L’ARCADIA, L’ILLUMINISMO E LA STAGIONE DELLE RIFORME
La volontà di ritorno al classicismo, caratterizzante tutto il ‘700, ebbe una prima esperienza già a fine ‘600 (1690) quando un gruppo di letterati si riunì per fondare l’Accademia dell’Arcadia, riprendendo un po’ quelle esperienza maturate nell’ambiente di Cristina di Svezia. La reazione al Barocco è una delle ragioni d’essere dell’Accademia, ma non l’unica: c’è la necessità di individuare e difendere una tradizione letteraria italiana di valore, rispondendo alle critiche che arrivavano dalla cultura francese . La polemica è scatenata dallo scritto di Bouhours contro Tasso e contro la tendenza vacua e concettistica propria della poesia italiana; a essa si schierano contro Giovan Gioseffo Orsi (1703, Considerazioni sopra un famoso libro franzese), Crescimbeni, Muratori. La risposta al Barocco si aggancia a una rivendicazione della Bellezza Della Volgar Poesia (come recita una poesia del Crescimbeni). Su questa base l’Arcadia sarà uno stimolo per la costituzione di una rete nazionale di letterati e quindi per la nascita di confronti e collaborazioni. Non sempre le linee di questa poetica sono condivise: nel contrasto tra la visione di Crescimbeni e quella di Gravina, che mira a sottolineare una funzione civilizzatrice del fare letterario, si intravede una distinzione di prospettive: da un lato la proposta di una raffinata pratica letteraria come codice condiviso; d’altra parte, la proposta di una poesia come veicolo di un messaggio sapienziale reso accessibile a qualsiasi lettore. Le poesie dei primi Arcadi, che siano quelle di Zappi e Maratti o quelle più significative in termini di individualità poetica di Paolo Rolli, mostrano un’attenzione estrema all’aspetto formale, una ricerca di eleganza per sottrazione, attraverso un linguaggio misurato e la costruzione-descrizione di immagini raffinate. Si definisce in questo modo, una significativa transizione: se nel primo periodo si prendeva a modello Alessandro Guidi per il suo simbolico distacco dagli esordi di marca barocca, nei primi decenni del 700, attraverso la poderosa azione di raccolta delle Rime degli Arcadi, che rappresentavano una sorta di censimento di presenze e tendenze poetiche, dopo poco tempo si definisce una poesia guidata da un’ideale di misura, nella quale alla linea di sperimentazione pindarica si preferisce il ritorno al modello di Petrarca. In questo quadro si forma l’esperienza di Metastasio. Legato all’Arcadia sin dal magistero di Gravina, Metastasio è capace di guadagnare una progressiva autonomia, specie dopo la morte del maestro: un’autonomia che gli vale la possibilità sia di riprendere in alcune prove giovanili la poesia del Marino, sia e soprattutto di misurarsi con il genere del melodramma, oggetto di una serie di riflessioni critiche proprio in quegli anni. Se la gran parte dei teorici d’Arcadia guardava con diffidenza alla subordinazione della parola poetica alla musica, che era la norma della pratica melodrammatica di pieno e tardo Seicento, egli si inserisce nel tentativo di riforma del genere che muove dalle prove di Apostolo Zeno, e che trova poi nei suoi capolavori una compiuta realizzazione. Il grande successo della Didone abbandonata, è ancora radicato a Napoli, ma nella parabola dell’autore romano, che passa a Vienna nel 18730 proprio come successore di Zeno nella carica di poeta cesareo, può essere letta non soltanto un’ultima affermazione del primato letterario italiano a livello europeo, ma anche il riconoscimento del valore del melodramma, che diventa la sede per un’analisi e uno studio degli affetti e per la proposta di modelli etici positivi. Metastasio costruisce i suoi drammi su una consapevolezza sempre maggiore, mettendo anche in mostra in diversi casi quasi una linea pedagogica rispetto alle prerogative del sovrano, con una definizione implicita di modelli di regalità. Un altro aspetto caratterizzante la cultura di inizio ‘700 è l’intreccio tra una ricerca volta al passato (mirata a cogliere le origini delle istituzioni e del vivere civile e il ruolo che ne esercita la poesia) e le istanze di riforma che animano il presente. Alla base come presupposto teorico, vi è la fiducia in una prospettiva razionale, nella possibilità di conoscere e intervenire sui processi storici, attivando percorsi di riforma e di miglioramento della condizione degli uomini. Si intendono in questa chiave anche le opere all’apparenza più puntuali di Ludovico Antonio Muratori, letterato capace di una sterminata erudizione accumulata soprattutto sull’età medievale: imprese come quella dei Rerum Italicarum Scriptores convivono con scritti come il Della pubblica felicità oggetto de’buoni principi, entro i quali viene in luce la linea del riformismo e di miglioramento della vita del popolo che scandisce il progetto muratoriano. In modi diversi, e distribuiti ora sulla poesia, ora sulla storia, anche i percorsi di altre figure di primo e pieno 700 presentano la medesima combinazione di una grande erudizione e di un piglio militare rispetto alla cultura contemporanea: può così accadere che due figure apparentemente lontane come quella di Antonio Conti e quella di Pietro Giannone, stringano una profonda amicizia , malgrado i rischi per entrami di una condanna per eresia. Nell’Istoria del Regno civile di Napoli Pietro Giannone, entro un tentativo di diagnosi sullo stato attuale delle istituzioni, mette in discussione alcuni modelli cardini della politica italiana, come il potere temporale della Chiesa; un altro letterato, Galiani, con il suo trattato sull’uso della moneta, crede si debba tornare al modello greco. Lo studio del passato è dunque immediatamente funzionale alla messa in discussione del presente. Gianbattista Vico condivide parte di questo programma conservando, tuttavia, alcuni elementi di originalità: egli critica fortemente l’approccio razionalistico e il modello di Cartesio, in favore di un’indagine mirata all’antica sapienza depositata nei testi poetici. Ne deriva un’accentuazione della dimensione conoscitiva assegnata alla poesia e una critica al predominio delle facoltà logico-razionali, in netta controtendenza rispetto al primo Illuminismo. La società letteraria settecentesca viene scossa da numerosi dibattiti e polemiche che avvengono al cospetto di un pubblico che assume il ruolo di orizzonte di riferimento. Tutto ciò è in particolare valido per l’ambito del teatro, e soprattutto per il genere della commedia: l’esperienza di Goldoni, maturata nella fase centrale del secolo a Venezia, ha valore decisivo non solo per il genio della scrittura goldoniana, ma anche per la cortina di dibattiti e discussioni che le sue opere e il loro successo suscitano nei contemporanei e che avviano una riflessione sullo statuto del teatro e sulla sua funzione. Da un lato la rivalità con Chiari sulle scene veneziane, dall’altro le polemiche con Carlo Gozzi e con la s proposta di un teatro di marca fiabesca costringono Goldoni a declinare in modi diversi le sue commedie, oscillando tra la scrittura in dialetto e la scrittura in lingua e soprattutto assumendo un ruolo di volta in volta diverso rispetto al panorama della società veneziana. Il binomio tra mondo e teatro, attorno cui Goldoni fonderà la sua riforma, dice molto dell’indissolubile legame che l’autore stringe con le diverse fasce sociali che compongono il pubblico dei suoi spettacoli. Con una visione che negli anni si fa sempre più disincantata e distante rispetto alla borghesia e che trova negli stati popolari un modello residuo di forza e di vitalità. Il tutto avviene nella cornice dei calendari dei teatri ed entro i vincoli rappresentati dalle condizioni economiche delle compagnie. Si avverte così il limite di una riforma che pur nella lucida rivendicazione della propria originalità, deve venire a patti con le convenzioni del teatro del tempo. Il passaggio di Goldoni in Francia, all’inizio degli anni 70, è forse anche effetto di queste dinamiche: certo l’allontanamento del maestro dall’Italia e dal vivace dibattito contemporaneo sul teatro segna l’inizio della fine della grande stagione comica e annuncia il passaggio alla sperimentazione tragica di alfieri.