Antonio Melis
Università degli Studi di Siena
Fra le sette poesie scritte in quechua negli ultimi anni di vita di José María Arguedas e
raccolte in volume solo in forma postuma (Arguedas, 1972), “Iman Guayasamin”
occupa un posto particolare. Si tratta infatti di un testo che ha avuto la sua traduzione in
spagnolo realizzata solo parzialmente dall’autore e completata da Jesús Ruiz Durand.
Scritta probabilmente fra il 1964 e il 1965 e pubblicata per la prima volta direttamente
nel volume citato, è una celebrazione della pittura del celebre artista ecuatoriano
Oswaldo Guayasamín. Il testo bilingue a cui si fa riferimento, riportato in appendice
insieme a una mia traduzione italiana, è quello incluso nel V volume delle opere
complete di Arguedas (Arguedas, 1983: 235-237).
Il titolo, a mio giudizio, va interpretato come un’esclamazione, che riflette
l’entusiasmo per la qualità del pittore, anche se altri commentatori conferiscono a ima
un valore interrogativo (Huamán, 1988: 82).
Nel primo verso troviamo subito un problema legato al carattere polisemico di un
vocabolo. Maypachamantan è composto da quattro segmenti. In primo luogo l’avverbio
may, che significa “dove”; poi il sostantivo pacha, sul quale ritornerò immediatamente.
Seguono due suffissi: -manta, che indica provenienza e –n, che marca il possessivo di
terza persona singolare. Il verso è completato dal nome del pittore, dal sostantivo kallpa
(“forza”), seguito dal suffisso possessivo di seconda persona singolare –yki e dal verbo
oqariy (“innalzare”) con il suffisso riflessivo –ku e la desinenza di terza persona
singolare –n. La traduzione è quindi “Da quale mondo, Guayasamín, la tua forza
s’innalza!”.Tutto bene, se non fosse per quel sostantivo pacha, incastonato fra un
avverbio e due suffissi. Il traduttore (e questo vale ovviamente per qualunque lingua) si
vede di fronte a una costrizione insuperabile. Quando si trova in presenza di un
vocabolo o di un sintagma polisemico, deve fare una scelta sempre dolorosa. Non può
infatti tradurre introducendo una disgiuntiva fra due o più opzioni possibili. Il caso della
parola pacha (identica in quechua e in aymara) è particolarmente complesso. Significa
infatti “terra” (nella duplice accezione di terra da lavorare e di pianeta), “mondo”,
“tempo”, “spazio”. Forse il dato più rilevante, come ho avuto occasione di sottolineare
in un’altra occasione (Melis,1999), è l’unione di tempo e spazio. Si potrebbe dire,
semplificando, che siamo di fronte a uno spazio temporalizzato o, se si preferisce, a un
tempo spazializzato. In questo caso, il testo stesso della poesia ci viene in aiuto. Nel
verso 3, infatti, troviamo maypachamantapunin. Rispetto al vocabolo che compare nel
verso 1 troviamo un ulteriore suffisso, -puni, con il valore di “certamente”. In questo
secondo caso, di fronte alla scelta obbligata, è possibile propendere per l’accezione
temporale. In questo modo si ottiene un recupero semantico che stabilisce una relazione
di complementarità con il termine del primo verso. Una volta di più si afferma così la
dialettica del dare e dell’avere, sulla quale hanno richiamato l’attenzione alcuni teorici
della traduzione, in particolare Benvenuto Terracini (Terracini, 1983).
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Metalinguaggi e metatesti. Lingua, letteratura e traduzione, XXIV Congresso AISPI (Padova, 23-26 maggio 2007),
a cura di A. Cassol, A. Guarino, G. Mapelli, F. Matte Bon, P. Taravacci, Roma, AISPI Edizioni, 2012, pp. 527-534.
Tradurre le lingue indigene americane: una poesia quechua di José María Aguedas 529
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certezza di ciò che si afferma. La traduzione del verso è “il grido degli ultimi (qepa,
“dietro” e ñepe, che indica successione) figli (chura + il suffisso del plurale –kuna e il
suffisso possessivo –pa) del sole (inti + lo stesso suffisso –pa). Si noti (come sopra in
wayrapa kallpanta) la doppia espressione del possesso, con suffissi che indicano sia la
cosa posseduta che il possessore. È la ragione per cui il parlante quechua, ancora incerto
nell’uso dello spagnolo, pronuncia frasi del tipo “estuve de Luis en su casa”.
Nel verso successivo il soggetto è katatatasqan, da katatatay, “tremare”, variante
di katatay, che è il titolo di un’altra poesia e dell’intera raccolta. Accompagnato dal
suffisso che indica il participio passato –sqa e del possessivo di terza persona singolare
–n, si traduce “il tremito”. Esso appartiene agli apu wamanikunapa, cioè ai “sacri (apu)
falchi (wamani, con il suffiso del plurale e l’indicatore di possesso) che svolazzano
(muyuy, “volare” + il suffisso agentivo) sulla città di Quito”, la capitale dell’Ecuador e
luogo natale del pittore. Anche in questo verso troviamo un’alta condensazione di
simboli andini. Apu è un termine usato per indicare qualcosa di alto, circonfuso dalla
sacralità: per esempio le grandi montagne. Wamani si riferisce a un uccello sacro che
svolge la funzione di messaggero degli apu. La traduzione, in questo caso, può rendere
conto solo parzialmente di tutte le connotazioni.
Nel verso 19 l’enumerazione procede con altre forme participiali: waqasqan (“il
suo pianto”) e riti mirasqan: “che accresce (miray seguito dai suffissi già commentati)
la neve (riti)”. Il verso successivo si compone di cielomantapas, “dal cielo” (con
l’impiego già visto sopra del vocabolo spagnolo, seguito dal suffisso di provenienza e
dal suffiso –pas con valore aggiuntivo); astawan, avverbio che significa “ancora di
più”; sinchi, “forte”; sombran (di nuovo un vocabolo spagnolo preferito al quechua
llanthu, ma accompagnato dal suffisso quechua –n).
Il verso 21 significa “non è solo questo”: manan è la negazione, ripresa dal
suffisso –chu che contrassegna le proposizioni negative (e interrogative), qui aggiunto
al dimostrativo chay “questo”; il secondo vocabolo è completato dal limitativo –lla. Il
verso che segue, accanto a due nomi di stati attuali, utilizza l’espressione Tawantinsuyu,
il nome quechua di quello che noi chiamiamo, impropriamente, Impero incaico. Il
significato letterale del termine è “tutte e quattro le sue parti”: tawa è il numero quattro,
suyu significa “parte”, -ntin è un suffisso dal valore inclusivo.
Nel verso 23 ñakasqanta indica, come si è visto (v.5), la sofferenza. Essa
appartiene agli uomini (runakuna) di tutte (tukuy) le terre (llaqtapi: llaqta, “terra”, con
il suffisso locativo –pi). Nel verso 24 imaymana significa “tutto ciò”, mentre nel
vocabolo mañakuspanmanta troviamo quattro suffissi uniti alla radice del verbo mañay,
“chiedere”. Il suffisso del riflessivo –ku precede –sqa, participio passato, -n, terza
persona singolare e -manta, che, come abbiamo già visto, indica provenienza. La
traduzione in spagnolo cerca di rendere questa concentrazione di significati sdoppiando
il verbo: reclaman y procuran. In questo modo, però, utilizza proprio un procedimento
tipico della poesia quechua, cioè la coppia di verbi sinonimici, con un effetto
parallelistico simile alla rima, anche se spostato sul versante semantico. In questo
apparente paradosso troviamo una conferma ulteriore del progetto unitario di Arguedas,
che non si limita a registrare le contaminazioni fra le due culture, ma le propone
attivamente come veicolo di una nuova sintesi.
Il verso 25 si apre con il pronome di seconda persona qan seguito dal sintagma
rauraq wayqey già trovato nel verso 4. Ritroviamo anche il verbo qapariy, qui
coniugato alla II persona. Nel verso 26 viene citato il fiume Apurimac, il cui nome,
come ha spiegato in altri testi lo stesso Arguedas, possiede una forte carica evocativa.
Metalinguaggi e metatesti. Lingua, letteratura e traduzione, XXIV Congresso AISPI (Padova, 23-26 maggio 2007),
a cura di A. Cassol, A. Guarino, G. Mapelli, F. Matte Bon, P. Taravacci, Roma, AISPI Edizioni, 2012, pp. 527-534.
Tradurre le lingue indigene americane: una poesia quechua di José María Aguedas 531
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a cura di A. Cassol, A. Guarino, G. Mapelli, F. Matte Bon, P. Taravacci, Roma, AISPI Edizioni, 2012, pp. 527-534.
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Bibliografia
Arguedas, José María, 1972, Katatay. Temblar, Lima, Instituto Nacional de Cultura.
Arguedas, José María, 1983, Katatay. Temblar, in Obras completas, Lima, Horizonte, tomo V:
221-270.
Espinosa Medrano, Juan, 1982, Apologético, ed. A. Tamayo Vargas, Caracas, Ayacucho.
Huamán, Miguel Ángel, 1988, Poesía y utopía andina, Lima, Desco.
Melis, Antonio, 1999, “I mille volti di Tupac Amaru”, in Sergio Bertelli (ed.), Velocità storiche.
Miti di fondazione e percezione del tempo nelle culture e nella politica del mondo
contemporaneo, Roma, Carocci.
Melis, Antonio, 2001, “José María Arguedas e la scelta della lingua madre”, Il Gallo Silvestre,
14, 88-96.
Montoya, Rodrigo, Edwin y Luis, 1987, La sangre de los cerros. Urkukunapa yawarnin.
(Antología de la poesía quechua que se canta en el Perú), Lima, Mosca Azul.
Primer encuentro de narradores peruanos, 1986, Lima, Latinoamericana Editores.
Terracini, Benvenuto, 1983, Il problema della traduzione, Milano, Serra e Riva.
APPENDICE
IMAN GUAYASAMIN
Runa waqachun
[...]
wayrapa kallpanta mikuchun, 15
qan rayku.
Wayasamin sutiyki
intipa qepa ñeqen churinkunapa qaparisqanmi
Quito muyuq apu wamanikunapa katatatasqan
waqasqan, riti mirasqan, 20
cielomantapas astawan sinchi sombran.
Manan challaychu:
Estados Unidos, China, Tawantinsuyu
tukuy llaqtapi runakuna ñakasqanta,
imaymana mañakusqanmanta 25
qan, rauraq wayqey, qaparinki,
Apurimaq mayu astawan hatun
astawan mana tanichiq simiwan.
¡Allinmi, wayqey! ¡Estabín, Oswaldo!
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QUÉ GUAYASAMÍN
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CHE GUAYASAMÍN
Pianga l’uomo
[…]
divori la forza del vento,
in tuo nome. 15
Wayasamín è il tuo nome
il grido degli ultimi figli del sole
il tremito dei falchi sacri che svolazzano su Quito
che piangono, che accrescono la neve,
che accrescono ancora di più l’ombra smisurata del cielo. 20
Non solo questo:
la sofferenza degli Stati Uniti, della Cina, del Tawantinsuyu
degli uomini di tutte le terre,
tutto ciò che essi chiedono,
tu, ardente fratello, lo gridi, 25
con voce ancora più forte del fiume Apurímac
ancora più irresistibile.
Va bene, fratello! Está bien, Oswaldo!
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