→Introduzione: nel corso dell’ottocento tra fotografia e pittura si è combattuta una battaglia per
l’egemonia e il primato sull’immagine, entrambe le discipline miravano a produrre lo stesso
oggetto: il quadro e, in questo la pittura risultava sicuramente vincitrice, per via della sua
tradizione secolare e della maggiore abilità tecnica richiesta. La fotografia dal canto suo
possedeva una capacità straordinaria di imitare il dato visivo della realtà, ma nei primi decenni
della sua esistenza si è limitata ad imitare i soggetti e i modi della pittura, comportandosi di fatto
come una sorta di pennello tecnologicamente avanzato.
Nel corso del Novecento invece, fotografia e pittura imboccano due sentieri diversi e vengono
meno a questa battaglia per il predominio sull’identità dell’immagine. Ad una logica formale, che
per la verità viene perseguita da alcuni artisti anche nel corso del novecento, se ne sostituisce
una concettuale, che indaga e ricerca su tutta una serie di valori che assume la fotografia
nell’immaginario umano (memoria, sostituzione, presenza in assenza, certificazione, esibizione
del reale…).
Quelli che in passato erano stati gli handicap della fotografia, come la scarsa abilità manuale
richiesta, l’automaticità, l’eccessiva realisticità dell’immagine, diventano ora i suoi punti di forza.
Diane Arbus non affronta quasi mai il mezzo fotografico da un punto di vista tecnico, non le
interessa, lo considera invece un’estensione delle sue facoltà, un medium appunto, un canale per
entrare in rapporto diretto con il mondo. Le sue fotografie sono distaccate, impenetrabili, sono una
sorta di reportage della realtà, i suoi oggetti sono isolati, schedati proprio come faceva Sander, e da
ciò deriva l’effetto straniante. I suoi soggetti sono lontani dall’essere persone normali, spesso
appaiono goffi, sono immagini di loro stessi.
Il passaggio a un negativo di formato quadrato e il costante utilizzo di un flash sono due scelte
tecniche che avvengono verso il 1965 e che per la Arbus hanno ragione di essere solo in funzione
della maggiore e più convincente penetrazione dei soggetti che ne poteva scaturire, tale da farli
risultare più estranei e potenti. La collocazione pop della Arbus, può trovare un’ulteriore conferma
nella complessa e mai improvvisata preparazione dei soggetti che ogni sua immagine prevedeva. Il
gioco fra realtà e finzione oltre ad appartenere già in partenza all’identità di persone e cose, viene
intenzionalmente attivato dall’artista per contrastare sul nascere l’idea di una verità scontata,
evidente e facile da rivelare. La Arbus anziché cercare di convincere i suoi soggetti ad assumere
una posizione naturale o tipica, li incoraggiava ad essere goffi, cioè a posare. (il fatto di stare seduti
o in piedi impettiti li faceva sembrare immagini di loro stessi. Considera la fotografia un atto globale
di relazione col mondo, più che uno strumento per produrre l’opera.
(Verso il 1970, mentre a seguito di tutti i cambiamenti sociali introdotti dalle battaglie femministe,
anche le artiste-donne cominciavano ad assumere maggiore visibilità culturale, la Arbus
sottolineava una differenza tra se e le altre colleghe. Se queste ultime parevano orientare, nella
maggior parte dei casi, verso i temi dell’autocoscienza e dell’autorivelazione, la Arbus faceva notare
come la sua condizione di fotografa quasi la costringesse ad assumere un atteggiamento distaccato
e impenetrabile. Che poi le sue immagini nascessero anche da un determinato vissuto personale
era certo importante, ma non fino al punto da far si che questo divenisse oggetto del proprio lavoro,
che invece risultava sempre rivolto all’esterno.)
Distacco e impenetrabilità ci rimandano a due riconosciuti principi della poetica pop: il reportagismo
e il distacco sembrerebbero due termini fra loro inconciliabili, ma la Sontag ha notato come in realtà
costituiscano le due facce complementari della prassi fotografica, che ci da modo di partecipare
all’atto stesso attraverso un partecipazione alienata. Questa idea di partecipazione alienata è
espressa molto bene, per via metaforica, dalle tante foto in cui la Arbus ha ritratto coppie di gemelli,
compresa quella delle sue sorelline realizzata nel 1966 e divenuta poi la sua immagine più famosa
e inquietante (usata da Stanley Kubrick nel film Shining).
Tra i “fotografi puri” che partecipano al clima pop bisogna ricordare l’inglese Bailey, personaggio
sicuramente meno complesso della Arbus, a differenza della collega americana che dalla moda si
era distaccata( con un certo disgusto dopo averla praticata con successo assieme al marito), a
questo genere deve la sua fortuna e la sua affermazione.
Bailey, attivo nel campo della moda, che si è adoperato per estendere il suo territorio, non più
privilegio dei ricchi. Le sue immagini ritraggono le grandi icone dell’Inghilterra di quegli anni, spesso
sono cariche di riferimenti sessuali. Al fotografo va infatti attribuito il merito di aver contribuito in
maniera determinante alla trasformazione del linguaggio complessivo della fotografia di moda, fino
a quegli anni troppo austera, elitaria: l’approccio nuovo di Bailey contribuiva a sradicare l’idea che la
moda fosse un passatempo per ricchi, decadente e irraggiungibile.
Il miglior contributo di Bailey alla cultura pop è avvenuto però fuori dal sistema della moda, con la
pubblicazione, nel 1965, della “scatola”, David Baileys Box of pin-ups, un contenitore all’interno del
quale trovano posto, su singole stampe, 37 grandi ritratti di personaggi- emblema dell’Inghilterra
anni sessanta. Come richiedeva la nuova cultura dei media, i singoli individui dovevano livellarsi tra
loro, senza alcuna distinzione d’ordine psicologico: a questo Bailey aveva provveduto ritraendo tutti
i volti in frontale, con lo stesso sfondo neutro alle spalle. Molti critici, abituati a una ritrattistica
introspettiva e psicologica, attaccarono Bailey accusandolo di scarsa presenza creativa, senza
tener conto che lo spirito pop esigeva proprio una creatività meccanizzata e distante rispetto al
proprio soggetto.
Warhol è sicuramente l’artista pop che ha usato la fotografia in maniera più interessante. La sua
intenzione è quella di riscattare la fotografia da tutte le accuse di meccanicità, ripetitività,
automatismo, che nella sua ottica sono degli elementi caratteristici della sua epoca, e quindi della
sua arte. I soggetti delle opere di Warhol non sono infatti gli oggetti caratteristici della
contemporaneità, ma i pezzi, i modi e, quindi i media. Tutto ciò era stato da lui introiettato, era
diventato il suo modo di pensare. Nelle sue opere fotografiche il livello formale è pressoché nullo,
mentre è notevole la carica concettuale. I caratteri di tutto il suo lavoro sono isolamento,
de-contestualizzazione, ripetizione e ingrandimento. Tra i suoi lavori possiamo ricordare quelli del
doppio ciclo del 1964 dedicato ai volti dei criminali e alle fotografie scattate con la cabina
automatica.
(se Warhol ha de-pittoricizzato l’uso della fotografia nell’arte visiva, bisogna riconoscere che è
grazie che è proprio grazie all’uso della fotografia che egli è riuscito a portare a compimento quei
progetti di commercializzazione dell’arte, di abbassamento estetico e di annullamento
dell’individualismo creativo.)
→Anni settanta
Negli anni 70 assistiamo ad una seconda rivoluzione artistica, ad una esplosione di tutte quelle
pratiche concettuali che fino ad allora erano state praticate solo occasionalmente. Per questo
motivo la vecchia disputa tra fotografia e pittura si esaurisce ormai definitivamente, una volta venuto
a mancare il territorio comune di contesa.
In particolare la fotografia avrà un ruolo fondamentale nelle pratiche body, narrative e conceptual, in
quanto mezzo capace di cogliere ciò che è effimero, la performance, e mantenerla nel tempo.
La concezione Mcluhaniana di medium ha condizionato l’uso della fotografia che hanno fatto questi
artisti: ovvero come prolungamento della sensibilità in grado di migliorare le pratiche legate al
corpo, delle quali la macchina è in grado di cogliere aspetti altrimenti non distinguibili.
Nel caso della body art, sono state sfruttate due diverse caratteristiche concettuali della fotografia:
la sua pretesa di verità per certificare alcune pratiche concrete, oppure il potere di rendere credibile
l’immaginario, il fantastico.
La narrative art, ha spesso fatto perno sulla povertà sintattica del linguaggio fotografico, (come già
aveva fatto Magritte), per cui un’immagine presa da sola si apriva a svariate interpretazioni, a
diverse storie.
Le immagini utilizzate nella narrative art assomigliavano alle classiche foto da album di famiglia, a
quell’incertezza tecnica che poteva far pensare a una mancanza di dimestichezza con macchine e
obiettivi da parte dei loro autori.
Il grande merito della fotografia Narrative è stato quello di comprendere fino in fondo come il
contributo originale che la fotografia poteva portare alla causa dell’arte, fosse da individuare nel suo
valore concettuale prima che formale:da qui l’idea di modellarsi sull’esempio della fotografia
familiare. C’è poi la questione della scrittura che, in uno spazio a parte, quasi una sorta di
didascalia, accompagnava il più delle volte le immagini. Una scrittura anch’essa banale.
Nell’arte concettuale, che rivolgeva la sua attenzione all’idea, al contenuto mentale piuttosto che
all’oggetto, possiamo distinguere due strade: quella mondana, che mantiene comunque un certo
legame con la realtà, e quella analitica, che vive in una dimensione di continuo rimando linguistico.
Bruce Nauman usa il mezzo fotografico, come uno specchio, per registrare e catalogare tutta una
serie di forzature mimiche ed espressive del suo corpo.
(il lavoro di Nauman ricorda una serie di 17 immagini prodotte intorno al 1850 dal medico francese
Guillaumme Duchenne nelle quali, grazie all’applicazione di particolari elettrodi sul volto di una
paziente, si illustrano reazioni estreme di motilità dei muscoli facciali, simili a quelle ottenute da
Nauman).
Nella stessa direzione andavano le opere di Arnulf Ranier, che integrò le immagini con pennellate di
colore, per aggiungere tensione e dinamismo all’immagine, come un sorta di aggressione al suo
stesso corpo.
Altro artista interessato alla scoperta della corporeità è Giuseppe Penone, che ha prestato
attenzione in particolare alla pelle in quanto organo con cui ci rapportiamo con l’esterno (svolgere la
propria pelle) e gli occhi (rovesciare i propri occhi).
Gilbert & George nelle loro opere riportano tutta una serie di comportamenti banali e ordinari.