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ISBN 9788891789327

A cura di
Patrizia Sandri

RIGENERARE LE RADICI

i
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PER FONDARE ng
I PROCESSI INCLUSIVI
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nc

Dalla legge 517/77 alle prospettive attuali


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Fr

Copyright © FrancoAngeli
N.B: Copia ad uso personale. È vietata la riproduzione (totale o parziale) dell’opera con qualsiasi
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ISBN 9788891789327

Il volume è stato pubblicato con il contributo del Dipartimento di Scienze


dell’Educazione “Giovanni Maria Bertin” dell’Università degli Studi Alma Mater di
Bologna.

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ng
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Progetto grafico di copertina: Alessandro Petrini


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Indice

i
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Premessa. I processi inclusivi a scuola, in Italia. Un pa-
trimonio da difendere, un’esperienza da rinnovare, di
Roberta Caldin
Bibliografia
A
Aspetti teorici
ng pag. 9
» 14

1. Radici e prospettive per attuare processi inclusivi:


un’introduzione, di Patrizia Sandri » 17
co

1. La visibilità, il riconoscimento, la dignità della persona


con deficit » 17
2. La priorità della relazione con l’altro » 20
3. L’importanza del contesto: la logica interattiva come lo-
an

gica estetica » 23
4. Per una scuola di comunità inclusiva » 25
5. Il contributo della didattica speciale per l’inclusione
all’innovazione didattica » 30
Fr

Bibliografia » 36
Sitografia » 41
Due testimonianze » 42
L’intervista a Mirella Antonione Casale, di Roberta Simone » 42
L’incontro con Claudio Imprudente, di Marina Maselli » 44

2. L’insegnante specializzato tra passato, presente e fu-


turo, di Patrizia Gaspari » 50
1. Oltre 40 anni di integrazione scolastica. Alcune rifles-
sioni critiche » 50

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2. Per un docente di sostegno inclusivo non “medicalizzato” pag. 55


3. Il docente specializzato nella scuola inclusiva » 61
Bibliografia » 65
Sitografia » 67

3. Costruire contesti educativi inclusivi: lo “sfondo inte-


gratore” ieri e oggi, di Paolo Zanelli » 69
1. Uno “sfondo” per integrare » 70
2. Gli elementi qualificanti del lavoro con lo “sfondo inte-
gratore” » 71
3. L’utilizzo educativo dello sfondo: prospettive di sviluppo » 82
Bibliografia » 84

i
el
4. A reflection from a European Country: The Special
and Inclusive Education in the Czech Republic, by
Ilona Fialová (Translation in English: Radka Machálková) » 86
Bibliography

Integrazione e inclusione nella scuola


A ng » 93

1. Appassionati di futuro. L’integrazione scolastica “in-


segna agli asinelli perché divengano cavalli”, di Stefa-
co

no Versari » 97
1. A scuola, l’asinello può diventare un cavallo » 97
1.1. Separatezze relazionali » 98
1.2. Normali o speciali? » 99
an

1.3. Le scuole speciali non bastano mai » 101


2. Professionisti altamente qualificati? » 102
2.1. Fatti di alte aspettative » 103
2.2. Hikikomori, resilienza e strade smarrite » 106
2.3. Il diritto di imparare » 108
Fr

Bibliografia » 110
Sitografia » 111

2. Le scuole e la rete dei Centri Territoriali di Supporto


dell’Emilia-Romagna: Storie di quotidiana innovazio-
ne, di Chiara Brescianini e Grazia Mazzocchi » 112
1. Le scuole dell’Emilia-Romagna: quadro di contesto » 113
2. I CTS in Emilia-Romagna » 117
3. Il Centro Territoriale di Supporto di Bologna » 120
Sitografia » 129

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3. Valutare la qualità e monitorare i processi di integra-


zione e inclusione, di Giovanna Di Pasquale pag. 130
1. Una ricerca sulla qualità dell’integrazione » 131
1.1. Come si è lavorato: fasi e strumenti » 134
1.2. Prime fotografie: punti di forza e criticità » 137
2. Un sistema di monitoraggio permanente: caratteristiche
e condizioni » 140
Bibliografia » 142

Documentazione e “buone prassi”

i
1. Luoghi per crescere, luoghi per documentare, di Ma-

el
rina Maselli » 145
1. Recuperare la storia degli inizi » 146
2. Documentare per sostenere i processi di inclusione » 151
Bibliografia
Sitografia
ng
2. Buone prassi di integrazione/inclusione nei nidi e nel-
le scuole d’infanzia del Comune di Bologna, di Patri-
A » 156
» 156

zia Sandri, Laura Rossi e Alessia Sansoni » 157


1. L’integrazione dei bambini con disabilità nei servizi
educativi del Comune di Bologna » 157
co

2. La documentazione educativa presso il centro Ri.E.Sco


di Bologna » 160
3. Le documentazioni educative nelle scuole d’infanzia:
analisi dei dati » 163
an

4. Le documentazioni educative nei nidi: analisi dei dati » 170


5. Un ulteriore approfondimento » 172
Bibliografia » 175
Sitografia » 177
Fr

3. Buone prassi di integrazione/inclusione nei nidi e nel-


le scuole dell’infanzia del Comune di Forlì, di Deborah
Gardini » 178
1. Storie di integrazione/inclusione » 179
1.1. Gironzolando con le ruote ai piedi » 181
1.2. La principessa che non parlava » 182
1.3. Liberare talenti. Valorizzare capacità e risorse di
ogni bambino » 184
1.4. La Pratica Psicomotoria a scuola » 186
Bibliografia » 188

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Integrazione e Inclusione nella normativa italiana

1. Disabilità e normativa: quasi cento anni di storia, di


Giovanna Cantoni pag. 191
1. Come si è arrivati alla Legge 517/77 » 191
2. La Legge 517/77 » 197
3. La sentenza della Corte Costituzionale » 200
4. La Legge 104/92 » 203
5. Verso una formazione per tutti i docenti » 205
6. La relazione Sbarbati » 206
7. Il nuovo millennio: l’autonomia scolastica » 210
8. Il progetto di vita » 212

i
9. Gli alunni stranieri » 214

el
10. La convenzione ONU » 215
11. I disturbi specifici di apprendimento (DSA) » 221
12. I bisogni educativi speciali (BES) » 223
13. La legge della “buona scuola”
Bibliografia
Sitografia

Biografie professionali brevi degli autori


A ng » 226
» 230
» 231

» 233
co
an
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1. Radici e prospettive per attuare


processi inclusivi: un’introduzione

di Patrizia Sandri

i
el
L’intento di questo contributo è quello di individuare alcuni aspetti con-
cettuali e operativi che si ritengono fondanti il processo di integrazione/

ng
inclusione a oltre quarant’anni dalle istanze sociali e culturali, promosse da
associazioni di genitori di persone con disabilità e dagli insegnanti più sen-
sibili ai fenomeni di marginalizzazione degli allievi vulnerabili, che hanno
trovato via via risposta in questi decenni nel corpus di leggi italiane1.
A
1. La visibilità, il riconoscimento, la dignità della persona
con deficit
co

Come testimonia Mirella Antonione Casale in un’intervista2 rilasciata in


occasione dei quarant’anni dalla Legge 517 del 1977, è a partire dagli anni
60 del XX secolo che nella nostra società si comincia ad avvertire sempre
an

più il bisogno di mettere in discussione le strutture chiuse ed emarginanti,


come erano gli ospedali psichiatrici, i riformatori o le scuole stesse nei
confronti dei bambini “diversi” in senso lato, non solo nei confronti quindi
di chi aveva un deficit, ma anche per esempio dei figli delle persone mi-
Fr

granti dal Sud Italia che non padroneggiavano pienamente la lingua italia-
na (Cancrini, 1989; Bocci, 2011).
Claudio Imprudente a questo proposito ricorda “l’invisibilità” delle per-
sone con disabilità nella società italiana degli anni ’60 del secolo scorso3,

1. Per approfondimenti sulla normativa si rimanda al contributo di Giovanna Cantoni


in questo libro. Rispetto al periodo che ha preceduto le prime leggi dell’integrazione sco-
lastica in Italia si può vedere il video L’integrazione prima delle leggi a cura di Andrea
Canevaro e Luisa Zaghi: www.youtube.com/watch?v=WPY-iJ9Oe8o.
2. L’intervista è riportata alla fine di questo capitolo.
3. Si rimanda alla testimonianza riportata alla fine di questo capitolo.

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di come le prime leggi degli anni ’70 abbiano dato diritto a queste persone
di “esistere”, nel senso di “ex-sistere”, “uscir fuori”, mostrarsi, sebbene la
loro presenza nelle scuole, nei luoghi pubblici creasse imbarazzo, disagio,
fors’anche paura, e quanto il percorso di riconoscimento sia stato faticoso
e abbia comportato “sudore, lacrime e battaglie di genitori”4. Un percorso
difficile ancora tutt’oggi e mai concluso che richiede un’attenzione costante
al rispetto, un riguardo all’unicità della persona, onde evitare che accada
di vederla, senza guardarla veramente, senza entrare in relazione con lei,
rischiando di attivare meccanismi che possono portare alla sua mortifica-
zione o alla sua prevaricazione.
Il rispetto, in quanto “sentimento del valore dell’esistenza degli altri”
(De Monticelli, 2003), può essere inteso come una forma di riconosci-

i
mento. Il riconoscimento, per Honneth, è un bisogno primario degli esseri

el
umani e, in quanto tale, alla base di un’armonica costruzione identitaria
che ogni membro di una società attua nella reciprocità.

ng
Il nesso che sussiste tra l’esperienza del riconoscimento e il rapporto con sé risul-
ta dalla struttura intersoggettiva dell’identità personale: gli individui si costitui-
scono come persone solo apprendendo a rapportarsi a se stessi dalla prospettiva di
un altro che li approva e li incoraggia come esseri positivamente caratterizzati da
determinate qualità e capacità. Le proporzioni di queste capacità e quindi il grado
A
di positività della relazione con se stessi crescono con ogni nuova forma di rico-
noscimento che il singolo può riferire a se stesso come soggetto (Honneth, 2003,
p. 202).
co

Fiducia in sé, rispetto di sé e autostima sono modalità positive di re-


lazionarsi verso se stessi che originano, secondo lo studioso, nella socie-
tà attuale, a partire dall’esperienza di essere riconosciuti rispettivamente
an

nell’ambito delle relazioni primarie di carattere affettivo (per la costitu-


zione di un’identità non vulnerata è prioritaria la relazione con una persona
di riferimento che restituisca al bambino la percezione che i suoi bisogni e
i suoi desideri hanno un valore unico), nell’ambito delle forme giuridiche
Fr

(consapevolezza del proprio valore individuale, della propria autonomia,


di essere in grado di formulare un giudizio morale e di riconoscere l’ugua-
glianza dei diritti) e nell’ambito della cooperazione sociale dove viene ri-
conosciuto il contributo apportato da ciascuno per il benessere del sistema
di relazioni in cui è integrato.
Quando non vi è riconoscimento della persona vi è un’offesa morale che
può intaccare profondamente l’integrità della persona stessa, provocando

4. Per approfondimenti sul contributo delle associazioni dei genitori all’attuazione


dell’integrazione si può vedere Mura (2009).

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stati di sofferenza psicologica che Honneth denomina «sentimenti di rea-


zione negativa» (2003, p. 163) quali quelli di risentimento, ira, vergogna.
Alcune persone, tra cui coloro che presentano deficit gravi, possono non
riuscire a esprimere adeguatamente i loro sentimenti e a denunciare l’even-
tuale assenza di rispetto, per questo occorre che vi sia sempre un’elevata
attenzione e sensibilità sociale a garanzia della tutela della loro dignità e
dei loro diritti.
Come afferma Nussbaum «tutti gli esseri umani dovrebbero riconoscere
e rispettare il diritto degli altri a vivere una vita commisurata alla dignità
umana» (2006, p. 53), ma il concetto di dignità non è chiaro. Le persone
prive di autonomia funzionale, con capacità relazionali ridotte, scarsamente
padrone del linguaggio, prive di controllo nella manifestazione dei loro bi-

i
sogni primari hanno dignità?

el
Nel senso comune e nel linguaggio quotidiano la dignità di una perso-
na è collegata all’idea di qualcosa che ci si può guadagnare o che si può
perdere in base alle proprie azioni. Questa idea di dignità appartiene al

ng
pensiero antico: dalla civiltà greca viene riconosciuta la superiorità dell’es-
sere umano rispetto agli altri esseri mortali, ma non a tutti si riconosce la
medesima “dignità”; essa è solo una condizione che ognuno ha la possibili-
tà di guadagnarsi soprattutto con la messa in atto della ragione; nell’epoca
romana è una qualità, la dignitas, che l’uomo può conquistare se rispetta i
A
suoi doveri di cittadino e di politico.
È nel pensiero cristiano, con San Paolo di Tarso, che per la prima volta
co

si parla di dignità come valore universale di ogni uomo. Ogni essere uma-
no, in quanto persona, è ontologicamente degno di rispetto, per il fatto di
essere “imago Dei”. Questo carattere universale della dignità lascerà la sua
impronta in tutte le diverse manifestazioni culturali della storia europea
an

fino alla fine del XVIII secolo. Nel periodo Illuminista, la fiducia nella ra-
gione come elemento fondativo della dignità dell’uomo trova in Kant la sua
massima espressione. Per il filosofo la dignità di ogni uomo consiste nel
fatto che egli è portatore di ragione e, quindi, di moralità inseparabile dalla
libertà: egli è un fine in sé, a prescindere da merito o demerito, e non può
Fr

mai essere considerato come un mezzo in vista di altri fini.


La concezione di dignità non può essere associata solo alla sfera razio-
nale, né ai criteri di utilità o di contratto sociale, secondo cui gli individui
dotati di razionalità si riuniscono al fine di averne un vantaggio recipro-
co. Se così fosse, tale concezione non si riferirebbe a ogni essere umano,
compreso colui che pur avendo un deficit intellettivo grave, ha desideri,
bisogni, pulsioni. Ognuno di noi, in diversi momenti della vita (nell’infan-
zia, durante la vecchiaia, ma non solo) si trova a essere bisognoso di cure,
in condizioni di dipendenza da altre persone e non per questo è meno
umano.

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La dignità sembra sia legata a più aspetti: al concetto di rispetto, all’u-


guaglianza e all’agency, cioè alla capacità umana di agire, ma la produt-
tività, pur essendo necessaria, non costituisce il principale fine della vita
sociale (Nussbaum, 2011, p. 178). Il principale fine di una società giusta è
garantire la dignità di tutti, creando le basi di una politica egualitaria e non
discriminatoria che assicuri a ogni individuo la possibilità di esprimere il
più possibile le capability fondamentali per avere una buona qualità della
vita (Sen, 1986, 1994).
Si tratta di operare per far sì che ogni persona venga messa in condi-
zione di poter essere o fare ciò che vorrebbe essere o fare, sostenendo in
particolare i “caregiver” nel percorso di accompagnamento e di sostegno
all’autodeterminazione delle persone con deficit grave (Giaconi, 2016; San-

i
dri et al., 2017).

el
Non c’è dignità a seconda delle diverse capacità di pensare; non esisto-
no esistenze più o meno degne e non esistono diverse categorie di persone
a seconda del livello del loro quoziente intellettivo o dei loro deficit. La

ng
dignità è intrinseca a ogni persona, a prescindere dalle azioni, dalle scelte
e dalle abilità di ognuno; questo concetto, che costituisce la base dei diritti
umani universali5, ancora non è pienamente diffuso nella società. La di-
gnità è di tutti, anche delle persone con deficit molto grave. Solo partendo
da questo presupposto si aprono le strade per l’incontro con l’altro, per
A
scoprire le modalità comunicative più efficaci e le potenzialità che in ogni
persona sono presenti.
co

2. La priorità della relazione con l’altro

Per Gregory Bateson (1972, 1979) gli esseri umani esistono in quanto
an

esseri in relazione e ogni relazione avviene attraverso la comunicazione,


cioè attraverso uno scambio continuo di informazioni, poiché, come recita
il primo assioma della pragmatica della comunicazione umana: «non si può
non comunicare» (Watzlawick et al., 1971). E Urie Bronfenbrenner ci ri-
Fr

corda che la relazione interpersonale è a fondamento dello sviluppo umano


(1986, p. 104).
L’educabilità di ogni soggetto in formazione è influenzata dalle relazio-
ni che si sono instaurate e dal grado di riflessione critica, ecologica, pro-

5. Nella Costituzione della Repubblica Italiana del primo gennaio del 1948 si trovano
le basi concettuali di dignità e di uguaglianza di ogni uomo sulle quali si svilupperanno le
successive leggi per garantire la piena realizzazione della persona. Così nella Dichiarazio-
ne dei diritti dell’Uomo dello stesso anno, l’Organizzazione delle Nazioni Unite stabilisce
i diritti universali di ogni uomo sulla base dei concetti di dignità intrinseca alla natura
umana, eguaglianza e libertà.

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dotta nella scuola e nella classe. Per questo un insegnante dovrebbe avere
chiari i propri presupposti teorici che influenzano il formarsi dei contesti
di apprendimento e saperli esplicitare. Quando egli per esempio osserva un
alunno, che cosa vede realmente? Senza una pratica riflessiva è probabile
che egli non sia consapevole dei possibili pregiudizi, credenze, miscon-
cezioni che dirigono le sue osservazioni, le sue interazioni comunicative
e che guardi in particolare l’allievo con disabilità, isolandolo dal contesto
di relazioni in cui è immerso sin dalla nascita, attribuendo al deficit ogni
causa degli eventuali comportamenti inadeguati e delle difficoltà di ap-
prendimento.
Vedere del soggetto solo il suo deficit, la sua mancanza, rischia di can-
cellare o di non valorizzare il fatto che egli sia prima di tutto una persona,

i
con un’età, con dei desideri, ecc., alla ricerca di “un’identità competente”,

el
con una “identità al plurale” che si può esprimere nell’essere un figlio, un
alunno, un fratello, un fidanzato, un lavoratore, un cittadino, ecc., e di im-
prigionare lo sguardo nello stereotipo.

ng
Il modello medico, che considera la disabilità come divergenza dalla
norma, classificandola in categorie ben definite, si focalizza sul deficit e
sulle caratteristiche individuali per tentare, con degli interventi specialisti-
ci, di “normalizzare” l’individuo, considerando la sua condizione biologica,
A
soggettiva, la causa principale determinante la possibilità o meno di inte-
grazione scolastica e sociale. In realtà, come già considerato da Vygotskij,
co

Il concetto di norma fa parte delle idee scientifiche più complesse e vaghe. Nella
realtà non esiste nessuna norma, ma si incontra una quantità infinita di molteplici
variazioni, di deviazioni da essa e spesso è molto difficile stabilire dove esse su-
perino i limiti oltre i quali inizia già il campo dell’anormale. Questi confini non
an

esistono da nessuna parte e in questo senso la norma rappresenta il concetto stret-


tamente astratto di una grandezza media dei casi più frequenti e, effettivamente,
non si incontra mai nel suo aspetto puro, bensì è sempre unita a certe forme
anormali. Per questo non esiste confine preciso fra il comportamento normale e
anormale (2006, p. 321).
Fr

Il linguaggio classificatorio può dunque far perdere il senso dell’educa-


zione, il quale comporta più livelli di analisi per promuovere le potenzialità
del soggetto verso una progettualità esistenziale futura, tra cui, fondamen-
tale, risulta l’analisi riferita al contesto e alle interazioni.
Il modello clinico è ancora tuttavia presente nel modo di concepi-
re la disabilità da parte di molti insegnanti6 in servizio e in formazione

6. Ciò si può rilevare anche in ambito internazionale, come emerge, per esempio, nel
contributo di Ilona Fialová in questo libro.

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(Sandri et al., 2016), a scapito di un’ottica bio-psico-sociale, propria della


Classificazione Internazionale del Funzionamento, della Disabilità e della
Salute (OMS, 2002), che dovrebbe integrare i punti di vista medico, psico-
pedagogico e sociale e valorizzare l’apporto dell’approccio educativo per
cogliere gli aspetti complessi, molteplici, differenziati, processuali delle
storie scolastiche e psico-sociali degli alunni e per promuovere la “cura
autentica”, nel senso heideggeriano del termine7, affinché essi partecipino
attivamente, come protagonisti, alla realizzazione del loro progetto di vita
e alla comunità.
La relazione con la persona con disabilità, percepita come “scandalo” o
come “imprevisto”, comporta l’impegno di comprendere le radici dei nostri
giudizi, implica il porci delle domande riguardo al nostro eventuale disagio

i
nell’incontrarla, ci costringe a “spostarci” dalle nostre posizioni, a mettere

el
in discussione la “strutturazione del campo” rispetto alla quale ci sentiamo
sicuri, a cambiare prospettiva. L’ottica diversa comporta l’associare ai sen-
timenti di disagio, di paura che possono nascere dall’incontro, un atteggia-

ng
mento aperto all’osservazione e all’ascolto. La relazione con il soggetto con
deficit fornisce l’opportunità di assumere un nuovo sguardo rispetto a se
stessi, di riconoscersi nella propria autenticità, di assumere altri punti di vi-
sta e di prendere in considerazione altre modalità di vivere e di interpretare
la realtà. Riprendendo Martin Buber (1922), si può dire che l’Altro, anche
A
se con deficit, non rappresenta un limite, ma un Tu grazie al quale si può
conoscere se stessi ed esprimere la piena umanità, stabilendo una relazione
caratterizzata da gratuità e da arricchimento reciproco.
co

C’è una “struttura” (Bateson e Bateson, 1989) che connette la persona a


sviluppo tipico e quella a sviluppo atipico ed essa può individuarsi ricono-
scendo lo sviluppo atipico come una normale differenza umana da rispetta-
re come ogni altra variazione (Armstrong, 2012, p. 10).
an

«Comprendere l’umano – afferma Edgar Morin (2001, p. 56) – significa


comprendere la sua unità nella diversità» e l’educazione ha il compito di
promuovere l’umanità in tutti i campi del sapere e di incoraggiare ogni
allievo a diventare soggetto progettuale, realizzando la propria differenza
Fr

nella coevoluzione con l’altro (Bertin e Contini, 2004, p. 15).

7. «L’aver cura può in certo modo sollevare gli altri dalla “cura”, sostituendosi loro nel
prendersi cura, intromettendosi al loro posto. Questo aver cura assume, per conto dell’altro,
il prendersi cura che gli appartiene in proprio. […] In questa forma di aver cura, gli altri
possono essere trasformati in dipendenti e in dominati, anche se il predominio è tacito e
dissimulato.  […] Opposta a questa è quella possibilità di aver cura che, anziché porsi al
posto degli altri, li presuppone nel loro poter essere esistentivo, non già per sottrarre loro
la cura,  ma per inserirli autenticamente in essa. Questa forma di aver cura, che riguarda
essenzialmente la cura autentica, cioè l’esistenza degli altri e non qualcosa di cui essi si
prendano cura, aiuta gli altri a divenire consapevoli e liberi per la propria cura» (Heideg-
ger, 1976, pp. 157-158).

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3. L’importanza del contesto: la logica interattiva come


logica estetica

Uno dei fondamenti teorici e operativi della pedagogia speciale, appro-


fondito nel corso dei decenni grazie agli studi e alle ricerche di Andrea
Canevaro (1983) e al gruppo di lavoro che afferiva alla sua cattedra, a cui
si fa qui maggior riferimento, può essere individuato nella pedagogia isti-
tuzionale (Oury e Vasquez, 1977).
La pedagogia istituzionale è un movimento pedagogico sviluppatosi
in Francia negli anni ’60, che si rifà alle pedagogie attive (Decroly, 1963;
Freinet, 1977), alle psicoterapie non direttive (Rogers, 1989), alle ricerche
sulle dinamiche dei gruppi (Lewin, 1948; Bion, 1971; Moreno, 1953). Ha

i
come obiettivo quello di rendere lo studente attore del processo che sta

el
vivendo. L’insegnante è come un regista del processo educativo che ricerca
delle mediazioni:

ng
Forse consiste in questo la caratteristica della pedagogia istituzionale: tendere a
sostituire l’azione permanente e l’intervento del maestro con un sistema di attività,
di mediazioni diverse, di istituzioni che assicuri in maniera continua l’obbligo e la
reciprocità degli scambi nel e fuori dal gruppo (Canevaro, 1983, p. 27).
A
La pedagogia istituzionale fornisce la struttura metodologica che con-
nette più approcci o metodi, quali principalmente: la prospettiva eco-
co

sistemica di Gregory Bateson (1972, 1979), l’approccio sistemico-relazio-


nale (Bronfenbrenner, 1979), il costruttivismo sociale (Vygotskij, 1924) e la
ricerca-azione (Pourtois, 1986). La pedagogia speciale ha infatti «bisogno
di più apporti teoretici: non di un solo metodo, […], ma di più metodi
raccordati a una metodologia» (Canevaro e Perticari, 1998, p. 178). Intesa
an

come pedagogia delle organizzazioni complesse, pone al centro della ricer-


ca educativa l’analisi del contesto in cui avviene l’esperienza formativa del
soggetto e sollecita a intervenire sull’istituzione scolastica, che si presenta
allo studente con regole, spazi, tempi, modalità organizzative già costituiti
Fr

(l’istituito), al fine di costruire uno sfondo semantico (istituente)8 capace di


accogliere e accompagnare ogni allievo, compreso colui che presenta un
deficit intellettivo o un alto potenziale, nel rispetto delle peculiarità indivi-
duali, all’espressione massima delle proprie potenzialità9.

8. Dal concepire il contesto educativo come un contesto coevolutivo di identità diver-


se, che produce una “danza di differenze” e di narrazioni, nasce il concetto di sfondo inte-
gratore, approfondito da Paolo Zanelli in questo libro.
9. Per approfondire da un punto di vista didattico la problematica dell’inclusione di tut-
ti gli allievi, compresi coloro che hanno un alto potenziale, si può vedere: Sandri e Zanetti,
in corso di stampa.

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Poiché l’identità di ognuno si definisce in stretta interrelazione con uno


“sfondo”, il contesto all’interno del quale egli vive e agisce, risulta fonda-
mentale analizzare il contesto educativo e cioè l’ambiente, le interazioni, il
sistema di regole, ma anche le modalità attraverso le quali le persone inter-
pretano i loro ruoli, le loro funzioni, le diverse abilità, le loro narrazioni a
partire dalle quali le relazioni sono formate e rafforzate.
Secondo Gregory Bateson (1972), il contesto è la “matrice dei significa-
ti” e può essere visto come una storia, una trama composta dal significato
delle azioni di coloro che vi interagiscono, il frutto di processi simbolici e
interattivi. La relazione educativa tra insegnante e allievo è una delle nar-
razioni significative e può essere compresa, in un’ottica costruttivista, solo
se guardiamo al sistema di rappresentazioni, più o meno condivise, in base

i
al quale essa si costruisce.

el
Il punto cruciale è garantire a tutte le persone, anche se con deficit
grave, il diritto di partecipare come protagonisti alle particolari “storie”
istituzionali e scolastiche in cui sono incluse, storie che riguardano gli

ng
aspetti organizzativi, culturali e didattici che esse stesse possono aiutare
a migliorare. Ogni allievo, secondo questa prospettiva, è considerato un
soggetto attivo e originale che elabora proprie strategie cognitive, mentre
interagisce con l’organizzazione dell’ambiente educativo. Da questo punto
di vista integrare non significa “adattare” l’allievo con deficit a un rigido e
A
già definito contesto scolastico, ma connettere le istanze formative di tutti
gli allievi, apportando le modifiche necessarie al curriculum per la realiz-
co

zazione di questo processo dinamico, in modo da far sì che ogni persona


possa sentirsi accolta e portare il proprio contributo originale, in una profi-
cua dialettica tra istituente e istituito. Per questo ogni insegnante dovrebbe
acquisire le competenze necessarie per analizzare il sistema di cui fa parte,
fare luce sui suoi scopi espliciti e impliciti, essere consapevole delle pro-
an

prie convinzioni e attitudini al fine di monitorare il processo di integrazio-


ne/inclusione e contribuire alla sua realizzazione producendo le modifiche
necessarie10. La sua attenzione, durante lo svolgimento dei processi di in-
segnamento/apprendimento, dovrebbe essere volta a rilevare come cambia
Fr

non solo l’allievo con disabilità, ma tutti gli elementi in interazione (l’al-
lievo, l’insegnante, la classe, la scuola, le famiglie, gli enti socio-culturali,
istituzionali che collaborano con la scuola, le credenze sulle diverse fun-
zioni dei professionisti e sull’apprendimento, …), cercando di comprendere
le relazioni che si sviluppano e le storie che si narrano.
Nella pedagogia istituzionale, prestare attenzione all’ambiente di ap-
prendimento significa vivere un processo educativo in cui sono conti-

10. Si può fare riferimento a Booth e Ainscow (2011) e alle schede di autovalutazione
in Cottini et al. (2017).

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nuamente valutati gli elementi istituiti (struttura scolastica, dirigente, in-


segnanti, personale ATA, ecc.) e le possibilità istituenti (gruppo classe,
bambino con deficit, ecc.), in quanto essi sono in stretta relazione di reci-
procità e qualsiasi cambiamento (orario, organizzazione degli spazi, ecc.)
provoca una ripercussione sul loro rapporto. Si tratta dunque di rilevare e
di analizzare sia le circostanze all’interno delle quali un determinato fatto
avviene, sia di far emergere i significati che tali circostanze assumono a
seconda delle diverse rappresentazioni di ogni soggetto coinvolto in esse.
Occorre ricercare nel contesto la “connessione” tra le storie dei diversi
allievi, in quanto fanno parte della stessa storia e aiutare ognuno a com-
prendere la qualità delle proprie interazioni. Può accadere infatti che un
allievo con deficit non sia accolto e quindi non sia accompagnato a com-

i
prendere il contesto in cui si trova, e che, per reagire a quello che per lui è

el
un “non senso”, manifesti degli atteggiamenti di disturbo, ricercando negli
altri, adulti e compagni, almeno l’espressione, secondo la terminologia della
pragmatica della comunicazione umana, di una “negazione” (“Non sei ca-

ng
pace di stare tranquillo!), piuttosto che di una “disconferma” in cui è impli-
cito il messaggio: “Tu per me, non esisti”. Nella “negazione” vi è tuttavia il
rischio di non riconoscere che chi esprime il giudizio, il docente per esem-
pio, e chi lo riceve, l’allievo, sono appartenenti allo stesso contesto e che en-
trambi possono coevolvere positivamente se non viene eretta una barriera di
A
comunicazione per cui il docente non riesce a individuare nulla nell’alunno
di simile a sé e l’alunno teme di non essere all’altezza di quanto richiesto.
co

La percezione di vivere all’interno di un contesto “bello” o “brutto”,


“inclusivo” o “emarginante”, è strettamente legata alla percezione della
qualità del processo interattivo nel suo svolgersi (Manghi, 1996).
an

4. Per una scuola di comunità inclusiva

In Italia la prospettiva inclusiva è entrata a far pienamente parte del


patrimonio di riflessioni e pratiche a tal punto che il termine inclusione si
Fr

è sostituito al termine integrazione nelle indicazioni ministeriali (Diretti-


va, 27 dicembre 2012; Indicazioni operative 6 marzo 2013; D.L. 13 aprile
2017, n. 66) e nei progetti scolastici e dei servizi territoriali a supporto del
sistema educativo, interpretandolo come un processo che, rivolgendosi a
tutti gli allievi, ingloba il processo di integrazione. Questa interpretazione
rischia tuttavia di far dimenticare le radici pedagogiche che hanno carat-
terizzato alcune prassi italiane di integrazione11 e che si differenziano dal

11. Alcune esemplificazioni sono riportate nella sezione “Documentazione e Buone


prassi” in questo libro. Utile può essere anche prendere visione della guida per un’edu-

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presentarsi come esperienze di mero adattamento dell’alunno con disabilità


a un contesto che si limita nel modificarsi a offrire sostegni o ausili spe-
cialistici, come avviene secondo la concezione anglosassone12. Si sottolinea
invece l’ottica coevolutiva, di reciprocità, a fondamento del concetto di
integrazione, che pone il riconoscimento dei bisogni del singolo soggetto
con deficit, della sua storia formativa, dei suoi punti di forza come volano
per una profonda innovazione culturale, civile, istituzionale, organizzativa,
didattica a beneficio di tutti i membri della comunità.
Il concetto di coevoluzione13 nasce in ambito biologico per indicare l’in-
sieme delle modificazioni, per l’adattamento, che si manifestano nel tempo
in specie legate tra loro da forme di interdipendenza. Grazie ai contributi
di studiosi di diverse discipline come Herbert Spencer (1859), Jean-Ovide

i
Decroly (1955, 1963), Gregory Bateson (1972, 1979) Aida Vasquez e Fer-

el
nand Oury (1967) il focus si sposta in ambito pedagogico, con la valoriz-
zazione dell’influenza positiva dell’intervento educativo nello svilupparsi di
un cambiamento che coinvolge il singolo in interazione stretta con il suo
contesto di vita.
ng
Una prospettiva coevolutiva è dunque tesa a promuovere un cambiamento che
avviene sia nell’educando sia nel maestro a partire dal necessario riconoscimento
dell’originalità dell’individuo, attraverso approcci, atteggiamenti e pratiche riflessivi
A
che collegano i concetti di identità e contaminazione (Canevaro, 2008, pp. 16-17).

Se l’inclusione, come ribadito dall’Unione Europea, nel quadro strate-


co

gico di Europa 2020, rappresenta lo strumento fondamentale per garantire


il rispetto dei diritti di ogni persona, con o senza deficit, a realizzare pie-
namente le proprie potenzialità di apprendimento e ad accedere a tutti i
contesti, predisponendo strutturalmente, in fase di programmazione, tutto
an

quanto è necessario per la sua partecipazione, si può affermare che l’in-


tegrazione, nell’ottica su esposta, ne è necessariamente complementare,
essendo volta a promuovere una coevoluzione dei contesti, a partire dal
riconoscimento delle caratteristiche specifiche del soggetto, e che, come
Fr

afferma Lucia De Anna, non ci può essere l’una senza l’altra (2010, p. 77).

cazione inclusiva (2017) prodotta all’interno del Progetto Erasmus Plus “Hey! Teachers
don’t leave the kids alone”, disponibile al sito www.hey-teachers.eu/intellectual-output-
2-training-tools.
12. Nel Regno Unito, il termine ‘integrazione’, tradizionalmente, fa riferimento al con-
cetto e alle pratiche associate agli studenti con “bisogni educativi speciali’. L’integrazione
si concentra sui deficit, sulle carenze percepiti nel bambino in quanto causa di ostacoli alla
partecipazione e, quindi, deriva da una prospettiva legata al ‘modello medico’, mentre l’in-
clusione è sostenuta dal modello sociale e colloca le barriere alla partecipazione all’interno
della scuola o dell’università e nella società in generale (Booth e Ainscow, 2011).
13. Cfr. il lemma Coevoluzione in Panciroli, a cura di (2018), pp. 32-33.

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La prospettiva comune all’integrazione e all’inclusione è volta allo svi-


luppo di un’organizzazione scolastica strutturalmente concepita come una
comunità solidale che pone al centro la piena formazione personale di ogni
allievo. L’indubbia complessità insita nel concretizzare quotidianamente
tali istanze implica la capacità da parte della scuola di operare come una
comunità fondata sulla condivisione dei principi e dei valori e sulla corre-
sponsabilità di tutti i membri, facendo proprio un atteggiamento di ricerca/
azione e di formazione continua14. La professionalità del docente inclusi-
vo (Agenzia Europea, 2012) richiede infatti una disponibilità al lavoro in
collaborazione tra colleghi, con i famigliari e i professionisti degli ambiti
socio-educativo-sanitari e una riflessione continua sulle proprie convin-
zioni, sul proprio linguaggio e sulle proprie pratiche educative e didattiche

i
(Schon, 1983).

el
Si tratta di promuovere un processo coevolutivo in cui si apprende,
riflettendo costantemente sull’esperienza stessa, sostenuti da una salda co-
noscenza teorica, attuando una valutazione formativa, riformulando siste-

ng
maticamente le proposte e trasformandole in “buone prassi”, in procedure
istituzionali stabili15. In particolare, la ricerca-azione dovrebbe essere im-
plementata come una forma costante di revisione consapevole delle attività
educative e dovrebbe essere maggiormente sostenuta, come già avviene a
A
livello internazionale (Cain, 2011). Essa infatti, svolta principalmente all’in-
terno del gruppo di lavoro formato dai vari professionisti della didattica,
dell’educazione e della salute coinvolti nel processo di integrazione-inclu-
co

sione insieme ai famigliari di un determinato studente, soprattutto quando


la situazione di disabilità è particolarmente complessa da gestire, non è

14. L’esigenza di formazione è avvertita non solo in Italia, come emerge dai dati della
an

ricerca transnazionale svolta all’interno del progetto Erasmus plus “Hey! Teachers don’t
leave the kids alone” relativa alla percezione di adeguatezza della propria preparazione da
parte degli insegnanti. Solo il 43% di essi risponde di sentirsi preparato per l’insegnamen-
to agli allievi con bisogni educativi speciali (dal Rapporto di ricerca, p. 44, disponibile al
sito:www.hey-teachers.eu/intellectual-output-1-transnational-analysis-research).
Fr

Si ribadisce dunque l’assoluta necessità di prevedere percorsi adeguati di formazione


iniziale e in servizio per tutto il personale scolastico che favoriscano lo svilupparsi delle
necessarie competenze riflessive. Ovviamente tali competenze esigono la capacità di deco-
struire il proprio immaginario pedagogico di partenza e le rappresentazioni a esso legate
oltre che quelle di leggere e di interpretare il contesto scolastico e formativo (Canevaro,
D’Alonzo, Caldin e Ianes, 2011). Attuare l’integrazione/inclusione comporta, prima di
entrare nello specifico delle strategie didattiche, una riflessione critica da parte di tutta la
comunità scolastica sulle proprie rappresentazioni spontanee rispetto ai concetti di norma-
lità, diversità, educabilità, sulle proprie modalità di operare; di interrogarsi, fondamental-
mente, rispetto a quale scuola, a quale società si vuole concorrere a costruire.
15. In questo processo la collaborazione tra Università e Scuola è fondamentale. Per
approfondimenti rispetto alla formazione iniziale dei docenti inclusivi si può vedere: San-
dri (2018b).

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solo un mezzo di conoscenza, ma uno strumento di coinvolgimento, una


modalità di relazione, un’occasione di conoscersi e conoscere, di agire e di
cambiare e dovrebbe coinvolgere, il più possibile, anche la persona disabile
stessa.
Il processo attivato dovrebbe essere continuamente sostenuto e moni-
torato con l’intenzionalità di costruire una scuola inclusiva, di qualità. Per
questo è necessario che ogni istituzione scolastica organizzi struttural-
mente le proprie procedure, superando l’aleatorietà di un’offerta formativa
inclusiva legata ancora troppo spesso all’impegno personale del singolo
docente e garantendo invece che essa sia prassi condivisa da tutto il per-
sonale della scuola, sottoposta a valutazione grazie all’individuazione di
chiari indicatori strutturali, di processo e di risultato. In questo quadro,

i
l’insegnante specializzato nelle attività di sostegno alla classe per l’integra-

el
zione dell’allievo con disabilità, dovrebbe essere sia un “nodo” della rete
dei sostegni, un membro che si esprime lavorando nella scuola e in classe,
anche attraverso l’intercambiabilità di ruolo con il docente curricolare e

ng
la complementarietà con l’educatore, per sostenere gli allievi più fragili
e promuovere il benessere di tutti, sia un coordinatore della rete stessa,
operando secondo un approccio sistemico-relazionale a partire da una
lettura delle potenzialità del singolo e del contesto16. Dovrebbe, in sintesi,
A
creare legami, valorizzando gli apporti di tutti coloro che sono coinvolti
nel processo di integrazione/inclusione, sia interni alla scuola (connettendo
i diversi contributi offerti dagli insegnanti curricolari, dall’educatore, ecc.
co

nel progetto educativo e didattico), sia esterni (promuovendo il raccordo


con altre scuole, costruendo percorsi integrati tra scuola ed extrascuola con
il contributo dell’Azienda Sanitaria Locale e dei famigliari, elaborando e
diffondendo cultura inclusiva).
an

Tutti i professionisti dovrebbero lavorare sinergicamente, chiarendo i


loro diversi approcci teorici e operativi, nella consapevolezza che il loro
contributo condiviso può innovare proficuamente la cultura e il sistema
istituito a favore dei singoli e della comunità. Fondamentale è anche l’ap-
porto di tutti i genitori, la relazione con i quali risulta spesso conflittuale,
Fr

come emerge anche da una recente ricerca internazionale17. La costruzione


di un’“alleanza” tra scuola e famiglia richiede il superamento di atteggia-

16. Per un approfondimento sul ruolo e le funzioni del docente specializzato nelle atti-
vità di sostegno si rimanda al contributo di Patrizia Gaspari in questo libro.
17. Si fa riferimento ai dati di ricerca rilevati in occasione del progetto Erasmus plus,
già citato, secondo cui tale difficoltà di relazione è un fenomeno che si rintraccia anche
nei paesi partner europei: Slovenia, Polonia, Lituania. Per visionare i dati, si rimanda a:
www.hey-teachers.eu/intellectual-output-1-transnational-analysis-research. Per avere sug-
gerimenti su possibili strumenti da utilizzare per promuovere la collaborazione con i geni-
tori: www.hey-teachers.eu/intellectual-output-2-training-tools.

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menti autoreferenziali da parte di tutti. In particolare i docenti sono chia-


mati ad aprirsi a un’analisi globale, sistemico-relazionale, dei complessi
fattori in gioco nella crescita formativa dell’allievo, in modo da evitare
interpretazioni centrate unicamente su responsabilità dello studente o fa-
migliari, che includa anche gli aspetti “ostacolanti” e “facilitanti” presenti
nel contesto scolastico, prendendo in considerazione il clima della classe, le
stesse modalità di insegnamento, la relazione instauratasi tra docente e al-
lievo e le rispettive “attese” più o meno consapevoli ed esplicite, ecc. Avere
cura dello sviluppo e del benessere di ogni studente dovrebbe comportare
infatti avere un dialogo sia con l’allievo sia con la sua famiglia, in modo da
comprendere le percezioni soggettive riguardo alle situazioni che si stanno
vivendo e, in caso di difficoltà, riflettere insieme sulle possibili strategie di

i
superamento, condividendo i progetti e individuando soluzioni negoziate.

el
Fare proprio l’approccio inclusivo significa fare propria un’etica della
giustizia e dell’equità (Ostinelli e Mainardi, 2016), operando a livello or-
ganizzativo, gestionale, di progettazione di indirizzo della scuola (Piano

ng
Triennale dell’Offerta Formativa; Piano Annuale per l’inclusione). Ancora
oggi tuttavia l’adattamento necessario per integrare l’allievo con bisogni
educativi speciali è spesso visto come un aspetto aggiuntivo se non se-
parato rispetto alla programmazione comune e non come un’occasione
per ripensare la proposta formativa in termini inclusivi, per tutti. Così il
A
Piano Annuale per l’inclusione non sembra ancora utilizzato pienamente
come strumento atto a promuovere la collegialità nell’elaborazione delle
co

programmazioni specifiche e a fornire, sulla base di un’analisi dettagliata


dei bisogni, le indicazioni da adottare a livello di Istituto (Dainese, 2017).
L’individualizzazione e la personalizzazione degli apprendimenti (Piano
Educativo Individualizzato, Piano Didattico Personalizzato) sono inter-
an

pretate come procedure didattiche da attuarsi solo in situazioni particolari


per determinati allievi, appartenenti a specifiche categorie (con deficit, con
disturbi specifici di apprendimento, con deficit di attenzione e iperattività,
ecc.), spesso senza promuovere intenzionali processi di riconoscimento
reciproco tra i compagni o forme di coevoluzione tra tutti i membri della
Fr

comunità, come la didattica speciale per l’inclusione, nella sua accezione di


didattica della complessità, ha invece sempre sollecitato.
La scuola “antropocentrica”, inclusiva, a cui si vuole fare qui riferi-
mento, vede invece la professionalità docente esprimersi mediante “un
approccio educativo, non meramente clinico” (Circolare applicativa n. 8 del
6 marzo 2013) in grado di costituire in classe una comunità di apprendi-
mento (Pavone, 2016) e di individuare strategie di intervento adeguate alle
specificità di ogni allievo.

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5. Il contributo della didattica speciale per l’inclusione


all’innovazione didattica

I riferimenti teorici e le “buone prassi” della didattica speciale per l’in-


clusione sollecitano a sviluppare una scuola democratica (Dewey, 1916) che
supera il modello unicamente centrato sulla trasmissione delle conoscenze
a favore di modelli di didattica attiva, in accordo con quanto viene sostenu-
to nel Manifesto delle scuole d’avanguardia dove si valorizza l’insegnante
«che trasforma la lezione in una grande e continua attività laboratoriale,
di cui è regista e facilitatore dei processi cognitivi, anche grazie all’utiliz-
zo delle ICT; che lascia spazio alla didattica collaborativa e inclusiva, al
brainstorming, alla ricerca, all’insegnamento tra pari; che diviene il rife-

i
rimento fondamentale per il singolo e per il gruppo, guidando lo studente

el
attraverso processi di ricerca e acquisizione di conoscenze e competenze
che implicano tempi e modi diversi di impostare il rapporto docente/stu-
dente». Poiché «È attraverso l’apprendimento attivo – che sfrutta materiali

ng
d’apprendimento aperti e riutilizzabili, simulazioni, esperimenti hands-on,
giochi didattici, e così via – che s’impara. Facendo e sbagliando» (Indire,
2014). Tutto ciò prevede la possibilità di organizzare gli spazi scolastici in
modo flessibile, polifunzionale e adeguato alle attività via via da attuare18,
A
in modo che lo studente si attivi nel proprio apprendimento, con consape-
volezza rispetto al progetto educativo, cooperando con i compagni.
Ogni spazio educativo dovrebbe essere progettato per incoraggiare il
co

“benessere” (OMS, 2002) di tutti gli studenti e quindi con un’attenzione


particolare alle caratteristiche degli allievi con deficit grave, affinché an-
che loro possano essere messi in condizione di apprendimento con i propri
compagni, evitando l’isolamento nelle cosiddette “aule di sostegno”, luoghi
an

di possibile stigmatizzazione ed esclusione (Demo, 2015). Risulta necessa-


rio riflettere rispetto alle motivazioni psico-pedagogiche e didattiche che
sostengono la realizzazione di queste aule, analizzando la loro funzione
da un punto di vista prossemico, per comprendere i significati impliciti,
nascosti che esse comunicano (Hall, 1968) e trovare soluzioni adeguate,
Fr

nelle nuove e vecchie scuole, per permettere ai docenti di avvalersi della


possibilità di predisporre, organizzare, arredare in modo flessibile gli spazi
a seconda degli stili di apprendimento, dei punti di forza di ogni allievo
e per promuoverne la responsabilità, la partecipazione e l’autonomia. Una
soluzione potrebbe essere quella individuata da alcune tra le scuole italiane

18. Si pensa a una scuola dove vi siano spazi per condividere eventi collettivamente,
attività non strutturate o informali, organizzate anche oltre l’orario di lezione; una scuola
aperta alla comunicazione e alla collaborazione con altri enti del territorio (associazioni
sportive, culturali, servizi sociali, ecc.).

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più innovative che prevede di allestire un angolo all’interno dell’aula o un


ambiente in comunicazione con l’aula stessa, una “quiet zone” (fig. 1), a cui
tutti possono accedere in modo regolamentato e responsabile per svolgere
attività individualmente, in coppia o in piccolo o grande gruppo (Sandri e
Marcarini, in corso di stampa).

i
el
A ng
co

Fig. 1 - La “quiet zone” all’interno della classe (piantina fornita da Cecilia Rivalenti)

In una visione inclusiva della scuola, ogni studente dovrebbe infatti


an

essere messo in condizione di poter apprendere da e con gli altri, ma al


tempo stesso di sapersi organizzare autonomamente, studiando da solo o
con l’insegnante, prevedendo anche momenti di riflessione in un ambien-
te familiare e tranquillo. Per questo occorre, a parere della scrivente, sia
un’organizzazione flessibile degli spazi, dove ci si possa sentire “appar-
Fr

tenenti”, ovvero accolti, accettati nella propria identità originale, sia un


curricolo che integri l’approccio dell’Universal Design for learning (UDL)
(Rose e Meyer, 2002) con quello della didattica speciale per l’inclusione
(Cottini, 2018; Sandri, 2018a). Se l’UDL indica infatti di prevedere il più
possibile già in fase di programmazione, e dunque prima di incontrare gli
allievi e di conoscere la loro biografia formativa, percorsi didattici fondati
su una molteplicità di rappresentazioni, di attività e di modalità espressive
diverse (fig. 2), finalizzati a promuovere gli apprendimenti e la parteci-
pazione attiva di ognuno, la didattica speciale per l’inclusione apporta un
contributo fondamentale nel momento dell’incontro effettivo con la classe

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e con l’allievo, in particolare se con deficit intellettivo grave, per compren-


dere i fattori interconnessi, legati agli aspetti ontogenetici, epistemologici,
educativi e didattici che possono facilitare od ostacolare il raggiungimento
del successo scolastico o formativo, sollecitando sia una specificazione del-
la programmazione di classe a partire dai punti di forza, dalle potenzialità
e dagli interessi di ogni allievo, sia un’integrazione della stessa, inserendo
obiettivi o contenuti o attività, specifiche per lo studente con deficit, che
possono arricchire tutti sul piano degli apprendimenti cognitivi e su quello
della crescita emotiva e relazionale (Canevaro, 1999; Sandri, 2015). Si ri-
tiene che la complessità dell’agire didattico inclusivo, volto alla costruzione
di contesti comunitari coevolutivi fondati sulla reciprocità, richieda l’inte-
grazione di entrambi gli approcci, in particolare in presenza di allievi con

i
gravi deficit intellettivi.

el
A ng
Molteplici modalità
di rappresentazione

Principi base
dell’UDL
co

Molteplici forme Molteplici mezzi


di impegno di espressione
an

Fig. 2 - Schema per adattamenti flessibili (tratto da Buchheister et al., 2014, p. 64)
Fr

Le molteplici strategie di insegnamento che dovrebbero essere attivate a


seconda delle caratteristiche di ogni allievo, delle attività e delle competen-
ze da perseguire (Mitchell, 2014) possono essere rappresentate su una linea
(fig. 3) a partire da quelle più “centrate sul docente”, a sinistra, come quella
per esempio costituita dall’istruzione esplicita fornita step by step allo stu-
dente, per poi, procedendo verso destra, individuare esperienze di appren-
dimento contestualizzate come l’apprendistato, per arrivare alle strategie
socio-costruttiviste più “centrate sull’allievo” a destra, in cui l’allievo è
attivo elaboratore creativo del proprio apprendimento.

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Curricolo Curricolo
centrato centrato sullo
sull’insegnante studente

Istruzione diretta o esplicita Apprendistato Strategie costruttiviste

Fig. 3 - Continuum delle strategie didattiche (da Karp and Voltz, 2000, p. 208)

L’istruzione esplicita può essere efficace nel caso in cui lo studente


abbia necessità di essere guidato con esempi e domande-guida a interio-
rizzare gradualmente le strategie cognitive, ma l’elevato controllo da parte

i
dell’insegnante può non dargli opportunità di assumersi la responsabilità

el
del proprio apprendimento. L’apprendistato (Brown et al., 1989) si fonda
sul presupposto che gli allievi imparino meglio quando sono posti nel ruo-
lo di apprendisti, grazie all’interazione con il docente che funge da mo-

ng
dello, verbalizzando i processi di pensiero che accompagnano ogni fase di
un compito e facendo domande per far riflettere, passo dopo passo, sulle
azioni e le strategie svolte e da svolgere, sulla base di quelle precedente-
mente osservate. Tutto ciò comporta da parte dell’insegnante la capacità
di collegare i concetti all’esperienza e di lavorare nella “zona di sviluppo
A
prossimale” dell’allievo, sostenendo quest’ultimo nell’individuare esatta-
mente che cosa è necessario per la sua significativa partecipazione quando
non riesce a comprendere autonomamente alcuni aspetti del compito. La
co

valutazione è parte del processo di apprendimento e richiede da parte


dello studente un riesame delle strategie utilizzate per risolvere il compito,
una consapevolezza e un controllo di quanto appreso. Come l’istruzione
esplicita anche l’apprendistato rende espliciti i processi di pensiero, ma il
an

secondo è fondato su esperienze di apprendimento contestualizzate e que-


sto può facilitare gli studenti con disabilità (Vaughn et al., 1997).
Gli approcci costruttivisti (Dewey, 1916; Piaget, 1980; Vygotskij, 1990)
prevedono la costruzione attiva della conoscenza da parte degli allievi, i
quali grazie allo sviluppo di strutture cognitive, di schemi, danno senso
Fr

alle loro esperienze e imparano a imparare. Ciò può, da un lato, sollecitare


lo studente con bisogni educativi speciali a diventare artefice del proprio
apprendimento, ma dall’altro disorientarlo, se ha necessità di indicazioni
più strutturate che lo sostengano nel rilevare gli aspetti salienti di un com-
pito o se non possiede le conoscenze o le strategie cognitive richieste. L’in-
segnante dovrebbe quindi, in base alle caratteristiche dell’allievo, decidere
quale modello può essere più efficace19.

19. Nel caso il docente voglia spiegare, per esempio, il concetto di moltiplicazione e in
particolare il significato di 4x5, potrebbe indirizzare lo studente, nell’ottica dell’istruzione

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Un aspetto cardine delle competenze professionali (Tomlinson e Kal-


bfleich, 1998; D’Alonzo, 2017) è costituito dall’avvalersi di più strategie
per differenziare l’insegnamento e di più strumenti quali: test, prove, check
list, colloqui, ecc. atti a evidenziare gli stili di apprendimento (Dunn,
2000), i punti di forza, gli interessi, le attribuzioni di significato che ogni
studente fornisce e le emozioni che prova durante le interazioni didattiche,
lo svolgimento dei compiti, ecc. (Morganti, 2012) sulla cui base progettare
percorsi individualizzati e personalizzati, di arricchimento, promuovendo il
più possibile un apprendimento situato e la realizzazione di una community
of learners, con uno scambio sociale di esperienze, conoscenze e abilità
(Lave, 1988; Lave e Wenger, 1991).
L’insegnante inclusivo opera per il cambiamento tramite la ricerca di

i
mediatori di organizzazione didattica, applicando una metodologia che

el
rende attivo l’alunno e lo arricchisce grazie all’interazione e alla crescita
di atteggiamenti di aiuto reciproco con i compagni; promuove riflessioni
metacognitive condivise sui diversi stili di apprendimento, metodi di stu-

ng
dio, modi di comunicare, ecc. (Miato e Miato, 2003); sollecita il deutero-
apprendimento (Bateson, 1972), cioè la capacità di imparare a imparare,
utilizzando molteplici codici, strategie, strumenti comunicativi che coinvol-
gono i cinque sensi e la loro elaborazione tecnologica (multimedia) affinché
A
gli allievi apprendano, riflettendo sulle attribuzioni di significato date alle
esperienze vissute, e attivino un processo di coevoluzione in grado di por-
tare a cambiamenti significativi per ognuno rispetto alla visione di se stessi
co

e del mondo che li circonda. Utile a questo fine è proporre attività di prob-
lem solving da affrontare lavorando come una comunità di apprendimento
capace di apprendere dagli errori o dagli imprevisti. Tali attività dovrebbe-
ro stimolare in particolare l’alunno con deficit a imparare a servirsi delle
an

risorse dell’ambiente in tutti i contesti. In questo senso ogni “incidente”


(come per esempio l’assenza del docente specializzato nelle attività di so-
stegno) può essere occasione di apprendimento, provocando interrogativi
su come si possano perseguire gli obiettivi che ci si proponeva, in una si-
tuazione con caratteristiche diverse da quelle precedenti. La procedura del
Fr

problem solving permette l’integrazione nel contesto, poiché implica che


si impari a leggerlo come struttura complessa che può consentire diversi
percorsi e diverse modalità di soluzione (multimoda). Essa dovrebbe por-
tare ogni allievo alla consapevolezza che un percorso è individuabile in un
reticolato dove diversi altri percorsi sono possibili e ad acquisire la capaci-
tà di elaborare una risposta secondo una prassi diversa da quella usata per

esplicita, a seguire le sue indicazioni, passo dopo passo, mentre compone un parallelepipe-
do di 20 cubi, oppure, secondo la prospettiva costruttivista, chiedergli di spiegare autono-
mamente il procedimento moltiplicativo, utilizzando i cubi.

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formulare la domanda (deuteroprassi; ad esempio, alla richiesta di scrivere


il nome di una strada dove c’è una cartoleria, l’allievo risponde disegnando
la mappa per raggiungere quel negozio).
Si tratta di rendere speciale l’insegnamento/apprendimento nella quoti-
dianità di classe, avendo “cura” sia di elaborare un’unica programmazione
“a priori”, tenendo conto dei possibili ostacoli emotivi, motivazionali o
epistemologici insiti nelle varie materie di studio, sia di rimodularla suc-
cessivamente, sulla base delle osservazioni delle caratteristiche specifiche
di ogni allievo, proponendo una didattica metacognitiva che solleciti con-
nessioni tra le diverse modalità di apprendimento degli studenti presenti
in classe, soprattutto se alcuni di loro sembrano presentare caratteristiche
molto diverse dagli altri (Sandri, 2015, 2017, 2018a).

i
Non si tratta di semplificare i contenuti disciplinari, ma di approfondir-

el
li, cogliendo l’occasione offerta dall’incontro con ogni allievo per inserire
nella programmazione contenuti, metodi, strumenti diversi, eventualmente
anche riabilitativi, che possono consentire apprendimenti significativi per

ng
tutti. In questa ottica, la partecipazione attiva in classe di un allievo con
deficit, per esempio visivo, può diventare un’opportunità di formazione
condivisa, potendo promuovere un percorso interdisciplinare che collega
la comprensione scientifica di come lavora l’occhio all’analisi della perce-
zione ottica dello spazio e della prospettiva in Storia dell’arte, per arrivare
A
allo studio di modelli plastici in rilievo che riproducono le opere d’arte e
alla fruizione estetica di queste ultime tramite anche l’esplorazione tattile
co

(Secchi, 2004; Caldin, 2006). Un ulteriore esempio: un piccolo specchio,


comunemente usato nel trattamento logopedico per permettere a un bam-
bino sordo di controllare l’articolazione dei fonemi, può essere trasformato
da oggetto specialistico, utilizzato solo per il soggetto con deficit uditivo,
an

a oggetto didattico per tutti, all’interno di una programmazione di inizio


scuola primaria finalizzata all’acquisizione della lettura e scrittura di fra-
si, eventualmente anche in inglese per offrire attività sfidanti ad alunni
con alta dotazione. In questo modo si esprime chiaramente l’essenza della
pedagogia e della didattica speciale italiana che, concentrandosi sull’iden-
Fr

tificazione e sulla riformulazione di proposte per attuare l’integrazione


dell’allievo con deficit, supera l’approccio medico, specialistico, facendolo
proprio e rendendo, paradossalmente, la vita scolastica di ogni giorno
“speciale”.
Nella consapevolezza che il processo di integrazione/inclusione è un’i-
stanza regolativa utopica che non può essere mai compiutamente realiz-
zata, in quanto ogni risultato positivo ottenuto promuove la ricerca di un
miglioramento, si ritiene che alcuni dei riferimenti teorici e operativi indi-
viduati possano rappresentare le radici fondanti e rigeneranti di una didatti-
ca, speciale e inclusiva, indispensabile per proseguire nella co-costruzione

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di una scuola attenta sia agli aspetti cognitivi sia a quelli affettivo/motiva-
zionali, all’interno della quale l’approfondimento delle competenze disci-
plinari si coniuga con l’elevazione delle competenze socio-emotive e dove
crescono cittadini colti, capaci di adottare un punto di vista decentrato, di
apprezzare prospettive diverse, di essere empatici e inclusivi. Una scuola in
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2. Buone prassi di integrazione/inclusione


nei nidi e nelle scuole d’infanzia
del Comune di Bologna

di Patrizia Sandri, Laura Rossi e Alessia Sansoni1

i
el
1. L’integrazione dei bambini con disabilità nei servizi
educativi del Comune di Bologna

ng
L’educazione o è cooperativa o non è. La dimensione cooperativa esige il pieno
riconoscimento delle differenze, a partire da quelle connesse con le caratteristiche
psicofisiche individuali e con le diversità sociali, culturali, economiche e di ge-
nere, affinché tutti i soggetti siano nelle condizioni di operare in modo paritario.
A
L’attuale contesto sociale è sempre più plurale, in esso convivono diverse famiglie,
differenti orientamenti culturali e religiosi, modelli e stili educativi spesso diffi-
cilmente conciliabili. Occorre, di conseguenza, che la comunità sappia investire
co

nella progettazione di percorsi adeguati a garantire una molteplicità di risposte,


capaci di valorizzare gli elementi di appartenenza identitaria attraverso pratiche
di messa in rete e di confronto che operino per la costruzione di una cultura del
rispetto e della condivisione che si oppone alla formazione di nuovi ghetti, alla
radicalizzazione dei conflitti e all’esasperazione delle contraddizioni (Comune di
an

Bologna, 2014).

Così riporta il Manifesto pedagogico per l’infanzia dove si esplicitano


alcuni punti di riferimento da sempre caratterizzanti le politiche educative
del Comune di Bologna, tra i quali risultano centrali: il valore delle diffe-
Fr

renze, l’inclusione, la partecipazione delle famiglie e la collaborazione tra


servizi educativi, culturali, sociali e sanitari. Tale collaborazione, indispen-
sabile in particolar modo per attuare l’integrazione dei bambini con disabi-
lità, ha dato vita nel tempo a un sistema educativo integrato2 che, nell’ot-

1. Il presente saggio è frutto di una ricerca e di un’analisi condivise. Rispetto alla ste-
sura, Patrizia Sandri ha scritto i paragrafi 1 e 5, Laura Rossi e Alessia Sansoni i paragrafi
2, 3 e 4.
2. Fanno parte del sistema integrato: i nidi d’infanzia (nidi d’infanzia comunali a
gestione diretta e in concessione, nidi d’infanzia privati autorizzati al funzionamento) e

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tica di “fare ed essere comunità”, ha valorizzato le competenze di ciascun


servizio e le ha potenziate nel loro essere reciprocamente sinergiche. Le
finalità comuni dei diversi professionisti che lavorano in rete sono volte al-
la promozione del benessere, alla prevenzione del disagio, all’inclusione, al
rispetto delle differenze di ognuno, nella consapevolezza che queste ultime
siano una risorsa per la società.

L’incontro (in particolare) con il bambino o la bambina con deficit diviene pertan-
to un’esperienza basilare per la vita del servizio, in quanto favorisce l’acquisizione
di consapevolezze sulle possibili diversità evolutive, agevola l’individuazione di
nuovi indicatori di benessere e genera un grado maggiore di individualizzazione
del progetto educativo grazie alla collaborazione di tutti gli operatori coinvolti

i
(Comune di Bologna, 2014).

el
A Bologna già all’inizio del XX secolo si sperimentano forme educative
che integrano e allargano il percorso educativo-scolastico dei bambini, uno

ng
su tutti: il tempo pieno. Anche l’educazione prescolastica è estremamente
diffusa; rispetto all’asilo (divenuto scuola materna e poi scuola dell’infan-
zia; di asilo nido ancora non si parlava) vi è un forte impegno da parte
dell’Ente Locale tanto che, quando negli anni ’60 il tempo pieno viene re-
golato da circolari ministeriali, il Comune ritiene che siano maturi i tempi
A
per aprire un dibattito aperto e di confronto sulle sperimentazioni sia con
gli operatori educativi che con la cittadinanza. A Bologna, quindi, ogni an-
co

no dal 1962 al 1985, si è tenuto il Febbraio Pedagogico, organizzato dall’as-


sessorato all’istruzione. Il febbraio pedagogico, costituito da manifestazioni
a carattere pubblico, spesso tenute anche nei quartieri cittadini, funziona
come collegamento delle diverse esperienze educative tra i vari ordini di
scuola e vede la partecipazione di operatori coinvolti a vario titolo.
an

Alla fine degli anni ’60 del secolo scorso, con i fermenti di rivolta
sociale, con il bisogno di rivedere i rapporti con le Istituzioni, con le ri-
vendicazioni di accessibilità per tutte le classi sociali ai diversi gradi di
studio, cominciano i dibattiti sui diritti all’educazione e all’istruzione del
Fr

bambino “handicappato”. Nel 1971 la legge 118 permette l’accesso alla sola
scuola dell’obbligo a mutilati e invalidi civili. A Forlì, qualche anno dopo,
nel 1973, si tiene un seminario con un titolo che lascia ben sperare “Per

altri servizi educativi per la prima infanzia (servizi domiciliari, spazio bambini, centro
per bambini e genitori, ecc.); le scuole dell’infanzia (statali, paritarie comunali, paritarie
private convenzionate e non). Le altre agenzie educative del territorio, quali le biblioteche
per l’infanzia, le aule didattiche e museali e i Servizi Educativi Territoriali concorrono alla
qualificazione dell’offerta formativa e didattica dei diversi gradi scolastici. Sono, inoltre,
servizi di sostegno alla genitorialità attraverso progetti educativi e di cura rivolti a bambi-
ni e genitori.

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una politica nei confronti degli handicappati”. Comincia in quegli anni un


decentramento delle Istituzioni, un tentativo di rinnovare i servizi per i cit-
tadini, l’apertura di un dialogo tra istituzioni centrali e locali, l’attenzione
ai bisogni della città. Si inizia quindi a considerare la scuola come primo
possibile luogo comune educativo, in cui costruire, definire e riconoscere il
bambino di oggi e l’uomo di domani. La scuola non è avulsa dal territorio,
in esso si identifica, si affianca e dialoga con i servizi socio-sanitari, racco-
glie bisogni e problematiche ed è a partire da essa, come luogo di crescita,
che si comincia a lavorare sulla de-istituzionalizzazione del bambino “han-
dicappato”.
Verso la fine degli anni ’70, a Bologna, la quasi totalità delle scuole
materne sono gestite direttamente dal Comune, così come lo sono mol-

i
te scuole elementari e due istituti superiori. Le scuole comunali speciali

el
bolognesi cominciano a essere abolite, la scuola materna, in particolare,
sta diventando una scuola di massa, ha numeri di accesso molto alti, pur
non essendo obbligatoria ed è in essa che il Comune comincia a inserire il

ng
bambino “handicappato”: nel periodo 1973-77 la scuola materna di Bolo-
gna conta 455 sezioni, 33 di queste ospitano bambini “handicappati”. Nel
1977, durante il Febbraio Pedagogico, l’argomento trattato in città è relativo
agli “handicappati” e alla scuola di base. Sta nascendo sempre più forte
l’esigenza di integrare partendo da strutture educative decentrate, più le-
A
gate al territorio di quartiere e in grado di percepirne i bisogni. Molti temi
educativi pressanti, negli anni a venire, tra cui l’inserimento dei bambini
co

“handicappati”, sono stati trattati proprio con la cittadinanza in assemblee


pubbliche, nei quartieri, con interventi anche di operatori socio-sanitari
territoriali.
La politica regionale ha sempre inteso non separare gli aspetti socio-sa-
an

nitari da quelli educativo-scolastici e su questo le normative interne hanno


puntato per favorire un’integrazione scolastica del bambino con disabilità
che fosse supportata da progetti condivisi da tutte le realtà impegnate a
favore del minore in difficoltà, sempre aperti alla sperimentazione e al dia-
logo interistituzionale, pur operando con grandi difficoltà a causa di fondi
Fr

pubblici sempre più esigui.


Per comprendere meglio il percorso fatto e continuarlo con determina-
zione e competenza, si presentano nei paragrafi successivi alcune “buone
prassi” di intervento che si ritengono fondanti per il cammino futuro.

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2. La documentazione educativa presso il centro Ri.E.Sco


di Bologna

Tema dell’indagine qui presentata3 sono le “buone prassi” di integrazio-


ne/inclusione dei bambini con disabilità nelle scuole e nei nidi d’infanzia
del Comune di Bologna.
Per “buona prassi” si può intendere un complesso di azioni dirette a
promuovere l’inclusione all’interno di un contesto socio-educativo, tenendo
conto della pluralità dei soggetti e della loro diversità. Un’attività all’inter-
no di un’istituzione, individuata per consentire a un determinato bambino
di superare delle difficoltà, diventa “buona prassi” quando la validità di
quest’azione conduce alla “riorganizzazione di un percorso istituzionale

i
che tiene conto di tutti” (Canevaro e Ianes, 2001, p. 14). Una buona prassi,

el
quindi, può essere considerata una sorta di “buona ricerca”, perché rappre-
senta una base operativa sulla quale ristrutturare e sviluppare il percorso
istituzionale di un servizio, prendendo in considerazione educatori, bam-

ng
bini, famiglie, specialisti e altri operatori. Tuttavia, sviluppare una buona
prassi non è semplice; indispensabile è coinvolgere i bambini con disabilità
e le loro famiglie come protagonisti della progettazione e della realizza-
zione di una realtà che va oltre la soddisfazione immediata di un bisogno,
A
attuando un progetto innovativo, che può fungere da base per lo sviluppo
di ulteriori nuovi percorsi, prevedendo la possibilità di una sua replicazione
e condivisione con le altre risorse del territorio.
co

La prima parte della ricerca è stata di tipo storico ed è consistita nell’a-


nalizzare le documentazioni educative conservate presso il Centro Risorse
Educative e Scolastiche (Ri.E.Sco) del Comune di Bologna per individuare,
mediante una griglia di analisi predisposta, le buone prassi attuate. Ci si è
an

rivolti poi al presente, analizzando i Piani Educativi Individualizzati realiz-


zati nell’anno 2016-17 e intervistando le figure che a vario titolo (insegnan-
ti di sezione, insegnanti “di sostegno”, educatrici delle cooperative sociali)
si occupano dei bambini disabili nelle scuole dell’infanzia e dei nidi del
quartiere S. Stefano di Bologna.
Fr

Nei servizi per l’infanzia, le buone prassi d’integrazione/inclusione pre-


sentano diverse caratteristiche. Innanzitutto, una buona prassi, di base deve
prevedere una forte collaborazione tra il personale educativo: educatori
delle diverse sezioni ed educatori di sostegno devono “essere insieme” nel

3. La ricerca oggetto di questo scritto è stata promossa da Patrizia Sandri, docente di


Pedagogia speciale del Dipartimento di Scienze dell’Educazione di Bologna, in collabo-
razione con la coordinatrice pedagogica Micol Tuzi e con Laura Rossi e Alessia Sansoni,
del quartiere S. Stefano del Comune di Bologna, nell’ambito della Funzione Strumentale
integrazione/inclusione delle disabilità nell’a.s. 2016-2017.

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progettare gli interventi didattici all’interno del servizio, devono avere ben
chiara la definizione di “buona prassi” e devono collaborare tra di loro,
unendo le loro competenze ed esperienze personali. In questa collabora-
zione, non deve mai mancare un coinvolgimento delle famiglie; il bambino
ha bisogno di continuità tra servizi e casa e deve poter “sentire” che le
persone che si prendono cura di lui sono strette da un’alleanza educativa.
La presenza di un’idea forte, unificante, dalla quale parte la collaborazione
tra gli operatori educativi e si sviluppa la prassi d’integrazione/inclusione è
un’altra caratteristica indispensabile per costruire un intervento nei servizi
per l’infanzia: è importante che alla base vi sia uno sfondo comune che
dia senso concreto alle attività da realizzare. Per questo il Piano Educativo
Individualizzato, elaborato per il bambino con disabilità deve raccordarsi

i
con il progetto di sezione, tenendo conto delle differenze dei singoli e in-

el
cludendo tutti i soggetti. Gli obiettivi, gli strumenti e le strategie relativi
alla progettazione descritta nel Piano Educativo Individualizzato (PEI) e
quindi specifici per il bambino con disabilità, ritenuti particolarmente for-

ng
mativi per tutti, dovrebbero essere introdotti nella progettazione di sezione
e trovare la loro concretizzazione nelle attività quotidiane. Solo in questo
modo si attua un’integrazione che promuove coevoluzione e reciprocità.
Inoltre, gli interventi didattici ed educativi, nell’ottica dell’inclusione, devo-
no essere attuati in un clima sereno, che metta tutti nella condizione di es-
A
sere soggetti attivi della realizzazione della loro conoscenza, avendo come
premessa di base la crescita psichica di tutti i bambini, in termini di auto-
co

consapevolezza, autoregolazione e sviluppo emozionale. I bambini, infatti,


sono fin dalla nascita dei soggetti attivi e competenti, capaci di interagire,
comunicare e relazionarsi all’ambiente circostante. Anche la presenza di
un apprendimento cooperativo in piccoli gruppi è indispensabile in quanto
an

la forza principale di una buona prassi è proprio la solidarietà tra pari: i


coetanei relazionandosi reciprocamente fra loro acquistano più fiducia nelle
proprie risorse e sviluppano la capacità dell’empatia, indispensabile per
andare oltre se stessi e raggiungere l’altro, apprezzando così le diversità.
Infine, il percorso educativo adottato da un servizio, affinché possa essere
Fr

chiamato “buona prassi”, deve essere innovativo, ovvero deve avere la pos-
sibilità di fungere da base per lo sviluppo di ulteriori nuovi percorsi, deve
prevedere la possibilità di replicazione del progetto, e deve essere condivi-
sibile con le altre risorse del territorio.
Parte del lavoro di ricerca ha preso in esame le buone prassi relative
all’inclusione dei bambini con disabilità nelle scuole dell’infanzia e nei nidi
comunali a partire dai primi anni di integrazione, proprio per comprendere
come le insegnanti operavano, come veniva integrato il bambino, di quali
strumenti e di quali rapporti si avvaleva la scuola bolognese per dialogare
con le istituzioni territoriali preposte. Si è partiti dunque dall’analisi delle

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documentazioni educative contenute presso il Centro Risorse Educative e


Scolastiche Ri.E.Sco a Bologna.
La biblioteca del Laboratorio di Documentazione e Formazione possie-
de una collezione di materiali estremamente preziosa e risulta una risorsa
importante per chi a vario titolo si occupa di educazione. Insegnanti, pe-
dagogisti, educatori e studenti possono avere stimoli e spunti per il loro
lavoro trovando una viva testimonianza di quanto è stato fatto negli ultimi
decenni nei servizi del Comune di Bologna e non solo. Va sottolineato che
la presente ricerca si è inserita in un momento particolare per il LabDoc-
Form, quello della sua riorganizzazione documentale. Per questo motivo,
nei primi mesi di lavoro, i documenti sono stati reperiti interrogando il
catalogo online4 del Centro. La ricerca è stata effettuata o sulla base di pa-

i
role chiave, tramite la maschera di ricerca semplice, o sulla base di descrit-

el
tori5, attraverso la maschera di ricerca guidata. In seguito, abbiamo potuto
consultare i documenti in maniera più puntuale grazie alla suddivisione del
materiale. Rispetto al precedente criterio di collocazione è stata mantenuta

ng
la suddivisione per tipo di supporto (cartaceo o video), sono state ripensate
le suddivisioni relative al tipo di servizio e alle fasce di età, ma la principa-
le novità è stata quella di una ulteriore suddivisione delle documentazioni
per tematiche. Una delle macro-categorie della collezione è quella appunto
inerente alla disabilità.
A
Prima di entrare nel dettaglio su quanto emerso dalla lettura e interpre-
tazione dei dati si propongono alcune brevi riflessioni sui documenti depo-
co

sitati. Si tratta di documentazioni progettuali che testimoniano il lavoro di


tante insegnanti e che contengono al loro interno informazioni preziose. La
caratteristica che accomuna la maggior parte dei lavori è quella di essere
intessuta di una «forte affettività, quella degli adulti e quella dei bambini
che insieme costruiscono testimonianza di vita quotidiana, di cura, di rou-
an

tine e di attività o progetti che accompagnano un anno educativo» (Maz-


zone, 2017, p. 38). Si tratta di un prodotto confezionato, come un archivio
della memoria, corredato da: quaderni personali, album, materiale fotogra-
fici, raccolta di elaborati dei bambini, ecc.
Fr

Se al giorno d’oggi, da parte di insegnanti e di educatori, la documen-


tazione sembra essere vissuta solo come un obbligo formale e non come
una occasione per riflettere sulle proprie pratiche, le ricognizioni tra i

4. Cfr. http://labdocform.tecaweb.it.
5. I descrittori individuano l’argomento centrale o gli argomenti trattati con eguale ri-
lievo nel documento, tramite un linguaggio controllato che rappresenta in maniera univoca
un concetto determinato. Il LabDocForm ha come riferimento, in particolare per le docu-
mentazioni sui progetti di integrazione dei bambini con disabilità, il thesaurus predisposto
nell’ambito della rete dei CDI Centri Documentazione per l’Integrazione della Regione
Emilia Romagna.

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materiali conservati al centro Ri.E.Sco sono diventate per le scriventi uno


stimolo e un convincimento ulteriore all’idea che documentare non è solo
lasciare una traccia di quanto fatto o che si sta portando avanti, ma anche
una riflessione che porta a una crescita professionale, a critiche costruttive,
a possibilità di cambiare per innovare. Riflettere significa farsi domande,
mettersi in discussione, aprirsi al dialogo e confrontarsi.

3. Le documentazioni educative nelle scuole d’infanzia:


analisi dei dati

La documentazione analizzata, relativa all’integrazione dei bambini

i
con disabilità, consiste in 124 documenti, realizzati su supporto cartaceo e

el
video (tab. 1), che documentano esperienze realizzate dal 1979 fino al 2017
nei servizi scolastici 3-6 del Comune di Bologna. Di queste testimonian-
ze 114 sono su supporto cartaceo, che sono il vero oggetto della presente

ng
indagine, e solo 10 sono state realizzate su supporto video (8 su VHS e 2
DVD). Cinque di questi video fanno parte di alcune significative documen-
tazioni cartacee, tra quelle di cui sopra, e sono stati realizzati all’interno
dello stesso percorso documentario6.
A
Non è stato possibile consultare o valutare una parte del corpo docu-
mentario cartaceo per diversi motivi:
–– era ancora in fase di ricollocamento;
co

–– è stato archiviato, perché ormai datato o rovinato;


–– non era inerente ai servizi del Comune di Bologna, come nel caso di
documenti prodotti dal personale operante in scuole paritarie;
–– si tratta di materiali teorici, relativi a mostre, a corsi di formazione, ecc.
an

Dall’analisi del materiale nella sua totalità emergono alcuni spunti di


riflessione che si ritiene interessante esporre brevemente.
Un primo aspetto significativo che emerge è che il Comune di Bologna,
negli anni, ha sempre svolto corsi di aggiornamento e formazione per il
corpo insegnante, ricercando collaborazioni con l’Università di Bologna
Fr

per sperimentare e innovare i propri servizi educativi. Interessante, in


particolare, la formazione proposta negli anni ’80 del secolo scorso sulla
Pedagogia Conduttiva rivolta a bambini con deficit motori e sviluppata, dal
dopoguerra in avanti, a Budapest, presso l’Istituto di Andreas Peto.

6. Cfr.: Acinapura F., a cura di, Inventiamo una storia… io racconto, VHS, 1997; Bal-
samo C., Madia A. e Roda A.M., a cura di (1989), Un percorso di integrazione una mo-
stra, VHS; Gandolfi L. e Sancini M., a cura di (1997), Io, L., vado alla scuola elementare
VHS; Mirti S. e Papotti P. a cura di (1998), Accadde un giorno, VHS; Piazzi M. (2008),
Un filo per R., DVD.

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Tab. 1 - La documentazione presa in esame al Centro Ri.E.Sco

Tipo di materiale Numero dei


documenti
Casi-studio  90
Materiale in fase di ricollocamento  19
Materiale che affronta il tema della disabilità da altre  11
prospettive: mostre, ecc.
Materiale non inerente ai servizi 3-6 del Comune di Bologna   3
Materiale archiviato   1
Totale 124

i
el
Due insegnanti, che hanno preso parte a un corso effettuato a Budapest,
hanno testimoniato nelle relazioni scritte come questo metodo educativo
abbia dato loro la possibilità non solo di formarsi, crescere professional-

ng
mente e aprire il proprio sguardo verso l’esterno, ma anche di portare e
replicare nelle scuole del territorio bolognese le esperienze fatte.
Le Funzioni Strumentali, previste secondo l’art. 33 CCNL Scuola, so-
no un altro investimento fatto dall’amministrazione bolognese e anche da
A
esse si sono sviluppate possibilità di innovazione e sperimentazione. Le
dispense, resoconto delle Funzioni Strumentali, sono tra loro molto diver-
se. Per una7 si tratta di una ricerca attuata sul territorio volta a rilevare le
co

modalità messe in atto nelle scuole dell’infanzia comunale del Quartiere S.


Vitale per favorire l’integrazione di bambine/i disabili attraverso l’utilizzo
di una griglia elaborata dal gruppo cittadino Handicap. Altri due ciclo-
stilati8 affrontano temi specifici: dal tema dell’epilessia, con cenni storici
an

sulla malattia ed elaborazione di un piano educativo personalizzato per un


bambino affetto da questa sindrome, al tema della Comunicazione Aumen-
tativa Alternativa, come strumento di mediazione e sviluppo del linguaggio
in una bambina con sindrome di Charge. Infine, Bimbopoli9, è un gioco da
Fr

tavolo creato allo scopo di riuscire ad attivare un confronto collegiale più

7. Cfr.: Boldrini M.C., a cura di (2007), Progetto della funzione strumentale sull’han-
dicap, Bologna (Documento, Centro Ri.E.Sco).
8. Per il primo caso la documentazione di riferimento è Boldrini M.C., a cura di
(2006), Progetto della funzione strumentale sull’handicap, Bologna (Documento, Centro
Ri.E.Sco). Il secondo caso è descritto in Russo C., a cura di (2009), Mani che comunicano.
Mediazione e sviluppo della comunicazione nell’interazione con una bambina affetta da
sindrome di Charge, Bologna (Documento, Centro Ri.E.Sco).
9. Cfr.: Angeloni C., Tugnoli N., a cura di (2008), Bimbopoli: come nasce un gioco per
insegnanti? Un gioco per creare consapevolezza della propria e altrui esperienza profes-
sionale, Bologna (Documento, Centro Ri.E.Sco).

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informale sulle tematiche connesse all’integrazione dei bambini disabili a


scuola.
Un altro materiale interessante è quello realizzato in occasione di mo-
stre, quale per esempio: Io so fare se…: mostra dall’esclusione all’inclu-
sione10. La mostra allestita a Bologna dal 7 al 16 aprile 2008, nell’ambito
di una esposizione regionale promossa dalla Rete dei Centri di Documen-
tazione per l’integrazione della Regione Emilia-Romagna, raccoglieva ma-
teriali e documentazioni di progetti e buone prassi di inclusione provenienti
da servizi educativi e scuole di Bologna.
Merita, infine, una segnalazione particolare il progetto, curato da un’in-
segnante molto sensibile al tema dell’inclusione, “Diversità… Disabilità…
Unicità”11. Attraverso letture significative e l’arrivo a scuola di “Bimbolo”,

i
un bambolotto di pezza di colore azzurro senza naso e senza bocca, l’inse-

el
gnante è riuscita ad avviare un dialogo con tutti i bambini della sua scuola
sulle tante caratteristiche della diversità. La presa visione della documen-
tazione di tale percorso consente di rilevare soprattutto le diverse strategie

ng
attuate dai bambini per integrare il nuovo arrivato nei loro giochi.
Entrando nel merito della ricerca sulle buone prassi di integrazione nel-
la scuola dell’infanzia dalla fine degli anni ’70 dello scorso secolo al 2017,
un primo dato che emerge, come si può vedere dalla tabella 212, è che la
produzione documentale relativa ai bambini con disabilità è diminuita nel
A
corso degli anni: se durante gli anni ’90 del secolo scorso fino al Duemila
il numero dei documenti era abbastanza significativo, a partire dagli anni
co

Duemila si è assistito a un progressivo calo fino ad arrivare a zero in que-


sta ultima decade.
Diversi sono i tipi di progetti didattici che si possono classificare: pro-
getto monografia, progetto interistituzionale, progetto di vita, relazione
di un anno di lavoro per l’integrazione di un bambino disabile e progetto
an

facilitazione (tab. 3). Si può notare che il numero di documenti non corri-
sponde al numero reale dei casi analizzati, ma è maggiore, questo è dovuto
al fatto che 14 documenti non appartengono a una sola di queste categorie
documentarie, ma a più d’una di esse.
Fr

10. Cfr.: Balsamo C., Cesari A., a cura di (2008), Io so fare se…: mostra dall’esclusio-
ne all’inclusione, Bologna (Documento, Centro Ri.E.Sco).
11. Cfr.: Madia A., a cura di (2009), Diversità… Disabilità… Unicità, Bologna (Docu-
mento, Centro Ri.E.Sco).
12. I documenti considerati per questa prima analisi quantitativa tengono conto non so-
lo dei 90 casi analizzati con la griglia elaborata nel gruppo di ricerca, ma anche di dati che
si possono reperire dal catalogo online del Centro Ri.E.Sco.

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Tab. 2 - Numeri di documenti presi in esame per decade

Decade Numero documenti Percentuale


presi in esame
Dal 1979 al 1990  30 27,3%
Dal 1990 al 2000  65 59,1%
Dal 2000 al 2010  15 13,6%
Dal 2010 al 2017   0 0%
Totale 110 100%

Tab. 3 - Tipi di documenti

i
el
Tipi di progetto Numero di Percentuale
documenti
Progetto monografia  27 20%
Progetto interistituzionale
Progetto di vita
Relazione di un anno di lavoro per l’integrazione
di un bambino con disabilità
Progetto facilitazione
A ng  31
 33
 30

 14
23%
24,4%
22,2%

10,4%
Totale 135 100%
co

Nei progetti degli anni ’80-’90 del secolo scorso, si sono potu-
te rilevare in particolare le funzioni svolte dall’insegnante cosiddetto/a
“monografico/a”. Tale figura era addetta a documentare l’evolversi, nel suo
an

itinere, del progetto educativo del bambino: «il farsi della monografia è un
“sistemarsi durante”: riferire al gruppo i racconti, i problemi, le conquiste
di una situazione relazionale che ha diversi obiettivi incrociati fra loro
(cognitivi, di convivenza ecc.; la loro distinzione è spesso di comodo, per
Fr

cercare di riordinarli, mentre in realtà sono fittamente intrecciati) e che ri-


flettono anche le finalità istituzionali» (Canevaro, 1988, pp. 116-117).
L’educatore poteva decidere di scrivere un diario, effettuare registrazio-
ni vocali, video, foto, ecc. Ciò che era importante era che tali documenta-
zioni fossero consultabili, condivisibili, utilizzabili da tutti e che fossero te-
stimonianza di quanto succedeva all’interno della relazione con il minore.
Ogni problema che poteva insorgere durante la giornata veniva condiviso,
affrontato e analizzato in profondità nel gruppo di lavoro, al cui interno
ognuno portava le situazioni, le relazioni e le problematiche relative al vis-
suto quotidiano, fatto anche di emozioni.

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ISBN 9788891789327

La modalità monografica aiutava le figure educative ad analizzare e


a sostenere il progetto educativo, accogliendo e rilanciando proposte su
quanto veniva condiviso. Non si trattava di un momento di sfogo dell’edu-
catore, ma diveniva una possibilità di riflessione, di progettualità sostenuta
dal gruppo, un modo forte per sentirsi parte di una realtà educativa che si
muoveva nella direzione di sostenere la crescita e l’inclusione del bambino
disabile attraverso una strada comune. Un’occasione importante, nella qua-
le l’insegnante di sostegno non era solo/a e isolato/a, ma lavorava in equipe
e con essa si confrontava. Il “progetto monografia”, redatto dall’insegnante
monografico/a, è spesso corredato da documenti cartacei e foto che narra-
no un percorso svolto in più anni.
Esistono poi documenti plurimi, redatti da insegnanti/educatori diversi

i
sotto la regia dello stesso coordinatore pedagogico, che descrivono il percor-

el
so di un singolo bambino disabile dal nido d’infanzia fino ai primi anni del-
la scuola primaria. Dietro a queste documentazioni c’è un’idea in nuce molto
simile a quella di “progetto di vita”. In questi progetti si vede come l’alunno

ng
con disabilità viene descritto e pensato non solo in quanto alunno, ma come
appartenente a contesti diversi dalla scuola (non ristretti alla sola famiglia) e
soprattutto come persona che può crescere, che può, nei suoi limiti, diventa-
re adulto. Per questa ragione questi progetti nella tabella 3 sono stati deno-
minati come “progetto di vita”. Si sono classificate, invece, come “progetto
A
interistituzionale” tutte quelle documentazioni che raccontano esperienze e
attività volte a condurre il bambino disabile verso altre istituzioni. Leggendo
co

questi ciclostilati si comprende la crescita e l’evoluzione dei bambini (a volte


anche involuzione), il loro muoversi all’interno di relazioni di accoglienza
che li sostengono e li accompagnano verso nuove realtà. Non sono solo i
classici progetti anni-ponte pensati in continuità verticale, ad esempio tra la
scuola dell’infanzia e la primaria, ma anche progetti in continuità orizzonta-
an

le con le famiglie, come nel caso di bambini a lungo ospedalizzati.


Nella tipologia “relazione di un anno di lavoro per l’integrazione di un
bambino disabile” sono state inserite tutte quelle documentazioni che te-
stimoniano il lavoro dall’insegnante nel corso di un intero anno scolastico.
Fr

Molte volte questo tipo di documentazione corrisponde alla relazione con-


clusiva dell’anno di prova di un’insegnante neoassunta. Infine, con “proget-
to facilitazione” si fa riferimento a progetti volti a facilitare l’integrazione
del bambino disabile attraverso la psicomotricità, la musicoterapia, gli ausi-
li e l’educazione bilingue.
La tabella 4 riporta un altro dato relativo alle documentazioni storiche:
il numero dei bambini a seconda del tipo di deficit13. I deficit sono stati

13. I dati quantitativi relativi alla presenza di bambini disabili integrati nelle scuole
dell’infanzia e nei nidi sono stati individuati grazie all’aiuto del personale tecnico-pedago-

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classificati in 11 macro aggregati diagnostici a partire dalla codifica ICD-


10 dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (tab. 4).

Tab. 4 - Numero di bambini per tipo di deficit

Deficit Numero di casi Percentuale


Disturbi del comportamento alimentare - DCA  1   1%
(F 50)
Ritardo mentale (F 70 - 79)  1   1%
Disturbi specifici del Linguaggio DSL (F80)  1   1%
Deficit visivo totale o parziale (H 00 - 59)  3   3%

i
Sindromi da alterazione globale dello sviluppo  5   6%

el
psicologico (F 84 - 89)14
Non reperibile  7   8%
Disturbi evolutivi della funzione motoria (F 82)  8   9%
Disturbi evolutivi specifici misti (F 83)
Disturbi della sfera emozionale con esordio
caratteristico dell’infanzia (F 93)
Deficit uditivo totale o parziale (H 60 - 95)
Malformazioni e sindromi genetiche (Q)
A
15
ng  8
 9

13
16
  9%
 10%

 14%
 18%
Disturbi neurologici16 18  20%
Totale 90 100%
co

141516

Le 90 documentazioni individuate sono state analizzate attraverso una


griglia elaborata all’interno del gruppo di ricerca sulla base della lettera-
an

tura, nazionale e internazionale, di pedagogia speciale e inclusiva (Booth


and Ainscow, 2011; Sandri 2014, Canevaro, Ianes, 2015, Malaguti, 2017),
costituita da 12 indicatori che evidenziano le principali caratteristiche di
una buona prassi innovativa e replicabile (tab. 5).
La lettura dei dati si presta ad analisi da varie angolature e consente di
Fr

rintracciare alcuni elementi positivi ed efficaci che ci portano ad affermare


come la “cultura dell’inclusione” sia stata presente all’interno dei servizi del
Comune di Bologna fin dagli inizi degli anni ’80 dello scorso secolo.

gico e, in particolare, del dott. Gabriele Ventura, che è stato, dal 2002 al 2013, direttore e
coordinatore cittadino delle scuole dell’Infanzia del Comune di Bologna.
14. In cui hanno una forte prevalenza i disturbi dello spettro autistico (F 84).
15. Alcune patologie incontrate: epidermolisi bollosa, sindromi di Bourneville, di
Down, di Joubert, di Turner e di Wolfe.
16. Tra i disturbi di natura neurologica si sono riscontrati casi come la encefalopatia
epilettica e diversi tipi di paralisi celebrali.

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Tab. 5 - Indicatori buone prassi d’inclusione

Indicatori Sì No Dato non


reperibile
Il progetto educativo di sezione è stato pensato 92% 0% 8%
in modo da ridurre gli ostacoli all’apprendimento
e alla partecipazione di ogni bambino, tramite
una didattica personalizzata
Il progetto educativo di scuola e quello di sezione 90% 0% 10%
accoglie e valorizza le differenze di ogni bambino
I bambini apprendono in piccoli gruppi cooperativi 84% 0% 16%
Il personale collabora attivamente nel progettare, 81% 0% 19%
svolgere e valutare le attività educative

i
el
La sezione in cui è presente il bambino con deficit 80% 2% 18%
è costituita da un numero inferiore di bambini
Ogni bambino cresce in termini di 80% 2% 18%
autoconsapevolezza, autoregolazione e sviluppo
emozionale
La scuola e gli enti del territorio sostengono
l’inclusione e lo sviluppo reciproco ng
Il personale condivide le proprie idee sulle attività
scolastiche regolarmente (almeno ogni due mesi)
A 77%

72%
4%

3%
19%

25%

nel gruppo di lavoro educativo


I bambini sono attivamente coinvolti nel proprio 58% 34%  8%
apprendimento
co

L’attuazione del progetto educativo ha promosso 57%  8% 35%


ulteriori innovazioni
Il personale informa regolarmente le famiglie 48%  3% 49%
di quanto svolto a scuola
an

I genitori sono coinvolti e partecipano, con loro 27% 19% 54%


contributi, alle attività educative
Fr

La maggior parte delle documentazioni analizzate descrive caratteristi-


che che rispecchiano l’esistenza nei servizi 3-6 di contesti realmente inclu-
sivi. In particolare, ne sono indicatori: una forte collaborazione del gruppo
di lavoro (educativo e non), l’apertura alle risorse del territorio, le relazioni
solidali tra bambini e l’apprendimento cooperativo in piccoli gruppi ete-
rogenei. Bisogna evidenziare, comunque, la natura arbitraria e parziale di
qualsiasi tipo di documentazione. Una documentazione si costruisce, in-
fatti, sulla base di criteri e obiettivi diversi a seconda ad esempio del taglio
che le si vuole dare o del pubblico a cui si rivolge. Rispetto agli indicatori
relativi nello specifico al rapporto tra scuola/famiglia, la non reperibilità

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del dato risulta alta. Questo potrebbe essere dovuto non tanto al fatto che
ci sia stato o meno un reale coinvolgimento della famiglia al progetto, ma
con molta probabilità che chi ha documentato ha scelto e ritenuto significa-
tivo sottolineare altri aspetti dell’esperienza. Tra gli indicatori che eviden-
ziano un risultato negativo, vi è quello relativo al vedere “i bambini come
soggetti attivi nella realizzazione del progetto” (34% dei casi) La didattica
attiva, a fondamento della didattica speciale per l’inclusione, necessita an-
cora attualmente di una specifica formazione degli insegnanti.

4. Le documentazioni educative nei nidi: analisi dei dati

i
Le documentazioni educative relative all’integrazione dei bambini disa-

el
bili nei servizi 0-3 del Comune di Bologna oggetto di studio sono state 9.
Seguendo la stessa descrizione fatta per il materiale documentario esami-
nato nel paragrafo precedente, i documenti analizzati presentano le seguen-
ti caratteristiche:
ng
–– Numero progetti per decade: 1 caso nella decade che va dal 1980 al
1990, 2 nella decade che va dal 1990 al 2000, 4 nella decade che va dal
2000 al 2010 e 2 dal 2010 ad oggi. Dato da segnalare è che quasi la me-
A
tà della documentazione è stata prodotta negli anni Duemila.
–– Tipo di progetto17: dei 9 casi presi in esame 3 sono progetti interistitu-
zionali, 1 è un progetto di vita, 5 sono relazioni relative a un anno di
co

lavoro per l’integrazione di un bambino disabile e 1 è un progetto faci-


litazione.
–– Tipo di deficit: 1 bambino con ritardo mentale (F 70 - 79); 1 con distur-
bo evolutivo della funzione motoria (F 82); 1 con sindrome da alterazio-
an

ne globale dello sviluppo psicologico (F 84 - 89)18; 4 con disturbi di ori-


gine neurologica (G) e 2 con malformazioni e sindromi genetiche (Q)19.
A un’analisi delle documentazioni tramite la “griglia di rilevazione di
buone prassi d’inclusione” si rileva che esse, anche se il dato è statistica-
mente poco significativo, rappresentano nove esperienze positive di inte-
Fr

grazione/inclusione scolastica, trattandosi di progetti che hanno funzionato


nel loro contesto e di modalità di lavoro che possono essere riadattate an-
che ad altri contesti scolastici. Non sono modelli, ma possibili riferimenti
per riflettere sulle modalità possibili di integrazione/inclusione scolastica.

17. Il numero dei documenti non corrisponde al numero reale dei casi analizzati ma è
maggiore. Questo è dovuto al fatto che un documento non appartiene a una sola di queste
categorie documentarie ma a più d’una di esse.
18. Si tratta di un bambino con sindrome autistica.
19. Entrambi i bambini sono con sindrome di Down.

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Emergono nelle prassi documentate, in maniera preponderante, i se-


guenti aspetti della cultura inclusiva:
–– una forte collaborazione tra educatori e insegnanti. Insegnanti e figure
di sostegno lavorano insieme, senza distinzione se non di funzioni, in
collegialità;
–– nella totalità dei casi il Piano Educativo Individualizzato si raccorda
con la programmazione della sezione;
–– attraverso l’apprendimento cooperativo in piccoli gruppi eterogenei gli
insegnanti sono riusciti a creare relazioni inclusive e solidali tra i com-
pagni e l’alunno disabile;
–– il coinvolgimento della famiglia nella vita del servizio e la condivisione
di tutte le pratiche da attuarsi per il benessere e la crescita del bambino

i
disabile sono stati attuati con risultati positivi nella maggioranza dei

el
casi;
–– i servizi e tutti gli altri attori esterni coinvolti nel percorso evolutivo
dell’alunno disabile hanno collaborato e lavorato insieme al suo proces-
so d’integrazione;
ng
–– i bambini sono stati soggetti attivi nella costruzione del progetto, cre-
scendo tutti da un punto di vista emotivo e relazionale.
Come esempio di buona prassi, si descrive un progetto educativo attuato
in un nido del Comune di Bologna.
A
“Suoni, colori ed emozioni”
co

Il seguente progetto educativo20 fa riferimento a un intervento d’inte-


grazione di un bambino con la sindrome di Down in una sezione nido di
Bologna. Il bambino è inizialmente poco integrato nel gruppo dei pari a
causa della sua delicata condizione di salute che l’ha costretto in passato
an

a frequentare raramente il servizio. I rumori dei compagni lo infastidisco-


no e spesso chiede di essere allontanato dalla sezione. Per stimolarlo alla
relazione con i pari, rafforzare le sue capacità di adattamento alle diverse
sonorità e offrire a tutti l’opportunità di acquisire nuove modalità di comu-
Fr

nicazione con gli altri, le educatrici, in collaborazione con la coordinatrice


pedagogica e con esperti di diversi ambiti, hanno elaborato il progetto
“Suoni, colori ed emozioni”.
Il percorso si è articolato in numerosi incontri per sollecitare la sen-
sorialità, la corretta espressione fonetica, l’espressione, la consapevolezza
delle emozioni e la comunicazione. Ogni incontro iniziava con la presen-
tazione di un personaggio che di volta in volta mostrava diversi materiali:

20. Cfr.: Serra P. (2005), Suoni colori ed emozioni, Bologna (Scheda Gred, Centro
Ri.E.Sco).

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stoffe, strumenti a percussione, tempere, ecc., che ogni bambino poteva


utilizzare in piena autonomia, accompagnato da musiche di sottofondo ben
selezionate. In questo progetto si è potuta rilevare una forte collaborazione
sia tra il personale educativo, che ha partecipato a quotidiani incontri per
la progettazione, la verifica in itinere e la valutazione finale del percorso,
sia con personale di altri servizi21. L’aprirsi al confronto con professionisti
esterni alla scuola è stato sicuramente stimolante e ha contribuito ad arric-
chire il percorso con ulteriori proposte di attività.
Il bambino con Sindrome di Down ha partecipato all’interno di un
piccolo gruppo composto da 8 bambini, crescendo nelle competenze co-
municative, relazionali ed emotive, ma, alla fine del percorso, tutti i bam-
bini della sezione hanno mostrato di saper esprimere con modalità diverse

i
le proprie emozioni e di avere una maggiore comprensione di se stessi e

el
dell’ambiente circostante. Una crescita co-evolutiva confermata e condivisa
dalle famiglie, le quali sono state coinvolte durante la presentazione del
progetto anche tramite la visione di filmati. Questa esperienza ha inoltre

ng
consentito alle famiglie di approfondire la conoscenza tra di loro e, in par-
ticolare, ai genitori del bambino con Sindrome Down di sentirsi maggior-
mente accolti all’interno della comunità a cui appartengono.
A
5. Un ulteriore approfondimento
co

La ricerca ha messo in evidenza i principali aspetti che caratterizzano le


buone prassi, presenti nei servizi d’infanzia del Comune di Bologna, volte
a dare valore alle diversità e a rispondere alle esigenze educative di tutti i
bambini. Tra le azioni fondamentali di sfondo, a sostegno dei processi di
an

integrazione/inclusione, vi sono in particolare quelle volte a incentivare la


concertazione tra i servizi ASL, la scuola e la famiglia, promuovendo un la-
voro di rete inter-istituzionale, e la continuità educativa. Si pensi in tal sen-
so alla realizzazione, da parte del coordinamento pedagogico, del quaderno
del percorso educativo22 . Uno strumento di lavoro che facilita l’organizza-
Fr

zione delle informazioni e del percorso evolutivo del bambino e ne lascia


traccia e memoria anche in funzione del passaggio alle scuole successive.

21. Ciò è avvenuto in particolare in occasione del seminario organizzato per la presen-
tazione del libro “Incontrare e Ribaltare” e con un altro nido della provincia.
22. Lo strumento è leggermente differente nei due servizi. Nel nido è chiamato Qua-
derno del percorso educativo al nido e nella scuola dell’infanzia Registro personalizzato
del percorso educativo e didattico. All’interno del quadernone viene inserita tutta la do-
cumentazione che riguarda il bambino: i dati personali, l’organizzazione del servizio edu-
cativo, la diagnosi funzionale, i verbali dei colloqui con la famiglia e i gruppi operativi, le
osservazioni, le verifiche ecc.

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Nonostante questi aspetti caratterizzanti e strutturali, c’è ancora molto


da fare affinché ogni servizio sia realmente inclusivo, a partire dalla for-
mazione del personale, il quale non sembra sempre intenzionalmente volto
a promuovere la “cultura dell’inclusione” e consapevole delle modalità
di sua attuazione. Da un approfondimento di indagine, effettuato tramite
interviste, emerge del resto una disparità circa la preparazione degli/le edu-
catori/trici di cooperativa, degli/le educatori/trici e degli/le insegnanti di
sostegno.
Gli/le educatori/trici di cooperativa possiedono nella maggioranza dei
casi una laurea attinente al lavoro che svolgono. Gli/le insegnanti e gli/
le educatori/trici su sostegno lavorano con il titolo che ha permesso loro
l’ingresso alla professione, per lo più quello magistrale. Anche se hanno

i
successivamente frequentato corsi di aggiornamento e di formazione spe-

el
cifici, per molti/e la formazione iniziale è carente, fragile, come testimonia
Paola Vassuri23: «Le difficoltà ci sono sempre; l’integrazione contiene una
sfida perenne, perché richiede studio, attenzione e il turn over del persona-

ng
le sottolinea l’esigenza della ricorsività dell’argomento. Circa il 50% degli
educatori attualmente in servizio conosce poco dell’origine della scuola
dell’infanzia. La trasmissione della professionalità non è facile e non è av-
venuta dopo la fase pionieristica, di grande passione, che si è svolta tra gli
anni ’60 e metà degli anni ’90. La popolazione lavorativa che entra negli
A
anni ’90 non è stata contagiata dall’esperienza precedente dei servizi, ca-
ratterizzata dal contributo di Bruno Ciari, di Andrea Canevaro, …, né esce
co

con una formazione forte dalle scuole magistrali». In generale, comunque,


la totalità degli educatori/insegnanti ha già svolto esperienze precedenti
con bambini disabili e gli educatori/insegnanti “di sostegno”, nella mag-
gioranza delle situazioni, sembra promuovano l’integrazione del bambino
con deficit lavorando in sezione con tutti i bambini, preoccupandosi che
an

nessuno rimanga escluso nel processo di acquisizione degli apprendimenti


e nella socializzazione.
Il processo di integrazione attivato dal Comune ha sempre previsto del
resto condizioni di base che potessero permettere agli insegnanti l’inter-
Fr

cambiabilità. «Dal punto di vista formale – come chiarisce Paola Vassuri


– l’insegnante di sostegno può stare sulla sezione indipendentemente dalle
funzioni che svolge. Tuttavia, chi viene assunto sul posto del sostegno può
ritrovare nel gruppo degli adulti con cui lavora delle rigidità di ruolo…
Entrambe le insegnanti hanno il medesimo contratto, ma questa condizione
necessaria non è comunque sufficiente per garantire una flessibilità orga-
nizzativa».

23. Paola Vassuri è stata fino al 2018, per 42 anni, responsabile dei Servizi dell’Infan-
zia del Comune di Bologna.

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In molte scuole è stato ricavato un angolo dove poter lavorare con il


bambino con disabilità sia individualmente che a piccolo gruppo. Quando
si lavora esternamente alla sezione, le motivazioni fornite sono legate alle
necessità: di avere un rapporto individuale per integrare il lavoro svolto in
sezione; del bambino di muoversi, conoscere altri spazi e persone; di attua-
re particolari attività terapeutiche specializzate.
Anche l’elaborazione del Piano Educativo Individualizzato (PEI) sem-
bra essere un aspetto critico e vissuto per lo più come un atto burocratico e
non come strumento di confronto, di condivisione di obiettivi e di verifica.
Esso è redatto nella maggior parte dei casi dagli educatori/insegnanti “di
sostegno” in collaborazione con l’insegnante di sezione, sia a partire dai
punti di forza del bambino e dalle risorse contestuali, sia in stretta connes-

i
sione con la programmazione educativa dell’intera sezione, ma non sempre

el
vi è un’assunzione di corresponsabilità collegiale e la realizzazione della
programmazione in intersezione.
Nei servizi nido, un’analisi24 dei Piani educativi individualizzati (PEI)

ng
elaborati nell’anno scolastico 2016-17 ha evidenziato chiaramente come
l’individualizzazione dei processi di apprendimento, unita all’attenzione al
contesto generale e a una visione dei servizi per l’infanzia come comunità
educative, consente di promuovere la crescita armonica di ogni bambino,
con o senza deficit, e il rispetto delle proprie e altrui differenze e similari-
A
tà, garantendone in modo efficace l’integrazione/inclusione.
Il bambino con deficit sembra ben accolto da parte dei compagni e
co

le eventuali difficoltà riscontrate venire affrontate costruttivamente. Si


evidenzia, nelle descrizioni delle attività, il piacere dei bambini di stare
insieme, indipendentemente dalle origini culturali o dalle caratteristiche
cognitive, fisiche o motorie che li possono caratterizzare. Un piacere che
testimonia la ricchezza delle interazioni sociali e relazionali che il contesto
an

educativo scolastico può essere in grado di creare e offrire. In questo senso


indispensabile è garantire un buon lavoro di team atto a costruire un’alle-
anza con le famiglie, in modo particolare con le famiglie migranti (Caldin,
2012), attraverso la valorizzazione di un meticoloso lavoro di costruzione
Fr

24. Il lavoro di ricerca ha previsto due fasi: nella prima, i 24 coordinatori pedagogici
del Comune di Bologna hanno individuato 15 documenti, tra i 91 piani educativi indivi-
dualizzati elaborati per ogni bambino con disabilità nell’anno accademico 2016/17, ritenuti
i più rappresentativi di un modo comune di operare negli asili situati nei vari quartieri
della città. Nella seconda fase questi 15 documenti sono stati analizzati insieme a Elena
Malaguti e a Patrizia Sandri, docenti di Pedagogia speciale del Dipartimento di Scienze
dell’educazione. Tra i 91 bambini con disabilità, il 64% sono maschi, il 36% femmine; il
76% sono bambini con disabilità di nazionalità italiana, il restante 24% proviene da di-
versi paesi europei e non europei, principalmente dal Bangladesh (45,5%) e dal Marocco
(31,8%).

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di fiducia, di incontro e di scambio interculturale. Soprattutto in questo


periodo di grande frammentazione dei legami sociali e famigliari, occorre
promuovere il più possibile la comunicazione con le famiglie e tra le fami-
glie, creando dei legami solidali fra di loro e rendendole protagoniste del
processo educativo e inclusivo.
Il valore della documentazione dovrebbe comunque essere nuovamente
ribadito, in quanto documentare rende consapevoli dei punti di forza e di
debolezza del proprio agire educativo ed è fondamentale per stabilire un’al-
leanza con la famiglia, oltre a poter essere un utile arricchimento per altri
colleghi, in altri contesti.
In conclusione, dai risultati delle indagini effettuate si evince la pre-
senza di una cultura di comunità che sostiene i processi di integrazione/

i
inclusione, che deve essere costantemente alimentata. Occorre continuare a

el
investire con forte intenzionalità pedagogica ed educativa, facendo sì che la
cultura dell’inclusione sia messa a fondamento di ogni professionalità coin-
volta nel gruppo di lavoro e si concretizzi in scelte e in azioni chiaramente

ng
valutabili. Si tratta quindi di continuare a promuovere:
–– una capillare “formazione in situazione”, che risponda ai bisogni spe-
cifici di ogni contesto educativo. Solo mediante una ricerca/azione/
formazione sarà possibile diffondere uno sguardo inclusivo anche tra i
professionisti stessi e quindi praticare il co-teaching e il sostegno dif-
A
fuso, evitando processi di delega e qualsiasi forma di esclusione sia del
bambino con disabilità sia di colui che viene percepito come “suo” edu-
co

catore/insegnante “di sostegno”;


–– una formazione sulla “didattica attiva” per promuovere la partecipazio-
ne di ogni singolo bambino e il lavoro collaborativo;
–– una costante documentazione e auto-valutazione dei processi di integra-
zione/inclusione attivati e dei risultati conseguiti da parte degli educato-
an

ri/insegnanti.

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Copyright © FrancoAngeli
N.B: Copia ad uso personale. È vietata la riproduzione (totale o parziale) dell’opera con qualsiasi
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