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HomeAntico TestamentoIl tragico tentativo di farsi “dio”: Gen 3,6-7


Antico Testamento
Il tragico tentativo di farsi “dio”: Gen 3,6-7
Roberto Tadiello
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Roberto Tadiello
13 Settembre 2013
0
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La triplice promessa del tentatore – non morirete; sarete come Dio e conoscerete il
bene e il male; i vostri occhi si apriranno – sortisce il suo effetto e la donna
conosce un mutamento interiore in seguito al quale arriva a vedere ciò che prima
non vedeva o, meglio, a vedere la realtà con un’ottica differente (Gen 3,6).

6Allora la donna vide che l’albero era buono da mangiare, gradevole agli occhi
e desiderabile per acquistare saggezza; prese del suo frutto e ne mangiò, poi ne
diede anche al marito, che era con lei, e anch’egli ne mangiò. 7Allora si aprirono
gli occhi di tutti e due e conobbero di essere nudi; intrecciarono foglie di fico e
se ne fecero cinture.

La donna vede ora l’albero come un bene di cui un altro la vuole privare e questo è
sufficiente per renderglielo desiderabile: dietro la rapacità si nasconde
un’angoscia, il timore di una privazione. La donna infatti vede che l’albero è:

buono da mangiare
piacevole all’occhio
desiderabile per acquistare saggezza (potere) 1.

Il linguaggio è marcatamente simbolico perché non si vede con gli occhi se un


frutto è buono da mangiare. Si tratta quindi di un vedere diverso è il vedere e
valutare la realtà. Dubitando della bontà di Dio, la creatura umana vede le cose
nel modo opposto: anche ciò che è intrinsecamente negativo, sembra buono. Il frutto
poi appare «un piacere per gli occhi»: l’aspetto estetico assume un valore etico,
per cui ciò che piace diventa buono. Infine, l’oggetto proibito diventa oggetto del
desiderio, desiderabile proprio per una conoscenza alternativa e indipendente dal
Creatore. Il testo parla di acquisizione di sapienza e quindi di potere: chi
conosce, infatti, domina. Dal dubbio nasce la voglia di distacco e il desiderio
matura come pretesa di dominare l’etica: in quest’ottica ‘perversa’ acquistare
saggezza equivale a diventare padroni dei valori, arbitri del bene e del male.

Il narratore è estremamente sobrio nel raccontare la trasgressione, tutto è


sbrigato in poche battute: «Prese del suo frutto e ne mangiò, poi ne diede anche al
marito, che era con lei, e anch’egli ne mangiò». La figura della donna è emergente,
ma non è colpevolizzata. L’uomo infatti non è assente al processo che ha portato
alla trasgressione. Lo si nota da due elementi: la donna nel dialogo con il
serpente usa sempre il plurale e in Gen 3,6b spartisce il frutto con il marito «che
era con lei». L’uomo sembra piuttosto dipendente, ma in ogni caso connivente. La
tradizione che individua nel frutto una mela nasce da una assonanza nella versione
latina del testo tra malum e malus.

La prima conseguenza della trasgressione è la realizzazione della terza promessa


del serpente: si aprirono i loro occhi (cf. 3,5). C’è una certa ironia nel testo:
dopo aver mangiato all’albero della conoscenza (daʿat) del bene e del male (Gen
2,17; 3,6) per ottenere, spinti dall’astuto (ʿārûm) serpente (Gen 3,1), sapienza e
conoscenza (radice verbale yādaʿ) del bene e del male (Gen 3,5), l’uomo e la donna
approdano alla conoscenza (yādaʿ), ma solamente quella di essere «nudi» (ʿērummin).
Avevano creduto di acquistare la conoscenza di Dio, hanno acquistato solo la
consapevolezza di essere nudi; credevano di diventare dèi, si accorgono di essere
solamente uomini e uomini nudi. Nel linguaggio biblico la nudità è segno di estrema
povertà e quindi di perdita della dignità. Quel frutto produce una conoscenza e
apre gli occhi, ma solo per mostrare il limite e la debolezza dell’umanità: perciò
l’uomo e la donna, accorgendosi di come sono, non sono più capaci di accettarsi, se
ne vergognano.

La presenza dell’altro sveglia la coscienza della propria miseria e la presenza di


Dio diventerà addirittura fonte di paura. Non muoiono fisicamente, ma sperimentano
una tragica rovina che segna la loro esistenza tanto da poterla paragonare alla
morte. Per rimediare alla propria nudità non sanno fare di meglio che una cintura
di foglie di fico (v. 7b). Il vocabolo ebraico reso con cintura è ḥănōrōt che
indica più un perizoma che una vera cintura (1Re 2,5; 2Re 3,21; Is 3,24) 2; essa è
fatta intrecciando «foglie di fico» che sono tra le foglie più grandi della
vegetazione palestinese 3. È un tentativo quasi ridicolo dell’umanità di riparare
al guaio fatto, un palliativo insufficiente e incapace di mettere a tacere il senso
di colpa. Questa conoscenza perversa rende l’uomo e la donna incapaci di sostenere
la visione l’uno dell’altro (si coprono con cinture: Gen 3,7) e di Dio stesso (si
nascondono da lui: Gen 3,8.10).

Con la trasgressione la prima coppia ha perso la capacità dell’ospitalità.

Cf. Bianchi, Adamo, dove sei?, 189-191; Wénin, Da Adamo ad Abramo, 74.
Cf. Wenham, Genesis 1-15, 76.
Cf. Hamilton, Genesis 1–17, posizione 3494.

TagsPeccatotrasgressione

Roberto Tadiello
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