Sei sulla pagina 1di 3

Usato e capitalismo estetico, Enrico Azzi 0001043568, Filosofia ed Estetica della Musica

L’usato è passato dall’essere un’ultima spiaggia per le persone meno abbienti, di fronte al
quale la piccola borghesia storceva il naso, ad essere la normalità e, forse, qualcosa di più.
Ciò che più sorprende della crescente quantità di indumenti di seconda (ma anche terza,
quarta…) mano che vediamo di giorno in giorno nei vari mercatini (il diminutivo ormai non è
più così scontato) è il fatto che si possano trovare anche capi firmati, dal presunto valore, nel
grande mercato del reselling, pari a centinaia di euro. Ma come già detto e ripetuto ormai una
quantità imbarazzante di volte, non è tutto oro ciò che luccica.
Prima di proseguire nel discorso vorrei fare qualche precisazione riguardo al rapporto fra
usato ed estetica. Perché l’usato attira tanto? Prima di tutto si potrebbe dire che l’usato,
l’abbigliamento in particolare, può rimandare ad un’aura differente da quella che invece
suscitano vestiti nuovi, comprati in negozio; infatti la merce usata trasmette un’aura, quasi
ineffabile, che non è riscontrabile nel nuovo. L’idea di indossare qualcosa che non abbiamo
propriamente cercato ma che ci ha, in un certo senso, trovato è confortevole. Inoltre, nel caso
dei prodotti di marca, si è di fronte all’opportunità di fare sfoggio di un capo, o di un oggetto,
di lusso ad un prezzo conveniente; lusso che al giorno d’oggi sembra aver preso il
sopravvento sul decoro, almeno per quel che riguarda certi contesti sociali (per lo più quelli
bassi, rappresentati spesso da giovani ragazzi con una scarsa cultura).
Il capitalismo estetico, secondo Böhme, è l’evoluzione del capitalismo dei bisogni ed è il
sistema economico attuale, almeno nei Paesi più sviluppati; esso è il sistema del surplus, del
non necessario. Il ruolo dell’usato all’interno di esso è decisamente ambiguo. Si è di fronte ad
un acquisto compulsivo, e spesso superfluo, di oggetti (o si dovrebbe parlare di roba,
rifacendoci all’omonima novella di Verga, in quanto non è altro che un accumulo di
quest’ultima); lo spendere denaro per comprare non ciò che serve, ma ciò che si brama è una
prerogativa del capitalismo estetico. Tuttavia il denaro speso in usato non va ad alimentare la
macchina capitalista, perché appunto si sta comprando oggetti di seconda mano, quindi se
moralmente non cambia nulla, a livello economico comprare usato è decisamente più
sostenibile.
Tornando al discorso iniziale, per quel che riguarda la merce firmata, di valore, la questione è
leggermente più complicata. La quantità di persone che fa compravendita (o reselling) di
vestiti e non solo è più grande di quello che si immagina. Basta aprire un sito come Vinted,
una piattaforma in cui teoricamente si dovrebbe vendere ciò che non si usa più, vestiti più che
altro, per rendersi conto di come si possa lucrare facilmente grazie all’usato; magliette, felpe,
jeans, scarpe, ma anche libri, dischi e DVD sono solo poche delle cose che si possono
trovare. Pare però ovvio, nel caso di certi venditori (o dovremmo chiamarli rivenditori) che
essi non vendano solo ciò che hanno nelle loro case, ma anche merce comprata a poco,
magari in qualche mercatino, online o addirittura sullo stesso Vinted. Questa tecnica consente
di guadagnare soldi facilmente e, soprattutto, senza pagare mezza tassa. L’altra tecnica di
rivendita è quella in stock, mucchi di vestiti comprati a un certo prezzo vengono rivenduti al
dettaglio, con un prezzo fisso (di solito si parla di pochi euro, ma che sommati raggiungono e
superano largamente il costo del mucchio); è ciò che fanno i rivenditori del mercato della
Montagnola a Bologna, per esempio. Bisogna inoltre ricordare che esiste la merce
contraffatta, in cui non è per niente raro incappare; tuttavia, in un sistema dove il lusso, la
mondanità e il conformismo predominano, la qualità dei prodotti originali è importante? È
davvero necessario che quella polo Lacoste sia davvero Lacoste? Il logo è identico, nessuno
potrebbe notare la differenza se non dopo un’analisi ravvicinata. Se poi il compratore non è
consapevole di star comprando un falso le differenze tra originale e replica si annullano
completamente. Si può quindi affermare che i compratori di usato, in buona parte dei casi (ci
sono delle eccezioni), sono vittime, per quanto si possa parlare di vittime di un sistema (in
questo senso siamo tutti vittime del sistema capitalista). Vittime del capitalismo estetico, del
bisogno di comprare una polo con sopra un coccodrillo piuttosto che una normalissima t-shirt
economica.
Fino a qua mi sono concentrato quasi esclusivamente sull’abbigliamento usato, ma ci sono
anche tanti altri oggetti di seconda mano che si possono analizzare. Soffermiamoci
sull’ambito musicale. Un esempio a me vicino e caro è quello del vinile, il disco intendo. I
vinili ovviamente sono obsoleti oggi e non c’è una vera ragione, a livello qualitativo, per cui
li si dovrebbe preferire, salvo che essi possiedono indiscutibilmente un’atmosfera che li rende
desiderabili. Un’atmosfera generata da un insieme di elementi, quali la copertina-contenitore
del disco, il fatto che possa essere suonato solo grazie ad un giradischi, la divisione dei brani
in lato A e lato B, l’impossibilità di saltare le canzoni (anche se, con una certa manualità, la
puntina si può spostare sul disco e i 45 giri siano in realtà impilabili e saltabili proprio in
quanto contenenti perlopiù brani singoli). La caccia ai dischi usati, 33 giri per lo più, negli
ultimi tempi è molto praticata non più dai soli collezionisti o appassionati, ma anche, e
soprattutto, dai più giovani; anche qua lo zampino del capitalismo estetico è evidente: non c’è
una vera necessità di comprare o ascoltare vinili, in quanto la digitalizzazione della musica
l’ha resa disponibile ovunque e con una qualità maggiore, però, per ragioni puramente
estetiche, c’è chi preferisce il supporto fisico. Sempre in ambito musicale è importante citare
anche le audiocassette. Ci sono due tipi di cassette: le preregistrate, contenenti album o
compilation scelte dalle case di distribuzione, e quelle vergini, vuote e da incidere. Per le
prime il valore estetico si rimanda bene o male a quello del vinile (due lati, suonata dal
mangiacassette; le canzoni si possono però saltare), ciò che mi interessa approfondire sono le
cassette vergini. Grazie ad esse si potevano (e, volendo, possono tuttora) creare raccolte di
canzoni (compilation) di artisti diversi, in modo quasi casuale, inserendo semplicemente le
canzoni preferite, oppure seguendo un criterio, scegliendo canzoni che trasmettono le stesse
sensazioni. Il valore estetico di queste cassette risiede in due caratteristiche: l’idea stessa di
mettere insieme diverse canzoni come nessuno ha fatto prima, quindi incidere fisicamente
quei brani all’interno del supporto, e la cassetta in quanto media, perché è vero che oggi si
possono creare le cosiddette playlist su piattaforme digitali quali Spotify o SoundCloud, ma il
fascino delle cassette, oggetti di un altro tempo, è inimitabile. Esse, preregistrate e non, si
possono trovare in qualsiasi mercatino e comprarle in certi casi può essere una scommessa, su
di esse ci potrebbe essere di tutto, a prescindere da quello che c’è scritto sul contenitore.
Per concludere vorrei parlare di un tipo di “compravendita” dell’usato, quella per
beneficenza. Ovviamente non si parla di compravendita vera e propria in quanto la merce
viene donata al mercatino e i soldi ricavati vengono poi donati alle varie associazioni
benefiche. Qua il concetto di capitalismo estetico viene meno, in quanto non c’è nessun tipo
di profitto da parte del sistema. La vendita non è quindi a scopo di lucro, ma si potrebbe dire
che l’atto di comprare in parte lo è, infatti acquistando un oggetto non si sta facendo
beneficenza, ma si sta appunto comprando un oggetto; c’è allora un ritorno al gesto che il
compratore fa, tuttavia non c’è nulla da biasimare, questi mercatini esistono apposta. È vero
che si può fare la carità anche senza qualcosa in cambio (che è praticamente la definizione di
beneficenza), ma è vero anche che ci sono persone, in particolare i giovani, come nel mio
caso, che non dispongono di una grossa quantità di denaro e prendere due piccioni con una
fava, ossia aiutare chi ne ha bisogno e comprare qualcosa che ci piace o serve, non è affatto
male. Inoltre l’idea di fare qualcosa di utile, di aiutare qualcuno, è piacevole e, in un certo
senso, lo facciamo anche per noi stessi perché siamo pur sempre esseri umani alla ricerca di
sensazioni piacevoli.

Potrebbero piacerti anche