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Generando musica elettronica

di Claudia Attimonelli
in FUTURA, MELTEMI 2006

Nel corso degli anni Novanta le donne hanno consolidato la propria


presenza in qualità di musiciste in tutti i generi musicali,
dall’indierock al pop mainstream e, a cominciare dal Duemila, anche
nell’ambito della produzione elettronica; tale consolidamento è
riscontrabile precipuamente nell’affermazione della loro presenza
anche aldilà delle posizioni femministe emerse dal punk negli anni
Settanta e da allora perseguite in seno ai gruppi Riot Girl e Girrrl
Power. Il 2005 ha visto una crescita esponenziale del numero di
produttrici e dj donne, nonché di fondatrici di etichette di musica
elettronica. Sebbene questo trend non sembri destinato a fermarsi è
pur vero che, a ben guardare, la presenza delle dj all’interno di
importanti festival – non orientati sul tema del gender - così come
nella programmazione dei club, rimane nettamente inferiore a quella
dei colleghi dj, raggiungendo, secondo alcune stime, un rapporto di 1
a 9.
In virtù dell’evidente presenza discreta - nonché talvolta perfino
invisibile - delle donne alla consolle, si potrebbe parlare di musica
elettronica come gender oriented, sintagma che nei gender studies
tende a qualificare un certo prodotto culturale qualora risulti
specificatamente inteso per un solo genere sessuale, in questo caso
quello maschile. Un’analisi intorno a questo fenomeno deve tener
conto di almeno due aspetti, il primo inserito all’interno della
questione della tecnologia connessa al gender e il secondo più
programmaticamente incentrato sul fattore rappresentazione e
visibilità.
Riprendendo un quesito posto da Anna Friz nel suo saggio Heard
but Unscene; women in electronic music (Friz 2004) ci si domanda
cosa impedisca alle artiste di essere viste e ascoltate, se sia qualcosa
che soggiace a questioni teoretiche o se a strategie di comunicazione
interne alla scena musicale elettronica. Ulteriori domande vertono
sulla relazione che intercorre fra la musica elettronica e il maschile, se
vi siano, cioè, tracce di semiosi al maschile nella rappresentazione
della mascolinità all’interno delle composizioni elettroniche o
nell’hardware e software adoperati per suonare.
Nelle numerose interviste alle dj e musiciste, come negli scritti di
respiro sociologico e di critica musicale, la spiegazione del ritardo con
cui le donne giungono ad interessarsi alla tecnologia in ambito

1
artistico, è volta primariamente a fugare, anche ironicamente,
l’ovvietà che esso sia motivato da una fobia, e che gli uomini nascano
tecnologicamente più dotati. Nic Endo, già parte del progetto
hardcore-techno degli Atari Teenage Riot, ha rilasciato sul sito
dell’etichetta tedesca Fatal, dichiarazioni incentrate sul conflitto di
genere di tenore aspro; la dj individua nella condivisione delle
conoscenze tecnologiche il nucleo del problema. Ella afferma:

Creare musica con una strumentazione elettronica e i computer per me era


praticamente un mistero. (...) Ciò che m’intimidiva all’inizio non era la
tecnologia in sé, ma piuttosto ciò che gli altri, gli uomini, ne facevano.
Una specie di ostacolo insormontabile e che non avrei mai superato
perché sono una ragazza. (...) Proprio non riuscivano a mascherare quanto
si sentissero lusingati quando gli chiedevi aiuto: era il loro grande
momento. (...) Ti introducevano il tutto dicendo che era semplicissimo e
poi iniziavano spiegazioni assurde e complicate, nonché noiose, che
ruotavano attorno ai più piccoli dettagli non tecnici, informazioni
assolutamente inutili tipo l’anno di costruzione della macchina e la storia
della compagnia etc. Il tutto terminava poi con un paio di giochetti
semplici che potevi provare anche tu per dimostrarti quanto era facile
suonare! (...) Alla fine tutto questo non aveva niente a che vedere con
l’aiuto richiesto (Nic Endo 1998)1.

Nic Endo entra nel vivo degli aspetti legati più esplicitamente alla
conflittualità tra donne e uomini: dalla dimensione pubblica del
problema - il fattore della visibilità - sposta l’attenzione sulla sfera
privata, cioè sulla dialogica uomo/donna. Nella fattispecie,
l’esperienza comune a molte artiste di non essere prese sul serio in
quanto musiciste.
A questa testimonianza seguono esortazioni rivolte alle ragazze che
vogliano cimentarsi nella produzione di musica elettronica,
consigliando loro primariamente un equipaggiamento essenziale per
iniziare a praticare e poi sperimentare il più possibile in “una
condizione rilassata e giocosa” (Ib.) così da escludere tensioni e
frustrazioni derivate dal confronto di genere. Questa forma di
incoraggiamento è molto comune nei discorsi sull’approccio al
tecnologico fra le donne. Spesso accade che pregiudizi atavici
sull’inconciliabilità fra donne e macchine fungano da fattore
dissuasivo rispetto alla pratica. Johanna F. del progetto anarcho-
electro-punk LE TIGRE a tal proposito conferma:

Decidere di fare musica elettronica da un punto di vista punk/femminista


significa rifiutare di essere intrappolate nel discorso conservatore che

1
Traduzione mia come d’ora in avanti se non indicato diversamente in bibliografia.

2
monitorizza il genere e assegna specifiche tecnologie a determinati interessi
concettuali - quasi che la strumentazione definisca una comunità. Ho
imparato molto tempo fa che il controllo maschile delle risorse e delle
conoscenze tecnologiche di cui necessitiamo sia la tipica umiliazione
dell’essere artista donna (Johanna F. 2000).

Lo stereotipo che intende la conoscenza musicale come capitale


sottoculturale2 di pertinenza maschile è antico e riscontrabile
nell’ambito di tutta la musica, dalla classica all’universo del pop.
Infatti, il dato che non si annoverino celebri compositrici nella musica
classica non è un arcano di difficile risoluzione; nell’alveo
dell’educazione borghese, e prima ancora in quella aristocratica,
l’istruzione delle ragazze prevede lezioni di musica e/o canto affinché
possano allietare la famiglia e gli ospiti nelle riunioni; senza mai
essere incoraggiate a studiare per diventare artiste né musiciste. Solo a
partire dal Diciannovesimo secolo fino agli inizi del Ventesimo le
donne si distinguono in particolare nel bel canto operistico e
all’interno di quei ruoli sociali che le vedono esecutrici di brani e arie
al pianoforte nei circoli e nei salotti, insegnanti di musica e di canto e
organizzatrici di eventi musicali quali concerti per compleanni e
anniversari. Il riconoscimento del ruolo di compositrice non è, invece,
favorito né previsto dalla società nei primi del Novecento, bensì
raramente conquistato attraverso aspre battaglie3.
La tradizionale distinzione occidentale tra compositore e performer
ha avuto un impatto notevole nel panorama musicale femminile
rispetto a quello maschile: le donne, infatti, sono state accettate da
sempre nella musica colta ed extracolta nel ruolo di performer.
L’approccio allo strumento di chi performa è segnato dal principio di
fedele esecuzione e interiorizzazione delle norme acquisite, cosicchè
l’apprendimento di uno strumento rappresenta uno svantaggio nel
passaggio dall’esecuzione pedissequa di un brano altrui al tentativo di

2
Per l’impossibilità di analizzare in questa sede la spinosa questione legata alla nozione di
sottocultura e al suo superamento, tuttora oggetto di discussione, ci riferiamo ad essa come
termine ombrello stante a significare le pratiche culturali urbane, nella fattispecie la club culture
e il djing. Per una disanima del dibattito in corso si rimanda a Attimonelli 2005. Sarah Thornton,
nel suo studio Dai club ai rave, riprende la decisiva nozione di “capitale culturale” elaborata da
Bourdieu nell’opera La distinzione. Critica sociale del gusto, aggiornandola in “capitale
sottoculturale”. Il sociologo francese intende con essa la conoscenza che si accumula attraverso
l’educazione e l’istruzione, una conoscenza che attraversa il verticalismo sociale e conferisce a
chi la possiede un nuovo status operando secondo criteri di distinzione ed esclusione. Il capitale
sottoculturale individuato dalla Thornton, invece, afferisce alla conoscenza relativa al complesso
universo urbano che i Cultural Studies avevano definito sottocultura, dunque, “l’essere ‘a
conoscenza’ ricorrendo (senza strafare) allo slang in uso e adottando un look tipo ‘nato per
mettere in scena l’ultimo stile dance’ ” (Thornton 1995, p. 23). Il capitale sottoculturale
comprende l’accumulazione di nomi di coloro i quali sono sulla scena - dj, progetti musicali,
organizzatori di party - il taglio dei capelli alla moda, collezioni di dischi ed edizioni limitate di
12 pollici, white label, conoscenza di club, locali ed eventi hip e underground.
3
A tal proposito si veda Attimonelli 2006.

3
trasferire le proprie abilità misurandosi nella composizione di brani
propri. Diversamente i ragazzi, non soggetti a una rigida introduzione
alla musica, si esercitano da soli ascoltando i dischi preferiti e
leggendo le novità discografiche sulle riviste specializzate 4,
acquisendo una familiarità che possiamo definire primariamente
tattile, supportata anche dal riconoscimento sociale nell’approccio allo
strumento e alla composizione. Dunque, divisione dei ruoli secondo
gli stereotipi del gender, famiglia, società ed educazione hanno
permesso e permettono loro di dedicarsi alla scrittura di brani propri
senza l’intimidazione e lo scoraggiamento cui sono tuttora soggette le
donne.
L’intimidazione base che funge da deterrente va ricercata
nell’esposizione, sin dall’infanzia, alle macchine tecnologiche. Le
bambine lontane dalla consolle dei videogame semplicemente
tendono, da ragazze, a restare lontane dalla consolle dei dj. In questo
alveo tematico ben si inseriscono laboratori e seminari per le ragazze,
siti che mostrano come si usa un software musicale o come si realizza
un loop5. Molte musiciste e dj si sono riunite da tempo in collettivi che
organizzano workshop di djing atti a “esporre le donne ad abilità con
cui normalmente non vengono in contatto” (www.sisterdj.com 2000) e
a “adunare donne di talento, comunicative e incoraggianti al fine di
trasmettere ad altre donne la stessa fiducia nel praticare il djing” (Ib.).
Una questione di confidenza volta primariamente a far toccare le
macchine, a tradurre il linguaggio - maschile – con cui sono state
programmate e a produrne uno che le riguardi più direttamente.
Si delinea sempre più chiaramente la complessità di aspetti che
coinvolgono la pratica del djing e l’idea che non si tratti unicamente di
una questione di genere. Da più parti, nel corso degli anni all’interno
delle differenti teorizzazioni intorno alla techno, è stata avanzata la
proposta di elevarla a veicolo di espressione postgender, individuando
nella pratica e nell’uso di software e hardware per suonare, così come

4
In molti studi (cfr. Frith 1998, Thornton 1995 e Bayton 1998) emerge la differenza di
potere d’acquisto dei ragazzi rispetto alle ragazze, che, naturalmente anche prima, ma a partire
dagli anni Cinquanta in maniera evidente, determinò da un lato il mercato discografico e
dall’altro l’acquisizione personale di un capitale sottoculturale fatto di dischi e riviste di musica
che le ragazze faticano molto ad acquisire. Le loro conoscenze musicali sono, per contro,
circoscritte per lungo tempo all’ambito del fanatismo da groupie dal quale si emancipano alla
fine degli anni Settanta con il punk. Va anche sottolineato quanto il controllo dei genitori e le
restrizioni ad uscire per incontrarsi fuori della camera da letto privata (Frith 1987) abbiano
rallentato per le ragazze il procedimento di fruizione e condivisione della musica, oltre ad averle
private dell’esperienza di creare una band con le amiche.
5
Tra gli altri: www.sisterdjs.com , www.gURL.com della dj Shortee, che ritiene la scena
turntablist di dominio maschile e pertanto chiusa alle donne. Secondo Shortee una ragazza,
anche se brava nello scratch e a suonare i piatti, deve pur sempre confrontarsi con una scena
dominata dagli uomini e caratterizzata da estrema rivalità che sfocia, ad esempio, nelle
cosiddette battaglie per aggiudicarsi il titolo di migliore dj/vj. Tali attività, con l’elevato livello
di feroce competitività non rispecchiano neanche lontanamente la pratica del djing al femminile.

4
nell’autoproduzione di dischi, non più solo strumenti di lotta e
affermazione di donne, gay e transgender, bensì luoghi di
attraversamento del genere sessuale. Una musica capace di stare sulla
soglia del genere, vivendo nell’hic et nunc instabile della sua
esecuzione e performance, nel puro piacere edonistico della danza e
del godimento sensoriale. Per queste ragioni molte dj rifiutano
l’etichetta di donne-dj, fardello del quale intendono liberarsi per
spingere oltre la loro presenza nella scena.
Dunque, il fattore tecnologia, in apparente controtendenza con
quanto delineato fin qui, da ostacolo e freno per molte musiciste, può
rivelarsi uno strumento strategico di remiscelamento - remiscelare è il
termine che traduce in italiano la pratica del remix - dei ruoli. Nel
percorso che intendiamo delineare la techno riflette in maniera più
vistosa l’apice del fenomeno, dal momento che nei suoi luoghi
distintivi - la consolle del dj eletto a idolo quanto il desktop di
costruzione dei suoni nella laptop-music - vi è un’inconfutabile
assenza di donne a fronte di un visibile aumento delle produzioni ad
opera delle dj.
Avendo individuato come tratto distintivo per questa indagine la
tecnologia, si può affermare che le macchine, i tools, per suonare
musica elettronica, emergono sempre più come vera e propria
categoria nei vari discorsi sulla techno. Questo è possibile sia perché
questo genere musicale per sua natura, nomen omen, è strettamente
legato alla tecnologia e ai suoi sviluppi, sia perché proprio attraverso
questi si sono determinati nel tempo dei sottogeneri strettamente
connessi ai sound provenienti da specifiche macchine6. Se per un
verso va ribadito come proprio la macchina, intesa come lo strumento,
sia la prima fondamentale discriminante nell’approccio femminile alla
pratica del djing nonché alla composizione vera e propria, nondimeno
è condivisibile la posizione cyborgfemminista espressa da alcune dj
secondo la quale il rock, espressione di una semiosi al maschile7,
possa essere superato da una musica postgender, che usi strutture e
strumenti capaci di muoversi al di là dei confini rappresentati dal
genere sessuale.

6
Un esempio per tutte è la tastiera Roland TB 303, TR808, TR 909.
7
Su questo Dyer scrisse che il rock, con la sua struttura lineare e il suo beat spinto
costituisce una musica fallocentrica. Al contrario del principio della disco-music – come delle
altre musiche elettroniche nate successivamente – il cui “crescendo puro (...) restituisce
l’erotismo all’intero corpo e ad entrambi i sessi non confinandolo unicamente nel pene” (Dyer
1979).

5
Le macchine, la tecnologia, le donne: alcune pratiche discorsive
elettroniche.

Considera per esempio la questione del gender: nella techno non è


importante se sei donna o uomo; (...) la techno è stato il primo movimento
nella musica dance dove il gender non era più così fondamentale. (...) Ciò
che interessa di più se sei dj, più che essere uomo o donna, è l’abilità nel
sentire la musica e nel sentire le gente. Naturalmente poi il djing è un
mestiere: solo con una buona tecnica puoi essere un/a brav/a dj (Ellen
Allien 2002).

Trattare in uno studio l’approccio al tecnologico da parte delle


donne fa emergere, per le difficoltà con cui esse si sono confrontate
nelle diverse epoche, l’aspetto della sperimentazione che le ha viste di
frequente coinvolte. La tecnologia ha offerto e continua a mostrare
spesso un volto intimidatorio, di fronte al quale si è sentita chiamare
in causa la tenacia di molte musiciste nel voler trarre il creativo, il
sovversivo, il distruttivo dall’apparente materialità inanimata e
progressiva delle macchine. A tal proposito è utile gettare un fugace
sguardo al passato recente, per scorgere alcune figure rimaste
nell’oblio. La prima musicista elettronica che s’incontra andando a
ritroso al tempo dell’Unione Sovietica è la lituana Clara Rockmore
(1911-98), prima e unica virtuosa che il theremin8 abbia mai
conosciuto, il cui lascito in termini musicali consta di due registrazioni
su disco (Rockmore 1987 e Rockmore 2000) e del prezioso metodo
unico nel suo genere (Rockmore 1975).
La Rockmore collaborò con Termen alla rifinitura di alcuni
particolari dello strumento, fu affascinata dall’idea dell’applicazione
dell’elettronica alla musica e si concentrò sulla sua diffusione nelle
hall concertistiche di tutto il mondo. A conferire un’aura misteriosa
alle sue esecuzioni vi era un dettaglio tecnico che, risultando ignoto ai
più, rendeva la sua presenza in scena simile all’apparizione di una
musa emersa dall’antichità: si trattava dell’immobilità necessaria al
corpo affinchè non interferisse con i movimenti compiuti dalle mani.
La delicatezza del gesto, unita all’abilità delle mani, nonché il fascino
sprigionato da tutta la sua persona, l’hanno resa un’icona per donne e
uomini: le une hanno visto in lei la pioniera dell’elettronica e gli altri
ebbero ad imparare da lei l’arte del theremin, dal momento che fu
l’unica virtuosa a trasmetterla. Quanto alla composizione la musicista

8
L’eterofono, rinominato Theremin da Lev Sergeyevich Termen l’ingegnere che lo costruì,
è un curioso strumento costituito da una scatola voluminosa con due antenne che creano due
campi elettromagnetici modulabili qualora si muovano ad arte le mani, creando così dei suoni e
controllando tono e volume. Le mani non toccano direttamente le antenne, bensì si agitano
artisticamente attorno ad esse nell’etere, come in una pratica magica.

6
si limitò a memorabili esecuzioni di brani classici senza mai scrivere
alcun brano proprio9.
Sulla strada di Termen ben presto si parò un’altra donna dagli
spiccati interessi per la tecnologia e l’elettronica: l’americana Mary
Ellen Bute. Senza tema di smentita possiamo definire in termini
contemporanei questa antesignana dell’animazione astratta come una
vj10 antelitteram.
Nel 1929 la Bute aveva contribuito in qualità di collaboratrice
all’opera di Termen The Parameters of Light and Sound and their
Possible Synchronization e lo affiancò nella performance, meglio dire
sincronizzò le sue animazioni visuali astratte alla musica eseguita. In
precedenza si era cimentata nel mestiere di tecnico delle luci e aveva
acquisito le conoscenze di composizione musicale che le servirono per
lavorare alla sua idea originaria: sviluppare una forma di arte cinetica
visuale; il suo primo video è Rhythm in Light, un’animazione
tridimensionale di figure geometriche.
Negli anni Trenta la Bute era l’unica persona capace di creare
immagini astratte in movimento, così come nei Cinquanta fu la prima
ad usare un repertorio di immagini elettroniche per un film. Fu solo
con gli studi femministi degli anni Settanta che si valutò tanto il suo
lavoro di antesignana quanto la proficua abilità di autopromozione. La
videoartista, infatti, distribuiva da sé i propri video, e, consapevole
della portata innovatrice del suo operato, era solita inserire testi fra le
immagini nei quali presentava la nuova arte (Bute 1976).
La consapevolezza di star operando su un territorio inesplorato ha
animato anche la ricerca della musicista e compositrice Wendy Carlos
che ha fatto della sperimentazione per fini creativi il proprio operare
artistico11. Attraverso l’interesse per la musica elettronica e
l’ingegneria del suono, la Carlos ha apportato delle innovazioni
fondamentali nella tecnologia sonora dagli anni Sessanta12 ad oggi.
Prima dell’intervento che nel 1967 rese Walter Carlos per sempre
Wendy Carlos la musicista aveva ottenuto il riconoscimento più alto

9
Se si considera che la musicista è scomparsa nel 1998 ci si può domandare che cosa ne
pensasse della techno e dei dj set all’alba sulle spiagge di Ibiza dove in consolle, isolato, appare
il theremin, così come di tutti quei gruppi che in maniera diversa lo hanno impiegato nelle loro
tracce. Per citarne alcuni tra i più noti: i Beach Boys di Good Vibration, Whole Lotta Love dei
Led Zeppelin; tra i tanti, lo hanno adoperato: The Blues Explosion, Portishead, Paul Weller, Carl
Craig e, in Italia, Morgan.
10
In analogia con dj, laddove la d sta per disc, la v sta per video.
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Il soundtrack di Clockwork Orange di Kubrik fu realizzato dalla Carlos adottando una
novità assoluta: il vocoder per sintetizzare la voce che anticipò di diversi anni l’uso delle voci
sintetiche nei film spaziali e di fantascienza.
12
Si dedicò insieme con Larry Fast allo sviluppo di un’altra tecnologia che in breve tempo
fu giudicata inestimabile: ideò, infatti, negli anni 1992-1995 il Digi-Surround Stereo Sound,
tecnica di conversione diffusa in stereofonia, risultata utilissima nella rimasterizzazione di
vecchie tracce, così come nella sonorizzazione delle sale cinematografiche.

7
in composizione presso la Columbia University. In seguito alla
collaborazione con Bob Moog nacque il primo sintetizzatore modulare
che Carlos adottò nel suo album divenuto celebre: Switched On Bach,
prima opera di musica elettronica a ricevere il disco di platino nel
1964 e sublime espressione dell’ibrido incontro tra i brani del
compositore secentesco con l’ultima tecnologia del Ventesimo secolo.
Compositrice e pioniera della musica elettroacustica, Eliane
Radigue è un’altra figura singolare nel paesaggio della musica
sperimentale contemporanea. Nata a Parigi nel 1932 studiò musica
elettroacustica con Pierre Schaeffer e Pierre Henry; la Radigue
adopera suoni elettronici e nastri magnetici per creare atmosfere
all’interno delle quali il suono sembra muoversi in un flusso continuo
intorno all’ascoltatore: lunghe onde sonore statiche che cambiano di
frequenza impercettibilmente. Musica “infinitamente discreta” (Chion,
Reibel 1976) la sua, creata con l’ausilio del sintetizzatore ARP,
strumento prediletto.
Probabilmente la più nota musicista elettronica che esplorò il
vocabolario disponibile nell’ambito della composizione
d’avanguardia, arricchendolo enormemente con le sue seminali
performance multimediali è Laurie Anderson. Nelle sue opere, a
partire dalla fine degli anni Settanta, l’artista ha ricercato la relazione
fra individui e tecnologia, applicando il vocoder alla voce e
adoperando videoproiezioni e sintetizzatori capaci di creare paesaggi
sonori alterati.
Lo scenario raccolto dal Ventesimo secolo fin qui proposto è utile
per tracciare quel solco che sembra costituire una delle condicio sine
qua non dell’interesse messo a frutto dalle donne nei confronti della
musica elettronica, e cioè l’accostamento, e l’uso creativo che ne
deriva, alle macchine e alla tecnologia.
La dj techno e produttrice tedesca M.I.A. rispondendo in
un’intervista sull’utilizzo della voce nelle sue tracce dichiara che,
sebbene nella techno la voce non serva, qualora la si deterritorializzi,
rendendola, diremmo con Deleuze, suono oltre il suo essere voce
maschile o femminile, dunque “strumentandola” (Deleuze, Guattari
1980, pp. 248-258), si pone il soggetto incarnato laddove sembrerebbe
che vi sia solo algida tecnologia. Successivamente, evocando una
metafora gender oriented la dj sostiene:

La struttura fondamentale sulla quale lavorare è la base ritmica minimale.


Ma poi la si veste, come una bambola, con dei vestitini con centinaia di
piccoli accessori. Per me questo abito è fondamentale, perché porta tutto
l’insieme ad un livello più alto (M.I.A. 2001).

8
Laddove esiste tuttora una semiosi maschile, data a partire dalla
destinazione dei primi linguaggi tecnologici con cui si ha a che fare da
bambini, è giunta l’ora di far emergere una semiosi che sia femminile
e maschile, cyborg, secondo la celebre nozione della Haraway che con
essa intende proprio il superamento della teoria del genere. Nel
vissuto femminile tale attraversamento è da sempre esperito: le donne
sono costrette, loro malgrado, a fare costantemente appello all’innata
capacità di exotopia che le permette nei molteplici contesti di
interpretare anche il ruolo maschile trasducendolo in un genere ibrido
che così si fa e disfa continuamente. Ha luogo uno slittamento di
genere - gender switching - che non conduce mai alla realizzazione
foucaultiana di una tecnologia del sé, basata su di un linguaggio -
tecnico - riconosciuto da chi lo adopera e lo legge, bensì sviluppa
l’alta capacità in fieri di inventare tanti sé quanti sono i ruoli da
investire. Per la pratica stessa di attraversamento del genere che ha
luogo alla consolle molte artiste intervistate ritengono auspicabile non
tanto la proliferazione di un discorso al femminile, quanto il confronto
con il reale processo esperito nelle pratiche culturali elettroniche,
all’interno delle quali sta già accadendo una ridefinizione di genere.
L’osservazione del problema secondo una prospettiva
sociosemiotica mette in luce la necessità di promuovere un’analisi
delle pratiche culturali elettroniche, capace di leggere i segni di cui
esse sono portatrici e i meccanismi da esse innescati. Le pratiche
vanno intese come quegli atti-eventi nel corso dei quali viene
teorizzata e fondata la pratica stessa, teoria della pratica come
ermeneutica sostitutiva della tradizionale teorizzazione che precede la
performance. La pratica è il deposito di tutti gli usi precedenti fatti di
un tale oggetto, questi, sedimentati, costituiscono il bacino a cui
attingere per gli usi collettivi. Ad esempio, nel djing, la prassi è
costituita dall’uso che in un periodo di tempo i/le dj hanno fatto delle
macchine, siano esse giradischi, laptop, sintetizzatori, software, mixer
etc., pertanto nella laptop-music così come nel djing è la prassi a
generare regole e non il contrario. Con Spaziante possiamo affermare
che:

La relazione tra soggetti e apparati tecnici non si intende come una


relazione tra entità separate che subiscono passivamente reciproci
condizionamenti, ma come una relazione fondata sull’ibridazione
(Spaziante 2003, p. 260).

Se l’ibridazione è osservata come una trasformazione di tipo


semiotico, allora, relazioni e mutazioni nelle pratiche elettroniche tra
soggetti e apparati sono costituite da una semiosi che innesca processi
di interpretazione e rimediazione in grado di reinterpretare anche le

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relazioni di genere. Il soggetto che pratica le tecnologie atte a
coinvogliare musica, immagini, file d’ogni tipo non si trova solamente
accanto ad esse manipolandole, bensì processa la propria identità
rinegoziandola di continuo, allorchè maneggia testi e discorsi13,
perché attinge a quel collettivo che, oltre a costituire l’humus
rizomatico da cui si originano nuove pratiche in virtù dei nuovi usi,
permette l’ibridazione della soggettività attraverso la prassi della
performance. Così accade che una “soggettività femminile o maschile
è, insieme, uno stereotipo e il risultato di una lotta” (Calefato 2001, p.
97), ciò che Judith Butler definisce performance, “non [de]la
registrazione di uno status, ma [di] un processo continuo” (Ib.).
Nell’analisi della Butler il dualismo maschile/femminile si discioglie
nell’atto momentaneo della performance, poichè essa chiama in causa
il gender, la rappresentazione del sé e non le identità sessuali degli
individui. Il genere, risulta essere pertanto intrinsecamente
performativo, esso “contesta (...) la nozione di soggetto individuale
sessuato e si concentra sulla performatività in quanto atto discorsivo
capace di produrre, attraverso ripetizione e recitazione, ciò che esso
nomina” (Attimonelli 2006).
L’evento musicale è esattamente il luogo della costruzione e
rappresentazione pubblica delle relazioni fra i generi, della
negoziazione dei ruoli e della ridefinizione dell’immaginario culturale
che ruota intorno al genere sessuale (Ib.). Analogicamente i gender
studies possono cogliere dalla musica la messa in opera di particolari
tropi del gender, poichè essa attiva modalità di espansione e di
intensificazione dei temi che riguardano l’identità sessuale e la
rappresentazione del sé; in questo studio l’analisi si spinge fino a
considerare le pratiche testuali musicali – il djing attraverso varie
tecnologie adoperate - in funzione di una riflessione sugli stereotipi
del genere.
Sebbene risulti anacronistico nel Ventunesimo secolo promuovere
un’estetica della differenza dei generi, che giunge fuori tempo rispetto
alle riflessioni ad opera del cyborgfemminismo sul superamento del
dualismo maschile/femminile, come nota dj Singe, per quanto appaia
datata l’operazione di organizzazione di seminari e conferenze al MIT
dal titolo Women in Music, è altresì un fatto ineludibile quello secondo
il quale il mondo necessiti ancora di certi percorsi interpretativi. Non
si può ignorare, infatti, che l’epoca nella quale viviamo si presenti
ancora prevalentemente di segno maschile e a maggioranza bianca. In
occasione della conferenza Race in Digital Space la dj fa riferimento

13
S’intenda la nozione semiotica di testo, per la quale esso è ogni oggetto leggibile
attraverso un processo interpretativo. In analogia il discorso va inteso sociosemioticamente come
il fondamento che precede il testo nella sua elaborazione.

10
alla sua doppia lotta di donna dj e nera e sostiene che il fatto che non
si espliciti che le culture elettroniche siano bianche e maschili14
dipende dal discorso monologico e dal suo rendere implicito l’ovvio,
secondo il quale la cultura digitale sarebbe maschile e bianca15.
Dunque, nonostante l’anacronismo di tali discorsi non è eludibile la
loro intrinseca necessità laddove si continua a percepire un
incolmabile squilibrio a tutto svantaggio di alcuni soggetti rispetto
all’accesso ai saperi e alla visibilità nella scena elettronica odierna.
Così come è culturalmente ancora implicito che la cultura digitale
sia bianca, analogicamente vocaboli quali dj e djing sembrano riferirsi
ad un universo maschile. Lo stesso termine dj non si presta neanche ad
una identificazione di genere grammaticale. Non è un caso che i
nickname, in gergo gli aka, che si danno le dj siano alternativamente
lo svelamento o il camuffamento di genere: Mistress Barbara, Miss
Djax, Miss Kittin, Miss Yetti oppure Electric Indigo, Punisher, Nic
Endo.
Con la volontà di testimoniare della presenza femminile è stato
realizzato da Jane Walker e Jackie Pelle Spinsters, un documentario
sulle dj - to spin significa fra l’altro suonare i dischi16. Per le registe si
è trattato di un’operazione volta a mostrare la scarsa rappresentazione
- underrapresentation - nella cultura musicale elettronica delle donne,
non tacendo il fatto che le stesse spesso preferiscono non discutere, se
si parla di musica, necessariamente di femminismo.
Rappresentare e rendere visibili le donne nella scena elettronica
attraverso la messa in opera di plurimi linguaggi si spiega con la
attenzione distratta accordata sistematicamente dai media alle dj e con
un dichiarato senso di solitudine alla consolle. Molte di loro, infatti,
lamentano l’alienazione dalla scena musicale che consegue ad una
focalizzazione errata da parte della stampa quando si occupa di djing
femminile. A questo si aggiunge un falso interesse dei promoter di
eventi che, sempre più frequentemente, richiedono la dj per riempire il
gap nei locali durante le happy-hour serali o nei party del venerdì e
della domenica, con l’unico fine di attirare un pubblico più vario
presentando una novità. Le dj si sentono acclamate più come
fenomeno che non criticate e osservate per come e cosa suonano. Da
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“Sono necessari riferimenti espliciti anche se non ricordo che Wired [una rivista musicale
sull’elettronica] abbia mai parlato di cultura digitale bianca, ma, sai come funziona, la si pensa
così, senza dire che le cose sono bianche, perché tanto è già implicito nella cultura mainstream”
(Dj Singe 2001).
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A questo proposito è utile ripensare all’equivoco tuttora alimentato, che intende la techno
e più in generale l’electronica, frutto di un manipolo di algidi, robotici, bianchi uomini del Nord
Europa, sicuramente tedeschi, data la fama dei Kraftwerk. Mentre si tratta del contrario, dal
momento che la scerna House di Chicago, così come quella Techno di Detroit, nasce nelle
comunità nere in seno all’Afrofuturismo (Eshun 1999).
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Un precedente fu costituito dal docu-film realizzato da Rachel Raimist nel 1999 sulle
donne nell’hip hop, il lavoro s’intitolava emblematicamente Nobody knows my name.

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questa rappresentazione ha origine il desiderio di non voler essere
identificate come female DJs, perché tale sintagma esula dalle
capacità artistiche, dallo stile, dal genere suonato e, ancora una volta,
le allontana dalla musica, esponendole a nuovi equivoci.
Uno di questi è evidenziato dalla dj techno italo-canadese Mistress
Barbara; secondo l’artista di Montreal la questione deve slittare verso
un piano di maggiore consapevolezza professionale. In primo luogo si
domanda cosa facciano le dj per “pretendere” (Mistress Barbara 2000)
di essere annoverate. Se è vero che una donna deve combattere e
mostrare di valere molto - e in genere deve valere molto più della
media degli uomini per emergere - è altresì attestato che, a causa del
tradizionale stereotipo sessista, in certi contesti basta essere female dj
e che il volto compaia sulla copertina del disco per essere chiamata a
suonare in un locale o ad un festival. Esistono, dunque, anche
parametri in cui l’eccezionalità dell’essere donna si trasforma in
privilegio, senza che si badi in alcun modo alla qualità della musica,
così favorendo il proliferare di episodi che vedono emergere dj donne,
rispondenti a canoni estetici maschili e non curanti della proposta
musicale.
Nel noto saggio del 1985, Urban Rhythms, Iain Chambers,
riferendosi alla rottura epistemologica rappresentata inizialmente dal
punk alla fine degli anni Settanta17, sosteneva che esso abbia avuto il
grande merito “di far emergere storie orizzontali da un patrimonio di
esperienze sociali e di vita quotidiana. In questo senso il femminismo
è stato il protagonista assoluto, anche se spesso non riconosciuto”
(Chambers 1985, p. 188).
Protagonista di cosa se non della cosiddetta proliferazione dei
margini? Le donne considerate per secoli “pariah”18 nella società alla
stessa stregua dei neri, dei gay e di tutti quei soggetti a lungo alienati,
incontrano nei mezzi di comunicazione uno dei principali ostacoli alla
diffusione di una rappresentazione di genere più vicina alla realtà
attuale. Così nasce l’esigenza espressa da una delle collaboratrici
all’interno dell’etichetta Fatal Recordings di promuovere una
comunicazione che passi attraverso la voce delle donne: “Tocca a noi
scrivere del nostro lavoro e di noi stesse” (Kathleen Hanna).
L’episodio della Fatal Recordings guidata da Hanin Elias è
illuminante e lo si trova espresso a chiare lettere nel nel II e III
manifesto Fatal:

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Senza dimenticare che è di quegli stessi anni la nascita dell’elektro con Afrika Bambaata,
Arthur Baker e Kraftwerk e che questi ultimi erano già attivi da diversi anni. Questa sinossi è
utile per una prospettiva sincronica del problema. Gli albori dell’elettronica, infatti, sono coevi
alla nascita del punk.
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Per la nozione prolifica di paria si rimanda a Hanna Arendt 1976 e 1971.

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Fatal è una piattaforma per donne e anche per uomini. (...) Nessuno è un
outsider perché non si parla il linguaggio dei tecnici (...) Non devi mettere
alla prova le tue conoscenze in questo senso (...) e questa è la ragione per
la quale l’etichetta è una chance prima di tutto per le donne, perché loro
sono state lontane dalla scena musicale elettronica per troppo tempo. (...)
La tecnica ci può aiutare a partecipare, dobbiamo solo usarla in maniera
diversa (...) perché non abbiamo le stesse chance dei ragazzi (Elias 2002).

Il discorso promosso da questo manifesto è inteso a contrastare il


monoculturalismo sessista e con tale impegno a fungere da stimolo
perché siano decostruiti i clichès di genere ricercando una
trascendenza attraverso la tecnologia, così come la promosse Donna
Haraway raffigurando il cyborg; una pratica che possiamo pensare
essere in grado di descrivere attraverso la techno, ad esempio, stati
ibridi, instabili, inaspettati ed eterogenei, piani dell’essere localizzati lì
dove non ce li aspetteremmo perché sfuggono al programma sociale
restrittivo a cui siamo stati da sempre esposti e di conseguenza
abituati.
In conclusione riferisco programmaticamente la domanda posta da
Hannah Bosma in un suo saggio, nel quale, capovolgendo la questione
della visibilità nella musica elettronica, propone, invece di chiedersi
dove siano le donne, piuttosto, “perché così tanti uomini?” (Bosma
1998).

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Discografia

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Filmografia

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Rhythm in Light, 1934, Mary Ellen Bute, USA.
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Sitografia

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www.fatalrecordings.com
www.gURL.com
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www.womenoftechnoproject.com

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