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Sociologia del Corpo

Introduzione
“Ha un chip nel braccio il primo cyberuomo. Quale sarà il futuro della razza umana?” “Per amore
partorirò mio nipote. Lei soffriva per la sterilità, l’ho aiutata”.
Titoli roboanti che si riferiscono ad applicazioni delle tecnologie biomediche nel campo dei
trapianti della riproduzione assistita. Dette applicazioni contribuiscono a ridefinire confini,
possibilità e limiti del corpo umano, sollevando nel contempo seri interrogativi sulle regole d’uso.
In questo libro si parla di tutti quei corpi (corpi delle tecnologie biomediche, della chirurgia estetica,
dell’anoressia, ecc.) come realtà oggettive socialmente prodotte e costruite. Per farlo, ci si avvale di
una consistente letteratura interdisciplinare improntata ai concetti di costruzione sociale del corpo,
di rappresentazione sociale del corpo e di politiche del corpo. Essa afferma che comportamenti,
morfologia e persino fisiologia dei corpi sono l’esito di un insieme di processi. Detti processi sono
in formati da rappresentazioni sociali del corpo, di suoi aspetti o di sue funzioni: rappresentazioni
quasi sempre implicite, parte delle quali costruite e diffuse sa attori sociali specializzati, che
esercitano una funzione normalizzatrice. I medesimi processi sono politici per il loro essere volti al
controllo della varietà sociale.
Il libro muove così tra l’osservazione di fenomeni relativi al corpo, la considerazione di alcuni dei
severi quesiti che essi pongono e il richiamo di concetti e di riferimenti teorici che consentono di
analizzare gli uni e gli altri. Parecchi riferimenti teorici non sono sociologici in senso stretto, ma
permettono di porre domande sociologiche alla realtà osservata (i corpi docili e l’anatomia politica
foucaultiani ad esempio). L’emergere di un interesse non frammentario per il corpo in sociologia
prende consistenza nella metà degli anni Ottanta del secolo scorso. Il contributo proveniente dalla
sociologia classica allo sviluppo del filone di studi che quei lavori aprono è considerato scarso o
nullo. Il formarsi di un interesse sistematico per il corpo e del corpus individuabile di conoscenze
che dagli anni indicati va sotto l’etichetta di sociologia del corpo ha condotto alla formulazione di
articolati elenchi dei fenomeni emergenti che l’avrebbero sollecitato. (Es. femminismo, movimenti
gay, AIDS, pornografia, ecc.). Il prendere forma della sociologia del corpo è ricondotto in tal modo
alle condizioni sociali e alla situazione storica delle società che l’hanno tenuta a battesimo, nascenti
somatic societies nelle quali il corpo è il principale campo di attività politica e culturale. Il testo
raccoglie stimoli teorici ed empirici provenienti da fonti diverse che convergono nell’indicare nel
corpo un possibile oggetto d’indagine sociologica, di contro ad una tradizione disciplinare che si è
costruita in parte proprio sulla negazione di questa possibilità.

Capitolo I: Corpo a corpo


Gravidanza: “Il medico distoglie lo sguardo dal monitor; si rivolge alla giovane donna stesa sul
lettino e con un sorriso rassicurante prosegue: “Il feto cresce bene. Guardi, questa è la testa…”.
Nascituro ed esperienza materna del grembo sono oggi qualcosa di diverso da quello che essi erano
duecento anni fa. La gravidanza è diventata verificabile; il grembo materno una zona di intervento,
di controllo ed assistenza; la donna incinta un sistema uterino per l’approvvigionamento del feto.
Per secoli, la gravidanza si è annunciata con certezza alla madre solo con il primo movimento del
bambino. L’esperienza del corpo è rimasta immutata sino a non molto tempo fa, orientata verso
un’attenzione di tipo tattile. Oggi, con i mezzi dell’ottica medica, la donna vede l’interno del
proprio corpo. Nasce, come lo ha efficacemente definito Barbara Duden, il feto pubblico. Il feto
come fatto pubblicamente attestato attraverso la mediazione professionale del corpo della donna il
luogo in cui si compie un processo esposto “allo sguardo della ricerca, delle autorità e della strada”,
“un terreno su cui è possibile vedere, intervenire, decidere”. Il feto pubblico “Generato” dai
laboratori costituisce secondo Duden un tipico objectum nostri temporis: costituisce cioè l’esito di
un processo attraverso il quale alcune idee sul corpo della donna si sono sviluppate fino a diventare
socialmente accettate. La ricostruzione che Duden fa della storia di una particolare condizione del
corpo (la gravidanza) è qui introdotta per la sua qualità esemplare di ricostruzione di un processo al
quale i sociologi sono soliti riferirsi con l’espressione costruzione sociale del corpo. Il processo è
guidato da rappresentazioni che orientano una molteplicità di pratiche anche routinarie relative ad
esso e che definiscono delle politiche del corpo. Di ciò si occupa il presente testo: di alcuni processi
e trasformazioni sociali che dei corpi contribuiscono a ridefinire cosa è interno e cosa è esterno,
cosa è appropriato e cosa no, cosa è lecito farne e cosa è invece illecito. La scelta dell’immagine che
apre il capitolo non è casuale. Essa intende introdurre alla riflessione femminista sul corpo, alla
quale va il merito di aver affermato due idee: che il corpo non è forma puramente naturale, e che
esso rappresenta un luogo in cui si inscrivono i rapporti prevalenti di dominio e di subordinazione.
Tale riflessione costituisce la via maestra al discorso sul corpo come luogo del potere; al corpo di
genere, ma anche al corpo di razza.

1.1 Corpi dal femminismo


Il femminismo ha dedicato attenzione al controllo dei corpi delle donne. L’impatto del femminismo
è stato considerato uno dei fattori che spiegano l’attuale tendenza della sociologia ad occuparsi del
corpo. Il femminismo introduce la metafora della politica del corpo. L’idea del corpo come sede di
lotta politica (cui intende rinviare il corpo a corpo del titolo del presente capitolo), l’idea che la
“definizione e l’adattamento del corpo siano il punto focale delle lotte per la forma di potere. La
nuova sociologia del corpo sovrastima la centralità della tematica corporea nel femminismo, dalla
quale, il femminismo si sarebbe allontanato introducendo la distinzione tra la corporeità materiale
del sesso e la socialità del genere per concentrarsi su quest’ultima. Le politiche del corpo in quanto
tali sarebbero state basilari nell’agenda del movimento sociale femminista. Dalla fine del Settecento
ad oggi, esistono alcune posizioni di fondo in tema di corpo.
La prima posizione individuata, quella del cosiddetto femminismo egualitario, distingue tra una
mente sessualmente neutrale ed un corpo sessualmente determinato. Sono i ruoli sessuali e in
particolare quelli riproduttivi, per le condizioni di fragilità e di vulnerabilità che inducono nel corpo
femminile, l’ostacolo all’uguaglianza. In questa prospettiva, è la biologia stessa a dover essere
modificata: con il rifiuto della maternità, o con il ricorso alle tecnologie, che consentono di
controllarla. L’assunto condiviso è quello di una maggior naturalità del corpo femminile rispetto a
quello maschile.
Il costruzionismo sociale, la seconda delle posizioni fondamentali individuate in materia di
femminismo e corpo, condivide con la prima una nozione di corpo come biologicamente
determinato, fisso e astorico, ma, anziché nell’essenza biologica stessa, individua l’origine
dell’oppressione delle donne nei modi in cui le società organizzano e danno significato ai cicli e alle
pratiche corporee femminili. Le ideologie costruiscono sugli attributi dell’uomo e della donna
riconducibili alle caratteristiche biologiche (il sesso) la mascolinità e la femminilità. Il
raggiungimento dell’eguaglianza passa attraverso la comprensione e la trasformazione dei modelli
di genere (per esempio, attraverso la riorganizzazione sociale della cura della prole). Nella
prospettiva in esame è fondamentale la distinzione tra il corpo biologico e il corpo come oggetto di
rappresentazione.
La terza posizione è quella della differenza sessuale. All’idea del corpo come oggetto naturale,
astorico e preculturale si sostituisce quella del corpo come oggetto inscindibilmente naturale e
culturale, e perciò il luogo del contrasto in una serie di conflitti di natura economica, politica,
sessuale, intellettuale. Il pensiero della differenza sessuale non trae però dall’irriducibilità reciproca
dei soggetti uomo e donna un particolare contenuto della femminilità.
Nell’oscillazione tra rivendicazioni di uguaglianza e affermazioni di differenza che caratterizza
l’intera storia del femminismo, non è facile ricondurre univocamente le posizioni individuate,
ciascuna delle quali internamente composita, al polo dell’uguaglianza o al polo della differenza. Dal
secondo viene di solito mossa al primo la critica di non attribuire nessun significato alle esperienze
dei corpi e alle differenze che da queste derivano; all’opposto, il secondo viene di consueto criticato
come sostanzialmente essenzialista. In realtà, il recente dibattito femminista sul significato della
differenza ha condotto a posizioni molto articolate. Due per tutte: in primo luogo, l’idea che la
stessa materialità del corpo sia creata da atti ripetuti e sedimentati in conformità a codici di
comportamento, da discorsi la cui storicità conferisce al linguaggio il potere di produrre le cose che
dice. In questa prospettiva, sarebbe il discorso dominante sul genere e sulla sessualità a produrre e
riprodurre il sistema dicotomico dei ruoli di genere e della sessualità. È, questa, una posizione
antiessenzialista, che fa della materialità del sesso una costruzione derivata da rapporti di potere.
Analogamente non essenzialista è l’esito del dibattito sulla differenza, identificabile nella
dissoluzione del concetto stesso che ha luogo quando l’enfasi è posta sulle differenze individuali tra
le donne. Essa rende di fatto privo di significato il femminismo stesso, rendendo impossibile
qualsiasi generalizzazione o rivendicazione politica da parte di un gruppo chiamato “Donne”. Per
quanto rapido, questo excursus tra i vari femminismi teorici dovrebbe aver reso chiaro che le
posizioni relative allo statuto attribuito alla differenza sessuale non costituiscono materia puramente
nominalistica.
Il femminismo è contemporaneamente agente ed esito di processi di costruzione sociale, nei quali
spiegazione e interpretazione della società e intervento sulla medesima interagiscono, danno origine
a nuove realtà e a nuovi modi di interpretare la realtà stessa. Nella sfera della sessualità e della
riproduzione vengono individuate le radici del predominio dei maschi, il fondamento del sistema
patriarcale come sistema di istituzioni create dagli uomini per il dominio sessuale sulle donne; sua
essenza è il rapporto sessuale come atto politico che fonda i rapporti di potere e di dominio. Il
movimento pone tra i suoi obiettivi estensione dei mezzi di contraccezione, legalizzazione
dell’aborto, istituzione di consultori femminili. L’epiteto di “Bra-Burners” (bruciatrici di
reggiseno), con cui le femministe presero ad essere indicate in seguito alla manifestazione
organizzata nel 1968 ad Atlantic City contro l’elezione di Miss America, ben rammenta il ruolo del
femminismo cosiddetto di “seconda ondata” nello sviluppo di una comprensione politica delle
pratiche corporee. A porre in modo radicale la questione della costruzione sociale dell’appartenenza
di sesso venne introdotta proprio in quegli anni la nozione di genere.
La neonata sociologia del corpo è riconducibile all’idea del “corpo femminile come un territorio
socialmente definito e storicamente colonizzato” che fu il cuore del discorso femminista dei tardi
anni Sessanta e degli anni Settanta. L’eredità teorica che alla sociologia del corpo viene dal
femminismo, è opportuno spendere qualche riga ancora sugli strumenti teorici che essa ha portato
con sé; in particolare, sul genere come categoria d’analisi. L’elaborazione del concetto di genere
risponde alla spinta intellettuale intesa ad assegnare il massimo peso a quanto vi è di socialmente
costruito nella disuguaglianza sessuale, a quanto vi è di non biologicamente dato nella relazione di
disparità tra uomini e donne; in altri termini, all’insieme dei processi, modalità di comportamenti e
di rapporti con i quali le società trasformano la sessualità biologica in prodotto dell’attività umana e
organizzano la divisione dei compiti tra uomini e donne. Nel richiamarsi all’elemento biologico, il
concetto di genere ne avrebbe infatti sminuita l’influenza.
Davvero il corpo per questa via scompare dalla teoria femminista, e da quante con essa condividono
un approccio costruzionista? Sì. E no. Sì: accade ogni volta che il termine genere assume il
significato opposto alla parola sesso, e quando i due indicano ambiti distinti. Il corpo è una costante,
il dato cui vengono sovrapposti tratti della personalità e del comportamento. No: se il termine
genere è utilizzato per indicare qualsiasi costruzione sociale relativa alla distinzione
maschio/femmina, comprese quelle costruzioni che separano il corpo femminile da corpo maschile.
In questo caso, il sesso rientra nella più vasta categoria del genere, e il corpo diventa una variabile
piuttosto che una costante. Accade così che tra le posizioni del costruzionismo sociale siano
rinvenibili dosi variabili di fondamentalismo (se non di determinismo) biologico, riconducibili
all’idea dell’esistenza di una comune base biologica di cui ogni società deve in qualche modo tener
conto quando formula la distinzione tra maschio e femmina. Il femminismo, introdotta la
distinzione tra corporeità materiale del sesso e la socialità del genere, scegliendo di occuparsi di
quest’ultimo avrebbe in realtà posto la tematica corporea in secondo piano. Avrebbe cioè trascurato
il problema di come le società costruiscono lo stesso corpo “naturale”.
Posizioni più genuinamente costruttiviste fanno invece del corpo “una precisa variabile storica a cui
vanno riconosciuti significati e valori potenzialmente diversi” (Nicholson 1994). Il riferimento a tali
parti, attività e capacità è mediato dalla nostra esistenza di esseri sociali ed agenti storici (non esiste
cioè la possibilità di un corpo pre-sociale); che il corpo sessuato comprende chiaramente una
dimensione biologica, ma che la biologia stessa necessita di essere riconcettualizzata come
materialità aperta, un insieme di tendenze e possibilità che possono essere sviluppate. I concetti di
costruzione sociale del corpo e di politica del corpo sono divenuti parte del patrimonio teorico e
delle prospettive analitiche delle scienze sociali. Si noti: non solo nella forma dell’analisi di come si
diventa donne, ma più in generale di come i modelli e i rapporti di genere diano forma alle modalità
storiche e locali di organizzazione sociale. Il dibattito teorico femminista fornito dadi e bulloni alla
cassetta degli attrezzi di quanti lavorano nel settore che va sotto il nome di sociologia del corpo. In
fondo, il prosieguo di questo libro può essere considerato una ricostruzione della provenienza degli
altri attrezzi della medesima cassetta. Veniamo ad alcuni dei corpi costruiti di cui si è occupata la
letteratura femminista.
Possiamo partire dalla riconcettualizzazione dei disturbi dell’alimentazione. Con quest’espressione
ci si riferisce a alterazioni del comportamento alimentare, comunemente note nelle fattispecie
dell’anoressia e della bulimia. Nell’affermare che l’anoressia e la bulimia come fenomeni sociali di
rilievo sono stati prodotti culturalmente, la prospettiva femminista non ha mai messo in discussione
la realtà del disturbo che si manifesta nell’anoressica, men che mai la profondità della sua
sofferenza. In luogo di considerare il suo corpo come materia inerte sulla quale si inscrive il
disturbo, però, lo descrive impegnato in un processo di produzione di significato, di “lavoro sul
corpo”. Secondo l’interpretazione prevalente, la cultura provoca, esaspera e attribuisce una forma
definita a una condizione patologica esistente. I disturbi del comportamento alimentare sono molto
più frequenti nella popolazione femminile. Essi rappresentano un fenomeno culturalmente e
storicamente situato; nelle società industriali avanzate degli ultimi cento anni circa.
In realtà nel disturbo sono cristallizzati molti strati di significato culturale. Tra tali significati, vi
sono 1) la promessa di un superamento della femminilità domestica e l’ammissione al mondo
pubblico; 2) il controllo simbolico e reale della fame della donna; 3) la ricircoscrizione simbolica
del posto limitato della donna nel mondo; 4) l’ideale allettante di un sé gestito e regolato, all’interno
di una cultura consumistica che ha reso profondamente problematica la gestione della fame e del
desiderio. Il rifiuto del cibo, la perdita di peso, l’esercizio fisico intenso e la capacità di sopportare il
dolore e l’esaurimento fisico sono divenute le metafore culturali dell’autodeterminazione, della
volontà e della fermezza morale. La cultura è descritta in questa prospettiva come il terreno
necessario al prosperare storico dei disturbi del comportamento alimentare; i disturbi del
comportamento alimentare non rappresentano un’aberrazione della cultura in cui si manifestano, ma
piuttosto un’espressione caratteristica. L’attrattiva del corpo longilineo e asciutto negli anni Ottanta
si spiegherebbe con il suo incarnare la negazione dell’appetito (di potere pubblico, di indipendenza,
ecc.) di una donna a cui la tradizione continua ad assegnare il ruolo di principale apportatrice di
nutrimento emotivo e fisico agli altri, e, insieme, i valori maschili (autocontrollo, determinazione,
freddezza, ecc.) della sfera professionale e pubblica alla quale la medesima ha avuto accesso. I
sintomi manifestati dalle anoressiche costituiscono una sorta di inconsapevole discorso politico, una
protesta (femminista) contro le regole che governano la costruzione della femminilità
contemporanea. L’approccio cultural-femminista allo studio dei disturbi del comportamento
alimentare ha contribuito alla definizione di un paradigma adottato da molti esperti. La cultura, e il
genere sessuale in particolare, rivestono in esso il ruolo di fattore primario nella produzione dei
disturbi del comportamento alimentare.
Passiamo ora alla critica sviluppata in ambito femminista in relazione alla Sindrome premestruale
negli ultimi anni si spiega con la prevalenza, in essa, di disturbi dell’umore dalle forme talvolta
severe e disabilitanti quando i sintomi interferiscono marcatamente con il lavoro, lo studio o con le
usuali attività sociali. Furono le femministe per prime a sollecitare la riflessione sul significato e
sulle potenziali conseguenze della concettualizzazione della Sindrome in termini di malattia per
tutte le donne. Negli anni Ottanta si osservò che la classificazione della Sindrome in termini di
disturbo mentale stigmatizza le donne; i cambiamenti psicologici associati ad una normale funzione
corporea dovrebbero anch’essi essere considerati normali. La questione tornò a sollecitare la
riflessione sulla costruzione sociale della malattia mentale. Il destino della Sindrome premestruale
è stato di recente sottoposto al voto dell’assemblea legislativa dell’APA. È in ultimo un processo
essenzialmente politico a decidere in merito alla legittimità della sua diagnosi in termini di malattia
mentale. La riflessione sulla concettualizzazione della medesima Sindrome si è sviluppata anche
all’esterno della comunità degli psichiatri, ad opera soprattutto di antropologi e di femministe.
Il modello cui essa ha messo capo si fonda su alcune semplici osservazioni. Prima: quella
premestruale esiste unicamente nelle società industriali occidentali. Seconda: come risulta dalle
ricerche transculturali, l’esperienza e il comportamento delle donne sono modellati dall’esposizione
alla letteratura medica e popolare sulla Sindrome premestruale. Cosa significa, dunque, affermare
che la Sindrome premestruale è una costruzione sociale? Per la comprensione della Sindrome
premestruale e della sua diffusione è fondamentale analizzarne significato culturale e funzione
sociale. Ci riferiamo qui a due varianti del modello cultural-femminista della Sindrome, nella
sostanza accomunate dall’idea che essa costituisca uno degli esiti della progressiva
medicalizzazione del corpo e del comportamento femminile.
1) La prima spiega l’elevata diffusione di manifestazioni della Sindrome come effetto
combinato di un atteggiamento negativo nei confronti delle mestruazioni, alimentato dai
media e da interessi politici ed economici, e del conflitto tra ruoli femminili produttivi e
ruoli femminili riproduttivi. La Sindrome rappresenterebbe il modo appreso e socialmente
approvato di esprimere la frustrazione generata dalla vita sociale delle donne.
2) La seconda individua nell’organizzazione del lavoro delle società industriali la causa
dell’etichettamento nei termini di malattia della riduzione di efficienza che può verificarsi
nel periodo premestruale.
Gli effetti disabilitanti delle mestruazioni e il loro costo per le economie nazionali sono cresciuti
con regolarità nei periodi postbellici. L’esplosione di interesse per la Sindrome che si ebbe tra la
metà e la fine degli anni Settanta è stata letta come risposta alle conquiste del femminismo di
seconda ondata, una delle “manovre progettate per far fare ritorno alle donne nelle loro case”.
Spostare l’attenzione dai sintomi della Sindrome all’ambiente sociale in cui essi si manifestano,
conduce ad interrogarsi sui motivi per i quali alla riduzione del controllo emotivo che caratterizza il
periodo premestruale corrisponda spesso, nelle donne delle società anglo-americane, un profondo
sentimento di rabbia estrema. Un’invensione completa di segno rispetto all’interpretazione
biomedica della Sindrome e dei suoi effetti, il modello in esame propone della prima e dei secondi
una lettura che ne fa un’opportunità per la donna di attingere a riserve latenti di emozione, di
comprensione e di creatività. Sarebbero gli stessi effetti solitamente classificati come disabilitanti a
consentirne l’aumento di cui riferisce la letteratura clinica sulla Sindrome. Non meno interessanti si
rivelano le letture femministe del business della chirurgia estetica e della nascita dei movimenti
antiabortisti e per i diritti del feto. L’idea che la crescente pressione sociale sulle donne a che
mantengano un certo aspetto, il tentativo di definirle malate alcuni giorni al mese e l’anteposizione
dei diritti fetali ai loro costituiscano una reazione all’affermazione del movimento femminista
contemporaneo che costituiscano cioè dei processi attraverso i quali modelli e rappresentazioni
tradizionali del ruolo della donna, e della distribuzione del potere tra uomini e donne, si inscrivono
nel corpo di queste ultime; politiche del corpo, insomma. Perché occuparsene? Perché i modelli e le
rappresentazioni sociali da cui tali politiche sono orientate, e che tali politiche veicolano e
contribuiscono a diffondere, convenzionalizzano persone ed eventi, e si impongono con forza.
Cristallizzate in azioni ripetute frequentemente secondo schemi fissi, la resistenza di una realtà
completa e data, umanamente prodotta e costruita.

1.2 Corpi docili


Rimane da comprendere il “come” delle politiche del corpo. Giacché se è vero che esse agiscono
nel senso della normalizzazione e della omogeneizzazione, è altrettanto vero che nessuna donna in
gravidanza verrà condotta contro la sua volontà ad effettuare le ecografie di routine o costretta a
tralasciare le attività usuali per qualche giorno al mese, ogni mese. Le donne scelgono di sottoporsi
a controlli prenatali, a trattamenti farmacologici periodici di vario tipo; partecipano cioè attivamente
alla riproduzione della cultura della società a cui appartengono (cultura sessista) non di rado
considerandosi in questo femministe (donne “che hanno preso in mano la propria vita”.
Disegneremo lo schema dell’ “investimento politico e dettagliato del corpo” di “una anatomia
politica”, di una “meccanica” o “microfisica del potere”. Parleremo dunque ancora di politiche del
corpo, di corpi come luogo del potere. È a partire dal XVII secolo che, secondo Foucault, il potere
si sarebbe dato la funzione di gestire la vita, organizzandosi a tal fine intorno a due poli: quello di
una anatomo-politica del corpo umano, e quello di una bio-politica della popolazione.
L’anatomo-politica prese forma dall’applicazione dei meccanismi di potere al corpo umano in
quanto macchina, attraverso metodi – i cosiddetti regimi disciplinari all’opera nelle scuole, negli
ospedali, nelle caserme – volti a garantirne il dressage, il potenziamento delle attitudini, l’estorsione
delle forze, la crescita dell’utilità. Verso la metà del XVIII secolo, una serie di interventi e di
controlli regolatori sul corpo-specie – operazioni politiche, interventi economici e campagne
ideologiche in tema di natalità, di longevità, di salute pubblica, di habitat e di migrazione – diedero
origine alla bio-politica della popolazione. Anatomo-politica o bio-politica costituiscono gli assi
lungo i quali andò sviluppandosi la tecnologia politica della vita, una grande tecnologia a due facce
che si articola in una serie di tecniche diverse e numerose per ottenere la subordinazione dei corpi e
il controllo delle popolazioni. Si apre così l’era di un “bio-potere”.
A partire di qui si moltiplicheranno le tecnologie politiche che investono il corpo, la salute, le
modalità di nutrirsi e di abitare, le condizioni di vita, l’intero spazio dell’esistenza. E si
moltiplicheranno i meccanismi di potere. Tali meccanismi di potere sono “sottili e mobili” e sono
all’azione nella molteplicità dei rapporti di forza che si formano ed operano negli apparati di
produzione, nelle famiglie, nei gruppi ristretti, nelle istituzioni. Il biopotere è per Foucault un
potere-senza-il-re. Esso proviene cioè dal basso; si produce in ogni istante. Il potere-senza-il-re si
esercita positivamente sulla vita, incomincia a gestirla, a potenziarla, a moltiplicarla, ad esercitare
su di essa controlli precisi e regolazioni d’insieme. Da quanto? Dal XVII-XVIII secolo. A che fine?
Per ottenerne prestazioni produttive. Il bio-potere ha rappresentato uno degli elementi indispensabili
allo sviluppo del capitalismo, che si sarebbe consolidato a prezzo dell’inserimento controllato dei
corpi nell’apparato di produzione, e del rafforzamento dei medesimi corpi, della loro utilizzabilità e
della loro docilità.
Foucault riconosce che molte delle forme del potere di sovranità perdurano; ma fa osservare che
meccanismi di potere nuovi le hanno penetrate, e ci invita a cercarli nella vita quotidiana, nei
rapporti tra i sessi, nelle famiglie, tra i malati di mente e le persone ragionevoli, tra i malati e i
medici, dove si verificano “delle vere e proprie inflazioni di potere”. “Lo Stato è sovrastrutturale in
rapporto a tutt’una serie di reti di potere che passano attraverso i corpi, la sessualità, la famiglia, gli
atteggiamenti, le tecniche, ecc.”. Veniamo ora ai meccanismi di potere che si sono occupati degli
uomini come corpi viventi: Foucault individua due tipi di politiche del corpo: quelle dei regimi
disciplinari, e quelle sessuali. Alle prime Foucault giunge ricostruendo i modi in cui il modello
coercitivo corporale si affermò nella seconda metà del secolo XVIII. La riforma del codice penale
che lo introdusse trasformò il corpo del condannato in un bene sociale, nell’oggetto di una
appropriazione collettiva ed utile, facendo del medesimo corpo, il punto di applicazione della pena.
La riforma penale mise capo ad una “Nuova politica del corpo”. Un insieme di regolamenti militari,
scolastici, ospedalieri e di processi empirici e ponderati per controllare o correggere le operazioni
del corpo. In quegli anni, a mutare furono la scala, l’oggetto e le modalità del controllo, che ne
fecero dei metodi che permettono il controllo minuzioso delle operazioni del corpo, che assicurano
l’assoggettamento costante delle sue forze ed impongono loro un rapporto di docilità-utilità. La
coercizione viene ad esercitarsi, per ciò che concerne la scala; per ciò che concerne l’oggetto, al
livello dell’economia e dell’efficacia dei movimenti. Tali discipline aumentano le forze del corpo
(in termini economici di utilità) e diminuiscono queste stesse forze (in termini politici di
obbedienza).
Sono anche dette “Schemi di docilità” e “Docile” è definito da Foucault il corpo che può per loro
tramite essere sottomesso, utilizzato, trasformato e perfezionato. Come tecniche per assicurare la
regolamentazione delle molteplicità umane, le discipline rappresentarono la risposta alla
congiuntura storica che si determinò per effetto della grande spinta demografica del secolo XVIII e
della crescita dell’apparato produttivo. Disposizioni sottili intervennero via via a disciplinare le
molteplicità della popolazione scolastica, della popolazione ospedalizzata, della popolazione
militare: costruirono cioè i loro corpi, ripartendoli nello spazio, codificandone e mettendone in serie
le attività, componendo le loro forze.
Tali tecniche circolarono più o meno velocemente e finirono per disegnare lo schema di un metodo
generale, una “Nuova microfisica del potere”. Qualche esempio. I collegi, le caserme e i grandi
spazi manifatturieri delimitano spazi in sé omogenei e chiusi; al loro interno, ad ogni individuo il
suo posto. Nell’insegnamento elementare, l’organizzazione di uno spazio seriale attraverso
l’assegnazione di posti individuali rese possibile il controllo di ciascuno ed il lavoro simultaneo di
tutti; fece funzionare lo spazio scolare come una macchina per apprendere, ma anche per
sorvegliare, gerarchizzare, ricompensare. La punizione come tecnica di addestramento del corpo
(attraverso orari, attività regolari, lavoro in comune, silenzio, ecc. è considerata da Foucault una
bio-politica nella sostanza analoga a quelle dei micropoteri che si esercitano a livello del
quotidiano.
Veniamo ora ad altri micropoteri: parlando di politiche sessuali. A renderle interessanti è la loro
collocazione all’incrocio tra le discipline del corpo e la regolazione delle popolazioni; dalla loro
connessione concreta prende forma quella che Foucault chiama “la grande tecnologia del potere”
del XIX secolo, di cui è parte centrale la tecnologia del sesso (o dispositivo di sessualità). Il sesso
svela le “tecniche polimorfe” attraverso le quali il potere arriva a regolare i comportamenti
individuali più minuti. La sessualità è un punto di passaggio particolarmente denso per le relazioni
di potere. Le politiche cui tale forma di potere mette capo disegnano a proposito del sesso dei
dispositivi specifici di sapere e di potere ben individuabili a partire dal XVIII secolo; i principali
sono l’isterizzazione del corpo della donna, la pedagogizzazione del sesso del bambino, la
socializzazione delle condotte procreatrici e la psichiatrizzazione del piacere perverso. Ciascuno di
detti dispositivi è una politica del corpo nel senso in cui abbiamo inteso l’espressione in questo
testo, guidata da rappresentazioni del corpo, attraverso le quali il corpo è socialmente definito e
storicamente colonizzato. Sono corpi socialmente costruiti quelli dei bambini di cui negli stessi
decenni si prende a controllare un’attività sessuale considerata illecita e pericolosa. Sono
storicamente colonizzati i corpi la cui fecondità nel periodo indicato sempre più frequentemente è
incitata o frenata da misure fiscali, politiche o mediche.
Queste politiche combinano disciplina del corpo e regolazione delle popolazioni; nell’insieme
danno vita ad una tecnologia del sesso “completamente nuova” perché sfugge nell’essenza
all’istituzione ecclesiastica e si sviluppa lungo gli assi della medicina, della pedagogia e della
demografia. Quello sviluppato da Foucault non è un discorso sul rapporto tra la sessualità come
dato naturale ed il potere che cercherebbe di domarla; è la ricostruzione della “produzione stessa
della sessualità”. Il sesso viene in questa prospettiva a rappresentare l’elemento speculativo creato
dalla sessualità in quanto dispositivo storico e politico, “figura storica ben reale”. Il discorso
sviluppato sin qui rende indispensabile un richiamo ad altre tecniche del corpo. Esse constano nei
modi in cui gli uomini si servono uniformandosi alla tradizione, del loro corpo”. Vissute come atti
di ordine meccanico dall’individuo che usa il proprio corpo come primo e più naturale strumento,
esse prendono in realtà forma da “montaggi fisio-psico-sociologici di serie di atti” appresi con
l’educazione. Rientrano tra queste le tecniche del sonno, del movimento, delle cure del corpo, della
riproduzione. Sono corpi che diremmo disciplinari. Così li definisce un convincente tentativo di
classificazione delle modalità del corpo come costrutto sociale. Dietro essi sta sempre un modello di
corpo corretto, e corpi da correggere. Notiamo che nella stessa classificazione quello disciplinato è
un sottotipo del cosiddetto corpo indotto; il quale a sua volta costituisce un sottotipo del corpo
suddito. Quest’ultimo, definisce i tipi fondamentali del corpo del potere (o politico), con esso
intendendosi il corpo plasmato dai rapporti sociali di potere e dalle connesse relazioni psicologiche
di assoggettamento”.
Sono tecniche del corpo pure quelle analizzate da Nobert Elias nella sua ricostruzione della vita di
corte come luogo in cui prendono forma tecniche di autocontrollo e autodisciplina degli impulsi
spontanei, destinate poi a diffondersi alla società circostante. Per loro tramite si è realizzato quello
“spostamento in avanti della soglia del pudore e della ripugnanza” cui comunemente ci si riferisce
con il termine di civilizzazione, che l’autore mette in relazione con mutamenti strutturali dell’intera
società.
Il movimento di civilizzazione è descritto da Elias come “privatizzazione” di tutte le funzioni
corporali ed una “loro riduzione a determinati settori chiusi”; al che consegue una separazione
sempre più netta tra sfera intima e sfera pubblica della vita dell’uomo. Sovrani, potere e corpi
obbligano ad un ultimo riferimento. Pensiamo alla scissione in due corpi del corpo del re. Solo la
morte consente la separazione dei “due corpi del re”, e la sopravvivenza del Re alla scomparsa del
re. In tema di densità delle funzioni sociali assolte dal corpo (naturale del) sovrano, è necessario
garantirne la continuità nella forma di un super corpo che al corpo naturale sopravvive e che può
essere trasferito da un corpo naturale all’altro. L’esserci occupati di biopotere ci consente ora di
guardare alle politiche del corpo come a pratiche disciplinari. Esse producono e normalizzano i
corpi, rendendoli funzionali ai rapporti di dominio e di subordinazione; senza armi, senza violenza
fisica, senza costrizioni materiali. Tale prospettiva si è rivelata particolarmente feconda nell’analisi
della femminilità e della mascolinità, ed ha fornito utili strumenti a molta parte del pensiero
femminista per la comprensione delle relazioni di potere che hanno luogo in assenza di repressione
e coercizione fisica (in assenza del re, foucaultianamente parlando). Ci limitiamo a segnalare
l’esistenza di una querelle che separa quanti assegnano tale primato a Foucault da quanti lo
assegnano al femminismo. Il primo come il secondo ci restituiscono una ricostruzione del corpo a
corpo che nel corpo di ciascuno di noi ha luogo, dal quale non può prescindere una riflessione
sociologica sul corpo.

Capitolo II: Da un corpo all’altro


La morte del soggetto dovrà essere accertata da un collegio medico convocato dalla direzione
sanitaria e composto da un medico legale, da un anestesista- rianimatore e da un neurofisiopatologo
attraverso la rilevazione delle condizioni per almeno tre volte, all’inizio, alla metà e alla fine di un
successivo periodo di osservazione non inferiore alle sei ore. A quel punto, salvo che il soggetto
abbia esplicitamente negato in vita il proprio assenso, ai termini della legge italiana sarà consentito
procedere al prelievo di tessuti e all’espianto di organi dal suo corpo a scopo di trapianto
terapeutico. Dalla fine degli anni Sessanta si è sviluppato un dibattito in relazione alla definizione di
morte, e che ha visto i testi legislativi di molti paesi unificare i molteplici criteri di accertamento
della morte nel segno della morte cerebrale. È opportuno chiarire subito che tale dibattito verte sulla
morte dell’individuo umano, la cosiddetta morte clinica, in quanto tale distinta dalla morte
dell’intero organismo umano rappresentata dalla morte assoluta, o biologica. Le legislazioni che
hanno riconosciuto nella morte cerebrale il criterio necessario è sufficiente per la diagnosi di morte
fanno della morte dell’encefalo, la morte dell’individuo.
È indubbio che si debba all’avvento delle tecniche della “grande rianimazione” l’avvio della
discussione sulla definizione di morte. Le tecniche della rianimazione hanno messo in discussione
l’idea che la morte clinica coincida con l’arresto cardiaco. Gli interrogativi derivanti (es. se possa
continuare ad identificarsi la morte con la cessazione delle funzioni respiratoria e cardiocircolatoria)
hanno assunto urgenza ed importanza pratica immediata in seguito all’affermarsi della tecnologia
dei trapianti di organi. Non si muore dunque come si è sempre morti, e la morte ha una storia. Che è
la storia anche dei modi in cui ogni società ha prodotto definizioni di morte e modalità per il suo
accertamento. Concordare con le affermazioni secondo le quali la morte è una e certa non
impedisce di riflettere sul fatto che al cadavere della scena di apertura potrebbe accadere di essere
mantenuto in una condizione che secondo la vecchia definizione sarebbe stata “vita” per poter
attingere ai suoi organi e ai suoi tessuti nelle condizioni ideali che prima avremmo chiamato stato di
“Vivisezione”.
I progressi della scienza medica hanno contribuito a migliorare la capacità di riconoscere con
certezza il momento della morte. Le tecniche della terapia intensiva avrebbero condotto alla
“scoperta” della morte cerebrale. Confligge con il presupposto realistico implicito nell’affermazione
non solo l’osservazione empirica che i criteri clinici per stabilire quand’è che la morte può dirsi
intervenuta sono andati variando nel tempo; ma pure la constatazione che, allo stato della scienza
medica, sono di fatto state “scoperte” altre morti: quella troncoencefalica e quella corticale.
Nella sua base ovviamente naturalistica, la definizione di morte è convenzionale, fondata sulle
acquisizioni della medicina e su elementi che da questa esulano e che hanno a che vedere con la
cultura più ampia di una società. Che in alcuni paesi la morte cerebrale non sia accettata come causa
di morte è un dato da spiegarsi con il riferimento al complesso di valori delle culture di riferimento,
eventualmente espressi dal legislatore nella funzione interpretatrice e garantista dei medesimi
valori. In molte associazioni attive in questo senso (in questi paesi) vi è un dibattito ampio ed
animato che problematizza il consenso a favore della morte cerebrale. Sostenere che la morte è
costruita culturalmente non significa certo affermare che se le società non avessero fornito
categorie e lessico per pensarla, saremmo immortali. Vuol dire riconoscere che di fronte alla gamma
di situazioni in cui si articola il passaggio dalla vita alla morte assoluta ed alla varietà delle possibili
definizioni di morte, cosa significhi essere morto è collegato alla società storica di riferimento o che
la società è un elemento costitutivo dello stesso sapere scientifico. Accade così che la domanda
“quando il soggetto diventa cadavere?” possa trovare risposte diverse in culture diverse. Guardare
alla genesi sociale del sapere ben illumina certe preferenze espresse nel mondo della cardiochirurgia
per una definizione di morte corticale.
Siamo ora pronti a ricostruire il capitolo della sociologia del corpo scritto dalla medicina. Tale
ricostruzione privilegerà in misura crescente l’osservazione di fenomeni concreti, dei quali i
concetti e i riferimenti teorici sin qui richiamati consentono la selezione e l’esame di aspetti
specifici.

2.1 Corpi della medicina


La medicina costituisce cioè una delle principali fonti di costruzione delle rappresentazioni sociali
del corpo, oltre che, del corpo stesso. Non ci riferiremo alla sociologia della medicina se non per
ricostruirne gli sviluppi più recenti che proprio con simile impostazione segnano una netta
discontinuità. Questi sviluppi, che vanno generalmente sotto l’etichetta di sociologia della salute,
fanno dell’analisi dei modi in cui fattori culturali e strutturali e relazioni di potere in-formano i
nostri corpi e la maniera in cui li percepiamo. Nella diversità degli orientamenti, gli studi di
sociologia della salute sono accomunati dal considerare gli aspetti sociali della salute/malattia
costitutivi dei processi e delle condizioni che definiscono lo “stare bene” o lo “stare male”. La
ricostruzione della sua storia ne fa una specializzazione della sociologia di sviluppo ed
istituzionalizzazione risalente agli anni Sessanta. Diversamente, una ricostruzione fondata sui lavori
di Foucault riconduce le origini della sociologia alle pratiche mediche dell’Ottocento, considerando
la prima come la seconda forme di sapere emerse in risposta ai problemi di controllo politico e di
sorveglianza sociale generati dalla pressione della popolazione nelle città industriali di quel secolo.
Foucault considera la nascita della medicina moderna il fondamento metodologico e, per il suo fare
dell’uomo un oggetto di sapere positivo, ontologico per la costituzione delle scienze umane tutte.
Sociologia compresa. Le investigazioni cliniche e le indagini sociali sulla malattia come forma di
devianza connetterebbero sociologia e medicina, collocando le origini della sociologia nella
medicina francese post-rivoluzione e rendendo difficile pensare la sociologia della medicina come
mera specializzazione marginale della disciplina generale.
Il modello biomedico occidentale esclude le dimensioni sociali, psicologiche e comportamentali
della malattia (riduzionismo fisico), e quella ad essa correlata che considera ogni malattia come
causata da uno specifico agente, potenzialmente identificabile (dottrina dell’eziologia specifica).
Esse contribuiscono alla critica di alcuni tratti fondamentali del cosiddetto modello medico della
malattia, e alla costruzione di uno sociologo della medesima. Siffatte acquisizioni sono tuttavia state
criticate per l’impianto positivistico di riferimento e per la sottovalutazione della mediazione
simbolica e storica del sociale insito nei fenomeni di salute/malattia e di cura. È con lo sviluppo
della sociologia della salute, negli anni Settanta, che si deve la focalizzazione dell’analisi
sociologica sui processi di costruzione sociale della salute e della malattia. Ciò costituirebbe un
effetto dello sviluppo del settore di ricerca che va sotto l’etichetta di sociologia del corpo.
Veniamo ai corpi della medicina. Di essi, ai più celebri: i corpi delle cosiddette tecnologie
biomediche (trapianti, clonazione, ecc.) Cosa li accomuna? Il fatto di costruire il punto di
applicazione dell’impiego coordinato di tecniche operative diverse (chimiche, biochimiche,
microbiologiche, genetiche, informatiche ed impiantistiche). Meno banalmente, il costruire
l’oggetto di una serie di processi di ridefinizione di confini, limiti, possibilità. Il ricorso alla
tecnologia dei trapianti che le diagnosi precoci di morte formulate sulla sua base consentono, rende
possibile immaginare di sopravvivere a se stessi. Con tale possibilità di immaginazione deve avere a
che fare la scelta di dichiarare la volontà alla donazione dei proprio organi dopo la morte, o il
consenso ad essa espresso dai familiari di un potenziale donatore. Mutano pure confini, limiti e
possibilità del corpo del destinatario del trapianto; talvolta a guadagnarne è la qualità della sua vita,
più spesso la sua stessa possibilità di permanenza in vita. Il tesserino per la manifestazione di
volontà alla donazione dei propri organi dopo la morte che i cittadini italiani si sono visti recapitare
insieme ai certificati referendari del 21 maggio 2000 li ha costretti a disseppellire dalla loro mente i
modi in cui essi si rappresentano la vita e la morte, la sopravvivenza e l’identità propria e altrui. I
17,6 donatori per milione di abitanti che collocavano a metà del 2003 il nostro Paese davanti a
Norvegia, Regno Unito, Germania, ecc. nelle statistiche europee delle donazioni da cadavere
possono essere considerati un indicatore della penetrazione di tali rappresentazioni mentali.
Contribuiscono a mutare le nostre rappresentazioni del corpo, dei suoi limiti e possibilità pure le
tecnologie della riproduzione assistita (o artificiale) L’espressione è usata per indicare una grande
varietà di metodi di intervento accomunati dalla sostituzione di una parte del processo riproduttivo
naturale con operazioni tecniche, intese a facilitare la fecondazione in vivo oppure in vitro, vale a
dire nel corpo della donna o al di fuori di essa. Con esse ciascuno di noi ha familiarizzato in tempi
recenti leggendo di banche dei geni (banche dello sperma) e di bambini nati alcuni anni dopo la
morte del padre, o della madre. Tali notizie ci parlano di criocongelamento di gameti; di uteri in
affitto di madri surrogate; di fecondazione intra o extracorporea. L’esistenza delle tecnologie della
riproduzione assistita ha potenzialmente concorso a ristrutturare i nostri concetti di riproduzione,
maternità e paternità, e del loro legame con il corpo. Grazie ad esse, è possibile che nell’atto della
riproduzione intervengano sino a cinque individui in luogo di due; è possibile che la riproduzione
avvenga a periodo fertile concluso, in condizioni di infertilità o di sterilità, financo post mortem.
Problemi correlati: esempio, disconoscimento di paternità per impotentia generandi, rivendicazioni
di madri di sostituzione, ecc.  è intervenuto nel 1995 con un codice di autoregolamentazione nel
nostro Paese l’Ordine dei Medici. Sempre nel nostro Paese, governi diversi hanno tentato per anni
di disciplinare la riproduzione assistita. L’obiettivo è chiaro: la normalizzazione delle funzioni
riproduttive sostenute medicalmente. Ogni proposta di legge incorpora infatti specifiche
rappresentazioni del corpo: di quello dell’uomo, di quello della donna e delle loro funzioni
riproduttive. Gli articoli che di ciascuna legge disciplinano l’accesso alle tecniche e stabiliscono i
requisiti soggettivi per l’accesso consentono il ricorso alla pro-creazione medicalmente assistita
solo al fine di favorire la soluzione dei problemi riproduttivi derivanti da sterilità o da infertilità,
vietano il ricorso a tecniche di tipo eterologo e consentono l’accesso alle tecniche in via esclusiva a
coppie di sesso diverso, coniugate o conviventi, in età potenzialmente fertile, entrambi in vita. Tra
le altre, in tema di tutela dell’embrione, il disegno di legge in oggetto fa divieto di ogni forma di
selezione a scopo eugenetico degli embrioni e dei gameti e di interventi di clonazione; vieta la
crioconservazione e la soppressione degli embrioni, e l’applicazione delle tecniche alla produzione
di un numero di embrioni superiore a quello strettamente necessario ad un unico impianto; proibisce
altresì la riduzione embrionaria di gravidanze plurime. Del discorso sviluppato a noi interessa
quest’aspetto: indipendentemente dal numero e dal contenuto degli emendamenti che verranno
accolti, quella legge incorporerà una serie di rappresentazioni del corpo costruite sotto la
sollecitazione e nell’interesse di gruppi più o meno ampi e più o meno in grado di determinare
l’agenda politica.
Tali rappresentazioni si troveranno ad interagire con quelle diffuse nella nostra società, alla cui
costruzione, trasmissione e consolidamento hanno contribuito tra gli altri stampa, radio, tv ecc. In
materia di tecnologie della riproduzione assistita è stato fatto rilevare che queste mettono in
discussione il legame biologico e sovvertono l’ordine familiare tradizionale, essendo nel contempo
proprio sull’idea del legame di sangue tra genitori e figli costruite. Le tecnologie della riproduzione
assistita andrebbero ad intaccare la dimensione sociale della genitorialità, a vantaggio dei significati
biologici e corporei in quanto portatori di ogni legittimazione del ruolo genitoriale. Alcuni studi
hanno mostrato come la stessa tematizzazione recente della sterilità nei termini di un problema
medico risolvibile attraverso la riproduzione artificiale costituisca una costruzione sociale, che
riformula costruzioni culturali millenarie sul medesimo oggetto (la sterilità come responsabilità a
carico del corpo femminile discendente da qualche oscura colpa, spesso intesa come maledizione
divina) e ne sospinge altre all’orizzonte delle pratiche e delle rappresentazioni sociali.
Lo sviluppo della ricerca sulla riproduzione assistita ripropone il tema del dualismo delle politiche
della salute che divide il Nord dal Sud del mondo. Tali argomenti hanno trovato ampio spazio nel
pensiero femminista, al cui interno si è sviluppato un vivace dibattito in relazione alle tecnologie
della riproduzione tra chi vi scorge un mezzo di oppressione e chi invece uno di liberazione per le
donne. Dalla prima delle due prospettive si denunciano delle tecnologie della riproduzione assistita
l’ideologia pronatalista, gli effetti di espropriazione della capacità riproduttiva. Dalla seconda si
sottolineano gli effetti alienanti ed oppressivi delle funzioni riproduttive, e la possibile
emancipazione da queste ultime consentita dalle tecnologie della riproduzione assistita. È chiaro
che le due prospettive rinviano al più ampio dibattito femminista su scienza e tecnologia e alle
collegate rappresentazioni della relazione tra queste ultime e il corpo. Ulteriori spunti di riflessione
in tema di costruzione medica dei corpi vengono dalla combinazione delle tecnologie della
riproduzione artificiale con le biotecnologie molecolari, tecnologie che consentono l’analisi e la
manipolazione delle grosse molecole biologiche. È stato valutato che la loro applicazione riduce di
almeno il 90% il trasferimento in utero di embrioni affetti da patologie trasmissibili o il
trasferimento nell’utero di embrioni non in grado di impiantarsi. Gradi diversi di apertura
all’utilizzo delle tecniche citate si traducono in gradi diversi di normalizzazione biologica. Nella
forma delle applicazioni della terapia genica, le biotecnologie molecolari aggiungono all’idea della
decodificazione del corpo quella della sua riprogrammabilità. Non sono attualmente realtà né la
sostituzione del gene difettoso in un cromosoma, né l’alterazione genetica di cellule della linea
germinale; sono però realizzabili interventi compensativi. E sono allo studio i modi di far interagire
terapia genica somatica e clonazione per correggere una condizione patologica con effetti sulle
generazioni future.
A proposito di clonazione. Annunci più o meno fondati di esperimenti riusciti di clonazione umana,
nulla osta ai medesimi interventi hanno pure essi negli ultimi anni contribuito a modificare alcune
nostre rappresentazioni dell’identità personale quale espressione anche di un’unicità biologica. Il
fenomeno della clonazione è stato recentemente riprodotto in vitro, con gravidanze a termine
ottenute a partire da cellule embrionali e da cellule. Abbiamo parlato di corpi riparabili,
riprogrammabili, duplicabili. Alcune delle applicazioni descritte sono solamente allo studio. Esse
permettono solo di intervenire a ristrutturare e innovare le situazioni che confrontano un individuo:
in maniera diretta, per l’oggettiva trasformazione che le tecnologie biomediche vi introducono, e
mediaticamente, per la modificazione e l’innovazione che esse inducono nelle rappresentazioni
mentali che orientano l’attore nel nuovo orizzonte di scelte. A trasformarsi sono i modi in cui ci
immaginiamo la sopravvivenza, l’identità nostra e altrui, la riproduzione e, per loro tramite, il
nostro stesso corpo.
Le tecnologie biomediche agiscono in maniera eclatante nella medesima direzione in cui fa la
medicina in generale. Ci si riferisce spesso con l’espressione medicalizzazione del corpo,
intendendo la progressiva estensione del dominio, dell’influenza o della supervisione della medicina
su fasi ed aspetti della vita dell’uomo. Si parla oggi di medicalizzazione dell’età anziana, della
menopausa, della pianificazione familiare, ecc. Sugli effetti del monopolio medico sulla cura della
salute scrisse pagine divenute famose Ivan Illich, egli sostenne che la tutela istituzionale della salute
preventiva, curativa o ambientale che sia – equivale, oltre una certa intensità, a una negazione
sistematica della salute, e diventa anzi patogena (l’autore definì iatrogena òa patologia che
comprende tutte le condizioni cliniche i cui agenti che provocano il male sono i farmaci, i medici,
gli spedali). In questo senso la medicina funziona come una delle principali fonti di costruzione del
corpo e delle sue rappresentazioni. L’oggettivazione nel linguaggio medico e l’istituzionalizzazione
nelle pratiche mediche dominanti contribuisce a far perdere la natura umanamente prodotta e
costruita.
Detto altrimenti, la medicina medicalizza la realtà. Assunti valutativi, descrittivi, esplicativi e di
classificazione sociale. Essi stabiliscono quali funzioni, dolori e alterazioni siano normali; come si
debbano formulare le descrizioni; il genere di modelli da utilizzare per la spiegazione. Infine,
collocano il paziente in un contesto sociale caratterizzato da un insieme di aspettative sociali
riconosciute. In tale lavoro di produzione di immagini del corpo e di costruzione della realtà, la
medicina non è sola; l’affiancano sempre più spesso il diritto e la bioetica. Molte di tali questioni
possono essere lette come conflitto tra rappresentazioni diverse: del corpo, dei suoi confini, della
legittimità dell’uso suo o di sue parti; della maternità e della paternità e del loro legame con il corpo
degli aspiranti genitori; dell’individualità personale e del suo fondamento biologico. La
medicalizzazione del corpo costituisce un aspetto di un più ampio processo di medicalizzazione
delle società contemporanee, espressione con la quale a partire dagli anni Settanta ci si riferisce alla
crescente centralità della medicina come istituzione di controllo sociale, che nell’esercizio di questa
funzione verrebbe progressivamente a sostituire nelle società secolarizzate la religione e il diritto.
Parsons tematizzò il ruolo di sano e di malato nel contesto del controllo sociale, e il ruolo di medico
come esito di un processo di differenziazione dei ruoli religiosi. Si ha medicalizzazione quando un
problema viene ridefinito in termini medici, quando si adotta una definizione ed un approccio
medico ad un problema, anche qualora ciò non comporti l’intervento del professionista medico e/o
trattamenti medici. Nella prospettiva descritta, le tecnologie (bio)mediche costituiscono uno degli
strumenti che dà forma al controllo sociale medico e alla sorveglianza medica sulla società.
È per la sua centralità che su di esso si è focalizzata l’analisi, che non può tuttavia a questo punto
non osservare che altri orientamenti concorrono all’elaborazione delle concezioni di malattia, salute
disponibili nella cultura professionale della nostra medicina; tra questi il modello della medicina
sociale e il modello olistico, cui sono andati riconoscimenti crescenti, e che del modello biomedico
mettono in discussione la dottrina dell’eziologia specifica e il riduzionismo fisico. Come la
medicina scientifica costruiscono corpi e relative rappresentazioni pure le cosiddette medicine
“altre”, molte delle quali rinviano a modelli olistici. La dialettica che contrappone alcune di esse
all’ortodossia medica è la contrapposizione tra modelli e rappresentazioni di corpo, salute e
malattia. La biomedicina ha ampliato lo spazio disponibile per medicine “altre”, che della prima
non necessariamente contestano forza e capacità di intervento, ma che della medesima evidenziano i
limiti nella capacità di farsi carico delle malattie croniche, della necessità di ascoltare e riconoscere
disagi che non sono riconducibili a disfunzioni fisiologiche. In tutte le sue varianti storiche la
medesima produce corpi. Ad essere primario non è il corpo, ma la realtà della medicina; la stessa
idea del corpo, il nostro stesso concetto che esiste un corpo da curare è l’effetto dell’universalità
della medicina. L’attività medica rivela il dato di fatto che noi possediamo ciò che chiamiamo corpi.
L’esistenza della medicina provoca la nozione di corpo.

2.2 Corpi flessibili


Il body building, la body art e la chirurgia estetica danno forma a propositi di modificazione del
corpo. Il body building è la metodica di allenamento che prevede l’utilizzo di pesi esterni al corpo al
fine ultimo del rimodellamento del fisico. Body art è l’etichetta sotto la quale si sussumono forme
di marcatura del corpo differenti per entità e reversibilità delle modificazioni apportate a
quest’ultimo: dal body painting al piercing, dal tattooing alla scarificazione, al cosiddetto shaping.
Dai primi anni Novanta, la body art ha conosciuto una rinnovata popolarità. Nel nostro Paese
“porta” il piercing una adolescente su quattro di età compresa tra i 12 e i 18 anni; nella stessa fascia
d’età si tatuano sette maschi su cento. Quanto alla chirurgia estetica sono 150 mila gli interventi
ogni anno in Italia; più di un milione e 600 mila quelli eseguiti negli Stati Uniti nel 2002. Carnal
art, forma di body art che si distingue per la radicalità delle performance cui mette capo.
Gli artisti che vi si dedicano fanno del proprio corpo una scultura vivente modellata grazie al ricorso
alla chirurgia plastica. Sono note in proposito le esperienze estreme di ridefinizione facciale
archetipica e di desacralizzazione del corpo. Agli inizi degli anni Sessanta esperimenti e simulazioni
finalizzate ad accrescere la resistenza umana nei voli spaziali attraverso sistemi uomo-macchina
presero a svilupparsi. Come nelle performance artistiche richiamate, il proposito era modificare il
corpo umano estendendone i sensi e le capacità al di là dei limiti tradizionali. Avanguardie
artistiche e filosofiche fondano oggi questo proposito sull’idea che il corpo umano sia obsoleto, e
dichiarano di operare nel senso del superamento di siffatta e connesse limitazioni nella forma dei
cosiddetti corpi postumani. Body building, body art e chirurgia estetica: ad accomunarle è l’idea del
corpo come oggetto di scelte e di opzioni. La riflessione sul ruolo del corpo nella definizione del sé
e dell’identità di sé dell’individuo contemporaneo va guadagnando spazi crescenti. L’apertura della
vita sociale, la pluralizzazione dei contesti di azione e delle fonti di autorità della tarda modernità
avrebbero reso problematica l’identità di sé e l’avrebbero trasformata nel progetto riflessivo che
prende forma da narrazioni biografiche coerenti continuamente rivisitate.
Del medesimo progetto sarebbe parte lo stile di vita, alla cui definizione contribuiscono una serie di
scelte che concernono l’aspetto del corpo, il suo contegno, la sua sensualità e le maniere di
soddisfare i suoi bisogni di base. Il controllo regolarizzato del corpo è un mezzo fondamentale
attraverso il quale è mantenuta l’identità di sé. Il corpo diviene cioè un portatore visibile di identità
di sé. Ma l’uomo non marchia e rimodella il proprio corpo sin dalla notte dei tempi? A cambiare il
significato delle prime sarebbe lo sfondo di pluralità di opzioni su cui esse prendono forma, nel
contesto delle quali le scelte che riguardano il corpo divengono parte integrante della pianificazione
della vita e della scelta di stili di vita da parte dell’individuo. “Noi diventiamo responsabili per il
progetto (design) dei nostri corpi, siamo costretti a diventarlo quanto più sono post-tradizionali i
contesti in cui ci muoviamo”.
Dice Bauman: “Privatizzazione del corpo”. La privatizzazione del corpo e delle agenzie di
produzione sociale del corpo costituirebbe un corollario di più generale processo di
deistituzionalizzazione di servizi di “Gestione dell’incertezza” tipici della modernità. Quando la
riproduzione delle condizioni della vita sociale è sottratta al dominio delle politiche statali e delle
decisioni pubbliche e affidata al libero gioco dell’iniziativa privata, la paura dell’incertezza si
mostra alle sue vittime in tutta la sua durezza. Agli individui spetta il compito di autocostituirsi e
autoricostruirsi, di ricomporre i pezzi delle proprie identità, affinando l’opera di ridefinizione giorno
dopo giorno. In tale continuo lavoro di costruzione del sé, l’attenzione verso il corpo diviene un
“Compito” e un “dovere primario” assolto dal proprietario del corpo. L’attenzione verso il corpo è
considerata da Bauman un dovere mai assolto per la doppia posizione dell’individuo
simultaneamente soggetto attivo e oggetto passivo del controllo, posizione che rende il compito di
delimitare e custodire i confini del corpo particolarmente assillante, trasformandolo in terreno fertile
di angosce molteplici.
Ciò che costituirebbe l’esito ultimo della privatizzazione del corpo e l’immagine dell’ambivalenza
postmoderna. In tempi di riflessività del corpo, di corpo come progetto e di corpo come proprietà
privata che ne è dei foucaltiani corpi docili? I processi descritti riguardano un corpo non più
rigidamente regolamentato, almeno non nel senso in cui lo era il fisico del lavoratore/soldato.
Emerge con forza l’idea di responsabilità dello sviluppo e dell’aspetto del corpo direttamente nelle
mani del suo possessore. Ciascuno di noi è al tempo stesso argilla plasmabile e scultore, impegnato
senza sosta nel compito/dovere di autoaffermazione per far fronte all’incertezza originatasi dal
progressivo declino delle organizzazioni che in epoca moderna esercitavano il controllo sull’intero
corso della vita degli uomini. Il corpo-progetto-privato è un corpo almeno in parte affrancato dai
meccanismi del biopotere; utilizzato, trasformato e perfezionato come i corpi di cui parla Foucault,
ma sempre più nell’ambito di piani individuali di costruzione del sé (e perciò meno docile). È a
questa idea che intende riferirsi il titolo del presente capitolo (da un corpo all’altro), icona di
quanto avviene tra donatore e ricevente d’organi a seguito della definizione di un caso di morte
cerebrale, ma più in generale icona di un corpo flessibile, trasformato o trasformabile da scelte ed
opzioni personali. Va da sé che quella del corpo come luogo dell’auto-determinazione personale,
modellabile nella forma dei significati che noi scegliamo, è una rappresentazione culturale che sta
modificando la nostra concezione e la nostra esperienza del corpo.
Alla costruzione del paradigma della flessibilità contribuì il consumismo capitalista che del corpo
“Plastico” fece la superficie disponibile per una serie infinita di progetti di consumo. Nel
femminismo si afferma che i progetti di rimodellamento e di autotrasformazione del corpo non sono
questioni di libera scelta personale, ma negoziazioni con l’ordine sociale che fornisce il sistema di
significati che usiamo per dare senso ai corpi. Dall’interno del femminismo è stato osservato che il
paradigma della plasticità trascura la collocazione materiale del corpo nella storia, nella pratica e
nella cultura. Recenti indagini sui tipi di interventi più comunemente preferiti dalle donne
americane di origine asiatica e africana che si rivolgono alla chirurgia estetica, in riferimento alle
quali si è parlato di medicalizzazione dei tratti razziali. Sempre in prospettiva femminista, i
medesimi interventi sono stati però anche letti come potenti strumenti di autodeterminazione e di
liberazione dalle determinazioni del corpo. Ci limitiamo in questa sede a trattenere il senso più
generale che, in relazione al corpo flessibile della postmodernità, consiste nell’interrogarsi
sull’interazione tra i corpi, loro rappresentazioni, potere e volontà individuale.

2.3 Corpi del diritto e corpi dell’etica


A quasi mezzo secolo dal primo disegno di legge italiano sulla materia, alcune “regole d’uso”
relative ai corpi dei soggetti coinvolti nella riproduzione assistita sono divenute le regole d’uso dei
medesimi. L’intento essenziale del legislatore è chiaro: definire ruoli, diritti e responsabilità di
ciascuno di tali soggetti. Altrettanto chiaro l’esito: la riproduzione assistita diverrà prestissimo nel
nostro Paese una realtà per sole coppie eterosessuali, coniugate o conviventi, in età potenzialmente
fertile, con problemi riproduttivi ma in grado di fornire i materiali biologici indispensabili alla
riproduzione. (CONTROLLARE I RIFERIMENTI NORMATIVI DI OGGI SULLA
RIPRODUZIONE ASSISTITA). Questa legge impone un modello e delegittima tutti gli altri.
Impone una rappresentazione del corpo, una rappresentazione della riproduzione ed una
rappresentazione della famiglia a scapito di altre. Il diritto partecipa dei processi di costruzione
sociale di corpo. La delegittimazione di tutti gli altri modelli, rispetto ai soli giuridicamente
riconosciuti, sia destinata a moltiplicare i conflitti, inserendosi in un quadro istituzionale e sociale
che ha visto allentarsi vincoli tradizionali ed esclusività collegati alla coppia legale e che conosce
una forte crescita delle famiglie monoparentali. Una serie di divieti della legge sono destinati ad
essere aggirati, non ultimo rivolgendosi a centri di fecondazione assistita stranieri.
L’effetto annunciato di questo e di altri immaginabili modi di aggirare le norme in materia di
fecondazione assistita sarebbe la complessiva delegittimazione dello strumento legislativo. È in
risposta a problemi simili che è andata diffondendosi la nozione del diritto come disciplina
“Elastica”, “Leggera”, “sobria” ed “Aperta”. La regolamentazione giuridica delle condizioni d’uso
delle tecnologie riproduttive, richiesta e sollecitata da modelli di comportamento emergenti, entra
ad orientare quegli stessi comportamenti. Le norme giuridiche prescrivono agli individui come
comportarsi e sanciscono le aspettative degli altri nei loro confronti. Contribuiscono cioè alla
definizione di politiche del corpo. Un lavoro di scrittura culturale dei corpi e delle loro
rappresentazioni è svolto da una schiera foltissima di nuovi diritti. Al “Diritto di procreare” o
“Diritto al figlio” al “Diritto di conoscere la propria origine genetica” (diritto di sapere), a quello
“Ad una famiglia stabile” o “alla doppia figura genitoriale” aggiunge il “Diritto ad un patrimonio
genetico non manipolato” o “Diritto all’identità”, il “diritto alla malattia”, il “diritto di morire”, il
“diritto di morire con dignità”, il “diritto di non sapere” o “diritto al caso”, il diritto
all’autodeterminazione informativa”, “diritto di accesso” o “Diritto di godimento”. Il modificarsi
dei confini della vita e della morte, della rappresentazione culturale del corpo e della persona
richiede categorie interpretative e ricostruttive adeguate. Regole giuridiche e interventi legislativi
intervengono a trascegliere e a legittimare alcune tra codeste possibilità e modalità d’uso (in ciò,
prendendo parte alla costruzione sociale del corpo). Una classificazione analitica che fa riferimento
a distinzioni già contenute in norme giuridiche comprende il corpo dell’uomo e il corpo della
donna; il corpo vivo e il corpo morto; il corpo dei maggiori e dei minori d’età, dei capaci e degli
incapaci; il corpo potenziale o progettato; il corpo terminale e recuperabile; il corpo dei tessuti
rigenerabili e non rigenerabili, ecc.
Parte considerevole delle questioni che il diritto è chiamato a dirimere in relazione al corpo umano
ruota intorno alla nozione di proprietà del medesimo. Il quesito relativo a chi possa disporre del
corpo è stato riproposto con forza dalle innovazioni scientifiche e tecnologiche che consentono il
prelievo, la modifica, il trasferimento e l’uso di singole parti del corpo umano. La domanda diventa
allora la seguente: se, come e quando il corpo, le sue parti e i suoi prodotti possano divenire oggetto
di atti di disposizione o di vere e proprie transazioni commerciali. Nella maggior parte dei sistemi
giuridici il corpo e le sue parti sono considerati res extra commercium, eccezion fatta per alcune
parti e/o prodotti del corpo rinnovabili. Il nostro codice civile contiene una norma ad hoc sugli atti
di disposizione del corpo, la cui regola è quella della disponibilità quando questa non diminuisca in
maniera permanente l’integrità fisica dell’individuo. I legislatori hanno compiuto delle scelte tra
regole d’uso diverse, andando di volta in volta a parificare il corpo a qualsiasi altro bene, in quanto
tale possibile oggetto di un contratto con contenuto patrimoniale. Il diritto svolge un ruolo di primo
piano nella costruzione sociale del corpo e nella diffusione delle relative rappresentazioni.
Torniamo con due esempi a questioni di diritto connesse alla nozione di proprietà del corpo. Il
principio del silenzio-assenso previsto dalla normativa italiana in materia di prelievi e di trapianti di
organi e di tessuti definito dai suoi oppositori un esproprio. Secondo. Quando viene stabilito che un
diritto di proprietà rispetto ai materiali biologici non è configurabile come può essere decretata la
brevettabilità dei medesimi materiali?
Ad essere brevettabile non è il corpo o sue parti, bensì l’opera dell’ingegno sul corpo –
“l’appropriabilità intellettuale del corpo” cui si riferisce l’evocativo neologismo bodyright. La
logica dell’uso del corpo umano come merce attraversa in forme diverse gran parte della storia. Ad
essa sono state ricondotte schiavitù e adozioni a pagamento, lavoro salariato e prostituzione. Le
conseguenze della “Frammentazione commerciale dell’essere umano” e del connesso biomercato
sulle rappresentazioni culturali del corpo costituiscono uno dei temi emergenti della odierna
riflessione bioetica. Nel mostrare che l’alternativa fra la concezione del corpo come merce e quella
del corpo come valore percorre tutta la storia, tale riflessione sottolinea la tendenza invasiva del
mercato e si interroga sugli effetti del crescente impatto di quest’ultimo sui rapporti tra la scienza e
la vita materiale. Bioetica è il termine utilizzato per riferirsi all’insieme di riflessioni razionali
sviluppatesi a partire dalla fine degli anni Sessanta del secolo scorso sui vari problemi normativi
sollevati dalla medicina e dalle altre scienze della vita. Le posizioni della bioetica in tema di
definizione e accertamento della morte nell’uomo, di terapia genica, di brevettabilità degli
organismi viventi, ecc. dipendono dalla risoluzione preliminare del problema del rapporto tra
corpo e persona nella definizione di morte.
Si può affermare che la storia dei dibattiti ruoti introno a due quesiti: il tipo di vita di cui si intende
determinare la morte e il luogo in cui si ritiene si incarni quella vita. Il primo riguarda
l’elaborazione di una distinzione tra la vita di un organismo umano e la vita di una persona; il
secondo concerne il luogo che si ritiene essere la sede unica o la sola garanzia del tipo di vita di cui
si intende determinare la morte. Riconoscere nella morte cerebrale il criterio necessario e sufficiente
per la diagnosi di morte dell’individuo significa fare dell’encefalo l’incarnazione della vita delle
persone. Analogamente, riconoscere nella morte dei centri cerebrali superiori il criterio necessario
per la diagnosi di morte dell’individuo significa fare di quei centri l’incarnazione della vita delle
persone. Ad entrare in gioco è l’eccezione di persona, e la connessa individuazione del momento in
cui gli umani diventino persone, o cessino di esserlo. Chiudiamo con un’osservazione. La
constatazione della realtà di fatto del pluralismo morale ha di recente suggerito l’utilizzo del
termine bioetica al plurale (bioetiche), a sottolineare l’esistenza di comunità morali diverse. I valori
morali orientano l’agire sociale; le obbligazioni che ne discendono normalizzano i comportamenti e
le rappresentazioni che li guidano. In ciò le etiche della vita svolgono un ruolo da comprimarie nel
processo di costruzione sociale del corpo. Bioetica di frontiera e bioetica quotidiana si intrecciano
nella costruzione sociale e culturale del corpo umano e delle immagini di quest’ultimo. La loro
attività in tal senso interseca a vari livelli l’analoga attività della medicina e del diritto. Per questo il
capitolo si è riferito a medicina, diritto e bioetica: in quanto luoghi di elaborazione di politiche del
corpo (foucaultiani centri di biopotere).

Capitolo III: Corpi senza corpo


Scena III: è la cronaca del noto caso di stupro virtuale avvenuto nel marzo 1993 in LambdaMOO.
Le uniche interazioni fisiche nell’episodio furono quelle tra migliaia di segnali elettronici, inviati
per la gran parte da studenti universitari tra New York e Sidney. Seduti di fronte ai loro computer, i
partecipanti alla MOO avevano dato vita ad una serie di personaggi curiosi che si incontravano
nelle sale di Lambda MOO. In una di queste Mr. Bungle aveva cominciato a molestare Legba;
cacciato, aveva proseguito nelle azioni criminose dalle sue stanze private, con l’aiuto della bambola
vudu. La bambola vudu era un sottoprogramma consentiva a chi lo utilizzava di attribuire ad altri
partecipanti azioni che i medesimi non avevano scritto. Impressioni a parte, quanto un visitatore di
LambdaMOO poteva realmente vedere era una sorta di script a scorrimento lento, linee di dialogo
sullo schermo di un computer. Stabilito che le vittime delle violenze on-line si trovavano
fisicamente a centinaia e forse migliaia di miglia di distanza, resta da rilevare che i fatti descritti
furono presi molto seriamente dai frequentatori abituali della comunità, molti dei quali per riferirsi
ad essi cominciarono a servirsi del termine stupro. La vicenda costituisce lo spunto per riflettere
sull’interazione sociale là dove viene meno il suo consueto radicamento nella fattualità fisica del
corpo umano, come accade nella Rete; più in generale, su corpi e progetti di corpi in misura diversa
affrancati dalle determinazioni biologiche (perciò detti senza corpo).

3.1 Corpi della rete


La Rete è un luogo, nel quale è possibile incontrare, conoscere e frequentare persone. Teoria
sociologica sull’interazione sociale in luoghi pubblici e semipubblici per i quali siamo debitori ad
Erving Goffman. Tale teoria afferma che una delle condizioni cruciali di comunicazione
nell’interazione faccia a faccia consta nell’invio e nel ricevimento di messaggi incorporati.
Attraverso l’aspetto fisico e gli atti personali: vestirsi, movimento e posizione, volume e voce,
trucco del volto, espressione generale delle proprie emozioni, ecc. Gli individui comunicano tra loro
anche in assenza di comunicazione verbale. Esiste un simbolismo del corpo, un idioma dell’aspetto
e dei gesti individuali, che tende a richiamare in chi agisce ciò che richiama negli altri. La
comprensione di un idioma comune del corpo è uno dei motivi per cui si definisce come società un
complesso di individui. La maggior parte dei messaggi reali unisce dunque componenti linguistiche
ed espressive. Nell’interazione faccia a faccia gli interlocutori hanno a disposizione molteplici
canali comunicativi accanto a quello verbale. La comunicazione vis-à-vis ha ampiezza larga, la
comunicazione mediata dal computer ristretta.
Gli psicologi sociali, all’inizio degli anni Ottanta, concordavano nel riconoscere la povertà della
comunicazione consentita dal computer, e nel vedervi un esito proporzionale alla larghezza di banda
comunicativa del medium stesso. In questa prospettiva, qualsivoglia mezzo di comunicazione
introduce un progressivo impoverimento della dimensione sociale della comunicazione rispetto alla
comunicazione faccia a faccia, data la riduzione dei codici comunicativi utilizzati. L’osservazione
che ad essere esclusi fossero gli abituali codici non verbali condusse un decennio più tardi alla
distinzione tra dimensione interpersonale e dimensione sociale della comunicazione mediata dal
computer. Delle due, sarebbe soltanto la prima a incontrare limiti nella larghezza di banda. In ogni
caso, de-individuazione e anonimato visivo hanno conseguenze diverse a seconda che il contesto in
cui avviene l’interazione coinvolga gli attori come singoli individui o come gruppo. Nella
situazione di de-individuazione tipica della comunicazione mediata dal computer, il comportamento
on-line può risultare addirittura più rigidamente conforme alle norme del gruppo di quanto avvenga
in situazioni di interazione faccia a faccia. Nella comunicazione mediata dal computer, i processi di
costruzione della realtà ed i meccanismi di rappresentazione del sé assumono un’importanza anche
superiore a quella che rivestono in situazioni di interazione tradizionali.
Stando agli sviluppi più maturi della ricerca sulla comunicazione mediata dal computer, dunque, col
tacere dell’idioma del corpo non viene meno la socialità della comunicazione. Per questo loro
smentire il consueto radicamento dell’interazione sociale nella fattualità fisica del corpo umano. Le
tecnologie della comunicazione si impongono all’attenzione della sociologia del corpo.
Se consideriamo la mappa fisica del corpo e la nostra esperienza corporea come socialmente
mediate, non dovrebbe essere difficile immaginare l’idea che anche la collocazione dell’identità nel
corpo sia socialmente mediata. Il soggetto diventa indipendente dal corpo in cui le teorie del corpo
sono solite radicarlo, e si colloca in quel sistema di scambi simbolici che è la tecnologia
informazionale. La ristrettezza di banda esclude il corpo, non la socialità. L’effetto sorprendente
rilevato da più di una ricerca empirica consta nel delinearsi, nella comunicazione a banda ristretta,
di un bisogno profondo di creare immagini, estremamente dettagliate del corpo assente e invisibile,
dell’interazione umana e degli artefatti portatori di simboli che fanno parte dell’interazione. È
quanto fanno le operatrici del telefono erotico, impegnate a rappresentare il corpo umano attraverso
un canale di comunicazione limitato, codificando aspettative culturali come segnali di significato. I
luoghi di socialità che appartengono ad una dimensione dello spazio dalla quale il corpo è escluso, i
legami tra identità on-line e corpi seduti alla tastiera conducono dunque alla rivisitazione del
concetto di prossimità piuttosto che al suo superamento. Le applicazioni erotiche cui la
comunicazione anonima delle reti telematiche ha dato origine, con i fenomeni più o meno correlati,
hanno infatti dato nuovo vigore al dibattito sulla natura del genere sessuale. In specie una parte
della critica femminista si è concentrata sulle potenzialità liberatorie del medium, che consentirebbe
di disancorare i corpi dai generi e che del genere rivelerebbe la condizione originaria di pura
performance. Uno dei cardini del cyberfemminismo alla Haraway è costituito proprio dal sogno
utopico della speranza in un mondo mostruoso senza il genere.
Il femminismo cyber chiama le donne a sfruttare i potenziali vantaggi della corporeità ad alta
valenza tecnologica cui scienze della comunicazione e moderna biologia mettono capo il
superamento del codice dominante del dualismo sessuale. Da prospettiva similmente femminista e
pro-tecnologica, è stato all’opposto affermato che l’interazione in assenza di corpo della
comunicazione mediata dal computer, più che neutralizzare, riproduce ed anzi rafforza la dicotomia
di genere. Le posizioni del femminismo nei confronti della comunicazione mediata dal computer
tendono a procedere da quelle più generali del movimento nei confronti di scienza e tecnologia. Tali
posizioni sono talvolta antitetiche, sulla base del dibattito femminista su scienza e tecnologia
appunto, il potenziale di espropriazione e quello di emancipazione del corpo femminile.
M o F? (Male or Famale?, ovvero: Maschio o Femmina?) pone al sociologo una serie di
interrogativi sulla centralità del corpo e del vocabolario dei suoi simboli nell’interazione sociale.
L’effetto cyborg si è manifestato anche al di fuori del femminismo. La commistione di organico ed
artificiale è il tema centrale di una letteratura che ne fa la condizione per il superamento dei limiti
biologici, neurologici e psicologici umani. Ci riferiamo alle filosofie transumaniste e postumaniste.
Transumani sono gli uomini che utilizzano le opzioni scientifiche e tecnologiche per aumentare le
proprie capacità e la propria aspettativa di vita, e che aspirano per questa via a divenire postumani.
La condizione cui mirano è quella di esseri dalle abilità fisiche, intellettuali e psicologiche senza
precedenti, potenzialmente immortali.
Il superamento dell’invecchiamento costituisce lo scopo primario dei transumanisti, da perseguirsi
con il ricorso a diverse tecnologie di enhancement. Transumanesimo e postumanesimo
costituiscono un progetto basato sulla tecnologia di soggetti liberi dal corpo. Il postumanesimo
prospetta la liberazione dal corpo come congedo dalla tradizione umanistica e dal soggetto che il
grande movimento culturale del XIV-XV secolo aveva posto al proprio centro. Non si accomiata
però dal progetto moderno nella forma del controllo di quell’offesa suprema all’onnipotenza umana
e sfida estrema alla ragione che è appunto la mortalità. Prospettarne il superamento per mezzo della
tecnologia può essere considerata una estremizzazione del tentativo di canalizzare l’orrore della
morte, versione high tech dello sforzo che è stato considerato fondativo di molti aspetti
dell’organizzazione sociale e culturale di tutte le società conosciute. Le culture possono essere
comprese come modi alternativi di affrontare ed elaborare il tratto primario dell’esistenza umana: il
dato di fatto della mortalità e la conoscenza di esso. Il self care, un tentativo di celare i limiti ultimi
del corpo superando, una dopo l’altra, le particolari limitazioni che esso via via incontra, è in questa
prospettiva una delle tipiche risposte culturali alla madre di tutte le angosce, la minaccia della fine.
Trans- e postumanesimo possono a loro volta essere considerati tecniche per esorcizzare il terrore
della morte. Vi abbiamo fatto cenno come ad un altro progetto che fa del corpo un oggetto di scelte
ed opzioni, e che del corpo può arrivare a prevedere l’abbandono. Mortalità e immortalità
costituiscono forme culturalmente elaborate di quel “fatto di natura e fenomeno biologico”. Il
discorso sulla progressiva elisione delle tradizionali distinzioni umano/strumento,
organico/artificiale è di solito un ragionamento sulle trasformazioni provocate dall’introduzione
della tecnologia nel corpo. Proponiamo ora di guardare alla congiunzione di corpo e tecnologia
nella macchina; di guardare cioè al corpo nella tecnologia.
In alcuni settori delle scienze dei processi cognitivi è andata affermandosi una concezione del
pensiero che lo radica nella percezione, nel movimento del corpo e nella sua esperienza di carattere
fisico e sociale. La ragione è resa possibile dal corpo. L’idea che le macchine, per mostrare qualche
tratto di intelligenza, debbano possedere un corpo dà una svolta per certi versi radicale alle ricerche
sul modo di costruire e programmare macchine che si comportino in modo intelligente.
Testimoniano di questo cambiamento di direzione le attività che si raccolgono oggi sotto l’etichetta
di Epistemologia Androide, come è stato battezzato il filone interdisciplinare di studi accomunati
dall’interesse per i fondamenti del pensiero in tutte le sue forme, che colloca tra gli androidi tutti i
sistemi che esibiscono in varia misura l’uno o l’altro strato. Come rilevato da una provocatoria
ricostruzione dei tentativi di immettere intelligenza nelle macchine, al mito meccatronico della
macchina intelligente è andato sostituendosi il robot di natura prevalentemente biologica.
L’approccio dell’IA alla simulazione dell’intelligenza su computer, si trova oggi in un vicolo cieco.
La simulazione su calcolatore dell’intelligenza come auto-organizzazione nell’interazione con
l’ambiente è uno degli obiettivi della Vita Artificiale, campo di ricerca che riprende temi e ipotesi
addirittura precedenti alla nascita dell’IA.
Collegando l’intelligenza al sistema nervoso ed evitando di disgiungerla dai fenomeni biologici più
elementari e dal corpo, la VA costituisce un mutamento radicale di prospettiva nello studio
dell’intelligenza degli esseri umani. Intelligenza Artificiale, Vita Artificiale ed Epistemologia
Androide costituiscono altrettanti modi di ragionare sulle conseguenze dell’assenza del corpo, che è
quanto s’è fatto sin dalle prime pagine di questo capitolo richiamando la letteratura sugli ambienti
sociali on-line, quella cyberfemminista e quella postumanista.

3.2 Corpi in rete


Preme soffermarci su due ordini di considerazioni che la legge ha stimolato. Il primo è relativo alla
privacy genetica. Che i dati genetici costituiscano il nucleo più sensibile dei dati personali
dell’individuo è ormai comunemente riconosciuto. Alla loro raccolta e utilizzazione possono essere
estese le riflessioni della ricca letteratura sulla privacy, sollecitate in tempi recenti dalla diffusione
delle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione. Privacy genetica è il diritto di
decidere quale delle proprie informazioni genetiche possa essere conosciuta da altri. Prevale in
relazione ad essa il principio del consenso libero ed informato degli interessati. Ciò non accade nel
caso della legge islandese che non prevede la necessità del consenso informato dei soggetti i cui dati
vengono prelevati e trattati, secondo alcuni osservatori, violerebbe tale principio anche garantendo
la non decodificazione e la non diffusione dopo il trattamento. Nella società della classificazione
(che consente la produzione di profili individuali, di gruppo, costruiti utilizzando le informazioni di
database disparati) è la potenziale deriva riduzionistico-discriminatoria dell’utilizzo di dati genetici
a destare preoccupazione. Ci riferiamo qui alla possibile discriminazione nei confronti dei soggetti
che risultassero diagnosticati “a rischio” in seguito all’impiego di test genetici.
Il tema riconduce a quello foucaultiano della sorveglianza e del controllo. Là sorveglianza e
controllo si traducono nell’investimento dei corpi all’opera nei regimi disciplinari; qui
nell’investimento di quella particolare proiezione del corpo che è rappresentata dalle informazioni
genetiche che lo riguardano. I test genetici possono cioè essere considerati una tecnologia politica
della vita: dispositivi panoptici che rendono il soggetto “perfettamente individualizzato e
costantemente visibile”, in grado di integrarsi a funzioni diverse. Questo discorso costituisce un
aspetto soltanto di quello più ampio relativo alla progressiva erosione del potere di ciascun
individuo sulle proprie informazioni come effetto del diffondersi di raccolte ampie e specializzate di
informazioni personali, trattate elettronicamente, ad opera di soggetti diversi. Uno dei tratti
caratteristici delle cosiddette società dell’informazione consta nel loro essere società sorvegliate. La
disciplina giuridica che va definendosi come prevalente nei paesi dell’UE fa divieto di raccolta e di
utilizzo dei dati genetici nel rapporto di lavoro e nel settore assicurativo. L’interrogativo già posto
in questo testo, su chi tra lo Stato e i singoli cittadini abbia il potere di disporre del corpo o di sue
parti, si ripropone per le informazioni genetiche.
La dematerializzazione del corpo in termini di informazioni trattabili e trasferibili relative al suo
contenuto biologico e genetico ripropone, cioè, i temi della proprietà del corpo e della sua
frammentazione commerciale. I destini dell’informazione immateriale estratta da campioni
materiali corporei si giocano poi nel confronto e nell’intreccio tra i concetti di privacy e di
copyright. Nell’era del direct marketing anche il nucleo più duro delle informazioni personali si
avvia a diventare una merce. Lo Stato islandese e il suo Parlamento hanno disposto di beni dei
cittadini senza averne il potere, nessuna teoria della rappresentanza politica contemplando la
possibilità di cessione a scopo commerciale di beni di natura così personale dell’intera popolazione.
In queste pagine si è parlato di dati genetici per parlare di copro; meglio: per parlare di corpi che
scompaiono. In precedenza ci siamo occupati dei corpi che scompaiono del cybersex o del
downloading postumano; da ultimo, dei corpi che scompaiono nella codificazione tecnologica come
parti di banche dati elettroniche (corpi in rete). Queste forme rappresentative tipiche contribuiscono
a modificare la concezione e l’esperienza; alimentano fantasie di rimodellamento e
autotrasformazione, di flessibilità senza limiti.

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