri lontani da quello che poi lui professerà nel restauro filologico.
Sant’Andrea a Orvieto, un restauro abbastanza complesso, poiché nella stessa chiesa convivono diverse
fasi del monumento: una fase romanica, di cui sopravvive l’impianto generale della chiesa, assieme ad
una fase gotica che Giovannoni ritrova nelle cuspidi triangolari che sormontano la facciata che sono
un tema tipico del gotico italiano. L’intervento è molto pesante, un ritorno all’impostazione romanica
della facciata, demolizione delle cuspidi, apertura di un rosone che non c’era più, liberazione dal corpo
di fabbrica addossato alla sinistra ed intervento sul campanile. Quest’ultimo aveva una caratteristica
pianta dodecagonale: decide quindi di attuarne la medievalizzazione in quanto scopre un ordine di
bifore murate che decide di aprire; con l’avanzare degli interventi scopre sempre nuove tracce che
porteranno a un intervento molto pesante attuato, di libera interpretazione (per cui almeno applicherà
il principio della distinguibilità) per cui riceverà anche molte critiche.
Giovannoni in questi anni comincia a guardare anche la questione urbana romana. A Roma c’erano
stati i piani fatti da Alessandro Viviani nel ‘73 e ’83, molto invasivi, ed era stato realizzato il primo impianto
del quartiere Prati, ormai cresciuto, dove era il Palazzo di Giustizia (dibattito di fine ‘800), il Palazzaccio,
tutto realizzato nell’arco di 20 anni.
Dal 1907 al 1913, si affida l’incarico della redazione di un Piano Regolatore, a Saint Just che propone nel
1908 un piano che prevedeva un’espansione controllata, mirata, caratterizzata da grandi spazi verdi e
in cui si prevedeva che complessi come le Terme di Caracalla, venissero considerati per la prima volta
parchi archeologici e parte integrante del tessuto connettivo fondamentale per l’espansione urbana.
Risulta, quindi, come un piano estremamente positivo, fatto con ragione, eccezion fatta per un
intervento che fa adirare l’associazione artistica dei cultori di cui Giovannoni era presidente nel 1910:
l’intervento sulla parte antica della città. In particolare, spiccava (lo scrivono i cultori, Giovannoni per
primo) una strada, enorme rettifilo ottenuto con l’ampliamento della strada romana, via Recta, che
doveva collegare la zona del potere governativo (Montecitorio e Palazzo Chigi) verso il Tevere, in un
ideale connessione verso l’area del vaticano (senza volontà di conciliazione, che arriverà molto dopo),
per esigenze di circolazione. Però lo faceva tagliando il cuore della città antica molto stratificata,
toccando anche l’emiciclo nord di piazza Navona. Nasce, quindi, un’azione di protesta che porta al
ragionamento di Saintjust per arrivare alla soluzione del problema: una soluzione conserva e migliora,
talora spostando, con accusa di vandalismo, ma
si può anche abbandonare la linea retta e serpeggiare tra gli edifici mettendolo in valore con gli
allargamenti e con ripulitura della via. La conclusione è interessantissima perché mostra che Sanjust già
ha orecchiato che c’è anche una tendenza diversa, che il tema del diradamento, dell’allargamento,
sta diventando qualcosa di cui si discute in Italia. E infatti prevarrà quest’altra soluzione, perché
Giovannoni come presidente dell’Associazione Artistica nel 1910 propone e pubblica nel 1911 una
proposta alternativa della sistemazione del Rione Ponte.
Per Sanjust il tema era la strada, il tessuto urbano era rilevato ma non studiato nella sua identità; il disegno
di Giovannoni mostra delle parti campite più scure, che sono gli edifici che lui chiama capisaldi
immutabili, che non si possono demolire, elementi di valore storico e artistico che lui preventivamente
individua come da conservare.
Si tratta di una logica diversa che oppone una visione della città che mette la storia in primo piano, non
come un problema ma come un elemento da valorizzare.
I due articoli di Giovannoni, “Vecchie città in edilizia nuova” e “Diradamento edilizio dei vecchi centri” 45
Molto caratteristica è la progettazione delle reti stradali, curvilinea, seguendo la morfologia del territorio
e attuando la politica anti-geometrica dell’urbanistica del tempo, fondata sull’arte urbana, che aveva
avuto ampia diffusione in Europa dopo che Camillo Sitte ne aveva scritto nel 1889.
Il clima positivo viene interrotto dall'instaurazione del governo fascista nel 1922; il governo cambia
radicalmente tra il 22 e il 25 soprattutto a seguito dell'omicidio di Matteotti nel giugno del 1924: i deputati
socialisti che per rifiuto del fascismo sono usciti dal Parlamento si rifugiano sull'Aventino;
nel 1925 Mussolini annuncia il fascismo e si assume la responsabilità dell'omicidio di Matteotti: non
esisteranno più i sindaci ed elezioni, la camera è sostituita dalla Camera dei fasci (in cui non esiste altro
orientamento politico) e corporazioni (tipo sindacati).
Già nel 1924 il regime nomina commissione per rifare il piano regolatore generale di Roma: si propone
un intervento massiccio in cui si prevede la demolizione di gran parte del tessuto urbano per far posto a
nuovi edifici monumentali; il piano non fu attuato anche grazie all'intervento di Giovannoni.
viene redatta una variante generale al PRG in cui si elimina tutto il verde o quasi previsto nel piano
regolatore di Saint Just; Giovannoni e Piacentini devono assecondare il regime;
Si giunge nel 1929 ad uno scontro tra due visioni diverse della città storica tra Giovannoni e Piacentini;
Giovannoni entra a far parte di un gruppo di architetti favorevoli ad un'architettura monumentale in cui
si trascura l'attenzione al centro storico; il gruppo concede a Giovannoni di salvare almeno il quartiere
rinascimentale a sfavore però della parte seicentesca della città. È proposto un sistema cardo-
decumanico, ossia con un cardo e un decumano, due strade che si intersecano con una grande piazza
al centro, con una parallela a via del Corso. Il tema delle parallele è molto diffuso in quel periodo, ad
esempio a Napoli viene proposta una parallela a via Toledo che tagliava i quartieri spagnoli, e resta nel 46
dibattito urbanistico fino agli anni ’70, con l’idea di drenare il traffico.
Pur di assecondare il regime, dunque, vengono portate avanti delle posizioni che negano gli stessi
principi degli architetti.
Viene progettata via dei Fori Imperiali, che taglia l’area archeologica di Roma, fino a Palazzo Venezia,
sede del governo di Mussolini, dal cui balcone viene proclamata la Seconda guerra mondiale. Il
fascismo incanala il malcontento della Prima guerra mondiale e tutto quello che ha a che fare con la
prima guerra monumenti, ossari, monumenti al milite ignoto vengono molto evidenziati.
Per Mussolini l’unica parte da conservare era la romanità, per ricordare al mondo la gloria dell’Italia. In
una certa misura l’esaltazione della romanità porta a degli studi giunti fino a noi, gli studi latini vengono
molto potenziati. Nel discorso del ’25 Mussolini non parla solo di politica ma anche di queste cose, si
rivolge alla Sovrintendenza dicendo che deve liberare i monumenti romani da quello che intorno li
ingombra e li soffoca, devono giganteggiare in una necessaria solitudine. Si torna alle logiche
ottocentesche di come il monumento veniva isolato ai tempi di Haussmann.
Piacentini, dunque, accusa Giovannoni, in quanto proprio lui era stato il teorico del diradamento, colui
che aveva insegnato a rispettare la città storica, aveva firmato questo intervento.
Piacentini si unisce e a un gruppo di urbanisti più giovani, tra cui Luigi Piccinato, di visione più moderna,
il gruppo GUR gruppo urbanisti romani, ragazzi quasi tutti appena laureati, che in maniera molto più
moderna propone uno sviluppo di Roma verso est, lasciando quasi intatto il centro storico, verso
l’esquilino.
Dunque, c’è un’idea di decentramento molto più moderna nel piano di Piccinato e Piacentini rispetto
a quello di Giovannoni.
Mussolini Incarica una nuova commissione con l'obbligo della realizzazione in sei mesi del piano di Roma
(mettendo insieme Giovannoni e Piacentini).
Verrà realizzata anche l'espansione verso est proposta dal gruppo di Piacentini, ma
contemporaneamente avverranno molte liberazioni archeologiche nel cuore della città:
si demolisce il quartiere Alessandrino per realizzare la via dei Fori Imperiali, il quartiere rinascimentale sarà
l'unico ad essere conservato secondo gli originari principi di Giovannoni (verrà solo allargata una strada
dietro piazza Navona), per il quartiere verrà infatti redatto un piano particolareggiato;
In questi anni Giovannoni pubblica Vecchie Città Ed Edilizia Nuova Considerato il primissimo manuale
di urbanistica italiano, in quanto originariamente pensato come una collana di urbanistica; fino ad
allora, infatti, la disciplina non esisteva e dal 28 si inizierà ad insegnare nelle università (Piccinato lo farà
a Napoli);
In punto di morte Giovannoni scriverà il libro “il quartiere romano del Rinascimento” in cui difende lo
sventramento per collegare idealmente Castel Sant'Angelo a San Pietro, voluto da Mussolini (ma
realizzato negli anni 50), molto criticato poiché finisce per ridurre la grandiosità e la sorpresa dovute alla
basilica di San Pietro e al Porticato di Bernini.
Gli ultimi anni di Giovannoni sono dedicati alla tutela del paesaggio: egli, infatti, scrive la più importante
legge per la protezione delle bellezze naturali, introducendo nel 1938 i piani paesistici (oggi piani
paesaggistici) che disciplinano lo sviluppo edilizio a tutela delle aree di pregio. A Capri, prima
applicazione, si va a preservare tutto il costone della collina di Tiberio, su cui è anche consentita
l’edificazione seppur con indice di fabbricabilità basso.
Gino Chierici
Gino Chierici nasce a Pisa nel 1887. Nel 1910 diviene funzionario presso la Sovrintendenza di Pisa, dove
entra a far parte della commissione per la torre pendente.
1919-1924 Sovrintendente a Siena, dove restaura la chiesa di S. Galgano: La chiesa di S. Galgano è
immersa nella campagna senese e ancora oggi rappresenta
uno dei restauri più interessanti del centro Italia. Il dibattito
47
portava alla forte volontà di ricostruzione della chiesa, che
Chierici contrasta, decidendo di non ricostruire il tetto, lasciando
così la chiesa allo stato di rudere, incompleta. L' intervento di
Chierici è però comunque massiccio. È principalmente un
intervento che mira a consolidare la parte strutturale, la
muratura, gli orizzontamenti e i contrafforti.
Il tempo ha dato ragione a Chierici in quanto la chiesa è ancora oggi sede di moltissime manifestazioni
all' aperto e si inserisce incredibilmente all' interno del paesaggio circostante.
1924-1935 Sovrintendente all' arte Medievale e Moderna a Napoli. Realizza il restauro della chiesa
dell’Incoronata a via Medina, della chiesa di Donna Regina Vecchia e di San Lorenzo Maggiore.
Durante questo periodo insegna Restauro presso l’Università di Napoli.
soprintendente Gino Chierici, per concludersi nel 1934. Oltre a mettere in luce le strutture trecentesche,
con la necessità di effettuare numerose integrazioni, l’intervento – che si segnala tra i restauri più
interessanti svolti all’epoca in Italia – affronta il difficilissimo tema della liberazione dell’abside
trecentesca dalle strutture realizzate in età barocca, giungendo a spostare un’intera parete del coro
della chiesa nuova, affrescata dal Solimena, con l’ausilio di una complessa “macchina” progettata
dallo stesso Chierici. Le lacune pittoriche vengono trattate a tinta neutra. Cesare Brandi
successivamente dirà che nella percezione visiva, la lacuna trattata a tinta neutra è preminente rispetto
al resto del dipinto. Brandi, infatti, proporrà il rigatino: continuare il racconto del quadro con un tratto
distaccato, così che da lontano si possa percepire l'unità potenziale e da vicino vedere chiaramente
che è un'integrazione.
Tomba di Virgilio
Realizza l'attuale sistemazione che vediamo oggi prima di imboccare la Galleria Laziale.
Roberto Pane
Nato a Taranto, studia a Napoli il biennio di ingegneria e si laurea a Roma sotto Giovannoni.
Personaggio molto poliedrico, sarà un grande appassionato di fotografia e arte.
Molto influenti nella sua vita sono stati lo stesso Giovannoni e il filosofo Benedetto Croce.
Tornato a Napoli, Pane collabora con Giovannoni nel 1926 alla reazione del Piano Regolatore della
città. Prevede il risanamento del rione Carità realizzato durante il regime fascista.
Negli stessi anni Roberto Pane realizza alcune opere a Napoli: partecipa e vince al concorso per la
realizzazione del frontone della galleria Vittoria, realizza il centro congressi e scuola di scienze
economiche e commerciali della Federico II sul lungomare.
Durante la Seconda guerra mondiale Napoli subirà devastanti bombardamenti che riguarderanno
anche il centro storico, molto vicino in linea d’aria agli obiettivi strategici da colpire (il porto, ad 49
esempio): nasce quindi, a partire dal 1943, una Sub-commission on Fine Arts and Archives, una sotto-
commissione alleata che si occupa di monumenti, archivi, beni culturali.
Ad occuparsene i cosiddetti monuments-men, elementi dell’esercito americano che nascevano come
architetti e poi, chiamati alle armi, avevano occupato i ranghi più alti dell’esercito: erano ben
consapevoli di dover agire per proteggere i beni culturali che venivano distrutti; Paul Gardner, capo
della sotto-commissione a Napoli, architetto direttore del museo di Kansas City in America, salva Santa
Chiara. Sono Gli americani che stanziano i fondi per i restauri: cho spinge a tipologia di restauro anche
un po’ più ricostruttive rispetto a quelle che avremmo fatto noi, in quanto c'è una forte volontà di
rimarginare la ferita creata dagli americani stessi, che per ragioni estetiche, idealizzano l'arte italiana.
La chiesa di Santa Chiara era stata pesantemente danneggiata da uno spezzone incendiario che la fa
bruciare per tre giorni: l'unica testimonianza gotica rimasta della Chiesa erano le tre tombe dei re
angioini, tra cui quella di Roberto d'Angiò, fondatore insieme alla moglie Sancha de Mallorca, della
chiesa monastica e del monastero con più chiostri.
Si trattava di una chiesa aperta al culto, molto amata dai napoletani.
Dopo aver scritto tanto di storia e fatto opere d’architettura, per la prima volta Pane prende la parola
sul restauro. Lo fa su una rivista fondata da Benedetto Croce nel ’44, chiamata Aretusa, che è una ninfa.
Segna l’idea della rinascita il fatto che nel ’44 nascano riviste storico-letterarie, anche per il nome della
rivista stessa. C’è l’idea della catarsi dai 20 anni di fascismo, della rinascita.
Il titolo dell’articolo è “Il restauro dei monumenti”, e gran parte del corpo è dedicato al caso di Santa
Chiara, a come affrontare la discussione.
È il primo testo in cui c’è il concetto di restauro critico, fa da giro di boa rispetto all’approccio di
Giovannoni.
Dati gli ingenti danni, si arriverà al restauro dell’austerità trecentesca, nonostante sia stato comunque
necessario ricostruire moltissime cose.
“I vincoli del restauro imporranno i loro giusti e rigorosi limiti al gusto e alla fantasia, ma saranno sempre
e soltanto questi ultimi a fornire una soddisfacente soluzione del problema”.
In sostanza sta dicendo che nonostante ci si attenga a tutti i principi del restauro codificati fino ad ora,
in questi restauri del dopoguerra c’è la necessità di gettare un ponte, di inserire un elemento creativo,
perché manca talmente tanto che è necessario l’elemento di gusto.
“Ogni monumento dovrà dunque essere visto come un caso unico, perché tale è in quanto opera
d’arte e tale dovrà essere anche il suo restauro.”
Frase molto nota e identificatrice del restauro critico, completamente diverso da quello del suo maestro
Giovannoni, che aveva teorizzato delle categorie di restauro. Si vede la voglia di superare la visione
positivista.
Gli interventi sono molto estesi. La copertura, originariamente in legno, si deve realizzare
completamente ex novo. Travi di luci di 18 metri sono irreperibili, non si poteva realizzare ancora in legno
al tempo, si opera dunque in cls armato, anche per via della fiducia che c’era a quel tempo su questo,
considerato eterno e che anche la Carta di Atene, nel ’31, aveva considerato come possibilità da
applicare in tutti i casi di restauro. Le capriate saranno poi dipinte a finto legno.
Vi erano poi le finestre ancora barocche, con la bifora gotica che viene completamente ricostruita
secondo poche tracce.
Cesare Brandi proponeva di lasciare l’involucro scoperto, di lasciarla a rudere, in testimonianza della
guerra, ma l’intervento ha restituito una chiesa ai napoletani, secondo l’istanza psicologica. Pane
partecipa anche al dibattito nazionale, il paese è pieno di casi come Santa Chiara, come il
Tempio Malatestiano, anche quello quasi completamente ricostruito, poiché la facciata era ruotata
quasi di 10cm per una deflagrazione fortissima e lo spostamento d’aria, smontata e ricostruita.
Un intervento di restauro in cui Pane è stato progettista diretto, è stato quello di ricostruzione del duomo
di Teano, a Caserta. Oggi vediamo il frutto della ricostruzione interpretativa di Roberto Pane, in stile
medievale novecentesco.
Napoli non ha gradi monumenti che le danno identità, come per Roma o Firenze, ma ha un’identità 50
Tra le tante cose fatte da Roberto Pane una è importante a livello internazionale: la stesura della Carta
di Venezia. La Carta di Venezia è il documento internazionale sul restauro più famoso al mondo, risale
al ‘64, è un documento che ancora richiama molto interesse a livello internazionale. Roberto Pane,
insieme a Piero Gazzola, sovrintendente di Verona, in occasione di un grande
congresso a Venezia nel maggio 1964 e che vede la partecipazione di tantissimi architetti ed esperti
della conservazione da tutto il mondo, promuove la stesura di una carta interna del restauro nota come
Carta di Venezia. È importante perché abroga la carta di Atene del ’31.
Era la carta che Giovannoni e Chierici avevano contribuito a sottoscrivere ad Atene nel ’31, e che
era la sintesi delle idee del restauro di quegli anni, cioè prebelliche. La carta di Venezia invece
spiega e sintetizza i principi e l’approccio del restauro postbellico, cioè quello che era accaduto con la
ricostruzione. È importante leggere articoli della carta, che sono 16, perché sono ancora attuali. È un
documento importante, in particolare l’articolo 1, che è un cambiamento di punto di vista radicale che
si deve molto sia Roberto Pane che a Piero Gazzola, che presentarono all’assemblea delle proposte per
la carta, è l’articolo che sancisce l’estensione del concetto di monumento dal singolo oggetto verso
l’ambiente.
Si parla di autenticità, contro le falsificazioni che ancora nel dopoguerra si attuavano per
l’emergenza dei restauri. Per questo motivo nasce l’esigenza di scrivere una carta per il restauro del
futuro: affinché si rispetti l’autenticità delle opere.
Roberto Pane allora decide di coordinare un gruppo, anche di studenti e colleghi di altre discipline, per
studiare un piano di conservazione per il centro antico: esso era infatti minacciato da istanze speculative
fortissime.
Nel ’58 Lauro aveva provato a far approvare un piano in cui gran parte del centro antico era distrutto
da edifici moderni. Ecco il perché di questo piano pubblicato nel ’71, ma che purtroppo rimane sulla
carta, che era un piano ispirato ai criteri di restauro urbanistico, che in parte venivano da lontano. Si
capisce che era allievo di Giovannoni, e si capisce dal fatto che la parola diradamento è ancora
presente, la teoria del diradamento è modificata da Roberto Pane in senso più conservativo, bandendo
completamente l’idea del diradamento orizzontale, cioè l’allargamento di strade, come via dei
Coronari, ma sottolineando il solo diradamento verticale cioè la possibilità di abbassare di piani alcuni
edifici, perché la caratteristica di Napoli era che proprio per le prammatiche vicereali, che avevano
limitato l’espansione urbana durante il viceregno spagnolo, la città era cresciuta in verticale.
Era una città il cui sedime degli edifici era rimasto quello greco-romano. Un’insula dell’impianto greco-
romano è strettissima, tra due cardi, larga circa trenta metri, in cui gli edifici alti due piani all’epoca
romana, ma oggi alti sette-otto. L’idea del piano era di diradare alcuni di questi edifici per ottenere una
riduzione della densità del centro storico. Era la stessa idea di Giovannoni, cioè che l’unico modo di
risanare il centro storico è ridurre le funzioni del centro storico, c’erano ancora alcune funzioni
totalmente incompatibili e ci sono ancora oggi. Roberto Pane si è battuto tanto per dislocare le cliniche,
gli ospedali, che stanno nel cuore della città, posizione incompatibile con la loro funzione.
Negli anni ‘70 ha firmato, assieme a Luigi Piccinato, il piano urbanistico territoriale per la penisola
sorrentina amalfitana, ancora oggi vigente e che ha salvaguardato in buona parte il paesaggio della
costiera. Tutela i terrazzamenti che caratterizzano la costiera, coltivazioni a terrazze di limoneti, vengono
conservati come elementi qualificanti del paesaggio.
Cesare Brandi
Cesare Brandi rappresenta uno dei personaggi più importanti del ‘900; è stato uno dei pochi, insieme a
Riegl, che ha scritto un testo teorico, intitolato “Teoria del restauro”.
L’opera è stata pubblicata nel 1963 e risulta ancor’oggi molto attuale. Con Riegl, Brandi presenta
un’altra analogia: entrambi provengono da una formazione giuridica. Questo aspetto singolare è molto
interessante perché spiega, infatti, che chi è abituato alla logica giuridica, probabilmente è più versato
nell’idea di costruire una teoria.
Brandi nasce nel 1906 a Siena, in piena epoca fascista, tra il 1936 e il 1938 viene inviato presso la
Soprintendenza per l’istruzione nelle isole italiane nel Mare Egeo, nel Dodecaneso (all’epoca colonia
italiana).
Lavorava molto vicino al ministro dell’epoca ovvero Giuseppe Bottai. Quest’ultimo (definito fascista di 52
sinistra per la sua inclinazione sociale) è stato l’autore delle due leggi di tutela del 1939 poi aggiornate
nel Codice dei Beni Culturali. Il ritorno di Brandi si sviluppa con la nascita dell’Istituto Centrale del
Restauro, fondato da Bottai, su iniziativa di Argan, nel 1941. Tale istituto si pone l’obiettivo di centralizzare
tutte le pratiche di restauro pittorico e scultoreo a Roma, in una visione tipicamente fascista. La direzione
è affidata proprio a Brandi dal 1941 al 1960 (L’istituto esiste ancora ma con nome differente: ISCR ovvero
Istituto Superiore Conservazione e Restauro).
Dalle lezioni che Brandi faceva ai suoi allievi all’Istituto nasce la sua opera. Questa nasce proprio come
una raccolta delle sue lezioni fatta da un suo assistente.
Negli anni ’50 Brandi pubblica un libro che ha fatto epoca, dedicato al tema dell’architettura: “Arcadio
o della scultura, Eliante o dell’architettura”, una sorta di teoria estetica sull’architettura fondata su dei
dialoghi (come Platone).
L’opera è divisa in due tomi: uno dedicato alla scultura, l’altro all’architettura. All’interno del secondo
tomo, Brandi discuteva della legittimità dell’architettura moderna di inserirsi nei centri storici. L’opera
nasce nel contesto della ricostruzione post-bellica per questo il dibattito è aperto.
La sua posizione è stata criticata perché in essa c’è la prevalenza dell’immagine, della compiutezza di
una cosa. La posizione di Brandi è ad esempio opposta alla Pura Consevazione, un orientamento nel
quale si tende a lasciare tutto così com’è.
Queste due parti sono scindibili nel momento in cui ho la necessità di intervenire per salvarlo dalla
distruzione: in questo caso posso separare l’aspetto dalla struttura e conservarne l’aspetto che è la
cosa più importante che Brandi definisce l’epifania dell’immagine ovvero il luogo in cui l’immagine si
manifesta. Un esempio è quello dello strappo degli affreschi che è avvenuto anche a Pompei: l’affresco
è “strappato” e portato al museo, rimane il muro d’appoggio a Pompei, in situ, è un’operazione che si
fa in extremis ma che salva la pellicola pittorica.
CHIERICI -> chiesa Via Medina, acciaio nelle colonne -> distinzione tra struttura e aspetto.
3 principi:
- L’integrazione deve essere sempre e facilmente riconoscibile;
- Materia;
- Reversibilità: se è un’unità potenziale, devo poterla anche smontare perché un giorno potrei
ritrovare un altro pezzo dell’opera. Consentire interventi futuri è uno dei principi del restauro. La
reversibilità totale non esiste, è più giusto parlare di ri-lavorabilità.
La composizione dell’unità potenziale dipende dallo stato di rinvenimento dell’opera, dall’entità della
lacuna. Personaggi successivi a Brandi, come Umberto Baldini fanno una differenza tra lacuna perdita
e lacuna mancanza:
- la lacuna perdita è una mancanza così vasta che si perdono (Esempio Nike di Samotracia);
- la lacuna mancanza, invece, è una piccola mancanza (Esempio zampe del cavallo di Domiziano
Nerva). La mancanza nelle opere d’arte non ci spaventa, anzi, ci affascina perché crea una
nuova unità.
Il tempo dell’opera d’arte
L’opera d’arte ha diversi tempi ed individuarli è fondamentale per collocarsi in maniera esatta
durante il restauro. Brandi individua 3 tempi:
- Durata: corrisponde con il tempo della creazione. In architettura è molto difficile determinarlo: può
andare da anni a secoli. Pensiamo, ad esempio, alle facciate del Duomo di Milano e del Duomo di
Firenze.
- Intervallo: è il tempo che l’opera attraversa dal momento in cui è stata finita al momento in cui la
riceviamo. (Esempio: Nike di Samotracia. Esiste un tempo in cui essa è stata finita, poi ha attraversato 54
Secondo Brandi noi ci collochiamo nel terzo tempo, l’unico in cui è possibile fare un restauro.
Se ci collocassimo nel primo tempo (Durata), significherebbe metterci nei panni del progettista e
immaginarne la volontà, si tratterebbe di un restauro di fantasia, alla Viollet.
Se ci collocassimo nel secondo tempo, sceglieremmo una sola fase storica del monumento (esempio:
Castello Sforzesco, Luca Beltrami, dove si attua un restauro storico, per Brandi “di ripristino”) negando
l’intervallo si cancellano tutte le fasi attraversate dall’opera: anche in questo secondo caso, il restauro
è illegittimo; solo nel terzo tempo si può attuare un restauro legittimo.