Frank Close
Neutrino
Carlo Rovelli
La realtà non è come ci appare
La struttura elementare delle cose
Neil deGrasse Tyson
Titolo originale
Astrophysics for People in a Hurry
Copyright © 2017 by Neil deGrasse Tyson
Traduzione
Giuseppe Bozzi
ISBN 978-88-3285-034-5
© 2018 Raffaello Cortina Editore
Milano, via Rossini 4
Prefazione
Ringraziamenti
Per chi non ha tempo di leggere grandi tomi, ma
è comunque alla ricerca di un canale di accesso
al cosmo
L’Universo non è obbligato ad avere un senso per
te.
PREFAZIONE
Quando tutto ebbe inizio, circa quattordici miliardi di anni fa, tutto lo
spazio, tutta la materia e tutta l’energia dell’Universo conosciuto erano
contenuti in un volume inferiore a un milionesimo di milionesimo di quello
occupato dal punto che conclude questa frase.
Le condizioni erano talmente estreme che le forze fondamentali della
natura, con cui descriviamo l’Universo, erano unificate. Anche se non
sappiamo ancora nulla sulla sua origine, questo cosmo più piccolo di una
punta di spillo poteva solo espandersi. Rapidamente. In ciò che oggi
chiamiamo Big Bang.
La teoria della relatività generale di Einstein, secondo cui la presenza di
materia ed energia incurva la struttura dello spazio-tempo, è del 1916 ed è
alla base della nostra moderna comprensione della gravità. La meccanica
quantistica, scoperta negli anni Venti del Novecento, ci permette di
comprendere tutto ciò che è piccolo: molecole, atomi e particelle
subatomiche. Ma queste due descrizioni dei fenomeni naturali sono
formalmente incompatibili, e tra i fisici è partita la corsa a combinare la
teoria del piccolo e la teoria del grande in un’unica e coerente teoria di
gravità quantistica. Sebbene il traguardo non sia ancora stato raggiunto,
sappiamo esattamente dove sono gli ostacoli più alti. Uno di questi si trova
nella cosiddetta “era di Planck” dell’Universo primordiale. Si tratta
dell’intervallo di tempo da t = 0 a t = 10–43 secondi (un decimilionesimo di
miliardesimo di miliardesimo di miliardesimo di miliardesimo di secondo),
prima che l’Universo raggiungesse i 10–35 metri (un centomilionesimo di
miliardesimo di miliardesimo di miliardesimo di metro) di estensione. Il
fisico tedesco Max Planck, dal quale prendono il nome queste quantità
incredibilmente piccole, introdusse il concetto di quanto di energia nel 1900
ed è generalmente riconosciuto come il padre della meccanica quantistica.
Il conflitto tra la gravità e la meccanica quantistica non pone particolari
problemi per l’Universo contemporaneo. Gli astrofisici applicano i principi
e gli strumenti della relatività generale e della meccanica quantistica a
problemi molto diversi tra loro. Ma all’inizio, durante l’era di Planck, il
grande era piccolo e sospettiamo che ci sia stato una specie di “matrimonio
riparatore” tra le due teorie. Purtroppo i voti scambiati durante quella
cerimonia continuano a sfuggirci e nessuna legge (nota) della fisica è in
grado di descrivere con certezza il comportamento dell’Universo in quel
lasso di tempo.
In ogni caso ci aspettiamo che alla fine dell’era di Planck la gravità si sia
divincolata dall’abbraccio delle altre forze, ancora unificate, guadagnando
una propria identità ben descritta dalle nostre attuali teorie. Raggiunta l’età
di 10–35 secondi l’Universo continuò a espandersi, diluendo tutte le
concentrazioni di energia, e le residue forze unificate si separarono nella
forza “elettrodebole” e nella forza “nucleare forte”. In seguito, la forza
elettrodebole si separò nella forza elettromagnetica e nella forza “nucleare
debole”, mettendo a nudo le quattro distinte forze che abbiamo imparato a
conoscere e amare: la forza debole responsabile del decadimento
radioattivo, la forza forte che tiene insieme il nucleo atomico, la forza
elettromagnetica che tiene insieme le molecole, e la gravità che tiene
insieme le grandi masse.
Questo Universo tiepido non era più abbastanza denso e caldo per poter
continuare a cuocere la zuppa: i quark dunque scelsero dei compagni di
danza, formando una nuova famiglia di particelle pesanti chiamate adroni
(dal greco adros, che significa duro, forte). La transizione da quark a adroni
diede origine a protoni, neutroni e anche ad altre particelle pesanti meno
familiari, tutte composte da varie combinazioni di quark. In Svizzera
(tornando qui sulla Terra) il CERN1 utilizza un grande acceleratore per far
collidere fasci di adroni nel tentativo di ricreare tali condizioni estreme.
Questa macchina, tra le più grandi al mondo, è giustamente chiamata Large
Hadron Collider (grande collisore di adroni).
La lieve asimmetria materia-antimateria presente nella zuppa di quark e
leptoni si è ora trasferita agli adroni, ma con conseguenze straordinarie.
Con il progressivo raffreddamento dell’Universo, l’energia disponibile
per la creazione spontanea di coppie di particelle diminuì. Durante l’era
adronica i fotoni non potevano più invocare la formula E = mc2 per creare
coppie quark-antiquark. E non solo. I fotoni che emergevano da tutte le
restanti annichilazioni cedevano energia all’Universo in continua
espansione, scendendo sotto la soglia necessaria a produrre coppie adrone-
antiadrone. Per ogni miliardo di annichilazioni, che lasciavano in eredità un
miliardo di fotoni, sopravviveva un singolo adrone. Questi lupi solitari si
presero tutto il divertimento, fornendo la materia di base per galassie, stelle,
pianeti e petunie.
Senza la discrepanza al livello di uno su un miliardo tra materia e
antimateria, tutta la massa nell’Universo si sarebbe autoannichilata, dando
origine a un cosmo fatto di fotoni e nient’altro: decisamente uno scenario
da “E luce fu”.
Nei successivi 380.000 anni non è successo molto alla nostra zuppa
cosmica. Per tutti questi millenni la temperatura è rimasta abbastanza calda
da permettere agli elettroni di vagare liberi tra i fotoni, che rimbalzavano
avanti e indietro a ogni interazione.
Ma questa libertà finì improvvisamente quando la temperatura
dell’Universo scese al di sotto dei 3000 gradi Kelvin (circa la metà della
temperatura sulla superficie del Sole) e tutti gli elettroni si combinarono con
i nuclei. La traccia residua di questo matrimonio è una sorta di affresco
cosmico di luce visibile, che ha fissato per sempre nel cielo la distribuzione
della materia in quell’istante, e ha completato la formazione di particelle e
atomi nell’Universo primordiale.
Che cosa è successo prima di tutto ciò? Che cosa è successo prima
dell’inizio?
Gli astrofisici non ne hanno idea. O meglio, le nostre idee più creative
hanno poco o nessun fondamento sperimentale. Per contro, alcune persone
religiose sostengono, con tono di superiorità, che qualcosa deve aver dato
inizio a tutto questo: una forza più grande di tutte le altre, una sorgente da
cui tutto scaturisce. Un motore primo. Nella mente di queste persone, quel
qualcosa è ovviamente Dio.
E se l’Universo fosse sempre stato lì, in uno stato che dobbiamo ancora
identificare – un multiverso, per esempio, che dà vita in continuazione ad
altri universi? E se invece l’Universo fosse semplicemente comparso dal
nulla? E se invece tutto ciò che conosciamo e amiamo fosse solo una
simulazione al computer realizzata per gioco da una specie aliena super
intelligente?
Queste idee filosoficamente divertenti di solito non soddisfano nessuno.
Ma al contempo ci ricordano che l’ignoranza è lo stato mentale naturale per
un ricercatore. Chi crede di sapere tutto non ha mai studiato il confine, né
mai vi si è imbattuto, tra ciò che è noto e ciò che è ignoto nell’Universo.
Quello che sappiamo, e che possiamo affermare senza esitazioni, è che
l’Universo ha avuto un inizio. L’Universo continua a evolversi. E sì, ogni
atomo dei nostri corpi risale al Big Bang e alle fornaci termonucleari
all’interno delle stelle di grande massa che esplosero più di cinque miliardi
di anni fa.
Siamo polvere di stelle diventata vita, siamo stati messi dall’Universo
nelle condizioni di poterlo comprendere – e abbiamo appena iniziato.
1. Acronimo francese che sta per Conseil Européen pour la Recherche Nucléaire.
2. Un anno luce è la distanza che la luce percorre in un anno terrestre: circa 10.000 miliardi di
chilometri.
2
COME IN CIELO, COSÌ IN TERRA
Tra tutte le costanti, la velocità della luce è la più famosa. Non importa
quanto possiamo andare veloci: non sorpasseremo mai un raggio di luce.
Perché no? Perché nessun esperimento finora condotto ha mai evidenziato
un oggetto di qualsiasi forma capace di raggiungere la velocità della luce.
Leggi fisiche ben verificate predicono e spiegano questo fatto. So che
queste affermazioni possono indicare una mentalità ristretta. Nel passato,
alcuni dei proclami più stupidi basati sulla scienza sottostimavano
l’ingegnosità di inventori e ingegneri: “Non saremo mai in grado di volare”,
“Volare non sarà mai commercialmente possibile”, “Non divideremo mai
l’atomo”, “Non infrangeremo mai il muro del suono”, “Non andremo mai
sulla Luna”. Queste affermazioni hanno in comune il fatto che nessuna
legge fisica impediva di fare tali cose.
L’affermazione “Non sorpasseremo mai un raggio di luce” è una
predizione qualitativamente diversa. Segue da principi fisici di base
verificati sperimentalmente. Sui cartelli stradali per futuri viaggiatori
interstellari potrebbe a ragione essere scritto:
1. In linea di principio, potresti fare questa acrobazia se riuscissi a emettere una potente e
prolungata flatulenza.
3
SIA FATTA LA LUCE
Dopo il Big Bang, l’obiettivo principale del cosmo era espandersi, ridurre
progressivamente la concentrazione dell’energia che permeava lo spazio.
Istante dopo istante, l’Universo diventava un po’ più grande, un po’ più
freddo, un po’ più fioco. Nel frattempo, materia ed energia coesistevano in
una specie di zuppa opaca, in cui elettroni a piede libero diffondevano
continuamente fotoni a caso.
Per 380.000 anni, le cose andarono avanti così. In questa epoca
primordiale, i fotoni non facevano molta strada prima di incontrare un
elettrone. Se a quel tempo avessimo voluto vedere attraverso l’Universo,
non avremmo potuto. Ogni fotone arrivato fino a noi era andato a sbattere
contro un elettrone qualche nanosecondo o picosecondo prima, proprio
davanti al nostro naso (un nanosecondo è un miliardesimo di secondo, un
picosecondo è un millesimo di miliardesimo di secondo). Poiché quella era
la più grande distanza che un’informazione poteva percorrere prima di
arrivare ai nostri occhi, l’intero Universo era in sostanza una nebbia opaca e
rilucente in ogni direzione. Anche il Sole e tutte le altre stelle sono fatti in
questo modo.
Con il diminuire della temperatura, le particelle si muovevano sempre più
lentamente. E nel momento in cui la temperatura dell’Universo scese per la
prima volta al di sotto dei caldissimi 3000 gradi Kelvin, gli elettroni
rallentarono abbastanza da essere catturati da protoni di passaggio, dando
origine ai primi atomi veri e propri. Questo permise ai fotoni, fino a quel
momento tormentati, di guadagnare la libertà e viaggiare senza ostacoli
attraverso l’Universo.
Questa “radiazione cosmica di fondo” costituisce il bagliore residuo di un
Universo primitivo rovente e lucente, e possiamo definirne la temperatura
basandoci sulla porzione di spettro elettromagnetico a cui appartiene la gran
parte dei fotoni. Con il progressivo raffreddamento del cosmo, i fotoni della
parte visibile dello spettro hanno ceduto energia all’Universo in espansione
e sono scivolati nella parte bassa dello spettro, trasformandosi in fotoni
infrarossi. Nonostante i fotoni dello spettro visibile siano diventati sempre
più deboli, non hanno mai cessato di essere fotoni.
Quale regione viene dopo nello spettro elettromagnetico? Oggi
l’Universo si è espanso di un fattore 1000 da quando i fotoni sono stati
liberati, e quindi la radiazione cosmica di fondo si è raffreddata di un fattore
1000. I fotoni che a quell’epoca appartenevano allo spettro visibile ora
hanno energia pari a un millesimo di quella originaria. Dunque ora sono
microonde, ed è da qui che deriva il termine odierno “radiazione cosmica di
fondo a microonde”, in breve CMB (Cosmic Microwave Background).
Continuando così, tra cinquanta miliardi di anni gli astrofisici parleranno di
“radiazione cosmica di fondo a radioonde”.
Quando qualcosa si illumina dopo essere stato riscaldato, emette luce in
tutte le regioni dello spettro elettromagnetico, ma avrà sempre dei picchi da
qualche parte. Tutti i bulbi delle lampade casalinghe che usano ancora
filamenti metallici a incandescenza hanno il picco nella regione infrarossa,
e questo è il motivo principale della loro inefficienza come sorgente di luce
visibile. I nostri sensi percepiscono l’infrarosso solo sotto forma di calore
sulla pelle. La rivoluzione del LED nell’illuminazione moderna crea pura
luce visibile senza sprecare potenza elettrica in regioni non visibili dello
spettro. Ecco perché si possono leggere sulle confezioni frasi all’apparenza
bizzarre come: “Un LED da 7 Watt equivale a una lampadina a
incandescenza da 60 Watt”.
Essendo il residuo di qualcosa che in origine splendeva luminoso, la CMB
ha il profilo che ci attendiamo da un oggetto radiante che si raffredda: ha un
picco in una regione dello spettro, ma irradia anche in altre regioni. In
questo caso, oltre ad avere un picco nelle microonde, la CMB contiene anche
radioonde e un numero molto piccolo di fotoni di energia ancora maggiore.
A metà del ventesimo secolo il settore della cosmologia – da non
confondere con la cosmetologia – non aveva molti dati a disposizione. E,
quando i dati sono pochi, abbondano teorie concorrenti ingegnose e
visionarie. L’esistenza della CMB era stata predetta dal fisico americano nato
in Russia George Gamow e dai suoi colleghi negli anni Quaranta. La base
per questa teoria proveniva da un lavoro del 1927 del fisico e sacerdote
belga Georges Lemaître, generalmente riconosciuto come il padre della
cosmologia del Big Bang. Ma sono stati i fisici americani Ralph Alpher e
Robert Herman a stimare nel 1948 quale dovesse essere la temperatura della
radiazione cosmica di fondo. Essi basavano i loro calcoli su tre pilastri: 1)
la teoria della relatività generale di Einstein del 1916; 2) la scoperta nel
1929 da parte di Edwin Hubble del fatto che l’Universo è in espansione; 3)
la fisica atomica, sviluppata in laboratorio prima e durante il Progetto
Manhattan che costruì le bombe atomiche della Seconda guerra mondiale.
Herman e Alpher hanno calcolato e proposto una temperatura di 5 gradi
Kelvin per l’Universo. Bene, il calcolo è sbagliato. La temperatura delle
microonde, misurata con precisione, è 2,725 gradi, a volte semplificata in
2,7 gradi, ma qualora foste numericamente pigri nessuno avrà da ridire se
arrotonderete la temperatura dell’Universo a 3 gradi Kelvin.
Fermiamoci un attimo. Herman e Alpher hanno usato la fisica atomica,
appena scoperta in laboratorio, applicandola a ipotetiche condizioni
nell’Universo primordiale. Poi hanno estrapolato un risultato che fosse
valido miliardi di anni dopo, calcolando la temperatura dell’Universo al
giorno d’oggi. Il fatto che la loro predizione approssimi, anche solo
rozzamente, la risposta corretta è un trionfo impressionante della
conoscenza umana. Avrebbero potuto sbagliare di un fattore dieci, o un
fattore cento, e avrebbero anche potuto predire qualcosa che non esiste.
Commentando questa impresa, l’astrofisico americano J. Richard Gott
osservò: “Predire l’esistenza di una radiazione di fondo e ottenerne la
temperatura corretta a meno di un fattore 2 è stato come predire
l’atterraggio di un disco volante del diametro di 15 metri sul prato della
Casa Bianca e vederne invece arrivare uno del diametro di 8 metri”.
Nella grande conta dei componenti cosmici, le galassie sono ciò che
tipicamente viene conteggiato. Le ultime stime mostrano che l’Universo
osservabile può contenerne un centinaio di miliardi. Luminose, belle e
piene di stelle, le galassie tappezzano la vuota oscurità dello spazio come di
notte fanno le grandi città di una nazione. Ma quanto è vuoto il vuoto dello
spazio? (Quanto è vuota la campagna tra le città?) Nonostante le galassie
siano davanti ai nostri occhi, e nonostante possano farci credere che
nient’altro abbia importanza, l’Universo può contenere oggetti difficili da
osservare tra una galassia e l’altra. E forse quegli oggetti sono più
interessanti o più importanti per l’evoluzione dell’Universo rispetto alle
galassie stesse.
La nostra galassia a spirale, la Via Lattea, è così chiamata perché, se
guardata a occhio nudo, ricorda del latte versato nel cielo notturno. In
effetti, il termine “galassia” deriva dal greco galaxias che significa “latteo”.
Le due galassie a noi più vicine, distanti 600.000 anni luce, sono piccole e
di forma irregolare. Il diario di bordo di Ferdinando Magellano identifica
questi oggetti durante il suo famoso viaggio intorno al mondo del 1519. In
suo onore li chiamiamo Piccola e Grande Nube di Magellano, e sono
visibili principalmente dall’emisfero australe come una coppia di macchie
nel cielo, parcheggiate al di là delle stelle. La più vicina galassia con
dimensioni maggiori della nostra è lontana due milioni di anni luce, e si
trova oltre le stelle che tracciano la costellazione di Andromeda. Questa
galassia a spirale, storicamente chiamata Grande Nebulosa di Andromeda, è
una specie di gemella più massiva e più luminosa della Via Lattea. Notate
come il nome di ogni sistema non faccia riferimento alla presenza di stelle:
Via Lattea, Nubi di Magellano, Nebulosa di Andromeda. Tutte e tre furono
battezzate prima dell’invenzione dei telescopi, e dunque prima di poter
individuare la loro composizione stellare.
C’è ancora altro negli ammassi, oltre alle galassie costituenti e alle stelle
ribelli. Misurazioni fatte con telescopi sensibili ai raggi X rivelano un gas a
decine di milioni di gradi che permea lo spazio all’interno dell’ammasso, e
il gas è così caldo che brilla intensamente nella regione a raggi X dello
spettro. Il movimento di galassie ricche di gas all’interno di questo mezzo
finisce per privarle del loro stesso gas, portandole a perdere la capacità di
generare nuove stelle. Questo potrebbe spiegare le cose. Ma, calcolando la
massa totale presente nel gas ad alta temperatura, per la maggior parte degli
ammassi essa risulta maggiore della massa di tutte le galassie dell’ammasso
per un fattore dieci. Ancora peggio, gli ammassi sono invasi dalla materia
oscura, la cui massa sembra essere maggiore di un altro fattore dieci rispetto
alla massa di qualsiasi altra cosa. In altre parole, se i telescopi osservassero
massa anziché luce, allora le nostre amate galassie negli ammassi
apparirebbero come picchi insignificanti nel mezzo di una gigantesca massa
informe di forze gravitazionali.
Nel resto dello spazio, al di fuori degli ammassi, c’è una tipologia di
galassie che prosperava molto tempo fa. Come già evidenziato, osservare il
cosmo è come per un geologo osservare gli strati sedimentari, dove la storia
della formazione delle rocce è dispiegata davanti agli occhi. Le distanze
cosmiche sono così vaste che il tempo impiegato dalla luce a raggiungerci
può essere di milioni o anche miliardi di anni. Quando l’Universo aveva la
metà della sua età attuale, prosperava una specie di galassie molto blu e
molto pallide di dimensione intermedia. Possiamo vederle. Ci salutano da
un’epoca antichissima e rappresentano galassie molto, molto lontane. Il loro
colore blu proviene da stelle di breve vita, appena formate, caratterizzate da
alte luminosità, massa e temperatura. Le galassie appaiono fioche non solo
per la loro distanza, ma anche perché il numero di stelle luminose al loro
interno era scarso. Come i dinosauri, comparsi ed estinti lasciando gli
uccelli come unici loro discendenti al giorno d’oggi, le galassie blu pallido
non esistono più, ma hanno probabilmente delle controparti nell’Universo
contemporaneo. Le loro stelle sono tutte spente? Sono forse diventate
oggetti invisibili sparsi nell’Universo? Si sono evolute nelle familiari
galassie nane odierne? O sono state tutte divorate da galassie più grandi?
Non lo sappiamo, ma la loro presenza nella storia del cosmo è garantita.
Con tutto questo materiale nello spazio intergalattico, potremmo
aspettarci che una parte di esso ci impedisca di vedere quello che c’è dietro.
Questo potrebbe essere un problema per gli oggetti più distanti
nell’Universo, come i quasar. I quasar sono nuclei di galassie
superluminosi, la cui luce ha viaggiato per miliardi di anni attraverso lo
spazio prima di raggiungere i nostri telescopi. In quanto sorgenti luminose
estremamente distanti, sono cavie ideali per rivelare la cianfrusaglia che si
frappone tra noi e loro.
In effetti, quando si decompone la luce dei quasar ricavandone lo spettro,
quest’ultimo risulta crivellato a causa della presenza di gas assorbenti lungo
il percorso della luce. Ogni quasar conosciuto, non importa dove si trovi,
mostra le tracce di decine di nubi di idrogeno isolate e disseminate nello
spazio e nel tempo. Questa classe eccezionale di oggetti intergalattici fu
identificata per la prima volta negli anni Ottanta, e continua a essere un’area
attiva della ricerca in astrofisica. Da dove provengono? Quanta massa
contengono?
Ogni quasar conosciuto mostra tracce distintive di idrogeno, dunque
possiamo concludere che nubi di idrogeno sono presenti ovunque
nell’Universo. E, come ci aspettavamo, più lontani sono i quasar, più nubi
troviamo nello spettro. Alcune delle nubi (meno dell’1%) sono
semplicemente il gas contenuto in galassie ordinarie a spirale o galassie
irregolari che si frappongono alla nostra vista. È naturale che almeno
qualche quasar finisca dietro la luce di galassie normali troppo distanti da
rilevare. Ma i restanti assorbitori sono inequivocabilmente una classe a sé
stante di oggetti cosmici.
Allo stesso tempo, la luce dei quasar passa anche attraverso regioni di
spazio in cui ci sono sorgenti mostruose di gravità che ne distruggono
l’immagine. Spesso queste regioni sono difficili da rilevare perché
composte da materia ordinaria troppo distante e troppo fioca, oppure perché
sono composte da materia oscura simile a quella che occupa i centri e le
regioni circostanti degli ammassi di galassie. In entrambi i casi, dove c’è
massa c’è gravità. E dove c’è gravità c’è spazio curvo, secondo la teoria
della relatività generale di Einstein. E quando lo spazio è curvo, può
comportarsi in maniera simile a una lente che altera il percorso della luce
che vi passa attraverso. In effetti, quasar lontani e intere galassie finiscono
letteralmente “sotto la lente” di oggetti che si trovano lungo la linea visiva
dei telescopi terrestri. In base alla massa della lente stessa e alla geometria
degli allineamenti visivi, l’effetto della lente può aumentare, distorcere o
persino suddividere in immagini multiple la sorgente di luce retrostante,
proprio come gli specchi deformanti nei parchi di divertimento.
Uno degli oggetti (conosciuti) più lontani nell’Universo non è un quasar,
ma una galassia ordinaria la cui flebile luce è amplificata in modo
significativo dall’azione di una lente gravitazionale. Da ora in poi
potremmo aver bisogno di questi “telescopi intergalattici” per osservare a
fondo dove (e quando) i telescopi comuni non riescono ad arrivare, e quindi
rivelare i futuri detentori dei record di distanza cosmica.
1. “Guardiamo alle stelle per imparare / I pensieri del maestro possiamo ascoltare / La matematica
di Newton ognuna segue / E silenziosamente il cammino prosegue.” (Appunto manoscritto, cit. in
Károly Simonyi, A Cultural History of Physics, CRC Press, Boca Raton, 2012.)
2. Negli Stati Uniti, il Missouri è chiamato “The Show-me State” perché si ritiene che i suoi
abitanti siano così scettici da credere solo a ciò che vedono. [NdT]
6
ENERGIA OSCURA
*
Alla prima formulazione, quasi tutti i modelli scientifici sono incompleti
e lasciano un po’ di margine per adattare i parametri in modo da descrivere
meglio l’Universo conosciuto. Nell’Universo “eliocentrico” basato sul Sole,
concepito nel sedicesimo secolo dal matematico Niccolò Copernico, i
pianeti descrivevano orbite perfettamente circolari. Il fatto che i pianeti
orbitassero intorno al Sole era corretto, e anche un bel passo avanti rispetto
all’Universo “geocentrico” basato sulla Terra, ma le orbite perfettamente
circolari avevano qualcosa che non andava – tutti i pianeti descrivono
circonferenze schiacciate, chiamate ellissi, intorno al Sole, e anche questa
forma è solo un’approssimazione di una traiettoria più complessa. L’idea di
base di Copernico era giusta, e questa era la cosa più importante.
Richiedeva semplicemente qualche modifica per raggiungere maggiore
accuratezza.
Invece, nel caso della relatività di Einstein, i principi fondatori dell’intera
teoria richiedono che tutto accada esattamente come predetto. Einstein
aveva in effetti costruito ciò che appariva dall’esterno come un castello di
carte, con due o tre semplici postulati a reggere l’intera struttura. In effetti,
dopo aver saputo di un libro del 1931 intitolato Cento autori contro
Einstein,2 rispose che se lui avesse avuto torto allora ne sarebbe bastato uno
solo.
È da qui che trae origine uno degli errori più affascinanti nella storia
della scienza. Le nuove equazioni della gravità di Einstein includevano un
termine che egli chiamò “costante cosmologica”, rappresentata dalla lettera
greca maiuscola Lambda: Λ. Sotto forma di un termine matematicamente
permesso, ma opzionale, la costante cosmologica permetteva di descrivere
un Universo statico.
A quel tempo, l’idea che il nostro Universo potesse fare qualsiasi altra
cosa anziché esistere e basta, andava oltre l’immaginazione di chiunque.
Dunque l’unico compito della Lambda all’interno del modello di Einstein
era opporsi alla gravità, mantenendo l’Universo in equilibrio, e contrastare
la naturale tendenza della gravità a condensare l’intero Universo in
un’unica gigantesca massa. In questo modo Einstein aveva inventato un
Universo che non si espande e non si contrae, coerente con le aspettative di
tutti in quegli anni.
Il fisico russo Alexander Friedmann in seguito dimostrò
matematicamente che l’Universo di Einstein, sebbene in equilibrio, si
trovava in uno stato instabile. Come una palla sulla cima di una collina, in
attesa della minima sollecitazione per rotolare giù da un lato o dall’altro, o
come una matita in equilibrio sulla punta, l’Universo di Einstein era
precariamente collocato al confine tra l’espansione e il collasso totale. In
più, la teoria di Einstein era nuova, e dare un nome a qualcosa non lo rende
automaticamente reale. Einstein sapeva che la Lambda, come forza di
gravità negativa, non aveva controparti note nell’Universo fisico.
La caccia continua. Ora che sappiamo che l’energia oscura esiste, gruppi
di astrofisici hanno dato il via ad ambiziosi programmi di ricerca per
misurare le distanze e la crescita delle strutture nell’Universo usando
telescopi terrestri e spaziali. Queste osservazioni verificheranno l’influenza
dell’energia oscura nella storia dell’espansione dell’Universo, e sicuramente
terranno i teorici occupati: hanno senz’altro bisogno di fare ammenda per i
loro calcoli errati sull’energia oscura.
Abbiamo bisogno di un’alternativa alla RG? Il matrimonio della RG con la
meccanica quantistica ha bisogno di una revisione? O c’è qualche altra
teoria sull’energia oscura che aspetta di essere scoperta da qualche genio
non ancora nato?
Una proprietà notevole della Lambda e dell’espansione accelerata è che
la forza repulsiva proviene dal vuoto, non da qualcosa di materiale.
All’aumentare del vuoto, diminuisce la densità di materia ed energia (quella
familiare) nell’Universo, e aumenta l’influenza della Lambda sulle vicende
cosmiche. Aumento della pressione repulsiva vuol dire aumento del vuoto,
e più vuoto vuol dire più pressione repulsiva, innescando un’accelerazione
esponenziale e infinita dell’espansione cosmica.
Di conseguenza, qualsiasi cosa che non sia gravitazionalmente vincolata
a restare nei dintorni della Via Lattea si allontanerà a velocità crescente,
trascinata dall’espansione accelerata della struttura dello spazio-tempo. Le
galassie lontane ora visibili nel cielo notturno prima o poi scompariranno al
di là di un orizzonte irraggiungibile, allontanandosi da noi a una velocità
superiore a quella della luce. Questo non vuol dire che si muovano così
velocemente attraverso lo spazio, ma che è la trama stessa dell’Universo a
trascinarle a quelle velocità. Nessuna legge fisica lo vieta.
Tra un migliaio di miliardi di anni, nessun essere vivente della nostra
galassia saprà nulla dell’esistenza di altre galassie. Il nostro Universo
osservabile conterrà solamente un sistema di stelle vicine e longeve
all’interno della Via Lattea. Oltre questa notte stellata ci sarà il vuoto senza
fine, un oceano di tenebre.
L’energia oscura, una proprietà fondamentale del cosmo, finirà col
minare le capacità delle future generazioni di comprendere l’Universo che è
stato loro assegnato. A meno che gli astrofisici contemporanei, da un capo
all’altro della galassia, registrino tutto scrupolosamente e trovino il modo di
costruire e seppellire una fantastica capsula temporale per migliaia di
miliardi di anni, gli scienziati post-apocalisse non sapranno nulla delle
galassie – la forma principale di organizzazione della materia nel nostro
cosmo – e dunque non avranno accesso a pagine essenziali della partitura
cosmica che è il nostro Universo.
Questo è il mio incubo ricorrente: abbiamo forse perso anche noi qualche
pezzo fondamentale dell’Universo di un tempo? Su quale pagina della
storia cosmica è stato posto un sigillo con scritto “accesso negato”? Che
cosa manca, e invece dovrebbe esserci, nelle nostre teorie e nelle nostre
equazioni, e ci lascia a brancolare nel buio alla ricerca di risposte che
potremmo non trovare mai?
1. Il Laser Interferometer Gravitational-Wave Observatory (LIGO, Osservatorio per onde
gravitazionali a interferometria laser), costruito in due repliche esatte a Hanford, Washington e a
Livingston, Louisiana.
2. R. Israel, E. Ruckhaber, R. Weinmann et al., Hundert Autoren gegen Einstein, R. Voigtländers
Verlag, Leipzig 1931.
3. “Geodetica” è un termine inutilmente sofisticato per indicare la distanza più breve tra due punti
su una superficie – in questo caso, la distanza più breve tra due punti nella struttura
quadridimensionale dello spazio-tempo.
4. Durante il dottorato ho seguito il corso di John Wheeler sulla relatività generale (dove ho
incontrato mia moglie), e questa è una frase che lui diceva spesso.
7
IL COSMO IN TAVOLA
Il litio è il terzo elemento più semplice dell’Universo, con tre protoni nel
nucleo. Come l’idrogeno e l’elio, il litio è stato prodotto durante il Big Bang
ma, a differenza dell’elio che può essere fabbricato nei nuclei delle stelle, il
litio viene distrutto da qualsiasi reazione nucleare conosciuta. Un’altra
predizione della cosmologia del Big Bang è che, in una qualsiasi regione
dell’Universo, non può esserci più dell’1% di atomi di litio. Nessuno ha
ancora trovato una galassia in cui il litio oltrepassi questo limite superiore
fornito dal Big Bang. La combinazione del limite inferiore sull’elio e del
limite superiore sul litio è un doppio vincolo molto stringente per la
cosmologia del Big Bang. Il carbonio si trova in un’incredibile varietà di
molecole, il cui numero è maggiore di tutti gli altri tipi di molecole messe
insieme. Data l’abbondanza di carbonio nel cosmo – forgiato nei nuclei
delle stelle, arrivato sgomitando in superficie ed emesso copiosamente nella
galassia –, non esiste migliore elemento su cui basare la chimica e le
differenti forme di vita. Precedendo di poco il carbonio nella classifica
dell’abbondanza, anche l’ossigeno è comune, forgiato e rilasciato tra i resti
di stelle esplose. Sono entrambi tra gli ingredienti principali della vita come
la conosciamo.
Ma cosa possiamo dire della vita come non la conosciamo? Cosa
possiamo dire della vita basata sul silicio? Il silicio si trova proprio sotto il
carbonio nella tavola periodica, e questo vuol dire che, in linea di principio,
può creare una collezione di molecole paragonabile a quella del carbonio.
In definitiva, ci aspettiamo che il carbonio prevalga perché è dieci volte più
abbondante del silicio nel cosmo. Ma questo non scoraggia gli scrittori di
fantascienza, che incalzano gli esobiologi sulla possibile esistenza di una
forma di vita aliena basata sul silicio.
Oltre a essere un componente del comune sale da tavola, il sodio è al
momento il gas più usato nei lampioni municipali di tutto il paese. Brucia
più a lungo ed è più luminoso dei comuni bulbi incandescenti, anche se
presto potrebbe essere rimpiazzato dai LED, che sono ancora più luminosi a
parità di potenza e sono più economici. Esistono due tipi di lampade al
sodio: quelle ad alta pressione, dal colore tra il giallo e il bianco, e quelle a
bassa pressione, meno diffuse e dal colore arancione. Anche se
l’inquinamento luminoso è un male per gli astrofisici, le lampade al sodio a
bassa pressione sono un male minore poiché la loro contaminazione può
essere facilmente sottratta dai dati dei telescopi. Come esempio di piena
collaborazione, l’intera città di Tucson, in Arizona, il più grande centro
urbano nelle vicinanze del Kitt Peak National Observatory, ha alimentato
tutta la sua illuminazione pubblica con lampade al sodio a bassa pressione,
in accordo con gli astrofisici locali.
*
Il gallio, un metallo soffice, ha un punto di fusione così basso che può
liquefarsi al contatto con la mano, come il burro di cacao. A parte questa
curiosità, il gallio non è di interesse per gli astrofisici, eccetto per il fatto
che il cloruro di gallio viene usato dagli esperimenti che tentano di catturare
gli elusivi neutrini solari. Un’enorme vasca sotterranea (da 100 tonnellate)
di cloruro di gallio liquido viene tenuta d’occhio in attesa di collisioni tra i
neutrini e i nuclei di gallio, che diventano così nuclei di germanio. Dallo
scontro emerge un lampo di raggi X che viene rilevato ogni volta che un
nucleo subisce un urto. L’annoso problema dei neutrini solari, che sembrava
venissero rilevati in numero minore a quanto previsto dalla teoria, è stato
risolto grazie a “telescopi” di questo tipo.
Insieme all’osmio e al platino, l’iridio è uno dei tre elementi più pesanti
(densi) della tavola periodica – una cinquantina di decimetri cubici di iridio
pesa quanto un’automobile, il che rende l’iridio uno dei migliori fermacarte
al mondo, capace di tenere testa a qualsiasi ventilatore da ufficio. L’iridio è
anche una delle più note “pistole fumanti” al mondo. Ne possiamo trovare
in tutto il mondo uno strato sottile al confine tra gli strati geologici del
Cretaceo e del Paleogene,2 risalente a sessantacinque milioni di anni fa.
Non è una coincidenza il fatto che, in corrispondenza di quella transizione,
qualsiasi specie terrestre più grande di un trolley, inclusi i dinosauri, si
estinse. L’iridio è raro sulla superficie terrestre, ma relativamente comune
sugli asteroidi metallici larghi dieci chilometri che, collidendo con la Terra,
si vaporizzano e disperdono i loro atomi sulla superficie del pianeta.
Quindi, qualunque sia stata in passato la vostra teoria preferita per
l’estinzione dei dinosauri, un asteroide assassino proveniente dallo spazio e
grande più o meno come l’Everest dovrebbe ora essere in cima alla lista.
1. Noto scrittore e fumettista statunitense, autore di numerosi libri per bambini. [NdT]
2. Per quelli un po’ in là con gli anni: questo strato era noto come confine Cretaceo-Terziario.
3. In realtà, la Terra è il mio pianeta preferito. Poi viene Saturno.
8
SULLA ROTONDITÀ
Le stelle della Via Lattea sono disposte su un grande disco piatto. Con un
rapporto diametro-spessore pari a circa 1000, la nostra galassia è più piatta
della sfoglia più piatta mai preparata. In realtà, le sue proporzioni sono
meglio rappresentate da una crêpe o da una tortilla. No, decisamente la Via
Lattea non è una sfera, ma forse all’inizio lo era. Possiamo comprendere la
sua piattezza ipotizzando che la galassia fosse inizialmente una grande palla
di gas in collasso e in lenta rotazione. Durante il collasso, la palla iniziò a
girare sempre più velocemente, proprio come i pattinatori quando
raccolgono le braccia per aumentare la velocità di rotazione. La galassia si
appiattì in modo naturale tra i due poli, mentre le crescenti forze centrifughe
impedivano il collasso nel piano centrale. Sì, se l’omino Michelin fosse un
pattinatore, le piroette veloci sarebbero un’attività ad alto rischio.
Qualsiasi stella si sia formata all’interno della Via Lattea prima del
collasso ha conservato orbite larghe che intersecano il piano galattico. Il gas
residuo, che tende a restare compatto come in una collisione a mezz’aria tra
due marshmallows caldi, è stato inchiodato sul piano galattico e ha dato vita
a tutte le successive generazioni di stelle, incluso il Sole. La Via Lattea
attuale è un sistema maturo dal punto di vista gravitazionale, né in collasso
né in espansione, in cui le stelle che orbitano sopra e sotto il piano galattico
sono testimonianze dell’originaria nube gassosa primordiale.
Il fatto che oggetti in rotazione tendano ad appiattirsi spiega perché il
diametro terrestre è minore tra i due poli che all’equatore, anche se non di
molto: lo 0,03% – circa 40 chilometri. Ma la Terra è piccola, per lo più
solida, e non ruota molto velocemente. Considerando le ventiquattro ore
giornaliere, la velocità all’equatore è appena 1600 chilometri orari.
Prendiamo l’enorme e velocissimo pianeta gassoso Saturno. Completando
una rotazione in appena dieci ore e mezza, il suo equatore viaggia a più di
35.000 chilometri orari, e il suo diametro tra i due poli è minore di ben il
10% rispetto a quello equatoriale, una differenza riscontrabile anche con un
piccolo telescopio amatoriale. Le sfere schiacciate sono chiamate più in
generale sferoidi oblati, mentre le sfere allungate ai poli sono chiamate
sferoidi prolati. Nella vita di tutti i giorni, gli hamburger e gli hot dog sono
esempi perfetti (anche se un po’ estremi) di tali forme. Non so voi, ma ogni
volta che mangio un hamburger mi viene in mente Saturno.
*
Usiamo l’effetto della forza centrifuga sulla materia per dare un’idea
della velocità di rotazione di oggetti cosmici estremi. Consideriamo le
pulsar. Alcune di esse compiono fino a mille giri al secondo, e sappiamo
che non possono essere fatte di materiali ordinari, altrimenti si
decomporrebbero a causa della forza centrifuga. Se una pulsar ruotasse
appena un po’ più veloce, diciamo 4500 volte al secondo, il suo equatore si
muoverebbe alla velocità della luce, e questo ci fa capire che il materiale di
cui è fatta è diverso da tutti gli altri. Per immaginare una pulsar, prendiamo
la massa del Sole e concentriamola in una palla delle dimensioni di
Manhattan. Se è difficile da immaginare, provate a pensare a cento milioni
di elefanti pressati in uno stick lucidalabbra. Per raggiungere questa densità,
bisogna comprimere tutto lo spazio vuoto tra i nuclei degli atomi e i loro
elettroni orbitanti. In questo modo, tutti gli elettroni (carichi negativamente)
collassano sui protoni (carichi positivamente), creando una palla di neutroni
(elettricamente neutri) dalla folle gravità superficiale. In queste condizioni,
scalare su una stella di neutroni un’ipotetica montagna alta quanto lo
spessore di un foglio di carta richiederebbe la stessa energia che
occorrerebbe a uno scalatore terrestre per scalare una montagna alta 5000
chilometri. In breve, dove la gravità è intensa, gli oggetti alti tendono a
cadere, riempiendo le quote basse – un fenomeno che suona quasi biblico,
nel preparare la strada per il Signore: “Ogni valle sia colmata, ogni monte e
ogni colle siano abbassati; i luoghi erti siano livellati, i luoghi scabri
diventino pianura” (Is 40,4). È la ricetta per ottenere una sfera, se mai ce ne
fosse una. Per tutte queste ragioni, ci aspettiamo che le pulsar siano le sfere
più perfette nell’Universo.
Prima del 1800 la parola “luce” veniva riferita solo alla luce visibile. Ma
in quell’anno l’astronomo inglese William Herschel osservò una forma di
calore che poteva essere causata solo da un tipo di luce invisibile all’occhio
umano. Già affermato osservatore, Herschel aveva scoperto il pianeta
Urano nel 1781 e stava ora studiando la connessione tra luce solare, colore
e calore. Iniziò ponendo un prisma sul percorso di un raggio di luce. Fin qui
niente di nuovo. Sir Isaac Newton lo aveva già fatto nel Seicento e aveva
identificato i familiari sette colori primari dello spettro visibile: rosso,
arancio, giallo, verde, blu, indaco e violetto. Ma Herschel era abbastanza
curioso da domandarsi quale fosse la temperatura di ciascun colore. Quindi
mise dei termometri in corrispondenza dei diversi fasci luminosi e dimostrò,
come sospettava, che colori diversi fanno segnare temperature diverse.1
Gli esperimenti ben condotti richiedono un “controllo” – una misura in
cui non ci si aspetta di rilevare alcun effetto, e che serve come termine di
paragone per la misura vera e propria. Per esempio, se ci chiediamo quale
effetto abbia la birra su una pianta di tulipani dovremmo far crescere una
seconda pianta, identica alla prima, dandole solo acqua. Se entrambe le
piante muoiono – se le fai morire entrambe – allora non puoi dare la colpa
all’alcol. Questo è il principio del campione di controllo. Herschel lo sapeva
e piazzò un termometro al di fuori dello spettro, dalla parte del rosso,
aspettandosi di misurare solo la temperatura della stanza per tutta la durata
dell’esperimento. Ma non andò così. La temperatura del termometro di
controllo superò persino quella del rosso.
Herschel scrisse:
Concludo che il rosso si trova prima del massimo del calore; che probabilmente si trova anche
poco oltre il limite della rifrazione visibile. In questo caso il calore radiante consiste almeno
parzialmente, se non in maniera predominante, di luce, mi sia permesso il termine, invisibile;
ovvero, raggi provenienti dal sole che hanno impulso tale da non essere visibili.2
Porca miseria!
Herschel aveva inavvertitamente scoperto la luce “infrarossa”, una nuova
regione dello spettro posizionata appena “al di sotto” del rosso e riportata
nel primo dei suoi quattro articoli sull’argomento.
La rivelazione di Herschel fu l’equivalente astronomico della scoperta,
effettuata da Antoni van Leeuwenhoek, di “molti animaletti minuscoli che
si muovono graziosamente”3 nella più piccola goccia di acqua di lago.
Leeuwenhoek aveva scoperto gli organismi unicellulari – un intero
Universo biologico. Herschel aveva scoperto una nuova banda dello spettro
elettromagnetico. Entrambi nascosti sotto gli occhi di tutti.
Altri scienziati continuarono il lavoro di Herschel. Nel 1801 il fisico e
farmacista tedesco Johann Wilhelm Ritter scoprì una nuova regione dello
spettro. Invece di usare un termometro, Ritter posizionò del cloruro
d’argento, che reagisce alla luce visibile, in corrispondenza di ogni colore e
anche nella regione oscura al di là del violetto. Il cloruro d’argento nella
regione non illuminata diventò più scuro di quello illuminato dal violetto.
Cosa c’è oltre il violetto? L’“ultravioletto”, meglio noto oggi come UV.
Passando in rassegna l’intero spettro elettromagnetico, dalle basse
frequenze ed energie fino alle alte frequenze ed energie, abbiamo: onde
radio, microonde, infrarosso, luce visibile, ultravioletto, raggi X e raggi
gamma. La civiltà moderna ha sfruttato abilmente ognuna di queste bande
per innumerevoli applicazioni casalinghe e industriali, e ce le ha rese
familiari.
*
I radiotelescopi, i primi telescopi realizzati per il non-visibile, sono una
fantastica sottovarietà di osservatorio. L’ingegnere americano Karl G.
Jansky costruì il primo tra il 1929 e il 1930. Sembrava un irrigatore mobile,
di quelli che si usano nelle fattorie senza contadini. Composto da una serie
di alte cornici metalliche rettangolari fissate con supporti a croce e pianali
di legno, girava su se stesso come una giostra su ruote ricavate da ricambi
di una Ford Modello T. Jansky aveva regolato lo strano congegno lungo
trenta metri su una lunghezza d’onda di circa quindici metri, corrispondente
a una frequenza pari a 20,5 megahertz.4 Il compito di Jansky, per conto del
suo datore di lavoro, i Bell Telephone Laboratories, era studiare qualsiasi
rumore proveniente da sorgenti radio presenti sulla Terra che potesse
interferire con le comunicazioni radio terrestri. Somiglia parecchio al
compito che i Bell Labs diedero a Penzias e Wilson trentacinque anni dopo,
ovvero trovare l’origine del rumore a microonde nel loro ricevitore che,
come abbiamo visto nel capitolo 3, portò alla scoperta del fondo cosmico a
microonde.
Dopo aver trascorso un paio d’anni a tracciare e misurare
minuziosamente il rumore statico che registrava sulla sua antenna
improvvisata, Jansky scoprì che le onde radio non provenivano solo dai
temporali locali e da altre sorgenti terrestri note, ma anche dal centro della
Via Lattea. Quella porzione di cielo spazzata dal campo visivo del
telescopio ogni ventitré ore e cinquantasei minuti: esattamente il periodo di
rotazione terrestre, ed esattamente il tempo necessario al centro della
galassia per tornare nello stesso punto della volta celeste. Karl Jansky
pubblicò i suoi risultati con il titolo “Perturbazioni elettriche di apparente
origine extraterrestre”.5
La radioastronomia è nata con quella osservazione – ma dovette fare a
meno di Jansky. I Bell Labs lo assegnarono ad altro incarico, impedendogli
di raccogliere i frutti della sua importante scoperta. Pochi anni dopo,
tuttavia, un autodidatta americano di nome Grote Reber, da Wheaton,
Illinois, costruì un radiotelescopio con un disco metallico di 10 metri di
diametro nel suo giardino. Nel 1938, senza alcuna affiliazione, Reber
confermò la scoperta di Jansky e spese i successivi cinque anni tracciando
mappe a bassa risoluzione del radiocielo.
Il telescopio di Reber, sebbene non avesse precedenti, era piccolo e
rudimentale per i nostri standard. I moderni radiotelescopi sono altra cosa.
Una volta usciti dai giardini, sono diventati incredibilmente enormi. Mark
1, che ha iniziato a lavorare nel 1957, è il primo radiotelescopio gigante del
pianeta – un singolo, manovrabile disco di acciaio largo 75 metri presso lo
Jodrell Bank Observatory vicino a Manchester, in Inghilterra. Un paio di
mesi dopo l’inaugurazione di MK 1, l’Unione Sovietica lanciò lo Sputnik 1,
e il disco di Jodrell Bank divenne improvvisamente solo “quella cosa che
traccia le piccole ferraglie in orbita” – il precursore dell’odierno Deep
Space Network per il tracciamento delle sonde spaziali planetarie.
Il radiotelescopio più grande al mondo, completato nel 2016, è chiamato
Five-hundred-meter Aperture Spherical radio Telescope (Radiotelescopio
sferico da 500 metri di apertura), o FAST per brevità. È stato costruito in
Cina nella provincia di Guizhou, ed è più grande di trenta campi da football.
Se gli alieni ci faranno mai una telefonata, i cinesi saranno i primi a saperlo.
1. Bisogna aspettare la metà del 1800, quando lo spettrometro viene applicato a problemi
astronomici, per far diventare l’astronomo un astrofisico. Nel 1895 venne fondato il prestigioso
Astrophysical Journal, con il sottotitolo “Una rassegna internazionale di spettroscopia e fisica
astronomica”.
2. W. Herschel, “Experiments on solar and on the terrestrial rays that occasion heat”, in
Philosophical Transactions of the Royal Astronomical Society, 1800, 17.
3. Antoni van Leeuwenhoek, lettera alla Royal Society of London, 10 Ottobre 1676.
4. Per tutte le onde è valida la semplice equazione: velocità = frequenza × lunghezza d’onda. A
velocità costante, se aumentiamo la lunghezza d’onda, diminuirà la frequenza e viceversa, in modo
da ottenere sempre lo stesso valore moltiplicando le due quantità. Funziona per la luce, il suono e
anche per i tifosi che fanno la “ola” allo stadio – per qualsiasi cosa che viaggi come un’onda.
5. K. Jansky, “Electrical disturbances apparently of extraterrestrial origin”, in Proceedings of the
Institute for Radio Engineers, 21, 10, 1933, p. 1387.
6. “Pico” è il prefisso per indicare un millesimo di miliardesimo.
10
TRA I PIANETI
La maggior parte degli asteroidi del sistema solare vive nella cosiddetta
“fascia principale”, una regione abbastanza piatta situata fra le orbite di
Marte e Giove. Per tradizione, chiunque scopra un asteroide ha il diritto di
dargli un nome a sua scelta. Rappresentata spesso dagli artisti come una
regione piena di rocce vaganti nel piano del sistema solare, la massa totale
degli asteroidi contenuta nella fascia principale è meno del 5% di quella
della Luna, che a sua volta è poco più dell’1% di quella della Terra. Sembra
insignificante. Ma le continue perturbazioni delle orbite producono un
sottoinsieme pericoloso di asteroidi, probabilmente nel numero di qualche
migliaio, caratterizzato da percorsi eccentrici che intersecano l’orbita
terrestre. Un semplice calcolo mostra che la maggior parte di essi colliderà
con la Terra entro cento milioni di anni. Quelli più grandi di un chilometro
impatteranno con energia sufficiente a destabilizzare l’ecosistema terrestre e
mettere gran parte delle specie a rischio di estinzione.
Sarebbe un disastro.
Gli asteroidi non sono gli unici oggetti nello spazio a costituire un rischio
per la vita sulla Terra. La fascia di Kuiper è una striscia piena di comete
all’interno di una regione circolare che inizia poco oltre l’orbita di Nettuno
e che probabilmente si estende oltre Nettuno per la stessa distanza che
intercorre tra Nettuno e il Sole. L’astronomo americano di origine olandese
Gerard Kuiper avanzò l’ipotesi che nelle fredde profondità spaziali, oltre
l’orbita di Nettuno, ci fossero residui ghiacciati della formazione del
sistema solare. Senza un pianeta massivo verso cui dirigersi, la maggior
parte di queste comete orbiterà intorno al Sole ancora per miliardi di anni.
Come anche nel caso della fascia principale, alcuni oggetti della fascia di
Kuiper viaggiano su orbite eccentriche che intersecano le orbite degli altri
pianeti. Plutone e i suoi fratelli, chiamati plutini, intersecano l’orbita di
Nettuno intorno al Sole. Altri oggetti della fascia di Kuiper penetrano
ancora più internamente nel sistema solare, intersecando le orbite planetarie
con disinvoltura. Questo sottoinsieme include la cometa di Halley, la più
famosa di tutte.
Molto oltre la fascia di Kuiper, fino a metà della distanza che ci separa
dalle stelle più vicine, si trova una riserva di comete chiamata nube di Oort,
di forma sferica. Prende il nome da Jan Oort, l’astrofisico olandese che
dedusse per primo la sua esistenza. Da questa zona provengono le comete
con un periodo orbitale molto più lungo della vita umana. A differenza delle
comete della fascia di Kuiper, le comete della nube di Oort possono
piombare sul sistema solare sotto qualsiasi angolo e da qualsiasi direzione.
Le due comete più brillanti negli anni Novanta, Hale-Bopp e Hyakutake,
provenivano entrambe dalla nube di Oort e non torneranno presto da queste
parti.
*
Il telescopio Kepler della Nasa, progettato e calibrato per scoprire pianeti
simili alla Terra in orbita intorno a stelle simili al Sole, ha utilizzato un altro
metodo di rilevazione, aggiungendo una gran quantità di esopianeti al
catalogo. Kepler cercava stelle la cui luminosità totale diminuisce di poco e
a intervalli regolari. In questi casi, nel campo visivo di Kepler la stella
diventa leggermente più fioca a causa del passaggio del pianeta tra la stella
e il telescopio. Con questo metodo non si vede il pianeta, e non si possono
neanche esaminare le caratteristiche della superficie della stella. Kepler
teneva semplicemente traccia delle variazioni della luminosità totale di una
stella, ma in questo modo ha aggiunto migliaia di esopianeti al catalogo e
centinaia di sistemi stellari con più di un pianeta. Dai dati di Kepler si
possono ricavare la dimensione dell’esopianeta, il suo periodo orbitale e la
sua distanza orbitale dalla stella. Si può anche stimare in modo plausibile la
massa del pianeta.
Se ve lo state chiedendo, quando la Terra passa davanti al Sole – cosa che
succede sempre nel campo visivo di un qualche osservatore della galassia –
oscura 1/10.000 della superficie del Sole e dunque ne diminuisce la
luminosità totale dello stesso fattore. Va bene, scopriranno l’esistenza della
Terra, ma non sapranno nulla di ciò che succede sulla sua superficie.
Le onde radio e le microonde potrebbero funzionare. Forse i nostri alieni
in ascolto hanno qualcosa di simile al radiotelescopio da 500 metri nella
provincia di Guizhou in Cina. Se ce l’hanno, e se lo calibrano sulle giuste
frequenze, sicuramente si accorgeranno della Terra – o meglio, del fatto che
la nostra civiltà moderna è una delle sorgenti più luminose nel cielo.
Considerate tutto ciò che genera onde radio o microonde: non solo radio
tradizionali, ma anche trasmissioni televisive, telefoni cellulari, forni a
microonde, radiocomandi per aprire i garage e le auto, radar commerciali,
radar militari e satelliti per telecomunicazioni. Risplendiamo di onde a
bassa frequenza – prova inconfutabile che qualcosa di sospetto sta
succedendo dalle nostre parti, dato che i piccoli pianeti rocciosi nel loro
stato naturale non emettono quasi nulla nelle frequenze radio.
Dunque se gli alieni all’ascolto rivolgessero l’equivalente dei nostri
radiotelescopi verso di noi potrebbero dedurre che sul nostro pianeta è
presente della tecnologia. C’è però una complicazione: altre interpretazioni
sono possibili. Forse non saprebbero distinguere i segnali terrestri da quelli
dei pianeti maggiori del nostro sistema solare, anch’essi buone sorgenti di
onde radio, specialmente Giove. Forse penserebbero che siamo un nuovo
tipo di pianeta, stranamente attivo nelle frequenze radio. Forse non
riuscirebbero a distinguere le emissioni radio terrestri da quelle del Sole, e
concluderebbero che il Sole è un nuovo tipo di stella che emette
intensamente nella banda delle onde radio.
Gli astrofisici qui sulla Terra, all’Università di Cambridge in Inghilterra,
erano sconcertati più o meno allo stesso modo nel 1967. Durante una
scansione del cielo con un radiotelescopio alla ricerca di segnali potenti,
Antony Hewish e il suo gruppo di ricerca scoprirono qualcosa di davvero
strano: un oggetto pulsante a intervalli precisi di poco più di un secondo.
Jocelyn Bell, a quel tempo dottoranda di Hewish, fu la prima a notarlo.
I colleghi di Bell stabilirono subito che gli impulsi venivano da grande
distanza. L’idea che il segnale potesse avere origine tecnologica – un’altra
civiltà che trasmetteva prove della sua esistenza attraverso lo spazio – era
irresistibile. Come dice Bell stessa: “Non avevamo prove che fosse
un’emissione totalmente naturale… io stavo cercando di tirar fuori una tesi
di dottorato da una nuova tecnica sperimentale, e qualche omino verde
mattacchione aveva scelto la mia antenna e la mia frequenza per
comunicare con noi”.1 Dopo pochi giorni, tuttavia, scoprì altri segnali
provenienti da altre regioni della Via Lattea. Bell e i suoi colleghi capirono
di aver scoperto una nuova classe di oggetti cosmici – una stella fatta
interamente di neutroni che pulsa emettendo onde radio a ogni rotazione.
Hewish e Bell la chiamarono appropriatamente “pulsar”.
Intercettare onde radio non è l’unico modo di ficcare il naso negli affari
altrui. C’è anche la cosmochimica. L’analisi chimica delle atmosfere
planetarie è diventata un settore di ricerca vivace nell’astrofisica moderna.
Com’è facile immaginare, la cosmochimica si basa sulla spettroscopia –
l’analisi della luce per mezzo di uno spettrometro. Utilizzando gli strumenti
e le tecniche degli spettroscopisti, i cosmochimici possono dedurre la
presenza di vita su un esopianeta, al di là del fatto che questa vita sia
senziente, intelligente o tecnologica.
Il metodo funziona perché ogni elemento, ogni molecola – non importa
dove si trovi nell’Universo – assorbe, emette, riflette e diffonde la luce in
modo unico. E, come già discusso, facendo passare quella luce attraverso
uno spettrometro, si evidenziano caratteristiche assimilabili a vere e proprie
impronte digitali chimiche. Le impronte più visibili sono lasciate dagli
elementi chimici più eccitati dalla pressione e dalla temperatura
dell’ambiente in cui si trovano. Le atmosfere planetarie sono ricche di
queste caratteristiche. E se un pianeta è brulicante di flora e fauna, la sua
atmosfera sarà ricca di marcatori biologici – prove spettrali dell’esistenza di
vita. Che sia di origine biologica (prodotta da una qualsiasi forma di vita),
antropologica (prodotta dalla diffusa specie Homo sapiens), o tecnologica
(prodotta solo dalla tecnologia), una tale lampante evidenza sarebbe
difficile da nascondere.
A meno di non essere nati con sensori spettroscopici già preinstallati, i
nostri alieni ficcanaso dovrebbero costruire uno spettrometro per rilevare le
nostre impronte. Ma soprattutto la Terra dovrebbe transitare di fronte al
Sole (o a qualche altra sorgente) e permettere alla luce di attraversare la
nostra atmosfera e continuare fino a raggiungere gli alieni. In quel modo,
gli elementi chimici dell’atmosfera terrestre potrebbero interagire con la
luce e lasciare le loro impronte visibili a tutti.
Alcune molecole – ammoniaca, anidride carbonica, acqua – sono
abbondanti nell’Universo, indipendentemente dalla presenza di vita. Ma
altre molecole invece si sviluppano dove c’è vita. Un altro biomarcatore
facilmente rilevabile è l’alto livello di metano, due terzi del quale sono
prodotti da attività legate all’uomo, come la produzione di olio
combustibile, la coltivazione del riso, le acque nere, i rutti e i peti degli
animali domestici. Le sorgenti naturali, che compongono il restante terzo,
includono la vegetazione in decomposizione dei terreni paludosi e le
emissioni delle termiti. Allo stesso tempo, in posti dove l’ossigeno libero
scarseggia, non sempre è necessaria la vita per produrre metano.
Ultimamente gli astrobiologi stanno discutendo sull’esatta origine delle
tracce di metano trovate su Marte e sull’abbondante quantità di metano su
Titano, la luna di Saturno, dove non pensiamo ci siano mucche e termiti.
Se gli alieni ci tenessero d’occhio di notte, noterebbero un aumento di
sodio a causa del massiccio uso di lampioni a vapori di sodio che si
accendono al tramonto nelle città e nelle periferie. La prova più lampante,
tuttavia, sarebbe tutto il nostro ossigeno libero, che rappresenta un quinto di
tutta l’atmosfera.
L’ossigeno, che dopo l’idrogeno e l’elio è il terzo elemento più
abbondante nel cosmo, è chimicamente attivo e si lega facilmente ad atomi
di idrogeno, carbonio, azoto, silicio, zolfo, ferro, e così via. Forma legami
anche con se stesso. Per avere stabilmente tutto questo ossigeno, qualcosa
deve produrlo in quantità pari a quella consumata. Qui sulla Terra la
produzione avviene grazie alla vita. La fotosintesi, portata avanti dalle
piante e da molti batteri, libera ossigeno negli oceani e nell’atmosfera.
L’ossigeno libero, a sua volta, permette l’esistenza di forme di vita
aerobiche, come noi e praticamente ogni altra creatura del regno animale.
Noi terrestri già conosciamo l’importanza delle impronte digitali
chimiche distintive del nostro pianeta. Ma gli alieni lontani che si
imbatteranno in noi dovranno interpretare le loro scoperte e testare le loro
ipotesi. La periodica comparsa di sodio è di origine tecnologica? L’ossigeno
libero è sicuramente di origine biologica. E il metano? Anch’esso è
chimicamente instabile e sì, una parte è di origine antropologica ma, come
abbiamo visto, non necessariamente è prodotto da organismi viventi.
Se gli alieni decideranno che le caratteristiche chimiche della Terra sono
prove certe dell’esistenza di vita, forse si chiederanno se si tratta di vita
intelligente. Presumibilmente gli alieni comunicano tra di loro, e
probabilmente pensano che anche altre forme di vita intelligente lo
facciano. Forse a questo punto decideranno di origliare la Terra con i loro
radiotelescopi per vedere in quale parte dello spettro elettromagnetico i suoi
abitanti sono più ferrati. Quindi, che gli alieni compiano le loro ricerche con
la chimica o con le onde radio, potrebbero arrivare alla stessa conclusione:
un pianeta in cui c’è tecnologia avanzata deve essere popolato di forme di
vita intelligente, che passano il tempo a scoprire come funziona l’Universo
e ad applicare le sue leggi per il bene pubblico o privato.
Esaminando più attentamente le impronte atmosferiche terrestri, i
biomarcatori umani includono acido solforico, acido carbonico e acido
nitrico, più altre componenti inquinanti provenienti dalla combustione
fossile. Se gli alieni curiosi fossero anche più avanzati socialmente,
culturalmente e tecnologicamente di noi, interpreterebbero di sicuro questi
biomarcatori come prova convincente dell’assenza di vita intelligente sulla
Terra.
1. J. Bell, “Petit Four”, in Annals of the New York Academy of Sciences, 302, 1977, p. 685.
12
RIFLESSIONI SULLA PROSPETTIVA COSMICA
Nel corso dei secoli, le scoperte sul cosmo hanno messo in secondo piano
l’immagine di noi stessi. Un tempo si pensava che la Terra fosse unica dal
punto di vista astronomico, ma poi gli astronomi capirono che in realtà è
solo uno tra i pianeti che orbitano intorno al Sole. Pensavamo che il Sole
fosse unico, ma poi abbiamo appreso che le innumerevoli stelle del cielo
notturno sono anch’esse dei Soli. Credevamo che la nostra galassia, la Via
Lattea, fosse l’Universo intero, ma alla fine abbiamo stabilito che la
moltitudine di oggetti sfocati nel cielo sono altre galassie, che punteggiano
il paesaggio dell’Universo conosciuto.
Com’è facile oggi presumere che ci sia un solo Universo. Eppure diverse
teorie emergenti della cosmologia moderna, oltre all’improbabilità
continuamente riaffermata che esista qualcosa di unico, ci chiedono di
restare aperti all’ultimo assalto verso il nostro desiderio di unicità: il
multiverso.
1. J. Ferguson, Astronomy Explained Upon Sir Isaac Newton’s Principles, and Made Easy to Those
who Have not Studied Mathematics, London 1757.
2. Passaporto per l’Universo è stato scritto da Ann Druyan e Steven Soter, che sono anche
coautori, insieme a me, della miniserie televisiva della Fox Cosmos: A SpaceTime Odyssey. Hanno
lavorato anche con Carl Sagan sulla miniserie originale del 1980 per la PBS: Cosmos: A Personal
Voyage.
3. Gruppo delle otto università private americane più prestigiose ed elitarie. [NdT]
4. Trasmissione televisiva educativa per bambini. [NdT]
5. L’algebra booleana è una branca della matematica che assegna i valori “falso” o “vero” alle sue
variabili, comunemente rappresentati con 0 e 1, ed è alla base del funzionamento dei computer.
Prende il nome dal matematico del Settecento George Boole.
RINGRAZIAMENTI
Nel corso degli anni in cui questi saggi sono stati scritti, i miei
infaticabili redattori letterari sono stati Ellen Goldensohn e Avis Lang della
rivista Natural History: entrambi si sono assicurati, in ogni momento, che io
dicessi ciò che intendevo e intendessi ciò che dicevo. Il mio redattore
scientifico è stato l’amico e collega di Princeton Robert Lupton, che ne
sapeva più di me su ogni argomento essenziale. Ringrazio anche Betty
Lerner per i suoi suggerimenti al manoscritto, che hanno sensibilmente
migliorato l’arco dei contenuti.