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11.

BISOGNI EDUCATIVI SPECIALI


E INCLUSIONE
(Francesco Zambotti, Dario Ianes, Sofia Cramerotti, Ricerca e Sviluppo Erickson e Flavio Fogarolo)

7 punti chiave risorsa compagni


adattamento materiali
mappe, schemi, aiuti visivi
didattica processi e stili cognitivi
DM 27/12/2012 inclusiva metacognizione e
metodo di studio
CM N.8 6/3/2013 emozioni
valutazione, verifica, feedback

disabilità ALUNNI individuazione


CON BES sulla base
DSA
disturbi modello
evolutivi difficoltà bio-psico-sociale
linguistiche
specifici ICF
svantaggio
socio-
culturale
PDP condizioni fattori
fisiche contestuali
ambientali
PEI Diagnosi
funzionale strutture personali
corporee
Profilo dinamico
funzionale funzioni partecipazione
Attività, materiali, corporee sociale
metodo di lavoro
Verifica e Valutazione

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Bisogni educativi e bisogni educativi speciali a scuola


Francesco Zambotti

La realtà quotidiana della nostra scuola, così come quella della nostra società, è
contraddistinta dal confronto costante con l’eterogeneità delle richieste e dei bisogni
dei nostri alunni e della comunità intera che gravita attorno al mondo della scuola.
Già quindici anni fa, Brahm Norwich, uno dei massimi studiosi internazionali delle
pratiche e politiche inclusive, aveva evidenziato come nella scuola coesistano quoti-
dianamente tre tipi fondamentali di bisogni educativi a cui è necessario rispondere
(Norwich, 2000, pp. 19-25):

–– bisogni comuni, che fanno riferimento a caratteristiche possedute da tutti;


–– bisogni specifici, che riguardano aspetti condivisi da alcuni alunni;
–– bisogni individuali, che sono riconducibili esclusivamente ad alcuni alunni e sono
differenti da tutti gli altri.

In questa tripartizione, elaborata a livello internazionale, ritroviamo anche la


complessità e la ricchezza dei bisogni tipici della scuola italiana che da quarant’anni,
non senza difficoltà, accoglie tutti gli alunni con disabilità nelle classi comuni e che,
negli ultimi anni, ha contribuito a innovare la normativa, cercando una risposta ai
bisogni educativi degli alunni con Disturbi Specifici di Apprendimento (DSA) e con
altre forme di svantaggio di origine socioculturale, linguistico o clinico.
Nella macrocategoria di Bisogni Educativi, quindi, convergono tutte quelle
necessità educative normali e speciali che richiedono degli accorgimenti didattici
specifici per realizzare una piena inclusione di tutti gli alunni, che si traduce nel
massimo grado possibile di apprendimento rispetto alle proprie potenzialità e di
partecipazione alla vita sociale e comunitaria, sia a scuola, sia nell’extrascuola.

Quando il bisogno educativo normale diventa speciale


Dario Ianes e Sofia Cramerotti

Il concetto di bisogno educativo speciale (BES) appare nei documenti ufficiali


dell’Unesco nel 1997, nella legislazione del Regno Unito nel 2001 (Special Educatio-
nal Needs and Disability Act) e nei documenti dell’Agenzia europea per lo sviluppo
dell’educazione per i bisogni speciali nel 2003, come tendenza a considerare soggetti
con BES anche altre persone in età evolutiva che manifestino difficoltà di appren-
dimento e di comportamento diverse dalla disabilità.
Su questa base, di sostanziale estensione ad altre categorie della speciale con-
siderazione riservata soltanto alle disabilità «classiche», nel 2005 Ianes ha proposto
una diversa accezione del concetto di BES, non più come raccolta estesa di nume-
rose diagnosi cliniche aggiunte a quelle di disabilità, ma come la possibilità aperta,

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dinamica e anche transitoria, di comprendere tutte le situazioni di funzionamento


problematico per la persona, che da tale problematicità viene ostacolata nell’ottenere
risposte soddisfacenti ai propri bisogni (Ianes, 2005; Ianes e Macchia, 2008) e il cui
funzionamento va compreso attraverso un’antropologia bio-psico-sociale nell’ottica
del modello ICF-CY (OMS, 2007).
In alcune situazioni, infatti, un bisogno educativo normale diventa speciale. Ad
esempio, può accadere, in alcune condizioni di funzionamento umano, che alcuni
bisogni incontrino difficoltà a ottenere risposte adeguate. Nel modello ICF, il fun-
zionamento umano è la risultante dell’interazione complessa e sistemica tra fattori
biologici, funzioni e struttura del corpo, competenze personali e partecipazione
sociale, fattori di contesto ambientale e personale, che mediano, questi ultimi, il
funzionamento, facilitandolo o ostacolandolo. Può accadere dunque che il bisogno di
autonomia di un bambino, ad esempio, incontri delle difficoltà a ottenere l’alimento
adatto per via di un funzionamento problematico che può avere varie ragioni: può
essere compromessa qualche funzione del corpo (spasticità, ad esempio), oppure
l’ambiente relazionale non offre cura e stimolazione adeguate. O, ancora, possono
agire entrambi, o più, ostacoli. In ogni caso, la situazione sarà per lui problematica,
perché non si realizza un’interdipendenza positiva tra bisogni e risposte.
Se adottiamo l’ottica dell’antropologia ICF, questo può accadere per qualsi-
asi combinazione di fattori, interni ed esterni al soggetto, o soltanto esterni. Per
comprendere una situazione di BES non ci servono dunque diagnosi cliniche, ma
osservazione e valutazione delle reali interazioni tra i vari fattori, per capire se quel-
lo specifico funzionamento è davvero problematico per «quel» soggetto. E se quel
soggetto si trova effettivamente in una situazione problematica, sulla base di un
confronto intersoggettivo rispetto a tre criteri oggettivi — danno, ostacolo e stigma
sociale — dovremo attivare un intervento «speciale», ovvero capace di portarlo a una
migliore soddisfazione dei suoi bisogni.
Questa situazione di bisogno educativo speciale può essere del tutto transitoria,
se cambiano le condizioni che l’hanno originata, e dunque da essa si può uscire,
diversamente da quanto accade con quasi tutte le altre etichette cliniche.
Il concetto di BES quindi non è clinico, ma deriva da un’esigenza di equità nel
riconoscimento, da parte della scuola e dei sistemi di welfare, delle varie situazioni di
funzionamento che vanno «arricchite» di interventi speciali, di individualizzazione
e personalizzazione.

I bisogni educativi speciali nella scuola italiana


Ricerca e Sviluppo Erickson

Il concetto di bisogno educativo speciale (BES) è una macrocategoria che com-


prende dentro di sé tutte le possibili difficoltà educative e apprenditive degli alunni
(figura 11.1). Tra queste, le situazioni di disabilità certificata secondo la Legge

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104/92, quelle legate a difficoltà che si presentano in caso di DSA, di disturbo da


deficit di attenzione/iperattività e in altre condizioni di problematicità psicologica,
comportamentale, relazionale e apprenditiva di origine socioculturale e linguistica,
così come in tutti i casi in cui è ancora in corso la procedura diagnostica, ma il bi-
sogno educativo è già emerso nella quotidianità scolastica.
Come vediamo in figura 11.1, nella Normativa relativa agli alunni con BES non
sono inclusi gli alunni di cittadinanza non italiana di recente immigrazione. Questi
studenti, che a tutti gli effetti presentano ovviamente dei bisogni educativi speciali,
non rientrano dal punto di vista normativo tra gli alunni con BES; tuttavia i loro
bisogni sono tutelati da un’apposita normativa (CM n. 24, 2006, e Linee Guida della
CM n. 2, 2010), che tende a rendere il sistema maggiormente flessibile in termini
di tempi, orari, spazi e gruppi di apprendimento, per garantire anche in questi casi
la necessaria personalizzazione dei percorsi scolastici.

Alunni con Bisogni Educativi


Speciali (BES)

Alunni con disabilità Alunni con Disturbi Specifici Alunni con altri bisogni educativi
(certificata secondo dell’Apprendimento (DSA) speciali (DM 27/12/2012
la L. 104/92) (certificati secondo la L. 170/2010) e CM 8/2013)

Disabilità intellettiva Dislessia evolutiva Altre tipologie di disturbo


non previste nella L. 170/2010

Disabilità motoria Disortografia


Alunni con iter diagnostico di DSA
non ancora completato
Disabilità sensoriale Disgrafia

Alunni con svantaggio


Pluridisabilità Discalculia socioeconomico

Disturbi neuropsichiatrici Alunni con svantaggio


socioculturale

Piano Educativo Individualizzato Piano Didattico Personalizzato Piano Didattico Personalizzato


(se deciso dal Consiglio di classe)

Fig. 11.1 La macrocategoria di Bisogno Educativo Speciale.

Hanno Bisogni Educativi Speciali quindi tutti quegli alunni che evidenziano
una difficoltà nell’apprendimento e nella partecipazione sociale, rispetto alla quale
è richiesto un intervento didattico mirato, individualizzato e personalizzato, nel
momento in cui le normali misure e attenzioni didattiche non siano sufficienti a

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garantire un percorso educativo efficace. Nella tabella 11.1 presentiamo una sintesi
dei principali aspetti normativi che riguardano l’individualizzazione e la personaliz-
zazione didattica riferita agli alunni con BES.
Nei paragrafi seguenti, forniamo invece un breve approfondimento dei due
strumenti programmatici principali per la gestione della didattica speciale a scuola,
ovvero il Piano Educativo Individualizzato, rivolto agli alunni con certificazione di
disabilità secondo la Legge 104 del 1992, e il Piano Didattico Personalizzato, neces-
sario per gli alunni con DSA o con altre tipologie di BES, secondo quanto previsto
dalla Legge 170 del 2010 e dalle Circolari ministeriali del 2012 e 2013.

TABELLA 11.1
ALUNNI CON BISOGNI EDUCATIVI SPECIALI: cosa dice la Normativa
Alunni con altri bisogni
Alunni con disabilità Alunni con DSA educativi speciali (DM
27/12/2012)
Chi sono Alunni con disabilità intellettiva, Alunni con dislessia evoluti- Alunni che presentano condi-
fisica, psichica o sensoriale, va, disgrafia, disortografia e zioni di svantaggio socioeco-
stabilizzata o progressiva. discalculia. nomico e/o culturale.
Alunni per i quali l’iter di cer-
tificazione di DSA è in corso.
Alunni con altri disturbi,
non coperti dalla Legge
170/2010.

Valutazione, Certificazione ai sensi della Certificazione ai sensi della Valutazione e delibera del
certificazione Legge n. 104/92 art. 3, commi L. n. 170/2010 e alle relative Consiglio di classe, ai sensi
e diagnosi 1 o 3 e del DPCM n. 185/06. Linee Guida di attuazione della DM 27/12/2012 e CM
(Luglio 2011). 8/2013.

Programmazio- PEI (Piano Educativo Indivi- PDP (Piano Didattico Perso- Il PDP non è un obbligo per
ne educativa dualizzato) d’obbligo per tutti nalizzato), d’obbligo per tutti il Consiglio di classe, ma una
e strumenti gli alunni con certificazione. gli alunni con certificazione. scelta autonoma per la mi-
didattici Basato su: Basato su: gliore gestione dei processi
– Diagnosi funzionale (descri- – dati generali sull’alunno; inclusivi. Esso:
zione del funzionamento – descrizione del funziona- – definisce le misure didat-
dell’alunno); mento nelle abilità speci- tiche da adottare colle-
– Profilo dinamico-funziona- fiche e disturbi associati; gialmente per soddisfare
le: programmazione degli – misure e strumenti com- i bisogni, monitorare e
obiettivi didattici a lungo, pensativi e dispensativi valutare gli apprendimenti;
medio e breve termine; utili; – è indicato se è prevista
– descrizione di attività e ma- – forme di valutazione per- l’ado­zione di strumenti e
teriali didattici di intervento; sonalizzata. misure compensative e
– forme di valutazione e verifi- dispensative.
ca individualizzata.
Insegnante di sostegno e/o
assistente per l’autonomia e
la comunicazione.

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Valutazione Alla scuola primaria, la valuta- Forme personalizzate di va- Non è prevista la dispensa
zione è positiva se si riscon- lutazione che prevedono dalla forma scritta della lingua
trano miglioramenti rispetto la possibile dispensa dalla straniera.
al livello iniziale e agli obiettivi forma scritta nella seconda È prevista l’adozione degli
individualizzati previsti nel PEI. lingua (da integrare con prova strumenti compensativi e
Per la scuola secondaria, l’arti- analoga orale). l’estensione dei tempi per le
colo 15 dell’OM 90/01 prevede Tempi più estesi per le prove prove, se previsto nel PDP.
due percorsi di valutazione: di verifica e valutazione.
– PEI semplificato, basato sul
raggiungimento di obiettivi mi-
nimi disciplinari che ha come
effetto il conseguimento del
diploma valido a tutti gli effetti;
– PEI differenziato, non più
legato agli ambiti discipli-
nari, ma alle reali capacità
dell’alunno. In questo caso
alla fine del percorso viene
rilasciato un attestato con
la certificazione dei crediti
formativi, ma non il diploma.

Il Piano Educativo Individualizzato (PEI)


Dario Ianes e Sofia Cramerotti

Le condizioni problematiche che causano difficoltà di apprendimento e bisogni


educativi speciali sono molte: alcune gravi e ben definite, come può essere la disabilità
intellettiva in una sindrome organica, altre più sfumate e meno definite. Di fronte
a queste oggettive difficoltà nel seguire la programmazione rivolta alla classe e nel
partecipare ai vari ruoli della vita sociale di alunno, gli insegnanti si trovano nella
necessità di elaborare forme di didattica individualizzata. In generale, ciò significa
costruire obiettivi, attività didattiche e atteggiamenti educativi «su misura» per la
singola e specifica peculiarità di quell’alunno, ponendo particolare attenzione ai suoi
punti di forza, dai quali si potrà partire per impostare il lavoro.
Dobbiamo ricordare che la costruzione del Piano Educativo Individualizzato e
la sua applicazione concreta non dovrebbero mai essere delegate unicamente all’in-
segnante di sostegno. Tutti i docenti devono esserne partecipi, perché l’integrazione
degli alunni in difficoltà deve riguardare ogni ambito della vita scolastica e non essere
circoscritta a qualche ora o attività svolta con l’insegnante specializzato, come forse
ancora troppo spesso avviene in qualche «aula di sostegno».
Le componenti fondamentali di un PEI, necessario per lo sviluppo di un Pro-
getto di vita dell’alunno con disabilità, si articolano in diverse fasi, che illustriamo
in figura 11.2 e che analizziamo più dettagliatamente.

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Diagnosi funzionale educativa

La Diagnosi funzionale educativa è la prima componente del Piano Educativo


Individualizzato: essa si pone come obiettivo fondamentale la conoscenza più estesa
e la comprensione più approfondita possibile dell’alunno in difficoltà. Questa cono-
scenza deve però essere «funzionale educativa», appunto, e cioè utile alla realizzazione
concreta e quotidiana di attività didattiche e educative appropriate, significative
ed efficaci. La Diagnosi funzionale è quindi la base indispensabile per una buona
definizione di un Piano Educativo Individualizzato – Progetto di vita, dal momen-
to che in essa si esplora la situazione globale dell’alunno, si cerca di conoscerne i
vari aspetti, le diverse interconnessioni, i punti di forza e di debolezza, le risorse, i
vincoli, ciò che facilita e ciò che invece ostacola. La Diagnosi funzionale dovrebbe
essere un percorso globale di conoscenza e comprensione profonda ed estensiva del
funzionamento del soggetto e dei suoi contesti.

Momento conoscitivo del reale


Diagnosi
funzionamento dell’alunno secondo il
funzionale
modello antropologico ICF
educativa che
comprende
funzioni del
Profilo dinamico Momento di definizione
funzionale di obiettivi e di scelte
progettuali
Piano Educativo
Individualizzato
– Progetto di vita
Attività, Momento di definizione di
materiali, metodi tecniche e risorse per l’insegnamen-
di lavoro to-apprendimento

Verifica e Momento di revisione della


valutazione diagnosi, del profilo dinamico
e delle attività e materiali

Fig. 11.2 Le fasi di programmazione e di lavoro del Piano Educativo Individualizzato.

Proprio per questo, essa deve risultare da un lavoro interdisciplinare, che veda la
collaborazione degli insegnanti, degli operatori dell’ASL e dei familiari. La sua stesura
non dovrebbe essere delegata allo psicologo, al neuropsichiatra e nemmeno all’unità
multidisciplinare: queste professionalità dovranno certo fornire i loro contributi di
conoscenze — preziosi in moltissimi ambiti, secondari in altri. Oggi, però, la Dia-
gnosi funzionale, così come viene descritta nell’art. 3 dell’Atto di indirizzo e coor-
dinamento alle Aziende Sanitarie del 1994 e come viene ancora largamente intesa e
utilizzata nel nostro Paese, risente di un’impostazione prevalentemente clinico-medica
e molto spesso fornisce ben pochi aiuti concreti agli insegnanti impegnati a definire

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una programmazione individualizzata. Per questo si potrebbe dire che è ben poco
«funzionale». Il ruolo della scuola deve invece essere centrale: gli insegnanti possono
ormai utilizzare una vasta gamma di strumenti di raccolta di dati e di conoscenze per
la comprensione profonda e utile dell’alunno in difficoltà, attivando direttamente
una regia e un coordinamento nel gruppo di lavoro a livello di scuola che integri i
vari contributi che provengono dagli ambiti sanitario, familiare e sociale.
Attualmente, a nostro avviso, il modello che meglio di tutti abbraccia questa vi-
sione è quello proposto dall’Organizzazione Mondiale della Sanità nella classificazione
ICF – Classificazione Internazionale del Funzionamento, della Disabilità e della Salute
(2002), ora disponibile anche nella versione ICF-CY per bambini e adolescenti (OMS,
2007), e quindi ancora più vicino ai bisogni e alle peculiarità che caratterizzano queste
fasi dello sviluppo umano. Il modello ICF risponde appieno all’esigenza di avere una
modalità conoscitiva della realtà globale dell’alunno che aiuti adeguatamente nella
progettazione individualizzata (si rimanda alle risorse on-line di approfondimento per
una conoscenza di base delle aree ICF-CY, rispetto alla Diagnosi funzionale).
La Diagnosi funzionale, legata alla definizione del Piano Educativo Individualiz-
zato, deve quindi avere carattere pragmatico, cioè «funzionale». I dati di conoscenza,
raccolti nella diagnosi, dovrebbero consentire di operare direttamente nel concreto
della prassi scolastica quotidiana. Questo vuol dire che una Diagnosi funzionale è
realmente «funzionale» solo se è di immediata utilità per l’insegnante, se riesce a gui-
darlo direttamente nella scelta di obiettivi appropriati e di metodi di lavoro efficaci
sulla base delle caratteristiche peculiari dell’alunno in difficoltà.

Profilo dinamico funzionale (PDF)

In questa seconda fase del Piano Educativo Individualizzato vanno effettuate al-
cune importanti operazioni rispetto ai dati emersi dalla Diagnosi funzionale. In primo
luogo, occorre identificare gli obiettivi che si potranno concretamente inserire in una
reale programmazione di attività scolastiche. Sulla base di questa selezione, gli obiettivi
a medio e breve termine verranno integrati nelle attività e nella programmazione della
classe, e verranno definite delle modalità concrete di insegnamento sulla base anche
della conoscenza di determinate tecniche educative/didattiche. Ciò significa organizzare
delle sequenze di obiettivi a breve termine, con incrementi molto graduali di difficoltà,
utilizzando le metodologie di adattamento, di analisi del compito e altre tecniche di
facilitazione. Nel Profilo dinamico funzionale si trovano dunque le linee concrete di
prospettiva, e cioè quello che si vorrà raggiungere a lungo, medio e breve termine. Il
Profilo dinamico funzionale funge quindi da strumento di raccordo tra la conoscenza
dell’alunno, prodotta dalla Diagnosi funzionale educativa, e la definizione di attività,
tecniche, mezzi e materiali per la prassi didattica di ogni giorno.
Nell’Atto di indirizzo e coordinamento alle Aziende Sanitarie Locali del febbraio
1994, la concezione di profilo che traspare ci lascia perplessi per diversi motivi. Vi

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ricorre spesso, infatti, un riferimento «prognostico»: ad esempio nel comma 1, dove


si legge che il profilo «indica [...] il prevedibile livello di sviluppo che l’alunno in
situazione di handicap dimostra di possedere nei tempi brevi (sei mesi) e nei tempi
medi (due anni)»; oppure nel comma 2: «descrive in modo analitico i possibili livelli
di risposta dell’alunno in situazione di handicap riferiti alle relazioni in atto e a quelle
programmabili»; e ancora, nel comma 3: «comprende [...] l’analisi dello sviluppo
potenziale dell’alunno a breve e medio termine».
Il Profilo dinamico, invece, a nostro avviso deve avere le caratteristiche di un
processo in quattro fasi, che trasforma i dati della Diagnosi funzionale in obiettivi a
breve termine rispetto a precise priorità. Ma non solo: nella prima fase si cercherà di
introdurre un elemento del tutto trascurato nel profilo ministeriale, e cioè la sintesi
significativa e il coordinamento dei dati raccolti, con lo scopo di capire meglio la
situazione dell’alunno e proporgli un programma di lavoro realmente rispondente
ai suoi bisogni speciali (tabella 11.2).

Le attività, i materiali e i metodi di lavoro

In questa terza fase del PEI si elaborano soluzioni operative nella dinamica
insegnamento-apprendimento per favorire il raggiungimento degli obiettivi definiti
nel Profilo dinamico funzionale (tabella 11.2).

TABELLA 11.2
Le fasi operative e le funzioni svolte dal Profilo dinamico funzionale

FASE 1: Sintetizzare in modo significativo i risultati della Diagnosi funzionale


Le numerose informazioni che sono state raccolte da tante fonti vengono confrontate tra di loro e sintetizzate
nelle aree significative del modello ICF (condizioni fisiche, funzioni e strutture corporee, attività personali, ecc.).
Le informazioni dovrebbero essere sintetizzate e integrate attorno a quattro poli principali:
1. punti di forza, cioè livello raggiunto, abilità possedute adeguatamente («capacità» ICF);
2. punti di forza, livelli raggiunti, abilità manifestate grazie alla mediazione positiva di fattori contestuali («perfor-
mance» ICF; specificando il ruolo giocato dalla mediazione positiva o negativa dei fattori contestuali);
3. deficit, cioè carenza, mancanza, incapacità o sviluppo inadeguato rispetto ai criteri e alle aspettative;
4. relazioni di influenza e di mediazione tra vari ambiti di funzionamento dell’alunno. Se pensiamo alla persona come
a un essere caratterizzato dal più alto grado di integrazione e interconnessione di aspetti e caratteristiche, dob-
biamo tentare di individuare alcune di queste relazioni, soprattutto quelle più utili per gli obiettivi dell’integrazione
scolastica.

FASE 2: Definire gli obiettivi a lungo termine


Da questi quadri sintetici si ricavano gli obiettivi a lungo termine, quelli cioè che «idealmente» ci piacerebbe rag-
giungere in una prospettiva temporale che si potrebbe collocare dall’uno ai tre anni. Nella prospettiva del Progetto
di vita, questa dimensione temporale si può dilatare notevolmente, arrivando a definire obiettivi anche in dimensioni
esistenziali dell’età adulta. Si potrebbe dire che in questa fase della stesura del Profilo dinamico funzionale si defini-
scono gli obiettivi «teorici», cioè tutti quelli che legittimamente derivano dalla sintesi riportata precedentemente. Gli
obiettivi possono derivare dal deficit, e si pongono comunque come capacità o performance. Una gamma dunque
di possibili obiettivi, all’interno della quale si dovranno operare una valutazione e una scelta per concentrare le nostre
energie su quelli ritenuti prioritari.

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FASE 3: Scegliere gli obiettivi a medio termine


In questa fase vengono scelti, tra gli obiettivi a lungo termine, quelli a medio termine, da raggiungere cioè nell’arco
di alcuni mesi o di un anno scolastico. Si passa quindi dall’obiettivo a lungo termine, teoricamente adeguato,
considerati i deficit e le abilità evidenziati nella Diagnosi funzionale, all’obiettivo effettivo, quello su cui si inizia a
lavorare e per il quale si deve pensare quali materiali, tecniche e interventi saranno più efficaci.

FASE 4: Definire gli obiettivi a breve termine e le sequenze di sotto-obiettivi


In moltissimi casi, aver definito una buona serie di obiettivi a medio termine non esaurisce questa fase di pro-
grammazione; c’è infatti bisogno di semplificarli, ridurne la complessità e scomporli in sotto-obiettivi che facilitino
l’apprendimento. In molti casi si deve lavorare sugli obiettivi a medio termine, per ricavarne sequenze facilitanti di
obiettivi più accessibili, da presentare immediatamente all’alunno. Vi sono diversi metodi per costruire sequenze
di sotto-obiettivi facilitanti; qui di seguito ricordiamo brevemente i tre più utilizzati.
1. Ridurre le difficoltà dell’obiettivo semplificando le richieste di corretta esecuzione. Un obiettivo può essere
portato più vicino ai livelli attuali di competenza dell’alunno se riusciamo a ridurne la difficoltà attraverso una
modifica dei criteri di corretta esecuzione, quali ad esempio l’accuratezza, la velocità di azione, l’intensità, la
durata e la frequenza ottimale di emissione di un determinato comportamento. Questa semplificazione sta alla
base della tecnica di insegnamento che va sotto il nome di shaping (modellaggio).
2. Ridurre la difficoltà dell’obiettivo attraverso l’uso degli aiuti necessari e sufficienti. Un obiettivo può essere reso
più accessibile anche attraverso l’uso accorto e pianificato di aiuti, di cui andranno forniti solo quelli necessari
e sufficienti, né di più né di meno, per non correre il rischio di creare dipendenza e passività fornendone troppi.
3. Ridurre la difficoltà dell’obiettivo attraverso l’analisi del compito (task analysis). L’analisi del compito permette
di scomporre un obiettivo sia in senso sequenziale-descrittivo, elencando le serie di risposte singole che com-
pongono quel compito, sia in senso strutturale-gerarchico, individuando le abilità più semplici e prerequisite che
costituiscono la struttura di base di quell’obiettivo e che vanno costruite per prime, appunto in ordine gerarchico.
Entrambe queste modalità ci consentono di costruire sequenze di sotto-obiettivi più graduali in termini di difficoltà
e perciò più facilitanti.

In primo luogo, si identificheranno gli spazi, i tempi, le persone e le altre risorse


materiali, organizzative, strutturali e metodologiche che serviranno per realizzare
attività didattiche, educative e di stimolazione.
Si pensi ai materiali specifici, all’adattamento dei testi scolastici e dei materiali
didattici, alla scelta dei luoghi (ad esempio, le uscite nel quartiere), alle tecniche
didattiche (ad esempio, quelle metacognitive) che, in alcuni casi, sono necessarie
per superare determinate difficoltà di apprendimento.
Altre tecniche specifiche che vanno certamente ricordate in questo contesto sono
quelle alla base del processo di insegnamento-apprendimento e, in particolare, che fanno
riferimento all’approccio cognitivo-comportamentale (come, ad esempio, l’analisi del
compito, l’uso degli aiuti, delle facilitazioni e dei rinforzi, le tecniche di apprendimento
senza errori, i modelli competenti, le strategie di generalizzazione e mantenimento,
ecc.) e tutte quelle metodologie innovative che prevedono il coinvolgimento attivo del
gruppo dei pari (ad esempio, nell’apprendimento cooperativo e nel tutoring).

Le verifiche e le valutazioni

La quarta fase del Piano Educativo Individualizzato dovrebbe riguardare le


attività di verifica, sulla base degli esiti oggettivi delle attività di insegnamento

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e stimolazione o di intervento educativo. Una prima considerazione riguarda la


collocazione temporale delle attività di verifica, che non dovrebbero essere previste
soltanto alla fine dell’anno scolastico, ma accompagnare, come una prassi costante,
le varie attività realizzate.
Per quanto riguarda poi le modalità operative, la verifica dovrebbe essere rivolta
a qualcosa di più della pura e semplice acquisizione degli obiettivi: occorre valutare
anche il grado di generalizzazione delle abilità e il loro sviluppo in reali competenze,
il grado di mantenimento nel tempo delle competenze acquisite e il livello raggiunto
rispetto alle capacità di autoregolazione autonoma dell’alunno nell’esecuzione di una
data abilità. Oltre a ciò, si dovrebbero introdurre altre voci nella valutazione in itinere,
e cioè l’appropriatezza, la validità e la sensatezza, rispetto a un progetto complessivo
di vita, degli obiettivi inseriti nel Profilo dinamico funzionale. In altre parole, ci si
dovrebbe chiedere se le abilità che si cerca di far acquisire all’alunno (o che l’alunno
ha appreso) sono davvero significative per lui, se migliorano cioè in modo effettivo
la sua competenza quotidiana e qualità di vita, laddove utilizzati costantemente negli
ecosistemi di vita e di relazione.

Il Piano Didattico Personalizzato (PDP) per alunni con DSA e altre forme di BES
Flavio Fogarolo

Per tutti gli alunni con bisogni educativi speciali (BES) va redatto annualmente
un documento di programmazione che espliciti il percorso di personalizzazione in-
dividuato per ciascuno di essi. Come è noto, questo documento prende il nome di
PEI (Piano Educativo Individualizzato) per gli alunni con disabilità, di PDP (Piano
Didattico Personalizzato) per quelli con DSA (Disturbi Specifici di Apprendimento)
e altri BES.
Il PDP per gli alunni con DSA è previsto dalla legislazione introdotta tra gli anni
2010 (Legge 170) e 2011 (DM 5669 e Linee Guida).
Il principio fondamentale, chiaramente ribadito nel Decreto ministeriale, è che
non basta che la scuola attivi una serie di azioni didattiche ma è necessario che esse
vadano esplicitate in un documento di programmazione.
La scuola predispone, nelle forme ritenute idonee e in tempi che non supe-
rino il primo trimestre scolastico, un documento che dovrà contenere almeno le
seguenti voci, articolato per le discipline coinvolte dal disturbo:
– dati anagrafici dell’alunno
– tipologia di disturbo
– attività didattiche individualizzate
– attività didattiche personalizzate
– strumenti compensativi utilizzati
– misure dispensative adottate
– forme di verifica e valutazione personalizzate (MIUR, 2011, p. 8).

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Di fatto i margini di discrezionalità, per la scuola, vengono drasticamente


ridotti: si può definire come redigere questo documento («nelle forme ritenute più
idonee») e si può eventualmente anche decidere di chiamarlo in un altro modo,
non necessariamente PDP; la norma, comunque, ne indica chiaramente non solo i
contenuti ma anche i tempi di redazione.
Rispetto al PEI per gli alunni con disabilità, è da sottolineare innanzitutto che
il PDP è di piena competenza della sola scuola che può (può, non deve) chiedere
la collaborazione di specialisti e altri soggetti esterni, ma conserva interamente la
responsabilità della sua definizione.
Il PDP per gli altri alunni con BES è invece profondamente diverso: la scuola ha
l’obbligo di predisporre un documento di programmazione specifico come conseguenza
dell’individuazione dell’alunno con disabilità o DSA; per gli altri alunni con BES, quelli
che vengono individuati autonomamente dalla scuola con delibera del Consiglio di classe,
il PDP non è conseguenza dell’individuazione del bisogno educativo speciale, bensì parte
integrante e contestuale. Leggiamo nella Circolare ministeriale n. 8 del marzo 2013:
Fermo restando l’obbligo di presentazione delle certificazioni per l’esercizio
dei diritti conseguenti alle situazioni di disabilità e di DSA, è compito doveroso dei
Consigli di classe o dei team dei docenti nelle scuole primarie indicare in quali altri
casi sia opportuna e necessaria l’adozione di una personalizzazione della didattica ed
eventualmente di misure compensative o dispensative, nella prospettiva di una
presa in carico globale e inclusiva di tutti gli alunni. Strumento privilegiato è il
percorso individualizzato e personalizzato, redatto in un Piano Didattico Persona-
lizzato (PDP), che ha lo scopo di definire, monitorare e documentare — secondo
un’elaborazione collegiale, corresponsabile e partecipata — le strategie di intervento
più idonee e i criteri di valutazione degli apprendimenti (CM n. 8, 6/3/2013).

Questa impostazione è stata ulteriormente rafforzata nella nota MIUR n.


1143 del 2018 che ritiene superfluo il PDP affermando: «I docenti e i dirigenti che
contribuiscono a realizzare una scuola di qualità, equa e inclusiva, vanno oltre le
etichette e, senza la necessità di avere alcuna classificazione “con BES” o di redigere
Piani Didattici Personalizzati, riconoscono e valorizzano le diverse normalità, per
individuare, informando e coinvolgendo costantemente le famiglie, le strategie più
adeguate a favorire l’apprendimento e l’educazione di ogni alunno loro affidato.
In questa dimensione la soluzione al problema di un alunno non è formalizzarne
l’esistenza, ma trovare le soluzioni adatte affinché l’ostacolo sia superato».
Viene ben focalizzata l’attenzione sulla necessità di intervenire in modo ade-
guato senza mai considerare automatico il riconoscimento come BES o la redazione
di un PDP, e puntare quindi alle soluzioni e non fermarsi alle etichette. Questo non
significa di sicuro che il PDP non si possa più fare né che gli alunni con esigenze
particolari non esistono più: del resto sarebbe curioso che una nota che è tutta, fin
dal titolo, un energico richiamo all’autonomia impedisse alle scuole di scegliere lo
strumento di programmazione che ritengono più utile.

© 2018, Erickson
BISOGNI EDUCATIVI SPECIALI E INCLUSIONE 111

Due immediate, e importanti, conseguenze di queste affermazioni sono le seguenti:

–– la scuola non è chiamata a identificare gli alunni con BES ma quelli che hanno
bisogno di una personalizzazione, definita in un PDP. Pertanto, il PDP non è
una conseguenza di questo riconoscimento, come avviene per la disabilità e i
DSA («Questo alunno ha BES quindi la scuola deve predisporre un PDP»), ma
parte integrante dell’identificazione della situazione di bisogno («Questo alunno
ha BES perché secondo la scuola ha bisogno di un PDP»);
–– la soglia di individuazione dell’alunno con BES non dipende dall’entità del
bisogno ma dalla valutazione dell’effettiva convenienza della strategia didattica
personalizzata che si intende attuare. La personalizzazione — dice infatti la
Circolare ministeriale — deve essere opportuna e necessaria e questo significa
che, almeno a grandi linee, la scuola deve aver chiaro fin dall’inizio il tipo di
intervento che intende avviare con quello specifico alunno a supporto delle sue
difficoltà, perché solo in questo modo è possibile una consapevole valutazione
di convenienza.

Paradossalmente, possiamo dire che gli alunni nei confronti dei quali ci sentia-
mo impotenti, perché non sappiamo cosa fare per loro, per quanto evidenti e gravi
siano i loro bisogni educativi, non possono rientrare nella categoria dei BES finché
non saremo in grado di dire come intendiamo effettivamente personalizzare il loro
percorso e valutare quindi se esso sia opportuno e conveniente.

Un PDP efficace

Il PDP non è un adempimento burocratico ma uno strumento di pianificazio-


ne. Questo vale certamente pure per i DSA, anche se in quel caso la sua redazione
costituisce, come abbiamo visto, un obbligo per la scuola, e il rischio che venga
considerato come un’incombenza fine a se stessa è reale e diffuso.
È assurdo però che venga vissuto in questo modo per gli alunni con BES individuati
dalla scuola, visto che, in questo caso, tutto nasce da una decisione autonoma degli
insegnanti che hanno ritenuto che proprio la definizione di un percorso personalizzato
fosse la strategia di intervento più idonea a rispondere ai bisogni di tali studenti.
Essendo uno strumento, il PDP va valutato prima di tutto in termini di efficacia:
deve funzionare, ossia essere idoneo a raggiungere gli obiettivi prefissati.
In uno strumento di pianificazione didattica l’efficacia è connessa innanzitutto
alla sua capacità di modificare il modo di insegnare, quindi i comportamenti e i
procedimenti attivati a casa e a scuola da parte degli insegnanti e, per quanto di loro
competenza, dei genitori.
Per essere efficace, indipendentemente dai contenuti, il piano dovrebbe con-
tenere indicazioni:

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112 INSEGNARE DOMANI NELLA SCUOLA SECONDARIA

–– significative, ovvero dovrebbe individuare e selezionare solo le attività o modalità


di insegnamento più importanti, quelle che sono in grado di determinare effet-
tivamente un cambiamento. È difficile, infatti, per un Consiglio di classe anche
solo ricordare, figuriamoci realizzare, un numero troppo elevato di indicazioni
didattiche o metodologiche e un piano troppo lungo e dettagliato ha più proba-
bilità di rimanere sulla carta;
–– realistiche, ovvero dovrebbe considerare attentamente i vincoli ed evitare di
fare promesse che non si possono mantenere o, rispetto all’alunno, prevede-
re prestazioni che mai sarà in grado di offrire. Vanno considerate subito le
risorse disponibili e i limiti del contesto in cui si deve operare, e in base ad
essi va calibrato il progetto. La classe numerosa, la presenza di altri alunni
con bisogni educativi, la mancanza di ore di compresenza… sono condizioni
che certamente ostacolano il progetto ma che sono note fin dall’inizio e co-
stituiscono normali limiti, e premesse, da considerare nella definizione delle
azioni da svolgere;
–– coerenti, vale a dire evitare contraddizioni interne ma anche, ed è il rischio più
frequente, palesi e ingiustificate difformità tra le varie discipline o tra i vari in-
segnanti;
–– concrete e verificabili, poiché affermazioni vaghe e generiche, interpretabili a piacere,
non producono nessun risultato. Tutti, e prima di tutto la famiglia, dovranno in
seguito essere in grado di riconoscere se quanto è stato previsto nel PDP sia stato
effettivamente messo in pratica.

La prospettiva inclusiva per rispondere ai bisogni degli alunni


Francesco Zambotti

Dalla complessità stessa dei bisogni normali e speciali presentati emerge l’esigenza
forte di far fronte a uno dei rischi maggiori legati alla visione dei bisogni educativi
speciali: il rischio di parcellizzare la didattica in tanti piani individuali, ovvero di
pensare che a un bisogno speciale si debba sempre rispondere con una misura indi-
viduale (non individualizzata).

Didattica inclusiva
Il termine «inclusione» si riferisce a tutti gli alunni, come garanzia diffusa e stabile di poter partecipare alla
vita scolastica e di raggiungere il massimo possibile in termini di apprendimento e partecipazione sociale.
La scuola inclusiva deve mettere in campo tutti i facilitatori possibili e rimuovere tutte le barriere all’appren-
dimento e alla partecipazione di tutti gli alunni.

La didattica inclusiva è infatti una prospettiva educativa che organizza i processi


di insegnamento e di apprendimento a partire dalle differenze presenti nel gruppo

© 2018, Erickson
BISOGNI EDUCATIVI SPECIALI E INCLUSIONE 113

classe: tutte le differenze, non solo quelle più visibili e marcate dell’alunno con un
deficit o con un disturbo specifico.
Le differenze sono alla base dell’azione didattica inclusiva e, come tali, non
riguardano soltanto le differenze degli alunni, ma anche quelle negli stili di insegna-
mento dei docenti. Come gli alunni non imparano tutti nello stesso modo, così gli
insegnanti non insegnano con lo stesso stile. Nella prospettiva inclusiva le differenze
quindi non vengono solo accolte, vengono stimolate, valorizzate, utilizzate nelle
attività quotidiane per lavorare insieme e crescere come singoli e come gruppo.
La dimensione di gruppo, cooperativa e collaborativa è imprescindibile nella
didattica inclusiva. Si valorizzano le differenze se si valorizza la dimensione di classe,
non se si parcellizza il lavoro in una mera differenziazione che porta ognuno a fare
cose diverse dagli altri, in una maniera diversa dagli altri. L’obiettivo della didattica
inclusiva è quindi quello di valorizzare le differenze nel e del gruppo, facendole
collaborare, dando modo a ciascuno di partecipare, esprimendo tutte le proprie
potenzialità nel confronto con gli altri e non isolandosi nel lavoro individuale.
Questo obiettivo tanto alto si può tuttavia realizzare se si è in grado di rendere
maggiormente equa la didattica, dando un’attenzione costante agli alunni nel processo
di apprendimento, e rendendo la didattica maggiormente flessibile.
Equità significa diventare consapevoli e competenti dei bisogni educativi speciali
degli alunni, essere innanzitutto in grado di osservare e identificare i segnali di rischio
e di attenzione che emergono nella quotidianità scolastica, per poi saper adattare le
proprie modalità di insegnamento sfruttando tutte le risorse presenti negli alunni.
Essere equi significa fornire gli aiuti necessari a chi ne ha realmente bisogno, aiuti
che non devono essere uguali per tutti, ma realmente efficaci, cioè realmente in grado
di fare apprendere meglio l’alunno e farlo partecipare in maniera più significativa al
contesto sociale di appartenenza.
Un concetto, questo, che è ormai presente da molti anni nella pedagogia speciale
italiana, riassunto dal motto di don Lorenzo Milani in Lettera a una professoressa:
«Non c’è nulla che sia più ingiusto quanto far parti uguali fra disuguali».

L’individuazione dell’alunno con bisogni educativi speciali su base ICF

Vorremmo sostenere una tesi che riteniamo particolarmente importante, oggi


anche alla luce delle disposizioni della Direttiva e della Circolare ministeriali per i
BES, ossia la necessità di sviluppo delle qualità inclusive della scuola italiana. Credia-
mo che leggere le situazioni degli alunni attraverso il concetto di bisogno educativo
speciale (BES), fondato su base ICF, possa far fare al nostro sistema di istruzione un
significativo passo in avanti verso la piena inclusione.
Se nella nostra scuola l’integrazione degli alunni con disabilità è da tempo un
dato di fatto (realizzata più o meno bene; si vedano Canevaro et al., 2007, e Ianes e

© 2018, Erickson
114 INSEGNARE DOMANI NELLA SCUOLA SECONDARIA

Canevaro, 2008), l’inclusione è ancora un traguardo lontano. Va precisato che nella


letteratura internazionale il concetto di «inclusione» si applica a tutti gli alunni, come
garanzia diffusa e stabile di poter partecipare alla vita scolastica e di raggiungere il
massimo possibile in termini di apprendimento e partecipazione. Dunque non è un
concetto riferito solo ad alunni con una qualche difficoltà. Considerando la situazione
del nostro Paese, da alcuni anni Dario Ianes ha ritenuto invece di parlare di inclusione
in un’accezione che estende il campo delle misure e della cultura di riconoscimento
dei bisogni e di individualizzazione anche ad altri alunni in difficoltà, ma che non
hanno una disabilità. Questo allargamento sarebbe già un grande passo avanti, uno
stadio «intermedio» per raggiungere la piena inclusione. Si tratta di riconoscere e
rispondere efficacemente ai diritti di individualizzazione di tutti gli alunni che hanno
una qualche difficoltà di funzionamento.
Questa linea di pensiero è diventata attuale proprio grazie alla Direttiva mi-
nisteriale del 27 dicembre 2012 e alla successiva Circolare recante le indicazioni
operative del 6 marzo 2013.
Una scuola che sa rispondere adeguatamente a tutte le difficoltà degli alunni
e sa prevenirle, ove possibile, diventa poi una scuola davvero e profondamente
inclusiva per tutti gli alunni, dove si eliminano le barriere all’apprendimento e alla
partecipazione di ognuno. Questo è il traguardo a cui tendere, traguardo che è ormai
ben discusso anche nella letteratura scientifica internazionale più avanzata (Booth
e Ainscow, 2008).
Ma qual è la reale utilità del concetto di bisogno educativo speciale? Il concetto
di bisogno educativo speciale è una macrocategoria che comprende dentro di sé
tutte le possibili difficoltà educative-apprenditive degli alunni e quindi situazioni
diversissime l’una dall’altra che, malgrado la loro clamorosa diversità, presentano
un dato che le avvicina, e le rende, a nostro avviso, sostanzialmente uguali nel loro
diritto a ricevere un’attenzione educativo-didattica sufficientemente individualizzata
ed efficace: ognuna di queste persone ha un funzionamento per qualche aspetto pro-
blematico, che rende loro più difficile trovare una risposta adeguata ai propri bisogni.
Si obietterà che non ha senso creare una macrocategoria, se esistono le singole
categorie che la compongono. Non è cioè sufficiente parlare, ad esempio, di ritardo
cognitivo, dislessia, depressione, ecc.? Per ribattere su questo punto entriamo nel
dettaglio del nostro ragionamento.
Dobbiamo distinguere attentamente la nostra proposta di una lettura equa di
tutti i bisogni degli alunni da una modalità di riconoscimento-comprensione di una
situazione problematica che operi attraverso una diagnosi clinica di tipo nosogra-
fico ed eziologico, che rileva segni e sintomi attribuendoli a una serie di cause che
li hanno prodotti. È ovviamente utile porre correttamente questo tipo di diagnosi,
ove possibile (si pensi alla dislessia, ai disturbi dello spettro autistico, ecc.); tuttavia,
si tratta di un tipo di riconoscimento che divide e distingue le difficoltà degli alunni
in base alla loro causa, come fa la nostra legislazione: la Legge 104 del 5 febbraio
1992 («Legge-quadro per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone

© 2018, Erickson
BISOGNI EDUCATIVI SPECIALI E INCLUSIONE 115

handicappate»), e i successivi atti che regolano l’attribuzione di risorse aggiuntive


alla scuola per far fronte alle difficoltà degli alunni, danno legittimità soltanto ai
bisogni che hanno un fondamento chiaro nella minorazione del corpo del soggetto,
minorazione che deve essere stabile o progressiva. Altra tutela è stata riservata agli
alunni con DSA con la Legge 170 dell’8 ottobre 2010 («Nuove norme in materia
di disturbi specifici di apprendimento in ambito scolastico»).
Ma altre difficoltà non sono altrettanto riconosciute, legittimate e tutelate.
Una diagnosi nosografica ed eziologica è ovviamente fondamentale per progettare
e realizzare interventi riabilitativi, abilitativi, terapeutici, preventivi, epidemiologici,
ecc., ma non ci aiuta a fondare politiche di equità reale nelle nostre scuole. È una
diagnosi che frammenta, che consolida appartenenze e categorie, che mette gli uni
contro gli altri, in una cronica guerra tra poveri per la spartizione delle scarse risorse
disponibili. Abbiamo invece bisogno di un riconoscimento più ampio, e per questo
più equo, che non distingua tra bisogni di serie A — quelli evidentemente fondati
su qualche minorazione corporea — e bisogni di serie B — quelli per cui non è
chiara, o non c’è, una base corporea.
Abbiamo bisogno di politiche eque di riconoscimento dei reali bisogni degli
alunni, al di là delle etichette diagnostiche.
Questa divisione è la logica conseguenza del dominio culturale (che diventa
politico) del modello medico più tradizionale, dove contano solamente le variabili
biostrutturali. Ma se il corpo funziona bene, se non è ammalato, si può dire che la
persona goda di buona salute, che viva una situazione di benessere?
Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, la salute non è assenza di ma-
lattia, ma benessere bio-psico-sociale, piena realizzazione del proprio potenziale, della
propria capability (Sen, 1993). Questo chiama fortemente in causa dimensioni sociali,
culturali, economiche, razziali, religiose, ecc. che non sono biostrutturali. Se accet-
tiamo il dominio del modello medico tradizionale saremo costretti a cercare sempre
un’eziologia biostrutturale oppure a negare lo status di reale malattia o disturbo a una
problematicità di funzionamento che non sia evidentemente causata da menomazioni
o danni fisici. E le situazioni problematiche di cui non si conoscono le cause?
Per una lettura e riconoscimento dei bisogni reali di un alunno, a noi interessa
di più comprendere la situazione attuale di funzionamento, per così dire, «a valle»
di una qualche eziologia. Comprendere cioè l’intreccio di elementi che adesso, qui
e ora, costituisce il funzionamento di quell’alunno in quella serie di contesti.
A scuola si fanno i conti quotidianamente con i funzionamenti «a valle», con
gli intrecci più diversi di fattori personali e sociali, che nel tempo rendono molto
differenti i funzionamenti anche di persone «uguali» per alcuni aspetti biostrutturali.
Una forza che spinge nella direzione da noi auspicata è la diffusione forte e
convinta che il modello ICF dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (2002;
2007) ha avuto e ha tuttora in Italia, diffusione enormemente maggiore rispetto ad
altri Paesi europei. Il modello ICF è radicalmente bio-psico-sociale, ci obbliga cioè
a considerare la globalità e la complessità dei funzionamenti delle persone, e non

© 2018, Erickson
116 INSEGNARE DOMANI NELLA SCUOLA SECONDARIA

solo gli aspetti biostrutturali. Questo è il motivo per cui proprio su ICF si è fondato
il nostro concetto di bisogno educativo speciale (Ianes, 2005).
Questo allargamento, questa «estensione» e questo riconoscimento ufficiale,
anche attraverso la Direttiva ministeriale del dicembre 2012, sono ovviamente positivi
rispetto alla precedente visione più restrittiva in senso biostrutturale e si fondano sul
modello base di human functioning di ICF.
In Italia ICF si è diffuso con forza nel mondo dell’educazione e della scuola,
grazie anche al fatto che ha trovato una forte affinità con la cultura pedagogica
italiana e con la sua visione antropologica, molto sociale e legata ai contesti di vita.
L’Intesa Stato-Regioni, siglata il 20 marzo 2008 sulla presa in carico globale
dell’alunno con disabilità, prevede per la prima volta a chiare lettere l’uso di ICF come
modello antropologico su cui basare la diagnosi funzionale per gli alunni con disabilità:
«La Diagnosi Funzionale è redatta secondo i criteri del modello bio-psico-sociale alla
base dell’ICF dell’Organizzazione Mondiale della Sanità» (art. 2, comma 2).
Riteniamo dunque che stiano maturando almeno alcune delle condizioni neces-
sarie perché si possa lavorare appieno con il concetto di bisogno educativo speciale.

Difficoltà ed eterogeneità degli alunni

Sono sempre di più gli alunni che per una qualche difficoltà di «funzionamento»
preoccupano gli insegnanti e le famiglie. Occupiamoci più da vicino di queste varie
e diversissime difficoltà.
Nelle classi si trovano molti alunni con difficoltà nell’ambito dell’apprendimento
e dello sviluppo di competenze. In questa grande categoria possiamo includere varie
difficoltà: dai più tradizionali disturbi specifici dell’apprendimento (dislessia, disgra-
fia, discalculia) al disturbo da deficit attentivo con o senza iperattività, a disturbi
nella comprensione del testo, alle difficoltà visuo-spaziali, alle difficoltà motorie,
alla goffaggine, alla disprassia evolutiva, ecc. Troviamo anche gli alunni con ritardo
cognitivo e ritardi nello sviluppo, originati dalle cause più diverse. Hanno una dif-
ficoltà di apprendimento e di sviluppo anche alunni con difficoltà di linguaggio o
disturbi specifici nell’eloquio e nella fonazione. Ci sono poi quelli con disturbi dello
spettro autistico, dall’autismo più chiuso con disabilità intellettiva alla sindrome di
Asperger o all’autismo ad alto funzionamento. Accanto a questi alunni con aspetti
patologici nell’apprendimento e nello sviluppo ne troviamo altri che hanno «soltanto»
un apprendimento difficile, rallentato, uno scarso rendimento scolastico.
Nelle classi ci sono poi soggetti con varie difficoltà emozionali: timidezza, collera,
ansia, inibizione, depressione, ecc. Forme più complesse di difficoltà sono invece
quelle riferibili alla dimensione psichica e psicopatologica: disturbi della personalità,
psicosi, disturbi dell’attaccamento o altre condizioni psichiatriche.
Più frequenti però sono le difficoltà comportamentali e nelle relazioni: dal sem-
plice comportamento aggressivo fino ad atti autolesionistici, bullismo, disturbi del

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BISOGNI EDUCATIVI SPECIALI E INCLUSIONE 117

comportamento alimentare, disturbi della condotta, oppositività, delinquenza, uso


di droghe, ecc. La sfera delle relazioni produce infatti molto spesso delle difficoltà
nell’ambito psicoaffettivo, rivolte prevalentemente all’interno: bambini isolati, ritirati
in sé, eccessivamente dipendenti, passivi, ecc.
Gli insegnanti possono incontrare difficoltà educative e didattiche, oltre che
psicologiche, anche con alunni che hanno delle compromissioni fisiche rilevanti,
traumi, esiti di incidenti, menomazioni sensoriali, malattie croniche o acute, allergie,
disturbi neurologici, paralisi cerebrali infantili, epilessie, ecc.
L’ambito familiare degli alunni, inoltre, può creare anch’esso notevoli disagi:
pensiamo alle situazioni delle famiglie disgregate, patologiche, trascuranti o con
episodi di abuso o di maltrattamento, agli alunni che hanno subìto eventi dram-
matici come ad esempio lutti o carcerazione dei familiari, o che comunque vivono
alti livelli di conflitto.
Accanto a queste difficoltà, un insegnante ne conosce molte altre di origine
sociale ed economica: povertà, deprivazione culturale, difficoltà lavorative ed esi-
stenziali, ecc. Sempre più poi nella scuola italiana troviamo alunni che provengono
da ambiti culturali e linguistici anche molto diversi: il caso di quelli immigrati è
evidente, ma è chiara anche la difficoltà che può essere originata da un percorso di
precedente scolarità particolarmente difficile, per problemi relazionali o di appren-
dimento con altri insegnanti.
Il mondo della scuola è inoltre sempre più attento anche a quelle difficoltà
«soft» che si manifestano con problemi motivazionali, disturbi dell’immagine di sé e
dell’identità, deficit di autostima, insicurezza e disorientamento del progetto di vita.
Crediamo che un insegnante esperto e sensibile conosca bene questa multiforme e
sfaccettata galassia di difficoltà, le più varie, le più diverse, che si trovano sempre più
spesso nelle nostre classi, legate ognuna a una singola storia di un singolo bambino
e delle sue ecologie di vita.
Ogni insegnante sa bene, per esperienza diretta, che gli allievi che lo preoccupano
per qualche forma di difficoltà sono ben di più di quel 2-3% di alunni certificati
dall’Azienda Sanitaria con una disabilità. Queste percentuali sono soltanto la punta
di un iceberg: sotto vi è almeno un 10-15% di soggetti con qualche altro tipo di
difficoltà.
Nella percezione degli insegnanti si trova molto spesso l’impressione che questi
casi aumentino a un ritmo crescente, che le difficoltà, di vario genere, siano sempre
più presenti nelle loro classi. Pensiamo che diversi fattori contribuiscano a questa
percezione di incremento e di maggiore diffusione.
Però, accanto a questo aumento oggettivo, dobbiamo anche tener conto di altri
fenomeni concorrenti: da un lato, la sempre maggiore capacità di individuazione
di tali disturbi/difficoltà da parte di psicologi e neuropsichiatri, oltre che di quelle
figure professionali preziose, come i logopedisti e gli psicomotricisti, che si occupa-
no sempre più dell’apprendimento e della sua psicopatologia sulla base di modelli
teorici e applicativi tratti dalle teorie dell’apprendimento, dalla psicologia cognitiva,

© 2018, Erickson
118 INSEGNARE DOMANI NELLA SCUOLA SECONDARIA

dalla neuropsicologia e dalle neuroscienze, ecc. Dall’altro, si riscontra una maggiore


capacità osservativa e interpretativa degli insegnanti, che riescono ad accorgersi
sempre meglio delle varie condizioni di criticità. Professionalmente sono sempre di
più, infatti, i docenti in grado di cogliere le difficoltà di apprendimento, i deficit o
i disagi. Anche i genitori, inoltre, si rendono spesso conto in tempo delle difficoltà
dei figli e cercano un aiuto competente.
Dunque le situazioni di difficoltà in parte aumentano realmente, in parte sono
ora maggiormente riconosciute, benché esistessero certo anche in passato.
Sono molti, e molto diversi fra loro, gli alunni che preoccupano gli insegnanti. Li
preoccupano perché sono in difficoltà gli alunni e, ovviamente, perché sono in difficoltà
i docenti stessi. In questi allievi, i bisogni educativi normali, e cioè quelli di sviluppo
delle competenze, di appartenenza sociale, di identità autonoma, di valorizzazione e
di autostima, di accettazione, solo per citarne alcuni, diventano bisogni speciali, più
complessi, per i quali è più difficile trovare una risposta adeguata che li soddisfi. E questo
per una «difficoltà di funzionamento». Da qui, il concetto di bisogno educativo speciale.
La percezione di difficoltà da parte degli insegnanti deve essere letta anche sullo
sfondo di una sempre crescente consapevolezza dell’eterogeneità delle classi. I docenti
si rendono conto sempre di più che le classi sono abitate, di norma, da alunni che
percepiscono essere diversi nei processi di apprendimento, negli stili di pensiero, nelle
dinamiche di relazione e di attaccamento, nei vissuti familiari, sociali e culturali.
I profili degli alunni diventano ricchi di sfumature psicologiche, relazionali,
motivazionali, identitarie, anche attraverso un uso consapevole e avanzato di modalità
nuove di valutazione autentica e di portfolio (Tuffanelli, 2004; Pavone, 2006). Le
varie e diverse provenienze culturali, geografiche e linguistiche completano l’opera.
Si incrociano dunque e si enfatizzano due percezioni di differenza: una lega-
ta alle difficoltà di un singolo alunno, l’altra alla eterogeneità del contesto classe.
Questa combinazione di fattori aumenta molto spesso l’ansia degli insegnanti, dei
dirigenti e delle famiglie. In alcuni casi questa ansia porta a una specie di affanno,
a una sensazione di non essere in grado di rispondere con buona qualità formativa,
di individualizzare in modo sufficiente, di includere realmente nella vita scolastica
dell’apprendimento e delle relazioni, con risposte formative adeguate ed efficaci,
tutti gli alunni con difficoltà.
Qui sta l’esigenza dell’inclusione: poter rispondere con un’individualizzazione
«sufficientemente buona» a tutti gli alunni con bisogni educativi speciali nell’ottica
che, in prospettiva, ognuno di essi, qualunque sia la loro situazione di funzionamento,
possa raggiungere il proprio massimo potenziale di apprendimento e di partecipazione.
Crediamo infatti che sia fondamentale che ogni scuola prenda apertamente,
ribadisca, comunichi nell’offerta formativa e concordi con le famiglie e con la co-
munità locale alcune decisioni strategiche e operative, ovvero:

1. occuparsi in maniera efficace ed efficiente di tutti gli alunni che presentano qualsiasi
difficoltà di funzionamento educativo;

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BISOGNI EDUCATIVI SPECIALI E INCLUSIONE 119

2. accorgersi in tempo delle difficoltà e delle condizioni di rischio;


3. accorgersi di tutte le difficoltà, anche di quelle meno evidenti, in tutti gli alunni;
4. comprendere le complesse interconnessioni dei fattori che costituiscono e che manten-
gono le varie difficoltà. In qualche caso sarà anche necessario attivare un processo
stretto di collaborazione con gli operatori sociali e sanitari del territorio. Per la
maggior parte degli alunni in difficoltà, invece, la scuola e il Consiglio di classe,
così come evidenziato anche nella Circolare ministeriale, dovranno attrezzarsi
con solide competenze pedagogiche, psicologiche e didattiche proprie, per non
delegare il riconoscimento e la comprensione dei BES, che devono essere una
loro competenza, anche se ovviamente condivisa con altre figure professionali;
5. rispondere in modo inclusivo, efficace ed efficiente alle difficoltà, attivando tutte le
risorse dell’intera comunità scolastica e non.

I BES come difficoltà evolutiva di funzionamento educativo e/o apprenditivo

Approfondiamo il concetto di bisogno educativo speciale, provando a definire


i criteri per una concettualizzazione valida e utile operativamente.
Innanzitutto, dovrebbe essere una concettualizzazione che abbia le caratteristi-
che della sensibilità, che riesca cioè a cogliere in tempo e precocemente il maggior
numero possibile di condizioni di difficoltà dei bambini. Ovviamente, l’accezione di
sensibilità non dovrebbe essere eccessivamente ampia, per evitare che troppi bambini
vengano considerati in situazioni di BES. Una concezione troppo estesa produrrebbe
molti «falsi positivi» e, di conseguenza, risulterebbe dannosa.
Accanto alle caratteristiche della sensibilità crediamo debbano essere definite
anche quelle della reversibilità e della temporaneità della definizione di alunno con
bisogno educativo speciale. Molte situazioni che si configurano senz’altro con BES
non sono affatto stabili e cristallizzate, anzi, sono soggette a forti mutamenti nel
tempo, a miglioramenti e, di conseguenza, reversibilità. Crediamo che la definizione
di BES debba portare con sé proprio questo senso di provvisorietà e di reversibilità,
non sempre, certo, ma sicuramente più di quanto non facciano le etichette diagno-
stiche tradizionali, più rigide e più stabili. Questa reversibilità evidentemente rende
più facile alla famiglia e all’alunno stesso accettare un percorso di conoscenza e di
approfondimento della difficoltà e di successivo intervento di individualizzazione
e di educazione speciale. Sono infatti noti a tutti i disagi che vive oggi una famiglia
nell’intraprendere un iter diagnostico che ha come unico sbocco una diagnosi clinica
ed eventualmente misure di supporto segreganti e stigmatizzanti.
Crediamo che un’altra caratteristica importante e positiva del concetto di BES
sia quella del minor impatto stigmatizzante che questa definizione ha rispetto ad altre
quali disabilità, dislessia, discalculia, disturbo da deficit attentivo con iperattività,
disturbo specifico di apprendimento, ecc. Se il concetto di bisogno educativo spe-
ciale deriva da un modello globale di funzionamento educativo e apprenditivo ed è

© 2018, Erickson
120 INSEGNARE DOMANI NELLA SCUOLA SECONDARIA

considerato come eventualmente transitorio e reversibile, allora l’impatto psicologico


e sociale di questa valutazione e di questo riconoscimento sarà assolutamente più
lieve e meno doloroso per l’alunno e la sua famiglia.
La concettualizzazione di BES che cercheremo di costruire inoltre non dovrà
fare riferimento alle origini eziologiche dei disturbi né alle classificazioni patologiche,
bensì partire dalla situazione complessiva di funzionamento educativo e apprenditivo
del soggetto, qualunque sia la causa che origina una difficoltà di funzionamento.
La nostra concettualizzazione di bisogno educativo speciale dovrà anche fondarsi
sulla necessità di individualizzazione, di educazione speciale e di inclusione.
Un tentativo di definizione originale potrebbe dunque essere il seguente:
Il bisogno educativo speciale è qualsiasi difficoltà evolutiva, in ambito educativo
e/o apprenditivo, che consiste in un funzionamento (frutto dell’interrelazione
reciproca tra i sette ambiti della salute secondo il modello ICF dell’Organizzazione
Mondiale della Sanità) problematico anche per il soggetto, in termini di danno,
ostacolo o stigma sociale, indipendentemente dall’eziologia, e che necessita di
educazione speciale individualizzata.
Esaminiamo nel dettaglio le singole componenti di questa definizione.
Un bisogno educativo speciale è una difficoltà che si deve manifestare in età
evolutiva, e cioè entro i primi 18 anni di vita del soggetto.
Questa difficoltà si manifesta negli ambiti di vita dell’educazione e/o dell’appren-
dimento scolastico/istruzione. Può coinvolgere, a vario livello, le relazioni educative,
formali e/o informali, lo sviluppo di competenze e di comportamenti adattivi, gli
apprendimenti scolastici e di vita quotidiana, lo sviluppo di attività personali e di
partecipazione ai vari ruoli sociali. È evidente l’enorme difficoltà nel trovare proble-
matiche che si manifestino entro il diciottesimo anno di vita e che non abbiano un
impatto diretto nell’ambito dell’educazione e dell’apprendimento scolastico.
Certamente si apprende per tutto l’arco della vita, ma i primi 18 anni sono
sicuramente più collegati al concetto di educazione e di istruzione formale. Per que-
sto si può parlare correttamente di bisogno educativo speciale soltanto entro l’età
evolutiva, benché, ovviamente, esistano tanti disturbi a insorgenza nell’età adulta,
che compromettono la sfera dell’apprendimento della persona.
Una componente della definizione è il concetto di funzionamento globale
del soggetto, ovvero di salute bio-psico-sociale della persona intesa come risultato
dell’interconnessione dei vari ambiti, come sono stati definiti nel 2002 dal modello
ICF dell’Organizzazione Mondiale della Sanità e nella sua versione per bambini e
adolescenti del 2007. È proprio del funzionamento globale del soggetto, della sua
salute, globalmente e sistemicamente intesa, che dobbiamo occuparci, dobbiamo
conoscerlo a fondo in tutte le sue varie interconnessioni, a prescindere dalle varie
eziologie che possono averne danneggiato singoli aspetti. Il modello ICF ci fornisce
un’ottima base concettuale per costruire una griglia di conoscenza del funzionamento
educativo e apprenditivo di un individuo, come vedremo più avanti.

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BISOGNI EDUCATIVI SPECIALI E INCLUSIONE 121

Un’altra componente della definizione di BES riguarda la necessità di tracciare il


confine tra una deviazione di funzionamento problematica per il contesto familiare e/o per
gli insegnanti, ad esempio, ma non per il soggetto, e invece una deviazione di funzionamento
realmente problematica anche per il soggetto che la manifesta, oppure ancora una deviazione
niente affatto problematica per il contesto relazionale, ma problematica per il soggetto.
Potrebbe infatti accadere che le persone attorno al bambino vivano un problema
di funzionamento educativo-apprenditivo, ma che questo sia esclusivamente loro e
non del bambino stesso (aspettative troppo rigide e convenzionali che fanno vivere con
disagio e difficoltà un’intelligenza particolarmente creativa e divergente, ad esempio): in
un caso del genere, questa deviazione di funzionamento non dovrebbe essere «corretta»
in alcun modo, ma anzi tutelata e rispettata come diversità da valorizzare e non come
bisogno di cui prendersi cura in senso abilitativo e riabilitativo. In quei casi invece in
cui la difficoltà di funzionamento danneggi direttamente il bambino oltre che gli altri,
lo ostacoli direttamente o lo stigmatizzi, è evidente la necessità di prendersene cura,
anche se, in qualche caso, tale difficoltà non è vissuta come particolarmente proble-
matica e preoccupante dagli altri (ad esempio, un bambino passivo, timido, chiuso in
sé, poco intraprendente può essere vissuto come un bambino «tranquillo e riposante»).
In questa nostra definizione è evidente una continuità tra BES e normalità, un con-
tinuum tra «normalità» e «problematicità», dove il punto di passaggio rischia di essere
arbitrario, se non vengono definiti dei criteri il più possibile oggettivi a tutela del soggetto,
dell’alunno. L’ottica con cui viene giudicato problematico un certo tipo di funzionamento
dipenderà ovviamente del sistema di valori di chi opera questo giudizio: se la priorità
verrà data, ad esempio, al benessere dell’alunno in difficoltà o invece a quello di chi riveste
ruoli di potere (insegnante, genitore, ecc.). Nel formulare questa definizione dobbiamo
fare i conti anche con un senso di incertezza e di ignoto rispetto a quelle cause che non
riusciamo oggi a definire, a quelle eziologie non conosciute che però, in modi che magari
non comprendiamo, producono una difficoltà di funzionamento educativo-apprenditivo.
È a quest’ultima dimensione globale che dobbiamo rivolgerci primariamente, anche se è
evidente che la conoscenza delle cause ci potrebbe consentire di agire su di esse in termini
di prevenzione e di definizione degli interventi efficaci ed efficienti.

I BES sulla base del modello ICF

Come risulta evidente, in questa idea di bisogno educativo speciale è centrale il


concetto di funzionamento educativo-apprenditivo. In tale dimensione del funzionamento,
peraltro totalizzante nell’esperienza evolutiva di ogni bambino, si attribuisce un’enfasi
prevalente al concetto di apprendimento (nei più disparati ambiti) frutto dell’intreccio
tra le varie spinte evolutive endogene, per maturazione biologica programmata gene-
ticamente, e le mediazioni educative degli ambienti. Nei contesti delle varie forme di
educazione, formale e informale, il bambino cresce apprendendo, sviluppando compe-
tenze negli ambiti più diversi: cognitivo, linguistico, interpersonale, motorio, valoriale,

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122 INSEGNARE DOMANI NELLA SCUOLA SECONDARIA

autoriflessivo, ecc. Questi funziona bene dal punto di vista evolutivo se riesce a intrecciare
positivamente le spinte biologiche alla crescita con le varie forme di apprendimento date
dall’esperienza e dal contatto con le relazioni umane e gli ambienti fisici.
L’educazione media questo intreccio, nelle sue molteplici azioni quotidiane,
fornendo stimoli, guida, accompagnamento, feedback, significati, obiettivi e grati-
ficazioni, modelli, ecc., e il bambino funziona bene dal punto di vista educativo se
integra questi messaggi con la sua spontanea iniziativa e con le spinte biologiche.
Il funzionamento educativo è dunque intrecciato tra biologia, esperienze di
ambienti e relazioni e attività e iniziative del soggetto.
Per comprendere meglio questo intreccio e leggerlo nella mescolanza delle sue
componenti abbiamo bisogno di una cornice forte che orienti l’analisi, una cornice
concettuale e antropologica condivisa dalle varie ottiche e culture professionali. L’ICF
dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (2002; 2007) è il modello concettuale
che serve a questa lettura e che proponiamo qui a questo scopo.
Rispetto al concetto di BES, crediamo sia molto appropriato proporre la struttura
concettuale dell’ICF, perché questo approccio parla di salute e di funzionamento glo-
bale, non di disabilità o di varie patologie. Secondo l’Organizzazione Mondiale della
Sanità, infatti, una situazione — e cioè il funzionamento di una persona — va letta e
compresa profondamente in modo globale, sistemico e complesso, e in modo inter-
connesso e reciprocamente causale (figura 11.3). Pensiamo dunque che questo modello
sia utile per una lettura globale dei bisogni educativi speciali in un’ottica di salute e di
funzionamento, come frutto di relazioni tra vari ambiti interni ed esterni al bambino.

Condizioni fisiche (input biologico)

Corpo
Capacità
Funzioni corporee
Partecipazione
Attività personali
Strutture corporee sociale
Performance
Ruoli sociali

Fattori contestuali (input contestuale)

Ambientali Personali

Fig. 11.3 La situazione globale di una persona (i vari fattori che, interagendo tra di loro, determinano il
suo «funzionamento»).

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BISOGNI EDUCATIVI SPECIALI E INCLUSIONE 123

Come si vede dallo schema nella figura 11.3, la situazione di salute di una per-
sona, nel nostro caso il suo funzionamento educativo-apprenditivo, è la risultante
globale delle reciproche influenze tra i fattori rappresentati.
Condizioni fisiche e fattori contestuali stanno agli estremi superiori e inferiori del
modello: la dotazione biologica da un lato e, dall’altro, l’ambiente in cui il bambino
cresce, dove accanto ai fattori esterni, come le relazioni, le culture, gli ambienti fisici,
ecc. egli incontra anche fattori contestuali personali, e cioè le dimensioni psicologiche
che fanno da sfondo interno alle sue azioni, ad esempio autostima, identità, motiva-
zioni, ecc. Questi contesti potranno essere dei mediatori facilitanti o delle barriere.
Nella grande dialettica fra queste due enormi classi di forze, biologiche e con-
testuali, si trova il corpo del bambino, come concretamente si sta sviluppando dal
punto di vista strutturale e come si stanno sviluppando le sue varie funzioni, da
quelle mentali a quelle motorie e di altro genere.
Il corpo del bambino agisce poi nel mondo sviluppando reali capacità e attività
personali, e partecipa socialmente ai vari ruoli familiari, comunitari, scolastici, ecc.
Quando i diversi fattori interagiscono in modo positivo, il bambino crescerà sano
e funzionerà bene dal punto di vista educativo-apprenditivo, altrimenti il suo funzio-
namento sarà difficoltoso, ostacolato, disabilitato, ammalato, con bisogni educativi
speciali, ecc.
La comprensione il più possibile profonda e completa del funzionamento
educativo-apprenditivo di un bambino sarà possibile soltanto se riusciremo a co-
gliere le singole dimensioni ma soprattutto se riusciremo a integrarle in una visione
complessa e completa. Si tratta di vedere non le singole stelle (le singole capacità,
performance o fattori contestuali, ecc.), ma la costellazione che dà significato e senso
a una figura, a una serie di relazioni di interconnessione (Ianes e Biasioli, 2005).
Una buona comprensione di una situazione non può che derivare da una messa
in relazione di diversi aspetti dell’alunno in questione.
È evidente che il concetto globale di «funzionamento» è molto relativo, fluido; non
è ontologicamente non modificabile e si manifesta in modo molto diverso in relazione
ai fattori contestuali, interni ed esterni, e ai giochi di influenze reciproche e di forze
che tutti questi creano, in altrettante «costellazioni» che dovrebbero renderli visibili.
Il bambino potrà avere una difficoltà di funzionamento, e cioè un bisogno
educativo speciale, originata dalle infinite combinazioni possibili tra gli ambiti di
funzionamento illustrati nella figura 11.3.
Una difficoltà di funzionamento potrà originarsi da condizioni fisiche proble-
matiche: malattie varie, acute o croniche, fragilità, allergie o intolleranze alimentari,
patrimoni cromosomici particolari, lesioni, traumi, malformazioni, disturbi del
ciclo del sonno-veglia, disturbi del metabolismo, della crescita, ecc. In questi casi il
funzionamento globale è minacciato da un input biologicamente significativo, che
irrompe sulla scena e può condizionare in maniera drammatica l’apprendimento e
l’educazione. Spesso problemi in questo ambito portano a criticità anche nell’ambito
successivo, quello delle strutture corporee.

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124 INSEGNARE DOMANI NELLA SCUOLA SECONDARIA

L’ambito delle strutture corporee può originare a sua volta difficoltà di fun-
zionamento educativo e apprenditivo: pensiamo al ruolo delle malformazioni o
alla mancanza di arti, organi o parti di essi, come ad esempio strutture cerebrali o
necessarie per la fonazione o la locomozione. È evidente come l’iniziativa e l’attività
personale del bambino saranno più o meno profondamente danneggiate da deficit
strutturali nel corpo. Le strutture del corpo però devono funzionare a livelli sempre
più evoluti, e infatti il terzo elemento di funzionamento è definito dall’Organizza-
zione Mondiale della Sanità come «funzioni corporee»: il bambino può avere una
difficoltà di funzionamento educativo-apprenditivo originata da deficit funzionali,
come deficit visivi, motori, aprassie, afasie, deficit sensomotori, deficit nell’attenzio-
ne, nella memoria, nella regolazione dell’attivazione (arousal), ecc. È evidente che i
deficit funzionali più legati a un difficoltoso funzionamento educativo-apprenditivo
sono quelli delle funzioni cerebrali e mentali, sia globali che specifiche.
Con il suo corpo, in strutture e funzioni, il bambino apprende attività personali
e partecipa socialmente. Un’altra possibile fonte di difficile funzionamento educa-
tivo, e di conseguenza di bisogno educativo speciale, è infatti una ridotta dotazione
di attività personali. Il bambino può avere deficit di capacità e/o performance. Nel
caso delle «capacità», egli agisce in modo virtualmente «puro», senza cioè risentire
degli effetti facilitanti o barrieranti dei vari fattori contestuali ambientali e personali.
Nel caso delle «performance», egli agisce invece attraverso l’effetto facilitante/
barrierante dei vari fattori contestuali. Una comprensione approfondita del funziona-
mento del bambino dovrà quindi tener conto — e mettere in relazione — delle sue
capacità, delle sue performance e dei ruoli facilitanti/barrieranti dei fattori contestuali
in vari ambiti di attività: apprendimento, applicazione delle conoscenze, pianifica-
zione delle sue azioni, linguaggio e comunicazione, autoregolazione metacognitiva,
interazione, autonomia personale e sociale, cura del proprio luogo di vita. Questa è
una situazione molto nota all’insegnante: l’alunno non sa fare bene le cose che sarebbe
importante facesse per sviluppare patrimoni sempre più ampi di competenze. Un
bambino con scarse attività personali sa fare meno cose, o le fa in forme deficitarie,
anche se può essere perfettamente integro dal punto di vista strutturale e funzionale,
ovvero avere un corpo senza alcuna difficoltà. Può avere dei deficit di capacità e di
performance dovuti a scarse esperienze di apprendimento, di stimolazione oppure
all’influenza negativa (nel caso delle performance) dei fattori contestuali.
Un’ulteriore fonte di funzionamento educativo-apprenditivo difficoltoso è la
partecipazione sociale. Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, una per-
sona funziona bene se partecipa socialmente, se riveste ruoli di vita sociale in modo
integrato e attivo; dunque non è sufficiente avere un corpo integro e funzionante,
presentare anche molte attività personali, bisogna anche partecipare socialmente. In
questo ambito possono generarsi (o co-generarsi) difficoltà specifiche che diventano
bisogno educativo speciale: difficoltà nello svolgere i ruoli previsti dall’essere alunno,
compagno di classe e utente di servizi rivolti all’infanzia, culturali, sportivi, sociali.
Il bambino che venisse ostacolato nella partecipazione, emarginato o allontanato,

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BISOGNI EDUCATIVI SPECIALI E INCLUSIONE 125

isolato, rifiutato, vivrebbe un elemento significativamente determinante per lo svi-


luppo di un bisogno educativo speciale.
Dalle due classi di fattori contestuali, ambientali e personali, si possono origi-
nare varie combinazioni di BES. Un bambino può infatti vivere fattori contestuali
ambientali molto difficili: una famiglia problematica, un contesto culturale e lingui-
stico diverso, una situazione socioeconomica difficile, subire atteggiamenti ostili, di
indifferenza o rifiuto, usufruire di scarsi servizi, di esigue risorse educative sanitarie,
incontrare barriere architettoniche, ecc.
Anche nei fattori contestuali personali si possono originare cause o concause
di bisogno educativo speciale: scarsa autostima, reazioni emozionali eccessive, scarsa
motivazione, stili attributivi distorti, ecc.
Nella nostra proposta basata su ICF tutti i fattori ambientali vanno ovviamente
considerati, tanto più quelli socioeconomici. Se non li consideriamo approfondita-
mente nel loro influsso positivo/negativo sul funzionamento, la nostra analisi non
sarà compiutamente bio-psico-sociale, perché ci mancherà un pezzo importante
della componente «sociale».
Una differenza notevole tra la nostra proposta di utilizzo di ICF per la com-
prensione dei BES e del funzionamento riguarda anche i fattori contestuali personali.
Nella versione originale di ICF, la formulazione dei fattori contestuali personali (che
non sono riportati nel dettaglio per un uso concreto dei qualificatori, come invece
lo sono quelli ambientali) è la seguente:
I fattori personali sono il background personale della vita e dell’esistenza di
un individuo e rappresentano quelle caratteristiche che non fanno parte della
condizione di salute o degli stati di salute. Questi fattori comprendono il sesso, la
razza, l’età, altre condizioni di salute, la forma fisica, lo stile di vita, le abitudini,
l’educazione ricevuta, le capacità di adattamento, il background sociale, l’istru-
zione, la professione e l’esperienza passata e attuale (eventi di vita passata e eventi
contemporanei), modelli di comportamento generali e stili caratteriali, che posso-
no giocare un certo ruolo nella disabilità a qualsiasi livello (OMS, 2007, p. 43).

A nostro avviso, questa formulazione produce confusione e non è particolarmen-


te utile. Accanto a pochi elementi individuali di contesto personale (come il sesso, la
razza e l’età), gli altri sono riconducibili ad ambiti differenti (attività, partecipazione
e contesti ambientali). Ci è sembrato più utile, fin dal primo modello di Diagnosi
Funzionale basato su ICF (Ianes, 2004), introdurre nei fattori contestuali personali
le principali dimensioni psicoaffettive che mediano (positivamente/negativamente)
il funzionamento, ovvero:

–– stili di attribuzione
–– autoefficacia
–– autostima
–– emotività

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126 INSEGNARE DOMANI NELLA SCUOLA SECONDARIA

–– motivazione
–– comportamenti problema.

In questo modo le varie dimensioni psicologiche, affettive e comportamentali,


così importanti in età evolutiva, trovano una collocazione più strategica rispetto al
loro ruolo di mediazione.
In uno qualsiasi di questi ambiti si può generare dunque una causa o concausa
di bisogno educativo speciale, che interagisce continuamente in maniera sistemica
con gli altri elementi, che potranno essere favorevoli o avversi.
Attraverso queste interazioni complesse si produce giorno dopo giorno il funzio-
namento educativo-apprenditivo dell’alunno. Ovviamente, il peso dei singoli ambiti
varierà da soggetto a soggetto, anche all’interno della stessa condizione biologica
originaria e della medesima condizione contestuale ambientale: due bambini figli
di emigrati senegalesi, ad esempio, non sono affatto uguali.
In questo modo, il modello ICF ci aiuta a definire le diverse situazioni di BES
degli alunni: alcune di esse saranno caratterizzate da problemi biologici, corporei e di
attività personali, altre primariamente da fattori contestuali e ambientali, altre prin-
cipalmente da difficoltà di partecipazione sociale, discriminazione, ostilità e così via.

La soglia tra funzionamento normale e problematico

Se abbiamo posto il concetto di funzionamento globale di un alunno alla


base di quello di bisogno educativo speciale, nasce evidente il problema del dove
porre la soglia tra funzionamento «normale» e funzionamento «problematico». Ne
avevamo già precedentemente accennato, ma ora la questione va affrontata più nel
dettaglio. Potremmo ipotizzare un continuum di funzionamento sul quale si deve
formulare un giudizio, a un certo punto, di disfunzionalità e di problematicità
per il soggetto.
Evidentemente l’insegnante, l’educatore e il genitore «sentono» attraverso il loro
disagio una problematicità di apprendimento e di sviluppo nel bambino, ma questo
loro disagio non è affatto sufficiente per giudicare come realmente problematico il
funzionamento educativo-apprenditivo del soggetto. Questo loro disagio educativo
è il primo motore, la prima energia che li spinge a prendersi cura dello sviluppo
del bambino; tuttavia, può essere eccessivo e, di conseguenza, indurli a giudicare
problematica una situazione di sviluppo, ritardata o differente, che in realtà non è
tale per l’alunno. Potrebbe trattarsi invece di una preoccupazione per se stessi, per la
propria tranquillità piuttosto che per il benessere e lo sviluppo del bambino e creare
così falsi positivi in nome dell’ansia dell’insegnante o del genitore.
In realtà, la valutazione del bisogno educativo speciale deve difendere l’alunno
tanto da un eccesso di preoccupazione — che diventa iperprotezione e limitazione
in nome del proprio benessere di insegnante o genitore — quanto da una scarsa

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BISOGNI EDUCATIVI SPECIALI E INCLUSIONE 127

preoccupazione, da un non rilevare in anticipo possibili fonti di difficoltà e di scarso


funzionamento educativo-apprenditivo.
L’insegnante e il genitore «sufficientemente buoni» colgono in tempo, si accor-
gono prestissimo che qualcosa non va, che il funzionamento del bambino e dell’a-
lunno in qualche modo sono negativamente condizionati. Ma allora come passare
da una sensazione soggettiva di disagio a una valutazione il più possibile oggettiva
che quello stato di funzionamento, in quel particolare momento, è effettivamente
problematico per il soggetto? Per fare questo passaggio dovremmo poter disporre di
criteri il più possibile oggettivi per decidere.
Il primo criterio può essere quello del danno, effettivamente vissuto dall’alunno
e prodotto su altri, alunni o adulti, rispetto alla sua integrità attuale fisica, psico-
logica o relazionale. Una situazione di funzionamento è realmente problematica
per un bambino se lo danneggia direttamente o danneggia altri: si pensi a disturbi
del comportamento gravi, all’autolesionismo, a disturbi emozionali importanti, a
seri deficit di attività personali, a situazioni di grandi rifiuti o allontanamento dal
gruppo. In questi casi si può osservare un danno diretto al bambino o ad altri che
lo circondano. Se ciò accade è evidente che la situazione è realmente problemati-
ca e non è affatto un falso positivo. Ne conseguiranno un obbligo deontologico
a intervenire e una legittimazione forte, in nome del benessere del bambino, ad
agire urgentemente.
Ma può verificarsi anche una situazione in cui il danno non sia attualmente
osservabile in maniera chiara, nel qual caso si potrebbe assumere come criterio quello
dell’ostacolo: un funzionamento problematico è tale realmente per quel bambino se
lo ostacola nel suo sviluppo futuro, se cioè lo condizionerà nei futuri apprendimenti
cognitivi, sociali, relazionali ed emotivi. In questa situazione la difficoltà non riesce
a danneggiare oggi direttamente il bambino, ma lo pone in situazione di svantaggio
per ulteriori successivi sviluppi. Si pensi alle difficoltà di linguaggio ma anche ai
disturbi dell’apprendimento lievi o alle difficoltà emotive o comportamentali. An-
che con questo secondo criterio potremmo dunque decidere che una situazione di
funzionamento è realmente problematica per quel bambino, oltre che per gli adulti,
e che di conseguenza dovremo intervenire per aiutarlo nello sviluppo.
Potremmo però incontrare casi in cui non sia dimostrabile un danno o un
ostacolo al bambino o ad altri da parte del suo scarso funzionamento educativo-
apprenditivo: in queste situazioni di stranezze e di bizzarrie dovremmo analizzare la
situazione rispetto a un terzo criterio, che potremmo definire dello stigma sociale. Con
esso ci si chiede se oggettivamente il bambino, attraverso il suo scarso funzionamento
educativo-apprenditivo, stia peggiorando la sua immagine sociale, stia costruendosi
ulteriori processi di stigmatizzazione, soprattutto se appartiene a qualche categoria
socialmente debole. Come adulti, insegnanti e genitori, abbiamo il dovere etico di
tutelare e di migliorare, se possibile, l’immagine dei nostri alunni e dei nostri figli.
Anche perché un’immagine sociale negativa evidentemente diventerà poi ostacolo,
e successivamente danno, per il loro sviluppo.

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128 INSEGNARE DOMANI NELLA SCUOLA SECONDARIA

Con questi tre criteri potremo dunque decidere se la preoccupazione che vi-
viamo nei confronti dell’apprendimento e dello sviluppo dei nostri alunni o figli è
realmente fondata, ha realmente identificato un bisogno educativo speciale su cui
dobbiamo assolutamente intervenire in senso pedagogico, psicologico e didattico,
oltre che naturalmente fisico e biologico, se necessario. In questo caso, l’intervento
risponde a un preciso obbligo deontologico.
Risulta abbastanza chiaro che questa idea di bisogno educativo speciale fondata
sul funzionamento globale della persona, come definito dall’Organizzazione Mondiale
della Sanità nel modello ICF, porti a un evidente superamento delle categorie dia-
gnostiche tradizionali nella fase del riconoscimento di una situazione in cui l’alunno
ha diritto a un intervento individualizzato e inclusivo.
Ciò non significa ovviamente ignorare o rifiutare le diagnosi cliniche nosogra-
fiche ed eziologiche, che hanno un profondo significato per gli aspetti conoscitivi
legati alla terapia, alla prevenzione, ecc. Nel nostro caso, però, cerchiamo un approc-
cio globale, per così dire «a valle» della diagnosi, più esteso, più comprensivo e più
rispondente alla reale situazione di BES e di difficoltà. Il nostro modello di bisogno
educativo speciale include anche alunni che non potrebbero essere diagnosticati
con alcuna delle condizioni patologiche tradizionali, ma che hanno talvolta enormi
bisogni educativi speciali che vanno riconosciuti in tempo e con precisione, anche
se sfuggono ai sistemi tradizionali di classificazione.
Questo tipo di valutazione del bisogno educativo speciale non è riferito dunque
a una qualche classificazione nosografica o eziologica ma serve a cogliere globalmente
tutte le condizioni di funzionamento problematico, per potervi costruire una didattica
inclusiva ben individualizzata.

Organizzare le risorse per una didattica inclusiva secondo la «speciale normalità»

Il Consiglio di classe e il team docenti, dopo aver esaminato la realtà com-


plessiva della classe e aver identificato i vari alunni con bisogni educativi speciali si
trova ora ad affrontare un passaggio particolarmente importante e cioè quello della
definizione del fabbisogno di risorse e della progettazione concreta delle attività per
realizzare buone prassi di integrazione e di inclusione. Ancora una volta dobbiamo
porre l’attenzione sul fatto che questa programmazione di attività e di risorse non
dovrà essere in alcun modo delegata al solo insegnante di sostegno: il titolare dell’o-
perazione è il Consiglio di classe e il team docenti che opera collegialmente, con il
contributo di tutti e con lo stimolo continuo del dirigente.
È importante qui chiarire che esiste una forte differenza tra pratiche di integrazione
e di inclusione. Integrazione si rivolge agli alunni con disabilità, cioè a una parte di
quelli con bisogni educativi speciali, mentre l’inclusione fa riferimento alle varie prassi
di risposta individualizzata realizzate su tutti i vari bisogni educativi di tutti gli alunni
con bisogni educativi speciali. L’inclusione è dunque più ampia rispetto all’integrazio-

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BISOGNI EDUCATIVI SPECIALI E INCLUSIONE 129

ne. Valutando infatti tutti i bisogni educativi speciali nasce l’esigenza di rispondere in
modo inclusivo, considerando e dando dignità a tutti i bisogni di tutti gli alunni. Una
risposta realmente inclusiva è un’offerta formativa individualizzata, quanto necessario.
Forse vale la pena a questo punto di ricordare ancora la differenza tra indivi-
dualizzare e personalizzare. Un’offerta didattica individualizzata cerca di adattarsi
ai bisogni di una singola persona, riconoscendoli e modificando le varie strategie di
insegnamento-apprendimento per riuscire a portare quell’alunno più vicino possibile
agli obiettivi comuni al gruppo di appartenenza, alla sua classe o al corso di studi.
In questo modo si cerca di far raggiungere un fine, un traguardo comune anche con
mezzi e percorsi molto diversi, molto individualizzati.
Nel caso invece della personalizzazione, a essere profondamente diversi sono
anche gli obiettivi dell’offerta formativa, che possono divergere anche nettamente
rispetto a quelli del gruppo di appartenenza, della classe e del corso di studi. L’o-
biettivo finale della personalizzazione non è tanto quello di raggiungere altrimenti
un fine comune, ma quello di costruire un proprio percorso rispetto a propri fini
anche del tutto diversi da quelli degli altri.
Nel caso dell’offerta formativa rivolta ad alunni in difficoltà risulta abbastanza
evidente il rischio insito nel concetto di personalizzazione. L’alunno con minori
risorse personali, e spesso con minori risorse familiari e sociali, rischia di compiere
un percorso più ridotto, meno ambizioso, più appiattito sulla percezione dei suoi
deficit, meno agganciato al curricolo dei compagni di classe. Dobbiamo tener conto
infatti anche di una frequente autorappresentazione negativa da parte dell’alunno,
di una probabile sottovalutazione delle sue risorse da parte degli insegnanti e della
famiglia. Può accadere allora che l’alunno in difficoltà venga in un certo senso mar-
ginalizzato dal percorso ordinario del curricolo e dal suo gruppo di appartenenza e
che venga costruito per lui un percorso speciale, diverso, in alcuni casi anche molto
lontano dalla normalità. Questo è un rischio reale.
D’altra parte però dobbiamo tener conto che molte situazioni di disabilità, soprat-
tutto se gravi o complesse come nel caso dell’autismo, richiedono un lavoro specifico
verso la padronanza di obiettivi anche molto lontani da quelli che ordinariamente
sono presenti nel curricolo, si pensi ad esempio al lavoro educativo sulle autonomie
personali, sul controllo degli sfinteri o su forme base di autonomia sociale. In questi
casi l’alunno in grave difficoltà ha bisogno di un’offerta individualizzata che rispon-
da anche ad alcuni dei suoi bisogni di base, che cerchi di formare delle competenze
nell’ambito delle attività personali, secondo il modello ICF, che gli altri alunni hanno
già ampiamente formato e che non possono essere affrontate in forme di adattamento
delle attività curricolari. In questi casi l’offerta formativa sarà una miscela tra obiettivi
e attività individualizzate, che connettono alle attività curricolari, e attività e obiettivi
personalizzati, che rispondono ad alcuni bisogni di sviluppo personale.
Queste due dimensioni ricevono senso e intreccio equilibrato dal modello
antropologico ICF, che prevede paritariamente le dimensioni attività personali e
partecipazione sociale come elementi fondamentali del funzionamento umano.

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130 INSEGNARE DOMANI NELLA SCUOLA SECONDARIA

Organizzare le risorse per una didattica inclusiva significa passare dalla conoscen-
za delle varie situazioni degli alunni a una chiara progettualità condivisa dell’azione
educativa e didattica. Per fare questo dobbiamo ricostruire una gestalt unitaria e ben
riconoscibile, che ci ricordi continuamente il significato e l’orientamento di quello
che stiamo facendo. Abbiamo bisogno di uno sfondo integratore delle nostre azioni:
«Come sfondo integratore vorrei indicare tutte le strutture connettive che riescono a
tenere insieme senza immobilizzare» (Canevaro e Chieregatti, 1999, p. 24). Nel caso
degli alunni con disabilità, la struttura connettiva che integra, che dà significato a
tutto, è certamente il Piano Educativo Individualizzato stesso, nella sua composizione
e costruzione intrecciata e interdipendente. Ma oltre a questo sfondo, o meglio in
questo sfondo, si collocano e prendono significato e una funzione di connessione
almeno altri tre sfondi che illustreremo qui di seguito.
Come anticipato, il primo sfondo integratore delle nostre varie prassi di in-
clusione è la conoscenza globale, complessa e interconnessa nelle capacità, deficit,
disabilità, funzionamento e salute dell’alunno, che assume un forte significato in-
tegrante anche grazie alla totalità sistemica insita nel modello antropologico ICF,
tramite il quale è stata costruita. Ne esce una conoscenza, anche se sempre parziale
e in divenire, integra, globale, a tutto tondo, che tiene insieme.
Il secondo sfondo integratore che dovrebbe dare senso e significato alla defini-
zione di obiettivi individualizzati e personalizzati è l’orientamento al progetto di vita,
che apre le dimensioni della progettazione al desiderio di adultità, alle aspettative,
a una prospettiva temporale più lunga (il «pensami adulto», la celebre espressione
coniata da Mario Tortello), e più ampia, coinvolgendo la famiglia, la comunità, i vari
ecosistemi di vita e di relazione, nella prospettiva dell’integrazione sociale e lavorativa.
Ne dovrebbe uscire una progettualità integrata, globale, sempre più orientata verso
la complessità e molteplicità delle dimensioni della vita adulta.
Il terzo sfondo integratore che illustreremo più nel dettaglio in questo capi-
tolo è quello della «speciale normalità», uno sfondo integratore prevalentemente
metodologico, che ci dovrebbe indicare le priorità nelle scelte organizzative e di
insegnamento. Nella progettazione inclusiva dovremo allora tener presente sia la
presenza di eventuali piani educativi individualizzati per alunni con disabilità sia le
varie azioni individualizzate rivolte ai vari alunni con altri bisogni educativi speciali.
Per tutte queste necessità però, come abbiamo visto, la base metodologica è data
dalla speciale normalità.
Dopo più di trent’anni di esperienza di integrazione scolastica di alunni con di-
sabilità di vari livelli di gravità possiamo essere ragionevolmente certi che una buona
qualità dell’integrazione, e più in generale di un’offerta formativa realmente inclusiva,
è data dalla speciale normalità, un modo cioè di gestire l’offerta formativa che ci con-
sente da un lato di lasciarci alle spalle senza alcun rimpianto le scuole e le classi speciali,
separate e segreganti, e dall’altro di renderci conto che la semplice normalità del fare
scuola, non arricchita di risorse tecniche specifiche, non è sufficiente per realizzare
una buona integrazione. Sappiamo bene che la normalità improvvisata, in cui si trova

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BISOGNI EDUCATIVI SPECIALI E INCLUSIONE 131

gettato allo sbaraglio l’alunno disabile o con altri bisogni educativi speciali, non riesce
a creare miracolosamente una buona integrazione, né inclusione. Una normalità non
arricchita metodologicamente e di tutte le altre risorse speciali necessarie, non pro-
duce un’integrazione di qualità, e dunque tanto meno una buona inclusione. Siamo
dunque maturi per affrontare le sfide più avanzate dell’integrazione e dell’inclusione e
per tradurle non solo in una grande opportunità ma in concreti e tangibili vantaggi in
tanti campi per tutti i protagonisti della comunità scolastica, e non solo. L’approccio
metodologico che ci può aiutare è appunto quello della speciale normalità.
La speciale normalità è una condizione di sintesi, una condizione largamente
superiore alle due precedenti, prese da sole, e si potrebbe definire come «le aspettative,
gli obiettivi, le prassi, le attività rivolte a tutti gli alunni, nessuno escluso, nell’ordinaria
offerta formativa, che però si arricchiscono di una specificità tecnica non comune,
fondata sui dati scientifici e richiesta dalle nuove complessità dei bisogni educativi
speciali» (Ianes, 2001). Il concetto di speciale normalità ci porta a una condizione
mista e complessivamente intrecciata di normalità e di specialità, che coesistono, si
influenzano reciprocamente, in cui la specialità si trasforma nell’altra, la normalità, ne
viene assimilata e in questo la trasforma, arricchendola e qualificandola ulteriormente.
Si potrebbe dire che nella speciale normalità alcuni aspetti tecnici, quasi dei
principi attivi, sperimentati empiricamente nella loro capacità di rispondere ai biso-
gni educativi speciali, entrano a modificare le normali prassi educative e didattiche,
rendendole più speciali, più efficaci, più rispondenti alle qualità speciali di alcuni
bisogni educativi. In questo senso la specialità si dissolve, si mimetizza all’interno
delle normali prassi, rendendole però diverse; in questo senso si può parlare di una
normalizzazione delle varie tecniche di educazione speciale.
La speciale normalità riesce a rispondere a due fondamentali bisogni dell’alunno
in difficoltà: un bisogno di normalità, di fare le stesse cose degli altri, nelle normali
attività didattiche, un bisogno cioè di appartenenza, di identità, di conformità in
senso positivo, di accoglienza, accanto però a un bisogno di specialità, di poter fare
le cose che la sua specifica condizione, anche molto complessa, chiede per poter fun-
zionare al meglio delle sue possibilità in senso educativo-apprenditivo. Si pensi, ad
esempio, al caso dell’autismo e alle sue specificità: coesistono i bisogni di normalità
e di specialità, nessuno dei due può essere negato.
Dunque abbiamo bisogno di una condizione di sintesi, naturalmente più
complessa di quanto potrebbe essere una risposta solamente a uno dei due bisogni,
preso da solo, però se rispondessimo soltanto al bisogno di normalità, senza renderla
speciale, getteremmo l’alunno autistico in un mondo difficilmente comprensibile e
prevedibile, che potrebbe produrgli un livello d’ansia non gestibile; se rispondessi-
mo soltanto al bisogno di specialità costruiremmo dei percorsi molto tecnici, molto
specifici, forse anche molto efficaci rispetto a qualche obiettivo, ma separati e in
ultima analisi segreganti. Staremmo dunque negando il suo bisogno di normalità.
L’approccio della speciale normalità si fonda dunque sulla priorità data alle
risposte normali, a quello che normalmente e nelle normali prassi viene fatto per

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132 INSEGNARE DOMANI NELLA SCUOLA SECONDARIA

tutti gli alunni. Questa priorità data alla normalità ha ulteriori significati rispetto
al fondamentale bisogno di identità e di appartenenza al gruppo di riferimento. Un
significato forte è quello della corresponsabilizzazione di tutti e l’attivazione di tutte
le possibili risorse di una realtà educativa e formativa. Corresponsabilizzarsi vuol
dire attivarsi su un progetto, non delegando altri in nome della presunta specialità
o difficoltà del progetto stesso. Uno dei punti forti dell’approccio della speciale nor-
malità è proprio questo: la normalità nel suo complesso, le persone, le relazioni, le
occasioni, le attività normali vengono coinvolte per prime, resistendo alla tentazione
di cercare risposte e risorse speciali, a cui delegare la gestione dei percorsi di integra-
zione e inclusione. Questo allargamento è poi ovviamente necessario se il Consiglio
di classe o il team docenti ha riconosciuto l’ampiezza e la numerosità dei bisogni
educativi speciali. Se vi sono molti bisogni dovranno essere attivate molte risorse, le
risorse normali prima di tutto. E infatti le prime categorie di risorse che andremo ad
esaminare saranno risorse niente affatto speciali, anzi del tutto ordinarie. Ragionare
in termini di speciale normalità significa dunque guardare a un’ampia gamma di
risorse, includendo in esse anche risorse informali, come ad esempio la famiglia o
i collaboratori scolastici, che tipicamente non venivano inclusi come partner fon-
damentali in un progetto educativo didattico. Ragionare in termini allargati però
non vuol dire coinvolgere nell’impresa chiunque, senza alcuna specifica e speciale
formazione o attrezzature necessarie. Abbiamo detto che speciale normalità significa
normalità arricchita, resa più competente, più capace di rispondere adeguatamente
ai vari bisogni educativi speciali; e in questo il ruolo dell’insegnante specializzato per
il sostegno, nel suo rendere più competenti i colleghi, è sempre più fondamentale.

La sequenza di attivazione delle risorse: alcune linee guida

Di seguito verranno presentate 14 categorie generali di risorse che il Consiglio di


classe o il team docenti può decidere di attivare per organizzare una didattica realmente
inclusiva. Le categorie di risorse sono presentate in una sequenza consigliata, sulla base
delle considerazioni metodologiche appena svolte. Sarebbe importante che i docenti
e il dirigente esplorassero a fondo cosa si può fare in ogni categoria di risorse, con il
personale normale e quello speciale, prima di passare alla categoria di risorse successiva.
In un certo senso si dovrebbe seguire un principio di sussidiarietà della «normalità»: se
le risorse dei primi livelli, quelli più normali, riescono a rispondere adeguatamente ai
vari bisogni educativi speciali, meglio così, avremo realizzato un’offerta formativa più
vicina all’idea di speciale normalità, e non avrebbe senso progettare risorse più speciali.

1. Organizzazione scolastica generale

In questa categoria di risorse troviamo tutta una serie di adattamenti nell’ordinaria


organizzazione della vita scolastica che dovrebbero rispondere ai bisogni educativi speciali

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BISOGNI EDUCATIVI SPECIALI E INCLUSIONE 133

di quella classe. In particolare l’organizzazione dei tempi scuola, degli orari degli alunni:
«Alla ripresa dopo la pausa estiva, la bambina frequenta metà del tempo scolastico in
prima, per acquisire le strumentalità di base, e l’altra metà in quinta, per ricevere stimoli
adeguati alla sua età cronologica» (Borghetti et al., 2002). Questa flessibilità nell’orga-
nizzazione dell’orario degli alunni dovrebbe diventare flessibilità creativa anche nella
definizione dell’orario degli insegnanti, attivando compresenze, contemporaneità, uso
specifico degli straordinari, anche con forme di continuità verticale tra ordini di scuole
diverse e classi aperte: «La rotazione degli insegnanti sugli alunni è stata realizzata con
la collaborazione di un insegnante di sostegno della scuola media, grazie a un progetto
di continuità verticale, attuato dall’istituto per far fronte all’insufficiente numero di in-
segnanti specializzati in rapporto all’alto numero di alunni con disabilità» (Crupi et al.,
2004). In questa categoria organizzativa di risorse troviamo anche la formazione attenta
delle classi (eterogeneità ben studiata e numerosità compatibile con le risorse umane e
materiali), l’uso di classi aperte, oltre che l’utilizzo ampio e realmente improntato alla
contitolarità dell’insegnante specializzato per il sostegno: «Per evitare la presenza di un
numero eccessivo di figure educative all’interno della classe e per favorire ulteriormente
l’integrazione dell’alunno diversamente abile, il team docenti aveva stabilito di assegnare
agli insegnanti di sostegno alcuni ambiti disciplinari: ricerche, educazione al suono e
alla musica, educazione motoria, informatica» (Abatangelo et al., 2005).
Il Consiglio di classe, esaminando le possibilità offerte dall’organizzazione scolastica
generale, cerca di capire anche se l’azione dei collaboratori scolastici potrebbe essere
significativa per rispondere a qualche bisogno educativo speciale, se altre attività offerte
della scuola, come la mensa, il gruppo sportivo, la biblioteca, possono rappresentare
risorse organizzative generali utili per la programmazione di risposte inclusive. Come
si vedrà nell’appendice che illustra l’uso del software gestionale, il Consiglio di classe
o il team docenti nell’esaminare questa prima fondamentale categoria di risorse, e
poi ovviamente le successive, cercherà di definire se la ritiene utile per una risposta
inclusiva attraverso una serie di attività specifiche o di accorgimenti che devono essere
presi. Questo dovrà essere indicato nel campo attività specifiche, nel campo successi-
vo andranno indicate le risorse necessarie per quell’attività o per quell’accorgimento,
dividendole in risorse normali, quelle cioè normalmente presenti nel campo di risorse
in questione, e in risorse speciali, quelle cioè aggiuntive e specifiche che devono essere
attivate per rendere più efficaci e inclusive le risorse normali, ed eventualmente i materiali
richiesti. Il software gestionale chiede agli utilizzatori di specificare continuamente, in
ogni categoria di risorse, quali componenti normali e quali componenti speciali vanno
intrecciati nella specifica attività. Ciò consente poi di valutare il complesso di risorse
normali e speciali che dovranno essere attivate per la programmazione inclusiva.

2. Spazi e architettura

La seconda categoria di risorse riguarda gli spazi e l’architettura della scuola e


degli ambienti connessi. È evidente come lo spazio e l’architettura diventino una

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134 INSEGNARE DOMANI NELLA SCUOLA SECONDARIA

risorsa importante quando garantiscono a tutti gli alunni la massima accessibilità


sia interna che esterna: «Inoltre, dal momento che i due ragazzi con disabilità pre-
sentano entrambi difficoltà motorie, la classe è stata collocata in un’aula al piano
terra dell’edificio scolastico, di fronte alla sala professori, accanto all’aula di sostegno
e ad altre aule speciali della scuola, mentre tutte le altre classi sono in aule situate
al piano superiore. Questa situazione spaziale ha influito sulla fisionomia e sulle
caratteristiche della classe, migliorando la disponibilità alla relazione tra compagni
di classe» (D’Alfonso et al., 2004).
In questa risorsa troviamo anche le varie soluzioni logistiche e di articolazione
degli spazi interni, delle posizioni occupate e dei banchi, che possono favorire in
modo decisivo le relazioni positive per l’apprendimento: «Visto che la rotazione del
posto assegnato avveniva con scansione mensile ed era studiata sulla base di coppie di
aiuto reciproco, si è cercato di far occupare ad Antonio un posto nell’ultima fila per
scoraggiare i compagni dal girarsi a guardare. Se messo in prima fila, Antonio si girava
ripetutamente per controllare chi lo stesse guardando in quel momento, talvolta è
accaduto che se la prendesse anche con chi in realtà era impegnato nel proprio com-
pito, ritenendo che lo stesse fissando. Con il gruppo abbiamo concordato di limitare
le interruzioni quando Antonio era coinvolto oppure di proporre l’interruzione sotto
forma di semplici domande o di espressioni di incoraggiamento» (Dalle Fratte, 2002).
Accanto all’articolazione delle spazi e delle posizioni, l’ambiente può anche
essere attrezzato in maniera ottimale e facilitante per l’apprendimento: «Si può
ipotizzare che un ambiente facilmente accessibile, piacevole e accogliente, ricco di
stimoli, possa incrementare la creatività e la voglia di giocare, sia individualmente
che in gruppo. Se l’ambiente viene caratterizzato da suoni, colori, odori, oggetto di
materiali e forme diverse, ogni angolo viene allestito privilegiando un senso rispetto
ad altri, ipotizzando un gioco e un’attività che coinvolga il senso scelto. Gli angoli
vengono allestiti sfruttando principalmente ciò che è presente nell’ambiente natu-
rale: i materiali utilizzati sono essenze aromatiche diverse, creme profumate, stoffe
di colore e tessitura tattile diversa, materiali plastici vari, luci colorate, materiali
metallici» (Coppa et al., 2002).
Alcuni bisogni educativi speciali chiedono una particolare attenzione alla risorsa
spazio e attrezzatura degli ambienti, ad esempio nella situazione di bambini con
disturbi da deficit attentivi e iperattività è assolutamente necessario organizzare gli
spazi in maniera facilitante e strutturata, con ovvi benefici anche per tutti gli altri
alunni. Di seguito riportiamo alcuni accorgimenti utilizzati per organizzare in modo
facilitante gli spazi di apprendimento: alcuni sono senz’altro discutibili, ma testi-
moniano la continua ricerca applicativa su quello che può funzionare per facilitare
lo sviluppo di competenze importanti nell’alunno.
Occorre scegliere attentamente la collocazione del banco dell’alunno con di-
sturbo da deficit di attenzione e iperattività e introdurre alcuni cambiamenti che
lo aiutino a partecipare alle lezioni. Di seguito si forniscono alcuni suggerimenti.

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BISOGNI EDUCATIVI SPECIALI E INCLUSIONE 135

– Organizzare la classe con la modalità tradizionale di file di banchi, perché è


l’opzione più strutturata e prevedibile; mettere il bambino a lavorare insieme
a cinque compagni attorno allo stesso tavolo è deleterio per la sua capacità di
concentrazione.
– Far sedere il bambino con disturbo da deficit di attenzione e iperattività al
suo banco non basta; la sua collocazione rispetto al resto della classe è fonda-
mentale. Il banco dovrebbe essere nella prima fila, dove è meno probabile che
venga distratto dalla felpa colorata di un compagno o dal fermacapelli di una
compagna.
– Mettere il banco dell’alunno con disturbo da deficit di attenzione e iperattività
lontano dai punti che possono potenzialmente distrarlo, come le finestre o gli
scaffali con i materiali.
– Per fornire un feedback immediato e un monitoraggio continuo, è utile che
il banco del bambino sia il più possibile vicino alla cattedra (l’ideale è che sia
esattamente davanti a essa). In questo modo è possibile affrontare anche un
altro problema caratteristico del bambino con disturbo da deficit di attenzione
e iperattività, cioè la sua tendenziale riluttanza a chiedere aiuto quando ha
difficoltà.
– Sistemare nei banchi più vicini a quello del bambino con disturbo da deficit
di attenzione e iperattività i compagni più educati e attenti. Questa soluzione
incoraggerà automaticamente interazioni positive. Ulteriori opportunità di
interazione con i pari possono essere create sistemando in fondo all’aula dei
tavoli per eventuali attività di apprendimento cooperativo.
– Per i bambini che appaiono iperstimolati, si può predisporre una zona specifica
dell’aula il più possibile priva di stimoli nella quale il bambino che continua
a muoversi e distrarsi possa completare i suoi compiti. A questo scopo è
possibile realizzare un’«isola» in fondo all’aula, un’area riservata delimitata
su due lati dalle pareti che si congiungono nell’angolo e su un terzo da una
libreria (con i volumi rivolti verso l’esterno) o altre «divisorie». Da questa
zona devono essere tolti tutti gli elementi visivi che possono sovraccaricare
il bambino. Eventualmente, questo angoletto può essere dotato di una sedia
morbida o dei cuscini che forniscano al bambino un posto comodo per
concentrarsi. Se lo spazio lo consente, in quest’area l’alunno con disturbo
da deficit di attenzione e iperattività può eventualmente lavorare insieme ad
alcuni compagni.
– Un altro adattamento utile per il bambino con disturbo da deficit di attenzio-
ne e iperattività è quello di farlo sedere all’estremità (è indifferente se destra
o sinistra) della fila di banchi, in modo che, se ne ha bisogno, possa muoversi
senza distrarre o disturbare i compagni.
– Si può anche valutare la possibilità di mettere un banco in più, dove even-
tualmente l’alunno con disturbo da deficit di attenzione e iperattività possa
spostarsi se ne sente il bisogno. Gli si dovrà spiegare che quando sente di non
riuscire a stare fermo e di avere bisogno di muoversi, può prendere le sue cose
e, senza scompiglio, spostarsi nel banco «nuovo». In questo modo può avere
un momento di sfogo senza distrarsi troppo dal compito (Carbone, 2002).

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136 INSEGNARE DOMANI NELLA SCUOLA SECONDARIA

3. Sensibilizzazione generale

Nella terza categoria di risorse troviamo la sensibilizzazione dell’insegnante,


delle famiglie e degli alunni rispetto alla cultura dell’integrazione e dell’inclusione.
È evidente che l’attivazione di risorse e di strategie inclusive sarà ben più facile quan-
do le persone saranno motivate, cioè sensibilizzate, rispetto ai diritti di sviluppo e
apprendimento di tutti gli alunni, anche di quelli con gravi disabilità e con bisogni
educativi speciali.
In questa categoria di risorse troviamo tutte le varie iniziative di informazione,
conoscenza, attivazione di sensibilità e di atteggiamenti positivi costruttivi, non
pietistici né compassionevoli, rispetto agli alunni in difficoltà. Nelle famiglie si crea
un interesse positivo e un atteggiamento costruttivo se gli alunni tutti riportano a
casa conoscenze aneddotiche e racconti positivi rispetto ai compagni in difficoltà,
e se gli alunni stessi all’interno delle attività provano a simulare sulla loro pelle la
condizione di difficoltà. «A questo progetto abbiamo dato il nome “Alla ricerca del
Minotauro”. La metafora mitica cretese del labirinto consente contemporaneamente
non sono di svestirci e di assumere i panni del diverso, perdendosi nel labirinto della
paura delle difficoltà, ma anche di uscirne ritrovandosi eroi. Vorremmo che ogni
bambino si sentisse allo stesso tempo Perseo e Minotauro: sconfitto e vincitore. Per
un attimo vorremmo che Perseo e Minotauro diventassero un tutt’uno, per capire,
oltre che immaginare, le vicissitudini di chi normalmente nel labirinto della vita vive
la propria diversità. La struttura labirintica permette di simulare un viaggio peda-
gogico, nel quale sono rappresentate e vissute le emozioni collegate al mondo della
disabilità: paura, disagio, disorientamento, vergogna, che si trasformano in mezzo
di conoscenza, superando pregiudizi e stereotipi e fornendo la capacità di mettersi
in relazione con una realtà apparentemente inaccessibile» (Cenci et al., 1999).
Accanto alle attività di simulazione e di immedesimazione nelle condizioni
di disabilità o di difficoltà, senz’altro utili per promuovere sensibilizzazione degli
alunni e degli insegnanti, ci sono tante altre possibili attività, concorsi di scrittura,
di poesie, cicli di incontri con testimoni importanti della disabilità, cicli di film,
spettacoli teatrali e così via.
Il terreno delle relazioni informali con i compagni di classe e con i familiari va
costruito con estrema attenzione e buona progettualità, per sviluppare e consolidare
nel tempo un buon feeling di vicinanza e di solidarietà spontanea. Con gli alunni è
utile la metodologia del giro di parola (circle time) in cui si affrontano assieme temi,
prospettive e difficoltà della vita di classe.
«Dopo le iniziali e fisiologiche difficoltà, si potevano notare nei ragazzi, in ge-
nerale, una buona disponibilità a rivedere comportamenti e situazioni e ascoltare il
parere dell’altro. Stava costruendosi uno spirito critico piuttosto maturo. L’attenzione
dell’insegnante si era concentrata soprattutto nel guidare i ragazzi a non giudicare
ma comprendere, a mettersi nei panni dell’altro, modificare l’angolo di visuale per
comprendere i diversi punti di vista» (Bentini et al., 2003). Molte attività possono

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BISOGNI EDUCATIVI SPECIALI E INCLUSIONE 137

essere inventate e realizzate per riflettere sulle diversità, sulle differenze individuali,
sui bisogni educativi, sull’individualizzazione e sull’equità e per esplorare e compren-
dere i singoli deficit, per farli diventare occasioni dirette di apprendimento, anche
scientifico biologico (genetico) oltre che psicologico e comportamentale (Missiroli
et al., 1999).
Ma vanno sensibilizzati e preparati anche i genitori, le famiglie di tutti gli alun-
ni. Vanno organizzati incontri specifici, dove sensibilizzare le famiglie, con molta
franchezza, realismo e non con toni trionfalistici, al fatto che le politiche inclusive
che verranno fatte in quella classe saranno senz’altro impegnative e a tratti difficol-
tose, ma produrranno una serie di benefici tangibili e concreti per tutti gli alunni,
anche per quelli più bravi, oltre che per gli insegnanti e la ricchezza complessiva
dell’offerta formativa.
Nella gestione di questa fondamentale e delicatissima risorsa per l’inclusione
è assolutamente centrale il ruolo del dirigente scolastico, che dev’essere il primo e
il più convinto sostenitore dei vantaggi di una politica profondamente inclusiva.
Se ne è convinto riuscirà certamente a trovare le tante occasioni per testimoniare
questa sua convinzione e per organizzare varie forme di sensibilizzazione efficaci in
varie direzioni.

4. Alleanze extrascolastiche

La quarta categoria di risorse riguarda ciò che può dare alle pratiche inclusive
l’alleanza strategica con varie risorse extrascolastiche educative e formative, formali
o informali, a cominciare dalla famiglia e dalle tante realtà culturali, economiche,
sociali, sportive e associative presenti in un dato territorio. Coinvolgendo queste
risorse possiamo ottenere un aiuto importante per tante attività inclusive: «La fami-
glia di Guglielmo, a cui è stata proposta la compilazione del questionario, conosce
bene la tradizione della torta salata calabrese, per cui si individua Guglielmo come
anello di collegamento tra il progetto relativo alle tradizioni dei dolci natalizi e la
realizzazione della manifestazione gastronomica che nel frattempo aveva coinvolto
anche la sua classe, la terza A cucina» (Cavallaro e Valentini, 2002). Il tema della
alleanza e del coinvolgimento con la famiglia è evidentemente ampio e complesso,
ma è assolutamente fondamentale e ineliminabile se vogliamo costruire una buona
politica inclusiva: alcune famiglie possono diventare partner importanti nei progetti di
educativi formativi: «Approfittano di ogni occasione per concordare interventi, fornire
materiale, scambiare informazioni sull’uso di strumenti comunicativi, computer, in
modo da rendere più efficace la continuità tra scuola e casa» (Bonetti et al., 2002).
Le famiglie possono diventare degli efficacissimi mediatori naturali per costruire
reti di relazioni di vicinanza e di aiuto informale tra gli alunni in difficoltà e i com-
pagni di classe: «In questo ultimo anno, nelle nostre classi quinte abbiamo pensato
di osare qualcosa di più, rilevato che la relazione di Michele con i compagni aveva
raggiunto un buon livello. Favorita anche dal percorso di conoscenza affrontato con

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138 INSEGNARE DOMANI NELLA SCUOLA SECONDARIA

l’assemblea, in accordo con la famiglia di Michele abbiamo invitato tutti gli altri
genitori ad accogliere nella loro casa Michele a turno per un pomeriggio alla setti-
mana, fino a dopo cena, senza la presenza della mamma o degli adulti della scuola.
Questo con l’obiettivo di dare a Michele l’opportunità di allargare l’ambito delle
relazioni in contesti diversi, per aiutarlo a sentirsi come gli altri che possono andare
a casa degli amici quando vogliono. E per offrire un’opportunità anche alle famiglie.
L’esperienza si è rivelata molto positiva sia per Michele sia per gli altri, e ha favorito
concrete condivisioni. Alcuni genitori hanno riferito che, vedendo i loro figli come
mediatori fra Michele e gli altri componenti della famiglia, hanno avuto la sorpresa
di conoscere aspetti di maturità, capacità e affettività mai riscontrati prima nei loro
figli. E, come dice il papà di Michele, forse questa esperienza è servita molto anche
agli altri» (Silini et al., 2002).
La scuola non è un’isola, e tanto meno lo può essere se vuole realizzare una forte
politica inclusiva. Le varie risorse del territorio vanno considerate nella loro possibile
valenza educativa e formativa, anche con modalità creative rispetto al tradizionale
uso didattico dell’ambiente e di varie figure tradizionalmente formative, come ar-
tigiani, artisti, tecnici. Vanno considerate nel loro valore formativo, anche rispetto
al Progetto di vita, le possibilità offerte da centri di aggregazione, gruppi giovanili,
attività culturali, attività sportive, e così via, in raccordo con le attività scolastiche.

5. Formazione e aggiornamento

La quinta categoria di risorse riguarda l’input formativo specifico sugli insegnanti,


ritenuto importante per realizzare buone politiche inclusive. In alcuni casi è assoluta-
mente necessario intraprendere uno specifico percorso formativo per il Consiglio di
classe o per il team docenti nel suo insieme: «Per ovviare alla mancanza del sostegno,
abbiamo inoltrato, come Consiglio di classe, la richiesta al Consiglio d’istituto di acqui-
sto di testi per i docenti relativamente alla valutazione e alla gestione dell’integrazione
e di testi per l’area umanistica e tecnico-pratica» (Di Marino et al., 2002).
La formazione, che può ovviamente essere fatta anche con testi e riviste specifi-
che, con opportune navigazioni in Internet, attraverso la consulenza e supervisione
di esperti, non può ovviamente essere considerata un ripiego a cui si fa riferimento
quando non ci sono ore sufficienti, o percepite come sufficienti, dell’insegnante
di sostegno. Anzi, sarà proprio la presenza forte, soprattutto culturalmente forte,
dell’insegnante di sostegno che elaborerà il bisogno di formazione specifica e sarà
in grado di guidare e sostenere questa formazione. In questo senso, gli operatori e
i tecnici del tutto speciali, come ad esempio logopedisti, psicomotricisti, psicologi,
neuropsichiatri, ecc., rendendosi protagonisti di specifici percorsi di formazione,
rendono effettivamente più speciale la normalità, arricchendo la didattica e le rela-
zioni educative di forti principi attivi tecnici e speciali. Nel pensare all’attivazione
di questa risorsa formativa è utile riferirsi sempre a dei soggetti collettivi, pensare
ad esempio a iniziative di formazione e aggiornamento rivolte al gruppo di docenti,

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BISOGNI EDUCATIVI SPECIALI E INCLUSIONE 139

Consiglio di classe o team docenti, che si aggiorna e si forma insieme, per elaborare
anche attraverso la formazione strategie comuni di inclusione. Dall’altro lato dob-
biamo pensare alla risorsa formazione come a una risorsa destinata anche a figure
professionali non tradizionalmente coinvolte nelle pratiche inclusive: si pensi al ruolo
sempre più importante attribuito, anche dalla contrattazione collettiva di lavoro,
ai collaboratori scolastici, che dovrebbero essere specificamente formati sulla prassi
di integrazione e inclusione, anche con materiali e percorsi specifici (Piazza, 2003).

6. Documentazione

La sesta categoria di risorse fa riferimento all’utilizzo sistematico della consultazio-


ne della documentazione di esperienze e di buone prassi compiute da altre istituzioni
scolastiche. Può darsi che confrontandosi con altre realtà scolastiche si possa copiare,
naturalmente adattando, qualche strategia inclusiva, qualche progetto, qualche attività.
Questo naturalmente sarà possibile se le varie esperienze e attività saranno documentate
e codificate in maniera tale da renderle facilmente disponibili, consultabili ed even-
tualmente replicabili (Canevaro e Ianes, 2002). Ormai da anni alcuni territori stanno
costruendo delle forti reti di centri di documentazione e di informazione sull’integra-
zione, di supporto alla didattica inclusiva. «La realizzazione di percorsi che abbiano
come fulcro l’attenzione alla diversità e al benessere coinvolge un numero crescente di
docenti che, sensibilizzati, si adoperano per applicare nelle loro classi, dopo accurate
rielaborazioni, progetti già sperimentati da altri gruppi di docenti» (Sala et al., 2003).

7. Didattica comune

La settima categoria di risorse è forse quella più attesa e cioè le strategie inclusive
all’interno della didattica comune, delle attività cioè svolte da tutti i docenti nei vari
percorsi curricolari di insegnamento-apprendimento per tutti gli alunni. In questa
categoria di risorse dovremmo pensare e definire adattamenti, strategie e accorgimenti
per rispondere adeguatamente in maniera individualizzata ai vari bisogni educativi
speciali. Principalmente si dovrà pensare a quelle scelte metodologiche che si sono
dimostrate negli anni maggiormente inclusive. Esiste ormai una cospicua letteratura
sperimentale che indica come, rispetto alla tradizionale lezione frontale e al lavoro
individuale, i vari modelli di apprendimento cooperativo siano più efficaci non solo
per gli apprendimenti cognitivi e interpersonali ma anche per l’inclusione degli alunni
in difficoltà e per fornire a ognuno di loro adeguati ruoli e possibilità di partecipa-
zione e di apprendimento: «Gli insegnanti di lingua 1, lingua 2 e sostegno hanno
predisposto l’attività di apprendimento cooperativo, formando gruppi eterogenei,
stabilendo il compito, definendo gli obiettivi sia cognitivi che sociali, preparando i
materiali necessari, organizzando l’interdipendenza positiva. Di seguito si riporta un
esempio di unità didattica realizzata con l’approccio dell’apprendimento cooperativo»
(Cittadoni et al., 2001) (figura 11.4).

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140 INSEGNARE DOMANI NELLA SCUOLA SECONDARIA

Accanto ai piccoli gruppi di apprendimento cooperativo, un accorgimento


per rendere più speciale e più efficace la didattica normale nelle varie discipline, e
di conseguenza renderla maggiormente inclusiva, è il tutoring, e cioè l’alunno che
insegna all’altro alunno: «Questa fase fu la più interessante, in quanto i due ragazzi in
situazione di handicap divennero protagonisti di un’attività che li vedeva impegnati
in prima persona, lavorando in gruppo con i compagni delle diverse classi, i quali ri-
vestivano funzioni di tutor anche in moto spontaneo. Tali diverse attività erano state
preliminarmente illustrate mediante cartelloni con foto e didascalie realizzati dei due
studenti; i cartelloni furono poi affissi nel corridoio della scuola per rendere partecipi
del lavoro svolto tutte le componenti scolastiche» (Franco et al., 2002). La didattica
delle discipline può diventare molto più inclusiva e rispondente ai vari bisogni educativi
speciali anche in molti altri modi, e per questo ci riferiamo all’ormai ampia letteratura
sulla didattica speciale (Ianes, 2005; Cottini, 2004).
Possiamo qui accennare velocemente alla cosiddetta «didattica per problemi
reali», che stimola maggiore motivazione e interesse partendo da situazioni reali e
in parte conflittuali, tratte dalla vita personale e comunitaria dell’alunno. «La scuola
può essere un laboratorio, inteso come luogo in cui si offrono opportunità formative
per produrre nuove conoscenze e sviluppare nuove competenze. Gli allievi devono
essere consapevoli di ciò che fanno e dei risultati che conseguono, sul piano sia delle
conoscenze che delle procedure e delle relazioni che si instaurano con i loro inse-
gnanti. Da qui la scelta di utilizzare la didattica laboratoriale nell’insegnamento della
storia, disciplina che risulta molto più interessante nel laboratorio in cui essa viene
costruita. Tale modo di procedere risulta infatti molto idoneo a chiarire le dimensioni
della conoscenza storica: che cosa, come, perché, dove. La didattica laboratoriale
consenta una forte interattività tra insegnanti e allievi e tra gli allievi favorisce un
apprendimento cooperativo: aiuta direttamente a far apprendere ad apprendere, aiuta
tutti gli allievi, ognuno con le proprie peculiarità, nei vari ordini e gradi di scuola,
a diventare protagonisti consapevoli dei propri processi di apprendimento per tutta
la vita: questa è stata l’idea portante del nostro lavoro» (Cavallaro et al., 2004).
Nell’ambito della didattica per problemi reali e dei laboratori di apprendimento
si trovano molte buone prassi e molte esperienze: nelle migliori di esse vi è sempre la
chiara e preziosa consapevolezza che queste attività un po’ speciali non sono aliene
e appiccicate alla normale attività scolastica, fatte solamente per gli alunni più in
difficoltà: «Da subito abbiamo chiarito che questa non è un’esperienza intesa come
semplice alternativa al normale impegno di tipo scolastico offerta agli alunni disabili:
un lavoro così inteso porterebbe all’isolamento dell’alunno diversamente abile più che
alla sua integrazione. Questa invece è un’attività offerta a tutta la scuola, nel senso
che tutti gli alunni, in base alla loro capacità e possibilità e in base al programma
che gli insegnanti stanno svolgendo, possono partecipare» (Tasca, 2002). In questo
caso l’attività in questione era un laboratorio specifico di costruzione di strumenti
didattici per le materie scientifiche, come ad esempio scatole entomologiche o altre
raccolte didattiche.

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BISOGNI EDUCATIVI SPECIALI E INCLUSIONE 141

Unità didattica di apprendimento cooperativo


Youssef Alessio Giovanna Elisa
Manuel Giulio Roberta Sandra
Fiorella Giusy Mauro Mario
Ines Massimo Carla Pamela

Compito Compito Compito Compito


lettura testo: lettura testo: lettura testo: lettura testo:
Il pesciolino e lo zoccoletto Yen Hsien Cenerentola Cenerentola
d’oro (fiaba cinese) (fratelli Grimm) (Perrault)
(fiaba irachena)
Disegno di un elemento Disegno di un elemento Disegno di un elemento
Disegno di un elemento significativo della storia. significativo della storia. significativo della storia.
significativo della storia. Organizzazione di un car- Organizzazione di un car- Organizzazione di un car-
Organizzazione di un car- tellone per riferire e con- tellone per riferire e con- tellone per riferire e con-
tellone per riferire e con- frontare. frontare. frontare.
frontare.

Obiettivi cognitivi Obiettivi sociali


1. Comprensione del testo. 1. Saper ascoltare.
2. Riorganizzazione delle informazioni. 2. Rispettare i turni di intervento.
3. Progettazione ed esecuzione di un cartellone. 3. Parlare in modo chiaro e comprensibile a tutti.

Ruoli Ruoli Ruoli Ruoli


Fiorella: Alessio: Giovanna: Mario:
legge, spiega, incoraggia legge, spiega, incoraggia legge, spiega, incoraggia legge, spiega, incoraggia
l’attenzione. l’attenzione. l’attenzione. l’attenzione.
Ines: Giulio: Roberta: Sandra:
chiede, confronta, discute chiede, confronta, discute chiede, confronta, discute chiede, confronta, discute
e compila la scheda di e compila la scheda di e compila la scheda di e compila la scheda di
comprensione. comprensione. comprensione. comprensione.
Youssef: Giusy: Mauro: Elisa:
illlustra il rito del matrimonio dirige l’impostazione del dirige l’impostazione del dirige l’impostazione del
arabo. cartellone. cartellone. cartellone, riferisce il lavoro
Manuel: Massimo: Carla: svolto alla classe.
dirige l’impostazione del riferisce il lavoro svolto alla riferisce il lavoro svolto alla Pamela:
cartellone, riferisce il lavoro classe. classe. disegna e incolla sul car-
svolto alla classe. tellone

Fasi di lavoro: 1) lettura del testo 2) compilare scheda di analisi e comprensione del testo 3) impostazione del
cartellone 4) narrazione della storia e presentazione alla classe 5) scheda di autovalutazione 6) valutazione del
lavoro di gruppo 7) scheda di verifica e comprensione del testo.
Tempi previsti: 8 ore
Fig. 11.4 Esempio di unità didattica con una semplice modalità di apprendimento cooperativo.

Risulta abbastanza evidente come in queste situazioni di apprendimento e di


lavoro cooperativo sia molto più facile individualizzare l’offerta didattica, trovando
specifici ruoli e obiettivi anche per alunni con forti deficit cognitivi e apprenditivi.
Molte di queste attività didattiche a forte componente di attivazione, produzione
e scoperta si fondano sulla logica dello sfondo integratore, di un percorso comples-

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142 INSEGNARE DOMANI NELLA SCUOLA SECONDARIA

sivo che orienta e dà senso alle varie attività formative. Viene identificato un tema
forte, un’idea centrale che orienta e che connette molte attività specifiche: «Perché
allora non considerare la televisione come riferimento di partenza per impostare un
percorso didattico di confronto tra televisione e libro, due trasmettitori di contenuti
e di significati che devono essere decodificati dal telespettatore e dal lettore? Nacque
così l’idea di questo progetto che ha coinvolto anche bambini della classe quarta, e
si è sviluppato contemporaneamente sullo studio della televisione e del libro come
veicoli, particolarmente diversi, di trasmissione di contenuti, che rispondono a
principi, leggi e regole propri, che devono essere compresi e posti come premessa
alla corretta decodificazione dei contenuti stessi» (Nassutti et al., 2002).
La didattica diventa sempre più speciale e inclusiva anche se riesce a differenziarsi
in funzione dei diversi stili cognitivi e di apprendimento degli alunni e in funzione delle
diverse qualità dell’intelligenza di chi apprende (Gardner, 2005). Un altro approccio
didattico speciale particolarmente utile e interessante è quello che utilizza le mappe con-
cettuali e rappresentazioni visive schematiche delle relazioni e dei concetti implicati in un
argomento o in un’attività. Tale approccio risulta evidentemente di particolare importanza
nel caso delle minorazioni uditive oppure di deficit cognitivi di concettualizzazione e di
elaborazione delle informazioni. La didattica delle discipline troverà modo di arricchirsi
e di diventare più speciale se includerà al proprio interno principi tecnici, talvolta anche
molto sofisticati provenienti da specifiche modalità di lavoro psicoeducativo elaborate
dalla ricerca scientifica: «A livello didattico-educativo, anche quest’anno si predispone
un approccio basato sui punti chiave del metodo TEACCH con integrazione della
comunicazione aumentativa alternativa che struttura la sua giornata scolastica, a livello
sia spaziale che temporale, proponendo tutta una serie di attività semplici e prevedibili,
per arrivare via via ad attività più varie e complesse» (Crupi et al., 2004).
Nella tradizione sperimentale dell’analisi applicata del comportamento e
dell’approccio cognitivo comportamentale si sono definite negli anni varie tecniche
di insegnamento speciale, che in alcuni casi sono assolutamente utili per arricchire
la didattica ordinaria: «Si sono offerte costanti opportunità di lavoro in piccolo
gruppo, durante le quali, seppure con la supervisione del docente specializzato, il
comportamento fosse controllato dai bambini stessi. La metodologia si è basata
fondamentalmente su processi imitativi, con momenti di rielaborazione delle atti-
vità mediata da gioco simbolico, sulle tecniche comportamentali di aiuti e relativa
graduale attenuazione, rinforzamento simbolico, tutoring in piccolo gruppo di
apprendimento cooperativo» (Mattioli, 2005).
La didattica diventa speciale e inclusiva se lavora anche profondamente sugli
obiettivi curricolari, se definisce il più possibile punti di contatto, nei vari saperi
e ambiti disciplinari, tra le competenze, magari scarse, dell’alunno e le richieste
degli obiettivi della classe. La ricerca del punto di contatto è un processo continuo
di avvicinamento e collegamento di obiettivi, in modo che quelli individualizzati
per l’alunno in difficoltà rispondano il più possibile a due criteri: siano nell’ambito
disciplinare curricolare, siano cioè obiettivi normali, e siano anche compatibili con

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BISOGNI EDUCATIVI SPECIALI E INCLUSIONE 143

i suoi livelli di performance, siano cioè anche obiettivi speciali. In questo modo
si ottiene una partecipazione sociale realmente significativa al ruolo di alunno: gli
altri compagni fanno geografia, ad esempio, e anche l’alunno in gravi difficoltà fa
geografia, naturalmente adattata nei modi necessari e sufficienti per i suoi bisogni
speciali. In questa ricerca continua del punto di contatto diventa assolutamente
necessaria la stretta collaborazione tra insegnanti curricolari, che conoscono meglio
un campo di sapere, la sua epistemologia e la sua didattica e docenti di sostegno,
che conoscono meglio l’alunno, le sue caratteristiche, i suoi bisogni e le dinamiche
di insegnamento-apprendimento.
Per rendere possibile e significativo l’apprendimento e attiva la partecipazione
a un compito per un alunno disabile, molto spesso dobbiamo «adattare» gli obiet-
tivi, modificare cioè qualcosa nella coppia di elementi che costituisce l’essenza di
qualunque obiettivo:

INPUT AZIONE

Condizioni di «stimolo», Quello che il soggetto farà, nella componente «comprensione» dell’input (decodi-
nei confronti delle quali fica e generazione di significato), «elaborazione» (lavoro a vari livelli sui significati
il soggetto agirà. per costruire ciò che l’azione richiede: memoria e collegamenti, valutazione,
decisione, problem solving, ecc.) «output» (programmazione e realizzazione del
prodotto agito: verbale, motorio, ecc.).

In ogni fase del lavoro di adattamento degli obiettivi dovremmo tener conto
di queste tre componenti dell’azione che chiediamo all’alunno. Potremmo lavorare
sull’input all’azione stessa: potremmo infatti modificare l’input per facilitare la fase
di comprensione (lessico più facile, lettere scritte più grandi, ecc.), ma anche per
facilitare la fase di elaborazione (forniamo qualche esempio in più delle strategie del
raggruppare per categoria, diamo una mappa concettuale per organizzare in anticipo
un argomento, ecc.) oppure per facilitare la fase di realizzazione di un output (gui-
diamo la mano, tracciamo con dei piccoli punti un percorso facilitato di scrittura,
facciamo scegliere tra varie opzioni di risposta invece di scriverle, ecc.).
In questa parte del capitolo ci limiteremo a discutere di varie possibilità di adat-
tamento della coppia «input → azione», ma gli insegnanti sono ben consapevoli che
le informazioni che l’input porta all’alunno che apprende non sono soltanto riferite
all’azione prevista: l’input comunica molto altro. Comunica, anche inconsapevol-
mente, e stimola processi di rappresentazione di sé e di interpretazione cognitivo-
motivazionali molto importanti: «Oddio, matematica!»; «Oh, no… movimenti
e mimo!»; «Non ce la farò mai!»; «Troppo difficile, non ne abbiamo mai parlato
prima!»; «Non ha senso! Non serve! Cosa mi importa di…!»; «Non funziona così…
è solo questione di fortuna… O, se fosse più semplice, forse ce la farei… ma così…».
Nell’affrontare le varie possibilità di adattamento degli obiettivi curricolari,
che abbiamo definito come coppia di input → azione, dobbiamo tener conto di
un principio di parsimonia (e di normalità): meno si adatta meglio è (a condizione

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144 INSEGNARE DOMANI NELLA SCUOLA SECONDARIA

però che l’azione dell’alunno sia facilitata e resa realmente possibile): si introdu-
cono meno cambiamenti possibile, oppure i cambiamenti più «naturali» possibile,
proprio per alterare al minimo la situazione in cui agisce l’alunno.
Dobbiamo però fare i conti con il principio di efficacia: l’adattamento che
facciamo deve realmente essere decisivo per la facilitazione dell’alunno, deve
cioè produrre un’azione efficace. Seguendo questo principio, spesso si dovrà fare
ricorso ad aiuti anche molto forti, espliciti, artificiosi talvolta: nessun proble-
ma, se gradualmente ridurremo la loro invasività, portando progressivamente
la situazione (il materiale, le consegne, gli aiuti, ecc.) il più vicino possibile a
quella naturale.
Un adattamento, per essere considerato un aiuto/mediazione didattica e non
essere una «protesi», dovrà dunque essere inizialmente molto efficace, molto naturale
e poi via via ridursi fino a sparire.
Vediamo nel diagramma di flusso che segue le varie possibilità di adattamento.
Come si è visto, la sequenza dei cinque livelli segue il principio di parsimonia:
non cambiare niente che non sia strettamente necessario, modificare il meno pos-
sibile, ma se serve per aiutare la risposta all’alunno dovremmo via via modificare
anche profondamente la situazione di apprendimento. Le operazioni della fase di
«sostituzione» sono necessarie prevalentemente nei casi di difficoltà sensoriali e/o
motorie. Le fasi della «facilitazione» sono particolarmente appropriate quando le
difficoltà non sono troppo forti e sono specifiche e settoriali. Quando però i deficit
di comprensione, elaborazione e output diventano più significativi, si dovrà ricorrere
alle varie procedure della fase di «semplificazione», e, nei casi di ancor maggiore
difficoltà, dell’alunno o della disciplina, alla «scomposizione in nuclei fondanti» di
quel sapere disciplinare o di quell’ambito di apprendimento.
Nei rarissimi casi di forte gravità, in cui, dopo aver tentato, in scienza e coscienza,
ognuna di queste forme di adattamento, ancora non si riesce a creare una serie signi-
ficativa di obiettivi di collegamento, si può ricorrere alla «partecipazione alla cultura
del compito» (Pavone, 2000; 2004; Cottini, 2004), cercando di non sottovalutare
comunque la situazione di sviluppo dell’alunno, perché il nostro obiettivo prima-
rio, nell’integrazione, è sempre quello del massimo livello di partecipazione attiva
dell’alunno alle attività curricolari, non tanto quello di avere un alunno «spettatore».
Accanto al lavoro di adattamento degli obiettivi curricolari dobbiamo ora di-
scutere di adattamento del materiale primario su cui tanto si lavora: il libro di testo
e le schede didattiche.
I libri di testo e le varie schede didattiche che vengono utilizzate possono essere adat-
tate per rispondere meglio ai vari tipi di bisogno educativo speciale; questo non significa
solamente semplificare o ridurre, in molti casi il testo è reso più efficace con arricchimenti e
modifiche negli aspetti percettivi e di elaborazione cognitiva e concettuale (Ianes e Crame-
rotti, 2009; Scataglini e Giustini, 1998). La didattica comune viene resa poi più efficace,
più speciale, se i tempi di apprendimento e di esercitazione vengono modulati e adattati
alle varie esigenze individuali, ma questa è una pratica largamente diffusa tra gli insegnanti.

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BISOGNI EDUCATIVI SPECIALI E INCLUSIONE 145

Azione
Obiettivo curricolare
Input Comprensione standard destinato
Elaborazione a tutti gli alunni
Output

inizia il percorso di adattamento

1° livello:
Sostituzione
È sufficiente qualche for- Questo primo livello di adattamento
ma di «sostituzione» dei si limita a una «traduzione» dell’input
vari componenti dell’in- in altro codice/linguaggio e/o all’uso
put e dell’azione? di altre modalità di output. Non si
semplifica da alcun punto di vista, si
cura soltanto l’accessibilità.
Ad esempio:
– sostituzione di input per la compren-
sione (lingua italiana segni, materiale
in Braille, registrazioni audio di testi,
ecc.)
– sostituzione di output per la risposta
(uso del computer in videoscrittura
invece della matita, scelta multipla
invece di domande aperte, ecc.).


No

Non è sufficiente Ok, stop


la «traduzione», ma si all’adattamento
deve lavorare anche
nella facilitazione.

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146 INSEGNARE DOMANI NELLA SCUOLA SECONDARIA

2° livello:
Facilitazione

È sufficiente, per garantire successo


È sufficiente e utile nell’obiettivo, che:
una «ricontestualizzazione»?
– lo si proponga con altre persone
– lo si proponga in ambienti funzionalmente
reali (calcolare il resto al supermercato, ecc.)
– lo si proponga con tecnologie più motivanti e
interattive (software didattici per la scrittura,
per l’ortografia, ecc.)
– lo si proponga in contesti didattici fortemente
interattivi (gruppi di apprendimento coope-
rativo, tutoring, ecc.)
– lo si proponga in contesti didattici fortemente
operativi e significativi (laboratori, simulazioni,
uscite, ecc.)

L’alunno è Ok, stop


No Sì
aiutato in modo all’adattamento
sufficiente?

Non è sufficiente o utile una – Si lavora sui tempi utilizzati per quell’obiet-
ricontestualizzazione, biso- tivo, con periodi più lunghi, più variazioni di
gna semplificare qualcosa contenuto, più pause, ecc.
nei tempi e negli spazi. – Si lavora sulla ristrutturazione degli spazi,
con collocazioni più facilitanti, eliminando le
distrazioni, controllando l’illuminazione, ecc.

L’alunno è Ok, stop


No Sì
aiutato in modo all’adattamento
sufficiente?

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BISOGNI EDUCATIVI SPECIALI E INCLUSIONE 147

Oltre alla modificazione dei Aggiungiamo indizi, stimoli estrinseci (extra cue) che
tempi e degli spazi dobbia- aiutino le varie fasi dell’azione:
mo arricchire la situazione – colori
con vari tipi di aiuto. – immagini
– mappe cognitive
– spiegazioni aggiuntive
– modelli competenti nel «far vedere» come si fa
– organizzatori anticipati/domande di riorga­nizzazione
del background di conoscenze pregresso
– aiuti vari per la memoria (immagazzinamento e
recupero), per la pianificazione delle azioni (esempi
di script per scrivere un testo), per la decodifica e la
comprensione, ecc.
In questa fase si aggiungono informazioni, non si facilita
riducendo qualcosa dell’obiettivo.

L’alunno è Ok, stop


No Sì
aiutato in modo all’adattamento
sufficiente?

3° livello:
Semplificazione

Dobbiamo semplificare l’o- – Modifichiamo il lessico o ciò che dà le informazioni


biettivo, in una o più delle da comprendere
sue componenti di azione: – Riduciamo la complessità concettuale con ordini
– comprensione inferiori di elaborazione, materiali ed esempi più
– elaborazione semplici, ecc.
– output di risposta – Sostituiamo alcune routine componenti (ad esem-
pio alcuni calcoli si fanno con la calcolatrice)
– Semplifichiamo i criteri di corretta esecuzione delle
risposte (ad esempio consentiamo più errori, più im-
precisioni, più approssimazioni)

L’alunno è aiuta- Ok, stop


No Sì
to in modo suffi- all’adattamento
ciente?

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148 INSEGNARE DOMANI NELLA SCUOLA SECONDARIA

4° livello:
Scomposizione
nei nuclei Dobbiamo trovare Nell’epistemologia di quel sapere disciplinare si
fondanti nel percorso cur- identificano delle attività fondanti e accessibili,
ricolare dei nuclei al livello di difficoltà di cui abbiamo bisogno.
fondanti della di- Ad esempio: in Geografia, la distinzione tra
sciplina che siano cambiamenti naturali e cambiamenti operati
più agevolmente dall’uomo può essere affrontata in modo si-
traducibili in obiet- gnificativo ma accessibile realizzando una serie
tivi accessibili e di fotografie di ambienti naturali e manufatti e
significativi. classificandole in un cartellone.
In Storia, la consapevolezza della pluralità
sistemica delle cause può essere affrontata
realizzando un libro della propria storia perso-
nale, con i fatti più salienti circondati da molte
cause (il cambio di casa è causato dall’arrivo
di un fratello, dall’eredità del nonno, dalla voglia
di stare più vicini alla campagna, ecc.).
In questo modo ci si avvicina ai nuclei fondanti
di un sapere disciplinare, essendo più attenti
però ai processi cognitivi tipici di quel sapere
piuttosto che ai prodotti (nozioni).

L’alunno è Ok, stop


No Sì
aiutato in modo all’adattamento
sufficiente?

5° livello:
Partecipazione Dobbiamo trovare le occasioni per far partecipare l’alunno a dei momenti
alla cultura significativi di elaborazione o utilizzo delle competenze curricolari, in modo
del compito che sperimenti, anche se soltanto (?) da spettatore, la «cultura del compito»
(il clima emotivo, la tensione cognitiva, i prodotti elaborati, ecc.).

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BISOGNI EDUCATIVI SPECIALI E INCLUSIONE 149

8. Percorsi educativi e relazionali comuni

Nell’ottava categoria di risorse troviamo percorsi educativi e relazionali comuni,


offerti cioè a tutti gli alunni, ma che vanno per alcuni aspetti adattati e individualizzati:
in questo caso si utilizzano spesso laboratori creativi, espressivi e produttivi, come
ad esempio la produzione di film: «Il progetto era in momenti settimanali, dedicati
all’ascolto e alla costruzione del film. Il laboratorio risultava sempre interessante e
coinvolgente per tutti gli alunni, anche quelli con difficoltà, che hanno cominciato
a partecipare spontaneamente alle attività. Questo ha confermato l’importanza di
unire nei processi educativi lo stimolo della parola a quello della musica e, se possi-
bile, anche la produzione fisica di oggetti attraverso tecniche gradite ai ragazzi, come
l’intaglio e la pirografia sul legno» (D’Alfonso et al., 2004).
Nella scuola si possono attivare percorsi laboratoriali di vario genere, enorme-
mente differenti, sulle abilità espressive, di educazione socioaffettiva, di life skills,
di autonomia, di musica, legate al movimento, di animazione corporea e teatrale, di
manipolazione, di orticultura, ecc. (si veda un esempio nella figura 11.5): «È stato
proposto il metodo della programmazione integrata multidisciplinare, che parten-
do da un argomento generale, sviluppa delle unità didattiche in cui si combinano
vari livelli di difficoltà in aree disciplinari diverse. Questa strategia didattica che ha
permesso di sviluppare ogni giorno attività diverse, in gruppo o individuali, coinvol-
gendo svariate aree disciplinari e abilità di studio trasversali, ha favorito la continuità
tematica disciplinare permettendo un apprendimento approfondito funzionale e
non frammentato. Inoltre, ha permesso ad alunni con livelli di abilità anche molto
diversi di lavorare sullo stesso argomento e di acquisire, perfezionare e sviluppare
ulteriormente le loro abilità, ha consentito ai docenti di valutarli individualmente
senza isolarsi nell’insegnamento rigidamente uno a uno» (Bertozzi et al., 2003).
Nelle esperienze delle buone prassi delle scuole si incontrano laboratori di
ogni genere, da quelli più cognitivi, sul metodo di studio, a quelli più sensoriali
e percettivi: «Il “laboratorio studio” è nato dall’esigenza di favorire nel bambino
in difficoltà delle riflessioni metacognitive che lo rendessero consapevole di come
apprende, di come si organizza, di come affronta lo studio. Esso, inoltre, aveva lo
scopo di guidarlo nella risoluzione dei diversi problemi che incontra sul cammino
scolastico. I bambini tutti, per un’ora la settimana nel primo quadrimestre, sono
stati invitati a riflettere sulla gestione del lavoro personale a scuola e a casa, a orga-
nizzare opportunamente il tempo, a concentrarsi su quanto facevano, eliminando
ciò che li distraeva o che era inutile o dannoso» (Costa et al., 2004). In questo caso
ad esempio, la difficoltà metacognitiva di un bambino ha stimolato un percorso di
crescita nelle capacità di auto-organizzazione per tutti gli alunni: la normalità, grazie
alla presenza dell’alunno in difficoltà, è diventata così più speciale per tutti. E in
un altro esempio di attività laboratoriale, un laboratorio teatrale: «Ragazzi studiosi,
ragazzi con difficoltà di apprendimento scolastico, ragazzine motivate allo studio,
ragazzi a rischio, lavoravano insieme in modo cooperativo scambiandosi informazioni,

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Il terreno Il terreno I semi e le loro Il frutteto La germinazione
contiene acqua? contiene aria? proprietà

Che cosa contiene L’orto biologico

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il suolo? Le proprietà Visita
del suolo Il seme dentro
alla Fattoria Didattica
di Ficarra (ME)

Gli orizzonti 2 sperimentare La sedimentazione


del suolo
1 Osservare 2 Sperimentare
3 Spiegare

La permeabilità
IL TERRENO LA SEMINA
PRIMO MODULO SECONDO MODULO

4 Conclusioni
«Il comportamento Composizioni personali Il rispetto
del suolo»
1 Osservare 3 Piantare
Fiori nel nostro giardino
Tabelle e grafici
Schede di verifica
150 INSEGNARE DOMANI NELLA SCUOLA SECONDARIA

Visita guidata Piante aromatiche


Alberi
all’Ist. Prof. di stato
per l’agricoltura I diversi tipi di terreno Ortaggi
di Milazzo Ricette speciali
La loro importanza

Il loro utilizzo
Le varie coltivazioni Le piante e i fiori Le nostre insalate Le norme igieniche
nell’alimentazione

Fig. 11.5 Mappa del progetto laboratoriale.


BISOGNI EDUCATIVI SPECIALI E INCLUSIONE 151

incrementando le conoscenze, discutendo sui valori, mentre noi adulti scoprimmo


che ciascuno di essi, all’interno del gruppo, poteva contribuire attivamente ed essere
il terapeuta del compagno più bisognoso. La traduzione del testo teatrale in dia-
letto permise a Filippo, inserito nella compagnia, di comprendere più facilmente e
padroneggiare un tipo di linguaggio molto vicino alla sua espressione orale. Filippo
studiò insieme ai compagni vari personaggi del dramma, imparò usi, abitudini e
costumi della nostra realtà locale, diede una mano a preparare le scene, insieme ai
compagni andò in montagna a trovare i pastori alla ricerca di indumenti da usare
sulla scena» (Morelli, 2002).
Alcune attività laboratoriali sono rivolte allo sviluppo di modalità relazionali
interattive adeguate, come ad esempio le attività di assemblea, uno spazio tempo or-
ganizzato settimanalmente dove il gruppo di alunni con gli insegnanti gioca, discute,
riflette, progetta partendo da situazioni concrete di tipo relazionale. Molti laboratori
hanno una forte componente educativa e relazionale come quello titolato «Gli amici
amici»: «Obiettivo di questa parte del progetto era mostrare ai bambini come arrivare a
conoscere i compagni di sezione, gli insegnanti, imparando i loro nomi, giocando con
loro, facendo giochi di gruppo, favorendo scambi e occasioni di gioco nei momenti
dell’intera giornata scolastica, e come fare amicizia con tutti, partecipando ai vari av-
venimenti e giochi, aiutando gli amici in difficoltà, pensando cosa si può fare per gli
altri, prendendosi cura di piante e di animali» (Moretti et al., 2002).
Altre attività laboratoriali coinvolgono l’espressione corporea e linguistica, i
linguaggi grafici e pittorici e le attività ludiche e musicali e puntano allo sviluppo di
competenze sociali e relazionali come nel caso del progetto «Insieme per crescere»
promosso dalla scuola e realizzato in collaborazione con gli operatori della ASL e della
cooperativa sociale «La mongolfiera», in cui l’obiettivo è stato «[…] l’ottimizzazione
del processo di integrazione sociale degli alunni disabili, attraverso la promozione di
momenti di esperienza di gruppo basati sull’uso di tecniche di arteterapia ed espres-
sione corporea. Attraverso l’uso diretto di oggetti artistici come oggetti transizionali
nella comunicazione con l’altro, il gruppo di alunni ha potuto fruire di un’esperienza
di compartecipazione al senso sociale per crescere insieme. Ogni individualità ha
potuto sperimentare nel gruppo una buona maturazione espressiva, imparando a
rispettare gli spazi, i modi, i tempi dell’espressione creativa dell’altro. Il linguaggio della
comunicazione è spesso non verbale, dove non è centrale la trasmissione di contenuti
logici e di forme convenzionalmente verbali di espressione. Il lavoro svolto ha reso
visibili le emozioni, i sentimenti e i pensieri» (Andreoni, Foresi e Giocondi, 2002).
In questo genere di attività si incontrano anche situazioni fortemente interattive
di educazione socioaffettiva cosiddette incidentali, svolte cioè prendendo spunto da
situazioni concretamente vissute dai bambini: «Soprattutto verso la fine del pome-
riggio, venivano inseriti dei momenti ludici a sfondo comunicativo, durante i quali
era possibile osservare le relazioni tra loro e identificare gli eventuali interventi per
risolvere le continue situazioni problematiche che ogni classe vive. Pensai quindi di
individuare le situazioni in cui l’alunna potesse riuscire a dar valore al codice mimico

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152 INSEGNARE DOMANI NELLA SCUOLA SECONDARIA

gestuale, col quale fosse possibile condividere consapevolmente alcuni messaggi che
significassero oggettivamente qualcosa. Si crearono così delle aree di integrazione
laddove lei aveva maggiori possibilità sia per la motivazione, sia per le abilità che
effettivamente possiede: in quel contesto specifico si poteva creare una condizione di
reale parità. Inoltre, l’obiettivo di questi giochi era anche rendere tutti consapevoli
del valore comunicativo di alcune espressioni dell’alunna con disabilità: rendere cioè
convenzionali alcuni segni che lei utilizza per determinate espressioni, attribuendo
a essi il giusto valore» (Parente, 2002). Il lavoro laboratoriale sulle emozioni è un
ambito dei più importanti: aiutare i bambini a sintonizzarsi meglio con le proprie
emozioni è un importante fattore psicologico di protezione con effetto positivo di-
retto sull’apprendimento e sulle competenze interpersonali. Sviluppare l’intelligenza
emotiva vuol dire allenare il bambino a un miglior rapporto con se stesso e con gli
altri. In attività laboratoriali di questo genere è molto facile integrare in maniera
significativa anche alunni con gravi disabilità. Accanto ai laboratori socioaffettivi
ed emotivo-relazionali troviamo spesso laboratori creativi, nell’ambito del teatro,
della fotografia, della costruzione di video: «Il laboratorio di espressione corporea e
animazione teatrale, infatti, ha come finalità specifica la conoscenza di sé, base per
un corretto sviluppo relazionale affettivo, ed è stato utilizzato come strumento per
aiutare, attraverso tecniche diverse, l’uso del linguaggio mimico e gestuale, la mani-
polazione di materiali ecc., la formazione dell’identità e lo sviluppo dell’autonomia
personale di ciascun alunno» (Cittadoni et al., 2001). Questi laboratori possono
anche avere come tema l’approfondimento scientifico della condizione di disabilità
dell’alunno: «Una mattina di maggio a ricreazione, Mirko prese dal sacchetto di un
compagno alcune patatine, come già accaduto in altre occasioni, ovviamente senza
chiederle. Questa volta però il compagno non era disposto ad accettare l’ennesima
ingiustizia e reagì afferrando Mirko per il collo. Protestò: non è giusto. L’insegnante
intervenne e cominciò una riflessione con il gruppo di bambini. Alcuni ritenevano
che Mirko avesse fatto questo proprio a causa delle sue difficoltà di comunicazione,
altri lo giustificavano perché era malato, qualcun altro lo difese con pietismo. Con
quell’occasione l’insegnante decise di rompere gli indugi circa la necessità di arrivare
a una spiegazione più consapevole sui motivi della diversità di Mirko, servendosi
dalla lettura del libro Colla: un incontro straordinario, a cura del Centro emiliano
problemi sociali per la trisomia 21 di Bologna. Dall’interesse, dall’attenzione e dalle
domande che da quel momento cominciarono a emergere l’insegnante intuì il biso-
gno latente dei bambini di conoscere e approfondire la conoscenza di Mirko, il loro
desiderio di parlare e di concretizzare con l’immagine del disegno le loro proiezioni e
le caratteristiche sconosciute e ignote del compagno. Il team, servendosi del materiale
prodotto dai bambini, decise, alla ripresa dell’anno scolastico, di proseguire questo
percorso con la diversità evidente, manifesta» (Missiroli et al., 1999).
In questa ottava risorsa si possono veramente inventare le cose più diverse
nell’ambito di percorsi educativi e relazionali per tutta la classe, citeremo soltanto due
altri esempi tra i tanti possibili: «Il laboratorio per la manutenzione delle biciclette

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BISOGNI EDUCATIVI SPECIALI E INCLUSIONE 153

fu avviato concretamente all’inizio della classe quarta, coinvolgendo tutti gli alunni,
incluso Marco. Il laboratorio, sotto la guida di un volontario, trasformò un locale
in un’officina in cui venivano pulite le biciclette dei ragazzi, dei bidelli e di qualche
insegnante, si oliavano le catene, si registravano i freni, veniva controllato lo stato
delle luci. Tutto cercando di capire il funzionamento delle varie parti per giungere
al funzionamento di insieme» (Bentini et al., 2003). Dalla bicicletta alla barca a
vela: un’altra esperienza significativa di integrazione è stata svolta a Palermo in un
Istituto superiore attraverso un corso di navigazione a vela: «Le pratiche richieste, le
manovre e ogni altra operazione necessaria per il governo di una barca a vela d’altura
richiedono l’elevato senso di cooperazione, spirito di squadra e solidarietà, inoltre,
il vivere intensi momenti di collaborazione e sodalizio, di cooperazione progettuale
e materiale, di senso del dovere nello svolgimento di ruoli, favorisce l’attivazione di
dinamiche relazionali intense ed efficaci e l’incremento di competenze prosociali»
(Di Fresco e Caccamo, 2005).

9. Didattica individuale

Nella nona categoria di risorse definiamo percorsi di didattica individuale,


svolti cioè in rapporto uno a uno, dove un adulto, insegnante o comunque esperto,
o un altro alunno nel ruolo di tutor, insegna direttamente all’alunno in difficoltà. In
questo caso oltre all’individualizzazione, ovviamente necessaria rispetto agli obiettivi,
abbiamo anche il rapporto individuale uno a uno. Naturalmente non dovrà essere
l’insegnante di sostegno soltanto ad avere questo ruolo didattico individuale, lo può
fare l’insegnante curricolare o un altro alunno tutor, agganciati in maniera diretta o
indiretta alle attività del gruppo classe. «Per quanto attiene l’area logico-matematica,
si è ritenuto opportuno partire dai fondamenti della disciplina, cercando come prima
cosa di scoprire se l’alunno avesse conoscenze dei numeri. A tal fine, i primi esercizi
hanno riguardato numerazioni verticali di senso crescente. Accertato che l’alunno
era in grado di contare, seppure solo in senso crescente, si è passati, sempre con la
massima disponibilità e dolcezza possibile, a verificare le abilità operative e di capacita
di confronto spazio-temporale, fissando gradualmente obiettivi sempre più avanti,
nei limiti delle sue possibilità. Da un punto di vista metodologico, tutte queste atti-
vità sono state condotte singolarmente tra studente e docente, ma sono state svolte
nell’ambito delle regolari lezioni con la partecipazione di tutti compagni, i quali si sono
alternati a suo fianco per assisterlo nelle esercitazioni scolastiche» (Di Marino et al.,
2002). È evidente che queste attività didattiche individuali vengono messe in campo
quando gli adattamenti alla didattica comune di cui abbiamo parlato nella risorsa n.
7 non sono sufficienti per ottenere un buon funzionamento apprenditivo. In questi
casi allora sarà necessario attivare percorsi individuali, dove cioè l’individualizzazione
sulle caratteristiche di apprendimento dell’alunno sarà maggiormente efficace. Si
veda l’esempio seguente tratto da un percorso di integrazione di un bambino auti-
stico: «Per compensare il deficitario senso spazio-temporale, sociale e comunicativo

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di Marco sono stati realizzati: un calendario annuale dov’erano cancellati via via i
mesi, un calendario mensile da completare ogni giorno, un cartellone con elencate
tutte le attività della settimana, un’agenda delle attività a scansione giornaliera dove
venivano precisati luoghi e le attività del giorno, un quaderno delle regole che Marco
e l’insegnante consultavano ogni mattina al momento dell’accoglienza, ascoltando
a basso volume alcuni brani di musica classica rilassante» (Munaro et al., 2004).
In questo caso gli accorgimenti didattici sono molto specifici e individuali,
studiati sulle caratteristiche di apprendimento di quell’alunno, che vengono utilizzati
soltanto da lui, non vengono come in altri casi spesi nel loro utilizzo direttamente
anche con tutto il resto della classe. In altri casi le attività individuali cercano di
colmare delle lacune particolarmente gravi in termini di competenza oppure di for-
mare alcune strumentalità specifiche rivolte agli apprendimenti da affrontare poi in
contesti più allargati, nella classe: «Per stimolare la sua attenzione, la concentrazione
e l’abilità manuale viene proposta come attività specifica l’uso di strumenti ritmici
e melodici, avendo così trovato una motivazione per poter affrontare in maniera
ricettiva le fasi del percorso prettamente scolastico della strumentalità di base, sul
piano sia della produzione scritta che della fruizione della lettura: dalla sillaba alla
parola, dalla parola alla frase. Il linguaggio musicale di lunghezze, durate, insieme,
quantità, unità di tempo, pulsazione, battuta, ha fornito la chiave per aprire una
porta della sfera logico-matematica. L’esercitazione su cellule ritmiche permette
di acquisire gradualmente l’autocontrollo della propria emotività e l’esercitazione
strumentale è abbinata alla lettura sillabica lenta e poi veloce fino alla lettura della
parola» (Bentini et al., 2003).
Un altro esempio di un’attività individuale rivolta a un bambino con deficit
uditivo: «Al bambino furono riservati dei momenti individuali di lavoro esclu-
sivamente per dare l’opportunità di rivedere e memorizzare i termini nuovi, nel
rispetto dei suoi tempi di apprendimento. La decisione di operare in tal modo fu
positiva non solo per gli apprendimenti, ma anche perché permise di acquisire
maggiore fiducia nelle sue capacità» (Cuignon et al., 2002). Le attività didattiche
individuali cercano comunque di mantenersi, a livello di obiettivi e di modalità, il
più possibile contigue, vicine e finalizzate a quelle svolte dai compagni: «Al termine
della classe quarta, durante le lezioni di matematica, si diede inizio a un’attività di
produzione di numeri in cartone, da colorare e ritagliare. Questo legame minimo
con le attività matematica della classe, rese visibili ai compagni e a Michele stesso
attraverso l’esposizione in classe delle produzioni, si configurò come sviluppo e
variazione delle attività di campismo svolte durante l’anno. Riconosciuta nel corso
degli anni la difficoltà di far partecipare Michele ai lavori svolti normalmente dai
compagni, il legame con le attività matematiche fu inizialmente ricercato in un
comune argomento che guidi e faccia da sfondo alla sua attività e a quella della
classe. Se nel corso della conversazione del mattino un bambino racconta di essere
stato il giorno prima a raccogliere castagne, la parola castagne compare tra quelle
che Michele leggerà nel corso della settimana: Michele disegna, colora, ritaglia,

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BISOGNI EDUCATIVI SPECIALI E INCLUSIONE 155

incolla castagne sul quaderno e la raccolta delle castagne diventa l’argomento di


un problema matematico dei compagni. Sul quaderno di Michele e su cartelloni
esposti in classe compaiono, accanto agli oggetti, i simboli numerici che indicano
una quantità e che Michele è stimolato a leggere a riconoscere. Si riesce in questo
modo a rendere più stretto ed evidente il legame tra i compiti eseguiti da Michele
e l’attività di compagni, ad aumentare la durata del tempo trascorso in classe ac-
cettando alcune regole e prestando attenzione a un lavoro assegnato per portarlo
a termine» (Silini et al., 2002).
In questo modo si cerca di costruire un continuo rapporto organico e funzio-
nale tra obiettivi individualizzati, anche molto lontani da quelli del gruppo classe,
e le competenze esercitate dalle attività di compagni. Nelle attività individuali
molto spesso si possono costruire materiali e oggetti di apprendimento anche
molto complessi ed elaborati: «Insieme alla comunicazione interattiva, all’uso
del computer, all’utilizzo di ausili specifici per la comunicazione, l’attività che ha
visto Gianluca autore del libro di cui vi parleremo ha costituito un valido mezzo
per sviluppare le capacità comunicative dell’alunno, per affinare le abilità motorie
e per promuovere un maggior senso di appartenenza alla classe. Il libro è stato
costruito su pagine di cartone anche attraverso l’applicazione delle più svariate
tecniche: ritaglio di immagini, utilizzo di stoffe, di oggetti particolari, uso di colori
a dita, di pennelli, spugne, di rulli, per costruire linee in rilievo, di acquerelli, pen-
nelli, colore a cera e pastelli. I personaggi principali furono realizzati utilizzando
materiali di recupero all’interno di gruppi di lavoro eterogenei nei quali è stato
inserito Gianluca. Su ogni personaggio è stata applicata una striscia di velcro. Si
è così potuto manipolare diversi personaggi, nell’aspetto, nel nome, nel ruolo nel
contesto della storia, e l’alunno ha saputo altresì verbalizzare le azioni connesse a
essi» (Crupi et al., 2004).
Ma le attività didattiche individuali non provengono solamente dalle attività
didattiche comuni, anche molte attività laboratoriali possono originare percorsi
individuali mirati a specifiche competenze cognitive o linguistiche, come si vede
chiaramente nei due esempi seguenti: «Nella fase successiva di lavoro, mentre si pro-
cedeva a zappare il terreno, si è svolta l’attività di scoperta del nome e della funzione
dei vari oggetti, nella quale gli alunni hanno utilizzato testi di varie culture, schede
con disegni e attrezzi veri. L’insegnante di sostegno ha utilizzato quanto prodotto dai
gruppi anche come contenuto per l’attività individuali di avvio alla comunicazione,
producendo delle tabelle con il disegno dell’oggetto abbinato al nome, poi utilizzate
anche dagli altri bambini nelle fasi successive come promemoria» (Beretta, 2003);
«Nel testo delle relazioni elaborate nel laboratorio sulle tradizioni gastronomiche
calabresi abbiamo evidenziato termini e concetti specifici, relativi alle diverse disci-
pline coinvolte nel progetto, fornendo allo studente l’opportunità di realizzare un
consolidamento di tipo concettuale e lessicale. Guglielmo ha ricercato il significato di
molti termini sul dizionario, ha consultato i libri di testo e ciò è servito per imparare
o chiarire contenuti disciplinari che fanno parte del corso di studi. Tutto il materiale è

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stato trascritto dal ragazzo al computer, lavoro molto significativo per lui perché man
mano che scriveva si rendeva conto dell’errore ortografico, grammaticale e sintattico,
segnalato dalla correzione automatica del computer che sottolinea in rosso le parole
errate. Contemporaneamente ha realizzato un valido esercizio di strutturazione della
frase, acquisendo maggiore scioltezza nell’uso della punteggiatura, dei connettivi e
di altri elementi della frase. La risposta positiva a questo tipo di attività ci ha fornito
indicazioni importanti relativamente alle strategie da adottare per facilitare i suoi
apprendimenti» (Cavallaro e Valentini, 2002).

10. Percorsi educativi e relazionali individuali

La decima categoria di risorse prevede l’attivazione di percorsi educativi e


relazionali individuali: ci troviamo ancora in rapporto uno a uno, come abbiamo
visto nella risorsa precedente, ma gli obiettivi sono diversi, in questo caso le attività
educative vengono rivolte a obiettivi di autonomia personale e sociale, e le attività
relazionali individuali possono prendere la forma, se necessario, di interventi edu-
cativi rivolti al superamento di comportamenti problema, oppure allo sviluppo di
competenze comunicative e interpersonali fondamentali. Ovviamente, come nella
risorsa precedente, il rischio principale che si corre è sempre quello dell’allontana-
mento dalle attività della classe e della delega, apparentemente giustificata dalla
complessità tecnica di questi interventi, a personale speciale. Nell’esempio che
segue si vede come un’attività tecnica e specifica viene comunque, almeno in parte,
integrata con le attività di compagni: «In quarta, nel piano di lavoro per Michele
vengono introdotte alcune stimolazioni sensoriali con l’obiettivo di ridurre alcuni
comportamenti problematici, come leccare, annusare, dondolarsi, e alcune attività
di prelettura, strisce di parole, e di prescrittura, suggerite da una neuropsichiatra
alla quale la famiglia si è rivolta. Lo spazio del gioco con Michele diventa lo spazio
delle stimolazioni grosso motorie: l’altalena, lo scivolo, il rotolamento sulla palla
grossa e sui materassi in palestra, la bicicletta, le sedie girevole, tutte attività gradite
a Michele e compagni e che diventano mediatrici dell’accettazione della relazione
corporea prima da lui rifiutata» (Silini et al., 2002).
Altre attività educative vengono rivolte a obiettivi nell’area dell’autonomia
personale e dell’orientamento e spostamento nell’ambiente scolastico: «Per Martina
gli obiettivi generali del PEI erano i seguenti: nell’area dell’autonomia: muoversi
e spostarsi con più sicurezza e velocità nell’ambito scolastico ed extrascolastico,
migliorare le prassie di abbigliamento, accettare di assumere e cambiare posizione
in tempi ristretti, secondo la necessità dell’attività, anche senza aiuto. Superare e
evitare semplici ostacoli, raggiungere da sola il suo banco, in bagno dirigersi verso
il lavandino, aprire il rubinetto, prendere il sapone, insaponarsi le mani, strofinarle
assieme, sciacquarle, asciugarsi, chiudere il rubinetto, uscire dal bagno» (Vicari, 2003).
Nell’ambito delle autonomie più avanzate, le cosiddette autonomie sociali, il
Piano educativo individualizzato-Progetto di vita prevede spesso attività educative

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individuali, come nell’esempio seguente: «In orario curricolare, nel secondo quadri-
mestre, per alcune ore settimanali, Valentina ha preso parte al percorso sul progetto
di vita, articolato su tre attività: cucina, giardinaggio e manualità. Nel laboratorio
di cucina, l’allieva ha apparecchiato, lavato le stoviglie, ha pesato gli ingredienti,
imparato a preparare semplici ricette che poi ha ripetuto a casa con la mamma e ha
trascritto al computer» (Capua e Caliendo, 2005).

11. Ausili, tecnologie e materiali speciali

L’undicesima risorsa riguarda tutti gli ausili, le varie tecnologie e materiali


speciali che possono favorire l’apprendimento e la vita quotidiana degli alunni. In
questa categoria amplissima troviamo sia le tipologie più tradizionali di ausili per
la mobilità e per la ricezione di input, come ad esempio i libri in Braille, ma anche
hardware e software per l’apprendimento e la comunicazione. È chiaro che materiali
e ausili potranno essere stati identificati come necessari anche nella didattica comu-
ne adattata o nelle attività individuali. Qui, in questa undicesima categoria, vanno
definiti gli ausili e le tecnologie e materiali speciali che, oltre quelli precedentemente
definiti, sono necessari per la partecipazione scolastica dell’alunno.

12. Interventi di assistenza e di aiuto personale

La dodicesima categoria di risorse riguarda gli interventi di assistenza e di


aiuto personale: la condizione specifica dell’alunno, la sua disabilità, può portare
a bisogni di assistenza fisica diretta per quanto riguarda la mobilità oppure l’igie-
ne personale o il controllo degli sfinteri, l’alimentazione, ecc. In questi casi gli
interventi sono più di carattere assistenziale che educativo, anche se il confine è
evidentemente molto sottile: auspicabilmente ogni intervento assistenziale, anche
se puramente assistenziale, dovrebbe avere il più possibile di componenti educative,
rivolte cioè allo sviluppo delle competenze possibili. Per questi compiti in genere
viene utilizzato personale specifico, assistenti educatori o ausiliari oppure colla-
boratori scolastici, all’interno delle funzioni aggiuntive previste dal loro contratto
collettivo di lavoro.

13. Interventi riabilitativi

La tredicesima risorsa riguarda gli interventi riabilitativi specifici, come ad


esempio la logopedia, la fisioterapia, la psicomotricità, la terapia occupazionale,
l’arteterapia, la musicoterapia o altri interventi speciali e mirati: «Martina ogni quin-
dici giorni si reca dalla logopedista, in orario scolastico, accompagnata dalla madre,
dall’assistente o dall’insegnante di sostegno. La logopedista propone regolarmente
lavoro da fare scuola e a casa, tutti giorni, individualmente, fornendo adeguate sti-
molazioni e indicazioni» (Vicari, 2003).

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14. Interventi sanitari e terapeutici

L’ultima categoria di risorse è dunque la più speciale e diversa dalle attività


normalmente incluse nell’offerta formativa per tutti gli alunni: si tratta infatti di
interventi terapeutici e sanitari, come quelli condotti dai neuropsichiatri, dagli psi-
cologi, dai neurologi, e così via.

Come si vede da questa panoramica di 14 categorie di risorse, il Consiglio


di classe o il team docenti cerca di attivare tutto ciò che esse prevedono, avendo a
disposizione appunto 14 categorie di risorse anche molto diverse, non limitandosi
solamente ad alcune di esse. La qualità dell’integrazione e dell’inclusione dipenderà
principalmente dall’ampiezza del quadro di risorse attivate e dalla loro «speciale nor-
malità». Sulla base di queste considerazioni progettuali, i docenti possono prevedere
le risorse da attivare con quella classe per costruire la massima inclusione possibile.
Tratto e adattato da BES a scuola, 2015, pp. 14-30;
Insegnare domani primaria, 2016, pp. 447-462;
Bisogni educativi speciali e inclusione, 2005, pp. 71-104

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