Sei sulla pagina 1di 8

Tradurre le lingue indigene americane:

una poesia quechua di José María Arguedas

Antonio Melis
Università degli Studi di Siena

Fra le sette poesie scritte in quechua negli ultimi anni di vita di José María Arguedas e
raccolte in volume solo in forma postuma (Arguedas, 1972), “Iman Guayasamin”
occupa un posto particolare. Si tratta infatti di un testo che ha avuto la sua traduzione in
spagnolo realizzata solo parzialmente dall’autore e completata da Jesús Ruiz Durand.
Scritta probabilmente fra il 1964 e il 1965 e pubblicata per la prima volta direttamente
nel volume citato, è una celebrazione della pittura del celebre artista ecuatoriano
Oswaldo Guayasamín. Il testo bilingue a cui si fa riferimento, riportato in appendice
insieme a una mia traduzione italiana, è quello incluso nel V volume delle opere
complete di Arguedas (Arguedas, 1983: 235-237).
Il titolo, a mio giudizio, va interpretato come un’esclamazione, che riflette
l’entusiasmo per la qualità del pittore, anche se altri commentatori conferiscono a ima
un valore interrogativo (Huamán, 1988: 82).
Nel primo verso troviamo subito un problema legato al carattere polisemico di un
vocabolo. Maypachamantan è composto da quattro segmenti. In primo luogo l’avverbio
may, che significa “dove”; poi il sostantivo pacha, sul quale ritornerò immediatamente.
Seguono due suffissi: -manta, che indica provenienza e –n, che marca il possessivo di
terza persona singolare. Il verso è completato dal nome del pittore, dal sostantivo kallpa
(“forza”), seguito dal suffisso possessivo di seconda persona singolare –yki e dal verbo
oqariy (“innalzare”) con il suffisso riflessivo –ku e la desinenza di terza persona
singolare –n. La traduzione è quindi “Da quale mondo, Guayasamín, la tua forza
s’innalza!”.Tutto bene, se non fosse per quel sostantivo pacha, incastonato fra un
avverbio e due suffissi. Il traduttore (e questo vale ovviamente per qualunque lingua) si
vede di fronte a una costrizione insuperabile. Quando si trova in presenza di un
vocabolo o di un sintagma polisemico, deve fare una scelta sempre dolorosa. Non può
infatti tradurre introducendo una disgiuntiva fra due o più opzioni possibili. Il caso della
parola pacha (identica in quechua e in aymara) è particolarmente complesso. Significa
infatti “terra” (nella duplice accezione di terra da lavorare e di pianeta), “mondo”,
“tempo”, “spazio”. Forse il dato più rilevante, come ho avuto occasione di sottolineare
in un’altra occasione (Melis,1999), è l’unione di tempo e spazio. Si potrebbe dire,
semplificando, che siamo di fronte a uno spazio temporalizzato o, se si preferisce, a un
tempo spazializzato. In questo caso, il testo stesso della poesia ci viene in aiuto. Nel
verso 3, infatti, troviamo maypachamantapunin. Rispetto al vocabolo che compare nel
verso 1 troviamo un ulteriore suffisso, -puni, con il valore di “certamente”. In questo
secondo caso, di fronte alla scelta obbligata, è possibile propendere per l’accezione
temporale. In questo modo si ottiene un recupero semantico che stabilisce una relazione
di complementarità con il termine del primo verso. Una volta di più si afferma così la
dialettica del dare e dell’avere, sulla quale hanno richiamato l’attenzione alcuni teorici
della traduzione, in particolare Benvenuto Terracini (Terracini, 1983).
528 ANTONIO MELIS

Riprendiamo il nostro percorso interpretativo con il secondo verso. Si compone di


due epiteti che cercano di definire, con metafore andine, l’eccellenza della pittura di
Guayasamín. Di passaggio, si può notare la disposizione a chiasmo, che introduce un
procedimento delle letterature europee in un contesto indigeno, secondo una logica di
contaminazione perseguita lucidamente da Arguedas. Qaqchaq urpi significa “colomba
(urpi) che spaventa (qaqchay seguito dal suffisso agentivo –q)”. Nella traduzione
spagnola figura “Paloma que castiga”. Yawar qapariq vuol dire “sangue (yawar) che
grida (qapariy + l’agentivo –q). In questo verso troviamo una concentrazione simbolica
particolarmente densa. Urpi, infatti, è una metafora di amore e tenerezza che si ritrova
sia nella poesia e nella canzone popolare (Montoya, 1987) che negli autori “colti”.
Yawar figura nel titolo ibrido del primo romanzo dell’autore, Yawar Fiesta (1941), per
indicare la corrida andina. Compare poi ripetutamente nelle sue opere, attraverso il
sintagma metaforico yawar mayu. Esso sta a significare le acque torbide di un fiume in
piena (mayu = “fiume”), ma anche le tempeste che sconvolgono l’animo e che Arguedas
ha sperimentato sulla sua pelle nel corso di tutta la sua vita tormentata e conclusa
tragicamente. Tra le canzoni che preferiva e che si può trovare incisa dalla sua stessa
voce, c’era quella del “Carnaval de Tambobamba”, che comincia proprio con i versi
“Tambubambinu maqtatas / yawar mayu apamun”, cioè “Dicono che un fiume di
sangue / porta via un ragazzo di Tambobamba” (Montoya, 1987: 272).
Nel terzo verso, dopo il vocabolo già esaminato, troviamo ñawiki, da ñawi,
“occhio” + il suffisso possessivo di II persona singolare; kanchariq viene da kanchariy,
“illuminare” (la traduzione spagnola preferisce “descubren”) con il già visto agentivo –
q. L’oggetto di questa illuminazione presenta un grado di complessità rilevante. In
spagnolo, ukupacha viene tradotto come “los mundos que no se ven”. Il vocabolo
composto designa un aspetto importante della concezione del mondo andina. Accanto
alla divisione principale dello spazio in due parti, hanan pacha (“mondo di sopra”) e
hurin pacha (“mondo di sotto”) esiste una zona infera costituita appunto dall’ukupacha.
Per gli evangelizzatori è stato facile identificarla con l’inferno, così come hanan pacha,
negli inni religiosi in quechua dell’epoca coloniale, coincide con il paradiso. Nell’auto
sacramental El hijo pródigo di Juan Espinosa Medramo, El Lunarejo, il personaggio che
rappresenta il corpo si chiama U’ku (Espinosa Medrano, 1982). La natura ctonia del
termine è confermata anche dal mondo delle miniere. Questa attività, così centrale nella
regione andina, richiama intorno a sé tutto un patrimonio di credenze e leggende. Una
presenza dominante, come del resto in altri contesti minerari, è l’abitante per eccellenza
del sottosuolo, il diavolo. Anche se bisogna precisare che il supay andino è più vicino a
un duende che al demonio cristiano. Questa tradizione si riflette anche in alcune feste
popolari, come nelle comparse carnevalesche dei “diablitos” di Oruro, in Bolivia o nella
“diablada” di Puno, sulle rive peruviane del lago Titicaca. Sul terreno storico, si può
ricordare l’insurrezione indigena del Dipartimento di Ancash, alla fine del XIX secolo.
Secondo la narrazione che ne ha fatto Ernesto Reyna sulle pagine della rivista di
Mariátegui Amauta, il luogotenente dell’Amauta Atusparia, capo della ribellione, è un
minatore soprannominato Uchcu Pedro, in omaggio al suo legame con l’Ukupacha.
Il verso si completa con makiyki (“le tue mani”) kañaq (“che incendiano”) cielo
(“il cielo”). Quest’ultimo vocabolo viene riportato in spagnolo, secondo una scelta
coerentemente antipuristica di Arguedas. Egli infatti accetta l’ibridazione linguistica che
è in atto da molto tempo e la riflette nei suoi versi, scegliendo i vocaboli sulla base di
esigenze espressive e non di norme (Melis, 2001).
Il quarto verso inizia con un imperativo, uyariway (uyuriway deve essere un

Metalinguaggi e metatesti. Lingua, letteratura e traduzione, XXIV Congresso AISPI (Padova, 23-26 maggio 2007),
a cura di A. Cassol, A. Guarino, G. Mapelli, F. Matte Bon, P. Taravacci, Roma, AISPI Edizioni, 2012, pp. 527-534.
Tradurre le lingue indigene americane: una poesia quechua di José María Aguedas 529

errore) da uyariy (“ascoltare”) seguito dal suffisso dell’imperativo (letteralmente “tu


ascolta me”). Wayqey è qui usato nella sua accezione generica e non presenta problemi
di traduzione (“fratello”). In senso proprio, si tratta del fratello rispetto al fratello. Il
quechua, infatti, ha quattro termini diversi per indicare il rapporto di fratellanza (rispetto
all’unico termine dello spagnolo, declinato al maschile e al femminile, e a quello
duplice dell’italiano). Accanto a wayqey, troviamo tura (fratello ripetto alla sorella),
pana (sorella rispetto al fratello) e ñaña (sorella rispetto alla sorella).
Nel quinto verso ritroviamo pacha nella sua accezione temporale. La sua
caratteristica è connotata da ñakay, che indica la sofferenza. Nella versione spagnola (e
nella mia in italiano) non viene tradotto il termine mita, seguito dal suffisso
dell’accusativo –ta, che indica il turno di lavoro: qui aggiunge un ulteriore connotazione
temporale al verso.
Nel verso successivo, kiriq punchauta vuol dire “il giorno che ferisce”: punchau
(“giorno”) è seguito dal suffisso –ta già visto, mentre kiriy, “soffrire”, prende il suffisso
agentivo. Runa, che troviamo anche più avanti, vuol dire “uomo”. Così waqachiq tuta,
simmetricamente, significa “la notte (tuta) che fa piangere (waqay + il causativo –chi e
l’agentivo –q)”.
Nel verso 8, runa, runa mikuq uyanta, significa “il volto (uya, seguito dal suffisso
della III persona singolare del possessivo –n e dal suffisso dell’oggetto –ta) dell’uomo
che mangia (mikuy + l’agentivo –q) l’uomo”. Nel successivo, wiñay wiñaypaq churanki
è costituito dalla ripetizione dell’avverbio wiñay (“sempre”), la seconda volta con il
suffisso –paq (“per”) e dalla seconda persona del verbo churay, che significa
“collocare”, “definire”.
Nel verso 10 mana pipa significa “nessuno” (letteralmente “non chi”). Kuyuchiy
atinanta vuol dire “è capace (atinay, “potere” + suffisso di III persona singolare –n + -ta
oggetto) di muovere (kuyuy seguito dal suffisso del causativo –chi già trovato in
precedenza). Nel verso 11 maykamaraq significa “fino a dove”: may, “dove”, -kama
“fino”, -raq “ancora”. Il successivo vocabolo chanqanki viene reso in spagnolo con
lanzaste, anche se l’accezione primaria del verbo sembra piuttosto quella di
“cominciare”.
Nel verso 12 Runa waqachun significa “che l’uomo pianga”: il verbo waqay, già
trovato in precedenza, è accompagnato dal suffisso dell’imperativo di terza persona
singolare –chun. Subito dopo troviamo il problema più grosso che pone il testo. C’è,
con ogni evidenza, una lacuna nella versione quechua. Il verso 15 della traduzione
spagnola, “que beba el suavísimo aliento de la paloma”, non trova infatti nessun
riscontro nell’originale. Tutte le edizioni consultate presentano la stessa omissione,
senza renderne conto in nessun modo. È una testimonianza eloquente dello stato
precario in cui si trovano le edizioni di poesia quechua, anche nel caso di uno scrittore
molto conosciuto come Arguedas.
Dopo il verso mancante, troviamo wayrapa kallpanta mikuchun, cioè “che mangi
(mikuy più il suffisso dell’imperativo) la forza (kallpa + il possessivo + l’oggetto) del
vento (wayra + il suffisso che indica il possesso, -pa). Il verso successivo, qan rayku,
significa “in nome tuo” (letteralmente “in nome di te”).
Il verso 16 dice “Guayasamín (Wayasamin è un adattamento alla fonetica
quechua, che prevede sempre parole parossitone) è il tuo nome (suti + il possessivo di II
persona singolare)”. Per esaminare il verso 17, cominciamo dall’ultima parola. Qapariy,
come abbiamo già visto al v.2, significa “gridare”; alla radice si uniscono il suffisso del
participio passato –sqa, quello di terza persona singolare –n e infine –mi, che indica la

Metalinguaggi e metatesti. Lingua, letteratura e traduzione, XXIV Congresso AISPI (Padova, 23-26 maggio 2007),
a cura di A. Cassol, A. Guarino, G. Mapelli, F. Matte Bon, P. Taravacci, Roma, AISPI Edizioni, 2012, pp. 527-534.
530 ANTONIO MELIS

certezza di ciò che si afferma. La traduzione del verso è “il grido degli ultimi (qepa,
“dietro” e ñepe, che indica successione) figli (chura + il suffisso del plurale –kuna e il
suffisso possessivo –pa) del sole (inti + lo stesso suffisso –pa). Si noti (come sopra in
wayrapa kallpanta) la doppia espressione del possesso, con suffissi che indicano sia la
cosa posseduta che il possessore. È la ragione per cui il parlante quechua, ancora incerto
nell’uso dello spagnolo, pronuncia frasi del tipo “estuve de Luis en su casa”.
Nel verso successivo il soggetto è katatatasqan, da katatatay, “tremare”, variante
di katatay, che è il titolo di un’altra poesia e dell’intera raccolta. Accompagnato dal
suffisso che indica il participio passato –sqa e del possessivo di terza persona singolare
–n, si traduce “il tremito”. Esso appartiene agli apu wamanikunapa, cioè ai “sacri (apu)
falchi (wamani, con il suffiso del plurale e l’indicatore di possesso) che svolazzano
(muyuy, “volare” + il suffisso agentivo) sulla città di Quito”, la capitale dell’Ecuador e
luogo natale del pittore. Anche in questo verso troviamo un’alta condensazione di
simboli andini. Apu è un termine usato per indicare qualcosa di alto, circonfuso dalla
sacralità: per esempio le grandi montagne. Wamani si riferisce a un uccello sacro che
svolge la funzione di messaggero degli apu. La traduzione, in questo caso, può rendere
conto solo parzialmente di tutte le connotazioni.
Nel verso 19 l’enumerazione procede con altre forme participiali: waqasqan (“il
suo pianto”) e riti mirasqan: “che accresce (miray seguito dai suffissi già commentati)
la neve (riti)”. Il verso successivo si compone di cielomantapas, “dal cielo” (con
l’impiego già visto sopra del vocabolo spagnolo, seguito dal suffisso di provenienza e
dal suffiso –pas con valore aggiuntivo); astawan, avverbio che significa “ancora di
più”; sinchi, “forte”; sombran (di nuovo un vocabolo spagnolo preferito al quechua
llanthu, ma accompagnato dal suffisso quechua –n).
Il verso 21 significa “non è solo questo”: manan è la negazione, ripresa dal
suffisso –chu che contrassegna le proposizioni negative (e interrogative), qui aggiunto
al dimostrativo chay “questo”; il secondo vocabolo è completato dal limitativo –lla. Il
verso che segue, accanto a due nomi di stati attuali, utilizza l’espressione Tawantinsuyu,
il nome quechua di quello che noi chiamiamo, impropriamente, Impero incaico. Il
significato letterale del termine è “tutte e quattro le sue parti”: tawa è il numero quattro,
suyu significa “parte”, -ntin è un suffisso dal valore inclusivo.
Nel verso 23 ñakasqanta indica, come si è visto (v.5), la sofferenza. Essa
appartiene agli uomini (runakuna) di tutte (tukuy) le terre (llaqtapi: llaqta, “terra”, con
il suffisso locativo –pi). Nel verso 24 imaymana significa “tutto ciò”, mentre nel
vocabolo mañakuspanmanta troviamo quattro suffissi uniti alla radice del verbo mañay,
“chiedere”. Il suffisso del riflessivo –ku precede –sqa, participio passato, -n, terza
persona singolare e -manta, che, come abbiamo già visto, indica provenienza. La
traduzione in spagnolo cerca di rendere questa concentrazione di significati sdoppiando
il verbo: reclaman y procuran. In questo modo, però, utilizza proprio un procedimento
tipico della poesia quechua, cioè la coppia di verbi sinonimici, con un effetto
parallelistico simile alla rima, anche se spostato sul versante semantico. In questo
apparente paradosso troviamo una conferma ulteriore del progetto unitario di Arguedas,
che non si limita a registrare le contaminazioni fra le due culture, ma le propone
attivamente come veicolo di una nuova sintesi.
Il verso 25 si apre con il pronome di seconda persona qan seguito dal sintagma
rauraq wayqey già trovato nel verso 4. Ritroviamo anche il verbo qapariy, qui
coniugato alla II persona. Nel verso 26 viene citato il fiume Apurimac, il cui nome,
come ha spiegato in altri testi lo stesso Arguedas, possiede una forte carica evocativa.

Metalinguaggi e metatesti. Lingua, letteratura e traduzione, XXIV Congresso AISPI (Padova, 23-26 maggio 2007),
a cura di A. Cassol, A. Guarino, G. Mapelli, F. Matte Bon, P. Taravacci, Roma, AISPI Edizioni, 2012, pp. 527-534.
Tradurre le lingue indigene americane: una poesia quechua di José María Aguedas 531

Esso è infatti è formato da apu, di cui si è già vista la connotazione sacrale, e


dall’agentivo del verbo rimay, che vuol dire “parlare”. Per questo il Rímac, il fiume che
attraversa la capitale del Perù e, secondo alcuni, le dà il suo nome, viene chiamato in
spagnolo “el río hablador”. Questa visione antropomorfica ci riporta anche a una celebre
confessione contenuta in uno dei numerosi interventi di Arguedas nel corso del Primer
Encuentro de Narradores Peruanos, svoltosi ad Arequipa nel 1965: “Yo hasta ahora les
confieso con toda honradez, con toda honestidad, no puedo creer que un rio no sea un
hombre tan vivo como yo mismo” (Primer Encuentro, 1986: 108). Completa il verso
l’avverbio astawan, già analizzato nel verso 20, e l’aggettivo hatun, “grande”.
L’aggettivo si riferisce al sostantivo simi, “bocca”, che compare alla fine del verso
successivo, insieme al suffisso strumentale –wan. Si ripete astawan, seguito da mana
tanichiq, che significa letteralmente “non placabile” (taniy, “placare” + il suffisso
causativo –chi e l’agentivo –q).
Il congedo dell’ultimo verso comprende un doppio saluto, in quechua (allinmi, da
allin, “bene” + il suffisso –mi che indica certezza) e in uno spagnolo quechuizzato
(Estabín per Está bien). La prima volta l’artista viene chiamato “fratello”, la seconda
con il suo nome di battesimo.
Credo che da questa lettura, necessariamente analitica e al tempo stesso sommaria,
emergano alcuni dati importanti. In primo luogo risulta evidente la necessità di tradurre
i testi scritti nelle lingue indigene americane dall’originale e non dalla loro versione
spagnola, anche quando essa è opera dello stesso autore. Questo discorso, naturalmente,
vale nei casi in cui la prima stesura del testo avviene nella lingua indigena, perché a
volte è possibile anche il contrario, soprattutto nelle situazioni in cui non esiste una forte
tradizione di lingua letteraria e la lingua indigena viene recuperata a partire da una
prima redazione in spagnolo. Nel passaggio da una versione all’altra, infatti, entra in
gioco la trascodificazione come elemento imprescindibile. Siccome cambia il
destinatario del testo, è necessario fornire delle informazioni supplementari, che
risultano invece inutili per chi è partecipe dello stesso universo simbolico. È inutile dire
che un’analisi letteraria condotta sulla base della traduzione risulta, come minimo,
inadeguata, anche se purtroppo questa continua a essere, salvo rare eccezioni, la prassi
corrente. Per questo il percorso della traduzione deve essere spesso inverso rispetto a
quello seguito per il passaggio dall’originale allo spagnolo. Il suo scopo principale è
infatti quello di ristabilire i significati originari del testo di partenza.
Nel corso di questa complessa operazione, è inevitabile che vengano sacrificati
alcuni valori semantici. Essi possono tuttavia venire recuperati con un commento
adeguato, funzionale e complementare al primo atto ermeneutico, che è costituito dalla
traduzione stessa.
Per concludere, è evidente che da questo percorso emergono delle suggestioni
importanti per un discorso teorico sulla traduzione che non nasca in un vuoto
autoreferenziale e tautologico, ma cerchi un ancoraggio permanente nella materialità dei
testi.

Metalinguaggi e metatesti. Lingua, letteratura e traduzione, XXIV Congresso AISPI (Padova, 23-26 maggio 2007),
a cura di A. Cassol, A. Guarino, G. Mapelli, F. Matte Bon, P. Taravacci, Roma, AISPI Edizioni, 2012, pp. 527-534.
532 ANTONIO MELIS

Bibliografia

Arguedas, José María, 1972, Katatay. Temblar, Lima, Instituto Nacional de Cultura.
Arguedas, José María, 1983, Katatay. Temblar, in Obras completas, Lima, Horizonte, tomo V:
221-270.
Espinosa Medrano, Juan, 1982, Apologético, ed. A. Tamayo Vargas, Caracas, Ayacucho.
Huamán, Miguel Ángel, 1988, Poesía y utopía andina, Lima, Desco.
Melis, Antonio, 1999, “I mille volti di Tupac Amaru”, in Sergio Bertelli (ed.), Velocità storiche.
Miti di fondazione e percezione del tempo nelle culture e nella politica del mondo
contemporaneo, Roma, Carocci.
Melis, Antonio, 2001, “José María Arguedas e la scelta della lingua madre”, Il Gallo Silvestre,
14, 88-96.
Montoya, Rodrigo, Edwin y Luis, 1987, La sangre de los cerros. Urkukunapa yawarnin.
(Antología de la poesía quechua que se canta en el Perú), Lima, Mosca Azul.
Primer encuentro de narradores peruanos, 1986, Lima, Latinoamericana Editores.
Terracini, Benvenuto, 1983, Il problema della traduzione, Milano, Serra e Riva.

APPENDICE

IMAN GUAYASAMIN

Maypachamantan Guayasamin kallpayki oqarikun?


Qaqchaq urpi, yawar qapariq
¿maypachamantapunin ukupacha kanchariq ñawiki cielo kañaq makiyki?
Uyuriway, rauraq wayqey.
Ñakay pacha mitata 5
runa kiriq punchauta,
waqachiq tuta
runa, runa mikuq uyanta,
wiña wiñaypaq churanki
mana pipa kuyuchiy atinanta 10
¡maykamaraq chanqanki!

Runa waqachun
[...]
wayrapa kallpanta mikuchun, 15
qan rayku.
Wayasamin sutiyki
intipa qepa ñeqen churinkunapa qaparisqanmi
Quito muyuq apu wamanikunapa katatatasqan
waqasqan, riti mirasqan, 20
cielomantapas astawan sinchi sombran.
Manan challaychu:
Estados Unidos, China, Tawantinsuyu
tukuy llaqtapi runakuna ñakasqanta,
imaymana mañakusqanmanta 25
qan, rauraq wayqey, qaparinki,
Apurimaq mayu astawan hatun
astawan mana tanichiq simiwan.
¡Allinmi, wayqey! ¡Estabín, Oswaldo!

Metalinguaggi e metatesti. Lingua, letteratura e traduzione, XXIV Congresso AISPI (Padova, 23-26 maggio 2007),
a cura di A. Cassol, A. Guarino, G. Mapelli, F. Matte Bon, P. Taravacci, Roma, AISPI Edizioni, 2012, pp. 527-534.
Tradurre le lingue indigene americane: una poesia quechua di José María Aguedas 533

QUÉ GUAYASAMÍN

¿Desde qué mundo, Guayasamín, tu fuerza se levanta?


Paloma que castiga
sangre que grita.
¿Desde qué tiempo se hicieron tus ojos que descubren los mundos que no se ven,
tus manos que el cielo incendian? 5
Escucha, ardiente hermano,
el tiempo del dolor,
de los días que hieren,
de la noche que hace llorar,
del hombre que come hombres, 10
para la eternidad lo fijaste
de modo que nadie será capaz de removerlo,
lo lanzaste no sabemos hasta qué límites.

Que llore el hombre


que beba el suavísimo aliento de la paloma 15
que coma el poder de los vientos,
en tu nombre.
Wayasamín es tu nombre;
el clamor de los últimos hijos del sol,
el tiritar de las sagradas águilas que revolotean Quito, 20
sus llantos, que acrecentaron las nieves eternas,
y ensombrecieron aún más el cielo.
No es sólo eso:
el sufrimiento de los hombres en todos los pueblos;
Estados Unidos, China, el Tawantinsuyo 25
todo lo que ellos reclaman y procuran.
Tú, ardiente hermano
gritarás todo esto
con voz aún más poderosa
e incontenible que el Apurímac. 30
Está bien hermano,
está bien, Oswaldo.

Metalinguaggi e metatesti. Lingua, letteratura e traduzione, XXIV Congresso AISPI (Padova, 23-26 maggio 2007),
a cura di A. Cassol, A. Guarino, G. Mapelli, F. Matte Bon, P. Taravacci, Roma, AISPI Edizioni, 2012, pp. 527-534.
534 ANTONIO MELIS

CHE GUAYASAMÍN

Da quale mondo Guayasamín la tua forza si innalza?


Colomba che spaventa, sangue che grida.
Da quali tempi i tuoi occhi che illuminano il mondo profondo le tue mani che incendiano il
cielo?
Ascolta, ardente fratello.
L’epoca del dolore 5
del giorno che ferisce l’uomo,
della notte che fa piangere
il volto dell’uomo che mangia l’uomo
l’hai stabilita in eterno
così che nessuno riuscirà a muoverla 10
fino a chissà dove l’hai lanciata!

Pianga l’uomo
[…]
divori la forza del vento,
in tuo nome. 15
Wayasamín è il tuo nome
il grido degli ultimi figli del sole
il tremito dei falchi sacri che svolazzano su Quito
che piangono, che accrescono la neve,
che accrescono ancora di più l’ombra smisurata del cielo. 20
Non solo questo:
la sofferenza degli Stati Uniti, della Cina, del Tawantinsuyu
degli uomini di tutte le terre,
tutto ciò che essi chiedono,
tu, ardente fratello, lo gridi, 25
con voce ancora più forte del fiume Apurímac
ancora più irresistibile.
Va bene, fratello! Está bien, Oswaldo!

Metalinguaggi e metatesti. Lingua, letteratura e traduzione, XXIV Congresso AISPI (Padova, 23-26 maggio 2007),
a cura di A. Cassol, A. Guarino, G. Mapelli, F. Matte Bon, P. Taravacci, Roma, AISPI Edizioni, 2012, pp. 527-534.

Potrebbero piacerti anche