meravigliare, ancora, per la prima volta. Da buon avventuriero, Hemingway sapeva bene che
leggere un libro per la prima volta è un’avventura straordinaria».
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Che si occupi dei luoghi della sua infanzia o di clochard un po’ atipici, che si soffermi sulla vita a
New York anziché sul grande evento dell’eclissi, o rifletta sul sopravvento dell’organizzazione
rispetto alla sostanza delle cose, Peter Bichsel racconta le storie comuni senza trarne una grande
morale.
Con la consueta attenzione al particolare, Bichsel ci introduce tra le persone e le parole di ogni
giorno, soffermandosi su aspetti secondari ma spesso rivelatori: la mania per l’ordine di un
intellettuale, gli errori ortografici di una bambina di sette anni, l’impertinenza di un postino che
legge le cartoline.
A meraviglia poi, come sempre, ci parla della lettura e dei lettori. Ancora una volta, una sapiente
raccolta di brevi saggi-racconti corrispondente alla massima cui sempre Bichsel si ispira: narrare in
un tempo in cui «non ci sono più storie».
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Peter Bichsel è nato a Lucerna nel 1935 e ha lavorato fino al 1980 come insegnante elementare nel
cantone di Solothurn. Ha vinto numerosi premi, ha insegnato nelle università americane. Per la
nostra casa editrice ha pubblicato Storie per bambini (4a ed. 1996), Al mondo ci sono più zie che
lettori (3a ed. 1992), Il lettore, il narrare (1992) e In fondo alla signora Blum piacerebbe conoscere
il lattaio (4a ed. 1994).
Ladri di Biblioteche
BIBLIOTECA GERMANICA 35
PETER BICHSEL
titolo originale:
«Gegen unserem Briefträger konnte man nichts machen»
«Alles von mir gelernt»
Questa edizione è realizzata con il contributo
della Fondazione Pro Helvetia, che si ringrazia
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© 1996, 2000 Suhrkamp Verlag
Frankfurt am Main
© 1999, Marcos y Marcos
Via Settala 78, 20124 Milano
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Traduzione dal tedesco di Donatella Minuto
Prima edizione, marzo 2000
Anna e l’ortografia
Di fronte a me, sulla parete, sta appeso un foglietto con la frase: “Resta senpre alegro, Tua Anna”.
Viene da Karlsruhe. Anni fa, avevo tenuto lì una lettura per bambini. Durante una pausa dovevano
mettere per iscritto delle domande a cui avrei risposto.
«Quanto tempo impiega per scrivere un racconto?» «Come fa a scegliere i nomi?» «Quanti libri ha
scritto?» Non sono domande stupide. Non esistono domande stupide. Stupide sono solo alcune
risposte. Il foglietto di Anna però, era diverso dagli altri. Prima aveva tirato delle righe, a mano,
tutte storte e poi, a fatica, ci aveva scritto sopra delle lettere; nessuna domanda, solo un augurio:
“Resta senpre alegro, Tua Anna”.
Sono già passati vent’anni e Anna (che non ho mai visto ma di cui conservo il foglietto) deve averne
ormai ventisette. Chissà se scrive ancora, se continua a fissare parole su piccoli pezzi di carta.
Perché credo che avesse talento; era in grado, con qualche lettera tremolante disposta su una riga
sbilenca, di descrivere il mondo; la gioia e il dolore. E aveva il coraggio di farlo. Ho paura che nel
frattempo questo coraggio l’abbia abbandonata, come è successo a tanti altri che un tempo si
divertivano a creare come per magia dei linguaggi con pochissime parole.
Quella volta tentai di rispondere alla domanda di Anna — perché in fondo di questo si trattava, di
una domanda — ma ero impacciato, balbettavo; così promisi che da quel momento in poi avrei
sempre scritto la parola “allegro” con una “1” sola. Se ho mantenuto la promessa? Può darsi che da
allora non abbia più pronunciato quella parola.
La storia di Anna, che scriveva con tanta dolcezza “alegro” con una sola “1”, mi è tornata in mente
di recente, quando, per caso, ho incontrato una signora, una professoressa di economia politica. La
prima cosa che mi ha detto non appena ha saputo che sono uno scrittore, è stata che i suoi studenti
non conoscono la punteggiatura e che deve continuamente correggere le virgole.
Mi sono sentito un po’ offeso perché uno scrittore non è esattamente uno che conosce la
punteggiatura. L’ho imparato dai miei compagni di osteria. Sono fieri di me perché credono che io
padroneggi l’ortografia; perché poi si chiama così? * Si chiama così perché quelli che la conoscono
hanno ragione e quelli che non la conoscono, torto. Forse Anna ha studiato economia politica.
Ma ora è tutto a posto. L’ortografia è stata rivista. La Germania, la Svizzera, il Liechtenstein e
l’Austria hanno firmato un trattato.
Personalmente sono poco interessato alle nuove regole, come alle vecchie. Se mi fosse interessata
l’ortografia, non avrei mai scritto. È fatta apposta per impedire a me e ad Anna di scrivere (anche se
io ho continuato). Adesso l’ortografia è più semplice ma è diventata una legge. Chi d’ora in poi
sbaglia a scrivere, contravviene ai trattati di stato; non è demenziale?
I trattati di stato si sarebbero potuti firmare già da tempo, ma c’erano problemi con la delegazione
tedesca. Doveva ancora conferire con il cancelliere federale.
Così è. L’imperatore, sulla base delle sue conoscenze, regola l’ortografia e Anna, con le sue
deliziose righe storte, non ha più scampo. Per non fare più errori smetterà di scrivere. E' giusto così;
dove andremmo a finire se tutti quelli che conoscono l’alfabeto potessero reagire per iscritto a tutte
le cose scritte? L’ortografia serve proprio perché non tutti osino chiedere giustizia.
Abolirla, e dare così la possibilità alla professo-ressa di economia politica di insegnare qualcosa di
intelligente anziché regole ortografiche? o renderla tanto difficile da togliere la voglia di
apprenderla e indurre il coraggio di tornare a scrivere? Semplificarla, infatti, significa solo
attribuirle ancora più importanza. Nessun dubbio: meglio abolirla.
Mi piacerebbe che Anna continuasse a scrivere, perché so che, così facendo, resterà “senpre alegra”.
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%
* Nel termine tedesco Rechtschreibung (ortografia) l’elemento “Recht” significa “diritto”,
“ragione”.
%%%
E le idee?
Nessuna domanda mi mette a disagio quanto quella che solitamente viene fatta agli scrittori: «Da
dove le vengono le idee?»
«Esattamente dallo stesso posto da cui provengono quelle degli altri» dico, e l’interlocutore
aggiunge: «Ma a me le idee non vengono quasi mai!» «Neanche a me» rispondo.
La domanda mi mette a disagio perché so perfettamente che nessuno crede alla mia risposta.
Forse non dovrei dire che proprio in questo momento, mentre siedo davanti alla macchina per
scrivere e preparo un articolo, ho la testa completamente vuota. Sono appena tornato da Berlino,
dopo aver trascorso un breve periodo a Londra. Viaggio da settimane. «Di solito, quando uno fa un
viaggio, ha qualcosa da raccontare». Quindi anch’io dovrei saper dire qualcosa. E invece no, per cui
deduco che in questa frase così ovvia, c’è qualcosa che non quadra. Tutti infatti fanno dei viaggi,
ma pochi hanno qualcosa da dire. Eppure il nonno, che raccontava un sacco di cose, non aveva mai
viaggiato veramente. Io invece sono tornato ieri, domani partirò di nuovo, e sto seduto qui senza
nemmeno un’idea.
Da dove prendo le idee e da dove le prendeva mio nonno che se ne stava seduto sulla sua famigerata
panchetta accanto alla stufa? Raccontava le sue storie in quelle serate noiose e interminabili; aveva
a disposizione davvero tanto tempo, lunghi intervalli di tempo, e le idee scaturivano dalla noia. Io
ho delle idee solo quando mi annoio, quando riesco ad annoiarmi per un bel po’ e se i bei racconti
iniziano spesso con la frase “c’era una volta” è perché tra ciò che è accaduto e il racconto vero e
proprio deve passare del tempo, il tempo della noia. Il fatto che noi raccontiamo cose passate, non
ha a che fare solo con la nostalgia ma con il tempo che un racconto richiede. (Non a caso in bernese
“tempo lungo” significa nostalgia).
Noia, tempo, nostalgia: forse in passato i viaggi erano diversi; lunghi, travagliati e faticosi, intrisi di
quella noia da cui scaturiscono le idee. Ora i giornalisti viaggiano: prendiamo la Bosnia, per
esempio; in soli tre giorni hanno visto tutto, annotato tutto, fotografato tutto. E quelli che si
spostano per affari ti sanno consigliare al massimo un ristorante a Singapore. No, non sono
un’eccezione e non rido di loro. Anch’io non ho niente da raccontare. Sto vivendo troppo
intensamente e chi fa troppe cose ha poco da dire, poche idee in testa. Raccontare, così come avere
delle idee, non ha nulla a che fare con l’attività e il movimento.
Eppure viviamo in un’epoca che avrebbe bisogno di idee: idee in politica, in economia, idee e
subito. Ma quest’epoca è difficile e frenetica. Si deve andare veloci. Viviamo nel tempo della
razionalizzazione ma non si possono razionalizzare le idee. Chi impone dei ritmi a quelli che si
annoiano toglie spazio alle idee.
Dovevamo farci venire delle idee quando avevamo ancora tempo a disposizione. Ma anche allora, a
ben guardare, di tempo non ce n’era. (È la stessa cosa che succede allo stato: nei periodi di
prosperità dovrebbe mettere da parte i soldi; ma neanche in quei periodi ne ha. E chi ha parlato
allora di un periodo di prosperità?) Solo chi non la prova è convinto che la necessità aguzzi
l’ingegno. Il bisogno e la paura paralizzano l’uomo, un disoccupato non ha tempo di annoiarsi.
Il filosofo Kant trascorse tutta la sua vita a Königsberg eppure nei suoi libri parlò dell’universo
intero. Aveva molto tempo a disposizione e gli sono venute delle idee. Ha viaggiato con la mente. E
aveva tempo, tanto tempo, aveva nostalgia.
A caccia di parole
Per raggiungere Weimar il treno su cui viaggiavo passava davanti a Eisenach. Abbassai il finestrino,
volevo vedere la città, non la vidi, mi precipitai sul lato opposto, corsi di nuovo indietro, cercavo la
rocca di Wartburg, e anche se nel frattempo il treno doveva essersi allontanato parecchio, io mi
ostinavo a cercarla. Ci rimasi male e per una sorta di ripicca decisi che Eisenach non volevo
vederla; un passo difficile e per questo definitivo: non ci vado a Eisenach! E come succede in questi
casi, mi sono sentito libero: no, non devo andare a Eisenach!
A casa, accanto alla Bibbia, tenevamo il grande libro di Lutero che da piccolo sfogliavo quasi ogni
giorno; continuai a leggerlo anche più tardi, quando ero a caccia di lettere in una casa che ne era
povera, e, neanche a dirlo, diventai devoto. Questo però fu solo un effetto collaterale; la questione
in realtà era un’altra e riguardava il mondo. In questo libro per me si trovava il mondo, il mondo
reale, quello di cui a casa non disponevo.
Martin Lutero era il mondo tanto quanto Wittenberg, la rocca di Wartburg, Eisenach; un disegno di
questa città era stampato nella mia mente e Eisenach divenne la città della mia nostalgia. Il fatto che
di lì a poco sarebbe stata “irraggiungibile” (si trovava nella DDR) rendeva la mia nostalgia più
sopportabile, perché pensavo che senza tutte quelle complicazioni, l’avrei visitata senz’altro.
Di Weimar, comunque, fui molto contento. Weimar non rientrava nelle mie nostalgie infantili e i
miei genitori non possedevano una copia di Arminio e Dorothea. Da Weimar ci sono passato un po’
più grande, ma sempre con il terrore che facesse di me un turista. Così decisi di rinunciare alla
piantina della città e alle guide turistiche per limitarmi a guardare quello che incontravo
passeggiando.
Speravo tanto che mi accadesse una cosa, una sola: vedere la casa di Herder o, più precisamente, la
porta della casa di Herder, quella porta a cui aveva bussato il giovane Jean Paul quando arrivò a
Weimar per la prima volta, e davanti a cui venne abbracciato da Herder fra le lacrime e accolto nel
mondo dei grandi ingegni.
La prima sera che trascorsi a Weimar non avevo in mente niente di particolare, volevo solo respirare
un po’ d’aria fresca e bere un bicchiere di vino; non cercavo altro che un’osteria. La casa di Goethe
l’avevo vista da lontano e per il momento le girai al largo. In una stretta viuzza dietro alla chiesa (le
osterie migliori si trovano quasi sempre in vicoli stretti e vicino alle chiese) vidi una casa che
catturò la mia attenzione. Lessi la targa accanto alla porta; era proprio la casa di Herder; ho forse
ripercorso casualmente la stessa strada di Jean Paul? Si fermò davanti a quella porta, bussò a quella
porta, proprio di sera, dopo un’intera giornata di cammino, da Hof a Weimar. Rimasi lì a lungo, non
guardavo che la porta, avevo la pelle d’oca e la testa piena di parole, le parole di Jean Paul. In realtà
avrei fatto meglio a partire subito. Mi sarei dovuto accontentare di aver percorso la stessa strada di
uno che aveva frequentato Herder e Goethe e che non era venuto qui solo per ammirare a bocca
aperta la loro eredità.
Ma purtroppo mi trattenevano a Weimar degli impegni per la sera successiva e questo significava
un’altra giornata a disposizione per visitare ciò che di solito i turisti visitano. Avrei fatto meglio a
rimanere nella mia camera d’albergo, e leggere i libri (Processi groenlandesi, La loggia invisibile)
per i quali Herder abbracciò in lacrime Jean Paul proprio davanti a quella porta.
Avrei dovuto ricordarmi che nella mia mente Eisenach non era e non è una vera città ma un disegno
di un libro, un libro che più tardi, quando imparai a leggere, divenne un libro fitto di lettere.
Le città straniere fanno diventare isterici; visto che si è arrivati fin lì, tanto vale visitarle. Si è a casa
solo nel luogo in cui non si è mai visto quello che i turisti invece vanno a vedere. E comunque, il
turista proprio non mi andava di farlo; così, il giorno seguente, mi limitai a passeggiare per la città,
attraversai un parco e mi fermai davanti a una casa che mi sembrava di conoscere: di fronte a me
c’era il capanno di Goethe, proprio come me l’ero sempre immaginato nel giardino di casa sua.
Attraversai il giardino, mi fermai davanti al mosaico stile Pompei che Goethe si era fatto posare
davanti all’ingresso principale e su cui si fermava lui stesso, considerai a lungo se visitare l’interno
o meno, e alla fine decisi di sì; non fu niente male: la casa era quasi vuota, praticamente senza
mobilio e i pochi mobili rimasti non erano autentici, ma riproduzioni dell’epoca. L’atmosfera
circostante mi suggeriva un’immagine precisa, l’immagine di un uomo che scrive. Avrei dovuto
finirla lì ma in città c’era giusto giusto la casa di Goethe, e io ci avevo messo piede solo dopo due
puntatine all’osteria e solo perché mi trovavo da quelle parti fuori dall’orario in cui di solito ci
vanno i turisti.
Eppure si sa, curiosare nelle case degli altri quando non si è stati invitati è sconveniente; avrei
dovuto lasciar perdere perché il mio Goethe non ha vissuto qui, ha vissuto nei libri, ne Gli anni del
pellegrinaggio, che amo con tutto il cuore, e anche nelle sue lettere, in cui non è un uomo morto ma
un uomo vivo che racconta del suo giardino, delle cure che vi dedica, delle sue tappezzerie e dei
suoi tappezzieri.
La mia Eisenach è la città di un libro così come la mia Weimar. Martin Lutero è un uomo fatto di
lettere. In qualche strano modo le ha anche inventate; ha inventato la “Scrittura”, il termine con cui
mio nonno chiamava la Bibbia. Con il Goethe che vive nei libri posso scherzare, lo posso prendere
in giro, contraddire, elogiare, ammirare. Qui però, qui a Weimar, non è che un morto.
Quando anni fa andai a Middleburry nel Vermont, a qualcuno venne l’idea di visitare la casa di
Robert Frost, il grande lirico, che si trovava lì nelle vicinanze (il posto esatto era Breadloaf). La
trovammo; era stata adibita a piccolo museo. Bussammo e una signora gentile venne ad aprire la
porta; noi, che eravamo in cinque, le spiegammo che volevamo visitare la casa. Ci fece entrare, ci
mostrò il salotto, la cucina, un locale da lavoro, la camera matrimoniale e quella dei bambini e
quando uno di noi domandò dove era solito lavorare, la signora chiese sorpresa: «Chi?» e noi
rispondemmo: «Robert Frost».
«Robert Frost,» ripetè con un’espressione sempre cortese e sorridente, «Robert Frost abita tre case
più in là».
Dopo quel simpatico episodio decidemmo di lasciar perdere; niente più visite a quello sconosciuto
del signor Frost.
Comprare
«Dunque, è molto più conveniente prendere l’aereo per Atene e poi da lì quello per le isole» dice un
tizio, e l’altro aggiunge che la settimana scorsa suo fratello ha viaggiato in aereo — la destinazione
non se la ricorda — risparmiando 700 franchi per via di una prenotazione tutta particolare. Dice che
il tal giorno c’è un volo per Bangkok e, prenotando nel tal modo, si risparmiano circa 200 franchi.
Sono stati ovunque e conoscono tutti i prezzi. Il primo è appena tornato dalle vacanze. E' una buona
occasione per parlare un po’ di tariffe aeree. Io non riesco a seguire l’intera conversazione, mi
sfugge dove sia stato di preciso. Certamente al mare, al mare da qualche parte.
Se l’è concesso, come dice. Si è comprato qualcosa di costoso ed è persino riuscito ad averlo a
meno perché sa bene come muoversi in questi casi.
Il viaggio, mi sembra di capire, è quasi irrilevante, in ogni caso non viene menzionato. Non voglio
dire che quel tale non si sia goduto le sue vacanze, che non gli siano piaciute. Probabilmente non è
in grado di parlarne.
Parla del suo viaggio come dell’acquisto di un’automobile: prezzo, qualità, dati tecnici; non
semplicemente di un’automobile, ma dell’acquisto di un’automobile. E' divertente comprare,
comprare cose costose a buon prezzo. E' divertente comprare un orologio, una splendida giacca, un
viaggio. Adesso l’ha comprato, il viaggio, adesso gli appartiene. Nessun problema: è bello che se lo
possa permettere così come va benissimo che non spenda troppo. E' triste solo il fatto che il prezzo
rimarrà irrimediabilmente incollato al suo oggetto: questo sarà per sempre un orologio da 1678
franchi e questo sarà per sempre un viaggio da 945 franchi. Il viaggio, insomma, possiede un valore
in anticipo. Che in un secondo momento l’orologio lo si usi e il viaggio lo si intraprenda, è una pura
e semplice conseguenza, un’ovvietà.
Mentre siedo qui e seguo la conversazione, ho sulla punta della lingua una domanda: «Sei mai stato
in vacanza in Iugoslavia?» Mi trattengo perché so che lo metterei in imbarazzo. Non saprebbe cosa
dire, comincerebbe a inveire contro gli iugoslavi e proprio non mi va di starlo a sentire. Perciò
lascio perdere. La Iugoslavia non la compra più nessuno. Sono al corrente da pochissimo tempo del
fatto che Sarajevo si trova in Bosnia e forse, se avessi fatto qualche vacanza in Iugoslavia, lo saprei
da un po’. Dovessi basarmi solamente su questa loro conversazione, ne dubito. In ogni caso, è
davvero singolare che il turismo non abbia contribuito per niente all’intesa tra i popoli e che quando
uno dice «sì, lo conosco!» si riferisce sempre a qualcosa di negativo. Viaggiare è un sapere legato a
un’epoca in cui il turismo non esisteva ancora.
Sarebbe forse eccessivo pretendere che ciascuno, attraverso i propri viaggi, imparasse delle cose,
che tornasse a casa più intelligente e più informato. Il signore in questione ha tutto il diritto di
sdraiarsi da qualche parte sulla spiaggia, di rilassarsi senza pensare a niente.
La cosa peggiore è che è convinto di aver comprato tutto, il viaggio, la gente, il luogo in cui è stato
e che queste cose gli appartengano. Certo, i viaggi costano, hanno il loro prezzo, ma non si possono
comprare.
Le persone che intorno a quel tavolo stanno discutendo dei prezzi del mondo non amano
particolarmente né gli stranieri né gli altri paesi. Non vorrebbero appartenere a nessun altro paese,
non all’Europa, per esempio. Forse perché abbiamo imparato che l’estero è a buon mercato, che lo
si può acquistare a poco prezzo. Forse chi pensa che il mondo gli appartiene, non pensa di dovervi
appartenere. Un tempo agli inglesi apparteneva un mondo intero, e da allora fanno molta fatica ad
appartenervi.
Salamanca
Salamanca è una bella città, l’ho detto anche a chi mi ha ospitato e non per cortesia; Salamanca è
davvero una bella città e mi è piaciuto molto soggiornarvi.
La questione è molto semplice: Salamanca è antica, perciò è bella. Questa città ha qualcosa che non
si può ignorare: è carica di secoli: dodicesimo, tredicesimo, quindicesimo, sedicesimo, uno si
chiama romanico, l’altro gotico e non è male, per un visitatore, poter domandare di tanto in tanto:
«Questi, non sono forse motivi moreschi?» oppure osservare: «Qui si riconosce un’influenza
barocca»; la storia dell’arte europea è al completo: romanico, gotico, barocco.
Chi mi ha ospitato ha avuto la gentilezza di regalarmi, per ricordo, un volume illustrato su
Salamanca. E' lì, sul tavolo, e mi fa venire in mente la storia dell’arte europea.
Non è diverso da quello su Freiburg (uno qualsiasi), su Milano e su Solothurn. Ma io, di certo, non
ricorderò Salamanca per le sue facciate artistiche.
Che strano, per i turisti le città sono completamente senza storia. Stanno lì, da secoli, e spesso le
visite guidate si riducono a un riassunto trito e ritrito di storia dell’arte.
Nella meravigliosa biblioteca dell’università di Salamanca mi ci hanno trascinato un po’ troppo di
fretta e un po’ troppo di buon’ora. Avevo in mano un libro dell’undicesimo secolo e la prima
traduzione latina di Aristotele; non quella dal greco ma quella dall’arabo del quattordicesimo
secolo; sfogliavamo le pagine di quei libri sorpresi per le numerosissime note segnate a margine dai
lettori dell’epoca. Mi sono sentito un po’ misero, un banalissimo curioso che chiede: «Di che
secolo, scusi?» con un leggero stupore di circostanza.
Sono stato contento quando la visita è terminata. Mi sono sentito uno stupido intruso, io che non
conosco né il latino né lo spagnolo e neppure l’arabo, un intruso in un mondo davanti a cui non si
può stare a bocca aperta.
Ci deve essere senz’altro una ragione per cui siamo portati a ridurre la storia a storia dell’arte. E' un
peccato. La meravigliosa biblioteca di Salamanca voleva essere, un tempo, la summa del pensiero di
questo mondo.
Ho fatto a meno di altre visite guidate, ho rinunciato a vedere chiese e monasteri, pago di ciò che
incontravo per caso: una sala di lettura antichissima, del sedicesimo secolo, lugubre e tenebrosa,
spoglia, come se il sapere fosse un fardello pesante da portare, qualcosa di oscuro e di inquietante;
in alto, a ridosso di una parete, un piccolo pulpito da cui dispensarlo.
Non ho osato addentrarmi in questa sala, ma ogni volta che vi passavo davanti, mi fermavo a
contemplarla affascinato.
Poi, un giorno, un conoscente spagnolo mi ha raccontato che proprio qui aveva tenuto le sue lezioni
Fray Luis de León.
«Chi è?» ho chiesto.
«Era un grande poeta spagnolo, monaco agostiniano, che tradusse il Cantico dei Cantici di
Salomone in spagnolo e lo interpretò come poema amatorio. L’Inquisizione lo rinchiuse in carcere
per cinque anni e quando uscì (dopo cinque durissimi anni nei quali due suoi amici morirono), salì
proprio su questo pulpito ed esordì: «Come dicevo ieri» intendendo dire «Ieri eravamo rimasti a».
Luis de León sta di fronte all’università, su un piedistallo. Lo saluto ogni giorno. Il racconto della
sua lezione mi aveva convinto. Ma nel mio volume illustrato e nella mia guida non c’è niente su di
lui.
Adesso sto dando la caccia alle sue opere e ho già trovato due poesie in tedesco.
@
NELL’USCIRE DAL CARCERE
///
Qui l’invidia e la menzogna
m’hanno tenuto serrato.
Felice l’umile stato
del saggio che non agogna
questo mondo scellerato;
///
con mensa e casa sguarnita
dentro il campo delizioso
solo con Dio si confida
e solo passa la vita
né invidiato né invidioso.
@@@
Pare che Luis de León abbia scritto questa poesia sulla parete della sua cella. E il Cantico dei
Cantici di Salomone l’ha tradotto in privato, per una suora: un poema amatorio.
Ma sì; è valsa la pena visitare Salamanca. Ho conosciuto la poesia di Luis de León. Non
dimenticherò mai né lui né Salamanca. E il volume illustrato lo regalerò, prima o poi, a un visitatore
di Solothurn, qui di passaggio.
Il mio paesaggio
Quando viaggio nella Germania del Nord, preferisco i treni lenti, quelli che si spostano con calma
da una stazione all’altra, lasciando in pace il paesaggio circostante. Quei paesaggi che scorrono
quasi senza differenze, uno dietro l’altro, non sopportano la velocità.
Questo panorama mi affascina e, in cuor mio, ho sempre sentito il desiderio istintivo di essere qui,
di rimanerci.
Tuttavia so perfettamente che non resisterei; ho bisogno di avere intorno esseri umani, negozi,
strade.
Eppure, ogni volta che vedo questi luoghi, ho la sensazione di tornare a casa e quello che mi dice la
gente, e cioè che, in quanto svizzero, sentirei la mancanza delle montagne, mi mette sempre un po’
a disagio.
Il treno si ferma in una stazione e lì, davanti a me, una casa di paglia, uno steccato, la tonalità
grigioverde che anticipa la primavera; all’improvviso riconosco il luogo della mia infanzia. Un
tempo vivevo qui, esattamente qui. Per ore stavo davanti a questa staccionata, la facevo sparire, la
distruggevo, la ricostruivo e amavo questo verde che non trovavo da nessun’altra parte. Ho abitato
in questo posto tutto solo, senza i miei genitori e senza che nessuno lo sapesse. Nemmeno io
sapevo, o volevo sapere, che nella realtà esistono paesaggi analoghi.
Il mio paesaggio era una specie di puzzle: sedici cubi; sui lati di ciascun cubo un’immagine diversa
che, combinata con le altre, formava un paesaggio; siccome il gioco era tedesco, si trattava di
paesaggi tedeschi e a me apparivano così stranieri e così nordici da ricordarmi quelli che animano le
fiabe dei fratelli Grimm. Accade spesso di avere in mente posti irraggiungibili dove non si vivrebbe
mai; posti in cui però abbiamo vissuto da bambini, con la fantasia.
Fortunatamente sono solo nello scompartimento, ma la mia felicità dura poco. Un uomo entra
ansimante, si abbandona sul sedile con un tonfo, senza togliersi né il giaccone né la borsa a tracolla,
e mi manda un saluto gentile e sonoro. Io guardo fuori dal finestrino, per evitare di rivolgergli la
parola anche se per il momento non ce n’è bisogno. Parla da solo: «Flensburg, Flensburg, e un
padre morto nella steppa russa, cambiare a Flensburg». Il viaggio è ancora lungo e dovrò sorbirmelo
per un bel pezzo. Non sembra pericoloso, ha i lineamenti marcati e intelligenti, una barba di sei-
sette giorni, ma ben curata, una voce flebile e tranquilla. Vede la mia sigaretta e, sempre tra sé, dice:
«Con il fumo ho chiuso, ma bere, bere...» Poi si mette in corridoio, aspetta il bigliettaio e, con una
serie di domande, lo trascina in un’improbabile conversazione; il bigliettaio risponde, cortese.
Riesce a farlo allontanare e rientra nello scompartimento sghignazzando. Estrae un libro dalla borsa:
«È mio — dice — lo deve prendere, costa solo 16 marchi» e quando glielo compro davvero, resta
sorpreso. Mi riprometto di non parlare del mio lavoro.
Dice di essere professore di storia sociale e informatica. Mi ripete più volte il nome dell’università
in cui insegna. Le poesie sono abbastanza buone, mi scrive una dedica.
Mi riservo di controllare se all’università X ci sia davvero lui come docente, ma subito dopo mi
vergogno della mia meschinità. Perché pensare che dica bugie? E se anche non ne dice, cosa me ne
viene in tasca? Adesso parla delle lingue: russo, francese, italiano e sembra che le conosca tutte.
Filosofeggia sui rapporti che intercorrono tra una lingua e il suo popolo. Riconosco il gergo dei
sociologi del ’68. In borsa tiene delle bottiglie di birra; è già ubriaco ma continua a berne una dietro
l’altra. Parla del ’68, si vanta della sua professione, ma l’istante successivo si schermisce.
E io penso che quest’uomo, sicuramente di età inferiore alla mia, nella sua giovinezza ha avuto un
paesaggio dove adesso non si può più vivere: il ’68.
Quando scendiamo, a Kiel, siamo entrambi desiderosi di separarci. Lui si congeda velocemente e
cammina sul marciapiede nella direzione sbagliata. Alle mie spalle sento una bottiglia che cade e va
in frantumi. In Russia... era lì che gli sarebbe piaciuto abitare e me l’aveva detto anche in russo.
Suonava bene come frase, suonava grigioverde. Perciò sono stato contento di essermene liberato.
Ascoltare e appartenere
Mi ero deciso per una compagnia aerea americana con l’intenzione di prolungare la mia
permanenza in America ancora per un po’, di rimanervi altre otto ore e di mettere piede in Svizzera
soltanto a Zurigo, non già a New York. E invece non feci in tempo a prendere posto sull’aereo che
venni letteralmente assalito dal suono delle lingue a me familiari — tedesco, svizzero tedesco —
che mi impedirono di dormire per tutta la durata del volo.
Mi penetravano nelle orecchie.
Mi ero disabituato a non potermi sottrarre alla lingua degli altri. Con l’inglese è diverso,
dall’inglese posso estraniarmi. Posso scegliere liberamente di ascoltare o no, scegliere se limitarmi
a udire semplici suoni oppure una lingua con dei contenuti.
Avevo vissuto per quattro mesi con una lingua che potevo “accendere” o “spegnere” a mio piacere,
una lingua che mi aveva divertito e che comprendevo sempre meglio. E anche le idiozie che sentivo
nei bar di New York rappresentavano per me, quando riuscivo a coglierne il significato,
un’esperienza sufficientemente gratificante. Se invece, per esempio, avevo voglia di leggere il
giornale, bastava che smettessi di ascoltare per trovarmi a tu per tu con la pagina scritta.
Questo è il vantaggio delle lingue straniere. Si chiamano così perché risultano estranee e danno la
possibilità a chi le ascolta di sentirsi un estraneo.
Salgo sull’aereo e sono nuovamente lì, “appartengo” di nuovo. Il verbo “appartenere” ha forse
qualcosa in comune con il verbo “ascoltare”?* Non posso più esimermi dall’ascoltare. Dietro di me
sta seduta una giovane coppia di sposi — due settimane ai Caraibi — che parlano annoiati tra loro.
Lui cerca di farle capire come va il mondo e lei, coscienziosamente, pone domande. Davanti a me ci
sono tre giovani — tre settimane in Florida — e la conversazione verte sui prezzi, sulla qualità del
cibo, sulla potenza dei motoscafi, sul costo del viaggio, sui soggiorni precedenti e su quelli a venire.
Non voglio dire che gli americani parlerebbero di cose diverse; anzi, forse si inventerebbero
argomenti peggiori ma in ogni caso potrei scegliere se ascoltare o no e, almeno, compiacermi di
comprendere una lingua straniera.
Naturale che gli svizzeri mi irritino! Mi tengono sveglio per otto ore e io ascolto, ascolto, ascolto e
non posso che provare un senso di appartenenza.
La prima manifestazione sportiva che, una volta in Svizzera, andrò a vedere sarà una partita in
trasferta del E C. Solothurn. “Noi” vinciamo (è una partita importante) e quel “noi” mi fa davvero
piacere: ora posso tornare a dire la mia rapidamente e senza ingarbugliarmi, fare stupide
osservazioni o commenti a regola d’arte; ho di nuovo un’identità. Non ho più bisogno di stare a
formulare ciò che mi salta in mente; è sufficiente che apra la bocca e le parole escono da sole,
veloci. E' bello poter discutere. Riprenderò ad andare alle partite — seguirle in versione inglese mi
diverte meno.
Ma anche essere stranieri è bello. Dà l’illusione di essere se stessi. Si parla di più tra sé e sé in una
lingua straniera e in un paese lontano. E a qualsiasi domanda, si risponde in modo estremamente
semplice e lineare; questo mi stupisce perché mi accorgo che la risposta semplice è spesso più
efficace di quella articolata, di quella che tenterei di dare nella mia lingua. Eppure una risposta di
questo tipo mi risulta estranea e anch’io inizio a prendere le distanze da me stesso e a osservarmi.
«Com’è andata?» mi chiede la gente. «Devi aver visto un sacco di cose».
«Amo New York» rispondo, e capisco che non mi comprendono. Avrei dovuto dire: «Non ho visto
altro che me stesso».
Me la prendo con i turisti dell’aereo perché, pur avendo soggiornato in un paese straniero, non sono
diventati stranieri.
New York mi permette di essere straniero, per questo mi piace. Ciononostante tremo per l’F. C.
Solothurn e quando il mio amico Egon cerca di decifrare il testo stampato sul mio pacchetto di
sigarette americane, gli chiedo: «Te lo devo tradurre?» «No,» risponde «altrimenti non sarebbe più
inglese». Egon sì che mi capisce.
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* In tedesco il verbo appartenere (gehören) e il verbo ascoltare (hören) hanno la medesima radice.
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Il Grande Evento
La mia agenda elettronica, che ha tutta l’aria di essere molto pratica (in realtà sembra più un
giochino elettronico), offre una vasta gamma di opzioni per memorizzare i dati, mettendomi spesso
in difficoltà. Tutte le volte che voglio annotare qualcosa devo stabilire se si tratta di un
“promemoria del giorno”, di un “appuntamento” o di una “ricorrenza”. Compare anche la voce
“evento”, ma che cos’è propriamente un “evento”? Il mio quarantacinquesimo di matrimonio è un
anniversario o un evento? Ho fatto male a registrare (ordinatamente), le partite della “mia” squadra
di calcio e le tappe della “Vuelta” sotto “eventi?” Adesso compaiono sul display in diversi colori. I
colori si possono anche cambiare, selezionare e riselezionare a volontà. A ben guardare, l’ultima
partita della “mia” squadra non è stata proprio un successo. Allora, ricominciamo da capo: sotto la
voce eventi ci vanno d’ora in poi solo gli eventi veri e propri.
Uno di questi, e qui non ho avuto esitazioni, è registrato nella mia agenda già da due anni. L’avevo
letto da qualche parte: 11 agosto 1999, eclissi solare. Un evento a regola d’arte che, nel frattempo, si
è verificato. E' qualcosa di raro, per questo si chiama evento. L’alba e il tramonto sono fenomeni
meravigliosi ma non sono eventi perché si ripetono di continuo.
Così da due anni a questa parte, quasi ogni giorno, la mia agenda stava lì a ricordarmi che
nell’agosto 1999 avremmo assistito a un’eclissi solare. Giornali, televisione, radio, avrebbero fatto
il resto spiegandomi il fenomeno fino alla nausea: il disco della luna (luna nuova, si intende) si
porta davanti al sole e, ciò che resta, ovvero la corona solare, risulta di grandissimo interesse
scientifico; per questa eclissi ero eccitato come per un concerto dei Rolling Stones. Siccome
un’eclissi di sole totale, (o quasi totale) è davvero rara, diventa per forza un evento; e ogni evento
— non ci si può far nulla — appartiene ai media. Se un’eclissi totale è qualcosa di straordinario,
deve aver luogo in diretta, in televisione.
Non ho seguito il fenomeno quando è andato in onda, ma successivamente. Un amico l’aveva
registrato, avvertendomi di non aspettarmi un gran che. Non aveva torto ma mi è capitato raramente
di guardare con tanto interesse una trasmissione televisiva in grande stile. Questa volta però il
mezzo televisivo, che di solito manovra tutto e tutti, ha tentato di descrivere con immagini e parole
un fatto per nulla descrivibile. Per fortuna è piovuto quasi dappertutto; giusto il tempo per un paio
di battute e tutto è diventato prima buio e poi di nuovo chiaro. Hanno intervistato alcune persone:
«Lei arriva da Basilea. Perché?»
«Per vedere l’eclissi».
«Aha!»
Stoccarda: «Grande atmosfera da queste parti!»
No, non godevo per i modesti risultati del programma televisivo, ma perché esistono ancora
fenomeni che restano indescrivibili, e questo mi rende felice. (Per colmare le numerose pause, lo
scienziato fa transitare per l’ennesima volta una luna finta — ma nuova — davanti al sole:
interessante).
Forse l’eclissi di quest’anno è stato l’unico avvenimento della seconda metà del secolo a non essere
adatto alla TV; forse addirittura l’ultimo in grado di sfuggirle. La televisione è sempre la stessa, è la
televisione delle gare musicali o di una scalata sul Matterhorn; televisione, infotainting. E' stato
l’evento stesso, raro e incredibile, a ribellarsi: «Ci colleghiamo ora con il nostro giornalista in
Scozia; Franz, ti vedo a malapena».
Il fenomeno in sé, però, mi ha realmente sorpreso e colpito. Stavo seduto in giardino, era
mezzogiorno: forte nuvolosità, niente sole. Poi, per un attimo, uno spicchio di sole è apparso da
dietro le nuvole; bello, ma non quanto la falce della luna nella notte. Poco prima del massimo
oscuramento gli uccelli, i passeri e anche i miei vicini di casa hanno cominciato ad agitarsi. Un
minuto dopo invece, ogni cosa era immobile e silenziosa, vicinato compreso. (Rispetto a Stoccarda
e alla televisione, qui mancava il buon umore). Il culmine dell’eclissi è durato pochi secondi. Gli
uccelli hanno ricominciato a cinguettare, avevano capito che stava diventando di nuovo chiaro,
sempre più chiaro, che tornava il giorno. Adesso le nubi erano scarse, c’era il sole, un giorno nuovo.
Che emozione. Sono rimasto in silenzio per diverso tempo. Ma cosa avevo vissuto esattamente?
Dopo molti, molti anni avevo prestato ancora attenzione al buio, all’alba, al sorgere del sole. E' una
cosa che mi ha sconvolto.
Spero di prestare attenzione, di nuovo, a un’alba o a un tramonto. Perché l’eclissi è stata una
esperienza profonda che mi ha messo di fronte alla mia incapacità di sentire. Incapacità che
aumenta forse proprio perché facciamo caso solo agli eventi, agli eventi secolari.
E un’alba non lo è.
Farsi pubblicità
Anch’io mi sono spaventato due settimane fa, quando ho visto per la prima volta il nuovo
telegiornale. Credevo di aver sbagliato canale, fino a che non è apparso in un angolo dello schermo
il logo di un frigorifero che, guarda caso, è proprio il frigorifero pubblicizzato su quel canale
all’inizio di ogni programma. Mi sorprendo notando quanto possa essere conservatore: sulle prime
mi sono irritato. Il nuovo telegiornale mi sembrava orribile; poi non ci ho più fatto caso. Credo che
non mi accorgerei neanche se, all’improvviso, lo mandassero di nuovo in onda seguendo la vecchia
formula. Due cose ridicole vengono trasmesse assieme: le previsioni del tempo e la pubblicità dello
sponsor. Beata la ditta che se lo può permettere. E' pur vero però che quelli che non sono soddisfatti
del tempo possono sempre vendicarsi boicottando i prodotti che lo sponsorizzano.
Ovviamente, quel che viene offerto allo spettatore è ben altro che un telegiornale all’avanguardia. Si
finge che la pubblicità sia un elemento indispensabile per realizzare un telegiornale davvero
innovativo e straordinario, e c’è da temere che sia effettivamente così.
Non ho niente contro la pubblicità. Certe volte, alla radio DRS, ne sento persino la mancanza. Ma
sono contro l’inganno che mette in atto; come se la ditta tal dei tali avesse a cuore le condizioni
meteorologiche, come se fosse volta seriamente a migliorare i suoi prodotti, o avesse davvero
qualcosa a che fare con loro. E' vero che adesso si può reclamizzare qualunque cosa: concerti jazz,
l’opera, persino un congresso contro la pubblicità; ma non è la stessa cosa perché tutte queste
manifestazioni, per quanto belle, senza sponsor non potrebbero esistere. Il tempo e le sue previsioni,
invece, sì.
Ecco, ci risiamo, ancora una volta il bersaglio è la modernità. Si è tentato finalmente di fare
qualcosa di moderno e come al solito gli strenui sostenitori del passato si oppongono. Penso a
quegli uomini zelanti e intelligenti che, nel corso di interminabili riunioni e notti insonni, hanno
dato vita a tutto ciò: una grande idea, un’idea di telegiornale davvero brillante e innovativa che il
primo giorno spaventa un po’ ma che già il secondo non sorprende più nessuno, ideatori inclusi.
No, non servono tanti soldi per realizzare questo telegiornale modello né per organizzare le
riunioni: specie se servono soltanto per discutere dell’apparenza. La televisione, proprio come una
ragazzina bella e povera, ha in mente solo la moda. E questo nuovo telegiornale ha lo stesso valore
di un abito nuovo. Chi ha la testa vuota, pensa ai vestiti.
C’era una volta un imperatore che aveva un sarto. Arrivò un bambino e gridò: «L’imperatore è
nudo».
Comunque sia, il telegiornale svizzero continua a piacermi, oggi come un tempo. Tutto però si può
migliorare. Perché non il telegiornale? È una spina nel fianco dei suoi creatori? Devono renderlo
brutto?
Mi ricordo di quando nel 1955 siamo usciti dalla scuola magistrale e abbiamo cominciato a
insegnare. Naturalmente eravamo convinti di essere insegnanti speciali e quindi dovevamo fare le
cose a modo nostro. Abbiamo disposto i banchi in cerchio invece che in fila; nessuno a quel punto
avrebbe più dubitato della nostra modernità e singolarità. Quando uno ha la testa vuota, gli viene in
mente l’estetica. Del resto anche quella era una forma di pubblicità. Facevamo pubblicità a noi
stessi.
Tradimento
Dogg lo incontro raramente e per caso, ma quando lo vedo, sono contento. Per me rimane sempre
un modello. Eppure non so più niente di lui, cosa pensi, cosa difenda, cosa ami e cosa no. Mi fa i
complimenti per qualcosa che ho scritto e questo mi riempie di orgoglio. Mi saluta con la mano
sinistra, e io mi imbarazzo.
Un tempo Dogg era il mio capo scout. Per essere uno scout, ero un po’ troppo lento, troppo goffo e
impacciato. Motivo in più per abbracciare l’ideologia. Ero bravo nella parte teorica, imparare a
memoria le leggi e la fede degli scout. Conoscevo la biografia di Baden Powell. E sapevo (eravamo
nel 1948, tre anni dopo la guerra) che noi scout, nel caso in cui fosse scoppiata una guerra, saremmo
stati arruolati come portaordini. Se per questo speravo in una guerra? Certo che no. In quanto scout,
però, ero un ardente patriota, e mi piaceva l’idea di dover diventare un soldato, uno che, in più, ne
sa già qualcosa. Nelle cose pratiche ero proprio una frana, ma l’ideologia mi piaceva. Almeno davo
ai miei compagni la possibilità di mettere in atto uno dei principi base degli scout, quello che
impone al più forte di proteggere il più debole. Erano contenti e orgogliosi di dovermi trascinare,
durante le gare cantonali, lungo tutto il percorso.
Dogg era un capo scout fantastico. Anche oggi, come allora, mi dà la mano sinistra e io mi
imbarazzo. Non oso dirgli che sono uscito dall’organizzazione da molto tempo; quarantasei anni fa,
all’età di quattordici anni. Un sabato qualunque ho preferito una gita con mio padre. Se quel giorno
sapevo già che ne sarei uscito per sempre? Sicuro. Perché uno scout è sempre fedele e un’assenza
ingiustificata significa tradire. E il tradimento, per quanto inevitabile e comprensibile, penetra nelle
ossa. No, non sono più uno scout e quel credo non mi appartiene più da moltissimo tempo. Ma gli
sono riconoscente; sono contento di essergli stato fedele per due anni e anche di averlo tradito. Però
il coraggio di dire a Dogg che non sono più uno dei suoi, proprio non ce l’ho.
Domenica scorsa, a una festa in piazza, ho rincontrato Ida. Mi si è avvicinata, mi ha salutato
raggiante, mi ha chiesto se l’avessi riconosciuta; a dire il vero sulle prime no, ma poi sì, con enorme
piacere. Ida era stata la guida del nostro gruppo giovanile nella croce blu. Io ero un ragazzino di
dieci, undici, quattordici anni e un convinto astemio; adoravo Ida, ho imparato moltissimo da lei.
Mi ha insegnato soprattutto ad avere una convinzione. Adesso mi ritrova qui mentre bevo vino
rosso, e sa perfettamente che da allora ne bevo volentieri; ma so che le ha fatto ugualmente piacere
rivedermi. Anche se per me aveva in mente altro, le devo molto. Ho avuto la sensazione che sia
comprensiva nei miei confronti, persino più di quanto lo sia io stesso, perché il ricordo del
tradimento non si cancella, si infila nelle ossa.
Eppure, nell’immaginario comune, abbandonare qualcosa equivale spesso a liberarsene: liberarsi
dai voti degli scout o della croce blu. Invece resta il dolore, il dolore della separazione. Il tradimento
lascia cicatrici. Cicatrici che mi fanno sempre venire in mente Dogg e Ida. Un tempo li ho lasciati
per assumermi da solo le mie responsabilità, per poter riflettere da solo sul ruolo dei portaordini.
Non è stata una liberazione. La vergogna mi ha fatto pensare, ripensare, cambiare di nuovo idea.
Questo ho imparato da Dogg e Ida, loro malgrado, ed è per questo che li ringrazio. Fossi ancora uno
scout o un astemio convinto, avrei dimenticato entrambi.
La Freccia Rossa
Nella vetrina di un negozio di giocattoli ho visto una “Freccia Rossa”. L’ho guardata a lungo e mi è
sembrato che io e lei, in qualche modo, avessimo un legame; mi sarebbe piaciuto fermare i passanti
e dire: «Guardate, una Freccia Rossa!»
L’avrei indicata, e loro avrebbero visto una locomotrice con due eleganti spuntoni, uno davanti e
uno dietro; probabilmente ai più giovani non sarebbe sembrata altro che una vecchia locomotrice
per appassionati di modellismo.
Per me invece continua a essere non una qualsiasi Freccia Rossa, ma la Freccia Rossa.
Da bambino, a scuola, se qualcuno esclamava «Ho visto la Freccia Rossa!» era invidiato da tutti i
compagni. A Olten, dove sono cresciuto, spesso circolava voce che l’indomani mattina alle cinque,
dalla stazione sarebbe passata la Freccia Rossa e noi andavamo lì, senza vederla mai. Che a Olten
potesse addirittura fermarsi, non osavamo neanche pensarlo.
Avevo uno zio a Winterthur, zio Jules, faceva il regista e ogni tanto trascorrevo le vacanze da lui.
Qualche volta oscurava le finestre, invitava i bambini del vicinato, e proiettava dei film: noiosi
documentari in bianco e nero senza audio, ma pur sempre film, come quelli che davano al cinema,
dove ancora non ci lasciavano andare.
Uno in particolare diventò per noi un cult: aveva per soggetto la Freccia Rossa. Per tutto il tempo
non si vedeva altro che la Freccia Rossa passare. Mio zio era molto orgoglioso di essere riuscito a
“beccarla” così tante volte; per riprenderla stava in agguato come uno zoologo di fronte a un
esemplare rarissimo.
Dalla stazione di Olten, dopo la guerra, a bordo della Freccia Rossa è passato Churchill. Churchill
non l’abbiamo visto, ma la Freccia Rossa sì.
Molto tempo dopo, avevo trent’anni, mi capitò di accompagnare la mia classe in gita scolastica. Per
andare a Liestal dovevamo cambiare a Olten. Fu lì, alla stazione, che vidi di nuovo la vera Freccia
Rossa; e questa volta potevo persino viaggiarci sopra, nonostante il suo aspetto un po’ malandato.
Credo di essermi reso piuttosto ridicolo davanti ai miei alunni. Camminavo avanti e indietro per il
vagone dicendo: «La Freccia Rossa, la Freccia Rossa» e cercavo di raccontare loro la faccenda di
Churcill e dello zio Jules, ma non serviva a niente; per loro quel treno era un mezzo di trasporto
come un altro e il mio entusiasmo cadeva nel vuoto.
No, non erano i tempi a essere cambiati, ma soltanto gli slogan: lo slogan “la Freccia Rossa” non
aveva più alcun significato, non esisteva più.
«Era da tanto tempo che non capitavo alle riunioni del nostro circolo, ma una volta ero un assiduo
frequentatore e così ci sono tornato,» mi ha raccontato di recente un amico, «i vecchi stavano seduti
e ricordavano i tempi andati, i tempi rispettabili, il presidente parlava di tradizione e impegno, e i
giovani erano seduti lì senza capire niente».
Nessuno, né i vecchi né tantomeno i giovani, sembrava soddisfatto.
Eppure i giovani continuano a fare le stesse cose dei vecchi, suonano nella banda con entusiasmo e
impegno.
Ai vecchi però questo non basta; mancano gli slogan di una volta, i nomi, le virtù. Hugo Koblet o
Leo Amberg, il ristorante Helvetia, il presidente Taldeitali e la Freccia Rossa, ormai non dicono più
niente a nessuno.
D’altra parte, è da migliaia di anni che ce la prendiamo con i giovani e affermiamo che non
riconoscono più i valori autentici.
Che somari!
Da qualche parte in Svizzera c’è un alunno spagnolo delle elementari, seduto in penultima fila; non
è un bravo alunno. La ragione dei suoi insuccessi è molto semplice: ha difficoltà con il tedesco, ciò
significa che ha difficoltà con le lingue straniere.
In realtà, con le lingue straniere non ha alcun problema; nessuno della sua classe, maestro incluso, è
in grado di parlare e capire quattro o cinque lingue come lui; ma noi continuiamo a credere che non
vada bene a scuola perché fa fatica ad apprendere le lingue straniere.
I suoi genitori vengono dalla Galizia, nella Spagna del Nord, e parlano una lingua diversa dallo
spagnolo, il galiziano appunto. Questa è la lingua che sente parlare in casa. Prima di arrivare in
Svizzera però, a sette anni, è andato per un anno alla scuola materna e lì ha appreso lo spagnolo. In
Svizzera poi, per strada, ha imparato lo svizzero tedesco, senza alcuna inflessione, proprio come
uno svizzero vero; la scuola svizzera infine gli ha insegnato il tedesco scritto. Si aggiunga che,
siccome da noi non esiste né una televisione galiziana né una spagnola, guardava sempre la
televisione italiana, ed è in questo modo che ha imparato la sua quinta lingua e ora la parla
perfettamente.
Non conosco questo alunno. Non so nemmeno dove vada a scuola.
So soltanto che esiste e che ce ne sono molti altri come lui in Svizzera: alunni che sanno cinque
lingue e che, malgrado ciò, non vanno bene a scuola.
Sono stato per una settimana all’università di Salamanca, in Spagna, e ho avuto a che fare con
germanisti spagnoli e con studenti di germanistica. E' stato un soggiorno bellissimo, e mi ha colpito
il buon tedesco degli studenti.
Durante l’intervallo mi è persino capitato di parlare con ragazzi che conoscevano perfettamente lo
svizzero tedesco, e precisamente lo svizzero tedesco dell’Aargau, della Svizzera Orientale; lo si
capiva perfettamente dall’accento.
Era una situazione alquanto singolare. Ragazzi spagnoli parlavano lo svizzero tedesco come lingua
straniera e, dato che in questo modo potevano comunicare con me più facilmente di quanti
parlavano il tedesco normale, era come se stessimo usando una lingua segreta.
Manuel, a questo proposito, mi ha detto: «Sai, anche lo spagnolo è una lingua straniera per me, io
vengo dalla Galizia, a casa mia nell’Aargau parlavamo soltanto galiziano, e alla televisione sentivo
parlare italiano. Il mio spagnolo, a quei tempi, non era davvero un gran che».
Manuel ha concluso gli studi di germanistica all’università e attualmente sta lavorando alla sua tesi
di dottorato. E' una persona interessante, ha vissuto in mondi diversi utilizzando lingue diverse. Di
questo mondo, conosce più cose di me. Ma nella scuola svizzera, a differenza di me, è sempre stato
considerato uno studente scarso.
Cerco di indurlo a lamentarsi, ad arrabbiarsi, ma lui non lo fa.
Sono convinto che se avesse compiuto il suo ciclo di studi in Svizzera, sarebbe diventato un
manovale, sarebbe per sempre rimasto uno “stupido” spagnolo, e, cosa peggiore, avrebbe finito per
crederci davvero. Di certo la via per accedere all’università svizzera non l’avrebbe trovata.
Nessuno ne ha colpa, probabilmente neanche il suo maestro svizzero.
In una università spagnola invece ce l’ha fatta e per giunta usando una lingua che non è la sua.
Non voglio accusare scuole e insegnanti, molto probabilmente succede così e basta; una carriera
scolastica è sempre qualcosa di casuale. E' fortunato chi riesce a trovare un insegnante convinto
delle doti del proprio alunno. Io l’ho avuta questa fortuna, mentre Manuel se l’è dovuta conquistare
a fatica, facendo un po’ di tutto, anche il manovale.
E all’improvviso mi accorgo che è strano quanto poco si tenga in considerazione, nella nostra
scuola, la vivacità culturale, quanto poco importi che l’alunno della penultima fila parli
correntemente cinque lingue. E accade proprio in un paese così orgoglioso della propria
molteplicità, in un paese molto piccolo però, in cui un bambino che si trasferisce anche solo di
pochi chilometri rischia di vedere compromessa per sempre la sua carriera scolastica.
Niente da fare, la scuola ha ben altro per la testa che valutare l’effettivo patrimonio culturale dei
suoi studenti.
Siamo contemporanei?
Anche se non è passato poi tanto tempo, il giornale del 15 febbraio 1993 lo leggo solo adesso, per
caso. L’uomo dal pugno di ferro d’Algeria ha subito un attentato. Russia e Stati Uniti presentano
l’armonia della Bosnia. Ma che cos’è l’armonia della Bosnia? Si legge inoltre: «Grande affluenza
alle votazioni in Nigeria», «Successo del compromesso sui deportati in Israele». Per un puro caso,
in questo numero, in cronaca, non si parla dei curdi, del Sudan, della fame nel mondo, della
disoccupazione (davvero strano).
Eppure leggo queste notizie con la consapevolezza che la disoccupazione esiste, che in Bosnia c’è
la guerra, che nel mondo si soffre la fame. Leggere il giornale del 15 febbraio mi annoia. Non è
accaduto niente di vero e nemmeno i campionati mondiali di sci riescono a catturare la mia
attenzione.
Mi correggo, nella cronaca locale i curdi sono menzionati: «Anche questo sabato pomeriggio nel
centro di Zurigo c’è stata una manifestazione.
Questa volta erano a malapena un migliaio tra curdi e curde». L’espressione “questa volta” rimanda
implicitamente a un altro avverbio noioso: “continuamente”. La noia diventa il vero argomento a
discapito dell’attualità. Lo sanno tutti che il 14 febbraio in Bosnia ci sono stati dei morti e che lo
stesso giorno qualcuno ha sofferto la fame (e non solo lì). Queste notizie ci annoiano perché le
sappiamo già e quando qualcosa diventa usuale, la noia è inevitabile.
Leggo il giornale del 15 febbraio e ho l’impressione che il mondo, complessivamente, sia a posto,
che si lasci tranquillamente disporre, lettera dopo lettera, su una pagina di giornale. E se qualcuno
tra cinquant’anni prenderà in mano questa pagina, avrà l’impressione che quel giorno, il 15.2.93, il
mondo fosse più o meno in ordine. Sappiamo tutti che questo non è vero e proprio perché lo
sappiamo, il giornale non deve continuamente ricordarcelo. Io non ce l’ho con il giornale; mi dà
molto più fastidio il fatto che sempre, con un giornale tra le mani, mi annoio.
Chiunque leggerà tra cinquant’anni queste notizie, le archivierà insieme a tutte le cose della nostra
epoca, che sono diventate storia. E nessuno sa se il 15.2.93 diventerà storia. Se ogni lunedì
diventasse storia credo proprio che il lettore del futuro sarebbe deluso di non poterla trovare sul
giornale corrispondente (il suo concetto di noia potrebbe essere molto diverso dal nostro). Nel
Diario di Ennio Fiatano c’è questa frase bellissima e pungente: «E i miei viaggi in Cina sono
davvero poca cosa se li confronto a quei passi a tentoni nel buio, dal letto alla cucina, in cerca di un
bicchier d’acqua».
Non intendeva essere cinico. Intendeva dire che il mondo reale risiede nelle piccole cose, non nelle
grandi, nell’esotico o nell’insolito.
Ma diventa cinismo se, per esempio, ho un terribile dolore al braccio, non riesco a dormire, trovo un
vecchio giornale e, annoiato e dolorante, gli do una scorsa. E “dolore” è comunque una parola
grossa a confronto con il dolore del mondo. Ma il braccio fa davvero male e, guarda caso, a me.
Adesso è il turno della domanda sulla contemporaneità: siamo contemporanei? Viviamo con ciò che
accade nel nostro tempo? Saremmo in grado di dare informazioni a degli ipotetici futuri curiosi su
ciò che effettivamente accade nell’epoca in cui viviamo? Ciò che succede a proposito dei curdi,
degli iracheni, del Sudan, dell’Algeria, di Iseraele e dei palestinesi, della disoccupazione e della
recessione?
No che non saremmo in grado. Le nostre informazioni avrebbero meno valore di quelle contenute in
un qualunque libro di storia. Leggendo il giornale del 15 febbraio 1993 mi rendo conto che non mi
vuole neppure fornire le notizie antecedenti a un paio di giorni fa. Questo non ha niente a che fare
con la cosiddetta frenesia dei nostri tempi o con la qualità del giornale ma solo ed esclusivamente
con me. Dopotutto devo vivere anch’io e il braccio mi fa male.
No, io non sono un contemporaneo. Ma se mai arriverò a ottant’anni sono convinto che anch’io
affermerò di esserlo stato. Il fatto è che purtroppo qualcuno mi crederà.
I veri clown
Una delle prime parole di Nora è stata la parola “goln”. Non sapeva ancora costruire delle frasi, ma
quando vedeva un “goln” lo additava subito, riusciva a distinguerlo dalle altre persone, ed era tutta
contenta se le capitava di vederne uno su un manifesto o su una fotografia.
“Goln” era il suo modo per dire clown e, anche se la parola “gloon” sarebbe stata più semplice da
pronunciare, insisteva con “goln” e amava i golni senza averli mai visti in azione.
Non rideva quando ne vedeva uno, era semplicemente contenta; era contenta di averlo riconosciuto,
e si stupiva di come fosse diverso rispetto alla gente comune.
Allora avevo la sensazione che i golni fossero qualcosa di diverso dai clown, e alcuni per me
rimarranno sempre e solo golni; mi riferisco a Stanlio e Olio, per esempio, o a Buster Keaton,
Charlie Rivel; per me ormai “goln” è il distintivo di un particolare tipo di persona.
Nora, ed è una cosa che mi sorprende, riusciva a distinguere i golni dalle persone “normali” senza
esitazioni: sia i clown truccati, sia quelli senza trucco come Charlie Chaplin. E tutto ciò, per così
dire, senza parlare, senza formulare frasi, senza indicazioni; solo con la parola “goln”.
Mi piacerebbe sapere come fanno i bambini piccoli a distinguere il comune dallo straordinario.
Perché si riesce a farli ridere con qualche capriola? Perché riconoscono immediatamente ciò che
non è normale? E perché lo amano?
Poi Nora è cresciuta, ed è stata più volte al circo. Ha imparato che i golni in realtà si chiamano
clown, li ha visti esibirsi e ha anche vissuto con loro delle brutte esperienze. Una volta, infatti, un
clown ha sparato in aria con un fucile. Nora se l’è legata al dito e adesso il commento più positivo
che può fare all’uscita dal circo è: «I clown non hanno sparato» oppure: «Il clown piccolo, quello
dispettoso che spara sempre, stavolta non c’era».
Ma è contenta che esistano, anche se una volta uno di loro l’ha delusa.
Poco tempo fa, al circo, ha assistito a uno spettacolo interpretato da soli bambini. Le è piaciuto
molto, e quando le ho domandato se c’erano anche i clown, mi ha risposto: «Non clown veri,
soltanto bambini truccati da clown che facevano finta di essere clown»; quando le ho chiesto se
facevano ridere, mi ha detto: «Sì, facevano ridere, come veri clown».
Nella sua mente, i veri clown non sono truccati, eppure sono persone particolari; forse proprio
quelle persone che si truccano.
E all’improvviso, dopo tanto tempo, mi sono ricordato che anche per me, da bambino, i clown
erano persone vere e proprie, completamente diverse dalle altre, persone alternative; erano la
speranza che le persone potessero essere diverse, in questo caso, per esempio, un po’ sciocche.
Strano, appena si conosce un po’ più da vicino la gente, la si vorrebbe subito diversa,
completamente diversa, si vorrebbe che non rappresentasse una minaccia ma una speranza, anche se
qualcuno, un piccolo dispettoso, si comporta male e spara con un fucile. Nora non glielo perdonerà
mai, per tutta la vita (ce l’ha solo con lui però, non con tutti gli altri clown).
A questo punto si potrebbe dare il via alle solite considerazioni sul razzismo degli adulti. Ma
lasciamo stare. Molto probabilmente l’odio che abbiamo per il diverso è un odio acquisito; abbiamo
perso il piacere della diversità, dell’essere diversi, ecco tutto.
Una volta, mentre alla stazione stavano scaricando dal treno gli animali di un circo, un bimbo di tre
anni commentava la situazione con entusiasmo. Conosceva gli animali uno per uno, i cavalli, gli
elefanti, il rinoceronte, ed era felice di riconoscerli. Se ne impossessava tramite il loro nome, gli
appartenevano; ora erano tutti suoi.
Ma all’improvviso, in sella a un cavallo, dalla carrozza scende una donna piccolissima, una nana;
osservando la scena il piccolo grida: «Io lo so cos’è, io lo so cos’è; questo è un clown, un vero
clown».
E ormai parlava soltanto del vero clown che aveva visto, mentre i veri elefanti e i veri rinoceronti
non contavano più.
«Vedi,» diceva alla madre, «questo è un clown vero, non ha nemmeno un naso finto».
Armarsi d’orgoglio
«Sii orgoglioso di essere tedesco» mi dice uno al bar qui a New York, dopo avere riconosciuto il
mio accento, e siccome si rende conto che rispondere in una lingua straniera può creare un certo
imbarazzo, si affretta ad aggiungere: «Io sono orgoglioso di essere italiano, italiano al cento per
cento, terza generazione, non siciliano».
Suo nonno, dice, veniva dalla Calabria, nell’Italia Centrale. Cerco di spiegargli dove si trova di fatto
la Calabria. «Sì sì, sulla punta» dice lui, «e la punta è nel centro dell’Italia». Vuole evitare a tutti i
costi di essere scambiato per un siciliano, e così sposta le sue origini all’altezza di Roma.
«Sii orgoglioso di essere tedesco» e, dato che non lo sono, la cosa mi imbarazza doppiamente. Che
fare ora, dirgli che sono svizzero? E' un po’ la stessa cosa, un “italiano del centro Italia” non è
affatto un siciliano. Dovrei essere orgoglioso anch’io di non appartenere agli altri, di non essere
nero o spagnolo, di non appartenere agli altri ma ai nostri?
Rinuncio a spiegarglielo nel mio inglese scarso e continuo a chiacchierare con lui, felice che mi dia
la possibilità di praticare un po’ la lingua. Ma se anche parlassi bene l’inglese, non cambierebbe
niente: per un americano bisogna per forza “essere orgogliosi di qualcosa”, qualsiasi cosa. Adesso,
in periodo pre-elettorale, l’espressione “essere orgoglioso di”, to be proud of, la si sente pronunciare
dai candidati di continuo.
In una scuola qui vicino, un quindicenne ha ammazzato due compagni. I giornali ne parlano ogni
giorno. I politici sono indignati. Il sindaco di colore tiene discorsi belli, pacati: «Non si tratta di
contrapporre la non violenza alla violenza, ma la non violenza alla non esistenza, alla morte». Gli
alunni di quella zona vanno a scuola armati. Hanno bisogno delle armi per difendersi, dicono,
probabilmente anche per sentirsi forti, è una questione di orgoglio. La città di New York adesso
vuole installare milioni di metal detector per assicurarsi che i ragazzi non entrino a scuola con delle
armi. E' spaventoso; occorre assolutamente fare qualcosa.
Di recente il Pentagono ha reso pubbliche le sette nuove zone a rischio di guerra (sette è un bel
numero; se proprio deve essere, allora sette): la Russia riconquista il Baltico e così via.
Chiaro, il Pentagono deve difendersi: ha perso un grande nemico e un grande fratello, l’Unione
Sovietica; cosa succederà adesso in un mondo senza difesa e senza ordine, visto che finora il
nemico in qualche modo ha concorso al mantenimento dell’ordine? Il nemico ha creato posti di
lavoro, ha fornito un motivo per essere orgogliosi del proprio potere e delle proprie armi, per potere
e per dover essere orgogliosi.
Anche un assassino di quindici anni probabilmente conosce la parola “orgoglio”, e sa che senza
potere si è vigliacchi e senza nemici non si è nessuno. L’orgoglio ferito porta all’autodifesa, anche
quando l’orgoglio ce lo si ferisce da sé. In ogni caso il colpevole è sempre l’altro; il nemico: lo
straniero, il profugo. Essere svizzeri significa, una volta per tutte, “non essere stranieri”.
Mi ricordo che una volta, il più alto ufficiale svizzero, una donna, ha dichiarato nel corso di
un’intervista che in un mondo senza guerre sarebbe la prima a essere favorevole all’abolizione
dell’esercito, e mi sono domandato perché dovesse essere proprio lei la prima, e non la seconda o la
terza o la ventesima.
Si sono mai figurati, in qualche Ministero della Difesa, cosa sarebbe successo nel caso in cui
l’Unione Sovietica si fosse disgregata, in quale stato si sarebbe trovato il mondo senza autodifesa?
Il quindicenne ha creduto di doversi difendere; e con questo non lo voglio giustificare. Eppure è
proprio il modo in cui si giustificano (quasi) tutte le nazioni del mondo che mettono armi nuove di
zecca in mano a bambini pronti ad armarsi.
Tra l’altro, che l’aumento della violenza tra i ragazzi delle scuole abbia a che fare con la droga, sta
diventando, almeno mi sembra, una scusa sempre più a buon mercato.
Libertà?
Rinchiudere le persone è una forma di tortura, in qualsiasi modo e in qualsiasi luogo avvenga, e
quando a scuola ci trattenevano in classe, non lo facevano per migliorare il nostro carattere, ma
soltanto per tormentarci e punirci.
La punizione è inevitabile, afferma un detto, come se a tutti ne toccasse una.
Quando, trentacinque anni fa, occupai la mia prima cattedra di insegnante, il mio predecessore mi
consigliò di picchiare ogni giorno uno degli alunni, altrimenti non sarei mai riuscito a controllare la
situazione. Gli domandai cosa avrei dovuto fare nel caso in cui nessuno si fosse comportato male;
spiegò: «Tutti prima o poi combinano qualcosa, non beccherai mai quello sbagliato».
Inutile dire che non ho mai picchiato nessuno e che ogni tanto ne facevano davvero di grosse. Il mio
ex collega li picchiava soltanto perché bisognava punire: la punizione è inevitabile.
Anche rinchiudere è una punizione. Da poco è stato liberato un intero popolo: la popolazione della
Germania Orientale; era arrivato un nuovo sovrintendente alle prigioni che era contro le prigioni:
Gorbaciov; poi il muro è caduto. Facile, no? Se uno è contro le prigioni, le prigioni spariscono.
Che ora i carcerati della Germania Orientale pensino di avere diritto all’amnistia, non appare così
astruso, dato che sono stati perseguibili per tutto il tempo dell’oppressione. Ora vogliono la libertà,
come tutti i carcerati.
Libertà, che parola strana.
È così facile da capire, da pronunciare, da immaginare. E' semplice dire che la libertà è il rispetto
reciproco di tutti per tutti.
Non è mai esistito uno Stato, a questo mondo, che si sia battuto per la non-libertà. Tutti gli Stati,
tutte le dittature si considerano paradisi di libertà.
Io ho la fortuna di vivere in uno Stato libero; talvolta arrivo persino a crederci, anche se so che tutti
i politici di tutti gli Stati non fanno che promettere libertà ai loro cittadini. Eppure, per esempio, mi
ritrovo a dover compilare questa maledetta dichiarazione dei redditi; capisco che lo si debba fare e
sono d’accordo, ma certo non è libertà. Devo inoltre prestare servizio in questa ridicola Protezione
Civile per difendere quella libertà che, in questo modo, mi viene tolta.
Sul serio, io sono per l’abolizione del termine libertà. In suo nome si sono compiuti e si continuano
a compiere crimini orrendi.
Nella mia vita sono già stato “rilasciato” molte volte. Mi sono illuso di ottenere la libertà quando ho
iniziato la scuola, quando ho ricevuto la cresima, quando sono diventato maggiorenne. Mi hanno
congedato dall’esercito a cinquant’anni (era ora) e finalmente sono un uomo libero.
Ma poi, in nome della libertà, è arrivato questo servizio civile, dove tutti sono gentili, dove tutto è
bello e per giunta si mangia bene.
Negli ultimi giorni non mi sono sentito per niente libero, perché ero oppresso dal maledetto
impegno di scrivere questi articoli di fondo. Certo, certo, lo faccio per mia scelta, lo faccio
volentieri. Capisco anche la storia delle tasse, dello Stato, quella dei doveri del cittadino; anche il
fatto che migliaia di scrivani riuniti in commissioni vengano importunati con la compilazione di
protocolli, lo capisco bene.
Soltanto, non mi va di chiamare tutto questo “libertà”.
Preferirei che si chiamasse comprensione sociale, comportamento sociale. Mi piacerebbe di più
vivere in uno stato sociale piuttosto che in uno libero.
Un tempo a Zurigo viveva un tizio che si faceva chiamare Lenin, e che da giovane ebbe l’idea di
eliminare lo Stato perché rendeva l’uomo schiavo. E poi pensò che fosse necessario uno Stato
autoritario per poter educare la gente a vivere senza Stato. Com’è finita lo sappiamo.
Mi è capitato di avere diversi contatti con dei carcerati. Conosco il loro rapporto con la libertà; è
l’idea assoluta di una libertà assoluta che non esiste. Chi è stato prigioniero non riuscirà più a vivere
in un clima di libertà relativa, e distruggerà non solo la libertà ma anche se stesso. Nell’Europa
“libera” stanno arrivando milioni di ex-prigionieri. E la nostra destra politica, gli esperti di
economia, esultano e tornano a parlare di libera economia di mercato. Una parola che da noi per
quarant’anni non esisteva quasi più. Appena un anno fa si diceva ancora economia sociale di
mercato.
L’inganno della libertà ha una nuova chance.
Della povertà
Erano in sette figli, vivevano da qualche parte nell’Aargau, il padre era morto ancora giovane, la
madre era una donna straordinaria che li aveva mantenuti facendo le pulizie in casa d’altri; in paese
non erano ben visti perché erano poveri. Eppure tutti e sette hanno imparato un mestiere e sono
riusciti a farsi una posizione.
Perché mi racconta tutto questo, lo sconosciuto del treno?
È stato lui a rivolgermi la parola. Ha già letto delle cose mie, da qualche parte, forse nello
“Schweizer Illustriert” e quindi sa che sono uno scrittore; probabilmente s’immagina, che ne so, che
mi piacciano le storie; e le storie, stranamente, sono sempre storie di povertà.
Non ho ancora incontrato nessuno su un treno che mi abbia parlato della sua infanzia ricca e agiata.
Le storie di povertà ce le hanno raccontate Tolstoj, Dostoevskij, Keller, Gotthelf e Johanna Spyri
con la sua Heidi; storie della vita dei poveri, così ricca, avventurosa, emozionante. Spesso gli
scrittori hanno parlato di povertà con intenti politici, per smuovere le coscienze, per richiamare
l’attenzione sulle ingiustizie sociali; eppure, dai loro racconti la povertà ne è uscita grande,
bellissima, pittoresca.
Ascolto volentieri il mio compagno di viaggio sul treno, che sa raccontare in modo così piacevole la
storia della sua giovinezza, senza prendersela con la gioventù di oggi, cresciuta nel benessere, che
non sa cosa significa essere poveri. E' orgoglioso di venire da una famiglia povera, e ciononostante
di avere una professione, una famiglia, dei figli ormai adulti, dei nipotini; è soddisfatto.
Parliamo anche di tante altre cose, e ci intendiamo bene.
Improvvisamente mi ritrovo a dire: «Mio padre era ferroviere»; voglio comunicargli che anch’io ho
un’origine simile alla sua, che anch’io provengo da gente semplice; il segnale di riconoscimento è
stato dato, proveniamo entrambi dallo stesso ceto sociale, siamo della stessa classe, veniamo da un
tempo in cui la povertà esisteva ancora.
Già mio padre era solito ricordarmi le sue origini umili; mio nonno, probabilmente, faceva lo stesso
con lui, e così faranno un giorno i nostri figli con i loro; tutti vogliono essere stati poveri. Tutti
vantano tra i loro avi un povero contadino montanaro, una povera operaia a cottimo, un povero
tessitore, e tutti ne vanno fieri.
Credo che questo sia un argomento tipicamente svizzero. Le storie del tempo di guerra e del
dopoguerra che mi raccontano gli amici tedeschi della mia stessa età sono diverse; meno
romantiche, meno suggestive. Certamente la letteratura ha contribuito a diffondere un modello
romantico di povertà.
Senz’altro è esistita davvero, un tempo, una Svizzera povera. Non dimentichiamoci che nel corso di
questo secolo la Svizzera è stata un paese di emigranti. E l’espressione “contadino montanaro”, solo
l’espressione non il contenuto, è un’immagine sentimentale. L’idea di una povertà romantica la
portiamo impressa dentro di noi. Tutto ciò impedisce qualsiasi confronto con la povertà che ci
circonda. Le immagini che abbiamo dei poveri di oggi non corrispondono a quelle descritte da
Johanna Spyri (favolosa scrittrice, piuttosto critica verso la società del suo tempo).
Il tossicodipendente non si presta a romanticismi. Il disoccupato sa bene che tutti lo ritengono
responsabile della sua condizione. La povertà, nella nostra ricca, straricca Svizzera, non la si riesce
più a immaginare. Esiste, certamente, lo sappiamo tutti, ma non restituisce un’immagine
affascinante. Non è più l’immagine che ci siamo fatti della nostra infanzia. Quindi li odiamo, i
poveri di oggi, perché distruggono la leggenda delle nostre origini, una vera e propria leggenda nel
mio caso, visto che, anche se i miei genitori non guadagnavano molto, non ho mai vissuto neanche
lontanamente la povertà. Ma in una ipotetica biografìa, un passato simile farebbe la sua figura, per
questo pronuncio con orgoglio la frase: «Mio padre era ferroviere».
Sogniamo tutti la Svizzera povera di una volta, che in realtà nessuno di noi vorrebbe più e che però,
per sentimentalismo, ci è diventata così cara.
E in un certo senso anch’io ho in mente una Svizzera povera; avevo davvero compagni di scuola
poveri, poveri in canna, e sapevo bene dove abitavano: nella città vecchia, per esempio, in case
fatiscenti, abitate oggi da gente facoltosa, case che con le loro ringhiere ristrutturate e verniciate
ricordano la povertà rustica di una volta.
Sì, c’erano i poveri, ed erano veramente poveri, ma avevano un loro posto.
Nella Svizzera ricca di oggi non c’è più posto per i poveri, nessuna possibilità, nessuna casa.
La povertà dei profughi, per esempio, è l’unica ragione per cui non trovano posto, qui da noi.
Il postino
Quand’ero bambino, con il nostro postino c’era ben poco da fare. A volte arrivava più tardi del
previsto, altre invece si presentava in anticipo. A ogni buon conto, lavorava senza orari fissi. La
posta, a quei tempi, veniva ancora recapitata due volte al giorno, così che lo si vedeva girare nel
nostro quartiere a tutte le ore. Chi voleva ricevere la posta anticipatamente, andava a cercarlo nella
strada vicina. Lui allora si sedeva su un muricciolo, respirava a fondo, rovistava nella sua borsa,
metteva tutto sottosopra e alla fine consegnava la posta all’interessato.
Tra parentesi, era una persona di riguardo. Portava la sua uniforme come un generale, e distribuiva
la posta come si trattasse di un favore personale. Sembrava che fosse lui a stabilire chi dovesse
ricevere una lettera, una cartolina, una diffida o un quotidiano. E non faceva ingiustizie; tutti, di
tanto in tanto, ricevevano qualcosa. Aveva una lunga barba bianca e l’andatura strascicata di Babbo
Natale, eppure non doveva essere così vecchio come lo ricordo.
Probabilmente era il modo con cui svolgeva il suo compito a farlo sembrare più anziano di quanto
non fosse in realtà; era una specie di messaggero degli dèi, e non dava Videa di uno che potesse
ritirare lettere dall’ufficio postale. Le lettere erano, per così dire, sue, e ogni tanto, per generosità,
era disposto a rinunciarvi e a recapitarle a un destinatario più o meno felice. Ed essendo molto
lento, passava tutta la giornata nel nostro quartiere, come un guardiano notturno mezzo
addormentato.
Tutto questo non succedeva in campagna, in un ambiente idilliaco. Accadeva in città, una città poco
accogliente come tante, con persone del tutto simili a quelle di qualsiasi altro luogo.
Non sarebbe neanche degno di nota, il nostro vecchio postino, se non fosse per una caratteristica
che mi è rimasta impressa: era un lettore appassionato. Dovunque andasse, leggeva.
Apriva il giornale, faceva qualche passo, si fermava, andava di nuovo verso la cassetta delle lettere,
finiva di leggere l’articolo lì davanti, ripiegava il giornale e lo imbucava.
Apriva le stampe non sigillate e leggeva i depliant; preferiva le cartoline solo perché i giornali
avevano un formato poco pratico. Leggeva, si fermava, scuoteva la testa per gli errori di ortografia,
si rallegrava per una buona notizia, e se la cartolina gli era piaciuta in modo particolare, non si
limitava a infilarla nella cassetta delle lettere, ma suonava il campanello, salutava educatamente e
diceva: «Sua sorella nel Canton Ticino sta benissimo, il tempo è splendido, e si è anche rimessa
completamente».
Immagino che se qualcuno si fosse lamentato di lui alla posta, avrebbe passato dei guai seri,
rischiato il licenziamento.
Ma nessuno lo ha mai fatto. Certo, si arrabbiavano tutti e a ragione, ma le cose stavano così, era
fatto così, e sono convinto che un postino vero e proprio non avrebbe mai potuto sostituirlo.
Il nostro postino mi è tornato in mente adesso, leggendo le mie schede, lui che leggeva le nostre
cartoline, pubblicamente, senza nascondersi, soffrendo con noi, rallegrandosi con noi. E aveva
persino il candore di comunicare ai destinatari il contenuto della loro posta. Ogni tanto si ha
bisogno di qualcuno che legga insieme a noi, e lui era un compagno attento.
Con lui, ne sono convinto, il segreto postale era in buone mani.
Adesso sappiamo tutti in quali mani si trovi, in quelle dei custodi ufficiali del segreto.
Quello che faceva il nostro postino era certamente illegale, anche se accettato. Era illegale come lo
sono gli intrighi della polizia di stato che, tra l’altro, non mi ha consegnato una copia delle mie
schede, ma un fotomontaggio, per giunta fatto male. Hanno eliminato di netto dieci anni che forse
potrebbero far luce sui controlli subiti da un mio amico, un personaggio famoso. Ma non ne voglio
sapere più niente. Ho perso il gusto di litigare con gente disonesta su questioni di legalità, con gente
che, oltre tutto, oggi parla di stato di diritto, quando, tra l’altro, c’è all’ordine del giorno la
sofferenza delle famiglie curde.
Chi li autorizza, tra parentesi, a recapitarmi le mie schede? Una disposizione del consiglio federale,
che peraltro nessuno ha votato.
Una disposizione simile si potrebbe anche accettare, senza che per questo lo stato di diritto venga
leso.
Quello che mi colpisce delle schede che ho guardato è l’odio, l’odio personale di piccoli e anonimi
impiegati statali.
Il nostro postino invece lo conoscevamo, ci voleva bene, e il suo spionaggio, in realtà, era fatto di
premura e partecipazione.