Sei sulla pagina 1di 64

Albert Schweitzer è nato a Kaysersberg Germania, 14 gennaio 1875 e morto

a Lambaréné ex Congo Belga, 4 settembre 1965) è stato un medico e


filantropo, musicista e musicologo, filosofo, biblista, pastore e missionario
luterano[1] franco-tedesco nato in Alsazia.

«Da questa chiesa aperta ai due culti ho ricavato un alto


insegnamento per la vita: la conciliazione [...] Le differenze tra le
Chiese sono destinate a scomparire. Già da bambino mi sembrava
bello che nel nostro paese cattolici e protestanti celebrassero le loro
feste nello stesso tempio».

La passione per la musica

Terminate le scuole medie, il giovane Albert s'iscrisse al liceo più vicino, a


Mulhouse, dove si trasferì, ospitato da due zii anziani e senza figli. Fu
proprio la zia che l'obbligò a studiare pianoforte. Al liceo Albert
Schweitzer ebbe come insegnante di musica Eugen Munch, famoso
organista a Mulhouse della chiesa di Santo Stefano, che gli fece conoscere
la musica di Bach. Fu presto chiaro sia a Munch, sia a Charles-Marie
Widor, noto organista della chiesa di Saint Sulpice di Parigi, che
Schweitzer conobbe nel 1893 durante un soggiorno nella capitale francese,
che il giovane Albert aveva un vero e proprio talento per l'organo. Dopo gli
studi classici e le lezioni di pianoforte, nell'ottobre del 1893 si trasferì a
Strasburgo per studiare teologia e filosofia. In questi anni si sviluppò la sua
passione smodata per la musica classica e, in particolare, per Bach. Per
quanto concerne lo studio della filosofia, fu assiduo frequentatore dei corsi
di Windelband riguardo alla filosofia antica e di Theobald Ziegler (che
sarà suo relatore di tesi) riguardo alla filosofia morale. Nel 1899 conseguì
la laurea con una tesi sul problema della religione affrontato da Kant e fu
nominato vicario presso la chiesa di San Nicola di Strasburgo. Nel 1902
ottenne la cattedra di teologia e, l'anno successivo, divenne preside della
facoltà e direttore del seminario teologico. Pubblicò varie opere sulla
musica (alcune su Bach), sulla teologia, approfondì i suoi studi sulla vita e
sul pensiero di Gesù Cristo, ed eseguì vari concerti in Europa.

La scelta di vita

Nel 1904, dopo aver letto un bollettino della Società missionaria di Parigi
che lamentava la mancanza di personale specializzato per svolgere il
lavoro di una missione in Gabon, zona settentrionale dell'allora Congo,
Albert sentì che era giunto il momento di dare il proprio contributo e, un
anno dopo, all'età di trent'anni, si iscrisse a Medicina, ottenendo nel 1911
(a trentotto anni) la sua seconda laurea, in medicina con specializzazione
in malattie tropicali.
Egli, che sin da piccolo aveva mostrato una spiccata sensibilità nei
confronti di ogni forma vivente, sentì come irresistibile il richiamo-
vocazione a spendere la sua vita a servizio dell'umanità più debole. Non fu
tuttavia facile, per l'organista e insegnante Schweitzer rinunciare a quella
che era stata la sua vita fino a quel momento: la musica e gli studi
filosofici e teologici. Schweitzer sapeva però di dover realizzare quanto si
era prefissato da vari anni. Scrive nel suo Aus meinem Leben und Denken
("La mia vita e il mio pensiero"):
«Il progetto che stavo per mettere in atto lo portavo in me già da
lungo tempo. La sua origine rimontava ai miei anni di studentato. Mi
riusciva incomprensibile che io potessi vivere una vita fortunata,
mentre vedevo intorno a me così tanti uomini afflitti da ansie e dolori
[...] Mi aggrediva il pensiero che questa fortuna non fosse una cosa
ovvia, ma che dovessi dare qualcosa in cambio [...] Quando mi
annunciai come studente al professor Fehling, allora decano della
Facoltà di Medicina, egli avrebbe preferito spedirmi dai suoi colleghi
di psichiatria.»

Schweitzer aveva le idee chiare anche sulla sua destinazione una volta
ottenuta la laurea in medicina: Lambaréné, una città del Gabon occidentale
in quella che era allora una provincia dell'Africa Equatoriale Francese. In
una lettera scritta al direttore della Società missionaria di Parigi, Alfred
Boegner – di cui l'anno prima aveva letto un articolo sulla drammatica
situazione delle popolazioni africane afflitte da lebbra e malattia del sonno,
bisognose di un'assistenza medica – Schweitzer spiegò la sua scelta:
«Qui molti mi possono sostituire anche meglio, laggiù gli uomini
mancano. Non posso più aprire i giornali missionari senza essere
preso da rimorsi. Questa sera ho pensato ancora a lungo, mi sono
esaminato sino al profondo del cuore e affermo che la mia decisione è
irrevocabile»

I missionari furono inizialmente scettici sull'interesse dimostrato dal noto


organista per l'Africa. La risposta di Schweitzer fu quella di impegnarsi a
raccogliere fondi per conto proprio, mobilitando amici e conoscenti e
tenendo concerti e conferenze per realizzare il sogno di costruire un
ospedale in Africa.
Imbarcatosi a Bordeaux sul piroscafo Europa, approda, il 16 aprile 1913, a
Port Gentil e, attraversando l'Ogooué, giunge sulla collina di Andende,
sede della missione evangelica parigina di Lambaréné, dove accolto dagli
indigeni appronta alla meglio il suo ambulatorio ricavato da un vecchio
pollaio, con una rudimentale ma efficace camera operatoria, cui venne
attribuito il suo stesso nome: Ospedale Schweitzer. Ad accompagnarlo in
questa sua avventura è una giovane donna di origine ebrea, Hélène
Bresslau, ormai diventata la moglie e la compagna di vita di Schweitzer,
che l'aveva conosciuta nel 1901 a una festa di nozze. Albert e Hélène si
erano sposati nel 1912, dopo che Hélène aveva ottenuto il diploma di
infermiera, conseguito per realizzare il sogno comune con il marito.
Cominciano ben presto ad arrivare ogni giorno almeno una quarantina di
pazienti. Albert ed Helene si trovano di fronte malattie di ogni genere
legate alla malnutrizione, così come alla mancanza di cure e medicinali:
elefantiasi, malaria, dissenteria, tubercolosi, tumori, malattia del sonno,
malattie mentali, lebbra. Per i lebbrosi, molto più tardi, nel 1953, coi
proventi del Nobel per la Pace

I primi anni in Africa e la deportazione


Quando nel 1913 il medico alsaziano si imbarcò finalmente per Lambaréné
con la moglie, accompagnato da numerose critiche da parte dei suoi
familiari, insieme alla settantina di casse e attrezzature varie destinate alla
costruzione del nuovo ospedale, egli portò con sé un pianoforte speciale,
dono della Società bachiana di Parigi, progettato per resistere all'umidità e
alle termiti africane. Fu questo il suo compagno di ogni giorno, lo
strumento sul quale continuò a studiare, alla luce di una lampada a
petrolio, nelle pause del lavoro e nel silenzio delle notti africane, quando
non era impegnato a scrivere i suoi testi di filosofia e le lettere agli amici.
Le giornate di Schweitzer passavano poi a curare le malattie (lebbra,
febbre gialla, ulcera tropicale, vaiolo...) che affliggevano la popolazione di
Lambaréné.
I suoi inizi nel cuore dell'Africa furono assai difficili: oltre a dover lottare
contro la natura che lo circondava, piogge torrenziali, animali feroci o
infidi come serpenti e coccodrilli, dovette vincere la diffidenza degli
indigeni prima, e poi la loro ignoranza. Non fu facile avvicinare gli
ammalati che si fidavano solo dei loro stregoni (con cui in seguito sviluppò
un rapporto di amicizia); le cure del medico bianco non erano da principio
ben accolte. La prima operazione di Schweitzer, su un trentenne nero,
colpito da un'ernia che gli stava andando in peritonite, si svolge infatti in
un clima surreale. Una volta che il paziente è stato sedato, Schweitzer, nel
silenzio della popolazione nera che seguiva l'operazione, si muove con
gesti precisi, conscio che se provocherà la morte di quell'uomo anche la
sua sorte sarebbe stata compromessa.[2] L'operazione, la prima di una
lunghissima serie, andrà a buon fine.
Poi, quando si riversarono a frotte nelle sue baracche per farsi curare, non
seguivano le istruzioni del medico bianco, a volte le pomate che dovevano
essere usate per la cura della pelle venivano mangiate, altre volte
ingoiavano in una volta sola un intero flacone di medicinale. Non era
facile trattare con gli indigeni, non era facile farsi capire, ma Schweitzer
non si diede mai per vinto; le difficoltà, le avversità, la mancanza di
alimenti o di medicinali non erano sufficienti per farlo arretrare.
Schweitzer costruì a poco a poco un villaggio indigeno, i malati vi
giungevano da ogni parte, spesso con le loro famiglie e tutti venivano
ugualmente accolti, le loro usanze rispettate e così le loro credenze. A
questo proposito racconta Giorgio Torelli:[2]
« Ogni paziente continua ad essere accompagnato dai parenti e dai figli e
spesso anche dalle anatre. »
(Giorgio Torelli)
Piano piano il "grande medico bianco" conquista la fiducia della gente di
Lambaréné, e non solo. Dal profondo della foresta, da villaggi lontani
anche centinaia di chilometri, arrivano malati desiderosi di cure.
Schweitzer (e la sua comunità di medici volontari che piano piano cresce
intorno a lui) diventa un benefattore, una figura di riferimento, e le notizie
di quello che sta facendo nel cuore dell'Africa più nera smuovono
l'opinione pubblica mondiale.
Nel 1914 Hélène e Albert Schweitzer furono messi agli arresti domiciliari
a causa della loro nazionalità tedesca. Il 5 agosto di quell'anno, giorno in
cui ebbe inizio la Prima Guerra Mondiale, i coniugi Schweitzer vennero
dichiarati prigionieri di guerra dai francesi, come cittadini tedeschi che
lavoravano in territorio francese. Avevano il permesso di restare a casa, ma
non potevano comunicare con la gente né accogliere i malati. Più tardi i
francesi li espulsero dall'Africa spedendoli in un campo di lavoro nel sud
della Francia. Secondo quanto racconta Edouard Nies-Berger, in Albert
Schweitzer m'a dit, «la coppia Schweitzer fu fermata dalle autorità militari
francesi per ragioni di sicurezza. Erano entrambi cittadini tedeschi, e la
signora S., molto vicina alla Germania, aveva criticato il governo
francese in alcune lettere trovate poi dalla censura. A credere a certe voci,
Schweitzer era considerato una spia tedesca, ed il Kaiser avrebbe avuto
intenzione di nominarlo governatore dell'Africa equatoriale nell'ipotesi di
una vittoria tedesca. I servizi segreti avevano trovato nel suo baule un
documento che certificava l'offerta, e questa storia lo avrebbe
perseguitato per il tutto il resto della sua vita.»
In luglio furono rilasciati grazie all'intervento di amici parigini, in
particolare di Charles Marie Widor. Durante uno scambio di prigionieri
verso la fine della guerra, nel 1918 poterono ritornare in Alsazia. Durante
la prigionia avevano contratto entrambi la dissenteria e la tubercolosi e
sebbene Albert si sarebbe ripreso grazie alla sua forte fibra non sarebbe
stato lo stesso per la moglie, le cui condizioni di salute peggioravano
sempre di più. Per questo motivo nel 1923 prese una casa a Königsfeld im
Schwarzwald nella quale andò a vivere la moglie trovando lì un clima più
adatto al suo stato di salute. L'idea di tornare in Africa per Albert si
dissolveva sempre di più, insieme ai sogni avviati a Lambaréné, aggravata
dalla guerra.
Un nuovo barlume di speranza si accese con la nascita della figlia Rhena,
il 14 gennaio 1919, giorno del compleanno del medico.
Le sofferenze provate in prima persona lo aiutarono ulteriormente a
comprendere meglio gli altri, mentre il recupero del lavoro come assistente
medico presso l'ospedale di Strasburgo, la riconquista delle sue funzioni di
pastore presso la chiesa di San Nicola, contribuirono molto al recupero
delle sue energie psicofisiche. La ripresa dei concerti d'organo inoltre, con
una tournée in Spagna, gli dimostrò che era ancora molto apprezzato come
musicista.
Dal punto di vista scientifico gli venne conferita la laurea honoris causa
dall'Università di Zurigo e nel 1920 Albert fu invitato dall'arcivescovo
svedese dell'Università di Uppsala per una serie di conferenze che, insieme
ai concerti d'organo che seguirono prima in Svezia e poi in Svizzera, gli
permisero di raccogliere nuovi fondi da inviare a Lambaréné per le spese
di mantenimento dell'ospedale negli anni di guerra.
Nel 1921 pubblicò un libro di ricordi africani, All'ombra della foresta
vergine, il cui contenuto si può ancora considerare indicativo per le azioni
che si intraprendono per i Paesi in via di sviluppo.

Il ritorno in Africa
Il 14 febbraio 1924 Albert lasciò Strasburgo per raggiungere di nuovo
l'agognata missione di Adendè il 19 aprile. Dell'ospedale non era rimasta
che una baracca: tutte le altre costruzioni avevano ceduto col passare degli
anni o erano completamente crollate. Organizzandosi per fare il medico di
mattina e l'architetto nel pomeriggio, Albert dedicò i mesi successivi alla
ricostruzione, tanto che nell'autunno del 1925 l'ospedale poté già
accogliere 150 malati e i loro accompagnatori. Alla fine dell'anno
l'ospedale operava a pieno ritmo, ma un'epidemia di dissenteria obbligò il
suo fondatore a trasferirlo in una zona più ampia, tanto da doverlo
costruire per la terza volta.
Il 21 gennaio del 1927 gli ammalati furono trasferiti nel nuovo complesso.
Albert racconterà così la commozione della prima sera nel nuovo ospedale:
«Per la prima volta da quando sono in Africa, gli ammalati sono
alloggiati come si conviene per degli uomini. È per questo che levo il mio
sguardo riconoscente a Dio, che mi ha permesso di provare questa gioia.»

Carisma, versatilità e tempra morale


Complessivamente Albert fece diciannove viaggi a Lambaréné. Ovunque
andasse era oberato di impegni: in Africa oltre che medico, era anche il
costruttore e l'amministratore dell'ospedale. In Europa insegnava,
sosteneva concerti e conferenze, scriveva libri per raccogliere fondi per la
sua opera. Spesso veniva insignito di lauree honoris causa e di molteplici
riconoscimenti, tanto che la rivista Time lo considerò «il più grande uomo
del mondo».
Non era stato né il primo né l'unico medico ad inoltrarsi nella foresta
vergine, ma il suo pensiero, il suo spirito, la sua personalità erano diventati
un riferimento per molti che in tutto il mondo condividevano i suoi ideali,
tanto che vari professionisti seguendo il suo esempio si misero a servizio
di opere umanitarie o missionarie in Africa. La sua tempra fisica, il suo
carattere fermo unito a grande sensibilità e intelligenza, il rispetto per ogni
forma di vita, la perseveranza, la fede, la musica d'organo e ogni opera che
compiva vivendola appassionatamente, erano i motivi del suo successo.
Ciononostante il grande uomo, conosciuto e apprezzato in tutto il mondo,
rimaneva notevolmente umile e timido. Confessò a un suo corrispondente
svizzero: « [...] Soffro di essere famoso e cerco di evitare tutto ciò che
attira su di me l'atte

La battaglia contro le armi nucleari


I disagi e i pericoli mostrati dalla guerra gli fecero maturare l'obiettivo di
richiamare l'attenzione sui rischi costituiti dagli esperimenti atomici e dalle
radiazioni nucleari. Legato da profonda amicizia con Albert Einstein, Otto
Hahn e con un'élite di ricercatori e grazie ad una documentazione
costantemente aggiornata, Schweitzer disponeva di un'approfondita
conoscenza del fenomeno. Egli denunciò l'incombente minaccia
rappresentata dagli esperimenti atomici attraverso «tre richiami» trasmessi
da Radio Oslo e ripresi da altre stazioni di tutto il mondo il 28, 29 e 30
aprile del 1958.
Il primo richiamo dimostra come l'umanità sia in estremo pericolo, non
tanto per un'eventuale guerra atomica, ma già per i semplici esperimenti
nucleari che contaminano l'atmosfera. Continuarli equivale a perpetuare un
«crimine contro la nostra stessa specie, contro i nostri figli, che a causa
della contaminazione da radioattività, rischiano di nascere sempre più
tarati nel fisico e nell'intelletto.»
Il secondo richiamo si riferisce al rischio di una Terza guerra mondiale,
che inevitabilmente sfocerebbe in una guerra atomica. «Si rende conto
l'umanità di questo pericolo? Deve prendere coscienza e impedirlo in nome
di sé stessa.» Discorso più che mai attuale e profetico, parla di missili, di
corsa agli armamenti delle grandi potenze e dei rischi di guerra sfiorati in
quegli anni e costantemente in agguato. Schweitzer afferma: «Attualmente
siamo costretti a considerare la minaccia di una guerra atomica tra Stati
Uniti e Unione Sovietica. Basterebbe una sola mossa per evitarla: le due
potenze dovrebbero rinunciare contemporaneamente alle armi nucleari.»
Il terzo richiamo è la conclusione naturale dei primi due, in cui si
evidenzia la necessità di sospendere gli esperimenti atomici e rinunciare
alle armi atomiche, spontaneamente, in nome dell'umanità. Si tratta di
scegliere tra la rinuncia alle armi nucleari, nell'auspicio che le grandi
potenze riescano a convivere in pace, o la folle corsa al riarmo, che può
condurre alla più raccapricciante delle guerre e alla distruzione

Premio Nobel
Nel 1952 fu insignito del Premio Nobel per la Pace con il cui ricavato fece
costruire il villaggio dei lebbrosi inaugurato l'anno successivo con il nome
di Village de la lumière (villaggio della luce). Nei pochi momenti liberi
che aveva, lavorando fino a tarda ora, si dedicava alla lettura e allo
scrivere, ma anche questi avevano come scopo finale il mantenimento del
suo ospedale a Lambaréné.

La morte
Schweitzer non volle più ritornare a vivere nella sua terra natale,
preferendo morire nella foresta vergine vicino alla gente a cui aveva
dedicato tutto se stesso. Ed il 4 settembre 1965 morì, ormai novantenne,
poco dopo sua moglie, nel suo amato villaggio africano di Lambaréné, e lì
fu sepolto. Migliaia di canoe attraversarono il fiume per portare l'ultimo
saluto al loro benefattore, che sarà seppellito presso l'ansa del fiume. I
giornali occidentali ne annunciarono la morte: «Schweitzer, uno dei più
grandi figli della Terra, si è spento nella foresta.»
Il posto di Schweitzer sarà preso dal successore da lui designato, Walter
Munz, un medico svizzero che a soli ventinove anni, nel 1962, aveva
abbandonato una vita tranquilla e agiata in Europa per dare una mano a
Lambaréné.
Dagli indigeni con cui visse fu denominato «Oganga» Schweitzer, lo
«Stregone Bianco Schweitzer»

Il pensiero filosofico
« Riflettere sull'etica dell'amore per tutte le creature in tutti i suoi dettagli:
questo è il difficile compito assegnato al tempo in cui viviamo »
(Albert Schweitzer)
Il rispetto per la vita
Tutta la vita e tutte le azioni di Albert Schweitzer sono fondate sulla sua
filosofia e in particolare sul principio intorno al quale essa ruota: il rispetto
per la vita. Fu durante il primo soggiorno in Africa (1913-1917) che egli
individuò ed elaborò questo principio in quanto, nonostante avesse
coltivato sin da giovane l'interesse per la filosofia, fu solo durante la
permanenza in Africa che Schweitzer si interessò del problema dello
sviluppo della civiltà e della cultura, e del suo legame con il modo di
pensare dei popoli e le loro religioni.
Il suo primo intento era quello di scrivere un libro che fosse solo una
critica alla civiltà moderna e alla sua decadenza spirituale causata dalla
perdita di fiducia nei confronti del pensiero. Egli riteneva a tal proposito
che una civiltà di tipo occidentale nasceva e prosperava quando a suo
fondamento si trovava l'affermazione etica del mondo e della vita, che, per
andare di pari passo, dovevano essere fondate sul pensiero. Schweitzer
riteneva che la decadenza del mondo moderno fosse data dal fatto che al
progresso materiale non corrispondesse il progresso morale. Quest'ultimo
non si era realizzato perché fondato su credenze – quelle religiose del
cristianesimo – e non su un pensiero profondo: il progresso morale non
poneva le sue basi sulla meditazione rivolta all'essenza delle cose.
Passando in rassegna tutte le etiche del passato, egli riscontrò che erano
tutte in qualche modo limitate, o perché troppo lontane e astratte dalla
realtà o perché relativistiche, mentre per lui un'etica, per essere tale,
doveva essere assoluta: ciò che a tutte mancava era un fondamento vero e
indiscutibile.
Trovò la soluzione del suo problema nel 1915 durante un viaggio
intrapreso lungo il fiume Ogoouè, per andare a curare dei malati: «La sera
del terzo giorno, al tramonto, proprio mentre passavamo in mezzo a un
branco di ippopotami, mi balzò d'improvviso in mente, senza che me
l'aspettassi, l'espressione “rispetto per la vita”. Avevo rintracciato l'idea
in cui erano contenute insieme l'affermazione della vita e l'etica.» (A.
Schweitzer)
Elaborò a partire da questo momento un'etica che non si limitava al
rapporto dell'uomo con i suoi simili, ma che si rivolgeva a ogni forma di
vita; un'etica completa perché totalmente integrata e armonizzata in un
rapporto spirituale con l'Universo.
Queste idee non verranno pubblicate che nel 1923, inizialmente in due
volumi successivamente riuniti sotto il titolo di Kultur und Ethik (Cultura
ed etica).

Il concetto di etica
L'etica non può essere considerata una scienza, in quanto non ha a
fondamento fenomeni che seguono leggi, ma il comportamento umano, il
quale è caratterizzato in primo luogo dall'imprevedibilità. Esso è infatti
legato al pensiero e alla creatività d'ogni essere umano, nel quale non
possiamo mai immedesimarci completamente. Afferma lo stesso
Schweitzer in Cosa dovremmo fare?: «Tu credi di conoscere l'altro, ma
non lo conosci, perché non sai dove vacilli, o se scelga per l'essere o per il
non essere.»
Poiché le persone possiedono concezioni divergenti del bene e del male,
l'etica non può essere costruita su delle regole fisse e incontrovertibili.
Ogni individuo, pensando autonomamente, giunge a conclusioni
strettamente soggettive sulla rettitudine dei comportamenti morali degli
esseri umani. Dunque non potrà mai esistere una scienza dell'etica finché
gli uomini penseranno in modo indipendente e non si lasceranno modellare
come delle macchine. La sua riflessione sull'etica finisce col diventare una
riflessione nell'etica, nel senso che ogni singola persona deve riflettere
sulle proprie azioni e costruirsi attraverso il proprio pensiero dei principi
da seguire e da mettere in pratica nella condotta di vita.

Il pensiero elementare
Il pensiero è il punto di partenza per qualsiasi attività umana consapevole,
sia che si tratti di etica, religione o semplicemente dell'azione svolta
all'interno della vita quotidiana. Schweitzer considera in tal proposito di
primaria importanza il «pensiero elementare»: «Elementare è il pensiero
che muove dagli interrogativi fondamentali del rapporto dell'uomo con il
mondo, del senso della vita e dell'essenza del bene. Esso è direttamente
legato al pensiero che si agita in ogni essere umano. Gli si rivolge, lo
amplia, lo approfondisce.» (A. Schweitzer, La mia vita e il mio pensiero)
Questo tipo di pensiero conduce l'individuo a riflettere sulla propria
esistenza e a interrogarsi sul significato della vita. Schweitzer inoltre
ritiene che sia caratteristica indispensabile del pensiero l'essere
strettamente connesso alla realtà: l'uomo deve ricordarsi della sua esistenza
terrena, materiale, del suo essere all'interno di un mondo concreto in cui si
incontrano gioie e dolori; egli deve disporre le proprie capacità riflessive
verso la comprensione del proprio sé, intesa come atto di autocoscienza:
«Il pensiero è colui che concilia la volontà e la conoscenza che si trovano
in me […] rinunciare a pensare significa dichiarare bancarotta spirituale.»
(A. Schweitzer, Cultura ed etica) Senza il pensiero l'uomo rinuncia a
sviluppare la propria personalità e soprattutto i propri ideali; abbandona
spontaneamente la possibilità di avere un'opinione personale e di decidere
in prima persona della propria vita, contribuendo inoltre al decadimento
della civiltà.
Schweitzer è convinto che si possa ovviare al relativismo e
all'inconsistenza delle etiche passate, recuperando il pensiero elementare
che si occupa del rapporto dell'uomo con l'universo, del significato della
vita e del bene. Egli ritiene che la riflessione possa farci riscoprire quei
principi normativi che l'individuo ha sempre avuto sotto gli occhi ma che
non è mai riuscito a cogliere veramente, perché ha sempre cercato di
fondare l'etica sulla sola ragione. L'uomo non è soltanto un essere
razionale ma anche senziente, che si avvale sia della ragione quanto dei
sentimenti. Dunque, l'uomo attraverso la ragione deve scoprire quei
sentimenti innati che ha per tutti gli esseri viventi e constatare che la
morale è fondata su una condivisione razionalmente consapevole della
propria essenza.
I precetti che l'uomo deve riscoprire possono essere definiti «precetti della
ragione guidati dal cuore» e pur identificandosi con quelli cristiani del
Vangelo (quelli dell'amore fraterno attraverso il quale ogni uomo riconosce
nell'altro se stesso in tutta la sua complessità), possono trovarsi anche a
fondamento di etiche non cristiane. Tali principi possono essere validi per
l'uomo in generale in quanto essere pensante che, a differenza degli
animali, possiede il cuore e la mente non solo per sopravvivere ma per
vivere coscientemente e soprattutto con-vivere con i suoi simili e il resto
dell'universo. Lo statuto dell'etica deve quindi essere ricercato nella
profondità dell'uomo, nel suo appartenere alla vita, nell'essere
contemporaneamente creatura pensante e sensibile, che interagisce con gli
altri esseri e con la realtà delle cose, delle istituzioni e dei pensieri. Tutto il
suo agire e interagire non è altro che il vivere e da ciò consegue
naturalmente che a fondamento della sua etica non può che esserci la vita.

L'uomo di oggi, sovraccarico di lavoro


L'uomo di oggi è esposto a influssi che tendono a privarlo di qualsiasi
fiducia nel proprio pensiero. Da ogni parte e nei più svariati modi lo si
confonde affermando che la verità e le convinzioni di cui ha bisogno per
vivere deve attingerle dalle associazioni o dalle istituzioni che esercitano
un diritto su di lui. Lo spirito dell'epoca rende l'uomo scettico sul suo
stesso pensiero, per prepararlo ad accogliere invece ciò che gli viene
imposto dall'autorità. A tutto questo costante influsso non può opporre la
resistenza opportuna, in quanto egli è un essere sovraccarico di lavoro e
distratto, privo di capacità di concentrazione.
L'uomo moderno ha perso inoltre, a causa degli ostacoli materiali che
agiscono sulla sua mentalità, ogni fiducia spirituale in sé stesso. Mentre in
passato uno scienziato era anche un pensatore e contava qualcosa nella vita
spirituale della sua generazione, «la nostra epoca ha scoperto come
separare il sapere dal pensiero, con il risultato che abbiamo davvero una
scienza libera, ma non ci rimane più una scienza che rifletta». La rinuncia
al pensiero diviene una dichiarazione di fallimento spirituale, che sbocca
inevitabilmente nello scetticismo, promosso da coloro i quali si aspettano
che l'uomo, dopo aver rinunciato a scoprire da sé la verità, accetti
passivamente ciò che viene dall'alto e attraverso la propaganda.
L'incoerenza e la debolezza che Schweitzer riscontra nel cristianesimo
moderno sono legate proprio a questa mancanza di interiorità. Egli ritiene
che i cristiani, nella cultura occidentale, non si preoccupino a sufficienza
della propria vita spirituale, scarseggiando di raccoglimento, non solo
perché assorbiti dalla frenetica e logorante vita quotidiana, ma anche
perché non ne riconoscono l'importanza. Essi scelgono di non meditare e
mirano soltanto alla realizzazione del bene, pensando che il cristianesimo
sia solo pura attività. Schweitzer nota a tal proposito come la differenza tra
la moralità sociale europea e la moralità individuale degli indigeni africani
sia sostanziale, e che quando alla moralità del cuore si aggiunge la
conversione al cristianesimo del nero, questi gli conferisce una nobiltà
superiore.
«Si deve vivere in mezzo a loro per capire quanto sia pieno di significato il
fatto che un uomo, dal momento che è diventato cristiano, rifiuti le
pratiche tradizionali o rinunci persino alla vendetta di sangue che per lui è
considerata un obbligo. Trovo che l'uomo primitivo sia dotato di un'indole
più mite di quella di noi europei: quando poi alle sue buone qualità si
aggiunge il cristianesimo, ne possono risultare dei caratteri
meravigliosamente nobili. Penso di non essere l'unico uomo bianco che si
vergogna di sé quando si paragona agli indigeni.» (A. Schweitzer, Foresta
Vergine)
Grande importanza come fonte di ispirazione per l'agire dell'uomo
rivestono inoltre gli ideali: «Lungo la strada della vita mi ha
accompagnato, come un fedele consigliere, la convinzione che nella
maturità dobbiamo lottare per continuare a pensare liberamente e a sentire
così profondamente come facemmo in gioventù.» Gli ideali sono i motori
dell'agire, ispirano grandi passioni per le quali si può essere disposti a dare
persino la vita: ma si riesce a preservarli integri nel tempo? Gli adulti
spesso si preoccupano di preparare i giovani a quando considereranno
come illusione quello che al momento rappresenta un'aspirazione del
cuore. Ma una più profonda esperienza di vita può esortare i giovani
inesperti a mantenersi fedeli per tutta la vita alle idee che li entusiasmano.
È grazie all'idealismo della gioventù che l'uomo riesce a vedere la verità e
in quell'idealismo possiede un tesoro che non deve mai scambiar con
nessun altra cosa al mondo. Il fatto che gli ideali generalmente falliscano,
una volta trasferiti alla realtà, non significa che siano destinati sin
dall'inizio ad arrendersi ai fatti, ma significa piuttosto che mancano di
forza; e ciò avviene perché non sono abbastanza puri né saldamente
radicati dentro di noi.
«Quando noi adulti tramandiamo alla generazione più giovane l'esperienza
della vita, non dobbiamo esprimerci così: “La realtà prenderà presto il
posto degli ideali”, ma invece “Tieni saldi i tuoi ideali, cosicché la vita non
possa mai privartene”. Se tutti noi potessimo diventare ciò che eravamo a
quattordici anni, come sarebbe differente il mondo.»
Bisogna avere il coraggio di superare le regole, le usanze consuetudinarie,
quando questo è dettato insieme dal cuore e dalla riflessione. A volte
quella che viene comunemente giudicata come «maturità» altro non è che
una «ragionevole rassegnazione», in cui l'individuo ha abbandonato ideali,
lotte per la giustizia e libertà a cui credeva da giovane. Non bisognerebbe
mai abbattere l'entusiasmo giovanile, perché è proprio in quello che l'uomo
scorge la verità.

La concezione del mondo


«La relazione che abbiamo con il mondo esteriore è determinata dalla
direzione della nostra voglia di vivere dal momento in cui prende
coscienza di se stessa: ecco in cosa consiste la concezione del mondo.» La
concezione del mondo è dunque il risultato della nostra concezione della
vita e non il contrario: «Qual è il comportamento della mia voglia di vivere
faccia a faccia con se stessa e faccia a faccia con il mondo nel momento in
cui prende coscienza di se stessa? […] Spinta da un bisogno interiore e per
restare sincera e coerente con se stessa, la nostra voglia di vivere cerca di
stabilire relazioni ispirate dal principio del rispetto della vita.»
La nostra vita ha dunque un senso, che trova la sua fonte in essa stessa
ogni volta che si fa sentire in noi la più grande idea che può generare la
nostra voglia di vivere: il rispetto della vita. Esso si pone a fondamento
dell'etica in quanto fa in modo che ciascuno di noi dia valore alla propria
vita e a quella che lo circonda, sentendosi portato all'azione e alla
creazione di nuovi valori. «Spinto da una necessità interiore e senza
cercare di comprendere se il mondo abbia un senso, agisco dunque sul
mondo e nel mondo creando nuovi valori e praticando l'etica.» (A.
Schweitzer)
L'uomo occidentale non è mai pervenuto a tali conclusioni perché si
perdeva sempre sulle strade sbagliate della credenza con mete ottimistiche
ed etiche del mondo, anziché riflettere semplicemente, senza ripensamenti
né idee preconcette, alla relazione che lega l'uomo al mondo, spinto da una
voglia di vivere profondamente pensata: «Nel silenzio della foresta vergine
africana, sono stato portato a dare quest'idea tutto il suo approfondimento e
la sua espressione. Ecco perché mi presento oggi con fiducia come un
rinnovatore del pensiero razionale spoglio di preamboli a priori.» Il
rinnovamento della nostra concezione del mondo non può che provenire da
una riflessione sincera che attesti come il razionale, andando fino in fondo
alla proprie conclusioni, sfoci inevitabilmente nel razionale, divenendo il
paradosso della nostra vita spirituale.

Il principio umanitario e la solidarietà verso ogni forma di vita


Secondo Schweitzer l'etica individuale e quella sociale si distinguono per il
diverso valore che attribuiscono al principio umanitario. L'etica
individuale tende a salvaguardare il principio che un uomo non venga mai
sacrificato a un fine, qualunque esso sia. L'etica sociale non ne è capace.
La società, in base a un ragionamento e a scopi che stanno al di sopra della
singola persona, non può attribuire importanza alla felicità e all'esistenza
di un individuo.
Afferma Schweitzer in All'ombra della foresta vergine: «Coloro che hanno
conosciuto l'angoscia e il dolore fisico sono uniti nel mondo intero da un
legame misterioso. Chi è stato liberato dalla sofferenza e dalla malattia
deve camminare davanti all'angoscia e alla sofferenza e contribuire come
può alla salute altrui.» Ma se l'etica che Schweitzer pone a fondamento di
ogni azione umana promuove il rispetto verso qualsiasi forma di vita,
come è possibile conciliare tutto ciò con la sopravvivenza, la quale spesso
comporta la prevaricazione di taluni rispetto ad altri esseri viventi? L'etica
del rispetto della vita non offre in realtà regole come palliativi o
compromessi, ma mette l'uomo di fronte alle proprie responsabilità: è lui
che deve decidere in ogni singolo caso in che misura voglia conformarsi
all'etica e in che misura debba obbedire alla necessità, realtà che a volte
diventa un caso di coscienza.
Ogni distruzione di vita deve passare prima attraverso il criterio della
necessità. Questo è vero per gli animali e per la vegetazione, giacché anche
in questo caso la distruzione sconsiderata di alberi e di piante può portare a
drammatiche conseguenze. Quanto agli animali, che servono da cavia, il
pretesto umanitario dell'esperimento non può giustificare tutti i sacrifici e
le sofferenze che gli si impongono. Anche se la finalità dell'esperimento è
valida, a volte si infliggono agli animali crudeli torture provocate da svegli
per semplificare il lavoro. L'etica del rispetto della vita ordina di alleviare
ogni sofferenza inutile: non è la sofferenza dell'animale che può dare
servizio all'uomo, ma l'osservazione della sua guarigione: «Ti sentirai
solidale con ogni forma di vita e la rispetterai in ogni condizione: ecco il
più grande comandamento nella sua formula più semplice.»
Il mistero dell'altro e il perdono
Per quanto concerne i rapporti interpersonali Schweitzer era persuaso
dell'impossibilità di conoscere fino in fondo un altro essere umano pur
vivendoci assieme ogni giorno, nella consapevolezza e nel rispetto della
sua vita interiore: «Camminiamo come nella semioscurità e nessuno riesce
a distinguere bene i tratti dei compagni, ma qualche volta un avvenimento
in comune, una parola scambiata, ce li illumina come un lampo e li
vediamo come sono veramente. Poi, per un lungo periodo, riprendiamo la
strada insieme, al buio, e tentiamo inutilmente di immaginarci i loro tratti.»
Bisogna arrendersi di fronte alla pretesa di sapere ogni cosa dell'altro, che
rimarrà sempre per noi un mistero: conoscersi non significa sapere tutto
dell'altro ma deporre in lui la nostra fiducia e il nostro amore. Non esiste
difatti solo un pudore fisico, c'è anche un pudore spirituale del quale
occorre tener conto. Nessuno può arrogarsi il diritto di conoscere fino in
fondo i pensieri di un altro essere umano. In questo campo ha valore solo il
donare, che è vita. Bisogna imparare a non accusare di mancanza di fiducia
coloro che amiamo se non ci consentono di scrutare gli angoli più nascosti
dei loro pensieri. Ma è importante anche donarsi all'altro, in un
arricchimento reciproco: nessun uomo deve rimanere mai completamente
estraneo all'altro in quanto «il posto dell'uomo è presso l'uomo.»
È indispensabile superare le barriere rappresentate dalle regole e dalle
convenzioni, quando ciò è dettato al contempo dai sentimenti e dalla
riflessione. È sempre sulla base dei rapporti interpersonali che Schweitzer
elabora un'originale riflessione anche sul perdono. L'etica corrente lo
elogia come atto di totale abnegazione, mosso da sentimenti di pietà. In
realtà, se concepito in questo modo, il perdono finisce con l'umiliare chi lo
riceve. Difatti, secondo l'etica del rispetto della vita, esso si configura
come semplice atto di sincerità nei nostri stessi confronti, che non siamo
meno colpevoli degli altri, e più abbiamo commesso errori nella nostra vita
più dobbiamo essere in grado di perdonarli quando diventiamo noi
l'oggetto o la vittima degli errori altrui. In quest'ottica il perdono deve
essere esercitato senza limiti, e va interpretato come un mezzo per
sdebitarsi rispetto agli errori o delle negligenze commesse in passato.

Riflessioni sulle popolazioni indigene


«I popoli primitivi o semiprimitivi perdono l'indipendenza nel momento in
cui arriva la prima imbarcazione di un bianco con cipria o rhum, sale o
stoffe. In quel momento comincia a rovesciarsi la situazione sociale,
politica ed economica. I capi si mettono a vendere i loro sudditi come se
fossero degli oggetti. Da quel momento l'opera politica di uno stato
coloniale dev'essere diretta a correggere i mali causati dal progresso
economico senza limiti.» (A. Schweitzer, Razze)
Da questa riflessione abbastanza esaustiva che Schweitzer fa nei suoi
scritti si deduce quella che è la sua posizione in merito al colonialismo.
Egli ritiene che i popoli primitivi perdano la propria indipendenza non in
seguito alla dichiarazione di un protettorato o qualche altra forma di
governo, ma l'hanno già persa in seguito alla nuova struttura economica
generata dalla loro partecipazione al commercio mondiale. I paesi
colonizzanti dovrebbero rendersi conto che non è legittimo arrogarsi dei
diritti su altri paesi, trattandone la gente e i territori come se fossero
materiale greggio per le proprie industrie. Piuttosto dovrebbero sentirsi
responsabili di promuovere lo sviluppo di questi paesi, dando loro la
possibilità di sviluppare da soli una propria organizzazione politica. La
cosa migliore per questi popoli primitivi sarebbe che, dopo essere stati
esclusi dal mercato mondiale nei limiti del possibile, posti sotto
un'intelligente amministrazione, si elevassero gradatamente dallo stadio di
nomadi a seminomadi a quello di agricoltori e artigiani con fissa dimora.
Schweitzer ritiene infatti che una componente fondamentale
dell'educazione di questi popoli sia indurre tra di essi la pratica
dell'artigianato: l'indigeno rischia di saltare lo stadio che esiste tra la vita
primitiva e quella professionale, tende, cioè, ad eliminare gli stadi
intermedi dell'agricoltura e dell'artigianato. Senza tali basi non è possibile
creare un'appropriata organizzazione sociale, in quanto l'indigeno non sa
fare ciò che è indispensabile alla sua stessa vita, come costruirsi
un'abitazione, coltivare i campi, ecc. Di conseguenza non sarà mai
possibile creare un sistema economico solido e indipendente, il quale
poggia su queste basi.
Nella sua opera di medico e di missionario, Schweitzer cercò di infondere
e insegnare l'importanza e la dignità del lavoro, inteso anche come sforzo
fisico e materiale. Non è tuttavia facile intraprendere tale opera di
educazione in quanto, da un lato tali popoli non si lascerebbero sfuggire
facilmente l'opportunità di guadagnare denaro vendendo prodotti al
mercato mondiale, e quest'ultimo, dal canto suo, non si asterrebbe
dall'acquisire da loro materie prime fornendo in cambio manufatti. Diviene
dunque un'impresa molto ardua trasformare un'opera di colonizzazione in
una vera opera di civilizzazione.
Un appello all'Occidente
«Vedere un simile paradiso e allo stesso tempo una miseria così spietata e
senza speranza era opprimente... ma costituiva un simbolo della
condizione africana.»
Schweitzer rifletteva spesso sulle difficoltà, il dolore, la miseria, che
affliggevano la popolazione africana, e in particolare rivelava una
sostanziale incredulità nel cogliere il forte contrasto esistente tra la natura
straordinaria nella sua bellezza e particolarità, e la sofferenza che la
circondava. Schweitzer ha più volte definito i popoli occidentali
sostanzialmente viziati, in quanto non riconoscono i vantaggi di cui
godono, e rimanendo perennemente concentrati sulla propria condizione
mostrano una sostanziale indifferenza nei confronti delle sofferenza altrui.
Per ogni minimo malanno di fronte a loro si aprono le porte degli ospedali
ed essi possono avere accesso ad ogni tipo di cura e attenzione, e in tutto
ciò del tutto non curanti di quelle milioni di persone soggette a orrendi
mali (alcuni dei quali importati proprio dall'occidente), causa e allo stesso
tempo effetto di una grave e recondita misera:
«Ognuno dei miei lettori pensi a quale sarebbe stata la storia della sua
famiglia negli ultimi dieci anni se avesse dovuto passarli senza assistenza
medica e chirurgica di alcun genere. È tempo che ci risvegliamo dal
torpore e affrontiamo le nostre responsabilità.» Nonostante le sofferenze e
la disperazione cui S. doveva fare i conti ogni giorno, egli amava svolgere
la propria professione proprio in quei territori e in mezzo a quella gente, in
quanto nella gioia e nella profonda gratitudine delle persone che egli
aiutava a guarire scorgeva il senso e l'importanza del proprio lavoro:
«Vale la pena di lavorare qui solo per vedere come gioiscono coloro che
sono cosparsi di piaghe quando vengono avvolti da bende pulite e non
devono più trascinare i loro poveri piedi insanguinati nel fango. Quanto
sarei contento se tutti i miei finanziatori potessero vedere i giorni della
medicazione delle piaghe, i pazienti appena bendati camminare o venire
trasportati giù dalla collina! Quanto mi piacerebbe che avessero visto i
gesti eloquenti con cui una vecchia donna ammalata di cuore descriveva
come, grazie alle cure, potesse ancora respirare e dormire.»
Schweitzer si rendeva conto di come anche solo un medico, provvisto di
quei pochi mezzi messi a sua disposizione, potesse essere incredibilmente
necessario in quei luoghi e quanto bene gli potesse fare alla gente del
posto, un bene evidente e tangibile nei volti e nelle manifestazioni affettive
degli stessi malati. Schweitzer riteneva che fosse un dovere da parte
dell'Occidente occuparsi delle popolazioni indigene. Riconosceva le
responsabilità dell'occidente nella miseria e nelle ingiustizie cui tali
popolazioni erano soggette e per tanto considerava ogni cosa fatta per il
loro bene non un atto di lodevole beneficenza, bensì un dovere, una
riparazione ad un torto commesso. Mostrava spesso il proprio disappunto
quando gli venivano offerti aiuti in cambio di vantaggi economici e restava
sempre più basito nell'osservare l'egoismo e l'utilitarismo della società
occidentale:
«È inconcepibile che noi popoli civili usiamo solo a nostro vantaggio i
numerosi metodi di lotta contro le malattie, il dolore e la morte che la
scienza ci ha procurato. Se in noi esiste un pensiero etico, come possiamo
rifiutarci di permettere che queste nuove scoperte vadano a beneficio di
coloro i quali sono esposti a mali fisici peggiori dei nostri?»
Schweitzer ha definito membri della «fratellanza di coloro che portano
l'impronta del dolore» tutti coloro che hanno sperimentato che cosa siano il
dolore fisico e lo strazio del corpo, uniti da un forte legame segreto. Chi è
stato sottratto al dolore non può pensare di essere libero di nuovo, di poter
vivere come prima completamente noncurante del passato. Ora egli è «un
uomo a cui sono stati aperti gli occhi» sul dolore e deve aiutare fin dove
può a recare agli altri la stessa liberazione di cui lui ha potuto godere.

Opere
Albert Schweitzer fu, oltre che medico e filosofo, un abilissimo musicista.
L'amore per l'organo, che suonò in maniera magistrale per tutta la vita, lo
portò, naturalmente, ad amare Bach. Questa passione lo portò nel 1905 alla
pubblicazione del suo primo libro, J. S. Bach, il musicista poeta, in cui,
dopo aver descritto la storia della musica del compositore e dei suoi
predecessori, analizzò le sue opere più importanti.
La sua opera teologica più importante fu, certamente, la Storia della
ricerca sulla vita di Gesù (1906) in cui interpretò il Nuovo Testamento alla
luce del pensiero escatologico di Cristo. Non meno importante fu, però,
l'altra opera teologica, pubblicata postuma nel 1967 con il titolo Il regno di
Dio e la cristianità delle origini.
Ad Albert Schweitzer si devono, inoltre, i due volumi della Filosofia della
civiltà (1923) e l'autobiografia La mia vita e il mio pensiero (1931).
Ad Albert Schweitzer è stata intitolata una scuola romana, e la scuola
primaria a (Cuceglio) (Torino)

Onorificenze
Cavaliere dell'Ordine Pour le Mérite (Repubblica
Federale Tedesca)
— 1954
Membro dell'Ordine al Merito del Regno Unito
(Regno Unito)
— 25 febbraio 1955

Bibliografia

Opere e scritti di Albert Schweitzer

• Von Reimarus zu Wrede (1906) seconda edizione riveduta col titolo


Geschichte der Leben-Jesu-Forschung (1913); tr. it. Storia della
ricerca sulla vita di Gesù, Brescia, Paideia, 1986.
• Aus meinem Leben und Denken, Lipsia 1931; tr. it. La mia vita e il
mio pensiero, Comunità, Milano, 1965.
• J. S. Bach il musicista poeta, prima versione italiana a cura di
P.A.Roversi, Edizioni Suvini Zerboni, Milano 1967
• Albert Schweitzer: An Anthology, a cura di C. R. Joy, Harper &
Brothers, The Beacon Press, Boston 1947; tr. it. Rispetto per la vita,
Comunità, Milano 1957.
• Friede oder Atomkrieg, Beck Verlag, München 1958; tr. it. I popoli
devono sapere, Einaudi, Torino 1958.
• Rispetto per la vita. Gli scritti più importanti nell'arco di un
cinquantennio raccolti da Hans Walter Bahr, traduzione di Giuliana
Gandolfo, Claudiana, Torino 1994.
• La melodia del rispetto per la vita. Prediche di Strasburgo, a cura di
Enrico Colombo, Edizioni San Paolo, 2002.

Opere su Schweitzer
• Joseph Gollomb, Albert Schweitzer, il genio della giungla, Milano,
Martello, 1954.
• Luigi Grisoni, Albert Schweitzer e il Rispetto per la Vita, Gorle,
Velar, 1995.
• Walter Munz, Albert Schweitzer dans la mèmoire des Africains,
Études Schweitzeriennes, Vol. 5, Strasburgo, Oderlin, 1994.
• Victor Nessmann, Avec Albert Schweitzer de 1924 à 1926 - Lettres
de Lambrenè, Études Schweitzeriennes, Vol. 6, Strasburgo, Oderlin,
1994.
• Edouard Nies-Berger, Albert Schweitzer m'a dit, Mémoire d'Alsace,
Éditions La Nuée Bleue, Strasburgo, 1995.
• Gilbert Cesbron, È mezzanotte dottor Schweitzer, Rizzoli, Milano,
1993.

Opere in italiano su Schweitzer


• Antonio Spinosa, Albert Schweitzer e dintorni, Opere Nuove, Roma,
1960.
• Valentina Boccalatte, Albert Schweitzer, un Nobel per la Pace,
Firenze Atheneum, Firenze, 2004.
• Floriana Mastandrea, L'altra Africa di Albert Schweitzer, RAI ERI-
Armando Editore, Roma, 2004.
• Silvio Cappelli, Agonia e ripristino della civiltà. Albert Schweitzer
interprete di Paolo, pp. 77–100, in Paolo di Tarso. Testimone del
Vangelo “fuori le mura”, a cura di Claudio Monge (Nerbini
Editore),2009,ISBN 9788864340067,
• Alberto Guglielmi Manzoni, Pace e pericolo atomico. Le lettere tra
Albert Schweitzer e Albert Einstein, Claudiana, Torino, 2011.
• Matthieu Arnold, Albert Schweitzer. 15 meditazioni, Gribaudi 2014.

.
« Lo studio critico della vita di Gesù è stato per la teologia una scuola di
onestà. Il mondo non ha mai assistito prima, e non assisterà mai
successivamente, a una lotta per la verità così piena di sofferenze e
rinunce, come quella di cui le "Vite di Gesù" degli ultimi cento anni
racchiudono la criptica testimonianza. Albert Schweitzer, The Quest of
the Historical Jesus p. 6) »
« Coloro che sono appassionati di discutere sulla negatività della teologia,
possono qui trovare le loro motivazioni. Non c'è nulla di più negativo che
il risultato di uno studio critico sulla Vita di Gesù. Il Gesù di Nazareth che
comparve come il Messia, che predicò l'etica del Regno di Dio, che fondò
il Regno dei Cieli e morì per dare al Suo lavoro la sua consacrazione
definitiva, non ebbe mai esistenza. Si tratta di una immagine tracciata dal
razionalismo, provvista di vita dal liberalismo e che la moderna teologia
ha rivestito storicamente.

(...) Gesù significa qualcosa per il nostro mondo, perché emana una
potente forza spirituale che scorre anche attraverso il nostro tempo.
Questo fatto non può essere né scosso né confermato da alcuna scoperta
storica. È il solido fondamento del cristianesimo. Albert Schweitzer, The
Quest of the Historical Jesus p. 705 e 707) »

Le opere di Schweitzer e Bultmann hanno il loro punto di partenza nel


fallimento ottocentesco di scrivere una vita di Gesù. Sia Schweitzer che
Bultmann riconobbero il disinteresse dei Vangeli per la vicenda storica e
umana di Cristo e la loro focalizzazione sul ministero pubblico
(Schweitzer) o sull'esposizione di una predicazione (Bultmann): da un
presupposto comune, arrivarono a conclusioni molto diverse. Per entrambi
Gesù aveva chiaro il suo fine escatologico[20], ma mentre per Schweitzer
è fondamentale anche la sua autocoscienza messianica, per Bultmann
questa deriverebbe principalmente da un giudizio di valore dei suoi
discepoli[21]. Albert Schweitzer riteneva che proprio il disinteresse
mostrato dai vangeli sinottici nel curare la rappresentazione della vita
terrestre di Gesù garantisse credibilità storica ai racconti da essi
tramandati, e mostrò come invece le moderne biografie di Gesù
riflettessero il pregiudizio degli storici.[3][22].
I punti nodali del pensiero di Albert Schweitzer sono il senso della
passione, la messianicità e l'impossibilità a ricostruire una vita di Gesù al
di fuori del suo ministero pubblico.
• Riguardo al "senso della passione", Schweitzer afferma che i vangeli
sinottici sono l'espressione di una comunità che non aveva ancora
una concezione chiara della vita di Gesù e, proprio per questo, non ne
avrebbe deformato i tratti fondamentali e, soprattutto, non avrebbe
inventato episodi[23]. Ciò che lega insieme il racconto,
apparentemente scucito, è proprio la centralità della passione, che
irrompe come elemento improvviso che fornisce una ragione,
compresa dagli stessi discepoli solo a posteriori, all'esperienza di
Gesù e con Gesù[24].
• Riguardo alla messianicità, l'opinione di Schweitzer è che Gesù si
sentiva chiamato a svolgere un ruolo messianico[24]. L'autore pone
comunque un'alternativa secca, caratterizzando parte della ricerca
storica moderna: il segreto messianico andrebbe infatti letto o come
un fatto storico, o come un espediente letterario. Scegliendo la prima
ipotesi, Schweitzer ritiene quindi che Gesù abbia taciuto la sua natura
messianica in attesa del suo avvento, e quindi la fede delle prime
comunità è una reinterpretazione della sua messianicità passata
attraverso la passione. Nella seconda ipotesi, il ruolo messianico
deriverebbe invece da una rielaborazione della figura gesuana da
parte delle prime comunità[25]. Il regno di Dio viene potentemente in
seguito al sacrificio di Gesù. Questo è il senso profondo della
passione[26] Gesù individuò dogmaticamente la fede nell'avvento
prossimo del regno e sul ruolo messianico che si sentiva chiamato a
svolgere. L'unione di questi due convincimenti lo portò alla decisione
di provocare la sua morte, assumendo su di sé la sofferenza
tradizionalmente legata all'idea dell'avvento del Regno.[27] Da qui,
secondo Schweitzer, l'andamento caotico e non lineare dei racconti,
in quanto gli evangelisti non sarebbero riusciti a connetterli
causalmente tra loro, così come i discepoli se ne fecero una ragione
solo successivamente.
• Per quanto concerne l'ultimo punto nodale, secondo Schweitzer
mancano gli elementi per ricostruire una vita del Gesù storico: di lui
è possibile conoscere solo un'immagine del suo ministero pubblico.
[28] La fede cristiana è comunque, per l'autore, intimamente legata
all'autocoscienza messianica di Gesù. Nell'impossibilità di ricostruire
storicamente e in modo compiuto la vita di Gesù, la soluzione scelta
da Schweitzer è infine puramente etica e lo condurrà a recarsi come
missionario in Africa, dove si dedicherà al lebbrosario di Lambaréné.
Citazioni di Albert Schweitzer
• Abbiamo bisogno di un'etica senza limitazioni, che comprenda anche
gli animali.
• Dobbiamo lottare contro lo spirito di incosciente crudeltà con cui
trattiamo gli animali. Gli animali soffrono tanto quanto noi... È
nostro dovere far sì che il mondo intero lo riconosca.
• Dobbiamo non soltanto non uccidere, ma – se è possibile –
conservare la vita [...]. Voi, però, tenete gli occhi aperti: non perdete
occasione di essere misericordiosi. Perciò, non ignorate con
noncuranza il povero insetto caduto in acqua, ma pensate che cosa
significhi lottare per non affogare. Aiutatelo dunque, servendovi di
un uncino o di un legnetto; e se poi si pulirà le ali, vi mostrerà
qualcosa di meraviglioso: la fortuna di aver tratto in salvo la vita... di
aver agito per incarico e per conto dell'onnipotenza di Dio. Il verme
smarrito sulla terra dura muore perché non può penetrarvi. Voi
deponetelo su un terreno ricco o sull'erba: «Ciò che avrete fatto a uno
di questi piccoli, l'avrete fatto a me». Queste parole di Gesù si
applicano a ogni nostra azione nei confronti delle creature inferiori.
• È la capacità dell'uomo di simpatizzare con tutte le creature viventi
che fa di lui veramente un uomo.
• L'africano è mio fratello, ma è un fratello più giovane di parecchi
secoli.
• L'esempio non è la cosa che influisce di più sugli altri: è l'unica cosa.
• La coscienza tranquilla è un'invenzione del diavolo.
• La fortuna è la sola cosa che si raddoppia quando la si condivide.
• La musica e i gatti sono un ottimo rifugio dalle miserie della vita.
• La persona etica [...] ha cura di non schiacciare nessun insetto.
Se in estate sta lavorando con la lampada accesa, egli preferisce
tenere la finestra chiusa e respirare aria cattiva piuttosto che vedere
gli insetti cadere sul suo tavolo con le ali bruciacchiate.
Se cammina per strada dopo la pioggia e vede un lombrico che vi è
stato trascinato, egli realizza che se non tornerà al più presto nel
terreno in cui può rifugiarsi verrà seccato dal sole, così lo toglierà
dalla strada e lo riporterà nell'erba.Lo spirito dell'uomo non è morto.
Continua a vivere in segreto... È giunto a credere che la compassione,
sulla quale si devono basare tutte le filosofie morali, può raggiungere
la massima estensione e profondità solo se riguarda tutti gli esseri
viventi, e non solo gli esseri umani.
• Nessuno dovrebbe tollerare che vengano inflitte agli animali delle
sofferenze e neppure declinare le proprie responsabilità. Nessuno
dovrebbe starsene tranquillo pensando che altrimenti si
immischierebbe in affari che non lo riguardano. Quando tanti
maltrattamenti vengono inflitti agli animali, quando essi agonizzano
ignorati per colpa di uomini senza cuore, siamo tutti colpevoli.
• Non c'è niente di più negativo del risultato della ricerca sulla vita di
Gesù. Il Gesù di Nazareth che si presentò come messia, annunciò il
regno di Dio e morì per dare alla propria opera la consacrazione, non
è mai esistito.
• Nostro dovere è prendere parte alla vita e averne cura. Il rispetto
reverenziale per tutte le forme di vita rappresenta il comandamento
più importante nella sua forma più elementare. Ovvero, espresso in
termini negativi: "Non uccidere". Prendiamo così alla leggera questo
divieto che ci troviamo a cogliere un fiore senza pensarci, a pestare
un povero insetto senza pensarci, senza pensare, orribilmente ciechi,
non sapendo che ogni cosa si prende le proprie rivincite, non
preoccupandoci della sofferenza del nostro prossimo, che
sacrifichiamo ai nostri meschini obiettivi terreni.
• Ogni qualvolta la mia vita dà in qualche modo se stessa per la vita
altrui, la mia volontà di vivere limitata s'identifica con la volontà di
vivere illimitata nella quale tutte le vite sono una cosa unica. Ho con
me una bevanda che mi impedisce di morire di sete nel deserto della
vita.
• Padre celeste, benedici tutte le cose che hanno vita, difendile dal
male e falle dormire in pace.
• Più guardiamo nel profondo della natura, più ci accorgiamo che è
piena di vita e più constatiamo che tutta la vita è un mistero e che noi
siamo uniti a ogni vita che esiste nella natura.
• Veramente morale non è che colui che soccorre ogni vita alla quale
egli può portare aiuto e si astiene di far torto ad ogni creatura che ha
vita. La vita in se stessa è sacrosanta. Io mi rendo ben conto che il
costume di mangiar carne non è in accordo con i sentimenti più
elevati.
• Verrà un momento in cui l'opinione pubblica non tollererà più
divertimenti basati sul maltrattamento e l'uccisione degli animali.

Civilization and Ethics


• L'unico modo possibile di dare un significato alla sua esistenza è [per
l'uomo] quello di elevare i suoi rapporti naturali col mondo ad un
livello spirituale. Sottoposto all'influsso di questo mondo egli
perviene ad una relazione spirituale con esso per mezzo della
rassegnazione. La vera rassegnazione consiste nel fatto che l'uomo,
sentendo la sua subordinazione al corso degli avvenimenti, lotta per
giungere ad una libertà interiore dai fatti che foggiano l'aspetto
esteriore della sua esistenza. Ciò significa che egli trova forza per
sopportare le avversità della sua sorte, in modo che queste cooperano
a fare di lui un persona più profonda e spirituale, a purificarlo e a
dargli quiete e pace. La rassegnazione perciò è l'affermazione
spirituale ed etica dell'esistenza di un individuo. Soltanto chi è
passato attraverso lo stadio della rassegnazione è capace di affermare
il mondo. (1994, p. 898)
• Coloro che sperimentano tecniche operatorie o medicine su animali,
oppure iniettano loro delle malattie per poter aiutare gli esseri umani
coi risultati ottenuti, non dovrebbero mai tranquillizzare la loro
coscienza con la scusa generale che le loro terribili azioni vengono
compiute per un nobile scopo. È loro dovere riflettere in ogni singolo
caso se è realmente e veramente così necessario sacrificare un
animale per l'umanità. Dovrebbero preoccuparsi ansiosamente di
alleviare il più possibile il dolore che provocano.
Quanti delitti vengono in questo modo perpetrati negli istituti
scientifici dove spesso si tralascia di usare i narcotici per risparmiare
tempo e fatica! Quanti delitti si compiono facendo soffrire agli
animali le torture dell'agonia, solo per dimostrare agli studenti delle
verità scientifiche che sono già perfettamente conosciute! Il fatto che
l'animale, come vittima della ricerca, abbia col suo dolore reso tali
servizi all'uomo sofferente, crea di per sé un nuovo ed unico rapporto
di solidarietà tra lui e noi. Ne risulta per ognuno di noi l'obbligo di
impegnarsi a fare quanto più bene è possibile a tutte le creature, in
ogni circostanza. Quando aiuto un insetto in difficoltà lo faccio nel
tentativo di cancellare una parte della colpa commessa con questi
crimini contro gli animali. (1994, pp. 903-904)
• L'etica del rispetto per la vita [...] ci induce ad unirci nella ricerca di
occasioni che diano un qualche aiuto agli altri animali, per
compensare la grande quantità di sofferenza che essi ricevono da noi
[...]. (1994, p. 904)
Rispetto per la vita
• Fin dalla mia più tenera infanzia ho sentito il bisogno di avere
compassione per gli animali. Ancor prima di andare a scuola non
riuscivo a capire perché, nella preghiera della sera, dovevo pregare
soltanto per delle persone. Per questo, dopo che mia madre mi aveva
fatto ripetere la preghiera e mi aveva dato il bacio della buona notte,
in segreto aggiungevo una preghiera per tutti gli esseri viventi,
composta da me. Diceva così: «Buon Dio, proteggi e benedici tutto
ciò che ha respiro, difendili da ogni male e fa' che dormano
tranquilli». (p. 9)
• Il Movimento per la protezione degli animali, sorto durante la mia
giovinezza, ebbe una grande influenza su di me. Finalmente c'era
qualcuno che osava sostenere in pubblico che la compassione per gli
animali è qualcosa di naturale, che fa parte della vera umanità, e che
non è necessario tener nascosti i propri sentimenti di fronte a questa
consapevolezza. Ebbi l'impressione che una nuova luce si fosse
accesa nell'oscurità delle idee, e che sarebbe stata alimentata per
sempre. (p. 10)
• In quegli anni di fine secolo suscitò enorme risonanza in noi studenti
la pubblicazione di scritti molto diversi fra loro: quelli di Nietzsche e
di Tolstoi [...]. Lo scrittore e pensatore russo esprimeva una visione
ben diversa da quella del filosofo tedesco. Tolstoi era un sostenitore
della cultura etica, e la considerava la verità profonda, raggiunta
attraverso lunghe riflessioni ed esperienze di vita. Leggendo i suoi
racconti noi ripercorrevamo assieme a lui il cammino verso la
conoscenza della vera umanità e di una spiritualità semplice e
schietta. (pp. 10-11)
• La sera del terzo giorno, al tramonto, ci trovammo nei pressi del
villaggio di Igendja, e dovevamo costeggiare un isolotto, in quel
tratto di fiume largo oltre un chilometro. Sopra un banco di sabbia,
alla nostra sinistra, quattro ippopotami con i loro piccoli si
muovevano nella nostra stessa direzione. In quel momento,
nonostante la grande stanchezza e lo scoraggiamento, mi venne in
mente improvvisamente l'espressione «rispetto per la vita», che, per
quanto io sappia, non avevo mai sentito né letto. Mi resi conto
immediatamente che questa espressione aveva in sé la soluzione del
problema che mi stava assillando. Mi venne in mente che un'etica che
prenda in considerazione soltanto il nostro rapporto con altri esseri
umani è un'etica incompiuta e parziale, e perciò non può possedere
una piena energia. (p. 15)
• Due volte, insieme ad altri ragazzi, ho pescato con l'amo. Poi, il
ribrezzo di fronte alla violenza dei vermi infilzati e delle bocche
lacerate dei pesci catturati mi impedì di continuare, ed ebbi
addirittura il coraggio di distogliere altri dalla pesca. (p. 64)
• La filosofia europea [...] non riesce a compiere il passo decisivo per
considerare un buon comportamento verso le creature animali una
richiesta etica assolutamente equivalente al buon comportamento nei
confronti delle persone. (p. 85)
• Per il pensiero indiano il principio dell'affinità tra tutte le esistenze –
umane, animali e vegetali – è una cosa ovvia. Fa parte della
concezione religiosa dei brahmini il pensiero che tutte le anime
individuali provengano dall'anima del mondo (il Brahman) alla quale
faranno ritorno. (p. 86)
• Riflettere sull'etica dell'amore per tutte le creature in tutti i suoi
dettagli: questo è il difficile compito assegnato al tempo in cui
viviamo. (pp. 90-91)
• Fondatori dell'etica umanitaria nell'ebraismo sono i profeti Amos ed
Osea, vissuti nel VII secolo a.C.
Le parole più profonde sulla bontà si trovano nei discorsi di Gesù e
nelle lettere dell'apostolo Paolo. (p. 120)

Citazioni su Albert Schweitzer

Ritratto di Albert Schweitzer


• A neppur ventisei anni, già laureato in filosofia, pubblicò il Mistero
del Regno di Dio, sottolineando il contenuto escatologico del Nuovo
Testamento con tale profondità da conquistarsi subito una vastissima
reputazione nel campo degli studi teologici e da ottenere la sua
seconda laurea, appunto, in teologia. (Olga Ceretti)
• È l'unico occidentale che abbia avuto sull'attuale generazione
un'influenza morale paragonabile a quella di Gandhi. Come nel caso
di Gandhi, la portata della sua influenza è dovuta soprattutto all'opera
esemplare alla quale ha dedicato la vita. (Albert Einstein)

LA VITA DEL MEDICO MISSIONARIO, NOBEL PER LA PACE


La storia (quasi) segreta
di Albert Schweitzer
La sopravvivenza del suo ospedale africano
garantita dall’ abilità come musicista
Albert Schweitzer , Nobel per la pace nel 1952 per la
straordinaria opera come medico missionario in Africa , ma
anche organista, interprete di Bach, musicologo, teologo,
filosofo,. scrittore, conferenziere fervente pacifista .Se della
sua storia di pioniere della medicina in Africa, creatore di un
ospedale e di un lebbrosario - un ‘impresa per la quale Albert
Einstein lo definì «il più grande uomo vivente»,- si sa molto. molto meno
di sa del ruolo che ebbero per la sua materiale sopravvivenza i dischi che
aveva inciso nel 1936. Fu lui stesso ad ammetterlo: «Per anni mi hanno
dato di che vivere».
Nato nel 1875 in terra tedesca, a Kaysersberg, passata alla Francia dopo la
Prima guerra mondiale, e morto nel 1965 su suolo africano, a ,Lambaréné
in Africa il «dottore bianco» (bianco di pelle e bianco di vestito) veniva
pagato in natura dai suoi pazienti: pollame, capre, maiali. Lui,
rigorosamente vegetariano, distribuiva i “pagamenti” a chi più ne aveva
necessità. L’omaggio riconoscente a quelle lontane incisioni che gli
avevano permesso di continuare la sua opera Schweitzer lo scrisse nel
1952, nel corso di una breve corrispondenza con Walter Legge, “signore e
padrone” della produzione di musica classica presso la casa discografica
inglese EMI-Columbia.
I DISCHI DEL 1936- Proprio sotto gli auspici di Legge, Schweitzer
aveva realizzato sedici anni prima alcuni dischi con musica di Johann
Sebastian Bach (sul quale scrisse anche un libro, ancora oggi
imprescindibile), che non erano certo sfuggiti al raffinato orecchio degli
specialisti, ma che il normale pubblico aveva lasciato tranquillamente
passare senza troppo emozionarsi. Ma ora, dopo il conferimento del Nobel
per la pace, il nome di Schweitzer era sulla bocca di tutti, in tutto il mondo.
Moltissimi, ammirati e incuriositi, avrebbero voluto ascoltare cosa le sue
mani sapevano trarre dalla doppia tastiera di un grande organo. Non solo
Bach, ma anche Mendelsshon, Franck e Widor, suo secondo maestro,
fiorivano sulla punta di quelle dita.
UNA LETTERA TRA CINQUECENTO - Le lettere inviate a Walter
Legge portano date tra il 9 marzo e il 19 novembre di quell’ anno 1952 e
vertono su una preoccupazione che stava profondamente turbando il neo-
Nobel, ansioso di poter registrare di nuovo, adesso che erano disponibili
nuove apparecchiature e nuove rivoluzionarie possibilità tecniche (il nastro
magnetico aveva sostituito l’incisione diretta, il microsolco stava
spazzando via il 78 giri, si cominciava a parlare di alta fedeltà).
« Caro Amico — scriveva Schweitzer — cerco di non pensare a ciò che
potreste supporre a causa del mio lungo silenzio. Vi chiedo comprensione.
Voi stesso avete potuto constatare durante il mio soggiorno a Londra
quanto fossi affaticato. Ho dovuto affrontare il lavoro di ricostruzione del
mio ospedale, che mi ha stremato. In questo momento, il tempo, il lavoro
pressante e la stanchezza mi impediscono di rispondervi. Nessun essere
umano dovrebbe affrontare in una sola volta compiti tanto impellenti come
i miei».
A Strasburgo ha dovuto occuparsi della spedizione di 125 casse di
materiale assolutamente indispensabile per il funzionamento del suo
ospedale, «e voi non potete immaginare che razza di lavoro sia compilare
tutti quei moduli». Si scusa, ma in un sacco giacciono cinquecento lettere
inevase, tutte in attesa di una risposta immediata. E in quel mucchio c’è
certo anche quella che Legge gli ha da tempo spedito. La prima lettera di
Schweitzer, quella del 9 marzo, finisce con un post scriptum che apre alla
speranza: «Un’infermiera si è gettata dentro quella montagna di
corrispondenza e ha recuperato anche la vostra missiva e quelle della casa
discografica Columbia».
UN EQUIVOCO E UN DUBBIO- La verità è che i dischi Schweitzer li
vuole assolutamente realizzare. L’ha promesso a Goddard Lieberson, della
Columbia americana durante un recente soggiorno a New York. Ha
addirittura iniziato con alcune registrazioni in proprio e con l’aiuto del
genero, impegnato con il registratore magnetico, suonando il nuovo grande
organo dell’Abbazia di St. Moritz, in Svizzera. Ma si è dovuto fermare
perché lo strumento è solo raramente disponibile. Il colloquio con
Lieberson gli ha però lasciato rinnovata energia e grande voglia di fare.
Ecco che improvviso nasce il problema, il cruccio che tormenta la sua
coscienza: «Credevo che le due Columbia, quella d’America e quella
inglese, fossero esattamente la stessa cosa», poi ha scoperto con sgomento
che la realtà non sta in questi termini. Il lavoro che sta portando avanti per
la American sarà disponibile anche per la English ? Pare di no. Il progetto,
al quale si sta dedicando con mille ansiose speranze, sta dunque forse per
naufragare? Si sente quasi un traditore, certamente un ingrato: «La
Columbia inglese non deve assolutamente dubitare della mia riconoscenza
e deve sapere che per le nuove registrazioni tutto si sistemerà. Non deve
assolutamente mettere in dubbio la mia amicizia; vi dovrò sempre
ringraziare per aver potuto effettuare alcune incisioni in St Aurelia, a
Strasburgo, nel 1936. Mai lo dimenticherò». E conclude: «Mi sento legato
a voi inglesi da vincoli di sincera lealtà».
LA SOSPIRATA SOLUZIONE - Per liberare la coscienza da quel “peso”
ricontatterà di persona i grandi capi della Casa americana. Lieberson si
mostra comprensivo con il Nobel, forse anche in omaggio alla sua fama
ormai planetaria; si rende conto che ostacolarlo sarebbe una sgradevole
pubblicità per tutto il Gruppo. Finalmente Schweitzer ottiene che il
sospirato “passaggio” dei nastri abbia luogo. Ogni sua registrazione sarà
messa a disposizione di entrambe le Columbia. Trionfante lo comunica a
Legge: «Sono riuscito a far capire alla American quanto mi abbia turbato
sembrare un ingrato nei vostri confronti e così sono riuscito a ottenere che
tutti i dischi registrati per gli americani saranno anche della English, che
potrà tranquillamente pubblicarli». L’entusiasmo è incontenibile, e lui ci ha
preso gusto: «Voglio registrare ancora e ancora». I dischi furono realizzati
e oggi li troviamo in compact disc.

Negli anni ’50 il nome di Albert Schweitzer, noto sino allora in


cerchie intellettuali ristrette e nelle minoranze protestanti, godette
anche in Italia di una vasta fama. Schweitzer fu tra i maggiori
difensori internazionali della causa della pace e dei movimenti
antinucleari. Aveva fatto l’esperienza diretta della prima guerra
mondiale e si era sentito ossessivamente coinvolto dalla seconda e
dalle sue conseguenze, ma aveva anche dimostrato nei fatti come
fosse possibile servire la causa della pace occupandosi dei vivi e
dei poveri.
Si tira quindi un sospiro di sollievo a poter parlare, sentir parlare,
anche se solo per poco, della straordinaria vita e pensiero di un
“vero” protagonista della storia e di un grande testimone del
nostro tempo quale è Albert Schweitzer, la cui esistenza lo ha visto
dedito ad impegni e scelte di elevato valore umano, sociale e
culturale, quali la teologia, la musica, la medicina; ma anche alla
riflessione sull’argomento a lui più caro dopo la dedizione
all’umanità: la filosofia della civiltà. Forse tardi, ma ancora in
tempo Schweitzer comprese che l’amore per il prossimo (il vero
fine dell’esistenza, la poetica “escatologia” alla quale portava il
mistero della Fede, ben al di là delle questioni filosofiche e
teologiche) non poteva avvenire se non sacrificando la propria
vita, nel corso della quale ne trasse l’amara constatazione di vivere
“in un periodo di decadenza spirituale”, dove “la rinuncia a
pensare è una dichiarazione di fallimento” ma anche la forza di
combattere per far recuperare “dignità all’essere umano”.
Nonostante questo esempio di estrema considerazione e rispetto
dell’uomo e di ogni altra forma di vita (come vedremo), sembra
impossibile che oggi, nel XXI secolo, si incontrino eccessive (per
non dire assurde) difficoltà ogni qualvolta si intende
intraprendere una “buona azione” nei confronti del prossimo. E
questo, anche se con più mezzi di trasporto, di comunicazione, di
risorse di ogni genere, etc.; mentre ai tempi di Schweitzer, il
sentimento della solidarietà era l’unico mezzo che consentiva di
rispondere concretamente agli appelli del medico alsaziano… Ciò,
in presenza di due conflitti mondiali, di problemi etico-filosofici, di
legislazioni non progressiste…
 

 
li uomini che meglio di Schweitzer hanno saputo ciò che significa
essere a contatto dell’umanità sofferente e indigente. Ma perché
Schweitzer si è deciso a diventare medico nella foresta vergine? La
Medicina per Albert Schweitzer non fu una vocazione della gioventù ,
ma piuttosto degli anni maturi; fu una scelta compiuta dopo essersi
lungamente dedicato allo studio della Musica, della Filosofia, della
Teologia, ed aver ottenuto il successo in ognuno di quei campi. La
spinta interiore lo porta ad un filantropico trasporto verso gli altri, ad
un amore rivolto ai sofferenti nel senso di condivisione con chi, in
qualunque parte del mondo, sia in condizione di indigenza e povertà .
 
Il filosofo alsaziano spiegava: “Avevo letto della miseria corporale degli
indigeni nella foresta vergine, ne avevo anche sentito parlare dai
missionari. Quanto più ci riflettevo tanto più mi era inspiegabile il fatto
che noi europei ci occupassimo così poco del grande compito umanitario
che laggiù ci aspettava”. Un mattino dell’autunno del 1904, sulla sua
scrivania al seminario di St. Thomas trova un fascicolo della Società
missionaria di Parigi. La sua attenzione si posa su un articolo intitolato
“I bisogni della Missione del Congo”, del missionario alsaziano Alfred
Boegner (direttore della Società missionaria), il quale deprecava che
alla missione mancassero persone disposte a svolgere opera
umanitaria in Gabon, la regione settentrionale della colonia del Congo.
 
Era conscio che, mentre molte persone intorno a lui
lottavano col dolore e con la preoccupazione, lui poteva
condurre una vita serena ed agiata… Anche quando era
all’università , rifletteva sulla sua fortuna di poter
studiare e svolgere un’attività scientifica ed artistica, e
che a molti altri non era consentito per ragioni materiali
o di salute. Per un certo periodo si dedica ai vagabondi e agli ex
carcerati, come già fece da studente: appartenendo ad un’associazione
studentesca svolgeva attività assistenziale.
 
Va precisato che Schweitzer propendeva per un’attività rigorosamente
personale e autonoma, e benché fosse disposto a mettersi a
disposizione di un’organizzazione, non abbandonò mai la speranza di
trovare alla fine un’attività a cui dedicarsi come individuo libero.
Considerò sempre la concretizzazione di questo forte desiderio come
una grande grazia che, come si vedrà , si realizzò totalmente…
 
Qualche mese dopo, al compimento del trentesimo compleanno Albert
Schweitzer decide di realizzare il suo progetto: il 13 ottobre 1905  il
giovane Albert comunica ai genitori ed agli amici più intimi che si
sarebbe iscritto a Medicina, con il proposito di diventare medico e di
andare nell’Africa equatoriale per mettersi al servizio puramente
umano. “Con la conoscenza della medicina – sosteneva – potevo
realizzare il mio progetto nel migliore dei modi, qualunque fosse il
luogo verso cui il sentiero della professione mi avrebbe condotto”.
 
Nonostante questa determinazione non mancarono tentativi di
dissuasione da parte di parenti ed amici, ai quali replicava senza
esitare, perché sentiva di rispondere all’obbedienza e al comando
d’amore di Gesù . Si rendeva conto che affrontare una via ignota era a
dir poco rischioso, che tuttavia pensava di potercela fare: riteneva di
possedere salute, nervi saldi, energia, spirito pratico, tenacia,
accortezza e quant’altro.
Ciò che sorprendeva gli amici era il fatto che egli voleva andare in
Africa non come missionario, bensì come medico. Aveva scelto l’Africa
perché là c’era maggiormente bisogno di medici e perché voleva
riparare, nel continente nero, almeno in parte, al male che i bianchi vi
avevano compiuto. L’Africa, quindi, in realtà non ha significato per
Schweitzer una fuga dalla vita o lo scopo della sua vita, ma piuttosto
un simbolo della sua vita. Andare in quel Continente per lui non c’era
nulla di eroico: si trattava semplicemente di adempiere un dovere.
L’Africa è stata il simbolo della sua esistenza; il significato ne è il
rispetto per la vita.
 
In merito a questa scelta sosteneva: “Solo chi sa trovare
un valore in ogni attività consacrandosi ad essa con
piena coscienza del dovere, ha l’intimo diritto di
prefiggersi un’opera fuori del normale invece di quella
che gli tocca naturalmente dalla sorte. Solo chi
concepisce il suo proposito come qualcosa di ovvio, non
di straordinario, e non conosce l’atteggiamento eroico,
ma esclusivamente il dovere assunto con pacato
entusiasmo, ha la capacità di essere un avventuriero spirituale. Non ci
sono eroi dell’azione, ma soltanto eroi della rinuncia e della sofferenza.
Pochi di essi sono conosciuti, non dalla folla, ma da una piccola cerchia
di persone… Colui che è stato risparmiato dal dolore deve sentirsi
chiamato a contribuire a lenire il dolore degli altri. Tutti, infatti,
dobbiamo portare il fardello di sofferenze che pesa sul mondo… Chi dà la
propria vita per gli altri la conserva per l’eternità. Chi si propone di
agire per il bene, non deve aspettarsi che la gente per questo gli tolga gli
ostacoli dal cammino, ma rassegnarsi che, quasi inevitabilmente, gliene
metta qualcun altro in mezzo”.
 
Queste sue affermazioni richiamano il concetto di etica, ossia la
scienza della condotta morale di ogni uomo. L’etica ha in sé l’idea che è
necessario diventare attivi per il bene degli altri ed è uomo “etico”
colui che si dedica agli altri. “L’uomo è veramente etico – secondo la sua
concezione – solo quando ubbidisce al dovere di aiutare ogni essere
vivente che gli sta attorno e si guarda bene dal recar danno a qualche
cosa di vivo. Non si domanda quanto interesse merita questa o quella
vita e nemmeno se e quanta sensibilità essa possegga. La vita in quanto
tale gli è santa. Etica è responsabilità senza limiti verso tutto ciò che
vive ”. 
Un chiaro richiamo al pensiero di Goethe che affermava: “Sia nobile
l’uomo, pronto ad aiutare e buono”.
 
La preparazione medica avrebbe favorito il perseguimento di questo
scopo nella maniera migliore e più completa. Una scelta decisamente
opportuna perché dove voleva andare, secondo i rapporti dei
missionari, la presenza di un medico era la più urgente delle necessità .
Prima di iscriversi alla Facoltà di Medicina ebbe tutti contro: accusato
di presunzione, originalità . Lui rispondeva: “Voglio diventare medico
per poter lavorare senza parlare…; mi pare la più urgente necessità, in
Africa ”. Soltanto a suo padre confidò : “Ho riflettuto a lungo su ogni
aspetto della cosa. Ho salute, nervi saldi, energia, spirito pratico,
tenacia, accortezza, non ho molti bisogni e… se farò fiasco, pazienza, mi
rassegnerò ad aver sbagliato ”.
 
A questo proposito va sottolineato che sin da giovane talvolta nasceva
in Albert, anche se con garbo e discrezione, l’amore per la polemica.
Come quella volta che un’amica di sua madre gli disse: “Eh, caro Albert,
adesso sei tutto entusiasmo, hai la testa piena di ideali, ma purtroppo la
vita è diversa; ti accorgerai ben presto che la maggior parte di ciò che in
questo momento ti esalta altro non è che illusione”. Albert, sbottando,
rispose: ”Ecco il vostro errore, signori adulti! Vi piace preparare i
giovani alla vita, dicendo loro che debbono rinunciare ai loro ideali.
Nossignori. Vostro preciso compito dev’essere quello di aiutare la
gioventù a conservare ben saldi i suoi ideali e i pensieri che la
entusiasmano, perché costituiscono una ricchezza immensa. Non dite
mai: “Ci penserà la realtà a spegnere i tuoi ideali ”. Ditegli invece: “
Rafforza al massimo i tuoi ideali perché la vita non riesca a sradicarli ”.
Gli ideali, i pensieri, le idee sono come gocce d’acqua. Apparentemente
senza forza. In una goccia d’acqua non si scorge potenza, ma se essa
penetra in un crepaccio e diventa ghiaccio, fa saltare la roccia; se si
trasforma in vapore mette in moto una macchina. Gli ideali, i pensieri
stanno dentro di noi, apparentemente inerti e inutili. Ma diverranno
potenti se ci sforzeremo di diventare più semplici, più sinceri, più puri,
più mansueti, più pietosi, più amorevoli. Solo con questo lavorio, il molle
ferro dell’idealismo giovanile diventerà acciaio ”. “Hai ragione figliolo -
concluse il padre, vicario Ludwig -. Dove vi è una forza, vi è anche
l’effetto della forza. Nessun raggio di sole va perduto. Ma non
dimenticare che la verzura che il sole stimola chiede del tempo per
germogliare e la sorte non concede sempre a chi ha seminato di
partecipare al raccolto”.
 
Con gioia aveva esercitato la professione di insegnante di teologia e di
predicatore. Non poteva però concepire la nuova attività come una
semplice predicazione della religione, bensì soltanto come una
genuina attuazione. La preparazione medica avrebbe favorito il
perseguimento di questo scopo nella maniera migliore e più completa,
dovunque lo avesse portato il cammino.

Nell’Africa equatoriale, secondo i missionari, la presenza di un


medico era la più urgente delle necessità . “La parabola del ricco
Epulone e del povero Lazzaro – sosteneva – mi sembrava scritta per noi.
Siamo noi il ricco Epulone perché il progresso della medicina ci ha dato
in mano molti mezzi contro le malattie e il dolore. E noi consideriamo gli
inestimabili vantaggi di questa ricchezza come un qualche cosa di
naturale. Ma laggiù, nelle colonie, c’è il povero Lazzaro, i popoli di
colore, soggetti al dolore come noi, anzi più di noi perché non hanno
mezzi per combatterlo”.
 
La sua vita ha avuto un’unica tangente: pensatore conscio della sua
responsabilità dinanzi agli uomini; artista che cerca con la sua arte gli
europei all’interiorità , al raccoglimento; medico nel lavoro per la
salvezza dei negri. A questo proposito, tra l’altro, sosteneva: “Colui che
è stato risparmiato dal dolore deve sentirsi chiamato a contribuire a
lenire il dolore degli altri. Tutti dobbiamo portare il fardello di
sofferenze che pesa sul mondo”.  La sua decisione fu quindi irrevocabile.
Era un venerdì il 13 ottobre del 1905 quando imbucò una serie di
lettere, in cui comunicava ai suoi genitori e ad alcuni amici più intimi
che, con l’inizio del semestre invernale, si sarebbe iscritto a Medicina,
con il proposito di andare più tardi come medico nell’Africa
equatoriale.
 
Lo studio della Medicina (1905-1912)
 
Nei primi mesi di università Schweitzer scrive il saggio
sulla costruzione degli organi; e nella primavera del
1906, dimettendosi da direttore del seminario
teologico, lascia il collegio di St. Thomas dove aveva
abitato fin dal periodo studentesco. Si dedica
profondamente allo studio delle scienze naturali, che gli
avrebbe procurato gran completamento della sua
cultura, acquisendo una viva esperienza intellettuale. All’inizio del
corso di Medicina aveva incontrato difficoltà finanziarie, ma in seguito
la situazione migliorò grazie al successo dell’edizione tedesca del suo
libro su Bach e agli onorari per i concerti. Nell’ottobre 1911 sostiene
l’esame di Stato e, il 17 dicembre conclude la sua presenza presso il
reparto di chirurgia di Madelung, ancora incredulo di avere alle spalle
il grande sacrificio per lo studio della medicina.
 
Nei suoi studi sulla vita di Gesù aveva messo in evidenza che egli era
cresciuto nel mondo ideale tardo giudaico, per noi fantasioso,
dell’attesa della fine del mondo e del successivo avvento di un regno
messianico soprannaturale. Perciò gli era stato rimproverato di aver
fatto di lui un “esaltato”, se non addirittura una personalità dominata
da idee deliranti. Quindi, attraverso l’approfondimento della tesi,
doveva stabilire con criteri medici se la sua consapevolezza messianica
era in qualche modo legata a una psicopatia.
 
Prima della partenza per l’Africa
 
Nonostante l’impegno per la tesi, si prodiga per i preparativi del
viaggio in Africa e, nella primavera del 1912, abbandona
l’insegnamento all’università e l’incarico alla comunità di St.
Nicolai. Tale abbandono costituisce per Albert Schweitzer una grande
rinuncia. Prima della partenza vive per un breve periodo nella paterna
casa di Gunsbach insieme con la moglie Helénè Breslau (figlia  di uno
storico di Strasburgo), che aveva sposato il 18 giugno 1912. Prima del
matrimonio è stata per lui una valida collaboratrice nella stesura di
manoscritti e nella correzione delle bozze; insomma, in tutti quei
lavori letterari che dovevano essere completati prima della partenza
per l’Africa.
Albert Schweitzer la moglie Helénè Bresslau
 
Trascorre la primavera del 1912 a Parigi per
specializzarsi in Medicina tropicale ed effettuare i primi
acquisti per la nuova attività che lo attendeva. Sino ad
allora aveva svolto un lavoro esclusivamente
intellettuale; ma ora, si trattava di compilare orinazioni sulla base di
cataloghi, fare acquisti per giornate intere, scegliere le merci,
esaminare forniture e conti, preparare casse ed imballaggi, redigere
minuziosi elenchi per la dogana ed altro ancora. Ottenuta dal
ministero delle Colonie l’autorizzazione all’esercizio dell’attività
medica nel Gabon, dato che era in possesso soltanto del diploma di
laurea in tedesco, comincia i preparativi mettendo insieme gli
strumenti, le medicine ed ogni altro materiale necessario per
un’attività ospedaliera. Per procurarsi i mezzi necessari per affrontare
l’impresa ricorre alla bontà dei suoi conoscenti, la cui difficoltà era
data dal fatto che tale opera umanitaria doveva ancora iniziare…
 
Tuttavia incontra molta disponibilità e dimostrazioni di affetto. In
particolare si commuove per la generosità delle offerte dei professori
tedeschi dell’università di Strasburgo per un’opera da fondare in
territorio coloniale francese. Un notevole contributo materiale lo
riceve grazie ad un concerto e ad una conferenza che tiene a Le Havre.
Un aiuto prezioso per il disbrigo delle questioni finanziarie e
commerciali gli viene da Annie Ficher (vedova di un professore di
chirurgia dell’università di Strasburgo, il cui loro figlio diventerà più
tardi medico in un paese tropicale), che mantenne tale impegno in
Europa durante la permanenza di Schweitzer in Africa. Ora era pronto,
e alla Società missionaria di Parigi comunica che come medico
intendeva servire gli abitanti di Lambarènè, un villaggio del Gabon
lungo il fiume Ogooué.
 
Nonostante il direttore della Società di Parigi, Jean Bianquis, si
adoperasse per aiutare il dottor Schweitzer, gli ortodossi oppongono
resistenza, e decidono di convocarlo davanti ad un comitato per
sottoporlo ad un esame dottrinale. Ma Albert Schweitzer non si presta
al “gioco” obiettando che, quando aveva nominato i suoi discepoli,
Gesù aveva preteso da loro soltanto la volontà di seguirlo. Si rifiutò di
comparire davanti al comitato e lasciarsi sottoporre a domande
teologiche. Per contro, si offre di dialogare con i membri del
comitato per dimostrare che non avrebbe rappresentato un pericolo
per le anime dei negri… Accettarono la sua proposta anche se, alcuni
dei membri, pensavano che una volta laggiù Albert Schweitzer si
lasciasse tentare di confondere i missionari con la sua cultura e di
mettersi a fare il predicatore. Benché fosse disposto a mettersi,
all’occorrenza, a disposizione di un’organizzazione, non abbandonò la
speranza di trovare alla fine un’attività a cui dedicarsi come individuo
libero. Ha sempre considerato l’appagamento di questo desiderio
come una grande grazia, continuamente rinnovata.
 
Nel febbraio 1913 erano pronte le 70 casse e spedite in anticipo a
Bordeaux. La moglie di Albert (che nel frattempo aveva completato il 
corso di infermiera) era contraria a che suo marito si portasse 2000
marchi in oro anziché in biglietti. Lui ribadì che bisognava fare i conti
con la possibilità di una guerra: in tal caso l’oro avrebbe conservato in
qualsiasi parte del mondo il suo valore, e i fatti gli diedero ragione.
Albert aveva ricavato fondi presso amici e parenti, attraverso
donazioni spontanee, organizzazioni di beneficenza e tenendo
concerti. Quest’ultimo ruolo sarà il modo più proficuo da lui utilizzato
per la raccolta di sovvenzioni per l’autofinanziamento dell’ospedale.
 
Il primo periodo africano dal 1913 al 1917
 
Il Venerdì santo (26 marzo 1913) i coniugi Schweitzer lasciano
Gunsbach si imbarcano a Bordeaux. Una volta giunti a Libreville
(capitale del Gabon e base navale della baia, deve il suo nome ad alcuni
schiavi che nel 1849 vi si stabilirono dopo la cattura di un battello di
negrieri), li attendevano altre otto ore di navigazione per giungere a
Port Gentil. Il 15 aprile i coniugi Schweitzer lasciarono la nave Europe
per imbarcarsi sul battello fluviale “Alembé”, percorrendo l’Ogooué (un
fiume lento, limaccioso, largo tre volte il PO, che si apre la strada
nell’intrico verde della foresta per centinaia e centinaia di miglia),
quindi a Lambarènè alla Missione N’Gomo, accolti con molta cordialità
dai missionari Christol e Ellenberger.
 
I coniugi Schweitzer all’arrivo in Gabon
 
Nota sulla Missione di Lambarènè
 
La Missione di Lambarènè era stata fondata nel 1876
dal dottor Nassau, un missionario e medico
americano; del resto americani erano stati i missionari che, giunti
nel paese nel 1874, avevano iniziato l’attività evangelica nella
regione dell’Ogoouè. Quando poi il Gabon era diventato
possedimento della Francia, la Società di Parigi aveva sostituito, a
partire dal 1892, gli americani, dato che questi non erano in grado
di impartire l’istruzione scolastica in francese, com’era prescritto
dal governo.
 
Stabilirono la loro dimora sulle rive del fiume, una capanna sulla
collina Andende (a 250 Km. dalla capitale Libreville). Subito si mette
all’opera (aiutato dalla moglie, infermiera) e, non avendo dove
operare, come ambulatorio si accontenta di un vecchio pollaio.
Nell’autunno ottiene vicino al fiume una baracca di lamiera ondulata
(8 m. x 4 m.), coperta da un tetto di foglie, e conteneva un piccolo
angolo per eseguire gli interventi, ed un piccolo spazio adibito a
farmacia. Intorno sorsero altre piccole capanne di bambù per il
ricovero degli ammalati.

 
L’ospedale di Lambaréné non è da intendersi
nient’altro che il concetto del rispetto per la
vita, realizzato e concretizzato ben più che
un comune nosocomio ai margini della
foresta vergine, ne è un asilo sicuro per chi è
visitato dalla sofferenza, un luogo di rifugio
per uomini e animali. È altresì un simbolo di
fratellanza internazionale perché da tutte le parti del mondo arrivano
medicine, mezzi di sussistenza e messaggi di simpatia e di
approvazione. Sin dall’inizio il tam-tam aveva già fatto sentire la sua
voce e in poco tempo  si trova assediato da molti ammalati, che
provenivano in piroga da distanze di 200-300 Km., scendendo o
risalendo il fiume Ogouè e i suoi affluenti. I malati non arrivavano soli,
ma accompagnati dall’intera famiglia e dagli animali domestici.
Bisognava ospitare tutti, fra posto a tutti, sfamare tutti, uomini e
bestie, malati e sani. Altrimenti rifiutavano di restare, risalivano sulla
piroga e ripartivano con tutto il seguito per i villaggi da cui erano
venuti.

Tra le prime difficoltà Schweitzer è nell’impossibilità di trovare


interpreti, ma in seguito il problema fu risolto con la disponibilità di
Joseph Azoawani (un ex cuoco, che gli rimase fedele sino alla fine dei
suoi giorni); gli diede preziosi consigli per i rapporti con gli indigeni.
Da lui impara che presso i primitivi è imprudente cercare di dare
speranza all’ammalato e ai suoi familiari quando in verità non ce n’è
più . Se sopraggiunge la morte, senza che sia stata debitamente
predetta, la gente conclude che il medico non sapeva che la malattia
avrebbe avuto questo esito e quindi non l’aveva individuata. Agli
ammalati indigeni bisogna dire la verità senza riguardo: essi vogliono
conoscerla e sanno sopportarla. La morte è per loro qualcosa di
naturale, non la temono, l’attendono con calma.
 
La moglie Helénè Breslau, assisteva i malati più gravi,
curava la distribuzione della biancheria,
sovrintendeva alla farmacia, teneva sempre pronti gli
strumenti per gli interventi, si occupava dei
preparativi per l’anestesia; mentre Joseph fungeva da
assistente. Il lavoro non mancava, ma non era tanto la sua intensità che
preoccupava Schweitzer, bensì la responsabilità e le preoccupazioni. Si
preoccupava di risparmiare e, nei limiti del possibile, esigeva dai
pazienti negri che manifestassero concretamente la loro gratitudine
per l’assistenza ottenuta. Ottiene così contributi in natura che
ovviamente distribuiva fra i più poveri, e col denaro provvedeva
all’acquisto del riso quando non c’erano abbastanza banane; anche se i
più selvaggi avevano una diversa concezione del dono: in procinto di
lasciare guariti l’ospedale, ne pretendevano uno da lui perché
dicevano, era ormai diventato loro amico…
 
Tra i numerosi compiti, il dottor Schweitzer si proponeva di predicare,
poter spiegare le parole di Gesù e di Paolo a gente per cui esse erano
totalmente nuove. Nel tempo libero del suo primo anno in Africa lo
dedica alla preparazione degli ultimi tre volumi dell’edizione
americana delle opere di Bach per organo. Per esercitarsi aveva a
disposizione un piano con pedaliera d’organo, fabbricato per le zone
tropicali, avuto in dono dagli amici della Società bachiana di Parigi.
Prima dello scoppio della guerra Schweitzer aveva ricevuto una grossa
spedizione dell’occorrente per l’ospedale. Ma la salute di sua moglie è
stata, a causa del clima, per un certo periodo cagionevole, ed avevano
così trascorso al mare, presso il Port Gentil alla foce dell’Ogoouè, la
stagione delle piogge tra il 1916 e il 1917.
 
Prigionieri a Garaison e a St. Rémy
 
Nel settembre 1917, appena ripreso il suo lavoro a Lambarènè, giunge
la notizia di trasferirsi in un campo di concentramento in Europa. Con
la moglie viene condotto sul vaporetto fluviale; giungono a Bordeaux e
trattenuti in una sorta di caserma (per prigionieri in tempo di guerra).
Qui Schweitzer contrae la dissenteria, che cura da sé, anche se in
seguito tribolò ancora per parecchio tempo. Successivamente vengono
trasferiti nel grande campo di concentramento di Garaison (un ex
convento) nei Pirenei.
Fra i prigionieri era l’unico medico e, sia pur con qualche reticenza, gli
è consentito esercitare l’attività di medico nel campo, essendo d’aiuto
soprattutto a molti marinai affetti da malattie tropicali. Nella sua
qualità di medico poté farsi un’idea della miseria che, in molteplici
aspetti, regnava nel campo. Nell’internato quelli che soffrivano di più
erano affetti da disturbi psichici.
 
Di nuovo in Alsazia
 
Verso la metà di luglio 1918, grazie ad uno scambio di prigionieri, i
coniugi Schweitzer possono far ritorno in patria, attraverso la Svizzera.
Il 15 luglio arrivano a Zurigo, e sembrava loro inconcepibile trovarsi in
un paese che non conosceva la guerra. A stento Schweitzer riesce a
raggiungere Gunsbach per salutare suo padre. Nel frattempo la sua
salute peggiora a causa dei postumi della dissenteria contratta a
Bordeaux, e necessita quindi di un intervento chirurgico. Viene
operato il primo settembre a Strasburgo dal prof. Stoltz. Nell’estate del
1919 si reca in Svezia, e qui è sottoposto ad un secondo intervento
chirurgico.
 
Il sindaco di questa città offre a Schweitzer il posto di assistente
all’ospedale civile, che accetta anche perché non aveva di che vivere.
Rimane in Europa ancora due anni dopo l’armistizio, che segna il
passaggio dell’Alsazia dall’amministrazione tedesca a quella francese.
In questo lungo periodo si dedica agli scritti su Bach e alla filosofia
della civiltà , come pure alle grandi religioni e della loro visione del
mondo. Nella Pasqua del 1920, su invito dell’arcivescovo Nathan
Soderblom, tiene una serie di lezioni all’università di Uppsala per
conto della Fondazione Olaus Petri. In questo stesso anno gli fu
conferita la laurea honoris causa dalla Facoltà di Teologia di Zurigo.
 
Per la seconda volta in Africa (1924-1927)
 
Il 14 febbraio 1924 Albert Schweitzer lascia Strasburgo solo (la moglie
resta in Europa a causa del precario stato di salute). Albert le fu
sempre molto grato per il sacrificio compiuto approvando in tali
circostanze la sua decisione di riprendere l’attività a Lambarènè.
Questa volta vi ritorna accompagnato da Noel Gillespie, un giovane
studente di chimica di Oxford. Giungono a Lambarènè il 9 aprile.
Dell’ospedale non rimaneva altro che la piccola baracca in lamiera e lo
scheletro in legno duro di una delle grandi capanne di bambù . Durante
i sette anni della sua assenza tutti gli altri edifici erano marciti e caduti
in rovina. La ricostruzione dell’ospedale richiese un anno e mezzo
(altra biografia riporta parecchi mesi…) di lavoro per portarlo a un
certo grado di funzionalità . Al mattino faceva il medico e al pomeriggio
il capomastro. Purtroppo non riusciva a trovare operai perché il
commercio del legname, rifiorito dopo la guerra, aveva assorbito tutta
la manodopera disponibile. Ha dovuto così ricorrere ad alcuni
“volontari”, accompagnatori di ammalati o convalescenti, che
lavoravano senza entusiasmo.
 
Generalmente nei villaggi della foresta vergine, la
boscaglia invadeva anche le capanne. Era un duro
lavoro abbattere gli alberi ed estirpare i cespugli
e le erbe… Gli indigeni erano sempre maldisposti
a questa fatica improduttiva… Il dottor Albert
Schweitzer spiega: ”Oltre ai lati negativi gli indigeni possedevano
qualità molto rare. Noi siamo portati troppo spesso a giudicarli per i
fastidi e le delusioni che ci procurano quando sono al nostro servizio…
Non intendo giustificare la loro negligenza o negare la loro insofferenza.
Mi sento in dovere di aggiungere, a loro giustificazione, che la
condizione di salariati non è abituale a questa gente vissuta sempre in
assoluta libertà. Per gli indigeni, lavorare non è un mestiere. Il lavoro è
un episodio passeggero nella loro vita di uomini liberi. Esso rappresenta
un obbligo al quale hanno accettato di sottomettersi solo per
guadagnare. Quindi ogni mezzo è buono per eluderlo ”.
 
Poiché gli ammalati aumentavano, fra il 1924 e il 1925 trasferisce la
sua abitazione su un’altra collina chiamata Adolinanongo (in dialetto
galoa vuol dire “colui che dall’alto domina la tribù ”), e fa venire
dall’Europa due medici e due infermiere. Come se non bastasse
sopraggiungono una grave carestia e una grave epidemia di dissenteria
che, per affrontarle, occorsero mesi di duro lavoro. Si rende quindi
necessario spostare l’ospedale in una zona più ampia. Per la terza
volta ricostruisce l’ospedale, a tre Km. di distanza, e nel gennaio 1927
trasferisce anche gli ammalati, separando i contagiosi e gli alienati
dagli altri. Si contavano ora 200 presenze oltre agli accompagnatori.
Per la prima volta i suoi malati erano ricoverati in modo degno di un
uomo! Risultati che ha potuto conseguire grazie ai proventi delle sue
conferenze, concerti e pubblicazioni. Ora, che erano giunti dall’Europa
due medici e due infermieri, poteva pensare di tornare a casa a trovare
la moglie e la figlia. Il 21 luglio (altra biografia riporta il 2 luglio) dello
stesso anno lascia Lambarènè.
 
Nonostante l’età Schweitzer non stava mai fermo,
e la sua giornata era impegnata sino a notte. Alle
7.30 entrava nella sala da pranzo, per la prima
colazione. A tavola si parlava poco… Alle 9.00 era
già al tavolo di lavoro per rispondere alla
corrispondenza. Lo studio è anche camera da
letto: 3m. x 3m. Dopo lo scritto si dedicava all’ospedale: non gli
sfuggiva nulla; incoraggiava, rimproverava, risolveva i mille problemi
che l’ospedale creava. Nessuno si lamentava per il caldo. Alle 19.30
si cenava, tutto il personale si radunava e aspettava Schweitzer.
Dopo la cena Schweitzer suonava al pianoforte; poi si dedicava alla
lettura, venivano distribuiti i libri degli inni luterani. Prima delle 21.00
la giornata aveva termine. Quando era solo, restava alzato fino alla
mezzanotte a scrivere, a studiare.
 
L’inosservanza degli indigeni
 
Gli operati sono la principale causa delle
preoccupazioni del dottor Schweitzer e
collaboratori. La loro inosservanza alle prescrizioni
era la norma… Spesso gli operati, cedendo alla
tentazione di passare le dita sotto le bende per
toccare le ferite, correvano il rischio di infettarsi. Non era davvero
facile, secondo Schweitzer, essere medico dei primitivi! Ogni sabato
pomeriggio era dedicato alla pulizia delle baracche; erano reclutate
tutte le donne che accompagnavano in ospedale i loro congiunti. Gli
indigeni non riescono a capire perché si deve curare tanto la pulizia
delle zone che circondano l’ospedale: per loro è del tutto indifferente
che nel corso degli anni si ammassino intorno ai villaggi cumuli di
immondizie. È difficile convincerli che è proprio questa montagna di
sudiciume la causa prima delle febbri che colpiscono i loro familiari e i
loro figli. Proprio perché la maggior parte dei malati arrivavano
all’ospedale, provenienti da villaggi lontani, impiegando intere
settimane, non di rado arrivava gente che aveva affrontato un lungo e
faticoso viaggio, e spesso l’intervento chirurgico si rivelava impossibile
e senza speranza. Tuttavia, come questa gente non morisse di fame
nell’attesa, è stato, per così dire, sempre un mistero…
Ma sulla tendenza a giudicare o ad analizzare il comportamento di
queste popolazioni, o comunque del prossimo, Schweitzer, sosteneva:
“Non si ha il diritto di indagare nell’intimo degli altri. Il voler analizzare
i sentimenti del prossimo è indelicato. Non c’è solo un pudore del corpo,
esiste anche quello dell’animo che bisogna rispettare. Anche l’animo ha i
suoi veli, dei quali non ci si deve liberare”. Così Schweitzer descriveva gli
indigeni. “Il nero non è un essere stupido, come può credere chi presta
fede ai racconti dei vari esploratori che basano i loro giudizi sulle
esperienze fatte con portatori e rematori. Per conoscere veramente
l’indigeno è indispensabile che i rapporti non siano da padrone a
dipendente, ma da uomo a uomo”.
 
“Dobbiamo cercare - proseguiva - di cogliere la sua autentica natura
attraverso l’atteggiamento del tutto esteriore e poco simpatico che egli
ostenta in nostra presenza. Chi ci è riuscito, sa quanta generosità si
racchiude nel suo animo. Ciò che mi ha sempre sorpreso nei nostri
indigeni è la mitezza d’animo. Essi ignorano quella solidarietà che
spinge un uomo a portare aiuto a un proprio simile, come a noi è stato
insegnato dai comandamenti divini. Paragonato agli europei, l’indigeno
è un essere asociale: è assurdo accusarlo di inosservanza dei doveri. Egli
è ancora troppo preoccupato di sé per interessarsi agli altri. Quando
invece è costretto a sopportare un’ingiustizia, spesso dà prova di una
pacatezza e di una calma che non ha mancato di sorprendermi. Fra
l’altro ritengo che gli indigeni siano meno suscettibili di noi ai
sentimenti di collera e vendetta”.
 
Ancora due anni in Europa
 
Complessivamente Schweitzer fece 19 viaggi a Lambarènè. Ovunque
andasse gli impegni si susseguivano. Divenne famoso in tutto il mondo:
la rivista “Time” lo considerò “il più grande uomo del mondo”.
Trascorre l’autunno e l’inverno del 1927 in Svezia e in Danimarca; la
primavera e l’estate del 1928 è in Olanda, Svizzera, Inghilterra,
Germania per una serie di concerti e per ritirare il premio Goethe per
la sua opera missionaria. La sua resistenza fisica, il suo carattere
fermo, la sua perseveranza, la sua fede, la sua musica d’organo vissuta
come un atto di fede, sono stati i motivi profondi del suo successo.
 
Nel dicembre 1929 riparte per l’Africa accompagnato ancora una volta
dalla moglie. Un soggiorno che durerà sino al 1932, perché la moglie, a
causa del clima, tornò in Europa verso la Pasqua del 1930. Nel gennaio
1932 ritorna in patria e il 22 marzo è a Francoforte per tenere il
discorso ufficiale per il primo centenario della morte di Goethe. In
questa occasione pronunciò un violento discorso di sfida al nazismo.
Da allora la Germania rimase esclusa dagli itinerari dei suoi viaggi.
Ritorna in Africa nell’aprile 1933, ma solo per pochi mesi. Infatti, nel
gennaio successivo è in Europa per far fronte ad impegni di conferenze
che tiene a Londra, Oxford e ad Edimburgo.
Il 5 febbraio 1935 parte per la quinta volta
per Lambarènè per ritornare ad Edimburgo
nell’agosto successivo. Nell’agosto 1939 torna
a Lambarènè per proteggere la sua opera, in
vista del secondo conflitto mondiale, prima del
quale la media dei pazienti curati e assistiti era
di 3.500 all’anno. Nel 1940 vi furono anche dei combattimenti nei
pressi dell’ospedale, e per quasi tutto il periodo della guerra fu quasi
completamente isolato dal resto del mondo. Le difficoltà aumentarono
anche perché le donne europee, i cui mariti erano stati richiamati sotto
le armi, non osavano abitare da sole in località isolate della giungla e
chiedevano asilo a Schweitzer.
 
Altri bianchi, impossibilitati ad abbandonare l’Africa, si erano
ammalati e bisognava accoglierli in ospedale; pure alcuni medici e
infermieri si erano ammalati ed era necessario allontanarli da
Lambarènè perché riacquistassero la salute in un clima più salubre.
Prima della fine della guerra Albert Schweitzer ebbe il conforto di
riabbracciare la moglie che era riuscita a raggiungerlo ancora una
volta in Africa. Il 7 maggio 1945 giunge la notizia che in Europa erano
cessate le ostilità , e con la fine della guerra riprende i contatti con
l’Europa e soprattutto con l’America, che contribuì ad inviare
materiale, medici ed infermieri.
 
Nell’ottobre del 1948 Schweitzer torna in Europa (in questo periodo
scrisse “L’ospedale nella foresta vergine”) e prima della fine del 1949
(dopo essere stato per la prima volta negli Usa) è di nuovo a
Lambarènè. Quando nel 1951 torna in Europa la sua fama è all’apogeo:
i critici di tutta Europa concordavano nel giudicare eccezionale il
periodo passato nella foresta. Ad un famoso corrispondente svizzero
scrisse: “Soffro di essere famoso e cerco di evitare tutto ciò che attira su
di me l’attenzione”. Questa sua timidezza fu notata ed apprezzata da
tutti coloro che ebbero contatti con Schweitzer. In questo stesso anno
era stato eletto membro dell’Accademia delle scienze morali e politiche
di Parigi. Nel 1952 il dottor Schweitzer fu onorato con il premio Nobel
per la pace, ma poté recarsi ad Oslo per la solenne cerimonia solo
l’anno dopo, in occasione della quale tenne una conferenza sul
problema della pace nel mondo. Fu un vibrante appello in favore della
pace e della bontà . Con il denaro del Premio (33.480 dollari) poté
portare a termine il suo villaggio dei lebbrosi che venne inaugurato nel
1954 con il nome di “Villaggio della luce”.
 
Ma come esercitava l’attività medica?
 
Già nella sua autobiografia “Ma vie et ma pensée” Schweitzer
annotava che all’età di 21 anni aveva deciso di vivere per la scienza e
per l’arte sino ai trent’anni e di consacrarsi in seguito ad un servizio
puramente umano. Voleva diventare medico per poter lavorare senza
essere costretto a parlare e, in Africa, la presenza di un medico
corrispondeva al bisogno più urgente. Mantenne e concretizzò questo
suo proposito. Nell’ottobre 1905 si presentò in qualità di studente al
preside della Facoltà di Medicina di Strasburgo. Superata la trentina e
conscio dell’impegno che avrebbe dovuto affrontare negli anni
successivi, annotava nelle sue memorie: “… così ora inizio una lotta
contro la fatica ed il tempo che durerà per parecchi anni”.
 
Partendo per l’Africa si preparò a compiere un
triplice sacrificio: rinunciare alla sua attività
artistica, abbandonare l’insegnamento
universitario, perdere la propria indipendenza
materiale e ridursi, per il resto della sua vita, a
dipendere dall’aiuto dei suoi amici. Nel 1912
ottenne l’autorizzazione ad esercitare la pratica medica, e trascorse
quasi un anno a Parigi per seguire dei corsi di medicina tropicale; nel
frattempo si dedicò alla raccolta di materiale tecnico-sanitario che gli
sarebbe servito per la sua attività a Lambaréné, dove vi giunse nella
primavera del 1913 con  la moglie Hélène Breslau che gli sarebbe stata
accanto coadiuvandolo come infermiera e, inizialmente, anche come
anestesista. Inizialmente alloggiarono in una piccola baracca di
lamiera ondulata e per ambulatorio ebbero a disposizione un vecchio
pollaio adiacente all’abitazione. Solo nel tardo autunno poterono fruire
di una baracca più grande con un tetto di foglie il cui interno
conteneva un piccolo ambulatorio, una sala operatoria, una farmacia e
un angolo per la sterilizzazione.
 
In seguito sorsero altre capanne per il ricovero degli indigeni che,
scendendo o risalendo il grande fiume Ogoué, arrivavano dalle zone
più lontane e inesplorate del nord (accompagnati dai famigliari con al
seguito i loro animali e le loro povere cose) coperti da piaghe ulcerose,
paralizzati dal tripanosoma, dissanguati dalla malaria, accecati dal
tracoma, deturpati dalla lebbra. Ma spesso erano affetti da più
patologie. Era difficile trattare questi malati: alcuni rifiutavano
l’intervento perché ancora “soggiogati” dallo stregone del villaggio,
altri con ferite aperte facevano il bagno nelle acque infette del fiume; le
gravide rifiutavano di partorire all’ospedale per cui si rendeva
necessario ricorrere a stratagemmi per convincerle a dare alla luce i
loro bambini in modo più sanitario… “Dopo un viaggio di 400-500
chilometri – osservava Schweitzer – arrivavano in condizioni pietose
(spesso disperate), affamati, denutriti; e per varie settimane, prima di
operarli, dovevamo nutrirli e rimetterli in sesto”.
 
In mancanza di denaro ai pazienti veniva richiesto un contributo in
natura e lavoro. Senza scendere ulteriormente in dettagli, si può
immaginare quali erano le difficoltà di organizzazione e
funzionamento di un ospedale nel cuore dell’Africa agli inizi del secolo
scorso, creato dal nulla in un habitat e in un clima ostili, e per i primi
anni senza collaboratori tecnici competenti. Dopo alcuni mesi, e
superati i primi ostacoli, il piccolo ospedale poteva ospitare
quotidianamente una quarantina di degenti. Sino al 1917 e dal 1924 in
poi il medico alsaziano si dedicò prevalentemente all’attività medica e
chirurgica, che fu incrementata con l’arrivo del dottor Marc
Lauterburg. “Ma il dottor Schweitzer, nel campo della scienza medica –
precisa Adriano M. Sancin, chirurgo e ginecologo, fondatore e
segretario nazionale dell’Associazione Italiana Albert Schweitzer, con
sede a Trieste (telef. 040/27.46.34) – non fu un genio e non ha mai
inventato nulla. Vanno quindi eliminate certe idee sulla sua genialità
riportate più volte dai mass media, male informati ed alla ricerca di
notizie sensazionali o quantomeno infondate. Quello che invece ci
stupisce di Schweitzer, e ciò che vale per tutte le sfere della sua attività,
non è tanto la sua capacità geniale quanto la pazienza di apprendere.
Una pazienza sostenuta indubbiamente da una straordinaria forza di
volontà e favorita, pure, come egli stesso affermava, da una buona dose
di fortuna”.
 
Ma anche se il dottor Schweitzer non scoprì nulla in
ambito medico, sotto certi aspetti è da considerarsi un
pioniere nel trattamento di alcune patologie tropicali: fu il
primo, ad esempio, che introdusse in Africa equatoriale
dagli Stati Uniti, il Promine ed il Diasone, due prodotti
per il trattamento della lebbra; e anche il primo a
sostituire l’Atoxyl e l’Arseno benzolo (farmaci dagli effetti collaterali
pericolosi e inadatti a distruggere i microrganismi che avevano già
invaso le cellule del sistema nervoso centrale) con il Germanyl, il
Moranyl ed il Tryparsarmide, molecole che, grazie alla scoperta della
statunitense dottoressa Pearce, avevano rivoluzionato il trattamento
della malattia del sonno. Il farmaco venne sperimentato in parallelo da
Schweitzer a Lambaréné presso l’Istituto Pasteur di Parigi, ed era
incredibile vedere quei pazienti riprendersi lentamente.
Purtroppo sull’impiego del Trypasarmide gravava il dubbio che
provocasse lesioni al nervo ottico con conseguente cecità
permanente. Per il trattamento di altre patologie, come la tubercolosi
polmonare o ossea, le avitaminosi, l’ulcera fagedemica, le affezioni
intestinali, etc., venivano usate sostanze biochimiche sperimentate e
prodotte con rigore medico dall’industria farmaceutica d’oltre oceano.
Gli interventi principali riguardavano ernie giganti, elefantiasi
(malattia provocata dall’ostruzione dei vasi linfatici da parte di
microfilarie, n.d.a.), fibromi uterini, gozzi, piaghe e ferite causate
soprattutto dall’attività di disboscamento. Diversi i casi disperati. Si
operava in anestesia generale o locale, e i pazienti ben presto si resero
conto che nessuna magia o farmacopea africana li avrebbe potuti
guarire.
 
Durante un rientro in Europa, il dottor Schweitzer frequentò la Clinica
Odontostomatologica di Strasburgo per perfezionare le sue
conoscenze stomatologiche. Dopo vari viaggi all’interno dell’Europa
per tenere concerti e conferenze, si fermò ad Amburgo per aggiornarsi
sui progressi della terapia del sonno, e frequentare un corso di
chirurgia che gli consentì di affrontare e risolvere la quasi totalità delle
patologie chirurgiche. Rientrando a Lambaréné dovette più volte
ricostruire letteralmente il suo ospedale, “trascurato” dagli abitanti ma
soprattutto perché durante la sua assenza era marcito, soffocato dalla
vegetazione e divorato dalle termiti; in un’altra occasione a causa di
una grave epidemia di dissenteria e per il conseguente aumento di
ricovero dei malati le baracche dell’ospedale erano del tutto
insufficienti, tanto da imporre una grande opera di ampliamento. Per
riportarlo ad un certo grado di funzionalità Schweitzer dovette
dedicarvisi personalmente per molti mesi…
 
Fu così che decise di trasferirsi su una collina
(Adolinanongo), tre chilometri a monte sulla riva destra
dell’Ogoué dove l’ospedale avrebbe potuto estendersi.
La spesa per la sostituzione delle baracche di bambù dai tetti di foglie
con baracche in lamiera ondulata non era indifferente; inoltre, per
mettere l’ospedale al sicuro dalle inondazioni del fiume e dalla valanga
d’acqua che scendeva dai pendii della collina durante la stagione delle
piogge, scelse una soluzione fra moderna e preistorica creando un
villaggio di baracche su palafitte. L’attività ospedaliera venne affidata
ai colleghi Nessmann, Lauterburg e Trensz mentre Schweitzer per un
anno si trasformò in sorvegliante degli operai: dovette assumersi
personalmente tale incombenza poiché la mutevole schiera di
“volontari”, reclutata fra gli accompagnatori degli ammalati, rispettava
soltanto l’autorità del vecchio dottore.
 
Durante la seconda guerra mondiale le installazioni ospedaliere di
Lambaréné furono messe a dura prova: tutta l’Africa equatoriale
francese, con la sola eccezione del Gabon, si unì alla Francia libera, in
guerra contro Hitler. Lambarénè si trovò al centro di una lotta tra
francesi liberi e collaborazionisti hitleriani, tant’è che sino al 1942
rimase isolata dal resto del mondo.

All’ospedale le difficoltà aumentavano; i bianchi, ad esempio,


impossibilitati ad abbandonare l’Africa, si erano ammalati e bisognava
accoglierli in ospedale; ma anche alcuni medici ed infermieri si erano
ammalati ed è stato necessario allontanarli da Lambaréné perché
riacquistassero la salute in un clima più salubre. In questa circostanza
Schweitzer scrisse: “Bisogna fare appello alle nostre ultime energie per
soddisfare le esigenze dell’ospedale. La nostra preoccupazione
quotidiana consiste nella fatica poiché per molto tempo non vi saranno
sostituzioni”.
 
Ma presso Lambaréné c’era pure un ospedale governativo,
costruito in epoca recente, che però era quasi sempre
deserto. I negri non volevano andarci perché era un
ospedale troppo… all’europea, e preferivano l’ospedale di
Schweitzer con tutte le sue capre, le sue galline, pieno di
bambini e dove all’igiene non si badava troppo. L’igiene, del resto, non
è qualcosa di assoluto, l’igiene necessaria agli africani è (soprattutto
era, n.d.a.) diversa da quella necessaria agli europei.
 
“Nessuno verrebbe da me – spiegava il medico filantropo – se li
costringessi a vivere in corsie sterilizzate, sui lettini di ferro, tra lenzuola
bianche. Non sanno che farsene delle lenzuola. Io li curo lasciandoli
vivere come sono abituati nei villaggi assediati dalla foresta, piccoli
nuclei che per secoli sono rimasti centri di cultura isolati con i propri
costumi, dialetti e persino modi di cucinare diversi… Gli ammalati che
giungono ad Adolinanongo, dopo settimane di piroga sull’Ogoué, sono
uomini già in crisi e ricoverarli in un ospedale all’europea, in ambienti a
loro estranei, vuol dire imporre loro un secondo ben più grave trauma,
provocare una nuova crisi alla quale reagiscono con la fuga, preferendo
morire nei loro villaggi. Sono le strutture che devono adeguarsi agli
uomini e non gli uomini alle strutture”.
 
Anche per queste ragioni non sono mancate le critiche a lui e al suo
ospedale, ma è bene rammentare che l’obiettività elementare è frutto
delle cose nella loro situazione stessa e nel loro momento storico. Ed
ciò che Schweitzer applicò in pratica nel suo tanto discusso villaggio
sanitario, ove accolse gli ammalati e le loro famiglie, con al seguito i
loro animali; e acconsentì ai vari gruppi etnici di vivere secondo i loro
costumi adattandosi egli stesso alla cultura dei popoli e rispondendo
alle esigenze degli ammalati, rispettoso com’era, sino all’eccesso, della
libertà individuale degli africani. Tollerò le loro abitudini tribali, la
poligamia, le loro interminabili discussioni… Risultati di
un’improvvisazione che hanno come scopo combattere le sofferenze e
guarire i suoi ammalati. “Tutto questo – affermava – è insito nello
spirito del cristianesimo, e come tale si manifesta più o meno in tutte le
religioni delle varie civiltà”.
 
Il dottor Schweitzer  non fu mai un progressista ma era
profondamente conscio che il progresso, di per sé, non
rappresenta una garanzia per l’umanità . Rifiutò il
gigantismo delle moderne strutture (sino a “stravolgere”
le regole della medicina occidentale) in quanto le
considerava follie di grandezza, tentazioni della
modernità . Visse in povertà nel suo ospedale, in
economia, ove il superfluo era bandito, e fu così che le illusioni e le
ambizioni nate dall’indipendenza politica negli anni ’60,
determinarono quell’atteggiamento di disprezzo, di avversione che
indusse a giudicare la struttura superata, o peggio ancora, vergognosa.
 
Considerazioni ampiamente condivise, sia pur a posteriori, dal
dottor Sancin, che tra l’altro, da oltre trent’anni si dedica ad attività
organizzative nell’ambito dell’assistenza sanitaria nei paesi in via di
sviluppo dall’Africa all’estremo Oriente: “Dovremmo dedicare maggior
attenzione alle generazioni future di medici e ricercatori che vorranno
sacrificare o dedicare parte della loro esistenza per il bene di
un’umanità più disagiata, più vulnerabile ed emarginata, fuori dai credi
politici o religiosi. Solo così riusciremo a colmare, almeno in parte, le
grandi differenze che separano ancora l’umanità”.
 
Gli ultimi anni
Nel 1959 il dottor Albert Schweitzer  fa ritorno
per l’ultima volta a Lambarènè. L’ospedale
ospitava ormai 600 persone e il numero degli
ammalati tendeva ad aumentare. Molti medici
di ogni parte del mondo profittarono per offrire
gratuitamente la loro opera durante le vacanze
a favore dell’ospedale. Questo anche perché nel frattempo si sono
costruite strade, un aeroporto sull’altra riva del fiume. Ora si lavora
molto: in una sola giornata si sono fatte 17 interventi chirurgici di
ernia (c’erano ben due tavoli operatori). Sino all’agosto del 1965 le
Grand Docteur  poté confidare ancora nella sua buona salute anche se,
ormai, non aspettava altro che essere sepolto a Lambarènè accanto
alla moglie Hélène (che era morta il 1 giugno 1957 a Zurigo, all’età di
78 anni. Fu cremata e le sue ceneri furono trasportate a Lambarènè e
sepolte all’ombra di una palma vicino all’abitazione del marito). Il
“grand docteur” si spegneva alle 23.30 (altra biografia riporta alle
23.25) del 4 settembre del 1965, mentre gli ammalati avevano preso il
sonno ristoratore delle loro sofferenze, gli animali tacevano nella notte
tropicale e il grande fiume Ogouè rispecchiava le luci della finestra di
Schweitzer  ancora illuminata.
 
Il buffo ed “impenetrabile” dottore
 
Albert Schweitzer  era piuttosto alto (m. 1,80) e di
corporatura robusta. Ciò che colpiva subito in  lui era il
volto: i folti e arruffati capelli bianchi (che raramente si
spazzolava), lo facevano somigliare ad Einstein. Per i
famosi, espressivi, potenti baffi a cespuglio, qualcuno ha
voluto vedere in lui una rassomiglianza con Nietzsche,
altri con Joseph Wirth o Aristide Briand; mentre i
francesi lo trovavano somigliante a Clemenceau. Tuttavia, i suoi occhi
erano inconfondibili, dall’espressione profonda.
 
Per quanto riguarda il suo carattere (per la verità difficile da
interpretare) alcuni lo hanno definito dal temperamento focoso,
testardo, calcolatore, visionario, etc. In realtà era un uomo non privo di
difetti: era autoritario, pedante, teutonico e soprattutto un cocciuto
passatista. In cinquant’anni di vita africana non si era mai curato di
imparare una sola parola dei loro dialetti; e per evitare ogni rapporto
con le autorità locali, aveva rifiutato l’installazione di un telefono. Le
classi dirigenti e intellettuali africane lo accusavano di non capire le
“istanze” del mondo nuovo. Forse c’è qualcosa di vero in tutto ciò ma
Schweitzer non aveva mai creduto nella capacità delle popolazioni
indigene di autogovernarsi democraticamente.
 
Le critiche dei demagoghi neri e dei retori bianchi furono pesanti per
colui che, ai selvaggi della foresta, aveva sacrificato un’intera esistenza.
Un giornalista che ebbe modo di conoscerlo più da vicino disse: “Non
bisogna crederlo un santo. È un uomo con tutti i difetti umani, ma come
uomo è grandissimo”. Quando John Gunther visitò Schweitzer a
Lambarènè nel 1954 scrisse: “Schweitzer è troppo al di sopra, troppo
complesso per afferrarlo facilmente, è un uomo universale”, e quando gli
chiese se si sentiva più francese o più tedesco, la sua risposta fu
istantanea, senza ombra di dubbio: “Homo sum”. Ma c’è invece chi
sostiene fosse molto semplice, naturale e modesto più di quanto
venisse descritto da una certa stampa, soprattutto americana. Si
intratteneva volentieri con tutti, rispondeva personalmente a chi gli
scriveva, con calligrafia chiara, minuta, elegante. Si era soliti vederlo
con i vecchi pantaloni cascanti, pieni di rammendi, con le tasche
sempre gonfie di lettere.
 
Nel contempo era un uomo di un rigore estremo. Nel villaggio regnava
una disciplina assoluta ed un rigore necessari per scoraggiare i
romantici, gli avventurieri e tutti coloro che chiedevano di poter
prestare la loro opera al suo fianco senza possedere le doti morali e
psicologiche adatte. Albert Schweitzer non tollerava che si portassero i
calzoni corti, che si girasse a testa nuda o che ci si lamentasse del
caldo. Vestiva di bianco e portava il casco coloniale di sughero; non
aveva mai abbandonato questa divisa che nessuno più adottava e che
spesso veniva indicata come il simbolo di un colonialismo ormai
scomparso.
Il dott. Schweitzer e la figlia Rhena negli ultimi anni
in Gabon
 
Egli diceva che la mosca tse-tse, per succhiare il sangue,
punge attraverso i tessuti più spessi…, quando sente il
corpo sul quale si è posata fa il più piccolo movimento,
vola via; è troppo furba per posarsi su un fondo chiaro
dove sarebbe subito scoperta, e perciò la migliore difesa consisteva nel
portare abiti bianchi (o comunque chiari). Quando era già famoso e
doveva recarsi in Europa viaggiava in terza classe “solo perché non
c’era la quarta ”, sosteneva. Quando si recava a cerimonie, a tenere
concerti e conferenze e a ricevere premi, se la cavava con un vecchio
vestito nero e una cravatta a farfalla che non abbandonava mai. Dotato
di un fisico eccezionalmente forte, irrobustito anche dal lavoro
manuale, Schweitzer poté resistere a tutte le malattie tropicali pur
restando in continuo contatto con i lebbrosi che spesso gli fungevano
da infermieri e interpreti. A Lambaréné viveva senza agi e conforti
della vita moderna, non leggeva giornali, non possedeva radio,
telefono od automobile. Non si è mai spostato in aereo. Sovente
chiedeva consigli agli altri e mai si elevava a maestro, mai faceva
pesare l’autorità della sua cultura, della fama, dell’età . Con la sua
autorità pretendeva molto dai collaboratori e si mostrava del tutto
indifferente ai visitatori del suo villaggio (anche se questa versione
diverge da altre biografie).
Frugalissimo, si nutriva quasi esclusivamente di frutta, lasciando parte
di questi suoi pasti ad alcuni animali, la cui vita, come tutte le
esistenze, egli rispettava profondamente. Non volle mai salire su un
aereo, si rifiutò di “modernizzare” il suo ospedale, e di apprendere le
varie lingue. Di qui le aspre critiche da parte di europei che lo
tacciarono di colonialismo, ma lui replicava sorridendo a queste
trovate; più che un colonialista egli era un grande “africano”. Ma
un’originale definizione di sé l’ha data lo stesso Schweitzer, in
occasione del suo 70° compleanno, parlando ai collaboratori di
Lambaréné: “Io sono per un terzo professore, un terzo farmacista e un
terzo contadino. Per di più posseggo qualche goccia di sangue dei
selvaggi”. Godeva di una salute eccezionale grazie alla quale ha saputo
far fronte a lavori manuali, viaggi, disbrigo della (a volte) fitta
corrispondenza, resistendo al torrido clima equatoriale, sino a
raggiungere un’età di … tutto rispetto. Sosteneva di perseguire tre
principi: “Volontà, disprezzo dell’inazione (ozio), perseveranza. Ma
anche una buona dose di fortuna”.
 
Ma come mai, ci potremmo chiedere, tra i missionari Schweitzer è
stato (e forse lo è ancora) il più popolare, il più noto? È presto detto. La
sua eccezionale personalità , la sua decisione di partire per l’Africa con
un gesto che dai più è stato visto come una rottura con una
brillantissima carriera, le sue opere, la sua filosofia del rispetto della
vita,i suoi interventi in delicati momenti della vita internazionale,
hanno commosso l’opinione pubblica mondiale. Inoltre, per la
realizzazione della sua opera ha avuto a disposizione mezzi che gli
altri missionari non si sognavano nemmeno. Schweitzer era conscio di
tutto questo e sosteneva di non aver fatto nulla di straordinario; ed era
sincero. Ma spiegava anche: “Nessuno verrebbe da me se io li
costringessi a vivere in corsie sterilizzate, su lettini di ferro, tra lenzuola
bianche. Non sanno che farsene, loro, delle lenzuola. Io li curo
lasciandoli vivere come sono abituati a vivere nei loro villaggi, tra i loro
familiari e le loro bestie, con le loro piccole e grandi infrazioni all’igiene.
Io ho tutto nel mio ospedale: antibiotici e cortisonici, sulfamidici e
vitamine, raggi X, elettrocardiografi ed altro ancora. Manca solo
l’igiene. Ma c’è qualcosa che vale di più dell’igiene: la serenità, la
distensione dell’animo, l’azione favorevole dell’ambiente”.
 
Il momento della notorietà
 
Coloro che credono che Albert Schweitzer volesse attirare in qualche
modo l’attenzione da parte dei mass media o di chicchessia, va
ricordato che la sua notorietà si diffuse a livello mondiale solo quando,
nel 1945, alla Radio americana Albert Einstein (suo amico) disse che
nella foresta equatoriale africana viveva “uno dei più grandi uomini dei
tempi moderni, se non il più grande”. Tale notorietà si intensificò dopo il
riconoscimento del Premio Nobel ed ancor più nei primi anni ’60
quando, grazie all’Air France, a Lambarènè giunsero giornalisti attirati
dalla tentazione di fare un “servizio” su Albert Schweitrzer e il suo
ospedale. Di solito li riceveva l’alsaziana Emma Haussknech, con
Schweitzer da trent’anni.
 
Nel 1953 giunse Jhon Gunter, famoso giornalista americano, che
scrisse: “È un grand’uomo, uno dei più grandi d’ogni tempo, è una
natura così alta e versatile che sfugge a una facile comprensione. Ha un
poderoso naso aquilino, baffi spioventi, occhi che veramente fissano. È di
una corporatura robusta e la sua tenuta consiste in un elmetto
coloniale, una camicia bianca, aperta, calzoni sbrindellati, grosse scarpe
nere. Forza, calma, autorità, sensibilità…; tutte queste caratteristiche si
rispecchiano nella sua faccia fiera, dallo sguardo penetrante e dal pelo
brizzolato. È un viso straordinario e Schweitzer è un magnifico uomo…
Talvolta è dittatore, pedante, irascibile, ma esercita un fascino che ha
del miracoloso ed è letteralmente adorato. E la sua risata, le volte che
ride, è un segno evidente della sua dolcezza interiore… È un despota dal
cuore d’oro”.
 
Schweitzer utilizzava l’umorismo come una forma di terapia
equatoriale, un modo di ridurre la temperatura, l’umidità , le tensioni.
In realtà , si serviva dell’umorismo in modo così artistico che si aveva la
sensazione che lo considerasse quasi come uno strumento musicale.
Durante i pasti, quando l’équipe si trovava tutta riunita, Schweitzer
aveva sempre una storiella da raccontare. La risata era probabilmente
la portata più importante: era stupefacente vedere come i membri
dell’équipe sembravano ringiovaniti dall’argutezza del suo umorismo.
 
Ai giornalisti, stupiti della sua opera, Schweitzer diceva: “Questo che
vedete, vi piaccia o meno, è il mio ospedale. Questa che vedete è la mia
religione. Il mio ospedale è povero, ma ricco di qualcosa che voi non
vedete perché ne siete già ricchi: la libertà, anche per un lebbroso, di
vivere… Qui c’è il rispetto per la vita, per le consuetudini… Il telefono a
che servirebbe? Se un malato muore o guarisce, io non saprei quasi mai
dove e a chi telefonare...” Per capire che si è in un ospedale bisogna
leggere sopra gli usci delle baracche le scritte: “Malati nuovi”,
“Consultazioni generali”, “Sala per le operazioni”.
Nel processo evolutivo di ogni essere umano c’è un tempo in cui la sua
triplice natura (fisica, emozionale e mentale) raggiunge
inevitabilmente un tale sviluppo da consentirne una sintesi perfetta.
Ed è da questo momento che l’uomo diventa personalità , in quanto
pensa, decide e dispone; assume il controllo della sua vita, tanto da
costituire un fattore di rilevante influenza nel mondo.
 
Il celebre medico alsaziano, esempio fulgido di amore per il Creato (tra
l’altro definito da alcuni un visionario, emissario sospetto da altri, in
odore di santità da altri ancora) ha influito profondamente sullo
spirito della nostra epoca con la sua vita esemplare e il suo pensiero
profondo? Il suo mistico rispetto per l’amore, per la luce, e per la vita
può ispirare ancora oggi il nostro cammino? Ed ancora. Può aiutare a
lenire il dolore dell’umanità ? A chi mi legge il diritto di accennare una
risposta quale contributo al mantenimento della memoria di un
testimone del tempo che, forse, ha pochi eguali; ma sicuramente, oggi,
nella solidarietà con il sud del mondo, appare come un antesignano.
Con pregi e difetti.

EB
Bibliografia
 
“ Il dottor Albert Schweitzer ”; Ed. Della Volpe, 1965
 
“ Albert Schweitzer – La mia vita e il mio pensiero ”; Ed. Comunità, 1965
 
“ 75° anniversario della fondazione dell’ospedale di Albert Schweitzer ”, catalogo e
mostra a cura di Adriano M. Sancin, 1988
 
“ Albert Schweitzer – Vita – Sermoni –Documenti- Pensieri ”, di Luigi Grisoni; Ed.
Velar, 1993
 
“ Albert Schweitzer – Rispetto per la vita ” – Ed. Claudiana, 1994
 
“ Albert Schweitzer e il rispetto per la vita ”, di Luigi Grisoni; Ed. Velar, 1995
 
“ Albert Schweitzer – Le Medicin ”, conferenza di Adriano M. Sancin per la
Celebrazione di Albert Schweitzer all’Accademia di Medicina di Torino; 11/10/1995
 

     Home page
  

Premio Goethe

Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.

Vai a: navigazione, ricerca


Il premio Goethe è un premio letterario che viene conferito a Francoforte
sul Meno (città natale di Johann Wolfgang von Goethe) dal 1927.
La consegna avviene nella Paulskirche (Chiesa di San Paolo), il giorno
della nascita di Goethe (28 agosto), dal borgomastro (sindaco) della città.
Fino al 1949 la periodicità del premio era annuale; da quella data viene
assegnato ogni tre anni. La scelta del vincitore è fatta da un'apposita
commissione tra le persone distintesi nella cultura a livello internazionale.
Il premio consiste in un attestato su pergamena artisticamente realizzato e
in un assegno di 50.000 euro.

Premio internazionale per la pace degli editori tedeschi

Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.

Vai a: navigazione, ricerca

L'edizione del 2009 ha premiato l'italiano Claudio Magris. Nella foto,


Magris, all'interno della chiesa di San Paolo, rivolge un discorso ai
presenti.

Magris riceve il premio.


Il premio internazionale per la pace degli editori tedeschi (in Tedesco
Friedenspreis des Deutschen Buchhandels) è un premio assegnato, in
occasione della Fiera del libro di Francoforte, all'interno della ex chiesa di
San Paolo[1]. Assegnato dal 1950, il premio è andato ad intellettuali dal
prestigio internazionale che hanno saputo richiamare l'attenzione,
attraverso la cultura, su zone dove il processo di pace è stato spesso
travagliato o dove la situazione non si è ancora definitivamente
stabilizzata, come nel caso delle tensioni tra Palestinesi ed Israeliani. Il
premio consiste in 25.000€[1].

Il Premio Sonning (Sonningprisen) è un riconoscimento assegnato ogni


due anni a personalità che si siano particolarmente segnalate per il loro
contributo alla cultura europea

Cenni storici[modifica | modifica wikitesto]


Il premio venne stabilito per volere testamentario dell'editore e scrittore
danese Carl Johan Sonning (1879-1937) ed assegnato per la prima volta, in
via eccezionale, nel 1950. È stato assegnato annualmente dal 1959 al 1971,
quando assunse la cadenza biennale attuale. Il premio viene assegnato da
una commissione con a capo il rettore dell'Università di Copenaghen che
deve scegliere il vincitore in una lista di personalità segnalate dalle
principali università europee. Il premio ammonta alla cifra di un milione di
corone danese, circa 135 000 euro, e viene consegnato durante una
cerimonia che si svolge nell'Università di Copenaghen, preferibilmente il
19 aprile, anniversario della nascita di Carl Johan Sonning. Per volere
della vedova di Sonning, Léonie Rothberg Sonning (1894 - 1970), è stata
invece istituita la Fondazione Léonie Sonning per la musica che, ad
eccezione dell'edizione straordinaria del 1959, assegna annualmente dal
1965 il Premio musicale Léonie Sonning.

Vincitori del premio Sonning[modifica | modifica wikitesto]


Anno Vincitore Professione Nazionalità
1950 Winston Churchill scrittore e statista  Regno Unito
1956 Leonard Bernstein compositore  Stati Uniti
1959 Albert Schweitzer medico e teologo  Germania
1960 Bertrand Russell filosofo e matematico  Regno Unito
1961 Niels Bohr fisico  Danimarca
1962 Alvar Aalto architetto  Finlandia
1963 Karl Barth teologo  Svizzera
1964 Dominique Pire teologo  Belgio
Richard Nikolaus di scrittore e uomo
1965  Austria
Coudenhove-Kalergi politico
1966 Laurence Olivier attore  Regno Unito
1967 Willem Visser 't Hooft teologo  Paesi Bassi
1968 Arthur Koestler scrittore  Ungheria
1969 Halldór Laxness scrittore  Islanda
1970 Max Tau scrittore  Germania
1971 Danilo Dolci sociologo  Italia
1973 Karl Popper filosofo  Austria
1975 Hannah Arendt filosofa  Germania
1977 Arne Næss filosofo  Norvegia
1979 Hermann Gmeiner filantropo  Austria
1981 Dario Fo drammaturgo  Italia
1983 Simone de Beauvoir scrittrice  Francia
1985 William Heinesen scrittore  Fær Øer
1987 Jürgen Habermas filosofo  Germania
1989 Ingmar Bergman regista  Svezia
1991 Václav Havel scrittore e statista  Rep. Ceca
1994 Krzysztof Kieślowski regista  Polonia
1996 Günter Grass scrittore  Germania
1998 Jørn Utzon architetto  Danimarca
2000 Eugenio Barba regista teatrale  Italia
2002 Mary Robinson statista  Irlanda
2004 Mona Hatoum artista  Regno Unito
2006 Ágnes Heller filosofa  Ungheria
2008 Renzo Piano architetto  Italia
Hans Magnus
2010 scrittore  Germania
Enzensberger
2012 Orhan Pamuk scrittore  Turchia
2014 Michael Haneke[1] regista  Austria

Potrebbero piacerti anche