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Capitolo 3

IL PASSATEMPO DOPO IL PASSAPORTO

21/07/2004

Il giorno dopo era umiliante per come mi ero curato prima di andare
al lavoro. Mi alzai un paio d’ore prima -fatto raro- mi feci la doccia,
mi rasai e mi presentai come se fossi un coniglietto infioccato. Cercai
di distrarmi sbrigando ciò che dovevo fare e verso l’una del
pomeriggio eccola arrivare finalmente. Il collega dal reparto
antidroga voleva prendere il mio posto per poterla osservare meglio
e soprattutto per sapere più cose possibili su di lei ma io
naturalmente rifiutai. Insistetti che ero io la persona più adatta per
eseguire questo compito anche perché conosco bene l’italiano ed
eventualmente avrei potuto ricordare meglio persone e luoghi che
avesse riferito.

Entrò in ufficio con in mano i documenti che le servivano per la


pratica, occhiaie, felpa apparentemente pulita ma indossata milioni
di volte, pantaloni larghi da trekking, scarpe da skate, capelli lunghi
legati in su, metà testa rasata, piercing sul naso: una punkabbestia.
Mi chiedevo se avesse lasciato il cane fuori. Sì, aveva un cane di
sessanta chili, Piuma. Un incroccio tra un San Bernardo e un pastore
maremano. Il cane più bello e stranamente più educato del mondo,
il suo cane.

«Ciao, ho portato i documenti che servono».

Che grazia.. Presi i documenti e diedi loro un’occhiata; tutto a posto.


Iniziai a riempire i moduli: Kalipsò Saghinètu, pareva Sanguinetti
grecizzato.

«Ha ascendenze italiane?», domandai senza guardarla.


«Per quanto ne sappia, no», rispose lei ironica e svogliata.
«Il suo domicilio però è in Italia», le chiesi subito senza guardarla,
continuando a copiare i suoi dati sul modulo.
«Vivo in Italia per motivi di studio, scusi ha qualcosa a che fare con il
rinnovo del passaporto?» rispose infastidita delle mie domande,
indiscrete e urtanti, fatte da uno sbirro.
«Sì Saghinètu, sono domande obbligatorie», le risposi pacato ma
determinato, severo. Lei mi guardò stupita, per un istante sembrò
perplessa. Forse si ricordò di me, di quella notte in caserma, del
cicchetto offerto mentre ballava sulla rampa del bar, della mia figura
di merda in spiaggia mentre la guardavo allupato uscendo dal mare.
Ma non disse niente, e si ricompose.

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«Ho la residenza in Grecia e il domicilio in Italia».
«Dove?».
«A Perugia».
«Qual è il suo indirizzo?».
«Via della Viola, 2/C».
«Da quanti anni vive a Perugia?».
«Da due anni».
Non sapevo se dovevo spingermi oltre e farle altre domande.
Continuai a compilare i documenti per la pratica cercando di
concentrarmi per non fare degli errori. Solo che dovetti farle
un’ultima domanda che, maledizione, in quell’istante sembrava la
cosa più imbarazzante che abbia mai dovuto dire.
«È sposata?», lo richiedeva quel maledetto modulo.
Lei, in quel istante guardava il mare dalla finestra. Era seduta di
fronte a me e guardava il mare. Ripresa dai suoi pensieri si girò e mi
guardò negli occhi, sorrise appena e arrossì.
«Lo richiede la pratica», replicai d'istinto cercando di nascondere il
mio imbarazzo, non proprio per la domanda, fatta centinaia di volte,
ma per la mia faccia da scemo innamorato, di lei, la mia fantasia, la
mia ossessione.
«No, non sono sposata».
Nell’atmosfera c’era un’energia disarmante. Non seppi interpretare
quel sorriso sbarazzino in quel suo atteggiamento distante.
Ricordava chi fossi oppure no? Stava fingendo? La mia faccia era
veramente così insignificante per lei? Dovevo ritrovare la mia
autorevolezza. Finì a compilare i suoi dati poi accesi lo scanner per
prendere le sue impronte digitali.
«Deve mettere i pollici sullo scanner, premere leggermente e
aspettare finché non le dico di toglierli».
Lei eseguì le mie istruzioni ma lo scanner non riusciva comunque a
leggere le sue impronte digitali. Riprovai per un paio di volte ma non
ci riuscì. Questo succede quando le donne mettono la crema, con gli
uomini non capita mai.
«Ha per caso messo la crema per le mani?», le domandai col viso
divampato e certo della sua risposta già maledettamente
preannunciata nell’aria, eccitante.
«Tutte le donne si mettono la crema», rispose lei divertita, donna e
ragazza. Mani graziose e sottili, dita lunghe ed eleganti.
Il suo viso e quella frase rimasero incisi nella mia mente e
fomentarono ancora di più le mie fantasie. Volevo baciarla,
strapparle i vestiti e prenderla fuori sul balcone, con il vento che

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sovrastasse le sue grida di piacere, col vento che le scoprisse il corpo
dai vestiti fatti a pezzi, con i suoi capelli danzare tra le mie mani.
Invece non feci nulla e come un impiegato castrato dall’ambiente di
lavoro presi le sue dita per togliere la crema con l’alcol. Riprovai a
scannerizzarle. Fatto.
«A posto, mi dia un recapito telefonico per contattarla quando
arriverà il passaporto».
Esitò.
«Le do il numero di casa».
«Non ha un cellulare?»
Tacque poi rispose di no.
Non la credetti ma non importava, avevo fatto il mio dovere e
adesso dovevo assolutamente prendere l’incarico dell’indagine.
Avevo buone carte in mano, conoscevo l’italiano mentre i miei
colleghi no e questo era un vantaggio imbattibile.
La sera in riunione non dovetti insistere molto. Nessuno voleva
impelagarsi con indagini internazionali, addirittura in italiano, perciò
avevano già in mente di assegnarmi questo vero accollo, nonostante
non fossi del reparto antidroga. Avrei dovuto collaborare con le
autorità italiane per tradurre le sue conversazioni in casa, al telefono
e dopo alcuni anni ai social network e le diverse chat. Avrei avuto
accesso alle sue video chiamate e avrei potuto spiarla anche quando
non utilizzava i suoi dispositivi.
Mi consegnarono un fascicolo con tutte le ipotesi accusatorie: spazio
internazionale di stupefacenti, militanza politica nell’estrema sinistra
con possibile detenzione di materiali per la sovversione dell’ordine
pubblico, diverse denunce per rave party, messa a disposizione della
propria dimora per ospitare gli immigrati, alcuni di loro spacciatori
conosciuti. Un curriculum vitae niente male.
Presi il malloppo con tutto il materiale audio in cd e lo lasciai in
ufficio. Poi andai a casa della mora che avevo conosciuto quella
notte folle ai Busùkia, il locale con la musica greca dal vivo. La mora
ed io continuammo a frequentarci ma soprattutto si creò tra di noi
un legame affettivo al di sopra della passione. Eravamo diventati
amici. Sapeva molte cose su di me, anche riguardo Kalipsò. Non era
gelosa della mia fissazione, era tutt’altro curiosa a snondare il casino
che avevo in testa con la mia vita in generale. Un’amica psicologa,
una donna speciale e diretta, intelligente ma non bigotta. La mia
bella mora, Marianna.
Marianna è una cantante e musicista. Partecipa a diversi progetti
musicali prestando la sua voce a tutto ciò che le piace: musica greca,
spagnola, inglese, rock, punk, elettronica.. È anche molto brava con
gli strumenti a corda e i tasti, un vero fenomeno. Mi piace perché mi
ricorda quel periodo felice quando viaggiavo in Europa insieme a

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mia madre, prima di cagarmi sotto per i diciotto mesi di servizio
militare. Non so cosa avrei fatto se tornassi indietro, forse avrei
convinto mia madre a rassegnarsi una volta ancora e lasciarmi fare il
servizio militare a casa. Ma col senno di poi forse ero stato molto
immaturo a reagire con così tanto astio, immaturo e ingrato nei
confronti di mia madre che ferì parecchio.
Arrivai a casa di Marianna intorno alle dieci di sera. Era con alcuni
amici francesi. Stavano provando alcune canzoni rebetiche che
avevano rifatto swing. Mi buttai sul divano e li ascoltai cantare
bevendo una birra fresca, erano eccezionali. I francesi vivevano in
Grecia da diversi anni e conoscevano bene questo genere musicale.
Parlavano il greco in modo simpatico anche se tra di noi si parlava in
francese.
All’inizio erano a disagio a stare nello stesso spazio con me. Fumare
le canne e altro davanti a uno sbirro in Grecia fa un certo effetto.
Appena entravo in casa calava un silenzio tombale, cosa che mi
faceva girare i coglioni. Avevo chiesto a Marianna di avvertirmi ogni
volta ci sarebbero stati anche loro così avrei evitato di andarci ma lei
mi ingannava sempre. Pensava che passassi molto tempo chiuso in
me stesso e che dovevo riprendere i contatti con gli amici al di fuori
dell’isola e sopratutto del lavoro. Nel frattempo cercava di farmi
entrare nei suoi giri di amicizie, e un po’ ci è riuscita. Insisteva che
andassi con lei in giro per l'Europa ma non lo feci mai, nemmeno
quando andava a Bologna, la città natale mia madre.
Dopo un po’ di volte che incontrai i francesi il ghiaccio si sciolse e
diventammo amici. Il mio passato li affascinava ma la mia
indifferenza nei confronti del abuso di potere dei miei colleghi li
indignava. Non me la prendevo mai con loro quando non eravamo
d’accordo, anzi, mi divertiva ascoltarli argomentare. I francesi
avevano scelto la vita che mi voleva offrire mia madre, girare il
mondo coltivando le proprie passioni. Tutto molto bello ma loro non
hanno quel maledetto servizio militare, nemmeno gli italiani se
decidono di non farlo. Possono scegliere il servizio civile e
trascorrere quel tempo facendo qualcosa che loro ritengono utile
per il bene comune. Qui invece si respira ancora l’aria fascista: con la
preghiera mattutina nelle scuole e l’obbligo di andare a messa il
giorno delle ricorrenze religiose saltando la scuola, oppure fare la
marcia nelle celebrazioni nazionali. Se vuoi sopravvivere con dignità
in Grecia e soprattutto in un’isola devi fare compromessi etici,
altrimenti o diventi marinaio oppure fai le valige e te ne vai.
Parlammo di musica. Quei ragazzi insieme a Marianna avevano
sfilato dal telaio del rebetico i suoi ritmi e versi e avevano ricreato
un tessuto colore swing, un vestito per la voce della mia mora che
sapeva indossare con elegante maestria essendo bravissima in
entrambi i generi.

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Ero seduto sul divano, gustavo la mia birra e mi godevo il concerto
privato, Marianna cantava la melodia rebetica nel ritmo dello Swing:
«Di quel che dici me ne frego
Alle tue bugie ora non credo più.
E l'ho capito che ero per te
un passatempo.
Ogni tuo bacio ormai lo trovo amaro
e la mia pena non la puoi addolcire.
Vieni con me piccola bugiarda
per far ingelosire un altro.
Vattene allora visto che vuoi andare altrove!
Smettila con le lagne, i piagnucolii e le sciocchezze!
E quando ti vedrai col tizio che ami
vedi di non dirgli che mi avevi come passatempo».

Restammo insieme fino all’alba, mi addormentai sul divano e mi


svegliai la mattina con addosso una coperta. La stanza era ben
diversa da come me la ricordavo la sera prima. Le bottiglie di vino e
di birra, i posaceneri pieni di cicche, tutto era sparito. Tutto era in
perfetto ordine. La bracci lasciavano le ultime energie di calore
prima di diventare cenere e le tende delle grandi e alte finestre
coloravano di viola porpora i raggi del sole che penetravano il
tessuto. Erano le dieci di mattina. Preparai il caffè e uscì fuori al
giardino. Una vista meravigliosa. Marianna abitava in una villa a
Episcopio, una delle poche zone verdi dell’isola. La primavera e
l’estate il giardino era gremito di fiori di Bougainville, di rose, di
garofani, di alberi di mandorlo. Ora invece, giornate fredde e brevi, i
melograni, i peri, i meli, gli aranci, i limoni ornano il giardino della
villa, i vasi in marmo e in terracotta, uno spettacolo per la vista. Finì
di bere il mio caffè poi andai in camera di Marianna. Mi infilai sotto
le coperte calde e mi rilassai sentendo il profumo della sua pelle, dei
suoi capelli e dei suoi vizi. La presi con dolcezza, le portai il caffè a
letto e un fiore dal giardino, fumammo una sigaretta insieme poi
andai via. Lei si rimise a dormire.
Tornai a casa, feci una doccia volante, cambiai i vestiti e poi andai in
questura. Un collega aveva preso il mio posto nell’ufficio dei
passaporti ed io mi trasferì in quello antidroga – andai alla porta
accanto –. Iniziai a sfogliare i documenti.

Alla mia bimba piaceva molto la vita di strada. In casa sua c’era un
via vai di gente conosciuta alla Digos di Perugia per giri di cocaina e
di eroina. Erano soprattutto dei magrebini tossici che prendevano la
droga dalla mafia calabrese, la Drangheta e la spacciavano in dosi
per le vie di Perugia. Non c’erano informazioni chiare su di lei, c’era
piuttosto il sospetto che quella gente usava la sua casa per

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trasformare la droga in buste che arrivavano “all’ingrosso”. Era
impossibile però che Kalipsò fosse mente attiva di quel giro di
spaccio. Sarebbe un record mondiale di tufo nel marciume.
Comunque viste le sue foto in giro per Perugia sembrava non avesse
problemi a girare con quella gente.
Il suo giro politico. Viaggiava spesso tra Bologna, Roma, Torino e
Milano; manifestazioni politiche, presidi, street parade
antiproibizioniste, collettivi anarchici e centri sociali. Diverse
denunce penali e amministrative per occupazione di palazzi per far
dormire ogni povero cristo che vivesse in Italia e in Grecia, in
Spagna, denunce per aver partecipato a rave party in giro per
l'Europa. Ma perché tutte queste denunce non sono mai arrivate in
Grecia se lei ha lasciato la sua residenza qui?
I primi problemi per Kalipsò iniziarono quando decise di espandere il
suo Impero di cazzate in Grecia. Alcuni informatori tra Atene e Syros
dissero che Kalipsò stava portando con una frequenza mensile del
fumo che non si trovava nel mercato. Non potevano calcolare
l’esatta quantità che portasse ogni volta ma a considerare solo da
Syros sarebbe stato di diversi chili. Diversi chili.. ti rendi conto?
Analizzarono il fumo comprato proprio da lei stessa e la sua purezza
era altissima, cosa che fece sospettare che il fumo venisse
direttamente dal Marocco, l'esportatore principale di hashish in
Europa.
Così iniziarono a indagare su di lei e così anche io adesso mi sono
ritrovato con il suo malloppo accusatorio nel reparto antidroga.
Insomma, bisognava capire esattamente cosa faceva Kalipsò quando
tornava in Grecia, i suoi contatti ad Atene, chi incontrava, qualsiasi
cosa. Nella busta con i documenti dell’indagine c’erano molte
fotografie e anche un cd con le sue telefonate in italiano e in greco,
dal marzo del 2002 fino a quando non era tornata in Grecia per il
Natale, cinque giorni fa, dicembre 2004. Dovevo comunicare alla
Digos di Perugia tutto ciò che ritenevo interessante e che era stato
detto o scritto in greco.
Dunque, un bel casino. Per lei. Si era messa subito in gioco. Presi le
fotografie in mano. In molte c’era lei sfattissima in giro per Perugia,
in macchina, nei locali, insieme ad amici belli e brutti; in alcune
fotografie era radiosa in altre invece era imbarazzante per quanto
stesse fuori. Il suo viso giovanile era più forte di qualsiasi botta
avesse, il modo che le si tramontavano gli occhi dalla fattanza, i suoi
cappelli neri che ornavano la sensualità del viso e del corpo, il suo
corpo, le sue gambe alte e affusolate che mostrava generosamente
in giro.
Avevo trecento fotografie e seimila telefonate - milleduecento
minuti, venti ore - si poteva fare. Mi misi subito al lavoro, anzi, mi

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ero già messo lavorare guardando le sue foto. Misi il cd al computer,
misi e gli auricolari e iniziai ad ascoltare le conversazioni telefoniche.

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