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Scienza e idee

Collana diretta da Giulio Giorello


Dal catalogo

Frank Close
Neutrino
Carlo Rovelli
La realtà non è come ci appare
La struttura elementare delle cose
Neil deGrasse Tyson

Astrofisica per chi va di fretta


www.raffaellocortina.it

Titolo originale
Astrophysics for People in a Hurry
Copyright © 2017 by Neil deGrasse Tyson

Traduzione
Giuseppe Bozzi

ISBN 978-88-3285-034-5
© 2018 Raffaello Cortina Editore
Milano, via Rossini 4

Prima edizione: 2018


INDICE

Prefazione

1. La più grande storia mai raccontata


2. Come in cielo, così in terra
3. Sia fatta la luce
4. Tra le galassie
5. Materia oscura
6. Energia oscura
7. Il cosmo in tavola
8. Sulla rotondità
9. Luce invisibile
10. Tra i pianeti
11. L’esopianeta Terra
12. Riflessioni sulla prospettiva cosmica

Ringraziamenti
  Per chi non ha tempo di leggere grandi tomi, ma
è comunque alla ricerca di un canale di accesso
al cosmo
  L’Universo non è obbligato ad avere un senso per
te.
PREFAZIONE

Negli ultimi anni, scoperte astronomiche meritevoli di titoli di apertura si


susseguono con frequenza quasi settimanale. È possibile che chi filtra le
notizie per i media abbia sviluppato un interesse per l’Universo, ma è
probabile che l’aumento di copertura mediatica rifletta una sincera fame di
scienza da parte del grande pubblico. Le prove abbondano: da celebri
programmi televisivi ispirati alla scienza (o basati su di essa), al successo di
film di fantascienza con cast stellari portati sugli schermi da registi e
produttori famosi. Negli ultimi tempi, i film biografici sulla vita di
scienziati importanti sono diventati un genere cinematografico a sé stante.
C’è anche un diffuso interesse verso i festival scientifici, i raduni di
appassionati di fantascienza e i documentari scientifici per la televisione.
Nel film con il più alto incasso al botteghino di tutti i tempi, un famoso
regista ambienta il racconto su un pianeta orbitante intorno a una stella
lontana, e una celebre attrice veste i panni di un’astrobiologa. Sebbene
molte altre branche della scienza abbiano scalato posizioni tra gli interessi
del grande pubblico, l’astrofisica continua a restare saldamente in vetta.
Credo di sapere perché. Tutti noi, a un certo punto, abbiamo alzato gli occhi
al cielo di notte e ci siamo chiesti: che significa tutto questo? Come
funziona? E qual è il mio posto nell’Universo?
Se siete troppo impegnati per studiare il cosmo attraverso lezioni, libri di
testo o documentari, ma cercate una breve e seria introduzione al tema,
eccovi Astrofisica per chi va di fretta. Grazie a questo piccolo saggio avrete
una discreta padronanza delle idee e delle scoperte alla base della moderna
comprensione dell’Universo. Se sono riuscito nel mio intento, avrete una
buona familiarità con il mio campo professionale, e potreste volerne sapere
di più.
1
LA PIÙ GRANDE STORIA MAI RACCONTATA

  L’Universo sussiste da molti lunghi anni, una


volta combinatosi in movimenti concordanti.
  Da questi, segue ogni altra cosa.
  LUCREZIO, 50 a.C. circa

Quando tutto ebbe inizio, circa quattordici miliardi di anni fa, tutto lo
spazio, tutta la materia e tutta l’energia dell’Universo conosciuto erano
contenuti in un volume inferiore a un milionesimo di milionesimo di quello
occupato dal punto che conclude questa frase.
Le condizioni erano talmente estreme che le forze fondamentali della
natura, con cui descriviamo l’Universo, erano unificate. Anche se non
sappiamo ancora nulla sulla sua origine, questo cosmo più piccolo di una
punta di spillo poteva solo espandersi. Rapidamente. In ciò che oggi
chiamiamo Big Bang.
La teoria della relatività generale di Einstein, secondo cui la presenza di
materia ed energia incurva la struttura dello spazio-tempo, è del 1916 ed è
alla base della nostra moderna comprensione della gravità. La meccanica
quantistica, scoperta negli anni Venti del Novecento, ci permette di
comprendere tutto ciò che è piccolo: molecole, atomi e particelle
subatomiche. Ma queste due descrizioni dei fenomeni naturali sono
formalmente incompatibili, e tra i fisici è partita la corsa a combinare la
teoria del piccolo e la teoria del grande in un’unica e coerente teoria di
gravità quantistica. Sebbene il traguardo non sia ancora stato raggiunto,
sappiamo esattamente dove sono gli ostacoli più alti. Uno di questi si trova
nella cosiddetta “era di Planck” dell’Universo primordiale. Si tratta
dell’intervallo di tempo da t = 0 a t = 10–43 secondi (un decimilionesimo di
miliardesimo di miliardesimo di miliardesimo di miliardesimo di secondo),
prima che l’Universo raggiungesse i 10–35 metri (un centomilionesimo di
miliardesimo di miliardesimo di miliardesimo di metro) di estensione. Il
fisico tedesco Max Planck, dal quale prendono il nome queste quantità
incredibilmente piccole, introdusse il concetto di quanto di energia nel 1900
ed è generalmente riconosciuto come il padre della meccanica quantistica.
Il conflitto tra la gravità e la meccanica quantistica non pone particolari
problemi per l’Universo contemporaneo. Gli astrofisici applicano i principi
e gli strumenti della relatività generale e della meccanica quantistica a
problemi molto diversi tra loro. Ma all’inizio, durante l’era di Planck, il
grande era piccolo e sospettiamo che ci sia stato una specie di “matrimonio
riparatore” tra le due teorie. Purtroppo i voti scambiati durante quella
cerimonia continuano a sfuggirci e nessuna legge (nota) della fisica è in
grado di descrivere con certezza il comportamento dell’Universo in quel
lasso di tempo.
In ogni caso ci aspettiamo che alla fine dell’era di Planck la gravità si sia
divincolata dall’abbraccio delle altre forze, ancora unificate, guadagnando
una propria identità ben descritta dalle nostre attuali teorie. Raggiunta l’età
di 10–35 secondi l’Universo continuò a espandersi, diluendo tutte le
concentrazioni di energia, e le residue forze unificate si separarono nella
forza “elettrodebole” e nella forza “nucleare forte”. In seguito, la forza
elettrodebole si separò nella forza elettromagnetica e nella forza “nucleare
debole”, mettendo a nudo le quattro distinte forze che abbiamo imparato a
conoscere e amare: la forza debole responsabile del decadimento
radioattivo, la forza forte che tiene insieme il nucleo atomico, la forza
elettromagnetica che tiene insieme le molecole, e la gravità che tiene
insieme le grandi masse.

È trascorso un millesimo di miliardesimo di secondo dall’inizio.

Nel frattempo l’interazione tra la materia, sotto forma di particelle


subatomiche, e l’energia, sotto forma di fotoni (trasportatori senza massa di
energia luminosa, al contempo onde e particelle), era incessante.
L’Universo era caldo abbastanza perché i fotoni si convertissero
spontaneamente in coppie particella-antiparticella, che immediatamente si
annichilavano e riconvertivano la loro energia in fotoni. Sì, l’antimateria
esiste davvero. E l’abbiamo scoperta noi, non gli scrittori di fantascienza.
Queste trasformazioni sono perfettamente descritte dalla più famosa tra le
equazioni di Einstein: E = mc2, una formula “a doppio senso” che indica la
materia equivalente a una certa quantità di energia e l’energia equivalente a
una certa quantità di materia. c2 indica il quadrato della velocità della luce,
un numero enorme che, moltiplicato per la massa, ci dice quanta energia
otteniamo in questo esercizio.
Poco prima, durante e dopo la separazione delle forze elettrodebole e
forte, l’Universo era una zuppa calda di quark e leptoni (con le loro
rispettive antiparticelle), e anche delle particelle che consentono loro di
interagire, i bosoni. Nonostante ne esistano diverse specie, si pensa che
nessuna delle particelle appartenenti a queste famiglie sia scomponibile in
qualcosa di più piccolo o fondamentale. Il fotone è un membro della
famiglia dei bosoni. I leptoni più noti ai non-fisici sono l’elettrone e forse il
neutrino: mentre i quark più familiari sono… be’, i quark non sono così
noti. A ognuna delle loro sei diverse specie è stato assegnato un nome con
nessun altro scopo filologico, filosofico o pedagogico che non fosse quello
di distinguerle: up e down, strange e charm, top e bottom.
I bosoni prendono il nome dallo scienziato indiano Satyendra Nath Bose.
Il termine “leptone” deriva dal greco leptos, che significa “leggero” o
“piccolo”. Il termine “quark”, invece, ha origini letterarie e molto più
fantasiose. Il fisico Murray Gell-Mann, che nel 1964 avanzò l’ipotesi che i
quark fossero i costituenti interni di neutroni e protoni, e all’epoca pensava
che la famiglia dei quark fosse formata solo da tre membri, prese il termine
da una frase tipicamente elusiva del Finnegans Wake di James Joyce:
“Three quarks for Muster Mark!”. Ma i quark hanno un vantaggio: i loro
nomi sono semplici. Una semplicità che i chimici, i biologi e in particolar
modo i geologi non riescono a raggiungere quando battezzano gli oggetti
dei loro studi.
I quark sono creature bizzarre. A differenza dei protoni, con carica
elettrica +1, e degli elettroni, con carica elettrica –1, i quark hanno carica
frazionaria (1/3, 2/3). E non è possibile catturare un quark solitario: si
aggrapperà sempre ad altri quark nei paraggi. In realtà la forza che ne tiene
insieme due (o più) cresce quanto più si cerca di allontanarli, come se
fossero collegati da una specie di elastico subnucleare. Allontanando
abbastanza i quark, l’elastico si rompe e l’energia immagazzinata invoca la
formula E = mc2 per creare un nuovo quark a ciascuna delle due nuove
estremità, facendoci tornare al punto di partenza.
Durante l’era quark-leptoni, l’Universo era così denso che la distanza
media tra quark liberi era equivalente alla distanza media tra quark legati. In
queste condizioni, non era possibile garantire in modo inequivocabile la
fedeltà di legame tra quark adiacenti: vagavano liberi, pur essendo
globalmente legati l’uno all’altro. La scoperta di questo stato della materia,
una sorta di calderone di quark, è stata annunciata nel 2002 da un team di
fisici dei Brookhaven National Laboratories di Long Island, nello Stato di
New York.
In base a convincenti argomenti teorici, si ritiene che un episodio
accaduto durante i primi istanti di vita dell’Universo, probabilmente durante
una delle separazioni tra le forze, abbia causato una lieve ma decisiva
asimmetria tra il numero di particelle di materia e il numero di particelle di
antimateria: all’incirca una parte su un miliardo. Questa piccola discrepanza
passava quasi inosservata in mezzo alla continua produzione,
annichilazione e riproduzione di quark e antiquark, elettroni e antielettroni
(meglio noti come positroni), neutrini e antineutrini. L’intruso avrebbe
avuto moltissime opportunità di annichilarsi, così come tutti gli altri.
Ma non per molto. Continuando a espandersi e raffreddarsi, il cosmo era
diventato più grande del nostro sistema solare e la temperatura era scesa al
di sotto dei 1000 miliardi di gradi Kelvin.

È trascorso un milionesimo di secondo dall’inizio.

Questo Universo tiepido non era più abbastanza denso e caldo per poter
continuare a cuocere la zuppa: i quark dunque scelsero dei compagni di
danza, formando una nuova famiglia di particelle pesanti chiamate adroni
(dal greco adros, che significa duro, forte). La transizione da quark a adroni
diede origine a protoni, neutroni e anche ad altre particelle pesanti meno
familiari, tutte composte da varie combinazioni di quark. In Svizzera
(tornando qui sulla Terra) il CERN1 utilizza un grande acceleratore per far
collidere fasci di adroni nel tentativo di ricreare tali condizioni estreme.
Questa macchina, tra le più grandi al mondo, è giustamente chiamata Large
Hadron Collider (grande collisore di adroni).
La lieve asimmetria materia-antimateria presente nella zuppa di quark e
leptoni si è ora trasferita agli adroni, ma con conseguenze straordinarie.
Con il progressivo raffreddamento dell’Universo, l’energia disponibile
per la creazione spontanea di coppie di particelle diminuì. Durante l’era
adronica i fotoni non potevano più invocare la formula E = mc2 per creare
coppie quark-antiquark. E non solo. I fotoni che emergevano da tutte le
restanti annichilazioni cedevano energia all’Universo in continua
espansione, scendendo sotto la soglia necessaria a produrre coppie adrone-
antiadrone. Per ogni miliardo di annichilazioni, che lasciavano in eredità un
miliardo di fotoni, sopravviveva un singolo adrone. Questi lupi solitari si
presero tutto il divertimento, fornendo la materia di base per galassie, stelle,
pianeti e petunie.
Senza la discrepanza al livello di uno su un miliardo tra materia e
antimateria, tutta la massa nell’Universo si sarebbe autoannichilata, dando
origine a un cosmo fatto di fotoni e nient’altro: decisamente uno scenario
da “E luce fu”.

È trascorso un secondo dall’inizio.

La grandezza dell’Universo è di qualche anno luce,2 all’incirca la


distanza che separa il Sole dalle stelle a esso più vicine. A un miliardo di
gradi centigradi fa ancora decisamente caldo, e l’Universo è un ribollire di
elettroni che, insieme alle loro antiparticelle, i positroni, compaiono e
scompaiono senza sosta. Ma in questo cosmo, che si espande e si raffredda,
i loro giorni (in realtà, i loro secondi) sono contati. Ciò che è successo ai
quark e agli adroni succede anche agli elettroni: un solo elettrone su un
miliardo sopravvive. Il resto si annichila con i positroni in un mare di
fotoni.
Più o meno in questo istante è stato fissato nell’Universo un numero
equivalente di elettroni e protoni. Quando la temperatura è scesa al di sotto
delle centinaia di milioni di gradi, i protoni si sono uniti con altri protoni e
con i neutroni per formare i nuclei atomici, delineando un Universo fatto al
90% da nuclei di idrogeno e al 10% da nuclei di elio, con qualche traccia di
deuterio (idrogeno “pesante”), trizio (idrogeno ancora più pesante) e litio.

Sono trascorsi due minuti dall’inizio.

Nei successivi 380.000 anni non è successo molto alla nostra zuppa
cosmica. Per tutti questi millenni la temperatura è rimasta abbastanza calda
da permettere agli elettroni di vagare liberi tra i fotoni, che rimbalzavano
avanti e indietro a ogni interazione.
Ma questa libertà finì improvvisamente quando la temperatura
dell’Universo scese al di sotto dei 3000 gradi Kelvin (circa la metà della
temperatura sulla superficie del Sole) e tutti gli elettroni si combinarono con
i nuclei. La traccia residua di questo matrimonio è una sorta di affresco
cosmico di luce visibile, che ha fissato per sempre nel cielo la distribuzione
della materia in quell’istante, e ha completato la formazione di particelle e
atomi nell’Universo primordiale.

Per il primo miliardo di anni, l’Universo ha continuato a espandersi e a


raffreddarsi, e la materia si è aggregata in grandi concentrazioni che
chiamiamo galassie. Se ne sono formate circa cento miliardi, ognuna con
centinaia di miliardi di stelle al cui interno avvengono fusioni
termonucleari. Le stelle con massa maggiore di circa 10 volte quella del
Sole raggiungono temperatura e pressione all’interno del nucleo sufficienti
a fabbricare decine di elementi più pesanti dell’idrogeno, inclusi quelli che
compongono i pianeti e qualsiasi tipo di vita possa prosperarvi.
Questi elementi sarebbero ora totalmente inutili se fossero rimasti dove si
sono formati. Ma accidentalmente le stelle di massa elevata esplodono,
proiettando il loro ricco serbatoio chimico nella galassia. Dopo nove
miliardi di anni di tali arricchimenti, in un’anonima parte dell’Universo
(alla periferia del Superammasso della Vergine), in un’anonima galassia (la
Via Lattea), in un’anonima regione (il braccio di Orione), si formò
un’anonima stella (il Sole).
La nube di gas da cui il Sole si è formato conteneva una riserva di
elementi pesanti sufficiente a raggrupparsi e dare vita a un ricco inventario
di oggetti orbitanti, tra cui diversi pianeti gassosi e rocciosi, centinaia di
migliaia di asteroidi e miliardi di comete. Per diverse centinaia di milioni di
anni, grandi quantità di detriti residui su orbite imprevedibili si sono
aggregate per formare corpi più grandi. Ciò è avvenuto per mezzo di
collisioni ad alta velocità e alta energia, che hanno reso liquide le superfici
dei pianeti rocciosi ostacolando la formazione di molecole complesse.
Al diminuire della materia residua nel sistema solare, le superfici dei
pianeti iniziarono a raffreddarsi. Il pianeta che chiamiamo Terra si è
formato in una zona decisamente privilegiata, dove gli oceani restano in
gran parte liquidi. Se la Terra fosse stata molto più vicina al Sole, gli oceani
sarebbero evaporati. Se fosse stata molto più lontana, gli oceani sarebbero
congelati. In entrambi i casi, la vita come la conosciamo non si sarebbe
sviluppata.
All’interno di oceani liquidi e chimicamente ricchi, tramite un
meccanismo che dobbiamo ancora scoprire, le molecole organiche si sono
trasformate in organismi viventi autoreplicanti. In questo brodo primordiale
i dominatori erano semplici batteri anaerobici, forme di vita che prosperano
in ambienti privi di ossigeno ma che a loro volta espellono ossigeno come
sottoprodotto. Questi primi organismi monocellulari hanno
involontariamente trasformato l’atmosfera terrestre, a quel tempo ricca di
anidride carbonica, in un’atmosfera con abbastanza ossigeno da permettere
a organismi aerobici di formarsi e dominare oceani e terre. Questi stessi
atomi di ossigeno, di solito uniti a coppie (O2), si sono combinati anche in
tre per formare nell’alta atmosfera l’ozono (O3), che serve da scudo per
proteggere la superficie terrestre dalla maggioranza dei fotoni ultravioletti
(dannosi per le molecole) provenienti dal Sole.
Dobbiamo la notevole diversità della vita sulla Terra, e presumibilmente
in altre parti dell’Universo, all’abbondanza cosmica di carbonio e alla
miriade di molecole semplici e complesse che lo contengono. Non c’è
dubbio: esistono molte più varietà di molecole organiche (ovvero,
contenenti carbonio) che molecole di qualsiasi altro tipo.
Ma la vita è delicata. Gli occasionali incontri con grandi comete e
asteroidi erranti, eventi un tempo abbastanza frequenti, portano
periodicamente scompiglio nel nostro ecosistema. Appena 65 milioni di
anni fa (meno del 2% dell’età della Terra), un asteroide da 10.000 miliardi
di tonnellate colpì quella che ora chiamiamo penisola dello Yucatán e
distrusse più del 70% della flora e della fauna terrestri, inclusi i famosi e
ingombranti dinosauri. Estinzione. Questa catastrofe ecologica ha permesso
ai nostri antenati mammiferi di occupare le nicchie appena liberate,
piuttosto che continuare a fare da antipasto per il T. rex. Un ramo di questi
mammiferi dal grande cervello, ramo i cui componenti chiamiamo primati,
si è evoluto in un genere e una specie (Homo sapiens) con intelligenza
sufficiente a inventare metodi e strumenti scientifici e a dedurre l’origine e
l’evoluzione dell’Universo.

Che cosa è successo prima di tutto ciò? Che cosa è successo prima
dell’inizio?
Gli astrofisici non ne hanno idea. O meglio, le nostre idee più creative
hanno poco o nessun fondamento sperimentale. Per contro, alcune persone
religiose sostengono, con tono di superiorità, che qualcosa deve aver dato
inizio a tutto questo: una forza più grande di tutte le altre, una sorgente da
cui tutto scaturisce. Un motore primo. Nella mente di queste persone, quel
qualcosa è ovviamente Dio.
E se l’Universo fosse sempre stato lì, in uno stato che dobbiamo ancora
identificare – un multiverso, per esempio, che dà vita in continuazione ad
altri universi? E se invece l’Universo fosse semplicemente comparso dal
nulla? E se invece tutto ciò che conosciamo e amiamo fosse solo una
simulazione al computer realizzata per gioco da una specie aliena super
intelligente?
Queste idee filosoficamente divertenti di solito non soddisfano nessuno.
Ma al contempo ci ricordano che l’ignoranza è lo stato mentale naturale per
un ricercatore. Chi crede di sapere tutto non ha mai studiato il confine, né
mai vi si è imbattuto, tra ciò che è noto e ciò che è ignoto nell’Universo.
Quello che sappiamo, e che possiamo affermare senza esitazioni, è che
l’Universo ha avuto un inizio. L’Universo continua a evolversi. E sì, ogni
atomo dei nostri corpi risale al Big Bang e alle fornaci termonucleari
all’interno delle stelle di grande massa che esplosero più di cinque miliardi
di anni fa.
Siamo polvere di stelle diventata vita, siamo stati messi dall’Universo
nelle condizioni di poterlo comprendere – e abbiamo appena iniziato.

1. Acronimo francese che sta per Conseil Européen pour la Recherche Nucléaire.
2. Un anno luce è la distanza che la luce percorre in un anno terrestre: circa 10.000 miliardi di
chilometri.
2
COME IN CIELO, COSÌ IN TERRA

Fino al momento in cui Isaac Newton scrisse la legge di gravitazione


universale, nessuno aveva ragione di credere che le leggi della fisica fossero
valide sulla Terra così come in qualsiasi altra parte dell’Universo. Sulla
Terra c’erano oggetti terrestri, mentre in cielo c’erano oggetti celesti.
Secondo gli insegnamenti cristiani dell’epoca, Dio dominava il cielo e lo
rendeva imperscrutabile alle nostre deboli menti mortali. Quando Newton
infranse questa barriera filosofica, rendendo tutti i moti comprensibili e
predicibili, alcuni teologi lo criticarono per il fatto di non lasciare al
Creatore nulla da fare. Newton aveva capito che la forza di gravità, che
agisce sulle mele mature nei frutteti, dirige anche gli oggetti scagliati lungo
le loro traiettorie curve, e conduce la Luna nella sua orbita intorno alla
Terra. La legge di gravitazione di Newton guida i pianeti, gli asteroidi e le
comete lungo le loro traiettorie intorno al Sole e mantiene centinaia di
miliardi di stelle all’interno della nostra Via Lattea.
L’universalità delle leggi fisiche è alla base delle scoperte scientifiche. E
la gravità è stata solo l’inizio. Immaginate l’eccitazione tra gli astronomi
del diciannovesimo secolo quando rivolsero verso il Sole i prismi da
laboratorio, che suddividono i raggi luminosi in uno spettro di colori. Gli
spettri non solo sono belli, ma contengono un bel po’ di informazioni
sull’oggetto che emette luce, tra cui la temperatura e la composizione. Gli
elementi chimici si rivelano tramite univoche successioni di bande chiare e
bande scure lungo lo spettro. Con meraviglia e stupore ci si accorse che le
caratteristiche chimiche distintive del Sole erano identiche a quelle ottenute
in laboratorio. Non più strumento privilegiato dei chimici, il prisma mostrò
che, sebbene differenti per dimensioni, massa, temperatura, posizione e
aspetto, la Terra e il Sole contengono le stesse cose: idrogeno, carbonio,
ossigeno, azoto, calcio, ferro e così via. Ma più importante della lista della
spesa di ingredienti in comune è stata la scoperta che le leggi della fisica
che causano la formazione di queste linee spettrali nel Sole sono le stesse
operanti sulla Terra, a 150 milioni di chilometri di distanza.
Il concetto di universalità era così fecondo da poter essere applicato con
successo in senso inverso. Ulteriori analisi dello spettro solare rilevarono
tracce di un elemento che non aveva controparte sulla Terra. Appartenendo
al Sole, la nuova sostanza venne chiamata elio (dal nome greco del Sole,
helios), e solo in seguito venne scoperta anche in laboratorio. L’elio,
dunque, divenne il primo elemento della tavola periodica a essere stato
scoperto in un posto diverso dalla Terra.
Bene, le leggi fisiche funzionano nel sistema solare, ma funzionano in
tutta la galassia? Nell’intero Universo? In qualsiasi istante di tempo? Passo
dopo passo, le leggi furono testate. Anche le stelle più vicine contenevano
elementi chimici familiari. Lontani sistemi binari, con due stelle orbitanti
l’una intorno all’altra, sembravano sapere tutto della legge di gravitazione
di Newton. E così pure i sistemi di galassie binarie.
Così come i sedimenti stratificati fanno da calendario degli eventi
terrestri per i geologi, osservare oggetti sempre più lontani nello spazio ci
permette di guardare sempre più indietro nel tempo. Gli spettri dei più
lontani oggetti nell’Universo portano le stesse tracce chimiche che
osserviamo nello spazio e nel tempo vicini a noi. È vero, gli elementi
pesanti erano meno abbondanti un tempo – sono stati fabbricati
principalmente da generazioni successive di supernove – ma le leggi che
descrivono i processi atomici e molecolari che hanno creato i segnali
spettrali restano immutate. In particolare, una quantità chiamata costante di
struttura fine, che interviene nella formazione delle “impronte digitali” di
ciascun elemento, deve essere rimasta invariata per miliardi di anni.
Ovviamente, non tutti gli oggetti e i fenomeni cosmici hanno una
controparte terrestre. Probabilmente non avete mai camminato nel mezzo di
una nuvola scintillante di plasma a un milione di gradi, e scommetto che
non avete neanche mai incontrato un buco nero per strada. Ma ciò che conta
è l’universalità delle leggi fisiche che li descrivono. Quando l’analisi
spettrale fu applicata per la prima volta alla luce emessa dalle nebulose
interstellari, fu scoperto un segnale che, ancora una volta, non aveva
controparte terrestre. A quel tempo, nella tavola periodica degli elementi
non c’era posto per un elemento nuovo. Dunque gli astrofisici inventarono
il nome “nebulium” per tappare il buco, in attesa di capire cosa stava
succedendo. Saltò fuori che nello spazio le nebulose di gas sono così
rarefatte che gli atomi possono percorrere lunghissime distanze senza mai
collidere. A queste condizioni, gli elettroni all’interno degli atomi possono
fare cose mai viste in laboratorio sulla Terra. Il nebulium era semplicemente
ossigeno ordinario che fa cose straordinarie.
L’universalità delle leggi fisiche ci dice che se atterrassimo su un altro
pianeta dove è presente una fiorente civiltà aliena, le leggi sarebbero le
stesse che abbiamo scoperto e analizzato qui sulla Terra – anche se gli alieni
avessero una visione differente sulla società e sulla politica. Inoltre, se
volessimo parlare con gli alieni, possiamo scommettere che non sarebbero
in grado di parlare inglese, francese e nemmeno mandarino. E neanche
sappiamo se stringersi la mano – ammesso che quella loro appendice distesa
sia una mano – sarebbe considerato un atto di pace o di ostilità. La cosa
migliore che possiamo fare è trovare un modo di comunicare usando il
linguaggio della scienza.
Un tentativo in questo senso è stato fatto negli anni Settanta con le sonde
Pioneer 10 e 11, e Voyager 1 e 2. Tutte e quattro furono dotate di energia
sufficiente, con la spinta gravitazionale dei pianeti esterni come aiuto, per
uscire completamente dal sistema solare.
Pioneer trasporta una placca dorata incisa che mostra, con pittogrammi
scientifici, la forma del nostro sistema solare, la nostra posizione nella Via
Lattea e la struttura dell’atomo di idrogeno. Voyager si è spinta anche oltre,
e include una registrazione su oro di diversi suoni della Madre Terra, tra cui
il battito cardiaco umano, i “canti” delle balene e una selezione musicale da
tutto il mondo, inclusi Beethoven e Chuck Berry. Sebbene ciò umanizzi il
messaggio, non è chiaro se orecchie aliene possano avere idea di cosa
stanno ascoltando – sempre ammesso che abbiano le orecchie. La mia
parodia preferita in questo caso è uno sketch del Saturday Night Live della
NBC, poco dopo il lancio di Voyager, in cui si mostra la replica scritta dagli
alieni che hanno recuperato la sonda. Il biglietto dice semplicemente:
“Mandate altro di Chuck Berry”.
La scienza si basa non solo sull’universalità delle leggi fisiche ma anche
sull’esistenza e sull’immutabilità di costanti fisiche. La costante di
gravitazione, nota alla maggior parte degli scienziati come “G maiuscola”,
fornisce all’equazione gravitazionale di Newton una misura dell’intensità
della forza. Test indiretti sono stati effettuati sulla possibile variazione di
questa quantità su scale temporali di milioni di anni. Facendo due conti, si
può determinare che la luminosità di una stella dipende fortemente da G. Se
G fosse stata in passato diversa anche solo di pochissimo, l’energia irradiata
dal Sole sarebbe stata molto più variabile di quanto indichino le evidenze
biologiche, climatiche e geologiche.
Il nostro Universo è davvero uniforme.

Tra tutte le costanti, la velocità della luce è la più famosa. Non importa
quanto possiamo andare veloci: non sorpasseremo mai un raggio di luce.
Perché no? Perché nessun esperimento finora condotto ha mai evidenziato
un oggetto di qualsiasi forma capace di raggiungere la velocità della luce.
Leggi fisiche ben verificate predicono e spiegano questo fatto. So che
queste affermazioni possono indicare una mentalità ristretta. Nel passato,
alcuni dei proclami più stupidi basati sulla scienza sottostimavano
l’ingegnosità di inventori e ingegneri: “Non saremo mai in grado di volare”,
“Volare non sarà mai commercialmente possibile”, “Non divideremo mai
l’atomo”, “Non infrangeremo mai il muro del suono”, “Non andremo mai
sulla Luna”. Queste affermazioni hanno in comune il fatto che nessuna
legge fisica impediva di fare tali cose.
L’affermazione “Non sorpasseremo mai un raggio di luce” è una
predizione qualitativamente diversa. Segue da principi fisici di base
verificati sperimentalmente. Sui cartelli stradali per futuri viaggiatori
interstellari potrebbe a ragione essere scritto:

La velocità della luce: non è solo una buona idea, è la Legge.

Il vantaggio delle leggi fisiche, a differenza dei limiti di velocità sulle


strade terrestri, è che non hanno bisogno di forze dell’ordine per essere
rispettate, anche se un tempo avevo una maglietta da nerd con su scritto
OBEY GRAVITY (obbedisci alla gravità).
Tutte le misure suggeriscono che le costanti fondamentali conosciute, e le
leggi fisiche che le coinvolgono, sono indipendenti dal tempo e dalla
posizione: sono davvero costanti e universali.
*

In molti fenomeni naturali troviamo più leggi fisiche


contemporaneamente all’opera. Spesso questo complica l’analisi e, nella
maggior parte dei casi, sono necessarie sofisticate simulazioni numeriche
per fare i conti e tenere traccia dei parametri rilevanti. Quando, nel luglio
del 1994, la cometa Shoemaker-Levy 9 si tuffò nell’atmosfera di Giove
ricca di gas ed esplose, la simulazione più accurata combinava leggi della
meccanica dei fluidi, della termodinamica, della cinematica e della
gravitazione. La climatologia e la meteorologia sono altri esempi importanti
di fenomeni complicati e difficili da predire. Ma le leggi di base sono
sempre le stesse. La Grande Macchia Rossa di Giove, un violento
anticiclone che va avanti da almeno 350 anni, è governato dagli stessi
identici processi fisici che generano le tempeste sulla Terra e altrove nel
sistema solare.
Un’altra classe di verità universali abbraccia le leggi di conservazione, in
base alle quali una certa quantità misurata resta costante qualsiasi cosa
accada. Le tre più importanti sono la conservazione di massa ed energia, la
conservazione di quantità di moto e momento angolare, e la conservazione
della carica elettrica. Queste leggi sono ben evidenti sulla Terra e ovunque
abbiamo pensato di guardare – dal dominio delle particelle elementari alle
strutture cosmiche su larga scala.
Nonostante questo gran vantarsi, non è tutto oro quel che luccica. C’è il
fatto che non possiamo vedere, toccare o assaporare la sorgente di circa
l’85% della gravità che misuriamo nell’Universo. Questa misteriosa
materia oscura, che resta tuttora inosservata a parte gli effetti gravitazionali
sulla materia ordinaria, potrebbe essere composta da particelle esotiche che
dobbiamo ancora scoprire o identificare. Una piccola minoranza di
astrofisici, tuttavia, non è convinta dell’esistenza della materia oscura e
suggerisce semplicemente di modificare la legge di gravitazione di Newton.
Aggiungiamo qualche termine alle equazioni e tutto andrà a posto.
Forse un giorno scopriremo che la gravità di Newton richiede in effetti
qualche correzione. Non sarà un problema, è già successo una volta. La
teoria della relatività generale di Einstein nel 1916 ha ampliato i principi
della gravitazione di Newton in modo da essere applicabile anche a oggetti
di massa estremamente grande. La legge di gravità ordinaria non è più
valida in questo regime esteso, sconosciuto a Newton. La lezione da trarre
in questo caso è che la nostra fiducia in una legge aumenta in base
all’intervallo di validità in cui è stata sperimentata e verificata. Più ampio è
l’intervallo di validità, più potente ed efficace si rivela la legge nel
descrivere il cosmo. Per i fenomeni gravitazionali di tutti i giorni, la legge
di Newton va benissimo. Ci ha portato sulla Luna e riportato sulla Terra nel
1969. Per i buchi neri e per le strutture di grande scala dell’Universo,
abbiamo bisogno della relatività generale. E se inseriamo piccole masse e
piccole velocità all’interno delle equazioni di Einstein, esse diventano
letteralmente (o, meglio, matematicamente) le equazioni di Newton – tutte
buone ragioni per avere fiducia nella nostra comprensione di ciò che
affermiamo di capire.

Agli occhi di uno scienziato, l’universalità delle leggi fisiche rende il


cosmo un posto meravigliosamente semplice. Al confronto, la natura umana
– dominio dello psicologo – è infinitamente più scoraggiante. In America, i
comitati scolastici locali votano sugli argomenti da insegnare in classe. In
alcuni casi, i voti sono espressi in base ai capricci di movimenti culturali,
politici o religiosi. Nel mondo, sistemi di valori differenti portano a
divergenze politiche che non sempre si ricompongono pacificamente. La
potenza e la bellezza delle leggi fisiche è che funzionano ovunque,
indipendentemente dal fatto che scegliate o meno di crederci.
In altre parole, tutto è opinabile a parte le leggi della fisica.
Non che gli scienziati non discutano. Lo facciamo, e anche parecchio.
Ma quando lo facciamo, di solito esprimiamo opinioni sull’interpretazione
di dati insufficienti o confusi, ai confini inospitali della conoscenza. Ogni
volta che una legge fisica può essere tirata in ballo in una discussione, il
dibattito è breve: no, la tua idea di macchina di moto perpetuo non
funzionerà mai, perché viola leggi ben testate della termodinamica; no, non
puoi costruire una macchina del tempo, andare nel passato e uccidere tua
madre prima che tu nasca, perché violeresti le leggi di causalità; no, non
puoi levitare spontaneamente e fluttuare al di sopra del suolo senza violare
le leggi di conservazione della quantità di moto, che tu sia o meno seduto
nella posizione del loto.1
La conoscenza delle leggi fisiche, in alcuni casi, può darci fiducia
nell’affrontare persone scontrose. Qualche anno fa mi trovavo a Pasadena,
in California, e stavo bevendo una cioccolata calda prima di andare a letto.
L’avevo ordinata con panna montata, naturalmente, ma quando è arrivata al
tavolo non ve n’era traccia. Dopo aver detto al cameriere che non c’era
panna nella mia cioccolata, lui mi rispose che non potevo vederla perché era
andata a finire in fondo. Ma la panna montata ha una densità bassa e
galleggia su tutti i liquidi che gli umani consumano. Quindi ho offerto al
cameriere due possibili spiegazioni: o qualcuno aveva dimenticato di
aggiungere la panna montata alla mia cioccolata calda, o le leggi universali
della fisica erano diverse in quel ristorante. Non convinto, con aria di sfida
mi ha portato una cucchiaiata di panna montata per dimostrare la sua
affermazione. Dopo essere andata su e giù un paio di volte, la panna
montata affiorò in superficie, galleggiando al sicuro.
Quale dimostrazione migliore per l’universalità delle leggi fisiche?

1. In linea di principio, potresti fare questa acrobazia se riuscissi a emettere una potente e
prolungata flatulenza.
3
SIA FATTA LA LUCE

Dopo il Big Bang, l’obiettivo principale del cosmo era espandersi, ridurre
progressivamente la concentrazione dell’energia che permeava lo spazio.
Istante dopo istante, l’Universo diventava un po’ più grande, un po’ più
freddo, un po’ più fioco. Nel frattempo, materia ed energia coesistevano in
una specie di zuppa opaca, in cui elettroni a piede libero diffondevano
continuamente fotoni a caso.
Per 380.000 anni, le cose andarono avanti così. In questa epoca
primordiale, i fotoni non facevano molta strada prima di incontrare un
elettrone. Se a quel tempo avessimo voluto vedere attraverso l’Universo,
non avremmo potuto. Ogni fotone arrivato fino a noi era andato a sbattere
contro un elettrone qualche nanosecondo o picosecondo prima, proprio
davanti al nostro naso (un nanosecondo è un miliardesimo di secondo, un
picosecondo è un millesimo di miliardesimo di secondo). Poiché quella era
la più grande distanza che un’informazione poteva percorrere prima di
arrivare ai nostri occhi, l’intero Universo era in sostanza una nebbia opaca e
rilucente in ogni direzione. Anche il Sole e tutte le altre stelle sono fatti in
questo modo.
Con il diminuire della temperatura, le particelle si muovevano sempre più
lentamente. E nel momento in cui la temperatura dell’Universo scese per la
prima volta al di sotto dei caldissimi 3000 gradi Kelvin, gli elettroni
rallentarono abbastanza da essere catturati da protoni di passaggio, dando
origine ai primi atomi veri e propri. Questo permise ai fotoni, fino a quel
momento tormentati, di guadagnare la libertà e viaggiare senza ostacoli
attraverso l’Universo.
Questa “radiazione cosmica di fondo” costituisce il bagliore residuo di un
Universo primitivo rovente e lucente, e possiamo definirne la temperatura
basandoci sulla porzione di spettro elettromagnetico a cui appartiene la gran
parte dei fotoni. Con il progressivo raffreddamento del cosmo, i fotoni della
parte visibile dello spettro hanno ceduto energia all’Universo in espansione
e sono scivolati nella parte bassa dello spettro, trasformandosi in fotoni
infrarossi. Nonostante i fotoni dello spettro visibile siano diventati sempre
più deboli, non hanno mai cessato di essere fotoni.
Quale regione viene dopo nello spettro elettromagnetico? Oggi
l’Universo si è espanso di un fattore 1000 da quando i fotoni sono stati
liberati, e quindi la radiazione cosmica di fondo si è raffreddata di un fattore
1000. I fotoni che a quell’epoca appartenevano allo spettro visibile ora
hanno energia pari a un millesimo di quella originaria. Dunque ora sono
microonde, ed è da qui che deriva il termine odierno “radiazione cosmica di
fondo a microonde”, in breve CMB (Cosmic Microwave Background).
Continuando così, tra cinquanta miliardi di anni gli astrofisici parleranno di
“radiazione cosmica di fondo a radioonde”.
Quando qualcosa si illumina dopo essere stato riscaldato, emette luce in
tutte le regioni dello spettro elettromagnetico, ma avrà sempre dei picchi da
qualche parte. Tutti i bulbi delle lampade casalinghe che usano ancora
filamenti metallici a incandescenza hanno il picco nella regione infrarossa,
e questo è il motivo principale della loro inefficienza come sorgente di luce
visibile. I nostri sensi percepiscono l’infrarosso solo sotto forma di calore
sulla pelle. La rivoluzione del LED nell’illuminazione moderna crea pura
luce visibile senza sprecare potenza elettrica in regioni non visibili dello
spettro. Ecco perché si possono leggere sulle confezioni frasi all’apparenza
bizzarre come: “Un LED da 7 Watt equivale a una lampadina a
incandescenza da 60 Watt”.
Essendo il residuo di qualcosa che in origine splendeva luminoso, la CMB
ha il profilo che ci attendiamo da un oggetto radiante che si raffredda: ha un
picco in una regione dello spettro, ma irradia anche in altre regioni. In
questo caso, oltre ad avere un picco nelle microonde, la CMB contiene anche
radioonde e un numero molto piccolo di fotoni di energia ancora maggiore.
A metà del ventesimo secolo il settore della cosmologia – da non
confondere con la cosmetologia – non aveva molti dati a disposizione. E,
quando i dati sono pochi, abbondano teorie concorrenti ingegnose e
visionarie. L’esistenza della CMB era stata predetta dal fisico americano nato
in Russia George Gamow e dai suoi colleghi negli anni Quaranta. La base
per questa teoria proveniva da un lavoro del 1927 del fisico e sacerdote
belga Georges Lemaître, generalmente riconosciuto come il padre della
cosmologia del Big Bang. Ma sono stati i fisici americani Ralph Alpher e
Robert Herman a stimare nel 1948 quale dovesse essere la temperatura della
radiazione cosmica di fondo. Essi basavano i loro calcoli su tre pilastri: 1)
la teoria della relatività generale di Einstein del 1916; 2) la scoperta nel
1929 da parte di Edwin Hubble del fatto che l’Universo è in espansione; 3)
la fisica atomica, sviluppata in laboratorio prima e durante il Progetto
Manhattan che costruì le bombe atomiche della Seconda guerra mondiale.
Herman e Alpher hanno calcolato e proposto una temperatura di 5 gradi
Kelvin per l’Universo. Bene, il calcolo è sbagliato. La temperatura delle
microonde, misurata con precisione, è 2,725 gradi, a volte semplificata in
2,7 gradi, ma qualora foste numericamente pigri nessuno avrà da ridire se
arrotonderete la temperatura dell’Universo a 3 gradi Kelvin.
Fermiamoci un attimo. Herman e Alpher hanno usato la fisica atomica,
appena scoperta in laboratorio, applicandola a ipotetiche condizioni
nell’Universo primordiale. Poi hanno estrapolato un risultato che fosse
valido miliardi di anni dopo, calcolando la temperatura dell’Universo al
giorno d’oggi. Il fatto che la loro predizione approssimi, anche solo
rozzamente, la risposta corretta è un trionfo impressionante della
conoscenza umana. Avrebbero potuto sbagliare di un fattore dieci, o un
fattore cento, e avrebbero anche potuto predire qualcosa che non esiste.
Commentando questa impresa, l’astrofisico americano J. Richard Gott
osservò: “Predire l’esistenza di una radiazione di fondo e ottenerne la
temperatura corretta a meno di un fattore 2 è stato come predire
l’atterraggio di un disco volante del diametro di 15 metri sul prato della
Casa Bianca e vederne invece arrivare uno del diametro di 8 metri”.

La prima osservazione diretta della radiazione cosmica di fondo a


microonde è stata fatta per caso nel 1964 da Arno Penzias e Robert Wilson,
fisici americani dei Bell Telephone Laboratories, settore ricerca della AT&T.
Negli anni Sessanta tutti sapevano dell’esistenza delle microonde, ma
nessuno aveva la tecnologia per rilevarle. I Bell Laboratories, pionieri
nell’industria della comunicazione, avevano sviluppato una potente antenna
a forma di corno proprio a questo scopo.
Per prima cosa, se abbiamo intenzione di inviare o ricevere un segnale,
dobbiamo sbarazzarci delle possibili contaminazioni da parte di altre
sorgenti. Penzias e Wilson cercavano di misurare le interferenze sul loro
rivelatore generate da segnali di fondo a microonde, in modo da consentire
una comunicazione pulita e libera da rumori all’interno di questa banda
dello spettro. Non erano cosmologi. Erano maghi della tecnologia che
calibravano un ricevitore a microonde, ignari delle predizioni di Gamow,
Herman e Alpher.
Sicuramente Penzias e Wilson non stavano cercando la radiazione
cosmica di fondo: tentavano solo di aprire un nuovo canale di
comunicazione per AT&T.
Penzias e Wilson condussero il loro esperimento e sottrassero dai loro
dati tutte le sorgenti note di interferenza, terrestri e cosmiche, che erano
riusciti a identificare. Ma una parte del segnale non andava via, e non
riuscivano a capire come eliminarla. A un certo punto videro all’interno
dell’antenna un nido di piccioni, e pensarono che un certo materiale
dielettrico bianco (il guano di piccione) potesse essere responsabile del
segnale residuo, dal momento che lo osservavano in qualsiasi direzione
puntassero l’antenna. Dopo aver lavato via il dielettrico l’interferenza
diminuì un po’, ma il segnale residuo persisteva. L’articolo che
pubblicarono nel 1965 trattava di questo inspiegabile “eccesso di
temperatura d’antenna”.1
Nel frattempo un gruppo di fisici di Princeton, guidato da Robert Dicke,
stava costruendo un rivelatore appositamente per osservare la CMB. Ma non
aveva le risorse dei Bell Labs e il lavoro andava un po’ a rilento. Nel
momento in cui Dicke e i suoi colleghi vennero a conoscenza del lavoro di
Penzias e Wilson, intuirono immediatamente che cosa fosse l’eccesso di
temperatura d’antenna osservato. Tutto tornava: in particolar modo, la
temperatura stessa e il fatto che il segnale provenisse da ogni direzione
della volta celeste.
Nel 1978, Penzias e Wilson vinsero il premio Nobel per la loro scoperta.
E nel 2006 gli astrofisici americani John C. Mather e George F. Smoot
condivisero il Nobel per l’osservazione della CMB su un vasto intervallo di
frequenze, trasformando la cosmologia da collezione di idee ingegnose, ma
non sperimentalmente dimostrate, a scienza sperimentale di precisione.
*

Poiché la luce impiega tempo per raggiungerci da luoghi lontani


dell’Universo, quando guardiamo nello spazio profondo stiamo in realtà
guardando indietro nel tempo. Quindi se gli abitanti intelligenti di una
galassia molto lontana dovessero misurare la temperatura della radiazione
cosmica di fondo nel momento in cui li osserviamo, essi dovrebbero
misurare un po’ più di 2,7 gradi Kelvin perché starebbero vivendo in un
Universo più giovane, più piccolo e più caldo del nostro.
E in effetti si può verificare questa ipotesi. La molecola di cianogeno CN
(un tempo usato sui detenuti condannati alla pena capitale, come
componente attivo del gas somministrato per la loro esecuzione) si eccita
con l’esposizione alle microonde. Se le microonde sono più calde di quelle
della nostra CMB, il cianogeno si eccita un po’ di più. Nel modello del Big
Bang, il cianogeno contenuto in galassie lontane e più giovani è immerso in
una radiazione cosmica di fondo più calda rispetto al cianogeno contenuto
nella nostra Via Lattea. Ed è esattamente ciò che osserviamo.
Questo genere di cose non te lo puoi inventare.
Perché tutto questo dovrebbe essere interessante? L’Universo è rimasto
opaco fino a 380.000 anni dopo il Big Bang, quindi non avremmo potuto
vedere la materia prender forma neanche se fossimo stati seduti in prima
fila. Non avremmo potuto vedere dove si stavano formando i primi
ammassi di galassie e i primi vuoti. Prima che qualcuno potesse vedere
qualcosa, i fotoni dovevano poter viaggiare liberi attraverso l’Universo e
trasportare queste informazioni.
Il punto in cui ogni fotone ha iniziato il suo viaggio attraverso il cosmo è
il punto in cui si è scontrato con l’ultimo elettrone che ha trovato sulla sua
strada – il “punto di ultima diffusione”. Quando più e più fotoni riuscirono a
fuggire dalle collisioni si formò una “superficie” di ultima diffusione,
profonda 120.000 anni luce e in continua espansione. Tutti gli atomi
dell’Universo sono nati su questa superficie: un elettrone incontra un nucleo
atomico e un piccolo impulso di energia, sotto forma di un fotone, vola via
verso l’ignoto spazio profondo.2
A questo punto, in diverse regioni dell’Universo, alcune formazioni
hanno già iniziato ad avvicinarsi a causa dell’attrazione gravitazionale delle
loro componenti. I fotoni appena emersi dall’ultima diffusione in queste
regioni hanno sviluppato un profilo leggermente più freddo rispetto a quello
dei fotoni la cui ultima interazione è stata con elettroni meno socievoli e in
mezzo al nulla. Dove la materia si era accumulata, la forza di gravità era
aumentata, consentendo un accumulo ancora maggiore di materia. Queste
regioni hanno innescato la formazione di superammassi di galassie, mentre
altre regioni sono rimaste relativamente vuote.
Facendo una mappa dettagliata della radiazione cosmica di fondo a
microonde, si osserva che essa non è completamente omogenea. Ci sono
punti leggermente più caldi e punti leggermente più freddi della media.
Studiando queste variazioni di temperatura nella CMB – ovvero, studiando la
struttura della superficie di ultima diffusione – possiamo dedurre la struttura
e il contenuto di materia dell’Universo primordiale. Per comprendere come
si siano formate le galassie e gli ammassi usiamo la nostra migliore sonda,
la CMB, una potente macchina del tempo che permette agli astrofisici di
riavvolgere il nastro e ripercorrere a ritroso la storia del cosmo. Studiare la
struttura della CMB è come fare una specie di frenologia cosmica, poiché
analizziamo le protuberanze del cranio dell’Universo neonato.
Insieme ad altre osservazioni dell’Universo odierno e lontano, la CMB ci
permette di ricavare moltissime proprietà fondamentali. Confrontando
grandezza e temperatura delle regioni calde e fredde si può ricavare
l’intensità della forza gravitazionale a quell’epoca e quanto velocemente si
è accumulata la materia, e si può quindi dedurre quanta materia ordinaria,
materia oscura ed energia oscura ci siano nell’Universo. Da qui è facile
stabilire se l’Universo si espanderà per sempre oppure no.

La materia ordinaria è ciò di cui siamo fatti. Genera gravità e interagisce


con la luce. La materia oscura è una sostanza misteriosa che genera gravità,
ma non interagisce con la luce in alcun modo conosciuto. L’energia oscura è
una misteriosa pressione che agisce nello spazio vuoto in direzione opposta
alla gravità, obbligando l’Universo a espandersi più velocemente di quanto
farebbe normalmente.
Quello che dice il nostro esame frenologico è che sappiamo come
l’Universo si è comportato in passato, ma che la maggior parte di esso è
composta di roba a noi totalmente sconosciuta. Nonostante le nostre vaste
aree di ignoranza, oggi, come mai prima d’ora, la cosmologia ha un solido
punto fermo poiché la CMB ci mostra la porta che noi tutti abbiamo
attraversato. È un luogo in cui sono accaduti molti fenomeni fisici
interessanti e grazie a esso abbiamo imparato molte cose sull’Universo,
prima e dopo che la luce viaggiasse libera.
La semplice scoperta della radiazione cosmica di fondo a microonde ha
trasformato la cosmologia in qualcosa di più della mitologia. Ma è stata la
mappatura accurata e dettagliata del fondo cosmico a rendere la cosmologia
una scienza moderna. I cosmologi hanno un ego smisurato: come potrebbe
essere diversamente, quando il tuo lavoro è dedurre cosa ha portato
all’esistenza dell’Universo? Senza dati, le loro spiegazioni erano mere
ipotesi. Ora ogni nuova osservazione, ogni piccolo dato sperimentale è
un’arma a doppio taglio: permette alla cosmologia di svilupparsi su solide
fondamenta come molte altre discipline scientifiche, ma pone anche vincoli
alle teorie costruite quando non c’erano abbastanza dati, così da poter dire
se siano giuste o sbagliate.
Nessuna scienza raggiunge la maturità senza questo processo.

1. A.A. Penzias, R. Wilson, “A measurement of excess antenna temperature at 4080 Mc/s”, in


Astrophysical Journal, 142, 1965, pp. 419-421.
2. Gioco di parole intraducibile. Nell’originale, “wild red yonder” è la citazione di un film di
fantascienza di Werner Herzog il cui titolo è The Wild Blue Yonder. Il gioco di parole riguarda la
sostituzione di blue con red per riferirsi al red-shifting, ovvero lo spostamento verso il rosso, che la
frequenza del fotone emesso subisce a causa dell’espansione del cosmo. [NdT]
4
TRA LE GALASSIE

Nella grande conta dei componenti cosmici, le galassie sono ciò che
tipicamente viene conteggiato. Le ultime stime mostrano che l’Universo
osservabile può contenerne un centinaio di miliardi. Luminose, belle e
piene di stelle, le galassie tappezzano la vuota oscurità dello spazio come di
notte fanno le grandi città di una nazione. Ma quanto è vuoto il vuoto dello
spazio? (Quanto è vuota la campagna tra le città?) Nonostante le galassie
siano davanti ai nostri occhi, e nonostante possano farci credere che
nient’altro abbia importanza, l’Universo può contenere oggetti difficili da
osservare tra una galassia e l’altra. E forse quegli oggetti sono più
interessanti o più importanti per l’evoluzione dell’Universo rispetto alle
galassie stesse.
La nostra galassia a spirale, la Via Lattea, è così chiamata perché, se
guardata a occhio nudo, ricorda del latte versato nel cielo notturno. In
effetti, il termine “galassia” deriva dal greco galaxias che significa “latteo”.
Le due galassie a noi più vicine, distanti 600.000 anni luce, sono piccole e
di forma irregolare. Il diario di bordo di Ferdinando Magellano identifica
questi oggetti durante il suo famoso viaggio intorno al mondo del 1519. In
suo onore li chiamiamo Piccola e Grande Nube di Magellano, e sono
visibili principalmente dall’emisfero australe come una coppia di macchie
nel cielo, parcheggiate al di là delle stelle. La più vicina galassia con
dimensioni maggiori della nostra è lontana due milioni di anni luce, e si
trova oltre le stelle che tracciano la costellazione di Andromeda. Questa
galassia a spirale, storicamente chiamata Grande Nebulosa di Andromeda, è
una specie di gemella più massiva e più luminosa della Via Lattea. Notate
come il nome di ogni sistema non faccia riferimento alla presenza di stelle:
Via Lattea, Nubi di Magellano, Nebulosa di Andromeda. Tutte e tre furono
battezzate prima dell’invenzione dei telescopi, e dunque prima di poter
individuare la loro composizione stellare.

Come esplicitato in dettaglio nel capitolo 9, senza il beneficio dei


telescopi funzionanti su molteplici bande dello spettro elettromagnetico
potremmo ancora dichiarare vuoto lo spazio tra le galassie. Aiutati dagli
odierni rivelatori, e dalle odierne teorie, abbiamo esplorato il paesaggio
cosmico e abbiamo trovato oggetti di ogni tipo, difficili da rilevare: galassie
nane, stelle in fuga, stelle in fuga che esplodono, gas a milioni di gradi che
emettono raggi X, materia oscura, galassie blu pallido, onnipresenti nubi di
gas, particelle cariche di incredibile energia e la misteriosa energia del
vuoto quantistico. Con una lista simile, potremmo pensare che tutto il
divertimento nell’Universo si trovi tra le galassie piuttosto che all’interno
di esse.
In qualsiasi volume di spazio sondato in modo affidabile, il numero di
galassie nane sovrasta quello delle galassie grandi per più di un fattore
dieci. Il primo saggio che ho scritto sull’Universo, nei primi anni Ottanta, si
intitolava “La galassia e le sette nane”, in riferimento alla piccola famiglia
della Via Lattea. Da allora, il numero di galassie nane locali è salito a
diverse decine. Mentre le galassie purosangue contengono centinaia di
miliardi di stelle, le galassie nane possono averne anche solo un milione, il
che le rende centomila volte più difficili da rilevare. Non c’è da
meravigliarsi se continuiamo a scoprirne di nuove proprio sotto il nostro
naso.
Le immagini di galassie nane che non fabbricano più stelle assomigliano
a piccole macchie anonime. Le nane che formano ancora stelle hanno tutte
forma irregolare e, onestamente, sono tutte messe abbastanza male. Le
galassie nane hanno tre caratteristiche che remano contro la loro
osservazione. Sono piccole, e quindi spesso sono messe da parte di fronte
alle allettanti galassie a spirale che attirano la nostra attenzione. Sono
fioche, e quindi sono spesso mancate da molti rilevamenti di galassie con
un livello minimo di luminosità assegnato. E hanno una bassa densità di
stelle al loro interno, fornendo dunque poco contrasto nel bagliore
circostante dato dall’atmosfera terrestre notturna e da altre sorgenti. Tutto
questo è vero. Ma poiché le galassie nane sovrastano in numero quelle
“normali”, forse dobbiamo rivedere la nostra definizione di normalità.
La maggior parte delle galassie nane note si trova vicino a galassie più
grandi, in orbita come satelliti. Le due Nubi di Magellano fanno parte della
famiglia di nane della Via Lattea. Ma la vita delle galassie satelliti può
essere decisamente pericolosa. La maggior parte dei modelli numerici delle
loro orbite mostra un lento declino che porta la sfortunata nana a essere
lacerata e poi mangiata dalla galassia principale. La Via Lattea ha praticato
tale atto di cannibalismo almeno una volta nell’ultimo miliardo di anni,
quando ha consumato una galassia nana i cui poveri resti si possono
individuare in un gruppo di stelle che orbita attorno al centro galattico, oltre
le stelle della costellazione del Sagittario. Il sistema è chiamato Galassia
Nana del Sagittario, ma forse avrebbe dovuto chiamarsi Pranzo.
Nell’ambiente ad alta densità degli ammassi di galassie, sistematicamente
due o più galassie grandi collidono e si lasciano alle spalle un casino
titanico: strutture a spirale deformate oltre ogni riconoscibilità, ondate di
nuove regioni di formazione stellare indotte dalla violenta collisione tra
nubi gassose, centinaia di milioni di stelle sparse qua e là dopo essere
sfuggite alla gravità di entrambe le galassie. Alcune stelle si radunano di
nuovo a formare masse informi che potremmo chiamare galassie nane.
Altre stelle vanno alla deriva. Circa il 10% di tutte le grandi galassie porta
le tracce di uno scontro gravitazionale maggiore con un’altra grande
galassia – e questa percentuale potrebbe essere cinque volte maggiore tra
galassie all’interno di ammassi.
In tutta questa confusione, quanti relitti galattici permeano lo spazio
intergalattico, specialmente quello all’interno degli ammassi? Nessuno lo sa
per certo. È difficile stimarlo perché le stelle isolate sono troppo fioche per
essere osservate individualmente. Dobbiamo basarci sulla misura di un
debole bagliore emesso dalla totalità di queste stelle. Effettivamente, le
osservazioni degli ammassi rivelano proprio un tale bagliore tra le galassie,
suggerendo che potrebbero esserci altrettante stelle vagabonde senza
dimora di quante ce ne sono all’interno delle galassie stesse.
Per aggiungere altra carne al fuoco, abbiamo trovato (senza che le
stessimo cercando) più di una dozzina di supernove esplose molto lontano
da dove pensavamo fossero le loro galassie “ospitanti”. Nelle galassie
ordinarie, per ogni stella che esplode in questo modo sono da centomila a
un milione quelle che non lo fanno, e dunque le supernove isolate
potrebbero segnalare la presenza di intere popolazioni di stelle non
osservate. Le supernove sono stelle esplose in mille pezzi, la cui luminosità
è aumentata di un miliardo di volte durante il processo (che dura diverse
settimane) e le ha rese visibili nell’Universo. Sebbene una dozzina di
supernove vagabonde sia un numero relativamente piccolo, potremmo
scoprirne molte di più dal momento che le ricerche si basano
sistematicamente sull’osservazione delle galassie note e non dello spazio
vuoto tra esse.

C’è ancora altro negli ammassi, oltre alle galassie costituenti e alle stelle
ribelli. Misurazioni fatte con telescopi sensibili ai raggi X rivelano un gas a
decine di milioni di gradi che permea lo spazio all’interno dell’ammasso, e
il gas è così caldo che brilla intensamente nella regione a raggi X dello
spettro. Il movimento di galassie ricche di gas all’interno di questo mezzo
finisce per privarle del loro stesso gas, portandole a perdere la capacità di
generare nuove stelle. Questo potrebbe spiegare le cose. Ma, calcolando la
massa totale presente nel gas ad alta temperatura, per la maggior parte degli
ammassi essa risulta maggiore della massa di tutte le galassie dell’ammasso
per un fattore dieci. Ancora peggio, gli ammassi sono invasi dalla materia
oscura, la cui massa sembra essere maggiore di un altro fattore dieci rispetto
alla massa di qualsiasi altra cosa. In altre parole, se i telescopi osservassero
massa anziché luce, allora le nostre amate galassie negli ammassi
apparirebbero come picchi insignificanti nel mezzo di una gigantesca massa
informe di forze gravitazionali.
Nel resto dello spazio, al di fuori degli ammassi, c’è una tipologia di
galassie che prosperava molto tempo fa. Come già evidenziato, osservare il
cosmo è come per un geologo osservare gli strati sedimentari, dove la storia
della formazione delle rocce è dispiegata davanti agli occhi. Le distanze
cosmiche sono così vaste che il tempo impiegato dalla luce a raggiungerci
può essere di milioni o anche miliardi di anni. Quando l’Universo aveva la
metà della sua età attuale, prosperava una specie di galassie molto blu e
molto pallide di dimensione intermedia. Possiamo vederle. Ci salutano da
un’epoca antichissima e rappresentano galassie molto, molto lontane. Il loro
colore blu proviene da stelle di breve vita, appena formate, caratterizzate da
alte luminosità, massa e temperatura. Le galassie appaiono fioche non solo
per la loro distanza, ma anche perché il numero di stelle luminose al loro
interno era scarso. Come i dinosauri, comparsi ed estinti lasciando gli
uccelli come unici loro discendenti al giorno d’oggi, le galassie blu pallido
non esistono più, ma hanno probabilmente delle controparti nell’Universo
contemporaneo. Le loro stelle sono tutte spente? Sono forse diventate
oggetti invisibili sparsi nell’Universo? Si sono evolute nelle familiari
galassie nane odierne? O sono state tutte divorate da galassie più grandi?
Non lo sappiamo, ma la loro presenza nella storia del cosmo è garantita.
Con tutto questo materiale nello spazio intergalattico, potremmo
aspettarci che una parte di esso ci impedisca di vedere quello che c’è dietro.
Questo potrebbe essere un problema per gli oggetti più distanti
nell’Universo, come i quasar. I quasar sono nuclei di galassie
superluminosi, la cui luce ha viaggiato per miliardi di anni attraverso lo
spazio prima di raggiungere i nostri telescopi. In quanto sorgenti luminose
estremamente distanti, sono cavie ideali per rivelare la cianfrusaglia che si
frappone tra noi e loro.
In effetti, quando si decompone la luce dei quasar ricavandone lo spettro,
quest’ultimo risulta crivellato a causa della presenza di gas assorbenti lungo
il percorso della luce. Ogni quasar conosciuto, non importa dove si trovi,
mostra le tracce di decine di nubi di idrogeno isolate e disseminate nello
spazio e nel tempo. Questa classe eccezionale di oggetti intergalattici fu
identificata per la prima volta negli anni Ottanta, e continua a essere un’area
attiva della ricerca in astrofisica. Da dove provengono? Quanta massa
contengono?
Ogni quasar conosciuto mostra tracce distintive di idrogeno, dunque
possiamo concludere che nubi di idrogeno sono presenti ovunque
nell’Universo. E, come ci aspettavamo, più lontani sono i quasar, più nubi
troviamo nello spettro. Alcune delle nubi (meno dell’1%) sono
semplicemente il gas contenuto in galassie ordinarie a spirale o galassie
irregolari che si frappongono alla nostra vista. È naturale che almeno
qualche quasar finisca dietro la luce di galassie normali troppo distanti da
rilevare. Ma i restanti assorbitori sono inequivocabilmente una classe a sé
stante di oggetti cosmici.
Allo stesso tempo, la luce dei quasar passa anche attraverso regioni di
spazio in cui ci sono sorgenti mostruose di gravità che ne distruggono
l’immagine. Spesso queste regioni sono difficili da rilevare perché
composte da materia ordinaria troppo distante e troppo fioca, oppure perché
sono composte da materia oscura simile a quella che occupa i centri e le
regioni circostanti degli ammassi di galassie. In entrambi i casi, dove c’è
massa c’è gravità. E dove c’è gravità c’è spazio curvo, secondo la teoria
della relatività generale di Einstein. E quando lo spazio è curvo, può
comportarsi in maniera simile a una lente che altera il percorso della luce
che vi passa attraverso. In effetti, quasar lontani e intere galassie finiscono
letteralmente “sotto la lente” di oggetti che si trovano lungo la linea visiva
dei telescopi terrestri. In base alla massa della lente stessa e alla geometria
degli allineamenti visivi, l’effetto della lente può aumentare, distorcere o
persino suddividere in immagini multiple la sorgente di luce retrostante,
proprio come gli specchi deformanti nei parchi di divertimento.
Uno degli oggetti (conosciuti) più lontani nell’Universo non è un quasar,
ma una galassia ordinaria la cui flebile luce è amplificata in modo
significativo dall’azione di una lente gravitazionale. Da ora in poi
potremmo aver bisogno di questi “telescopi intergalattici” per osservare a
fondo dove (e quando) i telescopi comuni non riescono ad arrivare, e quindi
rivelare i futuri detentori dei record di distanza cosmica.

Nessuno ce l’ha con lo spazio intergalattico, ma potrebbe essere


pericoloso per la salute scegliere di andarci. Tralasciamo il fatto che
moriremmo di freddo perché il nostro corpo caldo cercherebbe di
raggiungere l’equilibrio termico con i 3 gradi Kelvin dell’Universo.
Ignoriamo anche il fatto che le nostre cellule ematiche esploderebbero
mentre noi soffochiamo per la mancanza di pressione atmosferica. Questi
sono rischi ordinari. Sul versante degli eventi esotici, lo spazio
intergalattico è regolarmente trafitto da particelle subatomiche cariche che
si muovono a velocità ed energia favolose. Li chiamiamo raggi cosmici. Le
particelle più energetiche hanno un’energia pari a cento milioni di volte
quella generata dai più grandi acceleratori di particelle. La loro origine resta
un mistero, ma queste particelle cariche sono in gran parte protoni, nuclei di
atomi di idrogeno, e si muovono al 99,9999999999999999999% della
velocità della luce. Incredibilmente, ognuna di queste particelle
subatomiche trasporta energia sufficiente a colpire una palla da golf e
mandarla in buca da qualsiasi punto del green.
Probabilmente l’oggetto più esotico esistente tra una galassia e l’altra
(ma anche al loro interno), nel vuoto dello spaziotempo, è il mare in
ebollizione di particelle virtuali – coppie particella-antiparticella invisibili,
che si formano e subito scompaiono. Questa singolare predizione della
fisica quantistica è stata chiamata “energia del vuoto”, e si manifesta come
una pressione verso l’esterno che contrasta la gravità e che domina in
condizioni di totale assenza di materia. L’espansione accelerata
dell’Universo, personificata dall’energia oscura, potrebbe essere dovuta
all’effetto di questa energia del vuoto.
Sì, lo spazio intergalattico è, e sarà sempre, il posto in cui ci si diverte.
5
MATERIA OSCURA

La gravità, la più familiare tra le forze, ci offre allo stesso tempo i


fenomeni meglio compresi e quelli peggio compresi in natura. C’è voluta la
mente dell’individuo più brillante e più influente degli ultimi mille anni,
Isaac Newton, per capire che la misteriosa “azione a distanza” della gravità
nasce dall’apporto di ogni piccolo frammento di materia, e che la forza
attrattiva tra due oggetti può essere descritta da una semplice equazione
algebrica. C’è voluta la mente dell’individuo più brillante e più influente
degli ultimi cento anni, Albert Einstein, per mostrare che possiamo
descrivere in modo più accurato l’azione a distanza della gravità come una
deformazione nella struttura dello spazio-tempo, prodotta da una generica
combinazione di materia ed energia. Einstein dimostrò che la teoria di
Newton richiede alcune modifiche per descrivere accuratamente la gravità –
per esempio, per predire quanto curveranno i raggi di luce nel passare
vicino a un oggetto massivo. Sebbene le equazioni di Einstein siano più
sofisticate di quelle di Newton, si adattano bene a tutto ciò che conosciamo
e amiamo: la materia che possiamo vedere, toccare, sentire, odorare e
occasionalmente gustare.
Non sappiamo chi sarà il prossimo genio nella sequenza, ma oramai
stiamo aspettando da quasi un secolo qualcuno che ci dica perché la gran
parte di tutta la forza gravitazionale misurata nell’Universo – circa l’85% –
provenga da sostanze che non interagiscono in alcun altro modo con la
“nostra” materia o energia. O magari la gravità in eccesso non proviene
affatto da materia o energia, ma da qualche altro meccanismo concettuale.
In ogni caso, non ne sappiamo praticamente nulla. Non siamo oggi più
vicini alla risposta di quanto non lo fossimo quando il problema della
“massa mancante” fu analizzato per la prima volta dall’astrofisico svizzero-
americano Fritz Zwicky, che insegnò al California Institute of Technology
per più di quarant’anni, combinando le sue profonde intuizioni sul cosmo
con le sue espressioni colorite e con un’abilità impressionante
nell’inimicarsi i colleghi.
Zwicky studiò il movimento di singole galassie all’interno di un
gigantesco ammasso posizionato molto oltre le stelle locali della Via Lattea
che formano la costellazione della Chioma di Berenice (una regina egizia
dell’antichità). L’ammasso della Chioma, come viene chiamato, è un
insieme di galassie isolato e densamente popolato, collocato a circa 300
milioni di anni luce dalla Terra. Le sue migliaia di galassie orbitano intorno
al centro dell’ammasso, muovendosi in tutte le direzioni come uno sciame
d’api intorno all’alveare. Sfruttando i moti di poche decine di galassie come
sonde per determinare il campo gravitazionale che tiene insieme l’intero
ammasso, Zwicky scoprì che la loro velocità media ha un valore
incredibilmente alto. Poiché forze gravitazionali maggiori inducono
velocità più alte negli oggetti attratti, Zwicky dedusse un enorme valore per
la massa dell’ammasso della Chioma. Come controprova, possiamo
sommare le masse di ogni galassia visibile dell’ammasso: anche se la
Chioma è tra i più grandi e massivi ammassi nell’Universo, non contiene
abbastanza galassie visibili per giustificare le velocità misurate da Zwicky.
Quanto è grave la situazione? Le leggi della gravità ci hanno tradito?
Senz’altro funzionano benissimo all’interno del sistema solare. Newton ha
mostrato che si può determinare univocamente la velocità che un pianeta
deve possedere per restare su un’orbita stabile a una distanza fissata dal
Sole, ovvero se non vuole passare a un’orbita più lontana o avvicinarsi al
Sole. Se potessimo aumentare la velocità orbitale della Terra di un fattore
pari a radice di 2 (1,4142…) rispetto al suo valore attuale, il nostro pianeta
raggiungerebbe la “velocità di fuga” e si allontanerebbe definitivamente dal
sistema solare. Possiamo applicare lo stesso ragionamento a sistemi molto
più grandi, come la nostra Via Lattea, in cui le stelle si muovono su orbite
dettate dalla gravità di tutte le altre stelle; oppure ad ammassi di galassie, in
cui ogni galassia sperimenta la gravità di tutte le altre galassie. In questo
spirito, in una pagina del suo taccuino piena di formule, Einstein scrisse una
poesia (che suona decisamente meglio in tedesco) in onore di Isaac Newton:
Look unto the stars to teach us
How the master’s thoughts can reach us
Each one follows Newton’s math
Silently along its path.1

Se analizziamo l’ammasso della Chioma, come fece Zwicky negli anni


Trenta, troviamo che le sue galassie si muovono tutte con velocità maggiore
della velocità di fuga. L’ammasso avrebbe dovuto disgregarsi rapidamente,
lasciando una flebile traccia della sua esistenza come alveare dopo appena
un centinaio di milioni di anni. Ma in realtà la sua età supera i dieci miliardi
di anni, quasi quanto l’Universo stesso. E così nacque ciò che resta a oggi il
mistero più a lungo irrisolto in astrofisica.
Nel corso dei decenni che seguirono il lavoro di Zwicky, lo stesso
problema si manifestò per altri ammassi di galassie, e quindi non abbiamo
potuto incolpare la Chioma di comportarsi in modo bizzarro. Ma allora chi
o che cosa dovremmo incolpare? Newton? Io non lo farei, almeno non per il
momento. Le sue teorie sono state messe alla prova per 250 anni e hanno
passato tutti i test. Einstein? No. La formidabile forza gravitazionale degli
ammassi di galassie non è ancora abbastanza alta da richiedere
l’armamentario completo della relatività generale, formulata da un paio di
decenni al tempo delle ricerche di Zwicky. Forse la “massa mancante”
necessaria a tenere insieme le galassie dell’ammasso della Chioma esiste,
ma in una veste sconosciuta e invisibile. L’abbiamo battezzata col
nomignolo “materia oscura”, che non implica la mancanza di qualcosa, ma
in ogni caso sottintende che un qualche nuovo tipo di materia debba esistere
e sia lì in attesa di essere scoperto.
Proprio quando gli astrofisici si persuasero ad accettare la presenza di
materia oscura negli ammassi di galassie come un mistero, il problema
spuntò di nuovo fuori. Nel 1976 Vera Rubin, un’astrofisica della Carnegie
Institution di Washington, scoprì un’anomalia di massa simile all’interno
delle stesse galassie a spirale. Studiando le velocità delle stelle intorno al
centro delle galassie, Rubin trovò dapprima ciò che si aspettava: all’interno
del disco visibile di ogni galassia, le stelle più lontane dal centro si
muovevano a velocità più elevate di quelle più vicine. Nello spazio tra il
centro galattico e le stelle più distanti è presente più materia (stelle e gas), e
dunque si spiegano le velocità orbitali più alte. Tuttavia, al di là del disco
luminoso galattico si possono ancora trovare nubi di gas isolate e qualche
stella brillante. Usando questi oggetti come sonde per il campo
gravitazionale esterno alla regione luminosa della galassia, dove non c’è più
materia luminosa da aggiungere al totale, Rubin scoprì che le loro velocità
orbitali restavano alte anziché diminuire al crescere della distanza, lì nella
terra di nessuno.
Queste regioni per lo più vuote delle periferie rurali di ogni galassia
contengono troppo poca materia visibile per spiegare l’anomala alta
velocità delle sonde. Rubin argomentò correttamente che qualche forma di
materia oscura deve essere presente in queste regioni lontane, ben oltre il
bordo visibile di ogni galassia a spirale. Grazie al lavoro di Rubin, oggi
chiamiamo queste zone misteriose “aloni di materia oscura”.
Il problema dell’alone ce l’abbiamo sotto il naso, proprio all’interno della
Via Lattea. Da galassia a galassia, e da ammasso ad ammasso, il rapporto
tra la massa stimata in base alla gravità totale e quella corrispondente agli
oggetti visibili varia fino ad arrivare (in alcuni casi) a un fattore di diverse
centinaia. A livello cosmico, il rapporto è in media circa sei: la materia
oscura cosmica contribuisce sei volte più della materia visibile alla gravità
totale.
Ulteriori ricerche hanno mostrato che la materia oscura non può essere
materia ordinaria non sufficientemente luminosa, o del tutto non luminosa.
Questa deduzione poggia su due ragionamenti. Per prima cosa, possiamo
eliminare quasi con certezza tutti i candidati noti plausibili, come i
sospettati di un crimine in un confronto all’americana. Potrebbe la materia
oscura risiedere nei buchi neri? No, perché avremmo visto gli effetti
gravitazionali di tutti questi buchi neri sulle stelle vicine. Potrebbero essere
nubi oscure? No, perché altrimenti assorbirebbero o interferirebbero in
qualche modo con la luce delle stelle dietro di loro, cosa che un’autentica
materia oscura non può fare. Potrebbero essere comete, o asteroidi, o
pianeti erranti interstellari (o intergalattici), nessuno dei quali emette luce di
per sé? È difficile credere che l’Universo abbia fabbricato pianeti per una
massa pari a sei volte quella di tutte le stelle. Vorrebbe dire seimila pianeti
come Giove, o peggio ancora due milioni come la Terra, per ogni stella
della galassia. Come termine di paragone, nel nostro sistema solare la massa
di tutti gli oggetti al di fuori del Sole ammonta a meno di un quinto dell’1%
della massa del Sole.
Un’evidenza ancor più diretta per la natura esotica della materia oscura
proviene dall’abbondanza relativa di idrogeno ed elio nell’Universo. Questi
numeri, presi insieme, forniscono l’impronta digitale cosmica lasciata
dall’Universo primordiale. Con buona approssimazione, le fusioni nucleari
avvenute nei primi minuti dopo il Big Bang hanno prodotto un nucleo di
elio ogni dieci nuclei di idrogeno (cioè, semplici protoni). I calcoli
mostrano che, se la maggior parte della materia oscura avesse partecipato
alle fusioni, ci sarebbe molto più elio nell’Universo. Da questo possiamo
concludere che la maggior parte della materia oscura – e dunque la maggior
parte della massa dell’Universo – non partecipa alle fusioni nucleari e
dunque non può qualificarsi come materia “ordinaria”, il cui tratto distintivo
è proprio l’essere coinvolta nelle interazioni atomiche e nucleari che danno
forma alla materia come la conosciamo. Osservazioni dettagliate della
radiazione cosmica di fondo a microonde, che permettono una verifica
indipendente di questa affermazione, confermano il risultato: materia oscura
e fusione nucleare non si parlano.
Dunque, al meglio delle nostre conoscenze, la materia oscura non è
semplicemente materia che non emette luce. È qualcosa di completamente
diverso. La materia oscura esercita attrazione gravitazionale in base alle
stesse regole che valgono per la materia ordinaria, ma fa poco altro che
possa permetterci di rivelarla. Ovviamente, la nostra analisi è in stallo
principalmente perché non sappiamo che cosa è davvero la materia oscura.
Se tutta la massa esercita gravità, allora anche tutta la gravità trae origine
dalla massa? Non lo sappiamo. Forse non c’è nulla di sbagliato nella
materia, ed è invece la gravità che non capiamo fino in fondo.

La discrepanza tra materia oscura e materia ordinaria varia sensibilmente


nei diversi ambienti astrofisici, ma diventa più pronunciata per grandi
oggetti come le galassie e gli ammassi di galassie. Per gli oggetti più
piccoli, come le lune e i pianeti, non c’è alcuna discrepanza. La gravità
superficiale terrestre, per esempio, può essere interamente spiegata da ciò
che abbiamo sotto i piedi. Se siete sovrappeso sulla Terra, non date la colpa
alla materia oscura. La materia oscura non ha alcuna influenza sull’orbita
della Luna intorno alla Terra, né sui movimenti dei pianeti intorno al Sole –
ma, come abbiamo visto, ne abbiamo bisogno per spiegare i movimenti
delle stelle intorno al centro della galassia.
Un diverso tipo di interazione gravitazionale può operare su scala
galattica? Forse no. Più probabilmente, la materia oscura consiste di materia
la cui natura dobbiamo ancora scoprire, e che si distribuisce in modo più
diffuso rispetto alla materia ordinaria. Altrimenti rileveremmo la gravità di
ammassi concentrati di materia oscura sparsi per l’Universo – comete
oscure, pianeti oscuri, galassie oscure. Per quanto ne sappiamo, non è così.
Ciò che sappiamo è che la materia che abbiamo imparato ad amare
nell’Universo – i componenti delle stelle, dei pianeti e della vita – è solo
una sottile glassa nella torta cosmica, piccole boe galleggianti in un vasto
oceano cosmico composto da qualcosa simile al nulla.

Durante il primo mezzo milione di anni dopo il Big Bang, un mero


battito di ciglia di fronte ai quattordici miliardi di anni di storia cosmica, la
materia nell’Universo aveva già iniziato a raggrupparsi in agglomerati che
sarebbero poi diventati gli ammassi e i superammassi di galassie. Ma le
dimensioni del cosmo sono raddoppiate nel successivo mezzo milione di
anni, e continuavano ad aumentare. Due forze erano in competizione tra
loro nell’Universo: la gravità che tendeva a coagulare, e l’espansione che
tendeva a diluire. Facendo i conti, si deduce rapidamente che la gravità
della materia ordinaria non poteva vincere questa battaglia da sola. Ha
avuto bisogno dell’aiuto della materia oscura, senza la quale ora vivremmo
– in realtà, non staremmo vivendo – in un Universo senza strutture: niente
ammassi, niente galassie, niente stelle, niente pianeti, niente persone.
Quanta gravità proveniente dalla materia oscura era necessaria? Sei volte
quella prodotta dalla materia ordinaria. Proprio quella che misuriamo
nell’Universo. Quest’analisi non ci dice che cos’è la materia oscura, ma
solo che gli effetti della materia oscura sono reali e che non possiamo,
nonostante tutti gli sforzi, ascriverli alla materia ordinaria.

Dunque la materia oscura è la nostra amica-nemica. Non abbiamo idea di


cosa sia, e ciò è abbastanza irritante. Ma ne abbiamo un disperato bisogno
nei calcoli per dare un’accurata descrizione dell’Universo. Gli scienziati di
solito non sono a proprio agio nel basare i calcoli su qualcosa che non
comprendono, ma se devono lo fanno. E la materia oscura non è il nostro
primo imprevisto. Nel diciannovesimo secolo, per esempio, gli scienziati
hanno misurato l’emissione di energia da parte del Sole e i suoi effetti sul
clima e sulle stagioni, molto prima che si sapesse che le fusioni
termonucleari sono responsabili di tale energia. A quel tempo, tra le
migliori congetture c’era anche quella, a posteriori risibile, che il Sole fosse
un blocco di carbone incandescente. Inoltre nel diciannovesimo secolo si
osservavano le stelle, si ottenevano i loro spettri e si classificavano, molto
prima dell’introduzione della meccanica quantistica, che ci permette di
capire come e perché gli spettri sono fatti in quel modo.
Gli scettici ostinati potrebbero paragonare la materia oscura di oggi con
l’ipotetico, e oggi defunto, “etere” proposto nel diciannovesimo secolo
come mezzo senza massa e trasparente che permea lo spazio vuoto
attraverso cui passa la luce. Fino a quando non furono smentiti da un
famoso esperimento, svolto da Albert Michelson e Edward Morley alla
Case Western Reserve University di Cleveland nel 1887, gli scienziati erano
convinti che l’etere dovesse esistere, nonostante non ci fosse un briciolo di
evidenza a supporto di questa tesi. Si pensava che la luce, in quanto onda,
necessitasse di un mezzo attraverso il quale propagare la propria energia,
così come il suono ha bisogno dell’aria o di altre sostanze per trasmettere le
proprie onde. Ma la luce viaggia molto felicemente nello spazio vuoto,
senza necessità di un mezzo che la trasporti. A differenza delle onde sonore,
che consistono di vibrazioni dell’aria, si scoprì che le onde luminose sono
pacchetti di energia che si propagano da soli senza bisogno di assistenza.
L’ignoranza sulla materia oscura differisce in modo fondamentale
dall’ignoranza ai tempi dell’etere. L’etere era il simbolo della nostra
conoscenza incompleta, mentre l’esistenza della materia oscura non deriva
da mere congetture, ma da effetti della sua gravità osservati sulla materia
visibile. Non ci stiamo inventando la materia oscura dal nulla: ne
deduciamo l’esistenza da osservazioni. La materia oscura è altrettanto reale
dei tanti esopianeti scoperti in orbita intorno a stelle diverse dal Sole: la loro
scoperta si basa unicamente sull’influsso gravitazionale che esercitano sulle
stelle ospitanti, e non su misure dirette della loro luce.
Il peggio che ci possa capitare è scoprire che la materia oscura non
consiste affatto di materia, ma di qualcos’altro. Stiamo vedendo gli effetti di
forze da un’altra dimensione? Stiamo sperimentando la gravità ordinaria di
materia ordinaria che interseca la membrana di un Universo fantasma
adiacente al nostro? Se così fosse, il nostro potrebbe essere solo uno di un
infinito assortimento di universi che formano il multiverso. Sembra esotico
e difficilmente credibile. Ma è davvero più folle delle prime idee sul fatto
che la Terra girasse intorno al Sole? O che il Sole fosse solo una di
centinaia di miliardi di stelle nella Via Lattea? O che la Via Lattea fosse
solo una di centinaia di miliardi di galassie nell’Universo?
Anche se qualcuna di queste fantasiose spiegazioni si rivelasse vera, ciò
non cambierebbe il successo derivante dall’introduzione della gravità della
materia oscura nelle equazioni che usiamo per comprendere la formazione e
l’evoluzione dell’Universo.
Altri scettici ostinati potrebbero dichiarare che “vedere è credere” – un
approccio alla vita che funziona bene in molti ambiti, inclusi l’ingegneria
meccanica, la pesca, e forse gli appuntamenti romantici. Va anche bene,
apparentemente, per gli abitanti del Missouri.2 Ma non va bene per fare
buona scienza. La scienza non è solo vedere, è misurare, preferibilmente
con qualcosa che non siano i nostri occhi, che sono inestricabilmente
collegati al contenuto del nostro cervello. Quel contenuto è spesso uno
zaino di idee preconcette, idee formate a posteriori, e pregiudizi belli e
buoni.

Avendo resistito per tre quarti di secolo ai nostri tentativi di rivelarla


direttamente dalla Terra, la materia oscura resta in gioco. I fisici delle
particelle sono convinti che la materia oscura sia una classe spettrale di
particelle ancora da scoprire che interagiscono con la materia tramite la
gravità, ma che non interagiscono (o interagiscono solo debolmente) in altri
modi con materia e luce. Se vi piace scommettere sulla fisica, questo è un
buon cavallo. Gli acceleratori più grandi al mondo stanno tentando di
produrre particelle di materia oscura fra i detriti delle collisioni. E laboratori
appositamente concepiti e collocati in profondità nel sottosuolo stanno
cercando di rivelare in modo passivo le particelle di materia oscura, nel
caso in cui queste provengano erranti dallo spazio. Un esperimento
sotterraneo è schermato in modo naturale dagli effetti dei raggi cosmici noti
che potrebbero ingannare i rivelatori “fingendosi” materia oscura.
Sebbene possa infine rivelarsi molto rumore per nulla, l’idea di una
particella elusiva di materia oscura ha un buon precedente. I neutrini, per
esempio, sono stati predetti e successivamente scoperti nonostante
interagiscano in modo estremamente debole con la materia ordinaria. Il
flusso copioso di neutrini dal Sole – due neutrini per ogni nucleo di elio
fuso a partire dall’idrogeno nel nocciolo termonucleare del Sole – esce
totalmente indisturbato dal Sole stesso, viaggia attraverso il vuoto con
velocità quasi uguale a quella della luce, e quindi passa attraverso la Terra
come se questa non esistesse. A conti fatti, circa quindici miliardi di
neutrini solari attraversano ogni secondo ogni centimetro quadrato del
nostro corpo, senza lasciare alcuna traccia di interazione con i nostri atomi.
Nonostante tale elusività, i neutrini sono comunque arrestabili in
circostanze speciali. E quando si riesce ad arrestare una particella del tutto,
la si rivela.
Le particelle di materia oscura potrebbero rivelare se stesse attraverso
interazioni altrettanto rare o, in modo più sorprendente, attraverso forze
diverse da quella nucleare forte, da quella nucleare debole e
dall’elettromagnetismo. Queste tre, più la gravità, completano le
“fantastiche quattro” forze dell’Universo che mediano tutte le interazioni tra
le particelle conosciute. Dunque le opzioni sono chiare: o le particelle di
materia oscura aspettano che noi scopriamo e comprendiamo una nuova
forza o una nuova classe di forze per mezzo delle quali esse interagiscono,
oppure le particelle di materia oscura interagiscono per mezzo delle forze
note, ma in modo incredibilmente debole.
Ricapitolando, gli effetti della materia oscura sono reali. Semplicemente
non sappiamo cosa essa sia. La materia oscura non sembra interagire per
mezzo della forza nucleare forte e quindi non può formare nuclei. Non è
stato provato che interagisca per mezzo della forza nucleare debole, cosa
che persino gli elusivi neutrini fanno. Non sembra che interagisca per
mezzo della forza elettromagnetica, e dunque non forma molecole e non si
concentra in dense sfere di materia oscura. Né emette, assorbe, riflette o
diffonde luce. Tuttavia, come abbiamo visto fin dall’inizio, la materia
oscura esercita gravità che influenza la materia ordinaria. Ma è tutto quello
che sappiamo. In tutti questi anni, non le abbiamo visto fare nient’altro.
Per ora dobbiamo accontentarci di portarci dietro la materia oscura come
una strana e invisibile amica, da invocare quando e dove l’Universo ce la
richiede.

1. “Guardiamo alle stelle per imparare / I pensieri del maestro possiamo ascoltare / La matematica
di Newton ognuna segue / E silenziosamente il cammino prosegue.” (Appunto manoscritto, cit. in
Károly Simonyi, A Cultural History of Physics, CRC Press, Boca Raton, 2012.)
2. Negli Stati Uniti, il Missouri è chiamato “The Show-me State” perché si ritiene che i suoi
abitanti siano così scettici da credere solo a ciò che vedono. [NdT]
6
ENERGIA OSCURA

Come se non avessimo già abbastanza preoccupazioni, negli ultimi


decenni abbiamo scoperto che nell’Universo esiste una misteriosa pressione
che scaturisce dallo spazio vuoto e si contrappone alla gravità cosmica. E
non solo. Questa “gravità negativa” alla fine avrà la meglio nel braccio di
ferro con la gravità e costringerà in futuro l’espansione cosmica ad
accelerare esponenzialmente.
Per le idee più contorte della fisica del ventesimo secolo, potete dare la
colpa a Einstein.
Albert Einstein difficilmente metteva piede in un laboratorio; non faceva
esperimenti e non usava attrezzature sofisticate. Era un teorico ed eseguiva
“esperimenti mentali”, con cui indagava la natura attraverso
l’immaginazione, inventando un problema o un modello e quindi derivando
le conseguenze di qualche principio fisico. In Germania, nel periodo
precedente alla Seconda guerra mondiale, la fisica sperimentale era
considerata di grado molto superiore a quella teorica nelle menti della gran
parte degli scienziati ariani. I fisici ebraici erano tutti relegati nell’umile
parco giochi dei teorici, lasciati a se stessi. Ma era destinato a diventare un
grande parco giochi.
Come anche nel caso di Einstein, se un modello fisico si prefigge di
descrivere l’intero Universo, modificarlo dovrebbe essere equivalente a
modificare l’Universo stesso. Osservatori e sperimentali possono quindi
andare alla ricerca dei fenomeni predetti. Se il modello è fallace, o se i
teorici sbagliano i calcoli, gli osservatori rileveranno una discrepanza tra le
predizioni del modello e il modo in cui le cose accadono nell’Universo
reale. Per un teorico questo significa che è necessario tornare alla
proverbiale lavagna per modificare il vecchio modello o inventarne uno
nuovo.
Uno dei modelli teorici più potenti e più predittivi mai formulati, già
introdotto nelle precedenti pagine, è la relatività generale di Einstein – ma
potete chiamarla RG dopo che l’avrete conosciuta meglio. Pubblicata nel
1916, la RG descrive il formalismo matematico utile ad analizzare il moto di
ogni oggetto nell’Universo sotto l’effetto della gravità. Periodicamente, gli
scienziati sperimentali inventano esperimenti sempre più precisi per testare
la teoria, estendendo di volta in volta i suoi limiti di validità. Un esempio
moderno dell’impressionante comprensione dei fenomeni naturali di cui
Einstein ci ha fatto dono risale al 2016, quando le onde gravitazionali sono
state scoperte da un osservatorio appositamente disegnato allo scopo.1
Queste onde, previste da Einstein, sono increspature della struttura stessa
dello spazio-tempo che si propagano alla velocità della luce e sono generate
da fortissime perturbazioni gravitazionali, come la collisione tra due buchi
neri.
Ed è esattamente ciò che è stato osservato. Le onde gravitazionali della
prima osservazione sono state generate dalla collisione tra due buchi neri in
una galassia distante 1,3 miliardi di anni luce, in un’epoca in cui la Terra
brulicava di semplici organismi unicellulari. Mentre l’increspatura si
propagava in tutte le direzioni, sulla Terra, nei successivi 800 milioni di
anni, si evolvevano forme di vita complesse, inclusi fiori, dinosauri e
creature volanti, così come una branca di vertebrati chiamati mammiferi.
Tra i mammiferi, una sottobranca ha sviluppato lobi frontali e una forma di
pensiero complesso: li chiamiamo primati. Una singola branca di questi
primati ha sviluppato una mutazione genetica che ha permesso la nascita del
linguaggio, e questa branca – Homo sapiens – ha inventato l’agricoltura, la
civiltà, la filosofia, l’arte e le scienze. Tutto ciò negli ultimi diecimila anni.
Recentemente, nel ventesimo secolo, uno degli scienziati di questa branca
ha tirato fuori dalla sua mente la relatività generale e ha previsto l’esistenza
delle onde gravitazionali. Un secolo più tardi, la tecnologia in grado di
osservare queste onde ha finalmente colmato la distanza con la predizione,
proprio qualche giorno prima che l’onda gravitazionale, in viaggio da 1,3
miliardi di anni, spazzasse la Terra e fosse rivelata.
Sì, Einstein era un geniaccio.

*
Alla prima formulazione, quasi tutti i modelli scientifici sono incompleti
e lasciano un po’ di margine per adattare i parametri in modo da descrivere
meglio l’Universo conosciuto. Nell’Universo “eliocentrico” basato sul Sole,
concepito nel sedicesimo secolo dal matematico Niccolò Copernico, i
pianeti descrivevano orbite perfettamente circolari. Il fatto che i pianeti
orbitassero intorno al Sole era corretto, e anche un bel passo avanti rispetto
all’Universo “geocentrico” basato sulla Terra, ma le orbite perfettamente
circolari avevano qualcosa che non andava – tutti i pianeti descrivono
circonferenze schiacciate, chiamate ellissi, intorno al Sole, e anche questa
forma è solo un’approssimazione di una traiettoria più complessa. L’idea di
base di Copernico era giusta, e questa era la cosa più importante.
Richiedeva semplicemente qualche modifica per raggiungere maggiore
accuratezza.
Invece, nel caso della relatività di Einstein, i principi fondatori dell’intera
teoria richiedono che tutto accada esattamente come predetto. Einstein
aveva in effetti costruito ciò che appariva dall’esterno come un castello di
carte, con due o tre semplici postulati a reggere l’intera struttura. In effetti,
dopo aver saputo di un libro del 1931 intitolato Cento autori contro
Einstein,2 rispose che se lui avesse avuto torto allora ne sarebbe bastato uno
solo.
È da qui che trae origine uno degli errori più affascinanti nella storia
della scienza. Le nuove equazioni della gravità di Einstein includevano un
termine che egli chiamò “costante cosmologica”, rappresentata dalla lettera
greca maiuscola Lambda: Λ. Sotto forma di un termine matematicamente
permesso, ma opzionale, la costante cosmologica permetteva di descrivere
un Universo statico.
A quel tempo, l’idea che il nostro Universo potesse fare qualsiasi altra
cosa anziché esistere e basta, andava oltre l’immaginazione di chiunque.
Dunque l’unico compito della Lambda all’interno del modello di Einstein
era opporsi alla gravità, mantenendo l’Universo in equilibrio, e contrastare
la naturale tendenza della gravità a condensare l’intero Universo in
un’unica gigantesca massa. In questo modo Einstein aveva inventato un
Universo che non si espande e non si contrae, coerente con le aspettative di
tutti in quegli anni.
Il fisico russo Alexander Friedmann in seguito dimostrò
matematicamente che l’Universo di Einstein, sebbene in equilibrio, si
trovava in uno stato instabile. Come una palla sulla cima di una collina, in
attesa della minima sollecitazione per rotolare giù da un lato o dall’altro, o
come una matita in equilibrio sulla punta, l’Universo di Einstein era
precariamente collocato al confine tra l’espansione e il collasso totale. In
più, la teoria di Einstein era nuova, e dare un nome a qualcosa non lo rende
automaticamente reale. Einstein sapeva che la Lambda, come forza di
gravità negativa, non aveva controparti note nell’Universo fisico.

La teoria della relatività generale di Einstein si discostava da tutte le


precedenti riflessioni sull’attrazione gravitazionale. Invece di accontentarsi
della visione di Sir Isaac Newton di una gravità che agisce tramite azione a
distanza (una conclusione con cui Newton stesso non era a proprio agio), la
RG vede la gravità come la risposta di una massa alla curvatura locale dello
spazio-tempo causata dalla presenza di qualche altra massa, o campo, o
energia. In altre parole, le concentrazioni di massa provocano distorsioni –
avvallamenti, in realtà – nella struttura dello spazio-tempo. Queste
distorsioni guidano le masse in movimento lungo geodetiche rettilinee,3
nonostante a noi appaiano come traiettorie curve che chiamiamo orbite. Il
fisico teorico americano del ventesimo secolo John Archibald Wheeler ha
espresso il concetto nel modo migliore, riassumendo l’idea di Einstein con
“la materia dice allo spazio come curvarsi, lo spazio dice alla materia come
muoversi”.4
In fin dei conti, la relatività generale descriveva due tipi di gravità. Il
primo tipo è quello familiare, come l’attrazione tra la Terra e una palla
lanciata in aria, o tra il Sole e i pianeti. Ma prediceva anche una seconda
varietà – una misteriosa pressione antigravitazionale associata al vuoto
dello spazio-tempo stesso. La Lambda preservava ciò che Einstein e ogni
altro fisico dell’epoca presumevano essere vero: lo status quo di un
Universo statico – un Universo statico instabile. Invocare una condizione di
instabilità come stato naturale di un sistema fisico va contro il credo
scientifico. Non si può asserire che l’intero Universo si trovi in uno stato
speciale che resta in equilibrio indefinitamente. Nessun fenomeno
osservato, misurato o immaginato si è mai comportato in questo modo nella
storia della scienza, e questo è un argomento convincente.
Tredici anni più tardi, nel 1929, l’astrofisico americano Edwin Hubble
scoprì che l’Universo non è statico. Egli trovò e mise insieme prove
convincenti del fatto che più lontana è una galassia, e più velocemente essa
si allontana dalla Via Lattea. In altre parole, l’Universo si sta espandendo. A
questo punto, imbarazzato dalla costante cosmologica che non
corrispondeva ad alcuna forza nota in natura e anche dall’opportunità
perduta di poter predire l’espansione dell’Universo, Einstein rinnegò del
tutto la Lambda, chiamandola “il più grande errore della mia vita”.
Rimuovendo Lambda dall’equazione, egli ipotizzò che il suo valore fosse
zero, come in questo esempio: consideriamo l’uguaglianza A = B + C; se in
seguito scopriamo che A = 10 e B = 10, allora C = 0 e non è necessario
nell’equazione.
Ma la storia non finisce qui. A più riprese, nel corso degli anni, i teorici
hanno riesumato la Lambda cercando di capire come potessero cambiare le
loro teorie in un Universo dotato di costante cosmologica. Sessantanove
anni dopo, nel 1998, la scienza ha riesumato la Lambda per un’ultima volta.
All’inizio di quell’anno furono fatti annunci notevoli da parte di due gruppi
di astrofisici concorrenti: uno guidato da Saul Perlmutter del Lawrence
Berkeley National Laboratory di Berkeley, e l’altro guidato da Brian
Schmidt degli osservatori Mount Stromlo e Siding Spring a Canberra,
Australia e da Adam Riess della Johns Hopkins University di Baltimora,
Maryland. Diverse decine tra le più lontane supernove mai osservate
apparivano notevolmente più fioche di quanto atteso in base al
comportamento ben documentato di questa specie di stelle variabili. Per
conciliare le osservazioni con quanto già noto, era necessario ammettere
che le supernove lontane non si comportassero come le loro sorelle più
vicine oppure che fossero un buon 15% più lontane di quanto i modelli
cosmologici in vigore prevedessero. L’unico meccanismo noto che rende
conto di questa accelerazione è la Lambda di Einstein, la costante
cosmologica. Quando gli astrofisici la rispolverarono e la reinserirono nelle
equazioni della relatività generale, l’Universo osservato rispecchiava quello
descritto dalle equazioni di Einstein.

Le supernove usate negli studi di Perlmutter e Schmidt valgono tutta la


loro massa, composta da nuclei pronti a fondersi. Entro certi limiti, queste
stelle esplodono tutte allo stesso modo, innescando la stessa quantità di
combustibile, rilasciando la stessa titanica energia nello stesso lasso di
tempo, e raggiungendo la stessa luminosità massima. Dunque possono
essere prese come unità di misura, o “candele di riferimento”, per calcolare
le distanze cosmiche delle galassie in cui esplodono, ai remoti confini
dell’Universo.
Queste candele semplificano enormemente i calcoli: poiché le supernove
hanno tutte la stessa potenza, quelle più fioche sono più lontane e quelle più
brillanti sono più vicine. La misura della luminosità (un compito abbastanza
semplice) permette di stabilire quanto sono lontane da noi e tra di loro. Se le
luminosità delle supernove fossero tutte diverse, non potremmo usare
questa misura da sola per stabilire le loro rispettive lontananze: una
supernova fioca potrebbe essere sia una candela lontana di alta potenza, sia
una candela vicina di bassa potenza.
Fin qui tutto ok. Ma c’è un secondo metodo per misurare la distanza delle
galassie: la loro velocità di allontanamento dalla Via Lattea per effetto
dell’espansione cosmica. Come Hubble ha mostrato per primo, l’espansione
dell’Universo fa sì che oggetti lontani fuggano via più velocemente di
oggetti vicini. Quindi, misurando la velocità di allontanamento di una
galassia (un altro compito semplice), si può dedurre la distanza della
galassia stessa.
Se questi due metodi ben collaudati predicono distanze diverse per lo
stesso oggetto, c’è qualcosa di sbagliato. O le supernove non sono buone
candele di riferimento, o il nostro modello di espansione cosmica basato
sulle velocità delle galassie è errato.
E in effetti c’era qualcosa di sbagliato. Venne fuori che le supernove
erano candele di riferimento perfette, sopravvissute ad approfonditi esami
di molti ricercatori scettici, e gli astrofisici si ritrovarono con un Universo
che si espande più di quanto immaginassero, piazzando le galassie molto
più lontano di quanto la loro velocità di allontanamento indicasse. E non
c’era modo di spiegare semplicemente il surplus di espansione senza
invocare Lambda, la costante cosmologica di Einstein.
Questa è stata la prima manifestazione esplicita della forza repulsiva che
permea l’Universo e si oppone alla gravità, il motivo per cui la costante
cosmologica è risorta dalle ceneri. La Lambda assunse improvvisamente
una realtà fisica che aveva bisogno di una definizione, e dunque il termine
“energia oscura” fece il suo ingresso sul palcoscenico del cosmo, a indicare
sia il mistero, sia la nostra ignoranza circa le sue cause. Perlmutter, Schmidt
e Riess hanno giustamente condiviso il premio Nobel per la fisica nel 2011
per questa scoperta.
Le misure a oggi più accurate rivelano che l’energia oscura è l’attore
principale in gioco, responsabile del 68% della massa-energia totale
nell’Universo; la materia oscura si ferma al 27%, mentre la materia
ordinaria ammonta appena al 5%.

La forma geometrica del nostro Universo quadridimensionale deriva


dalla relazione tra il quantitativo di materia e di energia presente nel cosmo
e la velocità di espansione. Un indicatore matematico utile in questo caso è
Omega: Ω, un’altra lettera maiuscola greca che tiene in pugno l’Universo.
Se prendiamo la densità di materia ed energia nell’Universo e la
dividiamo per la densità di materia ed energia che sarebbero necessarie ad
arrestare l’espansione (conosciuta come densità “critica”), otteniamo
Omega.
Poiché sia la massa sia l’energia causano la curvatura dello spazio-tempo,
la Omega indica la forma del cosmo. Se Omega è minore di 1, la massa e
l’energia attuali si trovano al di sotto del valore critico, e l’Universo si
espanderà per sempre in ogni direzione, assumendo l’aspetto di una sella in
cui rette inizialmente parallele divergono. Se Omega è uguale a 1,
l’Universo continuerà ancora a espandersi per sempre, ma in modo diverso
rispetto al caso precedente. In questo caso la sua forma è piatta e le rette
parallele seguono tutte le leggi della geometria che abbiamo imparato alle
scuole superiori. Se Omega è maggiore di 1, le rette parallele convergono,
l’Universo è curvo in se stesso e in futuro collasserà di nuovo nella palla di
fuoco da cui proviene.
Dalla scoperta dell’espansione dell’Universo da parte di Hubble, nessuna
équipe di scienziati ha mai misurato un valore di Omega vicino a 1.
Sommando tutta la materia e tutta l’energia che i telescopi potessero vedere,
e anche estrapolando i dati oltre i limiti includendo la materia oscura, i
valori più grandi estratti dalle migliori osservazioni arrivavano al massimo
a Ω = 0,3. Per quanto ne sapessero gli osservatori, l’Universo era “aperto al
pubblico” e montava in sella verso un futuro di sola andata.
Nel frattempo, a partire dal 1979, il fisico americano Alan Guth del
Massachusetts Institute of Technology, insieme ad altri, iniziò a raffinare la
teoria del Big Bang, eliminando un fastidioso problema che impediva di
ottenere un Universo con una distribuzione di materia ed energia uniforme
quanto quella che osserviamo nel nostro. Un sottoprodotto fondamentale di
questa nuova formulazione della teoria è che avvicina il valore di Omega a
1. Non a 0,5, o a 2, o a un milione. Lo avvicina a 1.
Nessun teorico al mondo avrebbe avuto problemi con questo risultato, dal
momento che aiutava la teoria del Big Bang a dare spiegazione delle
proprietà globali dell’Universo conosciuto. Ma c’era ancora un piccolo
problema: la nuova teoria prevedeva un quantitativo di massa ed energia
pari a tre volte quello osservato. Per nulla scoraggiati, i teorici ribattevano
che le osservazioni non erano abbastanza approfondite.
Facendo bene i conti, la materia visibile poteva rendere conto al più del
5% della densità critica. E per quanto riguarda la misteriosa materia oscura?
Hanno aggiunto anche quella. Nessuno sapeva cosa fosse, e ancora oggi
non sappiamo cosa sia, ma sicuramente contribuiva al totale. Il quantitativo
di materia oscura è pari a cinque o sei volte quello di materia visibile. Ma è
ancora troppo poco. Gli osservatori brancolavano nel buio, e i teorici
rispondevano: “Continuate a cercare”.
Ciascun gruppo era convinto che l’altro avesse torto – fino alla scoperta
dell’energia oscura. Questo singolo componente, una volta sommato alla
materia ordinaria, all’energia ordinaria e alla materia oscura, innalzava la
densità totale di massa ed energia dell’Universo fino al valore critico.
Accontentando allo stesso tempo i teorici e gli osservatori.
Per la prima volta, teorici e osservatori si riconciliarono. Entrambi,
ciascuno a modo suo, avevano ragione. Omega è pari a 1, proprio come i
teorici esigevano dall’Universo, anche se non si poteva arrivare a questo
valore semplicemente sommando tutta la materia – oscura e non – come
avevano ingenuamente creduto. E allo stesso tempo non esiste materia in
più nell’Universo di quanta non fosse già stata stimata dagli osservatori.
Nessuno aveva previsto la presenza dominante dell’energia oscura
cosmica, e nessuno aveva immaginato che potesse riconciliare differenti
punti di vista.

Ma dunque di cosa si tratta? Nessuno lo sa. Il meglio a cui siamo arrivati


è presumere che l’energia oscura sia un effetto quantistico in base al quale il
vuoto spaziale, anziché essere davvero vuoto, è gremito di particelle e
corrispondenti antiparticelle. Vengono prodotte in coppie, ma non
sopravvivono abbastanza a lungo da essere misurate. La loro breve
esistenza è racchiusa nel nomignolo che abbiamo dato loro: particelle
virtuali. Il lascito notevole della meccanica quantistica – la scienza
dell’infinitamente piccolo – ci impone di prestare estrema attenzione a
questa idea. Ogni coppia di particelle virtuali esercita una piccolissima
pressione verso l’esterno, sgomitando fuori dallo spazio.
Sfortunatamente, quando si stima il valore della “pressione del vuoto”
repulsiva che proviene dalle brevissime vite di queste particelle virtuali, il
risultato è circa 10120 volte più grande del valore determinato
sperimentalmente per la costante cosmologica. È un fattore ridicolmente
enorme, che porta alla più grande discrepanza nella storia della scienza tra
teoria ed esperimento.
Sì, non ci capiamo nulla. Ma non siamo totalmente senza speranza. Non
siamo del tutto allo sbando, sprovvisti di una teoria con cui approcciare il
problema. L’energia oscura vive in uno dei porti più sicuri che conosciamo:
le equazioni della relatività generale di Einstein. È la costante cosmologica.
È Lambda. Qualsiasi cosa sia, sappiamo già come misurarla e come
calcolare i suoi effetti su passato, presente e futuro del cosmo.
Senza dubbio, il più grande errore di Einstein è stato dichiarare Lambda
il suo più grande errore.

La caccia continua. Ora che sappiamo che l’energia oscura esiste, gruppi
di astrofisici hanno dato il via ad ambiziosi programmi di ricerca per
misurare le distanze e la crescita delle strutture nell’Universo usando
telescopi terrestri e spaziali. Queste osservazioni verificheranno l’influenza
dell’energia oscura nella storia dell’espansione dell’Universo, e sicuramente
terranno i teorici occupati: hanno senz’altro bisogno di fare ammenda per i
loro calcoli errati sull’energia oscura.
Abbiamo bisogno di un’alternativa alla RG? Il matrimonio della RG con la
meccanica quantistica ha bisogno di una revisione? O c’è qualche altra
teoria sull’energia oscura che aspetta di essere scoperta da qualche genio
non ancora nato?
Una proprietà notevole della Lambda e dell’espansione accelerata è che
la forza repulsiva proviene dal vuoto, non da qualcosa di materiale.
All’aumentare del vuoto, diminuisce la densità di materia ed energia (quella
familiare) nell’Universo, e aumenta l’influenza della Lambda sulle vicende
cosmiche. Aumento della pressione repulsiva vuol dire aumento del vuoto,
e più vuoto vuol dire più pressione repulsiva, innescando un’accelerazione
esponenziale e infinita dell’espansione cosmica.
Di conseguenza, qualsiasi cosa che non sia gravitazionalmente vincolata
a restare nei dintorni della Via Lattea si allontanerà a velocità crescente,
trascinata dall’espansione accelerata della struttura dello spazio-tempo. Le
galassie lontane ora visibili nel cielo notturno prima o poi scompariranno al
di là di un orizzonte irraggiungibile, allontanandosi da noi a una velocità
superiore a quella della luce. Questo non vuol dire che si muovano così
velocemente attraverso lo spazio, ma che è la trama stessa dell’Universo a
trascinarle a quelle velocità. Nessuna legge fisica lo vieta.
Tra un migliaio di miliardi di anni, nessun essere vivente della nostra
galassia saprà nulla dell’esistenza di altre galassie. Il nostro Universo
osservabile conterrà solamente un sistema di stelle vicine e longeve
all’interno della Via Lattea. Oltre questa notte stellata ci sarà il vuoto senza
fine, un oceano di tenebre.
L’energia oscura, una proprietà fondamentale del cosmo, finirà col
minare le capacità delle future generazioni di comprendere l’Universo che è
stato loro assegnato. A meno che gli astrofisici contemporanei, da un capo
all’altro della galassia, registrino tutto scrupolosamente e trovino il modo di
costruire e seppellire una fantastica capsula temporale per migliaia di
miliardi di anni, gli scienziati post-apocalisse non sapranno nulla delle
galassie – la forma principale di organizzazione della materia nel nostro
cosmo – e dunque non avranno accesso a pagine essenziali della partitura
cosmica che è il nostro Universo.
Questo è il mio incubo ricorrente: abbiamo forse perso anche noi qualche
pezzo fondamentale dell’Universo di un tempo? Su quale pagina della
storia cosmica è stato posto un sigillo con scritto “accesso negato”? Che
cosa manca, e invece dovrebbe esserci, nelle nostre teorie e nelle nostre
equazioni, e ci lascia a brancolare nel buio alla ricerca di risposte che
potremmo non trovare mai?
1. Il Laser Interferometer Gravitational-Wave Observatory (LIGO, Osservatorio per onde
gravitazionali a interferometria laser), costruito in due repliche esatte a Hanford, Washington e a
Livingston, Louisiana.
2. R. Israel, E. Ruckhaber, R. Weinmann et al., Hundert Autoren gegen Einstein, R. Voigtländers
Verlag, Leipzig 1931.
3. “Geodetica” è un termine inutilmente sofisticato per indicare la distanza più breve tra due punti
su una superficie – in questo caso, la distanza più breve tra due punti nella struttura
quadridimensionale dello spazio-tempo.
4. Durante il dottorato ho seguito il corso di John Wheeler sulla relatività generale (dove ho
incontrato mia moglie), e questa è una frase che lui diceva spesso.
7
IL COSMO IN TAVOLA

Rispondere a domande banali talvolta richiede una conoscenza vasta e


approfondita del cosmo. Durante l’ora di chimica alle scuole medie, chiesi
al mio insegnante da dove venissero gli elementi della tavola periodica. Mi
rispose che provenivano dalla crosta terrestre. Posso concederglielo:
senz’altro è lì che le ha prese il fornitore del laboratorio. Ma come ha fatto
la crosta a procurarseli? La risposta deve riguardare l’astronomia. Ma, nel
caso specifico, abbiamo davvero bisogno di conoscere l’origine e
l’evoluzione dell’Universo per rispondere?
Sì, ne abbiamo bisogno.
Solo tre degli elementi presenti in natura sono stati fabbricati dal Big
Bang. Il resto è stato forgiato nei cuori ad alta temperatura e tra i resti delle
esplosioni di stelle morenti, e ha permesso alle generazioni successive di
sistemi stellari di arricchirsi, incorporando i nuovi elementi, di formare
pianeti e, nel nostro caso, persone.
Per molti, la tavola periodica degli elementi è una stramberia ormai
dimenticata – una tabella piena di misteriose, criptiche lettere vista per
l’ultima volta sul muro di un’aula di chimica a scuola. In quanto principio
organizzatore per il comportamento chimico di tutti gli elementi noti e
ancora da scoprire nell’Universo, la tavola dovrebbe invece essere un’icona
culturale, la celebrazione della scienza come avventura umana
internazionale condotta in laboratori, acceleratori di particelle e alla
frontiera del cosmo stesso.
Eppure, di tanto in tanto, anche uno scienziato non può fare a meno di
pensare alla tavola periodica come a uno zoo di strane specie animali
concepito dal Dr. Seuss.1 Come potremmo altrimenti credere al fatto che il
sodio è un metallo reattivo e velenoso che si taglia con un coltello, che il
cloro è un gas maleodorante e mortale, ma quando si legano formano
cloruro di sodio, un composto innocuo e biologicamente indispensabile,
meglio conosciuto come sale da cucina? E allora idrogeno e ossigeno? Uno
è un gas esplosivo, l’altro sostiene violente combustioni, ma combinati
insieme formano l’acqua, che allo stato liquido spegne il fuoco.
In mezzo a queste curiosità chimiche troviamo elementi molto importanti
per il cosmo, che mi permettono di illustrare la tavola periodica vista con
gli occhi di un astrofisico.

Con un unico protone a comporre il nucleo, l’idrogeno è l’elemento più


semplice e più leggero, fabbricato interamente durante il Big Bang. Tra i
novantaquattro elementi naturali, l’idrogeno può rivendicare il fatto di
rappresentare i 2/3 di tutti gli atomi del corpo umano e più del 90% di tutti
gli atomi del cosmo, a tutte le scale, giù fino al sistema solare. L’idrogeno
nel nucleo del pianeta Giove è sottoposto a una pressione così elevata che si
comporta come un metallo conduttore anziché come un gas, creando il
campo magnetico più intenso fra tutti i pianeti. Il chimico inglese Henry
Cavendish scoprì l’idrogeno nel 1766 nel corso dei suoi esperimenti con
H2O (idro-geno deriva dal greco “genera acqua”), ma è meglio noto tra gli
astrofisici per aver calcolato per primo la massa della Terra grazie a una
misura accurata della costante di gravitazione universale presente nelle
equazioni di Newton per la gravità.
Ogni giorno, 4,5 miliardi di tonnellate al secondo di nuclei di idrogeno ad
alta velocità vengono trasformati in energia, collidendo l’uno contro l’altro
e formando elio all’interno del nucleo a quindici milioni di gradi del Sole.

L’elio è generalmente noto come il gas a bassa densità e liberamente


disponibile che, quando inalato, aumenta temporaneamente la frequenza
vibrazionale di trachea e laringe, facendoci parlare come Topolino. È il
secondo elemento più semplice e il secondo elemento più abbondante
nell’Universo. Sebbene sia parecchio distante dall’idrogeno in quanto ad
abbondanza, c’è quattro volte più elio nell’Universo rispetto a tutti gli altri
elementi messi insieme. Uno dei pilastri della cosmologia del Big Bang è la
predizione che, in ogni regione del cosmo, non meno del 10% di tutti gli
atomi siano atomi di elio, fabbricati con questa percentuale all’interno della
ben miscelata palla di fuoco primordiale da cui ebbe inizio l’Universo.
Poiché la fusione termonucleare dell’idrogeno all’interno delle stelle crea
elio, alcune regioni del cosmo potrebbero facilmente accumulare più del
10% di elio. Tuttavia, come detto in precedenza, nessuno ha mai trovato
una regione della galassia che ne contenga meno.
Circa trent’anni prima che venisse scoperto e isolato sulla Terra, gli
astronomi avevano osservato l’elio nello spettro della corona solare durante
l’eclissi totale del 1868. Come abbiamo già detto, il termine elio deriva da
Helios, il dio greco del Sole. Con il 92% della spinta idrostatica
dell’idrogeno in aria, ma senza le sue proprietà esplosive, l’elio è il gas
d’elezione per i giganteschi palloni aerostatici della parata di Macy’s per il
giorno del Ringraziamento, rendendo il grande magazzino il maggior
utilizzatore di elio negli Stati Uniti dopo l’esercito.

Il litio è il terzo elemento più semplice dell’Universo, con tre protoni nel
nucleo. Come l’idrogeno e l’elio, il litio è stato prodotto durante il Big Bang
ma, a differenza dell’elio che può essere fabbricato nei nuclei delle stelle, il
litio viene distrutto da qualsiasi reazione nucleare conosciuta. Un’altra
predizione della cosmologia del Big Bang è che, in una qualsiasi regione
dell’Universo, non può esserci più dell’1% di atomi di litio. Nessuno ha
ancora trovato una galassia in cui il litio oltrepassi questo limite superiore
fornito dal Big Bang. La combinazione del limite inferiore sull’elio e del
limite superiore sul litio è un doppio vincolo molto stringente per la
cosmologia del Big Bang. Il carbonio si trova in un’incredibile varietà di
molecole, il cui numero è maggiore di tutti gli altri tipi di molecole messe
insieme. Data l’abbondanza di carbonio nel cosmo – forgiato nei nuclei
delle stelle, arrivato sgomitando in superficie ed emesso copiosamente nella
galassia –, non esiste migliore elemento su cui basare la chimica e le
differenti forme di vita. Precedendo di poco il carbonio nella classifica
dell’abbondanza, anche l’ossigeno è comune, forgiato e rilasciato tra i resti
di stelle esplose. Sono entrambi tra gli ingredienti principali della vita come
la conosciamo.
Ma cosa possiamo dire della vita come non la conosciamo? Cosa
possiamo dire della vita basata sul silicio? Il silicio si trova proprio sotto il
carbonio nella tavola periodica, e questo vuol dire che, in linea di principio,
può creare una collezione di molecole paragonabile a quella del carbonio.
In definitiva, ci aspettiamo che il carbonio prevalga perché è dieci volte più
abbondante del silicio nel cosmo. Ma questo non scoraggia gli scrittori di
fantascienza, che incalzano gli esobiologi sulla possibile esistenza di una
forma di vita aliena basata sul silicio.
Oltre a essere un componente del comune sale da tavola, il sodio è al
momento il gas più usato nei lampioni municipali di tutto il paese. Brucia
più a lungo ed è più luminoso dei comuni bulbi incandescenti, anche se
presto potrebbe essere rimpiazzato dai LED, che sono ancora più luminosi a
parità di potenza e sono più economici. Esistono due tipi di lampade al
sodio: quelle ad alta pressione, dal colore tra il giallo e il bianco, e quelle a
bassa pressione, meno diffuse e dal colore arancione. Anche se
l’inquinamento luminoso è un male per gli astrofisici, le lampade al sodio a
bassa pressione sono un male minore poiché la loro contaminazione può
essere facilmente sottratta dai dati dei telescopi. Come esempio di piena
collaborazione, l’intera città di Tucson, in Arizona, il più grande centro
urbano nelle vicinanze del Kitt Peak National Observatory, ha alimentato
tutta la sua illuminazione pubblica con lampade al sodio a bassa pressione,
in accordo con gli astrofisici locali.

L’alluminio è presente all’incirca per il 10% nella crosta terrestre, eppure


era sconosciuto nell’antichità e insolito per i nostri bisnonni. L’elemento
chimico è stato isolato e identificato solo nel 1827 ed è entrato nelle nostre
case solo alla fine degli anni Sessanta, quando lattine e rotoli di stagno
cedettero il passo a lattine e rotoli di alluminio (scommetto che gran parte
degli anziani li chiama ancora rotoli di stagno). L’alluminio lucidato è un
riflettore quasi perfetto di luce luminosa ed è il rivestimento d’elezione per
quasi tutti gli specchi dei telescopi moderni.
Il titanio è 1,7 volte più denso dell’alluminio, ma la sua resistenza è più
del doppio. Così il titanio, il nono elemento più abbondante nella crosta
terrestre, è diventato l’elemento preferito per molte applicazioni, come i
componenti dei velivoli militari e le protesi il cui funzionamento richiede
un metallo leggero e resistente.
Nella maggior parte del cosmo, il numero di atomi di ossigeno è
superiore a quello di atomi di carbonio. Dopo che ogni atomo di carbonio
ha catturato gli atomi di ossigeno disponibili (per formare monossido di
carbonio o anidride carbonica), gli atomi di ossigeno restanti si legano ad
altri elementi, come per esempio il titanio. Gli spettri delle stelle rosse sono
pieni di tracce di ossido di titanio, e non è raro trovarne anche sulle “stelle”
terrestri: gli zaffiri e i rubini devono il loro splendore accecante a impurità
di ossido di titanio presenti nel reticolo cristallino. Inoltre, la vernice bianca
usata per le cupole astronomiche contiene ossido di titanio, che è altamente
riflettente nell’infrarosso e dunque riduce il calore accumulato dall’aria
circostante il telescopio per effetto della luce solare. Di notte, con la cupola
aperta, la temperatura dell’aria nei pressi del telescopio raggiunge
rapidamente il valore della temperatura dell’aria notturna, consentendo di
catturare immagini chiare e nitide delle stelle e degli altri oggetti cosmici.
Per quanto il nome dell’elemento non sia direttamente collegato a un
oggetto cosmico (in realtà deriva dal dio Titano della mitologia greca);
Titano è anche il nome della luna più grande di Saturno.

Il ferro è di gran lunga l’elemento più importante dell’Universo. Le stelle


di grande massa fabbricano gli elementi all’interno dei loro nuclei in
sequenza: dall’elio al carbonio, all’ossigeno, all’azoto e così via, scalando
la tavola periodica fino al ferro. Con 26 protoni e almeno altrettanti neutroni
nel nucleo, ciò che rende speciale il ferro è il fatto di avere la più piccola
energia per nucleone tra tutti gli elementi. Questo significa una cosa molto
semplice: sia durante una fissione sia durante una fusione, gli atomi di ferro
assorbono energia. Il compito delle stelle, però, è produrre energia. Quando
le stelle di grande massa producono e accumulano ferro al loro interno, si
avvicinano alla fine. In mancanza di una sorgente di energia, la stella
collassa per via del suo stesso peso e rimbalza istantaneamente in una
magnifica esplosione (supernova), che per più di una settimana supera la
luminosità di un miliardo di soli.

*
Il gallio, un metallo soffice, ha un punto di fusione così basso che può
liquefarsi al contatto con la mano, come il burro di cacao. A parte questa
curiosità, il gallio non è di interesse per gli astrofisici, eccetto per il fatto
che il cloruro di gallio viene usato dagli esperimenti che tentano di catturare
gli elusivi neutrini solari. Un’enorme vasca sotterranea (da 100 tonnellate)
di cloruro di gallio liquido viene tenuta d’occhio in attesa di collisioni tra i
neutrini e i nuclei di gallio, che diventano così nuclei di germanio. Dallo
scontro emerge un lampo di raggi X che viene rilevato ogni volta che un
nucleo subisce un urto. L’annoso problema dei neutrini solari, che sembrava
venissero rilevati in numero minore a quanto previsto dalla teoria, è stato
risolto grazie a “telescopi” di questo tipo.

Ogni variante dell’elemento tecnezio è radioattiva. Non ci sorprende,


dunque, che non si trovi in nessun luogo della Terra tranne che negli
acceleratori di particelle, dove lo produciamo appositamente. Il tecnezio
contiene questa particolarità già all’interno del nome, che deriva dal greco
technetos, ossia “artificiale”. Per ragioni ancora non pienamente comprese,
il tecnezio si trova nelle atmosfere di un particolare sottoinsieme di stelle
rosse. Questo fatto non susciterebbe apprensione di per sé, tranne per il
fatto che il tecnezio ha una vita media di appena due milioni di anni, ovvero
molto, ma molto più corta dell’età e dell’aspettativa di vita delle stelle in
cui si trova. In altre parole, la stella non può essere nata con il tecnezio già
al suo interno, altrimenti a quest’ora non ce ne sarebbe più. Inoltre non
esiste un meccanismo conosciuto per la creazione del tecnezio all’interno
del nucleo stellare e la successiva risalita in superficie, dove viene
osservato. Questo ha portato allo sviluppo di teorie esotiche che devono
ancora raggiungere pieno consenso nella comunità degli astrofisici.

Insieme all’osmio e al platino, l’iridio è uno dei tre elementi più pesanti
(densi) della tavola periodica – una cinquantina di decimetri cubici di iridio
pesa quanto un’automobile, il che rende l’iridio uno dei migliori fermacarte
al mondo, capace di tenere testa a qualsiasi ventilatore da ufficio. L’iridio è
anche una delle più note “pistole fumanti” al mondo. Ne possiamo trovare
in tutto il mondo uno strato sottile al confine tra gli strati geologici del
Cretaceo e del Paleogene,2 risalente a sessantacinque milioni di anni fa.
Non è una coincidenza il fatto che, in corrispondenza di quella transizione,
qualsiasi specie terrestre più grande di un trolley, inclusi i dinosauri, si
estinse. L’iridio è raro sulla superficie terrestre, ma relativamente comune
sugli asteroidi metallici larghi dieci chilometri che, collidendo con la Terra,
si vaporizzano e disperdono i loro atomi sulla superficie del pianeta.
Quindi, qualunque sia stata in passato la vostra teoria preferita per
l’estinzione dei dinosauri, un asteroide assassino proveniente dallo spazio e
grande più o meno come l’Everest dovrebbe ora essere in cima alla lista.

Non so come Albert l’avrebbe presa, ma un elemento sconosciuto è stato


scoperto tra i resti dell’esplosione della prima bomba a idrogeno, avvenuta
il 1° novembre del 1952 nell’atollo Eniwetok nel Sud del Pacifico, ed è
stato battezzato einsteinium in suo onore. Io l’avrei chiamato armageddium,
in realtà.
Dieci elementi della tavola periodica prendono il nome da oggetti che
orbitano intorno al Sole.
Il fosforo viene da un termine greco che significa “portatore di luce”, ed
era il nome antico del pianeta Venere che appariva prima del sorgere del
Sole nel cielo mattutino.
Il selenio viene da selene, che è il nome greco della Luna, e fu chiamato
così perché tra i minerali era sempre associato al tellurio, il cui nome indica
la Terra e deriva dal latino tellus.
Il 1° gennaio del 1801 l’astronomo italiano Giuseppe Piazzi scoprì un
nuovo pianeta orbitante intorno al Sole nello spazio stranamente vuoto tra
Marte e Giove. Mantenendo la tradizione di battezzare i pianeti con i nomi
degli dei romani, l’oggetto fu chiamato Cerere, come la dea del raccolto.
Cerere è ovviamente anche l’origine della parola “cereale”. A quel tempo,
c’era un tale entusiasmo all’interno della comunità scientifica che il primo
elemento scoperto dopo quella data fu chiamato cerio in onore di Cerere.
Due anni dopo fu scoperto un altro pianeta, la cui orbita intorno al Sole
occupava la stessa regione di spazio di Cerere. Questo fu chiamato Pallade,
dal dio romano della saggezza, e, come nel caso del cerio, il primo
elemento scoperto in seguito venne chiamato palladio in suo onore. I
battesimi di massa finirono pochi decenni dopo. Dopo che furono scoperte
decine di pianeti come questi all’interno della stessa regione orbitale, analisi
più dettagliate rivelarono che questi oggetti erano molto, ma molto più
piccoli del più piccolo pianeta conosciuto. Una nuova zona residenziale era
stata scoperta nel sistema solare, popolata da piccoli pezzi duri di roccia e
metallo. Cerere e Pallade non erano pianeti, erano asteroidi, e vivevano
nella fascia degli asteroidi. Oggi sappiamo che la fascia contiene centinaia
di migliaia di oggetti, un po’ più del numero di elementi della tavola
periodica.
Il metallo mercurio, liquido e scorrevole a temperatura ambiente, e il
pianeta Mercurio, il più veloce del sistema solare, prendono il nome dal
velocissimo dio romano, messaggero degli dei.
Il torio prende il nome da Thor, dio oriundo scandinavo portatore di
fulmini, che corrisponde al Giove della mitologia romana. E, per Giove!, le
immagini provenienti da Hubble Space Telescope delle regioni polari di
Giove rivelano intense scariche elettriche all’interno dei suoi strati
turbolenti di nuvole.
Purtroppo Saturno, il mio pianeta preferito,3 non dà il nome ad alcun
elemento, mentre Urano, Nettuno e Plutone sono ampiamente rappresentati.
L’uranio fu scoperto nel 1789 e fu chiamato così in onore del pianeta
scoperto da William Herschel solo otto anni prima. Tutti gli isotopi
dell’uranio sono instabili e decadono spontaneamente in elementi più
leggeri, un processo accompagnato da rilascio di energia. La prima bomba
atomica mai usata in guerra aveva l’uranio come componente attivo, e fu
sganciata dagli Stati Uniti riducendo in cenere la città di Hiroshima il 6
agosto 1945. Con novantadue protoni impacchettati nel nucleo, l’uranio è
generalmente descritto come l’elemento più “grande” in natura, sebbene
tracce di elementi ancora più grandi siano presenti nelle miniere di uranio.
Così come Urano, anche Nettuno ha meritato un elemento a lui dedicato.
Diversamente dall’uranio, però, scoperto poco dopo il pianeta, il nettunio fu
scoperto nel 1940 grazie al ciclotrone di Berkeley, ben novantasette anni
dopo che l’astronomo tedesco Johann Galle scovò Nettuno in un angolo del
cielo, predetto dal matematico francese Urbain Le Verrier tramite lo studio
dello strano comportamento orbitale di Urano. Proprio come Nettuno viene
subito dopo Urano nel sistema solare, anche il nettunio viene subito dopo
l’uranio nella tavola periodica degli elementi.
Il ciclotrone di Berkeley ha scoperto (o fabbricato?) molti elementi non
presenti in natura, incluso il plutonio che segue il nettunio sulla tavola e
prende il nome da Plutone, scoperto da Clyde Tombaugh nel 1930 al Lowell
Observatory in Arizona. Proprio come nel caso della scoperta di Cerere 129
anni prima, l’eccitazione ebbe la meglio. Plutone fu il primo pianeta
scoperto da un americano e, in assenza di dati migliori, veniva considerato
per grandezza e per massa simile alla Terra, se non a Urano o Nettuno. Man
mano che i tentativi di misurare le sue dimensioni si fecero sempre più
precisi, Plutone divenne sempre più piccolo. Le nostre conoscenze
diventarono stabili solo alla fine degli anni Ottanta. Ora sappiamo che il
freddo, gelido Plutone è di gran lunga il più piccolo dei nove pianeti, con
l’ulteriore distinzione di essere più piccolo dei sei satelliti più grandi del
sistema solare. E, come nel caso degli asteroidi, centinaia di oggetti sono
stati scoperti nella regione esterna del sistema solare con orbite simili a
quella di Plutone, decretando la fine di Plutone come pianeta e la scoperta
di una collezione fin qui ignota di piccoli corpi ghiacciati chiamata fascia di
Kuiper, alla quale Plutone appartiene. Da questo punto di vista, potremmo
dire che Cerere, Pallade e Plutone si sono intrufolati a tradimento nella
tavola periodica.
Il plutonio instabile per usi militari era il componente attivo della bomba
atomica che gli Stati Uniti fecero esplodere sulla città giapponese di
Nagasaki, tre giorni dopo Hiroshima, mettendo rapidamente fine alla
Seconda guerra mondiale. Piccole quantità di plutonio radioattivo per uso
non militare vengono impiegate per alimentare generatori termoelettrici a
radioisotopi (abbreviati con l’acronimo RTG) su veicoli spaziali diretti verso
le regioni più remote del sistema solare, dove l’intensità della luce solare è
al di sotto del livello necessario ad alimentare i pannelli solari. Mezzo chilo
di plutonio genera dieci milioni di kilowattora di energia, sufficienti ad
alimentare una lampadina a incandescenza per undicimila anni, o un essere
umano per lo stesso lasso di tempo se solo ci alimentassimo di combustibile
nucleare anziché di sostanze alimentari.

Così finisce il nostro viaggio cosmico attraverso la tavola periodica degli


elementi chimici, fino ai confini del sistema solare e oltre. Per motivi che
devo ancora comprendere, a molte persone non piacciono le sostanze
chimiche, e questo potrebbe spiegare la costante tendenza a liberare il cibo
da esse. Forse la sesquipedale nomenclatura chimica suona pericolosa. Ma
in quel caso dovremmo prendercela con i chimici, e non con le sostanze
chimiche. Sono abbastanza a mio agio con le sostanze chimiche, ovunque
esse siano nell’Universo. È il materiale di cui sono fatte le mie stelle
preferite e i miei migliori amici.

1. Noto scrittore e fumettista statunitense, autore di numerosi libri per bambini. [NdT]
2. Per quelli un po’ in là con gli anni: questo strato era noto come confine Cretaceo-Terziario.
3. In realtà, la Terra è il mio pianeta preferito. Poi viene Saturno.
8
SULLA ROTONDITÀ

A parte i cristalli e i pezzi di roccia, nel cosmo non si trovano molti


oggetti dal profilo affilato. Anche se diversi oggetti hanno forme singolari,
la lista di oggetti rotondi è praticamente infinita e spazia dalle semplici
bolle di sapone all’intero Universo osservabile. Tra tutte le forme possibili,
la sfera è favorita dall’azione di semplici leggi fisiche. Questa tendenza è
così prevalente che spesso postuliamo che un oggetto sia sferico quando
conduciamo un esperimento mentale, al solo fine di farci un’idea, anche se
l’oggetto è decisamente non-sferico. In breve, se non capiamo bene le cose
tramite l’approssimazione sferica, non possiamo dire di aver capito la fisica
di base del processo.
Le sfere in natura sono modellate da forze, come la tensione superficiale,
che tendono a comprimere gli oggetti in tutte le direzioni. La tensione
superficiale del liquido che forma una bolla di sapone comprime l’aria in
ogni direzione e, in pochi istanti, racchiude il volume d’aria all’interno della
minima superficie possibile. Questo permette di costruire la bolla più
resistente possibile, perché lo strato di sapone non sarà mai più sottile del
minimo indispensabile. Con metodi di analisi alla portata delle matricole
universitarie, si può mostrare che l’unica forma che consente di racchiudere
un dato volume usando la minima superficie è una sfera perfetta. In effetti,
miliardi di euro potrebbero essere risparmiati in materiali da imballaggio
ogni anno se tutti i pacchi postali e tutte le confezioni di cibo nei
supermercati fossero sferici. Per esempio, il contenuto di una confezione
formato famiglia di cereali da colazione potrebbe essere facilmente
racchiuso in una sfera di cartone di dieci centimetri di raggio. Ma la
praticità prevale: nessuno vorrebbe rincorrere nelle corsie dei supermercati
il cibo rotolato giù dagli scaffali.
Sulla Terra, un modo per produrre cuscinetti a sfera è lavorare gli oggetti
a macchina, oppure lasciar colare metallo fuso in quantità predeterminate
all’interno di un lungo tubo. La goccia oscilla fino a raggiungere la forma di
una sfera, ma ha bisogno del tempo sufficiente per raffreddarsi e solidificare
prima di raggiungere il fondo. Sulle stazioni spaziali orbitanti, dove ci si
trova in condizioni di assenza di peso, si può semplicemente spremere la
quantità desiderata di metallo fuso e aspettare: le gocce fluttueranno e si
raffredderanno, fino a solidificare in una perfetta forma sferica sotto
l’azione della tensione superficiale che fa tutto il lavoro al posto nostro.

Per i grandi oggetti cosmici, energia e gravità cospirano al fine di rendere


tutto sferico. La gravità è la forza che provoca il collasso della materia in
tutte le direzioni, ma non sempre vince – i legami chimici degli oggetti sono
resistenti. La catena dell’Himalaya si è formata opponendosi alla forza di
gravità a causa della resilienza della roccia crostale. Ma prima di
entusiasmarci troppo al pensiero delle potenti rocce terrestri, bisogna
ricordare che la differenza in altezza tra i più profondi fondali oceanici e le
più alte montagne è pari a una ventina di chilometri, mentre il diametro
della Terra è circa dodicimila chilometri. Quindi la Terra come oggetto
cosmico è incredibilmente liscia, anche se a noi, minuscoli umani sulla sua
superficie, sembra il contrario. Se avessimo un favoloso, gigantesco dito e
lo passassimo sulla superficie della Terra (con gli oceani e tutto il resto), ci
sembrerebbe liscia come una palla da biliardo. I costosi mappamondi in cui
porzioni di terraferma vengono increspate per rappresentare le catene
montuose sono evidenti esagerazioni della realtà. Questo è il motivo per
cui, nonostante le montagne e le valli, e nonostante un leggero
appiattimento ai poli, la Terra vista dallo spazio è indistinguibile da una
sfera perfetta.
Le montagne terrestri sono anche minuscole al confronto di altre
montagne nel sistema solare. La più grande montagna su Marte, il monte
Olimpo, è alta 20 chilometri e la sua base si estende per 480 chilometri. Fa
sembrare il monte McKinley in Alaska la tana di una talpa. La ricetta per
fabbricare montagne nel cosmo è semplice: più debole è la gravità sulla
superficie di un oggetto, più alta può diventare la montagna. L’Everest è
all’incirca la vetta più alta che si può raggiungere sulla Terra prima che la
plasticità degli strati inferiori di roccia faccia soccombere la montagna sotto
il proprio peso.
Se un oggetto solido ha una gravità superficiale abbastanza debole, i
legami chimici all’interno delle sue rocce resisteranno al peso delle rocce
stesse. Quando questo succede, quasi qualsiasi forma è possibile. Due
famosi corpi celesti non-sferici sono Fobos e Deimos, le lune di Marte a
forma di patata. Su Fobos, la maggiore delle due con i suoi venti chilometri
di lunghezza, una persona di 70 chili peserebbe 100 grammi.
Nello spazio, la tensione superficiale costringe sempre una piccola goccia
di liquido a formare una sfera. Ogni volta che osserviamo un piccolo
oggetto solido dalla sospetta forma sferica, possiamo supporre che si sia
formato a partire da un precedente stato fuso. Se la goccia ha massa molto
grande, la gravità porterà con ancora maggior certezza alla formazione di
una sfera.
Le grandi e massive concentrazioni di gas nella galassia possono
raggrupparsi e formare sfere gassose quasi perfette chiamate stelle. Ma se
una stella si trova a orbitare troppo vicino a un’altra stella la cui gravità è
significativa, la sua forma sferica può subire distorsioni poiché la materia
viene risucchiata dalla seconda stella. Con “troppo vicino” intendo vicino al
lobo di Roche – che prende il nome dal matematico della metà del 1800
Édouard Roche, che compì studi dettagliati sui campi gravitazionali in
prossimità di un sistema di stelle doppie. Il lobo di Roche è un doppio
involucro teorico, bulboso e a forma di manubrio, che circonda qualsiasi
coppia di oggetti in orbita reciproca. Se il materiale gassoso di un oggetto
oltrepassa il proprio involucro, allora cade verso il secondo oggetto. Questo
fenomeno è comune tra le stelle doppie, quando una di esse si dilata per
diventare una gigante rossa e fuoriesce dal proprio lobo di Roche. La
gigante rossa si distorce assumendo una forma non-sferica che ricorda un
Bacio Perugina allungato. In più, può capitare che una delle due stelle sia in
realtà un buco nero, la cui presenza è indicata dal fatto che la compagna
binaria viene a poco poco spogliata del suo gas. Il gas spiraleggiante, dopo
aver oltrepassato il lobo di Roche, si scalda fino a raggiungere temperature
altissime ed emette luce prima di scomparire alla vista inghiottito dal buco
nero.
*

Le stelle della Via Lattea sono disposte su un grande disco piatto. Con un
rapporto diametro-spessore pari a circa 1000, la nostra galassia è più piatta
della sfoglia più piatta mai preparata. In realtà, le sue proporzioni sono
meglio rappresentate da una crêpe o da una tortilla. No, decisamente la Via
Lattea non è una sfera, ma forse all’inizio lo era. Possiamo comprendere la
sua piattezza ipotizzando che la galassia fosse inizialmente una grande palla
di gas in collasso e in lenta rotazione. Durante il collasso, la palla iniziò a
girare sempre più velocemente, proprio come i pattinatori quando
raccolgono le braccia per aumentare la velocità di rotazione. La galassia si
appiattì in modo naturale tra i due poli, mentre le crescenti forze centrifughe
impedivano il collasso nel piano centrale. Sì, se l’omino Michelin fosse un
pattinatore, le piroette veloci sarebbero un’attività ad alto rischio.
Qualsiasi stella si sia formata all’interno della Via Lattea prima del
collasso ha conservato orbite larghe che intersecano il piano galattico. Il gas
residuo, che tende a restare compatto come in una collisione a mezz’aria tra
due marshmallows caldi, è stato inchiodato sul piano galattico e ha dato vita
a tutte le successive generazioni di stelle, incluso il Sole. La Via Lattea
attuale è un sistema maturo dal punto di vista gravitazionale, né in collasso
né in espansione, in cui le stelle che orbitano sopra e sotto il piano galattico
sono testimonianze dell’originaria nube gassosa primordiale.
Il fatto che oggetti in rotazione tendano ad appiattirsi spiega perché il
diametro terrestre è minore tra i due poli che all’equatore, anche se non di
molto: lo 0,03% – circa 40 chilometri. Ma la Terra è piccola, per lo più
solida, e non ruota molto velocemente. Considerando le ventiquattro ore
giornaliere, la velocità all’equatore è appena 1600 chilometri orari.
Prendiamo l’enorme e velocissimo pianeta gassoso Saturno. Completando
una rotazione in appena dieci ore e mezza, il suo equatore viaggia a più di
35.000 chilometri orari, e il suo diametro tra i due poli è minore di ben il
10% rispetto a quello equatoriale, una differenza riscontrabile anche con un
piccolo telescopio amatoriale. Le sfere schiacciate sono chiamate più in
generale sferoidi oblati, mentre le sfere allungate ai poli sono chiamate
sferoidi prolati. Nella vita di tutti i giorni, gli hamburger e gli hot dog sono
esempi perfetti (anche se un po’ estremi) di tali forme. Non so voi, ma ogni
volta che mangio un hamburger mi viene in mente Saturno.
*

Usiamo l’effetto della forza centrifuga sulla materia per dare un’idea
della velocità di rotazione di oggetti cosmici estremi. Consideriamo le
pulsar. Alcune di esse compiono fino a mille giri al secondo, e sappiamo
che non possono essere fatte di materiali ordinari, altrimenti si
decomporrebbero a causa della forza centrifuga. Se una pulsar ruotasse
appena un po’ più veloce, diciamo 4500 volte al secondo, il suo equatore si
muoverebbe alla velocità della luce, e questo ci fa capire che il materiale di
cui è fatta è diverso da tutti gli altri. Per immaginare una pulsar, prendiamo
la massa del Sole e concentriamola in una palla delle dimensioni di
Manhattan. Se è difficile da immaginare, provate a pensare a cento milioni
di elefanti pressati in uno stick lucidalabbra. Per raggiungere questa densità,
bisogna comprimere tutto lo spazio vuoto tra i nuclei degli atomi e i loro
elettroni orbitanti. In questo modo, tutti gli elettroni (carichi negativamente)
collassano sui protoni (carichi positivamente), creando una palla di neutroni
(elettricamente neutri) dalla folle gravità superficiale. In queste condizioni,
scalare su una stella di neutroni un’ipotetica montagna alta quanto lo
spessore di un foglio di carta richiederebbe la stessa energia che
occorrerebbe a uno scalatore terrestre per scalare una montagna alta 5000
chilometri. In breve, dove la gravità è intensa, gli oggetti alti tendono a
cadere, riempiendo le quote basse – un fenomeno che suona quasi biblico,
nel preparare la strada per il Signore: “Ogni valle sia colmata, ogni monte e
ogni colle siano abbassati; i luoghi erti siano livellati, i luoghi scabri
diventino pianura” (Is 40,4). È la ricetta per ottenere una sfera, se mai ce ne
fosse una. Per tutte queste ragioni, ci aspettiamo che le pulsar siano le sfere
più perfette nell’Universo.

Per ammassi ricchi di galassie, la forma globale può offrire interessanti


spunti astrofisici. Alcuni sono frastagliati, altri si presentano con sottili
filamenti, altri ancora formano enormi fogli. Nessuno di questi ha raggiunto
una forma sferica, gravitazionalmente stabile. Alcuni sono così estesi che i
14 miliardi di anni di età dell’Universo non sono sufficienti alle loro
galassie costituenti per un singolo attraversamento dell’ammasso. Ne
concludiamo che l’ammasso si è formato in quel modo perché le interazioni
gravitazionali tra le galassie non hanno avuto tempo sufficiente per
influenzarne la forma.
Tuttavia altri sistemi, come l’ammasso della Chioma che abbiamo
incontrato nel capitolo sulla materia oscura, ci fanno realizzare
immediatamente che la gravità ha dato forma sferica all’ammasso. Di
conseguenza, tutte le direzioni di moto per una galassia all’interno
dell’ammasso sono equiprobabili. Ogni volta che si verifica questo
fenomeno, l’ammasso non può ruotare molto velocemente, altrimenti
vedremmo un appiattimento simile a quello della nostra Via Lattea.
L’ammasso della Chioma, ancora una volta come nel caso della Via
Lattea, è anch’esso maturo dal punto di vista gravitazionale. In gergo
astrofisico questi sistemi sono detti “rilassati”, il che significa molte cose,
incluso il fatto provvidenziale che la velocità media delle galassie
nell’ammasso è un indicatore eccellente della massa totale,
indipendentemente dal fatto che la massa totale sia fornita dagli oggetti
usati per ottenere la velocità media. Per questo motivo i sistemi
gravitazionalmente rilassati sono sonde eccellenti per la rivelazione della
materia oscura non luminosa. Permettetemi di fare un’affermazione ancora
più forte: se non fosse per i sistemi rilassati, l’ubiquità della materia oscura
sarebbe ancora oggi sconosciuta.

La sfera di tutte le sfere – la più grande e la più perfetta – è l’intero


Universo osservabile. In qualsiasi direzione guardiamo, le galassie si
allontanano da noi con velocità proporzionali alla loro distanza. Come
abbiamo visto nei primi capitoli, questa è la famosa prova di un Universo in
espansione, scoperto da Edwin Hubble nel 1929. Combinando la relatività
di Einstein con la velocità della luce, l’espansione dell’Universo, e la
diluizione spaziale di massa ed energia come conseguenza dell’espansione,
troviamo che esiste una distanza alla quale la velocità di allontanamento di
una galassia è uguale alla velocità della luce. Al di là di questa distanza, la
luce proveniente da qualsiasi oggetto luminoso perde tutta l’energia prima
di arrivare a noi. L’Universo al di là di questo “confine” sferico è dunque
invisibile e, per quanto ne sappiamo, non conoscibile.
C’è una variante della popolare idea del multiverso in cui gli universi
multipli che lo compongono non sono interamente separati, ma sono
porzioni isolate e non interagenti all’interno della stessa struttura continua
spazio-temporale – come tante navi in mare, abbastanza lontane l’una
dall’altra da fare in modo che i loro orizzonti circolari non si intersechino.
Finché consideriamo una sola nave (senza ulteriori dati), per noi resterà
l’unica nave nell’oceano, ma tutte solcano lo stesso mare.

Le sfere sono strumenti teorici fecondi che ci aiutano a investigare ogni


tipo di problema astrofisico. Ma non bisogna essere fanatici delle sfere. C’è
una barzelletta semiseria su come incrementare la produzione di latte in una
fattoria: un esperto in zootecnia dice “Consideriamo la dieta della
mucca…”; un ingegnere dice “Consideriamo il design delle macchine
mungitrici…”; l’astrofisico dice “Consideriamo una mucca sferica…”.
9
LUCE INVISIBILE

  E perciò diamogli il benvenuto, come a uno


straniero. Vi sono più cose in cielo e in terra,
Orazio, di quanto non sogni la tua filosofia.
  Amleto, atto I, scena V

Prima del 1800 la parola “luce” veniva riferita solo alla luce visibile. Ma
in quell’anno l’astronomo inglese William Herschel osservò una forma di
calore che poteva essere causata solo da un tipo di luce invisibile all’occhio
umano. Già affermato osservatore, Herschel aveva scoperto il pianeta
Urano nel 1781 e stava ora studiando la connessione tra luce solare, colore
e calore. Iniziò ponendo un prisma sul percorso di un raggio di luce. Fin qui
niente di nuovo. Sir Isaac Newton lo aveva già fatto nel Seicento e aveva
identificato i familiari sette colori primari dello spettro visibile: rosso,
arancio, giallo, verde, blu, indaco e violetto. Ma Herschel era abbastanza
curioso da domandarsi quale fosse la temperatura di ciascun colore. Quindi
mise dei termometri in corrispondenza dei diversi fasci luminosi e dimostrò,
come sospettava, che colori diversi fanno segnare temperature diverse.1
Gli esperimenti ben condotti richiedono un “controllo” – una misura in
cui non ci si aspetta di rilevare alcun effetto, e che serve come termine di
paragone per la misura vera e propria. Per esempio, se ci chiediamo quale
effetto abbia la birra su una pianta di tulipani dovremmo far crescere una
seconda pianta, identica alla prima, dandole solo acqua. Se entrambe le
piante muoiono – se le fai morire entrambe – allora non puoi dare la colpa
all’alcol. Questo è il principio del campione di controllo. Herschel lo sapeva
e piazzò un termometro al di fuori dello spettro, dalla parte del rosso,
aspettandosi di misurare solo la temperatura della stanza per tutta la durata
dell’esperimento. Ma non andò così. La temperatura del termometro di
controllo superò persino quella del rosso.
Herschel scrisse:
Concludo che il rosso si trova prima del massimo del calore; che probabilmente si trova anche
poco oltre il limite della rifrazione visibile. In questo caso il calore radiante consiste almeno
parzialmente, se non in maniera predominante, di luce, mi sia permesso il termine, invisibile;
ovvero, raggi provenienti dal sole che hanno impulso tale da non essere visibili.2

Porca miseria!
Herschel aveva inavvertitamente scoperto la luce “infrarossa”, una nuova
regione dello spettro posizionata appena “al di sotto” del rosso e riportata
nel primo dei suoi quattro articoli sull’argomento.
La rivelazione di Herschel fu l’equivalente astronomico della scoperta,
effettuata da Antoni van Leeuwenhoek, di “molti animaletti minuscoli che
si muovono graziosamente”3 nella più piccola goccia di acqua di lago.
Leeuwenhoek aveva scoperto gli organismi unicellulari – un intero
Universo biologico. Herschel aveva scoperto una nuova banda dello spettro
elettromagnetico. Entrambi nascosti sotto gli occhi di tutti.
Altri scienziati continuarono il lavoro di Herschel. Nel 1801 il fisico e
farmacista tedesco Johann Wilhelm Ritter scoprì una nuova regione dello
spettro. Invece di usare un termometro, Ritter posizionò del cloruro
d’argento, che reagisce alla luce visibile, in corrispondenza di ogni colore e
anche nella regione oscura al di là del violetto. Il cloruro d’argento nella
regione non illuminata diventò più scuro di quello illuminato dal violetto.
Cosa c’è oltre il violetto? L’“ultravioletto”, meglio noto oggi come UV.
Passando in rassegna l’intero spettro elettromagnetico, dalle basse
frequenze ed energie fino alle alte frequenze ed energie, abbiamo: onde
radio, microonde, infrarosso, luce visibile, ultravioletto, raggi X e raggi
gamma. La civiltà moderna ha sfruttato abilmente ognuna di queste bande
per innumerevoli applicazioni casalinghe e industriali, e ce le ha rese
familiari.

Dopo la scoperta degli ultravioletti e degli infrarossi, l’osservazione del


cielo non cambiò immediatamente. Il primo telescopio progettato per
rilevare le parti non visibili dello spettro elettromagnetico fu costruito dopo
130 anni. Molto dopo la scoperta di onde radio, raggi X e raggi gamma, e
molto dopo che il fisico tedesco Heinrich Hertz dimostrò che l’unica
differenza tra i differenti tipi di luce è la frequenza delle onde in ciascuna
banda. In verità va dato credito a Hertz di aver riconosciuto che esiste una
cosa chiamata spettro elettromagnetico. In suo onore, l’unità di frequenza –
oscillazioni al secondo – per qualsiasi sistema in vibrazione, incluso il
suono, è stata chiamata hertz.
Misteriosamente, gli astrofisici sono stati un po’ lenti a fare la
connessione tra le nuove bande invisibili dello spettro e l’idea di costruire
un telescopio che potesse vedere tali bande provenienti dalle sorgenti
cosmiche. Certamente il ritardo nello sviluppo della tecnologia dei
rivelatori ha giocato un ruolo. Ma anche l’arroganza ha fatto la sua parte:
come poteva l’Universo mandarci segnali luminosi che i nostri meravigliosi
occhi non potessero vedere? Per più di tre secoli – da Galileo a Hubble –
costruire un telescopio voleva dire solo una cosa: fabbricare uno strumento
capace di catturare la luce visibile, aumentando la capacità visiva di cui
siamo biologicamente dotati.
Un telescopio è semplicemente uno strumento per potenziare i nostri
limitati sensi, e ci permette di sondare regioni remote. Più grande è il
telescopio, più fiochi saranno gli oggetti che ci consentirà di osservare; più
perfetta è la forma dei suoi specchi, più netta sarà l’immagine che restituirà;
più sensibili sono i suoi rivelatori, più efficienti saranno le osservazioni. Ma
in qualsiasi caso, ogni piccola informazione che un telescopio fornisce agli
astrofisici arriva sulla Terra su un raggio di luce.
Gli eventi celesti, tuttavia, non si limitano a ciò che si adatta alla retina
umana. Al contrario, essi emettono simultaneamente un diverso quantitativo
di onde luminose su differenti bande. Quindi, in mancanza di telescopi e
rivelatori sintonizzati sull’intero spettro, gli astrofisici resterebbero
beatamente all’oscuro di alcuni incredibili fenomeni.
Prendiamo per esempio una supernova. È un evento cosmico comune e
decisamente energetico che genera prodigiose quantità di raggi X. Talvolta
lampi di raggi gamma e raggi ultravioletti accompagnano l’esplosione, e la
luce visibile non scarseggia. Molto dopo il raffreddamento dei gas
dell’esplosione, l’onda d’urto si dissipa e la luce visibile diminuisce, mentre
i resti della supernova continuano a brillare nell’infrarosso e a pulsare nelle
onde radio. È da qui che provengono le pulsar, gli orologi più affidabili
dell’Universo.
La gran parte delle esplosioni stellari avviene in galassie lontane, ma se
una stella esplodesse all’interno della Via Lattea la sua agonia sarebbe
talmente luminosa da essere visibile a chiunque, anche senza un telescopio.
Ma nessuno sulla Terra ha visto gli invisibili raggi X o i raggi gamma
provenienti dalle ultime due spettacolari supernove avvenute all’interno
della nostra galassia – nel 1572 e nel 1604 –, anche se la loro meravigliosa
lucentezza è stata ampiamente riportata.
L’intervallo di lunghezze d’onda (o di frequenze) incluso in ciascuna
banda influenza fortemente la progettazione degli strumenti usati per
rivelarle. Ecco perché non esiste una combinazione unica di telescopio e
rivelatore in grado di vedere simultaneamente ogni aspetto di una tale
esplosione. Ma esiste una semplice soluzione per questo problema:
raccogliere tutte le osservazioni possibili, magari ottenute da colleghi, nelle
differenti regioni dello spettro. Quindi assegnare colori visibili alle bande
invisibili di interesse, e costruire una meta-immagine multibanda. È
esattamente ciò che fa Geordi, della serie televisiva Star Trek: The Next
Generation. Con questo potere visivo non può sfuggirci nulla.
Solo dopo aver scelto la nostra banda preferita possiamo iniziare a
pensare alle dimensioni dello specchio, ai materiali di cui avremo bisogno,
alla forma e alla superficie che dovrà avere e al tipo di rivelatore che ci
servirà. I raggi X, per esempio, hanno lunghezza d’onda molto piccola.
Dunque, se abbiamo intenzione di riceverli, lo specchio dovrà essere
estremamente liscio per evitare che le imperfezioni della superficie
distorcano il segnale. Se invece siamo interessati alle lunghe onde radio, lo
specchio potrà anche essere una rete da pollaio modellata con le mani,
poiché le irregolarità saranno in ogni caso molto più piccole della lunghezza
d’onda a cui siamo interessati. Naturalmente vogliamo anche parecchi
dettagli – alta risoluzione – e dunque lo specchio dovrà essere tanto grande
quanto ce lo possiamo permettere. In pratica il nostro telescopio dovrà
essere molto, ma molto più grande della lunghezza d’onda della luce che
vogliamo rivelare. E questo è palesemente evidente nella costruzione di un
radiotelescopio.

*
I radiotelescopi, i primi telescopi realizzati per il non-visibile, sono una
fantastica sottovarietà di osservatorio. L’ingegnere americano Karl G.
Jansky costruì il primo tra il 1929 e il 1930. Sembrava un irrigatore mobile,
di quelli che si usano nelle fattorie senza contadini. Composto da una serie
di alte cornici metalliche rettangolari fissate con supporti a croce e pianali
di legno, girava su se stesso come una giostra su ruote ricavate da ricambi
di una Ford Modello T. Jansky aveva regolato lo strano congegno lungo
trenta metri su una lunghezza d’onda di circa quindici metri, corrispondente
a una frequenza pari a 20,5 megahertz.4 Il compito di Jansky, per conto del
suo datore di lavoro, i Bell Telephone Laboratories, era studiare qualsiasi
rumore proveniente da sorgenti radio presenti sulla Terra che potesse
interferire con le comunicazioni radio terrestri. Somiglia parecchio al
compito che i Bell Labs diedero a Penzias e Wilson trentacinque anni dopo,
ovvero trovare l’origine del rumore a microonde nel loro ricevitore che,
come abbiamo visto nel capitolo 3, portò alla scoperta del fondo cosmico a
microonde.
Dopo aver trascorso un paio d’anni a tracciare e misurare
minuziosamente il rumore statico che registrava sulla sua antenna
improvvisata, Jansky scoprì che le onde radio non provenivano solo dai
temporali locali e da altre sorgenti terrestri note, ma anche dal centro della
Via Lattea. Quella porzione di cielo spazzata dal campo visivo del
telescopio ogni ventitré ore e cinquantasei minuti: esattamente il periodo di
rotazione terrestre, ed esattamente il tempo necessario al centro della
galassia per tornare nello stesso punto della volta celeste. Karl Jansky
pubblicò i suoi risultati con il titolo “Perturbazioni elettriche di apparente
origine extraterrestre”.5
La radioastronomia è nata con quella osservazione – ma dovette fare a
meno di Jansky. I Bell Labs lo assegnarono ad altro incarico, impedendogli
di raccogliere i frutti della sua importante scoperta. Pochi anni dopo,
tuttavia, un autodidatta americano di nome Grote Reber, da Wheaton,
Illinois, costruì un radiotelescopio con un disco metallico di 10 metri di
diametro nel suo giardino. Nel 1938, senza alcuna affiliazione, Reber
confermò la scoperta di Jansky e spese i successivi cinque anni tracciando
mappe a bassa risoluzione del radiocielo.
Il telescopio di Reber, sebbene non avesse precedenti, era piccolo e
rudimentale per i nostri standard. I moderni radiotelescopi sono altra cosa.
Una volta usciti dai giardini, sono diventati incredibilmente enormi. Mark
1, che ha iniziato a lavorare nel 1957, è il primo radiotelescopio gigante del
pianeta – un singolo, manovrabile disco di acciaio largo 75 metri presso lo
Jodrell Bank Observatory vicino a Manchester, in Inghilterra. Un paio di
mesi dopo l’inaugurazione di MK 1, l’Unione Sovietica lanciò lo Sputnik 1,
e il disco di Jodrell Bank divenne improvvisamente solo “quella cosa che
traccia le piccole ferraglie in orbita” – il precursore dell’odierno Deep
Space Network per il tracciamento delle sonde spaziali planetarie.
Il radiotelescopio più grande al mondo, completato nel 2016, è chiamato
Five-hundred-meter Aperture Spherical radio Telescope (Radiotelescopio
sferico da 500 metri di apertura), o FAST per brevità. È stato costruito in
Cina nella provincia di Guizhou, ed è più grande di trenta campi da football.
Se gli alieni ci faranno mai una telefonata, i cinesi saranno i primi a saperlo.

Un’altra tipologia di radiotelescopio è l’interferometro, composto da


successioni di antenne a disco identiche distribuite su strisce di campagna e
collegate elettronicamente per agire di concerto. Il risultato è una singola
immagine, coerente e ad altissima risoluzione, degli oggetti cosmici che
emettono onde radio. Sebbene “Supersize me” fosse il motto non scritto per
i telescopi molto prima che l’industria del fast food coniasse lo slogan, i
radiointerferometri sono una categoria a parte per via delle loro incredibili
dimensioni. Uno di loro, una successione di antenne radio nei pressi di
Socorro, New Mexico, si chiama Very Large Array e consiste di ventisette
antenne da venticinque metri posizionate su binari che attraversano
trentacinque chilometri di pianure desertiche. Questo osservatorio è
talmente cosmogenico da essere stato scelto come sfondo per i film 2010:
L’anno del contatto (1984), Contact (1997), e Transformers (2007). Esiste
anche un Very Long Baseline Array, con dieci antenne da venticinque metri
distribuite su 8000 chilometri tra le Hawaii e le Isole Vergini, che raggiunge
la più alta risoluzione tra tutti i radiotelescopi al mondo.
Nella regione delle microonde, relativamente nuova per gli
interferometri, abbiamo le sessantasei antenne di ALMA, l’Atacama Large
Millimeter Array, nelle remote regioni andine del Cile settentrionale.
Calibrato per lunghezze d’onda che vanno dalle frazioni di millimetro a
diversi centimetri, ALMA consente agli astrofisici l’accesso ad alta
risoluzione a dettagli cosmici invisibili sulle altre bande, come la struttura
delle nubi gassose che collassano diventando vivai per la formazione di
stelle. Il luogo in cui sorge ALMA è intenzionalmente il paesaggio più arido
sulla Terra – a cinque chilometri di altitudine e ben al di sopra delle nuvole
più cariche d’acqua. L’acqua può andar bene per la cottura a microonde, ma
è nemica degli astrofisici perché il vapore acqueo nell’atmosfera terrestre
interferisce con gli immacolati segnali a microonde provenienti da tutta la
galassia e oltre. Questi due fenomeni sono ovviamente collegati: l’acqua è
l’ingrediente più comune all’interno del cibo, e i forni a microonde
riscaldano principalmente l’acqua. Le due informazioni prese insieme
indicano chiaramente che l’acqua assorbe le microonde. Se quindi vogliamo
osservazioni pulite degli oggetti cosmici, dobbiamo minimizzare la quantità
di vapore acqueo tra il telescopio e l’Universo, proprio come fa ALMA.

Nella regione delle lunghezze d’onda ultracorte dello spettro


elettromagnetico troviamo le alte frequenze, i raggi gamma di alta energia
con lunghezze d’onda misurate in picometri.6 Scoperte nel 1900, non sono
state rivelate dallo spazio fino a quando un nuovo tipo di telescopio fu posto
a bordo del satellite della Nasa Explorer XI nel 1961.
Chiunque guardi troppi film di fantascienza sa che i raggi gamma non
fanno bene. Si può diventare verdi e muscolosi, o spruzzare ragnatele dai
polsi. Ma sono anche difficili da catturare. Attraversano con facilità lenti e
specchi comuni. Come li osserviamo quindi? Nella pancia del telescopio di
Explorer XI c’era un dispositivo chiamato scintillatore, che reagisce al
passaggio di raggi gamma emettendo particelle elettricamente cariche.
Misurando l’energia delle particelle, possiamo dedurre il tipo di luce ad alta
energia che le ha create.
Due anni dopo l’Unione Sovietica, il Regno Unito e gli Stati Uniti
firmarono il Trattato sulla messa al bando parziale dei test nucleari, che
proibiva i test subacquei, in atmosfera e nello spazio – dove la ricaduta
radioattiva poteva diffondersi e contaminare luoghi al di là dei confini del
proprio paese. Ma eravamo in Guerra fredda, un periodo in cui nessuno si
fidava di nessuno. In ossequio al principio militare “fidati, ma verifica”, gli
Stati Uniti dispiegarono una nuova serie di satelliti, i Velas, per intercettare i
lampi di raggi gamma risultanti da eventuali test nucleari sovietici. In effetti
i satelliti rilevarono raggi gamma quasi ogni giorno. Ma la colpa non era
della Russia. Venivano dallo spazio profondo – e in seguito si dimostrò che
erano la prova di gigantesche esplosioni stellari lontane e intermittenti,
segnando l’inizio dell’astrofisica a raggi gamma, una nuova branca del mio
campo di ricerca.
Nel 1994, il Compton Gamma Ray Observatory della NASA rilevò
qualcosa di inatteso, almeno quanto le scoperte dei Velas: lampi frequenti di
raggi gamma vicino alla superficie terrestre. Furono a ragione chiamati
“lampi di raggi gamma terrestri”. Un olocausto nucleare? No, com’è
evidente dal fatto che state leggendo queste parole. Non tutti i lampi di
raggi gamma sono ugualmente mortali, né hanno tutti origine cosmica. In
questo caso, almeno cinquanta di questi lampi provengono quotidianamente
dalla cima delle nubi temporalesche, un attimo prima della partenza del
fulmine. La loro origine resta un mistero, ma la migliore spiegazione risiede
nel fatto che nelle tempeste elettriche gli elettroni liberi accelerano fin quasi
alla velocità della luce e poi collidono contro i nuclei degli atomi
atmosferici, generando raggi gamma.

Oggi i telescopi operano in ogni parte invisibile dello spettro, alcuni da


terra, ma la maggior parte dallo spazio, dove la sensibilità del telescopio
non è limitata dall’assorbimento dell’atmosfera terrestre. Possiamo
osservare fenomeni che vanno dalle onde radio a bassa frequenza con
lunghezze d’onda di una dozzina di metri, da picco a picco, a raggi gamma
ad alta frequenza non più lunghi di un milionesimo di miliardesimo di
metro. Questa ricca tavolozza di luci permette infinite scoperte in ambito
astrofisico. Vogliamo sapere quanto gas si annida tra le stelle di una
galassia? I radiotelescopi fanno al caso nostro. Non possiamo studiare la
radiazione cosmica di fondo e dunque non possiamo capire il Big Bang fino
in fondo senza i telescopi a microonde. Vogliamo dare un’occhiata ai vivai
di stelle all’interno delle nubi gassose galattiche? Ci rivolgiamo ai telescopi
a infrarossi. E per quanto riguarda le emissioni che avvengono nei pressi di
buchi neri ordinari e supermassivi al centro delle galassie? Ci servono
telescopi a raggi X e nell’ultravioletto. Vogliamo osservare l’esplosione di
una stella gigante, la cui massa è pari a quella di quaranta soli? Registriamo
lo spettacolo con un telescopio a raggi gamma.
Abbiamo fatto parecchia strada dagli esperimenti di Herschel con raggi
che erano “inadatti alla vista”, e possiamo ora osservare l’Universo com’è
veramente, e non solo come appare a noi. Herschel ne sarebbe orgoglioso.
Abbiamo raggiunto una visione del cosmo a tutto tondo solo dopo aver
visto l’invisibile: una splendida e ricca collezione di oggetti e fenomeni
attraverso lo spazio e il tempo che ora la nostra filosofia può sognare.

1. Bisogna aspettare la metà del 1800, quando lo spettrometro viene applicato a problemi
astronomici, per far diventare l’astronomo un astrofisico. Nel 1895 venne fondato il prestigioso
Astrophysical Journal, con il sottotitolo “Una rassegna internazionale di spettroscopia e fisica
astronomica”.
2. W. Herschel, “Experiments on solar and on the terrestrial rays that occasion heat”, in
Philosophical Transactions of the Royal Astronomical Society, 1800, 17.
3. Antoni van Leeuwenhoek, lettera alla Royal Society of London, 10 Ottobre 1676.
4. Per tutte le onde è valida la semplice equazione: velocità = frequenza × lunghezza d’onda. A
velocità costante, se aumentiamo la lunghezza d’onda, diminuirà la frequenza e viceversa, in modo
da ottenere sempre lo stesso valore moltiplicando le due quantità. Funziona per la luce, il suono e
anche per i tifosi che fanno la “ola” allo stadio – per qualsiasi cosa che viaggi come un’onda.
5. K. Jansky, “Electrical disturbances apparently of extraterrestrial origin”, in Proceedings of the
Institute for Radio Engineers, 21, 10, 1933, p. 1387.
6. “Pico” è il prefisso per indicare un millesimo di miliardesimo.
10
TRA I PIANETI

Visto da lontano, il nostro sistema solare sembra vuoto. Immaginiamo


una sfera larga abbastanza da contenere l’orbita di Nettuno, il pianeta più
esterno:1 il volume occupato dal Sole, dai pianeti e dalle loro lune ammonta
a poco più di un millesimo di un miliardesimo del volume della sfera. Ma in
realtà lo spazio tra i pianeti non è vuoto, è pieno di pezzi di roccia, ciottoli,
palle di ghiaccio, polvere, flussi di particelle cariche e sonde lontane. Ed è
anche permeato di mostruosi campi magnetici e gravitazionali.
Lo spazio interplanetario è talmente non-vuoto che la Terra, nel corso del
suo viaggio orbitale a 30 chilometri al secondo, deve aprirsi un varco
attraverso tonnellate di meteore ogni giorno – la maggior parte delle quali
non più grande di un granello di sabbia. Quasi tutte bruciano nell’alta
atmosfera, impattando con energia tale da vaporizzarsi all’istante. La nostra
fragile specie si è evoluta sotto questo strato protettivo. Le meteore della
grandezza di una pallina da golf si riscaldano velocemente ma in modo non
uniforme, e spesso si frantumano in pezzi più piccoli prima di evaporare.
Meteore ancora più grandi bruciano in superficie ma riescono ad arrivare a
terra ancora intere. Si potrebbe pensare che, dopo 4,6 miliardi di rivoluzioni
intorno al Sole, la Terra abbia “ripulito” il suo cammino orbitale da tutti i
possibili detriti. Ma un tempo le cose andavano molto peggio. Per circa
mezzo miliardo di anni dopo la formazione del Sole e dei suoi pianeti, sulla
Terra è piovuta talmente tanta spazzatura che il calore proveniente
dall’energia dei continui impatti ha reso l’atmosfera terrestre calda e la
crosta del pianeta liquida.
Un pezzo abbastanza grande di spazzatura ha portato alla formazione
della Luna. L’inattesa scarsità di ferro e altri elementi pesanti nella Luna,
rilevata nei campioni lunari portati a terra dagli astronauti delle missioni
Apollo, indica che la Luna si è probabilmente formata a partire dalla crosta
e dal mantello terrestri, poveri in ferro, in seguito a una collisione periferica
con un protopianeta vagante delle dimensioni di Marte. I detriti orbitanti si
sono raggruppati e hanno formato il nostro adorabile satellite a bassa
densità. A parte questo notevole evento, il periodo di bombardamento
pesante subito dalla Terra durante la sua infanzia è toccato anche agli altri
pianeti e oggetti di grandi dimensioni del sistema solare. Ognuno di essi ha
subito danni analoghi: le superfici della Luna e di Mercurio, privi di
atmosfera e di erosioni, portano i segni di questo periodo sotto forma di
crateri.
Non solo i pianeti del sistema solare sono sfregiati dai relitti vaganti
risalenti alla sua formazione, ma lo spazio interplanetario contiene rocce di
ogni dimensione estratte dal suolo di Marte, della Luna e della Terra in
conseguenza di impatti ad alta velocità. Simulazioni al computer degli
impatti delle meteore mostrano che le rocce di superficie nei pressi dei
punti di impatto possono essere proiettate verso l’alto con velocità tale da
sfuggire all’attrazione gravitazionale del corpo. La continua scoperta sul
nostro pianeta di meteoriti di origine marziana ci fa concludere che circa
mille tonnellate di roccia marziana piovono sulla Terra ogni anno.
Probabilmente la stessa quantità proviene dalla Luna. Col senno di poi, non
c’era bisogno di andare sulla Luna per ottenere rocce lunari: ne arrivano un
bel po’, anche se non per nostra scelta, ma non lo sapevamo ancora durante
il programma Apollo.

La maggior parte degli asteroidi del sistema solare vive nella cosiddetta
“fascia principale”, una regione abbastanza piatta situata fra le orbite di
Marte e Giove. Per tradizione, chiunque scopra un asteroide ha il diritto di
dargli un nome a sua scelta. Rappresentata spesso dagli artisti come una
regione piena di rocce vaganti nel piano del sistema solare, la massa totale
degli asteroidi contenuta nella fascia principale è meno del 5% di quella
della Luna, che a sua volta è poco più dell’1% di quella della Terra. Sembra
insignificante. Ma le continue perturbazioni delle orbite producono un
sottoinsieme pericoloso di asteroidi, probabilmente nel numero di qualche
migliaio, caratterizzato da percorsi eccentrici che intersecano l’orbita
terrestre. Un semplice calcolo mostra che la maggior parte di essi colliderà
con la Terra entro cento milioni di anni. Quelli più grandi di un chilometro
impatteranno con energia sufficiente a destabilizzare l’ecosistema terrestre e
mettere gran parte delle specie a rischio di estinzione.
Sarebbe un disastro.
Gli asteroidi non sono gli unici oggetti nello spazio a costituire un rischio
per la vita sulla Terra. La fascia di Kuiper è una striscia piena di comete
all’interno di una regione circolare che inizia poco oltre l’orbita di Nettuno
e che probabilmente si estende oltre Nettuno per la stessa distanza che
intercorre tra Nettuno e il Sole. L’astronomo americano di origine olandese
Gerard Kuiper avanzò l’ipotesi che nelle fredde profondità spaziali, oltre
l’orbita di Nettuno, ci fossero residui ghiacciati della formazione del
sistema solare. Senza un pianeta massivo verso cui dirigersi, la maggior
parte di queste comete orbiterà intorno al Sole ancora per miliardi di anni.
Come anche nel caso della fascia principale, alcuni oggetti della fascia di
Kuiper viaggiano su orbite eccentriche che intersecano le orbite degli altri
pianeti. Plutone e i suoi fratelli, chiamati plutini, intersecano l’orbita di
Nettuno intorno al Sole. Altri oggetti della fascia di Kuiper penetrano
ancora più internamente nel sistema solare, intersecando le orbite planetarie
con disinvoltura. Questo sottoinsieme include la cometa di Halley, la più
famosa di tutte.
Molto oltre la fascia di Kuiper, fino a metà della distanza che ci separa
dalle stelle più vicine, si trova una riserva di comete chiamata nube di Oort,
di forma sferica. Prende il nome da Jan Oort, l’astrofisico olandese che
dedusse per primo la sua esistenza. Da questa zona provengono le comete
con un periodo orbitale molto più lungo della vita umana. A differenza delle
comete della fascia di Kuiper, le comete della nube di Oort possono
piombare sul sistema solare sotto qualsiasi angolo e da qualsiasi direzione.
Le due comete più brillanti negli anni Novanta, Hale-Bopp e Hyakutake,
provenivano entrambe dalla nube di Oort e non torneranno presto da queste
parti.

Se i nostri occhi potessero vedere i campi magnetici, Giove apparirebbe


dieci volte più grande della Luna piena in cielo. I veicoli spaziali che si
avvicinano a Giove devono essere progettati per resistere a questa
incredibile forza. Come il fisico inglese Michael Faraday dimostrò
nell’Ottocento, muovendo un filo conduttore all’interno di un campo
magnetico si genera una differenza di potenziale ai suoi capi. Per questo
motivo, all’interno delle sonde spaziali metalliche, che viaggiano ad alta
velocità, si generano correnti elettriche indotte. Al contempo, queste
correnti generano a loro volta campi magnetici che interagiscono con il
campo esterno rallentando il moto della sonda.
L’ultima volta che le ho contate, c’erano cinquantasei lune orbitanti
intorno ai diversi pianeti del sistema solare. Poi un giorno mi sono svegliato
e ho appreso che ne era stata scoperta un’altra dozzina intorno a Saturno.
Da quel momento in poi, ho deciso di non tenere più il conto. Tutto ciò che
mi interessa ora è se qualcuna di esse possa essere utile da studiare o
visitare. In qualche misura, le lune del sistema solare sono molto più
affascinanti dei corrispondenti pianeti.

La nostra Luna ha un diametro pari a circa 1/400 di quello solare, ma


questo è anche il rapporto tra la distanza Terra-Luna e la distanza Terra-
Sole: questo fa sì che il Sole e la Luna appaiano grandi uguali nel cielo –
una coincidenza che non troviamo in nessun’altra combinazione pianeta-
luna nel sistema solare, e che consente delle eclissi di Sole totali
incredibilmente fotogeniche. La Terra ha anche indotto una rotazione
sincrona nella Luna, il cui periodo di rotazione intorno al proprio asse è
uguale al periodo di rivoluzione intorno alla Terra. Ogni volta che questo
succede, il satellite mostra sempre una sola faccia al proprio pianeta.
Il sistema di lune di Giove è pieno di originalità. Io, la luna più vicina a
Giove, è in rotazione sincrona ed è anche sottoposta a intensi sforzi
strutturali a causa delle interazioni con Giove e con le altre lune, col
risultato che nel piccolo globo viene generato calore sufficiente a fondere le
sue rocce interne. Io è la regione vulcanica più attiva del sistema solare. La
luna Europa contiene molta H2O e il meccanismo generatore di calore – lo
stesso in atto su Io – ha fatto fondere lo strato di ghiaccio al di sotto della
superficie, creando un oceano tiepido sotterraneo. Se c’è un posto ideale per
cercare forme di vita, è questo (un mio collega artista una volta mi ha
chiesto se forme di vita aliena provenienti da Europa sarebbero chiamate
Europei. L’assenza di ogni altra possibile risposta mi ha costretto a dire di
sì).
La luna maggiore di Plutone, Caronte, è così grande e vicina al suo
pianeta che Plutone e Caronte si sono reciprocamente indotti la rotazione
sincrona: i loro periodi di rotazione e di rivoluzione sono identici.
Chiamiamo questo fenomeno “doppia rotazione sincrona”, che suona come
un movimento del balletto classico.
Per convenzione, le lune prendono il nome di personaggi rilevanti nella
vita delle controparti greche delle divinità romane, che invece danno il
nome ai pianeti. Le divinità classiche avevano vite sociali complicate,
quindi non c’è carenza di personaggi da cui prendere spunto. L’unica
eccezione a questa regola riguarda le lune di Urano, che prendono il nome
da vari personaggi della letteratura inglese. L’astronomo inglese Sir William
Herschel fu la prima persona a scoprire un pianeta diverso da quelli visibili
a occhio nudo, ed era già pronto a dargli il nome del re sotto il quale
prestava fedelmente servizio. Se Sir William l’avesse fatto, la lista dei
pianeti sarebbe: Mercurio, Venere, Terra, Marte, Giove, Saturno e Giorgio.
Fortunatamente, il buon senso prevalse e qualche anno dopo fu adottato il
nome classico Urano. Ma la sua proposta di battezzare i satelliti con i
personaggi delle opere di William Shakespeare e Alexander Pope è
diventata una tradizione rispettata ancora ai nostri giorni. Tra le sue
ventisette lune troviamo Ariel, Cordelia, Desdemona, Giulietta, Ofelia,
Porzia, Puck, Umbriel e Miranda.
Il Sole perde materiale dalla sua superficie al ritmo di un milione di
tonnellate al secondo. Chiamiamo questo fenomeno “vento solare”, che si
esprime sotto forma di particelle cariche di alta energia. Viaggiando fino a
1600 chilometri al secondo, queste particelle attraversano lo spazio e
vengono deflesse dai campi magnetici dei pianeti. Percorrendo delle spirali
verso i poli nord e sud magnetici del pianeta, le particelle collidono con le
molecole di gas e colorano le atmosfere con brillanti aurore. Il telescopio
spaziale Hubble ha rilevato aurore in prossimità dei poli di Saturno e Giove.
E sulla Terra le aurore boreali e australi (le luci del nord e del sud) ci
ricordano periodicamente quanto sia piacevole avere un’atmosfera
protettiva.
L’atmosfera terrestre si estende per decine di chilometri al di sopra della
superficie del pianeta. I satelliti in orbita “bassa” viaggiano tipicamente tra i
200 e i 600 chilometri di altitudine e completano un’orbita in circa novanta
minuti. Anche se non si può respirare a quelle altezze, qualche molecola
atmosferica è ancora presente – abbastanza per sottrarre energia orbitale
agli ignari satelliti. Per contrastare questo rallentamento, i satelliti in orbita
bassa hanno bisogno di spinte periodiche per non cadere verso la Terra e
bruciare nell’atmosfera. Un modo alternativo di definire il confine della
nostra atmosfera è chiedersi dove la densità di molecole di gas è uguale alla
densità nello spazio interplanetario. Con questa definizione, l’atmosfera si
estende per migliaia di chilometri.
A un’altitudine di circa 36.000 chilometri (un decimo della distanza della
Luna) si trovano i satelliti per telecomunicazioni. A questa speciale
altitudine, non solo l’atmosfera terrestre è irrilevante ma la velocità orbitale
è talmente bassa che è necessario un intero giorno per compiere un giro
completo intorno alla Terra. Con un periodo di rivoluzione esattamente
uguale al periodo di rotazione terrestre, questi satelliti appaiono fissi nel
cielo e ciò li rende perfetti per trasmettere segnali da una parte all’altra della
superficie terrestre.

Le leggi di Newton dicono esplicitamente che, anche se la gravità di un


pianeta diventa tanto più debole quanto più ci allontaniamo da esso, non c’è
distanza a cui la forza di gravità si annulli. Il pianeta Giove, con il suo
potente campo gravitazionale, tiene ben lontane molte comete che
altrimenti seminerebbero distruzione all’interno del sistema solare. Giove
agisce anche da scudo gravitazionale per la Terra, come un corpulento
fratello maggiore, consentendoci un lungo periodo (cento milioni di anni) di
pace e quiete relative. Senza la protezione di Giove, le forme di vita
complesse avrebbero avuto vita dura, con il costante rischio di estinzione a
causa di impatti devastanti.
Abbiamo sfruttato i campi gravitazionali dei pianeti per quasi ogni sonda
lanciata nello spazio. La sonda Cassini, per esempio, che è andata a
esplorare Saturno, è stata aiutata gravitazionalmente due volte da Venere,
una volta dalla Terra (in un flyby di ritorno), e una volta da Giove. Come in
un biliardo multisponda, andare avanti e indietro tra i pianeti è abbastanza
comune per le sonde, altrimenti la velocità e l’energia fornite dai nostri
razzi non sarebbero loro sufficienti per raggiungere le destinazioni.
Io sono responsabile di una frazione dei detriti interplanetari del sistema
solare. Nel novembre del 2000, l’asteroide 1994KA appartenente alla fascia
principale, scoperto da David Levy e Carolyn Shoemaker, è stato chiamato
13123-Tyson in mio onore. Sebbene abbia gradito questo riconoscimento,
non è un buon motivo per essere presuntuoso: molti asteroidi hanno nomi
comuni come Jody, Harriet e Thomas. Ci sono anche asteroidi chiamati
Merlino, James Bond e Santa Claus. Essendo oramai centinaia di migliaia,
la conta degli asteroidi potrebbe presto mettere alla prova la nostra capacità
di trovare nuovi nomi. Che quel giorno arrivi o no, trovo conforto nel
sapere che il mio piccolo detrito cosmico non è solo a riempire lo spazio tra
i pianeti, ma è accompagnato da una lunga lista di altri detriti chiamati con i
nomi di persone vere o fittizie.
Sono anche felice del fatto che, per il momento, il mio asteroide non
punti verso la Terra.

1. No, non è Plutone. Fatevene una ragione.


11
L’ESOPIANETA TERRA

Che preferiate correre o nuotare, oppure camminare a due o a quattro


zampe da un posto all’altro, la Terra vi offre una fornitura illimitata di
fenomeni notevoli da osservare da vicino: una venatura di calcare rosa sulla
parete di un canyon, una coccinella che mangia un afide sul gambo di una
rosa, una conchiglia che spunta da sotto la sabbia. L’unica cosa che
dobbiamo fare è guardare.
Dal finestrino di un aereo di linea in ascesa, questi dettagli di superficie
spariscono rapidamente. Niente antipasti di afidi, niente conchiglie bizzarre.
Una volta raggiunta la quota di crociera, a circa undici chilometri di altezza,
persino identificare le autostrade più larghe può diventare un problema.
I dettagli continuano a svanire salendo nello spazio. Dai finestrini della
Stazione Spaziale Internazionale, che orbita a 400 chilometri di altitudine,
potremmo scorgere Parigi, Londra, New York e Los Angeles di giorno, ma
solo perché abbiamo imparato dove si trovano durante l’ora di geografia. Di
notte, i loro paesaggi urbani tentacolari sono avvolti dal bagliore delle luci.
Di giorno, contrariamente al pensiero comune, probabilmente non
riusciremmo a vedere le Grandi Piramidi di Giza, e sicuramente non
vedremmo la Grande Muraglia cinese. La loro invisibilità deriva in parte
del fatto che sono state costruite con il suolo e la pietra del paesaggio
circostante. Sebbene la Grande Muraglia sia lunga migliaia di chilometri, è
larga appena sei metri – molto più stretta delle autostrade americane
interstatali che a malapena vediamo da un aereo intercontinentale.
Orbitando intorno alla Terra, a occhio nudo avremmo visto i pennacchi di
fumo dei pozzi petroliferi kuwaitiani in fiamme alla fine della Prima guerra
del Golfo nel 1991, e anche il fumo delle Torri Gemelle di New York City
in fiamme l’11 settembre 2001. Noteremmo anche i confini giallo-verdi tra
strisce di terra irrigata e strisce di terra arida. Al di là di questa ristretta lista,
non ci sono molti altri manufatti visibili da centinaia di chilometri di
altitudine. Ci sono però moltissimi scenari naturali, come gli uragani nel
Golfo del Messico, i banchi di ghiaccio nell’Atlantico del Nord, e le
eruzioni vulcaniche ovunque avvengano.
Dalla Luna, a 400.000 chilometri di distanza, New York, Parigi e le
scintillanti luci delle altre metropoli non appaiono neanche come un
luccichio. Ma dal nostro punto di osservazione lunare potremmo comunque
osservare i principali fronti meteorologici muoversi attraverso il pianeta.
Dal punto dell’orbita di Marte più vicino a noi, a circa cinquanta milioni di
chilometri, le catene montuose ricoperte da un massiccio strato nevoso e le
linee dei continenti sarebbero visibili con un buon telescopio da giardino.
Da Nettuno, lontano cinque miliardi di chilometri – praticamente dietro
l’angolo, su scala cosmica – lo stesso Sole diventa mille volte più fioco e la
superficie occupata sulla volta celeste è un millesimo di quella occupata
quando visto dalla Terra. E la Terra? È un minuscolo puntino, non più
luminoso di una debole stella, totalmente nascosto dal bagliore del Sole.
Una celebre fotografia scattata nel 1990 poco oltre l’orbita di Nettuno
dalla sonda Voyager 1 mostra quanto sembri insignificante la Terra vista
dallo spazio profondo: un “pallido puntino azzurro”, come la battezzò
l’astrofisico Carl Sagan. Ed è stato generoso. Senza l’aiuto di una
didascalia, non riusciremmo neanche a vederla.
Cosa succederebbe se alieni dal grande cervello scansionassero il cielo
dalle loro remote località, con i loro naturalmente strepitosi organi visivi
ulteriormente aiutati da strumentazione ottica di aliena qualità? Quali
caratteristiche visibili del pianeta Terra rileverebbero?
Il colore blu sarebbe la prima caratteristica e la più evidente. L’acqua
copre più di due terzi della superficie terrestre; l’Oceano Pacifico da solo
riveste quasi un’intera metà del pianeta. Qualsiasi essere con
l’equipaggiamento adatto e la competenza necessaria a rilevare il colore del
nostro pianeta, dedurrebbe certamente la presenza di acqua, la terza
molecola più abbondante dell’Universo.
Se la risoluzione dei loro apparati strumentali fosse abbastanza alta, gli
alieni potrebbero vedere più di un pallido puntino azzurro. Vedrebbero linee
costiere frastagliate, un forte indizio che l’acqua si trova allo stato liquido.
E alieni intelligenti sicuramente saprebbero che se un pianeta contiene
acqua liquida, i valori di temperatura e pressione atmosferica cadono
all’interno di un certo intervallo. Le calotte polari distintive della Terra, che
si espandono e si contraggono a causa delle variazioni stagionali di
temperatura, potrebbero anche essere rilevate con la luce visibile. E così
pure la rotazione di ventiquattro ore del nostro pianeta, perché le terre
emerse, dal profilo riconoscibile, tornano a essere visibili dopo un intervallo
di tempo prevedibile. Gli alieni vedrebbero anche i principali eventi
climatici e potrebbero prontamente distinguere i fenomeni collegati alle
nuvole nell’atmosfera da quelli collegati alla superficie terrestre.
Facciamo una verifica. L’esopianeta più vicino – il pianeta più vicino in
orbita intorno a una stella che non è il Sole – si trova nel vicino sistema
stellare Alpha Centauri, a circa quattro anni luce da noi e visibile dal nostro
emisfero meridionale. La maggior parte degli esopianeti catalogati è lontana
dalle decine alle centinaia di anni luce. La luminosità della Terra è minore
di un miliardesimo di quella del Sole, e la nostra vicinanza al Sole
renderebbe estremamente difficile per chiunque individuarci direttamente
con un telescopio a luce visibile. Sarebbe come provare ad avvistare una
lucciola nei pressi di un proiettore luminoso di Hollywood. Quindi, se gli
alieni ci hanno trovato, stanno probabilmente studiando lunghezze d’onda
diverse da quelle visibili, per esempio l’infrarosso, dove la nostra
luminosità rispetto a quella del Sole è un po’ migliore che nel visibile – o
magari i loro ingegneri stanno approntando qualche altra strategia
completamente diversa.
Forse stanno facendo ciò che fanno alcuni tra i nostri cacciatori di
pianeti: osservare le stelle per vedere se tremano a intervalli regolari. Un
tremolio periodico di una stella tradisce la presenza di un pianeta in orbita
intorno a essa che può essere troppo fioco da rilevare direttamente.
Contrariamente a quanto la gran parte delle persone pensa, un pianeta non
orbita intorno alla propria stella. In realtà, sia il pianeta sia la stella orbitano
intorno al loro comune centro di massa. Più massivo è il pianeta, maggiore
sarà la risposta della stella, e più evidente sarà il tremolio quando si
analizza la luce della stella. Sfortunatamente per i cacciatori alieni di
pianeti, la Terra è minuscola, quindi il Sole si muove appena, e questo
rappresenta un’ulteriore sfida per gli ingegneri alieni.

*
Il telescopio Kepler della Nasa, progettato e calibrato per scoprire pianeti
simili alla Terra in orbita intorno a stelle simili al Sole, ha utilizzato un altro
metodo di rilevazione, aggiungendo una gran quantità di esopianeti al
catalogo. Kepler cercava stelle la cui luminosità totale diminuisce di poco e
a intervalli regolari. In questi casi, nel campo visivo di Kepler la stella
diventa leggermente più fioca a causa del passaggio del pianeta tra la stella
e il telescopio. Con questo metodo non si vede il pianeta, e non si possono
neanche esaminare le caratteristiche della superficie della stella. Kepler
teneva semplicemente traccia delle variazioni della luminosità totale di una
stella, ma in questo modo ha aggiunto migliaia di esopianeti al catalogo e
centinaia di sistemi stellari con più di un pianeta. Dai dati di Kepler si
possono ricavare la dimensione dell’esopianeta, il suo periodo orbitale e la
sua distanza orbitale dalla stella. Si può anche stimare in modo plausibile la
massa del pianeta.
Se ve lo state chiedendo, quando la Terra passa davanti al Sole – cosa che
succede sempre nel campo visivo di un qualche osservatore della galassia –
oscura 1/10.000 della superficie del Sole e dunque ne diminuisce la
luminosità totale dello stesso fattore. Va bene, scopriranno l’esistenza della
Terra, ma non sapranno nulla di ciò che succede sulla sua superficie.
Le onde radio e le microonde potrebbero funzionare. Forse i nostri alieni
in ascolto hanno qualcosa di simile al radiotelescopio da 500 metri nella
provincia di Guizhou in Cina. Se ce l’hanno, e se lo calibrano sulle giuste
frequenze, sicuramente si accorgeranno della Terra – o meglio, del fatto che
la nostra civiltà moderna è una delle sorgenti più luminose nel cielo.
Considerate tutto ciò che genera onde radio o microonde: non solo radio
tradizionali, ma anche trasmissioni televisive, telefoni cellulari, forni a
microonde, radiocomandi per aprire i garage e le auto, radar commerciali,
radar militari e satelliti per telecomunicazioni. Risplendiamo di onde a
bassa frequenza – prova inconfutabile che qualcosa di sospetto sta
succedendo dalle nostre parti, dato che i piccoli pianeti rocciosi nel loro
stato naturale non emettono quasi nulla nelle frequenze radio.
Dunque se gli alieni all’ascolto rivolgessero l’equivalente dei nostri
radiotelescopi verso di noi potrebbero dedurre che sul nostro pianeta è
presente della tecnologia. C’è però una complicazione: altre interpretazioni
sono possibili. Forse non saprebbero distinguere i segnali terrestri da quelli
dei pianeti maggiori del nostro sistema solare, anch’essi buone sorgenti di
onde radio, specialmente Giove. Forse penserebbero che siamo un nuovo
tipo di pianeta, stranamente attivo nelle frequenze radio. Forse non
riuscirebbero a distinguere le emissioni radio terrestri da quelle del Sole, e
concluderebbero che il Sole è un nuovo tipo di stella che emette
intensamente nella banda delle onde radio.
Gli astrofisici qui sulla Terra, all’Università di Cambridge in Inghilterra,
erano sconcertati più o meno allo stesso modo nel 1967. Durante una
scansione del cielo con un radiotelescopio alla ricerca di segnali potenti,
Antony Hewish e il suo gruppo di ricerca scoprirono qualcosa di davvero
strano: un oggetto pulsante a intervalli precisi di poco più di un secondo.
Jocelyn Bell, a quel tempo dottoranda di Hewish, fu la prima a notarlo.
I colleghi di Bell stabilirono subito che gli impulsi venivano da grande
distanza. L’idea che il segnale potesse avere origine tecnologica – un’altra
civiltà che trasmetteva prove della sua esistenza attraverso lo spazio – era
irresistibile. Come dice Bell stessa: “Non avevamo prove che fosse
un’emissione totalmente naturale… io stavo cercando di tirar fuori una tesi
di dottorato da una nuova tecnica sperimentale, e qualche omino verde
mattacchione aveva scelto la mia antenna e la mia frequenza per
comunicare con noi”.1 Dopo pochi giorni, tuttavia, scoprì altri segnali
provenienti da altre regioni della Via Lattea. Bell e i suoi colleghi capirono
di aver scoperto una nuova classe di oggetti cosmici – una stella fatta
interamente di neutroni che pulsa emettendo onde radio a ogni rotazione.
Hewish e Bell la chiamarono appropriatamente “pulsar”.
Intercettare onde radio non è l’unico modo di ficcare il naso negli affari
altrui. C’è anche la cosmochimica. L’analisi chimica delle atmosfere
planetarie è diventata un settore di ricerca vivace nell’astrofisica moderna.
Com’è facile immaginare, la cosmochimica si basa sulla spettroscopia –
l’analisi della luce per mezzo di uno spettrometro. Utilizzando gli strumenti
e le tecniche degli spettroscopisti, i cosmochimici possono dedurre la
presenza di vita su un esopianeta, al di là del fatto che questa vita sia
senziente, intelligente o tecnologica.
Il metodo funziona perché ogni elemento, ogni molecola – non importa
dove si trovi nell’Universo – assorbe, emette, riflette e diffonde la luce in
modo unico. E, come già discusso, facendo passare quella luce attraverso
uno spettrometro, si evidenziano caratteristiche assimilabili a vere e proprie
impronte digitali chimiche. Le impronte più visibili sono lasciate dagli
elementi chimici più eccitati dalla pressione e dalla temperatura
dell’ambiente in cui si trovano. Le atmosfere planetarie sono ricche di
queste caratteristiche. E se un pianeta è brulicante di flora e fauna, la sua
atmosfera sarà ricca di marcatori biologici – prove spettrali dell’esistenza di
vita. Che sia di origine biologica (prodotta da una qualsiasi forma di vita),
antropologica (prodotta dalla diffusa specie Homo sapiens), o tecnologica
(prodotta solo dalla tecnologia), una tale lampante evidenza sarebbe
difficile da nascondere.
A meno di non essere nati con sensori spettroscopici già preinstallati, i
nostri alieni ficcanaso dovrebbero costruire uno spettrometro per rilevare le
nostre impronte. Ma soprattutto la Terra dovrebbe transitare di fronte al
Sole (o a qualche altra sorgente) e permettere alla luce di attraversare la
nostra atmosfera e continuare fino a raggiungere gli alieni. In quel modo,
gli elementi chimici dell’atmosfera terrestre potrebbero interagire con la
luce e lasciare le loro impronte visibili a tutti.
Alcune molecole – ammoniaca, anidride carbonica, acqua – sono
abbondanti nell’Universo, indipendentemente dalla presenza di vita. Ma
altre molecole invece si sviluppano dove c’è vita. Un altro biomarcatore
facilmente rilevabile è l’alto livello di metano, due terzi del quale sono
prodotti da attività legate all’uomo, come la produzione di olio
combustibile, la coltivazione del riso, le acque nere, i rutti e i peti degli
animali domestici. Le sorgenti naturali, che compongono il restante terzo,
includono la vegetazione in decomposizione dei terreni paludosi e le
emissioni delle termiti. Allo stesso tempo, in posti dove l’ossigeno libero
scarseggia, non sempre è necessaria la vita per produrre metano.
Ultimamente gli astrobiologi stanno discutendo sull’esatta origine delle
tracce di metano trovate su Marte e sull’abbondante quantità di metano su
Titano, la luna di Saturno, dove non pensiamo ci siano mucche e termiti.
Se gli alieni ci tenessero d’occhio di notte, noterebbero un aumento di
sodio a causa del massiccio uso di lampioni a vapori di sodio che si
accendono al tramonto nelle città e nelle periferie. La prova più lampante,
tuttavia, sarebbe tutto il nostro ossigeno libero, che rappresenta un quinto di
tutta l’atmosfera.
L’ossigeno, che dopo l’idrogeno e l’elio è il terzo elemento più
abbondante nel cosmo, è chimicamente attivo e si lega facilmente ad atomi
di idrogeno, carbonio, azoto, silicio, zolfo, ferro, e così via. Forma legami
anche con se stesso. Per avere stabilmente tutto questo ossigeno, qualcosa
deve produrlo in quantità pari a quella consumata. Qui sulla Terra la
produzione avviene grazie alla vita. La fotosintesi, portata avanti dalle
piante e da molti batteri, libera ossigeno negli oceani e nell’atmosfera.
L’ossigeno libero, a sua volta, permette l’esistenza di forme di vita
aerobiche, come noi e praticamente ogni altra creatura del regno animale.
Noi terrestri già conosciamo l’importanza delle impronte digitali
chimiche distintive del nostro pianeta. Ma gli alieni lontani che si
imbatteranno in noi dovranno interpretare le loro scoperte e testare le loro
ipotesi. La periodica comparsa di sodio è di origine tecnologica? L’ossigeno
libero è sicuramente di origine biologica. E il metano? Anch’esso è
chimicamente instabile e sì, una parte è di origine antropologica ma, come
abbiamo visto, non necessariamente è prodotto da organismi viventi.
Se gli alieni decideranno che le caratteristiche chimiche della Terra sono
prove certe dell’esistenza di vita, forse si chiederanno se si tratta di vita
intelligente. Presumibilmente gli alieni comunicano tra di loro, e
probabilmente pensano che anche altre forme di vita intelligente lo
facciano. Forse a questo punto decideranno di origliare la Terra con i loro
radiotelescopi per vedere in quale parte dello spettro elettromagnetico i suoi
abitanti sono più ferrati. Quindi, che gli alieni compiano le loro ricerche con
la chimica o con le onde radio, potrebbero arrivare alla stessa conclusione:
un pianeta in cui c’è tecnologia avanzata deve essere popolato di forme di
vita intelligente, che passano il tempo a scoprire come funziona l’Universo
e ad applicare le sue leggi per il bene pubblico o privato.
Esaminando più attentamente le impronte atmosferiche terrestri, i
biomarcatori umani includono acido solforico, acido carbonico e acido
nitrico, più altre componenti inquinanti provenienti dalla combustione
fossile. Se gli alieni curiosi fossero anche più avanzati socialmente,
culturalmente e tecnologicamente di noi, interpreterebbero di sicuro questi
biomarcatori come prova convincente dell’assenza di vita intelligente sulla
Terra.

Il primo esopianeta è stato scoperto nel 1995 e, nel momento in cui


scrivo, la conta ha oltrepassato i tremila, la maggior parte dei quali è stata
trovata in un piccolo angolo della Via Lattea nei pressi del sistema solare.
Quindi ci sono molti altri posti dove andarli a scovare. Del resto, la nostra
galassia contiene più di cento miliardi di stelle, e l’Universo conosciuto
ospita centinaia di miliardi di galassie.
La nostra ricerca di vita nell’Universo spinge a cercare esopianeti, alcuni
dei quali simili alla Terra – non nei dettagli, naturalmente, ma nelle
proprietà generali. Le ultime stime, ricavate dai cataloghi aggiornati,
suggeriscono la presenza di una quarantina di miliardi di pianeti simili alla
Terra nella sola Via Lattea. Questi sono i pianeti che i nostri discendenti
potrebbero voler esplorare un giorno, per scelta o per necessità.

1. J. Bell, “Petit Four”, in Annals of the New York Academy of Sciences, 302, 1977, p. 685.
12
RIFLESSIONI SULLA PROSPETTIVA COSMICA

  Tra tutte le scienze coltivate dall’umanità,


l’Astronomia è riconosciuta essere, e
indubbiamente è, la più sublime, la più
interessante e la più utile. Poiché, grazie alle
conoscenze ottenute tramite questa scienza, non
solo scopriamo molte cose sulla Terra…; ma le
nostre facoltà sono ampliate dalla grandezza delle
idee che trasmette, le nostre menti elevate al di
sopra dei [loro] limitati preconcetti.
 
JAMES FERGUSON, 17571

Molto prima di realizzare che l’Universo ha avuto un inizio, prima di


scoprire che la galassia più vicina si trova a due milioni di anni luce dalla
Terra, prima di svelare il funzionamento delle stelle e l’esistenza degli
atomi, l’entusiastica presentazione che James Ferguson faceva della sua
scienza preferita suonava già vera. Ma le sue parole, a parte le infiorettature
settecentesche, potrebbero essere state scritte ieri.
Tuttavia chi arriva a pensare in quel modo? Chi riesce a godere di questa
visione cosmica della vita? Non il bracciante agricolo emigrato. Non il
lavoratore di una fabbrica sfruttatrice di manodopera. Sicuramente non la
persona senza fissa dimora che rovista nella spazzatura in cerca di cibo. Ci
vuole il lusso di avere del tempo libero, oltre a quello dedicato alla mera
sopravvivenza. Bisogna vivere in una nazione il cui governo consideri un
valore studiare il posto e il ruolo dell’umanità nell’Universo. Ci vuole una
società in cui le ricerche scientifiche ci portino alle frontiere della
conoscenza, e in cui le scoperte possano essere regolarmente divulgate.
Sotto questi aspetti, la gran parte dei cittadini dei paesi industrializzati se la
passa bene.
Eppure la visione cosmica ha un costo nascosto. Quando viaggio per
migliaia di chilometri per trascorrere qualche istante sotto l’ombra veloce
della Luna durante un’eclisse totale di Sole, a volte perdo di vista la Terra.
Quando mi fermo a riflettere sul nostro Universo in espansione, con le
galassie scagliate via l’una dall’altra, incastonate nella struttura
quadridimensionale dello spazio-tempo che continua a estendersi, a volte
mi dimentico che innumerevoli persone vivono sulla Terra senza cibo o
senza riparo, e che tra di essi il numero di bambini è esorbitante.
Quando studio con attenzione i dati che confermano la misteriosa
presenza di materia oscura ed energia oscura nell’Universo, a volte mi
dimentico che ogni giorno – a ogni rotazione di ventiquattro ore del nostro
pianeta – le persone uccidono e vengono uccise in nome dell’idea che
qualcun altro ha di Dio, e le persone che non uccidono in nome di Dio
uccidono in nome dei bisogni e delle volontà di una fede politica.
Quando traccio le orbite di asteroidi, comete e pianeti, ballerini del
balletto cosmico impegnati nelle piroette della coreografia dettata dalle
forze gravitazionali, a volte mi dimentico che troppe persone agiscono con
disprezzo ingiustificato nei confronti del delicato equilibrio tra atmosfera,
oceani e terre emerse, con conseguenze di cui i nostri figli e nipoti saranno
testimoni e che pagheranno in termini di salute e benessere.
E a volte mi dimentico che le persone di potere raramente fanno tutto il
possibile per aiutare chi è senza speranza.
Mi dimentico queste cose perché, per quanto sia grande il mondo – nei
nostri cuori, nelle nostre menti, e sulle nostre enormi mappe digitali –
l’Universo è ancora più grande. Un pensiero deprimente per alcuni,
liberatorio per me.
Considerate un adulto che si prende cura dei traumi di un bambino: una
tazza di latte rovesciata, un giocattolo rotto, un ginocchio sbucciato.
Essendo adulti, sappiamo che i bambini non hanno idea di cosa sia davvero
un problema, perché la mancanza di esperienza limita fortemente la loro
prospettiva infantile. I bambini non sanno ancora che il mondo non gira
intorno a loro.
Ma noi adulti osiamo confessare a noi stessi che anche noi abbiamo una
forma di immaturità collettiva? Osiamo ammettere che i nostri pensieri e i
nostri comportamenti sono dettati dal credere che il mondo giri intorno a
noi? Sembrerebbe di no. Eppure le prove abbondano. Solleviamo il velo dei
conflitti razziali, etnici, religiosi, nazionali e culturali e troveremo l’ego
umano impegnato a manovrare i comandi.
Immaginiamo ora un mondo in cui tutti, ma specialmente le persone
potenti e influenti, abbiano una visione estesa del nostro posto nel cosmo.
Con questa prospettiva, i nostri problemi diventerebbero piccolissimi – o
sparirebbero del tutto – e potremmo celebrare le nostre differenze, anziché
usarle come pretesto per ucciderci l’un l’altro come facevano i nostri
predecessori.

Nel gennaio del 2000, l’Hayden Planetarium di New York, appena


ristrutturato, ospitò uno spettacolo sullo spazio intitolato Passaporto per
l’Universo,2 che trasportava gli spettatori con uno zoom virtuale dal
planetario ai confini dell’Universo. Durante il viaggio, il pubblico vedeva la
Terra, poi il sistema solare, quindi i miliardi di stelle della Via Lattea
rimpicciolirsi fino a diventare puntini quasi invisibili sulla cupola del
planetario.
Nel giro di un mese dall’inaugurazione ricevetti una lettera da un
professore di psicologia della Ivy League3 esperto di cose che fanno sentire
le persone insignificanti. Non sapevo che ci si potesse specializzare in
questo campo. Voleva sottoporre un questionario al pubblico prima e dopo
lo spettacolo, valutando quanto fossero depressi dalla visione. Passaporto
per l’Universo, mi scrisse, suscitava le sensazioni di piccolezza e
insignificanza più drammatiche che avesse mai sperimentato.
Com’era possibile? Ogni volta che vedo quello spettacolo (e anche gli
altri che abbiamo prodotto), mi sento vivo, connesso e di ottimo umore. Mi
sento anche importante, sapendo che tutto quello che accade all’interno del
nostro chilo e mezzo di cervello umano ci ha permesso di comprendere il
nostro posto nell’Universo.
Mi permetto di suggerire che è il professore, e non io, ad aver male
interpretato la natura. Il suo ego era ingiustificatamente grande, gonfiato da
illusioni di significato e nutrito dal preconcetto culturale che gli esseri
umani sono più importanti di qualsiasi altra cosa nell’Universo.
Per onestà nei confronti del collega, bisogna ammettere che la gran parte
di noi è facilmente influenzabile dalle potenti forze in atto all’interno del
sistema sociale. Lo ero anch’io, fino al giorno in cui imparai, nell’ora di
biologia, che ci sono più batteri vivi e attivi in un centimetro del mio colon
di tutti gli esseri umani che siano mai esistiti al mondo. Questo tipo di
informazione ti fa riflettere su chi – o che cosa – comandi.
Da quel giorno, ho iniziato a pensare agli uomini non come ai padroni
dello spazio e del tempo, ma come ai partecipanti di una lunga catena
cosmica, con collegamenti genetici diretti tra le specie estinte e le specie
viventi, che si estende per quattro miliardi di anni a partire dai primi
organismi unicellulari terrestri.
So cosa state pensando: noi siamo più intelligenti dei batteri.
Non c’è dubbio, siamo più intelligenti di qualsiasi altra creatura vivente
che abbia mai camminato a due o a quattro zampe, o che abbia strisciato
sulla Terra. Ma quanto vale questa intelligenza? Cuciniamo il nostro cibo.
Componiamo poesie e musica. Produciamo arte e scienza. Siamo bravi in
matematica. Anche se non siete bravi in matematica, siete probabilmente
molto più bravi dello scimpanzé più intelligente, il cui corredo genetico
differisce dal nostro in modo irrisorio. Possono provarci quanto vogliono,
ma i primatologi non riusciranno mai a far fare le divisioni in colonna o la
trigonometria a uno scimpanzé.

Se piccole differenze genetiche tra noi e i nostri amici primati sono


responsabili di quella che appare un’enorme differenza in intelligenza,
allora questa differenza forse non è poi così grande.
Immaginiamo una forma di vita le cui capacità intellettive stiano alle
nostre come le nostre stanno a quelle delle scimmie. Per questa specie, le
nostre più elevate conquiste dell’intelletto sarebbero banali. I loro cuccioli,
invece di imparare l’alfabeto su Sesame Street,4 imparerebbero il calcolo a
più variabili su Boolean Boulevard.5 I nostri teoremi più complessi, le
nostre riflessioni filosofiche più profonde, le opere più ammirate dei nostri
artisti più creativi sembrerebbero progetti scolastici portati a casa dai
bambini e attaccati al frigo con dei magneti dai genitori. Queste creature
studierebbero Stephen Hawking (che all’Università di Cambridge detiene la
stessa cattedra che un tempo era di Isaac Newton) perché è un po’ più
sveglio degli altri umani. Perché? Perché è in grado di occuparsi di
astrofisica teorica e altre rudimentali bazzecole a mente, proprio come il
loro piccolo Timmy che rientra a casa dall’asilo alieno.
Se un’enorme differenza genetica ci separasse dai nostri parenti più
prossimi nel regno animale, potremmo giustamente celebrare il nostro
acume. Potremmo concederci di camminare a testa alta pensando che siamo
lontani e diversi dalle altre creature. Ma tale differenza non esiste. In realtà,
siamo un tutt’uno con la natura che ci circonda, né al di sopra né al di sotto
di essa, ma semplicemente al suo interno.
C’è bisogno di abbattere ulteriormente l’ego? Un semplice confronto di
quantità, dimensioni e scale è adatto allo scopo.
Prendiamo l’acqua. È diffusa ed essenziale alla vita. Ci sono più
molecole d’acqua in un bicchiere che bicchieri d’acqua in tutti gli oceani
del mondo. Il contenuto di ogni bicchiere, che passa attraverso il nostro
corpo e alla fine ritorna inevitabilmente alle riserve d’acqua mondiali,
contiene talmente tante molecole che potremmo distribuire 1500 di esse in
ogni bicchiere d’acqua del mondo. Non c’è dubbio: un po’ dell’acqua che
avete appena bevuto è passata attraverso i reni di Socrate, Gengis Khan e
Giovanna d’Arco.
E l’aria? Anch’essa è vitale. Un singolo respiro immagazzina un numero
di molecole d’aria maggiore del numero dei respiri presente nell’intera
atmosfera. Significa che un po’ dell’aria che avete appena inspirato è
passata attraverso i polmoni di Napoleone, Beethoven, Lincoln e Billy the
Kid.
E ora andiamo nel cosmo. Il numero di stelle nell’Universo è maggiore di
tutti i granelli di sabbia su una qualsiasi spiaggia della Terra, di tutti i
secondi che sono trascorsi dalla formazione della Terra, di tutte le parole e i
suoni mai emessi da tutti gli esseri umani che sono vissuti sulla Terra.
Volete una terrazza panoramica sul passato? Ve la offre la nostra
prospettiva cosmica in continuo mutamento. La luce impiega tempo per
raggiungere gli osservatori terrestri dalle profondità dello spazio, quindi
vediamo oggetti e fenomeni non come sono in questo momento ma
com’erano un tempo, fin quasi all’inizio del tempo stesso. All’interno di
questo orizzonte si svolge continuamente l’evoluzione cosmica, in piena
vista.
Volete sapere di cosa siamo fatti? Ancora, la prospettiva cosmica ci offre
una risposta più grande di quella che ci aspettiamo. Gli elementi chimici
dell’Universo sono prodotti nelle fornaci delle stelle di alta massa che
terminano la loro vita con gigantesche esplosioni, arricchendo le loro
galassie ospitanti con l’arsenale chimico della vita come la conosciamo. Il
risultato è che i quattro elementi chimicamente attivi più comuni
nell’Universo – idrogeno, ossigeno, carbonio, azoto – sono i quattro
elementi più comuni della vita sulla Terra, con il carbonio come
fondamento della biochimica.
Non viviamo semplicemente nell’Universo. L’Universo vive dentro di
noi.
Detto questo, potremmo anche non appartenere a questo pianeta. Risultati
provenienti da diverse differenti linee di ricerca hanno obbligato gli
scienziati a riesaminare chi pensiamo di essere e da dove pensiamo di
provenire. Per prima cosa, come abbiamo già visto, quando un grande
asteroide colpisce un pianeta, le aree circostanti possono rinculare a causa
dell’impatto, catapultando rocce nello spazio. Da lì, le rocce possono
viaggiare e atterrare su altre superfici planetarie. Secondo, i microorganismi
possono essere molto resistenti. Quelli che chiamiamo estremofili sulla
Terra possono sopravvivere a intense variazioni di temperatura e pressione e
alla radiazione incontrata durante i viaggi spaziali. Se i materiali rocciosi
proiettati da un impatto provengono da un pianeta che ospita vita, allora
della fauna microscopica potrebbe essersi intrufolata clandestinamente in
ogni angolo della roccia. Terzo, evidenze recenti suggeriscono che, poco
dopo la formazione del nostro sistema solare, Marte era umido e
probabilmente fertile, anche prima che lo fosse la Terra.
Prese insieme, queste scoperte ci dicono che è possibile pensare che la
vita abbia avuto inizio su Marte e in seguito abbia piantato i suoi semi sulla
Terra, un processo chiamato panspermia. Quindi tutti i terrestri potrebbero –
e sottolineo potrebbero – essere discendenti di marziani.

Nel corso dei secoli, le scoperte sul cosmo hanno messo in secondo piano
l’immagine di noi stessi. Un tempo si pensava che la Terra fosse unica dal
punto di vista astronomico, ma poi gli astronomi capirono che in realtà è
solo uno tra i pianeti che orbitano intorno al Sole. Pensavamo che il Sole
fosse unico, ma poi abbiamo appreso che le innumerevoli stelle del cielo
notturno sono anch’esse dei Soli. Credevamo che la nostra galassia, la Via
Lattea, fosse l’Universo intero, ma alla fine abbiamo stabilito che la
moltitudine di oggetti sfocati nel cielo sono altre galassie, che punteggiano
il paesaggio dell’Universo conosciuto.
Com’è facile oggi presumere che ci sia un solo Universo. Eppure diverse
teorie emergenti della cosmologia moderna, oltre all’improbabilità
continuamente riaffermata che esista qualcosa di unico, ci chiedono di
restare aperti all’ultimo assalto verso il nostro desiderio di unicità: il
multiverso.

La prospettiva cosmica deriva dalla conoscenza di base. Ma non è solo


l’insieme delle nostre conoscenze. È anche l’intuizione e la saggezza di
applicare queste conoscenze per stabilire il nostro posto nell’Universo. E i
suoi attributi sono chiari:

La prospettiva cosmica viene dalle frontiere della scienza, ma non è solo


appannaggio dello scienziato. Appartiene a tutti.
La prospettiva cosmica è umile.
La prospettiva cosmica è spirituale – persino redentiva – ma non religiosa.
La prospettiva cosmica ci permette di spiegare, mediante lo stesso concetto,
il grande e il piccolo.
La prospettiva cosmica apre le nostre menti a idee straordinarie ma non le
lascia aperte a tal punto che il nostro cervello fuoriesca e che iniziamo a
credere a qualunque cosa ci venga detta.
La prospettiva cosmica apre i nostri occhi e ci fa vedere l’Universo non
come una culla benevola progettata per far sviluppare la vita, ma come
un posto freddo, solitario e pericoloso che ci spinge a riconsiderare il
valore che ogni essere umano rappresenta per l’altro.
La prospettiva cosmica mostra che la Terra è un granello di polvere. Ma è
un prezioso granello di polvere, e per il momento è l’unica casa che
abbiamo.
La prospettiva cosmica coglie la bellezza nelle immagini dei pianeti, delle
lune, delle stelle e delle nebulose, ma celebra le leggi fisiche che danno
loro forma.
La prospettiva cosmica ci permette di vedere oltre la nostra particolare
condizione e andare al di là dei bisogni primari di cibo, riparo e
riproduzione.
La prospettiva cosmica ci ricorda che nello spazio, dove non c’è aria, una
bandiera non sventola – probabilmente un segno che l’esplorazione
spaziale e lo sventolio di bandiere non vanno d’accordo.
La prospettiva cosmica non comprende solo la nostra affinità genetica con
tutte le altre forme di vita sulla Terra, ma valorizza anche la nostra
affinità chimica con qualsiasi forma di vita ancora da scoprire
nell’Universo, così come la nostra affinità atomica con l’Universo stesso.

Almeno una volta a settimana, se non una volta al giorno, potremmo


chiederci quali verità cosmiche giacciono ancora nascoste davanti a noi,
aspettando forse l’arrivo di un geniale pensatore, un esperimento ingegnoso
o un’innovativa missione spaziale che le riveli. Potremmo anche chiederci
come queste scoperte trasformeranno un giorno la vita sulla Terra.
Senza questi interrogativi, non siamo diversi dal contadino che non
ritiene necessario spingersi oltre il confine comunale, perché ritiene che i
suoi venti ettari siano sufficienti per le sue esigenze. Ma se tutti i suoi
predecessori avessero fatto altrettanto, il contadino ora vivrebbe in una
caverna e si procurerebbe il cibo con bastone e pietra.
Durante il nostro breve soggiorno sul pianeta Terra, dobbiamo dare a noi
stessi e ai nostri discendenti la possibilità di esplorare. In parte perché è
divertente, ma c’è una ragione molto più nobile. Il giorno in cui la nostra
conoscenza del cosmo cesserà di avanzare, rischieremo di regredire alla
visione infantile in cui l’Universo gira metaforicamente e letteralmente
intorno a noi. In quel mondo desolato, popoli e Stati, armati e affamati di
risorse, tenderebbero ad agire in base ai loro meschini preconcetti. E quello
sarebbe l’ultimo rantolo della razionalità umana – fino al sorgere di una
nuova cultura visionaria che potrà ancora una volta abbracciare non la
paura, ma la prospettiva cosmica.

1. J. Ferguson, Astronomy Explained Upon Sir Isaac Newton’s Principles, and Made Easy to Those
who Have not Studied Mathematics, London 1757.
2. Passaporto per l’Universo è stato scritto da Ann Druyan e Steven Soter, che sono anche
coautori, insieme a me, della miniserie televisiva della Fox Cosmos: A SpaceTime Odyssey. Hanno
lavorato anche con Carl Sagan sulla miniserie originale del 1980 per la PBS: Cosmos: A Personal
Voyage.
3. Gruppo delle otto università private americane più prestigiose ed elitarie. [NdT]
4. Trasmissione televisiva educativa per bambini. [NdT]
5. L’algebra booleana è una branca della matematica che assegna i valori “falso” o “vero” alle sue
variabili, comunemente rappresentati con 0 e 1, ed è alla base del funzionamento dei computer.
Prende il nome dal matematico del Settecento George Boole.
RINGRAZIAMENTI

Nel corso degli anni in cui questi saggi sono stati scritti, i miei
infaticabili redattori letterari sono stati Ellen Goldensohn e Avis Lang della
rivista Natural History: entrambi si sono assicurati, in ogni momento, che io
dicessi ciò che intendevo e intendessi ciò che dicevo. Il mio redattore
scientifico è stato l’amico e collega di Princeton Robert Lupton, che ne
sapeva più di me su ogni argomento essenziale. Ringrazio anche Betty
Lerner per i suoi suggerimenti al manoscritto, che hanno sensibilmente
migliorato l’arco dei contenuti.

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