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Rifrazioni letterarie

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CON BIGLIETTO DI ANDATA.
Raccontare l’emigrazione verso Stati Uniti eArgentina

Laura Restuccia
Rifrazioni letterarie

Direttore/Editor: Laura Restuccia

Comitato scientifico: Federico Bertoni (Università di Bologna);


Nicolas Bonnet (Université de Bourgogne); Enrica Cancelliere
(Università degli Studi di Palermo); Paolo Carile (Università
degli Studi di Ferrara); Christian Del Vento (Université Sor-
bonne Nouvelle - Paris 3); Pasquale Guaragnella (Università
di Bari); Franco Marenco (Università di Torino); Anna Maria
Scaiola (Università di Roma “La Sapienza”)

n. 6 - Laura Restuccia, Con biglietto di andata. Raccontare l’emigra-


zione verso Stati Uniti e Argentina

Volume pubblicato con il contributo del “Fondo Italiques”

© Copyright 2020 New Digital Frontiers srl


Via Serradifalco 78
90145 Palermo
www.newdigitalfrontiers.com

ISBN (a stampa): 978-88-5509-164-0


ISBN (online): 978-88-5509-165-7

Le opere pubblicate sono sottoposte a processo di peer–review


a doppio cieco
Come ti piango
ora che ti ho perso
Sicilia sfortunata
chè non posso venire
a vedere la gente
della mia terra;
e i cento paesi,
e i mille giardini,
e gli occhi lucidi
della gioventù;
e le facce scavate
e nere di sole
dei vecchi giornalieri;
e gli occhi fondi,
e i capelli sciolti
di madri lacrimanti
sotto scialli neri
sulla soglia delle porte
che aspettano i figli.

Come ti piango
terra mia lontana:
spalanco gli occhi
e non ti vedo mai;
stringo le braccia
e non sei con me:
chiamo, ti chiamo,
e mi risponde solo
l’affanno amaro
di questo cuore rotto.

Ignazio Buttitta, Sicilia lontana


Indice

I. Mamma mia dammi cento lire che in America voglio andar… 9

II. L’esodo verso le Americhe raccontato dalla letteratura italiana 29

III. Gli emigranti raccontano: Stati Uniti o il “sogno a stelle e strisce” 111

IV. Gli emigranti raccontano: l’Argentina o la “patria di riserva” 169


Tu lascerai ogne cosa diletta
più caramente; e questo è quello strale
che l’arco de lo essilio pria saetta.
Tu proverai sì come sa di sale
lo pane altrui, e come è duro calle
lo scender e ʼl salir per l’altrui scale.
(Paradiso, XVII, vv. 55-60)
Mamma mia dammi cento lire che in America voglio andar….

Tra i tanti paesi che hanno conosciuto, e tutt’ora conoscono, flus-


si migratori di grande portata, l’esempio italiano è quasi unico per
intensità, durata e varietà dei luoghi di destinazione, soprattutto nel
periodo compreso tra gli ultimi quattro decenni dell’Ottocento e gli
anni Settanta del Novecento, quando il fenomeno ha toccato il suo
apice, rappresentando così «il contraltare, il punto di verifica e di in-
veramento, in ultima analisi l’altra “metà della luna” dell’Italia con-
temporanea»1. Proprio per questo, di fronte a più o meno recenti, più
o meno violenti, più o meno consapevolmente esternati e, comunque,
ampiamente diffusi, episodi di xenofobia nei confronti degli immi-
grati ai quali assistiamo, o dei quali abbiamo notizia, ogni giorno nel
nostro Paese, è forse bene provare a volgere il nostro sguardo al pas-
sato e rinfrescare la nostra memoria collettiva ricordando quando gli
‘altri’ eravamo (siamo spesso – possiamo dire – ancora) noi2. Se sul

1
  Presentazione, a cura dell’editore e dei curatori, in Piero Bevilacqua, Andreina De
Clementi, Emilo Franzina (a cura di) Storia dell’emigrazione italiana, 2 voll., t. I, Par-
tenze, Donzelli, Roma, 2009, pp. XIII-XV, p. XIII.
2
  La bibliografia sull’emigrazione italiana - in campo storico, economico e sociale - è
molto ampia. Si farà rimando, in questa sede, di volta in volta, soltanto a pochi
riferimenti bibliografici trascelti nel vasto panorama. Per una informazione di base
sull’emigrazione italiana, cfr., fra gli altri, Umberto Cassinis, Gli uomini si muovo-
no. Breve storia dell’emigrazione italiana, Torino, Loescher, 1975; Renzo De Felice (a
cura di), Cenni storici sull’emigrazione italiana, Milano, FrancoAngeli, 1979; Paola
Bacchetta-Raimondo Cagiano De Azevedo, Le comunità italiane all’estero, Torino,
Giappichelli, 1990; Paola Corti, Paesi d’emigranti. Mestieri, itinerari, identità colletti-
ve, Milano, FrancoAngeli, 1990; Italiani nel mondo. Storia e attualità, Roma, Bariletti
Editori, 1993; Patrizia Audenzio-Paola Corti, L’emigrazione italiana, Milano, Fenice,
1994; Paola Corti, L’emigrazione, Roma, Editori Riuniti, 1999; Matteo Sanfilippo (a
cura di), Emigrazione e storia d’Italia, “Quaderni del Giornale di Storia Contempora-
nea”, 2003; Paradigmi delle migrazioni italiane, Torino, Edizioni Fondazione Giovanni
Con biglietto di andata

piano del dibattito storico-critico il fenomeno della nostra emigra-


zione verso ogni Continente è stato oggetto di continua attenzione,
soprattutto dai primi anni Sessanta e fino alla metà degli anni No-
vanta3 del XX secolo, animando il dibattito tra accademici specialisti,
esso viene spesso sottaciuto – quasi per un sentimento di pudore e,
forse, anche di protezione – alle più giovani generazioni e, fin trop-
po spesso, rimosso dai meno giovani. Eppure, la nostra storia delle
migrazioni dovrebbe essere considerata come un elemento centrale
per comprendere la Storia italiana4, così come lo è, fra le altre, per

Agnelli, 2005; Donne e uomini migranti. Storie e geografie tra breve e lunga distanza,
Roma, Donzelli, 2008; Michele Colucci-Matteo Sanfilippo, Guida allo studio dell’emi-
grazione italiana, Viterbo, Edizioni Sette Città, 2010.
3
  Per le fonti sul tema generale dell’emigrazione italiana, cfr. anche Ernesto Ragionie-
ri, Italiani all’estero ed emigrazione di lavoratori italiani. Un tema di storia del movimento
operaio, in “Belfagor”, 1962, 2, pp. 639-669; Vittorio Briani (a cura di), Emigrazio-
ne e lavoro italiano all’estero. Elementi per un repertorio bibliografico, Roma, Ministero
degli Affari Esteri, 1967; Augusto Ascolanani-Anna Maria Birindelli, Introduzione
bibliografica ai problemi delle migrazioni, Roma, Comitato Italiano per lo studio dei
problemi della popolazione, 1971; Renzo De Felice, Alcuni temi per la storia dell’emi-
grazione italiana, in “Affari sociali Internazionali”, 1973, 3, pp. 3-10; Repertorio delle
ricerche sull’emigrazione in Europa, Roma, Formez, 1976; Renzo De Felice, Gli stu-
di sull’emigrazione cinque anni dopo, in “Affari sociali Internazionali”, 6, 1978, pp.
7-14; Emilio Franzina, Sui profughi d’Italia: emigranti e immigrati nella storiografia più
recente, in “Movimento Operaio e Socialista”, 4, 1978, pp. 75-103; Silvano M. To-
masi, Emigration Studies in Italy 1957-78, in “International Migration Review”, 2,
1979, pp. 333-346; Graziano Tassello, Rassegna bibliografica sull’emigrazione e sulle
comunità italiane all’estero (1975-1988), Roma, Palombi editore, 1988; Rassegna biblio-
grafica sull’emigrazione e sulle comunità italiane all’estero dal 1975 ad oggi, in “Studi
Emigrazione”, numero monografico, 96, XXVI, dicembre 1989; Giovanni Pizzorus-
so-Matteo Sanfilippo, Rassegna storiografica sui fenomeni migratori a lungo raggio, in
Italia dal Basso Medioevo al secondo dopoguerra, in “S.I.De.S. Bollettino di Demografia
Storica”, numero monografico, 13, 1990, pp. 5-181; Rassegna bibliografica delle pubbli-
cazioni periodiche sull’emigrazione italiana e sulle comunità italiane all’estero dal 1975 ad
oggi, in “Studi Emigrazione”, numero bibliografico, 104, XXVIII, dicembre 1991; Giovanni 
Pizzorusso-Matteo Sanfilippo, Inventario delle fonti vaticane per la storia dell’emigrazione
e dei gruppi etnici nel Nord America: il Canada (1878-1922). Introduzione, in “Studi Emi-
grazione”, 116, XXXI, dicembre 1994; Fonti ecclesiastiche per la storia dell’emigrazione e
dei gruppi etnici nel Nord America: gli Stati Uniti (1893-1922), in “Studi Emigrazione”,
120, XXXII, dicembre 1995; Fonti ecclesiastiche romane per lo studio dell’emigrazione
italiana in Nord America (1642-1922), in “Studi Emigrazione”, numero bibliografico,
124, XXXIII, dicembre 1996.
4
  Cfr. Manuela Tirabassi, Storia e analisi delle migrazioni: paradigmi e metodi, in “Altrei-
talie”, gennaio-giugno 2006, pp. 9-13, part. p. 12.

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Mamma mia dammi cento lire che in America voglio andar…

la Storia dell’India, dell’Irlanda e, a parti rovesciate, degli Stati Uni-


ti, dell’Argentina e della Francia. In Italia, al contrario, il fenomeno
dell’emigrazione non entra quasi mai a far parte dei programmi di
formazione e scorrendo gli indici dei manuali scolastici ci si trova
di fronte ad un panorama che potremmo definire desolante. I testi
scolastici di Storia degli anni Cinquanta e Sessanta non menzionano
quasi mai l’emigrazione5; e se prendiamo in considerazione i manuali
più recenti, la situazione non appare più confortante dal momento
che, quando è affrontato, il problema è trattato in modo del tutto mar-
ginale – di solito solo collegato alla questione meridionale dell’età
giolittiana e all’eccedenza della manodopera agricola – e liquidato in
poche righe6.
Un interesse del dibattito accademico è stato riservato, viceversa,
sul piano storico-politico, alla mobilità dei protagonisti dell’esilio ri-
sorgimentale (a cominciare da Garibaldi rifugiatosi prima in Brasile
e poi negli Stati Uniti; ma lo stesso si potrebbe dire per Foscolo, per
Mazzini o per molti altri patrioti liberali rifugiatisi in Francia e in
Inghilterra). A partire dal fallimento dei moti del 1831, non pochi fu-
rono coloro che si diressero, oltre che in Francia, Svizzera, Inghilterra,
Grecia e Germania, verso il Nordafrica e le Americhe, benché queste
ultime fossero mete meno ambite perché le distanze impedivano il
mantenimento delle comunicazioni utili a garantire le interrelazio-
ni politiche. Gli Stati Uniti7, tuttavia offrivano un esempio di fede-
ralismo funzionante; un modello che suscitò l’interesse di molti dei
nostri militanti alla causa risorgimentale e a cui avevano guardato

5
  Cfr., a titolo di esempio, Luigi Salvatorelli, Storia d’Italia, dai tempi preistorici ai no-
stri Giorni, Torino, Einaudi, 1955-1969; Nino Valeri (a cura di) Storia d’Italia, Torino,
UTET, 1965, 5 voll.; Giuseppe Galasso (a cura di), Storia d’Italia, Torino, UTET, 1979,
24 voll.
6
  Ne è un esempio il manuale di Andrea Giardina, Giovanni Sabbatucci e Vittorio
Vidotto, Nuovi Profili Storici, edito da Laterza nel 1993 in cui, su complessive 1500
pagine, nel secondo volume, Dal 1650 al 1900, è  proposto  -  quale  unico  accenno  al 
fenomeno - un breve brano tratto da L’Italia in cammino di Gioacchino Volpe scritto nel
1927. Non meno interessante appare il caso del manuale di Aurelio Lepre, La storia
del Novecento, vol. 3, edito da Zanichelli: nell’edizione del 1999 un capitolo intitolato
L’andamento demografico trattava il tema dell’emigrazione; il capitolo però scompare
insieme ad ogni traccia di accenno al fenomeno, nell’edizione del 2004.
7
  Cfr. Daniele Fiorentino, Gli Stati Uniti e il Risorgimeno d’Italia, 1848-1901, Roma,
Gangemi, 2013.

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Con biglietto di andata

con interesse, sulla scorta di quanto già argomentato ad inizio seco-


lo da Carlo Botta8, e più tardi da Giuseppe Compagnoni9, anche da
Giuseppe Mazzini, Carlo Cattaneo10, Pietro D’Alessandro, membro
della società segreta “L’ardita falange” presieduta da Benedetto Ca-
stiglia, Antonio Gallenga, coinvolto nell’insurrezione del 1831 contro
il governo di Maria Luigia, per la costituzione di un modello di re-
pubblica federale. Fra i fuoriusciti politici dell’Ottocento si ricordi, fra
gli altri, Eleuterio Felice Foresti massone e carbonaro che, estradato
negli Stati Uniti in alternativa alla pena che stava scontando presso il
carcere dello Spielberg, raggiunge il continente americano nel 1836 e,
alla morte di Lorenzo da Ponte, nel 1838, gli subentra alla cattedra di
Letteratura italiana presso la Columbia University. Negli Stati Uniti
Foresti aderì al mazzinianesimo divenendo un esempio per i fuoriu-
sciti italiani11. Ma si ricordi anche quel Quirico Filopanti (pseudonimo
di Giuseppe Barilli) fuggito nel 1849 da Roma, dopo l’arrivo delle
truppe francesi, alla volta degli Stati Uniti dove intesse stretti contatti
con Garibaldi e dove rimane fino al 1851. Fondatori di giornali, scuole
e società di mutuo soccorso, organizzatori di adunate e raccolte di
fondi, gli esuli, nonostante le continue controversie che opponevano
i monarchici ai mazziniano-repubblicani, contribuirono a mantene-
re viva l’attenzione dell’opinione pubblica nei confronti di chi stava
combattendo in Europa e per la comunità immigrata, probabilmente
più di quanto erano riusciti a farlo in Italia.
Persino gli storici, dunque, come ha sottolineato Emilio Franzi-
na12, hanno sottovalutato, per lungo tempo, l’importanza del feno-
meno emigratorio di massa, dimenticando – si potrebbe aggiungere

8
  Cfr. Carlo Botta, Storia della guerra d’Indipendenza degli Stati Uniti d’America [1809],
ristampa anastatica a cura di A. Emina, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2010.
9
  Cfr. Giuseppe Compagnoni, Storia dell’America, 29 voll., Milano, Società Tipografica
dei Classici italiani, e Napoli, Stamperia dell’Iride,1820-1850.
10
  Cfr. Carlo Cattaneo, Noberto Bobbio, Stati uniti d’Italia. Scritti sul federalismo demo-
cratico, prefazione di Nadia Urbinati, Roma, Donzelli, 2010.
11
  Cfr. Giovanni Ferro, Eleuterio Felice Foresti: un astro dimenticato del Risorgimento ita-
liano, Roma, s.e. [ma C. Colombo], 1991.
12
  Emilio Franzina, L’emigrazione italiana: un fenomeno dimenticato dell’identità nazio-
nale, in “Storia e futuro”, http://storiaefuturo.eu/lemigrazione-italiana-fenome-
no-dimenticato-dellidentita-nazionale/, Articolo n. 25, Febbraio 2011, (consultato
il 5/01/2020).

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Mamma mia dammi cento lire che in America voglio andar…

paradossalmente – di annoverare l’emigrazione italiana tra gli avve-


nimenti che più hanno inciso sul successivo andamento sociale, po-
litico ed economico del nostro paese e sulla evoluzione della nostra
identità, destituendo il fenomeno della sua innegabile rilevanza.
L’incessante mobilità umana che ha coinvolto, tra la prima metà
dell’Ottocento e la seconda metà del Novecento, circa trenta milioni di
italiani e intere famiglie sulle quali, tra l’altro, si sono inevitabilmente
riversati i profondi mutamenti indotti dal fenomeno, è stata, insom-
ma, a lungo dimenticata dalla coscienza nazionale e con essa sono stati
dimenticati anche i pregressi movimenti di popolazione e dunque la
lunga e complessa tradizione emigratoria italiana che prese avvio già
nel tardo Medioevo. A proposito di tale silenzio, di tale grave dimen-
ticanza, Gian Antonio Stella in L’orda. Quando gli albanesi eravamo noi13,
ripercorre in modo inedito la storia italiana di emigrazione di massa
attraverso documenti, reperti, aneddoti, avventure e racconti utili a
far conoscere quella storia di umiliazioni, soprusi, tragedie, pregiudi-
zi, stereotipi in un confronto col presente in cui purtroppo il cancro
sociale del razzismo e della xenofobia verso gli immigrati sembrano
disdicevolmente espandersi. Nelle pagine introduttive del suo saggio,
utilizzando a volte toni anche molto aspri, ricorda quanto sia stata im-
portante nei secoli scorsi la presenza degli emigrati italiani nei paesi
del mondo in cui sono approdati, per avervi apportato ricchezza eco-
nomica e culturale. Nel sottolineare come le nostre esperienze migra-
torie siano state complessivamente anche positive, si sofferma, in par-
ticolare, sul grande esodo otto-novecentesco affermando che di coloro
che hanno fatto fortuna all’estero, quali, tra gli altri, Amedeo Obici,
Giovanni Giol o Geremia Lunardelli si è, in qualche modo, parlato in
termini di ‘orgoglio italiano’; mentre tutti gli altri, quelli che all’estero
arrancavano cercando di sopravvivere, sperando, pur subendo ogni
genere di umiliazione, in un futuro migliore, sono stati dimenticati:

[…] tantissimi fecero davvero fortuna. […] Quelli sì li ricordiamo, noi


italiani. Quelli che ci hanno dato lustro, che ci hanno inorgoglito, che
grazie alla serenità guadagnata col raggiungimento del benessere non
ci hanno fatto pesare l’ottuso e indecente silenzio dal quale sono sem-

13
  Gian Antonio Stella, L’orda. Quando gli albanesi eravamo noi, Milano, Rizzoli, 2002,
edizione aggiornata 2007, pp. 7-16.

13
Con biglietto di andata

pre stati accompagnati. Gli altri no. Quelli che non ce l’hanno fatta
e sopravvivono oggi tra mille difficoltà nelle periferie di San Paolo,
Buenos Aires, New York o Melbourne fatichiamo a ricordarli. Abbia-
mo perso 27 milioni di padri e di fratelli eppure quasi non ne trovi
traccia nei libri di scuola. Erano partiti, fine. Erano la testimonianza
di una storica sconfitta, fine. Erano una piaga da nascondere, fine.
Soprattutto nell’Italia della retorica risorgimentale, savoiarda e fas-
cista14.

L’emigrazione italiana verso Stati Uniti ed Argentina, in partico-


lare, ha attraversato due secoli ed ha coinvolto circa trenta milioni di
persone. Si è trattato di una storia sociale, di una storia di sofferenze
ma anche della storia della navigazione15, della storia economica –
per le imprese che gli italiani hanno costruito oltreoceano e per quelle
che in Italia hanno gestito le traversate –, così come della storia cultu-
rale, tout court, per le forti influenze che gli italiani hanno esercitato,
oltreatlantico, sull’architettura, sul cinema, sulla gastronomia, sulla
letteratura e sulla musica. Una storia sociale trasversale se si pensa
che non esiste famiglia di italiani che non possa trovare, tra i suoi
antenati, qualcuno che ha attraversato gli Oceani per raggiungere
le Americhe o, più tardi, l’Australia16. La Storia del nostro paese ha

14
  Ivi, p. 10.
15
  La marina mercantile italiana trasse molto profitto dal trasporto di emigranti che
consentì ai porti italiani di inserirsi nel mercato internazionale dei trasporti maritti-
mi dove, fino ad allora – a causa del ritardo con cui era avvenuto il passaggio dalla
vela al vapore, delle insufficienze strutturali degli arsenali e dei bacini di carenag-
gio – avevano occupato una posizione del tutto marginale. (Cfr. Vittorio Briani, Il
lavoro italiano all’estero negli ultimi cento anni: componenti demografiche ed economiche
del movimento migratorio, Roma, Italiani nel mondo, 1970).
16
  La storia dell’emigrazione in Australia, però, è del tutto particolare. Nel corso del-
la Seconda guerra mondiale, infatti, circa diciottomila italiani vennero deportati
nei campi di concentramento australiani. A conflitto concluso, i sopravvissuti tra i
cosiddetti «enemy aliens» vennero trattenuti nei campi e nelle fattorie, venendo de-
stinati allo svolgimento dei lavori più umili e faticosi. Grazie al duro lavoro svolto
dagli italiani, l’economia australiana migliorò notevolmente nel giro di poco tempo,
al punto che, la classe media, non potendo non riconoscere l’enorme apporto forni-
to da migranti italiani alla ripartenza dell’economia del Paese, arrivò persino a con-
cedere a questi ultimi, tutele, seppur minime, per il loro lavoro (cfr. Leslie C. Green,
Essays on the Modern Law of War, New York, Ardsley, 1985). Gli italiani, dal canto
loro, pur di non rimanere senza lavoro, accettavano spesso paghe misere, alloggi
fatiscenti in condizioni igieniche precarie. Ciò indusse gli australiani a riconoscere

14
Mamma mia dammi cento lire che in America voglio andar…

ereditato dal fenomeno dell’emigrazione alcuni caratteri essenziali


che ne hanno influenzato l’economia – si pensi all’accumulazione di
risorse rappresentata dalle rimesse degli emigranti17 che furono di
vitale importanza per il sostentamento di intere famiglie e persino
per la riattivazione economica di molte aree di emigrazione di massa,
specialmente del Sud18,– la società e la cultura – si pensi all’immenso
interscambio di esperienze, mestieri, conoscenze e modelli culturali
che si è realizzato tramite i flussi migratori19. Nonostante ciò, questa
storia è stata a lungo tralasciata, ricordata sottovoce e con pudore;
basti pensare, per esempio, che l’unica traccia concreta della memoria
dell’esperienza migratoria negli Stati Uniti, almeno fino allo scorso
decennio, risiedeva proprio lì, nell’isolotto di Ellis Island nella baia
di New York, ieri principale punto di approdo e smistamento per mi-
lioni di italiani in cerca di fortuna, oggi museo dell’immigrazione.
In Italia, solo nel 2016, all’interno del “Galata. Museo del mare” di
Genova, è stata istituita la sezione “MEM. Memoria e migrazioni”.
È tra il XIX e il XX secolo, dunque, che l’Italia si distingue, fra i Paesi
industrializzati, quale incontestata protagonista dell’emigrazione di
massa di lunga durata che ha ‘disperso’ un impressionante numero
di cittadini in quasi ogni continente: un fenomeno che può essere
considerato come una vera e propria diaspora. Una diaspora che, in
quanto tale, potrebbe essere associata a quella indiana che ebbe luogo
tra il 1830 e il 1930, periodo in cui 30.000.000 di indiani lasciarono il
subcontinente asiatico, o a quella irlandese determinata dalla grave
carestia di patate che costrinse negli anni Quaranta dell’Ottocento

negli italiani emigrati un modello notevole umiltà e sacrificio, del tutto inusuale
per le usanze del loro Paese. Ne derivò quindi, una vera e propria naturalizzazione
di quegli stessi immigrati che, all’epoca del conflitto mondiale, erano stati catturati
in veste di nemici. Il processo di integrazione fu piuttosto rapido e relativamente
semplice, sebbene sia emerso che gli italiani, nel privato del loro focolaio domestico,
tenessero vive le proprie tradizioni, così da non perdere mai la loro identità (Cfr.
Gianfausto Rosoli, Un secolo di emigrazione italiana 1876-1976, Roma, Centro Studi
Emigrazione, 1978).
17
  Cfr. Emilio Franzina, Traversate. Le grandi emigrazioni transoceaniche e i racconti italia-
ni del viaggio per mare, Foligno, Editoriale Umbra, 2003, p. 41.
18
  Antonio Golini, Flavia Amato, Uno sguardo a un secolo e mezzo di emigrazione italiana,
in Bevilacqua, De Clementi, Franzina, op. cit., vol. I, pp. 45-60, p. 57.
19
  Benché il primo censimento degli italiani all’estero risalga al 1871.

15
Con biglietto di andata

oltre un milione di irlandesi ad abbandonare in massa l’isola20. Tut-


tavia, pur senza voler negare che vi siano tratti comuni fra i tre dépla-
cements appena menzionati, le pur considerevoli emigrazioni indiana
e irlandese non reggono il confronto con quella italiana per via di
certi aspetti che hanno caratterizzato unicamente i nostri esodi, ovve-
ro innanzitutto: la dispersione numericamente molto elevata nei più
svariati paesi del mondo e un altrettanto elevato tasso di rientri che
riflettono un attaccamento viscerale alla regione d’origine che nessun
altro popolo migrante ha dimostrato di provare con tale intensità21.
L’emigrazione di massa italiana che prese avvio, dunque, intor-
no alla seconda metà dell’Ottocento ha caratterizzato l’evoluzione
demografica, economica e sociale del Paese. Negli ultimi decenni
dell’Ottocento l’Italia si trovava ancora nella prima fase del proces-
so di transizione demografica: alla diminuzione della mortalità non
aveva ancora fatto seguito una contrazione della natalità, con un
conseguente elevato incremento della popolazione. L’avvio dell’in-
dustrializzazione con le prime trasformazioni delle strutture produt-
tive che investirono in primo luogo le regioni del Nord, determinò
la scomparsa di vecchie professioni e un’eccedenza di manodopera,
provocando profondi squilibri fra settori produttivi, classi sociali ed
aree territoriali. Gli anni in cui si verificò la massima espansione dei
flussi migratori furono quelli compresi fra gli ultimi decenni della
fine del secolo XIX e la Prima guerra mondiale (quasi 14 milioni di
espatri) 22. Da una parte, bisogna tenere presente il difficile momento
di ristagno in cui versava l’Italia subito dopo l’unificazione, la cui
economia ancora essenzialmente agricola non riusciva a sorreggere il
paese, specialmente in seguito alla prima depressione mondiale del
1873-79 in cui si assistette al crollo dei prezzi delle derrate alimentari
e alla controproducente adozione da parte dello Stato di una politica
protezionistica, avvenimenti entrambi che misero in ginocchio pro-
prio gli agricoltori i quali così si videro costretti a cercare all’estero

20
  Cfr. Donna Gabaccia, Emigranti. Le diaspore degli italiani dal Medioevo a oggi, Torino,
Einaudi, 2003, p. 72.
21
  Cfr. ivi, pp. 74-75.
22
  Della fase precedente esistono solo stime, che aiutano a comprendere l’evoluzione
di un fenomeno non riconducibile alla sola età contemporanea, mentre un’evasiva
legge sull’emigrazione vide la luce solo nel 1888.

16
Mamma mia dammi cento lire che in America voglio andar…

le risorse di cui sostentarsi. In aggiunta alla crisi economica, si consi-


deri anche che a rendere in quel periodo l’emigrazione irrefrenabile
e del tutto spontanea, fomentando così oltretutto la clandestinità, fu
l’attuazione di una politica migratoria estremamente liberale23, e non
condizionante, che potrebbe essere riassunta nelle parole significative
pronunciate da Quintino Sella – ministro delle finanze, dal 1862 al
1873, dei governi del neonato Regno d’Italia – il quale si espresse la-
pidariamente affermando che «dove c’è lavoro, ivi è la patria»24, scar-
dinando dunque qualsiasi tentativo di smantellamento delle ragioni
profonde alla base dell’emigrazione che poggiasse sostanzialmente
su principi patriottici. La consistenza del fenomeno rese necessaria
agli inizi del Novecento l’istituzione del “Commissariato Generale
dell’Emigrazione” (1901), con lo scopo precipuo di disciplinare gli
espatri ma anche con quello di tutelare gli emigranti dall’azione spe-
culatoria di intermediari e agenti delle compagnie di navigazione che
si arricchivano sfruttando la ‘fame’ dei propri concittadini senza, per
altro, risolvere gli enormi problemi igienici che insorgevano sia a cau-
sa della concentrazione di emigranti nei porti di imbarco (Genova,
e poi Napoli, Palermo, Messina, Castellammare del Golfo, etc.) che
nelle terze classi delle transoceaniche ‘carrette del mare’25. Benché un
primo tentativo di regolamentare i flussi migratori in uscita dall’Italia
è stato messo in piedi dalla legge di polizia voluta da Francesco Cri-
spi, la prima legge organica italiana sull’emigrazione è del 31 gennaio
1901. Nata con lo scopo di assicurare a coloro che lasciavano l’Italia
efficaci strumenti di protezione, migliorò la situazione solo parzial-
mente. La legge aboliva gli Agenti delle Compagnie di navigazione,
sostituiti con i Rappresentanti dei Vettori, carica alla quale si accede-
va solo richiedendo ogni anno al Commissario una ‘patente di vet-
tore’ (art. 13). Fondamentale in questo testo legislativo era la tutela
dell’emigrante: a questo scopo venne istituita nei principali porti di

23
  Si pensi ad esempio alla normativa Crispi (L. n. 5866, pubblicata sulla GU del re-
gno d’Italia il 20 gennaio 1889) che promulgava l’assoluta libertà di lasciare il paese.
24
  Le parole furono pronunciate in occasione di un discorso al Parlamento nel 1868;
cfr. Quintino Sella, Discorsi parlamentari, Roma, Tipografia della Camera dei Depu-
tati, 1887.
25
  cfr. Augusta Molinari, Porti, Trasporti e compagnie, in Bevilacqua, De Clementi,
Franzina, vol. I, op. cit., pp. 237-250, p. 250.

17
Con biglietto di andata

imbarco – di Palermo, Napoli e Genova –, una Commissione ispettiva


che aveva il compito di verificare che le navi impiegate fossero in pos-
sesso di tutti i requisiti previsti dalle normative sanitarie. La legge im-
poneva anche l’obbligo di avere a bordo commissari e medici militari
che dovevano verificare che le direttive della legge fossero rispettate
e che gli spazi a disposizione dei migranti fossero adeguati al viag-
gio. Se i medici erano responsabili della buona salute dei passeggeri
e dell’equipaggio, i commissari erano incaricati di verificare che la
nave possedesse i requisiti di igiene e sicurezza. Per quanto tremende
potessero essere le condizioni di viaggio, molto spesso però la non
infondata maggiore preoccupazione dei passeggeri era la possibilità
di naufragio26.
Se durante gli anni che interessarono i due conflitti mondiali, il
flusso diminuì notevolmente a causa dell’arruolamento obbligatorio
dei giovani maschi, negli anni seguenti la Grande guerra, l’emigrazio-
ne riprese nuovo slancio; ma si trattò di un fenomeno di breve durata.
Dopo le guerre, per altro, i rimpatri si fecero più radi salvo che al mo-
mento delle crisi del 1929 quando molti dei nostri emigrati, impauriti
dal crollo della moneta americana e attratti dalla propaganda fascista
che si impegnava a diffondere un’immagine prospera dell’Italia, rien-
trarono ma non poterono più partire a causa dell’introduzione della
quote immigratorie imposte dagli Stati Uniti e dall’Argentina e dagli
eventi di politica internazionale che vedevano Italia e Stati Uniti su
due schieramenti opposti. Dalla seconda metà degli anni Venti, per
altro verso, gli espatri diminuirono progressivamente a causa della
politica anti-emigratoria del governo fascista27; anche a guerra ormai
finita, infatti, non si dimentichi il ruolo decisivo svolto proprio dal
fascismo nel mettere un freno a quegli abbandoni sconsiderati con-
sentendo solamente negli anni Trenta, nonostante il fatto che la disoc-
cupazione aumentasse di giorno in giorno, gli espatri temporanei e

26
  Si pensi, fra gli altri, ai naufragi delle navi: Ortigia (1880, 249 morti); Sudamerica
(1880, 80 morti); Utopia (1891, 576 morti); Bourgogne (1898, 549 morti); Sirio (1906,
292 morti).
27
  Durante questo periodo tuttavia, si assiste a quella che potremmo definire come
una nuova ‘specie’ di emigrazione, quella cioè che vide partire dall’Italia intellet-
tuali e politici contrari al regime. Nello stesso periodo e fino a tutti gli anni Trenta,
meta di emigrazione “autorizzata” dal regime, fu quella verso i possedimenti co-
loniali.

18
Mamma mia dammi cento lire che in America voglio andar…

vietando invece categoricamente quelli a carattere definitivo. Il regi-


me attuò una politica assolutamente anti-emigratoria sostenuta dalla
necessità impellente di trattenere giovani potenziali militanti, dall’ur-
gente bisogno di rimpinguare demograficamente il paese secondo la
lapidaria frase del Duce «“Il numero fa la forza dei popoli”»28, e sor-
retta anche da una questione di prestigio che l’Italia stava, secondo
l’ideologia fascista, inevitabilmente perdendo. Abbandonare l’Italia
in massa non avrebbe infatti potuto rispondere ad un’ideologia na-
zionalista che celebrava ed esaltava il valore della patria e le risorse
agricole di un paese di secolare tradizione contadina. Il ‘contentino’
che il fascismo offrì agli emigranti come forma di patteggiamento per
mitigarne scontenti e delusioni o tacitarne eventuali proteste fu ca-
muffato nella politica colonialista che mirava innanzitutto all’occu-
pazione indebita di territori africani che avrebbero risollevato le sorti
economiche di milioni di disoccupati avviliti, scoraggiati e vulnera-
bili, fino ad allora costretti a cercare fortuna all’estero. Sempre ne-
gli stessi anni a frenare l’emigrazione oltreatlantico vennero in aiuto
alla linea governativa italiana le restrizioni all’immigrazione imposte
dagli Stati Uniti, meta privilegiata di molti dei nostri connazionali,
messe in atto legislativamente dai Quota Acts del 1921 e del 1924, che
limitarono i flussi in entrata nel territorio statunitense, specie se gli
immigrati erano italiani, ospiti poco o per nulla graditi. Verso la fine
di quel decennio, ad imporre un ulteriore freno al flusso emigrato-
rio verso gli Stati Uniti concorse anche il Crollo di Wall Street: quella
inattesa crisi economica e finanziaria che, nel 1929, ebbe ripercussioni
devastanti che si riverberarono anche nel decennio successivo. Mete
privilegiate dei nostri emigranti furono, allora, le nazioni europee29,
benché, in seguito alla grande Depressione contrariamente a quanto
fosse successo subito dopo il primo grande conflitto e nonostante la

28
  Cfr. Francesco De Nicola, Gli scrittori italiani e l’emigrazione, Formia, Ghenomena,
2008, p. 23.
29
  Ancora una volta, lungo questo periodo, sarà soprattutto la Francia il paese eu-
ropeo prediletto dagli emigranti italiani che vi si dirigono non solo in qualità di
lavoratori in senso stretto ma anche in veste di oppositori al regime dittatoriale. In
particolare negli anni Trenta, essi si dirigeranno pure in Germania, la nazione con
cui l’Italia dopo il Patto d’acciaio strinse alleanza, per lavorare nei settori agricolo,
industriale ed edilizio (Cfr. Golini, Amato, op. cit., p. 52).

19
Con biglietto di andata

necessità di manodopera per la ricostruzione, i grandi Stati europei


non fossero più in grado di assorbire grossi quantitativi di immigrati.
Il flusso migratorio, anche se di minor portata, riprese dopo la Se-
conda guerra mondiale favorito da un governo aperto alle uscite dal
paese che, guidato dal primo ministro Alcide De Gasperi si trovò nella
necessità di incentivare l’emigrazione30. I danni arrecati all’Italia dalla
guerra appena terminata erano incalcolabili e costituirono un motivo
più che valido per recarsi in altri paesi nella speranza di reperire nuo-
ve occasioni di lavoro e di far fortuna. Questo nuovo flusso continuò
a rimanere di intensità costante fino alla metà degli anni Settanta del
Novecento31. Scontato dire che la guerra aveva certamente cambiato
il volto di un intero paese che adesso stava tentando di rialzarsi e
pian piano di inserirsi in un contesto globale di sviluppo economico
che doveva poggiare ormai sulle solide basi dell’industrializzazione
per poter avviare un vigoroso avanzamento e mettersi al passo con
le altre nazioni. L’Italia stava percorrendo dunque un tempo di im-
portanti mutamenti economici, sociali e anche politici che hanno pro-
fondamente inciso sulle ragioni delle partenze, sulle modalità, sulle
destinazioni e sulle conseguenze dell’emigrazione di quel periodo.
L’emigrazione comunque non scomparve completamente, soprattut-
to alla volta del Sud America e specialmente dell’Argentina32.
L’emigrazione non riguardò contemporaneamente tutte le regioni
italiane. Per quanto in epoca giolittiana il processo di industrializza-
zione sembri rinvigorirsi e consolidarsi, esso non riuscì coprire l’in-
tero territorio peninsulare e di conseguenza ad accogliere l’eccedente
manodopera in cerca di lavoro, estromessa dal mercato dalla trasfor-
mazione delle attività artigianali o scacciata dal settore agricolo or-
mai agonizzante vedendosi così costretta a rimediare un’occupazione
altrove per sopravvivere. Se le regioni del Nord, economicamente più
ricche, furono le prime a risentire degli squilibri legati allo sviluppo

30
  Cfr. De Nicola, op. cit., p. 24.
31
  Cfr. Matteo Sanfilippo, Il fenomeno migratorio italiano: storia e storiografia, in Adelina
Miranda e Amalia Signorelli (a cura di), Pensare e ripensare le migrazioni, Palermo,
Sellerio, 2011, pp. 245-272, p. 257.
32
  Cfr. De Nicola, op. cit., pp. 25-26.

20
Mamma mia dammi cento lire che in America voglio andar…

industriale33, il Mezzogiorno ancorato ad un’economia prevalente-


mente rurale e afflitto da una generale minor disponibilità di fondi
indispensabili per affrontare i lunghi e costosi viaggi, vide partire i
suoi ‘figli’ solo a partire dall’ultimo trentennio dell’Ottocento, quan-
do cioè, la crisi agraria fece registrare il crollo del prezzo del grano34.
Verso la fine dell’Ottocento, per altro, l’esodo di massa dal Sud su-
biva l’effetto congiunto di due fattori: la formazione di una nuova do-
manda di manodopera specializzata da parte di Stati Uniti e Argenti-
na, che agì come fattore di richiamo, e la ristrutturazione dei trasporti
marittimi prima a Napoli e, in un secondo tempo, anche a Palermo e
a Messina che, con l’introduzione della navigazione a vapore, portò
una notevole riduzione dei tempi e dei costi di viaggio che arrivarono
ad essere nettamente inferiori rispetto a quelli dei biglietti dei treni
diretti verso il Nord Europa:

[…] negli Stati Uniti lo sviluppo capitalistico dagli anni Ottanta


dell’Ottocento alla Prima guerra mondiale ebbe come obiettivo la
massima immigrazione. Un’altra contingenza favorevole all’emi-
grazione italiana negli Stati Uniti fu data dal fatto che l’Italia si inserì
nelle correnti migratorie internazionali quando i costi dei viaggi toc-
carono il minimo storico. Navi che trasportavano merci dall’America
all’Europa facevano il viaggio di ritorno con un carico di emigranti.
Lo sviluppo dei trasporti transoceanici rese l’America più vicina del
Nord Europa35.

La Terza classe ospitava accanto ai motori circa duemila passeg-


geri ben stipati. I dormitori erano suddivisi per donne, uomini soli
e famiglie. I letti erano a tre piani e vi erano pochi servizi igienici.
Anche il cibo era carente e molti arrivavano a destinazione malnutriti
e ammalati36. Infine, resta da tenere in considerazione come lo svilup-

33
  Cfr. Ercole Sori, L’emigrazione italiana dall’Unità alla seconda guerra mondiale, Bolo-
gna. Il Mulino, 1979, p. 22 e sgg.
34
  Cfr. Lucio Villari, Il capitalismo e la grande depressione. La crisi agraria e la nuova econo-
mia (1873-1900), in “Studi Storici”, XX, 1, gennaio-marzo 1979, pp. 27-36.
35
  Manuela Tirabassi, L’emigrazione italiana negli Stati Uniti, in Davide Rigallo, Dona-
tella Sasso (a cura di), Parole di Babele: percorsi didattici sulla letteratura dell’emigrazio-
ne, Torino, Loescher, 2002, pp. 41-43.
36
  Cfr. Augusta Molinari, Le navi di Lazzaro. Aspetti sanitari dell’emigrazione transoceani-
ca: il viaggio per mare, Milano, Angeli, 1988.

21
Con biglietto di andata

po della rete ferroviaria e di strade nazionali, provinciali e comunali


facilitasse gli spostamenti rendendo più agevole anche raggiungere i
porti di imbarco.
La nostra emigrazione è stata caratterizzata, soprattutto all’inizio,
dall’alto tasso di mascolinità, dalla giovane età e dalla temporaneità
degli spostamenti: si partiva in cerca di fortuna con la speranza di ra-
cimolare somme sufficienti, in grado di garantire, una volta ritornati
a casa, la stabilità economica della famiglia. I soggetti migranti erano
prevalentemente contadini analfabeti, schiacciati dalle alte imposte
che gravarono, dopo l’unificazione del Paese, sulle campagne e dal
declino dei vecchi mestieri artigiani in conseguenza del progresso
tecnologico. Come osserva Ludovico Incisa di Camerana «Già nel
1870, […], ci si accorge che su 105.000 partenti 85.000 vengono dalle
campagne e solo 20.000 dalle città.»37. È il contadino – sia del Nord
che, più tardi, del Sud – che, espulso dal processo di ristrutturazione
economica del mondo agricolo, rifiuta la sua sterile condizione conse-
guita ad un’unificazione operata in maniera irragionevole e che non
aveva mantenuto le proprie promesse, imponendo l’abbandono della
patria come l’unica risposta ad una situazione insostenibile in cui il
cambiamento politico non aveva prodotto gli sperati miglioramenti
sociali. Per questi individui, in ogni caso, emigrare non significava
ripudiare la propria patria: un modo per accorciare le distanze era,
infatti, quello di difendere lo stile di vita italiano riproponendolo
all’interno delle comunità insediate all’estero.
Tuttavia accanto ai fattori di ‘espulsione’ bisogna considerare
anche quelli di ‘attrazione’38: mai prima di questo periodo i Paesi
europei a forte sviluppo economico39, come pure le Americhe, regi-
strarono un alto ammanco di manodopera. I governi di alcune città
dell’America del Sud, per sopperire alla mancanza di braccia nelle
piantagioni, cercarono di attirare lavoratori europei pagando loro le

37
  Ludovico Incisa di Camerana, Il grande esodo. Storia delle migrazioni italiane nel mon-
do, Milano, Corbaccio, 2003, p. 108.
38
  Cfr. Pasquale Guaragnella, Franca Pinto Minerva (a cura di), Terre di esodi e di appro-
di. Emigrazione ieri e oggi, Bari, Irre Puglia, p. 23
39
  Le prime mete di emigrazione dei nostri concittadini furono proprio europee:
Francia, Svizzera, Germania, Austria-Ungheria, in minor misura, Regno Unito e
dopo la seconda Guerra mondiale anche il Belgio.

22
Mamma mia dammi cento lire che in America voglio andar…

spese del viaggio40. Curioso il caso dell’Argentina che utilizzò come


‘specchietto per le allodole’ le enormi estensioni di terre: per inco-
raggiare l’immigrazione il Governo, in seguito all’approvazione della
legge del 2 ottobre 1884, concedeva gratuitamente agli immigrati eu-
ropei alcuni appezzamenti di terreni nazionali con il solo vincolo di
coltivarli41. Nelle grandi città statunitensi, invece, gli immigrati prefe-
rirono lavori salariati prestando la loro manodopera nella costruzione
di strade e di ferrovie, o nelle miniere. Essi lavoravano per lunghe ore
accontentandosi di salari miseri e, a causa della loro ‘propensione’ ad
essere sfruttati, nacque lo stereotipo dell’italiano ‘pala-e-piccone’42.
Fu allora che iniziò la rivalità con gli irlandesi – altro popolo giunto
negli Stati Uniti e impiegato in lavori non qualificati – che portò, in
alcuni casi, a episodi di ostilità fra gruppi di lavoratori.
Ad ogni modo, definire l’emigrazione italiana una diaspora com-
porta un’assunzione di responsabilità non irrilevante soprattutto per
quanto attiene ai risvolti identitari di questa ingente dispersione di
popolazione. Recenti osservazioni antropologiche sottolineano come
le dislocazioni in genere abbiano il merito di «[…] valorizzare il ca-
rattere magmatico dell’identità, come qualcosa che si trasforma, si
commistiona, attraversa scarti e differenze e mutamenti, restando
presente a se stessa» 43. Le migrazioni, dunque, attraverso il contatto
dei partenti con differenti cultural patterns determinano l’innesco di
un processo di rivisitazione del proprio profilo identitario, in cui ine-
vitabilmente si perde qualcosa di sé ma, allo stesso tempo, si acqui-
sisce positivamente qualcosa di nuovo che determina arricchimento
culturale grazie all’incontro con mondi, tradizioni, linguaggi e pen-
sieri molteplici e diversi.
Il grande esodo italiano, come si è accennato, ha inciso considere-
volmente sui settori sociale ed economico, demografico e politico, ma
ha anche determinato una profonda ridefinizione dei ruoli di genere.

40
  Cfr. Francesco Brancato, L’emigrazione siciliana negli ultimi cento anni, Cosenza, Pel-
legrini editore, 1995, p. 205.
41
  Cfr. Ibidem.
42
  Cfr. Rudolph J. Vecoli, Negli Stati Uniti, in Bevilacqua, De Clementi, Franzina, op.
cit., vol. II, Arrivi, pp. 55-88, pp. 58-62.
43
  Erika Lazzarino, Diaspora, in Bruno Riccio (a cura di), Antropologia e migrazioni,
Roma, CISU, 2014, p. 81.

23
Con biglietto di andata

La perdita di popolazione, corrispondente essenzialmente alla forza


lavoro adulta maschile è stata talmente consistente da aver alterato
in alcune zone della penisola il tessuto demografico facendo quasi
scomparire alcuni piccoli comuni in cui il capitale umano era ormai
insufficiente a tenerli in piedi, dato che in quelle zone già di per sé
carenti di popolazione rimasero soltanto persone economicamente
inattive e inabili, quali gli anziani e i non qualificati. Alcuni risvol-
ti fondamentali si sono avuti anche sotto il profilo strettamente fa-
miliare e conseguentemente sociale a causa del ritardo delle unioni
matrimoniali, cui conseguì un notevole abbassamento del livello di
natalità, o, per converso, dello spezzarsi di molti nuclei familiari già
costituiti, a causa del quale molte mogli lasciate in patria dai mariti
ad occuparsi dell’educazione dei figli e della gestione della casa e, se
c’era, anche della terra vennero etichettate come “vedove bianche”44.
L’allontanamento dei mariti e, in molti casi, il fenomeno dei «due fo-
colari»45, uno all’estero e l’altro in patria, provocò anche un aumento
considerevole delle infedeltà e delle separazioni coniugali. L’assenza
di maschi adulti determinò inoltre un rimescolamento dei ruoli as-
segnati tradizionalmente in base all’appartenenza di genere: molte
donne si trovarono di necessità, infatti, ad assumere compiti di tradi-
zionale pertinenza esclusiva degli uomini46.
L’esperienza migratoria, sempre mutevole nel contesto storico e
geografico, ha in sé alcune costanti: innanzitutto il carattere stesso
dell’esperienza migratoria, spesso traumatica e dolorosa ma che può
condurre anche a percorsi di emancipazione; l’attaccamento al paese
di provenienza, che porta alla creazione di reti migratorie come forme
di contatto e di solidarietà tra connazionali e alla costruzione di un
micro-habitat originario nei luoghi d’arrivo; nonché le reazioni delle
società di accoglienza, con il sistematico ripresentarsi di aspetti co-
muni come le discriminazioni, i pregiudizi, la formazione degli stere-
otipi e il timore dell’altro. L’analisi dell’esperienza degli italiani emi-
granti è quindi di grande interesse non solo per ricostruire un aspetto
importante del passato italiano, ma anche per meglio comprendere

44
  Saverio Basile, Vedove Bianche, in “Il nuovo corriere della Sila”, http://www.ilnuo-
vocorrieredellasila.it/?p=682, 9/02/2012, (consultato il 4/01/2020).
45
  Sori, L’emigrazione italiana dall’Unità alla seconda guerra mondiale, cit., p. 195.
46
  Ivi, p. 192.

24
Mamma mia dammi cento lire che in America voglio andar…

i grandi movimenti di emigranti, esuli e rifugiati che attraversarono


il mondo intero e, soprattutto, la situazione che vivono oggi in Italia
gli immigrati che fuggono da difficili – e spesso terribili – condizioni
politiche, economiche e ambientali. In questo senso, la considerazio-
ne del fenomeno su scala mondiale serve a definirlo come costante e
continuo nella storia, quindi non eccezionale, mettendo in discussio-
ne paradigmi tradizionali e acquisizioni plurisecolari e facendo così
abbassare la guardia sugli eccessivi allarmismi sempre più incalzanti
e sulle pulsioni xenofobe spesso incoraggiati dai media e da certe po-
litiche di Paesi che sentono minacciate le loro identità47.
Al di là della considerazione del fenomeno da un punto di vista
storico e sociale, di notevole importanza si rivela lo studio della let-
teratura vergata da protagonisti e testimoni del fenomeno che offre
la possibilità di ripensare la nostra storia. Come ogni altra emigra-
zione, infatti, anche quella italiana fu accompagnata, fin da subito,
da una fitta produzione di scritture, spesso deliberatamente lettera-
rie. In Italia, un fondamentale contributo allo studio della tematica
migratoria in chiave letteraria è stato, ed è, offerto dalla fondazione,
nel 1989, di “Altreitalie”, rivista internazionale di studi sulle migra-
zioni italiane nel mondo48. A questa iniziativa si è affiancata nel 2008
“Oltreoceano”, una rivista sul tema delle migrazioni organo ufficiale
del CILM (Centro Internazionale Letterature migranti), primo centro
studi italiano il cui obiettivo è lo studio delle produzioni culturali del-
le comunità italiane transoceaniche49. Grazie a questo tipo di centri
di dibattito culturale, sempre maggiore risulta il valore di quei testi
letterari o paraletterari, prodotti al di qua o al di là dell’Oceano che
tradizionalmente hanno ricevuto scarsa attenzione dalla critica italia-
na e che invece risultano di grande interesse per la ricostruzione e la
rappresentazione della nostra emigrazione. In questo panorama gua-
dagnano spazio d’interesse anche le voci femminili, a lungo trascura-

47
  Cfr. Paola Corti, Storia delle migrazioni internazionali, Laterza, Roma, 2003, p. IX.
48
  Molti saggi sono reperibili online all’indirizzo: http://www.altreitalie.it/Pubbli-
cazioni/Rivista/Rivista.kl.
49
  La rivista «accoglie studi di carattere letterario, linguistico e culturale sulle comu-
nità migranti d’oltreoceano – friulane in particolare –, approfondendo i legami sim-
bolici, linguistici e storici che uniscono realtà diverse e analizzando connessioni con
altre lingue minoritarie e le loro poetiche migranti». Gli articoli sono consultabili sul
sito: http://riviste.forumeditrice.it/oltreoceano.

25
Con biglietto di andata

te, ma altrettanto rilevanti all’interno delle dinamiche della mobilità


migratoria. L’équipe di “Oltreoceano-Centro Internazionale letteratu-
re Migranti” si impegna a delineare un corpus di testi caratterizzati
da una specifica continuità o intertestualità che, a dispetto della sua
stessa eterogeneità, potrebbe essere considerata un genere letterario a
sé stante50. I temi predominanti dei testi della nostra letteratura della
e sulla migrazione riguardano il viaggio di andata e anche, in alcuni
casi, di ritorno alle origini; il mito di “fare l’America”, il ricordo del
passato, la convivenza con gli autoctoni, i conflitti identitari, lo scarto
fra presente e passato, fra realtà originaria e realtà nuova, fra storia
individuale e storia collettiva.
Questa letteratura – come ogni altra scrittura della migrazione
– bipartisce lo sguardo degli autori tra la struggente frattura di chi
resta, lo straniamento nel Paese di accoglienza e lo smarrimento per
la distanza dagli elementi costitutivi della cultura di origine che pre-
scindono dalla tradizione odeporica per intrecciarsi piuttosto con il
canto degli esuli; e, per altro verso, con le letterature postcoloniali
delle quali condivide relazioni, contaminazioni e compresenze cultu-
rali, nonché ibridazioni linguistiche con la o le lingue con le quali gli
emigrati si sono trovati a dover interagire.  Sarebbe tuttavia impossi-
bile, per ovvie ragioni, offrire qui un panorama pur approssimativo
delle ricorrenze letterarie che hanno voluto, nelle modalità più diver-
sificate e sotto la spinta delle variegate, e spesso anche molto distanti,
vicende biografiche ed intellettuali degli autori, ‘raccontare’ la dia-
spora italiana. Leggere e ascoltare l’esperienza di persone che hanno
vissuto, o vivono, sulla propria pelle episodi di discriminazione e di
razzismo; cercare di entrare in empatia con problematiche che non
sembrano sfiorare chi non ha mai vissuto la migrazione; rovesciare
i punti di vista e le prospettive abituali, rappresentano dei modi per
accrescere conoscenze, smantellare stereotipi, diffondere e rafforzare
una prospettiva di tipo, appunto, interculturale51.

50
  Cfr. Silvana Serafin, Letteratura migrante. Alcune considerazioni per la definizione di un
genere letterario, in “Altre modernità”, n. sp. Migrazioni, diaspora, esilio nelle letterature
e culture ispanoamericane, giungo 2014, pp. 1-17. p. 4.
51
  Cfr. Ivi, p. 11.

26
II

L’esodo verso le Americhe raccontato dalla letteratura


italiana

Di fronte al fenomeno emigratorio che ha condotto tra la fine


dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento milioni di italiani
verso le Americhe, la letteratura italiana postunitaria ha visto i suoi
esponenti dividersi tra posizioni contrastanti1 alle quali ha fatto eco,
in ambito letterario, un atteggiamento altrettanto contraddittorio2. Se
da un lato la nostra letteratura si è occupata infatti solo in modo spo-
radico3 del generale fenomeno sociale, dall’altro ha comunque lascia-
to trasparire come proprio quel “sogno americano” avesse permeato
l’intera popolazione dello Stivale4. All’interno della società italiana,

1
  Cfr. Fernando Manzotti, La polemica sull’emigrazione nell’Italia unita fino alla prima guerra
mondiale, in “Nuova Rivista storica”, XLVI, 1962, I-II, pp. 225-281; ivi, XLVI, 1962, V-VI,
pp. 443-518; ivi, XLVII, 1963, I-II, pp. 23-101 [poi, Milano, Soc. Ed. Dante Alighieri, 1962];
Id., L’Italia di fronte al problema emigratorio nel primo Novecento, Firenze, Le Monnier, 1969;
Angelo Filippuzzi, Il dibattito sull’emigrazione (1861-1914), Firenze, Le Monnier, 1976.
2
  Cfr. Giorgio Bertone, Immagini letterarie dell’emigrazione tra Otto e Novecento, in Un
altro Veneto. Saggi e studi di storia dell’emigrazione nei secoli XIX e XX, a cura di Emilio
Franzina, Abano Terme, Francisci Editore, 1983, pp. 405-446.
3
  «La costruzione dello stato italiano è frutto di una doppia interdizione, che è ser-
vita ad annebbiare le dirette  attestazioni delle forme di una cittadinanza di se-
conda classe, così che la  voce silenziata di individui e ceti trascinati  nella amara
storia del dispatrio è stata coperta  dal linguaggio enfatico del potere, riflesso in
un discorso letterario  attento a marginalizzare la rappresentazione dei fenomeni
in atto» (Fulvio Pezzarosa, Altri modi di leggere il mondo in Leggere il testo e il mondo.
Vent’anni di scritture della migrazione in Italia, Fulvio Pezzarossa e Ilaria Rossini (a
cura di), Bologna, Clueb, 2011, pp. XI-XII); cfr. anche Sebastiano Martelli, Letteratura
delle migrazioni, in  Paola Corti e Matteo Sanfilippo (a cura di), Storia d’Italia. Annali
24: Migrazioni, Torino, Einaudi, 2009, pp. 725-742. 
4
  Cfr. Emilio Franzina, Gli Italiani al Nuovo Mondo: emigrazione italiana in America, 1492-
1942, Milano, Mondadori, 1995; Ilaria Serra, Immagini di un immaginario. L’emigrazione
Con biglietto di andata

del resto, non v’era chi non fosse fisicamente, affettivamente, emoti-
vamente o intellettualmente coinvolto da quel fenomeno. L’America
incarnava, nel momento della giovanissima Italia liberale, la moder-
nità compiuta e realizzata che faceva da contraltare ad un’Europa
ancorata alla storia, alle tradizioni e ai valori culturali. E la lettera-
tura, seppur in modo disorganico ed estremamente variegato, non è
rimasta sorda al problema. Pur trattandosi di interventi occasionali,
ma non per questo numericamente inconsistenti, i testi della Lettera-
tura italiana che hanno contribuito a raccontare questo spaccato della
nostra Storia hanno certamente in comune, se si guarda al fenomeno
in chiave macroscopica, la dimensione quasi sempre localistica del
punto di vista. Vissuto in modo problematico dalle forze politiche e
culturali del post Risorgimento, l’esodo degli italiani oltreoceano si
fa trauma per chi parte e per chi resta5. Un trauma che nel corso del
XX secolo si è trasformato in un complesso tabù socio-culturale. Del
resto, la letteratura di fine Ottocento/inizio Novecento, d’ispirazione
risorgimentale-patriottica, aveva teso ad esaltare l’Unità come pro-
cesso di riscatto della Nazione e di promessa di uno sviluppo futuro,
cercando in tutti i modi di serbare un certo pudore sulla condizione di
insuccesso e di difficoltà socioeconomica alla base dell’emigrazione.
E non si dimentichi, poi, come più tardi – a partire dalla seconda metà
degli anni Venti –, la politica fascista abbia cercato di scoraggiare, ma
anche di continuare ad occultare, questo fenomeno di enormi propor-
zioni ostacolando la elaborazione di quel trauma culturale. Perché un
evento traumatico assuma lo status, appunto, di un trauma, bisogna
che sia interpretato come tale. Se i processi di elaborazione del pas-
sato entro cui si definiscono i criteri di plausibilità e di rilevanza, me-
diante i quali l’immenso patrimonio delle tracce del passato poten-

italiana negli Stati Uniti fra due secoli (1890-1924), Verona, Cierre Edizioni, 1998; Mauri-
zio Dovigi, Mollo tutto e vado in America. Guida pratica al sogno americano, Milano, Mur-
sia, 2001; Emigrazione italiana 1870-1970, Atti dei colloqui di Roma (19-20 settembre
1989; 29-31 ottobre 1990; 28-30 ottobre 1991; 28-30 ottobre 1993), Roma, Ministero dei
Beni e delle Attività Culturali, Direzione Generale per gli Archivi, 2002.
5
  «L’emigrazione è solo abbandono, sofferenza e, alla fine, follia e morte. Dell’Ame-
rica non si percepisce nulla, salvo il dolore di chi resta. L’America è un sortilegio,
una magia maligna che avvolge chi parte, spregiando gli affetti, i doveri, la terra»
Gianni Paoletti, Vite ritrovate. Emigrazione e letteratura italiana di Otto e Novecento,
Foligno, Editoriale Umbra, 2011, p. 48.

30
L’esodo verso le Americhe raccontato dalla letteratura italiana

zialmente disponibili alla società e ai gruppi che la compongono, non


sfociano nella consapevolezza di essere stati implicati in qualcosa di
orrendo che ha lasciato un marchio indelebile sulla coscienza di tutto
un popolo, sembra consequenziale che sia impossibile far maturare
una compiuta memoria collettiva6.
La frammentazione temporale, geografica e socio-culturale alla
base della nostra emigrazione, non poteva comunque che rispec-
chiarsi anche nei testi letterari determinando la focalizzazione neces-
sariamente parziale della rappresentazione del fenomeno da parte
dei nostri intellettuali7. Non sorprende dunque che la maggior parte
degli autori della nostra letteratura, pur nella variegatura di generi e
di orizzonti ideologici, abbia scelto di affrontare questo tema da una
prospettiva eminentemente regionalistica e, il più delle volte, ponen-
dosi dalla parte di chi è rimasto. I nostri scrittori, tuttavia e seppur in
modo disorganico, hanno accompagnato l’emigrazione italiana verso
il Continente americano lungo l’arco del suo intero dipanarsi e fin
dalla seconda metà dell’Ottocento8.
Si tralasciano qui volutamente illustri predecessori della nostra
presenza massiccia oltreoceano quale, fra gli altri, quel Emanuele Co-
negliano, prelato, libertino e apprezzato librettista mozartiano noto
con il nome di Lorenzo da Ponte. Caduto in sfortuna a causa della sua
condotta licenziosa decise, dopo molte peregrinazioni di trasferirsi a
New York dove, oltre ad insegnare prima a scuola e poi presso la Co-
lumbia University, fu il primo ambasciatore oltreoceano non solo del-
la nostra tradizione melodrammatica (Rossini, Bellini, Mercadante)
ma anche della nostra letteratura che fece circolare grazie all’apertura
di una libreria alla quale dedicò impegno e abnegazione. Per quanto

6
  Cfr. Jürgen Habermas, Storia e critica dell’opinione pubblica (1962), tr. it. di Augusto
Illuminati, Ferruccio Masini, Wanda Perretta, Roma-Bari, Laterza, 1971.
7
  «La frammentazione geografica e socio culturale dell'Italia si riflette sulla natura dei flussi in 
uscita, caratterizzati da peculiarità locali, e determina, per certi versi, l'inevitabile parzialità 
della visione e rappresentazione del fenomeno da parte degli intellettuali italiani» (Teresa
Fiore, Andata e ritorni. Storie di emigrazione nella letteratura tra Ottocento e Novecento
(Capuana, Messina, Pirandello, Sciascia e Camilleri), in “Neos. Rivista di storia dell’e-
migrazione siciliana”, II, 1, dicembre 2008, pp. 265-275, p. 266).
8
  Cfr. Paoletti, Vite ritrovate, cit. Un fitta e puntuale panoramica è offerta da Emilio
Franzina, Dall’Arcadia in America. Attività letteraria ed emigrazione transoceanica in Ita-
lia (1850-1940), Torino, Edizioni della Fondazione Giovanni Agnelli, 1996.

31
Con biglietto di andata

in via meramente esemplificativa, si focalizzerà lo sguardo sull’atten-


zione riservata al fenomeno dalla letteratura italiana a partire dalla
metà del XIX secolo quando, cioè, esso assunse proporzioni socio-
logiche di non eludibile portata. Tra i primissimi a trasporre lettera-
riamente il fenomeno dell’emigrazione transoceanica, già alla metà
dell’Ottocento – e cioè prima ancora che fosse compiuto il progetto di
unità nazionale –, è giusto ricordare, per cominciare, Antonio Caccia
che nel 1850 con Europa d’America (Scene di vita dal 1848 al 1850)9, offre
un resoconto romanzato della vicenda emigratoria dei due protago-
nisti, Arturo e Alfredo, costretti ad emigrare rispettivamente a New
York e a New Orleans in seguito al fallimento della ditta paterna. Nel
1876, Paolo Mantegazza consegna ai lettori il suo Il dio ignoto10, un
romanzo epistolare in cui si racconta di Attilio, un giovane dottore in
giurisprudenza affascinato dall’idea di ricominciare la vita in Argen-
tina. Anton Giulio Barilli ne La Sirena11 mette in scena, a sua volta, il
personaggio di Jean Bart che abbandona il seminario per cercar for-
tuna in America e, soprattutto, per affrancarsi dalla tentazione di un
amore impossibile. In questi primi testi l’emigrazione è rappresentata
da un punto di vista eminentemente individualistico che si intreccia
con le motivazioni ideologiche, che restano spesso in filigrana, degli
esuli mazziniani in cerca di riparo soprattutto negli Stati Uniti. Un
occhio più attento al più vasto problema sociale è, invece, presentato
nel 1869 da Giuseppe Guerzoni ne La tratta dei fanciulli. Pagine del pro-
blema sociale in Italia12, in cui l’autore denuncia l’emigrazione forzata
dei giovani fanciulli calabresi e lucani sottratti alle famiglie per essere
condotti, stipati all’interno di navi fatiscenti, alla volta delle Ameri-
che dove sarebbero stati costretti a chiedere l’elemosina per le strade.
Sulla stessa tragica realtà insiste anche l’abate Giacomo Zanella che,
ne Il piccolo calabrese. Racconto13, denuncia il traffico illegale di bambi-
ni suonatori d’arpa e di violino originari della provincia di Potenza

9
  Monaco, Giorgio Franz Editore, 1850.
10
  Milano, Brigola, 1876.
11
  Roma, Sommaruga, 1883.
12
  Milano, Treves, 1869; cfr. a proposito di questa miscunosciuta triste parentesi della
nostra storia, Mario Enrico Ferrari I mercanti di fanciulli nelle campagne e la tratta dei
minori, una realtà sociale dell’Italia fra ‘800 e ‘900, in “Movimento Operaio e Socialista,
n.s. 1, VI, 1983, pp. 87-108.
13
  Firenze Barbera, 1871.

32
L’esodo verso le Americhe raccontato dalla letteratura italiana

rappresentati, nel testo, dal piccolo Cirillo. Nello stesso anno vede la
luce Portafoglio di un operaio di Cesare Cantù14 in cui l’autore mette in
scena il personaggio di Savino Savini emigrato dal Sud della penisola
al Nord in cerca di lavoro che decide, poi, di imbarcarsi alla volta
dell’Argentina prima di venire dissuaso dal timore di incontrare la
morte per mare.
A guardare all’emigrazione come problema economico e sociale
in larga scala è, per primo, il liberale garibaldino Antonio Marazzi,
diplomatico a Malta, Tunisi e Buenos Aires, scrittore ed antropologo,
che, nel 1880 di ritorno dalla sua permanenza in Argentina, pubblica
Emigrati, studio e racconto15, un roman-feuilleton in tre volumi che ebbe
un immediato successo di pubblico e che, raccontando l’emigrazione
come una scommessa non sempre fortunata, resta una preziosa anali-
si sociologica sulle vicende umane di tanti nostri connazionali.
Particolarmente attento al fenomeno della emigrazione è anche,
come è noto, Edmondo De Amicis che dopo aver offerto nel 1881
un omaggio ai connazionali costretti a espatriare con i versi di Gli
emigranti16, continuerà a dar prova della sua sensibilità rispetto, in
special modo, alla “fuga” verso il Nuovo Mondo, anche con la sua
produzione narrativa17. Fin dai versi de Gli emigranti, l’attenzione del-
lo scrittore è rivolta, in particolare, verso la traversata transatlantica
benché non manchino gli accenti di denuncia rivolti innanzitutto alla
classe dirigente borghese che egli vuole invitare a prendere coscienza
del fenomeno. De Amicis conosce le cause della partenza («Varcano
i mari per cercar del pane.»), sa della truffa affaristica che si alimen-
ta a spese dei poveri emigranti («Traditi da un mercante menzogne-
ro…»), fiuta i sentimenti che si dibattono nel cuore di coloro che son
costretti a partire («Pur nell’angoscia di quell’ultim’ora / il suol che
li rifiuta amano ancora…; E ognuno forse sprigionando un grido /
se lo potesse tornerebbe al lido…»), è consapevole dei disagi a cui
vanno incontro quei miseri viaggiatori («Vanno, oggetto di scherno

14
  Milano, G. Agnelli, 1871.
15
  Milano, F.lli Dumolard, 1880-1881, 3 voll. (t. I: Dall’Europa in America: studio e rac-
conto; t. II: In America: studio e racconto; t. III: Dall’America in Europa: studio e racconto).
16
  La lirica è stata raccolta in Poesie, Milano, Treves, 1880.
17
  Cfr. Cuore, Milano, Treves, s.d. [1886]; In America, Roma, Enrico Voghera, 1897;
Sull’Oceano, Milano, Treves, 1889.

33
Con biglietto di andata

allo straniero, / bestie da soma, dispregiati iloti, / Carne da cimitero, /


vanno a campar d’angoscia in lidi ignoti»), compartecipa dell’ango-
scia dell’abbandono dei luoghi patri («E li han nel core in quei solenni
istanti/ i bei clivi di allegre acque sonanti / E le chiesette candide»),
per chiudere, poi, con una raccomandazione alla solidarietà («Datevi
pace e fatevi coraggio. / Stringete il nodo dei fraterni affetti / riparate
dal freddo i fanciulletti, / Dividetevi i cenci, i soldi, il pane, / Sfidate
uniti e stretti / L’imperversar de le sciagure umane.»).
L’11 marzo 1884, in piena ondata emigratoria, De Amicis – sol-
lecitato dall’editore Treves e rispondendo all’invito del quotidiano
“Nacional” sulle colonne del quale aveva già pubblicato alcune cor-
rispondenze – si imbarca dal porto di Genova, insieme a 1.600 emi-
granti italiani, sul piroscafo Nord America (denominato nel testo
Galileo) diretto in Argentina. Le impressioni della traversata saranno
oggetto, qualche anno più tardi di Sull’Oceano, un testo commissio-
nato, appunto, da Emilio Treves. Rientrato in Italia, però, lo scrittore
decide di accantonare momentaneamente il progetto per dedicarsi
alla stesura di Cuore. All’interno del testo, l’episodio intitolato Dagli
Appennini alle Ande18 narra del viaggio tormentato intrapreso da Mar-
co, un ragazzo di tredici anni che, da Genova, si imbarca alla volta di
Buenos Aires in cerca della madre, emigrata per lavoro, che il giova-
ne protagonista ritroverà dopo molte traversie. A bordo della nave
che lo porta in Argentina, Marco alterna momenti di sofferenza e di
paura, per il mare agitato, a giornate di caldo insopportabile e di noia
infinita: «E il viaggio non finiva mai: mare e cielo, cielo e mare, oggi
come ieri, domani come oggi, – ancora, – sempre, eternamente» (p.
120). Anche in alcuni altri dei racconti raccolti in Cuore si riscontrano
accenni all’emigrazione: ne I miei compagni si viene a sapere che il pa-
dre del compagno Nobis è andato in America (p. 32); ne In una soffitta,
la lavandaia lamenta della sua misera situazione economica a causa
della lontananza del marito partito in America (p. 36), in Una bella
visita il compagno Crossi partecipa di esser felice perché il padre ha
scritto dall’America annunziando il suo prossimo rientro (p. 85), che
effettivamente avrà luogo nell’episodio Il vaporino (p. 104).

18
  L’episodio era già stato anticipato dall’autore il 1 ottobre dello stesso 1886 su
“Nuova Antologia”, s. III, vol. V, f. XIX.

34
L’esodo verso le Americhe raccontato dalla letteratura italiana

Una maggiore focalizzazione sulle condizioni umane e sociali


vissute dagli emigranti italiani per i quali – seppur nell’America del
Sud l’accoglienza fosse decisamente migliore che negli Stati Uniti –,
le cose non erano poi sempre così semplici, è evidente ne In Ameri-
ca una raccolta di riflessioni sull’emigrazione nella quale figurano,
tra gli altri, il testo della conferenza tenuta a Trieste e poi ripetuta a
Venezia dal titolo I nostri contadini in America, assieme ai Quadri della
Pampa, allo struggente racconto Nella baia di Rio de Janeiro, ma anche
ad altri frammenti di storie d’emigrazione. All’interno della raccolta,
indulgendo a caratterizzazioni regionalistiche, De Amicis riassume,
in brevi pagine, una tematica essenziale per comprendere e far com-
prendere come dietro l’attrazione esercitata dal mito dell’America vi
siano ad attendere i nostri connazionali Oltreoceano difficili prove da
superare come la discriminazione, lo sfruttamento e la miseria.
Nel 1889 vede poi finalmente la luce Sull’Oceano, un romanzo co-
struito ancora una volta su una successione di racconti brevi attraverso
i quali l’autore esplora la genesi di quel sentimento o, per meglio dire,
del risentimento di quegli individui costretti a lasciare il Paese, che pur
avendo trovato ampia trattazione negli studi filosofici e sociologici, era
stato fino a quel momento poco esplorato nei testi letterari focalizzati
sull’emigrazione. Descrivendo lo “spettacolo” penoso dei passeggeri di
terza classe («corpi sopra corpi»), De Amicis passa in rassegna, insieme
alla provenienza sociale e regionale, tutto lo spettro delle motivazioni
dell’esodo. Sia nelle situazioni che nella scelta lessicale, lo scrittore li-
gure utilizza l’immagine classica dell’inferno dantesco per descrivere
la condizione di estrema sofferenza dei miseri emigranti. Ecco il brano
con cui si apre il testo, che descrive l’imbarco al porto di Genova:

Quando arrivai, verso sera, l’imbarco degli emigranti era già comin-
ciato da un’ora […]: una processione interminabile di gente usciva a
gruppi dall’edificio dirimpetto, dove un delegato della Questura esa-
minava i passaporti. La maggior parte, avendo passato una o due not-
ti all’aria aperta, accucciati come cani per le strade di Genova, erano
stanchi e pieni di sonno. Operai, contadini, donne con bambini alla
mammella, ragazzetti che avevano ancora attaccata al petto la pias-
trina di latta dell’asilo infantile passavano, portando quasi tutti una
seggiola pieghevole sotto il braccio, sacche e valigie d’ogni forma alla
mano o sul capo, bracciate di materassi e di coperte, e il biglietto col
numero della cuccetta stretto fra le labbra» (pp. 5, 7).

35
Con biglietto di andata

Il testo riproduce con piglio impressionistico, all’interno di un mi-


cro-mondo, un mirabile spaccato della società italiana di quegli anni.
Per rendere più realistica la narrazione l’autore fa ricorso alla varietà
dei registri linguistici e dialettali che dividevano, insieme all’econo-
mia, gli strati sociali: distanze che metaforicamente ripropone nella
suddivisione dei passeggeri tra prima, seconda e terza classe. L’ope-
ra, destinata a restare come caposaldo della nascita in Italia del ro-
manzo di emigrazione, ottenne uno straordinario successo e divenne
un modello obbligato per coloro che si accingevano a scrivere della
traversata transoceanica. Anche per De Amicis, insomma, le cause
dell’emigrazione si limitano, quasi esclusivamente, «al cosiddetto
meccanismo di espulsione e vertono in sostanza sulla questione so-
ciale vista dall’Italia e per l’Italia»19: un punto di vista che riduce l’in-
terpretazione del fenomeno a uno solo dei suoi molti aspetti.
Già qualche anno prima, nel 1875, Giovanni Verga aveva accen-
nato al problema dell’emigrazione in Tigre reale20, dove, in una scena,
Carlo deve raggiungere il porto di Genova per imbarcarsi alla volta
di un’America definita «un brutto paese dove si ammazzano come
cani arrabbiati»21. Nel 1881 Verga affronterà ancora, seppur in modo
indiretto, il tema ne I Malavoglia22. A far da sfondo alle vicende che si
intrecciano intorno alla famiglia Toscano sono proprio le trasforma-
zioni socio-economiche che avrebbero portato, nel giro di pochissimi
anni, all’emigrazione di massa dal Meridione d’Italia. ‘Ntoni, irretito
da due giovani compaesani – che partiti qualche anno prima, torna-
no millantando ricchezza e raccontando mirabilie del Nuovo Mondo
– parte con il fagotto sulle spalle e le scarpe in mano (cfr. cap. XI).
Costretto, nel giro di breve tempo, a tornare lacero e pezzente, decide
di assumere il compito di disincentivare quei giovani che come lui so-

19
  Franzina, Dall’Arcadia in America, cit., p. 91.
20
  Milano, Brigola, 1875.
21
  La citazione è tratta da Tutti i romanzi, II, a cura di Enrico Ghidetti, Firenze, Sanso-
ni, 1983, p. 248.
22
  Milano, Treves, 1881. È particolarmente interessante osservare la strategia narrati-
va del capitolo XI dei Malavoglia con cui Verga fa stipulare un patto tra ’Ntoni e la
madre, la Longa, per definire i tempi della partenza di ’Ntoni. Egli potrà andare via,
solo dopo la morte della madre. Per liberare il figlio dalla sua insofferenza la Longa
si infetta di colera per morire improvvisamente e per permettere al figlio di andare
a realizzare il suo progetto di vita lontano da Trezza.

36
L’esodo verso le Americhe raccontato dalla letteratura italiana

gnano di avventurarsi oltreoceano. Eppure, la critica del tempo non si


accorse del forte messaggio di allarme affidato dall’autore al suo gio-
vane personaggio23: l’emigrazione non è fuga ma progettualità anche
se il bilancio tra costi e benefici è spesso troppo alto.
Va poi ricordato che, seppur in modo non esplicito, chiari riferi-
menti alla storia della nostra emigrazione sono presenti anche nel
romanzo per ragazzi Storia di un burattino che Carlo Lorenzini firma
nel 1881 con il più noto pseudonimo di Carlo Collodi. Il testo uscì,
nella sua prima versione, in otto puntate, tra il 7 luglio e il 27 ottobre
di quell’anno, su il “Giornale per bambini”, supplemento al quoti-
diano “Il Fanfulla” diretto da Ferdinando Martini. Nel capitolo XII
Mangiafuoco regala cinque monete d’oro a Pinocchio che, invogliato
dal Gatto e dalla Volpe, decide di investirli nel paese dei Barbagianni
dove si trova il Campo dei miracoli. Nel capitolo XIII, intitolato L’oste-
ria del Gambero rosso, l’autore informa i suoi lettori che gli agenti d’e-
migrazione non praticavano soltanto l’usura ma erano spesso in com-
butta con i gestori delle osterie dei porti per un ulteriore sfruttamento
degli emigranti costretti ad affidarsi a questi ultimi per il mancato
rispetto delle date di imbarco da parte delle compagnie di naviga-
zione. A Pinocchio toccherà di versare un quinto del suo capitale per
sanare il debito contratto con il proprietario dell’osteria da parte del
Gatto, della Volpe e da lui stesso. L’opera, nella sua versione origina-
le, si chiude con l’impiccagione di Pinocchio. Cedendo alle insistenze
dell’editore, l’autore, farà di lì a poco, risuscitare il burattino dando
all’opera il titolo di Le avventure di Pinocchio24. Nella ripresa Pinocchio
rincontrerà il Gatto e la Volpe, pianterà con loro le monete d’oro nel
Campo dei miracoli e verrà derubato, mentre Geppetto è sicuro che il
suo burattino sia ormai in uno dei paesi del Nuovo Mondo25.
Ancora in quello scorcio di fine secolo, nel 1883, è Mario Rapisardi
a restituire – in un continuo intrecciarsi di topoi romantici – con i versi

23
  Cfr. Francesco Torraca (Saggi e rassegne, Livorno, F. Vigo, 1885) che pure riconobbe
la straordinaria modernità del testo e Nicola Scarano (I romanzi di Giovanni Verga,
Vela Latina, Napoli, 1915), fra gli altri, non intuirono la progettualità insita nella
pulsione migratoria.
24
  Firenze, Libreria editrice Felice Paggi, 1883.
25
  Cfr. Carlo Collodi, Pinocchio. La storia di un burattino. La prima oscura edizione
illustrata da Simone Stuto, a cura di Salvatore Ferlita, Palermo, Il Palindromo, 2019.

37
Con biglietto di andata

di Emigranti26, la drammaticità della traversata transoceanica («Veleg-


gia, o nave, stridi, vapor. Fredda è la notte, / Sanguigni ardono i lam-
pi, il temporal gavazza / Sopra il livido mar; /Scoppia un urlo pe’l
cieco aere...Fra l’assi rotte, / Fra’ galleggianti corpi una vorace razza
/ Di squali al giorno appar. /Veleggia, o nave, stridi, vapor. Che mira
in fondo, / Fra cielo ed acque, il misero superstite? S’affaccia, / Ecco,
la terra è là; / Ma ritta su la riva del sospirato mondo, / Col ghigno su
le labbra, con spalancate braccia / La Fame orrenda sta»).
Nel 1884 Ferdinando Fontana, esponente della tarda Scapigliatura
e collaboratore de “La Farfalla”, e Dario Papa, giornalista de “L’A-
rena” e del “Corriere della Sera”, che avevano soggiornato nel 1881
insieme negli Stati Uniti, propongono New York27, un affresco che
nell’esaltare il modello di federalismo di Lincoln, mette in scena, per
la prima volta, le dure condizioni di vita con le quali erano costretti
a confrontarsi, all’interno della grande metropoli, gli emigrati italiani
di fine Ottocento:

[…] saliva verso di me un odore insipido e un po’ nauseabondo,


quell’odore che è speciale agli ospedali, ai manicomi, alle prigioni,
a tutti quei luoghi, insomma, in cui vengono raccolti molti esseri: un
odore di miasma e di chiuso, di fiato corrotto e di sostanze organiche
in macerazione, acuito da un lieve sentore di polvere. (p. 96)

Sul finire degli anni Ottanta, Giuseppe Giacosa restituisce in Im-


pressioni d’America28 il suo giudizio sulla società statunitense matura-
to nel corso del viaggio intrapreso alla volta di New York per seguire
la rappresentazione de La dame de Challant scritta per Sarah Bernhardt
e da lei stessa interpretata il 2 dicembre 1890 allo Standard Theatre.
In quella società, egli nota, «[…] un elemento imponderabile man-
ca: la testimonianza del passato. Manca la storia, manca la profonda
vibrazione ideale ond’è accresciuta la bellezza delle cose belle, man-
cano le immagini e le voci de secoli morti» (p. 47). In un successivo
intervento, Gli italiani a New York ed a Chicago29, l’attenzione di Gia-

26
  Raccolta in Giustizia.Versi, Catania, Giannotta, 1883.
27
  Milano, G. Galli, 1884.
28
  Milano, Cogliati, 1898.
29
  In “Nuova Antologia”, s. 3, 16, v. 40, 16 agosto 1893, pp. 619-640.

38
L’esodo verso le Americhe raccontato dalla letteratura italiana

cosa si spinge, non senza un altezzoso piglio pietistico, ad una ri-


flessione sociologica sulle condizioni di vita dei nostri connazionali
lì emigrati. Nel 1898 Ugo Ojetti, ventisettenne, si reca, per la prima
volta, negli Stati Uniti come inviato del “Corriere della Sera” per se-
guire le vicende della guerra ispano-americana; da quell’esperienza,
l’anno successivo, l’autore elaborerà il suo L’America vittoriosa30. Nel
testo la vittoria degli Stati Uniti non è soltanto strettamente bellica
ma più largamente culturale: alla vitalità e all’attivismo americani si
contrappone la provinciale e ormai decrepita ‘Italietta’ ancora immer-
sa nel ricordo del suo passato. Questo entusiasmo, tuttavia, è desti-
nato a scemare di lì a pochi anni quando, tornato negli Stati Uniti nel
1905, irriderà con pungente distacco l’arrivismo e la volgarità degli
Americani31. Le testimonianze di Giocosa e Ojetti, insomma, oltre a
confermare i progressi dell’America moderna introducono – in una
costante compresenza di mito e anti-mito, di sentimenti contrastanti
che rispecchiano la faticosa ricerca di identità della società italiana
che, proprio nel confronto con il diverso, esplicita le proprie paure e
le proprie speranze – anche una serie di giudizi ostili verso la società
statunitense 32.
Agli albori nel nuovo secolo è Luigi Pirandello, con alcune no-
velle, ad entrare nel cuore del problema; nella prospettiva piran-
delliana l’emigrazione, pur causa di dolore e di lutto per chi resta,
è un’azione necessaria non soltanto per la sopravvivenza, ma anche
e soprattutto come fuga dall’arretratezza culturale che asfissia il Pa-
ese33. Un’emigrazione, insomma, vista nell’ottica dell’evoluzionismo
spenceriano34. Fra il 1900 e il 1915 non sono pochi gli scritti in cui Pi-

30
  Milano, Treves, 1899.
31
  Cfr. Ugo Ojetti, L’America e l’Avvenire, Milano, Treves, 1905, p. 22.
32
  Cfr. Pier Paolo D’Attorre, Sogno americano e mito sovietico nell’Italia contemporanea, in
Id. (a cura di), Nemici per la pelle: sogno americano e mito sovietico nell’Italia contempo-
ranea, Milano, Angeli, 1991, p. 20; Giuseppe Massara, Viaggiatori italiani in America
(1860-1970), Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1976, pp. 88-100.
33
  Dalla Sicilia non ci si può semplicemente allontanare, se ne deve “uscire” valican-
do confini sociali e culturali, spezzando un «cerchio di arretratezza, di convenzioni,
di remore, di abitudini, di leggi» (Andrea Camilleri, Biografia del figlio cambiato, Mi-
lano, Rizzoli, 2000, p. 141).
34
  Cfr. Herbert Spencer, Social Statics, or The Conditions essential to Happiness specified,
and First of them Developed, London, John Chapman, 1851.

39
Con biglietto di andata

randello presenta il tema dell’emigrazione (Lumie di Sicilia (1900)35, Il


vitalizio (1901)36; Il fumo (1904)37;  Il fu Mattia Pascal (1904)38; Zafferanet-
ta (1910)39) spesso interna al Paese quando non, come nel caso di Lon-
tano (1902)40, in una prospettiva esattamente rovesciata. Alcuni altri
testi dello stesso periodo, però, insistono sul Continente americano41,
seppur non sempre puntualmente definito, quale meta migratoria:
Scialle nero (1900)42; L’altro figlio (1905)43; Filo d’aria (1914)44; Nell’albergo
è morto un tale (1915)45. In queste ultime novelle, Pirandello narra di
una Sicilia afflitta dalla crisi economica che costringe molti giovani
ad emigrare verso le Americhe46. A far da sfondo a questi testi, in cui
l’altrove non è presente ma solo evocato, è un entroterra ignorante
e misero i cui abitanti, spesso analfabeti, si trovavano a fare i conti
con quel mito americano che si invera, a seconda delle prospettive,
in sogno o incubo47. In queste novelle Pirandello non offre alcuna im-
magine dell’America – che, del resto, non conosce ancora –, preferen-
do porre l’accento sulla disperazione di chi resta o, in altri casi, sulla
impossibilità del ritorno una volta che ci si è allontanati. Ma se l’emi-

35
  In “Il Marzocco”, 20 e 27 giugno 1900.
36
  In “Natura e Arte”, 1 e 15 marzo 1901.
37
  Raccolta in Bianche e nere, Torino, Renzo Streglio e C. Editori, 1904.
38
  In “Nuova Antologia”, aprile-maggio 1904.
39
  In “Corriere della Sera”, 27 maggio 1911.
40
  In “Nuova Antologia”, 1 e 16 gennaio 1902.
41
 Cfr. Hanna Serkowska, “… per mare si soffre o non si soffre?”: alcune osservazioni a
margine dell’emigrazione nelle novelle pirandelliane, in … centomila Pirandello: saggi cri-
tici, Atti del convegno tenuto a Varsavia nel 2013, a cura di Joanna Szymanowska e
Izabella Napiórkowska, Vicchio, LoGisma Editore, 2014, pp. 139-148.
42
  Raccolta in Bianche e nere, Torino, Renzo Streglio e C. Editori, 1904.
43
  In “La letteratura”, febbraio 1905; poi in Erma bifronte, Milano, Treves, 1906 e in
Novelle per un anno, Firenze, Bemporad, 1923.
44
  In “Corriere della Sera”, 26 aprile 1914.
45
  Raccolta in E domani, lunedì, Milano, Treves, 1917.
46
  «anticipando di circa un trentennio le indicazioni gramsciane sulla letteratura
dell’emigrazione, Pirandello capovolge percorsi narrativi e poetici in uso fino ad al-
lora, circorscrivendo le lacerazioni conseguenti all’emigrazione solo al mondo me-
ridionale delle origini» (Sebastiano Martelli, America, emigrazione e «follia» nell’opera
di Pirandello, in Mario Mignone (a cura di), Pirandello in America, Atti del simposio
internazionale Università Statale di New York, Stony Brook, 30 ottobre-1 novembre
1986, Roma, Bulzoni, 1988, pp. 211-235, p. 231).
47
  Cfr. Claudia Dall’Osso, Voglia d’America. Il mito americano in Italia tra Otto e Nove-
cento, Roma, Donzelli, 2007.

40
L’esodo verso le Americhe raccontato dalla letteratura italiana

grazione è lutto e dolore, la Sicilia è, per lo scrittore, troppo periferica


per cogliere quelle novità che altrove, e anche nella stessa Europa,
avevano già modificato gli schemi sociali e culturali. L’emigrazione
allora, per quanto dolorosa, è necessaria, e l’America rappresenta una
grande occasione di riscatto per rompere l’immobilismo della nostra
civiltà contadina48.
Se in Scialle nero e in Filo d’aria – come già in alcuni altri dei testi
più sopra ricordati – coloro che ritornano sono destinati ad andare
incontro ad un triste destino quando non alla morte improvvisa, in
Lontano e Nell’albergo è morto un tale è l’Oceano a rappresentare quel li-
mite invalicabile infrangendo il quale è possibile incontrare la morte;
è il simbolo metonimico dello spostamento senza certezza né di arri-
vo né di ritorno; è l’incertezza che spaventa la «povera vecchia signo-
ra in gramaglie che […] deve andare in America e non ha viaggiato
mai»49; mentre «L’uomo che ha passato l’oceano è morto, in un letto
d’albergo, la prima notte che ha toccato terra» (p. 727). Se il padre
della giovane protagonista di Lontano muore di febbre gialla appena
sbarcato in America50 vanificando il proprio sogno e l’investimento
affettivo della figlia, in contraltare Rosario Funardi, un imprenditore
che aveva fatto fortuna nel Nuovo Mondo, protagonista “assente”
della seconda novella, incontra la morte non appena rientrato. Ne
L’altro figlio, Pirandello consegna, invece, al lettore un Sud dilania-
to tra emigrazione e brigantaggio, profonde ferite di una lotta per
la sopravvivenza fra gli umili e risposte alla crisi dello Stato. Una
rappresentazione delle cose, questa, che richiama molto da vicino
la posizione espressa un decennio prima da Francesco Saverio Nitti
nella sua arringa contro la proposta di legge Crispi sull’emigrazio-
ne51. La novella, in particolare, narra la storia di Maragrazia, madre

48
  «L’americanismo ci sommerge. Credo che un nuovo faro di civiltà si sia acceso
laggiù» (Luigi Pirandello, intervista rilasciata a Corrado Alvaro, in “L’Italia lettera-
ria”, 14 aprile 1929, cito da Antonio Gramsci, Americanismo e fordismo, Quaderno 22,
Torino, Einaudi, 1978, p. 109).
49
  Cito da Novelle per un anno, a cura di Mario Costanzo, Prefazione di Giovanni Mac-
chia, Milano, Mondadori, 1985, 2 voll.,t. II, p. 723.
50
  Ivi, p. 802.
51
  «in alcune delle nostre province del mezzogiorno specialmente, dove grande è la
miseria e dove grandi sono le ingiustizie che opprimono ancora le classi più dise-
redate dalla fortuna, è una legge triste e fatale: o emigranti o briganti» (Francesco

41
Con biglietto di andata

di figli emigrati, che, afflitta dal dolore dell’abbondono che non riesce
ad accettare e ad elaborare, viene etichettata dalla piccola comunità
all’interno della quale vive, come folle:

È matta da quattordici anni, sa? Da che le son partiti quei due figlioli
per l’America. Non vuole ammettere che essi si siano scordati di
lei, com’è la verità, e s’ostina a scrivere, a scrivere… Ora, tanto per
accontentarla, io fingo… così, di farle lettera; quelli che partono, poi,
fingono di prendersela per recapitarla. E lei, poveraccia, s’illude52.

La certezza con cui Pirandello insiste sull’impossibilità del ritorno,


sulla frattura tra chi è rimasto oltremare e chi rientra in patria, confer-
ma l’ineluttabilità dell’emigrare abbracciando per tal via anche il pen-
siero verista per il quale l’emigrazione sospende il conflitto ma non
lo risolve. Nel periodo in cui ha scritto queste novelle, Pirandello non
ha ancora nessuna esperienza diretta del Continente americano, per
cui sembra conseguenziale che il suo punto di vista non possa che ab-
bracciare il fenomeno guardando alle implicazioni sociologiche di una
massa di individui alla deriva. La sua creazione narrativa, però, oltre
che dall’attenta osservazione del fenomeno sociale in chiave localistica,
trae alcuni spunti proprio dalle opere di altri autori che lo scrittore ave-
va avuto modo di conoscere a fondo. Il 3 gennaio del 1897, Pirandello
aveva infatti recensito – firmando con lo pseudonimo Giulian Dorpelli
– per la “La Rassegna Settimanale Universale” le prose deamicisiane di
In America così come, appena qualche mese dopo, egli aveva stroncato
sullo stesso foglio Mirycae del Pascoli53 mentre nel 1904, uscivano anche
i Primi poemetti, in cui è raccolta Italy. Non sorprende, allora, se proprio
a Rosario, Pirandello, ispirandosi probabilmente alla prosa deamicisia-
na, fa emigrare i figli di Maragrazia di L’altro figlio, o se il massaro di
Scialle nero è rientrato proprio da Buenos Aires, o se ancora da La Plata

Saverio Nitti, L’emigrazione italiana e i suoi avversari, Torino, Roux, 1888; cito da Id.,
Scritti sulla questione meridionale; Edizione nazionale delle Opere, vol. I, Bari, Later-
za, 1968, p. 364).
52
  In Novelle per un anno, II, 1, a cura di Mario Costanzo, cit., p. 42.
53
  “La Rassegna Settimanale Universale”, 14 maggio, 1897. Per la polemica Pasco-
li-Pirandello cfr. Graziella Corsinovi, Pascoli e Pirandello. Storia di una polemica e di
un ossimoro critico, in “Italianistica. Rivista di letteratura italiana”, vol. 12, 2/3, mag-
gio-dicembre 1983, pp. 277-291.

42
L’esodo verso le Americhe raccontato dalla letteratura italiana

rientra il ricco costruttore di Filo d’aria; né può sorprendere che l’autore


rigetti i presupposti pascoliani di un ritorno “possibile” e “salvifico”. È
interessante notare, poi, come questa prima fase si chiuda nel 1923 con
la riduzione teatrale in atto unico de L’altro figlio54. Il mese di dicembre
di quell’anno, vede Pirandello varcare per la prima volta l’Oceano a
bordo del transatlantico Duilio, invitato a New York da Henry Ford
per dar vita ad una tournée di alcune sue prove drammaturgiche tra
le quali anche Sei personaggi in cerca d’autore, Enrico IV, e Ciascuno a suo
modo. Pirandello, che si dichiara fin da subito investito da Mussolini in
persona del compito di rappresentare la cultura italiana in America,
viene accolto trionfalmente55. Così, metaforicamente, con il favorevole
accoglimento del suo teatro negli Stati Uniti, quella ultima lettera che
Maragrazia de L’altro figlio aveva chiesto al medico di scrivere per i
suoi figli, potrà essere idealmente recapitata56 a tutti quei figli emigrati
che avevano cancellato le proprie radici. A questo primo viaggio ne-
gli Stati Uniti ne seguiranno altri due di cui l’ultimo, di tre mesi, nel
1935. Pirandello sbarca dal Conte di Savoia nel porto di New York il
20 luglio. L’anno precedente era stato insignito del premio Nobel e,
certo della sua fama ormai mondiale, il drammaturgo aveva riposto su
questo suo nuovo soggiorno sul Continente americano grandi aspetta-
tive soprattutto in campo cinematografico, dal momento che sperava
di poter trasporre, in un’opera monumentale, le sue Maschere nude. Ma
la sua mai abiurata adesione al fascismo e la campagna di Etiopia che
il Governo italiano sta per intraprendere, non giocheranno certo in suo
favore tanto che, fin dalla sua prima conferenza stampa, lo scrittore
dovrà difendersi dalle accuse dei giornalisti americani sulla politica
coloniale italiana come segue: «Anche l’America una volta era abitata
dagli Indios e voi l’avete occupata. Se era diritto il vostro, lo è anche il

54
  La prima rappresentazione ebbe luogo il 23 novembre 1923 al Teatro Nazionale
di Roma.
55
  Cfr. Pirandello messaggero d’Italianità, in “Corriere d’America”, 21 dicembre 1923.
56
  «In occasione del primo viaggio di Pirandello in America, “Il Progresso Italo-A-
mericano” di New York il 18 dicembre 1923 pubblica, insieme ad un “roboante ap-
pello” agli italo-americani – perché accorrano numerosi al molo 97 per accogliere
Pirandello che sbarcherà dal “maestoso transatlantico” Duilio – ed un saggio di
Tilgher in due puntate che fa da introduzione-presentazione critica di Pirandello
agli americani, anche il testo completo de L’altro figlio» (Martelli, America, emigrazio-
ne e «follia», cit., p. 234).

43
Con biglietto di andata

nostro»57. Nonostante la formale accoglienza – tra banchetti, concerti e


ricevimenti di ogni tipo – tributata al Premio Nobel da giornalisti, auto-
rità e operatori dello spettacolo, furono tre mesi di vane attese. Il clima
politico e sociale è completamente cambiato rispetto a quello che gli
aveva tributato grandi onori nel 1923. Il fascismo è ormai divenuto un
regime, e la sua vicinanza al Duce – pur opportunistica ma certamente
anche profondamente ideologica di veemente critica alla vita demo-
cratico-borghese in cui si crogiolava la società italiana – non lo aiuta di
certo, facendo naufragare quel sogno a lungo maturato. Deluso nelle
sue aspettative, nel corso del suo soggiorno Pirandello compone nuovi
testi narrativi58 questa volta ambientati in America fra i quali, le novelle
La casa dell’agonia (1935)59, Una sfida (1936)60, Il chiodo (1936)61, La tarta-
ruga (1936)62. L’America, ed in particolare questa volta gli Stati Uniti,
torna dunque nei suoi scritti nella veste di ambientazione delle trame
per assumere un volto completamente nuovo63. Né l’emigrazione né la
comunità di italiani trapiantati oltreoceano sono più chiamati in cau-
sa: l’attenzione dello scrittore è rivolta, ora, alla società americana. La
prima impressione sull’America che si ricava da questi ultimi scritti,
nonché dalle lettere inviate a Marta Abba, è quella di una società attiva
e frenetica. Se da un lato Pirandello non nasconde il proprio disagio per
alcune abitudini64, dall’altro è colpito dal fervore con cui, a suo dire, è
accolto65. Peraltro, se in dichiarazioni pubbliche egli esprime consenso

57
  Daniela Sani Fink, Pirandello a New York nei documenti di stampa americana, in “Qua-
derni di teatro: rivista trimestrale del Teatro regionale toscano”, III, 10, 1980, pp.
123-141, p. 134.
58
  In una lettera inviata a Marta Abba Pirandello scrive: «Ho lavorato anche qui,
sai? Ho lavorato al romanzo e ho scritto ben cinque novelle che darò al “Corriere”
subito appena arrivato» (Luigi Pirandello, Lettere a Marta Abba, Milano, Mondadori,
1995, p. 1215).
59
  In “Corriere della Sera”, 6 novembre 1935.
60
  Ivi, 1 gennaio 1936.
61
  Ivi, 21 gennaio 1936.
62
  In “La lettura”, agosto 1936.
63
  Cfr. Gaspare Giudice, Luigi Pirandello, Torino, UTET, 1963, pp. 375-380.
64
  «questo è il paese delle eterne trattative, che non conducono mai a una conclusione.
La conclusione arriva tutt’a un tratto, non si sa come né perché, inattesamente, da
dove meno Te l’aspetti; s’intende quando arriva! le trattative non servono ad altro
che a stancarti e disgustarti» (Pirandello, Lettere a Marta Abba, cit., p. 1216).
65
  «Intanto a qualche cosa il mio viaggio ha certamente servito. Vedo che c’è qui per me il più 
vivo interesse; tutti i miei passi sono seguiti dalla stampa; tutti mi vogliono vedere, direttori 

44
L’esodo verso le Americhe raccontato dalla letteratura italiana

e simpatia verso l’ambiente americano66, dalla corrispondenza privata


emergono molte riserve67. Adesso, allora, l’immagine di quell’America
del progresso viene capovolta68. Non si tratta più di quel luogo di spe-
ranza, spesso non tradita, che aveva “liberato” migliaia di Italiani dalla
miseria e dall’arretratezza, ma di una società feroce che fagocita e allo
stesso tempo annienta gli individui69. In queste novelle New York è
una città magmatica in cui “navigano” personaggi apatici e alienati: un
disagio, questo, che in vero Pirandello aveva già avvertito nel corso del
suo primo viaggio70. New York, crudele palcoscenico sul quale si con-
sumano le trame di queste novelle, affiora dalle pagine come il simbolo
di una realtà caotica che ricorda le descrizioni di Roma e di Milano de
Il Fu Mattia Pascal. Una New York in cui il quartiere di Harlem diviene
teatro di un omicidio insensato consumato ai danni di una bambina
di otto anni da un personaggio senza nome e senza storia che la colpi-
sce con un chiodo raccattato per caso per strada. Un chiodo che sem-
bra aver agito in modo autonomo al di fuori della volontà dell’uomo.
Alla violenza insensata di Harlem, fa da contraltare, poi, la campagna
dell’Old Lime nel Connecticut presentata quale “paradiso” campestre
in cui la piccola Betty, adesso morta, potrà conservare per sempre in-
contaminata la sua purezza: una immagine, questa, che recupera, ora,
l’idea pascoliana della campagna salvifica che si contrappone alla ca-
otica città. Ma New York è anche la foresta in cui ne La tartaruga vaga
smarrito Mister Myshkow; così come è ancora il vuoto nel quale Jacob
Schwarb, protagonista di Una sfida, si lancia dalla finestra della corsia
dell’ospedale psichiatrico Israel Zion Hospital di Brooklyn.

di teatro, registi, attori, attrici, e non Ti parlo dei giornalisti e dei fotografi» (Ivi, p. 1217).
66
  Cfr. Carlo Bernari, Colloquio con Pirandello, in “L’Italia letteraria”, 27 ottobre 1935,
ora, in Interviste a Pirandello. «Parole da dire, uomo, agli altri uomini», a cura di Ivan
Pupo, Prefazione di Nino Borsellino, Catanzaro, Rubbettino, 2002, p. 566.
67
  Cfr. Pirandello, Lettere a Marta Abba, cit., pp. 1219, 1222, 1223, 1224, e 1225.
68
  Cfr. Michela Nacci, L’antiamericanismo in Italia negli anni Trenta, Torino, Bollati Bo-
ringhieri, 1989.
69
  Cfr. Valentino Baldi, Pirandello and the City. I «racconti americani» nelle Novelle per un
anno, in “Strumenti critici”, XXVII, 3, settembre-dicembre 2012, pp. 477-490.
70
  Le impressioni d’America di Luigi Pirandello, in “Corriere della Sera”, 8 marzo 1924,
ora in Interviste a Pirandello, cit., p. 221.

45
Con biglietto di andata

Rifiuto, alienazione dell’emigrazione e mito americano si intrec-


ciano, agli albori del nuovo secolo, ne Il marchese di Roccaverdina71 – in
cui l’emigrazione sfocia nella morte del contadino Santi Dimaura –
così come ne Gli Americani di Ràbbato72 di Luigi Capuana. La trama del
primo dei due romanzi qui ricordati, si sviluppa intorno al conflitto
tra l’economia ancora feudale in cui crede fermamente il marchese e
la resistenza opposta dal contadino Santi Dimaura che non intende
cedere le sue terre come altri hanno, al contrario, già fatto finendo
per esser costretti ad emigrare e preferisce piuttosto impiccarsi all’in-
gresso del feudo. Il testo non riproduce dunque solo una fotografia
del degrado in cui era piombata la Sicilia postrisorgimentale così
come affermato da Benedetto Croce73, ma, soprattutto, la resistenza
disperata fino al punto di non ritorno che vince però sulla ‘sete’ del
marchese determinando la dissoluzione del suo progetto di trasfor-
mazione del feudo in azienda agricola. Il marchese, infatti, che ha
già ucciso il suo fattore Rocco Criscione, dopo la morte del Dimaura
vede annientarsi la forza lavoro e non è più in grado di realizzare
la trasformazione del feudo in azienda agricola. Ne Gli Americani di
Ràbbato, un testo indirizzato principalmente a lettori adolescenti, Ca-
puana, ripercorrendo i più ‘navigati’ luoghi comuni sulla vita degli
emigrati negli Stati Uniti, presenta l’emigrazione da più di un pun-
to di vista: è il sogno dell’Eldorado rinfocolato da Coda pelata che,
rientrato in vacanza a Ràbbato, irretisce i giovani compaesani con i
racconti delle meraviglie del nuovo mondo («“Che città, caro nonno,
che città!” continuava Coda-pelata. “Ogni giorno cose nuove!... E la
campagna? Si va, si va con le ferrovie, e non si vede altro che praterie,
qualche casa colonica, e praterie che attendono le braccia per colti-
varle...”», p. 9); ma è anche la dura vita alla quale va incontro Santi; e
la malavita nelle cui maglie si farà imprigionare Stefano (cfr. p. 43) e

71
  Milano, Treves, 1901. Il romanzo è stato recepito come la cronistoria del degrado
umano e intellettuale della aristocrazia siciliana postrisorgimentale, così come ave-
va suggerito Benedetto Croce (cfr. La letteratura della Nuova Italia (1913-1915), 4 voll.,
t. III, Bari, Laterza, 1973, p. 97).
72
  Palermo, Sandron, 1912. È noto che il romanzo, già consegnato alle stampe nel
1906, per l’evidente rifiuto dell’autore di allinearsi con la rappresentazione dell’e-
migrazione sostenuta dal Governo fu censurato nel 1909 e vedrà la pubblicazione
definitiva solo tre anni dopo.
73
  Cfr. La letteratura della Nuova Italia (1913-1915), cit., t. III, p. 97.

46
L’esodo verso le Americhe raccontato dalla letteratura italiana

che lo condurranno in carcere. E, ancora, è anche l’usura che soggioga


intere famiglie arricchendone altre: «“E il danaro pel viaggio chi ve lo
dà?” “Venderemo un pezzo di terra”, rispose Stefano al nonno. “Non
occorre”, interruppe Coda-pelata. “C’è chi lo presta con la cautela del
fondo... e anche della casa”» (p. 27). L’emigrazione è anche la curiosi-
tà del giovane Menu che deciderà di raggiungere oltreoceano i fratelli
(cfr. p. 25); è il dolore della mamma e del nonno che restano a Ràbbato
(cfr. p. 28); ed è, infine, occasione di promozione sociale e culturale
– contrariamente a quanto Verga consente di fare al suo ‘Ntoni a cui
è negata la piena attuazione del riscatto sociale anelato – nel ritorno
possibile che vedrà Santi e Menu rientrare a Ràbbato per riscattare
quel pezzo di terra, che la famiglia era stata costretta a vendere, per
far rinascere le proprie radici: «“Voglio essere siciliano, italiano, non
americano bastardo!... Sapete che farò, nonno? Prenderò la patente di
maestro di scuola. Me lo ha consigliato il mio maestro di quarta. In-
segnerò un po’ di americanismo qui: la gran volontà, il grande amore
al lavoro. Ah, se la miseria non scacciasse via i nostri paesani!... Finirà
anche questa”» (p. 178).
Sempre nel primo quindicennio del Novecento non mancano altri
numerosi riferimenti alla “tragedia” dell’emigrazione verso il Nuovo
Mondo negli scritti di molti altri autori della nostra letteratura. An-
cora un invito a non farsi irretire dalle illusorie promesse del Nuovo
Mondo arriva da Achille Salzano che nel suo Verso l’ignoto, romanzo
dell’emigrante74 – un testo non certo esemplare per lo stile –, mette in
scena la vicenda migratoria di due giovani sposi campani costellata
di sofferenze e disgrazie. Facendo ruotare la fabula intorno al porto di
Napoli, transito per migliaia di contadini emigranti – l’emigrazione è
presentata come una “vergogna sociale”, come portatrice di disgrazie
ed ingannevole quanto le illusioni del Nuovo Mondo. Nel corso della
narrazione, che si conclude con il lieto fine del ricongiungimento in
patria dei due protagonisti e con il loro abbondono definitivo dell’i-
dea di cercar fortuna in America, non sono risparmiate pesanti criti-
che all’inefficienza degli apparati diplomatici italiani. Se non è pos-
sibile affermare che ne Il cugino d’America di Enrico Castelnuovo75 sia

74
  Napoli, Tip. Gennaro Enrico e figli, 1903.
75
  In “Nuova Antologia”, 709-712, luglio-agosto 1901.

47
Con biglietto di andata

palesata una posizione aprioristicamente contraria all’emigrazione, è


comunque evidente una critica nei confronti del modello sociale ed
economico americani sintetizzato proprio nella figura del “cugino”
avventuriero e speculatore senza scrupoli76.
Significative incursioni nel tema sono ancora quelle proposte da
Giovanni Pascoli77 – la cui posizione è molto vicina a quella espressa
da Enrico Corradini in La patria lontana78 – che, nel giudicare l’emi-
grazione come una nuova forma di schiavitù, vera e propria piaga
sociale, insiste sul primato di un’identità culturale italiana. Animato
dal suo giovanile socialismo umanitario, il poeta denuncia l’ingiusti-
zia che affligge un popolo che, messo in ginocchio dalle magre risorse
economiche offerte dal Paese, è costretto a lasciare il suolo natìo. In
Italy, poemetto in due canti, Pascoli narra la vicenda di una coppia
toscana emigrata in Ohio che torna nelle campagne della provincia
di Lucca per curare la figlia Molly/Maria malata di tubercolosi. Ad
accogliere la famiglia è la nonna con cui la bambina non riesce, in un
primo momento ad instaurare alcun dialogo né linguistico né cul-
turale. Il poeta si fa qui interprete del conflitto tra le immobili tradi-
zioni contadine e la moderna realtà della società industriale a cui fa
eco, sulla scorta di una strada già percorsa dal Verismo, la coraggiosa
scelta di uno sperimentalismo linguistico su cui è imbastito l’intrec-
cio della fabula che, alternando la lingua italiana a quella inglese e
ibridandole dei registri dialettali del toscano e dell’italo-americano,
rinvia a quella perdita di identità di cui proprio la lingua è veicolo.
L’intreccio approda al felice esito della vittoria della forza espressi-
va del “cuore” confermando i presupposti di un ritorno possibile e
salvifico. Non apprezzato da Croce79, il poemetto fu più tardi rivalu-

76
  Cfr. Sebastiano Martelli, Dal vecchio mondo al sogno americano. Realtà e immaginario
dell’emigrazione nella letteratura italiana, in Bevilacqua, De Clementi, Franzina (a cura
di), op. cit., vol. I, Partenze, pp. 434-487, pp. 445-446.
77
  Cfr. Italy, raccolto in Primi Poemetti, Bologna, Zanichelli, 1904; Pietole, in Nuovi Poe-
metti, Bologna, Zanichelli, 1909; ma si ricordino anche i vibranti toni usati dal Poeta
ne La grande proletaria si è mossa, il discorso che Pascoli tenne al Teatro comunale
di Barga il 21 novembre 1911 pubblicato su “La Tribuna”, 27 novembre 1911; poi,
Bologna, Zanichelli, 1911.
78
  Milano, Treves, 1910.
79
  Cfr. Benedetto Croce, Giovanni Pascoli. Studio critico, “La Critica. Rivista di Lettera-
tura, Storia e Filosofia”, n. 5, del 1907.

48
L’esodo verso le Americhe raccontato dalla letteratura italiana

tato da Gianfranco Contini80, Giovanni Getto81 e da Giorgio Bàrberi


Squarotti82 che ne colsero la valenza innovativa del messaggio e della
modalità espressiva. L’attenzione di Pascoli nei confronti di un feno-
meno di proporzioni macroscopiche non si limitò a Italy o a Pietole83
nei versi del quale, con il ricorso a quel refrain – ricavato dal manuale
per emigranti di Clinio Cottafavi84 – che si ripete in molte lingue «
- I am Italian/I am hungry…»; « - Ich bin Italiener/Ich bin hungrig... »;
«- Soy Italiano/Tengo hambre...», il poeta torna ad insistere sulla sua
polemica patriottico-nazionalista antiemigratoria. Pascoli, in vero, fin
dal 1901 a Messina, in occasione delle celebrazioni dell’anniversario
della morte di Garibaldi85, aveva dedicato il suo pensiero accorato
agli italiani emigrati e sull’argomento ritornerà ancora, com’è noto,
nel 1911 a Barga dove, a ridosso e a sostegno di quel movimento di in-
tellettuali che spronavano Giolitti ad imbarcarsi nella conquista della
Libia, tiene un discorso, La grande Proletaria si è mossa, all’interno del
quale quella umiliazione e vergogna nazionale avrebbe potuto essere
sanata proprio con le nuove conquiste coloniali:

Prima ella mandava altrove i suoi lavoratori che in patria erano trop-
pi e dovevano lavorare per troppo poco […] Erano diventati un po’
come i negri, in America, questi connazionali di colui che la scoprì; e
come i negri ogni tanto erano messi fuori della legge e della umanità,
si linciavano […] Ma la grande Proletaria ha trovato luogo per loro:
una vasta regione bagnata dal nostro mare, verso la quale guardano,
come sentinelle avanzate, piccole isole nostre; verso la quale si pro-
tende impaziente la nostra isola grande; una vasta regione che già
per opera dei nostri progenitori fu abbondevole d’acque e di messi,
e verdeggiante d’alberi e giardini; e ora, da un pezzo, per l’inerzia di

80
  Gianfranco Contini, Il linguaggio di Pascoli [1955], in Varianti e altra linguistica: una
raccolta di saggi (1938-1968), Torino Einaudi, 1970, pp. 219-245.
81
  Giovanni Getto, Carducci e Pascoli, Napoli, ESI, 1956.
82
  Giorgio Bàrberi Squarotti, Pascoli, la bicicletta e il libro, Roma, Edilazio, 2012.
83
  Composta nel 1906 e poi pubblicata nel 1909 all’interno di Nuovi poemetti, Bologna,
Zanichelli.
84
  Vademecum dell’emigrante mantovano, Mantova, Tip. degli Operai, 1906.
85
  L’eroe italico, poi raccolto in opuscolo con il titolo Garibaldi avanti la nuova generazio-
ne. Discorso pronunziato il II Giungo MCMI, e corredato da un breve Proemio, Mes-
sina, Muglia, 1901; poi in Pensieri e discorsi di Giovanni Pascoli 1895-1906, Bologna,
Zanichelli, 1914 pp. 191-220.

49
Con biglietto di andata

popolazioni nomadi e neghittose, è per gran parte un deserto.


Là i lavoratori saranno, non l’opre, mal pagate mal pregiate mal
nomate, degli stranieri, ma, nel senso più alto e forte delle pa-
role, agricoltori sul suo, sul terreno della patria; non dovranno,
il nome della patria, a forza, abiurarlo, ma apriranno vie, colter-
anno terre, deriveranno acque, costruiranno case, faranno porti,
sempre vedendo in alto agitato dall’immenso palpito del mare
nostro il nostro tricolore.

La piaga sociale dell’emigrazione è dunque vista da Pascoli «nella


prospettiva che trasforma le vittime/protagoniste in “figli” maltratta-
ti di una madre impotente e bisognosa che li reclama a sé»86. Proprio
per questo, nel suo celebre discorso del 1911, egli – pur noncurante
delle nefaste conseguenze che la conquista coloniale avrebbe avuto
per chi la avrebbe subita – vede nell’avventura libica la possibilità
per l’Italia di avviare un processo di auto-emancipazione che avrebbe
assicurato a tutti un pezzo di terra («agricoltori sul suo, sul terreno
della patria») a garanzia di una degna sopravvivenza87.
Ancora nei primi anni del XX secolo si ricordino: Dino Campana
che, rientrato nel 1909 da un lungo viaggio in Argentina e in Uruguay,
affida ad alcuni componimenti le impressioni di quell’esperienza.
Partito dall’Italia al solo scopo di sfuggire agli insuccessi negli studi
universitari e alle proprie inquietudini mentali, il poeta lascia traspa-
rire nella scena descritta nei versi di Buenos Aires88 il proprio fastidio
per quella folla di miseri per i quali non prova alcuna compassione:
«[…] Gli emigranti / Impazzano e inferocian accalcandosi /Nell’a-
spra ebbrezza d’imminente lotta»; Carolina Invernizio, e il suo ro-
manzo I drammi degli emigrati 89 in cui, pur nella mediocrità dello stile
e della valenza letteraria, sono messe in evidenza le vessazioni subite
da coloro che, arrivando nel nuovo mondo, rimanevano impigliati
nelle maglie delle reti degli «incettatori di operai, impresari in gran

86
  Franzina, Dall’Arcadia in America, cit., p. 140.
87
  Cfr. Giorgio Bertone, La partenza, il viaggio, la patria. Appunti su letteratura e emigra-
zione tra Otto e Novecento, “Movimento operaio e socialista”, IV, 1-2, pp. 91-107, pp.
103-104.
88
  Buenos Aires [1909], raccolta in Quaderno, vol. Inediti, a cura di Enrico Falqui, Firen-
ze, Vallecchi, 1942.
89
  Firenze, Salani, 1910.

50
L’esodo verso le Americhe raccontato dalla letteratura italiana

parte italiani che, pratici della lingua e dei luoghi, ne “approfittavano,


sfruttando l’opera dei loro poveri connazionali”»90;Vincenzo Varcasia
Stigliani emigrato egli stesso in Nord America che riversa la propria
esperienza in Oltre il martirio91, un romanzo che presenta l’iter intel-
lettuale di un socialista che, nel corso della sua deludente esperienza
migratoria negli Stati Uniti, finisce per abbracciare ideologie spiritua-
listiche e nazionaliste. Ne La patria lontana92 Enrico Corradini condan-
na l’emigrazione come un male da cancellare. Nel risvolto rosa che
presenta la storia d’amore che si anima tra Buondelmonti e Giovanna
già a bordo del transatlantico che li conduce in America, l’autore af-
fida ai due personaggi quella scoperta dell’italianità tipica di molti
dei nostri connazionali emigrati. La traversata è ancora al centro del
suo successivo Le vie dell’Oceano93. Qui Corradini presenta il perso-
naggio di Giuseppe Carraro emigrato calabrese da cinquant’anni in
Argentina che allo scoppio della guerra in Libia si lascia convincere
dal nazionalista Pietro Cento a rimpatriare. Uno dei figli, però, si ri-
fiuta di seguirlo ed egli lo uccide prima di imbarcarsi in compagnia
dello stesso Cento e del figlio minore. Riconoscendo l’errore di quel
suo giovanile allontanamento dal suolo natìo, l’omicidio assume sim-
bolicamente nel testo la valenza di un gesto sacrificale attraverso il
quale egli può adesso risanare il tradimento verso la sua Italia.
Il tema della pazzia femminile come effetto dell’emigrazione è cen-
trale – come già nel pirandelliano L’altro figlio – in alcuni racconti di
Maria Messina94. Attiva nell’ambito del Verismo, sebbene in maniera
tardiva e da una posizione di isolamento rispetto al gruppo degli intel-
lettuali catanesi, Maria Messina è un’autrice ancora considerata mar-
ginale, la cui riscoperta postuma è dovuta al lavoro di ripubblicazione
voluto da Leonardo Sciascia, allora consulente delle edizioni Sellerio di
Palermo. In quella parte della sua produzione letteraria dedicata all’e-
migrazione, le donne hanno un ruolo dominante nel tessuto narrativo

90
  Franzina, Dall’Arcadia in America, cit., p. 171.
91
  Bari, Humanitas, 1913.
92
  Milano, Treves, 1910.
93
  Milano, Treves, 1913.
94
  Cfr. Nonna Lidda, Le Scarpette e La Merica, in Ead., Piccoli gorghi, Milano, Remo
Sandron, s.d. [1910]; Il dovere, in Ead., Le briciole del destino, Milano, Treves, 1918;
Cenerella, Firenze, Bemporad, 1918; La Merica, Il guinzaglio, Milano, Treves, 1921.

51
Con biglietto di andata

e assumono una nuova dignità proprio grazie a questa centralità, an-


che quando restano intrappolate in un sistema che le condanna ad una
condizione di doppia subalternità, come donne e come soggetti di scar-
sissime risorse economiche. La Mèrica, la più nota delle storie incluse
nella raccolta Piccoli gorghi, segue le vicende delle donne legate a Ma-
riano, il protagonista maschile che lascia il paese d’origine per tentare
la fortuna all’estero, per quanto, come figlio unico, avrebbe avuto le
risorse per sopravvivere decentemente in Sicilia. Vittima del richiamo
dell’emigrazione verso quel nuovo mondo, che la madre Vita antropo-
morfizza con l’etichetta di «mala femmina», Mariano lascia dietro di sé
la moglie Catena il cui nome, benché molto diffuso nella Sicilia orien-
tale, rivela senza ambiguità la posizione di imprigionamento fisico e
mentale della donna. Catena non può imbarcarsi con il marito a causa
del tracoma, una malattia degli occhi di natura batterica che porta alla
cecità: diffusissima tra gli emigranti provenienti da ambienti miseri e
malsani, veniva considerata ragione di non autorizzazione all’imbarco.
Ancora un presunto tracoma viene diagnosticato alla piccola Santina,
la protagonista del breve romanzo Cenerella95 che, lasciato il piccolo co-
mune di Alcara, per seguire la madre e le sorelle in America ma costret-
ta a non imbarcarsi, viene ospitata a Napoli da un lontano zio in casa
del quale viene maltrattata e costretta a svolgere i lavori domestici. La
fanciulla, tuttavia, sopporta con pazienza le umiliazioni nella speranza
che un giorno torni dalla guerra il fratello Domenico. Il nucleo fami-
liare si ricomporrà alla fine del testo quando una volta rientrato dal-
la prigionia, il fratello mutilato ricondurrà la fanciulla nella loro casa
avìta in cui Santina si troverà a fargli da infermiera e a prendersi cura
della mamma rientrata dagli Stati Uniti dove le due sorelle si erano, nel
frattempo, costruite una vita autonoma. Negli scritti di Maria Messina
prevale un tono funereo che riduce gli abitanti dei paesi sempre più
svuotati ad una condizione di apatia, mentre aspettano le rimesse che
non arriveranno mai o il ritorno impossibile di un uomo o a volte sem-
plicemente una lettera.
Un topos narrativo comune a molti testi sull’emigrazione è – come si
è già visto in L’altro figlio di Pirandello – quello della lettera, foriera di
storie a cavallo tra resa quasi fotografica della realtà e menzogna. Nel

95
  Firenze, Bemporad, 1922.

52
L’esodo verso le Americhe raccontato dalla letteratura italiana

racconto intitolato Nonna Lidda Maria Messina sviluppa l’intera trama


intorno all’arrivo di lettere che non contengono mai l’atteso denaro,
fino a quando ne arriva una che non solo non porta nulla di sperato,
ma porta via, con effetti fatali, l’unico tesoro della protagonista: il ni-
potino Nenè lasciato dal figlio che adesso lo vuole in America con sé.
Una descrizione positiva dell’emigrante, rara nella letteratura ita-
liana, viene fatta da Piero Jahier, in Con me o con gli alpini96, racconto
di un contadino veneto emigrato in America e richiamato in guerra.
Negli anni Venti la politica anti-emigratoria fascista insieme alla
chiusura degli sbocchi emigratori argentini e statunitensi, fanno
smorzare i riflettori dei nostri letterati che, anche per sfuggire all’a-
zione censoria, solo di rado sfioreranno il tema come avviene, ad
esempio ne La coscienza di Zeno97, di Italo Svevo dove Ada, rimasta
vedova, parte per Buenos Aires per raggiungere la famiglia del mari-
to che lì aveva fatto fortuna.
Ad entrare più compiutamente e forse anche più audacemente nel
cuore del problema è, nel 1928, l’antifascista Francesco Perri con il ro-
manzo Emigranti98, un raffinato affresco della società rurale dell’Aspro-
monte che pur premiato per ferma volontà di Giuseppe Antonio Bor-
gese membro della giuria, nello stesso anno della sua pubblicazione
dall’Accademia Mondadori, fu messo all’indice dalla censura fascista
che non gradiva immagini disfattiste contrarie alla sua propaganda99.
I fratelli Blèfari, vittime delle usurpazioni delle terre demaniali che li
costringono ad emigrare, pur riuscendo a rientrare dal loro soggiorno
americano con qualche risparmio in tasca, sentono di non appartenere
più all’Aspromonte tanto quanto non erano mai riusciti ad integrarsi
in America e ad attenderli al loro rientro vi sarà per entrambi la morte.
Una prospettiva inusualmente rovesciata è quella presentata da
Corrado Alvaro nella novella La donna di Boston100; nel testo benché

96
  Firenze, Libreria della voce, 1919.
97
  Bologna, Cappelli, 1923.
98
  Milano, Lerici, 1928.
99
  È opportuno ricordare che Perri, dichiaratemtne antifascista, era già stato vittima
della censura nel 1925 in occasione della pubblicazione di I Conquistatori (Roma,
Libreria Politica Moderna). Il testo messo subito fuori commercio fu bruciato in
piazza a Roma. L’anno dopo Perri venne allontanato dal pubblico impiego e tenuto
fuori da ogni attività giornalistica.
100
  In L’amata alla finestra, Torino, Buratti, 1929.

53
Con biglietto di andata

Saverio, il protagonista assente, fosse emigrato negli Stati Uniti dove


si era unito alla malavita e per questo condannato alla sedia elettrica,
l’emigrazione è qui incarnata dalla sua vedova, la donna di Boston ap-
punto, che trasferitasi nel paese calabro di origine del marito per vivere
con la madre di lui, sconvolge la monotonia del piccolo borgo i cui abi-
tanti le renderanno impossibile il soggiorno. Altrettanto non scontata è
l’America raccontata da Lina Pietravalle in alcune delle novelle di am-
bientazione molisana raccolte in I racconti della terra; Il fattarello; Storie di
paese101. L’America di Pietravalle è un altrove in cui sparire, confondersi
nell’ignoto, liberarsi dalle catene imposte dalla società di origine.
Nel corso degli anni Trenta la rappresentazione letteraria dell’emi-
grazione deve fare ancora i conti con le direttive politico-ideologiche
fasciste ripiegando, soprattutto per quel che concerne gli Stati Uniti,
sul genere odeporico che esalta, benché come vedremo non sempre
fin in fondo convintamente, il mito di un efficiente modello sociale ed
economico con cui, in quel momento, occorreva confrontarsi.
In quegli anni è Ugo Ojetti ad avvertire per primo le difficoltà in cui
si dibatteva la letteratura del suo tempo nel tematizzare l’emigrazione:

Come mai noi italiani che abbiamo portato su tutta la terra il nostro
lavoro e non soltanto il lavoro manuale […] siamo i soli a non avere
romanzi in cui i nostri costumi e la nostra coscienza siano rivelati in
contrasto con la coscienza e i costumi di quelli stranieri fra i quali
siamo capitati a vivere, a lottare, a soffrire, e talvolta anche vincere?
[…] Se non v’è romanzo o dramma senza un progredente contrasto
d’anime, quale contrasto più profondo e concreto di questo tra due
razze, e la più antica delle due, la più ricca cioè d’usi e riti immemo-
rabili, spatriata e ridotta a vivere senza altro soccorso che quello della
propria energia e resistenza? […] D’Italiani, in basso e in alto, mano-
vali o banchieri, minatori o medici, camerieri o ingegneri, muratori o
mercanti, se ne trovano in ogni angolo del mondo. La letteratissima
letteratura nostra li ignora, anzi li ha sempre ignorati 102.

101
  Le raccolte sono state pubblicate per i tipi della Mondadori rispettivamente nel
1924, 1928, 1930.
102
  Ugo Ojetti, Lettera a Piero Parini sugli scrittori sedentari, in “Pègaso”, II, 9, settembre
1930, pp. 340-342, p. 340.

54
L’esodo verso le Americhe raccontato dalla letteratura italiana

A lamentare la desolante incuria dei letterati di fronte ad un feno-


meno di siffatte proporzioni è anche Antonio Gramsci:

In Italia è sempre esistita una notevole massa di pubblicazioni sull’em-


igrazione, come fenomeno economico-sociale. Non corrisponde una
letteratura artistica: ma ogni emigrante racchiude in sé un dramma,
già prima di partire dall’Italia. Che i letterati non si occupino dell’em-
igrato all’estero dovrebbe far meno meraviglia del fatto che non si oc-
cupano di lui prima che emigri, delle condizioni che lo costringono a
emigrare ecc.; che non si occupino cioè delle lacrime e del sangue che
in Italia, prima che all’estero, ha voluto dire l’emigrazione in massa103.

Alla vigilia degli anni Trenta il fascismo diviene sempre più dila-
gante, imponendo un sistema politico e culturale decisamente rigido.
All’esodo per necessità economiche si aggiunge quello di un’altra ca-
tegoria di individui, decisamente più colti dei primi, che sentono il
bisogno di evadere alla ricerca di qualcosa di nuovo. Si tratta cioè, da
una parte, della fuga di molti giovani intellettuali italiani che, soffe-
renti e incapaci di sopravvivere in questo clima asfissiante, scelgono
di lasciare il proprio Paese e di recarsi altrove, per fuggire dal regime
oppressivo, alla ricerca di nuovi stimoli e per ritrovare, innanzitutto,
la propria dignità umana e la libertà intellettuale; dall’altra di quel-
la di altri intellettuali che pur dietro l’alibi di ricerca della libertà di
espressione finiscono, al contrario, per inverarsi strumenti funzionali
al regime nel proposito di esaltazione dell’italianità presso i conna-
zionali emigrati messa già in piedi dal fascismo prima ancora di assu-
mere il potere politico. Nel novembre del 1922, poi, appena salito al
governo, Mussolini tracciava le linee della sua politica verso gli italia-
ni emigrati all’estero, volta a: «stimolare il senso di italianità in tutte
le masse emigrate ed a rafforzare i loro legami con la madre patria»
al fine di operare sulle «minoranze più ricettive di giovani emigrati ai
fini di una penetrazione culturale e spirituale dell’ideologia nei paesi
ospitanti»104.

103
  Antonio Gramsci, Carattere non nazionale-popolare della letteratura italiana, in Lettera-
tura e vita nazionale, III ed., Roma, Editori Riuniti, 1996, p. 164.
104
  Emilio Gentile, La politica estera del partito fascista. Ideologia e organizzazione dei fasci
italiani all’estero 1920-1930, in “Storia contemporanea”, XXXVI, n. 6, dicembre 1995,
pp. 897-956, pp. 930, 934 .

55
Con biglietto di andata

Nei testi di questi nuovi esuli il “sogno americano” si tinge di


nuove valenze: modernità, libertà di pensiero e di espressione, de-
mocrazia, sono le promesse ammaliatrici del Nuovo Mondo. Ma c’è
anche chi resta a casa. Tuttavia, in quegli anni, alcuni intellettuali an-
tifascisti scoprono attraverso la letteratura d’Oltreoceano un mondo
nuovo che si rivela ai loro occhi ricco di opportunità ma, soprattutto,
l’esistenza di un territorio in cui poter esercitare la propria libertà di
espressione, vivendo in democrazia: «[...] prendere a modello l’A-
merica, non è soltanto perpetuare e alimentare l’opposizione politi-
ca del fascismo, è soprattutto imparare a utilizzare nuovi mezzi di
espressione per tradurre le nuove realtà dell’uomo»105. Di certo, in
vero in quegli anni, leggere gli autori americani non era cosa semplice
a causa della censura fascista; ma, come riferisce il Carducci: «[...] più
la censura sorveglia e proibisce, e più cresce la prevaricazione delle
immagini puramente libresche della scoperta»106. Saranno numero-
si, allora, coloro che decideranno di recarsi oltreoceano verso quella
«[…] terra a cui si tende con la stessa speranza e la stessa fiducia dei
primi emigranti e di chiunque sia deciso a difendere a prezzo di fati-
che e di errori la dignità della condizione umana»107. L’americanismo,
divenendo epidemico, finì per essere per molti un sentimento sino-
nimico di voglia di libertà e di creatività di fronte alla mortificazione
dittatoriale. Gli Stati Uniti, in special modo, si presentavano come
terreno fertile per l’arricchimento intellettuale e soprattutto umano
dell’individuo. La volontà di addentrarsi nel mistero americano fu
dunque motivata dalla libertà democratica che essa proponeva: una
libertà che permetteva di vivere la propria vita senza impedimenti,
un luogo dove anche l’uomo comune sentiva il dovere di raccontarsi
e ne aveva facoltà.
Seguendo i consigli di Lionello Venturi e rispondendo al quel
senso di oppressione sempre maggiore che il clima politico italia-
no gli trasmetteva, Mario Soldati decide, nel 1929, di cambiare vita

105
  Dominique Fernandez, Il mito dell’America negli ntellettuali italiani (1930-1950), Cal-
tanissetta-Roma, S. Sciascia ed., 1969, p. 33.
106
  Nicola Carducci, Gli intellettuali e l’ideologia americana nell’Italia letteraria degli anni
trenta, Manduria, Lacaita, 1973, p. 89.
107
  Gaime Pintor, Il sangue d’Europa, Torino, Einaudi, 1950, p. 159.

56
L’esodo verso le Americhe raccontato dalla letteratura italiana

e di recarsi negli Stati Uniti108 con la speranza di tentare la carriera


universitaria. La vitalità degli anni della giovinezza, ma soprattutto
l’opportunità offerta dall’assegnazione di una borsa di studio della
Columbia University di New York lo incoraggiano nella sua scelta:

Io ero partito per l’America con l’intenzione di restarci, di ottenere la


cittadinanza, insomma di diventare americano a tutti gli effetti. Li-
onello Venturi, col quale mi ero laureato nel ’27 in Storia dell’Arte, mi
aveva suggerito di andare negli Stati Uniti, e mi aveva fatto ottenere
una borsa di studio alla Columbia University, a New York. Non vede-
vo l’ora di partire, forse per sempre dall’Italia... A Febbraio c’era stata
la conciliazione Chiesa – Stato e noi si aveva l’impressione che il fas-
cismo sarebbe durato a lungo. Così, a Novembre mi sono imbarcato
sul Conte Biancamano... [...] Sono gli anni del proibizionismo, della
disoccupazione, degli speak-easier, dei famosi gangster, Al Capone...
soprattutto gli anni della miseria... Arrivai carico di sogni, di desideri
e fui accolto da piccole imprecisioni, discrepanze con la realtà che mi
ero immaginata109.

Soldati si trova, poi, a rivivere l’esperienza di un soggiorno negli


Stati Uniti nel periodo della crisi economica e della grande depressio-
ne, ma sarà testimone anche dei primi anni del New Deal e della ri-
presa. L’entusiasmo che lo aveva sostenuto nella sua scelta è destina-
to però a scemare nel corso della sua esperienza finendo per scoprire
presto l’illusorietà dell’agognato sogno: l’America era di certo molto
diversa da quella terra mitica che aveva immaginato110. Rientrato in
Italia nel 1931, racconterà della sua giovanile esperienza in America
primo amore, un testo che raccoglie una serie di articoli scritti per il
quotidiano livornese “Il Lavoro”, nel quale l’autore non rinuncia a
criticare impietosamente gli usi e i costumi degli italiani trapiantati
negli States. Scorrendo le pagine del testo, il lettore segue il narratore
nei luoghi del suo soggiorno, in giro per New York, Manhattan, fino

108
  Per le notizie biografiche su Mario Soldati, cfr. Walter Mauro, Invito alla lettura di
Soldati, Milano, Mursia, 1981.
109
  Salvatore Silvano Nigro, Viaggio nella “stanza chiusa” della scrittura di America primo
amore, in Mario Soldati, America primo amore, a cura di Salvatore Silvano Nigro, Pa-
lermo, Sellerio, 2003, pp. 297-327, p. 305.
110
  Cfr. Mauro, op. cit., p. 25.

57
Con biglietto di andata

ad Harlem e Chicago. All’amore per l’America si aggiunge quello per


una giovane donna del luogo: i due amori si intrecciano fino a rivelar-
si entrambi il frutto della medesima delusione. È questa la sensazione
che avverte il giovane Soldati:

America! America! Forse anche lei che c’era nata era, come me, affas-
cinata e corrotta dall’America. Ancora una volta la guardai. La vidi
accanto a me, disperata, folle, sola. E allora capii. Carezze umane non
avrebbero potuto consolarla. Né baci asciugare i suoi occhi isterici,
che avevano pianto non per una cosa, per una creatura, per un sen-
timento: ma per un’idea. America! Ella amava il grattacielo dalla sua
banca a Fifth Avenue, lo schermo di Paramount, la ribalta del Roxy, la
vetta dell’Empire e perfino la buia e macabra prospettiva di una vita
di Brooklyn più di quanto amasse me o qualunque altro ragazzo. New
York aveva delusa la sua speranza. Non importa. New York restava
sempre New York. Broadway, Broadway. E anzi. La delusione aveva
cresciuto l’incanto. Così io (p. 82).

L’ebbrezza iniziale della partenza, che indusse lo scrittore a soli


vent’anni ad allontanarsi dall’Italia, si placa sempre di più a mano a
mano che si immerge nella realtà americana. Il racconto di Soldati è
quello di un viaggio appassionato, ma è anche un’acuta osservazione
del Nuovo Mondo; un’analisi a volte spietata e, ancora, un’indagine
introspettiva non soltanto dei luoghi, ma anche dei suoi abitanti: «[...] è
un libro di viaggio ma, anche, un’esplorazione a fondo, dura, coraggio-
sa; sicché le immagini, i giudizi, riescono gravi, grondanti pathos»111.
L’ultima sezione del testo corrisponde al momento della decisione
definitiva di rientrare in Italia; lo spiega bene Walter Mauro quando
afferma: «l’ultima notte americana appare come uno struggente in-
contro d’amore che lentamente si consuma nella fragilità del sogno
(p. 301). La lontananza aveva accresciuto profondamente la nostalgia
per la sua terra, anche per le piccole cose:

Anch’io, in quei tempi, non volevo tornare in Italia: mi piaceva pensare


l’America come il mio destino definitivo. [...] Certo pensando a Perre-
ro, a Praly, a Ghigo, ricordando le ebbrezze alpine della mia adoles-
cenza, i pomeriggi trascorsi bocconi sulle creste aride e ventose, vicina,

111
  Giuseppe De Robertis, Altro Novecento, Firenze, Le Monnier, 1962, p. 363.

58
L’esodo verso le Americhe raccontato dalla letteratura italiana

tra i detriti schistosi, la ganzianella di cobalto e lontane, nel medesimo


sguardo, le verdi vallate rigate di argentei torrenti, le cime di Francia, i
ghiacciai del Pelvoux; quel sole bruciante, quel vento violento e gelido;
quel torpore, quella felicità; lo scampanìo degli armenti [...] e a volte gri-
di, sperduti richiami di pastori, e lunghi alti canti di fanciulle diffusi nel
sole e nell’azzurro, sentivo un desiderio assoluto di tornare. [...] S’era
allora in Ottobre. A Gennaio mi imbarcai (pp. 249-250).

Nonostante l’amarezza e la perdita delle illusioni adolescenziali


derivate dalla conoscenza diretta di quella realtà, l’esperienza ameri-
cana lascerà comunque una traccia indelebile nell’animo dello scrit-
tore, come il ricordo di un primo amore dal quale si rimane folgo-
rati, e infine inevitabilmente delusi. Eppure, tale esperienza segnerà
fortemente la sua formazione, specialmente al suo ritorno in Italia,
influenzando gran parte della sua produzione letteraria.
Il ricordo del suo primo viaggio tornerà, infatti, seppur indiret-
tamente, anche in La sposa americana112. Qui la vicenda amorosa del
protagonista Edoardo rievoca l’esperienza giovanile dello scrittore.
Edoardo è, infatti, un docente universitario italiano che conoscerà
Edith proprio quando si trasferirà negli Stati Uniti. Il romanzo è am-
bientato negli anni Sessanta a New York, ma lo spirito di avventura e
il sogno di libertà sono gli stessi che avevano infiammato l’animo di
Soldati negli anni Trenta:

[...] ho amato l’America fino dal primo giorno per la libertà che vi si
gode e che si identifica essenzialmente con due fenomeni: la straordi-
naria eguaglianza di diritti per ciascun cittadino, di topografico, fisi-
co, animalesco spazio vitale (p. 37).

L’occasione per ripartire verso l’America si ripresenterà qua-


rant’anni dopo, quando Soldati vi tornerà, stavolta, insieme alla mo-
glie. Le emozioni suscitate in lui da questo secondo soggiorno statu-
nitense sono trasposte dallo scrittore in Addio diletta Amelia113, opera
dalla quale emerge la rievocazione, mista a fascino e rimpianto, dei
luoghi della sua giovinezza, in un gioco di assonanze tra America e

112
  Milano, Mondadori, 1977.
113
  Milano, Mondadori, 1979.

59
Con biglietto di andata

Amelia, come a voler identificare quella terra con la donna che lo ave-
va fatto innamorare. Un amore irrimediabilmente finito, il cui ricordo
non potrà mai essere cancellato. Passato e presente si incontrano nella
mente del viaggiatore e il confronto è inevitabile, anche con la sua ge-
nerazione. Lo sguardo di Soldati appare ora più critico e consapevole:

Qualcosa di straordinario e, in fondo, meraviglioso, è accaduto in


America durante questi quarant’anni che ne sono rimasto lontano!
Un imprevedibile chassé–croisé! Mentre la massa degli italiani si è
americanizzata e si va tetramente americanizzando, una minoranza
di giovani generazioni americane sembra che abbia cominciato a ca-
pire, e che si ribelli all’american way of life nello stesso identico modo
che io e alcuni miei amici italiani, borghesi e intellettuali, ci eravamo
ribellati, sebbene solo ideologicamente, quarant’anni or sono. Sì, tutto
ciò che più irritava o indignava me e i miei amici già allora, il consum-
ismo, la frenesia produttiva e pubblicitaria, il trionfo delle etichette e
della confezione sul reale valore del prodotto, il conformismo degli
orari, la tremenda e spietata tirannia burocratica, la draconiana sep-
arazione tra lavoro e tempo libero, tutto ciò ha raggiunto ormai una
tale esasperazione, che una minoranza di giovani vi si ribella esatta-
mente come avremmo voluto ribellarci noi. Disgraziatamente, questa
ribellione è limitata, timida, incerta, soprattutto superficiale (p. 44).

Nel testo, la personalità della voce narrante sembra sdoppiarsi in


un continuo andirivieni tra incontro e scontro, rivelando reciproca-
mente pregi e difetti dell’io e del suo doppio. A voler utilizzare le
parole di Falcetto, «[...] l’immagine del sé di allora riaffiora e s’in-
crocia con quella dell’io del ritorno»114. Le immagini del presente si
interpongono alla memoria passata, ai ricordi che affollano la mente
e che riaffiorano come flash-back insistenti.
Nonostante la delusione di quella prima infatuazione giovanile, la
lettura che deriva dai testi di Soldati restituisce la convinzione dell’au-
tore che la cultura americana, seppur intrisa di aspetti negativi e di
molteplici contraddizioni, avrebbe di lì a poco influenzato il sistema
occidentale e svolto un ruolo predominante nel governo del Mondo.

114
  Bruno Falcetto, Mutare visuali, in Mario Soldati, America e altri amori: diari e scritti
di viaggio, a cura e con saggio introduttivo di Bruno Falcetto, Milano, Mondadori,
2011, pp. 15-16.

60
L’esodo verso le Americhe raccontato dalla letteratura italiana

Fra gli intellettuali antifascisti che si lasciano permeare dalla malìa


statunitense115 vi è anche Giuseppe Antonio Borgese116. Siciliano illu-
stre e personalità eclettica, è, in un primo momento, vicino all’ide-
ologia nazionalista e interventista – benché sia fin da subito palese
quanto il suo pensiero fosse ispirato a ideali democratici misti ad un
profondo senso di patriottismo risorgimentale e libertario – e agli am-
bienti dell’estetismo. La svolta decisiva nella sua vita avviene duran-
te gli anni in cui si fa sempre più viva e imperante la dittatura fascista
e il regime di censura da essa imposto che lo portano a maturare l’i-
dea di lasciare l’Italia117. Durante gli anni della carriera universitaria
a Milano egli si trova a dover fronteggiare diverse vicissitudini legate
alla sua opposizione al regime che lo inducono, in un primo momen-
to, ad allontanarsi gradualmente dalla scena politica per dedicarsi
interamente alla scrittura e all’insegnamento universitario. Ciò, però,
non è sufficiente a garantirgli un po’ di serenità: il 18 Maggio 1931
due dei suoi studenti, Paolo Treves e Guido Morpurgo Tagliabue,
subiscono violente aggressioni da parte di alcuni gruppi fascisti che
intimano loro di non seguire più le lezioni del maestro118 considerato,
dagli esponenti del GUF, come «rinunciatario» e principale responsa-
bile della perdita della Dalmazia119. Così, nel luglio dello stesso 1931,
alle soglie dei suoi cinquant’anni, decide di accettare l’incarico del-

115
  Si ricordino tra gli altri i nomi di Giuseppe Prezzolini, Gaetano Salvemini, Arturo
Toscanini.
116
  Per le notizie biografiche su Giuseppe Antonio Borgese, cfr., tra gli altri: Sarah
D’Alberti, G. A. Borgese, Palermo, ed. Flaccovio, 1971; Enrico Ghidetti, Dizionario
Biografico degli italiani - vol. 12, 1971 in enciclopediatreccani.it; Gandolfo Librizzi,
Biografia di G. A. Borgese, Polizzi Generosa, Fondazione Borgese, 2012; Id., La Fonda-
zione “G. A. Borgese”: storia di un progetto culturale, Palermo, [s. e.], 2012.
117
  Per i rapporti tra Giuseppe Antonio Borgese e la politica italiana fascista cfr., fra
gli altri, Nicolas Bonnet, Le ultime cause perse di Giuseppe Antonio Borgese, in “Labo-
ratoire italien. Politique et société”, 12, n. mon. La vie intellectuelle entre fascisme et
république 1940-1948, 2012, pp. 125-138; Mirko Menna, Giuseppe Antonio Borgese, un
antifascista in America, attraverso il carteggio inedito con Giorgio La Piana (1932-1952),
Bern, Peter Lang, 2014; Ilaria de Seta, Sandro Gentili (a cura di), Borgese e la diaspora
intellettuale europea negli Stati Uniti, Firenze, Cesati, 2016.
118
  Cfr. Giuseppe Antonio Borgese, Lettere a Mussolini: Boston, 18 agosto 1933 e Nor-
thampton Mass., 18 ottobre 1934 [1935], in “Il Ponte”, 6, 3, 1950, pp. 252-263, p. 253.
119
  Cfr. Marco Massimiliano Lenzi, G. A. Borgese politico (1931-1934): genesi delle lettere
a Mussolini, in Emilio Cecchi, Di giorno in giorno: note di letteratura italiana contempo-
ranea, Milano, Garzanti 1954, pp. 617-627, p. 620.

61
Con biglietto di andata

la Berkeley University di tenere, per un semestre, un ciclo di lezioni


di “Storia della Critica ed Estetica” e di partire alla volta degli Stati
Uniti restando a disposizione del Ministero degli Esteri120. Nell’ago-
sto dello stesso anno, mentre prosegue il suo soggiorno americano,
viene emanata la disposizione che impone ai docenti universitari di
prestare giuramento al fascismo. Borgese si affretta ad ufficializzare il
proprio rifiuto e così, quello che avrebbe dovuto essere un breve sog-
giorno, si trasforma in auto-esilio121 dal quale rientrerà da “straniero”
nella sua Italia, profondamente ferita ma ormai libera dal fascismo e
repubblica democratica, soltanto nel 1948, riprendendo il suo posto
all’Università di Milano122, ma continuando a far la spola di qua e di
là dell’Atlantico fino alla morte.
Borgese resta, dunque, negli Stati Uniti e qui avvia una “nuova
vita” accettando alcuni incarichi accademici che gli consentono di
proseguire la sua brillante carriera universitaria, la collaborazione
con il “Corriere della Sera”, per il quale redige numerosi articoli poi
raccolti nell’edizione del 1946 di Atlante Americano123, e nell’opera po-
stuma dal titolo Città assoluta e altri scritti124. Nel 1937 Borgese chiede
la cittadinanza statunitense, che ottiene nel 1938 rinunciando dunque
a quella italiana; continua ad esercitare il suo attivismo politico fino
a rivelarsi come il più rappresentativo tra gli intellettuali esuli anti-
fascisti. Alla fine del 1939, contribuisce con altri esponenti dell’anti-
fascismo militante a dar vita ad una nuova associazione politica: la
“Mazzini Society” che, nel difendere gli ideali democratici, aveva lo

120
  Cfr. Fernando Mezzetti, Borgese e il fascismo, Palermo, Sellerio, 2000, p. 18.
121
  A proposito dell’auto-esilio di Borgese, cfr. Ilaria de Seta, Auto-esilio americano e
World Republic nei diari inediti di Giuseppe Antonio Borgese, in Novella di Nunzio,
Francesco Ragno (a cura di), «Già troppe volte esuli». Letteratura di frontiera e di esilio,
t. II, Perugia, Università degli Studi di Perugia, 2004, pp. 23-38.
122
  In una lettera indirizzata a Marino Moretti, Borgese annuncia all’amico la «[…]
finalmente ufficiale, reintegrazione (nonostante la cittadinanza straniera) nella cat-
tedra di Milano» (Marino Moretti, Lettere a Marino Moretti, in “Nuova Antologia”,
XCVII, vol. 484, n. 1934, febbraio 1962, p. 10).
123
  Milano, Mondadori, 1949; una prima edizione a bassa tiratura pubblicata nel 1936
per i tipi della casa editrice Guanda, venne censurata dalle autorità fasciste.
124
  Milano, Mondadori, 1962. Per le notizie biografiche sull’autore relative a questi
anni cfr. Gandolfo Librizzi, Una nuova vita, in Biografia di G. A. Borgese, cit., p. 51;
Parisi, op. cit., p. 71; Ilaria de Seta, American Citizen. G. A. Borgese tra Berkeley e Chcago
(1931-52), Roma, Donzelli, 2017.

62
L’esodo verso le Americhe raccontato dalla letteratura italiana

scopo di rendere nota negli Stati Uniti la situazione politica italiana


di quegli anni e, soprattutto, di sostenere chi viveva nella loro stessa
condizione di esiliato125. Dopo la seconda guerra mondiale, egli arri-
va a ricoprire la carica di segretario generale del Committee to Frame
a World Constitution126 attraverso il quale promuove la necessità di
creare una Federazione Mondiale fra gli Stati127. Se nella sua nuova
patria Borgese è libero di riprendere con vigore la militanza politica
e di elaborare gli scritti politici più incisivi, è perché la società nella
quale adesso egli vive, incarna anche quel mondo nuovo dal quale
era stato attratto. Per Borgese, al contrario di quanto succedeva in
quel momento a molti altri intellettuali italiani, l’America «[...] non
è un limbo, non è il mito […] né è “l’America amara” di Cecchi, né
“il primo amore” di Soldati. È l’America […] di uno che si sforza di
capire»128 . Il suo rapporto con la società di adozione è chiaramente
espresso in Atlante Americano, l’opera attraverso la quale è possibile
ripercorrere, al di là di tutto, il contradditorio sentimento che lo lega
alla nuova ed agognata realtà129. «L’America è un gran paese»130 e, per
usare le parole di Ambra Meda, costituisce quella «patria dell’auto-

125
  Cfr. Librizzi, Una nuova vita, cit., p. 51.
126
  Fondato nel 1946, anno in cui si scioglie la “Mazzini Society”, rimarrà attivo fino
al 1951.
127
  Cfr. Moretti, op. cit., n. 2.
128
  Marinella Mascia Galateria, L’America di Borgese, in Paolo Mario Sipala (a cura di),
Borgese, Rosso di San Secondo, Savarese, Atti dei Convegni di studio, Catania, Ragusa,
Caltanissetta (1980-82), Roma, Bulzoni, 1983, pp. 21-38, p. 22.
129
  Il materiale per la realizzazione dell’opera è stato scelto tra una cinquantina di
lettere e articoli scritti tra il 1931 e il 1934. Quest’opera, per certi versi meno cono-
sciuta rispetto ad altre più note dell’autore, riesce a stupire la critica tanto che lo
stesso Parisi la definirà come «l’ultimo e il più bello dei suoi libri di viaggio» (Parisi,
op. cit., p. 71). La censura fascista, impedisce, in un primo momento, e ancora una
volta, la pubblicazione del volume. Grazie alla preziosa documentazione raccolta
da Ambra Meda si è oggi in grado di ricostruire la complessa vicenda editoriale:
l’idea iniziale proposta da Borgese all’editore Mondadori era quella di raccogliere
il materiale sull’America in due volumi, in modo tale che il lettore non si trovasse
semplicemente di fronte ad una selezione di articoli di tipo giornalistico, ma potes-
se fruire dell’opera in maniera unitaria come leggendo un diario di viaggio (Cfr.
Ambra Meda, Introduzione a Borgese, Atlante Americano, cit., pp. 13-40, p. 24; Ead.,
Per ripensare a Borgese. Le vicissitudini editoriali di Atlante Americano, in “Critica lette-
raria”, XXXVI, 138, 2008, pp. 15-36, p. 20).
130
  Borgese, Atlante Americano, cit., p. 116.

63
Con biglietto di andata

affermazione individuale e di quegli ideali democratici che nel Bel-


paese vacillano ormai da un decennio»131. Alla base della democrazia
americana c’è l’Uomo comune, il Common Man, come egli stesso lo
definisce, e il confronto con l’Europa diventa sempre più inevitabile:

L’Uomo Comune. Egli è la vera sostanza dell’America, il suo senso, il


suo futuro. Quest’essere, a primo aspetto insipido, distingue i due con-
tinenti più che la voragine di acqua salata. La cultura ottocentesca, da
cui tutti deriviamo, in Europa mirò al Superuomo, in America all’Uo-
mo Qualunque. Nietzsche fu l’europeo, Whitman l’americano. Di tutti
i grandi scrittori americani Whitman fu il solo sinceramente ottimista;
appunto perché, più che il salmista, fu il profeta dell’Uomo Comune
[...]. All’Uomo comune dovremo rivolgerci per tentar di capire che cosa
esiste, che cosa accade invero, di qua dall’Atlantico (p. 147).

Borgese giunge negli Stati Uniti in un momento di ripresa econo-


mica e sociale, al contrario di quanto non stesse accadendo in Euro-
pa che, in balìa dei regimi illiberali dominanti, andava precipitando
sempre di più132. L’interpretazione del paese di accoglienza mette in
gioco l’immagine che l’autore aveva della propria cultura e la ma-
niera in cui egli vi si colloca, ovverossia la propria identità culturale.
Democrazia e prosperità sembrano essere le parole d’ordine in questa
fase del New Deal133:

Chi ha udito i discorsi dei candidati e dei loro paladini sa con che tono
di serietà, d’onore, sia solitamente invocata questa trinità di astratti:
Chance, Opportunity, Prosperity. E l’America, secondo il patriottismo
americano, ben più concretamente che «la terra delle possibilità illim-
itate» quale fu definita dai Tedeschi, è quel luogo e quell’aria sulla
faccia dov’è consentito il massimo numero di chances e di opportu-
nities al massimo numero di esseri umani. Per raggiungere che cosa?
La prosperità senza dubbio. E, senza dubbio, non v’è prosperità senza
ricchezza, senza obbedienza (p. 257).

131
  Meda, Introduzione a Borgese, Atlante Americano, cit., p. 16.
132
  Cfr. Giuseppe Massara, Viaggiatori italiani in America (1860-1970), Roma, Edizioni
di Storia e Letteratura, 2012, p. 146.
133
  Si ricordi qui, per onestà intellettuale, che Mussolini aveva visto nel programma
economico di Roosevelt un esperimento corporativista di ispirazione fascista (Cfr.
Benito Mussolini, Che cosa vuole l’America?, in “Il Popolo d’Italia”, 17 agosto 1934).

64
L’esodo verso le Americhe raccontato dalla letteratura italiana

Borgese appare favorevole al piano politico ed economico del pre-


sidente Roosevelt e il termine Prosperity diviene il simbolo di quella
ripresa che egli avrebbe auspicato anche per l’Italia:

[...] la loro Prosperity non è un’Abbondanza pacifica e monumentale,


ma un moto ben magro e veloce, un’azione. E’ una qualità più che un
avere; più che un possesso, uno slancio. Piacerebbe tradurla in due
parole classicamente latine: Fortuna virilis (p. 259).

La «dea Prosperity», così come l’ha definita Silvia Bertolotti, «non


è l’italiana dea abbondanza, ma è più sobria e parsimoniosa. È uno
stato di benessere in cui si mescolano autonomia e coraggio»134. Tale
è la fiducia che egli ripone nella società statunitense da trasmettergli
la convinzione che la crisi del 1929 non ancora del tutto risolta, possa
costituire, per quel popolo risoluto, il momento di svolta per una du-
ratura ripresa economica:

È, poiché è sempre ottima cosa sperare, è lecito esprimere la speranza


che un giorno la violenta crisi economica scoppiata nell’autunno del
’29 a Wall Street, e che ancora oggi prosegue, possa essere considerata
come l’avvenimento più salutare di questi tempi: una febbre che de-
nunzia le tossine e che prima o poi, se non ha aggredito un organismo
incapace di difesa, apre la via alle reazioni guaritrici (p. 265).

La scrittura di Borgese assume, dunque, un tono profetico e pro-


fondamente ottimista che lascia presagire eventi futuri e «reazioni
guaritrici», mentre la «febbre che denuncia le tossine», rappresenta
bene la fine di una malattia che perdurava da molto tempo135. Quel-
lo statunitense è il giusto modello da seguire, è la realizzazione del
felice ideale democratico a cui richiamarsi e in cui identificarsi; è l’e-
spressione della nuova ‘patria’ a cui chiedere adozione136.

134
  Silvia Bertolotti, Dea Prosperity. Giuseppe Antonio Borgese e la crisi del 1929, in “Altre
Storie”, XIV, 39, settembre/dicembre 2012, pp. 11-14, p. 14.
135
  Cfr. Bertolotti, op. cit., p. 14.
136
  Questa sua decisione è avvertita da molti intellettuali rimasti in patria come una
sorta di tradimento ideologico. Fra gli altri, Benedetto Croce, nel 1944 – dopo cioè
ben sei anni dall’acquisizione da parte di Borgese della cittadinanza statunitense
– rispondendo ad un articolo pubblicato sulle colonne de “La Voce Repubblicana”
che continuava l’annosa e ben nota tenzone tra l’allievo ed il maestro durata più di

65
Con biglietto di andata

Le descrizioni di Borgese, però, sembrano perdere a tratti il tono


entusiastico degli inizi che si smorza fino a diventare più nostalgico e
riflessivo come quando, dopo averle descritte con accenti mirabolan-
ti, torna ad insistere sulle città di Chicago e di New York:

Chicago! Nome piatto, barbarico, che la pronuncia anglosassone non


ha punto, stemperato e smussato, Scicago. Qui finalmente in questo
suono esotico, vasto, si sente la solitudine, la lontananza; qui non se-
duzioni pittoresche d’Oriente, come forse le avvertirò a San Francisco,
sulla Porta d’oro aperta in faccia all’Asia, non fragranze d’Europa,
quali giungono all’illusione sui marosi dell’Atlantico, non nomi di cit-
tà e di colli memori della vecchia Inghilterra. I mari, le vie dell’antico
mondo, sono remoti; in questo ombelico di continente imprevedibili
novità si foggiano […] (pp. 65-66).

Torri. Non so più chi paragonò l’aspetto di nuova York a quello di


San Gimignano: il massimo al minimo, il blocco al gioiello. In genere
qualunque aspetto di vecchia città molto turrita ha una qualche somi-
glianza con questa. Ciò è pure strano; dentro la cerchia del comune
ogni potente alzava la sua torre contro il vicino e rivale; qui, dentro
la sconfinata socialità, nella presunta uguaglianza repubblicana, ogni
magnate erige a capriccio, a grandigia, la sua torre su quelle dei con-
correnti, e v’incide come un monumento il suo nome (p. 56).

L’immagine positiva dell’America, terra ricca di opportunità, vie-


ne meno soprattutto nel momento in cui Borgese giunge presso Ellis
Island, noto approdo della ‘speranza’ per milioni di emigrati italia-
ni che lasciarono la terra d’origine per stabilirsi negli Stati Uniti. «Il
mare, la sera, racconta quasi senza lamento la storia dei tanti che tra-
versarono le acque in cerca di felicità, e naufragarono [...]» (p. 128), af-
ferma Borgese all’interno dell’ampia sezione dedicata al tema migra-
torio e all’Isola delle lacrime, ricordando le severe ispezioni e i rigidi
controlli cui venivano sottoposti gli immigrati prima che fosse deciso

quarant’anni, considerava: «Dovrebbe frenare la troppa abbondanza dei suoi giu-


dizi […] che la delicata sua condizione di cittadino americano, che fu già italiano,
dovrebbe fargli sentire […] una cosa assai di cattivo gusto» (cito da Appendice in
Marcello Griffo (a cura di), A cinquant’anni dalla Costituzione. Dall’“Italia tagliata in
due” all’Assemblea costituente. Documenti e testimonianze dai carteggi di Benedetto Croce.
Ricerca dell’Istituto Italiano per gli Studi storici, Bologna, il Mulino,1998, p. 219).

66
L’esodo verso le Americhe raccontato dalla letteratura italiana

il loro destino137. L’America, dunque, non è soltanto chance o opportu-


nity, ma è anche difficile convivenza che sfocia spesso in criminalità
e delinquenza. Come ha bene osservato Bertolotti, di fronte a queste
condizioni l’immagine del melting pot americano diventa un’illusio-
ne138. La multiculturalità e la diversità razziale, che avrebbero dovu-
to essere il presupposto di un paese libero e democratico, sembrano
un sogno evanescente; uno spazio noncurante in cui molteplici razze
convivono senza sfiorarsi139.
Borgese rivolge un’attenzione particolare anche alla comunità dei
negri della quale approfondisce la conoscenza ad Harlem: il volto
oscuro dell’America. Lì i negri vivono in un clima oppressivo di di-
scriminazione razziale, le leggi sono dure; … non sembrava quella,
l’America:

[...] si può dire che la condizione legale dell’America è ancora in gran


parte caotica o incandescente. Ciò vale pure per un altro grande es-
empio, che non è di oggi e che non finirà domani: la situazione dei
negri specialmente negli Stati del Sud. Qui vige su di essi un regime
oppressivo, che è in aperto contrasto con la costituzione e coi risultati
scritti dalla guerra civile (p. 245).

Ma Harlem aveva già segnato la propria rivincita imponendosi,


fin dai primi anni Trenta, come capitale del jazz. Come Soldati, anche
Borgese riesce ad assistere ad uno di quegli spettacoli tenuti dagli
afro-americani in cui la musica, seppur triste e malinconica, sembra
celare, appunto, una gran voglia di riscatto:

Infine sono andato anch’io ad Harlem, il quartiere di Manhattan supe-


riore dove i negri ballano (e le negre, s’intende). [...] Si sa che la musica
negra ha avuto un’influenza su questi balli americani e cosmopoliti,
e si sa pure che secondo alcuni i tempi sincopati esprimono la mal-
inconia, l’irrequietudine, la rivolta repressa della razza maledetta, la
negra. In verità si divertivano molto. Godevano, o così pareva, con
tutto il cuore. E non pareva affatto che si ricordassero d’essere una
razza maledetta (pp. 215, 217).

137
  Cfr. ivi, pp. 207-209.
138
  Cfr. Bertolotti, op. cit., p. 12.
139
  Cfr. Borgese, Atlante Americano, cit., p. 201.

67
Con biglietto di andata

L’America ha due facce: una ridente e propositiva, l’altra ambigua


e contraddittoria; un’immagine, ancora una volta profetica, che si ri-
propone costantemente ancora oggi:

La frontiera, che non esisteva più spazialmente, esisteva demografi-


camente. In altri termini, che cos’era il flusso immigratorio, se non
un’invasione inerme, ma irresistibile, che ogni anno o ogni decennio
poteva alterare la compagine del popolo, e che senza parere stabili-
va frontiere interne dove le frontiere esterne erano state cancellate?
[...] All’abolizione della frontiera esterna, all’insularità dell’America,
si è aggiunta quest’altra insularità: di razza e di linguaggio; checché
si dica, anche di religione e di mente. Alcune minoranze sono a poco
a poco inesorabilmente macinate e fuse; altre rimangono incapsulate,
in stato innocuo. Chi s’immagina, per parlare del fenomeno massi-
mo, una conquista cattolica dell’America, sogna. Saltando all’altro
estremo, le razze di colore, le inassimilabili, sono state sospinte so-
cialmente a margini dove permeazioni e conflitti sono praticamente
inconcepibili o insignificanti. I pochi gialli sembrano aver accettato
una posizione di rinuncia al futuro; i molti negri sembrano essersi
adattati a una posizione di iloti (pp. 261-262).

A differenza di quanto è accaduto, fra gli altri, a Cecchi, Piran-


dello, Soldati, e persino a Pavese e Vittorini per i quali gli Stati Uniti
rimasero un desiderio inesaudito, Borgese non viene del tutto deluso
dalla ‘strega ammaliante’. Al contrario, egli registra, con spirito di
attento osservatore dei quotidiani costumi, pregi e difetti di quella
civiltà. Egli cioè non partecipa all’antiamericanismo ideologico, né a
quello nazionalista della prima ora, né a quello anticapitalista poi,
ma coglie degli Stati Uniti sostanzialmente solo l’aspetto della loro
modernità. Egli, però, negli anni della seconda guerra rimane anche
fortemente deluso dal modo in cui gli Stati Uniti stavano interpre-
tando il loro ruolo nel conflitto e tenta di richiamare il suo paese di
elezione al rispetto dei valori universalistici attraverso i quali avreb-
be potuto dimostrare la propria supremazia140. Ed allora, è all’Italia

140
  Cfr. Richard Hofstadter, Società e intellettuali in America (Anti-intellectualism in Ame-
rican Life, 1963), Torino, Einaudi, 1968, p. 409.

68
L’esodo verso le Americhe raccontato dalla letteratura italiana

che torna a rivolgere sovente il suo pensiero141, ed è in Italia che egli


intende morire142. Al di là del rapporto contraddittorio che lo legò
ai due Paesi, egli non seppe, in fin dei conti, opporre al suo senso di
italianità quell’orgoglio di appartenenza, pur mai del tutto abiurato,
fino a scegliere ufficialmente, ma forse mai intimamente, di sciogliere
quel legame avito con la terra natìa e di abbracciare convintamente
una cittadinanza aliena nella quale aveva visto la via d’uscita verso la
democrazia. Egli cioè, in fin dei conti, si lasciò trascinare in quel ge-
neralizzato problema di identità irrisolto, che lo apparentava a molti
altri intellettuali di quegli anni, a cui gli Stati Uniti avevano opposto
una nuova forma di propaganda che fece sì che quel mito riuscisse a
sopravvivere nell’immaginario collettivo degli Italiani anche a con-
clusione del secondo conflitto mondiale.
Tra coloro che si resero funzionali ad un disegno di propaganda
non possiamo non ricordare, tra gli altri, Giuseppe Prezzolini. Scritto-
re, editore e giornalista, collaborò con numerose testate tra le quali “Il
popolo d’Italia” fondata da Benito Mussolini; fu fondatore, nel 1903,
insieme a Giovanni Papini, di “Leonardo” e, nel 1908, di “La Voce”
che dirigerà fino al 1913. Nel 1915 si arruolò volontario e, dopo la
disfatta di Caporetto, chiese di essere mandato al fronte. Un tiepi-
do allontanamento dal regime è espresso, alla vigilia della marcia su
Roma, nella lettera aperta pubblicata su “La Rivoluzione liberale” in
cui propone la necessità di creare un’associazione di spiriti liberi uniti
contro la malavita contemporanea143. Chiamato per un corso estivo
di “Letteratura italiana” alla Columbia University di New York par-
te per gli Stati Uniti nel 1923. Vi ritorna nel 1927 e dal 1929, avendo
ottenuto un contratto di insegnamento stabile, vi si trasferisce con
la famiglia. Nel 1930 è nominato direttore della “Casa italiana” nata
con lo scopo di promuovere le relazioni amichevoli tra Italia a Stati

141
  «Io penso, guardando quel chiarore, ch’esso è già tramontato sulle casa d’Italia,
su cui già spunta il giorno; e mi rincresce di saperlo. Vorrei che il pensiero di Lei
potesse dormire questa notte con me. Good night, Italy (Borgese, Atlante Americano,
cit., p. 87).
142
  «[…] questi propilei della Sicilia, spalla d’Italia, rosata, nuda, come la spalla di
Venere, calda di sole ancora morente, come la gloria. La citazione d’obbligo dice:
“E lasso ivi morir” (Id., Da Dante a Thomas Mann, a cura di Giulio Vallese, Milano,
Mondadori, 1958, p. 344.
143
  “La Rivoluzione liberale”, n. 28, 28 settembre 1922.

69
Con biglietto di andata

Uniti; rapporti che erano essenzialmente di interesse economico che


si erano rinsaldati nel 1923 grazie alla istituzione della “Italian Power
Company” patrocinata da un importante gruppo bancario con lo sco-
po di investire capitale americano in Italia. Nel 1927 fu costituito un
Ufficio Stampa, con sede presso la “Italy-America Society”, incari-
cato di controllare l’opinione pubblica americana attraverso i mezzi
di stampa e contatti personali. Nel 1928 la sede della “Italy-America
Society” fu trasferita presso la Casa Italiana della Columbia Univer-
sity nata nel 1927 dalle spoglie del precedente Istituto di Cultura ita-
liana fondato, con indirizzo apertamente fascista, quattro anni prima
in seno al Dipartimento di Lingue romanze. In Italia, nel frattempo,
nello stesso 1928 sorgeva la Direzione Italiani all’estero con il compi-
to, fra gli altri, di coordinare le attività delle società italo-americane
indirizzandole a fini educativi. In questo quadro a partire dal 1930, e
dunque proprio dalla direzione Prezzolini, la Casa Italiana assume
autonoma fisionomia:

The need for establishing a permanent centre of Italian Culture in


America to serve the bureau of intellectual liaison between the two
countries […] The Casa will contribute to givde to Americans a more
enlightened and sympathetic view of the economic political and cul-
tural problems of the Italian people144

L’inaugurazione della Casa fu applaudita dai messaggi di adesio-


ne pervenuti, per tramite di Giuseppe Prezzolini, dal Ministero degli
Esteri (a firma Mussolini), del Ministero della pubblica Istruzione,
della Società Dante Alighieri, del Commissariato Generale dell’emi-
grazione, così come per converso, la nomina di Prezzolini alla sua
direzione fu bene accolta dagli ambienti italo-americani fascisti che
salutavano in lui la continuazione delle attività dei fasci che avevano
visto la chiusura nel 1929. Prezzolini, dal canto suo, per assicurarsi il
credito della società americana145, soprattutto quando allo scoppiare
della guerra italo-etiopica il fascismo cominciò a perdere credibili-
tà, fu sempre attento ad evitare di autorizzare qualunque iniziativa

144
  Italian House Fund, Archivio Casa Italiana, N,ew York, Columbia University, 1930.
145
  Cfr. Gaetano Salvemini, Italian fascist activities in the United States, ed. by di Philip
V. Cannistraro, New York, Center for Migration Studies, 1977, pp. 167-170.

70
L’esodo verso le Americhe raccontato dalla letteratura italiana

a carattere scopertamente politico146. Ciò non bastò a fugare le mire


degli anti-fascisti, fra cui lo stesso Borgese, soprattutto con il dilagare
di una posizione antifascista all’interno della società statunitense che
trovò il suo culmine nel 1940 al momento, cioè, della dichiarazione di
guerra da parte dell’Italia. A suo carico fu, allora, aperta un’inchie-
sta del FBI archiviata, poi, nel 1945 per insufficienza di prove. L’at-
teggiamento di Prezzolini era del resto sempre stato molto ambiguo
nei confronti della politica: se è vero che nel 1911 si era opposto alla
guerra italo-libica – come del resto aveva fatto lo stesso Mussolini
– e aveva affermato la inutilità delle conquiste coloniali, sostenen-
do, al contrario, la necessità di sviluppo delle regioni più arretrate,
nel 1915 si votò al più agguerrito interventismo. Se è vero che nel
1935 sottoscrisse la tessera dei fasci all’estero147, altrettanto vero è che
negò poi tale circostanza con il supporto dell’affermazione di esse-
re andato via dall’Italia proprio non appena il fascismo era salito al
governo148; e se è vero che tra il 35 e il 40 egli pubblica molti articoli
che «erano manifestazione di aperto sostegno, di fiducia e di ammi-
razione nei confronti di Mussolini e del fascismo»149, è vero anche che
proprio dal 1940 egli sceglie di abiurare la cittadinanza italiana e di
abbracciare quella statunitense e, quando Mussolini dichiarò guerra
agli Stati Uniti, rifiutò la proposta di rientrare in Italia fino al 1962. Se
dunque non del tutto chiaro fu il ruolo che egli esercitò sul suolo sta-
tunitense in favore dell’ideologia fascista, di certo non condannò né
gli interventi legislativi del 1938 né tantomeno l’attacco nazista alla
Francia del 1940. Ricostruzioni utili del suo rapporto con l’America
sono rintracciabili in America in pantofole150, ne Dal mio terrazzo151, e in

146
  Cfr. Daria Frezza Bicocchi, Propaganda fascista e comunità italiane in USA: la casa
italiana della Columbia University, “Studi Storici”, 11, n. 4, October-December 1970,
pp. 661-697.
147
  Cfr. Elena Bacchin (a cura di), Prezzolini in America e il fascismo. Un memoriale,
“Contemporanea” vol. 11, n. 2, aprile 2008, pp. 243-256, p. 249.
148
  Cfr. Arturo Colombo, Intervista postuma a Prezzolini, in “Nuova antologia”, 117,
vol. 550, luglio-settembre 1982, pp. 305-314, p. 313.
149
  Emilio Gentile, Prezzolini e l’America negli anni del fascismo, in Cosimo Ceccuti (a
cura di), Prezzolini e il suo tempo, Firenze, Le Lettere, 2003, p. 234.
150
  America in pantofole: un Impero senza imperialisti; ragguagli intorno alla trasformazione
degli Stati uniti dopo le guerre mondiali, Firenze, Vallecchi, 1950.
151
  Dal mio terrazzo: 1946-1959, Firenze, Vallecchi, 1960.

71
Con biglietto di andata

Diario152. Uno sguardo attento alla vita dei nostri emigranti è offer-
to ne I trapiantati153. Il testo nato con la volontà di offrire un’analisi
storica dell’emigrazione italiana, insiste sulle dolorose condizioni che
hanno afflitto successive generazioni di italiani, trapiantati, appunto,
negli Stati Uniti per i quali egli auspicava un’assimilazione culturale
alla società statunitense.
A far esperienza diretta degli Stati Uniti, in quegli anni è anche
Emilio Cecchi. Critico letterario e d’arte di raffinata e profonda cultu-
ra, Emilio Cecchi non nascose mai la sua vicinanza ideologica al fa-
scismo né la propria amicizia personale con il Duce pur essendo tra i
firmatari del Manifesto degli intellettuali italiani antifascisti154 promosso
da Giorgio Amendola in risposta all’assassinio di Matteotti del 1924
che segnava la fine dello Stato liberale. Traghettatore in Italia della
letteratura statunitense che però considerava come una mera costola
della più nobile tradizione letteraria dell’Inghilterra, il suo interesse
per la letteratura d’Oltreoceano, per quanto tiepidamente apprezzata,
era certamente antico se si considera che già nel 1910 aveva dedicato
a Poe un articolo pubblicato su “Cronache letterarie” il 12 giugno di
quell’anno e poi un altro su la “Tribuna” il 9 febbraio 1913. Ma fu an-
che uno dei primi ad interessarsi di Melville, come attestato da un suo
intervento pubblicato sul “Corriere della Sera” il 27 novembre 1931,
e di Faulkner155. Del 1935, è poi la prima edizione del suo Scrittori in-
glesi e americani156 su cui tornerà a lavorare nel 1947 e ancora nel 1954;
nel presentare gli scrittori statunitensi, il critico riservava loro, sem-
pre, notazioni aspre e pungenti. Per Cecchi, insomma, così come per
il collega Mario Praz157, lo studio della letteratura statunitense funge
da strumento per affermare, su basi rigorosamente metodologiche,
la superiorità della civiltà europea158. La sua avversione per il mito a

152
  Diario: 1900-1941, Milano, Rusconi, 1978.
153
  I trapiantati. Saggio relativo agli italiani emigrati in America, abbandonati dall’Italia ed
emarginati dagli americani, Milano, Longanesi, 1960.
154
  “Il Mondo” 1 maggio 1925.
155
  “Pan”, II, 1934, n. 2, pp. 64-70.
156
  Lanciano, Carabba, 1935; Milano, Mondadori, 1947; Milano, A. Mondadori, 1954.
157
  Cfr. Mario Praz, Cronache letterarie anglosassoni, Roma, Edizioni di Storia e Lette-
ratura, 1950.
158
  Cfr. Agostino Lombardo, La critica italiana sulla letteratura americana, in Id., La ri-
cerca del vero: saggi sulla tradizione letteraria americana, Roma, Edizioni di Storia e

72
L’esodo verso le Americhe raccontato dalla letteratura italiana

stelle e strisce è evidente anche nella prefazione alla nota antologia


Americana pubblicata a cura di Elio Vittorini. Qui Cecchi rappresenta
il polo opposto dell’entusiasmo vittoriniano per la letteratura statuni-
tense: «L’inizio della guerra 1914-1918 trovò i lettori di tutto il mondo
a testa china sui romanzi russi. E l’inizio della nuova guerra, nel 1939,
li ha ritrovati a testa china sulle novelle e sui romanzi americani. Al
disorientamento delle coscienze, alla esasperazione dei sentimenti,
alle angosciose prospettive del futuro, conferivano, a quanto sembra,
letture voraci e disordinate, spesso condotte su traduzioni senz’arte.
Letture senza inquadramento storico e senza contrappeso di filologia;
e in parte da considerare come segni d’una moda, anzi d’una infa-
tuazione, più che come operazioni dell’intelligenza e del gusto»159;
un chiaro attacco indirizzato a questa nuova moda americanistica
che tendeva a dare enfasi a un nuovo tipo di scrittura. Cecchi ritiene
che la narrativa americana sia incapace di esprimere quel necessario
senso di novità e di distacco dalla letteratura europea: «Un poderoso
incentivo a quell’incantagione e a quel fanatismo che dicevo sopra, fu
l’illusione di essersi finalmente imbattuti in una letteratura che non
avesse a che fare con la letteratura, che non fosse viziata e minata di
letteratura: una letteratura “barbara”, o in certo qual modo primiti-
va, giacché il desiderio di una prisca ingenuità o almeno d’una bella
rudezza barbarica, non è mai stato come intenso come in epoche di
profonda stanchezza morale ed artistica»160. Il disprezzo provato da
Cecchi nei confronti della cultura americana è basato su un’esperien-
za diretta: a differenza di altri americanisti, quali Vittorini e Pavese,
che la avevano conosciuta solo sulle pagine dei romanzi letti e tra-
dotti, egli l’America l’ha conosciuta da vicino e ne ha provato ribrez-
zo. Egli si era, infatti, recato oltreatlantico in occasione di due lunghi
soggiorni: negli Stati Uniti tra il 1930 e il 1931 – dove insegnò cultura
italiana presso la University of California di Berkeley – e in Messico
tra il 1937 e il 1938. Da queste esperienze nacquero Messico161 e Ame-

Letteratura, 1961, pp. 13-61.


159
  Emilio Cecchi, Introduzione, in Elio Vittorini (a cura di), Americana: raccolta di narra-
tori dalle origini ai nostri giorni, Milano, Bompiani, 1942, pp. I-XXIII, p. IX.
160
  Ivi, p. XIV.
161
  Milano-Roma, Treves-Treccani-Tumminelli, 1932.

73
Con biglietto di andata

rica amara162, raccolti poi in un unico volume sotto il titolo di Nuovo


Continente163, testi in cui l’autore raccoglie memorie ed impressioni
dei suoi due soggiorni. Si tratta di una carrellata di ritratti e quadri
pittorici che restituiscono scene di vita quotidiana, fenomeni culturali
e politici. Il suo terrore per ogni forma di meticciato umano viene fuo-
ri evidente soprattutto nelle scene che ritraggono i negri di Harlem, o
gli ebrei del ghetto. La sua è un’America “amara”, appunto, che egli
arriva a definire in una lettera a Mario Praz come «disumana»164; è il
regno dello sfacelo della famiglia, della ricerca a tutti i costi del suc-
cesso, è la patria di una democrazia di facciata165. La sua introduzione
all’Antologia vittoriniana è quindi non solo un attacco alla letteratura
statunitense strumentale all’ideologia fascista, bensì una reale critica
alla società americana e ai valori che rappresenta:

Lo spettacolo che della vita ci viene offerto è tragico, orrendo. Troppe


volte ho cercato di rintracciare caratteri e tendenze generali della vita
americana, per potere evitar di ripetermi intorno alle ragioni che fan-
no apparire questa letteratura come dementata e percossa dal ballo di
San Vito. Da una civiltà che, non da ieri, ha come postulato supremo il
benessere e la felicità materiale, era ovvio che potesse nascere soltanto
un’arte di disillusioni, e disillusioni senza conforto. […] Si ha una sor-
ta di gelido e sfrenato paganesimo, che si è messo sotto ai piedi tutti
i divieti, interni ed esterni: un paganesimo di mera violenza, senza
respiro di felicità (p. VIII).

Anche Eugenio Montale fu colto dal suo American dreem166. Nel


1938, infatti, ormai certo di essere sollevato dalla carica di direttore
del “Viesseux” per il suo rifiuto di sottoscrivere la tessera del Pnf e,
prima di essere assunto dal “Corriere della Sera”, aveva accarezzato
l’idea di trasferirsi negli Stati Uniti dove sperava di poter intrapren-

162
  Firenze, Sansoni, 1939.
163
  Nuovo Continente: Messico, America amara, Messico rivisitato, Firenze, Sansoni, 1958.
164
  Francesca Bianca Crucitti Ullrich (a cura di), Carteggio Cecchi-Praz, prefazione di
Giovanni Macchia, Milano, Adelphi, 1985, p. 125.
165
  Cfr. Martino Marazzi, Per una rilettura di America amara, in “Forum italicum”, 1
September 1994, pp. 281-293.
166
  Cfr. Mauro Maccario, L’American dreem di Montale, in “Forum italicum”, 1 Sep-
tember 1994, pp. 296-297.

74
L’esodo verso le Americhe raccontato dalla letteratura italiana

dere la carriera universitaria. Ad attrarlo verso gli Stati Uniti è anche


la sua musa Irma Bradeis – una donna americana conosciuta a Firen-
ze qualche anno prima, con la quale sarà legato per circa cinquanta
anni che, a causa delle leggi razziali, era stata costretta a rientrare
negli Stati Uniti – e cantata dal poeta ne le Occasioni167 con il nome di
Clizia. La donna, nell’immaginario dell’autore, incarna l’America e
rappresenta per lui uno spazio di libertà sia sul piano privato che su
quello politico, ma il suo cuore non è libero. In Italia, infatti, convive
con Drusilla Tanzi che lo trattiene presso di sé accecata di gelosia.
L’arrivo della guerra farà tramontare il sogno di attraversare l’Ocea-
no. Montale riuscirà a mettere piede sul suolo americano – per appe-
na poco più di quarantotto ore – solo nel luglio del 1950 quando vi si
reca in qualità di inviato del “Corriere della Sera” per documentare
il volo inaugurale della linea Roma-New York della L.A.I. – Linee
Aeree italiane. Le impressioni di questo fugace contatto con la società
statunitense furono trasferite, al suo ritorno, nell’elzeviro L’America
come apparizione168. Per Eugenio Montale, come per altri intellettuali
italiani che mai vi misero piede, l’America rappresentava un “mito
positivo”, quella fucina di democrazia e di vitalità che consentiva a
chiunque di esprimersi liberamente; eppure, una volta fatta la seppur
breve “conoscenza”, nelle descrizioni che l’autore ne restituisce, essa
è ora più prosaica; non è più la via salvifica, l’àncora di salvezza, il
ponte verso la libertà, ma solo una società che ha precorso i tempi, la
meta a cui tutte le società arriveranno.
E il mito “a stelle e strisce” continuerà ancora ad alimentare il de-
siderio di libertà e le aspirazioni alla democrazia di numerosi altri tra
gli scrittori più rappresentativi della nostra Letteratura. Tra di essi, e
trascegliendo sempre solo a titolo esemplificativo, è, per cominciare,
Carlo Levi.
Nato a Torino nel 1902, dopo aver conseguito la laurea in medici-
na, segue alcuni corsi di specializzazione a Parigi dove ha l’occasio-
ne di conoscere l’opera di Amedeo Modigliani che presto diventerà
il suo modello pittorico. Un’arte che egli vivrà come espressione di
libertà da contrapporre al sottomesso conformismo al regime fasci-

167
  Torino, Einaudi, 1939.
168
  “Corriere della Sera”, 13 luglio 1950.

75
Con biglietto di andata

sta dell’arte ufficiale e del movimento futurista. Animato da un forte


senso civico, subito dopo la Grande guerra per tramite dello zio Clau-
dio Treves, esponente di spicco del Partito Socialista Italiano, conosce
Pietro Gobetti – a cui nel 1949 dedicherà un saggio169 – che lo invita
a collaborare con alcune testate da lui fondate quali “La Rivoluzione
Liberale” e “Il Baretti”. Gobetti muore nel 1926 in seguito alle ferite ri-
portate durante le aggressioni fasciste e, nello stesso anno, Levi si av-
vicina al gruppo “Giustizia e Libertà” in cui milita attivamente. Que-
sta sua presa di posizione lo porterà all’arresto nel 1934, ed al confino
a Grassano l’anno successivo e poco dopo in un altro paesino della
Lucania, Aliano, dove rimarrà fino al 1936 quando un’amnistia, pro-
mulgata sulla scia dell’entusiasmo provocato dalla conquista dell’E-
tiopia, gli concede la libertà. Nel 1939, a seguito delle leggi razziali è
costretto a riparare a Parigi, insieme a Paola Levi Olivetti dalla quale
aveva avuto una figlia; rientrerà in Italia da clandestino nel 1941. Nel
1963 è senatore nelle liste indipendenti del PCI riconfermandosi nella
carica nel 1968. Nel 1967 intanto, aveva fondato la “FILEF – Fede-
razione Italiana Emigrati e Famiglie”. Attraverso quest’organo Levi
promuove azioni sociali e politiche e incentiva la nascita di associa-
zioni in grado di difendere i diritti degli emigrati in molti paesi del
mondo. Anche la sua attività politica e di senatore si è concentrata su
questo tema. Le sue spoglie sono seppellite, per sua espressa volontà,
ad Aliano dove aveva promesso di tornare170.
Nel 1945 insieme alla Liberazione e ispirato dall’esperienza del
confino, vede la luce Cristo si è fermato ad Eboli171. L’eco degli orrori
della Seconda guerra è ancora fortissima, ma siamo anche all’indo-
mani dal ventennio caratterizzato dal regime fascista, e benché il ro-
manzo sia stato composto tra il 1943 e il 1944 quando cioè il regime
mussoliniano era ormai caduto, i partigiani continuavano una dura
guerra contro l’esercito tedesco e contro i fascisti. Nel testo, l’Ameri-
ca è celebrata non solo a livello letterario, ma anche civile e politico,
come luogo della libertà, opposto all’immobilismo della dittatura. Il

169
  Pietro Gobetti e “la Rivoluzione liberale”, in “Il Ponte”, V, vol. 8-9, 1949, pp. 1009-
1021.
170
  Per i riferimenti biografici cfr. Gigliola De Donato, Sergio D’Amaro, Un torinese del
Sud: Carlo levi. Una biografia, Milano, Baldini & Castoldi, 2001.
171
  Roma, Einaudi, 1945.

76
L’esodo verso le Americhe raccontato dalla letteratura italiana

mito americano assume un valore letterario, esistenziale e politico,


dinnanzi al provincialismo della cultura italiana autarchica di quegli
anni, che propugna i valori eroici, ma vuoti e superficiali, della na-
zione e dell’italianità. Questo stesso mito americano Levi lo ritrova
fra la gente di Lucania, con la quale egli entra in contatto proprio in
pieni anni Trenta. L’America è la stella cometa da seguire persino per
i poveri contadini lucani:

Il regno di queste genti senza speranza non è di questa terra. L’altro


mondo è l’America. Anche l’America ha, per i contadini, una doppia
natura. È una terra dove si va a lavorare, dove si suda e si fatica, dove
il poco denaro è risparmiato con mille stenti e privazioni, dove qual-
che volta si muore, e nessuno più ci ricorda; ma nello stesso tempo, e
senza contraddizione, è il paradiso, la terra promessa del Regno. (p.
114)

Levi racconta come in ogni casa di Aliano ci sia la foto del presi-
dente americano Roosevelt: «non ho mai visto in nessuna casa altre
immagini: né il Re, né il Duce, né tanto meno Garibaldi, o qualche
altro grand’uomo nostrano» (p. 107). Il che la dice lunga sul rapporto
dei contadini alianesi con la giovane Italia unita, ancor più in quegli
anni di privazioni. Se Roma li ignorava, New York rappresentava la
promessa; ma il sogno ha due facce: una per coloro che restano, che
sperano, che ricevono le rimesse e gli utensili dal Nuovo Mondo172,

172
  «Dopo il ’29, l’anno della disgrazia, ben pochi sono tornati da New York, e ben
pochi ci sono andati. I paesi di Lucania, mezzi di qua e mezzi di là dal mare, sono
rimasti spezzati in due. Le famiglie si sono separate, le donne sono rimaste sole: per
quelli di qui, l’America si è allontanata, e con lei ogni possibile salvezza. Soltanto la
posta porta continuamente qualcosa che viene di laggiù, che i compaesani fortunati
mandano a regalare ai loro parenti. Don Cosimino aveva un gran da fare con questi
pacchi: arrivavano forbici, coltelli, rasoi, strumenti agricoli, falcetti, martelli, tena-
glie, tutte le piccole macchine della vita comune. La vita di Gagliano [Aliano], per
quello che riguarda i ferri dei mestieri, è tutta americana, come lo è per le misure:
si parla, tra i contadini, di pollici e di libbre piuttosto che di centimetri o di chilo-
grammi. Le donne, che filano la lana su vecchi fusi, tagliano il filo con splendidi
forbicioni di Pittsburgh. I rasoi del barbiere sono i più perfezionati che io abbia mai
visto in Italia, e l’acciaio azzurro delle scuri che i contadini portano sempre con sé,
è acciaio americano. Essi non sentono alcuna prevenzione contro questi strumenti
moderni, né alcuna contraddizione fra di essi e i loro antichissimi costumi. Prendo-
no volentieri quello che arriva da New York, come prenderebbero volentieri quello

77
Con biglietto di andata

e una per coloro che partono che faticano, che vivono comunque a
margine di quella società che li sfrutta e non li integra, i cui figli nati
americani non tornano, mentre loro rientrano con l’idea di riabbrac-
ciare i parenti e i compaesani e di ripartire, oppure perché irretiti dal-
la propaganda dei politici italiani che prometteva lavoro e ricchezza
per tutti in patria. Così finiscono per investire quei piccoli risparmi
che erano riusciti a metter da parte e nel giro di poco tempo la loro
vita torna ad essere più misera di quanto non fosse prima di decidere
di andar via.
Se nel romanzo l’America è, ancora una volta, presentata da un
punto di vista essenzialmente localistico, Carlo Levi avrà modo di lì a
poco di far conoscenza diretta della cultura americana. Nella prima-
vera del 1947 Levi parte per New York in compagnia dell’ex Presiden-
te del Consiglio dei Ministri italiano Ferruccio Parri, per partecipare
alla Friendship with Italy Week, come rappresentante dell’Italia con lo
scopo di ottenere finanziamenti per la ripresa economica e sociale. In
quell’occasione Levi partecipa ad una campagna promozionale per
l’edizione newyorkese di  Cristo si è fermato a Eboli173 accolta da un
enorme successo di pubblico e di critica. L’ottima ricezione dell’o-
pera apre per lui fruttuose collaborazioni con importanti periodici
statunitensi, tra i quali “Life”, “New York Times” e “The Reporter”. Il
7 luglio 1947 su “Life” Levi pubblica il suo primo articolo ‘statuniten-
se’: Italy’s myth of America174. Il saggio, che recupera alcuni motivi por-
tanti del Cristo si è fermato ad Eboli, presenta Oltreoceano l’Italia degli
ultimi, quella dei contadini che aveva conosciuto da vicino e che, per
molti aspetti, aveva imparato ad amare, ma introduce subito anche il
tema dell’emigrazione dal Sud Italia verso gli Stati Uniti, riassumen-
done la storia dalle origini al secondo dopoguerra. Nelle menti dei
contadini lucani il mito dell’America è un elemento di speranza, è il
sogno dell’Eldorado175. Insistendo sui simboli ‘magico-religiosi’ già

che arrivasse da Roma. Ma da Roma non arriva nulla. Non era mai arrivato nulla, se
non l’U. E. [Ufficiale Esattoriale], e i discorsi della radio» (p. 142)».
173
  Christ stopped at Eboli, New York, Farrar, Straus and Co, 1947.
174
  Il testo è stato poi raccolto, con variazioni, ne Le mille patrie: uomini, fatti, paesi d’I-
talia, a cura di Gigliola De Donato, Roma, Donzelli, 2000, alle pp. 5-20.
175
  Cfr. Amilcare Iannucci, Made in Italy: l’immagine dell’Italia e della cultura italiana
all’estero dal secondo Dopoguerra a oggi, in Luciano Formisano (a cura di) Storia della

78
L’esodo verso le Americhe raccontato dalla letteratura italiana

presentati nel Cristo si è fermato ad Eboli, Levi argomenta le ragioni


di familiarità dei contadini lucani con il dollaro o con l’ex presidente
Roosevelt, le cui immagini, presenti in tutte le case di Aliano, si af-
fiancano a quella della Madonna di Viggiano. I richiami al mito ame-
ricano, in quella periferica realtà sono persino entrati nel lessico quo-
tidiano di quella gente nell’italianizzazione di termini quali ticchetto o
Broccolino, ma anche nelle memorie, nelle abitudini e negli oggetti di
chi è tornato. Esiste insomma un’affinità profonda e inaspettata tra la
società remota dei contadini lucani e il modernismo esasperato della
cultura statunitense, che gli stessi emigrati italiani hanno contribuito
a fondare176. Se nel romanzo la Madonna di Viggiano è descritta nel
ruolo della divinità sotterranea177, qui ad essa si sovrappone la Statua
della Libertà descritta come la «bianca madonna che porta luce» (p.
17).
Qualche anno dopo, però, il fiasco della versione in lingua ingle-
se di Paura della libertà178, e la non unanime ricezione de L’orologio179,
opere attraverso le quali l’autore offre una puntuale riflessione sulla
società e sulla politica italiane negli anni del totalitarismo e del do-
poguerra, segnano invece un progressivo calo di interesse da parte
del pubblico americano e, in contraltare, cambia anche il giudizio che
Levi ha di quella società. In alcuni articoli stesi per “La Stampa”, in
occasione di un viaggio a Detroit e a New York nel 1960, Levi denun-
cia la folle corsa capitalistica di una società fortemente automatizza-
ta, i «limiti incerti della democrazia, nelle frontiere della libertà e del
conformismo, nelle catene di Ford»180. I grattacieli sono solo prove
inconfutabili di un «arido orgoglio» la cui «spinta verticale» dimostra
la vacuità di una cultura che innalza templi «di niente altro che di sé
stessa»181.

letteratura italiana. La letteratura italiana fuori d’Italia, Roma, Salermo editrice, 2002,
pp. 985-994.
176
  Cfr. Martino Marazzi, Little America. Gli Stati Uniti e gli scrittori italiani del Novecen-
to, Milano, Marcos y Marcos, 1997.
177
  Cfr. Cristo si è fermato ad Eboli, cit., p. 111.
178
  Torino, Einaudi, 1946; Of Fear and Freedom, New York, Farrar, Straus and Co, 1950.
179
  Torino, Einaudi, 1950; The Watch, New York, Farrar, Straus and Young, 1951.
180
  Passaggio a Detroit, “La Stampa”, 24 maggio, 1960, p. 3.
181
  Il museo Guggenheim, “La Stampa”, 15 giugno, 1960, p. 3.

79
Con biglietto di andata

Se l’America ha rappresentato la salvezza per molti meridionali


che si sono affrancati da fame e sofferenze al prezzo di abbandonare
per sempre la propria terra, è vero altresì che come già visto per Pi-
randello l’emigrazione sospende il problema ma non lo risolve. La
questione meridionale allora – come argomentato in Le parole sono
pietre182 – andrebbe affrontata, al contrario, non con la fuga, ma con
la lotta al sistema feudale e alla ingerenza della Chiesa. Se Cristo si è
fermato ad Eboli presenta il mondo contadino lucano come immobile,
Le parole sono pietre sprona ad una rivoluzione per la rivendicazione
dei diritti dell’uomo183.
Nel corso degli anni Trenta, numerosi scrittori statunitensi quali,
in particolar modo, Melville, Faulkner e Dos Passos, erano stati as-
sunti a modello da alcuni giovani intellettuali italiani, quali Pavese e
Vittorini che videro negli autori d’oltreoceano un esempio di vivacità
culturale contrapposto al piatto panorama letterario europeo. Parten-
do da basi squisitamente letterarie, i nostri giovani americanisti che
vedevano nella democrazia statunitense un modello politico in grado
di contrastare i totalitarismi del vecchio continente, animarono un di-
battito ideologico-politico che, accesosi negli anni Trenta, si protrarrà
fino alla conclusione del secondo conflitto mondiale.
Ancora il Piemonte e la città di Torino – uno dei più importanti
centri della cultura italiana di quegli anni184 – sono la cornice entro
cui si muove Cesare Pavese. Il “sogno americano”, prima ancora che
in campo letterario, conquista il giovanissimo Pavese con la musica
ed il cinema. Anche l’incontro con la letteratura d’oltreatlantico arri-
va per Cesare Pavese molto presto, e ancora in età scolare, grazie al
suo docente di Italiano e Latino Augusto Monti185. Pur fra i promotori
della diffusione della letteratura statunitense in Italia di cui tradusse
numerosi testi e che traghettò anche attraverso numerosi interventi
critici, Pavese non riuscì mai, come Vittorini e al contrario di Levi, ad

182
  Cfr. Le parole sono pietre: tre giornate in Sicilia, Torino, Einaudi, 1955.
183
  Cfr. Antonio Lucio Giannone, Le parole sono pietre, in Franco Vitelli (a cura di), Il
Germoglio sotto la scorza. Carlo Levi vent’anni dopo, Cava dei Tirreni, Avagliano, 1998,
pp. 75-89, part. pp. 79-80.
184
  Cfr. Valerio Ferme, Tradurre è tradire: la traduzione come sovversione culturale sotto il
Fascismo, Ravenna, Angelo Longo, 2002, p. 86.
185
  Cfr. Cesare Pavese, Lettere 1926-1950, 2 voll., t. I., Torino, Einaudi, 1968.

80
L’esodo verso le Americhe raccontato dalla letteratura italiana

attraversare l’Oceano. A differenza di Vittorini, però, per Pavese l’A-


merica non rappresentava soltanto l’elemento di rottura tra vecchio
e nuovo, ma un pozzo a cui attingere per colmare il vuoto artistico
lasciato dal fascismo. Il romanzo americano, come Of mice and men di
Steinbeck – per citarne uno tra i tanti – per Pavese mostra un supera-
mento del romanzo verista e al contempo della pomposità dannun-
ziana: una rivoluzione stilistica che non vedeva più il contadino par-
lare la stessa lingua dell’individuo colto e che per questo conferiva ai
testi linfa vitale rendendoli realistici.
Il suo impegno a farsi traghettatore in Italia della letteratura statu-
nitense rispondeva alla volontà di “contagiare” i lettori dello spirito
di libertà:

Il sapore di scandalo e di facile eresia che avvolgeva i nuovi libri e i


loro argomenti, il furore di rivolta e di sincerità che anche i più sventati
sentivano pulsare in quelle pagine tradotte, riuscirono irresistibili a
un pubblico non ancora del tutto intontito dal conformismo e dall’ac-
cademia. Si può dire francamente, che almeno nel campo della moda e
del gusto la nuova mania giovò a perpetuare e alimentare l’opposizione
politica, sia pure generica e futile, del pubblico italiano che leggeva. Per
molta gente l’incontro con Caldwell, Steinbeck, Saroyan, e perfino col
vecchio Lewis, aperse il primo spiraglio di libertà, il primo sospetto
che non tutto nella cultura del mondo finisse coi fasci186.

Il tema dell’emigrazione è affrontato, in prima istanza, dal giova-


ne Pavese agli esordi della carriera letteraria ne I mari del Sud (1930)187.
Il protagonista di questo componimento è ispirato alla figura del cu-
gino Silvio «[…] un gigante vestito di bianco, /che si muove paca-
to», emigrato all’inizio del Novecento per lavorare come marinaio e
ritornato, vent’anni dopo («Vent’anni è stato in giro per il mondo. /
Se n’andò che ero ancora bambino») finita la guerra, al proprio paese
natio, «[…] aveva denaro» ma «non parla italiano».
Quasi vent’anni dopo, all’apice della propria carriera, Pavese ri-
propone un personaggio simile in una delle opere più significative

186
  Cesare Pavese, Ieri e oggi (1947), in Italo Calvino (a cura di), La Letteratura americana
e altri saggi, Torino, Einaudi 1962, pp. 193-194.
187
  I mari del Sud (1930), poi raccolta in Lavorare stanca, Torino, Einaudi, 1968, pp. 9-11.

81
Con biglietto di andata

della sua produzione letteraria, nonché l’ultimo suo romanzo: La luna


e i falò188, scritto in pochi mesi ed uscito nel 1950. Il protagonista e nar-
ratore Anguilla, emigrato in America, con il sogno dell’arricchimento
racconta, una volta rientrato nelle sue Langhe di essere stato inizial-
mente colpito dalla civiltà del democratico paese ospitante: «in Ame-
rica, dissi, c’è di bello che sono tutti bastardi […] Io ce l’ho fatta anche
senza nome» (p. 12). Ben presto, però, Anguilla comprende la vacuità
di un mondo effimero fatto di sfolgorante apparenza, al quale sente
e sa di non appartenere. L’America non è più l’Eldorado, ma si rivela
improvvisamente come «una forza centrifuga che spande gli uomini
come frammenti in un mosaico caotico»189. Così, al termine del se-
condo conflitto mondiale, Anguilla decide – per superare il senso di
isolamento ed alienazione – di tornare al proprio luogo di origine. In
America manca quel «qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei
resta ad aspettarti», perché «un paese vuol dire non essere soli, sape-
re che nella gente, nelle piante, c’è qualcosa di tuo» (pp. 11-12). Così
come il mondo oltreoceano era stato oggetto di un disincanto, anche
il rientro in patria assume i toni di un’amara delusione. Le Langhe
sono state distrutte dal secondo conflitto mondiale e Anguilla, che
come l’autore, non ha partecipato alla Resistenza, è un uomo radical-
mente diverso rispetto ai propri compaesani:

Ero tornato, ero sbucato, avevo fatto fortuna [...] ma le facce, le voci
e le mani che dovevano toccarmi e riconoscermi non c’erano più […]
Quel che restava come una piazza l’indomani della fiera, una vigna
dopo la vendemmia, il tornar solo in trattoria quando qualcuno ti ha
piantato [...] venivo da troppo lontano – non ero più di quella casa,
non ero più come Cinto, il mondo mi aveva cambiato (p. 57).

L’esperienza di Anguilla si distanzia totalmente dalla rappresenta-


zione pascoliana e deamicisiana della vicenda migratoria come feno-
meno storico e collettivo; la partenza di Anguilla, infatti, non è stata
dettata da motivazioni economiche, ma da un desiderio di evasione e
di scoperta, da un’inquietudine esistenziale – e potremmo dire gene-
razionale –, da un tentativo di ricerca di un proprio posto nel mondo.

188
  Torino, Einaudi, 1950.
189
  Paoletti, op. cit., p. 121.

82
L’esodo verso le Americhe raccontato dalla letteratura italiana

Indipendentemente dalla misura dell’allontanamento, sia in termini


spaziali che temporali, il ritorno alle radici pare essere per Pavese la
naturale chiusura del cerchio di ogni esperienza migratoria, ma è al-
tresì vero, come sostiene Sebastiano Martelli, che «il ritorno di Anguilla
dall’America è metafora dell’allontanamento dell’autore dal mito
americano su cui era stretto negli anni Trenta»190. Pavese, invero non
rinnega del tutto quella giovanile infatuazione – com’è possibile leg-
gere ancora tra le pagine di La luna e i falò191 –, ma, come è successo ad
altri intellettuali della sua generazione, riconosce che è ormai scemato
quell’anelito di creatività: «[…] ora è finita. Ora L’America, la grande
cultura americana, sono state scoperte e riconosciute, e si può prevede-
re che per qualche decennio non ci verrà più da quel popolo nulla di si-
mile ai nomi e alle rivelazioni che entusiasmarono la nostra giovinezza
prebellica»192. Il modello statunitense è ormai l’antagonista193.
Altro animatore del mito americano e per questo aspetto inscindi-
bile dal ruolo interpretato da Pavese, è Elio Vittorini. Militante, dap-
principio, nell’ambiente della cosiddetta “estrema sinistra fascista”,
faceva parte di una corrente più giovane e rivoluzionaria interna al
partito, che si ispirava ai principi di rivoluzione sociale e anti-borghe-
se della fase embrionale del fascismo. Non a caso i primissimi anni
da giornalista lo videro impegnato nella rivista “Il Bargello” diretta
da Alessandro Pavolini, con cui mantenne buoni rapporti e a cui fece
più volte appello in materia di censura quando venne eletto ministro
del MCP. L’insofferenza e la disillusione nei confronti del fascismo
cominciarono a manifestarsi con lo scoppio della Guerra civile spa-
gnola, che vide il duce schierarsi a favore di Francisco Franco e della
sua politica fortemente reazionaria. Svanito dunque il mito della ri-
voluzione, Vittorini cominciò ad allontanarsi dagli ambienti fascisti
fino alle vicende del dopoguerra. Per Vittorini, ancor più che per Pa-

190
  Martelli, Dal vecchio mondo al sogno americano, cit., p. 469.
191
  Cfr. Mario Domenichelli, “L’America come la luna”. La fine del mito americano negli
intellettuali comunisti italiani (1938-1954), in “Letterature straniere”, n. 6, 2004, pp.
43-56, p. 50.
192
  Cesare Pavese, Un negro ci parla, recensione radiofonica a Black boy di Richard
Wright, trasmessa nel maggio 1947, pubblicata con il titolo Sono finiti i tempi in cui
scoprivamo l’America, La letteratura americana e altri saggi, cit., pp. 183-186, p. 185.
193
  Cfr. Id., Cultura democratica e cultura americana, interventi pubblicati su “Rinascita”
febbraio 1950, ora in La letteratura americana, cit., pp. 285-287.

83
Con biglietto di andata

vese, l’America assume tutti i caratteri di una terra mitica, un’utopia


letteraria, culturale e politica che si erge come unico luogo possibile
per la rinascita morale e spirituale dell’umanità.
Per Vittorini l’avventura americana comincia nel 1933 con il sag-
gio su Melville194. In questo periodo, però, il suo interesse è più in-
dirizzato verso un’analisi stilistica che ideologica. Il vero lavoro di
americanista comincia solo nel 1937 con la recensione a Pylon di Fau-
lkner195. Dalla descrizione che l’autore siciliano ne fa nella sua famosa
antologia Americana, appare subito chiaro il suo entusiasmo giovanile
per la letteratura statunitense:

Anche in una storia della letteratura americana la prima parola che ci


venga in mente, e si fermi davanti a noi, e ci fermi, è quella stessa del-
la terra. Come, pressappoco, se si trattasse di storia politica. E di più
forse. Perché mentre la storia politica non ha in sé, di solito, la storia
della letteratura, una storia della letteratura ha sempre in sé la storia
della politica. È quella, questa, tutte insieme le storie, e, insomma, la
storia per eccellenza dell’uomo nell’una e nell’altra cornice prescelta
di spazio e di tempo. Dunque è America che diciamo. Lo diciamo,
e pensiamo sull’atlante l’immensità dei popolati colori, le pianure,
le montagne, le nevi eccelse sulle montagne, e su, nel nord, i ghiacci
marini, e i chilometri delle coste in faccia ai due oceani con quei due
grandi nomi, Atlantico, Pacifico, e in ciò l’antico iddio, il deserto, e le
vie d’acqua, le vie di ferro, le vie d’asfalto, le case, le case, le case196.

Prima ancora del luogo geografico, è l’universalità del fenomeno


America ad interessare maggiormente Vittorini. A conclusione del-
la sua antologia, infatti, egli riconosce alla letteratura statunitense la
potenza “riassuntiva” di valori universali, crogiolo di civiltà e realtà
diverse, e la definisce «letteratura universale a una lingua sola»197. La
letteratura statunitense offre a Vittorini – così come a Pavese – quella
possibilità di evasione, seppur virtuale, in quella terra lontana perce-

194
  Elio Vittorini, Realismo lirico di Melville in “Pegaso”, n. 1, 1933, pp. 126-128; poi in
Diario in pubblico, Milano, Bompiani, 1957, p. 46
195
  Id., Faulkner tra l’oscurità e la coscienza, in “Letteratura”, n. 3, 1937, raccolta, poi, in
Diario in pubblico, cit., p. 82.
196
  In Id. (a cura di), Americana, 1942, cit., pp. 104-105.
197
  Nicola Carducci, Gli intellettuali e l’ideologia americana nell’Italia letteraria degli anni
trenta, Manduria, Lacaita, 1973, p. 231.

84
L’esodo verso le Americhe raccontato dalla letteratura italiana

pita come vergine e pura, ma al contempo moderna ed avanzata, a


cui si contrappone la greve realtà dell’oscurantismo fascista. Si tratta
tuttavia, come fa ben notare Nicola Carducci, di un antifascismo pri-
vo di coscienza di classe, scaturito più da un bisogno di libertà intel-
lettuale personale che da un sentito spirito di liberazione collettiva198.
Durante gli anni della guerra, Vittorini venne chiamato dall’edito-
re Bompiani a curare la sezione degli autori stranieri. La scelta non fu
casuale, dati gli agganci di Vittorini e la conoscenza diretta con Ales-
sandro Pavolini. Ancora una volta si trattò di uno scambio equivalen-
te tra le due parti, con Pavolini che a volte si offrì di ripagare alla casa
editrice parte delle perdite causate dai sequestri, quando la pratica
dell’autocensura non fu abbastanza per evitarli. È interessante notare
come in alcuni casi fosse lo stesso MCP a spingere per la traduzione
di certe opere che mostrassero un’immagine negativa dell’America.
È il caso, ad esempio, del romanzo di Steinbeck In dubious battle199,
tradotto con il titolo La battaglia da Eugenio Montale nel 1940200, per
il quale venne fatta esplicita richiesta all’editore di inserire una nota
introduttiva che ponesse l’attenzione del lettore sul tessuto sociale
lacerato descritto nel romanzo201.
Tra il 1938 e il 1939 esce in cinque puntare sulla rivista “Letteratu-
ra” il testo di Conversazione in Sicilia202. Silvestro emigrato e rientrato
in viaggio in Sicilia, rimemora la sua infanzia e le sue radici attraver-
so immagini sinestetiche stimolate dal gusto e dagli odori.
Prosecuzione naturale di Conversazione in Sicilia è, come fa notare
Cesare Pavese, l’antologia Americana:

Non è un caso né un arbitrio che tu la cominci con gli astratti furori, giacché
la sua conclusione è, non detta, la Conversazione in Sicilia. In questo senso
è una gran cosa: che tu via hai portato la tensione e gli strilli di scoperta

198
  Per una più approfondita analisi sul pensiero di Vittorini sull’America cfr. ibidem.
199
  New York, P.F. Collier & Son Corporation,1936.
200
  Milano, Bompiani, 1940.
201
  Per questo episodio, come per il romanzo, poi sequestrato, dell’autore italo-a-
mericano Pietro Di Donato, Christ in concrete (Cristo tra i muratori, 1939) – si rinvia
a Guido Bonsaver, Conversazione in Sicilia e la censura fascista, in Edoardo Esposito
(a cura di), Il dèmone dell’anticipazione. Cultura, letteratura, editoria in Elio Vittorini,
Milano, il Saggiatore, 2009, pp. 13-29, in particolare, v. nota 3.
202
  Milano, Bompiani, 1941; e con il titolo Nome e lagrime, Firenze, Parenti, 1941.

85
Con biglietto di andata

della tua propria storia poetica, e siccome questa tua storia non è stata una
caccia alle nuvole ma un attrito con la letterat. mondiale (quella letterat.
mondiale che è implicita, in universalità, in quella americana – ho capito
bene?), risulta che tutto il secolo e mezzo di americ. vi è ridotto all’evidenza
essenziale di un mito da noi tutti vissuto e che tu ci racconti203.

Il progetto di Americana, iniziato nel ’40, poté partire avendo alle


spalle un consolidato rapporto tra il Ministero e Vittorini. Il progetto
dell’antologia prevedeva di offrire un panorama della migliore lette-
ratura statunitense, da Poe a Faulkner, da Caldwell a Melville, e per-
sino alcuni racconti brevi di Hemingway, autore da sempre bandito
per il suo noto anti-fascismo. Come cornice ai brani, infine, Vittorini
aggiunse alcuni commenti introduttivi dai quali traspariva la sua ben
nota affezione per quel mondo. Lo scalpore che produsse l’opera ne
arrestò inizialmente la pubblicazione, ma un incontro tra Vittorini e
Pavolini, come attesta la lettera del Ministro all’editore Bompiani, ri-
uscì a sbloccare la situazione di stallo:

Caro Bompiani,
Rispondo con ritardo alla Vostra lettere anche perché ho nel frattempo
veduto Elio Vittorini, col quale m’intrattenni lungamente circa l’ant-
ologia americana. Egli me ne consegnò anzi le bozze quasi complete
che ho esaminate con molto interesse. Frattanto anche A. Frateili parlò
della cosa con il mio Capo di Gabinetto.
L’opera è assai pregevole per il criterio critico della scelta e dell’in-
formazione e per tutta la presentazione. Resto però del mio parere, e
cioè che l’uscita – in questo momento – dell’antologia americana non
sia opportuna… Non è il momento di fare delle cortesie all’America,
nemmeno letterarie. Inoltre, l’antologia non farebbe che rinfocolare
la ventata di eccessivo entusiasmo per l’ultima letteratura americana:
moda che sono risoluto a non incoraggiare.
Proseguite nella Vostra collezione con gli altri interessanti volumi che
avete annunziati e riserbate dunque l’uscita dell’antologia americana
a un secondo più favorevole tempo. Vittorini può riferirVi come io sia
anche per altra via disposto a venirVi incontro»204.

203
  A Elio Vittorini, Milano (Torino, 27 maggio, 1942), in Pavese, Lettere 1926-1950, cit.,
t. 2, pp. 421-422, p. 421.
204
  Cfr. Bonsaver, op. cit., pp. 26-27.

86
L’esodo verso le Americhe raccontato dalla letteratura italiana

La soluzione proposta da Pavolini, che poi fu quella adottata, era


di sostituire l’apogeo introduttivo di Vittorini con uno creato ad hoc
da Emilio Cecchi, intellettuale gradito al governo: se Vittorini e Pa-
vese rappresentavano il nuovo, Cecchi rappresentava la voce dell’e-
stablishment. Cecchi, come si è accennato, vedeva la letteratura ameri-
cana come nata dallo scarto di quella millenaria europea, e come tale
risultava impossibile e innaturale che le venisse arrogato il diritto di
fungere da lume per le letterature future205. Come si può facilmente
intuire, la nuova introduzione scritta da Cecchi, e voluta dal mini-
stero, strideva fortemente con i lusinghieri commenti di Vittorini ai
singoli brani, che inizialmente furono mantenuti. La composizione
spuria dell’opera ne permise la pubblicazione, ma, come Pavolini
aveva preannunciato nella sua lettera, il momento non era quello più
adatto. L’entrata in guerra degli Stati Uniti nel 1942 e il ritorno dell’in-
transigente Gaetano Polverelli alla guida del dicastero, portarono al
definitivo sequestro dell’opera. La vicenda di Americana, dunque, più
che ascriversi ad un reale clima di anti-fascismo, può piuttosto essere
ricondotta ad uno sfortunato caso di tempistica; in quanto, seppur
ribelle nei temi, se fosse stata pubblicata in un momento diverso, pro-
babilmente non avrebbe suscitato lo stesso scalpore e né riscosso la
stessa fama che mantiene ancora oggi. L’America di Vittorini è, dun-
que, solo una categoria mentale e «l’emigrazione è un fenomeno di
vitalità che ha dato risultati quasi sempre positivi producendo spesso
grandiosi mutamenti storici o contribuendo a produrli»206. L’anto-
logia, nella sua originaria edizione, fu corredata da immagini foto-
grafiche che restituiscono, in una sorta di racconto filmico, il sogno
vittoriniano del Nuovo Mondo. Un’edizione postuma, pubblicata da
Bompiani nel 1968, ha restituito ai lettori la veste originaria del pro-
getto con Introduzione e commenti dell’autore. L’editore, però, non ha
ritenuto di riprodurre le immagini.

205
  Su un’analisi approfondita del pensiero di Cecchi, cfr. Nicola Carducci, Gli intellet-
tuali, cit. e Vito Amoruso, Cecchi, Vittorini, Pavese e la letteratura americana, in “Studi
Americani”, n. 6, 1960, pp. 9-72
206
  Elio Vittorini, Premessa, in Silvio Pozzani, Esperienza dell’emigrazione italiana, in “Il
Politechico”, 33-34, settembre-dicembre 1946, p. 90.

87
Con biglietto di andata

A pochi anni dalla pubblicazione di Americana, ne Le città del mon-


do. New York207 Vittorini riferendosi a quella città scrive: «ha significa-
to per noi l’immagine istintiva di una Babele portata vittoriosamente
a termine, e compiuta. I costruttori non si perderanno d’animo […]
Impareranno a capirsi, bianchi con negri, arabi con ebrei, turchi con
armeni, sloveni e italiani, boemi e tedeschi, inglesi con russi […] ti-
reranno su fino all’ultimo piano la torre». Il mito americano per Vit-
torini, insomma, ebbe due facce: da un lato, la scoperta di una lette-
ratura giovane e libera da opporre a quella europea ormai assopita;
dall’altro, negli anni Cinquanta, l’irrefrenabile voglia di “toccare”
quel mito, di «varcare il confine della pagina scritta, della frontiera
d’inchiostro, per compiere un vero viaggio in America»208. Il primo
scritto di Vittorini apparso negli Stati Uniti è del 1949 – dunque dello
stesso anno della traduzione di Conversazione in Sicilia209 –, American
influences on contemporary italian literature210. In chiusura dell’articolo
l’autore mette in luce le influenze americane sulla letteratura italiana
contemporanea: «Thus it must be said that without the Americaniza-
tion, everything would have been slower and more confused; but in
another ten or twenty years our authors would have learned to write
the way demanded by our time» (p. 8).
L’emigrazione è presente, seppur appena accennata, ne Il pastore
sepolto211 del molisano Francesco Jovine. Ambientato negli ultimi due
decenni del XIX secolo, il racconto ritrae la miseria delle campagne
meridionali che spinge i suoi abitanti ad evadere Oltreoceano212. E
a raccontare dell’America è anche Guido Piovene. Scrittore e gior-
nalista vicentino, fu negli Stati Uniti tra l’autunno del 1951 e quello

207
  “Il Politecnco”, giugno 1946, p. 9; poi Id., Clutura e libertà. Saggi, note, lettere da «Il
Politecnico» e altre lettere, a cura di Raffaele Crovi, Torino, Aragno, 2001, pp. 143-144.
208
  Salvatore Ferlita, Il sogno americano coltivato da Vittorini, “La Repubblica”, 27 giu-
gno 2009.
209
  Conversations in Sicily, Introduction of Ernest Hemingway, New York, New Di-
rections, 1949.
210
  Trad. by Elizabeth Nissen, in “American Quarterly”, vol. I, n. 1, Spring 1949, pp.
3-8.
211
  1943, raccolto in Il pastore sepolto, Roma, Tumminelli, 1945.
212
  Cfr. Gino Giardini, Francesco Jovine, Milano, Marzorati, 1967; Massimo Grillandi,
Francesco Jovine, Milano, Mursia, 1971; Medardo Albanese, Lettura di Francesco Jovi-
ne, Napoli, De Simone, 1973.

88
L’esodo verso le Americhe raccontato dalla letteratura italiana

dell’anno seguente. Viaggiò in lungo e in largo per gli States, scriven-


do un centinaio di articoli di varia natura, pubblicati sul “Corriere
della Sera”, il quotidiano per il quale faceva da corrispondente dall’e-
stero. Poi, all’inizio del 1953, tutti gli articoli vennero raccolti in De
America213: un avvincente diario di viaggio che ripercorre passo dopo
passo l’esperienza del giornalista nel Nuovo continente restituendo
un ritratto mutevole di quella realtà e riuscendone a cogliere con la
lucidità dell’osservatore esterno diversi aspetti.
Sempre intorno alla metà degli anni Cinquanta, Ignazio Silone –
pseudonimo e poi nome anagrafico di Secondo Tranquilli, scrittore
sempre impegnato sul piano sociale e politico – non poteva ignorare
che alle già misere condizioni che affliggevano il meridione di Ita-
lia conseguisse anche la dura ma obbligata scelta della partenza: una
scelta tanto dura quanto difficile da realizzare. In Fontamara214 – com-
posto tra il 1929 e il 1931 in Svizzera, dove l’autore aveva riparato per
sfuggire al regime fascista, e pubblicato nella sua prima edizione in
tedesco215 – la questione dell’emigrazione è appena accennata dietro
i numerosi drammi di una società rurale in ginocchio. Il protagoni-
sta Berardo Viola cede la terra a Don Circostanza per comprare il bi-
glietto d’imbarco per l’America. Berardo però, perderà sia terra che
sogno: correva, infatti, il 1929 e la crisi detonata dal crollo di Wall
Street costringe gli Stati Uniti a promulgare una legge che sospende
l’immigrazione. Ne Il segreto di Luca216, il protagonista torna in libertà
dopo quarant’anni di carcere scontati ingiustamente per essere stato
accusato di un delitto che non aveva commesso. Innamorato, all’epo-
ca dei fatti, di Ortensia, una donna sposata, Luca aveva preferito non
emigrare in America e non opporsi alle accuse pur di rimanere vicino
alla donna amata.

“Perchè non te ne andasti via di qui?” gli domandò bruscamente An-


drea. “Pare che, una volta, tu avessi già pronto il passaporto. In quel

213
  Milano, Garzanti, 1953.
214
  Pubblicato in tiratura limitata (Paris, N.E.I. [ma à compte d’auteur]) nel 1933; Prima
edizione italiana, su “Il Risveglio” 1945; poi con testo ampliato Roma, Faro, 1947; e
ancora modificato per l’edizione Milano, Mondadori, 1949 ed infine nella versione
definitiva: Milano, Mondadori, 1953.
215
  Zürich, Dr. Oprecht & Helbing AG, 1933.
216
  Milano, Mondadori, 1956.

89
Con biglietto di andata

tempo, come tu sai, la maggior parte degli uomini di questa contrada


se ne andarono nelle Americhe. Molti vi sono rimasti, vi si sono fatti
una nuova esistenza, meno disperata”.
“Fu data colpa a Ortensia, ma a torto”, rispose Luca. “Quando era
tutto pronto, m’avvidi che non potevo assolutamente vivere lontano.
Mi sentivo appena la metà di un essere: l’altra metà era lei. Era un
sentimento che non potevo reprimere. Eppure la vedevo raramente, ci
parlavamo in presenza d’altri. Ma vivere nello stesso paese, nella sua
orbita, era il meno cui sentivo d’avere diritto” (pp. 142-143).

Il dramma dell’emigrazione che i contadini d’Abruzzo dovettero


subire, è infine più compiutamente evidenziato in Ai piedi di un man-
dorlo in un fascicolo fuori commercio, pubblicato nel 1970 per la cura
dell’editore De Luca, omaggio degli amici allo scrittore in occasione
del settantesimo compleanno217.
L’interesse di Alberto Pincherle (Moravia) per la cultura d’oltre-
oceano nasce ancora in età giovanile con la lettura, come era d’uso
in quel periodo fra gli intellettuali della sua generazione, dei classici
della letteratura statunitense, e si rinsalda alla metà degli anni Tren-
ta quando lo scrittore visita per la prima volta gli Stati Uniti grazie
all’invito di Giuseppe Prezzolini, allora direttore della Casa Italiana
presso Columbia University, a tenere un ciclo di conferenze presso
alcuni college. Da quel viaggio nascono alcuni articoli di reportage,
nei quali con acume critico e non senza una vena polemica, Moravia
indaga la vita, la cultura, gli usi e i costumi del popolo americano218.
Dal quel momento i viaggi di Moravia verso il Continente americano,
adesso anche verso i Paesi del centro e del Sud dell’America, si inten-
sificheranno dando linfa a nuovi reportages219. Moravia avverte nella
società americana il pericolo di una cultura del profitto che sembra
permeare tutti i campi. Nel 1968, ad esempio, registra amaramente il
trionfo del pensiero economico sulla cultura e plaude alla rivolta de-
gli studenti contro la trasformazione ormai inevitabile dell’università
in fabbrica: «L’Università è un’istituzione che in futuro sarà sempre

217
  Poi a cura di Giuseppe Papponetti, Cuneo, Nerosubianco, 2009.
218
  Cfr. Ferdinando Alfonsi Alberto Moravia in America. Un quarantennio di critica (1929-
1969), Catanzaro, Carello Editore 1984.
219
  Cfr. Alberto Moravia, Viaggi, articoli 1930-1990, a cura e con introduzione di Enzo
Siciliano, Milano, Bompiani, 1994.

90
L’esodo verso le Americhe raccontato dalla letteratura italiana

meno distinguibile da altre imprese economiche della nostra società


industriale»220. La cultura americana – che pure gli tributava notevole
favore, essendo tra i pochi italiani a penetrare nel mercato editoriale
statunitense con un alto numero di traduzioni e riscuotendo ampio
successo di pubblico –, non poteva che cozzare con la personalità
dell’intellettuale testimone attento della crisi e dello smarrimento
della borghesia che caratterizzarono quel periodo della Storia d’Ita-
lia221. Tale visione della società è riversata dall’autore nei personaggi
delle sue opere222: antieroi incapaci di adattarsi al mondo moderno
consumistico, alla perenne ricerca di potere e di denaro che abiurano
ad ogni valore etico e spirituale223. Ecco allora che in Racconti roma-
ni224, l’automobile americana si fa simbolo di arrogante prepotenza
così come il giovanotto statunitense che picchia Torello di Scherzi di
ferragosto225. Cora di Il negro e il vecchio dalla roncola226, si fa schiva agli
occhi di Cosimo ma non ha il coraggio di opporre rifiuto alle avan-
ces del soldato americano. Ne La ciociara227 la pretesa superiorità dei
soldati americani è simboleggiata da quel lancio di caramelle e di si-
garette che gli italiani corrono grati a raccattare. Solo Cesira – addo-
lorata di assistere inerme al cambiamento della figlia Rosetta irretita
dal fascino della ‘potenza’ americana – sembra rimanere indifferente:
«E poi il contegno di questi americani, dico la verità, mi piaceva poco.
Erano gentili, questo sì, e perciò da preferirli in tutti i casi ai tedeschi
[…] insomma ci trattavano come tanti ragazzini che danno fastidio ai
grandi e perciò bisogna farli star buoni, appunto, con le caramelle»228.

220
  Ivi, pp. 1280-1281.
221
  «C’è alienazione ogni volta che l’uomo è adoperato come mezzo per raggiungere
un fine che non è l’uomo stesso, bensì qualche feticcio che può essere via via il dena-
ro, il successo, il potere, l’efficienza, la produttività e via dicendo». (Moravia, I miei
problemi, in L’uomo come fine e altri saggi, Milano, Bompiani, 1964, p. 377).
222
  Cfr. Alberto Limentani, Alberto Moravia tra esistenza e realtà, Venezia, Neri Pozza,
1962.
223
  Cfr. Moravia, I miei problemi, cit.
224
  Milano, Bompiani, 1954.
225
  Cfr. ivi, p. 175.
226
  1948, Cfr. Opere/2 Romanzi e racconti 1941-1949, a cura di Simone Casini, Milano,
Bompiani, 2002.
227
  Milano, Bompiani, 1957.
228
  Ivi, p. 238.

91
Con biglietto di andata

Leonardo Sciascia, intellettuale attento al dibattito politico e socia-


le dell’Italia non poteva certamente eludere il tema dell’emigrazione
che è infatti presente già ne Le parrocchie di Regalpetra229. Ambientato
in un paese, dal nome immaginario, ma che ricorda tanto la sua Ra-
calmuto, il testo offre fedelmente uno spaccato assai realistico della
vita dell’entroterra siciliano. Un paese in cui si vive di stenti, un paese
di vecchi perché i giovani sono stati costretti ad emigrare. In partico-
lare:

Il parroco del Carmine ha tolto le campane dalla sua chiesa; dagli angoli
del campanile spuntano ora minacciose le trombe degli altoparlanti. Recen-
temente è stato in America, tra gli emigranti regalpetresi di Nuova York ha
fatto buon raccolto, tutti hanno dato dollari per la chiesa del Carmine. Al
parroco è piaciuto, delle chiese d’America, il suono del carillon: e ha com-
prato tutta l’attrezzatura per la sua chiesa. Ora il Salve regina, l’avviso per
la messa, per i vespri, per le quarantore, per le due ore di notte, si sfogliano
nell’aria come grandi crisantemi bianchi. I parrocchiani del Carmine, in gran
parte contadini, dicono che è stato il carillon a chiamare la neve. Oh le belle
campane – rimpiangono (p. 66).

Nel 1958 Sciascia torna su emigrazione e America nel racconto La


zia d’America230. Siamo nel 1943 e nel piccolo paesino siciliano tutti
aspettano lo sbarco dei liberatori231 e si affrettano a smantellare le in-
segne fasciste. Dall’America arrivano doni da parte della zia emigrata
nel primo dopoguerra mentre lo zio fascista del giovane narratore si
rintana in casa impaurito dalla nuova ventata di democratizzazione
del paese. Una volta ristabilitasi la situazione politica la zia decide,
nel 1948, di rientrare in Sicilia ma capisce ben presto che quella terra
non è cambiata e l’abisso che ormai la separa dalla vita della sua fan-
ciullezza non è più colmabile232:

229
  “Nuovi Argomenti”, 12, gennaio-febbraio 1955; poi Bari, Laterza, 1956.
230
  In Gli zii di Sicilia, Torino, Einaudi, 1958.
231
  «Filippo fischiò dalla strada alle tre del pomeriggio. Mi affacciai alla finiestra.
Gridò: “arrivano”. Di corsa infilai le scale […]» (p. 9)
232
  Cfr. Claude Ambroise, Cultura e segno, in Michelangelo Picone, Paola De Marchi e
Tatiana Crivelli (a cura di), Sciascia, scrittore europeo, Atti del Convegno internazionale
di Ascona, 29 marzo-2 aprile 1993, Basel-Boston-Berlin, Birkhäuser, 1994, pp. 9-32, p. 21.

92
L’esodo verso le Americhe raccontato dalla letteratura italiana

Mia zia contro il paese imprecava, diceva che aveva sperato fosse diverso,
più nuovo e pulito, invece era peggio di prima. La delusione di mia zia
aveva due facce; noi parenti non eravamo morti di fame come dall’Amer-
ica ci immaginava; il paese non era migliorato come sperava (p. 52).

L’unica persona con la quale riesce ad istaurare un rapporto d’in-


tesa è proprio lo zio fascista al quale propone di seguirla in America
e di concedergli la mano della figlia.

La partenza dello zio è simbolica […] dell’espulsione di un fascismo


residuale […] Di certo – come prospettato dal narratore – questi “camperà
cornuto” […] ma ad ogni buon conto lo farà, in un’altra casa233.

Ne Il lungo viaggio234 l’attenzione dell’autore si focalizza sulle truf-


fe organizzate dagli agenti marittimi – rappresentati nella finzione
narrativa dal signor Melfa – ai danni di poveri contadini dell’entro-
terra siculo che, sicuri di poter dare una svolta al proprio misero de-
stino nel Nuovo Mondo dove li attendono parenti e congiunti partiti
prima di loro, investono tutti i loro averi o si indebitano con gli usurai
per pagare la cifra iperbolica richiesta loro per la traversata. La tra-
versata, a bordo di un’imbarcazione fatiscente, tra puzza di nafta e di
vomito, dura undici lunghe notti. Nel corso dell’ultima notte lo “sca-
fista” dopo aver fatto ammirare loro le “mirabolanti” luci della costa
del New Jersey, li sbarca, in realtà, sulle rive della Sicilia meridionale.

Da ogni parte della Sicilia molti partivano verso gli Stati Uniti, a farsi
americani. […] I paesi dolorosamente si spopolavano: l’America, la
Merica, smembrava parentele, recideva affetti, mutava sentimenti.
Come ingoiate dall’America, che i rimasti immaginavano immensa,
affannosa e smemorante, intere famiglie sparivano235.

233
  Rosario Atria, Dimensione privata e affresco civile ne La zia d’America di Leonardo
Sciascia, in Kathrin Ackermann e Susanne Winter (a cura di), Spazio domestico e spazio
quotidiano nella letteratura e nel cinema dall’Ottocento ad oggi, Firenze, Franco Cesati
editore, 2014, pp. 103-113.
234
  Raccolto in Il mare colore del vino, Torino, Einaudi, 1973, pp. 19-26.
235
  Leonardo Sciascia, Prefazione, in Jerre Mangione, Mont’Allegro, una comunità sici-
liana in America, prefazione di Leonardo Sciascia, introduzione di Herbert J. Gans,
Milano, Franco Angeli, 1981, p. VII.

93
Con biglietto di andata

Tra gli anni Sessanta e gli anni Settanta si unisce al coro anche Sa-
verio Strati236 scrittore calabro neorealista che si impegna a raccontare
la dura vita dei contadini di Aspromonte. L’emigrazione, sempre pre-
sente nelle sue opere, non è quasi mai indirizzata al Nuovo mondo
ma resta una dura ed ineluttabile realtà alla quale devono soggiacere
quasi tutti i cittadini di quel micro-mondo. In Mani vuote237, scritto
tra il settembre del ’58 e il settembre del ’59, Strati presenta la storia,
tragica e epica al contempo, di Emilio che conosciamo a partire dagli
anni dell’infanzia negata da una realtà fatta di duro lavoro, di miseria
e di sopraffazione238. Il mondo dei contadini e dei pastori calabresi
non è idilliaco, non è la campagna salvifica pascoliana ma piuttosto
una realtà fatta di brigantaggio e malavita. Emilio, vuole fuggire da
questa terra dura e crudele239. Per lui, come per molti altri della sua
generazione, il riscatto ha il nome dell’America, di quella terra lon-
tana che promette lavoro e stabilità. Ancora nella raccolta di racconti
Gente in viaggio240, il tema centrale è l’emigrazione di cui Saverio Strati
approfondisce la disumana realtà di chi subisce umiliazioni e la vio-
lenza della lontananza e della solitudine. E l’emigrazione sarà ancora
il pivot attorno al quale ruotano le trame di Il codardo241, di Noi lazza-
roni242 e di Terra di emigranti243 in cui i protagonisti calabresi sono stati
costretti, dalla miseria e dalla mancanza di lavoro, ad abbandonare la
casa e il paese natale per recarsi all’estero.
E, ancora, Giose Rimanelli, molisano, scrittore, poeta, saggista,
giornalista, musicista e pittore, che decide nel 1943, ad appena diciot-
to anni, di allontanarsi dalla misera realtà del suo paese di origine
in provincia di Isernia e di salire su un camion di tedeschi in ritirata

236
  Per notizie sull’autore cfr. Antonio Motta, Invito alla lettura di Saverio Strati, in
“Zibaldone”, 2, 1986, pp. 59-70.
237
  Milano, Mondadori, 1960.
238
  Cfr. Sebastiano Martelli, “A mani vuote”: Saverio Strati e l’emigrazione meridionale,
in Jean-Jacques Marchand (a cura di), La letteratura dell’emigrazione. Gli scrittori di
lingua italiana nel mondo, Torino, Fondazione Giovanni Agnelli, 1991, pp. 265-282.
239
  Cfr. Persio Nesti, Saverio Strati e l’emigrazione meridionale, “Il Ponte”, 2, XXIII, 1967,
p. 242.
240
  Milano, Mondadori, 1966.
241
  Milano, Bietti, 1970.
242
  Milano, Mondadori, 1972.
243
  Firenze, Salani, 1979.

94
L’esodo verso le Americhe raccontato dalla letteratura italiana

da Salerno finendo poi per arruolarsi tra le fila dei repubblichini244.


Dopo la Guerra e dopo aver scelto un lungo vagabondaggio intel-
lettuale in diverse città italiane ed europee, dopo essersi avvicinato
agli ambienti antifascisti, insofferente di fronte al sorgere del nuovo
pensiero unico, ora di sinistra, a cui si piega la maggior parte degli
intellettuali, nel 1960 non trova altra via se non quella di allontanarsi
di nuovo dalla sua terra di origine e di emigrare prima in Canada per
due anni e poi negli Stati Uniti, dove insegnerà Letteratura italiana in
prestigiose Università. Queste sue esperienze sono narrate in Tiro a
piccione245 un’opera che, tradotta l’anno seguente alla sua apparizione
sul mercato italiano per i tipi della Random House con il titolo The
Day of the Lion, divenne presto un best seller in America. Autore dalla
produzione vastissima in lingua italiana, inglese e in dialetto moli-
sano e l’emigrazione, benché quasi sempre legata al Canada, è il filo
conduttore di gran parte della sua produzione letteraria.
Il tema dell’emigrazione è al centro della narrazione del successivo
Peccato Originale246, romanzo scritto fra il 1945 e il 1946 che narra le vi-
cende di una famiglia di emigranti molisani e delle difficoltà del vivere
quotidiano che costringono molti italiani ad allontanarsi per sempre
dalla propria casa in cerca di un futuro più solido. Si tratta del ritratto
di una realtà sociale mortificata e immobile nei confronti della quale
l’autore sembra provare un senso di rivolta. La fabula è incentrata sulla
famiglia Vietri, composta dal padre Nicola, dalla madre Ada e dalle
due figlie, Michela e una bimba muta di otto anni di nome Sira. La fa-
miglia è in attesa di ottenere il permesso per poter espatriare. Michela
viene chiesta in moglie da Ramorra, guardiano delle terre del cavaliere
Scipioni, ma il padre, prendendo a pretesto la troppo giovane età della
figlia, nega il consenso. Durante la notte di San Francesco, in occasione
di un ballo in casa Scipioni, Ramorra si vendicherà del rifiuto e, con l’a-
iuto di due amici, progetta di rapire e violentare la ragazza. Lo stupro,
in realtà non avrà luogo a causa di un litigio fra i tre uomini. Michela,
benché inviolata, è considerata disonorata. Nicola Vietri, avendo già

244
  Per notizie sull’autore si veda Luigi Fontanella, Giose Rimanelli e il viaggio infinito,
in Id., La parola transfuga: scrittori italiani in America, Fiesole, Cadmo, 2003, pp. 101-
174.
245
  Milano, Mondadori, 1953.
246
  Milano, Mondadori, 1954.

95
Con biglietto di andata

deciso di trasferirsi in America rinuncia alla vendetta che sarà tuttavia


consumata poi da due donne che evireranno Ramorra in un vicolo.
In Peccato originale, la famiglia è un segmento narrativo fondamentale,
esercita un campo magnetico atavico, che lega tutti i membri in un rap-
porto di interdipendenza per cui l’assenza di uno crea uno scompenso
letale. Che si tratti di quella di origine o di una sorta di clan allargato,
l’importante è che ci sia un gruppo di appartenenza, un riferimento,
un nodo profondo che colloca l’io narrante al di sopra di qualsiasi al-
tro personaggio, che lo stabilizza come identità al di sopra dei dubbi
e delle messe in discussione. La famiglia è sinonimo di radici, è un
punto fisso imprescindibile. Nel testo l’America degli emigranti non è
l’immediata realizzazione del sogno ma le fondamenta per il benessere
delle generazioni future. Nel memoir redatto nel 1954 ma pubblicato
solo quattro anni dopo, Biglietto di terza247, l’emigrazione significa di-
stacco, ma anche ricerca di prospettive e di futuro. Il testo ripercorre
l’esperienza del viaggio in Canada dell’autore. Invitato dalla madre a
trascorrere le vacanze natalizie a Montreal, si imbarca su un pirosca-
fo da Napoli alla volta del Canada: «Sulla rotta degli emigranti mia
madre è tornata nel suo paese. Vi è tornata portandosi il materasso, i
piatti e i bicchieri, un ritratto del padre morto, figli e il marito. Settemila
chilometri di mare» (p. 7). Anche in questo testo la famiglia costituisce
il punto di arrivo e di partenza di un viaggio. C’è la discrepanza tra i
fratelli che in Canada abbracciano le fazioni linguisticamente contrap-
poste tra francese e inglese, fino a giungere all’interlingua della madre
che ritorna in patria da emigrante dopo tutti gli anni trascorsi in Italia.
Poi vi è il ricongiungimento con la famiglia di origine della madre che,
solo nominalmente, è composta da consanguinei, ma a cui si è legati.
Tra le pieghe della trama Rimanelli non rinuncia a palesare il proprio
stupore davanti all’efficienza del paese di accoglienza ammirando in
particolare la capacità di fronteggiare ogni evenienza meteorologica,
grazie ad attrezzature d’avanguardia e alla disponibilità economica del
governo canadese.
Negli Stati Uniti degli anni Sessanta è, invece, ambientato il testo
di Tragica America248. L’opera ripercorre i primi anni trascorsi dall’au-

247
  Milano-Verona, Mondadori, 1958.
248
  Genova, Immordino, 1968.

96
L’esodo verso le Americhe raccontato dalla letteratura italiana

tore negli Stati Uniti; si tratta di un reportage disincantato e partecipe


delle amarezze che travolgono chi arrivando oltreoceano pensava di
trovarvi il promesso paradiso. Per Rimanelli l’America è una terra di
libertà alla quale sarà sempre grato; un terra che lo ha accolto e che ha
riconosciuto le sue doti di letterato e di intellettuale più di quanto non
avesse fatto l’Italia. Il testo dal forte carattere esperenziale è «un gran
bel pezzo di vita vissuta. Questo è il carattere che ho voluto lasciargli:
presenza, testimonianza. È un libro di crisi in anni di crisi [...]. È anche
ciò che ho saputo vedere in anni in cui l’America bella di mio padre
stava diventando l’America cieca dei figli» (p. 8). Si tratta dello studio
di una civiltà in pieno cambiamento culturale e politico.

Io ho vissuto gli anni Sessanta americani quasi battuta per battuta, da


viaggiatore, da uomo della strada, da lettore attento e da osservatore
né indifferente né malevolo. Come per quelli della mia famiglia, per
me l’America è stata un miracolo di generosità, inventività e una gran
fonte, allo stesso tempo, di amarezze e delusioni. In me rimane, come
pure nei miei, un profondo senso di gratitudine per questa terra (pp.
7-8).

Ancora gli Stati Uniti fanno da sfondo a Una posizione sociale249, un


romanzo in cui l’autore racconta la vita degli italiani a New Orleans
agli inizi del Novecento.
Nel più recente America as metaphor250, Rimanelli afferma: «The
image, the myth, of America has been present in Italy’s consciousness
for over 100 years. First disseminated among the poor and unedu-
cated through the returning correspondence of the emigrant; then
through the literature in translation of the 1930s and the freedom and
liberal ideas it represented (and lacked) within the Fascist state; to
the carefree Hollywood films of the 1930’s with their promise of a
better future; and, ultimately, to the distribution and circulation of
mass-produced goods» (p. 181).

249
  Firenze, Vallecchi, 1959.
250
  Giose Rimanelli, America as Metaphor, in Francis Femminella and Sherly Lynn
Postman (ed. by), Molise Studies in America, New York, Peter Lang, 1988, pp. 177-
197.

97
Con biglietto di andata

Ancora negli Stati Uniti è ambientato anche Benedetta in Guyster-


land251 scritto a New York nel 1970 ma pubblicato solo ventitré anni
dopo a Montréal, città natale della madre dell’autore. Qui Rimanelli
narra la storia di una donna ossessivamente affascinata dalla mafia,
dal sesso e dalla violenza. Il testo ripercorre i più classici stereotipi
sulle relazioni tra la mafia italiana e quella statunitense esemplificate
nel testo nella storia amorosa che lega la protagonista al mafioso Joe
Adonis.
In anni più recenti Rimanelli torna a riflettere ancora sul problema
dell’emigrazione in Familia: memoria dell’emigrazione252, vero e proprio
viaggio nella memoria in cui il discorso sulle emigrazioni, da perso-
nale si fa corale per esprimere quel sentimento che accomuna tutti
coloro che sono stati costretti a lasciare il proprio paese:

In un primo tempo (e con rilevante frequenza negli anni Cinquanta)


ho viaggiato il continente americano dal Sud al Nord come ricerca-
tore d’un mito per così dire, letterario e politico/sociale chiamato em-
igrazione, per poi viverlo di persona dal 1960 ad oggi: un mito che nei
miei libri ho appassionatamente indagato e ineluttabilmente tradotto
come lacerazione, sacrificio invece che riscatto, e ciò in quanto lacer-
azione e sacrificio sono termini che appropriatamente appartengono
alle prime generazioni di emigranti, i pionieri, coloro che muoiono
sulla vanga in ogni tempo e stagione della loro emigrazione, e il sec-
ondo termine, riscatto, ai figli e ai nipoti: i figli (seconda generazione)
che molto spesso hanno cercato di dimenticare e persino negare le
origini dei padri per vergogna forse, e non di rado cambiando i loro
nomi in Libert per esempio, da Libertucci, negando (o mascherando)
in tal modo la cultura della loro provenienza biologica, mentre i nipoti
d’altro canto (terza generazione), sicuri della loro «americanità», han
cercato al contrario di ritrovare le radici da dove vengono se non al-
tro nel ricordo del buon sugo di maccheroni che faceva la nonna, an-
dando quindi a scuola, prendendo lezioni per imparare la lingua dei
padri, finalmente rendendosi conto che quella cultura li arricchisce
invece che diminuirli. (p. 20).

251
  Montréal, Guernica, 1993.
252
  Isernia, Iannone, 2000.

98
L’esodo verso le Americhe raccontato dalla letteratura italiana

Toccherà invece a Pier Paolo Pasolini di mettere in luce i rapporti


tra resistenza ed emigrazione ne  Il sogno di una cosa253. Qui l’autore
evidenzia un nuovo “modello” di emigrazione: quella esplosa a se-
guito del boom economico. Il nocciolo della questione però non muta;
il miracolo economico non risolve i conflitti sociali né attenua ferite e
sofferenze che, seppur in condizioni diverse, restano alla base di ogni
emigrazione.
Nei due ultimi decenni del Novecento, ormai lasciato alle spalle il
grande esodo, il tema dell’emigrazione torna a farsi motivo centrale
di molte opere. Nel 1981, fra gli altri, è Salvatore Mignano a presen-
tare il tema nel romanzo Il tempo di Peter254. La vicenda è ambientata
nel 1944. Peter, il giovane figlio di uomo emigrato negli Stati Uniti,
conoscerà il padre solo quando questi sbarcherà in Italia con l’esercito
americano. Affascinato dalla figura paterna, il ragazzo vorrebbe se-
guirlo e partire con lui. Il padre, però, in una lingua mista tra dialetto,
italiano e inglese, lo convince a rimanere e a rinviare la partenza a
quando avrà completato gli studi. Il definitivo rientro del padre, nel
1948, farà tramontare per Peter il sogno di raggiungere quel lontano
mondo255.
Nel 1991 è, poi, Rodolfo Di Biasio ad entrare nel tema con I quattro
camminanti256. L’autore che in realtà, aveva già affrontato l’argomento,
dalla parte di chi resta, in alcuni racconti di Il pacco dall’America257, in
questo romanzo mette in scena la storia di emigrazione di quattro fra-
telli, Peppino, Geremia, Repossi e Adolfo, partiti per il nuovo mondo,
in tempi diversi, tra la Prima e la Seconda guerra mondiale, e per
altrettanto diverse destinazioni. Se Peppino e Geremia sono costretti
a partire in seguito al tracollo della situazione finanziaria del padre e
si troveranno ad affrontare il disastro di Wall Street del 1929, Repossi
e Adolfo saranno spinti verso il nuovo Mondo dal sogno dell’Eldora-
do. Di tipo ben diverso è l’emigrazione di Enrico, il giovane filosofo

253
  Milano, Garzanti, 1962.
254
  Foggia, Bastogi, 1981.
255
  Cfr. Sebastiano Martelli, Il tempo di Peter, in Francesco De Nicola (a cura di), L’o-
pera letteraria di Salvatore Mignano, Atti del convegno di studi (Gaeta, 17-18 maggio
1991), Genova, De Ferrari, 1993, pp. 53-68.
256
  Firenze, Sansoni, 1991.
257
  Roma, Gremese, 1977.

99
Con biglietto di andata

goriziano che si imbarca nel 1909 alla volta dell’Argentina per cerca-
re se stesso e per sfuggire al servizio militare nell’esercito asburgico,
protagonista di Un altro mare di Claudio Magris258. Enrico finirà per
condurre una vita solitaria in Patagonia; la sua solitudine sarà smor-
zata solo dalle lettere che scambierà con parenti e amici e dopo tredici
anni deciderà di rientrare in patria. Ma si pensi anche a Novecento: un
monologo259 di Alessandro Baricco, dove se l’America non c’è, c’è la
traversata e il ricordo di quei cinici genitori che, imbarcati nel 1927,
abbandonano il neonato nato per mare.
Per giungere, con un consapevole salto temporale, ad anni più
recenti, persino in storie i cui protagonisti godono di uno status so-
ciale privilegiato, l’emigrazione è vista come sofferenza incurabile.
È quanto suggerisce Andrea Camilleri in Being here…260. La storia
ruota intorno ad un anziano signore che si presenta nell’ufficio del
commissario Montalbano per lamentarsi di non riuscire ad ottenere
un appuntamento dal sindaco di Vigàta. Per quanto l’uomo parli un
italiano grammaticalmente perfetto, il commissario si accorge che è
straniero: cogliendo la perplessità di Montalbano, l’uomo spiega di
essere cittadino americano, ma nato a Vigàta e, aggiunge, vi è anche
morto! La natura paradossale della sua affermazione fa scattare un
andamento narrativo pirandelliano, chiaramente ispirato a Il fu Mat-
tia Pascal. L’uomo, Carlo Zuccotti, è un siciliano nato da genitori del
Nord, ma cresciuto in Sicilia, dove il padre lavorava come ferroviere:
trasferitosi in Toscana con i genitori, ha poi studiato letteratura a Fi-
renze. Durante il secondo conflitto mondiale viene fatto prigioniero
in Africa e deportato in Texas. Alla fine della guerra, resta negli Stati
Uniti, assume il nome in Charles Zuck, avvia una fortunata carriera
accademica e forma una famiglia. Adesso, dopo la morte della mo-
glie e del figlio, ha deciso di ritornare a Vigàta. Tuttavia, tutti i suoi
amici di un tempo sono ormai scomparsi, ed egli stesso risulta uffi-
cialmente defunto. A causa di un errore, la stele commemorativa dei
caduti in combattimento (nel corso delle due guerre mondiali, così

258
  Milano, Garzanti, 1991.
259
  Milano, Feltrinelli, 1994.
260
  Contenuto in Andrea Camilleri, Un mese con Montalbano, Milano, Mondadori,
1998, pp. 161-167.

100
L’esodo verso le Americhe raccontato dalla letteratura italiana

come delle guerre d’Etiopia e di Spagna), lì al centro della piazza di


Vigàta, porta anche il suo nome. Di qui, il desiderio di incontrare il
sindaco e di chiedergli la cancellazione del nome dalla lista del mo-
numento. Di fronte ad una vita ormai svuotata, il Signor Zuck, mal-
grado la telefonata con cui Montalbano gli comunica che il sindaco è
adesso disposto a vederlo, già che risulta morto, decide di spararsi:
il commissario, intuendo le intenzioni dell’anziano vigatese, cerca di
fermarlo correndo all’hotel, ma scopre che «il sindaco non avrebbe
dovuto affrontare la spesa di rifare la lapide». Malgrado il suo status
sociale di privilegio, il Signor Zuck è protagonista di una storia di
emigrazione fallita tragicamente. La rimozione pubblica dalla storia,
un fatto reso con ironia dall’inclusione tra i caduti in guerra, e l’em-
blematica morte per suicidio mostrano in sostanza la fragilità della
condizione dell’emigrato e la sua non-appartenenza a più di un mon-
do. Nell’affrontare con tocco leggero momenti storici fondanti per la
Sicilia e per l’Italia più in generale – migrazioni interne, spostamenti
legati a eventi militari, rotte migratorie internazionali di andata e ri-
torno – il racconto sottolinea l’amnesia che caratterizza certi passaggi
della storia italiana e delle sue ripercussioni a livello regionale, sug-
gerendo in contemporanea un ri-posizionamento dell’Italia nello sce-
nario transnazionale degli italiani all’estero.
Ed è proprio da un ritorno che prende le mosse un altro racconto
di Camilleri sull’emigrazione, che si discosta dagli umori finora ana-
lizzati nei testi letterari siciliani, proponendo una lettura letteralmen-
te invertita dell’emigrazione. Maruzza Musumeci261, pubblicato come
romanzo breve nel 2007, segue l’avventura americana di Gnazio Ma-
nisco, bracciante abbandonato dal padre che, stanco di sentirsi chia-
mare pidocchio dal padrone, s’imbarca per gli Stati Uniti, malgrado
la sua fobia per l’acqua. A New York farà il muratore e il giardiniere
e, dopo venticinque anni di lavoro, ritornerà al paese natio. Nella sto-
ria, l’emigrazione è un mero antecedente che occupa solo una piccola
parte del testo: la trama resta incentrata sul rientro di Gnazio in Si-
cilia, sul suo acquisto di un terreno e poi sulla sua nuova famiglia,
mentre sullo sfondo si susseguono i grandi eventi della storia dal Fa-
scismo alla Seconda guerra mondiale. Gnazio diventa un po’ anfibio

261
  Palermo, Sellerio, 2007.

101
Con biglietto di andata

e a dispetto del suo terrore per l’acqua, finisce per vivere su un lembo
di terra circondato dal mare, che si ostina a non guardare, e arriva
a sposare un’ammaliante sirena, la Maruzza del titolo, la quale gli
darà una figlia sirena anche lei, e altri tre figli che, in diversi modi,
scelgono l’acqua o la terra per vivere. All’inevitabilità dell’andata si
sostituisce un ritorno per certi versi necessario – la vita a New York
si era fatta pericolosa per Gnazio – ma anche scelto, per il desiderio
di farsi seppellire accanto ad un ulivo saraceno. Il re-inserimento è
carico di stranezze e al tempo stesso foriero di gioie: la condizione
di liminalità dell’emigrato non costituisce ostacolo al rientro, ma di-
venta un’occasione di esplorazione delle novità proposte dalla vita
(l’incontro con la sfera magica delle sirene), di accettazione della di-
versità (figli che parlano altre lingue, amano le stelle, studiano), di
godimento (la famiglia nell’accogliere e adattarsi si scava un angolo
di serenità, comunque scevro di falsi idealismi), e infine di creativi-
tà, emblematizzata dalla fantasiosa casa che Gnazio costruisce e che
attira l’interesse di Walter Gropius attraverso la documentazione di
un fotografo americano di passaggio nella zona. La condizione ibri-
da di Gnazio lo rende permeabile alla differenza. Il suo ritorno, nel
farsi materia narrativa, s’intreccia al mito di Ulisse per poi prendere
nuove forme con la figura del figlio Cola, mezzo uomo e mezzo pesce
(come Colapesce, il protagonista dell’antica leggenda siciliana), che
inabissandosi nel mare segue le orme letterarie dell’ellenista Rosario
La Ciura del racconto di Tomasi di Lampedusa (La sirena), così come
dell’avvocato Motta di Mario Soldati (La verità sul caso Motta). Nella
chiusa del testo, Camilleri introduce un altro ritorno: quello di un
giovane soldato statunitense, Steven, che giunge in terra siciliana nel
1943 per morirvi, magicamente, ascoltando un canto seducente den-
tro alla conchiglia che era stata delle sirene della famiglia Manisco. Il
legame che Camilleri salda tra emigrazione siciliana negli Stati Uniti
e lo sbarco degli americani in Sicilia attraverso un percorso narrativo
tra fiaba e bozzetto realista rivela quella traiettoria transnazionale già
esplorata in Being here…, che ancora una volta lascia esplodere la na-
tura delimitata dell’isola, tracciando una mappa stratificata di andata
e di ritorni.
Negli ultimi decenni sono soprattutto le voci femminili ad unirsi
al coro. Nel 1994 è Maria Luisa Magagnoli ad entrare nel merito con

102
L’esodo verso le Americhe raccontato dalla letteratura italiana

Un caffè molto dolce262; un testo nel quale, sulla base di spunti auto-
biografici, l’autrice ripercorre le vicende dell’anarchico Severino Di
Giovanni che fuggito in Argentina dalle persecuzioni fasciste sarà poi
processato e fucilato nel 1931.
Quasi interamente dedicate all’emigrazione in Argentina, e con
particolare riguardo all’esperienza femminile, sono gran parte delle
opere di Laura Pariani e fin dal suo esordio letterario con Di corno e di
oro263, una raccolta di racconti nei quali viene già presentata la materia
su cui si svilupperanno successive sue opere: dal desiderio di partire,
alla delusione del sogno di una vita facile a cui si contrappone il duro
lavoro, alla solitudine, allo sradicamento, al recupero delle tradizioni
e all’importanza della memoria.
In Quando Dio ballava il tango264, l’autrice consegna al lettore un
significativo spaccato dell’emigrazione al femminile.  L’opera racco-
glie sedici storie, che raccontano ciascuna un frammento di vita di
altrettante donne. Uno dei personaggi, Catterina Cerruti, riassume
la condizione coloro che, partite da sole, hanno dovuto sostenere l’e-
sperienza traumatica del viaggio in mare, l’impatto con la nuova vita
all’estero e, soprattutto, fare i conti con il problema della trasmissione
della memoria familiare alle nuove generazioni per mantenere vivo
e tramandare il ricordo di un’altra vita, ormai remota. Catterina emi-
gra in Argentina, appena quindicenne, nel 1887, per raggiungere e
sposare il cognato, Luis, rimasto vedovo. Il primo grande ostacolo è
la traversata:

[…] due mesi di onde che battevano il ventre della nave, di notti in-
sonni tra l’odore di vomito, chiedendosi perché non si arriva mai,
dove era andata a finire la terra […] ci fu il Carletto Patàn che si morì
nel barco insieme ad altri sette […]: li dovettero buttare ai pesci, ché il
capitano aveva paura di epidemie, e sulla nave circolava la voce che
sarebbero morti tutti prima di arrivare a Buenos Aires. La qual cosa,
in un certo senso, era vera: ché quel viaggio tolse a tutti un pezzo di
vita (pp. 67-68).

262
  Torino, Bollati Boringhieri, 1996.
263
  Palermo, Sellerio, 1993.
264
  Milano, Rizzoli, 2002.

103
Con biglietto di andata

All’arrivo a Buenos Aires, Catterina descrive così la sua prima abi-


tazione:

[…] c’erano quartieri apposta per noi italiani […], con conventillos
cadenti tra mucchi di immondizia. […] D’estate si soffocava, bisog-
nava lasciare la porta aperta la notte e i bambini piangevano che i
mosquitos se li mangiavano. L’inverno, un freddo barbino; quando
pioveva, sgocciolava dentro e tutto sapeva di muffa. [...] Nel terreno
dietro casa stava una latrina per un’ottantina di persone, un lungo
piletòn [lavatoio] di cemento in mezzo alle erbacce, per lavare roba e
bambini; in fondo, il corral [recinto] con gli asini, le pecore e le galline.
Per non parlare dei topi. Pieno di ratas ovunque. No, lì nessuno sareb-
be vissuto a lungo…» (p. 68).

La vita, all’interno di quegli squallidi alloggi, era molto difficile:


sporcizia, spazi limitati degrado dei locali fatiscenti, rendevano dura
la vita in particolare delle donne che qui svolgevano la gran parte
delle loro attività, come lavare, stirare, cucire non solo per la famiglia
ma anche per altri, a pagamento. La convivenza forzata degli immi-
grati con numerosi altri individui della stessa nazionalità o di diversa
provenienza geografica generava conflitti, ma anche solidarietà. La
donna, ormai ottantenne, «passa in rassegna i nipoti, sforzandosi di
trovare in ciascuno di loro un segno che le indichi di essere in grado
di diventare il depositario dei suoi ricordi» (p. 70), a cui trasmettere
la memoria dei tempi lontani, del Paese nativo al di là dell’oceano e
delle persone ormai morte, affinché si conservi l’impronta del loro
passaggio su questa terra, perché «ai non-più-vivi bisogna portare
rispetto, ché solo existe el pasado, la memoria. […] Il passato […] è
tiepidezza di una coperta di lana, sapore pieno di un buon bicchiere
di vino tinto, profumo della terra, eco di antiche canzoni» (p. 82).
La suggestione della memoria del Paese natale della prima gene-
razione di immigrati, si contrappone all’anelito dei discendenti di
inserirsi nel luogo d’arrivo. Se l’Italia è nostalgia e rimpianto per i
primi, per i secondi, che conoscono la terra d’origine solo attraverso il
discorso familiare e non per esperienza diretta, è indifferenza. Questo
divario intergenerazionale è messo in risalto nella storia che ha come
protagonista Maria Roveda, ambientata tra il 1880 e il 1914. Nel corso
della sua infanzia Maria ha sentito parlare spesso il padre dell’Italia,
l’amata Patria, che lei, nata a Buenos Aires, non conosce. Poco più che

104
L’esodo verso le Americhe raccontato dalla letteratura italiana

adolescente sposa Pidro, giovane italiano appena giunto in Argenti-


na. Nella finzione narrativa i due sposi si stabiliscono nella provincia
di Santa Fe e avviano un almacén, magazzino all’ingrosso di vini, oli, e
altri generi importati dall’Italia; l’ambizione di Pidro porta però l’uo-
mo a legarsi ad un gruppo di mafiosi, finendo in manette. Maria vede
così sfumare il sogno di un benessere raggiunto con sacrifici e rinunce
e soprattutto vede distrutta l’unità familiare, con i figli che, ad uno
ad uno, con rabbia e rancore, lasciano la casa paterna, cercando di
cancellare l’infamia che il padre ha gettato su di loro. Nelle parole di
Martinita, figlia di Maria, il complesso rapporto intergenerazionale
appare in tutta la sua devastante conflittualità, caricandosi non solo
di incomprensioni, ma anche di sentimenti di odio e di disprezzo:

Sono stata felice di andarmene da Rosedal. La mia famiglia, meg-


lio perderla che trovarla: un insieme di persone cupe, tristi, egoiste;
una casa di mobili vecchi e dozzinali, quasi volgari; un patio sporco
di mozziconi di sigaretta e di sputi. E ancora peggio fu quando mio
padre finì in prigione […] Fu allora che per la prima volta la vita in
quella casa mi parve tutta una bugia: il bigottismo di Mamà, il suo
darsi da fare con abitucci e sughetti […]. E tutto quello sfacelo aveva
origine nell’ipocrisia di Papà, nella tirchieria con cui ci aveva oppres-
so per tutta la vita, nella sua maledetta ossessione per i soldi. Certe
sere a Rosedal […] era terribile. […] Quell’odore acido di sugo riscal-
dato, quella solitudine, […] quel passo di Papà sempre dietro le spalle
per controllare se uscendo da una stanza avevi spento la luce. […] Il
russare dei miei dall’altra stanza…un rumore sporco, come tutto in
quella casa. L’unica cosa che potevo fare era fuggirmene via (p. 275).

La disgregazione dell’unità familiare è una delle conseguenze ne-


gative del processo migratorio. Genitori e figli si trovano spesso a
non condividere più lo stesso universo concettuale di riferimento:
gli uni legati ad una mentalità e ad uno stile di vita ancora salda-
mente legati ad usi e costumi tradizionali, proiettati verso il rag-
giungimento di quel benessere economico tanto agognato, gli altri
spinti dalla voglia di allontanarsi da un ambiente familiare percepi-
to come limitante, di sentirsi simili ai loro coetanei in un Paese a cui
sentono di appartenere.
Le vicende del racconto che vede protagonista la giovane Mafal-
da, emigrata quindicenne a Buenos Aires insieme alla famiglia, mo-

105
Con biglietto di andata

strano uno dei volti più oscuri del fenomeno migratorio: l’esito ne-
gativo del processo di integrazione, che ha segnato le vite di molte
immigrate di prima generazione. Queste donne si trovarono a vivere
nel nuovo Paese prive di quella rete sociale e familiare di cui erano
parte integrante, con un ruolo preciso. Spesso non avevano istruzione
e facevano più fatica ad apprendere la nuova lingua; anche l’impatto
con un ambiente urbano, abituate a spazi rurali o dei borghi a misura
d’uomo, costituiva un trauma. Poteva capitare allora, come narrato
dalla scrittrice, che la nostalgia per la terra abbandonata, il senso di
estraneità e il disagio derivante da una collocazione sociale segna-
ta dai confini dell’emarginazione e della solitudine, assumessero un
carattere patologico, sfociando nella follia e nel suicidio. Le ragioni
di un gesto così estremo sono interpretate intensamente da Mafalda:
«[…] si sentiva insicura, spogliata di una identità che fin da piccola
aveva creduto inalienabilmente sua», la certezza che mai si sarebbe
sentita argentina, perché «Una persona può cambiare vita, casa, amo-
re, però anche se ti spogliano di tutto rimane qualcosa che sta in te da
quando impari a ricordare, cioè molto prima di aver l’età della ragio-
ne: il midollo di un altro modo di vivere» (p. 163), la disperazione, lo
smarrimento, il rimpianto per l’Italia e per il «passato da cui era stata
esiliata», il dolore per i gravi lutti che la colpiscono, il desiderio di ri-
congiungersi ai ‘suoi’ morti e lasciare, finalmente, l’odiata Argentina,
spingono la giovane a togliersi la vita, perché «certi legami, quando si
spezzano, ti diventano spasmo nelle viscere» (p. 168).
Il viaggio immaginario tra l’emigrazione al femminile compiuto
da Laura Pariani prosegue ne Il paese dei sogni perduti. Anni e storie
argentine265, una raccolta di testimonianze che ripercorre per quasi
un secolo la storia della nostra emigrazione in Argentina; in Dio non
ama i bambini266, storia romanzata, ma ispirata ad avvenimenti reali,
ambientata, tra il 1904 e il 1912, in una Buenos Aires fagocitante e
spaventosa, tra le strade della quale si aggira un assassino che spegne
le giovani vite dei bambini figli di immigrati italiani. Nel barrio di
San Cristóbal, dall’interno di un tetro conventillo, si dipanano le storie
di immigrai italiani che si intrecciano con efferati quanto misterio-

265
  Milano, Effigie, 2004.
266
  Torino, Einaudi, 2007.

106
L’esodo verso le Americhe raccontato dalla letteratura italiana

si omicidi. L’assassino verrà smascherato dai bambini del barrio che


finalmente otterranno ascolto dalla polizia che catturerà il giovanis-
simo Ognisanti lo condurrà in un reparto psichiatrico dove trascor-
rerà dieci lunghi anni. Dopo la condanna definitiva, il criminale verrà
trasferito nel carcere di Ushuaia dove subirà pestaggi e violenze di
ogni tipo e dove abbandonato dalla famiglia, morirà, probabilmente
a seguito di percosse, in totale solitudine.
Negli Stati Uniti di inizio Novecento è ambientato Vita267 di Mela-
nia Mazzucco, un romanzo che, su basi documentali, ricostruisce la
vicenda migratoria di due ragazzini, Diamante e Vita (l’uno di dodici
anni e l’altra di nove). Il testo è scritto a partire dalla storia della fami-
glia dell’autrice ricostruita con l’ausilio di ricerche storiche e consulta-
zione di archivi. Una storia all’interno della quale l’autrice stessa en-
tra come io narrante, ponendosi come personaggio. La vicenda ruota,
dunque, attorno a Diamante e Vita due bambini che vengono manda-
ti oltreoceano da Tufo di Minturno, un piccolo paese della provincia
di Caserta, per restituire alla famiglia Mazzucco un po’ di dignità. Ad
attenderli c’è Agnello, padre di Vita, il proprietario squattrinato di un
negozio di frutta e verdura, al quale la piccola rifiuta di riconoscere
l’autorità genitoriale perché «suo padre è un signore. Verrà sull’isola
con lo yacht. Vedendola solleverà il cilindro, farà un inchino e pren-
dendola per mano dirà: Principessa, lei deve essere la mia adorata
Vita» (p. 23). Agnello Mazzucco è il primo della famiglia ad essere
partito per gli Stati Uniti lasciando in patria la moglie affetta da una
malattia agli occhi e la piccola Vita, ma portandosi con sé l’altro figlio
Nicola, soprannominato in seguito Coca Cola per via della sua balbu-
zie. Una volta giunto in America riesce a sistemarsi in una pensione
nel ghetto della Little Italy, precisamente a Prince Street, dove vive
con altri emigranti. Lì riesce ad avere un impiego, ma è, come tutti gli
arrivati, costantemente preso di mira dalle minacce dei malavitosi.
Tra sacrifici e duri lavori, gelosie, liti, criminalità organizzata ed altre
miserie prende corpo la storia d’amore dei due giovani protagonisti,
destinata a rimanere accesa per l’intero corso delle loro vite, ma anche
a restare crudelmente platonica. Diamante metterà a dura prova se
stesso prestandosi ad ogni mestiere: strillone di giornali, raccoglitore

267
  Milano, Biblioteca Universale Rizzoli, 2003.

107
Con biglietto di andata

di stracci, fattorino in una ditta di pompe funebri – esperienza nel


corso della quale si farà attrarre per un momento dalle lusinghe della
Mano Nera –, ‘waterboy’ per gli operai delle ferrovie in Ohio. Vita
invece è costretta a rimanere a casa, cioè nella pensione di suo padre
Agnello. Tutti i giorni si trova nella cucina ad aiutare Lena, la nuova
compagna del padre, a preparare il cibo e lavare i piatti e i panni per
i ‘bordanti’, i compaesani che vivono nella pensione. Entrambi resi-
stono alle dure prove che ha riservato loro la vita, certi di un futuro
migliore. Attorno a loro altri personaggi rappresentano, ciascuno, un
aspetto diverso e doloroso del dramma dell’emigrazione negli Sta-
ti Uniti. Alla fine, però, almeno per Diamante il sogno americano si
rivela come un’illusione impossibile e il cerchio si chiude con il suo
ritorno in Italia mentre Vita sposerà un uomo ricco che le consentirà
di aprire un ristorante e di proseguire una vita agiata.
Dal canto suo in Oltremare268, Mariangela Sedda intreccia, in un
romanzo epistolare, gli struggenti sentimenti che legano due sorelle
divise dall’Oceano: Grazia che segue in Argentina il marito Vincenzo
e Antonia che, epilettica, è costretta a rimanere nella sua Sardegna.
Ambientato all’inizio del Novecento, il romanzo fa rivivere il tragi-
co destino di separazione comune, in quel tempo, a molte famiglie
italiane. In Argentina269, Renata Mambelli presenta, invece, un origi-
nale risvolto emigratorio. Assunta, la protagonista, rimasta vedova
e orami cinquantenne, decide di non volere condurre una vita piatta
all’ombra del suo lutto e si risolve ad imbarcarsi per l’Argentina dove
sono emigrati i figli che, da molto tempo, la hanno dimenticata:

Ah, sì, vuole rivederli, contare le rughe attorno alle loro bocche, pas-
sare la mano sui capelli che saranno più radi. Vuole guardare in faccia
le loro mogli e prendere in braccio i figli che hanno avuto (p. 14).

E, la lista potrebbe ancora essere arricchita a dismisura fino al re-


centissimo Nero d’inferno di Matteo Cavezzali270, un romanzo imba-
stito sulla storia dell’anarchico Mike Boda e dei suoi atti terroristici

268
  Nuoro, Il Maestrale, 2004.
269
  Milano, Giunti, 2009.
270
  Milano, Mondadori, 2019.

108
L’esodo verso le Americhe raccontato dalla letteratura italiana

compiuti negli Stati Uniti, rientrato clandestinamente in Italia e di cui


nessuno più si ricorda.
Ma, se è vero che negli ultimi trent’anni molti scrittori italiani han-
no ripensato alla tematica migratoria con una nuova concezione del
fenomeno alla luce dei mutamenti che il Paese ha attraversato pro-
prio in quest’ultimo periodo trasformandosi da luogo di partenza ad
approdo di migranti271 e hanno rimesso in moto l’immaginario attor-
no all’avventura transoceanica e all’esperienza migratoria nelle sue
svariate sfaccettature, vero è altresì che, in via generale, all’interno
della letteratura italiana, l’America continua, tutto sommato, ad esse-
re rappresentata come un essere maligno, che fagocita nelle sue spire
una massa di disperati; che sfrutta e strappa gli individui all’affetto
delle famiglie.
Nel continuare a procedere per via esclusivamente esemplificati-
va, è forse utile accostare all’esperienza italiana, le rappresentazioni
del fenomeno migratorio così come vengono fuori dai testi letterari
scritti di là dell’Oceano, nella speranza di riuscire a dimostrare come
la Letteratura abbia saputo, ancora una volta, restituire la complessità
di un fenomeno storico fondamentale per la comprensione delle di-
namiche che hanno accompagnato la nascita e lo sviluppo dell’Italia,
qual è quello dell’esperienza emigratoria, riuscendo a fissarne, per
sempre, la memoria. Di una vicenda, cioè, della quale troppi nostri
contemporanei fingono ancora di ignorare la reale drammaticità.

271
  «[…] le ragioni di tale cambiamento contemporaneo sono da ricercare nel di-
verso ruolo internazionale svolto dall’Italia dal secondo dopoguerra e da quello
sviluppo economico che le ha consentito di inserirsi nel novero dei paesi più indu-
strializzati, modificando drasticamente la propria immagine e rafforzando l’auto-
stima dei suoi cittadini […] Probabilmente il dato di maggior impatto è il passaggio
dell’Italia da paese di esodo a nazione di destinazione, fatto che se da un lato fa
sorgere ben note reazioni xenofobe, dall’altro induce una riflessione per analogia
che fa riaffiorare il passato» (Ilaria Magnani, Migrazioni italiane e letteratura in Emilia
Perassi, Susanna Regazzoni, Margherita Cannavacciuolo (a cura di) Scritture Mi-
granti, Venezia, Edizioni Cà Foscari, 2014, p.157)

109
III
Gli emigranti raccontano: Stati Uniti o il “sogno a
stelle e strisce”

Nella seconda metà del XIX secolo, gli Stati Uniti, grazie al loro
rapido e intenso sviluppo economico, offrivano buone opportunità
a tutti gli immigrati, diventando così una delle mete preferite del-
la nostra emigrazione. Quando gli italiani iniziarono ad attraversare
l’Oceano la maggior parte di loro si fermò a New York, che nel 1910
contava 500.000 italiani tra gli immigrati e figli di immigrati nati sul
suolo statunitense.
Una volta arrivati nel Nuovo Mondo, però, gli emigranti smisero
di sognare: la Mérica non era un luogo così ospitale né quell’Eldorado
che avrebbe messo fine ai loro problemi. Prima fonte di disagio per co-
loro che oltrepassavano l’Oceano era il viaggio. La traversata, spesso in
condizioni di sovraffollamento che favorivano la formazione e la diffu-
sione di epidemie, era difficile da sostenere. Teodorico Rosati, ispettore
sanitario sulle navi degli emigranti, in un suo resoconto, trascrisse:

Accovacciati sulla coperta, presso le scale, con i piatti tra le gambe, e il


pezzo di pane tra i piedi, i nostri emigranti mangiavano il loro pasto
come i poveretti alle porte dei conventi. È un avvilimento dal lato morale
e un pericolo da quello igienico, perché ognuno può immaginarsi che
cosa sia una coperta di piroscafo sballottato dal mare sul quale si roves-
ciano tutte le immondizie volontarie ed involontarie di quella popolazi-
one viaggiante. L’insudiciamento dei dormitori è tale che bisogna ogni
mattina fare uscire sul ponte scoperto gli emigrati per nettare i pavimenti.
Secondo il regolamento i dormitori sono spazzati con segatura, occor-
rendo si mescolano disinfettanti, sono lavati diligentemente ed asciugati.
Ma tutte le deiezioni e le immondizie che si accumulano sui pavimenti
corrompono l’aria con forti emanazioni e la pulizia sarà difficile1.

1
  www.uonna.it (consultato il 24/01/2020).
Con biglietto di andata

Il viaggio durava dai venticinque ai trenta giorni, a seconda delle


condizioni del tempo che inevitabilmente influivano sulla naviga-
zione. Nonostante il fatto che già a partire dalla metà dell’Ottocento
l’introduzione delle navi a vapore per le tratte transoceaniche aves-
se ridotto il tempo della navigazione, le condizioni di viaggio, per i
passeggeri che non potevano permettersi di acquistare un biglietto di
prima classe, erano un ulteriore trauma da superare. Restava comun-
que il sogno. Quel sogno che continuava ad essere alimentato dalla
promessa rinnovata nei versi incisi sul piedistallo della grande Statua
posta ad accogliere le navi nella baia di New York2.
Il primo approdo avveniva ad Ellis Island3, piccolo isolotto di
fronte a Manhattan. Qui venivano portati gli immigrati che si trova-
vano nella terza classe per essere ispezionati. Se le autorità sanitarie
ritenevano che fossero necessari ulteriori accertamenti, l’emigrato
era costretto a rimanere ad Ellis Island e, nei casi più gravi, poteva
essere rimpatriato: in questo caso gli veniva tracciata una croce bian-
ca sulla schiena. I capitani avevano l’obbligo di riportare indietro ai
porti di origine tutti i passeggeri che non superavano la visita me-
dica. Le notizie di cronaca raccontano che, a volte, l’emigrato a cui
era stato negato l’ingresso si gettava in mare cercando di raggiungere
Manhattan a nuoto, oppure si suicidava pur di non dover riaffrontare
il viaggio per mare. La disperazione dilagava, tanto che Ellis Island
venne denominata «l’isola delle lacrime»4. Dopo una prima fase di
controllo gli emigrati erano condotti nella sala di registrazione dove

2
  Sul piedistallo della Statua della Libertà è inciso il sonetto, appositamente verga-
to nel 1883 dalla poetessa Emma Lazarus, The new Colossus: Not like the brazen
giant of Greek fame/With conquering limbs astride from land to land;/Here at
our sea-washed, sunset gates shall stand/A mighty woman with a torch, whose
flame/Is the imprisoned lightning, and her name/Mother of Exiles. From her bea-
con-hand/Glows world-wide welcome; her mild eyes command /The air-bridged
harbor that twin cities frame,/”Keep, ancient lands, your storied pomp!” cries she/
With silent lips. “Give me your tired, your poor,/Your huddled masses yearning to
breathe free,/The wretched refuse of your teeming shore,/Send these, the home-
less, tempest-tossed to me,/I lift my lamp beside the golden door!
3
  Il “Centro di prima accoglienza”, divenuto durante la Prima guerra mondiale cam-
po di detenzione, fu in funzione sull’isola dal 1894 al 1954; oggi è sede dell’Immi-
gration Museum. L’isola costituì il primo approdo per oltre 15 milioni di immigrati.
4
  Per questo aspetto, cfr. Aurora Matteucci, Il controllo del territorio, in Fausto Giunta
e Enrico Marzaduri (a cura di), La nuova normativa sulla sicurezza pubblica, Milano,

112
Gli emigranti raccontano: Stati Uniti o il “sogno a stelle e strisce”

venivano interrogati uno per uno da ispettori particolarmente attenti


alla provenienza dal Settentrione o dal Meridione di Italia. Un primo
filtro per l’individuazione della loro provenienza era costituito dal
porto di partenza dal momento che gli Italiani residenti nelle città del
Nord partivano prevalentemente dal porto di Genova, mentre quelli
del Sud si imbarcavano da Palermo o da Napoli. La discriminazione
dunque si imbarcava con loro e non li abbandonava neppure dopo
l’approdo, continuando anche oltre, dato che i datori di lavoro prefe-
rivano gli italiani del Nord.
Alla fine di questo iter burocratico veniva rilasciata una “Ispection
Card” con il numero identificativo dell’immigrato. Coloro che su-
peravano tutti i controlli, erano liberi di restare benché, ancora una
volta, questa presunta libertà non fosse sinonimo di indipendenza
perché molti dei nuovi arrivati erano costretti a chiedere l’appoggio
di un familiare o di un conoscente già stabilitosi sul territorio. Non si
trattava soltanto della necessità di un alloggio, ma di un vero bisogno
di aiuto dal momento che la maggior parte di questi soggetti era priva
d’istruzione, del tutto ignorante della lingua inglese e quasi sempre
anche di quella italiana. Coloro che erano arrivati in precedenza sul
territorio statunitense si prestarono a far da mediatori trasformando
presto questo ruolo in una vera e propria professione. Si trattava di
un ristretto gruppo di “padroni” o “boss” che, servendosi dell’aiuto
di un folto esercito, richiedeva tangenti in cambio dei favori concessi.
Dietro ricompensa, la cosiddetta “bossatura”, il “boss” trovava un
lavoro ai nuovi immigrati. Gli italiani quindi, a differenza degli al-
tri popoli sbarcati nelle città americane in cerca di fortuna, dovettero
subire anche lo sfruttamento dei propri connazionali. Questo siste-
ma finì per asservire gli interessi dei datori di lavoro che avevano a
loro disposizione individui disposti a tutto pur di avere una fonte di
sostentamento economico. Fu proprio a causa di questo sistema che
alcuni emigrati furono costretti ad inserirsi nei giri della malavita5,
confermando quei pregiudizi che li avevano perseguitati fin da prima

Giuffrè editore, 2010, P. II, cap. XI, pp. 641-657, part. il paragrafo La speranza respinta,
p. 641.
5
  Cfr. Dorothea Fischer-Hornung, Heike Raphael-Hernandez, Holding Their Own.
Perspectives on Multi-Ethnic Literatures of the United States, Tübingen, Stauffen-
burg-Verl., 2000.

113
Con biglietto di andata

del loro arrivo. Questo meccanismo di dipendenza dai propri compa-


esani è stato il motivo determinante della nascita delle “Little Italies”,
quartieri popolari sorti all’interno di molte delle città statunitensi che
si trasformarono, col tempo, in veri e propri ghetti. Fu proprio a cau-
sa della povertà, che alcuni immigrati furono costretti ad accettare
attività illecite diventando dei veri e propri criminali che si davano al
racket non risparmiando neppure i connazionali e confermando i pre-
giudizi della società statunitense che etichettava gli italo-americani
come “inclini al crimine e moralmente corrotti”6:

Generalmente sono di piccola statura e di pelle scura. Molti puzzano


perché tengono lo stesso vestito per settimane. Si costruiscono barac-
che nelle periferie. Quando riescono ad avvicinarsi al centro affittano
a caro prezzo appartamenti fatiscenti. Si presentano in due e cercano
una stanza con uso di cucina. Dopo pochi giorni diventano quattro,
sei, dieci. Parlano lingue incomprensibili, forse antichi dialetti.
Molti bambini vengono utilizzati per chiedere l’elemosina, spesso
davanti alle chiese donne e uomini anziani invocano pietà, con toni
lamentosi e petulanti. Fanno molti figli che faticano a mantenere e
sono assai uniti tra di loro. Dicono che siano dediti al furto e, se os-
tacolati, violenti.
Le nostre donne li evitano sia perché poco attraenti e selvatici sia per-
ché è voce diffusa di stupri consumati quando le donne tornano dal
lavoro.
I governanti hanno aperto troppo gli ingressi alle frontiere ma, soprat-
tutto, non hanno saputo selezionare tra coloro che entrano nel paese
per lavorare e quelli che pensano di vivere di espedienti o, addirittu-
ra, attività criminali7.

Ma…, lo si sa, coloro che abbandonano la propria terra in cerca di


un futuro migliore non lo fanno certamente con l’intenzione di delin-
quere e, al di là dei pregiudizi, la maggior parte dei nostri emigrati fu
costituita da grandi lavoratori. Specie nelle grandi città molti preferi-
rono lavori salariati soprattutto nel settore edile, nella costruzione di
strade e ferrovie, o nelle miniere accontentandosi di paghe misere e,

6
  Cfr. Ivi, p. 305.
7
  Dalla relazione dell’Ispettorato per l’Immigrazione del Congresso americano sugli
immigrati italiani, ottobre 1912.

114
Gli emigranti raccontano: Stati Uniti o il “sogno a stelle e strisce”

a causa della loro “propensione” ad essere sfruttati nacque lo stereo-


tipo dell’italiano “pala-e-piccone”.
La regolamentazione dei flussi migratori negli Stati Uniti ha subi-
to, nel corso del tempo, numerose modifiche. Fin dal XVII secolo la
preoccupazione maggiore degli europei, e soprattutto degli inglesi,
fu quella di occupare il territorio, scontrandosi con la resistenza de-
gli indigeni, ma di fatto non ponendo alcun filtro all’immigrazione.
Fu solo a partire dal 1875 che i governi degli Stati federati comincia-
rono a ritenere che fosse necessario porre limiti agli arrivi vietando
l’ingresso a analfabeti, prostitute, dementi, anarchici e comunisti. Il
successivo picco di arrivi favorito dalla nuova cantieristica navale che
aveva reso i viaggi più brevi e sicuri, allarmò il governo centrale che
decise di arrogare a sé il diritto di decidere sulla politica immigra-
toria. Il XX secolo vide, poi, la generale chiusura dell’immigrazione
negli Stati Uniti, messa in atto legislativamente dai Quota Act del 1921
e del 1924, che limitarono i flussi in entrata specie se gli immigrati
erano italiani, ospiti poco o per nulla graditi a quel tempo. Si decise di
sostituire i centri di accoglienza con apposite commissioni nei paesi
di partenza: il filtro adottato non riguardava più, adesso, la nazio-
nalità, mentre si teneva conto dei fattori sociali e culturali, come il
ricongiungimento familiare o il titolo di studio. Infine, ad imporre un
ulteriore stop al delirio emigratorio fu il famoso Crollo di Wall Street,
la sconvolgente ed inaspettata crisi economica e finanziaria del 1929
che si ripercosse in tutto il mondo anche nel decennio successivo ma
che non ebbe effetti spropositati sul tasso dei rimpatri dal momento
che, nel frattempo, la disastrosa congiuntura economica che determi-
nava i flussi di rientro venne ad intersecarsi con la (forse più temuta)
congiuntura politica del fascismo, per sfuggire al quale molti italiani
preferirono ad ogni modo rimanere lontani dalla patria8. Il Fascismo
che a partire dalla seconda metà degli anni Venti fu contrario all’e-
migrazione che prima aveva incoraggiato, riuscì a contenere le cifre
degli espatri. Fu solo dopo la Seconda guerra mondiale che gli Stati
Uniti riaprirono le porte agli italiani che tornarono ad attraversare in
massa l’Oceano facendo registrare un picco di partenze nel 1958.

8
  Cfr. Ercole Sori, L’emigrazione italiana in Europa tra Ottocento e Novecento. Note e rifles-
sioni, in “Studi Emigrazione”, 142, 2001, pp. 259-295, p. 260.

115
Con biglietto di andata

La crescente voglia di riscatto della propria immagine spinse ben


presto gli italiani a trasporre per iscritto la propria esperienza, ma,
all’inizio, anche i più colti fra loro, non sapevano che servirsi del-
la lingua italiana spesso infarcita di registri dialettali. Oltre ai molti
analfabeti partiti alla ricerca di miglior fortuna, c’erano, infatti, anche
alcuni intellettuali che avevano lasciato il nostro Paese per ragioni
del tutto diverse, e che decisero di creare un ponte con la madrepa-
tria dando vita a numerose testate giornalistiche. Una prima ébauche è
costituita da una rubrica che Orazio de Attellis istituì nel 1834 all’in-
terno del “Correo Atlantico”, un periodico da lui stesso fondato a
New Orleans, città che ospitava una comunità di Italiani. Il primo
periodico in italiano fu “L’Europeo Americano” fondato a New York
nel 1849 da Giovanni Francesco Secchi de Casali, che ebbe breve vita,
così come altre testate che si susseguirono negli anni immediatamen-
te successivi9. Migliore fortuna ebbe, invece, un altro periodico, fon-
data nello stesso 1849, sempre dal Secchi de Casali, “L’Eco d’Italia”,
che conteneva articoli sugli argomenti più svariati che andavano dal-
la politica alla religione, dalla cronaca alla letteratura e che riuscì ad
imporsi non soltanto all’interno della comunità italiana newyorkese
e statunitense, ma persino in Canada e in Sud-America. In assenza di
servizi assistenziali da parte delle istituzioni, il periodico funse an-
che da unico punto di riferimento per la comunità di immigrati. Il
periodico italiano di maggiore successo fu, senza ombra di dubbio,
“Il Progresso Italo-Americano” stampato a partire dal 1879 per volere
del suo fondatore Carlo Barsotti che ne mantenne la direzione fino
al 1928. La testata, alla quale prestò la propria collaborazione, tra gli
altri, Adolfo Rossi, rimase in vita fino al 1988 e, al momento della sua
cessazione, molti dei collaboratori si riunirono per dar vita, prose-
guendo nello spirito dell’iniziativa, a “America Oggi”. Nel 1928 la
direzione de “Il Progresso” era stata assunta da Generoso Pope, che
la mantenne fino al 1950, a cui si deve il prestigioso ruolo assunto dal
periodico all’interno della comunità italiana. “Il Progresso” promosse
una serie di manifestazioni nazionalistiche e rispondeva criticamente

9
  Cfr. Giuseppe Fumagalli, La stampa periodica italiana all’estero, Milano, Capriolo e
Massimino, 1909.

116
Gli emigranti raccontano: Stati Uniti o il “sogno a stelle e strisce”

ai dibattiti culturali che si svolgevano nello stesso periodo in patria10.


Oltre all’attenzione per il proprio Paese d’origine, i giornali in lin-
gua italiana si impegnarono nella diffusione presso i connazionali del
“sentimento-americano”: si trattava di educarli al rispetto delle cele-
brations di quel Paese che continuava a vederli “diversi”11 e che forse
sperava che tornassero presto a casa. Il maggior numero degli articoli
di queste testate era concentrato su fatti di cronaca nera che non di
rado vedevano protagonisti gli stessi Italiani; altri articoli cercavano,
invece, di influenzare l’orientamento politico dei propri compagni di
emigrazione e, persino, dei connazionali rimasti in patria, convincen-
do gli italo-americani a spedire lettere ai propri parenti per suggerire
loro di votare per questo o per quel partito.
All’interno del panorama di queste, e delle molte altre, testate
giornalistiche in lingua italiana, non pochi furono i periodici a carat-
tere letterario, benché, se si eccettuano pochi titoli, la maggior parte
di essi non spiccò per originalità di contributi né per la loro qualità.
Non va ancora dimenticato, nell’ottica che qui è oggetto del nostro
interesse, che essi ebbero il merito di aprire la strada non soltanto alla
circolazione della Letteratura italiana in quel Continente12, ma altresì
alla agevole pubblicazione di contributi letterari di nostri connazio-
nali emigrati negli Stati Uniti e, dunque, alla prima diffusione dei
loro scritti. Fra i periodici di indirizzo letterario – di quella prima ora
– non si può non ricordare “Il Carroccio” che apparve, nel 1915, per

10
  Cfr. Pietro Russo, La stampa periodica italo-americana, in Salvatore La Gumina,
Frank Cavaioli, Salvatore Primeggia, Joseph Vaccarelli (eds.), The Italian American
Experience: An Encyclopedia, Garland, Library of the Humanities, vol. 1535, 1999,
pp. 493-556.
11
  Cfr. Jennifer Guglielmo, Are Italians White? How Race is made in America, New York,
Routledge, 2003.
12
  La Letteratura italiana era molto apprezzata negli Stati Uniti. Basti pensare che già
tra il 1865 e il 1867 il poeta Henry Wadsworth Longfellow, traduceva la Divina Com-
media (Boston, Ticknor and Fields). E fu proprio la nostra Letteratura, a costituire,
aggiungendosi probabilmente agli stereotipi sugli italiani, un’ancora di riscatto per
i nostri primissimi emigranti che, partiti senza alcun sentimento di appartenenza
ad una Nazione ancora soltanto formalmente unita, si riscoprivano “italiani” sul
territorio straniero. Molti di loro, lo si è accennato, erano analfabeti; altri conosceva-
no la letteratura soltanto per aver assistito ad alcuni certami poetici in volgare; non
importava: una volta lontani da casa, tutti potevano rivendicare, orgogliosamente,
di appartenere alla patria di Dante e di Petrarca.

117
Con biglietto di andata

volere di Agostino De Biasi il quale, trasferitosi negli Stati Uniti nel


1900, dopo essere stato uno dei collaboratori del “Progresso Italo-A-
mericano” e di altre testate, decise di riproporre in quel Paese una te-
stata con la stessa denominazione e lo stesso taglio ideologico di una
sua precedente esperienza milanese a cui aveva dato vita nel 1875. Il
periodico, in vero, rappresentò, in primo luogo, la voce propagandi-
stica del nascente Fascismo13. Nel perseguire il precipuo programma
di propaganda nazionalistica, all’interno del foglio, uno spazio di
non secondario rilievo era dedicato alla diffusione della Letteratura
italiana, purché, va da sé, omologata sui credi nazionalistici. In que-
sto senso, un ruolo importante ebbe Giovanni Favoino di Giuria che,
arrivato negli Stati Uniti alla fine della Prima guerra mondiale, portò
avanti questo impegno fino a sentire la necessità di fondare, nel 1924,
una propria testata, “Il Vittoriale”, che si unì al coro dell’opera di pro-
mozione della nostra Letteratura nazionale. “Il Carroccio”, però, non
lo si può negare, ebbe il merito di istituire un premio letterario; e può
stupire che nel 1927 la giuria non abbia lesinato di riconoscere il me-
rito artistico della novella Nazarena di cui era autrice quella Virginia
Sofia Cristina Emilia Maria Tango Piatti, celata sotto lo pseudonimo
Agar, amica di Sibilla Aleramo e di Dino Campana, iscritta dalla fine
del 1928 al 1943 come antifascista nel Casellario Politico centrale del
Ministero degli Interni italiano e per questo radiata14. Un altro merito
che occorre riconoscere ai redattori della rivista, fu quello di avere
favorito, nella prima metà degli anni Venti, il debutto letterario di
alcune scrittrici che, esponenti di quel realismo “mondano-sentimen-
tale” a cui si accennerà anche in seguito, si impegneranno a tratteg-
giare figure femminili risolute, rivendicando alle emigrate italiane,
per tal via, la speranza di affrancamento dal ruolo di soggiogate che
continuavano ad avere assegnato dalle loro comunità. Fra di esse, si
ricordino qui, tra le altre, Caterina Maria Avella e Dora Colonna. Se la

13
  I numeri del periodico, la cui denominazione completa è “Il Carroccio. The Italian
review, Rivista di coltura, propaganda e difesa italiana in America” sono consulta-
bili in rete sul sito www.archive.org.
14
  Cfr. Matteo Pretelli, Il fascismo e l’immagine dell’Italia all’estero, in “Contemporanea.
Rivista di storia dell’800 e del ‘900”, 2, aprile 2008, pp. 221-242. Per notizie puntuali
sulla stampa del periodo fascista negli Stati Uniti, cfr. Valerio Castronovo e Nicola
Tramaglia (a cura di), La stampa italiana nell’era fascista, Bari, Laterza, 1976.

118
Gli emigranti raccontano: Stati Uniti o il “sogno a stelle e strisce”

prima affida questo compito alla protagonista del suo La “Flapper”15 ,


una ragazza emancipata che vive in una società di ricchi italoameri-
cani tra yacht e grandi ville, la Colonna persegue il suo scopo facendo
assassinare alle due protagoniste del suo Le due amiche16 il compaesa-
no spregiudicato che le aveva ingannate e che le sfruttava.
Bisognerà poi attendere la fine degli anni Cinquanta per assistere
alla nascita di alcuni periodici a carattere accademico che dessero spa-
zio alla letteratura italo-americana, benché, adesso, redatte in lingua
inglese. Si tratta, per esempio, dell’“Italian Quarterly” fondanto nel
1957 da Carlo Golino presso la University of California di Los Angeles,
o del “Cesare Barbieri Courier” organo del “Center of Italian Studies at
Trinity College” che ebbe vita tra il 1958 e il 1967. Il fiorire delle riviste
di Italianistica fa registrare il suo apogeo intorno agli anni Settanta e
Ottanta del Novecento allorquando, una volta “sdoganata”, la cultura
italiana comincia a destare l’interesse degli studiosi che si impegnano a
dar vita ad una serie di testate accademiche o promosse da associazioni
culturali, alcune delle quali ancora attive, impegnate a diffondere la
cultura italiana17. Se, dunque, la voce dei nostri emigrati, benché a fa-
tica – e con tutti i limiti anche qualitativi, soprattutto delle primissime
produzioni letterarie –, riuscì, quasi da subito, a trovare qualche spazio
di ascolto negli Stati Uniti18, lo stesso non avvenne in Italia dove – se

15
  “Il Carroccio”, vol. XVIII, n. 2, August, 1923.
16
  “Il Carroccio”, vol. XXIV, n. 8, August, 1926.
17
  Oltre ai notissimi fogli di critica accademica quali la “Yale Italian Studies” (1979-
1981); la “Modern Language Notes” (1962-); la “Italian Culture” (1979-1988); gli “An-
nali di Italianistica” (1983-); “Italica”, (1924-); moltissimi furono e sono ancora oggi
i fogli impegnati nella promozione della letteratura italiana e italo-americana. Per
evidenti ragioni di spazio rinvio qui, per una prima informazione sull’argomento a:
Christofer Kleinnhenz, Le riviste di italianistica nel Nord America, in “Review des études
italiennes”, XXXIV, 1988, 4, pp. 116-129; Anthony Julian Tamburri, Italian and Italian/
American Journals in the United States: Overview, in Luigi Fontalella and Luca Somigli
(eds.),The Literary Journal as a Culturel Witness 1943-1993: Fifty Years of Italian and Italian
American Reviews, New York, Stony Brook, 1996, pp. 161-182; Albert N. Mancini, Le
riviste d’italianistica statunitensi, in Marco Santoro (a cura di), Le riviste di italianistica nel
mondo, Atti del convegno internazionale, Napoli, 23-25 novembre 2000, Roma-Pisa,
Istituti Editoriali e Poligrafici Internazionali, 2002, pp. 264-274.
18
  Benché il canone statunitense considerasse come “stilisticamente alto”, “moral-
mente riconoscibile” e come “esempio da seguire” qualunque opera prodotta da
europei occidentali, è forse utile ribadire che la diffusione della letteratura etnica
italo-americana cominciò a muovere i primi passi negli Stati Uniti grazie al ruolo

119
Con biglietto di andata

si eccettuano alcuni gradi nomi –, solo a partire dagli anni Ottanta del
Novecento, la letteratura italo-americana ha iniziato ad essere oggetto
di attenzione. Fino ad allora, solo poche riviste di opposizione al re-
gime quali “Omnibus” (1937-1939) di Leo Longanesi, e “Oggi” (1937-
1942) di Mario Pannunzio e Arrigo Benedetti, pubblicavano notizie,
benché frammentarie, sugli autori italo-americani.
Un ruolo di traghettatore della cultura italo-americana nel nostro
Paese fu assunto, negli anni Trenta da Giuseppe Prezzolini che, corri-
spondente dagli Stati Uniti per alcuni periodici, forniva con puntuali-
tà informazioni sulle novità editoriali. Consimile opera di promozio-
ne e diffusione fu svolta da alcuni editori coraggiosi quali Bompiani
che pubblica, come è noto, l’antologia Americana di Elio Vittorini19
così come la traduzione di alcuni romanzi tra i quali Cristo fra i mu-
ratori di Pietro Di Donato20. Negli anni Trenta, Quaranta e Cinquanta
del Novecento, la cultura americana entra in Italia grazie ad alcuni
inviati dei grandi quotidiani e settimanali quali Gian Gaspare Napo-
litano21, Luigi Barzini22, Luigi Barzini jr.23, Guido Piovene24, per non ci-

svolto dai periodici nati per iniziativa di nostri connazionali. I pregiudizi razziali
accompagnarono, infatti, per lungo tempo i nostri emigrati considerati dalla società
statunitense come non appartenenti ai WASP (White Anglo-Saxon Protestant) ma
ai WOP (WithOut Paper).
19
  Americana, Milano Bompiani, 1940. La prima edizione fu censurata dal regime fa-
scista che impose all’editore di non pubblicare le note vergate dallo stesso Vittorini
e di inserire una introduzione di Emilio Cecchi (cit.) gradito al regime. Le traduzioni
dei testi presentati sono il frutto del lavoro di alcuni dei nostri maggiori letterati del
tempo quali, oltre allo stesso Vittorini, Pavese, Montale e Moravia. Il messaggio che
questi intellettuali volevano lanciare, con questa impresa, conteneva in sé un alto
valore politico: il mito di un mondo nuovo simbolo di nuova vitalità e di libertà.
20
  Titolo originale Christ in Concrete (Indianapolis-New York, Bobbs-Merril, 1939);
traduzione italiana di Eva Khun Amendola e Bruno Maffi, Milano, Bompiani, 1941.
Una prima versione del testo in forma di short story, era stata pubblicata nel 1937 su
“Esquire Magazine”.
21
  Corrispondente de “Il Corriere della Sera”, “L’Illustrazione italiana”, “L’Europeo”,
“Epoca” si occupò costantemente dei problemi degli emigrati e dal 1957 al 1960
tenne su “Il Giornale” la rubrica “Parliamo dell’America”.
22
  Inviato de “Il Corriere della Sera”.
23
  Figlio di Luigi Barzini, scrisse per “Epoca”. Fu direttore de “Il Corriere d’America”
dal 1923 al 1931. Nel 1964 pubblicò negli Stati Uniti il suo famoso The Italians: A Full
Leght Portrait Featuring Their Manners and Morals (New York, Atheneum)
24
  Corrispondente de “Il Corriere della Sera” tra il 1950 e il 1951, inviò al quotidiano
più di cento articoli che raccolse, nel 1953, nel volume De America (Milano, Garzanti).

120
Gli emigranti raccontano: Stati Uniti o il “sogno a stelle e strisce”

tare che pochi nomi, che però non concedono alcuno spazio alle opere
degli italoamericani. Una posizione consimile assume Emilio Cecchi
che, vicino al regime fascista, nei suoi articoli sulla terza pagina de “Il
Corriere della Sera”, ometteva del tutto gli scrittori di origine italiana
così come essi sono assenti nel suo America amara25, mentre in Scrit-
tori inglesi e americani26 si era impegnato vergare giudizi decisamente
severi nei confronti di autori quali John Fante o Arturo Giovannitti. 
È solo a partire dagli anni Ottanta del Novecento che la critica
italiana comincia a guardare alla produzione letteraria italo-americana
per merito di alcuni studiosi fra i quali è da ricordare Francesco Durante
che ha il merito di aver tratto fuori dell’oblio, grazie ad una paziente ed
attenta ricerca, numerosi testi inediti di autori minori raccolti nei due
volumi dell’antologia Italoamericana27. Attraverso due corposi volumi
che fanno risalire l’inizio della produzione scritta in concomitanza con
i primissimi movimenti migratori e, cioè alla fine del Settecento, l’au-
tore intende fornire «la storia mentale e materiale di un fenomeno lun-
go oltre due secoli»28. La maggior parte dei testi antologizzati nel suo
lavoro sono inediti al momento della loro pubblicazione: ciò significa
che, se da un lato c’è ancora molto da dire e da far conoscere, dall’altro
lato questi studi sono in crescita, grazie anche al lavoro svolto da au-
tori e i critici italoamericani e italiani quali, fra gli altri Fred Gardaphé,
Anthony Julian Tamburri, Robert Viscusi, Kenneth Scambray, Emilio
Franzina, Martino Marazzi, Luigi Fontanella che, a partire dagli anni
Ottanta, sulla scia dei cultural studies, hanno cominciato a studiare il
fenomeno. Come afferma Anthony Julian Tamburri:

What is important in this regard is that we understand, or at least


try to understsand, the origins of the diversity and difference which
characterize the many ethnic and racial groups which constitute the
kaleidoscopic nature of this country’s population29.

25
  Firenze, Sansoni, 1940.
26
  La prima edizione fu pubblicata nel 1935 per i tipi dell’editore Carraba di Lanciano.
L’edizione definitiva dell’opera, riveduta e aggiornata è del 1962 (Milano, il Saggiatore).
27
  I due volumi, 1776-1880 e 1880-1943 sono apparsi per i tipi della Mondadori rispet-
tivamente nel 2001 e nel 2005.
28
  Ivi, vol. I, p. 4.
29
  Anthony Julian Tamburri, A semiotic of Ethnicity. In (Re)cognition of the Italian/Ameri-
can Writer, State New York, University of New York Press, 1998, p. 3.

121
Con biglietto di andata

Ancora Francesco Durante, in un’altra antologia Figli di due


mondi, portata alla ribalta, grazie ai racconti di dieci scrittori ita-
lo-americani, quella letteratura che per i suoi confini poco netti
con la sociologia è stata molte volte trascurata, continuando, per
tal via, a solcare quella nuova strada: terminata la fase prettamen-
te autobiografia ed esperienziale della scrittura degli emigrati, il
punto cruciale degli scrittori di seconda generazione viene a coin-
cidere con il problema di «[…] far conoscere la propria gente»30.
Questo obiettivo, ovviamente, non poteva essere raggiunto a par-
tire da un punto di vista soggettivo perché si rischiava di essere
criticati per la propria parzialità. Per “conoscere la propria gen-
te” era necessario allargare lo sguardo sull’intera comunità, sui
dislivelli sociali, sulle esperienze quotidiane di tutti gli emigrati
che ogni giorno lottavano contro quella “subalternità” che li aveva
spinti a prendere i bagagli e a salire su una nave, ma che purtrop-
po continuava a incalzare su di loro anche oltre oceano. Spiega
Durante nell’introduzione all’antologia che «L’emigrazione, cioè,
e la fortuna fatta in America al prezzo di durissime fatiche e inim-
maginabili privazioni, è la forza che può sovvertire anche le leggi
immutabili del vecchio mondo di partenza, quell’Italia fatta di si-
gnori che comandano e di contadini che servono»31 facendo capire
al lettore che la ribellione di fondo che si trova in questi racconti
altro non è che l’espressione letteraria della convinzione degli emi-
grati di aver diritto ad essere liberi, ad essere ripagati per i loro
sacrifici con una vita degna di essere definita tale. I dieci autori
antologizzati risalgono più o meno allo stesso periodo storico; la
maggior parte di loro è italo-americana di seconda generazione,
gli altri sono nati in Italia e in seguito sono emigrati negli Usa.
Nei loro brevi racconti si trova una costante e cioè la famiglia, che
da un lato può essere vista come un «alimento»32 per la narrativa
italo-americana, la fonte primaria di tutti questi racconti, dall’altro

30
  Francesco Durante, Figli di due mondi: Fante, Di Donato & C. Narratori italoamericani
degli anni ’30 e ‘40, Cava de’ Tirreni, Avagliano editore, 2002, p. 9.
31
  Ivi, p. 10
32
  Ivi, p. 11.

122
Gli emigranti raccontano: Stati Uniti o il “sogno a stelle e strisce”

invece può essere considerata un «veleno»33 che necessita di un


allontanamento non tanto fisico quanto piuttosto culturale.
La letteratura, o per meglio dire, la proto-letteratura italo-ame-
ricana iniziò a muovere i suoi primi passi tra la fine del XVIIII e
l’inizio del XIX secolo – e dunque prima ancora che il fenomeno
emigratorio italiano assumesse grandi proporzioni. Il pubblico di
lettori tardò però ad arrivare. Essa fu infatti relegata ai margini del-
la storia letteraria statunitense dal momento che, essendo prodotta
da soggetti ritenuti “subalterni”, non poteva che destare scarso in-
teresse. Sarà solo a partire dal XX secolo che la critica comincia ad
interessarsene dal momento che quei testi presentavano stimolanti
proposte per la definizione dell’identità culturale americana. Se è
vero che tutto ciò che l’Occidente produceva era considerato come
stilisticamente alto, come moralmente riconoscibile e come esem-
pio da seguire, degno, insomma, di destare l’interesse dei dipar-
timenti universitari e di essere inserito nei programmi scolastici,
nel caso della letteratura etnica italo-americana siamo di fronte ad
un paradosso: è sicuramente una letteratura prodotta da soggetti
europei, nella fattispecie italiani, che però non riesce a decollare a
causa dei pregiudizi razziali che accompagnano gli emigrati. Ecco
allora che si arriva al nocciolo della questione: la letteratura etnica
non riusciva ad affermarsi perché era prodotta da autori che, in li-
nea di principio, non erano considerati in grado di scrivere perché
non appartenevano ai WASP (White Anglo-Saxon Protestant)34 ma
ai WOP35 (WithOut Paper). Il giudizio cui questi scrittori incorse-
ro non di rado fu quello di concentrarsi esclusivamente su “par-
ticolari” della propria esistenza, come molto spesso accade nelle
biografie degli emigrati che focalizzano nei loro testi soprattutto

33
  Ibidem.
34
  Termine, la cui traduzione letterale è “vespa”, con il quale, nelle società occi-
dentali, si fa riferimento a uno dei gruppi sociali privilegiati, o influenti, non
appartenenti a nessuna minoranza etnica, come quella afroamericana, ebrea o
latinoamericana.
35
  Termine di origine campana che ben presto fu usato con accezione dispregiativa
per indicare gli emigrati italiani. È ampiamente diffusa l’idea che sia un acronimo di
“WithOut Paper” o “WithOut Passaport”. Tuttavia, recenti studi hanno focalizzato
l’attenzione sul termine napoletano “Guappo” che indica una persona che ostenta
un comportamento dispotico, impertinente e arrogante.

123
Con biglietto di andata

il momento dell’arrivo, la situazione lavorativa o le condizioni di


vita. Dopo anni di lunghe polemiche tra accademici ed intelligentia
radical chic, il regionalismo di quei primi testi riuscì ad affermarsi
in nome della ricchezza etnica oggi alla base della cultura statuni-
tense. Questa “vittoria” ha permesso di rendere centrale il concet-
to di diversità all’interno delle tradizioni narrative.
Si trattava, dunque, inizialmente di una letteratura dal forte carat-
tere esperienziale, scritta in lingua italiana, infarcita spesso di registri
dialettali, giacché la prima generazione di questi scrittori era incapa-
ce di esprimersi in lingua inglese.
Fu sulle colonne dei periodici italo-americani, come si accennava,
che le prime prove letterarie dei nostri espatriati trovarono ospitalità.
Già nel maggio del 1869, l’“Eco d’Italia” offriva ai suoi lettori Il Piccolo
Genovese36, un bozzetto realistico di autore anonimo. La prima prova
narrativa in lingua italiana degna di nota è la novella Peppino il lustra-
scarpe37 di Luigi Donato Ventura38. Si tratta di un’opera, di ispirazione
autobiografica, ambientata a New York, in cui è narrato l’incontro tra
un giovane giornalista squattrinato e un adolescente immigrato che
cerca di sbarcare faticosamente il lunario facendo il lustrascarpe, una
professione non certo edificante ma che gli offre un angolo di visuale
critica sulla società39.

36
  Il racconto è oggi raccolto nell’Antologia curata da Francesco Durante (cit.). Secon-
do quanto affermato dallo stesso curatore è probabile che si tratti di una cronaca
romanzata giacché, ove non si fosse trattato di ricorrere a riferimenti a fatti real-
mente accaduti, il testo non sarebbe stato pubblicato, con buona probabilità, privo
di firma.
37
  La novella è stata composta tra il 1882 e il 1885; riscoperta di recente da Marti-
no Marazzi nella Public Library di San Francisco è stata pubblicata per i tipi della
FrancoAngeli nel 2007. Non si conosce con certezza la prima data di pubblicazione
dell’opera: il Marazzi la offre in edizione trilingue (italiano, inglese e francese), ma
le tre versioni appaiono, in realtà, non del tutto sovrapponibili. Stando agli studi
condotti dallo stesso curatore, sembra che la prima pubblicazione della novella, non
datata, vide la luce a San Francisco, in lingua italiana a conto d’autore. La versione
in francese è apparsa nel 1885 (New York-Boston, William R. Jenkins-Carl Shoe-
nhof), mentre quella in lingua inglese è del 1886 (Boston, Ticknor and Company).
38
  Nato a Trani nel 1845 e morto nel 1912, emigrò negli Stati Uniti nel 1867. Redattore
in lingua italiana per numerosi periodici newyorkesi, fu anche traduttore di alcuni
dei più celebri nomi della nostra letteratura fra i quali Edmondo De Amicis e Ade-
laide Ristori.
39
  Cfr. Frank Lentricchia, Luigi Ventura and the Origins of Italian-American Fiction, in
“Italian Americana”, vol. 1, n. 2, Spring 1975, pp. 188-195.

124
Gli emigranti raccontano: Stati Uniti o il “sogno a stelle e strisce”

Le valutazioni di ordine generale devono in ogni caso confron-


tarsi con la vivacissima eterogeneità degli stili, dei linguaggi, delle
tipologie adottate. Solo all’ingrosso si può sostenere che – dall’ultimo
decennio dell’Ottocento sino alla Seconda guerra mondiale – preval-
gano modalità di rappresentazione realistica, specie nei romanzi, che
presentano non di rado ponderosi affreschi indiavolati fra il veristico
e l’appendicistico, come accade per i rappresentanti del genere dei
misteri, quali, per cominciare, Bernardino Ciambelli. Nato in pro-
vincia di Lucca, si trasferisce negli Stati Uniti nel 1888, dove svolge
un’intensa attività giornalistica che lo vedrà collaboratore di numero-
se testate periodiche. La sua carriera letteraria, iniziata parallelamen-
te all’attività pubblicistica, è costituita, soprattutto nella prima fase,
da una serie di detective stories cicliche che egli pubblica, appunto,
sui periodici, ambientate nel quartiere più povero di New York – i
Five Points, il cuore del Lower East Side – in cui, tra continui colpi di
scena, si muove una moltitudine di personaggi delle più varie etnìe40.
I personaggi, quasi sempre immigrati da ogni angolo del mondo, ir-
landesi, cinesi, africani, ebrei, sono spesso dipinti come portatori di
tutti gli stereotipi negativi ad essi attribuiti e a cui fanno da contralta-
re le virtù dei “poveri e maltrattati” italiani.
Servendosi di un italiano tendenzialmente toscaneggiante, Ber-
nardino Ciambelli si cimenta – come recitano espressamente molti
dei titoli dei suoi testi – nel genere del Mystery41 che egli, però, adatta
al preciso contesto italo-americano di New York tinteggiandolo di de-
nuncia politica e di problemi sociali. Questi testi assumono il compi-
to di riscattare da generici e conglobanti pregiudizi la comunità dei
nostri emigrati sul suolo nord-americano. Su uno sfondo nettamente

40
  Cfr. Esther Romeyn, Street scenes. Staging the Self in Immigrant New York, 1880-1924,
Minneapolis-London, University of Minnesota Press, 2008, pp. 18-24.
41
  Fra i suoi misteri si ricordino, I drammi dell’emigrazione (Seguito ai Misteri di Mulber-
ry). Romanzo contemporaneo, New York, Frugone & Balletto, n. d. [ma 1893]; I misteri
della polizia di New York. Il delitto di Water Street, New York, Frugone & Balletto, 1895;
I misteri di Bleecker Street, New York, Frugone & Balletto, 1899; Il delitto di Coney
Island, ovvero la vendetta della zingara, in “La Follia di New York”, 28 April 1907-26
July 1908; I misteri di Harlem, ovvero la bella di Elizabeth Street, in “La Follia di New
York”, 16 January 1910-17 September 1911; I sotterranei di New York, New York, So-
cietà Libraria Italiana, 1915; La trovatella di Mulberry Street, ovvero La stella dai cinque
punti, New York, Società Libraria Italiana, 1919.

125
Con biglietto di andata

bipartito fra bene e male, all’interno delle trame prende vita – attra-
verso una serie di personaggi che riappaiono spesso da un ‘miste-
ro’ all’altro – un gioco delle parti, imbastito sulla base di strutture
analoghe, tra detectives e poliziotti da un lato, e malavitosi di ogni
tipo dall’altro. Soprattutto nei racconti pubblicati negli anni Novanta
dell’Ottocento una serie di personaggi migrano attraverso i diversi
‘misteri’42 che, destinati ad un ampio pubblico, rivendicano l’onestà
italiana incarnata, fra gli altri, dal personaggio di Joe Petrosino che
opera all’interno di un mondo in cui gli Italiani sono circondati da
un’aura di pregiudizio43. Le strategie adottate dall’autore, per altro, si
sposavano perfettamente con la posizione politica palesata, in quegli
anni, da “La Follia di New York”44 – sulle cui pagine è stato pubblica-
to gran parte del suo lavoro –, quella, cioè, di contrastare gli argomen-
ti razziali del dibattito pubblico che portarono alle politiche di restri-
zione dell’immigrazione45. Nelle sue trame, i fatti di cronaca italiana e
internazionale, che dipingono il difficile travaglio dell’immigrazione
italiana negli Stati Uniti, si mescolano con altri urgenti problemi so-
ciali e politici di quegli anni: le agitazioni operaie, i processi anarchici,
la guerra ispano-americana del 1898, la Grande guerra.
Nella volontà di opporsi tenacemente agli stereotipi attribuiti agli
italiani, Ciambelli presenta il suo Petrosino come un eroe senza mac-
chia e senza paura che scova e punisce quei delinquenti che infanga-
no il buon nome dei connazionali emigrati negli Stati Uniti per cercar
fortuna46. «Petrosino non è soltanto l’incorruttibile bastione della le-
galità, ma anche l’uomo buono e il tenerissimo padre di famiglia che
sa capire il travaglio dei propri connazionali, di quella povera gente

42
  Cfr. Martino Marazzi, Voices of Italian America. A History of Early Italian American
Literature with a Critical Anthology, trans. by Ann Goldstein, New York, Fordham
University Press, 2012 [first ed. 2004], p. 28.
43
  Cfr. Dwight C. Smith jr., The Mafia Mystique, New York, Basic Books, 1975, p. 49.
44
  Il periodico di indirizzo politico, letterario e satirico, è stato fondato nel 1893 da
Riccardo Cordifero e Marziale Sicca.
45
  Cfr. Francesco Durante. Bernardino Ciambelli. A Story, Sketches and a Play, in France-
sco Durante, Robert Viscusi, Anthony Julien Tamburri, (a cura di), Italoamericana: 2.
Storia e letteratura degli Italiani negli Stati Uniti 1840-1943, Milano, Mondadori, 2005,
pp. 167-174, part. p. 170.
46
  Cfr. Marina Cacioppo, “If the Sidewalks of These Streets Could Talk”. Reinventing Ita-
lia-American Ethnicity. The Representation and Construction of Ethnic in Italia-American
Literature, Torino, Otto Editore, 2005, pp. 25-31.

126
Gli emigranti raccontano: Stati Uniti o il “sogno a stelle e strisce”

esposta, in un teatro tanto più grande del suo limitato orizzonte tra-
dizionale, a tutti i rischi di una ardua integrazione»47.
Sullo stesso e impegnato filone si muovono anche i numerosi la-
vori teatrali scritti e messi in scena, spesso con la sua stessa parteci-
pazione in veste di attore, da Bernardino Ciambelli. Di questi testi,
rimasti inediti, poco si sa se non per le numerose recensioni e per
gli altrettanto numerosi annunci rinvenibili sulle colonne dei giornali
statunitensi dell’epoca che lasciano trasparire l’insistenza dell’autore
sugli scottanti temi trattati anche nella produzione narrativa48.
Sodale e seguace di Ciambelli è Italo Stanco. Decisamente più colto
del primo, Italo Stanco (pseudonimo di Ettore Moffa) è un molisano
nato a Riccia e trasferitosi negli Stati Uniti nel 1909 all’età di ventitré
anni. Anch’egli giornalista si dedicò, oltre che alla scrittura narrativa,
alle traduzioni dal francese, dallo spagnolo e dall’inglese, di alcuni
testi seriali ma anche di versi dialettali italiani che offrì in traduzione
italiana49 e fu, anche prima del suo trasferimento negli Stati Uniti, un
abile versificatore (Bandiere della miseria) e un critico attento (La Penna
italiana: breve saggio critico; La Penna italiana. Paralipomeni). Seguendo
le tracce del suo predecessore, i suoi misteri50 palesano spesso un tono
folkloristico mentre, nella volontà di lasciar trapelare un presunto
“impegno” intellettuale, l’autore si lascia andare a giudizi assolutori
sulla criminalità italiana, e persino a tinteggiare le sue trame con ope-
razioni di spionaggio o con attentati terroristici. Anche in questo caso,
l’investigatore-eroe delle sue detective stories, James Forley (Giacomo
Forlì) della polizia di New York, è tratto dalla realtà e, ancora una vol-
ta, si tratta di un uomo retto che, immedesimandosi nei problemi che
affliggono le Little Italies, cerca, se non di giustificare, quanto meno
di provare a capire le cause alla base dei crimini sui quali si trova ad
investigare.

47
  Francesco Durante, Petrosino o l’Omero di Mulberry Street, in Bernardino Ciambelli,
Il martire del dovere, ovvero Giuseppe Petrosino, dramma in quattro atti, a cura di Fran-
cesco Durante, Napoli, Tullio Pironti editore, 2009, pp. 5-25, p. 21.
48
  Cfr. ivi, p. 6.
49
  Cfr., a titolo di esempio, Giovanni De Rosalia, Amuri chi chianci… versi siciliani,
New York, Tipografia editrice L. Scarlino, 1923.
50
  Il diavolo biondo, New York, Nicoletti Bros, 1916; I Relitti d’oro, in “La Follia di New
York”, 26 September 1915-9 December 1917; Le piovre di New York [1925-1926], in “La
Follia di New York”, 1 October 1944-1 November 1949.

127
Con biglietto di andata

Garibaldi Marto Lapolla, nato a Rapolla, in provincia di Potenza,


nel 1888, emigra negli Stati Uniti all’età di due anni. Insegnante, au-
tore di manuali scolastici di Lingua e di Letteratura inglese, poeta,
narratore e drammaturgo, e uno dei primi Italiani a comporre testi in
lingua inglese, è autore di tre romanzi, apparsi in rapida successione
nella prima metà degli anni Trenta, The Fire in the Flesh, Miss Rollins in
Love, e The Grand Gennaro51, tutti incentrati sulla comunità italo-ame-
ricana di Harlem, l’ultimo dei quali, The Grand Gennaro, è certamente
una delle prove più convincenti sul piano della maturità stilistica e
letteraria. Il romanzo, che potrebbe essere definito come squisita-
mente tardo-verista, presenta un quadro dell’incontro/scontro tra la
cultura tradizionale dell’Italia meridionale e la modernità america-
na. Meno noto è certamente il fatto che all’interno della produzione
narrativa dell’autore si possa annoverare anche una short story nel
genere poliziesco: The Madonna’s Crime52. Nel testo il capitano di po-
lizia Sorly è incaricato di investigare su un delitto misterioso che ha
luogo ad Harlem ai danni di un immigrato italiano, Bardo Naldi. A
rendere più complicate le indagini è la stessa comunità di italiani che
interrogati dagli investigatori, ostentano la più classica delle omertà:
«They knew nothing, had heard no noises, seen no strange person»
(p. 2). Tutti sono sospettati di aver commesso l’omicidio, o quanto
meno di esserne complici, e il caso è dichiarato ufficialmente chiuso e
«[…] placed among the growing number of crimes committed by the
increasing number of the new-type brewers and distillers» (p. 9). L’e-
nigma della morte di Bardo Naldi sarà invece sciolto, poi, senza alcun
intervento della polizia, grazie a Don Matteo, inviato dall’Italia con
il compito di risolvere il caso. La conoscenza del sostrato culturale
all’interno del quale il crimine viene commesso è essenziale, dunque,
per il buon fine delle indagini.
Così come Lapolla, Louis Forgione è autore di tre romanzi, incar-
dinati nella realtà italo-americana degli immigrati, di cui due sono
incentrati sulla difficile integrazione tra le due culture: Reamer Lou53;

51
  The Fire in the Flesh, New York, Vanguard Press, 1931; Miss Rollins in Love, New
York, Vanguard Press, 1932; The Grand Gennaro, New York, Vanguard Press, 1935.
52
  The Madonna’s Crime, Philadelphia, Balch Institute for Ethnic Studies, s.d.
53
  New York, E. P. Dutton, 1924.

128
Gli emigranti raccontano: Stati Uniti o il “sogno a stelle e strisce”

The River Between54. Reamer Lou, ad esempio, si apre con l’afferma-


zione del narratore «I have always considered myself a sort of half-
and-half foreigner, though I was born and brought up in America»
(p. 1); un’affermazione a cui farà eco, quasi in chiusura di romanzo,
una seconda: «I’ve always lived among those immirants who fell or,
at best, made no progress» (p. 258). In The River Between, Demetrio,
un contrabbandiere originario dell’isola di Vulcano che fugge negli
Stati Uniti dove riciclerà, con enorme successo, il denaro illecitamente
guadagnato nel settore dell’edilizia, non riuscirà poi ad integrarsi,
come del resto farà il figlio Oreste, finendo per distruggere la fami-
glia. Ma è il terzo dei suoi romanzi, The Men of Silence55, il testo che
più ci interessa ai fini del nostro discorso, dal momento che rientra
pienamente nel genere dei misteri. Con questo testo, Louis Forgio-
ne intende celebrare – come egli stesso dichiara nella prefazione – il
funerale della Camorra napoletana (cfr. p. XII) mettendo in scena la
condanna a trent’anni di incarcerazione, grazie all’infaticabile lavoro
portato avanti dai carabinieri, di uno dei suoi leaders nel corso del
processo tenuto a Viterbo tra il 1911 e il 1912. Si tratta di Enrico Alfano
– considerato il capo dell’organizzazione camorristica e sospettato di
essere, se non il vero mandante, quantomeno implicato nell’omicidio
Petrosino – che viene processato a Viterbo con l’accusa di omicidio
commesso, il 6 giugno del 1906, nei confronti di Gennaro Cuocolo e
della moglie sospettati, entrambi, di essere informatori della polizia.
Dopo l’omicidio, Alfano era riuscito a fuggire dall’Italia con un falso
passaporto nascondendosi tra i membri dell’equipaggio di una nave
di rotta per gli Stati Uniti. Una volta a New York, egli si era unito alle
organizzazioni criminali assumendo il ruolo di leader e diventando
uno degli obiettivi dell’ispettore Joe Petrosino che riesce ad arrestarlo
per poi estradarlo ed affidarlo nelle mani della polizia italiana. Petro-
sino riesce a scovare il malavitoso grazie alla sua rete di informatori
dimostrando, ancora una volta, che la comunità italo-americana non
è a favore delle organizzazioni criminali e che, al contrario, è pronta
a favorire la loro destabilizzazione al fine di creare un futuro basato
sulla legalità e il rispetto dei valori statunitensi. The Men of Silence è

54
  New York, E. P. Dutton, 1928.
55
  New York, E. P. Dutton, 1928.

129
Con biglietto di andata

costruito a partire dalle registrazioni degli atti del processo e dagli


articoli di cronaca pubblicati sul “New York Times” dal corrispon-
dente Walter Littlefield che aveva, in quegli anni, seguito il caso. La
Camorra viene qui descritta come un’organizzazione tentacolare56
capace di infiltrarsi persino tra le fila delle forze dell’ordine e della
magistratura57.
Ancora intorno agli anni Trenta del XX secolo, altri italo-ameri-
cani proseguiranno sulla strada tracciata dal Ciambelli dando vita a
testi strutturati sul genere detective fiction all’interno dei quali, con-
tinuando a confrontarsi con gli stereotipi sulla Mafia, prenderanno
vita nuove figure di poliziotti italiani impegnati a difendere i valori
morali della comunità italiana. Particolarmente interessante a questo
proposito risulta il sodalizio letterario costituito dal binomio Michele
o Michael Fiaschetti e Prosper Buranelli58. Ci si trova, in questo caso,
di fronte ad una tipologia autoriale del tutto particolare. Com’è ben
noto, infatti, Michael Fiaschetti, romano di nascita ma giunto negli
Stati Uniti nella prima infanzia, fu un poliziotto in forza al New York
Police Department, che nel 1909, a seguito della morte di Joe Petrosi-
no gli fu successore assumendo la direzione, fino al 1924, dell’Italian
Squad. Una volta in quiescenza Fiaschetti mise su un’agenzia di inve-
stigazione privata e ricevette, nel 1937 da Fiorello La Guardia – allora
sindaco di New York – l’incarico di investigare sui commerci illegali.
A partire dalla fine degli anni Venti decide di raccontare alcune delle
sue esperienze in numerose detective stories che daranno vita al te-
sto seriale The Man They Couldn’t Escape: The Adventures of detective
Fiaschetti of The Italian Squad59. L’opera, apparsa in un primo tempo
a firma di Buranelli, comparirà in lingua italiana con il titolo Le spie
e i confidenti sul “Corriere d’America” in trentanove puntate, tra il 5
maggio e il 14 giugno del 1929, e di nuovo in volume nel 1930 con il

56
  «It had spread tentacles everywhere, taking tribute from every shopkeeper, ped-
dler, dock worker, smuggler, thief, and gutter bird in Naples and the surrunding
towns» (p. 22).
57
  «The Camorra venom had been infused through the departement of justice and
interior pratically to the very top» (p. 73).
58
  Giornalista, esperto di cronaca nera e inventore per la stampa newyorkese di pa-
role crociate, fu autore, a sua volta, di tre detective stories apparse sul “Harper’s
Magazine” (1921, 1922, 1923) nonché co-autore dei testi di Thomas Lowell.
59
  London, Selwyn & Blount, 1928.

130
Gli emigranti raccontano: Stati Uniti o il “sogno a stelle e strisce”

titolo You Gotta Be Rough: The Adventures of Detective Fiaschetti of the


Italian Squad as Told to Prosper Buranelli by Michael Fiaschetti60 firma-
to di nuovo da Prosper Buranelli; poi ancora nella recente versione
italiana curata da Martino Marazzi con il titolo Gioco duro61. Come
si evince si tratta di una vicenda editoriale a dir poco ingarbugliata:
«[…] nonostante, o forse proprio, a causa dell’estrema attualità gior-
nalistica, editoriale e di costume, di queste pagine, noi non siamo in
grado di indicarne con assoluta certezza la paternità e la lingua di
partenza»62. Sembra indubbio, tuttavia, che Fiaschetti conoscesse la
lingua italiana ma è poi altresì vero che i testi non si presentano come
identici neppure se si tengono in considerazione soltanto le versioni
vergate nella stessa lingua.
Il Michael Fiaschetti che prende vita nel testo è, esattamente come
il suo predecessore reale e fittizio Petrosino, un poliziotto italo-ame-
ricano che si trova a dover risolvere casi di crimini complicati dalla
pratica dell’omertà presentata come un atteggiamento dettato dalla
paura, più che dalla complicità, e, ancora una volta, come scelta ne-
cessaria di fronte all’assenza di qualsiasi forma di protezione offerta
ai collaboratori da parte dello Stato. Fiaschetti, investigatore abilissi-
mo ma non superuomo63, è presentato alla società americana come
un eroe capace di sovvertire gli stereotipi e di mostrare il vero volto
della comunità italiana di fronte al crimine. La profonda conoscenza
della cultura degli immigrati italiani e la sua capacità di accattivarsi
la fiducia degli informatori gli consentono di risolvere, come i suoi
colleghi americani non avrebbero potuto fare, i casi su cui indaga.
Negli stessi anni si sviluppa una consistente vena comico-satirica che
prende vita nella interpretazione farsistica e musicale dello spettacolo
popolare. Gli autori sfruttano la tradizione, soprattutto napoletana, della

60
  New York, Doubleday, 1930.
61
  a cura di Martino Marazzi, Cava de’ Tirreni, Avagliano Editore, 2013.
62
  Dall’introduzione di Martino Marazzi, ivi, p. 6.
63
  «Lo ripeto, ai miracoli di Sherlock Holmes io non ci credo […] Diamine! Ma quel
altro detective d’oggigiorno potrebbe non dirò possedere, ma aspirare a possedere
la cultura enciclopedica di quel personaggio prodigioso […] uscito dalla fantasia
del grande scrittore inglese, Conan Doyle? Quale sorpresa se costui era un grande
poliziotto? Ma anche in queste circostanze, dico e sostengo che Sherlock Holmes
per essere vero e verosimile, doveva poter contare anche e principalmente sopra
una buona legione di informatori» (2013, pp. 42-43).

131
Con biglietto di andata

“macchietta” che mette in scena il prototipo autoironico degli immigra-


ti italiani in terra statunitense. La dura realtà traspare solo in filigrana,
mentre viene fuori, in modo prepotente e canzonatorio, la figura dell’im-
migrato italiano vittima di un sistema. Esponente esemplare di questo
genere è Eduardo Migliaccio, in arte Farfariello, istrionico uomo-ma-
schera, che, con i suoi sketch cantati o recitati, dai café-chantant della East
Coast, alla radio e al cinema, ha rappresentato, almeno fino agli anni
Quaranta, un punto di riferimento per il popolo emigrato.
Sempre nel genere teatrale, in epoca assai più recente, il teatro ita-
lo-americano mostra una decisa inversione di rotta che vira verso l’im-
pegno sociale. In questo contesto - e limitandoci ancora volta a proporre
soltanto un esempio all’interno di una produzione variegata -, si ascrive
la maggiore produzione di Theresa Carilli. La sua scrittura drammatur-
gica va interpretata a partire dal contesto politico-culturale in cui le sue
pièces vennero rappresentate. Il suo fu un compito arduo perché dovet-
te anche trovare il modo di far accettare alla società americana il tema
dell’omosessualità. La sua Dolores Street64 è ambientata a San Francisco e
si incentra sulle vite di quattro coinquiline: Lonnie, Danielle, Fran e Wen-
dy. Ogni donna porta in scena un monologo nel quale rivela importanti
dettagli della propria personalità. Mettendo contestualmente in scena le
difficoltà del processo di integrazione, la Carilli mostra un volto diverso
dell’America. Il messaggio finale è quello di un auspicio affinché, come
la California è capace di accettare il “diverso-omosessuale”, gli Stati Uni-
ti, tutti, possano aprire le braccia a tutti gli emigrati.
Altro ambito in cui si cimentarono i nostri connazionali è quello po-
etico, coltivato con caparbia da uno stuolo di versificatori, spesso auto-
didatti, per i quali la fedeltà o il richiamo ai fasti e ai modi della grande
tradizione italiana (da Dante a Tasso a Pascoli) fungeva da garanzia di
riconoscimento all’esterno. Uno dei migliori poeti della prima genera-
zione è certamente Antonio Calitri65. Partito per New York nel 1900, si
fece interprete del conflittuale dialogo tra gli immigrati, portatori e tena-

  Cfr. Theresa Carilli, Women as Lovers, Two Plays, Toronto, Guernica, 1996.
64

  Nato a Panni, nel 1875, morì a Lawrence nel Massachusetts nel 1954. Insegnò Italiano
65

nelle scuole, fu collaboratore di alcune testate giornalistiche. Nel corso della sua carrie-
ra di educatore diede vita ad alcuni periodici (fra cui “Il Convito” fondato nel 1926) e
scrisse alcuni bozzetti drammatici ad uso dei suoi allievi. Profondo conoscitore della
Letteratura, non solo italiana e statunitense, fu anche traduttore di Shelley (1914).

132
Gli emigranti raccontano: Stati Uniti o il “sogno a stelle e strisce”

ci guardiani di una cultura radicata nella tradizione italiana, e le seconde


generazioni, decisamente più attratte dalla modernità americana nella
quale cercavano di fondersi nel tentativo di celare le proprie origini. L’o-
biettivo di Calitri fu proprio quello di riuscire a farsi mediatore fra queste
polarità, soprattutto nei confronti dei più giovani; un obiettivo persegui-
to con successo anche attraverso la sua opera di educatore66. Il suo de-
butto letterario è legato ai versi de Il cantoniere, una lirica per la quale gli
fu conferito, nel 1909, un premio di poesia bandito dal periodico “L’Aral-
do Italiano”. Altro esponente della poesia italoamericana dell’inizio del
Novecento è Arturo Giovannitti che, convinto antifascista, fu incarcerato
con l’accusa di essere responsabile della morte di una giovane operaia
nel corso delle manifestazioni che ebbero luogo in occasione del grande
sciopero di Lawrence nel Massachusetts nel 1912. Il suo maggiore merito
fu quello di riuscire a farsi portavoce delle amarezze avvertite dalla co-
munità italiana per i soprusi subiti67.
Intorno agli anni Venti, la vena realistica va orientandosi verso
una tendenza decisamente più mondana e sentimentale che, a dispet-
to dell’etichetta semplicistica assegnatale, insiste sul trauma sociale e
individuale insito nel processo di assimilazione degli immigrati. Tra i
rappresentanti di questa corrente, oltre alle già citate Caterina Maria
Avella e Dora Colonna, va ricordato, tra gli altri, quel Paolo Pallavi-
cini-Pirovano68 che, sullo sfondo di intrighi e passioni, rappresenta il
dramma dei giovani di seconda generazione dimidiati tra il senso di
appartenenza alle radici italiane e la volontà di integrazione all’inter-
no di una società dalla quale si sentono discriminati. Nelle sue opere
si alternano toni di acceso nazionalismo69, problemi di integrazione
degli emigrati70, discriminazioni subite71. 

66
  A questo proposito sono altresì da ricordare i nomi di Angelo Patri e Leonard Covello.
67
  Un buon profilo dell’autore è tracciato da Martino Marazzi: L’isola di Arturo: Intro-
duzione a Giovannitti, in Id., A occhi aperti. Letteratura dell’emigrazione e mito americano,
Milano, FrancoAngeli, 2011, pp. 153-168.
68
  Trasferitosi negli Stati Uniti nel 1908, fu giornalista, drammaturgo e narratore.
69
  Cfr. La Guerra Italo-Austriaca (1915-1919), New York, Società Libraria Italiana,1919.
70
  Cfr. Tutto il dolore, tutto l’amore, San Francisco, L’Italia Press Company, 1926 [poi,
Milano, Sonzogno, 1937], ambientato fra gli immigrati liguri e siciliani di San Fran-
cisco.
71
  Cfr. L’amante delle Tre Croci, seguito a Per le vie del mondo, San Francisco, L’Italia Press
Company, 1926 (poi con il titolo Per le vie del mondo, Milano Sonzogno, 1933), appar-

133
Con biglietto di andata

Il realismo delle opere italoamericane della “prima ora” presen-


ta, fin dai primi anni del Novecento, e lungo l’intero arco del primo
ventennio, anche risvolti di impegno critico e sociale. È il caso, fra
gli altri, delle opere di stampo memorialistico approntate da Camil-
lo Cianfara72, Ludovico Michele Caminita73 e Carlo Tresca74. Camillo
Cianfara nel suo Diario di un Emigrato75 – che, per altro verso, potreb-
be essere considerato come la confessione del fallimento del sogno
e delle aspettative dell’emigrante – condanna con piglio risoluto,
pur aprendo nel testo spiragli di speranza per un futuro migliore, lo
spietato istituto della ‘bossatura’ con il quale venivano sfruttati gli
emigrati da poco giunti sul suolo statunitense: «[...] di questa unità
noi saremo una frazione domani e cominceremo a far sentire il no-
stro peso, il peso di una razza sana e forte, nel cui sangue operano
da infinite generazioni, le tendenze e le inclinazioni che un giorno la
fecero gloriosa»76. Decisamente meno tagliente è la lettura offerta da
Ludovico Michele Caminita che nel suo Nell’isola delle lagrime: Ellis
Island77 non raggiunge mai toni aspri – forse per ragioni di opportuni-
tà o forse per un sincero cambiamento di opinioni rispetto al suo cre-

so prima in appendice; romanzo fiume, tra rosa e giallo, sulla vicenda di lavoratori
italiani accusati ingiustamente di aver commesso un delitto. Lo stile del romanzo è
tendenzialmente paratattico, con frequenti dialoghi non privi di fenomeni di con-
tatto linguistico con l’inglese.
72
  Giornalista, direttore di numerose testate e ispettore del lavoro.
73
  Nato nel 1887 e attivo fino al 1943 (non si hanno notizie certe della data della sua
morte che dovrebbe essere intervenuta intorno alla metà degli anni Cinquanta),
palermitano, giornalista, da principio anarchico, fu intelletto eclettico: narratore,
drammaturgo, caricaturista, romanziere. A partire dagli anni Venti, ritrattò il suo
anarchismo e prestò volentieri la sua penna anche a testate commerciali. Sulla fi-
gura del Caminita, cfr. Stefano Luconi, Not Only “A Tavola”: Radio Broadcasting and
Pattens of Ethnic Consumption Among Italian Americans in the Interwars Years, in Edvi-
ge Giunta and Samuel J. Patti (eds.), A Tavola. Food, Tradition and Community Among
Italian Americans, Staten Island, American Italian Historical Association, 1998, pp.
58-67; Id., La “diplomazia parallela”. Il regime fascista e la mobilitazione politica degli ita-
lo-americani, Milano, FrancoAngeli, 2000; Martino Marazzi, Lacrime e libertà. Profilo
di Ludovico Michele Caminita, in Id., A occhi aperti, cit., pp. 178-193.
74
  Arrivato negli Stati Uniti nel 1904, fu autore di temuti fondi pubblicati sul “Mar-
tello” e di drammi antifascisti.
75
  New York, Tipografia dell’Araldo italiano, 1904.
76
  Ivi, p. 99.
77
  New York, Stabilimento Tipografico Italia, 1924.

134
Gli emigranti raccontano: Stati Uniti o il “sogno a stelle e strisce”

do anarchico –, pur ripercorrendo la propria sconcertante esperienza


carceraria che assurge nel testo al valore di esemplificativa vicenda
persecutoria nei confronti di una comunità. Decisamente più vibrante
risuona la voce dell’attivista politico e sociale Carlo Tresca che nella
sua Autobiography78, redatta in lingua inglese, presenta un ampio af-
fresco della società americana di quegli anni79.
La necessità di esprimersi in inglese avvertita dalla seconda gene-
razione – favorita, in questo, dall’istruzione generalmente acquisita in
loco – rende non solo le opere letterarie accessibili ad una più ampia
fascia di pubblico, ma dimostra anche il desiderio di essere riconosciuti
all’interno della comunità letteraria americana80. In alcuni casi la lin-
gua inglese è utilizzata anche da immigrati di prima generazione, qua-
si sempre autodidatti, che sentono l’esigenza di raccontare la propria
esperienze per fissarne, con valore esemplificativo, la memoria in un
testo narrativo81. È il caso, fra gli altri, di Costantine Panunzio82 che,
nell’autobiografia The Soul of an Immigrant – mettendo a nudo il proprio
percorso di self-made-man –, intende mostrare la possibile via di un pro-
cesso di assimilazione all’interno della società statunitense.
Il primo testo in lingua inglese vergato dai nostri emigranti che
possa fregiarsi di essere definito come letterario è probabilmente Son
of Italy83 di Pascal D’Angelo, autore autodidatta che quando arrivò
negli Stati Uniti sapeva appena scrivere l’italiano. Pascal (Pasqua-
le) D’Angelo nasce a Cauze, piccola frazione di Introdacqua della
provincia de L’Aquila, il 20 gennaio 1894, da una famiglia di poveri
contadini. Frequenta la scuola elementare con discontinuità e con-
temporaneamente aiuta i genitori nei lavori agricoli. Nel 1910 emigra

78
  Dattiloscritto inedito, Special Collections, New York, Public Library. L’opera incom-
piuta, presenta 34 capitoli che coprono l’arco temporale che va dal 1895 fino al 1915.
79
  Cfr. Martino Marazzi, I misteri di Little Italy, cit., pp. 32-33.
80
  Cfr. ivi, p. 224.
81
  Cfr. William Boelhower, Immigrant Autobiography in the United States: Four Versions of
the Italian-American Self, Venezia, Essedue Edizioni, 1982; G. Thomas Couser, American
Autobiography: The Prospetic Mode, Amherst, University of Massachussetts Press, 1989.
82
  Nato sulle rive dell’Adriatico da una famiglia della buona borghesia, arriva negli
Stati Uniti nel 1902 seguendo al sua passione per il mare. Le vicende che accom-
pagnarono la sua avventura fino all’ottenimento della cattedra di Sociologia sono
raccontate nel suo Soul of an Immigrant, New York, Macmillan Company, 1921.
83
  New York, Guernica editions, 1924.

135
Con biglietto di andata

negli Stati Uniti assieme al padre. Padre e figlio, insieme ad un grup-


po di altri italiani, si impiegano come manovali nei cantieri edili. Le
condizioni di vita restano comunque difficili, né ci sono prospettive
di miglioramento. Nel 1915 il padre decide di tornare a casa, men-
tre Pascal, fiducioso nella possibilità di riscatto, decide di rimanere.
Nel 1918 si stabilisce a New York dove lavora come manovale in uno
scalo ferroviario; nel frattempo decide di studiare la lingua inglese,
da autodidatta, si appassiona alla musica e alla poesia, in particolare
a quella romantica di Percy B. Shelley e di John Keats. È così che,
nella sua misera abitazione a Brooklyn, inizia a comporre versi che
invia alle redazioni di giornali con la vana speranza di vederli pub-
blicati; non si scoraggia, e con perseveranza continua a lottare per
vedere avverarsi il sogno di diventare poeta. Decide di partecipare
ad un concorso letterario indetto da “The Nation”, diretto da Carl
Van Doren, uno dei più autorevoli critici letterari statunitensi. Non
ricevendo alcuna risposta in merito alla sua partecipazione, spedisce
una brillante e commovente lettera al direttore: i due si incontrano e,
nel 1922, Pascal non solo risulta vincitore, ma viene aiutato da Van
Doren a pubblicare le sue poesie su numerose altre riviste letterarie
italoamericane quali “The Bookman”, “Century, Current Opinion”,
“Literary Digest”, “The New York Tribune”, “The Measure”, “The Li-
berator”, “Il Popolo”, “Bollettino della sera”, “The Saturday of Litera-
ture” e “The Springfield Republican”84. Nel 1924 l’editore MacMillan
di NewYork accetta di pubblicare l’autobiografia con prefazione di
Carl Van Doren; è il momento più alto della sua carriera di scrittore.
Son of Italy è probabilmente il primo testo dell’epoca che va al
di là della semplice testimonianza assumendo una valenza lettera-
ria85, seppur con qualche riserva: appartiene infatti a quello che gli
storici chiamano «caso letterario»86. Il volume raccoglie subito molti
consensi, ma nonostante i numerosi interventi di critica su periodici
statunitensi e europei, Pascal continua a lavorare come manovale e,
nei momenti liberi, frequenta la Public Library di New York. Un paio

84
  Cfr. Luigi Fontanella, Autobiografia e letteratura: il caso di Pascal D’Angelo, in Id., La
parola transfuga. Scrittori italiani in America, Fiesole, Cadmo, 2003, pp. 43-80.
85
  Cfr. Fred L. Gardaphé, Italian Signs, American Streets: The Evolution of Italian Ameri-
can narrative, Durham NC, Duke UP, 1995, pp. 37-47.
86
  Fontanella, Autobiografia e letteratura, cit., p. 47.

136
Gli emigranti raccontano: Stati Uniti o il “sogno a stelle e strisce”

di anni dopo l’uscita del romanzo, D’Angelo decide di dedicarsi in-


teramente allo studio accettando soltanto piccoli lavori saltuari per
assicurarsi la sopravvivenza. Morirà in solitudine e in povertà nel
1932 presso il Kings Country Hospital di Brooklyn per un’occlusione
intestinale, dopo un lungo periodo di sofferenza. Ammiratori e amici
si occupano delle spese del funerale e della sepoltura. Nonostante il
primo immediato successo, l’opera perde di interesse per la critica
che la considera solo come un testo di un ethnic writer, quindi come
“sottoprodotto” letterario. Soltanto in anni più recenti è stata fondata
la “D’Angelo Society” con lo scopo di incentivare e premiare le opere
di giovani talenti. Nel 2001 è stato costituito il “Centro Studi Pascal
D’Angelo”, che, tra le altre cose, si occupa del fenomeno della migra-
zione. Ad Introdacqua, gli è stato dedicato il Museo Regionale dell’E-
migrazione; a Mercato San Severino, un piccolo comune in provincia
di Salerno, ha sede il “Centro Studi per la letteratura d’emigrazione
Pascal D’Angelo” collegato alla piccola casa editrice “il Grappolo”,
che è stata l’unica a pubblicare in Italia la sua autobiografia nel 1999.
È nel Nuovo Mondo, nella sua misera catapecchia di Brooklyn,
nelle sale della Public Library di New York che nasce in lui l’esigenza
di scrivere. La certezza della sua vocazione scatta mentre assiste alla
rappresentazione dell’Aida di Verdi presso la Sheepshead Bay:

And there in the middle of the confusion that attended the perfor-
mance […] alla at once I felt myself being driven toward a goal. For
there was revealed to me beauty, which I had been instinctively fol-
lowing, in spite of my grotesque jokes and farces (p. 149).

Son of Italy aggiunge una nota nuova alla solita elaborazione memo-
riale che accompagna le esperienze migratorie: l’Italia ha mandato in
America non un semplice bracciante ma un figlio di quella grande tra-
dizione culturale che, per secoli, ha permesso al nostro paese di essere
definito la “culla della cultura”. L’opera si compone di quindici capi-
toli, i primi cinque ambientati in Italia e gli altri in America. Alla prosa
autobiografica si aggiungono otto poesie che suggellano altrettanti mo-
menti particolarmente significativi della storia, fungendo da testamen-
to e ricordo sempre vivido di un’esistenza in cerca di riscatto87.

87
  Cfr. Robert Viscusi, Son of Italy: Immigrant Ambitions and American Literature, “ME-
LUS”, vol. 28, 3, Italian American Literature, Autumn 2003, pp. 41-54.

137
Con biglietto di andata

Secondo Luigi Fontanella, che ha studiato a fondo l’opera di Pa-


scal D’Angelo e che nel 2001 ha raccolto le sue poesie nel volume
Canti di luce88:

La poesia di D’Angelo [è] un inno alla bellezza, al desiderio di infini-


to, all’ideale, alla splenetica rêverie, ma senza che il poeta dimentichi
mai, nemmeno per un momento, la sua condizione di emigrato e la
conseguente, titanica lotta per la sopravvivenza […] Le poesie di Pas-
cal D’angelo sono dominate dal buio e dalla luce: non poche di esse
offrono quest’ultima perfino come titolo referenziale. Ed è possibile
che la luce sia da collegarsi, inconsciamente, anche con le vivide rem-
iniscenze infantili ed ancestrali delle sue montagne abruzzesi […]. Ed
è proprio questa vivida essenza luminosa, mista a una sorta di grazia
aerea, con squarci di delicata visionarietà, a “compensare” la vortico-
sa, disumana fatica che nessuno dei nostri poeti emigrati, […] riuscì
con tale partecipata immedesimazione a ritrarre in versi di suggesti-
vo, prensile onirismo89.

In Son of Italy la narrazione è condotta dal punto di vista del prota-


gonista, ma spesso al pronome di prima persona singolare “I”, l’auto-
re alterna il pronome di prima persona plurale “we” per sottolineare
il carattere collettivo del suo racconto: il pronome compare sia quan-
do descrive la comunità e il paese natìo dei suoi ricordi sia quando
racconta del momento dell’emigrazione con il padre («Otherwhise
we will never get out of this quicksand» p. 47); lo stesso accade per le
vicende vissute col gruppo di compaesani che parte insieme a loro,
perché:

Our people have to emigrate. […] We feel tied up there. Every bit of
cultivable soil is owned by those fortunate few who lord over us. Be-
fore spring comes into our valley all the obtainable land is rented out
or given to the peasants for a season under usurious conditions […].
The man who worked the land and bought even seeds and manure
would only get one-fifth of the harvest, while the owner who merely
allowed him to use the land would receive four-fifths (p. 48).

88
  Salerno, il Grappolo, 2001.
89
  Fontanella, La parola transfuga, cit. p. 61-62.

138
Gli emigranti raccontano: Stati Uniti o il “sogno a stelle e strisce”

Emigrare significa andare in America, una terra che, in base ai rac-


conti affascinanti di chi era già andato, sembra essere un luogo mera-
viglioso che offre possibilità concrete di una vita migliore:

And what is it that saves the man and keeps him from being ground
under the hard power of necessity? The New World! [...] Previously,
there was no escape; […] But now there was escape from the rich land-
owners, from the terrors of drought, from the spectre of starvation, in
the boundless Americas out of which at times people returded with
fabulous tales and thousands of liras – riches unhears of before among
peasants (pp. 48-49).

Quando il padre malato e scoraggiato, dopo cinque anni di lavoro


improduttivo, decide di tornare a casa in Italia, il gruppo si disperde.
È a partire da questo momento che la narrazione prosegue definiti-
vamente in prima persona e si avverte maggiormente il senso di sfi-
da tra il protagonista e il mondo esterno. La fabula scorre lineare, se-
guendo un ordine cronologico che va dall’infanzia al momento della
pubblicazione dell’opera. Il testo, che prende avvio dai luoghi dell’in-
fanzia dell’autore descritti come arcaici – un piccolo cosmo racchiuso
entro le opposizioni cielo/terra, luce/oscurità90, sovrastato dalla ma-
estosa montagna della Maiella che non è solo un monte importante,
ma è considerata madre della piccola comunità di Introdacqua – si
apre con un ricordo d’infanzia, uno dei pochi che gli siano rimasti
impressi, poiché tutto il resto è metaforicamente descritto come «a
vast expanse of mist that gives no light to any early events» (p. 7).
Sin da subito il narratore mostra le condizioni di povertà che hanno
caratterizzato la sua infanzia:

the hamlet where I was born on January 20, 1894, is comprised of a


small group of stone houses near Introdacqua and not very far from
the old walled city of Sulmona [...] the garret has no window and the
only light that came in was what penetrated through the cracks of
the tile roof. […] This garret was divided in two unequal parts. The
largest in front where the roof descended very low was filled with
firewood. In the small center part was the bed on which my mother,

90
  Cfr. Boelhower, Immigrant Autobiography in the United States, cit., p. 103.

139
Con biglietto di andata

my father, my brother and I slept. A very narrow bed it was. Almost


every night I fell […]. The reason for these falls was my being laid
asleep beneath my mother’s and father’s feet […], they push me off
the bed […] One night […] I suddenly awoke with a cry […] A heavy
patter of down-pouring rain was sweeping the rustic tile roof above
our heads […] My mother gathered all her dresses and petticoats and
put them on the floor, making a little bed for me to pass the unknown
remainder of the night.
In the lower part of the house was a general living room, kitchen and
dining room. At night it was the sleeping place for the animals – the
goats and sheep which we were lucky enough to own (pp. 7, 9, 17).

A questi spazi interni, che rispecchiano la situazione di fame e po-


vertà che caratterizza questa famiglia di contadini e pastori, fanno da
contrappunto gli spazi esterni, inscritti in una dimensione mitica e
incontaminata:

Introdacqua nestles at the head of a beautiful valley whose soft green


is walled in by the great blue barrens of Monte Majella. The mother
mountain looms to the east of us and receives the full splendor of the
dawn. We are proud to call our-selves the sons of the majestic Majella
[…] Few roads run to this quiet land and the old traditions have never
entirely died out there. Below the town is the garden of Ovid with
wild roses and cool springs, and above is an ancient castle that in sum-
mer is fantastically crowned with mingling flights of wild pigeons […].
In the valley beyond are finely cultivated fields dotted with the ruins
of Italica, the capital of fierce Samnium (p. 17).

Tra le pagine conclusive del romanzo l’autore riporta la lettera


scritta a Carl Van Doren con la quale gli chiedeva di aiutarlo ad entra-
re nel mondo letterario. «Let me free! Let me free!» è il grido commo-
vente di colui che chiede di uscire dalla miseria non tanto fisica ma
intellettuale, dall’angoscia di chi non riesce a dire la sua, ma sente di
avere un ruolo importante: «Give me an opportunity […] I am a poor
worker but a rich defender of the truth» (p. 174).
Dal canto suo, Pietro Di Donato, emigrato di seconda generazione
cresciuto nel New Jersey, era figlio di un emigrato italiano che, giunto
negli USA, si impiegò nel settore edilizio, rimanendo ucciso proprio
in seguito ad un incidente su un cantiere di lavoro. La tragedia fa-

140
Gli emigranti raccontano: Stati Uniti o il “sogno a stelle e strisce”

miliare verrà sviluppata da Pietro nel suo Christ in Concrete91, il più


celebre romanzo italo-americano scritto prima della Seconda guerra
mondiale. Sebbene cronologicamente il romanzo di Di Donato non
sia, come si è visto, il primo esempio di letteratura italo-americana in
lingua inglese, viene ritenuto dalla critica il prototipo del “romanzo
americano etnico” poiché vi sono descritti, meglio che altrove, i tratti
peculiari della cultura degli emigrati italiani. Nella prefazione al ro-
manzo, Studs Terkel spiega che sebbene le opere sulle condizioni di
vita degli operai fossero, già all’epoca, considerate fuori moda, Christ
in Concrete è interessante per la presenza di riferimenti alla dura real-
tà quotidiana e per la valenza di denuncia delle condizioni a cui era-
no costretti a sottostare gli immigrati92. L’esperienza autobiografica
della vicenda narrata trascende qui, infatti, dalla vicenda individuale
per aprirsi alla volontà di incarnare il dolore di un’intera porzione
sociale. Pietro e il primo di sei fratelli; ha solo dodici anni quando
l’improvviso incidente occorso al padre lo costringe a prendere il suo
posto nel cantiere edile per sostentare la famiglia. È da questa dura
esperienza che l’autore sentirà il bisogno di elaborare il proprio lutto
e di denunciare una società crudele nell’autobiografia romanzata che
lo rese famoso. Alla morte del capofamiglia, che nel testo prende il
nome di Geremio, il figlio maggiore Paul e la vedova si recano presso
un ufficio per ottenere la pensione che, come spiega l’impiegato, non
può essere assegnata perché il defunto operaio non era un cittadino
americano (cfr. p. 53). A questo punto Paul, come effettivamente Di
Donato fu costretto a fare, dovette andare a lavorare per mantenere
la famiglia. Nel mondo lavorativo Paul rivive le stesse difficoltà, gli
stessi pregiudizi e le stesse angherie subite, a suo tempo, dal padre.
Di Donato, infatti, presenta il processo attraverso il quale la società
americana, nel romanzo esemplificata dalla construction company, di-

91
  Una prima versione del testo, in forma di short story, era stata pubblicata nel 1937
sull’“Esquire Magazine”; il testo fu, poi, ampliato e pubblicato in forma di roman-
zo: Indianapolis-New York, Bobbs-Merril, 1939. I riferimenti al testo sono tratti
dall’edizione New York, Signet Classic editor, 1993.
92
  Cfr. Margaret Reid, Built into the System: Where Protest Lies in Pietro di Donato’s
“Christ in Concrete”, in Nan Goodman and Michael P. Kramer (eds.), The Turn
Around Religion in America, Literature, Culture, and the Work of Sacvan Bercovitch, Far-
nham-Burlington, Ashgate Publishing Company, 2011, pp. 3-18.

141
Con biglietto di andata

sumanizza i lavoratori trasformandoli in bestie silenziose93. L’opera


si distingue dagli altri romanzi sulle esperienze di vita degli operai
grazie anche all’introduzione di un altro elemento “disturbante” per
il protagonista: la religione. Inizia infatti per Paul un periodo di crisi
religiosa a partire dall’incontro con padre John che risponde alla ri-
chiesta di aiuto del ragazzo offrendogli parte di una torta: l’avanzo
di una ricca cena da portare ai suoi fratelli rimasti orfani. A questo
punto Paul si sente abbandonato sia dal governo federale, che sembra
concretizzarsi solo per ciò che riguarda le carte burocratiche, sia dal-
la Chiesa e cerca una spiegazione plausibile al maltrattamento, alla
marginalizzazione di cui è vittima la comunità italiana. Non riuscen-
do a trovare alcuna risposta, fa ricadere la colpa sugli stessi immigra-
ti, come se si trattasse di qualcosa di connaturato al loro stesso essere.
Ma Paul si scaglia anche contro la credenza, tipica degli immigrati
cattolici, di accettare le condizioni di vita più misere in nome della
fede, sperando di essere premiati con il paradiso dopo la morte94.
Più romanzata appare la vena autobiografica che John Fante affida
al suo alter ego Arturo Bandini che prende vita dalle pagine di alcuni
dei suoi romanzi95.
Nato l’8 aprile 1909 a Denver, nello stato del Colorado, in seno
ad una famiglia originaria della provincia di Chieti, Fante trascorse
la sua infanzia, caratterizzata dalle difficoltà economiche della fami-
glia, a Boulder, in Colorado, ascoltando i racconti del nonno paterno
su uno zio brigante e frequentando la Regis High School, una scuo-
la diretta da Gesuiti, dove si diploma nel 1927. Dopo aver preso in
considerazione l’opportunità di diventare sacerdote, intraprende gli
studi universitari senza però ultimarli. Nel corso degli anni Trenta, si
trasferisce a Wilmington, nei pressi del porto di Los Angeles, in Ca-
lifornia; sperimenta numerosi piccoli mestieri mentre segue dei corsi
di scrittura presso l’Università di Long Beach. Nel frattempo, aveva

93
  Cfr. Kenneth Scambray, The North American Italian Renaissance: Italian Writing in
America and Canada, Toronto, Guernica editors, 2000, p. 41.
94
  Cfr. ivi, p. 42.
95
  Cfr. The Road to Los Angeles, Santa Barbara, Black Sparrow Press, 1985 (scritto nel
1935); Wait until Spring, Baldini, New York, Stackpole Sons, 1938; Ask the Dust, New
York, Stackpole Sons, 1939; Dreams of Bunker Hill, Santa Barbara, Black Sparrow
Press, 1982.

142
Gli emigranti raccontano: Stati Uniti o il “sogno a stelle e strisce”

iniziato una corrispondenza epistolare con Henry Louis Mencken,


all’epoca direttore di “The American Mercury”, la rivista letteraria e
culturale più prestigiosa del tempo che, nel 1932, gli pubblica il suo
primo racconto: Altar Boy. A questo debutto seguirà su questa ed altre
testate, la pubblicazione di altri racconti di ispirazione autobiogra-
fica96. Nel 1937 inizia a lavorare come sceneggiatore ad Hollywood,
lavoro che svolse per quarant’anni e che lo portò a collaborare con
Orson Welles e che gli permise di risolvere i problemi economici che
aveva dovuto affrontare fino a quel momento. Dopo la fase della fe-
lice vena creativa durante la quale compose la saga autobiografica,
gli anni Quaranta lo videro abbandonare la scrittura e cadere nella
spirale del gioco d’azzardo e dell’alcool. Riprese temporaneamente
l’attività letteraria negli anni Cinquanta, con il romanzo Full of Life97.
Nel 1955 si ammalò di diabete, malattia che egli trascurò fino alla
cecità e alla morte intervenuta nel 198398. Nel 1957 il suo lavoro di
sceneggiatore lo portò in Italia, dove nel 1960 lavorò con Dino De
Laurentiis. Fu in quegli anni che ritornò a dedicarsi alla scrittura di
una serie di racconti quali: The Brotherhood of the Grape, 1933 was a Bad
Year e My Dog Stupid, pubblicati postumi. Fu proprio alla fine degli
anni Settanta che, grazie a Charles Bukowski, le sue opere furono ri-
scoperte ed apprezzate. Ormai cieco per il diabete, dettò alla moglie
l’ultimo romanzo, Dreams from Bunker Hill, pubblicato nel 1982.
Arturo Bandini, il protagonista della saga autobiografica, è un
vero anti-eroe. Come il suo autore, il personaggio è un immigrato dal
carattere fortemente riottoso; aspirante scrittore alla perenne ricerca
di un editore disponibile, non soltanto a pubblicare i suoi racconti,
ma, persino, a garantirgli qualche dollaro per portare avanti la sua
misera vita. È proprio attraverso Arturo Bandini, che l’autore intra-
prende il viaggio di recupero della propria etnicità. Per comprendere
più compiutamente le tappe di questo viaggio, bisognerebbe leggere

96
  I racconti sono stati poi raccolti in volume con il titolo Dago Red, New York, Viking,
1940.
97
  Boston, Little Brown and Company, 1952. Nel 1956 dal romanzo fu tratto il film
omonimo diretto da Richard Quine con la sceneggiatura dello stesso autore.
98
  Sulla vita e sull’opera di John Fante, si rinvia tra gli altri, a Stephen Cooper, David
Fine (eds.), John Fante: A Critical Gathering, Crambury N.J., Fairleigh Dickinson Uni-
versity Press, 1999.

143
Con biglietto di andata

la saga seguendo l’ordine cronologico di composizione. Ad aprire la


serie è The Road to Los Angeles, in cui il lettore incontra il protagonista
già diciottenne: un uomo che non ha ancora varcato “la linea d’om-
bra” tra adolescenza e maturità, in continuo contrasto con il mondo
che lo circonda. È qui che Arturo progetta già di diventare scrittore
per allontanarsi dalla classe operaia alla quale appartiene. È proprio
questo il romanzo che rappresenta nella produzione romanzesca di
Fante e secondo la ripartizione di Rose Basile Green, il momento del-
la «revulsion»; è qui che è annunciata la morte del padre, momen-
to-simbolo di allontanamento dalle proprie radici italiane99.
Il successivo Wait until Spring, Bandini rappresenta il momento
della «counterrevulsion». Qui l’autore presenta l’infanzia del prota-
gonista in Colorado vissuta insieme al padre, Svevo Bandini. Ancora
fanciullo Arturo mostra segnali di avversione per le proprie radici
culturali, che gli vengono costantemente ricordate:

[…] His name was Arturo, but he hated it and wanted to be called
John. His last name was Bandini, and he wanted it to be Jones. His
mother and father were Italians, but he wanted to be an American
(p. 15).

Un’avversità, questa, che Arturo riesce a superare solo alla fine


del romanzo, e proprio grazie al padre: «[…] That’s my boy. You can’t
talk to him like that. That boy’s an American. He is no foreigner»
(p. 104). Questa frase è rivelatrice, per Arturo, della propria duplicità
etnica; infatti il padre non solo lo definisce come “americano”, ma gli
ricorda, contestualmente, di essere figlio di un italiano100.
Ask the Dust e Dreams from Bunker Hill, sono concepiti come un
unicum. La narrazione del secondo riparte proprio lì dove si era inter-
rotta nel precedente e rappresentano, insieme, il momento del rico-
noscimento e dell’accettazione dell’ibridismo etnico del protagonista,
che è qui presentato in età adulta nelle vesti di un aspirante scrittore

99
  Cfr. Rose Basile Green, The Italian American Novel: A Document of the Interaction of
two Cultures, Crambury N.J., Fairleigh Dickinson University Press, 1974, pp. 158-
161.
100
  Cfr. Alessia Forgione, John Fante e Arturo Bandini: i confini dell’autobiografismo nella
letteratura d’emigrazione italo-americana, in “Archivio Storico dell’Emigrazione Italia-
na”, 10 dicembre 2012, (www.asei.eu)

144
Gli emigranti raccontano: Stati Uniti o il “sogno a stelle e strisce”

squattrinato che conduce una vita da bohémien e perennemente coin-


volto in avventure amorose. Se in Ask the Dust – il romanzo attraverso
il quale il pubblico e la critica riconobbero a Fante il talento letterario
– il padre del protagonista non viene nominato, in Dreams from Bunker
Hill riappare nella fantasia del figlio in mezzo ad una tempesta, men-
tre gli offre il suo cappotto per ripararlo dal freddo. È questa la scena
che mostra la completa riappacificazione del protagonista con la terra
d’origine e con le sue tradizioni101.
Ancora nel campo delle testimonianze autobiografiche, è da ricor-
dare Golden Wedding102, di Joe Pagano, un autore che ha condiviso con
Fante le avventure giovanili della vita scapestrata a Denver. Il roman-
zo segue, attraverso cinquant’anni di storia, la saga familiare dello
sradicamento dalle campagne del mezzogiorno d’Italia, fino alla dura
vita nelle miniere del Colorado, della famiglia Simone, dietro cui si
cela quella dell’autore. Al di là della storia, profondamente intima, il
romanzo mette in luce gli aspetti più crudi del calvario delle prime
generazioni di italo-americani, del divario che li ha separati dai loro
figli, degli anni della grande depressione e del Fascismo italiano.
Poi, il filo già logoro che legava gli americani d’Italia della genera-
zione di Fante e di Di Donato agli italiani di Italia si spezzò:

Mentre la povera Italia del dopoguerra si innamorava dell’America, e


apparivano uno dopo l’altro le traduzioni dei loro libri, gli italo-amer-
icani si scoprirono solo e definitivamente americani. La fiammata si
spense103.

Se, all’inizio, infatti, gli italiani hanno cercato di “americanizzarsi”


e di “mondarsi” dall’etichetta di immigrati, le seconde generazioni,
nate sul territorio statunitense, hanno mostrato una pervicace voglia
di riappropriarsi del proprio passato, di analizzare e capire le ragioni
di quelle spinte migratorie, di conoscere la cultura della propria fami-
glia di origine, troppo spesso occultata per celare quel senso di infe-

101
  Cfr. Ibidem.
102
  Denver (Colorado), Random House, 1943. L’opera, a lungo sconosciuta in Italia,
è stata pubblicata dall’editore Avagliano, a cura e con introduzione di Francesco
Durante e tradotta da Giovanni Maccari, nel 2000.
103
  Margherita Ganeri, L’america italiana, Epos e storytelling in Helen Barolini, Arezzo,
Editrice Zona, 2010, p. 19.

145
Con biglietto di andata

riorità e di «vergogna di appartenere ad una minoranza etnica»104. La


maggior parte degli autori finì per dedicarsi ad altro. Nessuna opera
italo-americana degli anni Quaranta e Cinquanta è entrata a far parte
del canone, nessuna è stata ritenuta utile ai fini dell’insegnamento
scolastico. Quegli scrittori, figli d’Italia, ma anche figli d’America,
finirono assorbiti dalla società di accoglienza; occorreva sbarazzarsi
di quell’etichetta di migrati di cui, nell’immaginario sociale, non ri-
manevano che gli stereotipi: la criminalità, l’arroganza, il folclore. È
grazie alla generazione successiva, quella di coloro che non avevano
vissuto la grande esperienza dell’emigrazione, i cui genitori erano
nati sul suolo statunitense, che si palesa l’esigenza di un nuovo re-
cupero delle radici e di una patria che non avevano conosciuto. Se,
insomma, la prima generazione non poteva “liberarsi” dal marchio di
emigrante, la seconda, quella dei figli, ha vissuto il disagio di trovarsi
a vivere in-between. Un disagio che li ha spinti ad allontanarsi dalle
proprie radici italiane, oppure a confrontarsi con la propria cultura di
provenienza tralasciando del tutto i temi legati alla testimonianza di
quel disagio. Avendo rifiutato qualsiasi uso linguistico dell’italiano
familiare (spesso dialettale), considerato un ostacolo alla piena eman-
cipazione culturale e alla integrazione nella società americana, essi
hanno di fatto volutamente interrotto il processo di conservazione
di trasmissione della memoria storica del gruppo. Questa negazio-
ne dell’italianità, questa A-storia105, diviene allora, nelle generazioni
successive a quelle approdate sul suolo americano, bisogno di ricerca
delle origini ed è il pivot intorno al quale si incentrano le prove nar-
rative più recenti degli Italo-americani. Molti di loro, allora, intrapre-
sero, spesso carichi di aspettative, ma poco attrezzati sul piano della
conoscenza culturale, la traversata dell’Oceano in senso opposto, per
approdare in Italia in cerca delle origini della propria famiglia106. Na-

104
  Arianna Fognani, Dall’America all’Italia: Il viaggio di ritorno dei discendenti degli emi-
granti italiani, in “Bollettino ITALS”, VI, 23, febbraio 2008, http://venus.unive.it/
italslab.
105
  Astoria è il titolo del romanzo autobiografico di Robert Viscusi (Montreal, Guerni-
ca, 1996) che ripercorre il risveglio di una coscienza alla ricerca delle proprie radici.
106
  Cfr. Fred L. Gardaphé, Identical Difference: Notes on Italian and Italian American Iden-
tities, in Paolo Janni and George F. McLean (eds.), The Essence of Italian Culture and
the Challenge of a Global Age, P. II, Ch. 5, Cultural Heritage and Contemporary Changes,
Series IV, West Europe, vol. 5, pp. 93-112.

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Gli emigranti raccontano: Stati Uniti o il “sogno a stelle e strisce”

sce così la questione della doppia appartenenza identitaria da riallac-


ciare per capire il dolore della diaspora vissuta dai nonni. È quel che
accade, tra le altre occorrenze in Mount-Allegro, A Memoir of Italian
American Life 107 di Jerre Mangione108; un romanzo a sfondo palese-
mente autobiografico che ripercorre la giovinezza dell’autore in seno
ad una famiglia inserita nel contesto di una società ostile. All’interno
del testo le due anime, quella italiana e quella statunitense, sono co-
stantemente messe a confronto: la cultura siciliana che privilegia la
trasmissione orale della cultura si oppone alla cultura statunitense
che privilegia la scrittura; il fatalismo siciliano è opposto all’ottimi-
smo americano; alla superstizione fa da contraltare il pensiero razio-
nale ed empirico; il matriarcato siciliano, come centro e riferimento
della famiglia, si oppone al ruolo della donna americana individuali-
sta. Alla fine dell’opera, il protagonista, alla ricerca del recupero delle
proprie radici culturali, si reca in Sicilia a Montallegro luogo di origi-
ne della sua famiglia.
Questo bisogno di recupero delle radici è espresso anche da al-
cune più tarde scrittrici. Un aspetto del fenomeno migratorio che è
stato a lungo sottovalutato dagli studiosi di storia contemporanea è,
infatti, sicuramente costituito dal ruolo che hanno rivestito le donne
durante la cosiddetta “Grande Emigrazione”. Si era a lungo pensato
che la necessità di emigrare avesse riguardato quasi esclusivamen-
te l’universo maschile con le donne costrette a rimanere a casa ad
aspettare. In realtà le cose non andarono proprio in questi termini.
Le statistiche sui flussi migratori dei primi del ‘900 ci dicono che su
14 milioni di espatri, le donne rappresentarono una percentuale che
poteva variare dal 20 al 40 % delle partenze, a seconda delle fasi sto-
riche e delle necessità contingenti, ma per avere un panorama più
adeguato alle realtà dell’emigrazione femminile, non si deve, tutta-
via, dimenticare che una grossa fetta di emigrazione maschile ave-
va un carattere temporaneo, con ripetuti periodi di lavoro all’estero
a cui seguivano lunghi rientri in patria. Questo comportamento, se
considerato nella giusta prospettiva, fa comprendere come, in realtà,

107
  Cfr. Boston, Houghton Mifflin, 1943.
108
  Gerlando Jerre Mangione (1909-1998), nato negli Stati Uniti da genitori siciliani
emigrati alla fine dell’Ottocento, crebbe nella Little Sicily di Rochester; è autore di
numerosi saggi storico-sociali sulla comunità italo-americana.

147
Con biglietto di andata

l’emigrazione femminile avesse una consistenza ben maggiore: una


donna che lasciava il proprio focolare spesso, molto spesso, lo faceva
per raggiungere gli uomini al di là dell’Oceano (padri, mariti, fratelli,
figli) e per restare accanto a loro in maniera definitiva. 
Le donne furono protagoniste, loro malgrado, anche quando ri-
masero in Italia ad aspettare. In questo caso il loro compito non fu
affatto secondario: bisognava, in primo luogo mandare avanti, da
sole, la famiglia, la casa, la terra, occupazioni usuali per una donna,
ma a cui si aggiungevano a gravare ancor più, l’amministrazione dei
pochi beni rimasti in seguito all’acquisto del biglietto del piroscafo e,
soprattutto, la gestione del denaro delle rimesse. L’improvvisa dispo-
nibilità economica, unita ai nuovi ruoli sociali ereditati in seguito alla
partenza degli uomini, consentì alle donne di acquisire un certo livel-
lo di emancipazione impensabile in precedenza. Le mogli e le madri
degli emigranti presero, infatti, a frequentare botteghe, uffici postali,
banche ed enti pubblici portando una ventata di novità nella ristretta
società rurale dell’epoca (e sovente, anche scandalo e maldicenze). 
Le donne che, invece, vissero in prima persona l’esperienza migra-
toria, spesso andarono incontro a una vita non molto dissimile a quel-
la che avevano lasciato in patria: la maggior parte di loro raggiunse
i propri uomini per continuare a rivestire il solito ruolo di madre, di
moglie, di amante. In questo caso l’emancipazione fu più difficile ma
non impossibile. Fu ottenuta grazie al lavoro svolto al di fuori del
nucleo familiare: le donne che non si industriavano in casa per fab-
bricare fiori di carta, capi di abbigliamento o come “bordanti” (donne
che affittavano camere a connazionali), erano impegnate in fabbrica
dove, durante turni massacranti, erano sfruttate e private dei più ele-
mentari diritti sindacali. Le meno “fortunate” dovettero affrontare gli
aspetti peggiori del fenomeno migratorio: tra la fine dell’Ottocento e
gli albori del nuovo Secolo non era difficile imbattersi in cronache e
resoconti giornalistici che illustravano casi di sfruttamento minorile
ai danni di “giovinette” impiegate come animali da fatica in filande e
opifici, o in casi di vera e propria prostituzione, organizzata diretta-
mente da connazionali che carpivano la buona fede di decine e decine
di giovani ragazze italiane per condurle “sulla via del vizio e della
malavita”.
A sentire il dovere di testimoniare questa altra “metà del cielo”
insieme a questo rinnovato bisogno di riallacciare il legame con l’I-

148
Gli emigranti raccontano: Stati Uniti o il “sogno a stelle e strisce”

talia sono, appunto, soprattutto le donne: vestali della memoria e,


contestualmente, protagoniste di una rivoluzione sociale. L’emigra-
zione ha contribuito, dunque, a modificare e a ridefinire i tradizionali
ruoli della donna in seno alla società italiana; questo, non soltanto per
coloro che sono rimaste in patria senza i mariti e i figli assumendo
compiti prima di allora riservati alla sfera maschile, ma anche per co-
loro che sono partite, da sole o per ricongiungersi al nucleo familiare.
L’emigrazione, insomma, ha assunto per le donne un non irrilevante
«potenziale emancipativo»109 contribuendo al loro raggiungimento di
un’indipendenza economica e rendendole, quanto gli uomini, prota-
goniste attive del cambiamento sociale. A partire dagli anni Settanta e
Ottanta del Ventesimo secolo, allora, alcune scrittrici si impegnarono
a presentare questo processo di evoluzione della donna, da vestale
del focolare domestico e depositaria delle tradizioni italiane, a pro-
tagonista attiva di un nuovo modello societario, ma anche a sottoli-
neare come le nuove generazioni sentissero il bisogno di riallacciare
tutte le linfe che nutrono le loro radici rizomatiche. I loro scritti sono
vergati, soprattutto, nel genere del Memoir110 che, pur condividendo
alcune caratteristiche con l’autobiografia, se ne distacca nella misura
in cui il focus si sposta dalla vita reale, e cioè dalla verità, alla finzione
narrativa; dall’impronta oggettiva a quella soggettiva. Fra le altre, si
prendano qui ad esempio, le voci di Helen Barolini e di Tina de Rosa.
Helen Mollica nasce a Syracuse, nello stato di New York, nel 1925.
Entrambi i genitori erano nati negli Stati Uniti, ma avevano origini
italiane meridionali. Dopo aver conseguito una laurea e un Master
negli Stati Uniti e aver frequentato a Londra un corso di Letteratu-
ra inglese come studente di scambio, inizia a viaggiare per l’Europa
come corrispondente del “Syracuse Herald Journal” per il quale tiene
la rubrica “Letters from Abroad”. Successivamente si trasferisce in
Italia, dove incontra il giornalista italiano Antonio Barolini che sposa
nel 1950. Dopo il matrimonio, la coppia vive tra Italia e Stati Uniti,
dove il marito è corrispondente per il quotidiano “La Stampa”. Nel

109
  Maurizio Ambrosini, Sociologia delle migrazioni, Bologna, il Mulino, 2011, p. 150.
110
  Il Memoir nasce dall’incontro fra la narrazione degli eventi e una riflessione critica
sugli eventi stessi, anche in riferimento al ruolo interpretato dalla memoria. Per una
panoramica su questo genere letterario cfr. Caterina Romeo, Narrative tra due sponde.
Memoir di italiane d’America, Roma, Carocci, 2005.

149
Con biglietto di andata

frattempo, Helen si dedica alla traduzione di alcuni articoli del marito


che vengono pubblicati su “The New Yorker” e sul “Reporter” e alla
composizione di alcune opere letterarie e di saggi, adottando il nom
de plume di Helen Barolini. Dopo la morte del marito, avvenuta nel
gennaio del 1971, si stabilisce definitivamente negli Stati Uniti, dove
inizia a dedicarsi agli studi sull’identità e sulla letteratura italo-ame-
ricana e, particolarmente, sulla produzione femminile. Nel 1979 pub-
blica il suo primo memoir: Umbertina111. L’opera affronta due temi cari
all’autrice: il processo di assimilazione degli immigrati italiani nella
società statunitense e la distanza culturale che separa tre successive
generazioni di donne. Attraverso un secolo, dal 1860 al 1970, il ro-
manzo segue le vite di tre donne della stessa famiglia, i Longobardi:
Umbertina, la figura femminile da cui il romanzo prende il titolo e
che è la peasant112, ovvero colei che è emigrata negli Stati Uniti, insie-
me al marito; Marguerite, nipote di Umbertina; e infine Tina, figlia di
Marguerite. Ognuna di queste figure rappresenta: «a different stage
of the Italian and Italian/American assimilation process to American
culture»113.
Umbertina, capostipite della famiglia Longobardi, decide di emi-
grare e inizia un percorso di integrazione nella società statunitense.
È sì una donna di umili origini legata alla propria cultura, ma già da
adolescente mentre faceva pascolare le capre, sognava quell’Ameri-
ca di cui tanto aveva sentito parlare da Domenico Saccà, il calzolaio
di Castagna, uno dei primi ad essere andato via dal paese. Accetta
così di rinunciare all’amore per Giosuè e di accettare di sposare Se-
rafino per recarsi con lui in America, verso quella promessa di una
vita migliore. Donna forte e risoluta, riesce con caparbia, nel nuovo
Continente, a raggiungere la serenità economica per la famiglia. I
primi anni della giovane coppia negli Stati Uniti sono molto duri,

111
  New York, Seaview book, 1979. Il romanzo venne premiato dall’American Com-
mitee on Italian Migration “Women in Literature” Award nel 1982 e dall’Americans of
Italian Heritage “Literature and the Arts Award” nel 1984. Successivamente, nel 2008,
la sua versione italiana (trad. di Susan Barolini e Giovanni Maccari, introduzione
di Laura Lilli, Cava de’ Tirreni, Avagliano, 2001) vinse l’“Italian Literary Prize” e il
“Premio Letterario Giuseppe Acerbi”.
112
  Cfr. Joseph Lopreato, Italian Americans, New York, Random House, 1970.
113
  Anthony Juilian Tamburri, A Semiotic of Ethnicity in (Re)cognition of the Italian/Ame-
rican Writer, New York, State University of New York Press, 1998, p. 47.

150
Gli emigranti raccontano: Stati Uniti o il “sogno a stelle e strisce”

ma la sua perseveranza la ha, poi, ricompensata riuscendo, al costo


di duri lavori e sacrifici, a metter da parte quel tanto che le bastava
per aprire una drogheria a New York. Il raggiungimento della nuo-
va posizione sociale che, da pastorella la porta a gestire un’attività
commerciale, sarà alla base della determinazione di trasmettere ai
figli i valori del successo e del denaro, educandoli quindi a quell’a-
mericanizzazione che avrebbe cancellato qualunque traccia dell’o-
riginaria miseria. Ormai anziana capisce, però, che per raggiungere
il denaro ha dovuto cancellare se stessa; il suo dolore più grande
è, adesso, quello di non poter comunicare in calabrese, sua lingua
madre, con la nipote Marguerite.
Marguerite, protagonista della seconda parte del romanzo, è fi-
glia di Carla e di Sam, e nipote di Umbertina. Come la stessa autrice,
Marguerite ha un marito poeta di origine veneta, ha vissuto a Roma
circondata da alcuni personaggi della cultura italiana del tempo, ha
tradotto le opere letterarie del marito. Marguerite viene educata al
più rigoroso rispetto dei valori della cultura “americana” tipica della
fase delle «revulsion»:

Marguerite learned that it was not nice to look too Italian and to
speak bad English the way Uncle Nunzio did. Italians were not se-
rious people, her father would say […] Italians were buffoons, an-
archists and gangsters, womanizers. “What are we, Dad, aren’t we
Italian?” she would ask. “We’re Americans,” he’d say firmly, making
her wonder about all the people in the shadows who came before
him. […] (p. 150).

Si vergogna dell’italianità dei genitori e, ribellandosi alle tradizio-


ni famigliari, si costruisce come una donna d’affari che trascura la
famiglia; è continuamente impegnata in viaggi in Europa e in avven-
ture amorose; sposa ancora molto giovane, e dopo una brevissima
frequentazione, Lennert. Il caso la porta, poi, a sposare Alberto, an-
ch’egli figlio di immigrati e quando anche il secondo matrimonio fini-
sce, Marguerite capisce di aver fallito sia come donna americana, che
come donna italiana; ma, proprio quando vorrebbe rivisitare le sue
scelte, non avrà il tempo di porre rimedio a questa situazione perché
la sua vita verrà stroncata da un incidente automobilistico.

151
Con biglietto di andata

La soluzione al senso di “sradicamento” di Umbertina e di Mar-


guerite arriva nella terza sezione dell’opera in cui la protagonista è
Tina, figlia di Marguerite e di Alberto e pronipote di Umbertina della
quale, oltretutto, porta il nome. Tina, ha un rapporto di amore/odio
con la propria etnicità:

“Now let me ask you, Tina,” her grandfather said […] “What are your
plans for the future?”
“Gramp,” she said patiently, “I’m getting a Ph.D. in Italian. I want to
be a scholar.”
“But why Italian?” he said in real consternation, his face frowning in
bewilderment. “What will that fit for you?”
“I can teach or write” […]
“I don’t understand this infatuation with Italy!” her grandfather was
saying, rattling his newspaper and looking agitated. “Where will that
get you? Italy has no future. What has Italy ever done for the world?”
“Civilization, Gramp.” She thought with sad resignation of this old
argument […] (p. 397).

Tina fa parte di quella generazione che ha dato inizio alla rivolu-


zione sessuale e culturale e che ha sovvertito le norme sociali ancora
vive negli anni Sessanta. Ha un fidanzato “al suo servizio” e fuma
marijuana; incarna un prototipo di donna assolutamente “extra-va-
gante” rispetto alle sue ave, ma è tormentata da un sogno ricorrente:
è bloccata in un vicolo di un piccolo centro di una sconosciuta parte
d’Italia. Per riuscire a liberarsi da questo incubo vuole intraprendere
un viaggio in Calabria in cerca delle origini di Umbertina. Sentendo
prepotente il bisogno di riallacciare quel legame con l’Italia, decide di
iniziare dallo studio della lingua e della cultura: «I’m getting a Ph.D.
in Italian. I want to be a scholar» (ibidem). Jason, un appassionato di
cultura classica e amico di vecchia data, convince Tina a compiere
quel viaggio in sua compagnia. Nel corso del soggiorno calabrese,
sente dentro di sé qualcosa che le fa pensare che la nonna Umberti-
na vuole che interrompa la sua ricerca: impressione confermata da
un’apparizione, in sogno, della bisnonna. Tornata in patria la ragazza
comprende che emigrare significa riuscire a lasciarsi alle spalle le pro-
prie origini ma anche che l’emigrante, così come la sua discendenza,
non può sciogliere del tutto il legame con la cultura di origine che è
parte integrante dell’identità. Tina, così come era avvenuto in prece-

152
Gli emigranti raccontano: Stati Uniti o il “sogno a stelle e strisce”

denza alla madre, prima di quel momento non era riuscita a compren-
dere fino in fondo l’importanza di quel legame identitario che le era
stato negato – e che tuttavia era rimasto latente –, che riconosce ora
alla base del suo carattere e come inestimabile ricchezza culturale. A
questo punto, nell’accettazione della doppiezza delle proprie radici,
il ciclo si chiude e il problema che la aveva tormentata, diversamente
a quanto era accaduto per Marguerite e prima ancora per Umbertina,
può dirsi consapevolmente superato.
Nel 1985, Helen Barolini consegna alle stampe il suo The Dream
Book: An Anthology of Writings by Italian American Women114, una rac-
colta di brani di cinquantasei scrittrici italo-americane che si sono
cimentate in tutti i generi letterari comprese le testimonianze, dimo-
strando così che le donne italiane sono anche in grado di produrre una
tradizione letteraria e aprendo la via ad un campo di indagine fino a
quel momento quasi misconosciuto115. I contributi sono suddivisi in
sezioni, organizzate per generi, a cui l’autrice antepone una lunga in-
troduzione nella quale presenta il contesto storico, sociale e culturale
alla base di quegli scritti, restituendone una intelligente lettura. Non
sempre i testi presentati sono stati composti direttamente dalle don-
ne che li hanno firmati. Spesso analfabete; in alcuni casi si tratta di
testimonianze raccolte e trascritte da altri, come nel caso del racconto
della vita di Rosa Cassettari, trascritto da un assistente sociale. Grazie
a quest’opera la Barolini si prefigge l’obiettivo di farsi portavoce e
di rompere il silenzio su quel mondo sommerso116. Nell’introduzione
Helen Barolini insiste sull’importanza della memoria quale punto no-
dale per la restituzione di uno spaccato sociologico: «By an early age
I, too, had a good start of what is a major motif in Italian American
writing: the sense of being out of line with one’s surrounding, not of
one’s family and not of the world beyond the family, an outsider in

114
  New York, Schocken Books, 1985. Per questa raccolta l’autrice è stat insignita, nel
1986, del premio dell’American Book Award of The Before Columbus Foundation e l’an-
no successivo del Susan Koppleman Award of American Culture Association for the best
anthology in the femminist studies of America Culture.
115
  Cfr. Mary Jo Bona, Introduction: Italianità in 2003: The State of Italian American Lite-
rature, in “MELUS”, Vol. 28, n. 3, Fall 2003, pp. 3-12.
116
  Cfr. Patrizia Ardizzone, La ricerca dell’identità linguistica e culturale nella letteratura
femminile italo-americana: http://www.isspe.it/Ago2003/ardizzone_p_.htm

153
Con biglietto di andata

every sense» (p. 21). Ma è, poi, nel più recente Crossing the Alps117 che
la scrittrice – nel riconoscimento della sua doppia condizione identi-
taria riflessa nella protagonista, France Molletone – torna a riprende-
re il tema della ricerca delle radici. Il romanzo ambientato in Italia nel
secondo dopoguerra vede la giovane donna, così come aveva fatto
Tina, partire dall’America per andare alla ricerca delle proprie origini
italiane.
Un’impostazione simile a quella presentata dal romanzo Umberti-
na, la si riscontra qualche anno dopo in Paper fish118 di Tina De Rosa.
Dal sapore fortemente realistico, il memoir restituisce un affresco del
famigerato ghetto italo-americano di Chicago, West Side, già all’epo-
ca considerato il quartiere di Al Capone, in cui l’autrice era cresciuta.
L’opera, pubblicata per la prima volta nel 1980, cadde subito nell’o-
blio. Recentemente il romanzo è stato riscoperto dalla casa editrice
americana Feminist Press119 e dalla italiana Nutrimenti. La traduzio-
ne italiana del romanzo ha preceduto di qualche settimana la mor-
te dell’autrice, avvenuta il 3 febbraio 2007. Nella prefazione al testo,
Caterina Romeo sottolinea che la ristampa statunitense e la versione
in lingua italiana vogliono essere un «tributo all’opera di De Rosa»120,
quasi una necrologia che immortali per sempre il ricordo dell’autrice.
La pubblicazione in lingua italiana è accompagnata dalla postfazio-
ne di Edvige Giunta, intitolata Un canto dal ghetto, che puntualizza
il contributo della De Rosa non solo alla tradizione italo-americana
femminista, ma più in generale alla cultura letteraria di tutti quegli
scrittori che si sono ispirati all’emigrazione italiana.
Il pesce, rievocato nel titolo, rinvia al simbolo del Cristo per sot-
tolineare la sacralità, per l’autrice, della storia della sua famiglia. La
De Rosa aveva in un primo momento scelto di intitolare il testo Fab-
bricanti di santi121 con un chiaro riferimento ai membri della sua fami-

117
  New York, Bordighera Press, 2010.
118
  Chicago, The Wine Press, 1980.
119
  New York, 2003.
120
  Caterina Romeo, Un ritorno a casa, in Tina De Rosa, Pesci di carta, traduzione e note
di Laura Giacalone, Prefazione di Caterina Romeo, Postfazione di Edvige Giunta,
Roma, Nutrimenti edizione, 2007, p. 9. I riferimenti al testo sono tratti da questa
edizione.
121
  Il sintagma viene usato dalla De Rosa a pag. 105 del suo romanzo per indicare i
lineamenti belli e soavi della sorella Doriana.

154
Gli emigranti raccontano: Stati Uniti o il “sogno a stelle e strisce”

glia e alla nonna Doria in particolare. In un’intervista concessa a Fred


Gardaphé, l’autrice spiega che i pesci indicano gli stessi personaggi
che le sembravano belli e fragili come aquiloni giapponesi122. L’im-
magine scandisce nel testo il valore della vita e della morte. I pesci,
infatti, tornano in più di un’occasione all’interno della narrazione: fin
dalle prime pagine, Sarah, incinta di Carmolina, chiude la finestra per
sfuggire all’odore di «pesce morto arrostito al mercato» (p. 26) che l’a-
veva fatta vomitare, e l’immagine del pesce morto torna, più avanti,
quando Carmolina descrivere la sorella Doriana che dorme immobile
nel suo letto (p. 118).
All’interno del romanzo, segnatamente autobiografico, ritroviamo
la vita quotidiana dell’intera Little Italy di Chicago descritta spesso
in altri testi letterari soltanto, appunto, per la Mafia di Al Capone,
mentre è proprio, al contrario, la rappresentazione della gente comu-
ne che consente a Paper Fish di mostrare i lati positivi che contraddi-
stinguono la comunità degli italo-americani: una comunità che, però,
molto spesso si è impegnata a cercar di rimuovere ciò che ha portato
d’altrove.
La narrazione è condotta sull’intrecciarsi di diversi livelli tem-
porali: «Le otto parti in cui il libro è suddiviso, incluso preludio ed
epilogo, si combinano come i pezzi di un puzzle […]»123. L’universo
in cui si svolge l’intreccio è quello della famiglia BellaCasa: un mi-
cro-mondo ridotto al minimo, denso di immagini, di ricordi, di po-
vertà ma anche di dignità. La famiglia è composta dal padre Marco,
dalla madre Sarah, di origini lituane e, dalla bellissima ma autistica
sorella maggiore, Doriana. Carmolina è convinta che la malattia della
sorella, che la porta a vivere in un universo parallelo, sia originata
dalla voglia di fuga dalla realtà (cfr. p. 67). La condizione di disagio
di cui soffre la famiglia BellaCasa è senza dubbio legata alla malattia
di Doriana, la bellissima sorella doll-like124 (nel romanzo la bambina
viene più volte paragonata ad una bambola dal viso di porcellana per
la sua bellezza). Bona, proprio a partire dall’immagine della bambo-

122
  Cfr. Fred L. Gardaphé, An Interview with Tina De Rosa, “Fra noi”, maggio 1985, p.
23.
123
  Edvige Giunta, Un canto dal ghetto, postfazione a Tina De Rosa, Pesci di carta, cit.,
p. 203.
124
  Cfr. Bona, Broken Images, cit., p. 100.

155
Con biglietto di andata

la, afferma il desiderio di distruzione della sorella malata provato da


Carmolina125: in preda a una «strana sensazione» (p. 153), infatti, la
bambina lancia in aria la sua bambola di pezza, Maryalice, facendola
ricadere sul pavimento e provocandole un’apertura sulla testa da cui
comincia a fuoriuscire l’imbottitura, sicché la bambola si distrugge.
Doriana, quindi, è una bambola di porcellana grazie a quella bellez-
za che la rende superiore all’intelligente Carmolina, ma è comunque
una bambola rotta126. Secondo Bona nel testo la malattia assume un
valore metaforico: la malattia, infatti, rende Doriana instabile, quasi
come se esprimesse il tacito desiderio di andare via, di raggiungere
un posto diverso da quello in cui si trova127. Si tratta in definitiva della
stessa condizione in cui gli italo-americani vivevano quotidianamen-
te alla costante ricerca di un “altrove” che non li facesse sentire estra-
nei, indesiderati. Per tale motivo gli attacchi di collera nei confronti
della stessa città di residenza non sono gratuiti: nonna Doria spiega a
Carmolina che la malattia della sorella è causata proprio da Chicago
(cfr. p. 71 e pp. 105-106), che viene personificata tramite l’immagine
di un mostro che si adopera per la distruzione dell’intera famiglia
BellaCasa (p. 104).
Carmolina viene subito presentata come una bambina intelligente
che già a sette anni aveva letto di Leonardo Da Vinci ed appreso a
scrivere al contrario (cfr. p. 53) per «[…] proteggere se stessa dall’es-
sere conosciuta dagli altri, coloro che potrebbero prontamente identi-
ficarla con la sorella maggiore»128.
I matrimoni multietnici non erano frequenti per gli emigrati ita-
liani: Sarah, pur accolta in casa dalla suocera, è da quest’ultima con-
siderata come responsabile e insensibile alla malattia di Doriana (cfr.
p. 175). I riferimenti alle tradizioni culturali di Sarah che, come già
indicato, è di origini lituane – così come avviene per le origini venete
di Tina di Umbertina –, sono vaghi. La famiglia della madre compare
solo nella parte iniziale dell’opera, intitolata La memoria, in cui la De
Rosa racconta avvenimenti che le sono stati riferiti da altri, perché si
tratta di fatti che si sono verificati prima della sua nascita.

125
  Cfr. Ibidem.
126
  Cfr. Ibidem.
127
  Cfr. ibidem.
128
  Cfr. ivi, p. 98.

156
Gli emigranti raccontano: Stati Uniti o il “sogno a stelle e strisce”

Così come in Umbertina della Barolini, la società italo-americana è


descritta a partire dal confronto fra generazioni diverse di donne. An-
che in questo caso il legame con l’Italia è assicurato dalla figura della
nonna, Doria, i cui ricordi sono ricostruiti dal personaggio della nipote
Carmolina, una bimba italo-americana di otto anni di terza generazio-
ne, alter ego della stessa autrice, dimidiata tra la cultura tradizionale
della famiglia e la modernità. La continuità delle tradizioni è assicurata
dalla nonna Doria che racconta alla nipote dell’Italia: di quella terra al
di là del mare, ormai persa. La figura di nonna Doria, nel romanzo,
viene più volte equiparata a quella di Dio perché è ritenuta detentrice
di una conoscenza solida che le deriva dalle radici calabresi. Gardaphé
ha sostenuto la divinizzazione di questo personaggio, facendo notare
che nel capitolo VI, per vedere la nipote in abito da sposa, Doria vie-
ne portata su una sedia fino alla stanza di Carmolina, in una scena
che ricrea la processione tradizionale della Madonna129. I racconti della
nonna, avvertiti dalla giovane nipote quasi come favole, costituiranno
per Carmolina la linfa della sua immaginazione. La bambina, infatti,
nei momenti di solitudine, quando non ha nessuno con cui giocare
usa la fantasia: «La sua mente inventava delle storie che erano come
giocattoli, lei poteva immaginarle e guardarle, loro bisbigliavano e
si muovevano e facevano musica» (p. 111). Durante la narrazione la
piccola – personaggio dietro il quale si cela la stessa De Rosa – aveva
l’impressione che la nonna fosse tornata, almeno con la mente, al suo
paese d’origine bagnato dal mare, con un porto dal quale partivano
le navi che conducevano i calabresi in America. La bambina si chiede
perché la nonna l’abbia fatto, perché sia partita ma non riesce a trova-
re una spiegazione plausibile (cfr. pp. 37-38). Il particolare è rilevante
perché mostra, da un lato, il ruolo delle donne nella conservazione di
storie, origini, radici e tradizioni e, dall’altro, come gli emigrati, anche
se di seconda o terza generazione, nonostante il fatto che siano nati in
America, debbano necessariamente fare i conti con la loro condizione
di “ospiti”, cercando di razionalizzarla. Il personaggio della nonna può
essere ricondotto alla stessa ava della De Rosa, Della, che era emigrata
negli Stati Uniti all’età di diciassette anni ed era morta quando la nipo-

129
  Cfr. Fred L. Gardaphé, Italian Signs, American Street: The Evolution of Italian Ameri-
can Narrative, Durham, Duke University Press, 1996, p. 137.

157
Con biglietto di andata

te ne aveva diciannove, facendo piombare Tina in un profondo stato di


dolore dal quale cercò riparo nella scrittura. La De Rosa attribuisce alla
nonna la stessa funzione che Helen Barolini conferisce al personaggio
di Umbertina ma, in entrambi i casi, si tratta di romanzi in cui la nar-
razione stessa diventa la voce di un’esperienza collettiva, quella degli
emigrati italiani, e un mezzo per far luce sull’“italianità”.
Un’altra potente immagine che emerge dal romanzo è quella dello
specchio. La prima volta in cui lo specchio diventa fondamentale per
decifrare sia la scrittura che la personalità di Carmolina, è quando la
bambina scrive al contrario sulla busta del pane (cfr. pp. 53-54). Ma
molte volte, fa notare Bona, nel romanzo il vetro si rompe simboleg-
giando le vite spezzate della famiglia, e in generale, quelle della co-
munità italiana130. L’ultima parte del romanzo, in cui la metafora del-
lo specchio viene ripresa, precede il matrimonio di Carmolina e segna
il suo ingresso nell’età adulta. Il tema del matrimonio è ricorrente nei
romanzi di immigrazione, ma la De Rosa lo utilizza con finalità di-
verse ovvero da una prospettiva etnica e femminista131: nel romanzo
infatti non troviamo la cerimonia nuziale ma una scena allo specchio
che vede insieme Doria e Carmolina e che servirà a quest’ultima per
accettare l’imminente morte della nonna. Carmolina, infatti, afferma
di aver «indossato quell’abito nuziale solo perché Nonna potesse ve-
derla vestita da sposa» (p. 178). Prima di uscire di casa per poter as-
sistere ai preparativi di Carmolina, Doria vede riflesso sullo specchio
il volto di sua madre Carmella, come se quest’apparizione venisse
a ricordarle la sua prossima dipartita, che tuttavia dovrà aspettare,
perché «Prima devo vedere Carmolina» (p. 172). Anche Carmolina
davanti allo specchio vede «[…] i suoi occhi, marroni, pieni di con-
fusione e di un qualcosa che vi si agitava dentro che non riusciva
bene a definire» (p. 172). Bona spiega che questa confusione deriva
dall’ingresso di Carmolina nella adulthood senza sua nonna132. Ma
nello specchio, e precisamente in un piccolo angolo, compare anche
l’immagine di Doriana che tiene in mano la sua bambola dal viso di
porcellana (cfr. p. 176). Il piccolo “spazio” concesso nello specchio a
Doriana suggerisce l’idea che Carmolina è cresciuta separatamente

130
  Cfr. Bona, Broken Images, cit., p. 98
131
  Cfr. ivi, p. 102.
132
  Cfr. ibidem.

158
Gli emigranti raccontano: Stati Uniti o il “sogno a stelle e strisce”

dalla sorella. L’ultima immagine del romanzo mostra una sola imma-
gine sullo specchio, quella di Carmolina, che dimostra l’accettazione
di quest’ultima della morte della nonna, ma anche del suo ruolo di
giovane donna italo-americana133.
La conclusione del romanzo segue la demolizione del ghetto ita-
lo-americano: la Little Italy di Chicago deve essere sgomberata poi-
ché «la città ha detto che il ghetto deve andarsene» (p. 187). Nel te-
sto questo episodio, sommato a quello della vestizione davanti allo
specchio, segna il processo di crescita di Carmolina che giunge infine
all’elaborazione della sua doppia appartenenza etnica. Paper fish, così
come definito da Edvige Giunta nella sua postfazione, può davvero,
allora, essere definito come “un canto dal ghetto” perché rappresenta
il tentativo di restituire non solo un riconoscimento culturale dell’in-
tera comunità italo-americana di Chicago, ma è anche un modo per
rivendicare, alla letteratura etnica, una posizione all’interno della
tradizione letteraria mainstream. Tina De Rosa cerca di esprimere nel
miglior modo che conosce, e cioè attraverso la scrittura letteraria, le
meraviglie del mondo in cui è cresciuta, un mondo immerso nelle
tradizioni e nei costumi italiani.
A partire dalla fine degli anni Sessanta, conclusa la fase ‘etnica’
della produzione italo-americana, un altro filone particolarmente
fortunato è quello che ha insistito sul fenomeno della criminalità or-
ganizzata; un fenomeno, certamente non del tutto inventato, che ha
contribuito a generalizzare un’etichetta poco felice ai nostri emigrati.
Cosa nostra, Our Thing americana, nasce come un’associazione di
mafiosi siciliani emigrati negli Stati Uniti alla fine del XIX secolo che
prese vita nella Lower East Side, di New York, nel resto dell’East Co-
ast ed in numerose metropoli statunitensi tra la fine del 1800 e l’inizio
del 1900, seguendo l’ondata migratoria italiana – soprattutto quella
proveniente dalla Sicilia – verso le Americhe134. Le famiglie che più
delle altre si “distinsero” nel crimine organizzato, soprattutto all’ini-
zio, furono cinque tutte insediate a New York: Gambino, Lucchese,

133
  Cfr. ivi, p 103.
134
  Cfr. Salvatore Lupo, Cose nostre: mafia siciliana e mafia americana, in Verso l’Ame-
rica, in Bevilacqua, De Clementi, Franzina, op. cit., t. II, pp. 245-270; Herbert Asbur-
ry, Le gang di New York. Una storia informale della malavita, prefazione di Gabriele
Romagnoli, Milano, Garzanti, 2006.

159
Con biglietto di andata

Genovese, Bonanno e Colombo135. Ben presto però anche Chicago e


New Orleans divennero ulteriori centri di criminalità. Al suo apice,
tra gli anni Venti e gli anni Cinquanta del Ventesimo secolo, e cioè
durante gli anni del proibizionismo, la mafia americana è stata la
più potente organizzazione criminale di tutti gli Stati Uniti. Mentre
ogni famiglia operava indipendentemente nel proprio territorio, la
coordinazione nazionale era affidata alla “Commissione”, un organo
direttivo formato dai boss delle famiglie più potenti. Queste famiglie
divennero sempre più influenti e la loro organizzazione si andò via
via allargando, progredendo lentamente dalle operazioni in piccoli
quartieri dei ghetti italiani alle organizzazioni nazionali e metropoli-
tane. Negli anni Venti del Novecento, Mussolini usò le maniere forti
per combattere la mafia. Attraverso il prefetto Cesare Mori, ebbe ini-
zio una dura repressione che spinse molti mafiosi a fuggire: una volta
individuati, infatti, l’emigrazione rappresentava l’unica via di scam-
po per salvarsi. La maggior parte di loro scelse gli Stati Uniti dove
entrò illegalmente, spesso con l’aiuto di altri mafiosi già presenti sul
territorio136. Tenuto conto dell’alto numero di siciliani e di italiani che
vi si erano trasferiti, i mafiosi riuscirono a trovare vaste comunità di
connazionali da continuare a depredare e sfruttare. La paura della
mafia e la generale riluttanza a fidarsi delle forze dell’ordine riduce-
vano gli immigranti italiani onesti e lavoratori ad un fertile terreno
sul quale i mafiosi trapiantati potevano continuare a far fiorire le at-
tività criminali. All’inizio del Novecento, le depredazioni attuate a
New York dalla Mano Nera e dai mafiosi erano diventate talmente
numerose e famigerate da essere considerate le peggiori di tutto il
paese. Tali attività comprendevano attentati dinamitardi contro case
e negozi, rapimenti di bambini e ricatti.
Ho già accennato al fenomeno della bossatura e alle prime pro-
ve letterarie vergate nel genere del Mistery tra la fine dell’Ottocento
e i primi anni del Novecento. A quel tempo, però, i crimini erano
generalmente compiuti territorialmente da squadre controllate da
una singola famiglia. Il 17 gennaio del 1920 inizia negli Stati Uniti il

135
  Cfr. Corrado Augias, I segreti di New York. Storie, luoghi e personaggi di una metropoli,
Milano, Mondadori, 2001.
136
  Cfr. Giuseppe Carlo Marino, Storia della Mafia, Roma, Newton & Compton,
2012; Gaetano Falzone, Storia della Mafia, Soverato, Rubbettino, 2019.

160
Gli emigranti raccontano: Stati Uniti o il “sogno a stelle e strisce”

proibizionismo, ma la domanda di alcol da parte degli statunitensi,


compresi politici, colletti bianchi e rappresentanti delle forze armate,
non scemò. Ciò contribuì a creare un’atmosfera di tolleranza verso
il crimine organizzato che gestiva la distillazione e il commercio il-
legale di alcolici. I profitti di questo commercio erano per tutti tal-
mente alti, da valere il rischio della eventuale punizione. La maggior
parte dell’alcol era importato dal Canada e dai Caraibi, mentre dal
Midwest statunitense provenivano gli alambicchi. Particolarmente
attiva era, in questo campo, la città di Chicago “fortezza” del clan
di Al Capone che assunse nell’impresa migliaia di membri della co-
munità italiana ai quali fu chiesto di impiantare distillerie presso le
proprie abitazioni. “Scarface”, Al Capone, aveva iniziato la sua ascesa
verso la notorietà come guardia del corpo di John Torrio, che lo aveva
fatto arrivare da Brooklyn, per rimpiazzare “Big Jim” Colosimo, il
capo gangster di Chicago sud, quando questi era stato assassinato nel
1920. Torrio aveva esteso e consolidato le sue attività di contrabban-
do, gioco d’azzardo e prostituzione sull’intera area metropolitana con
l’aiuto di poliziotti corrotti e di coperture politiche. Nel 1924, John
Torrio rischiò di perdere la vita in un’imboscata organizzata contro
di lui; capì quindi che era giunto il momento di ritirarsi dalla scena
e di nominare suo successore Capone. La maggior parte dei membri
del clan di Capone venne reclutata da una società siciliana di mutuo
soccorso nota come “Unione Siciliano”. L’“Unione Siciliano” sebbene
fosse statutariamente una confraternita di beneficienza, forniva co-
pertura alle attività mafiose. Sino alla fine della Prima guerra mon-
diale, la mafia negli Stati Uniti era guidata, dunque, da clan di mafiosi
della vecchia guardia che rifiutavano decisamente l’idea di associarsi
ad altri, ma quando Giuseppe Masseria si auto-dichiarò leader della
mafia di New York, dopo che Ignazio “il lupo” Saletta era stato con-
dannato ad una lunga pena detentiva per falsificazione di denaro, si
preannunciarono cambiamenti. Masseria, che era stato soprannomi-
nato “Joe the boss”, aveva un forte spirito clanico come i suoi pre-
decessori, ma permise ai suoi associati di fare amicizia e di stabilire
contatti con gruppi di diversa nazionalità e affiliazione. Il principale
luogotenente di Masseria era un giovane siciliano registrato all’ana-
grafe come Charles Luciano ma nato a Lercara Friddi con il nome di
Salvatore Lucania. Scappato dall’Italia negli anni duri del fascismo,
Luciano costruì oltreoceano la sua forza e la sua fama, assumendo

161
Con biglietto di andata

il soprannome di Lucky, perché scampato a un agguato fingendosi


morto. Luciano, che attribuiva grande importanza all’alleanza con
altri gangster, era totalmente favorevole alla cooperazione e ad una
minore rivalità inter-clanica. Masseria concesse al suo luogotenente
carta bianca, decretando però, così, la sua stessa fine. Masseria morì
infatti di morte violenta nell’aprile del 1931, nel corso di una cena con
Luciano in un ristorante di Coney Island. Luciano era alla toilette,
e quindi convenientemente assente da tavola, quando alcuni killer
entrarono nel ristorante e uccisero Masseria. Si ritiene che nell’arco
di alcuni giorni siano stati uccisi nel paese da trenta a quaranta vec-
chi leader mafiosi. I nuovi mafiosi, giovani e americanizzati, si tro-
varono quindi in una posizione adatta a creare strette collaborazioni
con gruppi esterni per la costruzione di un nuovo ordine criminale:
il “sindacato”. I mafiosi che erano entrati nell’era del proibizionismo
con attività criminali limitate alle comunità italiane, agendo indivi-
dualmente o in piccoli gruppi, si ritrovarono, alla fine del proibizio-
nismo, riuniti in attività su vasta scala, anche in aree al di fuori delle
comunità italiane, in collaborazione con gangster e gruppi criminali
di altre nazionalità. A controllare il territorio, insieme a Luciano vi
erano, tra tavoli di poker, festini e casinò, Joe Bonanno detto Bananas,
Frank Costello, Joe Adonis, Albert Anastasia, tra i più noti, in un cre-
scendo che arriva alla Seconda guerra mondiale, quando i picciotti
di New York danno una mano a organizzare la preparazione per il
grande sbarco Alleato in Sicilia137. Nel corso degli anni Cinquanta,
come molti altri boss italo-americani, Luciano si stabilì in Campania,
diventando qui l’anello di congiunzione tra Napoli e la mafia statu-
nitense per traffici di droga e per il contrabbando, tessendo relazioni
soprattutto con il famoso e potentissimo trafficante di droga Charles
Gambino. La presenza dei mafiosi di ritorno dall’America fece com-
piere alla criminalità un notevole salto di qualità, mettendo in atto
quello slittamento da fenomeno solo regionale a struttura criminale
internazionale. Lucky Luciano, che già in territorio statunitense ave-
va agito a favore di una collaborazione tra napoletani e siciliani, ri-
propose gli accordi anche in Italia138.

137
  Cfr. Salvatore Lupo, La mafia. Centosessant’anni di storia, Roma, Donzelli, 2018.
138
  Cfr. Mauro De Mauro, Lucky Luciano, prefazione di Beppe Benvenuto, Milano,
Mursia, 2010.

162
Gli emigranti raccontano: Stati Uniti o il “sogno a stelle e strisce”

Questo periodo in cui la criminalità mafiosa da piccolo crimine


diventa organizzata a livello internazionale apre la stura alla crea-
tività realistica di autori che hanno incentrato i loro testi sul questo
fenomeno. Si tratta, adesso, di scrittori di origine italiana, emigrati di
seconda generazione, che si esprimono quindi in lingua inglese. Que-
sta generazione ha il suo più famoso esponente in Mario Gianluigi
Puzo, che con The fortunate Pilgrim139 e The Godfather140 ha contribuito
a creare una sorta di “mitologia” del crimine organizzato di matrice
italiana. Nel primo – un romanzo apprezzato dalla critica al momento
della sua pubblicazione ma poi dimenticato – attraverso il personag-
gio ispirato alla propria madre, l’autore mette in scena la lotta degli
immigrati per il riconoscimento dei propri diritti. Lucia Santa è la ca-
postipite di una famiglia emigrata dalla Campania negli anni Venti e
insediatasi nella Little Italy di New York, che lotta per riuscire a tener
unita, a dispetto delle privazioni, la famiglia. La scarsa attenzione tri-
butata al romanzo, certamente il più poetico delle opere dell’autore,
dal pubblico è probabilmente da attribuire proprio alla scelta di un
tema ormai sfruttato e per questo poco interessante. Il suo secondo
romanzo, invece, pubblicato nel 1969 esplicitamente per “fare soldi”,
venne accolto con successo dal pubblico e dalla critica che ne apprez-
zò la trama carica di tensione e ricca di colpi di scena tanto da indurre
Francis Ford Coppola, nel 1972 a realizzarne una versione filmica.
L’opera è articolata in nove parti che raccontano la storia di una fa-
miglia criminale italo-americana molto legata al rispetto, all’amicizia
e alla tradizione. La vicenda è ambientata in pieno dopoguerra tra la
fine degli anni Quaranta e l’inizio degli anni Cinquanta nella città di
New York e, com’è noto, ruota intorno alla figura di Don Vito Corle-
one ispirata a Lucky Luciano. La “sicilianità”, rappresentata da Don
Vito, si riflette nelle vicende di un’America violenta e, allo stesso tem-
po, offre il sapore di un affascinante e arcaico mondo mediterraneo,
fatto di banditi sanguinari ma generosi, di donne sensuali, di preti e
di politicanti corrotti. Tra i temi dell’opera, la fedeltà, il senso di ap-
partenenza, la vendetta, la corruzione delle istituzioni. Il successo del
romanzo segnò per Mario Puzo l’orientamento della sua creazione

139
  New York, Atheneum, 1965
140
  New York, G. P. Putnam’s Son, 1969.

163
Con biglietto di andata

letteraria che da quel momento sembrava aver trovato la via della no-
torietà. Così, anche i successivi romanzi insistono sullo stesso filone:
The Sicilian141, in cui Salvatore Giuliano rivive come un Robin Hood
moderno, che ruba ai ricchi per donare ai poveri, opponendosi alla
mafia, ma finendo per essere screditato dai nemici e trucidato bar-
baramente con il massacro di Portella delle Ginestre; The Last Don142,
una delle ultime opere di Mario Puzo, pubblicata nel 1996, in cui il
potente capomafia Domenico Clericuzio decide, dopo aver portato a
termine una guerra all’ultimo sangue contro i Santadio, suoi rivali in
affari, di ritirarsi dalla scena del crimine e di delegare i suoi interessi
a nuovi giovani “talenti”, non prima però di aver ottenuto che i suoi
figli venissero sistemati alla guida di importanti aziende. I giochi di
interesse e le vendette trasversali, però, non si placheranno. Sempre
sullo stesso tema insiste anche la sua ultima prova narrativa, Omer-
tà143. Anche qui, l’anziano capomafia Don Raymond Aprile, ormai
stanco, ha deciso di ritirarsi a vita privata. Volendo proteggere i suoi
tre figli, impegnati in professioni oneste e rispettabili, e mantenere
allo stesso tempo il controllo delle sue attività finanziarie, Don Ray-
mond chiama dalla Sicilia il nipote adottivo Salvatore Viola formatosi
in Inghilterra in raffinate tecniche bancarie. Tuttavia, Don Tommaso
Portella, il boss della cosca rivale, coglie al volo il ritiro dalle scene del
rivale mafioso per scatenare una guerra senza quartiere che coinvol-
gerà fortemente gli Aprile e il giovane Viola, spingendoli a scontrarsi
con una nuova generazione di mafiosi per i quali onore e libertà suo-
nano come valori dimenticati, mentre il tradimento si trasforma in
una pratica comune per rafforzare il potere.
Accanto a Mario Gianluigi Puzo è de segnalare, altresì, Gay Talese
che nel suo Honor thy Father144, ispirato alla vita del boss mafioso Joe
Bonanno, ne descrive l’ascesa e il declino. L’autore, all’epoca dei fatti
collaboratore del “New York Times” riesce a conquistarsi la fiducia
del figlio del boss, fonte primaria per i suoi articoli. Il romanzo è dun-
que la rielaborazione di fatti realmente accaduti. Siamo nel 1964 e il
famigerato capomafia castellammarese viene rapito, a Park Avenue, e

141
  New York, Random House, 1984.
142
  New York, Random House, 1996.
143
  New York, Random House, 2000.
144
  New York, World Publishing Company, 1971.

164
Gli emigranti raccontano: Stati Uniti o il “sogno a stelle e strisce”

poi dichiarato morto. Un anno e mezzo più tardi, però, riappare mi-
steriosamente sulla scena scatenando una sanguinosa vendetta che lo
porterà ad essere riconosciuto come capo indiscusso. La sua fine sarà,
però, molto meno gloriosa: sarà infatti condannato a quattro anni di
carcere per una banale truffa di carte di credito.
Il tema è ancora al centro di alcuni romanzi di Nicholas Pileggi. Il
suo Wiseguy, del 1986, è incentrato sulla figura di Henry Hill che an-
cora adolescente inizia, quasi per caso, la carriera criminale, in seno
alla famiglia mafiosa italo-americana di Paul Vario – gestore di un
deposito di taxi ed eminente membro della famiglia Lucchese. Le sue
qualità di servitore capace, fedele ed omertoso, gli valgono la stima
del datore di lavoro che ne approfitta per “imporgli” lavoretti sporchi.
In pochi anni diviene esperto in rapine, contrabbando, scommesse e
riciclaggio. Quando però decide di invischiarsi nel traffico di stupe-
facenti, per il quale viene arrestato, Paul Vario – da sempre contrario
al commercio di droga – gli nega la sua protezione. Henry, allora,
decide di vendicarsi divenendo collaboratore del FBI. Il successivo
Casino: Love and Honour in Las Vegas145, un romanzo, ancora una volta
basato su fatti realmente accaduti, racconta, attraverso gli occhi di
uno dei più importanti proprietari di sale da gioco dell’epoca, Frank
Rosenthal, trent’anni anni di mafia, corruzione e gioco d’azzardo a
Las Vegas e le sue sporche amicizie nel mondo del crimine, tra le qua-
li, non ultima, quella con Anthony Spilotro. Al racconto, si intreccia
nel testo la storia d’amore con la bella Geraldine McGee, prostituta
invaghita del proprio “protettore”, Leonard Marmor. Dopo un perio-
do di facili guadagni, il casinò e, con esso, la fortuna di Frank iniziano
a decadere. Frank scoprirà di essere stato tradito dalla moglie e dal
suo migliore amico che hanno intrecciato una relazione insieme ad un
complotto ai suoi danni.
Il filone mafioso riscuoterà un tale successo di pubblico da indurre
anche autori non di origine italiana a percorrerlo. Si ricordino qui tra
gli altri, a titolo di esempio, Edward Wellen che nel 1970 pubblica il
suo Hijack146 un romanzo che mescola mafia e fantascienza. Dal peni-
tenziario di Atlanta, attraverso una radio miniaturizzata installata in

145
  New York, Simon & Schuster, 1995. Il testo è stato trasposto, nello stesso anno
della sua pubblicazione, da Martin Scorsese in Casino.
146
  In “Venture. Science Fiction”, May 1970.

165
Con biglietto di andata

un molare, il vecchio e potente don Vincenzo avverte i suoi “picciotti”


al di là del muro che si prepara qualcosa di grosso. Sembra, infatti,
che il governo degli Stati Uniti stia progettando qualche importante,
complessa, misteriosa operazione. Nick Tallant (nato Taglione), un
giovane in gamba che ha studiato all’università, conduce la sua inda-
gine ad alto livello scientifico e presenta la sua incredibile e inconfu-
tabile scoperta: il sole sta per esplodere e il governo, per scongiurare
la fine della razza umana, sta organizzando alcuni voli spaziali per
trasferire un campione di uomini. Cosa Nostra corre il pericolo di
estinzione; i mafiosi devono riuscire a confiscare alcuni razzi e a par-
tire: l’operazione sarà compiuta con successo ma alla fine si scoprirà
che il tranello era stato ordito dal FBI per liberarsi di loro.
Di molti anni più recenti sono i sequel di The Godfather approntati
da Mark Winegardner.
L’autore, su commissione dell’editore, consegna alla Random
House due testi. Il primo, del 2004, The Godfather Returns147, è am-
bientato tra il 1955 e il 1962 e presenta Michael Corleone che, una
volta ottenuta la sua vendetta, si trasferisce in Nevada dove spera di
poter condurre una vita lontana dalle attività criminose. Il secondo,
The Godfather’s Revenge148, continua il precedente. Negli Stati Uniti sta
per aver inizio uno scontro titanico tra forze molto potenti e diverse
tra loro. Il giovane presidente dello Stato federale, proveniente dalla
famiglia Shea (alias dei Kennedy) e soprattutto il capace e ambizio-
so Daniel, procuratore generale, hanno dichiarato una guerra senza
quartiere a Cosa Nostra. Intanto Michael Corleone, alla costante ri-
cerca di legittimazione all’interno dell’organizzazione, è attanaglia-
to ogni sera da dubbi, rimorsi e paurosi fantasmi: uno di questi è
quello di Fredo, l’amato fratello fatto uccidere dal Al Neri, il quale in
un’apparizione profetizza la minaccia incombente. Un altro fantasma
è Nick Geraci, che, scampato all’attentato ordito dallo stesso Michael,
sta preparando la sua vendetta. A questo punto a Michael e al suo
fidato consigliere Tom Hagen, non resta che ri-iniziare a combattere.
Sempre la mafia fa da sfondo alle vicende narrate da Don Win-
slow in The Winter of Frankie Machine149. A sessantadue anni, Frank

147
  New York, Rondom House, 2004.
148
  New York, Rondom House, 2006.
149
  New York, Knopf Doubleday Goup, 2006.

166
Gli emigranti raccontano: Stati Uniti o il “sogno a stelle e strisce”

Machianno, alias Frankie Machine, è un tranquillo uomo d’affari, an-


cora nel pieno delle sue forze: proprietario di un negozio di esche sul
molo di San Diego, agente immobiliare, rifornitore di pesce e tovaglie
per ristoranti. Con una figlia da mantenere agli studi, una ex moglie
cui pagare gli alimenti, una fidanzata, giovane e bella, che ama diver-
tirsi. Ha un amico poliziotto cui ha salvato la vita ma che sa tutto del
suo passato, della sua lunga militanza in Cosa Nostra. Quando i suoi
vecchi compagni di lavoro si fanno vivi e gli chiedono di intervenire
come mediatore in una lite tra famiglie, Frank non può rifiutare anche
se ciò significa precipitare di nuovo nel mondo della mafia. Per riusci-
re a sopravvivere, non gli resta che tornare a essere il terribile Frankie
Machine; e nel frattempo cercare nel suo passato, per scoprire chi, tra
i suoi vecchi “amici”, è così ansioso di vederlo morto.
Negli anni più recenti il filone letterario si è quasi del tutto esau-
rito dal momento che le più giovani generazioni, sia pure di oriundi,
non avvertono più quel senso di appartenenza all’Italia. Essi sono or-
mai del tutto statunitensi e la loro italianità resta solo legata a qualche
ricordo familiare o al cognome.
Resta comunque innegabile, per concludere, che, per quanto in
forme spesso assai distanti le une dalle altre, gli scrittori della lettera-
tura statunitense di origine italiana, hanno saputo far emergere, e in
modo assai concreto, le profonde ferite che la diaspora italiana ha in-
ciso sugli italiani: dallo sfruttamento dei giovani all’abbandono delle
donne fino alle inadempienze del sistema politico da un lato, alla cre-
azione di opportunità economiche, culturali e sociali dall’altro.

167
IV
Gli emigranti raccontano: l’Argentina o la “patria
di riserva”

Tra le numerose altre destinazioni della nostra grande emigrazio-


ne, l’Argentina è stata, tra il 1830 e il 1950, meta privilegiata dell’e-
sodo nazionale, verso la quale si sono diretti circa 3.500.000 italiani
a larga maggioranza di origine contadina, provenienti da quasi tutte
le regioni1. Fu durante la lunga dittatura di Juan Manuel Rosas che
cominciarono i primi contatti con l’Italia, soprattutto grazie ai rap-
porti commerciali con i Genovesi; da quel momento lasciarono l’Italia
per il Paese sudamericano i primi nuclei di migranti che pian piano
iniziarono ad occupare gli spazi lasciati liberi nel mercato del lavo-
ro da parte dei nativi, decimati dalle guerre d’indipendenza prima
e dalle guerre civili poi, da una diminuzione della natalità, nonché
dall’obbligo alla leva militare imposto da Rosas. Molti genovesi, so-
prattutto pescatori e lavoratori marittimi, cominciarono a stabilirsi
nel quartiere della Boca di Buenos Aires2. Da quel momento in poi
l’emigrazione italiana verso l’Argentina crebbe ogni anno di più, in-
centivata da un ciclo di prosperità economica del Paese che aveva
trovato soprattutto nella lana il suo primo prodotto da esportazione.
L’Argentina accoglieva dunque bene gli emigranti perché essendo un
Paese vasto quasi dieci volte l’Italia, ambiva ad essere popolato e,
soprattutto, necessitava di manodopera per la costruzione delle città

1
  Cfr. Fernando Devoto, In Argentina, in Piero Bevilacqua, Andreina De Clementi,
Emilio Franzina (a cura di), Storia dell’emigrazione italiana, 2 voll., Roma, Donzelli,
2002, t. II, Arrivi, pp. 25-54; e Id., Storia degli italiani in Argentina, Roma, Donzelli,
2007.
2
 Ancora oggi, i lavoratori marittimi del porto di Buenos Aires usano il dialetto xenei-
se, mentre al porto di Mar del Plata si usa tutt’oggi il dialetto siciliano.
Con biglietto di andata

e di contadini per la coltivazione delle sconfinate e fertili terre. Otte-


nere la cittadinanza, inoltre, non era un’impresa impossibile, come è
oggi in Europa. In Argentina come in tutta l’America vige lo ius soli:
chi nasce sul suolo del Paese ottiene di diritto la cittadinanza. Tra l’al-
tro, a differenza degli Stati Uniti, si può contestualmente conservare
anche la cittadinanza italiana.
La distesa oceanica che separa l’Italia dall’Argentina, però, era av-
vertita come insormontabile. Contrariamente a coloro che partivano per
gli Stati Uniti, gli italiani salpavano per quell’altro mondo mettendo in
valigia, insieme ai loro sogni, tutti i loro averi perché sapevano che con
molta probabilità avrebbero fatto un viaggio di sola andata. Si trattava
di dare un taglio netto con il passato, di lasciarsi alle spalle la famiglia da
richiamare quando la situazione economica fosse diventata più solida,
di guardare avanti, di non pensare agli amici di gioventù, alla propria
storia. Per sopravvivere alla struggente nostalgia, i nostri emigranti cer-
cavano, ancor più di quanto non sia fisiologico per ogni emigrazione, di
ricreare modi di vita e punti di riferimento culturali riunendosi in asso-
ciazioni per lo più regionali che esistono tuttora:

Es después la caída de la tiranía de Rosas (1852) cuando se empieza a


manifestar el surgimiento de actividades y organizaciones de filiación
itálica gracias al nacimiento de las primeras radicaciones estables y
perdurables de población italiana en territorios del Plata. Y con ello el
surgimiento de una colectividad italiana organizada que para su me-
jor desenvolvimiento comienza a fundar Sociedades de Socorro Mu-
tuo, Hospitales Italianos en las principales ciudades y numerosísimas
asociaciones que se van desperdigando a lo largo y a lo ancho de las
florecientes colonias agrícolas de la emergente Pampa Gringa3.

La tendenza all’associazionismo creò una sorta di «parentela im-


maginaria»4 così come un’emigrazione a catena. La certezza di trova-
re, al proprio arrivo, conoscenti che sapevano già parlare la lingua del
posto, spesso in grado oltretutto di offrire un alloggio ed un impiego
anche transitori, invogliava alla partenza e forniva all’emigrante quel

3
  Adriana Cristina Crolla, Las migraciones ítalo-rioplatenses. Memoria cultural, literatura y
territorialidades, Santa Fe, Universidad Nacional del Litoral, 2013, p. 29.
4
  Devoto, In Argentina, cit., p. 31.

170
Gli emigranti raccontano: l’Argentina o la “patria di riserva”

punto di appoggio indispensabile per non percepire la scelta emigra-


toria come un terrificante salto nel vuoto. In secondo luogo, la massa
di italiani insediatasi nel Paese sudamericano, arrivò in un momento
propizio: l’Argentina era economicamente in notevole espansione e,
a livello burocratico e amministrativo, in fase di costruzione. Per ul-
timo, i nuovi arrivati venivano considerati «facilmente integrabili»5,
in quanto abili contadini, latini e cristiani; fattori che concorsero a
facilitare un processo di integrazione saldo e durevole. Le favorevoli
condizioni offerte a questi emigranti, tuttavia, non è stata immune da
difficoltà e afflizioni. Molti di loro hanno vissuto costantemente con
un forte senso di straniamento, a cavallo fra due realtà, culturalmente
vicine ma al contempo geograficamente lontane e chi emigrava por-
tava con sé condizioni originarie molto differenziate:

Non c’è un Italia che emigra, ma un paese Italia con i suoi particolaris-
mi, la sua molteplicità linguistica e culturale. Un paese al quale erano
mancati gli strumenti per poter acquisire quella coscienza necessaria
per l’identificazione nazionale e che in America continua a consider-
arsi veneto, ligure o piemontese prima che italiano6.

Con il cambio di secolo, il Paese assunse anche il controllo delle


terre fino ad allora dominio degli indigeni, acquisendo milioni di et-
tari da coltivare, mentre l’allevamento del bestiame era di preferenza
riservato alle famiglie della ricca borghesia argentina.
L’Argentina possedeva dunque, più di qualunque altra nazione,
le caratteristiche per diventare una “seconda patria”. Un luogo cioè
dove i lavoratori volenterosi avrebbero avuto la possibilità di condur-
re un’esistenza più dignitosa; quell’America lontana ma ormai rag-
giungibile rappresentava una valvola di sicurezza, una vera e propria
terra delle opportunità o meglio, come conferma Cattarulla:

Uno spazio ideale e futuro che si contrappone allo spazio reale e pre-
sente […] il mito di “fare l’America”, di elevarsi socialmente ed eco-
nomicamente si costruisce proprio a partire dalle contrapposizioni fra

5
  Ibidem.
6
  Camilla Cattarulla, Di proprio pugno. Autobiografie di emigranti italiani in Argentina e
Brasile, Parma, Diabasis, 2003, p. 88.

171
Con biglietto di andata

il qui e il là, il presente e il futuro, il vicino e il lontano dove il primo


e sinonimo di miseria, mentre il secondo rappresenta la ricchezza.
L’immaginario americano alimenta questa presunzione utopica, fa
intravedere la possibilità di cambiare radicalmente la propria vita,
sfuggendo ad un destino che sembra immutabile7.

Promossa a partire dalla Costituzione del 1853, l’apertura del go-


verno argentino nei confronti dell’immigrazione fu successivamente
incentivata. Nel 1876 sotto il governo del presidente Nicolás Avel-
laneda, venne approvata la cosiddetta «Ley de Inmigración y Colo-
nización»8, la prima legge organica in materia di emigrazione il cui
obiettivo principale era quello di fomentare l’immigrazione. La legge
offriva agevolazioni agli immigrati e prometteva la concessione di
terre pubbliche. Gli effetti si fecero subito sentire: la pampa argen-
tina si stava tramutando, in questi anni di maggiore affluenza, in
una sorta di colonia agricola italiana. Nel 1914, mentre gli Argentini
mantenevano il primato nel settore dell’allevamento, circa due terzi
degli agricoltori erano italiani o figli di immigrati italiani9. Un tale
sviluppo portò alla costruzione, con capitali inglesi, delle ferrovie e
promosse la crescita di altre attività, dal commercio ai servizi. Da quel
momento, però, la presenza sempre più numerosa di immigrati pro-
venienti dall’Italia suscitò nella cerchia dell’élite argentina un vero e
proprio allarme per il timore che questi ultimi sarebbero penetrati
anche all’interno degli strati sociali più alti. Si cominciò prima a cor-
relare la presenza italiana con la criminalità nel Paese e, intorno alla
metà del secolo, vista la solidità delle strutture associative degli ita-
liani e vista la loro capacità di mobilitazione, si cominciò a temere per
una politica “imperialista” dell’Italia in seguito all’abbandono delle
mete africane. Nel corso degli anni a venire, si alternarono percezioni
diverse verso gli italiani, da alcuni considerati l’opzione migliore per
lo sviluppo del Paese, da altri visti sempre più come una minaccia.
Inoltre, se da un lato gli Italiani sembravano ben inseriti all’interno

7
  Ivi, p. 54.
8
  Cfr Susana Novick, Migración y políticas en Argentina: Tres leyes para un país extenso,
in Las migraciones en América Latina. Políticas, culturas y estrategias, Buenos Aires,
Editorial Catálogos-Clacso, 2008, pp. 1-16.
9
  Cfr. Devoto, Storia degli italiani in Argentina, cit., p. 270.

172
Gli emigranti raccontano: l’Argentina o la “patria di riserva”

della società argentina, dall’altro alcuni di loro vivevano una realtà


ben diversa che si scontrava con le difficoltà dell’integrazione, con
una esasperata difesa dell’italianità e con il considerarsi sempre come
semplici “ospiti” all’interno della nuova comunità.
Anche nel caso dell’Argentina, la Prima guerra mondiale portò ad
una brusca interruzione del flusso di migranti provenienti dall’Euro-
pa e dall’Italia, con un saldo migratorio che diventava ora negativo.
Se da una parte, la partecipazione al conflitto mondiale della Nazione
italiana comportò la necessità di mandare al fronte centinaia di miglia-
ia di giovani di sesso maschile, dall’altra si assistette alla diminuzio-
ne della richiesta di manodopera negli Stati latinoamericani, causata
da una netta riduzione degli acquisti e degli investimenti da parte
di quegli Stati europei impegnati, fisicamente ed finanziariamente,
nell’enorme dispendio umano ed economico dell’impresa bellica. Il
Governo argentino cominciò a prendere provvedimenti restrittivi ri-
spetto all’immigrazione; ora, per entrare nel Paese, occorreva, infatti,
essere muniti di passaporto ed ottenere i certificati di sana e robusta
costituzione, rilasciati delle autorità. In poco tempo, l’Argentina so-
stituì la sua politica liberale con una politica di controlli. A limitare ul-
teriormente l’emigrazione furono anche le leggi fasciste del 1927 e poi
la crisi mondiale del ‘29. La visione fascista, infatti, considerava l’emi-
grazione una vera e propria vergogna nazionale e mirava, invece, al
sogno di poter dare agli italiani un posto nella vicina Africa dove essi
avrebbero potuto stabilirsi non come immigrati, stranieri, emarginati,
bensì come colonizzatori. Propositi questi ultimi, uniti al tentativo
di fascistizzazione degli italiani in Argentina, che si rivelarono del
tutto fallimentari. Negli stessi anni un’altra battuta di arresto all’im-
migrazione fu causata dal colpo di Stato del generale José Félix Uri-
buru. Tuttavia l’emigrazione si ridusse solo parzialmente. Si faceva
strada, infatti, un’inedita forma di emigrazione politica, quella degli
antifascisti che si aggiunsero agli anarchici già arrivati nel Paese alla
fine dell’Ottocento. Al di fuori dei confini europei quest’emigrazione
predilesse, tra le mete transoceaniche, ancora una volta l’Argentina,
tanto da conferire a questo paese l’epiteto di “patria di riserva”10. Tale

10
  Cfr. Federica Bertagna, La patria di riserva. L’emigrazione fascista in Argentina, Roma,
Donzelli, 2006.

173
Con biglietto di andata

rallentamento portò, nel frattempo, gli italiani già presenti in Argenti-


na ad integrarsi più facilmente grazie ad un clima più rilassato all’in-
terno della società. Il primo dopoguerra vide comunque un aumento
delle partenze: emigrare apparve ancora una volta una via d’uscita
dalla miseria e dalla precarietà. L’esodo transoceanico assunse ca-
ratteri di maggiore varietà, facendo perdere all’Argentina il ruolo di
protagonista assoluta, assieme agli Stati Uniti, delle migrazioni italia-
ne. Le nuove politiche canadesi di immigrazione assistita e gli accordi
italo-australiani stimolarono flussi emigratori più consistenti verso
tali rotte, che assunsero a buona ragione il titolo di Nuove Americhe11.
L’emigrazione verso l’Argentina riprese poi nel secondo dopoguerra,
quando il nuovo governo peronista rilanciò l’immigrazione con piani
particolarmente ambiziosi: gli arrivi dovevano essere gestiti secondo
una politica di “spontaneità, selezione, canalizzazione”, ossia ognu-
no poteva essere utile al Paese e ognuno poteva trovare la sua giusta
collocazione all’interno del mercato del lavoro argentino. In realtà,
quello peronista, si rivelò un progetto assai confuso e disorganizzato
e a ciò si aggiunsero anche altri problemi quali l’inadeguatezza delle
strutture amministrative e la corruzione. Tra il 1947 e il 1951 giunsero
nel paese altri 300.000 italiani, grazie ad un nuovo accordo commer-
ciale tra i due Paesi che avrebbe previsto, nei successivi cinque anni,
l’arrivo di un altro mezzo milione di immigrati. Durante il secondo
dopoguerra, infatti, l’Italia si trovò ad affrontare una situazione di
assoluto sfacelo. Fu allora che l’emigrazione venne riportata al centro
dell’orizzonte di aspettative di molti italiani che guardarono nuova-
mente all’Argentina come meta privilegiata. I nuovi governi italiani
democratici erano interessati a promuovere e favorire l’emigrazione,
in primo luogo perché la libertà di emigrare era considerata una delle
libertà fondamentali dell’individuo che il fascismo aveva annullato,
ma anche perché l’emigrazione sembrava uno strumento utile a ri-
solvere rapidamente numerosi problemi del Paese: poteva ridurre il
problema della generalizzata disoccupazione che la distruzione bel-
lica e il disordine della vita economica avevano acuito e funzionare
come “valvola di sicurezza” prevenendo conflitti sociali. Attraverso

11
  Cfr. Patrizia Audenino, Maddalena Tirabassi, Migrazioni italiane. Storia e storie
dall’Ancien régime a oggi, Milano, Mondadori, 2008, pp. 129-130.

174
Gli emigranti raccontano: l’Argentina o la “patria di riserva”

le rimesse degli emigrati, il governo poteva oltretutto riportare in


equilibrio la bilancia dei pagamenti. I governi italiano e argentino fir-
marono allora una serie di accordi bilaterali che garantivano obiettivi
distinti. A promuovere questi nuovi flussi migratori non erano più
soltanto i singoli individui, i loro amici o i loro parenti o, ancora, gli
agenti di emigrazione; l’interesse era, adesso, anche dei due governi.
Per quanto riguarda l’Italia, l’emigrazione avrebbe potuto risollevare
le sorti del Paese distrutto, per quanto riguarda l’Argentina, la neces-
sità di reclutare masse di immigrati era legata al progetto di crescita
del Paese.

[…] l’economia argentina era allora in notevole espansione e stava


nascendo la struttura produttiva moderna; inoltre era in corso la
costruzione della stratificazione sociale […] Fu in quel momento che
avvenne l’articolazione della società argentina, proprio in parallelo
all’arrivo delle ondate di immigrati italiani che parteciparono alla
costruzione dello stato argentino, della sua struttura burocratico-am-
ministrativa12.

Il governo peronista riteneva che nell’Europa semidistrutta esi-


stesse un’offerta illimitata di lavoratori e si concedeva il lusso non
solo di scegliere i Paesi di partenza, ma di selezionare gli stessi “di-
sperati” da accogliere. Si preferivano immigrati mediterranei, cat-
tolici, di sicura affiliazione anticomunista, che fossero agricoltori o
tecnici: gli italiani quindi rappresentavano dei perfetti candidati allo
sviluppo del Paese. Nel frattempo il governo stava pensando di ap-
portare alcune modifiche al regolamento del 1923, mai fino ad allora
rivisitato, che normalizzava l’ingresso nel Paese di cittadini stranieri.
L’idea prevedeva di ridurre il costo dei diritti consolari; di rendere
libera l’immigrazione per i parenti di ogni ordine e grado di residenti
stranieri; di autorizzare imprenditori o privati cittadini a far arrivare
immigrati con contratti di chiamata in una gamma ampissima di pro-
fessioni. Nel 1948, ad esempio, l’imprenditore Carlo Borsari venne in-
caricato da Juan Perón di ricostruire la città di Ushuaia per rilanciarla
dopo la chiusura della colonia penale. Borsari chiamò dall’Italia, a col-
laborare al progetto, tecnici, architetti, ingegneri e manovali. In realtà

12
  Devoto, Storia degli italiani in Argentina, cit., p. 9.

175
Con biglietto di andata

tali modifiche non vennero né discusse né approvate in parlamento;


al contrario, nel 1950 venne imposto l’obbligo per gli immigranti di
saper leggere e scrivere13. Già intorno agli anni Cinquanta del Nove-
cento il flusso migratorio sembrò destinato ad interrompersi a cau-
sa delle difficoltà economiche del Paese e del controllo sulle rimesse
degli italiani. Dal punto di vista dell’integrazione sociale, anche gli
ultimi arrivati riuscirono, anche se con le stesse difficoltà incontrate
dai loro predecessori, ad integrarsi in forma stabile nel sistema oc-
cupazionale argentino, grazie ad un clima sempre più democratico
in ambito culturale ed egualitario sul piano sociale. In quegli stessi
anni si registrano anche alcuni cambiamenti di distribuzione della
comunità italiana i cui nuovi arrivati tendevano ad insediarsi preva-
lentemente nella provincia di Buenos Aires con un totale, nel 1960, di
470.000 italiani, ossia la metà di tutti gli italiani presenti nel Paese14.
Gli italiani si inserirono tanto nei nuovi settori socio-economici (come
le industrie) quanto all’interno delle numerose strutture amministra-
tive dello Stato; si trovavano dappertutto: tra gli operai e tra gli im-
prenditori, tra i proprietari terrieri e tra i braccianti, tra i proprietari
di case e tra i locatari, tra i lavoratori a giornata e i professionisti. È
questo, dunque, uno dei motivi per i quali gli italiani riuscirono, con
non troppe difficoltà, ad integrarsi nella nuova realtà argentina e a
far parte di quella pluralità sociale e culturale contrariamente, per
esempio, a ciò che avveniva negli Stati Uniti.
Nei primi anni dell’emigrazione verso l’Argentina, più che di “ita-
liani” dovremmo parlare di individui provenienti dalla Penisola italica.
Si trattava soprattutto di genovesi, piemontesi, friulani e veneti, segui-
ti, successivamente, dai meridionali provenienti soprattutto dalla Sici-
lia e dalla Calabria. Agli occhi e sulle labbra degli argentini gli italiani
erano, comunque, tutti tanos che probabilmente è un’abbreviazione di
napoletanos perché soprattutto i meridionali anziché indicare la loro cit-
tà di provenienza, preferivano spesso fare riferimento a una città come

13
  Cfr. Andrea Ferrari, La presenza italiana in Argentina, aspetti socio-economici in Id.,
Aspetti socio-culturali dell’emigrazione italiana in Argentina: il caso di Santa Fe, tesi di
laurea in Economia e Direzione delle imprese, Università degli studi di Torino, a.a.
2007-2008, p. 56.
14
  Cfr. Devoto, Italiani in Argentina ieri e oggi, in “Altreitalie”, n. 23, luglio-dicembre
2003, pp. 4-17.

176
Gli emigranti raccontano: l’Argentina o la “patria di riserva”

Napoli che tutti conoscevano. Erano tanos gli agricoltori italiani senza
terra e senza cultura che a Rosario e a Buenos Aires trovavano lavoro
come muratori; così come tanos erano coloro che fondarono il Movi-
mento Anarchico Argentino e i primi sindacati, influendo a dare agli
italiani anche una caratterizzazione politica. Tra gli anarchici si registra
la presenza di Errico Malatesta, fuggito dall’Italia nel 1885, che proprio
a Buenos Aires inizia la pubblicazione de “La questione sociale”, un
giornale bilingue che diffondeva tra gli immigrati gli ideali anarchici e
socialisti; quella di Pietro Gori, anarchico messinese, tra i fondatori del-
la federazione operaia regionale argentina, o quella di un altro italiano
ancora dimenticato: quel Severino Di Giovanni fucilato dai militari nel
gennaio 1931 dopo un processo sommario.
Le prime ondate videro in prevalenza l’emigrazione di molti
agricoltori che ebbero un ruolo dominante nell’occupazione e nella
coltivazione delle immense terre spopolate e nel successivo svilup-
po dell’economia esportatrice argentina basata sui prodotti agricoli
quali mais, grano, lino, segale e orzo. Oltre agli agricoltori, numerosi
furono anche gli artigiani e gli operai specializzati che trovarono po-
sto nelle numerose industrie, in particolare nel settore alimentare, dei
materiali per le costruzioni e nella metallurgia, nelle tipografie, nelle
fabbriche per la lavorazione del gesso, nella produzione delle sode e
delle gazzose e nell’industria tessile. Le ondate successive, a partire
dalla prima metà del Novecento, poi, videro interessato un numero
sempre più alto di professionisti e di specialisti in diversi ambiti che
contribuirono a sviluppare campi ancora vergini all’interno del Pae-
se: da quello intellettuale e scientifico a quello architettonico e arti-
stico. L’Argentina era, infatti, un paese carente di tradizioni tecniche
e intellettuali, per cui cercava all’estero questo tipo di risorse umane
che trovava negli italiani, figli di un popolo con una storia culturale
e artistica di antica discendenza famosa ben oltre i confini nazionali.
Alcuni italiani riuscirono ad occupare posizioni importanti in istitu-
zioni di nuova creazione o ricevettero incarichi per realizzare ricerche
e per progettare e costruire opere pubbliche. Tra di essi è da ricordare
il palermitano Giuseppe Ingegneros che fu presidente della Sociedad
Médica Argentina e tra gli animatori del movimento per la “Reforma
Universitaria” iniziata nel 1918. Risulta chiaro, quindi, come l’emi-
grazione italiana in Argentina non ebbe riscontri positivi solo per i
nostri connazionali che riuscirono a fare di questa terra la loro patria,

177
Con biglietto di andata

ma fu anche importante, per non dire necessaria, per lo stesso Paese


sud-americano:

[…] l’immigrazione italiana è stata la prima collettività migratoria in Ar-


gentina e ha inciso quantitativamente e qualitativamente su tutti gli aspetti
di questa società come in nessun altro paese di destinazione migratoria15.

L’impronta italiana è stata incisa in modo profondo sulla cultura


del paese sudamericano: dal tango ríoplatense alla cultura materiale
(cucina, edilizia, architettura, scultura) alla letteratura, al cinema, al
teatro e ad altre manifestazioni culturali16.
Negli ultimi decenni si è sviluppato, in Argentina, un interesse per
un’indagine retrospettiva della composizione costitutiva dell’attuale
cultura. Specialmente dopo il ritorno alla democrazia, ovvero dagli anni
Ottanta, infatti, un nutrito gruppo di intellettuali ha inteso realizzare una
rilettura critica della storia del Paese, nella convinzione che: «para la con-
strucción del futuro nacional es imprescindible mirar al pasado y recupe-
rar las raíces personales y colectivas»17. In questo percorso, risulta inevi-
tabile guardare all’immigrazione e alla compresenza di differenti apporti
culturali e linguistici che hanno caratterizzato il Paese; si porta avanti per-
ciò una significativa riflessione sul fenomeno migratorio transoceanico,
sui suoi protagonisti e soprattutto, sulla loro rilevanza nella costruzione
del Paese e nella formazione della sua identità contemporanea:

La esencia identitaria de la actual Argentina (es) lugar de cruces, de


paradas y de arraigamientos donde diferentes sociedades se han ali-
mentado, fundidas y con-fundidas en la diferencia, en una incesante
renovación de elementos nuevos y absolutamente originales que han
dado vida a una identidad nacional concreta y autónoma.18

15
  Vanni Blengino, Fra analogia e stereotipi: ‘rileggere’ l’emigrazione italiana in Argentina. Il
patrimonio musicale europeo e le migrazioni, Venezia, Università Ca’ Foscari, 2004, p. 72.
16
  Cfr. Ruggiero Romano, Il lungo cammino dell’emigrazione italiana, in “Altreitalie”, n.
7, gennaio-giugno 1992, pp. 6-18, p. 6.
17
 Ilaria Magnani, Por caminos migrantes hacia la conciencia de una identidad abierta, “Al-
tre Modernità”, 2, ottobre 2009, pp. 141-153, p. 145.
18
  Silvana Serafin, La literatura migrante en la formación de la conciencia nacional argenti-
na, in “RiMe. Rivista dell’Istituto di Storia dell’Europa Mediterranea”, vol. 6, June
2011, pp. 169-188, p.185.

178
Gli emigranti raccontano: l’Argentina o la “patria di riserva”

La cultura argentina è composta da frammenti di varia prove-


nienza linguistica, religiosa, culturale, contenuti però in un involucro
nazionale definito, paradossalmente, proprio dalla molteplicità degli
apporti etnici che ne hanno arricchito la composizione. Alla chiara
consapevolezza di questa pluralità si accompagna la volontà si sal-
dare il presente con il passato attraverso la ricerca delle radici, anche
italiane. È all’interno di questo scenario di riscoperta della plurali-
tà culturale del Paese, che guadagna spazio l’elaborazione prodotta
sull’esperienza migratoria di numerosi scrittori italo-argentini, espe-
rienza che si traduce in una cospicua produzione letteraria e che, solo
da pochi decenni ha conquistato anche l’attenzione della riflessione
critica italiana.
Nella promozione della cultura italiana, significativo è stato il ruo-
lo assunto, fin dall’inizio e anche in questo caso, dai periodici quali
“La Nación”, “La Patria degli Italiani”, “Nosotros”, “Martín Fierro” e
“Sur”, che contribuirono alla diffusione delle letteratura italiana, non
solamente canonica, nel Paese sudamericano19.
“La Nación” fondato nel 1870, inizia a farsi divulgatore della cul-
tura italiana a partire dai primissimi anni del Novecento. Nel 1903,
Giovanni Verga è già presente con Historia de una capinera, mentre nel
1907, il periodico aveva già pubblicato a puntate e in traduzione il
romanzo più rappresentativo del Romanticismo italiano: Los novios
di Alessandro Manzoni. Nello scorcio di quegli stessi primissimi anni
del Novecento non mancano al novero neanche Edmondo De Amicis
con il suo Corazón, in vero già tradotto a Buenos Aires nel 1887; Ma-
tilde Serao che, invece, vanta due titoli: Sor Juana de la Cruz, nel 1903,
e El pais de holgorio nel 1909, la sua più celebre opera dedicata a Na-
poli. Accanto alla Serao figura anche l’illustre rivale Grazia Deledda,
con La hiedra, nel 1908. Sempre “La Nación” vanta anche una illustre
rubrica dedicata alle “Bellezze d’Italia”, quasi sempre, e forse non a
caso, settentrionali.

19
  «”Nosotros” (1907-1943), “Martín Fierro” (1924-1927) e “Sur” (1931-1981) segnaro-
no rispettivamente la concretizzazione di un canone classico della letteratura italia-
na, l’irruzione in ambito argentino di modello d’avanguardia italiani ed europei e
l’evoluzione articolata e l’affermazione di nuovi modelli culturali italiani che hanno
goduto di vasto prestigio in Argentina» (Alejandro Patat, Un destino sudamericano.
La letteratura italiana in Argentina (1910-1970), Perugia, Guerra, 2005, p. 7).

179
Con biglietto di andata

“Nosotros” (1907-1941) venne fondato da Roberto Giusti e Alberto


Bianchi che si appoggiarono sulla prestigiosa collaborazione del gre-
cista Francisco Capello. Restii ad accettare e diffondere la moderna
letteratura italiana, arrivarono soltanto dopo il 1914, e con un certo
travaglio, a considerare con interesse critico parte delle opere di Ga-
briele D’Annunzio, Giovanni Pascoli e Giosuè Carducci, favorendo-
ne la traduzione. Il periodico ebbe come obiettivo primario quello di
diffondere i problemi della cultura argentina, dalle lettere alle scienze
sociali, caratterizzandosi fin da subito quale «luogo d’incontro degli
studiosi dell’Università di Buenos Aires con i critici letterari di “La
Nación”, quotidiano rappresentante l’élite conservatrice che domina-
va il paese»20. I collaboratori del periodico caratterizzandosi, dunque,
per l’impronta prettamente reazionaria dei canoni critici ed estetici,
si impegnò, comunque anche se con ritardo, a divulgare l’opera di
grandi autori quali, appunto, D’Annunzio, Pascoli (per la sua «capa-
cità di raggiungere le vette del lirismo italiano, ma rimanendo fedele
ad una visione umile e umanitaria del mondo e degli uomini»21) e
Carducci (la cui poesia rappresentava «ciò che di più civile, vitale e
virile l’Italia possedesse in tempi così drammatici»22). I numerosi ar-
ticoli e saggi sulla poesia italiana dal Duecento in avanti furono pro-
posti in ottica «genealogica» ed «estrapolativa» dei temi e degli autori
presi in considerazione: se la lettura di Dante «fuori del suo tempo» e
in riferimento continuo ai grandi testi dell’antichità caratterizzò suc-
cessivamente la critica argentina23, anche D’Annunzio fu interpretato
come «punto di massima inflessione»24 del classicismo italiano.
In netta contrapposizione agli orientamenti reazionari dei perio-
dici sopra menzionati è il “Martín Fierro” (1924-1927). I suoi redattori
vollero assumere la poetica e l’insegnamento delle avanguardie sto-
riche come vitale per la spinta ad una effettiva autonomia nazionale
dalla cultura europea. Se tra gli obiettivi principali della pubblicazio-

20
  Ivi, p. 32.
21
  Ivi, p. 36.
22
  Ivi, p. 37.
23
  Si vedano, a questo proposito i Nueve Ensayos dantescos di Jorge Luis Borges (in-
troduccion de Marcos Ricardo Barnatan, presentacion por Joaquin Arce, Madrid,
Espasa-Calpe, 1982.
24
  Patat, op, cit., p. 53.

180
Gli emigranti raccontano: l’Argentina o la “patria di riserva”

ne vi fu quello di andare contro il pubblico borghese e delle accade-


mie «esprimendo una rinnovata sensibilità, cioè, la celebrazione del
moderno», il rapporto nei confronti del futurismo italiano va, invece,
letto nel senso di un «riutilizzo di materiali poetici e letterari effettiva-
mente nuovi per la cultura ispanoamericana degli anni venti, riado-
perati, appunto, ai fini specifici delle proprie esperienze artistiche»25.
“Sur”, (1931-1981), infine, si pose tra gli estremi delle precedenti
posizioni: se il punto focale, come per la “Nación” e per “Nosostros”
rimaneva il problema di «interrogarsi sull’identità latinoamericana»,
la rivista fondata da Victoria Ocampo ebbe lo scopo di «importare in
modo sistematico tutto ciò che a partire dalla consapevolezza iden-
titaria risultasse assente o insufficiente»26, al fine di offrire «un di-
scorso coerente, per cui un gruppo ridotto di intellettuali argentini
[…] rimasero uniti per portare avanti un’impresa collettiva»27. Pecu-
liarità del periodico, che riportava in traduzione ciò che usciva sulle
maggiori testate culturali europee quali la “Revista de Occidente” e
la “Nouvelle Revue Française”, fu il carattere “salottiero” della sua
redazione: tutti i collaboratori, infatti, erano legati fra loro da amicizia
o da conoscenza stretta, mentre i corrispondenti esterni erano tutti
diretti amici della Ocampo. Tra questi, rilevante fu il ruolo svolto da
Leo Ferrero, collaboratore di “Solaria” (1926-1936), la rivista fiorenti-
na con la quale il periodico condivise non pochi ideali: l’europeismo,
l’ansia di sprovincializzazione, l’opposizione alle metodologie positi-
viste e la messa in discussione di alcuni principi crociani. Figlio dello
storico Guglielmo e di Gina Lombroso, nipote del celebre psichiatra,
Ferrero fu l’unico rappresentante della cultura italiana nel consiglio
redazionale grazie proprio al suo prestigio culturale transnaziona-
le che affascinò la Ocampo. “Sur” ha assunto un ruolo significativo
poiché ha reso possibile seguire l’attività letteraria nazionale dagli
anni Trenta fino agli anni Settanta del Novecento. L’identità dei suoi
partecipanti è stata caratterizzata da «un’ideologia liberale, univer-
salista, contraria al pensiero populista e nazionalista che dagli anni

25
  Ivi., p. 78.
26
  Ivi, p. 111.
27
  Ivi, p. 112.

181
Con biglietto di andata

trenta fino all’ultimo governo di Perón (1973-1974) ha segnato una


parte della storia e della cultura argentina»28.
L’interesse principale e comune a tutti i collaboratori della rivista
ha riguardato tanto la cultura e la letteratura nazionali quanto le re-
lazioni con l’insieme della cultura occidentale, creando un’atmosfera
di «cosmopolitismo extranjerizante»29 e di modernizzazione. Come
ricorda Serfin:

[…] personalità come Eduardo Mallea, Jorge Luis Borges, José Orte-
ga y Gasset, D.W. Lawrence, Virginia Woolf, Aldous Huxley, Thomas
Mann, sono, fin dal 1935, interlocutori fissi del dialogo politico-letter-
ario, basato sulla difesa della cultura e della persona, quali elementi
imprescindibili per il raggiungimento della libertà. Non sorprende,
pertanto, che si lasci spazio anche all’espressività femminile che es-
ploderà con vigore a partire dagli anni settanta30.

In questo scenario, infatti, cominciano a comparire, allora, anche


le voci femminili. Significativa è stata l’influenza delle sorelle Ocam-
po, Victoria e Silvina nelle proposte artistiche di chi, come Syria Polet-
ti, collaborò alla rivista. Silvina Ocampo, ad esempio, promuovendo
nella sua scrittura «un universo di ossessioni tutte al femminile, dà
origine a un linguaggio letterario che si manifesta, a partire dagli anni
Sessanta, nelle tematiche e nelle forme composite di molte scrittrici
argentine»31. Entrambe hanno dunque favorito l’apertura di nuovi
spazi sulla scena letteraria sudamericana nei quali si affacciano final-
mente anche le donne.
Ruolo importante è stato svolto anche da “La Patria degli Italiani”
(1876-1930); un quotidiano nato per iniziativa di Basilio Cittadini che
ebbe una larga diffusione anche al di fuori della collettività italiana:
«Entrava a tutto titolo ogni mattina alla Casa Rosada», che lo consi-
derava «vocero e interprete di una laboriosa comunità di imprenditori

28
  Ivi, p. 113.
29
  Ibidem.
30
  Silvana Serafin, Syria Poletti: la scrittura della marginalità, in “Oltreoceano”, 2, 2008,
pp.145-155, p. 151.
31
  Federica Rocco, La donna argentina e la scrittura, in “Oltreoceano”, 2, 2008, pp. 137-
144, p.139.

182
Gli emigranti raccontano: l’Argentina o la “patria di riserva”

di città e di campagna, di lavoratori sparsi in tutto il Paese»32 e ave-


va dunque una posizione di prestigio. Quando però l’assetto politico
italiano mutò, il periodico divenne inviso agli agitatori fascisti e alla
rappresentanza diplomatica italiana a Buenos Aires che avrebbero
voluto appropriarsi del foglio per farne un organo di propaganda,
tra gli immigrati italiani, del regime mussoliniano. La testata, aveva,
al contrario, accompagnato l’immigrazione italiana in Argentina; il
gruppo di redattori che lo aveva animato, allora, non volle piegar-
si al fascismo e tentò di resistere, ma del tutto inutilmente. Con la
chiusura del quotidiano, iniziò anche il lento declino della stampa
d’emigrazione.
Per quel che attiene all’angolo di visuale dal quale si intende guar-
dare all’interno di questo lavoro, queste esperienze che hanno visto
come protagonisti gli italiani in Argentina non potevano ancora una
volta che riflettersi anche sui testi testimoniali e letterari di coloro che
le avevano vissute in prima persona. Solo di recente, anche in questo
caso, la critica ha iniziato a volgere lo sguardo verso questa letteratu-
ra, a guardare oltre i confini nazionali, verso quei paesi la cui storia si
intreccia con quella italiana attraverso una continua commistione di
etnie, lingue e culture. Questa letteratura non è nata soltanto da chi
spostandosi dal proprio verso un altro paese ha sentito il bisogno di
scrivere e far sentire la sua voce, ma anche da chi ha vissuto l’emigra-
zione solo in parte, perché momentanea o perché figlio di immigrati,
ed ha avvertito comunque il bisogno di raccontare le vite e le vicende
di tutti coloro i quali, per fortuna o per sfortuna, sono dovuti partire.
L’intento di questi autori è stato quello di raccontare il fenomeno mi-
gratorio rispetto ai suoi legami con i nodi problematici dell’Italia. Essi
hanno dovuto fare i conti con i modelli letterari della letteratura risor-
gimentale, incapaci di cogliere una realtà che trascendesse dall’asset-
to nazionale appena ricostruito e hanno voluto dar vita ad una nuova
letteratura, più libera e ibrida. Nel caso degli autori italo-argentini,
come affermato da Regazzoni, l’obiettivo era quello di:

reconstruir la identidad del país y de los argentinos; […] En este caso


se confirma la figura del inmigrante como protagonista, ya no como

32
  Dante Ruscica, Giornali italiani in Argentina, in “Comunicando”, III, 1, 2002, pp.
71-74, p. 71.

183
Con biglietto di andata

un personaje, blanco de críticas o de imitación cómica, sino como del


que se necesita para reconstruir una identidad personal, nacional y
cultural33.

Appare dunque chiaro che non è solo l’identità argentina, di cui


l’immigrato fa pienamente parte, a dover essere costruita ma, prin-
cipalmente, quella dell’emigrato sospeso tra l’incertezza di apparte-
nenza ad una o all’atra cultura. Secondo Franca Sinopoli34 esistono
due forme di indagine critica del fenomeno migratorio: una che ha
a che fare in modo precipuo con il viaggio inteso come spostamento
fisico verso l’altro paese; e un’altra, forse ancor più interessante, che
lascia la migrazione sullo sfondo del plot e mira ad individuare la crisi
del senso d’appartenenza identitaria e la trasformazione dell’iden-
tità “monoculturale” in identità “interculturale”. È proprio questo
uno dei temi fondamentali che ritroviamo in molti testi di autori ita-
lo-argentini tra i quali Antonio Dal Masetto, Roberto Raschella, Syria
Poletti, Griselda Gambaro, Martina Gusberti e molti altri che hanno
affrontato il tema migratorio ponendo l’attenzione su diversi aspetti
quali: le difficoltà del viaggio, l’esaltazione dello spazio fisico, la dife-
sa dell’identità linguistico-culturale, l’inclusione in una nuova realtà
che comporta l’assimilazione di elementi autoctoni o, al contrario, un
senso di perdita totale e, ancora, il distacco da casa e dalla propria pa-
tria che porta ad una malinconica nostalgia e ad un necessario recu-
pero del passato attraverso la memoria e l’immaginazione, per giun-
gere, infine, alla speranza e alla voglia del nostos, del ritorno a casa35.
Una delle caratteristiche principali di tali produzioni letterarie ri-
guarda la contaminazione tra generi e varietà stilistiche. Il romanzo
dell’emigrazione per esempio, spesso si mescola o si confonde con

33
  Susanna Regazzoni, Italia argentina una historia compartida: Syria Poletti inmigrante
italiana, escritora argentina, in “Dimensões”, vol. 26, 2011, pp. 60-75, p. 61.
34
  Cfr. Franca Sinopoli, Migrazione/letteratura: due proposte d’indagine critica, in France-
sco Argento, Paola Cazzola (a cura di), Culture della migrazione. Scrittori, poeti e artisti
migranti, Atti del convegno nazionale (Ferrara, 10, 11 e 12 aprile 2003), Ferrara, Cies,
2004, pp. 15-26.
35
  Cfr. Silvana Serafin, Letteratura migrante. Alcune considerazioni per la definizione di
genere letterario, “Altre modernità”, n. spec. Migrazioni, diaspora, esilio nelle letterature
e culture ispanoamericane, a cura di Ana María Gonzáles Luna e Laura Scarabelli,
2014, pp. 1-17, p. 3.

184
Gli emigranti raccontano: l’Argentina o la “patria di riserva”

l’autobiografia, con i libri di viaggio o ancora con quelli di formazio-


ne36. Ciò porterebbe ad affermare che esistono affinità stilistiche-ar-
gomentative e problematiche comuni che sono riscontrabili in molti
testi che hanno come perno, o solo come sfondo, il tema delle migra-
zioni. In realtà invece, tali peculiarità non sono state ancora teorizzate
e non rappresentano obbligatoriamente delle costanti narrative, ben-
ché, ovviamente alcuni temi siano più presenti. Innanzitutto, il ricor-
so ad un’ottica pseudo-autobiografica37 che fa dell’immigrato e della
sua esperienza in prima persona un testimone “autorizzato” a parlare
di tutti quegli aspetti che, come già affermato, rientrano nell’ambito
della tematica migratoria; il ricorso al discorso indiretto libero o al
dialogo38 che rispondono alla riproposizione di una forma di oralità
caratteristica del contatto interpersonale; e, ancora, il ricorso al solilo-
quio attraverso il quale la voce narrante, confidandosi con il lettore,
cerca di ripercorrere le tappe dell’esperienza migratoria, di risolvere i
suoi conflitti interiori. Attraverso una forma di scrittura autoreferen-
ziale, gli scritti di questi autori mirano a creare quel patto autobiogra-
fico tra scrittore, protagonista e attore, per invitare il destinatario del
loro racconto ad immedesimarsi nelle vicende narrate.
Contrariamente a quanto è accaduto negli Stati Uniti, fino a tutta
la prima metà degli anni Cinquanta del Novecento non si può parlare
qui neppure di protoletteratura. Se è vero che non mancano, scritti,
lettere e testimonianze rilevanti sul piano dell’indagine sociologica,
è vero altresì che la cifra letteraria è pressocchè assente. All’iniziale
mancanza di una consistente produzione narrativa legata ai temi in
questione corrispose, come conseguenza naturale e piuttosto preve-
dibile, un sostanziale disinteresse da parte della critica. Tuttavia, il
clima di riscoperta e ritorno al tema che ha caratterizzato la produ-
zione letteraria degli ultimi decenni si è riflesso anche sulle indagini
critiche. In tempi odierni, il fenomeno migratorio internazionale è
divenuto centrale per numerosi studi e riflessioni connessi ai più sva-
riati ambiti disciplinari; studi che Cattarulla definisce migrant studies:

36
  Cfr. Ivi, p. 6.
37
  Cfr. Ivi, p. 11.
38
  Cfr. Ivi, p.12.

185
Con biglietto di andata

Il nostro oggetto di studio è diventato materia di studio di un comp-


lesso multidisciplinare (racchiuso sotto il termine migrant studies) che
coinvolge sociologi, antropologi, psicologi, filosofi, demografi, econ-
omisti, politologi e, cosa che più ci interessa, studiosi di letteratura.
In effetti, fin dai suoi inizi, il processo migratorio ha dato origine, di
qua e di là dell’Oceano, a un corpus letterario sul tema attinente a tutti
i generi e forme della scrittura creativa e non. Tale corpus ha merita-
to anche l’attenzione critica di specialisti di letteratura italiana e di
quelle letterature ispanoamericane i cui paesi sono stati interessati dal
fenomeno delle migrazioni, come Argentina e Uruguay39.

Le opere degli italo-argentini raccolgono e custodiscono le vicende


esistenziali e sono in grado di rappresentare lo sviluppo di un percor-
so evolutivo durante e dopo l’acquisizione di un nuovo assetto iden-
titario. Come nota Russo, questa produzione letteraria «costituisce
un riscatto semantico per cui anche chi è ospitato, chi emigra o chi è
emigrato può esprimersi o meglio “aver voce”, e riflette – soprattutto
in certi testi narrativi – sulla possibilità di parola che il migrante in
quanto subalterno può avere e può attribuirsi» 40.
Anche in questo caso, le prime prove di ciò che per grandi linee
può essere considerata letteratura appartengono al genere teatrale
che offre interessanti spunti di riflessione grazie alla capacità di rap-
presentare problemi legati all’inserimento degli immigrati nella nuo-
va società, alla conflittualità tra nativi e gringos, restituiti attraverso
la caricatura dell’immigrato in generale, e dell’italiano in particolare.
Nel Juan Moreira di Eduardo Gutiérrez41– opera fondante della tradi-
zione gauchesca rioplatense – si esplicitano le difficoltà di inserimen-
to dell’immigrato: «Nel palcoscenico si polarizzano due figure: il gau-
cho, portatore di valori tradizionali e il gringo, che indica lo straniero
soprattutto italiano, figura identificata con l’uomo nuovo, minaccioso

39
  Camilla Cattarulla, Migrazioni al Río de la Plata e critica letteraria in Italia, in “Altre
Modernità”, n. 2, ottobre 2009, pp. 100-122, p. 101.
40
  Vincenzo Russo, Il monolinguismo dell’altro: subalternità, voce e migrazione, in “Altre
Modernità”, 2 , ottobre 2009, pp. 79-89, p. 79.
41
  Il dramma è stato pubblicato a puntate, tra il novembre del 1879 e il gennaio del
1880 sul quotidiano “La Patria Argentina”.

186
Gli emigranti raccontano: l’Argentina o la “patria di riserva”

perché al di fuori del modello conosciuto»42. La contrapposizione fra


elemento autoctono – il gaucho Juan Moreira, appunto – portatore di
valori tradizionali e elemento straniero – il commerciante Sardetti –
era dunque netta. Tuttavia, nelle successive rivisitazioni del testo, a
questa immagine negativa se ne sostituì un’altra di tipo comico e ca-
ricaturale relativa all’elemento linguistico, ovvero a quel castigliano
storpiato (il Cocoliche43) – attribuito al personaggio di Sardetti – che
suscitava comicità e risultava ben accolto dal pubblico: «il senso di
nazionalità si costruisce, dunque, in opposizione allo straniero, me-
diante il racconto della vigliaccheria, della disonestà, della cattiveria
che lo caratterizzano e, in seguito, mediante l’uso di una lingua casti-
gliana deformata e storpiata»44. Altro personaggio caricaturale desti-
nato a popolare il palcoscenico e la produzione teatrale fino almeno
ai primi due decenni del Novecento è Juan sin Ropa, che rappresenta
la figura dell’immigrato che proviene dal settentrione d’Italia. Questo
genere, per altro, riusciva a penetrare in tutti gli strati sociali – quelli
popolari attratti dagli spettacoli circensi, dal genere grottesco e dal
sainete criollo, e quelli più colti interessati al teatro sociale e alla cosid-
detta “comedia blanca”45 – mettendo in scena temi trasversali che ri-
uscivano a toccare i profondi sentimenti di tutti gli immigrati: la per-
dita della patria e la conseguente pervicace volontà di conservare e
difendere le tradizioni culturali. Sempre nel genere farsesco, a segna-
re la via di transizione tra i due generi teatrali è Mustafá di Armando
Discepolo e Rafael José De Rosa, messa in scena per la prima volta al
“Teatro Argentino” nel 1921, in cui rivive l’atmosfera dei conventillos
e quella lingua ibrida del cocoliche è utilizzata, ora, in tono realistico
e drammatico piuttosto che caricaturale. L’immagine negativa attri-

42
  Susanna Regazzoni, Riflessioni sulla presenza italiana nella letteratura argentina, in
“Oltreoceano”, I, 2007, pp. 103-116, p.105.
43
  Prima di designare un registro linguistico, il Cocoliche era, all’inizio, il nome pro-
prio di un personaggio. Sul Cocoliche, si veda Antonella Cancellier, Italiano e spagnolo
a contatto nel Rio de la Piata, I fenomeni del «cocoliche» e del «lunfardo» in Antonella
Cancellier, Renata Londero (coord. por), Atti del XIX Convegno [Associazione degli
ispanisti italiani], Roma, 16-18 settembre 1999, 2 voll, pp. 69-84.
44
  Regazzoni, Riflessioni sulla presenza italiana, cit., p. 106.
45
  Cfr. Mirta Arlt, El inmigrante italiano en la comedia blanca de lo años Vente y Trenta,
in Osvaldo Pellettieri (coord. por), La Inmigración italiana y teatro argentino, Buenos
Aires, Editorial Galema, 1999, pp. 111-120.

187
Con biglietto di andata

buita allo straniero italiano viene dunque a poco a poco superata fino
ad assumere valenze positive. Il personaggio dell’immigrato, comun-
que, continuerà a rappresentare, almeno fino al 1930, la fastidiosa no-
vità del sostrato sociale. In seguito, però, esso diviene parte integran-
te della società perdendo ogni connotazione di diversità.

Un contributo fondamentale alla creazione letteraria è stato offer-


to dalle donne:

Nell’emigrazione italiana storica […] il discorso era tutto al maschile,


e al femminile al massimo si parlava di […] vedove bianche, sospese
nel vecchio mondo nell’attesa di una lettera, di una notizia, di una
rimessa: nella società patriarcale dell’Italia di allora la donna, soprat-
tutto delle classi meno agiate, non aveva alcuna autonomia né possi-
bilità di produrre, se non la prole e i servizi connessi alla casa e alla
piccola agricoltura. Fuori delle mura domestiche non avrebbe potuto
svolgere nessun ruolo e anzi sarebbe stata di intralcio nelle storie di
uomini dell’emigrazione46.

L’immagine dominante della donna nelle migrazioni è stata a lungo


quella di una figura pienamente accessoria. Nel passato le fonti stesse
‘nascondevano’ le donne: durante la grande emigrazione all’interno
della famiglia, come testimoniano i passaporti familiari, e nelle liste di
sbarco, in cui figuravano come casalinghe, anche se lavoravano quan-
to e più degli uomini47.

Una proliferazione di opere scritte da donne costituì un vero e


proprio fenomeno editoriale, dovuto anche alle richieste sempre
più consistenti di un pubblico, soprattutto femminile, desideroso di
misurarsi con nuove tematiche e di dare voce alla donna e alla sua
esperienza. È possibile, pertanto, individuare un mondo letterario
articolato, un ambiente culturale propizio ad accogliere i segni di un
rinnovamento in cui alla donna vengono offerte delle opportunità,
sempre maggiori con il trascorrere degli anni. La narrativa al fem-

46
  Rosa Maria Grillo, Storie di donne tra Italia e Río de la Plata, in “Oltreoceano”, 2, 2008,
pp. 95-106, p. 95.
47
  Emilia Perassi, Scrittrici italiane ed emigrazione argentina, in “Oltreoceano”, 6, 2012,
pp. 97- 107, p 101.

188
Gli emigranti raccontano: l’Argentina o la “patria di riserva”

minile tuttavia, non propone l’innovazione di generi e linguaggi let-


terari, ma come afferma Lojo, le nuove tematiche e la specificità del
discorso femminile rivendicano uno spazio all’interno dei canali tra-
dizionali del romanzo occidentale, invadendo però spazi considerati,
fino ad allora di esclusiva prerogativa maschile:

[...] En los textos escritos por mujeres la novedad no tiene demasia-


do que ver con la ruptura de formas, la invención de otras matrices
genéricas el dislocamiento del lenguaje recibido. Su operatoria con-
siste, antes bien, en tomar por asalto, en “ocupar” los cauces tradi-
cionales de la gran novela de Occidente para invadirla, penetrarla,
contaminarla, con una visión de que se autodeclara “femenina”, y por
ende, diferente de la visión masculina hasta entonces predominante.
Las innovaciones son básicamente de trama, y así las examinaremos:
hacen irrumpir una temática antes ausente, construyen personajes
femeninos más libres de los estereotipos en que suelen caer los escri-
tores varones, despliegan valoraciones del mundo desde el punto de
vista de género, con matices específicos.48

Per ricostruire i modelli comportamentali attraverso i quali pren-


deva forma la vicenda esistenziale delle donne immigrate, occorre
innanzi tutto tenere conto delle differenze temporali e, conseguente-
mente, socio-culturali fra chi, per esempio, emigrò oltreoceano negli
anni Trenta dell’Ottocento e chi giunse nel nuovo Paese a metà del
Novecento. All’interno delle diverse fasce generazionali – madri e fi-
glie emigrate insieme – le reazioni al trauma emigratorio erano assai
diverse, sia per quanto riguarda l’inserimento nel nuovo ambiente
di vita, sia per i legami con il Paese d’origine. Le italiane erano tante,
quante le variegate realtà dell’Italia da cui partivano. A determinar-
ne i ruoli, i comportamenti e le attività concorrevano l’appartenenza
alla classe sociale, il livello di formazione culturale, la provenienza
regionale, nonché il mestiere esercitato e l’assetto economico in cui lo
si esercitava. È quanto si impegnano a dimostrare Alicia Bernasconi e
Carina Frid analizzando comparativamente due scenari urbani della
provincia argentina di Santa Fe con caratteristiche diverse ma inte-

48
  Maria Rosa Lojo, Pasos nuevos en espacios habituales, in Elsa Drucanoff (coord. por),
La Narración gana la partida. (Historia Crítica de la Literatura Argentina, 11), Buenos
Aires, Emecé Editores, 2000, pp. 19-48, p. 21.

189
Con biglietto di andata

ressati entrambi dal fenomeno migratorio tra la fine dell’Ottocento e


gli inizi del Novecento2. Le città prese in esame sono Rosario, la più
grande e popolosa della provincia, con un importante porto sul fiume
Paraná, e San Cristóbal, piccola città rurale. I risultati di questo studio
permettono di confutare le tesi sulla marginalità della donna nel pro-
cesso di integrazione nel mondo professionale del Paese d’accoglien-
za49. Il quadro occupazionale argentino non impose alle donne una
rottura rispetto al loro universo domestico; le reti sociali costituitesi
nella nuova società contribuirono a mantenere una continuità affetti-
va con il paese d’origine.
Di tipo diverso era la vita delle italiane, soprattutto di origine
meridionale, che si stabilirono, al seguito dei mariti, nella provincia
di Chubut, in Patagonia, presso gli accampamenti adiacenti agli im-
pianti di estrazione del petrolio di Comodoro Rivadavia, agli inizi del
Novecento. Gli uomini lavoravano nel giacimento, mentre alle donne
era riservato il ruolo tradizionale di cura dei figli e della casa. Unica
eccezione era quella delle vedove degli operai, le quali, in attesa che
i figli maschi raggiungessero l’età lavorativa, erano impiegate nella
nettezza dei bagni pubblici all’interno dell’accampamento50. A partire
dal secondo dopoguerra anche le donne cominciarono a lavorare per
l’Impresa, ma solo fino al matrimonio o alla nascita dei figli.
Come si accennava più sopra, il mondo degli immigrati era molto
variegato. Gli studi sulla partecipazione femminile ai movimenti so-
ciali e politici contribuiscono a mettere in risalto un aspetto forse poco
noto dell’immigrazione in Argentina: il ruolo primario che le italiane
interpretarono nel quadro di un impegno sociale che concorse attiva-
mente alla formazione della nascente società. Uno dei problemi che le
donne immigrate tra il 1850 e il 1950 condividevano con le argentine
era la persistente negazione alla concessione dei diritti politici e la
mancanza di una legge sul suffragio femminile, a cui si associava la
negazione della parità salariale. Sulla scia di idee libertarie e sociali-
ste, giunte dall’Europa insieme agli intellettuali ed ai professionisti
immigrati e diffuse attraverso le associazioni operaie e contadine,

49
  Cfr. Alicia Bernasconi y Carina Frid, De Europa a las Américas: dirigentes y liderazgos
(1880-1960), Buenos Aires, Biblos, 2006.
50
  Cfr. Graciela Ciselli, Trabajo femenino en la industria petrolera de Chubut (1919-1962),
in “Andes”, 13, 2002.

190
Gli emigranti raccontano: l’Argentina o la “patria di riserva”

cominciarono a prendere piede alcuni movimenti di rivendicazione


sociale ai quali si unirono attivamente anche numerose italiane. In
Argentina, molte lavoratrici di origine italiana erano iscritte al partito
socialista o ad associazioni operaie di stampo socialista, anche con
posizioni di primo piano. Tra le italiane si ricordino qui Julieta Lante-
ri che fu attiva nelle lotte politiche e legislative per l’ottenimento del
diritto al voto e Carolina Muzzilli che si impegnò sul fronte delle lotte
per il miglioramento delle condizioni di lavoro e per la parità salaria-
le. Ancora più incisiva fu la partecipazione al movimento anarchico
che promuoveva azioni volte a combattere ogni tipo di sfruttamento
e ogni discriminazione economica, culturale e sociale.
Il percorso letterario intrapreso dalle italiane in Argentina resti-
tuisce un quadro impressionistico delle emozioni più profonde del-
le donne immigrate, la cui avventura, fatta di abbandoni, partenze,
viaggi, incontri, nostalgia, solitudine e speranza, diviene metafora
del viaggio, reale e simbolico, che costituisce la cifra di ogni esistenza
umana.
Per ricostruire la realtà femminile delle grandi migrazioni tran-
soceaniche attraverso l’immagine proposta dalla narrativa argentina,
occorre rivolgere l’attenzione alla produzione contemporanea, per-
ché le opere apparse prima della metà del XX secolo si occupano solo
marginalmente delle donne, limitandosi a fornire di loro una visione
schematica, così come rilevato nell’ambito della produzione letteraria
italiana. In questi casi manca quasi del tutto un’analisi psicologica
dei personaggi femminili, rappresentati con i tratti stereotipati della
maschera, cristallizzati in ruoli tradizionali, spesso costretti a sceglie-
re tra la miseria, il lavoro o la prostituzione. Nei decenni successivi
l’interesse per i temi legati all’immigrazione diminuisce, in parallelo
all’aumento di un desiderio di rimozione dell’origine migratoria. A
partire dagli anni Sessanta del Novecento si assiste ad un recupero
delle tematiche migratorie nella produzione letteraria di scrittori che,
personalmente o attraverso l’ascendenza familiare, sono stati coin-
volti nell’esodo migratorio. Il protagonista del racconto, in questi ro-
manzi, è anche il soggetto narrante che espone in prima persona la
sua storia e quella della sua famiglia. Le figure femminili assumono
così una nuova centralità, dal momento che la trasmissione della me-
moria è affidata soprattutto alle donne, che rivestono metaforicamen-
te il ruolo di ponte con il passato e con l’identità familiare.

191
Con biglietto di andata

Nelle ricostruzioni storiche che precedono gli anni Settanta, l’emi-


grazione italiana è considerata un’esperienza prevalentemente maschi-
le. Il tratto più evidente delle donne è quello dell’«invisibilità»51: esse
rimangono costantemente sullo sfondo come figure marginali, passive,
silenziose. La dicotomia mobilità maschile e immobilità femminile ha
rappresentato un fattore decisivo per la marginalizzazione della figura
femminile nella lettura dei processi migratori di massa. Rispondendo
ai criteri di un’ottica patriarcale, la componente maschile è apparsa
più adatta ad affrontare il rischio e la fatica che l’esperienza migratoria
avrebbe implicato, mentre quella femminile più confacente ai lavori
dentro e non oltre le mura domestiche. Quest’ottica considera «la idea
de tareas o roles de género como algo dado o natural que no requería
de discusión o análisis»52. Tuttavia, rivisitazioni di marca femminista
hanno proposto una rilettura di tali dinamiche attraverso una prospet-
tiva al femminile che oltrepassa i modelli prefissati, rintracciando la
presenza di donne che hanno nettamente ribaltato i canoni prestabiliti.
Donne che si presentano come “nuove Penelopi”, che hanno offerto
una visione alternativa della propria condizione di subalternità e dei
parametri di potere patriarcali proiettandosi «más allá del umbral»53.
La riconsiderazione della donna quale soggetto presente e attivo è sta-
ta auspicata da una serie di studi e riflessioni riguardanti il contesto
sud-americano e quindi anche argentino. Brigidina Gentile ha messo in
luce come, all’interno del panorama della letteratura latino-americana,

51
  Maddalena Tirabassi in un’analisi comparativa fra italiane emigrate e italiane in pa-
tria durante il corso delle emigrazioni di massa riconosce che «l’invisibilità è il primo
tratto comune tra le italiane e le emigrate […] perché la storia tenesse in adeguata con-
siderazione i ruoli svolti dalle donne è stato necessario eliminare la divisione artificia-
le fra lavoro e casa» (Italiane ed emigrate, in “Altreitalie”, 9, 1, 1993, pp. 139-151, p. 141).
52
  Marcela Tapia Ladino, Género y migración: trayectorias investigativas en Iberoamérica,
in “Revista Encrucijada Americana”, 4, 2, 2010-2011, pp. 115-147, p. 124.
53
  «Para nosostras, en efecto, ir más allá del umbral, significa...[que] en su transire, en
el acto de sobrepasar el umbral doméstico, el sujeto femenino se hace intérprete de
la realidad social e histórica emancipándose de su propia condición de subalternidad
y empazando a proyectar visiones alternativas del mundo, liberado de los modelos
dominantes y de los lenguajes del poder. Nace, de esta manera, una nueva conciencia
que rescata la dignidad extraviada y otorga importancia a la función femenina en la
costrucción de la sociedad» (Silvana Serafin Introduccion, in Silvana Serafin, Emilia
Perassi, Susanna Regazzoni, Luisa Campuzano (coord. por) Más allá del umbral: auto-
ras hispanoamericanas y el oficio de la escritura , Sevilla, Renacimiento, 2010, p. 10).

192
Gli emigranti raccontano: l’Argentina o la “patria di riserva”

molte scrittrici, fra le quali Syria Poletti, abbiano «riscattato la visione


tradizionale di Penelope, la quale invece di tessere la tela, tesse le paro-
le in canto, poesia, testimonianza, racconto, romanzo, lettere»54, e chia-
risce che il suo proposito è «quello di esplorare le strade, las rutas de la
Odisea femenina […] dimostrare che anche Penelope viaggia, pur nella
sua immobilità, attraverso un nomadismo interiore che la distingue e
differenzia dall’errante Ulisse»55. Le donne, allora, attraverso biografie,
vere o fittizie,

riscrivono il fenomeno immigratorio dal punto di vista femminile per


rivendicare, oltre l’ascendenza etnica che rappresentano e s’incarica-
no di trasmettere alle generazioni successive, la loro partecipazione
attiva: a lungo ignorate e/o rese invisibili mediante il ruolo di madre,
moglie, sorella o figlia di immigrante maschio, le donne recuperano la
voce e, tramite le protagoniste dei romanzi, segnalano le tappe inizia-
tiche di un’emancipazione difficile [...]56.

Generalmente, le autrici si orientano verso uno stile pseudo-au-


tobiografico che tende verso la ricerca, o meglio la definizione della
propria identità. Il vincolo con la doppia realtà ha provocato in loro,
più forse che negli uomini, una lacerazione dell’io, un sentirsi sem-
pre a metà, ormai radicate in un luogo ma con lo sguardo sempre
rivolto alla terra d’origine. La scrittura allora rappresenta un tentati-
vo per auto-identificarsi, per ricostruire se stessi: «Il testo, come uno
specchio ancora vuoto, è, pertanto, in attesa di un’immagine nuova
da riflettere. Essa prende consistenza nell’istante in cui la donna, ab-
bandonate le certezze e le sicurezze del focolare, si sottrae al proprio
ruolo e se ne va in pellegrinaggio alla ricerca del senso perduto, del
sé smarrito»57.

54
  Brigidina Gentile, I Viaggi di Penelope. L’Odissea delle Donne, immaginata, vissuta e
interpretata dalle scrittrici latino-americane contemporanee, in Domenico Antonio Cu-
sato, Loretta Frattale, Gabriele Morelli, Pietro Taravacci, Belén Tejerina (a cura di),
Letteratura della Memoria, Atti del XXI Convegno AISPI (Salamanca, 12-14 settembre
2002), Messina, Andrea Lippolis Editore, 2004, pp. 287-298, p. 289.
55
  Ivi, p. 293.
56
  Federica Rocco, Migrazione ed emancipazione femminile in Puertas adentro (1998) di
Lilia Lardone, “Oltreoceano”, n. 7, 2013, pp. 157-165, pp. 159-160.
57
  Silvana Serafin, Scrittura come nuovo inizio. Riflessioni sul romanzo d’iniziazione al
femminile nel Cono Sur, Venezia, Mazzanti Editori, 2006, p. 10.

193
Con biglietto di andata

Fra coloro che si impegnarono a fissare la memoria della storia


dell’emigrazione delle donne in Argentina è Syria Poletti58, nata a Pie-
ve di Cadore, in provincia di Belluno, nel 1922. Se gli altri componen-
ti della famiglia (madre, due sorelle e un fratello) si ricongiungono
presto al padre in Argentina, la ragazzina deve ancora rimanere in
Italia a causa di una malformazione ossea congenita. I controlli sani-
tari previsti per l’imbarco le impediscono infatti di solcare l’Oceano.
La deformità e il conseguente sentimento del sentirsi diversa, no apta,
la accompagneranno per il resto della vita. All’età di sei anni Syria si
trasferisce a Sacile, dalla nonna materna per tutto il periodo dell’in-
fanzia e dell’adolescenza: riuscirà ad imbarcarsi per l’Argentina solo
nel 1946, anno in cui, terminato il secondo conflitto mondiale, si regi-
stra un nuovo aumento delle partenze e «a diferencia del pasado, la
componente femenina resulta alta, casi al mismo nivel que la mascu-
lina. Este fenómeno es el resultado de una política de reunificación
familiar, fomentada tanto por el gobierno italiano como por el argen-
tino»59. Così, partita dal porto di Genova arriva a Buenos Aires dove
erano ad aspettarla numerosi personaggi delle sue future opere: «En
Buenos Aires me estaban esperando la mayoría de mis personajes,
los que luego aparecierono en mis cuentos y novelas, y otros que, en
el trasiego de los días, se fuerono perdiendo, como hijos que no na-
cen»60. In questo passaggio repentino da una realtà ad un’altra, sorge
subito in lei l’interesse per quella gente che lì con lei, e lì come lei si
era lasciata alle spalle il passato per acquisire in quella terra lontana e
spesso ostile, la possibilità di vivere diversamente e di concretizzare
desideri e aspirazioni. Dopo aver ottenuto la laurea, Syria si trasfe-
risce a Buenos Aires. Qui, dopo un breve periodo di lavoro da tra-
duttrice per la rivista culturale “Historium”, inizia a collaborare, con
interventi di carattere letterario, educativo ed artistico, con numerose
testate giornalistiche tra cui “La Nación”, “La Prensa”, “Vea y lea”,

58
  Per i dati biografici di Syria Poletti cfr. Silvana Serafin, Syria Poletti: biografia di una
passione, in Ead. (a cura di), Immigrazione friulana in Argentina: Syria Poletti racconta,
Roma, Bulzoni, 2004, part. pp. 11-24.
59
  Eugenia Scarzanella, Extranjeras en el país de Evita: la inmigración femenina italiana a
Argentina (1946-1955), in “Anuario americanista europeo”. vol. 3, 2005, pp. 145-171,
p. 146.
60
  Cito da Silvana Serafin, Syria Poletti: biografia di una passione, cit., p.13.

194
Gli emigranti raccontano: l’Argentina o la “patria di riserva”

“Sur”. Diviene redattrice bilingue al SIRA (Servicio Interncional de


Radiodifusión Argentina al Exterior) e capo redattrice al RAE (Ra-
diodiffusione Argentina all’Estero). Approda alla letteratura con un
breve racconto pubblicato su una delle riviste alle quali collaborava
e, poi, con il romanzo Gente Conmigo61. A Gente Conmigo, seguono Lí-
nea de fuego62 che comprende tredici racconti incentrati sul problema
dell’emigrazione e sulla solitudine dell’artista; Historias en rojo63, sette
racconti polizieschi, sempre imperniati sul dramma dell’emigrazione;
Extraño oficio64 incentrato sull’alienazione dell’artista ‘donna’; Amor de
alas65, racconto allegorico che amplia la tematica della narrativa ante-
riore. Si tratta di una produzione che esprime una condizione esisten-
ziale sempre in bilico fra passato e presente, che focalizza il rapporto
dialettico fra due immagini, quella italiana e quella argentina proiet-
tate costantemente nei suoi personaggi. Nel corso della sua carriera si
dedica anche alla letteratura per l’infanzia, convinta che

Únicamente los chicos […] pueden salvar el futuro. Pero no solo con
una mejor tecnología, sino con más imaginación [...] Yo diría que
escribir para los chicos es mi manera natural de relatar: es dar vía libre
a la imaginación. Pero es también el mejor vehículo para expresar mi
mundo interior y para introducir los símbolos, los mitos, los valores
que me importan66.

Syria Poletti è una delle prime autrici a dare spazio al tema dell’e-
migrazione e una delle prime voci femminili a considerare, implici-
tamente o esplicitamente, il problema delle relazioni di potere e di
genere, contribuendo a sovvertire l’immagine di obbedienza e sotto-
missione affiancata a lungo alle donne. Dalla sua tripla condizione di
immigrata, donna, e scrittrice impone una nuova visione dell’identità
femminile nella la volontà di opporsi al silenzio e ai parametri pa-
triarcali.

61
  Buenos Aires, Editorial Losada, 1962.
62
  Buenos Aires, Editorial Losada, 1964.
63
  Buenos Aires, Calatayud, 1969.
64
  Buenos Aires, Editorial Losada, 1971.
65
  Buenos Aires, Artes Gaglianone, 1981.
66
  Chiara Gallo, Syria Poletti: l’infanzia nella letteratura e letteratura per l’infanzia, in
Serafin (a cura di), Immigrazione friulana in Argentina, cit., pp. 47-62, p. 52.

195
Con biglietto di andata

«[…] per sfuggire al destino di immigrante» Syria Poletti «si


dedica intensamente a costruirsene un altro, un nuovo ruolo sociale
e quindi una personalità vergine»67. Il desiderio latente di approdare
alla scrittura si coniuga con la volontà di inserirsi appieno nel paese
che l’ha accolta. In quest’ottica, la scrittrice decide di abbandonare la
lingua italiana per utilizzare il castigliano come lingua di scrittura.

Cuando llegué a Buenos Aires traía mi vocación, nada más. Pensé que
si quería publicar en castillano, debía hacerlo lo mejor posible. Era el
tributo mínimo que debía pagar como extranjera. Había observado,
con pena, que los que escriben en dos idiomas similares simultánea-
mente, acaban confundiendo matices o imponiéndose cierta rigidez.
Entonces, opté por desterrar el italiano; renuncié a traducciones; dejé
de leer y hablar en mi idioma natal. Cuando un instrumento se nos
vuelve imprescindible, todos los sacrificios que hacemos para con-
quistarlo, nos parecen escasos68.

Esperienza, quella di scrivere nella lingua di adozione, che si pre-


senta dolorosa e stimolante allo stesso tempo e che le permette di
rivendicare la sua volontà di integrazione:

Cambiar de idioma fue como […] cambiar de alma. Creo que fue lo
más difícil; lo más doloroso y, quizá, lo más hermoso. Al radicarme
en Argentina y al pretender escribir para los argentinos, quise asumir
toda la realidad del País y me preparé para escribir como el mejor de
los escritores. Y quise ahondar en la historia y en la cultura de Améri-
ca para tener el derecho a opinar, es decir, a crear69.

Pubblicato nel 1962, Gente conmigo è un affresco, reale e fittizio


dell’emigrazione italiana in Argentina, arricchito dalle sfumature sti-
listiche e tematiche che appartengono e contraddistinguono Syria Po-
letti scrittrice. L’opera si propone come «indagación de la identidad in-

67
  Cito da Susanna Regazzoni, Escribir y vivir es lo mismo: Esperienza esistenziale/motivo
letterario in Syria Poletti, in Serafin (a cura di), Immigrazione friulana in Argentina, cit.,
pp. 63-74, p. 73.
68
  Ivi, p. 68.
69
  Cito da Serafin, Syria Poletti: biografia di una passione, cit., p. 16.

196
Gli emigranti raccontano: l’Argentina o la “patria di riserva”

dividual y colectiva»70 in cui l’autrice esplicita l’intersezione fra micro


e macro storia, fra individuo e società, fra memoria propria e memoria
altrui. Le esperienze che ruotano intorno alle personali vicissitudini di
vita si fanno carico di condizioni e sentimenti che accomunano una
molteplicità di persone: la condizione subalterna della donna a metà
secolo, le ingiustizie di tipo sociale, la solitudine e l’abbandono, il sen-
timento di sradicamento che in modo persistente accompagna la vita
degli immigrati in terra straniera:

[...] Creo que nació y maduró en la fragua candente de un sentimiento


de asombro y rebeldía frente al absurdo de ciertas situaciones huma-
nas: el desconcierto de la mujer inteligente ante la mediocridad del
hombre de nuestro tiempo y de nuestro medio; la soledad de quien
está preñado de trascendencia; el abismo entre generaciones; el desar-
raigo del inmigrante; la injusticia de los convenios establecidos entre
América y los países emigratorios, convenios que, en la actualidad,
además de despiadados, resultan anacrónicos. Por ejemplo, el casa-
miento por poder entre una pareja de desconocidos o el veto de ingre-
so al país a los disminuidos físicos71.

La finzione narrativa restituisce un documento che permette la


ricostruzione dall’interno delle condizioni sociali e politiche che ri-
guardano sia la fase pre-migratoria che i meccanismi di inserimento
nella società latino-americana e la conseguente costruzione di una
nuova identità culturale e nazionale composita. Proiettandosi sul suo
personaggio, Dora Candiani, la scrittrice dona all’opera quell’ottica
pseudo-autobiografica frequente negli autori che hanno vissuto per-
sonalmente l’esperienza dell’emigrazione. Molti elementi, sebbene
non dichiarati esplicitamente, rimandano alla biografia dell’autrice (il
viaggio migratorio dall’Italia all’Argentina, la scoliosi ossea, le figure
della sorella e della nonna, ecc…). La struttura del romanzo presenta
venti capitoli nei quali Nora Candiani, dalla cella di una prigione, ac-
cusata di aver falsificato una serie di documenti ufficiali (a lei affidati
poiché traduttrice giuridica), rievoca in prima persona gli eventi della

70
  Fernanda Elisa Bravo Herrera, Syria Poletti y el oficio de escribir exilios, in Rosa Maria
Grillo (a cura di), Penelope e le altre, Salerno, Oèdipus, 2012, pp. 283-304, p. 294.
71
  Syria Poletti, Reportajes a los cuatro vientos, in Ead., …y llegarán buenos aires, Buenos
Aires, Editorial Vinciguerra, 1989, pp. 67-74, p. 69.

197
Con biglietto di andata

sua esistenza cercando di comprendere le motivazioni che l’hanno


compromessa e portata in carcere. In seguito alla separazione dai
genitori partiti per l’Argentina, Nora bambina è affidata alla nonna,
con la quale impara a redigere le lettere da spedire agli emigrati e a
leggere le loro risposte ai familiari; prima esperienza che la pone in
contatto con il mondo dell’emigrazione, con le gioie e i dolori che tale
esperienza porta con sé. Il primo tentativo di imbarcarsi per l’Argen-
tina, per ricongiungersi alla famiglia, le viene negato: le disposizioni
sanitarie non le consentono di imbarcarsi a causa di una malforma-
zione ossea. Dopo una serie di vicissitudini, Nora giunge a Buenos
Aires dove cerca di ambientarsi e di costruirsi una nuova identità.
Qui inizia a lavorare come traduttrice, lavoro che la pone in costan-
te contatto con una moltitudine di immigrati che, insieme agli esse-
ri conosciuti precedentemente, le offrono una galleria di personaggi
che lungo la narrazione diviene quella Gente conmigo che dà il titolo
al romanzo. A Buenos Aires incontra, innamorandosene, Renato, un
giovane veneto, un uomo arrivista e senza scrupoli e che, alla fine
del romanzo, si svelerà colpevole dell’arresto di Nora. Disorientata
dagli eventi del presente, Nora comincia a scrivere un diario in cui
mescola i ricordi legati all’infanzia e all’adolescenza trascorse in Ita-
lia; ricordi che, nei primi capitoli seguono un ordine cronologico. Nei
capitoli successivi, l’intersezione fra passato e presente si fa sempre
più evidente; la narrazione alterna pensieri che Nora formula mentre
è in cella, ricordi che fuoriescono dalla stesura del diario, estratti dei
quaderni riguardanti vite altrui, vite di quella Gente così indispensa-
bile per Nora, storie separate le une dalle altre ma poi intrecciate e
riannodate nel corso della narrazione. Recuperare il passato significa
per Nora trovare le parole per esprimere l’esperienza dolorosa della
famiglia lontana, il trauma dell’arrivo in un nuovo Continente, la per-
dita di un’identità originaria, la capacità di reagire al difficile destino
di immigrante; esperienze che l’autrice supera attraverso il proces-
so catartico della scrittura. L’esperienza dell’emigrazione costituisce
simbolicamente la linea di demarcazione che separa il tempo dell’in-
fanzia e dell’adolescenza italiana a quello della maturità argentina;
tempi separati ma mescolati continuamente fra loro. In Gente conmigo,
la problematica dell’emigrazione è affrontata in primo luogo dal pun-
to di vista di chi resta e vede partire i propri cari verso Stati stranieri,
soprattutto americani e, in questa prospettiva, l’emigrazione assume

198
Gli emigranti raccontano: l’Argentina o la “patria di riserva”

i connotati di esperienza lacerante e drammatica in termini di separa-


zione, abbandono, isolamento. Ma, dinnanzi ad una realtà che poco
o nulla offre alla povera gente, la scelta di emigrare appare l’unica
soluzione possibile per sottrarsi alla precarietà e alla miseria.

Tal vez todo empezó en mi aldea, carcomida por los siglos, devastada
por las invasiones, el día en que mis padres se marcharon a América.
Entonces la Argentina se me figuró como un monstruo devorador de
padres, madres y hermanos (p. 9).

[...] esta América [...] Una tierra que no se hallaba por el lado de la
Rusia ni por el lado de Trípoli. Era otra cosa: era la que se comía a los
hijos. Porque de los demás países la gente regresaba...de América la
gente no volvía. O si volvía era para hacer otros. Eran americanos.
Tan americanos que las pobres madres no sabían cómo tratar a sus
hijos de tan manipulados y distintos que eran... porque en América el
monstruo les había comido el corazón (p. 14).

Una delle conseguenze relative al dramma dell’emigrazione, sot-


tolineata a più riprese dalla scrittrice, riguarda il disfacimento dei le-
gami familiari. È quello che succede per esempio a Doña Martina,
«la vieja más vieja del pueblo» (ibidem), sola e abbandonata dai vari
figli disseminati per il mondo: «[…] una hija y cuatro hijos que ahora
estaban colocados en el mundo como los mejores productos de expor-
tación» (ibidem). Della figlia in Argentina non giunge infatti alcuna
notizia in grado di confortare il cuore di una madre lontana né di
risanare il loro legame. E la speranza di ricomporre assieme i pezzi
di una famiglia disgregata è il motivo che spinge Nora ad imbarcarsi
per l’Argentina. Ma è proprio lì che avverte sensazioni di distacco
e estraneità. La separazione familiare, durata ben quindici anni, ha
incrinato i legami di quella sua strana famiglia ritrovata intatta nei
suoi membri e persino aumentata, ma che le appare in ultima istanza
sconosciuta, estranea, come straniera nella sua intima struttura, una
famiglia di dispersi:

Una extraña familia reencontraba intacta en sus miembros y hasta au-


mentada, pero desconocida, ajena, como remota o extranjera en su
íntima estructura. Una familia de dispersos que la inercia relegaba a
un amodorrado pueblo chaqueño.

199
Con biglietto di andata

Al cabo de quince años de separación cualquier gajo ha reproducido


los tejidos desgarrados por el corte. Y ya no necesita el tronco... mi tajo
vivía por sí mismo (p. 35).

La constatazione dell’impossibilità di ricucire i rapporti con la fa-


miglia inducono Nora ad abbandonare in fretta il Chaco e a trasferirsi
a Buenos Aires, seguita dalla sorella Bertina. I primi anni della vita in
città sono connotati dalla necessità di adattamento e assimilazione; la
prima difficoltà risiede nell’apprendimento di un idioma che, seppur
vicino, differisce dall’italiano. Il problema identitario sembra risolversi
in Nora con la volontà di allontanare la condizione di immigrata e eleg-
gere l’Argentina come spazio di appartenenza, come luogo di riscatto
sociale ed economico; Paese che lei stessa definisce «tan mío» e al qua-
le è disposta definitivamente ad aderire: «Entonces que me adherí a
América. A esa América dispuesta a recibir los deterioros y a asimilar
[...] América dispuesta a sanearlos» (p. 106). Nonostante la sua ferma
volontà di aderire a pieno al nuovo contesto in cui è immersa, Nora
non riesce, però, a risolvere del tutto quel conflitto identitario che rele-
ga il suo yo in uno spazio indefinito, instabile, oscillante:

Así me encuentro oscilando entre mundos que no son míos, como si


mi vida tuviera que relegarse paradójicamente al mundo del papel
sellado. Y debería sellar y lacrar también la memoria (p. 173).

A mí me agobian estos siglos de inmigración, esta escura zona de frac-


tura y la pasividad a la que nos ha reducido América. Aquí hemos
llegado. Desde aquí no tenemos que partir hacia ninguna parte. Y es-
cavamos, ahondamos, queremos penetrar en algo firme... y de pronto
nos encotramos escarbando sobre arena. El terreno cede... (p. 130).

Il triste epilogo di Gente conmigo vede Nora, tradita e raggirata da


Renato, finire in carcere. Da lì ripensa al destino di tutte le donne che
ha conosciuto, segnate in modo diverso, ma analogamente dramma-
tico, dall’emigrazione come Bertina, la cui esistenza è stata sacrifi-
cata completamente al lavoro; la lavandaia Teresa, che al momento
dell’imbarco ha dovuto lasciare in Italia la sua bambina rachitica,
insieme alla vecchia madre e al marito invalido di guerra e le molte
altre. Ciò che accomuna questi personaggi femminili, è il loro sentirsi
estranei al nuovo modo di vivere, è il loro essere delusi e perdenti

200
Gli emigranti raccontano: l’Argentina o la “patria di riserva”

rispetto ai sogni e alle speranze di un miglioramento delle condizioni


di vita, che non hanno raggiunto, o hanno solo apparentemente sfio-
rato, a costo di enormi sacrifici.
Nisa Forti nasce a Cassina Rizzardi, in provincia di Como, nel
1931. Emigra con la famiglia in Argentina nel 1948. La sua esperien-
za emigratoria sarà rielaborata, anni più tardi nel suo La Crisálida72.
Dopo alcuni viaggi di piacere in Italia, si sente attanagliata dalla
necessità di definire la propria appartenenza identitaria73 e decide,
ormai adulta, di trasporre il travaglio della dimidiazione nella elabo-
razione letteraria:

En La crisálida, la experiencia migratoria se configura como un espejo


funcionando en este sentido como una heterotopía porque la protago-
nista se percibe entre dos espacios, Italia y Argentina que se alteran en
al percepción de la chica74.

Il romanzo autobiografico vede protagonista Sveva Damiani che


quasi in un sofferto monologo si confessa al lettore consentendogli
di ripercorrere le vicissitudini della sua vita. La ragazza sente che il
trasferimento nel nuovo Paese le ha causato una frattura interiore,
mentre l’Italia nella ricostruzione nostalgica dei ricordi affiora come
l’unico spazio di vita: «Me falta mi tierra bajo los pies. En Italia era
excitante y dichoso vivir» (p. 5). Per i suoi familiari, al contrario, l’Ar-
gentina è la speranza. Va chiarito, tuttavia, che la famiglia Damiani è
una famiglia benestante che dunque non condivide con gli altri emi-
granti disperazione e fame. Eppure nel momento in cui la nave salpa
dal porto di Genova, Sveva sente i loro destini incrociarsi. «Adiós.
Somos emigrados ahora» (p. 24). Sarà solo un successivo viaggio in
Italia a chiarirle che il tempo cambia cose e persone («No estabas aquí
cuando nacimos. Míranos bien. Nosotros somos la Milán nueva» p.
688) e che ormai una distanza incolmabile la separa non soltanto dal-
la sua terra di origine, ma anche da quella se stessa che ora non è più:

72
  Buenos Aires, Ediciones Corregidor, 1984.
73
  «[…] sensación de no partenecer a nadie ya, ni aquí, ni al otro lado, que transfor-
ma nuestra libre permanencia en el extrnjero en exilio» (La Crisálida, p. 438).
74
  Margherita Cannavacciuolo, Migración y heterotopía en la escritura de Nisa Forti, in
“Altre Modernità”, 6, 2014, pp. 39-51, p. 41.

201
Con biglietto di andata

La Patria es la madre que perdimos un día […] que no podremos o


no queremos olvidar […] Volver a buscar en vano lo que ya non es.
No reconocer calles y personas. Golpear a la puerta de un amigo y
encontrar una tumba. Es descubrir con indecible dolor que la vida
siguió adelante sin nosotros […] Y nada es tan penoso come sentirse
extranjero en la propria tierra (p. 784).

Rosalinda Martina Gusberti, nata in provincia di Cremona, ed emi-


grata in Argentina insieme alla famiglia nel 1927, medico psichiatra,
presenta un altro tipo di emigrazione, quella cioè, legata alle persecu-
zioni politiche. Figlia di un musicista socialista che rifiuta di giurare
fedeltà al fascismo, l’autrice rielabora le vicende familiari in El laud y
la guerra75. Mescolando italiano, spagnolo argentino e dialetto cremo-
nese, l’autrice ripercorre le vicende di Luigi Gusberti che, fuggito da
quell’Italia per la quale aveva combattuto la Prima guerra mondiale, è
costretto poi a risiedere a Resistencia, un luogo inospitale, simbolo del
tradimento del governo argentino che aveva promesso agli immigrati
terre fertili da coltivare e che invece aveva concesso loro appezzamenti
aridi e infestati dalle zanzare. Ormai ottuagenario Luigi, desiderando
rivisitare i luoghi dell’infanzia e della gioventù, intraprende un viaggio
della memoria, in Italia, in compagnia della figlia e del genero.
Maria Teresa Andruetto presenta il dramma dell’emigrazione in
Stefano76, un romanzo di formazione per ragazzi, che si inserisce in que-
sto rinnovato panorama della letteratura argentina sull’immigrazione.
La scrittrice, di origini piemontesi, nasce a Arroyo Cabral nel 1954. In-
segnante di scuola primaria e secondaria, è autrice di poesie, romanzi,
pièces teatrali e di narrativa per ragazzi. Stefano, rimasto orfano di pa-
dre, insieme ad un gruppo di giovani amici, Bruno, Pino, Ugo e Remo,
si imbarca subito dopo la fine della Grande guerra alla volta dell’Ar-
gentina dove i cinque ragazzi sperano di andare incontro ad un futuro
migliore. Si trova qui la descrizione del famoso  Hotel de Inmigrantes,
oggi trasformato in Museo Nazionale dell’Immigrazione, luogo depu-
tato ad accogliere gli emigranti al loro arrivo a Buenos Aires; ma anche
la descrizione della dura vita dei campi, i sogni le delusioni, i primi
amori che accompagnano i giovani verso la loro vita adulta.

75
  Buenos Aires, Editorial Vinciguerra, 1995.
76
  Buenos Aires, Sudamericana joven, 1997.

202
Gli emigranti raccontano: l’Argentina o la “patria di riserva”

Le dure condizioni di vita presso l’Hotel de Inmigrantes sono rie-


vocate anche nelle pagine di Esquirlas de guerra77 di Eleonora Carrieri
un romanzo autobiografico che ripercorre le vicende migratorie della
sua famiglia, dall’arrivo a l’Hotel, ai primi lavori come cassiera in un
supermercato, alle umiliazioni subite da tutti gli italiani che si trova-
vano nella sua condizione.
Lilia Lardone, nata a Córdoba, di origini piemontesi presenta il
suo Puertas adentro78, un testo nel quale, come esplicitato fin dal ti-
tolo, è denunciato il ruolo assegnato alle donne79. Il romanzo ruota
intorno alla famiglia Ferrero, una famiglia nella quale le donne sono,
appunto, preposte solo ai lavori domestici. Ottavia la primogenita,
che rappresenta il punto di vista femminile delle famiglie immigrate
dall’Italia, trascorre la vita tra servire i fratelli, fare da badante alla
madre e da baby-sitter alle nipoti:

Yo sirvo y escucho, sentarme no me siento porque para qué, si a cada


rato les tengo que alcanzar algo. […] Ni sé cuánto hace que no salgo
de casa […] (pp. 18-19).

[…] para que me sirve a mí votar si no salgo nunca […] ni siquiera


para el entierro de la mamá salí, el lugar de la mujer está adentro de
la casa puertas adentro está y yo tengo que atender a mis hermanos
sacar la tierra hacer la comida lavar la ropa planchar acomodar coser
los repasadores cuidar a la nena (pp. 60-61).

La madre, una donna vedova e inasprita dalla vita, sente su di sé


tutto il peso di dover portare avanti la famiglia nel rispetto dei valori
della cultura tradizionale nella quale è stata educata. E quando Tina
ancora nubile rimane incinta, la madre rifiuta la proposta di matrimo-
nio riparatore e caccia di casa entrambi i fedifraghi:

77
  Edición de l’autor, 1996.
78
  Buenos Aires, Alfaguara, 1998.
79
  Cfr. Federica Rocco, Il tempo delle immigrate italiane in Argentina: “El mar que nos tra-
jo” di Griselda Gambaro e “Puertas adentro” di Lilia Lardone, in Silvana Serafin e Marina
Brollo (a cura di), Donne, politica e istituzioni: il tempo delle donne, Udine, Forum, 2013,
pp. 107-117; Ead., Immigrazione ed emancipazione femminile in “Puertas adentro” di Lilia
Lardone, in Silvana Serafin (a cura di), Donne al caleidoscopio. La riscrittura dell’identità
femminile nei testi dell’emigrazione tra Italia, le Americhe e l’Australia, Udine, Forum,
2013, pp. 157-165.

203
Con biglietto di andata

[…] usted traicionó mi confinaza y ha dejado el nombre de los Ferraro


por el suelo. Yo no perdono […] mañana mismo se mandan a mudar
ustedes y esa criatura, no quiero volver a verlos nunca más (p. 37).

L’emancipazione delle donne della famiglia sarà riservata alle ter-


ze generazioni: Rosa, rimasta vedova, raggiungerà la sorella a Córdo-
ba per trovare un lavoro; Teresa, che era stata abbandonata da Tina
e allevata da Ottavia, diventa maestra; Celina, infine, studia all’uni-
versità, è impegnata politicamente, fuma ed è perennemente in cura
dallo psicanalista.
Attraverso queste figure fittizie di donne, l’autrice ha voluto re-
stituire visibilità alle protagoniste dimenticate della nostra storia mi-
gratoria.
Griselda Gambaro, narratrice e drammaturga, ha vissuto in esilio
a Barcellona durante gli anni della dittatura militare (1976-1982). Tra
le sue opere, dedica al problema dell’immigrazione in Argentina il
suo El mar que nos trajo80, che ricostruisce una vicenda familiare81, la
cui narrazione è affidata nel testo alla voce narrante:

La menor de las hijas de Isabela, la que tenía el rostro mate y los cabel-
los enrulados como el abuelo, escuchó sentada a la mesa ocupando un
lugar entre su hermano y su primo, el hijo de Natalia. En esas ciarla
de sus mayores nunca intervino. Guardó la memoria de Natalia, de
Giovanni, y con lo que le contó su madre, Isabela, de odiada y tierna
mansuedumbre, muchos años más tarde escribió esta historia apenas
inventada, que termina como cesan las voces después de haber habla-
do (p. 138)

Il romanzo, sottolinea il ruolo di sottomissione riservato alle don-


ne, insiste sulla tragedia delle doppie famiglie. Nel 1889, Agostino De
Angelis appena diciannovenne si imbarca come marinaio sulla rotta
Genova-Buenos Aires, lasciando la sua giovane sposa Adele all’iso-
la d’Elba. A Buenos Aires incontra Luisa con la quale impianta una
nuova vita e dalla quale avrà una figlia: Natalia. I fratelli di Adele,

80
  Bogota, Norma, 2001.
81
  Cfr. Margherita Cannavacciuolo, El viaje imposible”: “El mar que nos trajo” de Griselda
Gambaro, in “Oltreoceano”, vol. 6, 2012, pp. 21-29, p. 22.

204
Gli emigranti raccontano: l’Argentina o la “patria di riserva”

Cesare e Renato, che sospettano dei suoi lunghi silenzi, si imbarcano


per l’Argentina dove, raggiunto il cognato, lo obbligano a tornare in
Italia. Rientrato sull’isola d’Elba, Agostino riprende il suo antico me-
stiere di pescatore e nasce Giovanni mentre a Buenos Aires Luisa co-
nosce e sposa Domenico Russo, un calabrese fannullone con il quale
ha due figlie Isabella e Agostina e che Natalia, al colmo della soppor-
tazione finirà per cacciare di casa (cfr. p. 53). Parallelamente, in Italia,
Agostino, ammalato di polmonite, in fase terminale, decide di rive-
lare al figlio l’identità di quella bambina ritratta nella foto poggiata
sulla mensola del camino. L’epilogo della storia vede Giovanni, dopo
la morte del padre, attraversare quel mare che aveva trasportato tra
le due sponde il dolore e la miseria delle due famiglie, per conosce-
re Natalia e riallacciare così i legami familiari (cfr. pp. 123-124). Se i
personaggi maschili sono legati al movimento, le donne sono invece
stanziali, chiuse dentro le mura di casa.
Se ho voluto anticipare le voci delle donne, è chiaro che anche al-
cuni autori di origine italiani hanno voluto rappresentare con le loro
opere il dramma dell’emigrazione italiana per ritessere i fili, persona-
li e collettivi, della propria identità. Continuando a procedere per via
esemplificativa, accennerò qui di seguito, ad alcuni di loro.
Ernesto Sabato, che all’interno della sua produzione ha solo appe-
na sfiorato il ricordo delle sue origini calabresi, già nel 1961 proietta-
va in Sobre héroes y tumbas82 nella figura di Angelo D’Arcangelo e del
padre le difficoltà di integrazione nella nuova realtà argentina.
Dal canto suo, Mempo Giardinelli, di origine abruzzese, giornali-
sta e scrittore impegnato, esiliato in Messico durante gli anni dell’ul-
tima dittatura militare, nel suo Santo Oficio de la memoria83, mette in
scena la saga di una famiglia di emigranti italiani, i Domeniconelle,
che attraversa il secolo XX seguendo le vicende di tre successive ge-
nerazioni. Scritto nell’arco di circa nove anni, sul modello ispiratore

82
  Buenos Aires, Compañia General Fabril Editora, 1961. Un timido accenno a Paola,
comune calabrese dei suoi genitori è leggibile nel più tardo Antes del fin (Buenos
Aires, Seix Barral, 1998).
83
  Bogota, Norma, 1991. Il romanzo valse all’autore, nel 1993, il premio Rómolo Gal-
legos.

205
Con biglietto di andata

di As I Lay Dying di Faulkner84, il testo si sviluppa in un centinaio


di brevi capitoli in cui intervengono una trentina di voci, quasi tutte
femminili. Queste donne raccontano di imprese impossibili, di mor-
ti premature e di perdite dolorose, della distanza incolmabile che le
separa dalla propria terra di origine, dei loro sogni, dei loro segreti
in un coro che partendo da storie personali, che si intrecciano nella
variegatura dei differenti punti di vista, finisce per rappresentare la
storia di un popolo condannato dalla fame ad emigrare. L’intreccio
si apre con la storia di una giovane coppia, Antonio e Angiulina, che
dall’Abruzzo, nel 1885 emigra con un bambino in Argentina per sta-
bilirsi nella provincia del Chaco, una provincia fondata da immigrati
italiani nel 1875. La trama prende le mosse dall’assassinio del nonno
Antonio e ruota intorno al rientro in Argentina, dopo dieci anni di
esilio in Messico, di Pedro Domeniconelle. Mentre ancora una volta
gli uomini, dunque, partecipano alla costruzione della storia con il
loro viaggi fisici, le donne compiono quell’esilio interiore su cui si
tesse la memoria della Storia. Perno della famiglia è la nonna, Ángela
Stracciattivaglini; una donna determinata, brillante, colta, ma anche
insopportabilmente impicciona, che pretende di controllare e dirigere
le vite di tutti i membri della famiglia. Tra le rare voci maschili, una
in particolare, assume un ruolo significativo. Si tratta de el tonto de
la buena memoria, il più giovane rampollo della famiglia, che ascolta,
non dimentica nulla e registra ogni cosa per iscritto, inviso per questo
a tutti i membri della famiglia: «No se me escapa nada y como tengo
buena memoria, entonces escribo repitiendo lo que han dicho […]
Tengo la verdad en mis manos […] soy el único que conoce todos los
secretos» (p. 68). La sua missione è proprio quella di mantenere la
memoria, che assume qui una valenza etica, scongiurandone l’oblio:
«no escribo para matar el tiempo, sino para revivirlo. Hecho memo-
ria, porque olvidar es matar» (p. 441).
Rubén Tizziani, giornalista e regista di programmi radiofonici e
televisivi, è autore di cinque romanzi tra i quali, per quel che interessa
il punto di vista preso qui in considerazione, Mar de olvido85 che riper-

84
  New York, Random, 1930; Cfr. Gustavo Pellón, Ideology and Structure in Giardinel-
li’s “Santo Oficio de la Memoria”, in “Studies in 20th Century Literature”, vol. 19, 1,
Winter 1995, pp. 81-99.
85
  Buenos Aires, Emecé, 1992.

206
Gli emigranti raccontano: l’Argentina o la “patria di riserva”

corre, attraverso tre generazioni, la storia di una famiglia genovese


trapiantata in Argentina. Il motivo che ha spinto la famiglia a partire
è, ancora una volta, legato alla ricerca di un lavoro che possa garanti-
re migliori condizioni di vita. L’emigrazione è presentata, attraverso
l’alternanza di voci differenti, come un processo mai concluso ed in
continuo divenire86: tra andate e ritorni, tra sogni e nostalgia, si sno-
dano, attraverso cento anni di Storia, i processi evolutivi dei due Pa-
esi di qua e di là dell’Oceano. All’interno del testo l’autore sottolinea
quella volontà di cancellare la dolorosa ferita dell’emigrazione che ha
accompagnato la storia del nostro esodo:

Sólo años mas tarde, cuando empecé a desenredar esa impenetrable


trama que era la historia de la familia […] se me ocurrió que quizás la
abuela buscara ocultarse, acosada por antiguos remordimientos, por
pecados que, en una de ésas, le dolían, injusticias que habían plantado
el odio entre los hijos (p. 50).

La traversata dell’Atlantico, come in molte altre narrazioni, si pre-


senta come la prima tremenda sfida imposta agli emigranti, ma anche
come il simbolo di quella distanza insormontabile che cancella il ri-
cordo di ciò che si è stati:

El viaje, el viaje. Il viaggio non finiva mai. Empezó tan atrás, en un


lugar tan remoto, hubo en medio tanto vacío llenado por la fábula,
que al final solo nos quedaron referenvias confusas, testimonios en-
rarecidos por la distancia, el tiempo y la tristeza […] Cuando uno ex-
traña, algo cambia en los paisajes y en la gente […] y se desliza una
inadvertida falsedad […] error imperceptible al partir, que al llegar
se hace enorme. Lo sé ahora que he visto la nostalgia de quienes, otra
vez, siguen esperando el momento de volver. Pero ¿llegará la hora
de regreso? ¿Aguardarán todavía los amenazantes fantasmas del ayer
en el sitio añorado? ¿Es que, si al fin pisamos la tierra prometida,
podremos aceptar que la historia sucedió, que está escrita? (p. 221).

Il passo sopracitato rappresenta bene il significato profondo del


testo sintetizzato nel titolo. La scrittura si fa qui, allora, spazio della

86
  Cfr. Ilaria Magnani, L’onere di ricordare, in Rubén Tizziani, Il mare dell’oblio, Saler-
no-Milano, Oèdipus, 2012, pp. 7-22.

207
Con biglietto di andata

memoria87, l’esatto opposto di quella immensa distesa di mare che


è servita da strumento protettivo ed ha consentito quell’oblio. Quel
mare che, inframmezzando un qui e un là, non è ponte ma frattura
perché «Già non c’è qui […] No está aquí lo que has venido a buscar
[…] Y supe, entonces, que nunca se vuelve al hogar […] que descu-
brirse extranjero en su tierra, es el desmesurado precio de la ausen-
cia» (p. 225).

Roberto Raschella, maestro elementare, critico cinematografico,


scrittore poeta e traduttore di origini calabresi, nasce a Buenos Aires
nel 1930. Il padre, antifascista, era emigrato per problemi politici nel
1925, la moglie lo aveva raggiunto, dopo numerose vicissitudini, nel
1929. I problemi incisi à jamais negli animi degli immigrati sono tra-
sposti nei suoi Dialogos en los patios rojos88 e Si hubiéramos vivido aquí89.
Nel primo dei due testi la vicenda autobiografica di una famiglia
calabrese emigrata per sfuggire alle persecuzioni fasciste è narrata
attraverso lo sguardo del figlio minore. Intorno a storie strettamente
familiari quali il contrasto generazionale tra il padre e il figlio mag-
giore, il ruolo di mediazione interpretato dalla madre, e la morte di
quest’ultima che segna la fine della narrazione, prendono vita una se-
rie di vicende che allargano l’orizzonte fino a restituire un quadro dei
problemi legati all’immigrazione di tutto un gruppo sociale. Si trat-
ta, appunto dei dialoghi dei patii rossi – che fotografano l’uso tipico,
in Argentina, di costruire con mattoni – tra immigrati, che avevano
luogo nei momenti di riposo al termine delle lunghe ore di lavoro
giornaliero, che il narratore, il figlio minore della famiglia, a cui non è
consentito di intromettersi nei discorsi dei grandi, ascolta. Lo schema
narrativo procede, attraverso la prospettiva di un narratore intra e
omodiegetico, in un progressivo diminuendo di voci. Se nella prima
sezione Murmullos la voce narrante somma in sé l’affollarsi delle voci
dei personaggi che prendono la parola per dare forma al passato at-
traverso la memoria, nelle successive due, la coralità tende via via a

87
  Cfr. Fernanda Elisa Bravo Herrera, Recuperación de la memoria en la escritura de
Rubén Tizziani y de Roberto Raschella, in “Zibaldone. Estudios italianos”, III, 1, enero
2015, pp. 221-228.
88
  Buenos Aires, Paradiso Ediciones, 1994.
89
  Buenos Aires, Losada, 1997.

208
Gli emigranti raccontano: l’Argentina o la “patria di riserva”

diminuire. Nella seconda sezione, Tres días de un invierno, i dialoghi


polifonici sono sostituiti da un dialogo fittizio con il fratello maggio-
re, mentre nella terza, La sagrada orilla, il narratore si rivolge diretta-
mente al lettore e tira le somme di quelle storie che gli hanno permes-
so di leggere e di comprendere la storia dell’emigrazione italiana90.
In Si hubiéramos vivido aquí, Raschella sfrutta un altro topos del-
la letteratura dell’emigrazione, e cioè il viaggio in cerca delle radici
delle terze generazioni. Il testo, infatti, mette in scena il viaggio di
un giovane porteño in Calabria, dove si reca, appunto, per ricostruire
il passato familiare, conoscere i parenti e la cultura tradizionale. La
narrazione abbraccia l’intero viaggio dalla partenza, al soggiorno
calabrese, sino al solitario rientro in Argentina. Nel corso del suo
soggiorno, la cosa che più colpisce il giovane è il riascoltare quella
stessa lingua che da bambino sentiva parlare nei patios rojos. La frase
ipotetica espressa dal titolo riassume il quesito che cerca di insinuare
nel giovane lo zio Antonio e cioè, qual è l’aquí del titolo?, ¿«cual es la
verdadera patria, la verdadera lengua?». Quesiti che restano irrisolti.
Nella volontà di non dimentica e di non occultare le proprie ori-
gini, i due testi presentano l’uso di una lingua, volutamente miscida-
ta, non limitato ai dialoghi ma che costituisce la lingua del narrato-
re come dei personaggi, dando vita ad un registro della memoria. A
chiudere il cerchio dello spaccato autobiografico è la pubblicazione,
nel 2015, della prima parte di La follia utopística91, Sombras, costruita
sopra il ritrovamento degli incartamenti relativi alla militanza poli-
tica del padre. Nel testo la storia è, invece, fittiziamente ricostruita a
partire da un dialogo tra padre e figlio che ha luogo nel cimitero. Il
figlio, domanda, prende appunti, fissa nella mente tutto ciò che non
va dimenticato.
Antonio Dal Masetto nato ad Intra, un comune piemontese a ri-
dosso del Lago Maggiore, in seno ad una famiglia non particolarmen-
te agiata, nel 1938, dovette alternare gli studi all’interno di un collegio

90
  Cfr. Ilaria Magnani, Conflitto sociale e ibridazione linguistica nei dialoghi della memoria
di Roberto Raschella, in Antonella Cancellier, Maria Caterina Ruta, Laura Silvestri
(coord. por), Scrittura e conflitto, Atti XXI Congresso ASPI, Catania-Ragusa 16-18
maggio, 2004, vol. 1, Imprenta del Boletín Oficial del Estado – Sección electrónica,
2006, pp. 306- 316.
91
  Buenos Aires, Ediciones La Yunta, 2015.

209
Con biglietto di andata

religioso con l’incarico di portare al pascolo pecore e capre per con-


tribuire alle difficoltà economiche del nucleo familiare. Nel 1950 emi-
grò per l’Argentina insieme ai genitori. Dopo aver vissuto per alcuni
anni con la famiglia a Salto dove lavorava insieme al padre, decide
di allontanarsi dal nucleo familiare e di cominciare a scoprire il mon-
do alla ricerca di una strada da seguire. Stanco di considerarsi «un
marciano en el mundo»92, mentre prestava le sue braccia ai differenti
lavori ai quali dovette sobbarcarsi per mantenersi agli studi, investì
tutte le sue forze intellettive per apprendere il castigliano trascorren-
do le ore libere dal lavoro all’interno delle biblioteche pubbliche dove
si immergeva nella lettura di riviste e libri di ogni genere, cercando di
tradurre e capire. A Buenos Aires stringe amicizia con alcuni scrittori
suoi coetanei, quali Osvaldo Soriano e Miguel Briante che suscitarono
in lui l’idea di voler far sentire la propria voce, di raccontare qualcosa,
forse quel senso confuso di dolore, impotenza, disorientamento che
lo aveva da sempre accompagnato fin dal suo arrivo in Argentina.
Iniziò allora un lungo percorso di apprendistato del mestiere di scrit-
tore93. Il contratto con il quotidiano “Página/12” – sulle colonne del
quale tenne, fino alla fine dei suoi giorni, una rubrica fissa in cui pub-
blicava brevi racconti spesso metaforici sulla difficile realtà sociale,
economica e politica argentina –, gli consentì presto di abbandonare
gli altri piccoli mestieri di fortuna per dedicarsi interamente alla sua
più vera vocazione. La notorietà di Dal Masetto come scrittore prese
avvio nel 1964 con la pubblicazione di Lacre94, una raccolta di racconti
che ottenne entusiastici riconoscimenti da parte della critica argenti-
na decretando l’autore come uno dei più prestigiosi rappresentanti
del panorama letterario ispanoamericano95.
L’abbondante produzione di testi narrativi di Antonio Dal Masetto
testimonia la creatività di uno scrittore versatile che ha saputo resti-
tuire, a partire dall’esperienza personale e dall’attenta osservazione

92
  Cfr. Augustina Roca, Antonio Dal Masetto: Historia de vida, in “La Nación”, 12 de
julio 1998.
93
  Cfr., a questo proposito, l’intervista realizzata da Alessio Brandolini all’autore in
occasione dell’uscita di Bosque: Le interviste: Antonio Dal Masetto, pubblicata sul por-
tale www.gialloweb.it, 29 gennaio 2005.
94
  La Habana, ed. Cuba, 1964.
95
  La raccolta ottenne, nello stesso anno 1964, la menzione del Premio “Casa de las
Americas”.

210
Gli emigranti raccontano: l’Argentina o la “patria di riserva”

della complessa realtà, un caleidoscopio di immagini e di rappresen-


tazioni. Per raccontare l’esperienza di emigrazione vissuta insieme
alla sua famiglia, fu per lui necessario, però, attendere un lungo pe-
riodo di elaborazione e di distanza critica, decidendosi ad abbordare
il tema solo a partire dagli anni Novanta:

[...] El momento en que sentí la necesidad, la obligación de rendir una


especie de tributo a un tema y a unos personajes representados por
la gente que emigra, que se va y deja su lugar y que me había tocado
muy de cerca a mí, a mi familia y a tantos otros ... vino muy tarde,
vino muchas años después de mi llegada a la Argentina, y a veces me
he preguntado por qué razón yo tardé casi cuarenta años en escribir
unas líneas sobre ese tema [...] Bueno, uno quiere ganar el espacio al
que llega, no quiere ser considerado extranjero porque es doloroso ser
considerado extranjero, no sentirse integrado. Por lo tanto, del punto
de vista de la literatura de esto yo no fui consciente evidentemente,
pero todos mis primeros libros fueron libros argentinos, que tenían
a que ver con la ciudad, que tenían a que ver con el pueblo, con esta
geografía y con esta costumbre. Sólo cuando me consideré como afir-
mado porque los libros habían sido leídos, publicados, comentados y
que más o menos yo estaba afirmado con lo que escribía, entonces me
permití, ya que nadie podría considerarme extranjero, escribir OFV y
TI que son las dos novelas que hablan del tema96.

Las novelas de Agata97 è il titolo che lo stesso Dal Masetto sceglie


per riunire, in un’unica e più tarda edizione, due romanzi fra essi
collegati, già pubblicati negli anni Novanta del Novecento. Si tratta
di Oscuramente Fuerte es la Vida98 e di La Tierra Incomparable99; romanzi
all’interno dei quali l’autore ripercorre l’esperienza della migrazione
attraverso la vicenda di Agata (personaggio ispirato alla madre) che è
la protagonista delle due opere e che troverà poi eco anche nel più re-
cente Cita en el Lago Maggiore100, pensato come terzo volé della trilogia:

96
  Trascrizione di un brano dell’intervista all’autore realizzata da Art-tv Argentina.
97
  Buenos Aires, Penguin Random House Grupo Editorial Argentina, 2011.
98
  Buenos Aires, Editorial Planeta, 1990.
99
  Buenos Aires, Editorial Planeta, 1994.
100
  Buenos Aires, Editorial El Ateneo, 2011; Altro testo in cui il tema è trattato è El
Padre y otras historias, Editorial Sudamericana, Buenos Aires, 2002; in part. si veda
il racconto El padre, nel quale l’autore descrive gli anni dell’infanzia tra l’Italia e

211
Con biglietto di andata

[…] las tre novelas, si bien son ficción, tienen un costado anclado en la
realidad. No las hubiese podido escribir sin vivir esas circumstancias.
La primera nace de hablar mucho con mi madre; la segunda, por el
viaje de regreso que hice yo al pueblo – esforzandome todo el tiempo
por mirar con los ojos de Agata –; la última surge de un viaje que hi-
cimos juntos con mi hija […] y trata del aprendizaje de un padre que
no logró conectarse con su pasado pero que a través de la mirada y la
presencia de su hija lo puede recuperar101.

Nel primo dei due romanzi che compongono il dittico, Dal Maset-
to racconta la vita della madre a partire dagli anni che precedettero la
partenza verso l’Argentina e che la videro fronteggiare le difficoltà di
un’umile famiglia piemontese alle prese con la guerra e con tutto ciò
che ne conseguì fino, appunto, alla partenza verso il nuovo Paese: un
paese assente, però, nella narrazione se non fosse per qualche accen-
no sull’arrivo in nave al porto di Buenos Aires. L’intento dell’autore,
infatti, «no era tanto contar la historia de cómo vivían los emigrantes
en la Argentina porque eso ya se había contado, sino cómo eran antes
de venir, por qué habían venido, cúal había sido su vida allá»102.
Agata narra, in prima persona, le vicissitudini dell’infanzia e
dell’adolescenza, della scelta di sposarsi con Mario e di metter su
famiglia, della casa costruita e lasciata loro dai genitori, del lavoro
nei campi e in fabbrica, delle relazioni familiari, le lotte politiche, il
regime fascista, la sopravvivenza in un Paese che non garantiva più
una speranza per il futuro e la conseguente e dolorosa decisione di
lasciare, Intra, il suo micromondo, per l’Argentina: una terra in cui
l’attendeva un destino sconosciuto.
Decisamente più stringente per il punto di vista che ci interessa
è il secondo volé del dittico, e cioè, La Tierra Incomparable. Qui, nella
finzione narrativa, l’autore fa compiere alla protagonista Agata quel
viaggio di ritorno che in realtà la madre, di cui personaggio è l’alter
ego, aveva sempre sognato e mai potuto realizzare. I due romanzi

l’Argentina, gli anni da adulto a Buenos Aires e il viaggio in Italia che decise di com-
piere ben quarant’anni dopo il suo trasferimento nel Paese sudamericano.
101
  Juan Rapacioli, Antonio Dal Masetto: La escritura es un oficio como cualquier otro, en-
trevista, in “Télam, Agencia nacional de noticias”, 5 de diciembre 2011.
102
  Rodolfo Privitera, Antonio Dal Masetto o el viejo arte de narrar in “Inti: revista de
literatura hispánica”, vol. 1, n. 48, 1998, pp. 65-70

212
Gli emigranti raccontano: l’Argentina o la “patria di riserva”

sono fortemente legati fra loro in un continuum, al punto che, nono-


stante la distanza temporale della loro pubblicazione, sembrano esse-
re stati progettati ab origine come un’unica sequenza narrativa. L’in-
scindibile nesso tra un testo e l’altro, oltre ai numerosi rinvii testuali
che intrecciano fra loro nelle due fabule il passato e il presente della
storia personale della protagonista103, è ulteriormente sapientemente
creato dall’autore con il ricorso alle esplicite citazioni tratte da versi
di Salvatore Quasimodo. Il titolo del primo dei due romanzi, traduce,
infatti, l’ultimo verso della poesia Al padre, raccolta in La terra impa-
reggiabile104, titolo, quest’ultimo, che l’autore adotterà, traducendolo
in castigliano, per il secondo romanzo105. In La Tierra Incomparable la
protagonista è ancora Agata, ma la voce narrante non è più omodie-
getica: il narratore, omnisciente, guida adesso il lettore nello sviluppo
della vicenda. Agata, ottantenne e ormai vedova, attanagliata da una
quarantennale nostalgia del proprio paesaggio perduto, dichiara alla
famiglia con determinazione – facendo eco a quanto aveva fatto nel
primo romanzo il marito Mario esclamando «Me voy a la Argentina»
(p. 217) – «Me voy a Italia» (p. 11), a quella tierra incomparable per
sempre incisa nella catena del suo DNA.
Per Agata la terra di origine è ‘incomparabile’ sia perché, nel suo
nostalgico ricordo, non c‘è altra terra come quella in cui è nata e dalla
quale ha poi dovuto dolorosamente allontanarsi, sia perché nel mo-
mento in cui ritorna e si confronta con essa non la riconosce più: è
lì ma è come se non fosse più sua e le restituisce un’immagine che
collide con quella che era stata gelosamente conservata nella sua me-
moria.

103
  Cfr. Stefania Cubeddu, Partir para volver: Oscuramente fuerte es la vida y La tierra
incomparable de Antonio Dal Masetto, in Bob de Jonge, Walter Zidarič (coord. par)
L’Italie et l’Amérique latine: migration, échanges, influences, interférences, Actes du Col-
loque international organisé per le CRINI (26-28 novembre 2009), Nantes, Éditions
du CRINI, 2010, pp. 1-19.
104
  Milano, Mondadori, 1958.
105
  Cfr., a questo proposito, anche Fernanda Elisa Bravo Herrera, Memoria, emigración
y entrecruzamiento de la palabra de Quasimodo en “Oscuramente fuerte es la vida” y en
“La tierra incomparable” de Antonio Dal Masetto, in Maria del Carmen Tacconi De
Gómez (coord.), Ficción y discurso 2008, Tucumán, UNT –Facultad de Filosofía y Le-
tras-Istituto de Investigaciones Lingüística y Literarias Hispanoamericanas, 2009,
pp. 65-78.

213
Con biglietto di andata

Con questo regreso che la madre dell’autore non riuscì mai a realiz-
zare, l’autore intende saldare un conto con il passato della sua fami-
glia; e il lettore è invitato ad accompagnare la protagonista in questo
percorso memoriale in cui proprio il paesaggio è l’elemento con cui
confrontarsi per cercare di ricomporre, definitivamente, la scissione
dell’identità.
Agata parte dunque per Trani (anagramma di Intra) dove spera
di ritrovare se stessa nel riconoscimento di luoghi che hanno segnato
la sua vita. In un fluire costante tra la dimensione del presente e il
recupero del passato, il ritorno si configura come un’illusione: quel
desiderio di ritrovare ciò che si è lasciato così come lo si ricorda nella
propria memoria, di ritrovare, cioè, luoghi, affetti, profumi, nella spe-
ranza di saldare il conto con la propria identità che si rivelerà come
un desiderio irrealizzabile. Con l’aiuto della nipotina, Agata, qualche
giorno prima della partenza dall’Argentina, si impone, facendo ricor-
so alla più nitida memoria, di disegnare una mappa di Trani da porta-
re con sé in viaggio affinché, una volta giunta lì, possa più facilmente
riconoscere i luoghi e provare la sensazione di essere realmente tor-
nata a casa. Comincia così a descrivere e a dettare alla nipote tutto
ciò che dettagliatamente riesce ancora a visualizzare nella sua mente
con un alternarsi di «ahí» e «acá» che indicano la determinazione e la
precisione del ricordo.
Già durante il viaggio in aereo – il primo della sua vita – «le lle-
garon imágenes de una mujer que era ella recorriendo las calles del
pueblo, pedaleando en su bicicleta, entrando y saliendo de la fáb-
rica. ¿Qué subsistía en común entre la que partió y esta que volvía?
Tal vez nada, ya. Tal vez sólo el lazo establecido por la memoria en-
gañosa. La memoria que había ido modificándose y agigantándose y
traicionándose» (p. 56). La dimensione utopica ed illusoria dell’idea-
lizzazione del paesaggio ‘perduto’ viene già preannunciata da alcuni
sentimenti devianti che Agata prova e che sono descritti dall’autore
fin a partire dalle prime pagine del romanzo; si tratta di sentimenti
in cui si mescolano la gioia e l’impazienza per il ritorno ma che sono
tuttavia accompagnati da uno strano presentimento che la perseguita
come un’avvisaglia:

Ante la inminencia de la partida, había comenzado a obsesionarla la


idea de que aquello habría cambiado mucho, tanto que al regresar

214
Gli emigranti raccontano: l’Argentina o la “patria di riserva”

encontraría muy poco de lo que había dejado. Temía que, cuando se


enfrentara con el pueblo, la nueva geografía que seguramente la espe-
raba empezara a ocupar los espacios de su memoria, suprimiendo las
imágenes que había conservado durante tantos años. Había pensado
en el mapa como una mínima garantía de preservación (p. 22).

Nella narrazione, il suo soggiorno a Trani si invera come un viag-


gio nel tempo e nello spazio, tra presente e passato, tra identificazione
e straniamento. Fin dal momento dell’arrivo in Italia, Agata percepi-
sce un senso di distacco che la porta ad osservare la realtà come se
fosse una straniera in visita in un paese mai visto prima, come chi si
scontra con una realtà totalmente diversa dalla propria. Il suo primo
impulso è quello di avvicinarsi ad un’aiuola e prendere un pugno
di terra per odorarlo per risentire così il profumo di casa sua (cfr. p.
42); questo gesto ripropone quello già descritto nel primo romanzo
quando, quarant’anni prima, il giorno della partenza per l’Argentina,
Agata aveva preso un pugno di terra dal giardino della sua casa che,
gelosamente custodito in una bolsita, l’avrebbe accompagnata in tutti
questi anni per ricordarle da dove veniva. La terra assume quindi una
valenza importante indicando la connessione con le proprie radici,
rappresentando una sorta di cordone ombelicale che mantiene vivo
in lei il ricordo del padre, della madre, di un’infanzia felice prima
dell’arrivo della guerra e poi dell’abbandono dell’Italia.
Nella volontà di inseguire il suo sogno, Agata, giunta a Trani, ini-
zia ad esplorare il paesaggio perduto camminando incessantemente
per ore alla ricerca di legami con il proprio passato. Le immagini che
si fissano nei suoi occhi sono però profondamente diverse da quelle
rimaste impresse nella sua memoria:

Le parecía que, si cerraba los ojos, las imágenes que ella conservaba
eran más reales que las que ahora se le ofrecían, tan sólidas y despoja-
das y, de una extraña manera, distantes (p. 74).

Solo la passeggiata nel bosco, lì dove la natura si presenta ancora


incontaminata, riesce a restituirle quella connessione con il proprio
passato; i ricordi riaffiorano vividi e, per quel breve tempo, ritrova
la se stessa di una volta e si illude di non essere mai partita dalla sua
terra:

215
Con biglietto di andata

Llegó un momento en que fue como si nunca hubiese partido y se


olvidó de que existía un lugar esperándola, lejos, una casa y una fa-
milia en otra parte. Estaba perdida en esos bosques y no había nada
ahí que le hablara de urgencias, que le exigiera nuevas preguntas. No
había preguntas. El aire que respiraba era el de antes. Desde el silen-
cio, desde la luz, una voz le hablaba el idioma de entonces. Tal vez
hubiese cosas que podían ser recuperadas. Aquellas que no habían
sido tocadas por los hombres (p. 161).

Nella volontà di fermare il tempo, di fissare ancora una volta nel-


la memoria le immagini di quel paesaggio, come in un dipinto, Aga-
ta sente allora il bisogno di annotare tutte le sensazioni che stava
provando in una lettera senza destinatario quale monito alle gene-
razioni future per non permettere più questa perdita di se stessi (cfr.
pp. 168-169). Agata è una donna forte ed è determinata a seguire il
suo cuore che la spinge a ottant‘anni a compiere un viaggio molto
complesso, sia a livello fisico che interiore, che la spinge a fare di
tutto per cercare di sanare quella ferita ancora aperta, dovuta all’ab-
bandono della terra natìa e dei suoi affetti. Agata è una migrante,
e in quanto tale vive di emozioni e di conflitti che soltanto chi ha
provato direttamente l’esperienza della migrazione è in grado di
capire. Ritornare per lei non significa solo voler o poter recuperare
il passato ma soprattutto ri-definire quell’identità che la distanza
spazio-temporale ha messo in crisi attraverso un continuo sentirsi
sospesi tra il presente e il passato e tra un’indubbia identificazione
raggiunta con il paese d’arrivo e un legame esperenziale e affettivo
mantenuto con il paese di origine.
L’intento dell’opera è allora quello di riunire questi io giustap-
posti e diversi considerandoli in tempi, spazi ed esperienze chiara-
mente dissimili. Agata è contemporaneamente una donna forte sì,
ma anche fragile; una donna che deve superare i contraccolpi psi-
cologici inflitti dal suo imbattersi con una realtà ormai totalmente
mutata sia dal punto di vista paesaggistico che umano. Nonostante
tali difficoltà, Agata ha sete di scoperta, di recupero, di emozioni
che la riconnettano al suo passato e alla sua memoria; e se il tempo
e lo spazio fisico sembrano far di tutto per mostrarle una realtà to-
talmente diversa, dentro di sé lotta affinché un qualsivoglia segno
le permetta di attribuire davvero un senso a questo suo ritorno, per

216
Gli emigranti raccontano: l’Argentina o la “patria di riserva”

farle dire che tutto questo non è stato vano. E allora eccola sfruttare
qualsiasi momento o situazione per ricercare la Agata di un tempo;
la Agata che nacque e visse in questo paese del Piemonte a ridosso
del Monte Rosso, circondato dai suoi laghi e dai suoi boschi, te-
atri di mille avventure; la Agata così attaccata alla famiglia e alla
sua casa, focolare di sentimenti, e a quelle vicende esperienziali che
le hanno permesso di diventare la donna forte e determinata che è
oggi. Nel suo nuovo e transitorio presente italiano, vuole riscoprire,
risentire e ricordare ciò che è stata un tempo. Con questo intento,
allora, si abbandona a lunghe passeggiate, attraverso i luoghi del
suo passato nel disperato tentativo di riconnettere tra loro questi
due io giustapposti:

[...] Después de los días pasados recorriendo las calles y los alre-
dedores de Trani, subsistía entre ella y las cosas una barrera que le
impedía acercarse, que la rechazaba, colocándola al borde, afuera,
condenándola a una forma de soledad (p. 224).

La trasformazione del paesaggio con cui si trova ora a confron-


tarsi, rappresenta per Agata una perdita incolmabile, il fallimento di
questo ritorno: un vero e proprio errore. Perché, alla fine, Agata, nel
profondo del suo animo – come tutti coloro che sono emigrati – non
riesce a ritrovare davvero se stessa106. Quel viaggio, tuttavia, le serve
a chiudere comunque e per sempre un cerchio configurandosi come
un nuovo inizio che, riportandola in Argentina, le farà nuovamente
ripensare all’Italia e a questa patria nuovamente persa ma racchiusa
per sempre nel fondo del suo cuore107:

Cerró los ojos. Los abrió, los cerró y los volvió a abrir varias veces,
como lo había hecho con la casa, ahora para fijar estas imágenes de su
última noche en Trani. Pensó que así las recordaría: tiernas, trágicas
y difusas. Nada más que un temblor sobre la línea incierta de la me-
moria. Apenas un temblor. Pero eso sería después. Mucho después.
Después de Venecia, de Roma. Después de abordar el avión y volar
otra vez sobre el océano. Cuando estuviese de nuevo en la Argentina,

106
  Cfr. Loretta Baldassar, Tornare al paese: territorio e identità nel percorso migratorio, in
“AltreItalie”, 23, 2001, pp. 1-11.
107
  Cfr. Vladimir Jankélévitch, L’irreversible et la nostalgie, Paris, Flammarion, 1974.

217
Con biglietto di andata

junto a los suyos, y los días volviesen a sucederse a los días en la cal-
ma de aquel pueblo de llanura. Y ella tratara de recuperar desde allá
la patria que por segunda vez había perdido acá (p. 272-273).

Nel viaggio di ritorno rappresentato in quest’opera da Antonio


Dal Masetto, il paesaggio è, allora, la chiave funzionale della ri-
cerca dell’io perduto, del riconoscimento di un presente costruito
dal passato; della comprensione del significato degli spazi “vuoti”
sospesi dalla memoria, della silenziosa rivincita di chi, esaudendo
il desiderio non realizzato dalla madre del ritorno in patria, vive
e rivive un duplice risentimento: da una parte quello, costruito
non solo in modo personale ma anche su un’eredità, fondato sul
fallimento del prezzo pagato per quell’altrove in cui si era creduto
di poter trovare serenità e benessere e, dall’altra, quello rivolto nei
confronti di quella patria che li aveva espulsi, che si è trasformata,
ora, in un debitore simbolico.

Per quanto a volte tormentati possano apparire questi testi, non


c’è dubbio che il messaggio che essi veicolano è che – benché alcune
volte non avviene in modo paritetico né ideologicamente neutro – l’i-
dentità è sottoposta ad un continuo processo dinamico di incontro, di
trasmissione, di scambio, di influenze reciproche. Abbiamo appreso,
leggendoli, che anche quando le culture si sono guardate di sottecchi,
sono entrate in conflitto, hanno imparato reciprocamente. Si è trattato
spesso di incontri a volte forzosi e violenti ma che hanno comunque
riformulato identità nuove e nuovi codici culturali.
Leggere questi testi, insomma, è attraversare quel ponte che con-
sente di approdare sull’altra riva. Leggere questi testi serve ad allon-
tanare la logica per la quale l’unico punto di vista che sia plausibile, e
al quale ogni altro debba uniformarsi, è il nostro. Leggere questi testi
ci aiuta a capire che la diaspora, la fuga, la fame, le persecuzioni poli-
tiche, non appartengono solo agli altri, ma sono appartenute anche a
noi. Allora, la convivenza non può che essere improntata al reciproco
rispetto e allo scambio dinamico tra elementi culturali diversi. Perché
l’ibridazione non confligge con l’affermazione della necessità della
sopravvivenza delle diversità se la si guarda non come semplice dia-
lettica degli opposti ma come co-evoluzione e compresenza. Da que-
sto punto di vista, i sistemi di rappresentazione della nostra cultura

218
Gli emigranti raccontano: l’Argentina o la “patria di riserva”

non possono essere compresi – che lo si voglia o no, che se ne sia più
o meno consapevoli – senza fare riferimento all’incontro tra le cultu-
re. È proprio in questo dialogo con l’alterità culturale che il sapere
occidentale deve configurare se stesso e sviluppare i suoi concetti e
le sue categorie.

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Visita il nostro catalogo:

Finito di stampare nel mese di


Giugno 2020
Presso la ditta Fotograph s.r.l - Palermo
Editing e typesetting: Valentina Tusa - Paragraphics Società Cooperativa per conto di NDF
Progetto grafico copertina: Luminita Petac

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