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APPUNTI DAL CORSO DI

FONDAMENTI DI GEOFISICA 1

Maurizio Bonafede

5 ottobre 2017
2
Indice

1 MECCANICA DEI CONTINUI 1


1.1 Introduzione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 1
1.2 Deformazione di un corpo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 2
1.3 Il tensore di deformazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 4
1.4 Cenni di algebra tensoriale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 6
1.4.1 Definizione di tensore . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 8
1.4.2 Convenzione di Einstein . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 8
1.4.3 Teorema di contrazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 9
1.4.4 Teorema del quoziente . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 9
1.4.5 Il simbolo di Kronecker e il simbolo di permutazione . . . . . . . . . . . . 10
1.5 Il tensore infinitesimo di deformazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 12
1.5.1 Interpretazione geometrica delle componenti ij . . . . . . . . . . . . . . . 12
1.5.2 Componente isotropa e componente deviatorica . . . . . . . . . . . . . . . 14
1.5.3 Deformazione e rotazione infinitesime . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 15
1.6 Alcune proprietà del tensore di deformazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 15
1.6.1 Condizioni di compatibilità . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 16
1.7 Il tensore di sforzo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 18
1.7.1 Forze di volume e forze di superficie . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 19
1.7.2 Formula di Cauchy . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 21
1.7.3 Sforzi principali e assi principali, pressione media e sforzo deviatorico . . 22
1.7.4 Sforzo di taglio massimo. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 24
1.8 Derivata di una grandezza additiva . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 25
1.8.1 L’equazione di continuità . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 26
1.8.2 L’equazione del moto . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 27
1.8.3 L’equazione del momento angolare . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 27
1.8.4 L’equazione dell’energia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 28
1.9 Termodinamica dei continui . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 29
1.10 Principi della Termodinamica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 31
1.10.1 Il primo principio . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 31
1.10.2 Seconda legge della termodinamica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 32
1.11 Termodinamica di un materiale continuo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 33

i
ii INDICE
Capitolo 1

MECCANICA DEI CONTINUI

1.1 Introduzione
Una descrizione esatta del moto delle innumerevoli molecole che compongono un corpo macro-
scopico è un compito praticamente impossibile. Tuttavia, una tale descrizione, molecola per
molecola e istante per istante, è anche inutile per la maggior parte degli scopi pratici. Nella
descrizione delle proprietà macroscopiche di un materiale, generalmente ci interessa descrivere
grandezze mediate su un numero molto grande di molecole, racchiuse all’interno di un volume
∆V “sufficientemente grande”. Ad esempio, la densità ρ di un materiale nell’intorno di un
punto P , è definita come ρ = ∆m/∆V dove ∆m è la massa racchiusa all’interno di ∆V , un
volumetto attorno al punto P , che deve essere sufficientemente grande da contenere un numero
statisticamente significativo di molecole, e abbastanza piccolo da poter trascurare le variazioni
di ρ rispetto a volumetti contigui. Chiaramente, se ∆V è “troppo grande” (ad esempio è delle
dimensioni dell’intero corpo) non ha senso associare questo valore di densità al punto P , so-
pratutto se il corpo è eterogeneo. In un corpo eterogeneo possiamo definire una dimensione
caratteristica L
L = ρ/|∇ρ|

che fornisce l’ordine di grandezza della distanza oltre cui si hanno variazioni significative di den-
sità. Il volume L3 può essere utilizzato come limite superiore per ∆V . Viceversa, se il volumetto
fosse troppo piccolo, ad esempio di dimensioni del nucleo, il valore di ∆m/∆V sarebbe variabile
da valori estremamente elevati se ∆V contiene un nucleo, a valori estremamente bassi se ∆V
contiene solo orbitali elettronici. Analogamente ∆V deve avere dimensioni superiori a quelle
molecolari, altrimenti ρ sarebbe fortemente variabile passando da un atomo all’altro. Inoltre,
per agitazione termica, ρ sarebbe estremamente variabile nel tempo. Per determinare quanto
debba essere “piccolo” ∆V per rappresentare il materiale nell’intorno di P , consideriamo una
successione decrescente di volumi ∆Vi , i = 1, 2, . . . attorno a P e calcoliamo la successione di
rapporti ρi = ∆mi /∆Vi, i = 1, 2, . . . Ci aspettiamo di ottenere valori di ρi progressivamente
sempre più stabili al decrescere di ∆Vi , se le eterogeneità presentano una scala spaziale sufficien-
temente grande. Il più piccolo volume ∆V = ∆V0 per il quale otteniamo valori stabili di ρ = ρ0
è detto volume elementare del materiale nel punto matematico P . Con tale procedimento, il
mezzo reale costituito da molecole e spazi vuoti viene rappresentato tramite un continuo che
ricopre tutto lo spazio, per il quale ad ogni punto P sono associate le grandezze medie calcolate

1
2 CAPITOLO 1. MECCANICA DEI CONTINUI

sul volume elementare ∆V0:


∆mi
ρ(P ) = lim ρi = lim
∆Vi →∆V0 ∆Vi →∆V0 ∆Vi

Otteniamo in tal modo un modello continuo fittizio del materiale reale, in cui la densità è una
funzione continua del punto:
ρ(P ) = lim
0
ρ(P 0)
P →P

Dominio degli
ρi (P) effetti Dominio del continuo
molecolari

materiale disomogeneo

ρ0 (P)

λ
3
∆V0 L3 ∆Vi

Figura 1.1: Schema grafico per la valutazione del volume elementare ∆V0.

Ma c’è di più: ∆V0 deve contenere un numero molto grande di molecole se vogliamo poter
parlare di proprietà termodinamiche del volumetto, come la temperatura, l’energia interna,
l’entropia etc. Data l’elevata densità della materia ordinaria, questo non costituisce un problema
per molte applicazioni: supponiamo infatti che il nostro interesse nella descrizione di un materiale
non vada a dimensioni più piccole della lunghezza d’onda media della luce visibile λ = 0.6µ m;
in un gas a PT normali, il numero di molecole presenti in un cubetto con spigolo λ è ∼ 6 · 106!
Pertanto, il processo di formalizzazione matematica consiste nella costruzione di un modello
teorico del materiale reale, nel quale a ciascun punto viene assegnato il valore di densità (o di
altra grandezza) pertinente al volumetto ∆V0 circostante: in tal modo i dettagli discontinui della
struttura discreta della materia vengono eliminati e il modello teorico è descritto da parametri
variabili con continuità e può essere studiato tramite le versatili tecniche dell’analisi matematica.
D’ora in poi quando parleremo di “corpo” o “materiale” ci riferiremo al loro modello matematico
continuo.
In questo capitolo esporremo alcuni concetti e definizioni applicabili in tutta generalità ai
mezzi continui; cioè non faremo alcuna ipotesi sulle relazioni costitutive del materiale stesso. In
particolare, le considerazioni del presente capitolo si applicano tanto ai materiali solidi elastici,
che ai fluidi newtoniani e ai materiali plastici e viscoelastici (di cui parleremo più in dettaglio
nei capitoli successivi).

1.2 Deformazione di un corpo


In un corpo rigido le distanze relative fra coppie di punti materiali sono fisse. Pertanto, una
volta nota la configurazione iniziale del corpo, è sufficiente conoscere la posizione di tre punti
1.2. DEFORMAZIONE DI UN CORPO 3

per conoscere la configurazione di ogni altro punto ad un istante successivo. Ma, se la distanza
fra i punti materiali non è fissa, cioè se il corpo è deformabile, per descrivere il corpo al tempo
t occorre conoscere le coordinate di ciascun punto. Sia P un punto materiale che al tempo
t = 0 si trova nel punto di coordinate x = (x1, x2, x3); al tempo t il punto materiale si trovi
in y = (y1 , y2, y3); conoscere la configurazione del corpo richiede di conoscere le coordinate yi
al tempo t per ciascun punto materiale P . Il punto P può essere identificato tramite la sua
posizione xi nella configurazione iniziale e allora la configurazione sarà nota se conosciamo le
funzioni
yi = yi (x1, x2, x3; t) i = 1, 2, 3. (1.1)
Alternativamente, potremmo chiederci qual è il punto materiale che passa per la posizione
yi al tempo t e per saperlo dovremmo conoscere la posizione che quel punto aveva nella config-
urazione iniziale
xi = xi (y1 , y2, y3; t) (1.2)
che costituiscono le funzioni inverse della (1.1). La descrizione fornita dalle eq. (1.1) è detta
lagrangiana: essa fornisce la posizione al tempo t del punto materiale che all’istante iniziale si
trovava in x; la descrizione (1.2) è detta euleriana: essa fornisce la posizione iniziale del punto
materiale che all’istante t sta passando per la posizione y. In altri termini, x individua un
punto materiale, mentre y individua un punto (una posizione) nello spazio: per x=costante
seguiamo tramite le (1.1) le posizioni di una assegnata particella materiale nel corso del tempo,
per y=costante seguiamo tramite le (1.2) le diverse particelle materiali che si succedono in una
data posizione nel corso del tempo.
Le due descrizioni sono chiaramente equivalenti ma presentano sostanziali differenze formali
quando si calcola la derivata rispetto al tempo di una proprietà materiale. Ad esempio si calcoli
l’accelerazione ai della particella materiale P : impiegando il formalismo lagrangiano si ha
dvi vi (x, t + ∆t) − vi (x, t) ∂vi
ai = = lim = (1.3)
dt ∆t→0 ∆t ∂t
(le coordinate xi restano fisse nel rapporto incrementale perché le velocità sono relative alla
stessa particella materiale). Impiegando la descrizione euleriana si ha invece
3
dvi vi (y + ∆y, t + ∆t) − vi (y, t) ∂vi X ∂vi dyk
ai = = lim = + (1.4)
dt ∆t→0 ∆t ∂t ∂yk dt
k=1

(la particella materiale P al tempo t occupa la posizione y e al tempo t + ∆t occupa la posizione


y + ∆y e quindi vanno incrementate sia la variabile tempo che le variabili spaziali). È poi
∆y = v∆t e quindi dy k
dt = vk , sicché possiamo riscrivere la (1.4), in notazione vettoriale,

dv ∂v
= + (v·∇)v (1.5)
dt ∂t

Definiamo dvdt come la “derivata materiale” della velocità. Il primo termine nelle due precedenti
espressioni è detto termine “esplicito”, il secondo termine è detto termine “avvettivo” perchè
nasce dal cambiamento di posizione della particella.
Per chiarire la differenza fra i formalismi lagrangiano ed euleriano, consideriamo una cascata
di acqua in caduta libera, lungo la verticale y3 , sotto l’effetto dell’accelerazione di gravità g
4 CAPITOLO 1. MECCANICA DEI CONTINUI

(figura 1.2). Le particelle d’acqua cadono da ferme a partire dal punto y3 = 0. Nella descrizione
lagrangiana il campo di velocità, per una particella materiale che all’istante t = 0 si trovava in

x3 , è dato da v3(x3 , t) = gt + v0 (x3) dove v0 (x3 ) = 2gx3 è la velocità iniziale per t = 0; quindi
l’accelerazione è a3 = ∂v ∂t = g. Nella descrizione euleriana, la
3
velocità della stessa particella,

che passa per il punto y3 al tempo t, è data da v3(y3 , t) = 2gy3 e quindi l’accelerazione è
∂v3
interamente data dal termine avvettivo della (1.4) a3 = v3 ∂y 3
= g, come è facile verificare.

P
x3 = y3

Figura 1.2: Accelerazione di una particella materiale secondo il formalismo lagrangiano ed euleriano.

1.3 Il tensore di deformazione

x3 d
+x3
u
x3
ds

P Q
ds0
u+ du
x

dx
x+ x
2 x2 + 2dx

x1
x1 + 1dx

Figura 1.3: Spostamento di due punti materiali P e Q: nella configurazione iniziale P si trova in x e Q
in x + dx, nella configurazione deformata P si trova in y = x + u e Qin y + dy = x + dx + u + du.

Un corpo deformabile è definito come un corpo nel quale la distanza fra due punti può
variare nel tempo. Indichiamo con x e x + dx le posizioni di due punti materiali P e Q nella
configurazione di riferimento (e.g. per t = 0) e sia ds0 la distanza fra loro; al tempo t, i punti P
e Q siano rispettivamente in y e y + dy e sia ds la distanza fra loro:

3
X 3
X
ds20 = dxk dxk , ds2 = dyk dyk .
k=1 k=1
1.3. IL TENSORE DI DEFORMAZIONE 5

Impiegando la descrizione lagrangiana, è yi = yi (x, t) e quindi


 ! 3 
X3 X 3 X
 ∂yk ∂yk
ds2 = dxi  dxj  (1.6)
∂xi ∂xj
k=1 i=1 j=1

e la variazione di distanza può essere scritta come


3 X
3 3
! 3 X
3
X X ∂yk ∂yk X
ds2 − ds20 = − δij dxidxj = 2 Eij dxi dxj (1.7)
∂xi ∂xj
i=1 j=1 k=1 i=1 j=1

dove δij è il “simbolo di Kronecker” (δij = 1 se i = j, δij = 0 se i 6= j) ed Eij prende il nome di


tensore Lagrangiano di deformazione (il fattore 2 è introdotto per motivi storici):
3
!
1 X ∂yk ∂yk
Eij = − δij . (1.8)
2 ∂xi ∂xj
k=1

È conveniente riscrivere la (1.8) tramite il vettore spostamento u(x, t) = y(x, t) − x:

( 3    ) 3
!
1 X ∂uk ∂uk 1 X ∂uk ∂uk ∂uj ∂ui
Eij = + δki + δkj − δij = + + (1.9)
2 ∂xi ∂xj 2 ∂xi ∂xj ∂xi ∂xj
k=1 k=1

In molte applicazioni è |du|  |dx| (approssimazione di “piccole deformazioni”); in tal caso


possiamo trascurare i termini del 2◦ ordine e scrivere:
 
1 ∂ui ∂uj
Eij ' + (1.10)
2 ∂xj ∂xi
In maniera analoga, utilizzando la descrizione euleriana (1.2), otteniamo
3 X 3 3
! 3 X 3
X X ∂xk ∂xk X
2 2
ds − ds0 = δij − dyi dyj = 2 eij dyi dyj (1.11)
∂yi ∂yj
i=1 j=1 k=1 i=1 j=1

dove eij è il tensore euleriano di deformazione.


Utilizzando il vettore spostamento u(y, t) = y − x(y, t) possiamo anche scrivere
3
!
1 ∂ui ∂uj X ∂uk ∂uk
eij = + − (1.12)
2 ∂yj ∂yi ∂yi ∂yj
k=1

Nel caso delle piccole deformazioni possiamo scrivere


 
1 ∂ui ∂uj
eij ' + (1.13)
2 ∂yj ∂yi
Quindi, nel caso delle piccole deformazioni è inessenziale distinguere fra coordinate lagrangiane
ed euleriane e scriviamo il tensore infinitesimo di deformazione ij come la parte simmetrica del
gradiente di spostamento:
 
1 ∂ui ∂uj
ij = + (1.14)
2 ∂xj ∂xi
6 CAPITOLO 1. MECCANICA DEI CONTINUI

1.4 Cenni di algebra tensoriale


Può essere utile a questo punto richiamare brevemente la definizione di tensore, limitandoci per
semplicità all’impiego di coordinate cartesiane ortogonali. Consideriamo un sistema di coor-
dinate x1 , x2, x3. Siano ê(1), ê(2), ê(3) i vettori unitari nelle direzioni degli assi coordinati. In
questo sistema un vettore generico A è individuato tramite le sue componenti A1 , A2, A3:
3
X
A = A1 ê(1) + A2 ê(2) + A3 ê(3) = Ai ê(i) (1.15)
i=1

tali componenti sono, rispettivamente, le proiezioni di A sugli assi x1 , x2, x3, ovvero A1 =
A · ê(1), A2 = A · ê(2), A3 = A · ê(3). Consideriamo ora un secondo sistema x01 , x02, x03 con vettori
unitari f̂ (1), f̂ (2), f̂ (3). In questo sistema il vettore A è individuato dalle “nuove” componenti
A01 , A02, A03:
3
X
A = A01 f̂ (1) + A02 f̂ (2) + A03 f̂ (3) = A0i f̂ (i) (1.16)
i=1

Che relazione esiste fra le “vecchie” componenti Ai e le “nuove” componenti A0i ? Facciamo il
prodotto scalare della (1.16) con ê(1): otteniamo

A · ê(1) ≡ A1 = A01 C11 + A02 C12 + A03C13

d
dove C11 = (ê(1) · f̂ (1)) = cos (1, d
10), C12 = (ê(1) · f̂ (2)) = cos (1, d
20), C13 = (ê(1) · f̂ (3)) = cos (1, 30).
(i)
In generale, moltiplicando la (1.16) per ê , otteniamo

3
X 3
X
Ai ≡ A · ê(i) = (ê(i) · f̂ (j))A0j = Cij A0j (1.17)
j=1 j=1

Quindi, Cij rappresenta il coseno dell’angolo fra il “vecchio” asse i-esimo e il “nuovo” asse j-
esimo. La trasformazione A0i → Ai può essere rappresentata come prodotto righe per colonne
della matrice C (con elementi di matrice Cij ) per il vettore colonna A0i , {i = 1, 2, 3}:
0
A1 C11 C12 C13 A1
0
A2 = C21 C22 C23 A
2
A3 C31 C32 C33 A0
3

La struttura della matrice C può essere meglio compresa riscrivendola tramite la definizione
data in (1.17)
(1) (1)
(ê · f̂ ) (ê(1) · f̂ (2)) (ê(1) · f̂ (3))

C= (2)
(ê · f̂ )
(1) (ê(2) · f̂ (2)) (ê(2) · f̂ (3))
(1.18)
(ê(3) · f̂ (1)) (ê(3) · f̂ (2)) (ê(3) · f̂ (3))

che mostra come il primo vettore riga sia costituito dalle componenti del vecchio vettore di base
ê(1) nella nuova base {f̂ (i), i = 1, 2, 3}, il secondo vettore riga sia costituito dalle componenti
del vecchio vettore di base ê(2) , il terzo vettore riga sia costituito dalle componenti del vecchio
vettore di base ê(3) . Analogamente, i vettori colonna sono costituiti dalle componenti dei nuovi
1.4. CENNI DI ALGEBRA TENSORIALE 7

vettori f̂ nella vecchia base {ê(i), i = 1, 2, 3}. Detti vettori riga sono quindi normalizzati e fra
loro ortogonali:
X 3
Cij Ckj = (ê(i) · ê(k)) = δik . (1.19)
j=1

(dove δik è il simbolo di Kronecker, δik = 1 se i = k, δik = 0 se i 6= k).


Analogamente, sono ortogonali e normalizzati i tre vettori colonna Cij = (ê(i) · f̂ (j)), per j
fissato e i = 1, 2, 3, e quindi valgono le seguenti relazioni:
3
X
Cij Cik = (f̂ (j) · f̂ (k) ) = δjk . (1.20)
i=1

Cerchiamo ora la trasformazione inversa C−1 che, date le “vecchie” componenti Ai , fornisce
le “nuove” componenti A0i . Moltiplico scalarmente la relazione (1.15) per il vettore di base f̂ (i)
e ottengo:
3
X 3
X
A0i ≡ A · f̂ (i) = (f̂ (i) · ê(j) )Aj = −1
Cij Aj (1.21)
j=1 j=1
con
−1
Cij = (f̂ (i) · ê(j)) = Cji = Cij
T

quindi la matrice inversa C−1 è la trasposta della matrice C. Possiamo allora scrivere che
CCT = CC−1 = I
dove I è la matrice identità, con Iij = δij .
In termini degli elementi di matrice, la relazione CCT = I può essere scritta:
3
X 3
X
T
Cij Cjk = Cij Ckj = δik (1.22)
j=1 j=1

ovvero, ritroviamo che i vettori riga della matrice C sono normalizzati e fra loro ortogonali.
Analogamente, dato che è anche CT C = I, abbiamo che
3
X 3
X
T
Cij Cjk = Cji Cjk = δik (1.23)
j=1 j=1

ovvero, i vettori colonna della matrice C sono normalizzati e ortogonali.


Una matrice C che gode della proprietà CCT = I è detta ortogonale. In particolare, dato
che detC = detCT e che det(CCT) = (detC)2 = detI = 1, abbiamo
detC = ±1
Si dicono proprie le trasformazioni con determinante 1, improprie quelle con determinante −1.
Esempi di trasformazioni improprie sono le inversioni di uno o di tutti e tre gli assi coordinati:

−1 0 0 1 0 0 1 0 0 −1 0 0


I1 = 0 1 0 , I2 = 0 −1 0 , I3 = 0 1 0 , I4 = 0 −1 0

.
0 0 1 0 0 1 0 0 −1 0 0 −1
Una trasformazione impropria può essere vista come prodotto di una trasformazione propria per
una inversione.
8 CAPITOLO 1. MECCANICA DEI CONTINUI

1.4.1 Definizione di tensore


Un vettore A, rappresentato in un assegnato sistema di riferimento dalle componenti Ai , può
essere definito assiomaticamente tramite le trasformazioni (1.21): definiamo vettore ovvero ten-
sore di rango 1 una grandezza caratterizzata da 3 componenti Ai che si trasformano secondo la
regola (1.21) per rotazione delle coordinate:

3
X
A0i = Cji Aj (1.24)
j1 =1

Definiamo tensore di rango 2 una grandezza caratterizzata da 3 × 3 componenti Aij , {i =


1, 2, 3}; {j = 1, 2, 3} che si trasformano, per rotazione delle coordinate, secondo la regola

3 X
X 3
A0ij = Cki C`j Ak` (1.25)
k=1 `=1

Più in generale, definiamo tensore di rango k una grandezza caratterizzata da 3k componenti


Ai1 i2 ...ik che si trasformano secondo la regola
3 X
X 3 3
X
A0i1 i2 ...ik = ··· Cj1 i1 Cj2 i2 . . . Cjk ik Aj1 j2 ...jk (1.26)
j1 =1 j2 =1 jk =1

In particolare, un tensore di rango k si può ottenere da tutti i possibili prodotti delle componenti
di k tensori di rango 1 (vettori): ad esempio, dati due vettori A e B, le 9 componenti Ai Bj , {i =
1, 2, 3}, {j = 1, 2, 3}, ciascuna delle quali si trasforma secondo la (1.21) definiscono un tensore
di rango 2.
Le proprietà tensoriali possono riferirsi sia a grandezze fisiche (come forze, velocità, campo
elettrico), sia a operatori su grandezze fisiche. Un esempio molto importante di operatore con
proprietà tensoriali è l’operatore gradiente ∇. Consideriamo un campo scalare φ e consideriamo
le derivate di φ rispetto alle coordinate spaziali x1 , x2, x3 (assunte cartesiane ortogonali). Le
componenti di ∇φ si trasformano, per rotazione degli assi, come le componenti di un tensore di
rango 1: infatti, le “nuove” componenti di ∇φ sono
3
X ∂φ ∂xj X 3
∂φ ∂φ
0 = 0 = Cji
∂xi ∂xj ∂xi ∂xj
j=1 j=1

dove, nell’ultimo passaggio, abbiamo impiegato la regola (1.17) applicata al vettore x: xj =


P 0 ∂xj
i Cji xi , e quindi ∂x0i = Cji . L’operatore gradiente quindi si trasforma come un tensore di ran-
go 1. Va segnalato, tuttavia, che questa proprietà vale solo per coordinate cartesiane ortogonali:
in coordinate curvilinee o non ortogonali il concetto di derivata va riformulato perché goda delle
proprietà tensoriali richieste dai principi di invarianza delle leggi della fisica.

1.4.2 Convenzione di Einstein


Come mostrano molte delle equazioni del precedente paragrafo, nell’algebra tensoriale figurano
spesso diversi simboli di sommatoria. È quindi comodo impiegare la cosidetta convenzione di
1.4. CENNI DI ALGEBRA TENSORIALE 9

Einstein: ogni volta che un indice tensoriale appare ripetuto 2 volte in un prodotto, è sottin-
tesa una sommatoria su quell’indice. Cosı̀ ad esempio la relazione (1.25) può essere riscritta
semplicemente
3 X
X 3
A0ij = Cki C`j Ak` (sottintese le )
k=1 `=1

Inoltre, il simbolo usato per indicare un indice di sommatoria può essere cambiato a nostro
piacimento (purché ciò sia fatto sistematicamente all’interno di ciascun prodotto): infatti non
c’è differenza nello scrivere Cki Ak oppure scrivere Cmi Am perché entrambe le espressioni indicano
la somma (C1i A1 + C2i A2 + C3i A3 ). L’indice di sommatoria (k nel primo caso, m nel secondo)
è detto indice muto oppure indice fantoccio (“dummy index”); gli indici non ripetuti (e quindi
non sommati) sono detti indici liberi.

1.4.3 Teorema di contrazione


Consideriamo un tensore di rango 3 Aijk e sommiamo i suoi elementi con primo indice uguale al
secondo indice: Aiik (è sottintesa la somma sull’indice ripetuto i). Diciamo allora che abbiamo
effettuato sul tensore Aijk una contrazione sugli indici i e j. È facile dimostrare che le componenti
della contrazione Aiik si trasformano come le componenti di un tensore di rango 1.
Infatti, omettendo di indicare le sommatorie, secondo la convenzione di Einstein, abbiamo

A0iik = C`i Cmi Cnk A`mn = δ`m Cnk A`mn = Cnk A``n

dove abbiamo impiegato la (1.22); ma questa altro non è che la definizione (1.21) di un tensore
di rango 1. Più in generale, vale il seguente enunciato: la contrazione di un tensore di rango
k > 2 su una coppia di indici abbassa di 2 unità il rango del tensore.
In base al teorema di contrazione possiamo generalizzare la definizione di tensore a coprire
anche il rango “zero”: infatti, tale teorema porta a prefigurare un tensore di rango zero come
un tensore di rango k = 2 contratto sui suoi 2 indici o, più in generale, come un tensore di
rango pari contratto su tutte le coppie di indici: ad esempio, dato un tensore di rango 2 Aij ,
per contrazione di i con j otteniamo il tensore di rango zero Aii che si trasforma per rotazioni
secondo la regola
A0ii = Cki C`i Ak` = δk` Ak` = Akk

Ma Akk = Aii (k e i sono indici muti) e quindi un tensore di rango zero è definito come una
grandezza che non cambia valore per rotazione degli assi: in altri termini, un tensore di rango
zero è uno scalare.
Esempi
√ di grandezze scalari sono il prodotto scalare fra due vettori Ai Bi e il modulo di un
P 2
vettore Ai Ai (scriviamo Ai = Ai Ai in modo da utilizzare la convenzione di Einstein per
l’indice ripetuto).

1.4.4 Teorema del quoziente


Supponiamo di avere una grandezza A(ij) le cui componenti dipendono da 2 indici ij, ma di
non sapere se detta grandezza è un tensore. Supponiamo però di sapere che la contrazione di
A(ij) con un arbitrario vettore Bj fornisce un vettore Di (un vettore è un tensore di rango 1). Il
10 CAPITOLO 1. MECCANICA DEI CONTINUI

teorema del quoziente ci permette di concludere che allora A(ij) è un tensore di rango 2. Infatti,
nelle nuove coordinate avremo

A0 (ij)Bj0 = A0(ij)Ckj Bk (perché Bi è un vettore)

ma A(ij)Bj = Di è un tensore di rango 1 e quindi

A0 (ij)Bj0 = Di0 = C`i D` = C`i A(`m)Bm (perché Di è un vettore)

Uguagliando i due secondi membri si ottiene

A0 (ij)Ckj Bk = C`i A(`m)Bm

e quindi  0 
A (ij)Ckj − C`i A(`k) Bk = 0 con Bk arbitrario.
Deve quindi annullarsi il termine fra parentesi e, contraendo con Ckm , otteniamo

A0 (ij)δjm = A0(im) = C`i Ckm A(`k)

che costituisce la definizione di un tensore di rango 2.


In generale, il teorema del quoziente può essere cosı̀ formulato: se dalla contrazione di una
grandezza con k indici con un arbitrario tensore di rango ` (con ` ≤ k) otteniamo un tensore di
rango k − `, allora quella grandezza è un tensore di rango k.
Una applicazione immediata del presente teorema è che il tensore lagrangiano di deformazione
Eij (e anche il tensore euleriano eij ), in base alla proprietà (1.7) è effettivamente un tensore di
rango 2, dato che dxi dxj è un tensore di rango 2 arbitrario e ds2 − ds20 è un tensore di rango 0
(scalare).

1.4.5 Il simbolo di Kronecker e il simbolo di permutazione


In base alle relazioni (1.25), si dimostra facilmente (esercizio 1) che il simbolo di Kronecker δij
è un tensore che gode della particolare proprietà di avere elementi di matrice invarianti: cioè
0
δij = δij . A questa conclusione si può giungere anche tramite il teorema del quoziente, dato che
δij Aij = Aii è uno scalare, per il teorema di contrazione, qualunque sia il tensore di rango 2 Aij ;
per il teorema del quoziente, quindi, il simbolo di Kronecker è un tensore di rango 2.
Il simbolo di permutazione eijk è definito nel seguente modo:

 1 se i, j, k sono una permutazione pari di 1,2,3
eijk = −1 se i, j, k sono una permutazione dispari di 1,2,3

0 altrimenti, cioè se almeno due degli indici i, j, k sono uguali fra loro

Il simbolo di permutazione è utile per rappresentare in forma indiciale il prodotto vettoriale:


infatti si ha
(A × B)i = eijk Aj Bk
Dato che il prodotto vettoriale fra due arbitrari vettori è un vettore, per il teorema del quoziente
si ha immediatamente che il simbolo di permutazione è un tensore di rango 3. Anche eijk
(analogamente al simbolo di Kronecker δij ) possiede la proprietà di avere elementi di matrice
invarianti, ma solo per trasformazioni proprie (per le quali e0ijk = eijk ), mentre gli elementi di
1.4. CENNI DI ALGEBRA TENSORIALE 11

matrice cambiano segno per trasformazioni improprie (per le quali e0ijk = −eijk ). Tramite il
tensore di permutazione è immediato ricavare le seguenti identità vettoriali:

eijk Aj Bk = −eikj Bk Aj i.e. A × B = −B × A


eijk Ai Bj Ck = ekij Ck Ai Bj = ejki Bj Ck Ai i.e. A · (B × C) = C · (A × B) = B · (C × A)

Relazioni analoghe alle precedenti si applicano anche al caso in cui uno o più vettori siano
costituiti dall’operatore ∇: ad esempio, il rotore di un campo vettoriale A si scrive

∂Ak
∇×A =⇒ eijk .
∂xj

Come esempio dell’applicazione delle precedenti definizioni, consideriamo la ben nota identità

∇ × (∇φ) = 0

dove φ è un campo scalare. La sua trascrizione tensoriale è:

∂ ∂φ
eijk =0
∂xj ∂xk

e questa discende immediatamente dalla proprietà eijk = −eikj e dal fatto che lo scambio di
indici “fantoccio” jk non altera il valore dell’espressione. Analogamente si prova l’identità

∇ · (∇ × A) = 0

che discende dalla trascrizione tensoriale

∂ ∂Ak ∂ 2 Ak
eijk = eijk =0
∂xi ∂xj ∂xi∂xj

e dalla antisimmetria di eijk nello scambio degli indici “fantoccio” ij.


Tramite il tensore di permutazione possiamo facilmente ricavare altre identità vettoriali,
come la seguente:
∇ · (A × B) = B · (∇ × A) − A · (∇ × B)
che si ottiene dalla seguente relazione tensoriale
 
∂ ∂Aj ∂Bk ∂Aj ∂Bk
(eijk Aj Bk ) = eijk Bk + A j = Bk ekij − Aj ejik
∂xi ∂xi ∂xi ∂xi ∂xi

Il determinante di un tensore di rango 2 è anche invariante: infatti, è immediato verificare che

det |Aij | = eijk A1i A2j A3k = eijk A2i A3j A1k = eijk A3i A1j A2k
= −eijk A1i A3j A2k = −eijk A3i A2j A1k = −eijk A2i A1j A3k

e quindi
1
det |Aij | = eijk elmn Ali Amj Ank
6
è invariante per il teorema di contrazione. Altre identità sono proposte fra gli esercizi.
12 CAPITOLO 1. MECCANICA DEI CONTINUI

Identità e − δ
I tensori δij ed eijk sono legati dalla seguente importante identità (detta “identità e − δ”)

eijk eklm = [δilδjm − δim δjl ] (1.27)

Per tenere a mente questa identità notiamo che nei prodotti di δ a secondo membro compaiono
prima gli indici liberi ij ed lm a coppie ordinate (primo-primo, secondo-secondo) e poi, con
segno meno, gli indici liberi a coppie invertite (primo-secondo, secondo-primo).
L’identità e − δ è utile per scrivere in formalismo indiciale i doppi prodotti vettoriali: ad
esempio si ricava immediatamente la seguente identità vettoriale:

eijk Aj eklm Bl Cm = [δil δjm − δim δjl ]Aj Bl Cm = Aj Cj Bi − Aj Bj Ci


i.e. A × (B × C) = (A · C)B − (A · B)C

1.5 Il tensore infinitesimo di deformazione


Riprendiamo in considerazione il tensore infinitesimo di deformazione (1.14)
 
1 ∂ui ∂uj
ij = +
2 ∂xj ∂xi
che descrive la variazione di distanza fra due punti materiali P (posto in x) e Q (posto in x+dx)
secondo l’equazione (1.7), nell’approssimazione delle piccole deformazioni:

ds2 − ds20 = 2ij dxidxj

dove ds0 = |dx| e ds = |dy| = |dx + du|. Allora possiamo approssimare al primo ordine

ds2 − ds20 = (ds + ds0 )(ds − ds0) ' 2ds0(ds − ds0 )

e quindi scrivere
ds − ds0 dxi dxj
= ij (1.28)
ds0 ds0 ds0
che fornisce la variazione relativa di distanza fra P e Q in approssimazione delle piccole defor-
mazioni. Notiamo che dx ds0 rappresenta il vettore unitario nella direzione da P a Q.
i

1.5.1 Interpretazione geometrica delle componenti ij .


Consideriamo un segmento materiale di estremi P e Q posti lungo l’asse x1, e sia d`0 la lunghezza
del segmento non deformato e d` la lunghezza del segmento dopo la deformazione. Impiegando
la (1.28) otteniamo
d` − d`0
= 11 (1.29)
d`0
Pertanto, 11 rappresenta la variazione relativa di lunghezza di un segmento parallelo all’asse
x1 : se 11 > 0 si avrà un allungamento relativo, se 11 < 0 si avrà un accorciamento relativo
(figura 1.4-(a)).
1.5. IL TENSORE INFINITESIMO DI DEFORMAZIONE 13

In modo analogo, 22 ed 33 rappresentano allungamenti (o accorciamenti) relativi di segmenti


materiali posti lungo gli assi x2 e x3 .
Consideriamo ora un rettangolo materiale P QRS con lati paralleli agli assi x1 , x2 (figura
1.4-(b)) e siano 12 ed 21 le uniche componenti non nulle della deformazione. È
 
1 ∂u1 ∂u2 1
12 = + = (α + β) (1.30)
2 ∂x2 ∂x1 2

dove α è la tangente trigonometrica dell’angolo di cui ruota in senso orario il lato P S e β è la


tangente dell’angolo di cui ruota in senso anti-orario il lato P Q; essendo per ipotesi infinitesi-
mi questi valori, α e β possono essere considerati come gli angoli (in radianti) di cui ruotano,
rispettivamente in verso orario e anti-orario, i lati del rettangolo (figura 1.4-b). Pertanto 12
rappresenta metà della variazione di un angolo inizialmente retto: se 12 > 0 l’angolo fra i seg-
menti materiali dx1 e dx2 (orientati positivamente) diminuisce (l’angolo da retto diventa acuto),
mentre, se 12 < 0, l’angolo aumenta (diventa ottuso). In generale, se α 6= β, il rettangolo, oltre
alla deformazione, subisce una rotazione di ampiezza 12 (α − β); in particolare, se β = −α, allora
12 = 0 e il rettangolo ruota di un angolo α in senso orario, senza subire deformazione.

x2

P Q du1 S du 1
α R
x1
α+β
dl 0 =dx1
(b)
α

dl dx 2
dx2 /cos

dx 1 /cos β
(a) β du2
P Q x1
dx 1

Figura 1.4: Le componenti diagonali del tensore infinitesimo di deformazione forniscono la variazione
relativa di lunghezza di un segmento materiale allineato lungo gli assi coordinati (a). Le componenti
non-diagonali rappresentano metà della variazione di un angolo retto (b).

Analoga interpretazione hanno le componenti non-diagonali 13 ed 23 (semi-variazioni di


angoli retti nei piani coordinati x1 , x3 e x2 , x3).
Il tensore di deformazione è chiaramente adimensionale; le componenti di taglio, sono spesso
espresse in radianti (o sottomultipli, come i µrad), a motivo dell’interpretazione data sopra.
Da notare inoltre che una deformazione di taglio infinitesima 12 non implica variazione
dell’area del rettangolo dx1dx2 (al primo ordine): infatti l’area del parallelogramma in figura
dx1 dx2 cos(α+β)
1.4 è cos β × cos α ' dx1dx2 .
La traccia kk del tensore infinitesimo di deformazione fornisce inoltre la variazione relativa
14 CAPITOLO 1. MECCANICA DEI CONTINUI

di volume di una porzione materiale (infinitesima) V0 del corpo


δV
kk =
V0
Infatti, supposte diverse da zero le sole componenti diagonali di ij , un parallelepipedo di
spigoli dx1dx2dx3 nella configurazione di riferimento si deforma in un parallelepipedo di spigoli
dy1 dy2dy3 con dy1 = (1 + 11 )dx1, dy2 = (1 + 22 )dx2, dy3 = (1 + 33)dx3 e quindi, trascurando
i termini di ordine superiore al primo,
δV = V − V0 = dy1 dy2dy3 − dx1dx2dx3 ' (11 + 22 + 33 )dx1dx2dx3 = kk V0.
L’ipotesi che sia ij = 0 per i 6= j non è restrittiva: infatti, anche se i lati fra gli spigoli
del parallelepipedo non restano perpendicolari nella configurazione deformata, per effetto delle
componenti non diagonali, l’area di ciascuna faccia non cambia (al primo ordine) e altrettanto
avviene per l’altezza. Inoltre, vedremo fra poco che ogni tensore simmetrico può essere diago-
nalizzato se si utilizzano i suoi autovettori come base: quindi l’ipotesi che le componenti non
diagonali siano nulle non è restrittiva.

1.5.2 Componente isotropa e componente deviatorica


Risulta spesso conveniente decomporre il tensore di deformazione in una componente isotropa
(I)
ij
(I) 1
ij = kk δij (1.31)
3
che fornisce la variazione relativa di volume dovuta al processo deformativo. Tale componente è
detta isotropa perché fornisce la stessa variazione relativa di lunghezza in ogni direzione, come
è facile verificare. La parte restante del tensore di deformazione è detta componente deviatorica
(D)
ij e fornisce la variazione di forma a volume costante:

(D) 1
ij = ij − kk δij (1.32)
3
(D)
È evidente che ij ha traccia nulla e il tensore completo si scrive
(I) (D)
ij = ij + ij
(D)
Per semplicità di scrittura, d’ora in poi denoteremo ij come 0ij , anche se tale notazione è
stata precedentemente impiegata per denotare le componenti di un tensore nel “nuovo” sistema
di riferimento; dal contesto sarà chiaro quale significato attribuire a 0ij .
Inoltre, dato che il tensore identità (o il suo multiplo 13 kk δij , come nel presente caso) è
(D)
diagonale in qualunque sistema di riferimento (vedi esercizio 1), gli autovettori di ij coincidono
con quelli di ij , mentre i suoi autovalori differiscono da quelli di ij per un termine scalare
additivo:
1 1 1
01 = 1 − kk , 02 = 2 − kk , 03 = 3 − kk .
3 3 3
Quindi, la decomposizione in componente isotropa e deviatorica separa le variazioni di volume
dalle variazioni di forma e può risultare utile per semplificare i calcoli di autovettori e autovalori
del tensore di deformazione.
1.6. ALCUNE PROPRIETÀ DEL TENSORE DI DEFORMAZIONE 15

1.5.3 Deformazione e rotazione infinitesime


Detti P e Q due punti materiali di coordinate xi e xi + dxi rispettivamente, nella configurazione
di riferimento, siano yi = xi + ui e yi + dyi = xi + dxi + ui + dui le loro coordinate nella
configurazione deformata. Lo spostamento incrementale di Q rispetto a P è quindi
   
∂ui 1 ∂ui ∂uk 1 ∂uk ∂ui
dui = dxk = + dxk − − dxk = ik dxk − ωik dxk
∂xk 2 ∂xk ∂xi 2 ∂xi ∂xk
∂ui
dove abbiamo separato ∂x k
nella parte simmetrica ik e nella parte antisimmetrica −ωik . La parte
simmetrica ik coincide con il tensore infinitesimo di deformazione, di cui abbiamo già detto,
mentre la parte antisimmetrica ωik rappresenta una rotazione infinitesima locale di Q attorno a
P : infatti, in una rotazione infinitesima un vettore ~x subisce un incremento d~x = ~δΩ × ~x dove
~ è un vettore infinitesimo il cui modulo e direzione forniscono rispettivamente l’angolo e l’asse
δΩ
di rotazione. Nel caso che ci interessa, la rotazione di Q sarà descritta da

dui = eijk δΩj dxk

in formalismo tensoriale. Deve essere quindi ωik = −eijk δΩj , ovvero

δΩ1 = ω23 = −ω32 , δΩ2 = −ω13 = ω31 , δΩ3 = ω12 = −ω21

Notare che le 9 equazioni ωik = −eijk δΩj possono essere soddisfatte scegliendo opportunamente
le tre δΩj in virtù dell’antisimmetria che riduce a tre sole le componenti indipendenti di ωik .

1.6 Alcune proprietà del tensore di deformazione


È immediato verificare che il tensore ij è simmetrico (cioè che ij = ji ). È noto dai corsi
di matematica che ogni operatore lineare autoaggiunto in Rn ammette n autovalori reali e
n autovettori ortogonali. Nel caso del tensore di deformazione, ciò significa che esistono tre
direzioni fra loro ortogonali, lungo le quali si verificano solo variazioni di lunghezza (non si
verificano variazioni angolari).
Per completezza ricapitoliamo brevemente queste proprietà.

• ij ammette tre autovalori reali.


Infatti, detto λ un autovalore e ni il relativo autovettore, risulta

[ij − λδij ]nj = 0

che è un sistema omogeneo di tre equazioni (i = 1, 2, 3) nelle tre incognite n1 , n2 , n3. Il


sistema ammette soluzioni diverse dalla soluzione ovvia (che non è accettabile perché |n̂| =
1 per ipotesi), a patto che il determinante del sistema sia nullo; ciò fornisce una equazione
di terzo grado in λ a coefficienti reali, che potrebbe ammettere tre soluzioni reali oppure
una soluzione reale e due complesse coniugate. Supponiamo che sia λ = α + iβ complesso;
prendendo la complessa coniugata della precedente equazione si verifica facilmente che
λ∗ = α − iβ è autovalore con autovettore n∗i , coniugato di ni :

[ij − λ∗ δij ]n∗j = 0


16 CAPITOLO 1. MECCANICA DEI CONTINUI

Contraendo ora la prima equazione con n∗i e la seconda con ni e sottraendo si ottiene:

ij n∗i nj − ij ni n∗j − 2iβn∗i ni = 0

Ma i primi due termini si cancellano per la simmetria di ij e n∗i ni = |n1 |2 + |n2 |2 + |n3 |2 è
nullo solo se ni = n∗i = 0 (eventualità da scartare perché un autovettore è per ipotesi non
nullo) e quindi deve essere β = 0 ovvero λ deve essere reale.

• Gli autovettori corrispondenti ad autovalori distinti sono ortogonali fra loro.


(1) (2)
Infatti, detti λ1 e λ2 due autovalori e detti ni , ni i relativi autovettori, risulta:
(1) (2)
[ij − λ1δij ]nj = 0, [ij − λ2δij ]nj =0

(2) (1)
Contraendo la prima con ni , la seconda con ni , sottraendo e sfruttando la simmetria
di ij si ottiene
(1) (2)
(λ1 − λ2 )ni ni = 0
e quindi, essendo λ1 6= λ2 , deve essere n(1) ⊥ n(2). Se λ1 = λ2 e n(1) è linearmente
(1) (2)
indipendente da n(2), allora ogni combinazione lineare mi = ani + bni è autovettore
(1) (2)
con autovalore λ; di conseguenza si possono sempre scegliere due autovettori mi e mi
(1) (1) (2) (2) (1) (2) (1)
fra loro ortogonali (per esempio mi = ni e mi = ni − (nk nk )ni ).

• Impiegando gli autovettori come base, ij è diagonale; se gli autovettori sono normalizzati
ad 1, gli elementi diagonali di ij coincidono con gli autovalori.
Infatti, per le regole di trasformazione tensoriale, 0ij = Cki Clj kl dove Cki è il coseno
(i)
direttore fra il vecchio asse k-esimo e il nuovo asse i-esimo. È quindi Cki = nk ed
(i) (j) (j) (i)
0ij = kl nk nl = λj nk nk = λj δij (in questo caso l’indice j benché ripetuto, non è
sommato!).

• È sempre mink λk ||x||2 ≤ ij xi xj ≤ maxk λk ||x||2, qualunque sia il vettore x.


Infatti, detto x = x1 n(1) +x2 n(2) +x3 n(3) un vettore qualsiasi, si ha ij xi xj = x21 λ1 +x22λ2 +
x23λ3 . Pertanto, mink λk (x21 + x22 + x23 ) ≤ ij xi xj ≤ maxk λk (x21 + x22 + x23 ). Ricordando
il significato fisico del tensore ij , il presente risultato ci dice che in nessuna direzione
l’allungamento relativo (ds−ds0 )/ds0 può essere maggiore del massimo autovalore o minore
del minimo autovalore.

1.6.1 Condizioni di compatibilità


Grazie alle proprietà di simmetria, le componenti distinte del tensore di deformazione sono 6.
Tuttavia, le componenti del tensore di deformazione sono univocamente determinate una volta
che siano note le 3 componenti del vettore spostamento. Pertanto le 6 componenti del tensore di
deformazione non sono fra loro indipendenti: debbono esistere fra loro tre relazioni funzionali,
che garantiscano la compatibilità delle 6 componenti ij con le tre componenti di un unico
campo di spostamento ui . Queste relazioni possono essere ottenute in vari modi, ma il metodo
più istruttivo di ricavarle è quello (dovuto a E. Cesaro, 1906) di imporre che lo spostamento
sia una funzione monodroma (ad un solo valore). Consideriamo due punti P0 = (x01, x02, x03) e
1.6. ALCUNE PROPRIETÀ DEL TENSORE DI DEFORMAZIONE 17

P1 = (x11, x12, x13) e calcoliamo lo spostamento in P1 integrando dui lungo una curva regolare con
estremi in P0 e P1 :
Z P1 Z P1
∂ui
ui (P1 ) = ui (P0 ) + dui = ui (P0 ) + dxk
P0 P0 ∂xk

Cerchiamo di ottenere dalla precedente espressione una relazione che coinvolga solo il tensore
deformazione. A tal fine, separiamo il gradiente dello spostamento nella sua parte simmetrica
(deformazione infinitesima) ik e antisimmetrica (rotazione infinitesima) −ωik :
Z P1 Z P1
ui (P1 ) = ui (P0 ) + ik dxk − ωik dxk (1.33)
P0 P0

e cerchiamo di eliminare ωik in termini di ik : a tal fine notiamo che


 2   2   2 
∂ωik 1 ∂ ui ∂ 2 uk 1 ∂ ui ∂ 2 ul 1 ∂ uk ∂ 2 ul
− = − = + − +
∂xl 2 ∂xl ∂xk ∂xl ∂xi 2 ∂xk ∂xl ∂xk ∂xi 2 ∂xi∂xl ∂xi∂xk
e quindi
∂ωik ∂il ∂kl
− = −
∂xl ∂xk ∂xi
Per utilizzare questa espressione, integriamo per parti il secondo integrale della (1.33) e poniamo
l’origine delle coordinate xi in P1 (cioè sia x1k = 0)
Z P1 Z P1
∂ωik
ωik dxk = −x0k ωik
0
− xk dxl
P0 P0 ∂xl
∂ωik
Sostituendo la precedente espressione per ∂xl la (1.33) diventa
Z P1
ui (P1) = ui (P0) + x0k ωik
0
+ Uil dxl
P0

dove  
∂il ∂kl
Uil = il − xk − . (1.34)
∂xk ∂xi
Perché ui (P1 ) sia continua e a un sol valore, l’ultimo integrale deve dipendere solo dagli estremi
P0 e P1 e non deve dipendere dal percorso d’integrazione. Perciò l’integrando deve essere un
differenziale esatto, ovvero deve essere
∂Uil ∂Uim
− = 0. (1.35)
∂xm ∂xl
Questa condizione è necessaria e sufficiente ad assicurare che ui (P1 ) sia ad un sol valore se la
regione in considerazione è semplicemente connessa. Inserendo (1.34) in (1.35) otteniamo:
   
∂il ∂il ∂kl ∂ ∂il ∂kl
− δkm − − xk −
∂xm ∂xk ∂xi ∂xm ∂xk ∂xi
   
∂im ∂im ∂km ∂ ∂im ∂km
− + δkl − + xk − =0
∂xl ∂xk ∂xi ∂xl ∂xk ∂xi
18 CAPITOLO 1. MECCANICA DEI CONTINUI

Tutti i termini non moltiplicati per xk si cancellano e quindi restano le condizioni di com-
patibilità di Saint Venant (1860):

∂ 2il ∂ 2km ∂ 2kl ∂ 2im


+ − − =0 (1.36)
∂xm ∂xk ∂xl ∂xi ∂xm ∂xi ∂xl ∂xk
che risultano essere una ovvia identità se sostituiamo a ij la sua espressione (1.14). In virtù
della simmetria di ij , solo 6 delle 81 relazioni (1.36) sono significative; le altre costituiscono
mere identità o ripetizioni. Le sei relazioni, in notazione esplicita, sono:
 
∂ 2 xx ∂ ∂yz ∂zx ∂xy
= − + + ,
∂y∂z ∂x ∂x ∂y ∂z
 
∂ 2yy ∂ ∂zx ∂xy ∂yz
= − + + ,
∂x∂z ∂y ∂y ∂z ∂x
 
∂ 2zz ∂ ∂xy ∂yz ∂zx
= − + + ,
∂x∂y ∂z ∂z ∂x ∂y
∂ 2xy ∂ 2xx ∂ 2yy
2 = + ,
∂x∂y ∂y 2 ∂x2
∂ 2yz ∂ 2yy ∂ 2 zz
2 = + ,
∂y∂z ∂z 2 ∂y 2
∂ 2zx ∂ 2 zz ∂ 2 xx
2 = + .
∂z∂x ∂x2 ∂z 2
Le condizioni di compatibilità sono in ogni caso condizioni necessarie perché lo spostamento sia
una funzione continua ad un sol valore. Esse sono anche sufficienti solo se il mezzo è semplice-
mente connesso (per domini multiplamente connessi debbono essere imposte ulteriori condizioni,
sulle quali non ci soffermiamo). Infine, osserviamo che anche funzioni spostamento discontinue
o a più valori possono avere senso fisico: è questo il caso dei problemi dislocativi, utili per
descrivere processi di frattura.

1.7 Il tensore di sforzo


Consideriamo un corpo B ad un certo istante t. Immaginiamo al suo interno una superficie ∆S:
come possiamo descrivere l’interazione fra il materiale posto su una faccia di ∆S su quello posto
sulla faccia opposta? Sia n̂ la normale su ∆S; possiamo cosı̀ distinguere le due facce di ∆S
secondo la direzione di n̂: definiamo faccia “positiva” quella rivolta verso n̂ e “negativa” quella
opposta. Il materiale che giace sulla faccia positiva di ∆S esercita una forza ∆F sul materiale
posto sulla faccia negativa: la forza ∆F dipende dall’area e dall’orientazione della superficie.
Assumiamo che il rapporto ∆F/∆S tenda ad un limite finito dF dS al tendere di ∆S a zero e che
il momento delle forze su ∆S sia nullo. Il vettore limite prende il nome di trazione
dFi
Ti(n̂) =
dS
dove abbiamo esplicitamente scritto che Ti dipende dall’orientazione della normale n̂, oltre
che dalla posizione x e dal tempo t. La trazione è quindi un vettore, con dimensioni N/m2.
1.7. IL TENSORE DI SFORZO 19

B(t)
x3 ∆F(n)
n

∆S S

x2

x1
Figura 1.5: Il principio di Eulero-Cauchy stabilisce l’equivalenza fra un sistema di forze di superficie e
l’azione del materiale posto sulla faccia positiva di ∆S sul materiale posto sulla faccia negativa.

Consideriamo ora il caso in cui la superficie ∆Sk sia parallela ad uno dei piani coordinati e la
normale su ∆Sk sia nella direzione positiva ê(k) dell’asse xk .
La trazione su ∆Sk sarà denotata con T(ê(k)) con componenti T1(ê(k)), T2(ê(k) ), T3 (ê(k))
lungo gli assi x1 , x2 e x3 rispettivamente. L’indice k indica la superficie sulla quale agisce la
trazione. Introduciamo dei nuovi simboli

T1 (ê(k)) = τk1 , T2(ê(k) ) = τk2 , T3 (ê(k)) = τk3

Secondo questa notazione, τki è la componente i-esima della trazione che il materiale posto
sulla faccia positiva di Sk esercita sul materiale posto sulla faccia negativa: pertanto, τ11 (ad
esempio) è positivo se il materiale posto sulla faccia positiva tira verso l’esterno il materiale sulla
faccia negativa. Viceversa, τ11 è negativo se il materiale posto sulla faccia positiva spinge verso
l’interno il materiale sulla faccia negativa. Le componenti delle trazioni sui piani coordinati
prendono il nome di sforzi; le diverse componenti dello sforzo possono essere organizzate in una
matrice quadrata |τki |, in cui il primo indice denota la faccia coordinata su cui agisce la trazione
e il secondo indice denota la componente della trazione: gli elementi diagonali τ11 , τ22, τ33 sono
detti sforzi normali (normal stresses), gli altri elementi τ12, τ13, . . . sono detti sforzi di taglio
(shear stresses). Gli sforzi hanno dimensioni di una forza per unità di superficie e, nel sistema
SI sono espressi in Pascal (Pa), 1 Pa = 1 N/m2.

1.7.1 Forze di volume e forze di superficie


Consideriamo un corpo che, al tempo t occupa lo spazio B(t). La quantità di moto del corpo
sarà descritta da Z
P= v(r, t) ρ dV
B(t)
20 CAPITOLO 1. MECCANICA DEI CONTINUI

S3 τ S2
33 τ32
τ31 τ23
x3 τ22
τ13
τ11 τ21
e
(3) τ12
S1
e(1) e (2) x2

x1
Figura 1.6: Le trazioni sulle facce coordinate sono le componenti dello sforzo.

dove v è la velocità della particella materiale di volume dV e massa dm = ρ dV che si trova nel
punto r al tempo t. Analogamente, il momento angolare del corpo sarà descritto da
Z
H= r × v(r, t) ρ dV
B(t)

Le leggi della dinamica asseriscono che la derivata rispetto al tempo di P eguaglia la forza totale
F che agisce sul corpo e la derivata di H eguaglia il momento risultante delle forze M:
Ṗ = F, Ḣ = M (1.37)
Generalmente, si fa tacitamente l’assunzione che le forze e i loro momenti siano grandezze delle
quali abbiamo informazioni a priori. In meccanica dei continui si distinguono due tipi di forze:
• Forze di volume (body forces), che agiscono su elementi di volume del corpo;
• Forze di superficie (trazioni), che agiscono sugli elementi di superficie del corpo.
Esempi di forze di volume sono la forza di gravità e le forze elettromagnetiche; esempi di forze
di superficie sono la pressione idrostatica in un fluido, le forze di attrito e, più in generale, le
forze di contatto fra due corpi. La risultante delle forze di volume sarà descritta da
Z
Fvol = f (r, t) dV
B(t)

dove f è detta densità di forza di volume. La risultante delle forze di superficie è descritta da
un integrale esteso alla superficie ∂B(t) che racchiude il corpo:
I
Fsup = T(n; r, t) dS
∂B(t)
1.7. IL TENSORE DI SFORZO 21

dove n è la normale esterna sull’elemento di superficie dS.


La forza risultante è quindi:
Z I
F= f (r, t) dV + T(n; r, t) dS (1.38)
B(t) ∂B(t)

Analogamente, si ha, per il momento risultante delle forze:


Z I
M= r × f dV + r × T(n) dS (1.39)
B(t) ∂B(t)

Questo risultato tuttavia è incompleto perché possono esistere coppie di forze, con risultante f
nulla, che generano momenti di forza m per unità di volume: ad esempio, un dipolo magnetico
elementare in presenza di un campo di induzione magnetica B uniforme è soggetto ad un mo-
mento di forza M = µ × B dove µ è il momento magnetico del dipolo. Il momento magnetico
per unità di volume è detto magnetizzazione, che indichiamo con il simbolo J (di solito si indica
con M ma questo simbolo lo stiamo usando per indicare il momento risultante delle forze). Il
momento di forza per unità di volume dovuto alla magnetizzazione è

m = J × B. (1.40)

Quindi l’espressione più generale del momento di forza è la seguente:


Z Z I
M= m dV + r × f dV + r × T(n) dS (1.41)
B(t) B(t) ∂B(t)

1.7.2 Formula di Cauchy


Utilizziamo le equazioni del moto per dimostrare che la trazione T(+) , che il materiale posto sulla
faccia positiva di ∆S esercita sul materiale posto sulla faccia negativa, è opposta alla trazione
T(−) che il materiale sulla faccia negativa esercita sulla faccia positiva:

T(+) = −T(−) (1.42)

T (+)
∆S

δ
T (-)
Figura 1.7: Equilibrio di un cilindretto che racchiude la superficie ∆S.

Questa relazione, ricorda il terzo principio della dinamica (la risultante delle forze che un
corpo A esercita su un corpo B è opposta alla risultante delle forze che B esercita su A) ma
22 CAPITOLO 1. MECCANICA DEI CONTINUI

si riferisce alle sole forze di superficie. Per dimostrare la precedente relazione consideriamo un
cilindro schiacciato con due superfici parallele a ∆S come basi, poste rispettivamente all’esterno
e all’interno di ∆S, distanti fra loro δ. Mandando a zero δ, mentre ∆S rimane piccolo ma finito,
le forze di volume e la quantità di moto vanno a zero, e cosı̀ pure le forze di superficie sulle pareti
laterali del cilindro; restano solo le trazioni sulle due basi

T(+) ∆S + T(−) ∆S = 0

da cui segue immediatamente la (1.42)


Un modo molto istruttivo di descrivere questo risultato è che la trazione è una funzione
della normale alla superficie, che cambia segno se si cambia segno alla normale (cambiare segno
alla normale infatti significa scambiare i ruoli fra materiale esterno e materiale interno alla
superficie).
Dimostriamo ora la formula di Cauchy: note le componenti τki (trazioni sulle facce coordi-
nate), la trazione Ti (n̂) su una generica superficie dS con normale n̂ è data da

Ti (n̂) = nk τki (1.43)

Per dimostrare la precedente relazione consideriamo un piccolo tetraedro delimitato da una


superficie obliqua dS, orientata con normale n̂, e dalle superfici coordinate dS1, dS2, dS3 con
normali −ê(1) , −ê(2), −ê(3) rispettivamente (figura 1.8). Sia h l’altezza del tetraedro rispetto
alla base dS: il volume del tetraedro è dV = 13 h dS. Eguagliando la derivata della quantità di
moto alla risultante delle forze in direzione di x1 otteniamo

ρv̇1 dV = f1 dV + T1(n)dS − τ11 dS1 − τ21 dS2 − τ31 dS3

È inoltre dS1 = dS cos(n̂, ê(1)), dS2 = dS cos(n̂, ê(2)), dS3 = dS cos(n̂, ê(3)) e quindi dS1 =
dS n1 , dS2 = dS n2 , dS3 = dS n3 . Dividendo per dS si ottiene quindi
1 1
hρv̇i = hf1 + T1 (n̂) − τ11 n1 − τ21 n2 − τ31 n3
3 3
e quindi, mandando h a zero, si ottiene la formula di Cauchy (1.43) per la componente 1:

T1(n̂) = τ11 n1 + τ21 n2 + τ31 n3

Analogamente si dimostrano le formule per le componenti 2 e 3.


Dato che la contrazione di τki con un vettore nk di direzione arbitraria fornisce un vettore
Ti , per la regola del quoziente τki è un tensore di rango 2, detto tensore di sforzo (stress).

1.7.3 Sforzi principali e assi principali, pressione media e sforzo deviatorico


Anticipiamo ora un importante risultato che dimostreremo nel paragrafo 1.8.3: il tensore di
sforzo è simmetrico (tranne che in materiali fortemente magnetizzati). Valgono quindi per il
tensore di sforzo proprietà analoghe a quelle già descritte per il tensore di deformazione nel
paragrafo 1.6:

• τij ammette tre autovalori reali, τ1 , τ2, τ3, detti “sforzi principali”.
1.7. IL TENSORE DI SFORZO 23

dS T(n)
dS 2
x3 n
τ21 τ12 τ11
τ22
τ13 dS 1
τ23 τ 31
τ32
τ33 dS 3
x2

x1
Figura 1.8: Trazioni sulle superfici di un tetraedro.

• Gli autovettori corrispondenti ad autovalori distinti sono ortogonali fra loro; le loro di-
rezioni sono denominate “direzioni principali”.
• Impiegando gli autovettori come base, τij è diagonale; se gli autovettori sono normalizzati
ad 1, gli elementi diagonali di τij coincidono con gli autovalori.
• È sempre mink τk ||x||2 ≤ τij xi xj ≤ maxk τk ||x||2, qualunque sia il vettore x. In particolare,
se x = n̂ (normale unitaria ad una superficie ∆S), abbiamo che la trazione normale a ∆S
T · n̂ = τji nj ni è sempre compresa fra lo sforzo principale massimo e minimo.
Risulta spesso conveniente decomporre il tensore di sforzo in una componente isotropa, e una
componente deviatorica τij0 analogamente a quanto descritto nel paragrafo 1.5.2 per il tensore di
deformazione:
1 1
τij = τkk δij + τij0 =⇒ τij0 = τij − τkk δij (1.44)
3 3
È evidente che τij0 ha traccia nulla. Inoltre, dato che il tensore identità (o il suo multiplo 13 τkk δij ,
come nel presente caso) è diagonale in qualunque sistema di riferimento, gli assi principali per
lo stress deviatorico coincidono con quelli di τij , mentre i suoi autovalori differiscono da quelli
di τij per un termine scalare additivo:
1 1 1
τ10 = τ1 − τkk , τ20 = τ2 − τkk , τ30 = τ3 − τkk .
3 3 3
La decomposizione in componente isotropa e deviatorica può risultare spesso utile per semplifi-
care i calcoli di autovettori e autovalori del tensore di sforzo.
Si definisce “pressione media” p̄ il valor medio degli sforzi principali, cambiato di segno:
1
p̄ = − τkk
3
24 CAPITOLO 1. MECCANICA DEI CONTINUI

In un fluido in equilibrio statico, la pressione media cosı̀ definita coincide con la pressione
termodinamica, che è l’unica forza di superficie presente in quel caso; tuttavia in un fluido in
movimento differenziale o in un solido deformabile esistono altre forze di superficie che sono
descritte dalla componente deviatorica di sforzo.

1.7.4 Sforzo di taglio massimo.


Abbiamo visto nel paragrafo precedente che gli sforzi normali minimo e massimo sono applicati
sulle superfici principali relative agli autovalori minimo e massimo. Vediamo ora invece su
quali superfici sono presenti gli sforzi di taglio minimo e massimo: la trazione Ti (n̂) su una
generica superficie con normale n̂ è Ti = τji nj ; la componente normale alla superficie è Ni(n̂) =
ni (nk τjk nj ) e quindi la componente di shear parallela alla supeficie può scriversi Si (n̂) = τji nj −
(nk τjk nj )ni . Per quale orientamento di n̂ la trazione di taglio Si ha modulo massimo ? Dato
che Si e Ni sono fra loro perpendicolari, abbiamo

Si2 = Ti2 − Ni2 .

Nel sistema degli assi principali si ha Ti2 = τ12 n21 +τ22 n22 +τ32 n23 mentre Ni2 = [τ1 n21 +τ2 n22 +τ3 n23 ]2.
Notato che n21 − n41 = n21 [1 − n21 ] = n21 [n22 + n23 ] otteniamo

S 2 = Si Si = n21 n22 (τ1 − τ2)2 + n22 n23 (τ2 − τ3 )2 + n23 n21 (τ3 − τ1)2 . (1.45)

Da questa espressione è possibile dimostrare che lo shear massimo vale

1
Smax = (τmax − τmin ) (1.46)
2

e il piano su cui agisce Smax fa un angolo di 45◦ fra gli assi principali massimo e minimo e
contiene l’asse intermedio (chiaramente, ci sono 2 piani fra loro perpendicolari che soddisfano
tali requisiti).
Il lettore non interessato alla dimostrazione può passare al paragrafo successivo.
La dimostrazione del precedente risultato può procedere come segue: scriviamo le componenti
di n nel seguente modo

 n1 = sin θ cos φ
n = sin θ sin φ 0 ≤ θ ≤ π, −π ≤ φ < π.
 2
n3 = cos θ

e cerchiamo il massimo della (1.45) al variare di θ e φ; posto A = (τ1 − τ2 )2 , B = (τ2 − τ3 )2, C =


(τ3 − τ1)2 , si trova

S2 = A sin4 θ cos2 φ sin2 φ + B sin2 θ cos2 θ sin2 φ + C sin2 θ cos2 θ cos2 φ


= 14 A sin4 θ sin2 2φ + 14 B sin2 2θ sin2 φ + 14 C sin2 2θ cos2 φ
∂S 2
∂θ = A sin3 θ cos θ sin2 2φ + B sin 2θ cos 2θ sin2 φ + C sin 2θ cos 2θ cos2 φ = 0
∂S 2

∂φ = sin 2φ sin2 θ A sin2 θ cos 2φ + (B − C) cos2 θ = 0

La derivata rispetto a φ si annulla ∀θ per φ = 0, ± π2 , ±π e ∀φ per θ = 0; inoltre il termine fra


parentesi si annulla per φ = ± π4 , ± 34 π, θ = π2 . Se φ = 0, ±π la derivata rispetto a θ si annulla
1.8. DERIVATA DI UNA GRANDEZZA ADDITIVA 25

se θ = 0, π4 , π2 e S 2 vale rispettivamente 0, C4 , 0. Se φ = ± π2 , la derivata rispetto a θ si annulla


per θ = 0, π4 , π2 e S 2 vale rispettivamente 0, B4 , 0. Se φ = ± π4 , θ = π2 , si annulla anche la derivata
rispetto a θ e S 2 assume il valore A4 .
Supposto,
√ per fissare le idee, che sia τ1 ≤ τ2 ≤ τ3 risulta in definitiva che il massimo valore
Smax è C/2 = 12 (τ3 − τ1) e il piano su cui agisce ha normale lungo θ = π/4, φ = 0, oppure
θ = π/4, φ = ±π orientate perpendicolarmente all’asse n̂(2) lungo le bisettrici dei quadranti nel
piano n̂(1), n̂(3).

1.8 Derivata di una grandezza additiva


Ci siamo già imbattuti nel paragrafo 1.7.1 in integrali di funzioni, dipendenti dalle variabili
spaziali e temporali, su domini B(t) dipendenti dal tempo. Consideriamo una generica grandezza
additiva A data dall’integrale di una densità a(x, t) per unità di volume
Z
A(t) = a(x, t) dV (1.47)
B(t)

Come si calcola la derivata di un tale integrale ? Costruiamo il rapporto incrementale


(Z Z )
∆A 1
= a(x, t + ∆t) dV − a(x, t) dV
∆t ∆t B(t+∆t) B(t)

e sia B̄ = B(t + ∆t) ∩ B(t), B1 = B(t) − B(t + ∆t), B2 = B(t + ∆t) − B(t). È evidente dalla

B1 B B2
v(t)∆t
dS 1 dS 2
v(t+∆t)∆t
B(t) B(t+∆t)
Figura 1.9: Domini impiegati nel calcolo della derivata temporale di una grandezza additiva.

figura 1.9 che gli elementi di volume di B1 e B2 possono essere scritti dV1 = dS1(−v · n̂)∆t e
dV2 = dS2 (v · n̂)∆t, dove n̂ è la normale esterna sulla superficie che racchiude B(t). Otteniamo
quindi
Z Z Z
∆A [a(x, t + ∆t) − a(x, t)]
= dV + a(x, t + ∆t)(v · n̂) dS2 − a(x, t)(−v · n̂) dS1
∆t B̄ ∆t S2 S1

e, al limite per ∆t → 0
Z I
DA ∂a(x, t)
= dV + a(x, t)v · n̂ dS (1.48)
Dt B(t) ∂t ∂B(t)
26 CAPITOLO 1. MECCANICA DEI CONTINUI

dove av rappresenta il flusso della grandezza A (ovvero la quantità di A trasportata attraverso


l’unità di superficie nell’unità di tempo). Impiegando il teorema della divergenza di Gauss si ha
infine
Z  
DA ∂a(x, t)
= + ∇ · [a(x, t)v] dV (1.49)
Dt B(t) ∂t
d ∂
Svolgendo la divergenza di av e utilizzando la derivata materiale dt = ∂t + v · ∇(), possiamo
riscrivere la (1.49) nella forma
Z  
DA da(x, t)
= + a(x, t)∇ · v dV (1.50)
Dt B(t) dt

1.8.1 L’equazione di continuità


La massa di un corpo o di una sua porzione materiale racchiusa entro un volume B(t) può
scriversi nella forma (1.47): Z
M= ρ(x, t) dV
B(t)
La legge di conservazione della massa è quindi
DM
=0
Dt
e quindi, applicando il risultato (1.49), otteniamo
Z  
∂ρ
+ ∇ · (ρv) dV = 0
B(t) ∂t
Per l’arbitrarietà del volume B(t) deve essere nullo l’integrando e otteniamo quindi l’equazione
di continuità in una delle due forme:
∂ρ dρ
+ ∇ · (ρv) = 0 oppure + ρ∇ · v = 0 (1.51)
∂t dt
Diverse proprietà materiali, come la quantità di moto o l’energia cinetica, sono descritte da
integrali in cui compare a fattore la densità. Consideriamo una generica grandezza di questo
tipo: Z
Γ(t) = ρ(x, t)γ(x, t) dV
B(t)
dove γ(x, t) rappresenta la proprietà Γ riferita all’unità di massa, e calcoliamone la derivata
materiale utilizzando la (1.49). otteniamo
Z  
DΓ ∂ρ ∂γ
= γ+ ρ + γ∇ · (ρv) + (ρv · ∇)γ dV
Dt B(t) ∂t ∂t
Il primo ed il terzo termine si annullano, per l’equazione di continuità, e quindi otteniamo
Z
DΓ dγ
= ρ dV (1.52)
Dt B(t) dt

Questo risultato tiene conto automaticamente della equazione di continuità e consente di sem-
plificare notevolmente alcuni passaggi algebrici.
1.8. DERIVATA DI UNA GRANDEZZA ADDITIVA 27

1.8.2 L’equazione del moto


L’equazione del moto per un continuo può essere scritta
Z I
Ṗi = fi dV + Ti (n̂) dS (1.53)
B(t) ∂B(t)

dove Pi è la componente i-esima della quantità di moto


Z
Pi = ρvi dV
B(t)

Utilizzando il risultato (1.52) per il calcolo di Ṗi e la formula di Cauchy Ti = τki nk si ha


Z Z I
dvi
ρ dV = fi dV + τki nk dS
B(t) dt B(t) ∂B(t)

Infine, impiegando il teorema di Gauss della divergenza, e raccogliendo tutti i termini sotto lo
stesso segno di integrale, si ha
Z  
dvi ∂τki
ρ − fi − dV = 0
B(t) dt ∂xk

Per l’arbitrarietà del dominio B(t) possiamo concludere che deve essere nullo l’integrando.
Otteniamo cosı̀ l’equazione del moto in forma differenziale per i materiali continui

dvi ∂τki
ρ = fi + (1.54)
dt ∂xk

1.8.3 L’equazione del momento angolare


L’equazione del momento angolare (1.37) dice che
Z Z I
Ḣi = mi dV + eijk xj fk dV + eijk xj Tk (n̂) dS (1.55)
B(t) B(t) ∂B(t)

dove abbiamo utilizzato la (1.41) per scrivere il momento delle forze e abbiamo scritto i prodotti
vettoriali in formalismo tensoriale, tramite il tensore di Ricci eijk e dove Hi è la componente
i-esima del momento angolare, Z
Hi = ρeijk xj vk dV
B(t)

Utilizzando la (1.52) per calcolare la derivata di Hi otteniamo


Z Z   Z  
d(xj vk ) ∂vk ∂(xj vk ) dvk
Ḣi = ρ eijk dV = ρ eijk xj + v` dV = ρ eijk xj + v` vk δj` dV
B dt B ∂t ∂x` B dt

Ma eijk v` vk δj` = eijk vj vk = 0 per l’antisimmetria di eijk nello scambio degli indici ij. Pertanto
Z  
dvk
Ḣi = ρ eijk xj dV
B dt
28 CAPITOLO 1. MECCANICA DEI CONTINUI

inserendo la precedente espressione nella (1.55) e riscrivendo il momento delle forze di superficie
tramite la formula di Cauchy ed il teorema di Gauss, otteniamo
Z Z Z Z
dvk ∂(xj τ`k )
eijk xj ρ = mi dV + eijk xj fk dV + eijk dV
B dt B B B ∂x`
e, raccogliendo sotto la stesso segno di integrale
Z    
dvk ∂τ`k
eijk xj ρ − fk − − mi − eijk τjk dV = 0
B dt ∂x`
Ma i termini fra parentesi quadre si annullano per l’equazione del moto e quindi, sfruttando
l’arbitrarietà del volume B resta
eijk τjk + mi = 0 =⇒ eijk [τjk + Jj Bk ] = 0 (1.56)
dove abbiamo supposto che m sia dovuto alla magnetizzazione della materia, come nella eq.
(1.40). In presenza di magnetizzazione abbiamo
τjk − τkj = −[Jj Bk − Jk Bj ]
Se il materiale è magneticamente isotropo risulta Ji = χBi , dove χ è la suscettività magnetica;
in tal caso il secondo membro della precedente espressione è nullo e quindi abbiamo
eijk τjk = 0 =⇒ τjk = τkj (1.57)
cioè l’equazione del momento angolare richiede che il tensore di sforzo sia simmetrico.
[NOTA: se abbiamo un materiale anisotropo o ferromagnetico Ji non è più parallelo a Bi e quindi il tensore di
sforzo non è simmetrico: tuttavia, considerando la magnetizzazione massima tipica delle rocce (J ∼ 10 Am−1 ) e
il valore del campo magnetico terrestre (B ∼ 5 · 10−5 T), la parte non simmetrica di τij è trascurabile in geofisica
a tutti gli effetti pratici].

1.8.4 L’equazione dell’energia


Il moto di un continuo deve soddisfare alla legge di conservazione dell’energia. Se la sola forma
di energia presente è quella meccanica, allora l’equazione dell’energia si ottiene semplicemente
integrando l’equazione del moto. Il lavoro fatto per unità di tempo da tutte le forze agenti sul
volume B si scrive: Z I
L̇ = fi vi dV + Ti(n̂) vi dS.
B ∂B
Utilizzando la formula di Cauchy e il teorema di Gauss otteniamo
Z Z Z    
∂(τjivi ) ∂τji
L̇ = fi vi dV + dV = vi fi + + τji ˙ji dV
B B ∂xj B ∂xj
dove  
1 ∂vi ∂vj
˙ji = +
2 ∂xj ∂xi
è il tensore tasso di deformazione (strain rate) e abbiamo sfruttato la simmetria di τji . Utiliz-
zando l’equazione del moto possiamo quindi scrivere
Z   Z  
dvi 1 dv 2 dij
L̇ = vi ρ + τji ˙ji dV = ρ + τij dV (1.58)
B dt B 2 dt dt
1.9. TERMODINAMICA DEI CONTINUI 29

Lavoro delle forze di superficie e lavoro di deformazione

Per chiarire ulteriormente il ruolo delle forze di superficie nei processi deformativi, consideriamo
l’equazione del moto (1.54)
dvi ∂τji
ρ = fi +
dt ∂xj

e moltiplichiamo per vi (contraendo sull’indice i); otteniamo facilmente

d( 12 v 2) ∂τji
ρ = f i vi + v i
dt ∂xj

che ci dice che l’energia cinetica (per unità di volume) aumenta per effetto del lavoro delle forze
∂τ
di volume e per effetto delle forze di superficie. Tuttavia il termine vi ∂xjij è solo una parte del
lavoro compiuto dalle forze di superficie per unità di tempo e di volume che, come abbiamo visto
nel precedente paragrafo, è dato da

∂(viτji ) ∂τji ∂vi


lavoro complessivo (per unità di t e V ) delle forze di superficie = = vi + τij
∂xj ∂xj ∂xj

Il primo termine rappresenta il lavoro delle forze di superficie speso per incrementare l’energia
cinetica, il secondo rappresenta il lavoro speso per incrementare la deformazione del materiale:

∂vi
lavoro (per unità di t e V ) speso in deformazione = τij = τij ˙ij (1.59)
∂xj

1.9 Termodinamica dei continui


Le precedenti espressioni tengono conto solo dell’energia meccanica. Tuttavia nei processi di
deformazione è generalmente coinvolta anche l’energia termica: basti pensare alla dilatazione
termica di una sostanza: le dimensioni geometriche di un corpo aumentano (generalmente) per
effetto di un incremento di temperatura. Prima di procedere diamo un breve richiamo dei
concetti fondamentali della termodinamica, generalizzandoli ad un generico mezzo continuo. La
termodinamica classica studia gli stati di equilibrio di un sistema fisico macroscopico, le cui
proprietà sono considerate uniformi nello spazio e nel tempo.

Temperatura empirica

Il primo passo nella formulazione della termodinamica è l’introduzione del concetto di tempera-
tura. Si assume il seguente postulato: se un sistema A è in equilibrio termico con un sistema B e
B è in equilibrio con un terzo sistema C allora anche A è in equilibrio con C. Da ciò segue che la
condizione di equilibrio termico fra diversi sistemi può essere espressa tramite l’uguaglianza di
una funzione ad un sol valore degli stati termodinamici dei sistemi: questa funzione può essere
chiamata temperatura empirica T : uno qualunque di detti sistemi (ad esempio l’altezza di una
colonnina di mercurio) può essere usato come termometro per leggere la temperatura T su una
scala graduata opportuna.
30 CAPITOLO 1. MECCANICA DEI CONTINUI

Variabili di stato
Come è noto, descrivere lo stato di un sistema macroscopico sulla base della dinamica di ciascuna
delle sue innumerevoli molecole è compito praticamente impossibile ma anche inutile per molte
applicazioni. In queste applicazioni, quello che conta è definire lo stato macroscopico del sistema
tramite pochi parametri che rappresentano le proprietà globali del sistema stesso, utili ad un
certo scopo; in un fluido, queste grandezze possono essere, ad esempio, la temperatura empirica
T , misurata (per esempio) tramite la colonnina di un termometro a mercurio, la pressione p e
il volume specifico V (ovvero la densità ρ = 1/V ), le concentrazioni Ci , i = 1, . . . , n di ciascuna
sostanza chimica presente.
Più in generale, per definire la configurazione di equilibrio e geometrica di un materiale
continuo, è necessario conoscere la configurazione di riferimento del corpo, i tensori di sforzo τij
e di deformazione ij , che generalizzano il ruolo di p e V .
Una volta individuati i parametri che caratterizzano in modo esauriente il sistema per un
particolare scopo, si dice che lo stato termodinamico del sistema è noto e i parametri che lo
descrivono sono detti variabili di stato. Da quanto precede si comprende che la scelta delle
variabili di stato idonee per un particolare problema può essere, fino a un certo punto, arbitraria.

Equazione di stato
Se una variabile di stato può essere espressa come funzione ad un sol valore delle altre variabili
di stato, questa relazione funzionale è detta equazione di stato e la variabile cosı̀ descritta si
chiama funzione di stato.
Per trasformazioni termodinamiche di piccola entità, l’equazione di stato può essere scritta
nel modo seguente, nel caso che si utilizzino le variabili termodinamiche p, V, T :
   
∂V ∂V
∆V = ∆p + ∆T
∂p T ∂T p

ovvero
∆V ∆p
=− + α∆T (1.60)
V KT

dove KT è la incompressibilità (isoterma) e α è il coefficiente di espansione termica:


   
∂p 1 ∂V
KT = −V , α= (1.61)
∂V T V ∂T p

(il motivo del segno meno nella definizione di KT è che un incremento di pressione è sempre
associato ad una diminuzione di volume).

Processi termodinamici
Se in un dato sistema i valori delle variabili di stato sono indipendenti dal tempo, il sistema è
detto in equilibrio termodinamico. I risultati della termodinamica restano validi anche in una
sostanza in moto a patto che le variazioni delle grandezze termodinamiche nel corso del moto
siano lente rispetto ad un tempo di rilassamento, definito come il tempo che il materiale impiega
per assestarsi in una nuova configurazione, per effetto delle collisioni molecolari. In condizioni
1.10. PRINCIPI DELLA TERMODINAMICA 31

ordinarie, sono sufficienti poche collisioni per raggiungere un nuovo stato di equilibrio e quindi
il tempo di rilassamento è molto breve.
Se i valori delle variabili di stato cambiano nel tempo si dice che il sistema è soggetto ad un
processo termodinamico (o trasformazione termodinamica).
La parete che separa due sistemi termodinamici è detta isolante se essa ha la seguente
proprietà: un sistema in equilibrio interno è circondato da una parete isolante se non si può
indurre nel sistema nessuna variazione dall’esterno se non tramite spostamento della parete o
tramite forze a lungo range (come la gravità). Un sistema racchiuso fra pareti isolanti è detto
termicamente isolato e ogni processo che avviene al suo interno è detto adiabatico.

1.10 Principi della Termodinamica


Le leggi della termodinamica sono leggi empiriche, basate sulla definizione di alcune grandezze
fondamentali: la prima legge può essere considerata come la definizione dell’energia interna, la
seconda come definizione dell’entropia e della temperatura assoluta di un sistema. Riassumiamo
nei prossimi paragrafi queste due leggi, seguendo l’approccio assiomatico di Born e Prigogine, i
quali assumono che esistano certe variabili di stato (l’energia interna, la temperatura assoluta
e l’entropia, appunto) dotate di certe proprietà. La validità di queste leggi risiede nel fatto che
tutte le deduzioni che possiamo estrarne risultano in accordo con le evidenze sperimentali.

1.10.1 Il primo principio


Il primo principio della Termodinamica può essere formulato come segue. Se un sistema termi-
camente isolato può essere portato da uno stato I ad uno stato II tramite percorsi alternativi,
il lavoro ∆L fatto sul sistema ha lo stesso valore per ciascuno di questi percorsi (adiabatici).
Quindi, esiste una funzione di stato W ad un sol valore, detta energia tale che l’incremento di
energia ∆W è uguale al lavoro fatto sul sistema lungo un qualunque percorso adiabatico:

∆W = ∆L (processo adiabatico) (1.62)

Sottolineiamo che ∆L è il lavoro fatto sul sistema. Ai fini di questa definizione di energia, è
necessario e sufficiente che si possa, tramite un processo adiabatico, portare il sistema dallo stato
I allo stato II (o viceversa).
Definiamo ora il calore ∆Q assorbito da un sistema come differenza fra l’incremento di
energia e il lavoro fatto sul sistema in un processo qualsiasi (non adiabatico):

∆Q = ∆W − ∆L (processo qualsiasi) (1.63)

ovvero
∆W = ∆Q + ∆L (1.64)

Questa definizione può essere interpretata come un enunciato del principio di conservazione
dell’energia: se confrontata con la (1.62), possiamo dire che l’energia di un sistema può essere
incrementata tramite lavoro fatto sul sistema o fornendo calore al sistema. Il calore ∆Q ed il
lavoro ∆L sono forme di energia in transizione attraverso le pareti del sistema, mentre ∆W è
residente all’interno del sistema. È consuetudine distinguere due diversi contributi all’energia
32 CAPITOLO 1. MECCANICA DEI CONTINUI

totale: l’energia cinetica K, e l’energia interna E, sicché l’eq. (1.64) può scriversi

∆Q + ∆L = ∆K + ∆E (1.65)

(da notare che l’energia potenziale, per es. gravitazionale, è inclusa nel termine di lavoro ef-
fettuato dalle forze di volume). In altri termini, considerando una trasformazione infinitesima,
δQ e δL dipendono dal processo (o percorso) seguito per passare da uno stato all’altro, mentre
dE dipende solo dallo stato iniziale e finale (dE è un differenziale esatto). Pertanto E è una
funzione di stato. La (1.65) può essere considerata come la definizione dell’energia interna.
Come abbiamo visto nel paragrafo precedente, il lavoro ∆L è compiuto da tutte le forze che
agiscono sul sistema: dalle forze di volume (forze a lungo range, come la gravità) oppure dalle
forze di superficie (forze di contatto, come la pressione o gli sforzi di taglio). Se lo sforzo è dato
da una semplice pressione idrostatica τij = −pδRij , il lavoro speso per deformare l’unità di volume
(1.59) assume l’espressione ben nota ∆L = − p∆kk dV = −p∆V (se p e kk sono costanti).
In base alla definizione (1.63), l’unità di misura del calore nel sistema SI è il Joule [J].
Storicamente il calore era (e spesso, nelle applicazioni, è ancora) misurato in calorie [cal]: una
caloria è definita come la quantità di calore che occorre fornire ad 1 grammo di acqua distillata
a pressione di 1 atmosfera, per innalzare la sua temperatura da 14.5 a 15.5 ◦ C. Nel sistema SI
si definisce la kilocaloria [kcal] come il calore necessario per innalzare di 1 grado la temperatura
di un kg di acqua. Sperimentalmente si trova

1 kcal = 4.186 kJ (equivalente meccanico della caloria)

1 kJ = 0.2388 kcal (equivalente termico del Joule)

1.10.2 Seconda legge della termodinamica


Formuliamo ora la seconda legge della termodinamica per un sistema omogeneo nel modo
seguente. Esistono due funzioni di stato ad un sol valore, T , detta temperatura assoluta, e
S detta entropia, con le seguenti proprietà:
1. T è un numero positivo che è funzione della temperatura empirica T solamente.

2. L’entropia è una grandezza additiva (l’entropia di un sistema composto da più porzioni è


data dalla somma delle entropie delle singole porzioni).

3. L’entropia di un sistema può cambiare in due modi: per interazione con l’esterno e per
processi interni al sistema. Simbolicamente possiamo scrivere dS = δe S + δi S. Allora, se
δQ rappresenta il calore che il sistema assorbe dall’esterno, abbiamo

δQ
δe S = (1.66)
T

La variazione δi S non è mai negativa. Se δi S è nullo, il processo è detto reversibile, se δi S


è positivo, il processo è detto irreversibile. Quindi possiamo definire l’entropia tramite la
seguente relazione:
δQ
dS = (in un processo reversibile). (1.67)
T
1.11. TERMODINAMICA DI UN MATERIALE CONTINUO 33

La temperatura assoluta T e l’entropia S sono due grandezze primitive: non tenteremo di definir-
le tramite altre grandezze considerate più semplici. Esse vanno considerate come definite tramite
le loro proprietà, espresse nella seconda legge della termodinamica. Lord Kelvin ha mostrato
come è possibile calibrare un qualunque termometro nella scala di temperatura assoluta. La
scala della Temperatura assoluta è definita utilizzando il punto triplo dell’acqua. L’unità del-
la scala assoluta è definita come 1/273.16 dell’intervallo tra lo zero assoluto e la temperatura
termodinamica del punto triplo dell’acqua. La temperatura di equilibrio fra acqua liquida e
ghiaccio alla pressione di 1 atmosfera è 273.15 K, ovvero 0◦C.
L’entropia è un attributo di un corpo materiale, come la sua massa o la sua carica elettrica:
un kg di ossigeno a pressione e temperatura assegnata possiede una quantità definita di entropia,
che può essere variata cambiando la temperatura o la densità del gas; un kg di acciaio ad una
assegnata temperatura e in un assegnato stato di deformazione possiede una quantità definita
di entropia.
Il primo e secondo principio sono postulati che formano la base della Termodinamica clas-
sica e la loro giustificazione sta nel fatto che tutte le conclusioni dedotte da queste assunzioni
si trovano sistematicamente in accordo con il comportamento sperimentale macroscopico dei
sistemi naturali.

1.11 Termodinamica di un materiale continuo


Per un continuo, l’energia interna può essere scritta in termini di una densità di energia per
unità di massa E Z
E= ρE dV (1.68)
B

Il calore scambiato per conduzione attraverso le pareti del corpo può essere scritto tramite il
flusso di calore hi che descrive il calore che attraversa l’unità di superficie nell’unità di tempo
tramite la legge di Fourier

∂T
hi = −k ovvero h = −k∇T
∂xi

dove k è la conducibilità termica. Il calore fornito al corpo nell’unità di tempo si può scrivere
quindi I Z Z
∂hi
Q̇ = − hi ni dA = − dV = Q̇ dV (1.69)
∂B B ∂xi B

dove Q̇ = −∇ · h rappresenta il calore fornito all’unità di volume della sostanza per unità di
tempo. Dato che siamo in grado di scrivere L̇ e Q̇ in forma semplice, conviene considerare la
derivata rispetto al tempo della (1.65)

L̇ + Q̇ = Ė + K̇. (1.70)

Inserendo le espressioni (1.58, 1.68, 1.69) nella precedente relazione ed utilizzando la regola
(1.52) otteniamo
1 dv 2 ∂hi dE 1 dv 2
ρ + τij ˙ij − −ρ − ρ =0
2 dt ∂xi dt 2 dt
34 CAPITOLO 1. MECCANICA DEI CONTINUI

e quindi
dE ∂hi
ρ =− + τij ˙ij (1.71)
dt dxi
Riprendendo in considerazione l’equazione dell’energia (1.59) vediamo quindi che solo il lavoro di
deformazione contribuisce ad incrementare l’energia interna del materiale. Considerando piccoli
incrementi delle grandezze termodinamiche, nell’intervallo di tempo dt, possiamo scrivere

ρ dE = δQ + τij dij (1.72)

dove δQ rappresenta il calore fornito all’unità di volume della sostanza nel tempo dt.
Per un continuo, possiamo definire l’entropia come
Z
S= ρS dV
B

dove S è l’entropia specifica (entropia per unità di massa). Riscrivendo la (1.66) tramite le
espressioni integrali date sopra abbiamo, in un processo reversibile,
Z  
dS ∂hi
ρT + dV = 0
B dt ∂xi
e quindi, con la notazione già impiegata:

δQ = ρT dS (1.73)

Pertanto possiamo riscrivere la (1.72), in un processo reversibile, nel seguente modo

1
dE = T dS + τij dij (1.74)
ρ

Esercizi

Esercizio 1. Mostrare, in base alla definizione di tensore (1.25) che il simbolo di Kronecker δij è
un tensore con elementi di matrice invarianti per rotazioni. Analogamente mostrare che il simbolo di
permutazione è un tensore con elementi di matrice invarianti per trasformazioni proprie.

Esercizio 2. Mostrare che, se Tij , i, j = 1, 2, 3 è un tensore, la seguente espressione, data dalla somma
dei complementi algebrici degli elementi diagonali, è invariante (cioè è uno scalare):
J2 = (T22T33 − T23 T32) + (T11 T33 − T13T31 ) + (T11 T22 − T12 T21)

[Suggerimento: Riscrivere J2 tramite I1 = Tkk e I2 = Tij Tji, che sono chiaramente invarianti per il
teorema di contrazione ].
Esercizio 3. Impiegando la notazione indiciale, mostrare che valgono le seguenti identità (φ è un campo
scalare, A e B sono campi vettoriali) :
∇ · (φA) = φ∇ · A + A · ∇φ
∇ × (φA) = ∇φ × A + φ∇ × A
∇ × (A × B) = A(∇ · B) − B(∇ · A) + (B · ∇)A − (A · ∇)B
1.11. TERMODINAMICA DI UN MATERIALE CONTINUO 35

Esercizio 4. Ricavare la relazione


1∂ 1 ∂Aθ ∂Az
∇·A = (rAr ) + +
r ∂r r ∂θ ∂z
per la divergenza di un campo vettoriale in coordinate cilindriche utilizzando il teorema di Gauss per
un volumetto infinitesimo dV = dr rdθ dz delimitato dalle superfici dSθ± di area dr dz orientate nelle
direzioni −êθ e êθ+dθ , dalle superfici dSr− = rdθ dz orientata lungo −êr e dSr+ = (r + dr)dθ dz lungo êr
e le superfici dSz± = rdθ dr orientate lungo ±êz .

Esercizio 5. Mostrare che in un problema 2-dimensionale le deformazioni principali (autovalori del


tensore di deformazione ij , i, j = 1, 2) sono invarianti. [Suggerimento: mostrare che i coefficienti
dell’equazione secolare possono essere scritti tramite gli invarianti kk = 11 +22 e ij ji = 211 +2212+222].

Esercizio 6. Dati due punti di coordinate P = (0, 0) e Q = (30, 10) (coordinate in km) nel piano xy,
calcolare la variazione della loro distanza per effetto di una deformazione descritta dal seguente tensore
(2-D): xx = 10−6, xy = yx = 3 · 10−6, yy = −10−6.

Esercizio 7. Consideriamo tre punti con coordinate (in km) P = (0, 0), Q = (10, 0) km e R = (0, 20) km
nel piano orizzontale xy; dette `1 , `2 ed `3 le distanze P Q, P R, QR, un processo deformativo provoca
variazioni δ`1 = 4 cm, δ`2 = 0 cm, δ`3 = 2 cm. Determinare le componenti xx , xy , yx, yy del tensore
bidimensionale di deformazione nel piano xy.

Esercizio 8. Determinare assi principali e valori principali del seguente tensore di deformazione nel
piano xy:
1 1
ij = 10 −6
×
1 1
In che direzioni si avranno gli allungamenti/accorciamenti relativi massimi e minimi?

Esercizio 9. Consideriamo una deformazione descritta dalla seguente matrice



0 3 0

ij = 10 × 3
−6
0 4
0 4 0

Trovare le direzioni di allungamento e accorciamento massimi, fornendo le direzioni angolari φ, θ in


coordinate polari sferiche.

Esercizio 10. Consideriamo una semicirconferenza di raggio R nel piano x1, x2: nella configurazione
di riferimento (non deformata) un elemento di linea si può scrivere d`0 = R dθ. Calcolare la lunghezza
della semicirconferenza dopo una deformazione infinitesima descritta da un tensore (in 2 dimensioni)
ij , (i, j = 1, 2) con elementi costanti. [Suggerimento: calcolare dapprima la lunghezza d` dell’elemento
di linea deformato e quindi integrare su tutta la lunghezza della curva].
x2
dx1
dx 2
dl 0

R
θ x1
36 CAPITOLO 1. MECCANICA DEI CONTINUI

Esercizio 11. Calcolare la variazione del perimetro e dell’area di un cerchio di raggio R, soggetto ad
una deformazione infinitesima descritta dal tensore 2D

a b

ij = con a, b, c  1
b c

Commentare il risultato ottenuto in termini di proprietà tensoriali.

Esercizio 12. Consideriamo il tensore di sforzo descritto dalla seguente matrice



1 2 3

τij = 2 2 1 MPa
3 1 3

Calcolare la forza di superficie che agisce su un piano descritto dalla equazione x−2y +2z = 0, la trazione
normale e la trazione di taglio.

Esercizio 13. Consideriamo un tensore di sforzo in due dimensioni con sforzi principali τ1 e τ2 (con
τ1 > τ2 ). A seguito di deformazioni tettoniche, si aggiunge a detta configurazione uno sforzo di taglio ∆τ
sicché lo sforzo viene ad essere descritto dalla seguente matrice:

τ1 ∆τ

τij =
∆τ τ2

Mostrare che, se ∆τ è “piccolo”, le variazioni degli sforzi principali sono del secondo ordine in ∆τ , mentre
le variazioni degli assi principali sono del primo ordine. Cosa accade invece se τ1 = τ2 ?

Esercizio 14. Consideriamo il tensore di sforzo bi-dimensionale τij , nel piano xy (x = x1, y = x2),
descritto dalla seguente matrice
1 2
τij = 106 × (Pa)
2 3
Determinare sforzi principali, assi principali, trazione di taglio massima e orientamento della sua superficie
di applicazione.

Esercizio 15. Consideriamo il tensore di sforzo tri-dimensionale τij , nel piano x1 , x2, x3, descritto dalla
seguente matrice
−10 2 −2

τij = 2 −9 0
(MPa)
−2 0 −11
Scomporre il tensore nelle componenti isotropa e deviatorica, determinare sforzi principali, assi principali,
trazione di taglio massima e orientamento della sua superficie di applicazione. Se il materiale ha una
resistenza al taglio τ0 = 5 MPa rimane integro ?.

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