FONDAMENTI DI GEOFISICA 1
Maurizio Bonafede
5 ottobre 2017
2
Indice
i
ii INDICE
Capitolo 1
1.1 Introduzione
Una descrizione esatta del moto delle innumerevoli molecole che compongono un corpo macro-
scopico è un compito praticamente impossibile. Tuttavia, una tale descrizione, molecola per
molecola e istante per istante, è anche inutile per la maggior parte degli scopi pratici. Nella
descrizione delle proprietà macroscopiche di un materiale, generalmente ci interessa descrivere
grandezze mediate su un numero molto grande di molecole, racchiuse all’interno di un volume
∆V “sufficientemente grande”. Ad esempio, la densità ρ di un materiale nell’intorno di un
punto P , è definita come ρ = ∆m/∆V dove ∆m è la massa racchiusa all’interno di ∆V , un
volumetto attorno al punto P , che deve essere sufficientemente grande da contenere un numero
statisticamente significativo di molecole, e abbastanza piccolo da poter trascurare le variazioni
di ρ rispetto a volumetti contigui. Chiaramente, se ∆V è “troppo grande” (ad esempio è delle
dimensioni dell’intero corpo) non ha senso associare questo valore di densità al punto P , so-
pratutto se il corpo è eterogeneo. In un corpo eterogeneo possiamo definire una dimensione
caratteristica L
L = ρ/|∇ρ|
che fornisce l’ordine di grandezza della distanza oltre cui si hanno variazioni significative di den-
sità. Il volume L3 può essere utilizzato come limite superiore per ∆V . Viceversa, se il volumetto
fosse troppo piccolo, ad esempio di dimensioni del nucleo, il valore di ∆m/∆V sarebbe variabile
da valori estremamente elevati se ∆V contiene un nucleo, a valori estremamente bassi se ∆V
contiene solo orbitali elettronici. Analogamente ∆V deve avere dimensioni superiori a quelle
molecolari, altrimenti ρ sarebbe fortemente variabile passando da un atomo all’altro. Inoltre,
per agitazione termica, ρ sarebbe estremamente variabile nel tempo. Per determinare quanto
debba essere “piccolo” ∆V per rappresentare il materiale nell’intorno di P , consideriamo una
successione decrescente di volumi ∆Vi , i = 1, 2, . . . attorno a P e calcoliamo la successione di
rapporti ρi = ∆mi /∆Vi, i = 1, 2, . . . Ci aspettiamo di ottenere valori di ρi progressivamente
sempre più stabili al decrescere di ∆Vi , se le eterogeneità presentano una scala spaziale sufficien-
temente grande. Il più piccolo volume ∆V = ∆V0 per il quale otteniamo valori stabili di ρ = ρ0
è detto volume elementare del materiale nel punto matematico P . Con tale procedimento, il
mezzo reale costituito da molecole e spazi vuoti viene rappresentato tramite un continuo che
ricopre tutto lo spazio, per il quale ad ogni punto P sono associate le grandezze medie calcolate
1
2 CAPITOLO 1. MECCANICA DEI CONTINUI
Otteniamo in tal modo un modello continuo fittizio del materiale reale, in cui la densità è una
funzione continua del punto:
ρ(P ) = lim
0
ρ(P 0)
P →P
Dominio degli
ρi (P) effetti Dominio del continuo
molecolari
materiale disomogeneo
ρ0 (P)
λ
3
∆V0 L3 ∆Vi
Figura 1.1: Schema grafico per la valutazione del volume elementare ∆V0.
Ma c’è di più: ∆V0 deve contenere un numero molto grande di molecole se vogliamo poter
parlare di proprietà termodinamiche del volumetto, come la temperatura, l’energia interna,
l’entropia etc. Data l’elevata densità della materia ordinaria, questo non costituisce un problema
per molte applicazioni: supponiamo infatti che il nostro interesse nella descrizione di un materiale
non vada a dimensioni più piccole della lunghezza d’onda media della luce visibile λ = 0.6µ m;
in un gas a PT normali, il numero di molecole presenti in un cubetto con spigolo λ è ∼ 6 · 106!
Pertanto, il processo di formalizzazione matematica consiste nella costruzione di un modello
teorico del materiale reale, nel quale a ciascun punto viene assegnato il valore di densità (o di
altra grandezza) pertinente al volumetto ∆V0 circostante: in tal modo i dettagli discontinui della
struttura discreta della materia vengono eliminati e il modello teorico è descritto da parametri
variabili con continuità e può essere studiato tramite le versatili tecniche dell’analisi matematica.
D’ora in poi quando parleremo di “corpo” o “materiale” ci riferiremo al loro modello matematico
continuo.
In questo capitolo esporremo alcuni concetti e definizioni applicabili in tutta generalità ai
mezzi continui; cioè non faremo alcuna ipotesi sulle relazioni costitutive del materiale stesso. In
particolare, le considerazioni del presente capitolo si applicano tanto ai materiali solidi elastici,
che ai fluidi newtoniani e ai materiali plastici e viscoelastici (di cui parleremo più in dettaglio
nei capitoli successivi).
per conoscere la configurazione di ogni altro punto ad un istante successivo. Ma, se la distanza
fra i punti materiali non è fissa, cioè se il corpo è deformabile, per descrivere il corpo al tempo
t occorre conoscere le coordinate di ciascun punto. Sia P un punto materiale che al tempo
t = 0 si trova nel punto di coordinate x = (x1, x2, x3); al tempo t il punto materiale si trovi
in y = (y1 , y2, y3); conoscere la configurazione del corpo richiede di conoscere le coordinate yi
al tempo t per ciascun punto materiale P . Il punto P può essere identificato tramite la sua
posizione xi nella configurazione iniziale e allora la configurazione sarà nota se conosciamo le
funzioni
yi = yi (x1, x2, x3; t) i = 1, 2, 3. (1.1)
Alternativamente, potremmo chiederci qual è il punto materiale che passa per la posizione
yi al tempo t e per saperlo dovremmo conoscere la posizione che quel punto aveva nella config-
urazione iniziale
xi = xi (y1 , y2, y3; t) (1.2)
che costituiscono le funzioni inverse della (1.1). La descrizione fornita dalle eq. (1.1) è detta
lagrangiana: essa fornisce la posizione al tempo t del punto materiale che all’istante iniziale si
trovava in x; la descrizione (1.2) è detta euleriana: essa fornisce la posizione iniziale del punto
materiale che all’istante t sta passando per la posizione y. In altri termini, x individua un
punto materiale, mentre y individua un punto (una posizione) nello spazio: per x=costante
seguiamo tramite le (1.1) le posizioni di una assegnata particella materiale nel corso del tempo,
per y=costante seguiamo tramite le (1.2) le diverse particelle materiali che si succedono in una
data posizione nel corso del tempo.
Le due descrizioni sono chiaramente equivalenti ma presentano sostanziali differenze formali
quando si calcola la derivata rispetto al tempo di una proprietà materiale. Ad esempio si calcoli
l’accelerazione ai della particella materiale P : impiegando il formalismo lagrangiano si ha
dvi vi (x, t + ∆t) − vi (x, t) ∂vi
ai = = lim = (1.3)
dt ∆t→0 ∆t ∂t
(le coordinate xi restano fisse nel rapporto incrementale perché le velocità sono relative alla
stessa particella materiale). Impiegando la descrizione euleriana si ha invece
3
dvi vi (y + ∆y, t + ∆t) − vi (y, t) ∂vi X ∂vi dyk
ai = = lim = + (1.4)
dt ∆t→0 ∆t ∂t ∂yk dt
k=1
dv ∂v
= + (v·∇)v (1.5)
dt ∂t
Definiamo dvdt come la “derivata materiale” della velocità. Il primo termine nelle due precedenti
espressioni è detto termine “esplicito”, il secondo termine è detto termine “avvettivo” perchè
nasce dal cambiamento di posizione della particella.
Per chiarire la differenza fra i formalismi lagrangiano ed euleriano, consideriamo una cascata
di acqua in caduta libera, lungo la verticale y3 , sotto l’effetto dell’accelerazione di gravità g
4 CAPITOLO 1. MECCANICA DEI CONTINUI
(figura 1.2). Le particelle d’acqua cadono da ferme a partire dal punto y3 = 0. Nella descrizione
lagrangiana il campo di velocità, per una particella materiale che all’istante t = 0 si trovava in
√
x3 , è dato da v3(x3 , t) = gt + v0 (x3) dove v0 (x3 ) = 2gx3 è la velocità iniziale per t = 0; quindi
l’accelerazione è a3 = ∂v ∂t = g. Nella descrizione euleriana, la
3
velocità della stessa particella,
√
che passa per il punto y3 al tempo t, è data da v3(y3 , t) = 2gy3 e quindi l’accelerazione è
∂v3
interamente data dal termine avvettivo della (1.4) a3 = v3 ∂y 3
= g, come è facile verificare.
P
x3 = y3
Figura 1.2: Accelerazione di una particella materiale secondo il formalismo lagrangiano ed euleriano.
x3 d
+x3
u
x3
ds
P Q
ds0
u+ du
x
dx
x+ x
2 x2 + 2dx
x1
x1 + 1dx
Figura 1.3: Spostamento di due punti materiali P e Q: nella configurazione iniziale P si trova in x e Q
in x + dx, nella configurazione deformata P si trova in y = x + u e Qin y + dy = x + dx + u + du.
Un corpo deformabile è definito come un corpo nel quale la distanza fra due punti può
variare nel tempo. Indichiamo con x e x + dx le posizioni di due punti materiali P e Q nella
configurazione di riferimento (e.g. per t = 0) e sia ds0 la distanza fra loro; al tempo t, i punti P
e Q siano rispettivamente in y e y + dy e sia ds la distanza fra loro:
3
X 3
X
ds20 = dxk dxk , ds2 = dyk dyk .
k=1 k=1
1.3. IL TENSORE DI DEFORMAZIONE 5
( 3 ) 3
!
1 X ∂uk ∂uk 1 X ∂uk ∂uk ∂uj ∂ui
Eij = + δki + δkj − δij = + + (1.9)
2 ∂xi ∂xj 2 ∂xi ∂xj ∂xi ∂xj
k=1 k=1
tali componenti sono, rispettivamente, le proiezioni di A sugli assi x1 , x2, x3, ovvero A1 =
A · ê(1), A2 = A · ê(2), A3 = A · ê(3). Consideriamo ora un secondo sistema x01 , x02, x03 con vettori
unitari f̂ (1), f̂ (2), f̂ (3). In questo sistema il vettore A è individuato dalle “nuove” componenti
A01 , A02, A03:
3
X
A = A01 f̂ (1) + A02 f̂ (2) + A03 f̂ (3) = A0i f̂ (i) (1.16)
i=1
Che relazione esiste fra le “vecchie” componenti Ai e le “nuove” componenti A0i ? Facciamo il
prodotto scalare della (1.16) con ê(1): otteniamo
d
dove C11 = (ê(1) · f̂ (1)) = cos (1, d
10), C12 = (ê(1) · f̂ (2)) = cos (1, d
20), C13 = (ê(1) · f̂ (3)) = cos (1, 30).
(i)
In generale, moltiplicando la (1.16) per ê , otteniamo
3
X 3
X
Ai ≡ A · ê(i) = (ê(i) · f̂ (j))A0j = Cij A0j (1.17)
j=1 j=1
Quindi, Cij rappresenta il coseno dell’angolo fra il “vecchio” asse i-esimo e il “nuovo” asse j-
esimo. La trasformazione A0i → Ai può essere rappresentata come prodotto righe per colonne
della matrice C (con elementi di matrice Cij ) per il vettore colonna A0i , {i = 1, 2, 3}:
0
A1
C11 C12 C13
A1
0
A2
=
C21 C22 C23
A
2
A3
C31 C32 C33
A0
3
La struttura della matrice C può essere meglio compresa riscrivendola tramite la definizione
data in (1.17)
(1) (1)
(ê · f̂ ) (ê(1) · f̂ (2)) (ê(1) · f̂ (3))
C=
(2)
(ê · f̂ )
(1) (ê(2) · f̂ (2)) (ê(2) · f̂ (3))
(1.18)
(ê(3) · f̂ (1)) (ê(3) · f̂ (2)) (ê(3) · f̂ (3))
che mostra come il primo vettore riga sia costituito dalle componenti del vecchio vettore di base
ê(1) nella nuova base {f̂ (i), i = 1, 2, 3}, il secondo vettore riga sia costituito dalle componenti
del vecchio vettore di base ê(2) , il terzo vettore riga sia costituito dalle componenti del vecchio
vettore di base ê(3) . Analogamente, i vettori colonna sono costituiti dalle componenti dei nuovi
1.4. CENNI DI ALGEBRA TENSORIALE 7
vettori f̂ nella vecchia base {ê(i), i = 1, 2, 3}. Detti vettori riga sono quindi normalizzati e fra
loro ortogonali:
X 3
Cij Ckj = (ê(i) · ê(k)) = δik . (1.19)
j=1
Cerchiamo ora la trasformazione inversa C−1 che, date le “vecchie” componenti Ai , fornisce
le “nuove” componenti A0i . Moltiplico scalarmente la relazione (1.15) per il vettore di base f̂ (i)
e ottengo:
3
X 3
X
A0i ≡ A · f̂ (i) = (f̂ (i) · ê(j) )Aj = −1
Cij Aj (1.21)
j=1 j=1
con
−1
Cij = (f̂ (i) · ê(j)) = Cji = Cij
T
quindi la matrice inversa C−1 è la trasposta della matrice C. Possiamo allora scrivere che
CCT = CC−1 = I
dove I è la matrice identità, con Iij = δij .
In termini degli elementi di matrice, la relazione CCT = I può essere scritta:
3
X 3
X
T
Cij Cjk = Cij Ckj = δik (1.22)
j=1 j=1
ovvero, ritroviamo che i vettori riga della matrice C sono normalizzati e fra loro ortogonali.
Analogamente, dato che è anche CT C = I, abbiamo che
3
X 3
X
T
Cij Cjk = Cji Cjk = δik (1.23)
j=1 j=1
3
X
A0i = Cji Aj (1.24)
j1 =1
3 X
X 3
A0ij = Cki C`j Ak` (1.25)
k=1 `=1
In particolare, un tensore di rango k si può ottenere da tutti i possibili prodotti delle componenti
di k tensori di rango 1 (vettori): ad esempio, dati due vettori A e B, le 9 componenti Ai Bj , {i =
1, 2, 3}, {j = 1, 2, 3}, ciascuna delle quali si trasforma secondo la (1.21) definiscono un tensore
di rango 2.
Le proprietà tensoriali possono riferirsi sia a grandezze fisiche (come forze, velocità, campo
elettrico), sia a operatori su grandezze fisiche. Un esempio molto importante di operatore con
proprietà tensoriali è l’operatore gradiente ∇. Consideriamo un campo scalare φ e consideriamo
le derivate di φ rispetto alle coordinate spaziali x1 , x2, x3 (assunte cartesiane ortogonali). Le
componenti di ∇φ si trasformano, per rotazione degli assi, come le componenti di un tensore di
rango 1: infatti, le “nuove” componenti di ∇φ sono
3
X ∂φ ∂xj X 3
∂φ ∂φ
0 = 0 = Cji
∂xi ∂xj ∂xi ∂xj
j=1 j=1
Einstein: ogni volta che un indice tensoriale appare ripetuto 2 volte in un prodotto, è sottin-
tesa una sommatoria su quell’indice. Cosı̀ ad esempio la relazione (1.25) può essere riscritta
semplicemente
3 X
X 3
A0ij = Cki C`j Ak` (sottintese le )
k=1 `=1
Inoltre, il simbolo usato per indicare un indice di sommatoria può essere cambiato a nostro
piacimento (purché ciò sia fatto sistematicamente all’interno di ciascun prodotto): infatti non
c’è differenza nello scrivere Cki Ak oppure scrivere Cmi Am perché entrambe le espressioni indicano
la somma (C1i A1 + C2i A2 + C3i A3 ). L’indice di sommatoria (k nel primo caso, m nel secondo)
è detto indice muto oppure indice fantoccio (“dummy index”); gli indici non ripetuti (e quindi
non sommati) sono detti indici liberi.
A0iik = C`i Cmi Cnk A`mn = δ`m Cnk A`mn = Cnk A``n
dove abbiamo impiegato la (1.22); ma questa altro non è che la definizione (1.21) di un tensore
di rango 1. Più in generale, vale il seguente enunciato: la contrazione di un tensore di rango
k > 2 su una coppia di indici abbassa di 2 unità il rango del tensore.
In base al teorema di contrazione possiamo generalizzare la definizione di tensore a coprire
anche il rango “zero”: infatti, tale teorema porta a prefigurare un tensore di rango zero come
un tensore di rango k = 2 contratto sui suoi 2 indici o, più in generale, come un tensore di
rango pari contratto su tutte le coppie di indici: ad esempio, dato un tensore di rango 2 Aij ,
per contrazione di i con j otteniamo il tensore di rango zero Aii che si trasforma per rotazioni
secondo la regola
A0ii = Cki C`i Ak` = δk` Ak` = Akk
Ma Akk = Aii (k e i sono indici muti) e quindi un tensore di rango zero è definito come una
grandezza che non cambia valore per rotazione degli assi: in altri termini, un tensore di rango
zero è uno scalare.
Esempi
√ di grandezze scalari sono il prodotto scalare fra due vettori Ai Bi e il modulo di un
P 2
vettore Ai Ai (scriviamo Ai = Ai Ai in modo da utilizzare la convenzione di Einstein per
l’indice ripetuto).
teorema del quoziente ci permette di concludere che allora A(ij) è un tensore di rango 2. Infatti,
nelle nuove coordinate avremo
e quindi 0
A (ij)Ckj − C`i A(`k) Bk = 0 con Bk arbitrario.
Deve quindi annullarsi il termine fra parentesi e, contraendo con Ckm , otteniamo
matrice cambiano segno per trasformazioni improprie (per le quali e0ijk = −eijk ). Tramite il
tensore di permutazione è immediato ricavare le seguenti identità vettoriali:
Relazioni analoghe alle precedenti si applicano anche al caso in cui uno o più vettori siano
costituiti dall’operatore ∇: ad esempio, il rotore di un campo vettoriale A si scrive
∂Ak
∇×A =⇒ eijk .
∂xj
Come esempio dell’applicazione delle precedenti definizioni, consideriamo la ben nota identità
∇ × (∇φ) = 0
∂ ∂φ
eijk =0
∂xj ∂xk
e questa discende immediatamente dalla proprietà eijk = −eikj e dal fatto che lo scambio di
indici “fantoccio” jk non altera il valore dell’espressione. Analogamente si prova l’identità
∇ · (∇ × A) = 0
∂ ∂Ak ∂ 2 Ak
eijk = eijk =0
∂xi ∂xj ∂xi∂xj
det |Aij | = eijk A1i A2j A3k = eijk A2i A3j A1k = eijk A3i A1j A2k
= −eijk A1i A3j A2k = −eijk A3i A2j A1k = −eijk A2i A1j A3k
e quindi
1
det |Aij | = eijk elmn Ali Amj Ank
6
è invariante per il teorema di contrazione. Altre identità sono proposte fra gli esercizi.
12 CAPITOLO 1. MECCANICA DEI CONTINUI
Identità e − δ
I tensori δij ed eijk sono legati dalla seguente importante identità (detta “identità e − δ”)
Per tenere a mente questa identità notiamo che nei prodotti di δ a secondo membro compaiono
prima gli indici liberi ij ed lm a coppie ordinate (primo-primo, secondo-secondo) e poi, con
segno meno, gli indici liberi a coppie invertite (primo-secondo, secondo-primo).
L’identità e − δ è utile per scrivere in formalismo indiciale i doppi prodotti vettoriali: ad
esempio si ricava immediatamente la seguente identità vettoriale:
dove ds0 = |dx| e ds = |dy| = |dx + du|. Allora possiamo approssimare al primo ordine
e quindi scrivere
ds − ds0 dxi dxj
= ij (1.28)
ds0 ds0 ds0
che fornisce la variazione relativa di distanza fra P e Q in approssimazione delle piccole defor-
mazioni. Notiamo che dx ds0 rappresenta il vettore unitario nella direzione da P a Q.
i
x2
P Q du1 S du 1
α R
x1
α+β
dl 0 =dx1
(b)
α
dl dx 2
dx2 /cos
dx 1 /cos β
(a) β du2
P Q x1
dx 1
Figura 1.4: Le componenti diagonali del tensore infinitesimo di deformazione forniscono la variazione
relativa di lunghezza di un segmento materiale allineato lungo gli assi coordinati (a). Le componenti
non-diagonali rappresentano metà della variazione di un angolo retto (b).
(D) 1
ij = ij − kk δij (1.32)
3
(D)
È evidente che ij ha traccia nulla e il tensore completo si scrive
(I) (D)
ij = ij + ij
(D)
Per semplicità di scrittura, d’ora in poi denoteremo ij come 0ij , anche se tale notazione è
stata precedentemente impiegata per denotare le componenti di un tensore nel “nuovo” sistema
di riferimento; dal contesto sarà chiaro quale significato attribuire a 0ij .
Inoltre, dato che il tensore identità (o il suo multiplo 13 kk δij , come nel presente caso) è
(D)
diagonale in qualunque sistema di riferimento (vedi esercizio 1), gli autovettori di ij coincidono
con quelli di ij , mentre i suoi autovalori differiscono da quelli di ij per un termine scalare
additivo:
1 1 1
01 = 1 − kk , 02 = 2 − kk , 03 = 3 − kk .
3 3 3
Quindi, la decomposizione in componente isotropa e deviatorica separa le variazioni di volume
dalle variazioni di forma e può risultare utile per semplificare i calcoli di autovettori e autovalori
del tensore di deformazione.
1.6. ALCUNE PROPRIETÀ DEL TENSORE DI DEFORMAZIONE 15
Notare che le 9 equazioni ωik = −eijk δΩj possono essere soddisfatte scegliendo opportunamente
le tre δΩj in virtù dell’antisimmetria che riduce a tre sole le componenti indipendenti di ωik .
Contraendo ora la prima equazione con n∗i e la seconda con ni e sottraendo si ottiene:
Ma i primi due termini si cancellano per la simmetria di ij e n∗i ni = |n1 |2 + |n2 |2 + |n3 |2 è
nullo solo se ni = n∗i = 0 (eventualità da scartare perché un autovettore è per ipotesi non
nullo) e quindi deve essere β = 0 ovvero λ deve essere reale.
(2) (1)
Contraendo la prima con ni , la seconda con ni , sottraendo e sfruttando la simmetria
di ij si ottiene
(1) (2)
(λ1 − λ2 )ni ni = 0
e quindi, essendo λ1 6= λ2 , deve essere n(1) ⊥ n(2). Se λ1 = λ2 e n(1) è linearmente
(1) (2)
indipendente da n(2), allora ogni combinazione lineare mi = ani + bni è autovettore
(1) (2)
con autovalore λ; di conseguenza si possono sempre scegliere due autovettori mi e mi
(1) (1) (2) (2) (1) (2) (1)
fra loro ortogonali (per esempio mi = ni e mi = ni − (nk nk )ni ).
• Impiegando gli autovettori come base, ij è diagonale; se gli autovettori sono normalizzati
ad 1, gli elementi diagonali di ij coincidono con gli autovalori.
Infatti, per le regole di trasformazione tensoriale, 0ij = Cki Clj kl dove Cki è il coseno
(i)
direttore fra il vecchio asse k-esimo e il nuovo asse i-esimo. È quindi Cki = nk ed
(i) (j) (j) (i)
0ij = kl nk nl = λj nk nk = λj δij (in questo caso l’indice j benché ripetuto, non è
sommato!).
P1 = (x11, x12, x13) e calcoliamo lo spostamento in P1 integrando dui lungo una curva regolare con
estremi in P0 e P1 :
Z P1 Z P1
∂ui
ui (P1 ) = ui (P0 ) + dui = ui (P0 ) + dxk
P0 P0 ∂xk
Cerchiamo di ottenere dalla precedente espressione una relazione che coinvolga solo il tensore
deformazione. A tal fine, separiamo il gradiente dello spostamento nella sua parte simmetrica
(deformazione infinitesima) ik e antisimmetrica (rotazione infinitesima) −ωik :
Z P1 Z P1
ui (P1 ) = ui (P0 ) + ik dxk − ωik dxk (1.33)
P0 P0
dove
∂il ∂kl
Uil = il − xk − . (1.34)
∂xk ∂xi
Perché ui (P1 ) sia continua e a un sol valore, l’ultimo integrale deve dipendere solo dagli estremi
P0 e P1 e non deve dipendere dal percorso d’integrazione. Perciò l’integrando deve essere un
differenziale esatto, ovvero deve essere
∂Uil ∂Uim
− = 0. (1.35)
∂xm ∂xl
Questa condizione è necessaria e sufficiente ad assicurare che ui (P1 ) sia ad un sol valore se la
regione in considerazione è semplicemente connessa. Inserendo (1.34) in (1.35) otteniamo:
∂il ∂il ∂kl ∂ ∂il ∂kl
− δkm − − xk −
∂xm ∂xk ∂xi ∂xm ∂xk ∂xi
∂im ∂im ∂km ∂ ∂im ∂km
− + δkl − + xk − =0
∂xl ∂xk ∂xi ∂xl ∂xk ∂xi
18 CAPITOLO 1. MECCANICA DEI CONTINUI
Tutti i termini non moltiplicati per xk si cancellano e quindi restano le condizioni di com-
patibilità di Saint Venant (1860):
B(t)
x3 ∆F(n)
n
∆S S
x2
x1
Figura 1.5: Il principio di Eulero-Cauchy stabilisce l’equivalenza fra un sistema di forze di superficie e
l’azione del materiale posto sulla faccia positiva di ∆S sul materiale posto sulla faccia negativa.
Consideriamo ora il caso in cui la superficie ∆Sk sia parallela ad uno dei piani coordinati e la
normale su ∆Sk sia nella direzione positiva ê(k) dell’asse xk .
La trazione su ∆Sk sarà denotata con T(ê(k)) con componenti T1(ê(k)), T2(ê(k) ), T3 (ê(k))
lungo gli assi x1 , x2 e x3 rispettivamente. L’indice k indica la superficie sulla quale agisce la
trazione. Introduciamo dei nuovi simboli
Secondo questa notazione, τki è la componente i-esima della trazione che il materiale posto
sulla faccia positiva di Sk esercita sul materiale posto sulla faccia negativa: pertanto, τ11 (ad
esempio) è positivo se il materiale posto sulla faccia positiva tira verso l’esterno il materiale sulla
faccia negativa. Viceversa, τ11 è negativo se il materiale posto sulla faccia positiva spinge verso
l’interno il materiale sulla faccia negativa. Le componenti delle trazioni sui piani coordinati
prendono il nome di sforzi; le diverse componenti dello sforzo possono essere organizzate in una
matrice quadrata |τki |, in cui il primo indice denota la faccia coordinata su cui agisce la trazione
e il secondo indice denota la componente della trazione: gli elementi diagonali τ11 , τ22, τ33 sono
detti sforzi normali (normal stresses), gli altri elementi τ12, τ13, . . . sono detti sforzi di taglio
(shear stresses). Gli sforzi hanno dimensioni di una forza per unità di superficie e, nel sistema
SI sono espressi in Pascal (Pa), 1 Pa = 1 N/m2.
S3 τ S2
33 τ32
τ31 τ23
x3 τ22
τ13
τ11 τ21
e
(3) τ12
S1
e(1) e (2) x2
x1
Figura 1.6: Le trazioni sulle facce coordinate sono le componenti dello sforzo.
dove v è la velocità della particella materiale di volume dV e massa dm = ρ dV che si trova nel
punto r al tempo t. Analogamente, il momento angolare del corpo sarà descritto da
Z
H= r × v(r, t) ρ dV
B(t)
Le leggi della dinamica asseriscono che la derivata rispetto al tempo di P eguaglia la forza totale
F che agisce sul corpo e la derivata di H eguaglia il momento risultante delle forze M:
Ṗ = F, Ḣ = M (1.37)
Generalmente, si fa tacitamente l’assunzione che le forze e i loro momenti siano grandezze delle
quali abbiamo informazioni a priori. In meccanica dei continui si distinguono due tipi di forze:
• Forze di volume (body forces), che agiscono su elementi di volume del corpo;
• Forze di superficie (trazioni), che agiscono sugli elementi di superficie del corpo.
Esempi di forze di volume sono la forza di gravità e le forze elettromagnetiche; esempi di forze
di superficie sono la pressione idrostatica in un fluido, le forze di attrito e, più in generale, le
forze di contatto fra due corpi. La risultante delle forze di volume sarà descritta da
Z
Fvol = f (r, t) dV
B(t)
dove f è detta densità di forza di volume. La risultante delle forze di superficie è descritta da
un integrale esteso alla superficie ∂B(t) che racchiude il corpo:
I
Fsup = T(n; r, t) dS
∂B(t)
1.7. IL TENSORE DI SFORZO 21
Questo risultato tuttavia è incompleto perché possono esistere coppie di forze, con risultante f
nulla, che generano momenti di forza m per unità di volume: ad esempio, un dipolo magnetico
elementare in presenza di un campo di induzione magnetica B uniforme è soggetto ad un mo-
mento di forza M = µ × B dove µ è il momento magnetico del dipolo. Il momento magnetico
per unità di volume è detto magnetizzazione, che indichiamo con il simbolo J (di solito si indica
con M ma questo simbolo lo stiamo usando per indicare il momento risultante delle forze). Il
momento di forza per unità di volume dovuto alla magnetizzazione è
m = J × B. (1.40)
T (+)
∆S
δ
T (-)
Figura 1.7: Equilibrio di un cilindretto che racchiude la superficie ∆S.
Questa relazione, ricorda il terzo principio della dinamica (la risultante delle forze che un
corpo A esercita su un corpo B è opposta alla risultante delle forze che B esercita su A) ma
22 CAPITOLO 1. MECCANICA DEI CONTINUI
si riferisce alle sole forze di superficie. Per dimostrare la precedente relazione consideriamo un
cilindro schiacciato con due superfici parallele a ∆S come basi, poste rispettivamente all’esterno
e all’interno di ∆S, distanti fra loro δ. Mandando a zero δ, mentre ∆S rimane piccolo ma finito,
le forze di volume e la quantità di moto vanno a zero, e cosı̀ pure le forze di superficie sulle pareti
laterali del cilindro; restano solo le trazioni sulle due basi
T(+) ∆S + T(−) ∆S = 0
È inoltre dS1 = dS cos(n̂, ê(1)), dS2 = dS cos(n̂, ê(2)), dS3 = dS cos(n̂, ê(3)) e quindi dS1 =
dS n1 , dS2 = dS n2 , dS3 = dS n3 . Dividendo per dS si ottiene quindi
1 1
hρv̇i = hf1 + T1 (n̂) − τ11 n1 − τ21 n2 − τ31 n3
3 3
e quindi, mandando h a zero, si ottiene la formula di Cauchy (1.43) per la componente 1:
• τij ammette tre autovalori reali, τ1 , τ2, τ3, detti “sforzi principali”.
1.7. IL TENSORE DI SFORZO 23
dS T(n)
dS 2
x3 n
τ21 τ12 τ11
τ22
τ13 dS 1
τ23 τ 31
τ32
τ33 dS 3
x2
x1
Figura 1.8: Trazioni sulle superfici di un tetraedro.
• Gli autovettori corrispondenti ad autovalori distinti sono ortogonali fra loro; le loro di-
rezioni sono denominate “direzioni principali”.
• Impiegando gli autovettori come base, τij è diagonale; se gli autovettori sono normalizzati
ad 1, gli elementi diagonali di τij coincidono con gli autovalori.
• È sempre mink τk ||x||2 ≤ τij xi xj ≤ maxk τk ||x||2, qualunque sia il vettore x. In particolare,
se x = n̂ (normale unitaria ad una superficie ∆S), abbiamo che la trazione normale a ∆S
T · n̂ = τji nj ni è sempre compresa fra lo sforzo principale massimo e minimo.
Risulta spesso conveniente decomporre il tensore di sforzo in una componente isotropa, e una
componente deviatorica τij0 analogamente a quanto descritto nel paragrafo 1.5.2 per il tensore di
deformazione:
1 1
τij = τkk δij + τij0 =⇒ τij0 = τij − τkk δij (1.44)
3 3
È evidente che τij0 ha traccia nulla. Inoltre, dato che il tensore identità (o il suo multiplo 13 τkk δij ,
come nel presente caso) è diagonale in qualunque sistema di riferimento, gli assi principali per
lo stress deviatorico coincidono con quelli di τij , mentre i suoi autovalori differiscono da quelli
di τij per un termine scalare additivo:
1 1 1
τ10 = τ1 − τkk , τ20 = τ2 − τkk , τ30 = τ3 − τkk .
3 3 3
La decomposizione in componente isotropa e deviatorica può risultare spesso utile per semplifi-
care i calcoli di autovettori e autovalori del tensore di sforzo.
Si definisce “pressione media” p̄ il valor medio degli sforzi principali, cambiato di segno:
1
p̄ = − τkk
3
24 CAPITOLO 1. MECCANICA DEI CONTINUI
In un fluido in equilibrio statico, la pressione media cosı̀ definita coincide con la pressione
termodinamica, che è l’unica forza di superficie presente in quel caso; tuttavia in un fluido in
movimento differenziale o in un solido deformabile esistono altre forze di superficie che sono
descritte dalla componente deviatorica di sforzo.
Nel sistema degli assi principali si ha Ti2 = τ12 n21 +τ22 n22 +τ32 n23 mentre Ni2 = [τ1 n21 +τ2 n22 +τ3 n23 ]2.
Notato che n21 − n41 = n21 [1 − n21 ] = n21 [n22 + n23 ] otteniamo
S 2 = Si Si = n21 n22 (τ1 − τ2)2 + n22 n23 (τ2 − τ3 )2 + n23 n21 (τ3 − τ1)2 . (1.45)
1
Smax = (τmax − τmin ) (1.46)
2
e il piano su cui agisce Smax fa un angolo di 45◦ fra gli assi principali massimo e minimo e
contiene l’asse intermedio (chiaramente, ci sono 2 piani fra loro perpendicolari che soddisfano
tali requisiti).
Il lettore non interessato alla dimostrazione può passare al paragrafo successivo.
La dimostrazione del precedente risultato può procedere come segue: scriviamo le componenti
di n nel seguente modo
n1 = sin θ cos φ
n = sin θ sin φ 0 ≤ θ ≤ π, −π ≤ φ < π.
2
n3 = cos θ
e sia B̄ = B(t + ∆t) ∩ B(t), B1 = B(t) − B(t + ∆t), B2 = B(t + ∆t) − B(t). È evidente dalla
B1 B B2
v(t)∆t
dS 1 dS 2
v(t+∆t)∆t
B(t) B(t+∆t)
Figura 1.9: Domini impiegati nel calcolo della derivata temporale di una grandezza additiva.
figura 1.9 che gli elementi di volume di B1 e B2 possono essere scritti dV1 = dS1(−v · n̂)∆t e
dV2 = dS2 (v · n̂)∆t, dove n̂ è la normale esterna sulla superficie che racchiude B(t). Otteniamo
quindi
Z Z Z
∆A [a(x, t + ∆t) − a(x, t)]
= dV + a(x, t + ∆t)(v · n̂) dS2 − a(x, t)(−v · n̂) dS1
∆t B̄ ∆t S2 S1
e, al limite per ∆t → 0
Z I
DA ∂a(x, t)
= dV + a(x, t)v · n̂ dS (1.48)
Dt B(t) ∂t ∂B(t)
26 CAPITOLO 1. MECCANICA DEI CONTINUI
Questo risultato tiene conto automaticamente della equazione di continuità e consente di sem-
plificare notevolmente alcuni passaggi algebrici.
1.8. DERIVATA DI UNA GRANDEZZA ADDITIVA 27
Infine, impiegando il teorema di Gauss della divergenza, e raccogliendo tutti i termini sotto lo
stesso segno di integrale, si ha
Z
dvi ∂τki
ρ − fi − dV = 0
B(t) dt ∂xk
Per l’arbitrarietà del dominio B(t) possiamo concludere che deve essere nullo l’integrando.
Otteniamo cosı̀ l’equazione del moto in forma differenziale per i materiali continui
dvi ∂τki
ρ = fi + (1.54)
dt ∂xk
dove abbiamo utilizzato la (1.41) per scrivere il momento delle forze e abbiamo scritto i prodotti
vettoriali in formalismo tensoriale, tramite il tensore di Ricci eijk e dove Hi è la componente
i-esima del momento angolare, Z
Hi = ρeijk xj vk dV
B(t)
Ma eijk v` vk δj` = eijk vj vk = 0 per l’antisimmetria di eijk nello scambio degli indici ij. Pertanto
Z
dvk
Ḣi = ρ eijk xj dV
B dt
28 CAPITOLO 1. MECCANICA DEI CONTINUI
inserendo la precedente espressione nella (1.55) e riscrivendo il momento delle forze di superficie
tramite la formula di Cauchy ed il teorema di Gauss, otteniamo
Z Z Z Z
dvk ∂(xj τ`k )
eijk xj ρ = mi dV + eijk xj fk dV + eijk dV
B dt B B B ∂x`
e, raccogliendo sotto la stesso segno di integrale
Z
dvk ∂τ`k
eijk xj ρ − fk − − mi − eijk τjk dV = 0
B dt ∂x`
Ma i termini fra parentesi quadre si annullano per l’equazione del moto e quindi, sfruttando
l’arbitrarietà del volume B resta
eijk τjk + mi = 0 =⇒ eijk [τjk + Jj Bk ] = 0 (1.56)
dove abbiamo supposto che m sia dovuto alla magnetizzazione della materia, come nella eq.
(1.40). In presenza di magnetizzazione abbiamo
τjk − τkj = −[Jj Bk − Jk Bj ]
Se il materiale è magneticamente isotropo risulta Ji = χBi , dove χ è la suscettività magnetica;
in tal caso il secondo membro della precedente espressione è nullo e quindi abbiamo
eijk τjk = 0 =⇒ τjk = τkj (1.57)
cioè l’equazione del momento angolare richiede che il tensore di sforzo sia simmetrico.
[NOTA: se abbiamo un materiale anisotropo o ferromagnetico Ji non è più parallelo a Bi e quindi il tensore di
sforzo non è simmetrico: tuttavia, considerando la magnetizzazione massima tipica delle rocce (J ∼ 10 Am−1 ) e
il valore del campo magnetico terrestre (B ∼ 5 · 10−5 T), la parte non simmetrica di τij è trascurabile in geofisica
a tutti gli effetti pratici].
Per chiarire ulteriormente il ruolo delle forze di superficie nei processi deformativi, consideriamo
l’equazione del moto (1.54)
dvi ∂τji
ρ = fi +
dt ∂xj
d( 12 v 2) ∂τji
ρ = f i vi + v i
dt ∂xj
che ci dice che l’energia cinetica (per unità di volume) aumenta per effetto del lavoro delle forze
∂τ
di volume e per effetto delle forze di superficie. Tuttavia il termine vi ∂xjij è solo una parte del
lavoro compiuto dalle forze di superficie per unità di tempo e di volume che, come abbiamo visto
nel precedente paragrafo, è dato da
Il primo termine rappresenta il lavoro delle forze di superficie speso per incrementare l’energia
cinetica, il secondo rappresenta il lavoro speso per incrementare la deformazione del materiale:
∂vi
lavoro (per unità di t e V ) speso in deformazione = τij = τij ˙ij (1.59)
∂xj
Temperatura empirica
Il primo passo nella formulazione della termodinamica è l’introduzione del concetto di tempera-
tura. Si assume il seguente postulato: se un sistema A è in equilibrio termico con un sistema B e
B è in equilibrio con un terzo sistema C allora anche A è in equilibrio con C. Da ciò segue che la
condizione di equilibrio termico fra diversi sistemi può essere espressa tramite l’uguaglianza di
una funzione ad un sol valore degli stati termodinamici dei sistemi: questa funzione può essere
chiamata temperatura empirica T : uno qualunque di detti sistemi (ad esempio l’altezza di una
colonnina di mercurio) può essere usato come termometro per leggere la temperatura T su una
scala graduata opportuna.
30 CAPITOLO 1. MECCANICA DEI CONTINUI
Variabili di stato
Come è noto, descrivere lo stato di un sistema macroscopico sulla base della dinamica di ciascuna
delle sue innumerevoli molecole è compito praticamente impossibile ma anche inutile per molte
applicazioni. In queste applicazioni, quello che conta è definire lo stato macroscopico del sistema
tramite pochi parametri che rappresentano le proprietà globali del sistema stesso, utili ad un
certo scopo; in un fluido, queste grandezze possono essere, ad esempio, la temperatura empirica
T , misurata (per esempio) tramite la colonnina di un termometro a mercurio, la pressione p e
il volume specifico V (ovvero la densità ρ = 1/V ), le concentrazioni Ci , i = 1, . . . , n di ciascuna
sostanza chimica presente.
Più in generale, per definire la configurazione di equilibrio e geometrica di un materiale
continuo, è necessario conoscere la configurazione di riferimento del corpo, i tensori di sforzo τij
e di deformazione ij , che generalizzano il ruolo di p e V .
Una volta individuati i parametri che caratterizzano in modo esauriente il sistema per un
particolare scopo, si dice che lo stato termodinamico del sistema è noto e i parametri che lo
descrivono sono detti variabili di stato. Da quanto precede si comprende che la scelta delle
variabili di stato idonee per un particolare problema può essere, fino a un certo punto, arbitraria.
Equazione di stato
Se una variabile di stato può essere espressa come funzione ad un sol valore delle altre variabili
di stato, questa relazione funzionale è detta equazione di stato e la variabile cosı̀ descritta si
chiama funzione di stato.
Per trasformazioni termodinamiche di piccola entità, l’equazione di stato può essere scritta
nel modo seguente, nel caso che si utilizzino le variabili termodinamiche p, V, T :
∂V ∂V
∆V = ∆p + ∆T
∂p T ∂T p
ovvero
∆V ∆p
=− + α∆T (1.60)
V KT
(il motivo del segno meno nella definizione di KT è che un incremento di pressione è sempre
associato ad una diminuzione di volume).
Processi termodinamici
Se in un dato sistema i valori delle variabili di stato sono indipendenti dal tempo, il sistema è
detto in equilibrio termodinamico. I risultati della termodinamica restano validi anche in una
sostanza in moto a patto che le variazioni delle grandezze termodinamiche nel corso del moto
siano lente rispetto ad un tempo di rilassamento, definito come il tempo che il materiale impiega
per assestarsi in una nuova configurazione, per effetto delle collisioni molecolari. In condizioni
1.10. PRINCIPI DELLA TERMODINAMICA 31
ordinarie, sono sufficienti poche collisioni per raggiungere un nuovo stato di equilibrio e quindi
il tempo di rilassamento è molto breve.
Se i valori delle variabili di stato cambiano nel tempo si dice che il sistema è soggetto ad un
processo termodinamico (o trasformazione termodinamica).
La parete che separa due sistemi termodinamici è detta isolante se essa ha la seguente
proprietà: un sistema in equilibrio interno è circondato da una parete isolante se non si può
indurre nel sistema nessuna variazione dall’esterno se non tramite spostamento della parete o
tramite forze a lungo range (come la gravità). Un sistema racchiuso fra pareti isolanti è detto
termicamente isolato e ogni processo che avviene al suo interno è detto adiabatico.
Sottolineiamo che ∆L è il lavoro fatto sul sistema. Ai fini di questa definizione di energia, è
necessario e sufficiente che si possa, tramite un processo adiabatico, portare il sistema dallo stato
I allo stato II (o viceversa).
Definiamo ora il calore ∆Q assorbito da un sistema come differenza fra l’incremento di
energia e il lavoro fatto sul sistema in un processo qualsiasi (non adiabatico):
ovvero
∆W = ∆Q + ∆L (1.64)
Questa definizione può essere interpretata come un enunciato del principio di conservazione
dell’energia: se confrontata con la (1.62), possiamo dire che l’energia di un sistema può essere
incrementata tramite lavoro fatto sul sistema o fornendo calore al sistema. Il calore ∆Q ed il
lavoro ∆L sono forme di energia in transizione attraverso le pareti del sistema, mentre ∆W è
residente all’interno del sistema. È consuetudine distinguere due diversi contributi all’energia
32 CAPITOLO 1. MECCANICA DEI CONTINUI
totale: l’energia cinetica K, e l’energia interna E, sicché l’eq. (1.64) può scriversi
∆Q + ∆L = ∆K + ∆E (1.65)
(da notare che l’energia potenziale, per es. gravitazionale, è inclusa nel termine di lavoro ef-
fettuato dalle forze di volume). In altri termini, considerando una trasformazione infinitesima,
δQ e δL dipendono dal processo (o percorso) seguito per passare da uno stato all’altro, mentre
dE dipende solo dallo stato iniziale e finale (dE è un differenziale esatto). Pertanto E è una
funzione di stato. La (1.65) può essere considerata come la definizione dell’energia interna.
Come abbiamo visto nel paragrafo precedente, il lavoro ∆L è compiuto da tutte le forze che
agiscono sul sistema: dalle forze di volume (forze a lungo range, come la gravità) oppure dalle
forze di superficie (forze di contatto, come la pressione o gli sforzi di taglio). Se lo sforzo è dato
da una semplice pressione idrostatica τij = −pδRij , il lavoro speso per deformare l’unità di volume
(1.59) assume l’espressione ben nota ∆L = − p∆kk dV = −p∆V (se p e kk sono costanti).
In base alla definizione (1.63), l’unità di misura del calore nel sistema SI è il Joule [J].
Storicamente il calore era (e spesso, nelle applicazioni, è ancora) misurato in calorie [cal]: una
caloria è definita come la quantità di calore che occorre fornire ad 1 grammo di acqua distillata
a pressione di 1 atmosfera, per innalzare la sua temperatura da 14.5 a 15.5 ◦ C. Nel sistema SI
si definisce la kilocaloria [kcal] come il calore necessario per innalzare di 1 grado la temperatura
di un kg di acqua. Sperimentalmente si trova
3. L’entropia di un sistema può cambiare in due modi: per interazione con l’esterno e per
processi interni al sistema. Simbolicamente possiamo scrivere dS = δe S + δi S. Allora, se
δQ rappresenta il calore che il sistema assorbe dall’esterno, abbiamo
δQ
δe S = (1.66)
T
La temperatura assoluta T e l’entropia S sono due grandezze primitive: non tenteremo di definir-
le tramite altre grandezze considerate più semplici. Esse vanno considerate come definite tramite
le loro proprietà, espresse nella seconda legge della termodinamica. Lord Kelvin ha mostrato
come è possibile calibrare un qualunque termometro nella scala di temperatura assoluta. La
scala della Temperatura assoluta è definita utilizzando il punto triplo dell’acqua. L’unità del-
la scala assoluta è definita come 1/273.16 dell’intervallo tra lo zero assoluto e la temperatura
termodinamica del punto triplo dell’acqua. La temperatura di equilibrio fra acqua liquida e
ghiaccio alla pressione di 1 atmosfera è 273.15 K, ovvero 0◦C.
L’entropia è un attributo di un corpo materiale, come la sua massa o la sua carica elettrica:
un kg di ossigeno a pressione e temperatura assegnata possiede una quantità definita di entropia,
che può essere variata cambiando la temperatura o la densità del gas; un kg di acciaio ad una
assegnata temperatura e in un assegnato stato di deformazione possiede una quantità definita
di entropia.
Il primo e secondo principio sono postulati che formano la base della Termodinamica clas-
sica e la loro giustificazione sta nel fatto che tutte le conclusioni dedotte da queste assunzioni
si trovano sistematicamente in accordo con il comportamento sperimentale macroscopico dei
sistemi naturali.
Il calore scambiato per conduzione attraverso le pareti del corpo può essere scritto tramite il
flusso di calore hi che descrive il calore che attraversa l’unità di superficie nell’unità di tempo
tramite la legge di Fourier
∂T
hi = −k ovvero h = −k∇T
∂xi
dove k è la conducibilità termica. Il calore fornito al corpo nell’unità di tempo si può scrivere
quindi I Z Z
∂hi
Q̇ = − hi ni dA = − dV = Q̇ dV (1.69)
∂B B ∂xi B
dove Q̇ = −∇ · h rappresenta il calore fornito all’unità di volume della sostanza per unità di
tempo. Dato che siamo in grado di scrivere L̇ e Q̇ in forma semplice, conviene considerare la
derivata rispetto al tempo della (1.65)
L̇ + Q̇ = Ė + K̇. (1.70)
Inserendo le espressioni (1.58, 1.68, 1.69) nella precedente relazione ed utilizzando la regola
(1.52) otteniamo
1 dv 2 ∂hi dE 1 dv 2
ρ + τij ˙ij − −ρ − ρ =0
2 dt ∂xi dt 2 dt
34 CAPITOLO 1. MECCANICA DEI CONTINUI
e quindi
dE ∂hi
ρ =− + τij ˙ij (1.71)
dt dxi
Riprendendo in considerazione l’equazione dell’energia (1.59) vediamo quindi che solo il lavoro di
deformazione contribuisce ad incrementare l’energia interna del materiale. Considerando piccoli
incrementi delle grandezze termodinamiche, nell’intervallo di tempo dt, possiamo scrivere
dove δQ rappresenta il calore fornito all’unità di volume della sostanza nel tempo dt.
Per un continuo, possiamo definire l’entropia come
Z
S= ρS dV
B
dove S è l’entropia specifica (entropia per unità di massa). Riscrivendo la (1.66) tramite le
espressioni integrali date sopra abbiamo, in un processo reversibile,
Z
dS ∂hi
ρT + dV = 0
B dt ∂xi
e quindi, con la notazione già impiegata:
δQ = ρT dS (1.73)
1
dE = T dS + τij dij (1.74)
ρ
Esercizi
Esercizio 1. Mostrare, in base alla definizione di tensore (1.25) che il simbolo di Kronecker δij è
un tensore con elementi di matrice invarianti per rotazioni. Analogamente mostrare che il simbolo di
permutazione è un tensore con elementi di matrice invarianti per trasformazioni proprie.
Esercizio 2. Mostrare che, se Tij , i, j = 1, 2, 3 è un tensore, la seguente espressione, data dalla somma
dei complementi algebrici degli elementi diagonali, è invariante (cioè è uno scalare):
J2 = (T22T33 − T23 T32) + (T11 T33 − T13T31 ) + (T11 T22 − T12 T21)
[Suggerimento: Riscrivere J2 tramite I1 = Tkk e I2 = Tij Tji, che sono chiaramente invarianti per il
teorema di contrazione ].
Esercizio 3. Impiegando la notazione indiciale, mostrare che valgono le seguenti identità (φ è un campo
scalare, A e B sono campi vettoriali) :
∇ · (φA) = φ∇ · A + A · ∇φ
∇ × (φA) = ∇φ × A + φ∇ × A
∇ × (A × B) = A(∇ · B) − B(∇ · A) + (B · ∇)A − (A · ∇)B
1.11. TERMODINAMICA DI UN MATERIALE CONTINUO 35
Esercizio 6. Dati due punti di coordinate P = (0, 0) e Q = (30, 10) (coordinate in km) nel piano xy,
calcolare la variazione della loro distanza per effetto di una deformazione descritta dal seguente tensore
(2-D): xx = 10−6, xy = yx = 3 · 10−6, yy = −10−6.
Esercizio 7. Consideriamo tre punti con coordinate (in km) P = (0, 0), Q = (10, 0) km e R = (0, 20) km
nel piano orizzontale xy; dette `1 , `2 ed `3 le distanze P Q, P R, QR, un processo deformativo provoca
variazioni δ`1 = 4 cm, δ`2 = 0 cm, δ`3 = 2 cm. Determinare le componenti xx , xy , yx, yy del tensore
bidimensionale di deformazione nel piano xy.
Esercizio 8. Determinare assi principali e valori principali del seguente tensore di deformazione nel
piano xy:
1 1
ij = 10 −6
×
1 1
In che direzioni si avranno gli allungamenti/accorciamenti relativi massimi e minimi?
Esercizio 10. Consideriamo una semicirconferenza di raggio R nel piano x1, x2: nella configurazione
di riferimento (non deformata) un elemento di linea si può scrivere d`0 = R dθ. Calcolare la lunghezza
della semicirconferenza dopo una deformazione infinitesima descritta da un tensore (in 2 dimensioni)
ij , (i, j = 1, 2) con elementi costanti. [Suggerimento: calcolare dapprima la lunghezza d` dell’elemento
di linea deformato e quindi integrare su tutta la lunghezza della curva].
x2
dx1
dx 2
dl 0
dθ
R
θ x1
36 CAPITOLO 1. MECCANICA DEI CONTINUI
Esercizio 11. Calcolare la variazione del perimetro e dell’area di un cerchio di raggio R, soggetto ad
una deformazione infinitesima descritta dal tensore 2D
a b
ij = con a, b, c 1
b c
Calcolare la forza di superficie che agisce su un piano descritto dalla equazione x−2y +2z = 0, la trazione
normale e la trazione di taglio.
Esercizio 13. Consideriamo un tensore di sforzo in due dimensioni con sforzi principali τ1 e τ2 (con
τ1 > τ2 ). A seguito di deformazioni tettoniche, si aggiunge a detta configurazione uno sforzo di taglio ∆τ
sicché lo sforzo viene ad essere descritto dalla seguente matrice:
τ1 ∆τ
τij =
∆τ τ2
Mostrare che, se ∆τ è “piccolo”, le variazioni degli sforzi principali sono del secondo ordine in ∆τ , mentre
le variazioni degli assi principali sono del primo ordine. Cosa accade invece se τ1 = τ2 ?
Esercizio 14. Consideriamo il tensore di sforzo bi-dimensionale τij , nel piano xy (x = x1, y = x2),
descritto dalla seguente matrice
1 2
τij = 106 × (Pa)
2 3
Determinare sforzi principali, assi principali, trazione di taglio massima e orientamento della sua superficie
di applicazione.
Esercizio 15. Consideriamo il tensore di sforzo tri-dimensionale τij , nel piano x1 , x2, x3, descritto dalla
seguente matrice
−10 2 −2
τij = 2 −9 0
(MPa)
−2 0 −11
Scomporre il tensore nelle componenti isotropa e deviatorica, determinare sforzi principali, assi principali,
trazione di taglio massima e orientamento della sua superficie di applicazione. Se il materiale ha una
resistenza al taglio τ0 = 5 MPa rimane integro ?.